P - Missioni Consolata
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Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO EDITORIALE Ai lettori editoriale comune della Fesmi UNA BUSSOLA PER L’EUROPA ggi la percentuale degli europei che non hanno fiducia nel parlamento comunitario supera di 8 punti quella di coloro che invece ne hanno. Solo qualche anno fa gli estimatori erano oltre il 30% in più dei detrattori. Ancora più accentuata è la perdita di fiducia nei confronti della Commissione, del Consiglio e soprattutto della Banca centrale. Eppure a Bruxelles si decidono le sorti di mezzo miliardo di cittadini di 28 paesi. Scegliere una lista e individuare un candidato da votare, quindi, non possono essere atti stanchi e inconsapevoli. Il voto del prossimo 25 maggio è lo strumento l’unico in nostro possesso per indicare un nuovo percorso, per incamminarci sulla strada di un’altra Europa: quella dell’eguaglianza, dei beni comuni, dell’accoglienza, della pace. Per questo, come riviste missionarie, riteniamo che i rappresentanti eletti a Strasburgo e Bruxelles debbano avere a cuore almeno cinque grandi tematiche: gli Epa (Accordi di partenariato economico); la pace e il commercio delle armi; l’emigrazione e l’immigrazione; la cooperazione internazionale e il volontariato; la libertà religiosa. 1. Con gli Accordi di partenariato economico, l’Ue chiede ai paesi Acp (Africa, Caribi, Pacifico) di eliminare le barriere protezionistiche in nome del libero scambio. Le nazioni africane, togliendo i dazi e aprendosi alla concorrenza, permettono all’agricoltura europea, che vende i suoi prodotti a basso costo perché sostenuta da denaro pubblico, di invadere i loro mercati, con conseguenze potenzialmente drammatiche. Sono pertanto accordi da rivedere. 2. Per uscire dalla crisi, Bruxelles vuole sostenere lo sviluppo delle capacità militari continentali, con l’obiettivo di fare dell’industria armiera un volano economico. Una scelta intollerabile per chi ricerca le vie del dialogo e del disarmo per risolvere situazioni di tensione e ostilità. Ci vuole un nuovo modello di difesa che trasformi l’Europa in una potenza di pace, a cominciare dalla costituzione dei Corpi Civili di Pace europei, come forza d’intervento tesa alla prevenzione e ricomposizione nonviolenta dei conflitti. I casi della Siria e dell’Ucraina sono un monito per tutti. 3. Sui temi dell’immigrazione, è urgente una riforma del regolamento di Dublino: introdotto nel 2003 per chiarire le competenze dei singoli stati sulle domande di asilo politico, si è rivelato uno strumento inadeguato e in contrasto con il principio di protezione dei rifugiati. Più in generale, l’Europa deve dimostrare che quello dell’accoglienza è tra i suoi principi fondativi. 4. A ciò contribuirebbe l’omogeneizzazione delle legislazioni nazionali in tema di cooperazione. L’Europa, tramite i suoi paesi, è il primo donatore per l’Africa. Ma spesso le sue azioni sono dispersive, non legate a un progetto comune, e quindi poco efficaci. La cooperazione deve diventare lo strumento principe per una politica di pace che voglia garantire la convivenza e il benessere, nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti i cittadini e valorizzando il contributo gratuito e volontario della società civile. 5. Infine, c’è il tema della libertà religiosa: parrebbe un diritto garantito e tutelato nel Vecchio Continente. Invece ha bisogno di un buon restauro perché l’Europa non è immune da casi di violazione della libertà di credo, di attacchi a membri delle minoranze religiose sulla base delle loro convinzioni, e di discriminazioni per motivi religiosi. La stessa attenzione che chiediamo alle istituzioni europee nei confronti dei paesi non europei, la chiediamo anche nei confronti dei paesi membri dell’Ue. I candidati parlamentari attraverso i loro programmi che manifestino sensibilità su questi temi, i cittadini attraverso la scelta di tali candidati, possono far imboccare all’Ue la strada del cambiamento. O Questo editoriale è sottoscritto dalle testate missionarie italiane aderenti alla Fesmi (Federazione della Stampa Missionaria Italiana) tra cui anche la nostra. Il testo, qui ridotto all’essenza per ragioni di spazio, apparirà uguale o con variazioni nelle diverse riviste e nelle varie pagine web. MAGGIO 2014 MC 3 SOMMARIO 5 | MAGGIO 2014 | ANNO 116 3 ai lettori UNA BUSSOLA PER L’EUROPA Il numero è stato chiuso in redazione il 7 Aprile 2014. La consegna alle poste di Torino è avvenuta prima del 30 Aprile 2014. di Fesmi 5 dai lettori CARI MISSIONARI OSSIER (lettere a MC) ARTICOLI 11 sWaziland PASSIONE PER GESÙ E IL SUO POPOLO 11 18 di José Luis Ponce de Leon 18 uganda L’ORO DEL KARAMOJA di Daniele Biella e Anna Giolitto 35 23 burKina faso UNA STORIA LUNGA 40 ANNI turismo: ultima spiaggia dell’eterna giovinezza di Lia Curcio 27 radio 1 / Cile STELLA DEL MARE malindi paradise! per Chi? delle redazioni di «out of italy» e mC di Paolo Moiola 51 Cile BUON LAVORO, «PRESIDENTA» di Paolo Moiola 59 siria SILENZIO SULLA GUERRA di Piergiorgio Pescali 63 afriCa - italia LA MORTE NON ESISTE di Marco Bello 32 pillole «allamano» SCEGLIERE LA MANSUETUDINE RUBRICHE 9 Chiesa nel mondo 51 59 di Sergio Frassetto 73 Cooperando di Chiara Giovetti 77 libertà religiosa - 19 LIBERTÀ IN AFFANNO di Ugo Pozzoli 68 nostra madre terra PATOLOGIE ONCOLOGICHE 1 di Luca Lorusso 81 4 ChiaCChiere Con di Mario Bandera di Rosanna Novara Topino IN COPERTINA: Colori di Malindi (Foto: Stefano Labate). Gli articoli pubblicati sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione dell’editore. - I dati personali forniti dagli abbonati sono usati solo per le finalità della rivista. Il responsabile del loro trattamento è l’amministratore, cui gli interessati possono rivolgersi per richiederne la verifica o la cancellazione (D. LGS. 196/2003). 4 MC MAGGIO 2014 WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT DAI LETTORI Cari mission@ri BEATO L’UOMO CASTIGATO? Il dossier «Giustizia riparativa», per quanto lungo e articolato non dice alcune cose che a mio modesto avviso sarebbe stato meglio dire. 1 - Ammesso che i carcerati «effettivamente pericolosi» siano il 20% del totale non mi pare opportuno definire «piccola» una percentuale così. Un conto è chiarire che la gran parte della popolazione carceraria è costituita da persone che meritano più rispetto, più credito, più fiducia, un altro è dire che la minoranza è esigua. 2 - Nella Bibbia punizione, castigo, espiazione e giudizio non sono parolacce. Il Dio che castiga non è in contraddizione col Dio che ama, che perdona, che salva: «Beato l’uomo che tu castighi Signore», recita il Salmo 93, che può essere tradotto anche con «Beato l’uomo che tu istruisci Signore». Qual è la traduzione giusta? Sono giuste entrambe, perché l’originale greco paideuo può essere tradotto con castigo, punisco, ma anche con: educo, ammaestro, istruisco, adde- stro. […] Come facciamo a dire che nella Bibbia Dio non punisce? Se Dio vuole castigare, purificae, decontaminare, […] hi siamo noi per contestarglielo? […] Chi siamo noi per dire che «non sappiamo cos’è la giustiia», come se la Parola di Dio fosse incomprensibile, come se l’insegnamento della Chiesa osse roba alla portata di una piccola élite? […]. 3 - Gesù nel Vangelo non parla mai del castigo e del giudizio di Dio come di sovrastrutture create dagli uomini, ma come di atti di giustizia, di amore e di solidarietà con chi è stato angariato, ferito, umiliato. E, quando parla di pentimento, di contrizione, di cilicio (cfr. Matteo 11, 21-26), non ne parla mai come di optional e neppure come di residui di religiosità gretta e antiquata. I castighi di Dio sono sempre retti, equi, perfetti, ineccepibili. Se gli uomini non li riconoscono come tali vuol dire che sono ancora prigionieri del loro orgoglio, della loro arroganza, della loro superbia. 4 - Se non è bello fare di tutta l’erba un fascio con i carcerati, non è giusto farlo per i luoghi di detenzione. […] ci sono esempi di professionalità, di abnegazione, di eccellenza. […] Che senso ha dunque dire che il carcere non serve e bisogna abolirlo? Bisogna fare in modo invece che tutti i luoghi di rieducazione […] raggiungano i livelli di eccellenza che finora solo alcuni hanno raggiunto […]. 5 - Ormai del ritornello «ce lo chiede l’Europa» ne abbiamo fin sopra i capelli, chi vuol fare europersuasione deve spe- cificare nome e cognome di chi brontola, minaccia, tuona e sanziona. Dopo quello che è accaduto in questi ultimi anni solo una persona molto disattenta, molto disinformata o molto in malafede può continuare a equivocare tra la sacrosanta aspirazione a un’Europa pacificata, unita, equa, solidale e l’Europa delle grandi speculazioni bancarie camuffate sotto le spoglie del rigore, del risanamento, dell’efficienza, del consolidamento dell’Euro. Non basta lamentare che 29 miliardi di euro in dieci anni sono troppi per un sistema penitenziario come il nostro, bisogna intervenire laddove vi sono stati abusi, sprechi, malaffare, clientelismo e corruzione. […] Francesco Rondina Email, 21/02/2014 Caro sig. Rondina, la ringraziamo per la sua lettera e ci scusiamo per averla dovuta tagliare. Speriamo di aver lasciato le parti sostanziali delle sue obiezioni, alle quali è impossibile rispondere se non rimandando a una rilettura del dossier e ai libri lì citati. Qui abbozziamo solo qualche spunto di riflessione seguendo la numerazione da lei usata. 1- L’aggettivo «piccola» nasce da una reazione al pensiero che il corrispettivo 80% di detenuti non pericolosi, circa 50mila persone tenute in carcere, senza una reale necessità, in condizioni disumanizzanti, sia una quantità decisamente «grande». Non diciamo che gran parte dei carcerati meritino più rispetto, diciamo di più: che tutti i carcerati ne hanno diritto (il diritto non si merita, si ha per il solo fatto di esistere), a pre- scindere dai loro delitti. 2 e 3- Non è il luogo questo per una «disputa biblica». Ciascuno può citare versetti o capitoli interi della Scrittura per avvalorare la propria posizione (addirittura Satana lo fa in Lc 4). Noi facciamo solo due brevi esempi (sperando di non fare come Satana). Gesù in Mt 5,38 dice: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”; ma io vi dico di non oppporvi al malvagio; anzi...»; e in Lc 23,34: «Padre, perdonali». Inoltre, se volessimo credere a un Dio che punisce, sarebbe Lui a farlo, non l’uomo. Il «pentimento» - o per lo meno la libera disponibilità a rimettersi in gioco - da parte del reo è necessario per l’avvio di una pratica di giustizia riparativa. Il pentimento quindi non è escluso, anzi, la giustizia riparativa promuove la possibilità di un pentimento autentico, che sia un atto libero e responsabile, non un atto indotto dalla costrizione, dalla paura della punizione, o dal premio sperato (come è tipico della giustizia retributiva-punitiva). 4- Nel dossier non si dice che il carcere non serve e che va abolito, anzi, a pagina 39 viene affermato: «Chi è pericoloso deve essere separato», aggiungendo poi che «la separazione dovrebbe essere mirata a prevenire l’effettiva pericolosità. Non è logico, né utile, ricorrere al carcere anche per chi non lo è. Nei confronti di chi è pericoloso, la limitazione della libertà di movimento deve però essere modellata caso per caso, e non deve essere accompagnata dalla limitazione, o addirittura esclusione, delle altre libertà fondamentali MAGGIO 2014 MC 5 [email protected] [email protected] che non comportino pericoli per la società: il diritto allo spazio vitale, alla salute, all’affettività, all’informazione, al lavoro, all’istruzione». 5- La corte di Strasburgo, cui probabilmente si riferisce, e della cui condanna parliamo a pagina 34 del dossier, è un organo del Consiglio d’Europa - e non dell’Unione Europea - che vigila sui diritti umani. Ogni istituzione o organizzazione, e ogni loro atto, sono ovviamente contestabili. Alcune volte però possono offrire un’occasione per crescere nel rispetto della dignità umana. Luca Lorusso LEGGIBILITÀ Finalmente! Avete dunque capito dopo anni che tutte quelle lettere piccole e i terribili sfondi colorati rendevano illeggibile la bella rivista! Alla buon ora, hurrà! Poi via con gli sfondi che rendono difficile la lettura. Ma perché non si può fare sempre i bei leggibili sfondi bianchi? Che mistero c’è? Economico? Artistico? Voglia di non fare i normali ed essere per forza creativi? Semplicità è bellezza. Corpo 11 e sfondo bianco. Un vostro «vecchio» lettore ed ammiratore Alfio Tassinari email 28/02/2014 Caro Direttore, congratulazioni per il vostro sforzo per ingrandire il corpo del testo della pregiata Rivista. Mi azzardo a darle la mia in tre punti: 1. Missioni Consolata è «rivista missionaria della famiglia» come dice il sottotitolo. Ora nelle nostre famiglie chi legge la rivista sono quelli che abbisognano di inforcare gli occhiali, per cui un corpo leggermente più grande nel testo sarà molto apprezzato. 2. Gli articoli di Missioni 6 MC MAGGIO 2014 Consolata sono in gran parte, e giustamente, ad argomento unico di poche pagine, eccetto il Dossier, per cui caratteri diversi e corpo diverso non tolgono nulla all’unità del tema, «la missione», della rivista, anzi possono enfatizzarne l’argomento. 3. Ho notato che nel n. 3/14 della rivista compare un articolo sulla cerimonia di nozze in Corea del Sud in cui, forse per la prima volta da tanti anni, la rivista sacrifica il testo per le foto. Forse è questa una gradita risposta alla sincera e benevola curiosità dei lettori. Mi permetto di dirle che questo numero 3/14 l’ho letto di un fiato, mentre trovavo fatica a leggere i numeri precedenti, e di porgere a lei e tutti i suoi collaboratori le più belle felicitazioni di buon lavoro, conscio che portare avanti una rivista prettamente missionaria e renderla di interesse a lettori, che possono spigolare per mezzo di Internet su tutti i campi, non è facile. Ma pure rimane in tutti la soddisfazione di leggere qualcosa che si ha tra mano e che si sente più consono di tutto quello che si può trovare «on line». P. A. Giordano email 25/02/2014 Il corpo 11 va decisamente bene: si legge con facilità, non si perde tempo a decifrare, volendo si legge «a colpo d’occhio». Ho dimenticato di premettere che ho 15 lustri, ma che comunque con gli occhiali e in buona luce ci vedo benissimo! E che comunque gli esperti siete voi. Grazie e buon lavoro a tutti! Paola Andolfi email 14/03/2014 Diversi lettori ci hanno scritto rispondendo alla domanda circa il carattere da usare nella rivista. Qui ne riportiamo solo alcuni. Il consenso sui caratteri più leggibili è unanime e ci incoraggia a continuare nel miglioramento della qualità delle rivista, e non solo dal punto di vista grafico. Grazie a tutti voi. ERITREA Caro padre Gigi, ho letto con piacere e interesse la serie di articoli apparsi sulla tua bellissima rivista che parlano dell’Eritrea. Forse non sai che mia moglie ed io siamo nati in Eritrea, lei ad Asmara e io a Massaua. Solo dopo la guerra siamo andati a vivere in Kenya dove ci siamo conosciuti. Ed è anche per questo che seguo con attenzione ciò che succede in quel paese ora sconvolto dalla follia di un dittatore. Speriamo che un giorno la situazione possa cambiare in meglio e che il popolo eritreo possa avere una vita tranquilla e serena. La speranza, purtroppo, è un po’ debole perché nessuno ha interesse ad aiutare il popolo eritreo, così come sta succedendo per altre parti dell’Africa. Basta vedere la guerra full scale che si sta consumando tra vari paesi che ben conosciamo: Uganda, Ruanda, Congo, Zaire, Zambia. Burundi, ecc. Se ne parla pochissimo! Kenya Juu (W il Kenya)! Augusto Vezzaro email 10/3/2014 UN GRAZIE E UNA POESIA Caro padre, pur con ritardo desidero ringraziare per le tre parole augurali per il 2014: gioia, bellezza, audacia. Non è semplice attivarle, viverle e onorarle perché la quotidianità presenta tanti intoppi e tante sofferenze, ma ci provo. A tale proposito ho dedicato la composizione che allego a Matteo, figlio di un amico, che il 2 marzo compirà il suo primo anno di esistenza; c’è la felicità per una nuova vita, c’è la celebrazione del gioco come forma d’intesa interpersonale e di scoperta della realtà, e c’è l’invito a vivere relazioni in cui si è orgogliosi l’uno dell’altro. Trovo tante analogie con l’impegno dei missionari per tutelare e valorizzare la vita, impegno che, a mio parere, rappresenta una delle espressioni del cristianesimo. Mi farebbe piacere che il testo fosse pubblicato per onorare tutti coloro che, a partire dai missionari, cercano di difendere il grande valore della vita. A Matteo Auguri a te, Matteo, stupenda creatura, in occasione del tuo primo compleanno! La tua presenza ci dà gioia e felicità, moltiplica le energie, rende lievi le fatiche, ci interpella sul cammino, mai concluso, dell’essere pienamente uomini. Quando giochiamo insieme, è come se ci trovassimo per “strada” e celebrassimo il nostro incontro: quel che tu sei e quel che siamo noi si compongono come accordo di una sonata e rifulgono come una goccia di rugiada. Quando ci rallegriamo l’un l’altro è come se ci comprendessimo misteriosamente e per magia diventassimo leggeri come acrobati sul trapezio. Ci libriamo nel cielo e ci immergiamo nelle profondità degli abissi marini per scoprire tanti mondi, così siamo orgogliosi, a vicenda, delle nostre magnifiche vite. Milva Capoia Torino 23/02/2014 CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE SACROFANO (Rm) 20-23 NOVEMBRE 2014 “Alzati, va a Ninive la grande città” (Gn 3,2) dove il Vangelo si fa incontro Perché il Convegno? Forse perché sono trascorsi dieci anni dall’ultimo? No, non è questo il motivo. Il motivo del convegno è «riaccendere la passione e rilanciare la dedizione dei singoli e delle comunità cristiane per la missio ad gentes e inter gentes in attuazione della sequela di Gesù». L’Evangelii Gaudium (di papa Francesco) ci incoraggia a camminare verso questo. Papa Francesco scrive che l’attività missionaria «rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa» e che «la causa missionaria deve essere la prima». Che cosa succederebbe se prendessimo sul serio queste parole? Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa. L’obiettivo sarà allora anche studiare nuovi modi e stili di presenza missionaria per passare da: a) una Chiesa che fa missione in cooperazione con un’altra, a una Chiesa che grazie alla missione e alla cooperazione comprende e riscopre la propria identità; b) una Chiesa preoccupata dell’autopresentazione, a una che fa una «scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’Evangelizzazione nel mondo attuale» (EG 27). Da questi obbiettivi nasce la scelta del tema preso dal libro di Giona «Alzati, va a Ninive la grande città» (Gn 3,2) dove il Vangelo si fa incontro. Giona ci aiuterà a riflettere sulla nostra conversione pastorale, sulla chiamata a uscire, a incontrare e a donarsi. La riflessione del Convegno sarà declinata intorno a questi tre verbi: Uscire - Incontrare - Donarsi. Chiamati a USCIRE. Il papa parla di una Chiesa in uscita, una Chiesa dalle porte aperte. La Chiesa «in uscita» è la comunità dei discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. Chiamati a INCONTRARE l’uomo nella città. Il papa dice: «Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze» (EG 71). La grande città verso cui andare per incontrare non è in contrasto con le periferie verso cui uscire e alle quali papa Francesco ci invita. Lo slogan della prossima giornata missionaria sarà proprio «Periferie cuore della missione». La grande città è paradossalmente anche la periferia, luogo di povertà materiali e spirituali dove molti uomini «non sanno distinguere la destra dalla sinistra» (Gn 4). Chiamati a DONARSI. Nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza. Non come nemici che puntano il dito e condannano, ma «con dolcezza e rispetto», senza pretendere di apparire superiori ma considerando «gli altri superiori a se stessi» (Fil 2,3). Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come uomini e donne del popolo (da EG 271). Uscire, incontrarsi e donarsi. Una missione come condivisione di beni, di doni reciproci che vengono messi in comunione da Chiese sorelle perché nessuno sia povero del Regno. Tutto nella dimensione della gratuità e del servizio. (Testo adattato dalla presentazione del convegno fatta da don Michele Autuoro, direttore di Missio Italia). PER INFORMAZIONI: 1. Ogni Centro Missio (già Centro Diocesano Missionario) della propria diocesi. 2. Materiali, informazioni, strumenti di lavoro, su: www.cmsacrofano.it mail: [email protected] - [email protected] 8 MC MAGGIO 2014 La Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto VATICANO BATTERE LA TRATTA radicare la schiavitù moderna e la tratta di esseri umani in S tutto il mondo entro il 2020 è l’obiettivo di un accordo senza precedenti tra rappresentanti religiosi annunciato il 17 marzo contemporaneamente in Vaticano, al Cairo, Londra e Perth. L’accordo, firmato da mons. Marcelo Sánchez Sorondo per conto di Papa Francesco, dai rappresentanti del grande Imam di Al Azhar del Cairo, dell’arcivescovo di Canterbury e dall’australiano Andrew Forrest, fondatore della Walk Free Foundation, ha inaugurato il Global Freedom Network (Gfn). In una dichiarazione comune i firmatari affermano che «la schiavitù moderna e la tratta di esseri umani sono un crimine contro l’umanità. Lo sfruttamento fisico, economico e sessuale di uomini, donne e bambini condanna 30 milioni di persone alla deumanizzazione e al degrado. Ogni giorno in cui continuiamo a tollerare questa situazione violiamo la nostra umanità comune e offendiamo le coscienze di tutti i popoli». Le varie chiese cristiane, le confessioni religiose del mondo, i governi e tutte le persone di buona volontà sono invitate a aderire a questa iniziativa. Il Global Freedom Network, si legge ancora nella dichiarazione, compirà la sua missione con gli strumenti della fede: la preghiera, il digiuno e la carità e stimolando un’azione globale di contrasto a tali crimini “contro l’umanità”. (AsiaNews) TERRA SANTA CARITAS JERUSALEM problemi nella gestione delle risorse idriche nei Territori paleIstinesi penalizzano in forme diverse la vita della popolazione locale. Due progetti portati a compimento da Caritas Jerusalem hanno affrontato e risolto in pochi mesi le emergenze di segno opposto che pesavano gravemente sulla vita quotidiana degli abitanti di due città palestinesi. La cittadina di Ain Arik, a meno di sei chilometri da Ramallah, ha sempre sofferto per la scarsità di approvvigionamento idrico e per l’impossibilità di reperire acqua non contaminata. Per questo il dipartimento di Caritas Jerusalem ha costruito in quella città due serbatoi per l’acqua collegandoli a un esteso sistema di irrigazione. L’opera ha permesso fin da subito un aumento consistente della produzione agricola di cui beneficeranno più di ottanta nuclei familiari. Di tutt’altro ordine sono i problemi della città palestinese di Zababdeh, nella parte settentrionale della West Bank, dove l’assenza di un adeguato drenaggio provoca inondazioni diffuse ogni volta che piove. In questo caso Caritas Jerusalem con il sostegno di Caritas Belgio ha contribuito a installare un sistema di drenaggio che permette di salvaguardare dalle inondazioni ampie aree nella parte meridionale del centro abitato. (Fides) LAOS PROIBITO ESSERE CRISTIANI tto famiglie cristiane residenti nel villaggio di Natahall (Laos O meridionale), stanno lottando duramente per difendere il diritto, costituzionalmente garantito, di professare la fede cristiana, nonché il diritto di proprietà sulle loro case. Nel mese di marzo il capo del villaggio, assieme ad agenti della polizia distrettuale, ha convocato le otto famiglie e, dopo averle schernite, le ha esortate ad abbandonare la fede cristiana affermando che si tratta di «una fede straniera, degli americani». Non solo, ma ha anche preparato i documenti per trasferirle in un altro luogo dicendo che «non c’è posto per loro a Natahall». I cristiani, tuttavia, non intendono muoversi. Per costringerli a convertirsi, il capo ha pubblicamente dichiarato che «i cristiani saranno ritenuti responsabili per qualsiasi morte o evento avverso che avverrà fra gli abitanti di Natahall». Infatti, secondo gli anziani del villaggio, professare una fede diversa dal culto animista indigeno viola antichi costumi e credenze e può avere effetti nefasti. (Fides) # Vaticano - la firma dell’accordo Gfn da parte dei rappresentanti di varie chiese e religioni. MAGGIO 2014 MC 9 La chiesa nel mondo STATI UNITI PELLEGRINAGGIO AL MURO I l 30 marzo e il 1° aprile il Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale degli Stati Uniti si è recato a Nogales, nel deserto dell’Arizona, in una delle zone in cui corre il muro eretto per scoraggiare l’immigrazione clandestina dal Messico. Un pellegrinaggio in un luogo simbolo della tratta degli esseri umani, per celebrare una messa in memoria dei circa 6 mila migranti che dal 1998 a oggi sono morti nel deserto nel tentativo di entrare negli Usa. Erano presenti l’arcivescovo di Boston, card. Sean O’Malley e numerosi vescovi delle diocesi che si trovano sul confine. Il gesto si ispirava dichiaratamente alla visita compiuta da Papa Francesco sull’isola di Lampedusa l’8 luglio scorso. «Il confine tra gli Stati Uniti e il Messico è la nostra Lampedusa», ha dichiarato mons. Eusebio Elizondo, pre- sidente del Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale degli Stati Uniti. Nel dibattito sull’immigrazione, «ciò che tendiamo a dimenticare - ha aggiunto ancora mons. Elizondo - è che i migranti sono prima di ogni altra cosa esseri umani, non una questione economica e sociale. E che quanti sono morti nel deserto dell’Arizona e coloro che vengono deportati ogni giorno - hanno lo stesso valore e la stessa dignità donata da Dio a ogni persona, anche se pretendiamo di ignorare le loro sofferenze e le loro morti». (Vatican Insider) NEPAL UN MOTORE GIOVANE giovani nepalesi convertiti al cattolicesimo sono «il vero, grande Imotore dell’evangelizzazione. Moltissimi di loro sono impegnati nel diffondere la Parola di Dio alla popolazione: sono felice e fiero di questi ragazzi». Bhim Rai, catechista della diocesi di Kathmandu, definisce così «l’ondata positiva» di interesse che il paese esprime in questo periodo verso il cristianesimo. Dipak Thapa, convertito da poco, conferma questo trend: «In passato, quando il paese era una monarchia indù, i cattolici vivevano con la paura di essere e- marginati. Ma oggi la nostra è una nazione laica e questo timore non c’è più. Per me la conversione ha rappresentato un privilegio, perché ora posso lavorare per diffondere il Vangelo e contribuire alla costruzione del Regno di Dio». In Nepal vivono circa 150 mila cristiani, di cui 8 mila sono cattolici. (AsiaNews) TORINO MOVIDA SPIRITUALE e i ragazzi non vanno alla Chiesa, la Chiesa va dai ragazzi: è il S messaggio interpretato alla lettera da mons. Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, che ha trascorso la notte di sabato 1° marzo di pub in pub a parlare con i giovani. L’oratorio della parrocchia Santi Pietro e Paolo aveva deciso di offrire un’alternativa alla movida del sabato e dunque ha tenuto la chiesa aperta tutta la notte, organizzando tornei di calciobalilla sul sagrato. L’arcivescovo è andato di persona ad avvisare i ragazzi di questa opportunità. «Erano ovviamente stupiti di vedere un vescovo in mezzo a loro - ha detto mons. Nosiglia -, però i discorsi che abbiamo fatto sono stati anche discorsi di contenuto… adesso si tratta di continuare. (Vatican Insider) MOZAMBICO: EMERGENZA SOCIALE e multinazionali non rispettano le leggi mentre i contadini sono costretti a lasciare i villaggi per fare posto alle attività estrattive e sono sempre più poveri»: mons. Inacio Saure, missionario della Consolata e vescovo di Tete, denuncia la situazione paradossale che sta vivendo la popolazione di una delle regioni del Mozambico più ricche di materie prime. «Il governo sostiene che le difficoltà sono così accentuate solo perché lo sfruttamento dei giacimenti di carbone è cominciato da pochi anni dice monsignor Saure - ma la verità è che i contadini, costretti a trasferirsi in villaggi di “re-insediamento” sorti dal nulla, dove scarseggia la terra coltivabile e mancano le fonti di sostentamento, stanno vivendo un grandissimo malessere che presto potrebbe portare a nuove rivolte della disperazione». Nella provincia di Tete, nell’area dei giacimenti di Moatize, ci sono stati diversi precedenti. L’ultima protesta risale a maggio dell’anno scorso, quando i fabbricanti di mattoni, che avevano dovuto trasferirsi nei «re-insediamenti», bloccarono la ferrovia che collega le miniere della multinazionale brasiliana Vale con i terminali per l’export in riva all’Oceano Indiano. Anche loro, sulla base di una legge del 2013, devono essere risarciti dalle multinazionali. Ma quei pochi soldi non arrivano mai. (Misna) «L # Mozambico - mons. Inacio Saure, vescovo di Tete. 10 MC MAGGIO 2014 SWAZILAND Testo di JOSÉ LUIS PONCE DE LEON Foto STANISLAW JAN DZIUBA CELEBRARE CENT’ANNI DI CHIESA LOCALE E UN NUOVO VESCOVO PASSIONE PER GESÙ E IL SUO POPOLO Il 27 gennaio scorso a Manzini, città principale del regno dello Swaziland e sede dell’unica diocesi cattolica, c’è stata una doppia celebrazione: si sono ricordati i cento anni dall’arrivo dei primi missionari, ed è avvenuta l’installazione del nuovo vescovo, mons. José Luis Ponce de Leon, missionario della Consolata. Seguiamo l’avvenimento con gli occhi dello stesso vescovo. MAGGIO 2014 MC 11 SWAZILAND # Pagina precedente: il vescovo José Luis Ponce de Leon con il pastorale della diocesi di Manzini. | Qui accanto: i vescovi del Sudafrica in visita a Mbabane. | Sotto: la camminata verso il Bosco Centre preceduti da majorette e banda. La preparazione Alla fine del 2013 sono stato nominato vescovo della diocesi di Manzini, nel regno dello Swaziland, di cui ero amministratore, dalla morte del vescovo Ncamiso Ndlovu il 27 agosto 2012. La diocesi è la «mamma» del vicariato di Igwavuma di cui ero vescovo, e subito mi ero reso conto che a genanio 2014 sarebbero stati cento anni dall’inizio dell’evangelizzazione cattolica del regno, un’occasione eccellente per rinnovare l’impegno missionario della diocesi. I preparativi per le celebrazioni erano già avviati quando è arrivata anche la notizia della mia nomina. Passato il primo momento di panico, con i miei collaboratori abbiamo pensato che la celebrazione del centenario avrebbe ospitato anche la mia installazione. Così abbiamo iniziato a organizzare e a mandare inviti, cominciando dai vescovi del Sudafrica, che non solo hanno accettato di partecipare ma hanno anche deciso di fare a Manzini l’incontro annuale di tutta la Conferenza episcopale proprio la settimana prima. Naturalmente sono state invitate le autorità, e anche sua Maestà il re Mswati III. Il primo ministro e diversi ministri hanno accettato. I giornali locali ci hanno aiutati a far conoscere a tutti la buona notizia e la televisione Swazi si è impegnata a trasmettere dal vivo la celebrazione. L’avvenimento stava diventando sempre più grande e importante, creando seri problemi logistici. Fino a ottobre sembrava chiaro che tutto si sarebbe svolto nella cattedrale. Ma dopo le prime adesioni ci siamo resi conto che troppa gente sarebbe rimasta fuori a guardare il cielo. Per questo abbiamo spostato tutto nel salone polifunzionale del «Bosco Youth 12 MC MAGGIO 2014 Centre», un grande spazio coperto, quasi un palazzetto dello sport. Volevamo essere tutti insieme, al coperto, anche se, essendo così grande, non pensavamo certo di riempirlo. Il libretto del centenario Per aiutare la preparazione abbiamo stampato un libretto, nel quale si evidenziavano alcuni punti importanti della storia della Chiesa swazi. Ne riporto alcuni. «Cento anni fa, il 27 gennaio 1914, i primi missionari cattolici arrivarono in Swaziland. Erano membri dell’Ordine dei Servi di Maria (Osm) mandati come gli apostoli a condividere la gioia del Vangelo, portando in cuore una profonda passione per Gesù e per il suo popolo. Lo sguardo sulla nostra Chiesa di oggi e il ricordo dei nostri inizi ci richiama subito alcune immagini evangeliche: * il seme di senape che è il più piccolo di tutti i semi (Mc 4,3132); * i cinque pani e i due pesci che permisero a migliaia di persone di mangiare a sazietà (Mc 6,34-44); * e soprattutto il Signore che “lavorava con loro e confermava la parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20), manifestando così la sua presenza e guida. «La celebrazione di questi primi cento anni è l’occasione per tutti noi di ricordare con gioia tantis- simi momenti del cammino fatto. Quanto è scritto in questo libretto è davvero ben poca cosa rispetto a quanto celebriamo. Allo stesso tempo ci ricorda che “è di vitale importanza che oggi la Chiesa continui a predicare il Vangelo a tutti, in tutti i posti, in ogni occasione, senza esitazione, riluttanza o paura. La gioia del Vangelo è per tutti: nessuno ne deve restare escluso” (Evangelii Gaudium 23). Ricordando e celebrando noi rinnoviamo il nostro impegno a essere Buona Notizia per tutti in ogni angolo del nostro paese e in tutto il mondo». Mbabane, dove tutto è cominciato La celebrazione del centenario si è svolta a Manzini, un posto centrale. Ma ciascuno qui sa bene che «tutto è cominciato a Mbabane». I primi missionari arrivarono in Swaziland dal Sudafrica e andarono a Mbabane dove, alcuni giorni dopo il loro arrivo, ottennero il posto chiamato oggi «Mater Dolorosa». Per ricordarlo, abbiamo organizzato un pellegrinaggio di tutti i vescovi del Sudafrica proprio là. Venuti a Manzini per la loro assemblea annuale (la prima in assoluto mai fatta nel regno), li abbiamo invitati a fare una visita a Mbabane, la città capitale del regno. Nessuno è rimasto indietro. Accolti dal Consiglio Pastorale, MC ARTICOLI dopo la foto di rito, siamo andati in chiesa per pregare e ringraziare. Abbiamo cominciato con l’inno God’s Spirit is in my heart e dopo che il vescovo Jabulani Nxumalo (Oblato di Maria Immacolata - Omi, di Bloemfontain) ha presentato tutti, abbiamo ascoltato il testo di Mt 28,16-20: il mandato missionario in cui Gesù dice ai suoi «Andate e fate discepoli di tutte le nazioni. (…) Sono con voi per sempre». E abbiamo pregato così: «Signore, che mandasti i tuoi apostoli a proclamare il Vangelo a tutto il mondo e che hai guidato i missionari nella tua vigna in Swaziland, ti chiediamo di continuare a guidare la tua Chiesa pellegrina e missionaria nel proclamare il Vangelo a tutti. Attraverso lo Spirito Santo che ha animato gli apostoli all’inizio della tua santa Chiesa, guidala oggi e sempre perché il tuo messaggio d’amore possa raggiungere le orecchie dei poveri e dei ricchi per farli diventare docili al tuo Santo Spirito, e il Regno di Dio nel tuo amore giunga al suo compimento. Amen». Cammino non processione Con la televisione che trasmetteva in diretta dovevamo essere assolutamente puntuali, così il 26 gennaio, domenica mattina, alle 9.00, preceduti dalle majorette della St. Theresa’s School e dalla Salesian Band, siamo andati a piedi dalla cattedrale al Bosco Youth Centre. Non era una processione. Non c’era un ordine preciso: i chierichetti sì marciavano dietro la banda, ma tutti gli altri - vescovi, preti, laici e religiosi - camminavamo insieme, fianco a fianco. In verità molto prima dell’inizio della messa il palazzetto era già pieno all’inverosimile, e, nonostante fossero state aggiunte un migliaio di sedie, molti erano rimasti fuori. L’interno era deco- MAGGIO 2014 MC 13 SWAZILAND rato in modo splendido con striscioni fatti dalle diverse parrocchie, associazioni e gruppi religiosi. Un modo davvero creativo per dire: «Siamo qui, anche noi celebriamo il nostro cammino nel regno dello Swaziland». Entro le 9.30 noi preti e vescovi eravamo indaffarati a vestirci e prepararci per la celebrazione. Ho approfittato del momento per salutare i sacerdoti arrivati dal Vicariato di Ingwavuma (dove ero stato vescovo fino a quel giorno e di cui sono ancora amministratore) e da altre parti del Sudafrica. Allo scoccare delle 10 siamo entrati in processione accolti da un’esplosione di gioia. Chiamato a servire in un’altra diocesi La celebrazione è stata presieduta dall’arcivescovo di Johannesburg, mons. Buti Tlhagale, Omi. Era affiancato da mons. Stephen Brislin, arcivescovo di Cape Town e presidente della Conferenza episcopale del Sudafrica, e dal cardinal Wilfrid Napier, arcivescovo di Durban. Mi hanno fatto sedere in mezzo agli altri vescovi a lato dell’altare. L’arcivescovo Tlhagale ha ricordato che era la prima volta nella storia della diocesi che il nuovo vescovo non era consacrato a Manzini, ma solo installato. Ha continuato citando una frase di papa Francesco ai preti: «Questo vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore». The Swazi Observer, il giornale nazionale, ha così sintetizzato il suo discorso d’apertura: «Durante la messa per la celebrazione del centenario [dell’arrivo] dei Cattolici Romani [in Swaziland] al Bosco Youth Centre domenica scorsa, l’arcivescovo di Johannesburg Buti Tlhagale ha sintetizzato ne “l’essere per servire” lo spirito che distingue la Chiesa, quando ha detto all’assemblea che si augurava che il nuovo vescovo José Ponce de Leon fosse davvero un buon pastore. Ha poi aggiunto che un buon pastore deve sempre “puzzare come il suo gregge”, il che era come dire che il vescovo deve sempre identificarsi col popolo di 14 MC MAGGIO 2014 cui è guida. Puzzare come il proprio gregge significa diventare uno con la gente. Quando le tue pecore hanno fame, tu patisci la fame con loro, e quando condividono un buon raccolto anche tu gioisci con loro. Puzzare come il gregge significa diventare parte del tutto, piangendo con esso nei momenti di dolore e danzando con esso quando c’è da celebrare. Tu diventi parte del gregge a tal punto da essere sufficiente farti annusare per far sapere quello che sei. Questo spirito è probabilmente lo stesso vissuto da Gesù durante il suo tempo sulla terra. Ed è molto incoraggiante vedere che la Chiesa cattolica romana vive di questo supremo ideale, in uno sforzo di semplificazione dei miti della religione, e aprendo nello stesso tempo le porte a tutti, per dimostrare che tutti sono benvenuti. La Chiesa cattolica romana è stata veramente esemplare in tutto ciò, e i suoi missionari hanno vissuto questo ideale fin dall’inizio. Questa è la ragione che probabilmente spiega la facilità con cui loro hanno vinto i cuori del popolo». Quando è stato letto il Mandato papale, sono stato invitato a sedere sulla «cattedra» (la sedia che nella cattedrale solo il vescovo in carica può occupare). Una volta seduto mi hanno con- segnato il pastorale. Non uno nuovo, non l’ho voluto, ma quello del mio predecessore, mons. Ncamiso Ndlovu, vescovo di Manzini dal 1985 al 2012. I vescovi sono poi venuti uno a uno a salutarmi mentre la segretaria generale della Conferenza episcopale, suor Hermenegild Makoro, li presentava ai fedeli di MC ARTICOLI Manzini. Di seguito sono venuti i sacerdoti, i religiosi e i laici (i presidenti dei consigli pastorali delle 15 parrocchie) per dare il benvenuto al loro nuovo vescovo e promettere di lavorare con lui. A ciascuno ho dato una copia dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco che tratta dell’impegno di annunciare # In questa pagina: momenti della celebrazione nell’affollatissimo palazzetto dello sport del Bosco Centre, dove oltre a ricordare il centenario dell’evangelizzazione cattolica nello Swaziland, l’argentino mons. José Luis, già vicario apostolico di Ingwavuma, è stato installato come vescovo di Manzini. MAGGIO 2014 MC 15 SWAZILAND Storia della diocesi 27 gennaio 1914, arrivo dei primi missionari. 19 aprile 1923, nasce la Prefettura apostolica dello Swaziland, prefetto mons. Pellegrino Bellezze, Osm-servita. 19 marzo 1939, la Prefettura diventa Vicariato apostolico, con mons. Costantino Barneschi, Osm. 11 gennaio 1951, creata la diocesi di Bremersdorp (= Manzini), sempre con mons. Barneschi. 7 novembre 1961, la città riprende l’antico nome indigeno di Manzini; anche la diocesi prende il nome nuovo. Regno dello Swaziland Indipendenza: 6 settembre 1968. Superfice: 17.364 km2. Popolazione: 1.185.000 (2009). Religioni: 82,7% cristiani (40% Protestanti, 20% Cattolici, 22,7% Evangelici e Chiese africane indipendenti). il Vangelo nel mondo di oggi. Essendo la celebrazione centrata sul centenario dell’evangelizzazione in Swaziland, mi è sembrato che l’esortazione fosse lo strumento migliore per cominciare i prossimi cento anni. Una volta installato, è toccato a me presiedere la celebrazione, come nuovo padrone di casa. Le letture sono state proclamate in portoghese (la lingua dei molti immigrati e rifugiati dal Mozambico), inglese e siswati (la lingua locale), come si usa da queste parti durante le celebrazioni più importanti. La mano di Dio al lavoro Durante la predica ho insistito sull’idea che ora tocca a noi continuare quello che altri hanno iniziato. Siamo noi a venire chiamati da Gesù a essere «buona notizia», luce per chi cammina nelle tenebre e pescatori di uomini e 16 MC MAGGIO 2014 donne. Ho ricordato poi che tantissimi anni prima, quando ero ancora un seminarista, un prete aveva detto in una predica che «Solo i matti credono nelle coincidenze». «No - ho continuato -, noi non crediamo in coincidenze. Noi crediamo nella mano di Dio al lavoro nelle nostre vite. Non ho scelto le letture di oggi. Sono quelle ordinarie di sempre, che ogni cattolico può ascoltare oggi in tutto il mondo. Eppure, sembrano proprio fatte per questo giorno. Non è coincidenza, è la mano di Dio al lavoro tra noi oggi. «Pensateci: * Nel vangelo di Matteo (4,1223) Gesù comincia il suo ministero predicando la Buona Notizia, insegnando e guarendo e qui noi celebriamo e ricordiamo l’inizio dello stesso ministero nel regno dello Swaziland a opera dei primi missionari cattolici arrivati cento anni fa. * Vediamo Gesù che chiama Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni perché lo seguano e diventino pescatori di uomini - e noi qui ricordiamo i nomi di coloro che Gesù fece pescatori di uomini per noi: i padri Gratl, Mayer e Bellezze e fratel Obeleitner, missionari Serviti. * Vediamo Gesù andare in giro nella Galilea toccando la vita di ognuno - e noi ricordiamo e celebriamo chi ha accolto quei primi missionari da Mbabane a Mzimpofu, da Bulandzeni a Hluthi, da Piggs Peak a Siteki. Ricordando i primi, vogliamo an- # La diocesi di Manzini è molto impegnata in programmi a favore dei poveri, delle donne, dei rifugiati e soprattutto dei giovani, spesso le prime vittime della piaga dell’Aids. che ricordare tutti gli altri missionari che li hanno seguiti: altri Serviti, le monache Benedettine, le suore Mantellate, le Domenicane di Cabra e di Montebello, i Salesiani, le suore di Madre Cabrini, le suore Servite dello Swazi, le suore missionarie del Perpetuo Soccorso, … e con loro anche tutti i sacerdoti diocesani che dal 1964 hanno cominciato a servire le nostre comunità. Ma la Missione non è compito solo di preti e suore. Come Gesù nel Vangelo, anche i primi missionari chiamarono altri a camminare con loro per essere preparati e mandati a evangelizzare: i catechisti. I pochi preti e le suore che hanno servito nel paese agli inizi, non avrebbero potuto ottenere i risultati raggiunti senza l’aiuto dei catechisti». Ho detto anche molte altre cose, troppe da riprodurre qui. Ne riporto ancora una. «Oggi siamo qui per ricordare. Ricordando celebriamo. Celebrando ringraziamo Dio per tutto quello che ha fatto per noi in questi anni. Ma… voi sapete bene quello che dico sempre: Questo non è un museo! Non siamo qui solo per ricordare. Noi qui vogliamo rinnovare il nostro impegno a continuare quello che MC ARTICOLI abbiamo sentito nel Vangelo di oggi. Noi ci impegniamo non solo a proclamare (con le parole) la “Buona Notizia”, ma a essere (coi fatti) “Buona Notizia”. Di parole ne diciamo troppe! Noi vogliamo essere riconosciuti come discepoli di Gesù. Discepoli missionari che vanno fuori e con la loro vita toccano la vita degli altri». Tutto bene Durante l’offertorio ho scambiato poche parole con padre Sakhile Mswane, il cerimoniere. Ero davvero preoccupato per il sovraffollamento. Avevo paura che potesse succedere qualcosa. Lui mi ha rassicurato: tutto sarebbe andato bene. E così è stato! I vescovi sono stati lieti di distribuire la comunione, mentre io ero felicissimo di essere mandato nel punto più lontano dall’altare. Restare al posto centrale non mi piaceva proprio, preferivo andare fra quelli che erano «più lontani». E mi hanno accontentato. La gente aveva obbedito all’invito di non scattare fotografie durante la celebrazione. Tutti erano stati fin troppo bravi fino a quel momento. Ma quando si sono trovati il vescovo in mezzo a loro, la tentazione è stata troppo forte! Prima della benedizione finale ci sono stati i discorsi con particolari ringraziamenti al Vicariato di Ingwavuma per aver donato il nuovo vescovo allo Swaziland. Il primo ministro Sibusiso Dlamini ha ricordato il grande contributo della Chiesa allo sviluppo del paese, e il principe Simelane, che rappresentava il re Mswati III, ha sottolineato la scelta preferenziale dei poveri, dei disabili, dei rifugiati (in particolare dalle aree attorno ai Grandi Laghi, ndr) come una delle caratteristiche particolari dei cattolici e li ha elogiati per avere delle scuole che accettano chiunque senza distinzione di merito e di ceto sociale, dando a tutti la possibilità di avere un’educazione di base. Per concludere ho fatto distribuire la preghiera di S. Francesco: «Fa’ di me uno strumento di pace». «Ditela tutte le mattine. La prima cosa da fare! Imparatela a memoria. “Fa’ di me”: è il mio impegno. Non delego ad altri. Ditela ogni sera. Sia guida per l’esame di coscienza: ho perdonato, amato, consolato, ascoltato? Sono stato luce, pace e speranza? Preghiera la mattina, verifica la sera. Senza scoraggiarci. Non dipende solo da noi. C’è l’aiuto di Dio. Niente è impossibile per Lui». José Luis Ponce de Leon* * Missionario della Consolata argentino, nato nel 1961, ordinato prete nel 1986 e vescovo dal 2009. Testo tradotto e adattato da Gigi Anataloni da bhubesi.blogspot.com Lo spirito missionario e vocazionale della celebrazione di Manzini trova eco nel Messaggio per la Giornata delle Vocazioni (11 maggio 2014 - testo completo su www.vatican.va) nche oggi Gesù vive e cammina nelle nostre realtà della vita ordinaria per accostarsi a tutti, a cominciare dagli ultimi, e guarirci dalle nostre infermità e malattie. Mi rivolgo ora a coloro che sono ben disposti a mettersi in ascolto della voce di Cristo che risuona nella Chiesa, per comprendere quale sia la propria vocazione. Vi invito ad ascoltare e seguire Gesù, a lasciarvi trasformare interiormente dalle sue parole che «sono spirito e sono vita» (Gv 6,62). Maria, Madre di Gesù e nostra, ripete anche a noi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela!» (Gv 2,5). Vi farà bene partecipare con fiducia a un cammino comunitario che sappia sprigionare in voi e attorno a voi le energie migliori. La vocazione è un frutto che matura nel campo ben coltivato dell’amore reciproco che si fa servizio vicendevole, nel contesto di un’autentica vita ecclesiale. Nessuna vocazione nasce da sé o vive per se stessa. La vocazione scaturisce dal cuore di Dio e germoglia nella terra buona del popolo fedele, nell’esperienza dell’amore fraterno. Non ha forse detto Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)? ari fratelli e sorelle, vivere questa «misura alta della vita cristiana ordinaria», significa talvolta andare controcorrente e comporta incontrare anche ostacoli, fuori di noi e dentro di noi. Gesù stesso ci avverte: il buon seme della Parola di Dio spesso viene rubato dal Maligno, bloccato dalle tribolazioni, soffocato da preoccupazioni e seduzioni mondane (cfr Mt 13,19-22). Tutte queste difficoltà potrebbero scoraggiarci, facendoci ripiegare su vie apparentemente più comode. Ma la vera gioia dei chiamati consiste nel credere e sperimentare che Lui, il Signore, è fedele, e con Lui possiamo camminare, essere discepoli e testimoni dell’amore di Dio, aprire il cuore a grandi ideali, a cose grandi. «Noi cristiani non siamo scelti dal Signore per cosine piccole, andate sempre al di là, verso le cose grandi. Giocate la vita per grandi ideali!» [...]. Francesco A C MAGGIO 2014 MC 17 UgaNda testo di ANNA GIOLITTO e DANIELE BIELLA foto di ANNA GIOLITTO Tra le ferite ancora aperte delle violenze armate degli anni passati, il rischio dello sfratto dalle proprie terre, la siccità che sembra aumentare di anno in anno facendo crescere l’insicurezza alimentare. Sui pendii del monte Moroto, nell’angolo più remoto del Nord Est dell’Uganda, alcuni membri della tribù Karamojong, inclusi i bambini, ricercano l’oro nell’arida terra rossa. 18 MC MAGGIO 2014 SfrUTTaMENTo iNTENSivo dEl Nord EST UgaNda L’ORO DEL KARAMOJA U n tempo allevatori di bestiame, i Karamojong sperano di migliorare la loro situazione economica vendendo piccole quantità d’oro che grattano dalla terra arida del Karamoja, regione a Nord Est dell’Uganda, al confine con il Kenya e il Sud Sudan, considerata la più emarginata del paese e una delle più povere del mondo. Terra di pastori seminomadi, il Karamoja è stato teatro di un lungo ciclo di conflitti tra i diversi clan di guerrieri per l’accaparramento del bestiame, la sopravvivenza, e in lotta contro l’interferenza del governo. Dal 2001, per un decennio, migliaia di soldati ugandesi hanno condotto una brutale campagna di disarmo in tutta la regione. Con il disarmo e la relativa riduzione dell’uso della pastorizia come fonte di sostentamento principale, i Karamojong sono oggi costretti a reinventarsi in un nuovo stile di vita, e a cercare nuove opportunità di so- stentamento. A causa degli effetti sempre più visibili del riscaldamento climatico, tra cui l’aumento dei periodi di siccità, la vita in questa pianura semiarida diventa sempre più difficile e l’agricoltura non può rappresentare l’unica risorsa sostenibile. La popolazione locale si ritrova quindi con poche alternative per sopravvivere. «L’oro è diventato ora ciò che prima le mucche rappresentavano per noi», dice un anziano. Nonostante l’economia in Uganda abbia un enorme potenziale di crescita per l’inaspettata scoperta del petrolio, il Karamoja rimane una regione dimenticata ed esclusa. Scavando a mani nude sulle colline di rupa Per Lomilo, che lavora nella miniera di Rupa, la ricerca d’oro è un business di famiglia. Ogni mattina dall’alba si reca con moglie e figli sulle colline minerarie di Rupa per il lavoro nelle gallerie. Lomilo passa le sue giornate scavando a MC ARTICOLI # Da sinistra in senso orario: cercatore d’oro. | Parte della famiglia intervistata. | Ingresso ai tunnel. | Veduta aerea di un manyatta, tradizionale villaggio con case in paglia. | Veduta aerea della Karamoja. mani nude profondi cunicoli nel terreno, nei quali si cala per cercare terra sempre nuova. Regolarmente riemerge e passa alla moglie Naduk bacinelle di terra preziosa. Naduk setaccia il raccolto insieme alla figlia più grande, mentre allatta il piccolo e si prende cura degli altri quattro figli. La loro giornata trascorre monotona con viaggi di 8 km a piedi per arrivare al pozzo e raccogliere l’acqua necessaria per l’operazione di setaccio. Lavorando con strumenti primitivi e in condizioni molto difficili, la ricerca dell’oro è un lavoro pericoloso e sfinente. Nessun pasto è previsto durante la giornata, ci si potrà rifocillare la sera rientrando nel villaggio, se la ricerca d’oro avrà dato qualche buon risultato. Seduta sul bordo dello scavo, la figlia di Naduk è responsabile del lavaggio: un lungo processo per cercare di trasformare i mucchi di terra raccolti dal padre in qualche frammento d’oro. «Amo il mio lavoro», dice mentre lava la terra, «voglio avere qualcosa per sopravvivere con la mia famiglia». Tutti i figli di Lomilo sono coinvolti nella ricerca dell’oro. Il sistema scolastico in Uganda è a pagamento, un lusso che solo il 10% della popolazione in Karamoja può permettersi (contro il 70% a livello nazionale). È difficile andare a scuola e studiare a stomaco vuoto, per cui molti bambini preferiscono lavo- rare alla miniera e ottenere qualche spicciolo a fine giornata. Al di sotto dei 18 anni Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), i lavoratori nelle miniere d’oro in Africa sono per un 30-40% bambini al di sotto dei 18 anni. A causa della fame e della povertà i genitori li incoraggiano a lavorare nelle miniere per MAGGIO 2014 MC 19 UGANDA poter comprare cibo e vestiti. Spesso i bambini sono i più abili a muoversi negli stretti cunicoli sotto terra. Inoltre, in tutto il continente africano si registrano alti indici di abbandono scolastico negli istituti d’istruzione che si trovano nei pressi di giacimenti minerari. In Kaabong, distretto del Karamoja che registra elevati tassi di malnutrizione e dove buona parte della popolazione si sta sempre più dedicando al lavoro nelle miniere, l’assenteismo a scuola è un problema crescente. Il lavoro nella miniera di Rupa è rischioso. Molte vite sono perse ogni anno a causa del crollo di qualche tunnel. Lomilo indica uno scavo dove qualche settimana prima ha perso un amico. 0,3 Euro al grammo «È un lavoro rischioso, ma non ho altra scelta per il momento», spiega Lomilo. Il suo grande sogno, come per tutti i ricercatori d’oro, è quello di trovare un giorno un grande pezzo d’oro, così da potersi finalmente sistemare con la sua famiglia, mandare i figli a scuola e dedicarsi nuovamente all’allevamento del bestiame, anch’essa attività oggi molto rischiosa per le continue razzie da parte dei clan vicini. A fine giornata Lomilo si reca al mercato per vendere la polvere d’oro. Con 9 grammi guadagna 9.000 Scellini ugandesi, equivalenti a 2,7 Euro circa per una giornata di lavoro di un’intera famiglia. Anche la famiglia di Lomilo rientra nella tanto discutibile categoria di «povertà estrema», definita in base al guadagno inferiore a un dollaro procapite al giorno, «the dollar a day poverty line». Al mercato dell’oro sono presenti numerosi commercianti, arrivati dal Kenya o dalla capitale Kampala. Comprano illegalmente l’oro da questi gruppi informali per rivenderlo alle grandi compagnie minerarie, spesso multinazionali con sede all’estero. Lo scavo di Lomilo è uno dei migliaia che ricoprono la collina di Rupa. Secondo fonti locali sono circa 10.000 le persone che riescono a sopravvivere grazie a questa miniera a cielo aperto. In totale, il triplo di questo numero dipende dalle miniere d’oro in Karamoja, e la cifra non tiene conto dei lavoratori delle miniere di marmo, gemme e pietre calcaree. La regione del Karamoja con i suoi enormi depositi d’oro, potrebbe diventare la nuova frontiera di sfruttamento minerario dopo il petrolio nell’Ovest dell’Uganda. Le # Da sinistra in basso in senso orario: terra al setaccio per la ricerca dell’oro. | Nella tazza emerge qualche granello di polvere d’oro. | La polvere viene raccolta in un tubicino di plastica per il trasporto al mercato. | Un bambino compra l’oro al mercato nero. | Giovani e anziani Karamojong a una riunione di villaggio (sotto). 