ArcheoRoma 4-2016 - Archeoclub d`Italia

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ArcheoRoma 4-2016 - Archeoclub d`Italia
Trimestrale di informazione e discussione culturale a cura dell’Archeoclub di Roma – n. 4 ottobre-dicembre 2016
L’evento
è servito
A tutti coloro che hanno pianto
per la rinuncia del Sindaco, non
alle Olimpiadi del 2024, bensì alla
candidatura di Roma (in competizione con Parigi e Los Angeles) per
quelle Olimpiadi, e che hanno
recriminato per la perdita di un’occasione con la quale la Città sarebbe tornata a nuova vita, vorremmo
ricordare che, se proprio si deve
ricorrere a un grande evento perché
quel rinnovamento si compia,
l’evento è bell’e pronto: il 150°
anniversario di Roma capitale. Sarà
nel 2021, prendendo come data
della ricorrenza il 3 di febbraio
(1871) quando venne approvata
dal Parlamento la legge per il trasferimento della capitale da Firenze
a Roma.
Ci sono dunque cinque anni per
poter realizzare, con il concorso
determinante – e, stavolta, persino
ovvio – dello Stato, gran parte dei
progetti sognati per le Olimpiadi e
opportunamente “rivisitati” per la
nuova occasione.
Tra quei progetti noi vorremmo
inserirne uno che ci sembra particolarmente opportuno e significativo (e che già avanzammo ... a prescindere dall’evento, su queste
pagine: v. ArcheoRoma 2002, n. 3,
p. 7; 2010 n. 2, p. 7; 2014 n. 3, p.
3): quello di dare sepoltura nel
Vittoriano ai quattro re succedutisi
sul trono del Regno d’Italia:
Vittorio Emanuele II, Umberto I,
Vittorio Emanuele III e Umberto
II. Con tale iniziativa si darebbe
finalmente una tomba in patria agli
ultimi due, e si toglierebbe ai primi
due il ruolo di “intrusi” all’interno
di un monumento, quale è il
Pantheon, nato per tutt’altra destinazione. Mentre il Vittoriano fu
realizzato, in onore di Vittorio
SCEMPIO AL FORO ROMANO
Avevamo appena fatto in tempo a deplorare, nello scorso numero di ArcheoRoma,
la “profanazione” del Palatino – così come, in passato, avevamo fatto per i “lunapark” installati a fianco del Colosseo, le “pagliacciate” allestite in via dei Fori
imperiali e le mostre “stravaganti” ai Mercati Traianei (e, da ultimo, al Palatino)
– che un evento “vandalico” s’è abbattuto, lo scorso 26 luglio, sul Foro Romano:
il “concertone” del Giubileo, Music for Mercy, promosso dall’Opera Romana
Pellegrinaggi e dal Teatro dell’Opera, col patrocinio del Ministero per i beni culturali e della Commissione italiana per l’Unesco.
Un megapalco per musici e cantanti e una platea di 1.000 posti (!), oltre a strutture varie di supporto e di servizio hanno invaso e occupato per alcuni giorni l’intera “piazza” forense (quella recintata che i visitatori non possono calpestare) e le
sue adiacenze, dall’Arco di Settimio Severo al tempio di Antonino e Faustina.
Una intrusione inaudita!
E lo scempio è stato completato con l’utilizzazione della Curia del Senato per i
camerini degli “artisti”, della Casa delle Vestali per un rinfresco e di Santa Maria
Antiqua per una cena fredda!
Una “cafonata” come l’ha definita l’ex soprintendente La Regina: l’unico archeologo autorevole che, intervistato dal quotidiano Il Tempo, ha osato esprimersi
pubblicamente criticando duramente la scempio. E tutti gli altri? Quelli che, in
gioventù – negli anni sessanta del secolo scorso – dettero vita nello stesso Foro, a
una sonora protesta contro gli innocui spettacoli di “Suoni e luci”?
E gli Istituti, le Accademie, le Università, le Associazioni, il mondo della cultura
in genere?
È grave che, a protestare, sia stata soltanto l’Associazione delle Guide Turistiche,
risentita per “fatto personale”: il Foro, infatti, è stato precluso alle visite per diversi giorni, prima e dopo l’evento.
Ma, a parte i possibili danni e i disagi causati ai visitatori e ai turisti che, venuti
a Roma in quei giorni, hanno trovato inaccessibile e, comunque, stravolta una
delle aree archeologiche più importanti del mondo, come è stato possibile anche
soltanto pensare una simile mostruosità? E poi, chi l’ha autorizzata?
