27gruppo1 - Scuola Superiore dell`Amministrazione dell`Interno

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27gruppo1 - Scuola Superiore dell`Amministrazione dell`Interno
MINISTERO DELL’INTERNO
Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno
XXVII Corso di formazione dirigenziale
per l’accesso alla qualifica di Viceprefetto
COMUNICAZIONE, SOCIAL MEDIA
L’evoluzione dei processi comunicativi alla luce del mutamento sociale
e dei paradigmi scientifici di riferimento
Dott. Nicolino BONANNI
Dott.ssa Anna CHITI BATELLI
Dott. Angelo GALLO CARRABBA
Dott.ssa Antonietta LONIGRO
Dott. Gaetano LOSA
Dott. Salvatore PARASCANDOLA
Dott.ssa Natalia RUGGERI
RELATORE: Prof. Michele SORICE
I
SOMMARIO
1. I modelli (paradigmi) scientifici e teorici
1.1.
Definizione di comunicazione (p. 1)
1.2.
I modelli del processo comunicativo ed i suoi elementi costitutivi (p. 3)
1.3.
La comunicazione di massa (p. 7)
1.4.
Le teorie della trasmissione (p. 10)
2. I modelli sociali
2.1.
Premesse sulle teorie della comunicazione (p. 13)
2.2. Il primo ciclo: Media onnipotenti (p. 15)
2.3. Secondo ciclo: Approccio empirico (p. 17)
2.4. Terzo ciclo: Gli effetti a lungo termine (p. 19)
2.5. Breve descrizione delle teorie degli effetti a lungo termine (p. 22)
2.5.1. Il modello del knowledge gap (p. 22)
2.5.2. La teoria della spirale del silenzio (p. 23)
2.5.3. La teoria della coltivazione (p. 24)
2.5.4. La teoria della dipendenza (p. 25)
2.6.
Quarto ciclo: gli effetti dei media nella costruzione dell’esperienza
individuale e sociale (p. 26)
3. Oltre il broadcasting: dai digital media ai social media
3.1.
Il contesto generale (p. 28)
3.2.
Le modalità di comunicazione: il broadcasting ed il narrowcasting (p.
29)
3.3. Dal narrowcasting al webcasting: il ruolo dei media digitali (p. 32)
3.4.
Dalla cooperazione sociale ai social media (p. 35)
3.5. Differenze tra social media e media tradizionali (p. 37)
4. Comunicazione, media e società: effetti e ruolo della comunicazione
4.1.
Socialità e comunicazione (p. 40)
4.2.
Media e società: dal medium alla piattaforma (p. 42)
4.3.
Pubblico e privato: dalla separazione ai social media (p. 47)
5. La comunicazione della Pubblica Amministrazione. Evoluzione storica e
normativa
5.1.
Le prime forme di comunicazione: dallo Stato liberale al periodo fascista
(p. 51)
5.2. Le previsioni della Carta Costituzionale (p. 52)
5.3. Dalla Costituzione alle prime normative degli anni Ottanta (p. 54)
5.4.
Le riforme degli anni Novanta (p. 56)
5.5.
La legge 150/2000 (p. 58)
6. Temi e problemi della comunicazione istituzionale in Italia. La comunicazione
delle Prefetture
II
6.1.
6.2.
6.3.
6.4.
La comunicazione pubblica (p. 63)
La comunicazione istituzionale (p. 64)
I problemi della comunicazione (p. 67)
La comunicazione delle Prefetture (p. 70)
7. Agenda digitale europea e agenda digitale italiana: stato dell’arte
7.1.
Breve introduzione (p. 74)
7.2.
L’Agenda Digitale Europea (p. 74)
7.2.1. Concetti generali (p. 74)
7.2.2. Mercato Digitale Unico (MDU) (p. 75)
7.2.3. Il Commissario europeo per l’Agenda digitale (p. 80)
7.2.4. Tempistica di realizzazione (p. 80)
7.3.
L’Agenda Digitale Italiana (p. 81)
7.3.1. Normativa (p. 81)
7.3.2. Cabina di regia (p. 82)
7.3.3. Linee di azione (p. 82)
7.3.4. Diritti già operativi e nuovi documenti (p. 82)
7.4.
Commenti e conclusioni (p. 84)
Bibliografia (p. 87)
III
1. I MODELLI (PARADIGMI) SCIENTIFICI E TEORICI
1.1. Definizione di comunicazione
La radice del termine “comunicazione” risale al verbo greco koinoneo
(partecipo) – chiaramente legato all’idea di koiné, della comunità – e al latino
communico (metto in comune, condivido).
Questo significato è ben lungi dall’esaurire o definire il concetto di
comunicazione. Per analizzare al meglio il suddetto concetto è, infatti, necessario
considerare le diverse variabili, i molteplici attori sociali, la funzione del contesto socioculturale, le logiche di trasmissione, la ricezione dei messaggi e così via.
Pertanto, per comprendere ed interpretare i fenomeni comunicativi all’interno di
un quadro di riferimento scientifico è necessario individuare più definizioni.
A tal riguardo è stata elaborata una classificazione in otto possibili concetti.
a)
Comunicazione come contatto. Nella politica, per esempio, si parla della
comunicazione come fattore di contatto. Assorbe l’idea di comunicazione come
partecipazione.
b)
Comunicazione come trasferimento di risorse e influenza. In questa idea della
comunicazione non sono presenti necessariamente attività umane, non esiste alcuna
dimensione interpretativa. Il flusso comunicativo è considerato alla stessa stregua di
un insieme di oggetti che vengono trasportati, attraverso un canale da un punto A ad
un punto B. In questo ambito può rientrare la definizione di comunicazione come
influenza. Al concetto di influenza si possono far corrispondere due direttrici
interpretative:
1. il comportamento di un essere vivente che ne influenza un altro;
2. qualunque emissione di un segnale da parte di un organismo che
influenzi un altro organismo.
1
La definizione di comunicazione nel senso di influenza si fonda su un modello
comportamentista: dato uno stimolo è sempre possibile determinare la risposta o la
sua intensità. Lo schema S-R , anche detto diagramma di flusso, rappresenta una
delle più semplici modellizzazioni della comunicazione.
c)
Comunicazione come passaggio di informazione. Questo concetto si sviluppa in
maniera analitica nel secondo dopoguerra, quando emerge il bisogno di misurare
l’informazione e comprendere come rendere più efficace la trasmissione. In questo
caso non c’è trasferimento di risorse ma di informazioni. Il concetto di
comunicazione come passaggio di informazione implica nelle società avanzate,
l’esistenza di supporti tecnologici attraverso i quali far passare i flussi di
informazioni.
d)
Comunicazione come condivisione. Questo concetto è strettamente connesso
alla radice etimologica di comunicare già precedentemente illustrato. Il processo
comunicativo non è da intendersi solo come invio di messaggi ma se ne deve
considerare la specifica valenza di atto sociale.
e)
Comunicazione come interferenza. Il processo comunicativo non si concretizza
nel trasferimento dell’informazione, bensì in una complessa attività di costruzione di
indizi e produzione di congetture sugli indizi prodotti dagli interlocutori. Questo tipo
di comunicazione modifica lo spazio cognitivo degli interlocutori. Sperber e Wilson
parlano di comunicazione estensivo – influenzale: il processo comunicativo, cioè, si
fonda sull’esibizione di segni linguistici che permettono al destinatario di produrre
significati.
f)
Comunicazione come scambio. L’idea dello scambio contiene anche quella della
cooperazione e, talvolta, della competizione. Nell’ambito del concetto di scambio
rientrano particolari forme di comunicazione come quelle attivate dalle strategie di
marketing. In questo caso è necessario che i due poli della comunicazione abbiano
determinate caratteristiche: possiedano valori da scambiarsi, siano liberi di
partecipare o meno allo scambio stesso.
2
g)
Comunicazione come relazione sociale. Questo concetto ha una evidente
rilevanza sociologica: la formazione di un’unità sociale è realizzata a partire da
individui singoli, mediante l’uso di un linguaggio o di segni.
h)
Comunicazione come interpretazione. Si fonda sui presupposti teorici della
ermeneutica. L’idea centrale è che la fruizione di un messaggio o di un testo non
possa ridursi all’atto dell’ascolto né a quello della decodifica; è necessaria invece
un’attività complessa che definisca un progetto sulla base di ipotesi sul suo
significato cui dovrà seguire necessariamente quella della verifica della validità.
Le diverse definizioni sono espressioni di differenti momenti storici della ricerca
e possono essere ricondotte a tre accezioni principali cui corrispondono differenti
modelli del processo comunicativo.
Comunicare significa innanzitutto trasmettere un messaggio (un’informazione).
Qui è presente l’idea che la comunicazione apporti un elemento di conoscenza che
prima il destinatario non conosceva e quindi l’idea della comunicazione come notizia,
annuncio, informazione.
In secondo luogo comunicare significa costruire, elaborare, condividere
significati. La comunicazione è un’attività interpretativa rivolta a comprendere le
reciproche intenzioni attraverso i segni con cui vengono mostrate.
Infine comunicare significa costruire, mantenere, modificare relazioni tra le
persone ed i gruppi sociali. Comunicare significa in questo caso coinvolgersi in una
relazione e ciò chiama in causa l’identità di coloro che comunicano e la definizione
della relazione che si attua tra i loro.
1.2. I modelli del processo comunicativo ed i suoi elementi costitutivi
Nell’ambito degli studi sulla comunicazione si sono succeduti diversi modelli
teorici, che possono essere ricondotti alla seguente tripartizione:
a) il modello tradizionale/meccanico;
b) il modello interattivo/sistemico;
3
c) il modello dialogico/relazionale.
Il modello tradizionale è un modello lineare (la comunicazione viene considerata
come un comportamento spiegabile secondo la logica dello stimolo-risposta). La
comunicazione è unidirezionale (mittente unico ed i destinatari sono molti e non esiste
la possibilità di inversione del ruolo). Il processo comunicativo, dunque, avviene
sempre nella medesima direzione: l’unico mittente produce il messaggio, i molti
destinatari non possono fare altro che riceverlo e decodificarlo.
Nel suddetto paradigma rientrano i modelli di Lasswell1, di Shannon e Weaver.
Più o meno negli stessi anni in cui Lasswell pubblicava i suoi studi, nei
laboratori della “Bell Telephone Laboratories” alcuni ricercatori cercavano di
comprendere come si potesse aumentare l’efficienza e la fedeltà della trasmissione del
messaggio telefonico. La loro attenzione era rivolta a focalizzare l’efficienza e
l’efficacia della trasmissione di un messaggio attraverso un canale, senza attenzione al
contenuto del messaggio stesso. Da questi studi ha tratto origine lo schema della
comunicazione di Shannon e Weaver2: E – cod–mess – dec – R (teoria matematica della
comunicazione).
Questo schema introduce anche il concetto di rumore cioè qualsiasi cosa di
involontario che disturbi la decodifica di un messaggio. Il rumore si può manifestare sia
a livello tecnico (i disturbi nella ricezione di una stazione radio) sia a livello semantico,
come distorsione del significato del messaggio dovuta a differenze o incompatibilità di
codici linguistici, culturali, psicologici, ecc.
Nel suddetto schema non è fatto alcun riferimento al valore di significato dei
segni, né al contesto circostanziale in cui vengono adottati. Trasmittente e ricevente
sono nozioni meccaniche che non possiamo colmare con la soggettività umana.
1
Infra, paragrafo 1.4., pp. 9 e ss.
C.E. Shannon, A Mathematical Theory of Communication, in Bell System Technical Journal, vol. 27,
1948, pp. 379-423, 623-656; C.E. Shannon - W. Weaver, The Mathematical Theory of Communication,
Illinois University Press, Urbana 1949.
2
4
Questo modello fu successivamente rielaborato da Jakobson3. Egli individua sei
componenti: mittente, messaggio, codice, canale, contesto, destinatario.
Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio
richiede in primo luogo il riferimento ad un contesto che possa essere compreso dal
destinatario; in secondo luogo esige un codice comune al mittente ed al destinatario;
infine un contatto, un canale fisico ed una connessione psicologica fra il mittente ed il
destinatario, che consenta loro di stabilire e mantenere la comunicazione.
Alla metà degli anni Cinquanta il processo comunicativo evolve a favore di un
approccio più legato alla comunicazione interpersonale (modello interattivo/sistemico) e
si scopre che il modello di Shannon e Weaver manca di un elemento fondamentale:
viene introdotto il feedback.
Esso è la retrocomunicazione che il ricevente invia all’emittente mentre la
comunicazione sta avvenendo. E’ un’informazione di ritorno che permette all’emittente,
mentre sta comunicando, di percepire se il messaggio è stato ricevuto, capito, approvato,
ecc. e dunque di reagire, cercando la via più efficace per raggiungere il risultato che si è
prefisso.
Il modello sistemico non è lineare ma circolare. E’ un’interazione continua tra
più soggetti. Questa interazione si attua all’interno di un sistema definito dalla
comprensione e dal feedback. In questo modello l’attenzione si sposta dalla ricezione
del messaggio alla sua comprensione. Il processo si conclude quando l’emittente, dopo
aver ascoltato la risposta dell’interlocutore, può dirsi sicuro che lo stesso abbia
compreso il messaggio lanciato.
Il modello dialogico/relazionale ha completato i modelli precedenti ribaltandone
il punto di vista. Infatti ogni singolo processo comunicativo è bidirezionale, ed assume
la forma di dialogo. In questo caso entrambi i protagonisti dell’interazione comunicativa
possono divenire mittenti e dunque possono produrre messaggi.
3
R. Jakobson, Closing Statement: Linguistics and Poetics, in T.A. Sebeok, Style in Language,
Massachussets Institute of Technology, Boston 1960.
5
Perché, pertanto, si possa parlare di comunicazione è necessaria la presenza dei
seguenti elementi: emittente, ricevente, messaggio, canale, codice e feedback.
L’emittente può assumere le seguenti figure:
-
Animatore: chi concretamente comunica e si rivolge all’interlocutore; ha uno
stile suo proprio.
-
Autore: chi ha ideato e costruito il messaggio.
-
Mandante: analogicamente con il significato giuridico indica il soggetto
(individuale o collettivo) a nome di cui si comunica.
Il ricevente può assumere la figura di partecipante ratificato o designato
(destinatario specifico della comunicazione) occasionale o accidentale (ricevente ma
non destinatario del messaggio).
Il messaggio è un’informazione strutturata secondo regole particolari di un dato
codice e trasmessa mediante una certa sostanza materiale (un canale). Può essere
intenzionale e non intenzionale, di denotazione o di connotazione, di contenuto e di
relazione, esplicito o implicito.
I messaggi si riferiscono sempre a qualcosa. In molti casi la comprensione è
possibile solo facendo riferimento al contesto (microcontesto: situazione specifica
dell’interazione; macrocontesto: situazione sociale di riferimento).
Il codice è il sistema dei segni dai significati condivisi che ci permette di
comunicare.
I segni si suddividono in tre tipologie:
-
icona: comunica direttamente un’idea per somiglianza con l’oggetto che
rappresenta;
-
indice: comunica per connessione diretta o contiguità effettiva con l’oggetto; vi è
una relazione fattuale tra oggetto segno (impronta sulla sabbia, l’indice puntato
per indicare un oggetto);
6
-
simbolo: comunica per interpretazione ossia richiede forme di interferenza o di
associazione.
I segni hanno una triplice funzione:
-
rappresentazione della realtà: gli esseri umani conoscono il mondo, se ne fanno
una certa immagine ed agiscono in esso;
-
comunicazione: possiamo comprendere le reciproche intenzioni attraverso i
segni che le manifestano;
-
partecipazione sociale: i segni favoriscono, attivano il senso di appartenenza a
gruppi e collettività.
Il canale è il mezzo attraverso cui l’emittente veicola, o attraverso cui il
ricevente ottiene il messaggio. Può essere inteso sia come il mezzo sensoriale coinvolto
nella comunicazione sia come il mezzo tecnico esterno al soggetto con cui il messaggio
arriva.
Il feedback4 costituisce un elemento strutturale della relazione comunicativa.
Non esiste alcuna forma di comunicazione che non ammetta o preveda una qualche
forma di scambio di ruolo o di messaggio di ritorno.
1.3. La comunicazione di massa
Ci sono molte forme di comunicazione, a seconda che si faccia riferimento alle
modalità di funzionamento o all’ambito delle applicazioni. A tale proposito una prima
bipartizione concettuale estremamente importante è quella fra “comunicazione
interpersonale” e “comunicazione di massa”.
In realtà i due processi non sono molto differenti: in entrambi i casi, infatti, c’è
un messaggio che viene inviato da un emittente a un ricevente con l’aggiunta, nel caso
della comunicazione di massa, di un apparato tecnico per la veicolazione del messaggio
stesso. Una prima differenza fra comunicazione interpersonale e comunicazione di
massa è rappresentata dal feedback. Il feedback è attività del ricevente determinata,
4
Supra, p. 5.
7
però, dall’emittente. All’interno di uno scambio comunicativo interpersonale l’emittente
può adattare i propri messaggi in rapporto alle reazioni degli ascoltatori (feedback
improprio).
Nelle comunicazioni di massa questo processo è pressoché impossibile: il
feedback, infatti, è deduttivo. L’emittente, pertanto, non conosce il suo pubblico, se non
attraverso forme di generalizzazione che, peraltro, forniscono dati in un tempo differito
rispetto a quello dell’emissione. Non è solo la natura del feedback, a determinare le
differenze fra comunicazione interpersonale e comunicazione di massa. Le altre
principali differenze sono relative al rapporto fra emittente e destinatario
(potenzialmente simmetrico nella prima e prevalentemente asimmetrico nella seconda),
collocazione del pubblico (vicino alla fonte nella prima e lontano dalla fonte nella
seconda), quantità di pubblico (ridotta nella prima ed elevata nella seconda), qualità del
pubblico (definito e noto all’emittente nella prima, differenziato e sconosciuto
all’emittente nella seconda), natura dell’emittente (individuo o gruppo nella prima,
struttura organizzativa con capacità di articolazione dei processi distributivi nella
seconda), messaggio (unico e solitamente non riproducibile nella prima, prodotti
simbolici e/o copie diffuse simultaneamente nella seconda).
Un aspetto importante dell’analisi della comunicazione di massa risiede non
tanto nella quantità di individui raggiunti bensì nell’esistenza di una pluralità di
destinatari, tutti potenzialmente raggiungibili dalla produzione dei mass media. “Per
comunicazioni di massa s’intendono in genere le tecnologie di comunicazione a larga
banda organizzate in broadcasting5”. Si è soliti dire che nella comunicazione di massa
lo scambio comunicativo è asimmetrico: alla fonte dotata di autorità corrisponde un
destinatario sostanzialmente passivo. Ma anche nella comunicazione di massa i
destinatari conservano una capacità di intervento e, in qualche modo, cooperano al
mantenimento del processo comunicativo. Thompson ritiene fuorviante sia il termine
“massa” sia l’espressione “comunicazione di massa”. Egli considera la comunicazione
5
U. Volli, Il libro della comunicazione: idee, strumenti, modelli, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 211.
8
di massa come la diffusione generalizzata di merci simboliche attraverso la trasmissione
di informazioni e contenuti simbolici6.
La comunicazione di massa presenta alcune caratteristiche che appaiono
peculiari e che la connotano in maniera univoca rispetto ad altre forme di
comunicazione. Innanzitutto bisogna prendere in considerazione le tecniche e le
tecnologie impiegate per la produzione e la diffusione di prodotti mediali. Fausto
Colombo distingue fra tecnologie di trasmissione, tecnologie di rappresentazione e
tecnologie di riproduzione7.Le tecnologie di trasmissione sono quelle che annullano la
distanza spaziale. Le tecnologie di rappresentazione sono quelle che “forniscono
rappresentazioni parziali del reale”: la fotografia, il cinema. Le tecnologie di
riproduzione sono quelle che permettono la riproduzione in serie sostanzialmente
infinite di prodotti culturali.
Altre importanti caratteristiche della comunicazione di massa sono: la
mercificazione delle forme simboliche ovvero l’assegnazione ai beni simbolici
dell’immaginario mediale di un valor economico, e l’elemento individuato da
Thompson nella separazione strutturale fra la produzione delle forme simboliche e la
loro ricezione. Le dinamiche di controllo nel rapporto fra emittenti e riceventi
avvengono mediante forme di feedback mediato oppure attraverso forme di decodifica
anticipatoria. Produzione, diffusione e consumo sono i gangli generali di un circuito
dell’industria dei media: la fase di produzione non può costituire da sé il primo stadio
nella costruzione di un prodotto comunicativo; ci sono altre due unità funzionali, quali
la creazione del prodotto e la pianificazione del suo impatto sul mercato. Nel concetto di
trasmissione coesistono formule di tipo espansivo (broad) e restrittivo (narrow).
Thompson individua altre due specifiche caratteristiche della comunicazione di massa:
l’estesa accessibilità delle forme simboliche nello spazio e nel tempo e la circolazione
pubblica delle forme simboliche. Un’importante conseguenza risiede nel processo di
“de-spazializzazione” della simultaneità: non è più necessaria la compresenza per
esperire la simultaneità degli avvenimenti.
6
7
J. B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità, Il Mulino, Bologna 1998, p. 44.
F. Colombo, Media e industria culturale, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1994, p. 139.
9
1.4. Le teorie della trasmissione
Le teorie della trasmissione spiegano il processo comunicativo riferendosi
principalmente alla sua dimensione trasmissiva. I concetti di comunicazione sottostanti
sono quelli che fanno riferimento all’idea di trasporto fisico del segnale e di
trasmissione di informazione da un soggetto ad un altro. Nella prima metà del
novecento la corrente dominante negli studi sulle comunicazioni di massa è
rappresentata da studiosi afferenti alla cosiddetta mass communication research.
Tale corrente di studi raccoglie studiosi accomunati da una grande attenzione al
tema degli effetti prodotti dalla comunicazione sui destinatari dei messaggi mediali. Il
modello di Lasswell8 ha svolto un ruolo di vero e proprio snodo epocale nello studio
della comunicazione di massa, focalizzando l’attività dei ricercatori sull’analisi degli
effetti della comunicazione e sull’analisi del contenuto dei messaggi.
Per Lasswell, ogni atto di comunicazione implica la risposta alle seguenti
domande: chi (emittenti), dice cosa (contenuto dei messaggi), attraverso quale canale
(mezzo di comunicazione), a chi (audience, pubblico), con quale effetto (effetti della
comunicazione). Ad ognuna di queste domande corrisponde uno specifico settore di
ricerca nel campo della comunicazione di massa: l’analisi degli emittenti (control
analysis), del contenuto dei messaggi (content analysis), dei mezzi tecnici (media
analysis), del pubblico (audience analysis), degli effetti della comunicazione (effect
analysis). Per Lasswell, la caratteristica saliente della comunicazione di massa è
l’asimmetria dei ruoli: l’iniziativa della comunicazione è sempre dell’emittente che
riveste, dunque un ruolo attivo, mentre gli effetti si ripercuotono sulla massa passiva
che, colpita dal messaggio, reagisce comportandosi in modo conforme alla volontà del
comunicatore. Inoltre, ogni atto comunicativo è intenzionalmente mirato a produrre
degli effetti, per cui la communication research deve concentrarsi sull’analisi del
contenuto dei messaggi per misurare gli effetti dei media sul pubblico. Il modello di
Lasswell non fa riferimento al contesto comunicativo ma sottende una concezione della
società di massa come un aggregato di individui atomizzati. Non si considerano, quindi,
8
H. D. Lasswell, The Structure and Function of Communication in Society, in L. Bryson, The
Communication of Ideas, Institute for Religious and Social Studies, New York 1948, pp. 47-51.
