Romanus Orbis

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Romanus Orbis
Romanus Orbis
Antologia tematica a cura di D. Guerra
Analisi di testi “maggiori”*
* Per questa sezione sono state utilizzate selezioni di passi da quattro raccolte antologiche sui maggiori poeti latini
di Edizioni di Scuola e Cultura: Naturae species ratioque (Lucrezio), a cura di P. Fornasiero e L. Mutterle, Sermo
amatorius (Catullo, Ovidio), a cura di G. Ghiselli, Certi fines (Orazio), a cura di C. Cignolo, e Physis (Virgilio, limitatamente al tema della natura), a cura di R. Strumìa.
II
Lucrezio
Naturae species
ratioque
a cura di
Patrizia Fornasiero e Maria Lodovica Mutterle
Il testo
de rerum natura I, 1-43
Hominum voluptas
Il poema si apre con l’invocazione a Venere, dea dell’amore, principio vivificatore dell’universo. La
potenza della dea viene rappresentata con la vivida immagine del risveglio a primavera della natura, dove domina la legge dell’amore che governa la procreazione e riproduzione delle specie.
Persino Marte, dio della guerra, si piega di fronte alla bellezza di Venere e la stessa violenza si
placa di fronte all’amore che riporta la serenità della pace. Proprio quest’ultima viene sentita dal
poeta come condizione indispensabile per attendere alla composizione della propria opera e per
permettere a Memmio, indicato come destinatario del poema, di seguire il messaggio epicureo proposto.
Praecepta
1. Aeneadum… voluptas: “O madre
della stirpe di Enea, gioia degli uomini
e degli dei”; Aeneadum (= Aeneadarum)
genetrix: la dea viene invocata prima di
tutto come progenitrice dei Romani;
divumque = deorumque. 2. alma: “che dà
la vita”; l’agg. deriva dalla radice del
verbo alere, “nutrire”. caeli… signa:
“sotto gli astri che scorrono nel cielo”;
subter = sub. 3-4. quae… concelebras:
“che popoli il mare solcato dalle navi, le
terre feconde di messi”; frugiferentis =
frugiferentes. 5. visitque… solis: “e vede,
una volta nata, la luce del sole”; visit
deriva da visere, desiderativo di videre;
exortum è part. passato, concordato con
genus. 7-8. tibi… flores: “per te la terra
creatrice produce soavi fiori”; suavis =
suaves; daedala: l’agg. contiene l’idea
della creazione artistica. 10. Nam…
diei: “Infatti non appena si manifesta la
stagione primaverile”; verna concorda
con species ma, per ipallage, è da riferire a diei. 11. et… favoni: “e, dischiuso,
spira il soffio del fecondo favonio”; reserata: il participio richiama l’idea dei
venti liberati dal dio Eolo; genitabilis:
l’attributo, riconducibile a gigno, esprime attraverso il suffisso -bilis l’idea
della possibilità di creare la vita. 12-13.
aeriae… vi: “prima gli uccelli dell’aria
annunciano te, o dea, e il tuo arrivo,
colpiti nel cuore dalla tua forza”; corda
è acc. di relazione dipendente da perculsae. 14-15. inde… amnis: “Poi le fiere e
gli armenti saltano per i pascoli rigogliosi e attraversano i rapidi fiumi”;
ferae, pecudes: asindeto; amnis = amnes.
15-16. ita… pergis: “così, catturata
dalla tua grazia, ardentemente ogni
creatura ti segue dove vuoi condurla”;
Inno a Venere
05
Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis:
Voluptas: il termine corrisponde al greco hedoné e designa quello
che, secondo la filosofia epicurea, è il piacere catastematico.
Lucrezio intesse l’elogio della voluptas in II, 1-22, dove – attraverso
l’immagine dell’uomo sulla riva che guarda il travaglio di chi è alle
prese con il mare in tempesta – esprime l’idea che il maggior piacere per la natura umana deriva dall’esser priva di dolori, ossia dal
“piacere stabile” che si verifica in assenza di turbamento (atarassìa)
e di dolore (aponìa). Esso si contrappone al piacere “mobile” di cui
parlano i cirenaici, che costituisce il godimento psico-fisico e, comportando una eccitazione, procura anche turbamento.
Nell’incipit del poema, il termine – oltre a riproporre l’idea cardine
del piacere catastematico proprio della filosofia epicurea – indica
anche l’amore come principio vitale che regola la vita dell’universo
e viene attribuito sia agli uomini che agli dei, in quanto anch’essi
determinati dalle leggi fisiche degli atomi.
10
15
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucres te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
14
L’invocazione a Venere ha suscitato un problema di interpretazione, in quanto secondo la filosofia epicurea gli dei
sono estranei alle vicende umane e appare dunque contraddittorio chiedere alla divinità di garantire le condizioni di
pace necessarie per intraprendere la composizione del
poema. Diverse sono state le spiegazioni: Boyancé ad es. ha
visto in essa la forza fecondante della natura; Giancotti ha
individuato nel dualismo Venere/Marte una allegoria della
contrapposizione vita/morte; i più concordano nello scorgere in Venere il simbolo della voluptas epicurea. Si deve inoltre sottolineare il fatto che Venere fosse la dea protettrice
della gens Memmia e Iulia, cosicché l’invocazione potrebbe
costituire il tentativo di riallacciarsi alla tradizione romana.
Sul testo
Il passo inizia con nove versi (Aeneaedum… caelum) che
contengono l’invocazione a Venere, svolta secondo i canoni
dell’inno religioso. Essa si apre con una serie di epiteti
(Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, alma) che
ritardano la comparsa del nome della dea creando attorno a
lei un alone di sacralità e continua con la richiesta di aiuto. Il
testo prosegue con un alto grado di elaborazione formale,
come si può notare dalla presenza di anafore (quae… quae), di
verbi composti e allitteranti collocati all’inizio di verso (concelebras… concipitur), del poliptoto in anafora che accentra
l’attenzione sulla dea (te… te… te… tibi… tibi). Il tono risulta particolarmente solenne anche per la presenza di arcaismi
e termini composti (navigerum… frugiferentis) nonché per la
struttura sintattica di ampio respiro (di cui si offre lo schema), assai ricca di enjambement (vv. 3-4; 4-5; 6-7; 7-8):
Senza di te Venere non può / provare il
piacere che la buona fama / consente; lo
può / solo se tu lo permetti. Chi oserà
paragonarsi / ad un simile nume?
Senza di te nessuna casa è in grado / di
largire figliuoli, né può un genitore /
trovare sostegno nella progenie; lo può, /
solo se tu lo permetti. Chi oserà paragonarsi ad un simile nume?
Una terra che fosse privata del tuo culto /
non riuscirebbe a trovare difensori / ai
suoi confini; ci riuscirebbe, / solo se tu lo
permetti. Chi oserà paragonarsi / a un
simile nume?
Catullo, Carme 61, vv. 61-75
vv. 1 – 5
Aeneadum genetrix… alma Venus
quae… (concelebras)
quae… concelebras
quoniam concipitur
-que (quoniam) visit
vv. 6 – 9
te fugiunt venti
te nubila caeli (fugiunt)
tellus summittit flores
rident aequora
-que nitet caelum
La figura di Venere ritorna nei versi 21-28 ( quae… leporem) che ribadiscono la sua importan15
capta, quamque femminili perché concordano con il genere di pecus. 17-18.
montis… virentis = montes… virentes.
19. omnibus (animalibus). 20. efficis…
propagent: “fai in modo che ardentemente le generazioni continuino stirpe
per stirpe”.
21-22. quae… quicquam: “E poiché tu
sola governi la natura e senza di te
niente approda alle divine spiagge
della luce e niente sussiste di lieto e di
amabile”; in luminis oras: l’espressione
costituisce una reminescenza degli
Annales di Ennio (Vahlen I, 110 -114)
riportata da Cicerone in De re publica I,
64. 24. te… esse: “desidero che tu mi
sia compagna nello scrivere versi”; scribendis versibus: dativo del gerundivo
con valore finale. 26. Memmiadae
nostro: “per il nostro discendente dei
Memmi”; il patronimico nobilita il
destinatario dell’opera. 27. omnibus
ornatum… rebus: “ricco di tutti i
pregi”; il verbo orno regge l’ablativo
strumentale. 28. quo… leporem:
“Tanto più concedi, o dea, eterno fascino alle mie parole”. 29. fera moenera
militiai (= munera militiae): “le feroci
opere della guerra”. 30. omnis = omnes;
concorda con terras. sopita: predicativo
di moenera. 32. mortalis = mortales;
accusativo retto dal verbo iuvare. moenera: cfr. v. 29. Mavors: arcaismo per
Mars. 33-34. in… amoris: “che spesso
s’abbandona nel tuo grembo, vinto da
eterna ferita d’amore”; devictus: il preverbo de esprime l’idea del vincere
completamente; volnere = vulnere. 3537. atque… ore: “e così guardandoti,
reclinato il collo ben tornito, nutre d’amore gli occhi avidi desiderandoti, o
dea, e il respiro di lui, mentre giace
supino, pende dalle tue labbra”; suspiciens: il preverbo sub indica lo sguardo
rivolto dal basso verso l’alto di Marte
verso Venere; tereti: l’aggettivo viene
usato per qualificare oggetti lavorati al
tornio, di cui si sottolinea la bellezza
formale; reposta = deposita; inhians
costruito con in e l’accusativo esprime
l’intensità del desiderio; eque = et ex: la
preposizione regge l’ablativo tuo ore.
38-40. hunc… pacem: “Tu, o dea, circondando con il tuo corpo divino lui,
che sta sdraiato, spargi dalla tua bocca
denique per maria ac montis fluviosque rapaces
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
20 efficis ut cupide generatim saecla propagent.
Amor: il termine appare strettamente connesso a voluptas. Esso è
usato nel passo tre volte: nel verso 19, indica l’impulso di tutte le
creature a riprodursi, garantendo così la continuità della vita nell’universo; tale valore è qui rafforzato dalla presenza dell’avverbio
cupide che esprime la particolare intensità del desiderio, come al
verso 16.
Negli altri due casi (v. 34 e 36) il vocabolo è usato per descrivere la
passione che Marte prova verso la bellezza fisica di Venere.
quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse
25quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
effice ut interea fera moenera militiai
30per maria ac terras omnis sopita quiescant.
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reicit aeterno devictus vulnere amoris,
35atque ita suspiciens tereti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
è Venere che screzia di fiori la primavera scintillante per le gemme, è
Venere che sospinge nei noti calici i boccioli che spuntano al vento di
Zefiro, è Venere che sparge l’acque feconde della rugiada scintillante che la
brezza notturna lascia cadere… è Venere che ha dato ordine che tutte le
rose al mattino coprano il capo alle Vergini: Ella, fatta del sangue del
Padre e dei baci di Amore, delle gemme , delle fiamme, delle porpore del
sole, non avrà pudore a sciogliere domani il rossore verecondo che stava
nascosto sotto la veste di fuoco, sposa con un vincolo senza pari…
Pervigilium Veneris vv. 13-26
16
za nell’universo attraverso una doppia anafora (te… te;
neque… neque). Accanto alla dea compaiono gli altri due
interlocutori: il poeta indicato prepotentemente dal pronome
di prima persona (ego) e il dedicatario nobilitato dal patronimico (Memmiadae nostro). Si tratta probabilmente di Gaio
Memmio, personaggio di illustre discendenza di cui sono
pervenute scarse notizie biografiche. Di lui sappiamo che fu
tribuno della plebe nel 66 a. C., pretore nel 58 a.C., propretore in Bitinia nel 57-56 a. C. ed aspirò al consolato nel 54
a.C. In quell’anno incorse nell’accusa di broglio elettorale (de
ambitu) e fu condannato all’esilio che scontò ad Atene. Qui
ricevette in dono dalla città il terreno occupato dalle rovine
della casa di Epicuro, dove egli intendeva edificare la propria
dimora, dimostrando scarsa sensibilità per la memoria del
Maestro. Ad Atene morì nel 50 a. C. Della sua produzione
poetica ci è rimasto solo un brevissimo frammento di intonazione erotica.
La figura di Memmio è citata da Catullo che fece parte del
suo seguito in Bitinia nella speranza, poi disattesa, di riceverne dei vantaggi economici (Carmina X, 12); da Cicerone
che lo ricorda come uomo dotato di vasta cultura e capace
oratore in Brutus 247 e riferisce sul soggiorno ateniese in Ad
familiares XIII, 1. Lucrezio dedica a Memmio l’opera probabilmente vedendo in lui il rappresentante della società colta
del suo tempo che poteva fungere da destinatario del messaggio filosofico epicureo. Numerosi sono i punti del poema
in cui egli viene citato: I, 25, 42, 103, 403, 1057; II, 141, 184;
V, 7, 94, 865, 1282.
Questi versi si chiudono con la forte allitterazione da dictis, diva che sottolinea il valore che il poeta attribuisce al termine lepos, indicatore della grazia e del garbo della conversazione che possono divenire vera e propria seduzione. Nel
passo, inoltre, lepos è usato sia al verso 15 per indicare la
forza d’attrazione che Venere esercita su tutte le creature sia
al verso 28 per esprimere l’effetto di seduzione che la parola
scritta esercita.
17
Una Diva (Venere) scorrea lungo il creato
/ a fecondarlo, e di Natura avea / l’austero nome: fra’ celesti or gode / di cento
troni, e con più nomi ed are / le dan rito i
mortali; e più le giova / l’inno che bella
Citerea la invoca.
U. Foscolo, Le Grazie, vv. 32-37
Gaio Memmio figlio di Lucio aveva un’ottima competenza nelle lettere, ma in quelle
greche: per quelle latine aveva solo disdegno; come oratore era fine, e con un linguaggio piacevole; ma siccome rifuggeva
non solo dalla fatica di parlare, ma anche
da quella di preparare i discorsi, impoverì
il proprio talento nella misura stessa in cui
ridusse l’operosità.
Cicerone, Brutus 247
Né più mai toccherò le sacre sponde / ove
il mio corpo fanciulletto giacque, / Zacinto
mia, che te specchi nell’onde / del greco
mar da cui vergine nacque / Venere, e fea
quelle isole feconde / col suo primo sorriso,
…
U. Foscolo, A Zacinto vv. 1-6
dolci parole, chiedendo, o illustre, una
tranquilla pace per i Romani”; recubantem: participio presente concordato con
hunc, retto da super; suavis = suaves;
incluta = inclita. 41-43. nam… saluti:
“Né noi possiamo comporre questa
opera con animo tranquillo in tempi
difficili per la patria né, in tali circostanze, l’illustre stirpe di Memmio può
sottrarsi alla salvezza comune”; hoc:
accusativo neutro retto da agere sulla
scorta di IV, 969 dove l’espressione
compare con il medesimo significato;
patriai = patriae; desse (= deesse): l’infinito dipende da un potest sottinteso ricavabile dal precedente possumus.
hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circumfusa super, suavis ex ore loquelas
40funde petens placidam Romanis, incluta, pacem.
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.
hoc patriai tempore iniquo
Il primo secolo a. C. fu travagliato dall’urto tra la potenza
della classe egemone conservatrice e la volontà di rinnovamento delle nuove forze sociali... Le guerre sociali e la prima guerra civile acuirono le difficoltà del momento, gli squilibri economici le esasperarono. Si diffuse tra gli intellettuali il desiderio di
potersi rifugiare in qualcosa che distogliesse il pensiero dalla
politica e dalle preoccupazioni della vita...
Si volle vedere nel De rerum natura anche un’opera di contestazione politica. Ma ben diverso proposito è quello di indicare
la via alla tranquillità (che si trova nell’abbandono, semmai, degli
affanni politici) e quello di protestare contro un metodo e un
sistema di vita pubblica e contro un costume civile.
F. Semi, Società lingua letteratura nell’antica Roma, Treviso, 1980,
vol. II, p. 88
I due motivi (della generazione e della pace) si rivelano concordanti se vengono riferiti al fondamentale carattere costruttivo di ciò che in Venere è rappresentato. Generare è costruire, pacificare
o mantenere la pace è pure costruire, cioè comporre ciò che è contrapposto, associare ciò che è dissociato, contenere ciò che tende a scomporsi e a contrapporsi. Il mantenere la pace è cosa non meno attiva che il crearla: è anch’esso un pacificare, in quanto che comporta il vigere e l’attivo sormontare del
principio pacificatore, ossia costruttivo. Invocando da Venere il mantenimento della pace Lucrezio
invoca, dunque, cosa congrua al carattere eminentemente attivo di ciò che Venere impersona. D’altra
parte, sottolineando tale carattere, si ribadisce l’inadeguatezza dell’identificazione fra Venere e il
“piacere in riposo”, giacché questo non può essere che una conseguenza dell’operare di quella, e si
rivela, altresì, l’infondatezza di ogni connessione con le inattive divinità epicuree.
Se la Venere lucreziana non è la divinità tradizionale, né una divinità epicurea degli intermundî, la consueta accusa di contraddizione rivolta all’epicureo Lucrezio è priva di fondamento. Di
contro al rifiuto delle divinità tradizionali, di contro alla dottrina dell’assoluto disinteresse degli dei
epicurei per le vicende umane, in Lucrezio è saldo il convincimento che il principio impersonato in
18
I versi 38-40 (hunc… pacem) propongono, poi, di nuovo
Venere che concede pace serena agli uomini, chiedendola a
Marte, vinto dall’amore. L’immagine del dio tra le braccia
della dea è proposta con l’efficacia di un gruppo scultoreo in
cui risalta il collo ben tornitodi Marte, il suo sguardo pieno
di desiderio rivolto alla dea e il suo totale abbandono.
La chiusa (vv. 41-43) richiama il dedicatario, sottolinea il
fine dell’opera di proporre la salvezza dell’uomo e lascia
intendere con l’espressione generica patriai tempore iniquo
che il poema sia stato composto in un periodo politico tormentato, variamente collocato. Si è infatti supposto che si
tratti della sedizione di Clodio o della guerra di Cesare in
Gallia (58-51 a. C.) o della guerra contro Mitridate, re del
Ponto (74-64 a. C.) o infine delle lotte tra Mario e Silla (8279 a. C.). L’ipotesi più probabile appare quella che assegna la
composizione del poema alla prima metà degli anni cinquanta.
PROPOSTA DI PERCORSO
VENERE:
LA POTENZA DELL’AMORE
• Inni omerici V (VII - VI sec. a.C.)
• Saffo, frammento 1 Voigt
(VII – VI sec. a.C.)
• Prassitele, Afrodite di Cnido
(340 a.C.)
• Venere di Milo (II a.C.)
• Ovidio, Metamorfosi IV, 167 – 193
(I d.C.)
• Pervigilium Veneris in Anthologia
Latina (V – VI d.C.)
• A. Poliziano, Stanze cominciate per
la giostra di Giuliano de’ Medici I,
68 – 92 (1475)
• S. Botticelli, La primavera (1478)
• S. Botticelli, Nascita di Venere
(1483)
• G.B. Marino, Adone (1623) X, XI
• A. Vivaldi, Concerto n. 1
La primavera in Le quattro stagioni
(1678 – 1741)
• A. Cabanel, Nascita di Venere
(1863)
• P. Picasso, Vénus et amour (1967)
Venere sia reale e operante se altro mai. Come rinfacciargli dunque la sua invocazione? Se ciò ch’egli implora, la pace, deriva per lui precisamente dal principio ch’egli invoca, come tacciare d’incongruenza la sua preghiera? Essendo Venere una allegoria l’invocazione in effetti è rivolta al principio in essa allegorizzato. Se si riflette sull’essenza di questo, sulla sua universalità e, soprattutto,
sulla sua immanenza nell’uomo, si perviene alla conclusione che, invocando Venere, Lucrezio in
fondo invoca l’uomo. La pace umana che egli implora, dagli uomini dipende, secondo la dottrina
ch’egli professa. Perciò non occorre che la sua invocazione s’estenda per l’immensità dell’universo,
tanto quanto s’estende il principio raffigurato in Venere, e quindi si rivolga ad esseri e a forze che
l’uomo non può padroneggiare. Se ciò ch’egli domanda a Venere dipende dall’uomo, la sua invocazione si restringe alla sfera umana dell’universale principio personificato da Venere, all’ambito dell’immanenza dei motus genitales auctificique nell’uomo.
(F. Giancotti, Religio, natura, voluptas, Bologna 1989, pp. 362-363)
19
Il testo
de rerum natura II, 1-61
Quibus ipse malis careas cernere suave est
Il proemio del II libro si apre con l’efficace immagine delle regioni dei sapienti, dove essi conducono un’esistenza serena, contrapposta al vuoto affannarsi della maggior parte degli uomini. Ciò
che muove alla ricerca della ricchezza e del potere, procurando un continuo tormento, è l’incapacità di comprendere che la natura ha bisogno di poco per elargire la felicità: essa chiede soltanto
che la sofferenza resti lontana dal corpo e l’affanno dallo spirito. Lucrezio coglie qui l’occasione
per esemplificare la differenza che intercorre tra i piaceri naturali e necessari e il loro opposto,
costituito dalle varie manifestazioni della ricchezza. In realtà, solo la ragione può mettere in fuga
le ansie e le angosce degli uomini, come la luce del giorno mette in fuga le paure che tormentano
i bambini nel buio, dimostrando la loro inconsistenza.
Praecepta
1-2. Suave (est); mari magno: abl. di
stato in luogo; turbantibus… ventis:
abl. assoluto con valore temporale; e…
laborem: “guardare dalla terraferma il
grande travaglio di un altro”, prop.
soggettiva retta dal precedente suave
est. 3-4. quemquamst: crasi per quemquam (soggetto di vexari) e est; quibus… careas: prop. interrogativa indiretta dipendente da cernere. 6. suave
(est). 5. tua… pericli: “senza che tu
prenda parte al pericolo”. 7-8. nil =
nihil; bene… serena: “che occupare le
serene regioni elevate, ben fortificate
dalla dottrina dei sapienti”. 9. despicere: “guardare dall’alto”; queas: il verbo
servile della relativa regge gli infiniti
despicere e videre; quest’ultimo, a sua
volta, regge errare, quaerere, certare, contendere, niti. 10. palantis = palantes :
“andando alla ventura”. 12. praestante
labore: “con straordinaria fatica”. 13.
ad… potiri: i due infiniti completano il
significato di nitor. 14. o… caeca!: accusativi esclamativi; mentis = mentes. 1516. qualibus… quodcumquest!: “in
quali tenebre di vita e in quanti pericoli è trascorso quel po’ di tempo che ci è
concesso!”. 16-17. nonne… latrare:
“non vedi forse che nient’altro la natura reclama per sé”; videre: forma di infinito esclamativo; nil = nihil; latrare
regge le prop. completive utqui (=ut)…
absit e (ut) fruatur e significa propriamente “abbaiare”, da cui passa ad indicare il “richiedere ad alta voce”. 18.
mente fruatur: “di godere nell’anima”;
il verbo ha come soggetto sott. natura.
La conoscenza, garanzia di felicità
05
10
15
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli.
sed nil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentis, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quodcumquest! nonne videre
nil aliud sibi naturam latrare, nisi utqui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte,
ch’essa possa essere qualcosa che ci tocchi da vicino, e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori, non avremmo bisogno della
scienza della natura
Epicuro, Massime capitali, XI
26
Il limite in grandezza dei piaceri è la detrazione di ogni dolore. E dovunque è piacere, e per tutto il tempo che persiste non c’è né dolore fisico né spirituale.
Epicuro, Massime capitali III
Sul testo
L’immagine dell’uomo che se ne sta sulla riva a guardare
il naufrago dipinge in modo assai efficace la condizione di chi
– privo di dolore – può assaporare il piacere; essa ripropone
circolarmente l’espressione suave (est) – presente al verso 1 e
al verso 4 – che, aprendo e chiudendo il quadro, richiama l’attenzione sull’idea principale. Al v. 3 e al v. 19 è usato l’aggettivo iucundus, rispettivamente come qualità di voluptas e di
sensus, mentre al v. 31 il termine ricompare sotto forma di
avverbio (iucunde) che determina l’espressione corpora curare.
In tutti i casi la parola è utilizzata in un contesto dove si cita
o si descrive l’ideale epicureo del piacere, di cui il proemio del
II libro costituisce un significativo elogio: la condizione di chi
è privo di dolore nel fisico (v. 18: corpore seiunctus dolor absit,
descrizione dell’aponia epicurea) e di affanno nella mente (vv.
18-19: mente fruatur iucundo sensu cura semota metuque, definizione dell’atarassia epicurea) e può dunque raggiungere quello stato che consente la felicità. Non è un caso che l’avverbio
iucunde compaia nei versi che ritraggono un gruppo di amici
trascorrere il tempo in una natura amica, secondo il modello
epicureo dell’amicizia come massimo bene.
Grande è la distanza che separa il saggio, colui che ha
raggiunto tale felicità, dai comuni mortali: essa trova espressione nel testo attraverso un’altra efficace immagine poetica,
quella dei munita templa dei vv. 7 e seguenti. La conoscenza
razionale delle cose permette al sapiente di conquistare una
serenità irraggiungibile da chi erra perché cerca di prevalere
sugli altri lottando con la propria intelligenza (certare ingenio) o la propria origine sociale (contendere nobilitate) al fine di
raggiungere la ricchezza o il potere.
L’immagine è introdotta da dulcius est, in variatio rispetto
al precedente suave est. Il termine templum indica in origine
una porzione di cielo che gli aruspici scrutano per osservare
il volo degli uccelli e trarre i loro presagi e passa successivamente ad indicare uno spazio libero e vasto, con l’idea di elevatezza e santità. Significativo l’uso del verbo despicere, che
ben esprime l’atto di guardare (specio) dall’alto verso il basso
(de) da parte di chi ha conquistato una superiore serenità
rispetto agli uomini che si affannano inutilmente.
Nei versi 20–33 è possibile individuare la tripartizione dei
piaceri operata da Epicuro:
27
Alcuni vollero divenire famosi e rinomati ritenendo così di procurarsi
sicurezza nei riguardi degli altri uomini. Ammesso che in tal modo la loro vita
sia diventata veramente sicura, essi
hanno acquistato un bene secondo natura; ma se la loro vita non lo è divenuta,
non hanno raggiunto quel bene secondo
natura sotto il cui impulso hanno agito
fin dall’inizio.
Epicuro, Massime capitali VII
Se ciò che procura i godimenti dei dissoluti li liberasse dai timori della loro
mente riguardo alle cose celesti e alla
morte e ai dolori, e se insegnasse loro
qual è il limite dei desideri e dei dolori
non avremmo di che biasimarli, colmi
come sarebbero di ogni piacere e senza
mai avere di che soffrire nell’anima e nel
corpo, ciò che è appunto il male.
Epicuro, Massime capitali VI
20. corpoream… naturam: “al corpo”;
ad e l’acc. è usato qui al posto del più
usuale dativo. 21. quae… cumque =
quaecumque; il pronome regge una relativa impropria. 22. delicias… possint:
“così da poter offrire anche molti piaceri”; uti (= ut) introduce una frase di
natura finale-consecutiva. 23. gratius:
oggetto di requirit. 24-28. si… templa:
serie di prop. ipotetiche (simulacra sunt,
domus fulget auroque renidet, citharae
reboant); lumina… suppeditentur: “perché sia fornita luce ai banchetti notturni”; fulget: il verbo, della II coniugazione, è usato qui al posto di fulgere, più
frequente in Lucrezio; nec… templa:
“né le cetre fanno risuonare le sale dai
soffitti dorati”. 29. cum tamen: “quando tuttavia”; si contrappone a si non del
v. 24; l’avverbio significa “nonostante
la mancanza dei beni di lusso appena
descritti”; inter… molli: “coricati su un
morbido prato”. 31. non… opibus: “con
poca spesa”; litote. 32. praesertim cum:
“specialmente quando”; anni tempora:
“la stagione”. 33. viridantis = viridantes. 34. citius: il comparativo di maggioranza è legato a quam si del v. 36.
35-36. textilibus… iacteris: “se ti agiti
in coperte dipinte e nella rossa porpora”; in plebeia veste: “in una coperta
plebea”. 37. nil = nihil. 39. quod…
putandum (est): “per il resto, bisogna
pensare che non giovino per nulla neppure all’animo”; quod superest: espressione incidentale. 40-41. si… cientis: “a
meno che, quando vedi le tue legioni
agitarsi nel campo Marzio producendo
immagini di guerra”; cum videas: il cum
narrativo con valore temporale dipende dalla prop. successiva tum… effugiunt; cientis = cientes: 42-43. subsidiis… animatas: “(quando vedi le legioni) rafforzate da grandi aiuti e dalla
forza della cavalleria e le fai fermare
cariche di armi e parimenti animate da
ardore”, secondo il testo del Munro.
43a. fervere… vagari: “vedendo la flotta agitarsi e vagare di qua e di là”; il
verso è citato da Nonio come appartenente al II libro ed è solitamente inserito in questo punto dagli editori. 4445. his… pavidae: “allora, spaventate
da queste cose, le superstizioni non
fuggano impaurite dall’animo”. 46.
20
ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino, quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius interdum neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
25 lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
30 propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas arridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
nec calidae citius decedunt corpore febres,
35 textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
quapropter quoniam nil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod superest, animo quoque nil prodesse
[putandum;
40 si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis † epicuri † constabilitas,
ornatas armis † itastuas † pariterque animatas,
43a fervere cum videas classem lateque vagari,
I versi 42-43 costituiscono il luogo più corrotto del
poema, in quanto mancano o sono corrotti nei codici. Il
codice Q li omette, lasciando lo spazio corrispondente a
tre versi; i codici O e G presentano la seguente incomprensibile lezione, scritta in lettere maiuscole: SUBSIDIIS MAGNIS EPICURI CONSTABILITAS / ORNATAS ARMIS ITASTATUAS TARITERQUE ANIMATAS. Nell’impossibilità di restituire il testo autografo, la
proposta generalmente accettata è et ecum vi al posto di
epicuri (v. 42) e ornatasque… statuas al posto di ornatas…
itastatuas (v. 43), entrambe congetture del Munro.
28
• I piaceri naturali e necessari (vv. 20-22).
• I piaceri naturali, non necessari (vv. 29-33): Lucrezio
propone il quadro di un gruppo di amici che si abbandonano alle delizie di un paesaggio che ha i tratti tipici del
locus amoenus (l’acqua e il fresco ombroso delle piante).
L’immagine traduce uno dei massimi valori della filosofia
epicurea, quello dell’amicizia (philia), individuata come il
legame più valido per raggiungere la felicità.
• I piaceri né naturali né necessari (vv. 24-28): statue d’oro
di giovani che reggono lampade per illuminare i simposi
notturni, case piene d’oro e d’argento, alti soffitti dorati
sono esempi di quella ricchezza inseguita dagli uomini,
che li svia dalla vera felicità. L’elenco continua ai vv. 34 e
seguenti.
L’immagine dei candelabri a forma umana è probabilmente ispirata da un passo dell’Odissea, in cui si descrive
il palazzo di Alcinoo, re dei Feaci.
Fanciulli d’oro sopra solidi piedistalli /
si tenevano dritti, reggendo in mano
fiaccole accese, / illuminando le notti ai
banchettanti in palazzo.
Odissea, VII, 100 ss..
La ripresa della struttura sintattica del cum narrativo al v.
41 e al v. 43a, con la variazione del compl. oggetto, sottoli-
… un brano in cui, più che in ogni altro luogo del poema, canta trionfalmente l’ideale dell’atarassia conquistata, della hedonè katastematiké raggiunta e delibata con gioioso abbandono. Il brivido di pessimismo, che erompe dal v. 54 (omnis cum in tenebris praesertim vita laboret) e che serve
ad introdurre il gruppo formulare dei versi finali, in fondo è dettato più che altro dalla necessità di staccare recisamente la cecità e la follia degli uomini comuni dalla felicità degli eletti iniziati al verbo di Epicuro…
Eppure proprio questo proemio ci presenta, insiema con quello del L. IV, l’eccezione di un
assoluto silenzio sul nome e la persona di Epicuro, che invece grandeggia negli altri proemi.
Qui canta solo la gioia che si raggiunge rivivendo profondamente entro di sé gli ammaestramenti del Graius homo; l’assurdo Epicuri che la maggior parte della tradizione manoscritta reca
al v. 42 è forse dovuto alla sorpresa di lettori o copisti poco intelligenti e intimamente persuasi che in ogni proemio ci dovesse essere l’esplicita menzione del Maestro. Il suo nome invece è
assente, ma presente nella manifestazione, mai così nitida come qui, della felicità derivante dai
suoi precetti e della folle miseria delle masse cieche che non hanno avuto la ventura d’iniziarvisi.
E. Paratore, commento a Lucrezio, De rerum natura, pp. 191-92
29
vacuum… solutum: predicativi di pectus. 47. quod si: “ma se”. 48. re vera: “in
realtà”; curaeque sequaces: “e gli affanni che non danno tregua”. 50-51.
audacterque… versantur: “e audacemente si aggirano tra i re e i potenti”;
potentis = potentes; ab auro: “che proviene dall’oro”, compl. di origine. 52. purpureai = purpureae, forma di genitivo
arcaico. 53. quid… potestas?: “perché
dubiti che questo potere sia tutto della
ragione?” ; omni’… rationi’: elisione
della s finale; omni’: predicativo del soggetto. 54. omnis… laboret: “specialmente perché tutta la vita si affatica
nelle tenebre”. 55. veluti: l’avverbio, in
correlazione con il successivo sic,
introduce un paragone. 57-58. nilo…
futura: “cose che non si devono per
nulla temere più di quelle che i bambini temono nel buio e si immaginano
che stiano per accadere”; nilo = nihilo;
pavitant: il verbo ha valore frequentativo e non è attestato prima di Lucrezio.
59-61. hunc… ratioque: “dunque è
necessario che disperdano questo terrore dell’animo e queste tenebre non i
raggi del sole né i lucidi dardi del giorno, ma la razionale conoscenza della
natura”; necessest = necesse est; species
ratioque: endiadi.
his tibi tum rebus timefactae religiones
45 effugiunt animo pavidae; mortisque timores
tum vacuum pectus linquunt curaque solutum.
quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus,
re veraque metus hominum curaeque sequaces
nec metuunt sonitus armorum nec fera tela
50 audacterque inter reges rerumque potentis
versantur neque fulgorem reverentur ab auro
nec clarum vestis splendorem purpureai,
quid dubitas quin omni’ sit haec rationi’ potestas?
omnis cum in tenebris praesertim vita laboret.
55 nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
interdum, nilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
60 non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.
sed tua me virtus tamen et sperata voluptas
suavis amicitiae quemvis efferre laborem
suadet et inducit noctes vigilare serenas
quaerentem dictis quibus et quo carmine demum
clara tuae possim praepandere lumina menti,
res quibus occultas penitus convisere possis.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.
Lucrezio, De rerum natura I, 140-148
30
nea, citando prima le forze di terra (legiones) e poi quelle di
mare (classem), l’incapacità di tutto questo spiegamento di
forze di sconfiggere le paure dell’animo. L’espressione per
loca campi è un probabile riferimento al Campo Marzio, con
allusione alle manovre militari tenute da Cesare alle porte di
Roma prima di partire per la Gallia; esse furono duramente
criticate da Memmio, il destinatario del poema di Lucrezio.
Per descrivere i timori dell’uomo, l’autore ricorre ad una
similitudine con il mondo dell’infanzia (v. 55: veluti pueri):
essa ricorda un passo del Fedone platonico, dove si attribuisce
al fanciullino che è dentro di noi la paura della morte. Mentre
però per Platone, il rimedio a tale paura consiste nella presa
di coscienza dell’immortalità dell’anima, per Lucrezio, al
contrario, lo sgomento causato dalla morte e dalle idee collegate all’oltretomba viene sconfitto solo dalla certezza della
mortalità dell’anima umana.
Il passo si chiude con un gruppo di versi formulari (vv.
59-61), che compaiono identici in I, 146-148, in III, 91-93 e
in VI, 39-41 e, negli ultimi due casi citati, sono preceduti
dalla medesima similitudine dei pueri che si legge nel proemio del libro II. Il riutilizzo di questi versi in parti significative dell’opera, come sono i proemi, fa pensare ad un’idea
chiave che viene programmaticamente ripresa: essa richiama
in modo sistematico il fine dell’opera di offrire uno strumento di indagine razionale della realtà per liberare l’uomo dalle
tenebre in cui è vissuto fino a quel momento.
Le false conoscenze vengono in questi versi personificate e descritte come entità in grado di provare timore (v. 44:
timefactae; v. 45: pavidae) e fuggire dall’animo (v. 45: effugiunt
animo). La personificazione prosegue ai vv. 48 e seguenti,
riferita ai timori (metus) e agli affanni (curae). Contro le false
conoscenze solo la ragione può riportare la vittoria e diradare le tenebre in cui l’uomo è immerso. Il paragone tra l’uomo
che brancola nel buio dell’ignoranza e i bambini che, nel buio
della notte, hanno paure che si rivelano inconsistenti alla luce
del giorno, riprende un’idea che è sottesa all’intero proemio,
come si può notare da alcuni termini chiave (14: o pectora
caeca!; 15: qualibus in tenebris vitae; 54: in tenebris; 59: tenebras).
Il quadro chiude, in modo altrettanto icastico di come era iniziato, un proemio particolarmente ricco di immagini poetiche, attraverso cui passano idee essenziali della filosofia epicurea.
31
Ebbene, Socrate, disse, come a persone
che avessero paura, provati a farci
animo. O piuttosto, non come se avessimo
paura noi, ma forse c’è anche dentro di
noi un bambino che ha di cosiffatti timori. E questo provati a persuaderlo del
contrario: che non deve aver paura della
morte come d’uno spauracchio.
Platone, Fedone 77 d
Ad alcuni molto giovani che stanno ad
occhi spalancati, quando è buio, appaiono
molte figure in movimento, sì che spesso,
spaventati, si nascondono.
Aristotele, De insomniis, 462
Quale utilità o quale profitto cerchiamo
di ottenere quando bramiamo sapere ciò
che a noi è occulto, in che modo e per
quali cause avvengano i movimenti dei
corpi celesti? E chi vive seguendo principi tanto rustici o chi è divenuto tanto
insensibile e avverso allo studio della
natura che rifugga da ciò che è degno di
essere conosciuto e non ne faccia ricerca e
non ne abbia stima alcuna, se non ne trae
qualche piacere o utilità?
Cicerone, De finibus bonorum et malorum III, 37
Il testo
de rerum natura II, 167-183 Tanta stat praedita culpa
Nel brano proposto vengono delineate due diverse interpretazioni della natura: quella antropocentrica e finalistica e, contrapposta ad essa, quella epicurea. Secondo la prima, la natura è stata
creata dall’intervento della divinità per soddisfare i bisogni degli uomini: tale posizione è decisamente rigettata da Lucrezio il quale afferma che, se si osservano i fenomeni celesti e terrestri,
risulta evidente la manchevolezza della natura rispetto ai bisogni dell’uomo. Ancora una volta
invece, come già nel proemio dell’opera, viene riproposta una concezione edonistica che vede nella
voluptas l’unico principio generatore delle cose e garanzia della loro continuità.
Praecepta
167. materiai: genitivo arcaico. 168.
naturam… posse: prop. oggettiva
dipendente da credunt; dum… numine:
“senza l’intervento degli dei”. 169.
tanto… admoderate: “tanto armoniosamente in accordo con i bisogni degli
uomini”. 170. tempora… annorum: “le
stagioni”; mutare… creare: infiniti
dipendenti da possunt. 171-172. et…
cetera: acc. coordinato a fruges, dipendente da creare; mortalis… vitae: “alle
quali la guida della vita convince gli
uomini a volgersi e lei stessa conduce”;
dia voluptas: apposizione del sogg. 173.
res per: anastrofe; blanditur: “li lusinga”, regge la completiva saecla propagent. 174. quorum (=eorum)… causa:
“per loro”, ovvero per i mortali. 175176. omnibu’… videntur: “sotto ogni
aspetto appaiono allontanarsi assai
dalla verità”; omnibu’ = omnibus; magno
opere: loc. avverbiale. 177. quamvis…
ignorem: prop. concessiva; quae sint:
prop. interr. indiretta. 178. hoc: prolettico della successiva prop. oggettiva
nequaquam… mundi; ex… rationibus:
“in base ai fenomeni stessi del cielo”;
ausim: congiuntivo perfetto sincopato
di audeo, con valore potenziale. 180.
divinitus: “per volere di Dio”, avverbio.
181. tanta… culpa: “di tanto grande
difetto essa è dotata”; praedita: concordato con natura, regge l’abl. tanta…
culpa. 182. quae = et ea. 183. nunc…
expediemus: “ora esporremo ciò che
resta da dire sui movimenti”.
Il mondo non è frutto di volontà divina
At quidam contra haec, ignari materiai,
naturam non posse deum sine numine credunt
tanto opere humanis rationibus atmoderate
170 tempora mutare annorum frugesque creare
et iam cetera, mortalis quae suadet adire
ipsaque deducit dux vitae dia voluptas
et res per Veneris blanditur saecla propagent,
ne genus occidat humanum. quorum omnia causa
175 constituisse deos cum fingunt, omnibu’ rebus
magno opere a vera lapsi ratione videntur.
nam quamvis rerum ignorem primordia quae sint,
hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim
confirmare aliisque ex rebus reddere multis,
180 nequaquam nobis divinitus esse creatam
naturam mundi: tanta stat praedita culpa.
quae tibi posterius, Memmi, faciemus aperta.
nunc id quod superest de motibus expediemus.
Infine, per i mari e i monti
e i fiumi rapinosi/
e le frondose dimore degli uccelli
e le pianure verdeggianti,/
a tutti infondendo nei petti
carezzevole amore (blandum… amorem),/
fai sì che ardentemente propaghino
le generazioni (saecla propagent) secondo le stirpi.
Lucrezio, De rerum natura, I, 17-20
46
Sul testo
Il passo si apre con la citazione della dottrina di alcuni
(quidam) i quali sostengono che il mondo rivela un notevole
accordo con i bisogni dell’uomo (169: tanto… admoderate;
174: quorum… causa) e pertanto postulano l’intervento della
divinità nella vita della natura (168: naturam… numine). Tale
visione teleologica, cantata con entusiastici accenti poetici
nell’Inno a Zeus di Cleante (III sec. a.C.), è con ogni probabilità da attribuire agli stoici; su di essi il giudizio di Lucrezio
è lapidario: chi pensa in questo modo si allontana decisamente dalla verità (176: magno… videntur).
A tale interpretazione, Lucrezio oppone la sua visione del
mondo, quella in cui dux vitae è il piacere, per raggiungere il
quale l’uomo organizza la propria vita e in virtù del quale ne
estende la durata oltre la propria morte: il piacere è così operante nell’esistenza umana da assurgere quasi esso stesso al
ruolo di divinità (172: dia voluptas).
L’accenno alla voluptas, i motivi dell’amore e della vita, la
consonanza di blanditur saecla propagent del v. 173 rispetto a
blandum… saecla propagent di I 19 sg., fanno tornare a mente
l’inno a Venere del primo proemio; ma la Venere del v. 173
rientra in una sfera limitata, diversa da quella della Venere
proemiale: significa soltanto l’unione sessuale, cioè uno dei
vari, innumerevoli effetti degli universali motus genitales e
auctifici degli atomi che, secondo la nostra interpretazione, la
Venere proemiale impersona. (Lucrezio, La natura, a cura di
F. Giancotti, p. 453).
Molti sono gli elementi che si possono utilizzare a sostegno della tesi epicurea che la natura non è stata creata per
volontà divina, ma essi si possono tutti sintetizzare nella
constatazione di quanto grande sia la manchevolezza della
natura (181: tanta… culpa), troppo grande per considerarla
frutto di un intervento divino. Il v. 181 è, in genere, utilizzato come una delle principali testimonianze per sostenere la
tesi del pessimismo lucreziano, ma esso può venire fortemente ridimensionato se si assume il contenuto del verso alla
luce della visione antropocentrica, messa in discussione da
Lucrezio: la natura, cioè, rivela sì la sua imperfezione se si
indaga in che misura risponde ai bisogni degli uomini ma,
anche in una natura siffatta, l’uomo può ugualmente raggiungere la felicità.
Con la promessa di riprendere ancora questa riflessione –
che verrà mantenuta in V, 195-234 – il passo si chiude passando a trattare i movimenti degli atomi.
47
E tutto questo universo che intorno alla
terra si avvolge /
a te obbedisce ove che tu conduca e da te
vuole essere dominato; /
tale ministro tu possiedi nelle mani
invincibili, /
la bifida folgore ardente sempre vigorosa /
sotto i cui colpi cade tutta la natura; /
e con essa tu indirizzi la ragione universale che in ogni cosa /
si aggira, mescolandosi al grande e ai
piccoli astri lucenti.
Cleante, Inno a Zeus, 7-13
Il testo
de rerum natura I, 80-101
Peperit scelerosa atque impia facta
Il sacrificio di Ifianassa è il caso emblematico dell’empietà della religione che spinge un padre a
violare i vincoli di natura più sacri per ottenere il favore degli dei a vantaggio della comunità.
L’esercito greco è, infatti, bloccato da una violenta tempesta in un porto dell’Aulide nella Beozia
orientale e non riece a salpare per Troia. Il motivo è l’ira di Artemide in quanto il re Agamennone
aveva ucciso una cerva a lei sacra. Il ministro della religio, Calcante rivela che la dea sarebbe stata
placata solo con il sacrificio della figlia di Agamennone, Ifianassa. Per l’Autore questo rito religioso di espiazione non si può giustificare, anzi si può ritenere un vero e proprio delitto perché gli
dei non si interessano delle vicende umane, vivono felici negli intermundia.
Praecepta
80. Illud in his rebus: “Questo a tale
proposito”, formula di transizione
usata da Lucrezio, di solito, per prevenire un’obiezione. Il riferimento è lo
studio della natura fatto da Epicuro;
vereor ne: prop. completiva retta da un
verbum timendi introdotta da ne in
quanto si teme sia avvenuta una cosa
indesiderata. 81. impia… elementa:
“che ti inizi ai principi di una dottrina
empia”. 82. indugredi = ingredi; quod
contra: “Che anzi”, quod è un acc. di
relazione; illa religio: “quella tanto
decantata religione”. 83. scelerosa =
scelesta. 84. quo pacto: “così come”;
Triviai = Triviae, Diana è dea dei crocicchi oltre che della caccia. Questo
appellativo è stato spiegato come allusivo ai suoi tre aspetti (celeste, terrestre e sotterraneo) oppure al fatto che
nelle città greche la sua statua fosse
posta nei crocicchi. 85. Iphianassai :
gen. del nome omerico (Il. 9, 145) di
Ifigenia. 85. prima virorum: “il fior
fiore degli eroi”. 87-88. cui… profusast: “E appena la benda, avvolta attorno
ai suoi virginei capelli acconciati, scese
da una parte e dall’altra delle guance in
due liste di uguale altezza”; simul =
simul ac; infula: bende poste attorno al
capo delle vittime da cui pendevano le
vittae. 90. hunc propter: “accanto a lui
(Agamennone)”, la preposizione posposta si ha nel significato locale non causale. 91. aspectu suo: “vedendola”, la
presenza di suo si giustifica perché il
sogg. di sensit è Ifigenia; civis = cives.
92. terram… petebat: “s’abbatteva a
terra sulle ginocchia”.
94. quod… regem: “l’aver per prima
Empietà della religione
80
85
90
Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede
ductores Danaum delecti, prima virorum.
cui simul infula virgineos circumdata comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
Antisfrofe IV
E il maggiore dei re così parlo: “ Mala sorte è la mia se
obbedienza rifiuto, mala sorte se la figlia sacrifico, splendore
della mia casa, e qui, presso l’altare, nei fiotti di sangue della
vergine sgozzata, contamino le mie mani paterne. Quale delle
due sorti è peggiore? Come posso disertare le navi e tradire l’alleanza? E dunque plachi il sacrificio i venti e sgorghi il sangue
della vergine! Questo, con ira e furore, mi è forza desiderare. E
così sia”.
Strofe V
E immerse il collo nel collare della necessità. E spirando
dal mutato cuore sacrilegio, empietà, profanazione, ecco, fu
pronto a tutto osare. Poiché ai mortali incoraggia con i suoi
turpi consigli miserabile insania, fontana di calamità. Così sofferse il padre di farsi sacrificatore della figlia, aiuto alla guerra punitrice del ratto di una femmina, lustrazione alle navi per
il suo salpare.
54
Sul testo
Lucrezio, dopo aver presentato la religio come un nemico
dell’umanità, in questo passo vuol rassicurare Memmio e i
lettori che la religione è certamente empia ma non così la sua
dottrina. Tale convincimento vuol trasmetterlo fin dall’inizio
quando il medesimo concetto di empietà (v. 82) è ripetuto
invertito (vv. 83-84). Una patina di sublimità stilistica pervade tutto il passo ed è determinata nei i vv. 80-86 dall’uso di
arcaismi (indugredi, scelerosa), dal risalto dato al nome
Iphianassa che occupa tutto il primo emistichio, secondo una
tecnica arcaica, dalla ricchezza di figure retoriche come impia
rationis che è una ipallage. Inoltre il verso culminante della
scena (v. 86) è composto da una triplice allitterazione di ductores Danaum delecti che nel contempo svolge anche la funzione di perifrasi per indicare i condottieri greci ed è in forte
contrasto con prima virorum (grecismo di stampo omerico)
ed entrambi suonano quasi ironici con turparunt sanguine
foede collocato in posizione finale di verso per sottolineare la
gravità della colpa. Nei vv. 87-92 l’Autore ricerca un pathos
molto forte attraverso una serie di subordinate in polisindeto che lasciano il discorso in sospeso fino all’ultimo verso (v.
92) che culmina con una ricercata allitterazione e due cesure
che inquadrano con maggior efficacia muta metu (nesso paronomastico) e terram staccato da petebat, che rimarcano la
presa di coscienza di Ifianassa, la sua disperazione e il suo
terrore.
Antisfrofe V
Non valsero preghiere della figlia, né che il padre chiamasse
ella per nome, né la verginale età, a piegare i duci bramosi di guerra. E ai servi del sacrificio, dopo i voti agli dei, dette suoi ordini il
padre. Prona ella era, col volto a terra, caduta sulle sue vesti. Lei
prendessero come capra selvatica; lei, con risoluto cuore, sollevassero sopra l’altare; e la sua bocca, la bella prora del suo bel volto, perché non gridasse maledizione alla casa, volle ancorata e chiusa
Strofe VI
con la violenza di muti bavagli. Le scivolarono ai piedi le vesti
del colore del croco; e dagli occhi pietosi con dardi di pietà feriva
ora l’uno ora l’altro i suoi sacrificatori. E pareva un’immagine
dipinta, e voleva parlare, ella che tante volte, con quella sua voce
pura di intatta vergine, amorosamente, in onore del padre amato,
intonato aveva il peana del buono augurio alla terza libagione.
Eschilo, Agamennone
55
Anzitutto considera la divinità come un
essere vivente incorruttibile e beato, e non
attribuibile nulla contrario all’immortalità, o discorde dalla beatitudine… Perciò
gli dei certo esistono: evidente infatti n’è la
conoscenza: ma non sono quali il volgo li
crede; perché non li mantiene conformi alla
nozione che ne ha. Non è perciò irreligioso
chi gli dei del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei. Perché non
sono prenozioni ma presunzioni fallaci, le
opinioni del volgo sugli dei. Pertanto dagli
dei ritraggono i maggiori danni gli stolti e
malvagi, ed i maggiori beni i buoni e
saggi…
Epicuro, Lettera a Meneceo 123-124
chiamato il re con il nome di padre”,
Ifigenia è la primogenita; quod introduce una prop. dichiarativa retta da prodesse; patrio = patris. 95. sublata…
manibus: “sollevata da braccia di uomini”. 96-97. non… Hymenaeo: “non
perché, compiuto il sacro rito nuziale,
fosse accompagnata dallo splendido
corteo nuziale”, claro: agg. che è stato
inteso da alcuni collegato alla sonorità
dei canti nuziali; da altri allo splendore
delle fiaccole nuziali del corteo, per
Giancotti è preferibile unire questi
significati e aggiungere per di più quello di “nobile”. comitari ha valore passivo; Hymenaeo è il dio greco degli sponsali che divenne personificazione del
canto nuziale intonato tra i partecipanti al corteo che accompagnava la sposa
a casa dello sposo. 98. casta inceste:
costrutto variamente interpretato.
Alcuni lo traducono come “pura impuramente” per indicare come Ifianassa
rimanesse vergine a prezzo di un sacrificio sacrilego; Castiglioni suggerisce,
invece, il riscontro con nessi greci e
quindi “malauguratamente vergine,
sposa non sposa”; chi come il Bailey
unisce, invece, inceste con concideret :
“empiamente cadesse vittima”, comunque qualsiasi scelta è difficile perché
diminuisce l’espressività del costrutto.
99. mactatu maesta parentis: “vittima
dolorosa immolata dal padre”. ut: valore finale; felix faustusque: riecheggia la
formula augurale del rito: quod bonum
faustum felix fortunatumque sit.
quod patrio princeps donarat nomine regem.
95 nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
100 exitus ut classi felix faustusque daretur.
tantum religio potuit suadere malorum.
IF. : Se avessi, padre, la voce di Orfeo / che incantava le pietre portandole appresso / e con le parole stregassi chi voglio / lo
farei; / ma le parole sagge ch’io dico / non possono altro che
suscitare le lacrime. / Io mi piego ai ginocchi tuoi, supplice, / il
mio corpo che un giorno mia madre / ti partorì; non m’uccidere prima del tempo; / dolce è vedere la luce, non mi costringere
/ a vedere le cose sotterra. / Per prima io t’ho chiamato mio
padre / e tu figlia, per prima seduta / sui tuoi ginocchi, ho dato
e ricevuto / soavi tenerezze; e tu dicevi: / Ti vedrò, o figlia, felice / nella casa di un uomo degno di noi / vivere un giorno, e
fiorire ?”. / E a mia volta, sospesa al tuo collo / che ora tocco
con la mano: “Ed io / t’accoglierò nella mia casa, vecchio / con
dolci abbracci e ti ricambierò / la fatica d’avermi cresciuta”. /
No, in nome di Pelope e d’Atreo / e di mia madre che soffrì
dolori / già un tempo per me, e ora di nuovo. / Che c’è tra me
e gli amori di Alessandro / e d’Elena? E come queste cose /
m’hanno condotto alla rovina, padre? / Guardami dunque, e
dammi un bacio / perché morendo abbia di te un ricordo / se
non vuoi dare retta a ciò che dico. / Fratello, per quanto piccino, soccorri i tuoi cari / e piangi insieme a me, supplica il padre
/ che tua sorella non muoia. Anche ai bimbi / giunge un sentore dei mali. / Guarda; tacendo ti prega, o padre anche lui, /
abbi pietà di me, risparmiami. / In due t’imploriamo, io già
grande / lui piccolo; ti siamo entrambi cari. / Tutto il discorso
dirò in una sola parola; / la cosa più dolce ai mortali è vedere
la luce / la più triste il mondo sotterra. / è folle chi desidera
morire; / è meglio vivere male che avere una fine gloriosa.
Euripide, Ifigenia in Aulide, quarto episodio
56
Il rito sacrificale (vv. 93-101) viene volutamente descritto con l’uso di formule che richiamano quello matrimoniale
(sublata vorum manibus… ad aras deductast, claro comitari
Hymenaeo) e culmina nella formula augurale e allitterante
felix faustusque che diventa esemplificazione della condanna di
Lucrezio non solo del fatto mitologico descritto ma soprattutto della religione romana in quanto nesso formulare usato
dai magistrati e dai sacerdoti romani per chiedere agli dei di
essere propizi alle loro imprese. L’ambiguità lessicale viene
sciolta nel contrasto introdotto da non ut… sed che serve a
sottolinea la gravità del delitto e l’indignazione dell’Autore.
Questi versi sono, anche, contrappuntati dalla commiserazione del poeta per la sorte di Ifianassa : miserae (che continua l’allitterazione della –m già presente nel verso precedente), tremibunda, casta inceste, (figura etimologica con antitesi resa più forte dall’accostamento diretto dei due termini),
hostia maesta per un sacrificio crudele imposto da una religione empia.
PROPOSTA DI PERCORSO
IL SACRIFICIO DI IFIGENIA
• Euripide, Ifigenia in Aulide
• Ennio, Ifigenia
• Cicerone, Orator 22, 74
• Plinio, Naturalis historia, 35, 36
• Livio, Ab U. c. VIII, 7, 8 –22; 8,1
• Racine, Iphigénie en Aulide
So che cosa mi si potrebbe ribattere a questo punto: “è così: Dio non concede benefici, ma tranquillo e
indifferente a noi, volta le spalle al mondo e si occupa di altro, oppure non fa nulla (il che ad Epicuro
sembra la massima felicità), e i benefici non lo toccano più delle offese”. Chi dice ciò non ode le voci di
coloro che pregano e che dovunque, levate le mani al cielo, fanno dei voti in publico e in privato, e gli
uomini non sarebbero stati tutti concordi in questa follia di rivolgersi a divinità sorde e a dei impotenti,
se non avessimo sperimentato i loro benefici che, ora offerti spontaneamente, ora concessi in seguito alle
preghiere sono grandi, opportuni e vengono a stornare da noi gravi minacce. Chi è così disgraziato, così
negletto, chi è stato generato con un destino così duro e per una sofferenza tale da non aver sperimentato l’immensa generosità degli dei? Osserva intorno a te persino coloro che piangono la loro sorte e si
lamentano: scoprirai che neppure loro sono stati esclusi del tutto dai benefici celesti e che non c’è nessuno
al quale non sia arrivato qualcosa da quella fonte inesauribile. O forse è poco ciò che viene equamente
distribuito a tutti coloro che nascono? Per tralasciare quei doni che in seguito vengono dispensati con un
criterio che non è di disuguaglianza, forse la natura ci ha fatto un dono troppo piccolo quando ci ha donato se stessa?
Seneca, De beneficiis IV 4, 1-3
57
Il testo
de rerum natura III, 830-869
Nil mors est ad nos neque pertinet hilum
La morte è un’esperienza che non riguarda l’uomo, perché è assenza di ogni sensazione e tutto ciò
che non può colpire i sensi non può produrre sofferenza. A sostegno di questa affermazione,
Lucrezio porta due esempi, riferiti rispettivamente al passato e al futuro: non è possibile provare
dolore per gli avvenimenti accaduti durante le guerre puniche, perché in quel periodo non esistevamo; ma neppure sarà possibile provare dolore in futuro, dopo la morte, perché anima e corpo si
separeranno ed è solo la loro intima unione che assicura la sensazione.
L’argomentazione prosegue considerando altre due supposizioni, che, anche se accettate, non
mutano l’assunto iniziale: si può ipotizzare che dopo la morte l’animo e l’anima conservino singolarmente la sensazione, ma questo non cambia la condizione dell’uomo, che è formato dalla loro
unione; si può, infine, supporre che la materia di cui siamo composti si ripresenti in futuro nel
medesimo assetto attuale – anzi, è assai probabile che ciò sia accaduto nel tempo illimitato già trascorso – , ma anche in questo caso l’interruzione del ricordo impedirà di provare dolore.
Praecepta
830. nil = nihil; neque… hilum: “e non ci
riguarda affatto”. 832. velut: introduce
una similitudine tra passato e futuro, il
cui secondo termine di paragone è
segnalato dalla congiunzione sic del v.
838; nil (= nihil)… aegri: “nessuna sensazione dolorosa”. 833. ad confligendum: prop. finale implicita, espressa da
ad e l’acc. del gerundio; venientibus…
Poenis: abl. ass. con valore temporale.
834. cum: regge i successivi contremuere
e fuere, forme di perfetto arcaico per contremuerunt e fuerunt, ed esprime una
prop. temporale; belli… tumultu: “scosse dal trepido tumulto della guerra”.
835. horrida: “orrendamente”; l’aggettivo, concordato con omnia del v. 834, è
usato in funzione predicativa; sub…
oris: “sotto le volte del cielo”. 836-7.
utrorum… esset: “sotto il regno di
quale dei due popoli dovessero cadere
tutti gli uomini”; prop. interr. ind. contenente una perifrastica passiva, di cui
omnibus humanis rappresenta il dativo
d’agente. 838-9. cum… fuerit: prop.
temporale, in cui l’uso del futuro II
esprime l’anteriorità della separazione
tra corpo e anima rispetto al non esistere più; animai = animae, gen. arcaico;
quibus e = e quibus, anastrofe. 840-1.
haud… quicquam: “nulla”, soggetto di
poterit, che regge i due infiniti accidere e
movere. 843. et… sentit: “e se conserva
la sensazione”; il sogg. è animi natura
animaeque potestas del v. seg.; nostro de
corpore: va riferito al verbo della temporale. 844. distractast = distracta est,
L’uomo non deve temere la morte
830 Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum,
quandoquidem natura animi mortalis habetur.
et velut anteacto nil tempore sensimus aegri,
ad confligendum venientibus undique Poenis,
omnia cum belli trepido concussa tumultu
835 horrida contremuere sub altis aetheris oris,
in dubioque fuere utrorum ad regna cadendum
omnibus humanis esset terraque marique,
sic, ubi non erimus, cum corporis atque animai
discidium fuerit quibus e sumus uniter apti,
840 scilicet haud nobis quicquam, qui non erimus tum,
accidere omnino poterit sensumque movere,
non si terra mari miscebitur et mare caelo.
La legge del due… presiede al funzionamento di tutto il poema, sistematicamente costruito sulla ripetizione sia fonica che verbale e strutturale…
Ma è soprattutto nelle unità semantiche e ritmico-stilistiche maggiori
(quali l’emistichio e il verso) che il raddoppio raggiunge rapporti per così
dire geometrici… Rilevante per concinnitas stilistica e corrispondenza
concettuale è III, 830 nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum:
una ripetizione assente nel modello, nonostante la centralità del principio
(cfr. Epicuro, Ep. ad Men. 124).
I. Dionigi, Lucrezio. Le parole e le cose, pp. 75 ss., passim
72
Nulla per noi è la morte: giacché ciò che si è dissolto non ha sensibilità e ciò che
non ha sensibilità non è nulla per noi.
Epicuro, Mass. Cap. II
Sul testo
I versi svolgono un tema particolarmente importante
nella prospettiva di Lucrezio: la necessità di liberare l’uomo dalla paura della morte. Questo assunto era già stato
annunciato nei versi 35-40 del III libro e la successiva
spiegazione della natura dell’animo e dell’anima ha appunto come scopo quello di arrivare a parlare della paura che
più sconvolge l’uomo. Lucrezio tratta questo tema in
pieno accordo con il pensiero di Epicuro, come risulta
immediatamente alla lettura di passi quali Mass. Cap. 2 o
Ep. ad Men. 124-125, in cui l’espressione “nulla per noi è
la morte” corrisponde esattamente al verso lucreziano nil
igitur mors est ad nos, variato e precisato da neque pertinet
hilum.
L’importanza del tema è sottolineata anche da un dato
strutturale: i versi che lo contengono sono posti al centro
del poema, ribadendo così con la loro collocazione la centralità della riflessione in essi affrontata.
Un altro aspetto, infine, che segnala la rilevanza del
passo, è il tono particolarmente elevato di questi versi,
ottenuto mediante una cura attenta del termini. Si possono notare, infatti, forme arcaiche (830, 845, 852, 866: nil;
835: contremuere; 836: fuere; 838: animai; 849: data fuerint;
855: materiai; 860: vitai); esempi di aferesi (844: distractast;
860: iectast; 862: futurumst); parole inconsuete (830, 867:
hilum; 839, 846: uniter apti; 845: comptu; 851: repetentia);
versi fortemente espressivi come 835 – ispirato probabilmente dal poeta epico Ennio –, in cui il ricorrere della -r
conferisce alle parole un rilevante valore onomatopeico o
come 842, in cui le parole allitteranti sottolineano l’espressione iperbolica con la quale si afferma l’impossibilità
di avvertire qualcosa con i sensi dopo la morte, o, infine,
come 869 che, riecheggiando un’espressione di Amphis,
poeta greco comico del IV secolo, evidenzia efficacemente
il contrasto tra la vita e la morte attraverso la disposizione chiastica dei termini.
A partire dal verso 847, si può trovare una chiara testi73
Africa terribili tremit horrida terra
tumultu
“L’orrida terra africana tremò per il
terribile tumulto”
Ennio, Ann. 310 V 2
… e a tal punto mutevoli furono le sorti del
conflitto (sc. la guerra tra Romani e
Cartaginesi) e dubbio l’esito, che i vincitori furono più dei vinti vicini al rischio
della rovina.
Livio, Ab urbe condita XXI, 1, 2
Tutto il genere umano in questo momento è
in trepidazione se dovrà vedere voi come
padroni del mondo oppure i Cartaginesi.
Livio, Ab urbe condita XXIX, 17, 6
Consideriamo che anche in questo senso
ci sono buone speranze che il morire sia
un bene. Infatti la morte può essere solamente una di queste due cose: o chi è
morto non è più nulla e non ha percezione di nulla, oppure, come si dice, essa
comporta una specie di mutamento e di
trasmigrazione dell’anima da questo
luogo a un altro.
Se essa non comporta percezione alcuna,
ma è simile a uno di quei sonni durante
i quali chi dorme non vede più niente,
neppure in sogno, la morte sarebbe davvero un enorme vantaggio… Ma se la
morte è un andare via di qui per arrivare in un altro luogo e se è vero che, come
si dice, le anime di tutti i morti si trovano in quel luogo, quale bene, o giudici,
sarebbe più grande di questo?
Platone, Apol. di Socrate 40, passim
Nulla c’è di temibile nel vivere per chi si
sia veracemente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più. E così anche
aferesi. 845. nil… nos: “per nulla tuttavia ci riguarda”; nil = nihil. 847. si…
aetas: “se il tempo abbia raccolto la
nostra materia”; inizia qui un per. ip. di
II tipo, la cui protasi è costituita da tre
proposizioni (si collegerit, redegerit, fuerint) sostenute tutte dall’apodosi pertineat. 848. ut… est: “come ora è sistemata”, prop. modale. 849. data fuerint:
arcaismo per data sint. 851. interrupta…
nostri: “una volta che sia stata interrotta la nostra facoltà di ricordare”. 852-3.
et… fuimus: “e ora nulla della nostra
esistenza precedente ci tocca”; nil =
nihil; ante… fuimus: prop. relativa che
specifica nobis; de illis: “per quello che
fummo”, il dimostrativo sottolinea la
lontananza delle vite passate rispetto
all’attuale. 854. cum respicias: “se guardi”; il cum narrativo, con valore ipot.,
regge l’acc. omne spatium e l’interr. indiretta quam sint. 855. materiai = materiae.
856. multimodis: “vari”; avverbio in funzione attributiva rispetto a motus; hoc:
prolettico della successiva prop. oggettiva semina… fuisse; possis: potenziale
del presente. 857-8. semina… haec
eadem: soggetto dell’infinitiva; quibus e
= e quibus. 859. nec… mente: “né tuttavia possiamo richiamare alla mente ciò”.
859. inter… iectast = interiecta est, con
tmesi ed aferesi; vitai = vitae. 861. deerrarunt (= deerraverunt)… omnes: “tutti i
moti vitali errarono di qua e di là, lontano dai sensi”. 862-3. debet… esse:
“deve esistere”; misere… futurumst (=
futurum est): “se accadrà qualcosa di infelice e doloroso”; cui: si appoggia ad ipse.
864-5. esseque… conciliari: “ed impedire che esista colui al quale possano toccare i mali”; probet è forma contratta di
prohibet. 866. scire licet: “è chiaro che”;
formula usata da Lucrezio per introdurre la conclusione di un ragionamento; nil = nihil. 867-8. posse: regge miserum fieri; neque… natus: “e non c’è alcuna differenza tra essere nati una volta e
non esserlo mai. 869. mortalem… ademit: “quando la morte immortale ha
tolto la vita mortale”.
845
850
855
860
865
et si iam nostro sentit de corpore postquam
distractast animi natura animaeque potestas,
nil tamen est ad nos qui comptu coniugioque
corporis atque animae consistimus uniter apti.
nec, si materiem nostram collegerit aetas
post obitum rursumque redegerit ut sita nunc est
atque iterum nobis fuerint data lumina vitae,
pertineat quicquam tamen ad nos id quoque factum,
interrupta semel cum sit repetentia nostri.
et nunc nil ad nos de nobis attinet, ante
qui fuimus, <nil> iam de illis nos adficit angor.
nam cum respicias immensi temporis omne
praeteritum spatium, tum motus materiai
multimodis quam sint, facile hoc accredere possis,
semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta
haec eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse.
nec memori tamen id quimus reprehendere mente;
inter enim iectast vitai pausa vageque
deerrarunt passim motus ab sensibus omnes.
debet enim, misere si forte aegreque futurumst;
ipse quoque esse in eo tum tempore, cui male possit
accidere. id quoniam mors eximit, esseque probet
illum cui possint incommoda conciliari,
scire licet nobis nil esse in morte timendum
nec miserum fieri qui non est posse, neque hilum
differre an nullo fuerit iam tempore natus,
mortalem vitam mors cum immortalis ademit.
mortalem... ademit:
L’idea dell’eternità della morte si ritrova in un frammento di Amphis, poeta greco del IV sec. d. C.:
La morte è immortale, una volta che uno sia morto.
Amphis, apud Athen. 336c
74
monianza della teoria palingenetica di Lucrezio, secondo
la quale gli atomi, nei loro infiniti movimenti, possono
trovarsi a formare le medesime aggregazioni della materia, dando così origine alla rinascita di alcuni corpi. La
teoria è molto vicina, nel suo significato complessivo, a
quella elaborata dallo stoicismo, come si può vedere per
esempio da un passo delle Epistole di Seneca (36, 9); quello che muta, però, radicalmente è la spiegazione offerta dai
due autori in merito a tale palingenesi: mentre, infatti, per
Lucrezio il ricostituirsi dei medesimi aggregati di atomi è
il risultato del tutto casuale dei moti della materia, per
Seneca, invece, la rinascita è frutto di un atto consapevole
di quella Ragione provvidenziale che regge il mondo.
Il concetto è espresso, nei versi di Lucrezio, con due
periodi di ampia struttura sintattica:
vv. 847-851
pertineat
stolto è chi afferma di temere la morte non
perché gli arrecherà dolore sopravvenendo,
ma perché arreca dolore il fatto di sapere
che verrà: ciò che non fa soffrire quando
sopravviene, è vano che ci addolori nell’attesa. Il più terribile dei mali dunque, la
morte, non è niente per noi, dal momento
che, quando noi ci siamo, la morte non c’è,
e qundo essa sopravviene noi non siamo
più.Essa non ha alcun significato né per i
viventi né per i morti, perché per gli uni
non è niente, e, quanto agli altri, essi non
sono più.
Epicuro, Ep. ad Men. 124-125
id quoque factum (esse)
cum interrupta sit
si collegerit
-que redegerit
ut sita nunc est
atque fuerint data
vv. 854-858
hoc adcredere possis
cum respicias
semina fuisse
multimodis quam sint
ut nunc sunt
quibus e nunc nos sumus
I due periodi sono tra loro divisi da un distico particolarmente curato dal punto di vista
retorico; il v. 852 è infatti caratterizzato pressoché per intero da allitterazioni: et nunc nil ad
nos de nobis attinet ante, rilevate anche dal poliptoto La morte non porta alcun danno: perché
nos/nobis e così pure il v. 853 presenta il nesso allitterante una cosa arrechi danno, occorre la presenza di un dannegiato. Se poi hai tanta
adficit angor, che sottolinea il pregnante termine angor, brama di una vita più lunga, pensa che di
indicante la sensazione di soffocamento che consegue al tutti gli esseri che scompaiono dalla vista e
dolore.
ritornano in seno alla natura, donde erano
usciti e donde presto emergeranno ancora,
nessuno si annienta. Essi cessano di esistere, ma non periscono, e la morte, che paventiamo e cerchiamo di allontanare, interrompe la nostra esistenza, non la annulla.Verrà di nuovo il giorno che ci riporterà
alla luce, giorno che molti rifiuterebbero, se
non tornassero alla vita dopo aver perso
ogni ricordo del passato.
Seneca, Ep. ad Luc. 36, 9-10
75
L. Perelli Il timore della morte
Lo scopo principale del poema lucreziano è la liberazione degli uomini dal timore degli dei
e della morte: le due paure sono strettamente collegate, perché il timore della morte è spesso
congiunto con la credenza nelle presunte pene della vita ultraterrena. Tutta la trattazione
della scienza della natura è concepita con questa funzione, di liberare l’umanità dalle due
paure che l’angosciano e che sono l’origine di tutti i suoi mali. Epicuro, dimostrando che nell’universo tutti i fenomeni sono opera di leggi meccaniche, ha escluso la possibilità di un
intervento divino, e dimostrando che l’anima è fatta di atomi corporei e segue la stessa sorte
ha escluso la possibilità della sopravvivenza dell’anima. Gli inni più entusiastici e trionfali che
il poeta rivolge a Epicuro sono quelli dove lo celebra come il vincitore dei mostri della religione (I, 62-72), e come colui che ha dimostrato l’inesistenza del regno dell’Acheronte (III, 130).
Nell’introduzione al primo libro, che è l’introduzione generale a tutto il poema, Lucrezio
osserva quanto sia difficile liberare l’umanità dallo stato di oppressione e di angoscia in cui è
stata ridotta dalle credenze religiose e dalle paure superstiziose inculcate dai vati. Gli uomini potrebbero resistere a tali paure e minacce se sapessero con certezza che l’anima è mortale, e che quindi non vi è alcuna pena ultraterrena da temere; ora invece essi non conoscono
quale sia la natura dell’anima, e quale il suo destino dopo la morte. Occorre perciò per dissipare la paura dell’aldilà dare una spiegazione naturale e razionale di tutto l’universo, e in particolare della natura dell’anima, spiegando come si formino quei simulacri dei morti che ci
atterriscono nella veglia e in sonno, e disperdendo quella tenebra di ignoranza e di paura che
avvolge gli animi al pensiero della morte (I, 102-135). All’inizio del terzo libro, accingendosi
a dimostrare la mortalità dell’anima, Lucrezio afferma che in tal modo intende cacciare il
timore dell’Acheronte, che turba dalle radici tutta la vita umana, tutto tingendo del nero colore della morte e non lasciando che alcun piacere rimanga puro. Dal timore della morte nascono tutte le passioni, i vizi, i delitti che travagliano l’umanità …
Non si può dire che Lucrezio abbia tradito il pensiero di Epicuro; soltanto egli ha accentuato un aspetto particolare della dottrina del maestro, facendo del timore della morte e degli
dei l’unica fonte di turbamento e di angoscia, e mettendo in ombra altre cause su di cui
Epicuro si sofferma, come ad esempio il non conoscere il giusto limite dei piaceri e dei dolori, il non possedere un retto criterio per giudicare della validità delle sensazioni, il non credere nella libertà del volere umano e il sentirsi soggetti alla sorte o alla necessità.
È probabile che non soltanto Lucrezio, ma anche altri discepoli di Epicuro prima di lui
avessero dato più ampio sviluppo alla polemica contro il terrore dell’oltretomba, o per esigenze polemiche contro i filosofi avversari, o per una reviviscenza dello spirito religioso.
Cicerone nelle Tusculanae (I, 5, 10) deride la paura dei mostri e dei giudici infernali... a cui nessuno più crede, e aggiunge in tono di scherno: “Eppure vi sono interi libri di filosofi che disputano proprio contro queste credenze”. Qui Cicerone allude certamente agli epicurei.
L’operetta di Plutarco Non è possibile condurre una vita felice seguendo Epicuro dedica l’ultima
parte della trattazione (circa un terzo dell’intera opera) a combattere l’opinione che la dottrina epicurea possa veramente giovare a liberare l’uomo dalla paura degli dei e della morte, o
che comunque gli uomini possano essere più felici non credendo nell’intervento divino delle
cose umane. Plutarco dice che le pene dell’Ade spaventano soltanto pochi ingenui, mentre ben
più paurosa è la prospettiva che Epicuro offre di una morte priva di ogni sensibilità e di ogni
forma di sopravvivenza.
(L. Perelli, Lucrezio poeta dell’angoscia, pp. 75-79 passim)
85
Il testo
de rerum natura III, 931-953
Cur non ut plenus vitae conviva recedis?
La morte è una legge di natura, cui è vano ribellarsi e che è invece equo accettare; l’importante,
d’altronde, non è la lunghezza del tempo vissuto – magari tra dolori e tedio – ma la qualità della
vita vissuta: chi ha vissuto con gioia e serenità può – afferma Lucrezio con un’immagine che torna
molte altre volte nella filosofia e nella poesia antica – allontanarsi appagato dal banchetto della
vita
Doctrina
Infine: se d’improvviso Natura emettesse la
voce, / e rimproverasse, lei stessa, uno di
noi, in questo modo: / “Che grandi ragioni tu hai, o mortale, di lasciarti così andare / a lamenti penosi? perché piangi e la
menti la morte? / Se ti è stata gradita la
vita trascorsa prima di adesso, / e se tutte
le sue bellezze non scivolarono via, come /
raccolte in un vaso forato, e sparirono
senza darti gioia, / perché non ti allontani come un convitato sazio di vita, / e
accetti nell’animo, o stolto, una quiete
senza più ansie? / Ma se ciò che hai raccolto è svanito, sprecato, / e la vita ti pesa,
perché cerchi di aggiungere ancora / ciò
che ancora verrà meno, sparirà senza dar
gioia, tutto / non metti fine, piuttosto, a
vita e tormento? / Cose ch’io possa architettare e inventare per te, / che ti piacciano, non ce n’è più: sono sempre le solite,
tutte. / se il tuo corpo già non marcisce per
gli anni, e le membra / non sono indebolite, spossate, tuttavia tutto resta lo stesso, /
anche se ti incaponissi a vincere vivendo
tutte le età, : e anche, perfino, se tu non
dovessi aver più destino di morte’. Cosa
potremmo rispondere, se non che intenta un
giusto processo, / Natura, ed espone con le
sue parole una tesi fondat? / e se uno già
vecchio si lamentasse, / e la propria fine
compiangesse, misero, più del dovuto, : non
giustamente ancor più lo dovrebbe rioprendere, e sgridarlo con aspra voce?
(Trad. di G. Milanese)
Talvolta potrai anche consolare te stesso
così: “Il buon Anco chiuse anche lui gli
Importante non è vivere molto, ma vivere bene
935
940
945
950
Denique si vocem rerum natura repente
mittat et hoc alicui nostrum sic increpet ipsa
‘quid tibi tanto operest, mortalis, quod nimis aegris
luctibus indulges? quid mortem congemis ac fles?
nam si grata fuit tibi vita anteacta priorque
et non omia pertusum congesta quasi in vas
commoda perfluxere atque ingrata interiere,
cur non ut plenus vitae conviva recedis
aequo animoque capis securam, stulte, quietem?
sin ea quae fructus cumque es peeriere profusa
vitaque in offensast, cur amplius addere quaeris,
rursum quod pereat male et ingratum occidat omne,
non potius vitae finem facis atque laboris?
nam tibi praeterea quod machiner inveniamque,
quod placeat, nil est: eadem sunt omnia semper.
si tibi non annis corpus iam marcet et artus
confecti languent, adem tamen omnia restant,
omnia si perges vivendo vincere saecla,
atque etiam potius, si numquam sis moriturus’;
quid respondemus, nisi iustam intendere litem
naturam et veram verbis exponere causam?
grandior hic vero si iam seniorque queratur
atque obitum lamentetur miser amplio aequo,
non merito inclamet magis et voce increpet acri?
Dice Epicuro: “È cosa molesta cominciare sempre a vivere”; infatti è
una vita sempre imperfetta, quella. Nessuno può essere pronto alla
morte quando entra nella vita: noi dovremo sempre vivere come se avessimo abbastanza vissuto: e nessuno può pensare in tale modo se si mette
a ordire ogni giorno la trama della propria esistenza. Ci sono di quelli che cominciano a vivere quando è tempo di morire; altri che cessano
di vivere prima di cominciare.
Seneca, Ep. ad Lucilium, XXIII
86
Il testo
de rerum natura IV, 1058-1072
Fugitare decet simulacra et pabula amoris
È doloroso per l’uomo abbandonarsi ad un sentimento d’amore esclusivo, che si nutre dell’immagine dell’amato, del suono del suo nome, se egli è lontano. È preferibile rivolgersi ad altro oggetto e vincere una passione coinvolgente e totalizzante ricorrerendo ad altri amori, alla vulgivaga
Venus. Così il tormento e la sofferenza delle ferite d’amore scompariranno perché curate sul nascere.
Praecepta
1058. nobis: “per noi”, dat. etico.
autemst = autem (poi) est. 1060. et = et
sic; frigida cura: “ gelida pena”, per
Canali tale iunctura , originale ed unica,
ha un valore di spiegazione antifrastica. 1063-1064. pabula… sibi: “allontanare da sé ogni esca d’amore”. 1065.
iacere… quaeque: “gettare l’umore raccolto in un qualunque corpo”, quaeque
= quaecumque. 1066. semel: “per sempre”. 1067. servare sibi: “tenere per
noi”. 1068. alendo: “a nutrirla”. 10681069. vivescit et inveterascit… gliscit… atque… gravescit: verbi incoativi che sottolineano, in un climax ascendente, il crescere della passione d’amore. 1069. furor atque aerumna: “l’ardore e il tormento”. 1071. vulgivagaque… cures: “e non le curi ancora fresche passando dall’uno all’altro amore
vagabondo”; vulgivaga : composto che
ricorre anche in 5, 932 ed è presente
solo in Lucrezio.
Seguire la vulgivaga Venus
Haec Venus est nobis; hinc autemst nomen amoris,
hinc illaec primum Veneris dulcedinis in cor
1060 stillavit gutta et successit frigida cura.
nam si abest quod ames, praesto simulacra tamen
[sunt
illius et nomen dulce obversatur ad auris.
sed fugitare decet simulacra et pabula amoris
absterrere sibi atque alio convertere mentem
1065 et iacere umorem collectum in corpora quaeque
nec retinere, semel conversum unius amore,
et servare sibi curam certumque dolorem.
ulcus enim vivescit et inveterascit alendo
inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,
1070 si non prima novis conturbes vulnera plagis
vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures
aut alio possis animi traducere motus.
Crede che tutto l’universo debba muoversi per alleviare il suo amore,... dice che la brama gli impedisce di prendersi cura di alcunché... Quindi per uno in tali condizioni bisogna usare il seguente metodo di
cura: fargli vedere quanto è futile ciò che desidera, quanto è degno di disprezzo, come è del tutto senza
valore, come è facile realizzarlo da un’altra parte o in altro modo o trascurarlo affatto; inoltre bisogna
talvolta trovargli un diversivo in altre inclinazioni, preoccupazioni, affanni, affari, e spesso infine bisogna curarlo con il cambiamento di luogo, come si fa con i malati che non si ristabiliscono. Certuni ritengono anche che si debba scacciare il vecchio amore con un nuovo amore, come chiodo scaccia chiodo; ma
soprattutto bisogna fargli capire quale eccesso di pazzia furiosa comporti l’amore. Di tutte le passioni
nessuna certo è più violenta...
Cicerone, Tusculanarum Disputationum IV, 73-75
90
Spregia i piaceri:
quello che ottieni con dolore, nuoce.
Orazio, Ep. I, 2, 55
Sul testo
È l’inizio del passo finale del IV libro che è incentrato
sull’amore, tema trattato sia a livello fisiologico che psicologico. La scelta di Lucrezio di addurre come descrizione
esemplificativa delle illusioni delle passioni proprio l’amore significa come l’argomento dovesse interessarlo. Già in
questi primi versi Lucrezio consiglia di soddisfare l’istinto sessuale senza nessun coinvolgimento affettivo che crea
dolore e tormento e allontana l’uomo dall’atarassia e dall’ideale della filosofia epicurea cioè il raggiungimento
della voluptas. Venere, che viene qui evocata ben tre volte,
personifica il piacere sessuale, che è un bene, mentre l’amore è follia. È saggio chi riesce a distinguerli.
La tecnica di elaborazione formale che all’inizio presenta l’anafora di hinc, si caratterizza per le allitterazioni
del fonema –h ( haec, hinc) che puntualizza l’origine dell’amore e continua con il fonema –c (convertere, collectum in
corpora, convertum) che culmina nel verso 1067 curam certum che descrive la preoccupazione (curam che compare
anche nel v. 1060 e nel v. 1071), e la sofferenza sicura che
genera l’amore. Il concetto è ripreso e approfondito nei vv.
1068-1070 in cui il termine tecnico ulcus apre l’analisi psicologica dell’animo innamorato introdotta da furor e
aerumna. Nei medesimi versi e nei due conclusivi del passo
la presenza del fonema –v (vivescit, inveterascit, gravescit,
novis, vulnera) culmina nell’emistichio vulgivagaque vagus
Venere che rappresenta lo scioglimento del problema.
Infine la ricorrenza lessicale di cura, amor e Venus sottolinea ulteriormente il codice della poesia amorosa di stampo neoterico cui Lucrezio nella descrizione dell’amore si
riferisce.
91
Ebbene, il desiderio irrazionale che ha il
predominio sull’opinione che conduce a
ciò che è retto, portato verso il piacere
della bellezza, corroborato vigorosamente dai desideri ad esso congeneri
della bellezza dei corpi, una volta raggiunta vittoria per il comando, prendendo il nome da questa sua vigora, viene
chiamato eros o amore.
Platone, Fedro, 238 b - c
Dunque, da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore
degli uni per gli altri che ci riporta
all’antica natura e cerca di fare di due
uno e di risanare l’umana natura.
Ciascuno di noi, pertanto, è come una
contromarca di uomo, diviso com’è da
uno in due, come le sogliole.
E così ciascuno cerca sempre l’altra contromarca che gli è propria.
Platone, Simposio 191 c-d
Vi consiglio anche di mantenervi contemporaneamente due amanti; chi può
averne più di una, è più corazzato.
Quando il cuore, diviso in due parti,
corre fra un amore e l’altro, il primo
toglie energie al secondo…Tu invece, che
sventuratamente ti sei affidato a una
donna sola, devi, almeno ora, cercarti un
nuovo amore.
Ovidio, Remedia amoris 440
Il testo
de rerum natura IV, 1073-1120
Non est pura voluptas
È il passo fondamentale per cogliere la concezione dell’amore nella filosofia epicurea in quanto
degli scritti di Epicuro sull’argomento non sono rimasti che pochissimi frammenti. La passione
d’amore è presentata sia a livello fisico che psicologico. Essa viene considerata una malattia anzi
una follia che trova la sua causa nei simulacra rerum. Infatti sono proprio quelli della persona amata
che si insinuano in noi e ci obbligano a desiderarla. Ma poiché si tratta di particelle infinitamente
piccole e leggere, esse rimangono sempre inafferrabili anche quando cerchiamo di carpirle nell’amplesso amoroso. Di qui nasce la delusione ma soprattutto un desiderio insaziabile che è alla
base di quella sofferenza dell’animo così combattuta dalla filosofia epicurea.
