Leggi tutto - Circolo Giorgio La Pira

Transcript

Leggi tutto - Circolo Giorgio La Pira
La Pira profeta di speranza
Edizione on line
Giovedì 4 novembre, nella chiesa della Badia Fiorentina, a Firenze, l’attore Alessandro Benvenuti ha
proposto “Giorgio La Pira profeta di speranza”, una Lettura recitata dagli scritti di Giorgio La Pira, a
cura di Gabriella Del Bianco. L’adattamento è di Riccardo Bigi. Ecco il testo integrale della «Lettura».
È una fresca giornata di settembre. A Firenze i turisti passeggiano, guardando ammirati la bellezza di una
città che sta pian piano rinascendo. Siamo nel 1954, i segni della guerra sono ancora evidenti. Mentre si
restaurano i palazzi, restano aperte molte ferite che si chiamano miseria, disoccupazione, famiglie senza
casa, anziani e bambini bisognosi di assistenza.
In piazza Signoria, gli stranieri contemplano la solida eleganza di Palazzo Vecchio. Dentro le mura però il
clima è rovente. Giorgio La Pira, sindaco da tre anni, gioca una partita decisiva. Eletto nelle liste della Dc, ha
subito affrontato in maniera coraggiosa i problemi più urgenti: gli sfratti, i licenziamenti, la condizione di
miseria che tocca l’8% della popolazione fiorentina. Ha cercato di rilanciare il ruolo internazionale di Firenze
come città di pace capace di attrarre a sé, per la sua storia e la sua bellezza, tutti i popoli. Non gli sono
mancate, per questo, le critiche. Per il bene della città ha utilizzato, senza troppi riguardi, tutti gli strumenti
che la legge gli mette a disposizione, le sue iniziative hanno fatto discutere i giornali di tutta Italia.
Adesso, le dimissioni di due assessori lo costringono a tornare davanti al Consiglio Comunale. Il dibattito è
duro, la discussione si è già trascinata per ore. Quando il sindaco prende la parola, per replicare agli attacchi
ricevuti, lo fa con foga accompagnando le parole con il caratteristico gesticolare ampio e vorticoso delle
mani.
«Ebbene signori Consiglieri, io ve lo dichiaro con fermezza fraterna ma decisa: voi avete nei miei confronti
un solo diritto: quello di negarmi la fiducia! Ma non avete il diritto di dirmi: signor sindaco, non si interessi
delle creature senza lavoro (licenziati o disoccupati), senza casa (sfrattati), senza assistenza (vecchi, malati,
bambini). È il mio dovere fondamentale, questo: dovere che non ammette discriminazioni e che mi deriva
prima che dalla mia posizione di capo della città – e quindi capo dell’unica e solidale famiglia cittadina – dalla
mia coscienza di cristiano: c’è qui in gioco la sostanza stessa della grazia e dell’Evangelo! Ripeto, voi avete
un diritto nei miei confronti: negarmi la fiducia. Dirmi con fraterna chiarezza: signor La Pira, lei è troppo
fantastico e non fa per noi! Ed io vi ringrazierò: perché se c’è una cosa cui aspiro dal fondo dell’anima è il
mio ritorno al silenzio e alla pace della cella di San Marco, mia sola ricchezza. Ed è forse bene, amici, che
voi decidiate così. Io non sono fatto per la vita politica nel senso comune di questa parola: non amo le
furbizie dei politici e i loro calcoli elettorali; amo la verità che è come la luce; la giustizia che è un aspetto
essenziale dell’amore; mi piace di dire a tutti le cose come stanno: bene al bene e male al male. Un uomo
così fatto non deve restare più oltre nella vita politica, che esige – o almeno si crede che esiga – altre
dimensioni tattiche e furbe! Ma se volete che resti ancora sino al termine del nostro viaggio, allora voi non
potete che accettarmi come sono: senza calcolo, col solo calcolo di cui parla l’Evangelo: fare il bene perché
è bene. Alle conseguenze del bene fatto ci penserà Iddio»..
Eccolo Giorgio La Pira, il “sindaco santo”. Sempre in viaggio, come la spoletta di un telaio, tra il convento di
San Marco il palazzo comunale; tra la vita contemplativa, che lo attrae e lo affascina, e l’impegno politico, a
cui si sente chiamato. (5) E in questo suo andirivieni tra vita e preghiera La Pira tesse, sul telaio della storia,
la sua trama di pace.
È uno strano politico, Giorgio La Pira. Lui stesso si definisce così in una lettera all’amico Fanfani.
“Vedi caro Amintore; io non sono un “sindaco”, come non sono un “deputato” o un “sottosegretario”: non ho
mai voluto essere né sindaco, né deputato, né sottosegretario, né ministro. La mia vocazione è una sola,
strutturale direi: pur con tutte le deficienze e le indegnità che si vuole, io sono, per la grazia del Signore, un
testimone dell’Evangelo... mi sarete testimoni. La mia vocazione, la sola, è tutta qui! Sotto questa luce va
considerata la mia “strana” attività politica”.
Chi era Giorgio La Pira? Chi è Giorgio La Pira? Il sindaco di Firenze, uno che aiutava la povera gente, uno
che pregava tanto, uno che parlava sempre di pace... Un sognatore, un poeta, dicono alcuni. Un profeta,
dicono altri. Lo chiamavano il “sindaco santo”: ma era un soprannome che voleva un po’ prenderlo in giro,
quasi a voler dire che era troppo santo per fare politica. Oggi, che santo potrebbe diventarlo davvero, anche
quelli che lo guardavano con diffidenza ne parlano con ammirazione. Se fosse vivo, adesso avrebbe cento
anni: e per festeggiare il centenario gli hanno dedicato un busto, a Montecitorio, il Presidente della
Repubblica gli ha dato la medaglia d’oro alla memoria. E il Papa... il Papa lo ha addirittura indicato come
esempio per tutti i sindaci d’Italia: “Quella di La Pira – ha detto - fu una straordinaria esperienza di uomo
politico e di credente, capace di unire la contemplazione e la preghiera all’attività sociale e amministrativa,
con una predilezione per i poveri e i sofferenti. Carissimi Sindaci, possa questa sua luminosa testimonianza
ispirare le vostre scelte e azioni quotidiane!”. Così ha detto il Papa. Eppure...
