ArcheoRoma 4-2016 - Archeoclub d`Italia
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ArcheoRoma 4-2016 - Archeoclub d`Italia
Trimestrale di informazione e discussione culturale a cura dell’Archeoclub di Roma – n. 4 ottobre-dicembre 2016 L’evento è servito A tutti coloro che hanno pianto per la rinuncia del Sindaco, non alle Olimpiadi del 2024, bensì alla candidatura di Roma (in competizione con Parigi e Los Angeles) per quelle Olimpiadi, e che hanno recriminato per la perdita di un’occasione con la quale la Città sarebbe tornata a nuova vita, vorremmo ricordare che, se proprio si deve ricorrere a un grande evento perché quel rinnovamento si compia, l’evento è bell’e pronto: il 150° anniversario di Roma capitale. Sarà nel 2021, prendendo come data della ricorrenza il 3 di febbraio (1871) quando venne approvata dal Parlamento la legge per il trasferimento della capitale da Firenze a Roma. Ci sono dunque cinque anni per poter realizzare, con il concorso determinante – e, stavolta, persino ovvio – dello Stato, gran parte dei progetti sognati per le Olimpiadi e opportunamente “rivisitati” per la nuova occasione. Tra quei progetti noi vorremmo inserirne uno che ci sembra particolarmente opportuno e significativo (e che già avanzammo ... a prescindere dall’evento, su queste pagine: v. ArcheoRoma 2002, n. 3, p. 7; 2010 n. 2, p. 7; 2014 n. 3, p. 3): quello di dare sepoltura nel Vittoriano ai quattro re succedutisi sul trono del Regno d’Italia: Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III e Umberto II. Con tale iniziativa si darebbe finalmente una tomba in patria agli ultimi due, e si toglierebbe ai primi due il ruolo di “intrusi” all’interno di un monumento, quale è il Pantheon, nato per tutt’altra destinazione. Mentre il Vittoriano fu realizzato, in onore di Vittorio SCEMPIO AL FORO ROMANO Avevamo appena fatto in tempo a deplorare, nello scorso numero di ArcheoRoma, la “profanazione” del Palatino – così come, in passato, avevamo fatto per i “lunapark” installati a fianco del Colosseo, le “pagliacciate” allestite in via dei Fori imperiali e le mostre “stravaganti” ai Mercati Traianei (e, da ultimo, al Palatino) – che un evento “vandalico” s’è abbattuto, lo scorso 26 luglio, sul Foro Romano: il “concertone” del Giubileo, Music for Mercy, promosso dall’Opera Romana Pellegrinaggi e dal Teatro dell’Opera, col patrocinio del Ministero per i beni culturali e della Commissione italiana per l’Unesco. Un megapalco per musici e cantanti e una platea di 1.000 posti (!), oltre a strutture varie di supporto e di servizio hanno invaso e occupato per alcuni giorni l’intera “piazza” forense (quella recintata che i visitatori non possono calpestare) e le sue adiacenze, dall’Arco di Settimio Severo al tempio di Antonino e Faustina. Una intrusione inaudita! E lo scempio è stato completato con l’utilizzazione della Curia del Senato per i camerini degli “artisti”, della Casa delle Vestali per un rinfresco e di Santa Maria Antiqua per una cena fredda! Una “cafonata” come l’ha definita l’ex soprintendente La Regina: l’unico archeologo autorevole che, intervistato dal quotidiano Il Tempo, ha osato esprimersi pubblicamente criticando duramente la scempio. E tutti gli altri? Quelli che, in gioventù – negli anni sessanta del secolo scorso – dettero vita nello stesso Foro, a una sonora protesta contro gli innocui spettacoli di “Suoni e luci”? E gli Istituti, le Accademie, le Università, le Associazioni, il mondo della cultura in genere? È grave che, a protestare, sia stata soltanto l’Associazione delle Guide Turistiche, risentita per “fatto personale”: il Foro, infatti, è stato precluso alle visite per diversi giorni, prima e dopo l’evento. Ma, a parte i possibili danni e i disagi causati ai visitatori e ai turisti che, venuti a Roma in quei giorni, hanno trovato inaccessibile e, comunque, stravolta una delle aree archeologiche più importanti del mondo, come è stato possibile anche soltanto pensare una simile mostruosità? E poi, chi l’ha autorizzata? Gli organizzatori dell’“evento” si sono giustificati asserendo che il progetto dettagliato degli impianti ha avuto il nullaosta della Soprintendenza e, grazie ad esso, segue a pag. 8 A N N O X