Praecepta
1075-1076. purast = pura est : è un piacere incontaminato dalla passione.
sanis: coloro che sono esenti da legami
amorosi. miseris: coloro che sono vinti
dall’amore; potiundi: “di possedersi
reciprocamente”. 1077. incertis erroribus: “in un vagare indeterminato”.
1078. fruantur: fruor regge l’abl. 1079.
quod petiere: “Ciò che inseguivano”.
1081. osculaque adfligunt: “e baciando
premon la bocca contro la bocca in
modo da far male”. 1082. stimuli… laedere: “ci sono stimoli occulti che spingono ad aggredire proprio l’oggetto”,
instigo e l’infinito è una costruzione
usata da L. dopo i verbi che indicano
spingere, indurre. 1083. rabies: “furore”, antica forma di gen. sing. illaec:
nom. pl. neutro. 1084. Venus: indica
l’appagamento del desiderio sessuale.
inter amorem: “nell’atto d’amore”.
1085. admixta: è sottinteso morsibus.
1088. quod… repugnat: “ma la natura
si oppone mostrando che accade il contrario”, contra è collegato con fieri.
1091. membris… intus: “viene assorbito dentro” . 1092. quae = et ea, nesso
relativo. partis = partes. 1093. hoc…
cupido: “per questo motivo viene soddisfatta facilmente la sete e la fame”.
1094-1096. ex… misella: “ma del volto
di una persona e di un bel sembiante
nulla è lecito godere dentro di noi se
non gli esili simulacri; e questa misera
speranza è spesso rapita dal vento”;
fruendum è gerundio usato con valore
passivo e concordato con nil; raptast:
aferesi per rapta est.
1097. ut… cum: “come quando”.
sitiens: “l’assetato”. 1098. qui… possit:
prop. relativa impropria con valore
La follia d’amore
Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem,
sed potius quae sunt sine poena commoda sumit.
1075 nam certe purast sanis magis inde voluptas
quam miseris. etenim potiundi tempore in ipso
fluctuat incertis erroribus ardor amantum
nec constat quid primum oculis manibusque
[fruantur.
quod petiere, premunt arte faciuntque dolorem
1080 corporis et dentes inlidunt saepe labellis
osculaque adfligunt, quia non est pura voluptas
et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum
quodcumque est, rabies unde illaec germina surgunt.
sed leviter poenas frangit Venus inter amorem
1085 blandaque refrenat morsus admixta voluptas.
namque in eo spes est, unde est ardoris origo,
restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.
quod fieri contra totum natura repugnat;
unaque res haec est, cuius quam plurima habemus,
1090 tam magis ardescit dira cuppedine pectus.
nam cibus atque umor membris adsumitur intus;
quae quoniam certas possunt obsidere partis,
hoc facile expletur laticum frugumque cupido.
ex hominis vero facie pulchroque colore
1095 nil datur in corpus praeter simulacra fruendum
tenvia; quae vento spes raptast saepe misella.
ut bibere in somnis sitiens cum quaerit et umor
non datur, ardorem qui membris stinguere possit,
sed laticum simulacra petit frustraque laborat
1100 in medioque sitit torrenti flumine potans,
sic in amore Venus simulacris ludit amantis
nec satiare queunt spectando corpora coram
nec manibus quicquam teneris abradere membris
possunt errantes incerti corpore toto.
92
Amplesso carnale non giovò mai; già molto è se non fa danno.
Epicuro, Sentenze e frammenti 80
Sul testo
Il passo è un exemplum della teoria fisiologica e psicologica dell’amore. Alla base della descrizione della passione d’amore vi è un tono drammatico e vibrante che culmina nel v. 1112 facere interdum velle et certare videntur.
L’assurdità della passione amorosa è messa in luce non
solo nell’espozione complessiva ma anche nelle scelte lessicali come il verbo ludere che con il significato di illudere
mette in guardia dal pericolo di possesso che è tipico di chi
ama.
La descrizione risente di una tecnica formale ripresa
dalla poesia ellenistica. La figura retorica dell’allitterazione domina questi versi: redit rabies… revisit (v. 1117), e
inoltre corpora coram (v. 1102). Frequenti sono anche le
parole allitteranti nelle sillabe iniziali: flore fruuntur (v.
1105), pausa parumper (v. 1116) o le allitterazioni di sillabe iniziali delle due ultime parole: labefacta liquescunt (v.
1114) e collecta cupido (v. 1115). Particolare è, inoltre, la
costruzione riflessiva presente nel se remordet (v. 1135) e
la metonimia di manibus ad indicare carezze.
La perfetta aderenza del poeta al linguaggio topico
della poesia amorosa presente sia nei comici che nei poeti
ellenistici si riscontra nella scelta di misella e del verbo certare. L’espressività lucreziana si manifesta in molti punti
con la creazioni di sintagmi difficili da tradurre per la
creatività che sottendono come faciunt… dolorem (v. 1079),
illaec germina surgunt (v. 1083), frangit… inter amorem
(v.1084), quod fieri contra totum natura repugnat (v. 1088),
hoc facile expletur… cupido (v. 1093), datur in corpus… fruendum (v.1095), la costruzione nec reperire malum id possunt
quae machina vincat (v. 1119). Infine la descrizione dell’atto d’amore è resa con la forza metaforica di alcuni verbi e
la stessa immagine agricola dell’irrorazione dei campi
offre una dimensione naturale e quindi universale all’atto
amoroso.
93
Non è meraviglia s’io canto / meglio
d’ogni altro cantore, / perché più il cuore
ad amore m’astringe / e meglio son
disposto al suo comando. / Cuore e corpo
e sapere e senno / e forza e potere ci ho
messo. / Così il freno mi stringe ad
amore / che altrove non tardo…
Bernart de Ventadorn, Canzone
Amor, ch’a nullo amato amar perdona, /
mi prese del costui piacer sì forte, / che,
come vedi, ancor non m’abbandona. /
Amor condusse noi ad una morte.
D. Alighieri, Inferno, canto V, vv. 103105
Il panno della sua veste si incollava al
velluto della giacca di lui; essa rovesciò
indietro il candido collo che si gonfiava
d’un respiro; e languente, tutta in lacrime, con un lungo fremito e nascondendo
il viso, s’abbandonò.
Flaubert, Madame Bovary
… Perdona /alle lagrime mie, perdona
al cieco / desio che m’arde. Se fra queste
braccia / dato mi fosse un sol momento
stringere… / Se questi labbri su quei
labbri… Ahi misero! / Ahi che al sol
pensarlo entro le vene / di foco d’un
fiume mi trabocca, e tutti / tremano i
polsi e combattutte e l’ossa.
V. Monti, Pensieri d’amore, IV
consecutivo. membris = membrorum.
1099. laticum: in questo contesto indica l’acqua. 1100. Canali ha visto le
sequenze introdotte dall’enclitica -que
non parallele ma alternative traducendo “oppure”. 1101. simulacris ludit
amantis: “illude gli amanti”, amantis =
amantes. 1102. nec… coram: “e non riescono a saziare i corpi osservando quei
corpi da vicino”. 1103. abradere:
“raschiare via”. 1105. membris collatis:
abl. ass. 1106. aetatis: “della gioventù”.
1107. in… arva: “in questo consiste l’amore nell’irrorare il campo femmineo”,
in eost: aferesi per in eo est. 1108. adfigunt: “comprimono”. 1109. inspirant:
“respirano profondamente”. 1110.
nequiquam: “invano”. nil = nihil. 1111.
abire: “introdursi”. 1112. facere…
videntur: “sembrano voler fare ciò e
lottare (riguardo a ciò)”, certo indica le
battaglie d’amore. 1113. in… haerent:
“stanno avvinti nei lacci di Venere”.
1114. membra… liquescunt: “fino a
quando le membra si sciolgono, spossate dalla forza del piacere”. 1115. se
erupit: “si libera”. 1116. parumper: “per
un po’”. 1117. revisit: “rivisita”. 1118.
cum… quaerunt: “quando si chiedono
che cosa mai vogliano ottenere”. 1119.
machina: “mezzo”. 1120. usque adeo
incerti tabescunt: “fino a tal punto
smarriti essi languiscono”.
1105 denique cum membris collatis flore fruuntur
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora,
1110 nequiquam, quoniam nil inde abradere possunt
nec penetrare et abire in corpus corpore toto;
nam facere interdum velle et certare videntur:
usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,
membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt.
1115 tandem ubi se erupit nervis collecta cupido,
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
inde redit rabies eadem et furor ille revisit,
cum sibi quod cupiant ipsi contingere quaerunt,
nec reperire malum id possunt quae machina vincat:
1120 usque adeo incerti tabescunt vulnere caeco.
Perciò negli uomini l’organo genitale risulta essere non ubbidiente e prepotente, come un animale che non vuole sentire ragione, e cerca di aver predominio su tutto con le sue furibonde passioni.
E a loro volta nelle donne quelli che sono chiamati matrice e
utero, per queste medesime ragioni sono come un animale desideroso di generare suoi figli, il quale, quando rimanga senza frutto per molto tempo dopo la sua stagione, lo sopporta male e si
irrita e va errando per ogni parte del corpo, ostruendo le vie d’uscita dell’aria e non permettendo di respirare, porta a difficoltà
estreme e produce malattie di ogni genere. E questo dura fino a
quando il desiderio e l’amore dei due sessi, congiungendosi insieme, spingano a cogliere un frutto come quello degli alberi e seminare nella matrice, quasi come in un campo arato essere viventi
invisibili a causa della loro piccolezza e non ancora formati, e
poi, separandoli, li facciano diventare grandi nutrendoli dentro, e
in seguito a questo, mettendoli alla luce, portino a compimento la
generazione dei viventi.
Platone, Timeo 91B-D
94
P. Boyancé L’amore come illusione
[Alla descrizione fisiologica dell’amore], segue l’affermazione che i nomi mitologici di
Venere e di Cupido designano appunto il piacere e il desiderio. L’affermazione è importante
perché identifica al processo cieco e brutale, e in ogni caso puramente fisico, le grandi divinità onorate con tali nomi. E l’affermazione è in gran parte lo scopo di tutta la descrizione
precedente.
Ma appena abbiamo gustato il piacere, e già la fredda inquietudine ne prende il posto: essa
sembra legata con il fatto che il desiderio si porta non più direttamente al corpo che l’ha risvegliato, ma alla rappresentazione mentale della persona amata, ai “simulacri” e al “nome caro”.
È facile trarre la conseguenza: non bisogna asservirsi a una tale rappresentazione, ma occorre fuggirla e volgere ad altro la mente; non avevamo visto che questo può farsi a nostro piacimento? La ricerca del piacere sessuale può e deve essere separata dalla follia e dalla miseria
che porta con sé l’amore esclusivo di una sola persona. E Lucrezio conclude che bisogna ricercare la Venere vulgivaga e separare Venere dall’amore; il piacere sessuale, è un bene, ma l’amore è una follia: il poeta qualifica sani coloro che adottano quest’atteggiamento.
La concezione che ci sembra così brutale, che significa insomma la condanna di ciò che si
intende ordinariamente per amore, e l’apologia del piacere animale sono assolutamente nello
spirito dell’epicureismo. Conviene però osservare che non implica la compiacenza per le follie della carne: come ogni piacere che corrisponde a un desiderio naturale, questo trova il suo
limite, cioè il suo grado più alto, nell’appagamento del desiderio, ed esclude le raffinatezze del
voluttuoso, come le esclude per esempio per quel che riguarda i piaceri della mensa.
Per questo motivo il poeta, che poco fa paragonava l’effetto del desiderio amoroso a quello di una ferita, ci mostra ora la follia che si impadronisce degli amanti proprio al momento
del possesso; e il quadro che ne fa, di un vigore incomparabile, al quale nulla è paragonabile
nella letteratura antica, sembra mostrare che i piaceri d’amore non possono rientrare nel
novero dei piaceri puri. Vi sarà dunque contraddizione con quel che abbiamo già detto,
seguendo lo stesso Lucrezio? Lo si potrebbe pensare. Lucrezio di fatto stabilisce un’opposizione fra la fame e la sete, che comportano una completa soddisfazione, e l’amore che non si
sazia che di immagini, di “simulacri”. Questo possesso di un corpo estraneo, al quale esso si
accanisce con un furore insensato, non è che un’illusione, un’illusione senza posa rinascente,
man mano che il desiderio si rianima dopo l’appagamento. A leggere questi versi non sembra
che non vi possano essere piaceri puri in amore? Che le illusioni ne fanno sempre parte integrante?
Certamente resta possibile una conciliazione, se si potesse ammettere che il desiderio
amoroso possa essere interamente liberato dalle immaginazioni avventizie che lo complicano
e lo disperdono nell’atto stesso del possesso. Tale conciliazione è necessaria, se Lucrezio resta
veramente fedele all’epicureismo. Ma non si può negare che egli mette talmente in luce le
debolezze, le miserie dell’amore da sembrar piuttosto propendere per il pessimismo. E proprio questo accento un po’ in contraddizione con lo spirito della sua scuola è la miglior ragione per credere a un’esperienza personale, la cui amarezza difficilmente si lascia sottoporre a
una regola dalla teoria ottimistica del sistema.
(da Lucrezio e l’epicureismo, trad. it. Brescia, 1985, pp. 214-219)
95
Il testo
de rerum natura IV, 1121-1140
Labitur interea res, languent officia
Le conseguenze dell’amore si risentono non solo a livello fisico perché si perdono le forze per la
fatica ma soprattutto psicologico. L’uomo diventa remissivo ai voleri della donna amata, è pronto
a disperdere le proprie ricchezze e quelle familiari in gioielli, stoffe preziose, scarpe alla moda, nell’organizzazione di banchetti e feste suntuose solo per farle piacere. Tutto è vano però perché la
sofferenza emerge immediatamente o quando l’innamorato si ferma a riflettere sulla inutilità di
una vita trascorsa in questo modo, senza far nulla oppure quando l’ambiguità di un discorso o il
tarlo della gelosia corrode il suo animo durante un momento di gioia conviviale.
Praecepta
1121. Adde quod: “Aggiungi che”, completiva. 1123. labitur… fiunt: “ Si disperde nel frattempo la ricchezza e si trasforma in drappi di Babilonia”,
Babylonica è emendamento del Pio al
Babylonia dei manoscritti, per analogia
con Babylonica del v. 1029. Città principale della Mesopotamia dove si producevano abbigliamenti raffinati. 1124.
aegrotat… vacillans: “la reputazione
vacilla indebolita”. 1125. unguenta…
rident: “sorridono unguenti e bei calzari sicioni nei piedi”; unguenta compare
nei manoscritti. Bailey propende per un
passo corrotto difficilmente sanabile
(crux); Sicyonia: da Sicione, città del
Peloponneso, luogo di produzione di
questo tipo di calzatura morbida ed elegante. 1126. scilicet et: “E, certo”. 1127.
thalassina: “di un purpureo marino”.
1128. exercita: “consunta”. 1129. bene
parta patrum: “i guadagni dei padri ottenuti con onestà”; parta: part. pf. di pario.
anademata: è una legatura ornamentale
del capo (diadema). mitrae: una specie di
cuffia (mitria). 1130. Alidensia: “Alinda”,
in Caria. Cia: “Ceo”, isola delle Cicladi.
Lachmann ha dimostrato come probabilmente Lucrezio ha confuso, indotto
nell’errore da Varrone, Ceo e Cos. 1131.
eximia veste et victu: “con sfarzo di
decorazioni e di portate”. ludi: “svaghi”.
1135. se… remordet: “a volte si rode”,
rara la costruzione riflessiva del verbo.
1136. lustris: “nei bordelli”. 1137. aut…
reliquit: “o perché essa ti lascia nel dubbio di una parola ambigua”. 1138. quod:
pron. relativo; cupido… cordi: “confitta
nel cuore preso dal desiderio”. 1140.
quod: valore causale.
Insensatezza dell’amore
Adde quod absumunt viris pereuntque labore,
adde quod alterius sub nutu degitur aetas.
labitur interea res et Babylonica fiunt,
languent officia atque aegrotat fama vacillans.
1125 † unguenta † et pulchra in pedibus Sicyonia rident.
scilicet et grandes viridi cum luce zmaragdi
auro includuntur teriturque thalassina vestis
assidue et Veneris sudorem exercita potat.
et bene parta patrum fiunt anademata, mitrae,
1130 interdum in pallam atque Alidensia Ciaque vertunt.
eximia veste et victu convivia, ludi,
pocula crebra, unguenta, coronae, serta parantur,
nequiquam, quoniam medio de fonte leporum
surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat,
1135 aut cum conscius ipse animus se forte remordet
desidiose agere aetatem lustrisque perire,
aut quod in ambiguo verbum iaculata reliquit
quod cupido adfixum cordi vivescit ut ignis,
aut nimium iactare oculos aliumve tueri
1140 quod putat in vultuque videt vestigia risus.
“Infatti gli innamorati provano dispiacere per quei benefici che
hanno fatto, non appena si siano liberati dalla loro passione;
invece, per i non innamorati non verrà mai un tempo in cui
bisogna cambiare parere. Infatti, questi non per necessità, ma
spontaneamente, e in modo da provvedere alle proprie cose nella
migliore maniera possibile, fanno benefici secondo la loro capacità.
Platone, Fedro 231 A
96
L’uomo d’indole bennata non ha “destino di salvezza” se non nel sorvegliare la propria giovinezza e nel tenerla lontano dalle sozzurre dell’assillo carnale.
Epicuro, Sentenze e Frammenti 82
Sul testo
Il passo, emblematico delle ansie che trafiggono il cuore
dell’innamorato, contiene la famosa espressione medio de
fonte leporum surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat
(vv.1133-1134) che esemplifica, con la sua lapidarietà, il
pessismismo di Lucrezio sulla condizione dell’uomo, riconfermato dall’emistichio nequiquam, quoniam (v. 1133) che
suona come solenne ed inesorabile condanna. La tecnica
ellenistica è presente con la topica della poesia amorosa
nella scena del banchetto, in mezzo al fasto delle vesti e
delle gioie fino alla squisita finezza del verso 1140 in voltuque videt vestigia risus che descrive la gelosia che si impossessa dell’innamorato. Nel passo i vocaboli greci ed esotici
sono usati dal poeta per creare l’atmosfera della festa
(Babylonica, Sicyonia, zmaragdi, thalassina, anademata,
mitriae, Alidensia Ciaque). Inoltre la ricercatezza formale
continua con la costruzione al singolare se… rimordet del v.
1135 e le anafore di adde (vv. 1121-1122) e di quod (1136,
1137 ripresa poi nel v. 1140) e infine, persino l’allitterazione che non è troppo frequente nel brano (parta patrum
ripresa nel verso seguente con pallam, veste, victu, cum conscius, cupido cordi) sembra piegarsi al lampeggiare di quel
riso (vultuque videt vestigia).
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
Benedetto sia ‘l giorno e ‘l mese et l’anno
e la stagione e ‘l tempo et l’ora e ‘l
punto
e ‘l bel paese e ‘l loco ov’io fui giunto
da’ duo begli occhi che legato m’ànno;
et benedetto il primo dolce affanno
ch’i ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l’arco et le saette ond’i’ fui punto,
e le pieghe che ‘nfin al cor mi vanno.
Benedette le voci tante ch’io
chiamando il nome de mia Donna ò
sparte,
e i sospiri et le lagrime e ‘l desio;
et benedette sian tutte le carte
ov’io fama l’acquisto, e ‘l pensier mio,
ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte.
F. Petrarca, Canzoniere LXI
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
Saffo, fr.31, trad. di S. Quasimodo
97
Il testo
de rerum natura IV, 1153- 1170
Nam faciunt homines plerumque cupidine caeci
Dopo aver constatato come sia difficile, una volta caduti nelle reti d’amore, scioglierne i nodi,
Lucrezio descrive come l’uomo ostacoli spesso se stesso non solo ignorando i difetti della donna
che desidera ma anche scambiandoli per qualità. Così agli occhi dell’innamorato la donna mingherlina diventa una “gazzella” o quella piccola di statura “una delle Grazie, tutta pepe”. Non si
accorge, il poverino, del male cui va incontro.
Praecepta
1154. non sunt his: dat. di possesso. his:
sono le donne. commoda: “qualità”.
1155-1156. multimodis… vigere:
“Pertanto vediamo donne sotto molti
aspetti brutte e deformi essere teneramente amate e tenute in altissimo
onore”. 1157. alios alii: “l’un l’altro” .
1157-1158.Venerem… placent: “si
esortano a placare Venere”, ut con valore completivo. 1158. foedo… amore:
“da un ignobile amore”, compl. di causa
efficiente. 1160. nigra: la donna con i
capelli scuri; acosmos: “veste in modo
semplice”. 1161. caesia Palladium: “gli
occhi verdi ‘un ritratto di Minerva’”,
era il colore degli occhi della dea
Minerva. Per Palladium si intende una
statua lignea di Pallade. 1163. cataplexis… honoris: “una meraviglia,
piena di maestà”. 1165. Lampadium:
“un temperamento focoso”. 1166. ischnon eromenion: “un sottile amorino”.
1167. rhadine: “delicata”; verost = vero
est. 1168. tumida: emendamento del
Bernays a iamina presente nei manoscritti. at… Iaccho: “quella robusta, dal
seno enorme, Cerere dopo il parto di
Bacco”. Iacco è stato identificato per lo
più con Bacco. 1169. simula Silena:
“naso schiacciato ‘Silena’. Silena è
femm. di Sileno, divinità boschereccia o
precettore di Bacco. saturast = satura
est. Il punto, benché sia abbastanza
controverso nella tradizione manoscritta, tuttavia viene interpretato
come il nom. femm. di Satyrus quindi si
traduce “una satira”. labeosa philema:
“quella labbrona ‘un nido di baci’”.
1170. longum est: uso dell’indic. in
luogo del condizionale italiano con una
locuzione impersonale.
Cecità dell’amore
nam faciunt homines plerumque cupidine caeci
et tribuunt ea quae non sunt his commoda vere.
1155 multimodis igitur pravas turpisque videmus
esse in deliciis summoque in honore vigere.
atque alios alii irrident Veneremque suadent
ut placent, quoniam foedo adflictentur amore,
nec sua respiciunt miseri mala maxima saepe.
1160 nigra melichrus est, immunda et fetida acosmos,
caesia Palladium, nervosa et lignea dorcas,
parvula, pumilio, chariton mia, tota merum sal,
magna atque immanis cataplexis plenaque honoris.
balba loqui non quit, traulizi, muta pudens est;
1165 at flagrans odiosa loquacula Lampadium fit.
ischnon eromenion tum fit, cum vivere non quit
prae macie; rhadine verost iam mortua tussi.
at tumida et mammosa Ceres est ipsa ab Iaccho,
simula Silena ac saturast, labeosa philema.
1170 cetera de genere hoc longum est si dicere coner.
Io voglio del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio;
più che stella diana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
Verde river’ a lei rasembro e l’are,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi’ per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.
G. Guinizelli, Io voglio del ver la mia donna laudare vv.1-8
98
… i difetti e le bruttezze dell’amica restano inosservati all’amante accecato, e magari sono quelli che gli piacciono…
Orazio, Sat. I, 3, 45
Sul testo
Questo passo è singolare perché Lucrezio, pur mettendo a nudo con la sua saggezza le stoltezze degli uomini,
invita al sorriso. Alcuni critici hanno voluto scorgere nella
casistica proposta il frutto di un’esperienza autobiografica
in quanto viene descritta una profonda esperienza del
cuore umano. Stilisticamente l’uso diffuso di termini greci
(melichrus, acosmos, chariton mia, cataplexis, traulizi, ischnon
eromenion, rhadine) rispecchia il gergo elegante dei salotti
alla moda romana al punto che A. Traglia ha supposto che
questi vocaboli fossero scritti in greco. Parallelamente si
può notare anche un intento canzonatorio che emerge
dalla contrapposizione fra una ricercatezza lessicale (grecismi e al v. 1159 allitterazione miseri mala maxuma) e
l’uso di parole tratte dal sermo familiaris e dal repertorio
dei comici quali parvula, loquacula, mammosa, simula,
labeosa che prendono avvio dal v. 1157 con suadent con la
scansione trisillabica tipica di Plauto. Infine l’uso di diminutivi, di costrutti come esse in deliciis, tipici del linguaggio della poesia amorosa specialmente dei circoli ellenizzanti rende questo passo un interessante specimen del rapporto tra la tecnica lucreziana e neoterica.
Gli epicurei ritengono che il saggio non
debba innamorarsi… Sostengo-no che
l’amore non è mandato dagli dei…
Diogene Laerzio,Vite dei fil. X, 118
A giudizio di molti Quinzia è bella; per me
è longilinea /ha carnagione bianca e bel
portamento. Le concedo queste doti, / singolarmente, / ma non le concedo di essere,
nel complesso, la bella che dicono: / non c’è
grazia, / non c’è in quella donna d’ampie
forme neppure un grano di sale. / Lesbia sì
che è bella, lei che è bellissima tutta nel suo
insieme, /lei da sola ha rubato a tutte le
altre ogni loro attrattiva.
Catullo, Liber, carme 87
Venere, sempre, come che ci vinca, /non
arde mai di fiamme vergognose. Il peccato d’amore è sempre puro.
Orazio, Odi, I, 27, 18-24
… Dirai bruna anche colei che avrà la
pelle nera /più di pece d’Illiria; quella
losca/dirai che rassomiglia a Citera; /la
scialba paragonala a Minerva; / chiama snella colei che non si regge /da
tanto è magra; svelta la piccina; / bene
in carne la grassa: ogni difetto / copri
con il pregio che più l’assomiglia.
Ovidio, Ars Amatoria 2, 657-661
Chi dice che di fanti una schiera,
chi di cavalieri e chi di navi, sia
quanto di meglio è al mondo; io dico:
ciò che amiamo...
E il passo lieve di lei, il volto suo
che ha luce di gioventù amo vedere,
ben più che i carri lidii e l’armi
atte alla guerra.
Saffo, fr. 16 Voigt
99
Sermo amatorius
antologia tematica
a cura di Giovanni Ghiselli
1
2
Lacerazione
1.- Paura della donna
Come in quella greca, nella letteratura romana la paura della donna sembra presente fin
dalle origini. Essa suggerisce al Catone il vecchio di Tito Livio alcune parole sulla necessaria sottomissione della femina per tenere sotto controllo una natura altrimenti intemperante.
Così si esprime il censore quando parla, nel 195 a. C., contro l’abrogazione della lex Oppia
che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone; queste scesero in piazza proprio per
manifestare a favore dell’annullamento della legge, la quale vietava tra l’altro di indossare
vesti multicolori o di girare per Roma su un cocchio a doppio traino di cavalli .
“Maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse
parentium, fratrum, virorum...date frenos impotenti naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae
facturas... omnium rerum libertatem, immo licentiam, si vere dicere volumus, desiderant” (XXXIV, 2, 11-14)1.
I nostri antenati non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un tutore, e che stessero sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti... allentate il freno a una natura così
intemperante, a una creatura riottosa e sperate pure che si daranno da sole un limite alla licenza... desiderano la libertà, anzi, se vogliamo chiamarla con il giusto nome, la licenza in tutti i campi.
“Extemplo simul pares esse coeperint, superiores erunt”, continua Catone (XXXIV, 3, 2), appena cominceranno a essere pari, saranno superiori. Lo dirà ancora Marziale (40 ca-104 d.C.)
nella clausola di un suo epigramma: “Inferior matrona suo sit, Prisce, marito: / non aliter fiunt
femina virque pares” (VIII, 12, 3-4), la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l’uomo e la donna diventano pari.
Certi maschi dunque vorrebbero l’abrogazione della donna o per lo meno quella della femmina umana indipendente, perché terrorizzati. Le sue rivendicazioni fanno paura come quelle di un esercito in rivolta. Sentiamo l’inizio del discorso di Catone, il quale dà voce all’ansia
dell’uomo che sta perdendo il potere sulla donna un’ansia abbastanza diffusa anche tra i
maschi attuali:
Si in sua quisque nostrum matre familiae, Quirites, ius et maiestatem viri retinere instituisset, minus cum universis feminis negotii haberemus: nunc domi victa libertas nostra impotentia muliebri hic quoque in foro obteritur et calcatur, et quia singulas sustinere non potuimus universas horremus. Equidem fabulam et fictam rem ducebam esse virorum omne genus in aliqua insula coniuratione muliebri ab stirpe sublatum esse; ab nullo genere non
il cambio dell’imperatore faceva sperare la licenza delle
truppe e la speranza di gratifiche in seguito alla guerra
civile. La ribellione delle donne dunque ha aspetti
comuni con una rivolta militare e suscita riflessioni
analoghe motivate dalla medesima paura del disordine.
(Vedremo più avanti che, coerentemente con questa
paura, l’austero censore, nella Satira I 2 di Orazio, consiglia di frequentare i postriboli dove le donne si
pagano). Si veda la Stazione VII in Erotikòs lògos.
1
Il termine licentia qui ripetuto è utilizzato da
Tacito, con alcune altre “considerazioni puramente moralistiche” (E. Auerbach, Mimesis, vol. I, p. 44) per
invalidare le ragioni di una rivolta scoppiata tra le
legioni della Pannonia dopo la morte di Augusto: “nullis
novis causis nisi quod mutatus princeps (da primus+capio,
era il titolo di Augusto che passò ai suoi successori)
licentiam turbarum et ex civili bello spem praemiorum ostendebat “, Annales, I, 16, per nessun’altra novità se non che
3
summum periculum est si coetus et concilia et secretas consultationes esse sinas…Equidem non sine rubore quodam paulo ante per medium agmen mulierum in forum perveni (XXXIV, 2, 1-4, 8).
Se ciascuno di noi, Quiriti, avesse stabilito di conservare il diritto e la sovranità del marito sulla
madre di famiglia, ora avremmo meno briga con le donne tutte insieme: ora la nostra libertà, vinta in
casa dalla donna che non vuole accettare il dominio, anche qui nel foro viene calpestata e schiacciata, e
siccome non siamo riusciti a trattenerle una per una, le temiamo tutte insieme. Certo io credevo che
fosse una storia inventata che tutta la razza dei maschi fosse stata radicalmente soppressa da una congiura di donne; da nessuna razza non deriva un pericolo estremo se si permettono riunioni e assemblee
e consultazioni segrete… Di sicuro non senza un certo arrossire poco fa sono arrivato nel foro in mezzo
a una schiera di donne.
Maiestatem viri: è una maiestas che Catone considera laesa da questa licentia femminile. Il
censore non arriva a proporre all’insolenza femminile la lex maiestatis che in epoca repubblicana imputava il tradimento all’esercito o l’abuso di potere aimagistrati, delitti che, appunto,
ledevano la maestà del popolo romano; comunque, spiega Tacito, facta arguebantur, dicta impune erant (Annales, I, 72), le azioni venivano messe sotto accusa, le parole restavano senza punizione. Per lungo tempo del resto non era stata applicata, finché Augusto e ancor più Tiberio
la ripristinarono per colpire i famosi libelli, gli opuscoli diffamatori prodotti dall’opposizione.
Lucio Valerio, il tribuno della plebe che aveva proposto l’abrogazione della lex Oppia,
nella sua replica al discorso di Catone sostenne che l’eleganza, i monili e la cura della persona sono le magistrature delle donne: “munditiae et ornatus et cultus, haec feminarum insignia sunt”
(7, 9). Alle feminae infatti non possono toccare magistrature né sacerdozi, né trionfi, né insegne militari, né premi o bottino di guerra (7, 8); dunque le munditiae e il cultus ne costituiscono il compenso: “his gaudent et gloriantur, hunc mundum muliebrem appellarunt maiores nostri” (7,
9), di queste godono e si vantano, questo i nostri antenati hanno chiamato eleganza femminile. D’altra parte, continua il tribuno, “Numquam salvis suis exuitur servitus muliebris, et ipsae
libertatem quam viduitas et orbitas facit detestantur” (7, 12), finché i loro uomini sono in vita mai
si toglie la schiavitù femminile, e loro stesse detestano la libertà che consegue alla loro condizione di vedove e orfane. Le donne preferiscono abbigliarsi secondo le disposizioni dei mariti che della legge “et vos in manu et tutela, non in servitio debetis habere eas et malle patres vos aut
viros quam dominos dici” (7, 13), e voi dovete tenerle sotto il vostro controllo e la vostra protezione, non in stato di schiavitù e preferire essere chiamati padri o mariti piuttosto che
padroni.
È un argomento tipico dell’humanitas del circolo degli Scipioni: lo troviamo infatti, negli
Adelphoe di Terenzio (commedia rappresentata nel 160 a. C.) riferito al rapporto padri-figli: “il
dovere del padre è questo. abituare il figlio a comportarsi bene / piuttosto per scelta sua che
per paura di un altro. / In questo un padre è diverso da un padrone (Hoc pater ac dominus interest ). Chi non sa fare questo / confessi che non sa avere autorità sui figli (vv. 74-77).
Dopo questi discorsi pro e contro la legge “aliquanto maior frequentia mulierum postero die
sese in publicum effudit” (8, 1), una folla ancora più grande il giorno seguente dilagò in piazza
e la legge che era stata proposta e fatta approvare nel 215 a. C. in medio ardore Punici belli
(XXXIV, 1, 3) in mezzo alle fiamme della guerra punica, viginti annis post abrogata est quam
lata (8, 3) venne abrogata vent’anni dopo che era stata approvata.
4
2.- Esperienza totalizzante
Verso la fine della repubblica la donna si afferma definitivamente e per l’uomo sono dolori. Di qui il miser che nella letteratura latina, a partire da Catullo, assume il significato di persona infelice per l’amore non contraccambiato. Il poeta di Verona in effetti per la prima volta
rende la donna e il desiderio di lei protagonisti della poesia latina. In questo senso Catullo è
il primo vero poeta d’amore della letteratura latina.
“A Roma non si può parlare di una produzione di poesia d’amore prima di Catullo: questa
realtà, che ai nostri occhi può apparire sorprendente, ha una duplice spiegazione, legata al
modo di far cultura e di concepire il rapporto uomo-donna. Sino al periodo della declinante
repubblica il comporre poesia priva d’impegno civile non doveva essere giudicato degno della
gravitas del cittadino romano: anche i primi letterati, tutti schiavi o liberti, sino all’eques
Lucilio, se si prescinde dalla loro produzione drammatica, concepirono l’epos come la logica
attività poetica” (P. Fedeli, La poesia d’amore, in Lo spazio letterario di Roma antica, I, p. 143).
I ceti al potere, continua Fedeli, “si accontentarono di mantenere il controllo sul sapere
storico e su quello giuridico”, mentre una “sporadica produzione di carmi erotici” risale probabilmente al circolo di Lutazio Catulo (console nel 101 a. C.) ma “solo con Catullo si assiste alla diffusione di un canzoniere in cui una donna occupa il ruolo centrale, perché nel
mondo del poeta costituisce il culmine di tutti gli affetti” (op. cit., p.144).
A partire dal liber del Veronese, nella successiva elegia, l’amore diviene un’esperienza
totalizzante e la donna assume il ruolo della dominatrice, la vera domina nella relazione
che dunque, per l’uomo amante, diventa un servitium. Con Catullo comincia a delinearsi un
codice di comportamento che prosegue con gli elegiaci. Dopo di lui altri poeti sentiranno l’esigenza di porre una donna-padrona al centro del loro canto1.
Nel carme del discidium (8), miser è la prima parola che qualifica l’autore (Miser Catulle, v.
1) quale amante infelice poiché tradito. Miser è comunque chi cade vittima della passione d’amore: lo è Catullo stesso quando è affascinato da Lesbia nel c. 51: “misero quod omnis (= omnes)
/ eripit sensus mihi” (51, vv. 5-6) il che a me infelice porta via tutti i sensi.
Il poeta potrebbe smettere di essere miser solo allontanandosi dalla donna che ama: “Quin
tu animo offirmas atque istinc teque reducis /et deis invitis desinis esse miser? (76, vv. 11-12) perché tu non ti irrobustisci nel carattere e non ti ritrai di qui / e non smetti di essere infelice
contro la volontà degli dei? Ma deporre d’un tratto un lungo amore è difficile (difficile est longum subito deponere amorem, v. 14) poiché questo è diventato come una peste o un cancro,
malattie dalle quali non si guarisce senza l’aiuto degli dèi.
dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo
amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria” (Il mestiere di
vivere, 24 maggio 1941). E più avanti: “Chi ha, gli sarà
dato” (23 novembre 1945).
L’identificazione della donna amata con la domina
imperiosa che ama meno, o addirittura non ama l’uomo
asservito, si può commentare con una riflessione psicologica di C. Pavese: “Una beffarda legge della vita è la
seguente: non chi dà ma chi esige, è amato. Cioè, è
amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce:
1
5
3.- Amore malattia
“O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam /e xtremam iam ipsa in morte tulistis opem,
/ me miserum aspicite et, si vitam puriter egi, / eripite hanc pestem perniciemque mihi, / quae mihi
subrepens imos ut torpor in artus / expulit ex omni pectore letitias” (76, vv. 17-22), O dei, se vostra
forza è avere misericordia, o se ad alcuni mai / portaste l’estremo aiuto già dentro la morte
stessa, / guardate me disgraziato e, se ho passato la vita senza tradire, / strappatemi questa
peste e rovina, / che strisciando, come paralisi, in fondo alle mie membra, / ha cacciato da
tutta l’anima la gioia di vivere. Pestem perniciemque in nesso allitterante significano la rovina
totale. Pernicies è imparentata etimologicamente con neco, uccido, nex, uccisione, noceo, nuoccio, nonché con le parole greche
, necròs,
, nékus, morto,
, nékuia, evocazione dei morti.
L’infelicità dell’amore deluso dunque ha la forza negativa di una malattia mortale ed è
necessario liberarsi dalla donna, per salvarsi la vita: “Non iam illud quaero, contra me ut diligat
illa, / aut (quod non potis est) esse pudica velit; / ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
/ O di, reddite mi hoc pro pietate mea” (76, vv. 23-26): Non chiedo più quel miracolo, che quella
là contraccambi il mio affetto, / o (cosa di cui non è capace) che voglia essere pudica; / io desidero stare bene e lasciare questo male oscuro. / O dei, datemi questo in cambio della mia
devozione.
A proposito della identificazione tra amore e malattia “inventata” da Catullo, poi proseguita nell’elegia latina, e non solo, vediamo un paio di occorrenze della parola morbus, riferita all’amore in Tibullo e in Properzio1.
Tibullo denuncia il male (malum ) arrecato da Cupido il quale gira, invece che inermis, come
sarebbe bene, armato di strali (tela) e infligge ferite a molti: “et mihi praecipue, iaceo cum saucius
annum / et faveo morbo, cum iuvat ipse dolor” (II, 5, 109-110), e soprattutto a me, siccome giaccio ferito da un anno, e accolgo con favore la malattia, dal momento che proprio il dolore mi
fa piacere. Il dolore procuratogli da Nemesi infatti lo aiuta a trovare i mezzi per cantarla:
“usque cano Nemesin, sine qua versus mihi nullus / verba potest iustos aut reperire pedes” (vv. 111112), sempre canto Nemesi, senza la quale nessun verso mio può trovare le parole o i metri
giusti2.
Properzio sostiene che l’amore è l’unica malattia incurabile: “Omnis [= omnes] humanos
sanat medicina dolores: / solus amor morbi non habet artificem” (II, 1, 57-58), la medicina risana
tutti i dolori umani: solo l’amore non ha uno specialista del male. Anche il poeta umbro però
va in cerca della piaga amorosa “Interea nostri quaerunt sibi vulnus ocelli” (II, 22, 7), intanto i
miei occhi cercano chi li ferisca. L’idea che l’amore sia una malattia incurabile trova echi in
a. C. circa, morto a Roma intorno al 15a. C., ha scritto
quattro libri di elegie, pubblicati fra il 26 e il 16 a. C. I
primi tre cantano l’amore per Cinzia, il IV, quello delle
elegie romane, racconta per lo più miti, riti della tradizione, episodi della storia di Roma e italica.
2
La stessa funzione riconoscerà Proust al dolore
arrecatogli da Albertine: “Facendomi soffrire, forse
Albertine mi era stata più utile, anche sotto l’aspetto
letterario, di un segretario che avesse messo in ordine
le mie “scartoffie”, Il tempo ritrovato, p. 242.
Tibullo, nato a Gabii o a Pedum, nel Lazio rurale
fra il 55 e il 50 a. C., morì tra il 19 e il 18 a. C. Sotto il
suo nome ci è giunto il Corpus tibullianum, tre libri di
elegie. Sono sicuramente e autenticamente tibulliani i
primi due che cantano l’amore per due donne, Delia e
Nemesi. Il terzo, che gli umanisti divisero in due parti,
è un’ antologia di vari autori, compreso Tibullo.
Quintiliano lo definisce tersus atque elegans
maxime…auctor (Institutio oratoria, X, 93), l’autore più
elegante e raffinato, nel campo dell’elegia dove i latini
possono sfidare i Greci. Properzio, nato ad Assisi nel 49
1
6
Petronio (Satyricon 42, 7: “Sed antiquus amor cancer est”, ma un amore vecchio è un cancro);
d’altra parte vedremo anche i Remedia amoris di Ovidio e quelli di Lucrezio. Tra i moderni,
una descrizione dell’amore come patologia “inoperabile” è stata fatta da Proust in Un amore di
).
Swann (v.
Cesare Pavese ribalta la posizione del vulnus: per lui è la vita che infligge ferite e l’amore
anestetizza il dolore: “Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness ) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l’amore goduto è un anestetico e chi vorrebbe
svegliarsi a metà operazione?” (Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1938). Si potrebbe commentare questa affermazione intelligente con quest’altra di Pindaro: infatti sotto nobili gioie muore
la sciagura recrudescente domata (Olimpica II, 19-20: “
”).
/
Sull’amore come malattia sentiamo G. B. Conte: “L’esperienza d’amore come esperienza
di sofferenza non è novità dell’elegia latina. È questo, anzi, il nucleo generatore di un’ampia
serie di connotazioni che nella tradizione della letteratura d’amore si dispongono tutt’intorno alla metafora dell’eros-nosos: amore malattia, amore-ferita, amore-follia, amore-veleno
(l’elegia latina, si sa, lavora quasi sempre su materiale di riuso, mutuandolo consapevolmente
dal tesoro della grande erotica greca; parla, con accenti propri, una lingua comune).
Nel caso dell’eros-nosos la cifra propriamente elegiaca consiste in una particolare declinazione del paradigma: amore non soltanto è malattia, ma anche e soprattutto malattia immedicabile: Omnis humanos sanat medicina dolores: / solus amor morbi non habet artificem (Properzio
2, 1, 57 s.: La medicina guarisce tutti i dolori umani: / solo l’amore non ha uno specialista
capace di curarlo). La medicina toglierebbe la malattia, ma insieme toglierebbe la possibilità
stessa di fare poesia in forma elegiaca, giacché la forma dell’esperienza elegiaca sta anche
nella costrittività di questo binomio: malattia e rifiuto di guarigione. Non a caso la guarigione riuscita (e la liberazione dai vincoli dolorosi del servitium ) sarà posta nella chiusa della più
grande raccolta di Properzio, dove significa insieme fine reale dell’amore e commiato del
genere (3, 24, 17 s.)” (G. B. Conte: Ovidio, Rimedi contro l’amore, pp. 18-19).
“Grazie a Catullo una nutrita serie di vocaboli acquista diritto di cittadinanza nel linguaggio d’amore: basterà ricordare la definizione dell’amore come dolor (2, 7) ardor (2, 8) cura
(2, 10; 68, 51), ma anche come morbus (76, 25), come pestis e pernicies che s’insinua nelle membra simile a un torpor (76, 20) e le divora (31, 15); oppure la definizione dell’amata come desiderium (2, 5); dell’innamorato come vesanus (7, 10) miser (8, 1; 51, 5) e dell’innamorata che si
strugge come misella (31, 14); dell’innamoramento come equivalente dell’ineptire (8, 1), del
perdite amare (45, 3) dell’amore deperire (35, 12), del tabescere (68, 55) dell’ardere (68, 53)” (P.
Fedeli, in Lo spazio letterario di Roma antica, 1, p. 153).
L’infelicità amorosa può riguardare tanto gli uomini quanto le donne poiché l’amore è
spesso insidiato da un destino tragico: chi ama è vittima della passione che lo assoggetta, e in
quanto tale è infelice.
Misera è Arianna abbandonata da Teseo (numerose sono le ricorrenze nel carme 64). La
Didone di Virgilio, poco dopo che ha visto Enea è già “infelix pesti devota futurae” (Eneide, I, 712),
disgraziata, consacrata alla rovina imminente: infatti dopo un altro po’ di tempo dovrà morire
“misera ante diem” (IV, 697), disgraziata prima del suo giorno, come vedremo più avanti.
7
4.- Amore e angoscia
Il motivo della disgrazia d’amore è presente già nel carme 51, incentrato sul tema dell’incanto (e dello spavento) amoroso. Questo carme traduce l’ode di Saffo 2 D. fino al v.12; nell’ultima strofe abbandona il modello, forse per un altro, operando così una contaminatio.
Catullo accusa in particolare l’otium che all’autore procura un’esagerata eccitazione amorosa (otio exultas, v. 14) e, alludendo probabilmente al caso di Elena di Troia, conclude: “Otium
et reges prius et beatas / perdidit urbes” (vv. 15-16), lo stare senza far niente ha già mandato in
rovina re e città opulente.
Ille mihi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem: misero quod omnis
eripit sensus mihi. Nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi,
<post modo vocis;>
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est,
otio exsultas nimiumque gestis:
Otium et reges prius et beatas
perdidit urbis.
“Quello mi sembra essere simile a un dio / quello, se non è una bestemmia, superare gli dei / l’uomo che
sedendo di fronte continuamente ti / osserva e ti ascolta/mentre sorridi con dolcezza, il che a me infelice / porta
via tutti i sensi: infatti appena ti vedo, Lesbia, non mi rimane nemmeno / un filo di voce in bocca. / Ma la lingua si paralizza, sotto le membra sottile / scorre una fiamma, e diun suono loro / squillano le orecchie, gli occhi
si coprono/di una doppia notte. / Lo stare senza far niente ti fa male Catullo: / stando senza far niente ti esalti e ti sfreni troppo. / Lo stare senza far niente ha già mandato in rovina / re e città opulente”.
Diamo la traduzione dell’originale greco.
“Quello mi sembra pari agli dei
essere l’uomo che davanti a te
sta seduto e da vicino ti ascolta
dolcemente parlare
e sorridere amabilmente, cosa che a me certo
sconvolge il cuore nel petto:
appena infatti ti guardo per un momento, allora non
è possibile più che io dica niente
ma la lingua mi rimane spezzata,
un fuoco sottile subito corre sotto la pelle,
e con gli occhi non vedo nulla e mi
rombano le orecchie
e un sudore freddo mi cola addosso, e un tremore
mi prende tutta, e sono più verde
dell’erba, poco lontana dall’essere morta
appaio a me stessa
ma bisogna sopportare tutto poiché...”.
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Direi che le parole della poetessa greca sono più concrete non solo perché, come scrive Pavese “il realismo, in arte, è greco” (Il mestiere di vivere, 29 settembre 1946), ma anche perché nella donna l’amore mancato, o la gelosia qual è in questo caso il motivo della pena, infligge maggiore sofferenza corporea, come l’amore appagato dà più gioia anche fisica.
Un altro frammento di Saffo rappresenta lo sconvolgimento causato dall’amore come una
tempesta: “Eros mi ha squassato l’anima, come vento che nel monte si abbatte sulle querce”
(fr. 50 D.). “L’immagine è singolare e pertinente: l’amore scuote Saffo come il vento scuote le
querce, e il dato essenziale del paragone è che l’attacco è violento e fisico: la raffica improvvisa è simile al tipo di passione a cui ella si riferisce”. Così Bowra (La lirica greca da Alcmane a
Simonide, p. 264), ma lo scuotimento è anche mentale.
Amore come uragano e follia si trova successivamente nel frammento (6 D.) più famoso di
Ibico (seconda metà del VI secolo): “in primavera fioriscono i meli cotogni, alberi sacri ad
Afrodite, irrigati dalle correnti dei fiumi dov’è il giardino intatto delle vergini, e i fiori della
vite crescendo sotto i tralci ombrosi dei pampini sbocciano, ma per me Eros rimane sveglio e
tormentoso. Come Borea tracio, bruciante sotto la folgore, egli avventandosi dalla parte di
Cipride con aride follie, oscuro e impudente, con prepotenza e senza tregua fa la guardia al
mio cuore”.
“Questa visione di Eros divinità terribile per la follia che provoca nella vita umana, magico potere che impone all’uomo una condotta a lui estranea, trovava forse consonanze (non
ancora rilevate dalla critica) nella cultura tardo arcaica, se Simonide poteva rappresentare la
passione d’amore come assillo (oistros) di Afrodite, come divino potere ossessivo capace di
limitare in chi ne è posseduto la possibilità di essere valente nei termini dell’etica aristocratica dell’
. Di qui l’avvio verso opinioni, che diverranno correnti nella cultura del IV
secolo, di Eros demone distruttore da temersi per le catastrofi che suscita con le folli passioni, o dell’amore come malattia, come elemento negativo della
, o come fatto dell’io irrazionale. La struttura del frammento si articola nell’antitesi tra la figurazione realistica di un
giardino sacro alle ninfe, fiorente nel lieto rigoglio di primavera, e il destino del poeta custodito senza tregua da un Eros ardente e tempestoso come l’invernale vento di Tracia” (G.
Perrotta-B. Gentili, Polinnia, p. 299).
L’assillo potente di Afrodite tessitrice di inganni in Simonide è una delle cause (con la brama
di guadagno e quella delle contese) che possono impedire all’uomo di essere valente. L’assillo
che tormenta come persecuzione amorosa si trova anche in Eschilo: nel Prometeo incatenato la
fanciulla Iò bramata da Zeus e trasfigurata in mucca (v. 588), viene punta, perseguitata da un
tafàno (v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi (v. 569).
Dostoevskij attraverso Dimitri Karamazov interpreta lo struggente desiderio amoroso
come una tempesta nel sangue: “Sono tempeste, perché la lussuria è una tempesta più di ogni
altra”. Tali perturbazioni sono scatenate dalla bellezza: “La bellezza è una cosa terribile, una
cosa spaventosa. È terribile perché è indefinibile, e non si può definirla perché Dio l’ha circondata di enigmi” (I fratelli Karamazov, p. 160).
La sofferenza amorosa può essere tanto intensa da portare all’odio per la donna e al
desiderio di morire (v. vol. 1). L’uomo che riceve tormento dalla femmina a volte arriva a
desiderare la non esistenza di tale strumento di perdizione e di tortura.
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5.- Amore e contraddizione
In Catullo si ritrova il motivo dell’amore come squilibrio e contraddizione insanabile,
già presente nella poesia greca.
Molto noto è il distico elegiaco del carme 85 di Catullo:
Odi et amo . Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior 1.
Odio e amo. Forse tu domandi come faccia questo.
Non so, ma sento che accade e mi tormento.
Nel carme 8 il poeta rivolge un’apostrofe a se stesso per trovare la forza di uscire dallo
squilibrio che lo tormenta: “Miser Catulle, desinas ineptire” (v. 1).
“La logica che domina la poesia d’amore di Catullo è quella della contraddizione: nel compiaciuto e insistente ricorso all’autocommiserazione, che lo spinge addirittura a trasferire il
proprio ego in personaggi femminili (Arianna, Berenice)… Nell’ambito della logica della contraddizione è scontato che si debba assistere a tentativi di conciliazione degli opposti: nel c.
85 l’antitesi fra bene velle e amare si condensa nell’ossimorico odi et amo, mentre nel c. 92 a
Lesbia che parla male di Catullo fa da pendant un Catullo che la copre d’improperi e tuttavia
l’ama” (P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, I, p. 151).
Il tema odio-amore prosegue in Ovidio il quale negli Amores2 scrive: “Odi, nec possum
cupiens non esse quod odi” (II, 4, 5) odio e non posso non desiderare quello che odio.
Nei Remedia amoris il poeta di Sulmona rinnega questo atteggiamento tipico di anime poco
fini: “sed modo dilectam scelus est odisse puellam; / exitus ingeniis convenit iste feris. / Non curare sat
est; odio qui finit amorem, / aut amat aut aegre desinet esse miser” (vv. 655-658), ma è un delitto
odiare una ragazza amata fino a poco tempo prima; / una conclusione del genere si addice ad
animi rozzi. / Basta non curarsene; chi vuole finire l’amore con l’odio / o ama o con fatica
smetterà di essere disgraziato. Ma per Ovidio l’amore è un gioco.
Sulla linea dell’amore-odio Paolo Silenziario (VI sec. d. C), in uno dei suoi circa ottanta
epigrammi rimasti nell’Antologia Palatina considera l’oltraggio della donna che gli ha sbattuto la porta in faccia aggiungendo parole ingiuriose, come una forma di hybris che eccita ancora di più il suo folle amore (V, 256).
Ritroviamo la compresenza di stati d’animo contraddittori nell’ondeggiare psicologico e
sentimentale del Petrarca: “Pace non trovo e non ho da far guerra/ e temo e spero, et ardo e
son un ghiaccio,/e volo sopra ‘l cielo e giaccio in terra/e nulla stringo e tutto ‘l mondo abbraccio... Pascomi di dolor, piangendo rido,/egualmente mi spiace morte e vita:/in questo stato
son, Donna, per vui” (Canzoniere, CXXXIV).
Le coppie amore-odio e amore-morte tracceranno un lungo itinerario in letteratura.
il distico finale del carme 72: “Qui potis est?, inquis. Quod
amantem iniuria talis / cogit amare magis, sed bene velle
minus “(vv. 7-8), come può essere?, chiedi. Poiché una
tale offesa costringe l’amante ad amare di più ma a
voler bene di meno. E’ la conflittualità catulliana fra
sesso e amore” (Traina, Di fronte ai classici, p. 263).
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Composti tra il 18 e il 15 a C. in 5 libri, poi rielaborati e ridotti a tre, intorno all'1 a. C. Dell’1-2 a. C.
sono anche i Remedia amoris.
“Nota l’antitesi fra faciam e fieri: quello che accade
non è un qualcosa che Catullo sia in grado di controllare,
ma qualcosa che accade e che lui può solo subire, sentire
nelle sue conseguenze dolorose ... L’analisi razionale non
conduce al dominio dei sentimenti ma solo alla loro
osservazione, all’ammissione di trovarsi in loro balia” (G.
B. Conte, Scriptorium Classicum 2, p. 79).
L’ossimòro condensa la contraddizione lacerante
del poeta che dissocia l’amare dal bene velle: la componente sensuale da quella affettiva, come chiarisce bene
1
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5.- Amore, fides e amicitia
Nell’opus maximum di Catullo, il carme 64, di 408 esametri, ritroviamo la figura patetica
della donna abbandonata. Nelle tragedie greche Deianira (nelle Trachinie di Sofocle) e Medea
(nella tragedia omonima di Euripide) vengono tradite e lasciate sole dopo essere state per lo
meno sposate e resa madri. Non così Arianna del poeta latino.
La figlia di Minosse, piantata in asso da Teseo mentre dormiva nell’isola di Dia, al risveglio si dispera, corre come una puledra e impreca contro il perfido amante: “Sicine me patriis
avectam, perfide, ab aris, / perfide, deserto liquisti in litore, Theseu? / Sicine discedens neglecto numine divum / inmemor a! devota domum periuria portas?” (64, vv. 132-135): è così che tu, traditore, condottami via dal focolare paterno, mi hai abbandonata in una spiaggia deserta, Teseo,
traditore? È così che tu, fuggendo dopo avere disprezzato il potere dei numi, dimentico ah!
porti a casa i tuoi maledetti spergiuri? L’imprecante anafora Perfide “fa riferimento al suo
essere venuto meno alle promesse basate sulla fides, un principio cardine del carme” (G. B.
Conte, Scriptorium Classicum 2, p. 63).
Poco più avanti la ragazza rimpiange le nozze mancate:
“At non haec quondam blanda promissa dedisti / voce mihi, non haec, miserae, sperare iubebas, / sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos. / Quae cuncta aerii discerpunt irrita venti. / Nunc iam nulla viro iuranti femina credat /nulla viri speret sermones esse fideles /quis (= quibus) dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,
/ nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt; / sed simul ac cupidae mentis satiata libido est, / dicta nihil
metuere (= metuerunt, perf. gnomico), nihil periuria curan” ( 64, vv. 139-148)
Però non queste promesse mi facesti una volta con voce suadente, non questo mi inducevi, disgraziata a sperare, ma un matrimonio felice, ma le nozze desiderate. Tutte promesse che, vane, disperdono
i venti nell’aria. Ora nessuna donna creda più nell’uomo che giura, nessuna speri che siano sincere le
parole degli uomini; il loro animo libidinoso, finché agogna di ottenere qualcosa non teme di fare alcun
giuramento, non risparmia le promesse; ma appena è sazio il piacere del desiderio amoroso, non hanno
paura delle promesse, né si curano degli spergiuri.
“Sono proprio le false promesse di matrimonio che Arianna rimprovera con più veemenza
all’eroe in fuga: e l’intero episodio a tratti assume l’aspetto di un exemplum mitico dell’inattendibilità dei giuramenti d’amore maschili (vv. 139-148). Arianna arriva a dire che si sarebbe accontentata della condizione servile, pur di rimanere legata a Teseo (vv. 158-163): la sua
completa impotenza viene sintetizzata nell’impossibilità di fare ricorso da una parte al sostegno familiare, dall’altra a quello coniugale (vv. 180-183). Fuori da queste sfere di appartenenza, per la donna non sembra possibile trovare protezione” (M. Bettini, Letteratura latina,
2, p. 70).
Teseo pagherà il fio della sua perfidia. Arianna abbandonata glielo augura e lo prevede: “sed
quali solam Theseus me mente reliquit, / tali mente, deae, funestet seque suosque” (vv. 200-201), con
quale animo Teseo mi lasciò sola, con tale, o dee, getti nel lutto se stesso e i suoi.
In effetti Giove ascolta la preghiera e la nemesi si compie: “annuit invicto caelestum numine
rector” (v. 204), il re degli dèi annuì con il suo assenso invincibile. “La fides violata incorre qui
nella punizione divina: Arianna, credendosi ormai destinata alla morte, aveva invocato su
Teseo la maledizione degli dèi, e la sua preghiera non era rimasta inascoltata. Teseo è immemor tanto delle promesse ad Arianna (il matrimonio) quanto di quelle al padre (issare le vele
bianche) e questo suo carattere costante è quello che lo porta tanto a tradire la donna che lo ama
quanto a provocare la morte del proprio padre” (Conte, Scriptorium classicum 2, p. 89).
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In questo poemetto la vicenda di Arianna tradita la descrizione, in oltre 200 versi, della
storia ricamata sulla coperta del letto nuziale, inserita nelle nozze di Peleo e Teti, e il tradimento di Teseo è contrapposto all’amor, al foedus, alla concordia degli sposi con motivi tipici
dell’epitalamio: “nullus amor tali coniunxit foedere amantes, / qualis adest Thetidi, qualis concordia
Peleo” (vv. 355-356), nessun amore ha unito gli amanti con un patto tale quale la concordia
che c’è tra Peleo e Teti.
Per il poeta di Sirmione la lealtà reciproca è un valore di base in ogni relazione umana,
soprattutto in un grande amore, e la sua sofferenza deriva proprio dal mancato rispetto di tale
patto sacro da parte della donna che fu, afferma, “amata nobis quantum amabitur nulla” (8, 5),
amata da me quanto non sarà amata nessuna.
Catullo attribuisce la malafede anche alle femmine umane, e forse Teseo che abbandona
Arianna ai suoi occhi rappresenta il vendicatore delle infedeltà da lui stesso subite dalla propria donna: “Nulli se dicit mulier mea nubere malle / quam mihi, non si se Iupiter ipse petat. / Dicit;
sed mulier cupido quod dicit amanti / in vento et rapida scribere oportet aqua” (70 ), la mia donna
dice di non volere unirsi ad altri piuttosto che a me, neppure se Giove la corteggiasse. Dice
così, ma quello che la donna dice all’amante smanioso, bisogna scriverlo nel vento e nell’acqua che le porta via.
“Dicebas quondam solum te nosse Catullum, / Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem. / Dilexi tum
te non tantum ut vulgus amicam, / sed pater ut gnatos diligit et generos” (72, 1-4), una volta dicevi di conoscere profondamente solo Catullo, Lesbia, e di non voler possedere Giove piuttosto
che me. Allora ti ho amata non solo come il volgo un’amica, ma come il padre ama i figli e il
suocero i generi.
È interessante nosse del v. 1 poiché ci suggerisce che amare una persona costituisce la più
reale e profonda delle conoscenze. Ipsipile, regina di Lemno, un’altra vittima di Giasone, cui
rimprovera l’infedeltà, usa il verbo cognosco nello stesso senso: “Non ego sum furto tibi cognita;
pronuba Iuno” (Her. 6, 45) non hai avuto con me rapporti sessuali di nascosto; fu pronuba
Giunone. Insomma conoscere è amare e chi non ama non ha vere conoscenze.
Dell’amore “è scritto che chi ne fosse privo, anche se sapesse parlare tutte le lingue degli
uomini e degli angeli, altro non sarebbe che un rame risonante e un tintinnante cembalo” (Th.
Mann, Tonio Kröger, p. 285; l’autore cita la prima lettera ai Corinzi di Paolo, 13, 1). La stessa
idea si trova nel conoscere biblico: “Conoscere significa penetrare sotto la superficie, allo scopo
di giungere alle radici, e pertanto alle cause; significa “vedere” la realtà senza paludamenti…
non significa essere in possesso della verità, bensì andare sotto lo strato esterno e tentare, criticamente e attivamente, di avvicinarsi sempre più alla verità. Questo modo di penetrazione
creativa trova espressione nell’ebraico jadoa, che significa conoscere e amare nel senso della
penetrazione sessuale maschile” (E. Fromm, Avere o essere?, p. 63). Sembra che questo jadoa
corrisponda al nostro nosse .
D’Annunzio stabilisce tra la conoscenza e il piacere un nesso ancora più forte: la vita “ci
mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c’insegna
che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla natura e che colui il quale molto
ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito” (Il fuoco, del 1900, p. 95).
La perfidia amorosa allora è anche un tradimento intellettuale e conoscitivo.
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Sull’amore e la fides leggiamo i due distici del carme 87: “Nulla potest mulier tantum se dicere amatam / vere, quantum a me Lesbia amata mea est. / Nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta,
/ quanta in amore tuo ex parte reperta mea est”, nessuna donna può dire di essere stata amata
tanto sinceramente quanto la mia Lesbia è stata amata da me. Nessuna lealtà in alcun patto
fu mai tanto grande quanto nell’amore per te è stata trovata da parte mia.
A proposito del v. 3 Conte nota che “Foedus e fides sono legati etimologicamente: foedus è
“l’accordo”, il trattato stipulato secondo le sacre regole della fides” (Scriptorium classicum 2, p.
81). Fides insomma è il rispetto del foedus.
Nel carme 109 Catullo, ricorda a Lesbia la promessa fatta da lei di un amore non solo felice (iucundus) ma anche eterno (perpetuus), e nel pentametro conclusivo (v. 6) utilizza la parola
amicitia che “aveva per i Romani un significato più specifico che per noi, e indicava l’esistenza fra due persone di un legame di alleanza politica, basato sulla lealtà (fides ), che comportava sincerità e aiuto reciproci. Trasportati all’interno di una relazione sentimentale, questi
principi ne fanno ben altro che un’avventura irregolare.” (G. B. Conte, Scriptorium classicum 2,
P. 89). Il poeta chiede agli dei “ut liceat nobis tota perducere vita / aeternum hoc sanctae foedus amicitiae” (vv. 5-6), che sia concesso a lui e a Lesbia di portare avanti per tutta la vita questo patto
eterno di amicizia santa. Essa è tale quando è disinteressata, ossia non basata sulla considerazione dell’utile. Altrimenti è negotiatio, commercio2.
ne? Fidem iurata fefellit, / et facies illi quae fuit ante
manet... Longa decensque fuit: longa decensque manet. /
Argutos habuit: radiant ut sidus ocelli, /per quos mentita est
perfida saepe mihi. / Scilicet aeterni falsum iurare puellis /
di quoque concedunt, formaque numen habet” (Amores, III,
3, 1-2 e 8-12), devo credere che ci sono gli dèi? Ha tradito la parola data, / eppure le rimane l’aspetto che
aveva prima... Era alta e ben fatta; alta e ben fatta rimane. / Aveva gli occhi espressivi: brillano come stelle gli
occhi, / con i quali spesso la perfida mi ha ingannato. /
Certo anche gli dèi eterni permettono alle ragazze / di
giurare il falso, e la bellezza ha una potenza divina.
Ovidio conclude dicendo che dio è un nome senza
sostanza, oppure, se esiste, ama le belle fanciulle e certamente ordina che solo loro abbiano tutto il potere: “si
quis deus est, teneras amat ille puellas: / nimirum solas
omnia posse iubet” (Amores, III, 3, 25-26).
2
Ovidio invece consiglierà di usare l’amicitia come
il cavallo di Troia adatto a inoculare l’amore: “Nec semper Veneris spes est profitenda roganti; / intret amicitiae
nomine tectus amor. / Hoc aditu vidi tetricae data verba
puellae; / qui fuerat cultor, factus amator erat” (Ars
Amatoria, I, 717-720), non sempre la speranza d’amore
deve essere dichiarata da chi chiede; l’amore entri
coperto dal nome di amicizia. Con questo tipo di
ingresso ho visto raggirare una ragazza rigida; quello
che era stato l’amico era diventato l’amante.
1
L’Arianna dei Fasti (un calendario in distici composto fra il 3 e l’8 d. C. quando fu interrotto, dall’esilio,
al sesto dei dodici libri che dovevano essere; dovevano
illustrare gli antichi miti e costumi latini) toglie fiducia
a tutti gli uomini: “dicebam, memini, “periure et perfide
Theseu”: / ille abiit; eadem crimina Bacchus habet: / nunc
quoque “nullo viro” clamabo “femina credat” (Fasti, III,
475-477, dicevo, ricordo, “Teseo spergiuro e traditore”:
/ quello è andato via; Bacco commette lo stesso delitto:
/ anche ora esclamerò: “nessuna donna si fidi più di un
uomo”.
Del resto l’Arianna del carme di Catullo, come
Medea, ha tradito il padre e ha fatto morire il fratellastro, il Minotauro, per favorire l’uomo del quale era
innamorata: “Eripui, et potius germanum amittere crevi, /
quam tibi fallaci supremo in tempore deessem” (vv. 150151), ti salvai e decisi di perdere il fratello piuttosto che
non esserti vicina, traditore, nel pericolo estremo.
Ovidio riprende questo motivo, sia per quanto concerne Arianna tradita e la scarsa tenuta della parola dei
maschi, sia per la non credibilità della femmina umana
che è una creatura varia e sempre mutevole,”varium et
mutabile semper /femina”, come aveva già detto Virgilio
(Eneide, IV, 569-570).
Per quanto riguarda l’instabilità e l’inaffidabilità
delle giovani donne, il poeta di Sulmona negli Amores è
più comprensivo: il tradimento infatti non sciupa la bellezza e perfino gli dèi lo concedono: “Esse deos credam-
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Amore e fides
Secondo E. Benveniste: “Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo ha quest’uomo in suo
potere. Ecco perché fides diventa quasi sinonimo di potestas e di dicio. Nella loro forma primitiva,
queste relazioni comportano una certa reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno procurava
la sua garanzia e il suo appoggio. Ma proprio questo fatto sottolinea l’ineguaglianza delle condizioni”. A maggior ragione direi quando la fides è intrecciata con l’amore e chi la propone ama di più
e chi ama meno ha il sopravvento”. È dunque un’autorità che si esercita contemporaneamente a una
protezione su colui che vi si sottomette, in cambio e nella misura della sottomissione. Questa relazione implica potere di obbligare da una parte, obbedienza dall’altra. Lo si vede nella significazione precisa, molto forte, della parola lat. foedus (da *bhoides) stabilito all’origine tra contraenti di diseguale potenza” (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, p. 88).
Cicerone nel De Officiis dà una definizione della fides: “Fundamentum autem est iustitiae fides, id est
dictorum conventorumque constantia et veritas” (I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè
la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti. Subito dopo l’autore, imitando gli Stoici,
etimologizza fides con fiat quod dictum est, deve essere fatto ciò che si è detto. Similmente in De republica IV, 7: “Fides enim nomen ipsum mihi videtur habere, cum fit, quod dicitur”, la fedeltà mi sembra avere
il suo stesso nome quando si fa ciò che si dice.
Nel De amicitia (del 44 a. C.) la fides è indicata come fondamento di quella stabilità e costanza
che cerchiamo appunto nell’amicizia: “Firmamentum autem stabilitatis constantiaeque est eius, quam in
amicitia quaerimus, fides” (65).
“La fides significa l’abbandono, al tempo stesso fiducioso e completo, di una persona ad un’altra. Esso interviene (…) come salvaguardia dal vincolo sociale e in tutti i rapporti che collegano
l’individuo ai suoi simili, sia che si tratti del matrimonio, dei vincoli tra il cliente e il suo patrono,
oppure di una tutela, o dei contratti che itituiscono una società o stipulano le vendite. Fides significa dunque tributare a ciascuno ciò che gli è dovuto, nel rispetto degli accordi stabiliti. La fides si
instaura quindi solo allorché lo ius di ciascuno è riconosciuto e garantito dagli altri; essa è la condizione stessa di ogni vita sociale. Non ci si stupirà perciò che Cicerone possa dichiarare: - il fondamento di ogni giustizia è la fides vale a dire la fedeltà agli impegni presi e la sincerità nelle parole” (M. Meslin, L’uomo romano. Uno studio di antropologia, p. 216).
La fides è un valore forte non solo nei rapporti personali ma anche in quelli tra partiti e
stati. Le Storie di Livio sono piene di esempi di fides ricompensata; la fine della fides sarà motivo
di rimpianto in Tacito. La Sempronia del Bellum Catilinae di Sallustio è una donna la cui perfidia,
non meno della lussuria, è consona al suo ruolo di congiurata: “ea saepe antehac fidem prodiderat”
(25), ella spesso già prima aveva tradito la fede.
Osserva al proposito P. Fedeli: “Il foedus amoris si basa sul rispetto della fides che non solo è
uno degli elementi tradizionali della morale romana, ma è anche uno dei fondamenti del diritto. Si
tratta di motivo tipicamente repubblicano, che tuttavia sopravvive, con aspetti e formule di tipo
diverso, anche nel periodo imperiale (dalla fides praetorianorum alla fides militum alla fides legionum).
Riferendosi a un contratto fra due persone in seguito ad un foedus, la fides è nozione giuridica
oltreché morale. In amore essa implica non solo un accordo di tipo erotico, ma anche la ricerca
di un’unione morale che talora supera le barriere sociali (…) Se Properzio riprende il motivo da
Catullo” e anzi lo esaspera “ben diverso sarà l’atteggiamento di Ovidio, desultor amoris sin dai giovanili Amores e, poi, precettore di principi lontani dalla fides nell’Ars amatoria” (Lo spazio letterario
di Roma antica, I, p. 166, 167, 168). Infatti Quintiliano lo defisce “utroque lascivior” (Institutio oratoria, X, 1, 93), più lascivo dell’uno e dell’altro, ossia di Tibullo e Properzio.
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Sulla fides di Properzio offre altre considerazioni interessanti, sempre P. Fedeli: “Si tratta di
un patto che non si fonda solamente sulla passione erotica, ma include slanci di tenerezza, tentativi di raggiungere un livello di comprensione reciproca, momenti di sincero attaccamento. Per di
più la fides fa dell’amore un rapporto che neppure la morte può modificare: come Properzio si sforza di sottolineare in più d’una occasione, quello fra i due amanti è un legame che va al di là dell’umana esistenza. In I, 19 egli s’immagina che, quando nell’oltretomba incontrerà le più famose
eroine del mito, nessuna avrà lo stesso fascino di Cinzia” (Properzio, Elegie, Introduzione di Paolo
Fedeli, p. 19). Anche là lo spirito del poeta sarà per sempre della donna amata in vita: “traicit et fati
litora magnus amor” (I, 19, 13), un grande amore varca anche le rive del fato. “Nella toccante conclusione del discorso pronunciato dall’ombra di Cinzia nella 4, 7 – seguita il Fedeli – la rappresentazione dell’amore che continuerà nel mondo degli inferi si colora addirittura di accenti erotici, nell’immagine delle ossa del poeta che si strofinano e si confondono con quelle della sua amata”
(p. 19). Sentiamo le parole dell’umbra di Cinzia a Properzio: “nunc te possideant aliae: mox sola tenebo: / mecum eris et mixtis ossibus ossa teram” (IV, 7, 93-94), ora ti possiedano altre: presto ti avrò io
sola: sarai con me e sfregherò le ossa con le ossa mescolate. L’amante morta finalmente aderisce
al Cynthia prima fuit, Cyntia finis erit auspicato nel I libro ( 12, 20).
“La fedeltà ad un’unica donna accomuna Properzio alla generazione più recente degli
Alessandrini: Meleagro (autore di epigrammi, vissuto tra il 130 e il 60 a. C.), infatti, aveva proclamato la serietà dell’impegno erotico, opponendosi a quanti, come Callimaco, avevano visto nell’amore un semplice lusus senza obblighi di fedeltà. Ma Properzio va ben oltre, e lo si capisce sin
dalla prima elegia: egli intende addirittura servire l’amata e la sua è una condizione di schiavitù
(…) Questo atteggiamento costituiva una totale inversione di alcuni valori fondamentali della
morale romana, in cui la dedizione e il servitium erano obblighi della donna nei confronti dell’uomo: accettare il servitium significa, oltre che nullo vivere consilio [I, 1, 6, vivere senza alcun proposito sano, secondo la docenza di Amor improbus che gli insegnò perfino a odiare le ragazze caste:
“donec me docuit castas odisse puellas, v. 5], seguire la nequitia e rinunciare al tempo stesso ai vantaggi della vita socialmente impegnata; il poeta sa bene che questo atteggiamento farà di lui un
oggetto di biasimo in tutta la città (2, 24, 5 sgg.): ma l’amore è furor che divora e contro una simile malattia non esistono rimedi (P. Fedeli, Introduzione a Properzio, Elegie, pp. 19-20).
Altrettanto eterno sarà l’amore di Laura in una fantasia poetica del Petrarca (CCCII) che si
eleva con il pensiero nel cielo di Venere dove rivide la donna “più bella e meno altera”. Quivi la
splendidissima fece un gesto affettuoso e prese a parlare: “Per man mi prese e disse: “In questa
spera / sarai ancor meco, se il desir non erra: / i’ so’ colei che ti diè tanta guerra / e compie’ mia
giornata inanzi sera. // Mio ben non cape in intelletto umano: / te solo aspetto, e quel che tanto
amasti / e là giuso è rimaso, il mio bel velo” (vv. 5-11).
Nella letteratura contemporanea G. G. Marquez racconta la storia di un uomo che per cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni aspetta la donna di cui si era innamorato da ragazzo,
Fermina Daza, quando lei era la più bella ragazza del Caribe e aveva “un’andatura da cerva”. Al
funerale del marito, il dottor Urbino che l’aveva sposata per amore, riamato, Florentino Aziza, l’innamorato a vita, le disse: “Fermina, ho atteso questa occasione per più di mezzo secolo, per ripeterti ancora una volta il giuramento della mia fedeltà eterna e del mio amore per sempre” (Gabriel
Garcia Marquez, L’amore ai tempi del colera, p. 58).
17
Lusso
1.- Nudus amor
Ovidio (43 a. C. - 18 d. C.) manifesta una sensibilità nuova.
Il poeta “donnaiolo” nel poemetto sui cosmetici per le donne li legittima poiché “culta placent “(v. 7 dei Medicamina faciei femineae, uscito intorno all’1 d. C.), e nell’Ars Amatoria (dello
stesso periodo) afferma che è proprio l’eleganza a fargli preferire l’età moderna all’antica, presunta aurea: “prisca iuvent alios, ego me nunc denique natum / gratulor: haec aetas moribus apta
meis” (III, 121-122), i tempi antichi piacciano ad altri, io mi rallegro di essere nato ora dopo
tutto: questa è l’età adatta ai miei gusti, non perché, continua il Sulmonese, terre mari e monti
sono stati domati dall’uomo, “sed quia cultus adest nec nostros mansit in annos / rusticitas priscis
illa superstes avis” 127-128), ma perché c’è eleganza e non è rimasta fino ai nostri anni quella
rozzezza sopravvissuta agli avi antichi.
Mazzarino, menzionando gli autori favorevoli alla tecnica, indica Ovidio, “un poeta, non
uno storico”, come colui nel quale si trova “una reazione al diffuso concetto di decadenza, ed
una esaltazione del progresso tecnico, evidente, secondo lui, nell’attività industriale e commerciale sopravvenuta nel suo tempo (l’età di Augusto) (...) In fondo, si può dire che per l’uomo antico l’idea del progresso tecnico vive accanto a quella di decadenza; e talora è soffocata
da questa, e talora, invece, emerge e predomina, senza che questo “dualismo” implichi contraddizioni di notevole importanza” (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, p. 16).
A. La Penna, del quale seguirò diverse indicazioni contenute in un saggio del 1978, rileva la differenza tra la scelta di Ovidio e quelle di Properzio, Tibullo e anche di Orazio.
“Properzio, il raffinato callimacheo, resta abbastanza fedele a un ideale femminile che
sarebbe semplicistico definire arcaizzante, ma che del modello arcaico conserva un aspetto
essenziale, il rifiuto del cultus. La bellezza perfetta è quella più vicina alla natura. Non è
tra le sue elegie più felici, ma è tra le sue più celebri, quella (I 2) che sviluppa il concetto riassunto nel verso sentenzioso (8): “nudus Amor formae non amat artificem” (A. La Penna. Fra teatro, poesia e politica romana, p. 183), Amore nudo non ama la bellezza artefatta.
Quindi La Penna cita i primi sei versi di questa elegia (I, 2) collocata “subito dopo quella
che a modo suo fa da proemio (...) Quid iuvat ornato procedere, vita, capillo / et tenues Coa veste
movere sinus, / aut quid Orontea crines perfundere murra, / teque peregrinis vendere muneribus, /
naturaeque decus mercato perdere cultu, / nec sinere in propriis membra nitere bonis?”, a che giova,
vita mia, venire con i capelli adorni, e muovere flessuosità delicate in drappo di Coo, o cospargere i capelli di mirra dell’Oronte, e venderti a doni stranieri, e sciupare lo splendore della
natura con il lusso comprato, e non lasciare che le membra brillino della propria bellezza?
Properzio insomma ama Cinzia al naturale: “Crede mihi, non ulla tuae est medicina figurae” (v. 7), credimi, non c’è bisogno di correzione per la tua bellezza.
“Il cultus femminile – continua La Penna – rientra in quell’allargamento dei consumi che
richiede e favorisce importazioni dannose dalle provincie e dall’estero, specialmente dall’area
orientale: “peregrina munera, mercatus cultus”. La polemica contro gli ornamenti e il trucco è un
vecchio tovpo~ della letteratura erotica antica, ma la vitalità che gli ridà Properzio si scorge
80
anche dal legame con l’antica e sempre attuale polemica romana contro il lusso, che spesso
fa tutt’uno con la polemica contro le influenze greche e orientali” (p. 183).
Tuttavia “il fascino di Cinzia dipende molto proprio dalla sua modernità, dall’eleganza del
portamento, dalla grazia nella danza, dalla cultura letteraria e musicale, tutte cose che
possono anche conciliarsi con la mancanza di trucco, ma che ci portano lontano dalla natura
e stanno meglio con la raffinatezza del cultus (...) Del resto il modello femminile romano agrario-arcaico ha ben poco fascino su Properzio prima delle elegie romane” [quelle del IV libro,
del 16 a. C., che contiene episodi della storia romana arcaica] (ivi).
Nell’elegia dove vuole dimostrare che “nudus Amor formae non amat artificem” egli cerca
esempi probanti dapprima nella bellezza spontanea della natura (I 2. 9-14), poi nella
mitologia greca (15-24): non cerca esempi nella Roma arcaica o nella Sabina. Anche i
modelli di fides e pudor li cerca nella letteratura e nella mitologia greca. In questo resta fedele a Catullo: quando Catullo, nella chiusa del carme 64, storna con orrore gli occhi dalla
società romana contemporanea con i suoi odi feroci e la distruzione di ogni valore morale, non
li rivolge, come faranno Sallustio o Livio, verso la società romana arcaica, ma verso il mito
greco, verso il tempo in cui gli dèi frequentavano gli uomini ricchi di pietas” (p. 184).
Tibullo invece è “più attaccato al modello femminile arcaico”. E’ esemplare di tale
propensione “il famoso quadro di vita domestica che egli sogna mentre giace malato a Corcira
e che fa da chiusa all’elegia I 3 (83 sgg.): Delia, rimasta fedele al poeta lontano, ha accanto a
sé la vecchia madre, “sancti pudoris custos” (custode del sacro pudore); al lume della lucerna la
madre fila e racconta favole; una giovane schiava fila anche lei” (p. 185).
In effetti questo del poeta nato nel Lazio rurale sembra il quadro presentato da Tito Livio
per illustrare la virtù di Lucrezia: i giovani parenti del re Tarquinio la trovarono: “nocte sera
deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem” (I, 57, 9), a notte inoltrata,
intenta alla lana, tra le ancelle che lavoravano a lume di candela, seduta in mezzo alla casa. Il
desiderio di Tibullo insomma sarebbe che Delia fosse come questa sposa esemplare. Però “da
altre elegie del I libro sappiamo che la cortigiana Delia si adatta poco al modello; da altre del
II libro sappiamo che ancora meno vi si adatta la volubile Nemesi” (p. 185). Tibullo dunque
si trova a disagio nella metropoli, eppure “una parte notevole della sua poesia è radicata nella
vita galante di Roma”.
Nell’elegia programmatica di Tibullo (I, 1)troviamo il rimpianto del “modello etico arcaico, caratterizzato dalla pietas, dalla industria, dalla limitazione dei consumi” (La Penna, op. cit.,
p. 189)1 : “Divitias alius fulvo sibi congerat auro / et teneat culti iugera multa soli, / quem labor adsiduus vicino terreat hoste, / Martia cui somnos classica pulsa fugent:1 / me mea paupertas vita tradu[I, 3, 33-34. A me tocchi di celebrare i Penati patrii e di
offrire incensi mensili all’antico Lare] così invoca con
serietà non simulata. Qualcosa di liturgico, nella ripetizione di una formula consacrata, come parte del rito
sacrificale per il compleanno, si può rintracciare in una
delle sue elegie. Il focolare, da una scintilla del quale,
secondo una versione dell’antica leggenda, sarebbe
miracolosamente nato il bimbo Romolo, era ancora propriamente un altare” (W. Pater, Mario l’epicureo, pp. 1-2).
1
Walter Pater nel primo capitolo (intitolato La religione
di Numa) del suo Mario l’epicureo (del 1885) mette in
rilievo la sussistenza, nel poeta di Delia e Nemesi, della
“primitiva e più semplice religione patriarcale, la religione di Numa… Tracce di tale sopravvivenza si possono cogliere, al di là degli atteggiamenti meramente
artificiosi della poesia pastorale latina, in Tibullo, che ci
ha conservato molti particolari poetici delle antiche
consuetudini religiose di Roma: “At mihi contingat patrios
celebrare Penates / reddereque antiquo menstrua thura Lari”
81
cat inerti, / dum meus adsiduo luceat igne focus. / Ipse seram teneras maturo tempore vites / rusticus
et facili grandia poma manu;/nec spes destituat, sed frugum semper acervos/praebeat et pleno pinguia
musta lacu” (vv. 1-10), altri ammassi per sé ricchezza d’oro giallo e possieda molti iugeri di
terra coltivata, ma lo spaventi un’ansia continua per l’avvicinarsi del nemico, e la tromba di
Marte fatta suonare gli cacci il sonno: me il possesso di poco faccia passare una vita tranquilla,
purché il mio focolare brilli di un fuoco sempre acceso! Io stesso pianterò tenere viti nella stagione opportuna da contadino e grandi alberi da frutto con mano esperta; e la speranza non
mi deluda ma mi offra sempre mucchi di grano e mosto denso nel tino ricolmo.Qui come si vede essere rusticus (v. 8) non è un difetto; non è nemmeno un ostacolo all’amore poiché più avanti “il poeta contadino si trasforma in poeta innamorato (il passaggio
avviene mediante l’immagine dell’abbraccio notturno con la sua donna al riparo dall’ostile
mondo esterno, vv. 45-48). E, al v. 57, compare Delia. A lei il poeta consacra la propria esistenza, lasciando ad altri, in primo luogo al patrono Messalla, la gloria della guerra” (G. B.
Conte-E. Pianezzola, Il libro della letteratura latina, Edizione Modulare, 8, p. 459). Vediamo i
versi dell’abbraccio nel luogo rustico e protetto: “Quam iuvat immites ventos audire cubantem et
dominam tenero continuisse sinu. / aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster, / securum somnos igne iuvante sequi” (I, 45-48), quanto mi piace udire dal letto i venti furibondi e stringere
la signora dal morbido seno, oppure, quando l’Austro tempestoso versa gelide piogge abbandonarsi senza preoccupazioni ai sonni favoriti dal fuoco. Ecco una rusticari gradevole.
Quindi La Penna passa a Orazio “che, specialmente in amore, è poco sedotto da
modelli arcaici. Pirra è simplex, ma simplex munditiis” (Odi I, 5, 5), semplice nell’eleganza. Si
tratta di un’eleganza semplice eppure ricercata o per lo meno voluta.
L’aggettivo simplex qualifica la bellezza essenziale anche nell’Ode I 38 dove Orazio dichiara il suo odio per lo sfarzo dei Persiani: “Persicos odi, puer, adparatus... .Simplici myrto nihil adlabores / sedulus curo” (vv. 1 e 5-6), non voglio che tu ti affatichi con zelo ad aggiungere alcunché al semplice mirto. L’eleganza semplice è prescritta da Isocrate nello scritto parenetico (di
autenticità non certa, del 380 a. C. ca) A Demonico: cerca di essere nel tuo abbigliamento elegante ma non ricercato (27).
