Van Gogh e Munch Pittori della deformazione Van Gogh

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Van Gogh e Munch Pittori della deformazione Van Gogh
Van Gogh e Munch
pittoriGogh
della deformazione
Van
e Munch
Pittori della deformazione
Sara Paganini
Liceo Artistico Cardarelli
A.s 2011/2012
Classe 5^D
Sara Paganini
classe 5d
a.s 2011/12
Van Gogh e Munch
Pittori della deformazione
Sara Paganini
Liceo Artistico Cardarelli
A.s 2011/2012
Classe 5^D
Indice
Van gogh
Episodi che segnano la sua vita d’artista
Mangiatori di patate
Ritratto di Perè Tanguy
Notte stellata
Autoritratto con tavolozza
Campo di grano con corvi
Edvard Munch
Episodi che segnano la sua vita d’artista
Bambina malata
Pubertà
L’urlo
Sera sul corso Karl Johann
Introduzione
Il tema della deformazione è la cosa che ha colpito di più la mia attenzione, in questo
anno di Storia dell’arte. Ho deciso di intraprendere un’analisi più approfondita di questi
due artisti che hanno anticipato la prima avanguardia storica del 900: l’Espressionismo.
Van Gogh e Munch hanno frequentato luoghi comuni, come per esempio Parigi, che li ha
messi a stretto contatto con l’Impressionismo che ormai era costretto a scomparire, dopo
un ventennio di gloria.
Van Gogh con le sue deformazioni voleva esprimere e dimostrare allo spettatore una
sua visione personale, interiore, della realtà.
Munch usava la deformazione per esprimere angoscia, alienazione, disperazione. Lui
stesso definisce la pittura diversa dalla natura.
Vincent Van Gogh
“Il mio grande desiderio è d’imparare a fare delle deformazioni, o inesattezze o mutamenti del vero; il mio desiderio è che vengano fuori, se si vuole anche delle bugie, ma
bugie che siano più vere della verità letterale”.
Episodi che hanno segnato la sua vita d’artista
Vincent Willem Gogh nasce in Olanda nel 1853 da un pastore protestante e dalla madre
figlia di un rilegatore della corte olandese.
Dopo un primo tentativo come venditore d’arte (1869), Vincent decise di provare a fare i
test di ammissione alla facoltà di teologia di Amsterdam, fu in seguito respinto(1875).
Inizio dell’amicizia con il pittore olandese Anthon van Rappard, questo portò nella vita di
Vincent un incredibile svolta, lo avvicinò ancora di più al mondo dell’arte.
Dopo essersi trasferito a Nuenen, dove vive a stretto contatto con contadini e minatori,
nell’aprile del 1885 dipinge le due versioni dei Mangiatori di patate.
Ad Anversa viene a contatto per la prima volta con le stampe giapponesi, i soggetti e i
colori lo colpiscono a tal punto che saranno poi lo sfondo di alcuni suoi ritratti tra cui quello
di Père Tanguy datato 1887.
Durante il 1886 Vincent si trasferisce a Parigi. Ne rimane colpito, e ne parla in una lettera: «non c’è che Parigi: per quanto difficile possa essere qui la vita, e anche se divenisse
peggiore e più dura, l’aria francese libera il cervello e fa bene, un mondo di bene»1 .
Quando decide di trasferirsi ad Arles invita anche l’amico Gauguin e per un breve periodo riescono a convivere nella famosa casa gialla dipinta numerose volte da Van Gogh.
Questa convivenza è utile ad entrambi, durante questo periodo Van Gogh crea numerose
opere, tra cui “La notte stellata”. Dopo una lite Gauguin decide di tornare a Parigi, Vincent
la stessa notte della lite decide di tagliarsi il lobo dell’orecchio destro.
1889 Vincent esprime al fratello la sua volontà di essere internato in una casa di cura,
l’otto maggio entra a Sant-Rémy-de-Provence, dove dipinge Girasoli ed Iris e numerosi
autoritratti tra cui Autoritratto con tavolozza che andremo in seguito ad analizzare.
Nel 1890 muore ad Auvers-sur-Olse a pochi chilometri da Parigi, aveva appena terminato quello che sarà il suo ultimo quadro Campo di grano con corvi.
I mangiatori di patate
Il dipinto è datato 1885, ed è stato eseguito a Nuenen un paese di minatori. L’artista è
particolarmente interessano alle fisionomie dei contadini del paese: i lineamenti sono
marcati, la fronte è bassa e le labbra sono carnose; le donne portano delle cuffie bianche. Per l’ambientazione l’artista visita numerose case per studiarne gli interni dal vero.
Vincent invia numerosi schizzi al fratello Theo, uniti alle lettere, con esse vengono invitate
delle stampe di una litografia del quadro, non ancora terminato.
Lo sfondo è l’interno di una casa contadina di Nuenen, quella dei De Groot dove Vincent
trascorre lunghe sere a lavorare. La messa in scena è creata da cinque contadini intorno
a un tavolo, immortalati nell’atto di mangiare il pasto serale, servendosi tutti dallo stesso
piatto posto al centro del tavolo, l’uomo più anziano offre, tenendola nella mano una patata alla moglie: è un gesto umile, ma pieno di orgoglio e di affetto. La donna a destra sta
versando il caffè. Il quinto personaggio è la fanciulla di spalle. La famiglia è racchiusa in
un’atmosfera profondamente umana, che coinvolge non solo tutti i sensi con la forma, il
colore, il tatto, ma anche i sentimenti in un’atmosfera di comunione quasi tattile. Si sente
la comunione con la terra, con il corpo e tra persone che hanno la stessa esistenza, che
affrontano la stessa vita, condivisa ed accettata, con umiltà, ma con consapevole dignità.