X X V 2 Emanuele II, per celebrare l’”unità della patria” e la “libertà dei cittadini” (come sta scritto nelle due dediche monumentali purtroppo rese illeggibili da un improvvido “restauro”, v. ArcheoRoma 2015 n. 3, p. 7) conseguite sotto l’egida e per iniziativa di quella dinastia sabauda alla quale i quattro re appartenevano. P.S. E, che dire di quei molti che hanno deplorato la rinuncia alla candidatura per i Giochi del 2024 che plaudirono invece al diniego del Governo Monti per quella relativa ai Giochi del 2020 (voluta da un Sindaco d’un altro colore)? Quanto alla nostra posizione contraria, non abbiamo che da ribadire quanto più volte pubblicato, a partire dall’ormai lontano 1997 (v. ArcheoRoma n. 1, p. 7; n. 2-3, p. 1). A parte il rischio – e l’umiliazione – della bocciatura da parte del CIO (come già capitò per i Giochi del 2004), noi riteniamo fermamente che, essendosi già svolte le Olimpiadi a Roma, nel 1960, quelle sono le “Olimpiadi di Roma”: le ultime “dal volto umano”. Celebrate magnificamente in contesti ambientali e scenari incomparabili, a che pro replicarle, sminuendole come un inutile duplicato? Tutto ciò, a prescindere dall’idea che andiamo facendoci da qualche tempo e che si rafforza ad ogni scadenza quadriennale, che le Olimpiadi andrebbero abolite ...... Ma, questo è un altro discorso, che riprenderemo. QUANDO IL SENATO RIMANDAVA A CASA GLI IMMIGRATI LATINI L’anno 187 a.C. il Senato romano rimandò a casa dodicimila immigrati Latini. Ma la decisione fu presa dietro esplicita richiesta da parte delle città che i “rimpatriati” avevano abbandonato per trasferirsi a Roma in virtù di un sacrosanto diritto. I Latini, infatti, già da molto tempo erano stati gratificati dai Romani dello ius migrationis che consentiva loro, non soltanto di stabilirsi nell’Urbe, ma di farvisi “censire” ottenendo in tal modo il diritto di voto nei comizi tributi: quelli che riunivano il corpo elettorale dei cives, i cittadini, suddivisi per tribù – i distretti territoriali nei quali era articolato lo Stato romano – che avevano il compito di eleggere annualmente le magistrature “inferiori” e, all’occasione, quelle straordinarie. Non essendo tuttavia gli immigrati ascritti ad alcuna tribù, essi votavano, volta per volta, in una tribù estratta a sorte. Nella non sempre facile vicenda dei rapporti tra Romani e Latini era andata peggio per i secondi quando questi, nel 340 a.C., avevano osato chiedere a Roma, come scrive Tito Livio (VIII, 5), di “non essere più trattati come sudditi”. E, addirittura, disposti a chiamarsi “tutti Romani”, che si creasse “un solo popolo, una sola repubblica” e che “un console fosse nominato da Roma, l’altro dal Lazio” e che il Senato fosse composto “in parti uguali dell’una e dell’altra gente”. Il console Tito Manlio dichiarò apertamente che, se i senatori, presi da insana follia, avessero accettato quelle proposte, “si sarebbe recato in Senato cinto di spada e qualunque Latino avesse incontrato nella Curia, lo avrebbe ucciso con la sua mano”. Né meglio andò quando, qualche tempo dopo la battaglia di Canne, ci fu chi, dopo aver lamentato la penuria di senatori, venuti meno per motivi bellici oltre che per disgrazie personali, ma anche la scarsità del numero di cittadini tra i quali i senatori potevano essere scelti, propose che, a giudizio del Senato, si desse la cittadinanza romana a due senatori di ognuna delle città latine e si eleggessero questi a senatori di Roma. La proposta fu accolta malissimo. Livio scrive (XXIII, 22) che “tutta la Curia fremeva di indignazione”. E su di essa fu fatto calare “un sacrosanto silenzio” dopo che Q. Fabio Massimo ne ebbe stigmatizzata l’inopportunità e chiesto che essa fosse “coperta, occultata, dimenticata, considerata mai presentata”. Tornando alla “migrazione” dei Latini, con l’andare del tempo, essa era stata talmente numerosa che le città d’origine cercarono di mettervi un freno. Certamente perché il loro progressivo “spopolamento”, oltre a incidere negativamente sull’agricoltura, rendeva sempre più difficile soddisfare, tra gli altri, anche e soprattutto l’obbligo di fornire a Roma i contingenti militari previsti dai trattati. Tito Livio scrive (XXXIX, 3, 