10
le relazioni interpersonali e l’appartenenza degli individui a gruppi sociali. La
misurazione degli effetti della comunicazione di massa porta alla conclusione che essi
non sono diretti ma mediati, influenzati, cioè, da una serie di variabili.
Il modello di Lasswell è riuscito a porsi come cerniera fra le due opposte
tendenze della communication research: la prima fortemente influenzata dal
comportamentismo, che ha determinato le linee di sviluppo della teoria ipodermica; la
seconda sviluppatasi verso la fine degli anni quaranta, che considerava importanti le
azioni di mediazione e resistenza che i destinatari attivano nella ricezione dei messaggi
mediali.
La teoria ipodermica, che si afferma nell’intervallo tra le due guerre mondiali, è
ben sintetizzata nell’affermazione del sociologo americano C. R. Wright secondo la
quale “ogni membro del pubblico è personalmente e direttamente attaccato dal
messaggio9”. Questo modello non sfocia in una vera e propria teoria fondata su ricerche
scientifiche; esso si fonda su una sensazione nei confronti della comunicazione di massa
motivata anche dalla coincidenza tra la diffusione dei media elettrici su larga scala (in
particolare della radio) e l’affermazione dei regimi totalitari. Il modello ipodermico
propone, infatti, una valutazione globale del fenomeno comunicazione di massa,
manifestando una certa indifferenza alla diversità dei vari mezzi e facendo coincidere la
teoria della comunicazione come una teoria della propaganda. Questa teoria guarda
all’individuo come atomo isolato, il cui comportamento è determinato direttamente
dalle suggestioni provenienti dai mass media. L’individuo è, in altri termini, considerato
come una tabula rasa su cui i media sono liberi di agire senza resistenze alcune. Per
queste ragioni, questa posizione teorica è spesso descritta con la metafora del proiettile
che colpisce il singolo individuo atomizzato (teoria del proiettile magico – bullet
theory). Il modello ipodermico poggia sul modello della comunicazione elaborato
nell’ambito della psicologia comportamentista che si sviluppa negli Stati Uniti nei primi
decenni del Novecento10.
9
C. R. Wright, Mass Communication: A Sociological Perspective, Random House, New York 1959, ed.
1975, p. 79.
10
Supra, par. 1.1., p. 2.
11
La crisi del modello ipodermico si accompagna anche alla considerazione dei
fattori sociali in gioco nel processo di comunicazione di massa. Non solo il contenuto
del messaggio, ma anche il contesto sociale agisce sulla reazione del pubblico. Gli
effetti della comunicazione di massa non sono diretti ma mediati, oltre che dai processi
interpretativi individuali, anche dalle dinamiche sociali. Uno studio11 di Lazarsfeld,
Berelson e Gaudet sugli effetti della campagna presidenziale americana del 1940 ha
dimostrato che il rapporto tra emittente e destinatario non è sempre diretto ma è mediato
da particolari figure: i leader di opinione, che, considerati competenti per alcune
materie, interpretano e diffondono il messaggio proveniente dai media. Il flusso della
comunicazione è a due fasi: una fase avviene tramite media e un’altra è interpersonale.
Ciò dimostra che gli effetti dei media dipendono anche dal contesto sociale e dalle
relazioni interpersonali (two-step flow of communication). La suddetta teoria considera
l’influenza dei contatti come preminente rispetto a quella esercitata dai soli media. In
altri termini i mezzi di comunicazione di massa partecipano alla determinazione
dell’efficacia comunicativa ma non risultano responsabili unici dei cambiamenti di
opinione. Le ricerche di Lazarsfeld, Berelson e Gaudet e poi ancora lo studio12 di Katz e
Lazarsfeld, considerando il ruolo dei gruppi sociali e delle relazioni interindividuali
nella fruizione mediale, conducono inevitabilmente alla considerazione che i mezzi di
comunicazione di massa producano un’influenza selettiva: in altri termini l’audience
appare dotata della capacità di selezionare i materiali informativi. La teoria del two-step
flow of communication ebbe una rilevanza persino maggiore di quello che apparve
immediatamente. Le ricerche compiute e l’elaborazione teorica, infatti, limitavano di
fatto le ipotesi di “media onnipotenti”.
11
P.F. Lazarsfeld - B. Berelson - H. Gaudet, The People’s Choice: how the voters makes up his mind in
presidential campaign, Duell Sloane & Pearce, New York 1944.
12
E. Katz - P.F. Lazarsfeld, Personal Influence: the part played by people in the flow of mass
communications, Free Press, Glencoe 1955.
12
2. I MODELLI SOCIALI
2.1. Premessa sulle teorie della comunicazione
Le teorie della comunicazione sono nate intorno agli anni Venti e Trenta del
Novecento, a seguito della imponente presenza dei mass media nella società
contemporanea e ai crescenti interrogativi sugli effetti che essi potevano provocare nei
confronti dei utenti, sia a livello individuale, sia a livello collettivo e sociale. Le diverse
teorie sulla comunicazione e sui media, chiamate Media studies, hanno affrontato ed
evidenziato particolari aspetti del complesso legame che intercorre tra la fonte del
messaggio ed i pubblici destinatari, in funzione degli effetti più o meno gravi che i
media possono produrre.
Un’importante classificazione delle teorie sui media e sui loro effetti13 è quella
che le distingue in quattro fasi:
1. la prima, alle origini e quindi intorno agli anni Trenta del XX secolo, che
sottolinea la possibilità di effetti forti e diretti dei media, capaci di realizzare la
manipolazione dei comportamenti (teorie della trasmissione);
2. la seconda, dagli anni Quaranta ai Sessanta dello stesso secolo, che mostra, in
una visione più ottimistica, come i media abbiano effetti limitati, a causa della
resistenza opposta al messaggio dalle caratteristiche psicologiche individuali dei
destinatari e dal contesto sociale (teorie del dialogo);
3. la terza, degli anni Settanta e Ottanta, che vede, invece, un ritorno degli effetti
forti, non più diretti come nella prima ondata, bensì indiretti e di lungo periodo,
in grado d’avere conseguenze non sui comportamenti dei destinatari, ma sulle
loro conoscenze e credenze;
13
D. McQuail, Mass Comunication Theory. An Introduction, Sage, London 1987 (trad.it Sociologia dei
Media, il Mulino, Bologna 1996).
13
4. una quarta fase, che va dagli anni Ottanta in poi del Novecento, in cui gli effetti
dei media sono in qualche modo “mediati” dalla fruizione “attiva” dell'
audience. McQuail definisce questa quarta fase della influenza negoziata dei
media.
Nei media studies è sempre riscontrabile la compresenza dei due orientamenti:
quello per il quale i media sono onnipotenti ed in grado quindi di manipolare facilmente
il comportamento dei pubblici e quello per il quale gli effetti dei media sono sempre
filtrati da diverse variabili, empiricamente verificabili. Riguardo agli effetti è possibile
tracciare due paradigmi culturali, che rappresentano in qualche misura i poli opposti
delle diverse concezioni sui Media studies. All’estremità degli effetti minimi o limitati
c’è il paradigma struttural-funzionalista, secondo il quale la presenza dei media è
funzionale all’equilibrio del sistema sociale nel suo complesso ed in tale contesto
l’audience avrebbe quindi un ruolo “attivo”. All’estremità opposta, dalla parte degli
effetti forti, c’è il paradigma marxista della teoria critica, proprio della scuola di
Francoforte, secondo cui l’élite dominante si serve dei contenuti ideologici, stereotipati
e standardizzati dei media per esercitare un controllo sulla “massa”, intesa come un
aggregato di persone “passive”, che assorbe i valori e i comportamenti sociali trasmessi
dai media, che diventano gli unici riferimenti valoriali a cui rifarsi.
Ne consegue che esiste un parallelo fondamentale tra effetti dei media e risposta
dell’audience. Nello specifico, ad effetti considerati forti corrisponde inevitabilmente
una concezione passiva del pubblico rispetto al messaggio veicolato. E’ il caso per es.
della teoria ipodermica e della teoria critica.
Viceversa, ad effetti limitati corrisponde generalmente un’audience attiva, la cui
capacità d’interpretazione del messaggio è verificabile sperimentalmente, come per es.
nella teoria degli effetti limitati e degli usi e gratificazioni . In particolare, per audience
attiva s’intende la sua elevata capacità di selezione dei contenuti, di interpretazione
soggettiva e creazione di significati, nonché di resistenza ai messaggi ideologici.
Indubbiamente all’interno di queste due concezioni estreme di pubblico esistono
varie tonalità intermedie ed è per questo che, anziché parlare di una sola audience, si
14
suole utilizzare il termine audiences (al plurale) o “pubblici”, per sottolineare la
presenza di una vasta tipologia di destinatari del messaggio mediatico.
E’ importante precisare che non tutte le teorie di cui si tratterà hanno avuto una
verifica empirica, in quanto alcune di esse sono puramente speculative, non avendo
ricevuto il necessario riscontro statistico, per impossibilità pratica o per fatto culturale.
Inoltre, il passaggio da un ciclo al successivo non avviene in maniera netta e facilmente
databile. Le posizioni teoriche sono spesso compresenti in un dato periodo storico e in
un certo contesto socio-culturale, ed hanno conseguenze anche nei periodo successivi.
Le fasi tendono a sovrapporsi le une alle altre ed ogni nuova fase nasce sempre
all’interno di quella precedente14.
2.2. Il primo ciclo: Media onnipotenti
La prima fase di studi sui media risale al trentennio che comprende le due guerre
mondiali, caratterizzato dalla grande esplosione dei mezzi di comunicazione di massa ed
in particolare dalla radio. Periodo conosciuto come la fase dei media onnipotenti, e che
vede l’accostarsi degli studiosi alle problematiche relative agli effetti dei Media sulla
società. Tale approccio risente della forte preoccupazione sui possibili effetti negativi
dei media sulla grande efficacia della propaganda nell’orientare il giudizio verso coloro
che sono in grado di controllare il sistema dei media ed utilizzarlo per i propri scopi.
La denuncia apocalittica nasce in Germania da parte della Scuola di
Francoforte15 in considerazione dell’utilizzo controllato dal regime dei primi mass
media, che si erano allineati al potere nazista per timore di rappresaglie. Altri autori
della stessa scuola ritenevano che l’accettazione della dittatura non si andava
realizzando soltanto per paura, ma per un naturale desiderio della società di non
impegnarsi in una faticosa difesa della libertà, preferendo la sicurezza e il disinteresse
per ogni problema sociale. La critica nata al sistema si fondava, secondo un approccio
teorico marxista, sulla perversa costruzione dei mass media come sovrastruttura
funzionale al potere della classe egemone che cercava di impedire a quelle subalterne di
14
15
M. Wolf, Gli effetti sociali dei Media, Bompiani, Milano 1992.
T.W. Adorno, On popular music, in Studies in Philosophy and social Sciences, vol. IX, n.1, 1942.
15
prendere coscienza della loro posizione. In particolare i media erano considerati
strumenti molto efficaci per imporre un’ideologia, nell’ambito della quale fini e
interessi della società si smarriscono nella“falsa coscienza”. In questa società tutti
sembrano essere apparentemente liberi di poter esprimere le loro idee, vivere e lavorare
secondo le regole razionali dell’economia e del suo principale obiettivo:il consumo.
Gli studiosi della comunicazione ritenevano che i media fossero in grado di
persuadere grandi masse di fruitori, convincendoli ad omologarsi alle opinioni da essi
espressi. La Scuola di Francoforte al riguardo si soffermò sulla funzione ideologica
svolta dai mass media nell’ambito della società, precisando che i prodotti dell’industria
culturale, che segue le logiche analoghe agli altri settori dell’industria capitalistica, sono
imposti alla massa senza che questi possano reagire con consapevolezza all’ideologia
presente implicita nei prodotti stessi. Il pubblico è una massa che assorbe valori e
comportamenti sociali trasmessi dai Media che diventano gli unici riferimenti valoriali a
cui riferirsi. Lo stesso approccio pessimistico fu condiviso da altri studiosi negli Stati
Uniti16, partendo dai condizionamenti effettuati da persuasori di professione sulle scelte
dei potenziali consumatori, che attraverso la persuasione manipolano i comportamenti
relativi ai consumi, privandoli della capacità di scegliere liberamente
La teoria ipodermica, affermatasi nell’intervallo tra le due guerre mondiali negli
Stati Uniti si caratterizza per la produzione di effetti forti dei media e da un’audience
passiva e indifesa.
La teoria ipodermica ebbe come suo fondamento e giustificazione la teoria della
“società di massa”, composta, secondo tale pensiero, da individui, indifferenziati; isolati
e atomizzati; anonimi e poco colti; senza organizzazione e leadership, facilmente
suggestionabili.
La diffusione di un messaggio unidirezionale e identico ad una grande quantità
di persone in modo indifferenziato, “che colpisce come una pallottola” comportò,
secondo i primi teorici della comunicazione di massa, degli effetti persuasivi altrettanto
16
V. Packard, The Hidden Persuaders, McKay Company, New York 1957 (trad. it. I persuasori occulti,
Einaudi, Torino 1980).
16
indifferenziati sui comportamenti. Il modello ipodermico poggiava sul modello della
comunicazione elaborato nell’ambito della psicologia comportamentista17, che si fonda
sulla convinzione che solo i comportamenti manifesti, in quanto osservabili e
misurabili, devono essere oggetto della psicologia come scienza. I comportamenti
individuali sono considerati come risposte meccaniche agli stimoli provenienti
dall’ambiente (modello S → R) senza alcuna intermediazione mentale e pertanto di
scarso interesse per il ricercatore.
2.3. Secondo Ciclo: Approccio empirico
Il superamento di questa fase si realizza progressivamente dagli anni ‘50 fino
alla metà degli anni ’70, con l’affacciarsi di un approccio alla ricerca empirica, che
permise di evidenziare come le teorie lineari, stimolo-risposta, non funzionassero nella
realtà in quanto i messaggi non sempre raggiungevano i destinatari voluti e, molto
spesso,questi messaggi non venivano intesi secondo le intenzioni di chi li emetteva.
Inoltre, tali ricerche dimostrarono che gli effetti dei media si realizzano come parte di
un processo più complesso in cui i contatti personali e le interazioni reciproche fra i
destinatari della comunicazione diventano fondamentali.
Questo tipo di indagine, definito “ricerca amministrativa”(si trattava di indagini
commissionate da amministrazioni pubbliche, da partiti politici e soprattutto da imprese
private per ricercare nuovi strumenti di persuasione e consenso), fa emergere un sistema
più complesso rispetto al quadro delineato nella fase precedente, perché i destinatari
della comunicazione non sono più considerati passivi, isolati in una massa informe, ma
soggetti inseriti in un contesto sociale fatto di relazioni interpersonali, di bisogni e di
attese psicologiche che rendono gli individui come soggetto differente dagli altri
(superamento del concetto di massa)e capace di valutare i contenuti della
comunicazione dei media e di mediarne l’impatto ed i significati (Teoria degli effetti
limitati e il flusso di comunicazione a due stadi). Tali ricerche elaborate da Katz e
Lazarsfeld18 dimostrano che il pubblico non è di massa, ma al contrario differenziato in
17
Tra le figure preminenti di questo approccio ricordiamo John B. Watson, fondatore della scuola
comportamentista, Edward L. Thorndike e B.F.Skinner.
18
E. Katz - P.F. Lazarsfeld, cit.
17
gruppi omogenei, caratterizzati da specifiche variabili socio-demografiche(età , classe
sociale,
reddito,ecc.)
e
da
variabili
socio-psicologiche.
In
particolare,
tale
consapevolezza ha portato al superamento del modello stimolo-risposta (aggiungendo
un passaggio intermedio) ottenendo così il modello Stimolo – Variabili Intervenienti –
Risposta (S – IV – R). In sintesi, secondo il modello cognitivista del processo di
comunicazione, tra lo stimolo e la risposta bisogna inserire anche i processi psicologici
(o variabili intervenienti) del soggetto che riceve il messaggio, che risentono del grado
di interesse, dell’esposizione, dell’attenzione, della percezione e della memorizzazione
selettiva.
A causa di queste variabili difficilmente prevedibili e controllabili, il contenuto
di un messaggio può essere interpretato anche in modo radicalmente difforme rispetto
all’intenzione del comunicatore. In particolare, nello studio delle campagne elettorali,
sono stati rilevati tre possibili effetti di influenza dei Media, quali: il rafforzamento delle
opinioni già preesistenti; l’attivazione della scelta degli indecisi; in misura limitata, la
conversione delle intenzioni. Ciò ha dimostrato che i Media non producono effetti sul
cambiamento di opinioni. Il concetto di massa, altro pilastro della teoria ipodermica,
viene demolito in quanto non era possibile analizzare gli effetti dei media sulle masse
senza considerare il contesto sociale in cui agiscono, con la conseguenza che anche il
contesto sociale agisce sulla reazione del pubblico. Uno dei risultati più eclatanti di
queste ricerche sul campo è stata la teoria del flusso di comunicazione a due stadi: in
base alla quale il messaggio dei media viene recepito dal pubblico grazie a una categoria
di persone che occupano posti chiave nei reticoli di relazioni interpersonali, i leader
d’opinione. I messaggi arrivano dunque prima ai leader d’opinione (I stadio) e dunque
filtrati al pubblico (II stadio). Dalla teoria del flusso si cambia finalmente il punto di
vista sui media: dapprima visti come manipolatori, successivamente come persuasori,
ora come influenti. Si ridimensiona la posizione estrema sul potere dei media,
restituendo centralità alla mediazione dei gruppi (famiglia, cerchie amicali), alla
predisposizione personale, alle norme e consuetudini del gruppo, cui appartengono i
fruitori, il ruolo degli opinion leaders.
18
Dal secondo dopoguerra gli studi sulla comunicazione in Usa entrano in una fase
più matura; a partire dallo struttural-funzionalismo19, che studia i media distinguendoli
non più per i loro obiettivi ma per le loro funzioni, si arriva alla teoria di usi e
gratificazioni20: la funzione dei media viene assimilata all’uso strumentale che il
pubblico fa dei mezzi di comunicazione di massa, al fine di soddisfare i propri bisogni e
di riceverne così una gratificazione. Questa teoria si fonda sull’assunto che i media
svolgono il ruolo di un servizio pubblico e che i loro effetti non sono diretti ma
dipendono in larga parte dall’uso che gli individui ne fanno per soddisfare alcuni
bisogni. Il ricevente non è più il soggetto passivo dello scambio comunicativo, ma ne è
l’iniziatore (nel senso che “risponde” attivamente ai messaggi che riceve attivando dei
processi interpretativi autonomi); egli “agisce”, dunque, sui messaggi, usandoli per i
suoi fini. I mezzi di comunicazione di massa soddisfano dei bisogni preesistenti,
competendo con altre fonti di soddisfazione dai bisogni. Da queste teorizzazioni ne
consegue che i soggetti operano scelte di consumo mediale sulla base di motivazioni
individuali, ma tale fruizione non è destinata produrre
effetti sulla costruzione
dell’identità personale e sulla costruzione di stabili aggregati culturali.
2.4. Terzo ciclo: Gli effetti a lungo termine
Intorno agli anni 70 il percorso di studi sui media si caratterizza per la
discontinuità e si sofferma sugli effetti di lungo periodo, sul cambiamento sociale, sui
fenomeni collettivi, come le ideologie e le rappresentanze sociali. In particolare, accanto
alla ricerca empirica degli anni precedenti si era sviluppato in Europa un approccio
critico degli studi empirici sui Media, considerati dipendenti alla logica del profitto e
del mantenimento degli equilibri sociali e politici.Basata sulle dottrine del Marxismo, la
scuola di Francoforte si pone con un atteggiamento critico e “pessimista” rispetto alla
cultura in generale, affermando il superamento del concetto di cultura di massa (perché
questa espressione potrebbe far pensare ad una cultura che emerge spontaneamente
19
C. R. Wright, Functional Analysis and Mass communication revisited, in J.C. Blumler - E. Katz, The
Uses of Mass Communications, Sage, Beverly Hills 1974, pp. 197-212.
20
D. McQuail, Communication, Longman, London 1975.
19
dalle masse o ad una forma d’arte popolare), con quello di industria culturale21
(l’insieme dei mezzi di comunicazione), che definisce meglio il sistema finalizzato al
razionale mantenimento degli equilibri sociali e politici e dalla logica del profitto. Tra i
suoi dogmi, quello della cultura omologata, standardizzata e poi servita ai consumatori.
I mass media svolgono le loro azioni solo per raggiungere utili economici, manipolando
i valori del pubblico, con la conseguenza che l’uomo diventa “a una dimensione”,
narcotizzato cioè dai media e offuscato da una falsa coscienza che gli impedisce di
liberarsi dalle sue catene. I prodotti dell’industria culturale sono il frutto della paralisi
dell’immaginazione e della spontaneità; essi sono costruiti per un consumo distratto
(easy listening) prescrivendo le possibili reazioni e vietando, in tal modo, l’attività
mentale dello spettatore. La strategia di dominazione capitalista, che si cela dietro
l’industria culturale, comporta, dunque, la realizzazione di prodotti standardizzati, di
insistenti messaggi nascosti e di generi che soddisfano le aspettative più grossolane del
pubblico e che appiattisce la qualità di consumo mediale.
Dopo il tramonto dei media studies nascono nuove teorie, frutto dello
straordinario sviluppo della TV e dell’imponente offerta mediale, nonché della
“rivoluzione culturale” del '68. Nella teoria tedesca della “spirale del silenzio” ed in
quelle americane della “coltivazione” e della “dipendenza”, l'attenzione è posta sul
potere dei media e sulla loro capacità di produrre effetti di lungo periodo, ovvero effetti
sulle conoscenze degli individui (opinioni, valori, pregiudizi), e non più sui
comportamenti, come si era invece ipotizzato studiando gli effetti a breve. Sono
proposte teorie, quindi, che spiegano in ultima analisi il processo di costruzione della
realtà.
Il sistema dei media concorre a diffondere le conoscenze, ma le teorie mostrano
come la realtà veicolata dai media sia filtrata, interpretata, distorta e non rappresentata
oggettivamente. I media operano quindi una ricostruzione sociale della realtà , della
quale gli individui non possono fare a meno, perché l’esperienza diretta è limitata e la
realtà è fruita soprattutto attraverso i mass media.
21
Espressione coniata da M. Horkheimer - T.W. Adorno, DialektikderAufklärung, Amsterdam 1947 (trad.
it. Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966).
20
Contro questa visione dei media si schierano autori che sono più cauti riguardo
all’ipotizzato impatto mediatico e manipolatorio sulla costruzione della realtà sociale,
perché nei loro costrutti l’audience attiva (nel senso di maggiore interpretazione
soggettiva e consapevolezza della parzialità delle informazioni) ne inibisce l’influenza.
