Al di là della vita e della morte - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano

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Al di là della vita e della morte - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano
Al di là della vita e della morte
di Ludovico Castaldi, Doina Gorbatiuc, Daniele Marchitiello e Pier Francesco Miscischia
A.S. 2013/2014 classe VD
COLLOQUI FIORENTINI XIII EDIZIONE
Introduzione
In questo scritto intendiamo analizzare il rapporto di D'Annunzio con la vita e con la morte e di
come il desiderio si inserisca in questo discorso.
In tutta la produzione dannunziana traspare più o meno celatamente questa tematica spinosa che
affligge l'uomo dagli albori della sua civiltà.
Ma tutto ciò nell'autore abruzzese assume una connotazione particolare, frutto agrodolce della sua
avventurosa, grandiosa e in qualche episodio sfortunata vita frutto del più variegato insieme di fonti.
Infatti in lui convivono un vitalismo panico e un pessimistico nichilistico: per questo non si può
affermare che D'Annunzio abbracci una qualsivoglia corrente di pensiero, ma al contrario si può
dire che la sua sia una filosofia di vita onnicomprensiva, ossia che prende in considerazione
qualsiasi ideologia che faciliti il raggiungimento del suo scopo: l'approdo all'Infinito, all'Assoluto.
Questa tendenza sarà la nostra chiave ermeneutica di questi concetti e di come vengono stravolti in
funzione del suo fine.
Parleremo quindi del rapporto vita-desiderio-uomo e come influisca sul ruolo della morte.
Già dalla prima lettura delle sue opere ciò che ci ha più colpito è stato l'incolmabile sete di desiderio
sotto varie forme: infatti è proprio questa la peculiarità del Vate.
Perciò analizzeremo i vari mezzi con cui l'autore ha tentato di risolvere il suo problema esistenziale,
ognuno dei quali rappresenta più o meno delle fasi del suo pensiero.
Inizieremo parlando dell'amore, per poi passare alla natura.
" Bisogna sempre potere tutte le cose che può e tutte quelle che non può l'amore, per eguagliare la
mia natura insaziabile ".
L'amore rappresenta per D'Annunzio, come per i Romantici, la fusione di due corpi e di due anime e
quindi una via d'accesso per l'Infinito.
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Questo può dedursi da alcuni passi di "Il piacere", primo romanzo dannunziano che testimonia
l'approccio dell'autore all'estetismo e anzi si può affermare che rappresenti il resoconto di questa sua
esperienza.
Infatti la sua concezione dell'amore traspare molto chiaramente, egli vuole il possesso esclusivo
della donna amata nella sua completezza, anima e corpo, tanto che nel suddetto romanzo questo
desiderio viene scisso e si proietta su: Elena, per quanto riguarda l'aspetto carnale e sensibile, a
Maria per l'aspetto spirituale, tanto che nel passaggio del gioco erotico della tazza di thé, l'autore fa
dire a Maria che Andrea le ha bevuto anche l'anima.
Non solo, D'Annunzio si concentra soprattutto sulla figura dell'amata, fonte ella stessa, poiché
pervasa dall'armonia sublime dell'amore, di luce e di verità ("Io non ero mai giunto in nessun più
alto sogno del mio spirito, a ideare questa altezza. Tu ti levi sopra tutta la mia idealità, tu splendi
sopra tutti gli splendori del mio pensiero, tu mi illumini d'una luce che è quasi per me
insostenibile", Il piacere) e lo stesso concetto lo riprende attribuendolo alla Foscarina, figura molto
più complessa e simbolica delle due precedenti ("Tu sei la mia e sei il mio risveglio. E' in te una
potenza risvegliatrice, di cui tu medesimo sei inconsapevole. Il più semplice dei tuoi atti basta a
rivelarmi una verità che ignoravo", Il fuoco), sebbene il discorso sia finalizzato all'arte come si può
vedere nella conclusione.