Eppure, sapete, non sempre è stato così. Era un politico strano, Giorgio La Pira. Non tutti lo capivano, non
tutti lo apprezzavano. Il suo obiettivo in realtà era uno solo, quello che scrive nel 1936 in una lettera all’amico
Bargellini.
“Allora, caro Piero, il programma è chiaro: farci santi noi per fare santi gli altri”.
Per farsi santo però La Pira ha scelto una via tortuosa: la via della politica. Perché? Per capirlo bisogna
partire da lontano, andare a scoprire chi è stato e chi è Giorgio La Pira. E il nostro viaggio non può che
partire dall’estremo meridione d’Italia, dove La Pira è nato cento anni fa.
*************
Pozzallo è un paese di contadini e pescatori nell’angolino in fondo alla Sicilia, più a sud di Tunisi, in una terra
bellissima di orti e agrumeti. Qui, nel 1904, nasce Giorgio La Pira. È un ragazzino sveglio e vivace e lo zio lo
porta con sé a Messina, per farlo studiare. Voleva impiegarlo nel suo commercio di caffè e liquori.
Lo zio, anticlericale convinto, non voleva neanche vederlo parlare con i preti. E anche lui, Giorgino, una volta
che il parroco bussa per la benedizione delle case, lo manda via in malo modo. In quel periodo, aveva più o
meno quindici anni, subisce un’infatuazione per Mussolini, per il futurismo, le poesie D’Annunzio...
Poi comincia a leggere, a farsi domande. È un ragazzino come tanti altri, cerca di capire il senso della vita.
Legge Dante, Platone, la Bibbia, i romanzi russi, i poeti francesi. Sapete chi era a scuola con lui? Salvatore
Quasimodo, il poeta, quello che poi avrebbe vinto il premio Nobel. Sentite cosa gli scrive La Pira nelle sue
lettere.
“Ho attraversato varie volte i sotterranei del pensiero: ho bussato a molte porte, come un povero
mendicante, per avere pane di sapere, ho rifatto mille strade, mille mondi, ho amato mille cose: sono stato
troppo vagabondo in questo errare senza posa alla ricerca di un po’ di pace per l’anima mia: io ho sempre
avuto in me sete di ascesi, sete di profondo annullamento del mio essere che si ricollega a Dio (...) Molte
febbri hanno scosso l’animo, lo hanno rifatto: oggi ho aggiunto le parole del Nirvana, della indiscutibile
saggezza indiana (...) Schopenauer, Nietzsche, Platone, Buddha rappresentano il mio nuovo stato. Nostro
fine è misticità”.
Buddha, Nietzsche... Cosa c’entrano con il cristianesimo? Beh, per La Pira sono la strada attraverso cui,
pian piano, approda a Gesù. A 18 anni si rende conto di non saper pregare. Glielo insegna un prete, don
Mariano Rampolla, il fratello del suo insegnante di italiano. Il giovane Giorgio è un ottimo allievo, e impara
subito i segreti della contemplazione.
“Con una progressione d’amore che non avrei mi preveduto, la presenza del Santissimo mi inchioda con
pesantezza in un’adorazione che non ha limiti: tutte le fibre sono tremanti e ogni palpito del cuore è come un
richiamo: si sta ginocchioni, col capo calato, come quando l’ora è più oscura e tutto il mistero ci sovrasta.
Sono pesante, ed è un peso di Amore che mi fa gravitare verso l’alto: come quei colossi dell’Arte che
poggiati per terra la dominano ed il loro sogno e la loro realtà è il Cielo da cui provengono e a cui tendono…
Iddio sia benedetto. Poiché questi tormenti d’amore, questa necessità d’azione, questa ricerca di cooperare
ai suoi misteri mi richiama alla Missione di santità che rende l’uomo degno di tutte le luci e di tutta la Pace”.
Quando scrive queste cose, La Pira è uno studente di neanche vent’anni. Si abitua a passare ore ed ore in
ginocchio, in adorazione. Partecipare alla Messa, dice, gli dà il capogiro, tante sono le emozioni che prova. È
un’abitudine che non abbandonerà più: anche da adulto, anche in pubblico, non si vergognerà di mettersi a
pregare.
Ma sto andando troppo alla svelta. Torniamo in Sicilia, nel 1924: La Pira ha vent’anni, e durante la Messa di
Pasqua succede qualcosa che lo porta a consacrare la vita a Dio. È il giorno che i biografi indicano come
data della sua conversione.
“Io non dimenticherò mai quella Pasqua del 1924, in cui ricevei Gesù Eucaristico: risentii nelle vene circolare
una innocenza così piena, da non potere trattenere il canto e la felicità smisurata”.
A questo punto, La Pira ha già deciso di consacrarsi a Dio. Perché allora non si fa prete? Se lo chiede anche
la zia Settimia, vedendolo così fervido nella preghiera, e un giorno glielo domanda. E lui risponde in maniera
chiara.
“Vedi, zia, che il Signore abbia messo nella mia anima il desiderio delle grazie sacerdotali non c’è dubbio:
solo, però, che Egli vuole da me che io resti col mio abito laico per lavorare con più fecondità nel mondo
laico lontano da lui. Ma la finalità della mia vita è nettamente segnata: essere nel mondo il missionario del
Signore: e quest’opera di apostolato va da me svolta nelle condizioni e nell’ambiente in cui il Signore mi ha
posto”.
Missionario del Signore nel mondo: è questa la vocazione a cui La Pira sente di dover rispondere. Con
questo spirito sarà professore, deputato, sindaco.