4) che, in quell’anno 187, il Senato dette udienza ai molti ambasciatori giunti da ogni parte del Lazio per lamentarsi della situazione. E gli ambasciatori ottennero soddisfazione. Fu infatti deciso di affidare al pretore Q. Terenzio Culleo il compito di rintracciare e obbligare a tornarsene in patria “chiunque gli alleati Latini avessero provato d’essersi fatto censire a partire dall’anno della censura di C. Claudio e M. Livio”, vale a dire il 204 a.C. E fu così che i dodicimila Latini lasciarono Roma per far ritorno a casa. Verosimilmente con soddisfazione degli stessi Romani, visto che Livio, non a caso, LE TERME Ai piedi della “scarpata” al di sopra della quale corre la via Nicola Salvi, proprio di fronte all’antico ingresso settentrionale del Colosseo, al lato del marciapiede, si scorgono per un breve tratto ruderi “anonimi” di alcuni pilastri con semicolonne, in laterizio: è tutto quello che resta oggi, di visibile, delle Terme di Tito costruite nell’80 d.C. ma probabilmente già appartenute alla Domus Aurea di Nerone e riadattate o rifatte nell’ambito del programma dei Flavi che intendeva “restituire” ai cittadini gli spazi pubblici loro “usurpati” dal tiranno. 3 conclude il suo racconto osservando come “già allora un gran numero di stranieri gravava sull’Urbe”. Non si trattò, tuttavia, di una soluzione definitiva. La migrazione verso Roma dovette presto riprendere e assumere proporzioni anche maggiori. Al punto che una decina di anni dopo si pensò di ricorrere a dei veri e propri provvedimenti legislativi dei quali però non abbiamo conoscenza diretta. Sembra che fosse stabilito che gli “alleati Latini” potessero usufruire del diritto di migrazione a patto che lasciassero dei figli nella loro città d’origine. Ma sembra pure che fosse immediatamente trovato il modo di aggirare la legge (alcuni studiosi pensano con il tacito consenso delle autorità, a meno che non fosse questo il tenore della legge stessa). Bastava dunque che i “migranti” vendessero fittiziamente i propri figli a dei cittadini romani i quali provvedevano poi ad affrancarli facendoli diventare automaticamente cittadini ascritti alla classe dei liberti. Pare che ci siano stati persino dei casi in cui qualcuno, non avendo figli, sia arrivato a vendere se stesso! Il Senato dovette quindi intervenire presto nuovamente e, sempre per rispondere alle lagnanze delle città latine, ordinò al console C. Claudio Pulcro di predisporre altri provvedimenti al riguardo. Ancora una volta Tito Livio c’informa così (XLI, 9, 9) che nel 177 a.C. un editto del console ordinò che “gli alleati Latini che erano stati iscritti nei registri durante la censura di M. Claudio e T. Quinzio e negli anni successivi, dovevano fare ritorno nelle loro città d’origine, entro le kalende di novembre”, mentre “al pretore L. Mummio veniva affidata l’indagine su coloro che, trovandosi in quelle condizioni, non fossero rimpatriati”. Ma non si trattò della semplice replica del provvedimento precedente. Infatti, un decreto del Senato stabilì pure che il magistrato “ al quale veniva presentato uno schiavo per essere liberato, esigesse da chi lo presentava il giuramento di non farlo al fine del cambiamento di cittadinanza” e che “non fossero liberati quelli per i quali tale giuramento non venisse prestato”. Livio osserva come quei provvedimenti precauzionali fossero “adottati per il futuro”. Ma essi non furono affatto sufficienti e la situazione si trascinò ancora a lungo tra alti e bassi. Nel 126 a.C. ci fu un’ennesima espulsione e, quando, nel 123, Caio Gracco propose di dare la cittadinanza ai Latini (e il “diritto latino” agli altri alleati) o, in subordine, che fosse concesso ai Latini (e agli alleati) che si trovavano a Roma nei giorni di comizio il diritto di partecipare all’assemblea e alle votazioni, si scontrò con una forte opposizione. L’anno seguente la proposta fu respinta dopo un duro intervento del console Caio Fannio che ebbe buon gioco nel convincere la plebe urbana della inevitabile perdita di ogni privilegio con lo stravolgimento conseguente alla repentina e massiccia immissione nel corpo sociale di tanti nuovi cittadini. Finalmente, nel 95 a.C., i consoli L. Licinio Crasso e Q. Muzio