20 MC MAGGIO 2014 comunità e i leader locali temono che nuovi conflitti possano derivare dalla lotta per l’accaparramento di queste risorse. Recentemente si stanno diffondendo notizie di trafficanti d’oro che lavorano per conto di qualche industriale o politico di primo piano, per lo sviluppo di un’industria mineraria nella regione. Sfruttando la lontananza dalla capitale e il generale disinteresse politico e me- diatico per la regione, alcuni uomini d’affari potrebbero assicurarsi le zone minerarie del Karamoja, utilizzando a proprio vantaggio i conflitti tra i vari clan. Comunità locali a rischio di sfratto L’ufficio della Ricerca Geologica e Mineraria si occupa di concedere le licenze agli operatori interessati. Tuttavia, nonostante il governo locale neghi la presenza di attività illegali, diverse organizzazioni locali sostengono che l’industria aurifera manchi di trasparenza e che molti operatori agiscano nella regione senza una vera e propria licenza o con una concessione scaduta da anni. Secondo il Mining Act del 2003, un’azienda può ottenere una licenza per tre anni. Il proprietario del terreno, la provincia e il distretto, dovrebbero ricevere le royalties. Tuttavia sembra che i dividendi dell’oro rimangano per molto tempo in una zona grigia. Nel frattempo, le comunità locali vivono nell’incertezza e nella paura che qualcuno possa cacciarli dalle loro terre, rinnovando il conflitto nella regione. Alla fine si torna a un punto dolente per tutto il continente africano, e non solo per esso: la ricchezza di pochi (i proprietari delle miniere e chi «li controlla», quasi sempre corporazioni multinazionali senza scrupoli) accumulata con lo sfruttamento di molti. In un’Uganda in piena crescita e con sempre nuovi problemi E pensare che l’Uganda negli ultimi anni ne ha fatta di strada da quando la ventennale guerra civile tra governo e ribelli dell’Lra (Lord resistance army, guidati dal famigerato Joseph Kony, cfr. MC giugno 2012), terminata con gli ac- cordi del 2008, non ha più depredato gli abitanti della loro terra e della possibilità di vivere in serenità. Le famiglie sono tornate nelle loro case, i bambini soldato (se ne stimano almeno 300mila nel mondo, che porteranno per decenni i traumi dei combattimenti e dei soprusi) si sono man mano reinseriti nell’ambiente originario, l’economia ha ricominciato a girare, lentamente, in tutto il paese, che oggi registra 36 milioni di abitanti e un tasso di crescita annuale del 3,3%. Mentre si spera che la situazione interna rimanga tranquilla - nonostante la «sporca» corsa ai minerali -, si presenta un nuovo problema per il Nord del paese, e in parte anche per il Karamoja: sono le decine di migliaia di sfollati che scappano dal Sud Sudan, il più giovane stato del mondo, staccatosi nel 2011 con un referendum dal Sudan ma da alcuni mesi in preda, a sua volta, a un conflitto armato scatenato dall’ex vicepresidente ribelle nei confronti dell’attuale premier. Conflitto nel quale, per ora, le forze internazionali stanno a guardare, ma che sta generando fughe di massa in altri paesi, benché questi non abbiano strutture e strumenti adatti per accoglierli, come l’Uganda. Insicurezza alimentare Nel frattempo in Karamoja, oltre a quella delle miniere, tiene banco da qualche mese la questione della sicurezza alimentare, messa a dura prova non solo dagli eventi bellici del recente passato ma anche dalla siccità che ogni anno sembra aumentare (nel 2013 si è calcolata una diminuzione fino al 50% dei raccolti in tutta la regione). Il governo centrale ha lanMAGGIO 2014 MC 21 UGANDA ciato un piano speciale piuttosto originale per migliorare la situazione agricola del Karamoja: a tutti i cittadini viene chiesto di creare un proprio orto coltivando due generi alimentari, patate e tapioca. Nient’altro, perché questi, spiegano le autorità, sono i cibi che resistono di più alla scarsità d’acqua. La notizia non è stata accolta con calore dalla popolazione. Anzi, molti mettono in dubbio l’efficacia di un’azione del genere, lamentandosi del fatto che bisognava invece puntare sul bestiame, più redditizio. In attesa di sapere quale sarà l’efficacia del piano go- vernativo, Irin, l’agenzia informativa legata all’Onu, ha comunicato che il Pam, Programma alimentare mondiale, ha pianificato di consegnare cibo ad almeno 155mila persone da febbraio 2014, di rafforzare azioni che da qualche anno stanno migliorando altri aspetti della società locale, come il programma food for work (cibo in cambio di lavoro) che comprende 390mila beneficiari, di mettere in atto una forte iniziativa scolastica per 100mila bambini a rischio dispersione e un programma di salute e nutrizione per 38mila giovani madri e i propri piccoli, di raccogliere più scorte di cibo per almeno 25mila bambini denutriti. Anche in questo caso, però, ci sono dei problemi: il Pam ha reso noto che non sa se nel 2014 avrà i fondi per sostenere tutti i programmi, una sorta di pre allerta a non fare troppo affidamento su di essi. Una notizia negativa, che potrebbe essere controbilanciata solo da una rivoluzione culturale: dalle miniere del Karamoja ai campi dei sette distretti regionali, la voce del popolo spesso è univoca nel sostenere che non basta indicare cosa coltivare e cosa no. È tutto l’approccio che deve cambiare. Ovvero, bisogna mettere in grado le persone di gestire non solo la coltivazione diretta ma anche la lavorazione del cibo dalla materia prima, l’acqua potabile, le strutture sanitarie e la protezione sociale. Così facendo, la regione, e non solo essa, farebbe quel salto di qualità che oggi manca e che proietterebbe la gente del luogo verso un futuro migliore, più legato all’autonomia, all’imprenditorialità e meno all’assistenzialismo. Anna Giolitto e Daniele Biella # Da sopra a sinistra in senso orario: donna karamojong. | Misurazione del braccio per la valutazione dello stato di malnutrizione del bimbo. | Pastori al mercato del bestiame. BURKINA FASO di LIA CURCIO* L’ONG LVIA IN BURKINA FASO UNA STORIA LUNGA R 40 ANNI iccardo Botta è tornato in Burkina Faso per festeggiare i 40 anni di attività dell’Ong Lvia (Lay volonteer international association, www.lvia.it) nel paese. Lui è stato tra i pionieri, nel primo gruppo di volontari che con Lvia sono partiti alla volta del Burkina Faso. A Donsè, Riccardo metteva le basi di una storia. Erano gli anni Settanta. «È ancora vivo nella memoria il momento in cui nel lontano ’73, su richiesta del cardinale Paul Zoungrana, mettemmo piede in Alto Volta, come allora era chiamato il Burkina Faso. Trovammo un paese sconvolto dalla siccità. Partimmo in cinque per dar vita, con la diocesi di Ouagadougou e i ministeri della Sanità e dell’Agricoltura del Burkina Faso, al primo programma di cooperazione». © Archivio Lvia L’Ong Lvia ha da poco festeggiato i 40 anni di presenza in Burkina Faso. Fondata nel 1966 da don Aldo Benevelli, 7 anni dopo i primi volontari giunsero nell’allora Alto Volta. Da quel giorno tante realizzazioni, ma soprattutto storie di persone, incontri, relazioni. Scopriamo questa storia positiva che lega Italia e Africa dalle parole dei protagonisti. MAGGIO 2014 MC 23 © Jean Patrick Masquelier BURKINA FASO # Pagina precedente: la squadra Lvia in Burkina Faso al completo. # A destra: Riccardo Botta con mons. Jean-Maire Compaoré, vescovo emerito di Ouagadougou durante i festeggiamenti per i 40 anni dell’Ong. # Sotto: Cristina Daniele, volontaria dell’anno Focsiv nel 2008. # A fianco: Marco Alban, il rappresentante Lvia nel paese. Anni ruggenti «Il nascente gruppo Lvia era figlio del clima post conciliare - spiega don Aldo Benevelli, che ricorda i primi passi dell’associazione. Con il Concilio Vaticano II si faceva strada l’idea di una Chiesa nuova e a noi interessava soprattutto il rinnovamento del cristiano, come uomo che sta vicino all’uomo. Nasceva a Cuneo un gruppo di giovani eterogeneo, cattolici, laici, provenienti dal mondo del sindacato e dell’università, ma con uno sguardo sul mondo basato sui medesimi valori». Nel 1972 iniziava la grande siccità nel Sahel che colpì oltre 50 milioni di persone. Una tragedia umanitaria che per la prima volta portava alla ribalta sui grandi mass media mondiali questa, allora poco conosciuta, regione africana. Dal contatto tra don 24 MC MAGGIO 2014 Aldo Benevelli e i padri Camilliani in Burkina Faso, nasce l’impegno di Lvia nel paese per affrontare la carestia. Continua Riccardo: «Partimmo con alcuni giovani di Ivrea, dove mons. Luigi Bettazzi aveva fondato un gruppo come il nostro. Nel villaggio di Donsè costruimmo la nostra sede, una modesta capanna; avevamo un solo motorino ed eravamo distanti dalla capitale 35 km, da percorrere senza strade asfaltate. Facevamo una vita spartana, bevevamo l’acqua del barrage (diga), raccogliendola con i bidoni e filtrandola e mangiavamo un piatto a base di miglio e foglie. Eravamo gli unici cooperanti in quell’area e volevamo portare un messaggio di condivisione. Dovevamo vivere come gli altri. La differenza tra noi e i cooperanti in capitale era abissale, tanto che eravamo soprannominati “i mendicanti”». Mons. Jean-Marie Untani Compaoré allora era responsabile della Diocesi di Ouagadougou, il partner che accolse Lvia in Burkina Faso. Oggi ancora vicino all’associazione, ricorda: «La venuta degli amici italiani era stata annunciata nel 1972 in chiesa, nel quadro delle celebrazioni eucaristiche in cui erano presentati i tre precursori della Lvia, dei “bianchi”. A seguito di questa visita di conoscenza, i primi volontari cominciarono ad arrivare a Donsè, ospitati presso il Centro di formazione dei catechisti. Non tardarono a iniziare le attività». Cominciava così il primo programma agricolo-sanitario e la costruzione del primo dispensario a Donsè, con due casette per il ricovero e le consultazioni. Africani: ruolo fondamentale Negli anni ’80 e ‘90 le competenze locali aumentavano e le istituzioni erano più presenti. © Cristiano Proia / Archivio Focsiv Così ricorda Riccardo Botta. Infermiere in pensione, quando era poco più che ventenne entrava a far parte del gruppo di giovani Lvia che allora - era il 1966 - si stava costituendo sotto la guida di un carismatico don Aldo Benevelli. Continua: «Don Aldo era un prete guru; schieratissimo contro la guerra del Vietnam, il suo monito era “Cambiate le vostre spade in vomeri!”. Erano anni di grande fermento, di ideali, di desiderio di prendere posizione e attivarsi». MC ARTICOLI Ezio Elia è partito per il Burkina Faso nel 1989: «Conoscevo la Lvia da sempre, fin da bambino andavo a messa alla cappella dei ferrovieri da don Aldo Benevelli. La mia destinazione è stata la città di Ziniaré. Lavoravamo con le autorità governative ma anche con i villaggi. Molti dei miei colleghi erano burkinabè e il loro ruolo era fondamentale per accompagnare i villaggi nella scelta delle infrastrutture da costruire una scuola, un pozzo, un mulino - per aiutarci a capire le dinamiche in atto indicandoci, ad esempio, se ci fosse in quel villaggio un gruppo abbastanza coeso da poter gestire una futura struttura». Era il 1993 quando, alla fine di un lungo programma di sviluppo integrato promosso da Lvia, il gruppo di animatori impegnati nel progetto decise di auto organizzarsi per proseguire e consolidare i risultati raggiunti. Otto persone fondarono l’Associazione di Aiuto agli Agricoltori (Ask, acronimo in lingua locale, il mooré), che oggi con 7.000 contadini associati è un’organizzazione di riferimento per la regione del Plateau Central. Un seme che dà frutto I quarant’anni di Lvia sono stati anche l’occasione per celebrare i vent’anni di esistenza dell’Ask. Marcel Koutaba, il suo fondatore, ha iniziato negli anni Settanta a lavorare con Lvia come autista. Accompagnava nei villaggi gli animatori, che si occupavano di seguire i produttori nella realizzazione delle attività agricole: «Ho potuto approfondire il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo dell’Europa e ho capito che dovevamo proteggere i nostri agricoltori contro la crescente urbanizzazione, che stava sradicando la nostra cultura agricola e che avrebbe ostacolato lo sviluppo del paese. Il mio interesse alle questioni agricole ha portato Lvia a formarmi e quindi impiegarmi come animatore. Insieme ad altri sette colleghi che, come me, avevano lavorato con Lvia, ho fondato l’Ask, nel 1993 a Donsè. Già negli anni Settanta, Lvia era impegnata per lo sviluppo di queste aree rurali, dove la popolazione viveva in piccoli villaggi privi dei servizi di base. Questi interventi, però, non si sono limitati alla fornitura di servizi, ma Lvia ha coinvolto la popolazione, creando © Archivio Lvia maggiore consapevolezza e competenza diffusa sul territorio. Queste competenze e lo spirito associativo ci hanno supportato e ci hanno dato forza nella nostra scelta di fondare l’Ask. Abbiamo cioè preso coscienza del nostro ruolo di agricoltori e ci siamo resi conto di avere l’opportunità di rispondere ai bisogni del nostro territorio, di unire gli sforzi per aiutare i nostri connazionali a restare nel proprio paese vivendo del proprio lavoro». Tra i soci onorari dell’Ask, il presidente della federazione di Ong cristiane Focsiv - Volontari nel mondo, Gianfranco Cattai, che da molto tempo conosce l’associazione, riflette: «Grazie alla saggezza degli anziani, il dinamismo dei giovani, il pragmatismo delle donne, durante questi vent’anni l’Ask ha sviluppato l’economia locale, suscitando l’entusiasmo dei giovani, creando opportunità di impegnarsi localmente e in molti MAGGIO 2014 MC 25 © Claudio Massarente BURKINA FASO # A sinistra: il centro giovani di Ziniaré, uno dei recenti progetti Lvia. # Sotto: foto storica di Giuliano Luzzi, uno dei primi volontari Lvia in Burkina Faso. © Archivio Lvia casi evitando l’esodo verso la città o l’emigrazione. L’Ask è un insieme di buone pratiche che noi in Italia dovremmo conoscere, un percorso di persone che hanno creduto in loro stesse e hanno avuto la speranza delle trasformazioni del loro territorio e della qualità della vita della propria comunità». Motivazione e passione Oggi l’équipe di Lvia in Burkina Faso è costituita da sedici burkinabè e quattro cooperanti italiani. Una di loro è Cristina Daniele. Per lei l’Ong di Cuneo è stata una scelta professionale. Ma c’è anche altro: «Ho colto l’opportunità del servizio civile internazionale e sono partita con Lvia, facendo una prima esperienza di cooperazione con cui ho potuto mettermi alla prova e capire se la vita del cooperante potesse fare per me. Ho scelto di restare. E nello scegliere questa strada, c’è la consapevolezza che non si tratta solo di un lavoro ma di una passione, di una forte motivazione, un credere nella possibilità di generare cambiamento». Dallo stesso spirito sono mossi Emile, Ousmane, Jean Paul, Clémence e altri burkinabè che non solo lavorano con l’Ong, ma sono protagonisti di questo movimento associativo. A problemi globali, soluzioni locali. Il mondo è un tutto e ciò che si fa in Burkina può influenzare gli stili di vita in Italia, le decisioni 26 MC MAGGIO 2014 che si prendono al Nord possono avere ripercussioni anche al Sud. Così, mentre lavora in Burkina Faso per migliorare, ad esempio, sicurezza alimentare e ambiente, in Italia Lvia cerca di sensibilizzare i cittadini a un consumo attento e responsabile. Marco Alban è l’attuale responsabile di Lvia in Burkina Faso. Per lui, la cooperazione non è solo una questione tecnica: «Lo sviluppo non è solo realizzare, ad esempio, un pozzo. Il vero sviluppo è la dinamica che c’è dietro questo pozzo, ciò che ha motivato e permesso la sua realizzazione, ciò che ne garantirà la sua conservazione e sostenibilità. Si ha la tendenza a immaginare l’Ong del Nord che viene a lavorare in un paese del Sud come se si trattasse di un flusso unilate- rale. Invece, Lvia ha sempre messo l’accento sulla reciprocità nel suo cammino e, in questi anni di cooperazione, i legami e le relazioni tra gli uomini restano uno dei patrimoni più importanti. C’è una grande differenza tra considerare le popolazioni come beneficiarie e considerarle, a tutti gli effetti, come partner. Non si tratta di svilupparle, ma di sostenere un’iniziativa locale. Bisogna tirarsi su le maniche per lavorare e camminare insieme. Per fare ciò, bisogna saper ascoltare, dialogare e darsi tempo per comprendere. Si dice che conoscere un villaggio significhi conoscere il mondo …». Lia Curcio* * Lia Curcio lavora all’Ufficio Stampa Lvia in Italia. CILE Testo e foto di PAOLO MOIOLA Fondata nel 1982 da mons. Ysern, la sua voce arriva fino alle isole più piccole e remote dell’arcipelago di Chiloé. Con «Radio Estrella del Mar» iniziamo un breve viaggio tra alcune emittenti latinoamericane. Tutte con un Dna di servizio. STORIE E VOLTI DI RADIO / 1 STELLA DEL MARE C astro (isola di Chiloé). La sede sta a lato del Terminal rural, la stazione da dove partono i micro (minibus) per tutte le località dell’arcipelago. «Radio Estrella del Mar» occupa una piccola casa, resa immediatamente riconoscibile dal suo colore arancione. Mi accolgono Luis Eugenio Gonzáles e Clemente Becerra, locutores, annunciatori o - per usare un termine ormai di uso comune - speakers. Mi mostrano i locali dell’emittente mentre il tecnico di turno mette in onda un annuncio commerciale. Entriamo in studio. Andremo in onda dal vivo. Sono venuto per fare un’intervista invece mi ritrovo intervistato. Parlo con il mio spagnolo carico di sintassi e accenti italiani, ma ciò che importa è toccare con mano l’entusiasmo con cui Luis Eugenio e Cle- mente fanno il loro lavoro. «A esta hora compartiendo su mañana en Estrella del Mar» (condividendo la mattinata con voi), ripete il jingle agli ascoltatori della radio, che sono quelli di Chiloé, ma anche della Patagonia cilena (province di Palena e Aysén). Dare voce a chi non ha voce Padre José Contreras Riquelme è direttore dell’emittente dal 2011. «La nostra è una radio che vuole essere voce di chi non ha voce. Tuttavia, essendo un’emittente cattolica, essa ha come fine ultimo l’evangelizzazione». L’arcipelago di Chiloé è un luogo particolare, con caratteristiche oro# Un’insenatura non lontana da Ancud, cittadina sull’isola grande di Chiloé, dov’è stata fondata Radio Estrella del Mar. CILE Questa serie La Radio non muore mai ei primi mesi del 2014 abbiamo visitato alcune radio latinoamericane. Tutte legate alle Chiese locali. Tutte piccole, ma fortemente radicate sui rispettivi territori. Tutte con gli stessi problemi economici (la mancanza di risorse). Tutte con la stessa forza propulsiva (l’entusiasmo dei collaboratori). Noi cercheremo di raccontarle attraverso le storie e i volti delle persone che le animano (inclusa un’intervista a Santiago García Gago, autore del Manual para radialistas). Già nel settembre 2009 Missioni Consolata aveva pubblicato un dossier (Un mondo a misura di Radio) sulla realtà delle emittenti del Sud. Sono trascorsi soltanto pochi anni, ma il mondo è stato trasformato dalla rivoluzione digitale. Incluso il mondo delle radio, che oggi si possono ascoltare anche in streaming, ossia sfruttando la rete internet. Lo fanno pure le radio da noi visitate, anche se la maggior parte dei loro utenti, soprattutto quelli che vivono lontani dalle città, le ascoltano nel modo tradizionale, non avendo alcuna connessione web, ma soltanto un banale apparecchio radio. Immortale, almeno fino a oggi. N Paolo Moiola 28 MC MAGGIO 2014 grafiche e antropologiche molto diverse da quelle del resto del Cile. Padre Contreras, pur non essendo nativo del luogo, conferma: «Sì, anche in ragione del nostro essere isole, abbiamo mantenuto costumi e tradizioni differenti, a ogni livello: sociale, culturale e religioso. La radio riflette queste peculiarità. Anche noi ovviamente siamo stati obbligati a cambiare e a modernizzarci, però senza mai perdere la nostra identità». Anche a Chiloé e nella Patagonia cilena i progressi della tecnologia hanno portato internet, i canali televisivi satellitari, le comunicazioni via smartphone. C’è ancora spazio per la radio?, chiediamo a padre Contreras. «Sì, ne sono sicuro. La radio continua a essere un mezzo di comunicazione necessario e fondamentale. La gente dice che “non esiste nulla come la radio”. In altre parole, nonostante la grande quantità di i di comunicae esistenti la radio MC ARTICOLI # A sinistra: mons. Juan María Agurto Muñoz, vescovo di Ancud, indica una foto della cattedrale, distrutta a seguito del terremoto-maremoto del 1960. Sotto: padre José Contreras, direttore dell’emittente. Pagina precedente: mons. Juan Luis Ysern, ideatore e fondatore di radio Estrella del Mar, con papa Giovanni Paolo II; la chiesa di Castro e le frequenze dell’emittente. non può essere sostituita. È uno strumento affidabile, attraverso il quale le persone possono esprimersi, con interviste, domande, suggerimenti. Essa costituisce anche uno strumento alla portata di tutti, cosa che non si può dire degli altri mezzi che risultano disponibili per meno del 30% degli abitanti di Chiloé. In più la nostra emittente unisce tutto l’arcipelago, arrivando fino alle isole più remote». Dalle lotte di mons. Ysern Radio Estrella del Mar ebbe i natali negli anni della dittatura, quando ricopriva la carica di vescovo mons. Juan Luis Ysern de Arce, personalità di grande forza e carisma, vincitore di prestigiosi premi. Nel 1976, il prelato aveva creato la «Fondazione diocesana per lo sviluppo di Chiloé» (Fundechi). L’istituzione entrò presto in contrasto con il governo militare. Soprattutto quando questo diede il proprio sostegno a un megaprogetto giapponese (Proyecto Astillas de Chiloé) che avrebbe voluto sfruttare (e quindi distruggere) il pre- zioso bosco nativo dell’arcipelago. Da quella battaglia in mons. Ysern nacque l’idea di fondare un’emittente: Radio Estrella del Mar vide la luce ad Ancud nell’anno 1982. Oggi è una rete di 8 emittenti: 4 nell’arcipelago di Chiloé (Castro, Ancud, Quellón e Achao), una nel piccolo arcipelago di Guaitecas (Melinka) e 3 sul continente (Chaitén, Futaleufú e Palena). Queste ultime in verità sono chiuse dal 2008 a seguito dell’eruzione del vulcano Chaitén, ma c’è la volontà di riaprirle se si troveranno le risorse. Radio Estrella del Mar è un impegno gravoso anche dal punto di vista economico. Come sempre accade per le emittenti piccole e non commerciali, l’autofinanziamento non riesce infatti a coprire le spese. Lo conferma mons. Juan María Agurto Muñoz che - nella sua ve- ste di successore di mons. Ysern come vescovo di Ancud - è il proprietario della radio. «In questi 32 anni di vita ci sono stati momenti molto critici dal punto di vista finanziario. Ancora oggi l’episcopato deve continuare a fare sforzi immensi per trovare sovvenzioni attraverso iniziative interne e aiuti di organizzazioni internazionali, quali Adveniat (Ong cattolica tedesca, ndr) e la Conferenza episcopale italiana. In ogni caso, nonostante i problemi, la radio prosegue il suo cammino come mezzo di informazione, formazione ed evangelizzazione». Nell’anno 2014 A Radio Estrella del Mar lavorano circa 20 persone tra annunciatori, giornalisti, tecnici e amministrativi. Il palinsesto copre le 24 ore, 17 delle quali dal vivo. Sono previsti programmi comuni (in rete), MAGGIO 2014 MC 29 Storie e volti di Radio Nome emittente Radio “Estrella del Mar” Luogo Anno di nascita Cile: Ancud, isola grande di Chiloé 1982, 25 marzo Sito internet www.radioestrelladelmar.cl Nome emittente Radio “La Voz de la Selva” Luogo Anno di nascita Perù: Iquitos, Loreto 1992 Sito internet www.radiolavozdelaselva.org Nome emittente Anno di nascita Radio “Ucamara“ Perù: Nauta, Loreto 1992 Sito internet www.radio-ucamara.blogspot.com Nome emittente Radio “Monte Roraima“ Brasile: Boa Vista, Roraima Luogo Luogo Anno di nascita Sito internet Nome emittente Luogo Anno di nascita Sito internet Nome emittente Luogo Anno di nascita Sito internet 2002, 29 dicembre www.monteroraimafm.com.br Radio “Rio Mar“ Brasile: Manaus, Amazonas 1954, 15 novembre www.rederiomar.com.br Radio “Santa Clara“ Brasile: Floriano, Piauì 1994 www.radiosantaclara.com.br MC ARTICOLI ma anche alcuni spazi gestiti autonomamente da ogni singola stazione. Dato che il sostegno fondamentale arriva dalla Chiesa, la domanda è conseguente e non può non essere evitata: in quanto radio cattolica, Estrella del Mar è libera di esprimersi su qualsiasi argomento o, a volte, dove praticare una sorta di autocensura? Padre Contreras risponde con decisione: «Alla radio non si nasconde né si proibisce alcun tema. Noi chiediamo soltanto a giornalisti e annunciatori di trattare le informazioni senza manipolarle. Dare le informazioni, però sempre cercando di valorizzarne gli aspetti positivi, evitando morbosità e cattive intenzioni. In questo modo rispettiamo e siamo rispettati». Da anni il Cile è tornato alla democrazia. Chiediamo se i rapporti con la politica siano tranquilli. «Direi - risponde il direttore di Estrella del Mar - che non abbiamo problemi particolari con i politici locali. Noi cerchiamo di essere aperti a tutti e di essere giusti. Quando poi vediamo delle ingiustizie, le denunciamo. Con chiarezza e con prove argomentate». Paolo Moiola (fine prima puntata - continua*) IN ARCHIVIO: La Colifata (Buenos Aires, Argentina), Payumat (Santander de Quilichao, Colombia), La Voz de Caynarachi (Barranquita, Perù) sono le altre radio latinoamericane di cui MC ha scritto (settembre 2009). * NELLA PROSSIMA PUNTATA: saremo a Nauta, nell’Amazzonia peruviana, a visitare radio «Ucamara» (l’emittente degli indios kukama). # A destra: Luis Eugenio Gonzáles (con gli occhiali) e Clemente Becerra nello studio di registrazione di Radio Estrella del Mar, a Castro. Sotto: la sede di Castro di Radio Estrella del Mar. MAGGIO 2014 MC 31 Pillole « Allamano» contro il logorio della vita moderna a cura di Ugo Pozzoli 4. UNA SCELTA CONTROCORRENTE: LA MANSUETUDINE COME STRADA DI TRASFORMAZIONE l termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Bernie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità. In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via. are una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro. Chi urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbom- A P 32 MC MAGGIO 2014 bare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa»…). «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra ma bensì sottomettere il nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni. È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo. Non dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante. MC RUBRICHE Il beato Giuseppe Allamano, già anziano, nella sua casa a Rivoli. La sua villa era meta privilegiata degli studenti della Casa Madre di Corso Ferrucci (allora Via Circonvallazione) durante le passeggiate del mercoledì. Anche le giovani suore in formazione vi si recavano spesso e volentieri. La speranza era sempre quella di incontrarlo, ed egli si premurava di far trovare ai suoi giovani, e anche famelici, ospiti frutta di stagione e magari anche un buon bicchiere di vino. Ma il regalo più bello era incontrarsi con lui, padre mite e buono, che aveva sempre una parola giusta per ciascuno e soprattutto quello sguardo pieno di dolce fermezza che sapeva arrivare al cuore. iuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione». Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore questo si verifica. Chi suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior G profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti, atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine scriveva il filosofo torinese è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano. Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto erede della terra. Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», MAGGIO 2014 MC 33 Pillole « Allamano» esattamente come, da laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio. ttraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia. Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicura- A # Questa foto scherzosa di seminaristi missionari degli anni Trenta, può forse rappresentare il mite secondo gli stereotipi di una certa mentalità, sicuramente non secondo il pensiero del beato Giuseppe Allamano. mente questa affermazione nasce dall’esperienza personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine sono le sue parole (…) Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470). Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani. Ugo Pozzoli TURISMO: ULTIMA SPIAGGIA DELL’ETERNA GIOVINEZZA MALINDI PARADISE! PER CHI? IN COLLABORAZIONE TRA REDAZIONE FOTO DI STEFANO LABATE «OUT OF ITALY» E REDAZIONE MC «OUT OF ITALY» GLI ITALIANI IN KENYA DI REDAZIONE MC n Kenya vive una numerosa comunità italiana. Probabilmente più di tremila persone, visto che tale è il numero necessario per costituire i Comites (Comitati per gli Italiani residenti all’estero). La comunità è variegata. Oltre a missionari e missionarie (oltre 500 fino a pochi anni fa), ci sono gli Italiani nati in Africa (Etiopia, Eritrea e Somalia) che si stabilirono nel paese dopo la guerra; tra di essi diversi ex soldati che, finita la prigionia, trovarono lavoro nelle fattorie o iniziarono attività in proprio. Il numero dei «vecchi» italiani, un tempo così alto da avere una propria parrocchia italiana con sede a Nairobi sotto la responsabilità dei missionari della Consolata, oggi è molto ridotto anche per semplici ragioni anagrafiche. Ci sono poi quelli arrivati con le grandi compagnie industriali italiane come Agip, Alitalia, Impresit e altre, e si sono stabiliti nel paese impegnandosi nell’industria, nell’edilizia e nei servizi. E c’è il personale dell’ambasciata e dei vari organismi internazionali, essendo Nairobi anche sede dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’Ambiente. Questo personale è in continuo cambiamento e movimento. Non mancano dei pensionati che si ritirano in Kenya per passare gli ultimi anni della loro vita in un clima mite come quello dell’altopiano di Nairobi. C’è anche, purtroppo, un piccolo gruppo di persone fuggite dalla giustizia italiana e discretamente mimetizzate nel vasto mondo degli espatriati. Con loro prosperano anche i cacciatori di fortuna, gli amanti dell’avventura, gli impresari senza scrupoli, gli approfitattori, i mafiosi... I Malindi e sulla costa da Lamu a Mombasa vive una nutrita comunità di espatriati italiani. Accanto ai residenti di lungo corso, ci sono i nuovi arrivati, come quelli che decidono di provare a investire nel paese, a ragion veduta o ammaliato da ingannevoli passaparola. Ci sono poi i turisti: quelli che vanno a Malindi regolarmente, magari ospiti di amici residenti, quelli che vanno nei villaggi vacanze coi viaggi organizzati che promettono A 36 MC MAGGIO 2014 mare e avventure nei favolosi parchi naturali, e quelli che sbarcano alla ricerca della vacanza esotica e magari trasgressiva. Una comunità variegata. Alcuni residenti storici della costa, che mal soffrono la presenza di mafiosi e investitori senza scrupoli, hanno fondato una decina di anni fa il periodico «Out of Italy, la voce italiana dall’Africa», una rivista di 48 pagine a colori che viene pubblicata senza una cadenza troppo fissa. Il suo direttore è Franco Nofori, un italiano ormai ultrasessantenne, vivace, schietto, un po’ vecchia maniera e attaccato ai valori di un tempo, con un buon senso dell’humor e dell’autoironia. Da alcuni anni è un attivo membro del Comites (eletto dagli iscritti all’Aire, il registro degli italiani residenti all’estero) e collabora col consolato di Malindi per risolvere i problemi di tanti connazionali, turisti e non. n questo dossier a molte mani, riprendiamo, e integriamo, alcuni articoli di «Out of Italy» che stigmatizzano uno dei tratti più negativi della presenza europea sulla costa del Kenya: il turismo sessuale. In un italiano colloquiale, qualche volta anche irriverente, con un po’ in autocelebrazione e qualche generalizzazione, forse nell’ansia di strizzare l’occhio ai propri lettori e di distanziarsi da quegli «altri» italiani che umiliano il nome del nostro paese, gli autori mettono a nudo una triste realtà. Pur non condividendo tutto quello che scrivono, riteniamo interessante leggere come essi stessi vedono quel pezzo di Kenya. Redazione MC I DOSSIER MC MALINDI LA VOCE DEGLI ONESTI NON SOLO FACCENDIERI (SULLA COSTA EST) DI FRANCO NOFORI Chi sono gli «altri» italiani di Malindi? E in che modo si parla di loro? Un vecchio italiano ci presenta il suo punto di vista, appassionato e anche orgoglioso. La voce di uno che vive sulla costa keniana da oltre 30 anni e ha forse perso un po’ il contatto con la realtà di corruzione e degrado che attanaglia anche il nostro paese. ono tanti eppure si notano poco. Non affollano bar e discoteche, né si acconciano come i grotteschi simulacri di stagioni irrimediabilmente perdute e irripetibili. Non denunciano i connazionali. Non ingrassano gli avvocati locali con liti esasperanti tra loro, conflitti da cui i contendenti escono sempre ammaccati e comunque sconfitti. Non annoverano nei loro libri paga poliziotti e giudici corrotti. Sono la linfa vitale che alimenta Malindi dando lavoro a migliaia di persone e alle loro famiglie. Sono loro che aiutano, senza ostentazione, la popolazione locale alla quale mettono a disposizione opportunità, scuole, ospedali, orfanotrofi. Non sono venuti a depredare il Kenya, né a tirare bidoni a connazionali sprovveduti. Hanno S investito qui il proprio denaro e i propri risparmi o, più semplicemente, sono venuti a vivere la stagione del meritato riposo dopo una vita di lavoro in Italia. Tutti loro, in diversa misura e con varie modalità, contribuiscono al fiorire di questa cittadina che ha ormai assunto un carattere squisitamente italiano. Questi ambasciatori d’Italia in Kenya, non portano vergogna al nostro paese, ma ci fanno sentire orgogliosi per l’intraprendenza, per la fantasia, e per l’ecletticità che ci sono da sempre peculiari. osa sarebbe Malindi senza di loro? La più diretta risposta la riceviamo dalla popolazione locale: «No Italians, no Malindi». Ed è una semplice verità. Quando il dovere di cronaca ci costringe a dare notizia di altri comportamenti che offendono la nostra dignità nazionale, siamo ben consapevoli che le prime vittime di queste immagini delete- C MAGGIO 2014 MC 37 rie e sventurate sono proprio loro: i nostri connazionali della Malindi sana che devono subire impotenti e incolpevoli il biasimo che ne deriva. Ma chi vuole andare oltre la superficialità dei giudizi approssimativi - spesso anche indebitamente malevoli - sa bene che nell’Italia malindina convivono due universi rigorosamente separati: quello dei faccendieri senza scrupoli, litigiosi, amorali e spesso anche grotteschi; e quello degli italiani onesti che hanno il solo torto di non fare notizia. Ma quanto valgono l’onestà e l’etica? Un giusto criterio di misurazione non può prescindere dalle condizioni dell’ambiente in cui questi valori si esprimono. È certamente meno difficile esprimerli in un paese retto dalla legalità e dal civismo che in un altro in cui la trasgressione è all’ordine del giorno e molto spesso addirittura gratificata. Qui la forza di conservare i propri principi raggiunge il vero eroismo. Franco Nofori © AfMC/ Gigi Anataloni Qui sopra: la cappella detta di san Francesco Saverio a Malindi, e (accanto) il cippo eretto nel 1914 in memoria dello sbarco di Vasco da Gama. | A destra: un bar con il nome di una nota emittente radiofonica cattolica, forse per rassicurare i clienti. 38 MC MAGGIO 2014 Malindi Non si conoscono esattamente le origini storiche di Malindi. I ritrovamenti archeologici testimoniano la presenza nella zona, fin dal IX secolo, di varie culture bantu simili a quella pokomo. A partire dal XIV secolo Malindi ha goduto di un periodo di forte sviluppo, legato anche al fiorire della tratta degli schiavi. Una delle piste carovaniere che attraversavano il Kenya arrivava proprio a Malindi, dopo essere passata sull’altopiano di Yatta e da Silaloni. La piazza che ora si trova accanto alla vecchia moschea era il mercato degli schiavi, e ha svolto questo ruolo sino agli inizi del XX secolo. Dell’antica Malindi si hanno notizie nelle cronache di viaggio dell’ammiraglio cinese Zheng He, che vi approdò nel 1414. L’esploratore portoghese Vasco da Gama visitò la città nel 1498 e qui ottenne i servigi di navigatori esperti che lo condussero fino a Kerala, in India. Nel 1541, il celebre missionario gesuita Francesco Saverio risiedette a Malindi per qualche mese. (da wikipedia.org) DOSSIER MC MALINDI incontri ravvicinati con ragazze locali VIVERE L’ULTIMA GIOVINEZZA DI FRANCO NOFORI Sono forse i racconti più comuni che si sentono sui turisti italiani a Malindi. il direttore di «out of italy» cerca di capire le cause intime del fenomeno del turismo sessuale praticato da uomini e donne anziani per dargli una spiegazione. immedesimandosi nel loro punto di vista, mettendo in evidenza i rischi, senza condannare troppo esplicitamente, senza dare voce alle condizioni di sfruttamento delle «studentesse» coinvolte, ma suggerendo una presa di distanza attraverso uno stile ironico e a volte sarcastico. a dovuto, per l’ennesima volta, recarsi al bagno perché la sua prostata ingrossata richiede continue attenzioni, e ora ritorna al tavolo con il passo un po’ rigido di chi è costretto a convivere con l’artrite e tutta una lunga serie di altri acciacchi acquisiti nel corso delle molte primavere. Il bicchiere di Tusker lo aspetta (la miglior birra kenyana, premiata in tutto il mondo, ndr), in barba alle limitazioni che gli imporrebbero la pressione alta e il diabete, ma che importa? Lui H sta vivendo l’ultima giovinezza e per nessuna ragione è disposto a sciuparla. Al tavolo c’è una splendida e giovane fanciulla nera: pelle lucente, candido bagliore di denti e sguardi ammiccanti carichi di prorompente sensualità. C’è anche un giovane rasta con le treccine non proprio pulite, ma sicuramente appariscenti. Questi ha il merito di aver organizzato l’incontro tra la bella «studentessa» africana e l’anziano muzungu (uomo bianco, in kiswahili; va notato MAGGIO 2014 MC 39 «Ragazzi di spiaggia» (beach boys) sulle spiagge di Malindi. La speranza di una rapida fortuna in un paese dall’altissima disoccupazione giovanile, attira sulla costa centinaia di giovani che, in cambio di una vita da gigolò, fatta magari contando bugie ai propri genitori, sperano di sistemarsi una volta per tutte alle spalle dei ricchi turisti in cerca di avventura. Molto diversa è la situazione delle ragazze, quasi sempre vittime di imbroglioni e trafficanti che le attirano sulla costa con false promesse di lavoro e poi le obbligano a prostituirsi con minacce e ricatti. che questa è una traduzione di comodo, perché in realtà il termine non si riferisce al colore, ma al fatto che la persona in questione «viaggia, va in giro e fa il turista», ndr). Si può non essergli riconoscenti? Siamo onesti. Chi di noi ultrasessantenni può attirare lo sguardo di una bella studentessa italiana mentre incrocia la nostra strada? Se non fosse per la regola fisica dell’impenetrabilità dei corpi, potrebbe passarci attraverso senza neppure accorgersi che esistiamo. È triste, lo so. Soprattutto quando si è ancora estimatori del bello e alcune pulsioni romantico sessuali fanno la loro comparsa tra i desideri. Ma guai a manifestarli nella terra di Dante, l’epiteto più grazioso che si potrebbe ricevere sarebbe un sonoro: «Guarda questo vecchio porco!». Lui, l’anziano, non ha neanche la possibilità di 40 MC MAGGIO 2014 DOSSIER MC MALINDI sfogarsi confidandosi con le persone che gli sono care. Certo non con la propria moglie, men che meno con la propria figliola. Allora al poveretto non resta che rifugiarsi tra i propri coetanei - almeno tra quelli che soffrono della stessa patologia - e lì, tra loro, sfogarsi a dovere liberandosi del magone che lo opprime. Attenzione, però, che non sentano i più giovani, perché trafiggerebbero il gruppo con sguardi disgustati, prorompendo nuovamente in un velenoso: «Ma senti che schifezze si raccontano questi vecchietti!». È vero. Tutto ciò è profondamente ingiusto. Non è colpa nostra se una natura birbante, irrispettosa e anche un po’ sadica, lascia che in un corpo malandato sopravvivano gli stessi identici desideri di un corpo e di un cuore giovani. E allora che si fa? Semplice: si emigra in Kenya, dove l’età non è un ostacolo e dove le belle «studentesse» non ci passano attraverso ma, anzi, ci arpionano con graziosi ammiccamenti. erto, lo spettacolo che forniamo non è dei più edificanti, ma in fin dei conti, chi se ne frega? Riscoprirsi giovani e ancora capaci di provare emozioni così intense, val bene il costo di qualche malevolo pettegolezzo. Così si emigra in Kenya. E si viene C qui con un forte desiderio di rivincita perché, sì, siamo un po’ più anziani, ma pur sempre uomini. Forse ancor più sensibili di un tempo ai piaceri del vivere, alle emozioni, ai sentimenti. Non siamo degli illusi, non pretendiamo travolgenti passioni, tutto ciò che cerchiamo è un po’ di tenerezza, e se questo ci costa qualche spicciolo, va bene lo stesso. Se la bella «studentessa» nera non cade in totale deliquio per noi, pazienza, purché ci dia solo un grammo d’affetto, anche se intriso di una certa dose di finzione. C’è davvero del male in questo? Dobbiamo proprio auto condannarci, come forse vorrebbero i molti benpensanti, a spegnerci nelle panchine dei parchi pubblici, tediati dalle insopportabili storie nostre e dei nostri coetanei ripetute all’infinito? Oppure assoggettarci alle litigate catarrose sui terrapieni delle bocciofile, sui tappeti verdi delle partite a scopa e dei «bingo» parrocchiali? No. Sarebbe un tramonto grigio che non meritiamo da questo mondo frettoloso e indifferente. Quel mondo l’abbiamo costruito noi con fatica e sacrificio e oggi per quelli che l’hanno ereditato non siamo altro che ingombranti, inutili fardelli. Allora veniamo in Kenya. Ci rinnoviamo nel fisico e nello spirito. Andiamo a ballare, pescare, nuotare e se qualche bella «studentessa» ci offre la sua compagnia, l’accettiamo senza troppe remore. Abbiamo una sola vita da vivere, viviamocela tutta, e al meglio. mettiamo ora i panni dell’anziano turista, e torniamo in noi: tutto questo è umanamente comprensibile, ma ciò non toglie che comporti non pochi rischi. Guardiamo intanto alla nostra situazione familiare: siamo rimasti soli al mondo? Siamo certi che la «studentessa» non sia sfruttata o spinta tra le nostre braccia dall’indigenza più che dall’amore per noi? Allora non ci sono problemi, salvo quelli che possiamo auto infliggerci con comportamenti maldestri; ma se, ad esempio, abbiamo una famiglia e dei figli, le cose cambiano radicalmente. Abbiamo delle responsabilità e se è vero che il nostro diritto alla felicità (o a ciò che ci sembra tale) è indiscutibile, lo stesso vale per le persone che hanno con noi sinceri rapporti affettivi. Il nostro dovere è di non ferirli con comportamenti dissennati ed egoistici. Se della bella «studentessa» ci innamoriamo sul serio, abbiamo già fatto un passo ad alto rischio, ma se ci convinciamo che anche lei si è innamorata perdutamente di noi, allora ab- S MAGGIO 2014 MC 41 biamo scatenato un vero disastro. Per non perdere questo amore presunto accetteremo tutto, anche di fare forfait della nostra dignità, del rispetto di noi stessi, del nostro buon senso che la stagione dell’età d’oro avrebbe dovuto invece consolidare. Non avremo più un carattere, un’identità, una nostra determinazione. Come drogati, diverremo schiavi delle nostre illusioni, faremo scempio degli affetti più cari, quelli veri, quelli che hanno accompagnato per decenni il nostro vivere e dato un senso alla nostra personalità di genitori e di mariti. Ci abbruttiremo nella vergogna, nell’isolamento, spesso anche nella miseria, ultima condizione che spegnerà il bagliore delle nostre illusioni rispetto a quel mondo effimero che credevamo di aver costruito. E allora sì, ci ritroveremo davvero, e disperatamente, soli. ico questo perché vivo in Kenya da quasi 30 anni. Gli ultimi 10 dei quali come direttore del periodico Out of Italy e come consigliere del comitato degli italiani all’estero (Comites). Ho visto troppi epiloghi drammatici in cui queste effimere infatuazioni sono sfociate. Ho visto uomini maturi, rispettati e ritenuti saggi, perdere totalmente il senno e cacciarsi in situazioni di indicibile sofferenza. Alcuni hanno totalmente dilapidato il proprio patrimonio, perso l’affetto dei loro cari, qualche volta anche la libertà e la stessa vita. Parlo di uomini in senso lato, perché questo perverso fenomeno riguarda anche molte donne. Madri di famiglia, fedeli e responsabili, sulle quali nessuno poteva permettersi neppure la più piccola critica. Le ho viste franare nella più nera indigenza, ridursi a vivere in catapecchie dove, anni prima, non avrebbero neppure ospitato i propri cani. Le ho viste insultate, picchiate, brutalizzate dai loro «innamorati» locali, quelli dell’amore a prima vista esploso sui bagnasciuga, quelli con cui pianificavano di costruirsi una nuova, romantica esistenza. Molti connazionali, donne e uomini, caduti in queste irresistibili infatuazioni e nel tentativo di dare legittimità alla loro permanenza in Kenya, hanno dato fondo ai propri risparmi, alle liquidazioni maturate in una vita di lavoro, per «investire» in attività di cui non avevano la minima conoscenza in un paese nel quale appare tutto più facile e in cui «con pochi spiccioli si può fare tutto ciò che si vuole». Terribile errore! Diligenti ex tecnici ed ex impiegati, si trasformano d’incanto in imprenditori e naturalmente, per superare il problema della lingua, chi può dirigere al meglio la nuova attività se non il loro compagno (compagna) di cui hanno piena e in- D 42 MC MAGGIO 2014 Malindi KENYA Oceano Indiano Mombasa condizionata fiducia? E così si va avanti, finché i quattrini scarseggiano e la nuova attività produce montagne di debiti. A questo punto finisce, allora, la stagione dell’amore. Il nostro, la nostra, partner comincia a mostrarsi distante, indifferente, affatto disposto al sacrificio. A queste latitudini l’amore, pur in apparenza corrisposto, non si alimenta di belle frasi romantiche, ma di quattrini. E quando essi finiscono, finisce tutto. cco allora che queste tristi storie approdano sui tavoli della nostra ambasciata, dei consolati, del Comites, nella vana ricerca di una giustizia che giustizia non è, ma è soltanto l’umiliante ammissione della propria dabbenaggine. È vero, nessuno ha il diritto di giudicarci per le nostre scelte, ma noi sì che l’abbiamo su noi stessi. Allora usiamo quel briciolo di buon senso che ancora ci è rimasto e riscattiamoci. Franco Nofori E DOSSIER MC MALINDI Bei ragazzi sui Bagnasciuga di malindi AMMALIATRICI AMMALIATE DI MONICA, REDATTRICE DI «OUT OF ITALY» storie di amore vero, ma non troppo, dalle spiagge di malindi. donne di una certa età in cerca di compagni più giovani. il fenomeno è più esteso di quanto si immagini, e coinvolge «signore» di diverse nazioni europee. la scrivente, pur non facendo cenno al punto di vista della popolazione locale, biasima senza mezzi termini le «turiste» in questione. l’«amara tenerezza» che prova per quelle donne aguzzine e vittime, ci può far riflettere sulla grave solitudine di tanti anziani, ingannati dalle false promesse di eterna giovinezza del nostro mondo. o lasciato il Kenya 13 anni fa eppure ogni volta che ci torno continuo a restare sorpresa dalle storie «d’amore» che vi si intrecciano e da come questi travolgenti sentimenti - che lì sembrano travolgere più che altrove - si manifistino in immagini concrete, non del tutto edificanti, né di buon gusto. È davvero possibile che ultrasettantenni si convincano che i loro partner poco più che ventenni (maschi o femmine) si siano perdutamente innamorati di loro? A guardarli negli atteggiamenti che assumono si direbbe proprio di sì, ed è questa convinzione ad apparire del tutto sbalorditiva. Come donna è ovvio che la mia curiosità si indirizzi in particolare verso le appartenenti al mio stesso sesso. Signore eleganti, spesso facoltose, che combattono contro l’implacabile devastazione inflitta loro dagli anni e si attaccano con i denti e con le unghie a stagioni definitivamente H perdute. Sorde al senso del ridicolo, si agghindano ora come ragazzine ora come donne fatali, come quelle che agli inizi del secolo scorso venivano definite «maliarde»: spietate ammaliatrici che portavano uomini probi e teneramente ingenui alla totale rovina. Naturalmente quegli uomini più che ingenui erano deboli e psicolabili. Incapaci di governare gli istinti e di ordinare con responsabilità la scala dei propri valori di riferimento. ggi pare che un folto numero della versione odierna di quelle antiche maliarde, sia approdato in Kenya. Ma i fattori si sono curiosamente invertiti. Loro, oggi, non ammaliano più. Sono le maliarde a essere ammaliate. E da chi? Dal classico pilota con gli occhi azzurri che impazzava O MAGGIO 2014 MC 43 nei romanzi di Liala? Oppure dal virile, colto e generoso, dottore della Cittadella di Cronin? Macché! Il loro moderno ammaliatore è un beach boy, rasta semianalfabeta che si esprime in un idioma raffazzonato, compendio di diverse lingue europee spigolate con intuito istintivo e primordiale sul bagnasciuga delle candide spiagge coralline. Lui promette amore imperituro e le inonda di rancidi effluvi, frutto dell’olio di cocco che gli fa risplendere pettorali e bicipiti e di un’osservanza delle norme igieniche un po’ frettolosa e vanificata dal caldo e dal sudore. ov’è finito il saggio e lungimirante intuito femminile? Il rispetto della propria femminilità, della propria cultura? La donna matura, la donna in età avanzata, è uno scrigno di preziosità che proprio il trascorrere del tempo e l’esperienza di vita hanno via via valorizzato. Perché giocarsi tutto nelle vigorose membra di un ragazzotto tracotante per un quarto d’ora di spasimo professionalmente provocato? D È questo il vero «amore»? Quello che Dante definisce come «l’unimento spirituale de l’anima e della persona amata»? Sì, queste nonne che tentano di sfuggire dal ruolo che una imperturbabile natura continua comunque ad assegnare loro, in fondo suscitano una sorta di amara tenerezza. Hanno frainteso il vento dei cambiamenti e dell’emancipazione della donna. Hanno pensato che quell’emancipazione, oltre a restituire loro i diritti per troppi secoli negati, avrebbe restituito anche la gioventù perduta. E questa è forse la più triste delle illusioni. Monica Pagine precedenti: mappa di Malindi e reti sulla spiaggia. La pesca è una delle risorse economiche della regione, più sicura dell’agricoltura limitata da periodi di grande siccità. Qui a destra: ragazzi che giocano sulla spiaggia. La tentazione di guadagnare facilmente vendendo il proprio corpo è forte, soprattutto quando la povertà è impellente e un bambino in poco tempo può raccimolare molto più denaro di suo padre con intere giornate di pesca. La diocesi di Malindi Contro prostituzione, pedofilia e traffico di persone P edofilia, prostituzione e traffico di esseri umani sono problematiche presenti nella diocesi di Malindi e difficili da trattare. Necessitano anche dell’intervento del governo. Noi, come diocesi, abbiamo messo delle regole: ad esempio nessuno straniero può visitare o fare delle foto nelle nostre scuole senza permesso. Per il problema della pedofilia la diocesi ha un «Ufficio per la protezione del bambino» che si interessa dei casi che ci vengono segnalati. Vogliamo essere sicuri che giustizia sia fatta. Più difficile è per la prostituzione, perché occorrerebbe trovare un’alternativa appetibile per le persone coinvolte, al fine di toglierle dalla strada. Molte prostitute arrivano dall’interno del paese proprio per fare quello e guadagnare denaro alla svelta. Ci scontriamo poi con la difficoltà di convincere i bambini delle nostre scuole che l’educazione è importante per il loro futuro. Loro vedono che quelli che sono andati a scuola hanno difficoltà a trovare un lavoro, mentre quelli che hanno deciso di andare con uno straniero vivono vite migliori. 44 MC MAGGIO 2014 A livello operativo la diocesi di Malindi ha messo in campo programmi nei vari settori: educazione, micro finanza, dialogo e azione, genere e gioventù. Il settore educazione è fondamentale per inculcare nei ragazzi uno stile di vita responsabile fin dalla tenera età. In particolare parliamo loro di autoprotezione, sessualità, relazioni, droga, abuso di sostanze, Aids e altre malattie. Inoltre lavoriamo insieme con gli insegnati per un approccio globale di protezione dell’infanzia. Anche coltivare i temi spirituali di allievi e studenti è importante. Con il settore micro finanza si cerca di aiutare le famiglie a prendersi cura dei figli, in modo da ridurre i rischi di prostituzione. Abbiamo anche un programma di sensibilizzazione per mettere in guardia sui problemi del matrimonio precoce. Sugli stessi temi cerchiamo di interessare non solo i nostri studenti ma anche i giovani in generale con il nostro «Ufficio per la gioventù». padre Ambrose Muli parroco della cattedrale di Malindi DOSSIER MC MALINDI turismo sessuale, mercato senza frontiere WANJA, LE ALTRE E GLI ALTRI DI REDAZIONE MC * il turismo è una delle risorse principali del Kenya, contribuisce a circa il 25% del Pil. lo splendore della costa, la bellezza dei suoi parchi, il colore delle tradizioni tribali attirano turisti da tutto il mondo. richiamano grandi investimenti, danno lavoro a migliaia di persone, ma nascondono diversi aspetti negativi. uno di questi, il più vistoso, è il turismo del sesso che prospera nell’inerzia legislativa nazionale e internazionale e nella corruzione alimentata dai facili guadagni. coinvolgendo anche i minori, sia bambine che bambini. differenza della maggior parte delle ragazze della sua età, la ventiquattrenne Mary Wanja è fortunata ad avere un lavoro come segretaria in una ditta privata. Ma come molte altre ragazze, durante i fine settimana Mary va spesso nei club di Malindi con lo scopo di abbordare turisti che cercano sesso e divertimento. Un numero sempre crescente di vacanzieri visita il Kenya specifica- A tamente per sesso, specialmente nelle città costiere (Diani, Kilifi, Mombasa e, appunto, Malindi). La maggior parte dei turisti sessuali ha un’età compresa tra i 45 e 65 anni. Spesso sono divorziati o pensionati che cercano di riaccendere le loro vite sessuali. Molti di essi hanno rapporti con adolescenti, percepiti, tra l’altro, come «sicuri» da Hiv. Al riguardo, Ecpat - l’organizza- MAGGIO 2014 MC 45 A sinistra: turismo sano e rilassante in un campo da golf nei dintorni di Malindi. Qui: strada nel centro di Malindi, cittadina senza particolari bellezze architettoniche. zione internazionale che lotta contro lo sfruttamento sessuale dei minori - sfata anche alcuni luoghi comuni: soltanto una minima parte dei turisti sessuali sono patologici, la maggior parte di essi è semplicemente in cerca di nuove emozioni, approfittando delle situazioni. Come in molti paesi asiatici e latinoamericani, anche in Kenya il sesso con minori, sia bambine che bambini, è molto richiesto. Secondo varie statistiche, sulla costa del paese africano oltre il 30% degli adolescenti sono coinvolti in modo saltuario nel lavoro sessuale. Più del 10% delle ragazze hanno relazioni sessuali prima dei 12 anni. Oltre il 35,5% degli atti sessuali tra minori e turisti avviene senza l’utilizzo di preservativi. e i dati sono scarsi e spesso non verificabili, i fatti sono però sotto gli occhi di tutti. Padre Kizito Sesana, noto missionario comboniano, che ha avviato case per i bambini di strada a Nairobi, ha raccontato: «Qualche tempo fa, con un amico, visitavo la costa nord di Mombasa, normalmente soprannominata “la costa tedesca” a causa della forte presenza di turisti da quel paese. Era marzo e non c’erano molti turisti. In un tardo pomeriggio siamo entrati in un bar a prendere una birra fresca e siamo stati colpiti dalle strane coppie sedute ai tavoli: uomini bianchi S 46 MC MAGGIO 2014 anziani con ragazze molto giovani o ragazzi adolescenti; donne bianche anziane con ragazzi che avrebbero potuto essere i loro figli o i loro nipoti. Nel giro di poco tempo, siamo stati avvicinati dapprima da una serie di ragazze e poi di ragazzi. Siamo andati via senza finire di bere». Il turismo del sesso si è strutturato in una rete complessa e variegata che include tour operators, hotel, affittacamere, club, bar, sale di massaggio, parrucchieri. Robert Nyagah, ex giornalista, oggi operatore turistico, pone alcuni interrogativi: «Come differenziare i turisti genuini da quelli che vengono semplicemente per sesso, e come differenziare una ragazza giovane che sta cercando un compagno per la vita (turista o no) da una prostituta?». ppure, il fascino del turismo del sesso è reale e crescente. I soldi facili e la disoccupazione stanno portando sempre più ragazze - anche sposate - sulla strada della prostituzione. Ci sono casi in cui famiglie povere incoraggiano i loro bambini a uscire per strada «a offrire ospitalità agli stranieri» per mettere cibo sulla tavola. A ciò va aggiunto un problema culturale. Presso molte comunità una ragazza di 13 anni è già in età da matrimonio. La gente locale non capisce quindi dove stia il problema. E DOSSIER MC MALINDI Per un sorriso: discriminazioni stradali Occhio al poliziotto I l Comitato degli italiani all’estero (Comites), organismo che assiste gli italiani nel mondo, riceve molte proteste da parte di concittadini residenti sulla costa del Kenya che lamentano una disparità di trattamento tra loro e gli autoctoni per quanto attiene alle infrazioni, soprattutto a quelle concernenti la circolazione su strada. «Gli africani viaggiano senza casco in motocicletta, senza cinture di sicurezza in auto, sorpassano in curva e sui dossi, parcheggiano dove pare a loro, caricano i loro mezzi all’inverosimile… Tutto sotto lo sguardo indifferente della polizia, ma se noi commettiamo anche la più piccola di queste infrazioni, ecco che scattano l’arresto, le manette e le estenuanti comparizioni in corte. Questa non si chiama discriminazione?». S Il commercio non è limitato alle ragazze: anche i ragazzi vanno alla ricerca di fortuna. Molti giovani (la maggior parte dei quali ha interrotto la scuola primaria) hanno cambiato le loro vite stringendo amicizia con donne di mezza età europee. Il litorale kenyano è conosciuto per attrarre turiste divorziate o avanti con gli anni che cercano sesso, principalmente dalla Germania. La maggior parte di loro sono guidate dal mito della potenza sessuale del maschio africano e arrivano promettendo ai giovani keniani matrimoni e viaggi nei loro paesi. Accanto