Nell’ambito di questa citata prospettiva idealistica si muovono anche i cultural
studies22, in particolare quelli che si sviluppano a partire dalla cosiddetta scuola di
Birmingham, secondo cui la comunicazione, intesa in modo estensivo, non comprende
solo i mass media ma anche istituzioni e pratiche sociali (come la religione, lo sport,
l’educazione, ecc.) ed afferma la necessità di analizzare la cultura entro le condizioni
materiali ed il processo storico che ha generato le strutture del potere. I cultural studies,
muovendo da posizioni marxiste, individuarono nella cultura prodotta dai media
l’esistenza di una politica egemonica, che mira a perpetuare il controllo esercitato dalle
classi dominanti su quelle subalterne, che si realizza mediante la costruzione del
consenso. Secondo questo approccio, i media forniscono rappresentazioni del mondo,
chiavi di lettura che diventano diffuso e condiviso senso comune che hanno con sé la
“naturalizzazione” del loro potere ideologico e la cultura sottesa. La cornice ideologica
in cui si muovono non produce però gli stessi effetti sull’intera società, in quanto un
prodotto mediale (un film, un articolo di giornale, e così via) è oggetto di interpretazioni
molto diverse con il variare delle condizioni socioculturali degli spettatori. La cultura
passa attraverso tutte le pratiche sociali. I media, in particolare, hanno la funzione di
attivare quelle pratiche che portano alla creazione dei significati e dei valori collettivi,
costruendo i framework (le strutture interpretative) attraverso i quali percepiamo la
realtà. Raymond Williams e Stuart Hall hanno teorizzato un nuovo approccio alla
comprensione della popular culture e propongono una visione non più unilateralmente
apocalittica della contemporanea comunicazione di massa. Non esiste una cultura
popolare pura e autentica che bisogna proteggere a tutti i costi, né esiste una
manipolazione strategica e costante del pensiero messa in atto dalle élites del potere.
Esiste uno scambio tra le proposte dell’industria culturale, le sue reiterate incursioni, e
22
S. Hall, Cultural Studies: Two Paradigms, in Media, Culture & Society, vol. 2/1, Gettyburg 1980, pp.
57-72.
21
le risposte che il pubblico, elabora come feedback. La coppia encoding-decoding
(codificare/decodificare)illustra queste dinamiche, il fitto dialogo che si dipana fra i le
intenzioni e le aspettative dei produttori di cultura e la ricezione e l’uso del pubblico, dei
consumatori, delle persone comuni. Si introduce il concetto di «resistenza», che
costituisce il perno della dialettica relativa al potere e si colloca tra la contaminazione e
l’omologazione della produzione di massa e delle industrie della comunicazione e
l’effettiva ricezione da parte dei vari gruppi sociali, alcuni dei quali possono resistere,
fornendo una versione completamente alterata, travisata e alternativa della
massificazione e del conformismo. Si tratta di vere e proprie forme di rifiuto, di
dissenso esplicito, di un’opposizione visibile e a volte provocatoria, come nel caso delle
subculture giovanili. Ma in altri casi, può trattarsi di una decodifica silenziosamente
opposta, contraria, diversa rispetto alle proposte dei mass-media e dell’industria
culturale.
I discorsi, i testi, i contenuti, i messaggi, le sollecitazioni provenienti dalla
cultura egemone possono sì determinare un allineamento completo e corrispondere ad
un «posizionamento egemonico dominante». Ma possono anche condurre ad una
negoziazione, quando chi riceve si riserva la pratica di tramutare i significati trasmessi
in valori e regole proprie, di capovolgerli in un filone differente dal senso comune.
Possono addirittura subire una decodifica oppositiva o aberrante, laddove vengono riarticolati in una combinazione alternativa, come nel caso dei Punk inglesi degli anni
Settanta, capaci di veicolare una rivoluzione dei segni.
2.5. Breve descrizione delle teorie sugli effetti a lungo termine
In questo paragrafo si riportano le più note teorie sugli effetti a lungo termine,
che possono contribuire meglio a rappresentare i due diversi approcci (pessimistiottimisti) descritti.
2.5.1. Il modello del knowledge gap. E’ stato elaborato per la prima volta nel
1970 presso l’Università del Minnesota23. Questa analisi parte dal riconoscimento che la
23
P. J. Tichenor - G. Donohue - C. N. Olien, Mass Media flow and differential growth in knowledge, in
Public Opinion Quarterly, vol. 34/2, Oxford 1970, pp. 159-170.
22
diffusione su larga scala della comunicazione è interpretata solitamente come un
indicatore di modernizzazione, di sviluppo sociale e culturale, legato a flussi di
informazione liberamente ed equamente disponibili tanto che ai media viene
comunemente riconosciuta la capacità di costruire un comune universo simbolico di
riferimento e di aggregare e definire una identità culturale. Questa opinione si scontra,
però, con l’evidenza empirica che gli individui con un più elevato livello socioeconomico ed un più elevato livello di istruzione hanno una maggiore opportunità di
acquisire le informazioni; l’incremento di informazione nella società non comporta,
quindi, un uguale ed effettivo aumento di conoscenze da parte di tutti i soggetti.
Secondo questo modello, i media non riducono, ma amplificano e riproducono le
differenze (gap) sociali e culturali, generandone addirittura di nuove. Questa teoria si
sforza di mostrare che la penetrazione dei media interagisce con una serie di variabili
che producono o meno l’incidenza dei media sui gruppi. Tra queste variabili sono
comprese, oltre alle variabili di tipo socio-economiche ed al livello di istruzione, anche
le variabili motivazionali (chi è più interessato a determinati argomenti li apprende in
modo più rapido).
2.5.2. La Teoria della spirale del silenzio. La formazione dell'opinione pubblica
è operata dai media ed in particolare dalla televisione24. Ciascun individuo tende a
conformarsi alle opinioni dominanti, per non essere emarginato dall'integrazione
sociale, nascondendo le opinioni contrarie quando ritiene di essere in minoranza.
Pertanto, nella spirale del silenzio, i media tendono a rendere l'opinione
dominante sempre più diffusa e nel contempo riducono al silenzio le opinioni contrarie
ad essa.
L'opinione pubblica è influenzata attraverso:
1. la cumulatività, ovvero la ripetitività delle informazioni;
24
Elaborata dalla studiosa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann (The Spiral of Silence: A Response, in
Political Communication Yearbook 1984, pp. 66-94; trad. it. La spirale del silenzio: per una teoria
dell'opinione pubblica, Meltemi, Roma 2002).
23
2. la consonanza, cioè la presenza di un’argomentazione unanime decisa dallo
stesso
sistema
dei
media,
possibile
quando
manca
il
“pluralismo”
dell'informazione.
Tutto ciò provoca la neutralizzazione della selettività. Inoltre, in tale ottica, è
possibile anche una “conversione” delle opinioni, contraddicendo in tal modo l'assunto
di Lazarsfeld, secondo il quale è realizzabile solo il loro “rafforzamento”.
La verifica empirica di questa teoria si è avuta nello studio delle campagne
elettorali, dove si produce, nella loro ultima fase, una conversione del voto a favore del
vincitore annunciato o presunto tale, cioè un adeguamento all'opinione pubblica
dominante (last minute swing).
2.5.3. La Teoria della coltivazione. La TV, e principalmente il genere della
fiction, costituisce il più importante costruttore di immagini della realtà sociale,
assumendo perciò il ruolo di agenzia di socializzazione, in competizione con quelle
tradizionali, come la famiglia, la scuola, la Chiesa ed il gruppo dei pari25.
I bambini continuamente esposti alle fictions televisive, non avendo altre
conoscenze sul mondo, crescono condizionati dagli eventi e dai modelli rappresentati in
TV. Così, sia i bambini, sia gli adulti, sono “coltivati” dalle immagini televisive
omogenee (aventi le stesse caratteristiche attrattive di base), che veicolano una realtà
semplificata, distorta e stereotipata, la quale va a confondersi ed a sovrapporsi con la
realtà oggettiva dell'esperienza quotidiana.
Le ricerche nell'ambito di quest'approccio hanno riguardato alcuni temi specifici
(violenza, sesso, politica, ecc.), esaminati da due distinte prospettive:
1.
l’analisi di contenuto: cosa è veicolato dalla TV;
2.
l’analisi delle audiences: percezione della realtà sugli argomenti trasmessi.
25
Sviluppata da George Gerbner e dai suoi collaboratori presso la Annenberg School of Communication:
G. Gerbner - L. Gross, Living with Television: The Violence Profile, in Journal of Communication, vol.
26/2, Hoboken 1976, pp. 172-194; G. Gerbner, Le politiche dei mass media: evoluzione e trasformazione
del sistema mondiale delle comunicazioni di massa, De Donato, Bari 1980.
24
Circa la prima prospettiva, c’è da rilevare come esista in effetti uno scarto tra la
realtà ed il mondo televisivo. Nello specifico, all'interno di quest’ultimo si è riscontrata
una sovra/sotto rappresentazione di persone ed eventi. Per esempio, esiste più violenza e
di conseguenza più presenza di polizia e forze dell'ordine. Inoltre, ci sono più esponenti
della middle-class che della working-class, più persone di razza bianca che di razza
nera, più uomini che donne, le quali ultime sono quasi esclusivamente raffigurate come
casalinghe o donne-oggetto.
Riguardo invece all'analisi delle audiences, sembrerebbe verificata l'ipotesi di
“coltivazione”, perché le risposte ai questionari sono risposte cosiddette "televisive", a
conferma di una certa influenza dei media a favore degli interessi dell’élite dominante
(effetto mainstreaming). La teoria della coltivazione rafforzerebbe quindi lo status quo,
mentre frenerebbe i mutamenti sociali.
Le critiche alla teoria hanno evidenziato la scarsa considerazione di variabili
psicologiche e sociologiche nelle audiences e l'eccessiva equivalenza tra mondo
televisivo ed opinioni del pubblico.
2.5.4. La Teoria della dipendenza.Questa teoria parte dalla constatazione che
l'esperienza direttamente vissuta è limitata, per cui gli individui dipendono dai media
per conoscere la realtà ed ottenere informazioni adatte ai loro scopi26.
Essa studia quindi le relazioni tra il sistema dei media e gli altri sistemi sociali.
Il potere dei media sta nel controllo delle risorse d'informazione, necessarie a
individui, gruppi e sistemi sociali per raggiungere i loro rispettivi fini, che possono
essere lavorativi, economici, politici, etc... Il sistema dei media è dunque una risorsa
fondamentale della società, la quale ha rapporti non a senso unico con gli altri sistemi,
come dimostra lo stretto legame esistente tra i media ed il sistema politico.
Le persone dipendono dai media per tre scopi principali:
26
Proposta dalla metà degli anni Settanta da Sandra Ball-Rokeach e Melvin Lawrence DeFleur
dell’Università di Washington (S.J. Ball-Rokeach - M.L. DeFleur, A dependency model of mass media
effects, in Communication Research, vol. 3/1, Washington 1976, pp. 3-21; id., Theories of Mass
Communication, McKay Company, New York 1985, trad. it. Teorie delle comunicazioni di massa, Il
Mulino, Bologna 2000).
25
1.
per conoscere se stessi e l'ambiente in cui si vive;
2.
per avere una guida ai comportamenti quotidiani ed alle relazioni con gli altri;
3.
per il divertimento da svolgere da soli o in gruppo.
Rispetto alla teoria degli usi e gratificazioni, qui i media pongono alle audiences
vincoli strutturali e di contenuto, che limitano le scelte soggettive. Tuttavia, non c'è una
definizione di audience ed anzi la teoria sfugge al classico parallelo effetti forti/pubblico
passivo, perché il potere dei media è associato alla selettività delle audiences, in virtù
delle caratteristiche individuali.
2.6. Quarto ciclo: gli effetti dei media nella costruzione dell’esperienza individuale e
sociale.
Le teorie più recenti della comunicazione di massa si sono concentrate
principalmente sui media come agenti attivi nella costruzione del significato sociale,
con una valutazione più moderata degli effetti mediatici. Diventa centrale in questa fase
lo studio di come la comunicazione contribuisca a modificare non solo le modalità di
interazione fra individui, suggerendo modelli di imitazione ed identificazione, ma anche
i linguaggi della società, in un processo di influenza reciproca in cui il singolo è
chiamato a negoziare la propria visione della realtà27.
Cambia la prospettiva: non è più la società, attraverso l’ideologia dominante a
determinare i contenuti dei media, ma è il sistema dei media a costruire il sociale e gli
individui. In questa fase si assiste ad una nuova discontinuità per la presenza delle due
divergenti
posizioni
di
pensiero:
coloro
che
considerano
negativamente
il
condizionamento mediale ambiguo e contraddittorio sugli individui che li rende
incapaci di affermare la propria originalità, spingendoli a immedesimarsi in modelli
creati dai media e coloro che, invece, pongono l’accento sul soggetto come fruitore
mediale attivo. In questa fase, con riferimento alle nuove tecnologie, il momento della
produzione e del consumo tendono a fondersi in un unico processo rendendo i fruitori
sempre più partecipativi e interattivi nel processo comunicativo. Una performatività che
27
M. Wolf, Teorie delle comunicazioni di massa, Strumenti Bompiani, Milano 1985.
26
rende lo spettatore anche creatore-attore dell’esperienza mediale. Rispetto alle posizioni
dei primi cultural studies (che, pur sottolineando il ruolo attivo del fruitore mediale, di
fatto lo considerava costretto e poco creativo nell’accettazione dell’ideologia
dominante) l’attenzione si sposta sull’attitudine dei soggetti in qualità di fruitori-attori a
definire la propria identità28. I media forniscono non solo le cornici interpretative, ma il
materiale che consente agli individui di costruire il proprio SE’ ideale29.
28
N. Abercrombie - B. Longhurst, Audiences: A Sociological Theory of Performance and Imagination,
Sage, London 1998.
29
M. Livolsi, Manuale di sociologia della comunicazione, Laterza, Bari-Roma 2000.
27
3. OLTRE IL BROADCASTING: DAI DIGITAL MEDIA AI SOCIAL MEDIA
3.1. Il contesto generale
Ormai i social network, o meglio i social media, sono entrati a far parte, in
maniera più o meno diretta, della vita di ognuno di noi. L’adolescente li usa per gioco o
per studio, l’adulto per fare amicizia, il giovane universitario li usa per ricerca o per
rimanere in contatto con i propri compagni vicini e lontani, il manager per la ricerca di
nuove tendenze, l’azienda per migliorare i rapporti con i propri clienti/fornitori: tutti
sono iscritti su qualche social media. Non tutti li useranno in maniera costante e
produttiva, ma il potenziale socio-comunicativo di questi nuovi media è molto ampio e
con il passare del tempo non potrà che aumentare.
Per un attento esame del fenomeno sopra indicato entrato a far parte della nostra
vita quotidiana (sia privata che professionale), occorre esaminare l’evoluzione del
processo comunicativo.
Per fare un’analisi di questo tipo è necessario partire da alcuni concetti che non
sono strettamente legati al mondo delle tecnologie e dell’informatica, ma alla sociologia
ed in particolare al concetto di rete sociale.
In altri termini occorre partire dall’evoluzione tecnologica dei modelli
comunicativi, per poi passare, nel prossimo capitolo, ai loro effetti sulla società.
Un’affermazione di Manuel Castells, divenuta ormai celebre, mette a confronto
la velocità odierna con il ritmo di cambiamento precedente: «Negli Stati Uniti la radio
ha impiegato trent’anni per raggiungere sessanta milioni di persone, la televisione ha
raggiunto questo livello di diffusione in quindici anni; Internet lo ha fatto in soli tre
anni dalla nascita del world wide web»30. Per quanto Castells si riferisca
specificatamente a internet, questa osservazione può essere estesa a tutte quelle
30
M.Castells, The Rise of the Network Society, Blackwell Publishing, Oxford 1996 (trad. it. La nascita
della società in rete, Egea-UBE, Milano 2002, p. 382).
28
innovazioni tecnologiche che vanno in genere sotto il nome di ICT (Information and
Communication Technology) e definiscono il campo dei “new media” (o media
digitali)31, che si sono succeduti in un periodo di tempo molto breve, rivoluzionando
l’intero ambito dei mezzi della comunicazione di massa, inclusi i più vecchi e
consolidati (televisione, radio e stampa). Pertanto, tutta la storia dei mezzi della
comunicazione di massa può essere letta come una trasformazione che, legata ad
un’evoluzione tecnologica, passa da un sistema broadcasting basato su un messaggio
analogico rivolto via etere da “uno a molti” (one to many), e caratterizzata da un numero
ristretto di mezzi e messaggi, ad una comunicazione narrowcast, “da pochi verso
pochi”, tipica dei media digitali, per arrivare ad una comunicazione caratterizzata dal
principio del “molti a molti” e dalla partecipazione degli utenti alla produzione del
messaggio comunicativo (socialcasting), supportato da un numero di sistemi e mezzi di
comunicazione, addirittura abbondante32. Ciò soprattutto grazie all’innovazione
tecnologica, mediante la quale il numero delle emittenti e il numero dei messaggi è
aumentato in maniera esponenziale coinvolgendo l’intero sistema della comunicazione
di massa: da una comunicazione di massa (rivolta appunto ad un pubblico indistinto)33,
si è passati ad una comunicazione elettronica generalmente diffusa e mobile.
In altre parole in questi ultimi anni si è passati dai tradizionali servizi definiti in
maniera unilaterale, trasmessi in modalità broadcast, a un modello in cui il protagonista
è lo stesso utente che è contemporaneamente produttore di contenuti e consumatore dei
prodotti dagli altri utenti, che per questo motivo è stato definito “prosumer”, di cui si
parlerà dopo.
3.2. Modalità di comunicazione: il broadcasting e il narrowcasting
Passiamo ad esaminare i vari metodi di comunicazione sopra citati nelle loro
principali peculiarità.
31
A. Arvidsson - A.Delfanti, Introduzione ai media digitali, Bologna, Il Mulino 2013.
P. Mancini, L'evoluzione della comunicazione: vecchi e nuovi media, in Atlante Geopolitico 2012,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2011, pp. 223-237.
33
D. Bennato,Sociologia dei media digitali. Relazioni sociali e processi comunicativi del web
comunicativo, Laterza, Roma-Bari 2011.
32
29
Con il termine broadcasting si fa riferimento alla tecnica di trasmissione e
modalità di diffusione dei contenuti mediali, detta da “uno a molti”, in cui il messaggio
viene irradiato ad una collettività di persone indefinita e indistinta che per questo è
definita pubblico dei media34.
Come si evince il termine è eminentemente tecnico-ingegneristico e collegato
allo sviluppo del sistema radiotelevisivo35, inteso – appunto – come sistema tecnologico
tipico dei mezzi di comunicazione di massa basati sulla diffusione (irradiazione) delle
onde radio. Infatti, con il broadcasting la comunicazione avviene da una fonte emittente
ad una pluralità di destinatari che ricevono in virtù non della loro specifica qualità, ma
solo per la presenza di variabili tecniche: il possesso di un apparato ricevente e la
presenza nel raggio di azione delle onde radio36.
Legare, però, il broadcasting ad un concetto tecnologico appare alquanto
riduttivo se si consideri che lo stesso ha sempre svolto una funzione di strumento
istituzionalizzato per la trasmissione di notizie ufficiali e per un miglioramento o un
controllo sociale (si pensi al concetto di sistema radiotelevisivo pubblico di Stato o
all’uso dello strumento fatto dai regimi poco democratici e totalitari). Fino agli anni
Ottanta, infatti, il sistema radiotelevisivo era stato organizzato attorno all’idea di
servizio pubblico e lo stato, in quanto garante di tutti i cittadini, assumeva su di sé la
responsabilità della trasmissione via etere con il compito di offrire un servizio
‘universale’, diretto cioè a tutti i cittadini alle medesime condizioni, all’interno dei
confini nazionali37.
Il nome broadcasting (letteralmente semina larga), coniato negli anni Venti,
sotto l’aspetto sociologico è una modalità di trasmissione rivolta a una platea ampia e
generalista che viene raggiunta in maniera casuale dalla “semina”, trovandosi nel suo
raggio d’azione, e a cui ci si rivolge con un solo programma, o con una scelta limitata,
34
Ibidem, p. 3.
M. Sorice, I media. La prospettiva sociologica, Carocci, Roma 2005.
36
P. Mancini, cit., p. 223 e ss.
37
Ibidem.
35
30
dove il pubblico, assai vasto, dei destinatari di quel messaggio – gli ascoltatori o i
telespettatori – aveva un ruolo sostanzialmente passivo.
Con l’evoluzione tecnologica, la moltiplicazione del numero dei canali e
l’interattività consentita dalle tecnologie digitali si determina un cambiamento radicale
di questa situazione: il destinatario del messaggio ha un ruolo molto più attivo, non solo
perché ha più scelta, ma perché può intervenire direttamente nell’opera di selezione e
presentazione dell’informazione che desidera ricevere. È il caso dell’audio e video on
demand.
L’uso del digitale anzi consente una mescolanza di informazioni da trasmettere
unificando informazioni tradizionali e messaggi digitali, il tutto tramite un solo mezzo
di comunicazione (ad esempio, una radio può associare a una canzone dati testuali come
il titolo, il nome dell’autore e dell’interprete, l’indicazione dell’anno di registrazione e
così via).
A ben vedere questa è un’evoluzione del broadcasting, ma rimane prevalente il
concetto di base di una diffusione a largo raggio di suoni o di suoni e immagini,
attraverso trasmissioni radiofoniche o televisive intenzionalmente rivolte a una audience
larga e indifferenziata, anche se capace di scegliere 38.
Con il passare del tempo e con l’aumento e lo sviluppo delle tecnologie di
comunicazione, si è affermata una nuova filosofia della comunicazione: il
narrowcasting.
Col termine narrowcasting si indica il passaggio da un sistema di comunicazione
da “uno a molti” a un sistema “pochi a pochi”39, caratterizzato dalla trasmissione rivolta
a segmenti particolari di pubblico,con codici più specifici orientati a un’audience ben
precisa e che richiedono “un periodo di apprendimento del messaggio da parte del
ricevente”40.
38
Ibidem.
M. Hirst - J. Harrison, Communication and New Media: from broadcast to narrowcast, Oxford
University Press, Melbourne 2007.
40
J. Fiske, Introduction to Communication Studies, Routledge, Londra 1990, pp.73-76.
39
31
In pratica il narrowcasting realizza una trasmissione di programmi rivolti a
esigenze specifiche o ad audience segmentate, tipica della TV tematica e a pagamento,
che si afferma progressivamente dagli anni Settanta.
Pertanto, questa nuova modalità si contrappone al broadcasting (semina larga),
anche nella denominazione che significa ‘semina stretta’ (narrow). Destinatario non è
più un pubblico ampio ed indifferenziato, ma un pubblico segmentato, specifico ed
interessato ad un messaggio particolare.
3.3. Dal narrowcasting al webcasting: il ruolo dei media digitali
Con l’avvento e la diffusione delle nuove tecnologie informatiche e soprattutto
di internet il modello del narrowcasting viene sostituito dal cosiddetto webcasting41. Il
webcasting utilizza lo stesso modello di trasmissione del broadcasting (da uno a molti),
ma usa quale mezzo (intermediario) non più un’architettura analogica, ma le reti digitali
ed in particolare internet ed i servizi web42.Si passa quindi da sistemi analogici e
tradizionali di comunicazione a media digitali (più spesso chiamati nuovi).
I nuovi media sono quei mezzi di comunicazione di massa che, sviluppatisi con
l'informatica, sono strettamente correlati al suo sviluppo. I nuovi media o meglio i
media digitali43, sono quei nuovi canali della comunicazione che utilizzano in maniera
preponderante l’informatica e suoi servizi, in particolare le sue reti.
Essi sono «nuovi media» se vengono usati come mezzi di comunicazione di
massa (one-to-many) o comunque su larga scala.