Gli organizzatori dell’“evento” si sono giustificati asserendo che il progetto dettagliato degli impianti ha avuto il nullaosta della Soprintendenza e, grazie ad esso,
segue a pag. 8
A N N O
X X X V
2
Emanuele II, per celebrare l’”unità
della patria” e la “libertà dei cittadini” (come sta scritto nelle due dediche monumentali purtroppo rese
illeggibili da un improvvido
“restauro”, v. ArcheoRoma 2015 n.
3, p. 7) conseguite sotto l’egida e
per iniziativa di quella dinastia
sabauda alla quale i quattro re
appartenevano.
P.S. E, che dire di quei molti che
hanno deplorato la rinuncia alla
candidatura per i Giochi del 2024
che plaudirono invece al diniego
del Governo Monti per quella relativa ai Giochi del 2020 (voluta da
un Sindaco d’un altro colore)?
Quanto alla nostra posizione contraria, non abbiamo che da ribadire quanto più volte pubblicato, a
partire dall’ormai lontano 1997 (v.
ArcheoRoma n. 1, p. 7; n. 2-3, p.
1). A parte il rischio – e l’umiliazione – della bocciatura da parte del
CIO (come già capitò per i Giochi
del 2004), noi riteniamo fermamente che, essendosi già svolte le
Olimpiadi a Roma, nel 1960, quelle sono le “Olimpiadi di Roma”: le
ultime “dal volto umano”.
Celebrate magnificamente in contesti ambientali e scenari incomparabili, a che pro replicarle, sminuendole come un inutile duplicato?
Tutto ciò, a prescindere dall’idea
che andiamo facendoci da qualche
tempo e che si rafforza ad ogni scadenza quadriennale, che le
Olimpiadi andrebbero abolite ......
Ma, questo è un altro discorso, che
riprenderemo.
QUANDO IL SENATO RIMANDAVA
A CASA GLI IMMIGRATI LATINI
L’anno 187 a.C. il Senato romano rimandò a casa dodicimila immigrati Latini. Ma la
decisione fu presa dietro esplicita richiesta da parte delle città che i “rimpatriati” avevano abbandonato per trasferirsi a Roma in virtù di un sacrosanto diritto. I Latini,
infatti, già da molto tempo erano stati gratificati dai Romani dello ius migrationis che
consentiva loro, non soltanto di stabilirsi nell’Urbe, ma di farvisi “censire” ottenendo
in tal modo il diritto di voto nei comizi tributi: quelli che riunivano il corpo elettorale dei cives, i cittadini, suddivisi per tribù – i distretti territoriali nei quali era articolato lo Stato romano – che avevano il compito di eleggere annualmente le magistrature
“inferiori” e, all’occasione, quelle straordinarie. Non essendo tuttavia gli immigrati
ascritti ad alcuna tribù, essi votavano, volta per volta, in una tribù estratta a sorte.
Nella non sempre facile vicenda dei rapporti tra Romani e Latini era andata peggio
per i secondi quando questi, nel 340 a.C., avevano osato chiedere a Roma, come scrive Tito Livio (VIII, 5), di “non essere più trattati come sudditi”. E, addirittura, disposti a chiamarsi “tutti Romani”, che si creasse “un solo popolo, una sola repubblica” e
che “un console fosse nominato da Roma, l’altro dal Lazio” e che il Senato fosse composto “in parti uguali dell’una e dell’altra gente”.
Il console Tito Manlio dichiarò apertamente che, se i senatori, presi da insana follia,
avessero accettato quelle proposte, “si sarebbe recato in Senato cinto di spada e qualunque Latino avesse incontrato nella Curia, lo avrebbe ucciso con la sua mano”.
Né meglio andò quando, qualche tempo dopo la battaglia di Canne, ci fu chi, dopo
aver lamentato la penuria di senatori, venuti meno per motivi bellici oltre che per
disgrazie personali, ma anche la scarsità del numero di cittadini tra i quali i senatori
potevano essere scelti, propose che, a giudizio del Senato, si desse la cittadinanza
romana a due senatori di ognuna delle città latine e si eleggessero questi a senatori di
Roma. La proposta fu accolta malissimo. Livio scrive (XXIII, 22) che “tutta la Curia
fremeva di indignazione”. E su di essa fu fatto calare “un sacrosanto silenzio” dopo che
Q. Fabio Massimo ne ebbe stigmatizzata l’inopportunità e chiesto che essa fosse
“coperta, occultata, dimenticata, considerata mai presentata”.
Tornando alla “migrazione” dei Latini, con l’andare del tempo, essa era stata talmente numerosa che le città d’origine cercarono di mettervi un freno. Certamente perché
il loro progressivo “spopolamento”, oltre a incidere negativamente sull’agricoltura,
rendeva sempre più difficile soddisfare, tra gli altri, anche e soprattutto l’obbligo di
fornire a Roma i contingenti militari previsti dai trattati.