“Essere apostolo nel mondo senza essere del mondo e senza essere riconosciuti dal mondo: ecco la divisa
dell’apostolo laico. L’apostolo laico ha il suo posto nel mondo: è operaio, impiegato, professionista,
insegnante, giornalista, deputato, ministro e via dicendo: è esternamente, in tutto identico ad un altro uomo
della sua condizione: la differenziazione è tutta interiore, perché quest’uomo che è esternamente come gli
altri porta di dentro, nell’intimità del suo animo, la lampada dell’amore divino. Il fine di questa vocazione è
chiaro: essere, nel contesto sociale che Dio assegna, lievito cristiano per le anime; ed esservi per questo
solo fine ed in quanto si attui questo fine”.
Si tratta di fare, dirà qualche anno più tardi, di ogni professione una cattedra di apostolato cristiano. Intanto,
l’aspetta un’altra cattedra, quella dell’Università di Firenze. A Firenze arriva seguendo il professore con cui
sta preparando la tesi. Viene qui per laurearsi, e ci rimarrà tutta la vita. È un amore a prima vista, come
testimoniano le prime lettere scritte ai parenti.
“Di Firenze che vi dirò? È una città bellissima: è tutta un fiore, un superbo fiore. Ha l’aspetto di una città-arte,
di un castello di mille merletti, dalle linee rapide, soavissime e magnifiche insieme. È veramente la patria di
Dante”.
Intanto, La Pira studia, insegna, partecipa alle attività caritative della San Vincenzo de’ Paoli. Lo chiamano “il
professorino”, quando è lui a parlare alle riunioni della Gioventù Cattolica c’è sempre il pieno. Intanto è
diventato terziario domenicano, vive nel convento di San Marco.
*************
Gli anni trenta per Firenze sono anni importanti, pieni di fermento. Ci sono i poeti, gli scrittori, Papini,
Bargellini... E poi c’è don Facibeni, il fondatore della “Madonnina del Grappa”. E il cardinale Dalla Costa, con
il quale La Pira si consiglia prima di qualsiasi decisione e che tante volte lo ha difeso dalle critiche e dalle
malignità. La Pira frequenta anche la casa di don Raffaele Bensi, il padre spirituale di tanti fiorentini, persone
che vanno da lui per confessarsi e per chiedere consiglio. È qui, come racconta lo stesso La Pira, che nasce
l’idea della “Messa dei Poveri” nella chiesetta di San Procolo.
“Un giorno, nella primavera del 1934, in casa di don Bensi, si parlava di poveri. Don Bensi disse: ‘Sarebbe
tanto bello potere assistere materialmente e religiosamente le zone estreme della miseria: i poveri cui non
giunge la carità delle Conferenze di San Vincenzo; i mendicanti, quelli che dormono abitualmente o
all’aperto o nei dormitori pubblici, la povera gente girovaga che non ha né letto, né pane, né famiglia’. L’idea
ci piacque (eravamo, allora, un gruppetto di confratelli legati da un vincolo di vivo fervore per la casa di Dio!),
noi stessi eravamo stati testimoni, in varie circostanze, dell’abbandono totale di questi poverissimi coperti di
stracci e considerati, nella vita sociale, alla stregua, forse, di cani (...) Vengono preparati dei terzi di
chilogrammo di pane con l’affettato buono, viene predisposto per la S. Messa e una domenica si aprono le
porte di San Procolo... E così comincia un piccolo ruscello di carità: richieste di indumenti, di consigli, di aiuti,
promesse mantenute, e anche non mantenute: insomma, un piccolo focolare di carità e sorto e tutti si torna
volentieri la domenica, per pregare insieme e sostenerci insieme”.
È proprio da questi impegni di carità che nasce la passione di La Pira per la politica, che per lui è un modo
più efficace, più incisivo per fare del bene. Intanto però arriva la guerra, l’occupazione tedesca, e La Pira,
ricercato dai fascisti deve fuggire.
L’infatuazione giovanile per Mussolini era finita da un pezzo, La Pira era diventato molto critico con il regime.
Si dedicò anche ad aiutare famiglie di ebrei a nascondersi nei conventi, e alla fine dovette nascondersi lui.
Prima a Fonterutoli, nella casa di campagna dell’amico Jacopo Mazzei, dove conosce Fioretta, amica e
collaboratrice di tutta la vita. Poi a Roma, in casa di monsignor Giovambattista Montini, il futuro Paolo VI.
Intanto, tiene dei corsi di dottrina sociale all’università Lateranense. In quegli anni, la Chiesa aveva capito
che il crollo del regime fascista era vicino e si doveva preparare una classe politica nuova. Persone in grado
di diventare protagonisti nella ricostruzione della società. La Pira non si tirò indietro.
“Il nostro piano di santificazione è sconvolto: noi credevamo che bastassero le mura silenziose dell’orazione!
Credevamo che chiusi nella fortezza interiore della preghiera noi potevamo sottrarci ai problemi sconvolgitori
del mondo; e invece nossignore; eccoci impegnati con una realtà che ha durezze talvolta invincibili; una
realtà che ci fa capire che non è una pia espressione l’invito di Gesù: prendi la tua croce e seguimi (...) Il
pieno adempimento del nostro dovere avviene solo quando noi avremo collaborato, direttamente o
indirettamente, a dare alla società una struttura giuridica, economica e politica adeguata – quanto è possibile
nella realtà umana – al comandamento principale della carità”.
Bisogna trasformarla la società! Non basta la vita interiore; bisogna che questa vita si costruisca dei canali
esterni destinati a farla circolare nella città dell’uomo. Bisogna lasciare l’orto chiuso dell’orazione; bisogna
scendere in campo, affinare i propri strumenti di lavoro; riflessione, cultura, parola, lavoro, ecc. altrettanti
aratri per arare il campo della nuova fatica, altrettante armi per combattere la nostra battaglia di
trasformazione e di amore. Trasformare le strutture errate della città umana; riparare la case dell’uomo che
rovina”.
