Indagine sul lager

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Indagine sul lager
Robert Gander
Indagine sul lager
Architettura – sguardo – controllo
L’architettura del lager
L’Europa ha attuato una rete articolatissima di tipologie
diverse di lager per rifugiati: prigioni in Germania, Austria o Irlanda, edifici fatiscenti convertiti in lager di internamento sulle isole greche, “centri di raccolta profughi provvisori” e “centres de rétentions” francesi oppure i
“centri di permanenza temporanea ed assistenza” italiani
ossia “centri di soggiorno temporaneo”. Come rilevato da
Tom Holert, la traduzione di tali formulazioni potrebbe
essere “centri di permanenza temporanea”: “In tal modo
si descrive immancabilmente in maniera appropriata una
vasta gamma di lager istituiti a livello statale e di sistemazioni provvisorie autogestite sia in Europa che altrove,
di luoghi in cui il potere di stabilire cosa è un soggiorno
transitorio e cosa è invece un soggiorno duraturo, si trasforma nel potere per antonomasia di decidere sulla vita
e la libertà di movimento altrui.” 1 Istituti chiusi per aspiranti ad ottenere il diritto d’asilo come ad es. in Belgio
sono realtà come i campi d’accoglienza presso le frontiere esterne dell’UE a Malta, nelle Canarie o a Lampedusa
e nei Paesi nordafricani.
La definizione di lager include quindi da una parte le tipologie architettoniche più disparate, ma dall’altra deve mediare anche diversi metodi di controllo e disciplinamento.
I cosiddetti lager “aperti” in Austria o Germania, che di
primo acchito hanno una parvenza di umanità, applicano mezzi di pressione economici in quanto garantiscono ai richiedenti l’asilo sostegno finanziario solo se e in
quanto i predetti permangono nel complesso del campo.
Per il fatto stesso che poi la legge sull’asilo politico nega
il permesso di lavoro agli interessati una tale pratica de
facto corrisponde ad un’emarginazione sociale forzata e
quindi spaziale. Altro metodo di segregazione è quello di
distribuire gli asilianti su vaste aree rurali decentrate, per
evitarne la concentrazione e poterli controllare più ampiamente in località geograficamente fuori mano.
È possibile rilevare le caratteristiche comuni di tale sistema di lager divergente dando un’occhiata a coloro che
vi risiedono: si tratta fondamentalmente di immigranti
provenienti dai cosiddetti Paesi terzi, entrati clandestinamente o il cui status di profughi non è comprovabile.
Ai lager è comune anche il fatto che i residenti vengono
definiti “clandestini”, trattati alla stregua di merci, distribuiti arbitrariamente e che possono essere rimpatriati in
qualsiasi momento. Questo status di privazione del diritto
dato ingeneratosi per usurpazione del diritto di circolazione e dei diritti umani fondamentali dell’uomo non è
la conseguenza di una condanna bensì di una gestione
mirata dei flussi migratori, considerata necessaria dagli
esponenti politici al fine di garantire la sicurezza interna
e legittimato e spacciato dagli Stati membri dell’UE quale
“politica comune in materia di asilo e migrazioni”.
I lager sono lo strumento spaziale della modernità atto
ad escludere coloro che a livello sociale sono (potenzialmente) relegabili al di fuori del diritto. I campi, in quanto
strumento della biopolitica repressiva, essendo peraltro
configurabili in maniera variabile e flessibile, nonché economica, si sono affermati nella storia.2 Sono caratterizzati
dal fatto di essere facilmente allestibili e di costituire uno
spazio nel quale l’autorità di comando centrale ha facoltà di piazzare un cospicuo numero di persone. Costoro
tramite una serie di circuiti impostati a livello architettonico, assi di visuale coatta e recinzioni vengono usurpati
della propria libertà decisionale in modo da poter essere
controllati agevolmente. Le architetture eterogenee tra
loro celano le condizioni di vita più diverse, ma immancabilmente assoggettate alle varie tecniche di dominio e
controllo.