Sentiamo Conte: “Simplex munditiis è un ossimoro, perché i due termini hanno associazioni di significato opposte, la semplicità e la ricercatezza (munditia ) (...) Come ha detto bene
Romano, “il concetto classico di semplicità nell’eleganza è scolpito in questo ossimoro
che potrebbe essere assunto come motto del programma stilistico di Orazio” (G. B. Conte,
Scriptorium Classicum 3, p. 22).
rizzato dall’insonnia. -dum…luceat: proposizione condizionale con sfumatura restrittiva.-
1
somnos…fugent: la mancanza di sonno può essere causata dalla guerra o dall’ambizione. Il tiranno è caratte-
82
2.- Prudens simplicitas
Del resto, anche Cicerone consigliava una semplicità elegante al suo gentiluomo quando
pone le basi del galateo nel De Officiis (del 44 a. C.): “quae sunt recta et simplicia laudantur. Formae
autem dignitas coloris bonitate tuenda est, color exercitationibus corporis. Adhibenda praeterea munditia est
non odiosa nec exquisita nimis, tantum quae fugiat agrestem et inhumanam neglegentiam. Eadem ratio est
habenda vestitus, in quo, sicut in plerisque rebus, mediocritas optima est” (De Officiis, I, 130), viene lodata la naturalezza e la semplicità. Ora la dignità dell’aspetto deve essere conservata mediante il bel
colore dell’incarnato, il colore con gli esercizi fisici. Inoltre deve essere impiegata un’eleganza non
fastidiosa né troppo ricercata, basta che eviti la trascuratezza contadinesca e incivile.
La semplicità insomma non è rozza, sprovveduta e inopportuna ma voluta e conquistata. Lo
stesso criterio deve essere adottato nel vestire, dove, come nella maggior parte delle cose la via di
mezzo è la migliore. Per quanto riguarda la conversazione, il De officiis consiglia: “maximeque
curandum est, ut eos, quibuscum sermonem conferemus, et vereri et diligere videamur... Deforme etiam est
de se ipsum praedicare, falsa praesertim, et cum inrisione audentium imitari militem gloriosum” (I, 136,
137), e soprattutto bisogna stare attenti a mostrarsi rispettosi e affettuosi con quelli con i quali
parleremo... indecoroso è anche dire bene di se stesso, soprattutto falsamente, e imitare il soldato
millantatore in mezzo allo scherno di quanti ci odono.
La medesima mediocritas è consigliata da Seneca, che biasima la moda seguita soprattutto da
cinici e stoici e suggerisce a Lucilio di evitarla: “asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem
barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur evita” (Epist., 5, 1), evita una mancanza di cura ferina e la testa incolta e la barba troppo trascurata e l’odio dichiarato all’argenteria e il giaciglio posto a terra e tutto il restante apparato che
segue l’ambizione per una via distorta. Per Seneca è auspicabile la via di mezzo: “non splendeat
toga, ne sordeat quidem” (5, 3), non brilli la toga, ma neppure sia sudicia. Gli atteggiamenti estremi
possono riuscire “ridicula et odiosa” (5, 4).
Il proposito del filosofo stoico è vivere secondo natura: “Nempe propositum nostrum est secundum
naturam vivere: hoc contra naturam est, torquere corpus suum et faciles odisse munditias et squalorem adpetere et cibis non tantum vilibus uti sed taetris et horridis. Quemadmodum desiderare delicatas res luxuriae
est, ita usitatas et non magno parabiles fugere dementiae. Frugalitatem exigit philosophia, non poenam; potest autem esse non incompta frugalitas” (5, 4-5), evidentemente il nostro progetto è vivere secondo natura: è contro natura questo tormentare il proprio corpo e odiare l’eleganza a portata di mano, e cercare lo squallore e fare uso di cibi non solo a buon mercato ma disgustosi e ripugnanti. Come è
segno di dissolutezza desiderare le raffinatezze, così è segno di pazzia evitare i beni comuni e procurabili a prezzo non grande. La filosofia reclama la misura non la tortura; del resto la misura può
essere non disadorna. In ogni modo, se è stupido chi valuta un cavallo dalla sella e dalle briglie, è
stupidissimo chi giudica l’uomo dall’abbigliamento o dalla condizione sociale che ci sta attorno
come un abito: “stultissimus est qui hominem aut ex veste aut ex condicione, quae vestis modo nobis circumdata est, aestimat” (47, 16).
La semplicità non rozza e sprovveduta viene definita prudens simplicitas, semplicità accorta, da
Marziale (X, 47, v. 7) il quale la considera uno dei mezzi che abbelliscono la vita (vitam quae faciant
beatiorem, v. 1).
Secondo La Penna: “Il quadro più fascinoso del modello femminile “moderno” è stato dipinto
proprio da Orazio: è il quadro della bellezza elegante della moglie di Mecenate” (p. 185). L’autore
allude all’Ode II 12 dove la giovane e splendidissima Licimnia è ricordata mentre danza e gareggia
di spirito senza dedecus e senza che il suo fidum pectus (v. 16), il cuore fedele, vacilli.
83
Non che Orazio non avverta i pericoli della “modernità”. Egli nelle odi civili “alle seduzioni della matura virgo, presto moglie adultera, contrappone la severa madre sabina che fa lavorare duramente i suoi figli (Carm. III 6. 17-44); non dico che si tratta di preoccupazioni fittizie: la
società, per evitare la rovina, doveva arrestare la corruzione; Orazio, però, si trovava a suo agio
in un altro mondo, dove per salvarsi non c’era bisogno di tornare al rigore arcaico” (La
Penna, op. cit., p. 185).
Giorgio Pasquali sostiene che “ai tempi di
Augusto matrimoni d’amore dovevano avvenire, se proprio una lex Iulia, citata dal giureconsulto Marciano
(Dig. 23, 2, 19) proteggeva i figli e le figlie contro l’arbitrio del padre che non volesse senza giusta ragione
consentire a un matrimonio da essi desiderato. La relazione tra Mecenate e Terenzia sono descritte da Orazio
stesso non diverse dalla vita comune di due amanti. Il
poeta conferma a Mecenate che la Musa volle che egli
dicesse il canto di lei, i suoi occhi fulgidi, il petto fido
agli amori mutui: II 12, 13 me dulcis dominae Musa
Licymniae / cantus, me voluit dicere lucidum / fulgentis
oculos et bene mutuis / fidum pectus amoribus” (G.
Pasquali, Orazio lirico, p. 488). E’ la quarta delle sette
strofe asclepiadee prime che formano l’ode. Le tre precedenti contengono la recusatio, il rifiuto dell’epos storico e della poesia di argomento mitologico, generi per
i quali l’autore non è portato. Vediamo la traduzione di
questi versi con i quali il poeta entra in medias res : a me
la Musa ha imposto dolci canti per Licimnia signora,
che io dica degli occhi splendidamente brillanti e del
cuore santamente fedele al reciproco amore.- dulcis =
dulces.- fulgentis (= fulgentes) oculos: si ricordi la scheda
sugli occhi. Licimnia è Terenzia, la moglie di
Mecenate.
Sentiamo ancora Pasquali: “Di lei il poeta vanta
non solo la prontezza di spirito nel conversare, ma la
grazia che, fanciulla, aveva dimostrato nel danzare, sia
pure non motus ionicos ma balli più adatti a una ragazza di buona famiglia, la quale danzando pensi solo a
compiere un dovere religioso: quam nec ferre pedem dedecuit choris / nec certare ioco nec dare brachia / ludentem
nitidis virginibus sacro / Dianae celebris die” (vv. 17-20),
per lei non fu sconveniente muovere il passo alle danze
né gareggiare con lo spirito né porgere le braccia mentre giocava alle vergini eleganti nel giorno sacro a
Diana assai festeggiata. “Avrebbe cent’anni prima un
poeta romano osato lodare abilità di tal genere in una
donna?, in una fanciulla?” (G. Pasquali, Orazio lirico, p.
488).
Su Mecenate e la sua irreprensibile moglie
tutt’altra testimonianza dà Seneca, quando il potente patrono della cultura era morto da diversi decenni:
“Feliciorem [rispetto a Regolo indicato come documentum fidei, documentum patientiae, modello di lealtà e resistenza, De providentia, III, 9, composto negli ultimi anni
di vita del filosofo] ergo tu Maecenatem putas, cui, amoribus anxio et morosae uxoris cotidiana repudia deflenti, somnus per symphoniarum cantum ex longiquo lene resonantium
quaeritur?” (De providentia, III, 10), consideri dunque
più fortunato Mecenate, che, agitato da passione amorosa e addolorato per il quotidiano rifiuto di una moglie
capricciosa, cerca il sonno per mezzo di canti accompagnati da strumenti musicali che suonano dolcemente da
lontano?
Le mode e i costumi cambiano rapidamente, quem
ad modum temporum vices, quasi come le stagioni: la
danza e lo spirito praticati dalla Sempronia di
Sallustio, nemmeno cinquant’anni prima, erano considerati “instrumenta luxuriae : “litteris Graecis, Latinis
docta, psallere saltare elegantius quam necesse est probae,
multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt” (Bellum
Catilinae, 25), sapeva di greco e di latino, suonare, danzare più elegantemente di quanto si convenga a una
donna per bene, e molte altre arti che sono strumenti di
lussuria.
Del resto gli stessi strumenti possono essere usati
con fini diversi, perfino opposti: Sempronia aveva tradito la fede (fidem prodiderat) un valore, si è visto, che
appartiene all’ambito erotico, giuridico e morale.
Vedremo che non dissimile da questa donna “malamente” evoluta è la Poppea di Tacito.
“Orazio osa di più, esalta le arti che essa sa adoperare per aguzzare e per irritare l’amore o diciamo pure
la sensualità del marito: flagrantia detorquet ad oscula
cervicem, aut facili saevitia negat, quae poscente magis gaudeat eripi, interdum rapere occupet (vv. 25-28), volge il
collo ai baci ardenti, o con affabile crudeltà nega quelle carezze che gode di lasciarsi strappare più di chi le
chiede e talvolta è la prima a strappare? “Le parole ultime ricordano il pignus dereptum lacertis aut digito male
pertinaci (Ode I, 9, 23-24, il pegno strappato alle braccia o al dito che resiste appena), salvo che il poeta parla
forse qui con più franchezza della moglie dell’amico e
protettore che non facesse colà della puella indeterminata. L’avrebbe fatto se il matrimonio di Mecenate non
fosse stato un matrimonio d’amore? L’abisso che in
civiltà primitive si apre tra l’amore e il matrimonio, era
colmato, si vede bene di qui, nell’età augustea” (G.
Pasquali, Orazio lirico, p. 489).
84
3.- Ovidio: cultus e amor
Veniamo a Ovidio. In questo poeta la tragedia amorosa diventa lusus, e il dio doloroso, o
piuttosto il demone del dolore (Apollonio Rodio, Le Argonautiche, IV, 64), che porta Medea alla
sofferenza e alla follia, diventa un dio ludico nelle mani del tenerorum lusor amorum (Tristia, IV,
10, 33), cantore dei teneri amori (così si definisce il poeta in esilio, con rimpianto). “Il suo, dunque, sarà un lusus ricco di raffinatezza e di eleganza, pervaso di sottile ironia nei confronti dei
predecessori” (P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, 1, 156).
L’Ars amatoria (in distici elegiaci) costituisce una precettistica erotica in tre libri: nei primi
due il poeta fa il maestro d’amore agli uomini, nel terzo alle donne. Questa raccolta a sfondo
didascalico fu completata nell’1 o nel 2 d. C., come i Remedia amoris e i Medicamina faciei femineae.
Alla fine dell’Ars Amatoria leggiamo: “Lusus habet finem... Ut quondam iuvenes, ita nunc, mea
turba, puellae/inscribant spoliis Naso Magister Erat” (III, 809 e 811-812), il gioco è finito... Come
una volta i giovani, così ora le ragazze, mio seguito, scrivano sulle prede Nasone Fu Il
Maestro. Di questo magistero amoroso impartito ai giovani, maschi e pure femmine, il poeta
dovrà pentirsi e dolersi: nei Tristia scritti in esilio (11-12 d C.) ricorda che duo crimina lo
hanno mandato in rovina: carmen et error (II, 207); l’error è uno sbaglio, mai chiarito, nei rapporti del poeta con l’imperatore che ne è rimasto offeso e il carmen turpe è l’Ars Amatoria
per la quale Ovidio viene accusato di essersi fatto maestro di immondo adulterio: “arguor
obsceni doctor adulterii” (II, 212).
“La disinvoltura con cui la materia viene trattata indica il distacco che si è consumato nei
confronti della precedente esperienza elegiaca. Il protagonista degli Amores [in distici elegiaci; composti tra il 18 e il 15 a C. in 5 libri, poi rielaborati e ridotti a tre, intorno all’1 a. C.] è
anticonformista, spregiudicato, libertino, impertinente: e poiché non prende sul serio la morale tradizionale romana, e neanche fa dell’amore un mondo di valori nuovi e alternativi rispetto a quelli dominanti nella tradizione e nella società, tutto per lui diventa un lusus elegante e
raffinato. L’esito naturale di questa nuova interpretazione dell’elegia sarà la didascalica amorosa dell’Ars amatoria e dei Remedia amoris costruiti per gioco sul modello della poesia didascalica seria, questi trattati si proporranno esplicitamente di insegnare l’uno il codice erotico
della società galante, gli altri gli antidoti contro la seduzione insegnata” (G. B. Conte,
Scriptorium 2, p. 164).
Osserva La Penna: “in Ovidio troviamo l’irrisione aperta della rusticitas, è Ovidio che della
negazione della rusticitas fa un aspetto essenziale del suo mondo galante” (op. cit., p. 188).
“La trattazione del libro dedicato alle donne”, il terzo, “incomincia, dopo il lungo proemio,
con una specie di inno al cultus (Ars III 101-128). Il passo è celebre (...) Senza cultus non
avremmo i frutti della terra, il vino e le messi. La forma, la bellezza, è dono divino; è il cultus
che dà la bellezza anche a chi non l’ha. Si obietta che le donne dei tempi antichissimi non
ricorsero al cultus: è perché i mariti, duri soldati, erano rozzi, senza gusto. La rudis simplicitas
caratterizzò la Roma arcaica; ma nunc aurea Roma est, e alla splendida Roma di oggi, coi suoi
superbi edifici, corrisponde meglio il cultus. Si colloca qui la più esplicita professione di modernità lanciata da Ovidio (121 sg.): Prisca iuvent alios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec
aetas moribus apta meis” (La Penna, op. cit., p. 188), le anticaglie piacciano agli altri, io mi compiaccio di essere nato solo ora: questa è l’età adatta ai miei gusti.
E’ un ribaltamento del mito dell’età dell’oro: il presunto “paese guasto” è più pia85
cevole e gradito del “mondo casto” (Dante, Inferno, XIV, 94 e 96). Anche all’inizio dei
Medicamina faciei Ovidio,come abbiamo visto, proclama: “culta placent” (v. 7), piace ciò che è
curato: i palazzi, la terra, la lana, le donne.
Un cultus che include la cura del corpo e dello spirito. “Ordior a cultu” (Ars amatoria, III,
101). Così Ovidio inizia, dopo il lungo proemio, la precettistica riservata alle donne nel terzo
libro. Cultus, riferito come qui alla vita della donna, indica più o meno la “cura della persona” e quindi la “raffinatezza” (Conte-Pianezzola, Il libro della letteratura latina, Edizione
Modulare, 8, p. 513).
A proposito dell’Ars Amatoria, La Penna cita “forma sine arte potens” (III, 258), la bellezza
è una potenza senza artifici, ma, fa notare, “tutta l’opera si colloca al di là della natura, dell’istinto, anche della sensualità, ed esalta l’efficacia dell’usus e del cultus”. Grazie all’usus le
donne non più giovani perpetuano il loro fascino (Ars II 675 sgg.) e vincono la lotta contro
il tempo (677): “Illae munditiis annorum damna rependunt” (p. 187), quelle con l’eleganza compensano i danni del tempo. E, aggiunge Ovidio, con i trattamenti di bellezza fanno in modo di
non sembrare vecchie: “et faciunt cura, ne videantur anus” (678). E’ anche l’usus del resto, l’esperienza, che rende appetibili le non più giovanissime: “utque velis, Venerem iungunt per mille figuras:
/ invenit plures nulla tabella modos” (679-680), e, purché tu lo voglia, fanno l’amore componendo
mille figure; nessun quadro ha trovato più posizioni.
Un altro encomio del cultus si trova nei primi versi dei Medicamina faciei .
“L’elogio del cultus collocato all’inizio dei Medicamina faciei esalta più ampiamente che
quello collocato nel III libro dell’Ars l’importanza del cultus nella lavorazione della terra, nel
mutamento delle condizioni naturali. Segue l’elogio del cultus in quanto dà splendore e lusso
alle abitazioni e all’abbigliamento (7-10): “Culta placent: auro sublimia tecta linuntur; / nigra sub
imposito marmore terra latet; / vellera saepe eadem Tyrio medicantur aëno; / sectile deliciis India
praebet ebur” (p. 198), le cose curate piacciono: gli alti palazzi vengono coperti d’oro; la terra
nerra rimane nascosta sotto il marmo sovrapposto; spesso anche la lana è tinta con una caldaia di Tiro; l’India offre al lusso avorio intarsiato1.
I versi successivi contrappongono “con disprezzo, anche se temperato dalla comicità, la
rusticitas dei tempi antichi” al lusso moderno: “Forsitan antiquae Tatio sub rege Sabinae /
maluerint quam se rura paterna coli, / cum matrona, premens altum rubicunda sedile, / adsiduo
durum pollice nebat opus, / ipsaque claudebat, quos filia paverat, agnos, / ipsa dabat virgas caesaque
ligna foco” (Medicamina faciei, vv. 11-16), forse le antiche Sabine sotto il re Tazio preferirono
curare i campi paterni piuttosto che se stesse, quando la sposa, seduta arrossata sull’alto sgabello, filava con pollice instancabile il suo duro lavoro, e lei stessa chiudeva gli agnelli che la
figlia aveva portato al pascolo, lei stessa metteva verghe e legna fatta a pezzi sul focolare.
Le antiche Sabine erano delle contadinone prive di grazia. Tutt’altra posizione nei confronti dei Sabini è quella di Tito Livio che elogia l’educazione severa e rigida di quel popolo
“quo genere nullum quondam incorruptius fuit” (I, 18, 4), del quale mai alcuno anticamente fu più
austero. Un epigramma di Marziale (XI, 15) comprende entrambe queste posizioni: il poeta
afferma di avere scritto anche chartae austere leggibili dalla moglie di Catone e dalle Sabine qualificate come horribiles (vv. 1- 2).
passato, adesso Roma è d’oro e possiede le grandi ricchezze del mondo sottomesso.
1
Nel III libro dell’Ars amatoria si legge: “Simplicitas
rudis ante fuit, nunc aurea Roma est / et domiti magnas possidet orbis opes” (vv. 113-114), la rozza semplicità è del
86
Subito dopo Ovidio nei Medicamina faciei “torna ai tempi moderni per giustificare pienamente il bisogno di cultus da parte delle puellae; e non si tratta di abbigliamento a buon
mercato” (La Penna, op. cit., p. 199): At vestrae matres teneras peperere puellas: / vultis inaurata
corpora veste tegi, / vultis odoratos positu variare capillos, / conspicuam gemmis vultis habere
manum;/induitis collo lapides oriente petitos, / et quantos onus est aure tulisse duos” (Medicamina
faciei, vv. 17-22), invece le vostre madri hanno partorito fanciulle delicate: volete che il corpo
sia coperto da veste intessuta d’oro, volete mutare con l’acconciatura i capelli profumati, volete avere una mano che colpisce lo sguardo con i gioielli; mettete al collo perle cercate in oriente e all’orecchio due così grandi che è faticoso reggerle.
Le donne non si possono biasimare per questo, tant’è vero che la moda del lusso è stata
accolta anche dagli uomini: “Nec tamen indignum: sit vobis cura placendi, / cum comptos habeant
saecula vestra viros. / Feminea vestri potiuntur lege mariti, / et vix, ad cultus, nupta, quod addat, habet”
(vv. 23-26) tuttavia non è disdicevole: abbiate pure cura di piacere, dal momento che la vostra
generazione presenta uomini eleganti. I vostri mariti si impossessano della consuetudine femminile e la sposa ha appena qualcosa da aggiungere alle loro ricercatezze.
In alcuni casi Ovidio ci presenta le proprie osservazioni “in modo ambiguo”, attribuendole a personaggi poco attendibili. Per esempio, una contrapposizione fra le formosae audaci di
oggi e le sporche Sabine delle origini di Roma è elaborata da una lena, una mezzana (Am. I 8.
39 sgg.): Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae / noluerint habiles pluribus esse viris; / nunc
Mars externis animos exercet in armis, / at Venus Aeneae regnat in urbe sui. / Ludunt formosae:
casta est quam nemo rogavit; / aut si rusticitas non vetat, ipsa rogat”, forse le sporche Sabine sotto
il regno di Tazio non avranno voluto essere disponibili per più uomini; ora Marte tiene occupati gli animi in guerre straniere, ma è Venere che regna nella città del suo Enea. Le belle si
divertono: è casta quella cui nessuno ha fatto proposte; oppure se non lo impedisce la selvatichezza, è lei che fa le proposte.
E ovviamente non sono sempre proposte decenti.
“Altrove – continua La Penna – negli Amores è la stessa impostazione di giuoco sofistico
che toglie aggressività all’irrisione della rusticitas : cito, per esempio, un passo di III 4 (37
sgg.), l’elegia dove si vuole dimostrare che è meglio lasciare le puellae senza sorveglianza:
Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx, / et notos mores non satis Urbis habet, / in qua
Martigenae non sunt sine crimine nati, / Romulus Iliades Iliadesque Remus” (p. 186). E’ davvero
rozzo quello che una moglie adultera offende e non conosce bene i costumi di Roma nella
quale i figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il figlio di Ilia Remo1.
che vuole giocare a palla viene ripreso da Apollonio Rodio:
nelle Argonautiche Afrodite promette al figlio che, se farà
innamorare Medea di Giasone, gli regalerà una palla fatta
di cerchi dorati che lanciata lascia nell’aria un solco splendente, come una stella (III, v. 141). Allora il fanciullo pregava la madre di dargliela subito (v. 148).
Amore come dio giocoso appare già in Anacreonte
che nel fr. 5 D. rappresenta Eros chiomadoro mentre con
una palla purpurea colpisce il poeta, ormai vecchio, e lo
invita a giocare con una fanciulla dal sandalo variopinto; il
gioco del resto non esclude la tristezza poiché la ragazza di
Lesbo critica la chioma oramai bianca dello spasimante
anziano e rimane a bocca aperta davanti a un’altra. Eros
1
87
4.- Lusus et pudor
Procediamo con i suggerimenti di Ovidio. “L’ambiguità giocosa investe, naturalmente,
anche l’Ars amatoria (...) Il pudor è bandito come rusticus, almeno da una certa fase in poi
della strategia di conquista della donna” (La Penna, op. cit., p. 187). Del resto è pur vero che
“la strategia amorosa si sa adoperare soltanto quando non si è innamorati” (C. Pavese, Il
mestiere di vivere, 24 ottobre 1940).
Ovidio consiglia al corteggiatore l’audacia e la facondia che sarà nutrita dalla forza del
desiderio: è il rem tene verba sequentur di Catone trasferito in campo erotico: “fac tantum cupias,
sponte disertus eris” (Ars Amatoria, I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza sforzo. Per la conquista parlare è decisivo: la parola audace e suadente metterà in fuga il rusticus
Pudor: “Conloqui iam tempus adest; fuge rustice longe / hinc Pudor: audentem Forsque Venusque
iuvat”, I, 605-606), è già tempo di parlarle; fuggi lontano di qui, rozzo Pudore, la Sorte e
Venere aiutano chi osa.
“Non solo le goffe e rozze sabine, ma anche eroine greche fanno le spese della satira
contro la rusticitas. Per esempio, sarebbe interessante vedere come vengono trattate nelle
opere erotiche di Ovidio Penelope, Andromaca, Tecmessa. Mi limito a un solo esempio: è
Penelope stessa a dirci che cosa pensa di lei il suo raffinato ed esperto marito (Her. I. 77 sg.):
Forsitan et narres quam sit tibi rustica coniunx, / quae tantum lanas non sinat esse rudes” (p. 186),
forse a lei racconti quanto sia rozza tua moglie, la quale soltanto alla lana non permette di
essere ruvida (“lei” è la straniera che tiene Ulisse peregrino amore, v. 76: lo stesso tipo di relazione che Deianira rinfaccia a Eracle in Heroides IX, 49).
“Ma nel mito greco si possono trovare ben altre figure femminili adatte a simboleggiare e
a proclamare il libero e raffinato gusto moderno. In un’eroina del genere è trasformata la tragica Fedra, che interpreta a suo modo il passaggio dal regno di Saturno al regno di Giove:
quello fu il regno della pietas e della rusticitas, questo il regno della libertà e del piacere (Her.
4. 131 sgg.): Ista vetus pietas, aevo moritura futuro, / rustica Saturno regna tenente fuit; / Iuppiter
esse pium statuit quodcumque iuvaret / et fas omne facit fratre marita soror” (p. 187), questa vecchia
bontà destinata a morire in futuro, c’era quando Saturno governava rozzi regni; Giove stabilì
che fosse buono tutto quanto piaceva e rende del tutto naturale che la sorella sia sposata al fratello. La cretese innamorata ovviamente scrive a Ippolito per convincerlo a soddisfare i suoi
desideri come del resto fece il toro con Pasifae: “Flecte, ferox animos: potuit corrumpere taurum/mater: eris tauro saevior ipse truci?” (vv, 165-166), piega superbo i tuoi sentimenti: mia
madre poté sedurre un toro: sarai tu più feroce di un toro tremendo?
E’ questo il mito, irriso da Ovidio, delle Cretesi pervertite, nato, probabilmente, quando i guerrieri micenei, poco dopo la metà del secondo millennio, invasero Creta e videro le
raffigurazioni di donne troppo libere e discinte rispetto ai loro canoni.
“Paride, per riguardo di Elena, non tratta Sparta come la lena trattava le Sabine di Tazio,
ma la ritiene indegna della bellezza di Elena (Her. 16. 191 sgg.): Parca sed est Sparte, tu cultu
divite digna;/ad talem formam non facit iste locus; / hanc faciem largis sine fine paratibus uti/deliciisque decet luxuriare novis. / Cum videas cultus nostra de gente virorum, qualem Dardanias credis
habere nurus?” (La Penna, op. cit., p. 187), ma Sparta è scarsa, tu sei degna di ricca raffinatezza; a tale bellezza non si addice questo luogo; a quest’aspetto si confà l’uso di vesti infinitamente copiose e abbondare di delizie mai viste. Vedendo l’eleganza degli uomini della nostra
gente, quale credi che abbiano le ragazze troiane?
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Questo fu uno degli argomenti, o dei pensieri, che spinsero Elena all’adulterio secondo
Ecuba la quale, nelle Troiane di Euripide, accusa la maliarda di avidità non solo sessuale.
“Tra gli amanti infedeli è menzionato Enea, che causò la morte di Didone; e tuttavia egli
“famam pietatis habet” (Ars III 39): giocosa polemica con Virgilio che aveva giustificato il suo
pio eroe. Anche gli elogi del cultus vanno letti nel contesto della polemica libertina col regime (...) Con Augusto (...) la società romana guariva dalla crisi tornando al modello etico
arcaico, caratterizzato dalla pietas, dall’industria, dalla limitazione dei consumi, ecc.
Questa concezione “catoniana” della crisi e della sua soluzione veniva raccordata abbastanza
bene con una concezione soteriologica e messianica di più vasta risonanza: ritorno dell’età
dell’oro (...) ” (La Penna, op. cit., p. 190), che abbiamo visto nell’elegia programmatica di
Tibullo (I, 1).
Una significativa contrapposizione di Ovidio a Esiodo, in particolare al proemio della
Teogonia, viene individuata da La Penna nel proemio dell’Ars Amatoria dove l’autore “non si
proclama ispirato da Apollo e dalle Muse (...) la fonte della nuova opera è l’esperienza: “usus opus
movet hoc” [v. 29, è l’esperienza che fa nascere quest’opera]; in base all’esperienza egli canterà il
vero (“vera canam”, 30) (e in questo credo che Ovidio non si contrapponga più ad Esiodo, ma gli
si accosti). L’unica divinità che viene invocata è Venere” (op. cit., p. 198).
La proclamata pratica del vero risente non direi tanto di Esiodo, cui le Muse dell’Olimpo
si presentarono con queste parole: noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo, quando vogliamo anche far sentire la verità (Esiodo, Teogonia, vv. 27-28), quanto piuttosto della lezione storiografica di Tucidide che “legiferò” non solo per gli storiografi.
Polibio che ripete formule tucididèe potrebbe sottoscrivere queste parole di Ovidio: “usus opus
movet hoc: vati parete perito; / vera canam” (Ars I, 29-30), l’esperienza fa nascere quest’opera:
obbedite al poeta esperto; canterò fatti veri.
La dea è indicata come il nume che ha designato nel poeta il maestro artista, pilota e auriga dell’amore: “me Venus artificem tenero praefecit Amori; / Tiphys et Automedon dicar Amoris ego”
(Ars Amatoria, I, vv. 7-8), Venere mi ha preposto a foggiare il delicato amore; io sarò chiamato il Tifi (il pilota della nave Argo) e l’Automedonte (l’auriga di Achille) dell’Amore.
La Penna poi indica “qualche altro passo interessante del III libro dell’Ars dove la polemica contro il gusto arcaizzante ritorna in forma satirica. Ecco il quadro dell’incessus rozzo
(303 sg.): illa, velut coniunx Umbri rubicunda mariti, / ambulat, ingentis [= ingentes] varica fertque gradus” (p. 189), quella cammina come la moglie rubiconda di un marito umbro, e procede a grandi passi con le gambe divaricate. E’ questo un rusticus… motus (vv. 305-306) che fa
scappare gli uomini (fugatque viros, v. 300).
“Non è detto – prosegue La Penna – che Ovidio, rievocando questa moglie rubiconda dell’antico contadino umbro, pensasse, per contrasto, alla severa madre sabina rievocata da
Orazio: certo il contrasto è gustoso. Ci sono nelle opere erotiche parecchi altri indizi più
chiari di satira e parodia dell’arcaismo etico del regime augusteo (...) Qui non è il caso
di entrare in dettagli; basta vedere come importanti motivi nazionali della poesia di regime sono distorti con elegante parodia. Per esempio, la discendenza dei Romani da Venere
attraverso Enea, celebrata da Virgilio, serve per riaffermare che Roma è la città dove la dea
dell’amore dispiega tutta la sua potenza (Ars I 60): mater in Aeneae constitit urbe sui,” (op. cit.,
p. 189), la madre si è fermata nella città del suo Enea.
89
Aspetti della decadenza
Seneca nel De Beneficiis (del 64 d. C.) segnala tra gli aspetti della corruzione del suo tempo la
moda della dissoluzione dei vincoli matrimoniali, la sparizione della pudicizia femminile e la complicità dei mariti: “Coniugibus alienis ne clam quidem sed aperte ludibrio habitis, suas aliis permisere.
Rusticus, inhumanus ac mali moris et inter matronas abominanda condicio est, si quis coniugem suam in
sella prostare vetuit et vulgo admissis inspectoribus vehi perspicuam undique” (I, 9, 3), dopo che si sono
presi gioco delle mogli altrui, neppure di nascosto ma palesemente, hanno concesso le proprie agli
altri. E’ rozzo, incivile, di cattiva educazione, e tra le matrone la sua qualità è aborrita se uno ha
vietato a sua moglie di esibirsi nella portantina e di farsi portare in giro da tutte le parti bene in
vista per essere osservata pubblicamente.
Analoga considerazione fa Parini (1729-1799) quando attribuisce il disprezzo del pudore, e
della fedeltà matrimoniale, ai nobili satireggiati nel suo poema: “D’altra parte il Marito ahi quanto spiace, / E lo stomaco move ai dilicati / Del vostr’Orbe leggiadro abitatori, / Qualor de’ semplicetti avoli nostri / Portar osa in ridicolo trïonfo / La rimbambita Fe’, la Pudicizia, / Severi
nomi!” (Il Mattino, vv. 292-298).
In Madame Bovary il marito, Charles Bovary, è un individuo che tanto “spiace”, soprattutto a
sua moglie la quale non si sente trattenuta dai vincoli imposti dal pudore coniugale: “La conversazione di Charles era piatta come un marciapiede, vi sfilavano le idee più comuni nella loro veste
più ordinaria, senza suscitare la minima commozione, d’allegria o di sogno. Lo diceva lui stesso,
non aveva mai provato la curiosità, durante il suo soggiorno a Rouen, di andare a sentire a teatro
gli attori di Parigi. Non sapeva nuotare, né tirar di scherma, né usar la pistola, un giorno non
seppe neppure spiegare alla moglie un termine d’equitazione che lei aveva trovato in un romanzo.
E un vero uomo, invece, non avrebbe dovuto conoscer tutto, eccellere in ogni attività, essere in
grado, insomma, d’iniziare la propria donna alle violenze della passione, alle raffinatezze della vita,
agli innumeri misteri? Non insegnava nulla Charles, non sapeva nulla Charles, non immaginava
nulla Charles: credeva che lei fosse felice, ma lei gliene voleva per tutta quella tranquillità imperturbabile, per tutta quella pacifica pesantezza, per tutta quella stessa sazietà di cui era l’origine”
(p. 34). Un uomo rozzo dunque: quando la moglie bella, insoddisfatta, poco affettuosa e cortese, è
viva e convive con lui, egli non si accorge dei tradimenti, e dopo il suicidio di lei, leggendo le sue lettere, spiandola dopo che è morta, si offende a morte: “C’eran tutte le lettere di Léon. Questa volta
nessun dubbio era più possibile! Le divorò sino all’ultima riga, frugò in ogni angolo, in ogni mobile,
in ogni tiretto, dietro i muri, singhiozzando, urlando, smarrito, impazzito. Scoprì una scatola, la
sfondò con un calcio. Il ritratto di Rodolphe gli balzò davanti, tra un disordinato profluvio di messaggi d’amore” (p. 279). “Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx” (Amores III, 4, 37), è davvero rozzo quello che una moglie adultera offende.
Fa coppia con questo L’eterno marito (1871), Pavel Pavlovic, di Dostoevskij: “Un individuo
simile nasce e si sviluppa unicamente per ammogliarsi e, una volta ammogliato, per trasformarsi
unicamente in un’appendice della moglie, anche quando egli abbia una personalità sua, ben determinata. La proprietà essenziale di un simile marito è quel certo ornamento. Egli non può non essere cornuto, così come il sole non può non risplendere, però non soltanto non ne sa mai nulla, ma
non potrà mai saperlo per le leggi medesime della natura…E a un tratto, in modo del tutto inatteso, Pavel Pavlovic si fece con due dita le corna sulla fronte calva, e ghignò piano, a lungo. Rimase
così, con le corna e ghignando, per mezzo minuto almeno, guardando Vel’ caninov [è l’eterno
amante] negli occhi in una specie di ebbrezza della più perfida insolenza” (F. Dostoevkij, L’eterno
marito, p. 39 e p. 65).
90
5.- Misura
La Penna procede richiamando alcuni aspetti del dibattito svoltosi nel 195 a. C. sull’abrogazione della lex Oppia. Abbiamo già visto la posizione di Catone che si opponeva al lusso e
alla libertas femminile da lui intesa come licentia (Livio, XXXIV, 2, 11-14).
“Il dibattito dei tempi di Catone non era certo inattuale nella Roma augustea, e ciò avrà
pesato nell’indurre Livio a dargli tanto rilievo. L’etica del principato, come tutti sanno,
ostentava una certa ispirazione catoniana; essa si riconosceva bene nel comportamento che
Sallustio (...) attribuiva agli avi (Cat. 9. 2): “in suppliciis deorum magnifici, domi parci”, splendidi nel culto degli dèi, economi in casa1. Ma la stessa età augustea offriva anche, in teoria,
senza parlare della realtà, modelli etici diversi: proprio uno dei maggiori artefici del regime,
Mecenate, si presentava e veniva presentato come l’uomo tanto energico nella vita pubblica
quanto ben disposto agli agi e ai piaceri nel meritato ozio che succede e precede le fatiche dello
stato (...)
In modo sottile, brillante, dunque, Ovidio cancella il ritorno ai prischi costumi; e
implicitamente cancella (...) l’interpretazione della storia romana dopo le guerre puniche come un processo di decadenza. Il cultus, anche se accordato con lo splendore della
Roma augustea (...) sembra piuttosto frutto di un progresso lungo, di inizio non recente, che
ha cancellato a poco a poco la rusticitas arcaica (...) Ovidio nella celebrazione del cultus data
nel III dell’Ars (v. la p. e. i vv. 121 e sgg. citati sopra) sembra risentire del concetto, e dell’entusiasmo, della pienezza dei tempi. Esiodo, chiuso nella concezione ciclica, vorrebbe non
essere nato nell’età in cui vive, cioè nell’età del ferro, la più feroce e infelice di tutte (Opere 174
sg.) (...) Quando Ovidio proclama con entusiasmo “ego me nunc denique natum / gratulor”,
sembra contrapporsi all’antico vate di Ascra: non escluderei un’allusione, anche se non
sono sicuro: Esiodo è poeta ben presente nella poesia augustea, ovviamente noto a Ovidio”
(p. 195).
Nei Medicamina “il cultus si presenta chiaramente come lusso; Ovidio non si preoccupa di porre limiti; certamente sa, anche se non si preoccupa di esporcelo, quali spese il cultus
comporta e quale attività commerciale presuppone: materie prime o prodotti rifiniti vengono
Il concetto torna nel Bellum Iugurthinum: “Nam ante
Carthaginem deletam... metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea
quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere”
(41), infatti prima della distruzione di Cartagine… il
timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon
governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi,
naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia apparvero.
E’ l’imperialismo moralistico di Sallustio: le conquiste dunque non devono soffocare l’antica virtù: quella per cui i giovani desideravano più le armi e i cavalli
da guerra che puttane e banchetti: “magisque in decoris
armis et militaribus equis quam in scortis atque conviviis
lubidinem habebant” ( Bellum Catilinae, 7). L’impero
infatti si conserva facilmente con i mezzi con i quali lo
si è dapprima conquistato:” nam imperium facile iis artibus retinetur, quibus initio partum est (2).
1
Sallustio nel Bellum Catilinae: afferma che la decadenza dei costumi a Roma è iniziata con la caduta di
Cartagine e con la fine della paura dei nemici e particolarmente del metus punicus: “Sed ubi… Carthago aemula
imperii Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque
patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis
otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere.
Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi
materies omnium malorum fuere” (10), ma quando…
Cartagine, rivale del popolo romano, fu distrutta dalle
fondamenta, tutti i mari e le terre erano aperti, la fortuna cominciò a incrudelire e a sconvolgere tutto. Quelli
che avevano sopportato con facilità fatiche, pericoli,
situazioni incerte e difficili, per questi l’ozio e la ricchezza, beni desiderabili in altre circostanze, furono
motivo di peso e di miseria. Pertanto prima crebbe il
desiderio di denaro, poi di potere: quelle passioni furono
per così dire l’esca di tutti i mali.
91
dalle provincie o dal lontano oriente; anche nel corso della trattazione (che, com’è noto, si
riduce per noi a poche decine di versi) le provenienze esotiche sono talvolta indicate [9 Tyrio
; 10 India ; 21 oriente ; 51 Libyci ; 74 Illyrica ; 82 Attica ; 94 Ammoniaco]: si direbbe, insomma,
che Ovidio accetta in pieno l’espansione dei consumi e l’economia mercantile in cui essa si colloca” (La Penna, op. cit., p. 199).
Nell’Ars amatoria (il III libro risale allo stesso periodo dei Medicamina faciei cui Ovidio
accenna ai vv. 205 e sgg.), nota ancora La Penna, “l’atteggiamento è più cauto” e la celebrazione “dell’aurea Roma e della modernità è accompagnato dal rifiuto delle grandi ricchezze, del lusso smodato: la Roma augustea corrisponde ai gusti d’Ovidio perché ha eliminato ogni traccia di rusticitas, non perché vi affluiscono l’oro e oggetti preziosi o perché i
ricchi Romani hanno grandi e splendide ville sul mare (Ars III 123-126): non quia nunc terrae
lentum subducitur aurum / lectaque diverso litore concha venit, / non quia decrescunt effosso marmore montes, / nec quia caeruleae mole fugantur aquae” (p. 200), non perché ora alla terra si sottrae
il duttile oro e arrivano perle pescate in mari opposti, non perché decrescono i monti per le
cave di marmo, né perché le acque azzurre vengono respinte dai moli, ma perché, come abbiamo già visto, cultus adest… nec mansit rusticitas (vv. 127-128).
Ovidio dunque “nelle sue oscillazioni poco tormentate si ferma alla proposta di un cultus misurato che eviti gli eccessi del lusso e, nello stesso tempo, di una raffinatezza dannosa. Per l’uomo egli rifiuta un trattamento dei capelli e della pelle che lo renda simile agli
eunuchi servitori di Cibele (Ars I 505 sgg.): l’ideale virile è un equilibrio fra la mundities e la
robustezza data dagli esercizi del Campo Marzio (ibid. 513 sg.): Munditiae placeant, fuscentur
corpora Campo; / sit bene conveniens et sine labe toga. Dunque, né rusticitas né effeminatezza”
(A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, p. 201). L’eleganza piaccia, siano abbronzati
i corpi al Campo Marzio; la toga stia bene e sia senza macchie. Inoltre i denti siano senza tartaro (careant rubigine dentes, Ars, I, 513), i piedi abbiano calzari della loro misura (mentre
l’a[groiko del IV dei Caratteri di Teofrasto ha la scarpa più larga del piede), il taglio di barba
e capelli sia buono, le unghie siano ben limate et sint sine sordibus (517), senza sporcizia, non ci
siano peli nella cavità delle narici, non ci siano cattivi odori nel fiato né addosso alla persona.
“Cetera lascivae faciant concede puellae/et si quis male vir quaerit habere virum” (521-522), il resto
lascia che lo facciano le donne lascive e chi, uomo presunto, desidera possedere un uomo.
Questa consigliata all’uomo, al maschio, è la via di mezzo suggerita, come abbiamo
già visto, pure da Cicerone e da Seneca.
Lo stile dell’incedere. “L’incessus cafonesco della donna, che fa pensare alla moglie rubiconda del contadino umbro, va evitato, ma senza adottare l’incedere troppo molle di alcune
donne di città dalle tuniche fluenti (Ars III 301 sgg.)” (A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana cit.p. 201) .
Vediamo i versi che dipingono la femmina troppo flessuosa e teatrale: “Haec movet arte latus
tunicisque fluentibus auras / accipit, extensos fertque superba pedes” (vv. 301-302), questa muove i
fianchi con abilità e prende aria nella tunica ondeggiante, e porta avanti i piedi allungandoli
con superbia.
Il modo di camminare fa parte dello stile: “discite femineo corpora ferre gradu: / est et in incessu pars non contempta decoris” (vv. 298-299), imparate a portare il corpo con passo femminile:
anche nel modo di incedere c’è una parte non disprezzabile dello stile bello. Decor è formato
su decet, quindi significa che il bello stile può variare, siccome è quanto si addice a ciascuna
92
persona o situazione, come il greco prevpon.
A questo proposito si può citare Cicerone: “nihil decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura” (De Officiis, I, 110), niente si addice contro il volere di Minerva, cioè
se la natura è contraria o si oppone. Non ci si deve opporre alla natura universale, tanto meno
alla propria. Poco più avanti si legge: “id enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime
suum” (I, 113), a ciascuno si addice più di tutto ciò che è più personale.
Vale anche la pena di ricordare lo stile che Ovidio (Ars III 479 sg.) raccomanda alla puella per le lettere agli amanti: parole eleganti, ma non rare né troppo raffinate: “Munda sed e
medio consuetaque verba, puellae, / scribite: sermonis publica forma placet”, ragazze, scrivete parole eleganti ma del frasario comune e correnti: il linguaggio usuale piace. Naturalmente anche
in Orazio c’è corrispondenza, soprattutto nel rifiuto dell’arcaismo, fra la poetica e il gusto
della vita1.
Lo stile del ridere. “Quis credat? Discunt etiam ridere puellae, / quaeritur atque illis hac quoque parte decor”: Chi lo crederebbe? Le ragazze imparano anche il modo di ridere, cercando
pure con questo aspetto di accrescere la loro avvenenza ( Ars III, vv. 281-282). Ovidio dà delle
indicazioni che si riassumono nel v. 286: “sed leve nescioquid femineumque sonet”, comunque (il
ridere) esprima un non so che di delicato e femminile. Quelle che si lasciano andare alla sghignazzata rischiano la sguaiataggine: “ut rudit a scabra turpis asella mola” (v. 290), come la brutta asinella raglia dalla ruvida macina. Questo verso realmente ruvido rende fonicamente il
riso sgraziato della ragazza asina.
Marziale commenta questa parte dell’Ars notando che il poeta di Sulmona (precisamente
Paelignus ) aveva consigliato di ridere: “ride si sapis, o puella, ride” (II, 41), ridi ragazza, se hai
giudizio, ridi, ma non a tutte le ragazze: “sed non dixerat omnibus puellis”. Infatti una tal
Massimina che ha tre denti deve mettersi addosso espressioni tristi, frequentare donne in
lutto e distrarsi solo con le Muse tragiche. Dunque: “plora, si sapis, o puella, plora”, piangi
ragazza se hai giudizio, piangi.
Lo stile del vestire. “Vesti troppo costose, specialmente purpuree, vengono sconsigliate
alle donne eleganti (Ars III 169 sgg.): “Quid de veste loquar? Nec nunc segmenta requiro / nec
quae de Tyrio murice, lana, rubes. / Cum tot prodierint pretio leviore colores, / quis furor est census
corpore ferre suos?” (p. 201). Che devo dire della veste? Io non chiedo le frange d’oro, né te, lana,
che rosseggi per la porpora di Tiro. Dal momento che sono venuti fuori tanti colori a prezzo
più basso, che pazzia è portare sul corpo il proprio patrimonio? Potremmo rispondere che l’esibizione che puzza di soldi è il furor tipico del liberto arricchito scandalosamente, come
Trimalchione
“Anche senza portare altre prove, credo di poter affermare che questo è il gusto dominante dell’Ars amatoria, benché nella valorizzazione del cultus essa tocchi la punta più avanzata: un equilibrio diverso da quello dell’oraziano simplex munditiis, ma pure in qualche modo
simile, lontano dalla rozzezza arcaica, ma anche al di qua del lusso fastoso e insolente
di molti ricchi Romani di oggi. Questa specie di classicismo è dettato nello stesso tempo dal
gusto e dalla preoccupazione, quasi dalla paura, che suscita l’ampliamento incontrollato dei
consumi” (op. cit., p. 202). Questa conclusione del quinto capitolo del saggio di La Penna mi
sembra appropriata pure per i nostri tempi.
1
La nota è di La Penna, op. cit., p. 212, la traduzione mia.
93
Orazio
CERTI FINES
a cura di Chiara Cignolo
Esordio delle Odi nel Cod. Ambr. O. 136. Sup.
(Milano, Biblioteca Ambrosiana)
44
M 1. Le intenzioni poetiche
I quattro libri delle Odi rappresentano la fase della maturità di Orazio, dal punto di vista sia
poetico che umano: la perfezione formale ormai raggiunta si sposa con un equilibrio ormai conquistato, che traluce dal tono più pacato e riflessivo, e ne è sostenuta. Di ciò Orazio è perfettamente consapevole, e numerose sono le liriche in cui dà rilievo alla proprie scelte formali e tematiche.
I primi tre libri, pubblicati in una prima edizione nel 23 a. C., si aprono con la dedica a
Mecenate (Odi I 1Í), scritta verosimilmente per ultima, o fra le ultime, e poi collocata in apertura; già questa apertura afferma la scelta della poesia lirica e individua chiaramente nei poeti di
Lesbo, Alceo e Saffo, i modelli formali della tradizione greca.
In alcune liriche Orazio accenna a voler cantare anche temi impegnativi e solenni, in particolare di carattere politico; ma si tratta spesso di elenchi di temi possibili, di fatto non svolti; viceversa, altre liriche precisano le intenzioni poetiche più vere della raccolta, a volte con carattere
esplicitamente programmatico.
Così, l’ode I 6, dedicata al generale Vipsanio Agrippa, poi genero di Augusto, è incentrata sul
topos della recusatio, particolarmente caro ai poeti lirici ed elegiaci di età augustea. Orazio si
dichiara impari a cantare le imprese miltari di Agrippa, affermando che potranno essere adeguatamente celebrate da un poeta epico quale Vario, amico di Virgilio, Mecenate e Orazio stesso; ribadisce così la natura squisitamente lirica della propria ispirazione poetica.
Scriberis Vario fortis et hostium
victor Maeonii carminis alite,
quam rem ferox navibus aut equis
miles te duce gesserit.
E scriverà di te / l’opera di Vario ove batte /
l’ala d’Omero: Eroe / vincitore di nemici, /
guida dovunque superbi soldati /
portarono guerra, / su navi, su cavalli.
(Odi I 6. 1-4, trad. E. Mandruzzato)
L’ultima strofa, dedicata alla poesia lirica, suona appunto come una vera e propria
dichiarazione di poetica, non tanto rispetto allo stile, quanto piuttosto rispetto ai temi (il
convito, l’amore) e al tono (levis).
Nos convivia, nos proelia virginum
sectis in iuvenes unguibus acrium
cantamus, vacui sive quid urimus
non praeter solitum leves.
Io canto conviti / e battaglie di vergini /
dalle curate unghie con i giovani aspre, /
da tutto sciolto, lieve /
anche nella fiamma.
(Odi I 6. 17-20, trad. E. Mandruzzato)
La scelta di un tono levis, pacato e delicato, emerge con chiarezza dal finale dell’ode I
16, che suona come una palinodia rispetto al tono più impetuoso e aggressivo che aveva
caratterizzato la stagione giovanile degli Epodi.
Compesce mentem: me quoque pectoris
temptavit in dulci iuventa
fervor et in celeres iambos
misit furorem. Nunc ego mitibus
E sia pace tra noi. Anche / il mio cuore
tentò / la febbre della dolce /
giovinezza, la follia /
scrisse i giambi veloci. / Ora quella cupezza /
45
mutare quaero tristia, dum mihi
fias recantatis amica
opprobiis animumque reddas.
matura, e questo cerco, e il canto /
è mutato, l’ingiuria / è finita; puoi
/ essermi amica, donarmi / l’anima tua.
(Odi I 16. 22- 29, trad. E. Mandruzzato)
La scelta di temi e di toni è per Orazio, come vedremo, anche scelta di un modo di vita;
e così, accanto alla più impegnativa ode di apertura, si può porre l’ode I 32, sviluppata su
un tono familiare, caratterizzato dal riferimento alle abitudini agresti, che così naturalmente si sposano alla posizione etica di Orazio.
Poscimus, si quid vacui sub umbra
lusimus tecum, quod et hunc in annum
vivat et pluris, age dic Latinum,
barbite, carmen,
Lebio primum modulate civi,
qui ferox bello tamen inter arma,
sive iactatam religarat udo
litore navim,
Liberum et Musas Veneremque et illi
semper haerentem puerum canebat
et Lycum nigris oculis nigroque
crine decorum.
O decus Phoebi et dapibus supremi
grata testudo Iovis, o laborum
dulce lenimen mihi cumque salve
rite vocanti.
Ti prego, se talvolta liberi
scherzammo insieme all’ombra, ora tu, o cetra,
suona un carme latino che quest’anno
e molti altri viva nel futuro,
tu modulata prima dal poeta
di Lesbo che, pur se fiero in guerre,
anche tra l’armi o negli approdi
della squassata nave a un lido equoreo
cantava Libero e le Muse e Venere
e Amore che va sempre a lei d’accanto,
e il suo Lico leggiadro dai capelli
neri e dai neri occhi.
Gloria di Febo, scudo di testuggine,
grata alle mense del supremo Giove,
dolce sollievo ad ogni affanno, assistimi
se devoto t’invoco.
(I 32, vv. 1-16, trad. L. Canali)
L’esclusione dei temi solenni e altisonanti appare quasi obbligata da circostanze personali nell’ode I 19, dedicata a Glicera: circostanze umoristicamente personificate in
Venere e Dioniso, che incombono sul poeta e gli impongono di tornare a un amore che
egli considerava concluso.
Mater saeva Cupidinum
Thebanaeque iubet me Semelae puer
et lasciva Licentia
finitis animum reddere amoribus.
Urit me Glycerae nitor
splendentis Pario marmore purius;
urit grata protervitas
et vultus nimium lubricus aspici.
In me tota ruens Venus
Cyprum deseruit, nec patitur Scythas
aut versis animosum equis
Parthum dicere nec quae nihil attinet.
La madre d’ogni brama, / la crudele,
il figlio/ di Sèmele tebana, /
la tentazione / viva, vogliono ridarmi / all’amore, che
fu chiuso. /
La luce di Glìcera mi arde,
che splende pura più del marmo pario, /
e amo il suo corruccio,
il suo volto lambito dagli sguardi.
Venere grande viene / da Cipro
ad assalirmi, / non accetta che parli /
di Sciti, di Parti pronti volteggiatori, /
e di tutto ciò che è da lei lontano.
(Odi I 19, vv 1-4, 9-12, trad. E. Mandruzzato)
46
Orazio e i modelli greci
Orazio ha preso spunti non solo da Alceo, ma, com’è noto, anche da Anacreonte; ha scritto non
soltanto da vecchio, carmi che nello stile vogliono arieggiare Pindaro e che portano in fronte come
motto la traduzione di sentenze del vate tebano; ha inserito nei suoi carmi parole celebri di Ennio.
Pure né antichi né moderni lo dicono imitatore di Anacreonte, di Pindaro, di Bacchilide, di Ennio.
Ha rielaborato nella maggior parte delle poesie motivi che non possono essere anteriori all’ellenismo; eppure nessuno lo chiama seguace e continuatore della poesia ellenistica, o dei continuatori romani della poesia ellenistica, dei neóteroi. Ha scritto su argomenti romani odi romane, in
cui né un pensiero né un sentimento né un’espressione potrebbero essere stati pensati, sentiti,
espressi in tal modo se non da un cittadino romano dell’età di Augusto. (…)
Nonostante gli sdegni e i dispregi di esteta, che nutre contro certa rozzezza vigorosa della letteratura romana primitiva, Orazio è per certi aspetti più vicino ad essa che non ai poeti dell’età
augustea: di fronte ai grandi Greci si sente libero come Plauto ed Ennio, non legato come Catullo
e Calvo (…). Ennio e più Plauto erano liberi nel trattare i modelli greci, perché non erano vincolati dalla scienza filologica come Catullo, che ha a volte nel tradurre e nell’imitare scrupoli di
grammatico; ma la grammatica, che ha nei suoi princìpi inceppato i neóteroi, ha pure liberato
Orazio da preconcetti: questi sa che altro è il compito del traduttore e dell’imitatore, altro quello
del poeta. (…)
Come si chiama nelle lingue antiche l’attività di colui che vuole porre a fianco di un’opera classica una nuova opera di bellezza pari, sì che la vicinanza del modello, eccitando al confronto, renda
più evidenti i pregi di quella moderna? In greco si chiama non mímesis ma zêlos, in latino non imitatio ma aemulatio....
Può venir fatto di chiedersi perché mai Orazio abbia scelto a modello Alceo, non per esempio
Stesicoro o Pindaro. Risposta adeguata a questa domanda, come ben s’intende, non si può dare:
quest’è il segreto del poeta. Ma si può forse formulare la domanda altrimenti e chiedere se lo ...
zélos Alkaiikòs (“emulazione di Alceo”) di Orazio non corrisponda bene allo spirito dell’età sua...
Lo spirito dell’età augustea fu non solo classico ma classicistico. Antonio volle essere un re
ellenistico, Augusto un magistrato romano... Augusto non riuscì a vincere l’ellenismo. Già sotto i
suoi successori prossimi il principato si avvia a divenire regno...
Orazio appartiene al periodo più severamente classico dell’età augustea. Molto è in lui di
ellenistico, ma egli, non che non se ne sia accorto, ma lo ha creduto elaborato e fuso nel crogiuolo della sua anima di Romano antico e di Greco antico; noi vediamo forse più chiaro nel suo spirito e nella poesia sua che non egli stesso: la materia ellenistica si ribella in lui talvolta alla forma
classica...
L’arte di Orazio è classicistica; e per questa ragione o anche per questa ragione, egli gareggia
con Alceo, non con Pindaro né con Stesicoro né con Ibico, nella metrica e nello stile... Orazio
trasporta non molti metri lesbii, che riproduce con severità rigorosissima, quali glieli aveva insegnati a comprendere non tanto l’orecchio suo quanto la dottrina metrica varroniana. Chi non vuol
sapere né di polimetria né di larghe strofe, non può propriamente imitare Pindaro, il cui stile ha
bisogno di estendersi nell’ampiezza del periodo ritmico: la rispondenza di membri brevi appartiene in certo modo all’aphelés (“semplice”), all’ischnòn (“disadorno”).
E quel ch’è detto dei ritmi, si applica anche allo stile.
(G. Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1964, pp. 104 ss., 136-140)
47
Doctarum hederae praemia frontium
Il Testo
ODI I 1
L’ode costituisce il proemio del I libro e svolge funzione di testo programmatico e di dedica a
Mecenate (anche gli Epodi, le Satire, le Epistole iniziano nel suo nome e si aprono con la dedica a
lui). Il tema è quello, ben noto alla lirica greca, della riflessione sui generi di vita: c’è chi ama gli
onori della politica, chi si dedica all’agricoltura, chi al commercio, chi alla vita militare … Orazio
rivendica per sé la vocazione poetica e aspira alla gloria immortale che solo dalla poesia può
derivare.
La struttura è quella della Priamel (‘preambolo’), particolarmente adatta all’elencazione di una
serie di attività e interessi a cui nel finale il poeta contrappone la propria scelta (v. riquadro p. 50).
L’affermazione del valore della poesia diventa poi dichiarazione programmatica di poetica. Non ci
sono indizi cronologici interni ma il fatto che si tratti di un proemio e la corrispondenza con l’ode
di commiato III 30 (dal punto di vista formale sono le uniche due odi dei primi tre libri in asclepiadei minori) inducono a pensare che sia stata composta in occasione della prima pubblicazione
(23 a. C.).
Metro: asclepiadeo minore
1 Maecenas atavis: su Mecenate v.
riquadro a fronte; atavis: ‘antenato’. Edite:
da edere nel senso di ‘generare’. 2 O et:
iato. 3 Sunt ... iuvat: costruisci: sunt (alii)
quos iuvat collegisse pulverem Olympicum …
curriculo: ablativo strumentale: ‘con il cocchio’. 4 Collegisse: perfetto aoristico. 4 ss.
Metaque ... deos: costruisci: (quos) et meta
(= metaque) evitata fervidis rotis et palma (=
palmaque) nobilis evehit ad deos dominos terrarum, con meta e palma entrambe soggetto di evehit. Metae erano le due colonnine
poste alle due estremità del circo, attorno
alle quali dovevano girare i cocchi.
Fervidis: ‘infuocate’ per la velocità.
Evitata: ‘sfiorata’. Palmaque: metonimia
per victoria. Nobilis: in senso attivo, ‘che
dà gloria’. Terrarum dominos: apposizione
di deos. Evehit ad deos: iperbole per
‘esaltare’. 7 Hunc: dipende da iuvat (v. 4),
costruisci: hunc (iuvat) si turba mobilium
Quiritium certat tollere tergeminis honoribus.
Tergeminis honoribus: ablativo strumentale; sono le tre cariche più alte del cursus
honorum, questura (o edilità curule), pretura, consolato. 9 s. Illum: dipendente
ancora da iuvat (v. 4); costruisci: illum
(iuvat) si condidit proprio horreo quicquid
verritur de Libycis areis. Quicquid de Libycis
verritur areis: espressione iperbolica per
dire ‘tutto il grano che si raccoglie sulle
aie africane’. 11 ss. Gaudentem ... demoveas:
costruisci: numquam demoveas gaudentem
(= eum qui gaudet) findere sarculo agros
patrios Attalicis condicionibus. Attalicis
05
10
Maecenas atavis edite regibus,
o et praesidium et dulce decus meum:
sunt quos curriculo pulverem Olympicum
collegisse iuvat metaque fervidis
evitata rotis palmaque nobilis
terrarum dominos evehit ad deos;
hunc, si mobilium turba Quiritium
certat tergeminis tollere honoribus;
illum, si proprio condidit horreo
quidquid de Libycis verritur areis.
Gaudentem patrios findere sarculo
agros Attalicis condicionibus
numquam demoveas, ut trabe Cypria
Myrtoum pavidus nauta secet mare;
Attalicis condicionibus: i re di Pergamo, gli Attalidi, erano famosi per la
magnificenza e lo sfarzo delle loro corti. Orazio avrà forse pensato in particolare ad Attalo III, ultimo sovrano di Pergamo, che morendo nel 133 a. C.
aveva lasciato in eredità il proprio regno al popolo romano. Attalo era
dunque per antonomasia simbolo di ricchezza e l’eredità di Attalo era diventata proverbiale come simbolo di una fortuna inaspettata (cf. Odi II 18).
48
Apre l’ode l’apostrofe a Mecenate (la figura del nobile protettore campeggia anche all’inizio degli Epodi, delle
Satire e delle Epistole) ma la sua presenza è limitata a questa sede iniziale e non incide poi sullo sviluppo del
componimento. Il tono è decisamente solenne e ufficiale: nel primo verso le voci atavus e editus sono di registro epico ed esaltano il prestigio del personaggio; il secondo verso, con il nesso praesidium et dulce decus, fa
luce su un rapporto che è allo stesso tempo ufficiale e amichevole.
C. Cilnio Mecenate discendeva da una nobile famiglia di Arezzo, la gens Cilnia, forse di lucumoni (v. Sat. I 6.
1-4 e Odi III 29. 1 Tyrrhena regum progenies); a Roma fu uomo politico e letterato; per scelta, rimase sempre
fedele all’ordo equester e non volle mai ricoprire altre cariche sebbene, per il suo prestigio personale e per l’amicizia con Ottaviano, avesse ampi poteri soprattutto come ispiratore di una politica culturale finalizzata a
quella ricostruzione morale e religiosa tenacemente voluta e perseguita dall’imperatore. Fu amico e protettore di letterati e divenne il centro di un circolo al quale aderirono, oltre a Virgilio e Orazio, Properzio,
Domizio Marso, Gaio Melisso, Lucio Varo, Cornelio Gallo e Vario Rufo.
Sul particolare rapporto di amicizia che lo legava a Orazio e sulle modalità del primo incontro fa luce la satira I 6, ma numerosi sono i riferimenti e le attestazioni di stima e di affetto sparsi in tutta l’opera di Orazio.
SUL TESTO
3-6 Il primo quadro è introdotto direttamente senza mediazioni: la scena è quella dello stadio in cui campeggia la figura di chi aspira alla vittoria nelle competizioni agonistiche. Nota la vivacità d’immagine ottenuta
grazie ad alcuni particolari significativi: la polvere sollevata dai cocchi, la meta sfiorata dalle ruote incandescenti per la velocità e finalmente la palma della vittoria che innalza il vincitore al livello degli dei. Orazio
riecheggia qui la concezione greca che faceca della vittoria sportiva un motivo di onore sociale, di gloria e di
immortalità (si pensi alla tradizione poetica dell’epinicio, il canto in onore della vittoria). I vincitori dei grandi giochi nazionali erano accolti in patria come trionfatori e venivano loro tributati onori eccezionali (addirittura erano mantenuti a spese pubbliche dallo stato); la loro gloria ricadeva sulla famiglia e sull’intera città.
7-8 Il secondo quadro raffigura l’uomo politico votato agli onori della carriera e al favore della folla. In età
repubblicana i magistrati erano effettivamente scelti dal popolo ed eletti nei comitia; formalmente la consuetudine delle votazioni era stata mantenuta da Augusto, sebbene il princeps facesse di fatto valere le sue preferenze. La descrizione è più sintetica ma comunque efficace per l’accenno alla folla tumultuante in occasione
delle elezioni: nell’espressione mobilium turba Quiritium si legge una certa sfumatura parodica per l’accostamento dello spregiativo turba e dell’aggettivo mobilis, che indica la volubilità e la leggerezza della folla, al
solenne epiteto di Quirites, i Romani in quanto discendenti di Romolo-Quirino. La valutazione espressa da
Orazio sulla massa popolare è la stessa che in sat. I 6.
9-10 Terzo quadro: il grande proprietario terriero. Caratteristica di questo personaggio sono l’avidità e la
brama di guadagno, espresse icasticamente dal verbo condidit, che denota il compiacimento di accumulare,
ammucchiare sacchi di grano nascondendoli come tesori, e dall’iperbole del v. 10.
11-14 Quarto quadro: il modesto agricoltore, il piccolo proprietario terriero in contrapposizione al precedente latifondista. Questa figura ha una connotazione positiva e ha alle spalle la concezione romana dell’agricoltura come unico mestiere che dia una dignità sociale in quanto garantisce l’autosufficienza. A nobilitare
la descrizione interviene anche una notazione di carattere sentimentale, l’attaccamento alla piccola proprietà
di famiglia espresso dall’aggettivo patrios (‘ereditati dal padre’). Questo contadino non ha ambizioni di ricchezza e si accontenta di vivere del suo lavoro (è il tema caro a Orazio dell’accontentarsi e del vivere secondo le proprie possibilità, vd. Epistole); neppure promesse di ricchezze favolose lo indurrebbero ad allontanarsi dalla sua proprietà e a solcare il mare. Quest’ultimo riferimento introduce un tema tradizionale: il contrasto
tra la sicurezza rappresentata dalla terra e le insidie del mare. Nel v. 14 la collocazione di pavidus nauta tra
Myrtoum e mare esprime tutta la paura dell’inesperto contadino di fronte ai pericoli del mare.
15-18 Il quinto quadro introduce la figura del mercante che, in opposizione al contadino, è ben contento di
vivere sul mare: nei momenti di maggior rischio invoca la terra, ma poi resta fedele alla sua vita di uomo di
49
condicionibus: ‘con promesse degne di
Attalo’, cioè particolarmente vantaggiose; v. riquadro p. 49. Demoveas: cong.
potenziale. 13 Ut: finale. Trabe Cypria:
‘con una nave di Cipro’. 14 Myrtoum …
mare: il mare fra il Peloponneso e le
Cicladi, oppure il mare a Sud dell’Eubea.
15 ss. Luctantem ... sui: costruisci: mercator
metuens Africum luctantem fluctibus Icariis
laudat otium et rura oppidi sui. Luctantem:
costruzione alla greca del verbo con il
dativo. Icariis fluctibus: il mare Icario è il
tratto di Egeo compreso tra le isole di
Samo e Micono. Africum: vento di SudEst particolarmente impetuoso. Metuens:
dum metuit. 19 Indocilis … pati:
costruzione poetica dell’aggettivo con
l’infinito esegetico. 19 ss. Est qui ... spernit:
costruisci: est qui spernit nec pocula veteris
Massici, nec demere partem de solido die; da
spernit dipendono l’accusativo (pocula) e
l’infinitiva, con una variazione sintattica
scandita dalle correlative nec … nec (cf. v.
21 s. nunc … nunc). Massici: pregiato vino
campano. Solido … de die: ‘della giornata
lavorativa’. 21 Membra: accusativo di
relazione. 22 Lene: riferito per enallage a
caput anziché a aquae. 23 Lituo: brachilogia per litui sonit. 24 Matribus: dat. d’agente. 25 Detestata: participio passato di
verbo deponente usato con valore attivo.
Sub Iove: ‘a cielo aperto’. 27 s. Catulis …
fidelibus: dat. d’agente. Teretes … plagas: le
reti da caccia di filo ben ritorto’. Marsus: i
Marsi
erano
una
popolazione
dell’Appennino laziale particolarmente
bellicosa. 29 s. Me ... superis: costruisci:
hederae, praemia doctarum frontium, miscent
me dis superis. Hederae: pianta sacra a
Bacco, simbolo della poesia. 31 Gelidum
nemus: il bosco sacro delle Muse; gelidus:
‘fresco’. 32 ss. Tibias … cohibet: lett. ‘trattiene il flauto’; refugit tendere barbiton: ‘si
rifiuta di accordare la cetra’. Euterpe …
Polyhymnia: due delle Muse. Lesboum:
allusione ai poeti Alceo e Saffo. 36 Sublimi
feriam sidera vertice: espressione proverbiale che corrisponde al nostro ‘toccare il
cielo con un dito’, letteralmente ‘con la
punta del capo’.
15
20
25
30
35
luctantem Icariis fluctibus Africum
mercator metuens otium et oppidi
laudat rura sui: mox reficit rates
quassas indocilis pauperiem pati.
Est qui nec veteris pocula Massici
nec partem solido demere de die
spernit, nunc viridi membra sub arbuto
stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae;
multos castra iuvant et lituo tubae
permixtus sonitus bellaque matribus
detestata; manet sub Iove frigido
venator tenerae coniugis inmemor,
seu visa est catulis cerva fidelibus,
seu rupit teretes Marsus aper plagas.
Me doctarum hederae praemia frontium
dis miscent superis, me gelidum nemus
Nympharumque leves cum Satyris chori
secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton.
quodsi me lyricis vatibus inseres,
sublimi feriam sidera vertice.
Confronti
Sul motivo della Priamel nella lirica greca si possono confrontare:
Saffo fr. 27A D. = 16 L. P. “c’è chi dice che la cosa più bella sia una
schiera di cavalieri, chi di fanti, chi di navi, ma io dico che è ciò che
si ama”;
Pindaro fr. 221 Sn. M. “c’è chi si rallegra degli onori e delle corone
conseguite con i cavalli rapidi come il turbine, chi della vita nei talami sfarzosi, chi gode di solcare il mare su una nave veloce”.
50
mare. La descrizione è tutta giocata sul contrasto: nel momento del pericolo la terraferma e l’attività agricola ad essa legata sono vagheggiate come una meta agognata e sono definite otia (sottolineato dall’allitterazione con oppidi) in contrapposizione ai negotia del commercio; subito dopo (mox, con un passaggio repentino rimarcato dall’asindeto), passata la tempesta, il mercante è già tutto dedito a rassettare le reti senza nessuna intenzione di cambiare vita. La differenza tra il pavidus nauta del v. 13 e il mercator metuens (allitterante)
del v. 16 consiste proprio in questo: la paura del primo è connaturata con il suo carattere mentre quella del
secondo è legata al momento e dipende da fattori esterni, scomparsi i quali la paura svanisce.
19-22 Il sesto quadro rappresenta colui che ama il dolce far niente, bere un bicchiere di buon vino e trascorrere il giorno all’ombra di un arbusto o sulla riva di un ruscello. È stato osservato che alla base di questa
descrizione ci potrebbe essere l’influenza di un modello lucreziano (II 29 ss.), e che quindi ci possa essere un
riferimento all’ideale del saggio epicureo, ma in questo caso l’accento non è posto tanto sul concetto di atarassia, quanto sulla ricerca del godimento materiale.
23-25 Settimo quadro: il guerriero che ama le operazioni belliche. In questa scena spiccano due elementi: l’attenzione all’aspetto fonico per riprodurre in qualche modo il suono delle trombe con l’eccezionale ricorrenza della t e la notazione patetica condensata nella formula bella … matribus detestata in cui risuona il dolore
delle madri che perdono i figli in guerra.
25-28 Ottavo quadro: il cacciatore che passa giorni e notti fuori casa, dimentico degli affetti familiari, pur di
catturare la selvaggina. La vivace rappresentazione della scena di caccia è incentrata su tre elementi: la lunga
permanenza all’addiaccio, l’azione dei cani che stanano una cerva, il cinghiale che passa strappando le reti.
Tra questi particolari si inserisce un rapido cenno al motivo tradizionale dell’incompatibilità tra l’attività
venatoria e l’amore (v. 26).
29-36 Il pronome anticipato in incipit in posizione enfatica e rimarcato dall’anafora (v. 30) segna la fine della
Priamel e l’ingresso in scena del poeta (appena accennato all’inizio dal meum del v. 2) che conclude la serie
delle inclinazioni umane affermando la sua vocazione poetica. L’accostamento del concetto di poesia come
doctrina, che emerge da doctarum … frontium, e del simbolo bacchico dell’edera fa luce sulla concezione
oraziana dell’attività artistica, frutto allo stesso tempo di ars e di ingenium, cioè di abilità tecnica e di ispirazione divina. Il riferimento al boschetto delle Muse indica l’isolamento necessario alla creazione poetica e
l’ostentato distacco dal volgo (secernunt populo), che sarà ripreso nel celebre odi profanum vulgus et arceo (odi
III 1) e risponde al rifiuto aristocratico dei gusti del popolo proprio della poesia alessandrina. Il richiamo alle
Muse è una manifestazione di modestia e il riferimento ai poeti di Lesbo e ai lirici (forse i nove del canone
alessandrino, Pindaro, Bacchilide, Saffo, Anacreonte, Stesicoro, Simonide, Ibico, Alceo e Alcmane) è un’indicazione programmatica del genere letterario cui Orazio si attiene.
Nella epistola XIX del primo libro Orazio afferma di aver battuto le vie ignote agli altri e di avere primo
introdotto nella poesia latina i metri di Alceo e i giambi del poeta di Paros rinnovando con argomenti propri
il ritmo e lo spirito della poesia archilochea (vv. 23-25). Nel commiato posto in fine ai tre libri delle Odi,
Orazio si vanta di avere primo ridotto il canto eolico in melodie italiche (III 30. 13); e l’Aeolium carmen era
propriamente il canto di Alceo, del poeta greco che “sulla cetra d’oro avea cantato le asprezze del mare, dell’esilio e della guerra” (Od. II 13. 26-28) vale a dire i patimenti i quali fanno dura e fanno grande l’esistenza
degli uomini. Questo canto eolico di Alceo — non alio dictum prius ore (Epist. XIX 32-33) — lui solo, poeta
lirico di Roma (latinus ... fidicen), aveva fatto canto latino: e questa lode nel congedo del terzo libro va certamente riferita alle alcaiche e alle saffiche dove Orazio non si riporta mai a modelli ellenistici: classica vuole
essere la sua forma, e classici sono i suoi modelli. Negli epodi è l’Archiloco romano; nei primi tre libri delle
Odi l’Alceo romano; nel quarto vorrebbe risuscitare un altro modello, Pindaro, ma la polimetria e l’ampiezza
strofica di Pindaro non sono adatte all’emulo di Alceo: nel quarto libro Orazio fa sentire ricordi, motivi,
fraseggiamenti pindarici: ma anche là egli resta il poeta dei metri lesbii.
(C. Marchesi, op. cit. pp. 499-500); vd. M 8: Coscienza d’artista
51
Priamel
L’ode introduttiva I 1, Maecenas atavis edite regibus, è probabilmente uno dei componimenti più tardi
della collezione dei tre libri; è difficile che un poeta componga un proemio prima che la sua opera sia
vicina al compimento. Non è perciò improbabile che quasi tutti i passi di quest’ode che ci richiamano
alla mente passi di altre odi siano in effetti echi deliberati o variazioni di essi, e che a Maecenas atavis
rappresenti, anche sotto quest’aspetto, una vera e propria ouverture ai tre libri. (…)
Esaminando la struttura di quest’ode si riconosce facilmente in essa lo schema familiare di una
“priamel” (praeambulum). Nella poesia greca, come anche altrove, era un’abitudine assai antica il condurre fino al punto che più importava a chi parlava o cantava mediante una serie di esempi preparatorii,
del tipo: “Per uno questa cosa è la più bella, un altro stima quest’altra al di sopra di tutte, un altro quest’altra ancora, ma per me la cosa migliore è avere (o essere) …”. (…) Nel preambolo dell’ode I 1 le attività
dei vari tipi di uomini servono a porre in risalto, per contrasto, il modo di vita del poeta e la sua scala
di valori.
La rassegna dei differenti bíoi richiama analoghi passi della poesia greca, p. es. Pindaro (…), Solone
(…), Euripide (…), Bacchilide (…). Un gran numero di simili passi può essere stato noto a Orazio. Se
un poeta latino intendeva aprire un suo componimento con l’equivalente greco degli honores conferiti
dal voto del populus Romanus (vv. 7 sg.), la scelta della timé derivante dalla vittoria nelle corse delle bighe
ai giochi olimpici doveva sembrare abbastanza naturale. (…) Orazio probabilmente aveva presenti molti
passi greci, simili sia nel contenuto che nella forma, e li usò liberamente, né fu influenzato soltanto dalla
poesia. La descrizione dei vari tipi di bíoi e dei loro relativi meriti aveva una parte importante ni trattati della filosofia popolare ellenistica con la quale Orazio aveva familiarità.
In quasi tutta l’ode Orazio non dice nulla di particolarmente originale. Ciò che voleva porre in evidenza in questo proemio ai suoi nuovi carmi era un’ardita, anche se non arrogante, enunciazione delle
proprie speranze e – come preparazione ad essa – un’elaborata variazione di un tema che era stato spesso trattato in precedenza. La parte di maggior peso dell’ode, tuttavia, è la sua ultima frase:
quodsi me lyricis vatibus inseres,
sublimi feriam sidera vertice.
È istruttivo raffrontare questa chiusa con la fine del componimento dedicatorio di Catullo:
quare habe tibi quidquid hoc libelli,
qualemcumque; quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.
Non sarebbe esatto dire che Catullo parla con minore sicurezza o con più modestia di Orazio. La
differenza sta nella portata del pensiero, e per di più, nel rapporto tra la conclusione e il resto del componimento. Consideriamo prima quest’ultimo punto. In Catullo la preghiera finale alla Musa è unita,
con un debole legame, alla dedica a Cornelio Nepote; in Orazio le parole quodsi me lyricis vatibus inseres,
proprio perché sono indirizzate a Mecenate, sono strettamente connesse con l’inizio. In secondo luogo
Catullo dice semplicemente “possa il mio libro sopravvivere per molti secoli”, motivo questo comune
nella sua poesia e in quella dei suoi contemporanei. Orazio, invece, pone dinnanzi al lettore un’ardita
immagine poetica: sublimi feriam sidera vertice. Infine, Catullo considera il suo libro come una realizzazione isolata, laddove la più orgogliosa speranza di Orazio è che il suo nome, grazie a questi carmina, possa essere aggiunto ai nomi dei poeti antichi tanto ammirati, Pindarus novemque lyrici. Essere
accolto come degno erede della loro poesia, essere letto da quei lettori che ancora nutrivano interesse
per le liriche classiche della Grecia, questo sarebbe il coronamento della sua vita.
(Ed. Fraenkel, Orazio, op. cit., pp. 317 ss.)
52
M 2. Il sentimento della vita
La scelta di vita cui è ispirato il tono e anche la forma espressiva delle Odi ha uno dei
suoi nuclei tematici fondamentali nella riflessione – ispirata probabilmente anche da un
invecchiamento precoce – sulla fugacità del tempo e sull’incombere inevitabile della
morte, e molte sono le odi che lo sviluppano, con forme e immagini diverse.
Nell’ode a Sestio (I 4 Í) la finitezza del tempo umano è rievocata per contrasto dalla
constatazione della circolarità del tempo naturale e del ritorno felice della primavera; nell’ode a Taliarco (I 9 Í) la riflessione sulla necessità di concentrarsi sul momento presente
senza crearsi false illusioni per il futuro trova spunto nell’occasione di un inverno insolitamente freddo; altra volta il senso della precarietà dell’esistenza parte da uno spunto
autobiografico (II 13).
Il tema è trattato talvolta in tono negativo: così nell’ode I 28, la conclusione inevitabile
della morte suggerisce la vanità di ogni impresa umana, e il tono è quello della desolazione:
Tu maris et terrae numeroque carentis arenae
mensorem cohibent, Archyta,
pulveris exigui prope litus parva Matinum
munera nec quicquam tibi prodest
aerias temptasse domos animoque rotundum
percurrisse polum morituro.
Occidit et Pelopis genitor, conviva deorum,
Tithonusque remotus in auras,
et Iovis arcanis Minos admissus habentque
Tartara Panthoidea iterum Orco
iudice te non sordidus auctor
naturae verique. Sed omis una manet nox
et calcanda semel via leti.
Dant alios Furiae torvo spectacula Marti,
exitio est avidum mare nautis;
mixta senum ac iuvenum densentur funera, nullum
saeva caput Proserpina fugit.
Tu che andavi misurando il mare e la terra
e l’infinita sabbia, Archita, ora ricopre
il modesto tributo d’un pugno di polvere
presso il lido del Matino, e nulla ti giova
l’aver tentato e percorso le dimore celesti
e il curvo arco del cielo con il tuo animo morituro.
Ma anche il padre di Pelope morì, pur commensale
dei numi, e Titone che ascese nell’alto dei cieli,
e Minosse, sebbene partecipe dei segreti di Giove,
e di nuovo discese nel tartareo Orco il Pantoide,
egli, come tu sai, insigne interprete
della natura e del vero. Ma tutti attende una stessa notte,
e una volta dobbiamo pur calcare la via dell’Erebo.
Le Furie gettano alcuni in spettacolo al torvo Marte,
i marinai trovano la morte nell’avido mare;
si affollano esequie di vecchi e di giovani,
nessuna testa sfugge alla crudele Proserpina.
(I 28, vv. 1-20; trad. L. Canali)
In genere, però, anche nelle odi che inclinano a una conclusione negativa prevale un
profondo equilibrio interiore, che mai cade nel tono drammatico, ma, caso mai, in quello
leggero e disincantato, in cui traspare il senso della misura, e l’invito a non “alienare” il
tempo concesso alla vita in attività dispersive. La celeberrima ode a Leuconoe (I 11 Í) costituisce la sintesi più nota e riuscita di questo motivo, condensato nella formula carpe diem
(le cui radici sono già in Ep. 13).
Per questa via, il sentimento trapassa naturalmente in una riflessione morale piena di
delicatezza e spontaneità. Così, nell’ode a Dellio (II 3 Í) il tema della fugacità del tempo
dà le basi al tema dell’aequa mens, della necessità di mantenere un atteggiamento
equanime e costante nelle vicende alterne della vita. L’ode a Postumo (II 14 Í) si spinge
ancora oltre, evidenziando con serenità la necessità del distacco dalle cose terrene di cui
l’uomo è padrone soltanto per poco tempo.
53
Vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam
Il Testo
ODI I 4
Il tema dell’ineluttabilità della morte è suggerito dalla constatazione della circolarità del
tempo naturale quale emerge dal ciclico ritorno della primavera. La prima parte del testo (vv. 18) è incentrata sulla descrizione della primavera, la seconda (vv. 13-20), di tono più filosofico, sul
concetto del sopraggiungere della morte che accomuna gli uomini in uno stesso destino.
Il dedicatario, Lucio Sestio Quirino, era stato un seguace di Bruto e come tale aveva partecipato alla guerra del 42, forse come commilitone di Orazio; in seguito si avvicinò ad Augusto, che
lo nominò console nel 23. La composizione sembra comunque essere stata anteriore a questa data,
soprattutto per motivi di carattere formale.
Metro: strofa archilochea cat.
1 Solvitur: ‘si dissolve’, ‘si stempera’.
Grata vice: ‘al gradito ritorno’. Veris et
Favoni: endiadi; il Favonius è lo Zefiro,
tiepido vento primaverile. 2 Carinas:
sineddoche per naves. Machinae: macchinari che servivano per far scendere
(trahunt) in mare le navi. 3 Neque iam:
‘non più’. Gaudet: ‘si gode’, quindi ‘se ne
sta tranquillo in (presso il)’. Stabulis …
igni: ablativi dipendenti da gaudet. Arator
= agricola. 5 Ducit choros: ‘guida le danze’.
Imminente luna: ‘al raggio della luna
splendente in cielo’. 6 Decentes. ‘leggiadre’, ‘graziose’. 7 Alterno ... pede: nella
danza si poggia altenativamente a terra
un piede e poi l’altro. 8 Dum ... officinas:
costruisci: dum Vulcanus ardens visit gravis
(= graves) officinas Ciclopum. Gravis …
officinas: ampio iperbato e metonimia. 9 s.
Nunc ... solutae: costruisci: nunc (in anafora qui e al v. 11) decet impedire nitidum
caput aut viridi myrto aut flore quem terrae
solutae ferunt. Nitidum: ‘lucente’. Impedire:
‘cingere’, ‘ornare’. Terrae quem …: anastrofe. Solutae: ‘sciolte dalla morsa del
gelo’. 12 Poscat: sott. immolari sibi. 13
Aequo … pede: ‘con piede imparziale’; con
ipallage. Pulsat pede: gli antichi avevano
l’abitudine di bussare alle porte con il
piede e non con la mano. 13 s. Pauperum
tabernas regumque turres: antitesi. 15 Vitae
... longam: costruisci: summa vitae brevis
nos vetat inchoare spem longam. 17 Domus
exilis Plutonia: perifrasi per ‘l’aldilà’; il
regno di Plutone è exilis in quanto
‘vuoto’, privo di vita e di ricchezza. Quo =
et eo. Simul = simul ac. Mearis = meaveris.
18 Sortiere = sortieris. Talis: ablativo di
mezzo. 19 Mirabere = miraberis. Quo calet:
‘per il quale arde di passione’. 20
Tepebunt: ‘cominceranno a provare
amore’.
05
10
15
Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni
trahuntque siccas machinae carinas,
ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni
nec prata canis albicant pruinis.
Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna,
iunctaeque Nymphis Gratiae decentes
alterno terram quatiunt pede, dum gravis Cyclopum
Volcanus ardens visit officinas.
Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto
aut flore, terrae quem ferunt solutae.
Nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis,
seu poscat agna sive malit haedo.
Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas
regumque turris. O beate Sesti,
vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam;
iam te premet nox fabulaeque Manes
et domus exilis Plutonia; quo simul mearis,
nec regna vini sortiere talis
nec tenerum Lycidam mirabere, quo calet iuventus
nunc omnis et mox virgines tepebunt.
Confronti: il motivo del ritorno della primavera
Lucrezio V 737 ss. it ver et Venus et Veneris praenunitus ante / pennatus graditur, Zephyri vestigia propter / Flora quibus mater praespargens
ante viai / cuncta coloribus egregiis et odoribus implet.
Catullo 46. 1 ss. iam ver egelidos refert tepores, / iam caeli furor
aequinoctialis / iucundis Zephyri silescit auris.