Hanno però una peculiarità che li distingue da quelli tradizionali: l'interattività
offerta dalle applicazioni web consente una specifica modalità di comunicazione propria
degli stessi nuovi media, e cioè né one-to-one (come il narrowcasting) né one-to-many,
ma many-to-many e viceversa44.
41
J. Whittaker, The Cyberspace Handbook, Routledge, Londra 2004.
D. Bennato, cit., p. 5.
43
A. Arvidsson - A. Delfanti, cit., p. 14 e ss.
44
Wikipedia, voce Media digitali.
42
32
Tecnicamente i media digitali, usano una nuova codifica di tipo numerico
(digitalizzazione) in sostituzione di quella analogica.
La digitalizzazione è una vera e propria rivoluzione nel campo dell’ICT con
enormi vantaggi sul piano pratico, come quello di far passare molto rapidamente su una
stessa linea multimediale un numero enorme di informazioni e segnali diversi
(telefonici, televisivi, voce, immagini, ecc.) riconducibili alla stessa forma numerica45
che vengono rielaborati dal computer e trasformati da analogico a digitale o viceversa,
grazie ad un dispositivo tecnologico: il personal computer.
In particolare la loro categoria comprende media sia nuovi che (ri)producono
contenuti digitali, sia media già esistenti che sono stati modificati in digitali,
trasformando il loro linguaggio in codice binario (si pensi al segnale radio trasmesso in
digitale).
Per questa loro versatilità si dicono digitali, ma anche multimediali, mobili,
ipertestuali, interattivi, distribuiti e sociali46.
Tra queste definizioni per meglio comprendere il successivo passaggio ai social
media è bene soffermarsi sulle ultime tre. Infatti, i media digitali a differenza dei media
tradizionali che inviano messaggi da una struttura centrale (redazione di un giornale) a
un pubblico numeroso, si appoggiano a un modello distribuito di gestione delle
tecnologie dell’informazione che, grazie ai bassi costi dei microprocessori attuali e alla
facilità di accesso al web, consentono a tutti gli utenti di produrre contenuti da
diffondere in rete.
“La produzione e distribuzione non è più centralizzata ma nelle mani di milioni
di utenti che comunicano in una struttura orizzontale e non più verticale, a rete”47.
Soprattutto grazie all’interattività dell’ambiente digitale gli utenti possono interagire
direttamente con i contenuti modificandoli, ovvero produrli da soli e o immetterli in
rete. Per esempio, chiunque possegga una videocamera digitale ed un computer
45
P.C. Rivoltella - S. Ferrari (a cura di), A scuola con i media digitali. Problemi, didattiche, strumenti,
Vita & Pensiero, Milano 2010.
46
L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Ed. Olivares, Milano 2002.
47
A. Ardvisson- A. Delfanti, cit., p. 17
33
connesso alla rete, può produrre editare e pubblicare un video, facendo così
comunicazione. Sono sociali perché favoriscono la nascita di nuove comunità virtuali o
dove comunità esistenti trovano nuovi modi (virtuali) per rinsaldare i legami che
costituiscono o hanno costituito: i social network che permettono agli utenti di entrare in
contatto con altri individui, condividendo opinioni, contenuti e realizzando vere e
proprie reti sociali. E si ritorna al concetto di rete sociale espresso all’inizio di questo
capitolo.
Con l’avvento e la diffusione delle ICTe di internet il numero dei produttori di
comunicazione aumenta ulteriormente, così come aumenta il numero dei messaggi in
circolazione caratterizzati - come sopra accennato - dall’interattività. Emittente e
ricevente hanno la possibilità di interloquire e, appunto, il ricevente può abbandonare
quel ruolo meramente passivo che gli assegnava la comunicazione di massa tipo
broadcasting. Il ricevente può rispondere al messaggio, modificarlo e rimetterlo al
mittente o in rete; può scegliere tra una pluralità di prodotti offerti dalla stessa emittente,
può diventare esso stesso emittente. Tutto questo diviene possibile con l’avvento della
nuova tecnologia detta web 2.0.
Inoltre, cambia, la logica della comunicazione. Le ICT consentono una
comunicazione “da uno a uno”. Non siamo più di fronte a una relazione tra un’unica
fonte e una pluralità, più o meno vasta, di consumatori: ogni utilizzatore di internet può
essere producer di messaggi inviati a singoli, o a molti. Di fronte alla possibilità di una
comunicazione bidirezionale basata sull’interattività cadono i canoni
della
48
comunicazione tradizionale .
I media digitali raggiungono una dimensione globale grazie alle tecnologie di
rete distribuite ed aperte (internet e web) ad essi applicate, in una relazione tra
tecnologie digitali e cambiamento sociale di tipo dinamico che porta ad una
comunicazione collaborativa49, dove prevale la produzione e lo scambio di messaggi.
48
49
P. Mancini, cit.
A. Delfanti, Cooperazione sociale online, in A. Arvidsson - A. Delfanti, cit., pp. 53 e ss.
34
In questo contesto allora bisogna considerare il peso e l’importanza che hanno
avuto, hanno e avranno nell’ambito di internet e del web, i social networks.
Una rete sociale, o social network (termine usato per la prima volta nel 1954 da
John A. Barnes50), consiste in un qualsiasi gruppo di persone collegate tra loro da
diversi legami, che possono andare dalla conoscenza casuale, ai rapporti di lavoro, ai
vincoli familiari:tutti legami di tipo attivo e diretto. In una parola sociali.
Nel web, invece, il termine social network significa non solo rete di relazioni
sociali ma anche mezzo, intermediario, di comunicazione sociale. Graziealla neutralità
del web chi vuole può interfacciarsi con gli altri partecipando alle reti sociali presenti
sulla piattaforma.
Il fenomeno dei social network nacque negli Stati Uniti e si è sviluppato attorno
a quattro grandi filoni tematici, che rappresentano i principali tipi di relazione sociale
possibili sul web: amoroso, professionale, amicale, di passioni e interessi comuni.
Attualmente, i social network più gettonati sono Facebook, Twitter e MySpace,
che costituiscono le più diffuse reti sociali capaci di consentire ai partecipanti una
comunicazione attiva tra pari (peer-to-peer) su un certo argomento di discussione.
MySpace, ad esempio, le costruisce, su musica indipendente ed incontri, mentre
Facebook, nato con l'obiettivo principale di indagare sulle comunità scolastiche ed
universitarie, è ora diventata una rete che abbraccia trasversalmente tutti gli utenti di
internet e tratta argomenti di qualunque tipo.
3.4. Dalla cooperazione sociale ai social media
Con la diffusione delle reti informatiche e delle tecnologie cresce la
partecipazione degli individui-utenti ai processi di
produzione di contenuti e
informazioni mediante forme di cooperazione comunicativa tra pari che influenzano
tutti i settori di produzione culturale. L’interattività dei servizi in rete favorisce la
50
J.A. Barnes, Class and Commitees in a Norwegian Island Parish, in Human Relations, vol. 7, 1954, p.
39-58.
35
partecipazione degli individui a questa produzione di messaggi in un rapporto paritario
fra utenti (peer production)51.
Grazie alla semplicità di uso delle piattaforme web, tutti possono partecipare a
questa produzione di informazioni e comunicazione utilizzando strumenti come blog
(diari o giornali on line), wiki (software di scrittura collettiva in cui più persone possono
scrivere contemporaneamente, il più famoso è Wikipedia), tagging (che permette di
etichettare un contenuto, foto o testo) e di condivisione di informazioni (come Flickr o
Youtube per la condivisione, rispettivamente, di foto e video). Si passa insomma, da
forme statiche e unidirezionali di comunicazione (broadcasting) al cosiddetto “web
collaborativo” dove tutti gli utenti consumatori partecipano paritariamente anche alla
produzione dei contenuti condivisi. Il pubblico da consumatore passivo si trasforma in
una serie di pubblici attivi che non solo scelgono il prodotto che vogliono “consumare”
ma partecipano alla sua produzione. Arriviamo così al concetto sopra espresso di
prosumers52 con cui si rappresenta un utente non solo fruitore dei contenuti ma creatore
e modificatore degli stessi: contemporaneamente produttore e consumatore53.
Il prosumer, rappresenta un utente che, svincolandosi dal classico ruolo passivo,
assume un ruolo più attivo nel processo di comunicazione che partecipa alle fasi di
creazione, produzione, distribuzione e consumo grazie alla interattività dei media
consentita dalle tecnologie informatiche ed in particolare dal web 2.0 (nel web 2.0 i
prosumer sono definiti esattamente come: “i consumatori che producono contenuti”).
Le attività che attraverso i social network vengono svolte in rete hanno anche
risvolti sociali influenzando la vita delle persone che li utilizzano. Grazie alle relazioni e
ai contatti si favoriscono nuove forme di interazione sociale che arricchiscono la vita
dell’utente consumatore,
51
A. Arvidsson-A. Delfanti, cit.,
Prosumer viene dalla fusione di producer e consumer.
53
A. Arvidsson - A. Delfanti, cit., pp. 129-134.
52
36
“Tra i media digitali vi sono diverse piattaforme chiamate social network sites o
media sociali”54. Essi secondo l’accezione più diffusa sono dei siti web caratterizzati
dalla costruzione e mantenimento di rapporti sociali tra i vari utenti del sito medesimo.
I social media hanno conosciuto uno sviluppo enorme dal 2000 in poi, per il
numero di persone che coinvolgono e che li utilizzano ogni giorno per “relazionarsi” e
condividerne i contenuti. Si pensi, ad esempio, che solo Facebook, il più famoso social
media nato nel 2004 dall’idea di Mark Zuckerberg, a fine 2012 ha raggiunto il miliardo
di utenti. Le piattaforme, però, non sono sempre generaliste come Facebook ma spesso
vengono utilizzate per “collegare” utenti
specifici, o realizzare gruppi anche
professionali (per es. Linkedin) o per consentire la diffusione di notizie e informazioni
in tempo reale (come per es. Twitter) oppure per aderire a comunità tematiche (si pensi
a Flickr che permette lo scambio di foto).
I social media sono diventati molto popolari perché permettono alla gente di
connettersi on line con il mondo, stabilendo relazioni di tipo personale o lavorativo. Con
i social media si tende a realizzare, perciò, una rete di contatti condividendone i
contenuti e i profili.
Wikipedia, uno dei più famosi social media, li definisce in questo modo: “Social
Media è un termine generico che indica tecnologie e pratiche on line che gli utenti
adottano per condividere contenuti testuali, immagini, video e audio. I social media
rappresentano fondamentalmente un cambiamento nel modo in cui la gente apprende,
legge e condivide informazioni e contenuti”55.
In apertura si diceva che con i social media si è arrivati ad un modello di
comunicazione in cui il protagonista è lo stesso utente che è contemporaneamente
produttore di contenuti e consumatore dei prodotti dagli altri utenti. Alla luce delle
considerazioni sopra espresse è, però, impensabile, che lo sviluppo repentino e
dirompente dei social media, non influisca in maniera profonda anche sugli altri media
54
55
Ibidem, p. 98
Wikipedia, voce Social media.
37
e, in modo particolare, sull’insieme dei media più consolidati e più vecchi che hanno
dovuto adeguarsi alle nuove modalità comunicative.
3.5. Differenze tra social media e media tradizionali
Grazie alla possibilità di utilizzare strumenti informatici a basso costo e di facile
comprensione, i social media prevedono anche una diversità sostanziale rispetto ai
media industriali tradizionali (o broadcasting o mass media) come giornali, televisione
e cinema. Infatti, questi, basati sulla diffusione di onde radio, richiedono cospicui
investimenti finanziari e risorse lavorative non indifferenti: professionalità elevate e
tecnicamente preparate (si pensi a registi, cameramen, gli show men ecc). I social
media, viceversa, sono strumenti relativamente a basso costo che permettono a chiunque
(che abbia un po’ di dimestichezza con il mezzo informatico) di pubblicare ed avere
accesso alle informazioni. Una caratteristica che accomuna, invece, social media e
media industriali è la capacità di ottenere un'audience sia vasta che ridotta; sia il post di
un blog che una trasmissione televisiva possono raggiungere milioni di persone oppure
nessuno.
Schematizzando i parametri che evidenziano le differenze tra i due tipi di media
possono riassumersi come segue.
Accessibilità: i mezzi di produzione dei media industriali sono generalmente di
proprietà privata o statale; gli strumenti dei social media sono disponibili da ciascuno a
un costo contenuto o gratuitamente.
Fruibilità: la produzione di mezzi industriali richiede in genere formazione e
competenze specialistiche; i social media invece no, o in qualche caso reinventano le
competenze, cosicché ciascuno può gestire i mezzi di produzione.
Velocità: il tempo che intercorre tra le informazioni prodotte dai media
industriali può essere lungo (giorni, settimane o anche mesi) in confronto al tempo
impiegato dai social media (che hanno la possibilità tecnica di reagire istantaneamente,
solo la mancanza di reattività dei partecipanti può comportare ritardi). Poiché ormai
38
anche i media industriali si avvalgono degli strumenti dei social media, questo potrebbe
non essere più un tratto distintivo.
Permanenza: una volta creati, i mezzi industriali non possono essere più
modificati (una volta stampato e distribuito, l'articolo di una rivista non può più ricevere
modifiche), mentre i social media possono essere cambiati quasi istantaneamente
mediante commenti e modifiche.
Infine, un'ulteriore distinzione riguarda la responsabilità. I media industriali
sono tenuti a rendere conto alla società della qualità dei contenuti e dei risultati delle
loro attività in termini di interesse pubblico, responsabilità sociale ed indipendenza
editoriale. I social media non hanno altrettante responsabilità in merito alle loro attività
editoriali56.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte e della preponderante diffusione dei
“social media”, quali mezzi di comunicazione e delle loro peculiarità e differenze
rispetto ai mezzi intermediari tradizionali, riusciranno essi – i social - a influenzare il
modo di vivere, il sociale, come hanno fatto i sistemi tradizionali, nel corso degli anni e
dei secoli, fin dalle origini della comunicazione come mezzo di relazione?
56
C. Marletti, voce Comunicazione, in Enciclopedia del Novecento, III Supplemento, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2008.
39
4. COMUNICAZIONE, MEDIA E SOCIETÀ: EFFETTI E RUOLO DELLA
COMUNICAZIONE
4.1. Socialità e comunicazione
“Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria
solitudine, come comunicare con altri”: è il 1939 quando Cesare Pavese annota su un
diario57 l’intuizione che la fede religiosa degli uomini nasca dal loro bisogno di socialità
e di relazioni. Settant’anni dopo, nel 2011, Sherry Turkle, del Massachussets Institute of
Technology,
pubblica
un
saggio
significativamente
intitolato
“Alone
Together”(“insieme ma soli”)58per descrivere un mondo in cui ci aspetta molto più dalla
tecnologia che non dall’Altro, e dove ricevere un messaggio sostituisce il calore di un
abbraccio. In mezzo, settant’anni di trasformazioni tecnologiche, culturali e sociali
hanno profondamente innovato le relazioni fra le persone, il loro modo di interagire e di
esprimersi, gli artefatti comunicativi e l’uso che se ne può fare, ma anche i modelli
teorici che hanno cercato di spiegarli ed interpretarli.
Come intuito anche da Pavese, l’inscindibile binomio fra socialità e
comunicazione nasce dalla natura stessa dell’uomo, dalla sua necessità di relazionarsi
con altri uomini e con il contesto che lo circonda, di scambiare saperi e informazioni. La
comunicazione struttura la società, il sistema di valori e di interazioni dinamiche su cui
essa si regge, la diffusione di idee, credenze e culture (funzione sociale), e lo fa
servendosi di mezzi, cioè di artefatti, di conoscenze e di tecnologie umane e
spirituali59utili a veicolare e condividere quel patrimonio di contenuti.
57
C. Pavese, Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950), Einaudi, Torino 1968, p. 142.
S. Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli
altri, Codice Edizioni, Torino 2012.
59
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967.
58
40
Mezzi e tecnologie influenzano, così, in modo determinante la socialità delle
persone, il loro modo di relazionarsi ed interagire, ed anche di sentirsi parte di una
stessa comunità di valori e di interessi. Zygmunt Bauman si è incaricato di ricordarci
come, agli albori della nozione di “società”, vi fosse “un’idea di vicinanza, prossimità,
aggregazione, un certo grado di intimità o di reciproco legame”60. La qualità e quantità
delle comunicazioni, dei mezzi attraverso le quali esse avvengono e sono rese possibili,
dei codici e dei canali che rendono intellegibili i messaggi scambiati fra le persone,
modificano quei legami e quel sentimento di comunanza, sostituendo ai vincoli
primordiali della famiglia, del villaggio o della tribù (cioè di una prossimità fisica
“immediata”) quelli di un gruppo più ampio e composito, legato da relazioni
comunicative in grado di costituire una prossimità “mediata”, in cui persone fisicamente
distanti possano sentirsi solidali e partecipi di una stessa identità e missione.
La comunicazione assume, quindi, anche il ruolo di “costruire” la società, cioè di
sintetizzare ed esplicitare i legami (culturali, economici, politici, religiosi…) attraverso i
quali un gruppo di persone si ritrova a condividere uno stesso orizzonte di identità e di
interessi. E’ opinione comune, ad esempio, che, nel processo di unificazione nazionale
seguito alla proclamazione del Regno d’Italia (quando non più del 10% della
popolazione era italofono)61, fondamentale sia stato il processo di unificazione
linguistica, condotto non soltanto attraverso l’opera di alfabetizzazione della scuola, ma
anche tramite la pubblica amministrazione (che costruì ed impose un suo caratteristico
linguaggio burocratico nazionale), la leva militare (che costringeva uomini di diverse
provenienze a comunicare in una lingua comune), e, nel XX secolo, la radiotelevisione
di Stato, capace, soprattutto nel secondo dopoguerra, di proporre e veicolare modelli
culturali cosiddetti “nazionalpopolari”.In questo modo, la condivisione di uno stesso
codice (la lingua italiana) ha permesso di comunicare, diffondere e condividere un
patrimonio di valori e di ideali fondativi di un’identità nazionale, costituendo un potente
fattore di integrazione ed omogeneizzazione sociale e culturale.
60
Z. Bauman, La società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 26.
Sull’argomento, si vedano gli atti del convegno su La lingua italiana fattore portante dell’identità
nazionale, svoltosi al Quirinale il 21 febbraio 2011 e pubblicati sul sito della Presidenza della Repubblica,
ed in particolare gli interventi di Tullio De Mauro (L’Italia linguistica dall’Unità all’età della
Repubblica) e di Nicoletta Maraschio (Passato, presente e futuro della lingua nazionale).
61
41
Esiste, quindi, un rapporto strettissimo fra l’uomo, il suo bisogno di socialità e
comunicazione, le tecnologie ad esso funzionali e l’organizzazione politicoamministrativa che ne regola la vita. Adam Arvidsson62 ricorda che le relazioni sociali
sono sempre state influenzate dalle tecnologie mediatiche: le prime organizzazioni
politiche, come le città-stato dell’antichità, sono coeve alla nascita della scrittura, cioè
di una tecnologia in grado di attraversare le distanze e conservare le comunicazioni;
l’invenzione della stampa ha trasformato profondamente le forme di produzione e
trasmissione della cultura e della conoscenza, mitigando le variabili di spazio e di
tempo; ed oggi le moderne organizzazioni burocratiche non potrebbero prescindere da
efficienti e codificati sistemi di comunicazione per la produzione, conservazione e
circolazione dei documenti.
D’altra parte, vale per le pubbliche amministrazioni quel che Norman R.
Augustine, già manager del colosso aeronautico Lockheed e uomo di governo
statunitense, riferiva al mondo economico quando ricordava che esistono solo due tipi di
imprese: quelle che cambiano e quelle che scompaiono63. Una lezione che impone
anche alle burocrazie di adeguarsi rapidamente alle trasformazioni tecnologiche e
culturali della comunicazione per poter mantenere il necessario grado di sintonia con la
società che amministrano e coglierne i bisogni, le trasformazioni, le aspettative.
4.2. Media e società: dal medium alla piattaforma
Negli studi sulla sociologia delle comunicazioni di massa, l’attenzione si è a
lungo concentrata principalmente proprio sul medium. Secondo una fortunata
definizione di Fausto Colombo64, i media sono apparati sociotecnici che svolgono una
funzione di mediazione nella comunicazione fra soggetti: non mere tecnologie, bensì
“sistemi” complessi che si qualificano sulla base dell’uso sociale che di quelle
tecnologie fanno le persone, sviluppando know how e competenze specifiche.
62
A. Arvidsson, Relazioni sociali e identità in rete, in A. Arvidsson - A. Delfanti, Introduzione ai media
digitali, il Mulino, Bologna 2013, pp. 96 e ss.
63
La frase viene spesso attribuita anche al massimo esperto del marketing management, Philip Kotler, che
l’ha spesso ripresa nelle sue opere. P. Kotler - W.G. Scott, Il marketing secondo Kotler. Come creare,
sviluppare e dominare i mercati, Il Sole 24Ore, Milano 2008, p. 3.
64
F. Colombo, Introduzione allo studio dei media: i mezzi di comunicazione fra tecnologia e cultura,
Carocci, Roma 2003.
42
Sulla base delle caratteristiche di quei media e delle relazioni sociali da essi
assistite, nel tempo sono state proposte varie distinzioni, come quella fra comunicazione
interpersonale e comunicazione di massa, oppure fra personal media e mass media a
seconda che il mezzo fosse funzionale ad una comunicazione fra singoli individui (es.
telefono) o verso una pluralità collettiva potenzialmente indistinta (es. tv); tutte
categorie e dicotomie le quali – oltre ad essere fondate su una identità e tipicità del
medium che, come vedremo, nel tempo è venuta meno fin quasi a dissolversi –
presupponevano una netta separazione fra spazio pubblico e spazio privato della
comunicazione.
In una logica one to many, come quella tipica del broadcasting, le teorie della
comunicazione di massa si sono soffermate principalmente sul potere di quei media e
sul modo in cui essi influenzavano o determinavano i comportamenti sociali,
categorizzandone gli “effetti” sulla base della loro profondità o persistenza nella società,
ovvero delle dinamiche nelle quali essi maturavano o si producevano65. Giornali, radio,
cinema, tv – pur con le diversità relative alla differenti modalità di formazione,
trasmissione, ricezione e decodificazione dei messaggi – sono stati spesso accomunati
in un giudizio che ne affermava il potere pervasivo e totalizzante, in grado di orientare
in maniera decisiva le percezioni collettive del reale, le loro rappresentazioni, le
ideologie che su quelle percezioni e rappresentazioni venivano fondate e costruite.
In questa visione, il pubblico dei destinatari della comunicazione di massa era
una audience, una platea di fruitori passivi i cui feedback non erano immediatamente
percepibili o decodificabili, ma semmai desumibili in via indiretta e aggregata da
65
Le cosiddette teorie degli effetti, che rappresentano uno dei modi di interpretare la comunicazione,
possono essere raggruppate per aree teoriche omogenee: hypodermic effects th. (considerano i media
come produttori di effetti diretti sugli individui); copycat effects th. (ritengono che i media siano capaci di
attivare dinamiche di imitazione); inoculation th. (secondo cui le audiences mediali si desensibilizzano ai
contenuti mediali a causa dell’esposizione ripetuta agli stessi contenuti); two-step flow th. (secondo cui
vi i mezzi di comunicazione hanno sulla società un’influenza indiretta che avviene attraverso la
mediazione effettuata da opinion makers nelle istituzioni mediali e da opinion leaders nei gruppi sociali);
uses and gratification th. (le audiences “scelgono” da cosa farsi influenzare); cultivation th. (secondo cui
il consumo ripetuto di alcuni contenuti mediali determina la “coltivazione” di attitudini e valori). Per una
ricostruzione storica e sistematica dell’evoluzione teorica, cfr. M. Wolf, Gli effetti sociali dei media,
Bompiani, Milano 1992; e M. Sorice, Sociologia dei mass media, Carocci, Roma 2009.