A differenza delle istituzioni che si prefiggevano la disciplina del XIX e XX secolo come la scuola, la prigione o la
caserma, il lager non ha sviluppato una tipologia architettonica precipua. Per quanto riguarda le strutture definite “lager” si tratta piuttosto di ordinamenti sociali nello
spazio. Solitamente vengono istituiti presso i complessi
delle istituzioni di disciplinamento tradizionali (fortezze,
scuole, navi, nosocomi o conventi) o anche in strutture
del tempo libero (impianti sportivi, ostelli, teatri ecc.). Il
1 http: / / www.isvc.org / fliehkraft / flieh_lager.htm (04.09.2009)
2 Cfr. Tobias Pieper: Das Lager als variables Instrument der Migrationskontrolle – Funktionsüberlegungen aus Perspektive einer kritischen Staatstheorie, Berlin, Juli 2008
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lager però è sollecito di ampliamento a livello spaziale e
può avere un carattere temporaneo: di fondamentale importanza e presupposto per le misure di disciplinamento è la segregazione controllabile. Al contrario le condizioni infrastrutturali possono essere minimali: basta una
superficie delimitata rispetto allo spazio esterno da una
recinzione o da un muro con vie di accesso ed uscita controllabili come nel caso nei lager per rifugiati africani.
Non sono le architetture a definire cosa sia un lager, bensì, nell’accezione di Agamben, sono le politiche a costruire uno spazio affrancato dal diritto, alla mercé della sovranità dell’arbitrio. Talora non sono necessarie neanche
le recinzioni di filo spinato, come dimostrato dai campi
per gli emigranti dall’Italia o dalla Grecia degli Anni Settanta. Baracche di nuova costruzione o anche residuate
della Seconda Guerra Mondiale ma riconvertite fungevano da alloggio per le minoranze. Tale tipologia accentuava la stigmatizzazione e la segregazione dei senzatetto. I
limiti tra gli strati sociali erano diventati virtuali e sempre
più invisibili, i supporti tecnici del disciplinamento e del
controllo sempre più sottili. Come mostra il video di Kuster / Moise Merlin presentato nel presente componimento è sufficiente una delimitazione virtuale che si esterna
nella repressione economica o giuridica per dare luogo al
sistema di controllo tipico del lager.
La politica del lager
Giorgio Agamben 3 considera la migrazione quale materializzazione storica della matrice della sovranità sulla
vita e la morte e si muove in tal modo in direzione contraria rispetto all’assunto di Michael Hardt e Antonio Negri 4, che vedono in essa la spazializzazione della mobilità
liberata in maniera permanente. Posto che il concetto di
stato nazionale è entrato in crisi, Agamben sviluppa un
modello di potere che cerca di unificare da una parte il
modello giuridico-istituzionale, la concezione di sovranità e di Stato e dall’altra la biopolitica, il disciplinamento del corpo. La crisi della sovranità statale considera il
proprio fallimento quale impulso alla modernizzazione
che attualmente si manifesta nel concetto di integrazione.
Essa serve ad assimilare gli altri, gli immigrati, nel proprio
corpo o quanto meno a disciplinarli.
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Secondo Foucault 5 la biopolitica include due poli: il disciplinamento del corpo individuale nonché la regolamentazione del corpo demografico. In tal modo mira alla realizzazione di un equilibrio con l’obiettivo della sicurezza del
tutto rispetto ai pericoli interni. Questo panorama agevola la comprensione delle tattiche dei lager applicate ai
rifugiati che danno la priorità alla “popolazione totale” o
alla “maggioranza della popolazione”. Tuttavia lo scopo
delle misure biopolitiche applicate dallo Stato nei confronti dei richiedenti l’asilo non è il bene dell’intero corpo demografico, come invece accadeva nei meccanismi
di regolazione (con nosocomi, misure di tutela del lavoro
ecc.) o nei meccanismi di disciplinamento (prigioni ecc.)
