Qui - Liceo Corso

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a cura di Letizia Rustichelli e Monica Valcavi.
Si ringraziano i dirigenti scolastici:
Luciano Caselli, Davide Chiappelli,
Maria Rosa Ferraroni, e Franco Gallo.
Copyright © degli autori.
Editore Tecnograf
Via Fabo Filzi, 34 - 42100 Reggio Emilia
www.tecnograf.biz
Progetto grafico Francesco Tacchini
Isbn
Premessa di Rossella Crisafi, Donatella Bartoli
Il libro che avete in mano è l’ultimo prodotto in ordine di tempo, e il più
completo, di un progetto didattico su base triennale, esteso progressivamente
da uno a quattro istituti.
Il Liceo classico-scientifico “Ariosto – Spallanzani” di Reggio Emilia
ha dato vita all’attività nell’anno scolastico 2008/2009 con un ciclo di
conferenze sulla letteratura post-coloniale quali “Salman Rushdie” tenuta
dalla prof.ssa Silvia Albertazzi, “Peter Weir e la letteratura Australiana” dal
professor Matteo Baraldi e sul tema della letteratura come riscrittura della
tradizione dal titolo “La riscrittura e la letteratura di genere: mad woman in
the attic, analisi di Wide Sargasso Sea di J. Rhys” tenuta dalla prof.ssa Rita
Monticelli. In seguito, nell’anno scolastico successivo al ciclo di conferenze
tenute dal prof. Franco Nasi, “La traduzione: l’infinito movimento”, dalla
prof.ssa Federica Zullo, “Indias abroad: la diaspora indiana in lingua inglese”
e dal professor Matteo Campagnoli, “Tradurre Walcott” si è affiancato un
workshop di traduzione. Gli studenti hanno tradotto un racconto inedito
dell’autrice nigeriana Chimamanda Ngozie Adichie dal titolo “La storica
cocciuta”, dedicandosi ad un lavoro che ha permesso loro di sperimentare
nuovi modi per applicare concretamente metodi e studi intrapresi nei primi
anni di frequenza del liceo.
Scopo, obiettivo didattico del lavoro non era il prodotto fine a se stesso,
quanto apprendere un “miglior modo di leggere” e verificare l’attualità del
metodo di traduzione, che di solito i ragazzi applicano alle lingue antiche,
trasferendolo ad altri contesti: un esercizio di logica, che unisce al sistema
del problem solving, la sensibilità letteraria nel cogliere e traghettare all’altra
lingua i sottintesi e le sfumature di un testo. Gli studenti hanno messo, così,
alla prova le proprie competenze linguistiche in inglese, strumento che la
scuola ha offerto loro, una chiave dalle molte possibilità.
L’attività del secondo anno di lavoro si è concretizzata nella pubblicazione
di un libro dal titolo “La storica cocciuta”, che contiene saggi sulla letteratura
postcoloniale, sul significato del “tradurre”, sulla Nigeria e sull’autrice oltre,
naturalmente, al racconto in lingua originale e al lavoro degli studenti.
Gli insegnanti, sostenuti dall’entusiasmo con il quale gli studenti hanno
abbracciato l’iniziativa, e dall’aiuto di studiosi come la Dott.ssa Basso,
traduttrice per Einaudi, il Prof. Nasi e altri docenti universitari, hanno
deciso di dare un più ampio respiro al progetto, allargandolo a licei di altre
province. Dunque si sono associati in rete il liceo classico “Rinaldo Corso”
di Correggio, il liceo classico “San Carlo” di Modena ed il Liceo “Da Vinci”
di Crema.
Ogni scuola ha affrontato la traduzione di uno o più racconti di Chimamanda
Ngozie Adichie e ha partecipato ad un ulteriore ciclo di conferenze che si sono
svolte tra novembre 2010 e febbraio 2011: “Tradurre Chimamanda Ngozie
Adichie” di Susanna Basso, “Il workshop di traduzione come spazio della
riscrittura” di Monica Valcavi e Letizia Rustichelli, “La traduzione poetica”
di Attilia Lavagno. L’attività in rete si è rivelata una nuova ricchezza per le
scuole partecipanti, poichè oltre a confrontarsi con il testo ogni studente
ha potuto vedere come coetanei di diverse esperienze hanno affrontato
problemi simili. Mantenere la fedeltà al contesto culturale, al livello stilistico,
al registro lessicale, alla presenza e resa di vocaboli inesistenti nella nostra
lingua, e unire a questa traduzione fedele, a volte apparentemente pedissequa
o colloquiale, la capacità di appropriarsi del testo, di suonare insieme ad
esso. Oltre a ciò le insegnanti hanno contribuito con le proprie conoscenze
ed esperienze ad arricchire il progetto. Anche in questo caso l’attività non è
confinata ai banchi della scuola, benchè di più scuole, ma vuole aprirsi ad un
pubblico più ampio, presentandosi con l’edizione di questo volume, oltre alla
pubblicazione online.
In calce al presente volume sono riportate le osservazioni degli studenti; ci
rimettiamo alla loro voce e al vostro giudizio di lettori per ottemperare a quel
compito di verifica finale dei risultati che ogni progetto didattico impone.
letterature post coloniali
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26
40
44
English e englishes
Monica Valcavi
Indias Abroad: scrittori e storie della diaspora
indiana di lingua inglese
Federica Zullo
Nigeria, il contesto letterario
Monica Valcavi
The Single Story: la narrativa di Chimamanda
Ngozi Adichie
Letizia Rustichelli
lo spazio della riscrittura
48
52
Invito (cicogne)
Elisabetta Grisendi
L’Infinito movimento: nota sul tradurre
Franco Nasi
workshop di traduzione
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76
80
84
90
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Un’esperienza privata
Liceo “Da Vinci” di Crema
Chinasa
Liceo “Ariosto-Spallanzani” di Reggio Emilia
Capelli
Liceo “Ariosto-Spallanzani”
Quality Street
Liceo “Corso” di Correggio
La storica cocciuta
Liceo “Ariosto-Spallanzani”
Tu in America
Liceo “S. Carlo” di Modena
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114
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Il pensiero degli studenti
Traduttori
Appendice
conclusione
Liceo “Ariosto-Spallanzani”
10
English e englishes di Monica Valcavi
| letterature post coloniali
Nel 1989 tre studiosi australiani, Bill Ashcroft, Gareth Griffiths e Helen
Tiffin, pubblicavano quello che ancora oggi è considerato un testo canonico
nell’ambito della letteratura postcoloniale, The Empire Writes Back, volume
che, unitamente a Colonial and Postcolonial Literature, di Elleke Boehmer
del 1995, definisce l’ambito di studio in relazione all’analisi delle letterature
postcoloniali. L’indagine degli studiosi australiani introduce il campo di ricerca
nell’area anglofona determinando la nascita e lo sviluppo delle letterature
postcoloniali come definitiva abrogazione dell’imposizione linguistica del
potere imperiale, attraverso un processo opposto di appropriazione che ha
permesso ai diversi autori di trasgredire dall’interno delle stesse strutture
linguistiche, creando in questo modo nuove forme e nuovi usi della lingua
inglese. La forza delle letterature postcoloniali si sprigiona dall’originalità
linguistica, rielaborando quella stessa lingua che si riflette nel passato
imperiale. La sfida di molti autori postcoloniali si delinea pertanto come la
capacità di creare nuove metafore, diversi meccanismi linguistici e originali
forme comunicative sfruttando quell’idioma che per secoli è stato simbolo
dell’imponente presenza coloniale. Ed è proprio attraverso questa “nuova”
lingua, creata dal dinamismo di abrogazione e appropriazione che si sviluppa
il discorso sull’identità ibrida e migrante dell’autore postcoloniale.
Come evidenziano gli autori di The Empire Writes Back il ruolo della
riformulazione linguistica è centrale nelle letterature postcoloniali. Non a
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caso il secondo capitolo del loro volume è interamente dedicato allo studio del
processo di rimodulazione della lingua che si verifica nel testo postcoloniale:
“Re-placing language: textual strategies in post-colonial writing”. Il
dinamismo linguistico dei testi postcoloniali è caratterizzato dall’ambivalenza
e dalla tensione tra la lingua ufficiale e quella locale, a loro volta riflesse della
polarizzazione coloniale tra centro e margine/periferia, tra la monolitica
eredità culturale dell’Impero e l’ibridismo variegato delle colonie.
‘This literature is therefore always written out of the tension between the abrogation
of the received English which speaks from the centre, and the act of appropriation
which brings it under the influence of a vernacular tongue, the complex of speech
habits which characterize the local language (…)’ I
La complessità del rapporto tra lingua ufficiale e lingua locale si evidenzia
maggiormente a seconda che ci si trovi di fronte ad una variante dell’inglese
ufficiale, come ad esempio nei Caraibi, oppure si tratti di comunità bilingue,
come l’India, i paesi africani, dove l’inglese standard si identifica come la
lingua delle istituzioni e delle transazioni commerciali e – in particolare in
epoca coloniale – come idioma dell’autorità centrale imposta esternamente.
Le strategie adottate degli scrittori postcoloniali spesso evidenziano la
tendenza a polarizzare diverse realtà linguistiche – sottolineando la tensione
tra centro e margine, tra potere imperialista e realtà dell’ex-colonizzato –
ma, allo stesso tempo, anche ad integrare i due estremi. In molti casi si
può assistere ad un adattamento di alcune forme sintattiche della lingua
locale a quella inglese o all’inserimento di parole indiane o africane nella
frase, oppure all’alternanza di stili e registri linguistici (code switching).
In rapporto all’autore, al genere che adotta per la sua espressione artistica,
sia esso poesia, narrativa o teatro, gli autori di The Empire Writes Back ne
riconoscono la forza culturale nella volontà di rappresentare linguisticamente
lo spazio delle colonie. Citando George Lamming II e la sua lingua creola si
dimostra come la variante linguistica, articolata in forma letteraria, assuma
una forza e una valenza culturale tale da spostare in maniera significativa
il concetto di autorità culturale associato al centro. In questo modo le
periferie entrano prepotentemente nella cultura, formulando una lingua,
che sebbene sia inglese, presenta nuovi meccanismi linguistici, formulati
I
Bill Ashcroft, Gareth Griffiths, Helen Tiffin, The Empire Writes Back, Theory and Practice in Postcolonial Literatures, Routledge, New York, London, 1989, p. 39.
II
George Lamming è uno dei massimi autori della letteratura caraibica in lingua inglese. E’ nato
a Barbados nel 1927 e il suo romanzo In the Castle of My Skin del 1953 è considerato un testo classico della
letteratura delle Antille. Ha scritto diversi romanzi trattando spesso il tema dell’esilio e della migrazione (The
Emigrants, 1954, The Pleasure of Exile, 1960, Natives of my Person, 1972). Assieme a K. Braithwaite, poeta delle
Barbados, Derek Walcott di St. Lucia, Lamming rappresenta una delle più importanti voci della letteratura dei
Caraibi anglofoni.
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attraverso i diversi registri e inedite metafore. La rappresentazione letteraria
della variante linguistica, secondo quanto si legge in The Empire Writes Back
rende problematica, in maniera definitiva, la centralità dell’inglese standard.
Sebbene l’inserimento della variante potrebbe apparire, metaforicamente,
come l’ingresso della cultura periferica all’interno dell’autorità testuale
definita dal canone, la trasformazione artistica e letteraria della variante
linguistica resta sempre una parte, o meglio, un interstizio che assume un
valore di notevole spessore culturale. Ciò che deve essere considerato in
relazione al testo postcoloniale e alla sua lingua, è pertanto la sua specificità,
la sua tendenza a rappresentare una realtà locale, che solo come tale deve
determinare una diversa percezione della cultura intesa come possibilità di
articolare e di rappresentare la differenza. In questa prospettiva, il riferimento
al pensiero di Homi Bhabha appare del tutto calzante: ‘The importance of
the metaphor/metonymy distinction to post-colonial texts Is also raised by Homi
Bhabha. His point is that the perception of the figures of the text as metaphors
imposes a universalist reading because metaphors makes no concession to the cultural
specificity of the texts. (…) The variance itself becomes the metonym, the part which
stands for the whole.’ III
Similmente, Elleke Boehmer riconosce l’incisiva forza manipolatrice che
riaffiora nella lingua del testo postcoloniale. La scelta di scrivere e pubblicare
in inglese non è solo legata alla possibilità di raggiungere un’ampia ricezione
di pubblico (come d’altra parte riconobbe lo stesso scrittore nigeriano Chinua
Achebe), ma è anche data da una precisa realtà socio-culturale conseguente
sia alla colonizzazione sia al processo di decolonizzazione. Scrive infatti
Boehmer: ‘(…) the English language itself, shared amongst a varied group of
postcolonial nations, is showing signs of its transcultural migrations. English in
India, spoken by over 20 million people, coexists and intermingles with regional
languages.’
Il consolidarsi di diverse voci, che, seppure in lingua inglese, traboccano
di culture e identità diverse, induce a concepire in modo diverso lo spazio
della narrazione: disseminato e diasporico. Il critico postcoloniale Homi
Bhabha nel saggio, “Dissemination”, individua proprio nell’eterogeneità
culturale di questi spazi disseminati e interstiziali, una nuova possibilità di
articolazione culturale. Nel saggio in questione Bhabha riflette sul concetto di
“nazione” smantellandone l’immagine definita da una prospettiva geopolitica
e storicista. L’idea di nazione che propone Bhabha è modulata dalla lingua
e dalla percezione di una spazio dinamico liminale e microscopico, un’idea
di nazione ibrida e caotica, dove i confini spesso si modificano, si allargano
e, contemporaneamente, si annullano. Bhabha parla infatti della forza
III
Ibid. p. 51.
ENGLISH E ENGLISHES
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performativa che costruisce la sua idea di nazione, liberata da ogni concetto
di potere e autorità. Il “performativo” altro non è che la narrazione, e per
spiegare questo concetto il critico non ricorre ad un’autore delle ex colonie,
bensì a Goethe e al suo bellissimo libro Viaggio in Italia (Italieniche Reise).
L’esperienza del viaggio, della dislocazione – anche se volontaria – e della
migrazione si riflette sul linguaggio e su quella che Bhabha, riprendendo
Bachtin, definisce “national vision of emergence”.IV Il realismo dello scrittore
tedesco riproduce infatti il microcosmo della quotidianità italiana, che “rivela
la profondità della storia nel suo spazio, (Lokalität), la spazializzazione
del tempo storico” V. Quello che Bhabha ci vuole trasmettere è che il senso
dello spazio e della storia possono trasparire dal linguaggio artistico e dalla
capacità dell’autore di calarsi in un realtà microcosmica e liminale tale
da rappresentare la sua totalità. Questa localizzazione letteraria, sempre
secondo Bhabha, crea la vera storia della nazione. Pertanto l’idea di nazione si
trasforma nella sua possibilità di essere narrata e articolata in forma artistica
e letteraria in realtà spaziali che non sono necessariamente circoscritte e
definite da parametri squisitamente geografici e storici. Opponendosi all’idea
di uno storicismo statico e predeterminato culturalmente, Bhabha riprende
anche l’idea di “comunità immaginate” di Benedict Anderson in cui si
storicizza continuamente e dinamicamente la nascita del “segno arbitrario
della lingua” (la variante linguistica), e in cui si definisce la potenza narrativa
del moderno concetto di nazione.VI In questo senso, la differenza culturale,
attraverso la narrazione, entra nello spazio nazionale, sempre diversamente
storicizzato e spazializzato; contemporaneamente la variante linguistica è la
metonimia che rappresenta il luogo e la storia di coloro che appartengono
a tale “diversità”. Questo nuovo concetto di spazio-nazione si coniuga con
l’idea di cultura transnazionale a cui faceva riferimento la citazione tratta
da Elleke Boehmer. Lo spazio-nazione è transnazionale in quanto i confini
debordano in un incontro di culture e voci narranti, e come scrive Silvia
Albertazzi, “la nazione viene scritta da quanti ne occupano le zone marginali:
donne, immigrati, lavoratori migranti, soggetti coloniali”; VII inoltre, la
traccia transculturale e transnazionale della letteratura postcoloniale e della
migrazione storicizza la differenza e la visione dell’altro attraverso continui
processi di ibridazioni culturali e linguistiche. Un’osmosi che presuppone la
perenne negoziazione tra lingue diverse: l’inevitabile passaggio da una lingua
IV
Homi Bhabha in “DissemiNation”, Nation and Narration, a cura di H. Bhabha, Routldge, London,
1990, p. 294.
V
Ibid. p. 294 (citazione tradotta)
VI
Ibid. p. 308, il testo a cui fa riferimento Bhabha è Imagined Comunities, Benedict Anderson, Verso,
London, 1991.
VII
Silvia Albertazzi, Lo sguardo dell’altro, Carocci, Roma, 2000, p. 128.
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all’altra, ovvero un processo traduttivo, continuo, forzato, tale da generare un
linguaggio diverso, modulato sulla capacità traduttiva dell’essere migrante e
diasporico, il soggetto coloniale, appunto, il traduttore e il tradotto.
LA TRADUZIONE COME METAFORA DELLA MIGRAZIONE
Tra le più interessanti definizioni del concetto di traduzione nell’ambito della
teoria postcoloniale, significativa è quella formulata da Salman Rushdie nel
romanzo Shame e nei suoi saggi. Del termine “tradurre”, l’autore osserva e
enfatizza l’accezione desunta dal significato di “trasportare”, “condurre”,
inglobando il senso del passaggio e della conduzione di un determinato
oggetto da un luogo all’altro. Rushdie afferma che il migrante è un uomo
tradotto, in quanto “trasportato” culturalmente, oltre che in senso
geografico, da un punto all’altro, così come uomini tradotti sono coloro che
sono stati colonizzati, e quindi trasportati forzatamente verso l’assimilazione
di un cultura diversa. La traduzione è pertanto il trasporto dell’io tra due
diversi piani del linguaggio, includendo così non soltanto la lingua ma
anche la cultura. Il migrante, o il soggetto colonizzato/ex-colonizzato, vive
l’ambivalenza linguistica e culturale data dalla dinamica centro/periferia,
agendo all’interno di uno spazio-nazione interstiziale in cui collidono la sua
identità locale e quella coloniale. Ed è proprio in questo spazio-nazione, in
bilico tra due lingue, costantemente tradotto, che si articola e si autodefinisce
la narrazione, ora espressione della differenza e dell’alterità integrata in tale
spazio, rappresentata non più come distanza, bensì come parte che compone la
totalità delle culture e delle lingue. Lo scrittore migrante riformula la propria
identità linguistica e culturale in un luogo narrativo che, metaforicamente,
riproduce il mondo ibrido e frammentato del migrante, spazio-nazione o
patria “immaginaria”. Osserva infatti Salaman Rusdhie: ‘It may be that writers
in my position, exiles or emigrants or expatriates, are haunted by some sense of loss,
some urge to reclaim, to look back, even at the risk of being mutated into pillars
of salt. (…) that we will, in short, create fictions, not actual cities or villages, but
invisible ones, imaginary homelands, Indias of the mind.’ VIII
Il pensiero di Rushdie permette di comprendere il processo di abrogazione/
appropriazione linguistica di cui si accennava all’inizio. La realtà è infatti
necessariamente rielaborata, in quanto la memoria agisce sulle immagini
(“Indie della mente”) e sulla capacità di formularne nuove attraverso un
diverso linguaggio. La lingua dell’artista rinomina in maniera del tutto inedita
il suo spazio, sia esso la metropoli dell’ex madrepatria o il suo spazio nativo,
percepito in maniera “indipendente” senza più la presenza dell’autorità
coloniale. Così accade per Rushdie in Midnight’s Children dove la lingua inglese
VIII
Salman Rushdie, "Imaginary Homelands", Essays and Criticism, 1981-1991, Penguin Book, London,
1991, p. 10.
ENGLISH E ENGLISHES
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si dilata in un groviglio di periodi interminabili e intricati, in un complesso
narrativo che colora di elementi magici e soprannaturali la ricostruzione
storica dell’indipendenza indiana. Così l’intreccio barocco della lingua e
della narrativa di Rushdie contaminano il paesaggio della capitale britannica
in The Satanic Verses, metafora della trasformazione del migrante in terra
inglese, ma anche del cambiamento dello stesso concetto di cultura British.
‘The Satanic Verses celebrates hybridity, impurity, intermingling, the
transformation that comes of new and unexpected combinations of human beings,
cultures, ideas, politics, movies and songs. It rejoices in mongrelization and fears of
absolutism of the Pure. Mélange, hotchpotch, a bit of this and of that is how newness
enters the world.’ IX
La necessità di rinominare – e quindi tradurre – le peculiarità ibride del
proprio ambiente, adottando nuove metafore è una costante di molti grandi
autori postcoloniali. Abandoning Dead Metaphors è il titolo di un saggio
dedicato al poeta caraibico, premio Nobel, Derek Walcott X. L’autrice, Patricia
Ismond, analizzando i versi di The Castaway sottolinea la forza trasgressiva
della lingua data dalla capacità dell’autore di riformulare poeticamente la
percezione della prepotente bellezza del paesaggio caraibico:
‘God-like, annihilating godhead, art
And self, I abandon
Dead metaphors…’
Per Walcott, il ruolo del poeta è quello di elaborare una nuova percezione
dello spazio dell’isola nativa, manipolando la mitica figura del naufrago
Crusoe, prototipo del colonizzatore europeo, ma anche di un nuovo Adamo
che rinomina l’ambiente che lo circonda. La poesia deve fare udire e fare
visualizzare la magia del paesaggio dei Caraibi, resa unica dalla sua luce,
dal suono e dal colore del mare, dai toni accecanti e crepuscolari del cielo.
La poesia diventa lo strumento per tradurre il fascino scolpito nella bellezza
sublime dell’isola e per esprimere la visione estatica della purezza dei Tropici.
Tuttavia Walcott, come Rushdie, è ben lungi dall’essere un autore romantico.
La traduzione in versi del suo mondo ne riflette l’incanto ma anche la
IX
Imaginary Homelands, op. cit. p. 394. Qui Rusdhie cita Homi Bhabha, l’espressione “honewness
enters the world”, altro non è che il titolo di un saggio di Bahbha in The Location of Culture, dove lo studioso,
sempre esaminando il rapporto tra spazio e cultura, analizza il linguaggio poetico di Derek Walcott e la sua forza
trasformatrice e trasgressiva data proprio da quel “mongrelismo” di cui parla Rushdie. A tale proposito si rimanda
anche alla lettura del poema di Derek Walcott Tiepolo’s Hound, celebrazione di tale concetto di “mongrelismo”
culturale e linguistico.
X
Patricia Ismond, "Abandoning Dead Metaphors", The Caribbean Phase of Derek Walcott’s Poetry,
University of the West Indies Press, Kingston, 2001.
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
sofferenza, la cicatrice storica, il marchio della colonizzazione. Il mare dei
Caraibi è, come scrive nella poesia The Sea is History, il luogo che nasconde
la storia sommersa del popolo caraibico, la tragedia del Middle Passage e il
dramma dello schiavismo.
‘Where are your monuments, your battles, martyrs?
Where is your tribal memory? Sirs,
in that gray vault. The sea. The sea
has locked them up. The sea is History.’
Il nuovo linguaggio poetico e narrativo degli autori postcoloniali è pertanto
il mezzo per tradurre e trasportare il significato di un’esistenza sommersa,
il suono di una voce mai udita, il senso di una vita migrante la quale ritrova
parte della propria identità proprio in quella lingua ibrida, e nella sua
possibilità di essere tradotta.
LA TRADUZIONE COME METAFORA DELLA MEMORIA
Una caratteristica che accomuna buona parte delle opere postcoloniali
è ossessiva presenza del ricordo, memoria personale o sociale. Nel tessuto
tematico del testo postcoloniale emerge l’urgenza di riscrivere la storia per
tradurre il senso di ciò che è stato rimosso dal processo di colonizzazione.
Osservano a questo proposito Ashcroft, Griffiths e Tiffin: ‘The seizing of
the means of communication and the liberation of post-colonial writing by the
appropriation of the written word become crucial features of the process of selfassertion and of the ability to reconstruct the world as un unfolding historical
process.’ XI
Nel saggio The Muse of History di Derek Walcott, l’autore elabora l’idea di una
storia mitica tradotta dalla voce del poeta viandante che porta dentro di sé
tutte le culture e di conseguenza tutte le lingue.XII In questo modo l’arte della
parola si rafforza della sua capacità di trasportare e di diffondere la voce di
chi non è mai stato ascoltato, di colui al quale, come al Friday di CoetzeeXIII,
è stata negata la possibilità di articolare la propria identità, di chi si è visto
cancellare la propria storia e quella del proprio popolo. Il poeta e lo scrittore
postcoloniali sono quindi traduttori, i traduttori a loro volta creatori di nuove
XI
The Empire Writes Back, op. cit. p. 82.
XII
Derek Walcott, The Muse of History in Critics on the Caribbean Literature, a cura di Edward Baugh,
George & Allen Unwind, London, 1978.
XIII
J.M. Coetzee è lo scrittore sudafricano, noto autore di grandi opere della letteratura postcoloniale
del Sud Africa, tra cui Waiting for the Barbarians e la riscrittura di Robinson Crusoe, Foe. Opera di fondamentale
importanza per le implicazioni postmoderne oltre che postcoloniali, in cui l’autore immagina un Friday
completamente assoggettato all’uomo bianco e al meccanismo dello schiavismo. Figura simbolo della sofferenza
della colonizzazione e dell’abnegazione forzata della propria identità, Friday è completamente muto, in quanto gli
è stata tagliata la lingua da un mercante di schiavi.
ENGLISH E ENGLISHES
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storie. Il romanzo/documento autobiografico di Daud Hari, sudanese, si
prefigge questo scopo. The Translator è l’autore stesso che vaga nel Darfur e,
accogliendo dentro di sé le storie dei pastori tribali della sua terra, le traduce
con l’intento di denunciare le atrocità perpetrate al suo popolo, coro di voci
tragiche il cui orribile destino è stato per anni avvolto dal silenzio. La voce di
quel popolo, la sua sofferenza penetrano nella storia e nel mondo grazie al suo
traduttore, simulacro di un sacro protettore della sua memoria. Rivolgendosi
prima a Dio, a cui consegna la sua opera come un’offerta, e al proprio lettore,
il traduttore si affida alla volontà divina e ringrazia coloro che leggeranno le
sue parole, come in un patto di fede, accettando di percorrere un cammino,
lungo e difficile, nella memoria del popolo del Darfur, nella ricostruzione
della loro storia mai raccontata e mai ascoltata prima d’ora.
‘Ecco, Signore, ora con il mio cuore io sono lassù, e lascio questo libro sulla
montagna come offerta. E Ti invoco con tutti i Tuoi Nomi e prego la nostra
Madre Terra e tutti i profeti e gli uomini e le donne dotate di saggezza e
gli spiriti del Cielo e della Terra di aiutarci ora nel momento del bisogno.
Quanto a te, amico mio, mio lettore, ti ringrazio per avere intrapreso questo viaggio:
è una storia dura, ma vi troverai cose che ti sorprenderanno e ti renderanno felice di
avere camminato insieme a me.’ XIV
In questo modo la scrittura, come traduzione della sofferenza, si carica di una
forza mitica e sacrale, che avvolge anche chi legge. L’arma di Dauod come
egli stesso scrive, è la lingua, la sua capacità di mediare tra un documentarista
inglese e i ribelli del Darfur. Nel 2006, durante queste missioni fu catturato,
imprigionato, torturato e più volte sul punto di essere fucilato. Il suo umile
contrattacco si è rivelato nell’instancabile fiducia nella parola, nel dialogo e
nella conoscenza della lingua inglese che gli ha permesso di urlare al mondo
le tragiche conseguenze della politica sudanese di Bashir. La scrittura
postcoloniale è quindi denuncia, ricostruzione della memoria sociale e di una
storia mai raccontata. Per questo molto spesso la scrittura postcoloniale è
anche traduzione di un’identità ibrida, frammentata, modulata dal caotico
incontro/scontro di culture e lingue.
LA TRADUZIONE COME METAFORA DELL’IDENTITÀ
James Joyce, terminando il suo romanzo autobiografico A Portrait of the
Artist as a Young Man, dichiarò attraverso il ben noto “non serviam”, di
volere abbandonare definitivamente la sua patria, la sua famiglia e la sua
religione; decisione dettata dal desiderio di evadere dalla soffocante paralisi
XIV
Daoud Hari, Il traduttore del silenzio, Piemme, Milano, 2009, p. 8. Traduzione italiana di
The Translator.
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
del mondo dublinese e da un provincialismo culturale, che, a suo avviso, non
gli avrebbero mai permesso di esprimere la sua arte, e con ciò di trasformare
il suo linguaggio artistico in maniera esemplare. L’esilio che si impose lo
condusse a creare una forma narrativa rivoluzionaria e unica e ciò fu reso
possibile solo dall’incontro/scontro tra il suo indelebile background irlandese
e la traccia mitteleuropea incisa dalla migrazione. Joyce non abbandonò mai
veramente l’Irlanda, sempre con lui sia attraverso la presenza dell’affascinante
Nora Barnacle, ma anche attraverso quella “patria immaginaria” che
delimita lo spazio narrativo dei suoi capolavori. Così infatti la lettura dei
racconti in The Dubliners e le pagine di Ulysses conducono il lettore attraverso
i paesaggi urbani dell’ambiente nativo dello scrittore irlandese. La distanza
dalla città amata e odiata allo stesso tempo, gli ha permesso di tradurne la sua
essenza, ovvero la percezione di una Dublino marchiata da un inquietante
immobilismo politico e culturale e da un’inesorabile assenza di una qualsiasi
traccia eroica che infesta l’individuo moderno, per sempre trasformato da un
crollo totale di valori e certezze. Tuttavia, anche se è eternamente Dublino
che solca la mente dello scrittore irlandese, la sua identità e la sua lingua,
non si può dimenticare la presenza di Trieste, altra città che ebbe su Joyce
l’energia di trasformare la sua interiorità di uomo e artista.
Pochi conoscono il testo in prosa Giacomo Joyce, enigmatico scritto costruito
interamente sullo sfondo triestino, dove si narra di un giovane insegnante
d’inglese coinvolto in una relazione amorosa con una studentessa. Tutto il
testo trasuda di elementi triestini: l’irredentismo, il marchio dell’ebraismo,
il paesaggio, i colori, le donne, come afferma Schneider, studioso ed esperto
degli scritti joyceiani.XV Il breve racconto, la cui data di stesura resta incerta
tra il 1912 e il 1914, ritrae, in una prospettiva autobiografica, un uomo che
ha reso Trieste la sua seconda patria, luogo di opportunità professionali ma
anche sentimentali. L’opera è la traduzione di una nuova identità trasformatasi
attraverso l’incontro con uno nuovo spazio urbano. La doppiezza che cela
lo scrittore, in bilico tra due identità, è già racchiusa nel nome: Giacomo,
l’uomo “tradotto”, trasformato e pronto a lanciarsi in un’avventura morbosa
con una donna triestina, e Joyce il cognome irlandese, che rimanda all’altra
identità di padre di famiglia e devoto compagno di Nora. La presenza della
cultura triestina è inoltre documentata dalla scelta di tradurre parte del
proprio nome, titolo dell’opera, così come nella vita reale, lo scrittore decise
di chiamare i propri figli con nomi italiani: Giorgio e Lucia. Come osserva
Marsan in “Giacomo Joyce” or James Joyce in Trieste, la lingua italiana e
XV
Erik Schneider, Joyce attraverso lo specchio: Trieste & Giacomo Joyce in R. S. Crivelli e John McCourt,
Le donne di Giacomo, Hammerle Editori, Trieste, 1999.
ENGLISH E ENGLISHES
19
la variante del dialetto triestino erano comunemente usati in casa Joyce.XVI
La traduzione, nel quotidiano e nel letterario, conferma la trasformazione
identitaria dello scrittore irlandese, la volontà di assorbire ed esprimere i due
mondi a cui apparteneva contemporaneamente: quello dublinese e quello
triestino, fusi in quello spazio, unico e mitico, che fa da sfondo anche al
peregrinare di Bloom in Ulysses.
Riscrivere la propria identità, ritradurla in un contesto di ibridazione
linguistica e culturale, riformularne la peculiarità linguistica in bilico tra due
o più mondi di appartenenza, esemplificativa di una condizione esistenziale
transitoria è quanto si cela ed emerge nella magnetica e affascinante narrativa
di autori “migrant” anglofoni di seconda o terza generazione, tra cui non
possono non comparire nomi come Zadie Smith, Hanif Kureishi e Jumpha
Lahiri. Accomunati da una traccia diasporica inscritta nel loro linguaggio
e nelle loro storie, queste voci non nascondono mai le loro origini. Al
contrario, la loro narrativa trasforma e traduce il loro spazio ampliandone
e rimodellandone i confini. Kureishi in The Buddha of Suburbia dipinge una
Londra multiculturale e ibrida dove la britishness del protagonista si fonda
sulla completa integrazione tra la matrice britannica (la madre) e quella
indiana (il padre). In White Teeth, Smith ritrae il crogiuolo culturale della
metropoli londinese attraverso il nuovo trend che induce genitori britannici
a battezzare i propri figli con nomi di altre culture e di altri luoghi e nel
caotico intreccio di rapporti affettivi e familiari in cui collidono lo spazio
caraibico, l’indiano e quello londinese. I protagonisti delle sorprendenti
storie di Jumpha Lahiri sono quasi tutti americani di origine bengalese, le
cui esistenze si modulano come il movimento ondeggiante del mare, in un
gioco chiaroscurale di ricordi, reminescenze ataviche, incontri casuali di
persone conosciute nell’infanzia, suoni e voci di una terra lontana che ritorna
e risucchia la vita stessa; così accade, ad esempio, nel racconto Going Ashore,
che chiude la raccolta Unaccostumed Earth, dove la giovane protagonista
americana, studiosa di lettere antiche, solo alla fine si rende conto di amare
profondamente un giovane indiano di Bombay, naturalizzato americano,
conosciuto durante l’adolescenza. Mentre capisce che è con lui che vorrebbe
vivere per tutta la vita, un infame destino glielo sottrae, conducendo l’uomo
in una dimensione ultraterrena, verso la madre morta prematuramente.
Tuttavia la colpa non è solo del fato, bensì di scelte sbagliate e da parametri
d’identità confusi. Da un lato Hema resta imprigionata nella scelta di sposarsi
in India con un uomo che conosce appena, dall’altro Kaushik, fotoreporter
di zone di guerra, trascorre una vacanza a Pukhet, forse per dimenticare
quell’amore cancellato da falsi valori. Annullato dalla potenza malvagia
XVI
Giorgio Marsan, “Giacomo Joyce or James Joyce in Trieste”, Englishes, Letterature inglesi
contemporanee, no. 27, 2005, pp. 83-93.
20
L O S T I N T R A N S L AT ION S
dello tsunami, Kaushik resta per Hema, che apprende la notizia del disastro
naturale il giorno del suo matrimonio, un desiderio lontano, un ineffabile e
inafferrabile Streben, verso un’identità sommersa e misteriosa.
La traduzione della propria identità nel caos di questo spazio narrativo,
simbolo del caos esistenziale, concorre tuttavia a disciplinare la frustrazione
e la rabbia di chi fatica a riconoscere a quale cultura appartiene.
‘...forse la più grande rabbia e la più grande frustrazione derivano invece dalla
sensazione di non appartenere a nessuna cultura perché sei lacerato tra culture
diverse, tra simboli incompatibili. Come puoi esistere se non sai dove sei, se devi
accogliere nello stesso tempo la cultura dei pescatori thailandesi e quella dell’alta
borghesia parigina, quella dei figli di immigrati e quella dei membri di una vecchia
nazione conservatrice? Allora bruci le macchine, perché non appartieni a nessuna
cultura.’ XVII
La citazione dal libro di Muriel Barbery, attraverso le profonde riflessioni
della piccola Paloma, permette di individuare nella scrittura (celebrata
nel testo in senso metalinguistico anche come fuga dalla morte e ricerca
del sublime), la volontà di creare un luogo narrativo che esemplifichi il
caos-mondo, che disciplini l’incongruenza delle culture, la sofferenza che
scaturisce dal sentirsi diverso, la frustrazione di chi non si sente adeguato.
Ma è proprio l’accettazione di questo mondo caotico, in cui è possibile
incrociarsi, unirsi, relazionarsi e conoscersi, che genera, secondo la visione
del filosofo martinicano Edouard Glissant, la profonda consapevolezza di
appartenere al tutto e quanto tutto possa essere meraviglioso nell’accattivante
dimensione del caos-mondo: ‘Credo che ci sia una solidarietà di tutte le lingue del
mondo e che ciò che crea la bellezza del caos-mondo è questo incontro, sono questi
scoppi, queste esplosioni di cui non siamo ancora riusciti a capire né l’economia, né i
principi.(…) ciò che io chiamo caos-mondo, questo incontro conflittuale e magnifico
delle lingue(…) di cui, ripeto, non abbiamo neanche cominciato a cogliere realmente
l’immaginario o a capire i principi.’ XVIII
Glissant ci parla di un mondo basato sulla relazione, sulla reciprocità, sulla
conoscenza dell’altro e sulla sua integrazione. Un mondo dove l’identità si
crea nella relazione e non attraverso il possesso del territorio e la proprietà.
La traduzione dell’essere migrante, della storia mai narrata e dell’identità
lacerata si sprigiona dalla volontà di esprimere la differenza culturale e la
XVII
Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni e/o, Roma 2007, p. 251, traduzione italiana di
L’élégance di hérisson, Gallimard, Parigi, 2006.
XVIII
Edouard Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, Roma, 1998, p. 87, traduzione italiana di Introduction
à une poétique du different, Gallimard, Parigi, 1996.
ENGLISH E ENGLISHES
21
faticosa comprensione della dimensione dell’altro, generando un’energia di
voci e culture che si incontrano in un mondo caotico e relazionale.
LA TRADUZIONE DELLA CULTURA
Ciò che emerge da quanto analizzato fino ad ora è la forza traduttiva delle
letterature postcoloniali, intesa come la volontà di riformulare attraverso
un linguaggio diverso – la variante linguistica – uno spazio identitario mai
articolato prima, in sintesi come la possibilità di dare voce a tutte le minoranze,
a tutti coloro che compongono gli spazi liminali di un mondo globalizzato
e multiculturale. Ciò non ha mai significato annullare le specificità e le
differenze culturali, bensì ciò ha significato articolarle, narrarle, e con ciò
ascoltarle e conoscerle. Questo è il primo passo verso un’antropologia della
reciprocità che si basa sul dialogo e sulla relazione. La traduzione è pertanto
un potente mezzo di conoscenza, uno strumento che permette la relazione
e il dialogo interculturale. La traduzione della cultura è un altro grande
contributo delle letterature postcoloniali, che da una lato hanno tradotto
la condizione esistenziale del migrante attraverso un riposizionamento
linguistico, e dall’altro hanno contribuito a diffondere e fare conoscere
culture diverse che coesistono in più luoghi. Come osserva Peeter Torop il
concetto di cultura è strettamente legato al processo di traduzione.
‘Culture operates largely through translational activity, since only by the inclusion
of new texts into culture can the culture undergo innovation as well as perceive its
specificity. After the expansion of postcolonial and the related field of gender studies
into translation studies, the borderline between culture studies and translation
studies has become fuzzier, yet at the same time there has emerged a visible
complementarity.’ XIX
Definendo così da un lato l’interesse dei cultural studies nella genesi
dell’identità culturale, Torop analizza I vari segmenti nella prassi traduttiva
individuati dalla scienza della traduttologia: interlinguistica, intralinguistica
e intersemiotica, tra l’altro basata sulla distinzione approntata dal linguista
Jakobson. Il punto d’incontro che Torop individua tra la traduzione e la cultura
– sia nell’ambito semiotico che in quello dei cultural studies – non è tanto la
semiotica della cultura, ovvero la formazione dei processi comunicativi in
dati contesti culturali, bensì la realtà del linguaggio di un dato testo, la sua
lingua come passaggio e formazione di cultura.
XIX
Peeter Torop, “Translation as Translating as Culture”, Sign System, 30.2. 2002
22
L O S T I N T R A N S L AT ION S
‘Culture has its own sign system or languages on the basis of which the members of
the culture communicate. Thus, one possibility to understand a culture is to learn the
languages of the culture, the sign systems operating within the culture.’
La traduzione, in questo senso, progredisce sempre di più verso l’apertura e
la creazione di nuovi spazi culturali, modificando le prospettive della cultura
del testo che è la fonte della traduzione. Considerando le riscritture un
particolare tipo di traduzione, (interlinguistica o intersemiotica) l’esempio di
The Odyssey, A Stage Version di Derek Walcott si offre come tra i più semplici
e significativi. L’autore caraibico, già abituato a “tradurre” il testo omerico
come ha dimostrato con Omeros, ha optato per una scelta intersemiotica
dell’epica greca, spettacolarizzando il testo poetico. Ammettendo che lo
stesso percorso è stato scelto anche da Joyce nel suo romanzo Ulysses, lo scopo
non è solo un’ulteriore versione della manipolazione del mito di Ulisse, bensì
quello di tradurre la cultura di un dato luogo per appropriarsene. Come la
lingua inglese si è decolonizzata, sfaldandosi in varianti metonimiche, così
la “cultura ufficiale” si frantuma in voci e spazi disseminati. Il valoroso
Ulisse omerico si traduce nell’ordinary man dublinese, mentre dalla penna
di Walcott ne esce un viaggiatore caraibico, alter ego dell’autore, la cui
identità si plasma nell’incontro con la gente e i paesaggi del suo continuo
peregrinare. Pur rispettando la dinamica dell’intreccio, oscillando tra le
implicazioni dell’essere un “onesto traduttore”, Walcott lo manipola nelle
sfumature linguistiche, dense di rimandi alla tradizione orale Anansi delle
Antille, oppure nei numerosi riferimenti autobiografici che si celano negli
episodi di Tiresia, nel ritorno a casa di Ulisse, o, infine, nell’inserimento
di figure tipicamente caraibiche, come il cantastorie cieco Billy Blue, a sua
volta, reminiscenza di Omero. Buona parte del teatro di Walcott può apparire
come una maestosa traduzione, intesa come riscrittura, di grandi autori
occidentali, da Shakespeare, Marlowe a Tirso de Molina e Daniel Defoe.
La sua traduzione è in questo caso l’appropriazione e la manipolazione della
cultura coloniale, rimodellata in terra caraibica, la creazione di uno spazio
interculturale che celebra l’incontro di diverse tradizioni: quella occidentale
e quella caraibica.
Il caso Walcott permette di tracciare un vero e proprio filo conduttore tra i
postcolonial e i translation studies, come dimostrano, in ambito teorico, i volumi
di Susan Bassnett Constructing Cultures e Postcolonial Translation: Theory and
Practice. In quest’ultimo Bassnett cita il pensiero di Octavio Paz, relativo alla
traduzione come metodo per comprendere la cultura di tutto il mondo.
ENGLISH E ENGLISHES
23
‘Octavio Paz claims that translation is the principal means we have to
understand the world we live in. The world, he says, is presented to us as a growing
heap of texts.’ XX
L’autrice sottolinea come il pensiero di Octavio Paz individui nella scrittura
creativa la tendenza a riformulare testi del passato, a tradurli in nuove forme
e varianti linguistiche e come la traduzione sia un mezzo di conoscenza
ma anche di innovazione e creazione. La traduzione postcoloniale diventa
pertanto una creazione, la scultura linguistica di un nuovo testo. Tradurre,
come sostiene Franco Nasi, non è un’operazione neutra, un semplice transito
da una lingua all’altra, sterile e vuoto: ‘Il traduttore letterario interviene nella
struttura del tessuto, studia i modi in cui i fili sono intrecciati, prova a ricostruire
la trama e l’ordito servendosi di altri fili. La sua operazione non è mai neutra (…)
Il traduttore si mette in gioco con la propria poetica e interviene attivamente nel
processo di formulazione del nuovo testo attualizzandolo.’ XXI
Il testo di Bassnett esplora la letteratura postcoloniale come trasformazione
della differenza culturale attraverso il linguaggio. In Constructing Cultures ci
si pone immediatamente nella prospettiva definita da Torop, all’interno del
meccanismo di creazione/trasformazione culturale attraverso la traduzione.
Bassnett si interroga sull’evoluzione degli studi di traduttologia, in particolare
rilevandone l’attuale articolazione e lo sfaldamento della scienza della
traduzione verso altri campi di ricerca. Infatti, tradurre oggi non significa
la ricerca dell’equivalenza linguistica, bensì la volontà di creare un testo che
nella lingua d’arrivo trasmetta il valore culturale del testo originale. Susan
Bassnett cita il metodo di San Gerolamo, primo traduttore della Bibbia dal
greco al latino (la Vulgata). Grande studioso e conoscitore sia della lingua
greca che di quella latina, San Girolamo affermò con la sua prassi traduttiva
verteva non tanto la ricerca del termine equivalente, bensì del senso globale
della frase: ‘Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre
i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero,
non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di
questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l’Economico di
Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l’uno contro
l’altro [...]. Anche Orazio poi, uomo acuto e dotto, nell’Ars poetica dà questi stessi
precetti al traduttore colto: “Non ti curerai di rendere parola per parola, come un
traduttore fedele.”’
(Epistulae 57, 5, trad. R. Palla)
XX
1999, p. 3.
Susan Bassnett, Harish Trivedi Post-colonial Translation: Theory and practice, Routledge, London,
XXI
Franco Nasi, Poetiche in transito, Medusa, Milano, 2004, p. 18, p. 22.
24
L O S T I N T R A N S L AT ION S
Sebbene il criterio dell’equivalenza resti centrale nella traduzione della Bibbia,
come sottolinea Bassnett, l’affermazione di San Girolamo individua una prassi
mediatrice che tende a rendere più problematica la funzione del traduttore
“fedele”. Analizzando, successivamente, il metodo impostato dal poeta latino
Orazio, in realtà antecedente a quello di San Girolamo, Bassnett considera
l’importanza socio-culturale della lingua latina e, conseguentemente, la
tendenza ad omologare la differenza attraverso la traduzione. Effettivamente
non si può negare il ruolo del latino come “lingua franca” nelle zone del
Mediterraneo, durante gli ultimi secoli del periodo repubblicano, molto
simile a quello dell’inglese da ormai più di mezzo secolo.XXII La prassi
traduttiva verso la lingua latina, secondo l’interpretazione del metodo di
Orazio, è quindi un addomesticamento delle lingue appartenenti a culture
diverse da quelle del mondo classico. Più o meno è ciò che è avvenuto con le
traduzioni verso la lingua inglese di testi scritti in paesi in via di sviluppo.XXIII
L’urgenza di trasmettere quello che Bassnett definisce il “capitale culturale”
del testo tradotto si pone già nell’Ottocento con il filosofo tedesco Friedrich
Schleirmacher, il quale affermava la necessità di trasmettere la specificità
locale e linguistica nella traduzione.XXIV L’attenzione e il rispetto della
peculiarità culturale che emerge dalla griglia testuale è un elemento
fondamentale dell’odierna pratica traduttiva.
‘We also need to learn more about the texts that constitutes the cultural capital of
other civilizations in a way it preserves at least part of their own nature.’ XXV
Questo non è tanto un punto d’arrivo dei translation studies, bensì la
constatazione che non ci può essere traduzione testuale senza quella culturale;
ciò è forse uno dei tanti punti di partenza che presuppone la necessaria
riflessione e conoscenza della cultura che precede ed integra la traduzione.
