P - Missioni Consolata

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P - Missioni Consolata
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO
EDITORIALE
Ai lettori
editoriale comune della Fesmi
UNA BUSSOLA PER L’EUROPA
ggi la percentuale degli europei che non hanno fiducia nel parlamento comunitario supera
di 8 punti quella di coloro che invece ne hanno. Solo qualche anno fa gli estimatori erano
oltre il 30% in più dei detrattori. Ancora più accentuata è la perdita di fiducia nei confronti
della Commissione, del Consiglio e soprattutto della Banca centrale.
Eppure a Bruxelles si decidono le sorti di mezzo miliardo di cittadini di 28 paesi. Scegliere una lista
e individuare un candidato da votare, quindi, non possono essere atti stanchi e inconsapevoli.
Il voto del prossimo 25 maggio è lo strumento l’unico in nostro possesso per indicare un nuovo
percorso, per incamminarci sulla strada di un’altra Europa: quella dell’eguaglianza, dei beni comuni, dell’accoglienza, della pace.
Per questo, come riviste missionarie, riteniamo che i rappresentanti eletti a Strasburgo e Bruxelles debbano avere a cuore almeno cinque grandi tematiche: gli Epa (Accordi di partenariato economico); la pace e il commercio delle armi; l’emigrazione e l’immigrazione; la cooperazione internazionale e il volontariato; la libertà religiosa.
1. Con gli Accordi di partenariato economico, l’Ue chiede ai paesi Acp (Africa, Caribi, Pacifico) di
eliminare le barriere protezionistiche in nome del libero scambio. Le nazioni africane, togliendo i
dazi e aprendosi alla concorrenza, permettono all’agricoltura europea, che vende i suoi prodotti a
basso costo perché sostenuta da denaro pubblico, di invadere i loro mercati, con conseguenze potenzialmente drammatiche. Sono pertanto accordi da rivedere.
2. Per uscire dalla crisi, Bruxelles vuole sostenere lo sviluppo delle capacità militari continentali,
con l’obiettivo di fare dell’industria armiera un volano economico. Una scelta intollerabile per chi
ricerca le vie del dialogo e del disarmo per risolvere situazioni di tensione e ostilità. Ci vuole un
nuovo modello di difesa che trasformi l’Europa in una potenza di pace, a cominciare dalla costituzione dei Corpi Civili di Pace europei, come forza d’intervento tesa alla prevenzione e ricomposizione nonviolenta dei conflitti. I casi della Siria e dell’Ucraina sono un monito per tutti.
3. Sui temi dell’immigrazione, è urgente una riforma del regolamento di Dublino: introdotto nel
2003 per chiarire le competenze dei singoli stati sulle domande di asilo politico, si è rivelato uno
strumento inadeguato e in contrasto con il principio di protezione dei rifugiati. Più in generale,
l’Europa deve dimostrare che quello dell’accoglienza è tra i suoi principi fondativi.
4. A ciò contribuirebbe l’omogeneizzazione delle legislazioni nazionali in tema di cooperazione.
L’Europa, tramite i suoi paesi, è il primo donatore per l’Africa. Ma spesso le sue azioni sono dispersive, non legate a un progetto comune, e quindi poco efficaci. La cooperazione deve diventare lo
strumento principe per una politica di pace che voglia garantire la convivenza e il benessere, nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti i cittadini e valorizzando il contributo gratuito e volontario
della società civile.
5. Infine, c’è il tema della libertà religiosa: parrebbe un diritto garantito e tutelato nel Vecchio
Continente. Invece ha bisogno di un buon restauro perché l’Europa non è immune da casi di violazione della libertà di credo, di attacchi a membri delle minoranze religiose sulla base delle loro convinzioni, e di discriminazioni per motivi religiosi. La stessa attenzione che chiediamo alle istituzioni
europee nei confronti dei paesi non europei, la chiediamo anche nei confronti dei paesi membri
dell’Ue.
I candidati parlamentari attraverso i loro programmi che manifestino sensibilità su questi temi, i
cittadini attraverso la scelta di tali candidati, possono far imboccare all’Ue la strada del cambiamento.
O
Questo editoriale è sottoscritto dalle testate missionarie italiane aderenti alla Fesmi (Federazione della
Stampa Missionaria Italiana) tra cui anche la nostra. Il testo, qui ridotto all’essenza per ragioni di spazio,
apparirà uguale o con variazioni nelle diverse riviste e nelle varie pagine web.
MAGGIO 2014 MC
3
SOMMARIO
5 | MAGGIO 2014 | ANNO 116
3 ai lettori
UNA BUSSOLA PER L’EUROPA
Il numero è stato chiuso in redazione il 7 Aprile 2014.
La consegna alle poste di Torino è avvenuta
prima del 30 Aprile 2014.
di Fesmi
5 dai lettori
CARI MISSIONARI
OSSIER
(lettere a MC)
ARTICOLI
11 sWaziland
PASSIONE PER GESÙ
E IL SUO POPOLO
11
18
di José Luis Ponce de Leon
18 uganda
L’ORO DEL KARAMOJA
di Daniele Biella e Anna Giolitto
35
23 burKina faso
UNA STORIA LUNGA 40 ANNI
turismo: ultima spiaggia
dell’eterna giovinezza
di Lia Curcio
27 radio 1 / Cile
STELLA DEL MARE
malindi paradise!
per Chi?
delle redazioni di
«out of italy» e mC
di Paolo Moiola
51 Cile
BUON LAVORO, «PRESIDENTA»
di Paolo Moiola
59 siria
SILENZIO SULLA GUERRA
di Piergiorgio Pescali
63 afriCa - italia
LA MORTE NON ESISTE
di Marco Bello
32 pillole «allamano»
SCEGLIERE LA MANSUETUDINE
RUBRICHE
9 Chiesa nel mondo
51
59
di Sergio Frassetto
73 Cooperando
di Chiara Giovetti
77 libertà religiosa - 19
LIBERTÀ IN AFFANNO
di Ugo Pozzoli
68 nostra madre terra
PATOLOGIE ONCOLOGICHE 1
di Luca Lorusso
81 4 ChiaCChiere Con
di Mario Bandera
di Rosanna Novara Topino
IN COPERTINA:
Colori di Malindi
(Foto: Stefano Labate).
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MC MAGGIO 2014
WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT
DAI LETTORI
Cari mission@ri
BEATO L’UOMO
CASTIGATO?
Il dossier «Giustizia riparativa», per quanto lungo
e articolato non dice alcune cose che a mio modesto avviso sarebbe stato meglio dire.
1 - Ammesso che i carcerati «effettivamente
pericolosi» siano il 20%
del totale non mi pare
opportuno definire «piccola» una percentuale
così. Un conto è chiarire
che la gran parte della
popolazione carceraria è
costituita da persone che
meritano più rispetto, più
credito, più fiducia, un
altro è dire che la minoranza è esigua.
2 - Nella Bibbia punizione, castigo, espiazione e
giudizio non sono parolacce. Il Dio che castiga
non è in contraddizione
col Dio che ama, che
perdona, che salva:
«Beato l’uomo che tu castighi Signore», recita il
Salmo 93, che può essere tradotto anche con
«Beato l’uomo che tu istruisci Signore». Qual è
la traduzione giusta? Sono giuste entrambe, perché l’originale greco paideuo può essere tradotto
con castigo, punisco, ma
anche con: educo, ammaestro, istruisco, adde-
stro. […] Come facciamo
a dire che nella Bibbia
Dio non punisce? Se Dio
vuole castigare, purificae, decontaminare, […]
hi siamo noi per contestarglielo? […] Chi siamo
noi per dire che «non
sappiamo cos’è la giustiia», come se la Parola
di Dio fosse incomprensibile, come se l’insegnamento della Chiesa
osse roba alla portata di
una piccola élite? […].
3 - Gesù nel Vangelo non
parla mai del castigo e
del giudizio di Dio come
di sovrastrutture create
dagli uomini, ma come di
atti di giustizia, di amore
e di solidarietà con chi è
stato angariato, ferito, umiliato. E, quando parla
di pentimento, di contrizione, di cilicio (cfr. Matteo 11, 21-26), non ne
parla mai come di optional e neppure come di
residui di religiosità gretta e antiquata. I castighi
di Dio sono sempre retti,
equi, perfetti, ineccepibili. Se gli uomini non li riconoscono come tali vuol
dire che sono ancora prigionieri del loro orgoglio,
della loro arroganza,
della loro superbia.
4 - Se non è bello fare di
tutta l’erba un fascio con
i carcerati, non è giusto
farlo per i luoghi di detenzione. […] ci sono esempi di professionalità,
di abnegazione, di eccellenza. […] Che senso ha
dunque dire che il carcere non serve e bisogna abolirlo? Bisogna fare in
modo invece che tutti i
luoghi di rieducazione
[…] raggiungano i livelli
di eccellenza che finora
solo alcuni hanno raggiunto […].
5 - Ormai del ritornello
«ce lo chiede l’Europa»
ne abbiamo fin sopra i
capelli, chi vuol fare europersuasione deve spe-
cificare nome e cognome
di chi brontola, minaccia,
tuona e sanziona. Dopo
quello che è accaduto in
questi ultimi anni solo una persona molto disattenta, molto disinformata o molto in malafede
può continuare a equivocare tra la sacrosanta aspirazione a un’Europa
pacificata, unita, equa,
solidale e l’Europa delle
grandi speculazioni bancarie camuffate sotto le
spoglie del rigore, del risanamento, dell’efficienza, del consolidamento
dell’Euro. Non basta lamentare che 29 miliardi
di euro in dieci anni sono
troppi per un sistema penitenziario come il nostro, bisogna intervenire
laddove vi sono stati abusi, sprechi, malaffare,
clientelismo e corruzione. […]
Francesco Rondina
Email, 21/02/2014
Caro sig. Rondina,
la ringraziamo per la sua
lettera e ci scusiamo per
averla dovuta tagliare.
Speriamo di aver lasciato
le parti sostanziali delle
sue obiezioni, alle quali è
impossibile rispondere se
non rimandando a una rilettura del dossier e ai libri lì citati. Qui abbozziamo solo qualche spunto di
riflessione seguendo la
numerazione da lei usata.
1- L’aggettivo «piccola»
nasce da una reazione al
pensiero che il corrispettivo 80% di detenuti non
pericolosi, circa 50mila
persone tenute in carcere,
senza una reale necessità, in condizioni disumanizzanti, sia una quantità
decisamente «grande».
Non diciamo che gran
parte dei carcerati meritino più rispetto, diciamo di
più: che tutti i carcerati ne
hanno diritto (il diritto non
si merita, si ha per il solo
fatto di esistere), a pre-
scindere dai loro delitti.
2 e 3- Non è il luogo questo per una «disputa biblica». Ciascuno può citare
versetti o capitoli interi
della Scrittura per avvalorare la propria posizione
(addirittura Satana lo fa in
Lc 4). Noi facciamo solo
due brevi esempi (sperando di non fare come Satana). Gesù in Mt 5,38 dice:
«Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e
dente per dente”; ma io vi
dico di non oppporvi al
malvagio; anzi...»; e in Lc
23,34: «Padre, perdonali». Inoltre, se volessimo
credere a un Dio che punisce, sarebbe Lui a farlo,
non l’uomo. Il «pentimento» - o per lo meno la libera disponibilità a rimettersi in gioco - da parte
del reo è necessario per
l’avvio di una pratica di
giustizia riparativa. Il pentimento quindi non è escluso, anzi, la giustizia
riparativa promuove la
possibilità di un pentimento autentico, che sia
un atto libero e responsabile, non un atto indotto
dalla costrizione, dalla
paura della punizione, o
dal premio sperato (come
è tipico della giustizia retributiva-punitiva).
4- Nel dossier non si dice
che il carcere non serve e
che va abolito, anzi, a pagina 39 viene affermato:
«Chi è pericoloso deve essere separato», aggiungendo poi che «la separazione dovrebbe essere
mirata a prevenire l’effettiva pericolosità. Non è logico, né utile, ricorrere al
carcere anche per chi non
lo è. Nei confronti di chi è
pericoloso, la limitazione
della libertà di movimento
deve però essere modellata caso per caso, e non
deve essere accompagnata dalla limitazione, o addirittura esclusione, delle
altre libertà fondamentali
MAGGIO 2014 MC
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[email protected]
[email protected]
che non comportino pericoli per la società: il diritto allo spazio vitale, alla
salute, all’affettività, all’informazione, al lavoro,
all’istruzione».
5- La corte di Strasburgo,
cui probabilmente si riferisce, e della cui condanna parliamo a pagina 34
del dossier, è un organo
del Consiglio d’Europa - e
non dell’Unione Europea
- che vigila sui diritti umani. Ogni istituzione o
organizzazione, e ogni loro atto, sono ovviamente
contestabili. Alcune volte
però possono offrire
un’occasione per crescere nel rispetto della dignità umana.
Luca Lorusso
LEGGIBILITÀ
Finalmente! Avete dunque capito dopo anni che
tutte quelle lettere piccole e i terribili sfondi colorati rendevano illeggibile
la bella rivista! Alla buon
ora, hurrà! Poi via con gli
sfondi che rendono difficile la lettura. Ma perché
non si può fare sempre i
bei leggibili sfondi bianchi? Che mistero c’è? Economico? Artistico? Voglia di non fare i normali
ed essere per forza creativi? Semplicità è bellezza. Corpo 11 e sfondo
bianco. Un vostro «vecchio» lettore ed ammiratore
Alfio Tassinari
email 28/02/2014
Caro Direttore,
congratulazioni per il vostro sforzo per ingrandire il corpo del testo della
pregiata Rivista. Mi azzardo a darle la mia in
tre punti:
1. Missioni Consolata è
«rivista missionaria della
famiglia» come dice il
sottotitolo. Ora nelle nostre famiglie chi legge la
rivista sono quelli che
abbisognano di inforcare
gli occhiali, per cui un
corpo leggermente più
grande nel testo sarà
molto apprezzato.
2. Gli articoli di Missioni
6
MC MAGGIO 2014
Consolata sono in gran
parte, e giustamente, ad
argomento unico di poche pagine, eccetto il
Dossier, per cui caratteri
diversi e corpo diverso
non tolgono nulla all’unità del tema, «la missione», della rivista, anzi
possono enfatizzarne
l’argomento.
3. Ho notato che nel n.
3/14 della rivista compare un articolo sulla cerimonia di nozze in Corea
del Sud in cui, forse per
la prima volta da tanti
anni, la rivista sacrifica il
testo per le foto. Forse è
questa una gradita risposta alla sincera e benevola curiosità dei lettori.
Mi permetto di dirle che
questo numero 3/14 l’ho
letto di un fiato, mentre
trovavo fatica a leggere i
numeri precedenti, e di
porgere a lei e tutti i suoi
collaboratori le più belle
felicitazioni di buon lavoro, conscio che portare
avanti una rivista prettamente missionaria e
renderla di interesse a
lettori, che possono spigolare per mezzo di Internet su tutti i campi,
non è facile. Ma pure rimane in tutti la soddisfazione di leggere qualcosa
che si ha tra mano e che
si sente più consono di
tutto quello che si può
trovare «on line».
P. A. Giordano
email 25/02/2014
Il corpo 11 va decisamente bene: si legge con
facilità, non si perde
tempo a decifrare, volendo si legge «a colpo d’occhio».
Ho dimenticato di premettere che ho 15 lustri,
ma che comunque con
gli occhiali e in buona luce ci vedo benissimo!
E che comunque gli esperti siete voi. Grazie e
buon lavoro a tutti!
Paola Andolfi
email 14/03/2014
Diversi lettori ci hanno
scritto rispondendo alla
domanda circa il carattere
da usare nella rivista. Qui
ne riportiamo solo alcuni.
Il consenso sui caratteri
più leggibili è unanime e
ci incoraggia a continuare
nel miglioramento della
qualità delle rivista, e non
solo dal punto di vista
grafico. Grazie a tutti voi.
ERITREA
Caro padre Gigi,
ho letto con piacere e interesse la serie di articoli
apparsi sulla tua bellissima rivista che parlano
dell’Eritrea. Forse non
sai che mia moglie ed io
siamo nati in Eritrea, lei
ad Asmara e io a Massaua. Solo dopo la guerra siamo andati a vivere
in Kenya dove ci siamo
conosciuti. Ed è anche
per questo che seguo
con attenzione ciò che
succede in quel paese ora sconvolto dalla follia
di un dittatore. Speriamo
che un giorno la situazione possa cambiare in
meglio e che il popolo eritreo possa avere una vita tranquilla e serena.
La speranza, purtroppo,
è un po’ debole perché
nessuno ha interesse ad
aiutare il popolo eritreo,
così come sta succedendo per altre parti dell’Africa. Basta vedere la
guerra full scale che si
sta consumando tra vari
paesi che ben conosciamo: Uganda, Ruanda,
Congo, Zaire, Zambia.
Burundi, ecc. Se ne parla
pochissimo!
Kenya Juu (W il Kenya)!
Augusto Vezzaro
email 10/3/2014
UN GRAZIE
E UNA POESIA
Caro padre,
pur con ritardo desidero
ringraziare per le tre parole augurali per il 2014:
gioia, bellezza, audacia.
Non è semplice attivarle,
viverle e onorarle perché
la quotidianità presenta
tanti intoppi e tante sofferenze, ma ci provo. A
tale proposito ho dedicato la composizione che
allego a Matteo, figlio di
un amico, che il 2 marzo
compirà il suo primo anno di esistenza; c’è la felicità per una nuova vita,
c’è la celebrazione del
gioco come forma d’intesa interpersonale e di
scoperta della realtà, e
c’è l’invito a vivere relazioni in cui si è orgogliosi
l’uno dell’altro. Trovo
tante analogie con l’impegno dei missionari per
tutelare e valorizzare la
vita, impegno che, a mio
parere, rappresenta una
delle espressioni del cristianesimo. Mi farebbe
piacere che il testo fosse
pubblicato per onorare
tutti coloro che, a partire
dai missionari, cercano
di difendere il grande valore della vita.
A Matteo
Auguri a te, Matteo,
stupenda creatura,
in occasione del tuo primo
compleanno!
La tua presenza ci dà gioia
e felicità,
moltiplica le energie,
rende lievi le fatiche,
ci interpella sul cammino,
mai concluso,
dell’essere
pienamente uomini.
Quando giochiamo insieme,
è come se ci trovassimo
per “strada”
e celebrassimo
il nostro incontro:
quel che tu sei
e quel che siamo noi
si compongono
come accordo di una sonata
e rifulgono
come una goccia di rugiada.
Quando ci rallegriamo
l’un l’altro
è come se ci
comprendessimo
misteriosamente
e per magia
diventassimo leggeri
come acrobati sul trapezio.
Ci libriamo nel cielo
e ci immergiamo
nelle profondità degli
abissi marini
per scoprire tanti mondi,
così siamo orgogliosi,
a vicenda,
delle nostre magnifiche
vite.
Milva Capoia
Torino 23/02/2014
CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE
SACROFANO (Rm) 20-23 NOVEMBRE 2014
“Alzati, va a Ninive la grande città” (Gn 3,2) dove il Vangelo si fa incontro
Perché il Convegno? Forse perché sono trascorsi dieci anni dall’ultimo? No, non è questo il motivo.
Il motivo del convegno è «riaccendere la passione e rilanciare
la dedizione dei singoli e delle
comunità cristiane per la missio
ad gentes e inter gentes in attuazione della sequela di Gesù».
L’Evangelii Gaudium (di papa
Francesco) ci incoraggia a camminare verso questo. Papa Francesco scrive che l’attività missionaria «rappresenta, ancor oggi,
la massima sfida per la Chiesa»
e che «la causa missionaria deve essere la prima».
Che cosa succederebbe se prendessimo sul serio queste parole?
Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il
paradigma di ogni opera della
Chiesa.
L’obiettivo sarà allora anche
studiare nuovi modi e stili di presenza missionaria per passare da:
a) una Chiesa che fa missione in cooperazione con
un’altra, a una Chiesa che grazie alla missione e
alla cooperazione comprende e riscopre la propria
identità;
b) una Chiesa preoccupata dell’autopresentazione, a una che fa una «scelta missionaria capace di
trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli
stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’Evangelizzazione nel mondo attuale» (EG 27).
Da questi obbiettivi nasce la scelta del tema preso dal libro di Giona «Alzati, va a Ninive la grande città» (Gn 3,2) dove il Vangelo si fa incontro.
Giona ci aiuterà a riflettere sulla nostra conversione pastorale, sulla chiamata a uscire, a incontrare e a donarsi. La riflessione del Convegno sarà
declinata intorno a questi tre verbi: Uscire - Incontrare - Donarsi.
Chiamati a USCIRE.
Il papa parla di una Chiesa in uscita, una Chiesa dalle porte aperte. La Chiesa «in uscita» è la
comunità dei discepoli missionari che prendono l’iniziativa,
che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano.
Chiamati a INCONTRARE l’uomo
nella città.
Il papa dice: «Abbiamo bisogno
di riconoscere la città a partire
da uno sguardo contemplativo,
ossia uno sguardo di fede che
scopra quel Dio che abita nelle
sue case, nelle sue strade, nelle
sue piazze» (EG 71).
La grande città verso cui andare
per incontrare non è in contrasto
con le periferie verso cui uscire
e alle quali papa Francesco ci invita. Lo slogan della prossima
giornata missionaria sarà proprio «Periferie cuore della missione». La grande città è paradossalmente anche la periferia, luogo di povertà
materiali e spirituali dove molti uomini «non sanno distinguere la destra dalla sinistra» (Gn 4).
Chiamati a DONARSI.
Nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a
dare ragione della nostra speranza. Non come nemici che puntano il dito e condannano, ma «con
dolcezza e rispetto», senza pretendere di apparire superiori ma considerando «gli altri superiori
a se stessi» (Fil 2,3). Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma
come uomini e donne del popolo (da EG 271).
Uscire, incontrarsi e donarsi.
Una missione come condivisione di beni, di doni
reciproci che vengono messi in comunione da
Chiese sorelle perché nessuno sia povero del Regno. Tutto nella dimensione della gratuità e del
servizio.
(Testo adattato dalla presentazione del convegno fatta da don Michele Autuoro, direttore di Missio Italia).
PER INFORMAZIONI:
1. Ogni Centro Missio (già Centro Diocesano Missionario) della propria diocesi.
2. Materiali, informazioni, strumenti di lavoro, su: www.cmsacrofano.it
mail: [email protected] - [email protected]
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MC MAGGIO 2014
La Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto
VATICANO
BATTERE LA TRATTA
radicare la schiavitù moderna
e la tratta di esseri umani in
S
tutto il mondo entro il 2020 è l’obiettivo di un accordo senza precedenti tra rappresentanti religiosi
annunciato il 17 marzo contemporaneamente in Vaticano, al Cairo,
Londra e Perth. L’accordo, firmato
da mons. Marcelo Sánchez Sorondo per conto di Papa Francesco,
dai rappresentanti del grande
Imam di Al Azhar del Cairo, dell’arcivescovo di Canterbury e dall’australiano Andrew Forrest, fondatore della Walk Free Foundation, ha inaugurato il Global
Freedom Network (Gfn). In una dichiarazione comune i firmatari affermano che «la schiavitù moderna e la tratta di esseri umani sono
un crimine contro l’umanità. Lo
sfruttamento fisico, economico e
sessuale di uomini, donne e bambini condanna 30 milioni di persone alla deumanizzazione e al degrado. Ogni giorno in cui continuiamo a tollerare questa
situazione violiamo la nostra umanità comune e offendiamo le coscienze di tutti i popoli». Le varie
chiese cristiane, le confessioni religiose del mondo, i governi e tutte
le persone di buona volontà sono
invitate a aderire a questa iniziativa. Il Global Freedom Network, si
legge ancora nella dichiarazione,
compirà la sua missione con gli
strumenti della fede: la preghiera,
il digiuno e la carità e stimolando
un’azione globale di contrasto a
tali crimini “contro l’umanità”.
(AsiaNews)
TERRA SANTA
CARITAS JERUSALEM
problemi nella gestione delle risorse idriche nei Territori paleIstinesi
penalizzano in forme diverse la vita della popolazione locale. Due progetti portati a
compimento da Caritas Jerusalem hanno affrontato e risolto in
pochi mesi le emergenze di segno
opposto che pesavano gravemente sulla vita quotidiana degli abitanti di due città palestinesi. La
cittadina di Ain Arik, a meno di sei
chilometri da Ramallah, ha sempre sofferto per la scarsità di approvvigionamento idrico e per
l’impossibilità di reperire acqua
non contaminata. Per questo il dipartimento di Caritas Jerusalem
ha costruito in quella città due
serbatoi per l’acqua collegandoli
a un esteso sistema di irrigazione.
L’opera ha permesso fin da subito
un aumento consistente della
produzione agricola di cui beneficeranno più di ottanta nuclei familiari. Di tutt’altro ordine sono i
problemi della città palestinese di
Zababdeh, nella parte settentrionale della West Bank, dove l’assenza di un adeguato drenaggio
provoca inondazioni diffuse ogni
volta che piove. In questo caso Caritas Jerusalem con il sostegno di
Caritas Belgio ha contribuito a installare un sistema di drenaggio
che permette di salvaguardare
dalle inondazioni ampie aree nella
parte meridionale del centro abitato.
(Fides)
LAOS
PROIBITO ESSERE CRISTIANI
tto famiglie cristiane residenti
nel villaggio di Natahall (Laos
O
meridionale), stanno lottando duramente per difendere il diritto,
costituzionalmente garantito, di
professare la fede cristiana, nonché il diritto di proprietà sulle loro
case. Nel mese di marzo il capo
del villaggio, assieme ad agenti
della polizia distrettuale, ha convocato le otto famiglie e, dopo averle schernite, le ha esortate ad
abbandonare la fede cristiana affermando che si tratta di «una fede straniera, degli americani».
Non solo, ma ha anche preparato i
documenti per trasferirle in un altro luogo dicendo che «non c’è posto per loro a Natahall». I cristiani, tuttavia, non intendono muoversi. Per costringerli a
convertirsi, il capo ha pubblicamente dichiarato che «i cristiani
saranno ritenuti responsabili per
qualsiasi morte o evento avverso
che avverrà fra gli abitanti di Natahall». Infatti, secondo gli anziani
del villaggio, professare una fede
diversa dal culto animista indigeno viola antichi costumi e credenze e può avere effetti nefasti.
(Fides)
# Vaticano - la firma dell’accordo Gfn
da parte dei rappresentanti di varie
chiese e religioni.
MAGGIO 2014 MC
9
La chiesa nel mondo
STATI UNITI
PELLEGRINAGGIO AL MURO
I
l 30 marzo e il 1° aprile il Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale degli Stati Uniti si
è recato a Nogales, nel deserto
dell’Arizona, in una delle zone in
cui corre il muro eretto per scoraggiare l’immigrazione clandestina dal Messico. Un pellegrinaggio
in un luogo simbolo della tratta
degli esseri umani, per celebrare
una messa in memoria dei circa
6 mila migranti che dal 1998 a oggi
sono morti nel deserto nel tentativo di entrare negli Usa. Erano presenti l’arcivescovo di Boston, card.
Sean O’Malley e numerosi vescovi
delle diocesi che si trovano sul
confine. Il gesto si ispirava dichiaratamente alla visita compiuta da
Papa Francesco sull’isola di Lampedusa l’8 luglio scorso. «Il confine tra gli Stati Uniti e il Messico è
la nostra Lampedusa», ha dichiarato mons. Eusebio Elizondo, pre-
sidente del Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale
degli Stati Uniti. Nel dibattito sull’immigrazione, «ciò che tendiamo
a dimenticare - ha aggiunto ancora
mons. Elizondo - è che i migranti
sono prima di ogni altra cosa esseri umani, non una questione economica e sociale. E che quanti sono morti nel deserto dell’Arizona e coloro che vengono deportati ogni giorno - hanno lo stesso valore
e la stessa dignità donata da Dio a
ogni persona, anche se pretendiamo di ignorare le loro sofferenze e
le loro morti».
(Vatican Insider)
NEPAL
UN MOTORE GIOVANE
giovani nepalesi convertiti al cattolicesimo sono «il vero, grande
Imotore
dell’evangelizzazione.
Moltissimi di loro sono impegnati
nel diffondere la Parola di Dio alla
popolazione: sono felice e fiero di
questi ragazzi». Bhim Rai, catechista della diocesi di Kathmandu,
definisce così «l’ondata positiva»
di interesse che il paese esprime
in questo periodo verso il cristianesimo. Dipak Thapa, convertito
da poco, conferma questo trend:
«In passato, quando il paese era
una monarchia indù, i cattolici vivevano con la paura di essere e-
marginati. Ma oggi la nostra è una
nazione laica e questo timore non
c’è più. Per me la conversione ha
rappresentato un privilegio, perché ora posso lavorare per diffondere il Vangelo e contribuire alla
costruzione del Regno di Dio». In
Nepal vivono circa 150 mila cristiani, di cui 8 mila sono cattolici.
(AsiaNews)
TORINO
MOVIDA SPIRITUALE
e i ragazzi non vanno alla Chiesa, la Chiesa va dai ragazzi: è il
S
messaggio interpretato alla lettera da mons. Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, che ha trascorso la notte di sabato 1° marzo di
pub in pub a parlare con i giovani.
L’oratorio della parrocchia Santi
Pietro e Paolo aveva deciso di offrire un’alternativa alla movida del
sabato e dunque ha tenuto la chiesa aperta tutta la notte, organizzando tornei di calciobalilla sul
sagrato. L’arcivescovo è andato di
persona ad avvisare i ragazzi di
questa opportunità. «Erano ovviamente stupiti di vedere un vescovo
in mezzo a loro - ha detto mons.
Nosiglia -, però i discorsi che abbiamo fatto sono stati anche discorsi di contenuto… adesso si
tratta di continuare.
(Vatican Insider)
MOZAMBICO: EMERGENZA SOCIALE
e multinazionali non rispettano le leggi mentre i contadini sono costretti a lasciare i villaggi per
fare posto alle attività estrattive e sono sempre più poveri»: mons. Inacio Saure, missionario
della Consolata e vescovo di Tete, denuncia la situazione paradossale che sta vivendo la popolazione di una delle regioni del Mozambico più ricche di materie prime. «Il governo sostiene che le difficoltà
sono così accentuate solo perché lo sfruttamento dei giacimenti di carbone è cominciato da pochi anni dice monsignor Saure - ma la verità è che i contadini, costretti a trasferirsi in villaggi di “re-insediamento” sorti
dal nulla, dove scarseggia la terra coltivabile e mancano
le fonti di sostentamento, stanno vivendo un grandissimo
malessere che presto potrebbe portare a nuove rivolte
della disperazione». Nella provincia di Tete, nell’area dei
giacimenti di Moatize, ci sono stati diversi precedenti.
