la moglie del mio amico

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la moglie del mio amico
Salamìyye
Salamìyye era la mèta tranquillizzante dei miei finesettimana, quando fuggivo dalla
forsennata e coercitiva vita della capitale per rifugiarmi in quell’oasi di pace dove il
ritmo della vita era rallentato. Piccolo centro attualmente privo d’interesse turistico,
doveva aver avuto la sua importanza in epoca preislamica dati i numerosi resti di
origine bizantina sparsi qua e là. Vien chiamata anche ‘Madre del Cairo’ poiché qui
nacque Mohammed al-Qaim Bi-Amrillah la cui dinastia si stabilì successivamente al
Cairo fondandovi il califfato fatimide. Il paese sta in un’antica area vulcanica e su un
piccolo cratere nelle vicinanze era stato costruito un castellozzo, la qalaat alshamamìs, la cittadella dei soli, le cui rovine sono mèta di piccole escursioni dei
giovani, che vanno a vedere tra l’altro la voragine ‘senza fondo’ dell’interno del
cratere, ormai spento da chissà quando. Gli abitanti di Salamìyye sono quasi tutti
Ismailiti con abitudini e regole ben diverse dai Sunniti. Intanto pregano tre volte al
giorno invece delle canoniche cinque. Non esiste appello alla preghiera e le loro
moschee non hanno minareto. Queste son quasi indistinguibili dalle case attorno e
all’interno non hanno né mihràb orientato alla Mecca né pulpito. Poi, fatto che a me
apparve subito evidente, è che le loro donne non sono segregate nel loro haràmlik, che
non esiste, bensì vivono in stanze aperte. Anche agli ospiti. E le mie prime volte,
proprio per la regola di non veder in genere le donne nelle case musulmane di Damasco,
faceva un certo effetto – piacevole d’altronde – vedersi attorno quella inattesa
presenza femminile. E ancor di più fui stupito la prima mattina in cui mi svegliai a casa
dell’amico Nagìb che aveva studiato medicina in Italia, quando scorsi le giovani sorelle
di Ràbaa sua moglie spiare dalle fessure della porta a vetri il mio risveglio per
portarmi subito il caffè. In quei periodi ebbi modo di curiosare in cucina e osservare
come cucinavano, come preparavano i litri di caffè arabo – non quello turco, coi fondi,
pur presente – che serviva da benvenuto all’ospite in tutti i momenti e girava durante
le chiacchierate di gruppo in circolo nei màjlis, le stanze di riunione, in cui per tutto il
giorno c’era un continuo viavai di visitatori. E ancora vidi preparare i makdùs, le
deliziose piccole melanzane sott’olio ripiene di peperoncino, noci, aglio e chissà
cos’altro ancora. In un’atmosfera rilassata che a Damasco ci si sognava. E dando retta
alle donne e interessandomi alle loro attività divenni il loro cocco per cui facevano a
gara per indovinare i miei desideri e provvedere alle mie necessità. Che per lo più non
esistevano, ma secondo loro sì. C’era Hanàn Umm Alì, moglie del padron di casa, madre
di Ràbaa e zia di Nagìb. Ancor relativamente giovane, era la più attiva: faceva le
spese, organizzava i lavori in cucina e nel complesso della casa, dirigendo le attività
delle altre donne naturalmente e tranquillamente, quasi senza darlo a vedere e
imponendosi, con dolcezza, anche su Abu Alì suo marito, che ben volentieri sottostava
a quell’autorità, spesso per lui molto comoda e tranquillizzante, che non intaccava per
niente la sua formale posizione di padron di casa. Umm Alì mi accettava molto
volentieri in cucina – dove l’uomo in genere, anche di casa, era considerato quasi
sempre un intruso – illustrandomi le sue diverse attività con dovizia di particolari e di
terminologia specifica. Come mi chiedeva con curiosità della mia famiglia, di cosa
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faceva la donna in Italia sia in casa che fuori, del matrimonio, dei figli, delle scuole,
dei vecchi e di tutto quanto potesse destar in lei un minimo di interesse.
