ass. petit rambo
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ASS. PETIT RAMBO Logo Associazione Bandiera Ass. P.R. . Spilla P.R. Stemma P.R. Stemma Berretto Fregio Ass. P.R. Grado Di Conoscenza Grado Maturato Mostrina di Appartenenza Stemma Int. P.R. David Ricardo fornisce la seguente definizione di capitale: "Il capitale è quella parte della ricchezza di un paese che è impiegata nella produzione, e consiste di cibo, indumenti, strumenti, materie grezze, macchinari, ecc. necessari per rendere produttivo il lavoro." Ricardo impiega il termine capitalista con moderazione, ricorrendo più spesso ai sostantivi concreti e specifici di fabbricante e agricoltore. Né Adam Smith né David Ricardo sembra che abbiano mai utilizzato il termine "capitalismo". Una possibile spiegazione potrebbe essere che questi due autori, pur essendo colpiti dalla elevata produttività risultante dalla introduzione di una nuova organizzazione del lavoro e dall’impiego di nuovi macchinari, non hanno ritenuto che il più ampio uso di capitale, lo sviluppo del commercio e la crescita della produzione indicassero l’inizio di un nuovo periodo storico, da qualificare con un nuovo appellativo. Adam Smith e David Ricardo erano certamente consapevoli dell’avvento di una maggiore libertà di commercio (quanto meno in Inghilterra e in rapporto alle limitazioni dell’epoca feudale e mercantilista), che aveva liberato energie e portato ad una divisione del lavoro, tecnica e sociale, molto più produttiva. Essi si erano resi conto che la produzione aveva assunto una dimensione nuova e che quantità maggiori di capitale (rispetto al lavoro) e capacità imprenditoriali più elevate erano necessarie in una impresa industriale. Ma questo significava solo che l’attenzione doveva essere concentrata sul capitale (fisso e circolante) e sul modo in cui esso veniva impiegato dal capitalista (ad es. la divisione del lavoro). Oltre a Smith e Ricardo, molti altri studiosi come Charles Babbage (1832) e Andrew Ure (1835) si applicarono al compito di riflettere sul progresso delle arti meccaniche e di illustrare le novità della tecnica al servizio della produzione. Talmente importante era diventato il ruolo del capitale nella vita sociale che Karl Marx diede alla sua opera più importante il titolo "Das Kapital"; e questo fatto testimonia la centralità che anche Marx (o soprattutto Marx) ha accordato alla tecnologia e alla produzione industriale. In "Lavoro salariato e capitale" Marx formulò la seguente definizione di capitale: "Il capitale consiste di materie grezze, strumenti di lavoro e mezzi di sussistenza di ogni tipo, che sono impiegati al fine di produrre nuovi materiali grezzi, nuovi strumenti di lavoro e nuovi mezzi di sussistenza." Un pò più oltre egli aggiunge "Il capitale, anche, è un rapporto sociale di produzione." [1849, Karl Marx] Per sottolineare l’importanza che Marx attribuisce al capitale, vale a dire agli strumenti tecnologici di produzione, nel formare la società, è sufficiente fare riferimento al famoso passaggio contenuto nella "Miseria della filosofia": "I rapporti sociali sono intimamente connessi alle forze produttive. Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale." Fu definita Guerra Fredda la situazione di conflitto non bellico che venne a crearsi tra due blocchi internazionali, generalmente categorizzati come Ovest (gli Stati Uniti, gli alleati della NATO ed i Paesi amici) ed Est (l’Unione Sovietica, gli alleati del Patto di Varsavia ed i Paesi amici) tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’ultimo decennio del Novecento (circa 1945-1990). Tale tensione non si concretizzò mai in un conflitto militare vero e proprio, tale da comportare una contrapposizione bellica su vasta scala tra Est e Ovest: la presenza di armi nucleari nei rispettivi arsenali avrebbe reso irreparabile per il Pianeta un’eventuale aggressione e la relativa reazione. Il termine fu coniato dallo scrittore britannico George Orwell. Durante tutta la Guerra Fredda gli arsenali nucleari delle due superpotenze vennero costantemente aggiornati e ingranditi fino all’ultimo periodo (1979-1989), nel quale vennero negoziati una serie di accordi (denominati accordi START) che portarono a sostanziali riduzioni del numero di ordigni. Ma durante tutta la Guerra Fredda fu costante la contrapposizione tra una corsa al riarmo apparentemente irrefrenabile e continui tentativi di controllo degli armamenti negoziati tra USA ed URSS o nell'ambito dell’ONU. Per definire l’esteso conflitto di posizioni, interessi contrapposti, propaganda e azioni di disturbo che si era venuto a creare, dato che comunque tale situazione non comportava l’impiego aggressivo degli eserciti regolari, fu coniata la metafora di guerra "fredda". Furono necessarie molte attenzioni e una buona dose di diplomazia per sedare sul nascere alcuni conflitti armati, al fine di prevenire una più ampia guerra "calda" che avrebbe rischiato di estendersi e intensificarsi. Il conflitto aveva principalmente radice nelle rispettive ideologie politiche, economiche, filosofiche, sociali e culturali. Vi furono aggressive guerre di propaganda tra i blocchi USA e URSS: l’Est criticava l’Ovest in quanto promotore del capitalismo borghese e dell’imperialismo, che marginalizzano i lavoratori, mentre l’Ovest criticava l’Est definendolo "impero del male", incarnazione di un totalitarismo anti-democratico sotto forma di dittatura comunista. mappa che evidenzia le nazioni appartenenti alla NATO (in blu) e al Patto di Varsavia (in rosso) La Guerra Fredda si protrasse dalla fine della seconda guerra mondiale, fino al collasso dell’Unione Sovietica, nei primi anni 90. Solo in alcune occasioni la tensione tra i due schieramenti prese la forma di conflitti armati, come la guerra di Corea, la Guerra del Vietnam e l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Gran parte della Guerra Fredda si svolse invece attraverso conflitti indiretti, contro "nazioni surrogate"; in tali conflitti, le potenze maggiori operavano in buona parte armando o sovvenzionando i surrogati. Altri conflitti erano ancor più sotterranei, perpetrati attraverso atti di spionaggio, con spie e traditori che lavoravano sotto copertura da entrambe le parti; in molti casi l’attività comportava reiterate uccisioni di individui delle rispettive compagini perpetrate dai vari servizi segreti. Tali aspetti della guerra fredda, debolmente percepiti anche dai media, hanno avuto scarso impatto sull’opinione pubblica delle rispettive potenze. Nel conflitto strategico tra Stati Uniti e Unione Sovietica uno degli elementi principali fu la supremazia tecnologica (strategia della tecnologia). La Guerra Fredda si concretizzò di fatto nelle preoccupazioni riguardanti le armi nucleari; da entrambe le parti veniva l’auspicio che la loro semplice esistenza fosse un deterrente sufficiente a impedire la guerra vera e propria. In effetti non era da escludere che la guerra nucleare globale potesse scaturire da conflitti su piccola scala, e ognuno di questi aumentava le preoccupazioni che ciò potesse verificarsi. Questa tensione influì significativamente non solo sulle relazioni internazionali, ma anche sulla vita delle persone in tutto il mondo. Punto caldo del conflitto in ambito europeo fu la Germania, ed in particolare Berlino, per la divisione avvenuta dopo la seconda guerra mondiale. Uno dei simboli più vividi della Guerra Fredda fu proprio il Muro di Berlino, che separava Berlino Ovest (controllata dalla Germania Ovest, assieme agli alleati di Francia, Regno Unito e Stati Uniti) dalla Germania Est, che la circondava completamente. Il Patto di Varsavia o Trattato di Varsavia fu un’alleanza militare tra i paesi del Blocco Sovietico intesa a organizzarsi contro la temuta minaccia da parte dell’Alleanza Atlantica NATO, fondata nel 1949. Il trattato fu elaborato da Nikita Khruščёv nel 1955 e sottoscritto a Varsavia il 14 Maggio dello stesso anno; i paesi membri erano: Unione Sovietica, Albania, Bulgaria, Romania, Germania Est, Ungheria, Polonia, e Cecoslovacchia, ossia tutti i Paesi a regime socialista dell’Europa Orientale ad eccezione della Jugoslavia. I membri dell'alleanza promettevano di difendersi l’un l’altro in caso di aggressione. Il patto giunse a termine il 31 marzo 1991 e fu ufficialmente sciolto durante un incontro tenutosi a Praga. Conosciuto ufficialmente, a seguito della sua attuazione, come Piano per la Ripresa Europea (European Recovery Program), il Piano Marshall fu uno dei piani statunitensi per la ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale (vedi anche Piano Morgenthau). L'iniziativa prese il nome dal Segretario di Stato USA, gen. George Marshall, che in un discorso all’Università di Harvard (5 giugno 1947) delineò la disponibilità del governo degli Stati Uniti a contribuire alla ricostruzione economica dell’Europa. Il Presidente degli Stati Uniti Harry Truman firmò la legge istitutiva del Piano Marshall il 3 aprile 1948. Tra il 1948 e il 1951, gli Stati Uniti contribuirono con più di tredici miliardi di dollari (circa ottanta miliardi di euro del 2002) di assistenza tecnica ed economica nei confronti di 18 nazioni europee che si erano riunite (16 aprile 1948) nell’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OEEC), antesignana dell’attuale OECD, in risposta all'appello di Marshall per un piano congiunto. Il prestito veniva conferito a qualsiasi nazione che avesse introdotto elementi di liberalizzazione nel proprio sistema economico. Il piano comprendeva inoltre una regia paneuropea degli sforzi di ricostruzione. Tali condizioni vennero rifiutate dall’Unione Sovietica e dai suoi paesi satellite dell’Europa orientale, che pertanto non aderirono al piano. Ad ovest invece il programma di aiuti diede impeto alla formazione della NATO e della Comunità Economica Europea. Il Piano Marshall è stato spesso citato ad esempio di come una massiccia assistenza economica può produrre prosperità. Comunque, alcuni hanno puntualizzato che la ricostruzione dell’Europa nel dopoguerra fu un problema molto più semplice dello sviluppo o della ricostruzione delle aree dell'odierno Terzo Mondo. Nel caso dell’Europa, nonostante fosse stata devastata dalla guerra, esisteva ancora una significativa infrastruttura fisica, accompagnata dalla preparazione tecnica della popolazione. Nel caso del Terzo Mondo, l’infrastruttura e