Le ingenue aspettative, espresse dallo sguardo spalancato della giovane donna al centro della famiglia, fanno da contrappunto alla rassegnazione al proprio destino della donna più anziana. I personaggi hanno la stessa storia e condividono lo stesso destino. La
fanciulla di spalle non si vede; forse perché non ha ancora sul volto e sulle mani i segni
del proprio lavoro, del resto si intuisce che ha lo stesso destino degli altri membri della sua
famiglia, quel destino che lei vede riflesso nella comunione familiare davanti a lei.
I volti accentuano il carattere di assoluta devastazione esistenziale di queste persone.
Van Gogh vuole mostrare i segni della fatica quotidiana con cui l’uomo, attraverso il lavoro
manuale interagisce con la natura e si trasforma. La natura è la terra, che bisogna scavare per tirar fuori le patate cioè il mezzo di sostentamento della famiglia, con le proprie
mani.
Dal quadro emerge la posizione di grande amore verso l’umanità di Van Gogh. Egli
è molto legato a questo soggetto perché si sente uno di loro, in una lettera destinata al
fratello Théo scrive:
«Sono un pittore di contadini».
Lo spirito con cui si accinge ad affrontare questo tema è caratterizzato dalla volontà di
“far uscir fuori” dalle cose il loro più vero significato. In questo lo aiuta la deformazione
realistica di Daumier1: semplificare e intensificare, passando dalla caricatura alla concentrazione drammatica.
Secondo Vincent le figure umane non dovevano essere accademicamente corrette,
in una lettera a Theo scrive :
« Se si fotografa uno zappatore, indubbiamente allora non starebbe zappando».
Ciò che egli ha voluto mostrare nei “Mangiatori di patate” non è l’abilità nel copiare la
realtà.
L’artista dipingendo questi visi e queste mani, che raccolgono ciò di cui adesso si stanno
nutrendo, vuole esprimere il ciclo vitale dell’alimento tratto dalla terra per nutrire questi
corpi che ritorneranno alla terra, a questo proposito Vincent scrive al fratello:
« ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada
mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove
quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere
che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto
che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri
civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole»2.
Questo ci fa capire quanto l’animo di Van Gogh fosse sempre vicino ai valori umani
dell’Ottocento. I termini usati nella lettera: gente, mani, terra, lavoro manuale, vogliono
riportare la spiegazione del titolo del dipinto che vuole enfatizzare l’atto del mangiare, che
è la forma di comunione più intima, l’interiorizzazione di un mondo che accomuna tutti
intorno al tavolo, la soddisfazione di utilizzare il frutto dell’interazione del proprio lavoro,
delle proprie mani e della propria terra. Con questo dipinto Van Gogh non affronta la
questione sociale, magari inneggiando ad un’apologia del lavoro, ma attraverso le patate
si vuole esprimere l’amore per la terra, o meglio l’identificazione con essa. La patata quasi
si confonde con la mano; i vestiti, i visi e le mani, i colori scuri e sporchi sanno di terra e
di patate.
Alla resa oggettiva della realtà si sostituisce un’interpretazione di essa, nel quadro Van
Gogh applica delle deformazioni. I volti, le mani e gli stessi corpi sono dipinti in modo
caricaturale per enfatizzare ed intensificare la verità. I visi, spigolosi, un po’ irregolari,
bitorzoluti, le mani nodose, ricordano le forme delle patate, il modo con cui rappresenta
i caratteri somatici, con cui caratterizza alcuni dettagli, con cui utilizza la luce per caratterizzare alcune parti del quadro e per offuscarne altre, evidenzia la capacità che ha Van
Gogh di deformare per caratterizzare.
Questa assimilazione visiva dei Mangiatori di patate alla forma e al colore delle patate
stesse e della terra da cui sono tratte, sembra quasi evocare la celebre affermazione “materialistica” di Feuerbach secondo cui «l’uomo è ciò che mangia»3.
È la luce che determina gli effetti chiaroscurali all’interno della stanza.
È la luce che illumina e rivela l’espressione dei volti, che illumina la tavola.
Le deformazioni applicate nei dipinti di Van Gogh sono un approccio al mondo figurativo
che tradisce senza dubbio l’inizio dell’atteggiamento che sarà proprio degli espressionisti
in pittura. Trasfigurare, deformare, avendo un intento espressivo.
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Ritratto di Père Tanguy
Ritratto di Père Tanguy
Nel 1886 van Gogh inizia a frequentare la bottega Parigina di articoli per belle arti di Père
Tanguy, comprava quadri direttamente dai pittori in cambio del materiale per dipingere.
Pissarro era stato suo cliente per molti anni e aveva convinto gli amici a comprare i colori
dal vecchio negoziante che era stato in gioventù un soldato della Comune. Tanguy metteva in pratica gli ideali comunardi, che propugnavano la realizzazione di un mondo migliore, aiutando i giovani artisti, facendo loro credito e offrendogli da mangiare, e facendosi
rimborsare con le opere da loro dipinte. Egli veniva soprannominato “père”, cioè papà, dai
giovani artisti. Per lungo tempo fu l’unica persona a esporre le tele di Vincent e fu presso
di lui che Van Gogh strinse amicizia con il simbolista Emile Bernard4 ed è proprio lui che
in una sua lettera racconta come è nata l’idea di ritrarre Tanguy:
«Vincent veniva spesso a trovarmi nel mio atelier costruito in legno nel giardino dei miei
genitori ad Asnières. Fu là che ci venne in mente di fare i ritratti di Tanguy. Vincent si accinse anche a farmi un ritratto ma dopo aver litigato con mio padre che non voleva che
lui continuasse a darmi consigli circa il mio futuro, si arrabbiò al punto di piantar lì il mio
ritratto e di portare via, incompiuto, quello di Tanguy, mettendoselo sotto il braccio che non
era ancora asciutto ».
