Azione - Settimanale di Migros Ticino La fine del mondo

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Azione - Settimanale di Migros Ticino La fine del mondo
La fine del mondo
Riaperto il Centro Pecci di Prato con un’esposizione curata da Fabio Cavallucci
/ 16.01.2017
di Gianluigi Bellei
Il 16 ottobre ha riaperto il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Una notizia
importante perché è stato per lunghi anni il fulcro dell’arte contemporanea in Italia. Inaugurato nel
1988 era, assieme al Castello di Rivoli, una delle poche eccellenze dedicate all’arte dagli anni
Cinquanta a oggi in Italia. Oltre mille le opere della collezione divise tra sculture, installazioni,
dipinti, fotografie e video; fra Arte Povera, Transavanguardia, Poesia concreta e visiva… la collezione
vanta opere di Anish Kapoor, Jan Fabre, Jannis Kounellis e Sol LeWitt, solo per citarne alcuni. Dopo
alterne vicissitudini e scarsi visitatori, chiude. Nel 2006 il rilancio con l’ampliamento della sede
museale commissionata, sempre dalla famiglia Pecci, noti imprenditori tessili di Prato, all’architetto
Maurice Nio.
I lavori iniziano nel 2010 e terminano appunto il 16 ottobre scorso, giorno dell’inaugurazione. Il
progetto di Maurice Nio, architetto olandese, prevede l’abbraccio dell’edificio preesistente di Italo
Gamberini attraverso una nuova struttura ellittica e fluida con una sorta di antenna curva in alto per
captare idealmente la creatività circostante. Così scrive l’architetto: «sintonizziamo il mondo fisico
su di una frequenza diversa, facciamo vibrare il materiale in modo nuovo». La superficie del vecchio
edificio era di 4310 metri quadrati; l’ampliamento è di 7815. La superficie totale odierna del museo è
di 12’125 metri quadrati. La struttura esterna è di certo accattivante e inusuale. Non a caso da
subito viene chiamata «l’astronave». L’interno per ora è di difficile valutazione. Anche perché
l’abbiamo visitato a lavori in via di definizione: stucchi, vernici, pavimenti, luci… Certo la forma
ellittica non aiuta e comunque le luci non sembrano ottimali. In ogni caso l’audacia della struttura
sembra incoraggiante.
Per l’inaugurazione è stata presentata la mostra La fine del mondo, curata dal nuovo direttore Fabio
Cavallucci.
Per Cavallucci l’arte non è più un modo di intendere la storia e la società in senso progressivo e
lineare; non esiste un prima e un dopo; non ci sono più valori che segnano e distanziano il passato
dal presente; ma la storia è costellata di cerchi che si affastellano uno dentro l’altro. Scomparse le
ideologie totalizzanti, come il comunismo e il fascismo (ma altre altrettanto pericolose si stanno
affacciando nel nuovo millennio), rimaniamo immersi in un mondo fluttuante dove le guerre diffuse,
le esclusioni, le catastrofi ci accompagnano, pur non segnando il nostro vivere quotidiano. Per lui la
fine del mondo è un sintomo: «lo stato di incertezza, la condizione di sospensione, l’incapacità di
comprendere i grandi cambiamenti presenti, che ci fa pensare che una situazione che abbiamo
conosciuto finora sia ormai giunta al termine».
Certo non una visione apocalittica e millenaristica, tanto cara a religiosi o pensatori politici di vario
stampo, ma semplicemente una sorta di epoché, di sospensione del giudizio perché come scrive
René Descartes «se […] non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è
in mio potere di sospendere il mio giudizio». Cavallucci sostiene che la fine del mondo coincide con
la fine del nostro mondo culturale e dei suoi processi cognitivi e percettivi che ci hanno
accompagnato dall’antica Grecia a oggi. La mostra è quindi il risultato di un «sentimento diviso tra
vanità delle nostre azioni, nostalgia di ciò che è stato e non è più, e – forse – qualche bagliore di
futuro…». Di conseguenza la storia dell’arte non ha più un andamento cronologico ma alto e basso,
orizzontale e verticale, passato e presente si mescolano senza preclusioni di sorta.
Se la fine del mondo è già avvenuta e non sappiamo cosa ci prepara il futuro è ovvio che viviamo in
un periodo di incertezze; e queste incertezze sono esposte in mostra ora come utopia, ora come
distruzione, ora come visione. Al primo piano Thomas Hirschhorn apre la strada con Break Through
nel quale il mondo cade dal soffitto squarciato tramite fili e oggetti vari come in una catastrofe senza
volto.
Henrique Oliveira con Transarquitetònica ci trasporta nella storia dell’uomo lungo un viaggio
iniziatico (e un po’ claustrofobico) all’interno di un tunnel che scandisce la progressione
architettonica – dalle costruzioni in fango a quelle in pietra e poi in mattoni e cemento – fra odori e
stratificazioni sensoriali. Da vedere le grandiose mappe realizzate da Qiu Zhijie nelle quali il sogno e
la storia si intrecciano creando un universo parallelo, come una sorta di fantastilandia. Ma l’opera
maggiormente intrigante è sicuramente Head On di un altro cinese Cai Guo-Quiang: novantanove
lupi impagliati (o forse finti per non indispettire gli animalisti) corrono per cozzare contro una parete
di vetro e venirne respinti. Una metafora della caduta del Muro di Berlino, o meglio dello scontro fra
natura e cultura. Ma poi troviamo opere di Rossella Biscotti, di Björk, di Adel Abdessemed, Olafur
Eliasson, delle Pussy Riot. In un angolo, un po’ isolati – brutta sistemazione – lavori di Marcel
Duchamp, Pablo Picasso, Umberto Boccioni e la splendida scultura della venere curvacea del
paleolitico, simbolo della fertilità. A rafforzare l’idea che l’oggi e il passato coincidono.
Infine, in occasione della mostra La fine del mondo, una selezione di opere della collezione del
museo sono esposte a corollario in diverse sedi della regione: al Museo delle scienze planetarie di
Prato, alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, al Museo di storia naturale della Specola a
Firenze, al Museo Leonardiano da Vinci al Castello dei conti Guidi, al Museo e istituto fiorentino di
preistoria Paolo Graziosi di Firenze e alla Scuola normale di Pisa.