sorti nel XVIII e XIX secolo. I meccanismi di regolazione
biopolitici (popolazione) si correlano alle misure di disciplinamento (corpo, lager), come descritto anche da Foucault e pertanto sono preposti ad assicurare un equilibrio
all’interno e a produrre sicurezza all’esterno. Ciò si rende possibile unicamente con l’esclusione degli immigrati,
destinatari delle misure di cui sopra, da questa proiezione
sociale generale e tale esclusione si materializza nel momento in cui essi vengono privati dei diritti. Il presupposto
fondamentale in tutto ciò è il razzismo quale meccanismo
di potere. Questo secondo Foucault, che nelle sue lezioni
universitarie all’inizio degli Anni Settanta si dedicò ampiamente al fenomeno, è la condizione per l’esercizio del
potere di uccisione, laddove egli per uccisione intendeva
anche l’aumento del rischio di morte degli individui, la
cacciata, la messa al bando ecc. “Il razzismo assicura dunque la funzione della morte nell’economia del bio-potere
sulla base del principio che la morte degli altri equivale al
rafforzamento biologico di se stessi in quanto membri di
una razza o di una etnia, in quanto elementi all’interno di
una pluralità coerente e vivente... A differenza del razzismo ideologico il razzismo biopolitico è una condizione
del funzionamento del potere moderno.” 6 E lo constatiamo appieno nei confronti delle migrazioni, con la differenza che il razzismo non si fonda più sull’ereditarietà e
la superiorità biologica, ora l’aspetto predominante è dato
dalle differenze culturali. Esso ormai afferma l’incompatibilità di modi di vita e tradizioni e in tal modo la nocività
dell’abbattimento delle demarcazioni in senso assoluto.7
Per il “neorazzismo” la difesa militante dell’identità specifica tramite confini e ghetti quali lager e campi dunque
Cfr. Giorgio Agamben: Homo sacer, Frankfurt a. M. 2002
Cfr. Michael Hardt, Antonio Negri: Empire. Die neue Weltordnung, Frankfurt a. M. 2002
Cfr. Michel Foucault: Sorvegliare e punire. La nascita della prigione
Roberto Negri: Il lager nazista come paradigma della modernità?, in: Ludger Schwarte (ed.): Auszug aus dem Lager. Zur Überwindung des modernen Raumparadigmas in der politischen
Philosophie, Bielefeld 2007; pag. 55
costituisce la soluzione migliore per evitare mescolanze
di culture e prevenire in tal modo accessi razzisti.
La definizione di sovranità quale potere di decidere sullo
stato di eccezione è divenuta luogo comune. Agamben
considera il lager come la concretizzazione pratica di tale
concetto giuridicamente astratto che è lo stato di eccezione. Il campo è il luogo all’interno di un territorio regolamentato che tuttavia è tagliato fuori dell’ambito di
applicazione della legge. Oltre ad essere un contesto di
dislocazione dell’esercizio della sovranità statale, il lager è anche il luogo nel quale la dimensione biopolitica
del potere sovrano sortisce i suoi effetti calca la mano sui
soggetti internati. Negando ai rifugiati internati nei lager qualsiasi status giuridico e politico, si riduce la loro
esistenza a mera sussistenza fisica. Poiché tale stato di
eccezione temporaneo o contenuto a livello territoriale tende a diventare la norma, come descritto da Agamben, in ragione del dato di fatto della mancanza del diritto nel lager si istituzionalizza un nuovo diritto come
hanno considerato in proposito Bojadžijev, Karakayalı e
Tsianos 8. Un tale luogo di nuova configurazione a livello
giuridico e territoriale funge da meccanismo regolatore
del sistema politico.
Nel caso dei campi di accoglienza dei profughi tale funzione regolatrice si esprime primariamente quale strategia a livello di regolazione del mercato del lavoro. Il mercato del lavoro capitalistico, globalizzato 9, che ha fatto
del nomade in ambito lavorativo, nella sua flessibilità, il
proprio punto di forza, ciò che gli consente di svilupparsi,
individua nell’immigrante la realizzazione idealtipica. Ma
considerare gli immigranti unicamente come una scorta
di manodopera per l’industria per l’accumulo di capitale significherebbe non considerare la dinamica insita nei
movimenti migratori. Onde poter mantenere la divisione
tra “lavoro intellettivo”, nel quale si fanno strada i lavoratori locali, e “lavoro manuale”, eseguito prevalentemente dagli immigranti, nel regime fordista, quindi nell’Austria o nella Germania del sistema di lavoratori ospiti, si
cercava di controllare la mobilità. Tale controllo non era
solo riferito alla mobilità internazionale, transfrontaliera, bensì anche alla mobilità proprio all’interno degli apparati di produzione e si esprimeva nella procedura della
rotazione, nella regolamentazione dei visti e nelle leggi
per gli stranieri. A tali regimi tuttavia si sottraevano gli
immigrati stessi allorché ad esempio a seguito del contingentamento delle richieste d’asilo le migrazioni sono
proseguite su base autogestita ad es. con il ricongiungimento familiare.