Tra il 1887 e il 1888 l’artista gli fece due ritratti, usando come sfondo alcune delle stampe
giapponesi sue e del fratello, da sinistra: un Paesaggio invernale di Hiroshige5, un Attore
in parte femminile di Kunisada6, fiori da stampe popolari; al centro è una delle Trentasei
vedute del monte Fuji di Hokusai7; a destra una delle Cento vedute di Edo di Hiroshige
e la Cortigiana di Eisen8. Lo stesso Tanguy è rappresentato secondo il modo orientale,
come una sagoma scura che si staglia davanti al fondale decorativo. Il ritratto vuole evocare quel senso di serenità che Vincent cercava per se stesso: il colore luminoso rappresenta un cambiamento nello stile dell’autore.
L’idea del ritratto circondato da oggetti d’arte era allora comune tra gli artisti di alta cultura e curiosità: con grande consapevolezza Van Gogh raffigura sia la sua amicizia con
père Tanguy, sia il suo amore per l’arte esotica.
La posa di Tanguy, perfettamente frontale vuole ricordare sia l’arte medievale, sia le
prime pose fotografiche. La figura e le mani strette in grembo vogliono evocare la fissità
delle figure orientali, e il senso dell’ impegno sociale del protagonista del dipinto; è stato
anche detto che Vincent ha volontariamente dato un aspetto da monaco buddista giapponese a Tanguy, essendo il Giappone il paese che Van Gogh associava all’idea di una
società ideale incorrotta, e secondo questa interpretazione le stampe che si vedono sullo
sfondo avrebbero il compito di evocare la stessa associazione di idee. Le mani, strettamente congiunte, sono piene di vita e di fermezza. L’artista non ha idealizzato l’anziano
combattente, e si è concentrato sulla realtà psicologica dell’uomo, la cui espressione lascia trasparire la sua bontà d’animo. Il ritratto è molto affettuoso. Siamo proiettati verso il
suo sguardo, un po’ perso e quasi infantile, dagli occhi acquosi, da vecchio.
I tratti rozzi, specialmente gli occhi, sono resi con forza. C’è un’amorevole ricerca delle
qualità dell’amico. La faccia è intensamente viva; lo spirito dell’uomo si diffonde intorno
a lui irradiandosi nei tratti e nelle pennellate. Vecchie sono anche le mani, con le unghie
sottolineate dal tono compatto di colore. La pennellata a piccoli tocchi, poco adatta a
questa iconografia, è sostituita da una stesura compatta, a striature qua e là sottolineate
di bianco.
I tocchi di verde e rosso nel volto, nel cappello e nelle mani, contribuiscono a fondere il
personaggio con il contesto alle sue spalle.
Questo dipinto è attualmente conservato a Parigi al Musée Rodin. Si racconta che fu lo
stesso Rodin8 a comprare il quadro dopo la morte di Tanguy, che aveva fissato un prezzo
altissimo al suo ritratto, per essere sicuro che nessuno lo comprasse.
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Notte stellata
Il quadro di van Gogh Notte stellata è stato dipinto nel giugno 1889, durante il soggiorno
di Van Gogh presso la casa di cura di St. Rémy. Il suo comportamento era imprevedibile
in quel periodo, a causa delle intensità dei suoi attacchi. Diversamente da altri dipinti di
Van Gogh, Notte stellata fu dipinto a memoria, e non all’aria aperta come l’artista preferiva. Questo spiega l’intensità emotiva dell’opera, più acuta che in altri dipinti dello stesso
periodo. L’artista rimase sveglio tre notti ad osservare la campagna che vedeva dalla sua
finestra, affascinato soprattutto dal pulsare di Venere, che appare, soprattutto all’alba,
come una stella più grande delle altre. Il quadro che realizza non è tuttavia una fedele
riproduzione del paesaggio che egli vedeva, ma una immaginaria visione in cui affiorano
anche elementi, quali il quieto paesino, presi dai suoi ricordi olandesi. Van Gogh aveva
abbandonato la fede cristiana, ma scrisse al fratello Théo:
«Ho un terribile bisogno della religione. Allora esco di notte per dipingere le stelle».
Il cielo, la natura, la notte stellata diventano in un certo senso il sostituto della religione
attraverso cui Van Gogh si collega all’infinto, all’Universo. Nell’analisi della Notte stellata
si possono distinguere tre elementi : il cipresso cupo, il paesino con la chiesa tradizionale
ed il cielo ondulato con le sfere luminose. Nella Notte stellata Van Gogh vuole rievocare i
ricordi del suo paese natio olandese così ordinato e tranquillo, il paese rappresentato nel
quadro raffigura la chiesa del paese, simbolo della religiosità passata.