Quando torna a Firenze, nel 1944, La Pira è uno degli esponenti più preparati del movimento cattolico. Il 2
giugno del 1946, viene eletto a far parte dell’assemblea costituente.
“Quando la Provvidenza mi sottrasse alla mia vita normale di meditazione e di studio e mi portò sugli scanni
dell’Assemblea Costituente, io mi sono trovato nello stato d’animo di un “architetto” cui sia affidato il compito
di costruire un edificio nuovo al posto di quello vecchio in parte o in tutto crollato”.
La Pira è uno di quelli che ha contribuito di più alla scrittura della costituzione italiana. Tanti articoli portano
la sua firma, quelli sulla dignità della persona, sul rapporto tra stato e chiesa, quello in base al quale l’Italia
ripudia la guerra. Dopo la costituente arrivarono gli anni al Governo, a occuparsi di questioni economiche e
di lotta alla disoccupazione. La politica doveva rispondere, diceva lui, alle attese della povera gente. Insieme
a Fanfani, Dossetti, Lazzati, li chiamavano “i professorini”. Erano esigenti, volevano che lo Stato assicurasse
il lavoro a tutti. Ebbero diversi scontri con i vertici della Dc che invece erano più cauti e prudenti. Alla fine si
dimise, e qualche anno dopo lasciò anche il Parlamento: era diventato sindaco di Firenze! Fu eletto nel
1951, poi di nuovo nel ‘56, e poi ancora nel ‘61. Aveva molti avversari, i giornali lo criticavano, ma i fiorentini
gli volevano bene e ogni volta prendeva una valanga di preferenze.
*************
Il giorno dell’insediamento, Giorgio La Pira si presentò in Palazzo Vecchio con il saluto di San Francesco:
Pax et bonum, pace e bene. E nel suo primo discorso spiegò il suo programma.
“Gli obiettivi della giunta sono fondamentalmente tre. Il primo si fonda sulla pagina più bella ed umana del
Vangelo: risolvere i bisogni più urgenti degli umili. La Giunta si prospetterà i problemi della popolazione più
umile di Firenze e cercherà con tutta l’energia possibile di avviarli a soluzione. Il compito è duro ma faremo il
possibile e l’impossibile per adempiere a questo fondamentale comandamento umano e cristiano. Il secondo
obiettivo concerne la vita industriale, agricola, commerciale, finanziaria della città. C’è poi un terzo obiettivo,
che è forse il più importante. Firenze rappresenta nel mondo qualcosa di unico. Ora, qual è il bisogno
fondamentale del nostro tempo, dopo quelli che vi ho accennato? Dare allo spirito dell’uomo quiete, poesia,
bellezza! Firenze ha nel mondo il grande compito di integrare con i suoi valori contemplativi l’attuale grande
civiltà meccanica e dinamica. I nostri grandi scrittori, poeti, artisti hanno assegnato a Firenze questo compito
nel mondo e noi faremo il possibile per far diventare la nostra città sempre più il centro dei valori universali”.
Ecco, tre obiettivi: i bisogni della povera gente, lo sviluppo della città, fare di Firenze una lampada capace di
illuminare la Terra. Ma fare il sindaco, sapete, non è così facile. Firenze, in quel 1951, è una città con mille
problemi, c’è ancora molto da ricostruire dopo il passaggio della guerra, mancano le case, il lavoro, le
scuole... La Pira aveva chiara la sua idea di città...
“In una città un posto ci deve essere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa),
un posto per lavorare (l’officina), un posto per imparare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)”
Ma non era semplice realizzare queste cose. La Pira venne travolto da mille problemi, sentiva il peso della
responsabilità, la sua coscienza non era tranquilla. Durante un convegno di giuristi cattolici confessò, a
cuore aperto, tutti i suoi turbamenti.
“A Firenze, il pretore Bernardini mi scrive lettere dalla mattina alla sera: ci sono cinquecento sfratti, cioè
gente che ormai deve andar via e non c’è a Firenze una stanza disponibile, almeno per ora. Stiamo tentando
di costruire tremila appartamenti, ma ci vuole tempo e… ci vogliono i denari. L’ufficio di collocamento segna
novemila disoccupati. Questa gente viene da me. Io ho dovuto far mettere un sigillo alla mia porta, per non
far entrare nessuno: altrimenti non si lavora. Poi la sera vado a letto. Come? Una volta, quando ero più
giovane e non avevo questi contatti, magari facevo delle preghiere più lunghe e più belle, più affettuose, al
Signore, e anche un esame di coscienza più approfondito e più acuto, ma sempre su cose che riguardavano
me, in certo modo: se avevo pregato Dio, se avevo detto qualche parola poco delicata nei confronti di un mio
amico. Adesso sono diventato d’una coscienza dura, perché ormai mi stizzisco dalla mattina alla sera, ed
anche mi arrabbio. E la sera affiora nel mio esame di coscienza questa popolazione che aspetta di avere la
casa, di avere il lavoro dal quale dipende la sua vita fisica e spirituale, o di avere la streptomicina. Dico:
‘Signore, perdonatemi che m’arrabbio’, tuttavia resta viva quest’altra cosa nella mia coscienza. E capisco
che, effettivamente, se avessi esercitato più amore e più intelletto nel ricercare gli strumenti, forse avrei
qualche occupato in più, qualche casa di più e qualche medicina di più e qualche consolazione di più”.
