Contro il cancro del pancreas ci vuole un campione di costanza

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Contro il cancro del pancreas ci vuole un campione di costanza
VITA DA RICERCATORE
Aldo Scarpa
In questo articolo:
cancro del pancreas
marcatori
Aldo Scarpa
Contro il cancro
del pancreas ci vuole
un campione di costanza
Una carriera tutt’altro che lineare, almeno ai suoi
esordi, ha insegnato ad Aldo Scarpa che per vincere
bisogna continuare a lottare. Una lezione appresa
dal padre e dal nonno, ora applicata ai suoi studi
su un tumore ancora temibile
O
a cura di FABIO TURONE
ggi che ha viaggiato molto visitando anche luoghi
esotici – dall’Ecuador al
Giappone, da Hong Kong
all’Arabia Saudita – e all’estero siede nei comitati consultivi di
numerose istituzioni di ricerca di punta, indirizzando importanti progetti di
ricerca sul cancro del pancreas, sorride ripensando al motivo per cui, oltre quarant’anni fa, scelse la facoltà di
medicina: “Avevo voglia di viaggiare e
dopo il liceo classico avevo pensato di
iscrivermi a lingue, con l’idea che così facendo avrei girato il mondo” racconta Aldo Scarpa, seduto nel suo ufficio da cui dirige il centro di ricerca
ARC-NET, nel Dipartimento di patologia e diagnostica del Policlinico universitario di Verona che ha diretto fino a poco tempo fa. “Mio padre però si
oppose, per cui mi dissi che avrei fatto il medico, avrei guadagnato un sacco di soldi e avrei viaggiato da turista
in vacanza”.
Per il papà Angelo, figlio di contadini mezzadri di Pollica (Salerno) che lavoravano nei campi sulle colline affacciate sul golfo di Policastro, l’istruzione era un bisogno irrinunciabile: “Suo
padre, mio nonno, lo sgridava se la sera
teneva il lume acceso perché consuma4 | FONDAMENTALE | GENNAIO 2016
va il petrolio che costava molto. Il fatto era che lui amava leggere e studiare,
ma riusciva a farlo solo la sera perché
durante il giorno, alla fine della scuola, doveva badare ai campi e alle capre” ricorda. “Ebbene,
è comunque riuscito
a prendere la licenza
elementare prelevando in chiesa mozziconi di candela, che gli
permettevano di leggere la notte senza mettere a repentaglio il bilancio familiare. Il primo paio di scarpe lo ha indossato a 17 anni,
quando si è arruolato nei carabinieri”.
to a sei anni, andando a scuola, e ancora adesso organizza ogni tanto delle
cene in cui può rilassarsi e parlare “in
lingua” con i suoi conterranei campani che animano le corsie e i laboratori
del Policlinico scaligero.
La lingua franca
della ricerca
Col tempo, però, ha acquisito la capacità di farsi capire bene a Tokyo come a Riyad, a Londra come in Ecuador
o a Hong Kong. In particolare, è capace
come pochi altri di far parlare tra loro
discipline scientifiche considerate distanti. Aldo Scarpa ha infatti riunito in
sé la visione del corpo umano propria
dell’antica disciplina dell’anatomia patologica e quella modernissima della
biologia molecolare, riuscendo spesso
a trasformare in opportunità anche gli
sgambetti del destino.
Uno di questi sgambetti arriva quando deve lasciare i compagni e seguire la
famiglia a Verona. È il
1973, l’anno in cui Napoli è colpita dall’epidemia di colera: “Sono
stato emigrato”, ammicca. Il liceo classico viene comunque
completato senza difficoltà, e una volta decisa la facoltà di medicina la scelta di Padova è scontata: “Ho concluso
medicina restando in corso, anche se
non sempre ottenevo la borsa di studio
– che all’epoca si chiamava presalario
- per poter pagare la casa dello studente. In alcuni anni ho dovuto fare avanti e indietro da Verona: la media dei voti era sempre eccellente, ma alle volte
il reddito di mio padre risultava essere
superiore a quello di altri compagni di
università figli di contadini, che magari poi venivano alle lezioni con la Ferrari”. Il biennio finale lo segue a Verona,
dove nel frattempo è stata aperta una
sede distaccata.
In quegli anni un mese estivo è dedicato al facchinaggio e ad altri lavoretti,
per pagare le vacanze e la motocicletta:
“La prima fu una Vespa, ma dopo aver
Un padre
carabiniere
che gli insegna
a lottare
Il valore
dell’istruzione
Oggi le vecchie foto in bianco e nero
dei nonni e del papà Angelo in uniforme insieme agli zii, anch’essi arruolati nell’Arma, accolgono chi entra nello
studio, alla cui porta qualcuno si affaccia spesso per presentare un problema
pratico, chiedere un consiglio sulla diagnosi di un paziente ricoverato, condividere un dato interessante su una delle molte ricerche in corso.