Scevola fecero approvare una legge de civibus redigandis (“sui cittadini da respingere”) che, tornando alle origini, toglieva del tutto ai Latini il diritto di prendere la cittadinanza trasferendosi a Roma. Fu quella una delle cause che pochi anni dopo condussero alla scoppio della cosiddetta Guerra Sociale o dei Socii (gli “alleati”) che funestò a lungo l’Italia intera e si concluse con la sia pur graduale concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici. Romolo A. Staccioli DI TITO Si tratta, in particolare, del propileo dal quale con una successiva scalea si accedeva dal basso al complesso termale esteso sulle pendici meridionali del Colle Oppio. Ci vorrebbe molto a collocare sul posto un “totem” con due parole di informazione e una pianta dell’intero edificio che conosciamo da un disegno del Palladio? E, che dire, poi, se, una volta o l’altra, si provasse, con uno scavo oculato, a “intaccare” la scarpata per vedere se al di là degli avanzi ora in vista, ci fosse sepolto dell’altro da tirar fuori? IL XXII CENTENARIO DELLA MORTE DI PLAUTO Per ricordare – doverosamente – il XXII centenario della morte di Plauto avvenuta nel 184 a.C. ci è sembrato opportuno ricorrere a uno stralcio del lungo capitolo dedicato da Ettore Paratore al grande commediografo romano nella sua “Storia della letteratura latina” (G. C. Sansoni Editore). “Quello che prende alla gola e trascina ogni lettore delle commedie di Plauto è la vivacità travolgente che spira dalla prima all’ultima scena, e che, nella letteratura comica mondiale, trova riscontro solo in Aristofane, vero fratello spirituale di Plauto al di sopra di tutte le distanze etniche, cronologiche e culturali, nel senso della gioia straripante che sgorga dalla vicenda comica tesa fino alla massima esplosività mimica ed espressiva. La vivacità plautina riposa esclusivamente sulla spettacolosa ricchezza e plasticità della lingua, gioco pirotecnico costantemente scoppiettante con inesausta grazia e festività, e nella ugualmente prestigiosa ricchezza dei metri che costituisce l’adeguato commento ritmico e musicale alla scapricciata vivacità dei ritrovati linguistici. Di Plauto, come di quasi tutti i poeti arcaici, è stato tramandato da Varrone l’autoepitafio, che Gellio ci ha trascritto; gli autoepitafi dei poeti arcaici, salvo forse quello di Ennio, sono apocrifi, falsificazioni compiute da eruditi posteriori per caratterizzare l’opera di quei poeti, forse sotto i loro ritratti collocati a principio dei volumina in cui le loro opere erano trascritte; le Imagines di Varrone furono il grande collettore di questi presunti autoepitafi. Orbene il cosiddetto autoepitafio di Plauto suona così: «Dopo che Plauto è giunto a morte, la commedia piange, la scena è abbandonata; e quindi il riso, il gioco, lo scherzo, e i ritmi innumerevoli tutti insieme lagrimarono». Non si potevano caratterizzare meglio le vere peculiarità dell’arte di Plauto”. 45° panorama / calendario delle manifestazioni dell’Archeoclub di Roma Anno sociale quarantacinquesimo - novembre-dicembre 2016 ATTENZIONE: Tutte le attività in programma - comprese le conferenze - sono riservate ai Soci e ai loro Familiari, Amici o Ospiti. Per tutte le attività - tranne che per le conferenze - è richiesta l’adesione con prenotazione in segreteria, anche telefonicamente (06.48.18.839). novembre GIOVEDI SABATO MERCOLEDI 3 invito 19 archeosimposio 23 visita guidata speciale al Salotto Romano (con “i puntini sulle per il XLV Anniversario dell’Archeoclub alla “Chiocciola” della piscina limaria i” di R. A. Staccioli) – Palazzo dei Domenicani, piazza della Minerva 42 – ore 16,30 di Roma – Ristorante Orazio, piazzale Numa Pompilio – ore 13,00 (prenotazione obbligatoria) SABATO 5 passeggiata della serie “in nostra Urbe peregrinantes”, dell’Acquedotto Vergine – ore 10,00 in via Trinità dei Monti 2 (Pincio, altezza Villa Medici) – massimo 20 persone – prenotazione obbligatoria VENERDI 25 conferenza del prof. Romolo A. Staccioli, sul tema: Quando l’antica Roma risuonava di acque dolcemente mormoranti – presso la Fondazione Marco Besso, largo della Torre Argentina 11 – ore 16,30 guidata dal dott. Maurizio Vignuda, all’Esquilino: dall’Iseo Metellino