Sommerso da mille difficoltà, La Pira si muove con coraggio, facendo anche scelte difficili, che spesso fanno
discutere, esponendosi in prima persona, tirandosi addosso le critiche dei giornali e persino denunce alla
magistratura. Un problema, per esempio, era quello delle persone senza casa. La Pira chiese ai proprietari
immobiliari di mettere a disposizione del comune le loro case vuote, ma pochi erano disposti a farlo. Allora
trovò una vecchia legge, che lo autorizzava a sequestrare proprietà private in casi di emergenza sociale:
settemila famiglie sfrattate, disse, sono un’emergenza. Requisì alcune villette vuote: il comune pagava
l’affitto, e ci sistemava le famiglie in attesa di trovare un alloggio definitivo. Ma molti erano scontenti, e lo
denunciarono. E lui? La sua reazione la spiegò in una lettera al Giornale del Mattino:
“Devo lasciarmi impaurire da queste ‘denunce penali’ che non hanno nessun fondamento giuridico – e tanto
meno morale! – o devo continuare, ed anzi con energia maggiore, a difendere come posso la povera gente
senza casa e senza lavoro? Lei non avrà dubbi sulle risposte, direttore: neanch’io. Un sindaco che per paura
dei ricchi e dei potenti abbandona i poveri – sfrattati licenziati, disoccupati e così via – è come un pastore
che per paura del lupo abbandona il suo gregge”.
Poi scoppiò il caso della Pignone, la più grossa fabbrica fiorentina. Sentite come andò. C’era questa
fabbrica, che dava da mangiare a migliaia di famiglie. Durante la guerra era cresciuta molto perché
produceva armi, poi avevano cercato di riconvertirla ma con poco successo. La società a cui apparteneva
l’azienda, la Snia, voleva licenziare tutti, e chiudere. La Pira si schierò a fianco dei lavoratori, scrisse appelli,
partecipò alle manifestazioni.
Poi, insieme con i lavoratori, ebbe un’idea: la fabbrica produceva turbine che potevano essere utilizzate per
l’estrazione del petrolio. Così telefonò al suo amico Enrico Mattei, che era presidente dell’Eni, e lo convinse
a comprare la fabbrica. Oggi è una delle più grandi al mondo nel settore, esporta prodotti in Russia, in
Arabia, in America. Anche in quell’occasione, insomma, aveva visto giusto. Intanto però aveva ricevuto
offese, attacchi di ogni tipo per aver difeso gli operai. Veniva accusato di essersi prestato al gioco dei
comunisti, lo chiamavano “pesciolino rosso nell’acquasantiera”, “comunistello di sacrestia”.
Erano accuse che lo ferivano, e lui si difendeva. Nelle lettere a Paolo VI, e De Gasperi, a Fanfani spiega le
vere ragioni del suo comportamento.
“Io non posso avallare mai l’iniquità: non conosco la tecnica del compromesso politico e diplomatico: ho
parlato chiaro ai fascisti; ho parlato chiaro, anzi più chiaro ancora, ai comunisti; parlo chiaro anche ai
proprietari che non sono consapevoli delle gravi responsabilità connesse coi talenti che Dio loro affida. Non
posso assistere impotente alle ingiustizie che si commettono sotto l’apparenza della legge”. “Tutta la vera
politica sta qui: difendere il pane e la casa della più gran parte del popolo italiano... Il pane (e quindi il lavoro)
è sacro; la casa è sacra; non si tocca impunemente né l'uno né l'altra! Questo non è marxismo: è Vangelo!”.
Per tutte queste cose, e altre ancora, lo chiamavano il “sindaco santo”. Non perdeva occasione per aiutare i
poveri, se vedeva un mendicante era capace di regalargli il cappotto nuovo, e il suo stipendio di professore
finiva tutto in carità. Pensò anche allo sviluppo della città, a costruire scuole, ponti, quartieri interi. Poi, nel
1964, dovette lasciare la carica di sindaco. Molti fiorentini andarono in Palazzo Vecchio fischiando e
gridando per protesta, perché volevano che restasse. Ma sono i giochi della politica, non sempre è facile
capirli.
Lui intanto continuò a svolgere quel ruolo, che si era ritagliato e che gli calzava a pennello, di ambasciatore
di pace della repubblica fiorentina.
*************
Per capire l’impegno di La Pira per la pace bisogna fare qualche passo indietro, tornare al 6 gennaio del
1951: quel giorno dopo la Messa dell’Epifania fece un gesto che può apparire ingenuo, ma che sarebbe
stato il primo di una serie di tentativi importanti. Scrisse a Stalin, per cercare di fermare la guerra di Corea.
Lui stesso raccontò l’episodio in una lettera alle suore.
“Quel giorno partì da Firenze (anche se localmente la cosa si svolse a Roma) il primo messaggio cristiano di
pace verso la Russia sovietica: quel messaggio – per un complesso provvidenziale di circostanze le più
imprevedute – pervenne fino a Stalin. Eravamo in una situazione politica terribile: la guerra sembrava
scoppiasse da un momento all’altro: in una situazione così disperata mi nacque, pregando, l’idea di osare
l’insondabile: spes contra spem”.
Spes contra spem, sperare contro ogni speranza. Da allora diventò il suo motto: fare ogni tentativo, anche
quando tutto sembra perduto, per riportare la pace, per far nascere la trattativa, fermare le armi. E ne fece di
tentativi, alcuni ebbero successo, altri no. Di semi di pace ne ha sparsi tanti nel mondo, e chi può dire come
e quando germoglieranno.
Ma in concreto, cosa fece? Oh, tante cose. Era convinto che Firenze avesse un ruolo particolare, quello di
trasmettere un messaggio di pace al mondo. Amava molto la sua città, e si aspettava grandi cose: lo ha
ripetuto in tanti discorsi, in tante occasioni.
“diremo, in Paradiso, contemplando estasiati la città di Dio: ma guarda, rassomiglia a Firenze. E non ci
sbaglieremo. Perché la vita terrestre e la città terrestre sono davvero anticipo e prefigurazione della vita
celeste e della città celeste”.