Nato a Napoli, dove il padre era stato trasferito insieme alla giovane moglie Filomena, l’italiano lo ha impara-
passato un’estate a New York lavorando in un negozio di biciclette, comperai la lavatrice alla mamma e la mia prima motocicletta vera, una Gilera 125
rossa, ovviamente usata. Poi avrei avuto anche una mitica Moto Guzzi 500
del 1936”. Anche la passione per i cavalli è, giocoforza, finanziata lavorando nelle stalle.
Il primo progetto
L’obiettivo professionale, coltivato
fin dalla tesi di laurea, prevede la specializzazione in anatomia patologica,
ma all’esame per entrare alla scuola di
specialità, a Padova, nessuno dei tre posti disponibili è per lui: con la bocciatura, arriva la cartolina militare. Anche
questo incidente di percorso, però, si
trasforma in opportunità: “Feci il corso per allievi ufficiali, poi fui mandato
alla Sanità Militare a Firenze, dove seppi che a Verona – attorno a cui gravitava metà dell’esercito italiano e dove
c’era anche il comando delle forze della
NATO in Europa, poiché erano ancora
gli anni della guerra fredda – cercavano un laboratorista per l’ospedale militare, che era il più importante d’Italia.
Grazie alla mia tesi di laurea ero ferratissimo in materia e superai brillantemente i test del colonnello che dirigeva
il laboratorio. Di lì a poco il colonnello fu nominato direttore dell’ospedale
e io, con la qualifica di vicedirettore, mi
ritrovai a gestire da solo il laboratorio,
che collaborava con la sanità pubblica
e l’ospedale universitario, scambiando
campioni per fare controlli incrociati.
Aveva una tale nomea da assistere anche civili e bambini. È stato abbastanza
facile chiedere e ottenere: solo a posteriori mi sono reso conto di aver proposto e realizzato un progetto di innovazione già allora, fresco di laurea”.
Alla fine del servizio militare riprende a frequentare “come hobbysta”
il Dipartimento di anatomia patologica diretto da Luciano Fiore Donati, ma
per un po’ di tempo accetta di dirigere
un laboratorio di analisi privato, perché ha bisogno di lavorare e lo stipen-
L’oncologia
è entrata tardi
nella sua vita
di ricercatore
L’oncologia
è entrata tardi
nella sua vita
di ricercatore
La passione
per le moto
e una vita
in movimento
GENNAIO 2016 | FONDAMENTALE | 5
“
ALLA
CACCIA DEL
MARCATORE
I
”
l programma 5 per mille coordinato da Aldo Scarpa coinvolge
120 persone tra ricercatori di
base e medici. Grazie al contatto
diretto coi pazienti sono in grado di
recuperare i campioni che occorrono per queste ricerche. Il team
è distribuito in cinque regioni, tre
al Nord – in Piemonte, Lombardia
e Veneto – e due nel Centro-Sud, a
Roma e Napoli.
Il tumore al pancreas è un’emergenza sanitaria, con circa 6-8.000
nuovi casi l’anno, di difficile curabilità. Il 10 per cento dei pazienti viene
sottoposto a intervento chirurgico,
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che può essere risolutivo solo se il
tumore è individuato molto precocemente. Per questo Scarpa e il suo
gruppo studiano le molecole che
fanno comunicare la cellula neoplastica con l’ambiente circostante,
quelle che l’aiutano a crescere e
quelle che invece la combattono, per
poterle usare come bersagli o alleati
nella cura oltre che come marcatori
di diagnosi precoce. Avere il maggior
numero possibile di pazienti diagnosticati in tempo utile per un intervento chirurgico sarebbe un enorme
successo.
Le “molecole spia” vengono
ricavate dalle banche di tessuti e
liquidi biologici ottenute dai pazienti e vengono poi testate in modelli
sperimentali. Il progetto ha già
individuato alcune molecole promettenti, su cui è stata avviata una
sperimentazione.
dio è notevole: “Guadagnavo moltissimo, più di quello che guadagno adesso”
ricorda. In quegli anni fa anche il medico di guardia e il medico di famiglia:
riesce a entrare alla scuola di specialità
a Parma, e decide di imparare a maneggiare il DNA, per cui trascorre tre mesi
all’Università di Napoli “in incognito,
senza dire nulla ai parenti”, studiando
il DNA (“di bufala”) tra il Dipartimento di biochimica e un alberghetto affacciato sul mare di Mergellina.
Spingere
con costanza
Quando torna a Verona ottiene un
po’ di spazio in un laboratorio, dove sta
stretto: “Per estrarre il DNA da analizzare usavamo fenolo e cloroformio, che
puzzavano terribilmente” ricorda sogghignando. “Un bel giorno ho pensato
di cominciare a lasciare i flaconi tappati male, finché è stata trovata una stanza tutta per me. Anche così mi sono fatto la fama di ‘quello che si appoggia ai
muri’, che spinge con costanza finché
i muri non crollano e riesce a ottenere
ciò di cui ha bisogno”.