all’Arco di Gallieno – ore 10,30 a piazza Iside (presso via Labicana) GIOVEDI 10 visita guidata speciale alla Biblioteca Apostolica Vaticana – ore 16,15 in via di Porta Angelica: cancello di Sant’Anna (con documento d’identità) – massimo 20 persone – prenotazione obbligatoria entro lunedi 7 dicembre GIOVEDI MARTEDI 1 invito 6 Letture a voce alta al Salotto Romano (con “i puntini sulle Testi e Autori di ieri e di oggi. Tucidide: i” di R. A. Staccioli) – Palazzo dei Domenicani, piazza della Minerva 42 – ore 16,30 12 SABATO visita guidata dal prof. Romolo A. Staccioli, alla Chiesa dei Santi Luca e Martina (da poco riaperta) – ore 10,30 davanti alla chiesa, via della Curia 2 (Foro Romano) MERCOLEDI 16 conferenza del dott. Antonio Insalaco sul tema: “I giganti dell’acqua” (Gli acquedotti romani in proprietà della Banca d’Italia sulla via Tuscolana) – Sala Associaz. “Pro Roma”, via Nazionale 66 (di fronte a San Vitale)– ore 16,30 3 Il discorso di Pericle agli Ateniesi, a cura della dott. Laura Trellini Marino – presso la Sede sociale, via Tacito 74, scala A, int. 2 – ore 16,30 SABATO visita guidata al Carcere Mamertino (recentemente riaperto al pubblico) con guida specialistica – ore 10,15 davanti al monumento (Clivo Argentario n. 1) – minimo 20 persone – prenotazione entro mercoledì 30 novembre SABATO 10 visita guidata dal dott. Antonio Insalaco, alla Basilica di Santa Balbina (sul Piccolo Aventino): dalla domus Cilonis alla Necropoli Ardeatina – ore 10,30, davanti alla Chiesa Archeoclub d’Italia SEDE DI ROMA Via Tacito, 74 (P.zza Cavour) tel. 06.4818839 (con segreteria telefonica) c.c.p. 77897007 (intestato: Archeoclub di Roma) SEGRETERIA: lunedì, mercoledì, venerdì ore 10-12 LUNEDI 12 conferenza del ciclo “Classici oggi, classici per il futuro”, a cura dell’Assoc. Ital. di Cultura Classica: prof. Antonio Marchetta, Memoria e identità in Virgilio – Liceo Giulio Cesare, corso Trieste 45 – ore 16,00 MARTEDI 13 visita guidata dal prof. Romolo A. Staccioli, all’Arco di Claudio dell’Acquedotto Vergine – ore 12,00 in via del Nazareno 2 – massimo 20 persone – prenotazione obbligatoria VENERDI 16 conferenza del prof. Romolo A. Staccioli sul tema: Quando l’antica Roma festeggiava “i giorni più belli dell’anno” – presso la Fondazione Marco Besso, largo della Torre Argentina 11 – ore 16,30 ANCORA DUE LUTTI NEL NOSTRO SODALIZIO È recentemente venuto a mancare un collaboratore e un socio di grande prestigio: il prof. MICHELE COCCIA Grande latinista, noto in campo nazionale e internazionale, aveva insegnato letteratura latina all’Università La Sapienza di Roma fino all’età della pensione. Aveva poi continuato la sua attività culturale come presidente della sezione romana dell’Associazione Italiana di Cultura Classica, insieme con la sua brava e devota allieva,la prof.ssa Maria Grazia Iodice, e aveva continuato a scrivere e a partecipare a congressi . Per l’Archeoclub di Roma già da molti anni ci aveva regalato apprezzate conferenze, tra le quali “Il pensiero politico di Cicerone”,”Ricordo dell’attività didattica e letteraria di Ettore Paratore”, “Il De Officiis, testamento spirituale di Cicerone”. Partecipava con entusiasmo e vivace impegno a molte nostre attività sempre intervenendo con commenti, domande, apporti culturali a visite, letture, conferenze. Ci aveva concesso ospitalità per tenere corsi e proiezioni cinematografiche in una sede prestigiosa di proprietà della sua famiglia, dove cura la propria attività culturale l’associazione Leusso diretta dal figlio Benedetto, anche lui impegnato in studi classici. Ma, a parte il suo valore professionale, lo ricorderemo sempre come persona di gradevole compagnia: arricchiva le nostre escursioni con piacevoli aneddoti, si univa al nostro presidente nel raccontare barzellette, nel cantare canzoni romane dei tempi passati. L’ho sentito parlare in latino e non tutti i latinisti sono in grado di farlo; descriveva in latino un guasto al motore di un pullman sul quale si stava recando a un convegno; ha usato parole classiche senza inventare inutili neologismi. Vorrei tanto poter riferire le sue parole ma purtroppo ora non riesco a ricordarle. Lo terremo ancora nel cuore: è stato un fiore all’occhiello