La traduzione dei testi postcoloniali si pone come continua sfida per i
traduttori, i quali sono costretti a relazionarsi a diverse culture allo scopo di
riformulare e rivedere gli stessi canoni traduttivi. In un mondo caotico, in un
magma esplosivo di lingue e culture che annulla completamente il concetto
di autorità culturale, il traduttore di opere postcoloniali dovrebbe “ascoltare”
la voce che per secoli è stata sommersa, avvertire l’ibridismo dell’identità e
scoprire la traduzione che vibra dalle parole da “ri-tradurre”. Più che mai il
traduttore di storie di scrittori provenienti dalle ex-colonie, come la Nigeria
e quindi come quelle della giovane scrittrice Chimamanda Ngozie Adichie,
XXII
Susan Bassnett, André Lefevere, Essays on Literary Translation, p. 4.
XXIII
Ibid. p. 4.
XXIV
Ibid. p. 8.
XXV
Ibid. p. 11.
ENGLISH E ENGLISHES
25
deve capire le ragioni delle scelte linguistiche, le connessioni interculturali
che si sottendono nella lingua, la forza della variante linguistica e, con ciò, la
necessità di farla udire al pubblico che legge, in modo tale da, come afferma
sempre Susan Bassnett, condurlo verso il testo stesso, allo scopo di renderlo
parte anche del suo mondo, sempre più multiculturale, frammentato e
caotico.
26
Indias Abroad: scrittori e storie
della diaspora indiana di Federica Zullo
| letterature post coloniali
IDEE DELL’INDIA, EREDITA’ COLONIALE E MIGRAZIONI
In principio leggevamo l’India esotica e favolosa immaginata dai narratori
europei. Oggi, a sessant’anni dall’indipendenza, ecco quella raccontata dalle
scrittrici e dagli scrittori indiani. Rushdie e gli altri: tante voci diverse, tante
storie intrecciate e un unico miraggio, trovare una lingua comune.
In origine, per noi occidentali, è un universo di favola e sogno: sete preziose
intessute di fili dorati e corpi di donne avvolti da profumi e gioielli; maharaja
di immense ricchezze e scenografiche tigri congelate nell’atto di aggredire,
sullo sfondo di foreste improbabili e lussureggianti; e poi palazzi dalle mura
tempestate di gemme, come quel Taj Mahal che risplende nel buio durante
le notti di luna piena: è su questa India, parziale nel segno dell’eccesso,
scaturita dalla penna dei narratori europei, che si disegna, già a partire
dal secolo scorso, l’immaginario occidentale su un mondo che a noi arriva
non come frutto di testimonianze dirette ma della fantasia letteraria degli
europei. Per l’India – ma questo vale per l’Africa come per il mondo arabo – la
proiezione fantastica si porge al posto dell’oggetto reale, l’Orientalismo (come
recita il titolo di un famoso saggio di Edward W. Said) come surrogato di un
irraggiungibile Oriente. Salgari accanto a Kipling, Gide e E. M. Forster, ma
anche a Orwell e Aldous Huxley.
Più tardi, nel cuore degli anni Sessanta e Settanta, quello stesso mondo
si fa meta di viaggio, anzi del viaggio, di iniziazione spirituale e conoscenza.
I N DI A S A BROA D
27
È l’Oriente eletto a meta di un moderno Grand Tour, universo da cui trarre
energia, in cui ritrovare se stessi, ritemprandosi fra gli incensi degli ashram
per poi tornare, come nuovi, a casa propria.
Infine l’India che affascina intellettuali fra loro diversi, come Mircea
Eliade e Hermann Hesse, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia o Giorgio
Manganelli, che di quell’incontro, spesso prolungato nel tempo come nel
caso di Eliade, ci restituiscono opere a metà fra reportage e narrativa, tra
filosofia e saggistica, opere che già a partire dai titoli non fanno mistero circa
l’intensità dell’esperienza vissuta: La biblioteca del maharaja, Il pellegrinaggio in
Oriente, L’odore dell’India, Un’idea dell’India, Esperimento con l’India.
Per parte sua, intanto, quel mondo sembrava tacere, offrendosi muto,
poverissimo e splendente a un tempo, agli occhi dei suoi interpreti fantasiosi.
Ma questo muto non lo era affatto; esempi di narrativa indoinglese esistevano
già dalla metà del diciannovesimo scorso, mentre fin dagli anni Trenta del
Novecento si era formata una generazione di scrittori che da vari angoli
del subcontinente indiano avevano cominciato a scrivere romanzi, nelle
numerose lingue locali e in inglese, lingua odiata e amata, emblema del
colonialismo ma anche veicolo di comunicazione, la cui diffusione ne aveva
fatto uno strumento più agevole rispetto alle diciotto lingue “ufficiali” e alle
centinaia di altre lingue e dialetti del subcontinente.
E proprio in inglese l’India parlava di sé, ponendo in una forma narrativa
che molto doveva alla ricchezza dell’oralità, le mille e mille storie che
affondano le radici in una mitologia ricchissima e complessa, rintracciabile
nelle grandi epiche del Mahabharata e del Ramayana, per non citare che le più
famose, e che da lì si dipartono come i rami di un albero, per intrecciarsi a
una realtà fatta anche di lotte politiche e di endemiche povertà, di un sistema
di caste che non accenna a indebolirsi, come ad antichi e spesso violenti
rituali rivolti verso i più deboli, prime fra tutte le donne.
Dalla metà del diciannovesimo secolo scrittori, intellettuali, politici e
viaggiatori provenienti dal subcontinente indiano iniziano a raccontare
e a descrivere il loro rapporto con l’Occidente, in particolare con la Gran
Bretagna, potenza imperiale e colonizzatrice, facendo uso dell’inglese.
La figura dell’intellettuale riformatore Ram Mohan Roy (1772 circa – 1833)
rivela in modo esemplare lo stretto legame che venne ad instaurarsi fra la
lingua dell’Impero e il suo apparato culturale e le istituzioni indiane che
la assorbirono, la fecero propria, esaltandone il carattere internazionale e
le possibilità di grande apertura verso l’esterno. Roy, un brahmano figlio
dell’aristocrazia terriera bengalese che ricevette un’educazione basata sulla
lingua e la cultura araba, sulle Upanishad lette in persiano e sull’apprendimento
del sanscrito, divenne funzionario della Compagnia delle Indie Orientali e si
impadronì completamente della lingua e cultura britannica, conquistandosi
28
L O S T I N T R A N S L AT ION S
l’appellativo di “padre dell’India moderna”.
Roy si impegnò in un’accesa critica ai costumi sociali indiani dell’epoca e
alle pratiche della religione. I suoi insegnamenti furono il punto di partenza
per una tradizione indiana illuminata, basata sul principio della ragione, un
criterio di riferimento ultimo, svincolato dal principio dell’autorità e parte
integrante delle riflessioni dei filosofi, politici e letterati che seguirono la sua
lezione. La lingua prescelta dal grande riformatore per la vasta produzione
culturale che lo caratterizzò fu appunto l’inglese, in sostituzione del persiano
che non poteva più considerarsi la lingua degli scambi e delle relazioni. Roy
definì la lingua prescelta come il regalo più importante della Corona agli
indiani, grazie alla possibilità di accedere al mondo esterno, di comunicare
facilmente con altri paesi e di avere visibilità su un piano internazionale.
L’intellettuale bengalese sosteneva che nessun popolo poteva dichiararsi unico
detentore di una lingua e che il sanscrito non aveva più il diritto di custodire
esclusivamente le interpretazioni delle sacre scritture: queste dovevano essere
tradotte, come lui stesso fece, in bengali e in inglese. L’operazione linguistica
portata avanti con tale convinzione ebbe grande effetto sulla vita intellettuale
del paese, suscitando anche numerose polemiche. Il dibattito fra Tagore e
Gandhi in merito alle idee di modernità di Roy è testimonianza dell’influenza
enorme di questa figura negli anni del movimento per l’Indipendenza.
Gandhi riteneva che l’esaltazione dell’inglese da parte di Roy fosse anche di
tipo ideologico e politico, lo considerava un westerniser che valutava in modo
troppo positivo la presenza britannica in India. Tagore non condivideva
questo giudizio, in quanto riconosceva in Roy il sommo poeta, l’uomo erudito
che aveva saputo interpretare dal profondo la religione ancestrale dell’India
e aveva accolto ciò che di positivo proveniva dal mondo culturale britannico,
stabilendo con esso un dialogo assai proficuo sul piano dello scambio di
conoscenze e di arricchimento intellettuale.
Se lo spirito dell’Occidente era, secondo il poeta, degno di rispetto e
ammirazione, al contrario, la nazione occidentale, ovvero l’apparato di
governo e organizzazione dello stato, si poteva considerare solamente in
termini negativi. Tagore amava la razza britannica, ma detestava la nazione
degli inglesi, che, ovviamente, significava il progetto imperialista, gli interessi
economici e di sfruttamento che caratterizzavano la politica della Corona.
Il poeta e compositore si dedicò all’internazionalismo della cultura e durante
l’ultimo periodo di vita divenne non solo un tenace viaggiatore, ma un
esploratore della dimensione internazionale dell’esistenza, una causa che
perseguì con entusiasmo e convinzione. Il premio Nobel per la letteratura nel
1913 contribuì a rafforzare tale progetto e già nei primi decenni del Novecento
la cultura indiana iniziò a farsi strada sulla scena mondiale, marcando il
suo carattere transnazionale e plurale quale componente di distinzione per
I N DI A S A BROA D
29
scrittori e intellettuali provenienti dal subcontinente o con discendenza
familiare indiana, ma residenti in diverse parti del mondo.
Gli elementi storico-politici e sociali che hanno permesso di definire il
popolo indiano come diasporico nel corso degli ultimi due secoli di storia e che
hanno portato alla definizione di una letteratura di riferimento trovano radici
principalmente nell’eredità coloniale del subcontinente e nelle pratiche messe
in atto da quella “nazione” britannica che Tagore criticava con decisione.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, in coincidenza con
l’abolizione della tratta schiavista, la Corona avvia un processo di migrazione
forzata dall’India verso altri possedimenti dell’Impero, allo scopo di
trasferire un numero elevato di indentured labourers (lavoratori a contratto
in condizione di semi-schiavitù) nelle piantagioni di cotone e canna da
zucchero dei Caraibi, in particolare in Giamaica, Trinidad e Barbados, così
come in Africa sud-orientale, in Sudafrica, nelle isole Mauritius, in Zambia,
Zimbabwe e Madagascar. Tale processo, che nel tempo ha registrato veri e
propri spostamenti di massa, avrebbe consentito all’Impero di assicurare
manodopera a bassissimo costo utile alla lavorazione di materie prime da
esportare in Europa, secondo un circuito economico che ricalcava il triangolo
della tratta atlantica.
Nei paesi in cui gli indiani si sono stabiliti, lontano dalla madrepatria e
in condizioni di vita di povertà ed emarginazione, le nuove comunità hanno
cercato di costruire piccole Indie di espatriati in cui venivano gelosamente
conservati gli usi e le tradizioni della cultura originaria, proiezioni in esilio
dei luoghi di provenienza e territori da conquistare attraverso l’affermazione
di una propria identità di indiani della diaspora.
Le opere di ambientazione caraibica dello scrittore premio Nobel V.S.
Naipaul (in particolare A House for Mr. Biswas [Una casa per Mr. Biswas,
1961], The Mystic Masseur [Il massaggio mistico, 1957] e The Suffrage of Elvira
(Elezioni a Elvira, 1958) offrono una testimonianza autentica ed efficace
riguardo alle vite dei discendenti degli indentured labourers. Nato a Trinidad
da una famiglia di origine indiana, Naipaul inserisce nelle pagine dei suoi
romanzi e racconti parole che rimandano esplicitamente a luoghi come il
Gange, Ayodhia, Benares: luoghi della mente che i personaggi rievocano
con nostalgia, mitizzandoli attraverso storie e leggende, ricordi lontani e
sbiaditi con il tempo. Per gli indiani giunti nelle isole caraibiche non è stato
possibile mappare il nuovo ambiente utilizzando i simboli della cultura di
appartenenza, come facevano i colonizzatori quando “scoprivano” questi
territori. A tal proposito, come dichiara Amitav Ghosh, un altro esponente
illustre della diaspora letteraria indiana: 'Trasportati via mare come strumenti
del potere coloniale, sono entrati in un Nuovo Mondo che era già stato nominato
secondo l’immagine della Vecchia Europa: di York, Amsterdam, Castiglia,
30
L O S T I N T R A N S L AT ION S
Aragona, le isole Ebridi e la Caledonia. Il loro nuovo mondo non aveva posto per le
realtà che vivevano nella loro immaginazione.' I
Tuttavia, il loro mondo viveva attraverso la continua replica di pratiche
tradizionali di appartenenza comune e lo spazio della “casa” era infinitamente
riproducibile, perché sopravviveva nell’immaginazione, non tanto nella
lingua o nella religione. L’India non era troppo distante, non risultava troppo
separata dalle vite degli immigrati; perché nel vocabolario della routine
quotidiana quello spazio vuoto era continuamente riempito di parole, segni e
simboli che richiamavano la nazione madre.
Nel presente contributo si cercherà di delineare i percorsi che vari autori
hanno messo in atto al fine di narrare il rapporto fra l’India e le tante “Indie”
che sono nate e cresciute al di fuori dei confini geografici del subcontinente,
sia a causa delle pratiche coloniali, sia a seguito delle migrazioni del secondo
dopoguerra per motivi economici e politici e delle scelte individuali legate
alla tendenza di numerosi giovani e famiglie che hanno raggiunto la Gran
Bretagna e gli Stati Uniti per intraprendere percorsi di vita ed istruzione,
usufruendo della loro cultura anglofona come passaporto di accesso a questi
paesi.
“AT HOME IN THE WORLD?”: TRADUZIONE, SPAESAMENTO E
SCITTURA MIGRANTE
Nell’indagine sulle produzioni letterarie della diaspora indiana emergono
alcune questioni che costituiscono il tratto comune a tante opere pubblicate
negli ultimi decenni: la ricerca d’identità dei personaggi raccontati, la
costruzione di una nuova “casa” o di diverse case possibili e la messa in
discussione del concetto di nazione, elementi che rientrano in quella che la
scrittrice Meena Alexander chiama “Poetics of Dislocation” (Chetty, Piciucco
2004: 14-20), un concetto strettamente legato al tema dello spazio, ai modi
attraverso cui gli esseri umani costruiscono il senso di appartenenza ad un
luogo e alle strategie che vengono messe in atto per rievocare uno spazio
originario perduto, fisico e mentale.
Le opere di grandi scrittori come Salman Rushdie, Amitav Ghosh,
V.S. Naipaul, Samuel Selvon, Anita Desai, Jhumpa Lahiri e altri, seppur
con grandi diversità di stile narrativo, linguaggio e tematiche, presentano
la caratteristica generale di veicolare spesso un senso chiaro e definito
di “luogo” e trasmettere, al contempo, un totale senso di dislocamento,
condizione ascrivibile sia alle forme della postmodernità, sia alla soggettività
postcoloniale.
I
Ghosh 2002: 248
I N DI A S A BROA D
31
Per comprendere la posizione dello scrittore migrante è fondamentale
analizzare il concetto di traduzione che Rushdie ha utilizzato sia nella
produzione saggistica, sia in romanzi come Shame (La vergogna, 1983) e The
Satanic Verses (I versi satanici,1989). Il termine proviene etimologicamente
dal latino “trasportare” e lo scrittore, a riguardo, sostiene che tutti i migranti
sono persone tradotte, per cui è naturale che qualcosa si perda nel passaggio
della traduzione, ma che molte cose vengano allo stesso tempo conquistate
e l’autore ha sempre sostenuto quest’ultima caratteristica dell’esperienza
migratoria. E’ indubbio che nel passaggio da un paese all’altro, oltre alla
perdita di elementi legati al luogo di provenienza si acquisiscano nuove
ricchezze culturali, le quali vanno a mescolarsi al patrimonio intellettuale
d’origine, facendo dello scrittore migrante un archivio stratificato di culture,
capace di rievocare la terra amata da una prospettiva che arricchisce ancor di
più tale ricordo.
In La vergogna, Salman Rushdie, riferendosi al problema del Bangladesh
e al movimento di massa dei profughi scoppiato nel 1971, anno di nascita
della nazione indipendente, sottolinea l’ironia della storia che colpisce il
triste destino di chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa senza
sapere se ci sarà mai l’opportunità di trovare un altro posto nel mondo. Nel
brano seguente, l’autore sembra offrirci la descrizione della condizione del
migrante contemporaneo: 'Quando gli individui si scollano dalla loro terra natia,
li chiamano emigranti. Quando le nazioni fanno la stessa cosa (Bangladesh) si
parla di secessione. Qual è la migliore caratteristiche dei singoli emigranti e delle
nazioni secessioniste? Io credo che sia la fiducia. Guardate gli occhi di quella
gente nelle vecchie fotografie. La speranza vi sfavilla limpida attraverso le sbiadite
sfumature di seppia. E qual è la caratteristica peggiore? Il vuoto del proprio
bagaglio. Sto parlando di valigie invisibili, non di quelle fisiche, magari di cartone,
che contengono alcuni ricordi svuotati di significato: ci siamo scollati da qualcosa di
più che un paese. Ci siamo librati in aria staccandoci dalla storia, dalla memoria,
dal Tempo.' II
Secondo quanto scrive Silvia Albertazzi: “per Rushdie il migrante non può
che frequentare il mondo attraverso la metafora, la quale, proprio come
suggerisce il termine nella sua etimologia greca, è atto di trasporto, di
traduzione, dal piano del reale a quello dell’immagine.” III
Lo scrittore indiano in Inghilterra, rievocando il paese d’origine e
facendone materia di narrazione, può solamente scrivere un libro di ricordi
sul tema della memoria, creando una propria India, una versione delle
centinaia di milioni di versioni possibili. L’alienazione fisica dal proprio paese
II
Rushdie 1999: 101
III
Albertazzi 2000: 137
32
L O S T I N T R A N S L AT ION S
porta inevitabilmente a non essere più capaci di riprodurre con precisione
qualcosa che è andato perduto. “In breve creeremo delle fictions al posto
delle vere città o paesi, fictions invisibili, patrie immaginarie, ‘Indie della
mente’.”IV L’India della mente ci viene raccontata, ad esempio, in Midnight’s
Children [I figli della mezzanotte, 1981], cui si deve la vera e propria esplosione
sul mercato editoriale di una letteratura indiana in inglese. Il romanzo vince
a buon diritto il Booker Prize, il più prestigioso premio letterario inglese, e
viene rapidamente tradotto in decine di lingue; un’opera che per la ricchezza
del linguaggio, la carica innovativa dello stile e l’originale trattazione della
storia dell’India contemporanea, è presto destinata a fare da vero spartiacque
tra un “prima” e un “dopo”, cosí come tra prima e dopo l’indipendenza
dell’India si colloca la storia del protagonista Saleem Sinai, che viene al
mondo nel momento che segna la nascita dell’India moderna: “Sono nato
nella città di Bombay il 15 agosto del 1947 allo scoccare della mezzanotte...
Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto
rispettoso. Nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’indipendenza, io fui
scaraventato nel mondo.”
I figli della mezzanotte ha molteplici meriti: quello di aver decretato la
nascita di un grande scrittore, forse il più grande scrittore in lingua inglese,
vivente; quello di aver segnalato al mondo l’esistenza di una letteratura
indiana di grande bellezza e maturità; di aver dato fiducia in se stessi a molti
potenziali autori favorendo l’emergere di una generazione di nuovi talenti;
di aver stimolato il mercato editoriale incoraggiandolo a pubblicare e a far
circolare quanto si andava via via scrivendo; da ultimo, l’interesse crescente
nei confronti della letteratura indiana in inglese ha conferito visibilità anche
alle opere di scrittori della cosiddetta generazione di mezzo, autori che già
pubblicavano, e con un certo successo, quali ad esempio Mulk Raj Anand
(Intoccabile), Raja Rao (Kanthapura), R. K. Narayan, o Khushwant Singh
(Quel treno per il Pakistan), consentendo loro di venire riscoperti da un nuovo
e più vasto pubblico di lettori. Il mercato editoriale italiano non è rimasto
insensibile a questo fenomeno, come attesta l’ampio numero di opere di
autori indiani attualmente presenti in traduzione.
Una caratteristica della narrativa indiana contemporanea è il bisogno da
parte degli autori di unire storia a storia in complesse tessiture che richiamano
i grandi poemi epici o le molte immagini che l’iconografia di quel mondo ci
ha consegnate. Romanzi di ampiezze innaturali per un pubblico occidentale,
con intrecci narrativi che potenzialmente potrebbero non concludersi mai,
come fanno ad esempio, Vikram Seth con Il ragazzo giusto (1994) e Vikram
IV
Rushdie 1991:14
I N DI A S A BROA D
33
Chandra con Terra rossa e pioggia scrosciante, racconto epico che affianca quella
per la tecnologia e il mondo dei computer, mentre in Giochi sacri costruisce
un poliziesco di oltre 1000 pagine ambientato nel sottobosco mafioso e
corrotto di Bombay, fra Bollywood e i diversi esponenti di un tessuto urbano
multiforme e assai complesso.
Gli scrittori che vivono fuori dall’India ammettono che la memoria può
essere soggetta a continui errori e, secondo Rushdie, si può raccontare il
mondo attraverso specchi rotti e alcuni dei frantumi potrebbero essere stati
perduti per sempre. Saleem Sinai, il protagonista di Midnight’s Children, ha
infatti una visione frammentata della realtà, compie errori in continuazione
e non produce un racconto veritiero. Lavorare con pezzi di vetro significa
portare avanti un’operazione decisamente complicata sul piano della
memoria.
Per scongiurare il pericolo della dislocazione lo scrittore immigrato si
aggrappa così alla storia della madrepatria lasciata alle spalle e ricordare
diventa comunque un’attività di primaria importanza, spesso legata alle
vicende della colonizzazione e alla pesante eredità del dominio britannico.
Per costruire il presente, occorre aver “digerito” il passato coloniale, averlo
rielaborato e fatto scomparire come categoria che continua ad ossessionare
gli scrittori della diaspora e a condizionare le loro narrazioni. Nel caso del
romanzo d’emigrazione, “non si tratta tanto di ‘arrivare alla città’ quanto di
tornare verso la periferia, seguendo un cammino tortuoso che non è riportato
sulle carte, ma si struttura secondo i percorsi illogici del sogno e quelli fallaci
della memoria.” V
Nel linguaggio del migrante anche il significato dei verbi di movimento
“andare” e “tornare” assumono significati diversi da quelli usuali: nel
romanzo che ha consacrato Amitav Ghosh a scrittore di fama internazionale,
The Shadow Lines (Le linee d’ombra, 1988), le parti in cui si divide il volume,
“Going away” e “Coming Back”, non corrispondono a situazioni definitive
di emigrazione o ritorno, perché il protagonista si muove continuamente fra
India e Inghilterra alla ricerca di verità che riguardano momenti di vita della
propria famiglia, fatti drammatici tenuti segreti per lungo tempo, in cui la
relazione fra il mondo britannico e quello indiano risulta centrale.
Per il narratore-protagonista il viaggio a Londra, un luogo della mente
mitizzato fin dall’infanzia attraverso le storie del cugino, è cruciale nella
definizione di un passato fortemente intrecciato con la storia politica dell’India
e che è necessario rivelare per poter continuare a vivere nel presente. Solo
in questo modo, Ghosh riesce ad offrire una speranza di riconciliazione
con i fantasmi del passato e a comunicare al lettore quanto sia necessario
V
Albertazzi 2000: 143
34
L O S T I N T R A N S L AT ION S
oltrepassare lo specchio della memoria, compiere un salto all’indietro e poi
tornare a galla, nonostante questo comporti sofferenza e la scoperta di ferite
che erano mai state rimarginate.
Salman Rushdie, nel suo romanzo esemplare sulla migrazione, The Satanic
Verses, (I versi satanici, 1988), l’opera che lo ha condannato a morte da parte
dell’Ayatollah Khomeini, racconta con la straordinaria capacità narrativa
che lo caratterizza, le possibili distorsioni della diaspora e i disastri che da
essa possono generare. Solamente nel finale comprendiamo quali elementi
siano necessari per poter uscire dai pericoli delle chiusure culturali e delle
questioni di appartenenza: Saladin Chamcha, uno dei due protagonisti del
romanzo, straordinaria voce radiofonica e televisiva, l’uomo dalle mille voci
che aveva sposato una donna inglese e che a seguito di un incidente aereo
si era trasformato in una sorta di diavolo, fa ritorno a Bombay dopo essersi
inglesizzato a Londra ed è pronto per iniziare una nuova vita in India. Saladin,
tornato alle sue radici dopo averle lasciate dietro di sé ed averle ritrovate
nuovamente, emerge nel finale come personaggio positivo al pari della figura
di Mishal Sufyan, la giovane indiana musulmana trapiantata piccolissima a
Londra che rifiuta il vecchio mondo perché ormai fa assolutamente parte
di un’altra realtà, quella dei blacks londinesi alla conquista di una dignità
negata. Come afferma Paolo Bertinetti “quelle di Saladin e Mishal sono due
storie e due scelte diverse, ma sono entrambe “premiate” dal racconto per la
loro capacità di superare il retaggio del passato.” VI
Non si tratta di un’impresa facile, ma Rushdie sembra veicolare proprio
questo messaggio, ovvero che coloro che non riusciranno ad avere tale
coraggio intellettuale verranno prima o poi segnati dalla sconfitta.
Ci sono personaggi di tante narrazioni della diaspora che hanno affrontato
con difficoltà il rapporto con la loro cosiddetta “indianness”, una relazione
che si è troppo spesso concentrata sulla salvaguardia della cultura di partenza,
sottovalutando il problema delle modalità di contatto con la cultura d’arrivo.
Kulwant, la protagonista del romanzo della scrittrice indiana Ravinder
Randawa, A Wicked Old Woman, (Una vecchia signora malvagia, 1987) vive in
uno di quei quartieri senza identità che sorgono alla periferia delle metropoli,
ridotto dagli abitanti asiatici in “simulazione del subcontinente”. La donna
subisce un grande fascino per l’Inghilterra, con il suo sistema d’istruzione e le
possibilità di crescere professionalmente, ma si scontra con le problematiche
derivanti dalla condizione di donna migrant, per la quale l’esperienza della
“homelessness” scaturisce non solo dall’angoscia che accomuna tutti gli
emigranti unita al disagio di vedersi rifiutati nel paese ospite su basi di razza
e colore, ma anche e primariamente dalla perdita di un ruolo e di una realtà
VI
Bertinetti 2002: 110
I N DI A S A BROA D
35
forte di riferimento.
“Se l’emarginazione dell’emigrante-maschio è dunque il risultato della sua
razza, della regione e della storia, per la donna migrant a questi tre elementi si
aggiunge, come discriminante e aggravante, il genere.” VII Kulwant acquista
progressivamente consapevolezza dell’invisibilità dell’asiatico all’interno
della società inglese e si rende conto, allo stesso tempo, delle opportunità
di emancipazione e di libertà offerte dal mondo britannico ad una donna
immigrata che vive nelle tradizioni della comunità indiana di appartenenza,
anche se alla fine queste risulteranno più ideologiche che concrete. Randawa
evidenzia elementi di contraddizione nella salvaguardia della identità indiana
e nell’apertura totale alla cultura britannica, optando per l’elaborazione
di nuovi modelli che possano cancellare le forzature e permettere di
conoscere le chiavi del passato utili ad affrontare un presente in evoluzione
e multiforme. Le stesse problematiche investono anche numerosi personaggi
di narrazioni della diaspora ambientate negli Stati Uniti d’America, in cui il
tema dell’identità risulta senza dubbio centrale.
In alcuni romanzi come Fasting, Feasting (Digiunare, divorare, 1999) di
Anita Desai, la separazione fra India e Stati Uniti, fra due culture diverse e
non comunicanti fra loro è quasi totale, il libro stesso si divide in due parti
ben distinte, una corrispondente alla vita di Uma in India, in una famiglia
che la opprime e la mortifica, e l’altra riguardante la vita del fratello Arun
e dei suoi studi in una non precisata università americana. In entrambe le
storie, il disagio del vivere è ugualmente centrale, nonostante gli ambienti
e le situazioni di vita assai diverse. Le vicende degli studenti indiani che
cercano di interpretare, esplorare, immergersi e mettersi in gioco nel mondo
americano, all’interno e fuori dalle università, sono narrate in altre opere
esemplari come The Inscrutable Americans (Gli imperscrutabili Americani, 1991)
di Anurag Mathur e le parti statunitensi del romanzo di Vikram Chandra
Red Earth and Pouring Rain. Anche nei racconti che fanno parte del volume
di Jhumpa Lahiri, The Interpreter of Maladies (L’interprete dei malanni, 1999)
il gioco di definizione delle identità è ancora un nodo cruciale del discorso
diasporico, le storie si dipanano fra India e USA, e si intravedono alcuni
elementi positivi di conciliazione fra i diversi mondi. Nel racconto “Il terzo e
ultimo continente” il protagonista, dopo il passaggio fra India e Gran Bretagna
approda a Boston per lavorare come bibliotecario e dovrà iniziare un nuovo
percorso di adattamento, vivendo a casa di un’anziana signora che nutre
un forte senso patriottico. I rituali legati al lento e progressivo inserimento
del protagonista e di sua moglie nella società americana costituiscono i
gradini necessari al compiersi di una grande impresa, non quella esaltata
VII
Albertazzi 1998: 162
36
L O S T I N T R A N S L AT ION S
dalla signora Croft in merito al raggiungimento della Luna da parte degli
astronauti americani, bensì quella del riuscire a vivere in un paese lontano dal
proprio, costruire una famiglia e radicarsi nel territorio d’arrivo.
“Non sono l’unico ad aver cercato fortuna lontano da casa, e sicuramente
non sono il primo. Eppure ci sono momenti in cui mi sconcerta ogni singolo
miglio percorso, ogni pasto mangiato, ogni persona incontrata, ogni stanza
in cui ho dormito. Per quanto ordinario possa sembrare, ci sono momenti in
cui tutto questo supera la mia immaginazione.” VIII
RACCONTARE LONDRA FRA SPAZI DI CONFLITTO E
INCONTRO CULTURALE
La capitale britannica rappresenta il centro di un Impero che ha subito nel
secondo dopoguerra, con la perdita delle colonie, il fenomeno denominato
“colonizzazione alla rovescia”, e gli abitanti delle “periferie” hanno saputo
occupare spazi propri all’interno del territorio britannico, portando la
loro identità diasporica a contatto con un mondo che cercava di definirli
nuovamente entro rigide concettualizzazioni. Un’opera esemplare che narra
l’immigrazione dai Caraibi nel secondo dopoguerra nella capitale britannica,
il cui autore, Samuel Selvon ha origini indiane come il già citato V.S. Naipaul,
è The Lonely Londoners, (Londinesi solitari, 1956). uno dei primi romanzi che
rendono in maniera originale e autentica il senso di una Londra multietnica
e postcoloniale, “invasa” dagli ex cittadini dell’Impero.
La capitale inglese è descritta dall’autore, anch’egli emigrato dall’isola
caraibica di Trinidad nei primi anni cinquanta del Novecento, come un
luogo freddo, inospitale, immerso nella nebbia che accoglie i nuovi arrivati
alla stazione di Waterloo mostrandosi in tutta la sua ostilità. I protagonisti
del romanzo, appena giunti dalla Giamaica in nave, pensavano di arrivare
in una città dalle strade pavimentate d’oro, nella quale avrebbero avuto
un’accoglienza privilegiata in quanto cittadini del “Regno Unito e delle
Colonie”. Tutto ciò si riduce ad una profonda disillusione e alle numerose
difficoltà che derivano dal cercare una casa ed un lavoro, oltre all’adattamento
ad un clima estraneo e insopportabile per chi proviene dai Caraibi. Il narratore
non nasconde l’infelicità e la sofferenza dei suoi personaggi, ma al tempo
stesso racconta con splendida ironia sia i disagi, sia la vitalità prorompente dei
“londinesi solitari”. Il tono e il ritmo del racconto è stato paragonato a quello
di un calypsonian, la voce solista accompagnata dal coro che, soprattutto
in occasione del carnevale di Trinidad, cantava i calypsoes, dando voce
allo stato d’animo e ai sentimenti popolari. La lingua di Londinesi solitari
è lontanissima dall’inglese standard ed è una rielaborazione letteraria che
VIII
Lahiri 2003: 229
I N DI A S A BROA D
37
Selvon ha messo in atto utilizzando il creolo, la nation language caraibica, e
termini derivanti dalla cultura afro-caraibica, al fine di trasmettere lo spirito,
il sapore e l’originalità di esprimersi di un mondo.
La ricerca di una “casa” che possa offrire nuove radici nel centro del
vecchio Impero porta i londinesi solitari a contaminarsi con la metropoli, ad
esplorare le sue possibilità di sopravvivenza e di vita, tentando di uscire dagli
spazi assegnati agli stranieri, agli ex-colonizzati, affrontando i pericoli della
discriminazione razziale e della segregazione. Tale materia di narrazione è
affrontata con maestria da un altro importante autore della diaspora in Gran
Bretagna, Farrukh Dhondy, nato a Poona, in India, da una famiglia parsi
e trasferitosi in Inghilterra per motivi di studio all’età di vent’anni. I suoi
meriti, sia come scrittore di libri e racconti per ragazzi, sia come autore di
romanzi per adulti, stanno proprio nel fatto che la sua condizione di outsider e
insider allo stesso tempo nella società britannica, gli ha permesso di esplorare
direttamente le complessità delle questioni razziali che spesso gli scrittori di
letteratura per l’infanzia bianchi non hanno considerato, aggiungendo aspetti
significativi e originali.
Le prime raccolte di racconti, East End at Your Feet (1976) e Come to Mecca
(Vieni alla Mecca, 1978) esplorano la realtà dei quartieri londinesi di Brick
Lane, Brixton, popolati in gran parte da asiatici e neri, negli anni dell’ascesa
del thatcherismo e dell’inasprirsi di grandi conflitti razziali. Il mondo della
scuola e dei teenagers è quello privilegiato dallo scrittore, il quale ritrae una
società in evoluzione che deve cercare una nuova identità multiculturale,
facendo fronte ad un contesto sociale mutato rispetto ai primi anni sessanta.
Dhondy riesce a rendere il senso delle difficoltà d’integrazione, dell’odio
razziale, degli stereotipi culturali e della grande distanza fra l’Inghilterra
bianca e gli immigrati. Fra ironia ed episodi grotteschi e drammatici, lo
scrittore inserisce elementi di riflessione sui temi più scottanti dell’epoca, ma
ancor oggi sicuramente attuali.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta del 1978, “Vieni alla Mecca”,
Shahid, un ragazzo di sedici anni, non riesce più a tollerare certi soprusi che
continuamente vengono rivolti alla comunità di bengalesi nella quale vive.
I suoi amici sono per la maggior parte operai dell’industria tessile e il loro
capo è un bianco al quale chiedono un aumento di salario. A seguito di un
rifiuto con l’accusa ai bengalesi di essere pigri e volgari, il gruppo decide di
scioperare ed entrano in gioco due ragazze bianche che vogliono assistere e
documentare la rivolta. Betty e l’amica si schierano dalla parte della working
class, ma non capiscono fino in fondo i problemi delle singole comunità; i
bengalesi, ad esempio, non vogliono essere associati ai neri, e neanche alla
classe operaia perché non vogliono essere considerati fra gli strati sociali
più bassi. Betty si avvicina alla loro lingua, le insegnano parole in urdu e
38
L O S T I N T R A N S L AT ION S
bengali, ma ad un certo punto Shahid rimane deluso dalla ragazza e getta
dal Tower Bridge i suoi volantini; questo perchè lei fraintende il suo invito
al Dancing La Mecca pensando che Shahid voglia coinvolgerla in qualche
gruppo religioso fondamentalista. Il ragazzo si arrabbia con la società bianca
in generale, non vuole essere categorizzato, e finisce per stabilire nuovamente
una distanza fra i due mondi. Nei racconti assistiamo spesso all’intervento
della polizia, ma anche a scontri fra la prima generazione di immigrati, i
padri più anziani e meno coinvolti nelle questioni politiche, e la seconda
costituita dai figli, i giovani che vogliono ribellarsi ad un sistema che li fa
sentire inferiori, emarginati, cittadini di seconda classe.
All’epoca, le parole d’ordine contro gli immigrati asiatici venivano ripetute
sui giornali, in TV, sui muri delle periferie; la crisi economica aveva portato
ad un senso diffuso di insicurezza, persino i comici televisivi prendevano i
pakistani come bersaglio per il loro umorismo. Lo scrittore Hanif Kureishi, di
padre pakistano e madre inglese, racconta che la televisione aiutava ad esaltare
il disprezzo per gli immigrati nei salotti inglesi; gli amici dei suoi genitori
parlavano dei paki con odio, c’era molta violenza e il termine pakistano era
stato trasformato in un insulto. Anch’egli si è rivelato un abile narratore di
tale contesto socio-politico e nel racconto “My Son the Fanatic” (Mio figlio il
fanatico), inserito nella raccolta Love in a Blue Time, ne esprime con forza le
sfumature e le contraddizioni, raccontando il conflitto generazionale fra un
padre immigrato dal Pakistan e dedito all’integrazione nella società inglese e
il figlio affascinato da gruppi spirituali islamici che sfoceranno nel fanatismo
e nell’intolleranza. Kureishi inserisce in uno scontro del genere le questioni
riguardanti il bisogno e il rifiuto dell’appartenenza ad un determinato
contesto sociale e ai disastri provocati dalla condizione diasporica, dall’essere
continuamente sospesi fra mondi diversi che a fatica trovano zone di contatto.
Tutto ciò si inserisce con forza a volte distruttiva nelle dinamiche familiari e
contribuisce a modificarne la natura. Lo scrittore esplora con efficacia questa
materia narrativa anche nel suo primo romanzo, The Buddha of Suburbia,
(Il Buddha delle periferie, 1990) in cui il ragazzo protagonista, Karim, si
definisce nelle primissime righe “un inglese dalla testa ai piedi, o quasi”,
e il quasi sta a significare il fatto di essere nato in Inghilterra da genitori
indiani musulmani. In tale ambiguità sta il fascino e l’interesse nei confronti
di questo personaggio, il quale, come afferma Bertinetti “ci racconta una
storia esemplare non solo rispetto alla realtà britannica, ma, credo, rispetto a
quella di tutto l’Occidente, dei mille casi in cui i figli degli altri mondi sono
nati e cresciuti come cittadini del nostro.” IX
Karim fa esperienza della cultura inglese giovanile, musicale e teatrale, degli
IX
(Bertinetti 2002: 128)
I N DI A S A BROA D
39
anni settanta, seguendo i suoi interessi e l’esempio della cugina “femminista”
Jamila, la quale si ribella alle rigide imposizioni del padre e sceglie di vivere
liberamente, compiendo scelte coraggiose nel rifiuto delle tradizioni familiari.
Karim e Jamila, nonostante qualche delusione e qualche compromesso,
riescono a trovare un loro spazio, un po’ provvisorio e sempre potenzialmente
minacciato dal possibile insorgere dell’intolleranza, ma un luogo che sembra
consentire in qualche modo la coesistenza delle differenze.
I temi proposti dagli autori considerati lungo questo percorso, tornano
oggi a dominare i discorsi sulla migrazione, l’interculturalità e la tolleranza,
mostrandosi di grande attualità e ponendo la questione di come ciò che è
stato esplorato e problematizzato anni fa non abbia ancora trovato motivi di
soluzione definitivi. Le società continuano ad essere in movimento e i flussi
migratori caratterizzano in maniera sempre più evidente il nostro presente.
Il filosofo martinicano Édouard Glissant esprime l’importanza del fatto
che la creolizzazione possa continuare ad avere luogo, senza traumi e ferite
culturali, in nome di quella “poetica della relazione” che risulta cruciale nelle
società contemporanee. Sembra, infatti, significativo ribadire il concetto che
egli ha teorizzato come manifesto della cosiddetta totalità-mondo:
“La creolizzazione esige che gli elementi eterogenei si “intervalorizzino”,
che non ci sia degradazione o diminuzione dell’essere, sia all’interno che
dall’esterno, in questo reciproco, continuo mischiarsi.”X
X
Glissant 1998: 16
40
Nigeria, il contesto letterario
di Monica Valcavi
| letterature post coloniali
Nel 1986 il premio Nobel per la letteratura fu conferito allo scrittore di
teatro e poeta nigeriano Wole Soiynka, considerato oggi una delle voci più
importanti e significative di tutto il continente africano. Autore di oltre venti
drammi e commedie, Soiynka ha fondato una compagnia teatrale, “Teatro
Orisun,”mettendo in scena anche le proprie opere, nell’intento di esprimere
le gravi tensioni che hanno caratterizzato la storia passata e recente delle
Nigeria. Oltre al nome di Soyinka si possono tuttavia elencare altri autori
come Ben Okri e Niyi Osundare, Femi Osofisan, come coloro che hanno
contribuito a consolidare la presenza e l’autorevolezza della letteratura e
cultura nigeriana in lingua inglese nel mondo.
La letteratura nigeriana in lingua inglese si sviluppa, come molte altre
letterature postcoloniali, per esprimere la sofferenza di un popolo che dopo la
difficile riconquista della propria indipendenza è stato costretto ad adeguarsi
a spietate leggi neoimperialiste/capitaliste. L’atmosfera di inadeguatezza
politica e sociale che caratterizza il paese è un problema irrisolto, così come
quello legato all’identità culturale degli stessi nigeriani. Per questi motivi le
più importanti voci letterarie non potevano che muoversi sul terreno della
denuncia e delle protesta.
In ambito poetico si possono annoverare tre importanti generazioni di
poeti, e tutti, a partire da Soynka, a sua volta ispirato al poeta Christopher
Okigbo, sfruttano ed elaborano temi di denuncia politica e sociale, includendo
NIGERIA, IL CONTESTO LETTER ARIO
41
riflessioni su diversi scenari africani, come ad esempio le battaglie anti
Apartheid in Sud Africa, la lotta per la liberazione del Mozambico negli anni
settanta o la rivelazione di atroci forme di leadership che hanno martoriato
diverse nazioni africane negli ultimi decenni. Le voci poetiche delle ultime
generazioni, tra cui Niyi Osundare, Odia Ofeimun e Harry Garuba hanno
continuato a utilizzare la poesia come strumento politico, all’interno di un
attivismo che li ha visti impegnati anche in redazioni giornalistiche.
Per quanto riguarda la narrativa, l’autore forse più famoso, oramai
considerato un “classico” tra gli scrittori postcoloniali anglofoni è Chinua
Achebe. Nato nel 1930 a Ogibi, Chinua Achebe è conosciuto per essere
riuscito, nei suoi romanzi, a ritrarre gli effetti della colonizzazione sulla società
nigeriana. Nato in una famiglia protestante, Achebe ha sempre espresso il
forte legame con le sue antiche tradizioni Igbo, esprimendo quell’identità
doppia, frammentata e ibrida riscontrabile nella quasi totalità degli autori
postcoloniali.
Come molti altri scrittori nigeriani, Achebe frequentò l’università a Ibadan,
dove studiò inglese, storia e teologia. Sempre impegnato politicamente,
Achebe lavorò per il governo del Biafra durante la guerra civile del 1967
e collaborò con l’amico poeta Okigbo con il quale fondò e gestì una casa
editrice. Achebe ha insegnato in diverse università in Nigeria e negli Stati
Uniti. I suoi romanzi (Things Fall Apart, No Longer At Ease, Arrow of God,
Anthills of the Savannah) hanno contribuito a diffondere la cultura nigeriana
in tutto il mondo. Il centro della sua narrativa è il difficile rapporto tra
l’uomo nigeriano, la sua cultura Igbo e l’irruenza del mondo occidentale.
La dialettica tra la tradizione e l’imposizione culturale coloniale come
elemento costante dei romanzi di Achebe, si accompagna alla tendenza ad
integrare nella lingua inglese la traccia della parlata africana. La questione
linguistica, ampiamente dibattuta tra gli autori postcoloniali, è cruciale
in Achebe in quanto tra gli scrittori africani – e diversamente dal keniano
Ngugi Wa Thiong’o – comprese la necessità di scrivere e pubblicare in lingua
inglese. Motivo di tale scelta fu non solo dettato da esigenze economiche
e commerciali bensì dalla volontà di fare percepire ad un ampio pubblico
la presenza dell’uomo colonizzato, o ex colonizzato, la sua difficile ricerca
d’identità in un mondo da ricostruire ed allo stesso tempo affetto da gravi
squilibri interni. Nel suo capolavoro, Things Fall Apart, Achebe mostra la
distruzione interiore ed esistenziale del protagonista, Okonkwo, come riflesso
dell’arrivo repentino dei missionari cristiani che sconvolgono le leggi della
comunità Igbo a cui l’uomo appartiene.
Sebbene la grandezza di Achebe resti indiscussa, la sua fama è stata
leggermente offuscata dall’arrivo del giovane prodigio Ben Okri, che avendo
pubblicato il suo primo romanzo a 19 anni, pare avere inaugurato quella
42
L O S T I N T R A N S L AT ION S
generazione di scrittori-adolescenti a cui appartiene la stessa Chimamanda
Ngozie Adichie. Nata negli anni settanta, la produzione letteraria di Okri
intende rappresentare le frustrazioni e il senso di dislocazione dei suoi
coetanei, utilizzando una tecnica narrativa che lo pone accanto alle più grandi
voci del realismo magico, tra cui Gabriel Garcia Marquez e Salman Rushdie.
I suoi romanzi, tra cui si ricordano Flowers and Shadows, del 1980, The
Famished Road del 1994, pur attingendo alle esperienze politiche durante la
guerra civile, includono anche elementi metafisici e riferimenti alla mitologia
della tradizione Yoruba.
La ricchezza della letteratura nigeriana si consolida grazie alla crescente
presenza di scritture al femminile. Oltre alla giovane Adichie, la prospettiva
delle donne è stata narrata da autrici come Flora Nwapa e Buchi Emecheta,
le quali hanno contribuito a documentare una condizione esistenziale
estremamente difficile in bilico tra la massiccia presenza di una tradizione
patriarcale e l’irruenza dei nuovi modelli comportamentali importati
dall’Occidente.
La produzione teatrale – come del resto tutti i generi che sono stati
menzionati – meriterebbe una trattazione più approfondita, non solo perché
buona parte della produzione drammatica nigeriana si è sviluppata attraverso
le opere di Wole Soynka, ma anche perché il teatro, considerate le sue specificità
da un punto di vista semiotico, veicola direttamente al pubblico le tematiche
legate alla situazione sociale del paese e alle sue trasformazioni culturali.
Tuttavia è opportuno indicare le più importanti opere del drammaturgo in
quanto rappresentative di interessanti componenti della tradizione orale e
della cultura Yoruba. All’interno di un intenso attivismo politico (si ricorda
che Soiynka è stato arrestato e imprigionato per ben due anni dal ’67 al
’69 durante la guerra civile) molte sue opere di teatro si rivelano come atti
d’accusa della situazione della Nigeria, sia come conseguenza della politica
imperialista che di quella post-coloniale. In opere come A Dance of the Forests,
rappresentata nel 1960 in occasione della celebrazione dell’indipendenza
nigeriana, l’autore attacca la situazione politica a lui contemporanea, come
scorretta e priva di contenuti. Nominato come ambasciatore Unesco nel 1994
Soiynka, attraverso le sue opere di teatro ha rafforzato un impegno politico,
che non solo ha contribuito a denunciare al mondo la drammatica condizione
di molti paesi africani, ma ha anche permesso la conoscenza e l’acquisizione
di una nuova percezione dell’identità dei popoli dell’Africa e della molteplicità
delle loro culture.