54
Venere e il suo corteo
Venere, detta Citerea in quanto secondo la leggenda sarebbe nata dalla spuma del mare presso l’isola di
Citèra, era solitamente accompagnata delle tre Grazie e delle Ninfe. La pianta a lei sacra era il mirto, profumato arbusto tipico della macchia mediterranea.
Vulcano e i Ciclopi: Vulcano, lo sposo di Venere, è il dio romano del fuoco, infuocato e arrossato dai
bagliori delle fiamme (ardens, v. 9); secondo una versione del mito, alle sue dipendenze lavoravano i Ciclopi,
esseri giganteschi con un solo occhio. Essi fabbricavano i fulmini di Giove nelle loro officine situate o
nell’Etna o nelle isole Eolie o nell’isola di Lemno, a seconda delle varianti del mito.
Fauno: divinità agreste protettrice del bestiame.
Mani: gli spiriti dei morti che erano oggetto di culto.
SUL TESTO
L’apertura consiste in una descrizione del ritorno della primavera mediante due accenni al
risveglio della natura – il disgelo e il ritorno del vento tiepido da un lato (v. 1) e il cessare del
biancheggiare dei prati per la brina dall’altro (v. 4) – e due alla ripresa delle attività umane sospese
durante l’inverno, la navigazione (v. 2), la pastorizia, l’agricoltura (v. 3). È evidente in questa strofa
l’attenzione agli effetti musicali (per esempio l’allitterazione vice veris o l’assonanza solvitur …
Favoni). Sul piano formale da rilevare anche al v. 3 il chiasmo stabulis … pecus aut arator igni.
Con la seconda strofa il discorso si sposta dall’ambiente umano e naturale a quello mitico: con il
ritorno della primavera riprendono le danze delle Grazie e delle Ninfe guidate da Venere e ricomincia il lavoro dei Ciclopi sotto la sorveglianza di Vulcano. I due quadri sono in netta contrapposizione: alla leggiadra scena delle danze del corteo di Venere al chiarore della luna segue, introdotta dal dum che indica l’esatta contemporaneità, quella del pesante lavoro dei Ciclopi nel soffocante
caldo delle loro officine.
La connessione tra Venere e la primavera è di immediata evidenza in quanto la dea dell’amore
simboleggia la forza della vitalità, il risveglio della vita; più arduo è il riferimento a Vulcano: secondo
una interpretazione la ripresa delle attività dei Ciclopi e di Vulcano in primavera sarebbe dovuta al
fatto che in questa stagione di frequenti temporali è necessario produrre una grande quantità di fulmini; secondo un’altra interpretazione questo riferimento sarebbe introdotto come implicito invito
a godere del presente perché in ogni momento possono arrivare i fulmini di Giove.
Con la terza strofa si ritorna alle attività umane per sottolineare la necessità di rinnovare, in
occasione del ritorno della primavera, anche i rapporti con le divinità celebrando banchetti rituali e
facendo sacrifici. I primi due versi della strofa (9-10) invitano a inghirlandarsi di mirto, pianta sacra
a Venere (evidente richiamo ai vv. 5 ss.), e di fiori che la terra produce in seguito al disgelo primaverile (terrae … solutae richiama, anche lessicalmente, il motivo iniziale dell’ode); gli ultimi due
invitano a celebrare Fauno con sacrifici di agnelli o capretti.
La transizione alla seconda parte dell’ode, di carattere più filosofico, è piuttosto brusca e non è
facile cogliere il collegamento. Dopo le immagini serene della descrizione della primavera, il v. 13 si
apre improvvisamente con la menzione in incipit della pallida Mors, personificazione della morte
vista nell’atto di bussare alle porte di tutte le case indistintamente. Il collegamento tra le due parti
può essere costituito dal concetto sottinteso che al tornare la primavera bisogna abbandonare le tristezze e darsi alla gioia, prima che la morte, sempre in agguato, arrivi a portarci via. A questa immagine della morte segue l’apostrofe al dedicatario Sestio, non a caso nominato subito dopo i reges, in
quanto personaggio potente.
Il v. 15 ripropone il tema della brevità della vita che non consente di nutrire speranze a lungo
termine (cf. Odi I 11. 6); di seguito un accenno fugace al nulla che ci aspetta nell’aldilà, la nox eterna, i Manes, e la domus exilis Plutonia. Questo sintetico accenno è sufficiente a richiamare alla mente
le più dettagliate immagini dell’oltretomba di Odi II 14: e come lì l’ode si conclude con il riferimento a tutti i beni da abbandonare, qui il finale è incentrato sui piaceri che non si vivranno più, il piacere
del vino e del convivio (nec regna vini sortiere talis) e il piacere dell’amore identificato nella figura del
giovinetto Licida.
55
A Permitte divis cetera
Il Testo
ODI I 9
Ancora una variazione sul tema del vivere l’oggi nel modo migliore senza preoccuparsi di cosa
accadrà domani; l’occasione in questo caso è un inverno insolitamente freddo per un Romano e un
momento in cui si apprezzano i piaceri del calore domestico e del buon vino.
Il destinatario delle raccomandazioni oraziane è in questo caso il giovane Taliarco, dietro il cui
nome greco, forse fittizio, non sappiamo chi si celi. Non ci sono indizi per la data di composizione
ma una certa somiglianza con l’epodo 13 ha fatto pensare piuttosto a una datazione alta.
Metro: strofa alcaica
1 Ut = quomodo. Stet: ‘si erge’. Nive: abl. di
causa. 2 Soracte: il Soratte, oggi monte S.
Oreste o S. Silvestro, si trova a una quarantina di chilometri a Nord di Roma; non
è molto alto ma è ben visibile perché isolato e caratterizato da un profilo particolarmente scosceso. Nec iam: ‘e non più’. 3
Laborantes: ‘affaticate’ per il peso della
neve. 4 Flumina: non certo il Tevere ma
piccoli corsi d’acqua. Constiterint. ‘si siano
arrestati’. 5 Dissolve frigus: ‘allontana il
freddo’. Super foco: ‘sul focolare’;
costruzione poetica. 6 Large: ‘in abbondanza’. Benignius: comparativo assoluto
‘senza risparmio’. 7 s. Deprome: ‘tira
fuori’, ‘spilla’. Quadrimum … merum:
merum = vinum, ‘vino di quattro anni’,
vino di media qualità. Sabina … diota:
‘dall’anfora sabina’, ipallage. 9 Permitte:
‘affida’; divis = dis. Qui simul = nam simul
atque ii. 10 Stravere = straverunt. Aequore
fervido: abl. di luogo senza in. 11
Deproeliantis = deproeliantes. 13 ss. Quid ...
adpone: costruisci: fuge quaerere quid futurum sit cras et lucro adpone quemcumque
dierum fors dabit. Fuge quaerere = noli
quaerere. Quem … cumque: tmesi; dierum
gen. partitivo. Fors = Fortuna, Tyche.
Lucro adpone: ‘consideralo un guadagno’.
15 s. Nec … sperne: imperativo negativo
poetico. Puer: predicativo. Dulces = dulcis.
Neque tu choreas: sott. sperne. 17 Virenti:
scil. tibi, dipendente da abest. 18 Morosa:
‘intrattabile’. Et campus et areae: il Campo
Marzio e le piazze. 20 Composita … hora:
‘all’ora fissata’. Repetantur: cong. esortativo, ‘siano frequentati’. 21 s. Nunc ... ab
angulo: costruisci: nunc et gratus risus,
proditor, puellae latentis ab initimo angulo,
sottintendi repetatur. Proditor: ‘rivelatore’.
22 s. Pignus dereptum: sottintendi ancora
repetatur. Male pertinaci: ‘che non offre
abbastanza resistenza’, male = parum.
05
10
15
20
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.
Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras, fuge quaerere, et
quem Fors dierum cumque dabit, lucro
adpone, nec dulcis amores
sperne puer neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et campus et areae
lenesque sub noctem susurri
conposita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.
56
Il re del banchetto: i Romani avevano l’abitudine di eleggere durante i conviti un rex convivii, o, con nome
greco, un simposiarca. Il re del banchetto veniva sorteggiato (sortiri) con i tali, gli astragali, un tipo di dadi
costituiti da ossa di animali (gli astragali, appunto, cioè ossa del tarso). Aveva il compito di regolare il simposio dando disposizioni sulla quantità di vino da bere e sulle proporzioni in cui esso doveva essere miscelato con l’acqua. A questa figura e a questa abitudine Orazio allude più volte, esplicitamente in Odi I 4. 18 (regna
vini sortiere talis), in modo più velato forse nel nome di Taliarco, dedicatario della nona ode del primo libro, e
ancora, in modo negativo, in Sat. II 6 68 ss. (siccat inaequalis conviva solutus / legibus insanis, seu quis capit acria
fortis / pocula, seu modicis uvescit laetius), in cui si contrappone la cena alla buona tra amici di campagna, dove
ciascuno può regolarsi come crede, ai conviti ufficiali dove è necessario adeguarsi all’etichetta e sottostare
alle direttive del simposiarca.
SUL TESTO
L’ode ha inizio con uno spunto realistico e la prima strofa è interamente dedicata a una
descrizione di paesaggio invernale: domina il profilo scosceso del Soratte, che si erge in tutta la
sua imponenza e il suo candore, ricoperto di neve in un inverno eccezionalmente freddo; intorno
si estendono i boschi anch’essi appesantiti dalla neve e i corsi d’acqua gelati. Gli elementi del paesaggio sono come personificati, le silvae laborant e i flumina constiterint, due azioni normalmente
riferite a esseri umani, e la descrizione dell’ambiente esterno diventa una sorta di trasposizione e
oggettivazione dello stato d’animo del poeta.
La seconda strofa sposta l’immagine a una scena d’interno incentrata su due elementi decisamente positivi, il fuoco e il vino, che costituiscono una sorta di difesa rispetto al freddo (dissolve
frigus), che è il freddo dell’esterno legato alla stagione invernale, ma anche freddo dell’anima.
Quello del vino è un motivo centrale nella filosofia oraziana e il fatto stesso che il vocativo del destinatario sia collocato tra due espressioni indicanti il vino sottolinea ulteriormente la rilevanza
della metafora del vino.
A partire dalla terza strofa la riflessione si stacca dalla situazione contingente e il tono diventa più filosofico; l’ode assume la forma della parenesi, cioè dell’esortazione. L’invito ad affidarsi
agli dei (v. 9) è sembrato ad alcuni in contraddizione con la filosofia epicurea, secondo la quale gli
dei o non esistono o non si interessano delle vicende umane; in realtà la divinità è qui da intendere nel senso di forza soprannaturale che regola la vita umana e contro la quale l’uomo non può
esercitare la propria volontà. La potenza delle divinità si manifesta qui nell’atto di placare la furia
dei venti in lotta tra loro sul mare (vv. 9 ss.) e gli effetti della calma che segue si estendono anche
alla terraferma (vv. 9 s.). L’immagine di questo scenario naturale non ha niente a che vedere con
la rappresentazione dell’ambiente invernale nella prima strofa: lì, infatti, l’intento era puramente
descrittivo, mente qui il valore è paradigmatico.
L’ultima parte della poesia consiste in un’esortazione gnomica a vivere intensamente la vita
concentrandosi sul presente senza preoccuparsi del futuro e a godere, finché si è giovani, dei piaceri dell’amore. Il v. 13 ripropone il tema centrale dell’ode I 11 e i versi seguenti si concentrano sul
motivo della giovinezza, momento di gioia e di vitalità, in contrapposizione alla vecchiaia. Nunc,
in anafora al v. 18 e al v. 21 è l’oggi, il momento presente della giovinezza, e si contrappone nettamente al cras del v. 13, cioè il futuro su cui grava l’incertezza.
Saper vivere il momento presente significa abbandonarsi a quei piaceri legati all’amore che
sono caratteristici della giovinezza: la frequentazione dei luoghi d’incontro quali le piazze, le frasi
d’amore sospirate nell’oscurità della notte, i giochi a nascondersi e a ritrovarsi. La scena finale è
descritta con delicato realismo: il gioco tra un ragazzo e una ragazza, che si nasconde per poi
essere ritrovata e pagare un pegno, è vista con gli occhi di chi, ormai maturo guarda la spensierata letizia dei giovani con tenero compiacimento, ma non senza una certa commozione.
57
Et spatio brevi spem longam reseces
Il Testo
ODI I 11
Il tema della fugacità del tempo, colto in una felice sintesi di immagini, trova in questa ode la
più celebre delle formulazioni. Il motivo è di derivazione epicurea, così come epicureo è anche il
rifiuto dell’astrologia. La riflessione sul tempo è caratterizzata dalla malinconia che nasce dal contrasto tra il presente, che l’uomo cerca di cogliere, e il futuro, che incombe minaccioso.
Destinatario è una fanciulla dal nome greco, Leuconoe, qui rappresentata come persona seguace
delle mode astrologiche e incline a credere a qualsiasi profezia sul futuro.
Non ci sono indizi per la datazione del componimento.
Metro: asclepiadeo maggiore
1 Ne quaesieris: imp. negativo che esprime
qui piuttosto un’accorata raccomandazione che non un vero e proprio ordine.
Scire nefas: scil. est. 2 Leuconoe: nome
greco fittizio: ‘la fanciulla dall’animo candido’: ma nulla è dato sapere della donna
che si cela dietro lo pseudonimo. Nec =
neve, neu. Babylonios … numeros: ‘i calcoli
degli astrologi babilonesi’. L’astrologia
era nata, in connessione con gli studi di
astronomia, a Babilonia e i Babilonesi
erano celebri per le loro conoscenze nel
campo della mantica. Quest’arte, già
molto diffusa nella cultura greca in età
ellenistica, aveva riscosso grande successo popolare anche a Roma. Temptaris =
temptaveris. Ut: esclamativo. 4 Costruisci:
seu Iuppiter (tribuit nobis) plures hiemes, seu
tribuit ultimam (hanc), quae … Hiemes =
annos, per sineddoche; ultimam: predicativo (‘come ultimo’). 5 Costruisci: quae nunc
debilitat mare Tyrrhenum oppositis pumicibus e intendi oppositis pumicibus come
abl. strumentale. 6 Sapias: cong. esortativo (come i seguenti liques, reseces), ‘sii saggia’. Vina liques: ‘versa il vino, bevi con
gusto’, ma liquare vina significa propriamente filtrare il vino, attraverso una tela
o un colino. Spatio brevi: abl. assoluto con
valore causale (ma secondo altri abl. strumentale da unire a spem longam reseces). 7
Fugerit: futuro perfetto con valore risultativo. 8 Aetas = tempus. Credula: l’aggettivo, con valore predicativo, indica l’atteggiamento di chi si dimostra immmotivatamene fiducioso. Postero: scil. diei.
05
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.
Carpe diem
Il motivo del carpe diem, abbozzato in nuce e in un modo meno
incisivo, nell’epodo 13, nella formulazione rapiamus amici occasionem de die, è qui sintetizzato e reso più significativo grazie alla
pregnanza semantica di carpere. Già Porfirione, l’antico scoliasta
di Orazio, notava la provenienza del verbo dal lessico agricolo e
osservava come all’immagine fosse sottesa la metafora del
cogliere un fiore o un frutto. Recentemente il Traina ha sottolineato come più propriamente carpere significhi “prendere a
spizzico”, “con un movimento lacerante e progressivo che va dal
tutto alle parti: come sfogliare una margherita o mangiare un
carciofo”. Dunque l’immagine che Orazio suggerisce è quella
della contrapposizione tra il tempo in astratto, nella sua continuità (aetas), e quella parte di tempo (dies) che l’uomo può strappare (carpere) al tutto.
58
Il tema del tempo è costante e incombente e mi pare precipuo nella poetica oraziana: una sensibilità allarmata precocemente e che sarebbe ossessiva se l’esprit e l’eleganza mentale non la dominassero ci ricorda l’invida aetas, i fugaces … anni, l’irreparabile tempus. Questa temporalità inoppugnabile impreziosisce le buone cose
intanto che ne decreta la brevità e la perdita; non per questo rende più tollerabili quelle brutte, volgari. In
questo senso profondo si radica, cresce e si ramifica la pianta della poesia oraziana.
Senza questa inclinazione dell’ombra sulla meridiana e lo struggente fruscio della clessidra non riusciremmo, credo, a valutare nel giusto grado di intensità i motivi dell’eros, dei fiori, del vino e delle altre letizie
e seduzioni. Potrebbero addirittura sembrare un repertorio, sennonché quella incrinatura di ambiguità e
quella ruga nel loro bene illusivo ne accusa la grazia e il pathos. Le più ariose aperture, i più nitidi mivimenti si spiccano proprio da questo tronco: quelle frasi che si stagliano nell’altezza del silenzio, incancellabili. (M.
Luzi)
SUL TESTO
1-3 L’ode si apre con una considerazione generale: non è lecito voler sapere quale limite di
tempo gli dei abbiano posto alla vita di ciascuno. Scire nefas esprime la motivazione del concetto
svolto da tu fino a Leuconoe; nefas ha una sfumatura sacrale e implica l’idea della trasgressione alle
leggi divine. A tutto ciò si contrappone, in modo negativo, l’atteggiamento di chi vuole a tutti i
costi ‘tentare la sorte’ (temptare), violando il limite imposto alla conoscenza umana. Orazio suggerisce invece, come risposta alla precarietà della condizione umana, la via della sopportazione,
della patientia (ut melius, quidquid erit, pati!), con un chiaro riferimento a uno dei principali requisiti
della saggezza stoica.
4 ss. Alla riflessione teorica segue una breve ma intensa immagine a cui apre la via, fungendo quasi
da ponte, la sineddoche (hiemes) che anticipa e orienta l’attenzione sul quadro invernale; efficace la
duplice personificazione, del mare Tirreno sfiancato dalla furia delle tempeste (debilitat) e degli
scogli che sembrano opporglisi di proposito (oppositis … pumicibus). Di fronte all’impossibilità di
prevedere il corso della vita, Orazio (dopo l’accenno del v. 3) rinnova alla fanciulla, e al lettore, l’invito a dimostrarsi saggi (sapias) aderendo ai suoi consigli: vina liques e spatio brevi / spem longam
reseces. Il riferimento al bere va inteso alla luce della concezione oraziana in cui il vino assume
quasi un valore di simbolo del godimento del presente. La contrapposizione tra la longa spes e lo
spatium breve sintetizza la drammaticità della condizione umana oppressa dal contrasto tra l’inesauribilità delle aspettative e l’esiguità del tempo concessole.
7 s. Nell’ultimo verso, nell’efficace e celebre formulazione dell’invito a non credere nel futuro e a
cogliere piuttosto il momento presente, si concentra la sintesi della riflessione oraziana. Dum
loquimur, fugerit invida / aetas: l’accostamento del presente e del futuro anteriore, che indica
l’azione già compiuta, sintetizza ed esprime l’idea della fugacità del tempo, già passato prima ancora che l’uomo se ne renda conto. Il tempo, visto nel suo continuo sfuggire di mano all’uomo, è come
personificato e la sua fuga incessante sembra quasi dettata dalla volontà di strappare all’uomo
(invidus) tutte le gioie della vita. L’efficace accostamento di aggettivo e sostantivo è sottolineato
dalla collocazione in enjambement.
La formula carpe diem, assurta ormai al rango di proverbio e di citazione autonoma, risulta particolarmente significativa, oltre che per il valore specifico del verbo (v. riquadro), per l’originale e
pregnante accostamento di un verbo concreto qual è carpo a un sostantivo astratto come dies.
Quest’ultimo imperativo, che a sua volta implica ancora il divieto di cedere alle aspettative per il
futuro, si ricollega agli imperativi iniziali (ne quaesieris … ne temptaris); “il carpe diem, serrato in un
cerchio di divieti, appare sempre connesso col divieto complementare, ‘non pensare al domani’”
(Traina).
59
Aequam memento servare mentem
Il Testo
ODI II 3
I motivi dell’ode sono tra i più cari a Orazio: il tema della fugacità della vita umana (vd. in particolare Odi I 4) e quello dell’aequa mens, di tradizione epicurea. Il sentimento di precarietà e la
malinconia per la transitorietà della bellezza e della giovinezza trovano una delle più riuscite
espressioni nel simbolismo della rosa. Non ci sono indizi cronologici sicuri se non il terminus post
quem del 30 a. C., anno del ritorno di Quinto Dellio dall’Oriente.
Metro: strofa alcaica
1 Rebus in: anastrofe. 2 ss. Non secus ...
laetitia = non secus (= aliter) <quam> in
bonis <rebus servare memento> temperatam
<mentem> ab insolenti laetitia. 4 Moriture:
‘che sei destinato a morire’. 7 Bearis =
beaveris. 8 Interiore nota Falerni: ‘con una
vecchia bottiglia di falerno’. La nota
(metonimia per ‘anfora’) era l’etichetta
che si applicava all’anfora recante l’indicazione della data in cui essa era stata
riposta nella cantina. I vini più vecchi, e
più pregiati, sono quelli delle file più
interne. 9 Quo = quare, ‘per quale
ragione?’. 11 Ramis: abl. strumentale. 13
s. Huc ... rosae: costruisci: huc ferre iube
vina et unguenta et nimium breves flores
amoenae rosae. 15 s. Res: ‘il patrimonio, le
condizioni economiche’ (secondo altri ‘la
situzione favorevole’). Aetas = tempus. 1516 Sororum … trium: le Parche, Cloto,
Lachesi e Atropo; secondo il mito la vita
di ogni uomo dipende dalla quantità di
filo che le tre sorelle filavano. Atra fila
sono dunque i ‘fili del destino’ e sono
scuri (atra) perché inevitabilmente portano con sé il pensiero della morte.
Patiuntur: ‘lo consentono’. 17 ss. Cedes …
cedes: anafora. Coemptis saltibus: ‘dai terreni che hai comprato e messo insieme
poco per volta’. 18 Villa: ‘la casa di compagna’. 19 Extructis in altum: ‘ammucchiate’. 21 ss. Divesne ... Orci: costruisci: nil
(= nihil) interest <utrum> natus <sis> dives
(divesne = utrum dives) a prisco Inacho, an
pauper et de infima gente moreris sub divo,
<tu qui eris> victima Orci nil miserantis. 21
Inacho: mitico capostipite dei re di Argo.
23 Sub divo moreris: ‘hai per tetto il cielo’,
‘vivi all’aperto’, senza una casa. 25 Eodem
cogimur: ‘siamo guidati in uno stesso
luogo’. 25 ss. Omnium ... cumbae: costruisci: sors <nostrum> omnium versatur urna,
exitura serius ocius, et impositura nos cumbae
(= cymbae) in aeternum exsilium. 28
Cumbae: la barca di Caronte con cui le
anime venivano traghettate al di là
dell’Acheronte.
05
10
15
20
25
Aequam memento rebus in arduis
servare mentem, non secus in bonis
ab insolenti temperatam
laetitia, moriture Delli,
seu maestus omni tempore vixeris,
seu te in remoto gramine per dies
festos reclinatum bearis
interiore nota Falerni.
Quo pinus ingens albaque populus
umbram hospitalem consociare amant
ramis? Quid obliquo laborat
lympha fugax trepidare rivo?
Huc vina et unguenta et nimium brevis
flores amoenae ferre iube rosae,
dum res et aetas et Sororum
fila trium patiuntur atra.
Cedes coemptis saltibus et domo
villaque flavos quam Tiberis lavit,
cedes, et exstructis in altum
divitiis potietur heres.
Divesne, prisco natus ab Inacho,
nil interest an pauper et infima
de gente sub divo moreris,
victima nil miserantis Orci:
omnes eodem cogimur, omnium
versatur urna serius ocius
sors exitura et nos in aeternum
exilium inpositura cumbae.
26 Versatur urna ... sors: la metafora fa riferimento alla consuetudine di interrogare il futuro gettando in un recipiente pietruzze con su scritte le sortes e
agitando finché una sorte non cadeva fuori. Serius ocius: asindeto disgiuntivo.
27 Verso ipermetro: l’ultima sillaba di aeternum si lega in sinalefe alla prima
del verso seguente (ec-).
60
Quinto Dellio, conosciuto forse da Orazio durante la permanenza nell’esercito di Bruto e
Cassio, cambiò più volte partito: dopo la battaglia di Filippi, passò dalla parte dei cesaricidi a quella di Antonio e, prima di Azio, a quella di Ottaviano, di cui ottenne il favore, ma dovette convivere
con la fama meritata di ‘saltimbanco (desultor) delle guerre civili’, secondo la definizione che ne
diede Messalla Corvino (Sen. suas. 1. 7).
SUL TESTO
L’ode si apre con un motivo gnomico (vv. 1-8): il concetto dell’imperturbabilità dell’animo è di
derivazione sia epicurea che stoica. La solennità dell’enunciazione è accentuata dall’imperativo
(memento) e dalla collocazione del sostantivo (mentem) e del suo aggettivo (aequam) ai due estemi
della frase. In incipit e clausola di verso si oppongono invece di due aggettivi aequam e arduis in
“un’antitesi quasi visiva” (Ussani). L’invito che Orazio rivolge al dedicatario Dellio, e con lui al lettore, è quello di ricercare la serenità interiore (aequam … mentem) nelle difficoltà della vita (rebus
in arduis) e allo stesso modo la moderazione (ab insolenti temperatam, scil. mentem, laetitia) nella
buona sorte (in bonis). Efficace l’accostamento del vocativo (Delli) e del participio futuro (moriture),
collocati in posizione di rilievo alla fine della prima strofa per richiamare l’attenzione sulla mortalità dell’uomo (concetto svolto in modo più articolato nell’ultima strofa).
La sezione centrale (vv. 9-16) contiene la descrizione di un locus amoenus (vv. 9-12) e l’invito a
un banchetto (vv. 13-16) introdotti come contropartita positiva al triste destino dell’uomo: anche
nelle vicende tristi della vita e pur con la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte, l’uomo
deve comunque seguire l’invito della natura stessa alla serenità. L’ombra accogliente prodotta dall’abbraccio dei rami del pino (pinus ingens) e del pioppo (alba … populus) e il piacevole e rinfrescante
scorrere dell’acqua (lympha fugax) di un ruscello tortuoso (obliquo … rivo) sono gli elementi che
definiscono un quadro vivace in cui la natura risulta come animata; da notare in particolare la
ricercata collocazione delle parole e la musicalità dei versi 11 ss. La scena conviviale è contesta a
sua volta di elementi tipici: il vino (vina), i profumi (unguenta) e le ghirlande di fiori (flores amoenae
… rosae). La rosa è tradizionalmente simbolo della fugacità della bellezza e della vita e l’accenno
alla sua breve esistenza (nimium breves) introduce una nota di maliconia che apre la via alla minacciosa immagine delle tre Parche, pronte a tagliare il filo della vita di ciascuno (v. 15 s.).
La terza e ultima parte (vv. 17-28) torna al tono gnomico con una intensa riflessione sull’ineluttabilità della morte. Essa prende avvio dal richiamo alla necessità di abbandonare in mano agli
eredi (potietur heres) tutti i beni faticosamente accumulati nel corso della vita: terreni (saltus), case
(domus, villa), richezze (divitiae). La strofa successiva sviluppa la constatazione che davanti alla
morte non c’è differenza di condizione sociale: il ricco discendente di nobile stirpe (prisco natus ab
Inacho) e il povero nullatentente (pauper et infima de gente) sono allo stesso modo vittima dell’inesorabile Dite, che di nessuno ha compassione (victima nil miserantis Orci). La strofa conclusiva ribadisce il comune destino di tutti gli uomini, tutti ugualmente soggetti prima o dopo alla stessa
sorte. I due participi futuri (exitura e impositura) richiamano moriture del v. 4 e l’ode sembra così
iscriversi dentro una cornice di segnali che rinviano all’irrevocabilità della morte. Dopo le immagini delle Parche (v. 15) e dell’Orco (v. 24), campeggia nel finale quella della barca di Caronte che
sembra allontanarsi verso il mondo degl’inferi dove le anime sono come inghiottite nell’eternità
del silenzio.
61
Fugaces labuntur anni
Il Testo
ODI II 14
Il motivo della brevità della vita e inesorabilità della morte è qui connesso con quello della
necessità di dare il giusto valore alle cose sapendo che non esse ci appartengono stabilmente e anzi
siamo destinati a lasciarle. È evidente l’affinità dell’argomento e delle riflessioni con l’ode II 3, ma
qui le immagini si fanno più plastiche e realistiche e più insistita diventa l’osservazione della morte
e dell’aldilà. Il destinatario, Postumo, non è altrimenti conosciuto e ciò ha indotto addirittura al
sospetto, comunque non provato, che si tratti di un nome fittizio; a prescindere comunque da chi
sia il personaggio, qui egli offre l’occasione per una meditazione sulla morte.
Non ci sono indizi per la datazione.
Metro: strofe alcaica
1 Labuntur: ‘scorrono’. 3 Rugis et instanti
senectae: endiadi; senectae = senectutis.
Instans: ‘incombente’. 4 Indomitae:
‘indomabile’. 5 s. Non si ... tauris: costruisci: si trecenis tauris quotquot eunt dies, amice,
places
inlacrimabilem
Plutona.
Inlacrimabilem: ‘implacabile’. 7 Plutona:
accusativo nella forma greca. Ter amplum:
‘triforme’. 8 s. Tristi … unda: la palude
Stigia. 9 Scilicet: ‘senza dubbio’. 10
Quicumque … vescimur: perifrasi per indicare i mortali. 13 Carebimus: ‘ci terremo
lontani’. Marte: metonimia per ‘guerra’.
14 Rauci … Hadriae: l’Adriatico
fragoroso per le tempeste. 15 s. Nocentem
… Austrum: lo scirocco autunnale, pericoloso perché portatava la malaria.
Metuemus: ‘ci guarderemo da’, ‘staremo
lontani’. 17 s. Visendus … Cocytos: perifrasi per ‘si deve morire’. Cocito è uno dei
fiumi infernali. Flumine languido: abl. di
modo. 19 s. Longi … laboris: gen. della
pena; intendi longus nel senso di ‘eterno’.
22 s. Neque ... sequetur: costruisci: neque
ulla harum arborum, quas colis, te, brevem
dominum, sequetur, praeter invisas cupressos.
Quas colis: relativa prolettica. 23 Invisas
cupressos: i cipressi erano simbolo di
morte perché ornavano, oltre ai giardini,
le tombe. 25 Absumet: ‘si godrà’. Dignior:
‘più saggio’ perché capace di godersi quei
beni custoditi troppo gelosamente dal
precedente proprietario. Caecuba: scil.
vina, plurale per il singolare. 26 Centum
clavibus: iperbole per dire ‘con mille
riguardi’. 26 ss. Et mero ... cenis: costruisci: et tinget pavimentum mero (= vino) superbo (‘generoso’) potiore cenis pontificum.
Pontificum … cenis: abl. di paragone =
cenarum pontificum.
Geryonen (acc. greco): mostro dai tre
corpi umani, ucciso da Ercole. 9 s. Tityon
05
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20
25
Eheu fugaces, Postume, Postume,
labuntur anni nec pietas moram
rugis et instanti senectae
adferet indomitaeque morti,
non si trecenis quotquot eunt dies,
amice, places inlacrimabilem
Plutona tauris, qui ter amplum
Geryonen Tityonque tristi
conpescit unda, scilicet omnibus,
quicumque terrae munere vescimur,
enaviganda, sive reges
sive inopes erimus coloni.
Frustra cruento Marte carebimus
fractisque rauci fluctibus Hadriae,
frustra per autumnos nocentem
corporibus metuemus Austrum:
visendus ater flumine languido
Cocytos errans et Danai genus
infame damnatusque longi
Sisyphus Aeolides laboris,
linquenda tellus et domus et placens
uxor, neque harum quas colis arborum
te praeter invisas cupressos
ulla brevem dominum sequetur.
Absumet heres Caecuba dignior
servata centum clavibus et mero
tinguet pavimentum superbo,
pontificum potiore cenis.
(acc. greco): uno dei giganti ucciso da Diana perché aveva tentato di fare violenza a sua madre Latona. 18 s. Danai genus infame: le cinquanta figlie di
Danao che secondo il mito avevano ucciso i rispettivi mariti durante la prima
notte di nozze. 19 s. Sisyphus Aeolides: Sisifo, figlio di Eolo, aveva rivelato a
Esopo il luogo in cui Zeus aveva nascosto sua figlia Egina dopo averla rapita. Tutti erano condannati a pene eterne e inutili.
62
A questa [caducità della vita] la saggezza non ha, si direbbe, altro da contrapporre che la tempestività.
Quello che ci viene dato come seduzione, lusinga, tentazione, prendiamolo: prendiamolo senza indugi o rinvii, godiamone ora, è così breve la sua durata, è così fragile la sua grazia e il suo incanto. Carpe diem, la
giovinezza è un soffio, è così rapido a declinare e spengersi il desiderio. L’ombra, il Cocito, l’onda omnibus
enaviganda sommergerà parimenti ogni cosa esistita.
C’è tristezza in quello che io provo scrivendo queste parole, d’altronde fedeli al pensiero e ai moti del
cuore di Orazio. Ma ce n’è nel poeta dei Carmina e delle Satire o lo stile umano raggiunto ha eliminato ogni
tristezza nello stesso modo che la ardua perfezione formale si eleva al di sopra dei suoi propri argomenti? Il
pensiero della morte, la caducità di ogni cosa amabile divengono un substrato della coscienza che non è più
possibile qualificare con i nostri aggettivi. L’elegia è superata. Non è una imperturbabile saggezza a sconfiggerla ma la ferma acquisizione di consapevolezza a esorcizzarla. Il pathos ha libero tutto il suo campo – è vero.
Ma solo finché non turba la matura riflessione sulla sorte umana a cui dobbiamo essere preparati. Lo siamo?
Lo è il poeta? Sulle insufficienze di tutti è pronto a sorridere il testo. (M. Luzi)
SUL TESTO
Il primo verso, con l’esclamazione e la ripetizione del vocativo (anadiplosi), introduce fin dall’inizio il tono del lamento funebre e la riflessione prende l’avvio dalla constatazione dell’inesorabile passare degli anni, implicitamente paragonato allo scorrere silenzioso e inarrestabile dell’acqua (fugaces … labuntur). La strofa è dominata da una nota di amara irreligiosità, di marca epicurea,
dettata dalla consapevolezza che davanti alla morte neppure gli dei possono soccorrere.
A partire dal v. 5 la riflessione lascia il posto alle immagini e si apre una finestra sull’oltretomba: in primo piano campeggia Plutone, inesorabile e implacabile neppure al prezzo di tre ecatombi
al giorno (l’iperbole vuole in qualche modo stigmatizzare l’eccesso di scrupolo religioso tanto più
inutile quanto più zelante); circondati dalla palude Stigia sono poi il mostro Gerione e il gigante
Tizio. L’accenno alla sorte comune che attende tutti i mortali è svolto in tono simile a II 3. 21-23.
La quarta strofa introduce il motivo dell’inutilità dei tentativi di difendersi dalla morte: l’anafora dell’avverbio frustra (vv. 13 e 15), in posizione incipitaria, sottolinea l’impossibilità di sfuggire.
La prima eventualità da evitare è la guerra, causa di morte per eccellenza; un secondo rischio è
quello della navigazione, qui simboleggiata dal riferimento al mare Adriatico, che indica convenzionalmente qualsiasi mare (la ricorrenza del suono F più liquida abbia un effetto imitativo nella
menzione dei pericoli rappresentati dal mare); terza situazione da evitare è quella del soggiorno
in città nella stagione inclemente, rappresentata dall’Austro.
La quinta strofa torna alla raffigurazione dell’oltretomba introdotte da un secondo gerundivo
(visendus). L’insistenza di questa forma verbale a intervalli quasi regolari nel corso dell’ode (v. 11
enaviganda, v. 17 visendus e v. 21 linquenda) produce quasi l’effetto di un ritornello che di tanto in
tanto ricorda l’idea della necessità della morte. Tre sono le immagini che campeggiano: il fiume
Cocito con il suo scorrere torpido e inesorabile; le Danaidi e Sisifo occupati dalle rispettive pene
(versare acqua in recipienti senza fondo; spingere su un monte un masso che subito ricadeva).
L’ultima strofa, carica di struggente nostalgia, si riaffaccia sulla vita per sottolineare la necessità di abbandonarne i piaceri (espressa dal gerundivo linquenda), enumerati in un elenco scandito
dal polisindeto: la tellus e la domus rappresentano i beni materiali, le proprietà e la moglie amata (placens uxor) in generale gli affetti. La pianta di cipresso è l’unica cosa che seguirà il padrone dopo la
morte, almeno fin sulla tomba: era sacra a Dite e i suoi rami venivano appesi alle porte delle case
in lutto e ornavano le pire nei funerali. La chiusa è dominata dal contrasto tra il vecchio padrone,
che non si è reso conto di essere brevis dominus, cioè non ha avuto la consapevolezza della temporaneità del possesso e non ha saputo godere dei suoi beni e anzi li ha gelosamente e scioccamente
costuditi come in previsione di disporne per l’eternità, e l’heres dignior, che al contrario vuole godere
di quei beni e addirittura li dissipa e li spreca (tinguet pavimentum).
63
Una scelta “laica”
Nel V sec. a. C. la cultura greca incominciò la grande elaborazione di una morale fondata sulla
libertà interiore dell’individuo, morale in cui la comunità statale o era assente o non aveva più un
peso primario. I valori interiori possono essere fondati su una garanzia divina e ultraterrena (che
permette una relativa integrazione nelle religioni tradizionali): è questa la via socratico-platonica;
la via stoica non ne diverge sostanzialmente e verrà in seguito sempre più accostandosi ad essa.
Ma i valori interiori possono essere anche affidati unicamente, o quasi unicamente, all’uomo, parte
di una natura spiegata scientificamente secondo principi propri, senza interventi divini: è la via
democritea-epicurea.
Nessuno può sostenere che Orazio l’abbia percorsa con piena consapevolezza e con rigore: egli
è sensibile anche ad altre sollecitazioni filosofiche e culturali, al clima politico del tempo; manca di
ogni settarismo e di ogni intransigenza, manca di qualsiasi spinta “illuministica” contro la religione tradizionale. Ma nello stesso tempo nessuno può negare che, al di là di alcuni ondeggiamenti, egli è in sostanza su quella via: il valore della vita è affidato al piacere del presente (solo in
parte all’immortalità della poesia): lo rende possibile la capacità dell’uomo di liberarsi dalle paure
e, quindi, dall’ansia del domani, ma nessuna divinità, nessuna provvidenza lo garantisce;
comunque la possibilità di dare un valore alla vita si giuoca tutta su questa terra, in questa vicenda irripetibile che è la vita dell’individuo, punto luminoso, ma effimero, nel buio del tempo.
Il messaggio morale di Orazio alla civiltà europea è stato soprattutto un messaggio di autarkeia
(=autosufficienza, bastare a se stessi) laica. In questo senso può ancora esercitare un fascino su chi
cerchi di dare un senso ad una vita dissacrata che rifiuti non solo le garanzie ultraterrene, ma
anche le garanzie offerte dalle varie teologie calate nella storia, per es. dallo storicismo. Il piacere
di Orazio tende ad uscire dalla storia, ma in senso opposto al misticismo; e la misura di Orazio
esclude qualsiasi esaltazione esasperata dell’uomo, qualsiasi invasamento irrazionale, dionisiaco
per il superuomo, furore in cui la morale “laica” cerca invano di sottrarsi al fascino del mito e del
misticismo, anzi cerca solo di sostituirli. Dunque morale laica e ancorata alla ragione. (...)
Ma anche il piacere presuppone l’autarkeia. Noi siamo abituati a legare il concetto di piacere
con quello di soddisfazione del bisogno. Ovviamente, la connessione in senso filosofico è giusta.
Ma il concetto di “bisogno”, o almeno il valore che noi gli diamo di solito, è estraneo alla morale
oraziana: il messaggio epicureo di Orazio non è rivolto a gente che ha “bisogno”, ma a gente che
ha superato la fase del “bisogno”. Anche Orazio accoglie teoricamente il precetto epicureo di limitare i piaceri a quelli naturali e necessari; ma quanti dei suoi inviti si attengono in realtà ad un
tale precetto? Ora la libertà dal bisogno presuppone una società tranquilla in uno stato sicuro: perciò la sua gratitudine verso il principe salvatore e verso il suo regime. Presuppone, inoltre, una
posizione decorosa in quella società: e questa posizione è assicurata al poeta dal mecenatismo...
Voglio, riprendendo il problema posto dalla morale laica di Orazio, far sentire quanta distanza
ci divide da quel tipo di morale che, ripeto, è una componente importante della morale antica ed
europea. L’interiorità autosufficiente che non ci unisca agli altri con un legame essenziale, è un valore tramontato: resuscitare Orazio come maestro di un’arte di vivere sarebbe un gioco da professori o da esteti. L’etica più avanzata di oggi ritrova un vincolo d’amore con gli altri al di là dei miti
di salvezza religiosa, ma anche al di là di un edonismo e razionalismo aristocratico. In questa ricerca, però, rileggere Orazio può essere utile se, oltre l’orgoglio dell’autarkeia, se ne avvertono le
incrinature, le contraddizioni, le inquietudini.
(da Orazio e la morale mondana europea, Introduzione a Orazio, Tutte le opere, a cura di E. Cetrangolo, Firenze,
Sansoni 1968, pp. CLXXV-CLXXIX).
64
M 3. Una vita semplice, tra natura e poesia …
Dalla concezione oraziana dell’esistenza e del tempo scaturisce una vera e propria
filosofia di vita, fondata su alcuni ideali di fondo: un luogo tranquillo dove abitare, che
assume il valore simbolico di rifugio esistenziale, di angulus in cui si trova conforto (Í Odi
II 6); il criterio dell’aurea mediocritas e di un certo distacco dalle alterne vicende della
sorte, che garantisce la tranquillità dell’animo (Odi II 10 Í); uno stile di vita semplice e
sobrio, che nulla concede al lusso (Odi II 18 Í).
Contribuiscono a delineare il quadro anche morale della forma di vita scelta da Orazio
tocchi di carattere paesaggistico come quelli della celebre ode alla fonte Bandusia (III 13
Í), luogo reale e allo stesso tempo di sogno, metaforico; o tocchi di carattere intimistico
come quelli dell’ode a Aelio (III 17 Í), col suo invito, nell’imminenza della tempesta, a
rinchiudersi in casa, luogo anch’esso reale e al contempo simbolo dell’esistenza protetta.
C’è comunque anche al fondo di questa rappresentazione idillica qualche spunto più
risentito: così nell’ode III 16 la rinuncia alla ricchezza è prospettata come rinuncia ad
una occasione di abbassamento spirituale, e nell’ode III 24, ancora più esplicitamente, la
scelta della povertà è configurata come una scelta contro la corruzione. Da questo punto
di vista – di una polemica sociale chiara, anche se misurata – si capiscono meglio liriche
come quella a Fosco (I 22 Í), in cui Orazio sottolinea che la base di una vita serena è la
coscienza.
Il tono prevalente è comunque quello dell’abbandono, in odi in cui la semplicità levigata ed essenziale della forma è la più immediata espressione di una scelta di vita morale
sì, ma che è anche di stile e di modi: così l’amore per la semplicità fa tutt’uno con le scelte
di poetica: modesti sono i desideri del poeta (Odi I 31 Í) così come sobri ed essenziali i
suoi gusti (Odi I 38 Í).
Nonostante la sobrietà dei gusti e la semplicità dello stile, Orazio cade talvolta nel lezioso, o per idoleggiamento della vita vicina alla natura, o per manierismo letterario, come nell’ode I 17.
Di me tuentur, dis pietas mea
et musa corsi est. Hinc tibi copia
manabit ad plenum benigno
riris honorum opulenta cornu.
Hic in recucta valle caniculae
vitabis aestus et fide Teia
dices laborantis in uno
Penelopen vitramque Circen;
hic innocentis pocula Lesbii
duces sub umbra nec Semeleius
cum Marte confundet Thyoneus
proelia nec metues protervum
suspecta Cyrum, ne male dispari
incontinentis iniciat manus
et scindat haerentem coronam
crinibus inmeritamque vestem.
Gli dei mi proteggono; agli dei sono accette la mia
religione e la mia poesia. Qui scorrerà a te doviziosa
l’Abbondanza, con il suo liberal corno pieno sino
all’orlo dei doni della campagna; qui, in una valle
appartata, eviterai gli ardori della Canicola, e sulla
lira di Anacreonte canterai Penelope e la marina
Circe, entrambe innamorate dello stesso uomo; qui
all’ombra sorseggerai tazze del vino innocuo di
Lesbo; né Bacco di Semele attaccherà briga con
Marte; né tu avrai da temere che il violento Ciro,
geloso di te, troppo diseguale di forze, ti metta brutalmente le mani addosso, e ti strappi la corona
intrecciata ai capelli e la veste immune da qualsiasi
colpa.
(vv. 13-28; trad. T. Colamarino)
65
Ille terrarum mihi praeter omnis angulus ridet
Il Testo
ODI II 6
L’ode presenta una struttura bipartita: la prima sezione (vv. 1-12) svolge il motivo dell’amico
pronto a seguire l’altro in capo al mondo (vd. Epod. I pp. 10-11); la seconda (vv. 13-23) quello dell’elogio di una città come angulus esistenziale prima ancora che spaziale. Destinatario è l’amico
Settimio, raccomandato a Tiberio in epist. I 9 e che Augusto menziona in una lettera a Orazio
parzialmente tramandataci da Svetonio.
La cronologia è incerta, ma l’ipotesi più probabile è che l’allusione ai Cantabri non ancora sottomessi (v. 2) si riferisca agli anni della spedizione cantabrica di Augusto (26-25) e alla successiva
ribellione del 24 a. C.
Metro: strofa saffica
1 Aditure: ‘pronto a venire’. Cantabrum:
singolare per il plurale. Indoctum ferre =
qui nondum didicit. 3 Barbaras Syrtis: Syrtis
= Syrtes; l’aggettivo è trasferito dagli abitanti alla regione. Maura … unda: ‘il mare
africano’ (metonimia). 5 s. Tibur ... senectae:
costruisci: utinam Tibur positum Argeo
colono sit sedes meae senectae. Tibur: Tivoli,
di fondazione argiva. Positum = conditum.
Argeo … colono: dativo d’agente; Argeo =
Argivo. Meae … senectae: ‘dativus commodi’ (secondo altri genitivo di specificazione). 7 Sit: sott. utinam. Modus: ‘termine’. Lasso: sott. mihi. 9 Unde = at si inde.
Prohibent: sott. me, ‘mi tengono lontano’.
10 ss. Dulce ... Phalantho: costruisci: petam
flumen Galaesi dulce ovibus pellitis et rura
regnata Laconi Phalantho. Pellitis ovibus: si
tratta delle oves tectae di cui parla Varrone,
pecore allevate in Attica e a Taranto, che
per la qualità pregiata della lana venivano
ricoperte di pelli perché non si
sporcassero. Regnata: participio passato
passivo di un verbo normalmente intransitivo. Laconi … Phalantho: dat. d’agente.
Taranto era stata fondata dallo spartano
Falanto. 14 ss. Ubi ... Venafro: intendi: ubi
mella non decedunt mellibus Hymetti et baca
certat bacae viridi Venafri. Decedunt =
cedunt. Bacae: = cum baca. 17 s. Tepidas …
brumas: ‘miti inverni’. 18 ss. Et ... uvis:
costruisci: et Aulon, amicus fertili Baccho,
minimum invidet uvis Falernis. Fertilis ha
valore causativo: ‘Bacco che fa prosperare
le viti’. 22 Beatae … arces: ‘fertili colline’.
22 ss. Ibi ... amici: costruisci: ibi tu sparges
debita lacrima calentem favillam amici vatis.
Calentem … favillam: ‘le ceneri ancora
calde’, perché il poeta è ancora vivo. Debita
… lacrima: ‘con lacrime dovute’ all’affetto.
05
10
15
20
Septimi, Gadis aditure mecum et
Cantabrum indoctum iuga ferre nostra et
barbaras Syrtis, ubi Maura semper
aestuat unda,
Tibur Argeo positum colono
sit meae sedes utinam senectae,
sit modus lasso maris et viarum
militiaeque.
Unde si Parcae prohibent iniquae,
dulce pellitis ovibus Galaesi
flumen et regnata petam Laconi
rura Phalantho.
Ille terrarum mihi praeter omnis
angulus ridet, ubi non Hymetto
mella decedunt viridique certat
baca Venafro,
ver ubi longum tepidasque praebet
Iuppiter brumas et amicus Aulon
fertili Baccho minimum Falernis
invidet uvis
Ille te mecum locus et beatae
postulant arces: ibi tu calentem
debita sparges lacrima favillam
vatis amici.
66
Luoghi lontani. Gadis è Cadice, nel Sud della Spagna, per gli antichi l’estremo confine occidentale. I
Cantabri erano una popolazione particolarmente ribelle nel Nord-Ovest della Spagna. Le due Sirti sono il
golfo di Sidra e il golfo di Gabes, sulle coste della Libia e della Tunisia. I Mauri abitavano il territorio a Ovest
delle Sirti e l’aggettivo Maurus si riferiva comunemente all’Africa settentrionale. Il Galeso è un piccolo fiume
che sfocia a Nord di Taranto. Venafro era una località, oggi nel Molise, rinomata per i suoi oliveti. L’Aulone
era una collina nei pressi di Taranto famosa per il vino.
SUL TESTO
La prima strofa svolge il tema dell’amico pronto a seguire l’amico fino agli estremi confini del
mondo. Nel caso specifico la meta lontana è rappresentata da tre zone agli estremi confini occidentali dell’Impero: Cadice, che per gli antichi rappresentava appunto la località più a Ovest, il territorio dei Cantabri, particolarmente ostili ai Romani e ribelli proprio negli anni delle guerre di
conquista (Cantabrum indoctum iuga ferre nostra, v. 2) volute da Augusto, e infine le Sirti e i territori circostanti, zone desertiche e inospitali del Nord Africa, non a caso qualificate con l’epiteto di
barbaras (v. 3). Che dietro a questa poco allettante prospettiva di viaggio verso terre lontane ci
fosse la volontà di Augusto di avere Orazio presso di sé come segretario personale è ipotesi non
sufficientemente comprovabile. Più facile che lo spunto iniziale del viaggio sia un omaggio al topos
letterario e un pretesto per il proseguimento dell’ode con il vagheggiamento delle località familiari e dell’angulus tranquillo e lontano dagli affanni dove vivere serenamente.
La seconda e la terza strofa introducono l’aspirazione (utinam sit … ripetuto due volte al v. 6 e
al v. 7) a trascorrere una vecchiaia serena nell’amata Tivoli o nell’altrettanto cara Taranto; si tratta di due città menzionate spesso da Orazio come luoghi ideali di soggiorno, perché tranquille e
appartate (cf. epist. I 7. 44). (E del resto che il desiderio di Orazio sia soprattutto quello di porre
fine a una vita troppo carica di impegni emerge chiaramente dal v. 7 s., dove modus … maris et
viarum sarà da intendere nel senso di ‘viaggi per terra e per mare’ e militiae non tanto in riferimento specifico all’esperienza nell’esercito dei cesaricidi, che risaliva ad anni troppo lontani, ma
piuttosto nel senso generale di ‘combattere’, anche con valore traslato.) La presentazione delle due
città, con rifermenti ai rispettivi fondatori, i discendenti dell’argivo Anfiarao per Tivoli e lo spartano Falanto per Taranto, ricorda il tono dei mitici racconti di fondazione riconducibili alla letteratura eziologica, diffusa e tanto apprezzata in età ellenistica.
Con la quarta strofa il discorso si sposta dal piano della realtà e dell’interesse per un luogo
geografico reale a quello dell’idealizzazione del locus amoenus cioè del vagheggiamento di un luogo
che, più che essere un luogo fisico, è un vero e proprio ‘luogo dello spirito’. L’espressione ille terrarum mihi praeter omnis angulus ridet, con cui si apre la strofa, ha già in sé tutti gli elementi che ci
consentono di percepire questo mutamento di prospettiva: il dimostrativo enfatico evidenziato in
incipit di verso, la personificazione del locus che ridet, quasi a voler stabilire un legame affettivo con
il poeta, la definizione del luogo come angulus, con una connotazione di protezione e di rifugio dal
mondo. La rappresentazione del luogo ideale prosegue poi con la menzione di alcuni elementi
tradizionali della topica del locus amoenus: il miele più dolce, l’olio migliore, il clima mite e infine il
vino di ottima qualità.
Questo luogo così delineato richiede necessariamente la presenza, accanto al poeta, dell’amico
Settimio, che fin dall’inizio era stato presentato come disponibile a qualsiasi spostamento in nome
dell’amicizia. La chiusa getta uno sguardo più avanti nel tempo, alla morte del poeta, quando l’amico avrà il compito di rendere omaggio alle sue spoglie piangendo sulle ceneri ancora calde. Forse
non è casuale che gli epiteti con cui Orazio si riferisce a sé dopo morto siano quelli di vates e amicus, quasi a voler ribadire l’importanza e la centralità nella sua vita della vocazione poetica (vd. M.
8) e del sentimento di amicizia (vd. M. 4).
67
Aurea mediocritas
Il Testo
ODI II 10
L’ode sviluppa in tono gnomico il motivo filosofico del giusto mezzo tra due eccessi opposti,
motivo teorizzato da Aristotele ma presente già prima nella cultura greca e concetto topico anche
a livello divulgativo. Il testo si può suddividere in due parti: nella prima (vv. 1-12) domina il tema
del giusto mezzo, nella seconda (vv. 13-24) quello della mutevolezza della sorte.
Non vi sono indizi cronologici sicuri; se il Licinio a cui l’ode è dedicata è Lucio Licinio Murena,
la composizione potrebbe risalire al 23, l’anno del consolato, o essere di poco posteriore.
Metro: strofa saffica
1 Rectius vives: il comparativo sottintende,
come secondo termine di paragone, un
riferimento alla condotta trascorsa o
attuale del personaggio (‘meglio di quanto hai fatto finora o fai’). Licini: probabilmente Lucio Licinio Murena, figlio del
console Murena difeso da Cicerone nel 63
a. C., e adottato da A. Terenzio Varrone,
padre di Terenzia, moglie di Mecenate.
Nel 22 fu coinvolto in una congiura contro Augusto in seguito alla quale trovò la
morte. Altum: scil. mare. 2 Urgendo: ‘spingendoti troppo verso’. 3 Premendo: ‘rasentando, costeggiando’. 4 Iniquum: ‘diseguale’ perché frastagliato, dunque ‘pericoloso’. 6 Tutus: ‘sicuro’ per la scelta della
via di mezzo. Caret: con l’abl. (sordibus), ‘è
privo di’, ‘si astiene da’, dunque ‘evita’. 8
Sobrius: ‘lucido’ in quanto non accecato
dalla brama di ricchezza. 11 s. Summos …
montes: ‘le cime dei monti’, come vuole la
posizione dell’aggettivo. 13 Infestis …
secundis, scil. rebus, abl. di luogo. 14
Alteram: sia rispetto alle res infestae che
alle res secundae. 15 Pectus: ‘l’animo’.
Informes: ‘squallidi’. 16 Iuppiter: Giove qui
inteso come divinità che presiede ai
fenomeni atmosferici. Idem: ha valore
avversativo qui e al v. 22. 17 s. Non ... erit:
costruisci: si nunc (est) male, non erit sic et
(= etiam) olim. Olim riferito al futuro, ‘in
avvenire’. 18 ss. Quondam ... Apollo:
costruisci: quondam (= interdum) Apollo
suscitat cithara Musam tacentem neque semper tendit arcum. Cithara è abl. strumentale. 21 Rebus angustis: abl. di luogo. 23
Contrahes: futuro con valore imperativo;
vento: abl. di causa retto da turgida.
5
10
15
20
Rectius vives, Licini, neque altum
semper urgendo neque, dum procellas
cautus horrescis, nimium premendo
litus iniquum.
Auream quisquis mediocritatem
diligit, tutus caret obsoleti
sordibus tecti, caret invidenda
sobrius aula.
Saepius ventis agitatur ingens
pinus et celsae graviore casu
decidunt turres feriuntque summos
fulgura montis.
Sperat infestis, metuit secundis
alteram sortem bene praeparatum
pectus. Informis hiemes reducit
Iuppiter, idem
submovet. Non, si male nunc, et olim
sic erit: quondam cithara tacentem
suscitat Musam neque semper arcum
tendit Apollo.
Rebus angustis animosus atque
fortis adpare; sapiens idem
contrahes vento nimium secundo
turgida vela.
Come s’è detto, la conquista della serenità e della libertà, fondate sulla metriótes e sull’autárkeia, conquista a cui è arrivato attraverso la meditazione delle Satire e l’esperienza che in esse si riflette,
è il primo presupposto delle Odi. Bisogna, però, subito aggiungere
che questa conquista non dà un possesso saldo e definitivo: la
saggezza è qualche cosa che va sempre riconquistata: perciò il culto
della saggezza è una tensione dinamica, non una calma imperturbabile. (…)
(A. La Penna, op. cit., p. 93)
68
SUL TESTO
L’ode si apre con la metafora della navigazione, in cui la vita umana è simboleggiata dalla nave.
L’invito rivolto a Licinio a perseguire una vita migliore (rectius vives) si colloca sul piano della condotta morale ed è chiaro fin dall’inizio come secondo Orazio la saggezza, il recte vivere, consista
nella ricerca del giusto mezzo. La nave della vita di ciascuno deve percorrere la rotta mediana: non
esporsi al rischio di veleggiare troppo al largo (neque altum semper urgendo), né, per converso,
rasentare le coste irte di scogli e pericolose per i bassifondi (neque … nimium premendo litus iniquum).
La seconda strofa introduce il concetto di aurea mediocritas, concetto cardine della “filosofia”
oraziana: non si tratta di ‘mediocrità’, ma della virtù preziosa (aurea) di chi sa scegliere la ‘giusta
misura’ evitando gli eccessi (cf. Cic. de off. I 25: (mediocritas) quae est inter nimium et parum). In
questo testo i due opposti sono riscontrati nel tipo di abitazione: da un lato non abbassarsi a vivere
nello squallore di una vecchia casa in disuso (caret obsoleti sordibus tecti), dall’altra non ambire a una
reggia tanto sontuosa da suscitare invidia (caret invidenda … aula).
La terza strofa mostra gli effetti a cui va incontro chi, per ambizione personale, non aderisce
all’ideale della mediocritas. Si tratta di un motivo convenzionale espresso mediante tre immagini
che si susseguono rapidamente: il pino di grandi dimensioni scosso dai venti, le alte torri che
cadono rovinosamente e le cime dei monti colpite dai fulmini. Nota come nei tre casi spiccano gli
aggettivi ingens, celsae, summos, che, accomunati dalla nozione di altezza, alludono all’atteggiamento di chi ha mire troppo elevate e cerca di innalzarsi oltre misura. Il verso 13, giocato sul contrasto tra i due verbi (sperat e metuit) e i due aggettivi (infestis e secundis), introduce il concetto dell’aequa mens (svolto in odi II 3. 1-4 e qui ripreso nell’ultima strofa), l’atteggiamento che l’animo del
saggio (bene praeparatum pectus) deve saper mantenere in ogni circostanza della vita. Nelle avversità non deve lasciarsi andare alla disperazione e deve invece nutrire la speranza di un miglioramento (sperat infestis … alteram sortem); nella buona sorte non deve illudersi scioccamente, ma
prevedere la possibilità di un rovescio di fortuna (metuit secundis alteram sortem).
Per chiarire il concetto Orazio stabilisce un primo parallelo tra le vicende umane e quelle
atmosferiche: la sorte muta così come si alternano le stagioni dell’anno (v. 15 s.); in seguito approfondisce il concetto introducendo la figura di Apollo, la cui varietà di funzioni ricorda la varietà
della vita stessa: a volte si diletta piacevolmente con la cetra (quondam cithara tacentem suscitat
Musam), a volte tende minaccioso l’arco mortale (arcum tendit). Nel primo caso il dio è visto nella
luce benigna di protettore delle arti, e della poesia in particolare, nel secondo si fa invece riferimento alla credenza che Apollo lanciasse epidemie contro gli uomini con le mortali saette (si ricordi l’episodio iniziale dell’Iliade).
L’ultima strofa riprende la metafora della navigazione concludendo l’ode con un movimento
circolare; la ripresa è segnata dal futuro contrahes che richiama il vives del v. 1. Ritorna il concetto
dell’aequa mens e dell’atteggiamento moderato da tenere in tutte le circostanze: nelle difficoltà
(della navigazione e della vita) è necessario dimostrarsi forti e coraggiosi, ma è anche opportuno
ammainare le vele e mantenersi modesti quando il favore dei venti rischia di far oltrepassare i limiti. L’espressione rebus angustis (v. 21) può essere intesa in senso generale ‘nelle difficoltà’ (cf. v. 13),
ma nell’ambito della metafora della navigazione sembra più suggestivo vedere un riferimento agli
‘stretti bracci di mare’ dove tra scogli e bassifondi si rivelano l’abilità e la fermezza del navigatore.
69
Fides et ingeni benigna vena
Il Testo
ODI II 18
L’ode svolge il motivo della polemica contro il lusso, ricondotto al tema tipicamente oraziano
dell’inutilità della ricchezza di fronte alla morte (i vv. 1-14 sono una dichiarazione di preferenza
personale per la semplicità; i vv. 15-28 introducono la condanna della smania di costruire; i vv. 2940 sviluppano il tema dell’equità della morte).
Non c’è destinatario e la supposizione si tratti di Mecente non trova riscontro: il tono gnomico fa piuttosto pensare a una destinazione generale. Non ci sono indizi per la datazione, ma
l’affinità con i temi e il tono delle satire fanno propendere per una datazione piuttosto alta.
Metro: sistema ipponatteo
1 s. Ebur: l’avorio è simbolo si sfarzo
regale. Aureum … lacunar: ‘soffitto a cassettoni con decorazioni d’oro’, altro simbolo di una ricca abitazione. 3 Trabes …
Hymettiae: ‘architravi di marmo
dell’Imetto’, pregiato marmo di colore
blu-grigio. 4 s. Ultima ….Africa: abl. di
stato in luogo poetico; il marmo numidico, di colore giallo, proveniva dalle
miniere situate nell’odierna Tunisia.
Recisas: ‘tagliate’. 5 ss. Ignotus heres: predicativo del soggetto. Attali … regiam: vd.
Odi I 1, p. 48. 7 s. Nec ... clientae: costruisci: nec honestae clientae trahunt mihi
Laconicas purpuras. La porpora laconica
era molto pregiata e simbolo tradizionale
di sontuosità. Le honestae clientae sono le
distinte mogli dei clientes, persone di
rango elevato: il fatto che tali persone
tessessero per qualcuno era considerato
un onore. Trahere porporas: ‘tessere tessuti di porpora’. 8 At: l’avversativa introduce la parte positiva di questa prima
sezione: se nella casa di Orazio non ci
sono tutti quei simboli di lusso finora
elencati, ci sono però in lui preziose qualità morali. 10 s. Est: sott. apud me. Fides: è
una qualità morale fondamentale nella
concezione oraziana e uno dei valori più
alti nell’ambito del sistema dei valori
romano. Ingenii benigna vena: l’ispirazione
poetica che non può andare disgiunta
dalle qualità morali. Benigna: ‘ricca’,
‘abbondante’. Pauperemque ... petit: costruisci: et dives petit me pauperem: esprime in
generale il vanto per le amicizie importanti. 11 Supra: avverbio. 13 Largiora:
neutro sostantivato, ‘ulteriori doni’. 14
Unicis Sabinis: ‘della mia sola Sabina’, il
nome del popolo indica per metonimia il
territorio. Orazio si riferisce al dono ricevuto da Mecenate della villa in Sabina (cf.
Sat. II 6. 1 ss.).
05
10
Non ebur neque aureum
mea renidet in domo lacunar,
non trabes Hymettiae
premunt columnas ultima recisas
Africa neque Attali
ignotus heres regiam occupavi
nec Laconicas mihi
trahunt honestae purpuras clientae.
At fides et ingeni
benigna vena est pauperemque dives
me petit; nihil supra
deos lacesso nec potentem amicum
largiora flagito,
satis beatus unicis Sabinis.
Il verso 15 introduce alla seconda sezione del componimento e al motivo del passare del tempo che vanifica tutte le attività umane. Orazio denuncia l’assurdità dell’agire umano: i giorni scorrono uno dopo l’altro e l’uomo
si affanna a commissionare marmi e a costruire case, senza tener conto del
fatto che la vita è di breve durata e che si avvicina il giorno della morte.
Addirittura per la smania di incrementare il proprio latifondo a scapito del
vicino alcuni arrivano all’atto sacrilego di rimuovere le pietre terminali;
oppure, per avidità, espropriano i clienti dei loro beni e questi sono costretti ad abbandonare la casa, portando con sé i penati e i figli.
Dal v. 29 si passa alla terza parte, al tema della morte che sopraggiunge
imparziale per tutti: nulla certior tamen / rapacis Orci fine destinata aula divitem
manet / erum. Quid ultra tendis? Aequa tellus / pauperi recluditur / regumque
pueris, nec satelles Orci / callidum Promethea / revexit auro captus. Hic superbum
/ Tantalum atque Tantali / genus coercet, hic levare functum / pauperem laboribus
/ vocatus atque non vocatus audit. (Eppure non c’è sala / più pronta per ricevere il signore, / al termine prefisso, / di quella della morte che ti prende. /
Oltre che cerchi? Si apre la terra eguale / al povero e a chi nacque da re, / e
il nocchiero del regno delle ombre / non fu preso dall’oro, / non riportò
Prometeo l’accorto. / Così imprigiona il prevaricatore / Tantalo e la sua
razza. / A sollevare il povero che soffre / e ha finito il suo compito / viene
chiamato e viene non chiamato. Trad. E. Mandruzzato).
70
Frigus amabile
ODI III 13
Metro: sistema asclepiadeo III
05
10
15
O fons Bandusiae splendidior vitro,
dulci digne mero non sine floribus,
cras donaberi haedo,
cui frons turgida cornibus
primis et venerem et proelia destinat.
Frustra: nam gelidos inficiet tibi
rubro sanguine rivos
lascivi suboles gregis.
Te flagrantis atrox hora Caniculae
nescit tangere, tu frigus amabile
fessis vomere tauris
praebes pecori vago.
Fies nobilium tu quoque fortium
me dicente cavis inpositam ilicem
saxis, unde loquaces
lymphae desiliunt tuae.
Suono e visione
Rare sono le allitterazioni onomatopeiche in Orazio: qui al v. 15 s. è
riprodotto il rumore dell’acqua (unde Loquaces / Lymphae desiLiunt
tuae); in I 22. 23 s.: duLce ridentem LaLagen amabo, / duLce Loquentem
è evocata la voce di Làlage (e ricordiamo che il nome Làlage in greco
significa “chiacchierina”); in I 4. 13 s. Pallida Mors aequo Pulsat Pede
PauPerum tabernas / regumque turres risuona il passo della morte personificata.
Complessivamente si tratta di pochi casi.
Osserva il Traina: “Luce e colore, molto più che suono. Orazio non
ha la “imagination auditive” di Virgilio: in una poesia come la latina,
che rispetto alla greca, privilegia i valori fonici, Orazio punta piuttosto sui valori visivi (…). Ama poco l’allitterazione, la più tipicamente latina delle figure di suono (…).
Traina, Introduzione a Orazio. Odi e epodi, Milano 19903, p. 41 s.
71
1 O fons Bandusiae: personificazione della
fonte. Bandusiae è gen. epesegetico. 2
Vitro: ‘cristallo’. 2 Digne: vocativo riferito
a fons, che è di genere maschile. Mero =
vino. Non sine floribus: litote intensiva,
‘con molti fiori’. 3 Donaberis: costruzione
di dono con l’abl. della cosa donata e l’acc.
della persona. 4 Turgida cornibus primis:
‘gonfia per le corna nascenti’. 5 Et
venerem et proelia: Venerem è metonimia
per amorem e i due sostantivi formano
un’endiadi ‘le battaglie amorose’. 6 s.
Frustra: ‘invano’, riferito a quanto precede. Gelidos … rivos: ‘la fresca corrente’,
plurale poetico e iperbato. Inficiet:
‘tingerà’. Tibi: dat. commodi riferito alla
fonte. 8 Lascivi suboles gregis: ‘la prole del
gregge ruzzante’, perifrasi per haedus. 9
Atrox: ‘impietosa’. Flagrantis … Caniculae:
‘della canicola ardente’, cioè il momento
più caldo dell’estate; iperbato. 10 Nescit =
nequit. Frigus amabile: ‘gradita frescura’.
11 Fessis vomere: ‘stanchi di arare’. 12
Pecori vago: ‘al bestiame errate’. 13 Tu:
anafora con il te del v. 9 e il tu del v. 10.
Nobilium … fontium: gen. partitivo. La
fonte di Bandusia, grazie al canto di
Orazio, sarà ricordata al pari di altre celebri fonti cantate dai poeti greci. 14 ss. Me
dicente: abl. assoluto con valore causale.
Impositam ilicem: ‘il leccio che sovrasta’.
Loquaces: personificazione delle acque
zampillanti che sono dette ‘chiacchierine’.
Si noti l’allitterazione della l che riproduce in modo quasi onomatopeico il gorgoglio dell’acqua.
Il Testo
L’ode è formalmente un inno che svolge il motivo occasionale della ricorrenza festiva, forse
quella dei Fontanalia (13 ottobre), durante i quali, secondo Varrone, si gettavano ghirlande nelle
fonti e si compivano libagioni. La fonte di Bandusia potrebbe essere una fonte presso Venosa, città
natale di Orazio, o, più verosimilmente, una fonte nel suo podere sabino. Al di là della circostanza, l’ode svolge il topos del locus amoenus e spicca per la perfezione formale con cui sono raffigurati
i particolari visivi del paesaggio ed è riprodotta la musicalità della sorgente.
Non ci sono indizi cronologici, ma la maturità dello stile e la consapevolezza di sé che il poeta
mostra di avere fanno propendere per una datazione bassa.
Dum potes, aridum conpone lignum
Il Testo
ODI III 17
Il dedicatario dell’ode è probabilmente Lucio Elio Lamia, console nel 3 d. C. ma non è sicuro
che l’occasione sia quella del compleanno di costui, come si potrebbe supporre dalle parole genium
curabis. Il motivo svolto è quello del contrasto tra la nobiltà di natali del personaggio (vv. 1-9) e la
precarietà dell’esistenza (vv. 9-16). Alla malinconia che deriva dall’incertezza del domani fa fronte
l’esortazione ad allestire il banchetto che porrà fine alla tristezza.
Non ci sono indizi per la datazione.
Metro: strofa alcaica
Elio, che trai nobiltà dal vetusto Lamo
(poiché si dice che da lui presero nome
i primi Lamii, attraverso i memori fasti
l’intera progenie dei loro nipoti,
tu trai origine da quel capostipite
che è fama sia stato il primo a regnare
su Formia e, signore per ampio
tratto, sul Liri che inonda le spiaggie
di Marica), domani, se non erra
la cornacchia, annosa presaga di pioggia,
d’Euro si abbatterà la tempesta
a cospargere il bosco di molte foglie
e il lido di inutili alghe.
Adesso, finché puoi, raccogli legna
secca. Domani coi tuoi servi, sgombri
d’opere, onorerai il tuo Genio
con un porcello di due mesi e vino.
(trad. L. Canali)
05
10
15
Aeli vetusto nobilis ab Lamo –
quando et priores hinc Lamias ferunt
denominatos et nepotum
per memores genus omne fastus,
auctore ab illo ducis originem,
qui Formiarum moenia dicitur
princeps et innantem Maricae
litoribus tenuisse Lirim,
late tyrannus, – cras foliis nemus
multis et alga litus inutili
demissa tempestas ab Euro
sternet, aquae nisi fallit augur
annosa cornix. Dum potes, aridum
conpone lignum; cras Genium mero
curabis et porco bimenstri
cum famulis operum solutis.
L’immunità del saggio, dell’amante, del poeta
Il racconto dello scampato pericolo è la prova della solenne dichiarazione iniziale: la divinità protegge da ogni
pericolo l’uomo puro da colpe. Il motivo dell’immunità del saggio non è originale e sembra essere un tema di
derivazione stoica (cf. p. es. Seneca, Tieste v. 380 ss.). Nel nostro caso, però, la struttura simmetrica dell’ode
induce a mettere in relazione il primo verso con gli ultimi e a considerare che l’integritas vitae di cui Orazio
parla non ha tanto una valenza etica, quanto piuttosto si manifesta nel suo amore per Làlage e nella composizione di poesie in suo onore. Dunque l’immunità del saggio diventa l’immunità dell’amante, in osservanza
al topos caro alla poesia erotica alessandrina e noto anche ai poeti elegiaci latini (cf. p. es. Tibullo I 2. 27 s. e
Properzio III 16. 11 ss.). Se nell’ode I 22 è l’amante e il compositore di poesie amorose a rimanere sano e
salvo, altrove Orazio amplia e approfondisce l’idea: il poeta in generale (non solo quello d’amore) godrà
ovunque della protezione delle Muse e degli dei (cf. I 17 13 sg.).
72
Integer vitae scelerisque purus
ODI I 22
Metro: strofa saffica
05
10
15
20
1 Integer … purus: aggettivi sostantivati,
soggetto di non eget. Vitae: gen. di rel. Si
noti il chiasmo del primo verso. Mauris
iaculis: i Mauri combattevano di solito a
cavallo con il giavellotto. Mauris è qui
aggettivo. 3 s. Venenatis … sagittis: abl.
strum. dip. da gravida (‘piena’). Nota il
doppio iperbato intrecciato. 4. Fusce: v.
Epistola I 10, di cui Fusco è destinatario.
5 s. Sive ... Hydaspes: costr.: sive facturus
(sit) iter per Syrtis (= Syrtes) aestuosas, sive
per inhospitalem Caucasum, vel (per ea) loca
quae lambit fabulosus Hydaspes. 9 ss. Nam ...
inermem: costruisci nam lupus in Sabina
fugit me inermem dum canto meam Lalagen
et vagor ultra terminum expeditis curis.
Terminum: il confine della proprietà. Curis
… expeditis: ‘lasciate da parte le preoccupazioni’. 13 s. Quale portentum: apposizione di lupus; ‘mostro quale’, in anastrofe. Militaris Daunias: ‘la bellicosa
Daunia’, la Puglia. Daunias è nom. sing.
alla greca. Latis … aesculetis: abl. di luogo
poetico, ‘nei vasti querceti’. 15 s. Iubae tellus: perifrasi per indicare la Numidia. 17
Pone = si pones, in anafora col v. 21. Pigris
… campis: abl. di luogo ‘nelle desolate
lande’, iperbato intrecciato con i due
seguenti nulla … arbor e aestiva aura. 22
Quod latus mundi: ‘zona del mondo che’.
Quod è oggetto di urget il cui soggetto
sono nebulae malusque Iuppiter (‘le nebbie e
il cielo inclemente’). 20 Iuppiter: metonimia per ‘cielo’. 22 In terra domibus negata: ‘in una terra inabitabile’ per l’eccessivo
calore. 23 s. Dulce: aggettivo in funzione
avverbiale.
Integer vitae scelerisque purus
non eget Mauris iaculis neque arcu
nec venenatis gravida sagittis,
Fusce, pharetra–,
sive per Syrtis iter aestuosas
sive facturus per inhospitalem
Caucasum vel quae loca fabulosus
lambit Hydaspes.
Namque me silva lupus in Sabina,
dum meam canto Lalagen et ultra
terminum curis vagor expeditis,
fugit inermem,
quale portentum neque militaris
Daunias latis alit aesculetis
nec Iubae tellus generat, leonum
arida nutrix.
Pone me pigris ubi nulla campis
arbor aestiva recreatur aura,
quod latus mundi nebulae malusque
Iuppiter urget,
pone sub curru nimium propinqui
solis, in terra domibus negata:
dulce ridentem Lalagen amabo,
dulce loquentem.
vv. 8-9 Fabulosus Hydaspes: ‘il leggendario Idaspe’, affluente dell’Indo; l’India era considerata un territorio fantastico. I tre
luoghi nominati erano tutti infestati da belve feroci. 13-14 La Puglia, terra di Dauno, e terra natale di Orazio era infestata
dai lupi. 15-16 Leonum ... nutrix: apposizione di tellus. Nota l’accostamento ossimorico di arida e nutrix. I vv. 17-20 sono una
perifrasi per indicare le regioni fredde del nord, così come i vv. 21-22 indicano le regioni torride del sud.
73
Il Testo
L’ode, indirizzata all’amico Fusco, svolge il tema dell’intangibilità dell’uomo moralmente integro; esso è concretizzato nell’episodio di una passeggiata in un bosco della sua tenuta sabina
durante la quale Orazio, immerso nei suoi pensieri, incontra un lupo il quale, alla vista del poeta,
pure inerme, fugge via. Il tema dell’immunità dell’uomo puro da colpe si intreccia con quello, tipicamente alessandrino e caro ai poeti elegiaci latini, dell’inviolabilità di chi ama.
Non ci sono elementi per la datazione: se il Giuba menzionato al v. 15 fosse il re di Numidia
posto sul trono da Augusto nel 25 a. C. avremmo un terminus post quem, ma è più verosimile che si
tratti piuttosto del più antico Giuba I, partigiano di Pompeo che si uccise nel 46 a. C. dopo la sconfitta di Tapso.
Nec cithara carentem
Il Testo
ODI I 31
Quest’ode è un inno ad Apollo ampliato dalla riflessione gnomica sul tema dell’ideale di vita
oraziano: il testo si apre con la preghiera (vv. 1-3), passa poi al motivo del contrasto tra gli ideali
di vita del poeta e quelli degli altri – in una Priamel che richiama quella di Odi I 1 (vv. 3-16) – per
poi tornare alla preghiera (vv. 17-20).
La data di composizione è sicura in quanto si tratta di una poesia d’occasione, scritta per la dedicazione da parte di Ottaviano, nel 28 a. C., del tempio di Apollo sul Palatino, in adempimento di
un voto per la vittoria su Sesto Pompeo nel 36 a. C.
Metro: strofa alcaica
1 s. Quid ….Quid …: anafora. Dedicatum
… Apollinem: costruzione passiva analoga
a quella di donare (dedicare deum scil. aede).
Patera: coppa, larga e piatta, utilizzata
nelle libagioni. 3 Liquorem = vinum. 3 ss.
Non opimae ... rura: complementi oggetti
di un sottinteso verbo di chiedere (‘il
poeta non chiede …’). Feracis = feraces, da
riferire anche a Sardinia. 5 s. Aestuosae ...
armenta: ‘gli armenti gradevoli a vedersi
dell’arido Salento’ (secondo altri aestuosae
Calabriae è dat. retto da grata: ‘gli armenti che sono grati all’arido Salento’). 7 s.
Quae ... amnis: costruisci: quae Liris amnis
taciturnus mordet quieta aqua. Il Liris, oggi
Garigliano, è un fiume che scorre tra il
Lazio e la Campania. Taciturnus mordet:
‘consuma impercet-tibilmente’. 9 s.
Premant ... vitem: costruisci: (illi) quibus
Fortuna dedit vitem, premant (vitem) falce
Calena. Premant … falce … vitem: ‘potino
le viti con la falx vinatoria’. Calena. ‘di
Cales’, riferito per enallage alla falce. 10
ss. Dives et ... merce: costruisci: et dives mercator exsiccet aureis culillis vina reparata
Syra merce. Dives et: anastrofe. Aureis …
culillis: abl. strumentale; culilla sono propriamente coppe di terracotta riservate al
culto, ma qui si deve intendere nel senso
di coppe particolarmente pregiate. Vina
Syra reparata merce: ‘vini barattati con
merce orientale’. 13 ss. Dis carus ipsis:
sott. mercator est. Quippe … revisens …
inpune: ‘se ha rivisto indenne’. 15 s. Me …
me: anafora che sottolinea il contrasto tra
i gusti degli altri e quelli di Orazio.
Cichorea: grecismo della lingua d’uso.
Leves: ‘facilmente digeribili’. 17 ss. Frui ...
carentem: costruisci: precor, Latoe, dones
mihi et frui paratis et valido (me) et degere
senectam cum integra mente nec turpem nec
carentem cithara.
5
10
15
20
Quid dedicatum poscit Apolline
vates? Quid orat, de patera novum
fundens liquorem? Non opimae
Sardiniae segetes feracis,
non aestuosae grata Calabriae
armenta, non aurum aut ebur Indicum,
non rura, quae Liris quieta
mordet aqua taciturnus amnis.
Premant Calena falce quibis dedit
Fortuna vitem, dives et aureis
mercator exsiccet culillis
vina Syra reparata merce,
dis carus ipsis, quippe ter et quater
anno revisens aequor Atlanticum
inpune: me pascunt olivae,
me cichorea levesque malvae.
Frui paratis et valido mihi,
Latoe, dones, et, precor, integra
cum mente, nec turpem senectam
degere nec cithara carentem.
Motivi ricorrenti
Aurum aut ebur Indicum: oro e avorio, favolose ricchezze dei paesi orientali,
sono simboli tradizionali di lusso e come tali oggetto di polemica (cf. Odi II
18. 1-8).
Mercator … dis carus ipsis: il motivo dei pericoli del mare a cui si espongono
i commercianti è tradizionale (cf. Odi I 1. 15-18) e chi per mestiere deve solcare continuamente i mari di certo è protetto dagli dei per il solo fatto di
tornare salvo da ogni viaggio.
Me pascunt olivae …: anche l’ideale della semplicità e della moderazione, qui
rappresentato dalla dieta frugale, fatta di olive, cicoria e malva, elementi
tradizionalmente considerati umili, è topico. L’accenno alle preferenze alimentari non è fine a se stesso e assume un valore più ampio in riferimento
ai gusti e allo stile di vita in generale.
74
Neque dedecet myrtus me
ODI I 38
Metro: strofa saffica
05
Persicos odi, puer, adparatus,
displicent nexae philyra coronae:
mitte sectari, rosa quo locorum
sera moretur.
Simplici myrto nihil adlabores
sedulus, curo: neque te ministrum
dedecet myrtus neque me sub arta
vite bibentem.
L’ode descrive una scena conviviale, o meglio l’allestimento di un
convivio, e si apre con un programmatico rifiuto di ogni sfarzo e con
l’invito a un servitore a non indugiare nella ricerca (mitte sectari) di
rose fuori stagione (la cui coltivazione era segno di ricercatezza e di
lusso eccessivo e come tale moralmente riprovevole). Il testo va
letto in chiave simbolica: il lusso orientale (Persicos … apparatus), le
ghirlande di fiori elaboratamente intrecciate (nexae philyra coronae),
la rosa tardiva (rosa … sera) sono metafore dello sfarzo e della ricercatezza che Orazio dichiara di non apprezzare.
Tale rifiuto ha una duplice ricaduta: sul piano della poetica significa il rifiuto di argomenti eroici e solenni (e per il momento non si
dice ancora a vantaggio di quali altri), su quello della vita la scelta
della semplicità e della moderazione. La seconda strofa costituisce
la parte propositiva del componimento: l’elemento centrale è il simplex myrtus, preferito alle ghirlande di fiori e alla rosa tardiva come
ornamento adatto sia al ragazzo che serve a tavola sia al poeta che
banchetta. La scelta dell’aggettivo simplex spicca per la pregnanza di
significato e acquista valore programmatico. Anche in questa seconda parte è evidente la simbologia: il mirto, pianta sacra a Venere,
rinvia alla scelta della poesia d’amore così come il riferimento al
bere (me … bibentem) allude alla predilezione per la poesia conviviale.
75
1 Persicos … apparatus: lo sfarzo dei
Persiani era proverbiale, ma qui l’allusione è più in generale al lusso orientale.
Puer: appellativo poetico del servitore,
senza riferimento all’età. 2 Displicent:
‘non mi piacciono’. Philyra: nome greco
del tiglio, dalla cui corteccia si ricavava
un filo usato, come qui, per intrecciare
ghirlande di fiori. La scelta del termine
greco rimarca la ricercatezza di simili
addobbi. 3 Mitte sectari: imperativo negativo di uso poetico. Mitte = omitte, ‘smetti,
cessa’; sectari, intensivo di sequi, indica la
ricerca lunga e perseverante. Quo locorum
= ubi, forma di avverbio col partitivo simile a ubi terrarum. 3 s. Rosa … sera moretur:
si tratta delle ultime rose, che a volte possono ancora trovarsi alla fine dell’estate o
all’inizio dell’autunno. 5 s. Simplici ... curo:
costruisci: curo nihil (= non curo quicquam)
adlabores simplici myrto (dat.); intendi nihil
curo nel senso di ‘non m’importa’ dunque
‘non voglio’ e adlaborare, verbo coniato da
Orazio, nel senso di ‘affaticarsi per
aggiungere’. Sedulus: l’aggettivo è riferito
al puer, ma si tratta di un’enallage per
l’avverbio. 6 s. Neque te … dedecet …
neque me = et te decet … et me. Ministrum:
è il puer che serve a tavola e che svolge
funzione di coppiere. 7 s. Sub arta vite: i
critici sono divisi sull’interpretazione
dell’aggettivo: secondo alcuni si tratta di
un ‘folto pergolato’, secondo altri di uno
‘stretto pergolato’. Questa seconda possibilità rimarcherebbe il concetto di semplicità sottolineando la modestia della
proprietà del poeta.
Il Testo
Breve componimento, di carattere simposiaco, posto a conclusione del primo libro delle Odi in
funzione di commiato. Come di solito i proemi e gli epiloghi, ha il tono di dichiarazione programmatica di poetica: la scelta della semplicità e dell’essenzialità, che caratterizza in generale lo stile
di vita di Orazio, assume qui più specificamente il valore di credo artistico.
Non ci sono indizi cronologici, ma il fatto che si tratti di un epilogo fa supporre che l’ode sia
stata composta fra le ultime della raccolta.
Simplex munditiis
La prima cosa che si nota è che questa breve poesia (Odi I 38) è simplex munditiis in maniera
insolita: è composta da una serie di frasi asindetiche, brevi e dirette. L’effetto di questa semplicità
voluta è ancora più sorprendente in quanto Persicos odi, puer, apparatus viene immediatamente dopo
l’ode Nunc est bibendum, che si compone quasi interamente (vale a dire dal v. 5 in poi) di un unico
periodo lungo ed elaborato. La semplicità della forma è uno specchio fedele del pensiero: la frase
simplici myrto nihil adlabores seudulus curo potrebbe essere considerata come il succo del componimento.
Tutto è qui leggero e gioioso (…). L’ode appartiene a quella classe di componimenti – epigrammatici o di altro genere – che hanno come argomento i preparativi per un semplice banchetto. Si tratta di una piccola poesia assai graziosa. Se occupasse un posto ordinario nella collezione,
nessuno andrebbe a cercare un significato speciale sotto la superficie. Essa però non si trova in un
posto ordinario, ma conclude un libro di liriche quali nessun lettore romano aveva mai visto prima,
un libro che rappresentava uno degli esperimenti più audaci della storia della poesia antica.