le capacità tecniche non esistono tuttora con la medesima estensione. Il lento recupero della libertà e della dignità Alla fine del lungo periodo di Guerre Civili in Europa (1914-1945), la caduta del fascismo e del nazional socialismo hanno segnato la fine, nell’Europa occidentale, dell’esperienza di stati totalmente dittatoriali. Con il collasso dello statismo estremo, i cittadini dell’Europa occidentale si ritrovarono liberi dall'abbraccio soffocante dello stato; nonostante ciò, l’individuo era ancora guidato per mano da uomini politici (con intenzioni più o meno benevole). Infatti gli anni del dopoguerra sono stati un periodo di continua espansione dello stato assistenziale con il suo apparato burocratico per l’amministrazione di servizi sociali. Sono stati anche gli anni in cui la pianificazione statale nazionale si è imposta con l’obiettivo di indirizzare le energie del paese verso il progresso economico e sociale. Tutti questi erano propositi buoni e onorevoli. Si potrebbe anche riconoscere che persino i regimi dittatoriali, per quanto riguarda alcuni problemi interni, avevano introdotto alcuni provvedimenti validi e degni di elogio. Al tempo stesso, occorre sottolineare il fatto che vi è qualcosa di fondamentalmente e intrinsecamente malsano in tutto ciò ed è il fatto che qualsiasi intervento da parte di una istituzione burocratica genera, quasi inevitabilmente, irresponsabilità e inettitudine in tutti coloro che vi sono coinvolti: quelli che ricevono perché sono portati a credere che è un loro legittimo diritto ricevere qualcosa anche in cambio di nulla, e col tempo diventano incapaci di agire in maniera indipendente; coloro che distribuiscono le risorse perché sono portati spesso a sprecarle in quanto non provengono, direttamente o principalmente, dai loro sforzi. Tutte le istituzioni burocratiche sembrano basate sulla irresponsabilità e sul non dover render conto delle proprie decisioni. Essendo lo stato l’istituzione economica per eccellenza, è lì che l’irresponsabilità e l’incoscienza raggiunge i massimi livelli. Ma nessuna istituzione può sopravvivere per sempre su fondamenta così instabili. Così, duecento ani dopo che la Rivoluzione Francese (1789) iniziò il processo di porre sul trono lo stato con le sue caratteristiche e i suoi apparati (democrazia rappresentativa, decisioni a maggioranza, burocrazia amministrativa), lo stato ha subito una serie di scosse, di cui le più violenti hanno avuto luogo dove esso era più oppressivo e invadente. La caduta del Muro di Berlino (preludio al collasso dell’Impero Sovietico) e le manifestazioni nella piazza Tien-an-men a Pechino (1989) sono stati solo i segni più evidenti di un cambiamento di atteggiamento nei confronti dello stato e del controllo statale. Tutti i pilastri dello statismo, alcuni già ridotti in numero e forza, sono stati messi in discussione o addirittura fuori uso da nuove realtà. Soffermiamoci su alcuni punti. - Protezionismo. Il mondo del dopoguerra ha visto l’attuazione dell’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio (GATT) con l'obiettivo di ridurre i dazi e di liberare il commercio dalle restrizioni più assurde. Questo ha contribuito in parte alla ripresa post-bellica e all’espansione delle economie occidentali. Nel 1995 il GATT è diventato il WTO (World Trade Organization Organizzazione Mondiale del Commercio) con la missione di ridurre ulteriormente le barriere alla libertà di commercio. Ancora una volta si vede il commercio come ai tempi di Richard Cobden, e cioè come il mezzo migliore per promuovere la pace e lo sviluppo. - Monopolismo. Con l’abbassamento delle barriere doganali il monopolismo è in pericolo, in quanto le grandi industrie perdono le loro riserve di caccia, vale a dire il mercato nazionale protetto. Inoltre, parallelamente, nuovi strumenti tecnologici (ad es. Internet) danno ad ogni individuo il potere di comunicare con il mondo intero e di costruire comunità virtuali non soggette ad una realtà territoriale (cioè, lo stato). Per quanto riguarda l'economia, questi strumenti permettono un miglior funzionamento della concorrenza offrendo una quantità notevole di informazione a consumatori isolati nel loro rapporto con produttori ancora potenti, ma non così potenti come una volta. - Finanzialismo. Il secolo 20° è stato caratterizzato da una inflazione pressoché costante (talvolta iperinflazione) dovuta principalmente all'assoggettamento della politica monetaria agli interessi della cerchia statale. Il paese con la moneta più forte (il marco tedesco) nel dopoguerra è stato anche quello con una Banca Centrale indipendente dalle manovre politiche. Con il declino del protezionismo e del monopolismo, l’inflazione non è più una strada percorribile per risolvere i problemi derivanti dalla cattiva gestione politica dell'economia. In Europa, le Banche Centrali (attualmente la Banca Centrale Europea) sono uscite fuori dell'ingerenza statale per concentrare il loro impegno solo sulla gestione della moneta. Il tempo degli speculatori e redditieri finanziari protetti dalle cricche politiche sembra quasi finito. - Militarismo. Il collasso del sistema comunista e la scomparsa dell’Unione Sovietica hanno messo fine al capitolo storico conosciuto sotto il nome di guerra fredda. Questo ha tolto di mezzo la maggior parte delle giustificazioni per le spese militari e per l’accumulo di armi che è stata la pratica comune di quasi tutti gli stati al mondo. Ciò non significa che il militarismo sia finito ma solo che non viene più accettato silenziosamente e implicitamente come in passato. Inoltre, le spese militari sono un peso che, se si accresce troppo, può portare al dissesto qualsiasi stato, come è apparso chiaro dall'esperienza dell’Unione Sovietica. - Imperialismo. L’Asia e l’Africa, i passati campi di battaglia dell’imperialismo, sono cambiate (Asia) e stanno cambiando (Africa). Esse sono entrate o stanno entrando sempre più sulla scena del commercio mondiale da cui sono rimaste fuori o sono state tenute fuori (soprattutto l’Africa). I dittatori che trovavano protezione in una superpotenza (USA, URSS) o in uno stato occidentale (Francia, Regno Unito) hanno perso i loro padrini e non sono più in grado, da soli, di opprimere il popolo come è stato loro possibile per decenni. Così, uno dopo l’altro, i mali del protezionismo, monopolismo, finanzialismo, militarismo, imperialismo, tutti orchestrati sotto la direzione dello stato e operanti in maniera occulta durante il periodo della guerra fredda, hanno perso/stanno perdendo forza perché lo stato è in ritirata mentre l’individuo che vuole affermare la sua libertà di muoversi, commerciare, comunicare, è in ascesa. Non dovrebbe quindi giungere come una sorpresa il fatto che, in questo preciso momento storico, quando molti fattori favorevoli convergono verso un possibile superamento dello statismo, le antiche piaghe dell'anti-liberalismo, anti-internazionalismo e anti-cosmopolitismo siano riapparsi sulla scena. Questa volta, almeno, la scritta sui loro striscioni è chiara ed inequivocabile: antiglobalizzazione. Giorgio Sideri leader negli anni 60 del "Sindacato dei giovani", il cosiddetto "Movimento dei giovani fatto dai giovani" ovvero il "Sindacato delle aspirazioni" che ha anticipato la controcultura della contestazione permanente con la filosofia del "GIOVANISMO" basata sul postulato che a darci coscienza di vivere pienamente è solo l’AZIONE, da intendersi sia sul piano interiore come recupero delle nostre radici profonde, sia sul piano esteriore come creatività sociale e politica contro la cristallizzazione della massifficazione e la degenerazione del conformismo e del consumismo. Al fine di comprendere voi stessi, considerate quanto siate condizionati dai modelli che la società impone. Tale condizionamento vi spinge ad imitare quei prototipi e fa di voi degli apostoli, degli attivisti del conformismo. Il conformismo è così radicato nell’uomo d’oggi che gli anti-conformisti sono degli spostati e chi non si conforma è considerato un anormale; per il timore del giudizio sfavorevole, della disarmonia in famiglia, vi conformate alle opinioni comuni, agli usi, ai costumi della società. La religione, la morale e la politica contano sul vostro conformismo. Conformandovi, esse sperano di condizionarvi e così sfruttarvi, perché il vero scopo di ogni organizzazione politica e religiosa è quello di sfruttarvi per divenire più influente e perciò più potente. A vostra volta, come ho detto, con i vostri silenzi, o peggio con il vostro ostracismo, con il giudizio sfavorevole verso gli anti-conformisti, divenite missionari del conformismo. Siate liberi, consapevoli che la forma acquista importanza laddove mancano i contenuti. Il vostro riconoscervi in un partito, in una religione, alimenta la separatività, la parzialità, incrementa il vostro conformismo. Il conformismo impedisce all’uomo di agire secondo la sua vera natura, lo rende ipocrita, incapace di comprendere chi liberamente si esprime. Conformarsi alle idee altrui è uccidere la propria creatività. Non crediate che io stia incitandovi all’anti-conformismo che è quasi sempre una moda; sto incitandovi a comprendere voi stessi; agire perché così va fatto denota vuoto interiore, così come andare contro le consuetudini sociali per destare l’altrui attenzione, significa volere imporsi agli altri e riconoscere di non avere talenti per poterlo fare altrimenti. Badate bene, io vi spingo ad agire secondo ciò che "sentite" perché è lecito violentare se stessi solo per non danneggiare gli altri. Il Mondo sta attraversando tempi difficili. I giovani d’oggi non pensano altro che a sé stessi. Non hanno rispetto per i genitori né per gli anziani. Sono insofferenti a qualunque freno. Parlano come se sapessero tutto e ciò che per noi è saggio, è ridicolo per loro. Le ragazze sono immodeste e poco femminili nel parlare, nel comportarsi, nel vestire. Questi sono i giudizi espressi da tutti, molte volte alla settimana, dai genitori, agli insegnanti, da magistrati a negozianti. La tipica lamentela che si sente anche nelle chiese al giorno d’oggi. Non sono il primo a notare la tendenza a peggiorare nel comportamento dei giovani. Quando guardo la generazione più giovane, dispero del futuro della civiltà Per gli anziani, non è una cosa nuova sedersi in circolo e lamentarsi del comportamento dei giovani. Tutto quello che è