Durante quel periodo cominciò a dipingere cipressi:
«il cipresso è bello come legno e come proporzioni, è come un obelisco egiziano. E il
verde è di una qualità così particolare. È una macchia nera in un paesaggio assolato, ma
è una delle note più interessanti, la più difficile a essere dipinta che io conosca»10
Il cupo cipresso è espresso da una corrente ascensionale, informe e vigorosa che come
una nera fiamma, lo porta in un vortice di abbaglianti e stupefacenti sfere di luce e di fuoco
che si irradiano in un cielo sereno.
Il pittore si lascia prendere dalla luce, dalla passione , dal vorticoso movimento per partecipare alla tormentata vita dell’Universo.
L’intensità dei sentimenti è espressa da un’esecuzione vigorosa, esaltata, brutale, intensa. Il disegno della Notte stellata è rabbioso, potente, forse un po’ grossolano, ma nello
stesso tempo efficace. Il cielo, le stelle, la luna sono uniti da un movimento ondulatorio
che coinvolge lo spettatore in un’osservazione estatica.
Una misteriosa energia sospinge il movimento delle stelle. Vincent in una lettera al fratello Theo scrive:
“la notte sia più viva e più riccamente colorata del giorno”
Nella Notte stellata Van Gogh cerca di rappresentare quella vita, che attribuisce alla
notte.
Il tormento che si sente nella Notte stellata, il fuoco, la luce, sono il riflesso del proprio
tormento esistenziale che parte direttamente dal cuore e si esprime nei tratti incisivi, forti,
quasi violenti della pittura. Non è il paesaggio, come negli impressionisti, che arriva all’anima ma è il sentimento dirompente, come il nero ed informe flusso ascensionale, che
trasforma la natura, rendendo la notte stellata una realtà trasfigurata dai sentimenti di
Van Gogh. Egli ha intenzione di allontanarsi dalla diretta osservazione della natura, per
esprimere uno stato d’animo attraverso la libera fantasia, per liberare le proprie emozioni
piuttosto che ricercare un aspetto nascosto del paesaggio.
14
Autoritratto con tavolozza
1889, Van Gogh si trova nell’ospedale psichiatrico di St, Rèmy, si era appena ripreso da
una crisi che per giorni lo lasciò incosciente, quando decise di autoritrarsi. Decide di rappresentarsi nell’atto di dipingere, con la mantellina e la tavolozza, convinto che dipingere
fosse l’unico mezzo veramente efficace per contrastare la sua malattia:
«Il lavoro mi distrae infinitamente di più di qualsiasi altra cosa e se io riuscissi una buona
volta a dedicargli tutte le mie energie, sarebbe probabilmente il rimedio migliore».
La sua malattia consisteva, in crisi caratterizzate soprattutto da allucinazioni e attacchi
di tipo epilettico, quando si manifestavano, l’artista “ cadeva “ in uno stato di profonda
depressione, ansietà e confusione mentale, tanto da renderlo totalmente incapace di lavorare.
Con i colori cerca di rendere l’idea della malattia, usa un tenue giallo e un verde acido
per il volto, contro cui risaltano i capelli gialli. Lo sfondo blu-viola, tracciato con piccole
pennellate, si sviluppa un moto circolare concentrico, che ricorda un’aureola. L’artista si
vuole forse rappresentare in questo particolare autoritratto come martire della pittura. Il
pittore vuole probabilmente usare lo sfondo per accentuare il carattere che vuole attribuire alla propria figura.
La pennellata è “a corpo”, sulla crosta pittorica si vede ogni piccolo tocco del pennello
sul colore ancora fresco; ogni movimento fatto dal pittore rimane impresso sul dipinto.
Questo esprime ulteriormente l’idea di Vincent di proiettare, nei suoi dipinti sé stesso imprimendovi una propria traccia esistenziale.
Van Gogh esagera il rosso dei capelli per creare delle lingue di fuoco, e usa per lo sfondo
un colore, blu-viola intenso per far risaltare maggiormente l’aspetto fiammeggiante dei
capelli, un effetto misterioso come di una stella nell’azzurro profondo. Il ciuffo “ a fiamma
” può ricordare l’iconografia cristiana della pentecoste, ovvero l’uso di raffigurare lo Spirito Santo che discende sulla Vergine e sugli apostoli sotto la forma simbolica di lingue di
fuoco poste sul capo.
Lo sguardo è deformato, il viso è posto a tre quarti mentre gli occhi guardano fisso
verso lo spettatore, guardandosi in uno specchio per ritrarsi, dipinge ciò che lui vede di
se stesso attraverso i suoi stessi occhi. Lo spettatore vede in questo autoritratto l’anima
e l’essenza di Vincent. Il carattere deformante che il pittore pone sullo sguardo serve ad
enfatizzare l’importanza degl’occhi che sono lo specchio dell’anima.
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Campo di grano con corvi
L’opera è datata 1890, ed è stata realizzata poco tempo prima del suicidio e giudicata
dalla critica il suo “testamento spirituale”.
Spesso si sostiene che il campo di grano ha dei toni drammaticamente cupi, accentuati
dal funereo volteggiare dello stormo di corvi neri e dalle pennellate rabbiose e scomposte.
Cupo in realtà è solo il cielo, che da un blu rassicurante passa a tonalità cromatiche
sempre più scure. L’artista infatti non vede futuro per la sua esistenza immediata, anche
se la sua anima continua a vivere.
Il campo di grano è così mosso che sembra una foresta in fiamme, in cui strade vuote,
che portano verso l’ignoto, cercano di farsi largo e su cui volteggiano tristi presagi: i corvi
neri appunto, che sembrano arrivare come avvoltoi su un cadavere.