Tito Livio scrive (XXXIX, 3, 4) che, in quell’anno 187, il Senato dette udienza ai
molti ambasciatori giunti da ogni parte del Lazio per lamentarsi della situazione. E gli
ambasciatori ottennero soddisfazione. Fu infatti deciso di affidare al pretore Q.
Terenzio Culleo il compito di rintracciare e obbligare a tornarsene in patria “chiunque
gli alleati Latini avessero provato d’essersi fatto censire a partire dall’anno della censura di C. Claudio e M. Livio”, vale a dire il 204 a.C.
E fu così che i dodicimila Latini lasciarono Roma per far ritorno a casa.
Verosimilmente con soddisfazione degli stessi Romani, visto che Livio, non a caso,
LE TERME
Ai piedi della “scarpata” al di sopra della
quale corre la via Nicola Salvi, proprio di
fronte all’antico ingresso settentrionale
del Colosseo, al lato del marciapiede, si
scorgono per un breve tratto ruderi “anonimi” di alcuni pilastri con semicolonne,
in laterizio: è tutto quello che resta oggi,
di visibile, delle Terme di Tito costruite
nell’80 d.C. ma probabilmente già
appartenute alla Domus Aurea di Nerone
e riadattate o rifatte nell’ambito del programma dei Flavi che intendeva “restituire” ai cittadini gli spazi pubblici loro
“usurpati” dal tiranno.
3
conclude il suo racconto osservando come “già allora un gran numero di stranieri gravava sull’Urbe”.
Non si trattò, tuttavia, di una soluzione definitiva. La migrazione verso Roma dovette presto riprendere e assumere proporzioni anche maggiori. Al punto che una decina
di anni dopo si pensò di ricorrere a dei veri e propri provvedimenti legislativi dei quali
però non abbiamo conoscenza diretta. Sembra che fosse stabilito che gli “alleati
Latini” potessero usufruire del diritto di migrazione a patto che lasciassero dei figli
nella loro città d’origine. Ma sembra pure che fosse immediatamente trovato il modo
di aggirare la legge (alcuni studiosi pensano con il tacito consenso delle autorità, a
meno che non fosse questo il tenore della legge stessa).
Bastava dunque che i “migranti” vendessero fittiziamente i propri figli a dei cittadini
romani i quali provvedevano poi ad affrancarli facendoli diventare automaticamente
cittadini ascritti alla classe dei liberti. Pare che ci siano stati persino dei casi in cui
qualcuno, non avendo figli, sia arrivato a vendere se stesso!
Il Senato dovette quindi intervenire presto nuovamente e, sempre per rispondere alle
lagnanze delle città latine, ordinò al console C. Claudio Pulcro di predisporre altri
provvedimenti al riguardo.
Ancora una volta Tito Livio c’informa così (XLI, 9, 9) che nel 177 a.C. un editto del
console ordinò che “gli alleati Latini che erano stati iscritti nei registri durante la censura di M. Claudio e T. Quinzio e negli anni successivi, dovevano fare ritorno nelle
loro città d’origine, entro le kalende di novembre”, mentre “al pretore L. Mummio
veniva affidata l’indagine su coloro che, trovandosi in quelle condizioni, non fossero
rimpatriati”.
Ma non si trattò della semplice replica del provvedimento precedente. Infatti, un
decreto del Senato stabilì pure che il magistrato “ al quale veniva presentato uno schiavo per essere liberato, esigesse da chi lo presentava il giuramento di non farlo al fine
del cambiamento di cittadinanza” e che “non fossero liberati quelli per i quali tale giuramento non venisse prestato”.
Livio osserva come quei provvedimenti precauzionali fossero “adottati per il futuro”.
Ma essi non furono affatto sufficienti e la situazione si trascinò ancora a lungo tra alti
e bassi. Nel 126 a.C. ci fu un’ennesima espulsione e, quando, nel 123, Caio Gracco
propose di dare la cittadinanza ai Latini (e il “diritto latino” agli altri alleati) o, in
subordine, che fosse concesso ai Latini (e agli alleati) che si trovavano a Roma nei giorni di comizio il diritto di partecipare all’assemblea e alle votazioni, si scontrò con una
forte opposizione. L’anno seguente la proposta fu respinta dopo un duro intervento
del console Caio Fannio che ebbe buon gioco nel convincere la plebe urbana della inevitabile perdita di ogni privilegio con lo stravolgimento conseguente alla repentina e
massiccia immissione nel corpo sociale di tanti nuovi cittadini.
Finalmente, nel 95 a.C., i consoli L. Licinio Crasso e Q. Muzio Scevola fecero approvare una legge de civibus redigandis (“sui cittadini da respingere”) che, tornando alle
origini, toglieva del tutto ai Latini il diritto di prendere la cittadinanza trasferendosi a
Roma.