“Vorremmo che tutti i tesori di storia, di grazia, di bellezza, di intelligenza, di civiltà, che la Provvidenza ha
‘accumulato’ a Firenze costituissero essi stessi un gigantesco messaggio di pace rivolto a tutti i popoli della
terra; un messaggio che li chiama tutti, quasi irresistibilmente, e malgrado ogni resistenza ed ogni contrarietà
– spes contra spem – ad edificare la città della pace: a compiere, cioè, l’opera delle opere: a dare inizio alla
storia nuova dei ‘mille anni’ di civiltà e di pace”.
"Questo seme di pace che spargiamo, a piene mani da Firenze, su tutte le città e su tutti i popoli della terra è
un seme fecondo. Perché edificare la pace - o spezzare la pace - non è più opera che spetti a coloro che
sono preposti alla direzione della vita politica degli stati e delle nazioni. La parola ultima, la più impegnativa e
decisiva, spetta ormai direttamente, in certo senso, ai popoli. Senza il loro effettivo ed efficace consenso la
guerra non si fa e la pace non si edifica. Orbene: le città, le nazioni - e i popoli corrispettivi - la guerra non la
vogliono e vogliono, invece, la pace; vogliono al posto della guerra negoziati pacifici e costruttivi".
Per mettere in pratica queste idee, convocò a Firenze i Convegni per la pace e la civiltà cristiana, e poi i
Colloqui mediterranei, con i paesi arabi e quelli europei. A Firenze arrivavano i rappresentanti di decine di
nazioni, c’erano anche i capi di paesi in conflitto che si incontravano, discutevano. La pace tra Algeria e
Francia nacque proprio nei corridoi di Palazzo Vecchio. La Pira cercava i punti comuni, gli elementi condivisi
da tutti i popoli su cui fondare il dialogo: il valore della persona umana, i valori della libertà, del lavoro, della
preghiera, della poesia.
Utopie, penserà qualcuno, illusioni di un poeta privo di realismo. Glielo dicevano in molti, anche allora. E lo
stesso La Pira si poneva, a volte, il dubbio. Lo confessa in una lettera alle sue amiche suore
“Reverenda Madre, sono un po’ sognatore? Forse. Ma il cristianesimo tutto è un ‘sogno’: il dolcissimo
‘sogno’ di un Dio fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio! Se questo ‘sogno’ è reale – e di quale realtà –
perché non sarebbero reali gli altri ‘sogni’ che sono ad esso essenzialmente collegati?”
E poi, il messaggio di pace di La Pira partiva da Firenze ma si allargava a tutte le città.
“Ogni città racchiude in sé una vocazione e un mistero. Ognuna di esse è nel tempo un’immagine lontana,
ma vera, della città eterna. Amatela, quindi, come si ama la casa comune destinata a noi e ai nostri figli.
Custoditene le piazze, i giardini, le strade, le scuole; curatene con amore, sempre infiorandoli e illuminandoli,
i tabernacoli della Madonna; fate che il volto di questa vostra città sia sempre sereno e pulito. Fate,
soprattutto, di essa lo strumento efficace della vostra vita associata. Sentitevi, attraverso di essa, membri di
una stessa famiglia; non vi siano tra voi divisioni essenziali che turbino la pace e l’amicizia: ma la pace,
l’amicizia, la cristiana fraternità fioriscano in questa città come fiorisce l’ulivo a primavera”.
Parole molto belle, vero? Nel 1954, parlando a un convegno della Croce Rossa a Ginevra, approfondì
ancora di più il ragionamento, facendo uno degli appelli contro la guerra più toccanti mai pronunciati.
“Le città hanno una vita propria: hanno un loro proprio essere misterioso e profondo: hanno un loro volto:
hanno, per così dire, una loro anima e un loro destino: non sono cumuli occasionali di pietre: sono misteriose
abitazioni di uomini e più ancora, in certo modo, misteriose abitazioni di Dio. È mai pensabile che questa
reale ‘ricchezza delle nazioni’, che queste essenziali strutture della civiltà umana – strutture nelle quali
trovano espressione i valori storici e creativi dell’uomo e, in un certo senso, gli stessi valori storici e creativi di
Dio – possano essere radicalmente eliminate dalla faccia della terra? Eppure la possibilità di questo
sradicamento totale delle città umane dalla faccia della terra è ormai inequivocabilmente dimostrata: poche
bombe all’idrogeno lanciate sopra pochi punti del globo possono ridurre la terra a un deserto... La mia dolce,
misurata e armoniosa Firenze, creata insieme dall’uomo e da Dio, per essere come città sul monte, luce e
consolazione sulle strade degli uomini, non vuole essere uccisa! Questa medesima volontà di vita
affermano, con Firenze, tutte le città della terra: città, ripeto, capitali e non capitali; grandi e piccole; storiche
e non storiche; artistiche e non artistiche: tutte! Esse proclamano unanimi il loro inviolabile diritto
all’esistenza: nessuno ha il diritto, per qualsivoglia ragione, di ucciderle”.
Da queste idee nacquero i gemellaggi di cui La Pira si fece promotore, creando legami tra Firenze e le città
di tutti i continenti: Filadelfia, Kiev, Kyoto, Fez, Edimburgo, Reims. Bisogna unire le città, diceva, per unire le
nazioni. Organizzò anche, a Firenze, un convegno dei sindaci delle capitali del mondo: Washington,
Gerusalemme, Londra, Parigi, Pechino... E anche il sindaco di Mosca, che lo invitò a ricambiare la visita.
Sembrava una follia, in piena guerra fredda, nessun politico occidentale aveva ancora passato la cortina di
ferro. E lui nel ‘59 ci andò davvero, andò a pregare nei santuari russi. E poi al Cremlino, di fronte al Soviet
Supremo, si mise a parlare di Gesù Cristo.