Quelli che oggi nel Mediterraneo sono definiti campi di
accoglienza appaiono stazioni di transito ed eterotopie
della migrazione. Il mito che farebbe delle frontiere europee e dell’Europa una fortezza impenetrabile da una parte
e dello sguardo umanizzante sulle vittime della migrazione dall’altra torna ad essere materia del dibattito attuale,
a favore del riconoscimento di forme di prassi differenzianti dei migranti, che influenzano le politiche di controllo. Efthimia Panagiotidis e Vassilis Tsianos richiamano l’attenzione sul fatto che per quanto concerne i campi
di accoglienza nel Mediterraneo non si configurano tanto
alla stregua dei carceri panottici dell’esclusione e della
sorveglianza, bensì come istituzioni di regolamentazione temporanea delle migrazioni ossia dei movimenti. Il
disciplinamento dei migranti nei lager non mira ad arrestare i movimenti migratori verso l’Europa, bensì a minimizzare il rischio di perdita di controllo delle rotte di
migrazione grazie ai dati dromocratici acquisiti e ad ottenere la conoscenza biopolitica degli immigrati, che li rende controllabili, nonché a produrre forza lavoro desoggettivizzata e temporaneamente demobilizzata.10 In questo
senso il lager può dominare a livello interinale “[venendo
considerato] un tentativo spaziale appunto teso a dominare i movimenti”.11 Le opere artistiche presentate qui di
seguito mostrano che tali forme di prassi che sfruttano
le misure di disciplinamento del lager come strumenti di
regolamentazione ossia il lager quale box di velocità (Virilio), trovano applicazione anche in ambito europeo.
Arte quale prassi investigativa
L’opera di Tanja Ostojić che trova collocazione in questo
punto rientra nella produzione artistica dell’artista che
da anni si occupa approfonditamente del tema delle migrazioni. “Contemporary art, as I see it, is an interesting
field of research, reflection, communication, exchange
and criticism within contemporary society. [...] Still, the
Cfr. Etienne Balibar: Gibt es einen Neo-Rassismus?, in: Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein: Rasse – Klasse – Nation. Ambivalente Identitäten, Hamburg / Berlin 1990; pagg. 27-41
Cfr. Manuela Bojadžijev, Serhat Karakayalı, Vassilis Tsianos: Das Rätsel der Ankunft. Von Lagern und Gespenstern, in: Kurswechsel, 03 / 2003; pagg. 39-52
In questa sede si intende sempre il mercato di lavoro secondario, perennemente in crescita, dato da lavoratori sottopagati ed operanti in condizioni lavorative assolutamente precarie.
Cfr. Efthimia Panagiotidis, Vassili Tsianos: Denaturalizing “Camp”: Überwachen und Entschleunigen in der Schengener Ägäis-Zone, in: TRANSIT MIGRANTION gruppo di ricerca (ed.):
Turbulente Ränder. Neue Perspektiven auf Migration an den Grenzen Europas, Bielefeld 2007; pag. 58
11 idem; pag. 79
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sector of visual arts, even beyond the white cube, is quite
limited when it comes to effectiveness through action. If
not for a strain of influential theory in the arts and philosophy that enduringly pushes the syntax towards issues
of social concern, these strategies might not result in any
achievement at all.” 12
Le opere della Ostojić sono fortemente abbinate alla sua
persona ed alla sua fisicità di donna ed emigrata dall’attuale Serbia. La predetta con le sue azioni si muove sempre ai limiti della legalità o li supera proprio per metterli
in questione ed evidenziarne l’artificiosità. Ella contrasta
l’immagine astraente dei media e la normativa discriminante tramite la ripersonalizzazione attuata a mezzo del
suo corpo ovvero facendo trascendere la propria migrazione a progetto artistico – Cfr. Looking for a Husband
with EU Passport (2000–2005).
Nel documentario Sans Papiers (2004, 14 min., montaggio: David Rych, riprese: Manuel Forster) al dibattito
astratto sui profughi contrappone un approccio diretto.
Tanja Ostojić mostra uno dei principali campi di detenzione amministrativa della Germania ossia Berlin-Köpenick e ritrae quanti sono ivi ristretti, resi illegali. L’artista
ripersonalizza i rifugiati dando loro un volto ed una voce
di cui erano stati privati nella procedura di glissamento
sociale in virtù delle strutture architettoniche e di controllo politico del campo.
Una parte dell’opera era data da Dinner Discussions
(2003–2006) a Berlino, Vienna, Copenhagen e Düsseldorf
esposte sotto forma di performance alle quali la Ostojić
invitava esponenti della politica, del governo, del mondo
dell’arte nonché attivisti politici, teorici, storici dell’arte
e filosofi.