Fu quella una delle cause che pochi anni dopo condussero alla scoppio della cosiddetta Guerra Sociale o dei Socii (gli “alleati”) che funestò a lungo l’Italia intera e si concluse con la sia pur graduale concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici.
Romolo A. Staccioli
DI TITO
Si tratta, in particolare, del propileo dal
quale con una successiva scalea si accedeva dal basso al complesso termale esteso
sulle pendici meridionali del Colle
Oppio.
Ci vorrebbe molto a collocare sul posto
un “totem” con due parole di informazione e una pianta dell’intero edificio che
conosciamo da un disegno del Palladio?
E, che dire, poi, se, una volta o l’altra, si
provasse, con uno scavo oculato, a
“intaccare” la scarpata per vedere se al di
là degli avanzi ora in vista, ci fosse sepolto dell’altro da tirar fuori?
IL XXII
CENTENARIO
DELLA MORTE
DI PLAUTO
Per ricordare – doverosamente – il XXII
centenario della morte di Plauto avvenuta nel 184 a.C. ci è sembrato opportuno
ricorrere a uno stralcio del lungo capitolo dedicato da Ettore Paratore al grande
commediografo romano nella sua “Storia
della letteratura latina” (G. C. Sansoni
Editore).
“Quello che prende alla gola e trascina ogni
lettore delle commedie di Plauto è la vivacità travolgente che spira dalla prima
all’ultima scena, e che, nella letteratura
comica mondiale, trova riscontro solo in
Aristofane, vero fratello spirituale di
Plauto al di sopra di tutte le distanze etniche, cronologiche e culturali, nel senso della
gioia straripante che sgorga dalla vicenda
comica tesa fino alla massima esplosività
mimica ed espressiva. La vivacità plautina
riposa esclusivamente sulla spettacolosa ricchezza e plasticità della lingua, gioco pirotecnico costantemente scoppiettante con
inesausta grazia e festività, e nella ugualmente prestigiosa ricchezza dei metri che
costituisce l’adeguato commento ritmico e
musicale alla scapricciata vivacità dei
ritrovati linguistici. Di Plauto, come di
quasi tutti i poeti arcaici, è stato tramandato da Varrone l’autoepitafio, che Gellio
ci ha trascritto; gli autoepitafi dei poeti
arcaici, salvo forse quello di Ennio, sono
apocrifi, falsificazioni compiute da eruditi
posteriori per caratterizzare l’opera di quei
poeti, forse sotto i loro ritratti collocati a
principio dei volumina in cui le loro opere
erano trascritte; le Imagines di Varrone
furono il grande collettore di questi presunti autoepitafi. Orbene il cosiddetto autoepitafio di Plauto suona così: «Dopo che
Plauto è giunto a morte, la commedia
piange, la scena è abbandonata; e quindi il
riso, il gioco, lo scherzo, e i ritmi innumerevoli tutti insieme lagrimarono». Non si
potevano caratterizzare meglio le vere
peculiarità dell’arte di Plauto”.
45°
panorama / calendario delle manifestazioni dell’Archeoclub di Roma
Anno sociale quarantacinquesimo - novembre-dicembre 2016
ATTENZIONE: Tutte le attività in programma - comprese le conferenze - sono riservate ai Soci e ai loro
Familiari, Amici o Ospiti. Per tutte le attività - tranne che per le conferenze - è richiesta l’adesione con
prenotazione in segreteria, anche telefonicamente (06.48.18.839).
novembre
GIOVEDI
SABATO
MERCOLEDI
3
invito
19
archeosimposio
23
visita guidata speciale
al Salotto Romano (con “i puntini sulle per il XLV Anniversario dell’Archeoclub alla “Chiocciola” della piscina limaria
i” di R. A. Staccioli) – Palazzo dei
Domenicani, piazza della Minerva 42 –
ore 16,30
di Roma – Ristorante Orazio, piazzale
Numa Pompilio – ore 13,00 (prenotazione obbligatoria)
SABATO
5
passeggiata
della serie “in nostra Urbe peregrinantes”,
dell’Acquedotto Vergine – ore 10,00 in
via Trinità dei Monti 2 (Pincio, altezza
Villa Medici) – massimo 20 persone –
prenotazione obbligatoria
VENERDI
25
conferenza
del prof. Romolo
A.