Dobbiamo quindi pensare che Orazio volle che l’ode, al di là del suo significato apparente, si collegasse in qualche modo al nuovo tipo di poesie contenute in questo libro. Questa conclusione
sarebbe necessaria anche se non trovasse conferma nella funzione analoga svolta dai due componimenti conclusivi dei due libri successivi; le sue conseguenze, tuttavia, sono sorprendenti.
Ci troviamo di fronte a un libro che contiene odi tanto solenni come Iam satis terris o Quem
virum aut heroa o, proprio alla fine, Nunc est bibendum; purtuttavia, nel suo epilogo siamo invitati a
considerare parole come simplici myrto nihil adlabores sedulus curo come il credo artistico del poeta.
Dobbiamo riconoscere che l’eironeía, l’atteggiamento di un uomo che è abitualmente un dissimulator opis propriae, è qui portata agli estremi. Orazio non mente nei riguardi di se stesso qui più che
altrove; purtuttavia indulge a un’enorme sottovalutazione. Perché lo fa? Per modestia? Va cercata
una spiegazione più convincente.
Il tono dimesso e i semplici ideali di quest’epilogo vanno certamente considerati insieme – e
anche contrapposti – all’orgogliosa sicurezza e alle forti pretese che appaiono nelle odi finali del
secondo e del terzo libro. Ma solo questo fatto non basterebbe a spiegare il ritegno di Persicos odi,
puer, apparatus. Orazio non avrebbe chiuso il suo libro con questo componimento se non avesse
considerato essenziale alle sue liriche l’ideale artistico che vi è simboleggiato. Era convinto che
l’arte, pur essendo necessaria per produrre buone poesie, non sarebbe stata di nessun aiuto se non
avesse avuto un sostegno nella natura, vale a dire nella natura del poeta che era cresciuta insieme
a lui fin dalla sua prima infanzia, dandogli una vita interiore tutta sua. (…) Così il simbolo della
sua poesia da lui scelto per la fine del primo libro, anche se non esprime tutta la verità, è in ogni
caso portavoce della sola verità.
(Ed. Fraenkel, Orazio, op. cit., pp. 407 ss.)
76
M 4 … amicizia e convivialità
Dalla concezione della vita di Orazio scaturisce, insieme all’esigenza di un saggio uso
del tempo, il riconoscimento dell’alto valore degli autentici rapporti interpersonali e dei
momenti di svago e di socialità rappresentati dal convivio.
Gli amici sono una presenza confortante nella vita di Orazio e continuamente le loro
figure affiorano dai testi. Sono amici famosi, a cominciare da Virgilio, affidato con trepidazione alla nave che lo trasporta verso la Grecia (Odi I 3), e ricordato anche nella commossa ode per la morte dell’amico comune Quintilio Varo (I 24).
05
10
15
Sic te diva potens Cypri,
sic fratres Helenae, lucida sidera,
ventorumque regat pater
obstructis aliis praeter Iapyga,
navis, quae tibi creditum
debes Vergilium; finibus Atticis
reddas incolumem precor
et serves animae dimidium meae.
Illi robur et aes triplex
circa pectus erat, qui fragilem truci
commisit pelago ratem
primus, nec timuit praecipitem Africum
decertantem Aquilonibus
nec tristis Hyadas nec rabiem Noti,
quo non arbitrer Hadriae
maior, tollere seu ponere volt freta.
Così te la dea signora
di Cipro, e d’Elena i fratelli, astri lucenti,
proteggano, e il padre dei venti,
tutti gli altri frenati eccetto l’Iapige,
o nave che rispondi di Virgilio
a te affidato: rendilo
incolume, ti prego, al suolo
d’Attica, e salva la metà della mia vita.
Triplice bronzo e legno di quercia
intorno al cuore ebbe
chi per primo affidò il fragile legno
al torvo mare, né temette d’Africo
l’avventarsi in contesa agli Aquiloni,
né le sinistre Iadi, né la furia del Noto,
arbitro e re dell’Adriatico,
voglia placarne o sollevarne i flutti.
(I 3, 1-15; trad. L. Canali)
05
10
Ergo Quintilium perpetuus sopor
urget? cui Pudor et Iustitiae soror,
incorrupta Fides, nudaque Veritas
quando ullum inveniet parem?
Multis ille bonis flebilis occidit,
nulli flebilior quam tibi, Vergili.
Tu frustra pius, heu, non ita creditum
Dunque, il sonno eterno grava su Quintilio? Quando il
Pudore e l’incorrotta Fede, sorella della Giustizia,
e la nuda Verità potranno
trovare un altro a lui pari?
Da molti buoni pianto egli cadde, ma da nessuno fu
pianto più che da te, o Virgilio. Tu invano pia, ahimè!,
chiedi agli dèi Quintilio: no, non per questo
Per la morte di Varo
A me pare che finora nella valutazione del carme si sia scarsamente rilevato il nodo dei sentimenti di Orazio:
il suo dolore e il suo rimpianto si uniscono al dolore e al rimpianto di Virgilio e una tale fusione sarebbe
inconcepibile senza l’amore che unisce fra loro i sopravvissuti e i sopravvissuti con lo scomparso. E in questo
reticolo la corrispondenza d’amore è il fondamento del debito che il poeta venosino ha contratto con Virgilio
di cui ha ammirato le Bucoliche e conosce le Georgiche e qualche canto dell’Eneide che circolava (…).
La consolazione e alla fine il rimedio che il sollecito affetto di Orazio propone non sono in contrasto con
Virgilio: la pietas del Mantovano – possesso non effimero, ma ardua conquista dello spirito dopo l’esperienza
epicurea pur sempre sottesa e mai emarginata – non gli impedisce la rassegnazione, la resa dell’uomo, anche
dell’uomo che prega e fa poesia, alla divinità. (…)
Della brigata virgiliana Quintilio è il personaggio di cui vorremmo sapere di più: certamente non celebre
77
15
poscis Quintilium deos.
Quid si Threicio blandius Orpheo
auditam moderere arboribus fidem?
num vanae redeat sanguis imagini,
quam virga semel horrida,
non lenis precibus fata recludere,
nigro compulerit Mercurius gregi?
durum: sed levius fit patientia
quicquid corrigere est nefas.
glielo avevi affidato.
Forse che, se tu modulassi più dolcemente
del tracio Orfeo la cetra che gli alberi udirono,
ritornerebbe il sangue nella vana immagine
dopo che Mercurio,
inaccessibile alle preghiere di riaprire il destino,
l’ha spinto con la verga orrida nel gregge nero?
È duro: ma con la rassegnazione divien più lieve
tutto ciò che il dio non consente di cambiare.
(vv. 5-20; trad. M. Gigante)
Sono però anche amici per noi sconosciuti, ma non meno cari al poeta, come Numida,
tornato forse dalla guerra cantabrica (Odi I 36), in onore del quale è bello allestire un festino, o come Pompeo Varo, commilitone a Filippi, il ritorno del quale, pure, è motivo di
gioia e occasione per ricordare il passato comune (Odi II 7 Í).
Et ture et fidibus iuvat
placare et vituli sanguine debito
custodes Numidae deos...
Cressa ne careat pulchra dies nota,
neu promptae modus amphorae
neu morem in Salium sit requies pedum
neu multi Damalis meri
Bassum Threicia vincat amystide
neu desint epulis rosae
neu vivax apium vel breve lilium.
Giova propiziare con musica
e incenso il rituale sangue d’un vitello
gli dei protettori di Numidia (…)
Questo bel giorno non sia privo d’un candido
segno, né vi sia freno all’anfora nel bere,
né Damali, assetata di vino, / vinca Basso
nel tracannare coppe
secondo il costume / dei Traci,
né alle mense difettino le rose,
l’apio vivace, l’effimero giglio.
(I 36, vv. 1-3, 10-16; trad. L. Canali)
come il poeta L. Vario Rufo, ma critico letterario come Plozio. Del circolo di Mecenate e, diciamo meglio, di
Virgilio è un rappresentatne genuino e modesto: senza Orazio sarebbe rimasto nell’ombra, nell’ambito epiureo della vita nascosta dove veramente era a suo agio. (…) Ma Virgilio ebbe certo in Quintilio l’amico più
vicino.
Quando morì Quintilio, l’anima segreta ovvero la coscienza critica del Circolo, Virgilio credeva fermamente
nella partecipazione della divinità alla vita dell’individuo e del mondo: il suo dolore, più profondo che in altri,
è pure uno sgomento e un dubbio, anche se alla fine la fiducia nella divinità diventa un riconoscimento dell’onnipotenza divina, la rassegnata consapevolezza del limite e della condizione effimera dell’uomo. L’uomo
è nulla, il dio è tutto. La poesia diversamente coltivata da Virgilio e Quintilio non può sbarrare il passo alla
morte.
Quintilio muore: per Virgilio c’è un aldilà, che Quintilio aveva certamente escluso dal suo orizzonte, ma che
esiste e non può essere violato. Un dio vi guarda l’anima di chi non è più e il poeta che può come Orfeo
ammansire le belve e incantare gli alberi non può superare l’ultima frontiera dell’effimera vita. Virgilio aveva
già cantato il destino di Euridice, aveva visto a Cuma l’ingresso agli Inferi e aveva già lasciato disegnare la
storia dell’impero all’ombra di Anchise: l’aldilà non era una sua immaginazione malata o sterile, era la sede
dei trapassati che nessun prodigio umano può restituire alla vita. L’uomo non può mutare la volontà del dio:
né le virtù né la poesia possono cambiare il destino. La poesia però consola la perdita ed eterna la memoria.
Come di Virgilio e di Orazio, così di Quintilio il nome non è morto: morirà con la fine del nostro mondo.
(M. Gigante, Lettura di Orazio carm. I 24 Requiem per Quintilio, in Atti del convegno nazionale di studi su
Orazio, Torino 1992, pp. 169 ss.i
78
Connesso al tema dell’amicizia è, naturalmente, quello del convivio: il rapporto con gli
amici prevede il momento gioioso del banchetto in cui trionfa il piacere e la lode del vino.
Il vino è conforto ed eccitazione, e si lega alla bellezza e all’amore (Odi III 21 Í); e si carica anche di un valore simbolico in quanto emblema della poesia ispirata da Dioniso (Odi
I 18): di qui i rinnovati inviti a bere, ripresi dalla tradizione lirica, ma spesso con toni
umoristici tipicamente oraziani.
Da lunae propere novae,
da noctis mediae, da, puer, auguris
Murenae. Tribus aut novem
miscentur cyathis pocula commodis?
qui Musas amat imparis,
ternos ter cyathos attonitus petet
vates, tris prohibet supra
rixarum metuens tangere Gratia
nudis iuncta sororibus.
Versa in fretta, ragazzo: / per la nuova luna,
per la mezzanotte, / per l’augure Murena:
o tre o nove misure / si versano.
E uno che ama / il numero trino
delle Muse domanda / tre volte tre misure
(egli è lo smemorato poeta)
ma oltre le tre è divieto della Grazia
e delle ignude sorelle
che temono la violenza.
(III 19, vv. 9-17; trad. E. Mandruzzato).
Come in ogni aspetto della vita umana, anche riguardo al vino Orazio invita
comunque alla moderazione e a non cadere negli eccessi dell’ebbrezza e nella scompostezza:
Natis in usum laetitiae scyphis
pugnare Thracum est; tollite barbarum
morem verecundumque Bacchum
sanguineis prohibete rixis.
Vino et lucernis Medus acinaces
immane quantum discrepat; impium
lenite clamorem, sodales,
et cubito remanete presso.
Fare battaglia con le coppe, nate / per la gioia,
è da Traci. Eliminate / questa usanza selvaggia.
Niente risse / e niente sangue:
Dioniso è purezza.
Tra il vino e le lucerne, l’akinake / dei Medi
è dissonanza mostruosa. / Basta grida
sacrileghe, compagni, e restate
col gomito appoggiato.
(Odi I 27, vv. 1-8; trad. E. Mandruzzato)
Con simili tocchi, che recuperano anche questo tema ad una visione in largo senso
morale, un invito a cena rivolto a Mecenate con la precisazione che si berrà vino di modesta qualità, diventa il pretesto per una garbata riflessione sullo stile di vita del poeta e
quelli dell’amico protettore (Odi I 20 Í), o un discreto richiamo ad una vita più semplice
e tranquilla (Odi III 29).
La euthymía, la tranquillità dell’animo è impossibile per gli uomini illusi ed erranti non illuminati dalla
saggezza; ma illusioni ed errori hanno le loro cause nella condizione, nella natura umana; le cause permangono anche per il saggio che si è ritirato nel suo ‘porto’ o nella sua ‘rocca’ fuori dalle tempeste...
La condizione umana è caratterizzata innanzi tutto dalla temporalità, che pone il suggello più chiaro con
la morte. L’incertezza del domani e la paura della morte sono per l’epicureismo e per Orazio la causa prima
dell’infelicità e dei vizi dell’uomo, a cominciare dalla brama di accumulare ricchezze ad ogni costo, che è,
appunto, brama di procurarsi sicurezza per il futuro.
(A. La Penna, op. cit., p. 93)
79
Recepto dulce mihi furere est amico
Il Testo
ODI II 7
Il ritorno a Roma dell’amico Pompeo Varo, commilitone nell’esercito repubblicano di Bruto
negli anni 43 e 42, e a differenza di Orazio rimasto negli anni successivi ancora coinvolto nelle
guerre civili, è occasione per ringraziare gli dei dell’insperata salvezza e di allestire un banchetto
per festeggiare. Accanto al tema del simposio, trionfa quello dell’amicizia che domina i versi dedicati alla rievocazione dei comuni trascorsi militari, le gioie conviviali nei momenti di pausa, la
sconfitta di Filippi (inferta ai cesaricidi da Marco Antonio e Ottaviano) e poi i due diversi destini.
Le numerose notazioni autobiografiche culminano nel ricordo della fuga e dell’abbandono dello
scudo, fatto questo che può realmente essere accaduto, ma che si inserisce in un filone letterario
ben noto della lirica greca arcaica (vd. riquadro).
L’ode deve essere stata composta nel 29 o poco dopo, anno in cui Augusto concesse l’amnistia
a tutti i superstiti delle guerre civili, consentendo così il ritorno di Pompeo Varo.
Metro: strofa alcaica
1 s. Saepe ... duce: v. introduzione. Tempus
in ultimum: ‘il momento estremo’, dunque
il ‘pericolo estremo’. Bruto ... duce: abl.
assoluto. Militiae = militum. 3 Redonavit =
reddidit. Quiritem: ‘cittadino con pieni
diritti’, in seguito all’amnistia. 5 Pompei:
bisillabo per sinizesi. Prime: ‘più caro’. 6
ss. Morantem ... diem: ‘il giorno lento a
passare’. Fregi: ‘accorciai’, lett. ‘ruppi’.
Nitentis (nitentes) ... capillos: acc. di
relazione, in iperbato, dipendente da coronatus (‘inghirlandato’). Malobathro: olio
profumato ricavato da una pianta orientale. 10 Sensi: ‘provai’, ‘feci l’esperienza
di’. Relicta ( ... parmula): per le ascendenze
letterarie v. riquadro; parmula è diminutivo di parma, scudo piccolo e leggero. Non
bene: litote, ‘senza onore’. 11 Fracta: sott.
est. Minaces: i soldati di Bruto, minacciosi
anche nel momento della sconfitta. 12
Turpe ... mento: ‘caddero proni a terra vergognosamente’. Turpe: acc. avverbiale (=
turpiter). Tetige(re) = tetigerunt. 13 Per
hostis (= hostes): ‘attraverso le schiere
nemiche’. Mercurius: dio protettore dei
poeti. Celer: predicativo, ‘velocemente’. 14
Denso ... aere: ‘in una densa nube’, iperbato. Sustulit: ‘mi portò via’. 15 s. Te ... aestuosis: costruisci: unda resorbens te rursus
tulit in bellum fretis aestuosis. Te è oggetto
sia di resorbens (‘risucchiandoti’) che di
tulit. Fretis ... aestuosis: abl. strumentale,
‘con i suoi flutti agitati’. 17 Obligatam ...
dapem: ‘il banchetto promesso in voto’. 18
Latus: ‘il fianco’, per metonimia ‘il corpo’.
Doppio iperbato intrecciato. 19 Depone:
‘adagia’. Lauru: declinato secondo la IV
declinazione. 20 Cadis: ‘orci di vino’, abl.
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20
O saepe mecum tempus in ultimum
deducte Bruto militiae duce,
quis te redonavit Quiritem
dis patriis Italoque caelo,
Pompei, meorum prime sodalium
cum quo morantem saepe diem mero
fregi coronatus nitentis
malobathro Syrio capillos?
Tecum Philippos et celerem fugam
sensi relicta non bene parmula,
cum fracta virtus et minaces
turpe solum tetigere mentum.
Sed me per hostis Mercurius celer
denso paventem sustulit aere;
te rursus in bellum resorbens
unda fretis tulit aestuosis.
Ergo obligatam redde Iovi dapem
longaque fessum militia latus
depone sub lauru mea nec
parce cadis tibi destinatis.
Oblivioso levia Massico
ciboria exple, funde capacibus
inguenta de conchis. Quis udo
deproperare apio coronas
80
25
curatve myrto? Quem Venus arbitrum
dicet bibendi? Non ego sanius
bacchabor Edonis: recepto
dulce mihi furere est amico.
Precedenti letterari
L’episodio della fuga, che sia realmente accaduto o meno, è rievocato con evidenti riferimenti ad analoghi episodi cantati da lirici greci
arcaici, tutti poeti soldati. Già Archiloco, per sottrarsi alla morte,
aveva abbandonato lo scudo: “Qualcuno dei Sai si fa bello dello
scudo, arma irreprensibile che io lasciai, non volendo, presso un
cespuglio. Ma io stesso sfuggii il destino di morte. Quello scudo
vada in malora: in seguito me ne procurerò un altro non peggiore”
(fr. 6 D.). E poi Alceo: “Salvo è Alceo, ma non i suoi strumenti di
Ares” (fr. 428 L.P.). Anche l’intervento salvifico da parte di
Mercurio (divinità protettrice dei poeti, cf. Odi II 17. 29
Mercurialium ... virorum) attinge a precedenti della tradizione greca,
e precisamente a Omero: nei duelli tra eroi gli dèi erano soliti dei
loro protetti anche sottraendoli al nemico.
retto da parce. Tibi destinatis: ‘tenuti in
serbo per te’. 21 s. Oblivioso: ‘che fa
dimenticare gli affanni’. Levia ... ciboria:
‘le coppe levigate’. Doppio iperbato
intrecciato. Funde: ‘versa’, sui capelli’. 23
Conchis: ‘vasetti’ a forma di conchiglia per
gli unguenti. 23 ss. Quis ... myrto?: costruisci: quis curat deproperare (‘apprestare
rapidamente’) coronas udo apio vel myrto?
Udo = uvido, perché cresce in luoghi ricchi di acqua. Apio: appio o sedano, pianta
usata per fare corone, come il mirto, sacro
a Venere. 25 s. Venus: ‘il colpo di Venere’
era il colpo più fortunato nel lancio dei
dadi (quando cioè uscivano quattro
numeri diversi). Arbitrum .. bibendi = rex
convivii, v. scheda 000. 26 ss. Non ... sanius
bacchabor: ‘mi darò all’orgia non più moderatamente’. Edonis: secondo termine di
paragone; gli Edoni erano una popolazione tracia particolarmente dedita al
vino. Recepto ... amico: costruisci: dulce
mihi est furere infinito sostantivato), recepto amico.
Il senso dell’amicizia
In Orazio una vitalistica propensione personale verso l’amicizia affettuosamente interpretata
(…), si sposa ad una propensione anche ideologica per essa che gli trasmette la scuola epicurea. Il
poeta infatti ci documenta come nella sua villa sabina, negli incontri conviviali con gli amici, tra
gli argomenti di discussione – tutti di carattere filosofico essoterico – figurava una quaestio intorno
all’amicizia e alle cause della sua nascita: se essa, cioè, derivasse ‘da utilità o da virtù’ (usus rectumne,
Sat. II 6, 73-76).
La risposta di Orazio non poteva che essere quella, epicurea, dell’usus, dal quale faceva nascere
anche le leggi (Sat. I 3. 99-110). È significativo che, alla base dello stesso ‘utile’ da cui ha origine
la società, Orazio scorga il medesimo atteggiamento di reciproca indulgenza che è a fondamento
dell’amicizia (Sat. I 3. 67-72). Alla domanda: ignoscis amicis? (Epist. II 2. 210) Orazio aveva risposto con l’intera satira I 3, che espone quel codice di indulgenza (…) che Persio (I 116-17) loderà in
Orazio e secondo il quale si deve gestire il rapporto di amicizia (Sat. I 3 54) (…)
L’amicizia è proprio l’ambito in cui si deve e si può realizzare, nella forma esperienzialmente
più evidente ed alta, quel rapporto di giustizia indulgente che, conseguendo l’utile, costituisce la
società stessa. Pur restando quindi nella sfera del privato, giusta i dettami epicurei (Sat. I 3. 142),
l’amicizia diventa il mezzo con cui si costruisce una società buona, addirittura ‘felice’, perché basata sulle possibilità illimitate di benessere che solo la vicendevole indulgenza sa produrre (Sat. I 3.
139-42)
(L.F. Pizzolato, Amicizia, in Enciclopedia Oraziana, Roma, 1997 vol. II, pp. 552 sgg.)
81
Tu spem reducis mentibus anxiis
Il Testo
ODI III 21
L’occasione del componimento è un convito in onore di Marco Valerio Messalla Corvino, quasi
coetaneo e amico di Orazio, suo compagno di studi ad Atene e d’armi a Filippi, illustre uomo di
stato ma anche cultore di filosofia e grande oratore. Pare che coltivasse una particolare passione
per il vino, come confermerebbe quest’ode: una personalità come la sua richiede del vino speciale,
un vino invecchiato per quasi quarant’anni, l’età del poeta, appunto.
Il tema centrale è dunque quello dell’elogio del vino e dei benefici da esso portati. Si stabilisce
poi una sorta di parallelismo tra il vino e la vita dell’uomo per quanto riguarda l’età e il carattere:
il vino di quarant’anni è un vino mite, quasi stanco, che rispecchia l’indole del quarantenne Orazio,
ormai avviato verso l’età senile.
Corvino fu console nel 31 e vincitore sugli Aquitani nel 28: l’ode può forse risalire a un periodo di poco successivo a queste occasioni.
Metro: strofa alcaica
O nata con me quand’era console Manlio,
sia che tu provochi lamenti oppure scherzi,
o risse o folli amori,
oppure, anfora amica, agevole sonno,
per qualunque occasione prescelto il massico
vino conservi, tu degna d’essere smossa
in un giorno propizio,
discendi! Corvino vuole
che s’imbandiscano vini maturati dal tempo.
Egli, sebbene trasudi di discorsi socratici,
non sarà così arcigno da sdegnarti;
si narra che anche al vetusto Catone
il vino spesso la virtù riaccese.
Tu l’estro per lo più restio
desti infondendo assillo delizioso;
tu sveli gli affanni dei sapienti ed i loro
disegni arcani con Lieo giocoso;
tu riporti speranza agli animi ansiosi
e aggiungi forze al povero e coraggio:
poi non teme corone d’iracondi
monarchi né armi di guerrieri.
Libero e Venere, se anche lei
assista lieta, e le Grazie, lente a sciogliersi,
e splendenti lucerne ti faranno durare
finché Febo tornando fughi gli astri.
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(Trad. L. Canali)
82
O nata mecum consule Manlio,
seu querellas sive geris iocos
seu rixam et insanos amores
seu facilem, pia testa, somnum,
quocumque lectum nomine Masicum
servas, moveri digna bono die,
descende, Corvino iubente
promere languidiora vina.
Non ille, quamquam Socraticis madet
ermonibus, te negleget horridus:
narratur et prisci Catonis
saepe mero caluisse virtus.
Tu lene tormentum ingenio admoveas
plerumque duro; tu sapientium
curas et arcanum iocoso
consilium retegis Lyaeo.
Tu spem reducis mentibus anxiis
viresque et addis cornua pauperi
post te neque iratos trementi
regum apices neque militum arma
Te Liber et si laeta aderit Venus
segnesque nodum solvere Gratiae
vivaeque producent lucernae,
dum rediens fugat astra Phoebus
Abitudini conviviali
Il convito di Orazio è la cena romana (…). Tuttavia questa tradizione romana con i suoi problemi serve solo in parte a capire il senso e il rilievo che il convito assume nella lirica e nelle epistole di Orazio. Nel costume la cena aveva assunto una funzione non priva di ambiguità: momento necessario nel ritmo della giornata, in quanto rilassamento e preparazione di nuove energie per
i nuovi negotia (…), ma nello stesso tempo rottura dei negotia e loro rimozione, almeno per un
tempo limitato, dalla coscienza.
Il secondo aspetto si era accentuato, naturalmente, col progresso del lusso; ma Orazio, che pure
rifiuta decisamente la gozzoviglia, accentua ulteriormente la funzione di rottura: il convito, attraverso la pausa dei negotia, ha il compito di interrompere e cancellare le curae, sia come tensione
dell’animo negli affari sia come angoscia (nel senso del greco mèrimnai); anzi Orazio gli assegna
per lo più la funzione di superare la fondamentale angoscia lucreziana dell’esistenza, acuita da una
sensibilità particolare per il tempo come corsa ineluttabile e logoramento o distruzione: perciò è
il vino come causa di oblio, come droga, che assume nel convito la funzione centrale.
Nelle satire del secondo libro Orazio si è dilettato a dissertare di gastronomia in versi; nelle
odi conviviali i cibi non vengono descritti: il convito è evocato col profumo delle rose, degli
unguenti, ma soprattutto col vino. Naturalmente si deve tener conto della differenza dei generi lettarari: la lirica filtra in modo diverso la realtà quotidiana: anche ad un livello non sublime, quale
vuol essere per lo più quello di Orazio lirico, una descrizione delle portate, quale ricorre più volte
in epigrammi di Marziale, sarebbe riuscita sconveniente; ma una ragione più sostanziale è che il
vino, molto più del cibo, dà al convito la sua funzione liberatoria.
Nel definire questa funzione Orazio si ispira decisamente alla lirica greca arcaica (Archiloco,
Alceo, Anacreonte), e nello stesso tempo all’epicureismo: dunque le radici del senso poetico che
assume la cena romana in Orazio, vanno cercate quasi tutte nella cultura greca; ma nuova, e felice,
è la sintesi di motivi della lirica greca arcaica, o, talvolta, della poesia ellenistica, con la meditazione epicurea: una sintesi la cui importanza, per millenni, nella poesia europea è facile valutare.
(…)
I personaggi a cui il poeta rivolge i suoi inviti, sono angustiati dai loro negotia, politici o economici: sembra che nessuno svolga le sue occupazioni con serenità, letizia, entusiasmo. Mecenate è,
sotto questo aspetto, un caso tipico: negli inviti a cena Orazio non giustifica l’esortazione ad afferrare i doni dell’ora presente con la morbosa inquietudine del suo carattere. Il convito e il vino sono
il rimedio alle civiles curae, che il grande personaggio sente pesare su di sé, anche quando per l’impero le preoccupazioni causate dai nemici esterni non sono affatto gravi (Carm. III 8) (…). I destinatari, se non sono stressati dalla politica, sono stressati dalle loro attività lucrose, come Manlio
Torquato, l’importante oratore forense di Epist. I 5, o l’ignoto Virgilio di Carm. IV 12.
Insomma l’invito al simposio e al vino raramente si stacca da un contrasto acuto con una vita
affannosa (Carm. II 11. 17 s. Dissipat Euhius / curas edacis), e in questo modo s’inserisce in una meditazione lirica di carattere generale, dove si carica di una ricca funzione simbolica.
(A. La Penna, op. cit., p. 278 ss.)
83
Prelo domitam Caleno tu bibes uvam
Il Testo
ODI I 20
L’ode non è propriamente una vocatio ad cenam, ma rientra comunque nella tipologia dei testi
di carattere occasionale legati ai biglietti d’invito. Il destinatario è Mecenate che si suppone abbia
già accettato l’invito e che ora venga a sapere che cosa si berrà.
La data di composizione non è determinabile con sicurezza, ma un punto di riferimento si può
trovare nell’accenno all’applauso che Mecenate ricevette in teatro alla sua prima apparizione dopo
la guarigione da una grave malattia databile con buona probabilità al 29 a. C.
Metro: strofa saffica
1 s. Sabinum scil. vinum; il vino di Sabina
era vino di qualità mediocre. Modicis …
cantharis: abl. di mezzo, ‘in coppe di poco
prezzo’. 2 s. Quod ... levi: costrui-sci: quod
ego ipse Graeca testa conditum levi (= condidi et levi). Ego ipse: ‘con le mie mani’. Testa
è l’anfora nella quale il vino si travasava,
dopo la fermentazione, e si sigillava.
Conditum: ‘travasato’. Levi = oblevi, ‘spalmai’: le angore erano sigillate con della
pece spalmata sul tappo. 3 s. Datus ...
plausus: costruisci: cum plausus datus (est)
tibi in theatro. Vd. introduzione. 5 s. Clare
… eques: clare è congettura preferibile a
care tramandato dai codici, in quanto
meglio si accorda con il titolo di eques. Ut
... imago: costruisci: ut ripae paterni fluminis et simul iocosa imago monits Vaticani redderet laudes tibi. Ut: consecutivo. Paterni
fluminis: il Tevere, che nasceva in Etruria,
patria di Mecenate. / s. Vaticanui montis:
colle sulla destra del Tevere. Iocosa …
imago: l’eco degli applausi che sembrava
provenire dai luoghi circostanti. 9 s.
Caecubum ... uvam: costruisci: tu bibes
Caecubum et uvam domitam prelo Caleno.
Bibes: futuro con valore concessivo, ‘bevi
pure’. Domitam … uvam: ‘uva spremta’,
perifrasi per dire ‘vino’. Prelo … Caleno:
abl. di mezzo, ‘col torchio di Cales’, città
della Campania rinomata per il vino. 10
ss. Mea ... colles: costruisci: nec Falernae
vites neque Formiani colles temperant mea
pocula. Temperant: il verbo si riferisce
all’abitudine di mescolare il vino con l’acqua ed è riferito, con una costruzione
piuttosto audace, al vino anziché all’acqua.
5
10
Vile potabis modicis Sabinum
cantharis, Graeca quod ego ipse testa
conditum levi, datus in theatro
cum tibi plausus,
clare Maecenas eques, ut paterni
fluminis ripae simul et iocosa
redderet laudes tibi Vaticani
montis imago.
Caecubum et prelo domitam Caleno
tu bibes uvam: mea nec Falernae
temperant vites neque Formiani
pocula colles.
I vini oraziani
Falernus: il falerno, vino prodotto nell’omonimo territorio
della Campania, era uno dei vini migliori e più rinomati.
Caecubus: il cecubo era un vino pregiato prodotto nell’omonima pianura del Lazio.
Anche i colli di Formia e la zona di Cales, oggi Calvi, in
Campania, erano famose per la qualità dei loro vini.
Sabinum vinum: il vino di Sabina era invece un vino di qualità
mediocre.
84
Il tòpos del pranzo modesto rientra nella tradizione, ma in questo caso l’idea del vino non pregiato diventa simbolo dello stile di vita del poeta, del suo gusto per la semplicità, e dallo spunto occasionale dell’invito si passa così al contenuto etico. Le prime due strofe si riferiscono all’invito, l’ultima sviluppa il confronto tra i gusti di Orazio e quelli di Mecenate.
SUL TESTO
L’apertura dell’ode presuppone che l’invito a Mecenate sia già stato formulato e accettato,
dunque il fatto contingente è solo uno spunto occasionale per alcune riflessioni che, partendo dal
motivo del vino, arrivano a investire lo stile di vita di Orazio in confronto con quello del suo nobile
amico. Il primo verso introduce immediatamente due parole-chiave, vilis e modicus, riferite rispettivamente al vino sabino e alle coppe in cui esso è servito, incrociati in un doppio iperbato. I due
aggettivi da un lato rispondono alla volontà di aderire al topos letterario della modestia del pranzo offerto, ma vanno anche letti come allusioni allo stile di vita semplice e modesto che Orazio
predilige (in particolare modicus non può non far venire alla mente i concetti positivi di medietas e
mediocritas).
Se è vero che il vino sabino è un vino di modesta qualità, è anche vero che Orazio ha usato una
cura particolare nel conservarlo: lui stesso si è occupato di travasarlo e il fatto che sia stata utilizzata un’anfora greca secondo alcuni interpreti significa che il vino è stato in un’anfora precedentemente utilizzata per vino pregiato che avrebbe trasferito in parte il suo profumo nel nuovo contenuto. Questo vino è particolarmente caro a Orazio per un motivo personale: è infatti stato
travasato in un’occasione felice per Mecenate, in concomitanza, cioè, con la sua guarigione da una
grave malattia che lo aveva colpito.
La seconda strofa svolge il motivo del plauso che la folla tributò al ritorno di Mecenate in società; l’immagine è efficacemente costruita tramite la personificazione delle rive del fiume Tevere e
del colle Vaticano che sembrano assistere all’evento unendosi all’applauso.
L’ultima strofa ritorna al tema del vino in aperto contrasto con la prima: al vino di modesta
qualità che si beve a casa di Orazio si contrappongono i vini pregiati a cui è abituato Mecenate, il
Cecubo, il vino di Cales, il Falerno e il vino di Formia. Nota come il desiderio di varietas abbia portato il poeta alla scelta di espressioni diverse per menzionare i tre vini: il primo è semplicemente
detto Cecubum scil. vinum, il secondo è detto, con una originale perifrasi, prelo domitam Caleno …
uvam, il terzo e il quarto sono il risultato dell’azione dei Falernae …vites e Formiani … colles che
personificati riempiono il bicchiere di Mecenate. Anche qui, come nella prima strofa, il riferimento al vino non è fine a se stesso ma assume un significato più ampio come allusione allo stile di vita
di Mecenate, superiore alla medietas praticata da Orazio.
Orazio ha atteggiamenti spesso e volentieri negativi: parole e toni rinunciatari, deprecativi, dissuadenti.
Egli deplora gli eccessi ed esorta alla frugalità. Ma la sua frugalità, come ogni alta sua caratteristica, è lungi
dall’essere fanatica. In verità nessuno più di lui indulge a semplici piaceri quale, ad esempio, quello di gustare
un bicchiere di vino sabino: e qui Orazio è epicureo. “Cogliete le rose in bocciolo finché potete” è una massima significativa, molto importante, del suo modo di pensare.
(M. Grant, op. cit., p. 253)
85
Dona praesentis cape laetus horae
Il Testo
Odi III 8
Nel tema dell’amicizia il rapporto con Mecenate riveste un valore particolare, supportato, al di
là delle naturali differenze, da una profonda affinità di sensibilità e di intuizione della vita; già rappresentato nella satira VI, esso traspare in diversi componimenti di occasione, talora preoccupati
per la salute dell’amico (II 17), talaltra affettuosamente interessati ai suoi rapporti coniugali (II
12).
Particolarmente significativo, in quanto contiene una sottile allusione alla “estraneità” di
Orazio alla politica di Augusto (che incoraggiava i matrimoni, mentre Orazio rimase iriducibilmente scapolo), è un altro invito a bere, rivolto a Mecenate in occasione delle ferie di Marte.
Metro: strofa saffica
Mecenate, signore dei due linguaggi,
che farà l’amico tuo celibe al primo di marzo,
che vogliono questi fiori nella mia casa,
i carboni accesi sulle zolle vive,
le teche dell’incenso? Quando mi salvai
dalla rovina dell’albero nel mio podere
avevo fatto voto a Libero
d’un amabile mensa e d’un capro bianco.
E oggi è l’anno; questo giorno di festa
toglierà la pece che sigillava l’anfora
usa dal tempo di Tullo
a respirare fumo.
Leva, Mecenate, cento coppe in onore
dell’amico tuo salvo, le lucerne vive
attendano, non turbate da grida, l’alba.
Lascia i pensieri della Città tua grande.
Caduta è la schiera di Cotisone il dace,
i Medi muovono tra loro la dolente guerra,
il nemico vecchio, il Cantabro,
sulle rive di Spagna
obbedisce, le ultime catene nostre
lo domarono,
lo Scita slaccia l’arco, pensa
ritorni sulle sue pianure. E dunque
non pensare che il popolo abbia angustia,
e non troppo vegliare; torna un oscuro,
cogli in letizia il dono di quest’ora,
lascia le gravi cose.
(Trad. E. Mandruzzato)
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Martiis caelebs quid agam kalendis,
quid velint flores et acerra turis
plena miraris positusque carbo in
caespite vivo,
docte sermones utriusque lingua?
Voveram dulcis epilas et album
Libero caprum prope funeratus
arboris ictu.
Hic dies anno redeunte festus
corticem adstrictum pice dimovebit
amphorae fumum bibere institutae
consule Tullo.
Sume, Maecenas, cyathos amici
sospitis centum et vigilis lucernas
perfer in lucem; procul omnis esto
clamor et ira.
Mitte civilis super urbe curas:
occidit Daci Cotisonis agmen,
Medus infestus sibi luctuosis
dissidet armis,
servit Hispaniae vetus hostis orae
Cantaber, sera domitus catena,
iam Scythae laxo meditantur arcu
cedere campis.
Neclegens, ne qua populus laboret,
parce privatus nimium cavere et
dona praesentis cape laetus horae:
linque severa.
M 5 Amore e ironia
Nella concezione della vita di Orazio, l’amore occupa un posto particolare, perché sentito da un lato come un naturale fattore di attrazione, dall’altro come un fattore di turbamento; di qui un approccio caratterizzato, come per altri aspetti della sua esperienza, da
una scelta di misura, che risolve il contrasto in uno sguardo ironico, in cui il poeta coinvolge in primo luogo se stesso, ma che è un modo per accettarlo e nello stesso tempo tenerlo a distanza.
C’è al fondo di questo atteggiamento una valutazione dell’amore e della donna come
fonte di incertezza e problemi; e di fatto, talvolta Orazio rappresenta l’amore come una
forza debilitante, che riduce un uomo a uno stato di effeminata mollezza (Odi I 8 Í); talaltra tratteggia la donna come un essere imprevedibile e incostante, che seduce e subito
delude (Odi II 8 Í).
Questo atteggiamento si può riscontrare nelle liriche in cui sembra trasparire una
esperienza più diretta della passione d’amore. Nonostante l’impegno a non lasciarsi coinvolgere, anche Orazio si lascia andare a manifestazioni di gelosia: così nell’ode a Lidia (I
13) che esaltando le qualità del giovane Telefo suscita la reazione passionale e sdegnata
del poeta:
Cum tu, Lydia Telephi
cervicem roseam, cerea Telephi
laudas bracchia, vae, meum
fervens difficili bile tumet iecur.
Tunc nec mens mihi nec color
certa sede manet, umor et in genas
furtim labitur, arguens
quam lentis penitus macerer ignibus.
Lidia, quando mi elogi
Tèlefo per il collo ‘che è di rose’,
quelle braccia di Tèlefo ‘di cera’,
a me una brutta bile gonfia il fegato,
mente e sangue si perdono e le lacrime
rigano il viso senza che mi accorga
e denunciano il fuoco
lento che mi consuma.
(Odi, I 13, vv. 1-8, trad. E. Mandruzzato)
Si tratta certo di situazioni e di figure circonfuse da un’aura di malizia; ma in ogni caso
consigliano all’uomo maturo un certo distacco. È la posizione che Orazio elabora ad es.
nell’ode ad Albio (I 33 Í), in cui invita l’amico che soffre a prendere atto della irrazionalità dell’amore, e soprattutto nell’ode a Pirra, in cui Orazio rappresenta con sollievo l’idea
di essere ormai in salvo dalle tempeste d’amore (Odi I 5 Í).
Da questo punto di vista, la dialettica dell’amore si risolve nel gioco della civetteria e
della seduzione, dove anche la gelosia non è che un momento del rapporto amoroso. Così,
nell’ode a Cloe (I 23), il poeta si rivolge alla ragazza che lo fugge, sicuro che verrà il
tempo in cui anche lei cederà alla forza dell’amore, ricorrendo al topos malizioso e affettuoso dell’immagine del cerbiatto spaventato che fugge sui monti la tigre o il leone:
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Vitas inuleo me similis, Chloe,
quaerenti pavidam montibus aviis
matrem non sine vano
aurarum et silvae metu. (…)
Atqui non ego te, tigris ut aspera
Gaetulusve leo, frangere persequor:
tandem desine matrem
tempestiva sequi viro.
Mi sfuggi, Cloe: sei come un cerbiatto
che cerca alla montagna senza vie
la madre spaventata, e porta in cuore
timore vago di vento e di selva. (…)
Ma non t’inseguo io come una tigre
feroce, un leone d’Africa, non voglio
infrangerti. Allora
lascia la madre, è tempo di marito.
(Odi, I 23, vv. 1-4, 9-12, trad. E.Mandruzzato)
Col tema d’amore, in questa prospettiva, si intreccia la riflessione sul tempo che passa,
come nell’ode a Lalage (II 5 Í), in cui la constatazione della riluttanza della ragazza –
paragonata prima a una giovenca non ancora soggiogata e poi all’uva non ancora matura
– e l’invito ad arrendersi alla legge dell’amore aprono la via al motivo più generale della
fugacità della vita.
Così, se talvolta il poeta si rivolge con apparente rudezza alla donna che scongiura di
aprirgli dichiarando che non starà alla porta in eterno (III, 10), secondo il modello letterario del parakalusithyron (serenata alla porta), altra volta lo scontro è solo il preludio
alla riappacificazione, come nel celebre “contrasto” con Lidia (Odi III 9 Í).
O quamvis neque te munera nec preces
nec tinctus viola pallor amantium
nec vir Pieria paelice saucius
curvat, supplicibus tuis
parcas, nec rigida mollior aesculo
nec Mauris animum mitior anguibus:
non hoc semper erit liminis aut aquae
caelestis patiens latus.
Ah, se omaggi insistenze
volti bianchi d’amore
marito con amante / pieria di razza,
nulla / ti piega, non punire
chi viene supplicando, / o dura più del rovere
o amara più del serpe, / non sempre
reggerò / alle piogge celesti
su questa soglia dura.
(III 10, vv. 13-20; trad. E.Mandruzzato).
In questo contesto, l’esperienza d’amore si configura come un gioco, in cui le due parti
giocano ciascuna la sua partita, ma ben sapendo che è un gioco. Altra volta però il fenomeno dell’amore trova una rappresentazione allo stesso tempo più oggettiva e più panica,
come nella raffigurazione della gioia che provoca la venuta del Fauno anche tra le Ninfe,
che pure lo sfuggono (III, 18).
Ludit herboso pecus omne campo
cum tibi nonae redeunt Decembres,
festus in pratis vacat otioso
cum bove pagus...
Scherza tutto il bestiame nell’erboso piano
quando in tuo onore tornano le none di dicembre
il villaggio in festa ruzza sui prati,
con il bove che riposa...
Ne viene comunque, come costante delle poesie d’amore di Orazio, un tono disincantato e talvolta cinico, che peraltro non esclude delicatezza di sentimenti, sia nei consigli
all’amico a non rinunciare agli amori di un’ancella (II, 4, dove il giudizio brutale della
Satira I 2 è capovolto); o nella delicata comprensione dell’attesa d’amore di Glicera, per
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cui si invoca la presenza di Venere, assieme a quella del suo corteo di Grazie e Ninfe (Odi
I 30):
O Venus regina Cnidi Paphique,
sperne dilectam Cypron et vocantis
ture te multo Glycerae decoram
transfer in aedem.
Fervidus tecum puer et solutis
Gratiae zonis properentqueNymphae
et parum comis sine te Iuventas
Mercuriusque.
Venere, Venere / che regni a Cnido e a Pafo,
trascura l’amata Cipro / e vieni
nella bella / casa di Glicera,
che ti chiama con molte onde d’incenso.
Febbre d’amore / voli con te, e le Grazie
dai veli sciolti / e le Ninfe:
e quella cui dai eleganza, / la giovinezza.
Quella di Mercurio.
(trad. E. Mandruzzato)
Un tono malizioso caratterizza un’altra preghiera a Venere, questa volta per
dichiarare la rinuncia all’amore e insieme alla poesia erotica, e allo stesso tempo per
richiedere da parte della dea una vendetta sulla fanciulla amata (Odi III 26); mentre una
singolare commistione tra il tema d’amore e della convivialità caratterizza un’altra ode
forse più tarda, dove Orazio invita Lidia a preparare da bere, alludendo ad un’altra conclusione del festino (Odi III, 28).
Vixi puellis nuper idoneus
et militavi non sine gloria;
nunc arma defuncumque bello
barbiton hic paries habebit,
laevom marinae qui Veneris latus
custodit. Hic, hic ponite lucida
funalia et vectis et arcus
oppositis foribus minacis.
O quam beatam diva tenes Cyprum et
Memphin carentem Sithonia nive
regina, sublimi flagello
tange Chloen semel arrogantem.
Sono vissuto, ho amato, fino a ieri,
e non senza bravura o senza gloria.
E ora le mie armi e questa cetra / veterana
staranno qui, alla parete
che protegge il fianco sinistro di Venere
del mare. Ecco, le fiaccole di luce,
qui, a questo punto. E gli archi minacciosi,
le leve per forzare porte ostili –
ma tu Dea che sei signora di Cipro
e in Menfi dove mai cade la neve,
Regina, con la punta della sferza / tocca
una volta Cloe, fanciulla / presuntuosa.
(trad. E. Mandruzzato)
A Orazio l’amore non dettò nessun accanto di passione. Prima dei trent’anni, rivolgendosi di proposito
agli uomini innamorati, faceva sentire il gelo beffardo e raziocinante dell’analisi lucreziana. Senza più la
crudezza di quella seconda satira scritta con la foga nel neofita epicureo, egli restò fedele a precetti così conformi all’indole sua che rifuggiva dagli stati ansiosi e aveva bisogno di placide comodità.
Le donne di Orazio sono quelle del mondo galante: fresche, agili, graziose: che si stancano dei loro amanti e appunto perciò non stancano mai: e se si ha voglia di rivederler è perché sono andate via presto: immagini rapide e capricciose di giovinezza, senza la vacuità opaca e prolissa della manti ideali. Orazio non le presenta a lungo: le fa intravedere appena per un gesto o un tratto del loro corpo: Pirra, tempestosa come il mare
(I, 5); Lidia che porta sulla bocca il ricordo di un bacio (I, 13); Clori dalle spalle fulgenti come la luna che
scintilla pura sulle acque notturne (II, 15); e Cìnara, la rapace, la preferita, che restò giovane e bella perché
giovane morì (IV, 13).
Orazio sente e fa sentire la donna come armonia, mai come gravezza: come incantesimo, mai come delirio;
e la coglie nello splendore dello sguardo o del sorriso, nella morbida grazia della danza, nel fascino di quelle
riluttanze che assentiscono, di quei no che dicono di sì, nella seduzione stessa della menzogna, ...
(Marchesi, op. cit., p. 503-504)
89
Donne pericolose
Amando perdere
Il Testo
Odi I 8
L’ode è rivolta a Lidia, nome che compare più volte nelle Odi, ed è una sorta di intercessione
in favore del giovane Sìbari, vittima del suo amore. Orazio rivolge alla donna una serie di domande
sul perché dell’abbandono da parte del ragazzo delle sue abituali attività; domande che rimangono
senza risposta ma alle quali il lettore può facilmente rispondere riconoscendo l’origine di tale situazione nella passione amorosa che distrugge l’uomo facendolo illanguidire nell’inerzia. L’ode si
conclude con un riferimento mitologico: Sìbari, nel suo ritiro dalle attività e dai contatti sociali, è
come Achille, nascosto dalla madre sull’isola di Sciro, fra le figlie del re Licomede, per sottrarlo al
pericolo di morte nella guerra di Troia.
Non vi sono indizi cronologici, ma lo stile è piuttosto quello del primo Orazio.
Metro: sistema saffico maggiore
Dimmi, Lidia, ti prego / per tutti gli
dei, perché vuoi rovinarmi Sìbari /
col tuo amore? Perché odia / l’afa del
Campo, pur sopportando sole e polvere? / perché più non cavalca / con i
compagni d’arme e non sa reggere il
morso / dei cavalli di Gallia? / perché
teme l’acqua del biondo Tevere? o
evita / d’ungersi d’olio, quasi / fosse
sangue di vipera, e non ha più le braccia / piegate dalle armi, / famoso
com’era nel lanciare asta e disco? / o
perché si nasconde, / come il figlio di
Teti marina, quando Troia / in
lacrime periva, / per non essere spinto contro i Lici alla morte?
(trad. M. Ramous)
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10
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Lydia, dic, per omnis
te deos oro, Sybarin cur properes amando
perdere, cur apricum
oderit campum patiens pulveris atque solis,
cur neque militaris
inter aequales equitet, Gallica nec lupatis
temperet ora frenis?
Cur timet flavom Tiberim tengere? Cur olivum
sanguine viperino
cautius vitat neque iam livida gestat armis
bracchia, saepe disco,
aepe trans finem iaculo nobilis expedito?
Quid latet, ut marinae
filium dicunt Thetidis sub lacrimosa Troiae
funera, ne virilis
cultus in caedem et Lycias proriperet catervas?
Orazio poeta d’amore
Nos convivia, nos proelia virginum cantamus, vacui sive quid urimur, non praeter solitum leves. Orazio, scrivendo
queste parole, è sincero, ed esse convengono perfettamente alla prima raccolta di odi: qui egli vola di fiamma
in fiamma senza bruciarsi le ali. Non vi è ragione di credere che le varie Lydie, Lyce, Lyde, che egli canta,
siano figure soltanto letterarie, per quanto (…) i motivi siano spesso derivati, anche nei particolari, dalla letteratura. Ma nei primi tre libri delle Odi udiamo ben di rado fremere quegli accenti di passione, che ci
scuotono sino in fondo all’anima nella poesia di Catullo...
La differenza è, secondo me, di stile. Orazio negli Epodi, ove vuole emulare Archiloco, lascia libere le briglie
della passione amorosa ma, e più ancora, specie in poesie giovenili, all’odio. (…) Il primo canzoniere è anch’esso frutto dello zèlos per Alceo, come gli Epodi dello zèlos per Archiloco; ma i suoi principii di arte sono
divenuti in questi tre libri più complicati, hanno risentito anch’essi gli effetti della restaurazione augustea:
(…) gli atteggiamenti poetici sono qui più composti e meno sciolti che non nei canzonieri lesbici, a quello
stesso modo che opere di arte neoattica presentano figure e movimenti più dignitosi a meno liberi che non
rilievi attici antichi.
(G. Pasquali, Orazio lirico, Studi, ristampa a c. d. A. La Penna, Firenze 1964, pp.392 ss.)
90
ODI II 8
Enitescis pulchrior multo
Metro: strofa saffica
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Ulla si iuris tibi perierati
poena, Barine, nocuisset unquam,
dente si nigro fieres vel uno
turpior ungui,
crederem: sed tu simul obligasti
perfidum votis caput, enitescis
pulchrior multo iuvenumque prodis
publica cura.
Expedit matris cineres opertos
fallere et toto taciturna noctis
signa cum caelo gelidaque divos
morte carentis.
Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident
simplices Nymphae ferus et Cupido
semper ardentis acuens sagittas
cote cruenta.
Adde quod pubes tibi crescit omnis,
servitus crescit nova nec priores
impiae tectum dominae reliquunt
saepe minati.
Te suis matres metuunt iuvencis,
te senes parci miseraeque nuper
virgines nuptae, tua ne retardet
aura maritos.
La bellezza si presenta a Orazio soprattutto sotto l’aspetto della
luminosità: il nitor di Glìcera, di Pirra, di Ebro. Orazio... dice bene
Mandruzzato, “circondò sempre di bellezza le sue donne fugaci”; e
la bellezza “è forse nella poesia greca soltanto una sottocategoria
della luce”. Non a caso le famiglie di niteo e splendeo hanno in Orazio
un totale di 41 occorrenze contro le 18 di Catullo e le 31 di
Virgilio... con l’aggiunta di un aggettivo caro a Orazio, purus...
(Carm. 1, 19, 5 seg.: Glicerae nitor/ splendentis Pario marmore
purius...). (A. Traina, op. cit. p. 44)
91
1 ss. Si … nocuisset … si fieres … crederem:
periodo ipotetico dell’irrealtà. Iuris …
peierati (= periurati): ‘per i tuoi giuramenti
falsi’, singolare per il plurale. 3 s. Dente …
nigro: abl. di qualità. Uno … ungui: abl. di
limitazione. Turpior: comparativo assoluto.
5 s. Obligasti ... votis: ‘hai giurato sul tuo
perfido capo’ (lett. ‘hai legato il tuo perfido
capo con giuramenti’). 7 Pulchrior: ‘più
bella’ sott. di prima. 7 s. Prodis: ‘incedi’. 8
Iuvenum … pulbica cura: apposizione del
soggetto, ‘affanno comune a tutti i giovani’.
9 s. Expedit: impersonale, ‘(ti) giova’.
Cineres ... fallere: ‘farti beffe delle ceneri
sepolte di tua madre’; fallere: sogg. sott. te;
cineres è maschile. 10 ss. Et toto ... carentis (=
carentes): costruisci: et (fallere) taciturna
signa noctis cum toto caelo et (-que) divos carentes gelida morte. Taciturna signa: ‘gli astri
muti’; gelidaque … morte carentis: ‘che non
conoscono la gelida morte’. Serie di iperbati (toto … cum caelo, taciturna … signa,
gelida … morte, divos … carentis). 14
Inquam: ‘io credo’. 15 Simplices: ‘ingenue’.
Ferus: ‘spietato’, in anastrofe. 16 Ardentis (=
ardentes) … sagittas: ‘le frecce roventi’. 17
Cote cruenta: abl. strumentale allitterante,
‘con la sua cote rossa di sangue’. 18 Adde
quod: ‘e aggiungi che’, ‘e ancora’. Pubes: ‘la
gioventù’. Tibi: dat. di vantaggio. 19
Priores: ‘i vecchi (amanti)’. 20 Tectum:
metonimia per domum. 21 Saepe minati:
participio congiunto con valore concessivo
(‘anche se lo hanno sempre minacciato’). 22
Suis … iuvencis: ‘per i loro figli’ (iuvenci =
iuvenes). 23 ss. Senes parci: sott. metuunt; ‘i
vecchi sobri’, nel senso di ‘moderati’ anche
nella passione amorosa. Miseraeque … virgines: sott. metuunt; ‘le sventurate fanciulle’.
24 s. Tua … aura: ‘la tua seduzione’. Ne
retardet: completiva retta dal sottinteso
metuunt.
Il Testo
Barìne è il prototipo della donna pericolosa, bella e spergiura impunita, che continua a ripetere
menzogne e man mano diventa sempre più bella, affascinando e legando a sé schiere di giovani.
Nei confronti di una simile donna il problema è mantenere la propria libertà: non cadere nelle spire
dei suoi inganni e non finire nella schiera dei suoi schiavi.
Orazio non è certo la vittima dello spergiuro e anzi è libero da questa catena e può permettersi
uno sguardo distaccato e sorridente, come quello degli dei che ridono degli inganni d’amore (del
resto già un antico motivo e proverbio callimacheo recitava: “i giuramenti d’amore non entrano
nelle orecchie degli dei”). Non lo stesso sorriso si possono permettere madri e giovani spose di
quanti sono succubi del fascino di Glìcera.
Sic visum Veneri
Il Testo
ODI I 33
Il destinatario è lo stesso dell’epistola I 4, quasi certamente il poeta elegiaco Albio Tibullo,
carissimo amico di Orazio, qui afflitto da maliconia a causa di un amore non corrisposto per una
donna indicata con lo pseudonimo di Glìcera. La struttura dell’ode è tripartita: la prima strofa è
dedicata alle pene d’amore di Tibullo; la seconda e la terza solgono il motivo topico, di tradizione
alessandrina, della catena d’amore (Licoride ama Ciro, questi ama Foloe che non lo vuole: tutto per
un crudele gioco di Venere); l’ultima strofa ritorna al tema della sofferenza personale, questa volta,
però, in riferimento Orazio, anch’egli vittima, in passato, di un amore non corrisposto.
Non vi sono indizi per la datazione.
Metro: sistema asclepiadeo secondo
Albio, Albio, non dolerti così al ricordo
della crudele Glìcera, non intonare
solo e sempre lamentose elegie, se un giovane,
rotta la fede, t’eclissa ai suoi occhi.
Con la sua bella fronte, per Ciro Licòride
avvampa d’amore e Ciro invece la fugge
per la scontrosa Fòloe: ma prima che questa
si conceda a un amante che disprezza,
le capre si uniranno ai lupi delle Puglie.
Così piace a Venere, che per suo diletto
crudelmente sottomette all’insopportabile
giogo anima e corpo differenti.
Anch’io, e mi chiamava più nobile amore,
fui ridotto in dolci ceppi dalla liberta
Mìrtale, più sfrenata dei flutti del mare
che scavano le insenature calabre.
(Trad. M. Ramous)
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10
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Albi, ne doleas plus nimio memor
inmitis Glycerae neu miserabilis
decantes elegos, cur tibi iunior
laesa praeniteat fide.
Insignem tenui fronte Lycorida
Cyri torret amor, Cyrus in asperam
declinat Pholoen: sed prius Apulis
iungentur capreae lupis,
quam turpi Pholoe peccet adultero.
Sic visum Veneri, cui placet inparis
formas atque animos sub iuga aenea
saevo mittere cum ioco.
Ipsum me melior cum peteret Venus,
grata detinuit compede Myrtale
libertina, fretis acrior Hadriae
curvantis Calabros sinus.
Una donna di Orazio
Che Pirra sia una donna fittizia e che la scena possa non rinviare a una specifica esperienza di Orazio è
possibile. Ma ciò che non si può escludere è che il passo presuppone un’esperienza dolorosa del poeta.
Un’esperienza tormentata e grata solo nel ricordo, che si turba al pensiero che ora tocca ad un altro vivere
la lacerazione e lo sconvolgimento che crea questa donna, una donna che seduce con la sua semplicità elegante e che sconvolge la vita di chi di lei si innamora perché è mutevole come l’aria.
C’è comunque in questa ode, e forse non per questa donna, l’esperienza di un amore non certo ancora
spento, di una gelosia mal celata, di un orgoglio irridente solo per essersi salvato col naufragio. Certo nell’atteggiamento di Orazio c’è la realizzazione della norma epicurea di liberarsi da ogni affanno, e perciò anche
dell’amore, se questo diventa tormento e sofferenza. La sua poesia esprime qui questa capacità del suo spirito, la vittoria della volontà, ma ottenuta con l’esercizio di umiltà e la dichiarazione di smarrimento.
Il naufrago è restituito alla terra come l’uomo che è uscito dalla tempesta dell’amore. L’amore è dunque
smarrimento, naufragio, follia come di chi si arrischia i un elemento di pericolo, alla parte più inaffidabile della
natura, il mare, che è come l’amore. Uscire dalla propria stasi esistenziale (mollis inertia), dirà in Ep. 14. 1, per
affidarsi, per cercare l’amore, è come l’ansia di chi vuol raggiungere un’altra terra e avvicinare a ciò che la
natura ha posto lontano e reso inconciliabile: è esplorazione dolorosa e assurda.
(O. Bianco, La donna in Orazio, in Letture oraziane a c. di G. Bruno, Venosa 1992, p. 20 s.)
92
Nescius aurae fallacis
ODI I 5
Metro: sistema asclepiadeo terzo
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Quis multa gracilis te puer in rosa
perfusus liquidis urget odoribus
grato, Pyrrha, sub antro?
Cui flavam religas comam
simplex munditiis? Heu quotiens fidem
mutatosque deos flebit et aspera
nigris aequora ventis
emirabitur insolens,
qui nunc te fruitur credulus aurea,
qui semper vacuam, semper amabilem
sperat, nescius aurae
fallacis. Miseri, quibus
intemptata nites: me tabula sacer
votiva– paries indicat uvida
suspendisse potenti
vestimenta maris deo.
“L’odicina, che è tra le più fini di Orazio, riunisce in concisa
e nitida forma il moderato erotismo e la prosaica leggerezza
che rispondevano al temperamento del poeta: ma l’immagine
di Pirra infedele, di Pirra cattiva, che pur sapeva essere aurea
e amabilis, e che raccoglieva in nodo la sua chioma flava e
così, simplex munditiis, gli veniva incontro nei non dimenticati
colloqui d’amore, vi sparge un tepore di voluttà, una sottile
vena di rimpianto”.
(B. CROCE, Poesia antica e moderna, Bari 19432, p. 101).
93
1 ss. Quis ... antro?: costruisci: quis gracilis
puer, perfusus liquidis odoribus, urget te,
Pyrrha, sub grato antro? Gracilis: ‘agile’,
‘snello’. Urget: ‘stringe’. Liquidis: ‘rilucenti’. Grato: ‘ameno’. Pyrrha: nome fittizio,
forse in allusione al colore rosso dei
capelli. 4 Cui: dat. di vantaggio, ‘per
piacere a chi’. Flavam: ‘bionda’, ma
l’aggettivo flavus include tutte le sfumature di biondo, compreso il biondo ramato. Religas: ‘annodi’. 5 Simplex munditiis: ‘semplice nella (tua) eleganza’. Fidem:
‘la promessa’, non mantenuta, di amore
eterno. 6 ss. Et aspera ... insolens: costruisci: et emirabitur, insolens, aequora aspera
nigris ventis. Insolens: ‘non essendoci ancora abituato’. Nigris … ventis: abl. di causa.
8 Qui ... aurea: costruisci: (is) qui nunc
credulus fruitur te aurea. Te fruitur: ‘gode di
te’. Credulus: ‘fidandosi’. Aurea: con valore
affettivo, ‘tutta d’oro’, nel senso di ‘perfetta’. Qui … qui …: anafora. Vacuam: scil. te;
‘libera per lui’, ‘sua’. 10 s. Aurae … fallacis:
‘dell’incostanza del vento’. 11 s. Miseri ...
nites: ‘infelici quelli che si lasciano
abbagliare dalla tua luce senza conoscerti’. 12 ss. Me ... deo: costruisci: sacer paries,
tabula votiva, indicat me suspendisse uvida
vestimenta potenti deo maris. La frase fa
riferimento all’abitudine, da parte dei
naufraghi, di appendere alle pareti del
tempio di Nettuno gli abiti inzuppati e
delle tavolette votive su cui erano rappresentate le circostanze del naufragio, come
segno di gratitudine per essere stati salvati dal pericolo.
Il Testo
Nell’ode si si intrecciano due temi topici già della lirica greca: quello dell’innamorato respinto, geloso del giovane amante, e quello dell’innamoramento equiparato al naufragio, nel momento in cui per l’incostanza dell’animo femminile l’amore viene meno.
Il testo può essere suddiviso in tre parti: la prima strofa (vv. 1-5) presenta la coppia felice vista
dagli occhi dell’ex-amante; la seconda e la terza strofa (vv. 5-12) contengono una riflessione di
quest’ultimo sull’infelice destino dell’ingaro giovane amante, ora felicemente ricambiato, ma destinato a naufragare nella disperazione non appena l’animo della donna cambierà; l’ultima strofa
(vv. 12-16) è una considerazione finale dal punto di vista di chi si sente un sopravvissuto al naufragio d’amore e per questo ringrazia gli dei.
Secondo alcuni sarebbe da considerare tra le odi più antiche, secondo altri tra quelle della
maturità, in considerazione dell’atteggiamento distaccato dalla passione per cui essa potrebbe rappresentare la conclusione del percorso relativo alla problematica amorosa. (v. riquadro a fronte)
Currit ferox aetas
Il Testo
ODI II 5
L’ode è una riflessione sulla riluttanza all’amore della fanciulla, non ancora arresasi alla legge
naturale dell’amore, non senza qualche accenno malinconico al motivo del tempo che passa. Non
c’è un destinatario. La struttura si articola in tre blocchi: vv. 1-9 situazione attuale; vv. 9-16
prospettiva futura; vv. 7-24 ricordo degli amori passati.
Non vi sono indizi per la datazione: se Lalage è la stessa dell’ode I 22, dove la ragazza ricambia l’amore, si deve pensare che questa ode sia anteriore a quella, che a sua volta, comunque, è di
datazione incerta.
Metro: strofa alcaica
1 Soggetto sott. è Lalage. 2 Munia comparis: ‘i doveri della compagna di giogo’;
metafora della coppia formata da uomo e
donna: munia comparis = officia uxoris. 3
Tauri ruentis in venerem: ‘del toro che si
slancia nella furia d’amore’; venus è
metonimia per indicare l’amore nella sua
dimensione fisica. 5 ss. Circa ... praegestientis: costruisci: est circa campos virentis
(= virentes) animus tuae iuvencae, nunc
solantis gravem aestuum fluviis, nunc
praegestientis ludere cum vitulis in udo salicto. Circa … est: ‘è rivolto a …’. 9
Praegestientis: ‘che è smanioso di …’. 10
ss. Iam ... colore: costruisci: iam autumnus
varius purpureo colore tibi distinguet lividos
racemos. 13 Soggetto sott. è sempre
Lalage. Il concetto della Nemesi d’amore
è tradizionale in poesia: chi ora fugge
prima o poi si troverà a inseguire e viceversa. 14 s. Et ... annos: costruisci: et annos
quos tibi dempserit illi adponet. Dempserit:
‘avrà sottratto’. Adponet: ‘aggiungerà’. 17
Dilecta: sott. a te. Quantum … fugax: sott.
dilecta est. 18 Non Chloris: sott. dilecta est.
Albo … umero: abl. di causa, singolare per
il plurale. 19 s. Nocturno … mari: ‘sul
mare di notte’. Cnidusve Gyges: Gige di
Cnido è il terzo amore passato dopo Foloe
e Chloris. La provenienza da Cnido sarà
da ricollegare al culto della dea Venere
professato nell’isola. La bellezza del fanciullo è tale che inserito in un gruppo di
fanciulle non potrebbe essere riconosciuto (allusione all’episodio mitico di Achille
nascosto dalla madre fra le figlie del re
Licomende, a Sciro, per sottrarlo alla
guerra). 21 Sagacis = sagaces. 23 s.
Discrimen obscurum: apposizione di quem,
riferito al fanciullo. Solutis crinibus
ambiguoque voltu: abl. strumentali dipendenti da falleret o di causa dipendenti da
obscurum.
La quarta strofa amplia la riflessione sul
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Nondum subacta ferre iugum valet
cervice, nondum munia comparis
aequare nec tauri ruentis
in venerem tolerare pondus.
Circa virentis est animus tuae
campos iuvencae, nunc fluviis gravem
solantis aestum, nunc in udo
ludere cum vitulis salicto
praegestientis. Tolle cupidinem
immitis uvae: iam tibi lividos
distinguet autumnus racemos
purpureo varius colore;
iam te sequetur; currit enim ferox
aetas et illi quos tibi dempserit
adponet annos; iam proterva
fronte petet Lalage maritum,
dilecta, quantum non Pholoe fugax,
non Chloris albo sic umero nitens
ut pura nocturno renidet
luna mari Cnidusve Gyges,
quem puellarum inseres choro,
mire sagacis falleret hospites
discrimen obscurum soltis
crinibus ambiguoque voltu.
cambiamento di atteggiamento della ragazza e introduce il motivo del passare del tempo, la cui percezione è soggettiva: per chi è giovane ogni anno
vissuto è un guadagno, per chi ha ormai oltrepassato la maturità è invece
una perdita. Ferox aetas è una delle tante definizioni oraziane per indicare il
tempo che corrode e che strappa violentemente all’uomo tutto ciò che ha.
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Si prisca redit Venus
ODI III 9
Metro: sistema asclepiadeo IV
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‘Donec gratus eram tibi
nec quisquam potior brachia candidae
cervici iuvenis dabat,
Persarum vigui rege beatior.’
‘Donec non alia magis
arsisti neque erat Lydia post Chloen,
multi Lydia nominis,
Romana vigui clarior Ilia.’
‘Me nunc Thressa Chloe regit,
dulcis docta modos et citharae sciens,
pro qua non metuam mori,
si parcent animae fata superstiti.’
‘Me torret face mutua
Thurini Calais filis Ornyti,
pro quo bis patiar mori,
si parcent puero fata superstiti.’
‘Quid si prisca redit Venus
diductosque iugo cogit aeneo,
si flava excutitur Chloe
reiectaeque patet ianua Lydiae?’
‘Quamquam sidere pulchrior
ille est, tu levior cortice et inprobo
iracundior Hadria,
tecum vivere amem, tecum obeam lubens.’
Duplice è il metro con cui misura i valori femminili: uno per
le donne native di Roma, ed uno per le altre. Augusto stesso
approvò questo criterio di distinzione, in vista di proteggere la
virtù della donna romana. Senonché, come risultato, ecco Orazio
giudicato il meno serio fra tutti i poeti d’amore. E dire che, proprio quando scrive d’amore, Orazio non è sempre frivolo: a volte,
anzi, tocca note profonde: “Benché egli sia più bello di un astro
e tu più leggero del sughero e più irritabile del turbolento
Adriatico, con te mi piacerebbe vivere, con te volentieri morirei.”
(M. Grant, op. cit., p. 246)
95
1 Gratus eram tibi: ‘ero nelle tue grazie’, ‘ti
piacevo’. 2 s. Nec ... dabat: costruisci: nec
quispiam iuvenis potior dabat brachia candidae cervici. Potior: ‘preferito’, sott. ‘a me’.
Dare brachia = amplexari, complecti. 4 Rege
… Persarum: i re persiani erano proverbiali per le loro ricchezze: ‘più di un pascià’, ‘più di un nababbo’. 5 Alia: abl. di
causa dipendente da arsisti. 6 Arsisti: ‘fosti
in preda alla passione’. Erat … post: ‘veniva dopo’. Lydia: la donna un tempo amata
parla di sé in terza persona. Chloen:
accusativo alla greca; Cloe è la donna ora
amata. 7 Multi … nominis: gen. di qualità,
‘di molta fama’, grazie ai carmi del poeta.
8 Romana … Ilia: secondo termine di
paragone; Ilia, o Rea Silvia, era la madre
di Romolo e Remo. 9 Regit: ‘è la mia signora’. Thressa = Thracia. 10 Dulcis ... sciens: costruisci: docta dulcis (= dulces) modos
et sciens citharae. Docta: ‘esperta in’, regge
l’acc. di relazione. Modos: ‘ritmi’. 12 Si …
superstiti: ‘se il fato lascerà in vita lei che è
l’anima mia’. Superstiti = ita ut mei sit
superstes. 13 Torret: ‘mi brucia’. Face
mutua: ‘con fuoco ricambiato’. 14 Thurini
… Ornyti: ‘di Ornito di Turii’, città greca
nel golfo di Taranto. 17 Quid si: ‘E se’.
Prisca … Venus: ‘l’antico amore’. 18
Diductostque (et quos deduxit) ... aeno: ‘e riunisce sotto un giogo di bronzo quelli che
separò’. Il bronzo allude all’eternità del
vincolo. 19 Excutitur: ‘viene scacciata’. 20
Reiectaeque … Lydiae: dat. di vantaggio.
22 Ille: cioè Calais. Tu: ‘e tu invece’, asindeto avversativo rafforzato dal chiasmo
(pulchrior ille … tu levior). Levior cortice:
‘più leggero di un sughero’, paragone che
esprime l’idea di incostanza. Improbo …
Hadria: secondo termine di paragone;
l’Adriatico era considerato molto burrascoso. 24 Amem … obeam: congiuntivi
potenziali. Libens = libenter, enallage.
Il Testo
Si tratta di una lirica amorosa dialogica, un dialogo a ‘botta e risposta’ tra Orazio e Lidia che
un tempo si amavano. Il ripensamento sul passato amore nella prima parte e la descrizione della
situazione presente nella seconda sono svolte in forma di battute di strofe tetrastiche che si corrispondono in studiati parallelismi e sembrano fare eco l’una all’altra. Le prime due strofe (vv. 18) riguardano il passato, la terza e la quarta (vv. 9-16) il presente, la quinta e la sesta (vv. 17-24)
la riconciliazione.
Non vi sono indizi cronologici; la qualità artistica sembra escludere una datazione alta.
Il canto amebeo
La struttura dialogica dell’ode si ispira alla tipologia del canto amebeo, un tipo di composizione lirica di origine popolare costruita sul gioco di ‘botta e risposta’ tra due personaggi, per lo più due innamorati. Di queste
composizioni si possono riconoscere le tracce nella commedia e in Teocrito oltre che in un frammento di Saffo
(121 L. P.), frammento di dialogo fra una fanciulla e il suo innamorato. La tecnica del carme amebeo fu poi
ripresa e perfezionata dai poeti ellenistici: diversi epigrammi dell’Antologia Palatina presentano dialoghi
d’amore in cui ciascuno dei due interlocutori ripete la frase precedentemente pronunciata dall’altro aggiungendovi un elemento nuovo. Orazio, ispirandosi anche al precedente latino rappresentato dal carme 45 di
Catullo, rielaborò ulteriormente lo schema compositivo ottenendo una struttura lineare e perfettamente simmetrica.
SUL TESTO
Nella prima strofa è il poeta che per primo parla ricordando la sua felicità ai tempi dell’amore
con Lidia, oggi vanificato dalla presenza di un altro giovane amante, efficacemente ritratto nell’atto di cingere le braccia al collo della fanciulla. Il motivo della felicità che deriva dalla persona
amata superiore a qualsiasi ricchezza è un topos della poesia d’amore ed è qui svolto nella forma
del paragone con il re di Persia, le cui ricchezze erano proverbiali (v. 4).
Nella seconda strofa è la fanciulla che risponde, riprendendo quasi letteralmente le parole dell’ex amato: donec ….donec, arsisti richiama gratus eram, erat … post richiama potior e vigui è ripreso
letteralmente. Anche nel cuore di Orazio ora si è fatto posto per un’altra persona e Lidia non ne
è più la regina incontrastata. Se per il poeta l’amore di Lidia significava uno stato di beatitudine,
per lei quell’amore rappresentava una fama pari a quella di Rea Silvia.
Per il poeta,dunque, l’amore rappresentava una sorta di benessere interiore (beatior), per la
donna, con una nota di civetteria tutta femminile, ciò che conta è il fatto di essere celebrata (clarior). In modo sottile Orazio introduce così il tema della forza della poesia come mezzo di celebrazione e di esaltazione della donna amata (va notato come nel v. 7 il nome di Lidia sia sapientemente collocato all’interno del genitivo di qualità multi … nominis).
Nella terza strofa la parola torna al poeta, che conferma di avere una nuova fiamma, della
quale mette in luce le qualità artistiche (sa cantare e suonare: v. 10), forse volendo insinuare un
confronto con Lidia, con una punta di malizia; per la nuova amante egli sarebbe disposto a morire.
La risposta di Lidia, sempre nella terza strofa, introduce a sua volta il nome della nuova fiamma,
di cui enuncia con un a certa ufficialità il nome, la provenienza e la paternità, quasi a voler suscitare la gelosia del poeta.
I versi 15 e 16 sono quasi una ripetizione dei vv. 11-12 con alcune sostituzioni: al non metuam
mori di Orazio corrisponde il bis patiar mori di Lidia, disposta a morire addirittura due volte; all’anima, detto di Cloe, nel senso di ‘persona amata’, corrisponde puer quasi a insinuare che a differenza di Orazio il nuovo amante è un ragazzo nel fiore della giovinezza.
Le ultime due strofe sono un’apertura sul futuro: inizia il poeta a suggerire la possibilità di un
riavvicinamento con due interrogative che presentano l’ipotesi di un ritorno di fiamma tra lui e
Lidia (vv. 17 s.) e di un allontanamento di Cloe a vantaggio di Lidia (vv. 19 s.). E Lidia non
dimostra esitazioni a cogliere il suggerimento e dichiara la sua disponibilità e il suo desiderio,
nonostante la bellezza di Calais e il carattere non facile del poeta (levior cortice, improbo iracundior
Hadria), di riannodare il vecchio amore.
96
M 6. Politica e poesia
Anche la politica costituisce per Orazio un tema molto particolare, perché da un lato
sostanzialmente estraneo al suo sentimento e al suo stile di vita, ma dall’altro “obbligato” dalle pressioni di Augusto e di Mecenate. Le odi ad esso dedicate, in effetti, hanno
spesso un tono forzato e artificioso, salvo quando affrontano il tema in una prospettiva
rispondente alla sensibilità etica e poetica proprie di Orazio.
In questo senso il tema entra talvolta nelle Odi come causa per l’uomo di una dispersione, contro cui risuona – ad es. nell’ode II 11 (Ô) – l’invito tipicamente oraziano a
non preoccuparsi dei problemi della politica e delle guerre, ma a vivere il tempo che ci è
concesso. Il tema della brevità della vita, della necessità di non nutrire speranze oltre i
limiti concessi all’uomo e di non perdersi dietro agli aeterna consilia, è lo stesso che in I 4.
15 o in I 11. 7.
Altra volta il tema entra nella poesia delle Odi come preoccupazione per il turbamento indotto dalle guerre e dagli scontri politici in tutta la comunità. Così nell’ode I 14 le
tristi sorti dello stato sconvolto dalle guerre civili sono sintetizzate nell’allegoria della
nave in balia della tempesta (commentata già da Quintiliano, Inst.or. VIII 6. 44), con un
chiaro omaggio al modello greco di Alceo (fr. 30 D).
O navis, referent in mare te novi
fluctus. O quid agis? Fortiter occupa
portum. Nonne videris, ut
nudum remigium latus
et malus celeri saucius Africo
antemnaeque gemant ac sine funibus
vix durare carinae
possint imperiosius
aequor? Non tibi sunt integra lintea,
non di, quos iterum pressa voce malo...
Nave, altri flutti ti sospingeranno
di nuovo in mare. Ahimé, che fai? Sta’ salda
in porto. Non t’avvedi
com’è spoglio il tuo fianco di remaggio
e il tuo albero è leso dal veloce
Africo, come le antenne gemono e la chiglia
priva di gomene non potrà resistere
all’ira soverchiante delle acque?
Non hai le vele intatte,
né i numi da invocare se di nuovo t’incalzi
il rischio...
(Odi I 14, vv. 1-10, trad. L. Canali)
In questo senso acquistano, almeno in parte, accenti di sincerità alcune poesie dedicate
a Augusto, o che formulino preghiere per la sua conservazione (I 35), o che esprimano e
chiedano esultanza per il suo ritorno (III 14) o che ridomandino l’imperatore, sicurezza
della patria (IV 5), o ne lodino le imprese (IV 15).
All’idea della sicurezza finalmente garantita a Roma e alla sua civiltà si ispira anche
una delle Odi più celebri, quella scritta per la morte di Cleopatra (I, 37 Í), in cui il tema
politico è vivificato dall’esultanza per lo scampato pericolo: Nunc est bibendum, nuc pede
libero pulsanda tellus.
La ricostituzione della civiltà di Roma è il motivo ispiratore delle cosiddette ‘odi
romane’, le prime sei del terzo libro, che documentano l’adesione al programma augusteo
con il forte richiamo alle virtù tradizionali romane.
In apertura (ode III 1) Orazio si propone come cantore di temi morali e civili, ri97
volgendosi in qualità di poeta vate, sacerdote delle Muse, ai giovani e alle fanciulle, le persone più adatte ad accogliere il suo messaggio morale:
Odi profanum vulgus et arceo.
Favete linguis: carmina non prius
audita Musarum sacerdos
virginibus puerisque canto.
Odio la folla / senza tempio. Lontano ne vivo.
Piamente ascoltate, / canti non prima
auditi io devoto delle Muse
per vergini e fanciulli canto.
(Odi III 1. 1-4, trad. E. Mandruzzato)
Dopo questa strofa, che fa da preambolo all’intero ciclo, l’ode sviluppa il motivo della
ricchezza come fonte di ansia e preoccupazione e della necessità di desiderare solo ciò che
basta. L’ode III 2 affronta il tema pindarico della necessità della virtus che rende immortali e del valore della morte per la patria:
Dulce et decorum pro patria mori:
mors et fugacem persequitur virum
nec parcit inbellis iuventae
poplitibus timidove tergo.
Virtus, repulsae nescia sordidae,
intaminatis fulget honoribus
nec sumit aut ponit securis
arbitrio popularis aurae.
Virtus, recludens inmeritis mori
caelum, negata temptat iter via
coetusque volgaris et udam
spernit humum fugiente pinna.
Morire per la terra dei padri / è dolce bellezza.
La morte / chi fugge l’insegue,
non perdona ai garretti / e alle spalle impaurite
di gioventù senza lotta.
Il Valore non sa vergognose / sconfitte.
Ha luce / di puri onori.
Non riceve, / non rende le scuri
come il vento della città chiede.
Il Valore apre il cielo / a chi non meritò di morire:
si apre il cammino / per le vie dell’impossibile.
E lascia le folle di sempre : il grande volo,
e l’umida terra.
(Odi III 2, vv. 13-24; trad. E. Mandruzzato)
L’ode III 3 si apre con l’elogio dell’uomo giusto e tenace nei suoi propositi – cioè della
necessità di rifare il carattere romano, come condizione della grandezza di Roma.
Iustum et tenacem propositi virum
non civium ardor prava iubentium,
non voltus instantis tyranni
mente quatit solida neque Auster,
dux inquieti turbidus Hadriae,
nec fulminantis magna manu Iovis;
si fractus inlabatur orbis,
inpavidum ferient ruinae.
E l’uomo giusto, / fedele al suo fine,
non scuote nello spirito / compatto passione
cittadinesca, obliqua / consigliatrice,
né sguardo minaccioso / di tiranno, né il vento
signore tumultuoso / del mare senza pace,
né la mano grande / di Giove che folgora.
Se il mondo si apra e crolli / lo troverà
senza paura.
(vv. 1-8; trad. E. Mandruzzato)
L’inizio dell’ode III 4 costituisce il proemio alla seconda parte del ciclo e, dopo un’invocazione alla musa Calliope e una dichiarazione della propria vocazione alla poesia,
passa a esaltare l’opera pacificatrice di Augusto, paragonato a Giove vincitore dei Titani:
Descende caelo et dic age tibia
regina longum Calliope melos,
seu voce nunc mavis acuta
Discendi dal cielo / e dimmi sul flauto
un lungo canto / o con l’acuta voce
o le corde e la cetra / di Febo,
98
Rodolfo Strumìa
PHYSIS
Fenomeni naturali nella poesia greca e latina
dell’età classica
Edizioni di Scuola e Cultura
1
A Brigitte,
en elle tout séduit, la beauté, la jeunesse,
la grâce! Nulle voix n’a de plus doux accents,
nul regard plus de charme avec plus de tendresse …
a Nausica Isotta Angelica
Tamara Taide Erminia
Ondina Carmen Lesbia
… e a tutte le altre manifestazioni dell’eterno femminino,
la cui bellezza rivaleggia con quella della natura …
… nuvole incendi tuoni
echi lampi onde cieli
torrenti arcobaleni
2
VIRGILIO
Dalle «Bucoliche»
1) Querce colpite dal fulmine
Saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus. (I, vv. 16-17)
«Ricordo che spesso, se la mente non fosse stata ottenebrata, le querce colpite dal fulmine
ci preannunciavano questa sventura».
_______________
1) La 1° ecloga consiste nel dialogo fra due pastori che in conseguenza della guerra civile
hanno avuto sorti ben diverse: Titiro, grazie alla protezione di potenti personaggi, è riuscito a conservare le sue proprietà terriere; Melibeo, al contrario, si è visto confiscare gli
amati campi e ora è costretto a esulare verso una terra che immagina lontana. Nei versi
sopra citati Melibeo ricorda che, in passato, sinistri presagi avrebbero dovuto mettere in
allarme lui e quei proprietari terrieri che, come lui, sono ora incorsi nella confisca dei beni.
2) Sinfonia campestre
Fortunate senex, hic inter flumina nota
et fontis sacros frigus captabis opacum:
hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes
Hyblaeis apibus florem depasta salicti,
saepe levi somnum suadebit inire susurro;
hinc alta sub rupe canet frondator ad auras,
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes,
nec gemere aëria cessabit turtur ab ulmo. (I, vv. 51-58)
«Fortunato vecchio! qui tra i corsi d’acqua a te ben noti e le sacre sorgenti te ne andrai in
cerca dell’ombrosa frescura; da una parte, dal vicino confine, come sempre, la siepe a cui
le api iblee succhiano il fiore del salice, spesso col suo sommesso brusio ti farà scivolare
nel sonno; dall’altra parte, sotto un’alta rupe lo sfrondatore effonderà nell’aria il suo canto,
e tuttavia nel frattempo non cesseranno di tubare le roche colombe, oggetto delle tue cure,
né la tortora da un alto olmo».
_______________
2) Melibeo si compiace per la fortuna toccata all’amico Titiro e benevolmente lo invidia per
il fatto che, unico fra tanti, ha conservato il possesso delle proprie terre e potrà anche in
futuro continuare a godere le delizie della campagna. L’aggettivo Hyblaeis deriva da Ibla,
monte della Sicilia celebre per il miele; ma, dato che la scena è collocata nella pianura
padana e non in Sicilia, esso va considerato un semplice epiteto esornativo.
3) Scende la sera
… et iam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae. (I, vv. 82-83)
157
«E già, lontano, fumano i comignoli dei casolari e più lunghe scendono dagli alti monti le
ombre».
_______________
3) È la conclusione, soffusa di mestizia, della 1° ecloga: Titiro invita lo sventurato amico a
trascorrere nella sua dimora, ove non mancherà di nulla, la notte che sta sopraggiungendo.
4) Tramonta il sole
Adspice, aratra iugo referunt suspensa iuvenci,
et sol crescentes decedens duplicat umbras;
me tamen urit amor … (II, vv. 66-68)
«Guarda, i giovenchi riportano gli aratri sospesi al giogo, e il sole declinando raddoppia
le ombre; me, tuttavia, l’amore continua a bruciare …».
_______________
4) È l’amaro sfogo del pastore Coridone, innamorato senza speranza di un bel ragazzo,
Alessi.
5) Invito al canto in primavera
Dicite, quandoquidem in molli consedimus herba:
et nunc omnis ager, nunc omnis parturit arbos,
nunc frondent silvae, nunc formosissimus annus. (III, vv. 55-57)
«Cantate, dal momento che ci siamo adagiati su soffice erba: e ora ogni campo e ogni albero germoglia, ora frondeggiano i boschi, ora l’anno è nella sua stagione più bella».