ripetuto in molti Consigli di classe e di chiesa, o mormorato nel gruppo delle signore che mettono ordine nel disordine lasciato la sera prima in sale o cucine dai gruppi dei giovani, non è altro che l’eco di quanto è già stato detto da molte voci nei passati trascorsi. I giovani sono frequentemente esortati ad “agire secondo la loro età, “ma solitamente questa non è altro che una richiesta, sottilmente mascherata, di comportarsi come adulti maturi. Naturalmente questo è impossibile per un adolescente che, per definizione è un non adulto, e ancora in fase di sviluppo verso la maturità. Mentalmente, fisicamente, emotivamente, socialmente e spiritualmente l’adolescente non è ancora completamente maturo. Non è facile essere un adolescente; le sicurezze dell’infanzia stanno sparendo, ma le ricompense dell’età adulta sono lente a rendersi disponibili. Gli adolescenti sono presi tra due età sono in transizione fra due mondi. Quand’erano bambini si fidavano delle decisioni che i loro genitori prendevano sia riguardo all’uso del denaro, che riguardo il cibo e l’abitazione. Ma ora essi cominciano a muovere nel mondo dei “grandi” i primi incerti passi verso l’età adulta, prendono decisioni, hanno guadagni propri e, gradualmente, diventano indipendenti. E non è solo la società che si aspetta tutto questo dall’adolescente, ma c’è il desiderio naturale di “lasciare il nido”. A questa età le ragazze cominciano ad essere “civettuole” , un termine molto descrittivo per coloro che “provano ad usare le ali”! Il processo varia da individuo a individuo. Alcuni sono troppo fiduciosi e vogliono lanciarsi troppo lontano e troppo presto; altri, che tendono ad essere più che cauti, hanno bisogno di una leggera spinta. Il desiderio di riservatezza e di indipendenza è naturale e nei giovani uomini è forte come nei giovani uccelli che provano con tutta la loro forza a lasciare il nido. L’adolescenza è come un tempo di concessioni e, da ora in poi il compito dei genitori è di “stare all’erta e sostenere i primi passi di prova di un nuovo adulto, e…debbono imparare ad impostare il rapporto su nuove basi”. Medici e sociologi ci dicono che nella vita dell’adulto ci sono vari momenti critici, come il matrimonio, la nascita di figli, traslocare in un’altra città, cambiare lavoro, la mezza età il pensionamento, lutti. Ma se esaminiamo attentamente i problemi e le incertezze affrontati, in queste situazioni, ci rendiamo presto conto che, fondamentalmente, la maggior parte di queste crisi e dubbi sono già state tutte provate negli anni dell’adolescenza, quando non c’era ancora l’esperienza alla quale ricorre per sostenersi. Ci sono gli sconcertanti cambiamenti fisici, ai quali si unisce l’ansietà sessuale e il senso di colpa che si sviluppano assieme ai nuovi desideri dell’adolescente. Ci sono i dubbi e i sentimenti d’inferiorità, le preoccupazioni per l’aspetto e per l’essere accettati dagli altri, e i timori dell’insuccesso e del rifiuto. Poi c’è anche la scarsa capacità d’esprimersi come si vorrebbe. Tutto questo nel contesto della vulnerabilità emotiva, caratteristica di questi anni. L’adolescente è una misura esplosiva di incertezze, di dubbi e di domande rivolte a se stesso. Ma benché questa sia stata per secoli l’esperienza umana, l’adolescente del giorno d’oggi affronta problemi ancora più grandi. Ecco perché “PICCOLI RAMBO”. Divario Generazionale Avendo inventato l’adolescente, la società ha dovuto affrontare due grossi problemi: come e dove collocarlo nella struttura sociale, e come rendere il suo comportamento conforme al modello stabilito. Quel che vuol dire e che la rivoluzione industriale ricostruì la società in modo tale da considerare gli adolescenti come un gruppo separato e lasciò loro molto più spazio di quanto non ne avessero mai avuto prima. In molte culture la persona giovane passava molto più facilmente dalla fanciullezza all’età adulta di quanto non faccia oggi nei paesi industrializzati. La transizione avveniva con la pubertà, quando il ragazzo, o la ragazza, facevano l’ingresso nell’età adulta, lasciandosi dietro per sempre la fanciullezza. Esisteva sicuramente un periodo di adolescenza, ma era completata da una molto maggiore responsabilità di quanto non lo sia oggi. Non sorprenda, quindi se alcuni antropologi dicono che gli adolescenti delle comunità primitive non soffrivano delle nevrosi degli adolescenti delle moderne società industriali. La società li ha trasformati in una razza separata, segregandoli dalle attività serie dell’età adulta. Inoltre all’età di dieci anni i giovani sono considerati penalmente responsabili per i reati che possono commettere. Bisogna imparare come superare il divario generazionale, quello culturale e una certa diffidenza. La ricerca è partita da una richiesta del Sud Italia precisamente nel territorio della provincia di Cosenza in Calabria progetto già sperimentato da noi negli anni prima della Costituzione e Registrazione dell’Associazione che venne promosso nell’ambito delle attività del Nucleo di Valutazione degli Istituti di Cassano all’Ionio e Castrovillari. Precisamente : la Scuola Media Statale B. Lanza e il Liceo Scientifico Mattei. Fu approntato un questionario per poter conoscere le abitudini e i bisogni dei piccoli e medi utenti e poter, di conseguenza, attivare possibilmente, un’offerta più adeguata agli stessi. Quel questionario, composto da 128 domande esatte, riscosse un notevole successo, per la mèsse di risultati che fu in grado di fornire e per le ampie possibilità, dovute ad una migliore conoscenza dei ragazzi, e di modulare interventi didattici più adeguati al “target”. L’intento di conoscere i ragazzi “preadolescenti e adolescenti” di alcuni paesi della provincia di Cosenza. Una città che negli ultimi anni ha avuto un incremento considerevole, sotto il profilo dello sviluppo sociale e culturale di determinate aree, della configurazione urbanistica, del proliferare di locali e strutture per il divertimento notturno e non solo. Le città di oggi sono sempre più proiettate verso i giovani, che la sera si riversano a frotte, provenienti da un raggio di trenta, quaranta chilometri, a riempire bar, pub, ristoranti, birrerie, discoteche e marciapiedi. Città che sembra sempre più voler affermare le proprie identità attraverso un’interfacciarsi continuo con la categoria “giovani”, che è una categoria indistinta o che, comunque, non è definibile in un unico modo. Noi siamo andati a scoprire quel mondo di giovani non ancora adolescenti, non più bambini, che prima o poi si affaccerà anch’esso alla scoperta della propria città o paese by night; quei ragazzi che adesso si affacciano alla vita sociale, con un piede ancora saldamente dentro la famiglia e con l’altro che comincia a muoversi verso l’esterno. Abbiamo denominato questi preadolescenti “Piccoli Rambo”, proprio per indicare quello stato di precarietà psicologica, ma non solo, che lo connota. Pronti a spiccare il volo ma nello stesso tempo ancora radicati nel loro mondo, pronti ad assimilare le novità, ma anche tradizionalisti come non ci si aspetterebbe. Abbiamo scoperto, come vedremo più avanti, dei ragazzi che forse non ipotizzavamo, un po’ supponenti, con delle certezze radicate, con una buona autostima, che credono nei valori dei genitori ma, nello stesso tempo, pratici, un po’ superficiali e permeabili alle innovazioni. Ragazzi moderni, pronti alla trasgressione, ma che difficilmente confidano a chicchessia le loro cose più intime. La nostra ricerca, condotta personalmente dal nostro esperto, è stata avviata nella sua fase progettuale nel periodo novembre, dicembre 2006, con la costruzione, tra l’altro, del questionario da somministrare, composto da 128 domande. Il lavoro aveva, come in parte detto, l’ambizione di “indagare” nel mondo della prima adolescenza, per la determinazione dei valori, delle aspettative, dello stile di vita, delle relazioni e dei progetti dei ragazzi che frequentano la scuola media di primo grado. Visto che il questionario conteneva essenzialmente domande a carattere privato si è preferito utilizzare la formula dell’anonimato, cosa che, ad ogni somministrazione, è stata specificata da subito, con il conseguente invito a rispondere in modo sincero e senza timori di sorta. Durante la fase di compilazione da parte dei ragazzi, i somministratori e l’eventuale insegnante di classe presente, per aumentare il grado di certezza dell’anonimato, rimanevano a distanza di sicurezza dai rispondenti. La ricerca, limitata ai ragazzi preadolescenti e adolescenti, voleva coinvolgere tutte le zone delle città che avevano aderito al nostro progetto e si prefiggeva l’obiettivo primario di avere dati affidabili, risposte attendibili, ovviamente in conseguenza di domande comprensibili e di facile impatto. Per quanto riguarda il territorio si è deciso di approntare un campione rappresentativo di tutto il territorio, in pratica intervistando gli alunni di almeno due classi di ogni istituzione scolastica. Per raggiungere l’obiettivo dell’attendibilità dei dati si è deciso di intervistare tutti gli alunni delle medie e superiori tralasciando quelli più piccoli. Poi c’era la necessità di un criterio oggettivo per determinare quali classi andare a sondare per ogni scuola, un criterio che tenesse conto della casualità e nello stesso tempo avesse un suo fondamento e non portasse a scelte influenzate da variabili soggettive. Il rischio era in particolare uno: se alla domanda “in quali classi volete somministrare il questionario?” da parte dei Dirigenti Scolastici, noi avessimo risposto “una qualsiasi”, i Dirigenti stessi ci avrebbero accompagnato, per un giusto orgoglio, in quelle che loro ritenevano migliori, in tal modo influenzando non di poco tutta la ricerca.. La decisione presa è stata allora quella di somministrare il questionario, per ogni scuola, a tutti i ragazzi esclusi quelli di quarta e di quinta superiore presenti nell’edificio. La fase di somministrazione e raccolta dei questionari compilati, si è esaurita nel periodo di dicembre due giorni prima delle vacanze natalizie 2006/7; in totale sono stati intervistati 456 alunni delle medie media e 548 alunni delle superiori. Del numero complessivo, questi sono ragazzi tra undici e i sedici anni, che hanno rappresentato l’Universo della ricerca, composto da maschi e femmine. Il Campione, di 1004 ragazzi, rappresenta quindi la