Staccioli, sul tema: Quando
l’antica Roma risuonava di
acque dolcemente mormoranti
–
presso
la
Fondazione Marco Besso,
largo della Torre Argentina
11 – ore 16,30
guidata dal dott. Maurizio Vignuda,
all’Esquilino: dall’Iseo Metellino
all’Arco di Gallieno – ore 10,30 a piazza
Iside (presso via Labicana)
GIOVEDI
10
visita guidata speciale
alla Biblioteca Apostolica Vaticana – ore
16,15 in via di Porta Angelica: cancello
di Sant’Anna (con documento d’identità) – massimo 20 persone – prenotazione obbligatoria entro lunedi 7
dicembre
GIOVEDI
MARTEDI
1
invito
6
Letture a voce alta
al Salotto Romano (con “i puntini sulle Testi e Autori di ieri e di oggi. Tucidide:
i” di R. A. Staccioli) – Palazzo dei
Domenicani, piazza della Minerva 42 –
ore 16,30
12 SABATO
visita guidata
dal prof. Romolo A. Staccioli, alla
Chiesa dei Santi Luca e Martina (da
poco riaperta) – ore 10,30 davanti alla
chiesa, via della Curia 2 (Foro Romano)
MERCOLEDI
16
conferenza
del dott. Antonio Insalaco
sul tema: “I giganti dell’acqua” (Gli acquedotti
romani in proprietà della
Banca d’Italia sulla via
Tuscolana) – Sala Associaz.
“Pro Roma”, via Nazionale
66 (di fronte a San Vitale)–
ore 16,30
3
Il discorso di Pericle agli Ateniesi, a cura
della dott. Laura Trellini Marino – presso la Sede sociale, via Tacito 74, scala A,
int. 2 – ore 16,30
SABATO
visita guidata
al Carcere Mamertino (recentemente
riaperto al pubblico) con guida specialistica – ore 10,15 davanti al monumento
(Clivo Argentario n. 1) – minimo 20
persone – prenotazione entro mercoledì
30 novembre
SABATO
10
visita guidata
dal dott. Antonio Insalaco, alla Basilica
di Santa Balbina (sul Piccolo Aventino):
dalla domus Cilonis alla Necropoli
Ardeatina – ore 10,30, davanti alla
Chiesa
Archeoclub d’Italia
SEDE DI ROMA
Via Tacito, 74 (P.zza Cavour)
tel. 06.4818839
(con segreteria telefonica)
c.c.p. 77897007
(intestato: Archeoclub di Roma)
SEGRETERIA:
lunedì, mercoledì, venerdì ore 10-12
LUNEDI
12
conferenza
del ciclo “Classici oggi, classici per il
futuro”, a cura dell’Assoc. Ital. di
Cultura Classica: prof. Antonio
Marchetta, Memoria e identità in
Virgilio – Liceo Giulio Cesare, corso
Trieste 45 – ore 16,00
MARTEDI
13
visita guidata
dal prof. Romolo A. Staccioli, all’Arco
di Claudio dell’Acquedotto Vergine –
ore 12,00 in via del Nazareno 2 – massimo 20 persone – prenotazione obbligatoria
VENERDI
16
conferenza
del prof. Romolo A. Staccioli sul tema:
Quando l’antica Roma festeggiava “i
giorni più belli dell’anno” – presso la
Fondazione Marco Besso, largo della
Torre Argentina 11 – ore 16,30
ANCORA DUE LUTTI
NEL NOSTRO SODALIZIO
È recentemente venuto a mancare un collaboratore e un socio di grande prestigio: il prof.
MICHELE COCCIA
Grande latinista, noto in campo nazionale e internazionale, aveva insegnato
letteratura latina all’Università La Sapienza di Roma fino all’età della pensione. Aveva poi continuato la sua attività culturale come presidente della sezione romana dell’Associazione Italiana di Cultura Classica, insieme con la sua
brava e devota allieva,la prof.ssa Maria Grazia Iodice, e aveva continuato a
scrivere e a partecipare a congressi .
Per l’Archeoclub di Roma già da molti anni ci aveva regalato apprezzate conferenze, tra le quali “Il pensiero politico di Cicerone”,”Ricordo dell’attività
didattica e letteraria di Ettore Paratore”, “Il De Officiis, testamento spirituale
di Cicerone”.
Partecipava con entusiasmo e vivace impegno a molte nostre attività sempre
intervenendo con commenti, domande, apporti culturali a visite, letture,
conferenze.
Ci aveva concesso ospitalità per tenere corsi e proiezioni cinematografiche in
una sede prestigiosa di proprietà della sua famiglia, dove cura la propria attività culturale l’associazione Leusso diretta dal figlio Benedetto, anche lui
impegnato in studi classici.
Ma, a parte il suo valore professionale, lo ricorderemo sempre come persona
di gradevole compagnia: arricchiva le nostre escursioni con piacevoli aneddoti, si univa al nostro presidente nel raccontare barzellette, nel cantare canzoni
romane dei tempi passati.