_______________
5) È l’invito a dare inizio al carme amebeo, rivolto ai pastori Dameta e Menalca da
Palemone, che essi hanno scelto come giudice della loro gara di improvvisazione poetica.
6) Il mirabile concento della natura
Nam neque me tantum venientis sibilus austri,
nec percussa iuvant fluctu tam litora, nec quae
saxosas inter decurrunt flumina valles. (V, vv. 82-84)
«Una gioia così grande non mi reca né il sibilo dell’austro che sopraggiunge, né le rive contro cui si frangono le onde, né i torrenti che scorrono giù tra le rocce delle valli».
_______________
6) Per esprimere l’entusiasmo suscitato in lui dal canto di Menalca, il pastore Mopso ricorre ad immagini che si riferiscono ai più suggestivi fenomeni naturali.
7) I teneri canneti del Mincio
Huc ipsi potum venient per prata iuvenci;
hic virides tenera praetexit harundine ripas
Mincius, eque sacra resonant examina quercu. (VII, vv. 11-13)
158
«Qui per i prati spontaneamente verranno ad abbeverarsi i giovenchi; qui il Mincio orla di
tenere canne le verdi rive, e dalla sacra quercia ronzano gli sciami <di api>».
_______________
7) Dafni invita il pastore Melibeo ad assistere alla gara di improvvisazione poetica fra
Coridone e Tirsi, sottolineando l’amenità del luogo in cui essa sta per svolgersi.
8) Riparo dalla calura estiva
Muscosi fontes et somno mollior herba,
et quae vos rara viridis tegit arbutus umbra,
solstitium pecori defendite: iam venit aestas
torrida, iam lento turgent in palmite gemmae. (VII, vv. 45-48)
«Muscose fonti, erba più soffice del sonno, e voi che il verde corbezzolo copre con rada
ombra, difendete il bestiame dalla canicola: già viene la torrida estate, già sul flessibile
tralcio son turgide le gemme».
_______________
8) Coridone, nella sua tenzone poetica con Tirsi, invoca ombra e frescura per il bestiame,
contro la calura dell’estate.
9) La natura come stato d’animo
C. Stant et iuniperi et castaneae hirsutae;
strata iacent passim sua quaeque sub arbore poma;
omnia nunc rident: at, si formosus Alexis
montibus his abeat, videas et flumina sicca.
T. Aret ager; vitio moriens sitit aëris herba;
Liber pampineas invidit collibus umbras:
Phyllidis adventu nostrae nemus omne virebit,
Iuppiter et laeto descendet plurimus imbri. (VII, vv. 53-60)
«C.: Si ergono <forti e rigogliosi> i ginepri e gli ispidi castagni, giacciono a terra dappertutto, ciascuno sotto il suo albero, i frutti, tutto ora è ridente; ma se il bell’Alessi si allontanasse da questi monti, vedresti asciutti persino i fiumi».
«T.: I campi sono riarsi, per un male dell’aria l’erba muore di sete, Bacco nega ai colli l’ombra dei pampini; <ma> all’arrivo della nostra Fillide tutto il bosco tornerà a verdeggiare, e
Giove scenderà <sulla terra> con la pioggia fecondatrice in gran quantità».
_______________
9) Nel canto di Coridone, quando è presente Alessi, il giovane amato, la natura appare in
pieno rigoglio; se egli si allontana, tutto inaridisce. Nel canto di Tirsi, in assenza dell’amata Fillide la siccità desola i campi, ma se essa ritorna, ecco che cade dal cielo una benefica pioggia e tutto verdeggia. In entrambe le quartine è evidente che la natura non è più
soltanto descrizione oggettiva, ma diventa stato d’animo, paesaggio spirituale.
10) La rugiada sull’erba sul far del mattino
Frigida vix caelo noctis decesserat umbra,
cum ros in tenera pecori gratissimus herba. (VIII, vv. 14-15)
159
«La fredda ombra della notte era appena svanita dal cielo, quando la rugiada sulla tenera
erba è più gradita al bestiame»
_______________
10) «e Damone, appoggiato ad un liscio tronco di ulivo, così prese a dire». Damone, che
ama perdutamente Nisa, già a lui promessa, si tormenta al pensiero che la giovane l’abbia
abbandonato per sposare un altro e, rievocando con accenti accorati il primo sorgere della
sua funesta passione, medita il suicidio.
11) Colline digradanti fino al fiume
… qua se subducere colles
incipiunt mollique iugum demittere clivo,
usque ad aquam et veteres, iam fracta cacumina, fagos… (IX, vv. 7-9)
«… là dove i colli cominciano ad abbassarsi e a digradare con dolce pendio, fino all’acqua
<del fiume Mincio> e ai vecchi faggi dalle punte ormai spezzate …».
_______________
11) Si ritiene che in questi versi Virgilio abbia descritto il podere che la sua famiglia e lui
stesso avevano posseduto, nel territorio di Mantova, prima che esso venisse confiscato a
vantaggio di un veterano della guerra civile.
12) Un locus amoenus al riparo dai flutti
‘Huc ades, o Galatea! Quis est nam ludus in undis?
Hic ver purpureum, varios hic flumina circum
fundit humus flores, hic candida populus antro
imminet et lentae texunt umbracula vites.
Huc ades: insani feriant sine litora fluctus’. (IX, vv. 39-43)
«‘Qui vieni, o Galatea! Quale diletto vi è mai tra le onde? Qui vi è la primavera splendida
di colori, qui intorno ai corsi d’acqua il suolo fa sbocciare fiori variopinti, qui un bianco
pioppo sovrasta la grotta e le flessuose viti intrecciano ombrosi ripari. Qui vieni: lascia che
i flutti furiosi flagellino il lido’».
__________________
12) Nella rielaborazione virgiliana dello spunto teocriteo dell’Idillio XI (vv. 42-48), benché
la situazione immaginata sia la stessa (l’invito che il ciclope Polifemo rivolge alla ninfa
Galatea a lasciare la sua dimora marina per andare a convivere con lui nella spelonca), il
centro dell’interesse non è il personaggio femminile, praticamente assente, bensì la natura, descritta nel rigoglio dei fiori e delle piante, con un gusto ancora vicino al cromatismo
ellenistico: tuttavia, già si può cogliere qualche nota caratteristica del paesaggio virgiliano: l’albero solitario (il bianco pioppo tipico della pianura padana) e le molli, invitanti
ombre delle grotte e del fogliame. Ma ciò che soprattutto distingue il passo virgiliano dal
modello greco è lo spiritualizzarsi del paesaggio, la funzione simbolica che in esso assumono alcuni elementi, in particolare gli insani fluctus: comincia a profilarsi quello che sarà
il leit-motiv della poesia virgiliana, il contrasto «fra un Eden romito e pacifico e un mondo
inquieto e pauroso, che gli urge e spumeggia d’intorno» (E. Paratore).
13) È caduto il vento: tutto è silenzio e pace
Et nunc omne tibi stratum silet aequor et omnes,
adspice, ventosi ceciderunt murmuris aurae. (IX, vv. 57-58)
160
«Ed ora ogni specchio d’acqua, appianato, ti rimane in ascolto in silenzio e, osserva, son
caduti tutti i soffi del vento mormorante».
_____________________
13) Nelle parole del giovane Licida, sembra che la natura, raccogliendosi in un improvviso silenzio e in una tranquilla quiete, si predisponga ad ascoltare attentamente il canto di
Meri.
14) Fresche sorgenti e soffici prati
Hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycori,
hic nemus … (X, vv. 42-43)
«Qui vi sono fresche sorgenti, qui soffici prati, o Licoride, qui il bosco …».
_________________
14) La persona loquens è Cornelio Gallo, cui Virgilio, per debito di amicizia, rivolge nella
10^ ecloga una sorta di consolatio, per lenire col dono della poesia una sua delusione d’amore. Gallo, uomo politico, comandante militare, letterato e poeta, aveva avuto una relazione amorosa con la liberta Volumnia, di professione mima – cioè attrice di varietà, ballerina e spogliarellista –, il cui “nome d’arte” era Citeride, ma che egli chiamò Licoride negli
Amores, una raccolta di elegie in quattro libri a lei dedicata. La donna, però, l’aveva poi
abbandonato per seguire un altro militare. Nei versi sopra citati, Virgilio immagina che
Gallo si trovi in Arcadia, un paese di sogno, e che, tutto preso dalla bellezza dell’ambiente circostante, voglia attirare in esso anche la donna amata.
15) Tra le nevi e i ghiacci
… tu procul a patria, nec sit mihi credere tantum!
Alpinas, ah, dura nives et frigora Rheni
me sine sola vides. Ah, te ne frigora laedant!
ah, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas! (X, vv. 46-49)
«… tu, lontano dalla patria (potessi io non credere una tale enormità!), da sola, senza di
me, vedi, o crudele, le nevi alpine e i geli del Reno. Ah, non ti nuoccia il freddo! Ah, che
l’aspro ghiaccio non ti tagli i teneri piedi!».
________________
15) Licoride, abbandonato Gallo, ha seguito il suo nuovo amante, un ufficiale impegnato
in un’impresa militare transalpina. Gallo, che nonostante il tradimento subìto continua ad
amare la donna, pieno di affettuosa e trepidante sollecitudine per lei inorridisce al pensiero che sia lontana, indifesa, in un ambiente che per la sua asprezza non le si confà per
nulla. Licoride in realtà non è sola, ma tale appare al poeta perché con lei non c’è lui a proteggerla.
Dalle «Georgiche»
1) Il disgelo primaverile
Vere novo, gelidus canis cum montibus umor
liquitur et zephyro putris se glaeba resolvit… (I, 43-44)
161
«Al principio della primavera, quando sui candidi monti il ghiaccio si scioglie e la zolla si
stempera soffice per lo spirare di zefiro …».
_______________
1) Al ritorno della primavera deve senza indugio ricominciare il lavoro dei campi, l’opera
silenziosa e tenace degli uomini e degli animali, volta a strappare alla terra i suoi frutti.
2) Estati piovose e inverni asciutti, garanzia di buon raccolto
Umida solstitia atque hiemes orate serenas,
agricolae: hiberno laetissima pulvere farra,
laetus ager … (I, vv. 100-102)
«Chiedete nelle vostre preghiere estati piovose e inverni sereni, o coloni: se l’inverno è
asciutto, molto abbondante è il grano, fecondo il campo …».
_______________
2) Gli agricoltori devono augurarsi piovosa l’estate, perché ne sia temperata l’eccessiva
arsura, asciutto e sereno l’inverno, perché il ghiaccio secchi la terra e la riduca in polvere.
3) Acqua stagnante in terreno paludoso
<Quid> … quique paludis
collectum humorem bibula deducit arena?
Praesertim incertis si mensibus amnis abundans
exit, et obducto late tenet omnia limo,
unde cavae tepido sudant umore lacunae. (I, vv. 113-117)
«E <che dirò> di colui che con sabbia assorbente devia l’acqua stagnante in un terreno
paludoso? Tanto più se nei mesi variabili il fiume in piena straripa, e occupa per ampio
tratto tutto il terreno ricoprendolo di melma, onde le pozze traspirano tiepida umidità».
_______________
3) Il contadino spesso è costretto a impegnarsi anche in lavori di bonifica del terreno.
4) Lo scatenarsi dei venti nell’imminenza della mietitura
Saepe ego, cum flavis messorem induceret arvis
agricola et fragili iam stringeret hordea culmo,
omnia ventorum concurrere proelia vidi,
quae gravidam late segetem ab radicibus imis
sublimem expulsam eruerent, ita turbine nigro
ferret hiemps culmumque levem stipulasque volantes. (I, vv. 316-321)
«Quando già il contadino faceva entrare nei campi biondeggianti il mietitore e <questi>
già recideva le messi dal fragile stelo, spesso io vidi i venti scontrarsi in battaglie di ogni
genere, tali che per largo tratto strappavano dalle più profonde radici le spighe ricolme e
le disperdevano in alto, e così la tempesta col suo nero turbine portava via i leggeri steli e
le stoppie volanti».
_______________
4) Il fatto che la bufera si scateni d’estate, quando lo sviluppo vegetativo è in uno stadio
molto avanzato, rafforza l’impressione della presenza di una forza avversa che repentinamente vanifica la fatica del contadino proprio quando egli ha ormai la certezza di un buon
raccolto.
162
5) Lo scroscio della pioggia e la folgore
Saepe etiam inmensum caelo venit agmen aquarum
et foedam glomerant tempestatem imbribus atris
collectae ex alto nubes; ruit arduus aether
et pluvia ingenti sata laeta boumque labores
diluit; implentur fossae et cava flumina crescunt
cum sonitu fervetque fretis spirantibus aequor.
Ipse pater media nimborum in nocte corusca
fulmina molitur dextra; quo maxima motu
terra tremit, fugere ferae et mortalia corda
per gentis humilis stravit pavor; ille flagranti
aut Athon aut Rhodopen aut alta Ceraunia telo
deicit; ingeminant austri et densissimus imber;
nunc nemora ingenti vento, nunc litora plangunt. (I, vv. 322-334)
«Spesso anche viene giù dal cielo un’enorme massa d’acqua e le nubi raccolte dall’alto
addensano una burrasca orrida per foschi nembi; precipita l’alto cielo e spazza via con un
diluvio i rigogliosi seminati e le fatiche dei buoi; si riempiono i fossati e i fiumi nel loro
alveo si gonfiano rumoreggiando e il mare ribolle per lo spirare dei flutti. Il padre stesso
(scil. Giove) in mezzo al buio dei nembi scaglia fulmini con la destra lampeggiante; a quel
moto la vastissima terra trema, fuggono le fiere e la paura che abbatte getta a terra per
ogni dove i cuori mortali; quello con l’infuocato dardo scrolla o l’Athos o il Rodope o gli
alti Cerauni; raddoppiano di violenza i venti e, fittissima, la pioggia; ora per l’impetuoso
vento gemono i boschi e le spiagge».
_______________
5) Drammatica descrizione di un temporale, che devasta i campi coltivati e con la sua furia
dirompente sgomenta i cuori. Benché Virgilio condivida il concetto stoico che l’ordine
cosmico è stato disposto dalla Provvidenza in modo che anche gli uomini dalla sua conoscenza possano trarre vantaggio per le loro attività, tuttavia l’influsso lucreziano fa sì che
in questo passo, come nel precedente, il tono poetico inclini verso un certo pessimismo.
6) I segni che preannunciano il vento
Continuo ventis surgentibus aut freta ponti
incipiunt agitata tumescere et aridus altis
montibus audiri fragor aut resonantia longe
litora misceri et nemorum increbrescere murmur.
Iam sibi tum curvis male temperat unda carinis,
quom medio celeres revolant ex aequore mergi
clamoremque ferunt ad litora, cumque marinae
in sicco ludunt fulicae notasque paludes
deserit atque altam supra volat ardea nubem.
Saepe etiam stellas vento impendente videbis
praecipites caelo labi noctisque per umbram
flammarum longos a tergo albescere tractus,
saepe levem paleam et frondes volitare caducas
aut summa nantes in aqua conludere plumas. (I, vv. 356-369)
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«D’un tratto, al levarsi dei venti, o i flutti del mare agitati cominciano a gonfiarsi e sugli
alti monti principia a udirsi un secco fragore (scil. il primo tuono, che annuncia la bufera)
o le spiagge da lungi risonanti cominciano a rimescolarsi e a divenire più fitto il fremito
dei boschi. Già l’onda non risparmia i curvi fianchi delle navi, quando i veloci smerghi
volano indietro dal mezzo del mare e, avvicinandosi alla riva, emettono le loro rauche strida, e quando le marine fòlaghe scherzano all’asciutto e l’airone abbandona le note paludi
e vola al di sopra di un’alta nube. Spesso anche, al levarsi del vento, vedrai delle stelle
cadere a precipizio per il cielo e, nella tenebra notturna, biancheggiare alle <loro> spalle
lunghe scie di fiamma, spesso <vedrai> volteggiare lievi pagliuzze e foglie staccatesi <dai
rami> o folleggiare le piume galleggianti sulla superficie dell’acqua».
_______________
6) I fenomeni che Virgilio, prendendo spunto da un passo di Arato (Phaen., vv. 909-912 e
924-932), qui descrive «sono segni così evidenti della prossima bufera, che l’intento didascalico appare soltanto un pretesto per una descrizione poetica dai grandiosi effetti di
suono, sullo sfondo di vastissimi orizzonti montani e marini gravidi di tempesta» (L.
Perelli). Si noti, poi, come sia il gioco delle fòlaghe sul lido sia il lieve folleggiare delle
pagliuzze e delle piume mascherino l’inquietudine che pervade la natura all’approssimarsi del vento e siano in realtà segno dell’intima irrequietezza che precede la bufera.
7) I segni che preannunciano la pioggia
At Boreae de parte trucis cum fulminat et cum
Eurique Zephyrique tonat domus, omnia plenis
rura natant fossis atque omnis navita ponto
umida vela legit. Numquam imprudentibus imber
obfuit: aut illum surgentem vallibus imis
aëriae fugere grues aut bucula caelum
suspiciens patulis captavit naribus auras
aut arguta lacus circumvolitavit hirundo
et veterem in limo ranae cecinere querellam.
Saepius et tectis penetralibus extulit ova
angustum formica terens iter et bibit ingens
arcus et e pastu decedens agmine magno
corvorum increpuit densis exercitus alis.
Iam variae pelagi volucres et quae Asia circum
dulcibus in stagnis rimantur prata Caystri,
certatim largos umeris infundere rores,
nunc caput obiectare fretis, nunc currere in undas
et studio incassum videas gestire lavandi.
Tum cornix plena pluviam vocat improba voce
et sola in sicca secum spatiatur harena. (I, vv. 370-389)
«Ma quando provengono fulmini dalla parte del truce Borea e quando rimbombano di
tuoni la casa di Euro e quella di Zefiro, tutta la campagna nuota per il traboccare dei fossati e sul mare ogni navigante raccoglie le umide vele. La pioggia non ha mai recato danno
senza che si avesse la possibilità di prevederla: al suo approssimarsi, o le gru dall’alto volo
fuggono nel fondo delle valli o la vaccherella, levando il muso al cielo, aspira l’aria con le
narici dilatate o la stridula rondine vola e rivola intorno agli specchi d’acqua e le rane nel
fango cantano l’antico lamento. Più spesso la formica porta le uova fuori della parte più
riposta della <sua> casa, ripercorrendo lo stetto cammino, e il grande arcobaleno assorbe
l’acqua e, allontanandosi dal pasto in numerosa schiera, lo stormo dei corvi schiamazza
battendo fittamente le ali. Inoltre, i variopinti uccelli del mare e quelli che frugano in giro
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per i prati asiatici nei dolci stagni del Caistro tu puoi vederli versarsi sulle spalle a gara
abbondanti spruzzi d’acqua, ora tuffare il capo nelle onde, ora lanciarsi nei flutti e invano
smaniare per la brama di lavarsi. E ancora, la petulante cornacchia invoca a gran voce la
pioggia e passeggia da sola fra sé e sé sulla spiaggia asciutta».
_______________
7) Anche in questo passo, non solo per influsso del suo modello Arato, Virgilio mostra di
condividere la dottrina provvidenzialistica degli Stoici e, in particolare, il concetto che la
divinità abbia concesso all’uomo la possibilità di prevedere da sicuri indizi gli avversi
fenomeni atmosferici e, conseguentemente, di evitarne o almeno limitarne i danni.
Borea, il vento del nord, è detto “truce” in quanto apportatore di tempeste. Quanto alla
formica, contrariamente a ciò che afferma Virgilio, all’avvicinarsi della pioggia porta le
uova dentro la tana. L’arcobaleno nel mondo classico era considerato segno di cattivo
tempo, oggi, al contrario, nell’opinione popolare annuncia il ritorno del sereno dopo un
temporale; ma entrambe le credenze sono prive di fondamento scientifico. Il Caistro è un
fiume della Ionia nell’Asia Minore. L’ultima immagine, della cornacchia che come una
vecchia misantropa e nevrastenica cerca la solitudine e procede a scatti sulla spiaggia,
ripropone il motivo dell’ansiosa irrequietezza che prende gli esseri viventi all’approssimarsi di un fortunale.
8) I segni che preannunciano il bel tempo
Nec minus ex imbri soles et aperta serena
prospicere et certis poteris cognoscere signis:
nam neque tum stellis acies obtunsa videtur,
nec fratris radiis obnoxia surgere Luna,
tenuia nec lanae per caelum vellera ferri;
non tepidum ad solem pinnas in litore pandunt
dilectae Thetidi alcyones; non ore solutos
immundi meminere sues iactare maniplos.
At nebulae magis ima petunt campoque recumbunt,
solis et occasum servans de culmine summo
nequiquam seros exercet noctua cantus.
Apparet liquido sublimis in aëre Nisus
et pro purpureo poenas dat Scylla capillo;
quacumque illa levem fugiens secat aethera pennis,
ecce inimicus atrox magno stridore per auras
insequitur Nisus; qua se fert Nisus ad auras,
illa levem fugiens raptim secat aethera pennis.
Tum liquidas corvi presso ter gutture voces
aut quater ingeminant, et saepe cubilibus altis,
nescio qua praeter solitum dulcedine laeti,
inter se in foliis strepitant; iuvat imbribus actis
progeniem parvam dulcesque revisere nidos. (I, vv. 393-414)
«Allo stesso modo potrai da sicuri indizi prevedere e presagire dopo la pioggia il ritorno
del sole e le belle giornate. Infatti, non si vede allora offuscato il fulgore delle stelle né la
luna sorgere sottoposta ai raggi del fratello (scil. il sole) né muoversi per il cielo lievi bioccoli di lana (scil. le nuvole «a pecorelle»); non stendono le penne al tiepido sole sul lido le
alcioni care a Tetide, e i sozzi maiali non pensano a scuotere col grugno i fasci di fieno fino
a scioglierli. Ma le nebbie si dirigono piuttosto verso il basso e si adagiano sulla pianura,
e, osservando il tramonto del sole da una sommità (scil. di un albero o di un tetto), inva-
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no la civetta fa risonare senza posa i suoi tardi canti. Appare, alto nel limpido cielo, Niso,
e Scilla sconta la pena per il purpureo capello; dovunque essa fuggendo fende con le ali
l’aria leggera, ecco che ostile, implacabile, con acute strida per l’aria la insegue Niso; dove
Niso si dirige in alto, essa fuggendo precipitosamente fende con le ali l’aria leggera. Allora
i corvi, comprimendo la gola tre o quattro volte, ripetono limpidi gridi e spesso negli alti
giacigli, lieti per non so quale insolita dolcezza, strepitano tra loro in mezzo al fogliame:
piace ad essi, cessata la pioggia, tornare a rivedere la piccola prole e i dolci nidi».
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8) Altrettanto prevedibile del cattivo tempo è il ritorno del sereno: in particolare, ciò che
qui afferma Virgilio sopravvive nelle credenze popolari espresse nei noti proverbi « cielo
a pecorelle, acqua a catinelle» e « nebbia bassa bel tempo lassa».
Quando Ceìce, figlio di Lucifero, re di Trachis, perì in naufragio nell’Egeo, e la sua sposa
Alcione per il dolore si uccise gettandosi in mare, Teti, impietosita dalla loro infelice sorte,
li tramutò in uccelli marini. Scilla, figlia di Niso re di Megara, innamoratasi di Minosse che
stava assediando la città, recise al padre il capello purpureo a cui era legata la sua vita, ma,
anziché ottenere da Minosse gratitudine, fu da lui messa a morte come figlia snaturata. Gli
dèi poi mutarono lei in ciris, o airone bianco, e Niso in un uccello di rapina che sempre
l’insegue.
9) I preannunci dati dalla luna
Si vero solem ad rapidum lunasque sequentes
ordine respicies, numquam te crastina fallet
hora, neque insidiis noctis capiere serenae.
Luna revertentes cum primum colligit ignis,
si nigrum obscuro comprenderit aëra cornu,
maximus agricolis pelagoque parabitur imber:
at si virgineum suffuderit ore ruborem,
ventus erit: vento semper rubet aurea Phoebe.
Sin ortu quarto – namque is certissimus auctor –
pura neque obtunsis per caelum cornibus ibit,
totus et ille dies et qui nascentur ab illo
exactum ad mensem pluvia ventisque carebunt,
votaque servati solvent in litore nautae
Glauco et Panopeae et Inoo Melicertae. (I, vv. 424-437)
«Se poi presterai attenzione all’ardente sole e alle fasi della luna che si susseguono ordinatamente, mai t’ingannerà il tempo del domani, né sarai preso dall’insidia di una notte
serena. Quando la luna recupera il suo splendore (scil. nella fase crescente, dopo il novilunio), se cingerà il nero aere con i corni oscuri, per i contadini e il mare si preparerà assai
copiosa la pioggia: se invece soffonderà sul suo volto un virgineo rossore, vi sarà vento:
per il vento sempre rosseggia l’aurea Febe. Se poi alla quarta levata – questo, infatti, è il
segnale più sicuro – andrà per il cielo pura e con i corni limpidi, tutto quel giorno e gli altri
che nasceranno da esso sino al termine del mese saranno immuni da pioggia e venti, e i
marinai scampati scioglieranno sul lido i loro voti a Glauco e Panopea e a Melicerta figlio
di Ino».
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9) A seconda dell’aspetto che assume, la luna può preannunciare pioggia, vento, o bel
tempo. Febe, sorella di Febo, la Diana dei Romani, è la dea della luna. Glauco, Panopea e
Melicerta sono divinità protettrici dei naviganti. Glauco, pescatore della Beozia, per avere
gustato una certa erba si trovò trasformato in una divinità. Panopea è una delle Nereidi.
Melicerta, figlio di Atamante e di Ino, col nome di Palemone divenne nume tutelare dei
naviganti.
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10) I preannunci dati dal sole
Sol quoque et exoriens et cum se condet in undas,
signa dabit; solem certissima signa sequuntur,
et quae mane refert et quae surgentibus astris.
Ille ubi nascentem maculis variaverit ortum
conditus in nubem medioque refugerit orbe,
suspecti tibi sint imbres; namque urget ab alto
arboribusque satisque Notus pecorique sinister.
Aut ubi sub lucem densa inter nubila sese
diversi rumpent radii, aut ubi pallida surget
Tithoni croceum linquens Aurora cubile,
heu! male tum mites defendet pampinus uvas,
tam multa in tectis crepitans salit horrida grando.
Hoc etiam, emenso cum iam decedit Olympo,
profuerit meminisse magis; nam saepe videmus
ipsius in vultu varios errare colores ;
caeruleus pluviam denuntiat, igneus euros;
sin maculae incipiunt rutilo immiscerier igni,
omnia tunc pariter vento nimbisque videbis
fervere : non illa quisquam me nocte per altum
ire neque a terra moneat convellere funem.
At si, cum referetque diem condetque relatum,
lucidus orbis erit, frustra terrebere nimbis
et claro silvas cernes Aquilone moveri.
Denique, quid vesper serus vehat, unde serenas
ventus agat nubes, quid cogitet umidus Auster,
sol tibi signa dabit… (I, vv. 438-463)
«Anche il sole, sia quando sorge sia quando si celerà tra le onde, offrirà segnali; sicurissimi sono i segni che accompagnano il sole, sia quelli che reca al mattino sia quelli <che
reca> al sorgere delle stelle. Quand’esso chiazzerà di macchie il suo primo levarsi e, celandosi in una nube, sparirà dal mezzo del cielo, aspéttati piogge; e infatti incalza dall’alto
Noto, funesto agli alberi e ai coltivi e al bestiame. O quando sul far del giorno tra fitte
nuvole i raggi eromperanno qua e là, o quando pallida sorgerà l’Aurora lasciando il croceo letto di Titono, ahimé! allora il pampino non riuscirà a proteggere le uve mature, in
così gran quantità sui tetti balza crepitando l’ispida grandine. Ancor più gioverà ricordare questo, quando ormai si allontana dal cielo che ha percorso in tutta la sua estensione;
spesso, infatti, vediamo sul suo stesso volto errare svariati colori: ceruleo, annuncia pioggia, rosso fuoco, <annuncia> i venti (lett. «gli euri», venti dell’est); se poi delle macchie
cominciano a mescolarsi col suo fuoco rutilante, allora vedrai ogni cosa agitarsi ugualmente per il vento e per i nembi: in quella notte nessuno potrebbe indurmi a procedere
per l’alto mare e a scioglier la fune da terra. Ma se, quando riporterà il giorno e dopo averlo portato poi lo celerà, il disco sarà limpido, senza ragione ti lascerai atterrire dai nembi
e vedrai le selve agitarsi sotto il soffio del sereno Aquilone. Insomma che cosa apporti la
sera sul tardi, da quale parte il vento sospinga nubi apportatrici di sereno, che cosa mediti il piovoso Austro, il sole te lo farà presagire».
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10) I pronostici da prendersi al sorgere e al tramontar del sole.
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11) Un’eruzione dell’Etna
… Quotiens Cyclopum effervere in agros
vidimus undantem ruptis fornacibus Aetnam,
flammarumque globos liquefactaque volvere saxa! (I, vv. 471-473)
«Quante volte vedemmo l’Etna traboccante dagli squarciati crateri riversarsi con un fiume
di lava nelle campagne dei Ciclopi e rovesciare vortici di fiamme e massi liquefatti!».
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11) Tra i fatti prodigiosi che parvero sinistramente accompagnare l’uccisione di Giulio
Cesare (15 marzo del 44 a.C. ) vi fu anche una violenta eruzione dell’Etna. Con l’espressione Cyclopum… in agros Virgilio indica le campagne siciliane che si stendono sui fianchi
e ai piedi dell’Etna, alludendo alla credenza che in esso vi fosse la fucina (cfr. fornacibus)
di Vulcano e che i ciclopi fossero gli aiutanti del dio.
12) Una rovinosa inondazione del Po
Proluit insano contorquens vertice silvas
fluviorum rex Eridanus, camposque per omnes
cum stabulis armenta tulit… (I, vv. 481-483)
«Inondò le selve schiantandole con la furia dei suoi gorghi l’Eridano (= il Po), il re dei
fiumi, e per tutte le campagne trascinò via con sé gli armenti insieme con le stalle».
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12) Anche questi versi sono tratti dal brano relativo ai fatti prodigiosi avvenuti poco prima
o poco dopo l’assassinio di Cesare.
13) Fulmini a ciel sereno e comete
Non alias caelo ceciderunt plura sereno
fulgura nec diri totiens arsere cometae (I, vv. 487-488)
«Mai in altre circostanze cadde un maggior numero di fulmini a ciel sereno né così frequentemente rifulsero minacciose comete».
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13) Cfr. la nota al passo precedente. Si riteneva che i fulmini a ciel sereno presagissero
avvenimenti di insolita gravità. Quanto alle comete, qui Virgilio probabilmente allude a
quella che dopo la morte di Cesare fu visibile nel cielo di Roma per sette notti consecutive e che (cfr. Svetonio, Divus Julius, 88) fu ritenuta l’anima di lui accolta in cielo. Nel presente contesto, invece, essa è interpretata come segno funesto. L’uso del plurale cometae ha
indotto alcuni commentatori a ritenere che in quel tempo siano state scambiate per comete anche delle meteoriti.
14) Incendi boschivi causati da imprudenza
… nam saepe incautis pastoribus excidit ignis,
qui, furtim pingui primum sub cortice tectus,
robora comprendit, frondesque elapsus in altas
ingentem caelo sonitum dedit; inde secutus
per ramos victor perque alta cacumina regnat,
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et totum involvit flammis nemus et ruit atram
ad caelum picea crassus caligine nubem,
praesertim si tempestas a vertice silvis
incubuit, glomeratque ferens incendia ventus. (II, vv. 303-311)
«… spesso, infatti, ad incauti pastori sfugge il fuoco, che, dapprima furtivamente covando sotto l’oleosa corteccia, investe il tronco e, serpeggiando verso il fogliame in alto,
manda al cielo un vasto crepitio; poi, propagandosi, regna vittorioso per i rami e le alte
cime, e avvolge con le sue fiamme tutto il bosco e, denso di una caligine del colore della
pece, scaglia al cielo una nera nube, specialmente se dall’alto si è scatenata sui boschi la
bufera, e il vento addensa e propaga gli incendi».
_______________
14) Virgilio raccomanda al contadino di non mescolare alle viti tronchi di olivo selvaggio,
facile esca per un incendio; quando questo sia divampato, le viti perdono dalla radice ogni
vigore e nemmeno a potarle possono ricrescere e verdeggiare come prima; ha il sopravvento l’oleastro infecondo dalle foglie amare.
15) La primavera dell’anno e la primavera del mondo
Ver adeo frondi nemorum, ver utile silvis;
vere tument terrae et genitalia semina poscunt.
Tum pater omnipotens fecundis imbribus Aether
coniugis in gremium laetae descendit, et omnes
magnus alit magno commixtus corpore fetus:
avia tum resonant avibus virgulta canoris
et Venerem certis repetunt armenta diebus:
parturit almus ager Zephyrique tepentibus auris
laxant arva sinus; superat tener omnibus umor:
inque novos soles audent se germina tuto
credere, nec metuit surgentes pampinus austros
aut actum caelo magnis aquilonibus imbrem,
sed trudit gemmas, et frondes explicat omnes.
Non alios prima crescentis origine mundi
inluxisse dies aliumve habuisse tenorem
crediderim: ver illud erat, ver magnus agebat
orbis et hibernis parcebant flatibus euri,
cum primae lucem pecudes hausere virumque
terrea progenies duris caput extulit arvis,
immissaeque ferae silvis et sidera caelo.
Nec res hunc tenerae possent perferre laborem,
si non tanta quies iret frigusque caloremque
inter, et exciperet caeli indulgentia terras. (II, vv. 323-345)
«La primavera, appunto, è propizia al fogliame dei boschi, è propizia alle selve; in primavera la terra è turgida e chiede semi germinatori. Allora il padre onnipotente, l’Etere, con
piogge fecondatrici discende nel grembo della sposa felice, e, grande, mescolandosi con il
gran corpo <di lei>, dà vita agli esseri tutti: allora le macchie fuor di mano risuonano degli
uccelli canori e gli armenti in quei determinati giorni cercano nuovamente l’accoppiamento: il terreno datore di vita si accinge a produrre e alle tiepide brezze di Zefiro i campi
dischiudono il grembo; in tutti abbonda tenera linfa: e con sicurezza i germi osano affi-
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darsi ai soli novelli, e il pampino non teme il sorgere degli austri o l’acquazzone spinto dal
cielo da violenti aquiloni, ma mette fuori le gemme e dispiega tutte le fronde. Sono propenso a credere che giorni non diversi splendessero alla prima origine del mondo nascente, che non diversa fosse la loro temperie: primavera era quella, primavera il grande universo viveva e gli euri si astenevano dai soffi procellosi, quando i primi animali bevvero
la luce e la terrestre progenie degli uomini sollevò il capo fuori dalle dure zolle, e furon
messe le fiere nei boschi e le stelle nel cielo. E invero le creature ancor tenere non potrebbero sopportare questo travaglio se tra il freddo (scil. dell’inverno) e il caldo (scil. dell’estate) non si frapponesse una così grande calma, e non favorisse la terra la clemenza del
clima».
_______________
15) Questa lirica celebrazione della primavera, che prende spunto dalla precettistica sulla
stagione più adatta per piantare la vite, ripresenta l’antico mito delle nozze fecondatrici
fra il Cielo e la Terra, la quale, rigogliosa di linfe vitali, appare al poeta come la madre
amorosa di innumerevoli creature.
16) Le rive del sinuoso Mincio orlate di canneti
… propter aquam, tardis ingens ubi flexibus errat
Mincius et tenera praetexit harundine ripas (III, vv. 14-15)
«… presso l’acqua, dove ampio il Mincio erra con i suoi lenti giri flessuosi e orla di teneri
canneti le rive».
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16) Viene qui evocato un paesaggio assai caro al poeta, che l’aveva frequentato negli anni
dell’infanzia e dell’adolescenza.
17) Corsi d’acqua dalle rive erbose
… saltibus in vacuis pascunt et plena secundum
flumina, muscus ubi et viridissima gramine ripa,
speluncaeque tegant et saxea procubet umbra. (III, vv. 143-145)
«… <gli allevatori> le fanno pascolare in spaziose praterie e lungo corsi d’acqua rigonfi,
dove cresca il muschio e più verde d’erba sia la riva, e delle grotte offrano riparo e dalle
rupi si proietti l’ombra».
_______________
17) Son qui descritte alcune delle cure che gli allevatori dedicano alle cavalle quando sono
gravide.
18) L’impeto del vento del nord
… qualis Hyperboreis Aquilo cum densus ab oris
incubuit, Scythiaeque hiemes atque arida differt
nubila: tum segetes altae campique natantes
lenibus horrescunt flabris summaeque sonorem
dant silvae, longique urgent ad litora fluctus:
ille volat, simul arva fuga, simul aequora verrens. (III, vv. 196-201)
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«… come l’Aquilone, quando violento si avventa dalle regioni iperboree e disperde le
tempeste della Scizia e le nuvole asciutte: allora le alte messi e i campi ondeggianti si
arruffano ai soffi benigni, e le cime dei boschi rumoreggiano, e lunghe si incalzano a riva
le ondate: ed esso vola, nella sua fuga spazzando nello stesso tempo i campi e le distese
marine».
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18) All’impeto del vento settentrionale è paragonata la corsa sfrenata del cavallo di quattro anni che, volando per le aperte pianure come fosse libero dalle redini, imprime appena le orme a fior dell’arena.
19) La violenza del maroso contro la scogliera
… fluctus uti medio coepit cum albescere ponto,
longius ex altoque sinum trahit, utque volutus
ad terras immane sonat per saxa, neque ipso
monte minor procumbit; at ima exaestuat unda
verticibus nigramque alte subiectat arenam. (III, vv. 237-241)
«… come un flutto, quando ha cominciato a biancheggiare in mezzo al mare, assai da lontano e dall’alto trascina la curvatura dell’onda e, rotolando verso terra, risuona terribilmente fra gli scogli, e si abbatte non inferiore <in altezza> alla scogliera stessa; il fondo dell’onda poi ribolle di vortici e scaglia dal basso in alto la nera sabbia».
_______________
19) La grandiosa similitudine, di derivazione omerica, del maroso che si avventa contro la
scogliera costituisce il termine di confronto con l’impeto del toro che, sconfitto dal suo
rivale nell’amore per una bella giovenca, «dopo aver ripreso le forze, muove all’assalto e
si slancia con gran furia contro il nemico ormai dimentico».
20) La rugiada dell’alba
At vero Zephyris cum laeta vocantibus aestas
in saltus utrumque gregem atque in pascua mittet,
Luciferi primo cum sidere frigida rura
carpamus, dum mane novum, dum gramina canent,
et ros in tenera pecori gratissimus herba. (III, vv. 322-326)
«Ma quando poi, all’invito degli zefiri, la gioiosa estate manderà l’uno e l’altro gregge (scil.
le capre e le pecore) nelle balze e nei pascoli, al primo spuntare della stella di Lucifero (scil.
all’alba) incamminiamoci per la fresca campagna, finché il mattino è giovane, finché i prati
biancheggiano <di brina> e la rugiada sulla tenera erba è più gradita al bestiame».
_______________
20) Dopo aver brevemente trattato del modo in cui si devono governare le pecore e le
capre, il poeta prende a descrivere la bella stagione estiva.
21) Il mutar delle condizioni atmosferiche nel corso della giornata
(in relazione al modo di governar pecore e capre)
Inde ubi quarta sitim caeli collegerit hora,
et cantu querulae rumpent arbusta cicadae,
ad puteos aut alta greges ad stagna iubebo
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currentem ilignis potare canalibus undam:
aestibus at mediis umbrosam exquirere vallem,
sicubi magna Iovis antiquo robore quercus
ingentes tendat ramos, aut sicubi nigrum
ilicibus crebris sacra nemus accubet umbra:
tum tenues dare rursus aquas et pascere rursus
solis ad occasum, cum frigidus aëra vesper
temperat, et saltus reficit iam roscida luna,
litoraque alcyonem resonant, acalanthida dumi. (III, vv. 327-338)
«Poi, quando la quarta ora del giorno (scil. fra le 9 e le 10) farà nascere la sete, e le stridule cicale con il loro canto faranno crepare gli alberi, ti esorterò a far bere alle greggi, presso i pozzi o gli stagni profondi, l’acqua corrente in canali di leccio: invece, nel pieno della
calura a cercare una valle ombrosa, se in qualche luogo una grande quercia di Giove dall’antico tronco protende enormi rami, o un bosco cupo di fitti lecci si stende con la sua
sacra ombra: allora <ti esorterò> a dar <loro: scil. a pecore e capre> di nuovo limpida acqua
e a farle pascolare di nuovo fino al tramonto del sole, quando la frescura della sera mitiga l’aria, e già la luna con la sua rugiada ristora le verdi balze, e i lidi risuonano dei gridi
dell’alcione e i cespugli del canto del cardellino».
_______________
21) Raccomandazioni del poeta per la difesa delle greggi dai pericoli stagionali.
22) Neve, ghiaccio e nebbia nelle lande desolate della Scizia
Illic clausa tenent stabulis armenta, neque ullae
aut herbae campo apparent aut arbore frondes;
sed iacet aggeribus niveis informis et alto
terra gelu late septemque adsurgit in ulnas.
Semper hiemps, semper spirantes frigora cauri;
tum Sol pallentis haut umquam discutit umbras,
nec cum invectus equis altum petit aethera nec cum
praecipitem Oceani rubro lavit aequore currum.
Concrescunt subitae currenti in flumine crustae,
undaque iam tergo ferratos sustinet orbis,
puppibus illa prius, patulis nunc hospita plaustris,
aeraque dissiliunt volgo vestesque rigescunt
indutae, caeduntque securibus umida vina,
et totae solidam in glaciem vertere lacunae,
stiriaque inpexis induruit horrida barbis.
Interea toto non setius aëre ninguit …
(III, 352-367)
«Lì (scil. nella Scizia) tengono chiusi nelle stalle gli armenti e non appaiono erbe nei campi
né foglie sugli alberi; ma la terra giace per largo raggio squallida per il cumulo della neve
e per l’alto ghiaccio e si eleva per l’altezza di sette cùbiti (scil. più di tre metri). Sempre vi
regna l’inverno, sempre vi soffia il maestrale apportatore di freddo; inoltre il sole giammai riesce a dissipare le pallide ombre (scil. la grigia caligine delle nebbie), né quando,
salito sul <suo> cocchio, si dirige verso l’alto cielo, né quando bagna il cocchio che scende
veloce nelle rosse acque dell’Oceano (scil. al tramonto). Sul corso d’acqua d’un tratto si
rapprendono incrostazioni di ghiaccio, e ben presto il fiume può sostenere sul suo dorso
le ruote ferrate (scil. dei carri), e quella stessa superficie che prima era ricetto alle navi ora
lo è agli ampi carri agricoli; e il bronzo dappertutto si spacca e le vesti diventano rigide
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dopo essere state indossate, e <gli Sciti> fanno a pezzi a colpi di scure il vino, che normalmente è liquido, e interi laghi si trasformano in duro ghiaccio, e le gocce irrigidite
induriscono sulle barbe arruffate. Frattanto, non diversamente per tutto il cielo nevica …».
_________________
22) Gli alberi scheletriti e privi di fogliame sono un elemento consueto nella tipologia del
locus horridus, ma la Scizia, nella descrizione dai tratti surrealistici e fiabeschi che ne fa
Virgilio, si configura nel complesso come un paesaggio pallido e spettrale, privo di connotati che si distinguano da una perenne e indifferenziata distesa di ghiaccio e neve. I suoi
abitanti, dalle barbe arruffate e ispide di ghiaccioli, come dice il poeta nel seguito del
brano, che qui non si riporta, con urla di gioia portano i cervi, che una valanga o la neve
improvvisamente accumulatasi, immobilizzandoli, ha reso per loro facile preda, nei propri antri scavati sotto terra e, simili ai giganteschi orchi delle fiabe, ammassano sul focolare e danno alle fiamme tronchi di quercia e interi olmi.
La frase aeraque dissiliunt del v. 363 allude forse a recipienti di bronzo che si spaccano
quando si gela il liquido in essi contenuto; quanto a non setius del v. 367, il poeta intende
dire che non diversa dalla morsa del gelo è l’oppressione della cappa nevosa del cielo.
23) Un limpido ruscello serpeggiante
… non qui per saxa volutus
purior electro campum petit amnis … (III, 521-522)
«… né il ruscello che, serpeggiando tra i sassi, più limpido dell’ambra scende al piano …».
___________________
23) Nel descrivere la moria del bestiame nel Norico, Virgilio a un certo punto sofferma la
propria affettuosa attenzione su un giovenco che, affranto «per la morte del fratello» con
lui aggiogato all’aratro e a sua volta colpito dal morbo che sta per sopraffarlo, non trova
conforto nella vista delle cose a lui prima gradite: «non possono attirare il suo animo né
le ombre degli alti boschi, né i morbidi prati, né il ruscello…».
Il termine electrum è qui impiegato nel significato, secondo alcuni, di «ambra gialla»,
secondo altri, di «elettro», una lega costituita da quattro parti d’oro e da una di argento,
di colore simile a quello dell’ambra.
24) Fonti, stagni e ruscelli
At liquidi fontes et stagna virentia musco
adsint et tenuis fugiens per gramina rivus… (IV, vv. 18-19)
«Ma presso vi siano limpide fonti e stagni verdeggianti di muschio e un ruscello che scorra furtivo e sottile tra l’erba …».
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24) È un particolare della precettistica relativa alla scelta del sito più consono a un alveare, che Virgilio desume, in parte, da Aristotele e Varrone.
25) Il sole dischiude il cielo con la luce estiva
… ubi pulsam hiemem Sol aureus egit
sub terras, caelumque aestiva luce reclusit … (IV, vv. 51-52)
«… quando l’aureo sole ha sospinto e cacciato l’inverno sotto terra, e con la luce dell’estate ha dischiuso il cielo»
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_______________
25) «… esse (scil. le api) percorrono balze e boschi e suggono fiori dagli splendidi colori e,
per bere, sfiorano leggere i corsi d’acqua».
26) Il freddo e il gelo dell’inverno
… et cum tristis hiems etiamnum frigore saxa
rumperet et glacie cursus frenaret aquarum… (IV, 135-136)
«… e quando il tetro inverno ancora spaccava le pietre col freddo e frenava il corso delle
acque col ghiaccio …»
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26) «… egli già spiccava gli steli del tenero giacinto, facendosi beffe dell’estate lenta a venire e dell’indugio degli zefiri». Virgilio sta parlando di un vecchio, oriundo di Còrico, città
della Cilicia, proprietario beato di un modesto campicello presso Taranto, che asserisce di
aver visto di persona e conosciuto come abile coltivatore e floricultore.
27) L’onda del mare scindendosi penetra negli anfratti di una grotta
… Est specus ingens
exesi latere in montis, quo plurima vento
cogitur inque sinus scindit sese unda reductos … (IV, vv. 418-420)
«Vi è, nel fianco di un monte corroso <dalle acque>, una vasta grotta, dove l’onda è spinta in massa dal vento e poi si divide penetrando negli anfratti appartati <di essa>».
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27) Viene descritto l’antro di Proteo, figlio di Oceano e Teti, dio marino cui sono noti il passato, il presente e il futuro. La grotta accoglie una gran quantità di onde che, diramandosi nei suoi numerosi anfratti, perdono la loro forza d’urto.
28) La canicola
Iam rapidus torrens sitientes Sirius Indos
ardebat caelo, et medium sol igneus orbem
hauserat; arebant herbae et cava flumina siccis
faucibus ad limum radii tepefacta coquebant … (IV, vv. 425-428)
«Già l’ardente Sirio (= la canicola) che brucia gli Indiani assetati avvampava nel cielo, e il
sole infuocato aveva compiuto metà del suo giro; inaridiva l’erba e i raggi disseccavano gli
incavati letti dei fiumi dalle foci asciutte, bollenti fino alla melma del fondo …».
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28) È il momento in cui Proteo dal mare fa ritorno alla propria spelonca, conducendo con
sé il suo branco di foche.
29) Gli uccelli cercano tra il fogliame riparo dalla sera
o dalla pioggia invernale
… quam multa in foliis avium se milia condunt,
vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber … (IV, vv. 473-474)
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«… come le migliaia di uccelli che si riparano tra le foglie <degli alberi>, quando la sera o
la pioggia invernale li spingono giù dai monti …».
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29) Così numerose sono le ombre dei morti che, commosse dal canto di Orfeo, salgono leggere dalle più profonde sedi dell’Erebo, affollandosi intorno a lui.
30) I fiumi infernali
… quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et noviens Styx interfusa coërcet. (IV, vv. 478-480)
«E tutt’attorno li (scil. i defunti) stringono il nero fango e gli squallidi canneti del Cocito e
l’orribile stagnante acqua dalla lenta corrente, e lo Stige, nove volte girando attorno, li rinserra».
_______________
30) In questi versi il poeta descrive le barriere che impediscono alle anime dei trapassati
ogni possibilità di fuga, e lo squallore del paesaggio infernale. Il limus niger, che anticipa
la “belletta negra” dell’Inferno dantesco (VII, 124), e la palus inamabilis dalla tarda unda
sono la perfetta antitesi delle “chiare, fresche e dolci acque” del locus amoenus: l’acqua è
lenta perché tutto è stagnante in questo mondo senza vita, dove le ombre hanno un’esistenza effimera. E la deformis harundo, che ben s’intona al fosco e squallido paesaggio
dell’Averno, è molto diversa dai teneri canneti con cui il Mincio orla le sue verdi rive nell’ecloga VII (vv. 12-13: hic viridis tenera praetexit harundine ripas / Mincius) o nella serena
visione proemiale (v. 15) del 3° libro delle Georgiche.
31) Le lande dell’estremo nord, coperte di ghiaccio e neve
Solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem
arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis
lustrabat raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens … (IV, vv. 517-520)
«Da solo percorreva le distese ghiacciate degli Iperborei e il nevoso Tanai e le terre mai
spoglie di neve proveniente dai monti Rifei, dolendosi di Euridice <a lui> rapita e dei vani
doni di Dite».
_______________
31) Orfeo, disperato per la definitiva perdita della sua sposa, si spinge fino alle più lontane regioni settentrionali, desideroso di solitudine e insensibile alle asprezze della natura
e del clima. Gli Iperborei erano, per gli antichi, i mitici abitanti dell’estremo nord; il Tanai
è l’attuale Don; Riphaei è il nome che veniva dato a monti favolosi, situati ai più remoti
confini della Sarmazia o della Scizia.
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Dall’ «Eneide»
1) I venti infuriano sul mare
Haec ubi dicta, cavum conversa cuspide montem
impulit in latus; ac venti, velut agmine facto,
qua data porta, ruunt et terras turbine perflant.
Incubuere mari, totumque a sedibus imis
una Eurusque Notusque ruunt creberque procellis
Africus, et vastos volvunt ad litora fluctus.
Insequitur clamorque virum stridorque rudentum.
Eripiunt subito nubes caelumque diemque
Teucrorum ex oculis: ponto nox incubat atra.
Intonuere poli et crebris micat ignibus aether,
praesentemque viris intentant omnia mortem. (I, vv. 81-91)
«Dopo aver proferito queste parole, <Eolo,> capovolta l’asta, con la cuspide percosse la
cava montagna nel fianco; e i venti, come in schiera serrata, si precipitano per dove è stato
offerto <loro> un varco e spazzano la terra con il loro turbinio. Si abbattono sul mare e
tutto dai più profondi abissi lo sconvolgono insieme Euro e Noto e Africo dai frequenti
fortunali e rotolano contro i lidi enormi ondate. Tengono loro dietro grida di uomini e stridore di sartie. D’un tratto le nubi sottraggono alla vista dei Teucri il cielo e la luce del giorno; sul mare si stende una tetra notte. Rimbomba di tuoni la volta celeste e l’aria lampeggia di fulmini frequenti, e ogni cosa minaccia agli uomini l’imminenza della morte».
_______________
1) La flotta di Enea al largo della Sicilia viene improvvisamente investita da una tempesta
scatenata da Eolo, il dio dei venti, a ciò sollecitato da Giunone, ostile all’eroe troiano e
desiderosa di impedirgli l’approdo in Italia stabilito dai fati.
2) Immutabilità dei fenomeni naturali
In freta dum fluvii current, dum montibus umbrae
lustrabunt convexa, polus dum sidera pascet… (I, vv. 607-608)
«Finché i fiumi correranno al mare, finché le ombre ai monti copriranno le pendici, finché
il cielo darà alimento agli astri …».
_______________
2) Enea promette a Didone, regina di Cartagine, come compenso dovuto alla pietà da lei
dimostrata verso gli esuli troiani e all’aiuto che generosamente e disinteressatamente ad
essi si appresta a fornire, una gloria perenne, garantita dall’immutabilità e durevolezza
dei fenomeni naturali evocati. Per quanto concerne la frase polus dum sidera pascet, si tenga
presente che secondo gli antichi le costellazioni si nutrivano dei vapori esalanti dalla terra
e dal mare nonché dalla componente ignea dell’aria.
3) Declina la notte e volgono al tramonto le stelle
… et iam nox umida caelo
praecipitat suadentque cadentia sidera somnos. (II, vv. 8-9)
176
«… e già l’umida notte rapidamente declina e le stelle volgenti al tramonto invitano al
sonno».
_______________
3) Con questo accenno all’ora tarda, nel quale è sottinteso il pensiero che, intorno, uomini
e cose hanno già trovato nel riposo notturno un ristoro ai travagli della vita, Enea sembra
volersi sottrarre al racconto della caduta di Troia e delle sue peripezie per terra e per mare,
ma in realtà, sebbene ciò comporti per lui il rinnovarsi del dolore, si accinge ad esaudire
il desiderio espresso dalla regina Didone.
4) La furia devastatrice di un incendio o di un torrente montano
… in segetem veluti cum flamma furentibus austris
incidit, aut rapidus montano flumine torrens
sternit agros, sternit sata laeta bovomque labores
praecipitesque trahit silvas; stupet inscius alto
accipiens sonitum saxi de vertice pastor. (II, vv. 304-308)
«… come quando, sotto l’infuriare dei venti (lett. «degli austri»), il fuoco assale improvvisamente le messi, o un torrente reso vorticoso dalle acque montane investe i campi, abbatte i rigogliosi seminati e le fatiche dei buoi e trascina via a precipizio le selve; trasalisce il
pastore che, ignorandone la causa, ode il frastuono dalla sommità di una rupe».
_______________
4) Enea, destatosi di colpo e salito sul tetto della casa, ode in lontananza il crepitio delle
fiamme che stanno divorando la città di Troia, occupata a tradimento dai Greci.
5) Lottan fra loro i venti ed è sconvolto il mare
… adversi rupto ceu quondam turbine venti
confligunt, Zephyrusque Notusque et laetus eois
Eurus equis; stridunt silvae saevitque tridenti
spumeus atque imo Nereus ciet aequora fundo (II, vv. 416-419)
«… come talora, scatenatasi una bufera, lottano fra loro venti contrari, Zefiro e Noto ed
Euro lieto per i <suoi> cavalli orientali; fischiano le selve e lo spumeggiante Nereo infierisce col tridente e dal fondo degli abissi sconvolge le distese marine».
_______________
5) Richiama al poeta l’immagine del cozzo di venti contrari la violenta zuffa divampata fra
il gruppo dei Troiani capeggiati da Enea e il drappello di Greci cui essi hanno strappato
Cassandra, già loro preda. Nereo è una divinità marina, figlio di Oceano e Gea, sposo dell’oceanina Doride e padre delle Nereidi.
6) L’impeto travolgente di un fiume in piena
Non sic, aggeribus ruptis cum spumeus amnis
exiit oppositasque evicit gurgite moles,
fertur in arva furens cumulo camposque per omnis
cum stabulis armenta trahit… (II, vv. 496-499)
«Non così (scil. non con lo stesso impeto), quando, rotti gli argini, un fiume straripa spumeggiante e con i suoi gorghi abbatte gli opposti ripari, irrompe nei campi infuriando con
la piena delle sue acque e per tutte le piane trascina via gli armenti insieme con le stalle …».
177
_______________
6) Alla violenza del fiume in piena viene paragonato l’irrompere dei Greci attraverso la
porta del palazzo di Priamo, finalmente abbattuta dai fitti colpi di ariete; fra gli assalitori
si distingue Pirro, il figlio di Achille, spinto da una furiosa smania di strage.
7) Tempesta sul mare
Postquam altum tenuere rates nec iam amplius ullae
apparent terrae, caelum undique et undique pontus,
tum mihi caeruleus supra caput adstitit imber
noctem hiememque ferens, et inhorruit unda tenebris.
Continuo venti volvont mare magnaque surgunt
aequora, dispersi iactamur gurgite vasto;
involvere diem nimbi et nox umida caelum
abstulit, ingeminant abruptis nubibus ignes (III, vv. 192-199)
«Quando le navi ebbero preso il largo e non si vedeva più alcuna terra, cielo da ogni parte
e da ogni parte mare, allora fosco sopra il mio capo si fermò un livido nembo recante notte
e burrasca, e l’onda rabbrividì nelle tenebre. Subito dopo raffiche di vento sconvolgono il
mare e le acque si gonfiano, enormi; siamo sballottati qua e là dalle onde burrascose; i
nembi hanno occultato il giorno e un’umida notte ha fatto sparire il cielo, dalle squarciate nuvole raddoppiano le folgori».
_______________
7) Un’improvvisa tempesta investe la flotta di Enea salpata da Creta dopo che l’eroe ha
ricevuto dai Penati, apparsigli in sogno, la rivelazione che non è quell’isola, bensì
l’Esperia, la terra a lui promessa dai fati.
8) Il sole tramonta e scendono le ombre
Sol ruit interea et montes umbrantur opaci (III, v. 508)
«Intanto, il sole rapidamente declina e i monti si coprono d’ombra facendosi scuri».
_______________
8) Enea e i suoi compagni, giunti navigando in prossimità dei monti Cerauni, rilievi della
costa epirota, approdano col proposito di trascorrere la notte distesi sul lido, all’asciutto.
9) Notte stellata
Necdum orbem medium Nox Horis acta subibat:
haud segnis strato surgit Palinurus et omnis
explorat ventos atque auribus aëra captat:
sidera cuncta notat tacito labentia caelo,
Arcturum pluviasque Hyadas geminosque Triones,
armatumque auro circumspicit Oriona (III, vv. 512-517)
«E non ancora la notte, sospinta dalle Ore, era giunta a metà del suo corso: alacre,
Palinuro si alza dal <suo> giaciglio ed esamina tutti i venti e con l’orecchio cerca di cogliere le vibrazioni dell’aria: osserva tutte le costellazioni trascorrenti nel cielo silente, Arturo
e le piovose Iadi e le due Orse, e con lo sguardo abbraccia Orione armato d’oro».
_______________
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9) Mentre i Troiani sono ancora immersi nel sonno, Palinuro, il timoniere della nave di
Enea, levatosi, scruta il cielo stellato e, accertatosi delle favorevoli condizioni atmosferiche, segnala che è il momento di salpare. Arcturus è la stella più fulgida della costellazione di Bootes, vicino alla coda dell’Orsa Maggiore. Le Iadi sono un gruppo di stelle della
costellazione del Toro: sorgono in maggio e si riteneva che apportassero pioggia. Trio
significa propriamente «bue da lavoro» e allude alla figura delle due costellazioni chiamate anche “Grande Carro” e “Piccolo Carro”. L’espressione armatum auro si riferisce alla
cintura e alla spada del cacciatore Orione che, nel catasterismo subìto da questo personaggio mitologico, sono rappresentate da due file di stelle.
10) Rosseggia l’aurora
Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis ... (III, v. 521)
«E già, messe in fuga le stelle, rosseggiava l’Aurora …».
_______________
10) Sorge l’Aurora, quando Enea e i suoi scorgono in lontananza alture nell’ombra e, bassa
a fior d’acqua, la costa dell’Italia.
11) L’Etna in eruzione
… horrificis iuxta tonat Aetna ruinis
interdumque atram prorumpit ad aethera nubem
turbine fumantem piceo et candente favilla
attollitque globos flammarum et sidera lambit,
interdum scopulos avolsaque viscera montis
erigit eructans liquefactaque saxa sub auras
cum gemitu glomerat fundoque exaestuat imo.
Fama est Enceladi semustum fulmine corpus
urgueri mole hac ingentemque insuper Aetnam
impositam ruptis flammam exspirare caminis;
et fessum quotiens mutet latus, intremere omnem
murmure Trinacriam et caelum subtexere fumo. (III, vv. 571-582)
«… lì vicino l’Etna rimbomba di crolli spaventosi e talvolta lancia verso il cielo una nera
nuvola fumante di un turbine color della pece e di faville incandescenti e solleva vortici di
fiamme e lambisce le stelle, talvolta eruttando scaglia in alto macigni e le viscere del
monte strappate via e addensa e lancia in aria con un rumore sordo rocce liquefatte (scil.
lava) e ribolle dai più profondi abissi. È fama che da questa mole sia schiacciato il corpo
di Encelado semiarso dal fulmine e che l’immenso Etna posto sopra di lui dagli squarciati crateri soffi fuori fiamma; e che ogniqualvolta egli cambia il fianco spossato tutta la
Trinacria tremi rimbombando e dal di sotto col fumo oscuri il cielo».
_______________
11) Enea e i suoi compagni approdano ai lidi dei Ciclopi. Encelado, uno dei Giganti che
osarono lottare contro gli dèi dell’Olimpo, fu da Giove colpito con il fulmine e sepolto vivo
sotto l’Etna.
12) Una notte nuvolosa e non illuminata dalla luna
Noctem illam tecti silvis immania monstra
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perferimus nec quae sonitum det causa videmus.
Nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aethra
siderea polus, obscuro sed nubila caelo,
et lunam in nimbo nox intempesta tenebat. (III, vv. 583-587)
«Quella notte, protetti dai boschi, sopportiamo quegli spaventosi prodigi e non vediamo
quale causa produca quel fragore. Infatti, non v’era fulgore di stelle né la volta celeste
mostrava il brillio del firmamento, ma <solo> nuvole v’erano nel fosco cielo, e la notte profonda teneva nascosta in un nembo la luna».
_______________
12) Enea e i suoi compagni, approdati nella terra dei Ciclopi, nel buio della notte non possono rendersi conto che i bagliori che vedono e il fragore che odono sono causati dall’attività eruttiva di un vulcano.
13) Sorge il giorno
Postera iamque dies primo surgebat Eoo
umentemque Aurora polo dimoverat umbram … (III, vv. 588-589)
«E già il giorno seguente sorgeva al primo apparir di Lucifero e l’Aurora aveva rimosso
dal cielo l’umida ombra …».
_______________
13) All’alba si fa incontro ai Troiani il greco Achemenide, che Virgilio rappresenta come un
compagno di Ulisse per dimenticanza abbandonato dall’eroe nella terra dei mostruosi
Ciclopi.
14) Sorge il giorno
Postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram… (IV, vv. 6-7)
«L’aurora del giorno seguente rischiarava con la luce del sole le terre e aveva rimosso dal
cielo l’umida ombra …».
_______________
14) Sul far del giorno Didone, regina di Cartagine, confida alla sorella Anna il nascente sentimento d’amore per l’eroe troiano approdato alla sua terra. Febo è un epiteto di Apollo, il
dio del sole.
15) La luna si fa oscura e tramontano le stelle
Post ubi digressi lumenque obscura vicissim
luna premit suadentque cadentia sidera somnos … (IV, vv. 80-81)
«Poi, dopo che si sono separati (scil. Didone ed Enea) e a sua volta la luna, fattasi oscura,
nasconde la sua luce e le stelle, volgendo al tramonto, invitano al sonno …».
_______________
15) Al termine del banchetto, protrattosi per gran parte della notte, dopo che Enea si è ritirato, Didone, «sentendosi sola, si affligge nella casa vuota, e si adagia sul letto tricliniare
lasciato libero <dall’eroe troiano> ».
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16) Temporale improvviso
Interea magno misceri murmure caelum
incipit, insequitur commixta grandine nimbus (IV, vv. 160-161)
«Intanto il cielo comincia a turbarsi con grave rimbombo, e subito tien dietro uno scroscio
di pioggia misto a grandine …».
_______________
16) Un temporale, scatenatosi all’improvviso, disperde i cavalieri partecipanti alla caccia.
Didone ed Enea, rifugiatisi nella stessa spelonca, vi celebrano il loro connubio, a cui lampi
e tuoni e l’ululato delle ninfe sugli alti monti presagiscono un esito tragico.
17) Una robusta quercia resiste alle raffiche dei venti
Ac velut annoso validam cum robore quercum
Alpini Boreae nunc hinc, nunc flatibus illinc
eruere inter se certant; it stridor et altae
consternunt terram concusso stipite frondes;
ipsa haeret scopulis et quantum vertice ad auras
aetherias, tantum radicem in Tartara tendit … (IV, vv. 441-446)
«E come quando i venti del nord provenienti dalle Alpi, soffiando ora da un lato ora dall’altro, fanno tra loro a gara a svellere una quercia robusta per l’annoso fusto; continuo è
il sibilo e, per lo scuotimento del tronco, le foglie coprono il terreno formando un alto strato; essa sta abbarbicata alle rocce e quanto con la cima punta verso l’alto cielo di tanto
affonda le radici nelle profondità della terra… ».
_______________
17) Alla resistenza che la vecchia quercia oppone alle raffiche dei venti è paragonata l’inflessibilità con cui Enea, ormai deciso ad abbandonare Didone, respinge le sue insistenti
preghiere, a lui riportate da Anna, sorella della regina, perché, almeno, si trattenga ancora un poco.
18) Quiete notturna
Nox erat et placidum carpebant fessa soporem
corpora per terras silvaeque et saeva quierant
aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,
cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,
quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis
rura tenent, somno positae sub nocte silenti. (IV, vv. 522-527)
«Era notte e per tutta la terra stanchi i corpi godevano un placido sopore, quiete eran le
selve e le acque dei mari prima agitate, quando le stelle volgono a metà del loro corso,
quando tace ogni campo, gli animali terrestri e i variopinti uccelli, e quelli che frequentano le distese dei limpidi laghi e quelli che dimorano nelle piane irte di cespugli spinosi,
immersi nel sonno nella notte silente».
_______________
18) Nel silenzio della notte, mentre tutti gli esseri viventi sono immersi in un placido
sonno, Didone, assillata da propositi suicidi, vive una veglia angosciosa.
181
19) Aurora
Et iam prima novo spargebat lumine terras
Tithoni croceum linquens Aurora cubile. (IV, vv. 584-585)
«E già la nascente Aurora, lasciando il croceo letto di Titono, illuminava di nuova luce la
terra».
_______________
19) Ai primi albori, l’infelice Didone vede le navi troiane allontanarsi veloci a vele spiegate e, in preda alla disperazione, rimugina vani propositi di vendetta.
20) Un livido nembo preannuncia tempesta
Ut pelagus tenuere rates nec iam amplius ulla
occurrit tellus, maria undique et undique caelum:
olli caeruleus supra caput adstitit imber
noctem hiememque ferens et inhorruit unda tenebris. (V, vv. 8-11)
«Quando le navi ebbero raggiunto il mare aperto e non compariva più alcuna terra, mari
da ogni parte e da ogni parte cielo, sopra il suo (scil. di Enea) capo si fermò un livido
nembo recante notte e burrasca e l’onda rabbrividì nelle tenebre».
_______________
20) Mentre la flotta troiana, salpata da Cartagine, si trova già in alto mare, all’improvviso
un nembo ricopre la volta del cielo e livido minaccia tempesta.
21) L’imperversare dei venti sul mare
Mutati transversa fremunt et vespere ab atro
consurgunt venti atque in nubem cogitur aër … (V, vv. 20-21)
«I venti, mutati, sibilando soffiano di traverso e si vanno levando dal fosco occidente e l’aria si addensa formando una nube».
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21) I venti che prima soffiavano da nord mutano direzione e fischiando imperversano sul
mare, investendo la flotta di Enea.
22) L’arcobaleno
… ceu nubibus arcus
mille iacit varios adverso sole colores. (V, vv. 88-89)
«… come l’arcobaleno proietta sulle nubi, per il sole avverso, mille diversi colori».
_______________
22) Ai variopinti colori dell’arcobaleno sono paragonati i rutilanti bagliori che, sbucato dal
fondo del tumulo di Anchise, padre di Enea, manda un serpente al quale «chiazze di un
azzurro cupo tingono il dorso e un fulgore variegato d’oro accende le squame».
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23) Uno scoglio ora sommerso dalle onde, ora affiorante dal mare
Est procul in pelago saxum spumantia contra
litora, quod tumidis submersum tunditur olim
fluctibus, hiberni condunt ubi sidera cori;
tranquillo silet immotaque attollitur unda
campus et apricis statio gratissima mergis. (V, vv. 124-128)
«C’è nel mare aperto, a una certa distanza, di fronte agli spumeggianti lidi uno scoglio, che
talvolta è sommerso e battuto dai flutti rigonfi, quando il maestrale d’inverno nasconde le
stelle (scil. con una livida nuvolaglia); in tempo di bonaccia tace e ne affiora sull’onda
immota una spianata, ed è sosta graditissima agli smerghi che amano il sole».
_______________
23) Su questo scoglio Enea fa piantare un fronzuto leccio che nella gara delle navi (uno dei
giochi funebri in onore di Anchise) costituisca la meta, cioè il segnale, paragonabile all’attuale «boa», intorno al quale i naviganti dovranno virare.
24) Grandinata
… quam multa grandine nimbi
culminibus crepitant… (V, vv. 458-459)
«… con quanta grandine gli scrosci crepitano sui tetti …»
_______________
24) «… con così fitti colpi l’eroe (scil. Entello) continuamente con l’una e l’altra mano percuote e fa girare Darete», il suo antagonista nella gara del «cesto», una sorta di pugilato.
25) Stelle cadenti
… caelo ceu saepe refixa
transcurrunt crinemque volantia sidera ducunt. (V, vv. 527-528)
«… come spesso, staccatesi dal cielo, lo attraversano e si traggon dietro la chioma le stelle cadenti».
_______________
25) La similitudine si riferisce alla freccia scagliata da Aceste, che «volando prese fuoco fra
le limpide nubi e tracciò nel cielo un sentiero fiammeggiante e sparì consumandosi fra i
venti impalpabili».
26) Temporale improvviso
… effusis imbribus atra
tempestas sine more furit tonitruque tremescunt
ardua terrarum et campi: ruit aethere toto
turbidus imber aqua densisque nigerrimus austris … (V, vv. 693-696)
«… tra rovesci di pioggia una fosca tempesta senza misura imperversa e per il rombo dei
tuoni incominciano a tremare monti e piane: precipita da tutto il cielo un temporale furioso per la massa d’acqua e nerissimo per le continue e impetuose raffiche dei venti …».
183
_______________
26) L’improvviso temporale è inviato da Giove, al quale Enea con accorate preghiere ha
chiesto un intervento provvidenziale, per spegnere l’incendio che alle navi hanno appiccato le donne troiane, stanche delle peripezie per mare e desiderose di fermarsi ad Erice.
27) Le mefitiche esalazioni della grotta vicina al lago d’Averno
Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu,
scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris,
quam super haud ullae poterant impune volantes
tendere iter pinnis: talis sese halitus atris
faucibus effundens supera ad convexa ferebat. (VI, vv. 237-241)
«C’era una grotta profonda e orrenda per l’ampia voragine, sassosa, protetta da un cupo
lago e dalle fitte ombre dei boschi, sopra la quale nessun volatile poteva impunemente
avventurarsi ad ali spiegate: tali esalazioni dalle oscure fauci sprigionandosi salivano
verso la volta celeste».
_______________
27) Enea e la Sibilla, compiuti i riti prescritti, attraverso la spelonca che si apre nei pressi
del lago d’Averno si apprestano a scendere nel sotterraneo regno dei morti.
28) Il camminar nei boschi di notte all’incerto chiarore della luna
… quale per incertam lunam sub luce maligna
est iter in silvis, ubi caelum condidit umbra
Iuppiter et rebus nox abstulit atra colorem … (VI, vv. 270-272)
«… come, se la luna è velata, sotto una luce fioca si cammina nei boschi, quando Giove ha
rabbuiato il cielo e la nera notte ha tolto alle cose il loro colore …»
_______________
28) «… così <la Sibilla ed Enea> procedevano avvolti dall’oscurità nella notte solitaria
attraverso la tenebra e le vuote case di Dite (= Plutone) e gli impalpabili regni».
29) Come d’autunno si levan le foglie…
… quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto
quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus
trans pontum fugat et terris immittit apricis … (VI, vv. 309-312)
«… quante sono le foglie che nei boschi ai primi freddi dell’autunno staccatesi <dai rami>
cadono <al suolo>, o quanti sono gli uccelli che dall’alto mare si adunano a terra, quando
la fredda stagione li fa fuggire al di là del mare e li spinge verso regioni solatie»
_______________
29) …così numerose sono le anime dei defunti che si accalcano sulle rive del fiume
Acheronte per essere traghettate da Caronte sull’altra sponda e avviarsi alla loro eterna
dimora.
184
30) Le brezze della sera e il chiarore della luna
Adspirant aurae in noctem nec candida cursus
luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus. (VII, vv. 8-9)
«Spirano favorevoli le brezze verso sera, né la luna lucente ostacola la rotta, il mare
risplende sotto il tremulo chiarore».
_______________
30) Compiute le esequie della propria nutrice Caieta, Enea salpa dal porto che da allora
porterà il nome di lei (oggi Gaeta).
31) Calma di vento all’aurora
Iamque rubescebat radiis mare et aethere ab alto
Aurora in roseis fulgebat lutea bigis:
cum venti posuere omnisque repente resedit
flatus et in lento luctantur marmore tonsae. (VII, vv. 25-28)
«E già il mare cominciava a rosseggiare sotto i raggi <del sole> e dall’alto del cielo l’Aurora
rifulgeva dorata sulla sua rosea biga: quando posarono i venti e d’un tratto cadde ogni
alito e i remi fendevano con fatica l’immobile distesa».
_______________
31) All’aurora smettono all’improvviso di spirare quei venti che il dio Nettuno aveva
suscitato per spingere le navi di Enea lontano dai pericolosi lidi della maga Circe.
32) Il mare s’ ingrossa
… fluctus uti primo coepit cum albescere ponto,
paulatim sese tollit mare et altius undas
erigit, inde imo consurgit ad aethera fundo … (VII, vv. 528-530)
«… come, quando il flutto ha cominciato a biancheggiare sulla superficie marina, a poco a
poco il mare si solleva e più in alto erge le onde, quindi dal più profondo abisso s’innalza
verso il cielo».
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32) Termine di confronto è la lotta che, fomentata dalla Furia Aletto su richiesta della dea
Giunone, divampa accanita fra i rustici indigeni del Lazio e i giovani troiani accorsi in
aiuto di Ascanio, figlio di Enea.
33) Rupe marina immota contro i marosi
Ille velut pelagi rupes immota resistit,
ut pelagi rupes magno veniente fragore,
quae sese multis circum latrantibus undis
mole tenet; scopuli nequiquam et spumea circum
saxa fremunt laterique inlisa refunditur alga. (VII, vv. 586-590)
«Egli (scil. il re Latino) come immota rupe di mare aperto resiste, come al frangersi di una
gigantesca ondata rupe di mare aperto, che si regge nella sua mole, mentre intorno le urla-
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no in gran numero i marosi; invano mugghiano gli scogli e, all’ingiro, le rocce coperte di
schiuma, e l’alga nell’urto rifluisce ai suoi fianchi».
_______________
33) Come la rupe marina che resiste alla violenza degli elementi, il re Latino sulle prime
si oppone alle pressanti richieste che da più parti gli vengono rivolte di scendere in guerra contro i Troiani.
34) La quiete notturna
Nox erat et terras animalia fessa per omnis
alituum pecudumque genus sopor altus habebat … (VIII, vv. 26-27)
«Era notte e per ogni dove un sonno profondo soggiogava gli esseri viventi spossati dalla
stanchezza, le stirpi dei volatili e degli animali terrestri …»
_______________
34) «… allorché il padre Enea, turbato nel cuore dalla funesta guerra, sulla riva sotto la
fredda volta del cielo si pose a giacere e concesse alle membra un tardivo riposo».
35) Il fulmine
… haut secus atque olim tonitru cum rupta corusco
ignea rima micans percurrit lumine nimbos. (VIII, vv. 391-392)
«… proprio come quando, erompendo da un corrusco tuono, una striscia di fuoco (scil. un
fulmine) balenando attraversa con il suo fulgore i nembi».
_______________
35) Termine di confronto è la fiamma amorosa che percorre le membra di Vulcano quando Venere, la sua sposa, con le sue candide braccia lo cinge in un tenero amplesso, ricorrendo alle sue arti seduttive per ottenere dal dio nuove splendide armi per Enea.
36) La stella del mattino
… qualis ubi Oceani perfusus Lucifer unda,
quem Venus ante alios astrorum diligit ignis,
extulit os sacrum caelo tenebrasque resolvit. (VIII, vv. 589-591)
«… come quando, rorido dell’acqua di Oceano, Lucifero, che Venere predilige tra tutti gli
astri fiammanti, ha sollevato il sacro volto nel cielo e dissolto le tenebre».
_______________
36) Alla fulgida stella del mattino è paragonato il giovane Pallante, figlio del re arcade
Evandro, «splendido nel suo mantello e nelle sue armi policrome».
37) Nube rosseggiante per i raggi del sole
… qualis cum caerula nubes
solis inardescit radiis longeque refulget. (VIII, vv. 622-623)
«… come quando una cerulea nube diventa rossa come il fuoco ai raggi del sole e rifulge
da lontano».
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_______________
37) Simile alla nube rosseggiante è la bronzea e imponente corazza «dai riflessi di sangue»
fabbricata da Vulcano e donata da Venere al figlio Enea insieme con le altre splendide
armi forgiate dal dio.
38) L’aurora
Et iam prima novo spargebat lumine terras
Tithoni croceum linquens Aurora cubile:
iam sole infuso, iam rebus luce retectis… (IX, vv. 459-461)
«E già la nascente Aurora, lasciando il croceo letto di Titono, illuminava di nuova luce la
terra: sorto già il sole, disvelate già dalla luce le cose… »
_______________
38) «… Turno desta alle armi i suoi uomini, cinto d’armi lui stesso».
39) Scrosci di pioggia e grandine
… quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis
verberat imber humum, quam multa grandine nimbi
in vada praecipitant, cum Iuppiter horridus austris
torquet aquosam hiemem et caelo cava nubila rumpit … (IX, vv. 668-671)
«… con quanta intensità giungendo da occidente sotto i piovosi Capretti la pioggia sferza
la terra, con quanta grandine gli scrosci si rovesciano in mare, quando Giove, rabbuffato,
con gli austri avventa un turbine di pioggia e su nel cielo percuote e squarcia cavi ammassi di nubi».
_______________
39) Agli scrosci della pioggia e della grandine è paragonata la gragnuola di frecce e proiettili che dall’alto delle mura i Troiani scagliano contro gli assalitori. I Capretti sono due stelle della costellazione dell’Auriga, il cui sorgere poco dopo l’equinozio di autunno segna
un periodo di forti perturbazioni atmosferiche.
40) I primi aliti di vento
… ceu flamina prima
cum deprensa fremunt silvis et caeca volutant
murmura, venturos nautis prodentia ventos (X, vv. 97-99)
«… come quando fremono i primi aliti di vento impigliati nel fitto dei boschi e fanno udire
in giro sordi brontolii, forieri ai naviganti di imminente tempesta»
_______________
40) … così mormoravano tutti gli abitatori del cielo accogliendo con diverso atteggiamento le argomentazioni con cui Giunone aveva cercato di replicare al discorso di Venere in
favore di Enea e dei Troiani.
41) Le comete e la stella Sirio
… non secus ac liquida si quando nocte cometae
sanguinei lugubre rubent aut Sirius ardor;
187
ille sitim morbosque ferens mortalibus aegris
nascitur et laevo contristat lumine caelum (X, vv. 272-275)
«… non diversamente da come talvolta nella limpida notte luttuosamente rosseggiano
comete del colore del sangue o la vampa di Sirio; essa sorge recando agli infelici mortali
sete e morbi e contrista il cielo con una luce sinistra»
_______________
41) «… arde l’elmo sul capo <di Enea> e, fra i pennacchi, dal vertice si sprigiona una fiamma e l’aureo scudo sprizza ampi bagliori di fuoco». Sirio è una stella della costellazione
del Cane, che gli antichi ritenevano apportatrice di siccità e pestilenze.
42) La zuffa di venti contrari
… Magno discordes aethere venti
proelia ceu tollunt animis et viribus aequis
(non ipsi inter se, non nubila, non mare cedit;
anceps pugna diu, stant obnixa omnia contra) … (X, vv. 356-359)
«… Come nel vasto cielo venti discordi si danno battaglia con pari impeto e pari forze
(non cedono essi l’uno all’altro, non si ritraggon le nubi né il mare; a lungo incerta è la
lotta, <poiché> tutti gli elementi contrastano fra loro ostinatamente) …»
_______________
42) «… non diversamente le troiane schiere e le schiere latine corrono allo scontro; si sta
piede contro piede, uomo contro uomo, in mischia serrata».
43) Uno scoglio immoto sotto l’urto dei marosi
… velut rupes, vastum quae prodit in aequor,
obvia ventorum furiis expostaque ponto,
vim cunctam atque minas perfert caelique marisque,
ipsa immota manens. (X, vv. 693-696)
«… come una rupe, che sporge verso l’immensa distesa delle acque, esposta alle furie dei
venti e soggetta ai marosi, sostiene tutta la violenza e le minacce del cielo e del mare,
restando essa immota».
_______________
43) Allo scoglio che immoto resiste alla furia dei venti e dei flutti è paragonato Mezenzio,
re degli Etruschi di Cere, alleato di Turno, che, senza cedere di un passo, impavidamente
resiste all’assalto dei nemici, scagliatisi in massa contro di lui.
44) Grandinata
Ac velut effusa si quando grandine nimbi
praecipitant, omnis campis diffugit arator
omnis et agricola et tuta latet arce viator,
aut amnis ripis aut alti fornice saxi,
dum pluvit in terris, ut possint sole reducto
exercere diem … (X, vv. 803-808)
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«E come, se talvolta con un rovescio di grandine si abbattono i nembi, fugge qua e là dai
campi ogni aratore ed ogni contadino e il viandante si tiene al coperto in un sicuro riparo, o lungo le sponde di un fiume o sotto l’arcata di un’alta rupe, finché piove sulla terra,
perché, al ritorno del sole, possa seguitare la giornata …»
_______________
44) «… così, benché investito da ogni lato da strali, Enea sopporta la tempesta di guerra,
finché completamente smetta di tuonare».
45) Un torrente impetuoso ostacolato da massi
… ceu saxa morantur
cum rapidos amnis, fit clauso gurgite murmur
vicinaeque fremunt ripae crepitantibus undis … (XI, vv. 297-299)
«… come, quando dei massi rallentano impetuosi torrenti, si produce nel chiuso gorgo un
rimbombo e rumoreggiano le vicine rive allo scrosciare delle onde»
_______________
45) «un diverso fremito percorse le labbra degli Ausonidi», turbatisi nell’udire le parole di
Diomede riferite dall’ambasciatore latino Venulo.
46) Flusso e riflusso del mare
… qualis ubi alterno procurrens gurgite pontus
nunc ruit ad terras scopulosque superiacit unda
spumeus extremamque sinu perfundit harenam,
nunc rapidus retro atque aestu revoluta resorbens
saxa fugit litusque vado labente relinquit … (XI, vv. 624-628)
«… come quando il mare, correndo avanti con alterno flusso, ora si precipita verso terra e
col frangente passa sopra gli scogli spumeggiando e <poi> con la sua curvatura bagna l’estremo lembo della spiaggia, ora rifluisce vorticando e risucchiando nella risacca ciottoli
rivoltolati, e abbandona il lido venendo meno l’onda …»
_______________
46) … così per due volte gli Etruschi ricacciano i Rutuli in fuga verso le mura, per due
volte respinti si volgono a guardare proteggendosi con le armi le spalle.
47) I cavalli del Sole
Postera vix summos spargebat lumine montis
orta dies, cum primum alto se gurgite tollunt
Solis equi lucemque elatis naribus efflant. (XII, vv. 113-115)
«Il nuovo giorno, sorgendo, illuminava appena le cime dei monti, quando dal profondo
gorgo emergono i cavalli del Sole e spirano la luce con le nari levate in alto».
_______________
47) Allo spuntar del giorno si fanno i preparativi per il duello fra Enea e Turno, che deciderà l’esito della guerra.
189
48) Nembo temporalesco
Qualis ubi ad terras abrupto sidere nimbus
it mare per medium (miseris heu praescia longe
horrescunt corda agricolis: dabit ille ruinas
arboribus stragemque satis, ruet omnia late);
ante volant sonitumque ferunt ad litora venti … (XII, 451-455)
«Quale un nembo, quando, scoppiato un temporale, attraverso il mare si dirige verso terra
(da lontano agli sventurati contadini rabbrividisce il cuore ahimé presago: esso porterà
rovina agli alberi e devastazione ai seminati, per ampio raggio abbatterà ogni cosa); gli
volano innanzi i venti e ne recano il fragore ai lidi …»
_______________
48) «… tale il comandante reteo (scil. Enea) guida la sua schiera contro i nemici». L’epiteto
Rhoeteius deriva dall’omonimo promontorio della Troade.
49) Incendi boschivi e torrenti montani
Ac velut immissi diversis partibus ignes
arentem in silvam et virgulta sonantia lauro,
aut ubi decursu rapido de montibus altis
dant sonitum spumosi amnes et in aequora currunt
quisque suum populatus iter… (XII, 521-525)
«E come fuochi appiccati in punti diversi ad un’arida selva e a cespugli crepitanti di alloro, o quando con travolgente discesa da alti monti spumeggianti torrenti rumoreggiano e
si rovesciano verso il piano, devastando ciascuno il suo percorso …»
_______________
49) «… non più fiaccamente entrambi, Enea e Turno, si lanciano nella mischia; ora, ora
dentro ribolle l’ira, ne scoppiano i petti che non sanno darsi per vinti, ora con tutte le forze
si corre a ferire».
50) Qual masso che dal vertice…
Ac veluti montis saxum de vertice praeceps
cum ruit avolsum vento, seu turbidus imber
proluit aut annis solvit sublapsa vetustas;
fertur in abruptum magno mons improbus actu
exsultatque solo, silvas armenta virosque
involvens secum … (XII, 684-689)
«E come un masso precipitando dalla cima di un monte, quando frana divelto dal vento,
o dilavandolo lo scalza la pioggia scrosciante o con gli anni lo mina alla base il corso del
tempo; da grande spinta è trascinato nel dirupo il rovinoso macigno e rimbalza al suolo,
travolgendo con sé selve e armenti e uomini …»
_______________
50) «… così Turno attraverso le schiere scompigliate si precipita verso le mura della città,
dove la terra per ampio tratto è intrisa del sangue versato e l’aria sibila di dardi…».