L’ultima protesta risale a maggio dell’anno scorso,
quando i fabbricanti di mattoni, che avevano dovuto trasferirsi nei «re-insediamenti», bloccarono la ferrovia che
collega le miniere della multinazionale brasiliana Vale
con i terminali per l’export in riva all’Oceano Indiano. Anche loro, sulla base di una legge del 2013, devono essere risarciti dalle multinazionali. Ma quei pochi soldi non arrivano mai.
(Misna)
«L
# Mozambico - mons. Inacio Saure, vescovo di Tete.
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MC MAGGIO 2014
SWAZILAND
Testo di JOSÉ LUIS PONCE DE LEON
Foto STANISLAW JAN DZIUBA
CELEBRARE CENT’ANNI DI CHIESA LOCALE E UN NUOVO VESCOVO
PASSIONE PER GESÙ
E IL SUO POPOLO
Il 27 gennaio scorso
a Manzini, città
principale del regno
dello Swaziland e
sede dell’unica diocesi
cattolica, c’è stata una
doppia celebrazione:
si sono ricordati i
cento anni dall’arrivo
dei primi missionari,
ed è avvenuta
l’installazione del
nuovo vescovo,
mons. José Luis Ponce
de Leon, missionario
della Consolata.
Seguiamo
l’avvenimento con
gli occhi dello stesso
vescovo.
MAGGIO 2014 MC
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SWAZILAND
# Pagina precedente: il vescovo José
Luis Ponce de Leon con il pastorale
della diocesi di Manzini. | Qui accanto:
i vescovi del Sudafrica in visita a
Mbabane. | Sotto: la camminata verso
il Bosco Centre preceduti da majorette
e banda.
La preparazione
Alla fine del 2013 sono stato nominato vescovo della diocesi di
Manzini, nel regno dello Swaziland, di cui ero amministratore,
dalla morte del vescovo Ncamiso
Ndlovu il 27 agosto 2012. La diocesi è la «mamma» del vicariato
di Igwavuma di cui ero vescovo, e
subito mi ero reso conto che a genanio 2014 sarebbero stati cento
anni dall’inizio dell’evangelizzazione cattolica del regno, un’occasione eccellente per rinnovare
l’impegno missionario della diocesi. I preparativi per le celebrazioni erano già avviati quando è
arrivata anche la notizia della mia
nomina. Passato il primo momento di panico, con i miei collaboratori abbiamo pensato che la
celebrazione del centenario
avrebbe ospitato anche la mia installazione.
Così abbiamo iniziato a organizzare e a mandare inviti, cominciando dai vescovi del Sudafrica,
che non solo hanno accettato di
partecipare ma hanno anche deciso di fare a Manzini l’incontro
annuale di tutta la Conferenza
episcopale proprio la settimana
prima. Naturalmente sono state
invitate le autorità, e anche sua
Maestà il re Mswati III. Il primo
ministro e diversi ministri hanno
accettato.
I giornali locali ci hanno aiutati a
far conoscere a tutti la buona notizia e la televisione Swazi si è impegnata a trasmettere dal vivo la
celebrazione. L’avvenimento
stava diventando sempre più
grande e importante, creando
seri problemi logistici. Fino a ottobre sembrava chiaro che tutto
si sarebbe svolto nella cattedrale.
Ma dopo le prime adesioni ci
siamo resi conto che troppa
gente sarebbe rimasta fuori a
guardare il cielo. Per questo abbiamo spostato tutto nel salone
polifunzionale del «Bosco Youth
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MC MAGGIO 2014
Centre», un grande spazio coperto, quasi un palazzetto dello
sport. Volevamo essere tutti insieme, al coperto, anche se, essendo così grande, non pensavamo certo di riempirlo.
Il libretto del centenario
Per aiutare la preparazione abbiamo stampato un libretto, nel
quale si evidenziavano alcuni
punti importanti della storia della
Chiesa swazi. Ne riporto alcuni.
«Cento anni fa, il 27 gennaio
1914, i primi missionari cattolici
arrivarono in Swaziland. Erano
membri dell’Ordine dei Servi di
Maria (Osm) mandati come gli
apostoli a condividere la gioia del
Vangelo, portando in cuore una
profonda passione per Gesù e per
il suo popolo.
Lo sguardo sulla nostra Chiesa di
oggi e il ricordo dei nostri inizi ci
richiama subito alcune immagini
evangeliche:
* il seme di senape che è il più
piccolo di tutti i semi (Mc 4,3132);
* i cinque pani e i due pesci che
permisero a migliaia di persone di
mangiare a sazietà (Mc 6,34-44);
* e soprattutto il Signore che “lavorava con loro e confermava la
parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20), manifestando così la sua presenza e
guida.
«La celebrazione di questi primi
cento anni è l’occasione per tutti
noi di ricordare con gioia tantis-
simi momenti del cammino fatto.
Quanto è scritto in questo libretto è davvero ben poca cosa
rispetto a quanto celebriamo.
Allo stesso tempo ci ricorda che
“è di vitale importanza che oggi la
Chiesa continui a predicare il Vangelo a tutti, in tutti i posti, in ogni
occasione, senza esitazione, riluttanza o paura. La gioia del Vangelo è per tutti: nessuno ne deve
restare escluso” (Evangelii Gaudium 23).
Ricordando e celebrando noi rinnoviamo il nostro impegno a essere Buona Notizia per tutti in
ogni angolo del nostro paese e in
tutto il mondo».
Mbabane,
dove tutto è cominciato
La celebrazione del centenario si
è svolta a Manzini, un posto centrale. Ma ciascuno qui sa bene
che «tutto è cominciato a Mbabane». I primi missionari arrivarono in Swaziland dal Sudafrica e
andarono a Mbabane dove, alcuni giorni dopo il loro arrivo, ottennero il posto chiamato oggi
«Mater Dolorosa».
Per ricordarlo, abbiamo organizzato un pellegrinaggio di tutti i
vescovi del Sudafrica proprio là.
Venuti a Manzini per la loro assemblea annuale (la prima in assoluto mai fatta nel regno), li abbiamo invitati a fare una visita a
Mbabane, la città capitale del regno. Nessuno è rimasto indietro.
Accolti dal Consiglio Pastorale,
MC ARTICOLI
dopo la foto di rito, siamo andati
in chiesa per pregare e ringraziare. Abbiamo cominciato con
l’inno God’s Spirit is in my heart e
dopo che il vescovo Jabulani Nxumalo (Oblato di Maria Immacolata - Omi, di Bloemfontain) ha
presentato tutti, abbiamo ascoltato il testo di Mt 28,16-20: il
mandato missionario in cui Gesù
dice ai suoi «Andate e fate discepoli di tutte le nazioni. (…) Sono
con voi per sempre». E abbiamo
pregato così: «Signore, che mandasti i tuoi apostoli a proclamare
il Vangelo a tutto il mondo e che
hai guidato i missionari nella tua
vigna in Swaziland, ti chiediamo
di continuare a guidare la tua
Chiesa pellegrina e missionaria
nel proclamare il Vangelo a tutti.
Attraverso lo Spirito Santo che ha
animato gli apostoli all’inizio della
tua santa Chiesa, guidala oggi e
sempre perché il tuo messaggio
d’amore possa raggiungere le
orecchie dei poveri e dei ricchi
per farli diventare docili al tuo
Santo Spirito, e il Regno di Dio nel
tuo amore giunga al suo compimento. Amen».
Cammino non processione
Con la televisione che trasmetteva in diretta dovevamo essere
assolutamente puntuali, così il 26
gennaio, domenica mattina, alle
9.00, preceduti dalle majorette
della St. Theresa’s School e dalla
Salesian Band, siamo andati a
piedi dalla cattedrale al Bosco
Youth Centre. Non era una processione. Non c’era un ordine
preciso: i chierichetti sì marciavano dietro la banda, ma tutti gli
altri - vescovi, preti, laici e religiosi - camminavamo insieme,
fianco a fianco.
In verità molto prima dell’inizio
della messa il palazzetto era già
pieno all’inverosimile, e, nonostante fossero state aggiunte un
migliaio di sedie, molti erano rimasti fuori. L’interno era deco-
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SWAZILAND
rato in modo splendido con striscioni fatti dalle diverse parrocchie, associazioni e gruppi religiosi. Un modo davvero creativo
per dire: «Siamo qui, anche noi
celebriamo il nostro cammino nel
regno dello Swaziland».
Entro le 9.30 noi preti e vescovi
eravamo indaffarati a vestirci e
prepararci per la celebrazione. Ho
approfittato del momento per salutare i sacerdoti arrivati dal Vicariato di Ingwavuma (dove ero
stato vescovo fino a quel giorno e
di cui sono ancora amministratore) e da altre parti del Sudafrica. Allo scoccare delle 10 siamo
entrati in processione accolti da
un’esplosione di gioia.
Chiamato a servire
in un’altra diocesi
La celebrazione è stata presieduta dall’arcivescovo di Johannesburg, mons. Buti Tlhagale, Omi.
Era affiancato da mons. Stephen
Brislin, arcivescovo di Cape Town
e presidente della Conferenza
episcopale del Sudafrica, e dal
cardinal Wilfrid Napier, arcivescovo di Durban. Mi hanno fatto
sedere in mezzo agli altri vescovi
a lato dell’altare.
L’arcivescovo Tlhagale ha ricordato che era la prima volta nella
storia della diocesi che il nuovo
vescovo non era consacrato a
Manzini, ma solo installato. Ha
continuato citando una frase di
papa Francesco ai preti: «Questo
vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore».
The Swazi Observer, il giornale
nazionale, ha così sintetizzato il
suo discorso d’apertura: «Durante la messa per la celebrazione del centenario [dell’arrivo]
dei Cattolici Romani [in Swaziland] al Bosco Youth Centre domenica scorsa, l’arcivescovo di
Johannesburg Buti Tlhagale ha
sintetizzato ne “l’essere per servire” lo spirito che distingue la
Chiesa, quando ha detto all’assemblea che si augurava che il
nuovo vescovo José Ponce de
Leon fosse davvero un buon pastore. Ha poi aggiunto che un
buon pastore deve sempre “puzzare come il suo gregge”, il che
era come dire che il vescovo deve
sempre identificarsi col popolo di
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MC MAGGIO 2014
cui è guida. Puzzare come il proprio gregge significa diventare
uno con la gente. Quando le tue
pecore hanno fame, tu patisci la
fame con loro, e quando condividono un buon raccolto anche tu
gioisci con loro. Puzzare come il
gregge significa diventare parte
del tutto, piangendo con esso nei
momenti di dolore e danzando
con esso quando c’è da celebrare.
Tu diventi parte del gregge a tal
punto da essere sufficiente farti
annusare per far sapere quello
che sei.
Questo spirito è probabilmente lo
stesso vissuto da Gesù durante il
suo tempo sulla terra. Ed è molto
incoraggiante vedere che la
Chiesa cattolica romana vive di
questo supremo ideale, in uno
sforzo di semplificazione dei miti
della religione, e aprendo nello
stesso tempo le porte a tutti, per
dimostrare che tutti sono benvenuti.
La Chiesa cattolica romana è
stata veramente esemplare in
tutto ciò, e i suoi missionari
hanno vissuto questo ideale fin
dall’inizio. Questa è la ragione
che probabilmente spiega la facilità con cui loro hanno vinto i
cuori del popolo».
Quando è stato letto il Mandato
papale, sono stato invitato a sedere sulla «cattedra» (la sedia
che nella cattedrale solo il vescovo in carica può occupare).
Una volta seduto mi hanno con-
segnato il pastorale. Non uno
nuovo, non l’ho voluto, ma quello
del mio predecessore, mons. Ncamiso Ndlovu, vescovo di Manzini
dal 1985 al 2012.
I vescovi sono poi venuti uno a
uno a salutarmi mentre la segretaria generale della Conferenza
episcopale, suor Hermenegild
Makoro, li presentava ai fedeli di
MC ARTICOLI
Manzini. Di seguito sono venuti i
sacerdoti, i religiosi e i laici (i presidenti dei consigli pastorali delle
15 parrocchie) per dare il benvenuto al loro nuovo vescovo e promettere di lavorare con lui.
A ciascuno ho dato una copia dell’esortazione apostolica Evangelii
gaudium di papa Francesco che
tratta dell’impegno di annunciare
# In questa pagina: momenti della
celebrazione nell’affollatissimo
palazzetto dello sport del Bosco
Centre, dove oltre a ricordare il
centenario dell’evangelizzazione
cattolica nello Swaziland,
l’argentino mons. José Luis, già
vicario apostolico di Ingwavuma,
è stato installato come vescovo
di Manzini.
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SWAZILAND
Storia della diocesi
27 gennaio 1914, arrivo dei
primi missionari.
19 aprile 1923, nasce la Prefettura apostolica dello Swaziland, prefetto mons. Pellegrino Bellezze, Osm-servita.
19 marzo 1939, la Prefettura diventa Vicariato apostolico,
con mons. Costantino Barneschi, Osm.
11 gennaio 1951, creata la diocesi di Bremersdorp (= Manzini), sempre con mons. Barneschi.
7 novembre 1961, la città riprende l’antico nome indigeno di Manzini; anche la
diocesi prende il nome
nuovo.
Regno dello Swaziland
Indipendenza: 6 settembre
1968.
Superfice: 17.364 km2.
Popolazione: 1.185.000 (2009).
Religioni: 82,7% cristiani (40%
Protestanti, 20% Cattolici,
22,7% Evangelici e Chiese
africane indipendenti).
il Vangelo nel mondo di oggi. Essendo la celebrazione centrata
sul centenario dell’evangelizzazione in Swaziland, mi è sembrato
che l’esortazione fosse lo strumento migliore per cominciare i
prossimi cento anni.
Una volta installato, è toccato a
me presiedere la celebrazione,
come nuovo padrone di casa. Le
letture sono state proclamate in
portoghese (la lingua dei molti
immigrati e rifugiati dal Mozambico), inglese e siswati (la lingua
locale), come si usa da queste
parti durante le celebrazioni più
importanti.
La mano di Dio al lavoro
Durante la predica ho insistito
sull’idea che ora tocca a noi continuare quello che altri hanno iniziato. Siamo noi a venire chiamati
da Gesù a essere «buona notizia», luce per chi cammina nelle
tenebre e pescatori di uomini e
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MC MAGGIO 2014
donne. Ho ricordato poi che tantissimi anni prima, quando ero
ancora un seminarista, un prete
aveva detto in una predica che
«Solo i matti credono nelle coincidenze». «No - ho continuato -,
noi non crediamo in coincidenze.
Noi crediamo nella mano di Dio al
lavoro nelle nostre vite. Non ho
scelto le letture di oggi. Sono
quelle ordinarie di sempre, che
ogni cattolico può ascoltare oggi
in tutto il mondo. Eppure, sembrano proprio fatte per questo
giorno. Non è coincidenza, è la
mano di Dio al lavoro tra noi oggi.
«Pensateci:
* Nel vangelo di Matteo (4,1223) Gesù comincia il suo ministero predicando la Buona Notizia, insegnando e guarendo e qui noi celebriamo e ricordiamo l’inizio dello stesso ministero nel regno dello Swaziland
a opera dei primi missionari
cattolici arrivati cento anni fa.
* Vediamo Gesù che chiama Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni perché lo seguano e diventino pescatori di uomini - e
noi qui ricordiamo i nomi di coloro che Gesù fece pescatori di
uomini per noi: i padri Gratl,
Mayer e Bellezze e fratel Obeleitner, missionari Serviti.
* Vediamo Gesù andare in giro
nella Galilea toccando la vita di
ognuno - e noi ricordiamo e celebriamo chi ha accolto quei
primi missionari da Mbabane a
Mzimpofu, da Bulandzeni a
Hluthi, da Piggs Peak a Siteki. Ricordando i primi, vogliamo an-
# La diocesi di Manzini è molto
impegnata in programmi a favore dei
poveri, delle donne, dei rifugiati e
soprattutto dei giovani, spesso le
prime vittime della piaga dell’Aids.
che ricordare tutti gli altri missionari che li hanno seguiti: altri
Serviti, le monache Benedettine, le suore Mantellate, le Domenicane di Cabra e di Montebello, i Salesiani, le suore di Madre Cabrini, le suore Servite
dello Swazi, le suore missionarie
del Perpetuo Soccorso, … e con
loro anche tutti i sacerdoti diocesani che dal 1964 hanno cominciato a servire le nostre comunità.
Ma la Missione non è compito
solo di preti e suore. Come Gesù
nel Vangelo, anche i primi missionari chiamarono altri a camminare con loro per essere preparati e mandati a evangelizzare: i
catechisti. I pochi preti e le suore
che hanno servito nel paese agli
inizi, non avrebbero potuto ottenere i risultati raggiunti senza
l’aiuto dei catechisti».
Ho detto anche molte altre cose,
troppe da riprodurre qui. Ne riporto ancora una. «Oggi siamo qui
per ricordare. Ricordando celebriamo. Celebrando ringraziamo
Dio per tutto quello che ha fatto
per noi in questi anni. Ma… voi sapete bene quello che dico sempre:
Questo non è un museo! Non
siamo qui solo per ricordare. Noi
qui vogliamo rinnovare il nostro
impegno a continuare quello che
MC ARTICOLI
abbiamo sentito nel Vangelo di
oggi. Noi ci impegniamo non solo
a proclamare (con le parole) la
“Buona Notizia”, ma a essere (coi
fatti) “Buona Notizia”. Di parole ne
diciamo troppe! Noi vogliamo essere riconosciuti come discepoli di
Gesù. Discepoli missionari che
vanno fuori e con la loro vita toccano la vita degli altri».
Tutto bene
Durante l’offertorio ho scambiato
poche parole con padre Sakhile
Mswane, il cerimoniere. Ero davvero preoccupato per il sovraffollamento. Avevo paura che potesse succedere qualcosa. Lui mi
ha rassicurato: tutto sarebbe andato bene. E così è stato!
I vescovi sono stati lieti di distribuire la comunione, mentre io
ero felicissimo di essere mandato
nel punto più lontano dall’altare.
Restare al posto centrale non mi
piaceva proprio, preferivo andare
fra quelli che erano «più lontani».
E mi hanno accontentato. La
gente aveva obbedito all’invito di
non scattare fotografie durante la
celebrazione. Tutti erano stati fin
troppo bravi fino a quel momento. Ma quando si sono trovati
il vescovo in mezzo a loro, la tentazione è stata troppo forte!
Prima della benedizione finale ci
sono stati i discorsi con particolari
ringraziamenti al Vicariato di
Ingwavuma per aver donato il
nuovo vescovo allo Swaziland. Il
primo ministro Sibusiso Dlamini
ha ricordato il grande contributo
della Chiesa allo sviluppo del
paese, e il principe Simelane, che
rappresentava il re Mswati III, ha
sottolineato la scelta preferenziale dei poveri, dei disabili, dei rifugiati (in particolare dalle aree
attorno ai Grandi Laghi, ndr)
come una delle caratteristiche
particolari dei cattolici e li ha elogiati per avere delle scuole che
accettano chiunque senza distinzione di merito e di ceto sociale,
dando a tutti la possibilità di
avere un’educazione di base.
Per concludere ho fatto distribuire la preghiera di S. Francesco:
«Fa’ di me uno strumento di
pace». «Ditela tutte le mattine.
La prima cosa da fare! Imparatela
a memoria. “Fa’ di me”: è il mio
impegno. Non delego ad altri. Ditela ogni sera. Sia guida per l’esame di coscienza: ho perdonato,
amato, consolato, ascoltato?
Sono stato luce, pace e speranza?
Preghiera la mattina, verifica la
sera. Senza scoraggiarci. Non dipende solo da noi. C’è l’aiuto di
Dio. Niente è impossibile per
Lui».
José Luis Ponce de Leon*
* Missionario della Consolata argentino, nato nel 1961, ordinato prete nel
1986 e vescovo dal 2009.
Testo tradotto e adattato da Gigi
Anataloni da bhubesi.blogspot.com
Lo spirito missionario e vocazionale
della celebrazione di Manzini trova eco nel
Messaggio per la
Giornata delle Vocazioni
(11 maggio 2014 - testo completo su www.vatican.va)
nche oggi Gesù vive e cammina nelle nostre realtà della vita ordinaria per accostarsi a tutti, a cominciare dagli ultimi, e guarirci dalle nostre infermità e malattie. Mi rivolgo ora a coloro
che sono ben disposti a mettersi in ascolto della voce di Cristo che risuona nella Chiesa, per comprendere quale sia la propria vocazione.
Vi invito ad ascoltare e seguire Gesù, a lasciarvi trasformare interiormente dalle sue parole che «sono spirito e sono vita» (Gv 6,62). Maria,
Madre di Gesù e nostra, ripete anche a noi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela!» (Gv 2,5). Vi farà bene partecipare con fiducia a un cammino comunitario che sappia sprigionare in voi e attorno a voi le energie migliori. La vocazione è un frutto che matura nel campo ben coltivato
dell’amore reciproco che si fa servizio vicendevole, nel contesto di
un’autentica vita ecclesiale. Nessuna vocazione nasce da sé o vive per
se stessa. La vocazione scaturisce dal cuore di Dio e germoglia nella
terra buona del popolo fedele, nell’esperienza dell’amore fraterno.
Non ha forse detto Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)?
ari fratelli e sorelle, vivere questa «misura alta della vita cristiana ordinaria», significa talvolta andare controcorrente e
comporta incontrare anche ostacoli, fuori di noi e dentro di
noi. Gesù stesso ci avverte: il buon seme della Parola di Dio spesso
viene rubato dal Maligno, bloccato dalle tribolazioni, soffocato da
preoccupazioni e seduzioni mondane (cfr Mt 13,19-22). Tutte queste
difficoltà potrebbero scoraggiarci, facendoci ripiegare su vie apparentemente più comode. Ma la vera gioia dei chiamati consiste nel
credere e sperimentare che Lui, il Signore, è fedele, e con Lui possiamo camminare, essere discepoli e testimoni dell’amore di Dio,
aprire il cuore a grandi ideali, a cose grandi. «Noi cristiani non
siamo scelti dal Signore per cosine piccole, andate sempre al di là,
verso le cose grandi. Giocate la vita per grandi ideali!» [...].
Francesco
A
C
MAGGIO 2014 MC
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UgaNda
testo di ANNA GIOLITTO e
DANIELE BIELLA
foto di ANNA GIOLITTO
Tra le ferite ancora
aperte delle violenze
armate degli anni
passati, il rischio dello
sfratto dalle proprie
terre, la siccità che
sembra aumentare di
anno in anno facendo
crescere l’insicurezza
alimentare.
Sui pendii del monte
Moroto, nell’angolo
più remoto del Nord
Est dell’Uganda, alcuni
membri della tribù Karamojong, inclusi i
bambini, ricercano
l’oro nell’arida terra
rossa.
18
MC MAGGIO 2014
SfrUTTaMENTo iNTENSivo dEl Nord EST UgaNda
L’ORO DEL
KARAMOJA
U
n tempo allevatori di bestiame, i Karamojong sperano di migliorare la loro
situazione economica
vendendo piccole quantità d’oro
che grattano dalla terra arida del
Karamoja, regione a Nord Est dell’Uganda, al confine con il Kenya
e il Sud Sudan, considerata la più
emarginata del paese e una delle
più povere del mondo. Terra di
pastori seminomadi, il Karamoja
è stato teatro di un lungo ciclo di
conflitti tra i diversi clan di guerrieri per l’accaparramento del bestiame, la sopravvivenza, e in
lotta contro l’interferenza del governo.
Dal 2001, per un decennio, migliaia di soldati ugandesi hanno
condotto una brutale campagna di
disarmo in tutta la regione. Con il
disarmo e la relativa riduzione dell’uso della pastorizia come fonte di
sostentamento principale, i Karamojong sono oggi costretti a reinventarsi in un nuovo stile di vita, e
a cercare nuove opportunità di so-
stentamento. A causa degli effetti
sempre più visibili del riscaldamento climatico, tra cui l’aumento
dei periodi di siccità, la vita in questa pianura semiarida diventa
sempre più difficile e l’agricoltura
non può rappresentare l’unica risorsa sostenibile. La popolazione
locale si ritrova quindi con poche
alternative per sopravvivere.
«L’oro è diventato ora ciò che
prima le mucche rappresentavano
per noi», dice un anziano. Nonostante l’economia in Uganda abbia
un enorme potenziale di crescita
per l’inaspettata scoperta del petrolio, il Karamoja rimane una regione dimenticata ed esclusa.
Scavando a mani nude sulle
colline di rupa
Per Lomilo, che lavora nella miniera di Rupa, la ricerca d’oro è un
business di famiglia. Ogni mattina
dall’alba si reca con moglie e figli
sulle colline minerarie di Rupa per
il lavoro nelle gallerie. Lomilo
passa le sue giornate scavando a
MC ARTICOLI
# Da sinistra in senso orario: cercatore d’oro. | Parte
della famiglia intervistata. | Ingresso ai tunnel. |
Veduta aerea di un manyatta, tradizionale villaggio
con case in paglia. | Veduta aerea della Karamoja.
mani nude profondi cunicoli nel
terreno, nei quali si cala per cercare terra sempre nuova. Regolarmente riemerge e passa alla moglie Naduk bacinelle di terra preziosa. Naduk setaccia il raccolto insieme alla figlia più grande, mentre allatta il piccolo e si prende
cura degli altri quattro figli. La loro
giornata trascorre monotona con
viaggi di 8 km a piedi per arrivare
al pozzo e raccogliere l’acqua necessaria per l’operazione di setaccio. Lavorando con strumenti primitivi e in condizioni molto difficili,
la ricerca dell’oro è un lavoro pericoloso e sfinente. Nessun pasto è
previsto durante la giornata, ci si
potrà rifocillare la sera rientrando
nel villaggio, se la ricerca d’oro
avrà dato qualche buon risultato.
Seduta sul bordo dello scavo, la figlia di Naduk è responsabile del lavaggio: un lungo processo per cercare di trasformare i mucchi di
terra raccolti dal padre in qualche
frammento d’oro. «Amo il mio lavoro», dice mentre lava la terra,
«voglio avere qualcosa per sopravvivere con la mia famiglia». Tutti i
figli di Lomilo sono coinvolti nella
ricerca dell’oro. Il sistema scolastico in Uganda è a pagamento, un
lusso che solo il 10% della popolazione in Karamoja può permettersi
(contro il 70% a livello nazionale).
È difficile andare a scuola e studiare a stomaco vuoto, per cui
molti bambini preferiscono lavo-
rare alla miniera e ottenere qualche spicciolo a fine giornata.
Al di sotto dei 18 anni
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), i lavoratori
nelle miniere d’oro in Africa sono
per un 30-40% bambini al di sotto
dei 18 anni. A causa della fame e
della povertà i genitori li incoraggiano a lavorare nelle miniere per
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UGANDA
poter comprare cibo e vestiti.
Spesso i bambini sono i più abili a
muoversi negli stretti cunicoli
sotto terra. Inoltre, in tutto il continente africano si registrano alti
indici di abbandono scolastico negli istituti d’istruzione che si trovano nei pressi di giacimenti minerari.
In Kaabong, distretto del Karamoja
che registra elevati tassi di malnutrizione e dove buona parte della
popolazione si sta sempre più dedicando al lavoro nelle miniere,
l’assenteismo a scuola è un problema crescente. Il lavoro nella
miniera di Rupa è rischioso. Molte
vite sono perse ogni anno a causa
del crollo di qualche tunnel. Lomilo indica uno scavo dove qualche settimana prima ha perso un
amico.
0,3 Euro al grammo
«È un lavoro rischioso, ma non ho
altra scelta per il momento»,
spiega Lomilo. Il suo grande sogno, come per tutti i ricercatori
d’oro, è quello di trovare un
giorno un grande pezzo d’oro, così
da potersi finalmente sistemare
con la sua famiglia, mandare i figli
a scuola e dedicarsi nuovamente
all’allevamento del bestiame, anch’essa attività oggi molto rischiosa per le continue razzie da
parte dei clan vicini.
A fine giornata Lomilo si reca al
mercato per vendere la polvere
d’oro. Con 9 grammi guadagna
9.000 Scellini ugandesi, equivalenti a 2,7 Euro circa per una giornata di lavoro di un’intera famiglia. Anche la famiglia di Lomilo
rientra nella tanto discutibile categoria di «povertà estrema», definita in base al guadagno inferiore
a un dollaro procapite al giorno,
«the dollar a day poverty line». Al
mercato dell’oro sono presenti numerosi commercianti, arrivati dal
Kenya o dalla capitale Kampala.
Comprano illegalmente l’oro da
questi gruppi informali per rivenderlo alle grandi compagnie minerarie, spesso multinazionali con
sede all’estero. Lo scavo di Lomilo
è uno dei migliaia che ricoprono la
collina di Rupa. Secondo fonti locali sono circa 10.000 le persone
che riescono a sopravvivere grazie
a questa miniera a cielo aperto. In
totale, il triplo di questo numero
dipende dalle miniere d’oro in Karamoja, e la cifra non tiene conto
dei lavoratori delle miniere di
marmo, gemme e pietre calcaree.
La regione del Karamoja con i suoi
enormi depositi d’oro, potrebbe
diventare la nuova frontiera di
sfruttamento minerario dopo il
petrolio nell’Ovest dell’Uganda. Le
# Da sinistra in basso in senso orario: terra al setaccio
per la ricerca dell’oro. | Nella tazza emerge qualche
granello di polvere d’oro. | La polvere viene raccolta in
un tubicino di plastica per il trasporto al mercato. | Un
bambino compra l’oro al mercato nero. | Giovani e anziani Karamojong a una riunione di villaggio (sotto).
20
MC MAGGIO 2014
comunità e i leader locali temono
che nuovi conflitti possano derivare dalla lotta per l’accaparramento di queste risorse. Recentemente si stanno diffondendo notizie di trafficanti d’oro che lavorano per conto di qualche industriale o politico di primo piano,
per lo sviluppo di un’industria mineraria nella regione. Sfruttando
la lontananza dalla capitale e il generale disinteresse politico e me-
diatico per la regione, alcuni uomini d’affari potrebbero assicurarsi le zone minerarie del Karamoja, utilizzando a proprio vantaggio i conflitti tra i vari clan.
Comunità locali
a rischio di sfratto
L’ufficio della Ricerca Geologica e
Mineraria si occupa di concedere le
licenze agli operatori interessati.
Tuttavia, nonostante il governo locale neghi la presenza di attività illegali, diverse organizzazioni locali
sostengono che l’industria aurifera
manchi di trasparenza e che molti
operatori agiscano nella regione
senza una vera e propria licenza o
con una concessione scaduta da
anni. Secondo il Mining Act del
2003, un’azienda può ottenere una
licenza per tre anni. Il proprietario
del terreno, la provincia e il distretto, dovrebbero ricevere le
royalties. Tuttavia sembra che i dividendi dell’oro rimangano per
molto tempo in una zona grigia.