Nell’ansia di cercare qualcosa che colleghi il campo di grano al cielo, l’artista non trova
altro che se stesso, svuotato, e i corvi neri sembrano essere la conseguenza ineluttabile
della devastazione: stanno per arrivare come una minaccia incombente, una tempesta
della natura.
Non essendoci luminosità nel cielo, appare chiaro che i campi sono gialli soltanto perché
ricevono una luce dall’interno.
La strada infatti non è una mediazione, ma appunto un’ansia, un desiderio oscuro, nervoso, che in questo tentativo, vano, di trasformare la realtà, si rende conto di non avere
forze sufficienti. La tela è un grido di dolore, accentuato dal ritmo a strappi, vorticoso, delle
pennellate.
Qualche giorno dopo aver finito l’opera, van Gogh scriverà l’ultima lettera a Theo, in cui
dirà espressamente che la sua morte avrebbe posto fine al travaglio della famiglia del fratello: le sue opere sarebbero aumentate di valore e Theo insieme alla famiglia, avrebbero
potuto condurre una vita migliore. Van Gogh, si sarebbe ucciso prendendo questa nota
familiare come occasione per realizzare l’ultima missione della sua vita: lui che non era
riuscito, in vita, a realizzare alcunché di socialmente utile, pensava di farlo da morto.
Van Gogh scrive a Théo:
“Sono campi estesi di grano sotto cieli agitati, e non avevo bisogno di uscire dalla mia
condizione per esprimere tristezza e solitudine estrema”.
Le strade, soprattutto quella centrale, sembrano indicare una prospettiva, e anche le
distese dei campi; in realtà il quadro è bidimensionale, anzi monodimensionale, in quanto
le strade viste dall’alto, i campi di fronte e il cielo di lontano sono tutti elementi di un unico
aspetto dominante: lo scontro tra il furore del giallo e l’oppressione del blu-nero, i cui toni
impallidiscono irrimediabilmente la luce, che naturalmente dovrebbe provenire dal cielo.
Non è ovviamente un quadro realistico, ma esprime molto realisticamente una situazione emotiva ai limiti del collasso.
Il fatto che van Gogh tendesse a proiettare nella realtà se stesso, trasfigurandola secondo i suoi sentimenti; il fatto ch’egli usasse la linea come funzione espressiva, capace di
trasformare il colore reale in una suggestione per l’emozione di chi osserva, tutto ciò, può
avere un grande significato estetico, ma anche etico: con la sua pittura abbiamo la possibilità di entrare nella sua psiche e comprendere a fondo il suo punto di vista. Questo può
diventare anche il nostro, almeno per il periodo in cui i nostri occhi guardano attentamente
un suo dipinto.
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Edvard Munch
“la mia pittura, è in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei
rapporti con l’esistenza. E’ dunque una forma d’egoismo, ma spero sempre di riuscire,
grazie ad essa, ad aiutare gli altri a vedere chiaro”.
Episodi che hanno segnato la sua vita d’artista
Episodi che hanno segnato la sua vita d’artista
Edvard Munch nasce a Løten-Oslo nel 1863.
La sua infanzia è segnata da numerosi lutti nel 1868, muore la madre. In seguito muore
la sorella Sophi, quindicenne (questo ultimo fatto gli ispirerà l’opera “La bambina malata”).
Nel 1878 entra alla Scuola d’arti e mestieri di Oslo.
Dal 1881 ha come professore il pittore Christian Krohg1, le cui scene intimiste, benché
composte piuttosto freddamente, sono illuminate da una luce impressionista.
1885, si reca a Parigi dove ammira soprattutto Manet. Al ritorno in Norvegia inizia tre delle sue opere più importanti: Bambina malata (prima versione), Il giorno dopo e Pubertà.
Quando Munch ha 25 anni muore suo padre, era il 1889.
Secondo soggiorno a Parigi (dal1889 al 1892), che sarà decisivo poiché consentirà all’artista di scoprire Pissarro, Van Gogh, Seurat, Toulouse-Lautrec e infine Gauguin.
Durante il 1893 comincia a lavorare al Fregio della vita, e dipinge L’urlo una delle sue
opere più conosciute.
1897, espone a Parigi, al Salon des Indépendants, dieci dipinti dal Fregio della vita.
Si stabilisce a Berlino, dove nel 1908 viene colto da disturbi psichici da cui si riprende
dopo otto mesi trascorsi in una clinica a Copenaghen.
1909: Munch si ristabilisce definitivamente in Norvegia dove decide di ritirarsi dal mondo
esterno.
Nel 1930 è colpito all’occhio destro da cecità quasi totale, mentre dal sinistro già da molto tempo aveva difficoltà visive.
Nel 1937 in Germania, il regime nazista giudica ottantadue sue opere, “arte degenerata”
e le rimuove dai musei.
Morirà a Ekely-Oslo nel 1944. Lascerà le sue opere al municipio della città di Oslo.
Bambina malata
Bambina malata è il capolavoro che conclude la fase giovanile di Munch. Il dipinto suscitò grande scandalo quando è stato esposto. È il quadro con cui Munch ricorda la sorella,
ne esistono cinque versioni in pittura.
Qui Munch abbandona il disegno e il chiaroscuro. Il formato è quasi quadrato, la composizione è impostata sulle diagonali.
Al centro geometrico del quadro c’è l’intreccio delle mani, solo abbozzato da macchie
di colore informi, non c’è descrizione, è un’evocazione. Eppure queste macchie informi
comunicano tutta l’intensità di un legame affettivo e della disperazione di due persone che
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non vogliono lasciarsi.