In Sans Papiers la Ostojić esprime il concetto di “zona di
confine del diritto”, come lo definisce, mostrando la situazione scioccante degli stranieri indesiderati. Quanto
costoro posseggono viene confiscato e utilizzato per finanziare le misure coatte. Non possono neppure pretendere l’assistenza di un avvocato o di essere ascoltati in un
foro indipendente. Gli intervistati forniscono informazioni sul trattamento che hanno ricevuto durante la prigionia e sulle strutture di controllo cui erano assoggettati,
raccontano per quali ragioni hanno deciso di lasciare la
loro patria e lo stato di mancanza di vie d’uscita e pertanto
di prospettive in cui versano.
Il campo di detenzione amministrativa di Köpenick è stato aperto nel 1995 per ospitare 370 persone, ma ogni anno
sono mediamente 5.000 le persone che vi soggiornano.
Solo il 5% dei confinati ottengono lo status di rifugiati
politici e pertanto il diritto d’asilo. Il 50% vengono rimpatriati e il resto rimane sulla base di un titolo di soggiorno indefinito nel cosiddetto “status di tollerati” in Germania.13 Non possono essere rimandati in patria per via
di persecuzioni o guerre civili ovvero “poiché non hanno identità accertata”. Questi individui continuano poi
a rimanere ristretti per un arco di tempo di massimo 18
mesi e devono poi pagare mediamente 65 Euro al giorno.
Una volta rilasciati le loro risorse finanziarie sono prevalentemente esaurite e per loro non vi sono possibilità di
prestare attività lavorativa sulla base di regolare contratto.
Queste persone sospinte sull’orlo dell’illegalità vengono
tollerate dallo Stato per qualche tempo, per le ben note
ragioni tra cui la necessità di clandestini per il mercato del
lavoro – fino a quando tattiche politiche autoritarie, che
spesso scaturiscono da considerazioni di tipo politicopartitico, spesso non li riportano dietro le sbarre oppure
la guerra civile nei loro Paesi d’origine termina e possono
essere rimpatriati. Pertanto si tratta anche nel caso di tali
campi di detenzione amministrativa, come dei “detention
camps” in Germania e Italia di enti che regolamentano la
mobilità e la circolazione.
Le misure di disciplinamento che trovano applicazione in
detti campi sono simili a quelle della prigione: celle piccole per lo più per otto persone, un’ora d’aria nel cortine
al giorno, l’isolamento. Le famiglie nel campo non hanno alcuna possibilità di congiungersi. Nei primi mesi del
2003, quando il documentario fu realizzato, vi sono stati
30 tentativi di suicidio e nei mesi successivi una serie di
scioperi della fame e di casi di autolesionismo da parte dei
detenuti a protesta contro le condizioni di detenzione e la
minaccia di rimpatrio coatto.
Dal punto di vista visivo i meccanismi di controllo nel
corso dell’intervista si spostano sul piano dell’immagine
enfatizzando quanto asserito dai detenuti. L’osservatore vede recinzioni e muri, celle anguste per più persone.
Tutti i vani delimitati sono rigorosamente ordinati ad angolo retto. In generale nella maggioranza delle interviste sono presenti diverse persone e a fare da sfondo una
mistura di linguaggi. Graffiti e motti sulle pareti sono gli
unici segni che lasciano presagire che quei detenuti sono
persone. Le celle non mostrano utensili personali. La feritoia di visibilità immancabilmente inserita nelle porte
garantisce su base permanente la possibilità di sguardo
12 Tanja Ostojić: Crossing Borders: Development of Different Artistic Strategies, in: Integration Impossible? The Politics of Migration in the Artwork of Tanja Ostojić, Kat. Ausst. Kunstpavillon Innsbruck, Berlin 2009; pag. 161 seg.
13 Quanto alle statistiche cfr. idem.; pag. 16
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autoritario per il controllo dei detenuti, mentre invece lo
sguardo dei detenuti ha una direzione opposta obbligata,
privandoli di libertà di decisione e di scelta e congelando
in tal modo i profughi nella “diversità”.14 Motivo ricorrente del filmato è la ripresa, riproposta più volte, di detta
feritoia di controllo. Ovviamente lo sguardo è sempre indirizzato nella cella o nel lavatoio, ossia lo sguardo parte
sempre dall’esterno, è quello subìto, quello dei secondini.