alla prostituzione volontaria, c’è anche una prostituzione indotta con l’inganno e la violenza. Esistono persone che tentano le ragazzine povere con la promessa di lavori, ma in realtà vogliono reclutarle per l’industria del sesso. Queste sono rinchiuse in case-bordello e costrette ad avere rapporti con clienti sotto la supervisione dei loro «datori di lavoro». Mentre il governo di Nairobi a parole disapprova il turismo sessuale e vieta quello infantile, le azioni di contrasto sono poche. Troppi sono i soldi in gioco. redazione MC * Liberamente tratto dall’articolo «Turismo sessuale in Kenya», pubblicato da www.promisland.it il 4 ottobre 2006, e da «Fight against child sex tourism needs a boost», pubblicato da Irin news, 28 aprile 2011 e da www.ecpat.net. ì. Dovremmo chiamarla proprio così e non si tratta di una gran rivelazione perché l’esercizio di queste differenze è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Basta guardare i piki-piki (motorette-taxi): nessuno indossa il casco. Né i guidatori né i passeggeri che spesso sono due, se non tre, spremuti come acciughe alle spalle del guidatore che e costretto a condurre il mezzo con il manubrio premuto sull’ugola. Non è del tutto vero, però, che la polizia se ne disinteressi totalmente. Qualche volta ferma anche loro e applica una modesta tassa-informale (il kitu-kidogo) oggettivamente rapportata alle loro tasche. È ovvio che, quando l’infrazione è commessa da un «viso pallido», l’interesse dei solerti controllori del traffico diviene molto più rigoroso, ma non direi che si tratta di vera e propria discriminazione basata sul colore della pelle, piuttosto di un giudizio pratico commisurato al portafoglio del trasgressore. C ome possiamo difenderci? Dobbiamo pretendere che tutti i trasgressori, bianchi e neri, incontrino gli stessi rigori della legge. Sarebbe giusto, ma anche estremamente faticoso e alla fine la nostra pretesa si rivelerebbe più spesso infruttuosa. Perché, allora, non fare la cosa più semplice e indolore: rispettare le regole e non metterci dalla parte del torto? Del resto, in nessuna parte del mondo, chi la fa franca infrangendo la legge, autorizza gli altri a fare impunemente altrettanto. Artemide (un italiano in Kenya dagli anni Sessanta) MAGGIO 2014 MC 47 In un GrovIGlIo dI ContraddIzIonI UN ALTRO TURISMO È POSSIBILE DI GIGI ANATALONI Malindi è una realtà dalle molte facce. Situata sul mare, con ampie spiagge coralline e acqua limpida, si è lasciata alle spalle il suo passato di crocevia del commercio degli schiavi, ed è diventata un rinomato centro turistico. abitata da una popolazione locale in prevalenza islamica, è ora una cittadina cosmopolita, non solo perché turisti di tutto il mondo (soprattutto italiani e tedeschi) vengono a godersi il suo mare, ma anche perché keniani di tutte le tribù vi si sono radunati nella speranza di raccogliere qualche briciola della grande torta. icordo bene una statistica: ogni giornoturista equivale a un giorno-lavoro per un keniano. Più turisti ci sono, più gente lavora. Niente turisti, niente lavoro. È una realtà che diventa drammaticamente evidente ogni volta che il turismo vacilla a causa di disordini, attentati terroristici o gravi eventi internazionali. Per questo il turismo è, in Kenya, al primo posto di ogni programma governativo. Malindi, in tale contesto, offre incentivi di prim’ordine: alle splendide spiagge associa, ad esempio, la vicinanza al Travo Park con la sua natura incontaminata. Incentivi che hanno dato il via a iniziative lodevoli, hotel e villaggi di prima qualità, e a una serie di servizi del tutto legittimi. Compreso un turismo socialmente responsabile che, appoggiandosi a Chiese e Ong locali e straniere, coinvolge i visitatori nel sostegno a progetti di sviluppo in favore della parte più povera della popolazione locale: scuole, dispensari, centri per bambini abbandonati e denutriti, esperienze pilota con i disabili, e tanto altro. Anima di questo turismo diverso spesso sono proprio i nostri connazionali che vivono sulla costa da anni, facendone la loro seconda patria. R 48 MC MAGGIO 2014 a dove il denaro corre a fiumi, la tentazione di travalicare, di corrompere, di prendere scorciatoie è sempre molto forte. Così Malindi attrae solo persone di sani principi e provata onestà. Speculazione edilizia, corruzione, gioco d’azzardo, pedofilia, prostituzione, escorts e droga hanno trovato un terreno fertile. A guadagnarci sono sia i cosiddetti investitori stranieri (si dice che la mafia ne abbia fatto un posto privilegiato per il riciclo del denaro) che le autorità locali, rese partecipi dei facili guadagni, nonostante ufficialmente sfoggino una probità a tutta prova. Se gli espatriati comprano, investono, corrompono, gli indigeni pensano a rifornire il mercato di «carne fresca». Salvo l’esplosione, di tanto in tanto, di qualche campagna anticorruzione o moralizzatrice, soprattutto nella vicinanza di elezioni. Ricordo alcuni episodi, che qui assumono un valore simbolico. Un medico italiano gode della fresca compagnia di una fanciulla locale per un mese pagando 100 dollari. Beneficiario della somma: il padre della ragazza. Ma non è tutto: il secondo anno lo stesso padre offre la seconda figlia, e in seguito M DOSSIER MC MALINDI la terza. Il tutto per la somma di 100 dollari per ognuna. Quale uomo non se ne sarebbe vantato con gli amici? Una bambina o un bambino di 10-12 anni con una prestazione o due la settimana guadagna più di suo padre che sgobba dodici ore al giorno in un cantiere, a pescare o a far da guardiano alle ville dei ricchi. E la famiglia è «contenta» perché almeno così tutti mangiano. Una maman ben vestita e piena di soldi, da aprile in avanti va nei villaggi più remoti in cerca di fanciulle che hanno appena saputo i risultati dell’ultimo anno di secondaria, e che non hanno la possibilità di continuare gli studi, per offrire loro un «lavoro sicuro sulla costa in hotel di rinomata fama». Risultato: pochi mesi dopo quelle giovani si trovano costrette a propstituirsi perché prigioniere di un raffinato sistema di sfruttamento, senza neppure la possibilità di dire la verità alle loro famiglie. Una studentessa universitaria, approfittando delle vacanze, va a «fare la stagione» sulla costa per pagarsi gli studi: la famiglia infatti si è «svenata» per pagare il primo semestre, ma ora non ha più mezzi per gli altri sette e la tesi finale. Un giovanotto di belle speranze di una tribù dell’interno lascia il suo villaggio di campagna dove non ha prospettive e sulla costa si trasforma in abile danzatore Maasai, mandando in visibilio il pubblico con danze autenticamente tradizionali. Una giovane ragazza corona il suo sogno di sposare uno mzungu e finalmente emigra legalmente in un paese europeo dove viene venduta a un ring di prostituzione. i questi «piccoli» fatti, di cui ho conoscenza diretta, ne avrei ancora molti da raccontare, ma credo siano sufficienti quelli citati per dire che quanto scritto nel dossier non è frutto di fantasia, ma un problema reale e preoccupante sia a livello keniano che internazionale. La Chiesa cattolica non sta a guardare. Le diocesi di Malindi (vedi box pag. 44) e di Mombasa, l’Associazione nazionale delle suore e diverse Ong, come Sol.Wo.Di (Solidarity with Women in Distress - vedi box), hanno programmi specifici D sia per prevenire che per curare e recuperare. Non è nostra intenzione puntare il dito contro il turismo in quanto tale. Desideriamo solo che coloro che vanno in vacanza in Kenya, o sulle sue coste, non siano ciechi, ma prima di tutto si rendano conto della situazione e vedano la realtà con occhi critici. Il turista non va in vacanza per fare il missionario e vuole qualità corrispondente ai soldi che paga. Più che giusto. Ma è anche giusto che sappia che moltissime delle persone che lavorano per il suo benessere sono pagate noccioline, spesso meno di 80 euro al mese, e senza potersi ribellare, perché ci sono altre centinaia di candidati pronti a prendere lo stesso posto. E non si stupisca il turista se è consderato un ricco agli occhi degli indigeni. La maggior parte di loro non può permetteri una vacanza, tantomeno in Europa. Prostituzione, pedofilia, traffico di persone, droga, gioco d’azzardo, corruzione... sono prodotti di importazione. Essi hanno attecchito bene, certo, ma prosperano perché la domanda è alimentata da un mondo in cui con i soldi si pensa di potere avere tutto, anche le persone. Ma, ne siamo convinti, la maggior parte dei turisti hanno, come noi, in orrore queste aberrazioni, e vogliono che il turismo faccia del bene a tutti: a chi ospita e a chi è ospitato, nel rispetto reciproco. Il Kenya è splendido, vale la spesa visitarlo. Con gli occhi aperti e il cuore in mano. Gigi Anataloni SolWoDi Solidarity with Women in Distress: Ong fondata a Mombasa nel 1985 dalla dottoressa suor Lea Ackerman, missionaria d’Africa, opera soprattutto con ragazze ad alto rischio tra i 6 e i 45 anni. Ha i suoi centri in Mombasa, Malindi, Kwale e Kilifi. Sol.Wo.Di crede che «ogni persona ha diritto ha una vita migliore. Per questo l’organzazzione è impegnata ad aiutare le prostitute, i bambini vittime di abusi sessuali e i sopravvissuti al traffico delle persone a ritrovare la propria dignità, migliorare il loro stato legale e socio-economico, e la loro salute per poter realizzare tutte le loro potenzialità umane». Aree di impegno: recupero e riabilitazione delle prostitute; contrasto al traffico di persone; prevenzione e cura dell’Hiv/Aids; protezione dei bambini; sostegno economico e football per ragazze. Contatto: www.solwodi.co.ke MAGGIO 2014 MC 49 OSSIER FINE CILE © Comando Bachelet Testo e foto di PAOLO MOIOLA Dallo scorso marzo, il palazzo della Moneda, sede della presidenza, ospita di nuovo Michelle Bachelet. Nella capitale cilena abbiamo incontrato il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, che ci ha raccontato il «suo» Cile: da Salvador Allende al generale Pinochet fino al ritorno della democrazia. Con i suoi problemi: le troppe diseguaglianze, la questione dell’educazione, la lotta dei Mapuche. VIAGGIO IN CILE / 1 «BUON LAVORO, S PRESIDENTA» antiago del Cile. Siamo arrivati in anticipo. C’è tempo per guardarsi attorno. La zona è residenziale e la via alberata, dando coerenza al nome del municipio: Ñuñoa, in mapudungún (la lingua mapuche), significa «luogo dell’iris». Al vicino incrocio lo sguardo corre verso un grande cartello della recente campagna elettorale. «Más áreas verdes. Todos con Michelle», recita lo slogan scritto accanto al volto della signora Bachelet, appena eletta presidenta. È ora di suonare il campanello. Entriamo in un curatissimo giardino, posto tra una chiesetta in pietra e una casa a un solo piano, elegante, ma molto semplice. È la residenza dell’arcivescovo di Santiago del Cile, mons. Ricardo Ezzati Andrello, che ci accoglie con un ampio sorriso. # Dicembre 2013: incontro tra mons. Ezzati e Michelle Bachelet, appena eletta presidente per il periodo marzo 2014-marzo 2018. Attraversando l’Atlantico Nato in un piccolo paese del vicentino, all’età di 18 anni, sotto l’egida dei salesiani, Ricardo Ezzati salpa dal porto di Genova alla volta del Cile. È il 1959. Dopo gli studi (Quilpué, Roma, Strasburgo) e l’ordinazione sacerdotale, si muove tra Valdivia, Conceptión e Santiago, ricoprendo vari incarichi e con sempre maggiori responsabilità. «La mia - racconta nel salotto dove ci siamo accomodati - è stata una strada di pellegrino, avendo dovuto cambiare tenda molto sovente»1. Il suo lungo percorso cileno ci consente di toccare molti argomenti. Negli ultimi 50 anni il Cile è passato dalla breve stagione di Salvador Allende alla lunga dittatura del generale Pinochet, fino al ritorno della democrazia. Il paese ha ottenuto importanti successi economici, con elevati tassi di crescita (4,2% anche nel 2013). Tuttavia, rimane uno dei più diseguali del mondo: l’1% più ricco s’intasca il 31% dei redditi. La lista MAGGIO 2014 MC 51 CILE 2014 dei 1.645 miliardari mondiali, stilata da Forbes2, conta 12 cileni, appartenenti all’oligarchia storica (Fontbona, Horst, Matte, Falabella, Angelini Rossi, ma anche Piñera, il presidente uscente). «È vero - conferma mons. Ezzati -: nel paese esiste un grande divario sociale tra persone che non hanno niente e vivono nella povertà (se non proprio nella miseria) e un gruppo minoritario di cileni che vive nell’abbondanza. Nel settembre 2012, in una lettera pastorale3, come vescovi abbiamo detto che lo sviluppo del Cile non può essere centrato soltanto su valori economici e soprattutto che esso dovrebbe essere molto più partecipato, più solidale, più giusto. Questo è un paese di molte speranze ma anche di tantissime sfide». Sfide che dovranno essere affrontate da Michelle Bachelet, vincitrice delle ultime elezioni con Nueva Mayoría, la coalizione di centrosinistra. Alla fine del primo mandato, nel marzo del 2010, lei aveva lasciato La Moneda con un alto indice di approvazione dei cittadini. Oggi Bachelet ha più # Sotto: l’incontro di dicembre 2013 tra Michelle Bachelet e i vescovi cileni, capeggiati da mons. Ezzati. esperienza, ma anche più aspettative da soddisfare. Ha affrontato la campagna elettorale sotto lo slogan Chile de todos, promettendo più ospedali pubblici, più educazione pubblica, più democrazia e diritti umani4. Mons. Ezzati ha incontrato la presidenta eletta il 16 dicembre. Che vi siete detti?, domandiamo. «Dato che la sua coalizione va dal partito comunista alla democrazia cristiana, le abbiamo chiesto di non avere il timbro di un partito o di una determinata ideologia, ma soltanto quello del bene comune. Le abbiamo chiesto che la sua politica sia illuminata dai grandi valori dell’umanesimo. Le abbiamo chiesto di essere presidente di tutte e tutti i cileni e di mettere il potere al servizio dei poveri e di quelli che hanno più bisogno come gli anziani e i bambini. Abbiamo infine parlato di temi molto concreti: la giustizia distributiva, la famiglia, l’educazione». Già, l’educazione, tema caldo, caldissimo nel paese. «Capisco gli studenti» Il Cile ha conosciuto molte riforme dell’educazione. Quella di Allende - si chiamava «Scuola nazionale unificata» (Escuela nacional unificada, Enu) - non vide mai la luce. Poi ci furono le riforme di Pinochet - del 1981 e del 1990 (quest’ultima approvata nell’ultimo giorno della dittatura) -, che portarono a una privatizzazione dell’istruzione. Infine, nel 2006 Michelle Bachelet varò una riforma (legge 20370 o Lge) che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto porre rimedio ai guasti delle precedenti. Senza però riuscirvi. Oggi la situazione è questa: la qualità dell’educazione pubblica è scarsa, mentre l’educazione privata è molto cara (e spesso inadeguata). Questo ha portato a un sistema educativo diseguale in cui molti studenti (e le loro famiglie) debbono indebitarsi per poter studiare. Ecco spiegato perché in Cile, in questi anni, le uniche, vere proteste sociali sono nate proprio tra gli studenti. Prima (era il 2006) tra i giovani degli istituti superiori, poi (2011) tra quelli universitari. La Chiesa cattolica cilena ha un ruolo rilevante nel sistema educativo del paese. Vogliamo capire se questo suo essere parte in causa costituisca un impedimento per prendere posizione. Mons. Ezzati, lei condivide le proteste studentesche? «Senz’altro. Magari con qualche distinguo sulle loro modalità. Una riforma del sistema © Comando Bachelet 52 MC MAGGIO 2014 MC ARTICOLI • 1942 - Nasce a Campiglia dei Berici, in provincia di Vicenza. • 1959 - Arriva per la prima volta in Cile per studiare a Quilpué (Valparaíso) nel noviziato dei salesiani. • 1970, marzo - Viene ordinato sacerdote. • 1971-1990 - Ricopre vari incarichi all’interno della Congregazione salesiana in Cile. • 1991-1996 - È in Vaticano alla Congregazione per la vita consacrata. • 1996, settembre - Viene ordinato vescovo di Valdivia, capitale della regione meridionale de Los Ríos. • 2001, luglio - Viene nominato vescovo ausiliare di Santiago del Cile. • 2006, dicembre - Viene nominato arcivescovo di Conceptión, capitale della regione del Biobío. • 2007, maggio - Partecipa alla Conferenza di Aparecida, dove lavora a stretto contatto con il cardinale Bergoglio, futuro papa Francesco. • 2010, settembre-ottobre - È «facilitatore del dialogo» nello scontro tra i Mapuche e il governo centrale. • 2010, dicembre - Viene nominato arcivescovo di Santiago del Cile e presidente della Conferenza episcopale. • 2014, 22 febbraio - Papa Francesco lo nomina cardinale. © Arz Santiago / Nibaldo Pérez CARDINALE RICARDO EZZATI ANDRELLO © Arz Santiago / Nibaldo Pérez Biografia essenziale # In alto: alcuni momenti della festa di Cuasimodo del 2012: la processione in costume e la visita ai malati. A destra: mons. Ezzati in abiti cardinalizi. In basso: scambio di doni con una donna mapuche nel giorno dedicato ai popoli nativi. © Arz. Santiago / Héctor Landskron © Arz. Santiago / Nibaldo Pérez CILE CILE / 1: Inizia il processo d’emancipazione dal dominio spagnolo. Il Cile dichiarerà l’indipendenza il 12 febbraio del 1818. Termina la secolare «Guerra de Arauco». Le terre dei Mapuche sono occupate in via definitiva dall’esercito cileno. La perdita territoriale è all’origine di un conflitto mai più sanato. CRONOLOGIA ESSENZIALE IL RITORNO DI MICHELLE Nel bene e nel male, alcuni dei protagonisti della storia cilena: Spagna, popolo Mapuche, Salvador Allende, Augusto Pinochet, Milton Friedman (e Chicago boys), Giovanni Paolo II, Sebastián Piñera, Michelle Bachelet. FEBBRAIO 1810 1879 1883 Le truppe cilene occupano l’allora porto boliviano di Antofagasta. Poco dopo l’azione, ad aprile, inizia la «guerra del Pacifico», che si concluderà nel 1883 con la vittoria cilena su Perù e Bolivia. Le conseguenze di quel conflitto si fanno sentire ancora oggi. (a cura di Paolo Moiola) un’istituzione con 26mila iscritti5 di cui oggi è gran cancelliere. «Noi crediamo - precisa subito che il diritto all’educazione sia un diritto essenziale, ma è un diritto che riteniamo vada di pari passo con il diritto alla libertà di educazione. Ogni persona ha cioè il diritto ad avere un’educazione di qualità ma, insieme a questo, ha anche il diritto di scegliere il tipo di educazione - di base, superiore o universitaria - in accordo con la propria concezione di vita». Anche Michelle Bachelet considera fondamentale la riforma educativa e l’ha posta tra le priorità del proprio programma di governo. Un programma ambizioso in cui si parla anche di un debito storico dello Stato e della società cilena nei confronti dei popoli indigeni. Questi - secondo i dati del censimento 2012 - costituiscono l’11% della popolazione totale (1,8 milioni su 16,3)6. L’etnia prevalente è quella mapuche con oltre 1,5 milioni di persone. educativo è però necessaria». Ezzati conosce bene il mondo dell’educazione, essendo stato rettore del collegio salesiano di Conceptión e poi professore alla facoltà di teologia della «Pontificia Università cattolica del Cile», 54 MC MAGGIO 2014 La lotta del popolo mapuche Nel settembre 2010, mons. Ezzati, all’epoca arcivescovo di Conceptión, accetta il ruolo di mediatore nel conflitto tra oltre 30 Mapuche - incarcerati con l’accusa di terrorismo e in sciopero della fame per protestare contro l’applicazione della legge antiterrori- NOVEMBRE SETTEMBRE 1970 1973 Le elezioni sono vinte da Salvador Allende, medico e socialista. Il generale Augusto Pinochet guida un colpo di Stato contro il presidente Salvador Allende. La Moneda, il palazzo presidenziale dove Allende è asserragliato, viene bombardata. Allende muore, forse per suicidio. Il golpe ha l’appoggio concreto di Washington e di Henry Kissinger, il potente segretario di stato Usa. È l’altro «11 settembre» della storia, il primo (ma meno conosciuto e riconosciuto). MC ARTICOLI Papa Giovanni Paolo II visita il paese. Saranno 6 giorni difficili e controversi. È l’anno della prima rivolta studentesca, quella denominata «rivoluzione pinguina» (a causa della tipica divisa degli studenti: giacca blu e camicia bianca). Nel 2011 ne seguirà una seconda, questa volta guidata dagli studenti universitari. MARZO APRILE DICEMBRE 1975 1987 1989 Il prof. Milton Friedman, economista statunitense, fondatore della «Scuola di Chicago», visita per una settimana il Cile e incontra il generale Pinochet. Nello stesso anno i cosiddetti «Chicago boys» (cileni graduati alla scuola di Friedman) entrano nel governo di Pinochet, mettendo in atto un forte piano di riforme economiche liberiste. 2006 Dopo 17 anni di dittatura, si tengono elezioni democratiche. Vince la coalizione di centro-sinistra (Concertación de partidos por la democracia), che governerà ininiterrottamente il Cile fino al 2010. I presidenti saranno: Patricio Aylwin, Eduardo Frei, Ricardo Lagos e Michelle Bachelet, prima donna presidente della storia cilena. Camila Vallejo, la più conosciuta leader del movimento studentesco, viene eletta deputata nelle liste del Partito comunista, alleato di Nueva Mayoria, la coalizione di centro-sinistra guidata da Michelle Bachelet. MARZO NOVEMBRE DICEMBRE MARZO 2010 2013 2013 2014 Inizia il mandato presidenziale di Sebastián Piñera, rappresentante della destra (Coalición por el cambio) e miliardario. Al ballottaggio per le presidenziali vince la candidata Michelle Bachelet, al suo secondo mandato. L’11 del mese assume la presidenza Michelle Bachelet. Anche la seconda carica del paese, la presidenza del Senato, è nelle mani di una donna: Isabel Allende Bussi, figlia dell’ex presidente Salvador Allende. # Qui a sinistra: il generale Augusto Pinochet e il presidente Salvador Allende (prima del golpe di stato dell’11 settembre 1973). A destra: incontro tra Sebastián Piñera, presidente uscente, e Michelle Bachelet. Sotto: La Moneda, il palazzo presidenziale, a Santiago. smo varata all’epoca di Pinochet e il governo centrale. «Io preferisco il termine di “facilitatore del dialogo”. I Mapuche mi chiesero di intervenire e il governo di Piñera accettò. Ebbi dialoghi lunghissimi con i capi mapuche. All’epoca la crisi si risolse, ma la situazione tra indigeni e governo rimane ancora oggi delicata, con manifestazioni di protesta e incendi nei casi più gravi. La mia esperienza mi ha fatto scoprire che tra gli indigeni ci sono due anime, due visioni. Quella predominante è pacifica e contemplativa vedendo nella natura il riflesso di Dio. I Mapuche assistono con grande preoccupazione alla scomparsa delle coltivazioni tradizionali per far posto a pini ed eucalpiti utilizzati nella produzione di cellulosa per carta. Ma non basta. Con le coltivazioni tradizionali spariscono anche le erbe medicinali, su cui si basa l’autorità delle machi, le guide spirituali mapuche (che in gran parte sono donne)». Cosa occorre fare, dunque, per risolvere il conflitto tra indigeni e governo centrale? «La prima cosa di cui c’è necessità è il riconoscimento politico dei Mapuche come popolo con la sua cultura e identità. E poi va risolto lo storico problema della terra». Se in territorio mapuche la terra è finita in mano alle imprese della cellulosa (soprattutto quelle delle MAGGIO 2014 MC 55 CILE CILE / 2: UNA MAPPA RIASSUNTIVA Le questioni principali La Costituzione cilena è, con poche modiancora quella promulgata l’11 marzo 1981 durante la dittatura del generale Augusto Pinochet. Nel programma di governo della presidenta Bachelet, pubblicizzato sotto lo slogan «Chile de Todos», è prevista (pagg. 30-35) una nuova Magna carta in cui democrazia e diritti umani siano più tutelati. Ma raggiungere questo obiettivo non sarà facile. POLITICA fiche, Il Cile è uno dei paesi al mondo che più ECONOMIA sono cresciuti negli ultimi 25 anni. Le diseguaglianze sociali permangono però molto ampie: l’1% dei cileni incamera il 31% del prodotto nazionale (contro - ad esempio - il 21% degli Stati Uniti). Il tasso di povertà è del 14,4%, che corrisponde a 2,5 milioni di cileni (dati Casen 2011). Le fortissime disparità economiche sono riassunte nell’alto valore dell’Indice Gini (52,1, secondo i dati della Banca mondiale e della Cia), che pone il paese ai primi posti nel mondo per diseguaglianza. Il salario minimo, fissato ad agosto 2013, è pari a 210.000 pesos cileni, pari a circa 270 euro. Il problema del- SALUTE ED EDUCAZIONE l ’e d u c a z i o n e pubblica - inefficiente, di scarsa qualità e soppiantata da quella privata - ha generato le due rivoluzioni studentesche nel 2006 e nel 2011. Il programma della presidente Bachelet prevede una riforma radicale basata sul principio che l’educazione non è un bene di consumo. Il problema della sanità pubblica è riassumibile in due dati: il Cile è agli ultimi posti tra i paesi dell’Ocse come spesa sanitaria (7,5% del Pil) e uno dei tre - assieme agli Stati Uniti e al Messico - in cui la spesa sanitaria privata supera quella pubblica. La questione ambientale è legata alle AMBIENTE conseguenze dello sfruttamento delle risorse del sottosuolo (ad esempio, il progetto PascuaLama nella regione di Atacama), dell’acqua (regione dell’Aysén, Patagonia cilena), delle risorse forestali (soprat- tutto in terra mapuche) e delle risorse ittiche (in particolare con riferimento alla pesca del salmone nelle acque dell’arcipelago di Chiloé). I Mapuche - il principale POPOLO MAPUCHE gruppo indigeno del Cile e il terzo per numero in America Latina - reclamano la restituzione delle loro terre a Sud del fiume Bío-Bío (erano circa 100mila kmq), terre finite in mano a latifondisti e compagnie forestali. Le loro azioni di lotta (dalla disobbedienza civile agli incendi) sono punite con l’applicazione della Legge anti-terrorismo 18.314 emanata nel maggio 1984 da Pinochet. Contro di essa si levano non soltanto le proteste dei Mapuche, ma anche quelle delle organizzazioni internazionali per i diritti umani e dell’Onu. Il Cile ha contenziosi territoriali aperti, sia con il Perù che con la Bolivia. In entrambi i casi si tratta di conseguenze della cosiddetta Guerra del Pacifico che - tra il 1879 e il 1883 - vide contrapporsi il Cile all’alleanza tra Perù e Bolivia. I due paesi andini uscirono sconfitti dal conflitto: il Perù perse la regione di Arica e la Bolivia il suo unico sbocco al mare, sul litorale del deserto di Atacama. Di recente (27 gennaio 2014) la Corte internazionale di giustizia de L’Aia (Paesi Bassi) ha deciso sul contenzioso tra Cile e Perù riducendo la sovranità del primo sul mare antistante i due paesi di un’area pari a circa 38mila km quadrati. Anche la Bolivia aspetta per il 2015 una decisione della Corte internazionale che le permetta di riacquistare uno sbocco al mare. Paolo Moiola RELAZIONI INTERNAZIONALI due # A sinistra: un cartellone della campagna elettorale di Michelle Bachelet promette di rafforzare la sanità pubblica. In alto: un artista contemporaneo, esposto al «Museo de la Solidaridad Salvador Allende» (a Santiago), non vede novità nella Costituzione cilena. famiglie cilene Angelini e Matte), anche lo sfruttamento di altre ricchezze naturali ha generato problemi. Come ad esempio nell’Aysén, regione della Patagonia cilena, in cui un consorzio internazionale (formato da Endesa-Enel e da una società della famiglia Matte) vorrebbe sfruttare le enormi risorse idriche per la produzione di energia elettrica. Al progetto si oppone la maggioranza delle popolazioni locali, guidata da mons. Luis Infanti della Mora, italiano di Udine, vicario apostolico dell’Aysén7. «La battaglia di mons. Infanti nella regione di Aysén è una battaglia etica più che economica. Ci sono istituzioni che lo appoggiano e altre che lo criticano. Tuttavia, anche nelle correnti di pensiero ecologico ci sono posizioni diverse. Il tema energetico è un tema forte. L’acqua sembra - dico sembra perché non sono un tecnico - dare la possibilità di produrre energia in forma più pulita. In Cile abbiamo molte centrali a carbone, che sono veramente inquinanti. Sono vissuto per tre anni a Conceptión dove siamo riusciti a fermare la costruzione di una nuova centrale termoelettrica a carbone, quella sì veramente inquinante. L’acqua è un bene comune che deve essere difeso opportunamente. D’altra parte, abbiamo anche bisogno di risolvere il problema energetico». «Francesco è un dono» Mons. Ezzati non vuole parlare soltanto del suo ruolo pubblico. Vuole essere anche e soprattutto un uomo di Chiesa. «Perché spiega - è una condizione in cui mi sento comodo e felice. Quella cilena non è una chiesa clericale, ma una chiesa di popolo, dove la partecipazione dei laici è molto forte. Qui a Santiago abbiamo una scuola di formazione dei laici (Instituto Pastoral Apóstol Santiago, ndr)8 che io ho seguito da vicino quando ero vescovo ausiliario della capitale, cui partecipano migliaia di persone. Sono tutti volontari che, dopo il lavoro, alla sera dedicano alcune ore alla propria formazione per essere attivi nelle rispettive comunità. E poi un secondo aspetto molto bello della chiesa cilena sono le espressioni della religiosità popolare, che costituiscono una ricchezza straordinaria, trasmessa di generazione in generazione. Ricordo, tanto per fare un esempio, la festa del Cuasimodo9 a Pasqua». Da un anno al Vaticano c’è un papa argentino. «Io ho avuto occasione di conoscere il cardinale Bergoglio in alcune riunioni del Celam (Consejo episcopal latinoamericano, ndr)10, ma soprattutto durante l’assemblea di Aparecida - era il maggio del 2007 -, dove eravamo nella stessa commissione, lui come presidente e io come membro. Dunque, ho potuto conoscere abbastanza bene questo dono di Dio alla Chiesa universale. Ho conosciuto un uomo molto umile, rispettoso del lavoro degli altri, un uomo di una spiritualità semplice ma allo stesso tempo molto profonda. Una persona di grande fede e dal # A sinistra: la Cattedrale di Santiago con un furgone di carabineros in primo piano. In alto: la pubblicità di un’università privata, a Santiago. MAGGIO 2014 MC 57 CILE # Santiago del Cile: la statua di Salvador Allende in Plaza de la Constitución a lato del palazzo de La Moneda. come “nemici della patria e marxisti” semplicemente perché un libro, destinato alla scuola superiore, parlava del cristiano nel mondo facendo riferimento a problemi molto concreti: diritti umani, giustizia distributiva, armamenti. Quel periodo è passato, anche se ci sono ferite che rimangono e che soltanto con il tempo si potranno rimarginare». Paolo Moiola (fine prima puntata - continua*) NOTE 1 - Questa intervista a mons. Ezzati si è tratto umano veramente squisito. Considero veramente una grazia del Signore che lui sia il vescovo di Roma. Anche perché papa Francesco porta alla Chiesa universale il respiro di una Chiesa che, dopo 500 anni di storia, può offrirci molto». Una Chiesa, quella latinoamericana, che ha proposto, tra l’altro, una teologia tanto affascinante quanto foriera di discussioni interminabili, polemiche feroci, separazioni dolorose. Ci riferiamo alla teologia della liberazione. «Come tutte le teologie, anche quella della liberazione ha una propria storia. I documenti della Congregazione per la dottrina della fede parlano di una teologia della liberazione necessaria e di una influenzata da idee sociopolitiche. Dico questo senza voler fare una critica, perché da sempre la storia della salvezza s’incarna nella storia concreta delle persone e dei popoli. Io credo che la teologia della liberazione, 58 MC MAGGIO 2014 quella più autentica, abbia dato un apporto significativo alla Chiesa universale». Le ferite del passato La teologia della liberazione si diffuse nei primi anni Settanta. Proprio negli anni in cui ci fu, tra l’altro, il golpe di Augusto Pinochet contro il governo socialista di Salvador Allende. Mons. Ezzati non si tira indietro quando gli chiediamo di commentare quel periodo storico. «Io posso dire che, durante gli anni di Unidad Popular11, c’erano grossi problemi. Quando ci fu il colpo di stato si pensava che sarebbe durato pochi giorni. Invece si trasformò in una dittatura, dove i diritti umani furono calpestati e si generò molta ingiustizia. Allora ero un giovane e insignificante prete di periferia, ma anch’io vissi momenti difficili. Nel 1978, con un gruppo di preti elaborammo dei testi scolastici di educazione religiosa. Fummo denunciati svolta a Santiago del Cile prima che si conoscesse la sua nomina a cardinale, avvenuta lo scorso 22 febbraio. 