“In una fase storica nuova, tutti vedono che è il momento di rafforzare l’impegno per la pace. Come? Signori,
io sono un credente cristiano e, dunque, parto da questa ‘ipotesi di lavoro’: credo nella presenza di Dio nella
storia, nell’incarnazione e resurrezione di Cristo e credo nella forza storica della preghiera; perciò, secondo
questa logica, ho deciso di dare un contributo alla coesistenza pacifica tra Est e Ovest come dice il Signor
Krusciov, facendo un ponte di preghiera fra Occidente e Oriente per sostenere come posso la grande
edificazione di pace nella quale tutti siamo impegnati”.
“Alla fine dei conti il nostro comune programma costruttivo deve essere questo: dare ai popoli la pace,
costruire case, fecondare i campi, aprire officine, scuole e ospedali, far fiorire le arti, ricostruire e aprire
dovunque le chiese e le cattedrali. Perché la pace deve essere costruita a ogni livello della realtà umana:
livello economico, sociale, politico, culturale e religioso. Soltanto così il nostro ponte di pace fra Oriente e
Occidente diventerà incrollabile. E così lavoreremo per il più grande ideale storico della nostra epoca, un
pacifico tempo di avvento umano e cristiano”.
Quello a Mosca è solo uno dei suoi tanti viaggi. Uno dei più delicati fu quello in Vietnam, mentre stava
cominciando la guerra: tentò di aprire la trattativa tra il governo vietnamita e quello americano, ma alla fine
prevalse la logica di chi pensava di risolvere tutto con le armi. Altri viaggi importanti li fece in Medio Oriente,
in Terra Santa, in Egitto, in Giordania. Aveva già capito, cinquant’anni fa, che non ci potrà essere pace nel
mondo finché non ci sarà pace tra cristiani, ebrei, musulmani: quella che lui chiamava la “famiglia di
Abramo”. Tornò diverse volte in quelle terre, incontrò ministri egiziani e israeliani, il re di Giordania, scrisse
lettere ad Arafat.
In uno scritto molto bello racconta questi suoi tentativi, il titolo è già un programma: “abbattere i muri,
costruire ponti”
“abbiamo cercato di costruire un ponte di preghiera e di riflessione storica e politica fra le rive avverse che
separano ancor tanto gravemente i popoli fratelli - la famiglia di Abramo - del Medio Oriente. Il messaggio
che abbiamo portato è che la guerra anche ‘locale’ non risolve, ma aggrava i problemi umani; che essa è
ormai uno strumento per sempre finito; e che solo l’accordo, il negoziato, l’edificazione comune, l’azione e la
missione comune per l’elevazione comune di tutti i popoli, sono gli strumenti che la Provvidenza pone nelle
mani degli uomini per costruire una storia nuova e una civiltà nuova”.
Quanta speranza, in queste parole. Sperare contro ogni speranza, ricordate? Ma non era una speranza
campata in aria, era fondata su una convinzione precisa: il fatto che, dopo la scoperta della bomba atomica,
la guerra non aveva più senso.
“Oggi la pace non è più un obiettivo lontano, o chimerico: è la sola possibilità che ci resta. Da tempi
immemorabili, la guerra è stato lo strumento, detestabile quanto si vuole ma efficace, per risolvere, almeno a
breve termine, i contrasti ritenuti insolubili. Questa epoca è finita, irrevocabilmente. Non ci sono più armi
pulite o armi sporche: non ci sono ormai che armi assurde: doppiamente assurde perché sono inutilizzabili o
suicide in quanto armi, e perché immobilizzano le risorse materiali e intellettuali indispensabili alla gestione
razionale del pianeta e alla sopravvivenza della nostra specie. Ecco perché la pace è la più urgente, la prima
delle necessità”.
Sapete cosa c’era anche, dietro la speranza di La Pira? C’era la fiducia nelle profezie della Bibbia, nelle
parole dell’Apocalisse. Sentite cosa scrive nel 1961, in una lettera al presidente sovietico Krusciov.
“Siamo ormai sul crinale apocalittico della storia: in un versante c’è la distruzione della terra e dell’intera
famiglia dei popoli che la abitano, nell’altro versante c’è la millenaria fioritura della terra e della intera,
unitaria, famiglia dei popoli che la abitano: fioritura carica di pace, di civiltà, di fraternità e di bellezza: la
fioritura profetica dei ‘mille anni’ intravista da Isaia e da San Giovanni: i governanti di tutta la terra sono oggi
chiamati a fare questa scelta suprema. Altra scelta non c’è. Per andare verso il versante della fioritura
bisogna accettare il metodo indicato dal Profeta Isaia: trasformare i cannoni in aratri ed i missili e le bombe
in astronavi e non ‘esercitarsi con le armi’, non uccidere ma amare”.
Le parole che La Pira aveva in mente sono le stesse scolpite sul frontone del Palazzo di Vetro, la sede
dell’Onu a New York:
“Il Signore giudicherà i popoli e farà da moderatore fra molte nazioni; esse trasformeranno le loro spade in
aratri e le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si eserciteranno
più nell’arte della guerra”.
Come sempre però, in La Pira la profezia si mescolava con la politica: sapeva illuminare, ha detto qualcuno,
l’una con l’altra. Aveva ben chiaro che nella storia attuale del mondo la “strada di Isaia” non è un sogno ma
un cammino concreto, l’unico cammino possibile.
“Popoli nuovi, nazioni nuove, continenti nuovi sono entrati imprevedutamente (e con immensa velocità) a far
parte – come protagonisti essenziali – della storia odierna. Bisogna o no cambiare strutturalmente il sistema
economico mondiale per metterlo in grado (finalizzarlo) di rispondere alla irrecusabile ed improrogabile
promozione economica, sociale, culturale di tutte le classi sottosviluppate e di tutti i popoli sottosviluppati?”
“Strada di Isaia: cioè non solo la strada del disarmo (e, perciò, della cessazione delle guerre e della genesi
della pace universale) ma altresì strada della fioritura della civiltà: della conversione delle spese per gli
armamenti che distruggono, in spese per aratri che seminano e falci che mietono! Astronavi invece di missili.