dell’Archeoclub di Roma sia per il suo alto valore professionale sia per la viva partecipazione della quale ci ha fatto godere. Con affetto ti salutiamo, Michele. Alla fine di settembre è mancata una validissima collaboratrice della segreteria dell’Archeoclub di Roma: DOMENICA 18 Archeosimposio degli Auguri (con la tradizionale tombolata) – Ristorante Orazio, piazzale Numa Pompilio – ore 13,00 (prenotazione obbligatoria) ––––––– VACANZE DI FINE ANNO Dopo le vacanze, la SEGRETERIA riaprirà con le consuete modalità mercoledi 11 gennaio 2017 ROSA DE MARINIS Da oltre quindici anni era presente in sede tutti i lunedì e con intelligenza e sollecitudine curava il continuo aggiornamento dell’elenco dei soci, chiamava gli amici perché partecipassero a visite ed escursioni, si valeva della sua capacità professionale (era laureata in legge) perché la segreteria mantenesse ordine e coerenza negli impegni che le sono richiesti. Con tanto rimpianto e affetto le porgiamo un riconoscente saluto. GDP 6 CONTRIBUTI E INTERVENTI archeoemozioni LE “DOMUS” RESTAURATE DI POMPEI Fratelli d’Italia ArcheoRoma compie 35 anni. L’occasione di rivedere e ordinare le annate precedenti ha rimesso in luce un editoriale (2008, n. 3) intitolato: “Fratelli (coltelli) d’Italia”. L’Autore criticava e ironizzava su una posizione assunta dalla Lega Nord che ripudiava il testo del nostro inno nazionale, pur nato al Nord all’inizio della grande epopea del Risorgimento. L’inno fu composto, infatti, nel 1847 dal genovese Goffredo Mameli, morto a 22 anni nella difesa della Repubblica Romana del 1848. Il commento della Lega con ignoranza (o malafede nei riguardi di Roma) biasimava l’espressione “la vittoria schiava di Roma” erroneamente letta come fosse “l’Italia schiava di Roma” (e non già la vittoria). L’inno può essere oggi da alcuni considerato retorico e anacronistico ... forse basta con “l’elmo di Scipio” ... ma noi riteniamo l’inno tuttora valido. Viene voglia di paragonarlo agli altri inni nazionali dei Paesi vicini all’Italia e di evidenziare quanto esso sia nobile e poetico. La Marsigliese, che i francesi cantano tuttora con piena dedizione, è veramente anacronistica e retorica. Anche se trova una giustificazione nella temperie storico-politica della grande rivoluzione francese, canta l’odio e il furore contro i nemici, il cui “sangue impuro deve abbeverare i nostri solchi”, contro i feroci soldati che vengono nelle nostre braccia a “égorger nos fils, nos compagnes” ...... L’inno nazionale inglese è essenzialmente imperniato sull’augurio di lunga vita al monarca di turno, e solo in rapporto col sovrano accenna a proteggere l’Inghilterra dai nemici e a chiedere il rispetto delle leggi (leggi tra le quali – ma l’inno non la ricorda – la “magna charta libertatum” che nel 1215 ha creato la prima monarchia costituzionale). L’inno nazionale tedesco celebra i primati di produzione agricola e le bellezze ambientali e solo in fondo tratta la difesa dai nemici (strano inno per un popolo così bellicoso come quello germanico), ma quel “Deutschland uber alles” sembra esaltare una arroganza sinistramente foriera degli orrori del nazismo. Passando al nostro “Fratelli d’Italia” possiamo rilevare il suo contenuto morale e civile nella addolorata constatazione che “noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi” e nell’accorata invocazione “raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò”. Non c’è violenza né odio in queste parole; solo nell’ultima strofa (che non si canta quasi mai) si accenna alla auspicabile caduta del nemico austrungarico. Ci sono state alcune proposte per sostituire il nostro inno: si è pensato al coro verdiano del Nabucco: “Va pensiero sull’ali dorate ...”