La stanza è piccola, stretta. Il letto sembra compresso tra il comodino e una parete,
sulla quale pende un tendaggio verde. E’ uno spazio compresso, dà un senso di disagio
e claustrofobia. Si respira un’aria pesante, viziata. Munch vuole farci sentire l’odore della
malattia, il senso di chiuso, gli aromi acuti delle medicine.
Ci sono colori freddi, toni scuri e strane luci. L’unica luminosità proviene dal cuscino e
dal volto pallido della ragazza. Ma non è luce riflessa, la federa e la pelle emanano una
loro luminescenza spettrale.
Anche la pittura sembra malata: è corrosa, graffiata, la materia cromatica è disfatta e
sembra rovinarsi sotto i nostri occhi. I colori scuri sembrano sporchi. I colori chiari sono
freddi, bianchi e verdastri ed emanano fosforescenze inquietanti.
In questo quadro non sono rappresentati dei personaggi, protagonista è la malattia intesa come processo di disfacimento che avviene sotto i nostri occhi.
In questo disfarsi della materia anche le figure non sono persone in carne e ossa, ma
sono presenti solo i loro spiriti, che sembrano molto più concreti dei loro corpi disfatti: la
loro presenza viene fatta sentire come grumi fatti di sentimenti, di passioni, talmente intensi da diventare reali.
La critica accoglie l’opera del pittore, poco più che ventenne, in modo impietoso. Il messaggio di Munch non viene compreso.
La tecnica nervosa ed essenziale con cui era stato dipinto il quadro creò sconcerto e
disprezzo nella critica.
Al posto della tradizionale descrizione naturalistica dei corpi, l’artista sostituisce dei semplici abbozzi di colore, al di fuori di qualsiasi regola mai prima sperimentata; anche tutte
le convenzioni del disegno e delle lumeggiature accademiche vengono trasgredite. Ma
queste scelte consapevoli e coraggiose vengono invece fraintese come un’offensiva trascuratezza pittorica.
Gli intenti espressivi di Munch sono nuovi e diversi. Egli vuole rappresentare sentimenti,
presenze immateriali, non oggetti o corpi materiali, l’anima delle persone, non le persone
in carne e ossa.
Per questo elimina il disegno e il chiaroscuro, la definizione e la prospettiva che rendono invece la concretezza delle cose. Si rende conto che il colore suscita più direttamente
l’emozione. I suoi personaggi sono involucri di passioni o di angosce, resi con il colore.
Pubertà
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Questa versione di Pubertà è stata realizzata nel 1894 e presenta un’adolescente nuda
seduta sul letto in una stanza vuota. L’espressione assorta, la posa protettiva, il nudo, rinviano a una metafora erotica della paura di questa bambina nei confronti del suo destino
di donna.
Il volto incerto e spaurito enfatizza il turbamento della ragazza e sottolinea il rimpianto
per la fanciullezza perduta e la contemporanea angoscia per una maturità alla quale non
ci si sente ancora preparati.
Il disegno è penetrante e sottile. È rappresentato soltanto l’essenziale: la ragazza, il letto
e l’ombra della ragazza sulla parete.
Munch arriva a deformare l’aspetto esteriore delle persone e dell’ambiente esterno,
come risultato della forte espansione emotiva dell’interiorità umana.
Il corpo della fanciulla appare ancora acerbo: i fianchi che sono già di donna, in contrapposizione con le spalle ancora infantili e i seni appena abbozzati. Lo sguardo è fisso,
quasi sbigottito, e le braccia si incrociano pudicamente sul pube in un gesto istintivo di
vergogna.
L’ ombra è realistica, la sua forma è giustificata dall’illuminazione frontale, solo un po’
spostata verso sinistra; tuttavia quell’ ombra ingigantita, che nasce del corpo stesso della
fanciulla incombe come un fantasma, e rappresenta le incognite future e le sofferenze a
cui l’amore inevitabilmente la condurrà.
Il gesto pudico delle braccia e la nudità sono simbolo di una verginità ancora intatta che
guarda con ansia al futuro. Anche qui, però, c’è il senso della morte, che è richiamato sia
dall’ombra ingigantita, che incombe come un fantasma dietro le spalle della fanciulla, rappresentando le difficoltà e le sofferenze della vita, sia dal letto candido, che rappresenta
sia l’amore che la morte.
Il letto è anch’esso realistico, difatti si vede l’ impronta della ragazza seduta, si sente il
tepore lasciato dal corpo.
Il disegno è essenziale e deformato. I colori usati sono in contrapposizione tra di loro,
caldi e freddi, per creare un senso di aggressività e di inquietudine: al bianco del letto e
al colorito bianco della fanciulla si contrappongono, infatti, il marrone della parete e del
pavimento e il nero dell’ombra.
Nonostante la composizione sia essenziale, è presente un forte senso di squallore e di
inquietudine, come un presentimento di qualcosa di molto spiacevole che sta per succedere.
Si coglie il senso di solitudine e abbandono, il timore di trovarsi piccoli, inermi davanti
alla vita e al suo rovescio: la morte.
Questo è dovuto dal contrasto tra la figura delicata, fragile della ragazzina immobile e
l’ombra nera, incombente, che sembra uscire da lei e ondeggiare minacciosamente. Nell’opera di Munch c’è spesso questa componente negativa che è la morte, e che sembra
voler rovinare anche le cose più belle, come l’infanzia, la gioventù, la vita.