cifra, statisticamente significativa, del totale degli alunni delle medie e superiori intervistati. L’accoglienza ricevuta da insegnanti e dirigenti delle scuole coinvolte. Sempre positiva, con disponibilità massima a somministrare il questionario nelle classi campione e senza frapporre ostacoli di sorta al lavoro dell’esperto. Una conferma della curiosità intellettuale che contraddistingue il dinamico mondo della scuola e della ricerca continua di nuovi stimoli. Chi sono gli intervistati Il nostro campione era formato da ragazzi di dodici e tredici anni, come detto, frequentanti le scuole pubbliche salernitane, provenienti da tutte le zone della città, dato che tutte le scuole medie sono state coinvolte. Prima di “snocciolare” i dati occorre dire che i questionari sono stati somministrati direttamente dai due ricercatori, per poter rispondere ad eventuali domande in maniera univoca. E le domande ci sono state, tante, soprattutto legate all’incomprensione di alcuni termini utilizzati: per molti alunni di seconda e terza media si sono rivelati ignoti, per esempio parole come “coerenza”, oppure “trasgressione” o “ leader”, ma anche cose apparentemente semplici, come “pubblico” e “privato”. Un altro dato che ha lasciato perplessi è stato che in molti casi, alla domanda circa il titolo di studio dei genitori molti ragazzi hanno candidamente confessato di non conoscerlo (28 ragazzi su 100) o, addirittura, lo hanno scambiato con la professione. Spesso è capitato che ai somministratori sia stato chiesto: “Che significa titolo di studio del padre e della madre?” Alcuni ragazzi, appunto scambiando titolo con professione, hanno scritto medico invece di laurea in medicina, oppure casalinga al posto di (presumiamo) licenza elementare o media o altro. Questo fatto ha portato ad un numero molto elevato di risposte non valide che, assieme alle non risposte, hanno totalizzato 127 su 451 indicazioni non utilizzabili. In pratica abbiamo potuto conoscere il titolo di studio del 75.50 % dei genitori. Il nostro campione, forse a causa di questo fatto, è risultato con un titolo di studio abbastanza elevato, infatti il 19.95 % dei padri e il 18.40 % delle madri è in possesso della laurea. Ricordiamo che in Italia i laureati sono il 6.06 % (Campania 5.06%). L’ipotesi è che siano stati i ragazzi che hanno i genitori con un basso titolo di studio (per orgoglio o per vergogna, anche se il questionario era ovviamente anonimo) a non aver risposto o ad aver falsato le risposte, da qua l’elevata percentuale di quelli con alto titolo di studio. Per quanto invece riguarda la composizione di queste famiglie, da dire che la media di componenti è di 4.51 (in Italia 2.7); in 10 famiglie su cento uno dei due genitori non vive a casa con il figlio,esattamente il 9.5 %. In Italia le famiglie con un solo genitore sono 11.6 %. Dati, questa volta, abbastanza in linea con il trend nazionale. Ma chi sono e cosa fanno i nostri intervistati? Possiamo brevemente sintetizzare che tre su quattro praticano uno sport, che il 78.73 % ha a disposizione un computer a casa (In Italia il 60 %), che di questi il 64.2 % ha il collegamento ad internet e naviga, per il 41.01 %, almeno un’ora al giorno (per il 66.82 fino a due ore al giorno). Da dire che, come vedremo più avanti, oltre la metà di quelli che navigano in internet ha visitato siti pornografici. Continuando nella disanima delle caratteristiche dei ragazzi, possiamo notare che il 74.32 % possiede a casa la Play Station (la stessa media dell’Italia, 74.0%) e ben il 91.63 % dei ragazzi di dodici e tredici anni ha il telefono cellulare personale. A livello di autonomia gli intervistati hanno affermato, nell’89.09 % dei casi, di scegliere da soli cosa comprare ed indossare e nel 74.77% di poter spendere da soli dei soldi. Infine, anche per capire il livello di reddito delle famiglie del campione, sessanta ragazzi su cento nell’estate scorsa sono stati in vacanza fuori Salerno e di questi sedici su cento fuori dell’Italia. L’autostima e la percezione di sé La percezione di sé, l’autostima, non è altro che il risultato di un confronto : quello tra il “chi siamo” o che, comunque, crediamo di essere, e quello che vorremmo essere. L’autostima, potremmo dire, è una sintesi delle informazioni oggettive in nostro possesso e delle valutazioni soggettive che diamo a noi stessi e alle stesse informazioni. Secondo molti studiosi del settore l’autostima non ha un’unica caratteristica, ma una serie di sfaccettature, a seconda delle diverse realtà e situazioni in cui i soggetti interagiscono. In pratica esiste un’autostima “globale”, fatta dalla somma delle nostre singole valutazioni di noi stessi nelle diverse situazioni. Secondo alcuni, concretamente, una scarsa autostima è associata a diverse manifestazioni di disagio e disturbi, quali comportamenti delinquenziali e abuso di sostanze, fumo di sigaretta, disturbi dell’alimentazione e disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento, risultando inoltre altamente predittiva di scarsi risultati scolastici futuri. Non è ancora chiaro, tuttavia, se la bassa autostima sia la causa o l’effetto di questi disturbi. Per determinare il livello di autostima e come si percepiscono i ragazzi intervistati, in questa sezione si doveva dare un voto da uno a cinque ad una serie di affermazioni riguardanti se stessi e il livello di autostima. Nell’analizzare i dati non abbiamo preso in considerazione il valore centrale (3) e abbiamo considerato come di basso gradimento le risposte con voto 1 e 2 e di alto gradimento quelle con voto 4 e 5. Da questi calcoli è scaturito che i ragazzi hanno, in definitiva, un buon rapporto con se stessi: infatti soltanto il 4.92 % ritiene di essere poco simpatico e soltanto il 14.82 % non crede di piacere agli altri; ancora, ben il 92.28 % ritiene di essere un amicone per i compagni. Valori netti, decisi, che non lasciano spazi a dubbi di sorta. Un altro dato che ci sembra da rilevare riguarda una serie di certezze, ai limiti della supponenza: i ragazzi intervistati ritengono in maggioranza di avere delle qualità (66.98%) e di essere capaci (75.65%). La controprova di queste convinzioni si ha alla domanda, in senso contrario, se erano d’accordo con il fatto di non saper fare niente: soltanto il 19.01 % è d’accordo almeno in parte con questa affermazione. Ancora a livello di certezze è da rimarcare che il 54.02 % del campione pensa di riuscire a controllare le proprie emozioni, mentre il 61.84 % è convinto di non essere aggressivo. Una concezione di sé, a quanto pare, fondata su una discreta consapevolezza di essere scevri dagli impulsi, dagli istinti. Insomma, ragazzi capaci di autocontrollarsi, di dominarsi, ai limiti della mancanza di emozioni. Ecco, la cosa che più risalta da questa serie di risposte è proprio questa: gli intervistati sono sicuri di sé, hanno delle certezze, pensano di avere qualità, addirittura, come vedremo adesso, una buona percentuale ritiene di essere un trascinatore per i compagni. A questo proposito, infatti, è da notare che il 25.98 % è convinto di essere un leader; il 66.74 % ritiene di avere la stima dei compagni, il 62.01 si sente sicuro anche di fronte a chi non conosce. Ragazzi, insomma, con una buona concezione di sé, anche se non mancano dei piccoli segnali di allarme; infatti, per contraltare esiste un 15.84 % che crede di essere “un solitario”, un 19.01 % che ritiene di non sapere fare molto e, soprattutto, un dato meno positivo in assoluto: un dato che però è comprensibile, visti i modelli di riferimento forniti dai mass media; questo dato riguarda il piacersi fisicamente: sono 27.6 % i ragazzi che ritengono di non essere molto gradevoli fisicamente. Del resto, come abbiamo notato nel secondo capitolo, questo è un periodo di rapida e tumultuosa crescita fisica, in cui le modificazioni rapide del corpo, i cambiamenti improvvisi, lasciano qualche perplessità negli interessati, quando non delle ansie vere e proprie; improvvisamente si sentono diversi e non sempre questa diversità suscita consensi. I valori e le motivazioni Si parla tanto di valori che non ci sono più, di punti fermi che non esistono per le nuove generazioni e, forse, è così. Ma i ragazzi preadolescenti di Salerno sembrano avere idee abbastanza chiare su ciò che è importante per loro. Quella che segue è una classifica stilata sulla base delle percentuali di risposta positiva alla domanda “credi in …..?”. IN COSA CREDONO Come si vede, tutto sommato, un quadro rassicurante, in cui i valori tradizionali (famiglia, Dio, matrimonio, amicizia) ci rappresentano dei ragazzi ben inseriti e, forse, più conformisti dei loro stessi genitori. Per quanto riguarda le motivazioni abbiamo cercato di capire quali fossero gli stimoli di questi ragazzi e cosa sia necessario per motivarli. Anche in questo caso abbiamo stilato una sorta di classifica. LE COSE CHE STIMOLANO DI PIU’ Nelle prime quattro posizioni, oltre alla prima e alla terza motivazione, che rispondono ad una logica utilitaristica, ci sono due motivazioni legate senz’altro in maniera forte alle aspettative degli altri: il piacere di piacere e la fuga da possibili punizioni. Queste sono le quattro “molle” per far scattare questi ragazzi! Relazionalità Dicevamo nel precedente capitolo di questa doppia pulsione nella preadolescenza; da una parte il desiderio e l’istinto della scoperta, della indipendenza, dell’esplorazione; dall’altra la necessità, ma anche la sicurezza, del riparo domestico, della guida dei genitori. Ebbene, questa doppia pulsione si riflette, quasi automaticamente, nel livello relazionale dei preadolescenti. Infatti la stragrande maggioranza giudica i genitori vicini (il 91.86%), li ascolta (78.21%), li sente anche liberali: infatti l’86.37 % ritiene che i genitori diano loro la possibilità di esprimersi. Queste risposte, forse, sono un po’ stereotipate, quasi scontate, non sufficientemente sentite; o meglio, i ragazzi hanno forse risposto come ci si attendeva da loro. Diciamo questo perché, alla prova dei fatti, quando si è chiesto cosa fanno con i genitori, solo il 38.44 % risponde che ci parla e ci dialoga mentre un rilevante 43.28 % afferma che vorrebbe trascorrere più tempo con loro. La domanda che sorge è, allora, come mai se i genitori sono sentiti vicini non si parla con loro (il 61.56%) e si desidera trascorrervi più tempo? I GENITORI SECONDO GLI