. In effetti il canto operistico è stato composto da Verdi in epoca risorgimentale, poco dopo l’inno di Mameli, ed ha il merito di essere stato cantato, per la sua grande musicalità anche da parte della gente comune che non andava all’Opera. Verdi attraverso la sua musica ha suscitato entusiasmi nazionali anche nelle masse popolari che né Mazzini né Cavour, seguiti soprattutto da borghesi e intellettuali, erano ancora riusciti a coinvolgere. Inoltre, Mazzini e Cavour furono sempre in contrasto tra loro. Il terzo grande costruttore dell’unità, Garibaldi, come Verdi, ma con altri mezzi, si era avvicinato al popolo minuto. Ma il coro del Nabucco non si presta a un inno nazionale perché ha un’intonazione triste non idonea a suscitare slanci di entusiasmo. Altro possibile sostituto potrebbe essere “Sole che sorgi libero e giocondo ...” che, pur gravato da motivi “politicamente scorretti” deriva dal Carmen saeculare di Orazio: “Alme sol ... possis nihil urbe Roma visere maius ...”. Ma, possiamo cantare in latino? Teniamoci in fondo il nostro “Fratelli d’Italia” che pur con la sua “Vittoria schiava di Roma” e col suo “elmo di Scipio” richiama comunque tutti gli Italici alla madre Roma, risponde alla storia del popolo italiano, ne nobilita l’unità e il senso di Patria. Giovanna De Paola Di recente, sono state riaperte al pubblico, dopo accurati lavori di restauro, numerose “domus” di Pompei. La notizia merita il dovuto risalto, soprattutto tenendo presenti le evidenti criticità che si riscontrano nella gestione del nostro patrimonio archeologico. Ci vorrebbe molto spazio per condividere con i lettori le continue emozioni che puntualmente suscitano le belle case del ceto medio – alto dell’antica Pompei: quello composto, in particolare, da proprietari terrieri e commercianti abbienti. Mi limiterò, quindi, a un rapido excursus “fior da fiore”, passando da una emozione…all’altra. Nella casa del Criptoportico spicca alle pareti, proprio nelle ali dello stesso ambiente, un significativo esempio della pittura di secondo stile, costituito da un fregio con episodi della guerra di Troia, tratti dall’Iliade di Omero. Nell’ambulacro, si nota il larario, con il busto del dio Mercurio sopra l’altare e il serpente agatodemone (rappresentazione di una divinità ritenuta benevola e protettrice degli uomini) . La casa di C. Cuspius Pansa o di Paquius Proculus (non esistono dati certi sull’attribuzione della “ domus”) presenta nell’atrio un pavimento musivo – tra i meglio conservati di Pompei – decorato a riquadri geometrici (che riprendono, in sostanza, i cassettoni del soffitto) , con animali di vario genere. Nella casa dell’Efebo, colpisce l’occhio il triclinio invernale con banconi in legno e metallo e il pavimento con un riquadro centrale decorato da tarsie marmoree (“opus sectile “) , con rosette e fiori di loto. Da visitare anche il triclinio estivo, collocato sotto un pergolato, dove ai lati dei banconi in muratura possono ammirarsi i dipinti di un paesaggio nilotico e di una scena erotica. Un magnifico esempio di pittura di giardino, con motivi egittizzanti, è costituito dalla decorazione di due piccoli e raffinati cubicula (le stanze da letto) nella casa del Frutteto.Si arriva, perfino, a riconoscere alcune specie vegetali ivi dipinte, come i limoni. Attrae la casa di Casca Longus, dove rapiscono lo sguardo i pregevolissimi affreschi dell’atrio, con scomparti celesti, al 7 cui centro spiccano deliziosi quadretti con scene teatrali. In capo all’impluvium, attirano l’attenzione i sostegni di marmo bianco a zampa leonina di un tavolo o mensa, dove nel ripiano superiore si legge molto bene, in forma abbreviata, il nome del cesaricida Casca Longus : si trattava, pertanto, di un bene confiscato e successivamente acquistato dal proprietario della casa in occasione di una vendita pubblica. Lascia estasiati, nel giardino dei Praedia (grande proprietà immobiliare) di Giulia Felice, lo stupendo triclinio estivo, ottimamente conservato, con letti e nicchia con cascata a gradini, rivestiti di marmo. Quasi un unicum è, poi, il portico con eleganti, slanciati pilastri marmorei a sezione rettangolare, scanalati, e capitelli di tipo quasi corinzio. Nella celebre casa del Menandro, non ci si può esimere dal soffermarsi sulla nicchia dipinta del peristilio, nella quale è, appunto, raffigurato il famoso commediografo greco Menandro, che ha dato il nome alla domus. appunti e disappunti sulla Città dei nostri giorni … so’ più sorci che serci! Una vignetta profetica (di Melanton) su “Il Travaso” del febbraio 1988 Per chiudere in bellezza, lo spettacolare, grande affresco che occupa la parete di fondo del peristilio della casa della