Nel frattempo, le comunità locali
vivono nell’incertezza e nella paura
che qualcuno possa cacciarli dalle
loro terre, rinnovando il conflitto
nella regione. Alla fine si torna a un
punto dolente per tutto il continente africano, e non solo per esso:
la ricchezza di pochi (i proprietari
delle miniere e chi «li controlla»,
quasi sempre corporazioni multinazionali senza scrupoli) accumulata
con lo sfruttamento di molti.
In un’Uganda in piena crescita
e con sempre nuovi problemi
E pensare che l’Uganda negli ultimi anni ne ha fatta di strada da
quando la ventennale guerra civile
tra governo e ribelli dell’Lra (Lord
resistance army, guidati dal famigerato Joseph Kony, cfr. MC giugno 2012), terminata con gli ac-
cordi del 2008, non ha più depredato gli abitanti della loro terra e
della possibilità di vivere in serenità. Le famiglie sono tornate nelle
loro case, i bambini soldato (se ne
stimano almeno 300mila nel
mondo, che porteranno per decenni i traumi dei combattimenti e
dei soprusi) si sono man mano
reinseriti nell’ambiente originario,
l’economia ha ricominciato a girare, lentamente, in tutto il paese,
che oggi registra 36 milioni di abitanti e un tasso di crescita annuale
del 3,3%. Mentre si spera che la situazione interna rimanga tranquilla - nonostante la «sporca»
corsa ai minerali -, si presenta un
nuovo problema per il Nord del
paese, e in parte anche per il Karamoja: sono le decine di migliaia di
sfollati che scappano dal Sud Sudan, il più giovane stato del
mondo, staccatosi nel 2011 con un
referendum dal Sudan ma da alcuni mesi in preda, a sua volta, a
un conflitto armato scatenato dall’ex vicepresidente ribelle nei confronti dell’attuale premier. Conflitto nel quale, per ora, le forze internazionali stanno a guardare,
ma che sta generando fughe di
massa in altri paesi, benché questi
non abbiano strutture e strumenti
adatti per accoglierli, come l’Uganda.
Insicurezza alimentare
Nel frattempo in Karamoja, oltre a
quella delle miniere, tiene banco
da qualche mese la questione
della sicurezza alimentare, messa
a dura prova non solo dagli eventi
bellici del recente passato ma anche dalla siccità che ogni anno
sembra aumentare (nel 2013 si è
calcolata una diminuzione fino al
50% dei raccolti in tutta la regione). Il governo centrale ha lanMAGGIO 2014 MC
21
UGANDA
ciato un piano speciale piuttosto
originale per migliorare la situazione agricola del Karamoja: a tutti
i cittadini viene chiesto di creare
un proprio orto coltivando due generi alimentari, patate e tapioca.
Nient’altro, perché questi, spiegano le autorità, sono i cibi che resistono di più alla scarsità d’acqua.
La notizia non è stata accolta con
calore dalla popolazione. Anzi,
molti mettono in dubbio l’efficacia
di un’azione del genere, lamentandosi del fatto che bisognava invece puntare sul bestiame, più
redditizio. In attesa di sapere
quale sarà l’efficacia del piano go-
vernativo, Irin, l’agenzia informativa legata all’Onu, ha comunicato
che il Pam, Programma alimentare
mondiale, ha pianificato di consegnare cibo ad almeno 155mila
persone da febbraio 2014, di
rafforzare azioni che da qualche
anno stanno migliorando altri
aspetti della società locale, come il
programma food for work (cibo in
cambio di lavoro) che comprende
390mila beneficiari, di mettere in
atto una forte iniziativa scolastica
per 100mila bambini a rischio dispersione e un programma di salute e nutrizione per 38mila giovani madri e i propri piccoli, di raccogliere più scorte di cibo per almeno 25mila bambini denutriti.
Anche in questo caso, però, ci sono
dei problemi: il Pam ha reso noto
che non sa se nel 2014 avrà i fondi
per sostenere tutti i programmi,
una sorta di pre allerta a non fare
troppo affidamento su di essi. Una
notizia negativa, che potrebbe essere controbilanciata solo da una
rivoluzione culturale: dalle miniere
del Karamoja ai campi dei sette distretti regionali, la voce del popolo
spesso è univoca nel sostenere che
non basta indicare cosa coltivare e
cosa no. È tutto l’approccio che
deve cambiare. Ovvero, bisogna
mettere in grado le persone di gestire non solo la coltivazione diretta ma anche la lavorazione del
cibo dalla materia prima, l’acqua
potabile, le strutture sanitarie e la
protezione sociale. Così facendo, la
regione, e non solo essa, farebbe
quel salto di qualità che oggi
manca e che proietterebbe la
gente del luogo verso un futuro
migliore, più legato all’autonomia,
all’imprenditorialità e meno all’assistenzialismo.
Anna Giolitto e Daniele Biella
# Da sopra a sinistra in
senso orario: donna
karamojong. | Misurazione del braccio per
la valutazione dello
stato di malnutrizione
del bimbo. | Pastori al
mercato del bestiame.
BURKINA FASO
di LIA CURCIO*
L’ONG LVIA IN BURKINA FASO
UNA STORIA LUNGA
R
40 ANNI
iccardo Botta è tornato in
Burkina Faso per festeggiare i 40 anni di attività
dell’Ong Lvia (Lay volonteer international association,
www.lvia.it) nel paese. Lui è stato
tra i pionieri, nel primo gruppo di
volontari che con Lvia sono partiti
alla volta del Burkina Faso. A
Donsè, Riccardo metteva le basi
di una storia. Erano gli anni Settanta.
«È ancora vivo nella memoria il
momento in cui nel lontano ’73,
su richiesta del cardinale Paul
Zoungrana, mettemmo piede in
Alto Volta, come allora era chiamato il Burkina Faso. Trovammo
un paese sconvolto dalla siccità.
Partimmo in cinque per dar vita,
con la diocesi di Ouagadougou e i
ministeri della Sanità e dell’Agricoltura del Burkina Faso, al primo
programma di cooperazione».
© Archivio Lvia
L’Ong Lvia ha da poco
festeggiato i 40 anni
di presenza in
Burkina Faso.
Fondata nel 1966 da
don Aldo Benevelli,
7 anni dopo i primi
volontari giunsero
nell’allora Alto Volta.
Da quel giorno tante
realizzazioni, ma
soprattutto storie
di persone, incontri,
relazioni.
Scopriamo questa
storia positiva che
lega Italia e Africa
dalle parole dei
protagonisti.
MAGGIO 2014 MC
23
© Jean Patrick Masquelier
BURKINA FASO
# Pagina precedente: la squadra
Lvia in Burkina Faso al completo.
# A destra: Riccardo Botta con
mons. Jean-Maire Compaoré,
vescovo emerito di Ouagadougou
durante i festeggiamenti per
i 40 anni dell’Ong.
# Sotto: Cristina Daniele, volontaria
dell’anno Focsiv nel 2008.
# A fianco: Marco Alban,
il rappresentante Lvia nel paese.
Anni ruggenti
«Il nascente gruppo Lvia era figlio
del clima post conciliare - spiega
don Aldo Benevelli, che ricorda i
primi passi dell’associazione. Con
il Concilio Vaticano II si faceva
strada l’idea di una Chiesa nuova
e a noi interessava soprattutto il
rinnovamento del cristiano, come
uomo che sta vicino all’uomo.
Nasceva a Cuneo un gruppo di
giovani eterogeneo, cattolici,
laici, provenienti dal mondo del
sindacato e dell’università, ma
con uno sguardo sul mondo basato sui medesimi valori».
Nel 1972 iniziava la grande siccità
nel Sahel che colpì oltre 50 milioni di persone. Una tragedia
umanitaria che per la prima volta
portava alla ribalta sui grandi
mass media mondiali questa, allora poco conosciuta, regione
africana. Dal contatto tra don
24
MC MAGGIO 2014
Aldo Benevelli e i padri Camilliani
in Burkina Faso, nasce l’impegno
di Lvia nel paese per affrontare la
carestia. Continua Riccardo:
«Partimmo con alcuni giovani di
Ivrea, dove mons. Luigi Bettazzi
aveva fondato un gruppo come il
nostro. Nel villaggio di Donsè costruimmo la nostra sede, una modesta capanna; avevamo un solo
motorino ed eravamo distanti
dalla capitale 35 km, da percorrere senza strade asfaltate. Facevamo una vita spartana, bevevamo l’acqua del barrage (diga),
raccogliendola con i bidoni e filtrandola e mangiavamo un piatto
a base di miglio e foglie. Eravamo
gli unici cooperanti in quell’area
e volevamo portare un messaggio di condivisione. Dovevamo vivere come gli altri. La differenza
tra noi e i cooperanti in capitale
era abissale, tanto che eravamo
soprannominati “i mendicanti”».
Mons. Jean-Marie Untani Compaoré allora era responsabile
della Diocesi di Ouagadougou, il
partner che accolse Lvia in
Burkina Faso. Oggi ancora vicino
all’associazione, ricorda: «La venuta degli amici italiani era stata
annunciata nel 1972 in chiesa,
nel quadro delle celebrazioni eucaristiche in cui erano presentati i
tre precursori della Lvia, dei
“bianchi”. A seguito di questa visita di conoscenza, i primi volontari cominciarono ad arrivare a
Donsè, ospitati presso il Centro di
formazione dei catechisti. Non
tardarono a iniziare le attività».
Cominciava così il primo programma agricolo-sanitario e la
costruzione del primo dispensario a Donsè, con due casette per
il ricovero e le consultazioni.
Africani: ruolo fondamentale
Negli anni ’80 e ‘90 le competenze locali aumentavano e le
istituzioni erano più presenti.
© Cristiano Proia / Archivio Focsiv
Così ricorda Riccardo Botta. Infermiere in pensione, quando era
poco più che ventenne entrava a
far parte del gruppo di giovani
Lvia che allora - era il 1966 - si
stava costituendo sotto la guida
di un carismatico don Aldo Benevelli. Continua: «Don Aldo era un
prete guru; schieratissimo contro
la guerra del Vietnam, il suo monito era “Cambiate le vostre
spade in vomeri!”. Erano anni di
grande fermento, di ideali, di desiderio di prendere posizione e
attivarsi».
MC ARTICOLI
Ezio Elia è partito per il Burkina
Faso nel 1989: «Conoscevo la
Lvia da sempre, fin da bambino
andavo a messa alla cappella dei
ferrovieri da don Aldo Benevelli.
La mia destinazione è stata la
città di Ziniaré. Lavoravamo con
le autorità governative ma anche
con i villaggi. Molti dei miei colleghi erano burkinabè e il loro
ruolo era fondamentale per accompagnare i villaggi nella scelta
delle infrastrutture da costruire una scuola, un pozzo, un mulino
- per aiutarci a capire le dinamiche in atto indicandoci, ad esempio, se ci fosse in quel villaggio
un gruppo abbastanza coeso da
poter gestire una futura struttura».
Era il 1993 quando, alla fine di
un lungo programma di sviluppo
integrato promosso da Lvia, il
gruppo di animatori impegnati
nel progetto decise di auto organizzarsi per proseguire e consolidare i risultati raggiunti. Otto
persone fondarono l’Associazione di Aiuto agli Agricoltori
(Ask, acronimo in lingua locale, il
mooré), che oggi con 7.000 contadini associati è un’organizzazione di riferimento per la regione del Plateau Central.
Un seme che dà frutto
I quarant’anni di Lvia sono stati
anche l’occasione per celebrare i
vent’anni di esistenza dell’Ask.
Marcel Koutaba, il suo fondatore,
ha iniziato negli anni Settanta a
lavorare con Lvia come autista.
Accompagnava nei villaggi gli animatori, che si occupavano di seguire i produttori nella realizzazione delle attività agricole: «Ho
potuto approfondire il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo dell’Europa e ho capito che dovevamo proteggere i nostri agricoltori contro la crescente urbanizzazione, che stava sradicando la
nostra cultura agricola e che
avrebbe ostacolato lo sviluppo
del paese. Il mio interesse alle
questioni agricole ha portato Lvia
a formarmi e quindi impiegarmi
come animatore. Insieme ad altri
sette colleghi che, come me, avevano lavorato con Lvia, ho fondato l’Ask, nel 1993 a Donsè. Già
negli anni Settanta, Lvia era impegnata per lo sviluppo di queste
aree rurali, dove la popolazione
viveva in piccoli villaggi privi dei
servizi di base. Questi interventi,
però, non si sono limitati alla fornitura di servizi, ma Lvia ha coinvolto la popolazione, creando
© Archivio Lvia
maggiore consapevolezza e competenza diffusa sul territorio.
Queste competenze e lo spirito
associativo ci hanno supportato e
ci hanno dato forza nella nostra
scelta di fondare l’Ask. Abbiamo
cioè preso coscienza del nostro
ruolo di agricoltori e ci siamo resi
conto di avere l’opportunità di rispondere ai bisogni del nostro
territorio, di unire gli sforzi per
aiutare i nostri connazionali a restare nel proprio paese vivendo
del proprio lavoro».
Tra i soci onorari dell’Ask, il presidente della federazione di Ong
cristiane Focsiv - Volontari nel
mondo, Gianfranco Cattai, che da
molto tempo conosce l’associazione, riflette: «Grazie alla saggezza degli anziani, il dinamismo
dei giovani, il pragmatismo delle
donne, durante questi vent’anni
l’Ask ha sviluppato l’economia locale, suscitando l’entusiasmo dei
giovani, creando opportunità di
impegnarsi localmente e in molti
MAGGIO 2014 MC
25
© Claudio Massarente
BURKINA FASO
# A sinistra: il centro giovani di Ziniaré,
uno dei recenti progetti Lvia.
# Sotto: foto storica di Giuliano Luzzi,
uno dei primi volontari Lvia in
Burkina Faso.
© Archivio Lvia
casi evitando l’esodo verso la
città o l’emigrazione. L’Ask è un
insieme di buone pratiche che noi
in Italia dovremmo conoscere, un
percorso di persone che hanno
creduto in loro stesse e hanno
avuto la speranza delle trasformazioni del loro territorio e della
qualità della vita della propria comunità».
Motivazione e passione
Oggi l’équipe di Lvia in Burkina
Faso è costituita da sedici burkinabè e quattro cooperanti italiani. Una di loro è Cristina Daniele. Per lei l’Ong di Cuneo è
stata una scelta professionale.
Ma c’è anche altro: «Ho colto
l’opportunità del servizio civile internazionale e sono partita con
Lvia, facendo una prima esperienza di cooperazione con cui ho
potuto mettermi alla prova e capire se la vita del cooperante potesse fare per me. Ho scelto di restare. E nello scegliere questa
strada, c’è la consapevolezza che
non si tratta solo di un lavoro ma
di una passione, di una forte motivazione, un credere nella possibilità di generare cambiamento».
Dallo stesso spirito sono mossi
Emile, Ousmane, Jean Paul, Clémence e altri burkinabè che non
solo lavorano con l’Ong, ma sono
protagonisti di questo movimento associativo.
A problemi globali, soluzioni locali. Il mondo è un tutto e ciò che
si fa in Burkina può influenzare gli
stili di vita in Italia, le decisioni
26
MC MAGGIO 2014
che si prendono al Nord possono
avere ripercussioni anche al Sud.
Così, mentre lavora in Burkina
Faso per migliorare, ad esempio,
sicurezza alimentare e ambiente,
in Italia Lvia cerca di sensibilizzare
i cittadini a un consumo attento e
responsabile.
Marco Alban è l’attuale responsabile di Lvia in Burkina Faso. Per
lui, la cooperazione non è solo
una questione tecnica: «Lo sviluppo non è solo realizzare, ad
esempio, un pozzo. Il vero sviluppo è la dinamica che c’è dietro
questo pozzo, ciò che ha motivato e permesso la sua realizzazione, ciò che ne garantirà la sua
conservazione e sostenibilità. Si
ha la tendenza a immaginare
l’Ong del Nord che viene a lavorare in un paese del Sud come se
si trattasse di un flusso unilate-
rale. Invece, Lvia ha sempre
messo l’accento sulla reciprocità
nel suo cammino e, in questi anni
di cooperazione, i legami e le relazioni tra gli uomini restano uno
dei patrimoni più importanti. C’è
una grande differenza tra considerare le popolazioni come beneficiarie e considerarle, a tutti gli
effetti, come partner. Non si
tratta di svilupparle, ma di sostenere un’iniziativa locale. Bisogna
tirarsi su le maniche per lavorare
e camminare insieme. Per fare
ciò, bisogna saper ascoltare, dialogare e darsi tempo per comprendere. Si dice che conoscere
un villaggio significhi conoscere il
mondo …».
Lia Curcio*
* Lia Curcio lavora
all’Ufficio Stampa Lvia in Italia.
CILE
Testo e foto
di PAOLO MOIOLA
Fondata nel 1982 da
mons. Ysern, la sua
voce arriva fino alle
isole più piccole e
remote dell’arcipelago
di Chiloé. Con «Radio
Estrella del Mar»
iniziamo un breve
viaggio tra alcune
emittenti
latinoamericane.
Tutte con un Dna
di servizio.
STORIE E VOLTI DI RADIO / 1
STELLA
DEL MARE
C
astro (isola di Chiloé). La
sede sta a lato del Terminal
rural, la stazione da dove
partono i micro (minibus)
per tutte le località dell’arcipelago. «Radio Estrella del Mar» occupa una piccola casa, resa immediatamente riconoscibile dal
suo colore arancione. Mi accolgono Luis Eugenio Gonzáles e Clemente Becerra, locutores, annunciatori o - per usare un termine
ormai di uso comune - speakers.
Mi mostrano i locali dell’emittente mentre il tecnico di turno
mette in onda un annuncio commerciale.
Entriamo in studio. Andremo in
onda dal vivo. Sono venuto per
fare un’intervista invece mi ritrovo intervistato. Parlo con il
mio spagnolo carico di sintassi e
accenti italiani, ma ciò che importa è toccare con mano l’entusiasmo con cui Luis Eugenio e Cle-
mente fanno il loro lavoro. «A
esta hora compartiendo su
mañana en Estrella del Mar»
(condividendo la mattinata con
voi), ripete il jingle agli ascoltatori
della radio, che sono quelli di Chiloé, ma anche della Patagonia cilena (province di Palena e Aysén).
Dare voce a chi non ha voce
Padre José Contreras Riquelme è
direttore dell’emittente dal 2011.
«La nostra è una radio che vuole
essere voce di chi non ha voce.
Tuttavia, essendo un’emittente
cattolica, essa ha come fine ultimo l’evangelizzazione». L’arcipelago di Chiloé è un luogo particolare, con caratteristiche oro# Un’insenatura non lontana da Ancud,
cittadina sull’isola grande di Chiloé,
dov’è stata fondata Radio Estrella
del Mar.
CILE
Questa serie
La Radio
non muore mai
ei primi mesi del 2014
abbiamo visitato alcune
radio latinoamericane.
Tutte legate alle Chiese locali.
Tutte piccole, ma fortemente
radicate sui rispettivi territori. Tutte con gli stessi problemi economici (la mancanza
di risorse). Tutte con la stessa
forza propulsiva (l’entusiasmo
dei collaboratori). Noi cercheremo di raccontarle attraverso le storie e i volti delle
persone che le animano (inclusa un’intervista a Santiago
García Gago, autore del Manual para radialistas).
Già nel settembre 2009 Missioni Consolata aveva pubblicato un dossier (Un mondo a
misura di Radio) sulla realtà
delle emittenti del Sud.
Sono trascorsi soltanto pochi
anni, ma il mondo è stato trasformato dalla rivoluzione
digitale. Incluso il mondo
delle radio, che oggi si possono ascoltare anche in
streaming, ossia sfruttando
la rete internet. Lo fanno
pure le radio da noi visitate,
anche se la maggior parte dei
loro utenti, soprattutto quelli
che vivono lontani dalle città,
le ascoltano nel modo tradizionale, non avendo alcuna
connessione web, ma soltanto un banale apparecchio
radio. Immortale, almeno
fino a oggi.
N
Paolo Moiola
28
MC MAGGIO 2014
grafiche e antropologiche molto
diverse da quelle del resto del
Cile. Padre Contreras, pur non essendo nativo del luogo, conferma: «Sì, anche in ragione del
nostro essere isole, abbiamo
mantenuto costumi e tradizioni
differenti, a ogni livello: sociale,
culturale e religioso. La radio riflette queste peculiarità. Anche
noi ovviamente siamo stati obbligati a cambiare e a modernizzarci, però senza mai perdere la
nostra identità».
Anche a Chiloé e nella Patagonia
cilena i progressi della tecnologia
hanno portato internet, i canali
televisivi satellitari, le comunicazioni via smartphone. C’è ancora spazio per la radio?, chiediamo a padre Contreras.
«Sì, ne sono sicuro. La radio
continua a essere un
mezzo di comunicazione
necessario e fondamentale. La gente dice che
“non esiste nulla come
la radio”. In altre parole, nonostante la
grande quantità di
i di comunicae esistenti la radio
MC ARTICOLI
# A sinistra: mons. Juan María Agurto
Muñoz, vescovo di Ancud, indica
una foto della cattedrale, distrutta
a seguito del terremoto-maremoto
del 1960. Sotto: padre José Contreras,
direttore dell’emittente. Pagina precedente: mons. Juan Luis Ysern,
ideatore e fondatore di radio Estrella
del Mar, con papa Giovanni Paolo II;
la chiesa di Castro e le frequenze
dell’emittente.
non può essere sostituita. È uno
strumento affidabile, attraverso il
quale le persone possono esprimersi, con interviste, domande,
suggerimenti. Essa costituisce anche uno strumento alla portata di
tutti, cosa che non si può dire degli altri mezzi che risultano disponibili per meno del 30% degli abitanti di Chiloé. In più la nostra
emittente unisce tutto l’arcipelago, arrivando fino alle isole più
remote».
Dalle lotte di mons. Ysern
Radio Estrella del Mar ebbe i natali negli anni della dittatura,
quando ricopriva la carica di vescovo mons. Juan Luis Ysern de
Arce, personalità di grande forza
e carisma, vincitore di prestigiosi
premi. Nel 1976, il prelato aveva
creato la «Fondazione diocesana
per lo sviluppo di Chiloé» (Fundechi). L’istituzione entrò presto in
contrasto con il governo militare.
Soprattutto quando questo
diede il proprio sostegno a un
megaprogetto giapponese
(Proyecto Astillas de Chiloé)
che avrebbe voluto sfruttare
(e quindi distruggere) il pre-
zioso bosco nativo dell’arcipelago. Da quella battaglia in mons.
Ysern nacque l’idea di fondare
un’emittente: Radio Estrella del
Mar vide la luce ad Ancud nell’anno 1982. Oggi è una rete di 8
emittenti: 4 nell’arcipelago di Chiloé (Castro, Ancud, Quellón e
Achao), una nel piccolo arcipelago di Guaitecas (Melinka) e 3
sul continente (Chaitén, Futaleufú e Palena). Queste ultime in
verità sono chiuse dal 2008 a seguito dell’eruzione del vulcano
Chaitén, ma c’è la volontà di riaprirle se si troveranno le risorse.
Radio Estrella del Mar è un impegno gravoso anche dal punto di
vista economico. Come sempre
accade per le emittenti piccole e
non commerciali, l’autofinanziamento non riesce infatti a coprire
le spese.
Lo conferma mons. Juan María
Agurto Muñoz che - nella sua ve-
ste di successore di mons. Ysern
come vescovo di Ancud - è il proprietario della radio. «In questi 32
anni di vita ci sono stati momenti
molto critici dal punto di vista finanziario. Ancora oggi l’episcopato deve continuare a fare sforzi
immensi per trovare sovvenzioni
attraverso iniziative interne e
aiuti di organizzazioni internazionali, quali Adveniat (Ong cattolica
tedesca, ndr) e la Conferenza episcopale italiana. In ogni caso, nonostante i problemi, la radio prosegue il suo cammino come
mezzo di informazione, formazione ed evangelizzazione».
Nell’anno 2014
A Radio Estrella del Mar lavorano
circa 20 persone tra annunciatori,
giornalisti, tecnici e amministrativi. Il palinsesto copre le 24 ore,
17 delle quali dal vivo. Sono previsti programmi comuni (in rete),
MAGGIO 2014 MC
29
Storie e volti di Radio
Nome emittente
Radio “Estrella del Mar”
Luogo
Anno di nascita
Cile: Ancud, isola grande di Chiloé
1982, 25 marzo
Sito internet
www.radioestrelladelmar.cl
Nome emittente
Radio “La Voz de la Selva”
Luogo
Anno di nascita
Perù: Iquitos, Loreto
1992
Sito internet
www.radiolavozdelaselva.org
Nome emittente
Anno di nascita
Radio “Ucamara“
Perù: Nauta, Loreto
1992
Sito internet
www.radio-ucamara.blogspot.com
Nome emittente
Radio “Monte Roraima“
Brasile: Boa Vista, Roraima
Luogo
Luogo
Anno di nascita
Sito internet
Nome emittente
Luogo
Anno di nascita
Sito internet
Nome emittente
Luogo
Anno di nascita
Sito internet
2002, 29 dicembre
www.monteroraimafm.com.br
Radio “Rio Mar“
Brasile: Manaus, Amazonas
1954, 15 novembre
www.rederiomar.com.br
Radio “Santa Clara“
Brasile: Floriano, Piauì
1994
www.radiosantaclara.com.br
MC ARTICOLI
ma anche alcuni spazi gestiti autonomamente da ogni singola
stazione.
Dato che il sostegno fondamentale arriva dalla Chiesa, la domanda è conseguente e non può
non essere evitata: in quanto radio cattolica, Estrella del Mar è libera di esprimersi su qualsiasi argomento o, a volte, dove praticare una sorta di autocensura?
Padre Contreras risponde con decisione: «Alla radio non si nasconde né si proibisce alcun
tema. Noi chiediamo soltanto a
giornalisti e annunciatori di trattare le informazioni senza manipolarle. Dare le informazioni,
però sempre cercando di valorizzarne gli aspetti positivi, evitando
morbosità e cattive intenzioni. In
questo modo rispettiamo e siamo
rispettati».
Da anni il Cile è tornato alla democrazia. Chiediamo se i rapporti
con la politica siano tranquilli.
«Direi - risponde il direttore di
Estrella del Mar - che non abbiamo problemi particolari con i
politici locali. Noi cerchiamo di
essere aperti a tutti e di essere
giusti. Quando poi vediamo delle
ingiustizie, le denunciamo. Con
chiarezza e con prove argomentate».
Paolo Moiola
(fine prima puntata - continua*)
IN ARCHIVIO: La Colifata (Buenos Aires, Argentina), Payumat (Santander de Quilichao, Colombia), La Voz de Caynarachi
(Barranquita, Perù) sono le altre radio
latinoamericane di cui MC ha scritto
(settembre 2009).
* NELLA PROSSIMA PUNTATA: saremo a Nauta,
nell’Amazzonia peruviana, a visitare radio «Ucamara» (l’emittente degli indios
kukama).
# A destra: Luis Eugenio Gonzáles
(con gli occhiali) e Clemente Becerra
nello studio di registrazione di Radio
Estrella del Mar, a Castro.
Sotto: la sede di Castro di Radio
Estrella del Mar.
MAGGIO 2014 MC
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Pillole « Allamano»
contro il logorio della vita moderna
a cura di Ugo Pozzoli
4. UNA SCELTA CONTROCORRENTE:
LA MANSUETUDINE
COME STRADA DI TRASFORMAZIONE
l termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale
con la Formula Uno, Bernie Ecclestone, storico deus ex machina del
circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua
profonda delusione per l’impatto dei nuovi
motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron,
dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate
in pista a tutta velocità.
In effetti, risulta difficile pensare a una gara
di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse
parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.
are una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a
volte inconsapevolmente prodotto, altre
volte ricercato con determinazione e un
velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola,
e una macchina da corsa deve fare rumore se
vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro
quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era
riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina.
Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara
a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il
dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la
spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è
diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci
porta a essere molto più irascibili di una volta, agli
incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.
Chi urla forse non crede nella forza delle proprie
opinioni e sente di doverle imporre con un surplus
di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano
la marmitta del loro motorino per farlo rimbom-
A
P
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MC MAGGIO 2014
bare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie
ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a
far diventare il dialogo una pura e semplice serie
di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e
non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che
«da cosa nasce cosa»…). «Il meglio del meglio non
è vincere cento battaglie su cento scrive Sun Tzu,
nel suo celebre saggio L’Arte della guerra ma
bensì sottomettere il nemico senza combattere».
Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa
2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a
chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita
di tutti i giorni.
È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in
particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si
ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una
serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su
concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo:
ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è
debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste
idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una
cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo.
Non dobbiamo però guardare troppo lontano per
vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì
aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione,
perché ciò che stiamo cercando non si manifesta
nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante
del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo
in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la
sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante.
MC RUBRICHE
Il beato Giuseppe Allamano, già anziano, nella sua casa a Rivoli.
La sua villa era meta privilegiata degli studenti della Casa Madre di Corso Ferrucci (allora Via Circonvallazione) durante le
passeggiate del mercoledì. Anche le giovani suore in formazione
vi si recavano spesso e volentieri. La speranza era sempre
quella di incontrarlo, ed egli si premurava di far trovare ai suoi
giovani, e anche famelici, ospiti frutta di stagione e magari anche un buon bicchiere di vino. Ma il regalo più bello era incontrarsi con lui, padre mite e buono, che aveva sempre una parola
giusta per ciascuno e soprattutto quello sguardo pieno di dolce
fermezza che sapeva arrivare al cuore.
iuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine
nella sua disposizione d’animo, nello stile
con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la
mansuetudine come strada di trasformazione».
Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del
Fondatore questo si verifica.
Chi suggerisce una distinzione interessante fra i
due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza
ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e
forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior
G
profondità di significato rispetto alla seconda. Il
termine mansueto è detto in primis degli animali,
e solo in senso derivato è applicato agli uomini,
mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti,
atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre,
«la mansuetudine scriveva il filosofo torinese è
una disposizione dell’animo dell’individuo che può
essere apprezzata come virtù indipendentemente
dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo
calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla
cattiveria gratuita, per consapevole accettazione
del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo
umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il
mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere
il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio
della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in
Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza
intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.
Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione
non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario
deve essere mansueto, come lo è la pecora con il
pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al
servizio attivo del prossimo, in particolare di colui
che più necessita di essere consolato. L’esempio
da seguire non può essere che quello di Cristo,
uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare
di sé come di una persona mite: «Venite a me voi
tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e
umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi
diventare caratteristica anche per il discepolo di
Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto
erede della terra.
Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono
le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona
buona per sé, ma la rende buona «per gli altri»,
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Pillole « Allamano»
esattamente come, da laico, suggeriva Norberto
Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto
il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube,
indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale»,
senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al
contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio.
ttraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non
serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a
quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù
morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il
nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a
cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di
discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e
di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere
guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia.
Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più
importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicura-
A
# Questa foto scherzosa di seminaristi missionari degli
anni Trenta, può forse rappresentare il mite secondo gli
stereotipi di una certa mentalità, sicuramente non secondo il pensiero del beato Giuseppe Allamano.
mente questa affermazione nasce dall’esperienza
personale, nel contatto con la gente maturato nei
lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e
diventa insegnamento anche per i missionari che
si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine sono le sue parole (…) Quando si tratta di
salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre.
Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).
Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci
insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la
strada della trasformazione. Se un giorno grazie a
questa virtù saremo in grado di ereditare la terra,
è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo
iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che
mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che
racconti storie di pace e benessere, perché è solo
e soltanto su queste prerogative che vorremmo
costruire la nostra esistenza di domani.
Ugo Pozzoli
TURISMO: ULTIMA SPIAGGIA DELL’ETERNA GIOVINEZZA
MALINDI
PARADISE! PER CHI?
IN COLLABORAZIONE TRA REDAZIONE
FOTO DI STEFANO LABATE
«OUT OF ITALY» E REDAZIONE MC
«OUT OF ITALY»
GLI ITALIANI
IN KENYA
DI REDAZIONE
MC
n Kenya vive una numerosa comunità italiana. Probabilmente più di tremila persone,
visto che tale è il numero necessario per costituire i Comites (Comitati per gli Italiani
residenti all’estero).
La comunità è variegata. Oltre a missionari e
missionarie (oltre 500 fino a pochi anni fa), ci
sono gli Italiani nati in Africa (Etiopia, Eritrea e
Somalia) che si stabilirono nel paese dopo la
guerra; tra di essi diversi ex soldati che, finita la
prigionia, trovarono lavoro nelle fattorie o iniziarono attività in proprio. Il numero dei «vecchi»
italiani, un tempo così alto da avere una propria
parrocchia italiana con sede a Nairobi sotto la
responsabilità dei missionari della Consolata,
oggi è molto ridotto anche per semplici ragioni
anagrafiche. Ci sono poi quelli arrivati con le
grandi compagnie industriali italiane come Agip,
Alitalia, Impresit e altre, e si sono stabiliti nel
paese impegnandosi nell’industria, nell’edilizia e
nei servizi. E c’è il personale dell’ambasciata e
dei vari organismi internazionali, essendo Nairobi anche sede dell’agenzia delle Nazioni Unite
per l’Ambiente. Questo personale è in continuo
cambiamento e movimento. Non mancano dei
pensionati che si ritirano in Kenya per passare
gli ultimi anni della loro vita in un clima mite
come quello dell’altopiano di Nairobi. C’è anche,
purtroppo, un piccolo gruppo di persone fuggite
dalla giustizia italiana e discretamente mimetizzate nel vasto mondo degli espatriati. Con loro
prosperano anche i cacciatori di fortuna, gli
amanti dell’avventura, gli impresari senza scrupoli, gli approfitattori, i mafiosi...
I
Malindi e sulla costa da Lamu a Mombasa vive una nutrita comunità di espatriati italiani. Accanto ai residenti di
lungo corso, ci sono i nuovi arrivati,
come quelli che decidono di provare a investire
nel paese, a ragion veduta o ammaliato da ingannevoli passaparola. Ci sono poi i turisti: quelli
che vanno a Malindi regolarmente, magari ospiti
di amici residenti, quelli che vanno nei villaggi
vacanze coi viaggi organizzati che promettono
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mare e avventure nei favolosi parchi naturali, e
quelli che sbarcano alla ricerca della vacanza
esotica e magari trasgressiva. Una comunità variegata.
Alcuni residenti storici della costa, che mal soffrono la presenza di mafiosi e investitori senza
scrupoli, hanno fondato una decina di anni fa il
periodico «Out of Italy, la voce italiana dall’Africa», una rivista di 48 pagine a colori che viene
pubblicata senza una cadenza troppo fissa.
Il suo direttore è Franco Nofori, un italiano ormai ultrasessantenne, vivace, schietto, un po’
vecchia maniera e attaccato ai valori di un
tempo, con un buon senso dell’humor e dell’autoironia. Da alcuni anni è un attivo membro del
Comites (eletto dagli iscritti all’Aire, il registro
degli italiani residenti all’estero) e collabora col
consolato di Malindi per risolvere i problemi di
tanti connazionali, turisti e non.
n questo dossier a molte mani, riprendiamo,
e integriamo, alcuni articoli di «Out of Italy»
che stigmatizzano uno dei tratti più negativi
della presenza europea sulla costa del
Kenya: il turismo sessuale. In un italiano colloquiale, qualche volta anche irriverente, con un
po’ in autocelebrazione e qualche generalizzazione, forse nell’ansia di strizzare l’occhio ai propri lettori e di distanziarsi da quegli «altri» italiani che umiliano il nome del nostro paese, gli
autori mettono a nudo una triste realtà. Pur non
condividendo tutto quello che scrivono, riteniamo interessante leggere come essi stessi vedono quel pezzo di Kenya.
Redazione MC
I
DOSSIER MC MALINDI
LA VOCE DEGLI ONESTI
NON SOLO FACCENDIERI
(SULLA COSTA EST)
DI FRANCO NOFORI
Chi sono gli «altri» italiani di Malindi? E in che modo si parla di loro? Un vecchio italiano ci
presenta il suo punto di vista, appassionato e anche orgoglioso. La voce di uno che vive sulla
costa keniana da oltre 30 anni e ha forse perso un po’ il contatto con la realtà di corruzione e
degrado che attanaglia anche il nostro paese.
ono tanti eppure si notano poco. Non affollano bar e discoteche, né si acconciano come i grotteschi simulacri di stagioni irrimediabilmente perdute e irripetibili. Non denunciano i connazionali. Non ingrassano gli avvocati locali con liti esasperanti
tra loro, conflitti da cui i contendenti escono
sempre ammaccati e comunque sconfitti. Non
annoverano nei loro libri paga poliziotti e giudici corrotti.
Sono la linfa vitale che alimenta Malindi dando
lavoro a migliaia di persone e alle loro famiglie.
Sono loro che aiutano, senza ostentazione, la
popolazione locale alla quale mettono a disposizione opportunità, scuole, ospedali, orfanotrofi.
Non sono venuti a depredare il Kenya, né a tirare bidoni a connazionali sprovveduti. Hanno
S
investito qui il proprio denaro e i propri risparmi o, più semplicemente, sono venuti a vivere la stagione del meritato riposo dopo una
vita di lavoro in Italia. Tutti loro, in diversa misura e con varie modalità, contribuiscono al fiorire di questa cittadina che ha ormai assunto
un carattere squisitamente italiano.
Questi ambasciatori d’Italia in Kenya, non portano vergogna al nostro paese, ma ci fanno sentire orgogliosi per l’intraprendenza, per la fantasia, e per l’ecletticità che ci sono da sempre
peculiari.
osa sarebbe Malindi senza di loro? La
più diretta risposta la riceviamo dalla
popolazione locale: «No Italians, no Malindi». Ed è una semplice verità.
Quando il dovere di cronaca ci costringe a dare
notizia di altri comportamenti che offendono la
nostra dignità nazionale, siamo ben consapevoli
che le prime vittime di queste immagini delete-
C
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rie e sventurate sono proprio loro: i nostri connazionali della Malindi sana che devono subire
impotenti e incolpevoli il biasimo che ne deriva.
Ma chi vuole andare oltre la superficialità dei
giudizi approssimativi - spesso anche indebitamente malevoli - sa bene che nell’Italia malindina convivono due universi rigorosamente separati: quello dei faccendieri senza scrupoli, litigiosi, amorali e spesso anche grotteschi; e
quello degli italiani onesti che hanno il solo
torto di non fare notizia.
Ma quanto valgono l’onestà e l’etica?
Un giusto criterio di misurazione non può prescindere dalle condizioni dell’ambiente in cui
questi valori si esprimono. È certamente meno
difficile esprimerli in un paese retto dalla legalità e dal civismo che in un altro in cui la trasgressione è all’ordine del giorno e molto
spesso addirittura gratificata.
Qui la forza di conservare i propri principi raggiunge il vero eroismo.
Franco Nofori
© AfMC/ Gigi Anataloni
Qui sopra: la cappella detta di san Francesco Saverio a
Malindi, e (accanto) il cippo eretto nel 1914 in memoria
dello sbarco di Vasco da Gama. | A destra: un bar con
il nome di una nota emittente radiofonica cattolica,
forse per rassicurare i clienti.
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Malindi
Non si conoscono esattamente le origini storiche di Malindi. I ritrovamenti archeologici testimoniano la presenza nella zona, fin dal IX secolo, di varie culture bantu simili a quella pokomo. A partire dal XIV secolo Malindi ha goduto di un periodo di forte sviluppo, legato anche al fiorire della tratta degli schiavi. Una
delle piste carovaniere che attraversavano il
Kenya arrivava proprio a Malindi, dopo essere
passata sull’altopiano di Yatta e da Silaloni. La
piazza che ora si trova accanto alla vecchia moschea era il mercato degli schiavi, e ha svolto
questo ruolo sino agli inizi del XX secolo.
Dell’antica Malindi si hanno notizie nelle cronache di viaggio dell’ammiraglio cinese Zheng
He, che vi approdò nel 1414. L’esploratore portoghese Vasco da Gama visitò la città nel 1498
e qui ottenne i servigi di navigatori esperti che
lo condussero fino a Kerala, in India. Nel 1541,
il celebre missionario gesuita Francesco Saverio risiedette a Malindi per qualche mese.
(da wikipedia.org)
DOSSIER MC MALINDI
incontri ravvicinati con ragazze locali
VIVERE
L’ULTIMA GIOVINEZZA
DI
FRANCO NOFORI
Sono forse i racconti più comuni che si sentono sui turisti italiani a Malindi. il direttore di
«out of italy» cerca di capire le cause intime del fenomeno del turismo sessuale praticato da
uomini e donne anziani per dargli una spiegazione. immedesimandosi nel loro punto di vista,
mettendo in evidenza i rischi, senza condannare troppo esplicitamente, senza dare voce alle
condizioni di sfruttamento delle «studentesse» coinvolte, ma suggerendo una presa di distanza attraverso uno stile ironico e a volte sarcastico.
a dovuto, per l’ennesima volta, recarsi
al bagno perché la sua prostata ingrossata richiede continue attenzioni, e ora
ritorna al tavolo con il passo un po’ rigido di chi è costretto a convivere con l’artrite e
tutta una lunga serie di altri acciacchi acquisiti
nel corso delle molte primavere.
Il bicchiere di Tusker lo aspetta (la miglior birra
kenyana, premiata in tutto il mondo, ndr), in
barba alle limitazioni che gli imporrebbero la
pressione alta e il diabete, ma che importa? Lui
H
sta vivendo l’ultima giovinezza e per nessuna ragione è disposto a sciuparla.
Al tavolo c’è una splendida e giovane fanciulla
nera: pelle lucente, candido bagliore di denti e
sguardi ammiccanti carichi di prorompente sensualità.
C’è anche un giovane rasta con le treccine non
proprio pulite, ma sicuramente appariscenti.
Questi ha il merito di aver organizzato l’incontro
tra la bella «studentessa» africana e l’anziano
muzungu (uomo bianco, in kiswahili; va notato
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«Ragazzi di spiaggia» (beach boys) sulle spiagge di
Malindi. La speranza di una rapida fortuna in un
paese dall’altissima disoccupazione giovanile, attira
sulla costa centinaia di giovani che, in cambio di una
vita da gigolò, fatta magari contando bugie ai propri
genitori, sperano di sistemarsi una volta per tutte alle
spalle dei ricchi turisti in cerca di avventura.
Molto diversa è la situazione delle ragazze, quasi
sempre vittime di imbroglioni e trafficanti che le attirano sulla costa con false promesse di lavoro e poi le
obbligano a prostituirsi con minacce e ricatti.
che questa è una traduzione di comodo, perché
in realtà il termine non si riferisce al colore, ma
al fatto che la persona in questione «viaggia, va
in giro e fa il turista», ndr).
Si può non essergli riconoscenti?
Siamo onesti. Chi di noi ultrasessantenni può attirare lo sguardo di una bella studentessa italiana mentre incrocia la nostra strada? Se non
fosse per la regola fisica dell’impenetrabilità dei
corpi, potrebbe passarci attraverso senza neppure accorgersi che esistiamo.
È triste, lo so. Soprattutto quando si è ancora
estimatori del bello e alcune pulsioni romantico
sessuali fanno la loro comparsa tra i desideri. Ma
guai a manifestarli nella terra di Dante, l’epiteto
più grazioso che si potrebbe ricevere sarebbe un
sonoro: «Guarda questo vecchio porco!».
Lui, l’anziano, non ha neanche la possibilità di
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DOSSIER MC MALINDI
sfogarsi confidandosi con le persone che gli sono
care. Certo non con la propria moglie, men che
meno con la propria figliola. Allora al poveretto
non resta che rifugiarsi tra i propri coetanei - almeno tra quelli che soffrono della stessa patologia - e lì, tra loro, sfogarsi a dovere liberandosi
del magone che lo opprime. Attenzione, però,
che non sentano i più giovani, perché trafiggerebbero il gruppo con sguardi disgustati, prorompendo nuovamente in un velenoso: «Ma
senti che schifezze si raccontano questi vecchietti!».
È vero. Tutto ciò è profondamente ingiusto.
Non è colpa nostra se una natura birbante, irrispettosa e anche un po’ sadica, lascia che in un
corpo malandato sopravvivano gli stessi identici desideri di un corpo e di un cuore giovani. E
allora che si fa? Semplice: si emigra in Kenya,
dove l’età non è un ostacolo e dove le belle «studentesse» non ci passano attraverso ma, anzi,
ci arpionano con graziosi ammiccamenti.
erto, lo spettacolo che forniamo non è
dei più edificanti, ma in fin dei conti, chi
se ne frega? Riscoprirsi giovani e ancora capaci di provare emozioni così intense, val bene il costo di qualche malevolo pettegolezzo. Così si emigra in Kenya. E si viene
C
qui con un forte desiderio di rivincita perché, sì,
siamo un po’ più anziani, ma pur sempre uomini. Forse ancor più sensibili di un tempo ai
piaceri del vivere, alle emozioni, ai sentimenti.
Non siamo degli illusi, non pretendiamo travolgenti passioni, tutto ciò che cerchiamo è un po’
di tenerezza, e se questo ci costa qualche spicciolo, va bene lo stesso.
Se la bella «studentessa» nera non cade in totale deliquio per noi, pazienza, purché ci dia
solo un grammo d’affetto, anche se intriso di
una certa dose di finzione.
C’è davvero del male in questo? Dobbiamo proprio auto condannarci, come forse vorrebbero i
molti benpensanti, a spegnerci nelle panchine
dei parchi pubblici, tediati dalle insopportabili
storie nostre e dei nostri coetanei ripetute all’infinito? Oppure assoggettarci alle litigate catarrose sui terrapieni delle bocciofile, sui tappeti verdi delle partite a scopa e dei «bingo»
parrocchiali?
No. Sarebbe un tramonto grigio che non meritiamo da questo mondo frettoloso e indifferente. Quel mondo l’abbiamo costruito noi con
fatica e sacrificio e oggi per quelli che l’hanno
ereditato non siamo altro che ingombranti, inutili fardelli.
Allora veniamo in Kenya. Ci rinnoviamo nel fisico e nello spirito. Andiamo a ballare, pescare,
nuotare e se qualche bella «studentessa» ci offre la sua compagnia, l’accettiamo senza troppe
remore. Abbiamo una sola vita da vivere, viviamocela tutta, e al meglio.
mettiamo ora i panni dell’anziano turista, e torniamo in noi: tutto questo è
umanamente comprensibile, ma ciò non
toglie che comporti non pochi rischi.
Guardiamo intanto alla nostra situazione familiare: siamo rimasti soli al mondo? Siamo certi
che la «studentessa» non sia sfruttata o spinta
tra le nostre braccia dall’indigenza più che dall’amore per noi? Allora non ci sono problemi,
salvo quelli che possiamo auto infliggerci con
comportamenti maldestri; ma se, ad esempio,
abbiamo una famiglia e dei figli, le cose cambiano radicalmente. Abbiamo delle responsabilità e se è vero che il nostro diritto alla felicità
(o a ciò che ci sembra tale) è indiscutibile, lo
stesso vale per le persone che hanno con noi
sinceri rapporti affettivi. Il nostro dovere è di
non ferirli con comportamenti dissennati ed
egoistici.
Se della bella «studentessa» ci innamoriamo
sul serio, abbiamo già fatto un passo ad alto rischio, ma se ci convinciamo che anche lei si è
innamorata perdutamente di noi, allora ab-
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biamo scatenato un vero disastro. Per non perdere questo amore presunto accetteremo tutto,
anche di fare forfait della nostra dignità, del rispetto di noi stessi, del nostro buon senso che
la stagione dell’età d’oro avrebbe dovuto invece
consolidare. Non avremo più un carattere, un’identità, una nostra determinazione. Come drogati, diverremo schiavi delle nostre illusioni, faremo scempio degli affetti più cari, quelli veri,
quelli che hanno accompagnato per decenni il
nostro vivere e dato un senso alla nostra personalità di genitori e di mariti. Ci abbruttiremo
nella vergogna, nell’isolamento, spesso anche
nella miseria, ultima condizione che spegnerà il
bagliore delle nostre illusioni rispetto a quel
mondo effimero che credevamo di aver costruito. E allora sì, ci ritroveremo davvero, e disperatamente, soli.
ico questo perché vivo in Kenya da
quasi 30 anni. Gli ultimi 10 dei quali
come direttore del periodico Out of
Italy e come consigliere del comitato
degli italiani all’estero (Comites). Ho visto
troppi epiloghi drammatici in cui queste effimere infatuazioni sono sfociate. Ho visto uomini maturi, rispettati e ritenuti saggi, perdere
totalmente il senno e cacciarsi in situazioni di
indicibile sofferenza. Alcuni hanno totalmente
dilapidato il proprio patrimonio, perso l’affetto
dei loro cari, qualche volta anche la libertà e la
stessa vita.
Parlo di uomini in senso lato, perché questo
perverso fenomeno riguarda anche molte
donne. Madri di famiglia, fedeli e responsabili,
sulle quali nessuno poteva permettersi neppure
la più piccola critica. Le ho viste franare nella
più nera indigenza, ridursi a vivere in catapecchie dove, anni prima, non avrebbero neppure
ospitato i propri cani. Le ho viste insultate, picchiate, brutalizzate dai loro «innamorati» locali,
quelli dell’amore a prima vista esploso sui bagnasciuga, quelli con cui pianificavano di costruirsi una nuova, romantica esistenza.
Molti connazionali, donne e uomini, caduti in
queste irresistibili infatuazioni e nel tentativo
di dare legittimità alla loro permanenza in
Kenya, hanno dato fondo ai propri risparmi,
alle liquidazioni maturate in una vita di lavoro,
per «investire» in attività di cui non avevano la
minima conoscenza in un paese nel quale appare tutto più facile e in cui «con pochi spiccioli
si può fare tutto ciò che si vuole». Terribile errore!
Diligenti ex tecnici ed ex impiegati, si trasformano d’incanto in imprenditori e naturalmente,
per superare il problema della lingua, chi può
dirigere al meglio la nuova attività se non il loro
compagno (compagna) di cui hanno piena e in-
D
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Malindi
KENYA
Oceano
Indiano
Mombasa
condizionata fiducia?
E così si va avanti, finché i quattrini scarseggiano e la nuova attività produce montagne di
debiti. A questo punto finisce, allora, la stagione dell’amore. Il nostro, la nostra, partner
comincia a mostrarsi distante, indifferente, affatto disposto al sacrificio.
A queste latitudini l’amore, pur in apparenza
corrisposto, non si alimenta di belle frasi romantiche, ma di quattrini. E quando essi finiscono, finisce tutto.
cco allora che queste tristi storie approdano sui tavoli della nostra ambasciata,
dei consolati, del Comites, nella vana ricerca di una giustizia che giustizia non
è, ma è soltanto l’umiliante ammissione della
propria dabbenaggine.
È vero, nessuno ha il diritto di giudicarci per le
nostre scelte, ma noi sì che l’abbiamo su noi
stessi. Allora usiamo quel briciolo di buon
senso che ancora ci è rimasto e riscattiamoci.
Franco Nofori
E
DOSSIER MC MALINDI
Bei ragazzi sui Bagnasciuga di malindi
AMMALIATRICI
AMMALIATE
DI
MONICA, REDATTRICE DI «OUT OF ITALY»
storie di amore vero, ma non troppo, dalle spiagge di malindi. donne di una certa età in cerca
di compagni più giovani. il fenomeno è più esteso di quanto si immagini, e coinvolge «signore» di diverse nazioni europee. la scrivente, pur non facendo cenno al punto di vista della
popolazione locale, biasima senza mezzi termini le «turiste» in questione. l’«amara tenerezza» che prova per quelle donne aguzzine e vittime, ci può far riflettere sulla grave solitudine di tanti anziani, ingannati dalle false promesse di eterna giovinezza del nostro mondo.
o lasciato il Kenya 13 anni fa eppure
ogni volta che ci torno continuo a restare sorpresa dalle storie «d’amore»
che vi si intrecciano e da come questi
travolgenti sentimenti - che lì sembrano travolgere più che altrove - si manifistino in immagini
concrete, non del tutto edificanti, né di buon
gusto.
È davvero possibile che ultrasettantenni si convincano che i loro partner poco più che ventenni (maschi o femmine) si siano perdutamente innamorati di loro? A guardarli negli atteggiamenti che assumono si direbbe proprio di
sì, ed è questa convinzione ad apparire del tutto
sbalorditiva.
Come donna è ovvio che la mia curiosità si indirizzi in particolare verso le appartenenti al mio
stesso sesso. Signore eleganti, spesso facoltose,
che combattono contro l’implacabile devastazione inflitta loro dagli anni e si attaccano con i
denti e con le unghie a stagioni definitivamente
H
perdute. Sorde al senso del ridicolo, si agghindano ora come ragazzine ora come donne fatali,
come quelle che agli inizi del secolo scorso venivano definite «maliarde»: spietate ammaliatrici
che portavano uomini probi e teneramente ingenui alla totale rovina.
Naturalmente quegli uomini più che ingenui
erano deboli e psicolabili. Incapaci di governare
gli istinti e di ordinare con responsabilità la
scala dei propri valori di riferimento.
ggi pare che un folto numero della versione odierna di quelle antiche maliarde, sia approdato in Kenya. Ma i fattori si sono curiosamente invertiti.
Loro, oggi, non ammaliano più. Sono le maliarde a essere ammaliate. E da chi? Dal classico pilota con gli occhi azzurri che impazzava
O
MAGGIO 2014 MC
43
nei romanzi di Liala? Oppure dal virile, colto e
generoso, dottore della Cittadella di Cronin?
Macché! Il loro moderno ammaliatore è un
beach boy, rasta semianalfabeta che si esprime
in un idioma raffazzonato, compendio di diverse lingue europee spigolate con intuito istintivo e primordiale sul bagnasciuga delle candide spiagge coralline.
Lui promette amore imperituro e le inonda di
rancidi effluvi, frutto dell’olio di cocco che gli fa
risplendere pettorali e bicipiti e di un’osservanza delle norme igieniche un po’ frettolosa e
vanificata dal caldo e dal sudore.
ov’è finito il saggio e lungimirante intuito femminile? Il rispetto della propria femminilità, della propria cultura?
La donna matura, la donna in età avanzata, è uno scrigno di preziosità che proprio il
trascorrere del tempo e l’esperienza di vita
hanno via via valorizzato. Perché giocarsi tutto
nelle vigorose membra di un ragazzotto tracotante per un quarto d’ora di spasimo professionalmente provocato?
D
È questo il vero «amore»? Quello che Dante definisce come «l’unimento spirituale de l’anima e
della persona amata»?
Sì, queste nonne che tentano di sfuggire dal
ruolo che una imperturbabile natura continua
comunque ad assegnare loro, in fondo suscitano una sorta di amara tenerezza.
Hanno frainteso il vento dei cambiamenti e dell’emancipazione della donna. Hanno pensato
che quell’emancipazione, oltre a restituire loro i
diritti per troppi secoli negati, avrebbe restituito anche la gioventù perduta.
E questa è forse la più triste delle illusioni.
Monica
Pagine precedenti: mappa di Malindi e reti sulla spiaggia.
La pesca è una delle risorse economiche della regione, più
sicura dell’agricoltura limitata da periodi di grande siccità.
Qui a destra: ragazzi che giocano sulla spiaggia. La tentazione di guadagnare facilmente vendendo il proprio corpo
è forte, soprattutto quando la povertà è impellente e un
bambino in poco tempo può raccimolare molto più denaro
di suo padre con intere giornate di pesca.
La diocesi di Malindi
Contro prostituzione, pedofilia e
traffico di persone
P
edofilia, prostituzione e traffico di esseri
umani sono problematiche presenti nella
diocesi di Malindi e difficili da trattare. Necessitano anche dell’intervento del governo. Noi,
come diocesi, abbiamo messo delle regole: ad
esempio nessuno straniero può visitare o fare
delle foto nelle nostre scuole senza permesso.
Per il problema della pedofilia la diocesi ha un
«Ufficio per la protezione del bambino» che si interessa dei casi che ci vengono segnalati. Vogliamo essere sicuri che giustizia sia fatta.
Più difficile è per la prostituzione, perché occorrerebbe trovare un’alternativa appetibile per le
persone coinvolte, al fine di toglierle dalla strada.
Molte prostitute arrivano dall’interno del paese
proprio per fare quello e guadagnare denaro alla
svelta.
Ci scontriamo poi con la difficoltà di convincere i
bambini delle nostre scuole che l’educazione è
importante per il loro futuro. Loro vedono che
quelli che sono andati a scuola hanno difficoltà a
trovare un lavoro, mentre quelli che hanno deciso di andare con uno straniero vivono vite migliori.
44 MC
MAGGIO 2014
A
livello operativo la diocesi di Malindi ha
messo in campo programmi nei vari settori:
educazione, micro finanza, dialogo e
azione, genere e gioventù. Il settore educazione
è fondamentale per inculcare nei ragazzi uno
stile di vita responsabile fin dalla tenera età. In
particolare parliamo loro di autoprotezione, sessualità, relazioni, droga, abuso di sostanze, Aids e
altre malattie.
Inoltre lavoriamo insieme con gli insegnati per un
approccio globale di protezione dell’infanzia.
Anche coltivare i temi spirituali di allievi e studenti è importante.
Con il settore micro finanza si cerca di aiutare le
famiglie a prendersi cura dei figli, in modo da ridurre i rischi di prostituzione.
Abbiamo anche un programma di sensibilizzazione per mettere in guardia sui problemi del
matrimonio precoce.
Sugli stessi temi cerchiamo di interessare non
solo i nostri studenti ma anche i giovani in generale con il nostro «Ufficio per la gioventù».
padre Ambrose Muli
parroco della cattedrale di Malindi
DOSSIER MC MALINDI
turismo sessuale, mercato senza frontiere
WANJA,
LE ALTRE E GLI ALTRI
DI REDAZIONE
MC *
il turismo è una delle risorse principali del Kenya, contribuisce a circa il 25% del Pil. lo splendore della costa, la bellezza dei suoi parchi, il colore delle tradizioni tribali attirano turisti da
tutto il mondo. richiamano grandi investimenti, danno lavoro a migliaia di persone, ma nascondono diversi aspetti negativi. uno di questi, il più vistoso, è il turismo del sesso che prospera nell’inerzia legislativa nazionale e internazionale e nella corruzione alimentata dai facili
guadagni. coinvolgendo anche i minori, sia bambine che bambini.
differenza della maggior parte delle ragazze della sua età, la ventiquattrenne
Mary Wanja è fortunata ad avere un lavoro come segretaria in una ditta privata. Ma come molte altre ragazze, durante i
fine settimana Mary va spesso nei club di Malindi con lo scopo di abbordare turisti che cercano sesso e divertimento. Un numero sempre
crescente di vacanzieri visita il Kenya specifica-
A
tamente per sesso, specialmente nelle città costiere (Diani, Kilifi, Mombasa e, appunto, Malindi).
La maggior parte dei turisti sessuali ha un’età
compresa tra i 45 e 65 anni. Spesso sono divorziati o pensionati che cercano di riaccendere le
loro vite sessuali. Molti di essi hanno rapporti
con adolescenti, percepiti, tra l’altro, come «sicuri» da Hiv. Al riguardo, Ecpat - l’organizza-
MAGGIO 2014 MC
45
A sinistra: turismo sano e rilassante in un
campo da golf nei dintorni di Malindi.
Qui: strada nel centro di Malindi, cittadina
senza particolari bellezze architettoniche.
zione internazionale che lotta contro lo sfruttamento sessuale dei minori - sfata anche alcuni
luoghi comuni: soltanto una minima parte dei
turisti sessuali sono patologici, la maggior
parte di essi è semplicemente in cerca di nuove
emozioni, approfittando delle situazioni.
Come in molti paesi asiatici e latinoamericani,
anche in Kenya il sesso con minori, sia bambine
che bambini, è molto richiesto. Secondo varie
statistiche, sulla costa del paese africano oltre il
30% degli adolescenti sono coinvolti in modo
saltuario nel lavoro sessuale. Più del 10% delle
ragazze hanno relazioni sessuali prima dei 12
anni. Oltre il 35,5% degli atti sessuali tra minori
e turisti avviene senza l’utilizzo di preservativi.
e i dati sono scarsi e spesso non verificabili, i fatti sono però sotto gli occhi di
tutti. Padre Kizito Sesana, noto missionario comboniano, che ha avviato case
per i bambini di strada a Nairobi, ha raccontato: «Qualche tempo fa, con un amico, visitavo
la costa nord di Mombasa, normalmente soprannominata “la costa tedesca” a causa della
forte presenza di turisti da quel paese. Era
marzo e non c’erano molti turisti. In un tardo
pomeriggio siamo entrati in un bar a prendere
una birra fresca e siamo stati colpiti dalle
strane coppie sedute ai tavoli: uomini bianchi
S
46 MC
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anziani con ragazze molto giovani o ragazzi
adolescenti; donne bianche anziane con ragazzi
che avrebbero potuto essere i loro figli o i loro
nipoti. Nel giro di poco tempo, siamo stati avvicinati dapprima da una serie di ragazze e poi di
ragazzi. Siamo andati via senza finire di bere».
Il turismo del sesso si è strutturato in una rete
complessa e variegata che include tour operators, hotel, affittacamere, club, bar, sale di massaggio, parrucchieri.