Inoltre l'autore attribuisce all'amore anche la funzione dell'oblio, dell'assoluto straniamento della
realtà ("... alla presenza della meravigliosa creatura l'amato provava la sensazione divina d'essere
avvolto subitamente in un etere infuocato, in un'aura vibrante che pareva isolarlo dall'atmosfera
comune e quasi rapirlo", Il fuoco) e nel “Poema paradisiaco”, nella poesia 'Sopra un erotik' (di
Eduard Grieg) esprime la sua volontà, con quattro 'voglio' perentori, di "trovare in quell'ombra
giacendo su quel seno, come in fondo a un sepolcro, l'Infinito" e per di più desidera che quell'amore
fosse più forte della morte (Poema paradisiaco “Sopra un erotik"), grazie al fatto che l'amore è fonte
inesauribile di emozioni e sensazioni che si spingono oltre la vita quotidiana ("Ella aveva trovato
con lui al limite estremo della voluttà uno spasimo che non era ancora la morte ed era oltre la
morte", Il fuoco) rendendone sublime ogni momento con la sua forza irresistibile ed è proprio
questo che forse l'ha più colpito e che nella sua concezione ha avvicinato l'amore al suo Ideale.
Ma questa esperienza, sebbene non fosse solo letteraria, ma anche reale, non lo convinse
pienamente, come abbiamo voluto evidenziare nella frase che fa da titolo al capitolo, estratto da "Il
fuoco" o meglio, era convinto che l'amore non fosse sufficiente per lui.
Forse, la scelta di non abbandonarsi totalmente è dettata da una sorta di horror vacui, dal rifiuto
radicale di tutto ciò che è trascendente e quindi non sensibile; soprattutto se si assume come valida
una definizione dell'amore offertaci da Musil, l'amore rientra fra le esperienze mistiche e pericolose,
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perché strappa l'uomo dalle braccia della ragione, per lasciarlo letteralmente sospeso nel vuoto
(“L'uomo senza qualità”, I, 7), allora si può comprendere un po' meglio il comportamento di
D'Annunzio, tanto che egli alla fine, preferisce l'amore carnale, pur non rimanendo indifferente alle
trattative dell'amore "totale", scegliendo Elena e non Maria.
Inoltre, sebbene l'infuocata passione che solo l'amore può liberare dal labirinto dell'anima non
inaridisce la languente bocca dell'assetato scrittore, l'amore possiede anche una proprietà vincolata
che preclude l'altra parte dell'Infinito ("Ella, ella era l'idolo che seduceva in lui tutte le volontà del
cuore, rompeva in lui tutte le forze dell'intelletto, teneva in lui tutte le più segrete vie dell'anima
chiuse ad ogni altro amore, ad ogni altro dolore, ad ogni altro sogno, per sempre, per sempre..." Il
piacere) e poiché l'amore è ristretto nei limiti della persona amata non può offrire soluzione
esauriente, tanto da considerarlo una delle frammentarie soluzioni suggerite dall'Universo ("Egli
beveva da lei il mistero e la bellezza come da tutte le forme dell'Universo", Il fuoco); e il passaggio
dall'Uno al Tutto si avverte in alcuni passaggi in cui gli elementi amorosi e corporei si identificano
nella natura ("Egli si sentiva circonfuso dall'amore della donna come dall'aria e dalla luce;
respirava in quell'anima come in un elemento, e ne riceveva una pienezza ineffabile di vita come se
da lei e dalle profondità del giorno nascesse un medesimo fiume di cose misteriose e gli si versasse
nel cuore traboccante", Il fuoco; "sembra che in ciel l'innaturale forma/con la sera divina si
congiunga,/poi che l'immensa ombra del ciel prolunga/i tuoi capelli in una sola forma,/in una sola
onda, in un sol fiume/misterioso che con un suo largo/giro m'avvolge e trova nel suo letargo/dando
l'oblio come l'antico fiume", Poema paradisiaco).
"Noi siamo nel più intimo della foresta, non più esseri umani ma vivi di una vita vegetale".
D'Annunzio ha un rapporto molto particolare con la natura, che riprende in qualche modo il
pensiero di Giordano Bruno e di Schelling con delle sfumature misticheggianti (già manifeste nelle
suddette citazioni riguardanti il trasfigurar mistico) con l'aggiunta di quell'atteggiamento
contemplativo tipico delle filosofie orientali ("Vigile a ogni soffio,/intenta a ogni baleno,/sempre in
ascolto,/sempre in attesa, / [...] la mia anima visse/come diecimila", Maya, Laudi).
La sua volontà irrefrenabile -che la realtà non schiaccia come le altre, ma la amplifica, la rende più
forte- lo spinge a vivere oltre se stesso oltre la sua propria vita, nell'intima essenza dell'universo per
esserne partecipe ("Piove sui nostri volti divenuti tutt'uno con il bosco", Pioggia nel pineto;
"Perduta è ogni traccia dell'uomo", Meriggio).