Thamànya Umm Nagìb, madre del mio amico, non abitava dal cognato Abu Alì, però era
come vi abitasse. Viveva nei pressi col marito Fàyeq Abu Nagìb che era spesso in giro
per lavoro. La donna arrivava di buonora, dopo aver sbrigato rapidamente casa sua, e
aiutava Umm Alì nelle faccende. Poi si sedeva accanto a Khadìgia a chiacchierare e a
sentir le chiacchiere di chi sostava nella stanza di quel budda. Perché Khadìgia era il
maggior centro d’interesse della casa, il personaggio che la gente veniva a visitare. Poi
venivano tutti gli altri. Sorella del padron di casa, di mezza età, nubile, era talmente
grassa che – chissà da quanto – non riusciva più ad alzarsi da sola da dove era
perennemente seduta e radicata. Là riceveva gli ospiti, mangiava, si lavava, dormiva,
eccetera. Non l’ho mai vista se non assisa, proprio come un budda, al centro della
parete di fronte alla porta della stanza che, come dicevo, era il luogo più frequentato
della casa, il vero màjlis. Nella mattinata si alternavano le donne a raccontare, e
sentire, le ultime novità. Nel pomeriggio era il turno degli uomini di passare da
Khadìgia, anche per poco, prima di andare a stazionare nella stanza più grande, il
màjlis ufficiale di ricevimento dove stava Abu Alì. Lei ascoltava i visitatori, fossero
pettegolezzi che questioni importanti, poi esprimeva la sua opinione su questo e su
quello, dispensando saggi consigli che venivano sempre accolti con reverenza e
accondiscendenza. Khadìgia era quindi il giornale, o la radio, locale. Il pozzo delle
notizie sempre fresche cui si abbeverava a turno, alimentadolo nello stesso tempo,
praticamente tutta la gente del quartiere. Quando passavo a salutarla al mattino – in
genere verso le sei mentre lei, radicata al suo posto, si stava preparando le trecce –
mi accoglieva con un ampio sorriso: «‘Ayne, occhi miei, benvenuto, ya ‘azìzi, mio caro,
che il mattino ti sia propizio», e batteva la mano destra per terra a indicare di
sedermi accanto a lei. Poi due altri schiocchi di mani a chiamar qualcuno che portasse
il caffè. E talvolta anche la colazione, se non l’avevo già presa con Abu Alì. Allora
arrivava Ràbaa o Umm Alì, o una delle altre figlie, con il grande vassoio colmo di uova
sode, makdùs, olio di sesamo da intingerci il boccone di pane prima di passarlo nel timo
essicato e sbriciolato. Formaggini e formaggi di capra, olive varie. E tè a litri. E ...
yerba maté, cioè l’erba mate, qui senza dubbio più diffusa e apprezzata del tè.
Portate da emigranti arabi di ritorno dal Sudamerica, queste foglie da infuso avevano
presto preso piede in varie zone del Vicino Oriente ch’era divenuto uno dei maggiori
importatori di quel prodotto. Con queste foglie secche, già sbriciolate nella confezione
originale, si riempiva un bicchiere, vi si versava sopra l’acqua bollente e l’infuso veniva
sorbito attraverso la ‘bombilla’, una speciale cannuccia metallica con un bulbo forato
alla base che permetteva di filtrare il liquido caldo. Il bicchiere con quella sua
cannuccia, così preparato, veniva dato prima all’ospite, poi, riempito sempre di nuova
acqua calda, passava di bocca in bocca venendo utilizzato da più persone. Io preferivo
il tè. Ma Khadìgia mi metteva in mano il bicchiere caldo con grande affetto, per cui
non potevo sottrarmi almeno a una dose, lasciando poi a lei di esaurire il gusto della
yerba. E intanto – fra il contingente – mi chiedeva le solite cose che incuriosivano le
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donne arabe sulla vita in Italia. Specie per quanto riguardava quella delle donne
italiane di una certa età. Per cui ascoltava con particolare interesse quanto le
raccontavo di mia madre, delle sue amiche, ma anche di mia nonna e della vita in
campagna, che forse sentiva più prossima alla sua. Sapevo poi che lei riferiva alle sue
amiche quanto le dicevo, esprimendo le sue opinioni e i suoi commenti su
quell’argomento esotico al corteo femminile che nel corso della mattinata passava da
lei.
Il grande segnale della fede ismailita della gente di Salamìyye, presente in tutte le
abitazioni del paese, era il gigantesco ritratto di un metro per uno e mezzo di Karìm
Aga Khan che campeggiava nelle stanze delle riunioni. E all’italiano faceva un certo
effetto trovare appesa, grande, oggetto di attenzione religiosa, quell’immagine che in
Italia appariva solo nelle pagine di cronaca mondana dei rotocalchi, richiamando alla
mente le imprese turistiche della Costa Smeralda, gli hotel di gran lusso, le scuderie
di purosangue da corsa – che di meno religioso non si può – dove il personaggio era
allora noto per avere valorizzato turisticamente quell’area della Sardegna.
(continua alla prossima)
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