2 - L’annuale lista di Forbes, uscita nel marzo 2014, quest’anno comprende 1.645 persone. Si veda: www.forbes.com/billionaires. 3 - La lettera pastorale, uscita il 27 settembre 2012, è titolata Humanizar y compartir con equidad el desarrollo de Chile. Essa è scaricabile dal sito della Conferenza episcopale cilena: www.iglesia.cl. 4 - Il programma di governo di Michelle Bachelet si può scaricare da: michellebachelet.cl/programa. 5 - I siti corrispondenti: Università cattolica, www.uc.cl; Università del Cile, www.uchile.cl; Collegio salesiano di Conceptión, www.salesianoconcepcion.cl. 6 - Tutti i dati del censimento 2012 sono scaricabili dal sito: www.censo.cl. Va notato che sui numeri dei popoli indigeni (sono 9 quelli riconosciuti), e in particolare dei Mapuche, non c’è concordia. 7 - Si legga: Luis Infanti de la Mora, Dacci oggi la nostra acqua quotidiana, Emi, Bologna 2010. 8 - Il sito: www.inpas.cl. 9 - Originaria dell’epoca della colonia, la festa di Cuasimodo si celebra la domenica successiva alla Pasqua. 10 - Il sito: www.celam.org. 11 - Nome della coalizione dei partiti di sinistra che portò alla presidenza Salvador Allende. * NELLA PROSSIMA PUNTATA: la visita all’incredibile «Museo della memoria e dei diritti umani» di Santiago; l’intervista con il vescovo della regione di Aysén, mons. Luis Infanti de la Mora, e altro ancora. SIRIA © Piergiorgio Pescali di PIERGIORGIO PESCALI Di Siria si parla molto meno di qualche mese fa. Ma i problemi generati dalla guerra civile sono ancora insoluti. In queste pagine Piergiorgio Pescali parla della situazione siriana con padre Pizzaballa, francescano, «custode di Terrasanta» dal maggio 2004. L’intervista è parte di un libro in via di pubblicazione. INCONTRO CON PADRE PIZZABALLA SILENZIO SULLA GUERRA «N oi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il meno possibile. Quindi io, ora, davanti a lei, sto contravvenendo a questa stessa scelta». Padre Pierbattista Pizzaballa sorride mentre si aggiusta il saio francescano. Lui, «custode di Terrasanta», è impegnato a mantenere viva l’attenzione verso la Siria. Lo abbiamo incontrato per porgli alcune domande*. Dopo l’accordo per la distruzione delle armi chimiche di Assad (settembre 2013), si è arrivati a scongiurare il pericolo di un intervento militare internazionale diretto da parte dell’Europa e degli Usa (che forse non erano neppure troppo convinti). Si è però assistito anche a un allontanamento della Siria dall’attenzione mediatica. Questo da una parte ha favorito l’incancrenirsi del conflitto, dall’altra ha permesso ai paesi coinvolti - Turchia, Arabia Saudita, Qatar - di avere mano libera nelle loro politiche di intervento. Padre Pizzaballa, cosa sta accadendo in Siria? «In realtà in Siria non è cambiato molto rispetto ai tempi in cui se ne parlava. Cambia sul territorio la forza dei vari movimenti a seconda dei periodi, ma la situazione generale è immutata. Parte del territorio è sotto controllo governativo, parte sotto quello dei ribelli. E i ribelli sono una galassia indefinita di movimenti e sigle. A volte sono semplici bande criminali che utilizzano varie coperture per compiere scorrerie e ruberie. Risulta sempre più evidente che tra questi ribelli ci sono frange di stampo fondamentalista, che creano problemi a tutto ciò che si differenzia da loro. Ci sono, infine, milioni di profughi all’esterno e all’interno del paese». # In alto: padre Pierbattista Pizzaballa, francescano, custode di Terrasanta, durante una funzione religiosa. MAGGIO 2014 MC 59 SIRIA Le frange fondamentaliste sono formate da siriani o da stranieri? «In gran parte si tratta di stranieri. Provengono da Cecenia, Pakistan, Egitto, Libia, Afghanistan. Sono persone abbruttite dalla guerra, che hanno partecipato a tutti i conflitti di questi ultimi anni. Sono persone abituate alla violenza, che è divenuta il loro pane quotidiano. Sono persone che devono vivere, quindi saccheggiano; che devono fare sesso, quindi stuprano. All’inizio la rivolta non era questa: era una rivolta più popolare, pacifica, politica. Poi è degenerata in violenza». Chi sostiene, finanzia, appoggia queste frange estremiste? «Non posso dire con sicurezza chi siano le organizzazioni e i governi che le appoggiano, ma possiamo sicuramente vedere da dove entrano: dal Libano, forse anche dalla Giordania, ma soprattutto dal Nord, Turchia ed Iraq. Certamente godono dell’appoggio di Turchia, Arabia Saudita, Qatar, ma anche di alcuni paesi occidentali, in particolare quelli che hanno adottato la politica dell’anti-Assad a tutti i costi». Come sempre è il popolo che subisce le conseguenze di questi giochi politici. Come vivono i siriani? «Il popolo è la prima vittima di una guerra entro la quale saranno ridefiniti gli equilibri non solo della Siria, ma di tutta la regione mediorientale. Esiste, certamente, una divisione anche tra la gente: c’è chi sta da una parte, chi sta dall’altra. La maggioranza della popolazione vuole vivere tranquillamente la propria vita quotidiana. Spesso, però, a causa © newscattoliche.it della guerra si trova a dover scegliere da che parte stare. Volente o nolente deve comunque fare una scelta. Questa è la violenza della guerra siriana». La separazione tra alauiti pro Assad da una parte e salafiti-sunniti dall’altra rispecchia effettivamente l’attuale scacchiere della guerra civile siriana? «La realtà siriana, come tutte quelle mediorientali, è una realtà complessa. Possiamo, anzi, affermare che la complessità è ciò che caratterizza la vita di tutti i mediorientali e, oggi in particolare, dei siriani. Quindi, tutte le semplificazioni che, per vari motivi, vengono fatte hanno poco senso e contengono imprecisioni e ingiustizie. È anche vero, però, che quando devi presentare la complessità sei costretto a semplificare, altrimenti non riesci più a farti capire. Diciamo, quindi, che grosso modo è così, anche se tra gli alauiti ci sono persone che contrastano il regime e, viceversa, tra i sunniti ci sono coloro che appoggiano Assad. Non è, come si può capire, facile distin- guere nettamente chi è da una parte e chi dall’altra». Un embargo contro la Siria esiste di già, ma Europa e Stati Uniti vorrebbero rafforzarlo. I francescani, così come la Chiesa cattolica, sono sempre stati contrari all’embargo, e non solo della Siria. Quale altro tipo di pressione è possibile fare? «In genere l’embargo colpisce la popolazione povera, non certo chi ha i mezzi e il potere. Siamo sicuramente favorevoli all’embargo delle armi: se c’è gente che spara è perché qualcuno produce le armi, le vende e le distribuisce. Siamo, invece, contrari all’embargo su alimentari, medicinali, energia. Cos’altro si può fare, onestamente, non lo so. Non vedo delle soluzioni semplici. La situazione è talmente degenerata, le ferite sono talmente profonde che attualmente non vedo alcuna possibilità di pacificazione. Spero, comunque, di sbagliare». Israele in questo contesto dove sta, cosa fa, cosa spera di ottenere? © www.oltreradio.it MC ARTICOLI © www.ouvre-orient.fr © Patrick Garety - Olivia Crellin © Henri Garabed # Alcuni dei religiosi cristiani rapiti nella guerra siriana, probabilmente da gruppi di ribelli islamisti. In senso orario: Youhanna Ibrahim, Boulos alYazigi, Ignace Younan, Paolo Dall’Oglio. # Pagina accanto, in alto: le suore di Maalula, liberate nel marzo 2014; sotto: il tavolo dei partecipanti a Ginevra 2, la conferenza di pace sulla Siria (gennaio 2014). «Credo che per Israele cambi poco. Chiunque andrà al potere in Siria sarà comunque anti-israeliano». Assad, comunque, al di là dei proclami, non ha mai dato problemi a Israele. Quindi potrebbe, alla fin fine, rappresentare il male minore. «Assad è, per Israele, una bestia conosciuta. Penso che qualcuno in Israele speri di continuare a confrontarsi con ciò che già conosce, piuttosto che trovarsi a dover affrontare una nuova realtà». E i cristiani in tutto questo dove stanno e come vivono? «I cristiani non sono un popolo a parte. Lo dico sempre. I cristiani sono siriani come lo sono gli alauiti, i sunniti, i salafiti, gli sciiti. E, quindi, anche i cristiani sono coinvolti nella guerra con tutte le sue sfaccettature. Ci sono cristiani pro-Assad e cristiani contro Assad». I cristiani sono comunque una minoranza all’interno della Siria e sono concentrati in regioni, quelle settentrionali, dove i gruppi estremisti di cui parlava in precedenza, sono più attivi. Sono, quindi, più esposti alla violenza. «Bisogna fare attenzione a non generalizzare. La guerra distrugge tutto: chiese come moschee». E i francescani? «Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il meno possibile (quindi io, ora, davanti a lei, sto contravvenendo a questa stessa scelta). Non perché abbiamo paura. Noi non abbiamo paura di niente e di nessuno, ma solo perché siamo di fronte a una situazione talmente complessa che fare dichiarazioni, specie se di parte, serve a poco. Abbiamo fatto semplicemente la scelta di stare con la nostra gente e aiutarla nei bisogni quotidiani. In questa guerra non c’è una parte giusta e una sbagliata. Abbiamo, quindi, scelto di stare al nostro posto: con la popolazione. Non potremo forse portare la pace, ma potremo consolare qualcuno». Ci sono diversi religiosi nelle mani dei ribelli, tra cui il vescovo ortodosso di Aleppo, Boulos al-Yazigi, il siriaco ortodosso Youhanna Ibrahim e padre Paolo Dall’Oglio. Si sa qualcosa di loro? «No, non sappiamo nulla di preciso. Quello dei ribelli non è un gruppo omogeneo, ma una galassia indefinita ed è molto probabile che si passino i prigionieri da un gruppo all’altro». MAGGIO 2014 MC 61 SIRIA Il vescovo siro cattolico di Damasco, Ignace II Younan, prima del rapimento, aveva criticato Paolo Dall’Oglio per le sue dichiarazioni anti Assad, dicendo che - senza il partito Ba’ath (il partito del presidente, ndr) -, Mar Musa (il monastero di Dall’Oglio, ndr) non sarebbe mai potuto esistere. «Sono questioni complicate in cui è difficile entrare e giudicare. Credo che ciascuno debba fare la sua parte. I religiosi devono fare i religiosi. Il nostro compito non è quello di entrare in questioni politiche perché verremmo trattati da politici. Il nostro ruolo è, l’ho già detto, stare con la gente: aiutarla, sostenerla. Naturalmente non puoi essere cieco rispetto a ciò che sta accadendo. Devi sempre parlare di rispetto, di giustizia… ma alla fine in momenti così gravi qualunque cosa tu dica è sbagliata». Tra il 2011 e il 2013 le organizzazioni umanitarie cattoliche hanno raccolto 72 milioni di euro da mandare in Siria. Come è possibile, in una situazione così caotica, gestire questi aiuti? Come possono i donatori essere sicuri che questi aiuti raggiungano effettivamente le popolazioni a cui sono diretti? «I bisogni sono tanti e in questo momento di guerra non puoi pensare al futuro, ma al presente, a come aiutare la gente a continuare a esistere. Uno dei problemi prin- 62 MC MAGGIO 2014 cipali è quello dei profughi sia all’interno del paese sia all’esterno, nei campi, soprattutto in Giordania e Libano. Lì c’è bisogno di tutto. Occorre provvedere per l’assistenza immediata: medicinali, cure mediche, viveri, vestiti. All’interno della Siria i soldi vanno a tutte quelle famiglie che, a causa della guerra, debbono spostarsi. Bisogna cercare loro il luogo in cui andare, trovare nuove scuole, spesso i prezzi esplodono e c’è chi ne approfitta. Le chiese sono impegnate a dare un aiuto a queste famiglie nella maniera più coordinata possibile. Uno dei principali problemi è quello di unire e coordinare i vari gruppi all’interno della Chiesa, ma anche tra le varie organizzazioni umanitarie, tra le Ong. Altro non si può fare. Io, come francescano, posso garantire che, per quanto riguarda noi, siamo abbastanza precisi e ferrei tenendo presente che, prima o poi, qualcuno ci chiederà di rendere conto di quello che è stato fatto». I luoghi cristiani in Siria sono stati preservati? «Tutti i luoghi sono stati colpiti; non solo quelli cristiani, ma anche quelli musulmani. Al Nord in maniera molto più pesante che al Sud. Non possiamo dire se siano stati colpiti intenzionalmente o no. Di conseguenza è molto difficile dare un’interpretazione». # Due articoli sulla Siria pubblicati da MC a dicembre 2013. La copertina del libro di Susan Dabbous, rapita da estremisti islamici (Castelvecchi 2014). Un possibile scenario potrebbe prevedere la divisione della Siria in un Sud alauita pro-Assad e un Nord sunnita-salafita filo-turco. Se questa ipotesi si avverasse, lo spazio geopolitico della regione sarebbe diviso nettamente in due: un Sud filo-iraniano confinante con Israele (e quindi possibile teatro di scontro tra Tel Aviv e Teheran) e un Nord più radicale, ma più vicino all’Europa e filoturco. «Non posso prevedere come evolverà la guerra. Si parla, effettivamente, di questa possibile divisione e della creazione di una Grande Turchia, ma è ancora presto per dirlo. Anche i programmi più cinici devono fare i conti con il territorio. Quindi, in qualunque direzione si vada, non sarà mai una soluzione facile e pacifica». Piergiorgio Pescali (*) Questa intervista è tratta dal libro di PIERGIORGIO PESCALI, Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa, Add Editore, Torino, 2014 (www.addeditore.it). AfrICA-ITAlIA di MARCO BELLO EUgENIO SUSANI, TrA I «pAdrI» dEllA COOpErAzIONE IN AfrICA «LA MORTE NON ESISTE» «E ugenio Susani ci ha lasciato in una calda giornata di agosto. Lo avevamo sentito al telefono qualche giorno prima; con voce affaticata ma ferma ci aveva semplicemente detto: “Sto male. Speriamo di poterci rivedere per la nostra solita passeggiata. Ma in questo momento non sono in grado di prevedere nulla”. Poi le cose sono precipitate. In quelle parole ritrovo tutta la personalità di Eugenio: la sua sobrietà, il suo odio per la retorica, che non si smentisce neppure di fronte alle circostanze estreme. Il suo stile asciutto, og- gettivo, essenziale». Chi scrive è Riccardo Borghi, già assessore alla cultura al comune di Opera e ora presidente della Unitre locale. Borghi firma la postfazione del libro «All’ombra del baobab. Racconti di un volontario in Africa», raccolta di storie vissute e pensieri di Eugenio Susani. Amico dell’autore, ne fissa alcuni tratti essenziali: «Eugenio era uomo di grande rigore intellettuale, ma altresì capace di grandi passioni civili. (…) Quando ho conosciuto Eugenio, il primo pensiero è stato: “Ecco un vero illuminista”. Tale era la sua volontà di conoscenza, la concretezza, © AfMC / Marco Bello Negli anni Sessanta nascevano le prime Ong in Italia. E partivano i primi volontari. In quell’epoca si era un po’ pionieri della cooperazione. Così è stato Eugenio Susani. Tra i primi a partire e cofondatore di due importanti associazioni. Una vita dedicata all’Africa e al suo sviluppo. Ma in modo non invasivo. Una figura, una storia, che ha ancora molto da insegnarci. AFRICA-ITALIA Il libro Racconti da molto lontano na scrittura semplice senza fronzoli, descrittiva. Eugenio Susani «che prendeva nota di tutte le cose che viveva e vedeva», racchiude in «All’ombra del baobab» l’essenza del suo rapporto con l’Africa. Narra scene di vita, sentimenti, viaggi, persone. E riflessioni sulla vita e sulla morte. Dal suo primo periodo come volontario «sul terreno» in Sierra Leone alle innumerevoli missioni brevi da esperto in progetti di cooperazione. Un bel documento che chiunque vuole partire per l’Africa dovrebbe leggere. U l’entusiasmo per l’azione razionale che trasforma la realtà, la propensione a trasmettere il proprio sapere agli altri. Era, in verità, un’intuizione alquanto approssimativa, ma che coglieva aspetti essenziali e nobili della sua personalità, e dunque in qualche modo “vera”». Tra i primi volontari Eugenio Susani, classe 1938, si interessò presto ai problemi del sottosviluppo e nel 1964 partecipò alla fondazione dell’Ong Mani Tese, per la quale in seguito fu segretario nazionale (dal ’69 al ’70). © AfMC / Marco Bello Eugenio Susani «All’ombra del baobab. Racconti di un volontario in Africa» Dalla Costa Edizioni, novembre 2013. # Pagina precedente: tramonto a Mambone, Mozambico. # Sopra: Mali, piroghe sul fiume Niger a Mopti. # Sotto: Mali, agricoltori producono riso nelle piane di Sevaré. 64 MC MAGGIO 2014 Ma è nel 1966 la scoperta dell’Africa, quando Eugenio partì come volontario per l’Ong Coopi, fondata da padre Vincenzo Barbieri. Arrivato a Kambia in Sierra Leone, per tre anni insegnò lingua e letteratura francese al liceo Kolenten, gestito dai missionari Saveriani. Erano gli anni in cui in Italia nascevano le Ong e la Cooperazione internazionale, ai suoi albori, aveva ancora molto di militante e di missionario. Erano i primissimi progetti al Sud ed Eugenio fu tra i primi a partire. L’atmosfera era quella euforica della sperimentazione di qualcosa di completamente nuovo. ©Archivio Eugenio Susani MC ARTICOLI # A fianco: Eugenio Susani nei primi anni a Kambia in Sierra Leone, con alcuni collaboratori. # Sotto: Eugenio Susani nel 2009. © AfMC / Marco Bello Dai primi appunti di Eugenio Susani da Kambia: «(…) come nel resto del paese, non esiste il municipio. Non c’è un luogo dove il singolo cittadino possa rivolgersi per avere assistenza o il semplice riconoscimento del proprio diritto. A dirla tutta, non ci sono nemmeno diritti, perché tutto dipende dagli umori del momento di un’unica persona (e dal grado di importanza del richiedente): il capo villaggio, lo chef coutumier, ossia colui che gestisce la vita di tutti. Eppure la gente è tranquilla, serena. O almeno così pare…». «Eugenio non smetteva di stupirsi del fatto che, seppure nella povertà e talvolta nella miseria, gli africani mostrassero serenità e gioia di vivere». Chi parla è Ferruccio Stella, che fu stretto collaboratore di Susani nell’Ong Iscos (Istituto Sindacale per la cooperazione allo sviluppo), l’organismo per la cooperazione del sindacato Cisl. Susani ne è stato tra i fondatori nel 1983, e vi lavorò occupandosi dei progetti in Africa fino al 1994, quando si ritirò. ©Archivio Eugenio Susani Note di strada Partecipazione e formazione Ricorda Ferruccio: «Era un grande contrattualista e negoziatore, riusciva a creare dei rapporti con i locali di livello paritario. La sua sfida era sempre quella di convincere le controparti africane ascoltando le loro idee e i loro problemi. Non imponeva mai una sua logica di impostazione dominante, da finanziatore, anzi, il suo credo era: “Coinvolgere il più possibile il partner locale, renderlo attore primo delle attività e degli interventi di cooperazione nei progetti”. Lavorava affinché gli africani diventassero non solo partecipi e paritari nella preparazione dei progetti, ma anche autonomi in vista della continuazione dell’attività dopo il progetto». Avvicinatosi a questo mondo grazie a Eugenio, Ferruccio, oggi anche lui in pensione, svolse tre anni come volontario in Senegal. Rientrato in Italia, continuò a lavorare in Iscos con Susani e ne prese poi il testimone. Continua Ferruccio: «Un altro ele- mento fondante per Eugenio era la formazione. Non c’era progetto senza un adeguato programma formativo, in tutti i sensi: gestione, organizzazione, amministrazione, fino all’alfabetizzazione. Aveva il desiderio che coloro che partecipavano e non avevano cultura scolastica, potessero farsela grazie al progetto. Questo affinché la gente coinvolta fosse cosciente e potesse poi gestire direttamente le attività». Chi lo ha conosciuto ricorda il suo «Amore per l’Africa», che non è «Mal d’Africa» sostiene Ferruccio. «Eugenio era affascinato dalla lettura della cultura locale e aveva una capacità di analisi delle cose africane che derivava dalla sua sensibilità nel cogliere la realtà. E un talento nell’esprimere bene quello che lui riusciva a vivere». MAGGIO 2014 MC 65 AFRICA-ITALIA © AfMC / Marco Bello © AfMC / Marco Bello Scrive Borghi: «(…) nel complesso, credo che raramente un occidentale abbia dimostrato una così totale capacità di immergersi e immedesimarsi nella cultura profonda di popoli lontani. Eugenio, che non amava le ostentazioni di antimperialismo ideolo- gico cui tanti intellettuali da salotto ci hanno abituato, con la sua vita e i suoi scritti ci ha lasciato un esempio alto di antimperialismo vissuto, di amore integrale per gli oppressi del mondo, di dedizione a un ideale pratico di giustizia e di emancipazione. In lui il gusto della vita semplice, l’amore per gli uomini si fa spesso poesia». Mai imporre Come operatore della cooperazione, come occidentale che porta conoscenze e finanziamenti per realizzare progetti nel Sud del mondo, Eugenio si trovava spesso di fronte al dilemma di come intervenire per migliorare la situazione nel rispetto della cultura locale, senza imporre una cultura «altra». «Eugenio aveva il massimo rispetto delle culture e non voleva imporre niente. Intervenire senza distruggere la cultura tradizionale, se possibile dando strumenti per vivere meglio la loro cultura locale. Questo è un grande insegnamento che mi ha dato e che è sempre valido per i giovani di oggi» ricorda Ferruccio. Forse anche per questo era molto apprezzato dagli africani: «Non ho mai sentito critiche osservazioni contro il suo atteggiamento, anche quando c’erano dei conflitti. Eugenio affrontava il conflitto con caparbietà e con l’obiettivo di risolverlo attraverso il confronto e la discussione per trovare una soluzione concordata. Il conflitto veniva superato e i locali lo rispettavano molto per questa sua capacità di negoziatore e di affrontare il problema senza lasciarlo in sospeso. Talvolta optava per lasciare passare un po’ di tempo, ma non voleva mai imporre soluzioni». Continua Ferruccio Stella: «Spesso nei progetti di sviluppo, chi ha un ruolo di responsabilità o potere nel territorio in cui si lavora cerca di orientare le risorse per soddisfare i propri interessi. Su questo Eugenio era rigido e ciò era causa di conflitti con funzionari e capi villaggio. Il suo insegnamento è stato di combattere qualsiasi realizzazione che non andasse nel senso di una totale correttezza nell’utilizzo dei fondi». Racconta l’imprenditore Luciano Cervone, coinvolto in un progetto in Senegal: «Ricordo di Eugenio le sorde e diuturne battaglie per garantire l’onesta e l’appropriata utilizzazione dei fondi stanziati, sottraendoli alle manomissioni e alle MC ARTICOLI # A sinistra: pescatori a Vilankulo, pretese delle locali burocrazie. Dopo i suoi incontri-scontri con i vertici locali diceva: “La battaglia si combatte sempre per l’enveloppe (letteralmente la busta, cioè i fondi, ndr) e per chi deve gestirla”. Ma non l’ho mai visto scoraggiato anzi era sempre animato da una fiducia e da una perseveranza che mostravano il suo “amore evangelico” per quelle popolazioni e per quel continente». Scelte di vita Liviana Susani, moglie di Eugenio, ci racconta come in famiglia fecero scelte coraggiose e generose. «Decidemmo di fare un’adozione e nel 1981 partimmo per l’Ecuador. Qui Manuel entrò a far parte della nostra famiglia. Mi ricordo che il paese era in guerra con il Perù, per cui le preoccupazioni non mancarono. Ma poi tutto andò bene. Anche in seguito». Una volta ritirato dal lavoro nella cooperazione internazionale, Eugenio non si allontanò dalla lotta per i diritti civili. A Opera dove viveva, divenne l’anima di un movimento contro l’azienda Jelly Wax che stoccava rifiuti tossici sul territorio comunale. La società interruppe l’attività. In seguito si can- didò e fu eletto consigliere comunale, ruolo che ricoprì per una legislatura (2003-08). La sua ultima impresa fu la fondazione, insieme ad alcuni intellettuali di Opera, tra cui sua moglie e lo stesso Riccardo Borghi, della sezione locale della Università delle tre età (Unitre). Era il 2006. In questo ambito teneva lezioni sull’Africa: tradizioni, problemi socioeconomici e politici, colonialismo e neocolonialismo, guerre, aiuti umanitari, cooperazione. Ferruccio Stella: «Quello che sapeva non se lo teneva per sé. Cercava in tutti i modi di trasmetterlo agli altri, ai giovani. Lo ha sempre fatto. E con la Unitre rese questa dote ancora più concreta». Secondo Borghi, Eugenio aveva una: «“Concezione quasi sacra dell’istruzione” e della cultura, l’impossibilità di vedere la teoria disgiunta dall’azione con essa coerente, l’atteggiamento antidogmatico e, nello stesso tempo, il grande rispetto per le tradizioni radicate nel tempo e nell’adesione popolare. Eugenio vede l’immobilismo che soffoca il continente, lotta per il cambiamento e il progresso, ma “l’importante pensa - è che il cambiamento avvenga senza sciupare quei valori di fondo, che rendono ancora ©Archivio Eugenio Susani Mozambico. # A destra: Susani in una delle tante missioni in Africa. # Sotto: donne pestano il miglio in un mortaio tradizionale, Maùa, Mozambico. oggi così vitale la società africana”. In questo passaggio è racchiuso il senso della vita e della politica di Eugenio». Dentro la cultura Eugenio amava penetrare nella cultura africana, cercare di capire. E spesso i suoi «maestri» erano vecchi saggi, che lui si prendeva il tempo di ascoltare. Come il vecchio Assane, che racconta nel suo libro. «Passiamo qualche tempo in silenzio, poi chiedo: “Cos’è la morte per te, Assane?”