190
Petronio Arbitro
Ubique
naufragium est
a cura di Giovanni Ghiselli
Canova
Edizioni di Scuola e Cultura
1
2
Un capolavoro anomalo
Neglegentia e simplicitas
Il Satyricon è un capolavoro, quasi sicuramente dell’età di Nerone, come vedremo, e molto probabilmente di quel Petronio descritto da Tacito nel capitolo 18 del XVI libro degli Annales.
[18] De C. Petronio pauca supra repetenda sunt. nam illi dies per somnum, nox officiis et oblectamentis vitae transigebatur; utque alios industria, ita hunc ignavia ad famam protulerat, habebaturque
non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. ac dicta factaque eius quanto
solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. proconsul tamen Bithyniae et mox consul vigentem se ac parem negotiis ostendit. dein revolutus
ad vitia seu vitiorum imitatione inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum
nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset. unde invidia Tigellini
quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem. ergo crudelitatem principis, cui ceterae
libidines cedebant, adgreditur, amicitiam Scaevini Petronio obiectans, corrupto ad indicium servo
ademptaque defensione et maiore parte familiae in vincla rapta.
A proposito di C. Petronio devo ricordare alcuni particolari risalendo più indietro. Difatti passava le giornate dormendo, le notti nei doveri e nei piaceri della vita; e come l’operosità aveva portato altri alla rinomanza, così questo l’indolenza, ed era considerato non un dissoluto o un dissipatore, come i più tra quelli che sperperano le proprie fortune,
ma uno dalla voluttà raffinata.
Le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità. Tuttavia, come proconsole in Bitinia, e poi come console, si mostrò vigoroso e
all’altezza dei compiti. Quindi, ritornato ai vizi o per la sua mimesi dei vizi fu ammesso tra i pochi intimi di Nerone, quale
arbitro del buon gusto, al punto che il principe niente considerava bello e fine in quel fasto se non quanto Petronio gli
avesse approvato. Di qui l’invidia di Tigellino come contro un rivale più forte nella conoscenza dei piaceri. Quindi sollecita la crudeltà del principe, passione cui le altre cedevano il passo, imputando a Petronio l’amicizia di Scevino, non senza
avere corrotto uno schiavo perché lo denunciasse e avere tolto all’accusato ogni possibilità di difesa in quanto la maggior
parte della servitù era stata gettata in carcere.
La sui neglegentia, la noncuranza di sé quale virtù suprema dello stile, viene attribuite dallo storico a questo elegantiae arbiter, maestro di buon gusto alla corte di Nerone, l’imperatore che “nihil
amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset”, niente considerava bello e fine in
quel fasto se non quanto Petronio gli avesse approvato.
Egli, premette Tacito, di giorno dormiva mentre passava la notte tra i doveri e i piaceri della vita,
e come gli altri dall’operosità, quest’uomo era stato portato alla rinomanza dall’indolenza, “habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu”, ed era considerato non un
dissoluto e un dissipatore, come i più tra quelli che sperperano le proprie fortune, ma uno dalla
voluttà raffinata.
Petronio peraltro aveva scelto lo stile della semplicità: “Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam, praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur” le sue parole e i suoi
3
atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente
erano presi come segno di semplicità1.
Ebbene l’ autore del Satyricon, Petronius Arbiter, attraverso l’io narrante Encolpio, considera la
propria opera caratterizzata da una straordinaria semplicità “novae simplicitatis opus” (Satyricon, 132, 15).
“Che questo Petronio sia il nostro, è più probabile che possibile. Anzitutto c’è il nome, o, per
meglio dire, il soprannome. Il personaggio di Tacito è un C. Petronio, conosciuto alla corte di
Nerone come l’“arbitro del buon gusto”. Il nostro sia nei titoli dei manoscritti che nelle citazioni
dei grammatici è indicato come Petronio Arbitro”.2
Secondo me questo personaggio non solo è l’autore del Satyricon ma è l’inventore o per lo meno
il codificatore dello stile della sui neglegentia, la (studiata) noncuranza di sé che caratterizza nei secoli l’aristocrazia europea.
Il motto che riassume questo stile potrebbe essere l’affermazione di Pericle: in effetti amiamo
il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza (
, Tucidide, II, 40, 1).
In fondo J. J. Winckelmann non ha fatto che echeggiare questa dichiarazione del Pericle di
Tucidide quando ha scritto: “Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una
nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione... La nobile semplicità e la quieta grandezza delle statue greche costituiscono il vero segno caratteristico degli scritti greci dei tempi migliori”3.
Più avanti Tucidide indica la semplicità come il nutrimento di quell’anima nobile che venne
), fu sancito ogni genere di malizia nel
negata dalle guerre civili: a causa di queste (
mondo greco e sparì, derisa, la semplicità cui per lo più la nobiltà partecipa (
, III, 83, 1). Sembra l’elogio funebre
della nobiltà che è anche, forse soprattutto, semplicità, ingenuità e schiettezza.
che l’Anonimo Sul sublime4 attriUn correlativo stilistico letterario di questa neglegentia è l’
buisce a Omero e ad altri grandi della letteratura come Sofocle, Pindaro, Demostene e Platone.
L’autore annovera Omero tra i grandissimi nei quali egli stesso ha rilevato non pochi difetti (
…
) i quali però non sono errori volontari ma piuttosto sviste dovute a casuale
) e prodotte distrattamente dalla loro stessa grandeznoncuranza (
za (33).
1 Insomma, come nel caso di Sofronia della Gerusalemme
liberata, “le negligenze sue sono artifici”: “La vergine tra
‘l vulgo uscì soletta, / non coprì sue bellezze, e non l’espose, / raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta, / con
ischive maniere e generose. / Non sai ben dir s’adorna o
se negletta, se caso od arte il bel volto compose. / Di natura, d’Amor, de’ cieli amici / le negligenze sue sono artifici” (II, 18).
Sembra un manifesto del dandy antico. “Il dandismo
non è, come molte persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e dell’eleganza
materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che
un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito.
Così, ai suoi occhi, desiderosi sopra tutto di distinzione, la
perfezione della toeletta consiste nella massima semplicità,
che è, in realtà, il miglior modo di distinguersi” (Ch.
Baudelaire, Curiosità estetiche, del 1869, tr. it. in Il sistema letterario, Ottocento, di Guglielmino-Grosser, Principato,
Milano 1992, p. 1150)
2 V. Ciaffi, (a cura di) Satyricon di Petronio, Utet, Torino,
1967, p. 56.
3 J. J. Winckelmann, Pensieri sull’imitazione dell’arte greca, p.
32.
4 Sul sublime è un trattato, anonimo appunto, generalmente attribuito a un retore fiorito verso la metà del I sec.
d. C. Dovrebbe essere un seguace di Teodoro di Gadara,
che ebbe tra gli allievi anche l’imperatore Tiberio. La sua
scuola sosteneva l’anomalia e l’elemento patetico che conferisce efficacia persuasiva al discorso.
4
Una morte con stile
Il maestro di eleganza della corte neroniana con i suoi successi suscitò l’invidia di Tigellino5 che
lo accusò di essere amico di Scevino, uno dei congiurati contro Nerone. Petronio si uccise con la
stessa neglegentia con la quale era vissuto: si tagliò le vene, poi le legò di nuovo e le riaprì: “audiebatque referentis nihil de immortalitate animae et sapientium placitis, sed levia carmina et facilis versus. Servorum
alios largitione, quosdam verberibus adfecit. Iniit epulas, somno indulsit, ut quamquam coacta mors fortuitae similis esset” (Annales, XVI, 19), ascoltava gli amici che non gli raccontavano nulla sull’immortalità dell’anima né gli riportavano massime filosofiche ma poesie leggere e versi allegri. Tra gli schiavi alcuni premiò, altri fece frustare. Andò a cena e si abbandonò al sonno, affinché la morte, sebbene
imposta, sembrasse casuale.
“Di solito si osserva che quelle poesie e quei versi ci riportano agli epigrammi di sapore alessandrino contenuti nel Satyricon. Ma bisogna andare più in là. Nella prospettiva degli Annales, i
discorsi filosofici o gli argomenti eroici, che il personaggio rifiuta, ci riporta del pari alla morte
socratica di Seneca6 o a quella come sul campo di Lucano7. Non interessa sapere se il Petronio di
Tacito, suicidandosi a quel modo, abbia voluto o no scherzare sulle pose un po’ scolastiche e retoriche dei due che si erano uccisi l’anno prima… Importa far notare che per Tacito un rapporto tra
quei due generi di morte, e un rapporto di contrasto, esisteva, e che egli proprio dal Satyricon, dalle
polemiche più o meno esplicitamente in esso contenute, poteva aver tratto l’ispirazione per quella più tragica e definitiva polemica. E direi pure ricavata dal romanzo… la scena in cui Petronio,
già aperta la via al sangue, alcuni schiavi gratifica con elargizione, altri con sferzate. C’è un qualche cosa di Trimalcionesco in tutto questo, quasi una volontà di sbalordire con un gioco di contrasti, di mostrare ad un tempo due facce, generosa l’una, spietata l’altra. E, a voler scendere più a
fondo, un che di Trimalcionesco, di quel Trimalcione proprio che da vivo fa il morto e per cui vita
e morte si risolvono in volontà di potenza e controllo di sé, lo si potrebbe trovare in quel Petronio
che si incide le vene, poi a capriccio le lega, e poi le apre di nuovo, quasi a volersi sentire già morto
o una volta morto vivo ancora, con gli altri che certo lo piangono, spettacolo più che realtà”.8
“Nulla ci costringe a storcer Petronio a interpretazioni, le quali lo portino via dall’epoca che
unica sembra addirglisi; epoca di grandiosità teatrale, di stravagante e grottesco istrionismo, di
guizzanti contrasti, di foschi bagliori, di orgia, in cui dominano i saliti in potenza, i miserabili fatti
signori, gente d’avventura, di grossolanità e di perversa raffinatezza, i bassi fondi della società
5 Secondo Tacito, come abbiamo visto, Nerone “nihil
amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset”, niente considerava piacevole e raffinato in quell’abbondanza, se non ciò che Petronio gli avesse approvato,
“unde invidia Tigellini quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem”, di qui l’invidia di Tigellino come contro un
rivale più forte nella conoscenza dei piaceri. Nell’incipit
dell’Agricola Tacito aveva riflettuto sul vizio dell’invidia in
generale, chiamandolo, con l’ignoranza del bene, comune
ai piccoli e ai grandi stati: “vitium parvis magnisque civitatibus
commune”.
In effetti Dante individua questo vizio soprattutto nelle
corti: “La meretrice che mai dall’ospizio / di Cesare non
torse li occhi putti, / morte comune, delle corti vizio”,
Inferno, XIII, vv. 64-66.
A. Schopenhauer in Parerga e paralipomena fa una descri-
zione perspicua: “alla gloria dei meriti di alta specie si
oppone l’invidia; l’invidia che vi si oppone fin dai primi
passi, perfino quando si tratta di meriti di infimo grado e
non si ritira fino all’ultimo; perciò appunto l’invidia contribuisce parecchio a peggiorare il corso del mondo, e
Ariosto con ragione definisce la vita come questa assai più
oscura che serena
vita mortal, tutta d’invidia piena (Orlando furioso, IV, 1).
L’invidia è appunto l’anima dell’alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di tutti i
mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi
specie” (op. cit., Tomo I, p. 11).
6 Annales, XV, 62
7 Annales, XV, 70.
8 V. Ciaffi, op. cit., p. 58.
7
ammantati di splendore e d’oro. In tal senso gli storici della letteratura discorrono per Petronio di
sfondo sociale del I secolo d. C. e più specialmente del tempo di Nerone… Il Satyricon è una potente, tumultuosa rappresentazione della vita secondo lo spirito del primissimo Impero, una visione
umana di realistica evidenza, di incisive intuizioni psicologiche, di spregiudicatezza picaresca”.9
Un’opera composita
“In un codice miscellaneo del sec. XV, il Traguriensis o Parisinus 7989, gli estratti di Petronio…
sono indicati come “frammenti del quindicesimo e sedicesimo libro”.10
Secondo Fellini lo stato frammentario in cui ci è giunta l’opera è la ragione principale
del suo fascino: “Il Satyricon è un testo misterioso prima di tutto perché è frammentario. Ma il
suo frammentarismo in un certo senso è emblematico. Emblematico del generale frammentarismo
del mondo antico quale appare a noi oggi”.11
Dopo il regista sentiamo un disciplinarista di primo livello: “La caratteristica formale più evidente del Satyricon è l’alternanza di brani in prosa e brani in poesia, il cosiddetto “prosimetro”.
Gli inserti metrici contrappuntano continuamente la narrazione prosastica e risultano perfettamente integrati nel racconto: continuano l’azione o la commentano, offrendo comunque elementi utili a esplicitarne il significato”.12 Un poco come le parti corali delle tragedie.
Nella letteratura italiana il primo prosimetro è la Vita Nuova di Dante.
Un altro genere cui è stato detto appartenga il Satyricon è la satira menippea13 che presenta il
prosimetro e il travestimento derisorio di situazioni serie. In latino abbiamo frammenti delle
Saturae Menippeae di Varrone e l’Apokolokyntosis14 di Seneca, l’inzuccamento del divo Claudio, ossia
la derisione continua dell’imperatore morto, presentato come brutto, scemo e crudele.
Interessanti sono alcune considerazioni di M. Bachtin sulla satira menippea che il critico russo
(1895-1975) considera parte della “letteratura carnevalizzata”.15
9 G. Funaioli, Studi di letteratura antica, Zanichelli,
Bologna, 1947, p. 114.
10 V. Ciaffi, op. cit., p. 9.
11 F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980, p. 101. Il
regista di Rimini in un altro libro racconta: “Durante la
convalescenza dalla pleurite allergica avevo riletto Petronio
ed ero rimasto affascinato da un particolare che prima non
avevo saputo notare: le parti mancanti, cioè il buio, fra un
episodio e l’altro. Già a scuola, quando si studiavano i prepindarici, avevo cercato di riempire con l’immaginazione il
vuoto fra i vari frammenti... quella faccenda dei frammenti mi affascinava davvero. Mi colpiva l’idea che la polvere
dei secoli avesse conservato il battito di un cuore ormai
spento. Mi fece pensare alle colonne, alle teste, agli occhi
mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografia cimiteriale
dell’Appia antica o in generale ai musei archeologici”
(Intervista sul cinema, Laterza, Bari 1987, p.).
12 G. B. Conte, Scriptorium Classicum, Le Monnier,
Firenze 2001, vol. 6, p. 9.
13 Denominazione dovuta al filosofo cinico Menippo di
Gadara, del III secolo a. C.
14 54 d. C., anno della morte dell’imperatore Claudio.
15 M. Bachtin, Dostoevskij, tr. it. Einaudi, Torino 1968,
pp. 147 sgg. Bachtin ascrive a questo tipo di letteratura “il
dialogo socratico” il quale “come genere determinato ebbe
vita breve, ma nel suo processo di disgregazione si formarono altri generi dialogici, tra cui la satira menippea. Ma
non la si può, naturalmente, considerare come un puro
prodotto della decomposizione del “dialogo socratico”
(come a volte si fa) poiché le sue radici affondano direttamente nel folclore carnevalesco...”.
Un nesso tra il dialogo socratico-platonico e il romanzo
viene suggerito anche da Nietzsche: “il dialogo platonico
fu per così dire la barca su cui la poesia antica naufraga si
salvò con tutte le sue creature: stipate in uno stretto spazio
e paurosamente sottomesse all’unico timoniere Socrate,
entrarono ora in un nuovo mondo, che non poté mai
saziarsi di guardare la fantastica immagine di questo corteo. Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il
modello di una nuova forma d’arte, il modello del
romanzo: questo si può definire come una favola esopica
infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla
filosofia dialettica in un rapporto gerarchico simile a quello in cui per molti secoli la stessa filosofia ha vissuto rispetto alla teologia, cioè come ancilla. Questa fu la nuova posizione della poesia, in cui Platone la spinse sotto la pressio-
8
Niente altro che una satira menippea sviluppata fino ai limiti del romanzo è il Satyricon di
Petronio... La satira menippea “divenne uno dei principali portatori del sentimento carnevalesco
nella letteratura fino ai nostri giorni... La satira menippea è caratterizzata dalla eccezionale libertà
di invenzione narrativa e filosofica... La particolarità più importante del genere della menippea è
che la più audace e sfrenata fantasia è qui internamente motivata, giustificata, illuminata da un fine
puramente filosofico-ideale: quello di creare situazioni eccezionali per provocare e sperimentare l’idea-parola filosofica, la verità, impersonata nella figura del saggio che cerca questa verità.
Sottolineiamo che la fantasia serve qui non per la incarnazione positiva della verità, ma per la sua
ricerca, provocazione e, soprattutto per la sua sperimentazione… A questo fine i personaggi della
satira menippea salgono in cielo, scendono agli inferi, visitano la luna, vagano attraverso paesi
assolutamente fantastici, si trovano in situazioni di vita eccezionaliCaratteristico della menippea è
il largo uso di generi inseriti: novelle, lettere, orazioni, simposi ecc.; è caratteristica la mescolanza
di discorso in prosa e in versi…”.16
Altra componente riconoscibile in questa “miscela originalissima di forme letterarie”17 è la
fabula milesia, ossia la novella licenziosa introdotta nelle lettere latine in età sillana da Cornelio
Sisenna che tradusse i
di Aristide di Mileto (II sec. a. C.). Appartengono a questo
genere la storia del fanciullo di Pergamo (85-87) e quella della “Matrona di Efeso” (111-112), di
cui ci occuperemo più avanti.
“In conclusione, credo che ormai si debba ammettere che i rapporti con la fabula Milesia e con
la satira menippea individuano e privilegiano solo due componenti del romanzo: la mescolanza di
prosa e versi da un lato e il carattere licenzioso e dissacratorio di alcune novelle dall’altro.
Nonostante l’indubbia importanza di tali componenti, né l’una né l’altra ci aiutano a decifrare il
romanzo nel suo complesso. C’è da chiedersi, addirittura, se il titolo stesso del romanzo di
Petronio non sia una creazione posteriore di chi volle sottolineare un rapporto privilegiato proprio con la satira menippea.18
Paolo Fedeli insiste sul rapporto tra epos e romanzo che ne raccoglie la successione quasi come
un figlio: “Già in Hegel, dall’Estetica ai Lineamenti di filosofia del diritto, la nascita del romanzo moderno s’identifica con la definitiva scomparsa dell’epos ed è necessaria conseguenza del succedersi
delle epoche universali”19.
Leggiamo qualche parola di Hegel che definisce il romanzo “la moderna epopea borghese”.
Il filosofo dell’idealismo mette in luce analogie e diversità tra epica e romanzo: “Qui ricompare da
un lato la ricchezza e la multilateralità degli interessi, delle condizioni, dei caratteri, dei rapporti di
vita, il vasto sfondo di un mondo totale ed insieme la manifestazione epica di avvenimenti. Quel
che manca è però la condizione del mondo originariamente poetica da cui si origina l’epos vero e
proprio. Il romanzo nel senso moderno presuppone una realtà già ordinata a prosa, sul cui terreno più appariscente che ne caratterizza la struttura: l’alternanza di prosa e versi. Alla luce, però, dei recenti ritrovamenti papiracei (il cosiddetto romanzo di Iolao), che
hanno mostrato come il prosimetrum fosse adottato – non
solo sotto forma di citazione dotta – anche nel romanzo
greco, è possibile recuperare anche per questo aspetto una
linea di continuità fra la produzione romanzesca ellenistica
e quella petroniana: ciò ci permette di risalire in modo
ancora più agevole al grande archetipo del romanzo d’amore, d’avventura e di viaggi, costituito dall’Odissea”.
19 op. cit., p.. 346.
ne del demonico Socrate” (La nascita della tragedia, p. 95).
16 M. Bachtin, op. cit., 149.
17 G. B. Conte, Scriptorium Classicum cit., p. 9
18 P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, Salerno,
Roma 1993, vol I, p. 348. La tradizione manoscritta di
Petronio – continua Fedeli – oscilla fra Petronii Arbitri
Satyricon, Petronii Arbitri Satirarum libri, Petronii Arbitri satyri
fragmenta, Satirici libri. Su tutti i titoli grava il sospetto di formulazione non originaria, proprio perché tutti inquadrano
in un genere letterario, la satira menippea, l’opera petroniana: in tal modo si sarà pensato di giustificare il fenome-
9
no esso, nella propria cerchia e riguardo sia alla vivacità degli avvenimenti che agli individui e al
loro destino, cerca di ridare alla poesia, nei limiti in cui ciò è possibile con i presupposti dati, il
diritto da lei perduto. Perciò una delle collisioni più comuni e più adatte per il romanzo è il conflitto della poesia del cuore con la prosa contrastante dei rapporti e l’accidentalità delle circostanze esterne”.20
Un itinerario di lettura
Per il nostro lavoro non ha troppa importanza definire il genere di appartenenza di questo lungo
e splendido frammento; comunque possiamo dire che nel Satyricon compaiono, parodiati, diversi temi presenti nel romanzo greco.
Molti di questi risalgono all’epos21, in particolare alla madre di tutti romanzi, che è l’Odissea: per
esempio la separazione degli amanti i quali poi si riuniscono. Nel romanzo ellenistico si tratta di due giovani di sesso diverso, mentre qui, nel travestimento derisorio del poema omerico fatto
da Petronio, c’è un “triangolo” omosessuale; nell’Odissea c’è l’ira divina che perseguita il protagonista; ebbene la collera del nume nella parodia di Petronio diventa la gravis ira Priapi (139), ossia
del dio dell’erezione, un dio grande, forse il più grande dell’opera, il quale provoca l’impotenza del
personaggio principale, Encolpio.
Il triangolo amoroso del Satyricon è formato da due giovani avventurieri non digiuni di lettere22: Encolpio, il personaggio narrante, uno scholasticus come si è detto, un frequentatore di
scuole, Ascilto, più rozzo e spregiudicato, e da un ragazzino sedicenne Gitone conteso dai due.23
“Petronio, con questi suoi personaggi, e con l’irrefrenabile dinamismo del suo narrare, anticipa
per un verso le figure dei medievali clerici vagantes, o intellettuali vagabondi, dall’altro il romanzo picaresco24 spagnolo. Ma il suo romanzo possiede una carica erotica intensa, che può raggiungere l’oscenità, sempre riscattata, tuttavia, da una girandola di trovate linguistiche, o dall’improvviso verificarsi di eventi che stemperano nella beffa, nell’ironia e talvolta nella malinconia la
crudezza del contesto”.25
Noi andremo cercando i brani collegabili al tema dell’amore, in particolare dell’amore adulte-
20 G. W. F. Hegel, Estetica, tr. it., Einaudi, Torino 1992,
Tomo II, p. 1447.
10
Fine della cultura
Contro l’eloquenza bolsa
All’inizio del testo che ci è arrivato (il libro XV quasi completo con la Cena Trimalchionis, e parti
del XIV e del XVI su un totale di 20 o 24 libri, come l’Odissea) troviamo una discussione nel portico di una scuola tra Encolpio e il retore Agamennone sulle cause della corruzione dell’eloquenza.
Encolpio denuncia la separazione della scuola dalla vita: “et ideo ego adulescentulos existimo in
scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in
litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes, quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed mellitos verborum globulos et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa” (1, 3), e perciò io penso che i ragazzi nelle scuole diventino stupidissimi, poiché niente ascoltano o vedono di quello che è utile nella vita, ma pirati che stanno in
agguato sulla spiaggia con le catene, ma tiranni che scrivono editti con i quali ordinano ai figli di
tagliare le teste dei loro padri, ma responsi dati contro la pestilenza che si sacrifichino tre vergini
o più, ma polpette di parole tonde e mielate e tutte le espressioni e le azioni quasi condite di papavero e sesamo.
è la critica della scissione tra letteratura e vita che si ritrova in Marziale: “Non hic Centauros, non
Gorgonas Harpyasque / invenies: hominem pagina nostra sapit” (X, 4), non qui troverai Centauri, Gorgoni
e Arpie: la nostra pagina sa di uomo. “Controluce questo negativo rivela un positivo petroniano:
“Io penso che questi ragazzi a scuola si rimbecilliscono perché non odono né vedono nulla di ciò
che abbiamo sottomano”. è un j’accuse in nome della concretezza e del realismo, il nocciolo
della poetica petroniana”1. L’hominem di Marziale può essere avvicinato alla prima parola
dell’Odissea, anche se
è come significato specifico più assimilabile a virum.
Petronio, epicureo, atticista e classicista, dichiara che la vita contiene situazioni più interessanti di tutte le scuole di retorica.
“Petronio è pittore del vero, e ridà l’accento stesso della vita degli umili divenuti grandi; la saporosa loquela di ogni giorno, sciolta dalle rigide leggi della scuola, la ridà adattata ai temperamenti
e alla cultura degli interlocutori del romanzo, con una festività, una lepidezza, una proprietà, una
efficacia che sono una meraviglia. Non egli parla: fa parlare”2.
Il discorso di Encolpio infatti è anche un rifiuto del retoricume stucchevole e oblioso. “Tutta
retorica. Vesciche piene d’aria”3.
In particolare Encolpio mette sotto accusa il cattivo gusto dello stile asiano grasso e bolso,
dando voce all’atticismo di Petronio: “qui inter haec nutriuntur, non magis sapere possunt, quam bene
olere qui in culina habitant. pace vestra liceat dixisse, primi omnium eloquentiam perdidistis. levibus enim atque
inanibus sonis ludibria quaedam excitando effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet” (2, 2), quelli che
vengono nutriti in mezzo a questi banchetti, non possono avere un gusto migliore del profumo di
1 Luca Canali, op. cit.., p. 4.
2 G. Funaioli, op. cit., p. 14.
3 J. Joyce, Ulisse, tr. it., Mondadori, Milano, p. 172.
13
quelli che abitano in cucina. Con vostra pace mi sia concesso di avere affermato che voi per primi
avete rovinato l’eloquenza. Infatti con suoni leggeri e vani, suscitando certi giochi di parole, avete
fatto in modo che il corpo dell’orazione si afflosciasse e cadesse4.
Quindi Encolpio mette sotto accusa il tipo dello studioso, estraneo alla vita, lo stesso che
Nietzsche definirà “l’eterno affamato, il ‘critico’ senza piacere e senza forza, l’uomo alessandrino,
che è in fondo un bibliotecario e un emendatore, e si acceca miseramente sulla polvere dei libri e
degli errori di stampa”5. Il protagonista del Satyricon lo contrappone ai grandi tragici: “nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui, nondum
umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. et ne poetas solum ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse
video” (2, 3-5), ancora i giovani non erano chiusi nelle vuote declamazioni, quando Sofocle e
Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c’era ancora un erudito cresciuto
nell’ombra a scempiare gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici6, si peritarono a cantare in versi
omerici. E per non far venire solo i poeti come testimoni, di certo non trovo che Platone né
Demostene si sono abbassati a questo genere di esercitazione7.
Lo stile deve risaltare non per gli orpelli ma per una sua bella naturalezza: “grandis et, ut ita dicam,
pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit” (2, 6), l’orazione grande e,
per così dire, pura, non è chiazzata né enfatica ma si eleva per bellezza naturale. L’orazione
insomma non deve essere truccata né artefatta, come non deve esserlo la donna8.
“In una narrazione che dal grosso e pingue realismo ascende via via fino al terribile non esistono gonfiatezze; legge sua è l’eleganza, la vigile misura, e la legge sta scritta a caratteri indimenticabili in principio (2 6): grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit. Qui è il rovescio della letteratura convenzionale. Petronio, questo meraviglioso ascoltatore e contemplatore del reale umano, reagisce contro la negazione sotto i primi Cesari affermatasi del buon senso e del buon gusto, contro il vuoto delle lettere, contro “il vanissimo strepito delle
parole”, contro “le bollicine melate di frasi e i detti e i fatti quasi sparsi di sesamo e papavero”9.
4 è questo il correlativo stilistico dell’ira di Priapo.
situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim
nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat”(Institutio oratoria, I,
2, 18), prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della
politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e
a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile.
Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce e nella tenebra prende un
certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se
stesso chi non si confronta con nessuno.
Il maestro pallido desta una diffidenza o addirittura una
ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo.
Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori
della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro,
malsano: “puah!, quei furfanti, ho capito. Tu dici quelle
facce pallide, gli scalzi” (
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(
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Nuvole, vv. 102-103).
8 Si può pensare alla storia di Eracle al bivio riportata
dai Memorabili di Senofonte (II, 1, 21-34)
9 G. Funaioli, op. cit. p. 114.
Infatti si può dire della bellezza quanto Sofocle afferma
della
!
in uno dei versi conclusivi dell’Antigone: la
verità è sempre una cosa dritta (
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!, v.
1195). Nel prologo dell’Edipo re (v.39) il sacerdote chiede
aiuto al sovrano contro la peste e la sterilità, sia della terra
sia delle donne, in quanto, afferma, sei detto e sei ritenuto
quello che ci ha raddrizzato la vita ( !
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! ).
5Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. it. Adelphi,
Milano, 1977, p. 123.
6 Il canone alessandrino dei nove lirici più importanti
comprendeva Saffo, Alceo, Anacreonte (lirica monodica),
Simonide, Bacchilide, Pindaro, Alcmane, Stesicoro, Ibico
(lirica corale); quasi tutti poeti d’amore e maestri dei latini.
7 Anche Quintiliano vuole escludere l’ombra, la solitudine e la muffa dall’educazione del ragazzo che sarà un
buon oratore: “Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a
tenero non reform?dare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est,
quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco
14
Secondo Funaioli tale reazione non può essere più tarda del primo impero: “Una così sana reazione nel III secolo? Ma c’è in quell’età che abbia in genere qualche vena e senso di scrittore nel
mondo pagano? C’è fra gli Italici già dopo Tacito e Giovenale o, se piace, anche Svetonio, una fibra
così vigorosamente individuale di artista, quando alla poesia o alla prosa del gentilesimo sono inaridite le interne fonti dell’essere? Il disorientamento, si sa, è già vasto da Adriano in poi; da allora,
nella poesia e nella prosa, è grettezza, angustia di purismo letterario, pedanteria, imitazione, disfacimento: almeno fra gli Italici, ché in provincia nuove energie si annunziano con Apuleio, poi
sboccanti nel cristianesimo. Non a caso l’unico che avesse da dire qualcosa di suo e di sentito nella
Roma del II secolo, M. Aurelio, scrisse in greco, nella lingua in cui meglio oramai si esprimevano
le correnti ideali etiche e religiose avviatrici di quella fede che di lì a poco trasformò le anime e le
lettere”10.
“Si era caduti dall’antica grandezza, poiché ci si era discostati dall’imitazione dei classici: tesi
puristica, che è poi quella di un Seneca il Retore e di un Quintilano. Oppure, passando dai pregiudizi letterari a quelli morali, poiché ci si era allontanati dall’antica virtù e ci si era immersi nella
crapula: e in proposito da Catone in poi c’è tutta una letteratura. O infine, trasferito il problema
dalla terra al cielo, poiché gli uomini non erano più religiosi11: e qui i termini di confronto sono
Persio e Giovenale”12.
Le retorica asiana aveva già ricevuto critiche, pur blande, dallo stesso Cicerone “rodiese” il
quale sostiene che l’eloquenza, lasciata Atene13, andò peregrinando per tutta l’Asia, e da questa
contaminazione derivarono gli “Asiatici oratores non contemnendi quidem nec celeritate nec copia, sed parum
pressi et nimis redundantes” (Brutus, 51), gli oratori dell’indirizzo asiano, non trascurabili certo, per
quanto riguarda la vivacità e la facondia, ma poco concisi, e sovrabbondanti. Migliori dunque i
Rodiesi e più simili agli Attici: “Rhodii saniores et Atticorum similiores”.
Molto più critico verso la retorica asiana è Dionisio di Alicarnasso. Lo storiografo e maestro
di retorica trasferitosi a Roma nel 30 a. C. nello scritto Sui retori antichi condanna l’eloquenza del
tempo successivo ad Alessandro Magno considerata insopportabile per la teatralità: “l’eloquenza
misia o frigia, l’etera venuta di recente da taluni fondi dell’Asia”, riuscì a scacciare la moglie
legittima, ossia l’eloquenza attica (1-3).
Su questa linea di condanna si trova Encolpio: “Nuper ventosa haec et enormis loquacitas Athenas ex
Asia commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere adflavit, semelque corrupta regula, eloquentia stetit et obmutuit. Ad summam, quis postea, Thucydidis, quis Hyperidis ad famam processit?” (2, 7-8), poco fa questa colossale logorrea piena di vento è tornata ad Atene dall’Asia e ha
soffiato, come da un astro latore di morbi, sugli animi dei giovani che si alzano verso le cose grandi, e una volta corrotti i princìpi, l’eloquenza si arrestò e ammutolì. Insomma chi, dopo questo, si
avvicinò alla fama di Tucidide, chi di Iperide?14.
10 ibidem.
11 Cfr. 44, 18: “quia nos religiosi non sumus, agri iacent”, poi-
Demostene Per la corona (330 a. C.).
14 Oratore ateniese coetaneo di Eschine, fu con
Demostene nel partito antimacedone. Fu fatto uccidere da
Antipatro nel 322 a. C. Viene ricordato da Cicerone tra gli
oratori capaci di parlare atticamente (attice dicere) entusiasmando il pubblico, con Pericle, Eschine e soprattutto
Demostene (Brutus, 290).
ché non abbiamo religione, i campi sono abbandonati.
12 V. Ciaffi, op. cit., p. 49.
13 Con allusione a Eschine: l’oratore ateniese andò in
esilio a Rodi dopo che la sua orazione pronunciata Contro
Ctesifonte, il quale aveva proposto una corona di merito a
Demostene, fu respinta dai giudici favorevoli a quella di
15
Anche la poesia è decaduta: “ac ne carmen quidem sani coloris enituit sed omnia quasi eodem cibo pasta
non potuerunt usque ad senectutem canescere” (2, 8), e neppure la poesia brillò del colore della salute ma
tutte le opere alimentate per così dire dal medesimo cibo non riuscirono a incanutire fino alla vecchiaia. Nel paese guasto l’alimento della scuola, della poesia, della vita non può che essere avariato e quindi la corruzione è diffusa dappertutto. Infine la pittura, argomento sul quale Petronio tornerà: “pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam
invenit” (2, 9), anche la pittura non ha avuto risultato diverso dopoché la sfrontatezza degli Egiziani
ha trovato la scorciatoia di un’arte tanto grande15.
Notiamo il biasimo dell’audacia che nei tradizionalisti non manca mai.
“Certo che sul piano delle idee, se non della scrittura, Petronio è un uomo d’altri tempi.
L’alessandrinismo per lui è già del tutto al di qua della barriera. Per le lettere il problema non è
toccato, ma lo è invece per la pittura, quando egli, per bocca di Encolpio, parla con disprezzo della
pittura degli egittizzanti, con allusione scoperta al terzo stile pompeiano, e di una scorciatoia per
l’arte, che attraverso un luogo di Plinio il Vecchio su Filosseno si riferisce chiaramente a quel
periodo delle arti figurative. E la pittura, l’alessandrina, è paragonata all’oratoria che con essa fiorì,
quella asiana, negata in blocco sempre da Encolpio nella sua violenta requisitoria in proposito e
scusata solo sul piano della convenienza da Agamennone nella sua replica. E altrettanto per la poesia, ché nei riguardi della polemica più viva e recente, quella tra Lucano e Virgilio, egli, intermediario Eumolpo, tiene le parti del secondo. Né tuttavia della decadenza egli cerca una spiegazione
storica e concreta, al modo dell’autore del “Sublime” o di quello del “Dialogo”16.
15 La tecnica compendiaria viene di solito attribuita
al cosidetto terzo stile pompeiano. Si può vedere un
esempio di tale tecnica nella casa dei Vettii (poco prima
della metà del I sec. d. C.). “Non bisogna confondere,
come spesso s’è fatto, questa pittura compendiaria, cioè
rapida ed evocativa, con il moderno impressionismo, che
tende a rendere con assoluta immediatezza un’emozione
visiva. Consideriamo, scegliendo a caso, il gruppo di
Ermafrodito e Sileno, nella casa dei Vettii. Il discorso pittorico è rapido, ha una cadenza accentata, vivace; ma scorre su
uno schema del tutto convenzionale. è una pittura a macchia… Nel giardino della Villa di Livia a Roma ( metà del I
sec. d. C.), si ha un “inventario” di piante, raffigurate a
memoria: il pittore conosce la forma di ogni singolo albero o arbusto e la descrive con sicurezza; ma ciò che viene
precisato con rapidi tratti di colore non sono le cose che
l’artista vede, bensì le nozioni che ha di esse. Non dunque
lo spettacolo della natura, ma le immagini della mente
prendono forma e si fanno evidenti nell’arte; e la tecnica
rapida e per cenni, compendiaria, non è una tecnica creata per rendere con immediatezza le emozioni visive ma per
tradurre visivamente quelle immagini. Si spiega così come
questa tecnica diventi anche più rapida e intensa nella pit-
tura cristiana delle catacombe, le cui immagini puramente
simboliche non hanno alcun rapporto con la realtà oggettiva” (G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, La Nuova Italia,
Firenze 1958, vol. 1, p. 161).
è insomma una pittura lontana dal realismo rimpianto da Encolpio. “Anche nel ritratto si parte da
“tipi”… Nelle tavolette che, tra I e V secolo, si ponevano
in Egitto sulla mummia nei sarcofagi (detti ritratti del
Fayum), la persona è rappresentata per lo più frontalmente,
con grandi occhi spalancati per dare l’idea della vita; ma
solo l’accentuazione di qualche tratto fisionomico richiama
la figura reale del defunto. è, come si vede, un procedimento che non parte dal “vero” ma, muovendo dall’idea o
dal tipo, tende ad accostarsi al vero: un procedimento, cioè,
che va dal generale al particolare senza tuttavia implicare
una presa diretta del reale” (G. C. Argan, op. cit., p. 162.).
Fra tali ritratti viene mostrato quello di Paquio Proculo e
sua moglie che provenie da una casa di Pompei e risale al I
sec. d. C.
16 V. Ciaffi, op. cit. p. 48. Vedremo più in là le spiegazioni dell’Anonimo e di Tacito. Più avanti Ciaffi torna sull’argomento per avallare la datazione neroniana del
Satyricon: “Nel primo episodio del racconto, quello della
16
Contro l’educazione snervata
Quindi il maestro di retorica Agamennone parla, da esperto, dello stato, non buono, della
scuola. Egli è uno che nella scuola ha sudato (ipse in schola sudaverat, 4, 1). La colpa della decadenza secondo lui è degli allievi e dei loro genitori, non dei maestri qui necesse habent cum insanientibus
furere (3, 2), i quali sono costretti a delirare con i pazzi e, per avere uditori, devono assecondare i
ragazzi. “Nam nisi dxerint quae adulescentuli probent, ut ait Cicero, “soli in scholis relinquentur”17. sicut ficti
adulatores cum cenas divitum captant, nihil prius meditantur quam id quod putant gratissimum auditoribus fore:
nec enim aliter impetrabunt quod petunt, nisi quasdam insidias auribus fecerint”(3, 2-3), infatti se non avranno detto quello che i ragazzi probabilmente approvano, come dice Cicerone, “verranno lasciati soli
nelle scuole”. Come i parassiti adulatori delle commedie, quando danno la caccia alle cene dei ricchi, niente pensano prima di ciò che ritengono sarà graditissimo agli ascoltatori: né infatti otterranno ciò che agognano in altro modo se non avranno teso qualche trabocchetto alle orecchie.18
Quindi il maestro di eloquenza, continua Agamennone, deve fare come il pescatore se vuole catturare l’attenzione dei giovani: “sic eloquentiae magister, nisi tamquam piscator eam imposuerit hamis escam,
quam scierit appetituros esse pisciculos, sine spe praedae morabitur in scopulo” (3, 4), se, come un pescatore
non avrà messo sugli ami l’esca di cui sappia che i pesciolini avranno appetito, si attarderà sullo
scoglio senza speranza di preda. Viene in mente l’immagine di Musil: “viveva con la disperata ostinazione di un pescatore che getta le sue reti in un fiume asciutto”19.
Anche i genitori sono meritevoli di rimproveri di un maestro abituato a “insudare molto nelle
cose”20: “parentes obiurgatione digni sunt, qui nolunt liberos suos severa lege proficere” (4, 1) poiché non
vogliono che i loro figli migliorino con una dura disciplina.
Secondo Agamennone i genitori, resi troppo frettolosi dall’ambitio, non concedono agli studi dei
figli i lunghi tempi necessari alla formazione di una buona cultura e di buoni oratori: “primum enim sic
ut omnia, spes quoque suas ambitioni donant. deinde cum ad vota properant, cruda adhuc studia in forum impellunt
et eloquentiam, qua nihil esse maius confitentur, pueris induunt adhuc nascentibus. quod si paterentur laborum grascuola di retorica, l’esercitazione pronunziata da Encolpio
e la risposta a lui rivolta dal maestro si concentrano intorno a un problema, crisi dell’eloquenza e sue cause, che è
tipico della società intellettuale del I sec., dall’anonimo
autore del “Sublime” a Quintiliano (che scrisse un De causis corruptae eloquentiae, perduto), da Quintiliano all’autore del “Dialogo”. Ma il tempo tanto più si delimita, se
dall’eloquenza passiamo alla poesia. La requisitoria pronunziata da Eumolpo in via per Crotone contro il nuovo
indirizzo anti-virgiliano dell’epica, che sacrifica il mito alla
storia, non si può che riferire a Lucano... Né altra è la
determinazione cronologica, se passiamo dalla letteratura
alle arti figurative. Encolpio, sulla fine della dissertazione
da cui siamo partiti, dopo aver detto che con una scuola
del genere non ci sono più né oratori né storici né poeti,
aggiunge: “Ed anche la pittura non finì altrimenti, da quando gli egittizzanti con la loro improntitudine trovarono
una scorciatoia per tanta arte” (2, 9). Ora questa “improntitudine degli egittizzanti”, che ridusse la via dell’arte a una
“scorciatoia”, mi sembra corrispondere al terzo stile di
Pompei, che a Pompei si chiuse, proprio nella regione della
città greca, con il terremoto del 63, e che anche noi chiamiamo egittizzante, perché vi dominano elementi orna-
mentali tolti dal repertorio di quell’ambiente geografico e
culturale, quali fiori di loto e papiro, motivi a volute, teste
di sfinge, ecc.” (op. cit., pp. 54-55).
17 Nella Pro Caelio del 56 a. C. Cicerone critica il rigorismo etico del primo stoicismo scrivendo precisamente:
“Illud unum derectum iter ad laudem cum labore qui probaverunt
prope soli iam in scholis sum relicti” (41), coloro che sostennero quell’unico percorso diretto alla gloria con la fatica,
sono rimasti quasi soli nelle scuole.
18 Altrettanto si potrebbe dire della televisione-spazzatura di oggi. Qui si vede che la vita imita la commedia,
secondo la constatazione di O. Wilde: “la vita imita l’arte
assai più di quanto l’arte imiti la vita… Schopenhauer ha
analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero
moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica”
(La decadenza della menzogna, in Oscar Wilde, Opere, p. 224).
Ai giorni nostri la vita, quella dei più, imita la televisione
che fornisce modelli sconci.
19 L’uomo senza qualità, cit., p.247.
20 Cfr. Machiavelli, Il principe, par. 25.
17
dus fieri, ut studiosi iuvenes lectione severa irrigarentur, ut sapientiae praeceptis animos componerent, ut verba atroci
stilo effoderent, ut quod vellent imitari diu audirent, <ut persuaderent> sibi nihil esse magnificum, quod pueris placeret: iam illa grandis oratio haberet maiestatis suae pondus” (4, 2-3), per prima cosa infatti sacrificano all’ambizione, come ogni altra cosa, anche le proprie speranze. Poi, siccome si affrettano verso i desideri,
spingono nel foro talenti ancora acerbi e fanno indossare a ragazzini nemmeno nati del tutto l’eloquenza di cui pure riconoscono che non c’è nulla di più grande. Se lasciassero, dico, che si scalassero i gradini della fatica, in modo che i giovani desiderosi di cultura si innaffiassero di letture serie e
ordinassero le menti con le regole della sapienza, e scavassero le parole con penna inesorabile, e
ascoltassero a lungo quello che vogliono imitare, e si convincessero che niente di ciò che piace ai
ragazzi è magnifico; allora quella grande oratoria avrebbe il peso della sua maestà.21
Insomma il maestro sudato ripete l’antica regola esiodea: davanti al valore gli dèi hanno posto il
sudore (Opere, 289).22 I giovani non sono più sottoposti a prove severe e non c’è abbastanza disciplina: “nunc pueri in scholis ludunt, iuvenes ridentur in foro, et quod utroque turpius est, quod quisque<puer>
perperam didicit, in senectute confiteri non vult” (4, 4), ora i ragazzi nelle scuole giocano, da giovani fanno
ridere nel foro, e cosa che è più vergognosa di entrambe queste, quello che ciascuno da ragazzo
ha imparato male, in vecchiaia non vuole ammetterlo.
Non è una severità fine a sé stessa.23 Quel che bisogna evitare è che i ragazzi si abituino a non
prendere niente sul serio, altrimenti c’è il rischio che trovino irrisori o insignificanti i sentimenti,
21 Il poeta Eumolpo, molto più avanti, afferma la
medesima necessità di una cultura letteraria assai ampia e
profonda per il raggiungimento di risultati significativi:
“ceterum neque generosior spiritus vanitatem amat, neque concipere
aut edere partum mens potest nisi ingenti flumine litterarum inundata” (118, 3), del resto uno spirito di razza non ama il vuoto,
né una mente può concepire o produrre un’opera se non è
inondata dall’ampio fiume della letteratura.
La polemica verte contro le velleità dei dilettanti pressocché improvvisatori. è questo un discorso specifico
sulla poesia che richiede comunque grande disciplina: i
modelli sono Omero, i lirici, Virgilio e la curiosa felicitas
(118, 5) l’accurata fecondità di Orazio. Chiunque vorrà
comporre un’opera impegnativa come le guerre civili “nisi
plenus litteris, sub onere labetur” (118, 6), se non sarà colmo di
cultura letteraria, cadrà sotto il peso. Perciò non si devono
presentare i fatti della storia con veste metrica, ma ci vuole
ispirazione e capacità trasfigurativa. I gusti di Petronio “in
letteratura sia latina che greca sono classici: la sua critica a
Lucano e al Bellum civile stesso indicano che è un ammiratore ortodosso della pratica poetica di Virgilio” (J. P.
Sullivan, op. cit., p. 81).
Eumolpo in questo capitolo in effetti indica come
modelli Omero e i lirici Virgilio e Orazio e prescrive:
“curandum est ne sententiae emineant extra corpus orationis expressae” (118, 5), bisogna evitare che le sentenze risaltino staccate dall’insieme della composizione.
La frase staccata dall’insieme caratterizza lo stile della
decadenza: poiché “la vita borghese è micrologia, visione
analitica e riduttiva nella quale l’esistenza non fa più balenare un senso globale che la illumini e le dia valore…
Come per Nietzsche e Musil la vita non dimora più nella
totalità, un’anarchia dei singoli atomi corrode le grandi
unità del discorso e dell’esistenza, ogni particolare acquista
autonomia a spese del tutto” (C. Magris, L’anello di Clarisse,
Einaudi, Torino 1984, p. 191 e p. 195).
Insomma “L’arte deve soprattutto e innanzitutto abbellire la vita, cioè rendere noi stessi sopportabili e se è possibile graditi agli altri: con questo compito davanti agli
occhi, essa ci modera e tiene a freno, crea forme di relazione, lega i non educati a leggi di convenienza, di pulizia,
di cortesia, del parlare e tacere a tempo giusto. Poi l’arte
deve nascondere o trasformare nell’interpretazione tutto
ciò che è brutto... e far brillare ciò che è significativo di fra
ciò che è inevitabilmente o invincibilmente brutto”. (F.
Nietzsche, Umano troppo umano, tr. it., Mondadori, Milano
1978, vol II, p. 64).
22 La stessa "! si trova nell’Elettra di Sofocle quando la protagonista dice alla sorella Crisotemi: “bada che
senza sforzo faticoso nessuna impresa ha successo” ( %
!
" &
, v. 945).
La troviamo nella favola di Eracle al bivio, riportata nei
Memorabili di Senofonte da uno scritto di Prodico di Ceo:
la Virtù dice al giovinetto che nessuna delle cose belle e
buone concedono gli dèi agli uomini senza fatica e impegno ( "
"
"
"
!
! &
!
"! &, II, 1,
28) .
Nell’Operetta morale di Leopardi Il Parini ovvero della gloria (del 1824) il poeta del Giorno avverte un giovane discepolo che pochissimi saranno in grado di ammirarlo: “quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine
riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta”.
18
le idee, i princìpi o addirittura la stessa vita.
Agamennone conclude la sua arringa con un esempio di improvvisazione, del resto elaborata,
in coliambi. In questa ribadisce la necessità di una disciplina austera e di impiegare come esempi
i maestri sommi, ossia Omero, Demostene e Cicerone. Quest’ultimo è indicato quale modello non
certo in quanto oratore accusato di asianesimo: Quintiliano ci fa sapere che alcuni contemporanei
lo accusavano di essere “tumidiorem et Asianum et redundantem et in repetitionibus nimium” (Inst. XII, 10,
12), troppo enfatico e Asiano e ridondante ed eccessivo nelle ripetizioni. Il Cicerone esemplare
“sembra quello espresso nell’Orator e nel De optimo genere oratorum, che supera la controversia asianico-atticista e preferisce la teoria dello stile piano, elevato e intermedio, ciascuno adatto a tipi
diversi di argomenti o per produrre effetti diversi”.24 Anche Petronio, vedremo, usa diversi sermones, l’urbanus o il plebeius, variando lo stile a seconda di chi pronuncia il discorso.
23 Per la necessità della disciplina e contro la mollezza
nella scuola e nell’educazione in generale si schiera anche
Quintiliano: “Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus,
nervos omnis [=omnes] mentis et corporis frangit. Quid non adultus
concupiscit, qui in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit,
iam cocum intellegit, iam conchylium poscit” (Inst., I, 2, 6), quella
molle educazione che chiamiamo indulgenza, spezza tutte
le forze della mente e del corpo. Che cosa non desidera da
adulto quello che si trascina nella porpora? Ancora non
pronuncia le prime parole, già capisce il cuoco, già esige le
ostriche.- mollis educatio: sembra ricordare il già diverse volte
citato:
! & di Tucidide ( II,
40, 1).
Educazione severa non significa però botte ai bambini:
“Caedi vero discentes…minime velim. Primum quia deforme atque
servile est et certe, (quod convenit, si aetatem mutes), iniuria est
(Inst., I, 8, 13), non vorrei che gli scolari venissero battuti.
Prima di tutto poiché è cosa brutta e da schiavi e certamente, (cosa che è adatta se cambi l’età) è un’offesa. I bambini devono essere trattati con riguardo: “in aetatem infirmam et iniuriae obnoxiam nemini debet nimium licere” (I, 8, 17),
a nessuno deve essere consentito troppo nei riguardi di
un’età debole ed esposta alle offese. Lo stesso, e ancora di
più in Giovenale: “Maxima debetur puero reverentia” (XIV,
47), massimo rispetto si deve al ragazzo.
Quindi finché giocano non c’è nulla di male, anzi il
gioco tante volte si addice alla paideia: “lusus hic sit” (Inst.,
I, 1, 20) sia questo un gioco consiglia Quintiliano a proposito dei primi passi dell’educazione. Oppure il gioco si pratichi nell’intervallo: “Danda est tamen omnibus aliqua remissio”,
bisogna dare comunque a tutti un poco di riposo. E, poco
più avanti: “Nec me offenderit lusus in pueris; est et hoc signum
alacritatis…Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non
inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis
aemulantur. Mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt”
(I, 3, 10-12), né mi dispiacerebbe il gioco nei ragazzi; è
anche questo un segno di vivacità... Ci sono anche alcuni
giochi non inutili ad acuire gli ingegni, quando, postisi
vicendevolmente dei piccoli quesiti di ogni genere, fanno a
gara. Anche i caratteri si scoprono in maniera più diretta
nel gioco. “Il gioco è il lavoro dei bambini” (J. Hillman, Il
codice dell’anima, p. 217).
19
Consonanze tacitiane
Un rimprovero ai genitori simile a quello dell’Agamennone di Petronio lo rivolge Messalla nel
Dialogus de oratoribus di Tacito (ambientato tra il 75 e il 77 e redatto, probabilmente, un quarto di
secolo più tardi): “Quis enim ignorat et eloquentiam et ceteras artis descivisse ab illa vetere gloria non inopia
hominum, sed desidia iuventutis et neglegentia parentum et inscientia praecipientium et oblivione moris antiqui?”
(28), chi non sa infatti che l’eloquenza e le altre arti sono decadute da quella gloria antica non per
carestia di uomini, ma per l’infingardaggine della gioventù, la noncuranza dei genitori, l’ignoranza
dei maestri e l’oblio del costume antico?1
Del buon costume antico una delle colonne, tanto nell’esercito quanto a scuola, era la severa
disciplina, tant’è vero che Messalla premette questo argomento: “prius de severitate ac disciplina maiorum circa educandos formandosque liberos pauca praedixero”, dirò prima poche parole sulla severità e la
disciplina dei nostri antenati riguardo l’istruzione e l’educazione dei figli.2
Per quanto riguarda la disciplina militare è emblematico l’episodio di Tito Manlio Torquato.
Questo console durante la guerra con i Latini (340-338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva
osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre. Su un piatto della bilancia il console
mette la caritas per il figlio e pure l’ammirazione per la virtus del ragazzo che però è stato ingannato da una vana imagine decoris (vana immagine di onore); sull’altro ci sono i consulum imperia, gli ordini del console e la disciplina militare. Il conto finale è l’ordine secco dell’esecuzione capitale: “I, lictor, deliga ad palum” (I, 8, 20), vai littore, legalo al palo.
durrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’hanno
imparata, per incuria della memoria, poiché per fiducia
nella scrittura, ricordano dall’esterno, da segni estranei,
non dall’interno, essi da se stessi: dunque non hai trovato
un farmaco della memoria ma del ricordo”(275a). Così
viene confutata la tecnologia da Platone.
La “ragione grafica” ha invaso ormai il mondo dell’informazione e della comunicazione, persino la memoria è
divenuta uno scriba. Del resto anche in latino parole come
obliviscor “dimentico” e oblivio “dimenticanza” traggono la
propria significazione dal gesto di eradere una superficie su
cui sono state tracciate delle lettere
Quanto alla desidia, lo stesso Tacito nell’Agricola (del 98)
ne segnala la pericolosità per l’ingegno e gli studi, in quanto essa crea l’assuefazione e la dipendenza: “ut corpora nostra
lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris
facilius quam revocaveris: subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo,
et invisa primo desidia postremo amatur” (3, 1), come i nostri
corpi lentamente crescono, in fretta si estinguono, così le
attività dell’ingegno si possono più facilmente schiacciare
che risvegliare: infatti si insinua anche il piacere dell’inerzia
stessa e l’inattività dapprima odiosa finisce col farsi amare.
2 La disciplina non solo fa parte del mos dei Romani ma
costituisce addirittura uno degli aspetti del fas.
Maurizio Bettini chiarisce bene la differenza di significato tra fas e mos. “Dunque, il mos collettivo si configura
come una decisione presa da un “gruppo”, il quale raggiunge un consensus su un certo comportamento: dopo di
che, il medesimo gruppo ha la capacità di affermare nel
tempo questo tipo di comportamento, trasformandolo
1 Oblivio e desidia sono due parole chiave.
Nell’Odissea dimenticare è il verbo più negativo (cfr. !
!
Odissea, IX, 97, dimenticare il ritorno:
“Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere,
la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare
l’Odissea. Ma anche l’aedo che compone improvvisando o
il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati
non devono dimenticare se vogliono “dire il ritorno”; per
chi canta versi senza l’appoggio di un testo scritto “dimenticare” è il verbo più negativo che esista; e per loro “dimenticare il ritorno” vuol dire dimenticare i poemi chiamati
nostoi, cavallo di battaglia del loro repertorio” (I. Calvino,
Perché leggere i classici, Einaudi, Milano 1995, pp. 15-16).
Dimenticare viceversa è uno dei vizi di Trimalchione
che lo denuncia da solo: “Tam bonae memoriae sum, ut frequenter nomen meum obliviscar” (Satyricon, 66), ho una memoria così buona che spesso dimentico il mio nome.
I ragazzi oggi usano sempre meno la memoria, come
aveva previsto Platone nel mito di Theuth del Fedro.
Il dio Theuth è il Prometeo o l’Hermes degli Egiziani:
egli si reca dal re Thamus, che dovrebbe corrispondere ad
Ammone, quindi a Zeus, e gli presenta le sue invenzioni
elogiandole: i numeri, il calcolo, l’astronomia, la geometria,
il tavoliere, i dadi, e le lettere; di queste in particolare dice:
“renderanno gli Egiziani più saggi e più capaci di ricordare: è stato trovato un farmaco della memoria e della
sapienza” (274e); ma il “re di tutto quanto l’Egitto”, rispose: “tu, essendo il padre della scrittura, per benevolenza hai
detto il contrario di quanto essa può. Questa infatti pro-
20
G. De Sanctis commenta questa guerra notando che la forza vincente dei Romani era “la consuetudine di sfruttare nella lotta per l’esistenza tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna
compassione di sé” (Storia Dei Romani, vol II, p. 261). A chi si intebnde di greco, T. M. Torquato fa
venire in mente Creonte dell’Antigone in particolare quando dice: “Non c’è male più grande dell’a! &
$
! ). / Essa manda in rovina le città, questa ribalta / le
narchia (
famiglie, questa nella battaglia spezza / le schiere dell’esercito in fuga; invece le molte vite / di quel"!
! )”, vv. 672-675).
li che vincono, le salva la disciplina ( "!$
La bellezza della disciplina militare viene rimpianta anche dall’eroe Germanico durante la rivolta delle sue legioni dopo la morte di Augusto (14 d. C.): parlando ai soldati che poi gli si sottomettono, domanda loro dove fossero finiti la modestia militaris, ubi veteris disciplinae decus (Annales, I,
35) la subordinazione militare, dove lo splendore dell’antica disciplina.
Così dovrebbe essere anche nella scuola e in casa secondo i tradizionalisti.
Sentiamo ora la polemica di Messalla3: “Nam pridem suus cuique filius, ex casta parente natus, non in
cellula emptae nutricis, sed gremio ac sinu matris educabatur, cuius praecipua laus erat tueri domum et inservire
liberis” (28), infatti nei tempi antichi a ciascuno il figlio nato da casta madre veniva allevato non
nella cella di una nutrice prezzolata ma nel grembo e nel seno della madre la cui lode particolare
era custodire la casa e prestare le proprie cure ai figli. L’ottima maestra iniziale dunque deve essere la madre e la prima educazione sana si succhia con il latte materno. In certi momenti poteva
fare le veci della madre una parente anziana (maior aliqua natu propinqua ) che doveva essere comunque probatis spectatisque moribus, di eccellenti e specchiati costumi e davanti a lei nessuno poteva dire
parole turpi o fare atti sconvenienti. Tale donna poteva anche essere la madre, come Cornelia per
i Gracchi, Aurelia per Cesare, Azia per Augusto. Questa disciplina severa (quae disciplina ac severitas)
conservava la integrità della buona natura, la motivava alle arti liberali e a dedicarsi completamente allo studio del ramo prescelto, fosse questo l’arte militare, il diritto o l’eloquenza.
così in mos o mores” (M. Bettini, Le orecchie di Hermes,
Einaudi, Torino 2000, p. 257). Il mos allora nasce dal consensus. “Cicerone, Tusculanae, I, 35, afferma persino che il
consensus di tutti corrisponde alla “naturalità”: “Quodsi
omnium consensus naturae vox est, omnesque qui ubique sunt consentiunt esse aliquid (…) nobis quoque idem existimandum est”
(ivi, p. 253, n. 27), se il consenso di tutti è voce di natura,
e tutti dappertutto sono d’accordo su qualcosa... anche noi
dobbiamo pensare lo stesso.
La consuetudo poi impone l’affermarsi del mos lungo lo
scorrere del tempo e il volgere delle stagioni.
In questo senso il mos si presenta profondamente diverso da ciò che i Romani definivano fas: la parola divina (cfr.
P. Cipriano, Fas e nefas, Università degli Studi di Roma,
Istituto di Glottologia, Roma 1978), simile a quella che si
esprime nel fatum o “destino”; quella “parola” impersonale che solo esistendo manifesta la volontà degli dèi e si realizza nella forma di un “diritto divino” che è appunto nefas
violare (cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, II, pp. 348-349)
Nella rappresentazione culturale romana, il fas è qualche
cosa che si impone da solo, indipendentemente dal iudicium
individuale della persona... Il fas sta scritto direttamente
nella natura. Esso costituisce la regola che prescrive di non
commettere certe azioni di particolare gravità, la cui
mostruosità è fuori discussione. Perché il fas agisca come
norma di comportamento, non c’è dunque bisogno di un
gruppo che su di esso ha raggiunto un consensus, né di una
consuetudo che si afferma nel tempo...
Mos e fas sono due cose diverse, e possono non coincidere. Interessante il modo in cui, negli Annali di Tacito,
viene riportata la domanda che il legato Bleso avrebbe
rivolto ai soldati che minacciavano una rivolta: “Cur contra
morem obsequii, contra fas disciplinae vim meditentur?”(Annales, I,
19, 3). Il testo distingue nettamente fra i due diversi tipi di
trasgressione. Il rifiuto dell’obsequium è un atto “contra
morem”: ma non rispettare la disciplina militare, ossia un
modello che a Roma ha un valore culturale fortissimo, è
addirittura inaccettabile, contra fas.
Si veda, ad esempio, Livio, 5, 6, 17, dove la mancanza di
rispetto (espresso dal verbo vereor) per la disciplina compare
alla fine di un elenco di comportamenti rovinosi per la città
di Roma: “non senatum, non magistratus, non leges, non mores maiorum, non instituta patrum, non disciplinam vereri”., è addirittura
inaccettabile, assurdo, contra fas” (Bettini, op. cit., p. 258).
3 Ricorda quella del Discorso Giusto delle Nuvole di
Aristofane contro la nuova educazione propugnata dal
Discorso Ingiusto.
21
è un elogio della disciplina come mezzo per temprare e rendere ottime le nature buone: “Indizi
di una natura aristocratica: non degradare mai i propri doveri, pensando che siano i doveri di tutti;
non voler rinunciare mai alla propria responsabilità e non volere dividerla con nessuno”.4
Ma, lamenta Messalla, ora è tutto cambiato innanzitutto poiché i genitori non si occupano dei
figli e l’educazione avviene per delega: “At nunc natus infans delegatur Graeculae alicui ancillae” (29), ora
il bambino appena nato si affida a un’ancella greca, cui si aggiungono un paio di schiavi dei peggiori. Viene fuori qui l’antipatia dei tradizionalisti italici per la razza dei graeculi, il risentimento che
forse spinse Virgilio a cercare capostipiti troiani piuttosto che greci per i Romani di alto lignaggio.
Ora la delegata è la televisione.
Del resto gli stessi genitori non sono migliori dei loro servi nella decadenza: “Quin etiam ipsi parentes non probitati neque modestiae parvulos adsuefaciunt, sed lasciviae et dicacitati, per quae paulatim impudentia
inr?pit et sui alienique contemptus” che anzi gli stessi genitori non abituano i fanciulli all’onestà e alla
moderazione ma alla sfrenatezza e alla maldicenza attraverso cui a poco a poco si insinuano l’impudenza e il disprezzo di sé e degli altri. Ricorda l’alta considerazione del pudore nelle Nuvole dove il
Discorso Giusto ( ! & !
&) racconta che al tempo dell’antica educazione la moderazione
! , v. 962) era tenuta in gran conto, mentre il ragazzo educato dai cattivi maestri vicever( "
sa, oltre essere impudente, è negatico e controversico ( #
&
&! , vv. 1172-1173),
ossia lui pure incline alla dicacitas.
Quindi Messalla biasima i vizi particolari di Roma propria et peculiaria huius urbis vitia, “paene in utero
matris concipi mihi videntur, histrionalis favor et gladiatorum equorumque studia” (29), sembrano quasi concepiti nello stesso grembo materno, la simpatia per gli istrioni, la passione per i gladiatori e i cavalli. Nell’animo dei ragazzi occupatus et obsessus, occupato e bloccato da tali studia non rimane spazio
per l’interesse nei confronti delle arti liberali. Perfino i maestri si adeguano ai gusti della plebaglia:
“colligunt enim discipulos non severitate disciplinae nec ingenii experimento, sed ambitione salutationum et inlecebris adulationis”, infatti raccolgono i discepoli non con la severità della disciplina né con la prova
dell’ingegno, ma con la compiacenza interessata degli omaggi e con le lusinghe dell’adulazione. La
scuola, continua Messalla (30), non fa più studiare gli autori né l’antichità, né la storia. Si cercano
solo le lezioni dei retori. Anche negli ultimi tempi si leggono poco gli auctores mentre si dà grande
importanza al didattichese, alla retorica delle “conoscenze” e “competenze” vuote o semivuote di
contenuti, e i pochi testi presi in considerazione vengono commentati soltanto con il mostrare le
figure retoriche. Vesciche piene d’aria.
La disciplina di una volta esigeva che gli oratori possedessero un’ottima cultura generale:
Cicerone, che Messalla indica come un modello, nel Brutus, dopo avere fatto la storia dell’eloquenza, indica la complessità della sua preparazione che spaziava dal diritto civile, alla filosofia,
alla geometria, alla musica, alla grammatica, alla logica, all’etica, alla fisica, non senza le arti liberali. Dunque: “ex multa eruditione et plurimis artibus et omnium rerum scientia exundat et exuberat illa admirabilis eloquentia” (30), da una grande istruzione e moltissime discipline e da una cultura completa
trabocca e fluisce quella meravigliosa eloquenza5.
4 F. Nietzsche, Di là dal bene e dal male, tr. it. Mursia,
Milano, 1977, p.202.
5 Secondo Cicerone la conoscenza dei fatti storici e di
quelli letterari è indispensabile finanche alla crescita della
persona; lo afferma nell’Orator: “Nescire autem quam natus
sis acciderit, id est semper essere puerum. Quid enim est aetas homi-
nis, nisi ea memoria rerum veterum cum superiore aetate contexerit?”(120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima
che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragzzo. Che
cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si intesse con la
vita di quelli venuti prima attraverso la memoria storica?
22
Fine della convivialità
Cibo e parola
L’episodio successivo del Satyricon è quello centrale della cena di Trimalchione dove trionfano,
con il padrone di casa, il cibo, il cattivo gusto, l’impudenza, la volgarità, e il sesso viene raccontato come strumento di ascesa sociale.
“Nella tradizione “alta” filosofica della letteratura conviviale, il cibo di norma non compare, è
come censurato: il simposio ha inizio quando il banchetto è giunto al termine… Nel convito di
Trimalchione la prospettiva è completamente rovesciata: il cibo domina la parola. è stato dimostrato che la Cena per molti aspetti è costruita come il rovesciamento del Simposio”1. Stiamo per
assistere a uno di quei conviti volgari che Seneca consiglia di schivare per togliere occasioni all’ira: “vitare vulgares convictos memento” (De ira, II, 28).
La Cena viene annunciata da uno schiavo di Agamennone: “unus servus Agamemnonis interpellavit
trepidantes et: “quid vos?” inquit “nescitis, hodie apud quem fiat? Trimalchio, lautissimus homo, horologium in
triclinio et bucinatorem habet subornatum, ut subinde sciat, quantum de vita perdiderit” (26, 8-9), interruppe
la nostra agitazione e disse: “ma come? non sapete da chi oggi si fa festa? Trimalchione, uomo
sontuosissimo, ha un orologio2 nella sala da pranzo e un trombettiere addetto, per sapere ogni
momento quanta parte di vita abbia perduto.
Ora vediamo qualche aspetto di questa famigerata Cena cui gli scholastici Encolpio, Ascilto e
Agamennone assistono sbalorditi, un poco come noi.
1 G. B. Conte, Scriptorium Classicum cit., 6, p. 6.
2 Probabilmente ad acqua. “A questo punto si potreb-
La mescita” il cui motivo principale è quello del tradimento di Molly-Penelope. “Cucù… Pendola rintoccò”]. Perché
tutto questo accadesse era necessario – si capisce – che si
sviluppasse non solo la tecnica moderna della misurazione
del tempo, ma anche il sentimento moderno, che vede nel
prodotto di quella tecnica il nostro carnefice: era necessario, insomma, che Balzac dicesse l’uomo “garrotté par le
temps” e Baudelaire facesse dell’Horloge uno dei personaggi
delle Fleurs du Mal, aggiungendolo ai simboli ancestrali (“au
vent, à la vague, à l’étoile, à l’oiseau, à tout ce qui fuit”). Certo, la
latinità ha conosciuto quasi tutte le sfumature del sentimento soggettivo del tempo, da quella più ovvia del fugerit
invida aetas [Orazio, Odi, I, 11, vv. 7-8] sino a quella più rara
e opposta della lentezza insopportabile (così Ovidio nei
Tristia)… In certo senso, tutta la Cena è un esorcismo contro il tempo (conformemente all’antichissimo motivo conviviale); ed un esorcismo simile è anche la finta morte del
finale”. (M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea, Bulzoni,
Roma 1981, p. 139).
be situare la risposta a una perplessità più che legittima:
perché l’orologio di Trimalcione (dico l’oggetto in se stesso) non riappare nel corso della Cena? Per la verità, non si
può trascurare il fatto che il progetto del monumento
funebre includa anche un orologio (“horologium in medio, ut
quisquis horas inspiciet, velit nolit, nomem meum legat” (71, 11), in
mezzo ci deve stare un orologio affinché, chiunque guarderà l’ora, voglia o non voglia, legga il mio nome.); graziosa invenzione, che testimonia l’attaccamento di
Trimalcione all’oggetto e ai suoi valori simbolici, ma che
non basta a fare dello horologium una presenza tematica...
Gioverà ricordare, piuttosto, che l’impiego tematico dell’orologio, nella narrativa, è cosa molto moderna.
S’intende che il caso letterario più singolare resta
quello di Joyce, che con abilissima ostinazione fa attraversare tutto l’enorme edificio di Ulysses dal tema, grottesco e
straziante, di quel celebre orologio a cucù, persecutore di
Mr. Bloom [Particolarmente nell’XI capitolo “Le sirene -
31
Cibo e sesso
Trimalchione, il “tre volte potente” appare nella palestra delle terme come un anziano calvo che,
vestito con una tunica rossa, gioca a palla in mezzo a ragazzi zazzeruti (27).
Una scena questa ripresa dal romanzo Quo vadis? di H. Sienkiewicz (del 1896): “Le reminiscenze del Satyricon non si limitano agli aspetti di macroscopica evidenza: Nerone a banchetto
equivale al Trimalchione della cena, sulla scia di un’analogia in voga ancor oggi fra i critici petroniani, e i conviti a corte seguono lo schema della cena petroniana): esse sono presenti nei più
impensati dettagli (ad esempio Ligia e il piccolo Aulo che giuocano a palla assistiti dagli spheristae
ricordano Trimalchione che giuoca a palla nelle terme con l’assistenza degli schiavetti; Vinicio che
giunge in ritardo, per di più ubriaco fradicio, al banchetto ricorda il comportamento di Abinna
nella cena petroniana”3.
Quindi il liberto straricco si avvia verso casa portato su una lettiga, avvolto in una coperta scarlatta, preceduto da quattro battistrada agghindati e da una carrozzina a mano “chiramaxio in quo deliciae eius vehebantur, puer vetulus, lippus domino Trimalchione deformior” (28), nella quale veniva trasportato il suo tesoruccio, un giovane vecchietto, cisposo, più brutto del suo padrone Trimalchione.
Questo amasio giovane-vecchio sembra incarnare alcuni tra i vizi del padrone: il cattivo gusto,
la bruttezza che si individua, come la bellezza, immediatamente negli occhi, l’omosessualità congiunta all’adulterio. La sua età ibrida e il suo aspetto deforme fanno pensare addirittura ai mostri
dei primordi. Oppure ai neonati dalle tempie bianche (
!
, Opere, v. 181) della bassa
età del ferro di Esiodo, o anche alla vita, come viene apostrofata dal duca di Vienna travestito da
frate in Misura per misura di Shakespeare (del 1604): “Thou hast nor youth nor age / But as it were an
after dinner sleep / Dreaming of both” (III, 1), tu non hai giovinezza né vecchiaia, ma è come se dormissi dopo pranzo sognando di entrambe queste età4.
Poi i giovani giungono alla casa di Trimalchione ed entrano nella sala da pranzo dove cominciano a mangiare un antipasto molto ricco (gustatio valde lauta, 31, 8). Per ultimo fa il suo ingresso
il padrone: “cui locus novo more primus servabatur” (31, 8) al quale era riservato il primo posto con
insolita procedura. Infatti il primo posto del primo letto (summus in summo) era riservato all’ospite
di maggior riguardo; mentre all’ospitante era destinato il primo posto del terzo letto (summus in
imo).
Vediamo dunque l’entrata in scena di questo primo uomo: “In his eramus lautitiis, cum ipse
Trimalchio ad symphoniam allatus est positusque inter cervicalia minutissima expressit imprudentibus risum” (32,
1), eravamo in mezzo a questo lusso, quand’ecco che fu portato dentro a suon di musica lo stesso Trimalchione e situato tra cuscini minuscoli strappò una risata inconsulta.
3 P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, cit., vol. IV,
un lato, alla spagnola; tutta ritinta, vestita con goffa eleganza di seta rossa sgargiante, un ventaglio di piume in una
mano e l’altra mano levata a sorreggere tra due dita la sigaretta accesa”.
4 Queste parole costituiscono l’epigrafe del già citato
Gerontion di Eliot.
p. 152. Forse di questa apparizione e di quello che segue si
è ricordato Pirandello nella didascalia che descrive l’ingresso in scena di Madama Pace, la ruffiana della Figliastra dei
Sei personaggi: “megera d’enorme grassezza, con una pomposa parrucca di lana color carota e una rosa fiammante da
36
Esibizione e vanitas
Entrato, sempre addobbato di rosso, Trimalchione, come s’è già detto, ostenta gli anelli portati
nella mano sinistra: uno grande placcato d’oro (anulum grandem subauratum 32, 3) e uno d’oro massiccio ma tutto come costellato di pezzetti di ferro (totum aureum, sed plane ferreis veluti stellis ferruminatum), quindi denuda il braccio destro armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo (32,
4), ornato da un bracciale d’oro e di un cerchio d’avorio intrecciato con una lamina luccicante, infine si cincischiò i denti con uno stuzzichino d’argento (pinna argentea dentes perf?dit, 33). è un monumento classico, aere perennius, al cattivo gusto, alla volgarità dell’eterno cafone arricchito.5
Un’altra volgarità colossale fuoriesce dalla bocca di questo signore in rosso quando viene portato un vino etichettato come vecchio di cento anni, “Falernum Opimianum6 annorum centum”.
L’anfitrione dunque batté le mani ed esclamò: “eheu… ergo diutius vivit vinum quam homuncio. quare
tangomenas faciamus. vita vinum est. verum Opimianum praesto. heri non tam bonum posui, et multo honestiores
cenabant” (34), ahimé... dunque il vino vive più a lungo dell’omuncolo. perciò facciamo baldoria. è
vita il vino. per giunta vi offro dell’Opimiano. Ieri ne ho messo in tavola di meno buono e avevo
a cena gente di maggior riguardo.
Il tema della vanitas della vita umana prosegue attraverso l’ostensione di uno scheletrino d’argento (larva argentea, 34, 8) snodabile che il padrone gettò sulla mensa facendogli assumere diverse posizioni, quindi aggiunse due esametri e un pentametro: “eheu nos miseros, quam totus homuncio nil
est! / sic erimus cuncti, postquam nos auferet Orcus. / Ergo vivamus, dum licet esse bene.” (34, 10), ahi poveri noi, come tutto l’omuncolo è nulla! così saremo tutti, dopoché l’Orco ci avrà portato via.
Dunque viviamo, finché è consentito stare bene.7 Il vivamus di Trimalchione come risposta alla
vanitas della vita ricorda quello di Catullo (5, 1) che però è coordinato all’amemus senza il quale non
c’è vita, mentre questo gli subordina un benessere di altro genere.
5 “La storia degli anelli d’oro: il più interessante capi-
Nigrino, 21).
6 Risalirebbe all’anno del consolato di L. Opimio, il
121 a. C. Una data sicuramente fasulla come le citazioni
letterarie di Trimalchione.
7 Il lamento sulla vanità e insignificanza della vita
umana è coerente con il ridurla a “nascita copula e morte”.
Cito ancora Eliot che nella sua Terra desolata utilizza il
Satyricon, e in Fragment of an agon vv. 33-35, rappresenta gli
uomini rimasti, o tornati, alla scimmia, come Sweeney la cui
formula è “Birth, and copulation and death. / That’s all, that’s all,
that’s all, that’s all, / Birth, and copulation, and death”.(Frammento
di un agone. Nascita, e copula e morte, tutto qui, tutto qui,
tutto qui, tutto qui, Nascita, e copula, e morte).
Eppure tale riduzione non è possibile: “Ciò che è più
biologico – il sesso, la nascita, la morte – è anche ciò che è
maggiormente imbevuto di cultura. Le nostre più elementari attività biologiche – come mangiare, bere, defecare –
sono strettamente legate a norme, divieti, valori, simboli,
miti, riti, cioè a ciò che vi è di più specificamente culturale; le nostre attività più culturali – come parlare, cantare,
danzare, amare, meditare – mettono in moto i nostri corpi
e i nostri organi, tra cui il cervello” (E. Morin, La testa ben
fatta, cit., p. 37).
Il vino che vive ed è vita, oltre farci notare l’allitterazione e la paronomasia, evoca il ricordo delle precedenti
tolo di storia del costume dell’epoca imperiale, particolarmente dell’epoca giulio-claudia... Claudio eredita da
Caligola, ed affina e organizza, il predominio dei liberti
imperiali nella corte. Ma dietro questi tre potentissimi
liberti [Callisto, Pallante eNarcisso] c’è la grande massa di
tutti i liberti, imperiali o non, in tutto l’impero. Sono una
borghesia affaristica e prepotente. Affrontano talora i
rischi della legge, pur di portare l’ anulus aureus, gabellandosi per cavalieri. La pressione di questa borghesia significa soprattutto una cosa: l’intensificazione dell’economia
monetaria... burocrazia (questa burocrazia dei liberti imperiali) significa economia monetaria, intensità di circolazione dei mezzi legali di pagamento. L’economia naturale
delle grosse domus senatorie è colpita a morte” (S.
Mazzarino, L’impero romano cit., 1, pp. 215-216).
Il filosofo Nigrino di Luciano denuncia la pacchianeria dei ricchi romani che si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro cattivo gusto: “come fanno a non
essere ridicoli i ricchi con le loro stesse persone dal
momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita delle mani denunciano il loro
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cattivo gusto?” ( "&
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39
Il banchetto si svolge con diverse sorprese culinarie, piatti strani, sofisticati, conditi perfino con
giochi di parole. Quattro servi portarono un vassoio con pollame, pancetta di scrofa, leporemque in
medio pinnis subornatum, ut Pegasus videretur (36, 2) e nel mezzo una lepre provvista di ali perché sembrasse un Pegaso. Inoltre c’erano quattro statuette di Marsia che versavano il garum piperatum (36,
3) una salsa pepata sopra dei pesci i quali nuotavano come in un canale. Quindi i ghiotti parassiti
applaudono sollecitati dalla servitù: “Damus omnes plausum a familia inceptum et res electissimas aggredimur” (36, 4).
“Non minus et Trimalchio eiusmodi methodio laetus “Carpe” inquit. Processit statim scissor et ad symphoniam
gesticulatus ita laceravit obsonium, ut putares essedarium hydraule cantante pugnare. Ingerebat nihilo minus
Trimalchi lentissima voce: ‘Carpe, carpe’. Ego suspicatus ad aliquam urbanitatem totiens iteratam vocem pertinere, non erubui eum qui supra me accumbebat, hoc ipsum interrogare. At ille, qui saepius eiusmodi ludos spectaverat: ‘vides illum’ inquit ‘qui obsonium carpit: Carpus vocatur. Ita quotienscumque dicit “Carpe”, eodem verbo et
vocat et imperat” (36, 5-8), non meno lieto anche Trimalchione, per tale portata, ordinò: “scalca!”.
Si fece avanti subito lo scalco e, gesticolando a suon di musica, squarciò la pietanza in modo da
farti pensare che un gladiatore sul carro combattesse accompagnato dalla musica di un organo
idraulico. Incalzava nondimeno Trimalchione calcando sulle sillabe: “Scalca, scalca!”. Io, avendo
sospettato che quella parola ripetuta tante volte mirasse a qualche facezia, non mi vergognai di
chiedere proprio questa spiegazione al commensale sdraiato alla mia sinistra. Ma quello, che molto
spesso aveva assistito a giochini del genere, disse: “vedi quello che scalca la pietanza: si chiama
Scalca. Così tutte le volta che dice “scalca!” con la medesima parola lo chiama e gli dà l’ordine.
Fedeli sostiene che “l’elemento caratterizzante in Trimalchione sia la sua ambiguità: nei cibi a
sorpresa che imbandisce ai commensali, nello spingerli continuamente verso soluzioni che si rivelano comunque fallaci, nel modo di comportarsi nei loro confronti (il rapido passaggio dalla lusinga all’insulto dalla querimonia funebre all’invito a godere delle gioie della vita), nel modo di trattare gli schiavi, con subitanei trapassi dall’ambiguità al lassismo… L’ambiguità di Trimalchione si
esplica, talora, anche a livello semantico: basti pensare alla polivalenza di Carpe (36 6), che può
essere imperativo di carpere, vocativo di Carpus (lo schiavo, a cui l’ordine è rivolto) e può nascondere al tempo l’invito a carpere diem, che ben s’inquadra nella tendenza di Trimalchione a filosofeggiare in maniera esistenziale, con frasi di contenuto analogo e soprattutto in questa parte della
cena”8.
Quindi compare la moglie del padrone, Fortunata, sulla quale un commensale, Ermerote fornisce alcuni ragguagli ad Encolpio che gli aveva domandato: “quae esset mulier illa, quae huc atque illuc
discurreret” (37), chi fosse quella donna che correva di qua e di là. In versione moderna e apparentemente più raffinata ci sono le donne eliotiane che banalizzano le grandi figure dell’arte europea:
“In the room the women come and go / Talking of Michelangelo” (The love song of J. Alfred Prufrock9), nella
stanza le donne vanno e vengono parlando di Michelangelo.
celebrazioni letterarie della pianta di Bacco: “non piantare
nessun altro albero prima della vite” scrive Alceo che trova
un’eco precisa in Orazio: “Nullam, Vare, sacra vite prius severis arborem” (Odi, I, 18, 1), non piantare, Varo, nessun albero prima della vite sacra.
Trimalchione che è un latifondista assente dai suoi terreni non si cura della coltivazione ma gode del prodotto
del lavoro altrui.
8 P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, cit., vol. IV,
p. 358.
9 Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, del 1917.
Auerbach nel suo libro su Il realismo nella letteratura occidentale riporta alcune di queste frasi e giudica il linguaggio
di Ermerote “quello un po’ becero e snervato d’un mercante cittadino incolto, pieno di frasi fatte” e, aggiunge, “vi
si sente il tono sanguigno con cui vengono espressi sentimenti vivaci ma triviali”(Mimesis, Il realismo nella lettertura
occidentale, tr. it. Einaudi, Torino 1956, p. 32).
40
La donna della Fortuna
Fortunata è una che ha fatto, con il marito, un’arrampicata sociale, misura i soldi con lo staio
(nummos modio metitur, 37, 2) ha scalato il cielo ed è il factotum di Trimalchione: “in caelum abiit et
Trimalchionis topanta est” (37, 4).
Sembra che il collante della loro unione sia l’interesse economico: anzi degli smisurati beni del
marito assente pare si occupi solo la moglie onnipresente: “ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed
haec lupatria providet omnia, est ubi non putes. est sicca, sobria, bonorum consiliorum – tantum auri vides, – est
tamen malae linguae, pica pulvinaris. quem amat, amat; quem non amat, non amat” (37, 6-8), lui nemmeno
sa quanto possieda tanto è straricco; ma questa troia vede e provvede a tutto, è dove tu non penseresti. è astemia, frugale, di buoni propositi, vedi altrettanto oro, tuttavia ha una brutta lingua,
una gazza da cuscino. Chi ama ama, chi non ama non ama.
Qui si vede che la buona moglie è tale per la sua funzione di amministrare il denaro: ella stessa
anzi diviene un mucchio d’oro (tantum auri) il bene più prezioso per questi nuovi signori del mondo
che sono i liberti il cui motto può essere una sentenza dello stesso Trimalchione: “credite mihi: assem
habeas, assem valeas; habes, habeberis” (77)10, credetemi, hai un asse, vali un asse; hai, sarai considerato. Se Fortunata sia bella o no non è detto, e non ha alcuna importanza; quello che conta è che sia
assimilata all’oro la cui brama ha offuscato e stravolto tutti i valori, come sosterrà più avanti (88)
il vecchio poeta e libertino Eumolpo che Encolpio incontrerà in una pinacoteca.
Il presentatore Ermerote poi dà altre informazioni sull’ambiente e “il denaro resta il criterio
unico di giudizio”11. “Infatti a base di tutte le sue parole sta la convinzione che la ricchezza sia
il bene maggiore, quanto maggiore tanto meglio (“tanta est animi beatitudo”), che la bontà della vita
non stia che nell’abbondanza di ottime cose e nello sguazzarvi, e che ogni uomo, com’è perfettamente naturale, agisce per il suo utile. E con tutto ciò non è egli stesso che un piccolo uomo, pieno
di rispetto e di ammirazione per i ricchissimi. Così dunque costui descrive non soltanto Fortunata,
Trimalcione e i suoi commensali, ma, senza saperlo, anche se stesso. A dir la verità, come vediamo, egli ha un punto di vista alquanto unilaterale, parla più per sentimenti e per associazioni che
per logica, ma dice le cose estesamente e, per così dire, plasticamente, parla col cuore sulle labbra
e senza peli sulla lingua, non lascia nulla nel buio, vuota il sacco…”12.