Robert Nyagah, ex giornalista, oggi operatore turistico, pone alcuni interrogativi: «Come differenziare i turisti genuini da quelli che vengono semplicemente per sesso, e come differenziare una
ragazza giovane che sta cercando un compagno
per la vita (turista o no) da una prostituta?».
ppure, il fascino del turismo del sesso è
reale e crescente. I soldi facili e la disoccupazione stanno portando sempre più
ragazze - anche sposate - sulla strada
della prostituzione. Ci sono casi in cui famiglie povere incoraggiano i loro bambini a uscire per
strada «a offrire ospitalità agli stranieri» per mettere cibo sulla tavola. A ciò va aggiunto un problema culturale. Presso molte comunità una ragazza di 13 anni è già in età da matrimonio. La
gente locale non capisce quindi dove stia il problema.
E
DOSSIER MC MALINDI
Per un sorriso:
discriminazioni stradali
Occhio al poliziotto
I
l Comitato degli italiani all’estero (Comites), organismo che assiste gli italiani nel mondo, riceve molte proteste da parte di concittadini residenti sulla costa del Kenya che lamentano una
disparità di trattamento tra loro e gli autoctoni
per quanto attiene alle infrazioni, soprattutto a
quelle concernenti la circolazione su strada.
«Gli africani viaggiano senza casco in motocicletta, senza cinture di sicurezza in auto, sorpassano in curva e sui dossi, parcheggiano dove pare
a loro, caricano i loro mezzi all’inverosimile…
Tutto sotto lo sguardo indifferente della polizia,
ma se noi commettiamo anche la più piccola di
queste infrazioni, ecco che scattano l’arresto, le
manette e le estenuanti comparizioni in corte.
Questa non si chiama discriminazione?».
S
Il commercio non è limitato alle ragazze: anche
i ragazzi vanno alla ricerca di fortuna. Molti
giovani (la maggior parte dei quali ha interrotto
la scuola primaria) hanno cambiato le loro vite
stringendo amicizia con donne di mezza età europee. Il litorale kenyano è conosciuto per attrarre turiste divorziate o avanti con gli anni
che cercano sesso, principalmente dalla Germania. La maggior parte di loro sono guidate
dal mito della potenza sessuale del maschio
africano e arrivano promettendo ai giovani keniani matrimoni e viaggi nei loro paesi.
Accanto alla prostituzione volontaria, c’è anche
una prostituzione indotta con l’inganno e la violenza. Esistono persone che tentano le ragazzine povere con la promessa di lavori, ma in
realtà vogliono reclutarle per l’industria del
sesso. Queste sono rinchiuse in case-bordello e
costrette ad avere rapporti con clienti sotto la
supervisione dei loro «datori di lavoro».
Mentre il governo di Nairobi a parole disapprova il turismo sessuale e vieta quello infantile, le azioni di contrasto sono poche. Troppi
sono i soldi in gioco.
redazione MC
* Liberamente tratto dall’articolo «Turismo sessuale in Kenya»,
pubblicato da www.promisland.it il 4 ottobre 2006, e da «Fight
against child sex tourism needs a boost», pubblicato da Irin
news, 28 aprile 2011 e da www.ecpat.net.
ì. Dovremmo chiamarla proprio così e non si
tratta di una gran rivelazione perché l’esercizio di queste differenze è quotidianamente
sotto gli occhi di tutti.
Basta guardare i piki-piki (motorette-taxi): nessuno indossa il casco. Né i guidatori né i passeggeri che spesso sono due, se non tre, spremuti
come acciughe alle spalle del guidatore che e costretto a condurre il mezzo con il manubrio premuto sull’ugola. Non è del tutto vero, però, che la
polizia se ne disinteressi totalmente. Qualche
volta ferma anche loro e applica una modesta
tassa-informale (il kitu-kidogo) oggettivamente
rapportata alle loro tasche. È ovvio che, quando
l’infrazione è commessa da un «viso pallido», l’interesse dei solerti controllori del traffico diviene
molto più rigoroso, ma non direi che si tratta di
vera e propria discriminazione basata sul colore
della pelle, piuttosto di un giudizio pratico commisurato al portafoglio del trasgressore.
C
ome possiamo difenderci? Dobbiamo pretendere che tutti i trasgressori, bianchi e
neri, incontrino gli stessi rigori della legge.
Sarebbe giusto, ma anche estremamente faticoso
e alla fine la nostra pretesa si rivelerebbe più
spesso infruttuosa. Perché, allora, non fare la cosa
più semplice e indolore: rispettare le regole e non
metterci dalla parte del torto?
Del resto, in nessuna parte del mondo, chi la fa
franca infrangendo la legge, autorizza gli altri a
fare impunemente altrettanto.
Artemide
(un italiano in Kenya dagli anni Sessanta)
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47
In un GrovIGlIo dI ContraddIzIonI
UN ALTRO TURISMO
È POSSIBILE
DI
GIGI ANATALONI
Malindi è una realtà dalle molte facce. Situata sul mare, con ampie spiagge coralline e acqua
limpida, si è lasciata alle spalle il suo passato di crocevia del commercio degli schiavi, ed è diventata un rinomato centro turistico. abitata da una popolazione locale in prevalenza islamica, è ora una cittadina cosmopolita, non solo perché turisti di tutto il mondo (soprattutto
italiani e tedeschi) vengono a godersi il suo mare, ma anche perché keniani di tutte le tribù vi
si sono radunati nella speranza di raccogliere qualche briciola della grande torta.
icordo bene una statistica: ogni giornoturista equivale a un giorno-lavoro per
un keniano. Più turisti ci sono, più
gente lavora. Niente turisti, niente lavoro. È una realtà che diventa drammaticamente evidente ogni volta che il turismo vacilla
a causa di disordini, attentati terroristici o
gravi eventi internazionali.
Per questo il turismo è, in Kenya, al primo posto di ogni programma governativo. Malindi, in
tale contesto, offre incentivi di prim’ordine: alle
splendide spiagge associa, ad esempio, la vicinanza al Travo Park con la sua natura incontaminata. Incentivi che hanno dato il via a iniziative lodevoli, hotel e villaggi di prima qualità, e
a una serie di servizi del tutto legittimi. Compreso un turismo socialmente responsabile che,
appoggiandosi a Chiese e Ong locali e straniere,
coinvolge i visitatori nel sostegno a progetti di
sviluppo in favore della parte più povera della
popolazione locale: scuole, dispensari, centri
per bambini abbandonati e denutriti, esperienze pilota con i disabili, e tanto altro.
Anima di questo turismo diverso spesso sono
proprio i nostri connazionali che vivono sulla
costa da anni, facendone la loro seconda patria.
R
48 MC
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a dove il denaro corre a fiumi, la tentazione di travalicare, di corrompere,
di prendere scorciatoie è sempre
molto forte. Così Malindi attrae solo
persone di sani principi e provata onestà. Speculazione edilizia, corruzione, gioco d’azzardo,
pedofilia, prostituzione, escorts e droga hanno
trovato un terreno fertile. A guadagnarci sono
sia i cosiddetti investitori stranieri (si dice che
la mafia ne abbia fatto un posto privilegiato per
il riciclo del denaro) che le autorità locali, rese
partecipi dei facili guadagni, nonostante ufficialmente sfoggino una probità a tutta prova.
Se gli espatriati comprano, investono, corrompono, gli indigeni pensano a rifornire il mercato
di «carne fresca». Salvo l’esplosione, di tanto in
tanto, di qualche campagna anticorruzione o
moralizzatrice, soprattutto nella vicinanza di
elezioni.
Ricordo alcuni episodi, che qui assumono un
valore simbolico.
Un medico italiano gode della fresca compagnia
di una fanciulla locale per un mese pagando 100
dollari. Beneficiario della somma: il padre della
ragazza. Ma non è tutto: il secondo anno lo
stesso padre offre la seconda figlia, e in seguito
M
DOSSIER MC MALINDI
la terza. Il tutto per la somma di 100 dollari per
ognuna. Quale uomo non se ne sarebbe vantato
con gli amici?
Una bambina o un bambino di 10-12 anni con
una prestazione o due la settimana guadagna
più di suo padre che sgobba dodici ore al giorno
in un cantiere, a pescare o a far da guardiano
alle ville dei ricchi. E la famiglia è «contenta»
perché almeno così tutti mangiano.
Una maman ben vestita e piena di soldi, da
aprile in avanti va nei villaggi più remoti in
cerca di fanciulle che hanno appena saputo i risultati dell’ultimo anno di secondaria, e che non
hanno la possibilità di continuare gli studi, per
offrire loro un «lavoro sicuro sulla costa in hotel di rinomata fama». Risultato: pochi mesi
dopo quelle giovani si trovano costrette a propstituirsi perché prigioniere di un raffinato sistema di sfruttamento, senza neppure la possibilità di dire la verità alle loro famiglie.
Una studentessa universitaria, approfittando
delle vacanze, va a «fare la stagione» sulla costa
per pagarsi gli studi: la famiglia infatti si è «svenata» per pagare il primo semestre, ma ora non
ha più mezzi per gli altri sette e la tesi finale.
Un giovanotto di belle speranze di una tribù
dell’interno lascia il suo villaggio di campagna
dove non ha prospettive e sulla costa si trasforma in abile danzatore Maasai, mandando in
visibilio il pubblico con danze autenticamente
tradizionali.
Una giovane ragazza corona il suo sogno di sposare uno mzungu e finalmente emigra legalmente in un paese europeo dove viene venduta
a un ring di prostituzione.
i questi «piccoli» fatti, di cui ho conoscenza diretta, ne avrei ancora molti
da raccontare, ma credo siano sufficienti quelli citati per dire che quanto
scritto nel dossier non è frutto di fantasia, ma
un problema reale e preoccupante sia a livello
keniano che internazionale.
La Chiesa cattolica non sta a guardare. Le diocesi di Malindi (vedi box pag. 44) e di Mombasa,
l’Associazione nazionale delle suore e diverse
Ong, come Sol.Wo.Di (Solidarity with Women in
Distress - vedi box), hanno programmi specifici
D
sia per prevenire che per curare e recuperare.
Non è nostra intenzione puntare il dito contro il
turismo in quanto tale. Desideriamo solo che
coloro che vanno in vacanza in Kenya, o sulle
sue coste, non siano ciechi, ma prima di tutto si
rendano conto della situazione e vedano la
realtà con occhi critici. Il turista non va in vacanza per fare il missionario e vuole qualità
corrispondente ai soldi che paga. Più che giusto. Ma è anche giusto che sappia che moltissime delle persone che lavorano per il suo benessere sono pagate noccioline, spesso meno di
80 euro al mese, e senza potersi ribellare, perché ci sono altre centinaia di candidati pronti a
prendere lo stesso posto. E non si stupisca il turista se è consderato un ricco agli occhi degli
indigeni. La maggior parte di loro non può permetteri una vacanza, tantomeno in Europa.
Prostituzione, pedofilia, traffico di persone,
droga, gioco d’azzardo, corruzione... sono prodotti di importazione. Essi hanno attecchito
bene, certo, ma prosperano perché la domanda
è alimentata da un mondo in cui con i soldi si
pensa di potere avere tutto, anche le persone.
Ma, ne siamo convinti, la maggior parte dei turisti hanno, come noi, in orrore queste aberrazioni, e vogliono che il turismo faccia del bene a
tutti: a chi ospita e a chi è ospitato, nel rispetto
reciproco.
Il Kenya è splendido, vale la spesa visitarlo. Con
gli occhi aperti e il cuore in mano.
Gigi Anataloni
SolWoDi
Solidarity with Women in Distress:
Ong fondata a Mombasa nel 1985 dalla dottoressa suor Lea Ackerman, missionaria d’Africa,
opera soprattutto con ragazze ad alto rischio tra i
6 e i 45 anni. Ha i suoi centri in Mombasa, Malindi,
Kwale e Kilifi.
Sol.Wo.Di crede che «ogni persona ha diritto ha
una vita migliore. Per questo l’organzazzione è impegnata ad aiutare le prostitute, i bambini vittime
di abusi sessuali e i sopravvissuti al traffico delle
persone a ritrovare la propria dignità, migliorare il
loro stato legale e socio-economico, e la loro salute per poter realizzare tutte le loro potenzialità
umane».
Aree di impegno: recupero e riabilitazione delle
prostitute; contrasto al traffico di persone; prevenzione e cura dell’Hiv/Aids; protezione dei bambini; sostegno economico e football per ragazze.
Contatto: www.solwodi.co.ke
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49
OSSIER
FINE
CILE
© Comando Bachelet
Testo e foto
di PAOLO MOIOLA
Dallo scorso marzo, il
palazzo della Moneda,
sede della presidenza,
ospita di nuovo
Michelle Bachelet.
Nella capitale cilena
abbiamo incontrato
il cardinale Ricardo
Ezzati Andrello, che ci
ha raccontato il «suo»
Cile: da Salvador
Allende al generale
Pinochet fino al
ritorno della
democrazia. Con i suoi
problemi: le troppe
diseguaglianze,
la questione
dell’educazione, la
lotta dei Mapuche.
VIAGGIO IN CILE / 1
«BUON LAVORO,
S
PRESIDENTA»
antiago del Cile. Siamo arrivati in anticipo. C’è tempo
per guardarsi attorno. La
zona è residenziale e la via
alberata, dando coerenza al
nome del municipio: Ñuñoa, in
mapudungún (la lingua mapuche), significa «luogo dell’iris». Al
vicino incrocio lo sguardo corre
verso un grande cartello della recente campagna elettorale. «Más
áreas verdes. Todos con Michelle», recita lo slogan scritto accanto al volto della signora Bachelet, appena eletta presidenta.
È ora di suonare il campanello.
Entriamo in un curatissimo giardino, posto tra una chiesetta in
pietra e una casa a un solo piano,
elegante, ma molto semplice. È la
residenza dell’arcivescovo di Santiago del Cile, mons. Ricardo Ezzati Andrello, che ci accoglie con
un ampio sorriso.
# Dicembre 2013: incontro tra mons.
Ezzati e Michelle Bachelet, appena
eletta presidente per il periodo
marzo 2014-marzo 2018.
Attraversando l’Atlantico
Nato in un piccolo paese del vicentino, all’età di 18 anni, sotto
l’egida dei salesiani, Ricardo Ezzati salpa dal porto di Genova alla
volta del Cile. È il 1959. Dopo gli
studi (Quilpué, Roma, Strasburgo) e l’ordinazione sacerdotale, si muove tra Valdivia, Conceptión e Santiago, ricoprendo
vari incarichi e con sempre maggiori responsabilità. «La mia - racconta nel salotto dove ci siamo
accomodati - è stata una strada di
pellegrino, avendo dovuto cambiare tenda molto sovente»1. Il
suo lungo percorso cileno ci consente di toccare molti argomenti.
Negli ultimi 50 anni il Cile è passato dalla breve stagione di Salvador Allende alla lunga dittatura
del generale Pinochet, fino al ritorno della democrazia. Il paese
ha ottenuto importanti successi
economici, con elevati tassi di
crescita (4,2% anche nel 2013).
Tuttavia, rimane uno dei più diseguali del mondo: l’1% più ricco
s’intasca il 31% dei redditi. La lista
MAGGIO 2014 MC
51
CILE
2014 dei 1.645 miliardari mondiali, stilata da Forbes2, conta 12
cileni, appartenenti all’oligarchia
storica (Fontbona, Horst, Matte,
Falabella, Angelini Rossi, ma anche Piñera, il presidente uscente).
«È vero - conferma mons. Ezzati -:
nel paese esiste un grande divario
sociale tra persone che non
hanno niente e vivono nella povertà (se non proprio nella miseria) e un gruppo minoritario di cileni che vive nell’abbondanza.
Nel settembre 2012, in una lettera pastorale3, come vescovi abbiamo detto che lo sviluppo del
Cile non può essere centrato soltanto su valori economici e soprattutto che esso dovrebbe essere molto più partecipato, più
solidale, più giusto. Questo è un
paese di molte speranze ma anche di tantissime sfide».
Sfide che dovranno essere affrontate da Michelle Bachelet, vincitrice delle ultime elezioni con
Nueva Mayoría, la coalizione di
centrosinistra. Alla fine del primo
mandato, nel marzo del 2010, lei
aveva lasciato La Moneda con un
alto indice di approvazione dei
cittadini. Oggi Bachelet ha più
# Sotto: l’incontro di dicembre 2013 tra
Michelle Bachelet e i vescovi cileni,
capeggiati da mons. Ezzati.
esperienza, ma anche più aspettative da soddisfare. Ha affrontato la campagna elettorale sotto
lo slogan Chile de todos, promettendo più ospedali pubblici, più
educazione pubblica, più democrazia e diritti umani4. Mons. Ezzati ha incontrato la presidenta
eletta il 16 dicembre. Che vi siete
detti?, domandiamo.
«Dato che la sua coalizione va dal
partito comunista alla democrazia cristiana, le abbiamo chiesto
di non avere il timbro di un partito o di una determinata ideologia, ma soltanto quello del bene
comune. Le abbiamo chiesto che
la sua politica sia illuminata dai
grandi valori dell’umanesimo. Le
abbiamo chiesto di essere presidente di tutte e tutti i cileni e di
mettere il potere al servizio dei
poveri e di quelli che hanno più
bisogno come gli anziani e i bambini. Abbiamo infine parlato di
temi molto concreti: la giustizia
distributiva, la famiglia, l’educazione».
Già, l’educazione, tema caldo,
caldissimo nel paese.
«Capisco gli studenti»
Il Cile ha conosciuto molte
riforme dell’educazione. Quella di
Allende - si chiamava «Scuola nazionale unificata» (Escuela nacional unificada, Enu) - non vide mai
la luce. Poi ci furono le riforme di
Pinochet - del 1981 e del 1990
(quest’ultima approvata nell’ultimo giorno della dittatura) -, che
portarono a una privatizzazione
dell’istruzione. Infine, nel 2006
Michelle Bachelet varò una
riforma (legge 20370 o Lge) che,
nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto porre rimedio ai guasti delle
precedenti. Senza però riuscirvi.
Oggi la situazione è questa: la
qualità dell’educazione pubblica
è scarsa, mentre l’educazione privata è molto cara (e spesso inadeguata). Questo ha portato a un
sistema educativo diseguale in
cui molti studenti (e le loro famiglie) debbono indebitarsi per poter studiare.
Ecco spiegato perché in Cile, in
questi anni, le uniche, vere proteste sociali sono nate proprio tra
gli studenti. Prima (era il 2006)
tra i giovani degli istituti superiori, poi (2011) tra quelli universitari.
La Chiesa cattolica cilena ha un
ruolo rilevante nel sistema educativo del paese. Vogliamo capire se
questo suo essere parte in causa
costituisca un impedimento per
prendere posizione. Mons. Ezzati,
lei condivide le proteste studentesche? «Senz’altro. Magari con
qualche distinguo sulle loro modalità. Una riforma del sistema
© Comando Bachelet
52
MC MAGGIO 2014
MC ARTICOLI
• 1942 - Nasce a Campiglia dei Berici, in provincia
di Vicenza.
• 1959 - Arriva per la prima volta in Cile per studiare a Quilpué (Valparaíso) nel noviziato dei
salesiani.
• 1970, marzo - Viene ordinato sacerdote.
• 1971-1990 - Ricopre vari incarichi all’interno
della Congregazione salesiana in Cile.
• 1991-1996 - È in Vaticano alla Congregazione per
la vita consacrata.
• 1996, settembre - Viene ordinato vescovo di Valdivia, capitale della regione meridionale de Los
Ríos.
• 2001, luglio - Viene nominato vescovo ausiliare
di Santiago del Cile.
• 2006, dicembre - Viene nominato arcivescovo di
Conceptión, capitale della regione del Biobío.
• 2007, maggio - Partecipa alla Conferenza di
Aparecida, dove lavora a stretto contatto con il
cardinale Bergoglio, futuro papa Francesco.
• 2010, settembre-ottobre - È «facilitatore del dialogo» nello scontro tra i Mapuche e il governo
centrale.
• 2010, dicembre - Viene nominato arcivescovo di
Santiago del Cile e presidente della Conferenza
episcopale.
• 2014, 22 febbraio - Papa Francesco lo nomina
cardinale.
© Arz Santiago / Nibaldo Pérez
CARDINALE
RICARDO EZZATI
ANDRELLO
© Arz Santiago / Nibaldo Pérez
Biografia essenziale
# In alto: alcuni momenti
della festa
di Cuasimodo del
2012: la processione
in costume e la
visita ai malati.
A destra: mons. Ezzati
in abiti cardinalizi.
In basso: scambio di
doni con una donna
mapuche nel giorno
dedicato ai popoli
nativi.
© Arz. Santiago / Héctor Landskron
© Arz. Santiago / Nibaldo Pérez
CILE
CILE / 1:
Inizia il processo d’emancipazione
dal dominio spagnolo. Il Cile
dichiarerà l’indipendenza
il 12 febbraio del 1818.
Termina la secolare «Guerra de
Arauco». Le terre dei Mapuche sono
occupate in via definitiva dall’esercito
cileno. La perdita territoriale è all’origine di un conflitto mai più sanato.
CRONOLOGIA ESSENZIALE
IL RITORNO
DI MICHELLE
Nel bene e nel male, alcuni dei
protagonisti della storia cilena:
Spagna, popolo Mapuche, Salvador Allende, Augusto Pinochet, Milton Friedman (e Chicago boys), Giovanni Paolo II,
Sebastián Piñera, Michelle Bachelet.
FEBBRAIO
1810
1879
1883
Le truppe cilene occupano
l’allora porto boliviano di
Antofagasta. Poco dopo
l’azione, ad aprile, inizia la
«guerra del Pacifico», che si
concluderà nel 1883 con
la vittoria cilena su Perù e
Bolivia. Le conseguenze di
quel conflitto si fanno sentire
ancora oggi.
(a cura di Paolo Moiola)
un’istituzione con 26mila iscritti5
di cui oggi è gran cancelliere.
«Noi crediamo - precisa subito che il diritto all’educazione sia un
diritto essenziale, ma è un diritto
che riteniamo vada di pari passo
con il diritto alla libertà di educazione. Ogni persona ha cioè il diritto ad avere un’educazione di
qualità ma, insieme a questo, ha
anche il diritto di scegliere il tipo
di educazione - di base, superiore
o universitaria - in accordo con la
propria concezione di vita».
Anche Michelle Bachelet considera fondamentale la riforma
educativa e l’ha posta tra le priorità del proprio programma di governo. Un programma ambizioso
in cui si parla anche di un debito
storico dello Stato e della società
cilena nei confronti dei popoli indigeni. Questi - secondo i dati del
censimento 2012 - costituiscono
l’11% della popolazione totale
(1,8 milioni su 16,3)6. L’etnia prevalente è quella mapuche con oltre 1,5 milioni di persone.
educativo è però necessaria».
Ezzati conosce bene il mondo dell’educazione, essendo stato rettore del collegio salesiano di Conceptión e poi professore alla facoltà di teologia della «Pontificia
Università cattolica del Cile»,
54
MC MAGGIO 2014
La lotta del popolo mapuche
Nel settembre 2010, mons. Ezzati, all’epoca arcivescovo di Conceptión, accetta il ruolo di mediatore nel conflitto tra oltre 30 Mapuche - incarcerati con l’accusa di
terrorismo e in sciopero della
fame per protestare contro l’applicazione della legge antiterrori-
NOVEMBRE
SETTEMBRE
1970
1973
Le elezioni sono vinte da
Salvador Allende, medico
e socialista.
Il generale Augusto Pinochet guida un colpo
di Stato contro il presidente Salvador Allende.
La Moneda, il palazzo presidenziale dove
Allende è asserragliato, viene bombardata.
Allende muore, forse per suicidio. Il golpe ha
l’appoggio concreto di Washington e di Henry
Kissinger, il potente segretario di stato Usa.
È l’altro «11 settembre» della storia, il primo
(ma meno conosciuto e riconosciuto).
MC ARTICOLI
Papa Giovanni Paolo II visita il
paese. Saranno 6 giorni difficili e
controversi.
È l’anno della prima rivolta studentesca, quella denominata «rivoluzione pinguina» (a causa della tipica
divisa degli studenti: giacca blu e camicia bianca).
Nel 2011 ne seguirà una seconda, questa volta guidata dagli studenti universitari.
MARZO
APRILE
DICEMBRE
1975
1987
1989
Il prof. Milton Friedman,
economista statunitense,
fondatore della «Scuola di Chicago», visita per una settimana
il Cile e incontra il generale
Pinochet. Nello stesso anno i
cosiddetti «Chicago boys»
(cileni graduati alla scuola di
Friedman) entrano nel governo
di Pinochet, mettendo in atto
un forte piano di riforme
economiche liberiste.
2006
Dopo 17 anni di dittatura, si tengono elezioni democratiche.
Vince la coalizione di centro-sinistra (Concertación de partidos
por la democracia), che governerà ininiterrottamente il Cile fino
al 2010. I presidenti saranno: Patricio Aylwin, Eduardo Frei, Ricardo Lagos e Michelle Bachelet,
prima donna presidente della storia cilena.
Camila Vallejo, la più conosciuta leader del movimento
studentesco, viene eletta deputata nelle liste del Partito comunista, alleato di Nueva Mayoria, la coalizione
di centro-sinistra guidata da Michelle Bachelet.
MARZO
NOVEMBRE
DICEMBRE
MARZO
2010
2013
2013
2014
Inizia il mandato presidenziale di
Sebastián Piñera, rappresentante
della destra (Coalición por el
cambio) e miliardario.
Al ballottaggio per le
presidenziali vince la
candidata Michelle
Bachelet, al suo secondo mandato.
L’11 del mese assume la presidenza Michelle
Bachelet. Anche la seconda carica del
paese, la presidenza del Senato, è nelle mani
di una donna: Isabel Allende Bussi, figlia dell’ex presidente Salvador Allende.
# Qui a sinistra: il generale Augusto Pinochet e il presidente Salvador Allende
(prima del golpe di stato dell’11 settembre
1973). A destra: incontro tra Sebastián
Piñera, presidente uscente, e Michelle Bachelet. Sotto: La Moneda, il palazzo presidenziale, a Santiago.
smo varata all’epoca di Pinochet e il governo centrale.
«Io preferisco il termine di “facilitatore del dialogo”. I Mapuche mi
chiesero di intervenire e il governo di Piñera accettò. Ebbi dialoghi lunghissimi con i capi mapuche. All’epoca la crisi si risolse,
ma la situazione tra indigeni e governo rimane ancora oggi delicata, con manifestazioni di protesta e incendi nei casi più gravi. La
mia esperienza mi ha fatto scoprire che tra gli indigeni ci sono
due anime, due visioni. Quella
predominante è pacifica e contemplativa vedendo nella natura
il riflesso di Dio. I Mapuche assistono con grande preoccupazione
alla scomparsa delle coltivazioni
tradizionali per far posto a pini ed
eucalpiti utilizzati nella produzione di cellulosa per carta. Ma
non basta. Con le coltivazioni tradizionali spariscono anche le erbe
medicinali, su cui si basa l’autorità delle machi, le guide spirituali
mapuche (che in gran parte sono
donne)».
Cosa occorre fare, dunque, per risolvere il conflitto tra indigeni e
governo centrale? «La prima cosa
di cui c’è necessità è il riconoscimento politico dei Mapuche
come popolo con la sua cultura e
identità. E poi va risolto lo storico
problema della terra».
Se in territorio mapuche la terra è
finita in mano alle imprese della
cellulosa (soprattutto quelle delle
MAGGIO 2014 MC
55
CILE
CILE / 2: UNA MAPPA RIASSUNTIVA
Le questioni principali
La Costituzione cilena è, con poche modiancora quella promulgata l’11
marzo 1981 durante la dittatura del generale Augusto Pinochet. Nel programma di governo della presidenta Bachelet, pubblicizzato sotto lo slogan «Chile de Todos», è
prevista (pagg. 30-35) una nuova Magna carta in cui democrazia e diritti umani siano più tutelati. Ma raggiungere questo obiettivo non sarà facile.
POLITICA fiche,
Il Cile è uno dei paesi al mondo che più
ECONOMIA sono cresciuti negli ultimi 25 anni. Le
diseguaglianze sociali permangono però molto ampie:
l’1% dei cileni incamera il 31% del prodotto nazionale
(contro - ad esempio - il 21% degli Stati Uniti). Il tasso di
povertà è del 14,4%, che corrisponde a 2,5 milioni di cileni
(dati Casen 2011). Le fortissime disparità economiche
sono riassunte nell’alto valore dell’Indice Gini (52,1, secondo i dati della Banca mondiale e della Cia), che pone il
paese ai primi posti nel mondo per diseguaglianza. Il salario minimo, fissato ad agosto 2013, è pari a 210.000 pesos cileni, pari a circa 270 euro.
Il problema del-
SALUTE ED EDUCAZIONE l ’e d u c a z i o n e
pubblica - inefficiente, di scarsa qualità e soppiantata da
quella privata - ha generato le due rivoluzioni studentesche nel 2006 e nel 2011. Il programma della presidente
Bachelet prevede una riforma radicale basata sul principio che l’educazione non è un bene di consumo. Il problema della sanità pubblica è riassumibile in due dati: il
Cile è agli ultimi posti tra i paesi dell’Ocse come spesa sanitaria (7,5% del Pil) e uno dei tre - assieme agli Stati
Uniti e al Messico - in cui la spesa sanitaria privata supera quella pubblica.
La questione ambientale è legata alle
AMBIENTE conseguenze dello sfruttamento delle
risorse del sottosuolo (ad esempio, il progetto PascuaLama nella regione di Atacama), dell’acqua (regione dell’Aysén, Patagonia cilena), delle risorse forestali (soprat-
tutto in terra mapuche) e delle risorse ittiche (in particolare con riferimento alla pesca del salmone nelle acque
dell’arcipelago di Chiloé).
I Mapuche - il principale
POPOLO MAPUCHE gruppo indigeno del Cile
e il terzo per numero in America Latina - reclamano la restituzione delle loro terre a Sud del fiume Bío-Bío (erano
circa 100mila kmq), terre finite in mano a latifondisti e
compagnie forestali. Le loro azioni di lotta (dalla disobbedienza civile agli incendi) sono punite con l’applicazione
della Legge anti-terrorismo 18.314 emanata nel maggio
1984 da Pinochet. Contro di essa si levano non soltanto le
proteste dei Mapuche, ma anche quelle delle organizzazioni internazionali per i diritti umani e dell’Onu.
Il Cile ha
contenziosi territoriali aperti, sia con il Perù che con la Bolivia. In entrambi i casi si tratta di conseguenze della cosiddetta Guerra del Pacifico che - tra il 1879 e il 1883 - vide
contrapporsi il Cile all’alleanza tra Perù e Bolivia. I due
paesi andini uscirono sconfitti dal conflitto: il Perù perse
la regione di Arica e la Bolivia il suo unico sbocco al mare,
sul litorale del deserto di Atacama. Di recente (27 gennaio 2014) la Corte internazionale di giustizia de L’Aia
(Paesi Bassi) ha deciso sul contenzioso tra Cile e Perù riducendo la sovranità del primo sul mare antistante i due
paesi di un’area pari
a circa 38mila km
quadrati. Anche la
Bolivia aspetta per
il 2015 una decisione
della Corte internazionale che le permetta di riacquistare uno sbocco al
mare.