Innanzitutto si ricrea la situazione della cineasta stessa e
implica in qualche modo anche a carico dell’osservatore
il pericolo di complicità con le misure e gli organi di disciplinamento dello Stato. E qui si crea una commistione
di prospettive, nella quale non vi è più un dentro e un
fuori. Questo slittamento di percezioni e significati viene
affrontato nel documentario, ma non in maniera esplicita, come invece accade nel video successivo, ma funziona
comunque, e ciò in quanto in ultima analisi si riconduce
e si attesta direttamente nella persona dell’artefice dello
stesso. Il video di primo acchito spicca rispetto al resto
della produzione artistica della Ostojić, poiché a divenire
oggetto della sua arte non è il suo proprio corpo migratorio in quanto non viene messa in scena la sua storia reale
o inventata. Ma la prima impressione inganna.15 In realtà questo video si riallaccia al cosmo delle altre opere in
quanto la Ostojić opera con l’eventualità di essere al posto
dei soggetti mostrati nel filmato. In sostanza vediamo una
prospettiva interna potenziale che non viene formulata
in maniera esplicita. Trattandosi solo di una prospettiva interna potenziale, l’immagine rimane vincolata alla
prospettiva dall’esterno. Anche se la telecamera ripercorre l’asse coatto dello sguardo dei detenuti, essa rimane documentale nel senso che lo sguardo investe. Detto
alla maniera di Niklas Luhmann non siamo capaci a posizionarci in un solo posto. In qualche modo si determina
sempre una “sovrapposizione parziale” di noi stessi quali
individui e di conseguenza non siamo in grado di discernere dove siamo veramente, chi siamo davvero.
Il video di Brigitta Kuster e di Mabouna II Moise Merlin
Rien ne vaut que la vie, mais la vie même ne vaut rien 16
(Niente vale come la vita, ma la vita stessa non vale niente, 2003, 24 min.) ricorre al mezzo stilistico del reportage,
dando la parola a individui che hanno richiesto il diritto
di asilo ma sono ristretti in un campo di Zerbst / SachsenAnhalt, che riferiscono circa il loro obbligo di residenza
ossia il divieto di lasciare il luogo loro imposto dalle autorità, della monotonia, del razzismo nel quotidiano, della
mancanza di risorse e prospettive, della provvisorietà permanente che li attanaglia, della cattiva assistenza medica
e della desolazione degli alloggi totalmente tagliati fuori.
La Kuster ha introdotto la telecamera nel campo e l’ha lasciata lì per un mese: “ volevo fare un film del lager standone fuori”.17 In tal modo ha consentito ai ristretti di avere il controllo delle riprese e delle immagini solitamente
loro interdetto dagli operatori che fanno riprese per i loro
documentari. La prospettiva si sposta dall’oggetto dell’osservazione a colui che osserva. Dopo un certo scetticismo
iniziale Mabouna II Moise Merlin, richiedente l’asilo, si è
prestato a fare le riprese. Gli intervistati, spesso ripresi non
tanto nell’edificio quanto nei vari annessi all’aperto, sono
gli attori del proprio film. Il filmato unisce la narrazione
alla riflessione circa quello che si dice dei profughi, come
vengono rappresentati e da chi. La questione fondamentale in tutto questo è come, per quali ragioni si diventa
profughi e si mostra che sono il campo, il disciplinamento fondato su norme comportamentali, il programma che
scandisce e congela la giornata e il soggiorno, che altera il
modo di pensare, a fare del profugo appunto un profugo.
Lo svolgimento della giornata, sempre uguale a se stesso,
opera una disumanizzazione in quanto la vita viene pilotata e determinata da estranei. Se da una parte i rifugiati
si identificano con concetti quali “macchina” e “robot”, se
lasciassero i campi verrebbero ad essere considerati dalla
gente alla stregua di “bestie feroci fuggite dallo zoo” come
emerge anche nel video della Ostojic su un detenuto.
Anche il campo in parte applica gli stessi meccanismi di
controllo impiegati nelle prigioni. Ma a differenza delle
celle, che proteggono dalle esplosioni di violenza, negli istituti per asilianti si scongiura il ricorso alla violenza fisica, alla rivolta o al suicidio attuando determinati
meccanismi di percezione e di esperienza. Si tratta di
metodi che implicano la paura dell’esame, il feticismo
dell’ordine, la sorveglianza di servizio evidente, la programmazione giornaliera o la “dialettica dell’eccezione e
del quotidiano”.18 L’architettura è espressione di questo
volere dall’alto e disciplinamento e diventa essa stessa un
14 Tra i vari raffronti nelle interviste ricorre quello con gli animali del bioparco nei quali si identificano i detenuti e al pari dei quali vengono marchiati.