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Questo suo panteismo mistico è forse il tentativo più materialistico da parte del poeta stesso di
approcciarsi all'Assoluto, poiché questo instancabile cammino verso il "giardino chiuso" (Poema
paradisiaco) avviene tramite una sensibilità extra-corporea, una dispersione dell'essenza individuale
nell'essenza cosmica ("e il fiume è la mia vena/ il monte è la mia fronte/ la selva è la mia pube/ la
nube è il mio sudore", Meriggio; "in tutto io vivo tacito come la Morte", Meriggio).
Nell'ultimo verso del "Meriggio" afferma che la sua vita è "divina", poiché ha raggiunto una
sensibilità onnipercettiva che gli conferisce una sorta di dominio sul mondo ("E io dissi: << O
mondo, sei mio! / Ti coglierò come un pomo, / ti spremerò alla mia sete, / alla mia sete perenne>>",
Maya, Laudi), ma questo dominio è un atteggiamento passivo della persona che può solo
meravigliarsi, ammirare e percepire in un stato di perpetua contemplazione, che mal si abbina alla
sua natura volubile e la sua tendenza all'azione.
<< Creare con gioia! E' l'attributo della Divinità>>
Con l'arte si passa dal panteismo mistico a un "monoteismo immanentistico", più vicino alla
concezione occidentale e in particolare cristiana, di divinità, in cui D'Annunzio riscopre il ruolo
attivo della stessa, ossia l'attività creatrice.
Prima di addentrarci nel variopinto e poliedrico rapporto dell'autore con l'arte, volevamo
evidenziare il fatto che la religione è una presenza costante nella sua vita -serbava un'ammirazione
profonda nei confronti di San Francesco D'Assisi, del quale aveva 129 oggetti nel Vittoriale, ma
non fu mai un vero fedele probabilmente a causa del trascendentalismo religioso, perché per essere
credenti si ha bisogno di un cieco abbandono da tutti chiamato fede, che assomiglia molto alla
scelta di gettarsi in un baratro, confidando in qualcuno che ti salvi all'ultimo momento (nelle sue
opere dove l'elemento religioso è inserito per concedere al testo un effetto a un tempo lirico e
provocatorio, di rado l’esperienza religiosa è vissuta da parte di D'Annunzio fine a se stessa, come
quando durante la guerra ha rivolto una preghiera a San Francesco affinché riuscisse a sopravvivere
alla notte, poiché in generale ha adattato i suoi elementi al proprio gusto estetico).
Così il bello diventa il primo tassello verso la sua concezione dell'arte e della vita, il primo passo di
allontanamento, probabilmente, dalla religione o perlomeno dall'aspetto più trascendente della
stessa. Infatti è proprio questo trascendentalismo della religione che egli rifiuta categoricamente,
mentre acquisisce il suo carattere mistificatore e adoratore, applicandoli uno all'amore e l'altro
all'arte; e con questa scissione degli elementi religiosi egli fa dell'arte una religione ("Soltanto l'arte
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può ricondurre gli uomini all'unità [...]. Quivi l'opera d'arte non appare se non come la religione
fatta sensibile sotto una forma vivente. Il dramma è un rito", Il fuoco), una religione per lui ideale,
perché, sebbene l'oggetto del culto sia un'idea pura, questa si manifesta nel mondo sensibile e
inoltre può essere realizzata dalla forza creatrice, immaginifica dell'artista, al contrario della
religione e del mistico il quale, oltre ad dover aver fede, è solo un fruitore passivo delle visioni e
sensazioni celestiali.
Quindi questa religione immanentistica gli offre più certezze di quella spirituale trascendente, anche
per il fatto non indifferente che l'artista diventa un sacerdote che tramite la sua opera tenta di portare
alla luce la sua verità, quindi di unire il Reale all'Ideale: infatti non fa come Baudelaire il quale
fugge dal reale per raggiungere l'Ideale, ma egli mostra al contrario un spirito di adattamento al
proprio contesto storico e quindi al mondo sensibile che gli consente di cercare l'Ideale nel Reale: in
definitiva, egli accantona il platonismo di Baudelaire a favore di un proprio aristotelismo.
In questo ambito la strada verso il desiderio subisce un'ulteriore biforcazione poiché l'arte
considerata in ogni sua possibile manifestazione non conduce ad un'unica risoluzione: infatti in un
unico romanzo (“Il fuoco”) egli si pone più obiettivi, tutti riconducibili a quell'idea suprema d'arte.