L’urlo
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Dipinto del 1893. Il titolo è già di per sè esplicativo, ma nonostante questo il pittore descrive una situazione che poi forse viene trasferita, e trasfigurata in quel dipinto.
Munch scrive nel suo diario:
“Camminavo per strada con due amici. Il sole era al tramonto e cominciavo a sentirmi
avvolto da un senso di malinconia. A un tratto il ciclo si fece rosso sangue. Mi fermai, appoggiandomi a una staccionata, stanco morto, e fissai le nubi infiammate che gravavano,
come sangue e spada, sul fiordo nero-bluastro e sulla città. I miei amici continuarono a
camminare. Io rimasi inchiodato in piedi, tremante di paura e udii un grido forte e infinito
trafiggere la natura”.
Il sentimento dell’angoscia viene trasferito allo spettatore non soltanto dal tema e dai
colori, ma anche da alcune peculiarità della composizione.
La figura del personaggio in primo piano parte dal centro del quadro, in basso, ma poi
devia leggermente senza peraltro arrivare a occupare la destra del quadro. Il bordo superiore della testa occupa quasi il centro della tela, ma il centro dell’attenzione, l’ovale nero
della bocca, risulta spostato verso il basso e oppresso dalla parte alta della composizione,
più forte anche in termini di colore.
Munch qui ci impedisce di identificare la sua composizione con un qualsiasi schema già
praticato dalla storia dell’arte e dunque, in un certo senso, “accomodante”. Il quadro è
diviso dalla diagonale della staccionata: manca un piano orizzontale evidente, una base
sicura su cui appoggia la figura e il nostro stesso sguardo.
Il soggetto del quadro, come è indicato dal titolo, è l’urlo. Il suono acuto, lacerante che
si sente all’improvviso e rappresenta in senso generale l’espressione dell’angoscia, del
dolore e della paura. L’urlo parte dalla bocca spalancata della figura in primo piano e per
la sua forza prorompente gli distorce la faccia che diventa un teschio, il corpo, privo di
consistenza, diventa un’ombra ondeggiante, è una figura alienata, il volto è da umanoide
anche se disegnato in maniera elementare. Anche gli occhi, tondi e bidimensionali, non
sono realistici ma deformati, e lo sguardo è privo di vita, completamente vuoto. Uscendo
l’urlo stravolge il personaggio e sembra portargli via anche la sua consistenza concreta,
questo lascia il soggetto ridotto a una larva inconsistente. Proseguendo il suo percorso,
l’urlo trascina via tutto, come una corrente gigantesca: trascina il paesaggio, risucchia il
mare, il cielo, tutto l’universo in un gorgo che poi rifluisce e finisce di nuovo in questa bocca. La bocca da cui fuoriesce l’urlo, è nera e ovale, prima genera e poi raccoglie l’urlo.
Tutta la scena è la metafora della disperazione e della morte che nasce nell’individuo,
esce, travolge, spazza via tutto, poi torna nell’individuo distruggendolo.
La figura in primo piano, terrorizzata, disperata, si comprime la testa con le mani per far
uscire l’urlo e la vita stessa: esprime la solitudine, l’isolamento della sua individualità, il
dramma collettivo dell’incomunicabilità dell’umanità intera.
Questo personaggio non è un uomo, è uno spettro, un fantasma. Al posto del corpo ha
un’ombra densa e ondeggiante, al posto della testa ha un cranio repellente, senza capelli,
come un sopravvissuto a una catastrofe atomica. Le narici sono due fori, gli occhi sbarrati
sembrano aver visto qualcosa di terribile, insopportabile, le labbra nere rinviano a quelle
dei cadaveri. L’urlo è quello di chi ha perso sé stesso, il senso della vita, non trova più
nulla a cui aggrapparsi, si sente solo e inutile fra gli altri.
Il ponte, in salita, la cui prospettiva si perde all’infinito richiama i mille ostacoli dell’esistenza di ognuno di noi che a volte sembrano essere insuperabili.
Il cielo è fatto di sangue, il mare è una massa nera oleosa.
Quello che non viene toccato da questo fatto terribile è la strada con i due personaggi a
sinistra, che sembrano dei soldatini meccanici, ignari di tutto. Continuano a camminare,
ignari o indifferenti al suo sgomento, alla sua lacerante disperazione. Rappresentano in
modo crudo e lucido la falsità dei rapporti umani.
L’andamento labirintico delle curve al di sopra della testa sembra un prolungamento
delle ellissi concentriche della bocca, del viso mummificato dalla paura, delle mani intorno
alle orecchie. I fiordi e il cielo, la natura, diventano prolungamenti del sentire del protagonista, un labirinto fatto di linee ondulate, seguendo le quali l’occhio vaga senza punti di
riferimento stabili: ricordiamo che il timore della perdita dell’equilibrio psichico, di cadere
nella follia, caratterizzò l’intera vita dell’artista.
La vita, che viene rappresentata dalla strada è una pista scoscesa e impossibile da percorrere.
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Sera sul corso Karl Johann
Questo dipinto è datato 1992, rappresenta la passeggiata serale in corso Karl Johann a
Cristiania, l’attuale Oslo.
Il quadro ha un’atmosfera quasi gradevole, con i suoi toni saturi che rendono efficacemente la suggestione dell’ora serale, e ciò crea un contrasto ancora più stridente con
l’immagine cadaverica dei passanti che, più che passeggiare, sembra stiano seguendo
un funerale.
Le figure sono rappresentate dalla sinistra verso il centro, in primo piano, e sembrano
umanoidi i cui volti appaiono simili ai teschi.