15 “For me it was very important to go personally through certain experiences, so that I could tell about this experience. So that I don’t use only other people’s stories. Then the personal
becomes political.” Ostojić (2009); pag. 231
16 Il titolo è stato mutuato da un graffito realizzato sulla parete dell’ex campo asilianti andato in fiamme che si trova nelle immediate vicinanze del nuovo.
17 Brigitta Kuster in: Gesa Drödelmann, Resignation und Rebellion, Süddeutsche Zeitung, 10.08.2009
18 Ludger Schwarte: Auszug aus dem Lager, in: Ludger Schwarte (2007); pag. 165
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dispositivo di potere: non vi sono celle da poter chiudere, incastri spaziali, sorveglianza visiva tramite feritoie
di controllo o videocamere ecc. Essa struttura lo spazio
verso l’interno con lo scopo di un controllo capillare e approfondito e la visualizzazione dei confinati.
Secondo Foucault l’architettura del lager sposta l’asse dei
tracciati, dei confini all’interno dei detenuti e raggiunge
tale obiettivo tramite superfici vuote, aperture e trasparenze. Una tale architettura regola l’organismo e stabilisce condizioni quadro per il suo comportamento ed i suoi
movimenti. Il ristretto viene privato della possibilità di
gestire la sua giornata e di prendere decisioni, che possano implicare responsabilità personale e cambiamenti. Vice-versa è assoggettato alla visibilità permanente da
parte delle istanze di controllo e al contempo perde la visione di se stesso in quanto tramite la spersonalizzazione istituzionalizzata gli vengono imposti modi di agire e
processi decisionali. La monotonia uccide l’esternazione
e il dialogo, inibisce l’immaginazione e la sensibilità e innesca meccanismi di amnesia.
Il primo passo con cui reagire a questo stato di cose è quello di restituire al singolo un volto ed una voce. Questo è
ciò che fa la videoarte della Kuster e compie anche un
passo in avanti, rendendo le condizioni di produzione del
documentario oggetto di riflessione. Chi parla, e con chi?
Quali sono i personaggi e in quali condizioni nasce un
filmato? Chi dà una voce a qualcun altro e chi è costui?
Visto che il regime dello sguardo e il tipo di presentazione
stanno in mano agli interessati, l’opera consente ai profughi di riappropriarsi di una parte della propria responsabilità e libertà decisionale loro sottratta dalle strutture
di controllo.
Moise Merlin statuisce il suo desiderio di immagini degli
asilianti non più sempre “tristi”. Le immagini di reportages sociali quasi sempre restano comunque immagini
viste dall’esterno. Merlin nel documentario non mostra
tutto, bensì media le istanze che in quanto internato non
poteva mostrare, ma ne parla e riflette sulla ragione per
cui in determinati momenti non ha preso in mano la telecamera. Le immagini che ha ripreso ritraggono prevalentemente momenti lieti, perché il suo essere coinvolto
emotivamente in prima persona non lo ha messo in condizione di riprendere momenti di violenza o tristezza. Nei
suoi commenti tuttavia parla di razzismo, estraneazione ed alienazione dei rifugiati quali criminali e incolti, in
quanto la negazione della loro individualità e la dispersione della loro sensibilità e percezione personale davvero
19 Citazione dal filmato, 23 minuti
270
li fa diventare tali, anche perché non hanno i mezzi per
difendersi ed attestarsi.
Il disciplinamento, la monotonia e la ripetizione alienante del programma giornaliero irregimentano i detenuti
che, come dice Moise Merlin, vengono standardizzati.
“Ci piazzano qui in Germania. […] Ci predispongono, ci
producono in serie.“ 19 Accenna al fatto che disimpara la
propria lingua, il suo francese peggiora di giorno in giorno
perché nel lager si ha una Babilonia di lingue, si ricorre ad
un linguaggio maccheronico che è l’unico che consente di
comunicare con gli altri. Nonostante tutto il film si ripropone di evitare la stigmatizzazione degli internati quali
vittime, facendone nell’ambito della struttura narrativa
al contempo oggetti e soggetti, profughi e cineasti della
propria produzione. La strategia autoabilitante di parlare a proprio nome in prima persona non solo consente
di approfondire veramente la situazione degli internati,
ma allo stesso tempo anche di ribellarsi alle strutture disumanizzanti del lager. Quindi il film di per sé non è una
rappresentazione della “vita nel campo” nella sua realtà
esteriore, bensì un elemento pienamente integrato nel regime e dibattito sulle migrazioni.