. “La morte non esiste” è la sua risposta. “Allora la tua storia non è vera” lo provoco. “I miti sono miti, amico mio. Servono a rendere la vita più sopportabile alla gente. Talvolta servono per dire una verità. Ma, in genere, non bisogna prenderli troppo sul serio”. “Eppure la gente muore. Perché dici che la morte non esiste?”. Assane, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, la testa tra le mani, resta di nuovo in silenzio. Poi riprende col tono di sempre, la voce lenta, pesando le parole come se parlasse a se stesso, forse vedendo qualcosa che io non vedo. “Muoiono i corpi. Non le persone. La realtà è più grande di quello che vedono gli occhi”». Marco Bello MAGGIO 2014 MC 67 Nostra Madre Terra di Rosanna Novara Topino Le patoLogIe oncoLogIche / 1 IL tUMoRe aL Seno UNA DONNA SU OTTO Dopo quello del colon retto, il tumore al seno è la patologia oncologica più diffusa. In Italia è la prima causa di morte per tumore tra le donne. La sua incidenza dipende da un insieme di fattori: ereditari, socio ambientali e comportamentali (gravidanza, alimentazione, fumo, alcol). La buona notizia è che, negli ultimi anni, il tasso di sopravvivenza è migliorato. I n questo tempo di crisi economica e di continui tagli alla sanità pubblica sono in costante aumento coloro che non riescono a curarsi adeguatamente. Questo fatto potrebbe avere conseguenze molto pesanti per chi è costretto a fronteggiare patologie oncologiche, che tendono a essere sempre più diffuse tra la popolazione e che - oltre a tutto ciò che comportano hanno un grosso impatto economico sui malati e sulle loro famiglie. Tra queste patologie c’è il cancro della mammella, la cui incidenza è in costante aumento e i cui costi - stimati per 2,5 anni di malattia - sono di circa 15.500 euro procapite a carico del sistema sanitario nazionale (tra interventi chirurgici, chemioterapia e radioterapia) e tra 24.800-28.500 euro a carico della paziente, se si considerano i costi delle spese mediche (14% del totale di visite specialistiche, esami di laboratorio, fisioterapia, riabilitazione, farmaci e chirurgia plastica ricostruttiva), dei presidi sanitari (80% a carico della paziente), dall’assunzione temporanea di persone per aiuti domestici e di una possibile riduzione del reddito da lavoro tra il 10 ed il 40%. Per capire meglio l’impatto sociale di questa malattia, vediamo quali sono i suoi numeri, le sue caratteristiche e come viene attualmente affrontata. S econdo i dati dell’«Associazione italiana di oncologia medica» (www.aiom.it) e dell’«Associazione italiana registri tumori» (www.registri- 68 MC MAGGIO 2014 tumori.it), se esaminiamo la prevalenza in Italia di questo tumore, cioè il numero di donne malate in un determinato anno, vediamo che si è passati da 48.200 nel 1970 a 490.000 nel 2010. Certamente questo dato è influenzato da una diagnostica più accurata, ma l’incremento è comunque rilevante. Attualmente è a rischio di ammalarsi una donna su 8 (www.airc.it) e una su 50 rischia di morire per questo tumore. Peraltro è migliorato il tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi, essendo passati dall’81% nel 1990 all’ 85-87% attuale. In Italia il tumore del seno è la prima causa di morte per tumore tra le donne, mentre nella popolazione totale è il secondo tumore più frequente, es- sendo primo quello del colon retto e terzo quello del polmone. Nella popolazione femminile italiana, il tumore del seno rappresenta ora il 28,9% di tutti i tumori, contro il 26,7% degli anni ’90 ed il 18,4% degli anni ’80. Ogni anno ci sono circa 48.000 nuovi casi - cifra quadruplicata dal 1970 (11.600) - e muoiono circa 13.000 donne. Le più colpite sono le donne oltre i 64 anni (40% dei casi di tumore), mentre abbiamo il 30% dei casi nella fascia 50-64 anni e il 20-30% dei casi sotto i 50 anni. Le donne colpite prima dei 40 anni sono il 5-7% dei casi. Si stima che le donne attualmente malate siano circa 522.000. Anche gli uomini possono ammalarsi di cancro al seno, sebbene molto più raramente (è a rischio un uomo su 521), tranne in alcune regioni dell’Africa, in cui l’incidenza di questo tumore tra gli uomini è più elevata che altrove. I tipi di tumore mammario sono molteplici. La maggiore frequenza di questo tumore si riscontra nei paesi più industrializzati, con l’eccezione del Giappone. Nell’America del Nord e nell’Europa occidentale, esso rappresenta un cancro su 4 tra le donne, mentre in aree a basso rischio come la Cina e il Giappone rappresenta rispettivamente un cancro su 8 ed uno su 16. I tassi di incidenza più elevati sono quelli delle donne hawaiane (93,9 su 100.000) e delle donne bianche statunitensi (70-90 su 100.000). Nel resto dei paesi industrializzati tranne il Giappone, nel Sud del Brasile ed in Argentina ci sono tassi di 60-90 su 100.000. Nell’America del Sud, tranne i paesi succitati, e nell’Europa orientale e meridionale i tassi sono intermedi (40-60 su 100.000), nell’America centrale e tropicale del Sud, in Africa ed in Asia sono bassi (meno di 40 su 100.000). L’incidenza di questo tumore aumenta con l’età della donna , dai 30 ai 70 anni, con una flessione tra i 45-54 anni, cioè nell’età della menopausa. Si possono osservare notevoli variazioni del rischio all’interno di uno stesso paese in base a fattori sociodemografici come l’etnia, la classe sociale, lo stato civile e la regione di residenza. Ad esempio, in Israele l’incidenza di questo tumore è alta tra le donne ebree e bassa tra le non ebree, mentre alle Hawaii è alta tra le hawaiane e bassa tra le filippine. Già dal 1700, grazie alle osservazioni di Bernardino Ramazzini (16331714) sulle suore, si sa che questo tumore è più frequente tra le donne nubili (50% di rischio in più), che tra quelle sposate. Inoltre è un tumore più frequente nelle aree urbane, che in quelle rurali e tra le donne di più elevato ceto sociale. Si capisce che i fattori ambientali sono importanti nell’eziologia del cancro della mammella dalle variazioni del rischio nelle popolazioni migranti, comunque influenzate dall’etnia di appartenenza. Ad esempio, i tassi d’incidenza di questo tumore tra gli europei emigrati negli Stati Uniti variano con relativa rapidità, diventando presto simili a quelli degli statunitensi, mentre quelli delle popolazioni provenienti da Cina e Giappone variano anch’essi, ma molto più lentamente. Tale differenza può essere ascrivibile a un minore adattamento delle popolazioni orientali alle abitudini alimentari e riproduttive statunitensi. Diversi studi hanno evidenziato una correlazione tra tassi di incidenza e di mortalità del carcinoma della mammella e assunzione di grassi, proteine di origine animale e di calorie totali. Alcune variazioni nell’incidenza del carcinoma mammario sono sicuramente in relazione con il comportamento riproduttivo, come il numero di figli per donna e l’età della prima gravidanza. Da tempo si sospetta che un basso numero di gravidanze sia uno dei maggiori fattori di rischio per il cancro della mammella. Uno studio compiuto da MacMahon nel 1970 ha evidenziato che è anche importante l’età della donna alla prima gravidanza portata a termine. Il rischio di contrarre il tumore è infatti circa doppio nelle nullipare e nelle donne con la prima gravidanza a 30 anni e oltre, rispetto a quelle che hanno avuto il primo figlio prima dei 20 anni. Pare inoltre che il rischio per le donne con la prima gravidanza oltre il 35 anni sia superiore a quello delle nullipare. Altri studi hanno rilevato che qualunque gravidanza condotta a termine prima dei 35 anni ha effetto protettivo, mentre le altre aumentano il rischio. Inoltre l’effetto protettivo di una gravidanza precoce si manifesta solo se essa è portata a termine, mentre vi sarebbe un aumento del rischio in relazione all’aborto (sia spontaneo, che procurato). Questo potrebbe volere dire che la prima parte della gravidanza aumenta il rischio di tumore, mentre il suo completamento lo contrasta. Altri studi sono giunti alla conclusione che anche l’allattamento può avere un effetto protettivo, diminuendo del 50% il rischio nelle donne prima della menopausa, ma non dopo. Sembra che un periodo critico per il rischio di contrarre questo tumore siano gli anni immediatamente seguenti una gravidanza. Probabilmente, oltre all’età e al numero delle gravidanze, entrano in gioco altri fattori, come la classe sociale, le differenze culturali, le variazioni nell’utilizzo della pillola contraccettiva. Per quanto riguarda quest’ultima, così come nel caso della Tos (Terapia ormonale sostitutiva in menopausa), si tratta di associazioni estro-progestiniche, che possono stimolare la crescita di tumori endocrino-responsivi, come sono alcuni tipi di tumore mammario. Secondo diversi studi, la pillola anticoncezionale (soprattutto nelle vecchie formulazioni ad alto dosaggio) aumenta leggermente il rischio di questo tumore, ma risulta protettiva nei confronti di quelli dell’ovaio e dell’endometrio. Nelle donne che hanno assunto la pillola sembra esserci anche una diminuzione nell’incidenza del tumore del colon, mentre aumenterebbe leggermente quella del tumore della cervice. Le I MC RUBRICHE l seno è costituito da un insieme di ghiandole e tessuto adiposo ed è posto tra la pelle e la parete del torace. In realtà non è una ghiandola sola, ma un insieme di strutture ghiandolari, chiamate lobuli, unite tra loro a formare un lobo. Il tumore al seno è una malattia potenzialmente grave se non è individuata e curata per tempo. È dovuto alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria che si trasformano in cellule maligne. Ciò significa che hanno la capacità di staccarsi dal tessuto che le ha generate per invadere i tessuti circostanti e, col tempo, anche gli altri organi del corpo. Sono due i tipi di cancro del seno: le forme non invasive e quelle invasive. Le forme non invasive sono le seguenti: neoplasia duttale intraepiteliale (carcinoma in situ); neoplasia lobulare intraepiteliale, entrambe con vari gradi. Le forme invasive sono: il carcinoma duttale, quando supera la parete del dotto, rappresenta tra il 70 e l'80 per cento di tutte le forme di cancro del seno; il carcinoma lobulare: quando il tumore supera la parete del lobulo, può colpire contemporaneamente ambedue i seni o comparire in più punti nello stesso seno. Altre forme di carcinoma meno frequenti sono il carcinoma tubulare, papillare, mucinoso, cribriforme. Hanno prognosi favorevole. (www.airc.it) MAGGIO 2014 MC 69 Madre Terra nuove formulazioni a base di estradiolo e nomegestrolo sembrano avere minori effetti sul tessuto mammario, in termini di rischio. Un aumento del rischio di tumore mammario è risultato essere correlato alla terapia ormonale sostitutiva somministrata in menopausa, al fine di contrastare gli effetti della fisiologica riduzione degli ormoni sessuali. Alcuni dati epidemiologici hanno dimostrato un aumento del rischio di carcinoma mammario sia a seguito della somministrazione esogena di estrogeni con la Tos, sia nel caso dell’aumentata conversione periferica di androgeni surrenalici in estrogeni, nelle donne obese. Dopo la menopausa, la maggiore fonte di estrogeni è il tessuto adiposo, infatti molti studi hanno dimostrato che il rischio di tumore mammario è superiore nelle donne in menopausa in sovrappeso oppure obese, rispetto alle normopeso. Altri fattori che au- 70 MC MAGGIO 2014 mentano il rischio di carcinoma mammario sono il menarca precoce e la menopausa dopo i 55 anni. Secondo vari studi, ogni anno di ritardo nella comparsa del menarca ridurrebbe il rischio di tumore mammario del 20%, mentre le donne che entrano in menopausa prima dei 45 anni avrebbero un rischio inferiore del 50%, rispetto a quelle che presentano la menopausa dopo i 55 anni. D iversi studi hanno evidenziato che il consumo di oltre 30 grammi al giorno di alcol è associato ad un aumento del rischio di carcinoma mammario di 1,5-2 volte, indipendentemente dal tipo di bevanda. In ogni caso i tumori mammari ascrivibili al consumo di alcol sarebbero circa il 5% del totale. Le radiazioni ionizzanti sono un altro fattore di rischio per questo tumore, che è risultato elevato tra le donne sopravvissute alla bomba atomica e all’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986, tra le pazienti trattate con raggi X per una mastite post-partum e tra le pazienti sottoposte a molteplici fluoroscopie, nel corso della cura per la tubercolosi. Esiste una percentuale di popolazione intorno allo 0,1-0,6%, che presenta mutazioni genetiche a carico dei geni BRCA1, BRCA2, HER2 e p53. Si stima che nei Paesi occidentali, il 10% dei tumori mammari sia ascrivibile ad una o più di queste mutazioni. Ciò significa che nelle famiglie in cui si sono verificati più casi di tumore mammario, è consigliabile effettuare un test genetico, per predi- sporre un piano di prevenzione accurato, dal momento che avere una parente di primo grado (madre, sorella, figlia) con una storia di carcinoma mammario aumenta il rischio di contrarre il tumore di circa l’80%, avere due parenti colpite lo aumenta di circa 3 volte e con 3 o più parenti colpite, il rischio diventa quadruplo, rispetto a quello della popolazione generale. La mutazione del gene BRCA1 accresce maggiormente il rischio di tumore mammario, mentre quella del gene BRCA2 è meno legata all’aumento di rischio del tumore mammario, ma si correla a quelli per tumore ovarico, delle tube, di melanoma e, nell’uomo, della prostata. La positività per mutazioni a carico del gene BRCA1 ha recentemente indotto Angelina Jolie, attrice di fama internazionale, a sottoporsi alla mastectomia radicale bilaterale preventiva, seguita da chirurgia plastica ricostruttiva, al fine di scongiurare l’insorgenza del tumore, che aveva già ucciso in passato sua madre e sua sorella. L’attrice ha inoltre annunciato che sta per sottoporsi anche all’asportazione preventiva delle ovaie. Va detto che la mastectomia preventiva riduce il rischio di tumore mammario al 5%, ma non lo azzera completamente, data l’impossibilità di essere certi di avere asportato tutto il tessuto mammario (la mammella non ha confini netti). Sebbene nessuna alternativa sia in grado di abbattere il rischio come la mastectomia preventiva, tuttavia si possono percorrere altre strade come il monitoraggio intensivo con mammografia e risonanza magnetica ogni anno a partire dai 30 anni, MC RUBRICHE eventualmente inframmezzate da ecografia ogni 6 mesi dopo i 40 anni. Possono essere somministrati farmaci che bloccano gli effetti degli estrogeni sulla mammella, come il tamoxifene, che diminuisce il rischio di tumore al 25-40%, anche se induce una menopausa precoce. Un’altra possibile strategia è l’asportazione delle sole ovaie, per ridurre la produzione di estrogeni, senza modificare l’immagine corporea. A ltri importanti fattori di rischio per il carcinoma mammario sono gli inquinanti ambientali. Tra questi è stata dimostrata una correlazione tra Pcb (policlorobifenili) ed aumento del 2-4% del rischio di questo tumore. I Pcb, la cui produzione è stata vietata negli Stati Uniti nel 1970, sono stati largamente usati in passato come ritardanti di fiamma nelle apparecchiature elettriche e nella produzione di materiali da costruzione come calce e vernici. Purtroppo, essi sono stati riversati come materiali di scarto in grandi quantità nei fiumi adiacenti alle aree industriali, passando in tal modo nei pesci e da qui nel tessuto adiposo umano e nel latte materno. Alcuni studi hanno dimostrato la correlazione tra Pcb e forme tumorali mammarie più aggressive. Altri pericolosi inquinanti ambientali che aumentano il rischio di cancro mammario sono gli idrocarburi aromatici policiclici (Pca), che si ritrovano nei gas di scarico veicolari, nei cibi grigliati ed affumicati, nel fumo di tabacco e nei fumi delle centrali elettriche. È stata dimostrata una correlazione tra il fumo di sigaretta e l’aumento di rischio di tumore mammario nelle donne giovani. Un altro pericolosissimo prodotto di combustione legato a diverse forme di tumori, tra cui quello mammario, è la diossina (liberata da inceneritori, acciaierie, cementifici), a cui l’essere umano viene esposto attraverso il latte, il pesce e la carne. Infine tra gli inquinanti ambientali che fanno aumentare il rischio di tumore mammario ci sono i solventi organici usati nelle lavanderie a secco, nei saloni di bellezza, nei negozi di macchine, per cui l’esposizione avviene sia sul posto di lavoro, che utilizzando i prodotti di consumo. Poiché è dimostrato il ruolo degli inquinanti ambientali nell’aumento del rischio di tumore mammario, politiche di bonifica ambientale dovrebbero essere una priorità assoluta di salute pubblica. La prevenzione del tumore mammario, che viene attualmente effettuata mediante mammografia, ecografia e autopalpazione è in realtà solo di tipo secondario, cioè serve soltanto a individuare forme tumorali già in atto. Ciò a cui bisogna GLOSSARIO Incidenza: numero di nuovi casi riscontrati in un anno in un certo paese, nel mondo, ecc. Tumore: si intende una neoplasia, qualcosa di insorto ex novo; puó essere benigno o maligno. Cancro: è una definizione generale, che riguarda ogni tipo di tumore maligno. Carcinoma: è il cancro dei tessuti di origine epiteliale, di cui la mammella fa parte, come tutte le ghiandole. Menarca: è il primo flusso mestruale della donna, che rappresenta l’inizio del periodo fertile. Nullipara: donna che non ha mai partorito. Mastectomia: è l’asportazione chirurgica della mammella. BRCA: geni coinvolti nel tumore mammario. tendere è invece prevenire la formazione del tumore con un miglioramento dell’ambiente di vita e di lavoro, eliminando tutte quelle sostanze o agenti fisici potenzialmente cancerogeni. Rosanna Novara Topino MAGGIO 2014 MC 71 Cooperando... www.missioniconsolataonlus.it MCO Fondazione Missioni Consolata Onlus di Chiara Giovetti LUCE E SPERANZA A MARANDALLAH Dopo una guerra civile e dieci anni di conflitto latente la Costa d’Avorio, ex perla dell’Africa occidentale, conosce oggi una crescita economica sostenuta. Ma la riconciliazione nazionale e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione avanzano lentamente. Mentre l’ex presidente Laurent Gbagbo resta in carcere all’Aja e l’attuale capo di stato Alassane Ouattara affronta in patria accuse di parzialità e inefficienza, il paese si prepara a tornare alle urne l’anno prossimo. I missionari della Consolata lavorano a Marandallah, nel Nordovest. Attraverso progetti di sanità e alfabetizzazione cercano di sostenere lo sforzo di un paese che vuole rimettersi in piedi. Zoppicando verso le elezioni Laurent Gbagbo resta in prigione. È questa la decisione della prima camera preliminare della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja lo scorso 12 marzo, in risposta alla richiesta di scarcerazione avanzata dalla difesa del ex capo di stato della Costa d’Avorio. Gbagbo, presidente ivoriano dal 2000 al 2010, era stato arrestato nell’aprile del 2011 insieme alla moglie Simone Ehivet Gbagbo, anche lei in seguito perseguita dalla Cpi, dopo aver dato avvio a un’ondata di violenze per il rifiuto di lasciare il potere al suo oppositore Alassane Dramane Ouattara, detto Ado, vincitore delle lelezioni di fine 2010. Le violenze avevano causato la morte di circa tremila persone e la fuga di poco meno di un milione d’ivoriani che trovarono rifugio nei paesi limitrofi o si spostarono in aree del paese meno turbolente. La Costa d’Avorio aveva già sperimentato un quinquennio di conflitto fra il 2002 e il 2007, durante il quale i ribelli controllavano il Nord del paese mentre il Sud era dominato dalle forze governative. Fra i principali motivi del contendere c’erano il controllo del mercato del cacao e i diritti della popolazione di origine straniera insediata da decenni nel paese (vedi dossier sulla Costa d’Avorio in MC, marzo 2007 e febbraio 2011). Le elezioni del 2010 dovevano mettere fine a questa situazione di tensione dopo che il presidente e il capo dei ribelli, Guillaume Soro, avevano accettato di convivere in un governo di transizione - con Gbagbo presidente e Soro primo ministro - per traghettare la Costa d’Avorio fuori dall’impasse politica. Ma subito dopo il voto, il popolo ivoriano si è visto ripiombare nell’incubo della guerra civile. Cooperando… Rifugiati, sfollati, apolidi, stranieri: l’eterno rompicapo della politica ivoriana A oggi, sebbene si siano registrati diversi ritorni dei rifugiati e degli sfollati alle loro case, la situazione rimane tutt’altro che risolta. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, a metà 2013 i rifugiati ivoriani erano ancora centomila, due terzi dei quali nella sola Liberia. Il timore di subire rappresaglie e vendette una volta rientrati in patria resta il principale motivo che spinge i rifugiati ivoriani a ritardare il loro ritorno. Inoltre, circa settecentomila persone risultano apolidi, cioè prive di nazionalità. Quello della nazionalità è un problema di vecchia data nel paese, dove poco meno di sei milioni di persone, cioè oltre un quarto della popolazione, sono immigrati provenienti dai paesi limitrofi. Una gran parte di questi immigrati si sono stabiliti in Costa d’Avorio molti anni fa, attirati dalle opportunità di lavoro nelle piantagioni di cacao e in altri settori ai tempi - erano gli anni Settanta - in cui l’economia ivoriana era il motore della sub-regione e Abidjan, la capitale economica del paese con i suoi grattacieli e le sue tangenziali sopraelevate, era chiamata la Manhattan dei tropici. L’esodo dai paesi confinanti è proseguito anche negli anni successivi al periodo d’oro, ma in moltissimi casi i migranti hanno continuato fino a oggi a vivere in un limbo giuridico che non permette loro di godere di una serie di diritti, fra cui quello alla terra e al voto. Nel 2013 l’annuale studio dell’autorevole Fondazione Mo Ibrahim, creata dal magnate delle comunicazioni anglo-sudanese Mohamed Ibrahim per incoraggiare il buon governo in Africa, ha collocato la Costa d’Avorio fra i dieci stati africani che hanno avuto i risultati peggiori in campi come i diritti umani, lo sviluppo, la sostenibilità economica e la legalità. Diversi osservatori, inoltre, cominciano ad avanzare preoccupazione rispetto all’imminenza delle nuove elezioni, previste per l’anno prossimo: la pacificazione fra i gruppi in conflitto sembra ancora lontana e gli oppositori criticano il presidente Ado accusandolo di parzialità soprattutto verso i perpetratori dei crimini del 2010-2011, dato che in prigione ci sono solo i sosteni- 74 MC MAGGIO 2014 tori dell’ex presidente Gbagbo. La commissione indipendente che dovrebbe aggiornare le liste elettorali è stata sciolta dopo le elezioni del 2010 e non è ancora stata ricostituita. Nonostante un altro conflitto sembri per ora scongiurato e la crescita del Pil sia stata pari al 8,7 per cento nel 2013, la Costa d’Avorio conserva nelle città grosse sacche di povertà, mentre nelle zone rurali della parte occidentale del paese il conflitto e la violenza rimangono elementi del quotidiano. La sanità in Costa d’Avorio Fra le presenze dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio c’è quella di Marandallah, un villaggio di circa quattromila abitanti che di fatto è il punto di riferimento per oltre trentamila persone dei dintorni. Si trova nella regione di Worodou- gou, nella parte centro settentrionale del paese, a poco meno di cinquecento chilometri da Abidjan. Con il Nord della Costa d’Avorio, Marandallah condivide un maggior svantaggio economico rispetto al Sud del paese e una mancanza di infrastrutture che rendono molto difficili gli spostamenti e le comunicazioni. «La situazione dei trasporti qui è veramente critica», scrive padre João Nascimento, uno dei missionari. «Ci si muove quasi esclusivamente su piste sterrate piene di buche e crepe e durante le piogge tutto si complica ulteriormente». Anche energia elettrica e acqua potabile scarseggiano, soprattutto dopo gli scontri del decennio 2002-2011 che hanno gravemente danneggiato gli impianti di distribuzione e le infrastrutture. Uno studio del 2012, effettuato su un campione nazionale di circa diecimila famiglie dal ministero della MC RUBRICHE sanità e dall’istituto di statistica ivoriani in collaborazione con diverse agenzie ed enti internazionali, descrive la situazione sanitaria della zona come peggiore della media nazionale. Per quanto riguarda la salute materna, ad esempio, se nella città di Abidjan 97 donne su cento ricevono cure e assistenza durante la gravidanza, nella regione Nordovest, solo 75 ne beneficiano. I parti assistiti da personale sanitario qualificato sono l’88% a Abidjan mentre nella regione di Worodougou ad assistere le partorienti sono le levatrici tradizionali o i familiari in almeno un caso su due. Inoltre, la pratica delle mutilazioni genitali femminili, con tutte le sue conseguenze dannose per la salute della donna, è presente nel Nord e nell’Ovest del paese molto di più che nelle altre zone e tocca circa sette donne su dieci. Il dispensario di Marandallah Le testimonianze dei missionari sono in linea con i dati del rapporto: «È molto difficile trovare il personale sanitario», conferma padre Ramón Lázaro Esnaola, responsabile del Centro sanitario cattolico Notre Dame de la Consolata (Cscndc) di Marandallah, fondato nel 2007, «perché in pochi sono disposti a venire a vivere in un luogo dove mancano acqua e elettricità. Mancando la corrente, poi, diventa molto più complicato anche offrire servizi di base come le vaccinazioni: per ottenere i vaccini occorre infatti andare a Mankono, una città che si trova a quasi settanta chilometri da qui e, viste le condizioni delle piste sterrate, è facile immaginare quanto # Pagina di apertura: rifugiati interni durante le violenze del 2010-11. | In basso: il personale medico, il deposito dei medicinali e il bell’edificio del dispensario di Marandallah. | Qui a destra: un piccolo paziente in attesa del dentista. tempo, energie e denaro se ne vadano per fornire un servizio così fondamentale». Il centro è nato per sopperire alla mancanza di copertura sanitaria nella zona: la struttura più vicina, infatti, si trova a circa novanta chilometri, una distanza proibitiva per la maggior parte della popolazione locale. Il Cscndc offre servizi di medicina generale, ha una maternità ed esegue analisi di laboratorio avvalendosi del lavoro di un medico, un infermiere, due biotecnici, un’assistente sociale, due aiuto infermiere, tre agenti sanitari comunitari, tre addetti alle pulizie e due guardiani notturni. Ha dodici posti letto più altri sei nella maternità e effettua oltre tremila consultazioni all’anno, mentre la maternità segue circa 170 parti e il reparto chirurgia esegue più di duecento operazioni l’anno. Dal 2008 le attività relative alla lotta all’Hiv/Aids si svolgono con il sostegno tecnico di Icap-Costa d’Avorio, l’International Centre for Aids Care and Treatment Programs gestito dalla statunitense Columbia University e dal governo Usa. La cura della malnutrizione avviene con il supporto della statunitense Father Norman Gies Foudation. Più energia alla salute e gli altri progetti sanitari Nel 2013, con il sostegno di Caritas microprogetti, è stato avviato «Più energia alla salute», un intervento per l’installazione di un sistema fotovoltaico: «A lavori ultimati», spiega padre Ramon, «grazie all’energia prodotta con i pannelli solari non dovremo più temere i tagli di corrente frequenti nella zona e avremo una affidabile catena del freddo: potremo cioè far funzionare regolarmente il frigo che ci è stato donato dal sistema sanitario nazionale ivoriano per conservare i vaccini - senza doversi spostare sempre fino a Mankono - e anche il sangue per le trasfusioni». Un’altra componente dell’intervento è quella di informatizzare la farmacia del dispensario in modo da avere un controllo più dettagliato sullo stock e prevedere meglio i tempi e le necessità per i nuovi acquisti. «Per procurarci i farmaci dobbiamo andare fino ad Abidjan», continua padre Ramon. «Per questo è importante programmare il viaggio sapendo con precisione quali farmaci devono essere reintegrati. Fare i conteggi “a vista” e segnarli su una lista cartacea non è