43
comportamenti collettivi di risposta agli stimolidella comunicazione; una nozione
ancora ben lontana da quella, più recente ed attuale, di pubblico interattivo.
Il potere d’influenza dei media è stato, quindi, letto e vissuto come una variabile
in grado di determinare in maniera significativa anche i comportamenti dei decisori
della sfera pubblica, dei policy makers e, quindi, anche delle amministrazioni: si pensi
alle teorie dell’agenda setting elaborate negli anni ’70 da McCombs e Shaw66, che
evidenziavano proprio come i media, attraverso la graduazione di salienza delle notizie
e dei temi, potessero determinare le priorità della politica ed orientarne le scelte; e, più
di recente, all’influenza che nel nostro Paese la cosiddetta “mediatizzazione della
paura” e la conseguente “percezione soggettiva d’insicurezza”67 hanno avuto
nell’elaborazione delle politiche in materia di immigrazione e sicurezza pubblica.
Questo schema interpretativo, che ha sostanzialmente conservato una sua
validità ancora fino agli anni Novanta dello scorso secolo, è stato tuttavia messo
radicalmente in discussione dalla diffusione delle tecnologie digitali e dal conseguente
affermarsi di modalità di utilizzo sociale degli apparati completamente nuove,
contraddistinte da un elevato livello di connettività ed interattività. Il passaggio dalla
logica del broadcasting a quella del narrowcasting, del webcasting e, poi, del
socialcasting si è accompagnato ad un radicale cambiamento delle forme di
comunicazione associate a ciascun media, caratterizzato dall’osmosi delle tecnologie,
dall’ibridazione e multimedialità dei prodotti e dal progressivo venir meno della
dialettica pubblico-privato.
Alcuni esempi rendono immediatamente percepibile la portata del cambiamento.
La tv, nata per produrre un intrattenimento per immagini, ha conosciuto una stagione in
cui è diventata il veicolo anche per la diffusione di messaggi di testo (televideo,
teletext); poi, grazie soprattutto alle tv via satellite e alle tecnologie digitali on demand,
si è evoluta in strumento interattivo, offrendo la possibilità all’utente di scegliere o
66
M.E. McCombs – D.L. Shaw, The Agenda-Setting Function of Mass Media, in Public Opinion
Quarterly, vol. 36/2, Oxford University Press, Oxford 1972, pp. 176-187.
67
Fondamentali, in tal senso, le elaborazioni condotte a partire dagli anni ’90 da Marzio Barbagli con
particolare riguardo alla sicurezza urbana ed all’integrazione degli stranieri in Italia. Cfr. M. Barbagli,
Reati, vittime, insicurezza dei cittadini, Istat, Roma 1998.
44
personalizzare il contenuto delle trasmissioni (il film in lingua originale o doppiato, la
corsa automobilistica ripresa dalla camera car di un pilota piuttosto che un altro, la casa
del Grande Fratello vista dalla telecamera della cucina invece da quella della camera da
letto, ecc.). Proprio il discusso ma fortunato format televisivo del Big Brother,
programma cross-mediale multipiattaforma68,ha rappresentato un punto di svolta nella
produzione d’intrattenimento televisivo, introducendo (almeno in apparenza) elementi
di forte interattività fra il pubblico ed il contenuto narrato ed inaugurando così la
stagione feconda, ancorché eticamente dubbia, dei reality show.
Di converso, il telefono, nato come strumento di comunicazione interpersonale
one-to-one fra due soggetti, collegati ad una postazione fissa destinata a servire tutta la
famiglia o l’azienda, ha progressivamente ampliato le sue potenzialità: è diventato
mobile, quindi personale; è diventato strumento per comunicazioni non più solo vocali
ma anche testuali (i messaggi sms, frutto della tecnologia short message systems) e per
immagini (videotelefonia); ha consentito comunicazioni di gruppo e non più soltanto
uno ad uno; si è ibridato con la tecnologia dei computer consentendo operazioni prima
effettuabili solo dal pc (il collegamento ad internet, la fruizione di contenuti
multimediali), infine è diventato smart sostituendosi, per molte funzioni, ad un
computer portatile.
Ne deriva che i medesimi contenuti (l’esempio classico è quello della
telecronaca delle partite di calcio) non sono più appannaggio esclusivo di un artefatto o
una tecnologia, in questo caso la tv, ma possono oggi essere fruiti attraverso una
pluralità di altri mezzi (personal computer, smartphone, tablet) e altre tecnologie
(digitale terrestre, digitale satellitare, webstreaming…); allo stesso modo una tecnologia
come il timesharing, nata come escamotage per favorire la condivisione fra più utenti
delle limitate risorse hardware dei primi computer,ha assistito lo sviluppo di due diverse
e fortunate modalità di comunicazione, l’e-mail e la chat, di cui una ormai largamente
sostitutiva della posta cartacea, e l’altra (la chat) che dimostra come la stessa tecnologia
possa essere utilizzata per un uso privato (la conversazione 1-on-1) o un uso più
68
Cfr. M. Sorice, Il format come prodotto culturale, in M. Sorice (a cura di), Programmi in scatola. Il
format nell’età globale, con prefazione di G. Simonelli, Effatà Editrice, Torino 2005, pp. 5-18.
45
pubblico e/o comunitario (chatgroup), in cui il computer, non più soltanto “personal”,
diventa strumento di formazione, aggregazione ed espressione di identità collettive (le
communities).
Gli esempi potrebbero continuare a lungo (libri ed e-book, quotidiani cartacei e
in versione on line, radio analogiche e digitali…), e servirebbero solo a confermare
ulteriormente un punto, cioè come il progresso delle tecnologie e la loro continua
contaminazione ed ibridazione abbiano da un lato snaturato l’identità originaria del
medium, dall’altro trasformato anche la natura stessa delle forme comunicative,
espressive ed artistiche che a quei media affidavano la loro diffusione: anche qui, basti
l’esempio di come sia cambiata la musica a seguito di una linea di innovazione
tecnologica che dal grammofono e dal giradischi ha portato prima al mangiadischi
portatile, poi al walkman, infine all’iPod, ciascuno di questi a suo modo rappresentativo
di un’epoca ed anche di una cultura69.
Una delle conseguenze di questo processo di trasformazione è che ciascun
medium non identifica più un artefatto tecnologico, bensì una forma di comunicazione:
ritornando all’esempio della partita di calcio, quando vi assistiamo attraverso uno
smartphone non stiamo usando la tv, ma ne stiamo usufruendo come se fosse la tv, cioè
secondo una modalità di produzione e narrazione tipica di quella forma comunicativa
che è stata ed è la tv. Ciò ha spinto taluni autori (ad esempio Davide Bennato)70 a
parlare di smaterializzazione dei media, in quanto l’elemento determinante della
comunicazione non è più il mezzo in quanto tale, bensì il processo mediale o la forma di
69
La moderna industria discografica offre una potente esemplificazione di come i mezzi ed i supporti
tecnologici, modificando tempi, luoghi e modalità di fruizione dell’espressione artistica, ne trasformino
anche i contenuti, i generi e la narrazione. Particolarmente significativo, in quest’ottica, è il caso dei long
playing in vinile, che negli anni ’70, momento di massimo splendore del cosiddetto progressive rock, si
offrirono come supporto ideale per i concept album, cioè un prodotto discografico costituito da più brani
musicali, fra loro distinti ma collegati allo sviluppo di una storia o di un tema unici: fra le massime
espressioni di questa tendenza, gli album Tommy (Who, 1969), The Lamb Lies Down on Broadway
(Genesis, 1974), The Dark Side of The Moon (1973) e The Wall (1980), dei Pink Floyd. Con la fine
dell’era del vinile e l’avvento dei supporti digitali, che fecero venir meno il tradizionale ascolto in
sequenza dei brani, il concept album non a caso scomparve per lasciare il posto ad un’altra modalità
preferenziale di assemblaggio, quella della compilation; a sua volta superata e progressivamente
abbandonata negli anni Duemila con l’affermarsi dei formati digitali mp3, il download in rete e le
tecnologie di scambio peer-to-peer.
70
D. Bennato, Sociologia dei media digitali, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 31-32.
46
comunicazione che vi si associa ed è capace di incarnarsi in artefatti e tecnologie
molteplici; da qui l’affermarsi del concetto di piattaforma, cioè di un insieme di servizi
messi insieme da un software che si incorpora in uno o più artefatti.
4.3. Pubblico e privato: dalla separazione ai social media
Altra conseguenza importante del processo di evoluzione dei mezzi e delle
tecnologie di comunicazione è il definitivo superamento delle tradizionali distinzioni fra
personal media e mass media, così come fra spazio pubblico e spazio privato, di cui già
Bauman71 aveva segnalato la progressiva contaminazione. Originariamente, ad esempio,
si era portati a ritenere che il telefono fosse uno strumento di comunicazione
interpersonale, mentre la tv fosse un mezzo di comunicazione di massa: quel che
differenziava i personal media dai mass media, quindi, non era tanto il luogo, domestico
o pubblico, di fruizione della comunicazione ad essi associata, bensì lo “spazio sociale”
al quale essi erano funzionali, a seconda se riguardassero la sfera delle relazioni sociali
estese (la tv) o la dimensione dei legami personali fra i soggetti (il telefono).
Tuttavia, com’è stato osservato72, sarebbe difficile sostenere che la tv sia un
mass medium quando viene collegato ad una Play Station per essere usato come
interfaccia di un videogioco, oppure quando viene usato come schermo per riprodurre
un film in dvd; allo stesso modo, sarebbe arduo sostenere che il telefono sia solo uno
strumento di comunicazione interpersonale quando lo si utilizzi per ascoltare la radio,
navigare in rete o twittare un messaggio che raggiungerà centinaia di followers.
Il superamento della dicotomia pubblico-privato attiene, d’altronde, non solo al
luogo di produzione e fruizione della comunicazione (la mobilità delle nuove
tecnologie73 fa sì che uno stesso contenuto possa essere raggiungibile ed accessibile da
71
“I varchi tra pubblico e privato sono stati forzati, la linea che un tempo demarcava i due spazi è stata
cancellata ed è stato avviato il lungo, inconcludente processo della sua rinegoziazione” (Z. Bauman, cit.,
p. 179). Citando il sociologo francese Alain Ehrenberg (L’individu incertain, Calman-Levy, Parigi 1995),
Bauman in questo caso si riferiva in particolare al fenomeno della crescente esposizione in tv di emozioni,
sentimenti ed ossessioni private, spesso alla ricerca di un’approvazione del vasto pubblico televisivo.
72
D. Bennato, ibidem, p. 27.
73
Già dagli anni ’90 si parla, non a caso, dei nuovi media come “oggetti nomadi” che, in funzione della
loro trasportabilità, sono in grado di ridefinire la dimensione spaziale della vita delle persone. Cfr. la
cosiddetta “teoria della bolla comunicazionale” in P. Flichy, Storia della comunicazione moderna. Sfera
pubblica e dimensione privata, Bologna 1993.
47
casa, dall’automobile, dal luogo di lavoro o da un locale pubblico); ma ancor di più
riguarda la natura della comunicazione e l’uso sociale, o socializzante, che gli individui
fanno delle proprie esperienze.
L’esempio dei blog, dei social network,del citizen journalism, dei siti di
condivisione in rete di recensioni di utenti (es. TripAdvisor), mostrano quanto sia
diventata labile ed impalpabile la linea di demarcazione fra ciò che appartiene alla sfera
intima della persona e ciò che invece viene trasferito in una dimensione pubblica per
essere socializzato con altri e costituire materia di comune riflessione e condivisione. I
più affermati bloggers assurgono al ruolo di opinion makers (e come tali vengono
cercati e coccolati dal marketing politico o economico) proprio sulla base della loro
capacità di generalizzare un punto di vista individuale (un’esperienza, un’opinione,
un’idea) e di offrirlo, senza pretesa di autorità o di supremazia, alla condivisione con
un’ampia platea di soggetti che usano la stessa tecnologia e lo stesso luogo virtuale di
ritrovo e di discussione.
La distinzione fra personal media e mass media, dunque, evapora fino a lasciare
spazio al concetto di social media, con ciò intendendo, in senso stretto, quei mezzi
(prevalentemente nati come piattaforme e siti web) che si basano sulla costruzione e sul
mantenimento di relazioni con altri utenti del servizio; e, in senso più lato, tutte quelle
pratiche e tecnologie on line che, utilizzando le ideologie ed i sistemi del Web 2.0,
consentono la creazione e lo scambio di contenuti generati dagli stessi utenti74.
Questi media rispondono ad una nuova funzione aggregativa e relazionale della
comunicazione, caratterizzata dall’orizzontalità dei processi, dalla produzione diffusa
dei contenuti (si pensi al modello “Wiki”, che valorizza il crowdsourcing e la
valorizzazione dei prodotti dell’intelligenza collettiva) e dall’elevata interattività dei
pubblici di riferimento, sinteticamente simboleggiata dal pollice in alto dell’ “I Like” di
Facebook. Essi modificano il linguaggio (l’uso sempre più diffuso di abbreviazioni ed
emoticons anche nella comunicazione testuale di tutti i giorni), il modo di relazionarsi
74
A. Kaplan - M. Haenlein, Users of the world, unite! The challenges and opportunities of social media,
in Business Horizons, Vol. 53/2010, 1, pp. 59-68.
48
delle persone (Maria Bakardjieva75 parla di “virtual togetherness”, stare insieme
virtuale), il loro sentimento di identità, arrivando persino a ridefinire radicalmente il
contenuto di nozioni antichissime ed universali come quella di “amicizia”, o a
trasformare il modo di vivere una sfera per definizione intimissima come quella della
sessualità76.
Trasferito al campo della politica, questo nuovo modo di intendere la socialità
comunicativa si associa ad una rivisitazione dei concetti di democrazia e di
partecipazione, che tende ad immaginare nella rete una sorta di nuova agorà nel quale
possano trovare spazio forme di esercizio reticolare della sovranità alternative a quella
tradizionale, basata sul modello rappresentativo. Si verrebbero, così, a realizzare le
condizioni per forme di più estesa inclusività ed orizzontalità dei processi decisionali
nella sfera pubblica, con la possibilità per il privato cittadino di intervenirvi in maniera
attiva ed incisiva attraverso il computer pur senza uscire fisicamente dal suo luogo di
vita domestica.
Molteplici sono le critiche che vengono mosse a questa linea di evoluzione: ne
riportiamo solo alcune.La già citata Sherry Turkle, ad esempio, evidenzia le
contraddizioni della società digitale, dove gli individui hanno l’illusione di sentirsi
meno isolati perché costantemente interconnessi con altri, ma dove in realtà smarriscono
ogni possibilità di reale intimità con il loro prossimo e pertanto si condannano ad una
solitudine ancor maggiore (“networked: in intimacy, new solitudes”)77. Una posizione
non isolata, che fa parte di una lunga linea di narrazione sulla perdita del senso di
comunità e di relazioni sociali “calde” (contrapposte alle “intimità fredde” di cui parla
la sociologa israeliana Eva Illouz78) che accompagnerebbe il processo di
modernizzazione e diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione a partire
almeno dalla fine del XIX secolo.
75
M. Bakardijeva, Internet Society. The Internet in Everyday Life, Sage, Londra 2005, pp. 165 e ss.
A. Arvidsson, cit., p. 109.
77
S. Turkle, cit., p. 182 e ss.
78
E. Illouz, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, Feltrinelli, Milano 2007.
76
49
Dal canto suo, Andrew Keen79 parla di “culto del dilettante” per stigmatizzare la
crescita costante delle persone che, pur non avendo nessuna competenza specifica, sul
web si improvvisano produttori di contenuti giornalistici e culturali di diversa natura,
portando ad un drammatico abbassamento dei livelli di attendibilità dei materiali
pubblicati in rete e favorendo nella società il diffondersi del convincimento secondo cui
non occorra una specifica ed approfondita professionalità per pronunciarsi su argomenti
anche di particolare complessità. Secondo Keen, “ciò che il Web 2.0 sta generando non
è un’analisi approfondita ma un punto di vista superficiale sul mondo che ci circonda
(…) I decantati contenuti user-generated stanno decimando i ranghi degli intermediari
culturali, scalzati da una folla di blogger dilettanti, critici improvvisati, registi inesperti
e discografici fai-da-te”80. Evidenti anche i rischi nel campo della politica, dove il culto
del dilettante rischia di promuovere una classe dirigente improvvisata e priva del
necessario retroterra di esperienze e competenze.
Terzo motivo di critica ricorrente all’evoluzione dei media sociali è quello
relativo alla grave compromissione della privacy delle persone, con la progressiva
rinuncia degli individui alla propria riservatezza ed intimità; una rinuncia che, talvolta,
appare come il prezzo da pagare forzatamente per accedere alle piattaforme e poter,
quindi, partecipare a pieno titolo alle forme di socialità in rete. Difficile contraddire quel
manager di Google81 secondo cui “se fate qualcosa che non vorreste che altri sappiano
che fate, prima di tutto forse non dovreste farla”, ma resta il fatto che alcuni nodi
problematici della tutela della riservatezza (ad esempio quello della persistenza nel
tempo delle informazioni personale in rete e del cosiddetto “diritto all’oblio”82) restano,
tuttora, irrisolti.
79
A. Keen, Dilettanti.com. Come la rivoluzione del Web 2.0 sta distruggendo la nostra cultura e la
nostra economia, DeAgostini, Novara 2009.
80
Ibidem, pp. 36-37.
81
La frase citata è di Eric Schmidt, executive chairman di Google, che la pronunciò in occasione di
un’intervista trasmessa il 3 dicembre 2009 all’interno del documentario della CNBC “Inside the Mind of
Google”, di Maria Bartiromo.
82
Si vedano F. Pizzetti (a cura di), Il caso del diritto all’oblio, Giappichelli, Torino 2013; T.E. Frosini, Il
diritto all’oblio e la libertà informatica(commento alla sentenza Cass. Civ. 5 aprile 2012 n. 5525), in Il
diritto dell’informazione e dell’informatica, Giuffré, n. 4/2012, pp. 911 e ss.; V. Mayer Schönberger,
Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale, Egea, Milano 2010; S. Sbaffi, L’identità digitale tra diritto
all’oblio e cronaca, in European Journal Observatory, 14 ottobre 2013.
50
5. LA COMUNICAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
EVOLUZIONE STORICA E NORMATIVA
5.1. Le prime forme di comunicazione: dallo Stato liberale al periodo fascista
E’ opinione diffusa e radicata che la pubblica amministrazione italiana, per
consolidata tradizione, non abbia avuto la capacità di comunicare83. L’amministrazione
dello Stato liberale, configurata come Stato-soggetto, viveva in una logica
autoreferenziale e non si curava dei rapporti con i cittadini, verso i quali venivano
piuttosto riversate informazioni, al di fuori della logica della relazionalità. Non a caso la
produzione di norme in materia di comunicazione pubblica è iniziata soltanto a partire
dagli anni Ottanta del secolo scorso, per poi rapidamente svilupparsi nel decennio
successivo.
Ancora agli inizi del Novecento, lo Stato è definito un “comunicatore assente”84:
in virtù della ridotta partecipazione politica e della conseguente concentrazione dei
diritti politici in capo a pochi, lo Stato non ha bisogno di spiegare il suo operato ai
cittadini-sudditi e si limita a effettuare le forme obbligatorie di informazione
(pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, sul Foglio degli annunzi legali). La cultura del
“segreto” continua a prevalere, confermando e perpetuando l’ottocentesca priorità dello
Stato sulla persona. La situazione della comunicazione non cambia neppure negli anni
successivi,
quando
occasioni
di
mutamento
potrebbero
essere
rappresentate
dall’avvenuta espansione dei servizi pubblici (è del 1903 la legge che prevede la nascita
delle aziende municipalizzate e di pochi anni dopo la costituzione della prima azienda di
Stato nel settore dei servizi, le Ferrovie, seguita da Poste e Monopoli), correlata a un
crescente senso di unità nazionale, in certo qual modo rafforzato dalla partecipazione al
primo conflitto mondiale: in tale periodo lo Stato è significativamente definito
83
Per tutti, G. De Rita, Stato-soggetto e Stato-funzione, in S. Rolando (a cura di), Teoria e Tecniche della
comunicazione pubblica, Rizzoli Etas, Milano 2011, pp. 8-9.
84
Così lo definiscono S. Sepe - E. Crobe, Comunicazione è cittadinanza. Appunti su una disciplina in
evoluzione, in corso di stampa presso LUISS University press, p. 80.
51
“comunicatore latente”85, in quanto la comunicazione, di cui perdura l’assenza, sarebbe
adesso necessaria rispetto quantomeno ai servizi offerti ai cittadini.
Il periodo fascista è visto come un punto di radicale svolta, poiché la
comunicazione istituzionale, seppure in una forma “distorta e ‘negata’ nella sua valenza
di servizio” viene utilizzata in modo massiccio dal regime come strumento di
propaganda86. Secondo talune opinioni, è da riconoscere una sostanziale continuità nel
rapporto Stato-cittadino tra regime liberale e regime fascista, con analogie sul piano
giuridico e amministrativo: lo Stato fascista si edifica, infatti, sugli stessi principi dello
Stato liberale, risalenti allo Statuto albertino del 1848, di “sicura caratterizzazione
autoritaria”87 e conferma il diaframma tra istituzioni e società. Anche chi sostiene tali
opinioni88, tuttavia, riconosce che la comunicazione rappresenta l’elemento di
discontinuità tra i due regimi: pur senza poter affermare che la comunicazione nasca con
il Ministero della Cultura Popolare, il fascismo ha individuato alcuni elementi
fondamentali dell’atto comunicativo. I destinatari sono tutti cittadini e non ristrette
categorie di persone, i nuovi mezzi di comunicazione (radio, cinema) vengono
ampiamente utilizzati, assieme a un corredo di simboli e atteggiamenti rituali.
Si tratta peraltro, come è stato notato89, di un’attività comunicativa volta non a
promuovere o migliorare il rapporto con gli utenti, ma soltanto a dare la migliore
possibile immagine del regime.
5.2. Le previsioni della Carta costituzionale
Nei primi decenni repubblicani l’attività di comunicazione si sviluppa in modo
lento e occasionale. Si ritiene che la scelta dei governi repubblicani “di tenere bassa la
85
S. Sepe - E. Crobe, ibidem, p. 81.
S. Sepe - E. Crobe, ibidem, pp.75 e 80.
87
Si veda S. Rolando, Evoluzione storica e perimetro disciplinare, in S. Rolando (a cura di), Teoria e
Tecniche della comunicazione pubblica, ed. 2001, p. 13 e ss., il quale a sua volta riprende le teorie di G.
Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Giuffré, Milano1976.