Venere in conchiglia.Nel pannello centrale, è tutta da godere la raffigurazione della dea Venere, protettrice di Pompei, adagiata in una conchiglia, con, ai lati, due amorini. La dea, completamente nuda, è adornata da un diadema sul capo e gioielli al collo, ai polsi e alle caviglie. Come, quindi, non invidiare gli antichi pompeiani che vivevano in domus così riccamente decorate? Maurizio Vignuda Su ArcheoRoma n. 2/2008 a pag. 1 denunciammo l’“incolto tappeto di erba che da mesi verdeggia sotto il finestrone del padiglione di destra della Villa Aldobrandini, su largo Magnanapoli” e, naturalmente, ce la prendemmo con gli Uffici “che dovrebbero tutelare il decoro della città” (foto a sin.). Otto anni dopo, non solo quel “tappeto” – mai eliminato e rinnovatosi di stagione in stagione – “verdeggia” ancora, ma si è anche arricchito di un piccolo albero che promette bene per il futuro (foto a des.). 8 SCEMPIO AL FORO ROMANO segue da pag. 1 ha poi avuto il patrocinio del Ministero. Ma, allora c’è da chiedersi: i pubblici funzionari incaricati (e stipendiati) dalla comunità dei cittadini non sono “in campo” prima di tutto e soprattutto come custodi dei nostri monumenti? Torna dunque valido e attuale l’antico quesito: “chi sorveglia i custodi ?”. E, in ogni caso, quali sono i limiti di discrezionalità del loro operare? A chi debbono rispondere di quello che fanno? Il Ministro – resosi complice del misfatto per non averlo impedito e per aver addirittura partecipato all’“evento” – avrebbe dovuto rimuovere il Soprintendente responsabile e poi rassegnare egli stesso le dimissioni. Quelle dimissioni che egli pretese – e ottenne – da un suo predecessore, per molto meno e del tutto imprevisto. C’è ancora tempo per farlo! INVASIONI BARBARICHE AI MERCATI TRAIANEI Torme di bronzei equini hanno invaso i Mercati Traianei, scalpitanti lungo la via Biberatica e fino ai piani alti del monumento… a rievocare, chissà (?), antiche incursioni di barbari. In realtà, inopportuno, molesto e fuorviante intralcio alla visita di un complesso monumentale che non ha certo bisogno di richiami e di… distrazioni (come da qualche tempo pare siano convinti i responsabili). EDIZIONI DI ARCHEOROMA Con la riapertura al pubblico – lo scorso mese di luglio – del Carcere Mamertino, s’è tornati variamente a parlare – e a scrivere (v. sopra da “Il Tempo”) – della “prigione dei SS. Apostoli Pietro e Paolo”. Come, peraltro, si legge nella scritta a lettere di bronzo, posta sulla fronte del monumento (sotto un piccolo bassorilievo di marmo bianco in cui i due sono raffigurati dietro una grata). Ebbene, ci corre l’obbligo, nei confronti dei nostri lettori, di tornare a ricordare – come già facemmo su queste pagine dieci anni orsono (ArcheoRoma 2006, n. 4, p. 7), che quella del Carcere Mamertino come prigione degli Apostoli è soltanto una leggenda. O, meglio, una pia tradizione nata nel Medioevo, priva di qualsiasi fondamento, in assenza non soltanto di prove, ma anche di indizi e persino di una qualche verosimiglianza. Ciò detto e, senza addentrarci ulteriormente nella questione, non ci resta che rinnovare l’appello all’onestà intellettuale dei responsabili del monumento e l’invito a togliere qualsiasi riferimento perentorio e ingannatore della buona fede dei visitatori e, in primo luogo, dei fedeli. Sostituendolo con qualcosa che ricordi, semplicemente, come quella fosse la prigione – il carcere per antonomasia – dell’antica Roma e come perciò la fantasia abbia potuto immaginare quanto tramandato dalla tarda credenza popolare. Quanto alla polla d’acqua che sarebbe miracolosamente sgorgata per consentire a san Pietro di battezzare compagni e carcerieri, esisteva prima ancora che fosse allestita la prigione, la quale ricevette il suo nome di Tullianum forse proprio da quella sorgente o “polla d’acqua”, in latino tullus. novità 8 LOCA URBIS i prontuari di Rivolgersi alla Segreteria dell’Archeoclub Tel. 06 4818839 Pubblicazione riservata ai soci dell’Archeoclub, distribuzione gratuita. (propr. Staccioli) dirett. resp. Gastone Obino. Via Tacito, 74 00193 Roma, telefono 06.48.18.839 - Autorizz. Tribunale di Roma n. 00565/92 del 27-10-1992 - Roma - Stampa: 11-2016 Borgia s.r.l., Roma