La massiccia presenza della letteratura nigeriana nel panorama culturale
anglofono dischiude un universo letterario che si è plasmato sull’esperienza
della colonizzazione e dell’indipendenza, ma anche sulla profondità delle
tradizioni locali della cultura Igbo e Yoruba, ancora evidenti nella matrice di
NIGERIA, IL CONTESTO LETTER ARIO
43
oralità che persiste nei vari generi letterari. Le più importanti opere, infatti, e
possiamo citare di nuovo di Soiynka, A Shuttle in the Crypt, pur abbracciando
tecniche e temi moderni e post-moderni riverberano di reminiscenze delle
più antiche tradizioni orali. L’oralità resta nella traccia dello story-telling,
ovvero il raccontare intense storie che dischiudono esistenze che si affacciano
a un mondo nuovo, incerto, frammentato e caotico, dove l’identità si plasma
nell’incontro tra il mondo del passato e le speranze verso il futuro, proprio
come leggiamo nelle short-stories della giovane Chimamanda Ngozie Adichie.
44
The Single Story: la narrativa di
Chimamanda Ngozi Adichie di Letizia Rustichelli
| letterature post coloniali
When we reject the single story, when we realize that there is never a single story
about any place, we regain a kind of paradise.
Chimamanda Ngozi Adichie
Giovane scrittrice nigeriana, Chimamanda, è una trentunenne africana.
Appartiene all’upper class nigeriana. Il padre è professore universitario, lei
studia in Inghilterra e negli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio a Yale.
A poco più di 30 anni è al suo secondo successo letterario, vincitrice di premi
importanti con il primo romanzo del 2003, intitolato Purple Ibiscus, si è ora
imposta all’attenzione del mondo letterario grazie al suo best seller di cui
ha venduto cinquecento mila copie negli States. Così come Purple Ibiscus,
anche il romanzo Half of a Yellow Sun è rigorosamente scritto in inglese,
“l’inglese è la lingua ufficiale della Nigeria, e dell’Africa, i giovani delle città
non conoscono altro idioma, guai tornare ai dialetti, sarebbero altri odii”
afferma in una intervista. Il libro riceve in Italia, per mano di Claudio Magris,
il “Premio Nonino internazionale 2009”.
Purple Ibiscus (L’Ibisco Viola, Fusi Orari, 2006) narra di Kambili, una
ragazza di quindici anni. Vive a Enugu, in Nigeria, con i genitori e il fratello
Jaja. Suo padre Eugene, proprietario dell’unico giornale indipendente del
paese, è considerato un modello di generosità e coraggio politico. Ma è anche
T H E SI NGL E STORY
45
un cattolico fanatico che impone una terribile disciplina ai suoi familiari e
li punisce con castighi crudeli. Dopo un colpo di stato, che coinvolge anche
il padre, Kambili e Jaja vanno a vivere dalla zia. Nella nuova casa regnano
la musica e l’allegria. E i due ragazzi scoprono una nuova vita fatta di
indipendenza, amore e libertà. Una rivelazione che cambierà il loro futuro.
Half of a Yellow Sun (Metà di un Sole Giallo, Einaudi 2008) è un romanzo
“d’amore e di guerra” con uno sfondo storico che si intreccia con le vicende
private dei numerosi personaggi: la guerra tra Nigeria e Biafra che ebbe luogo
tra il 1967 e il 1970 con la secessione delle province sudorientali. Il romanzo
si articola in quattro parti che corrispondono a due scansioni temporali:
inizio anni 60, momento in cui la Nigeria con grandi speranze conquista la
sua indipendenza, e fine anni settanta, il momento in cui per tre anni il Biafra
si stacca dalla Nigeria, scatenando una terribile guerra. La generazione
di coloro nati negli anni ’60 ricorda molto bene le immagini televisive dei
bambini biafrani con la pancia gonfia, vittime innocenti della fame. Il titolo
del romanzo Metà di un Sole Giallo è il simbolo di quel Biafra esistito per tre
anni: il sole nascente era sulla bandiera di un paese destinato a non sorgere.
In un’intervista Chimamanda ha dichiarato che per lei il Biafra è sempre
stata un’ossessione e di aver sentito la necessità di scrivere questo romanzo da
quando aveva 15 anni, per dare un senso alla storia personale di lei che, nata
nel 1977 in Biafra, ha perso i nonni in questa guerra: “Non avrei mai potuto
scrivere il romanzo senza i miei genitori, che hanno perso parenti, amici e tutti
i loro beni. A loro sono riconoscente per i racconti che mi hanno regalato”:
i ricordi di chi è sopravvissuto insieme ad una seria documentazione sono il
tessuto su cui sono costruite le storie di tanti personaggi per lo più inventati,
con i loro amori, tradimenti, rancori e riappacificazioni.
Nella prima parte del romanzo si fa fatica a sentirsi in Africa, perché non
è la solita Africa delle carestie, della fame, delle malattie, ma è soprattutto
l’Africa di salotti borghesi, di ambienti universitari, del circolo colto del
professor Odenigbo, idealista rivoluzionario, in cui si parla di poesia, di
filosofia e di politica. Egli è un personaggio importante, legato alla bellissima,
ricca e sensuale Olanna,” la bruna sirena”, sorella gemella di Kainene, che
è invece poco attraente, beffarda, legata ad un bianco, al biondo inglese
Richard, aspirante scrittore e amante dell’arte igbo, della stessa etnia di
Chimamanda. Nelle prime pagine ci viene presentata un’Africa tribale, quella
dei villaggi, dell’animismo, in cui regna la superstizione, in cui conta molto
ancora la magia, la stessa che ritroveremo poi nel racconto breve intitolato
The Headstrong Historian. La guerra compare con maggior forza nella
seconda parte del romanzo e mostra tutta la sua insensatezza e disumanità:
i bombardamenti, la fame, le atrocità, la paura, la fuga. “Il mondo taceva
mentre noi morivamo“: questa frase, che l’autrice utilizza per concludere i
46
L O S T I N T R A N S L AT ION S
diversi capitoli del libro, è come un mantra che accompagna il romanzo e
mette sotto accusa l’ipocrisia di un Occidente indifferente, mentre si consuma
la tragedia in una Nigeria pedina nelle mani di burattinai internazionali; il
Biafra infatti possiede i maggiori giacimenti di petrolio in terra nigeriana. Tale
scenario politico è volutamente tenuto sullo sfondo dalla giovane scrittrice,
la quale preferisce invece dare maggior spazio alla dimensione corale della
sua gente. ‘Ho raccolto le testimonianze di tante persone’ dice la scrittrice in
una intervista, ‘si deve sapere quello che è successo in Biafra. Non si studia
neanche nei nostri libri di scuola. Troppo silenzio. Qui e all’estero. Questo è
il punto. Il colonialismo ci ha tolto e ci toglie ancora la voce.’
In The Headstrong Historian, pubblicato dal New Yorker nel 2006, la
scrittrice narra di una Nigeria rurale che dall’inizio del XX secolo giunge
ai tempi dell’indipendenza del paese, proclamata nel’60, e che parla di quel
colonialismo che a suo parere ammutolisce.
E’ raro che un racconto breve riesca a coprire l’intero arco della vita di una
persona ma questo è quanto Chimamanda riesce a fare: racconta la storia
della vita di Nwamgba, una donna nata in Nigeria nel tardo Ottocento che
sposa un ragazzo contro il parere della propria famiglia, la quale ritiene la
dinastia del futuro sposo maledetta, a causa del flagello di numerosi aborti
spontanei delle donne di famiglia. Dopo diverse difficoltà infine Nwamgba
dà alla luce un bambino che dovrà crescere da sola poichè l’amato marito
morirà prematuramente. Molestata dai cugini del marito, al fine di tutelare
gli interessi del figlio, la giovane donna lo iscrive alla scuola cattolica
missionaria dove il giovane, fortemente influenzato dalla nuova dottrina,
inizia ad allontanarsi dalla tradizione. Successivamente il figlio, Anikwenwa,
si sposa con una nigeriana cresciuta all’ombra della missione cattolica e da
essa ha due figli, tra cui una ragazza che, Nwamgba crede, porti lo spirito
del marito morto. La ragazza, conosciuta come Grace, sul letto di morte
della nonna lancerà uno sguardo nella sua futura vita, e sarà proprio lei a
raccogliere dalla nonna il “testimone” della “storica cocciuta” evidenziato
dal titolo. I temi toccati da questa storia sono molti, forse persino troppi,
per un racconto breve. Leggiamo di come gli europei hanno “pacificato” le
tribù nigeriane, vediamo i nigeriani adottare i costumi occidentali e talvolta
sentire gli stessi costumi insopportabili. Si parla di schiavitù, di sottomissione
femminile, e di altre questioni tradizionali ma soprattutto si parla del clima
di oppressione derivante dal colonialismo che permea le tradizioni locali, le
modifica alla radice, le fagocita, rendendo nello specifico il rapporto tra madre
e figlio sempre più difficile: “... ed ella lo guardò, quest’uomo che indossava
pantaloni, con un rosario intorno al collo... [le pareva] come una persona che
recitasse una bizzarra pantomima.” Una relazione generazionale che rinasce
invece nell’intimo rapporto con il femminile: Nwamgba crede nella nipote,
T H E SI NGL E STORY
47
come crede nell’ amica Ayaju; rispetta entrambe per le loro doti intellettuali,
il loro amore per la tradizione accompagnato da ideali femministi. E sarà
proprio Grace che, in un incalzante ritmo quasi joyciano (“... ed era Grace
che...” ripetuto diverse volte come lo “yes” della joyciana Molly), ci darà
un’immagine del futuro della Nigeria, delle lotte per l’indipendenza, dei
movimenti per la liberazione del paese. Sarà proprio Grace a dare voce alla
nonna in un crescendo ritmico sorprendente e quasi tribale.
48
Invito (cicogne) di Elisabetta Grisendi
| lo spazio della riscrittura
If you are a dreamer, come in,
If you are a dreamer, a wisher, a liar,
A hope-er, a pray-er, a magic bean buyer...
If you’re a pretender, come sit by my fire
For we have some flax-golden tales to spin.
Come in!
Come in!
Se sei un sognatore, fatti avanti,
se sei un sognatore, un mentitore,
un desidera-tore, un compratore di elisir s’amore...
se sei un fingitore, vieni al mio focolare:
dobbiamo tessere storie con fili d’oro luccicanti.
Vieni avanti!
Vieni avanti!
Shel Silverstein
Tim ParksI dice che per tradurre bene “bisogna saper scrivere bene,
anzi benissimo nella propria lingua.” Posso aggiungere con modesta
consapevolezza che bisogna saper raccontare bene storie, anzi, benissimo.
C’è una stanza comune in cui chiunque traduca da qualsiasi lingua, può
ritrovarsi: dare vita, necromanticamente, ad una lettera morta, in quanto nel
suo stato incomprensibile e dunque illeggibile.
Nel terzo Sonetto ad Orfeo Rilke scrive che cantare è Essere, e Chatwin
riprende questo passaggio ne Le vie dei canti, raccontando i miti creazionali
aborigeni, secondo i quali nominare-cantando è un dare alla luce. Cucendo
insieme queste due idee, penso che, se cantare è un modo per lasciare che
le cose Siano, perdere la possibile lettura-comprensione di esse perché
manchevoli di un codice comunicativo, sia una perdita grande almeno
quanto il lasciare morire. Molto, tantissimo, è già stato scritto con dovizia
e sagacia sulla pratica traduttiva, e le note epistemologiche spesso prendono
(giustamente) il sopravvento sulle riflessioni ontologiche.
L’uomo ha da sempre raccontato storie, nel piacere del narratore c’è
un’etica del donoII che il traduttore si incarica di conservare con un gesto di
sacrificio ecolalico, nascondendo per definizione se stesso nella scrittura di
chi ha narrato prima di lui. Ma, nonostante questa modestia che fa parte di un
I
Il Sole XXIV ORE, 13/02/2011, pag.4-5.
II
Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 2009, p. 10.
INVITO (CICOGNE)
49
corredo involontario, c’è nell’atto di tradurre una forza poietica che protegge
ogni narratore di storie e supera la volontà di traghettare i pensieri da una
cultura all’altra. Quest’ultima potrebbe essere semplicemente frutto di una
curiositas da naturalista, da bio-logo, che ama la vita in tutte le sue forme.
Non sempre con piena consapevolezza, chi traduce conserva una creazione
e, poiché per alcuni solo tramite tale sforzo la storia si lascia conoscere,
anch’egli crea e rende leggibile il disegno di ogni storia di cui si comprende
la configurazione solo quando essa sia passata, e dunque narrata e narrabile.
Adriana Cavarero definisce cicogna uno storyteller, perché non “fa”, ma
porta, trasportaIII. Poiché nel preverbio tra – di trasportare si ritrova parte del
trans-lare latino, trans-lation inglese, tra-duction del francese, forse cicogna
non è solo un narratore di storie, ma anche un narratore di seconda mano, il
traduttore.
Hannah Arendt commenta il pianto di Ulisse alla corte dei Feaci IV dicendo
che ‘non aveva mai pianto prima, certo non quando i fatti che ora sente narrare
erano realmente accaduti. Soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena
nozione del suo significato.’ V
Senza un traduttore, in versi o in prosa, che rispetti l’esametro o liberi le
parole dal metro del verso, il pianto di Ulisse sarebbe invisibile a chi il greco
non lo conosca. Con esso sarebbero invisibili le parole di Hannah Arendt, ci
sarebbe preclusa la riflessione illuminante che diventa filosofia, ci potremmo
dimenticare che le parole sono le cose, tanto che Catullo ne temeva il potere
magico e voleva mettere i baci suoi e di Lesbia al riparo da esse.VI
QUERELLE DES ANCIENS ET DES MODERNES
Le lingue vive e le lingue morte lottano su una scacchiera, soprattutto perché
tristemente gli insegnanti di esse lottano nella scuola, dimentichi che si
sta camminando verso la stessa meta, forse solo per sentieri differenti. Per
questo, stanca di sofismi bizantini, raccolgo qualche riflessione sulla mia
partecipazione al workshop come osservatrice del lavoro degli studenti.
Il traduttore delle lingue moderne apprende da quello delle lingue antiche
la necessità vitale della costruzione del milieu, perché pur essendo attualità,
era attualità per gli antichi. La vivezza delle parole di Demostene, ad esempio,
resta tale solo dopo che si è ricreato il mondo in cui esse siano state formulate
e si senta la loro forza eversiva che si nutre di una dimensione presente, non
passata. Senza questa attualità, non si potrebbe restituire la funzione delle
orazioni, la possibilità di persuadere chi debba prendere una decisione politica.
III
Ivi, p.9.
IV
Odissea, VIII 72ss.
V
H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, p. 221.
VI
Catullo 7: nec mala fascinare lingua.
50
L O S T I N T R A N S L AT ION S
Le lingue antiche inoltre si occupano solo di testi letterari, che il canone ha
già consacrato o che, secondo la lezione di Bloom, si sono autoconsacrati
a classici, mentre quelle moderne traducono qualcosa che nel canone deve
ancora entrare. Lo stile dunque, il peso di archetipi, di modelli, il loro essere
polo nell’oscillazione pendolare tra tradizione ed innovazione è irrinunciabile
parte del loro commento e non può essere eluso. Non vivono una sincronia
con noi, e per questo manifestano la loro lontananza, la loro alterità. Come la
traduzione di un postcoloniale contemporaneo è sincronicamente un “altro
da noi”, gli antichi lo sono in modo bidimensionale: nel tempo (diacronia)
e nello spazio (sincronia). Ma sempre di viaggi stiamo parlando. Sempre
di educazione alla tolleranza della diversità stiamo parlando. Sempre del
risveglio della curiosità stiamo parlando.
Gli antichisti d’altro canto apprendono dai modernisti la flessibilità e una
libertà rigorosa che li faccia perdere quella reverenza che spesso impedisce
di ammodernare un lessico stantio, frutto di dizionari ingialliti. Imparano
poi a uscire dalla gabbia della traduzione letterale, relitto da liceo, quando
le uniche traduzioni ammissibili sono quelle giuste: quelle che traducono
davvero, che traghettano, che portano e trasportano da una sponda all’altra,
navicelle dell’ingegno. Sempre di visione plurima del reale stiamo parlando,
perché non esiste la traduzione, ma ne esiste più di una. Ma questo lo fanno
entrambi, senza distinzione, les Anciens et les Modernes, che potrebbero
finalmente bere una tazza di tè col pane abbrustolito.
UNA PROPOSTA ALTERNATIVA
Da Jonathan Swift, Gulliver’s travels, III.
Passammo poi nella scuola di lingue, dove tre accademici stavano a consulto sul
mezzo di migliorar la lingua del paese. Dapprima venne proposto di abbreviare
il discorso riducendo i polisillabi a monosillabi ed eliminando i verbi e i
participi: perchè, a veder le cose come stanno, tutte le cose immaginabili non
sono che nomi. Venne seconda la proposta di abolir del tutto ogni parola, e fu
caldamente appoggiata come infinitamente vantaggiosa alla salute non meno
che alla concisione. E’ chiaro, infatti, che ogni parola pronunziata ci logora
in qualche modo i polmoni e, di conseguenza, contribuisce ad abbreviarci
la vita. Fu dunque suggerito che, dato che ogni parola è semplicemente il
nome di una cosa, sarebbe più conveniente a chiunque portarsi addosso tutte
le cose necessarie a esprimere i particolari affari di cui vuol parlare. Tale
ritrovato sarebbe stato accolto senz’altro con gran vantaggio della comodità
e della pubblica salute, se le donne, d’ accordo con il volgo e gli illetterati,
non avessero minacciato una rivolta rivendicando la libertà di parlar con la
lingua al modo dei loro padri: il volgo è sempre stato nemico irriducibile
della scienza. Tuttavia parecchi fra i più dotti e i più saggi hanno aderito a
INVITO (CICOGNE)
51
questo nuovo modo di esprimersi attraverso le cose; unico suo inconveniente
è che, se dobbiamo trattare affari complessi e di vario genere, siamo costretti
a portarci sulla schiena una montagna di oggetti, a meno che non si possa
disporre di due gagliardi servitori che ci aiutino. Ho spesso visto un paio di
questi saggi quasi sommersi nel cumulo dei loro fagotti come i nostri merciai
ambulanti; quando s’incontrano per via, metton giù il loro carico, aprono
i sacchi e chiacchierano per un’ora; poi ripongono ogni cosa, si aiutano a
vicenda a rimettersi in spalla il fardello e si salutano. Ma per conversazioni
brevi, si possono portare i vari oggetti in tasca o sottobraccio; e in casa
propria, poi, nulla può mancare. Per questo le sale in cui si radunano coloro
che praticano questo sistema son piene di cose messe lì sottomano e pronte a
fornir materia a questa sorta di conversazione artificiale. Altro gran vantaggio
è che l’invenzione può servire come linguaggio universale, che può esser capito in
tutte le nazioni civili le quali usano in genere suppellettili e utensili dello stesso genere
o molto simili, così che facilmente si può capire il loro significato. In tal modo gli
ambasciatori potrebbero trattare con principi o ministri stranieri senza conoscerne
minimamente la lingua.
52
L’Infinito movimento: nota sul
tradurre di Franco Nasi
| lo spazio della riscrittura
Nel libro I Am a Strange Loop, di recente pubblicato anche in italiano con il
felice titolo Anelli dell’Io, il filosofo americano Douglas Hosftadter dichiara
di ricorrere nella sua argomentazione a molte immagini, trascurando
intenzionalmente il linguaggio rigido delle discipline scientifiche: ‘Benché
speri di raggiungere con le idee di questo libro anche i filosofi, non penso
che il mio modo di scrivere sia molto simile a quello di un filosofo. A me
sembra che molti filosofi siano convinti di poter davvero dimostrare, come
se fossero dei matematici, le cose in cui credono e che a tale scopo cerchino
spesso di usare un linguaggio estremamente tecnico e rigoroso [...] Non
credo che in filosofia sia davvero possibile dimostrare alcunché; credo che
si possa semplicemente cercare di convincere [...] In conseguenza di questo
blando fatalismo, la mia strategia per comunicare ciò che mi preme si basa
più sulla metafora e sull’analogia che sui tentativi di essere rigoroso. E in
effetti questo libro è una gigantesca insalatiera piena di metafore e analogie.’
(Hofstadter 2008: 10)
Prendo a modello questo modo di argomentare, sottolineando che non
solo nella filosofia della conoscenza, ambito di competenza di Hofstadter,
è difficile dimostrare alcunché, ma altrettanto illusorio mi sembra che lo
sarebbe per la traduzione letteraria. Si può forse solo cercare di convincere
le persone che si affacciano a questo campo di ricerca che le cose sono meno
semplici di quanto siamo in genere portati a pensare, che tradurre un testo
L’ I N F I N I T O M O V I M E N T O : N O TA S U L T R A D U R R E
53
non è operazione meccanica e univoca, e che una traduzione porta con sé
conseguenze poetiche, etiche e politiche non irrilevanti.
Nonostante l’attività del traduttore sia, a prima vista, quella di un
comprimario, una specie di assistente di un autore che per poter essere
letto e compreso in una lingua straniera si avvale della sua mediazione, a
ben guardare essa è decisiva, oggi come ieri, nelle relazioni fra individui e
fra culture. Il traduttore sa che il suo compito è ausiliario, in qualche modo
subalterno. L’atteggiamento di grande umiltà, che dovrebbe discendere da
una consapevolezza di questa natura, è una virtù che ogni traduttore serio
deve avere.
Quando si traduce un testo importante, come un Salmo della Bibbia, una
Sura del Corano, ma anche una tragedia di Shakespeare, una pagina del
Chisciotte, un Canto della Divina Commedia, non si può non assumere un
atteggiamento di ammirazione. Si guarderà ripetutamente il testo (il latino
ad-mirari porta in sé l’azione di guardare con insistenza, stupore e rispetto).
Lo si leggerà e rileggerà. E ogni lettura porterà qualcosa di nuovo alla nostra
comprensione del testo: si noteranno alcune ricorrenze ritmiche, alcuni giochi
fonetici, alcune variazioni di significato dei termini che inizialmente ci erano
sfuggiti. Il traduttore che voglia davvero leggere il testo che deve tradurre, e
non limitarsi a trovare corrispondenze meramente lessicali, parola per parola
tra due lingue, non potrà non porsi di fronte al testo con un atteggiamento
di massima apertura e disponibilità a lasciarsi sedurre. Solo imparando a
comprendere la complessità di un testo letterario, i suoi vari strati di significato,
le relazioni fra gli aspetti retorici che lo costituiscono, solo imparando a
coglierne il ritmo che lo rende quello che è, un testo appunto, un intreccio,
un continuum di significati lessicali e forme, solo così si potrà pensare di
riscriverlo in una lingua diversa, di trasportarlo in una cultura diversa. In
genere più il traduttore è capace di cogliere la complessità dell’opera, più
sente che il suo compito è impossibile: conoscere le implicazioni filosofiche,
storico, letterarie, retoriche, che un testo porta con sé, e conoscere altrettanto
bene le convenzioni retoriche della cultura in cui lo si vuole tradurre, da una
parte crea le premesse necessarie perché la traduzione abbia successo, ma
nello stesso tempo rende faticosa e complicatissima l’opera del traduttore.
Prendiamo una poesia breve, apparentemente semplice, toccante, scritta per
bambini, dal poeta inglese Roger McGough:
Snowman in a field
listening to the raindrops
wishing him farewell
54
L O S T I N T R A N S L AT ION S
Una prima traduzione potrebbe essere la seguente:
Un pupazzo di neve in un campo
ascolta le gocce di pioggia
dirgli addio
Massimo Bacigalupo, fra i migliori traduttori in Italia, vista questa versione,
ha notato un errore e l’ha così corretta:
Pupazzo di neve in un campo
ascoltare le gocce di pioggia
dirgli addio
Il cambiamento è minimo ma significativo: “ascolta” diventa “ascoltare”.
Nella prima versione il verbo “ascoltare” coniugato in terza persona
(“ascolta”) fa sì che l’azione di “listening” sia svolta dal pupazzo di neve;
ma nel testo di McGough non è sintatticamente decidibile chi sia il soggetto
dell’azione. Se l’azione di ascoltare è attribuita allo snowman, allora io
rafforzo la personificazione e lo creo come personaggio vivente, se invece
sono io ad ascoltare le gocce di pioggia, posso magari ironicamente o
giocosamente “dirgli addio”. Una lettura più attenta del testo ci porta
dunque a cogliere alcune sue ambiguità semantiche che sarebbe opportuno
mantenere o riprodurre anche nella traduzione, se vogliamo che essa
rispetti il testo e riduca al minino le interpretazioni vincolanti che portano,
inevitabilmente, a limitarne e a banalizzarne la polisemia. Ma se continuo
ad “ammirare” il testo di McGough, a guardarlo con curiosità, a leggerlo
ad alta voce, mi accorgo che non si tratta di una semplice poesia breve, ma
di una poesia breve in forma chiusa: è composta secondo i vincoli metrici
dell’Haiku e cioè primo verso di cinque sillabe, secondo di sette, terzo di
cinque. Posso decidere di trascurare questo aspetto, ma è certo una decisione
che va fatta con consapevolezza. Si può ad esempio decidere di tradurre la
Divina Commedia in prosa oppure di mantenere la struttura della terza rima.
Non è la stessa cosa naturalmente e non è detto affatto che la prima versione
(presumibilmente più attenta alla resa delle parole singole) sia più precisa o
corretta o fedele o letterale della seconda. Vedremo come questi aggettivi,
così spesso usati anche quando si danno i giudizi nelle versioni che si fanno
a scuola, siano visti oggi, dalla più avveduta traduttologia, con scetticismo
se non addirittura banditi come insignificanti, ambigui e sostanzialmente
inutili. Se la forma chiusa della poesia diventa nella lettura attenta del
traduttore uno degli elementi fondamentali da considerare nella traduzione,
si dovranno rivedere le versioni già esposte. Una possibile, che partendo dalla
L’ I N F I N I T O M O V I M E N T O : N O TA S U L T R A D U R R E
55
forma chiusa dell’Haiku giapponese, tenti anche di restituire l’ambiguità
semantica che abbiamo visto potrebbe essere la seguente:
Uomo di neve
in mezzo a un campo. Piove.
Dirgli: addio
Scompare l’azione di ascoltare (“listening”), ma, è noto, in italiano molte
parole sono plurisillabiche al contrario dell’inglese che è assai più “economico”
da questo punto di vista, con numerosi termini composti da una sola sillaba.
Se la griglia tuttavia richiede tre versi di cui due quinari e un settenario,
si farà, come si dice, di necessità virtù. Un vincolo metrico dunque può
costringere alla perdita di qualche elemento verbale. Qui non è questione
di “traduttore traditore”, come si dice spesso con un motto un poco logoro,
in verità. Semmai, come suggerisce Hofstadter, in un luogo saggio dedicato
questa volta proprio al tema della traduzione, a “translator traitor” sarebbe
meglio sostituire l’altrettanto paronomasico “translator trader”, “traduttore
commerciante, mediatore” (Hofstadter 2009: 18).
Un esempio minimo, come l’haiku di McGough, ci porta nel mezzo del
territorio nel quale opera il traduttore di letteratura: un territorio caratterizzato
da sentieri che presentano continuamente bivi, rotonde, incroci, a volte
anche strade senza uscita. E il traduttore avveduto, perché consapevole della
complessità del testo da tradurre e delle molteplici possibilità che gli offre
la lingua e la cultura di arrivo, è costretto a scegliere, procedendo fra mille
esitazioni e frustrazioni.
L’umiltà e la modestia che derivano da una genuina ammirazione per il testo di
partenza sono virtù necessarie al traduttore che lealmente cerca di svolgere al
meglio il suo lavoro. Tanto più, dicevamo, il traduttore sarà consapevole della
complessità del suo lavoro, tante più saranno le sue insoddisfazioni. Ecco come
il poeta irlandese Grennan introduce la sua traduzione delle liriche di Leopardi:
‘The image I found for it was that of a beautiful, brightly colored stone you see
underwater, which, when you take home and set n a windowsill, turns out to be a
dull, dead gray. The water – the element the colors live in – is the original language;
once removed from that, there is no finding those elemental colors again; we may
only seek out approximations, painting them on as carefully as we can.
Since this is a dual-language version, it will be very easy for the reader to see
what I mean: on one page, the stone underwater; on the other the dry, painted,
“translated” stone.’ (Grennan 1997: XVIII-XIX)
56
L O S T I N T R A N S L AT ION S
Credo che quella descritta da Grennan sia un’esperienza che abbiamo fatto
tutti: un sasso visto in un ruscello di montagna è spesso luccicante e colorato;
una volta tolto dal letto del fiume e messo come soprammobile in casa, perde
la sua brillantezza e ci appare grigio e smorto (“dull, dead gray”). Così, apre
la metafora Grennan, càpita con le grandi poesie: fino a che restano nel loro
elemento vitale rifulgono di splendore, una volta trasportate in un luogo
differente muoiono. Il traduttore potrà colorarle un poco, ma l’effetto non
sarà mai lo stesso.
Nella metafora di Grennan c’è tutta l’umiltà del poeta-traduttore. La
presenza del testo a fronte mette ancor più a nudo, davanti agli occhi di tutti,
l’oltraggio fatto al testo, le perdite del passaggio. Di questo denudamento,
evidenziato dal confronto diretto, il traduttore sensibile prova una sorta
di vergogna. L’introduzione, con l’immagine finale del sasso ricolorato ad
arte, è una dichiarazione del senso di inadeguatezza, una metafora dettata
dal pudore e dalla consapevolezza di un tentativo compiuto e forse riuscito
solo parzialmente (su “pudore” e “vergogna” si vedano Belpoliti 2010 e
Tagliapietra 2006). Secondo Ortega Y Gasset d’altronde, il traduttore, come
l’essere umano nel suo passaggio nel tempo che gli è dato, “parte sempre
verso il fallimento, e prima di entrare nella lotta porta già la tempia ferita”
(2001: 30).
Propongo tuttavia qui di riprendere l’immagine di Grennan e di virarla
un poco. Non credo che il compito del traduttore sia solo quello di prendere
il sasso e metterlo su una scansia come soprammobile o sotto vetro in un
museo. Il fiume è un elemento che si muove continuamente e, come la lingua,
si muove con ritmi e modi a volte imprevedibili. Tradurre un testo ha più a
che fare con l’azione di raccogliere quel sasso per poi rimetterlo in un nuovo
fiume, dove la corrente della lingua in cui si traduce, con le sue istituzioni
poetiche e le sue norme lessicali e sintattiche, è in perenne movimento. Il
sasso, ricollocato così nel nuovo corso, non è solo reso più luminoso dall’acqua
(il suo naturale liquido amniotico), ma può far mutare il corso del fiume,
anche di poco. Le grandi opere letterarie d’altronde sono grandi sassi che
fanno mutare la corrente. Mettono in discussione le norme del linguaggio, le
convenzioni retoriche, non si appiattiscono sull’orizzonte di attesa del lettore
medio, ma forzano la lingua e le sue convenzioni retoriche in direzioni nuove.
Trasportata in un altro corso d’acqua, la buona traduzione di un testo letterario
significativo può far cambiare anche il corso del movimento del nuovo fiume,
deviandone, anche se solo di poco, il fluire normale, consueto. Lo hanno fatto
grandi traduzioni che sono diventate fondamentali non solo per la conoscenza
dell’opera che è stata tradotta, ma per le stesse istituzioni letterarie della
cultura di arrivo. Così la traduzione di Annibal Caro dell’Eneide, l’Iliade
di Monti, Ossian di Cesarotti, I canti Corsi, Illirici, Greci di Tommaseo, I
L’ I N F I N I T O M O V I M E N T O : N O TA S U L T R A D U R R E
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lirici greci di Quasimodo, sono sassi che hanno fatto cambiare il corso della
corrente del grande fiume della civiltà letteraria in lingua italiana. Il testo vive
solo se rimesso in un flusso, in un movimento (linguistico, poetico, culturale,
esistenziale). Nulla rende più mortifero e inutile un testo che una traduzione
imbalsamata, scritta in “traduttese”, in una lingua neutra, tutta preoccupata
di rispettare la norma linguistica dominante, quella che rende appetibili e
allo stesso tempo mediocri e omologanti i prodotti di mercato, a discapito
della qualità. Una buona traduzione non deve solo “dire”, ma anche “fare”,
come scrive Meschonnic (2000: 17).
Friedman Apel, in un denso studio sul linguaggio, ha messo bene in evidenza
questa peculiarità della lingua e la centralità della nozione di movimento, di
trasformazione, di innovazione della traduzione: ‘La dialettica del vecchio e del
nuovo [...] si palesa nel modo più pregnante proprio nella traduzione, e, non a caso,
nell’ambito della teoria della traduzione la categoria del nuovo è diventata una
categoria poetologica. Nessuna traduzione che si sia affermata in una certa epoca
era semplice imitazione dell’antico. Anche qui vale il principio che Adorno descrive
come impulso in ogni arte: “Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi
ha bisogno del nuovo.”’ (Apel 1997: 36-37)
Il movimento non è caratteristica però solo della lingua di arrivo, cosa
chiara a tutti coloro che ripercorrendo la storia delle traduzioni confrontino,
ad esempio, le traduzioni ottocentesche e quelle contemporanee di Hamlet di
Shakespeare. L’italiano letterario dell’età romantica non è quello che usiamo
oggi né lo sono le convenzioni retoriche, quelle poetiche. I diversi traduttori,
con le loro diverse poetiche, hanno moltiplicato Hamlet. Meno scontato è
pensare al testo di partenza come un testo anch’esso in movimento. Cercherò
di mostrare come questi due movimenti (del testo di partenza e del testo di
arrivo) siano ugualmente importanti per la definizione di un testo letterario
come co-testo, testo singolare e plurale a un tempo (Nasi 2009: 45-72).
Alcuni diranno che il testo che abbiamo davanti e che dobbiamo
tradurre è un punto di partenza fisso e definitivo. A volte forse è così, ma
molto spesso non lo è. Molti, ingenuamente, pensano che quando si debba
tradurre la Divina commedia in inglese si parte da un testo che è tale per
tutti i traduttori; ammettono cioè che le traduzioni potranno essere diverse,
ma non che lo è il testo di Dante. Come sanno bene tutti coloro che si sono
occupati di filologia, e in particolare di ecdotica, uno dei problemi cruciali
di questa disciplina è la cosiddetta “edizione critica” che intende stabilire
il testo così come era in origine o come era voluto dall’autore. A volte è un
compito infinito, a suo modo utopico. È certo rassicurante pensare di avere
tra le mani “il testo” scritto da Dante, ma purtroppo, non sappiamo quale
sia la versione che l’autore ha ritenuto definitiva. Molti lettori non sanno
58
L O S T I N T R A N S L AT ION S
neppure che il titolo che Dante aveva dato alla sua opera era semplicemente
Comedìa, eppure noi tutti conosciamo quello scritto con un titolo diverso,
così come conosciamo l’Orlando innamorato di Boiardo con un titolo falso,
essendo quello più probabile Inamoramento de Orlando. Ancora, quando
leggiamo il Macbeth di Shakespeare, pensiamo di leggere quello che ha
scritto il drammaturgo inglese, ma il primo testo a stampa di cui siamo in
possesso (1623) è stato redatto sette anni dopo la sua morte (1616) e alcune
scene (III.5 e IV.1) sono quasi sicuramente state aggiunte da chi ha composto
l’in folio, basandosi probabilmente su messe in scena del testo successive alla
morte di Shakespeare. Uno dei massimi filologi italiani, Cesare Segre, ha
ribadito che il compito di emendare il testo dalle “varianti erronee” o “non
genuine” nel tentativo di “avvicinarsi all’archetipo” (cioè, in mancanza del
testo autografo, del testo capostipite delle successive trascrizioni) vale come
imperativo categorico per lo studioso dell’ecdotica, e “potrebbe essere il
primo comandamento in una specie di giuramento di Ippocrate dei critici
letterari” (Segre 2001: 98-99). Tuttavia non è di minore interesse e cogenza
anche lo studio delle varianti, l’analisi critica cioè dei modi in cui quel
testo, risignificandosi continuamente, è stato modificato dall’autore stesso
(Segre 1969: 87-91) o dai trascrittori, dai critici, dai revisori editoriali, dai
compilatori di antologie, dai traduttori (Lefevere 1998: 9). Forse è bene
pensare, per evitare di cadere in illusorie sicurezze, che il nostro modo di
leggere l’eventuale testo definitivo non lo esaurisce; è un avvicinamento,
una sorta di tensione verso il testo: è bene concentrarsi sull’edizione critica,
sull’utopico “testo corretto”, ma è necessario concentrarsi anche sui “testi
corrotti”, cioè sulla storia del testo, sul modo in cui quel testo sia stato vissuto,
si sia trasformato e sia giunto fino a noi.
Quando leggiamo un testo tendiamo spesso a interpretarlo come se a una
data parola corrispondesse da sempre uno stesso significato. L’esempio più
illuminante e noto è il sonetto di Dante dalla Vita Nuova “Tanto gentile e
tanto onesta pare /la donna mia quand’ella altrui saluta....” Contini, con
dovizia di particolari, ha mostrato come queste parole abbiano assunto nel
corso del tempo significati diversi: che “gentile” non vuol dire bene educata;
che “onesta” non è il contrario di disonesto; che “pare” non vuol dire
“sembra” ma “appare evidentemente, è o si manifesta nella sua evidenza”;
che “donna” non sta per mia fidanzata, ma piuttosto per mia signora, mia
domina, padrona; che “salutare” non significa “dire ciao” ma fare star
bene, donare, appunto, la salute (Contini 1979: 163-64). Non solo le lingue
straniere dunque sono piene di false friends. Lo è persino la lingua madre,
anche se ce ne accorgiamo solo di rado. “Guerra civile”, ad esempio, per noi
è una guerra intestina, tra cittadini di una stessa nazione. Nel Proemio al
Trecentonovelle di Franco Sacchetti, la guerra civile è invece una guerra con
L’ I N F I N I T O M O V I M E N T O : N O TA S U L T R A D U R R E
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un nemico esterno, tra stati diversi, tra civiltà (Puccini 2006: 5153), e così
era non solo per Sacchetti. Per rimanere al trecento fiorentino, un brigante
nel Decamerone non era necessariamente un ladro, poteva essere benissimo
un buontempone, uno che faceva parte della brigata, della compagnia, come
lo erano i giovani che formavano “l’onesta brigata”. Onesti poi lo erano i dieci
giovani del capolavoro di Boccaccio non perché non rubassero: onesto non
significava questo all’epoca, non era il contrario di disonesto, ma di utile,
essi trascorrevano “onestamente” il loro tempo, senza fare cioè alcunché
di utile, in pratica senza lavorare (Cherchi 2004). Il testo di partenza può
essere irrequieto e in movimento non solo per le sue diverse edizioni o per
gli arcaismi semantici, ma anche perché intrinsecamente ambiguo. Abbiamo
visto come lo era “listening” nella poesia per bambini di McGough: in pratica
indecidibile. È facile vederlo nelle poesie di Mallarmé, dove l’indecidibilità e
l’ambiguità sintattica sono ricercate come peculiarità di una poetica ermetica
e ontologica. Ma lo sono anche in certi versi famosissimi di Shakespeare. Si
prenda ad esempio, il primo verso del famoso monologo di Macbeth quando
gli viene comunicato che la moglie, la tremenda Lady Macbeth, è morta
(V.5): ‘She should have died hereafter. There would have been a time for such a
word. Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow...’
In due recenti traduzioni endolinguistiche (dall’inglese di Shakespeare
all’inglese contemporaneo) il verso è tradotto in modi aassolutamente
diversi. In un caso si legge “She would have died later anyway” (Shakespeare
2003: 203), nell’altro: “She shouldn’t have died so soon” (Shakespeare
2008: 178); cioè a dire: “tanto prima o poi sarebbe morta”, oppure “è morta
troppo giovane.” Non è necessario spiegare l’abissale differenza fra le due
interpretazioni: non si tratta qui di un incidente di percorso di uno dei due
traduttori. Confrontando molte versioni italiane della tragedia ci si accorge
che anche i traduttori italiani si sono divisi su questa interpretazione. Ecco
due versioni esemplari: Cino Chiarini nel 1911 traduce: “Avrebbe dovuto
morire più tardi; non sarebbe mancato il momento opportuno per udire una
simile parola” (Shakespeare 1977); Gabriele Baldini invece nel 1963 legge:
“Sarebbe pur morta, un giorno o l’altro. Il tempo per quella parola sarebbe
pur dovuto venire” (Shakespeare 1993). Il problema, sempre che questo sia
un problema e non una forza propria della poesia, è che il testo di partenza
è intrinsecamente ambiguo (Empson 1965) e questa ambiguità lo rende
volatile, in movimento, appunto.
Più facile è mostrare come le diverse traduzioni mettano in movimento il
testo nella lingua di arrivo. Nessuno che abbia un minimo di conoscenza della
storia della letteratura, della lingua e delle poetiche potrà pensare che esista
una e una sola traduzione corretta di una poesia. Sarà sufficiente riprendere
uno qualunque dei frammenti di Saffo, ad esempio, e vedere come sono stati
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
tradotti in italiano nei secoli per accorgersi di come molte delle traduzioni,
diversissime tra di loro, abbiano ciascuna una motivazione, una ragione per
essere quello che sono, e nello stesso tempo, proprio grazie alla loro diversità,
consentano a quel frammento di continuare a “fare” qualcosa, a vivere come
poesia. Per esemplificare questo punto (il movimento del testo nella lingua di
arrivo) prenderò uno dei pochi testi che ancora, forse, quasi tutti conosciamo
a memoria: l’Infinito di Leopardi.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Il testo è stato scritto poco meno di duecento anni fa e, grazie anche allo
stile cristallino e innovativo di Leopardi, non dovrebbe presentare troppi
problemi per quanto riguarda il lessico: forse soltanto termini come
“spaura” (peraltro facilmente intuibile) o “ermo” e “sovvien” risultano
ostici a chi non sia abituato alla lingua letteraria. Qualche difficoltà sarà
data dalla costruzione sintattica che rende così meravigliosamente sospesa
e come indefinita l’espressione poetica di Leopardi. Quando leggiamo una
traduzione in un’altra lingua di una poesia che amiamo, restiamo un poco
indispettiti e pensiamo, quasi inevitabilmente: “in italiano è tutt’altra cosa!”,
trovando un argomento a sostegno del luogo comune che la poesia non si
possa tradurre. Ecco la versione di Grennan, che ci aveva peraltro avvertiti
che il sasso brillante, nella sua versione, risultava, per forza di cose, “grigio
e smorto”.
I’ve always loved this lonesome hill
And this hedge that hides
The entire horizon, almost, from sight.
L’ I N F I N I T O M O V I M E N T O : N O TA S U L T R A D U R R E
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But sitting here in a daydream, I picture
The boundless spaces away out there, silences
Deeper than human silence, an unfathomable hush
In which my heart is hardly a beat
From fear. And hearing the wind
Rush rustling through these bushes,
I pit its speech against infinite silence –
And a notion of eternity floats to mind,
And the dead season, and the season
Beating here and now, and the sound of it. So,
In this immensity my thoughts all drown;
And it’s easeful to be wrecked in seas like these.
Il lettore italiano sarà subito tentato di verificare se “c’è tutto”. E subito noterà
che l’avverbio “sempre” che apre la poesia e che le dà immediatamente un
tono assertivo, filosofico, qui è in secondo piano, preceduto dal soggetto “Io”
che “ama” (to love) la collina solitaria. Tutti sanno che non è esattamente la
stessa cosa dire “amare” o “voler bene” o “avere a cuore” o “sempre caro mi
fu”. E si potrebbe continuare così, meticolosamente, mettendo in evidenza
quello che non c’è più nella traduzione, quello che è andato perduto. Procedere
in questo modo non porta a nulla. Meglio, molto meglio, secondo Berman
(2000), è sospendere ogni giudizio frettoloso e cercare di verificare se il testo
di arrivo ha una sua coerenza interna, funziona come testo, e a quali ragioni,
scopi, strategie traduttive risponde. Per alleggerire il discorso propongo ora
una serie di trasformazioni o manipolazioni (termine che Lefevere, 1998,
usa significativamente come sinonimo di traduzioni) del testo di Leopardi in
italiano. Seguire le metamorfosi di un testo nella lingua madre può sollecitare
reazioni di disappunto, stupore, fastidio o piacere in modo più immediato,
ma non per questo meno profondo. Si tratta di un gioco, poco più. Con una
premessa però: i giochi si fanno partendo da regole, da norme condivise e la
storia della poesia è segnata da norme che, per un certo periodo, vengono
accolte e sembrano definitive e immutabili, per essere poi sostituite da altre
a volte totalmente opposte (basti pensare alla forma chiusa o al verso libero).
La prima trasformazione è la parafrasi (o traduzione endolinguistica, per
dirla con Jakobson) di Paolo Balboni, pubblicata in un volume con testo a
fronte, edito dalla casa editrice Bonacci, in una serie di volumi di classici
italiani tradotti in italiano per studenti stranieri.
Ho sempre amato quella collina solitaria
E questa siepe che nasconde agli occhi
Una gran parte dell’orizzonte più lontano.
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
Ma, seduto a guardare, mi immagino
Spazi senza fine al di là della siepe,
e silenzi più che umani, e una profonda
tranquillità: in cui il mio animo quasi
si spaurisce. E mentre ascolto il vento
che fa rumore tra gli alberi, paragono
questo rumore a quel silenzio infinito:
e mi tornano in mente l’eternità
e le stagioni passate e quella di oggi,
viva, e la voce di lei. Così, in questa
immensità il mio pensiero annega:
e mi piace naufragare in questo mare.
L’incipit è lessicalmente assai simile alla traduzione di Grennan, e simile
forse è anche il senso di insoddisfazione che ci accompagna nella lettura.
Credo che quasi tutti saranno disposti ad ammettere che “si capisce” meglio
quello che il testo “dice”, ma manca la musicalità dei versi, che fanno dire e
“fare” alla poesia anche altre cose. Sappiamo che la poesia originale è scritta
in endecasillabi sciolti, mentre Balboni, nella sua riscrittura, non sembra
preoccuparsi di questo vincolo. Proviamo allora a riscrivere la riscrittura
di Balboni cercando di fare rispettare ai versi il vincolo dell’endecasillabo,
così come per la terza versione della poesia di McGough avevamo deciso di
applicare la forma chiusa dell’Haiku.
Ho amato sempre il colle solitario
e questa siepe che nasconde agli occhi
molto dell’orizzonte più lontano.
Ma io seduto a guardare mi immagino
spazi infiniti al di là della siepe,
silenzi più che umani, e una profonda
tranquillità: in cui il mio animo quasi
si spaventa. E mentre ascolto il rumore
del vento tra gli alberi, paragono
questo rumore al silenzio infinito:
e mi torna in mente l’eternità,
le stagioni passate e quella di oggi,
viva, e la voce di lei. Così, in questa
immensità il mio pensiero annega:
e gioia è naufragare in questo mare.
Non c’è dubbio che in questo modo si riporti un po’ di regolarità metrica
L’ I N F I N I T O M O V I M E N T O : N O TA S U L T R A D U R R E
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alla poesia, ma basterà confrontare la indugiante lunghezza e la sospensione
ritmica del verso “ma sedendo e mirando, interminati” con quello che segue
e la goffaggine dell’endecasillabo sdrucciolo “Ma io seduto a guardare mi
immagino” per capire che il metro da solo non fa il ritmo, che la musicalità
di una poesia non è data solo dal computo delle sillabe di ciascun verso o
dalla disposizione degli accenti, ma anche da tanti altri elementi, a partire
dalle ricorrenze dei suoni, dalle loro qualità intrinseche ed evocative come i
suoni lunghi dei due gerundi ad esempio (sul ritmo si vedano Meschonnic e
Mattioli 2000, Mattioli 2001, Buffoni 2001).