L’ho sentito parlare in latino e non tutti i latinisti sono in grado di farlo;
descriveva in latino un guasto al motore di un pullman sul quale si stava
recando a un convegno; ha usato parole classiche senza inventare inutili neologismi. Vorrei tanto poter riferire le sue parole ma purtroppo ora non riesco
a ricordarle.
Lo terremo ancora nel cuore: è stato un fiore all’occhiello dell’Archeoclub di
Roma sia per il suo alto valore professionale sia per la viva partecipazione della
quale ci ha fatto godere.
Con affetto ti salutiamo, Michele.
Alla fine di settembre è mancata una validissima collaboratrice della segreteria dell’Archeoclub di Roma:
DOMENICA
18
Archeosimposio degli Auguri
(con la tradizionale tombolata) –
Ristorante Orazio, piazzale Numa
Pompilio – ore 13,00 (prenotazione
obbligatoria)
–––––––
VACANZE DI FINE ANNO
Dopo le vacanze, la SEGRETERIA riaprirà con le consuete modalità
mercoledi 11 gennaio 2017
ROSA DE MARINIS
Da oltre quindici anni era presente in sede tutti i lunedì e con intelligenza e
sollecitudine curava il continuo aggiornamento dell’elenco dei soci, chiamava gli amici perché partecipassero a visite ed escursioni, si valeva della sua
capacità professionale (era laureata in legge) perché la segreteria mantenesse
ordine e coerenza negli impegni che le sono richiesti.
Con tanto rimpianto e affetto le porgiamo un riconoscente saluto.
GDP
6
CONTRIBUTI E INTERVENTI
archeoemozioni
LE “DOMUS”
RESTAURATE
DI POMPEI
Fratelli d’Italia
ArcheoRoma compie 35 anni. L’occasione di rivedere e ordinare le annate precedenti
ha rimesso in luce un editoriale (2008, n. 3) intitolato: “Fratelli (coltelli) d’Italia”.
L’Autore criticava e ironizzava su una posizione assunta dalla Lega Nord che ripudiava il testo del nostro inno nazionale, pur nato al Nord all’inizio della grande epopea
del Risorgimento. L’inno fu composto, infatti, nel 1847 dal genovese Goffredo
Mameli, morto a 22 anni nella difesa della Repubblica Romana del 1848. Il commento della Lega con ignoranza (o malafede nei riguardi di Roma) biasimava l’espressione “la vittoria schiava di Roma” erroneamente letta come fosse “l’Italia schiava di
Roma” (e non già la vittoria). L’inno può essere oggi da alcuni considerato retorico e
anacronistico ... forse basta con “l’elmo di Scipio” ... ma noi riteniamo l’inno tuttora
valido. Viene voglia di paragonarlo agli altri inni nazionali dei Paesi vicini all’Italia e
di evidenziare quanto esso sia nobile e poetico.
La Marsigliese, che i francesi cantano tuttora con piena dedizione, è veramente anacronistica e retorica. Anche se trova una giustificazione nella temperie storico-politica
della grande rivoluzione francese, canta l’odio e il furore contro i nemici, il cui “sangue impuro deve abbeverare i nostri solchi”, contro i feroci soldati che vengono nelle
nostre braccia a “égorger nos fils, nos compagnes” ......
L’inno nazionale inglese è essenzialmente imperniato sull’augurio di lunga vita al monarca di turno, e solo in rapporto col sovrano accenna a proteggere l’Inghilterra dai nemici e a chiedere il rispetto delle leggi (leggi tra le quali – ma l’inno non la ricorda – la
“magna charta libertatum” che nel 1215 ha creato la prima monarchia costituzionale).
L’inno nazionale tedesco celebra i primati di produzione agricola e le bellezze ambientali e solo in fondo tratta la difesa dai nemici (strano inno per un popolo così bellicoso come quello germanico), ma quel “Deutschland uber alles” sembra esaltare una
arroganza sinistramente foriera degli orrori del nazismo.
Passando al nostro “Fratelli d’Italia” possiamo rilevare il suo contenuto morale e civile nella addolorata constatazione che “noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non
siam popolo, perché siam divisi” e nell’accorata invocazione “raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò”. Non c’è violenza né odio in
queste parole; solo nell’ultima strofa (che non si canta quasi mai) si accenna alla auspicabile caduta del nemico austrungarico.
Ci sono state alcune proposte per sostituire il nostro inno: si è pensato al coro verdiano del Nabucco: “Va pensiero sull’ali dorate ...”. In effetti il canto operistico è stato
composto da Verdi in epoca risorgimentale, poco dopo l’inno di Mameli, ed ha il
merito di essere stato cantato, per la sua grande musicalità anche da parte della gente
comune che non andava all’Opera. Verdi attraverso la sua musica ha suscitato entusiasmi nazionali anche nelle masse popolari che né Mazzini né Cavour, seguiti soprattutto da borghesi e intellettuali, erano ancora riusciti a coinvolgere. Inoltre, Mazzini
e Cavour furono sempre in contrasto tra loro. Il terzo grande costruttore dell’unità,
Garibaldi, come Verdi, ma con altri mezzi, si era avvicinato al popolo minuto.