Paolo Moiola
RELAZIONI INTERNAZIONALI due
# A sinistra: un cartellone della campagna elettorale di Michelle Bachelet
promette di rafforzare la sanità pubblica. In alto: un artista contemporaneo, esposto al «Museo de la Solidaridad Salvador Allende» (a Santiago),
non vede novità nella Costituzione
cilena.
famiglie cilene Angelini e Matte),
anche lo sfruttamento di altre ricchezze naturali ha generato problemi. Come ad esempio nell’Aysén, regione della Patagonia cilena, in cui un consorzio internazionale (formato da Endesa-Enel
e da una società della famiglia
Matte) vorrebbe sfruttare le
enormi risorse idriche per la produzione di energia elettrica. Al
progetto si oppone la maggioranza delle popolazioni locali, guidata da mons. Luis Infanti della
Mora, italiano di Udine, vicario
apostolico dell’Aysén7.
«La battaglia di mons. Infanti
nella regione di Aysén è una battaglia etica più che economica. Ci
sono istituzioni che lo appoggiano
e altre che lo criticano. Tuttavia,
anche nelle correnti di pensiero
ecologico ci sono posizioni diverse. Il tema energetico è un
tema forte. L’acqua sembra - dico
sembra perché non sono un tecnico - dare la possibilità di produrre energia in forma più pulita.
In Cile abbiamo molte centrali a
carbone, che sono veramente inquinanti. Sono vissuto per tre
anni a Conceptión dove siamo
riusciti a fermare la costruzione di
una nuova centrale termoelettrica a carbone, quella sì veramente inquinante. L’acqua è un
bene comune che deve essere difeso opportunamente. D’altra
parte, abbiamo anche bisogno di
risolvere il problema energetico».
«Francesco è un dono»
Mons. Ezzati non vuole parlare
soltanto del suo ruolo pubblico.
Vuole essere anche e soprattutto
un uomo di Chiesa. «Perché spiega - è una condizione in cui
mi sento comodo e felice. Quella
cilena non è una chiesa clericale,
ma una chiesa di popolo, dove la
partecipazione dei laici è molto
forte. Qui a Santiago abbiamo
una scuola di formazione dei laici
(Instituto Pastoral Apóstol Santiago, ndr)8 che io ho seguito da
vicino quando ero vescovo ausiliario della capitale, cui partecipano migliaia di persone. Sono
tutti volontari che, dopo il lavoro,
alla sera dedicano alcune ore alla
propria formazione per essere attivi nelle rispettive comunità. E
poi un secondo aspetto molto
bello della chiesa cilena sono le
espressioni della religiosità popolare, che costituiscono una ricchezza straordinaria, trasmessa di
generazione in generazione. Ricordo, tanto per fare un esempio,
la festa del Cuasimodo9 a Pasqua».
Da un anno al Vaticano c’è un
papa argentino. «Io ho avuto occasione di conoscere il cardinale
Bergoglio in alcune riunioni del
Celam (Consejo episcopal latinoamericano, ndr)10, ma soprattutto
durante l’assemblea di Aparecida
- era il maggio del 2007 -, dove
eravamo nella stessa commissione, lui come presidente e io
come membro. Dunque, ho potuto conoscere abbastanza bene
questo dono di Dio alla Chiesa
universale. Ho conosciuto un
uomo molto umile, rispettoso del
lavoro degli altri, un uomo di una
spiritualità semplice ma allo
stesso tempo molto profonda.
Una persona di grande fede e dal
# A sinistra: la Cattedrale di Santiago
con un furgone di carabineros in
primo piano. In alto: la pubblicità di
un’università privata, a Santiago.
MAGGIO 2014 MC
57
CILE
# Santiago del Cile: la statua di Salvador Allende in Plaza de la Constitución a lato del palazzo de La Moneda.
come “nemici della patria e
marxisti” semplicemente perché
un libro, destinato alla scuola superiore, parlava del cristiano nel
mondo facendo riferimento a
problemi molto concreti: diritti
umani, giustizia distributiva, armamenti. Quel periodo è passato,
anche se ci sono ferite che rimangono e che soltanto con il tempo
si potranno rimarginare».
Paolo Moiola
(fine prima puntata - continua*)
NOTE
1 - Questa intervista a mons. Ezzati si è
tratto umano veramente squisito.
Considero veramente una grazia
del Signore che lui sia il vescovo
di Roma. Anche perché papa
Francesco porta alla Chiesa universale il respiro di una Chiesa
che, dopo 500 anni di storia, può
offrirci molto».
Una Chiesa, quella latinoamericana, che ha proposto, tra l’altro,
una teologia tanto affascinante
quanto foriera di discussioni interminabili, polemiche feroci, separazioni dolorose. Ci riferiamo
alla teologia della liberazione.
«Come tutte le teologie, anche
quella della liberazione ha una
propria storia. I documenti della
Congregazione per la dottrina
della fede parlano di una teologia
della liberazione necessaria e di
una influenzata da idee sociopolitiche. Dico questo senza voler
fare una critica, perché da sempre la storia della salvezza s’incarna nella storia concreta delle
persone e dei popoli. Io credo che
la teologia della liberazione,
58
MC MAGGIO 2014
quella più autentica, abbia dato
un apporto significativo alla
Chiesa universale».
Le ferite del passato
La teologia della liberazione si diffuse nei primi anni Settanta. Proprio negli anni in cui ci fu, tra l’altro, il golpe di Augusto Pinochet
contro il governo socialista di Salvador Allende.
Mons. Ezzati non si tira indietro
quando gli chiediamo di commentare quel periodo storico. «Io
posso dire che, durante gli anni di
Unidad Popular11, c’erano grossi
problemi. Quando ci fu il colpo di
stato si pensava che sarebbe durato pochi giorni. Invece si trasformò in una dittatura, dove i diritti umani furono calpestati e si
generò molta ingiustizia. Allora
ero un giovane e insignificante
prete di periferia, ma anch’io vissi
momenti difficili. Nel 1978, con
un gruppo di preti elaborammo
dei testi scolastici di educazione
religiosa. Fummo denunciati
svolta a Santiago del Cile prima che si conoscesse la sua nomina a cardinale, avvenuta lo scorso 22 febbraio.
2 - L’annuale lista di Forbes, uscita nel
marzo 2014, quest’anno comprende 1.645
persone. Si veda: www.forbes.com/billionaires.
3 - La lettera pastorale, uscita il 27 settembre 2012, è titolata Humanizar y compartir
con equidad el desarrollo de Chile. Essa è
scaricabile dal sito della Conferenza episcopale cilena: www.iglesia.cl.
4 - Il programma di governo di Michelle
Bachelet si può scaricare da: michellebachelet.cl/programa.
5 - I siti corrispondenti: Università cattolica, www.uc.cl; Università del Cile,
www.uchile.cl; Collegio salesiano di Conceptión, www.salesianoconcepcion.cl.
6 - Tutti i dati del censimento 2012 sono
scaricabili dal sito: www.censo.cl. Va notato che sui numeri dei popoli indigeni
(sono 9 quelli riconosciuti), e in particolare dei Mapuche, non c’è concordia.
7 - Si legga: Luis Infanti de la Mora, Dacci
oggi la nostra acqua quotidiana, Emi, Bologna 2010.
8 - Il sito: www.inpas.cl.
9 - Originaria dell’epoca della colonia, la
festa di Cuasimodo si celebra la domenica
successiva alla Pasqua.
10 - Il sito: www.celam.org.
11 - Nome della coalizione dei partiti di sinistra che portò alla presidenza Salvador
Allende.
* NELLA PROSSIMA PUNTATA: la visita all’incredibile «Museo della memoria e dei
diritti umani» di Santiago; l’intervista
con il vescovo della regione di Aysén,
mons. Luis Infanti de la Mora, e altro
ancora.
SIRIA
© Piergiorgio Pescali
di PIERGIORGIO PESCALI
Di Siria si parla molto
meno di qualche mese
fa. Ma i problemi
generati dalla guerra
civile sono ancora
insoluti. In queste
pagine Piergiorgio
Pescali parla della
situazione siriana con
padre Pizzaballa,
francescano, «custode
di Terrasanta» dal
maggio 2004.
L’intervista è parte di
un libro in via di
pubblicazione.
INCONTRO CON PADRE PIZZABALLA
SILENZIO SULLA
GUERRA
«N
oi abbiamo fatto una
scelta ben precisa:
parlare il meno possibile. Quindi io, ora,
davanti a lei, sto contravvenendo a
questa stessa scelta».
Padre Pierbattista Pizzaballa sorride mentre si aggiusta il saio francescano. Lui, «custode di Terrasanta», è impegnato a mantenere
viva l’attenzione verso la Siria. Lo
abbiamo incontrato per porgli alcune domande*.
Dopo l’accordo per la distruzione
delle armi chimiche di Assad (settembre 2013), si è arrivati a scongiurare il pericolo di un intervento
militare internazionale diretto da
parte dell’Europa e degli Usa (che
forse non erano neppure troppo
convinti). Si è però assistito anche
a un allontanamento della Siria
dall’attenzione mediatica. Questo
da una parte ha favorito l’incancrenirsi del conflitto, dall’altra ha
permesso ai paesi coinvolti - Turchia, Arabia Saudita, Qatar - di
avere mano libera nelle loro politiche di intervento. Padre Pizzaballa, cosa sta accadendo in Siria?
«In realtà in Siria non è cambiato
molto rispetto ai tempi in cui se ne
parlava. Cambia sul territorio la
forza dei vari movimenti a seconda
dei periodi, ma la situazione generale è immutata. Parte del territorio è sotto controllo governativo,
parte sotto quello dei ribelli. E i ribelli sono una galassia indefinita di
movimenti e sigle. A volte sono
semplici bande criminali che utilizzano varie coperture per compiere
scorrerie e ruberie.
Risulta sempre più evidente che
tra questi ribelli ci sono frange di
stampo fondamentalista, che
creano problemi a tutto ciò che si
differenzia da loro. Ci sono, infine,
milioni di profughi all’esterno e all’interno del paese».
# In alto: padre Pierbattista Pizzaballa,
francescano, custode di Terrasanta,
durante una funzione religiosa.
MAGGIO 2014 MC
59
SIRIA
Le frange fondamentaliste sono
formate da siriani o da stranieri?
«In gran parte si tratta di stranieri.
Provengono da Cecenia, Pakistan,
Egitto, Libia, Afghanistan. Sono
persone abbruttite dalla guerra,
che hanno partecipato a tutti i
conflitti di questi ultimi anni. Sono
persone abituate alla violenza, che
è divenuta il loro pane quotidiano.
Sono persone che devono vivere,
quindi saccheggiano; che devono
fare sesso, quindi stuprano.
All’inizio la rivolta non era questa:
era una rivolta più popolare, pacifica, politica. Poi è degenerata in
violenza».
Chi sostiene, finanzia, appoggia
queste frange estremiste?
«Non posso dire con sicurezza chi
siano le organizzazioni e i governi
che le appoggiano, ma possiamo
sicuramente vedere da dove entrano: dal Libano, forse anche
dalla Giordania, ma soprattutto
dal Nord, Turchia ed Iraq.
Certamente godono dell’appoggio
di Turchia, Arabia Saudita, Qatar,
ma anche di alcuni paesi occidentali, in particolare quelli che hanno
adottato la politica dell’anti-Assad
a tutti i costi».
Come sempre è il popolo che subisce le conseguenze di questi
giochi politici. Come vivono i siriani?
«Il popolo è la prima vittima di
una guerra entro la quale saranno
ridefiniti gli equilibri non solo
della Siria, ma di tutta la regione
mediorientale. Esiste, certamente, una divisione anche tra la
gente: c’è chi sta da una parte,
chi sta dall’altra. La maggioranza
della popolazione vuole vivere
tranquillamente la propria vita
quotidiana. Spesso, però, a causa
© newscattoliche.it
della guerra si trova a dover scegliere da che parte stare. Volente
o nolente deve comunque fare
una scelta. Questa è la violenza
della guerra siriana».
La separazione tra alauiti pro Assad da una parte e salafiti-sunniti
dall’altra rispecchia effettivamente l’attuale scacchiere della
guerra civile siriana?
«La realtà siriana, come tutte
quelle mediorientali, è una realtà
complessa. Possiamo, anzi, affermare che la complessità è ciò che
caratterizza la vita di tutti i mediorientali e, oggi in particolare,
dei siriani. Quindi, tutte le semplificazioni che, per vari motivi, vengono fatte hanno poco senso e
contengono imprecisioni e ingiustizie. È anche vero, però, che
quando devi presentare la complessità sei costretto a semplificare, altrimenti non riesci più a
farti capire. Diciamo, quindi, che
grosso modo è così, anche se tra
gli alauiti ci sono persone che
contrastano il regime e, viceversa, tra i sunniti ci sono coloro
che appoggiano Assad. Non è,
come si può capire, facile distin-
guere nettamente chi è da una
parte e chi dall’altra».
Un embargo contro la Siria esiste
di già, ma Europa e Stati Uniti vorrebbero rafforzarlo. I francescani,
così come la Chiesa cattolica,
sono sempre stati contrari all’embargo, e non solo della Siria.
Quale altro tipo di pressione è
possibile fare?
«In genere l’embargo colpisce la
popolazione povera, non certo chi
ha i mezzi e il potere. Siamo sicuramente favorevoli all’embargo
delle armi: se c’è gente che spara
è perché qualcuno produce le
armi, le vende e le distribuisce.
Siamo, invece, contrari all’embargo su alimentari, medicinali,
energia. Cos’altro si può fare, onestamente, non lo so. Non vedo
delle soluzioni semplici. La situazione è talmente degenerata, le
ferite sono talmente profonde che
attualmente non vedo alcuna possibilità di pacificazione. Spero, comunque, di sbagliare».
Israele in questo contesto dove
sta, cosa fa, cosa spera di ottenere?
© www.oltreradio.it
MC ARTICOLI
© www.ouvre-orient.fr
© Patrick Garety - Olivia Crellin
© Henri Garabed
# Alcuni dei religiosi cristiani rapiti
nella guerra siriana, probabilmente
da gruppi di ribelli islamisti. In senso
orario: Youhanna Ibrahim, Boulos alYazigi, Ignace Younan, Paolo Dall’Oglio.
# Pagina accanto, in alto: le suore di
Maalula, liberate nel marzo 2014;
sotto: il tavolo dei partecipanti a Ginevra 2, la conferenza di pace sulla
Siria (gennaio 2014).
«Credo che per Israele cambi
poco. Chiunque andrà al potere in
Siria sarà comunque anti-israeliano».
Assad, comunque, al di là dei proclami, non ha mai dato problemi a
Israele. Quindi potrebbe, alla fin
fine, rappresentare il male minore.
«Assad è, per Israele, una bestia
conosciuta. Penso che qualcuno in
Israele speri di continuare a confrontarsi con ciò che già conosce,
piuttosto che trovarsi a dover affrontare una nuova realtà».
E i cristiani in tutto questo dove
stanno e come vivono?
«I cristiani non sono un popolo a
parte. Lo dico sempre. I cristiani
sono siriani come lo sono gli
alauiti, i sunniti, i salafiti, gli sciiti.
E, quindi, anche i cristiani sono
coinvolti nella guerra con tutte le
sue sfaccettature. Ci sono cristiani pro-Assad e cristiani contro
Assad».
I cristiani sono comunque una minoranza all’interno della Siria e
sono concentrati in regioni, quelle
settentrionali, dove i gruppi estremisti di cui parlava in precedenza,
sono più attivi. Sono, quindi, più
esposti alla violenza.
«Bisogna fare attenzione a non generalizzare. La guerra distrugge
tutto: chiese come moschee».
E i francescani?
«Noi abbiamo fatto una scelta ben
precisa: parlare il meno possibile
(quindi io, ora, davanti a lei, sto
contravvenendo a questa stessa
scelta). Non perché abbiamo
paura. Noi non abbiamo paura di
niente e di nessuno, ma solo perché siamo di fronte a una situazione talmente complessa che fare
dichiarazioni, specie se di parte,
serve a poco. Abbiamo fatto semplicemente la scelta di stare con la
nostra gente e aiutarla nei bisogni
quotidiani. In questa guerra non
c’è una parte giusta e una sbagliata. Abbiamo, quindi, scelto di
stare al nostro posto: con la popolazione. Non potremo forse portare la pace, ma potremo consolare qualcuno».
Ci sono diversi religiosi nelle mani
dei ribelli, tra cui il vescovo ortodosso di Aleppo, Boulos al-Yazigi,
il siriaco ortodosso Youhanna
Ibrahim e padre Paolo Dall’Oglio.
Si sa qualcosa di loro?
«No, non sappiamo nulla di preciso. Quello dei ribelli non è un
gruppo omogeneo, ma una galassia indefinita ed è molto probabile
che si passino i prigionieri da un
gruppo all’altro».
MAGGIO 2014 MC
61
SIRIA
Il vescovo siro cattolico di Damasco, Ignace II Younan, prima del
rapimento, aveva criticato Paolo
Dall’Oglio per le sue dichiarazioni
anti Assad, dicendo che - senza il
partito Ba’ath (il partito del presidente, ndr) -, Mar Musa (il monastero di Dall’Oglio, ndr) non sarebbe mai potuto esistere.
«Sono questioni complicate in cui
è difficile entrare e giudicare.
Credo che ciascuno debba fare la
sua parte. I religiosi devono fare i
religiosi. Il nostro compito non è
quello di entrare in questioni politiche perché verremmo trattati da
politici. Il nostro ruolo è, l’ho già
detto, stare con la gente: aiutarla,
sostenerla. Naturalmente non
puoi essere cieco rispetto a ciò che
sta accadendo. Devi sempre parlare di rispetto, di giustizia… ma
alla fine in momenti così gravi qualunque cosa tu dica è sbagliata».
Tra il 2011 e il 2013 le organizzazioni umanitarie cattoliche hanno
raccolto 72 milioni di euro da
mandare in Siria. Come è possibile, in una situazione così caotica, gestire questi aiuti? Come
possono i donatori essere sicuri
che questi aiuti raggiungano effettivamente le popolazioni a cui
sono diretti?
«I bisogni sono tanti e in questo
momento di guerra non puoi pensare al futuro, ma al presente, a
come aiutare la gente a continuare
a esistere. Uno dei problemi prin-
62
MC MAGGIO 2014
cipali è quello dei profughi sia all’interno del paese sia all’esterno,
nei campi, soprattutto in Giordania e Libano. Lì c’è bisogno di
tutto. Occorre provvedere per
l’assistenza immediata: medicinali, cure mediche, viveri, vestiti.
All’interno della Siria i soldi vanno
a tutte quelle famiglie che, a
causa della guerra, debbono spostarsi. Bisogna cercare loro il
luogo in cui andare, trovare
nuove scuole, spesso i prezzi
esplodono e c’è chi ne approfitta.
Le chiese sono impegnate a dare
un aiuto a queste famiglie nella
maniera più coordinata possibile.
Uno dei principali problemi è
quello di unire e coordinare i vari
gruppi all’interno della Chiesa,
ma anche tra le varie organizzazioni umanitarie, tra le Ong. Altro
non si può fare. Io, come francescano, posso garantire che, per
quanto riguarda noi, siamo abbastanza precisi e ferrei tenendo
presente che, prima o poi, qualcuno ci chiederà di rendere conto
di quello che è stato fatto».
I luoghi cristiani in Siria sono stati
preservati?
«Tutti i luoghi sono stati colpiti;
non solo quelli cristiani, ma anche
quelli musulmani. Al Nord in maniera molto più pesante che al
Sud. Non possiamo dire se siano
stati colpiti intenzionalmente o no.
Di conseguenza è molto difficile
dare un’interpretazione».
# Due articoli sulla Siria pubblicati da
MC a dicembre 2013. La copertina del
libro di Susan Dabbous, rapita da
estremisti islamici (Castelvecchi 2014).
Un possibile scenario potrebbe
prevedere la divisione della Siria
in un Sud alauita pro-Assad e un
Nord sunnita-salafita filo-turco.
Se questa ipotesi si avverasse, lo
spazio geopolitico della regione
sarebbe diviso nettamente in
due: un Sud filo-iraniano confinante con Israele (e quindi possibile teatro di scontro tra Tel Aviv
e Teheran) e un Nord più radicale,
ma più vicino all’Europa e filoturco.
«Non posso prevedere come evolverà la guerra. Si parla, effettivamente, di questa possibile divisione e della creazione di una
Grande Turchia, ma è ancora presto per dirlo. Anche i programmi
più cinici devono fare i conti con il
territorio. Quindi, in qualunque direzione si vada, non sarà mai una
soluzione facile e pacifica».
Piergiorgio Pescali
(*) Questa intervista è tratta dal
libro di PIERGIORGIO PESCALI,
Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa,
Add Editore, Torino, 2014
(www.addeditore.it).
AfrICA-ITAlIA
di MARCO BELLO
EUgENIO SUSANI,
TrA I «pAdrI» dEllA COOpErAzIONE IN AfrICA
«LA MORTE
NON ESISTE»
«E
ugenio Susani ci ha
lasciato in una calda
giornata di agosto.
Lo avevamo sentito
al telefono qualche giorno prima;
con voce affaticata ma ferma ci
aveva semplicemente detto: “Sto
male. Speriamo di poterci rivedere per la nostra solita passeggiata. Ma in questo momento
non sono in grado di prevedere
nulla”. Poi le cose sono precipitate. In quelle parole ritrovo tutta
la personalità di Eugenio: la sua
sobrietà, il suo odio per la retorica, che non si smentisce neppure di fronte alle circostanze
estreme. Il suo stile asciutto, og-
gettivo, essenziale». Chi scrive è
Riccardo Borghi, già assessore
alla cultura al comune di Opera e
ora presidente della Unitre locale. Borghi firma la postfazione
del libro «All’ombra del baobab.
Racconti di un volontario in
Africa», raccolta di storie vissute
e pensieri di Eugenio Susani.
Amico dell’autore, ne fissa alcuni
tratti essenziali: «Eugenio era
uomo di grande rigore intellettuale, ma altresì capace di grandi
passioni civili. (…) Quando ho conosciuto Eugenio, il primo pensiero è stato: “Ecco un vero illuminista”. Tale era la sua volontà
di conoscenza, la concretezza,
© AfMC / Marco Bello
Negli anni Sessanta
nascevano le prime
Ong in Italia. E partivano i primi volontari.
In quell’epoca si era
un po’ pionieri della
cooperazione.
Così è stato Eugenio
Susani. Tra i primi a
partire e cofondatore
di due importanti
associazioni. Una vita
dedicata all’Africa e al
suo sviluppo. Ma in
modo non invasivo.
Una figura, una storia,
che ha ancora molto
da insegnarci.
AFRICA-ITALIA
Il libro
Racconti da
molto lontano
na scrittura semplice
senza fronzoli, descrittiva. Eugenio Susani
«che prendeva nota di
tutte le cose che viveva e vedeva»,
racchiude in «All’ombra del baobab» l’essenza del suo rapporto
con l’Africa. Narra scene di vita,
sentimenti, viaggi, persone. E riflessioni sulla vita e sulla morte.
Dal suo primo periodo come volontario «sul terreno» in Sierra
Leone alle innumerevoli missioni
brevi da esperto in progetti di
cooperazione. Un bel documento
che chiunque vuole partire per
l’Africa dovrebbe leggere.
U
l’entusiasmo per l’azione razionale che trasforma la realtà, la
propensione a trasmettere il proprio sapere agli altri. Era, in verità, un’intuizione alquanto approssimativa, ma che coglieva
aspetti essenziali e nobili della
sua personalità, e dunque in qualche modo “vera”».
Tra i primi volontari
Eugenio Susani, classe 1938, si
interessò presto ai problemi del
sottosviluppo e nel 1964 partecipò alla fondazione dell’Ong
Mani Tese, per la quale in seguito fu segretario nazionale (dal
’69 al ’70).
© AfMC / Marco Bello
Eugenio Susani
«All’ombra del baobab. Racconti di un volontario in Africa»
Dalla Costa Edizioni,
novembre 2013.
# Pagina precedente: tramonto a
Mambone, Mozambico.
# Sopra: Mali, piroghe sul fiume Niger
a Mopti.
# Sotto: Mali, agricoltori producono
riso nelle piane di Sevaré.
64
MC MAGGIO 2014
Ma è nel 1966 la scoperta dell’Africa, quando Eugenio partì come
volontario per l’Ong Coopi, fondata da padre Vincenzo Barbieri.
Arrivato a Kambia in Sierra Leone,
per tre anni insegnò lingua e letteratura francese al liceo Kolenten, gestito dai missionari Saveriani. Erano gli anni in cui in Italia
nascevano le Ong e la Cooperazione internazionale, ai suoi albori, aveva ancora molto di militante e di missionario. Erano i primissimi progetti al Sud ed Eugenio fu tra i primi a partire. L’atmosfera era quella euforica della
sperimentazione di qualcosa di
completamente nuovo.
©Archivio Eugenio Susani
MC ARTICOLI
# A fianco: Eugenio Susani nei primi
anni a Kambia in Sierra Leone, con
alcuni collaboratori.
# Sotto: Eugenio Susani nel 2009.
© AfMC / Marco Bello
Dai primi appunti di Eugenio Susani da Kambia: «(…) come nel resto del paese, non esiste il municipio. Non c’è un luogo dove il
singolo cittadino possa rivolgersi
per avere assistenza o il semplice
riconoscimento del proprio diritto. A dirla tutta, non ci sono
nemmeno diritti, perché tutto dipende dagli umori del momento
di un’unica persona (e dal grado
di importanza del richiedente): il
capo villaggio, lo chef coutumier,
ossia colui che gestisce la vita di
tutti. Eppure la gente è tranquilla,
serena. O almeno così pare…».
«Eugenio non smetteva di stupirsi
del fatto che, seppure nella povertà e talvolta nella miseria, gli
africani mostrassero serenità e
gioia di vivere». Chi parla è Ferruccio Stella, che fu stretto collaboratore di Susani nell’Ong Iscos
(Istituto Sindacale per la cooperazione allo sviluppo), l’organismo
per la cooperazione del sindacato
Cisl. Susani ne è stato tra i fondatori nel 1983, e vi lavorò occupandosi dei progetti in Africa fino al
1994, quando si ritirò.
©Archivio Eugenio Susani
Note di strada
Partecipazione e formazione
Ricorda Ferruccio: «Era un grande
contrattualista e negoziatore, riusciva a creare dei rapporti con i
locali di livello paritario. La sua
sfida era sempre quella di convincere le controparti africane ascoltando le loro idee e i loro problemi. Non imponeva mai una
sua logica di impostazione dominante, da finanziatore, anzi, il suo
credo era: “Coinvolgere il più possibile il partner locale, renderlo
attore primo delle attività e degli
interventi di cooperazione nei
progetti”. Lavorava affinché gli
africani diventassero non solo
partecipi e paritari nella preparazione dei progetti, ma anche autonomi in vista della continuazione dell’attività dopo il progetto». Avvicinatosi a questo
mondo grazie a Eugenio, Ferruccio, oggi anche lui in pensione,
svolse tre anni come volontario in
Senegal. Rientrato in Italia, continuò a lavorare in Iscos con Susani
e ne prese poi il testimone.
Continua Ferruccio: «Un altro ele-
mento fondante per Eugenio era
la formazione. Non c’era progetto
senza un adeguato programma
formativo, in tutti i sensi: gestione,
organizzazione, amministrazione,
fino all’alfabetizzazione. Aveva il
desiderio che coloro che partecipavano e non avevano cultura scolastica, potessero farsela grazie al
progetto. Questo affinché la gente
coinvolta fosse cosciente e potesse poi gestire direttamente le
attività».
Chi lo ha conosciuto ricorda il suo
«Amore per l’Africa», che non è
«Mal d’Africa» sostiene Ferruccio. «Eugenio era affascinato
dalla lettura della cultura locale e
aveva una capacità di analisi delle
cose africane che derivava dalla
sua sensibilità nel cogliere la
realtà. E un talento nell’esprimere bene quello che lui riusciva
a vivere».
MAGGIO 2014 MC
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AFRICA-ITALIA
© AfMC / Marco Bello
© AfMC / Marco Bello
Scrive Borghi: «(…) nel complesso, credo che raramente un
occidentale abbia dimostrato una
così totale capacità di immergersi
e immedesimarsi nella cultura
profonda di popoli lontani. Eugenio, che non amava le ostentazioni di antimperialismo ideolo-
gico cui tanti intellettuali da salotto ci hanno abituato, con la sua
vita e i suoi scritti ci ha lasciato un
esempio alto di antimperialismo
vissuto, di amore integrale per gli
oppressi del mondo, di dedizione
a un ideale pratico di giustizia e di
emancipazione. In lui il gusto
della vita semplice, l’amore per
gli uomini si fa spesso poesia».
Mai imporre
Come operatore della cooperazione, come occidentale che
porta conoscenze e finanziamenti
per realizzare progetti nel Sud del
mondo, Eugenio si trovava spesso
di fronte al dilemma di come intervenire per migliorare la situazione nel rispetto della cultura locale, senza imporre una cultura
«altra». «Eugenio aveva il massimo rispetto delle culture e non
voleva imporre niente. Intervenire senza distruggere la cultura
tradizionale, se possibile dando
strumenti per vivere meglio la
loro cultura locale. Questo è un
grande insegnamento che mi ha
dato e che è sempre valido per i
giovani di oggi» ricorda Ferruccio.
Forse anche per questo era molto
apprezzato dagli africani: «Non
ho mai sentito critiche osservazioni contro il suo atteggiamento,
anche quando c’erano dei conflitti. Eugenio affrontava il conflitto con caparbietà e con l’obiettivo di risolverlo attraverso il confronto e la discussione per trovare una soluzione concordata. Il
conflitto veniva superato e i locali
lo rispettavano molto per questa
sua capacità di negoziatore e di
affrontare il problema senza lasciarlo in sospeso. Talvolta optava per lasciare passare un po’ di
tempo, ma non voleva mai imporre soluzioni».
Continua Ferruccio Stella:
«Spesso nei progetti di sviluppo,
chi ha un ruolo di responsabilità o
potere nel territorio in cui si lavora cerca di orientare le risorse
per soddisfare i propri interessi.
Su questo Eugenio era rigido e ciò
era causa di conflitti con funzionari e capi villaggio. Il suo insegnamento è stato di combattere
qualsiasi realizzazione che non
andasse nel senso di una totale
correttezza nell’utilizzo dei
fondi».
Racconta l’imprenditore Luciano
Cervone, coinvolto in un progetto
in Senegal: «Ricordo di Eugenio le
sorde e diuturne battaglie per garantire l’onesta e l’appropriata utilizzazione dei fondi stanziati, sottraendoli alle manomissioni e alle
MC ARTICOLI
# A sinistra: pescatori a Vilankulo,
pretese delle locali burocrazie.