Altri muri, in un certo senso, si
aprono casualmente al suo passaggio:
“A Verona con l’apertura della nuova
sede era arrivato un biochimico giapponese, Hisanori Suzuki, che aveva vissuto a Napoli ed era reduce da una delusione amorosa con una fidanzata napoletana, da cui aveva imparato un divertente italiano con un forte accento.
Avevamo legato, e per un po’ abbiamo
diviso l’appartamento, le feste e le cene
sociali” rievoca Scarpa. “Quando venne
in visita il direttore - lo ‘Shogun’ - del
Centro dei tumori giapponese, lui si offrì di fargli vedere la città, e mi chiese di
accompagnarlo”. Da quella conoscenza
occasionale derivò l’invito ad andare
a Tokyo: “Inizialmente mi occupai di
ematologia, poi mi dedicai al pancreas, nel luogo in cui sono nati i primi sistemi per il sequenziamento automatico del DNA”.
Dopo circa un anno e mezzo torna
a Verona, dove lo aspetta la moglie Pa-
VITA DA RICERCATORE
Aldo Scarpa
Nella foto in basso,
il gruppo di ricerca
ARC-NET diretto
da Scarpa
trizia conosciuta e
sposata poco prima del trasferimento giapponese: “Purtroppo pochi mesi
dopo il mio ritorno le fu scoperto un tumore che aveva dato metastasi cerebrali, assolutamente inoperabili: non potevamo fare altro che aspettare, ma vivemmo insieme sei mesi molto ricchi”
ricorda con un filo di commozione. “Mi
occupavo già di cancro e lei mi disse di
continuare, di non mollare e crederci fino in fondo. Per parecchio tempo dopo
la sua morte, però, vissi in uno stato di
trance”. Quando finalmente decide di
scuotersi e di accettare l’invito a cena di
un amico, il colpo di fulmine: “A quella
cena ho conosciuto Chiara e subito è arrivata Maddalena, che oggi ha vent’anni e vive a Londra dove si paga le scuole
di canto e teatro lavorando, seguita dopo due anni da Angelo, che Chiara ha
voluto chiamare così in onore del nonno e che oggi frequenta il liceo classico”.
Oggi il suo gruppo di ricerca è cresciuto (sono in tutto 70 persone) e lui si
trova ad affrontare spesso problemi di
gestione, come quando si trattò di pubblicare su Nature uno dei primi articoli del Consorzio internazionale per la
mappatura genetica dei tumori ICGC:
“Ogni gruppo poteva indicare solo dieci autori e, trattandosi di una rivista di
enorme prestigio, in tanti mi chiedevano se ci sarebbe stato il
loro nome, poiché le ricadute sulla carriera futura sarebbero state significative. Alla fine ho
trovato il modo per spiegare a tutti che per me la
somma di uno più uno più uno non fa
sempre tre, ma può fare cento. Tra i dieci nomi, non ci ho messo il mio”.
ziamenti di AIRC, anche dopo i cospicui fondi del 5 per mille per il programma in corso sulla diagnosi precoce e la
valutazione del rischio di sviluppo del
cancro del pancreas. Altri ne raccoglie con il
centro di ricerche ARCNET, che scherzosamente ha ribattezzato UFO
in quanto frutto della
collaborazione di Università, Fondazione e Ospedale. Per favorire il costante scambio di idee, i laboratori sono condivisi tra chi segue
i pazienti e chi fa ricerca, affiancando
sempre la visione d’insieme dell’anatomia patologica con quella dettagliatissima della biologia molecolare. Oggi
sono 22 i collaboratori pagati con fondi di ricerca: “AIRC ha creato la ricerca
sul cancro in questo Paese e mi sentirei
un inetto se non riuscissi ad avere sempre almeno un progetto AIRC in corso.
Rimane quello a cui tengo di più” chiosa Scarpa.
A ricordargli che è tutt’altro che
inetto ci ha pensato di recente anche la
giuria della rivista Journal of Pathology,
che nel gennaio del 2015 gli ha conferito a Londra il premio per il miglior articolo pubblicato nel 2014.
Ogni anno
partecipa
ai bandi
di AIRC
Al timone di un UFO
Anche per ottenere il primo finanziamento AIRC Scarpa ha dovuto superare una iniziale bocciatura: “Mandai
una lettera d’intenti, come richiesto
dal bando, e quando mi fu detto che era
stata scartata chiamai al telefono Guido Venosta, per capire come mai non
mi era stato chiesto di vedere almeno il
progetto. Venosta mi suggerì di presentare una domanda più dettagliata in un
altro filone di finanziamenti, che questa volta superò l’esame degli esperti”.
Era il 1986, e da allora Scarpa si impegna per ottenere sempre borse e finan-
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