Per un certo periodo si è pensato che la rima fosse un elemento
imprescindibile della scrittura poetica. Leopardi stesso, nei suoi esercizi
giovanili, non indugiava a mettere in rima e in versi regolari forme poetiche
che nell’originale non erano né in rima né in versi isometrici. Così il
frammento 168B di Saffo:
Nel giovane Leopardi diventa:
Oscuro è il ciel: nell’onde
La luna già s’asconde,
E in seno al mar le Pleiadi
Già discendendo van.
È mezzanotte, e l’ora
Passa frattanto, e sola
Qui sulle piume ancora
Veglio ed attendo invan. (1988: I, 898)
Leopardi vuole restituire il testo in forma chiusa (due quartine di settenari,
con l’ultimo di ciascuna strofa tronco e diverse rime: onde/ asconde; ora/
ancora; van/invan); per farlo adotta la tecnica dell’allungamento, inserendo
zeppe e immagini inesistenti nell’originale, ma necessari per conseguire il tipo
di traduzione voluta. Supponiamo di condividere con il giovane Leopardi la
convinzione che la poesia si dia solo in forma chiusa (endecasillabi rimati): il
suo Infinito, potrebbe diventare più o meno così:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe che lo sguardo estolle
da gran parte dell’ultimo orizzonte.
Sedendo e mirando di là dal monte
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
spazi in disparte oltre quelli infiniti,
e profonda quiete, e Silenzi arditi
mi raffiguro nel mio pensïero
e il mio cuore trema e ha paura invero.
Se nel vento odo stormir queste piante
le comparo a quel silenzio inquietante.
Allora in mente mi sovvien l’eterno
e le morte stagioni, e questo inferno
vivo, e il suon di lui. In questo vocio
si annega proprio il pensïero mio:
dolce è morire in questo turbinio.
Il gioco potrebbe continuare con i vincoli più disparati. Recentemente
Valerio Magrelli (2010), ripercorrendo i “travestimenti” o reincarnazioni di
Recueillement di Charles Baudelaire, ha analizzato con acume alcune curiose
riscritture come quella di Prévost che “trasmetrizza” il sonetto trasponendo
in ottosillabi i versi alessandrini di Baudelaire, o quella di Perec che lo cita nel
suo libro lipogrammatico La disparition, scritto senza utilizzare mai la lettera
“e”. Si tratta di giochi non privi di interesse che possiamo applicare alla
nostra poesia, riducendo ad esempio gli endecasillabi a settenari e trovando
con una certa sorpresa che il metro del settenario domina come scansione
non secondaria anche nella versione originale:
Sempre amai l’ermo colle,
E questa oscura siepe
Che cela l’orizzonte.
Ma sedendo e mirando
penso ai grandi silenzi
e agl’infiniti spazi
e alla profonda quiete,
e questo mi spaventa.
E come sento il vento
stormir tra queste piante,
confronto quel silenzio
a questa lieve voce:
e mi sovvien l’eterno,
e le stagioni morte,
e la presente e viva,
e il suon di lei. Così
tra questa Immensità
s’annega il pensier mio:
L’ I N F I N I T O M O V I M E N T O : N O TA S U L T R A D U R R E
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E il naufragar m’è dolce
in questo nero mare.
oppure trasformando l’Infinito in un canto perechianamente privo della
lettera “e”:
In ogni stagion cara mi fu la collina qui accanto,
indi l’intrico di rami i quali tanto
il guardo nascondono all’ultima vista.
Ma accucciato a guardar, infiniti
Spazi di là dai rami, indi sovrumani
Suoni zittiti, indi profondissima calma
Io mi fingo in capo; sì quasi
Il cor non si spaura. Quando poi il soffio
d’aria odo stormir tra i grandi rami, io lo
Infinito nullo-suono al vivo suono
Vo comparando: mi ricorda l’immortal,
I morti autunni, indi l’oggi
vivo, con il suo suono. Così tra la
infinità muor il cogito mio:
Indi il naufragar mi par buono in siffatto campo blu.
La trasmutazione potrà apparire bizzarra e inutile, forse lo è. Tuttavia, a ben
guardare, quando traduciamo, a volte, affrontiamo problemi di questo tipo
semplicemente perché la fonetica della lingua in cui traduciamo non ha suoni
corrispondenti che potrebbero essere stati utilizzati nella poesia originale, ad
esempio, con funzione onomatopeica.
Si è indugiato fin troppo con queste manipolazioni e riscritture. A questo
punto varrebbe la pena di confrontare le diverse versioni dell’Infinito nelle
varie lingue straniere in cui è stato tradotto, per verificare come le norme
poetiche, le sensibilità, le ideologie, i modi di interpretare e di leggere la
natura, delle varie culture hanno trapiantato questa composizione poetica di
Leopardi nella loro cultura. Questo modo di procedere ci porta molto lontano
dalla banale contrapposizione, spesso citata, tra traduzioni belle e infedeli
oppure brutte e fedeli. Si tratta piuttosto di vedere, come scrive Magrelli,
le reincarnazioni di un testo, la sua moltiplicazione, le sue metamorfosi, gli
innesti, le riattivazioni. Perché, e forse è bene ricordarlo, un testo non si dà
mai come qualcosa di definitivo, ma vive e rivive in modi diversi nelle sue
infinite letture, passate e future; non si dà come testo in sé, ma, per dirla con
Kristeva, come mosaico di testi (1978: 121), come tessera, a sua volta, di quel
mosaico multicolore e in movimento che è il caleidoscopio della letteratura.
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Un’esperienza privata
a cura del Liceo “Da Vinci” di Crema
| workshop di traduzione
Chika entra all’interno della bottega scavalcando la finestra e poi trattiene
la serranda finché la donna dopo di lei non entra a sua volta. Il negozio dà
l’impressione di essere stato abbandonato molto tempo prima che iniziassero
le rivolte. Le file sgombre degli scaffali in legno sono ricoperte di una polvere
giallognola, così come i contenitori di metallo ammucchiati in un angolo.
La bottega è piccola, ancora più piccola della cabina armadio che Chika ha
a casa. La donna entra e le serrande cigolano non appena Chika le lascia
andare. Le mani di Chica stanno tremando, i polpacci le bruciano dopo la
corsa dal mercato, resa instabile dai tacchi alti dei sandali che indossa. Vuole
ringraziare la donna per averla fermata mentre le sfrecciava davanti, per
averle detto “No corri di là” e per averla condotta, invece, in questa bottega
vuota dove potersi nascondere. Ma prima che possa pronunciare la parola
“Grazie”, la donna dice, passandosi la mano sul collo nudo, “Mia collana
persa quando io sto correndo.”
“Mi è caduto tutto,” dice Chika. “Stavo comprando delle arance e mi
sono cadute sia le arance che la borsa.” Non aggiunge che la borsa era una
Burberry, una di quelle originali, che sua madre le aveva comprato durante
un recente viaggio a Londra.
La donna sospira e Chika immagina che stia pensando alla sua collana,
probabilmente perline di plastica infilate in una cordicella. Anche senza lo
spiccato accento Hausa della donna, Chika è in grado di dire che è una del
U N ’ E S P E R I E N Z A P R I VATA
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Nord, dalla magrezza del suo viso, dagli zigomi insolitamente alti; e che è
una musulmana, a causa del velo che ora le ciondola intorno al collo, ma
che probabilmente prima le avvolgeva delicatamente il viso, coprendole gli
orecchi: una lunga sciarpa leggera rosa e nera, con la sgargiante bellezza delle
cose poco costose. Chika si chiede se anche la donna la stia scrutando, se
riesca a dedurre, dalla sua carnagione chiara e dal rosario da dito in argento
che sua madre insiste che porti, che è una Igbo e una cristiana. Più tardi
Chika verrà a sapere che, mentre lei e la donna stavano parlando, i musulmani
Hausa stavano lapidando e facendo a pezzi coi machete i Cristiani Igbo. Ma
ora dice, “Grazie per avermi chiamato. Tutto è successo così velocemente,
tutti correvano e io sono rimasta improvvisamente da sola, senza sapere cosa
stavo facendo. Grazie.”
“Questo posto sicuro” afferma la donna, in una voce così flebile da sembrare
un sussurro. “Loro non andare in negozio piccolo-piccolo, solo negozio
grande-grande e mercato.”
“Sì” risponde Chika. Ma non ha alcun motivo per essere d’accordo o meno,
non sa nulla delle rivolte: l’evento a cui ha partecipato che più assomiglia
ad una sommossa è la manifestazione pro-democrazia che si era tenuta
all’università qualche settimana prima, dove, come unica “arma”, aveva
impugnato un ramo verde brillante e si era unita al coro “I militari devono
andare! Abacha se ne deve andare! Democrazia subito!.” Inoltre, non avrebbe
nemmeno partecipato a quella manifestazione se sua sorella Nnedi non fosse
stata tra gli organizzatori che erano andati di ostello in ostello per consegnare
volantini e parlare agli studenti riguardo all’importanza di “far sentire la
nostra voce.”
Le mani di Chika stanno ancora tremando. Solo mezz’ora fa era al mercato
con Nnedi. Mentre lei comprava le arance, sua sorella era andata un po’ più
avanti per acquistare delle noccioline; e poi c’erano state grida in Inglese,
in Pidgin, in Hausa, in Igbo. “Rivolta! Guai in arrivo, oh! Hanno ucciso un
uomo!” In seguito, la gente intorno a lei correva, spintonandosi, rovesciando
carriole piene di patate dolci, lasciandosi dietro vegetali ammaccati e
calpestati per cui avevano negoziato fino a poco prima. Chika aveva annusato
il sudore e la paura nell’aria e anche lei, come gli altri, si era messa a correre
per strada e, attraversando ampie vie, era giunta in questo vicolo, che temeva
– sentiva – fosse pericoloso, finché non vide la donna.
Per un momento la ragazza e la donna stanno in silenzio nel negozio,
guardando fuori dalla finestra che hanno appena scavalcato, le cui serrande
in legno cigolanti oscillano nell’aria. Inizialmente la strada è tranquilla, poi,
improvvisamente, sentono i passi affrettati di qualcuno che corre. Entrambe
si allontanano dalla finestra, istintivamente, ma Chika riesce ancora a vedere
un uomo e una donna che stanno passando di lì; la donna tiene la veste
68
L O S T I N T R A N S L AT ION S
sollevata sopra le ginocchia e porta sulla schiena un bambino legato con una
fascia. L’uomo parla rapidamente in Igbo e tutto ciò che Chika riesce a sentire
è: “Potrebbe essere scappata a casa dello zio.”
“Chiudi la finestra” le dice la donna.
Chika chiude la finestra e, senza l’aria che entra dalla strada, all’improvviso
la polvere nella stanza appare così fitta da riuscire a vederla ondeggiare sopra
di lei. L’aria nella stanza è soffocante e non ha lo stesso odore delle strade
all’esterno, che sanno di quel fumo azzurrognolo che si diffonde a Natale,
quando la gente getta nel fuoco le carcasse delle capre per strinarne il pelo;
quelle stesse strade che aveva percorso alla cieca, insicura in quale direzione
Nnedi fosse corsa via, non sapendo se l’uomo che correva al suo fianco fosse
un amico o un nemico, indecisa se doversi fermare per prendere con sé uno
di quei bambini dallo sguardo attonito, separati dalle madri nella foga, senza
sapere chi fosse chi o chi avesse ucciso chi.
Più tardi vedrà le carcasse di macchine bruciate, buchi dai contorni frastagliati
al posto dei finestrini e dei parabrezza ormai infranti e immaginerà le auto
in fiamme costellare la città come piccoli falò, silenti testimoni di tutto ciò.
Scoprirà che tutto era iniziato al parcheggio, quando un uomo alla guida
aveva travolto una copia del Sacro Corano che era stata lasciata sul ciglio
della strada, un uomo che, per caso, era Igbo e cristiano. Gli uomini lì
vicino, uomini che passavano tutto il giorno seduti a giocare a freccette e a
bere, uomini che, per caso, erano Musulmani, lo trascinarono fuori dal suo
camioncino, gli tagliarono la testa con un colpo di machete e la portarono al
mercato, chiedendo agli altri di partecipare; l’infedele ha dissacrato il Libro
Sacro. Chika si immaginerà la testa dell’uomo, il colore cinereo della morte
sulla sua pelle, vomiterà e avrà conati finché non le farà male lo stomaco. Ma
ora domanda alla donna: “Senti ancora l’odore del fumo?”
“Sì,” dice la donna. Si scioglie la lunga gonna verde che porta annodata alla
vita e che le avvolge le gambe sino alle caviglie e la stende sul pavimento
polveroso. Ora indossa solo una camicia e una mutandina d’un nero brillante
con le cuciture strappate. “Vieni a sederti.”
Chika guarda il grande telo logoro steso sul pavimento; probabilmente è una
delle uniche due gonne che la donna possiede.
Guarda anche la propria gonna di jeans e la maglietta rossa su cui è stampata
in rilievo l’immagine della Statua della Libertà, entrambe comprate quando
lei e Nnedi avevano trascorso qualche settimana d’estate con alcuni parenti a
New York. “No, la tua gonna si sporcherà”, le dice.
“Siedi,” dice la donna. “Noi aspettiamo qui tanto tempo.”
“Hai idea di quanto…?”
“Stanotte o domani mattina.”
Chika si porta la mano alla fronte, come se si controllasse una febbre
U N ’ E S P E R I E N Z A P R I VATA
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malarica. Solitamente il tocco del palmo fresco della sua mano la calma, ma
questa volta il palmo è madido e sudaticcio. “Ho lasciato mia sorella mentre
comprava le noccioline. Non so dove sia.”
“Lei va posto sicuro.”
“Nnedi.”
“Eh?”
“Mia sorella. Si chiama Nnedi.”
“Nnedi,” ripete la donna e il suo accento Hausa riveste il nome Igbo di una
lieve dolcezza.
Più tardi Chika passerà in rassegna gli obitori degli ospedali in cerca di Nnedi;
andrà negli uffici dei giornali stringendo la foto di lei e Nnedi scattata ad un
matrimonio solo la settimana prima, quella dove lei ha una stupida smorfia in
volto perché Nnedi l’aveva pizzicata appena prima che la foto fosse scattata,
quella dove indossano due abiti coordinati che lasciano le spalle scoperte, di
fattura turca. Affiggerà fotocopie della fotografia sui muri del mercato e dei
negozi vicini. Non troverà Nnedi. Non la troverà mai. Ma ora si rivolge alla
donna, “Nnedi ed io siamo venute qui la scorsa settimana per fare visita a
nostra zia. Siamo a casa da scuola, in vacanza.”
“Dove vai scuola?” chiede la donna.
“Siamo all’università di Lagos. Frequento medicina. Nnedi studia scienze
politiche.” Chika si chiede se la donna sappia almeno cosa significhi andare
all’università. E si domanda anche se abbia citato la scuola solo per nutrirsi
di quella realtà di cui ha bisogno ora – che Nnedi non si è persa durante una
sommossa, che Nnedi è salva da qualche parte, probabilmente ridendo nel suo
modo spensierato, con la bocca spalancata, probabilmente impegnata in una
delle sue discussioni politiche. Per esempio, su come il governo del Generale
Abacha stesse usando la sua politica estera per legittimarsi agli occhi degli
altri Paesi Africani. O su come la grande popolarità delle extensions bionde ai
capelli fosse una diretta conseguenza del colonialismo Britannico.
“Abbiamo trascorso solo una settimana qui con nostra zia, non siamo mai
state a Kano prima d’ora” dice Chika, e realizza quello che sta provando: lei
e sua sorella non dovrebbero essere toccate dalla rivolta. Sommosse come
questa sono proprio come quelle di cui aveva letto sul giornale. Sommosse
come questa erano successe ad altri.
“Tua zia al mercato?” chiede la donna.
“No, è al lavoro. È la direttrice del segretariato.” Chika si porta ancora la
mano alla fronte. Si abbassa con calma e si siede vicino alla donna più di
quanto non avrebbe fatto normalmente, in modo da appoggiare interamente
il corpo sul telo. Avverte un certo odore proveniente dalla donna, un non so
che di pungente e pulito, come il sapone da bucato che la loro donna delle
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
pulizie utilizza per lavare la biancheria da letto.
“Tua zia va posto sicuro.”
“Sì” dice Chika. La conversazione ha un qualcosa di surreale; si sente come
se stesse guardando se stessa dall’esterno. “Questa rivolta. Non riesco ancora
a credere che stia accadendo.”
La donna ha lo sguardo fisso davanti a sé. Tutto di lei è lungo e slanciato, le
sue gambe distese in avanti, le sue dita, con le unghie dipinte con l’henné, i
suoi piedi. “È opera del diavolo,” dice infine.
Chika si chiede se questo sia tutto ciò che la donna pensa delle sommosse, se
questo sia tutto ciò che vede in esse – il diavolo. Vorrebbe tanto che Nnedi
fosse qui. Nella sua mente si immagina il marrone scuro-cacao degli occhi di
Nnedi brillare di gioia, le sue labbra muoversi velocemente, spiegando che le
rivolte non nascono dal nulla, che la religione e l’etnia sono spesso politicizzate
perché il governante in carica è al sicuro se i governati si ammazzano l’un
l’altro. Poi Chika sente un lieve senso di colpa per essersi chiesta se la mente
della donna sia abbastanza aperta per cogliere almeno un qualcosa di tutto
ciò.
“A scuola vedi persone malate ora?” chiede la donna.
Chika distoglie velocemente lo sguardo così che la donna non riesca a
notare la sorpresa. “I miei casi clinici? Sì, abbiamo iniziato l’anno scorso.
Noi visitiamo i pazienti alla Clinica Universitaria.” Non aggiunge però che
spesso ha attacchi di insicurezza, che rimane indietro nel gruppo di sei sette
studenti, come per nascondersi, evitando gli occhi dello specializzando
senior, sperando che non le venga chiesto di visitare un paziente e di fornire
una diagnosi differenziale.
“Io commerciante,” dice la donna. “Io vendo cipolle.”
Chika cerca di individuare sarcasmo o rimprovero nel suo tono, ma non ve
n’è. La voce mantiene il suo tono regolare e basso, come quello di una donna
che sta semplicemente spiegando ciò che fa.
“Spero che non distruggano le bancarelle del mercato,” risponde Chika;
non sa cos’altro dire. “Ogni volta che fanno rivolta, loro rompono mercato,”
afferma la donna. Chika vorrebbe chiedere alla donna a quante rivolte ha
assistito, ma non lo fa. Ha letto di altre rivolte in passato: fanatici musulmani
Hausa che hanno attaccato cristiani Igbo e talvolta Cristiani Igbo che hanno
partecipato a missioni omicide di vendetta. Non vuole una conversazione in
cui si facciano nomi.
“Mio capezzolo brucia come peperoncino”, “Cosa?”, “Mio capezzolo brucia
come peperoncino.”
Prima che Chika riesca a deglutire la bolla di stupore che ha in gola e dire
qualcosa, la donna si alza la camicetta e slaccia il gancino anteriore di un
reggiseno nero ormai consunto. Tira fuori i soldi, banconote naira da dieci e
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da venti, piegate all’interno del reggiseno, prima di liberare completamente
i suoi seni.
“Brucia-brucia come peperoncino,” dice, unendo i seni e sporgendosi verso
Chica, come se volesse offrirglieli. Chika si scosta. Ricorda il turno in
pediatria di appena una settimana prima: lo specializzando senior, il Dott.
Olunloyo, voleva che tutti gli studenti sentissero il soffio al cuore di quarto
grado di un ragazzino che li osservava con occhi curiosi. Il dottore le chiese di
farlo per prima e lei iniziò a sudare, la mente completamente vuota, non più
sicura di dove fosse il cuore. Alla fine aveva appoggiato la mano tremante alla
sinistra del capezzolo del bambino e la vibrazione frr-frr-frr del sangue che
scorreva nella direzione sbagliata, pulsando sotto le sue dita, la fece balbettare
rivolgendosi al ragazzo “Scusa, scusa”, sebbene lui le stesse sorridendo.
I capezzoli di quella donna non hanno nulla a che vedere con quelli del
bambino. Sono screpolati, tirati e color marrone scuro, le areole di un colore
più chiaro. Chika li osserva attentamente, si fa più avanti e li tocca. “Hai un
bambino?” chiede.
“Sì, un anno”
“I tuoi capezzoli sono secchi, ma non sembrano infetti. Dopo aver allattato
il bambino, devi usare una lozione. E mentre allatti devi assicurarti che il
capezzolo e anche quest’altra parte, l’areola, stiano nella bocca del bambino.”
La donna rivolge un lungo sguardo a Chika. “Prima volta di questo. Io cinque
bambini.”
“Era lo stesso con mia madre. Le si screpolarono i capezzoli quando arrivò
il sesto figlio, e non sapeva cosa l’avesse causato, fino a quando un’amica le
disse che doveva idratarli”, risponde Chika. Difficilmente mente, ma le poche
volte in cui lo fa, c’è sempre uno scopo dietro la bugia. Si domanda a che cosa
serva questa menzogna, questo bisogno di inventarsi un passato fittizio simile
a quello della donna; lei e Nnedi sono le uniche due figlie della loro madre.
Inoltre, sua madre aveva il Dott. Igbokwe, con la sua formazione e la sua
affettazione britannica, con cui si sentiva a distanza per telefono.
“Cosa mette tua mamma su suoi capezzoli?” le domanda la donna.
“Burro di cacao. La lesione guarì velocemente.”
“Eh?” La donna osserva Chika per un istante, come se questa scoperta avesse
creato un legame fra loro.
“Bene, io lo prendo e uso.” Giocherella con la sua sciarpa per un momento e
poi dice, “Sto cercando mia figlia. Noi andiamo al mercato stamattina. Lei
sta vendendo arachidi vicino a fermata dell’autobus, perché là ci sono tanti
clienti. Poi la sommossa scoppia e io sto cercando lei su e giù per il mercato.”
“La bambina piccola?” chiede Chika, rendendosi conto, già mentre la
pronuncia, di quanto suoni stupida questa domanda.
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
La donna scuote la testa e c’è un attimo di impazienza, persino di rabbia, nei
suoi occhi:
“Hai problemi con orecchi? Tu non senti cosa dico?”
“Scusa” dice Chika.
“Bambina è a casa! Questa è prima figlia. Halima.” La donna comincia a
piangere. Piange sommessamente, le sue spalle si muovono in su e in giù, non
il genere di singhiozzo rumoroso che fanno le donne che Chika conosce, il
tipo che urla Abbracciami e consolami perché non ce la faccio ad affrontare
tutto questo da sola. Il pianto della donna è privato, come se stesse compiendo
un rito necessario che non include nessun altro.
In seguito, quando Chika desidererà troppo tardi di non aver deciso insieme
a Nnedi di prendere un taxi per il mercato solo per vedere un po’ dell’antica
città di Kano al di fuori del quartiere della loro zia, spererà che anche la figlia
della donna, Halima, quel mattino fosse stata ammalata o stanca o pigra, così
da non andare a vendere le noccioline quel giorno.
La donna si asciuga gli occhi con un lembo della camicia. “Allah tiene tua
sorella e Halima in posto sicuro,” dice. E poiché Chika non ha idea di cosa
si dica tra i musulmani per esprimere accordo – non può essere “amen” –
semplicemente annuisce.
La donna ha scoperto un rubinetto arrugginito in un angolo del negozio,
vicino ai contenitori metallici, forse dove il o la commerciante si lavava le
mani, dice, spiegando a Chika che le botteghe in questa strada sono state
abbandonate mesi fa, dopo che il governo le ha dichiarate strutture illegali da
demolire. La donna apre il rubinetto ed entrambe guardano – con sorpresa
– l’acqua gocciolare fuori. Brunastra e così metallica, che Chika riesce già a
sentirne l’odore. Comunque, esce acqua.
“Lavo e prego,” dice la donna, ora con voce più alta, e sorride per la prima
volta mostrando denti regolari, quelli davanti macchiati di marrone. Ha le
fossette scavate nelle guance, profonde abbastanza da contenere mezzo dito,
insolite in un viso tanto magro. La donna si lava distrattamente le mani e la
faccia al rubinetto, poi si toglie la sciarpa dal collo e la stende sul pavimento.
Chika guarda altrove. Sa che la donna è inginocchiata, verso La Mecca, ma
non si volta. È come le lacrime della donna, un’esperienza privata, e Chica
vorrebbe poter lasciare il negozio. O che anche lei, potesse pregare, potesse
credere in un dio, vedere una presenza onnisciente nell’aria viziata della
stanza. Non riesce a ricordare quando la sua idea di Dio non era ancora
annebbiata, come l’immagine riflessa dallo specchio appannato di un bagno,
e non ricorda di aver mai provato a pulire il vetro.
Tocca il rosario da dito che ancora porta, qualche volta sul mignolo o
sull’indice, per far piacere a sua madre. Nnedi non indossa più il suo, avendo
detto una volta con la sua risata gutturale, “I rosari sono vere e proprie
U N ’ E S P E R I E N Z A P R I VATA
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pozioni magiche, e io non ne ho bisogno, grazie.”
Successivamente la famiglia offrirà messe su messe per ritrovare Nnedi sana e
salva, ma mai perché la sua anima riposi in pace. E Chika ripenserà a questa
donna, mentre pregava con la fronte appoggiata al pavimento polveroso, e
cambierà idea sul dire a sua madre che offrire messe è uno spreco di denaro,
utile solo per la raccolta di fondi per la chiesa. Quando la donna si alza, Chika
si sente stranamente rinvigorita. Sono passate più di tre ore e immagina che la
sommossa si sia placata e che i rivoltosi si siano allontanati. Deve andarsene,
deve tornare a casa e assicurarsi che Nnedi e sua zia stiano bene.
“Devo andare” afferma Chika. Di nuovo lo sguardo d’impazienza sul viso
della donna. “Fuori è pericolo. Penso che se ne siano andati. Non sento più
nemmeno l’odore di fumo.”
La donna non dice nulla, si siede di nuovo sulla veste. Chika la osserva per
un attimo, delusa senza sapere il perché. Forse vuole una benedizione della
donna, un qualcosa.
“Quanto è lontana casa tua?” domanda.
“É lontana. Devo prendere due autobus.”
“Poi tornerò con l’autista di mia zia a prenderti per portarti a casa” le risponde.
La donna guarda altrove. Chika cammina lentamente verso la finestra e la
apre. Si aspetta di udire la donna che le chiede di fermarsi, di tornare indietro,
di non essere avventata. Ma la donna non dice niente e Chika sente lo sguardo
tranquillo della donna sulla sua schiena mentre scavalca la finestra.
Le strade sono silenziose. Il sole sta calando e, nell’oscurità della sera, Chika
si guarda intorno, indecisa su quale strada prendere. Prega che appaia un
taxi, per magia, per fortuna, per volere di Dio.
Poi prega che Nnedi sia all’interno del taxi, che le chiede dove diavolo sia
stata, che sono state così preoccupate per lei. Chika non ha raggiunto la fine
della seconda strada, verso il mercato, quando vede il corpo. Quasi non lo
vede, gli cammina così vicino da sentirne il calore. Il corpo deve essere stato
bruciato da poco. L’odore è nauseante, di carne bruciata, come non ne aveva
mai sentito.
Più tardi, quando Chika e sua zia andranno alla ricerca di Nnedi per tutta
Kano, insieme a un poliziotto seduto sul sedile anteriore dell’auto con l’aria
condizionata di sua zia, vedrà altri corpi, molti bruciati, stesi lungo i lati
della strada, come se qualcuno li avesse messi lì accuratamente, allineandoli.
Guarderà uno solo di quei corpi, nudo, rigido, con la faccia a terra e la
colpirà il non poter dire, osservando quella carne carbonizzata, se l’uomo
parzialmente bruciato sia Igbo o Hausa, cristiano o musulmano. Ascolterà la
BBC alla radio e sentirà il conteggio delle vittime e delle rivolte – “religiose
con uno sfondo di tensione etnica” – dirà la voce. E scaraventerà la radio
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
contro il muro e una feroce collera la pervaderà al sentire come tutto ciò sia
stato impacchettato, ripulito e fatto quadrare in così poche parole, tutti quei
corpi. Ma ora, il calore proveniente dal corpo bruciato è così vicino a lei, così
presente e intenso da farla voltare e precipitare di nuovo verso la bottega.
Sente un dolore lancinante lungo il polpaccio mentre corre. Raggiunge la
bottega e bussa alla finestra, continuando finché la donna non le apre.
Chika si siede sul pavimento e guarda da vicino, nella luce flebile, il sangue
che defluisce lungo la gamba. I suoi occhi si muovono nervosamente. Non
sembra nemmeno sangue, come se qualcuno le avesse spruzzato addosso
della salsa di pomodoro.
“Tua gamba. C’è sangue,” dice la donna, un po’ stancamente. Inumidisce un
lato del suo velo al rubinetto e pulisce il taglio sulla gamba di Chika, poi vi
avvolge intorno il velo umido, annodandolo al polpaccio.
“Grazie” dice Chika.
“Tu vuoi bagno?”
“Il bagno? No.”
“I contenitori là, li usiamo per bagno,” dice la donna. Ne porta uno nel retro
del negozio e subito la puzza riempie le narici di Chika, si mescola con l’odore
di polvere e acqua metallica, le fa girare la testa e le dà la nausea. Chiude gli
occhi.” “Scusa, oh! Mio stomaco sta male. Tutto quello che successo oggi,”
dice la donna dietro di lei. Dopodiché, la donna apre la finestra e mette fuori il
contenitore, poi si lava le mani al rubinetto. Ritorna e si siede vicino a Chica.
Le due donne siedono l’una accanto all’altra in silenzio; dopo pochi attimi
sentono un canto roco in lontananza, di cui Chika non riesce a distinguere
le parole. Il negozio è quasi completamente buio quando la donna si stende
sul pavimento, con la sola parte superiore del suo corpo appoggiato sul telo.
Più tardi, Chika leggerà sul The Guardian che “i musulmani reazionari di
lingua Hausa del Nord hanno un passato di violenza contro i non-musulmani”
e, nel mezzo della sua sofferenza, si fermerà a ricordare di aver esaminato
i capezzoli e sperimentato la gentilezza di una donna che è sia Hausa che
musulmana.
Chika fatica a dormire per tutta la notte. La finestra è serrata; l’aria è viziata
e la polvere, densa e spessa, le penetra nel naso irritandolo. Continua a vedere
il corpo annerito fluttuare in un alone accanto alla finestra, che la addita in
tono di accusa. Infine sente la donna alzarsi e aprire la finestra, lasciando
entrare il blu spento della prima alba. La donna resta ferma lì per un poco
prima di scavalcare per uscire. Chika sente dei passi, gente che cammina lì
fuori. Sente la donna chiamare, alzando la voce per farsi riconoscere, seguita
da uno stretto Hausa che Chika non comprende.
La donna rientra nella bottega. “Pericolo è finito. È Abu. Sta vendendo
provviste. Lui va a vedere suo negozio. Dappertutto poliziotto con gas
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lacrimogeno. Uomo-soldato sta arrivando. Vado ora, prima che uomo-soldato
inizi a dar fastidio a qualcuno.”
Chika si alza lentamente e si stira; le articolazioni le fanno male. Più tardi
percorrerà a piedi tutta la strada di ritorno verso la casa nella proprietà
recintata di sua zia, perché non ci sono taxi per strada, ci sono solo jeep
dell’esercito e camionette della polizia ammaccate. Troverà sua zia, che vaga
da una stanza all’altra con un bicchiere d’acqua in mano continuando a
mormorare in Igbo, “Perché ho chiesto a te e Nnedi di venirmi a trovare?
Perché il mio chi1 mi ha ingannata in questo modo?” e Chika afferrerà con
forza le spalle di sua zia e la condurrà su un divano.
Ora Chika slega il velo dalla sua gamba, lo scuote come per scrollare via le
macchie di sangue e lo consegna alla donna.
“Grazie.”
“Lava tua gamba bene bene. Saluta tua sorella, saluta tua gente,” dice la
donna, legandosi la gonna intorno alla vita.
“Ringrazia anche la tua gente. Saluta la tua bambina e Halima,” dice Chika.
Più tardi, mentre camminerà verso casa, raccoglierà una pietra con macchie
color rame di sangue essiccato e terrà il macabro souvenir stretto al suo petto.
E proprio in quell’istante sospetterà, in un flash improvviso mentre stringe la
pietra, che non troverà mai Nnedi, che sua sorella non c’è più. Ma ora, si gira
verso la donna e aggiunge “Posso tenere il tuo velo? L’emorragia potrebbe
ricominciare.” La donna guarda per un momento come se non capisse; poi
annuisce. C’è forse l’inizio di una sofferenza futura sul suo volto, ma mostra
un sottile, distratto sorriso, prima di ridare il velo a Chika, poi si volta per
scavalcare la finestra e andare via.
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Chinasa a cura del Liceo “Ariosto-Spallanzani” di Reggio Emilia
| workshop di traduzione
Accadde in gennaio, penso. Almeno credo che fosse gennaio perchè il terreno
era inaridito e le secche folate dell’Harmattan avevano ricoperto di polvere
gialla la mia pelle, le case e gli allievi. Ma non ne sono sicura. So che era il
1968, ma avrebbe potuto essere dicembre o febbraio; non ero mai sicura delle
date durante la guerra. Sono sicura, però, che accadde di mattina – il sole
era ancora gradevole, quel tipo di sole che dicono faccia produrre vitamina
D sulla pelle. Quando sentii quei rumori – Boom! Boom!, ero seduta sulla
veranda della casa che dividevo con due famiglie a rileggere la mia copia
ormai consunta di The African Child di Camara Laye.
Il proprietario della casa era un uomo che aveva conosciuto mio padre prima
della guerra, e quando arrivai, dopo la caduta della mia città, portandomi
dietro la valigia ammaccata senza un altro posto dove andare, mi diede una
stanza per niente perchè diceva che mio padre era stato molto buono con
lui.Le altre donne della casa sparlavano di me, del fatto che spesso di notte
andavo nella stanza del padrone di casa: questo per loro era il motivo per cui
non pagavo. Quella mattina ero fuori con una di quelle pettegole. Era seduta
sui gradini di pietra crepati, stava allattando il suo bambino. La guardai per
un po’; il suo seno sembrava un’arancia avvizzita da cui era stato estratto il
succo e mi domandai se il bimbo riuscisse a succhiare fuori qualcosa.
Quando sentimmo il boato, strinse subito a sè il suo piccolo e corse in casa per
andare a prendere gli altri bambini. Boom! Fu come il rombo del tuono, di
CHINASA
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quel genere che si espande per tutto il cielo, di quel genere che preannuncia il
temporale. Per un momento rimasi immobile e immaginai che davvero fosse
il tuono.Immaginai di essere di nuovo nella casa di mio padre, prima della
guerra, nel cortile sotto l’anacardo, ad aspettare la pioggia. Il cortile di mio
padre era pieno di alberi da frutta sui quali amavo arrampicarmi nonostante
mio padre mi prendesse in giro e dicesse che non era cosa da ragazze e che
alcuni di quelli che volevano portargli il vino avrebbero cambiato idea,
sapendo che mi comportavo da maschiaccio. Ma mio padre non me lo impedì
mai. Dicono che mi viziasse, che fossi la sua preferita e ancora adesso alcuni
dei nostri parenti continuano a credere che sia colpa di mio padre se non
sono ancora sposata. Comunque in quella mattina battuta dall’Harmattan, il
suono si fece più forte. Le donne correvano fuori con i loro bambini. Volevo
scappare con loro, ma le mie gambe sembravano non volersi muovere.Certo
non era la prima volta che udivo quei rumori; era il secondo anno di guerra, i
miei genitori erano già morti in un campo profughi a Uke, mia zia era morta a
Okija, i miei nonni e cugini ad Abagana, quando il mercato di Nkwo era stato
bombardato, un bombardamento che aveva distrutto la casa di mio padre, e
al quale ero a stento sopravvissuta.Così già prima di quella mattina, quella
polverosa mattina di harmattan, avevo sentito quei rumori.
Boom! Percepii una leggera vibrazione nel terreno sotto i miei piedi.
Eppure non mi decidevo a scappare, il rumore era così forte che mi faceva
pulsare la testa e sembrava che qualcuno mi stesse soffiando crema bollente
nelle orecchie.Poi vidi buche enormi aprirsi nel terreno vicino a me. Vidi
fumo, schegge di legno, vetro e metallo schizzare da ogni parte. Vidi alzarsi
la polvere. Non ricordo molto altro. Qualcosa dentro di me era così esausto
che per alcuni minuti sperai che le bombe mi concedessero la pace. Non
so esattamente cosa feci,se mi sedetti,se mi tuffai nella fattoria o se caddi
a terra. Ma quando il bombardamento finalmente cessò, mi incamminai
verso la folla radunata intorno ai feriti e mi ritrovai a fissare un corpo steso a
terra. Una ragazza di forse quindici anni. Le sue braccia erano un ammasso
di carne e sangue. Non era il momento di scherzare, ma a guardare le sue
braccia maciullate lei sembrava un bruco.Ma perchè poi portai quella ragazza
nella mia stanza? Non lo so. C’erano stati molti bombardamenti prima di
questo – noi eravamo a Umuahia e avevamo subito la maggior parte dei
bombardamenti perchè era la capitale. E anche se avevo aiutato a medicare
i feriti, non ne avevo mai portato nessuno nella mia stanza. Questa ragazza
invece ce la portai. Si chiamava Chinasa. Accudii Chinasa per settimane.
Il padrone di casa le costruì delle stampelle con legno vecchio e pefino le
pettegole le offrirono piccoli doni di ukpaka e patate dolci. Era magra,
piccola per la sua età, come lo erano la maggior parte dei bambini durante
la guerra, ma lei aveva un modo di guardarti dritto negli occhi, un modo
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schietto ma non sfacciato che la faceva sembrare molto più grande di quello
che era. Fingeva di non provare dolore quando pulivo le sue ferite con gin
fatto in casa, ma vedevo le lacrime nei suoi occhi e anch’io trattenevo le
mie perchè questa ragazza nel fiore della sua femminilità era, a causa della
guerra, cresciuta troppo in fretta. Mi ringraziava spesso, troppo spesso.
Diceva che non vedeva l’ora di stare meglio per potermi aiutare a cucinare
e fare le pulizie. Di sera, dopo averle dato da mangiare un po’ di minestra,
le sedevo accanto e leggevo per lei. Le sue braccia erano immobili e fasciate,
ma aveva un viso incredibilmente espressivo e nella luce tremula e fioca della
lampada a cherosene rideva, sorrideva e sogghignava mentre leggevo per lei.
Avevo perso molte delle mie cose, fuggendo di città in città, ma avevo sempre
portato con me alcuni dei miei libri e leggerli a lei mi procurava un nuovo
tipo di gioia, perchè li vedevo rifiorire attraverso gli occhi di Chinasa. Iniziò a
fare domande, a mettere in discussione cosa facevano alcuni personaggi nelle
storie. Faceva domande sulla guerra, faceva domande su di me.
Le raccontai dei miei genitori, che erano stati risoluti nell’offrirmi
un’istruzione e che mi avevano mandato a una scuola di formazione per
insegnanti.Le raccontai di quanto mi fosse piaciuto il mio lavoro di insegnante
a Enugu, prima che iniziasse la guerra e di come fossi triste quando la nostra
scuola fu chiusa per diventare un campo profughi. Mi guardava con grande
intensità mentre parlavo. In seguito, una sera, mentre mi stava insegnando
a giocare a nchokolo, chiedendomi di muovere alcune pietre tra le caselle
disegnate per terra, mi domandò se avrei potuto insegnarle a leggere. Mi
sorprese. Non avevo idea che non sapesse leggere. Ora che ci penso non avrei
dovuto darlo per scontato. La sua storia personale era comune: i suoi genitori
erano contadini di Agulu, che avevano racimolato qualcosa per mandare
i suoi due fratelli alla scuola della missione, ma avevano tenuta lei a casa.
Forse erano state la sua vivacità, la sua prontezza, la grande intelligenza con
cui guardava ogni cosa che mi avevano fatto dimenticare la realtà da cui
proveniva.
Cominciammo le lezioni quella sera stessa. Conosceva l’alfabeto perchè aveva
guardato alcuni libri dei fratelli e non mi sorprese la velocità con cui imparava,
né l’impegno che ci metteva. Quando sentimmo, alcuni mesi dopo, la notizia
che i nostri generali stavano per arrendersi, mi stava leggendo qualcosa dal
suo libro preferito The African Child.
Il giorno in cui finì la guerra Chinasa ed io ci unimmo alle pettegole e
agli altri vicini di casa giù in strada. Piangevamo e cantavamo e ridevamo e
ballavamo. Per le donne che piangevano quelle erano lacrime di sfinimento e
incertezza e sollievo, come lo erano le mie. Ma stavo piangendo anche perchè
volevo riportare Chinasa con me a casa mia, o qualsiasi cosa rimanesse della
mia casa a Enugu; volevo che diventasse la figlia che che non avrei mai avuto,
CHINASA
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per condividere la mia vita ora svuotata di affetti. Ma mi abbracciò e rifiutò.
Voleva andarsene e scoprire chi tra i suoi parenti fosse sopravvissuto. Le diedi
il mio indirizzo di Enugu e il nome della scuola dove speravo di tornare ad
insegnare. Le diedi molti di quei pochi soldi che avevo. “Verrò a trovarti
presto”, disse.Mi guardava con commossa riconoscenza, la strinsi forte a me
con un amaro senso di incombente tristezza.Avrebbe trovato i suoi parenti e
la sua vita avrebbe interferito con questa promessa fatta in buona fede.Sapevo
che non sarebbe mai ritornata.
Ora siamo nel 2008 e ieri mattina, una mattina non diversa da quella di
quarant’anni fa, ho aperto il “Guardian” nel salotto della mia casa di Enugu.
Ero appena tornata dalla mia passeggiata mattutina (i miei amici dicono
che la mia passeggiata quotidiana è il motivo per cui non sembro una donna
di settant’anni) ed ero colma di quell’ottimismo che ti danno un’energica
camminata e il battito accelerato.Avevo seguito le recenti notizie nazionali
sulla nomina dei nuovi ministri da parte del governo, ma solo vagamente
perchè, dopo aver visto questo paese essere sballottato da un governo inetto
ad un altro, non trovo più niente che mi appassioni. Ho aperto il giornale
per leggere che era stato nominato il ministro dell’istruzione, una donna,
e che aveva appena concesso la sua prima intervista. Ero moderatamente
compiaciuta: avevamo bisogno di più donne al governo e i nigeriani avevano
visto quanto l’ultimo ministro donna avesse agito bene nel ministero delle
finanze.Il viso del nuovo ministro, in una fotografia in bianco e nero che
occupava mezza pagina, mi ha colpito. Mi sembrava familiare. Rimasi a
fissarla e prima di aver letto il nome sapevo che si trattava di Chinasa. Le
guance si erano riempite, ovviamente, e il viso aveva perso l’insicurezza della
giovane età, ma poco altro era cambiato.
Ho letto l’intervista tutta d’un fiato, le mani un po’ tremanti. Era stata
mandata all’estero poco dopo la guerra tramite una delle tante agenzie
internazionali che aiutavano i giovani che dalla guerra erano stati colpiti.
Le erano state assegnate molte borse di studio. Era sposata con tre figli.
Era docente di letteratura. Le mie mani hanno cominciato ad agitarsi
violentemente quando ho letto come è iniziato il suo amore per i libri:
“Ho avuto una fata madrina durante la guerra “, fu tutto ciò che disse. Ho
guardato il suo viso per un lungo istante, immaginando la vita che aveva
avuto, fantasticando con l’idea di contattarla e, prima di chiudere il giornale
e metterlo via, mi sono resa conto che mai fino ad allora nella mia vita mi ero
sentita così fiera.
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Capelli a cura del Liceo “Ariosto-Spallanzani”
| workshop di traduzione
La madre piangeva ogni giorno. Il padre aveva firmato l’accordo un pomeriggio,
dopo aver bevuto un intero cartone di Guinness al club, dopo che il suo amico
Lugardson gli aveva proposto una partita a carte e aveva scritto l’accordo
che diceva che chiunque avesse vinto avrebbe rilevato la proprietà dell’altro,
aggiungendo che era uno scherzo, ovviamente, per nulla legale. E quindi il
padre lo firmò e poi perse la partita. Lugardson portò l’accordo in tribunale
e il giudice, che era un suo compare, stabilì che il padre gli aveva realmente
ceduto per iscritto tutto ciò che possedeva. La sua azienda. Le sue case. Le
sue antomobili. Concesse una settimana alla famiglia per consegnare tutto a
Lugardson. Il padre disse, “Ma era uno scherzo! L’accordo era stato scritto in
fretta su uno scontrino! Era uno scherzo! “Ma il giudice lo ignorò Il padre si
gettò a terra, batté i pugni e pianse. Più tardi disse alla madre. “Pensavo che
Lugardson fosse mio amico” e la madre lo zittì. “Sei stupido? Come poteva
essere tuo amico? Non aspettava altro che fregarti!” E aggiunse di essersi sentita
spesso le occhiata sconvenienti di Lugardson addosso, il che era falso, ma la
madre amava colorire le sue storie.
Le storie che si raccontava ora che piangeva ogni giorno, tuttavia, non
avevano bisogno di essere colorite, perchè erano vere: storie della loro vecchia
vita, quando vivevano nella casa abbracciata dai fiori in Queens Drive, quando
tutta Lagos li venerava. Ora, nessuno dei loro amici veniva nel loro appartamento
infestato dai topi dove spesso il padrone di casa toglieva la corrente.
CAPELLI
81
Erano i capelli la più grande vergogna della madre. Ma erano arruffati con
fitti ciuffi di naturale ricrescita, perché messa in piega e contro-permanente
non poteva più permetterseli.Era stata la prima donna di Lagos con i suoi
capelli lunghi e lisci, e ora indossava sempre una stoffa avvolta intorno al
capo anche quando era sola. Nemmeno la figlia poteva più permettersi la
contropermanente, e così si era tagliata i capelli, e osservava con stupore come
ricrescevano, soffici e folti come lana, poichè non li aveva mai visti naturali.
Nella loro vecchia vita appena i suoi capelli crescevano venivano bruciacchiati
e lisciati. Adesso erano vibranti, crespi e folti. Lei non li pettinava ma ogni
mattina li districava amorevolmente con le dita. Il figlio, che di solito lavorava
con il padre nell’azienda, ora passava i suoi giorni sdraiato, inerte e depresso, e
le chiedeva di coprirsi quegli orrendi capelli con qualcosa. La figlia era legata
al fratello, gli aveva fatto la maggior parte dei compiti mentre lui andava per
pub e lei non riusciva a capire come lui potesse definire brutti i suoi capelli,
quando erano l’unica cosa bella che era loro rimasta. Proprio come il gin da
quattro soldi aiutava il padre a tirare avanti (qualche volta beveva persino le
sue vecchie bottiglie di colonia perchè diceva che contenevano dell’alcool), così
erano i suoi capelli; districarli, attorcigliarli, compiacersene le evitava di pensare
alla sua fame costante. Si augurava di poter capovolgere la loro sorte; sarebbe
stato possibile solo se avessero potuto entrare in possesso del contratto stesso e
portarlo ad un giudice che non fosse corrotto.
Un giorno Lugardson arrivò e disse che sapeva quanto la vita fosse diventata
difficile per loro e che voleva offrire ad uno dei figli un lavoro. Era il minimo che
potesse fare. Lugardson era un uomo scaltro, con mente sottile e braccia sottili.