Anche Esra Ersen nella genesi della sua opera coinvolge
i protagonisti. In Aussage (Dichiarazione), 2003 l’artista
si è recata al istituto di correzione di Graz-Karlau per entrare in contatto con gli internati. Essi vivono lì tagliati
fuori dalla popolazione in un quartiere a luci rosse e per
extracomunitari. Penitenziario e detenuti costituiscono
una sorta di macchia al decoro e all’immagine della città. Dopo aver trascorso molto tempo con loro Ersen ha
sviluppato l’idea di contrastare quell’esistenza stigmatizzata ed isolata ed ha pregato i detenuti di dire tutto
quello che avrebbero voluto dire da tanto per poi riportare le loro dichiarazioni, non epurate da censura, sulle
mura esterne del carcere. L’idea di risvegliare l’esigenza
di comunicare dei detenuti è scaturita dalla constatazione che in prigione il flusso di informazioni viene garantito tramite libri, giornali, televisione e radio ed è intenso,
vice-versa niente trapela al di fuori ossia addirittura le
lettere private del singolo sono assoggettate ad una censura intransigente. Qui viene invertito l’orientamento
del flusso di informazioni: nel 2003, anno in cui Graz è
stata capitale culturale europea, le dichiarazioni degli
internati sono state stampate su copertoni verdi e gialli di camion e apposte su teloni trasparenti sulle pareti
esterne del penitenziario.
I passanti potevano vedere e leggere dichiarazioni quali
“Lei è sicuro che questi muri che ci dividono siano davvero necessari?”, “Alien, unknown, exotic. UTOPIAN.
Your world makes me anxioupag. How do you feel about
mine?“ oppure “Gioisco della vita, perché vi è ancora un
tiepido sole a brillare. Non cercare le spine, cogli le piccole gioie. […] Ogni giorno trovo qualcosa che mi dà gioia
e la chiave di tutto – la fede in me stesso! […]”, “Eppure so
ancora sognare”, “Mi senti? Mi vedi? Ehi, sono qui!”.
Esra Ersen è interessata all’interazione tra percezione
esterna e percezione propria e la formazione e la trasformazione dell’identità nei diversi contesti e meccanismi
di potere. Si accosta a questi temi tramite l’interazione
sociale nel carattere processuale il cui punto di partenza
è incerto per via del coinvolgimento di “coloro che vengono ignorati”, la cui indagine invece rappresenta l’asse del
suo interesse. Ella si occupa appunto in particolare degli
emarginati della società che si collocano e affermano in
una nicchia ad essa estranea o meglio occulta.
“[...] the duration of my production is usually a long-term
procespag. I am mostly interested in the potential, either
the potential of the people I work with or the potential of the space or the structure. So that I do not write
down a script but rather let things flow in the frame of
the context.” 20
Il materiale che ne consegue rappresenta la piattaforma di
partenza per una rivelazione strutturale da parte dell’artista. Crea un’illusione di vicinanza che funge da base di
partenza per la comunicazione. È qui che si distingue il
suo approccio da quello meramente documentaristico
che vuole caratterizzare la realtà nell’immagine. L’artista
non offre la narrazione ideale di una storia, bensì immette i destinatari nella posizione di riflettere su cosa sanno
veramente della realtà.21
Vanno sentiti ringraziamenti a Tanja Ostojić e
Brigitta Kuster per aver messo a disposizione i propri
video e a Maria Markt per i preziosi dibattiti critici,
sempre ricchi di impulsi.
20 http: / / www.pushthebuttonplay.com / fairplay2007 / artists / ersen.html (04.09.09)
21 Cfr. Chus Martínez: die unglaublichen abenteuer der esra ersen oder: so werde ich gleichzeitig zum innen- und außenbeobachter, in: Martin Sturm (ed.): esra ersen: arbeiten / works
1998–2005, catalogo di mostra O.K Zentrum für Gegenwartskunst Linz, Wien / Bozen 2006; pag. 84
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