Ma il coro del Nabucco non si presta a un inno nazionale perché ha un’intonazione
triste non idonea a suscitare slanci di entusiasmo.
Altro possibile sostituto potrebbe essere “Sole che sorgi libero e giocondo ...” che, pur
gravato da motivi “politicamente scorretti” deriva dal Carmen saeculare di Orazio:
“Alme sol ... possis nihil urbe Roma visere maius ...”. Ma, possiamo cantare in latino?
Teniamoci in fondo il nostro “Fratelli d’Italia” che pur con la sua “Vittoria schiava di
Roma” e col suo “elmo di Scipio” richiama comunque tutti gli Italici alla madre
Roma, risponde alla storia del popolo italiano, ne nobilita l’unità e il senso di Patria.
Giovanna De Paola
Di recente, sono state riaperte al pubblico, dopo accurati lavori di restauro,
numerose “domus” di Pompei.
La notizia merita il dovuto risalto,
soprattutto tenendo presenti le evidenti
criticità che si riscontrano nella gestione
del nostro patrimonio archeologico.
Ci vorrebbe molto spazio per condividere con i lettori le continue emozioni che
puntualmente suscitano le belle case del
ceto medio – alto dell’antica Pompei:
quello composto, in particolare, da proprietari terrieri e commercianti abbienti.
Mi limiterò, quindi, a un rapido excursus
“fior da fiore”, passando da una emozione…all’altra.
Nella casa del Criptoportico spicca alle
pareti, proprio nelle ali dello stesso
ambiente, un significativo esempio della
pittura di secondo stile, costituito da un
fregio con episodi della guerra di Troia,
tratti
dall’Iliade
di
Omero.
Nell’ambulacro, si nota il larario, con il
busto del dio Mercurio sopra l’altare e il
serpente agatodemone (rappresentazione
di una divinità ritenuta benevola e protettrice degli uomini) .
La casa di C. Cuspius Pansa o di Paquius
Proculus (non esistono dati certi sull’attribuzione della “ domus”) presenta nell’atrio un pavimento musivo – tra i
meglio conservati di Pompei – decorato
a riquadri geometrici (che riprendono, in
sostanza, i cassettoni del soffitto) , con
animali di vario genere.
Nella casa dell’Efebo, colpisce l’occhio il
triclinio invernale con banconi in legno e
metallo e il pavimento con un riquadro
centrale decorato da tarsie marmoree
(“opus sectile “) , con rosette e fiori di
loto. Da visitare anche il triclinio estivo,
collocato sotto un pergolato, dove ai lati
dei banconi in muratura possono ammirarsi i dipinti di un paesaggio nilotico e
di una scena erotica.
Un magnifico esempio di pittura di giardino, con motivi egittizzanti, è costituito
dalla decorazione di due piccoli e raffinati cubicula (le stanze da letto) nella casa
del Frutteto.Si arriva, perfino, a riconoscere alcune specie vegetali ivi dipinte,
come i limoni.
Attrae la casa di Casca Longus, dove rapiscono lo sguardo i pregevolissimi affreschi dell’atrio, con scomparti celesti, al
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cui centro spiccano deliziosi quadretti
con scene teatrali. In capo all’impluvium,
attirano l’attenzione i sostegni di marmo
bianco a zampa leonina di un tavolo o
mensa, dove nel ripiano superiore si
legge molto bene, in forma abbreviata, il
nome del cesaricida Casca Longus : si
trattava, pertanto, di un bene confiscato
e successivamente acquistato dal proprietario della casa in occasione di una vendita pubblica.
Lascia estasiati, nel giardino dei Praedia
(grande proprietà immobiliare) di Giulia
Felice, lo stupendo triclinio estivo, ottimamente conservato, con letti e nicchia
con cascata a gradini, rivestiti di marmo.
Quasi un unicum è, poi, il portico con
eleganti, slanciati pilastri marmorei a
sezione rettangolare, scanalati, e capitelli
di tipo quasi corinzio.
Nella celebre casa del Menandro, non ci
si può esimere dal soffermarsi sulla nicchia dipinta del peristilio, nella quale è,
appunto, raffigurato il famoso commediografo greco Menandro, che ha dato il
nome alla domus.
appunti e disappunti sulla Città dei nostri giorni
… so’ più sorci che serci!