La sua benevolenza era disgustosa. Ma il padre acconsentì e disse che il figlio
avrebbe accettato il lavoro. La figlia sapeva che il padre non aveva nemmeno
pensato di prenderla in considerazione; lui ignorava che lei aveva spesso fatto i
compiti del fratello in passato. Il figlio iniziò a lavorare e tornava a casa a dire che
era un semplice fattorino; stava al piano terra alla portineria e veniva chiamato
solo per fare commissioni. Ma se non altro guadagnava un po’ di soldi, e quindi
erano in grado di mangiare un po’ meglio, anche se la madre aveva preso a
vomitare, perchè non riusciva a credere che le fossero concesse solo le gocce
di un fiume che era suo di diritto.Un vecchio amico si fermò una sera a fare
visita portando con sé delle pagnotte, un uomo che di solito si inginocchiava
davanti al padre per chiedere soldi, e disse di aver sentito Lugardson al club
che si vantava di tenere il contratto nel suo ufficio per ricordarsi della stupidità
del padre.
La madre disse al figlio che doveva trovare un modo per prendere il contratto.
Il figlio provò diverse cose, la figlia gli dava delle idee su come intrufolarsi
nell’ufficio, ma nessuna funzionò. Il figlio tornò a casa in lacrime. Il padre
scivolò in una depressione ancora più profonda e iniziò a parlare di bere la
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
propria urina. La madre piangeva non più una, ma due volte al giorno. I mesi
passavano, finchè in un giorno nebbioso la figlia mentre si stava districando i
capelli, che ora erano abbastanza lunghi da essere raccolti in un ciuffo arruffato
come una grossa coda di coniglio, udì la voce. Veniva dai suoi capelli. Erano i
suoi capelli. Una voce che sembrava quella della sua defunta nonna ma era un
po’ più vivace. Il contratto è nel condizionatore di Lugardson. La figlia scosse
la testa, poi la voce tornò. Seppe allora che c’era qualcosa di magico nei suoi
capelli, che la gioia che ne traeva andava oltre il loro essere semplicemente
nuovi e morbidi. Ma sapere che il contratto era nel condizionatore d’aria non
era abbastanza. Doveva saperne di più. E così cominciò ogni mattina ad alzarsi
e districare i suoi capelli e ad aspettare la voce. Presto la voce le disse tutto ciò di
cui aveva bisogno. Il contratto era nel condizionatore dell’ufficio, ficcato in una
delle bocchette, secondo lui il posto più improbabile dove guardare. Doveva
andare a prenderlo il giorno dopo esattamente a mezzogiorno e un quarto, e
non doveva rimanere per più di quindici minuti o sarebbe stata scoperta.
La figlia si diresse all’ufficio di Lugardson. Si avvicinò al cancello e perse
il coraggio. Non l’avrebbero mai fatta entrare. Stava ritornandosene indietro
quando la voce dai suoi capelli le disse di passare, che il cancello era aperto e
non l’avrebbero vista. E così fece. Oltrepassò la portineria e vide il figlio seduto
curvo su uno sgabello. L’ufficio di Lugardson era vuoto e odorava stranamente
di naftalina; andò dritta al condizionatore, vi infilò la mano ed estrasse una
busta. Dentro c’era il contratto. Poi sentì dei passi; Lugardson stava arrivando.
Presa dal panico fissò la porta e allora iniziò a far scorrere le dita fra i capelli. Va’
sotto la scrivania. La moquette era particolarmente morbida e lei vi si accoccolò
e sperò che Lugardson non si trattenesse a lungo. Era entrato con qualcuno e
stava ridendo. La ragazza controllò l’orologio. Erano passati cinque minuti. Poi
otto. Lugardson stava ancora parlando. Poi undici minuti. Iniziò a sudare. Infilò
la busta nel reggiseno. La persona con Lugardson se ne andò e lui si aggirò per
l’ufficio per un po’, il suo cellulare suonò, rispose e lasciò l’ufficio. Erano passati
tredici minuti. La figlia si fiondò fuori da sotto la scrivania e cominciò a correre
il più velocemente possibile, giù dalle scale, fuori attraverso il cancello e non si
fermò finché non raggiunse la fermata dell’autobus.
Il padre la guardò sbalordito quando lei gli raccontò la storia, ma fu la madre
che prese il contratto e lo tenne in mano con reverenza e poi si scoprì i capelli
e li toccò piena di stupore. Il giorno dopo lo portarono al giudice Rotimi, noto
per essere incorruttibile, ed egli sentenziò che Lugardson restituisse tutto ciò
che aveva sottratto al padre. In più Lugardson avrebbe dovuto essere processato
per i suoi crimini. La madre rideva e piangeva e danzava e parlava di come
avrebbe fatto vedere i sorci verdi a tutte quelle persone spregevoli che l’avevano
abbandonata.
Il padre parlò di ordinare casse di Champagne. Il figlio, ancora confuso,
CAPELLI
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suggerì di ordinare anche del whisky. La figlia li guardava divertita e felice,
passandosi per tutto il tempo le dita tra i capelli.
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Quality Street a cura del Liceo “Corso” di Correggio
| workshop di traduzione
Stavano bevendo il tè. Una delle poche cose che Mrs. Njoku e sua figlia
Sochienne riuscivano ancora a fare insieme senza astio, era bere il tè, poiché,
quando Mrs. Njoku propose di andare nella nuova boutique a Victoria Island
o da Titi per un trattamento al viso, cose che erano solite fare insieme a Lagos
prima che Sochienne andasse all’università in America, le diede della grassa
borghese, una dilettante che ballava mentre la Nigeria stava andando a rotoli,
come se potesse in qualche modo risolvere i problemi del paese privandosi
di una manicure. Ma questo, bere il tè, era un atto neutrale – a patto che il
latte non fosse fresco. La prima settimana dopo il ritorno di Sochienne, Mrs.
Njoku aveva acquistato una confezione di latte fresco, entusiasta di poter
offrire alla figlia qualcosa di diverso dal solito latte in polvere o condensato,
ma Sochienne disse che non avrebbe mai toccato quella cosa importata da
ShopRite, di cui la maggior parte dei nigeriani neppure conosceva l’esistenza
e che avrebbe bevuto solo latte condensato locale. Mrs. Njoku disse, cercando
di nascondere il fastidio che provava, che il latte condensato era solamente
miscelato in Nigeria, dato che le compagnie ne importavano la polvere e
vi aggiungevano acqua. Sochienne sembrò sorpresa da questa notizia ma
insistette nel chiamarlo latte locale, con quel tono che rendeva la parola
locale quasi sacra. E così Mrs. Njoku fece sparire il latte fresco e comperò
barattoli di latte condensato Peak, che versavano, in un filo sottile, nel loro
tè. Erano alla loro seconda tazza di tè, quando Sochienne disse che avrebbe
QUA L I T Y ST R E E T
85
voluto celebrare il suo matrimonio ad Amarachi, la casa di campagna dove,
da bambina, trascorreva le vacanze, perché preferiva un luogo che avesse
un valore affettivo rispetto ad una sala eccessivamente sfarzosa. Alla signora
Njoku andò di traverso il tè. Aveva già assunto il famoso organizzatore di
matrimoni, affittato la chiesa cattolica di St. Mary ed un magnifico centroconferenze per il ricevimento ma, cosa ancora più importante, Amarchi
era una catapecchia, il giardino era dissestato, questa era la stagione delle
piogge, il fango avrebbe rovinato le scarpe delle signore e nessuno avrebbe
preso sul serio un matrimonio celebrato in quella palude. Di conseguenza,
nessuno sarebbe venuto. Lei sarebbe stata di sicuro lo zimbello dei salotti
e dei parrucchieri di tutta Lagos; si immaginava già Mrs. Fernandez-Cole
mentre, con una smorfia, diceva “matrimonio da villaggio.”
Con calma, tra un sorso e l’altro, Sochienne aggiunse che era un suggerimento
del suo fidanzato Mwangi dopo che lei gli aveva raccontato di Amarachi: si era
chiesta allora perché non ci avesse pensato per prima. Mrs. Njoku appoggiò la
sua tazza di tè. Doveva sicuramente essere stato quel keniano dallo sguardo
spento ed un nome impronunciabile a metterle in testa un’idea del genere.
Presa di nuovo dalla sconforto, stava per dire che ancora non capiva perché
Sochienne volesse sposarsi così giovane e non avesse incontrato in America
un ragazzo che fosse Igbo o almeno nigeriano. Ma si trattenne in tempo e
disse invece che non c’era abbastanza spazio ad Amarachi per sistemare tutti i
loro ospiti. Sochienne sorrise come se Mrs. Njoku fosse la figlia e lei la madre
e disse che solo una ventina sarebbero stati i suoi ospiti, gli altri quattrocento
erano persone che non conosceva e della cui assenza non si sarebbe neppure
accorta. Così Mrs. Njoku si preparò un altro tè ed acconsentì al matrimonio
della sua unica figlia in una casa di campagna qualunque, perché temeva che
la proposta successiva sarebbe stata una cerimonia al Bar Beach con tutti gli
invitati in abiti di seconda mano.
Forse non avrebbero dovuto mandare Sochienne a studiare in America. Ma
chi poteva immaginare che un’università privata in Ohio avrebbe significato
il ritorno di Sochienne sei anni dopo, l’annuncio del suo fidanzamento con
un keniano, il rifiuto di mangiare carne, le discussioni di salari giusti con i
domestici sconcertati e quei lunghi dreadlock incerati.
Quello che avrebbe dovuto metter in guardia Mrs. Njoku, si accorgeva solo
ora, era stato scoprire durante la sua prima visita all’università della figlia, che
gli studenti andavano a lezione in ciabatte. Oh, mamma, indossano i sandali
a causa di questa insolita ondata di caldo, disse Sochienne quando la madre
glielo fece notare, come se etichettare delle ciabatte con il termine americano
di sandali potesse renderle più rispettabili.
C’era tra gli studenti un’allarmante trascuratezza. A Mrs. Njoku era stato
garantito che gli americani benestanti mandassero lì i loro rampolli –
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
l’oltraggiosa retta di certo lo suggeriva – ma in realtà c’erano ragazzi con
magliette sgualcite e collanine di nessun valore. Comunque, non si era
preoccupata troppo per sua figlia allora e nemmeno lo aveva fatto negli anni
successivi, supponeva infatti che la ragazza che aveva cresciuto, avrebbe
mantenuto il suo buon senso. Avrebbe voluto che Sochienne ricevesse
un’istruzione in Inghilterra, una volta conclusa la scuola elementare, e aveva
proposto di mandarla al college femminile di Cheltenham, dove molti dei
loro amici mandavano le loro figlie; ma suo marito disse che Sochienne
non sarebbe andata all’estero prima dell’università, perché non voleva che
diventasse come quei ragazzi di Akindele che erano stati così a lungo in
Inghilterra da apostrofare i loro compagni nigeriani come “quella gente”.
Sua figlia doveva frequentare le scuole superiori in Nigeria, così da ricordare
chi fosse. Soprattutto voleva per lei un’istruzione universitaria in America.
L’America era il futuro. Era arrivato il momento per i nigeriani di liberarsi
dai vincoli coloniali. Mrs. Njoku avrebbe dovuto insister di più. Se solo suo
marito fosse stato vivo ora per vedere cosa Sochienne fosse diventata; quanto
tempo gli sarebbe servito per riconoscerla.
Quando si incontrarono per la prima volta, c’era qualcosa nei modi
dell’organizzatrice, la sua pelle gialla da orientale, la sua borsetta costosa
e eccessiva, che irritava Mrs. Njoku. Ma era determinata a servirsi della
stessa organizzazione di Mrs. Fernandez-Cole. Infatti Mrs. Njoku aveva
partecipato al matrimonio della figlia con la speranza di trovare qualcosa
da deridere, ma tutto fu impeccabile. Mrs. Fernadez-Cole veniva da una
di quelle vecchie famiglie di Lagos che storcevano il naso di fronte a chi
non vantava antenati brasiliano come loro. Mrs. Njoku trovava sciocco che
qualcuno potesse sentirsi superiore per il fatto di avere come antenati degli
schiavi del Sud America, tuttavia continuava a sentirsi una plebea in presenza
di Mrs. Fernandez-Cole nel costante tentativo di stirarsi i capelli e sistemarsi
i vestiti. Quando si incontravano all’Ikoyi Club, come spesso accadeva,
ostentavano forzata cordialità, ma era chiaro che Mrs. Fernadez-Cole
considerava Mrs. Njoku una parvenu da tollerare con sufficienza, mentre
Mrs. Njoku sentiva il bisogno disperato di dimostrare la sua uguaglianza. E
allora, quando disse all’organizzatrice che le nozze ora si sarebbero tenute
nella casa là in campagna, la sua maggiore preoccupazione era che questa
avrebbe chiamato immediatamente Mrs. Fernandez-Cole per chiacchiere
superficiali e pettegole. Ma l’organizzatrice molto pragmaticamente disse
che le serviva subito del contante per prenotare un nuovo adetto al catering,
dato che la Yinka’s Food & Events lavorava solo nella zona di Lagos. Allora
Mrs. Njoku andò con Sochienne in banca. All’ingresso vide le figlie degli
Osazes, che ora avevano un accento inglese dopo aver frequentato la scuola in
Inghilterra: il loro good afternoon, aunty suonava così raffinato. Non erano
QUA L I T Y ST R E E T
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mai state graziose come sua figlia, ma con i loro jeans attillati ed i tacchi
alti, con i loro lunghi capelli ondulati che scendevano sulle spalle, erano
normali. A stento Sochienne si accorse delle sorelle Osaze. Era intenta a
guardare l’impiegato della banca – sul suo cartellino si leggeva John – mentre
controllava mazzette di naira con il contabanconote, fascettava i contanti e
li consegnava in una busta di carta con un cenno di saluto. Mrs. Njoku gli
diede duemila naira ed annuì al suo grazie molte, Madam. Più tardi, non
appena salirono sulla Range Rover di Mrs. Njoku, Sochienne disse che era
stato immorale da parte sua aver dato i soldi a John. Mrs. Njoku si allacciò la
cintura di sicurezza e disse all’autista che si sarebbero fermati a Lekki, prima
di rivolgersi a sua figlia sottolineando che era una mancia, una semplice
mancia, e che non era stata proprio Sochienne ad accusarla di insensibilità?
Ed ora che lei aveva dato una mancia ad un impegato di banca sottopagato, era
ancora immorale? Sochienne mugugnò qualcosa a proposito di ricompensare
un cameriere cronicamente denutrito con un pollo arrosto, mentre fissava
i mendicanti che si spostavano da un finestrino ad un altro nel traffico, i
volti scavati ed ossuti, gli occhi pieni di speranza, i loro Dio ti benedica,
Dio ti benedica, Dio ti benedica. Mrs. Njoku pensò di essere stata troppo
dura nel momento di difendersi. Chiese a Sochienne se l’aria condizionata
fosse troppo fredda. Sochienne disse di no. Le chiese quali cambiamenti
l’organizzatrice avrebbe dovuto apportare per sistemare il décor, ora che le
nozze erano ad Amarachi. Sochienne, stringendosi nelle spalle, disse che non
lo sapeva, come se l’organizzatrice fosse un piacere fatto a sua madre che lei
aveva dovuto assecondare.
Mrs. Njoku guardò un venditore ambulante correre dietro ad una macchina
in mezzo al traffico. Aveva mal di testa. Domandò a Sochienne se si voleva
fermare al Chicken Republic, avevano delle insalate che Sochienne avrebbe
potuto mangiare. Non molto convinta, con lo sguardo ancora fisso fuori dal
finestrino, annuì e, una volta arrivate al ristorante, chiese all’autista di unirsi
a loro, rivolgendosi alla madre per ricordarle che l’uomo non aveva mangiato
per tutto i giorno. Mrs. Njoku disse che gli avrebbe portato qualcosa.
Sochienne rimase immobile e ribadì la sua volontà di invitare l’autista. Mrs.
Njoku le lanciò un’occhiata e le venne voglia di prenderla a schiaffi, spingerla
fuori dalla macchina, strattonarla. Chiese all’autista che le guardava tra la
confusione ed il terrore, di spegnere il motore e di scendere dalla macchina.
Allora si appoggiò allo schienale e accusò la figlia di essere un’ingrata
presuntuosa. I finestrini erano chiusi e iniziava a sudare, quando le uscirono
queste parole dalla bocca: tu pensi di fare un favore all’autista portandolo da
Chicken Republic a mangiare al tuo stesso tavolo, ma ti sbagli, perché non
fai sentire meglio lui ma ti senti meglio tu, e tu sei troppo presuntuosa per
vedere che lo metteresti in imbarazzo se si sedesse con te e, soprattutto, non
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
cambierebbe nulla nella sua vita e, nel caso non lo sapessi, tuo padre giace
nella tomba, guardando che razza di persona sei diventata, strappandosi e
capelli e mangiandoli. Sochienne era sbalordita. Poi accusò sua madre di
essere una grassa borghese, uno struzzo che fingeva che tutto andasse per il
meglio, e Mrs. Njoku aprendo la portiera fece segno all’autista di portarle a
casa. Durante il tragitto non si dissero una parola. Non cenarono insieme.
Non presero il tè. E quasi non si parlarono fino al giorno del matrimonio ad
Amarachi.
Il giorno del matrimonio ad Amarachi Mrs. Njoku stava chiamando da
entrambi i suoi telefoni cellulari, urlando davanti alla gente ed ispezionando
le sedie addobbate con nastri dai colori crema e blu, i cespugli di ixora ed
ibiscus appena potati, la ghiaia sparsa sul terreno sabbioso. Il gazebo era
leggermente in pendenza ed era necessario sistemarlo, ma l’uomo che lo aveva
montato, era sparito. L’organizzatrice di matrimoni si stava lamentando dei
tavoli del rinfresco. Il cielo diventava scuro. Mrs. Njoku si rese conto di avere
il respiro affannato. Mrs. Fernandez-Cole aveva già chiamato per dire che si
trovava all’aereoporto di Enugu e quanto fosse piacevole stare in quella parte
del paese, col tono di una persona che sta mentendo e che vuole farti sapere
che sta mentendo. Sochienne era al piano di sopra, chiacchierando con le
damigelle, unendo in un mazzolino dei fiori appassiti che aveva insistito a
raccogliere dall’albero di frangipani. Mancava solo un’ora prima di indossare
l’abito ma lei era estremamente calma, il che infastidiva Mrs. Njoku perché
il minimo che si aspettava da sua figlia, dopo tutto ciò che aveva passato per
questo matrimonio, era un po’ di nervosismo da sposa. Quando arrivò la
parrucchiera, volata lì da Lagos, Mrs Njoku era preoccupata per i capelli di
Sochienne; quali possibilità potevano realmente esserci per i suoi dreadlocks?
Sochienne disse che almeno a lei i capelli crescevano in testa naturali mentre
il ciuffo arricciato di sua madre sembrava di plastica posticcia.
Il suo tono era lo stesso di quando le aveva detto “grassa borghese” e così
Mrs. Njoku entrò nella sua stanza per fare un bagno. L’organizzatrice di
matrimoni bussò poco dopo per dirle che le nuvole erano ancora più scure
di prima e che Sochienne aveva proposto uno stregone della pioggia. Mrs.
Njoku pensò: un uomo che previene la pioggia – che stupida superstizione!
Disse di no. Se davvero fosse iniziato a piovere, sarebbero potuti entrare e,
anche se stretti, sarebbe stato fattibile, poiché le verande erano coperte. Ma
Sochienne entrò nella sua stanza senza bussare e disse con quel tono che
aveva cominciato ad irritare profondamente sua madre, che gli stregoni della
pioggia erano superstizioni quanto i rosari cattolici, che la fede era come
una scatola di Quality Street, lei sceglieva in cosa credere come sceglieva i
cioccolatini senza nocciole, e che invece la sua fede contemplava: antenati
guardiani, l’arte di prevenire la pioggia, un Dio felice. Mrs. Njoku trovò
QUA L I T Y ST R E E T
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sconcertante questo elenco di credenze della figlia. Le ricordava suo marito
defunto, un agnostico che nonostante questo aveva chiamato la sua casa di
campagna Amarachi: Grazia di Dio. Ma era l’immagine dei Quality Street
– la scatola viola di cioccolatini che lei e suo marito avevano comprato alla
figlia per la prima volta quando aveva otto anni, e le avevano dato al piano
di sotto proprio in qualla casa, guardandola mentre scrutava le differenti
caramelle dagli involucri brillanti – che la spinse a chiamare lo stregone.
L’uomo grinzoso arrivò e si sedette sul retro a sorvergliare il fuoco, bevendo
gin ed assicurando a tutti che non sarebbe piovuto.Gli ospiti erano fatti
accomodare, le damigelle erano pronte, le labbra tutte un luccichio. Il keniota
arrivò con la sua famiglia dall’hotel di Onitsha. Il suo caftano senegalese,
finemente ricamato sul colletto, era forse il massimo dell’eleganza a cui
poteva aspirare, pensò Mrs. Njoku, ma avebbe voluto che indossasse un
completo. Si girava tra le dita il diamante che aveva al collo e avvertì un
confuso senso di spaesamento, era come se fosse stata inserita in una storia
che non era scritta per lei. Trovò Sochienne nella veranda, appoggiata ad una
ringhiera scrostata, i dreadlock raccolti, gli occhi truccati, un semplice vestito
aderente lungo fino al polpaccio. Mrs. Njoku si sentì ferita dalla modestia di
questo giorno e dalla naturalezza del viso di sua figlia. Le consigliò un po’
più di trucco, ma Sochienne scosse la testa e chiese alla madre se ricordava
quando suo padre salì con lei sul frangipani per aiutarla a vincere la paura
di arrampicarsi, quando c’era un caldo così umido che la tavoletta del water
rimaneva appiccicata al sedere, quando suo padre quasi bruciò la casa mentre,
facendo il fuoco, tostava gli anacardi, quando vomitò dopo aver mangiato una
lumaca bollita. Mrs. Njoku aveva odiato quelle vacanze perché i loro amici
erano a Londra, mentre suo marito insisteva che rimanessero ad Amarachi.
In quel momento si avvicinò in silenzio alla figlia e pensò che, per la prima
volta, riconosceva la sua Sochienne da quell’espressione di meraviglia che
aveva spesso quando era bambina. L’organizzatrice entrò dicendo che era
giunto il momento. Sochienne prese il bouquet. Aveva unito ai costosi fiori
di seta arrivati da chissà dove in Europa, i fiori di frangipani, i cui petali
cadevano per il caldo umido. Chiese a sua madre se le piacesse il bouquet e
Mrs. Njoku rispose di no, accompagnando sua figlia al piano di sotto. Alla
fine non piovve. Piovigginò, in modo lieve e rifrescante, le nuvole si aprirono
appena prima dell’inizio del ricevimento, quando l’organizzatrice si fece
avanti per sussurrare a Mrs. Njoku che Sochienne aveva cambiato il primo
ballo da “No One Be Like You” di P-Square al classico di Nico Mbarga
“Sweet Mother”.
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La storica cocciuta a cura del Liceo “Ariosto Spallanzani”
| workshop di traduzione
Molti anni dopo la morte di suo marito, di tanto in tanto a Nwamgba capitava
ancora di chiudere gli occhi, per rivivere i loro incontri notturni alla capanna;
e le mattine seguenti, quando camminava verso il ruscello canticchiando e
ripensava al suo odore di fumo e al peso del corpo di lui, si sentiva circondata
dalla luce. Riaffioravano anche chiari altri ricordi di Obierika: le sue dita
tozze avvolte intorno al flauto che suonava la sera, la sua gioia, quando gli
posava davanti la scodella della cena, la sua schiena sudata, quando le portava
cesti di argilla fresca da modellare. Dal primo momento in cui l’aveva visto, ad
un incontro di lotta, entrambi guardandosi e riguardandosi, entrambi troppo
giovani, quando la vita di lei non era ancora cinta dall’abito della fertilità,
aveva creduto, con muta ostinazione, che i loro chi1 li avessero destinati al
matrimonio. E così quando, qualche anno dopo, Obierika e i suoi parenti
andarono dal padre di lei con brocche di vino di palma, disse alla madre
che era quello l’uomo che voleva sposare. Sua madre ne fu sconvolta. Non
sapeva Nwamgba che Obierika era figlio unico, che il suo defunto padre era
stato a sua volta figlio unico e le sue mogli avevano perso e sepolto molti
figli? Forse qualcuno nella loro famiglia aveva violato il taboo, vendendo
una ragazza come schiava, e il dio della terra Ani aveva gettato su di loro il
malocchio. Nwamgba non diede ascolto alla madre. Entrò nell’obi del padre
e gli disse che sarebbe scappata dalla casa di qualsiasi altro uomo, se non le
avesse permesso di sposare Obierika. Il padre la trovò esasperante, questa
L A S T OR IC A C O C C I U TA
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figlia dalla lingua tagliente, dalla testa dura che una volta aveva lottato con il
fratello fino ad atterrarlo. (Il padre aveva dovuto mettere in guardia chi aveva
visto la cosa di non far sapere al di fuori della famiglia che una ragazza aveva
steso un ragazzo). Anche lui era preoccupato per l’infertilità della famiglia di
Obierika, ma non era una cattiva famiglia: il padre di Obierika aveva ottenuto
il titolo Ozo; già Obierika distribuiva i semi di patate dolci tra i mezzadri.
Nwamgba non sarebbe morta di fame se l’avesse sposato. Inoltre era meglio
che sua figlia andasse con l’uomo che si era scelta piuttosto che sopportare
anni di guai durante i quali lei avrebbe continuato a tornare a casa dopo i
litigi con i suoceri; e così le diede la sua benedizione, lei sorrise, chiamandolo
con il nome di rispetto.
Per pagare la sua dote, Obierika si presentò con due cugini materni, Okafo
e Okoye, quasi fratelli per lui. Appena li vide, Nwamgba li detestò. Scorse una
malevola scintilla d’avidità nei loro occhi, quel pomeriggio, mentre bevevano
vino di palma nell’obi di suo padre; e gli anni seguenti, anni in cui Obierika
acquisì titoli, ampliò i suoi possedimenti e vendette le sue patate dolci a
forestieri venuti da lontano, Nwamgba vide la loro invidia farsi ancora più
nera. Ma li sopportava, perché a Obierika stavano a cuore, perché fingeva
di non accorgersi che non lavoravano, ma venivano per le patate dolci e i
polli, perché gli piaceva immaginare di avere dei fratelli. Erano stati loro a
fare pressione, dopo il terzo aborto, perché cercasse un’altra donna. Obierika
diceva loro che ci avrebbe pensato su, ma quando poi la sera erano soli nella
capanna, la rassicurava, dicendole che avrebbero avuto una casa piena di
bambini, e che non avrebbe cercato un’altra donna fino alla vecchiaia, così
avrebbero avuto qualcuno che si prendesse cura di loro. Nwamgba pensò
che fosse strano da parte sua, un uomo benestante con una sola moglie, e
si preoccupava più di lui per la mancanza di figli, per le canzoncine che la
gente cantava, con quelle parole melodiose e cattive: Quella ha venduto il suo
grembo. Gli ha mangiato il pene. Lui suona il suo flauto e intanto le passa
tutti i suoi beni.
Una volta, ad una riunione al chiaro di luna, la piazza piena di ragazze
che raccontavano storie e imparavano nuove danze, un gruppo di donne
vide Nwamgba e iniziò a cantare, con i seni che, aggressivi, l’accusavano.
Nwamgba chiese gentilmente se dispiacesse loro cantare un po’ più forte, così
da poter sentire le parole e far vedere chi aveva la testa più dura. Tacquero.
Ella provò piacere per la loro paura per il modo in cui si allontanavano da lei,
ma fu allora che decise di trovare, lei stessa, una moglie per Obierika.
A Nwamgba piaceva recarsi al ruscello Oyi, sciogliendo la veste dalla vita
e scendendo lungo il pendio fino all’argenteo corso d’acqua, che sgorgava
da una roccia. Le acque dell’Oyi sembravano più fresche di quelle dell’altro
ruscello, Ogalanya, o forse Nwamgba si sentiva semplicemente cullata dal
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tempietto in onore della dea Oyi, raccolto in un angolo; da bambina aveva
imparato che Oyi era la dea protettrice delle donne, ed era la ragione per
cui era taboo vendere le donne in schiavitù. La più cara amica di Nwamgba,
Ayaju, si trovava già al ruscello e mentre Nwamgba aiutava Ayaju a sollevare
il suo vaso sulla testa, le chiese chi potesse essere una buona seconda moglie
per Obierika. Lei e Ayaju erano cresciute insieme e avevano sposato due
uomini della medesima tribù. La differenza tra loro, tuttavia, era che Ayaju
discendeva da schiavi. Ad Ayaju non importava di suo marito, Okenwa, che,
a suo dire, assomigliava in aspetto e odore ad un topo ma le sue prospettive
di matrimonio erano state limitate; nessun uomo nato da una famiglia libera
sarebbe venuto a chiedere la sua mano. Ayaju era una di quelle donne che
scambiavano i loro averi in giro, il suo corpo slanciato e scattante la diceva
lunga sui suoi numerosi viaggi; era addirittura arrivata oltre Onicha. Era stata
lei la prima a riportare le strane usanze dei commercianti Igala e Edo, e lei la
prima a raccontare di uomini dalla pelle bianca, giunti ad Onicha con specchi
e tessuti e le più grandi armi da fuoco che la gente di quei luoghi avesse
mai visto. Questa sua conoscenza del mondo le fece guadagnare rispetto ed
era l’unica discendente di schiavi che parlasse a testa alta al Consiglio delle
Donne, l’unica che avesse una risposta per tutto. Suggerì prontamente, come
seconda moglie per Obierika, una giovane ragazza della famiglia Okonkwo,
che aveva bellissimi fianchi larghi ed era rispettosa, niente a che vedere con le
ragazze di oggi, che avevano la testa piena di sciocchezze. Mentre tornavano
a casa dal ruscello, Ayaju disse che forse Nwamgba avrebbe dovuto fare ciò
che altre donne nella sua situazione facevano – trovarsi un amante e restare
incinta così da dare un erede ad Obierika. La reazione di Nwamgba fu aspra,
perché non le piaceva il tono di Ayaju, che sembrava insinuare che Obierika
fosse impotente, e, come in risposta ai suoi pensieri, sentì una fitta lancinante
alla schiena, e seppe così di essere di nuovo incinta, ma non disse nulla,
perché sapeva, anche, che l’avrebbe perso ancora.
L’aborto avvenne poche settimane dopo, quando sangue grumoso le scese
tra le gambe. Obierika la confortò e suggerì di andare dal famoso oracolo,
Kisa, non appena fosse stata abbastanza in forze da sopportare un viaggio
di mezza giornata. Dopo che dibia ebbe consultato l’oracolo, Nwamgba
rabbrividì al pensiero di sacrificare un’intera mucca; Obierika doveva avere
antenati terribilmente avidi. Tuttavia portarono a termine le purificazioni
rituali e i sacrifici come richiesto, e quando lei gli suggerì di andare a trovare
la famiglia Okonkwo per la loro figlia, Obierika rimandò e rimandò, finchè un
altro dolore tagliente le colpì la schiena: mesi dopo, Nwamgba stava coricata
su un giaciglio di foglie di banano appena lavate dietro la sua capanna,
spingendo a fatica, finché il neonato non venne al mondo.
Lo chiamarono Anikwenwa: il dio della terra Ani gli aveva finalmente
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concesso un figlio. Era scuro e robusto, e aveva l’allegra curiosità di Obierika.
Il padre lo portava a raccogliere erbe medicinali, a prendere l’argilla per il
vasellame di Nwamgba, a intrecciare rampicanti di patate nell’orto. I cugini
di Obierika, Okafo e Okoye, venivano spesso in visita. Si meravigliavano
nel vedere quanto Anikwenwa suonasse bene il flauto, quanto velocemente
imparasse poesie e mosse di lotta da suo padre, ma Nwamgba vedeva lo
scintillio di malevolenza che i loro sorrisi non potevano nascondere. Temeva
per il suo bambino e per suo marito, e quando Obierika morì – un uomo che
era stato pieno di vita, che rideva e beveva vino di palma un attimo prima di
cadere di colpo – Nwamgba seppe che lo avevano avvelenato. Si avvinghiò
al suo cadavere, finché un vicino la schiaffeggiò per farle lasciare la presa;
giacque tra le ceneri fredde per giorni, strappandosi i disegni creati dai capelli
rasati. La morte di Obierika la lasciò con una disperazione senza fine. Pensò
spesso ad una donna che, dopo aver perso una decina di figli, si era diretta
verso il giardino dietro casa e si era impiccata ad un albero di noci di cola. Ma
lei non lo avrebbe fatto, per Anikwenwa.
Col senno di poi, desiderò di aver fatto bere ai cugini di Obierika il suo
mmili ozu davanti all’oracolo. Ne era stata testimone una volta, quando
un ricco uomo morì e la famiglia costrinse il rivale a bere il suo mmili ozu.
Nwamgba aveva visto una vergine prendere una foglia concava piena d’acqua,
toccare il corpo dell’uomo con quella, parlando sempre solennemente, e
dare la foglia a coppa all’uomo accusato. Bevve. Tutti si assicurarono che
deglutisse. Un silenzio pesante nell’aria, perché sapevano che, se fosse stato
colpevole, sarebbe morto. Morì giorni dopo, e la sua famiglia chinò il capo per
la vergogna. Nwamgba si sentì stranamente scossa da tutto questo. Avrebbe
dovuto insistere anche con i cugini di Obierika, ma era stata accecata dal
dolore ed ora Obierika era sepolto ed era troppo tardi. I cugini, durante il
funerale, presero la sua zanna d’avorio, sostenendo che il corredo dei titoli
spettasse ai fratelli, e non ai figli. Fu quando svuotarono il granaio dalle
patate e portarono via le capre adulte dal recinto che ella osò fronteggiarli
urlando, e quando la ignorarono aspettò la sera, quindi si mise a camminare
tra la gente, cantando della malvagità di quelli, degli abomini che stavano
accumulando sulla terra, ingannando una vedova, finchè gli anziani chiesero
loro di lasciarla in pace. Nwamgba si lamentò al Concilio delle Donne, e venti
donne si recarono di notte alle case di Okafo e Okoye, brandendo pestelli,
ammonendoli di lasciarla stare. Ma Nwamgba sapeva che quegli avidi cugini
non si sarebbero fermati. Sognava di ucciderli. Sicuramente ne sarebbe
stata capace, quegli smidollati, che avevano trascorso la vita scroccando da
Obierika, invece di lavorare, ma di certo sarebbe stata bandita, e nessuno si
sarebbe preso cura di suo figlio. Invece, portava spesso Anikwenwa a fare
lunghe passeggiate, raccontandogli che la terra da quell’albero di palma
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a quell’avocado era loro, e che suo nonno l’aveva lasciata a suo padre. Gli
ripeteva le stesse cose, ancora e ancora, nonostante sembrasse annoiato e
perplesso, e non lo lasciava andare a giocare sotto le stelle, a meno di non
averlo sott’occhio.
Ayaju tornò da un viaggio con un’altra storia: le donne di Onicha si
lamentavano degli uomini bianchi. Avevano accolto bene la stazione
commerciale dei bianchi, ma ora quelli pretendevano di insegnare loro
come fare affari, e quando gli anziani di Agueke si rifiutarono di mettere
il loro pollice su una carta, i bianchi arrivarono di notte, con i loro aiutanti
del posto e rasero al suolo il villaggio. Non ne rimase nulla. Nwamgba non
capiva. Che razza di armi avevano questi bianchi? Ayaju rise e disse che le
loro armi non erano affatto come quegli arnesi arrugginiti di suo marito;
parlava con orgoglio, come se lei stessa fosse l’artefice della superiorità delle
armi dei bianchi. Alcuni di loro andavano in giro per le tribù e, aggiungeva,
pregavano i genitori di mandare i figli a scuola, e lei per prima aveva deciso
di mandare suo figlio Azuka, che era il più pigro alla fattoria, perché, benché
fosse rispettata e benestante, era pur sempre figlia di schiavi, ai suoi figli era
ancora preclusa la possibilità di acquisire titoli, e voleva che Azuka imparasse
i modi di questi stranieri. La gente dettava legge sugli altri non perché era
migliore, diceva, ma perché possedeva armi migliori; dopo tutto, suo padre
non sarebbe stato fatto schiavo se il suo clan avesse avuto armi buone come
quello di Nwamgba. Mentre Nwamgba ascoltava l’amica, sognava di uccidere
i cugini di Obierika con le armi dei bianchi.
Il giorno che gli uomini bianchi vennero a far visita alla sua tribù,
Nwamgba mise da parte la scodella che stava per mettere nel forno, prese
Anikwenwa e le sue apprendiste, e si affrettò verso la piazza. All’inizio rimase
delusa dall’aspetto ordinario dei due uomini bianchi; sembravano innocui,
del colore degli albini, con arti fragili e esili. I loro compagni erano uomini
comuni, ma anche in loro c’era un che di straniero: solo uno parlava Igbo, e
con uno strano accento. Disse che veniva da Elele, l’altro uomo normale dalla
Sierra Leone e gli uomini bianchi dalla Francia, lontana, al di là del mare.
Facevano tutti parte della Congregazione del Santo Spirito, erano arrivati
ad Onicha nel 1885, e stavano costruendo lì la loro scuola e la loro chiesa.
Nwamgba fu la prima a fare una domanda: avevano, per caso, portato le loro
armi, quelle usate per distruggere le persone di Agueke, e poteva vederne
una? L’uomo disse tristemente che erano i soldati del Governo Britannico e i
mercanti della Compagnia Reale del Niger che distruggevano i villaggi; loro,
invece, portavano buone notizie. Parlò del loro dio, che era venuto nel mondo
per morire, e che aveva un figlio ma non una moglie, e che era tre ma anche
uno. Molte delle persone intorno a Nwamgba risero, fragorosamente. Alcuni
se ne andarono, perché avevano pensato che l’uomo bianco fosse pieno di
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saggezza. Altri rimasero e offrirono delle scodelle d’acqua fresca.
Settimane dopo, Ayaju portò un’altra storia: gli uomini bianchi avevano
costruito un tribunale ad Onicha, dove giudicavano le controversie. Certo
erano venuti per restare. Per la prima volta, Nwamgba dubitò dell’amica.
La tribù vicino a quella di Nwamgba, ad esempio, istituiva una corte solo
durante la festa per il nuovo raccolto di yam, così il rancore della gente
cresceva, mentre aspettavano di ricevere giustizia. Un sistema stupido, pensò
Nwamgba, ma sicuramente tutti ne avevano uno. Ayaju rise e disse di nuovo
a Nwamgba che le persone governavano sulle altre quando avevano armi
migliori. Suo figlio stava già imparando questi modi stranieri, e forse anche
Anikwenwa avrebbe dovuto. Nwamgba si rifiutò. Era impensabile che il suo
unico figlio, la pupilla dei suoi occhi, dovesse essere consegnato agli uomini
bianchi, qualunque fosse la superiorità delle loro armi.
Tre eventi, negli anni seguenti, fecero cambiare idea a Nwamgba. Il primo
fu che i cugini di Obierika si impossessarono di un largo appezzamento di
terra e dissero ai più anziani che lo stavano coltivando per lei, che ora si
rifiutava di sposarsi nuovamente, anche se c’erano dei pretendenti e i suoi
seni erano ancora rotondi. Gli anziani li spalleggiarono. Il secondo evento
fu che Ayaju raccontò la storia di due persone che avevano portato il caso di
un possedimento terriero alla corte dei bianchi; il primo dei due mentiva, ma
sapeva parlare la lingua dei bianchi, mentre il secondo, il reale possessore della
terra, non ne era in grado; e così perse il caso; fu picchiato e rinchiuso, e venne
obbligato a rinunciare alla sua terra. Il terzo evento fu la storia del giovane
Iroegbunam, che era scomparso molti anni prima e che improvvisamente
riapparve, ormai uomo, alla madre vedova, ammutolita dal terrore per la sua
storia: un vicino, al quale il padre di Iroegbunam aveva spesso fischiato alle
assemblea degli uomini, lo aveva rapito quando sua madre era al mercato e lo
aveva portato ai mercanti di schiavi Aro, che lo esaminarono e si lamentarono
del fatto che la ferita sulla gamba avrebbe abbassato il suo prezzo. Fu legato
agli altri per le mani, in una lunga catena umana, e venne picchiato con un
bastone e gli dissero di camminare più velocemente. C’era una donna nel
gruppo. Gridava fino a rimanere senza voce, dicendo ai rapitori che erano
senza cuore, che il suo spirito avrebbe tormentato loro e i loro figli, che
sapeva che sarebbe stata venduta all’uomo bianco e non sapevano forse che
la schiavitù sotto gli uomini bianchi era molto diversa, che le persone erano
trattate come bestie, caricate su grandi navi dirette molto lontano, e che alla
fine venivano mangiati? Iroegbunam camminò e camminò e camminò, i
piedi insanguinati, il corpo intorpidito, fino a che tutto ciò che ricordava
era l’odore della polvere. Finalmente, si fermarono presso una famiglia della
costa, dove un uomo parlava un Igbo quasi incomprensibile, ma Iroegbunam
decifrò abbastanza da capire che un altro uomo, che avrebbe dovuto venderli
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ai bianchi sulla nave, era salito per contrattare, ma era stato egli stesso
rapito. Ci furono litigi con urla, zuffe; alcuni tra i prigionieri strattonarono
violentemente le corde e Iroegbunam svenne. Si svegliò trovando un uomo
bianco che strofinava i suoi piedi con l’olio e subito ne fu terrorizzato, certo
che lo stesse preparando per il pasto degli uomini bianchi, ma questo era un
tipo diverso di uomo bianco, che comprava schiavi solo per liberarli, e prese
Iroegbunam a vivere con sé e gli insegnò ad essere un missionario Cristiano.
La storia di Iroegbunam perseguitava Nwamgba, perché questo, ne era
certa, era con tutta probabilità il modo in cui i cugini di Obierika si sarebbero
sbarazzati di suo figlio. Ucciderlo sarebbe stato troppo pericoloso, il rischio
di disgrazie da parte dell’oracolo troppo alto, ma sarebbero stati capaci di
venderlo, purché avessero dei filtri potenti che li proteggessero. Era colpita,
anche, dal fatto che di tanto in tanto Iroegbunam tornasse a parlare la
lingua degli uomini bianchi. Aveva un suono nasale e disgustoso. Nwamgba
non aveva certo desiderio di parlare lei stessa in una lingua del genere, ma
improvvisamente decise che Anikwenwa ne avrebbe parlata quanto bastava
per andare al tribunale dei bianchi con i cugini di Obierika, vincere la causa
e prendere il controllo di ciò che era suo. E così, poco dopo il ritorno di
Iroegbunam, disse ad Ayaju di voler portare suo figlio a scuola.
All’inizio andarono alla missione Anglicana. La classe contava più ragazze
che ragazzi, seduti con pietre sulle ginocchia, mentre l’insegnante stava
in piedi di fronte a loro, impugnando una grossa bacchetta, e raccontava
di un uomo che aveva trasformato una ciotola d’acqua in vino. Le parole
dell’insegnante colpirono Nwamgba, e pensò che l’uomo della storia dovesse
avere una pozione potentissima per riuscire a trasformare l’acqua in vino,
ma quando le ragazze furono separate e arrivò una donna per insegnar loro
a cucire, Nwamgba lo trovò sciocco. Nella sua tribù, gli uomini cucivano
tessuti e le donne imparavano a modellare i vasi. Comunque, quello che la
dissuase completamente dal mandare Anikwenwa in quella scuola fu che la
spiegazione era fatta in Igbo. Nwamgba chiese perché. Il maestro disse che,
ovviamente, agli studenti si insegnava l’Inglese –teneva in mano un sillabario
di Inglese – ma i bambini imparavano meglio nella loro lingua e anche i
bambini nella terra dei bianchi imparavano nella loro lingua. Nwamgba si
voltò per andarsene. Il maestro le sbarrò la strada e disse che i missionari
Cattolici erano severi e non volevano il meglio per gli indigeni. Nwamgba era
divertita da questi stranieri, che non sembravano sapere che bisognerebbe,
davanti agli estranei, fare finta di essere uniti. Ma lei cercava l’Inglese, così lo
oltrepassò e si recò alla missione Cattolica.
Padre Shanahan le disse che Anikwenwa avrebbe dovuto scegliere un
nome Inglese, perché non si poteva essere battezzati con un nome pagano.
Accettò di buon grado. Per quanto la riguardava il suo nome era Anikwenwa;
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se volevano dargli un nome che non sarebbe riuscita a pronunciare, prima di
insegnargli la loro lingua, non le importava nulla. L’unica cosa che contava
era che riuscisse ad imparare la lingua abbastanza da battere i cugini del
padre. Padre Shanahan guardò Anikwenwa, un bambino dalla pelle scura e
muscoloso, e azzardò che fosse sui dodici anni, nonostante trovasse difficile
dare un’età a questa gente; a volte chi sembrava un uomo si rivelava essere
solo un ragazzo. Non aveva niente a che vedere con l’Africa Orientale, dove
aveva lavorato prima, dove gli indigeni tendevano ad essere più snelli, meno
indiscriminatamente muscolosi. Mentre versava un po’ d’acqua sulla testa del
ragazzo, disse: “Michael, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo.” Diede al ragazzo una canottiera e un paio di pantaloni corti,
perché il popolo del Dio vivente non andava in giro nudo, tentò di predicarlo
anche alla madre del ragazzo, che lo guardò come un bambino che non sa
ancora nulla. Essa aveva un che di inquietante e di assertivo, una cosa che
aveva visto in molte donne, qui; c’era un grande potenziale da imbrigliare se la
loro natura selvaggia fosse stata domata. Questa Nwamgba sarebbe stata una
splendida missionaria tra le donne. La guardò partire. C’era grazia nella sua
schiena dritta, e, a differenza di altri, nel suo discorso non era andata per le
lunghe. Lo facevano infuriare, il loro straparlare e i loro sinuosi proverbi; non
arrivavano mai al punto, ma qui voleva davvero eccellere; era per questo che
si era unito alla Congregazione del Santo Spirito, la cui particolare vocazione
era la redenzione dei neri pagani.
Nwamgba era preoccupata da come indiscriminatamente i missionari
fustigassero gli studenti: perché erano in ritardo, perché erano pigri, perché
erano lenti, perché erano sfaccendati, e una volta, come le disse Anikwenwa,
Padre Luz aveva messo manette di metallo intorno ai polsi di una ragazza per
insegnarle una lezione sul mentire, dicendo continuamente in Igbo – poiché
Padre Luz parlava Igbo, anche se in modo scorretto – che i genitori indigeni
coccolavano troppo i figli, che insegnare il Vangelo significava anche insegnare
una corretta disciplina. Il primo finesettimana in cui Anikwenwa tornò a
casa, Nwamgba notò dei lividi sulla sua schiena, e stretta la veste attorno
alla vita si recò a scuola e disse all’insegnante che avrebbe cavato gli occhi
a chiunque nella missione l’avesse fatto di nuovo. Sapeva che Anikwenwa
non voleva andare a scuola e gli disse che era solo per un anno, o due, così
da imparare l’inglese, e nonostante la gente della missione le sconsigliasse di
venire a scuola così spesso, insistentemente vi si recava ogni finesettimana
per portarlo a casa. Anikwenwa si toglieva sempre i vestiti prima ancora di
aver lasciato il terreno della missione. Non gli piacevano i pantaloni corti e la
camicia, che lo facevano sudare e la stoffa che faceva prurito sotto le ascelle.