88
Circa il rapporto tra Stato liberale e Stato fascista si veda, con diversità di prospettiva, S. Cassese, Lo
Stato fascista, Il Mulino, Bologna 2010; U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana, Il
Mulino,Bologna 1989, pp. 565 e ss.; L. Ferrara, Cesure e continuità nelle vicende dello Stato italiano. In
particolare, il corporativismo fascista e quello cattolico, in Istituzioni del federalismo, 2011, fasc. IV, pp.
235 e ss.
89
P. Mancini, Manuale di comunicazione pubblica, Laterza, Bari 2008, pp. 113 e ss.
86
52
soglia della comunicazione istituzionale” sia una conseguenza dello “spettro del
‘minculpop’ ”, dell’ “uso manipolativo dell’informazione di Stato durante il ventennio
fascista”90. Ciò sarebbe confermato dal fatto che nella Costituzione non vi sono norme
che disciplinano la comunicazione, tanto che è stato detto che “la sensazione finale è
che tra il diritto alla comunicazione e la costituzione repubblicana si debba parlare di un
incontro mancato”91.
Tuttavia, secondo la migliore dottrina costituzionalistica, l’art. 21 Cost.,
dedicato alla libertà di manifestazione del pensiero, si riferisce, stando almeno a una
lettura di stampo interpretativo-evolutivo, non soltanto al diritto all’informazione inteso
come diritto attivo a esprimere il proprio pensiero e le proprie idee, ma anche alla sua
accezione passiva, intesa come libertà di accesso alle fonti e cioè diritto a informarsi e a
essere informati92.
Inoltre, vi sono altri articoli della Costituzione che pongono, almeno nelle loro
potenzialità, le basi per una sostanziale svolta. Il riferimento è in primo luogo
all’articolo 2, con il quale, è stato detto, “si ridisegna – almeno sulla carta – il baricentro
dello Stato, il suo ruolo, la sua configurazione”93. L’art. 2, nel riconoscere i diritti
inviolabili dell’uomo, “rovescia l’ottocentesca priorità dello Stato (recepita e
potenziata dal Fascismo) e identifica nella persona umana il valore-base del sistema
positivo, destinato ad operare non solo nel rapporto fra Stato e singolo, ma anche nella
determinazione dei modi e dei fini dell’articolazione democratica cui si ispira
l’organizzazione dei pubblici poteri”94. Nell’art. 2 è in sostanza contenuto un principio
che viene definito rivoluzionario e su cui verrà negli anni a venire costruita la
comunicazione istituzionale.
90
In tal senso, S. Sepe - E. Crobe, cit., p. 76.
S. Sepe - E. Crobe, ibidem, p. 76.
92
R. Zaccaria, Diritto dell'informazione e della comunicazione, Cedam, Padova 2002, in particolare pp.
55 e ss.; L. Paladin (a cura di), La libertà di informazione, Utet, Torino 1979, pp. 4 e ss.
93
In questo senso, S. Rolando, cit., pp. 12-13.
94
Si veda sempre S. Rolando, ibidem, ed. 2001, pp. 12-13, che riporta le parole di G. Amato, Individuo e
autorità, cit.
91
53
Va ricordato tuttavia anche l’art. 98, che, nell’affermare che “i pubblici
impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” e quindi dei cittadini, fa “emergere
un nuovo (possibile) ruolo della comunicazione nel settore pubblico”95.
5.3. Dalla Costituzione alle prime normative degli anni Ottanta
I principi affermati dalla Costituzione stentano nell’immediato a trovare concreta
applicazione. Fino ai primi anni Settanta l’amministrazione pubblica continua a non
preoccuparsi di produrre e far circolare i propri messaggi. Permane la cultura del segreto
di Stato e, nonostante il terrorismo e la crisi della finanza pubblica che potrebbero
indurre a una maggiore coesione, l’Italia non riesce a costruire un rapporto di inclusione
dei cittadini nel circuito conoscitivo della P.A. Per talune delle massime istituzioni,
come il Parlamento e il Governo, la funzione di comunicazione è assunta dai partiti e
dai singoli uomini politici, che però, ancora una volta e in continuità con il recente
passato, agiscono secondo propri fini e quindi soprattutto in funzione persuasoria96.
In realtà negli anni Cinquanta e Sessanta alcune aperture verso un nuovo assetto
dei rapporti tra Stato e cittadini sono state tentate, anche se con risvolti operativi di
scarsa pregnanza. Nel testo unico del 1957 sugli impiegati civili dello Stato è inserita
una norma, l’art. 13, che meraviglia per la sua modernità e che recita:“Nei rapporti con
il pubblico, il comportamento dell’impiegato deve essere tale da stabilire completa
fiducia e sincera collaborazione tra i cittadini e l’Amministrazione”. La norma sviluppa
un filone di pensiero avviato pochi anni prima da una circolare del 1951, con cui De
Gasperi sottolineava la necessità di interventi immediati per eliminare il distacco Statoamministrati, e successivamente sviluppatosi con diversificate iniziative. Tra queste si
possono ricordare l’istituzione di una sorta di ufficio informazioni al Ministero
dell’Agricoltura da parte dell’allora Ministro Amintore Fanfani, l’approvazione nel
1954 da parte del Consiglio dei Ministri, presieduto da Scelba, di una direttiva per
l’istituzione presso ogni Ministero di “appositi uffici di informazione” e, infine, la
proposta – che tuttavia non ebbe seguito – formulata dalla Presidenza del Consiglio nel
95
S. Sepe - E. Crobe, cit., p. 76.
Così P. Mancini, cit., p. 114, il quale sottolinea come in questo periodo l’attenzione da parte
dell’amministrazione verso i bisogni e le richieste avanzati dai cittadini fruitori continua a essere minima.
96
54
1964 per l’istituzione presso ogni Prefettura di un ufficio provinciale di relazioni
pubbliche, per fornire informazioni, ricevere domande e consegnare documentazione ai
cittadini. La proposta era stata preceduta dalle esperienze di alcune Prefetture, in
particolare quelle di Vicenza e Napoli, volte alla costituzione di specifiche strutture
informative97.
Dagli anni Settanta comincia comunque un lenta ma progressiva presa di
coscienza del sistema di diritti/doveri che collega P.A. e cittadini98. E’ stato detto che in
questo periodo si afferma un modello “informativo a senso unico”, con “una certa
differenziazione tra l’identità amministrativa e l’identità politica dell’istituzione”99.
Iniziano a essere introdotte, in quasi tutti gli Statuti delle Regioni da poco
costituite, le prime disposizioni generali e di principio a favore dell’accesso,
dell’informazione e della partecipazione dei cittadini rispetto all’attività degli enti.
Sono degli anni di poco successivi quelli che possono qualificarsi come i primi
interventi normativi statali in materia di comunicazione: la legge 25 febbraio 1987, n.
67, sulle imprese editrici e le provvidenze per l’editoria e la legge 6 agosto 1990, n. 223,
in tema di disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato. La legge 67, che in
parte riprende la precedente legge sull’editoria n. 416/81, introduce specifici obblighi a
carico delle amministrazioni relativi ad attività di carattere pubblicitario (istituzione di
un apposito capitolo di bilancio per le spese pubblicitarie, obbligo di destinare una
percentuale delle spese alla pubblicità su quotidiani e periodici, obbligo per alcuni enti
di maggiori dimensioni di pubblicare un estratto del bilancio), che hanno rilevanti
risvolti comunicativi. La legge n. 223 esprime il principio del pluralismo
dell’informazione e quello della completezza, obiettività e imparzialità della stessa100.
97
Su questi temi, si veda S. Sepe - E. Crobe, cit., pp. 84 e ss.
Una sintetica ma efficace panoramica sulle disposizioni normative che, in tema di comunicazione, si
sono succedute dagli anni Settanta alla legge 150/2000, è offerta da P. Marsocci, La disciplina
dell’attività di comunicazione, in G. Arena (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche
amministrazioni, Maggioli, Rimini 2001, pp. 103 e ss.
99
La definizione è di P. Mancini, cit., pp. 114-115.
100
Si vedano, per la legge 67/’87, le osservazioni di S. Tamborini, Basi normative, in S. Rolando (a cura
di), cit., ed. 2001, pp. 59-61 e, per la legge 223/’90, quelle di F. Cafaggi, Le regole della comunicazione.
Spunti di riflessione in merito alla comunicazione delle associazioni, in G. Arena (a cura di), La
comunicazione di interesse generale, Il Mulino, Bologna 1995.
98
55
5.4. Le riforme degli anni Novanta
Con gli anni Novanta si entra nella fase definita di “‘comunicazione
bidirezionale’ […] in cui il cittadino è percepito come il soggetto attivo del processo di
comunicazione”101. Il decennio si caratterizza per una serie di innovazioni normative
che perseguono lo scopo di trasformare l’amministrazione italiana in una “casa di
vetro”102 dove tutto è visibile e chiaro, in contrapposizione alla precedente tradizione
dei segreti e dei c.d. “misteri” di Stato. Si tratta di processi che riguardano, con
inscindibili intrecci, la modernizzazione della P.A. e la riforma della comunicazione
istituzionale. Negli stessi anni si raggiunge la consapevolezza che la comunicazione è
una “risorsa strategica per i diritti di cittadinanza”103.
Prime tappe per il passaggio dalla segretezza alla trasparenza e alla
partecipazione dei cittadini sono le note leggi 8 giugno 1990, n. 142, sull’ordinamento
degli enti locali e 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo e il diritto di
accesso ai documenti. La legge sulle autonomie locali valorizza gli istituti di
partecipazione della cittadinanza (art. 6), sancisce la pubblicità degli atti amministrativi
e l’accesso alle informazioni da parte dei cittadini (art. 7) e prevede la figura del
difensore civico a garanzia del buon andamento della P.A. e a tutela dei diritti dei
singoli (art. 8). La legge sul procedimento stabilisce i principi di accesso agli atti e di
trasparenza, disciplinandone in modo dettagliato l’esercizio e le procedure di garanzia,
con disposizioni che “rivoluzionarono il modo di agire delle pubbliche amministrazioni,
trasformandolo da ‘autoritativo’ a democratico e partecipativo”104. La legge detta dei
veri e propri principi di comunicazione pubblica, relativi, tra l’altro, alla comunicazione
di avvio del procedimento, all’obbligo di motivazione, alla valutazione della
partecipazione del privato al procedimento.
101
E’ la definizione data da P. Mancini, cit., p. 115.
La nota espressione era stata formulata già negli anni cinquanta da C. Esposito, Riforme
dell’amministrazione e diritti costituzionali dei cittadini, in La Costituzione italiana, saggi, Cedam,
Padova, 1952, p. 257.
103
In proposito, M. Sorice, La comunicazione come risorsa strategica per i diritti di cittadinanza, in
Sistema previdenza, INPS, Roma 1997, nn. 174-175, pp. 262 e ss.
104
Le espressioni sono di S. Sepe - E. Crobe, Comunicazione è cittadinanza, cit., pp. 91-92.
102
56
Ulteriori novità sono introdotte con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29
in materia di pubblico impiego, che prevede la costituzione degli Uffici per le relazioni
con il pubblico - Urp, con lo scopo di rappresentare l’interfaccia tra cittadini e
amministrazione in un’ottica di efficacia ed efficienza della P.A. al servizio degli utenti.
Dalla previsione di tali uffici e dalla determinazione dei loro compiti nasce anche la
prima forma di comunicazione interna alla P.A. e interistituzionale tra diversi soggetti
pubblici. L’importanza degli Urp e il loro carattere di centralità nella comunicazione
esterna e interna degli enti sono ribaditi dalla circolare del Ministro per la Funzione
Pubblica del 27 aprile 1993, n. 17 e dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei
Ministri 11 ottobre 1994.
Nella medesima prospettiva di miglioramento dei rapporti con i cittadini e di
aumento della qualità dei servizi offerti dalle amministrazioni si pongono le Carte dei
servizi pubblici, previste dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 27
gennaio 1994. Le carte costituiscono una sorta di patto tra cittadino e amministrazione
erogatrice di servizi in merito a informazioni, qualità dei servizi, partecipazione, tutela.
Successivamente, le due leggi Bassanini del 1997, la n. 59 e la n. 127, offrono
ulteriori significativi contributi alla riforma della P.A. e alla semplificazione dei rapporti
con i cittadini. La legge n. 59 riconosce la validità del documento informatico e
costituisce importante base per il successivo sviluppo dell’e-government. La legge n.
127 semplifica il sistema delle certificazioni ed estende l’autocertificazione.
Successivamente, con il decreto legislativo 112 del 1998, emanato in virtù della delega
contenuta nelle leggi Bassanini, viene creato lo Sportello unico per le attività produttive,
con il compito di snellire tutte le pratiche per l’avvio di un’impresa, concentrandole in
un unico ufficio.
Un ulteriore elemento di svolta nei rapporti tra cittadini e pubblici poteri è
rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500 del
1999, con la quale è riconosciuto il diritto al risarcimento del danno per lesione
dell’interesse legittimo. La portata innovativa della pronuncia, almeno nelle sue
proposizioni di principio, è evidente: è aperta la strada al riconoscimento di ipotesi di
57
illecito anche laddove il comportamento della pubblica amministrazione presenta aspetti
di discrezionalità105.
Negli stessi anni, si persegue lo scopo di un miglioramento dei rapporti con i
cittadini anche attraverso la chiarezza del linguaggio e la semplificazione delle
espressioni tipicamente burocratiche: è del 1993 il Codice di stile, del 1997 il Manuale
di stile (poi rivisto nel 2012). Negli anni successivi, la direttiva per la semplificazione
del linguaggio (2002) prevede che “tutti i testi prodotti dalle amministrazioni devono
essere pensati e scritti per essere compresi da chi li riceve e per rendere comunque
trasparente l’azione amministrativa”. Nel 2005, con la c.d. direttiva “Baccini”, le
necessità semplificatorie vengono ribadite, mentre nel recente Codice di comportamento
dei dipendenti pubblici del 2013 non si rinviene più, inspiegabilmente, traccia di alcun
dovere di chiarezza nel linguaggio106.
5.5. La legge 150/2000
Il percorso di riforma avviato negli anni ottanta e sviluppatosi nel decennio
successivo trova completamento nella legge 7 giugno 2000, n. 150, “Disciplina delle
attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”. La legge
contiene una regolamentazione organica della comunicazione, sebbene da taluno sia
stato rilevato che non si tratta di un “documento esaustivo e definitivo” in quanto una
materia come la comunicazione “per sua stessa natura rifiuta di essere compressa in
schemi predefiniti e […] è in continua trasformazione”107. Con tale legge, certamente, la
comunicazione
pubblica
viene
istituzionalizzata
e
distinta
da
altre
attività
amministrative: “per la prima volta vengono riconosciute e disciplinate figure
105
Si veda in particolare A. Orsi Battaglini - C. Marzuoli, La Cassazione sul risarcimento del danno
arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell'interesse legittimo, in Dir. pubbl.,
1999, pp. 496 e ss.; L. Ferrara, L'interesse legittimo alla riprova della responsabilità patrimoniale, ivi,
2010, pp. 637 e ss.
106
E. Carloni, Manuale di Open Government, in corso di stampa, p. 138.
107
A. Rovinetti, Tipologie professionali e modelli organizzativi, in S. Rolando (a cura di), Teoria e
tecniche della comunicazione pubblica, cit., ed. 2001, p. 93.
58
professionali, attività e strutture specificamente dedicate allo svolgimento” di tali
attività108.
Il testo normativo distingue tra informazione e comunicazione, intendendo la
prima come “trasferimento di informazioni e di necessaria trasparenza” e la seconda
come “promozione di contenuti e caratterizzazioni valoriali e di immagine”109. Lo stesso
testo contiene indicazioni riguardo la trasmissione sulle reti del servizio pubblico
radiotelevisivo di messaggi di utilità sociale, tratta della comunicazione all’interno
dell’istituzione pubblica e dedica attenzione all’uso dell’informatica e delle reti civiche.
Soprattutto, per la prima volta, la legge determina le strutture amministrative che
devono occuparsi delle attività di informazione e di comunicazione, individuandole
rispettivamente nel portavoce e nell’ufficio stampa da un lato e nell’ufficio per le
relazioni con il pubblico (già previsto dal decreto 29 del 1993) dall’altro. Il portavoce è
una figura che opera in staff con il vertice politico, cui è legata da un rapporto
fiduciario; l’ufficio stampa è un ufficio “facoltativo”, di cui cioè le pubbliche
amministrazioni possono o meno dotarsi, anche in forma associata e “la cui attività è in
via prioritaria indirizzata ai mezzi di informazione di massa” (art. 9, comma 2); i
compiti degli Urp sono ampliati in funzione di una sempre maggiore soddisfazione delle
aspettative, degli interessi e dei bisogni dei cittadini, delineandosi la nuova figura del
“comunicatore pubblico”, munita di idonea qualificazione professionale. Con
successivo decreto attuativo del Presidente della Repubblica del 21 settembre 2001, n.
422, vengono individuate le figure professionali specifiche di tali uffici e i relativi
processi formativi.
108
G. Arena, La funzione pubblica di comunicazione, in G. Arena (a cura di), La funzione di
comunicazione, cit., pp. 71 e ss.
Può ricordarsi che la comunicazione pubblica è stata suddivisa in tre età da S. Rolando, Introduzione, in
S. Rolando (a cura di), Teoria e tecniche della comunicazione pubblica, cit., ed. 2011, pp. XXX-XXXII:
la prima età è quella della “comunicazione anagrafica”, nella quale la P.A. si limita a spiegare le proprie
competenze; la seconda è quella della “comunicazione di servizio”, dove l’istituzione cerca di
rappresentarsi attraverso le sue funzioni, spiegando norme e condizioni di accesso e scoprendo la
misurabilità della sua efficacia; la terza è quella della “comunicazione per l’identità competitiva e
solidale”, il cui scopo è accompagnare la società per affrontare bisogni evoluti, con conseguente cambio
della nozione di “pubblico”, che diviene “aggettivo di tutti, a certe condizioni”. La legge n. 150/2000
viene collocata dall’Autore nella seconda età.
109
Sono i termini usati da P. Mancini, Manuale di comunicazione pubblica, cit., pp. 140-141.
59
5.6. Il principio di trasparenza e la nuova disciplina dell’accesso nella recente normativa
anticorruzione
Con la legge 6 novembre 2012, n. 190 “Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, il
legislatore ha ritenuto di utilizzare la trasparenza e la comunicazione quali strumenti per
realizzare un compiuto sistema di lotta alla corruzione e ha, in tale ottica, posto a carico
delle amministrazioni l’obbligo di pubblicazione sui siti web di una numerosa serie di
“informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile
accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni
in materia di segreto di Stato, di segreto d'ufficio e di protezione dei dati personali” (art.
15). La trasparenza, infatti, è un importante elemento di prevenzione e consente un
controllo diffuso da parte di tutti i soggetti che vengono in contatto con la P.A.
Occorre notare come in realtà la trasparenza non si identifica con la pubblicità,
che comporta mera conoscibilità; la trasparenza, invece, implica conoscenza,
comprensione e quindi controllo. La pubblicità, in sostanza, è utilizzata dalla legge n.
190 quale passaggio intermedio per uscire dal segreto e arrivare alla trasparenza; in altre
parole, gli obblighi di pubblicità sono funzionali al perseguimento del più alto obiettivo
della trasparenza. La legge ha ricercato la trasparenza, la trasparenza “totale”, quale
“elemento imprescindibile per un percorso di innovazione reale delle pubbliche
amministrazioni”110.
In correlazione agli obblighi di pubblicità stabiliti dalla legge n. 190 e in
esecuzione della delega conferita all’art. 35, è stato emanato il decreto legislativo 14
marzo 2013, n. 33 (c.d. “codice della trasparenza”), con il quale il significato e la
110
Così S. Sepe - E. Crobe, Comunicazione è cittadinanza, cit., p. 106.
La stessa legge n. 190 afferma che “la trasparenza dell'attività amministrativa […] costituisce livello
essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell'articolo 117, secondo comma,
lettera m), della Costituzione, secondo quanto previsto all'articolo 11 del decreto legislativo 27 ottobre
2009, n. 150”.
In materia si veda anche M. Clarich - B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione, nonché M.
Savino, Le norme in materia di trasparenza amministrativa e la loro codificazione (art. 1, commi 15-16 e
26-36), in B.G. Mattarella - M. Pelissero (a cura di), La legge anticorruzione, Giappichelli, Torino 2013,
rispettivamente pp. 59 e ss. e 113 e ss.
60
portata del principio di trasparenza sono stati ulteriormente rafforzati e specificati. Nel
medesimo codice al contempo si è data un’aulica e articolata definizione del concetto111.
Il principio di trasparenza è stato reso effettivo in specie attraverso la previsione,
contenuta nell’art. 5, della possibilità per il cittadino di attivarsi nei confronti delle
pubbliche amministrazioni che non provvedano ad adempiere agli obblighi di
pubblicazione sui siti istituzionali. Si tratta dell’istituto dell’ “accesso civico”, che
consente a chiunque di richiedere quei dati che la P.A. ha omesso di pubblicare pur
avendone l’obbligo. E' un modello di accesso assai diverso da quello previsto dalla
legge 241 del 1990 per i documenti amministrativi: l’ “accesso civico” non ha
limitazioni quanto alla legittimazione attiva e quindi non si richiede che sia strumentale
alla tutela di una propria situazione giuridica, non deve essere motivato ed è gratuito;
può essere utilizzato quando la pubblicazione sia totalmente omessa o sia solo
incompleta; è configurato come un diritto e determina il corrispondente obbligo
dell’amministrazione di provvedere alla pubblicazione sul sito. E' stato definito “un
meccanismo volto a raccordare più efficacemente pubblicità e accesso”112.
Pur nel positivo percorso intrapreso dalla recente normativa, che introduce
forme sempre più concrete di open-government, avvicinandosi alle esperienze già
consolidate in altri Paesi di utilizzo degli open-data e di conseguente passaggio da una
trasparenza “statica” a una “dinamica”, non è mancato chi ha notato che l’impressione
finale delle ultime riforme è quella di un’amministrazione “incartata dalla molteplicità
di adempimenti formali” cui è costretta e “schiacciata da una ipertrofia normativa, con
una pletora di adempimenti superflui che favoriranno una sostanziale preclusione di
111
Recitano i primi due commi dell’art. 1:
“1. La trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e
l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche.
2. La trasparenza, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d'ufficio, di
segreto statistico e di protezione dei dati personali, concorre ad attuare il principio democratico e i
principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed
efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione. Essa è condizione
di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto
ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio
del cittadino”.
112
E. Carloni, Manuale di Open Government, cit., p. 124.
61
azioni positive e realmente utili a migliorare l’attività”113. Adempimenti, poi, tutti da
porre in essere senza ulteriori oneri per lo Stato e, quindi, a risorse invariate.
Se la normativa fin qui riportata si è richiamata a modelli di comunicazione
“verso” il cittadino, occorre ricordare che si vanno ormai affermando anche modelli
comunicativi “con” il cittadino114, che implicano dinamiche relazionali diverse e che si
concretizzano nell’uso dei social networks, peraltro già contemplato nel Vademecum del
dicembre 2011 intitolato “Pubblica amministrazione e social media”, curato da Formez
PA e allegato alle Linee guida per i siti web della p.a.(previste dalla Direttiva n. 8 del 26
novembre 2009 del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione).
113
114
S. Sepe - E. Crobe, Comunicazione è cittadinanza, cit., p. 106.
Le espressioni sono di E. Carloni, Manuale di Open Government, cit., pp. 144 e ss.