Dopo i suoi incontri-scontri con i
vertici locali diceva: “La battaglia
si combatte sempre per l’enveloppe (letteralmente la busta,
cioè i fondi, ndr) e per chi deve
gestirla”. Ma non l’ho mai visto
scoraggiato anzi era sempre animato da una fiducia e da una perseveranza che mostravano il suo
“amore evangelico” per quelle
popolazioni e per quel continente».
Scelte di vita
Liviana Susani, moglie di Eugenio,
ci racconta come in famiglia fecero scelte coraggiose e generose. «Decidemmo di fare un’adozione e nel 1981 partimmo per
l’Ecuador. Qui Manuel entrò a far
parte della nostra famiglia. Mi ricordo che il paese era in guerra
con il Perù, per cui le preoccupazioni non mancarono. Ma poi
tutto andò bene. Anche in seguito».
Una volta ritirato dal lavoro nella
cooperazione internazionale, Eugenio non si allontanò dalla lotta
per i diritti civili. A Opera dove viveva, divenne l’anima di un movimento contro l’azienda Jelly Wax
che stoccava rifiuti tossici sul territorio comunale. La società interruppe l’attività. In seguito si can-
didò e fu eletto consigliere comunale, ruolo che ricoprì per una legislatura (2003-08).
La sua ultima impresa fu la fondazione, insieme ad alcuni intellettuali di Opera, tra cui sua moglie e
lo stesso Riccardo Borghi, della sezione locale della Università delle
tre età (Unitre). Era il 2006. In questo ambito teneva lezioni sull’Africa: tradizioni, problemi socioeconomici e politici, colonialismo
e neocolonialismo, guerre, aiuti
umanitari, cooperazione. Ferruccio Stella: «Quello che sapeva non
se lo teneva per sé. Cercava in
tutti i modi di trasmetterlo agli altri, ai giovani. Lo ha sempre fatto.
E con la Unitre rese questa dote
ancora più concreta».
Secondo Borghi, Eugenio aveva
una: «“Concezione quasi sacra
dell’istruzione” e della cultura,
l’impossibilità di vedere la teoria
disgiunta dall’azione con essa
coerente, l’atteggiamento antidogmatico e, nello stesso tempo,
il grande rispetto per le tradizioni
radicate nel tempo e nell’adesione popolare. Eugenio vede
l’immobilismo che soffoca il continente, lotta per il cambiamento
e il progresso, ma “l’importante pensa - è che il cambiamento avvenga senza sciupare quei valori
di fondo, che rendono ancora
©Archivio Eugenio Susani
Mozambico.
# A destra: Susani in una delle tante
missioni in Africa.
# Sotto: donne pestano il miglio in
un mortaio tradizionale, Maùa,
Mozambico.
oggi così vitale la società africana”. In questo passaggio è racchiuso il senso della vita e della
politica di Eugenio».
Dentro la cultura
Eugenio amava penetrare nella
cultura africana, cercare di capire. E spesso i suoi «maestri»
erano vecchi saggi, che lui si
prendeva il tempo di ascoltare.
Come il vecchio Assane, che racconta nel suo libro. «Passiamo
qualche tempo in silenzio, poi
chiedo: “Cos’è la morte per te,
Assane?”. “La morte non esiste” è
la sua risposta. “Allora la tua storia non è vera” lo provoco. “I miti
sono miti, amico mio. Servono a
rendere la vita più sopportabile
alla gente. Talvolta servono per
dire una verità. Ma, in genere,
non bisogna prenderli troppo sul
serio”. “Eppure la gente muore.
Perché dici che la morte non esiste?”. Assane, i gomiti appoggiati
sulle ginocchia, la testa tra le
mani, resta di nuovo in silenzio.
Poi riprende col tono di sempre,
la voce lenta, pesando le parole
come se parlasse a se stesso,
forse vedendo qualcosa che io
non vedo. “Muoiono i corpi. Non
le persone. La realtà è più grande
di quello che vedono gli occhi”».
Marco Bello
MAGGIO 2014 MC
67
Nostra Madre Terra
di Rosanna Novara Topino
Le patoLogIe oncoLogIche / 1
IL tUMoRe aL Seno
UNA DONNA SU OTTO
Dopo quello del colon retto, il tumore al seno è la patologia oncologica più diffusa. In Italia è la prima causa di morte per tumore tra le donne. La sua incidenza
dipende da un insieme di fattori: ereditari, socio ambientali e comportamentali
(gravidanza, alimentazione, fumo, alcol). La buona notizia è che, negli ultimi
anni, il tasso di sopravvivenza è migliorato.
I
n questo tempo di crisi economica e di continui tagli alla sanità
pubblica sono in costante aumento coloro che non riescono a
curarsi adeguatamente. Questo
fatto potrebbe avere conseguenze
molto pesanti per chi è costretto a
fronteggiare patologie oncologiche,
che tendono a essere sempre più
diffuse tra la popolazione e che - oltre a tutto ciò che comportano hanno un grosso impatto economico
sui malati e sulle loro famiglie. Tra
queste patologie c’è il cancro della
mammella, la cui incidenza è in costante aumento e i cui costi - stimati
per 2,5 anni di malattia - sono di
circa 15.500 euro procapite a carico
del sistema sanitario nazionale (tra
interventi chirurgici, chemioterapia
e radioterapia) e tra 24.800-28.500
euro a carico della paziente, se si
considerano i costi delle spese mediche (14% del totale di visite specialistiche, esami di laboratorio, fisioterapia, riabilitazione, farmaci e chirurgia plastica ricostruttiva), dei presidi sanitari (80% a carico della paziente), dall’assunzione temporanea
di persone per aiuti domestici e di
una possibile riduzione del reddito
da lavoro tra il 10 ed il 40%.
Per capire meglio l’impatto sociale
di questa malattia, vediamo quali
sono i suoi numeri, le sue caratteristiche e come viene attualmente affrontata.
S
econdo i dati dell’«Associazione italiana di oncologia medica» (www.aiom.it) e
dell’«Associazione italiana registri tumori» (www.registri-
68
MC MAGGIO 2014
tumori.it), se esaminiamo la prevalenza in Italia di questo tumore, cioè
il numero di donne malate in un determinato anno, vediamo che si è
passati da 48.200 nel 1970 a
490.000 nel 2010. Certamente questo dato è influenzato da una diagnostica più accurata, ma l’incremento è comunque rilevante. Attualmente è a rischio di ammalarsi
una donna su 8 (www.airc.it) e una
su 50 rischia di morire per questo tumore. Peraltro è migliorato il tasso
di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi, essendo passati dall’81% nel
1990 all’ 85-87% attuale. In Italia il
tumore del seno è la prima causa di
morte per tumore tra le donne,
mentre nella popolazione totale è il
secondo tumore più frequente, es-
sendo primo quello del colon retto e
terzo quello del polmone. Nella popolazione femminile italiana, il tumore del seno rappresenta ora il
28,9% di tutti i tumori, contro il
26,7% degli anni ’90 ed il 18,4% degli
anni ’80. Ogni anno ci sono circa
48.000 nuovi casi - cifra quadruplicata dal 1970 (11.600) - e muoiono
circa 13.000 donne. Le più colpite
sono le donne oltre i 64 anni (40%
dei casi di tumore), mentre abbiamo
il 30% dei casi nella fascia 50-64 anni
e il 20-30% dei casi sotto i 50 anni.
Le donne colpite prima dei 40 anni
sono il 5-7% dei casi. Si stima che le
donne attualmente malate siano
circa 522.000. Anche gli uomini possono ammalarsi di cancro al seno,
sebbene molto più raramente (è a
rischio un uomo su 521), tranne in
alcune regioni dell’Africa, in cui l’incidenza di questo tumore tra gli uomini è più elevata che altrove.
I
tipi di tumore mammario sono
molteplici. La maggiore frequenza di questo tumore si riscontra nei paesi più industrializzati, con l’eccezione del Giappone.
Nell’America del Nord e nell’Europa
occidentale, esso rappresenta un
cancro su 4 tra le donne, mentre in
aree a basso rischio come la Cina e il
Giappone rappresenta rispettivamente un cancro su 8 ed uno su 16. I
tassi di incidenza più elevati sono
quelli delle donne hawaiane (93,9 su
100.000) e delle donne bianche statunitensi (70-90 su 100.000). Nel resto dei paesi industrializzati tranne il
Giappone, nel Sud del Brasile ed in
Argentina ci sono tassi di 60-90 su
100.000. Nell’America del Sud,
tranne i paesi succitati, e nell’Europa
orientale e meridionale i tassi sono
intermedi (40-60 su 100.000), nell’America centrale e tropicale del Sud,
in Africa ed in Asia sono bassi (meno
di 40 su 100.000). L’incidenza di
questo tumore aumenta con l’età
della donna , dai 30 ai 70 anni, con
una flessione tra i 45-54 anni, cioè
nell’età della menopausa. Si possono osservare notevoli variazioni
del rischio all’interno di uno stesso
paese in base a fattori sociodemografici come l’etnia, la classe sociale,
lo stato civile e la regione di residenza. Ad esempio, in Israele l’incidenza di questo tumore è alta tra le
donne ebree e bassa tra le non
ebree, mentre alle Hawaii è alta tra
le hawaiane e bassa tra le filippine.
Già dal 1700, grazie alle osservazioni
di Bernardino Ramazzini (16331714) sulle suore, si sa che questo
tumore è più frequente tra le donne
nubili (50% di rischio in più), che tra
quelle sposate. Inoltre è un tumore
più frequente nelle aree urbane, che
in quelle rurali e tra le donne di più
elevato ceto sociale. Si capisce che i
fattori ambientali sono importanti
nell’eziologia del cancro della mammella dalle variazioni del rischio
nelle popolazioni migranti, comunque influenzate dall’etnia di appartenenza. Ad esempio, i tassi d’incidenza di questo tumore tra gli europei emigrati negli Stati Uniti variano
con relativa rapidità, diventando
presto simili a quelli degli statunitensi, mentre quelli delle popolazioni provenienti da Cina e Giappone
variano anch’essi, ma molto più lentamente. Tale differenza può essere
ascrivibile a un minore adattamento
delle popolazioni orientali alle abitudini alimentari e riproduttive statunitensi.
Diversi studi hanno evidenziato una
correlazione tra tassi di incidenza e
di mortalità del carcinoma della
mammella e assunzione di grassi,
proteine di origine animale e di calorie totali.
Alcune variazioni nell’incidenza del
carcinoma mammario sono sicuramente in relazione con il comportamento riproduttivo, come il numero
di figli per donna e l’età della prima
gravidanza. Da tempo si sospetta
che un basso numero di gravidanze
sia uno dei maggiori fattori di rischio
per il cancro della mammella. Uno
studio compiuto da MacMahon nel
1970 ha evidenziato che è anche importante l’età della donna alla prima
gravidanza portata a termine. Il rischio di contrarre il tumore è infatti
circa doppio nelle nullipare e nelle
donne con la prima gravidanza a 30
anni e oltre, rispetto a quelle che
hanno avuto il primo figlio prima dei
20 anni. Pare inoltre che il rischio
per le donne con la prima gravidanza oltre il 35 anni sia superiore a
quello delle nullipare. Altri studi
hanno rilevato che qualunque gravidanza condotta a termine prima dei
35 anni ha effetto protettivo, mentre le altre aumentano il rischio.
Inoltre l’effetto protettivo di una
gravidanza precoce si manifesta solo
se essa è portata a termine, mentre
vi sarebbe un aumento del rischio in
relazione all’aborto (sia spontaneo,
che procurato). Questo potrebbe
volere dire che la prima parte della
gravidanza aumenta il rischio di tumore, mentre il suo completamento
lo contrasta. Altri studi sono giunti
alla conclusione che anche l’allattamento può avere un effetto protettivo, diminuendo del 50% il rischio
nelle donne prima della menopausa,
ma non dopo. Sembra che un periodo critico per il rischio di contrarre questo tumore siano gli anni
immediatamente seguenti una gravidanza. Probabilmente, oltre all’età
e al numero delle gravidanze, entrano in gioco altri fattori, come la
classe sociale, le differenze culturali,
le variazioni nell’utilizzo della pillola
contraccettiva. Per quanto riguarda
quest’ultima, così come nel caso
della Tos (Terapia ormonale sostitutiva in menopausa), si tratta di associazioni estro-progestiniche, che
possono stimolare la crescita di tumori endocrino-responsivi, come
sono alcuni tipi di tumore mammario. Secondo diversi studi, la pillola
anticoncezionale (soprattutto nelle
vecchie formulazioni ad alto dosaggio) aumenta leggermente il rischio
di questo tumore, ma risulta protettiva nei confronti di quelli dell’ovaio
e dell’endometrio. Nelle donne che
hanno assunto la pillola sembra esserci anche una diminuzione nell’incidenza del tumore del colon, mentre aumenterebbe leggermente
quella del tumore della cervice. Le
I
MC RUBRICHE
l seno è costituito da un insieme di ghiandole e tessuto
adiposo ed è posto tra la pelle
e la parete del torace. In realtà
non è una ghiandola sola, ma un
insieme di strutture ghiandolari,
chiamate lobuli, unite tra loro a
formare un lobo. Il tumore al
seno è una malattia potenzialmente grave se non è individuata
e curata per tempo. È dovuto alla
moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria che si trasformano in cellule maligne. Ciò significa che
hanno la capacità di staccarsi dal
tessuto che le ha generate per invadere i tessuti circostanti e, col
tempo, anche gli altri organi del
corpo. Sono due i tipi di cancro
del seno: le forme non invasive e
quelle invasive. Le forme non invasive sono le seguenti: neoplasia
duttale intraepiteliale (carcinoma
in situ); neoplasia lobulare intraepiteliale, entrambe con vari gradi.
Le forme invasive sono: il carcinoma duttale, quando supera la
parete del dotto, rappresenta tra
il 70 e l'80 per cento di tutte le
forme di cancro del seno; il carcinoma lobulare: quando il tumore
supera la parete del lobulo, può
colpire contemporaneamente
ambedue i seni o comparire in più
punti nello stesso seno.
Altre forme di carcinoma meno
frequenti sono il carcinoma tubulare, papillare, mucinoso, cribriforme. Hanno prognosi favorevole. (www.airc.it)
MAGGIO 2014 MC
69
Madre Terra
nuove formulazioni a base di estradiolo e nomegestrolo sembrano
avere minori effetti sul tessuto
mammario, in termini di rischio. Un
aumento del rischio di tumore mammario è risultato essere correlato
alla terapia ormonale sostitutiva
somministrata in menopausa, al fine
di contrastare gli effetti della fisiologica riduzione degli ormoni sessuali.
Alcuni dati epidemiologici hanno dimostrato un aumento del rischio di
carcinoma mammario sia a seguito
della somministrazione esogena di
estrogeni con la Tos, sia nel caso dell’aumentata conversione periferica
di androgeni surrenalici in estrogeni,
nelle donne obese. Dopo la menopausa, la maggiore fonte di estrogeni è il tessuto adiposo, infatti
molti studi hanno dimostrato che il
rischio di tumore mammario è superiore nelle donne in menopausa in
sovrappeso oppure obese, rispetto
alle normopeso. Altri fattori che au-
70
MC MAGGIO 2014
mentano il rischio di carcinoma
mammario sono il menarca precoce
e la menopausa dopo i 55 anni. Secondo vari studi, ogni anno di ritardo nella comparsa del menarca
ridurrebbe il rischio di tumore mammario del 20%, mentre le donne che
entrano in menopausa prima dei 45
anni avrebbero un rischio inferiore
del 50%, rispetto a quelle che presentano la menopausa dopo i 55
anni.
D
iversi studi hanno evidenziato che il consumo di oltre
30 grammi al giorno di alcol
è associato ad un aumento
del rischio di carcinoma mammario
di 1,5-2 volte, indipendentemente
dal tipo di bevanda. In ogni caso i tumori mammari ascrivibili al consumo
di alcol sarebbero circa il 5% del totale. Le radiazioni ionizzanti sono un
altro fattore di rischio per questo
tumore, che è risultato elevato tra
le donne sopravvissute alla bomba
atomica e all’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl nel
1986, tra le pazienti trattate con
raggi X per una mastite post-partum e tra le pazienti sottoposte a
molteplici fluoroscopie, nel corso
della cura per la tubercolosi.
Esiste una percentuale di popolazione intorno allo 0,1-0,6%, che presenta mutazioni genetiche a carico
dei geni BRCA1, BRCA2, HER2 e p53.
Si stima che nei Paesi occidentali, il
10% dei tumori mammari sia ascrivibile ad una o più di queste mutazioni. Ciò significa che nelle famiglie
in cui si sono verificati più casi di tumore mammario, è consigliabile effettuare un test genetico, per predi-
sporre un piano di prevenzione accurato, dal momento che avere una
parente di primo grado (madre, sorella, figlia) con una storia di carcinoma mammario aumenta il rischio
di contrarre il tumore di circa l’80%,
avere due parenti colpite lo aumenta di circa 3 volte e con 3 o più
parenti colpite, il rischio diventa
quadruplo, rispetto a quello della
popolazione generale. La mutazione
del gene BRCA1 accresce maggiormente il rischio di tumore mammario, mentre quella del gene BRCA2 è
meno legata all’aumento di rischio
del tumore mammario, ma si correla
a quelli per tumore ovarico, delle
tube, di melanoma e, nell’uomo,
della prostata. La positività per mutazioni a carico del gene BRCA1 ha
recentemente indotto Angelina Jolie, attrice di fama internazionale, a
sottoporsi alla mastectomia radicale
bilaterale preventiva, seguita da chirurgia plastica ricostruttiva, al fine di
scongiurare l’insorgenza del tumore,
che aveva già ucciso in passato sua
madre e sua sorella. L’attrice ha inoltre annunciato che sta per sottoporsi anche all’asportazione preventiva delle ovaie. Va detto che la mastectomia preventiva riduce il rischio
di tumore mammario al 5%, ma non
lo azzera completamente, data l’impossibilità di essere certi di avere
asportato tutto il tessuto mammario
(la mammella non ha confini netti).
Sebbene nessuna alternativa sia in
grado di abbattere il rischio come la
mastectomia preventiva, tuttavia si
possono percorrere altre strade
come il monitoraggio intensivo con
mammografia e risonanza magnetica ogni anno a partire dai 30 anni,
MC RUBRICHE
eventualmente inframmezzate da
ecografia ogni 6 mesi dopo i 40 anni.
Possono essere somministrati farmaci che bloccano gli effetti degli
estrogeni sulla mammella, come il
tamoxifene, che diminuisce il rischio
di tumore al 25-40%, anche se induce una menopausa precoce.
Un’altra possibile strategia è l’asportazione delle sole ovaie, per ridurre
la produzione di estrogeni, senza
modificare l’immagine corporea.
A
ltri importanti fattori di rischio per il carcinoma mammario sono gli inquinanti
ambientali. Tra questi è
stata dimostrata una correlazione
tra Pcb (policlorobifenili) ed aumento del 2-4% del rischio di questo tumore. I Pcb, la cui produzione
è stata vietata negli Stati Uniti nel
1970, sono stati largamente usati in
passato come ritardanti di fiamma
nelle apparecchiature elettriche e
nella produzione di materiali da costruzione come calce e vernici. Purtroppo, essi sono stati riversati
come materiali di scarto in grandi
quantità nei fiumi adiacenti alle
aree industriali, passando in tal
modo nei pesci e da qui nel tessuto
adiposo umano e nel latte materno.
Alcuni studi hanno dimostrato la
correlazione tra Pcb e forme tumorali mammarie più aggressive. Altri
pericolosi inquinanti ambientali che
aumentano il rischio di cancro
mammario sono gli idrocarburi aromatici policiclici (Pca), che si ritrovano nei gas di scarico veicolari, nei
cibi grigliati ed affumicati, nel fumo
di tabacco e nei fumi delle centrali
elettriche. È stata dimostrata una
correlazione tra il fumo di sigaretta
e l’aumento di rischio di tumore
mammario nelle donne giovani. Un
altro pericolosissimo prodotto di
combustione legato a diverse
forme di tumori, tra cui quello
mammario, è la diossina (liberata
da inceneritori, acciaierie, cementifici), a cui l’essere umano viene
esposto attraverso il latte, il pesce
e la carne. Infine tra gli inquinanti
ambientali che fanno aumentare il
rischio di tumore mammario ci
sono i solventi organici usati nelle
lavanderie a secco, nei saloni di bellezza, nei negozi di macchine, per
cui l’esposizione avviene sia sul posto di lavoro, che utilizzando i prodotti di consumo. Poiché è dimostrato il ruolo degli inquinanti ambientali nell’aumento del rischio di
tumore mammario, politiche di bonifica ambientale dovrebbero essere una priorità assoluta di salute
pubblica.
La prevenzione del tumore mammario, che viene attualmente effettuata mediante mammografia, ecografia e autopalpazione è in realtà
solo di tipo secondario, cioè serve
soltanto a individuare forme tumorali già in atto. Ciò a cui bisogna
GLOSSARIO
Incidenza: numero di nuovi casi
riscontrati in un anno in un
certo paese, nel mondo, ecc.
Tumore: si intende una neoplasia, qualcosa di insorto ex novo;
puó essere benigno o maligno.
Cancro: è una definizione generale, che riguarda ogni tipo di
tumore maligno.
Carcinoma: è il cancro dei tessuti di origine epiteliale, di cui
la mammella fa parte, come
tutte le ghiandole.
Menarca: è il primo flusso mestruale della donna, che rappresenta l’inizio del periodo fertile.
Nullipara: donna che non ha
mai partorito.
Mastectomia: è l’asportazione
chirurgica della mammella.
BRCA: geni coinvolti nel tumore
mammario.
tendere è invece prevenire la formazione del tumore con un miglioramento dell’ambiente di vita e di
lavoro, eliminando tutte quelle sostanze o agenti fisici potenzialmente cancerogeni.
Rosanna Novara Topino
MAGGIO 2014 MC
71
Cooperando...
www.missioniconsolataonlus.it
MCO
Fondazione
Missioni
Consolata
Onlus
di Chiara Giovetti
LUCE E SPERANZA
A MARANDALLAH
Dopo una guerra civile
e dieci anni di conflitto
latente la Costa d’Avorio, ex perla dell’Africa
occidentale, conosce
oggi una crescita
economica sostenuta.
Ma la riconciliazione
nazionale e il miglioramento delle condizioni
di vita della popolazione
avanzano lentamente.
Mentre l’ex presidente
Laurent Gbagbo resta in
carcere all’Aja e
l’attuale capo di stato
Alassane Ouattara affronta in patria accuse
di parzialità e inefficienza, il paese si prepara a tornare alle urne
l’anno prossimo.
I missionari della
Consolata lavorano a
Marandallah, nel
Nordovest. Attraverso
progetti di sanità e alfabetizzazione cercano di
sostenere lo sforzo di un
paese che vuole rimettersi in piedi.
Zoppicando verso le elezioni
Laurent Gbagbo resta in prigione. È questa la decisione della prima camera
preliminare della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja lo scorso 12
marzo, in risposta alla richiesta di scarcerazione avanzata dalla difesa del ex
capo di stato della Costa d’Avorio. Gbagbo, presidente ivoriano dal 2000 al
2010, era stato arrestato nell’aprile del 2011 insieme alla moglie Simone Ehivet Gbagbo, anche lei in seguito perseguita dalla Cpi, dopo aver dato avvio a
un’ondata di violenze per il rifiuto di lasciare il potere al suo oppositore Alassane Dramane Ouattara, detto Ado, vincitore delle lelezioni di fine 2010. Le
violenze avevano causato la morte di circa tremila persone e la fuga di poco
meno di un milione d’ivoriani che trovarono rifugio nei paesi limitrofi o si spostarono in aree del paese meno turbolente.
La Costa d’Avorio aveva già sperimentato un quinquennio di conflitto fra il
2002 e il 2007, durante il quale i ribelli controllavano il Nord del paese mentre il Sud era dominato dalle forze governative. Fra i principali motivi del contendere c’erano il controllo del mercato del cacao e i diritti della popolazione
di origine straniera insediata da decenni nel paese (vedi dossier sulla Costa
d’Avorio in MC, marzo 2007 e febbraio 2011). Le elezioni del 2010 dovevano
mettere fine a questa situazione di tensione dopo che il presidente e il capo
dei ribelli, Guillaume Soro, avevano accettato di convivere in un governo di
transizione - con Gbagbo presidente e Soro primo ministro - per traghettare
la Costa d’Avorio fuori dall’impasse politica. Ma subito dopo il voto, il popolo
ivoriano si è visto ripiombare nell’incubo della guerra civile.
Cooperando…
Rifugiati, sfollati, apolidi,
stranieri: l’eterno rompicapo della politica ivoriana
A oggi, sebbene si siano registrati diversi ritorni dei rifugiati e degli sfollati alle loro case, la situazione rimane tutt’altro che risolta. Secondo
l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, a metà 2013 i rifugiati ivoriani
erano ancora centomila, due terzi
dei quali nella sola Liberia. Il timore
di subire rappresaglie e vendette
una volta rientrati in patria resta il
principale motivo che spinge i rifugiati ivoriani a ritardare il loro ritorno.
Inoltre, circa settecentomila persone risultano apolidi, cioè prive di
nazionalità. Quello della nazionalità
è un problema di vecchia data nel
paese, dove poco meno di sei milioni di persone, cioè oltre un quarto
della popolazione, sono immigrati
provenienti dai paesi limitrofi. Una
gran parte di questi immigrati si
sono stabiliti in Costa d’Avorio molti
anni fa, attirati dalle opportunità di
lavoro nelle piantagioni di cacao e in
altri settori ai tempi - erano gli anni
Settanta - in cui l’economia ivoriana
era il motore della sub-regione e
Abidjan, la capitale economica del
paese con i suoi grattacieli e le sue
tangenziali sopraelevate, era chiamata la Manhattan dei tropici. L’esodo dai paesi confinanti è proseguito anche negli anni successivi al
periodo d’oro, ma in moltissimi casi i
migranti hanno continuato fino a
oggi a vivere in un limbo giuridico
che non permette loro di godere di
una serie di diritti, fra cui quello alla
terra e al voto.
Nel 2013 l’annuale studio dell’autorevole Fondazione Mo Ibrahim,
creata dal magnate delle comunicazioni anglo-sudanese Mohamed
Ibrahim per incoraggiare il buon governo in Africa, ha collocato la Costa
d’Avorio fra i dieci stati africani che
hanno avuto i risultati peggiori in
campi come i diritti umani, lo sviluppo, la sostenibilità economica e
la legalità. Diversi osservatori, inoltre, cominciano ad avanzare preoccupazione rispetto all’imminenza
delle nuove elezioni, previste per
l’anno prossimo: la pacificazione fra
i gruppi in conflitto sembra ancora
lontana e gli oppositori criticano il
presidente Ado accusandolo di parzialità soprattutto verso i perpetratori dei crimini del 2010-2011, dato
che in prigione ci sono solo i sosteni-
74
MC MAGGIO 2014
tori dell’ex presidente Gbagbo. La
commissione indipendente che dovrebbe aggiornare le liste elettorali
è stata sciolta dopo le elezioni del
2010 e non è ancora stata ricostituita.
Nonostante un altro conflitto sembri
per ora scongiurato e la crescita del
Pil sia stata pari al 8,7 per cento nel
2013, la Costa d’Avorio conserva
nelle città grosse sacche di povertà,
mentre nelle zone rurali della parte
occidentale del paese il conflitto e la
violenza rimangono elementi del
quotidiano.
La sanità in Costa d’Avorio
Fra le presenze dei missionari della
Consolata in Costa d’Avorio c’è
quella di Marandallah, un villaggio di
circa quattromila abitanti che di
fatto è il punto di riferimento per oltre trentamila persone dei dintorni.
Si trova nella regione di Worodou-
gou, nella parte centro settentrionale del paese, a poco meno di cinquecento chilometri da Abidjan. Con
il Nord della Costa d’Avorio, Marandallah condivide un maggior svantaggio economico rispetto al Sud del
paese e una mancanza di infrastrutture che rendono molto difficili gli
spostamenti e le comunicazioni. «La
situazione dei trasporti qui è veramente critica», scrive padre João
Nascimento, uno dei missionari. «Ci
si muove quasi esclusivamente su
piste sterrate piene di buche e crepe
e durante le piogge tutto si complica
ulteriormente». Anche energia elettrica e acqua potabile scarseggiano,
soprattutto dopo gli scontri del decennio 2002-2011 che hanno gravemente danneggiato gli impianti di
distribuzione e le infrastrutture.
Uno studio del 2012, effettuato su
un campione nazionale di circa diecimila famiglie dal ministero della
MC RUBRICHE
sanità e dall’istituto di statistica ivoriani in collaborazione con diverse
agenzie ed enti internazionali, descrive la situazione sanitaria della
zona come peggiore della media nazionale. Per quanto riguarda la salute materna, ad esempio, se nella
città di Abidjan 97 donne su cento
ricevono cure e assistenza durante
la gravidanza, nella regione Nordovest, solo 75 ne beneficiano. I parti
assistiti da personale sanitario qualificato sono l’88% a Abidjan mentre
nella regione di Worodougou ad assistere le partorienti sono le levatrici tradizionali o i familiari in almeno un caso su due. Inoltre, la
pratica delle mutilazioni genitali
femminili, con tutte le sue conseguenze dannose per la salute della
donna, è presente nel Nord e nell’Ovest del paese molto di più che
nelle altre zone e tocca circa sette
donne su dieci.
Il dispensario di
Marandallah
Le testimonianze dei missionari
sono in linea con i dati del rapporto:
«È molto difficile trovare il personale sanitario», conferma padre
Ramón Lázaro Esnaola, responsabile
del Centro sanitario cattolico Notre
Dame de la Consolata (Cscndc) di
Marandallah, fondato nel 2007,
«perché in pochi sono disposti a venire a vivere in un luogo dove mancano acqua e elettricità. Mancando
la corrente, poi, diventa molto più
complicato anche offrire servizi di
base come le vaccinazioni: per ottenere i vaccini occorre infatti andare
a Mankono, una città che si trova a
quasi settanta chilometri da qui e,
viste le condizioni delle piste sterrate, è facile immaginare quanto
# Pagina di apertura: rifugiati interni
durante le violenze del 2010-11. | In
basso: il personale medico, il deposito dei medicinali e il bell’edificio
del dispensario di Marandallah. | Qui
a destra: un piccolo paziente in attesa del dentista.
tempo, energie e denaro se ne vadano per fornire un servizio così fondamentale».