Inoltre non amava essere nella stessa classe con gli anziani, perdendosi
le gare di lotta. Ma l’atteggiamento di Anikwenwa riguardo la scuola si
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modificò gradualmente. Nwamgba se ne accorse per la prima volta quando
alcuni dei ragazzini con cui era solito correre nella piazza del villaggio si
lamentarono del fatto che non facesse più la sua parte, poiché frequentava la
scuola, e Anikwenwa disse loro qualcosa in inglese, un qualcosa dal suono
tagliente, che li fece tacere e riempì Nwamgba di un indulgente orgoglio. Il
suo orgoglio si trasformò presto in una vaga apprensione quando si accorse
che la curiosità nei suoi occhi era diminuita. C’era una nuova serietà in lui,
come se si fosse appena accorto di sorreggere il carico di un mondo pesante.
Fissava le cose troppo a lungo. Smise di mangiare il suo cibo, perché, diceva,
veniva sacrificato agli idoli. Le disse di legare la veste intorno al petto e non ai
fianchi, perché la sua nudità era peccaminosa. Lei lo fissò, divertita dalla sua
franchezza, ma anche preoccupata, e gli chiese come mai avesse notato solo in
quel momento la sua nudità. Quando giunse il momento della sua cerimonia
di iniziazione, disse che non avrebbe partecipato, poiché era un’usanza pagana
l’essere iniziati al mondo degli spiriti, un’usanza alla quale padre Shanahan
aveva detto che avrebbero dovuto porre fine. Nwamgba lo afferrò rudemente
per un orecchio e gli disse che uno straniero albino non aveva il diritto di
decidere quando le loro tradizioni sarebbero cambiate, e che vi avrebbe preso
parte, altrimenti doveva dirle se voleva essere figlio suo o dell’uomo bianco.
Anikwenwa accettò riluttante, ma non appena fu portato via con un gruppo
di altri ragazzi, lei si accorse che gli mancava l’entusiasmo che avevano gli
altri. La sua tristezza la rattristò. Sentì suo figlio scivolarle via e nonostante
tutto era orgogliosa che stesse imparando così tanto, che potesse diventare
un interprete nei tribunali o uno capace di scrivere lettere, che avesse portato
a casa, con l’aiuto di padre Lutz, alcune carte che mostravano che la terra
apparteneva a loro. Il momento di più alto orgoglio fu quando andò dai cugini
del padre, Okafo e Okoye, e chiese indietro la zanna d’avorio che era stata di
suo padre. Ed essi la restituirono.
Nwamgba sapeva che suo figlio ora aveva una mentalità che lei non era in
grado di comprendere. Lui le disse che sarebbe andato a Lagos per studiare
da insegnante, e nonostante urlasse – Come puoi lasciarmi? Chi mi seppellirà
quando morirò? – sapeva che se ne sarebbe andato. Non lo vide più per
molti anni, anni durante i quali Okafo, il cugino del padre, morì. Spesso
consultava l’oracolo per chiedere se Anikwenwa fosse ancora vivo, e dibia la
rimproverava e la mandava via, perché certamente era vivo. Infine, egli tornò,
nell’anno in cui la tribù aveva allontanato tutti i cani, dopo che un cane aveva
ucciso un membro dell’assemblea degli uomini dei Mmangala, la fascia d’età
alla quale Anikwenwa avrebbe dovuto appartenere, se non avesse pensato che
quel genere di cose era demoniaco.
Nwamgba non disse niente quando Anikwenwa annunciò che era stato
scelto come catechista alla nuova missione. Stava affilando la sua aguba sul
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palmo della mano, preparandosi a creare disegni tra i capelli di una ragazzina,
e continuava a fare flick-flick-flick mentre Anikwenwa parlava di conquistare
le anime dei membri della loro tribù. Il piatto di semi dell’albero del pane, che
lei gli aveva offerto, era intonso – non mangiava più nulla preparato da lei – e
lo guardò, quest’uomo, che indossava pantaloni, con un rosario intorno al
collo, e si domandò se avesse interferito col suo destino. Era con questo che
il suo chi aveva deciso di metterlo alla prova, con questa vita nella quale era
come una persona che recitasse scrupolosamente una bizzarra pantomima?
Il giorno in cui le parlò della donna che voleva sposare, non si stupì. Non
lo fece come doveva essere fatto, non s’informò sulla famiglia della sposa,
ma disse semplicemente che qualcuno alla missione aveva visto una giovane
donna adatta appartenente agli Ifite Ukpo, e questa giovane donna adatta
sarebbe stata accompagnata presso le Sorelle del Santo Rosario ad Onicha,
per imparare ad essere una buona moglie cristiana. Nwamgba aveva una crisi
di malaria quel giorno, sdraiata sul suo letto di fango, mentre si strofinava
le articolazioni doloranti, e chiese ad Anikwenwa il nome della giovane
donna. Anikwenwa disse che era Agnes. Nwamgba chiese allora quale fosse
il vero nome della ragazza. Anikwenwa si schiarì la voce e disse che era
chiamata Mgbeke prima di diventare cristiana, e Nwamgba chiese se Mgbeke
avrebbe preso parte alla cerimonia di confessione, anche se Anikwenwa non
avrebbe osservato gli altri riti matrimoniali della loro tribù. Lui scosse la
testa furiosamente e le disse che la confessione fatta dalle donne prima del
matrimonio, nella quale, circondate da donne della famiglia, giuravano che
nessun uomo le aveva toccate da quando il futuro marito aveva dichiarato il
suo interesse, era peccaminosa, perché le mogli cristiane non dovevano essere
state toccate per nulla.
La cerimonia in chiesa fu buffissima, ma Nwamgba la sopportò
silenziosamente, e si disse a che sarebbe morta presto e si sarebbe ricongiunta
con Obierika e si sarebbe liberata di un mondo che aveva sempre meno senso.
Era determinata a non farsi piacere la moglie del figlio, ma era difficile non farsi
piacere Mgbeke, dalla pelle chiara, gentile, ansiosa di compiacere l’uomo con
cui era sposata, ansiosa di compiacere tutti, facile al pianto, come se si dovesse
scusare per cose che non poteva controllare. E così, invece, la compativa.
Mgbeke visitava spesso Nwamgba in lacrime, dicendo che Anikwenwa si
rifiutava di mangiare a cena, perché ce l’aveva con lei, che Anikwenwa le aveva
proibito di andare al matrimonio Anglicano di un’amica, perché gli Anglicani
non predicavano la verità; e Nwamgba incideva silenziosamente disegni sui
suoi vasi, mentre Mgbeke piangeva, incerta su come trattare una donna che
piangeva per cose che non meritano lacrime. Mgbeke era soprannominata
“missus” da tutti, anche dai non-Cristiani, che la rispettavano in quanto
moglie del catechista. Ma il giorno in cui si recò alla sorgente Oyi e rifiutò
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di togliersi i vestiti, perché era Cristiana, le donne della tribù, oltraggiate
per il fatto che aveva osato mancare di rispetto alla divinità, la picchiarono
e la abbandonarono nel boschetto. La notizia si diffuse velocemente. Missus
era stata maltrattata. Anikwenwa minacciò di rinchiudere gli anziani, se sua
moglie fosse stata trattata ancora in quel modo; ma Padre O’Donnell, nel suo
viaggio successivo dalla stazione di Onicha, fece visita agli anziani e chiese
scusa a nome di Mgbeke, e chiese se le donne Cristiane, da quel momento
in poi, avrebbero potuto immergersi in acqua completamente vestite. Gli
anziani rifiutarono – se una donna voleva l’acqua di Oyi, doveva seguire le
regole di Oyi – ma furono gentili con Padre O’Donnell, che li ascoltò e non si
comportò come il loro figlio Anikwenwa.
Nwamgba era disgustata da suo figlio, irritata con la nuora, sdegnata dalla
loro vita di supposta superiorità, nella quale trattavano i non-Cristiani come
se avessero il vaiolo, ma sperava ancora in un nipotino, pregava e faceva
sacrifici perché Mgbeke avesse un maschio, perché sapeva che il bambino
sarebbe stato il ritorno di Obierika e avrebbe portato di nuovo una parvenza
di senso nel suo mondo. Non sapeva nulla né del primo né del secondo
aborto di Mgbeke; fu solo dopo il terzo che Mgbeke, tirando su col naso e
soffiandoselo, glielo disse. Dovevano consultare l’oracolo, dato che era una
disgrazia della famiglia, disse Nwamgba, ma Mgbeke sgranò gli occhi per la
paura. Michael si sarebbe molto arrabbiato se avesse anche solo sentito questo
suggerimento. Nwamgba, che trovava ancora difficile ricordare che Michael
era Anikwenwa, andò ella stessa dall’oracolo, e dopo pensò che fosse bizzarro
che anche gli dei fossero cambiati e non chiedessero più vino di palma, ma
gin. Si erano per caso convertiti anch’essi?
Qualche mese dopo, Mgbeke andò a farle visita, sorridendo, portando
una ciotola coperta con uno di quegli intrugli che Nwamgba trovava
immangiabili, ed ella seppe che il suo chi era vivo e vegeto, e che sua nuora
era incinta. Anikwenwa aveva decretato che Mgbeke avrebbe avuto il
bambino alla missione di Onicha, ma gli dei avevano progetti diversi, e le
vennero le doglie un pomeriggio piovoso; qualcuno corse alla capanna di
Nwamgba nella pioggia scrosciante, per chiamarla. Era un maschio. Padre
O’Donnell lo battezzò Peter, ma Nwamgba lo chiamava Nnamdi, perché
sarebbe stato Obierika, tornato in vita. Cantava per lui, e quando il bimbo
piangeva gli spingeva il capezzolo secco in bocca, ma, per quanto si sforzasse,
non percepiva lo spirito del suo straordinario marito, Obierika. Mgbeke ebbe
altri tre aborti, e Nwamgba si recò numerose volte presso l’oracolo, finché non
portò a temine una gravidanza e, nella missione, nacque il secondo bambino.
Una femmina. Dal momento in cui Nwamgba la tenne in braccio, gli occhi
luminosi della bambina, con sua delizia, fissi su di lei, seppe che lo spirito di
Obierika era finalmente tornato; strano che fosse tornato in una femmina, ma
L A S T OR IC A C O C C I U TA
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chi poteva prevedere le vie degli antenati? Padre O’Donnell la battezzò Grace,
ma Nwambga la chiamava Afamefuna-“il mio nome non sarà perduto” – ed
era entusiasta del solenne interesse della bambina nella sua poesia e nelle
sue storie, della viva attenzione dell’adolescente nell’osservare Nwamgba
che arrancava nel costruire vasi, con le mani che tremavano sempre più.
Nwamgba non era, però, entusiasta che Afamefuna dovesse essere mandata
via, alla scuola superiore di Onicha. (Peter viveva già lì con i preti.) Temeva
che, a scuola, le nuove usanze avrebbero dissolto lo spirito guerriero della
nipote e l’avrebbero rimpiazzato con un’apatica rigidità, come era avvenuto a
suo figlio, o con una fiacca incapacità, come era avvenuto a Mgbeke.
L’anno in cui Afamefuna partì per la scuola superiore, Nwamgba si sentì
come se una luce fosse stata spenta in una stanza oscura. Fu un anno strano, un
anno in cui l’oscurità calò improvvisamente sulla terra a metà del pomeriggio,
e quando Nwamgba avvertì un dolore profondo alle giunture, seppe che la sua
fine era vicina. Si stese sul letto annaspando, mentre Anikwenwa la supplicava
di accettare il battesimo e l’olio santo così che potesse celebrare per lei un
funerale cristiano, dato che non poteva partecipare ad una cerimonia pagana,
lui. Nwamgba rispose che avrebbe schiaffeggiato, con tutta la forza che le
rimaneva in corpo, chiunque egli avesse osato portarle per cospargerla con
un sudicio unguento. Tutto ciò che desiderava prima di riunirsi agli antenati
era vedere Afamefuna, ma Anikwenwa disse che Grace era impegnata con gli
esami a scuola e non poteva tornare a casa. Ma venne. Nwamgba udì il cigolio
della porta, ed ecco Afamefuna, sua nipote, che era venuta da sé da Onicha,
perché non riusciva a dormire da giorni; lo spirito inquieto la costringeva
verso casa. Grace appoggiò la cartella, dentro la quale aveva un libro, con un
capitolo intitolato ”La Pacificazione delle Tribù Primitive nella Nigeria del
Sud”, scritto da un amministratore di Bristol, che aveva vissuto presso di loro
per sette anni.
Era Grace che alla fine avrebbe letto di questi selvaggi, stimolata dalle
loro usanze curiose e senza senso, non associandoli a sé stessa, finché la sua
insegnante, sorella Maureen, le disse che non poteva considerare poesia
il “call and response” che sua nonna le aveva tramandato, perchè le tribù
primitive non avevano poesia. Era Grace che avrebbe riso e riso, finché sorella
Maureen la mise in punizione e convocò il padre, che la schiaffeggiò davanti
a tutti gli altri insegnanti, per mostrare loro quanto educasse bene i suoi figli.
Era Grace che avrebbe alimentato un profondo disprezzo per suo padre per
anni, trascorrendo le vacanze a lavorare come cameriera ad Onicha, così da
evitare le bigotterie, le austere certezze dei genitori e del fratello. Era Grace
che, dopo essersi diplomata alla scuola superiore, avrebbe insegnato alla
scuola elementare di Agueke, dove la gente raccontava storie sulla distruzione
del proprio villaggio per mano di uomini bianchi armati, storie alle quali
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
non era sicura di credere, perché si raccontavano anche storie di sirene che
apparivano dal Fiume Niger, con in mano rotoli di banconote fruscianti. Era
Grace che, una tra dodici donne, all’University College di Ibadan nel 1953,
avrebbe cambiato facoltà, da chimica a storia, dopo aver sentito, mentre
beveva tè a casa di amici, la storia di Mr. Gboyega. L’eminente Mr. Gboyega,
un nigeriano color del cioccolato, istruito a Londra, distinto esperto di storia
dell’Impero Britannico, si era dimesso disgustato, quando il Consiglio degli
Esami dell’Africa dell’Ovest iniziò a parlare di aggiungere “Storia Africana”
al curriculum di studi; era stupefatto che la storia africana potesse addirittura
essere considerata una materia. Era Grace che avrebbe riflettuto su questa
storia per lungo tempo, con grande tristezza, e ciò l’avrebbe portata a fare
un chiaro collegamento tra educazione e dignità, tra le rigide, ovvie cose
stampate sui libri e le duttili, sottili che alloggiano nell’anima. Era Grace che
avrebbe cominciato a riconsiderare la sua educazione: con quale passione
aveva cantato durante il Giorno dell’Impero Coloniale “Dio salvi il Re. Lo
conservi vittorioso, felice e glorioso. Possa regnare a lungo su di noi.” Quanto
era rimasta perplessa davanti a parole come “carta da parati” e “denti di
leone” nei suoi libri di testo, incapace di immaginarle. Quanto aveva lottato
con i problemi di aritmetica, che avevano a che fare con le miscele, perché
cos’era “caffè” e cos’era “cicoria”, e perché dovevano essere mescolati? Era
Grace che avrebbe cominciato a riconsiderare l’educazione del padre, per poi
correre a casa per rivederlo, i suoi occhi acquosi per l’età, raccontandogli che
non aveva ricevuto tutte le lettere, che, invece, aveva ignorato, rispondendo
amen a tutte le sue preghiere, premendo le labbra sulla sua fronte. Era Grace
che, un giorno, oltrepassata Agueke, guidando sulla strada per l’università,
sarebbe stata perseguitata dall’immagine di un villaggio distrutto e sarebbe
andata a Londra, Parigi, Onicha, rovistando tra scartoffie ammuffite negli
archivi, rievocando immagini di vite e odori del mondo di sua nonna per
il libro che avrebbe scritto, intitolato: “Pacificazione con pallottole: la vera
storia della Nigeria del Sud”. Era Grace che, in una conversazione riguardo
al libro con il suo fidanzato, George Chikadibia –elegante laureato al King’s
College di Lagos, futuro ingegnere, giacca e cravatta, esperto ballerino da
sala, che spesso diceva che una scuola senza latino era come una tazza di
tè senza zucchero – avrebbe capito che il matrimonio non sarebbe durato
a lungo, quando George le disse che era fuorviante da parte sua scrivere
riguardo culture primitive invece di un argomento che avesse valore, come
“Alleanze africane durante la Guerra Fredda”. Avrebbero divorziato nel 1972,
non a causa dei quattro aborti che Grace aveva subito, ma perché una notte si
svegliò sudata e si rese conto che avrebbe strangolato George, se avesse dovuto
ascoltare un altro estatico monologo riguardo i suoi giorni a Cambridge. Era
Grace che, mentre riceveva riconoscimenti universitari, mentre parlava a
L A S T OR IC A C O C C I U TA
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gente dal volto solenne a conferenze riguardo i popoli della Nigeria del Sud:
Ijaw e Ibibio e Igbo e Efik, mentre scriveva rapporti pieni di buon senso per
organizzazioni internazionali, per i quali non avrebbe comunque ricevuto
un generoso pagamento, avrebbe immaginato sua nonna che la guardava,
molto divertita. Era Grace che, provando, negli ultimi anni della sua vita,
un bizzarro senso di sradicamento, circondata dai suoi premi, dai suoi amici,
dal suo giardino di rose senza uguali, sarebbe andata al tribunale di Lagos e
avrebbe ufficialmente cambiato il suo nome da Grace ad Afamefuna.
Ma quel giorno, sedendo accanto al letto della nonna, sul morire della
sera, Grace non pensava al suo futuro. Teneva semplicemente la mano della
nonna, il palmo ispessito dagli anni trascorsi a modellare vasi.
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Tu in America a cura del Liceo “S. Carlo” di Modena
| workshop di traduzione
Credevi che tutti in America avessero una macchina e una pistola.
Lo credevano anche i tuoi zii, le tue zie e i tuoi cugini. Subito dopo aver
vinto il visto americano ti hanno detto, entro un mese potrai avere una bella
macchina, presto una casa grande ma non comprarti un’arma come fanno
certi americani. Sono arrivati in massa nella baraccopoli di Lagos, e poiché
non c’erano sedie a sufficienza sono rimasti appoggiati alle pareti di zinco
tempestate di chiodi; sono venuti per salutarti a gran voce e poi per sussurrarti
cosa volevano che spedissi loro. Paragonati alla grande auto e alla casa (ed
eventualmente alla pistola) le cose che volevano erano di minor valore: borse,
scarpe, integratori vitaminici. Hai detto ok, nessun problema. Tuo zio in
America ti ha detto che potevi vivere con lui finché non te la saresti cavata da
sola. Ti è venuto a prendere all’aeroporto e ti ha comprato un grosso hot dog
con una nauseante salsa gialla. Ti presento l’America, ha detto con una risata.
Viveva in una piccola città di bianchi nel Maine, in una casa affacciata sul
lago, costruita trent’anni prima. Ti ha raccontato che la ditta per cui lavorava
gli aveva offerto qualche azione in più perché stava disperatamente cercando
di apparire diversa. Lo aveva incluso in ogni brochure, anche in quelle che
non avevano niente a che fare con l’ingegneria. Lui, sorridendo, ti ha detto
che il lavoro era buono, e che valeva la pena vivere in una cittadina abitata
completamente da bianchi, anche se sua moglie doveva guidare per un’ora
per trovare un salone che le acconciasse i capelli secondo lo stile africano.
TU IN A MERICA
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Il segreto era capire l’America, imparare che l’America significa dare e ricevere.
Si rinuncia a molto ma si può ottenere ugualmente tanto. Ti ha mostrato come
fare domanda per un posto di cassiera al distributore di benzina sulla Main
Street e ti ha iscritto al centro universitario dove le ragazze erano incuriosite
dai tuoi capelli. Stanno su o cadono quando ti sciogli le trecce? Rimangono
dritti tutti quanti? Come? Perché? Usi il pettine? Mostravi un sorriso forzato,
quando ti facevano queste domande. Lo zio diceva che c’era da aspettarselo;
un misto di ignoranza e arroganza, lo definiva. Ha aggiunto anche che, alcuni
mesi dopo avere traslocato, tra i vicini girava voce che gli scoiattoli stessero
iniziando a scomparire; infatti avevano sentito dire che gli africani si cibavano
di tutti i tipi di animali selvatici. Vi siete fatti una risata e ti sentivi a tuo agio
con lui, come se fossi a casa tua, sua moglie ti chiamava nwanne, sorella,
e per i suoi due figli, che andavano a scuola, eri la zia. Parlavano Igbo e a
pranzo mangiavano garri, ed era proprio come essere a casa. Fino a quando
tuo zio è piombato nell’angusto seminterrato dove dormivi, in mezzo a vecchi
bauli, ruote e libri, ha afferrato il tuo seno come se stesse raccogliendo dei
mango, gemendo. Non era veramente tuo zio, ma un lontano cugino del
marito di tua zia, non c’erano legami di sangue. Mentre preparavi le valigie,
quella sera, si è messo seduto sul letto – era casa sua dopotutto – e ridendo ti
ha detto che non avevi nessun posto dove andare. Se lo avessi lasciato fare,
avrebbe fatto molto per te. Era quello che facevano da sempre le donne più
scaltre. Come pensavi ce l’avessero fatte tutte quelle donne tornate a Lagos
con un lavoro ben pagato? E anche quelle a New York? Così ti sei rinchiusa
in bagno e la mattina seguente sei partita, percorrendo a piedi la lunga
strada battuta dal vento, annusando l’odore di pesci proveniente dal lago.
Lo hai visto passare in auto lungo la Main Street, dove era solito lasciarti,
ma questa volta non ha suonato il clacson. Ti sei chiesta cosa avrebbe detto
a sua moglie, come avrebbe giustificato la tua partenza. Ti sei poi ricordata
di quanto ti aveva detto: l’America era un continuo dare e prendere. Ti sei
ritrovata in Connectictut, in un’altra piccola città, solo perché era l’ultima
fermata dell’autobus, sul quale eri salita. Il Bonanza era quello meno costoso.
Sei entrata in un ristorante lì vicino dicendo che avresti lavorato per due
dollari in meno rispetto alle altre cameriere. Il proprietario, Juan, aveva i
capelli neri come la pece, e un dente d’oro che appariva dal suo sorriso. Ti ha
detto di non avere mai assunto nessun nigeriano prima, ma che comunque
tutti gli immigrati lavorano sodo. Ne sapeva qualcosa anche lui. Ti avrebbe
dato un dollaro in meno, ma in nero. Aveva già abbastanza tasse da pagare.
Non potevi permetterti di andare a scuola dovendo pagare l’affitto
della minuscola stanza con il tappeto macchiato. Inoltre la cittadina del
Connecticut non aveva un community college e frequentare l’università
statale costava troppo. Quindi ti sei recata nella biblioteca locale, e dopo
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
avere esaminato i piani di studio sul sito web della scuola, ti sei letta un po’
dei libri indicati. A volte restavi seduta sul materasso informe pensando a casa
tua. Ai tuoi genitori, ai tuoi zii e zie, ai cugini, a i tuoi amici. Alla gente che
non aveva mai tratto profitto vendendo manghi e akara, le cui case – lastre di
zinco tenute insieme precariamente da dei chiodi – crollavano nella stagione
delle piogge; pensavi a coloro che erano venuti per salutarti, per gioire della
tua vincita del visto americano e per confessarti la loro invidia. A quelli che
mandavano i propri figli alla scuola superiore dove gli insegnanti davano un
bel voto quando vedevano scivolare delle buste marroni tra le proprie mani.
Non hai mai avuto bisogno di pagare per avere bei voti, né hai mai allungato
bustarelle a nessun insegnante delle superiori. Però ne hai scelte grandi e
marroni per mandare ai tuoi genitori metà del tuo stipendio. La mazzetta di
banconote che ti dava Juan era più sottile di quella delle mance. Ogni mese
così. Non hai mai scritto una lettera. Non c’era nulla da scrivere. Tuttavia le
prime settimane avresti voluto farlo, perché avevi molte cose da dire.
Avresti voluto scrivere di quanto fossero sorprendentemente aperti gli
americani, di come ti raccontavano con entusiasmo come le loro madri stavano
combattendo il cancro, del bimbo prematuro della cognata, – faccende private
da nascondere, da rivelare solo ai propri cari. Avresti voluto scrivere di come
le persone lasciavano così tanto cibo nei loro piatti e accartocciavano qualche
dollaro di mancia, come se fosse un’offerta, un’espiazione per il cibo sprecato;
o della bambina che aveva cominciato a piangere e a tirarsi i capelli biondi
e dei genitori che, invece di farla stare zitta, l’assecondavano per poi alzarsi
e andarsene tutti insieme. Avresti voluto scrivere che non tutti in America
possedevano grandi case o auto anche se sulle armi non eri ben sicura perché
avrebbero potuto tenerle dentro le borse e in tasca. Non era solo ai tuoi
genitori che avresti voluto scrivere, ma anche agli amici, cugini, zii e zie. Ma
non ti saresti mai potuta permettere l’acquisto di borse, scarpe, integratori
vitaminici e contemporaneamente pagare l’affitto, per questo non hai scritto a
nessuno. Non si sapeva dove fossi perché non l’avevi detto a nessuno. Qualche
volta ti sentivi invisibile e provavi ad attraversare la parete della stanza per
andare nell’ingresso, ma quando sbattevi contro il muro ti venivano dei
lividi sulle braccia. Una volta Juan ti ha chiesto se avevi un fidanzato che ti
picchiava, dicendoti che se ne sarebbe occupato lui, e tu hai risposto con una
risata misteriosa. Di notte avvertivi qualcosa che ti si avvolgeva intorno al
collo, e avevi quasi sempre la sensazione che ti soffocasse prima di svegliarti.
Alcuni pensavano che tu venissi dalla Giamaica, perché ritenevano che
ogni persona di colore con un accento diverso fosse giamaicana. Quelli che
intuivano che eri africana ti chiedevano se conoscevi questo o quello del
Kenia o dello Zimbabwe, immaginandosi che l’Africa fosse un paese dove
tutti si conoscono. Per questo quando nell’oscurità dei ristorante, dopo
TU IN A MERICA
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avergli elencato le specialità del giorno, lui ti ha chiesto da quale paese
africano provenissi, e hai detto Nigeria, ti aspettavi ti chiedesse se conoscevi
quell’amico che aveva incontrato nei Corpi di Pace in Senegal o Botswana.
Invece lui ti ha chiesto se eri Yoruba o Igbo, perché non avevi un viso da
Fulani. Sei rimasta sorpresa – hai pensato dovesse essere un professore di
antropologia, un po’ giovane ma chi poteva dirlo? – Igbo, hai detto. Ha chiesto
qual’era il tuo nome e ha detto che Akunna era carino. Non ti ha domandato
cosa significasse, per fortuna, perché non ce la facevi più di sentirti dire
Ricchezza del Padre? Intendi, tipo che tuo padre ti venderà veramente a un
marito? Era stato in Ghana, Kenia e Tanzania, aveva letto di tutti gli altri
paesi africani, delle loro storie, delle loro complessità. Volevi sentirti sdegnata
e mostrarti tale mentre gli portavi il suo cibo, perché comunque i bianchi, sia
che a loro piacesse o meno l’Africa, mostravano sempre accondiscendenza.
Lui, però, non si è comportato come se ne sapesse troppo, non ha scosso
la testa con aria saccente come aveva fatto una volta un professore a scuola
parlando dell’Angola, non ha mostrato di essere accondiscendente. E’ tornato
il giorno dopo e si è seduto allo stesso tavolo e quando gli hai chiesto se il
pollo andava bene, ti ha fatto delle domande su Lagos. E’ riapparso il secondo
giorno e ha parlato così a lungo – chiedendoti spesso se non ritenevi che
Mobutu e Idi Amin fossero simili – che gli hai dovuto dire che era contro le
regole del locale. Ti ha sfiorato la mano quando hai appoggiato il caffè sul
tavolo. Il terzo giorno hai detto a Juan che non volevi più quel tavolo. Finito
il turno, quel giorno, te lo sei trovata fuori che ti aspettava appoggiato a un
palo, e ti ha chiesto di uscire perché il tuo nome faceva rima con hakuna
matata e Il re leone era l’unico film commovente che gli fosse mai piaciuto.
Non sapevi cosa fosse Il re leone. Lo hai guardato e nella luce abbagliante ti
sei resa conto che i suoi occhi avevano il colore dell’olio extra vergine, verde
dorato. L’olio d’oliva era quanto avevi veramente apprezzato dell’America.
Frequentava l’ultimo anno all’università statale. Ti ha detto quanti anni
aveva allora tu gli hai chiesto come mai non si fosse ancora laureato. Dopo
tutto questa era l’America, non era come a casa dove le università chiudevano
così spesso che gli studenti dovevano aggiungere tre anni al loro normale corso
di studio e i professori continuavano, sciopero dopo sciopero, a non essere
pagati. Disse che si era preso una pausa, un paio d’anni dopo le superiori, per
scoprire sé stesso e viaggiare, soprattutto in Africa e in Asia. Gli hai chiesto
in quale luogo avesse finito per scoprirsi e lui si è messo a ridere. Tu non hai
riso. Tu non sapevi che le persone potevano semplicemente scegliere di non
andare a scuola, che potevano decidere della propria vita. Eri abituata ad
accettare tutto ciò che la vita ti dava, annotando quanto la vita dettava. Per
i tre giorni seguenti ti sei rifiutata di uscire con lui, perché pensavi non fosse
giusto, perché ti faceva sentire a disagio come lui ti guardava negli occhi e
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
come tu ridevi così spontaneamente di ciò che diceva. Poi la quarta sera, sei
stata presa dal panico non vendendolo più davanti alla porta, dopo il turno.
Hai pregato per la prima volta dopo tanto tempo e quando è apparso dietro di
te dicendo, ehi, tu hai detto sì, che saresti uscita con lui prima ancora che te
l’avesse chiesto. Avevi paura che non te l’avrebbe chiesto più. Il giorno dopo,
ti ha portato da Chang e il tuo biscotto della fortuna aveva due strisce di
carta. Su entrambe non c’era scritto nulla.
Sapevi di essere a tuo agio quando gli hai detto il vero motivo per cui avevi
chiesto a Juan un altro tavolo – Jeopardy. Quando guardavi Jeopardy alla TV
del ristorante, facevi il tifo per donne di colore, poi donne bianche, uomini
di colore, e alla fine uomini bianchi esattamente secondo quest’ordine, il che
significava che non tifavi mai per gli uomini bianchi. Lui si è messo a ridere
e ti ha detto che non era abituato ad avere qualcuno che facesse il tifo per lui,
sua madre insegnava Women’s Studies. Hai capito anche che eravate diventati
intimi quando gli hai detto che tuo padre in realtà non era un insegnante
a Lagos, bensì un taxista. E gli hai raccontato di quel giorno nel traffico di
Lagos nell’auto di tuo padre, quando stava piovendo e il tuo sedile era bagnato
a causa del buco nella capotta corrosa dalla ruggine. Il traffico era intenso, il
traffico era sempre intenso a Lagos, e quando pioveva era un caos. Le strade
erano così mal drenate che alcune auto potevano finire bloccate in buche
fangose; i tuoi cugini venivano pagati per tirare le auto fuori dal fango. La
pioggia e la strada paludosa – pensavi – avevano fatto sì che tuo padre frenasse
troppo tardi, quel giorno. Avevi udito il botto prima di avvertirlo fisicamente.
L’auto che tuo padre aveva tamponato era grossa, straniera e verde scuro,
con fari gialli simili agli occhi di un gatto. Tuo padre aveva cominciato a
piangere e supplicare ancora prima di essere uscito dall’auto e di prostrarsi
sulla strada, fermando il traffico. Scusi signore, scusi signore, se lei vende me
e tutta la mia famiglia non può comprarsi nemmeno una gomma per la sua
auto, cantilenava. Scusi signore.
L’omone seduto sul sedile posteriore non era uscito, l’aveva fatto il suo
autista; mentre esaminava il danno guardava l’aspetto scomposto di tuo
padre con la coda dell’occhio, e, sebbene la supplica risuonasse come una
litania, si vergognava di ammettere che gli piaceva. Alla fine aveva lasciato
andare tuo padre. Gli aveva fatto segno di allontanarsi. Le altre macchine
strombazzavano e gli automobilisti imprecavano. Una volta rientrato in
macchina, ti sei rifiutata di guardarlo perché sembrava un maiale che
sguazzava nel pantano del mercato. Tuo padre era nsi. Merda. Terminato il
racconto, lui ha stretto le labbra e ha preso la tua mano dicendo di aver capito.
Hai tolto la mano, seccata, perché lui pensava che il mondo fosse o dovesse
essere pieno di gente come lui. Gli hai detto che non c’era niente da capire,
era così e basta. Non mangiava carne perché pensava che fosse sbagliato il
TU IN A MERICA
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modo in cui uccidevano gli animali. Diceva che si rilasciavano pericolose
tossine che rendevano le persone paranoiche.
In Africa, i pezzi di carne che mangiavi, quando ce n’era, erano davvero
sottili, come fiammiferi. Ma questo non glielo hai detto. Non gli hai nemmeno
raccontato che tua madre cucinava tutto con i dawadawa, perché il curry e il
timo erano troppo costosi, e quelli avevano OGM, erano OGM. Ha detto che
gli OGM causavano il cancro e che quella era la ragione per cui gli piaceva
Chang – Chang non cucinava con OGM. Una volta da Chang, ha raccontato
al cameriere che aveva vissuto a Shangai per un anno, che parlava un po’
mandarino. Il cameriere si era sciolto un poco e gli ha detto quale zuppa fosse
la migliore e poi ha chiesto “hai una fidanzata a Shangai?” E lui aveva sorriso
e non aveva detto niente. Ti è passata la fame, lo stomaco serrato. Quella
notte, non hai emesso alcun gemito quando lui era dentro di te, ti sei morsa le
labbra e hai finto di non venire perché sapevi che si sarebbe preoccupato. Alla
fine gli hai detto che eri turbata, che l’uomo cinese aveva dato per scontato
che non potevi ovviamente essere la sua ragazza, e che lui aveva sorriso
senza proferire parola. Prima di scusarsi poi ti ha fissato con perplessità,
chiaro che non aveva capito. Si è messo a comprarti dei regali e quando ti sei
preoccupata per il fatto che fossero costosi, lui ti ha detto di avere un fondo
fiduciario, andava tutto bene. I suoi regali ti disorientavano. Una palla grande
quanto un pugno che agitavi per guardare la neve cadere su una minuscola
casa, o una ballerina di plastica rosa che volteggiava su un piccolo palco.
Una pietra splendente. Una costosa sciarpa ricamata a mano del Messico che
non hai mai potuto indossare a causa del colore. Alla fine gli hai detto che i
regali del Terzo Mondo erano sempre utili. La pietra, ad esempio, avrebbe
funzionato se avessi potuto macinare cose fino a consumarla. Ha riso a lungo
ed intensamente, ma tu non hai riso. Ti sei resa conto che nella sua vita
avrebbe potuto comprare regali che erano soltanto regali e niente altro, niente
di utile. Quando ha cominciato a comprarti scarpe e vestiti e libri, gli hai
chiesto di non farlo, non volevi assolutamente alcun regalo. Comunque non
litigavate. Non del tutto. Discutevate e poi facevate pace e facevate l’amore e
vi accarezzavate i capelli, i suoi, morbidi e biondi come chicchi di granoturco
non ancora maturi, i tuoi, scuri e soffici come l’imbottitura di un cuscino.
Ti sentivi al sicuro tra le sue braccia, la stessa sensazione che provavi dai tuoi,
nella casa di zinco della baraccopoli. Quando prendeva troppo sole, la sua
pelle assumeva il colore di un cocomero maturo, baciavi la sua schiena prima
di massaggiarla dolcemente con la crema. Era più intimo del sesso. Ti sentivi
coinvolta, anche se era un’esperienza solo tua, che non potevate condividere.
Tu ti abbronzavi al sole ma eri troppo scura per bruciarti.
Ha trovato il negozio africano sulla pagine gialle e ti ci ha portato in
macchina. Il proprietario, originario del Ghana, gli ha chiesto se era africano,
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L O S T I N T R A N S L AT ION S
pensando ai kenioti o ai sudafricani bianchi e lui ha riso dicendo di sì, ma
che era in America da molto e che gli mancava il cibo della sua infanzia.
Hai cucinato per lui; gli è piaciuto il riso ma dopo avere mangiato garri e
onugbu ha vomitato nel tuo lavandino. Non ci hai dato importanza, perché
ora avresti potuto cucinare la zuppa onugbu con la carne. Quella cosa che ti
avvolgeva il collo, che quasi ti soffocava prima di addormentarti, cominciava
ad allentarsi, ad andarsene. Capivi dalla reazione della gente che non eravate
considerati normali – il modo in cui le persone eccedevano nelle loro qualità,
si trattasse di cattiveria o di gentilezza. Le donne bianche, già di una certa
età, che mormoravano e lo fissavano, gli uomini neri che scuotevano la testa
vedendoti, le donne nere i cui sguardi compassionevoli lamentavano la tua
mancanza di autostima, il disgusto di te stessa. Oppure le donne nere che
sorridevano in modo impercettibile, sorrisi di segreta solidarietà, gli uomini
neri che tentavano a fatica di perdonarti, salutandolo con un “ciao” troppo
scontato, le donne bianche che dicevano troppo vivacemente, troppo ad
alta voce “che bella coppia” come se volessero dimostrare a sé stesse la loro
tolleranza. Non glielo hai detto ma desideravi avere la pelle più chiara così
che gli altri non vi avrebbero sempre scrutati dall’alto al basso. Pensavi a tua
sorella che era a casa, alla sua pelle colore del miele, e desideravi essere nata
come lei. L’hai desiderato la sera in cui hai incontrato i suoi genitori per la
prima volta. Ma non gliel’hai detto perché lui ti è sembrato serio e ti avrebbe
tenuto la mano dicendoti che era il colore della pelle scura che per prima cosa
lo aveva attratto. Non volevi che ti tenesse la mano e che dicesse di capire
perché ancora una volta non c’era nulla da capire, era semplicemente così che
stavano le cose.
Desideravi avere la pelle chiara, sufficientemente chiara da essere
scambiata per una portoricana, abbastanza chiara, perché nella luce soffusa
del ristorante indiano dove condividevate samosas con i suoi genitori da un
vassoio posto al centro del tavolo, tu potessi sembrare quasi come loro. Sua
madre ti ha detto che adorava le tue treccine e ti ha chiesto se i fermagli che le
tenevano strette erano di vera conchiglia di ciprea e ti ha chiesto anche quali
scrittrici ti piaceva leggere. Suo padre ti ha chiesto se se c’erano differenze
tra il cibo indiano e quello nigeriano e ti ha preso in giro quando hai detto di
volere pagare, una volta arrivato il conto. Li hai guardati e ti sei sentita loro
grata per non averti esaminato come un trofeo esotico, una zanna d’avorio.
Sua madre ti ha detto che era la prima volta che il figlio presentava loro una
sua ragazza, tranne per il ballo studentesco del liceo, mentre lui ha sorriso
in modo teso e stringendoti la mano. La tovaglia proteggeva le vostre mani
avvinghiate. Ti stringeva la mano e tu facevi altrettanto rispondendo alla sua
stretta e ti sei domandata il perché della sua rigidità, perché i suoi occhi verdi
oliva diventavano più scuri mentre parlava con i suoi genitori. Ti ha confessato
TU IN A MERICA
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i loro problemi dopo, come i suoi razionavano l’amore, tagliandolo a fette
come si fa con una torta di compleanno, e come lui si sarebbe meritato la fetta
più grossa se avesse frequentato la facoltà di legge. Volevi cercare di capirlo,
ma riuscivi solo ad essere arrabbiata. Eri ancora più arrabbiata quando ti ha
detto che si era rifiutato di andare con loro in Canada per una settimana, o
due, nel loro cottage estivo nelle campagne del Quebec. Gli avevano persino
chiesto di portarti. Ti ha mostrato delle foto e ti sei domandata perché lo
definivano cottage quando edifici così grandi, a casa tua, erano solo banche e
chiese. Ti è scivolato un bicchiere, frantumato sul pavimento di casa sua, lui
ti ha chiesto cosa c’era che non andava e tu non hai risposto, sebbene pensassi
che ci fosse molto che non andasse. I vostri mondi non funzionavano. Dopo,
sotto la doccia, hai iniziato a piangere, fissando l’acqua diluire le tue lacrime,
e non sapevi perché piangevi. Alla fine hai scritto a casa, quando la cosa
che ti avvinghiava il collo se n’era quasi completamente andata. Una lettera
breve ai tuoi genitori, fratelli e sorelle, fatta scivolare tra le poche banconote,
assieme al tuo indirizzo. Ti è arrivata una risposta solo alcuni giorni dopo,
con un corriere. Tua madre aveva scritto la lettera di suo pugno, l’hai capito
dal suo modo di scrivere filiforme, simile alla tela di un ragno e dagli errori
di ortografia.
Tuo padre era morto, accasciato sul volante del suo taxi. Cinque mesi
ormai, aveva scritto. Avevano usato parte del denaro che avevi mandato per
organizzare un funerale decente. Avevano ammazzato una capra per gli invitati
e l’avevano seppellito in una vera bara, non in una di quelle fatte di assi di
legno. Ti sei messa a letto, in posizione fetale, premendo le ginocchia contro
il petto, piangendo. Lui ti ha tenuto stretta mentre piangevi, accarezzandoti
i capelli, e ti ha detto che era disposto a venire con te, a casa tua, in Nigeria.
Hai risposto di no, avevi bisogno di andare da sola. Ti ha chiesto se saresti
tornata e tu gli hai ricordato che avevi una green card e che avresti perso ogni
diritto se non fossi tornata entro un anno. Lui ti ha chiesto se sapevi cosa
significava, saresti tornata, tornata da lui? Ti sei girata dall’altra parte e non
hai detto nulla e quando ti ha accompagnata all’aeroporto, lo hai abbracciato
con forza, aggrappandoti ai muscoli delle sua schiena fino a farti dolere le
costole. E gli hai detto grazie.
112
Il pensiero degli studenti
a cura del Liceo “Ariosto-Spallanzani”
| conclusione
Valentina Barbieri
Siamo naufragati in una terra arida
che parla un inglese post coloniale
e giovane. Tradurre smorza
l’orgoglio, crea un ponte tra l’Io e
l’Altro. Trans-ducere l’essenza di
un racconto è una scelta generosa,
di cura verso una materia che non
ci appartiene tradizionalmente.
Ci siamo spogliati dei nostri
costumi europei per calarci nei
panni di realtà sconosciute,
strane e divertenti abitudini,
mentalità diverse. E’ la diversità
di espressioni e di culture che
rende il naufragio della traduzione
un’esperienza entusiasmante.
Ricordo ore passate vivacemente
in gruppo nel tentativo di cogliere
ogni sfumatura espressiva di un
linguaggio inusuale, tutti noi
amorevolmente attenti a rispettare
anche la minima pausa del testo
per non arrecare torto all’autrice
o peggio alla cultura che le parole
rappresentano. Ci siamo regalati
attenzione, ognuno pronto ad
ascoltare l’idea dell’altro, tutti
uniti in questo viaggio da un
continente all’altro.L’amore per la
lingua e l’indiscussa curiosità di
interpretazione ha accompagnato
questo nostro naufragio oltre mare.
—
Ginevra Pizzarelli
Come in un gioco delle parti se
l’autore è un regista che finisce per
mettere in scena sè stesso e il suo
mondo, il traduttore è colui che
si assume il compito di portare la
113
maschera. Tradurre è cercare di
trasportare il bagaglio di un altro
senza appesantirlo, adattando il
proprio passo a quello dell’autore.
Prendo in prestito una definizione
di Fruttero e Lucentini, “il
traduttore è l’ultimo cavaliere
errante della letteratura”:
cavaliere, perchè come più alto dei
subalterni deve possedere le doti e
le virtù del nobile signore; errante,
perchè si spinge in mondi non suoi,
nel costante desiderio di esplorarli
e conoscerli.
—
Ambra D’Antone
C’è un che di privato nell’atto
della traduzione, l’idea piacevole
e surreale di un tète à tète con
individui distanti, eroi della
carta stampata. E nonostante
il traduttore in erba sappia che
probabilmente quelle persone
conserveranno per sempre un
segreto inviolabile, la possibilità di
buttare l’occhio nel loro universo
è un privilegio a cui non rinuncerà
per nulla al mondo.
—
Elvira Tuso
Tanti sono stati gli aspetti
positivi emersi da questi meeting
di traduzione: innanzitutto
il coinvolgimento attivo degli
studenti nell’attività svolta,
differentemente da quanto spesso
accade nei corsi pomeridiani
organizzati dalla scuola; la novità
della proposta, che ci ha permesso
l’avvicinamento ad una letteratura
e più in generale culture,
quelle coloniali, solitamente
non affrontate nell’ambito dei
consueti programmi di studio; una
maggiore consapevolezza critica
nell’analizzare un testo inglese;
infine la piacevole scoperta delle
nostre potenzialità nell’ambito
del lavoro di gruppo. Tutto ciò
ha contribuito a rendere questi
incontri dei momenti di elevato
valore formativo ed al contempo
una parentesi molto stimolante
nel nostro percorso scolastico.
Alla luce del bilancio favorevole
dell’esperienza, speriamo quindi
che la scuola dia in futuro anche
ad altri studenti la possibilità di
parteciparvi.