impossibile e lo si è sempre fatto, ma il margine di errore e il dispendio di tempo sono molto maggiori. L’uso del computer dovrebbe ridurre il numero di viaggi e, di conseguenza, i costi per il mantenimento del centro». Anche a Dianra, altro centro a una cinquantina di chilometri da Marandallah, i missionari fanno funzionare MAGGIO 2014 MC 75 Cooperando… # In questa pagina: inaugurazione di un apatam con benedizione solenne e festa della comunità; una donna in attesa al dispensario; e adulti che imparano a leggere e scrivere. Gli apatam sono pensati anche per facilitare l’alfabetizzazione degli adulti. un piccolo dispensario. L’obiettivo per il futuro è costruire anche presso il centro sanitario di Dianra una maternità, che per ora manca. Sono invece già attivi i servizi di formazione del personale sanitario, svolta in coordinamento con il centro di Marandallah, e le missioni di visita ai villaggi che hanno un’importanza fondamentale nella prevenzione delle malattie più comuni. L’alfabetizzazione, strumento per superare l’odio Secondo lo studio a campione citato prima, la situazione della regione di Nordovest rispetto all’alfabetizzazione è problematica tanto quanto quella sanitaria: delle persone intervistate per la raccolta dei dati statistici, sessantasei uomini e ottantotto donne su cento non sanno leggere né scrivere mentre ad Abidjan presa ancora una volta come esempio «virtuoso» - le donne e gli uo- 76 MC MAGGIO 2014 mini in questa condizione sono rispettivamente il quaranta e il diciotto per cento. Tre quarti delle donne intervistate e circa metà degli uomini hanno dichiarato di non avere alcun titolo di studio e di non leggere giornali né utilizzare altre fonti di informazione. I bambini che frequentano la scuola elementare a livello nazionale sono 68 su cento, ma nel Nordovest sono mediamente dodici in meno. «È vero», conferma padre João, «qui l’analfabetismo è più diffuso che altrove. È un insieme di fattori che crea questa situazione: l’isolamento, il fatto che la popolazione locale sia in parte di origine straniera e mai integrata e anche, a volte, un senso di apatia e di rassegnazione». Grazie a fondi dell’Opera di promozione dell’alfabetizzazione nel mondo (Opam), padre João ha realizzato il progetto A scuola di pace all’apatam, un intervento che pre- vedeva la costruzione di sei strutture tipicamente africane note anche come paillotes, in altrettante località intorno alla missione. Ora negli apatam si stanno svolgendo i corsi di alfabetizzazione per gli adulti e per i bambini non scolarizzati. La prossima tappa del progetto sarà fornire alle piccole strutture l’illuminazione con impianti fotovoltaici, perché i corsi si tengono quasi sempre di sera, dopo la giornata lavorativa, e un’illuminazione adeguata è indispensabile per la buona riuscita della formazione. È previsto anche l’acquisto di una moto che permetta all’équipe di coordinamento di visitare le comunità. Oltre che all’alfabetizzazione vera e propria i corsi serviranno anche a sensibilizzare e informare su temi come diritti umani, diritto alla terra e riconciliazione fra comunità. «Leggere e scrivere non è indispensabile solo per poter affrontare le attività quotidiane che comportano la lettura o la compilazione di documenti amministrativi, ma anche per essere in grado di comprendere meglio ciò che sta accadendo nel paese», conclude padre João. Essere più consapevoli e più informati aiuta a sentirsi parte delle dinamiche sociali, economiche e politiche della società in cui si vive. L’obiettivo è dissolvere a poco a poco la paura, la diffidenza e il risentimento e ridurre l’isolamento non solo geografico ma anche culturale in cui la popolazione di Marandallah si trova a vivere. Chiara Giovetti Libertà Religiosa di Luca Lorusso © Afp photo/Mahmud Turkia rIfLESSIoNI E fATTI SuLLA LIBErTà rELIGIoSA NEL MoNDo - 19 La libertà di religione si conferma un diritto a rischio per la maggioranza della popolazione mondiale. La regione più restrittiva è quella del Medio Oriente-Nord Africa, seguita da quella dell’Asia-Pacifico. In Europa, al terzo posto, a una crescente ostilità sociale corrisponde una crescente pressione governativa. # 31 dicembre 2012: la gente ispeziona la chiesa copta danneggiata da un’esplosione nella città di Dafinya, a ovest di Misurata, Libia, nella quale due egiziani sono stati uccisi. La chiesa era stata costruita tra il 1936 e il 1937 durante il dominio coloniale italiano e centinaia di egiziani la frequentavano regolarmente. LIBERTÀ IN AFFANNO I l 14 gennaio scorso è uscito il quinto rapporto annuale del Pew Research Center1 sulle restrizioni alla libertà religiosa nel mondo, Religious hostilities reach six-year high. I dati riferiti riguardano l’anno 2012, che è stato il peggiore per la libertà religiosa da quando l’organizzazione con sede in Washington DC ha iniziato a monitorare la situazione, nel 2006-2007. Libia post Gheddafi È sufficiente fare attenzione alle agenzie d’informazione riguardanti un paese come la Libia scelto a esempio - per trovarsi concordi con l’analisi del Pew Center che indica un incremento molto forte delle restrizioni alla libertà religiosa in quelle terre nel 2012, e per immaginare che, dopo quell’anno, non è probabilmente seguita una sostanziale diminuzione. Era il 25 febbraio quando l’agenzia Fides pubblicava sul suo sito le dichiarazioni del Vicario apostolico di Tripoli riguardanti il massacro di sette copti a Ben- gasi: «“Non si capisce bene cosa vogliano questi fondamentalisti. Sicuramente vogliono mettersi in evidenza spargendo il sangue di vittime innocenti. I copti ortodossi sono da tempo il loro bersaglio, soprattutto in Cirenaica” dice […] mons. Giovanni Innocenzo Martinelli […], commentando l’uccisione di sette lavoratori egiziani di confessione copto ortodossa […]. Secondo fonti di agenzia, domenica 23 febbraio i sette egiziani erano stati prelevati nelle loro abitazioni da uomini armati. I loro corpi sono stati ritrovati il giorno successivo in una località alla periferia della città. Le vittime sono state uccise da colpi d’arma da fuoco al petto e alla testa. “Non sappiamo altro […]” dice mons. Martinelli. […] “Siamo nelle mani di Dio, in queste situazioni incerte e insicure”». Agenzie precedenti parlano di aggressioni a sacerdoti cattolici o copti ortodossi da parte di milizie armate, di arresti ed espulsioni di decine di egiziani copti, o di membri di coMAGGIO 2014 MC 77 L’ostilità sociale nei confronti delle religioni Per quantificare gli ostacoli all’espressione e alla pratica religiosa nei singoli paesi, il Pew Center usa due indicatori: l’indice delle ostilità sociali (Shi: social hostilities index), il quale misura gli atti contrari alla libertà di credo verso determinati gruppi religiosi da parte della società civile, di gruppi o di singoli; e l’indice delle restrizioni governative (Gri: government restrictions index), il quale miPaesi con SHI punteg Paesi con GRI punteg molto alto gio molto alto gio Pakistan 9,80 Egitto 8,80 sura le azioni delle istituzioni nazionali o locali che contrastano la religione. Lo studio statistico, avverte il Pew Center, tiene conto di alcuni dati e non di altri: misura gli impedimenti alla libertà religiosa, ma non misura, ad esempio, la quantità di attività libere e senza ostacoli, non giudica se le restrizioni siano giustificate o meno, non valuta i processi storici, culturali, sociali che portano alle restrizioni. Attraverso una panoramica sul primo dei due indici, veniamo informati del fatto che l’anno esaminato nel rapporto, il 2012, è stato quello con i livelli più alti di ostilità sociale nei confronti della religione mai registrato dall’inizio delle indagini nel 2006-2007. Se nel 2007 si era verificato un livello alto o molto alto nel 20% dei 198 paesi presi in esame, nel 2011 tali livelli si erano attestati nel 29% dei paesi, e nel 2012 nel 33%. L’aumento dell’ostilità sociale tra il 2011 e il 2012 è stato constatato in 4 delle 5 aree in cui il Pew Paesi con i 2 indici molto alti Egitto Afghanistan India 9,60 9,60 Cina Iran 8,60 8,60 Pakistan Indonesia Somalia Israele Iraq Territori pale stinesi Siria Russia Indonesia Nigeria Yemen Kenya Egitto Sudan Libano Sri Lanka 9,50 9,40 9,00 Arabia saudita Indonesia Maldive 8,60 8,30 8,10 Afghanistan Syria Somalia 9,00 8,80 8,80 8,50 8,50 8,40 8,30 8,30 8,30 7,90 7,70 Afghanistan Siria Eritrea Somalia Russia Myanmar Uzbekistan Malesia Azerbaijan Tajikistan Pakistan 8,10 8,00 7,90 7,80 7,70 7,70 7,60 7,60 7,30 7,20 7,10 Russia Myanmar Sudan Iraq Bangladesh Thailandia Myanmar 7,60 7,50 7,40 Brunei Marocco Sudan Algeria Iraq 7,00 7,00 6,90 6,90 6,80 Kazakhstan Vietnam 6,70 6,70 78 MC MAGGIO 2014 Center suddivide il mondo: l’unica area in cui c’è stata una lieve diminuzione è quella delle Americhe, mentre l’incremento maggiore è stato rilevato nell’area del Medio Oriente-Nord Africa. Quest’ultima regione, che è quella con livello medio dell’indice di ostilità sociale più alto, nel 2012, su una scala di 10 punti, ha fatto registrare un valore di 6,4 (nel 2011 era 5,4). In alcuni paesi della zona l’aumento è stato molto vistoso: nella Libia di cui abbiamo già © Pew Research Center munità protestanti, in seguito ad accuse di «proselitismo», di chiese prese d’assalto. «In Libia due fedeli sono stati uccisi in un attacco contro una chiesa copta ortodossa nella città di Misurata nel mese di dicembre 2012. Questo è stato il “primo attacco [in Libia] destinato a una chiesa dopo la rivoluzione del 2011”», scrive il Pew Center nel suo rapporto, illustrando la crescita dell’ostilità sociale nel paese. © Manoocher Deghati/ R N Libertà Religiosa # Qui sopra: livelli di ostilità sociale nel confronti della religione. | Nella tabella a sinistra la lista dei paesi con indici Shi e Gri molto alti. | In alto: Dhaka, Bangladesh. Più dell’80% della popolazione è musulmana. La processione raffigurata nella foto mostra la presenza di una minoranza indù. Chiesa di Maiduguri, in Nigeria, attaccata dalla violenze interreligiose. Libretto del Nuovo Testamento nella medesima chiesa di Maiduguri | A destra: Dhaka, Bangladesh. Una donna indù prega. MC RUBRICHE parlato (da 1,9 nel 2011 a 5,4 nel 2012), in Tunisia (da 3,5 a 6,8), in Siria (da 5,8 a 8,8) e in Libano (da 5,6 a 7,9). Prendendo in considerazione il mondo intero, oltre ai quattro paesi dell’area Medio OrienteNord Africa, altri sette hanno fatto registrare un aumento di due punti e più tra il 2011 e il 2012: Mali, Messico, Guinea, Olanda, Madagascar, Afghanistan e Malawi. Nessun paese al mondo ha avuto una diminuzione altrettanto cospicua. L’incremento generale dell’indice è stato dato dall’aumento molto forte di alcune forme di ostilità sociale: ad esempio casi di individui aggrediti o sfollati dalle loro case per le loro attività religiose (questo tipo di vessazione nel 2007 era stato registrato nel 24% dei paesi del mondo, nel 2011 nel 38%, e nel 2012 nel 47%). Il Pew Center riporta alcuni episodi emblematici avvenuti in diversi paesi: nel Nord del Mali, per esempio, gruppi di estremisti islamici hanno condotto esecuzioni, amputazioni, fustigazioni, distrutto chiese, vietato battesimi, provocando la fuga di centinaia di cri- stiani verso la parte Sud del paese; «nello Sri Lanka a maggioranza buddista alcuni monaci hanno attaccato luoghi di culto musulmani e cristiani nella città di Dambulla nell’aprile 2012 ed è avvenuta un’occupazione forzata di una chiesa degli Avventisti del settimo giorno nella città di Deniyaya nell’agosto dello stesso anno per trasformarlo in un tempio buddista». Le restrizioni governative Per quanto riguarda l’indice relativo alle restrizioni governative della libertà di credo, il Pew Research Center informa che non si sono registrati nel 2012 aumenti significativi. Restrizioni elevate o molto elevate da parte delle istituzioni nazionali o locali si sono verificate nel 29% dei 198 paesi presi in esame (28% nel 2011; 20% nel 2007). Nell’ambito delle restrizioni governative, nel 2012 rispetto all’anno precedente, i cambiamenti significativi (almeno 2 punti su una scala di 10) sono avvenuti in due soli paesi: un grande aumento di restrizioni in Rwanda, dove una legge di regolazione delle organizzazioni religiose ha introdotto requisiti di registrazione molto stringenti; e una grande diminuzione in Costa d’Avorio dove nel 2012 si sono placate le violenze etnicoreligiose postelettorali del 2011. Il livello medio delle restrizioni governative è aumentato in due delle cinque aree: in Medio Oriente-Nord Africa e in Europa, mentre nelle Americhe è rimasto inalterato, e nelle altre due regioni (Africa subsahariana e Asia-Pacifico) è diminuito. In particolare l’Europa è stato il continente in cui le restrizioni governative sono aumentate di più. L’area in cui invece sono diminuite di più è stata l’Asia-Pacifico. Anche per le restrizioni governative il Pew Center riporta alcuni episodi: parla ad esempio del caso di Tuvalu, il cui governo centrale nel 2012 ha iniziato ad applicare una legge che impedisce ai fedeli di religioni non riconosciute di riunirsi; della Tunisia, in cui sono stati fatti dalle autorità pubbliche molti sforzi per rimuovere alcuni imam che predicavano il salafismo. I governi hanno usato atti di forza contro gruppi religiosi o singoli fedeli in quasi la metà (il 48%) dei paesi del mondo. Altro esempio è quello della Mauritania, il cui governo nell’aprile 2012 ha arrestato 12 attivisti anti-schiavitù con l’accusa di sacrilegio e blasfemia per aver pubblicamente bruciato alcuni testi sacri considerati dagli attivisti ispiratori dello schiavismo. © Manoocher Deghati/ R N © Obinna Anyadike/ R N © Obinna Anyadike/IRIN Libertà Religiosa Mettendo insieme i rilevamenti relativi ai due indici, il Pew Center afferma che nel 2012 ci sono state restrizioni elevate o molto elevate (sia sociali che governative) nel 43% dei paesi (la percentuale più alta registrata dall’organizzazione in 6 anni). Data la particolare popolosità di alcuni di questi paesi (Nigeria, India, Pakistan, Egitto, Indonesia e così via) la porzione di popolazione mondiale che ha vissuto il 2012 in un paese con livelli di restrizione della libertà religiosa elevati o molto elevati è stata pari al 76% (5,3 miliardi di persone). Nel 2011 la percentuale era del 74%, nel 2007 del 68%. Tra i 34 paesi con restrizioni molto elevate (sociali o governative o entrambe) l’unico paese europeo presente era la Russia (con entrambi gli indici al livello molto elevato). Tra quelli con restrizioni elevate, i paesi europei erano 17, di cui tre - Bulgaria, Grecia e Moldova - avevano entrambi gli indici al livello elevato, due avevano al livello elevato solo l’indice di restrizioni governative, dodici avevano un elevato indice di ostilità sociale (tra questi ultimi anche l’Italia). Nel complesso le restrizioni, sia sociali che governative, alla libertà religiosa nel mondo sono aumentate tra il 2011 e il 2012 almeno un po’ nel 61% dei paesi, e sono diminuite almeno un po’ nel 29%. Vessazioni nei confronti di gruppi specifici Un ultimo approfondimento cui vale la pena accennare, è quello riguardante le vessazioni rivolte a specifici gruppi religiosi. I maltrattamenti nei confronti di gruppi specifici possono avere una matrice sia sociale che istituzionale: aggressioni fisiche, arresti e detenzioni, profanazione di luoghi sacri, discriminazioni nel mondo del lavoro, dell’istruzione, delle possibilità di accesso a un alloggio, aggressioni verbali, intimidazioni. Questo genere di molestie si sono verificate, nel 2012, in 166 paesi su 198 studiati. Prendendo in considerazione solo le tre religioni monoteiste, vessazioni nei confronti di gruppi di musulmani sono state registrate in 109 paesi, nei confronti di gruppi di ebrei in 71 paesi, verso i cristiani in 110 paesi. Nel 2012, alcuni gruppi religiosi avevano più probabilità di essere molestati dai governi che # A destra: l’andamento tra il 2007 e il 2012 dei due indici (ostilità sociale sopra, restrizioni governative sotto) nelle cinque regioni: Medio OrienteNord Africa, Asia-Pacifico, Europa, Africa subsahariana, Americhe. Sotto: le donne aspettano l’inizio della preghiera del venerdì a Bengasi, Libia. © Pew Research Cener Uno sguardo d’insieme © Pew Research Cener © Kate Thomas/IRIN da gruppi sociali o da privati cittadini, mentre altri avevano più probabilità di essere oggetto di vessazioni da parte di individui o gruppi sociali che da parte di politiche governative. Gli ebrei, per esempio hanno subito maltrattamenti sociali in 66 paesi, mentre hanno affrontato vessazioni governative in 28 paesi. Al contrario, i membri di altre religioni del mondo, come i sikh e i baha’i, sono stati molestati più volte dai governi (in 35 paesi) di quanto non lo siano stati da gruppi o individui nella società (21 paesi). Luca Lorusso Note 1. Il Pew Forum (pewforum.org) è un progetto del Pew Research Center, con base a Washington, finanziato dalla Pew Charitable Trusts: un’organizzazione indipendente non-profit, non governativa (Ong), fondata negli Usa nel 1948. Tutte le relazioni del centro sono disponibili su www.pewresearch.org 4 chiacchiere con... a cura di Mario Bandera 21. ZINGARO E SANTO CEFERINO GIMENEZ MALLA CEFERINO (ZEFIRINO) GIMENEZ MALLA detto «El Pelè», membro del popolo gitano, fin dalla sua nascita è bollato come uno zingaro, quindi un escluso della società. Nasce in Spagna nel 1861, forse a Benavent de Sangria, probabilmente il 26 agosto 1861. Il caratteristico nomadismo del suo popolo gli impedisce di frequentare regolarmente le scuole, lasciandolo quasi analfabeta. È di famiglia povera, che diventa ancor più povera quando il padre se ne va con un’altra donna. Girando di villaggio in villaggio conosce la precarietà tipica della vita di coloro che vivono nell’emarginazione. Fin da piccolo impara a fare il panieraio, a intrecciare cioè cesti e canestri, che poi vende nei villaggi. A 18 anni si sposa con il rito gitano con Teresa Jimenéz, un matrimonio che durerà più di quarant’anni. Purtroppo la loro unione non sarà coronata da figli, adotteranno quindi “Pepita” (Giuseppina) una nipotina di Teresa. Ceferino è il primo zingaro a essere elevato alla gloria degli altari. Ceferino - o preferisci che ti chiami «El Pelè» come ti chiamavano tutti? -, parlaci un po’ di te. Appartengo al popolo gitano - gli zingari -, le cui origini si perdono nelle nebbie della storia. Provenienti dall’India, ci siamo sparsi per tutta l’Europa. In Spagna siamo poco meno di un milione, la terza comunità più numerosa nel nostro continente. Un popolo che non ha mai rinunciato ai suoi usi e costumi, soprattutto al nomadismo. Proprio così. Pensa che il saluto ben augurante che usiamo tra di noi è lacio drom, che significa «buon cammino» o «buon viaggio», per indicare un modo di vivere in movimento, con il mondo intero come orizzonte. Questo vostro modo di vivere vi ha causato parecchie noie, sofferenze e anche persecuzioni. Ormai sono innumerevoli le prese di posizione legislative su (e contro) di noi. Il fatto di non essere stanziali fa di noi degli uomini liberi, poco controllabili da chi è preposto a garantire l’ordine pubblico e quindi anche temuti. In tutti i modi si cerca ancora oggi di obbligare gli zingari a diventare stanziali al pari di tutti i «payos» (termine che nella nostra lingua definisce chi non è zingaro). L’ostilità nei vostri confronti ha avuto il suo apice con le leggi razziali di Hitler che voleva sopprimervi così come il popolo ebraico. Vivendo in Spagna sono stato toccato solo marginalmente dal nazismo, ma l’orrore dei campi di sterminio resta una ferita sanguinante ancora oggi. Pensa che ad Auschwitz, sulla lapide che riporta i nomi dei popoli che soffrirono le pene dell’inferno, il nome del popolo zingaro non compare! Una dimenticanza non da poco. La tua famiglia che posizione occupava? Sono nato e cresciuto in una famiglia povera e numerosa. Le bocche da sfamare erano tante. In più mio padre a un certo punto se ne andò per vivere con un’altra donna lasciandoci nella più nera indigenza. Nonostante ciò non sei diventato né ladro né accattone né imbroglione, come spesso e volentieri i «payos» pensano di voi. C’è una legge fondamentale nel cuore di ogni uomo: essa dice che prima di tutto devi rispondere ai dettami della tua coscienza. La mia, fondata sulla fede cristiana e sui valori del popolo rom, mi ha sempre spinto ad agire per il bene. MAGGIO 2014 MC 81 4 chiacchiere con... Ti sei fatto la fama di uomo retto, con una autorevolezza morale tale da diventare un capo dei gitani aragonesi di Barbastro. Proprio così, per il mio modo di fare e per i miei atteggiamenti mi trovai senza volerlo a essere un riferimento per coloro che avevano bisogno di un consiglio. Più volte sono stato chiamato a far da paciere nelle liti familiari, nelle controversie tra gitani e tra questi e gli abitanti della nostra cittadina. Però devi ammettere che un giorno hai avuto un bel colpo di fortuna, o è stata la provvidenza? ce ne parli? Una sera tornando a casa vidi sul ciglio della strada un uomo, per la precisione un ricco possidente della zona. Malato di tubercolosi, era svenuto e il sangue gli usciva dalla bocca. Incurante del rischio di contagio l’ho caricato sulle spalle e portato fino a casa sua. La famiglia volle ricompensarmi per quel gesto di carità e con quei soldi intrapresi un piccolo commercio di muli e cavalli. Essendo un gitano non è difficile immaginare che quello era il tuo mondo. Ma l’ambiente del commercio degli animali non era dei più puliti e pur cercando di essere limpido e onesto fino allo scrupolo, fui arrestato e incarcerato perché due animali che comprai risultarono rubati. Cosa più che sufficiente per accusarmi di ricettazione. La mia origine gitana e il pregiudizio razziale per cui ogni zingaro è un ladro e un disonesto, pesarono sul processo, ma alla fine riuscii a dimostrare la mia buona fede e la completa estraneità ai fatti. Fui quindi assolto con formula piena. Perciò hai continuato la tua redditizia attività commerciale? Sì. Avrei anche potuto diventare ricco, ma avevo, come si dice, le «mani bucate» perché soccorrevo chiunque si trovasse nel bisogno o in difficoltà, specialmente la mia gente, e facevo tutto di nascosto perché nella mia famiglia, mia moglie compresa, non condividevano la mia generosità. Tutto ciò ti veniva dalla fede cristiana che professavi senza imbarazzo davanti a tutti. Della mia fede non ho mai fatto mistero a nessuno, avevo sempre con me la corona del rosario e di notte mi piaceva guardare il cielo stellato facendo una specie di adorazione che consiglio a molti di fare. Contemplando il cielo e le stelle pregavo con più intensità. La tua fede cosa ha cambiato nella tua vita? Mi ha fatto regolarizzare la mia posizione familiare con il matrimonio religioso che ho celebrato nel 1912 con Teresa a Barbastro, dove mi sono stabilito acquistando una casa. Potendo quindi accostarmi ai sacramenti, facevo della Messa e Comunione quotidiana un punto importante della mia crescita spirituale. Mi dedicavo anche alla catechesi dei bambini sia rom sia spagnoli ed ero molto attivo nella san Vincenzo. Nel 1926 sono diventato anche terziario francescano e organizzatore dei pellegrinaggi annuali dei Rom a diversi santuari. Dal 1931 ho cominciato a partecipare regolarmente all’adorazione notturna dei «giovedì eucaristici». Però sul tuo capo come su quello di milioni di spagnoli incombeva minacciosa la rivoluzione del 1936 che scatenò violenza, distruzione e morte, ed ebbe anche una forte connotazione antireligiosa. La rivoluzione, cresciuta in un brodo di odio popolare e conflitto sociale dovuto alla turbolenta situazione eco- 82 MC MAGGIO 2014 nomico-politica che viveva la Spagna in quegli anni, spinse alla radicalizzazione dello scontro tra le fazioni in lotta portando quelle d’ispirazione marxista a uccidere migliaia di religiosi. Alla fine della guerra di Spagna si contavano più di 6800 preti e religiosi uccisi, tra questi anche tredici vescovi e oltre 200 suore di vita contemplativa. È invece impossibile avere il numero preciso dei laici, uomini e donne, uccisi per la fede. La tempesta che si abbattè in quel periodo sulla Chiesa fu una delle più feroci persecuzioni anticristiane del XX secolo. E com’è che anche tu sei finito in carcere? Devo dire che gli avvenimenti bellici che si susseguirono dall’inizio delle ostilità non scalfirono minimamente il mio essere cristiano, anzi. Però nel mese di luglio del 1936 difesi un sacerdote che era stato aggredito e per questo fui arrestato con lui. Perquisendomi, in tasca trovarono la corona del rosario. Quello fu più che sufficiente per sbattermi in galera accusato di ogni falsità. Immagino che quella corona in carcere sia diventata «un’arma preziosa» tra le tue mani proprio per avvicinarti di più al Signore. Non solo per me, ma anche per tutti i miei compagni di prigionia. Amici influenti si mossero in mio favore, vennero a trovarmi e mi garantirono l’immediata scarcerazione se solo avessi consegnato la corona del rosario e smesso di sostenere i compagni di prigionia con le mie preghiere. Ovviamente mi rifiutai, perché il rosario significava la fede in Cristo e il recitarlo con fede affidandomi alla Madre di Dio aiutava me e tutti gli altri a sopportare la brutta situazione in cui ci trovavamo. Quando lo fucilano il 9 agosto del 1936, insieme a Florentino Asensio Barroso vescovo di Barbastro e ad altri prigionieri, l’ultimo suo grido è «Viva Cristo Re!» mentre in mano tiene alta come una bandiera la sua corona del rosario. Il giorno dopo alcuni zingari sono obbligati a scavare una fossa comune per tutti i fucilati e a buttare calce viva sui loro corpi per evitarne il riconoscimento e cancellarne la memoria. A Roma il 4 maggio 1997, alla presenza di migliaia di zingari, Giovanni Paolo II lo proclama beato. Nell’omelia il papa dice: «Il beato Ceferino seppe seminare concordia e solidarietà fra i suoi, mediando anche nei conflitti che a volte nascono fra “payos” e zingari, dimostrando che la carità di Cristo non conosce limiti di razza e di cultura». Con lui è stato beatificato anche il vescovo Florentino, fucilato dallo stesso plotone di esecuzione. Di Ceferino non è rimasto niente se non lo sgualcito certificato di battesimo, che portava sempre con sé, e il rosario, segni concreti per confermare che si può essere zingari e santi secondo il monito dell’apostolo Paolo che ogni uomo si converta e viva, rimanendo nella sua cultura e tradizione. Don Mario Bandera, Missio Novara MENSILE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA FONDATO NEL 1899 PER SOSTENERE I MISSIONARI DELLA CONSOLATA già «La Consolata» (1899-1928) Tramite «Missioni Consolata Onlus» a FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Socia le) opera nei campi dello sviluppo e della promozione umana in molti paesi del Sud del mondo e in Italia. Ogni mese la pubblicazione edita dalla ONLUS, MISSIONI CONSOLATA, offre reportages di prima mano, inchieste, dossier, interviste esclusive, documenti fotografici originali, rubriche, inserti speciali e molto altro ancora. Tutti coloro che, con contributi in denaro, collaborano ai nostri progetti RICEVONO LA RIVISTA MENSILMENTE PIÙ IL CALENDARIO e godono anche di qualche vantaggio fiscale. L NON , . Sono graditi però contributi liberali per le spese di produzione, stampa e spedizione. Per chi desidera solo L ricevere la rivista, si suggerisce un contributo annuo di Euro 30. 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PER INFORMAZIONI: Tel. 011/4.400.400 - Fax: 011/4.400.411 E-mail: [email protected] EREDITÀ E LEGATI PER INFORMAZIONI L’ISTITUTO MISSIONARI DI MARIA SS. CONSOLATA, con sede a Torino in C.so Ferrucci 14, può ricevere eredità e/o legati. Istituto Missionari di Maria SS.Consolata Ufficio Legale Corso Ferrucci, 14 - 10138 TORINO Tel. 011/4.400.400 Corso Ferrucci, n.14 10138 Torino tel. 011.4.400.400 fax 011.4.400.459 E mail: [email protected] Sito internet: www.rivistamissioniconsolata.it Proprietario: Collegio Internazionale della Consolata per le Missioni Estere, C.so Ferrucci 14 10138 Torino Editore: Fondazione MISSIONI CONSOLATA O.n.l.u.s. Iscrizione presso il Tribunale di Torino al n. 79 del 21/06/1948 Iscrizione R.O.C. n. 22050 Direzione: Luigi Anataloni (direttore) Francesco Bernardi (direttore resp.) Redazione: Luigi Anataloni [email protected] (.494) Luca Lorusso [email protected] [.408] Marco Bello [email protected] (.436) Paolo Moiola [email protected] (.458) Collaboratori: B. 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