Una vignetta profetica (di Melanton) su
“Il Travaso” del febbraio 1988
Per chiudere in bellezza, lo spettacolare,
grande affresco che occupa la parete di
fondo del peristilio della casa della
Venere in conchiglia.Nel pannello centrale, è tutta da godere la raffigurazione
della dea Venere, protettrice di Pompei,
adagiata in una conchiglia, con, ai lati,
due amorini. La dea, completamente
nuda, è adornata da un diadema sul capo
e gioielli al collo, ai polsi e alle caviglie.
Come, quindi, non invidiare gli antichi
pompeiani che vivevano in domus così
riccamente decorate?
Maurizio Vignuda
Su ArcheoRoma n. 2/2008 a pag. 1 denunciammo l’“incolto tappeto di erba che da
mesi verdeggia sotto il finestrone del padiglione di destra della Villa Aldobrandini, su
largo Magnanapoli” e, naturalmente, ce la
prendemmo con gli Uffici “che dovrebbero
tutelare il decoro della città” (foto a sin.).
Otto anni dopo, non solo quel “tappeto” –
mai eliminato e rinnovatosi di stagione in
stagione – “verdeggia” ancora, ma si è anche
arricchito di un piccolo albero che promette
bene per il futuro (foto a des.).
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SCEMPIO AL FORO ROMANO
segue da pag. 1
ha poi avuto il patrocinio del Ministero. Ma, allora c’è da chiedersi: i pubblici funzionari incaricati (e stipendiati) dalla comunità dei cittadini non sono “in campo”
prima di tutto e soprattutto come custodi dei nostri monumenti? Torna dunque
valido e attuale l’antico quesito: “chi sorveglia i custodi ?”. E, in ogni caso, quali
sono i limiti di discrezionalità del loro operare? A chi debbono rispondere di quello che fanno?
Il Ministro – resosi complice del misfatto per non averlo impedito e per aver addirittura partecipato all’“evento” – avrebbe dovuto rimuovere il Soprintendente responsabile e poi rassegnare egli stesso le dimissioni. Quelle dimissioni che egli pretese – e ottenne – da un suo predecessore, per molto meno e del tutto imprevisto.
C’è ancora tempo per farlo!
INVASIONI
BARBARICHE
AI
MERCATI TRAIANEI
Torme di bronzei equini hanno invaso
i Mercati Traianei, scalpitanti lungo la
via Biberatica e fino ai piani alti del
monumento… a rievocare, chissà (?),
antiche incursioni di barbari.
In realtà, inopportuno, molesto e fuorviante intralcio alla visita di un complesso monumentale che non ha certo
bisogno di richiami e di… distrazioni
(come da qualche tempo pare siano
convinti i responsabili).
EDIZIONI
DI ARCHEOROMA
Con la riapertura al pubblico – lo scorso mese di luglio – del Carcere Mamertino,
s’è tornati variamente a parlare – e a scrivere (v. sopra da “Il Tempo”) – della “prigione dei SS. Apostoli Pietro e Paolo”. Come, peraltro, si legge nella scritta a lettere di bronzo, posta sulla fronte del monumento (sotto un piccolo bassorilievo di
marmo bianco in cui i due sono raffigurati dietro una grata).
Ebbene, ci corre l’obbligo, nei confronti dei nostri lettori, di tornare a ricordare –
come già facemmo su queste pagine dieci anni orsono (ArcheoRoma 2006, n. 4,
p. 7), che quella del Carcere Mamertino come prigione degli Apostoli è soltanto
una leggenda. O, meglio, una pia tradizione nata nel Medioevo, priva di qualsiasi fondamento, in assenza non soltanto di prove, ma anche di indizi e persino di
una qualche verosimiglianza.
Ciò detto e, senza addentrarci ulteriormente nella questione, non ci resta che rinnovare l’appello all’onestà intellettuale dei responsabili del monumento e l’invito
a togliere qualsiasi riferimento perentorio e ingannatore della buona fede dei visitatori e, in primo luogo, dei fedeli. Sostituendolo con qualcosa che ricordi, semplicemente, come quella fosse la prigione – il carcere per antonomasia – dell’antica Roma e come perciò la fantasia abbia potuto immaginare quanto tramandato
dalla tarda credenza popolare.
Quanto alla polla d’acqua che sarebbe miracolosamente sgorgata per consentire a
san Pietro di battezzare compagni e carcerieri, esisteva prima ancora che fosse allestita la prigione, la quale ricevette il suo nome di Tullianum forse proprio da quella sorgente o “polla d’acqua”, in latino tullus.
novità
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LOCA
URBIS
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dell’Archeoclub
Tel. 06 4818839
Pubblicazione riservata ai soci dell’Archeoclub, distribuzione gratuita. (propr. Staccioli) dirett. resp. Gastone Obino. Via Tacito, 74
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