114
Traduttori
| conclusione
Liceo Classico Scientifico “Corso” di Correggio
Annovi Sara
Artioli Carlotta
Bagni Arianna
Barbieri Laura
Barbieri Lisa
Bigi Cecilia
Cattini Alessandro
Colarusso Caterina
Foroni Matteo
Lancellotti Ettore
Malavasi Vittoria
Manicardi Linda
Marzi Andrea
Montanari Nicolò
Muzzioli Ludovica
Onyegesi Obinna
Paterlini Vera
Pergreffi Laura
Pinotti Laura
Pirondini Viviana
Spaggiari Francesca
—
Liceo Classico Scientifico “Ariosto-Spallanzani”
di Reggio Emilia
Amouzou Michela
Barbieri Valentina
Baricchi Riccardo
Bassi Giovanni
Beltrami Denis
Bertani Davide
Boccazzi Flavio
Bolino Roberta
Bonacini Beatrice
Borciani Giorgia
Campalani Chiara
Carloni Maria Francesca
Catellani Francesca
Cilloni Lucia
Cingi Anna
Cocconi Lavinia
Curti Matteo
D’Antone Ambra
De Nardis Stefano
Delmonte Ilaria
Di Ganci Valentina
Elisi Gianmarco
Gambetti Bervini Gloria
Ghini Francesca
Ghirri Anna
Grassi Lucia
Guidetti Giulia
Guttilla Valeria
Imovilli Gloria
115
Incerti Francesca
Iotti Giulia
Kornecka Amanda
Lavagna Francesca
Lucchetti Cristiana
Manganelli Cecilia
Marchi Elena
Marmiroli Lucia
Masini Gianluca
Melli Niccolò
Montecchi Rita
Mora Alba
Nasi Francesca
Palazzi Chiara
Panichi Silvia
Pedroni Vittoria
Pizzarelli Ginevra
Poli Greta
Re Marina
Rizzo Elena
Rodomonti Francesca
Rovali Alessandro
Sgarbi Beatrice
Sgarbossa Mattia
Stanzani Davide
Tacchini Francesco
Tacchini Marco
Tonelli Chiara
Tuso Elvira
Verzelloni Chiara
Vitali Anna
Zadro Alessandro
Zani Alice
Zanichelli Riccardo
Zanni Maddalena
—
Boccolari Beatrice
Bonaccini Maria Vittoria
Caruso Fabrizio
Caselli Carlotta
Cavalli Martina
Cipolli Federica
De Tomaso Francesca
Fregni Fabiana
Garello Elisabetta
Gazzotti Sara
Gennari Francesca
Ghelfi Zoboli Laura
Gottardi Sara
Gradellini Vittorio
Grossi Valentina
Guicciardi Eleonora
Koulouriotis Dimitrios
Lafiosca Marta
Leonardi Chiara
Mantovani Irene
Marighella Stefano
Martinelli Arianna
Martinelli Federica
Palma Francesco
Pieragostini Francesca
Ripollino Roberta
Rosi Benedetta
Salami Francesca
Sanna Cristina
Sargenti Martina
Settanini Ilaria
Tarantini Arianna
Uccellari Daniele
Vandelli Maria Vittoria
Zanasi Maria Francesca
—
Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Crema
Bonetti Simone
Cerioli Matteo
Conca Francesca
Delfanti Tecla
Donati Fogliazza Edoardo
Donzelli Chiara
Macchia Simone
Negri Anna
Salomoni Vittoria
Santarsiero Gianvito
Tarenzi Laura
—
Docenti referenti del progetto
Bartoli Donatella
Boiardi Manuela
Calace Roberta
Crisafi Rossella
Grisendi Elisabetta
Lavagno Attilia
Manzini Patrizia
Morselli Stefano
Pedrazzini Anna Maria
Rustichelli Letizia
Sartori Elisabetta
Simonazzi Maria Elena
Storchi Simona
Valcavi Monica
Vallisneri Elisabetta
Liceo Classico “San Carlo” di Modena
Benincasa Elena
Bianchini Giulia
Bisi Martini
116
Appendice
| conclusione
A private experience
Chika climbs in through the store window
first and then holds the shutter as the
woman climbs in after her. The store looks
as if it was deserted long before the riots
started; the empty rows of wooden shelves
are covered in yellow dust, as are the metal
containers stacked in a corner. The store is
small, smaller than Chika’s walk-in closet
back home. The woman climbs in and the
window shutters squeak as Chika lets go
of them. Chika’s hands are trembling, her
calves burning after the unsteady run from
the market in her high-heeled sandals. She
wants to thank the woman, for stopping
her as she dashed past, for saying “No run
that way!” and for leading her, instead, to
this empty store where they could hide. But
before she can say thank you, the woman
says, reaching out to touch her bare neck,
“My necklace lost when I’m running.”
“I dropped everything,” Chika says. “I was
buying oranges and I dropped the oranges
and my handbag.” She does not add that the
handbag was a Burberry, an original one
that her mother had bought on a recent trip
to London. The woman sighs and Chika
imagines that she is thinking of her
necklace, probably plastic beads threaded on
a piece of string. Even without the woman’s
strong Hausa accent, Chika can tell she is
a Northerner, from the narrowness of her
face, the unfamiliar rise of her cheekbones;
and that she is Muslim, because of the scarf.
It hangs around the woman’s neck now, but
it was probably wound loosely round her face
before, covering her ears. A long, flimsy pink
and black scarf, with the garish prettiness of
cheap things. Chika wonders if the woman
is looking at her as well, if the woman can
tell, from her light complexion and the silver
finger rosary her mother insists she wear,
that she is Igbo and Christian. Later, Chika
will learn that, as she and the woman are
speaking, Hausa Muslims are hacking down
Igbo Christians with machetes, clubbing
them with stones. But now she says, “Thank
you for calling me. Everything happened so
fast and everybody ran and I was suddenly
alone and I didn’t know what I was doing.
Thank you.”
“This place safe,” the woman says, in a
voice that is so soft it sounds like a whisper.
“Them not going to small-small shop, only
big-big shop and market.”
APPENDICE
“Yes,” Chika says. But she has no reason
to agree or disagree, she knows nothing
about riots: the closest she has come is
the prodemocracy rally at the university
a few weeks ago, where she had held a
bright-green branch and joined in chanting
“The military must go! Abacha must go!
Democracy now!” Besides, she would
not even have participated in that rally if
her sister Nnedi had not been one of the
organisers who had gone from hostel to
hostel to hand out fliers and talk to students
about the importance of “having our voices
heard.”
Chika’s hands are still trembling. Just half
an hour ago, she was in the market with
Nnedi. She was buying oranges and Nnedi
had walked farther down to buy groundnuts
and then there was shouting in English, in
pidgin, in Hausa, in Igbo. “Riot! Trouble
is coming, oh! They have killed a man!”
Then people around her were running,
pushing against one another, overturning
wheelbarrows full of yams, leaving behind
bruised vegetables they had just bargained
hard for. Chika smelled the sweat and fear
and she ran, too, across wide streets, into
this narrow one, which she feared – felt –
was dangerous, until she saw the woman.
She and the woman stand silently in the
store for a while, looking out of the window
they have just climbed through, its squeaky
wooden shutters swinging in the air.
The street is quiet at first, and then they
hear the sound of running feet. They both
move away from the window, instinctively,
although Chika can still see a man and a
woman walking past, the woman holding
her wrapper up above her knees, a baby tied
to her back. The man is speaking swiftly in
Igbo and all Chika hears is “She may have
run to Uncle’s house.”
“Close window,” the woman says.
Chika shuts the windows and without the
air from the street flowing in, the dust in
the room is suddenly so thick she can see it,
billowing above her. The room is stuffy and
smells nothing like the streets outside, which
smell like the kind of sky-coloured smoke
that wafts around during Christmas when
people throw goat carcasses into fires to
burn the hair off the skin. The streets where
she ran blindly, not sure in which direction
Nnedi had run, not sure if the man running
beside her was a friend or an enemy, not sure
117
if she should stop and pick up one of the
bewildered-looking children separated from
their mothers in the rush, not even sure who
was who or who was killing whom.
Later she will see the hulks of burned cars,
jagged holes in place of their windows
and windshields, and she will imagine the
burning cars dotting the city like picnic
bonfires, silent witnesses to so much.
She will find out it had all started at the
motor park, when a man drove over a copy
of the Holy Koran that had been dropped
on the roadside, a man who happened to be
Igbo and Christian. The men nearby, men
who sat around all day playing draughts,
men who happened to be Muslim, pulled
him out of his pickup truck, cut his head
off with one flash of a machete, and carried
it to the market, asking others to join in;
the infidel had desecrated the Holy Book.
Chika will imagine the man’s head, his skin
ashen in death, and she will throw up and
retch until her stomach is sore. But now, she
asks the woman, “Can you still smell the
smoke?”
“Yes,” the woman says. She unties her green
wrapper and spreads it on the dusty floor.
She has on only a blouse and a shimmery
black slip torn at the seams. “Come and sit.”
Chika looks at the threadbare wrapper on
the floor; it is probably one of the two the
woman owns. She looks down at her own
denim skirt and red T-shirt embossed with
a picture of the Statue of Liberty, both of
which she bought when she and Nnedi spent
a few summer weeks with relatives in New
York. “No, your wrapper will get dirty,” she
says. “Sit,” the woman says. “We are waiting
here long time.”
“Do you have an idea how long...?”
“This night or tomorrow morning.”
Chika raises her hand to her forehead, as
though checking for a malaria fever. The
touch of her cool palm usually calms her,
but this time her palm is moist and sweaty.
“I left my sister buying groundnuts. I don’t
know where she is.”
“She is going safe place.”
“Nnedi.”
“Eh?”
“My sister. Her name is Nnedi.”
“Nnedi,” the woman repeats, and her Hausa
accent sheaths the Igbo name in a feathery
gentleness.
Later, Chika will comb the hospital
118
L O S T I N T R A N S L AT ION S
mortuaries looking for Nnedi; she will go
to newspaper offices clutching the photo
of herself and Nnedi taken at a wedding
just the week before, the one where she
has a stupid smile-yelp on her face because
Nnedi pinched her just before the photo was
taken, the two of them wearing matching
off-the-shoulder Ankara gowns. She will
tape photocopies of the photo on the walls
of the market and the nearby stores. She will
not find Nnedi. She will never find Nnedi.
But now she says to the woman, “Nnedi and
I came up here last week to visit our auntie.
We are on vacation from school.”
“Where you go school?” the woman asks.
“We are at the University of Lagos. I am
reading medicine. Nnedi is in political
science.” Chika wonders if the woman even
knows what going to university means. And
she wonders, too, if she mentioned school
only to feed herself the reality she needs
now-that Nnedi is not lost in a riot, that
Nnedi is safe somewhere, probably laughing
in her easy, mouth-all-open way, probably
making one of her political arguments.
Like how the government of General
Abacha was using its foreign policy to
legitimise itself in the eyes of other African
countries. Or how the huge popularity in
blond hair attachments was a direct result
of British colonialism.
“We have only spent a week here with our
auntie, we have never even been to Kano
before,” Chika says, and she realises that
what she feels is this: she and her sister
should not be affected by the riot. Riots like
this were what she read about in newspapers.
Riots like this were what happened to other
people.
“Your auntie is in market?” the woman asks.
“No, she’s at work. She is the director at
the secretariat.” Chika raises her hand to
her forehead again. She lowers herself and
sits, much closer to the woman than she
ordinarily would have, so as to rest her
body entirely on the wrapper. She smells
something on the woman, something harsh
and clean like the bar soap their house-girl
uses to wash the bed linen.
“Your auntie is going safe place.”
“Yes,” Chika says. The conversation seems
surreal; she feels as if she is watching herself.
“I still can’t believe this is happening, this
riot.”
The woman is staring straight ahead.
Everything about her is long and slender, her
legs stretched out in front of her, her fingers
with henna-stained nails, her feet. “It is
work of evil,” she says finally.
Chika wonders if that is all the woman
thinks of the riots, if that is all she sees
them as – evil. She wishes Nnedi were here.
She imagines the cocoa brown of Nnedi’s
eyes lighting up, her lips moving quickly,
explaining that riots do not happen in a
vacuum, that religion and ethnicity are often
politicised because the ruler is safe if the
hungry ruled are killing one another. Then
Chika feels a prick of guilt for wondering if
this woman’s mind is large enough to grasp
any of that.
“In school you are seeing sick people now?”
the woman asks.
Chika averts her gaze quickly so that the
woman will not see the surprise. “My
clinicals? Yes, we started last year. We see
patients at the Teaching Hospital.” She
does not add that she often feels attacks of
uncertainty, that she slouches at the back of
the group of six or seven students, avoiding
the senior registrar’s eyes, hoping she will
not be asked to examine a patient and give
her differential diagnosis.
“I am trader,” the woman says. “I’m selling
onions.”
Chika listens for sarcasm or reproach in
the tone, but there is none. The voice is as
steady and as low, a woman simply telling
what she does.
“I hope they will not destroy market stalls,”
Chika replies; she does not know what else
to say.
“Every time when they are rioting, they
break market,” the woman says.
Chika wants to ask the woman how many
riots she has witnessed but she does not.
She has read about the others in the past:
Hausa Muslim zealots attacking Igbo
Christians, and sometimes Igbo Christians
going on murderous missions of revenge.
She does not want a conversation of naming
names. “My nipple is burning like pepper,”
the woman says. “What?”, “My nipple is
burning like pepper.” Before Chika can
swallow the bubble of surprise in her throat
and say anything, the woman pulls up her
blouse and unhooks the front clasp of a
threadbare black bra. She brings out the
money, ten-and-twenty Naira notes, folded
inside her bra, before freeing her full breasts.
APPENDICE
“Burning-burning like pepper,” she says,
cupping her breasts and leaning toward
Chika, as though in an offering. Chika
shifts. She remembers the pediatrics
rotation only a week ago: the senior
registrar, Dr Olunloyo, wanted all the
students to feel the stage 4 heart murmur
of a little boy, who was watching them with
curious eyes. The doctor asked her to go
first and she became sweaty, her mind blank,
no longer sure where the heart was. She had
finally placed a shaky hand on the left side
of the boy’s nipple, and the brrr-brrr-brrr
vibration of swishing blood going the wrong
way, pulsing against her fingers, made her
stutter and say “Sorry, sorry” to the boy,
even though he was smiling at her.
The woman’s nipples are nothing like that
boy’s. They are cracked, taut and dark
brown, the areolas lighter-toned. Chika
looks carefully at them, reaches out and feels
them. “Do you have a baby?” she asks.
“Yes. One year.”
“Your nipples are dry, but they don’t look
infected. After you feed the baby, you
have to use some lotion. And while you are
feeding, you have to make sure the nipple
and also this other part, the areola, fit inside
the baby’s mouth.”
The woman gives Chika a long look.
“First time of this. I’m having five children.”
“It was the same with my mother.
Her nipples cracked when the sixth child
came, and she didn’t know what caused
it, until a friend told her that she had to
moisturise,” Chika says. She hardly ever lies,
but the few times she does, there is always
a purpose behind the lie. She wonders what
purpose this lie serves, this need to draw on
a fictional past similar to the woman’s; she
and Nnedi are her mother’s only children.
Besides, her mother always had Dr Igbokwe,
with his British training and affectation, a
phone call away.
“What is your mother rubbing on her
nipple?” the woman asks.
“Cocoa butter. The cracks healed fast.”
“Eh?” The woman watches Chika for a
while, as if this disclosure has created a
bond. “All right, I get it and use.” She
plays with her scarf for a moment and then
says, “I am looking for my daughter. We go
market together this morning. She is selling
groundnut near bus stop, because there are
119
many customers. Then riot begin and I am
looking up and down market for her.”
“The baby?” Chika asks, knowing how
stupid she sounds even as she asks.
The woman shakes her head and there is a
flash of impatience, even anger, in her eyes.
“You have ear problem? You don’t hear what
I am saying?”
“Sorry,” Chika says.
“Baby is at home! This one is first daughter.
Halima.” The woman starts to cry. She cries
quietly, her shoulders heaving up and down,
not the kind of loud sobbing that the women
Chika knows do, the kind that screams
Hold me and comfort me because I cannot
deal with this alone. The woman’s crying
is private, as though she is carrying out a
necessary ritual that involves no one else.
Later, when Chika will wish that she and
Nnedi had not decided to take a taxi to the
market just to see a little of the ancient city
of Kano outside their aunt’s neighborhood,
she will wish also that the woman’s
daughter, Halima, had been sick or tired
or lazy that morning, so that she would not
have sold groundnuts that day.
The woman wipes her eyes with one end
of her blouse. “Allah keep your sister and
Halima in safe place,” she says. And because
Chika is not sure what Muslims say to show
agreement – it cannot be “amen” – she
simply nods.
The woman has discovered a rusted tap
in a corner of the store, near the metal
containers. Perhaps where the trader washed
his or her hands, she says, telling Chika that
the stores on this street were abandoned
months ago, after the government declared
them illegal structures to be demolished.
The woman turns on the tap and they both
watch – surprised – as water trickles out.
Brownish, and so metallic Chika can smell
it already. Still, it runs.
“I wash and pray,” the woman says, her
voice louder now, and she smiles for the first
time to show even-sized teeth, the front ones
stained brown. Her dimples sink into her
cheeks, deep enough to swallow half a finger,
and unusual in a face so lean. The woman
clumsily washes her hands and face at the
tap, then removes her scarf from her neck
and places it down on the floor. Chika looks
away. She knows the woman is on her knees,
facing Mecca, but she does not look. It is like
the woman’s tears, a private experience, and
120
L O S T I N T R A N S L AT ION S
she wishes that she could leave the store.
Or that she, too, could pray, could believe
in a god, see an omniscient presence in the
stale air of the store. She cannot remember
when her idea of God has not been cloudy,
like the reflection from a steamy bathroom
mirror, and she cannot remember ever
trying to clean the mirror.
She touches the finger rosary that she
still wears, sometimes on her pinky or her
forefinger, to please her mother. Nnedi no
longer wears hers, once saying with that
throaty laugh, “Rosaries are really magical
potions, and I don’t need those, thank you.”
Later, the family will offer Masses over and
over for Nnedi to be found safe, though
never for the repose of Nnedi’s soul.
And Chika will think about this woman,
praying with her head to the dustfloor, and
she will change her mind about telling her
mother that offering Masses is a waste of
money, that it is just fundraising for the
church. When the woman rises, Chika feels
strangely energised. More than three hours
have passed and she imagines that the riot
is quieted, the rioters drifted away. She has
to leave, she has to make her way home and
make sure Nnedi and her auntie are fine.
“I must go,” Chika says. Again the look of
impatience on the woman’s face. “Outside
is danger. I think they have gone. I can’t
even smell any more smoke.” The woman
says nothing, seats herself back down on
the wrapper. Chika watches her for a while,
disappointed without knowing why. Maybe
she wants a blessing from the woman,
something. “How far away is your house?”
she asks. “Far. I’m taking two buses.”
“Then I will come back with my auntie’s
driver and take you home,” Chika says.
The woman looks away. Chika walks slowly
to the window and opens it. She expects to
hear the woman ask her to stop, to come
back, not to be rash. But the woman says
nothing and Chika feels the quiet eyes on
her back as she climbs out of the window.
The streets are silent. The sun is falling,
and in the evening dimness, Chika looks
around, unsure which way to go. She prays
that a taxi will appear, by magic, by luck,
by God’s hand. Then she prays that Nnedi
will be inside the taxi, asking her where the
hell she has been, they have been so worried
about her. Chika has not reached the end of
the second street, toward the market, when
she sees the body. She almost doesn’t see
it, walks so close to it that she feels its heat.
The body must have been very recently
burned. The smell is sickening, of roasted
flesh, unlike that of any she has ever smelled.
Later, when Chika and her aunt go
searching throughout Kano, a policeman in
the front seat of her aunt’s air-conditioned
car, she will see other bodies, many burned,
lying lengthwise along the sides of the
street, as though someone carefully pushed
them there, straightening them. She will
look at only one of the corpses, naked,
stiff, facedown, and it will strike her that
she cannot tell if the partially burned man
is Igbo or Hausa, Christian or Muslim,
from looking at that charred flesh. She will
listen to BBC radio and hear the accounts
of the deaths and the riots-”religious with
undertones of ethnic tension” the voice will
say. And she will fling the radio to the wall
and a fierce red rage will run through her at
how it has all been packaged and sanitised
and made to fit into so few words, all those
bodies. But now, the heat from the burned
body is so close to her, so present and warm
that she turns and dashes back toward the
store. She feels a sharp pain along her lower
leg as she runs. She gets to the store and raps
on the window, and she keeps rapping until
the woman opens it.
Chika sits on the floor and looks closely, in
the failing light, at the line of blood crawling
down her leg. Her eyes swim restlessly in
her head. It looks alien, the blood, as though
someone had squirted tomato paste on her.
“Your leg. There is blood,” the woman says,
a little wearily. She wets one end of her scarf
at the tap and cleans the cut on Chika’s leg,
then ties the wet scarf around it, knotting it
at the calf.
“Thank you,” Chika says.
“You want toilet?”
“Toilet? No.”
“The containers there, we are using for
toilet,” the woman says. She takes one of
the containers to the back of the store, and
soon the smell fills Chika’s nose, mixes with
the smells of dust and metallic water, makes
her feel light-headed and queasy. She closes
her eyes.
“Sorry, oh! My stomach is bad. Everything
happening today,” the woman says from
behind her. Afterwards, the woman opens
APPENDICE
the window and places the container
outside, then washes her hands at the tap.
She comes back and she and Chika sit side
by side in silence; after a while they hear
raucous chanting in the distance, words
Chika cannot make out. The store is almost
completely dark when the woman stretches
out on the floor, her upper body on the
wrapper and the rest of her not.
Later, Chika will read in the Guardian that
“the reactionary Hausa-speaking Muslims
in the North have a history of violence
against non-Muslims”, and in the middle
of her grief, she will stop to remember that
she examined the nipples and experienced
the gentleness of a woman who is Hausa and
Muslim.
Chika hardly sleeps all night. The window
is shut tight; the air is stuffy, and the dust,
thick and gritty, crawls up her nose. She
keeps seeing the blackened corpse floating in
a halo by the window, pointing accusingly at
her. Finally she hears the woman get up and
open the window, letting in the dull blue of
early dawn. The woman stands there for a
while before climbing out. Chika can hear
footsteps, people walking past. She hears the
woman call out, voice raised in recognition,
followed by rapid Hausa that Chika does not
understand.
The woman climbs back into the store.
“Danger is finished. It is Abu. He is selling
provisions. He is going to see his store.
Everywhere policeman with tear gas.
Soldier-man is coming. I go now before
soldier-man will begin to harass somebody.”
Chika stands slowly and stretches; her joints
ache. She will walk all the way back to her
auntie’s home in the gated estate, because
there are no taxis on the street, there are
only army Jeeps and battered police station
wagons. She will find her auntie, wandering
from one room to the next with a glass of
water in her hand, muttering in Igbo, over
and over, “Why did I ask you and Nnedi to
visit? Why did my chi deceive me like this?”
And Chika will grasp her auntie’s shoulders
tightly and lead her to a sofa.
Now, Chika unties the scarf from her leg,
shakes it as though to shake the bloodstains
out, and hands it to the woman.
“Thank you.”
“Wash your leg well-well. Greet your
sister, greet your people,” the woman says,
tightening her wrapper around her waist.
121
“Greet your people also. Greet your baby
and Halima,” Chika says. Later, as she walks
home, she will pick up a stone stained the
copper of dried blood and hold the ghoulish
souvenir to her chest. And she will suspect
right then, in a strange flash while clutching
the stone, that she will never find Nnedi,
that her sister is gone. But now, she turns
to the woman and adds, “May I keep your
scarf? The bleeding might start again.”
The woman looks for a moment as if she
does not understand; then she nods. There
is perhaps the beginning of future grief on
her face, but she smiles a slight, distracted
smile before she hands the scarf back to
Chika and turns to climb out of the window.
—
Chinasa
I think it happened in January. I think it
was January because the soil was parched
and the dry Harmattan winds had coated
my skin and the house and the trees with
yellow dust. But I’m not sure. I know it was
in 1968 but it could have been December or
February; I was never sure of dates during
the war. I am sure, though, that it happened
in the morning – the sun was still pleasant,
the kind that they say forms vitamin D on
the skin. When I heard the sounds – Boom!
Boom! – I was sitting on the verandah of the
house I shared with two families, re-reading
my worn copy of Camara Laye’s The African
Child. The owner of the house was a man
who had known my father before the war
and, when I arrived after my hometown fell,
carrying my battered suitcase, and with
nowhere else to go, he gave me a room for
free because he said my father had been very
good to him.
The other women in the house gossiped
about me, that I used to go to the room of
the house owner at night, that it was the
reason I did not pay rent. I was with one
of those gossiping women outside that
morning. She was sitting on the cracked
stone steps, nursing her baby. I watched
her for a while, her breast looked like a
limp orange that had been sucked of all
its juices and I wondered if the baby was
getting anything at all. When we heard the
booming, she immediately gathered her
baby up and ran into the house to fetch
her other children. Boom! It was like the
rumblings of thunder, the kind that spread
122
L O S T I N T R A N S L AT ION S
itself across the sky, the kind that heralded
a thunderstorm. For a moment I stood there
and imagined that it was really the thunder.
I imagined that I was back in my father’s
house before the war, in the yard, under the
cashew tree, waiting for the rain. My father’s
yard was full of fruit trees that I liked to
climb even though my father teased me and
said it was not proper for a young woman,
that maybe some of the men who wanted to
bring him wine would change their minds
when they heard I behaved like a boy. But
my father never made me stop. They say he
spoiled me, that I was his favorite and even
now some of our relatives say the reason I
am still unmarried is because of my father.
Anyway, on that Harmattan morning,
the sound grew louder. The women were
running out with their children. I wanted to
run with them, but my legs would not move.
It was not the first time I had heard the
sounds, of course, this was two years into
the war and my parents had already died in a
refugee camp in Uke and my aunt had died
in Okija and my grandparents and cousins
had died in Abagana when Nkwo market
was bombed, a bombing that also blew off
the roof of my father’s house and one that
I barely survived. So, by that morning, that
dusty Harmattan morning, I had heard the
sounds before. Boom! I felt a slight quiver
on the ground I was standing on. Still,
I could not get myself to run. The sound
was so loud it made my head throb and I
felt as if somebody was blowing hot custard
into my ears. Then I saw huge holes explode
on the ground next to me. I saw smoke
and flying bits of wood and glass and metal.
I saw dust rise. I don’t remember much else.
Something inside me was so tired that for a
few minutes, I wished that the bombs had
brought me rest. I don’t know the details of
what I did – if I sat down, if I ducked into
the farm, if I slumped to the ground. But
when the bombing finally stopped, I walked
down the street to the crowd gathered
around the wounded, and found myself
drawn to a body on the ground. A girl,
perhaps fifteen years old. Her arms were a
mass of bloody flesh. It was the wrong time
for humor but looking at her with mangled
arms, she looked like a caterpillar. Why did
I take that girl into my room? I don’t know.
There had been many bombings before that
– we were in Umuahia and we got the most
bombing because we were the capital. And
even though I helped to clean the wounded,
I had never taken anyone into my room. But
I took this girl into my room. Her name was
Chinasa.
I nursed Chinasa for weeks. The owner of
the house made her crutches from old wood
and even the gossiping women brought her
small gifts of ukpaka or roast yam. She was
thin, small for her age, as most children were
during the war, but she had a way of looking
at you straight in the eye, in a forthright but
not impolite way, that made her seem much
older than she was. She pretended she was
not in pain when I cleaned her wounds with
home made gin, but I saw the tears in her
eyes and I, too, fought tears because this
girl on the cusp of womanhood had,
because of the war, grown up too quickly.
She thanked me often, too often. She said
she could not wait to be well enough to
help me with the cooking and cleaning.
In the evenings, after I had fed her some
pap, I would sit next to her and read to her.
Her arms were still and bandaged but she
had the most expressive face and in the
flickering naked light of the kerosene lamp,
she would laugh, smile, sneer, as I read to
her. I had lost many of my things, running
from town to town, but I had always brought
some of my books and reading those books
to her brought me a new kind of joy because
I saw them freshly, through Chinasa’s eyes.
She began to ask questions, to challenge
what some of the characters did in the
stories. She asked questions about the war.
She asked me questions about myself.
I told her about my parents who had been
determined that I would be educated, and
who had sent me to a Teachers Training
College. I told her how much I had enjoyed
my job as a teacher in Enugu before the war
started and how sad I was when our school
was closed down to become a refugee camp.
She looked at me with a great intensity as
I spoke. Later, as she was teaching me how
to play nchokolo one evening, asking me
to move some stones between boxes drawn
on the ground, she asked whether I might
teach her how to read. I was startled. It did
not occur to me that she could not read.
Now that I think of it, I should not have
been so presumptuous. Her personal story
was familiar: her parents were farmers from
APPENDICE
Agulu who had scraped to send her two
brothers to the mission school but kept her
at home. Perhaps it was her brightness, her
alertness, the great intelligence about the
way she watched everything, that had made
me forget the reality of where she came
from. We began lessons that night.
She knew the alphabet because she had
looked at some of her brother’s books, and
I was not surprised by how quickly she
learned, how hard she worked. By the time
we heard, some months later, the rumor
that our generals were about to surrender,
Chinasa was reading to me from her favorite
book ‘The African Child’.
On the day the war ended, Chinasa and
I joined the gossipy women and other
neighbors down the street. We cried
and sang and laughed and danced. For
those women crying, theirs were tears of
exhaustion and uncertainty and relief.
As were mine. But, also, I was crying
because I wanted to take Chinasa back
with me to my home, or whatever remained
of my home in Enugu; I wanted her to
become the daughter I would never have,
to share my life now emptied of loved ones.
But she hugged me and refused. She wanted
to go and find which of her relatives had
survived. I gave her my address in Enugu
and the name of the school where I hoped to
go back to my teaching. I gave her much of
the little money I had. “I will come and see
you soon,” she said. She was looking at me
with tearful gratitude, and I held her close
to me and felt a keen sense of future sadness.
She would find her relatives and her life
would intervene in this well-meant promise.
I knew that she would not come back.
It is now 2008 and yesterday morning, a
morning not dissimilar to that one forty
years ago, I opened the Guardian newspaper
in the living room of my house in Enugu.
I had just returned from my morning walk
– my friends say that my daily walk is the
reason I do not look like a woman in her
seventies – and was filled with the optimism
that comes with the briskness, the raised
heartbeat of walking. I had followed the
recent national news about the government
appointing new ministers, but only vaguely
because after watching this country careen
from one inept leadership to another,
123
I no longer find much to be passionate
about. I opened the paper to read that an
education minister had been appointed,
a woman, and she had just given her first
interview. I was mildly pleased: we needed
more women in government and Nigerians
had seen how well the last female minister
did in the ministry of finance. Then the face
of the new minister, in a black and white
photograph that took up half a page, struck
me as familiar. I stared at it and before
I read the name, I knew it was Chinasa.
The cheeks had filled out, of course, and
the face had lost the awkwardness of youth
but little else had changed.
I read the interview quickly, my hands
a little shaky. She had been sent abroad
shortly after the war, with one of the many
international agencies that helped young
people who had been affected by war. She
had been awarded many scholarships. She
was married with three children. She was
a professor of literature. My hands began
to shake furiously when I read about the
beginning of her love for books: ‘I had a
fairy godmother during the war,’ was all
that she said. I looked at her face for a long
time, imagining the life she has had, playing
with the idea of contacting her, realizing
that I had never before in my life felt quite
so proud, before I closed the newspaper
and put it away.
—
Hair
The mother cried every day. The father had
signed the agreement one afternoon after
drinking a whole carton of Guinness at the
club, after his friend Lugardson proposed a
game of cards and wrote out the agreement
that said whoever won would take over the
other’s property and added that it was a
joke of course and not at all legal. And so
the father signed it and then lost the game.
Lugardson took the agreement to court and
the judge was Lugardson’s crony and he
ruled that the father had truly signed away
all that he owned. His company. His homes.
His cars. He gave the family a week to hand
over to Lugardson. The father said, “But
it was a joke! The agreement was hastily
written on a receipt! It was a joke!” But the
judge ignored him. The father fell to the
floor and thrashed and wept. Later, he said
to the mother, “I thought Lugardson was
124
L O S T I N T R A N S L AT ION S
my friend,” and the mother told him to shut
up. “Are you stupid? How could he be your
friend? He has been waiting for a way to take
over your fortune!” And she added that she
had often felt Lugardson looking at her in an
untoward way, too, which was a lie, but the
mother liked to burnish her stories.
The stories she told herself now that she
cried every day did not need burnishing,
though, because they were true: stories of
their old life when they lived in the flowerhugged house on Queens Drive, when all of
Lagos worshipped them. Now, none of their
friends came to their mice-filled flat where
the landlord often removed their electricity
meter.
But the mother’s greatest shame was her
hair. It was matted, with thick clumps of
natural undergrowth because relaxers and
weaves were now unaffordable. She had
been the toast of Lagos with her long and
straight perm, and now she always wore a
headscarf, even when alone.
The daughter, too, could no longer afford
relaxers and so had cut her hair off, and
watched in wonder as it grew back, soft and
dense like wool, for she had never seen her
natural hair. In their old life, as soon as
her hair grew out, it had been singed and
straightened. Now it was vibrant and kinky
and full. She did not comb it but lovingly
untangled it every morning with her fingers.
The son, who used to work with the father
in the company and now spent his days
lying around limp with depression, asked
that she cover her ugly hair with a scarf.
The daughter was close to the son, had done
most of his school assignments while he went
to the clubs, and she could not understand
his calling her hair ugly when it was the
only beautiful thing they had left. Just like
it was cheap gin that now kept the father
going (sometimes he even drank his old
bottles of cologne because he said they had
alcohol in them), it was her hair, untangling
and twisting and glorying in it, that kept
her from thinking too much of her constant
hunger. She wished that she could reverse
their fortune; it was possible only if they
could get the agreement itself and take it to a
judge who was not corrupt.
One day Lugardson came and said he knew
how difficult life had become for them and
he wanted to offer one of the children a job;
it was the least he could do. Lugardson was
a wily man, with a thin mind and thin arms.
His benevolence was disgusting. But the
father accepted and said the son would take
the job. The daughter knew that the father
did not even think of considering her; he did
not know that she had often done the son’s
school assignments in the old days.
The son started work and came home to
say that he was a mere messenger; he stayed
downstairs at the reception and was called
only to run errands. But at least he earned
a little money and they were able to eat
better, although the mother took to vomiting
because she could not believe she was now
being given mere drops from a river that
was rightly hers. An old friend stopped by
with some loaves of bread one evening, this
a man who used to kneel before the father
to beg for money, and said he had heard
Lugardson boasting at the club that he kept
the agreement in his office to remind himself
of the father’s stupidity.
The mother told the son that he had to find
a way to get the agreement. The son tried
different things, the daughter gave him ideas
on how to fake his way into the office, but
none worked. The son came home in tears.
The father sank into deeper depression and
began to talk of drinking his urine. The
mother cried no longer once but twice a
day. Months passed, and then on one hazy
day the daughter was untangling her hair,
which was now high enough to be held
up in a puff like a large rabbit’s tail, when
she heard the voice. It came from her hair.
It was her hair. A voice that sounded like
her late grandmother but was somewhat
perkier. The agreement is in Lugardson’s air
conditioner. The daughter shook her head.
Then the voice came again. She knew then
that there was something magical about her
hair, that the delight she felt about it went
beyond the mere softness and novelty of it.
But knowing it was in his air conditioner
was not enough. She needed to know more.
And so she began, every morning, to wake
up and untangle her hair and wait for the
voice. Soon, the voice had told her all that
she needed. The agreement was in the air
conditioner in his office, stuffed into one of
the vents, the place he thought most unlikely
APPENDICE
for anyone to look. She had to go and get it
the next day, at exactly a quarter past noon,
and she must stay no longer than 15 minutes
in the office or she would be caught.
The daughter set out for Lugardson’s office.
She got to the gate and lost her nerve.
They would never let her in. She was
turning back when the voice from her hair
told her to walk through, that the gate was
open, and she would not be seen. So she
did. She walked past the reception and
saw the son sitting hunched on a stool.
Lugardson’s office was empty and smelled
oddly of mothballs, and she went right to
the air conditioner, stuck her hand into
it and pulled an envelope out. Inside was
the agreement. Then she heard footsteps;
Lugardson was coming. She stared at the
door in panic and then began to run her
fingers through her hair. Get under the
desk. The carpeting was particularly soft
under the desk and she settled down and
hoped Lugardson would not stay long.
He had come in with somebody and was
laughing. She checked her watch. Five
minutes had passed. Then eight. Lugardson
was still talking. Then 11 minutes. She
began to sweat. She pushed the envelope
into her bra. The person with Lugardson
left and Lugardson moved around the office
for a while, and his cell phone rang and he
answered it and left the office. Thirteen
minutes had passed. The daughter flew out
from under the desk and began to run as fast
as she could, down the stairs, out through
the gate, and did not stop until she got to the
bus stop.
The father looked at her in shock when she
told her story, but it was the mother who
took the agreement and held it reverently
and then pulled off her scarf and touched
her own hair in wonder. The next day they
took it to Judge Rotimi, known for being
incorruptible, and he ruled that Lugardson
give back all he had taken from the father.
In addition, Lugardson was to be tried for
his crimes. The mother laughed and cried
and danced and talked about how she would
show pepper to all those nasty people who
had deserted her.
The father spoke of ordering cases of
champagne. The son, still dazed, suggested
125
they order whisky, too. The daughter
watched with joyful amusement, all the time
running her fingers through her hair. And
they all lived happily ever after.
—
Quality Street
They were drinking tea. One of the few
things that Mrs. Njoku and her daughter
Sochienne could still do together without
acrimony was drink tea, because when
Mrs. Njoku suggested they go to the new
boutique on Victoria Island, or Titi’s Place
for a facial, things they used to do together
in Lagos before Sochienne went away to
university in America, Sochienne called her
a fat bourgeois, a dilettante dancing while
Nigeria was failing, as though she could
somehow solve the country’s problems by
depriving herself of a manicure. But this,
drinking tea, was neutral – as long as it
was without fresh milk. The first week of
Sochienne’s return, Mrs. Njoku had bought
a carton of fresh milk, excited to be able to
offer her daughter something different from
the usual condensed or powdered milk,
but Sochienne said she would not touch
that imported thing from ShopRite which
most Nigerians did not even know existed
and she would drink only the locally made
condensed milk. Mrs. Njoku said, trying
not to sound as sour as she felt, that the
condensed milk was only locally assembled,
since the companies imported milk powder
and added water to it in Nigeria. Sochienne
looked surprised by this news but she
insisted on calling it the local milk with a
tone that made “local” sound pious. And
so Mrs. Njoku put away the fresh milk and
bought tins of Peak condensed milk, which
they poured, in a thin stream, into their tea.
They were on their second cups when
Sochienne said she wanted to have her
wedding at Amarachi, the country house
where she had spent childhood holidays,
because she preferred a venue of emotional
significance to an overpriced gilded hall.
Mrs. Njoku choked on her tea. She had
already hired the famous wedding planner,
already booked St. Mary’s Catholic Church
and the grand convention center for the
reception, but more importantly, Amarachi
was a decrepit house, the grounds sloped,
this was rainy season and the mud would
126
L O S T I N T R A N S L AT ION S
ruin women’s shoes and nobody would
take a wedding seriously if it was held in
that backwater. Indeed, nobody would
come. And she would of course be a subject
of mockery in homes and hair salons all
over Lagos; she could already imagine
Mrs. Fernandez Cole, lips curled, saying
village wedding. Sochienne added, between
leisurely sips, that her fiancé Mwangi had
first suggested it after she told him about
Amarachi, and she had then wondered
why she had not thought of it herself. Mrs.
Njoku put her teacup down. Of course it
had to be that dull eyed Kenyan with an
unpronounceable name who would bring
up such an idea. She very nearly said, in her
new distress, that she still did not know why
Sochienne wanted to get married so young
and why she could not have met a young
man in America who was Igbo or at least
Nigerian. But she held herself back in time
and instead said that there was not enough
room at Amarachi to fit all their guests.
Sochienne smiled as though Mrs. Njoku
were the child and she the mother and said
that only about twenty guests would be
hers, the other four hundred were people
she did not know and would not miss if they
did not attend. So Mrs. Njoku poured hot
water on a new teabag and agreed to her
only child’s wedding in an ordinary village
house because she feared the next suggestion
would be a ceremony on Bar Beach with
everybody wearing secondhand clothes.
Perhaps Sochienne should never have been
sent to school in America. But who knew
a private university in Ohio would mean
that Sochienne would return six years
later, announcing that she was engaged to
a Kenyan, refusing to eat meat, asking the
baffled houseboys about fair wages, and
wearing her hair in long rubbery dreadlocks.
What should have alerted Mrs. Njoku, she
realized now, was discovering, on her first
visit to her daughter’s university, that the
students wore bathroom slippers to their
lectures. Oh, mummy, they are wearing
sandals because of this rare blast of warm
weather, Sochienne said when she pointed
it out, as though giving bathroom slippers
the American label of sandals would make
them more respectable. There was, also, a
certain alarming sloppiness to the students.
Mrs. Njoku had been assured that wealthy
Americans sent their children there – the
outrageous tuition certainly suggested that –
but here were young people in slouchy
T shirts and discolored beads around their
necks. Still, she had not worried too much
about her daughter then, nor did she in
the following years, because she assumed
that the child she raised would retain her
good sense. She had wanted Sochienne to
be educated in England after completing
primary school and had suggested that they
send her to Cheltenham Ladies College,
where many of their friends sent their
daughters, but her husband said Sochienne
would not go abroad until university because
he did not want her to turn out like those
Akindele children who had spent so long
in England that they referred to fellow
Nigerians as “those people.” He wanted
his daughter to attend secondary school in
Nigeria so that she would know who she
was. Most of all, he wanted her to get an
American university education. America
was the future. It was time for Nigerians
to get over their colonial clinging. Mrs.
Njoku should have resisted more. If only
her husband were alive now to see what
Sochienne had become; so much for
knowing who she was.
When they first met, there was something
about the wedding planner’s knowing
manner, yellow skin, and fussy expensive
handbag that irritated Mrs. Njoku. But she
was determined to use the same wedding
planner as Mrs. Fernandez-Cole, whose
daughter’s wedding Mrs. Njoku had
attended with the hope of finding something
to deride, but it had been flawless. Mrs.
Fernandez-Cole came from one of those
old Lagos families that sniffed at people
who did not, like them, have “Brazilian”
great grandfathers. Mrs. Njoku thought
it silly that anybody could feel superior
about having forebears who were slaves
in South America and yet she always felt
plebeian in Mrs. Fernandez-Cole’s presence,
always fought the urge to smooth her hair
and straighten her clothes. They were
strenuously warm with each other when they
met at Ikoyi Club, as they often did, but it
was clear that Mrs. Fernandez-Cole thought
the Njokus were parvenus to be tolerated
with amusement while Mrs. Njoku felt a
helpless, enraging need to prove herself an
APPENDICE
equal. And so when she told the wedding
planner that the wedding would now be held
in their country home in the east, her main
worry was that the wedding planner would
call Mrs. Fernandez-Cole right away to
gossip and giggle. But the wedding planner
said in a matter-of fact tone that she needed
cash right away to book a new caterer since
Yinka’s Foods & Events only worked in
the Lagos area. So Mrs. Njoku went with
Sochienne to the bank. In the lobby, she saw
the Osazes’ daughters, who now had British
accents after schooling in England: their
good afternoon, aunty sounded so polished.
They had never been half as pretty as her
daughter but in their fitted jeans and high
heels, with their straight weaves that hung
down to their shoulders, they were normal.
Sochienne hardly noticed the Osaze girls.
She was watching the bank worker – his
nametag read John – as he fed wads of naira
notes into the counting machine, packed
the cash in a brown paper bag and handed
it to Mrs. Njoku with a slight bow. Mrs.
Njoku gave him two thousand naira and
nodded to acknowledge his Madam, thank
you very much. Later, as they climbed into
Mrs. Njoku’s Range Rover, Sochienne said
it was unethical of Mrs. Njoku to have given
money to John. Mrs. Njoku clicked her
seatbelt and told the driver they were going
to Lekki before turning to her daughter
to say that it was a tip, a simple tip, and
hadn’t Sochienne accused her of being
out of touch? And yet now she had given
a tip to an underpaid bank worker, it was
unethical? Sochienne mumbled something
about tipping a chronically underfed waiter
with a roast chicken, all the while looking
at the beggars who made their way from
car window to car window in the traffic,
their skin tight over bony faces, their eyes
hopeful, saying God bless you, God bless
you, God bless you.
Mrs. Njoku thought that perhaps she had
been too harsh in her own defense. She
asked Sochienne if the air conditioner was
too cold. Sochienne said no. She asked what
changes they would ask the wedding planner
to make to the décor now that the wedding
was at Amarachi. Sochienne said she did
not know and shrugged, as if the wedding
planner was a special indulgence of her
mother’s that she had to humor.
Mrs. Njoku watched a hawker running after
127
a car in the now moving traffic. She had a
headache. She asked if Sochienne wanted
to stop at Chicken Republic; they had
salads that Sochienne could eat. Sochienne
nodded, somewhat reluctantly, still looking
out of the window, and when they pulled
into the restaurant, she asked the driver to
come in with them, turning to her mother
to say that the man had not eaten anything
all day. Mrs. Njoku said she would get him
something to take away. Sochienne sat still
and said she wanted the driver to come with
them. Mrs. Njoku looked at her daughter
and wanted to slap her, push her out of the
car, trample her. She asked the driver, who
looked both confused and terrified, to stop
the engine and step out of the car. Then
she leaned back on her seat and called her
daughter a self-righteous ingrate. She was
getting sweaty because the windows were up
as these words tumbled out of her mouth:
you think if you take the driver into Chicken
Republic to eat at the same table as you then
you have done a good thing for him but you
have not because it is not about his own well
being but about your own well being, and
you are too self righteous to see that you
will only make him uncomfortable if he sits
with you and you will change nothing in his
life, and just in case you don’t know it, your
father is lying in his grave, looking at this
person you have become and he is tearing
his hair out and eating it! Sochienne looked
stunned. Then she called her mother a fat
bourgeois, an ostrich who wanted to pretend
that all was well, and Mrs. Njoku opened the
door and beckoned for the driver to come
take them home. They did not speak to each
other during the drive. They did not have
dinner together. They did not drink tea.
And they barely spoke to each other until
the wedding at Amarachi.
Mrs. Njoku was, on the wedding day at
Amarachi, making calls on both her cell
phones, shouting at people, and inspecting
the chairs tied with cream-and-blue ribbons,
the newly trimmed bushes of ixora and
hibiscus, the gravel spread on the muddy
ground. The gazebo was tilting slightly and
needed to be adjusted but the man who set
it up had disappeared. The wedding planner
was complaining about the buffet tables.
The clouds were darkening. Mrs. Njoku was
aware that her breathing was shallow. Mrs.
128
L O S T I N T R A N S L AT ION S
Fernandez-Cole had already called her to
say she was at Enugu airport and how nice it
was to be in this part of the country, in the
tone of a person who was lying and wanted
you to know that they were lying. Sochienne
was upstairs chatting with the bridesmaids,
stringing together some wilting flowers she
had insisted on plucking from the frangipani
tree. It was only an hour before she would
have to get dressed but she was supremely
calm, which annoyed Mrs. Njoku because
the least she expected from her daughter,
after all she had gone through for this
wedding, was some bridal jitteriness. When
the hairdresser arrived, flown in from Lagos,
Mrs. Njoku worried about Sochienne’s hair;
what were the options for dreadlocks really?
Sochienne said at least her hair actually
grew on her head while her mother’s curly
weave was just sewn on plastic.
Her tone was the same as when she said
“fat bourgeois,” and so Mrs. Njoku went
to her room to take a bath. The wedding
planner knocked on her door moments
later to say that the clouds were even darker
now and that Sochienne had suggested a
traditional rainholder. Mrs. Njoku thought
this: a man preventing rainfall – a silly
superstition. She said no. If the rain really
started, then they would move indoors and
even though it would be cramped, it was
doable, since the verandas were roofed.
But Sochienne came into her room without
knocking and said with that tone that had
begun to gravely irritate her mother, that
rainholders were superstitious in the same
way as Catholic rosaries, that faith was like
a tin of Quality Street, she selected what to
believe just as she chose only the nut-free
chocolates, and her faith selections were:
guardian ancestors, rain holding, a happy
God. Mrs. Njoku found this listing of her
daughter’s beliefs disconcerting. It reminded
her of her late husband, an agnostic who
had nevertheless called his country house
Amarachi: God’s Grace. But it was the
image of Quality Street – the purple tin of
sweets she and her husband had first bought
their daughter when she was eight, giving
it to her downstairs in this very house,
watching as she pored through the different
shiny-wrapped toffees – that made her send
for a rainholder. The wizened man arrived
and sat in the backyard tending a huge fire,
drinking gin, and assuring everyone that
there would be no rain. Guests were being
seated. The bridesmaids were ready, lips
glistening with gloss.
The Kenyan arrived with his family from
the hotel in Onitsha. His Senegalese caftan,
delicately embroidered at the collar, was
perhaps the closest he would ever come to
looking elegant, Mrs. Njoku thought, but
she still wished he had worn a suit. She
fingered the diamond on her throat and
felt a dizzying sense of displacement; it
was as if she had been written into a story
that was not hers. She found Sochienne in
the veranda, standing by the crumbling
banisters, dreadlocks swept up, eyes kohl
rimmed, dress a simple calf length sheath.