INTERVISTATI Sempre a proposito di genitori, in quali momenti i ragazzi parlano con loro? Il 28.27 % parla con loro al momento dei pasti, il 15.71 % nei momenti di difficoltà, il 12.83 % la sera, il 6.02 mai. Un’altra domanda che ci sembrava interessante per capire i preadolescenti era quella che riguardava la volontà di aiutare qualcuno in difficoltà. Abbiamo posto questa domanda quattro volte, cambiando il soggetto da aiutare. Da una domanda generica si passava all’aiuto ad un extracomunitario in difficoltà, ad un omosessuale, ad un anziano. Nella prima domanda la maggioranza ha dato subito, all’impronta, una risposta più che positiva all’affermazione “sei disposto ad aiutare qualcuno/a in difficoltà”. Ben 91.87 ragazzi su 100. Ma quando siamo andati a specificare e a rendere meno generico l’aiuto, la percentuale è scesa. Infatti, nel caso di un anziano in difficoltà essa si è abbassata, seppur di poco, all’89.23 %; nel caso di un extracomunitario è arrivata al 76.94 % e, per un omosessuale, addirittura al 46.06 %. Una cosa è, quindi, una dichiarazione di principio, un’altra l’oggettivizzazione di quella dichiarazione. Un’altra cosa interessante, a livello di comunicazione, per certi versi sconvolgente, è che per questi 451 studenti della scuola media di Salerno gli insegnanti non hanno proprio nessuna importanza. Ci sono o non ci sono la vita relazionale di questi preadolescenti non cambia. Infatti l’87.97 % risponde negativamente all’affermazione “esprimi le tue preoccupazioni agli insegnanti”, o ancora, solo la metà degli alunni si sente capita dai docenti (50.82%). Ma il dato peggiore per la categoria degli “educatori” è che nessuno, e sottolineiamo nessuno, dei 451 intervistati, ha citato i docenti tra le persone cui rivolgersi nei momenti di difficoltà. Da qua sembra emergere una categoria docente forse troppo attenta al programma, all’istruzione, alla materia e troppo poco partecipe della vita educativa e relazionale degli alunni. Una categoria docente tutta concentrata sull’alfabetizzazione e spesso incapace di stabilire rapporti empatici con i ragazzi. SE FOSSERO IN DIFFILCOLTA’ SI RIVOLGEREBBERO A … Sempre per la relazionalità, da notare un doppio livello. Da una parte facilità di comunicazione apparente, con i ragazzi che affermano di sentirsi “amiconi” (78.92%) per i compagni; con il 78.06 % che afferma di avere amici con cui confidarsi; con il 78.63 % che scambia abitualmente sms con gli amici e il 72.01 % che trascorre del tempo a telefono con i compagni. Dall’altra parte un secondo livello di comunicazione, fatta di omissioni e confidenze trattenute: il 53.74 % dei ragazzi, infatti, afferma di avere cose che non si sente di raccontare a nessuno. L’ipotesi è quella di relazioni tutto sommato abbastanza di superficie, più di apparenza che di sostanza. Si condividono i giochi, i divertimenti, al massimo le cose di scuola, le mode, ma non le cose veramente importanti. Siamo poi andati ad indagare sulla vita di gruppo dei ragazzi, un momento certamente determinante della loro vita. Alla domanda se piace il fatto di stare in gruppo ha risposto in maniera positiva la quasi totalità degli intervistati : il 94.77 %. Ma a noi, soprattutto, interessava conoscere cosa pensassero della capacità di stare in gruppo; in pratica, cosa è importante per avere successo con gli altri? Le risposte erano libere, non strutturate, e i preadolescenti hanno spaziato molto: esattamente hanno elencato 18 diversi motivi. Li abbiamo riuniti in due macro aree : quella delle qualità personali e quella degli atteggiamenti. In pratica un’area di motivi legati a qualità innate (simpatia, bellezza, etc.) e un’area legata a comportamenti coscienti e acquisibili (fedeltà, sincerità, etc.) TABELLA 1 I ragazzi privilegiano certamente un atteggiamento positivamente legato a dei comportamenti giusti per far parte del gruppo. Non si nascondono dietro a qualità personali che giustificherebbero un’eventuale non accettazione da parte dei compagni e sono convinti che un atteggiamento adeguato sia quello che ci vuole per far parte attivamente e partecipativamente di un gruppo di amici. I preadolescenti e il futuro Quali aspettative, cosa si aspettano dalla vita, quanto tutto ciò che li riguarda è influenzato dai mass media e dai modelli imperanti? Sono tutte domande che spesso ci facciamo, quesiti di non sempre facile soluzione, ma essenziali per poter lavorare nel migliore dei modi o, comunque, interagire bene con questi ragazzi non ancora veri e propri adolescenti, ma non più semplicemente bambini. Abbiamo rivolto loro una serie di quesiti tendenti, appunto, a scoprire cosa si attendono dal futuro, scolastico e lavorativo, ma anche di vita. Come per altre domande abbiamo avuto una serie di risposte rassicuranti, per certi versi scontate e conformiste. “Si, la scuola mi fa fare cose che mi saranno utili nella vita”, afferma l’80.14 % degli intervistati; “ho già idee chiare sul mio futuro scolastico”, afferma l’82.04 %; “penso che dovrò conseguire la laurea” ha detto un altro 77.19%; “la scuola è garanzia di un futuro migliore”, afferma il 90.97 %; leggermente più bassa la percentuale sul percorso lavorativo futuro, il 70.14 % ha le idee chiare. Ancora più bassa la percentuale di quelli a cui piace studiare : 53.32 %. Tutti ottimisti, poi, questi ragazzi: abbiamo chiesto di dare un voto da uno a cinque sul loro futuro personale: il 91.58 ha espresso un voto tra quattro e cinque e soltanto 12 ragazzi sui 416 hanno indicato come voto 1 (2.88%). Ma le certezze non sono finite : il 57.82 % ritiene che nella vita guadagnerà molti soldi, il 61.79 % è convinto che nella vita avrà successo, il 37.41 crede che nella vita diventerà importante e conosciuto. Guardando al futuro, poi, abbiamo genericamente chiesto ai ragazzi la loro più grande aspettativa. Il lavoro, anche se lontano nel tempo, è al primo posto. Al quarto, con una percentuale del 5.67 %, la famiglia, preceduta da sogni un po’ più effimeri: il successo in attività sportive e il successo tout court. LA PIU’ GRANDE SPETTATIVA PER IL FUTURO Sempre relativamente alle aspettative per la vita emerge un quadro di estrema tradizione: il 92.87 % è infatti convinto che si sposerà, l’89.83 % che avrà dei figli. Un quadro roseo e conformista nello stesso tempo per gli anni a venire di questi giovanissimi adolescenti, molto condizionati certamente dalla vicinanza ancora evidente ai genitori e ad un sistema parentale che comunque è esempio di tradizione e, dall’altra parte, condizionati dalla televisione, ancora, pur se in declino, portatrice di stili di vita e di aspettative. Per finire questa sezione dedicata alle aspettative per il futuro, abbiamo poi cercato di capire i modelli di riferimento dei ragazzi. Abbiamo chiesto loro a chi vorrebbero assomigliare, senza fare esempi o condizionarli in qualsiasi modo. Una domanda generica, per vedere proprio chi fossero i loro modelli. Hanno trionfato, al di là delle scelte stereotipate delle domande precedenti, i personaggi del mondo dello sport, della televisione, del cinema, che rappresentano, evidentemente, il punto di riferimento per eccellenza dell’immaginario collettivo. A CHI VORREBBERO TANTO ASSOMIGLIARE E I PRINCIPALI MOTIVI Un’altra domanda che, chiaramente, poteva spiegarci le aspettative e i desideri dei ragazzi per il loro futuro era la classica domanda sulla professione cui aspirano. Abbiamo suddiviso le risposte in quattro macro categorie : - Professioni effimere - Professioni medio basse - Professioni medio alte - Altro Come possiamo vedere a fianco di professioni legate inevitabilmente al mondo dei mass media e dello spettacolo, che rappresentano pur sempre un quarto delle aspettative lavorative dei ragazzi, emergono anche esigenze più concrete. Infatti al primo posto in assoluto c’è il libero professionista, rappresentante di un mondo che, nell’immaginario di tutti, è fatto di buoni guadagni e libertà d’azione. Immaginiamo che la stessa inchiesta svolta a Varese o a Vicenza avrebbe probabilmente visto molti più consensi per l’imprenditoria. TABELLA 2 Rimane pur sempre il fatto che molti ragazzi e ragazze hanno un basso livello di aspirazione, avendo come massimo obiettivo lavorativo, già a dodici e tredici anni, quello di svolgere la professione di operaio o estetista. Lo stile di vita Un altro aspetto che volevamo conoscere del mondo dei preadolescenti era lo stile di vita. Cosa fanno, come impiegano il loro tempo, quali sono le loro preferenze, i loro hobby. La prima cosa che siamo andati a vedere, in un’epoca in cui c’è una lamentazione generale sul fatto che non si legge più era, appunto, quanti libri leggono mediamente questi ragazzi. Il 25.72 % ha subito affermato con onestà di non aver letto neanche un libro nell’anno precedente e un altro 15.08 % di aver letto un solo testo. La metà circa dei lettori, poi, ha affermato di aver letto in un anno da due a quattro libri. In pratica leggono poco o niente, come era presumibile. E allora cosa fanno nel tempo libero? TABELLA 3 La maggioranza pratica uno sport (47.35%), oppure balla (17.55%), gioca, anche con la play station (6.96%), ascolta musica (6.13%) o si posiziona davanti al computer (5.57%). A conferma di quanto detto prima a proposito dei libri, soltanto 2.78 ragazzi su cento ha citato la lettura tra gli hobby preferiti. COME TRASCORRONO IL TEMPO LIBERO Una domanda di controprova circa il tempo libero l’abbiamo posta formulandola in modo inconsueto : i tuoi genitori dicono che perdi troppo tempo per…? Le risposte sono state leggermente diverse da quelle che avevano dato autonomamente i ragazzi. Abbiamo quindi raffrontato il tempo libero degli intervistati con quello che pensano i genitori del tempo dei figli. Come si vede i ragazzi non considerano il guardare la TV come un possibile impiego del tempo libero, ma ne guardano abbastanza, almeno a giudizio del loro genitori. Ballo e sport, invece, non sono considerati una gran perdita di tempo da parte degli adulti. Un altro aspetto che, specie in questo periodo di polemiche sui mass media, ci sembra rilevante, è quello che riguarda la fonte delle informazioni per gli intervistati. Da dove ricevono le notizie ? Il 69.38 % dei ragazzi afferma di ricavare le maggiori informazioni dai telegiornali. Al secondo posto, staccato di molte lunghezze ma comunque rappresentante una piacevole novità, internet; l’11.72 % degli intervistati afferma di ricavare dal web le informazioni. Rimane il fatto che la stragrande maggioranza acquisisce notizie soltanto dalla televisione e, soprattutto, non legge: questo fatto comporta che la stessa stragrande maggioranza è purtroppo facilmente manipolabile. L’ambiente di vita Siamo andati a vedere come si trovano questi ragazzi nella loro città, nel loro quartiere, quali servizi e strutture non hanno e vorrebbero. Alla domanda “ti piace vivere nella tua città?” hanno risposto “si” in 87.5 su cento. Anche nel quartiere di vita vivono bene: nell’82.77 % i ragazzi hanno risposto che a loro piace vivere dove vivono. In tutte e due le risposte da notare che c’è stata una buona partecipazione all’argomento: infatti sono stati soltanto il 6.65 % quelli che non hanno risposto. Andando a vedere un po’ più in profondità le risposte, alla domanda se ci siano, nel quartiere di vita, luoghi dove incontrare i coetanei o, comunque, dove trascorrere il tempo, il 70.63 % ha risposto di si, anche se, alla successiva domanda su cosa vorrebbero nel quartiere, il 76.11 % ha affermato che vorrebbe una serie di strutture e servizi che, evidentemente, non ci sono. TABELLA 4 Sempre relativamente al quartiere e agli spazi di interazione, siamo andati ad indagare sulle “cattive compagnie”, sui ragazzi “sbandati” che a volte sono presenti o che, comunque, sono percepiti come una minaccia. Gli intervistati hanno risposto che si, ce ne sono, nel 43.03 % del totale; addirittura esistono vere e proprie bande di ragazzi, hanno risposto 40.43 ragazzi su cento. Il 23.38 % dei preadolescenti ha subìto delle minacce dirette o conosce degli amici che ne hanno ricevute. Tutte le statistiche di questo capitolo riguardanti la situazione nazionale o regionale, , se non indicato espressamente, sono tratte dal Rapporto annuale sulla situazione del Paese fonte Istat Fonte Istat: Indagine Multiscopo sulla famiglia Fonte Istat: Indagine Multiscopo sulla famiglia Gli sport più praticati dagli intervistati sono stati, nell’ordine : il calcio, la pallavolo, la danza, il nuoto, ginnastica ed arti marziali, il basket. Seguono altri 10 sport. Sono stati in vacanza il 58.90 % degli intervistati. Di questi il 31.90 % in Calabria, il 54.31 % nel resto di Italia, il 15.95 all’estero. Vorrebbero somigliare a : personaggi del mondo dello spettacolo (34.60%), sportivi (32.91%), genitori (10.97%), personaggi della TV (9.70%), altri parenti (5.09%), altro (6.75%) I motivi per cui vorrebbero somigliare ai personaggi sopra descritti: per la bellezza (28.45%), per la bravura (28.03%), per la stima nei loro confronti (12.55%), per il loro successo (10.46%), per i loro soldi (3.76%), per la loro simpatia (3.35%), per il loro carattere (2. 51%), per altri motivi (10.46%) Cosa vorresti nel tuo quartiere ? Spazi aperti – verde – campi gioco 50.69 % Negozi, centri commerciali 11.98 % Attività ricreative (cinema, discoteca, bar, sala giochi) 11.06 % Cose non tangibili (serenità, tranquillità) 05.53 % Altro per attività sportive (piscina, palestra) 05.52 % Altro 15.21 % In cosa credono Le cose che motivano di più I genitori secondo gli intervistati Se fossero in difficoltà si rivolgerebbero a... La più grande aspettativa per il futuro A chi vorrebbero tanto assomigliare Principali motivi per somigliare a... Le professioni cui aspirano Professioni effimere Sportivo 13.27 Attore, ballerina, 10.80 cantante 24.99 % Artista 0.92 Professioni basse medio Estetista, parrucchiere 3.39 Poliziotto, militare 5.55 Professioni alte Insegnante 5.25 Operaio, commesso 0.92 Rappresentante 0.50 Impiegato 0.50 Cuoco, pizzaiolo 1.84 Informatico 2.78 medio Libero professionista 20.73 % 29.32 32.82 % Imprenditore 3.08 Commerciante 0.42 Altro 21.46 % Come trascorrono il tempo Attività Secondo i ragazzi Secondo i genitori Sport 47.35 30.54 Ballo 17.55 3.64 Musica 6.13 2.18 Lettura 2.78 - Computer 5.57 6.18 Parlare/uscire con amici 0.83 4.36 Tv 1.39 18.18 Giochi e videogiochi 6.96 6.45 altro 17.82 28.47 Come trascorrono il tempo libero Il divario fra generazioni non potrà mai essere chiuso, ma è necessario superarlo. Se il divario generazionale deve essere superato, è imperativo che cominciamo a comprendere i sentimenti dei giovani d’oggi, perché non è l’età che separa gli adulti dagli adolescenti, ma l’incomprensione. Gli adolescenti tendono ad avere un profondo senso di insicurezza, di inadeguatezza e una mancanza di auto-stima. Sentono di non essere importanti per gli adulti e che le loro idee ed opinioni non sono considerate. Credo sia compito delle strutture didattiche e spirituali cercare di superare questo problema. Se i sentimenti dei giovani verso sè stessi potessero essere riassunti in una parola sola, questa sarebbe insicurezza. Ciò di cui c’è maggior bisogno nelle nostre strutture, qui sopra citate, sono dei programmi per giovani, non solo sofisticati e pieni di contenuti tecnologici, ma piuttosto di amore, interesse, comprensione e, più di ogni altra cosa, accettazione. In queste strutture non dovremmo segregare completamente i giovani dai gruppi di altre età. Benché sia importante avere programmi speciali per ciascun gruppo di età , non è esatto separare i giovani completamente. Perché queste strutture sopravvivano è necessario imparare ad avere rapporti coi giovani e trovare modi di svilupparli come in una famiglia fra membri di varie età. Queste due strutture dovrebbero dare ai giovani un senso di sicurezza e importanza, mostrando chiaramente che li considera di gran valore. Uno dei modi più incisivi è quello di dar loro responsabilità vere. Ho fatto l’esperienza che nella gran parte di queste strutture, i consigli di classe e i comitati direttivi, sono molto lenti a dare responsabilità ai giovani. La scusa è che essi commetteranno errori, che mancano di esperienza. Naturalmente queste due affermazioni sono vere, ma sono vere anche per molti dei membri degli attuali consigli di classe e comitati direttivi. E’ facilissimo essere presi nella trappola delle proprie affermazioni e non vedere noi stessi come siamo o, per essere più precisi, come non siamo. Nella vita famigliare ai figli vengono date responsabilità che negli anni dell’adolescenza aumentano. Così quando il figlio arriverà a diciott’anni, sarà accettato come completamente adulto. Nelle nostre strutture, didattiche e spirituali, sovente, i diciottenni sono trattati come se fossero quasi completamente inaffidabili e non degni di fiducia. Ci viene detto che vengono trattati in questo modo perché sono irresponsabili. Dobbiamo anche essere certi che le responsabilità siano vere. Gli adolescenti capiscono subito quando ciò che viene affidata come una condivisione di vera responsabilità e dare un’occasione d’impegno. Queste strutture anno bisogno di essere più coinvolte in quelle che sono le realtà e i bisogni esterni cominciando ad informare liberamente e senza pregiudizi e formalismi. Se vogliamo comprendere i giovani coi quali lavoriamo, dobbiamo dar loro amore, comprensione e partecipazione alle loro sofferenze, perché lo meritano. E’ estremamente importante che noi affermiamo la complessità della situazione nella quale si ritrovano. La vita appare come una corsa a ostacoli che devono affrontare e correre con coraggio. Le Leggi Le leggi, così come sono, non servono a niente. Il popolo, deve imparare a rispettarle, con un lider o senza, devono imparare a voler rispettare le leggi, e non per paura di una punizione corporale o spirituale, deve essere una libera scelta; una libera scelta e nient’ altro. Solo quando hanno capito questo, saranno veramente liberi, ma, fino ad allora, saranno sempre schiavi. Conoscere è Sapere Sapere è Capire Capire è Potere Potere è Dare Dare è Amare Amare è Guarire Una divisa o uniforme è un vestito standard generalmente indossato dai partecipanti di organizzazioni di vario genere, nei momenti di partecipazione alle attività dell’associazione stessa. Molte civiltà del passato condividono l’utilizzo di divise da parti di gruppi religiosi e militari. Oggi le divise sono principalmente indossate dagli appartenenti alle Forze armate, a gruppi paramilitari, come Polizia, guardie di sicurezza, servizi di emergenza, dai partecipanti alle competizioni sportive, ed a volte sui posti di lavoro e nelle scuole. In alcuni paesi, anche i detenuti hanno l’obbligo di indossare una divisa. La divisa mimetica può essere di vario tipo, per meglio adattarsi ai colori dell'ambiente circostante. Le fantasie di colore sono solitamente chiamate camo, contrazione di "camouflage", termine inglese per "mimetizzazione": In ambiente boschivo si usa il "green camo" (o "woodland camo") di colore nero, verde oliva, verde e marrone. Durante la guerra del Vietnam era in uso anche una versione avanzata di queste divise, composta da strisce irregolari invece che da chiazze (detta "tiger stripe"). L’abito fa l’alllievo? Ogni cosa porta con sé un significato e l’abito che indossiamo, in quanto elemento più visibile della nostra persona e quindi anche della nostra individualità, è il primo messaggio che comunichiamo agli altri circa quel che siamo, sia che lo vogliamo, sia che non ce ne rendiamo conto. La divisa nasce su queste basi: creare il gruppo, unire o meglio uniformare un certo numero di individualità distinte dando loro un mezzo con cui identificarsi nel comune messaggio "noi siamo un gruppo"; al tempo stesso, l’abito esprime, rende evidente una gerarchia per cui è chiaro quale sia il posto di ciascuno, chi debba dare ordini e chi debba obbedire. Vale per i militari, vale per i corpi di polizia e per tutti quei gruppi che vogliono dire di esserci; ma lo vediamo anche in altre situazioni, quando ad esempio si fraintende il significato della divisa confondendolo con l’idea di potere (l’ossessione per l’uniforme che maschera l’ossessione per il potere, lo sfoggio dell’uniforme - oggetto visibile, concreto - come sfoggio di un potere fasullo e illusorio ma anche la maschera di carnevale che si propone lo scopo di prendersi gioco del potere, di smascherare il trucco). Insomma, in una struttura gerarchica l’uniforme ha senso di esistere, e la scuola è fondamentalmente un’istituzione basata sulla gerarchia docente-allievi in cui l’adozione di un’uniforme potrebbe giovare al mantenimento della disciplina, laddove si riconosce da più parti che questo rappresenta un problema