Egli ha l'ambizione di "imprimere il ritmo dell'arte alla vita" (Il fuoco) in modo tale da essere in
sintonia con il cosmo ("Egli era giunto a compiere in se stesso l'intimo connubio dell'arte con la
vita e a ritrovare così nel fondo della sua sostanza una sorgente perenne d'armonia", Il fuoco);
inoltre egli aveva il progetto artistico di riunire in un'unica perfetta forma d'arte la recitazione, il
canto lirico e la danza, chiamando a sé la "Trinità dionisiaca", l'unione di tre figure artistiche
eccelse, totalmente dedite all'arte senza remore o impedimenti ("Egli se le figurava scevre d'ogni
passione, immuni d'ogni male, come le creature dell'arte", Il fuoco); infine egli intende assurgere al
compito di guida del popolo, come effettivamente tentò di fare con le varie orazioni romane e
l'impresa di Fiume, in quanto poeta Vate e rivelatore della "superiore verità dell'arte" (Il fuoco),
tramite l'utilizzo della parola finalizzata solo all'azione, sebbene in un'orazione descritta ne "Il
fuoco", egli riproduce l'effetto delle parole del protagonista Stelio Effrena che suscitano negli
uditori paragonati a un'Idra dalle molteplici teste, conferendo al suo atto anche un che di prodigioso,
ovvero quello di ammaliare con le parole un mostro mitologico, alla pari di Orfeo ("Sollevata nella
spira ascendente delle parole, l'anima innumerevole sembrò giungere d'un tratto al sentimento
della Bellezza come a un apice non mai attinto prima", Il fuoco).
Inoltre, proprio come il sacerdote, l'artista è l'unico intermediario tra l'Arte e il popolo, quindi il solo
in grado di "interrompere per qualche attimo l'angoscia umana, placare la sete, largire l'oblio"(Il
fuoco), di soddisfare e appagare l'animo umano seppur per un effimero momento.
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Grazie alla verità dell'arte, "l'artefice superbo"(Poema paradisiaco) si eleva al di sopra del "tedio
della vita e la paura della morte"(Poema paradisiaco), protendendosi con tutto il suo essere verso
"il segreto della vittoria su la vita"(Il fuoco), quasi sfiorandolo con le dita anelanti.
La vita stessa in quest'ottica assume un ruolo fondamentale, perché diventa l'unica dimensione in
cui sperimentare l'arte. A prima vista può sembrare banale, ma in tal modo acquisisce un valore
inimmaginabile, poiché ogni suo momento rappresenta una potenziale espressione artistica nei più
disparati ambiti; e l'ineluttabilità della morte non fa altro che esaltare la vita nella sua massima
espressione di vitalità, come un vittorioso che passi trionfante accanto al nemico umiliato giacente a
terra, o come "l'essenza della musica" che risiede "nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che
li segue", e il ritmo dei quali "appare e vive in questi intervalli di silenzio"(Il fuoco), oppure ancora,
secondo gli Egizi, come il Sole che torna ad irradiare la sua benefica luce dopo aver attraversato
nottetempo il regno dell'Oltretomba.
In questo senso la morte va a costituire la causa della vita, l'assoluta quiete che è come uno pneùma
sulla girandola della vita, il motore immobile imprimente il primo movimento, proprio perché oltre
ad essere l'inizio del tutto, poi tutto torna ad essa e poiché l'azione è il centro nevralgico tra il potere
umano e la realizzazione del desiderio, con quella D'Annunzio cerca quasi di dilatare il tempo, di
calarsi nel kairos per compiere qualcosa di divino in modo da interporre più tempo possibile tra sé e
la propria morte, ma non perché non accetta la morte, piuttosto per ritardarla il più possibile per
sfruttare il più possibile la vita tramite l'azione che, nella speranza che sia efficace al fine del
raggiungimento dell'oggetto del desiderio, viene indirizzata verso il maggior numero di sottoobiettivi possibile ("Tutto fu ambito/e tutto fu tentato", Poema paradisiaco), sebbene questo dell'arte
sia il suo più completo tentativo di raggiungere l'Inconnu, in cui è maggiormente evidente la sua
volontà di vivere oltre la vita, una vita divina alla quale ci si può avvicinare il più possibile solo con
l'attività creatrice, tanto che fin dai tempi di Plotino si riteneva che l'arte fosse una delle vie
mediante le quali ritornare all'Uno da vivo.