Mrs. Njoku felt wounded by the smallness
of this day and by the plainness of her
daughter’s face. She suggested a little more
make up, but Sochienne shook her head and
asked if her mother remembered when her
father climbed up the frangipani tree with
her to help conquer her fear of climbing,
when it was so sticky hot the toilet seat
stuck to her bottom, when her father nearly
burned down the house while making a
fire to roast cashew nuts, when she threw
up after eating a boiled snail? Mrs. Njoku
had hated those holidays because their
friends were in London while her husband
insisted they stay at Amarachi. Now, she
moved closer to her daughter, silent, and
thought that, for the first time, Sochienne
looked familiar, with that expression of
wonder she had often had as a child. The
wedding planner came in to say that it was
time. Sochienne raised her bouquet. She
had combined the expensive silk flowers
the wedding planner had ordered from
somewhere in Europe with the frangipani
flowers whose petals now drooped in the
moist heat. She asked if her mother liked the
bouquet and Mrs. Njoku said no, following
her daughter downstairs. In the end, it did
not rain. It did drizzle, a fresh light shower,
the clouds parting just before the reception
started, when the wedding planner came up
to whisper to Mrs. Njoku that Sochienne
had changed the first dance selection from
PSquare’s “No One Be Like You” to Nico
Mbarga’s highlife classic: “Sweet Mother.”
—
APPENDICE
The headstrong historian
Many years after her husband had died,
Nwamgba still closed her eyes from time
to time to relive his nightly visits to her
hut, and the mornings after, when she
would walk to the stream humming a song,
thinking of the smoky scent of him and the
firmness of his weight, and feeling as if she
were surrounded by light. Other memories
of Obierika also remained clear – his stubby
fingers curled around his flute when he
played in the evenings, his delight when she
set down his bowls of food, his sweaty back
when he brought baskets filled with fresh
clay for her pottery. From the moment she
had first seen him, at a wrestling match,
both of them staring and staring, both of
them too young, her waist not yet wearing
the menstruation cloth, she had believed
with a quiet stubbornness that her chi and
his chi had destined their marriage, and so
when he and his relatives came to her father
a few years later with pots of palm wine
she told her mother that this was the man
she would marry. Her mother was aghast.
Did Nwamgba not know that Obierika
was an only child, that his late father had
been an only child whose wives had lost
pregnancies and buried babies? Perhaps
somebody in their family had committed
the taboo of selling a girl into slavery and
the earth god Ani was visiting misfortune
on them. Nwamgba ignored her mother.
She went into her father’s obi and told him
she would run away from any other man’s
house if she was not allowed to marry
Obierika. Her father found her exhausting,
this sharp-tongued, headstrong daughter
who had once wrestled her brother to the
ground. (Her father had had to warn those
who saw this not to let anyone outside the
compound know that a girl had thrown
a boy.) He, too, was concerned about the
infertility in Obierika’s family, but it was
not a bad family: Obierika’s late father had
taken the Ozo title; Obierika was already
giving out his seed yams to sharecroppers.
Nwamgba would not starve if she married
him. Besides, it was better that he let his
daughter go with the man she chose than to
endure years of trouble in which she would
keep returning home after confrontations
with her in laws; and so he gave his blessing,
and she smiled and called him by his praise
name.
129
To pay her bride price, Obierika came with
two maternal cousins, Okafo and Okoye,
who were like brothers to him. Nwamgba
loathed them at first sight. She saw a
grasping envy in their eyes that afternoon,
as they drank palm wine in her father’s
obi; and in the following years – years in
which Obierika took titles and widened his
compound and sold his yams to strangers
from afar – she saw their envy blacken. But
she tolerated them, because they mattered
to Obierika, because he pretended not to
notice that they didn’t work but came to him
for yams and chickens, because he wanted
to imagine that he had brothers. It was they
who urged him, after her third miscarriage,
to marry another wife. Obierika told them
that he would give it some thought, but
when they were alone in her hut at night he
assured her that they would have a home full
of children, and that he would not marry
another wife until they were old, so that they
would have somebody to care for them. She
thought this strange of him, a prosperous
man with only one wife, and she worried
more than he did about their childlessness,
about the songs that people sang, the
melodious mean spirited words: She has sold
her womb. She has eaten his penis. He plays
his flute and hands over his wealth to her.
Once, at a moonlight gathering, the square
full of women telling stories and learning
new dances, a group of girls saw Nwamgba
and began to sing, their aggressive breasts
pointing at her. She asked if they would
mind singing a little louder, so that she
could hear the words and then show them
who was the greater of two tortoises. They
stopped singing. She enjoyed their fear,
the way they backed away from her, but it
was then that she decided to find a wife for
Obierika herself.
Nwamgba liked going to the Oyi stream,
untying her wrapper from her waist and
walking down the slope to the silvery rush
of water that burst out from a rock. The
waters of Oyi seemed fresher than those of
the other stream, Ogalanya, or perhaps it
was simply that Nwamgba felt comforted
by the shrine of the Oyi goddess, tucked
away in a corner; as a child she had learned
that Oyi was the protector of women, the
reason it was taboo to sell women into
slavery. Nwamgba’s closest friend, Ayaju,
130
L O S T I N T R A N S L AT ION S
was already at the stream, and as Nwamgba
helped Ayaju raise her pot to her head she
asked her who might be a good second wife
for Obierika. She and Ayaju had grown up
together and had married men from the
same clan. The difference between them,
though, was that Ayaju was of slave descent.
Ayaju did not care for her husband, Okenwa,
who she said resembled and smelled like a
rat, but her marriage prospects had been
limited; no man from a freeborn family
would have come for her hand. Ayaju was a
trader, and her rangy, quick-moving body
spoke of her many journeys; she had even
travelled beyond Onicha. It was she who
had first brought back tales of the strange
customs of the Igala and Edo traders, she
who had first told stories of the whiteskinned men who had arrived in Onicha
with mirrors and fabrics and the biggest
guns the people of those parts had ever seen.
This cosmopolitanism earned her respect,
and she was the only person of slave
descent who talked loudly at the Women’s
Council, the only person who had answers
for everything. She promptly suggested, for
Obierika’s second wife, a young girl from the
Okonkwo family, who had beautiful wide
hips and who was respectful, nothing like
the other young girls of today, with their
heads full of nonsense. As they walked home
from the stream, Ayaju said that perhaps
Nwamgba should do what other women
in her situation did – take a lover and get
pregnant in order to continue Obierika’s
lineage. Nwamgba’s retort was sharp,
because she did not like Ayaju’s tone, which
suggested that Obierika was impotent, and,
as if in response to her thoughts, she felt a
furious stabbing sensation in her back and
knew that she was pregnant again, but she
said nothing, because she knew, too, that she
would lose it again.
Her miscarriage happened a few weeks
later, lumpy blood running down her legs.
Obierika comforted her and suggested that
they go to the famous oracle, Kisa, as soon
as she was well enough for the half day’s
journey. After the dibia had consulted the
oracle, Nwamgba cringed at the thought of
sacrificing a whole cow; Obierika certainly
had greedy ancestors. But they performed
the ritual cleansings and the sacrifices as
required, and when she suggested that
he go and see the Okonkwo family about
their daughter he delayed and delayed until
another sharp pain spliced her back, and,
months later, she was lying on a pile of
freshly washed banana leaves behind her
hut, straining and pushing until the baby
slipped out. They named him Anikwenwa:
the earth god Ani had finally granted a
child. He was dark and solidly built, and
had Obierika’s happy curiosity. Obierika
took him to pick medicinal herbs, to collect
clay for Nwamgba’s pottery, to twist yam
vines at the farm. Obierika’s cousins Okafo
and Okoye visited often. They marvelled at
how well Anikwenwa played the flute, how
quickly he was learning poetry and wrestling
moves from his father, but Nwamgba saw
the glowing malevolence that their smiles
could not hide. She feared for her child and
for her husband, and when Obierika died –
a man who had been hearty and laughing
and drinking palm wine moments before
he slumped – she knew that they had killed
him with medicine. She clung to his corpse
until a neighbor slapped her to make her let
go; she lay in the cold ash for days, tore at
the patterns shaved into her hair. Obierika’s
death left her with an unending despair. She
thought often of a woman who, after losing
a tenth child, had gone to her back yard and
hanged herself on a kola nut tree. But she
would not do it, because of Anikwenwa.
Later, she wished she had made Obierika’s
cousins drink his mmili ozu before the
oracle. She had witnessed this once, when
a wealthy man died and his family forced
his rival to drink his mmili ozu. Nwamgba
had watched an unmarried woman take a
cupped leaf full of water, touch it to the dead
man’s body, all the time speaking solemnly,
and give the leaf cup to the accused man.
He drank. Everyone looked to make sure
that he swallowed, a grave silence in the air,
because they knew that if he was guilty he
would die. He died days later, and his family
lowered their heads in shame. Nwamgba felt
strangely shaken by it all. She should have
insisted on this with Obierika’s cousins,
but she had been blinded by grief and now
Obierika was buried and it was too late.
His cousins, during the funeral, took his
ivory tusk, claiming that the trappings of
titles went to brothers and not to sons. It
was when they emptied his barn of yams
and led away the adult goats in his pen
APPENDICE
that she confronted them, shouting, and
when they brushed her aside she waited
until evening, then walked around the
clan singing about their wickedness, the
abominations they were heaping on the land
by cheating a widow, until the elders asked
them to leave her alone. She complained to
the Women’s Council, and twenty women
went at night to Okafo’s and Okoye’s homes,
brandishing pestles, warning them to leave
Nwamgba alone. But Nwamgba knew that
those grasping cousins would never really
stop. She dreamed of killing them. She
certainly could, those weaklings who had
spent their lives scrounging off Obierika
instead of working, but, of course, she would
be banished then, and there would be no
one to care for her son. Instead, she took
Anikwenwa on long walks, telling him that
the land from that palm tree to that avocado
tree was theirs, that his grandfather had
passed it on to his father. She told him the
same things over and over, even though he
looked bored and bewildered, and she did
not let him go and play at moonlight unless
she was watching.
Ayaju came back from a trading journey
with another story: the women in Onicha
were complaining about the white men.
They had welcomed the white men’s trading
station, but now the white men wanted to
tell them how to trade, and when the elders
of Agueke refused to place their thumbs on
a paper the white men came at night with
their normal men helpers and razed the
village. There was nothing left. Nwamgba
did not understand. What sort of guns did
these white men have? Ayaju laughed and
said that their guns were nothing like the
rusty thing her own husband owned; she
spoke with pride, as though she herself were
responsible for the superiority of the white
men’s guns. Some white men were visiting
different clans, asking parents to send their
children to school, she added, and she had
decided to send her son Azuka, who was
the laziest on the farm, because although
she was respected and wealthy, she was still
of slave descent, her sons were still barred
from taking titles, and she wanted Azuka to
learn the ways of these foreigners. People
ruled over others not because they were
better people, she said, but because they
had better guns; after all, her father would
131
not have been enslaved if his clan had been
as well armed as Nwamgba’s. As Nwamgba
listened to her friend, she dreamed of
killing Obierika’s cousins with the white
men’s guns. The day the white men visited
her clan, Nwamgba left the pot she was
about to put in her oven, took Anikwenwa
and her girl apprentices, and hurried to
the square. She was at first disappointed
by the ordinariness of the two white men;
they were harmless looking, the color of
albinos, with frail and slender limbs. Their
companions were normal men, but there
was something foreign about them, too:
only one spoke Igbo, and with a strange
accent. He said that he was from Elele, the
other normal men were from Sierra Leone,
and the white men from France, far across
the sea. They were all of the Holy Ghost
Congregation, had arrived in Onicha in
1885, and were building their school and
church there. Nwamgba was the first to ask
a question: Had they brought their guns,
by any chance, the ones used to destroy the
people of Agueke, and could she see one?
The man said unhappily that it was the
soldiers of the British government and the
merchants of the Royal Niger Company who
destroyed villages; they, instead, brought
good news. He spoke about their god, who
had come to the world to die, and who had a
son but no wife, and who was three but also
one. Many of the people around Nwamgba
laughed loudly. Some walked away, because
they had imagined that the white man was
full of wisdom. Others stayed and offered
cool bowls of water.
Weeks later, Ayaju brought another story:
the white men had set up a courthouse in
Onicha where they judged disputes. They
had indeed come to stay. For the first time,
Nwamgba doubted her friend. Surely the
people of Onicha had their own courts. The
clan next to Nwamgba’s, for example, held
its courts only during the new yam festival,
so that people’s rancor grew while they
awaited justice. A stupid system, Nwamgba
thought, but surely everyone had one. Ayaju
laughed and told Nwamgba again that
people ruled others when they had better
guns. Her son was already learning about
these foreign ways, and perhaps Anikwenwa
should, too. Nwamgba refused. It was
unthinkable that her only son, her single
132
L O S T I N T R A N S L AT ION S
eye, should be given to the white men, never
mind the superiority of their guns.
Three events, in the following years, caused
Nwamgba to change her mind. The first
was that Obierika’s cousins took over a large
piece of land and told the elders that they
were farming it for her, a woman who had
emasculated their dead brother and now
refused to remarry, even though suitors
came and her breasts were still round.
The elders sided with them. The second
was that Ayaju told a story of two people
who had taken a land case to the white
men’s court; the first man was lying but
could speak the white men’s language, while
the second man, the rightful owner of the
land, could not, and so he lost his case, was
beaten and locked up, and ordered to give up
his land. The third was the story of the boy
Iroegbunam, who had gone missing many
years ago and then suddenly reappeared,
a grown man, his widowed mother mute
with shock at his story: a neighbor, whom
his father had often shouted down at Age
Grade meetings, had abducted him when
his mother was at the market and taken him
to the Aro slave dealers, who looked him
over and complained that the wound on his
leg would reduce his price. He was tied to
others by the hands, forming a long human
column, and he was hit with a stick and told
to walk faster. There was one woman in the
group. She shouted herself hoarse, telling
the abductors that they were heartless, that
her spirit would torment them and their
children, that she knew she was to be sold to
the white man and did they not know that
the white man’s slavery was very different,
that people were treated like goats, taken
on large ships a long way away, and were
eventually eaten? Iroegbunam walked and
walked and walked, his feet bloodied, his
body numb, until all he remembered was
the smell of dust. Finally, they stopped at
a coastal clan, where a man spoke a nearly
incomprehensible Igbo, but Iroegbunam
made out enough to understand that another
man who was to sell them to the white
people on the ship had gone up to bargain
with them but had himself been kidnapped.
There were loud arguments, scuffling; some
of the abductees yanked at the ropes and
Iroegbunam passed out. He awoke to find
a white man rubbing his feet with oil and
at first he was terrified, certain that he was
being prepared for the white man’s meal, but
this was a different kind of white man, who
bought slaves only to free them, and he took
Iroegbunam to live with him and trained
him to be a Christian missionary.
Iroegbunam’s story haunted Nwamgba,
because this, she was sure, was the way
Obierika’s cousins were likely to get rid
of her son. Killing him would be too
dangerous, the risk of misfortunes from the
oracle too high, but they would be able to
sell him as long as they had strong medicine
to protect themselves. She was struck, too,
by how Iroegbunam lapsed into the white
man’s language from time to time.
It sounded nasal and disgusting. Nwamgba
had no desire to speak such a thing herself,
but she was suddenly determined that
Anikwenwa would speak enough of it to go
to the white men’s court with Obierika’s
cousins and defeat them and take control
of what was his. And so, shortly after
Iroegbunam’s return, she told Ayaju that she
wanted to take her son to school.
They went first to the Anglican mission.
The classroom had more girls than boys,
sitting with slates on their laps while the
teacher stood in front of them, holding a big
cane, telling them a story about a man who
transformed a bowl of water into wine.
The teacher’s spectacles impressed
Nwamgba, and she thought that the man in
the story must have had powerful medicine
to be able to transform water into wine, but
when the girls were separated and a woman
teacher came to teach them how to sew
Nwamgba found this silly. In her clan, men
sewed cloth and girls learned pottery. What
dissuaded her completely from sending
Anikwenwa to the school, however, was that
the instruction was done in Igbo. Nwamgba
asked why. The teacher said that, of course,
the students were taught English – he held
up an English primer – but children learned
best in their own language and the children
in the white men’s land were taught in their
own language, too. Nwamgba turned to
leave. The teacher stood in her way and
told her that the Catholic missionaries
were harsh and did not look out for the
best interests of the natives. Nwamgba was
amused by these foreigners, who did not
seem to know that one must, in front of
strangers, pretend to have unity. But she had
come in search of English, and so she walked
APPENDICE
past him and went to the Catholic mission.
Father Shanahan told her that Anikwenwa
would have to take an English name,
because it was not possible to be baptized
with a heathen name. She agreed easily.
His name was Anikwenwa as far as she was
concerned; if they wanted to name him
something she could not pronounce before
teaching him their language, she did not
mind at all. All that mattered was that he
learn enough of the language to fight his
father’s cousins. Father Shanahan looked at
Anikwenwa, a dark-skinned, well-muscled
child, and guessed that he was about twelve,
although he found it difficult to estimate the
ages of these people; sometimes what looked
like a man would turn out to be a mere
boy. It was nothing like in Eastern Africa,
where he had previously worked, where the
natives tended to be slender, less confusingly
muscular. As he poured some water on the
boy’s head, he said, “Michael, I baptize you
in the name of the Father and of the Son and
of the Holy Spirit.”
He gave the boy a singlet and a pair of
shorts, because the people of the living God
did not walk around naked, and he tried to
preach to the boy’s mother, but she looked at
him as if he were a child who did not know
any better. There was something troublingly
assertive about her, something he had seen
in many women here; there was much
potential to be harnessed if their wildness
were tamed. This Nwamgba would make a
marvellous missionary among the women.
He watched her leave. There was a grace in
her straight back, and she, unlike others,
had not spent too much time going round
and round in her speech. It infuriated him,
their overlong talk and circuitous proverbs,
their never getting to the point, but he was
determined to excel here; it was the reason
he had joined the Holy Ghost congregation,
whose special vocation was the redemption
of black heathens. Nwamgba was alarmed
by how indiscriminately the missionaries
flogged students: for being late, for being
lazy, for being slow, for being idle, and,
once, as Anikwenwa told her, Father Lutz
put metal cuffs around a girl’s hands to
teach her a lesson about lying, all the time
saying in Igbo – for Father Lutz spoke a
broken brand of Igbo – that native parents
pampered their children too much, that
133
teaching the Gospel also meant teaching
proper discipline. The first weekend
Anikwenwa came home, Nwamgba saw
welts on his back, and she tightened her
wrapper around her waist and went to the
school and told the teacher that she would
gouge out the eyes of everyone at the mission
if they ever did that to him again. She knew
that Anikwenwa did not want to go to school
and she told him that it was only for a year
or two, so that he could learn English, and
although the mission people told her not to
come so often, she insistently came every
weekend to take him home. Anikwenwa
always took off his clothes even before they
had left the mission compound. He disliked
the shorts and shirt that made him sweat,
the fabric that was itchy around his armpits.
He disliked, too, being in the same class as
old men, missing out on wrestling contests.
But Anikwenwa’s attitude toward school
slowly changed. Nwamgba first noticed this
when some of the other boys with whom he
swept the village square complained that he
no longer did his share because he was at
school, and Anikwenwa said something in
English, something sharp-sounding, which
shut them up and filled Nwamgba with an
indulgent pride. Her pride turned to vague
worry when she noticed that the curiosity in
his eyes had diminished. There was a new
ponderousness in him, as if he had suddenly
found himself bearing the weight of a heavy
world. He stared at things for too long. He
stopped eating her food, because, he said,
it was sacrificed to idols. He told her to tie
her wrapper around her chest instead of her
waist, because her nakedness was sinful. She
looked at him, amused by his earnestness,
but worried nonetheless, and asked why he
had only just begun to notice her nakedness.
When it was time for his initiation
ceremony, he said he would not participate,
because it was a heathen custom to be
initiated into the world of spirits, a custom
that Father Shanahan had said would have
to stop. Nwamgba roughly yanked his ear
and told him that a foreign albino could
not determine when their customs would
change, and that he would participate or
else he would tell her whether he was her
son or the white man’s son. Anikwenwa
reluctantly agreed, but as he was taken away
with a group of other boys she noticed that
he lacked their excitement. His sadness
134
L O S T I N T R A N S L AT ION S
saddened her. She felt her son slipping away
from her, and yet she was proud that he
was learning so much, that he could be a
court interpreter or a letter writer, that with
Father Lutz’s help he had brought home
some papers that showed that their land
belonged to them. Her proudest moment
was when he went to his father’s cousins
Okafo and Okoye and asked for his father’s
ivory tusk back. And they gave it to him.
Nwamgba knew that her son now inhabited
a mental space that she was unable to
recognize. He told her that he was going to
Lagos to learn how to be a teacher, and even
as she screamed – How can you leave me?
Who will bury me when I die? – she knew
that he would go. She did not see him for
many years, years during which his father’s
cousin Okafo died. She often consulted the
oracle to ask whether Anikwenwa was still
alive, and the dibia admonished her and sent
her away, because of course he was alive.
Finally, he returned, in the year that the clan
banned all dogs after a dog killed a member
of the Mmangala Age Grade, the age group
to which Anikwenwa would have belonged
if he did not believe that such things were
devilish. Nwamgba said nothing when
Anikwenwa announced that he had been
appointed catechist at the new mission.
She was sharpening her aguba on the
palm of her hand, about to shave patterns
into the hair of a little girl, and she
continued to do so – flick flick flick – while
Anikwenwa talked about winning the souls
of the members of their clan. The plate of
breadfruit seeds she had offered him was
untouched – he no longer ate anything at
all of hers – and she looked at him, this
man wearing trousers and a rosary around
his neck, and wondered whether she had
meddled with his destiny. Was this what his
chi had ordained for him, this life in which
he was like a person diligently acting a
bizarre pantomime?
The day that he told her about the woman
he would marry, she was not surprised.
He did not do it as it was done, did not
consult people about the bride’s family, but
simply said that somebody at the mission
had seen a suitable young woman from
Ifite Ukpo, and the suitable young woman
would be taken to the Sisters of the Holy
Rosary in Onicha to learn how to be a good
Christian wife. Nwamgba was sick with
malaria that day, lying on her mud bed,
rubbing her aching joints, and she asked
Anikwenwa the young woman’s name.
Anikwenwa said it was Agnes. Nwamgba
asked for the young woman’s real name.
Anikwenwa cleared his throat and said she
had been called Mgbeke before she became
a Christian, and Nwamgba asked whether
Mgbeke would at least do the confession
ceremony even if Anikwenwa would not
follow the other marriage rites of their
clan. He shook his head furiously and told
her that the confession made by women
before marriage, in which, surrounded by
female relatives, they swore that no man had
touched them since their husband declared
his interest, was sinful, because Christian
wives should not have been touched at all.
The marriage ceremony in the church was
laughably strange, but Nwamgba bore it
silently and told herself that she would
die soon and join Obierika and be free of
a world that increasingly made no sense.
She was determined to dislike her son’s
wife, but Mgbeke was difficult to dislike,
clear-skinned and gentle, eager to please
the man to whom she was married, eager
to please everyone, quick to cry, apologetic
about things over which she had no control.
And so, instead, Nwamgba pitied her.
Mgbeke often visited Nwamgba in tears,
saying that Anikwenwa had refused to eat
dinner because he was upset with her, that
Anikwenwa had banned her from going
to a friend’s Anglican wedding because
Anglicans did not preach the truth, and
Nwamgba would silently carve designs on
her pottery while Mgbeke cried, uncertain
of how to handle a woman crying about
things that did not deserve tears. Mgbeke
was called “missus” by everyone, even the
non-Christians, all of whom respected the
catechist’s wife, but on the day she went to
the Oyi stream and refused to remove her
clothes because she was a Christian the
women of the clan, outraged that she had
dared to disrespect the goddess, beat her
and dumped her at the grove. The news
spread quickly. Missus had been harassed.
Anikwenwa threatened to lock up all the
elders if his wife was treated that way again,
but Father O’Donnell, on his next trek from
his station in Onicha, visited the elders and
apologized on Mgbeke’s behalf, and asked
APPENDICE
whether perhaps Christian women could
be allowed to fetch water fully clothed.
The elders refused – if a woman wanted
Oyi’s waters, then she had to follow Oyi’s
rules – but they were courteous to Father
O’Donnell, who listened to them and did
not behave like their own son Anikwenwa.
Nwamgba was ashamed of her son, irritated
with his wife, upset by their rarefied life in
which they treated non-Christians as if they
had smallpox, but she held out hope for a
grandchild; she prayed and sacrificed for
Mgbeke to have a boy, because she knew
that the child would be Obierika come
back and would bring a semblance of sense
again into her world. She did not know of
Mgbeke’s first or second miscarriage; it was
only after the third that Mgbeke, sniffling
and blowing her nose, told her. They had
to consult the oracle, as this was a family
misfortune, Nwamgba said, but Mgbeke’s
eyes widened with fear. Michael would be
very angry if he ever heard of this oracle
suggestion. Nwamgba, who still found it
difficult to remember that Michael was
Anikwenwa, went to the oracle herself, and
afterward thought it ludicrous how even the
gods had changed and no longer asked for
palm wine but for gin. Had they converted, too?
A few months later, Mgbeke visited, smiling,
bringing a covered bowl of one of those
concoctions that Nwamgba found inedible,
and Nwamgba knew that her chi was still
wide awake and that her daughter-in-law
was pregnant. Anikwenwa had decreed that
Mgbeke would have the baby at the mission
in Onicha, but the gods had different plans,
and she went into early labor on a rainy
afternoon; somebody ran in the drenching
rain to Nwamgba’s hut to call her. It was
a boy. Father O’Donnell baptized him
Peter, but Nwamgba called him Nnamdi,
because he would be Obierika come back.
She sang to him, and when he cried she
pushed her dried-up nipple into his mouth,
but, try as she might, she did not feel the
spirit of her magnificent husband, Obierika.
Mgbeke had three more miscarriages, and
Nwamgba went to the oracle many times
until a pregnancy stayed, and the second
baby was born at the mission in Onicha. A
girl. From the moment Nwamgba held her,
the baby’s bright eyes delightfully focussed
on her, she knew that the spirit of Obierika
135
had finally returned; odd, to have come
back in a girl, but who could predict the
ways of the ancestors? Father O’Donnell
baptized the baby Grace, but Nwamgba
called her Afamefuna – “my name will not
be lost” – and was thrilled by the child’s
solemn interest in her poetry and her stories,
by the teen-ager’s keen watchfulness as
Nwamgba struggled to make pottery with
newly shaky hands. Nwamgba was not
thrilled that Afamefuna was sent away to
secondary school in Onicha. (Peter was
already living with the priests there.) She
feared that, at boarding school, the new
ways would dissolve her granddaughter’s
fighting spirit and replace it with either an
incurious rigidity, like her son’s, or a limp
helplessness, like Mgbeke’s.
The year that Afamefuna left for secondary
school, Nwamgba felt as if a lamp had been
blown out in a dim room. It was a strange
year, the year that darkness suddenly
descended on the land in the middle of the
afternoon, and when Nwamgba felt the
deep-seated ache in her joints she knew that
her end was near. She lay on her bed gasping
for breath, while Anikwenwa pleaded with
her to be baptized and anointed so that he
could hold a Christian funeral for her, as he
could not participate in a heathen ceremony.
Nwamgba told him that if he dared to bring
anybody to rub some filthy oil on her she
would slap them with her last strength. All
she wanted before she joined the ancestors
was to see Afamefuna, but Anikwenwa
said that Grace was taking exams at school
and could not come home. But she came.
Nwamgba heard the squeaky swing of
her door, and there was Afamefuna, her
granddaughter, who had come on her own
from Onicha because she had been unable
to sleep for days, her restless spirit urging
her home. Grace put down her schoolbag,
inside of which was her textbook, with a
chapter called “The Pacification of the
Primitive Tribes of Southern Nigeria,” by
an administrator from Bristol who had lived
among them for seven years.
It was Grace who would eventually read
about these savages, titillated by their
curious and meaningless customs, not
connecting them to herself until her
teacher Sister Maureen told her that she
136
L O S T I N T R A N S L AT ION S
could not refer to the call-and-response
her grandmother had taught her as poetry,
because primitive tribes did not have poetry.
It was Grace who would laugh and laugh
until Sister Maureen took her to detention
and then summoned her father, who slapped
Grace in front of the other teachers to show
them how well he disciplined his children.
It was Grace who would nurse a deep scorn
for her father for years, spending holidays
working as a maid in Onicha so as to avoid
the sanctimonies, the dour certainties, of
her parents and her brother. It was Grace
who, after graduating from secondary
school, would teach elementary school in
Agueke, where people told stories of the
destruction of their village by the white
men with guns, stories she was not sure she
believed, because they also told stories of
mermaids appearing from the River Niger
holding wads of crisp cash. It was Grace
who, as one of a dozen or so women at the
University College in Ibadan in 1953, would
change her degree from chemistry to history
after she heard, while drinking tea at the
home of a friend, the story of Mr. Gboyega.
The eminent Mr. Gboyega, a chocolateskinned Nigerian, educated in London,
distinguished expert on the history of the
British Empire, had resigned in disgust
when the West African Examinations
Council began talking of adding African
history to the curriculum, because he was
appalled that African history would even
be considered a subject. It was Grace who
would ponder this story for a long time,
with great sadness, and it would cause her
to make a clear link between education
and dignity, between the hard, obvious
things that are printed in books and the
soft, subtle things that lodge themselves in
the soul. It was Grace who would begin to
rethink her own schooling: How lustily she
had sung on Empire Day, “God save our
gracious king. Send him victorious, happy
and glorious. Long to reign over us.” How
she had puzzled over words like “wallpaper”
and “dandelions” in her textbooks, unable
to picture them. How she had struggled
with arithmetic problems that had to do
with mixtures, because what was “coffee”
and what was “chicory,” and why did they
have to be mixed? It was Grace who would
begin to rethink her father’s schooling
and then hurry home to see him, his eyes
watery with age, telling him she had not
received all the letters she had ignored,
saying amen when he prayed, and pressing
her lips against his forehead. It was Grace
who, driving past Agueke on her way to
the university one day, would become
haunted by the image of a destroyed village
and would go to London and to Paris and
to Onicha, sifting through moldy files in
archives, reimagining the lives and smells of
her grandmother’s world, for the book she
would write called “Pacifying with Bullets:
A Reclaimed History of Southern Nigeria.”
It was Grace who, in a conversation about
the book with her fiancé, George Chikadibia
– stylish graduate of King’s College, Lagos,
engineer-to-be, wearer of three-piece suits,
expert ballroom dancer, who often said that
a grammar school without Latin was like a
cup of tea without sugar – understood that
the marriage would not last when George
told her that it was misguided of her to
write about primitive culture instead of a
worthwhile topic like African Alliances in
the American-Soviet Tension. They would
divorce in 1972, not because of the four
miscarriages Grace had suffered but because
she woke up sweating one night and realized
that she would strangle George to death
if she had to listen to one more rapturous
monologue about his Cambridge days. It
was Grace who, as she received faculty
prizes, as she spoke to solemn-faced people
at conferences about the Ijaw and Ibibio and
Igbo and Efik peoples of Southern Nigeria,
as she wrote common-sense reports for
international organizations, for which she
nevertheless received generous pay, would
imagine her grandmother looking on with
great amusement. It was Grace who, feeling
an odd rootlessness in the later years of her
life, surrounded by her awards, her friends,
her garden of peerless roses, would go to the
courthouse in Lagos and officially change
her first name from Grace to Afamefuna.
But on that day, as she sat at her
grandmother’s bedside in the fading evening
light, Grace was not contemplating her
future. She simply held her grandmother’s
hand, the palm thickened from years of
making pottery.
—
APPENDICE
You in America
You believed that everybody in America
had a car and a gun. Your uncles and aunts
and cousins believed it too. Right after you
won the American visa lottery, they told
you, “In a month, you will have a big car.
Soon, a big house. But don’t buy a gun
like those Americans.” They trooped into
the shantytown house in Lagos, standing
beside the nail-studded zinc walls because
chairs did not go round, to say good bye
in loud voices and tell you with lowered
voices what they wanted you to send them.
In comparison to the big car and house (and
possibly gun), the things they wanted were
minor – handbags and shoes and vitamin
supplements. You said okay, no problem.
Your uncle in America said you could live
with him until you got on your feet.
He picked you up at the airport and bought
you a big hot dog with yellow mustard that
nauseated you. Introduction to America, he
said with a laugh. He lived in a small white
town in Maine, in a thirty-year-old house
by a lake. He told you that the company he
worked for had offered him a few thousand
more plus stocks because they were
desperately trying to look diverse.
They included him in every brochure,
even those that had nothing to do with
engineering. He laughed and said the job
was good, was worth living in an all-white
town even though his wife had to drive an
hour to find a hair salon that did black hair.
The trick was to understand America, to
know that America was give and take. You
gave up a lot but you gained a lot too.
He showed you how to apply for a cashier
job in the gas station on Main Street, and he
enrolled you in a community college, where
the girls were curious about your hair. Does
it stand up or fall down when you take the
braids out? All of it stands up? How? Why?
Do you use a comb? You smiled tightly when
they asked those questions. Your uncle told
you to expect it; a mixture of ignorance and
arrogance, he called it. Then he told you
how the neighbors said, a few months after
he moved into his house, that the squirrels
had started to disappear. They had heard
Africans ate all kinds of wild animals.
You laughed with your uncle and you felt
at home in his house, his wife called you
nwanne – sister – and his two school-age
children called you Aunty. They spoke Igbo
137
and ate garri for lunch and it was like home.
Until your uncle came into the cramped
basement where you slept with old trunks
and wheels and books and grabbed your
breasts, as though he was plucking mangoes
from a tree, moaning. He wasn’t really your
uncle, he was actually a distant cousin of
your aunt’s husband, not related by blood.
As you packed your bags that night, he sat
on your bed – it was his house after all – and
laughed and said you had nowhere to go. If
you let him, he would do many things for
you. Smart women did it all the time. How
did you think those women back home in
Lagos with well-paying jobs made it? Even
women in New York? You locked yourself
in the bathroom and the next morning you
left, walking the long windy road, smelling
the baby fish in the lake. You saw him drive
past, he had always dropped you off at Main
Street, and he didn’t honk. You wondered
what he would tell his wife, why you had
left. And you remembered what he said, that
America was give and take. You ended up
in Connecticut, another little town, because
it was the last stop of the Bonanza bus you
got on. Bonanza was the cheapest bus. You
walked into the restaurant nearby and said
you would work for two dollars less than
the other waitresses. The owner, Juan, had
inky black hair and smiled to show a bright
yellowish tooth. He said he had never had
a Nigerian employee but all immigrants
worked hard. He knew, he’d been there.
He’d pay you a dollar less, but under the
table. He didn’t like all the taxes they were
making him pay. You could not afford to go
to school, because now you paid rent for the
tiny room with the stained carpet. Besides,
the small Connecticut town didn’t have a
community college and a credit in the State
University cost too much. So you went to
the Public Library, you looked up course
syllabi on school web sites and read some of
the books. Sometimes you sat on the lumpy
mattress of your twin bed and thought about
home. Your parents, your uncles and aunts,
your cousins, your friends. The people who
never broke a profit from the mangoes and
akara they hawked, whose houses – zinc
sheets precariously held by nails – fell apart
in the rainy season. The people who came
out to say goodbye, to rejoice because you
won the American visa lottery, to confess
their envy. The people who sent their
138
L O S T I N T R A N S L AT ION S
children to the secondary school where
teachers gave an A when someone slipped
them brown envelopes. You had never
needed to pay for an A, never slipped a
brown envelope to a teacher in secondary
school. Still, you chose long brown
envelopes to send half your month’s earning
to your parents. The bills that Juan gave
you which were crisper than the tips. Every
month. You didn’t write a letter. There was
nothing to write about. The first weeks you
wanted to write though, because you had
stories to tell. You wanted to write about the
surprising openness of people in America,
how eagerly they told you about their mother
fighting cancer, about their sister-in-law’s
preemie – things people should hide, should
reveal only to the family members who
wished them well. You wanted to write about
the way people left so much food on their
plates and crumpled a few dollar bills down,
as though it was an offering, expiation for
the wasted food. You wanted to write about
the child who started to cry and pull at her
blond hair and instead of the parents making
her shut up, they pleaded with her and then
they all got up and left. You wanted to write
that everybody in America did not have a
big house and car, you still were not sure
about the guns though because they might
have them inside their bags and pockets.
It wasn’t just your parents you wanted to
write, it was your friends and cousins and
aunts and uncles. But you could never afford
enough handbags and shoes and vitamin
supplements to go around and still pay
your rent, so you wrote nobody. Nobody
knew where you were because you told no
one. Sometimes you felt invisible and tried
to walk through your room wall into the
hallway and when you bumped into the wall,
it left bruises on your arms. Once, Juan
asked if you had a man that hit you because
he would take care of him and you laughed
a mysterious laugh. At nights, something
wrapped itself around your neck, something
that very nearly always choked you before
you woke up.
Some people thought you were from Jamaica
because they thought that every black person
with an accent was Jamaican. Or some
who guessed that you were African asked if
you knew so and so from Kenya or so and
so from Zimbabwe because they thought
Africa was a country where everyone knew
everyone else. So when he asked you, in the
dimness of the restaurant after you recited
the daily specials, what African country you
were from, you said Nigeria and expected
him to ask if you knew a friend he had made
in the Peace Corps in Senegal or Botswana.
But he asked if you were Yoruba or Igbo,
because you didn’t have a Fulani face. You
were surprised – you thought he must be a
professor of anthropology, a little young but
who was to say? Igbo, you said. He asked
your name and said Akunna was pretty.
He did not ask what it meant, fortunately,
because you were sick of how people said,
Father’s Wealth? You mean, like, your father
will actually sell you to a husband?
He had been to Ghana and Kenya and
Tanzania, he had read about all the other
African countries, their histories, their
complexities. You wanted to feel disdain,
to show it as you brought his order, because
white people who liked Africa too much
and who liked Africa too little were the
same – condescending. But he didn’t act
like he knew too much, didn’t shake his
head in the superior way a professor back
in the community college once did as he
talked about Angola, didn’t show any
condescension. He came in the next day
and sat at the same table and when you
asked if the chicken was okay, he asked you
something about Lagos. He came in the
second day and talked for so long – asking
you often if you didn’t think Mobutu and
Idi Amin were similar – you had to tell him
it was against restaurant policy. He brushed
your hand when you placed the coffee down.
The third day, you told Juan you didn’t want
that table anymore.
After your shift that day, he was waiting
outside, leaning by a pole, asking you to go
out with him because your name rhymed
with hakuna matata and The Lion King was
the only maudlin movie he’d ever liked. You
didn’t know what The Lion King was. You
looked at him in the bright light and realized
that his eyes were the color of extra virgin
olive oil, a greenish gold. Extra-virgin olive
oil was the only thing you enjoyed, truly
enjoyed, in America. He was a senior at the
State University. He told you how old he was
and you asked why he had not graduated
yet. This was America, after all, it was not
APPENDICE
like back home where Universities closed
so often that people added three years to
their normal course of study and Lecturers
went on strike after strike and were still
not paid. He said he had taken time off, a
couple of years after high school, to discover
himself and travel, mostly to Africa and
Asia. You asked him where he ended up
finding himself and he laughed. You did
not laugh. You did not know that people
could simply choose not to go to school, that
people could dictate to life. You were used
to accepting what life gave, writing down
what life dictated. You said no the following
three days, to going out with him, because
you didn’t think it was right, because you
were uncomfortable with the way he looked
in your eyes, the way you laughed so easily
at what he said. And then the fourth night,
you panicked when he was not standing at
the door, after your shift. You prayed for the
first time in a long time and when he came
up behind you and said, hey, you said yes,
you would go out with him, even before he
asked. You were scared he would not ask
again. The next day, he took you to Chang’s
and your fortune cookie had two strips of
paper. Both of them were blank.
You knew you had become comfortable
when you told him the real reason you asked
Juan for a different table – Jeopardy. When
you watched Jeopardy on the restaurant TV,
you rooted for the following, in this order –
women of color, white women, black men,
and finally white men, which meant you
never rooted for white men. He laughed and
told you he was used to not being rooted for,
his mother taught Women’s Studies.
And you knew you had become close when
you told him that your father was really not
a school teacher in Lagos, that he was a taxi
driver. And you told him about that day
in Lagos traffic in your father’s car, it was
raining and your seat was wet because of the
rust-eaten hole in the roof. The traffic was
heavy, the traffic was always heavy in Lagos,
and when it rained it was chaos. The roads
were so badly drained some cars would get
stuck in muddy potholes and some of your
cousins got paid to push the cars out. The
rain and the swampy road – you thought
– made your father step on the brakes too
late that day. You heard the bump before
you felt it. The car your father rammed into
139
was big, foreign and dark green, with yellow
headlights like the eyes of a cat. Your father
started to cry and beg even before he got out
of the car and laid himself flat on the road,
stopping the traffic. Sorry sir, sorry sir, if
you sell me and my family you cannot even
buy one tire in your car, he chanted. Sorry
sir. The big man seated at the back did not
come out. His driver did, examining the
damage, looking at your father’s sprawled
form from the corner of his eye as though
the pleading was a song he was ashamed to
admit he liked. Finally, he let your father
go. Waved him away. The other cars honked
and drivers cursed. When your father
came back in the car, you refused to look at
him because he was just like the pigs that
waddled in the marshes around the market.
Your father looked like nsi. Shit.
After you told him this, he pursed his lips
and held your hand and said he understood.
You shook your hand free, annoyed, because
he thought the world was, or ought to be,
full of people like him. You told him there
was nothing to understand, it was just the
way it was.
He didn’t eat meat, because he thought
it was wrong the way they killed animals.
He said they released fear toxins into the
animals and the fear toxins made people
paranoid. Back home, the meat pieces you
ate, when there was meat, were the size
of half your finger. But you did not tell
him that. You did not tell him either that
the dawadawa cubes your mother cooked
everything with, because curry and thyme
were too expensive, had MSG, was MSG.
He said MSG caused cancer, and that was
the reason he liked Chang’s – Chang didn’t
cook with MSG. Once, at Chang’s, he told
the waiter he lived in Shanghai for a year,
that he spoke some Mandarin. The waiter
warmed up and told him what soup was best
and then asked him, “you have girlfriend in
Shanghai?” And he smiled and said nothing.
You lost your appetite, the region beneath
your breasts felt clogged inside. That night,
you didn’t moan when he was inside you,
you bit your lips and pretended that you
didn’t come because you knew he would
worry. Finally you told him why you were
upset, that the Chinese man assumed you
could not possibly be his girlfriend, and that
he smiled and said nothing.
140
L O S T I N T R A N S L AT ION S
Before he apologized, he gazed at you
blankly and you knew that he did not
understand.
He bought you presents and when you
objected about the cost, he said he had
a trust fund, it was okay. His presents
mystified you. A fist-sized ball that you
shook to watch snow fall on a tiny house,
or a plastic ballerina in pink spinning
around on a tiny stage. A shiny rock. An
expensive scarf hand-painted in Mexico
that you could never wear because of the
color. Finally you told him that Third
World presents were always useful.
The rock, for instance, would work if
you could grind things with it, or wear it.
He laughed long and hard, but you did
not laugh. You realized that in his life, he
could buy presents that were just presents
and nothing else, nothing useful. When he
started to buy you shoes and clothes and
books, you asked him not to, you didn’t
want any presents at all.
Still, you did not fight. Not really. You
argued and then you made up and made
love and ran your hands through each
other’s hair, his soft and yellow like the
swinging tassels of growing corncobs, yours
dark and bouncy like the filling of a pillow.
You felt safe in his arms, the same safeness
you felt back home, in the shantytown house
of zinc. When he got too much sun and his
skin turned the color of a ripe watermelon,
you kissed portions of his back before you
rubbed lotion on it slowly. It was more
intimate than sex. You felt involved, yet it
was one experience you both could never
share. You darkened in the sun but you were
too dark to ever get burned. He found the
African store in the Hartford Yellow Pages
and drove you there. The store owner, a
Ghanaian, asked him if he was African,
like the white Kenyans or South Africans
and he laughed and said yes, but he’d been
in America for a long time, had missed the
food of his childhood. You cooked for him;
he liked jollof rice but after he ate garri and
onugbu soup, he threw up in your sink.
You didn’t mind, because now you could
cook onugbu soup with meat. The thing that
wrapped itself around your neck, that nearly
always choked you before you fell asleep,
started to loosen, to let go. You knew by
people’s reactions that you were abnormal
– the way the nasty ones were too nasty and
the nice ones too nice. The old white women
who muttered and glared at him, the black
men who shook their heads at you, the black
women whose pitiful eyes bemoaned your
lack of self-esteem, your self-loathing. Or
the black women who ysmiled swift, secret
solidarity smiles, the black men who tried
too hard to forgive you, saying a too obvious
hi to him, the white women who said,
“what a good looking pair,” too brightly,
too loudly, as though to prove their own
tolerance to themselves. You did not tell him
but you wished you were lighter-skinned so
they would not stare so much. You thought
about your sister back home, about her skin
the color of honey, and wished you had come
out like her. You wished that again the night
you first met his parents. But you did not tell
him because he would look solemn and hold
your hand and tell you it was your burnished
skin color that first attracted him. You didn’t
want him to hold your hand and say he
understood because again there was nothing
to understand, it was just the way things
were. You wished you were light-skinned
enough to be mistaken for Puerto-Rican,
light-skinned enough so that, in the dim
light of the Indian restaurant where you
both shared samosas with his parents from
a centrally placed tray, you would seem
almost like them. His mother told you she
loved your braids, asked if those were real
cowries strung through them and what
female writers you read. His father asked
how similar Indian food was to Nigerian
food and teased you about paying when the
check came. You looked at them and felt
grateful that they did not examine you like
an exotic trophy, an ivory tusk. His mother
told you that he had never brought a girl to
meet them, except for his High School prom
date and he smiled stiffly and held your
hand. The tablecloth shielded your clasped
hands. He squeezed your hand and you
squeezed back and wondered why he was so
stiff, why his extra virgin olive-colored eyes
darkened as he spoke to his parents. He told
you about his issues with his parents later,
how they portioned out love like a birthday
cake, how they would give him a bigger slice
if only he’d go to Law School. You wanted to
sympathize. But instead you were angry.
You were angrier when he told he had
refused to go up to Canada with them for a
APPENDICE
week or two, to their summer cottage in the
Quebec countryside. They had even asked
him to bring you. He showed you pictures
of the cottage and you wondered why it was
called a cottage because the buildings that
big around your neighborhood back home
were banks and churches. You dropped a
glass and it shattered on the hardwood of
his apartment floor and he asked what was
wrong and you said nothing, although you
thought a lot was wrong. Your worlds were
wrong. Later, in the shower, you started to
cry, you watched the water dilute your tears
and you didn’t know why you were crying.
You wrote home finally, when the thing
around your neck had almost completely
let go. A short letter to your parents and
brothers and sisters, slipped in between
the crisp dollar bills, and you included
your address. You got a reply only days
later, by courier. Your mother wrote the
letter herself, you knew from the spidery
penmanship, from the misspelled words.
Your father was dead, he had slumped over
the steering wheel of his taxi. Five months
now, she wrote. They had used some of the
money you sent to give him a nice funeral.
They killed a goat for the guests and buried
him in a real coffin, not just planks of wood.
You curled up in bed, pressed your knees
tight to your chest and cried. He held
you while you cried, smoothed your hair,
and offered to go with you, back home to
Nigeria. You said no, you needed to go
alone. He asked if you would come back and
you reminded him that you had a green card
and you would lose it if you did not come
back in one year. He said you knew what he
meant, would you come back, come back?
You turned away and said nothing and when
he drove you to the airport, you hugged him
tight, clutching to the muscles of his back
until your ribs hurt. And you said thank you.
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