serio, ma senza che venga mai meno il rispetto delle singole individualità, senza che si calpesti la personalità dell'alunno forzandolo ad adeguarsi a quell’entità fittizia e priva di qualità chiamata massa. E soprattutto senza che si perda il rapporto umano fra docente e allievi fondamentale ai fini di una corretta educazione. Non si può ignorare il fatto che il compito formativo della scuola passa anche attraverso l’educazione ai rapporti interpersonali, al confronto con il prossimo, di cui l’immagine che si dà è lo si voglia o no - un aspetto importante. Il capo più adatto all’occasione indossato nel modo giusto diventa elemento strategico per il buon esito della difficile impresa di fare buona impressione. Ma ciò non significa necessariamente che la forma debba prevalere sulla sostanza, ed è qui che en gioco la funzione educativa della scuola: nell’insegnare il giusto equilibrio fra questi due principi, l’essere e l’apparire, senza rinnegare l’uno o l’altro e senza che uno abbia il sopravvento sull’altro. Saper gestire il proprio modo di vestire è un mestiere che richiede impegno e laddove la famiglia ha rinunciato al suo ruolo di guida, la scuola può ancora avere qualcosa da dire. Senza esagerare. Uniforme di classe Il rettore avanza alcune conclusioni parziali, osservando che se da un lato l’ampia scelta di capi d’abbigliamento ufficiali non favorisce l’affermarsi di un senso di appartenenza al gruppo, si può notare fra i giovani una scemata attenzione alla moda, con il conseguente attenuarsi dell'onere di una delle voci piú rilevanti nel budget finanziario delle famiglie. Chi vive da tempo la realtà di una scuola che impone una propria uniforme - è il caso di alcuni istituti privati presenti anche in Ticino - ne vanta il contributo dato al rafforzamento della disciplina e della serietà degli allievi. Ma sul tema le opinioni sono varie e molto contrastanti: c’è chi sostiene il principio della difesa dell’individualità e chi è a favore di un inquadramento dei giovani, chi vi vede l’ennesima ingerenza dello Stato e chi riconosce che potrebbe essere uno strumento utile contro il crescente degrado dei valori. Il commento piú interessante giunge però dagli stessi protagonisti dell’esperimento di una scuola svizzera: gli allievi, non hanno dimostrato particolare entusiasmo nell’indossare l’uniforme proposta loro (e questo era prevedibile), motivando la loro reazione con il fatto che quegli abiti non sono chiaramente identificabili con un’uniforme, essendo troppo simili a normali abiti civili, mentre gli studenti avrebbero preferito indossare qualcosa che avesse l’aspetto da uniforme (e questo è meno scontato). In altre parole, il progetto rischiava di mancare l’obiettivo fissato perché quell’obiettivo non era abbastanza coraggioso. Trovare la giusta misura Affrontare il discorso sull’uniforme scolastica nella prospettiva dei principi morali e delle libertà individuali è forse fuori luogo (in questa sede certo lo è); la questione andrebbe piuttosto ricondotta a una più modesta misura e entro il solo ambito della scuola. Va detto che ai ragazzi resta pur sempre la possibilità di vestirsi a loro gradimento nel tempo libero, dando pieno sfogo al bisogno di esprimere la loro personalità attraverso l’abito, senza pericoli di omologazione, di frustrazione o quant’altro. L’esperienza pare insegnare (le conclusioni sono molto parziali) che l’impatto della divisa scolastica sulla personalità di un giovane è molto relativo: i timori circa i suoi effetti negativi sulle singole individualità e sulla vita sociale dei ragazzi non trovano giustificazione nella realtà. Allo stesso modo si può considerare eccessivo attribuire all’introduzione di uniformi in classe valori forti quali l’espressione di una paura verso il pluralismo delle idee o la castrazione dell’individualità e di un desiderio di apertura al mondo. I diretti interessati sembra lo abbiano compreso. D’altra parte, se si dovesse giungere (è solo un’ipotesi) a imporre una divisa nelle scuole si avrebbe una reale limitazione di alcuni problemi immediati ai quali sono confrontati allievi e genitori: i prezzi talvolta esagerati imposti dalla moda, l’esibizione delle differenze sociali o l’altrettanto pericoloso tentativo di identificarsi con i compagni benestanti sfoggiando gli stessi abiti firmati e il conseguente rischio di indebitamento cui i giovani sono sempre piú esposti. Senza contare che il senso di appartenenza evocato dal comune vestire potrebbe ridurre la violenza fra gruppi e i furti che l’ostentazione di queste differenze inevitabilmente comporta, e contribuirebbe invece a rafforzare la solidarietà fra gli alunni. Formazione di una forte identità professionale e interiorizzazione dei valori-guida della vita, queste sono alcune delle sfide emerse dalla ricerca sulle Scuole realizzata da ricerche nazionali ed europee. Un sistema di formazione che sappia fare centro sul bambino e l’adolescente, perché il capitale umano è la chiave fondante nella rettitudine di un uomo, anche attraverso l’innovazione e l’adeguamento costante delle strategie formative e didattiche. Questo in sintesi l’obiettivo che è necessario raggiungere, come è emerso dalla ricerca Analisi e monitoraggio della formazione nelle scuole, realizzata dall’Associazione Piccoli Rambo e dai suoi collaboratori. Per capire se il modello formativo e di trasmissione dei valori delle Scuole sia corretto ed efficace, è stata avviata, in collaborazione con alcune scuole della Provincia di Cosenza, un’operazione di valutazione della pressione, uso della vita e qualità della formazione didattica e culturale fornita dalle stesse. La finalità era quella di raccogliere dati certi sui punti di forza del sistema di istruzione ma anche sulle aree da migliorare. Proponimento Avviare quindi anche un processo di alta qualificazione dei responsabili degli istituti di istruzione, nel campo della direzione e della gestione della formazione. Per questo dovrà essere realizzato un master in Progettazione e direzione degli Istituti e dei sistemi di formazione, appositamente istituito dalla facoltà di Scienze della formazione. a) Quali sono stati i primi passi dell’indagine? La ricerca ha previsto un piano di sviluppo articolato in un anno sperimentale. b) Cos’è emerso in sintesi da questa prima fase della ricerca? c) Quanto incide il sistema valoriale dello studente nell’espressione della sua professionalità? Questo è un altro tema che emerge chiaramente dall’indagine: l’esigenza di un sistema di istruzione sempre più autoconsapevole, capace di valutarsi e di autoregolarsi, per essere al passo con i tempi e con le sempre nuove sfide, il quale necessita di dotarsi di un sistema di monitoraggio dei processi e dei risultati della formazione con riferimento non solo all’acquisizione delle abilità e competenze operative ma anche all’interiorizzazione e al consolidamento delle disposizioni valoriali e identitarie alle quali deve essere saldamente ancorata la professionalità dell’allievo. Dettaglio della ricerca. d) Qual è l’identikit dell’allievo che comincia la scuola? “un buon potenziale e un’identità professionale da costruire”. e) Quali sono le motivazioni che spingono un giovane a frequentare la scuola? f) Dalla ricerca emerge la coesistenza delle regole e dei principi morali che le fondano? g) Cambiano il ruolo, l’identità e l’immagine del futuro uomo/donna. h) Che differenza c’è tra l’essere e il fare l’uomo/donna? i) Nella costruzione dell’identità dell’allievo conta maggiormente la formazione personale di ciascuno o quella fornita dalle scuole? Il VERDE, corrispondono sensazioni di solidità, stabilità, forza e costanza ed un comportamento caratterizzato dalla perseveranza. L'energia del verde è un’energia potenziale raccolta in se stessa che denota una tensione interiore. L’effetto di stabilità prodotto dal verde rappresenta, da un punto di vista psicologico, i valori saldi che non mutano. Il verde è il colore della vegetazione, della natura e della vita stessa. Il verde, secondo gli psicologi, significa forza, perseveranza, equilibrio e stabilità. Probabilmente questo deriva dal fatto che il cristallino focalizza la luce verde quasi correttamente sulla retina e l’occhio percepisce perciò tale colore molto facilmente. Gli Egizi usavano la malachite verde come ombretto medicamentoso per curare i disturbi visivi, Plinio affermava che "lo smeraldo delizia la vista senza affaticarla" e Nerone era solito osservare i giochi circensi attraverso una lente di smeraldo. Il verde è associato a Venere, dea dell’amore e della fertilità, le vedove greche che si risposavano indossavano un velo verde a simbolo della loro capacità di procreazione e in Inghilterra fino al 1700 era di moda ‘verde per le spose. Talvolta il verde è anche associato ad una simbologia negativa. È il colore della rabbia e della putrefazione, del veleno e dell’invidia, nel corpo umano il verde è segno di grave malattia e di morte. In terapia, fasce verdi applicate sulla fronte si rivelano efficaci contro la febbre alta e appoggiare il capo su una federa verde pisello quando si dorme può aiutare a contrastare la caduta dei capelli. In generale, il verde è di ausilio nella cura dei disturbi cardiaci e della cistifellea, nel trattamento dell'ulcera, del fegato e reni intossicati. Previene l'arteriosclerosi. Stimola tutte le vibrazioni, per cui è il miglior agente curativo. Il GIALLO, rimanda alla radiosità che risveglia e dà calore. Suscitando una sensazione d’espansione e spingendo al movimento, il giallo corrisponde ad una condizione di libertà e autosviluppo. Infatti, è il colore dell'illuminazione e della redenzione. Chi preferisce il giallo tende perciò al cambiamento e alla ricerca del nuovo. Lenisce i problemi dell’apparato digerente e gli organi “ filtro “ è stimolante ed aiuta la concentrazione Il MARRONE, corrisponde alla sensazione della corporeità. Il forte bisogno, l’indifferenza o il rifiuto verso questa tinta indicano pertanto un preciso atteggiamento verso ciò che è corporeo e materiale e verso i piaceri fisici. Il BLU, che induce alla calma e si connota come placida e profonda soddisfazione, denota uno stato di soddisfatto adattamento. Fissando a lungo questo colore si produce un effetto di quiete, soddisfazione ed armonia. Per i cinesi il blu è il colore dell'immortalità. Il blu è il colore del silenzio, della