Spese per la fioritura della terra e della civiltà. Piani mondiali per sradicare ovunque la fame, la
disoccupazione e la miseria; per sradicare l’ignoranza; per combattere ovunque la malattia e prolungare la
vita; per sradicare ovunque la schiavitù e la tirannia”.
Oggi però le guerre non sono finite, la fame e la miseria neppure... È vero, ma bisognerebbe leggere la
storia con più attenzione, direbbe La Pira. Lui la chiamava la “storiografia del profondo”
“Il movimento delle acque dei mari obbediscono a leggi precise. Alla superficie, le acque ci appaiono agitate,
ci suggeriscono l’immagine del caos, di un divenire caotico, in balia di forze incontrollabili, ma nel profondo vi
sono potenti e misteriose correnti che governano il moto delle acque. Anche nel profondo della storia
umana, così agitata nella superficie, vi sono delle grandi e misteriose correnti che trascinano in un senso
ben preciso: verso l’unità e la pace. Bisogna saperle individuare”.
“La storia va (malgrado tutto e nonostante tutto) verso la nuova pienezza dei tempi; verso tempi, cioè, in cui
il corpo delle nazioni sarà organicamente composto in unità ed in pace e costituirà, così, la premessa storica
e la condizione storica adeguata per la lievitazione cristiana di tutti i popoli, di tutte le nazioni e di tutte le
civiltà della terra”.
“Cosa dobbiamo fare tutti, allora? Prendere coscienza di questa situazione storica nuova del mondo (alzate
gli occhi e vedete, dice il Signore); pregare molto perché il piano di salvezza religioso e storico del Signore si
attui nel mondo (venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra); ed operare con
fermezza e intelligenza a tutti i livelli (politici, scientifici, tecnici, economici, sociali, culturali e spirituali) perché
la barca ove è imbarcato il genere umano non solo non affondi, ma avanzi con accresciuta accelerazione
verso il porto della pace, del disarmo, dello sviluppo, della unità e della promozione civile e spirituale dei
popoli di tutto il pianeta. Sei sulla barca e un colpo di remo, inevitabilmente, lo dai anche tu!”
Siamo tutti sulla stessa barca, e dobbiamo remare. Soprattutto i giovani. Aveva fiducia La Pira, nei giovani,
si aspettava grandi cose da loro
“Le generazioni nuove sono come gli uccelli migratori, come le rondini: sentono il tempo, sentono la
stagione. Quando viene la primavera essi si muovono ordinatamente, sospinti da un invincibile istinto vitale,
verso le terre ove la primavera è in fiore”.
*************
Ne ha combinate tante, Giorgio La Pira. Anche negli ultimi anni, quando non ricopriva più nessun incarico
politico, rimase al centro di mille contatti, questioni internazionali. Poi, quando era già anziano e malato, la
politica lo chiamò a nuovi impegni. Fu in prima linea nelle battaglie per i referendum sull’aborto e sul
divorzio, difese con forza il valore della vita, della persona, della famiglia. E nel 1976 la Democrazia
Cristiana gli chiese nuovamente di candidarsi. Fu eletto deputato, ma partecipò poco ai lavori del
Parlamento perché la malattia, un tumore del sangue, ormai lo costringeva a letto. Delle sue sofferenze
parlava poco, lo fece una volta in una intervista.
“La sofferenza e la malattia (di qualsiasi natura) pongono i sofferenti, i malati in posizione di frontiera: alla
frontiera, cioè, del tempo e dell’eternità. Essi vengono, più o meno consapevolmente, situati al cospetto della
morte e dell’eternità. Viene accresciuta per grazia la loro capacità percettiva delle realtà invisibili. È come se
fossero elevati su una terrazza dalla quale essi percepiscono il vasto panorama della realtà spirituale”.
Siamo alla fine, ormai. Giorgio La Pira muore un sabato, il 5 novembre 1977. Con lui ci sono gli amici di
sempre: poco dopo arriva l’arcivescovo, il cardinale Giovanni Benelli. Paolo VI in un telegramma esprime il
suo cordoglio per la morte del “generoso e fedele servo del Signore Giorgio La Pira". Il giorno dopo, la salma
viene esposta in San Marco: i fiorentini si riversano in massa a salutare il “sindaco santo”, mentre da tutto il
mondo arrivano personalità della politica e della cultura, uomini di ogni nazione e religione.
Il 7 novembre, i funerali: la bara è portata a spalla dagli operai del Pignone, il corteo funebre tocca
l’Università dove aveva insegnato, poi la basilica mariana della Santissima Annunziata, la Badia Fiorentina
dove lo aspettano i suoi poveri, piazza Signoria dove si svolge il saluto ufficiale della città. Ci sono i
carcerati, che hanno avuto un permesso straordinario, e l’orchestra del Maggio Musicale. Nella Messa, in
Duomo, il cardinal Benelli parla delle radici religiose di La Pira: “Nulla può essere capito di Giorgio La Pira se
non è collocato sul piano della fede”.
Poi fu sepolto nel cimitero di Rifredi, accanto a don Facibeni. Sulla sua tomba c’è una lampada, dono di
alcuni ragazzi fiorentini, israeliani e palestinesi. Sopra c’è scritto “Pace, Shalom, Salam”.
Un messaggio di pace, di unità, di speranza: questo ci lascia in eredità Giorgio La Pira. Nel 1986, è stato
aperto il processo di beatificazione. “È vivo desiderio della Chiesa fiorentina, e non solo di essa – ha scritto il
cardinale Antonelli – che la santità di La Pira sia riconosciuta il più presto possibile”. Una cosa è certa: le sue
parole, oggi, suonano più vive che mai.
“E questa pace venga, tra i figli dello stesso patriarca Abramo. Essa sarà non solo la pace tra i figli di
Abramo, ma altresì l'arcobaleno che annuncia per sempre, per il mondo intero, la fine del diluvio (la guerra) e
l'inizio definitivo della nuova età storica del mondo”.