I personaggi, dal viso spettrale, affollano tutti lo stesso lato della strada formando una
processione di mummie dagli occhi sbarrati, svuotati di qualunque umanità, sia i volti che
i corpi sono deformati, alienati. Questo vuole rappresentare la perdita di ogni valore da
parte della classe borghese.
Gli occhi in particolare sono tondi, dilatati, con pupille rappresentate con un semplice
puntino, sono occhi che non vedono anche se sono fissi verso lo spettatore.
I personaggi maschili portano dei cilindri scuri, mentre le figure femminili indossano dei
cappelli di colore chiaro su cui si individuano dei nastri scuri e delle macchie di color giallo. Visti di profilo , con l’andatura contraria alle figure appena descritte individuiamo una
figura maschile in nero, il cui volto è deformato; una figura femminile vista di scorcio con
il cappello rosso, che si differenzia dagli altri cappelli gialle delle altre figure femminili.
Alle spalle delle due figure in primo piano, abbiamo una figura di statura più bassa rispetto alle altre di cui si vede solo la parte del volto relativa agli occhi. Altre figure umane
simili a piccole macchie scure popolano la via sullo sfondo. Gli abiti che indossano sono
l’unica cosa che dai ai personaggi una parvenza di umanità.
Un elemento controcorrente e in opposizione è rappresentato dalla figura che si incammina sulla destra.
Alla sinistra delle figure in primo piano troviamo una serie di edifici, il primo ha le finestre scure, negli altrii, invece, le finestre sembrano non esserci. Altri edifici si trovano
sullo sfondo, al centro del dipinto e sulla destra; questi ultimi presentano finestre di colore giallo. Questi edifici sono immersi nella livida luce della sera, e le finestre illuminate
diventano bagliori. Sullo sfondo a destra le finestre gialle dell’edificio identificato con il
Parlamento, sembrano occhi che si proiettano sulla via per controllare che tutto vada
secondo gli schemi previsti dalle convenzioni borghesi. L’ombra scura dei cipressi, l’alta
macchia scura che si eleva a destra, appare minacciosa. Il viale è rappresentato con colori dal viola chiaro al viola scuro. Il cielo è rappresentato con macchie di blu e grigio. Le
linee sono sinuose e continue.
Attraverso i colori violenti e le forme sommarie, Munch lancia un grido di dolore contro
l’indifferenza della società borghese.
Il tema ottimistico della folla, urbana, moderna, tipico della pittura francese del secondo
Ottocento, acquista un valore negativo. Non più folle effervescenti piene di vita, ma una
marcia composta e cupamente irregimentata. L’autore attacca così la borghesia del tempo esprimendone la vuota ritualità, opposta alla figura dell’artista, che cammina, solitario,
in un’altra direzione.
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Note
1. Honorè Daumiere, (1808-1879), pittore, scultore, litografo e caricaturista francese.
Noto per le vignette riguardanti la satira politica.
2. Lettera 409, a Théo Van Gogh, maggio 1885.
3. Ludwig Feuerbach, (1804-1872), “L’uomo è ciò che mangia”, espressione esclusiva
sull’essenza umana. Con questo vuole sottolineare come la fame e la sete deprimono
non solo il fisico ma anche lo spirito umano.
4. Emile Bernard, (1868-1941), considerato uno dei pittori neo-impressionisti, trinse una
sincera amicizia con Van Gogh.
5. Utagawa Hiroshige, (1797-1858), incisore e pittore giapponese.
6. Utagawa Kunisada, (1786 – 1865), disegnatore giapponese, famoso per le stampe
su legno.
7. Katsushika Hokusai, (1760-1849), famoso pittore e incisore giapponese, è fonte di
ispirazione non solo per Van Gogh ma anche per numerosi Impressionisisti come per
esempio Claude Monet.
8. Keisai Eisen, (1790 – 1848), pittore e incisore giapponese.
9. François-Auguste-René Rodin, (1840-1917), famoso scultore e pittore Francese.
10. Lettera (596) a Théo van Gogh, 25 giugno 1889.
Note di Munch
11. Christian Krohg (1852-1925) è stato un pittore, scrittore e giornalista norvegese.
Sitografia
http://it.wikipedia.org/wiki/Vincent_van_Gogh
http://it.wikipedia.org/wiki/I_mangiatori_di_patate
http://www.geometriefluide.com/pagina.asp?cat=vangogh&prod=mangiatori-patatevan-gogh
http://it.wikipedia.org/wiki/Ritratto_di_p%C3%A8re_Tanguy
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http://www.vggallery.com/international/italian/painting/p_0612.htm
http://www.voxnova.altervista.org/notte-stellata.html
http://web.tiscalinet.it/veliop/autoritratto_con_tavolozza.htm
http://digilander.libero.it/vangoghsite/Fotopiccole/autoritratto%20con%20tavolozza.html
http://www.homolaicus.com/arte/campo_grano_corvi.htm
http://it.wikipedia.org/wiki/Edvard_Munch
http://www.atuttascuola.it/tesine/infanzia/edvard_munch.htm
http://www.pittart.com/edvard-munch.htm
http://www.francescomorante.it/cap_IV/IV.8.htm
Bibliogragia
Art dossier, Van Gogh, di Ronald De Leeuw
Art Dossier, Van Gogh tra antico e moderno, di Andreas Bluhm
Il Post-Impressionismo Da Van Gogh a Gauguin, di John Rewald
Van Gogh, di Pierre Leprohon
Le avanguardie artistiche del Novecento, di Mario De Micheli
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