calma e della tranquillità, della contemplazione e della spiritualità è associato alla forma geometrica del cerchio, simbolo dell’eterno moto dello spirito, insieme di quiete e dinamicità. In una stanza blu i battiti cardiaci diminuiscono e la sensibilità al freddo aumenta, mentre gli oggetti sembrano più piccoli e leggeri. Cura l’insonnia, l’anoressia, l’ipertensione ed induce alla calma. Il blu è un potente antisettico e cura i disturbi di gola, laringiti, tonsilliti e gotta. Nell’antichità era uso prescrivere, a chi soffriva di malattie dell’apparato respiratorio, di trascorrere diverse ore al giorno in giardini ricchi di fiori blu ed erba scura. Il VIOLA, che nasce dalla mescolanza di rosso e blu, è il colore della metamorfosi, della transizione, del mistero e della magia, preferito dai bambini, dalle donne incinte e dalle personalità immature. Colore tradizionale della mistica, della spiritualità ma anche della fascinazione erotica, il viola indica l’unione degli opposti, la suggestionabilità. Accresce le resistenze dell’organismo e riduce il ristagno dei liquidi, stimola la sessualità femminile. IL NERO, può essere definito come l'impressione visiva che viene sperimentata quando nessuna luce visibile raggiunge l'occhio. (Questo in contrasto con il bianco, che combina tutti i colori della luce che stimolano in maniera uguale i tre tipi di recettori sensibili ai colori.) I pigmenti che assorbono la luce piuttosto che rifletterla, danno luogo al "nero". Un pigmento nero, tuttavia, risulta da una combinazione di diversi pigmenti che insieme assorbono tutta la luce, di ogni colore. Se vengono impiegate le proporzioni corrette dei tre pigmenti primari, il risultato riflette così poca luce da risultare nero. Questo porta a due descrizioni apparentemente opposte ma complementari del nero. Il nero è la mancanza di tutti i colori che formano la luce, oppure una combinazione di più colori di pigmenti. Vedere anche colori primari e pigmenti primari. E’ quindi fondamentale, la sapiente e artistica combinazione di elementi, colori e materiali diversi, per creare atmosfere che influenzano positivamente anche lo stato d’animo. La famiglia si trova oggi ad affrontare una dimensione esistenziale ad alta problematicità dovuta non solo alle innumerevoli trasformazioni sociali in atto che hanno posto in discussione valori, ruoli, composizioni ed identità ma anche alla compresenza di difficoltà di ordine economico, culturale, organizzativo e relazionale. La solitudine nella quale la famiglia spesso si trova ad affrontare tali difficoltà può essere all’origine di quei fenomeni di chiusura, di passivizzazione, di conflittualità, di aspettative, di assistenzialismo, di delega ai servizi formali, di cura ed educazione, di mancata solidarietà. A fronte di questa fragilità della famiglia e alla sua debolezza nella capacità di assolvere agli adempimenti del ruolo genitoriale, si rilevano ancora culture di servizi troppo orientate all’assunzione di competenze delegate e alla presa in carico del caso singolo e non del nucleo nel suo insieme di relazioni sistematiche e di vita quotidiana. L’obbiettivo di promuovere condizioni di crescita positive per i minori deve dunque passare attraverso l’unità primaria delle relazioni umane e cioè la famiglia e la considerazione della sua solitudine, riconoscendo la valenza di problema sociale di quest’ultima, scommettendo sulla possibilità di contrastarla, facendo affidamento sugli aspetti di risorsa e potenzialità di cui la famiglia è portatrice, troppo spesso trascurati o oscurati da interpretazioni che le addossano responsabilità eccessive. Quindi osservare che la qualità di vita di un bambino/a è determinata anzitutto dalla qualità della relazione che lo lega , fin dalla gestazione alla propria madre, in modo del tutto particolare, e al proprio padre. Rileva che questo è molto importante favorire l’acquisizione di una cultura della maternità e paternità libere e responsabili, e sostenere concretamente l’esercizio delle responsabilità familiari. Lo sviluppo di buone relazioni familiari ha quindi bisogno di essere sostenuto da una adeguata rete di servizi, capaci anche di valorizzare le reti comunitarie, di scambio e auto-mutuo, aiuto tra famiglie. A fronte dello sviluppo dell’attenzione verso i primi anni di vita del bambino quale periodo fondamentale per la formazione e lo sviluppo della persona ed a analoga preoccupazione nei confronti della fascia giovanile dovuta all’evidenziarsi di fenomeni di disagio e devianza, è nota una carente riflessione e la conseguente operatività nei confronti di quel periodo che va dagli undici ai diciassette anni e che viene identificato come preadolescenza e adolescenza. Si tratta, come affermano recenti studi, di una fase della vita “ambigua e ambivalente”, non definita nella sua estensione temporale, non identica per tutti i soggetti, ma per lo più sottovalutata dagli adulti o assimilata alla fase che la precede (infanzia) o che la segue (adolescenza) asseconda delle interpretazioni soggettive dell’adulto (genitori….). E’ la fase in cui il bambino e la bambina si aprono al mondo costruendosene una propria percezione dalla quale dipenderà l’accettazione o il rifiuto a seconda che venga vista come “pericoloso, confuso, illogico” o come scenario per la costruzione di una nuova identità e del proprio futuro nella società. E’ anche la fase in cui cambia la percezione di sé: è il momento dell’abbandono del mondo infantile per la costruzione di una nuova identità che porta con sé interrogativi profondi e personalissimi sul proprio ruolo e sulle proprie relazioni. Queste fasi, preadolescenza e adolescenza, pur nella loro specificità, richiedono una particolare attenzione e impegno negli aspetti correlati della promozione del protagonismo, dell’accompagnamento educativo, dello sviluppo della cittadinanza. Si individua quindi la necessità di sostenere percorsi di identità con l’obbiettivo di favorire il perseguimento della cittadinanza dei preadolescenti e degli adolescenti attraverso la partecipazione all’avventura sociale, culturale, politica e economica, attraverso azioni basate sulla valorizzazione dei contesti significativi espressi dal territorio. Questi percorsi, rivolti alla crescita ed emancipazione di preadolescenti e adolescenti, rivolti a tutti i ragazzi senza distinzione alcuna, devono comunque contenere quelle caratteristiche già evidenziate nel progetto giovani. Gli studi di psicologia sociale, hanno messo in luce, come la formazione della identità di ogni persona e, cioè la struttura profonda della personalità, che è propria di ogni individuo, possa variare e quindi essere collegata ai vari sistemi sociali, di cui ognuno fa parte. Nessuno potrebbe crescere indipendentemente da un contesto sociale e, questo "appartenere" a un dato contesto, contribuisce ad orientare l’evoluzione della personalità, fornendo ideali comuni, modi di pensare, stili di comportamento. Gli antropologi culturali sono stati in grado di dimostrare che la stessa personalità di base si organizza sull’impronta della cultura di appartenenza. Vi ricordo a tale proposito le ricerche di Margaret Mead, che - su tale argomento - sembrano illuminanti. Secondo la scuola di pensiero che dai suoi studi, e da quelli di Ruth Benedict ha origine, il rapporto fra cultura e personalità è strettissimo e, in ogni civiltà, non è possibile separare se non artificiosamente la sfera sociale da quella individuale. R. Benedict Scrive : "Nessun antropologo che conosca culture diverse dalla nostra, ha mai pensato agli individui, come automi che eseguono meccanicamente le prescrizioni della loro civiltà, e nessuna fra le culture finora studiate, è stata capace di sradicare, le differenze di temperamento fra i vari individui che ne partecipano. C’è sempre un rapporto di dare e avere". E così nei "modelli di cultura" che descrive nel 1934 mette in luce anche quanto la cosiddetta "personalità di base" varia all’interno dei contesti sociali; quanto l’appartenenza a una determinata civiltà e la condivisione di una serie di ideali, possa influire sulla genesi dei comportamenti soggettivi e sulla loro "normalità". Non si tratta dell’effetto di una determinata "normativa" che, si rivolge verso il soggetto, imprimendo - per così dire - un orientamento dall’esterno al suo comportamento. Non esiste un "antagonismo" fra individuo e società, ma piuttosto, un "agonismo" e cioè una collaborazione. In realtà, non è possibile considerare il processo di , se non, all’interno di un più complesso sistema che, vede da un lato la genesi della identità individuale, e cioè la costruzione della struttura profonda della personalità, e dall’altro il radicamento sociale, la cosiddetta identificazione. G. H. Mead, nel 1934, aveva già messo chiaramente in luce, come il Sé fosse costituito da una componente esogena, di origine sociologica, il Me, e da un’altra componente endogena, rappresentata dall’Io. Il Sé di un soggetto, si struttura sulla base dei giudizi e, dei segnali di riconoscimento o, di diniego che gli altri gli indirizzano. Naturalmente all’interno di un contesto sociale in cui esiste interazione fra il soggetto e gli altri, cioè in cui esiste una rete di contatti primari e secondari. È per tale motivo che egli distingue due aspetti del Sé, ben differenziati fra loro: l’Io che raffigura il Sé come soggetto, e il Me, che rappresenta il Sé come oggetto. "L’Io - scrive Mead - è la risposta dell’organismo agli atteggiamenti degli altri che un individuo assume. Gli atteggiamenti degli altri, costituiscono il Me , ed allora un individuo reagisce ad esso come un "Io". Occorre quindi considerare "l’Io e il Me come elementi costitutivi del Sé". Da qui comincia il nostro lavoro: Dove l’identificazione del Sé deve scontrarsi con un sistema effimero e dualista; quando invece noi inconsciamente riconosciamo di essere Trini. Le nostre fonti e linee guida sono : 1) Sigmund Freud 2) Jacques Lacan 3) Donald Winnicoth 4) Francoise Dolton 5) B. Y. Schengeler 6) Yung 7) Montessori 8) L. Ron Hubbard 9) Platone 10) Aristotele 11) La Bibbia psicologia infantile, psicoanalisi, meta psicologia isteria, psicosi, l’oggetto transazionale, il ricordo problematiche infantili educare simbologia metodo didattico – cognitivo forza e liberazione mentale contemplazione movimento spiritualità Il Legale Rappresentante