Inoltre si può aggiungere che D'Annunzio sovverta o meglio non appoggi interamente l'accezione di
azione di Pascal intesa come divertissement, intrattenimento atto a non far pensare alla morte:
infatti vive consapevolmente in questo stato ("morremo invano", Poema paradisiaco) sapendo però
che è necessario non rivelarlo o nasconderlo con una menzogna la quale rientra nelle ipocrisie con
le quali a parer suo bisogna vivere ("forse la scienza della vita sta nell'oscurare la verità", Il
piacere), ma questa ipocrisia va a scontrarsi direttamente e duramente con la realtà e con la morte,
un vetro poliedrico contro una lastra adamantina, vera ed impenetrabile.
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E purtroppo questo vetro si infrangerà svelando la natura decadente (in parte già mostrata
precedentemente) e introspettiva di D'Annunzio che, entrato in contatto con la malattia e con la
morte si chiude in se stesso.
"Vi è oltre la vita e la morte un'altra plaga dove possa abitare l'asceta? V'è quel terzo a[...] ?"(Di
me)
D'Annunzio nella sua multiforme vita si interessò anche all'esoterismo: infatti aderì con l'amico
Debussy alla società massonica del martinismo che propugnava un panteismo mistico, nel quale si
riconosceva il divino nell'uomo con la collazione si sensazioni, cosicché sensitività e spiritualità
coincidessero.
Inoltre l'idea-chiave era la compenetrazione tra umano e divino, tra materia e spirito e l'idea
dell'unità del reale, principi che sembrano avvicinare l'autore alla fine della sua bramosa corsa verso
la sua meta, ma risultano anche simili a quelle idee già espresse in merito alla natura.
Dopo l'impresa fiumana si interesserà ancor più al misterico tanto che frequenta un architetto dalle
facoltà mediatiche -tendenza, quella di riunirsi con amici presso un medium testimoniata anche da
Pirandello ne "Il fu Mattia Pascal"- e in seguito a queste esperienze si concentra sempre più nella
sua interiorità per andare alla ricerca del "terzo luogo", "quel senso indefinito che guida e conduce
verso il destino con sicurezza piena nell'evento"(Fortini), una dimensione che si distingue dalla vita
e dalla morte (primo e secondo luogo) in cui l'anima è come se venisse guidata dalla divinità nel
perfezionarsi e nel trascendersi.
Questa fase rappresenta forse l'ultimo disperato tentativo di raggiungere il suo scopo, una sconfitta
mascherata che poi ammette apertamente nella sua ultima poesia.
<<Ogni uomo seppellito / è il cane del suo nulla>>(“Qui giacciono i miei cani”)
Con questa poesia egli dichiara palesemente il suo fallimento, la sua sottomissione alla realtà
sempre più insopportabile per l'incessante e logorante trascorrere del tempo, ma l'aspetto più
interessante è quello inerente alla vita e alla morte, poiché nei versi afferma che "Pan è tutto e tutto
è morte" e quindi testimonia una radicale trasformazione del suo pensiero da cui si deduce una triste
verità: che si sono spente in lui la forza e la fiamma del desiderio, che egli non può più "placare" la
sua sete perché non ha più una bocca con cui bere. Ma da ciò si deduce anche che solo il desiderio,
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che spinge all'azione la volontà, solo la ricerca dell'appagamento porta l'uomo a superare i propri
limiti e a "togliere ogni peso alla vita e alla morte" (Libro segreto), quindi come la vera espressione
dell'arte avviene solo facendola prescindere dalla morale, così il desiderio, perciò l'uomo può
realizzarsi appieno solo se riesce a spingersi oltre "il tedio della vita e la paura della morte" (Poema
paradisiaco); perché chi non trova "una ragione eroica di vivere" (Il fuoco), chi non "osa
l'inosabile", chi non permette alla propria brama di uscire da sé e concretizzarsi, per quanto
possibile, nella realtà, si può morire anche subito”, come dice Stelio Effrena di un suo
"discepolo"(Il fuoco), perché non c'è altro motivo ragionevole per cui vivere.
Perciò bisogna alimentare i propri desideri e i propri sogni, già secondo Freud espressione inconscia
di un desiderio, giacché siamo tutti destinati a rivivere la sorte di Icaro, si dovrebbe cercare di
volare il più in alto possibile con le proprie ali piumate artefatte, per tentare di "creare la propria
favola bella"(Il fuoco).
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