Il centro è nato per sopperire alla
mancanza di copertura sanitaria
nella zona: la struttura più vicina, infatti, si trova a circa novanta chilometri, una distanza proibitiva per la
maggior parte della popolazione locale. Il Cscndc offre servizi di medicina generale, ha una maternità ed
esegue analisi di laboratorio avvalendosi del lavoro di un medico, un
infermiere, due biotecnici, un’assistente sociale, due aiuto infermiere,
tre agenti sanitari comunitari, tre
addetti alle pulizie e due guardiani
notturni. Ha dodici posti letto più altri sei nella maternità e effettua oltre tremila consultazioni all’anno,
mentre la maternità segue circa 170
parti e il reparto chirurgia esegue
più di duecento operazioni l’anno.
Dal 2008 le attività relative alla lotta
all’Hiv/Aids si svolgono con il sostegno tecnico di Icap-Costa d’Avorio,
l’International Centre for Aids Care
and Treatment Programs gestito
dalla statunitense Columbia University e dal governo Usa. La cura della
malnutrizione avviene con il supporto della statunitense Father Norman Gies Foudation.
Più energia alla salute e gli
altri progetti sanitari
Nel 2013, con il sostegno di Caritas
microprogetti, è stato avviato «Più
energia alla salute», un intervento
per l’installazione di un sistema fotovoltaico: «A lavori ultimati»,
spiega padre Ramon, «grazie all’energia prodotta con i pannelli solari
non dovremo più temere i tagli di
corrente frequenti nella zona e
avremo una affidabile catena del
freddo: potremo cioè far funzionare
regolarmente il frigo che ci è stato
donato dal sistema sanitario nazionale ivoriano per conservare i vaccini - senza doversi spostare sempre
fino a Mankono - e anche il sangue
per le trasfusioni».
Un’altra componente dell’intervento è quella di informatizzare la
farmacia del dispensario in modo da
avere un controllo più dettagliato
sullo stock e prevedere meglio i
tempi e le necessità per i nuovi acquisti. «Per procurarci i farmaci dobbiamo andare fino ad Abidjan», continua padre Ramon. «Per questo è
importante programmare il viaggio
sapendo con precisione quali farmaci devono essere reintegrati. Fare
i conteggi “a vista” e segnarli su una
lista cartacea non è impossibile e lo
si è sempre fatto, ma il margine di
errore e il dispendio di tempo sono
molto maggiori. L’uso del computer
dovrebbe ridurre il numero di viaggi
e, di conseguenza, i costi per il mantenimento del centro».
Anche a Dianra, altro centro a una
cinquantina di chilometri da Marandallah, i missionari fanno funzionare
MAGGIO 2014 MC
75
Cooperando…
# In questa pagina: inaugurazione di un
apatam con benedizione solenne e festa della comunità; una donna in attesa al dispensario; e adulti che imparano a leggere e scrivere. Gli apatam
sono pensati anche per facilitare l’alfabetizzazione degli adulti.
un piccolo dispensario. L’obiettivo
per il futuro è costruire anche
presso il centro sanitario di Dianra
una maternità, che per ora manca.
Sono invece già attivi i servizi di formazione del personale sanitario,
svolta in coordinamento con il centro di Marandallah, e le missioni di
visita ai villaggi che hanno un’importanza fondamentale nella prevenzione delle malattie più comuni.
L’alfabetizzazione, strumento per superare l’odio
Secondo lo studio a campione citato
prima, la situazione della regione di
Nordovest rispetto all’alfabetizzazione è problematica tanto quanto
quella sanitaria: delle persone intervistate per la raccolta dei dati statistici, sessantasei uomini e ottantotto donne su cento non sanno leggere né scrivere mentre ad Abidjan presa ancora una volta come esempio «virtuoso» - le donne e gli uo-
76
MC MAGGIO 2014
mini in questa condizione sono rispettivamente il quaranta e il diciotto per cento. Tre quarti delle
donne intervistate e circa metà degli
uomini hanno dichiarato di non
avere alcun titolo di studio e di non
leggere giornali né utilizzare altre
fonti di informazione. I bambini che
frequentano la scuola elementare a
livello nazionale sono 68 su cento,
ma nel Nordovest sono mediamente
dodici in meno.
«È vero», conferma padre João, «qui
l’analfabetismo è più diffuso che altrove. È un insieme di fattori che
crea questa situazione: l’isolamento,
il fatto che la popolazione locale sia
in parte di origine straniera e mai integrata e anche, a volte, un senso di
apatia e di rassegnazione».
Grazie a fondi dell’Opera di promozione dell’alfabetizzazione nel
mondo (Opam), padre João ha realizzato il progetto A scuola di pace
all’apatam, un intervento che pre-
vedeva la costruzione di sei strutture tipicamente africane note anche come paillotes, in altrettante località intorno alla missione. Ora negli apatam si stanno svolgendo i
corsi di alfabetizzazione per gli
adulti e per i bambini non scolarizzati. La prossima tappa del progetto
sarà fornire alle piccole strutture l’illuminazione con impianti fotovoltaici, perché i corsi si tengono quasi
sempre di sera, dopo la giornata lavorativa, e un’illuminazione adeguata è indispensabile per la buona
riuscita della formazione. È previsto
anche l’acquisto di una moto che
permetta all’équipe di coordinamento di visitare le comunità.
Oltre che all’alfabetizzazione vera e
propria i corsi serviranno anche a
sensibilizzare e informare su temi
come diritti umani, diritto alla terra
e riconciliazione fra comunità. «Leggere e scrivere non è indispensabile
solo per poter affrontare le attività
quotidiane che comportano la lettura o la compilazione di documenti
amministrativi, ma anche per essere
in grado di comprendere meglio ciò
che sta accadendo nel paese», conclude padre João. Essere più consapevoli e più informati aiuta a sentirsi
parte delle dinamiche sociali, economiche e politiche della società in cui
si vive. L’obiettivo è dissolvere a
poco a poco la paura, la diffidenza e
il risentimento e ridurre l’isolamento non solo geografico ma anche culturale in cui la popolazione di
Marandallah si trova a vivere.
Chiara Giovetti
Libertà Religiosa
di Luca Lorusso
© Afp photo/Mahmud Turkia
rIfLESSIoNI E fATTI SuLLA LIBErTà rELIGIoSA NEL MoNDo - 19
La libertà di religione
si conferma un diritto
a rischio per la maggioranza della popolazione mondiale.
La regione più restrittiva è quella del Medio
Oriente-Nord Africa,
seguita da quella
dell’Asia-Pacifico.
In Europa, al terzo posto, a una crescente
ostilità sociale corrisponde una crescente
pressione governativa.
# 31 dicembre 2012: la gente ispeziona la chiesa copta danneggiata
da un’esplosione nella città di
Dafinya, a ovest di Misurata, Libia,
nella quale due egiziani sono
stati uccisi. La chiesa era stata
costruita tra il 1936 e il 1937
durante il dominio coloniale
italiano e centinaia di egiziani la
frequentavano regolarmente.
LIBERTÀ
IN AFFANNO
I
l 14 gennaio scorso è uscito il
quinto rapporto annuale del
Pew Research Center1 sulle
restrizioni alla libertà religiosa nel mondo, Religious hostilities reach six-year high. I dati
riferiti riguardano l’anno 2012,
che è stato il peggiore per la libertà religiosa da quando l’organizzazione con sede in Washington DC ha iniziato a monitorare
la situazione, nel 2006-2007.
Libia post Gheddafi
È sufficiente fare attenzione alle
agenzie d’informazione riguardanti un paese come la Libia scelto a esempio - per trovarsi
concordi con l’analisi del Pew
Center che indica un incremento
molto forte delle restrizioni alla
libertà religiosa in quelle terre
nel 2012, e per immaginare che,
dopo quell’anno, non è probabilmente seguita una sostanziale
diminuzione.
Era il 25 febbraio quando l’agenzia Fides pubblicava sul suo sito
le dichiarazioni del Vicario apostolico di Tripoli riguardanti il
massacro di sette copti a Ben-
gasi: «“Non si capisce bene cosa
vogliano questi fondamentalisti.
Sicuramente vogliono mettersi
in evidenza spargendo il sangue
di vittime innocenti. I copti ortodossi sono da tempo il loro bersaglio, soprattutto in Cirenaica”
dice […] mons. Giovanni Innocenzo Martinelli […], commentando l’uccisione di sette lavoratori egiziani di confessione
copto ortodossa […]. Secondo
fonti di agenzia, domenica 23
febbraio i sette egiziani erano
stati prelevati nelle loro abitazioni da uomini armati. I loro
corpi sono stati ritrovati il
giorno successivo in una località
alla periferia della città. Le vittime sono state uccise da colpi
d’arma da fuoco al petto e alla
testa. “Non sappiamo altro […]”
dice mons. Martinelli. […]
“Siamo nelle mani di Dio, in queste situazioni incerte e insicure”». Agenzie precedenti parlano di aggressioni a sacerdoti
cattolici o copti ortodossi da
parte di milizie armate, di arresti
ed espulsioni di decine di egiziani copti, o di membri di coMAGGIO 2014 MC
77
L’ostilità sociale nei
confronti delle religioni
Per quantificare gli ostacoli all’espressione e alla pratica religiosa nei singoli paesi, il Pew
Center usa due indicatori: l’indice delle ostilità sociali (Shi: social hostilities index), il quale misura gli atti contrari alla libertà
di credo verso determinati
gruppi religiosi da parte della
società civile, di gruppi o di singoli; e l’indice delle restrizioni
governative (Gri: government
restrictions index), il quale miPaesi con SHI punteg Paesi con GRI punteg
molto alto
gio
molto alto
gio
Pakistan
9,80
Egitto
8,80
sura le azioni delle istituzioni nazionali o locali che contrastano
la religione. Lo studio statistico,
avverte il Pew Center, tiene
conto di alcuni dati e non di altri: misura gli impedimenti alla
libertà religiosa, ma non misura,
ad esempio, la quantità di attività libere e senza ostacoli, non
giudica se le restrizioni siano
giustificate o meno, non valuta i
processi storici, culturali, sociali
che portano alle restrizioni.
Attraverso una panoramica sul
primo dei due indici, veniamo
informati del fatto che l’anno
esaminato nel rapporto, il 2012,
è stato quello con i livelli più alti
di ostilità sociale nei confronti
della religione mai registrato
dall’inizio delle indagini nel
2006-2007. Se nel 2007 si era
verificato un livello alto o molto
alto nel 20% dei 198 paesi presi
in esame, nel 2011 tali livelli si
erano attestati nel 29% dei
paesi, e nel 2012 nel 33%. L’aumento dell’ostilità sociale tra il
2011 e il 2012 è stato constatato
in 4 delle 5 aree in cui il Pew
Paesi con
i 2 indici
molto alti
Egitto
Afghanistan
India
9,60
9,60
Cina
Iran
8,60
8,60
Pakistan
Indonesia
Somalia
Israele
Iraq
Territori pale
stinesi
Siria
Russia
Indonesia
Nigeria
Yemen
Kenya
Egitto
Sudan
Libano
Sri Lanka
9,50
9,40
9,00
Arabia saudita
Indonesia
Maldive
8,60
8,30
8,10
Afghanistan
Syria
Somalia
9,00
8,80
8,80
8,50
8,50
8,40
8,30
8,30
8,30
7,90
7,70
Afghanistan
Siria
Eritrea
Somalia
Russia
Myanmar
Uzbekistan
Malesia
Azerbaijan
Tajikistan
Pakistan
8,10
8,00
7,90
7,80
7,70
7,70
7,60
7,60
7,30
7,20
7,10
Russia
Myanmar
Sudan
Iraq
Bangladesh
Thailandia
Myanmar
7,60
7,50
7,40
Brunei
Marocco
Sudan
Algeria
Iraq
7,00
7,00
6,90
6,90
6,80
Kazakhstan
Vietnam
6,70
6,70
78
MC MAGGIO 2014
Center suddivide il mondo: l’unica area in cui c’è stata una
lieve diminuzione è quella delle
Americhe, mentre l’incremento
maggiore è stato rilevato nell’area del Medio Oriente-Nord
Africa. Quest’ultima regione,
che è quella con livello medio
dell’indice di ostilità sociale più
alto, nel 2012, su una scala di 10
punti, ha fatto registrare un valore di 6,4 (nel 2011 era 5,4). In
alcuni paesi della zona l’aumento è stato molto vistoso:
nella Libia di cui abbiamo già
© Pew Research Center
munità protestanti, in seguito
ad accuse di «proselitismo», di
chiese prese d’assalto.
«In Libia due fedeli sono stati
uccisi in un attacco contro una
chiesa copta ortodossa nella
città di Misurata nel mese di dicembre 2012. Questo è stato il
“primo attacco [in Libia] destinato a una chiesa dopo la rivoluzione del 2011”», scrive il Pew
Center nel suo rapporto, illustrando la crescita dell’ostilità
sociale nel paese.
© Manoocher Deghati/ R N
Libertà Religiosa
# Qui sopra: livelli di ostilità sociale nel confronti della religione. |
Nella tabella a sinistra la lista dei paesi con indici Shi e Gri molto alti. |
In alto: Dhaka, Bangladesh. Più dell’80% della popolazione è musulmana. La processione raffigurata nella foto mostra la presenza di una
minoranza indù. Chiesa di Maiduguri, in Nigeria, attaccata dalla violenze
interreligiose. Libretto del Nuovo Testamento nella medesima chiesa di
Maiduguri | A destra: Dhaka, Bangladesh. Una donna indù prega.
MC RUBRICHE
parlato (da 1,9 nel 2011 a 5,4
nel 2012), in Tunisia (da 3,5 a
6,8), in Siria (da 5,8 a 8,8) e in Libano (da 5,6 a 7,9).
Prendendo in considerazione il
mondo intero, oltre ai quattro
paesi dell’area Medio OrienteNord Africa, altri sette hanno
fatto registrare un aumento di
due punti e più tra il 2011 e il
2012: Mali, Messico, Guinea,
Olanda, Madagascar, Afghanistan e Malawi. Nessun paese al
mondo ha avuto una diminuzione altrettanto cospicua.
L’incremento generale dell’indice è stato dato dall’aumento
molto forte di alcune forme di
ostilità sociale: ad esempio casi
di individui aggrediti o sfollati
dalle loro case per le loro attività religiose (questo tipo di vessazione nel 2007 era stato registrato nel 24% dei paesi del
mondo, nel 2011 nel 38%, e nel
2012 nel 47%). Il Pew Center riporta alcuni episodi emblematici avvenuti in diversi paesi: nel
Nord del Mali, per esempio,
gruppi di estremisti islamici
hanno condotto esecuzioni, amputazioni, fustigazioni, distrutto
chiese, vietato battesimi, provocando la fuga di centinaia di cri-
stiani verso la parte Sud del
paese; «nello Sri Lanka a maggioranza buddista alcuni monaci
hanno attaccato luoghi di culto
musulmani e cristiani nella città
di Dambulla nell’aprile 2012 ed
è avvenuta un’occupazione forzata di una chiesa degli Avventisti del settimo giorno nella città
di Deniyaya nell’agosto dello
stesso anno per trasformarlo in
un tempio buddista».
Le restrizioni governative
Per quanto riguarda l’indice relativo alle restrizioni governative
della libertà di credo, il Pew Research Center informa che non
si sono registrati nel 2012 aumenti significativi. Restrizioni
elevate o molto elevate da parte
delle istituzioni nazionali o locali
si sono verificate nel 29% dei
198 paesi presi in esame (28%
nel 2011; 20% nel 2007).
Nell’ambito delle restrizioni governative, nel 2012 rispetto all’anno precedente, i cambiamenti significativi (almeno 2
punti su una scala di 10) sono
avvenuti in due soli paesi: un
grande aumento di restrizioni in
Rwanda, dove una legge di regolazione delle organizzazioni religiose ha introdotto requisiti di
registrazione molto stringenti; e
una grande diminuzione in Costa d’Avorio dove nel 2012 si
sono placate le violenze etnicoreligiose postelettorali del 2011.
Il livello medio delle restrizioni
governative è aumentato in due
delle cinque aree: in Medio
Oriente-Nord Africa e in Europa,
mentre nelle Americhe è rimasto inalterato, e nelle altre due
regioni (Africa subsahariana e
Asia-Pacifico) è diminuito. In
particolare l’Europa è stato il
continente in cui le restrizioni
governative sono aumentate di
più. L’area in cui invece sono diminuite di più è stata l’Asia-Pacifico.
Anche per le restrizioni governative il Pew Center riporta alcuni
episodi: parla ad esempio del
caso di Tuvalu, il cui governo
centrale nel 2012 ha iniziato ad
applicare una legge che impedisce ai fedeli di religioni non riconosciute di riunirsi; della Tunisia, in cui sono stati fatti dalle
autorità pubbliche molti sforzi
per rimuovere alcuni imam che
predicavano il salafismo.
I governi hanno usato atti di
forza contro gruppi religiosi o
singoli fedeli in quasi la metà (il
48%) dei paesi del mondo. Altro
esempio è quello della Mauritania, il cui governo nell’aprile
2012 ha arrestato 12 attivisti
anti-schiavitù con l’accusa di sacrilegio e blasfemia per aver
pubblicamente bruciato alcuni
testi sacri considerati dagli attivisti ispiratori dello schiavismo.
© Manoocher Deghati/ R N
© Obinna Anyadike/ R N
© Obinna Anyadike/IRIN
Libertà Religiosa
Mettendo insieme i rilevamenti
relativi ai due indici, il Pew Center afferma che nel 2012 ci sono
state restrizioni elevate o molto
elevate (sia sociali che governative) nel 43% dei paesi (la percentuale più alta registrata dall’organizzazione in 6 anni). Data
la particolare popolosità di alcuni di questi paesi (Nigeria, India, Pakistan, Egitto, Indonesia e
così via) la porzione di popolazione mondiale che ha vissuto il
2012 in un paese con livelli di restrizione della libertà religiosa
elevati o molto elevati è stata
pari al 76% (5,3 miliardi di persone). Nel 2011 la percentuale
era del 74%, nel 2007 del 68%.
Tra i 34 paesi con restrizioni
molto elevate (sociali o governative o entrambe) l’unico paese
europeo presente era la Russia
(con entrambi gli indici al livello
molto elevato). Tra quelli con
restrizioni elevate, i paesi europei erano 17, di cui tre - Bulgaria, Grecia e Moldova - avevano
entrambi gli indici al livello elevato, due avevano al livello elevato solo l’indice di restrizioni
governative, dodici avevano un
elevato indice di ostilità sociale
(tra questi ultimi anche l’Italia).
Nel complesso le restrizioni, sia
sociali che governative, alla libertà religiosa nel mondo sono
aumentate tra il 2011 e il 2012
almeno un po’ nel 61% dei
paesi, e sono diminuite almeno
un po’ nel 29%.
Vessazioni nei confronti di
gruppi specifici
Un ultimo approfondimento cui
vale la pena accennare, è quello
riguardante le vessazioni rivolte
a specifici gruppi religiosi.
I maltrattamenti nei confronti di
gruppi specifici possono avere
una matrice sia sociale che istituzionale: aggressioni fisiche, arresti e detenzioni, profanazione
di luoghi sacri, discriminazioni
nel mondo del lavoro, dell’istruzione, delle possibilità di accesso a un alloggio, aggressioni
verbali, intimidazioni. Questo
genere di molestie si sono verificate, nel 2012, in 166 paesi su
198 studiati. Prendendo in considerazione solo le tre religioni
monoteiste, vessazioni nei confronti di gruppi di musulmani
sono state registrate in 109
paesi, nei confronti di gruppi di
ebrei in 71 paesi, verso i cristiani
in 110 paesi.
Nel 2012, alcuni gruppi religiosi
avevano più probabilità di essere molestati dai governi che
# A destra: l’andamento tra
il 2007 e il 2012 dei due
indici (ostilità sociale sopra, restrizioni governative sotto) nelle cinque
regioni: Medio OrienteNord Africa, Asia-Pacifico,
Europa, Africa subsahariana, Americhe.
Sotto: le donne aspettano
l’inizio della preghiera del
venerdì a Bengasi, Libia.
© Pew Research Cener
Uno sguardo d’insieme
© Pew Research Cener
© Kate Thomas/IRIN
da gruppi sociali o da privati cittadini, mentre altri avevano più
probabilità di essere oggetto di
vessazioni da parte di individui o
gruppi sociali che da parte di politiche governative. Gli ebrei, per
esempio hanno subito maltrattamenti sociali in 66 paesi, mentre hanno affrontato vessazioni
governative in 28 paesi. Al contrario, i membri di altre religioni
del mondo, come i sikh e i
baha’i, sono stati molestati più
volte dai governi (in 35 paesi) di
quanto non lo siano stati da
gruppi o individui nella società
(21 paesi).
Luca Lorusso
Note
1. Il Pew Forum (pewforum.org) è un
progetto del Pew Research Center,
con base a Washington, finanziato
dalla Pew Charitable Trusts: un’organizzazione indipendente non-profit,
non governativa (Ong), fondata negli
Usa nel 1948. Tutte le relazioni del
centro sono disponibili su www.pewresearch.org
4 chiacchiere con...
a cura di Mario Bandera
21. ZINGARO E SANTO
CEFERINO GIMENEZ MALLA
CEFERINO (ZEFIRINO) GIMENEZ MALLA detto «El
Pelè», membro del popolo gitano, fin dalla sua
nascita è bollato come uno zingaro, quindi un
escluso della società. Nasce in Spagna nel 1861,
forse a Benavent de Sangria, probabilmente il
26 agosto 1861. Il caratteristico nomadismo del
suo popolo gli impedisce di frequentare regolarmente le scuole, lasciandolo quasi analfabeta. È di famiglia povera, che diventa ancor
più povera quando il padre se ne va con un’altra
donna. Girando di villaggio in villaggio conosce
la precarietà tipica della vita di coloro che vivono nell’emarginazione. Fin da piccolo impara
a fare il panieraio, a intrecciare cioè cesti e canestri, che poi vende nei villaggi. A 18 anni si
sposa con il rito gitano con Teresa Jimenéz, un
matrimonio che durerà più di quarant’anni.
Purtroppo la loro unione non sarà coronata da
figli, adotteranno quindi “Pepita” (Giuseppina)
una nipotina di Teresa. Ceferino è il primo zingaro a essere elevato alla gloria degli altari.
Ceferino - o preferisci che ti chiami «El Pelè» come
ti chiamavano tutti? -, parlaci un po’ di te.
Appartengo al popolo gitano - gli zingari -, le cui origini
si perdono nelle nebbie della storia. Provenienti dall’India, ci siamo sparsi per tutta l’Europa. In Spagna siamo
poco meno di un milione, la terza comunità più numerosa nel nostro continente.
Un popolo che non ha mai rinunciato ai suoi usi e
costumi, soprattutto al nomadismo.
Proprio così. Pensa che il saluto ben augurante che
usiamo tra di noi è lacio drom, che significa «buon cammino» o «buon viaggio», per indicare un modo di vivere
in movimento, con il mondo intero come orizzonte.
Questo vostro modo di vivere vi ha causato parecchie noie, sofferenze e anche persecuzioni.
Ormai sono innumerevoli le prese di posizione legislative su (e contro) di noi. Il fatto di non essere stanziali fa
di noi degli uomini liberi, poco controllabili da chi è preposto a garantire l’ordine pubblico e quindi anche temuti. In tutti i modi si cerca ancora oggi di obbligare gli
zingari a diventare stanziali al pari di tutti i «payos»
(termine che nella nostra lingua definisce chi non è zingaro).
L’ostilità nei vostri confronti ha avuto il suo apice
con le leggi razziali di Hitler che voleva sopprimervi così come il popolo ebraico.
Vivendo in Spagna sono stato toccato solo marginalmente dal nazismo, ma l’orrore dei campi di sterminio
resta una ferita sanguinante ancora oggi. Pensa che ad
Auschwitz, sulla lapide che riporta i nomi dei popoli che
soffrirono le pene dell’inferno, il nome del popolo zingaro non compare! Una dimenticanza non da poco.
La tua famiglia che posizione occupava?
Sono nato e cresciuto in una famiglia povera e numerosa. Le bocche da sfamare erano tante. In più mio padre a un certo punto se ne andò per vivere con un’altra
donna lasciandoci nella più nera indigenza.
Nonostante ciò non sei diventato né ladro né accattone né imbroglione, come spesso e volentieri i
«payos» pensano di voi.
C’è una legge fondamentale nel cuore di ogni uomo:
essa dice che prima di tutto devi rispondere ai dettami
della tua coscienza. La mia, fondata sulla fede cristiana
e sui valori del popolo rom, mi ha sempre spinto ad
agire per il bene.
MAGGIO 2014 MC
81
4 chiacchiere con...
Ti sei fatto la fama di uomo retto, con una autorevolezza morale tale da diventare un capo dei gitani aragonesi di Barbastro.
Proprio così, per il mio modo di fare e per i miei atteggiamenti mi trovai senza volerlo a essere un riferimento
per coloro che avevano bisogno di un consiglio. Più
volte sono stato chiamato a far da paciere nelle liti familiari, nelle controversie tra gitani e tra questi e gli abitanti della nostra cittadina.
Però devi ammettere che un giorno hai avuto un
bel colpo di fortuna, o è stata la provvidenza? ce
ne parli?
Una sera tornando a casa vidi sul ciglio della strada un
uomo, per la precisione un ricco possidente della zona.
Malato di tubercolosi, era svenuto e il sangue gli usciva
dalla bocca. Incurante del rischio di contagio l’ho caricato sulle spalle e portato fino a casa sua. La famiglia
volle ricompensarmi per quel gesto di carità e con quei
soldi intrapresi un piccolo commercio di muli e cavalli.
Essendo un gitano non è difficile immaginare che
quello era il tuo mondo.
Ma l’ambiente del commercio degli animali non era dei
più puliti e pur cercando di essere limpido e onesto fino
allo scrupolo, fui arrestato e incarcerato perché due
animali che comprai risultarono rubati. Cosa più che
sufficiente per accusarmi di ricettazione. La mia origine
gitana e il pregiudizio razziale per cui ogni zingaro è un
ladro e un disonesto, pesarono sul processo, ma alla
fine riuscii a dimostrare la mia buona fede e la completa estraneità ai fatti. Fui quindi assolto con formula
piena.
Perciò hai continuato la tua redditizia attività
commerciale?
Sì. Avrei anche potuto diventare ricco, ma avevo, come
si dice, le «mani bucate» perché soccorrevo chiunque si
trovasse nel bisogno o in difficoltà, specialmente la mia
gente, e facevo tutto di nascosto perché nella mia famiglia, mia moglie compresa, non condividevano la mia
generosità.
Tutto ciò ti veniva dalla fede cristiana che professavi senza imbarazzo davanti a tutti.
Della mia fede non ho mai fatto mistero a nessuno,
avevo sempre con me la corona del rosario e di notte
mi piaceva guardare il cielo stellato facendo una specie
di adorazione che consiglio a molti di fare. Contemplando il cielo e le stelle pregavo con più intensità.
La tua fede cosa ha cambiato nella tua vita?
Mi ha fatto regolarizzare la mia posizione familiare con
il matrimonio religioso che ho celebrato nel 1912 con
Teresa a Barbastro, dove mi sono stabilito acquistando
una casa. Potendo quindi accostarmi ai sacramenti, facevo della Messa e Comunione quotidiana un punto importante della mia crescita spirituale. Mi dedicavo anche alla catechesi dei bambini sia rom sia spagnoli ed
ero molto attivo nella san Vincenzo. Nel 1926 sono diventato anche terziario francescano e organizzatore dei
pellegrinaggi annuali dei Rom a diversi santuari. Dal
1931 ho cominciato a partecipare regolarmente all’adorazione notturna dei «giovedì eucaristici».
Però sul tuo capo come su quello di milioni di spagnoli incombeva minacciosa la rivoluzione del
1936 che scatenò violenza, distruzione e morte, ed
ebbe anche una forte connotazione antireligiosa.
La rivoluzione, cresciuta in un brodo di odio popolare e
conflitto sociale dovuto alla turbolenta situazione eco-
82
MC MAGGIO 2014
nomico-politica che viveva la Spagna in quegli anni,
spinse alla radicalizzazione dello scontro tra le fazioni in
lotta portando quelle d’ispirazione marxista a uccidere
migliaia di religiosi.
Alla fine della guerra di Spagna si contavano più di 6800
preti e religiosi uccisi, tra questi anche tredici vescovi e
oltre 200 suore di vita contemplativa. È invece impossibile avere il numero preciso dei laici, uomini e donne,
uccisi per la fede. La tempesta che si abbattè in quel periodo sulla Chiesa fu una delle più feroci persecuzioni
anticristiane del XX secolo.
E com’è che anche tu sei finito in carcere?
Devo dire che gli avvenimenti bellici che si susseguirono
dall’inizio delle ostilità non scalfirono minimamente il
mio essere cristiano, anzi. Però nel mese di luglio del
1936 difesi un sacerdote che era stato aggredito e per
questo fui arrestato con lui. Perquisendomi, in tasca
trovarono la corona del rosario. Quello fu più che sufficiente per sbattermi in galera accusato di ogni falsità.
Immagino che quella corona in carcere sia diventata «un’arma preziosa» tra le tue mani proprio
per avvicinarti di più al Signore.
Non solo per me, ma anche per tutti i miei compagni di
prigionia. Amici influenti si mossero in mio favore, vennero a trovarmi e mi garantirono l’immediata scarcerazione se solo avessi consegnato la corona del rosario e
smesso di sostenere i compagni di prigionia con le mie
preghiere. Ovviamente mi rifiutai, perché il rosario significava la fede in Cristo e il recitarlo con fede affidandomi alla Madre di Dio aiutava me e tutti gli altri a sopportare la brutta situazione in cui ci trovavamo.
Quando lo fucilano il 9 agosto del 1936, insieme a Florentino Asensio Barroso vescovo di Barbastro e ad altri prigionieri, l’ultimo suo grido è «Viva Cristo Re!»
mentre in mano tiene alta come una bandiera la sua
corona del rosario. Il giorno dopo alcuni zingari sono
obbligati a scavare una fossa comune per tutti i fucilati
e a buttare calce viva sui loro corpi per evitarne il riconoscimento e cancellarne la memoria.
A Roma il 4 maggio 1997, alla presenza di migliaia di
zingari, Giovanni Paolo II lo proclama beato. Nell’omelia il papa dice: «Il beato Ceferino seppe seminare concordia e solidarietà fra i suoi, mediando anche nei conflitti che a volte nascono fra “payos” e zingari, dimostrando che la carità di Cristo non conosce limiti di
razza e di cultura». Con lui è stato beatificato anche il
vescovo Florentino, fucilato dallo stesso plotone di
esecuzione. Di Ceferino non è rimasto niente se non lo
sgualcito certificato di battesimo, che portava sempre
con sé, e il rosario, segni concreti per confermare che
si può essere zingari e santi secondo il monito dell’apostolo Paolo che ogni uomo si converta e viva, rimanendo nella sua cultura e tradizione.
Don Mario Bandera, Missio Novara
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