62
6. TEMI E PROBLEMI DELLA COMUNICAZIONE PUBBLICA E ISTITUZIONALE IN
ITALIA. LA COMUNICAZIONE DELLE PREFETTURE.
6.1. La comunicazione pubblica
Nei moderni sistemi democratici la comunicazione è un elemento costitutivo
dell’azione delle pubbliche amministrazioni: non si ha amministrazione democratica che
non abbia tra le sue attività principali quella di dialogare costantemente con i destinatari
dell’azione dei pubblici poteri115.
Può essere quindi considerata come lo strumento indispensabile per favorire
l’avvicinamento tra società ed istituzioni nonché come il necessario elemento di
modernizzazione dell’organizzazione dello Stato.
La comunicazione pubblica è intimamente legata ai concetti di pubblicità
dell’attività amministrativa, di trasparenza e di partecipazione attiva dei cittadini ai
processi decisionali.
Lo scopo della comunicazione pubblica è quello di interagire con i vari soggetti
che operano all’interno della società e promuovere processi di innovazione istituzionale
nell’erogazione di servizi, rispondendo alle esigenze degli utenti e realizzando il loro
interesse.
La comunicazione pubblica si occupa quindi di attivare una relazione tra lo Stato
e la società civile in senso lato attraverso la realizzazione di un processo di interazione e
di scambio: è il contesto e lo strumento che permette ai diversi attori che intervengono
nella sfera pubblica di entrare in relazione tra loro, di confrontare punti di vista e valori
per concorrere al comune obiettivo di realizzare l’interesse della collettività116.
115
G. Arena, La comunicazione di interesse generale, Il Mulino, Bologna, 1995, e S. Sepe, Stato legale e
Stato reale, Il Sole 24 Ore, Milano 2000.
116
F. Faccioli, Comunicazione pubblica e cultura del servizio, Carocci, Roma 2000.
63
I soggetti della comunicazione pubblica possono essere sia le istituzioni
pubbliche sia quelle private, “tenendo conto che non si tratta di una contrapposizione
tra due soggetti che da soli riempiono tutto il campo delle possibilità, ma di una
contrapposizione tra soggetti che si trovano ai due estremi di un continuum, all’interno
del quale vi sono parecchie istituzioni e organizzazioni che presentano, a volte,
caratteristiche di entrambi”117.
Le attività di comunicazione non possono poi prescindere dall’analisi dei
bisogni.
Di conseguenza, il giudizio dei cittadini viene monitorato e costituisce uno degli
elementi che consentono di orientare le politiche dei poteri pubblici e di elaborare e
definire strategie integrate per elevare la qualità delle relative prestazioni.
L’attività della Pubblica Amministrazione si ispira oggi ai tre principi della
qualità, della comunicazione e della partecipazione e si propone di conseguire il
miglioramento dei servizi resi, la semplificazione procedurale degli adempimenti, la
maggiore velocità di risposta alle richieste e l’informazione costante ed esauriente dei
cittadini.
Una adeguata attività di comunicazione consente anche di abbassare il
contenzioso tra amministrazione e cittadini, conferisce visibilità alle amministrazioni e
riconosce il cittadino come portatore di diritti.
6.2. La comunicazione istituzionale
Secondo una definizione corrente, per comunicazione istituzionale si intende
l’attività di comunicazione delle istituzioni pubbliche per quanto riguarda le funzioni ed
i compiti svolti nonché la promozione dell’immagine dell’istituzione stessa, destinata ai
cittadini118.
Tale comunicazione mira ad assicurare la conoscibilità delle norme e dei servizi
svolti per conto della collettività, a garantire ai cittadini la possibilità di accedere agli
117
118
R. Grandi, La comunicazione pubblica. Teorie, profili, casi normativi, Carocci, Roma 2001, pp. 76-77.
S. Rolando, La comunicazione pubblica per una grande società, Etas Rizzoli, Milano 2010.
64
atti amministrativi e di partecipare, nei casi previsti dalla legge, ai procedimenti
amministrativi ed induce le amministrazioni ad ascoltare i bisogni della collettività ed a
trasformare l’ascolto in esito e valutazione dei servizi resi, al fine di migliorare le
proprie performances.
La comunicazione istituzionale, di conseguenza, “non può ridursi ad attività
rivolta verso l’esterno, ma deve avere specifiche articolazioni all’interno delle
organizzazioni pubbliche al fine di elevare la condivisione dei funzionari verso gli
obiettivi strategici perseguiti da ciascuna istituzione. La comunicazione pubblica deve,
in sintesi, garantire certezza, imparzialità, affidabilità ed assunzione di responsabilità,
nell’accezione inglese di accountability”119.
I concetti di società civile, comunicazione pubblica e pubblicità sono
intrinsecamente collegati: la relazione tra ampliamento dei compiti dello Stato e
aumento della consapevolezza dei propri diritti da parte dei cittadini costituisce la spinta
propulsiva all’affermazione della cultura della comunicazione.
L’altro elemento fondante della comunicazione istituzionale è la trasparenza, che
in Italia viene inserita tra i principi che devono ispirare l’attività amministrativa soltanto
con la legge n. 241 del 1990.
La comunicazione delle amministrazioni ha rilevanti complessità tanto riguardo
ai servizi quanto riguardo agli interlocutori. Rispetto alle funzioni svolte,
l’amministrazione deve tenere costantemente relazioni con i cittadini, con le altre
istituzioni pubbliche e private e con i differenti interessi di singoli e gruppi organizzati.
Nelle attività delle pubbliche amministrazioni si realizza un circuito tra bisogni,
diritti e servizi: da parte dei cittadini i bisogni mettono in moto un insieme di richieste
tanto nella forma della domanda quanto in quella di attese diffuse e socialmente
rilevanti. A sua volta l’Amministrazione risponde attraverso attività e servizi tesi a dare
soddisfazione sia a richieste individuali sia ad esigenze diffuse.
119
Così la definiscono S. Sepe - E. Crobe, cit., pp. 60-61.
65
La comunicazione istituzionale può quindi definirsi come “una funzione
strategica dell’amministrazione per una migliore erogazione dei servizi e questo, nei
sistemi politici contemporanei, si può tradurre in legittimità per il potere politico. Una
tattica premiante, dunque, per l’intero circuito politica/amministrazione/cittadini120” .
I servizi erogati devono essere orientati dalla domanda: quindi la customer
satisfaction diventa un elemento nodale dell’azione amministrativa.
Il cittadino è percepito come soggetto attivo del processo di comunicazione e,
addirittura, del processo di produzione dei servizi stessi in modo che vengano erogati in
modo adeguato.
La customer satisfaction diviene, quindi, un elemento fondamentale, poiché un
servizio che funziona bene rappresenta, di per sé, un’ottima comunicazione ed una
buona comunicazione è di per sé un servizio.
Una “buona amministrazione” comprende, pertanto, l’analisi dei bisogni e la
rilevazione della soddisfazione rispetto alle prestazioni erogate: occorre abbandonare la
logica del servizio standardizzato e ripensare i servizi per rapportarli alle reali esigenze
degli utenti.
L’ascolto può essere funzionale al raggiungimento di taluni obiettivi, come la
verifica ed il miglioramento del servizio e la rilevazione di nuovi bisogni.
L’avvicinamento al cittadino, la cultura del servizio, la soddisfazione dei bisogni
non sono quindi un plus per l’amministrazione, ma una necessità, perché è su questa
base che si costruisce il rapporto di fiducia tra amministratori e amministrati che è la
sostanza della democrazia.
Essa comporta la capacità di saper attivare processi interni ed azioni esterne per
costruire nuove relazioni tra i cittadini e con i dipendenti; oltre a costituire una
componente della gestione e della riorganizzazione, dunque, la comunicazione pubblica
consente alla Amministrazione di capire e farsi capire.
120
S. Sepe - E. Crobe, ibidem, p. 73.
66
In particolare entrano in campo due nuovi elementi che sono l’ascolto del
cittadino e le modalità per realizzarlo, che richiedono la predisposizione di strutture e
professionalità definite.
Occorre inoltre tenere presente che esistono, oggi, nuovi soggetti che hanno
interesse a rapportarsi con la P.A., competenti e preparati: i cosiddetti stakeholders. Si
tratta di cittadini, professionisti ed imprenditori spesso più informati degli
amministratori sui propri diritti.
6.3. I problemi della comunicazione
Ad oltre dieci anni dall’approvazione della legge di riforma della comunicazione
pubblica n. 150/2000, è difficile scorgere un cambiamento significativo nelle politiche
di comunicazione delle pubbliche amministrazioni.
Come sostengono alcuni autori121, la cultura del segreto, opposta alla cultura
della trasparenza, è un dato storico che risale alla stessa formazione dello Stato Italiano
ed alle traversie che la nostra democrazia ha attraversato. Tale elemento continua ad
influenzare negativamente il corretto dispiegarsi della comunicazione nel nostro Paese.
Una difficoltà di ordine generale consiste poi nel fatto che spesso l’obiettivo del
coinvolgimento dei cittadini viene perso di vista e, nell’agire concreto e quotidiano,
vengono
affrontate
questioni
Amministrazione, con approcci
correlate
ad
aspetti
“interni”
alla
Pubblica
basati sulla rigida applicazione della normativa e
finalizzati al mantenimento degli usi e delle consuetudini preesistenti.
Si parla tanto, infatti, di comunicazione esterna, ma di quella interna se ne parla
poco, probabilmente perché la comunicazione interna rappresenta una evidente
“minaccia” alla vecchia logica burocratica che ancora resiste e si oppone al nuovo.
Oltre che dai rapporti organizzativi e funzionali interni alla struttura, un altro
tipo di difficoltà deriva dal rapporto con gli enti esterni.
Si rende necessario creare delle sinergie tra i vari settori e comparti della P.A.,
troppo spesso tra loro isolati a causa di una incomunicabilità atavica dovuta non solo a
121
C. Arcuri - G. Fusaroli, La trasparenza invisibile, Marietti, Torino 1990.
67
carenze strutturali ma anche e principalmente all'utilizzo di “linguaggi” e procedure
diversi tra loro che rendono le stesse amministrazioni pubbliche una comunità in cui i
singoli soggetti parlano e scrivono utilizzando lingue e “velocità” non omogenee.
Ciò accade anche dal punto di vista della gestione informatica delle informazioni
in possesso di Amministrazioni diverse.
Nel tempo ogni ente ha sviluppato proprie banche dati con propri criteri e
tecnologie, spesso differenti l'una dalle altre; ciò comporta delle difficoltà tecniche nella
gestione unitaria dei dati e dunque l'impossibilità di dialogare tra gli enti stessi.
Con riferimento poi alla comunicazione esterna – orientata al coinvolgimento di
cittadini ed utenti, sia in termini di ascolto che di partecipazione – si possono riscontrare
difficoltà profonde e contraddizioni che ancora richiedono approfondimenti e riflessioni
sia sul piano teorico che sotto il profilo operativo.
Infatti, benché il momento attuale favorisca uno scambio continuo e
bidirezionale tra istituzioni e cittadini – in considerazione del notevole sviluppo delle
tecnologie che rende pienamente accessibili le informazioni, dell’obbligo di
pubblicazione sui siti web istituzionali di molti dati delle pubbliche amministrazioni,
della continua fruibilità dei servizi disponibili in rete e della possibilità di interattività –
tuttavia l’affermazione della comunicazione istituzionale sembra trovarsi in una
situazione di stallo.
In particolare, se da un verso la collettività chiede in modo sempre più pressante
che gli apparati pubblici sappiano fornire informazioni e riescano a facilitare il rapporto
tra i cittadini ed uffici pubblici, per altro verso si riscontra la difficoltà degli operatori
pubblici a far fronte a questa esigenza.
Vi sono degli ostacoli che frenano l’innovazione: primo fra tutti la scarsità di
risorse rispetto ai compiti divenuta un fattore fortemente condizionante le politiche
pubbliche anche perché la crisi finanziaria in corso ha fortemente interessato gli Enti
Locali, che sono stati i più ricettivi alle spinte di modernizzazione negli ultimi due
decenni.
68
Comunicare presuppone poi saper ascoltare la voce dei cittadini e, pertanto,
occorre rafforzare le competenze professionali, tuttora non ottimali, degli addetti alle
amministrazioni nel settore della comunicazione.
Inoltre, molto spesso i cittadini paiono non essere “educati” alla partecipazione
ed in molte circostanze non sono formati per contribuire in modo efficace alla
formulazione di processi decisionali, o risultano carenti delle competenze/conoscenze
che necessitano per la gestione dei servizi.
Talvolta, inoltre, le indicazioni fornite sono contrastanti tra loro.
Ciò comporta il rischio di deludere le aspettative ingenerate nei cittadini che
perdono fiducia nelle istituzioni e, per la pubblica amministrazione, si sostanzia in una
perdita di credibilità, di immagine e di affidabilità.
Ancora sul piano della comunicazione esterna, un’altra delle cause del ritardo
italiano sui temi della comunicazione pubblica è certamente da imputare alla difficoltà
di stabilire un sistema dei mezzi della comunicazione di massa realmente autonomo
dagli altri sistemi sociali ed in grado di competere con loro.
L’utilizzo delle tecnologie informatiche pone innanzitutto un interrogativo in
ordine alle preferenze dei cittadini in materia di canali di comunicazione per entrare in
contatto con la pubblica amministrazione, fra canali di comunicazione nuovi e canali
tradizionali.
Se vuole raggiungere i cittadini con le nuove tecnologie, la pubblica
amministrazione dovrà accompagnare gli investimenti in tecnologia con adeguate
politiche di riduzione del divario fra utenti dei “nuovi media” e non, allo scopo di
arrivare ad un atteggiamento favorevole non solo da parte di coloro che questi strumenti
li usano già attivamente, ma anche da parte di coloro che rimangono ancorati a canali di
comunicazione più tradizionali.
Se, infatti, la stragrande maggioranza della popolazione è d’accordo nel
riconoscere un ruolo positivo alle nuove tecnologie nella comunicazione pubblica, nella
pratica, i media tradizionali continuano a catalizzare le preferenze del pubblico.
69
La questione riguarda sostanzialmente quello che viene definito il digital divide
che evidenzia l’esistenza di un accesso differenziato alle nuove tecnologie e che dunque
compromette una delle caratteristiche che la comunicazione pubblica – quella esterna in
particolare – dovrebbe assicurare: l’universalità.
6.4. La comunicazione delle Prefetture
La normativa quadro in tema di comunicazione pubblica introdotta con la legge
150/2000 affida all'Ufficio Relazioni con il Pubblico la gestione delle attività di
comunicazione.
Le Prefetture si servono di tale struttura per entrare in contatto con i cittadini e
con le altre amministrazioni.
L'attività di comunicazione affidata all’U.R.P. è finalizzata a:
1. garantire l'esercizio dei diritti di informazione, accesso e partecipazione di cui
alla legge 241/90;
2. agevolare l'utilizzazione dei servizi offerti ai cittadini, anche attraverso
l'illustrazione delle disposizioni normative e amministrative e l'informazione sulle
strutture e sui compiti nelle amministrazioni;
3. promuovere l'adozione di sistemi di interconnessione telematica e coordinare
le reti civiche;
4. attuare, mediante l'ascolto dei cittadini e la comunicazione interna, i processi
di verifica della qualità dei servizi e di gradimento degli stessi da parte degli utenti;
5.
garantire
la
reciproca
informazione
tra
le
strutture
operanti
nell'amministrazione e fra le varie amministrazioni.
Di fatto l’U.R.P. è il punto di incontro tra gli utenti ed il complesso di attività
svolte dalla Prefettura con l’obiettivo di fornire direttamente servizi ed informazioni o di
fare da tramite per indirizzare un’utenza più consapevole verso gli uffici.
70
L’ufficio è impegnato quotidianamente nell’attività di ascolto dell’utenza anche
tramite la raccolta di suggerimenti e reclami con l’obiettivo di contribuire, in
collaborazione con gli altri uffici, al miglioramento dei servizi.
Riceve
inoltre
le
autocertificazioni,
realizzando
la
semplificazione
amministrativa, consente l’accesso agli atti e fornisce notizie sull’esito delle pratiche.
In linea con quanto disposto dalla legge 150/2000, la Prefettura individua,
nell'ambito delle proprie dotazioni organiche, il personale da adibire alle attività di
informazione e di comunicazione, previa adeguata formazione.
In termini di organizzazione e logistica del servizio, vi sono, inoltre, alcuni
aspetti che, ai fini della percezione della qualità del servizio reso, hanno assunto
considerevole rilievo.
Il servizio è immediatamente riconoscibile e dotato di efficace cartellonistica
capace di guidare l’utente alla sede del servizio e che successivamente accompagni il
cittadino all’interno delle stanze del “palazzo”.
La segnaletica posizionata all’entrata dell’ufficio indica i giorni e gli orari di
apertura al pubblico.
Vengono scelti arredi confortevoli, locali curati e luminosi e sono predisposti
punti di accoglienza che non determinino barriere psicologiche.
Il personale del front office riveste un ruolo di immagine assai rilevante e di
conseguenza deve avere una naturale predisposizione a questo ruolo.
Nell’organizzazione del lavoro una turnazione che alterna il lavoro di contatto
con il pubblico e quello di istruttoria (back office) consente di assicurare che tutti siano
in grado di fare tutto.
Una menzione particolare merita poi l’Ufficio stampa, che coadiuva il Prefetto
nelle funzioni di comunicazione istituzionale e provvede ad applicare i piani di
comunicazione interna ed esterna.
71
L'attività di informazione affidata agli uffici stampa è diretta verso i media e
deve assicurare il massimo grado di trasparenza, chiarezza e tempestività delle
comunicazioni da fornire nelle materie di interesse dell'Amministrazione.
Due sono i principi ai quali si ispira l’attività di questo ufficio: il diritto dei
cittadini di essere informati ed il diritto/dovere delle istituzioni pubbliche di informare.
Contrariamente alle previsioni normative, nell’ambito dell’Amministrazione
dell’Interno non si è dato corso alla formale istituzione degli uffici stampa.
In realtà, con i decreti ministeriali di individuazione dei posti di funzione da
assegnare ai dirigenti della carriera prefettizia, è stata confermata la scelta di ubicare
all’interno dell’ufficio di Gabinetto la competenza relativa ai rapporti con la stampa.
In particolare, il decreto ministeriale 18 novembre 2002, successivamente
modificato con decreto ministeriale 4 agosto 2005, ha specificato che l’ufficio di
Gabinetto gestisce in rapporto di staff con il Prefetto, fra le altre, anche le attività
relative a “comunicazione e documentazione (statistica, analisi socio-economica del
territorio, comunicazione istituzionale, rapporti con la stampa, ecc.)”.
Tuttavia, mentre la legge n. 150/2000 ed il relativo regolamento di attuazione
prevedono che i capi uffici stampa debbano essere iscritti all’albo dei giornalisti122, in
realtà i dirigenti prefettizi non posseggono, nella quasi totalità dei casi, alcuna
professionalità specifica in materia se non quella derivante dalla partecipazione ad
iniziative di formazione più o meno mirate.
L’addetto stampa fornisce informazioni ai media sugli eventi pubblici
imminenti, sulle iniziative assunte all’interno degli uffici della Prefettura, sulle attività
svolte negli ambiti di competenza istituzionali, sui provvedimenti adottati dal Prefetto
che hanno notevole rilevanza esterna, ecc.
122
L’articolo 9, comma 2, della legge 7 giugno 2000, n. 150, stabilisce che “gli uffici stampa sono
costituiti da personale iscritto all’albo nazionale dei giornalisti”. Il successivo regolamento di
attuazione, approvato con D.P.R. 21 settembre 2001, n. 422, nell’elencare i requisiti per lo svolgimento
delle attività di informazione, ha precisato il senso della disposizione originaria, richiedendo (art. 3) “il
possesso del requisito della iscrizione negli elenchi dei professionisti e dei pubblicisti (...) per il
personale che svolge funzioni di capo ufficio stampa”.
72
Ai più tradizionali strumenti di comunicazione utilizzati all’interno delle
Prefetture (riunioni, convention, lettere, comunicati) si sono affiancate altre modalità
rese possibili dall’evoluzione della tecnologia informatica.
Una di queste è l’istituzione dei siti web ufficiali delle Prefetture che sono stati
interamente riprogettati a livello centrale “secondo criteri di uniformità grafica e
strutturale”123.I principali link – che sono standardizzati per tutte le sedi periferiche –
riguardano “La Prefettura”, i “Servizi ai Cittadini”, le “Attività”, le “Notizie”, le
“Elezioni”, lo “Sportello Unico Immigrazione”, ecc.
Una attenzione particolare merita il link “Scrivi @l Prefetto” che consente ai
cittadini di poter interloquire direttamente con il massimo vertice istituzionale
dell’ufficio.
Ciascuna Prefettura inserisce nel sito i comunicati stampa, le notizie e le
informazioni riferite al proprio contesto territoriale e le aggiorna periodicamente tramite
il personale informatico in dotazione.
Le pagine del sito web sono accessibili tramite una radice comune
(www.prefettura.it/) seguita dal nome della Prefettura interessata.
Infine, un ulteriore strumento di comunicazione delle Prefetture è costituito dalla
Posta Elettronica Certificata, che ha lo stesso valore legale di una raccomandata ed è
obbligatoria per le comunicazioni tra imprese e pubblica amministrazione dal 1° luglio
2013 a norma dell’articolo 5, commi 1 e 2, del D.L. 179/2012 (c.d. Decreto Sviluppo
bis), convertito con modificazioni dalla legge n. 221/2012.
123
Circolare del Gabinetto del Ministro dell’Interno n. 15006/17/3(5) del 29 gennaio 2007.
73
7. AGENDA DIGITALE EUROPEA E AGENDA DIGITALE ITALIANA:
STATO DELL’ARTE
7.1. Breve introduzione
L’argomento in questione – sia per il suo notevole grado di tecnicismo, sia
soprattutto per la frammentazione dovuta alla recentissima acquisizione di
consapevolezza da parte europea (e ancor di più italiana), che comporta una
significativa difficoltà a distinguere le proposizioni di principio (molte) dai risultati
effettivamente conseguiti (molti meno) – non si presta ad una completa
omogeneizzazione logico-strutturale con gli argomenti trattati in precedenza.
Pertanto, se ne tratteggiano qui di seguito quelle che sono le linee generali, con
la dovuta precisazione che la trattazione risente della notevole frammentazione delle
fonti.
7.2. L’Agenda Digitale Europea
7.2.1. Concetti generali. L’Agenda Digitale Europea è stata presentata dalla
Commissione Europea nel maggio 2010, allo scopo di sfruttare al meglio il potenziale
delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) per favorire
l’innovazione, la crescita economica e la competitività.
L’Agenda rappresenta una delle sette iniziative-faro della “Strategia EU 2020”:
l’atto ufficiale è la Comunicazione della Commissione Europea al Parlamento Europeo,
al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del
19 maggio 2010, intitolata “Un’agenda digitale europea”, non pubblicata nella nostra
Gazzetta Ufficiale124.
124
Com. (2010) 245 def./2, rinvenibile sul sito eur-lex.europa.eu con ID. celex 52010DC0245.
74
Si tratta di una piattaforma tecnologico-informatica comune a tutti i Paesi UE,
calendarizzata (sia pure, per ora, sommariamente), che promuove un avanzamento
tecnologico omogeneo, nonché la promozione stessa della cultura digitale.
L’obiettivo principale è quello di ottenere vantaggi socio-economici sostenibili,
grazie al Mercato Digitale Unico, basato su Internet veloce e superveloce.
L’Europa – mediante una maggiore diffusione ed un uso più efficace delle
tecnologie digitali – potrà affrontare in posizione di forza le sfide cui è chiamata,
offrendo ai suoi cittadini una migliore qualità della vita, stimolando al contempo
l’occupazione; ciò può essere ottenuto tramite una più capillare digitalizzazione dei
servizi, ad es. in materia di sanità, di sicurezza ed efficienza dei trasporti pubblici,
salubrità dell’ambiente, nuove comunicazioni ed un accesso più rapido e diffuso ai
servizi pubblici ed ai contenuti culturali.
7.2.2. Il Mercato Digitale Unico (MDU). Il concetto-base dell’Agenda Digitale è
il Mercato Digitale Unico (MDU), mediante il quale si vogliono eliminare le barriere,
principalmente tecnologiche, ma non solo, che ostacolano, ed in alcuni casi
impediscono, l’accesso dei cittadini dell’Unione ai servizi essenziali, sia europei che,
spesso, nazionali.
a) Accesso ai contenuti
Nel testo della comunicazione, viene affermato che la Commissione si impegna
ad aprire l’accesso dei cittadini e delle imprese dell’Unione ai contenuti on line legali
(dati ed aggregazioni di dati), semplificando le procedure di liberatoria e gestione dei
diritti di autore e di rilascio delle licenze transfrontaliere e/o paneuropee.
In tal senso, tutti i Governi dell’UE possono e devono incentivare i mercati,
mettendo liberalmente a disposizione i propri dati ed informazioni.
Sotto questo profilo, è assolutamente significativo quanto iniziato a realizzare
per quanto attiene ai cc.dd. “open data”: essi vengono definiti quali dati ed
aggregazioni di dati direttamente accessibili a tutti, privi di brevetti o altre forme di
75
controllo o restrizioni che ne possano limitare la riproduzione o la mera riproducibilità
(es: i dati scientifici e quelli della pubblica amministrazione).
Una recentissima bozza di direttiva del giugno 2013, di modifica della direttiva,
prevede la libera e vantaggiosa utilizzazione degli open data da parte di
amministrazioni, aziende o privati, con costi ridottissimi se non gratuiti.
b) Fiducia nel digitale
La legislazione dell’Unione garantisce ai cittadini europei, nell’ambito del
contesto digitale, una serie di diritti come la libertà di espressione e di informazione, la
protezione dei dati personali e la riservatezza, i requisiti in materia di trasparenza, gli
obblighi concernenti i servizi di telefonia e di accesso ad Internet, nonché il concetto di
“qualità minima dei servizi”.
A tale ultimo riguardo, la Direttiva 2002/22/CE del Parlamento Europeo e del
Consiglio del 7 marzo 2002 – relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in
materia di reti e servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) –
definisce quest’ultimo quale “l’insieme minimo dei servizi di qualità specifica, cui tutti
gli utenti finali hanno accesso a prezzo abbordabile, tenuto conto delle specifiche
situazioni nazionali, senza distorsioni di concorrenza”.
Purtuttavia, allo stato attuale, il mercato digitale è caratterizzato da una
mancanza di fiducia degli utenti , soprattutto in materia di riservatezza e protezione dei
dati, nonché di sicurezza dei pagamenti. A tal riguardo, la Commissione intende creare e
pubblicare un codice on line che riassuma, in modo chiaro ed accessibile, tutti i diritti
degli utenti digitali. Tale codice verterà anche sulla legislazione in materia di contratti e
sulla risoluzione delle controversie a livello europeo. La Commissione intende
realizzare, inoltre, un marchio di fiducia UE on line per tutelare i consumatori.
Su un altro versante, i Governi europei devono implementare gli sforzi per
contrastare la criminalità informatica (con particolare attenzione alla pedopornografia
on line) e le violazioni alla riservatezza dei dati personali, mediante una politica di
rafforzamento della sicurezza delle reti e della lotta agli attacchi informatici.
76
A tal riguardo – ed è questo senza dubbio il principale risultato conseguito in
ambito europeo in materia di digitalizzazione – è stato istituito125 l’Ufficio Europeo di
Polizia (EUROPOL), con il fondamentale compito di rafforzare l’azione di
prevenzione e repressione dei Paesi membri in tema di lotta alla criminalità informatica
ed alla diffusione dei reati per via telematica, compreso il terrorismo.
L’EUROPOL, che ha sede all’Aia ed è operativo dal 1° gennaio 2010, ha
compiti, tra gli altri, di conservazione e scambio di dati, di intelligence e supporto
analitico agli Stati e di preparazione di rapporti di valutazione delle minacce provenienti
da gruppi terroristici. Inoltre, già sulla base di analoga decisione del 2005, è stato
designato quale Autorità centrale per la lotta contro la falsificazione dell’euro.
Ciascuno Stato membro può designare una propria Unità nazionale – composta
da personale di polizia – da operare quale unità di collegamento tra le polizie nazionali e
l’EUROPOL.
c) Semplificazione delle transazioni on line
Il mercato dei pagamenti elettronici è ancora frammentato dalle legislazioni
nazionali: in tal senso, occorre completare al più presto l’Area di Pagamento Unica in
Euro (SEPA): in tal senso, va rivista la Direttiva sulla firma elettronica126 al fine di
offrire sistemi sicuri di autenticazione elettronica.
d) Reti e telecomunicazioni
Il potenziamento delle reti europee passa attraverso l’incremento degli
investimenti sulla banda larga senza fili, soprattutto satellitare, che può avere un ruolo
cruciale per la copertura di tutte le aree, comprese le regioni più remote.
A tal proposito, la soluzione è data dalle reti di accesso di nuova generazione
(NGA), che consentono connessioni superiori a 100 Mbps, secondo il modulo di
Internet superveloce.
125
Decisione del Consiglio 2009/371/GAI del 6 aprile 2009, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale
dell’Unione europea L121/37 del 15 maggio 2009.
126
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 1999/93 CE del 13 dicembre 1999 relativa ad un
quadro comunitario per le firme elettroniche, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee
L013 del 19 gennaio 2000.
77
La banda larga veloce, allo stato attuale, raggiunge il 54% dei cittadini della
UE127.
Gli investimenti nella banda larga di ultima generazione dovrebbero essere
garantiti dagli appositi fondi europei (FESR e FEASR).
Nel campo delle ITC, la UE ha l’ulteriore compito di incrementare
l’alfabetizzazione mediatica nell’ambiente digitale: quest’ultimo concetto era stato
introdotto dalla Raccomandazione 2009/625/CE della Commissione, datata 20 agosto
2009, laddove lo si definisce “capacità di accedere ai media” comprendendo e valutando
criticamente i contenuti, ed inoltre “la capacità di creare comunicazioni in una varietà di
contesti”.
In tale contesto, la Commissione ritiene di dover rafforzare l’approccio comune
in materia di “e-accessibilità” (intesa quale generica accedibilità comune al web ed alle
tecnologie informatiche), di cui alla comunicazione128del 1° dicembre 2008 intitolata
“Verso una società dell’informazione accessibile”.
I settori dove è possibile un’evoluzione più spiccata avvalendosi delle ITC sono:
a) La medicina, attraverso l’utilizzo della medicina elettronica e dei sistemi e
servizi di telemedicina. La prima rimanda al concetto di “sanità elettronica” (e-health),
definito per la prima volta nel 2004, che si sostanzia nell’utilizzo massivo delle
tecnologie informatiche al fine di migliorare i servizi di assistenza sanitaria in tutta
Europa. I secondi, che sono un aspetto di rilievo della medicina elettronica, consistono
nel trasferimento a distanza dell’informazione medica, anche e soprattutto al fine di
decongestionare gli ospedali, per i casi di pazienti curabili “da remoto”. Essenziale, per
lo sviluppo della sanità elettronica, è la garanzia della conservazione sicura dei dati
medici personali.
b) I sistemi di trasporto intelligente: la Direttiva 2010/40/UE del Parlamento e
del Consiglio del 7 luglio 2010129 ha stabilito un quadro generale per la diffusione dei
127
Fonte: Valutazione annuale dei progetti compiuti dalla UE del 12/6/2013, a cura della Commissione.
Com. 2008 (804) Def., rinvenibile sul sito eur-lex.europa.eu con ID. celex 52008DC0804.
129
Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L207/1 del 6 agosto 2010.
128
78
sistemi di trasporto intelligente, ad iniziare dal trasporto stradale, affinché l’uso della
tecnologia, soprattutto informatica, contribuisca in maniera significativa a rendere i
trasporti più sicuri , efficienti ed ecologici.
c) La digitalizzazione del patrimonio culturale europeo. A tal riguardo, nel 2008
è partito un progetto ambizioso, denominato “Europeana”, allo scopo di creare una
biblioteca digitale europea, quale piattaforma unica per accedere al patrimonio culturale
di tutti i Paesi membri della UE.
Le iniziative europee, in prospettiva, si avvarranno di un livello notevole di
tecnologia informatica diffusamente distribuita (“cloudcomputing”), soprattutto nei
settori scientifici e nella Pubblica Amministrazione.
e) A tale ultimo riguardo, la normativa europea prevede la costituzione di un
vero e proprio “e-Government” – inteso quale sistema di gestione digitalizzata della
P.A. – i cui servizi sono volti a migliorare la vita di cittadini ed imprese; lo sviluppo di
un’amministrazione sempre più aperta e trasparente permette di conseguire il dichiarato
obiettivo di abbattere i costi e i tempi dell’erogazione dei servizi da parte delle
amministrazioni.
Implicazioni interessanti di tale principio sono state realizzate nei Paesi UE,
compresa l’Italia, come si dirà in seguito.
Una fondamentale applicazione in materia è rappresentata dalla “e-democracy”,
da intendersi quale democrazia digitale, vale a dire il complesso degli strumenti
tecnologici – in particolare, informatici – che permette ai cittadini europei di potersi
compiutamente esprimere, in senso di democrazia effettiva, su temi politici di interesse
generale.
In tale contesto si pone, in particolare, l’ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei),
istituto introdotto dal Trattato di Lisbona130, che permette ad un milione di cittadini
europei in un quarto degli stati membri di partecipare ad un vero e proprio processo
deliberativo: ciò a partire dal 1° aprile 2012.
130
Articolo 11, comma 4, della versione consolidata del Trattato sull’Unione europea.
79
A seguito del Trattato sull’Unione, è stato emanato, in data 16 febbraio 2011, un
regolamento che prevede che i cittadini interessati producano una proposta di iniziativa,
che deve raccogliere il quorum entro 12 mesi dalla sua prima presentazione.
Una volta raggiunto il quorum e presentata alla Commissione, quest’ultima
senza indugio la pubblica su un apposito registro, e, entro tre mesi dalla pubblicazioni,
adotta le iniziative opportune, conseguenti alla tematica di cui alla proposta (laddove
non vi siano proposizioni politiche che configgano con il principio di libera circolazione
delle idee).
Si vedrà in seguito come questo diritto digitale ha prodotto concrete applicazioni
su alcune tematiche di interesse diffuso.
7.2.3. Il Commissario europeo per l’agenda digitale. L’importanza dei temi
trattati è ben conosciuta a livello di vertici UE, dal momento che è stato nominato, a
decorrere dal 2010, il Commissario Europeo per l’Agenda Digitale, nella persona
dell’olandese Neelie Kroes.
7.2.4. Tempistica di realizzazione. Sulla base del “pacchetto ITC”, presentato dal
Commissario Kroes nel mese di settembre scorso, il Presidente della Commissione
Europea, Barroso, ha insistito per la realizzazione completa del programma digitale
europeo entro la prima metà del 2015.
Il primo passo sarà, tra dicembre di quest’anno e gli inizi del 2014, quello di
realizzare sostanziosi sconti fiscali e di applicare un’IVA vantaggiosa per tutte quelle
imprese europee che si dimostreranno attive sul fronte della digitalizzazione.
In ogni caso, dalla fine dello scorso anno sono state presentate in Commissione
una serie di proposte, alcune delle quali sono state acquisite in veri e propri atti ufficiali.
Tra le altre:
-
19 dicembre 2012: La Commissione ha adottato orientamenti circa
l’applicazione delle regole UE sugli aiuti di Stato nel settore della banda larga.
-
7 febbraio 2003: La Commissione ha proposto una strategia sulla cyber
sicurezza (“un cyberspazio aperto e sicuro”), al fine di avviare una strategia per
80
prevenire in maniera efficace gli attacchi informatici. Contemporaneamente, la
Commissione ha adottato una proposta131 di direttiva sulla sicurezza delle reti e
dell’informazione, che richiede a tutti gli Stati membri – nonché ai principali
operatori di internet e di infrastrutture critiche – di garantire un ambiente digitale
sicuro per l’intera Unione.
-
4 marzo 2013: La Commissione ha avviato una “Grande Coalizione per
l’occupazione del digitale”, vale a dire un partenariato tra tutte le parti
interessate per affrontare il problema dei numerosi posti di lavoro attualmente
vacanti per gli specialisti di ITC.
-
26 marzo 2013: La Commissione ha adottato una proposta di regolamento sulla
riduzione dei costi per le opere di ingegneria civile che rappresentano sino
all’80% dei costi di installazione delle reti a banda larga; evitando inutilmente di
duplicare i lavori di scavo, il progetto potrebbe far risparmiare dai 40 ai 60
miliardi di euro.
7.3. L’Agenda Digitale Italiana.
7.3.1. Normativa. L’Agenda Digitale Italiana (ADI) è stata istituita, in data 1°
marzo 2012, con decreto del Ministro per lo Sviluppo Economico, di concerto con il
Ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione, il Ministro della
Coesione Territoriale, il Ministro dell’Università, dell’Istruzione e della Ricerca e il
Ministro dell’Economia e delle Finanze.
Con il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella L. 17
dicembre 2012, n. 221 (“Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”), sono state
previste misure per l’applicazione concreta dell’ADI.
L’art. 1 stabilisce che lo Stato – sulla scorta della normativa europea di cui
sopra, e nel rispetto del principio di leale collaborazione con le autonomie regionali –
“promuove lo sviluppo dell’economia e della cultura digitali, (…) e favorisce, tramite
131
Proposta COM(2013)48 fin. del 7 febbraio 2013 di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
recante misure volte a garantire un livello comune elevato di sicurezza delle reti e dell’informazione
nell’Unione.
81
azioni concrete, l’alfabetizzazione e lo sviluppo delle competenze digitali (…)”: in tal
senso, un primo obiettivo concreto (anche se, a dire il vero, modesto) viene individuato,
dall’art 3, nella carta di identità elettronica, e nella sua unificazione con la tessera
sanitaria, per ciò che concerne il supporto.
7.3.2. Cabina di regia. La cabina di regia è l’organo operativo dell’ADI. E’
strutturata in sei gruppi di lavoro, cui corrispondono sei assi strategici: Infrastrutture e
sicurezza, e-Commerce, e-Government – open data, Alfabetizzazione informatica –
competenze digitali, Ricerca e innovazione, Smart cities and communities.
Ognuno di questi gruppi di lavoro vede la presenza di un coordinatore che fa
parte dell’amministrazione maggiormente coinvolta, tra quelle che hanno dato vita al
decreto istitutivo.
7.3.3. Linee di azione. Tra le iniziative adottate o in via di adozione, vi sono:
a) Piano nazionale banda larga, autorizzato dalla UE e promosso dal Ministero
dello sviluppo economico a partire dalla seconda metà del 2012 al fine di rinnovare e
velocizzare le comunicazioni via Internet: ad oggi sono stati spesi circa 500 milioni di
euro e si prevede, per il suo completamento, l’ulteriore spesa di 450 mil;
b) Progetto Data Center in modalità cloudcomputing: verranno creati autonomi
centri di raccolta e scambio dati, interoperanti per tutte le Amministrazioni (modalità
“cloud”), con continuo aggiornamento dei software, in tal modo sollevando
l’incombenza dalle stesse Amministrazioni;
c) Strategia nazionale di cyber security: una strategia a vasto raggio,
comprensiva di programmi educativi per i vari operatori, collaborazioni tra settore
pubblico e privato, cooperazione internazionale per la comune definizione di standard
operativi, e, soprattutto, stimolare la crescita di un’industria della cyber security italiana
competitiva.
7.3.4. Diritti già operativi e nuovi documenti. Il Codice dell’Amministrazione
Digitale (CAD), introdotto con il decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ha inteso
riformare il quadro tecnologico-informatico nelle pubbliche amministrazioni italiane già
82
prima dell’avvento dell’Agenda Digitale in Europa: le novità introdotte, di cui si parla
qui di seguito, sono ancora in fase di realizzazione globale, anche se applicazioni
concrete sono state avviate in alcune realtà amministrative più sviluppate.
Nell’ambito delle cose in via di realizzazione – sotto forma di nuovi diritti ed
opportunità che ampliano la sfera personale dei cittadini e di nuove forme di documenti
– si annoverano:
a) Documento unificato, che svolge le funzioni di carta di identità, tessera
sanitaria e carta dei servizi. Il DU è stato introdotto con il D.L. 13 maggio 2011, n. 70,
convertito nella L. 12 luglio 2011, n. 106, ed ha lo scopo, mediante l’utilizzo di
specifiche tecniche anticontraffazione, di garantire l’identità fisica e digitale del titolare,
contro il fenomeno dei furti di identità;
b) Domicilio digitale, sia per i cittadini che per le imprese (D.L. 29 novembre
2008, n. 185, convertito nella L. 28 gennaio 2009, n. 2): si tratta di interessanti
applicazioni della Posta Elettronica Certificata (PEC), volte a garantire, per i suddetti
soggetti, facilitazioni nel rapporto con le Pubbliche Amministrazioni ai fini del
riconoscimento dei rispettivi diritti fondamentali, e, in tal senso, si esprime l’art. 3-bis
del CAD;
c) PEC: sempre in tema, l’art. 48 del CAD prevede che la trasmissione in via
telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e una di consegna
avviene mediante casella di posta elettronica certificata, sistema che diviene la norma, ai
sensi del precedente art. 6, laddove vi sia stata, da parte di soggetti pubblici o privati,
una preventiva comunicazione di un indirizzo di PEC;
d) Documento informatico con firma elettronica: il documento informatico, di
cui agli artt. 20 e 23 del CAD, ha validità effettiva ai sensi di legge, nel momento in cui
è formato secondo le regole della conservazione, della copia, della riproduzione e della
validazione temporale – che ne garantiscono l’autenticità, l’integrità, l’identificabilità
dell’autore – nel momento in cui è sottoscritto con firma elettronica avanzata ha
efficacia di scrittura privata;
83
e) fascicolo sanitario elettronico (FSE): viene definito “l'insieme dei dati e
documenti digitali di tipo sanitario e sociosanitario generati da eventi clinici presenti e
trascorsi, riguardanti l'assistito”.
Il FSE è istituito dalle regioni e province autonome,nel rispetto della normativa
vigente in materia di protezione dei dati personali, ai seguenti fini:
a) prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione;
b) studio e ricerca scientifica in campo medico, biomedico ed epidemiologico;
c) programmazione sanitaria, verifica delle qualità delle cure e valutazione
dell'assistenza sanitaria.
Il FSE deve consentire anche l’accesso da parte del cittadino ai servizi sanitari
on line secondo modalità determinate nel decreto di cui al comma 7.
7.4. Commenti e conclusioni.
Per quanto concerne l’Agenda Digitale Europea, il panorama – sia pure ancora
lontano da una piena ed omogenea realizzazione – appare caratterizzato da alcuni
significativi successi.
Il più significativo successo si appalesa, come già indicato in precedenza,
nell’EUROPOL, che costituisce una realtà già in qualche modo collaudata e fruibile per
i Paesi UE, che hanno raggiunto significativi successi (in particolare l’Italia) nella lotta
alla criminalità organizzata: la libera fruizione di banche dati coordinate ha permesso,
negli scorsi anni, di catturare pericolosi latitanti appartenenti alle varie mafie.
Altro importante successo è rappresentato dall’ICE, di cui supra132; sulla base
del diritto di iniziativa, sono state presentate varie proposte, attualmente al vaglio della
Commissione europea. Tra esse, si annoverano:
a) “Fraternité 2020-Mobility Progress” (registrata il 9 maggio 2012), in tema di
potenziamento dei programmi europei di formazione (es. Erasmus);
132
pp. 64-65.
84
b) “Right Water 2”, iniziativa che esorta la UE a proporre una normativa che
sancisca il diritto umano all’acqua potabile;
c) “One of us”, in tema di protezione giuridica della dignità del diritto alla vita e
all’integrità di ogni essere umano: quest’ultima risulta, allo stato, l’iniziativa più
sostenuta, con 1.894.000 firme di ben 20 Stati dell’Unione.
Allo stato attuale, vi sono alcuni indicatori per i quali l’Unione Europea ha
raggiunto risultati, sia pure provvisori, di rilievo: ad esempio, in tema di banda
ultralarga, come già accennato, la media UE è del 54% dei cittadini fruitori – addirittura
del 90% in paesi-pilota come l’Olanda ed il Belgio – mentre per l’Italia la media scende
drammaticamente al 14%. Il gap si spiega non solo per il mancato investimento del
nostro Paese nelle tecnologie che si utilizzano, ma anche, a monte, nella mancanza di
una cultura che oramai è parte integrante della cultura europea133.
Altro obiettivo è l’e-Government: al riguardo, la media europea è del 44%,
mentre l’Italia è del 19%: anche qui il basso grado di digitalizzazione in Italia si spiega
con la resistenza di una cultura che ancora non riesce ad adeguarsi a parametri di natura
privatistica, sia pure modificata in base alle peculiarità del settore pubblico.
Questi due esempi mostrano comunque un’arretratezza del nostro Sistema-Paese
che non può non preoccupare, considerato che il 2015 è dietro l’angolo e il divario che
l’Italia deve colmare è assolutamente significativo.
Il Benchmarking framework, fissando gli obiettivi da raggiungere entro il 2015,
stabilisce le percentuali europee di raggiungimento, stimando al contempo la posizione
percentuale italiana; ebbene, anche qui, per alcuni versi, risulta imbarazzante:
a) Banda larga fissa: copertura di tutti i Paesi UE al 100% del loro
territorio(Italia: 95%);
b) Internet: stimato che il 75% della popolazione europea lo userà regolarmente
(Italia: 53%);
133
Fonte: Benchmarking framework- Quadro di valutazione comparativa 2011-2015.
85
c) Pubblica Amministrazione: almeno il 25% della popolazione europea potrà
interagire con le varie pubbliche amministrazioni (Italia: 8%).
E’ chiaro già da questi dati che l’Italia deve fare un cammino maggiore e più arduo rispetto alla media degli altri Paesi europei, avendo una relativa importanza la
circostanza che alcune Regioni (Lombardia in materia di documentazione digitale,
Toscana in materia di alcune applicazioni del FSE ) hanno posizioni sicuramente più
avanzate, in linea con gli attuali parametri europei.
In tal senso, il recente, forte richiamo dell’attuale Presidente del Consiglio134,
rivolto all’Europa nel suo complesso, affinché operi un salto di qualità nella
realizzazione e nell’applicazione del digitale, suona innanzitutto come uno sprone per il
nostro Paese, se vuole acquisire competitività nella nuova sfida globale propria dell’era
digitale.
134
Al Digital Agenda Forum organizzato da Confindustria il 21 ottobre 2013.
86
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