Trimalchione, secondo Ermerote, va anche oltre il denaro: egli è l’incarnazione dell’onnipotenza che viene dalla proprietà della roba, al punto da non avere più nemmeno bisogno del tramite
del denaro: “Nec est quod putes illum quicquam emere. omnia domi nascuntur: lanae, credrae, piper; lacte gallinaceum si quaesieris, invenies” (38), non c’è da pensare che quello compri qualche cosa. Tutto gli
nasce in casa: lana, cedri, pere; se ti metterai a cercare il latte di gallina lo troverai. A proposito
della falsa onnipotenza della roba si possono ricordare i verghiani Mazzarò e Mastro Don
Gesualdo.
10 Si può notare la struttura paratattica, senza il si.
11 Luca Canali, op. cit., p.38.
12 E. Auerbach, Mimesis cit., p. 32. Nel Bellum Catilinae
da tempo veramente abbiamo perduto la corrispondenza
tra il valore reale dei nomi e le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l’audacia nel male
coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.
Il modello è Tucidide il quale ricorda che durante la
! &) di Corcira ci fu una transvalutazione
guerra civile (
generale e le stesse parole cambiarono il loro significato
originario: “e cambiarono arbitrariamente l’usuale valore
delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l’audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di par-
( 25) Catone, parlando in senato dopo e contro Cesare, il
quale aveva chiesto di punire i congiurati “solo” confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei
municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle
parole: “iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus:
quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est” (52, 11), già
41
Quindi (39) prende la parola Trimalchione stesso, questa volta sfoggiando cultura con una citazione dell’Eneide (sic notus Ulixes?13 ) e menzionando, per la prima ma non ultima volta, l’eroe omerico che nella cultura occidentale significa la personificazione dell’intelligenza, e pure lo scelerum
inventor14, l’orditore di misfatti.
“Non a caso Trimalchione cita Ulisse e in lui s’identifica: lo fa perché in lui vede riflessa la sua
stessa ambiguità e di lui esalta proprio la capacità d’essere polytropos ( è significativo che, sia pure
con motivazioni diverse, ad Ulisse finiscano per richiamarsi tutti i protagonisti del Satyricon:
Encolpio, e con lui Ascilto, è un Ulisse peregrinante; Gitone ed Eumolpo, come si è visto nell’episodio della nave, assumono funzioni di Ulisse: si delinea sempre più una trama di continue allusioni all’Odissea)”.15
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Il prevalere dell’utile nei rapporti umani a partire dal
matrimonio che obbedisce alla logica del mercato è una
costante dei drammi di Ibsen: “in ogni caso la verità che
viene estorta è sempre la stessa: il non amore, il matrimonio senza affetto, le nozze come mercato. Il teatro di Ibsen
è un teatro che non ha storie d’amore, che non conosce le
passioni del cuore... è così dominante siffatta pratica del
matrimonio di calcolo che anche le giovanissime assumono presto questa stessa aria di cinismo. Nella Donna del mare
Hilde è una adolescente ma ragiona già in base al computo dei soldi. La sorella le chiede all’improvviso se accetterebbe una eventuale proposta di matrimonio di
Lyngstrand, e Hilde è prontissima a ribattere: “Per carità!
Non ha un soldo. Non ha da vivere nemmeno per se solo”
(III). Dietro la sovrastruttura del matrimonio, della famiglia,
dei supposti buoni sentimenti, emerge a poco a poco la
grande struttura della società borghese ottocentesca,
dominata dal denaro, dal lavoro, dall’ansia della carriera,
dall’affermazione sociale. Il teatro ibseniano mostra ed evidenzia una tremenda crudeltà nei rapporti interpersonali.
La durezza psicologica dei personaggi è vistosa. In Casa di
bambola Nora parla di prendere in prestito del denaro, ma
dichiara candidamente di non interessarsi punto dei danni
che possono derivare ai creditori. In un mondo in cui le
relazioni sono dominate dal denaro, dalla merce-denaro,
anche i rapporti umani diventano mercificati, anonimi” (R.
Alonge, Epopea borghese nel teatro di Ibsen, Guida Editori,
Napoli, 1983, p. 67)
13 II, 44: Così poco conoscete Ulisse?, detto da
Laocoonte.
14 Ibidem, II, 164
15 P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, cit., vol.
I, p. 358.
, (III, 82, 4).
L’idea che la ricchezza per i più sia il sommo bene e
che esso sia del resto ingannevole, anzi mortale, è uno dei
topoi più diffusi della sapienza antica.
Il culto idolatrico del denaro porta all’annientamento
di ogni altro valore. D. H. Lawrence fa su questo tema una
riflessione che si può collegare al cambiamento dei significati delle parole in certi periodi: “Tutte le grandi parole,
pensava Connie, erano diventate vane per la gente della sua
generazione; amore, gioia, felicità, casa, padre, madre, marito, tutte quelle grandi parole erano presso che morte ora, e
andavano morendo di giorno in giorno. La casa non era che
un luogo dove si viveva; l’amore una cosa che non ingannava più; la gioia una parola da applicarsi a un bel charleston;
la felicità un termine ipocrita usato per ingannare gli altri; il
padre era una persona che si godeva la vita; il marito un
uomo con cui si viveva e si cercava di tenere il buon umore.
E quanto al sesso, l’ultima grande parola, non era che
un nome da cocktail applicato a una eccitazione fugace che divertiva un istante e lasciava più flaccidi di
prima… Il denaro? Forse era un’altra cosa. Si aveva sempre bisogno di denaro. Il denaro, il successo, la dea-cagna...
erano necessità permanenti…Per far muovere il meccanismo della vita, si ha bisogno di denaro. Bisogna averne.
Bisogna avere denaro. Non si ha veramente bisogno di
nient’altro, in fondo. Tutto qui! Non è colpa nostra se viviamo; e, dal momento che viviamo, il denaro è una necessità,
la sola necessità assoluta. Di ogni altra cosa, alla peggio, si
può fare a meno. Ma non del denaro. Per l’ultima volta:
tutto qui!”. (D. H. Lawrence, L’amante di Lady Chatterly (del
1928), tr. it. Mondadori, Milano 1980, p. 80)
42
Fine del buon gusto
Superstizioni
Anche in mezzo a una cena, si elogia da solo il padrone di casa, bisogna dare prova di avere fatto
studi letterari: “oportet etiam inter cenandum philologiam nosse” (38, 4). Seguono infatti altre citazioni,
per lo più spropositate, con le quali il liberto arricchito cerca di autorizzarsi come persona colta,
risultando invece risibile e patetico, al pari di alcuni politici nostri quando provano a mettersi in
bocca il latino.
La prima competenza sfoggiata dal padrone di casa è quella astrologica sulla scorta degli
Astronomica un poema di cinque libri, in esametri, che descrivono le costellazioni e l’influsso degli
astri sul destino degli uomini. L’autore, Manilio, visse sotto Augusto e Tiberio. Alcune caratteristiche attribuite ai nati sotto i vari segni sono rimaste simili: gli scorpioni, per esempio, tendenzialmente sono venenarii et percussores (39, 11) avvelenatori e assassini1.
Vengono definiti tutti dodici i segni i cui influssi corrispondono abbastanza a quelli attribuiti
dagli astrologi moderni: sotto i gemelli (in geminis ) nascono bighe buoi coglioni “et qui utrosque parietes linunt” (39, 7), quelli che tengono i piedi in due staffe si dice ora. Trimalchione invece è un cancro: “in cancro ego natus sum, ideo multis pedibus sto, et in mari et in terra multa possideo; nam cancer et hoc et
illoc quadrat” (Satyricon , 39, 8), io sono nato sotto il cancro, perciò mi reggo su molti piedi e possiedo molto mare e in terra; infatti il cancro fa quadrare da una parte e dall’altra. è una definizione sintetica della sua identità di “gigante dell’intrapresa privata”2. Anche Manilio attribuisce ai
nati sotto il segno del Cancro abilità nel fare i soldi (Astronomica , IV, 162 sgg.).
Tale competenza astrologica suscita l’applauso dei parassiti, un omaggio sicuramente atteso e
gradito da Trimalchione: “”Sophos!” universi clamamus et sublatis manibus ad camaram iuramus Hipparchum
Aratumque comparandos illi homines non fuisse” (40), bene3, gridiamo tutti insieme e, sollevate le mani al
soffitto, giuriamo che Ipparco e Arato non sono stati uomini da paragonare con lui.
1 Macbeth che ha ucciso il suo re, e ha il pensiero avvelenato, dice alla moglie che l’ha aizzato: “O, full of scorpions
is my mind, dear wife!” (III, 3), ho l’anima piena di scorpioni,
moglie cara!
Una curiosità per chi si diletta di astrologia che ancora attribuisce a questo segno tendenze del genere. Lo scorpione era l’emblema delle coorti pretorie e il segno zodiacale dell’imperatore Tiberio che aveva concentrato questa
milizia scelta a Roma nei castra praetoria , se non l’aveva
addirittura fondata. La tradizione senatoriale confluita in
Tacito e in Svetonio ne ha fatto un ipocrita sanguinario
fraintendendo spesso la moderatio di questo princeps: “come
tutti gli uomini incerti, egli è apparso o vile o mendace;
come tutti i dubbiosi (egli si doveva sentire assai piccolo in
confronto col suo grande predecessore), è apparso un ipocrita” S. Mazzarino, L’impero romano cit., vol. I, p. 138).
Tacito sembra confermare la reputazione, ancora viva, che
lo scorpione sia il segno degli assassini: “nam legem maiestatis reduxerat” (Annales , I, 72), (Tiberio) infatti aveva rimesso in vigore la legge di lesa maestà, promuovendone la più
spietata applicazione. Anche Ovidio raffigura lo Scorpione
come una costellazione dalla forma cattiva: il Sole avvisa il
figlio Fetonte, il quale gli ha chiesto di prestargli il suo
carro, che dovrà affrontare tra gli altri: “saevaque circuitu curvantem bracchia longo / Scorpion” (Metamorfosi, II, 82-83), lo
Scorpione che piega le chele feroci in un lungo circuito.
Poco dopo il ragazzo terrorizzato lo vide “nigri madidum
sudore veneni / vulnera curvata minitantem cuspide” (vv. 198199), mentre, grondante sudore di nero veleno, minacciava di ferirlo con la punta della coda girata. Fu allora che al
giovane caddero le briglie di mano.
2 Luca Canali, op. cit., p. 24.
3 Sophos traslittera
"&, opportunamente per adulare uno che si picca di conoscere la philologia e dovrebbe
43
Dopo l’ingresso di nuovi piatti, sempre preparati e disposti con il fine di sbalordire gli invitati,
intervengono altri commensali. Seleuco esordisce con un’affermazione contraria alla forma di cultus minima che è il lavarsi: “ego – inquit – non cotidie lavor; baliscus enim fullo est, aqua dentes habet, et cor
nostrum cotidie liquescit” (42), io, disse, non faccio il bagno tutti i giorni; infatti il bagno è un lavandaio, l’acqua ha i denti, e il nostro cuore si liquefa ogni giorno. Potrebbe essere una posa di origine cinico-socratica4: infatti questo liberto procede con qualche velleità filosofica tornando sul
tema della vanitas ispirato da un funerale dal quale è appena tornato: “heu, eheu. utres inflati ambulamus. minoris quam muscae sumus, <muscae> tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam bullae” (42, 4), ahi ahi, giriamo come otri gonfiati. siamo meno delle mosche; le mosche almeno qualche capacità ce l’hanno, noi non siamo più che bolle5.
Segue una tirata, “catoniana” contro i medici che hanno mandato in rovina Crisanto, l’amico
morto; il medico quando non fa danno è solo una consolazione dello spirito depresso: “medicus
enim nihil aliud est quam animi consolatio” (42, 5)6. Poiché la moglie del defunto è stata avara di lacrime, Seleuco conclude con una tirata contro le donne: “sed mulier quae mulier milvinum genus” (42, 7),
ma una donna che sia una donna è una razza rapace, e con una diagnosi catastrofica del mal d’amore: “sed antiquus amor cancer est”.
Un altro convitato, Filerote, fa l’elogio funebre del morto, pur senza nasconderne i difetti poiché, afferma: “linguam caninam comedi” (43, 3), ho mangiato lingua di cane, cioè ho assunto la spudoratezza dei cani. Dopo questo modo di dire proverbiale, e probabilmente popolare siccome non
attestato da fonti letterarie7, nel geniale pastiche linguistico di Petronio troviamo una nota espressione dell’ Edipo re di Sofocle il cui protagonista dice: “Io, stimando me stesso figlio della Fortuna
& ! &) / di quella che dà il bene, non rimarrò senza onore” (vv. 1080-1081). E Filerote:
(
“plane Fortunae filius, in manu illius plumbum aurum fiebat” (43, 7), davvero figlio della Fortuna, in mano
sua il piombo diventava oro.
Il modello sofocleo viene degradato dal fatto che la presunzione di essere
*) *) ! ) a Edipo
dovrebbe portare onore, mentre questo defunto è considerato plane Fortunae filius per i miseri quattrini che ha accumulato. I quattrini del resto hanno aiutato il liberto oramai estinto a portare bene
l’età fin oltre i settanta, a non diventare canuto (“aetatem bene gerebat, niger tamquam corvus”, probabilmente si tingeva ), mentre il figlio di Laio per la vergogna del disonore e per lo schifo dei suoi errori si cava gli occhi dopo avere esecrato ricchezza e potere (v. 380 e sgg.). Ma Edipo è altro tipo d’uomo: “Il nocciolo di quella vita era nobile, era di razza, poiché non mirava ai miseri quattrini, mirava
alle stelle”, potremmo dire di lui come fa H. Hesse per uno dei sui personaggi più noti.8
essere dicti studiosus. Così si definiva Ennio con un calco dal
greco
!
&. Ipparco di Nicea è uno dei massimi
astronomi greci, del II sec. a. C. , e Arato di Soli (315ca 240 ca a. C.), vissuto a lungo alla corte di Antigono Gonata
re di Macedonia, scrisse un poemetto astronomico in 1154
esametri, i Fenomeni che fu tradotto in latino da Varrone
Atacino, Cicerone e Germanico, il nipote di Tiberio.
4 Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli
uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto
tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a
lavarsi: “ ( &
!
&” (Nuvole,
v. 837). il Coro degli Uccelli più specificamente qualifica
Socrate come
& (v. 1553), non lavato.
5 Le bullae fanno pensare alla istantaneità tragica della
vita. Così la ricorda il Coro di morti nello studio di
Federico Ruysch: “Che fummo? / Che fu quel punto acerbo / Che di vita ebbe nome?” (G. Leopardi, Dialogo di
Federico Ruysch e delle sue mummie)
6 Quest’ultima affermazione mi sembra acuta. Voglio
aggiungerne un’altra di Proust, un malato cronico, ancora
più radicale contro la genia aborrita da Catone, e non solo:
“Per un’affezione che guariscono con i loro medicamenti
(almeno, c’è chi sostiene che qualche volta ciò accade), i
medici ne provocano altre dieci, in molti soggetti sani, inoculando loro quell’agente patogeno, cento volte più virulento di qualunque microbo, che è l’idea di una malattia” (I
Guermantes, cit., p. 327).
7 Quintiliano parla di canina facundia (12, 9, 9 ).
8 H. Hesse, Il lupo della steppa, tr. it. Adelphi, Milano
1981, p. 188).
44
Quindi (44) parla Ganimede dando voce a credenze popolari che si trovano anche nella letteratura alta: che la carestia (annona) e la siccità (siccitas) dipendano, in ultima analisi, dall’empietà. è
!&), la fame (
!&) e la sterilità, sono causate dal
la tesi dell’ Edipo re di Sofocle dove la peste (
!
provocato dai delitti dal !
&. Secondo questo liberto c’è una combutta degli edili,
ispettori del mercato, con i fornai: “itaque populus minutus laborat; nam istae maiores maxillae semper
Saturnalia agunt”, e così il popolino sta male; infatti questi ganascioni fanno sempre carnevale. Nel
buon tempo antico invece il pane costava quasi niente: “asse panem quem emisses, non potuisses cum altero devorare” (44, 11), il pane che avessi comprato con un asse non saresti riuscito a mangiarlo in
due. Ma ultimamente le cose vanno di male in peggio: “nunc oculum bublum vidi maiorem. heu, heu, quotidie peius. haec colonia retroversus crescit tamquam coda vituli” (44, 12), ora ho visto un occhio di bue più
grande. Ahi, ahi, ogni giorno peggio. Questa colonia cresce all’ingiù come la coda di un vitello.
Seguono altre espressioni colorite e geniali che traggono origine, nell’autore del Satyricon, dall’osservazione del popolo e dalla conoscenza di Aristofane: “sed quare nos habemus aedilem trium cauniarum, qui sibi mavult assem quam vitam nostram?… sed si nos coleos haberemus, non tantum sibi placeret. nunc
populus est domi leones, foras vulpes” (44, 13-14), ma perché ci teniamo un edile che vale tre fichi secchi, uno che preferisce un asse per sé alla nostra vita?… ma se noi avessimo i coglioni non sarebbe tanto soddisfatto di sé. ora la gente in casa è fatta di leoni, fuori di volpi9.
La causa più vera però, secondo Ganimede, è l’ira degli dèi per l’immoralità e l’irreligiosità, l’idolatria degli uomini adoratori del denaro, la decadenza della pietas negli uomini e nelle donne:
“ego puto omnia illa a diibus fieri. nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili
facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis,
mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut numquam: et omnes redibant udi tamquam mures. itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri iacent...” (44, 1718), io credo che tutto questo derivi dagli dèi. Nessuno infatti considera il cielo cielo, nessuno
rispetta il digiuno, nessuno stima un pelo Giove, ma tutti a occhi chiusi fanno il conto dei loro
possessi. Prima le matrone in stola salivano a piedi nudi sul colle del Campidoglio, con i capelli
sciolti, i cuori puri, e supplicavano Giove per l’acqua. E così subito pioveva a catinelle: o allora o
mai più: e tutti tornavano bagnati come topi. ora gli dèi hanno i piedi felpati. Poiché non abbiamo religione, i campi sono abbandonati).
Corporalità
Trimalchione, rientrato da un’uscita igienica, dà un altro saggio di colossale volgarità lamentando
i propri disturbi intestinali e dando licenza a tutti di non badare all’etichetta trattenendo le flatulenze: “alioquin circa stomachum mihi sonat, putes taurum. itaque si quis vestrum voluerit sua re causa facere, non
est quod illum pudeatur. nemo nostrum solide natus est. ego nullum puto tam magnum esse tormentum quam continere. nemo nostrum solide natus est” (47), altrimenti ho un rimbombo intorno allo stomaco, un toro, fate
conto. Pertanto, se qualcuno di voi volesse fare i suoi comodi, non ha di che vergognarsi. Nessuno
di noi è nato senza fessure. Io penso che non ci sia tormento tanto grande quanto trattenersi.
Ho riferito queste frasi sgradevoli poiché hanno una corrispondenza abbastanza puntuale nella
Vita di Claudio di Svetonio: “Dicitur etiam meditatus edictum, quo veniam daret flatum crepitumque ventris
in convivio emittendi, cum periclitatum quendam prae pudore ex continentia repperisset” (32), si dice pure che
9domi leones, foras vulpes: espressione analoga si trova nella
Parabasi della Pace di Aristofane (del 421):
'
!
'
!
(
!
sono leoni, in battaglia volpi.
45
' (vv. 1189-90) in casa
avesse preparato un editto con il quale concedeva licenza di emettere flatulenze e crepiti di ventre
durante la cena, avendo saputo che un tale aveva corso pericolo in seguito al fatto di essersi trattenuto per la vergogna. A proposito di edicta ignobili e di festini senza gioia.
Quindi il padrone di casa vanta i suoi smisurati e sconosciuti latifondi: “deorum beneficio non emo,
sed nunc quicquid ad salivam facit, in suburbano nascitur eo, quod ego adhuc non novi. dicitur confine esse
Tarraciniensibus et Tarentinis. nunc coniungere agellis Siciliam volo, ut cum Africam libuerit ire, per meos fines
navigem” (48, 2), grazie a dio non compro niente, ma ora tutto quanto fa venire l’acquolina in bocca
nasce in quel podere vicino alla città che io ancora non conosco. Si dice che fa da confine con le
terre di Terracina e quelle di Taranto. Ora con dei campicelli voglio unire la Sicilia, in modo che,
quando mi andrà di recarmi in Africa, possa navigare lungo le mie terre.
Qui si trova il problema del latifondo che si estende dal I secolo d. C. a partire dall’Africa10.
Segue un altro sfoggio di cultura letteraria indirizzato dal padrone di casa all’ospite colto, al retore Agamennone: “”ego autem si causas non ago, in domusionem tamen litteras didici11. et ne me putes studia
fastiditum, tres bybliothecas habeo, unam Graecam, alteram Latinam12. dic ergo13, si me amas, peristasim declamationis14 tuae”. Cum dixisset Agamemnon: “pauper et dives inimici erant”, ait Trimalchio: “quid est pauper?”
“Urbane”15 inquit Agamemnon, et nescio quam controversiam exposuit. Statim Trimalchio: “hoc” inquit “si factum est, controversia16 non est; si factum non est, nihil est”. Haec aliaque cum effusissimis prosequeremur laudationibus: “rogo” inquit “Agamemnon mihi carissime, numquid duodecim aerumnas Herculis tenes, aut de Ulixe
fabulam17, quemadmodum illi Cyclops pollicem poricino extorsit? solebam haec puer apud Homerum legere. nam
Sybillam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “
respondebat illa: “
”” (48, 8), io anche se non tratto cause, tuttavia ho studiato le lettere per uso della casa. E perché tu non pensi che sia schifato degli studi, ho tre biblioteche, una greca, l’altra latina. Dimmi allora, per piacere, il tema della tua declamazione’. Avendo
detto Agamennone: ‘un povero e un ricco erano nemici’, Timalchione fece: ‘che cosa è un povero?’ ‘Bravo’ disse Agamennone ed espose non so quale controversia. E subito Trimalchione :’questo’ disse se è un fatto, non è una controversia; se non è un fatto, non è niente’. Mentre accompagnavamo con sperticatissimi elogi queste e altre battute: ‘ti prego’ fece ‘Agamennone mio caris10 “Ma indubbiamente anche in Italia le grandi tenute
11 litteras didici: è il segno di riconoscimento degli scho-
divennero sempre più estese e a poco a poco assorbirono
le fattorie di media estensione e i poderetti contadineschi.
Seneca lo dice esplicitamente ; ed egli poteva ben saperlo,
essendo uno degli uomini più ricchi d’Italia, se non addirittura il più ricco, sotto Claudio e Nerone, e proprietario
egli stesso di vaste tenute... Le tenute di media estensione
furono a poco a poco rovinate dalla mancanza di vendita e
vennero acquistate a buon mercato da grandi capitalisti.
Questi ultimi naturalmente desideravano di semplificare la
gestione delle loro proprietà, e, paghi di ottenerne un reddito sicuro se pur basso, preferivano dare la loro terra ad
affittuari e produrre prevalentemente grano” (M.
Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, tr. it.,
La Nuova Italia, Firenze 1964, p.115).
In Italia vengono meno le culture intensive di vite e
olivo poiché le province, divenute autarchiche, non assorbono più questi prodotti. Quindi si torna a coltivare il
grano con metodi non razionali: i braccianti, schiavi o liberi, non forniscono un lavoro di qualità; i proprietari assenteisti del resto non li seguono
lastici (Et tu litteras scis et ego dice Encolpio ad Ascilto nel
decimo capitolo, siamo tutti e due letterati) ed è l’ambizione, velleitaria e patetica, di questo cafone arricchito.
12 tres... Graecam... Latinam: sembra che il pover’uomo
non sappia che uno più uno fa due, oppure pensa che una
delle letterature, probabilmente la greca, valga per due.
13 “Ergo al secondo posto, dopo il verbo principale, è
un modo prediletto da Petronio per presentare la nuova
azione come conseguenza immediata, e logicamente inevitabile, del fatto precedente” (M. Barchiesi, I moderni alla
ricerca di Enea, cit., p. 122).
14 declamationis: declamatio è l’orazione pronunciata dal
retore in una sala per intrattenere i presenti facendo spettacolo.
15 urbane: una delle tante battute che si possono ascrivere a un nonsense anticipato e casuale.
16 controversiam: è il dibattimento da posizioni contrapposte di una causa fittizia. Abbiamo cinque libri di Controversiae (e
uno di Suasoriae ) lasciati da Seneca padre (55 ca a. C., 40 d. C.).
17 de Ulixe fabulam: sembra una storia strampalata, che
46
simo, ti ricordi le dodici fatiche di Ercole, o la storia di Ulisse, come il Ciclope gli storse il pollice
con la tenaglia? Io ero solito da ragazzo leggere questo e altro in Omero. Infatti la Sibilla di sicuro a Cuma l’ho vista io stesso con i miei occhi sospesa in un’ampolla, e dicendole i fanciulli: ‘Sibilla,
cosa vuoi?’ rispondeva lei: ‘morire voglio’.
“Vi sono, in Trimalchione, molti tratti comuni con Nasidieno, il protagonista della satira II, 8 di
Orazio. Anche Nasidieno è un cafone arricchito desideroso di far bella figura con i letterati che ha
invitato per compiacere Mecenate: consapevole della propria inferiorità, si sforza di apparire all’altezza degli ospiti illustri, ma cade inevitabilmente nel ridicolo”.18
! ": Trimalchione conclude questo suo discorso (48, 8) con una verità profonda: la
Sibilla vuole morire perché nel paese guasto non c’è posto per i profeti. Né per i poeti: a proposito del tramonto degli dèi olimpi e della miscredenza dilagante nell’Atene dei sofisti il Coro dell’
Edipo re, ossia Sofocle stesso, nel secondo Stasimo domanda: “Se infatti tali azioni sono onorate,
/ perché devo eseguire la danza sacra?”(vv. 895-896).
Mascherature
Seguono altre trovate dei cuochi, portate stupefacenti e mirabolanti almeno per noi: infatti
Apicio (età di Tiberio) nel trattato De re coquinaria ci fa sapere che era vanto degli esperti nell’arte
culinaria preparare pietanze mascherate; il motto di tale cucina era: “a tavola nessuno riconoscerà
ciò che mangia”.
Un maiale enorme viene portato intero su un vassoio. Trimalchione finge di adirarsi poiché non
è stato sventrato e sta per punire il cuoco, dopo avere ordinato di spogliarlo (despolia, 49, 5). I commensali intercedono per lui: “solet fieri; rogamus, mittas; postea si fecerit, nemo nostrum pro illo rogabit” (49,
6), succede, ti preghiamo, lascialo andare; se lo farà ancora, nessuno di noi chiederà niente per lui.
Encolpio preso da spietata severità dice all’orecchio di Agamennone che il servo sarebbe da punire ma Trimalchione cambia espressione e ordina al cuoco smemorato di sventrare il porco in presenza di tutti: “quia tam malae memoriae es, palam nobis illum exintera” (49, 8).
Sicché: “recepta cocus tunica cultrum arripuit porcique ventrem hinc atque illinc timida manu secuit. nec mora
, ex plagis ponderis inclinatione crescentibus tomacula cum botulis effusa sunt” (49, 9-10), il cuoco, ripresa la
tunica, afferrò un coltello e con mano circospetta sventra il maiale da una parte e dall’altra. Senza
indugio, dai tagli che si allargavano per la pressione del peso, sgorgarono salcicce con involtini.
“...saremmo tentati di piegare ai nostri fini una frase del de generatione animalium aristotelico,
"%
! & &
! "&, “come se la natura si fosse trasformata in automa”. Non
doveva sfuggire ai commentatori l’importanza del fatto che Encolpio definisca tutto questo un
automatum”19.
Il racconto prosegue infatti con gli applausi e le felicitazioni al padrone di casa per questo bel
meccanismo: “plausum post hoc automatum familia dedit et ‘Gaio feliciter’ conclamavit” ( 50, 1).
Quindi il convivator, l’anfitrione Trimalchio, vantando la sua argenteria tira fuori un’altra amenità
che confonde Cassandra con Medea: “in argento plane studiosus sum. habeo scyphos urnales plus minus C:
quemadmodum Cassandra occidit filios suos, et pueri mortui iacent sic ut vivere putes” (52), dell’argenteria
sono proprio appassionato. Di coppe da un’urna ne ho più o meno cento: c’è come Cassandra
uccide i suoi figli e i bambini giacciono morti così che li diresti veri.
19 M. Barchiesi, op. cit., p. 142.
sicuramente non si trova in Omero.
18 G. B. Conte, Scriptorium Classicum cit., 6, p. 7.
47
La profetessa troiana è uno strumento “culturale” utilizzato in vari modi da Trimalchione che
più avanti (74), durante una sconcia litigata con la moglie, la chiama Cassandra caligaria , Cassandria
zoccolona.
Segue la caduta di un acrobata sul triclinio di Trimalchione che fa mostra di esserne ferito a un
braccio, mentre il ragazzo implora perdono. Encolpio pensa a una iterazione della scena del cuoco
e riutilizza la parola automatum: “nam puer quidem qui ceciderat circumibat iam dudum pedes nostros et missionem rogabat. pessime mihi erat, ne his precibus ridiculum aliquid catastropha quaereretur. itaque totum circumspicere triclinium coepi, ne per parietem automatum aliquod exiret” (54, 3-4), infatti il ragazzo che era
precipitato già da un po’ di tempo si gettava ai nostri piedi e implorava il perdono. io mi sentivo
a disagio assai pensando che con queste preghiere attraverso qualche battuta assurda si cercasse
un colpo di scena. pertanto cominciai a esaminare tutto intorno la sala, temendo che attraverso la
parete uscisse qualche congegno20.
“Dissolutezze inaudite”
Ora seguiamo un adulterio vero e proprio, che nel confronto con altre situazioni erotiche del
Satyricon è un gioco pressocché innocente, quasi insipido e parrocchiale. Tale sarebbe stato di sicuro per Messalina l’imperatrice moglie di Claudio la quale secondo Tacito: “iam… facilitate adulteriorum in fastidium versa ad incognitas libidines profluebat”21, oramai volta alla noia per la facilità degli adultèri, si lasciava andare a dissolutezze inaudite22.
Qui nel Satyricon l’adulterio, per non restare sciapo, è condito con un caso di licantropia. Chi
20 “è significativo che la parola ritorni più oltre (54,
4), quando (dopo la caduta dell’acrobata) Encolpio comincia a volgere gli occhi in giro per tutto il triclinio, ne per
parietem automatum aliquod exiret. Qui Encolpio appare in
preda a un vero e proprio “terrore tecnologico” (anche se
la parola sembra più adatta a Chaplin, o al Tati di Mon oncle.
Ma la catastropha (parola significativa!) si realizza senza
bisogno di machinae tatrali celate nelle pareti: Trimalcione
perdona con magniloquenza il colpevole e “improvvisa”
versi (53, 3 e 6). Ebbene, anche questo è un automatum, nel
senso che fa parte del copione preordinato. Qui tocchiamo
un aspetto nuovo, strettamente connesso al tema: tutta la
Cena tende a proporsi come una macchina, che riduce gli
uomini ad automi ed esclude l’irruzione del caso. Quanto
all’automatismo del comportamento, non c’è bisogno di
molte dimostrazioni: basta ricordare i servi che si mettono
automaticamente a cantare, appena chiamati a rendere servigi ai commensali, o i commensali stessi che, ormai presi
nel meccanismo scattano unanimi ad applaudire o a baciare l’immagine dell’anfitrione; infine, l’orologio stesso ha un
bucinatorem subornatum che (meglio che un automa, come
sostenne il Mehrwaldt) sarà un trombettiere in carne e
ossa, asservito alla macchina. Ricordiamoci ancora una
volta del triclinio di Nerone, immagine del mondo resa
nobile da un gigantesco meccanismo, e il divieto di lasciare i dispotici banchetti di Caligola. In quanto all’esclusione
di ogni casualità (tipica da parte di Trimalcione, che ha per
motto nihil novi mihi potest afferri), credo che l’unico episodio, in cui si possa dire con certezza che la forza della
casualità sia quello del gallo” (M. Barchiesi, op. cit., p. 140)
Lo vedremo più avanti.
21 Tacito, Annales , XI, 26.
22 L’incognita ed estrema libido fu quella di sposare l’amante Silio, e non a Claudio morto. L’uomo la incalzava
(urgebat) con l’argomento che “flagitiis manifestis subsidium ab
audacia petendum”, negli scandali scoppiati bisogna chiedere soccorso all’audacia.
La terza moglie di Claudio è stata “consegnata ai
posteri da Giovenale (6, 115-132) come prostituta di fatto
(meretrix Augusta). Dalle fonti è ritratta, pressoché unanimemente, come massima esponente al femminile dei tria
vitia tirannici (Questa 1995): avaritia, saevitia e libido, avidità
di denaro, crudeltà, ed eccessi sessuali. Perde la vita quando si vota alla trasgressione suprema, cioè quando vuole
sposarsi con C. Silio, descritto come il più bell’uomo della
Roma del tempo, appartenente a un circolo aristocratico
ostile all’imperatore, mentre è ancora la moglie di Claudio”
(Francesca Cenerini, La donna romana, il Mulino, Bologna,
2002, p. 84)
La novitas delle libidini accomuna diversi personaggi
della corte imperiale romana: il Petronio di Tacito poco
prima di morire, costretto al suicidio dall’invidia di
Tigellino e dalla bestialità di Nerone, rinfaccia al princeps,
per iscritto, “flagitia sub nominibus exoletorum feminarumque et
novitatem cuiusque stupri” (Annales , XVI, 19), le vergogne
con i nomi dei dissoluti e delle donnacce e la straordinarietà di ciascun obbrobrio.
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parla è il commensale Nicerote che prima di iniziare la fabula dice di temere lo scherno degli scholastici presenti ma poi afferma che narrerà: “satius est rideri quam derideri” (61, 4), è meglio far ridere che essere derisi. Il racconto è preceduto da una citazione virgiliana con intento parodizzante:
“haec ubi dicta dedit23, talem fabulam exorsus est” (61, 5), come ebbe detto queste parole iniziò questa
storia intessuta di “paure magiche e già medievali” (V. Ciaffi, op. cit., p. 39). (V. inserto p. seg.).
Trimalchione resta in tema raccontando una storia di streghe, quindi le definisce: “sunt mulieres
plussciae, sunt Nocturnae, et quod sursum est, deorsum faciunt” (63, 9), sono donne che ne sanno di più,
sono creature della Notte e quello che sta sopra lo fanno andare in giù. Una definizione che
potrebbe entrare nel capitolo sulla paura che l’uomo ha della donna24.
Dopo altre parole e altri versi Trimalchione volse l’attenzione al suo amasio che si chiamava
Creso e avevamo già (28) intravisto: “puer autem lippus, sordidissimus dentibus, catellam nigram atque indecenter pinguem prasina involvebat fascia panemque semissem ponebat supra torum ac nausia recusantem saginabat” (64, 6), un ragazzo a dire il vero cisposo, dai denti infradiciati, infagottava una cagnetta nera
e oscenamente grassa in una sciarpa verde e le poneva accanto sopra il divano una mezza pagnotta e la ingozzava mentre quella riluttava per il disgusto. Trimalchione si indispettisce per le premure dedicate alla bestia e sottratte a lui, quindi fa entrare un cane enorme, Scilace, “praesidium
domus familiaeque” (64, 7), difesa della casa e della famiglia.
La lite tra i due amanti indispettiti viene delegata ai cani: il puer lippus aizza la cagnetta contro il
cagnaccio Scilace,
! #, il cucciolo, con effetto antifrastico, il quale “taeterrimo latratu triclinium
implevit, Margaritamque Croesi paene laceravit” (64, 9), intronò il triclinio con un latrare orrendo e quasi
sbranò la Perla di Creso. Oramai i due pervertiti hanno sfogato la rabbia attraverso gli animali e,
quindi, si giunge ad una tregua: “Trimalchio ne videretur iactura motus, basiavit puerum ac iussit supra dorsum ascendere suum. non moratus ille usus <est> equo manuque plana scapulas eius subinde verberavit, interque
risum proclamavit: ‘bucca, bucca, quot sunt hic?’” (64, 11-12), Trimalchione per non sembrare turbato da
quel disastro, baciò il garzone e lo invitò a salirgli sul dorso. Quello, senza perdere tempo, lo impiegò come un cavallo e con le mani aperte gli batté ripetutamente le spalle e tra le risate gridò: “bocchino, bocchino, quante ce n’è qui?”. La scena mette in luce la tipica teatralità degli omosessuali,
ancora più enfatica ed evidente di quella dei ragazzi e delle donne.
Seguono altri interventi e altre portate. Entra Abinna il lapidarius incaricato del monumento funebre di Trimalchione, accompagnato dalla moglie Scintilla.25
23 Eneide, II, 790. Dopo l’addio della sposa fedele
Creusa al marito esemplare Enea.
24 “La forza primaria e dominante dell’istinto si
sua indifferenza, dovuta in gran parte al vino bevuto presso Scissa, non è tanto sicurezza di sé quanto ottusità. Tutti
in genere, che si esaltino o si abbattano, che vogliano essere più di quello che sono o si umilino, sentono la loro bassa
origine come una condanna…Trimalcione di tutto ciò ha
lucida coscienza, mentre gli altri vi girano intorno in modo
affannoso e disordinato. Anch’egli soffre dello stesso complesso d’inferiorità degli altri, come già mostra quel suo
costruire la cena in funzione degli ospiti colti, pur senza
mai rivolgersi direttamente ad essi, quasi fossero entità trascurabili, dove invece sono il suo limite. Ma egli cerca, in
termini estetici o razionali, di vincere quel complesso, stabilendo con quell’altro mondo un rapporto, si tratti di adeguarsi ad esso, alle sue regole di buon gusto e cultura, o
addirittura di sopraffarlo e batterlo sul suo terreno. Per lui
il sapore dei vari piatti è nello stupore e nella sorpresa che
destano... L’ambizione della cena è diventare spettacolo”.
(op. cit. p. 40).
mostra, nel Satyricon, non solo nel prevalere indiscusso
delle ragioni del sesso, ma anche nello spazio riservato ad
elementi di rilevante interesse antropologico e folclorico,
come le favole di licantropia (Nicerote in 61, 6-62, 14) e di
streghe (Trimalchione in 63, 3-10), come le magie “priapiche” di Proseleno ed Enothea (133, 4 sgg.), come il cannibalismo imposto dal testamento di Eumolpo ai cacciatori
di eredità (141) e da questi, forse, realmente attuato in un
agghiacciante regresso ad una ritualità ancestrale” (M.
Bettini, La letteratura latina, La Nuova Italia, Firenze 1999,
vol. 3, p. 183).
25 Secondo Ciaffi Abinna è l’unico dei dieci liberti
colleghi di Trimalcione a non soffrire di un complesso di
inferiorità per la loro origine servile: “solo Abinna, il
bestione, è al di qua di ogni melanconia o dramma, ma la
49
Sguaiataggini
Il marmista reclama la presenza di Fortunata che si era allontanata. Rientrata in pompa magna,
la padrona di casa, si avvicina alla nuova ospite e fa sfoggio del suo oro, come il marito: “eo deinde
perventum est, ut Fortunata armillas suas crassissimis detraheret lacertis Scintillaeque miranti ostenderet. ultimo
etiam periscelides resolvit et reticulum aureum, quem obrussa esse dicebat” (67, 6), poi si giunse al punto che
Fortunata faceva scivolare giù dalle braccia grassissime i suoi bracciali e li mostrava a Scintilla in
ammirazione. Alla fine si tolse anche i cerchietti delle caviglie e la reticella aurea, d’oro zecchino.
Sono mosse simili a quelle che abbiamo visto fare al marito il quale però trova da ridire e da
competere con la sua signora: “notavit haec Trimalchio iussitque afferri omnia et: “videtis,” inquit “mulieris
compedes: sic nos barcalae despoliamur. sex pondo et selibram debet habere. et ipse nihilo minus habeo decem pondo
armillam ex millesimis Mercurii factam” (67, 7), Trimalchione notò questi maneggi e si fece portare
tutto, poi disse: “vedete i lacci della femmina: così noi gonzi ci lasciamo spogliare. Deve averne sei
libbre e mezzo. Io stesso ho un braccialetto di non meno di dieci libbre fatto con i millesimi di
Mercurio. I millesimi spettanti a Mercurio invero se li è tenuti Trimalchione che evidentemente si
è identificato con il dio dei guadagni e dei commerci.
Quindi il convitator e i suoi ospiti di riguardo assumono uno stile simile a quello attribuito dai film
ai grossi gangster tipo Al Capone. Trimalchione si fece pesare il bracciale d’oro, da tre chili e passa,
su una bilancia che mandò in giro; Scintilla a sua volta si tolse un medaglione d’oro che chiamava
Felicione e due orecchini per mostrarli a Fortunata elogiando il suo signore che glieli aveva comprati. Ma il lapidarius non ne gioisce e, certamente senza saperlo, si collega al ! ) della donna “idolo
maligno” che risale all’Ippolito di Euripide. “”Quid?” inquit Habinnas “excatarissasti me, ut tibi emerem
fabam vitream. plane si filiam haberem, auricolas illi praeciderem. mulieres si non essent, omnia pro luto haberemus,
nunc hoc est caldum meiere et frigidum potare” (67, 10), Cosa? – fece Abinna – mi hai pelato per farti comprare la fava di vetro. Di sicuro se avessi una figlia le farei mozzare le orecchie. Se le donne non esistessero valuteremmo tutta questa roba come fango, ora questo è pisciare caldo e bere freddo.
L’ultima battuta non è chiara; si può dire che è indecentemente volgare. Le due “signore”, sauciae26,
toccate da questo colpo, scoppiano a ridere, ubriache, si scambiano baci e confidenze: “dum altera diligentiam matris familiae iactat, altera delicias et indiligentiam viri” (67, 11), mentre l’una sbandiera la premura di madre di famiglia, l’altra tira fuori i ragazzini favoriti e la trascuratezza del marito. Questo è l’eterno confronto delle donne tra la propria serietà e la superficialità dei loro uomini.
Segue, in risposta muta ma significativa alle chiacchiere delle comari, una mossa da bordello del
lapidarius infastidito dall’intesa tra le due donne, probabilmente l’amante e la moglie: “dumque sic
cohaerent, Habinnas furtim consurrexit pedesque Fortunatae correptos super lectum immisit. ‘au au!’ illa proclamavit aberrante tunica super genua. composita ergo in gremio Scintillae indecentissimam rubore faciem sudario
abscondit” (67, 12-13), mentre erano così unite, Abinna si alzò senza farsene accorgere e afferrati i
piedi di Fortunata, glieli mise sopra il letto. “Ahi, ahi”, gridò quella, mentre la tunica le scivolava
sopra le ginocchia. Ricompostasi quindi in grembo a Scintilla, nasconde con un fazzoletto la faccia più che mai oscena per il rossore. L’ indecentia, l’oscenità, caratterizza l’aspetto e lo stile di
ragazzi, uomini, donne e animali di questo “paese guasto”27: ricordiamo il puer lippus, sordidissimus
dentibus e la catellam nigram atque indecenter pinguem (64, 6).
Seguono altre scene indecenti con il servo di Abinna, Massa, che storpia un verso di Virgilio (V,
1) pronunciando lunghe e brevi fuori posto e mescolando all’Eneide versi dell’Atellana al punto che
26 Ricordo che saucia appare già nella Medea exul di
rose. Qui dunque è usato con ironia.
27 Cfr. Dante, Inferno, XIV, 94.
Ennio e che l’aggettivo è topico per indicare le ferite amo-
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il classicista Encolpio per la prima volta trova sgradevole Virgilio.
Tuttavia Abinna elogia il suo schiavo, a parte che è circonciso e russa (recuticus est et stertit, 68, 7).
Ma interviene Scintilla aggiungendo una funzione di Massa: “agaga est” (69), è il suo ruffiano. A questo punto ci mette bocca Trimalchione con il suo qui sine peccato est vestrum, primus in illum lapidem mittat: “Scintilla, noli zelotypa esse28 crede mihi, et vos novimus. sic me salvum habeatis, ut ego solebam ipsumam meam
debattuere, ut etiam dominus suspicaretur et ideo me in vilicationem relegavit” (69, 3), Scintilla non essere gelosa. Credimi, conosciamo anche voi. Mi venga un colpo se non ero solito sbattermi proprio la mia
padrona, al punto che anche il padrone sospettava e per questo mi confinò in campagna29.
Il posto dell’artista
Segue un epidipnis, un post-prandium con altri cibi cammuffati quali Cydonia mala spinis confixa, ut echinos efficerent (69, 7) mele cotogne con spine conficcate, in modo da renderle simili a ricci di mare. In
un frammento di Ibico ( 6 D.) i meli cotogni sono alberi sacri ad Afrodite; la mela quindi è simbolo
erotico, e forse queste spinate alludono alla credenza popolare che “non c’è amore senza spine”.30
Ma tale travestimento culinario non è ancora il peggio: viene recato un fericulum longe monstrosius
(69, 7), una portata di gran lunga più snaturata: aveva l’aspetto di un’oca ingrassata (anser altilis)
con intorno pesci e uccelli di ogni tipo e invece, disse Trimalchione, “de uno corpore est factum... ista
cocus meus de porco fecit” (70), il cuoco insomma aveva fatto tutto con la carne di porco. Si vede bene
che è continua la ricerca e l’esibizione del ribaltamento, del contro natura, e non solo nel sesso. Il
cuoco era, per queste sue abilità, un uomo di valore, assimilato all’artista dalla denominazione datagli da Trimalchione: “non potest esse pretiosior homo. volueris, de vulva faciet piscem, de lardo palumbum, de
perna turturem, de colaepio gallinam. et ideo ingenio meo impositum est illi nomen bellissimum; nam Daedalus
vocatur” (70, 2), non ci può essere uomo più prezioso. purché tu lo voglia, da una vulva ti farà un
pesce, da un lardo un colombo, da un prosciutto una tortora, da uno zampone una gallina. Perciò
su mio suggerimento gli è stato dato un nome appropriatissimo; infatti si chiama Dedalo.
Daedalus è pure un aggettivo, caro a Lucrezio, e rimanda alle cose fatte con arte e agli artisti che
le fanno, come l’archetipico Daedalus. Nell’autore del De rerum natura è daedala, artista, tellus , la terra
che fa spuntare fiori soavi per Venere (I, 7-8); poi artistici sono i carmi di Febo composti sopra la
cetra (Phoebeaque daedala chordis / carmina, II, 505-506), inoltre la lingua, mobilis... verborum daedala lingua , agile artefice delle parole (IV, 551); e le statue (daedala signa , V, 1452) che danno gioia alla vita
al pari della poesia e della pittura.
La bellezza dell’arte dunque dà gioia, anche se crearla costa sofferenza come si vede nella vicenda del Daedalus di Ovidio che vola fuori dal labirinto e con le ali si eleva su per il cielo, sopra il
potere del tiranno: “Possidet et terras et possidet aequora Minos / nec tellus nostrae nec patet unda fugae. /
Restat iter caeli: caelo temptabimus ire”(Ars Amatoria , II, 35-37), possiede le terre e possiede la distesa
marina Minosse, né la terra né il mare si aprono alla nostra fuga: rimane la via del cielo: tenteremo di andare per il cielo. Infatti “non potuit Minos hominis compescere pinnas” (v. 97) Minosse non poté
frenare le ali di un uomo.
Dedalo però perse il figlio. Forse il mito significa che il creatore da una parte non può essere imprigionato o coatto, dall’altra non può permettersi affetti privati, la paternità e la famiglia. L’artista
moderno, come il cuoco di Trimalchione, non può concedersi più nemmeno la naturalezza31.
28 zelotypa è un grecismo, traslittera $
!
), e fa
parte del sermo plebeius dei liberti arricchiti.
29 Per il linguaggio usato dai protagonisti di questo
banchetto, v. il paragrafo seguente sul plurilinguismo.
30 Nell’XI idillio di Callimaco il Ciclope innamorato
assimila l’amata Galatea a un “dolce pomo” (v. 39) dopo
averla invocata come “più candida del latte cagliato, più
morbida di un agnello, più altera di un vitello, più brillante
dell’uva acerba (v. 20-21).
31 Così sembra affermare in una fase del suo percor-
53
Linguaggio mescidato
La Cena è il documento più impressionante del plurilinguismo che caratterizza il Satyricon.
I personaggi del Satyricon parlano lingue diverse: Encolpio “usa una lingua letteraria mista a sermo
familiaris, e adopera... le più classiche clausole metriche; lo stesso può dirsi di Ascilto, Agamennone
ed Eumolpo, specie quando questi declama (e quando declama in versi, i versi sono perfetti); i
commensali, invece, tutti ex schiavi, usano il sermo vulgaris, variato secondo le caratteristiche individuali; una categoria intermedia è quella di Trimalchione... ne risulta un misto di linguaggio erudito, a volte pretenzioso, e insieme plebeo: un sermo familiaris che si alterna spesso col sermo plebeius
e col sermo rusticus...
Encolpio usa comunemente il sermo familiaris, cioè un linguaggio in parte già usato da scrittori
“classici” come Varrone, Cicerone (orazioni e lettere, sempre in parte), Catullo, Orazio satirico,
Properzio, Vitruvio, Seneca (specie nell’Apocolocyntosis), ecc. Se qualche vocabolo o costrutto del
sermo vulgaris è presente nella lingua di Encolpio, si tratta dell’eccezione, non della regola: eccezione dovuta appunto... all’influsso dell’ambiente in cui parla”.32
Per la lingua dei liberti sentiamo F. Di Capua: “Il capolavoro della mimesis ritmica si ha nei sermones conviviali dei commensali e dei colliberti di Trimalchione. Pieni di proverbi e di sentenze,
ricchi di frizzi e di frasi calzanti, dalla sintassi libera e dalle movenze sciolte, dal ritmo spezzettato
ma fluente, non c’è chi leggendoli non ne ammiri la vivacità espressiva, la comica naturalezza e la
popolare schiettezza”.33 Quanto a Trimalchione, “la sua è una parlata “mista”; secondo che si
rivolga ai colliberti o agli illustri ospiti, usa il sermo plebeius oppure il sermo familiaris, con velleità di
lingua dotta”.34
Secondo Bettini, “il multiforme impasto linguistico con cui Petronio rende il parlato popolareggiante di Trimalchione e dei suoi rozzi commensali, distinguendolo dall’eloquio più elegante,
ma anche più controllato e meno creativo di un Encolpio o di un Agamennone, rappresenta senza
dubbio il più felice raggiungimento del realismo antico… Trimalchione e i suoi ospiti, da Seleuco
a Filerote, da Ganimede a Ermerote, parlano una lingua zeppa di volgarismi e solecismi, grecismi
e sgrammaticature che trovano conferma nei graffiti di Pompei e in altre fonti più tarde. E non si
tratta solo dell’impasto linguistico: è la cultura stessa dei ceti medio-bassi, fatta di aneddoti e pettegolezzi, proverbi e credenze astrologiche, luoghi comuni e buon senso, sono la mentalità, la psiso il Tonio Kröger di T. Mann: “Proprio così, Lisaveta: il
sentimento, il caldo e cordiale sentimento è sempre banale,
inservibile; soltanto le esacerbazioni, le fredde estasi del
nostro corrotto sistema nervoso di “artisti” sono valevoli
ai fini dell’arte. è necessario essere qualcosa di extraumano, d’inumano, è necessario trovarsi, rispetto all’umano in
una situazione stranamente lontana e neutrale, per essere in
grado e anzi solo per sentirsi tentati di farne oggetto di rappresentazione, di giuoco, per raffigurarlo con gusto e con
efficacia. Il dono dello stile, della forma, dell’espressione ha
già come presupposto cotesto atteggiamento freddo e schifiltoso verso l’umano, più ancora, un tal quale immiserimento e svuotamento di umanità. Il sano e gagliardo sentimento (su questo non c’è dubbio) è privo di gusto... Ve
l’assicuro, spesso mi sento mortalmente stanco di rappresentare l’umano senza prendervi parte” (tr. it., Mondadori,
Milano 1970, p. 236 e 237. ) . Alla fine del romanzo però il
protagonista arriva alla resipiscenza: “Ammiro coloro che,
fieri ed impassibili, spregiando l’’uomo’, si avventurano sui
sentieri che guidano alla grande, demoniaca bellezza: ma
non li invidio. Perché, se qualcosa è realmente in grado di
fare di un letterato un poeta, è appunto questo mio borghese amore per l’umano e il vivo e l’ordinario. Ogni bontà,
ogni sorriso proviene da esso; e quasi mi sembra che sia
quel medesimo amore del quale è scritto che chi ne fosse
privo, anche se sapesse parlare tutte le lingue degli uomini
e degli angeli, altro non sarebbe che un rame risonante e un
tintinnante cembalo” (p. 285).
32 Petronio Arbitro Dal “Satyricon” a cura di Emanuele
Castorina, , cit., p. 71
33 F. Di Capua, Il ritmo prosaico in Petronio, in “Giorn. ital.
di filologia” I, 1948, p. 37 ss.
34 E. Castorina, op. cit.p. 79.
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cologia, il carattere, le incoerenze, i salti logici e di umore dei singoli che troviamo rispecchiate nei
dialoghi tra i commensali”35.
A proposito di realismo antico Auerbach sostiene che il Satyricon rappresenta la realtà in maniera più ampia e meno stilizzata dei realisti alessandrini, quali Teocrito nelle Siracusane (XV) o
Eroda nel lenone (III). Petronio, “come un realista moderno, pone la sua ambizione artistica nell’imitare senza stilizzazione un qualsiasi ambiente d’ogni giorno e contemporaneo, e nel far parlare alle persone il loro gergo. Con ciò raggiunge il limite estremo a cui sia arrivato il realismo antico”. Quindi prosegue: “La cena è un’opera di carattere puramente comico. I personaggi che
vi compaiono sono, sia singolarmente che nei legami con l’insieme, mantenuti coscientemente e
secondo un criterio unitario nel gradino stilistico più basso, tanto per la lingua quanto per il modo
in cui sono visti... Nella letteratura moderna ogni personaggio, qualunque sia il suo carattere o la
sua posizione sociale, ogni avvenimento, sia favoloso, sia di alta politica, sia strettamente casalingo, può venir dall’arte imitativa trattato seriamente, problematicamente e tragicamente. Ma questa
è cosa del tutto impossibile nell’antichità... vige la legge della separazione degli stili... tutta la bassa
realtà, tutto quello che è quotidiano, dev’esser rappresentato solo comicamente, senza approfondimento problematico”.36
Secondo Ciaffi, il linguaggio di Petronio è piuttosto una costruzione d’arte: “Se collochiamo
Petronio nel I sec. d. C., quando ancora impera la dignità delle forme, il suo linguaggio diventa
una scelta, con evidenti implicazioni di carattere estetico e morale, né l’esame di quel linguaggio
può prescindere da una coscienza dell’autore in quel senso. Se lo trasferiamo invece, come il
Marmorale ha suggerito… fra il II e il III sec. d. C., quando la lingua intellettiva decade con la
scomparsa dei grandi autori e quella affettiva vi si sostituisce, il linguaggio di Petronio cessa di
essere una scelta in funzione dell’arte e diventa la naturale espressione di una metamorfosi in atto.
Direi che già sul piano linguistico l’ipotesi del Marmorale non regge... se quella lingua unificata di
Petronio fosse la lingua in uso tra il II e il III sec. d. C. , uno dei momenti più oscuri e immiseriti nella storia della civiltà, non se ne comprenderebbe la salda energia, la stretta aderenza agli
oggetti, l’interiore dialettica di stile e caratteri… Non riusciamo ad immaginare, in termini di storia letteraria, Petronio a cavallo di quei due secoli, poiché la sua poetica del realismo è troppo lontana da quella dell’arcaismo e del gusto novello... L’energia dello scrittore e l’energia della sua lingua non si giustificano, se non in rapporto a una tradizione letteraria ancora robusta, cui egli e la
sua lingua si contrappongono con altrettanta robustezza”.37
35 M. Bettini, La letteratura latina, 3, p. 186. Indicherò
tra poco incoerenze e sgrammaticature.
36 E. Auerbach, Mimesis, cit., pp. 37-38
37 V. Ciaffi, op. cit., pp. 51-52.
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Fine del decoro
Umanesimo e volgarità
Dopo avere mostrato qualche altra trovata stupefacente, Trimalchione affranca i servi e nomina erede Fortunata. Gli schiavi sono uomini, proclama l’anfitrione rimasticando dottrine stoiche:
“et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos malus fatus1 oppresserit. tamen me salvo cito
aquam liberam gustabunt. ad summam, omnes illos in testamento meo manu mitto” (71), pure gli schiavi sono
esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte2, anche se un destino cattivo li ha schiacciati.
Comunque, mi venisse un colpo, presto assaggeranno l’acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio testamento.
Per quanto riguarda il contenuto, le parole di Trimalchione sembrano echeggiarne alcune dell’epistola 47 di Seneca: “Servi sunt”. Immo homines”, sono schiavi, sì e pure uomini. Del resto l’ex schiavo arricchito Trimalchione aveva usato anche un’espressione di spregio nei confronti dei suoi
schiavi: “obiter et putidissimi servi minorem nobis aestum frequentia sua facient” (34), in pari tempo questi
fetentissimi schiavi ci daranno meno afa con il loro affollarsi. Comunque nel Satyricon è presente
Seneca la cui morte, descritta anch’essa da Tacito3 è pure confrontabile con quella dell’autore del
Satyricon della quale sembra il rovesciamento.
Bettini afferma che il Satyricon stesso sembra “nutrito di idee senecane: ma ribaltate. Tutto ciò
che Seneca disprezza o bandisce diventa comportamento istintivo, pratica corrente dei personaggi del Satyricon.” Subito dopo però il latinista antropologo rileva delle analogie, certo non sistematiche, tra i due autori: “Non di rado, in verità, i personaggi di Petronio parlano utilizzando concetti di Seneca, servendosi persino delle parole stesse di Seneca: nell’improvvisare qualche verso
moraleggiante (ad esempio, sull’esecrata onnipotenza del denaro: cap. 14, 24), o quando la circostanza suggerisce loro delle tirate di travolgente eloquenza5. Ma si tratta, non a caso, di performances volutamente enfatiche, di scoperte esercitazioni retoriche che non implicano alcun ravvedimento, ma solo un temporaneo e fortemente ironico contatto con quel mondo dei valori che si sa
1 Si noti che fatus (invece di fatum) è uno di quegli errori grammaticali denunciati dianzi. Non è l’unico caso del
genere: troviamo balneus (41) per il neutro balneum, bagno,
vinus (12) per vinum, caelus (45, 3) per caelum, lasanus (47, 5)
per lasanum, vaso da notte, e altri ancora. “Più rari sono gli
ipercorrettismi da maschile a neutro (libra 46, 7; nervia 45,
11; thesaurum 46). Nel passaggio dal latino all’italiano il
genere neutro scompare, e i neutri latini sono diventati in
italiano maschili. Il latino volgare anticipa dunque tale evoluzione, e ci fa capire tra l’altro come poté avvenire concretamente questa “scomparsa” di una categoria grammaticale: a poco a poco tutte le parole neutre divennero
maschili” (Bettini, La letteratura latina cit., 3, p. 190).
2 “Quel che domina è il corpo, e anche i pensieri più
alti sanno di vino e di cucina... per Ganimede la decadenza si misura sulla misura del pane, gli uomini per
Trimalcione sono tutti uguali perché succhiarono tutti lo
stesso latte” (V. Ciaffi, op. cit., p. 50).
3 Annales, XV, 62: “imaginem vitae suae relinquere testatur,
dichiara per testamento che lascia l’immagine della sua vita.
4 Che abbiamo già citato.
5 Come quella di Encolpio di fronte al cadavere di
Lica: 115, 12-19 Dove si trova la già ricordata sentenza di
sapore senecano: “si bene calculum ponas, ubique naufragium
est” cui segue un obiezione immaginata, poi una risposta e
infine un’altra sentenza del medesimo gusto: “at enim fluctibus obruto non contingit sepultura. tamquam intersit, periturum corpus quae ratio consumat, ignis an fluctus an mora quicquid feceris,
omnia haec eodem ventura sunt” (115, 17), ma in effetti a quello sommerso dai flutti non tocca la sepoltura. come se
facesse differenza, quale agente consuma il corpo destinato a morire, il fuoco o l’acqua o il tempo. Qualunque cosa
57
che esiste, ma dal quale, senza vero rammarico o ripensamento, si fugge”6.
Dopo il testamento, Trimalchione dà disposizioni al lapidarius per il proprio monumento funebre che deve essere, come per Seneca, l’immagine della sua vita, un’immagine capovolta rispetto a
quella del filosofo: viene infatti riassunta dalla inscriptio satis idonea, l’iscrizione abbastanza adatta,
con queste parole: “C. Pompeius Trimalchio Maecenetianus hic requiescit. huic seviratus absenti decretus est.
cum posset in omnibus decuriis Romae esse, tamen noluit. pius, fortis, fidelis, ex parvo crevit, sestertium reliquit
trecenties, nec umquam philosophum audivit. vale: et tu”( 71, 12), Caio Pompeo Trimalchione
Mecenaziano, qui riposa. Gli fu decretato l’incarico di seviro in sua assenza. Pur potendo essere a
Roma in tutte le decurie, non volle. Pio, forte, fedele, venne su dal nulla, lasciò trenta milioni di
sesterzi, e non ascoltò mai un filosofo. Stai bene: anche tu7.
A questo punto gli scholastici Encolpio e Ascilto tentano di scappare, ma, terrorizzati dal cane di
guardia, cadono nella piscina. Vengono tratti in salvo dal portiere che, però, non permette loro di
uscire. Segue la riflessione di Encolpio: “quid faciamus homines miserrimi et novi generis labyrintho inclusi, quibus lavari iam coeperat votum esse?” (73), cosa possiamo fare uomini disgraziatissimi e rinchiusi
in un labirinto di nuovo tipo, per i quali lavarsi già cominciava ad essere un miracolo?8
Seguono dei bagni con altre putidissimae iactationes (73, 2) fetentissime bravate, di Trimalchione,
poi succede un atto di superstizione con il quale viene ammazzato un gallo il cui cantare era considerato un cattivo presagio.
“Haec dicente eo gallus gallinaceus cantavit. qua voce confusus Trimalchio vinum sub mensa iussit effundi lucernamque etiam mero spargi. immo anulum traiecit in dexteram manum et: “non sine causa” inquit “hic bucinus
signum dedit; nam aut incendium oportet fiat, aut aliquis in vicinia animam abiciat. longe a nobis! itaque quisquis hunc indicem attulerit, corollarium accipiet”. dicto citius de vicinia gallus allatus est, quem Trimalchio iussit,
ut aeno coctus fieret. laceratus igitur ab illo doctissimo coco, qui paulo ante de porco aves piscesque fecerat, in caccabum est coniectus” (74, 1-4), mentre quello parlava così un gallo cantò. Trimalchione turbato da
questo verso ordinò che si versasse del vino sotto la tavola e che anche la lucerna fosse spruzzata di vino. Per giunta fece passare l’anello nella mano destra9 e disse: “non senza motivo questo
trombettiere ha dato il segnale; infatti ci deve essere un incendio o qualcuno nei dintorni deve
lasciare la vita. Lungi da noi! Perciò chiunque porterà questo iettatore, riceverà una mancia”. In
men che non si dica fu portato un gallo dai paraggi e Trimalchione ordinò che venisse cotto in
una casseruola. Tagliato dunque a pezzi da quel cuoco sapientissimo che poco prima aveva ricavato da un porco uccelli e pesci, fu gettato in pentola.
amici: “In homine quoque nihil ad rem pertinet quantum aret,
quantum feneret, a quam multis salutetur, quam pretioso incumbat
lecto, quam perlucido poculo bibat, sed quam bonus sit” (Ep. 76,
15), anche nell’uomo dunque non conta quanto ari, quanto denaro presti, da quanti venga salutato, quanto sia prezioso il letto dove si stende, quanto fulgente la coppa dove
beve, ma quanto sia buono.
Io credo che Petronio prenda sul serio la letteratura e
l’arte in genere, con l’atteggiamento di un classicista intelligente il quale sta dalla parte della bellezza e dell’ordine,
pur sapendo che ciò è inutile e non cambierà il caos nel
quale si è gettato di nuovo il genere umano.
7 Il seviratus e le decuriae, istituiti in onore di Augusto,
erano cariche non prestigiose in quanto relative a incarichi
subalterni..
8 Per il significato del labirinto, v. più avanti..
9 Il secondo dei due descritti a 32, 3. Sono scongiuri.
tu avrai fatto andranno tutte a finire nel medesimo luogo.
6 M. Bettini, La letteratura latina cit., 3, p. 180. Quanto
alla posizione della classe dirigente romana nei confronti
degli schiavi stranieri, dopo l’assassinio del prefetto di
Roma da parte di un liberto, l’ex console Gaio Cassio
Longino, genero di Germanico, si esprime più o meno
come un leghista contemporaneo a proposito dei lavoratori extracomunitari: “Postquam vero nationes in familiis habemus,
quibus diversi ritus, externa sacra aut nulla sunt, conluviem istam
non nisi metu coercueris” (Annales, XIV, 44), dopo che nella
nostra schiavitù abbiamo queste razze che hanno usi diversi, riti stranieri o nessuno, questa spazzatura non si può
reprimere se non con la paura. Siamo nel 61 d. C.: l’uomo
politico impiega parole che abbiamo sentito ripetere in
tempi recenti.
Vediamo alcune parole di Seneca che configurano
un’ideologia opposta a quella di Trimalchione e dei suoi
58
Osserva Barchiesi: “Credo che l’unico episodio, in cui si possa dire con certezza che la forza
della casualità si insinua nella Cena, sia quello del gallo... esso viene catturato e affidato al
cuoco…Così il gallo, il trombettiere “naturale” che aveva fatto casuale irruzione nell’ordinato
cosmo trimalcionico, turbando il copione con il suo “spontaneismo”, viene integrato nella “macchina”: il tempo trimalcionico deve avere soltanto il suo trombettiere”10.
Gelosie deformi
Quindi è la volta di un’altra scena di gelosia che turba l’hilaritas del convito: “nam cum puer non
inspeciosus inter novos intrasset ministros, invasit eum Trimalchio et osculari diutius coepit” (74, 8), infatti quando tra i servi del secondo turno fu entrato un ragazzo non brutto, Trimalchione gli saltò addosso
e si diede a baciarlo con insistenza. A questo punto la moglie del pederasta si arrabbia e dà del
cane al vecchio libidinoso. Sentiamo questa gentildonna: “itaque Fortunata, ut ex aequo ius firmum
approbaret, male dicere Trimalchionem coepit et purgamentum dedecusque praedicare, qui non contineret libidinem
suam. ultimo etiam adiecit: ‘canis’” (74, 9), allora Fortunata, per far valere il suo solido diritto alla pari,
cominciò a inveire contro Trimalchione e a mettere in evidenza che era spazzatura e infamia poiché non controllava la propria libidine. Alla fine gli gettò in faccia anche: “cane”.
Il lettore che conosce l’Odissea può assimilare, con un sorriso, il pervertito anziano alla bellissima
Elena che, nella veste di adultera pentita, chiama se stessa
(IV, v. 145), faccia di cagna.
Trimalchione reagisce da par suo gettando in faccia alla moglie un calice e coprendola di insulti: ““quid enim” inquit “ambubaia non meminit se. de machina illam sustuli, hominem inter homines feci. at inflat
se tamquam rana, et in sinum suum non spuit, codex non mulier. sed hic qui in pergula natus est aedes non somniatur. ita genium meum propitium habeam, curabo domata sit Cassandra caligaria”“ ( 74, 13)11, e che? –
disse – la suonatrice di piffero non ricorda chi sia. L’ho tirata fuori dal palco degli schiavi, l’ho resa
un essere umano come gli altri. Eppure si gonfia come una rana, e non si sputa in seno, un ceppo
del supplizio, non una donna. Ma chi è nato in una capanna un palazzo non se lo sogna. Ma basta
che mi assista il mio genio, farò in modo di domare questa Cassandra zoccolona.
Poi Trimalchione minaccia di ripudiare la moglie e ordina al lapidarius di non mettere la statua di
lei nel suo sepolcro: “ne mortuus quidem lites habeam” (74, 17), per non litigare almeno da morto.
Anzi, conclude questa prima invettiva proibendo alla sua metà di baciarlo da morto.
Post hoc fulmen (75), dopo questo fulmine, Abinna gli chiede di deporre l’ira: “nemo – inquit –
nostrum non peccat. homines sumus, non dei.”, nessuno di noi non sbaglia. Uomini siamo, non dèi. Una
variante del
della comprensione che si trova nel Vangelo e in Menandro. Si aggiunge poi la
preghiera di Scintilla a Trimalchione “ut se frangeret” (75, 2), perché si intenerisse, e la coppia di
amici della coppia in collera commuove il padrone di casa che prima piange poi giustifica l’amore
per quel tesoro del puer: “puerum basiavi frugalissimum, non propter formam, sed quia frugi est: decem partes
dicit, librum ab oculo legit, thraecium sibi de diariis fecit, arcisellum de suo paravit et duas trullas. non est dignus
quem in oculis feram? sed Fortunata vetat. (74, 4)”, ho baciato un ragazzino bravissimo, non per la sua
10 M. Barchiesi, op. cit., p. 141.Barchiesi si riferisce al
maci, mendicanti, mime, buffoni.- non spuit: sputarsi in seno
voleva dire allontanare il malocchio e Fortunata avrebbe
dovuto farlo per la precarietà della sua fortuna.- aedes: “indica propriamente il “focolare domestico” (cfr. gr.
“bruciare”; aestus “ribollimento”, “calore”), in particolare
“abitazione” o “sede” di un dio, “tempio”; al plur. vale normalmente “casa” in quanto composta di più stanze o
ambienti” (I. Dionigi, Verba et res, Laterza, Bari 1997, p. 91).
bucinator addetto all’horologium (26, 9), uno degli aspetti tecnologici della cena.
11 ambubaia: è sostantivo formato sulla parola siriaca
abbub=tibia, flauto. La usa, al plurale, Orazio nella satira II
1: “Ambubaiarum collegia”, corporazione delle suonatrici di
flauto riunite in una sola razza (genus), spregevole,di pharmacopolae,mendici,mimae, balatrones, (vv. 1-2) spacciatori di far-
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bellezza, ma perché è bravo: sa dividere per dieci, legge un libro appena lo vede, si è fatto una tunica tracia tagliando dalla sua paghetta, col suo denaro si è comprato una poltrona e due vasi. Non
si merita che me lo porti negli occhi? Ma Fortunata non permette.
Sembra che Trimalchione voglia presentare il suo amore come fondato su un’intesa spirituale,
ma quel de diariis ricorda il diaria non sumo” (24) di Quartilla ed evoca prestazioni sessuali ricompensate.
Poi l’anfitrione se la prende di nuovo con la moglie: “ita tibi videtur, fulcipedia? suadeo, bonum tuum
concoquas, milva, et me non facias ringentem, amasiuncula: alioquin experieris cerebrum meum” (74, 5-6), ti
sembra donna dai piedi puntellati? Dà retta: digerisci la tua fortuna, avvoltoio12, e non mi far ringhiare, amantucola: altrimenti farai esperienza della mia testa calda. Quindi il convitator fa un altro
complimento agli ospiti, inveisce ancora contro Fortunata, ed esalta la sua carriera di imprenditore partito dalla prostituzione del proprio corpo. Del resto Svetonio13, sostiene che cominciò così
anche la non meno fulgida carriera di Ottaviano che divenne Augusto, per cui non è assurdo che
Petronio abbia voluto raffigurare in Trimalchione uno dei Cesari.
Do la parola a Fedeli: “è esemplare la carriera di Trimalchione: anche egli è stato a modo suo
un heredipeta, come i Crotoniati e come il captator di testamenti “par excellence”: l’imperatore (e mi
chiedo se proprio questo motivo non abbia un’ importanza decisiva). Trimalchione è capitato in
una famiglia priva di eredi e, una volta entrato nelle grazie del padrone, si è dovuto limitare – alla
stessa stregua degli abitanti di Crotone – ad attenderne pazientemente la morte, per essere nominato coerede insieme con l’imperatore. A questo punto ha avuto inizio la sua irresistibile ascesa,
grazie a un sagace impiego delle ricchezze (76, 1-11). L’exemplum, però, è al tempo stesso il limite
e il simbolo di un ceto per Petronio destinato a sua volta a perire: Trimalchione, infatti, non solo
non potrà mai trasmettere i suoi beni a una propria discendenza a causa della sterile unione con
Fortunata (e anche questo motivo lo avvicina, in un certo qual modo, ai Crotoniati, che si negano
la possibilità di avere figli: anche se Trimalchione reca in sé il cruccio di tale situazione); ma, proprio come i Crotoniati, è come se fosse già morto, tanto più che conosce il momento esatto della
morte (77, 2) e si è preoccupato di farselo costantemente ricordare dal trombettiere e dalla macchina del tempo”14.
Affetti e affari
Ma ora sentiamo Trimalchione stesso: “nam ego quoque tam fui quam vos estis, sed virtute mea ad haec
perveni. corcillum est quod homines facit, cetera quisquilia omnia. bene emo, bene vendo; alius alia vobis dicet. felicitate dissilio” (75, 8-9), infatti anche io sono stato come siete voi, ma con la mia capacità sono arrivato a questi traguardi. è questo cuoricino che fa gli uomini, il resto sono tutte bazzecole. compro bene, vendo bene; un altro vi dirà altro. io scoppio dal successo.- virtute: ancora la virtus senza
morale che sarà codificata dal nostro Machiavelli, il contrario di quella platonico-senecana e poi
cristiana.- corcillum: anche il cuore ha un significato ben diverso da quello che gli danno di solito i
poeti e i filosofi.- bene emo, bene vendo: potrebbe essere il motto emblematico di Trimalchione e pure
dell’ultimo Cesare Augusto d’Italia.
12 bonum tuum concoquas: è la versione plebea del “non
rimane una vera donna e un’amante, sia pure, da strapazzo
(amasiuncula).
13 Vita di Augusto, 68.
14 Petronio: Crotone o il mondo alla rovescia, “Aufidus” 1,
1987.
seppe digerire la grande felicità”dell’ Olimpica I di Pindaro
(vv. 56-57) che si riferisce alla colpa di Tantalo.- milva:
Trimalchione ha fatto tesoro della sentenza di Seleuco: “sed
mulier quae mulier milvinum genus (42, 7), una donna che sia
una donna è una razza di avvoltoi. Dopo tutto Fortunata
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Segue un’altra stoccata alla moglie: “tu autem, sterteia, etiamnum ploras? iam curabo fatum tuum plores”,
poi tu russona continui a piangere? oramai ci penso io a farti piangere il tuo cattivo destino. Poi
continua la rievocazione della propria carriera, il percorso in ascesa di un uomo intraprendente,
ricco di corcillum, virtus e frugalitas: “sed, ut coeperam dicere, ad hanc me fortunam frugalitas mea perduxit. tam
magnus ex Asia veni, quam hic candelabrus est. ad summam, quotidie me solebam ad illum metiri et ut celerius
rostrum barbatum haberem, labra de lucerna ungebam. tamen ad delicias |femina| ipsimi |domini| annos quattuordecim fui. nec turpe est, quod dominus iubet. ego tamen et ipsimae |dominae| satis faciebam. scitis, quid dicam:
taceo quia non sum de gloriosis” (75, 10-11), ma, come cominciavo a dire, a questo successo mi ha portato il mio essere una persona per bene. Arrivai dall’Asia tanto grande quanto questo candelabro.
Insomma tutti i giorni ero solito misurarmi con quello e per avere il muso barbuto più in fretta mi
ungevo le labbra con la lucerna. Tuttavia a quattordici anni soggiacqui alle voglie del mio padrone. Non è vergognoso quello che il padrone comanda. Io del resto accontentavo anche la padrona. Capite quello che dico: taccio poiché non sono di quelli che si vantano.15
Trimalchione procede raccontando le tappe della sua ascesa: il padrone lo fece coerede con
Cesare16, per evitare che questo annullasse il testamento e si prendesse tutto. Il liberto ereditò
comunque un patrimonio favoloso: “Nemini tamen nihil satis est. Concupivi negotiari. ne multis vos morer,
quinque naves aedificavi, oneravi vinum – et tunc erat contra aurum – misi Romam” (76, 3), tuttavia nulla mai
basta a nessuno. Mi venne la smania di mercanteggiare in grane. Per non trattenervi con molti particolari, feci costruire cinque navi, le caricai di vino, e allora valeva quanto l’oro, le mandai a Roma.
Era già iniziato, sebbene non fosse ancora compiuto il processo di latifondizzazione che, durante
il primo secolo in Italia, portò alla decadenza della cultura della vite e dell’olivo in favore di quella più estensiva del grano17.
15 Nietzsche considera segno positivo di paganesimo
magia, da una adesione che oltrepassi quella dell’arte” (op.
cit., pp. 308-309).
Secondo me invece, con Petronio, Eros ha già bevuto
del veleno ed è diventato un vizio.
Contrappongo a questo, che considero un fraintendimento, alcuni brani di una cronaca del quotidiano “la
Repubblica” del 2 settembre 2001 sull’elezione del più
bello d’Italia a Pescara. Il titolo è Mister Italia pronto a tutto,
l’inviata Romana Liuzzo. “è così, il variegato mondo di un
concorso di bellezza: al mattino ci si fa la ceretta a vicenda, poi si ritocca il rimmel (se lo mettono tutti) discutendo
di quanto siano state drammatiche le scene del G8 di
Genova. E infine il sesso: “Uomini o donne non si guarda
in faccia nessuno – spiega la gran parte dei concorrenti –
proposte indecenti se verranno si vedrà. Il nostro motto?
Mai dire mai”. Il vincitore, a detta della cronista, “il più
femminile di tutti”, ha dichiarato: “Mi sono sempre depilato, anche sul sedere, detesto i peli, fin da piccolo”.
Quando gli hanno chiesto se accetterebbe proposte indecenti, il più bello d’Italia ha risposto: “Inutile essere ipocriti: perché no?”. Adesso il padrone è la televisione, anzi chi
possiede la televisione. E i nuovi liberti sono i servi della
televisione, cioè, a vari livelli, quasi tutti. Non è necessario
essere integralisti islamici per contestare queste porcherie.
16 Ecco un’altra colleganza del liberto arricchito con
l’imperatore.
17 Lo stesso Rostozev, mentre ce ne dà notizia, avverte in una nota: “è evidente che per tutto il sec. I i latifon-
la non conoscenza del peccato: “si prenda in mano un libro
veramente pagano, per esempio Petronio, in cui non si fa,
non si dice, non si vuole e non si giudica niente che non sia,
secondo un criterio cristianamente ipocrita, peccato, anzi
peccato mortale. E tuttavia, che senso di benessere nell’aria
più pura, nella superiore spiritualità dell’andatura più veloce, nella forza liberata e traboccante, sicura del proprio
avvenire! ... Paragonato a quel libro, il Nuovo Testamento
rimane un sintomo di una cultura decadente e della corruzione – e come tale ha operato, come fermento della putrefazione” (Scelta di frammenti postumi, 1887-1888, tr. it.
Mondadori, Milano 1976, p. 256).
Più avanti il filosofo anti-cristiano rincara la dose:
“Vediamo che cosa fa “il vero cristiano” di tutto ciò che
non si raccomanda al suo istinto: l’insudiciamento e la denigrazione della bellezza, dello splendore, della ricchezza, dell’orgoglio, della sicurezza di sé, della conoscenza, della
potenza – insomma dell’ intera cultura: il suo intento è quello di togliere la buona coscienza… Si legga Petronio immediatamente dopo il Nuovo Testamento: come si respira,
come si spazza via da sé quella maledetta aria da baciapile!”
(op. cit., p. 256).
“E saturo paganesimo c’è, in Petronio, ben lontano da
ogni annunzio di correnti spirituali nuove, di misticismo, di
turbamenti interiori, che sono tanta parte per es. d’Apuleio,
un uomo che pur visse entro i limiti del II secolo, da ogni
attaccamento sentimentale qualsiasi al fenomeno della
61
Ci fu anche il momento della cattiva fortuna: “omnes naves naufragarunt; factum, non fabula18. uno die
Neptunus trecenties sestertium devoravit” (76, 4), tutte le navi naufragarono; un fatto non una favola. In
un sol giorno Nettuno inghiottì trecento milioni di sesterzi.
Nettuno dunque è ostile a Trimalchione che così si assimila a Ulisse: come l’eroe omerico nemmeno il genio del fare “la roba” si scoraggia né va a fondo. “Putatis me defecisse? non mehercules mi haec
iactura gusti fuit, tamquam nihil facti. alteras feci maiores et meliores et feliciores, ut nemo non me virum fortem
diceret. scis, magna navis magnam fortitudinem habet. oneravi rursus vinum, lardum, fabam, seplasium, mancipia” ( 76, 4-6), credete che io mi sia perso d’animo? no, per Ercole questa iattura non mi ha lasciato del cattivo gusto, come se niente fosse. Ne ho fatto costruire altre più grandi, più belle e più
sicure, in modo che nessuno potesse dire che non sono un uomo intrepido. Sai, una nave grande
ha una grande intrepidezza. Le ho caricate di vino, lardo, fave, profumo, schiavi. A questo punto
Trimalchione inserisce addirittura un elogio per Fortunata la quale: “rem piam fecit: omne enim aurum
suum, omnia vestimenta vendidit et mi centum aureos in manu posit” (76, 7), fece una cosa santa: infatti vendette tutto il suo oro, tutti i vestiti e mi pose in mano cento monete d’oro.
Perfino la pietas viene riconosciuta con il criterio del denaro. La devozione di Fortunata colse
assolutamente nel segno poiché quel denaro fu il fermentum, il lievito del patrimonio. Quindi il liberto, oramai ricco, riscattò tutti i fondi che erano stati del suo padrone: “statim redemi fundos omnes, qui
patroni mei fuerant” (76, 8).
Diventando proprietario terriero è come se l’ex schiavo riscattasse un’altra volta se stesso.
“Nel mondo antico la sola nobiltà riconosciuta è quella della terra, e una barriera insormontabile divide il mercante dal gentiluomo. Ecco perché alla fine della sua carriera Trimalchione, come
tanti altri liberti, investe le sue ricchezze in terra, e cerca di acquistare lo status di “gentiluomo di
campagna” (scorgiamo, qui tra l’altro, una delle ragioni profonde che impedirono la formazione
di un capitalismo moderno nel mondo antico). Ma il parvenu Trimalchione non ha l’educazione
necessaria per essere quel gentleman che sogna, e la sua mirabolante cena ce ne mostra a ogni piè
sospinto l’irrimediabile volgarità. Divenuto il princeps libertinorum, il primo dei liberti della sua città,
non potrà che scimmiottare goffamente i veri aristocratici”19.
Quando ebbe accumulato dieci milioni di sesterzi Trimalchione riscattò tutti i fondi che erano
appartenuti al suo padrone, si tolse dal commercio e si diede a prestare il denaro a usura ai liberti ( libertos fenerare, 76, 9). Poi fu spronato da un mathematicus, un astrologo, Graeculio Serapa nomine,
consiliator deorum (76, 10), un grechetto di nome Serapa suggeritore degli dèi. Gli diede questo
di dettero l’impronta alla vita economica dell’impero: non
dobbiamo tuttavia dimenticare che non era affatto scomparsa, specialmente in Campania, la media proprietà”
(Storia economica e sociale dell’impero romano, cit., p. 115, n. 24).
Alcune decine di pagine prima infatti aveva scritto: “La
principale esportazione italiana era quella del vino e dell’olio. L’aspetto della Campania, ch’era tutto un immenso
vigneto, e il rapido sviluppo preso dalla viticultura
nell’Italia settentrionale, non si spiegano se non ammettendo che il vino e l’olio d’Italia fossero esportati in grandi quantità nelle province occidentali e settentrionali dell’impero, e perfino nelle orientali. Puteoli, porto principale
dell’Italia meridionale, e gli altri porti campani trafficavano
su vastissima scala in vino ed olio, e così pure Aquileia nel
settentrione. Ricordiamo che Trimalcione aveva acquistato
la sua fortuna esportando vino, e che aveva relazioni con
l’Africa. Oltre il vino e all’olio, l’Italia esportava in
Occidente grandi quantità di manifatture” (op. cit., p.76).
Nel brano letto sopra veramente sembra che il vino venga
oramai importato a Roma .
18 fabula: “il termine…assai generico, serviva a designare ogni varietà di racconto, anche teatrale, dalla tragedia
alla commedia, dal mimo alla farsa” (M. Bettini, La letteratura latina cit., 3, p. 175).
19 ibidem, p. 181. Un altro personaggio della letteratura che aspira al latifondo quale simbolo (mancato) di
immortalità è Mazzarò del Verga: “appena metteva insieme
una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re,
ed esser meglio del re, ché il re non può né venderla, né
dire ch’è sua” (La roba). La roba per Mazzarò sostituiva gli
affetti, gli amori, tutto: era la sua passion predominante:
62
responso in presenza di Abinna: “tu dominam tuam de rebus illis fecisti. tu parum felix in amicos es. nemo
umquam tibi parem gratiam refert. tu latifundia possides. tu viperam sub ala nutricas” (78, 1-2), tu hai reso
tua la padrona con quelle faccende. Tu hai poca fortuna con gli amici. Nessuno mai ti rende la gratitudine che ti deve. Tu possiedi latifondi. Tu nutri una vipera in seno.
I latifondi in effetti sono il suo massimo vanto perché poi Trimalchione aggiunge che gli restano ancora trent’anni quattro mesi e due giorni da vivere e che, se riuscirà a congiungere i suoi
poderi con l’Apulia, avrà fatto abbastanza strada nella vita. La tendenza al latifondo, che Augusto
cercò di contrastare senza riuscirvi, rovinò l’agricoltura italica: “latifundia perdidere Italiam” scrive
Plinio il vecchio (Naturalis historia, XVIII, 7).
L’anfitrione poi vanta la grandezza e la sontuosità della casa che una volta era un cusuc (77, 4),
un tugurio. Seguono le parole che contengono l’ideologia di questi liberti, la stessa del nostro
tempo cosiddetto privo di ideologie: “credite mihi: assem habeas, assem valeas; habes, habeberis. sic amicus
vester, qui fuit rana, nunc est rex.” (77), credetemi, hai un asse, vali un asse; hai, sarai considerato. Così
il vostro amico che è stato una rana, adesso è un re. Il denaro insomma compie le trasfigurazioni
più impensabili. Infatti il suo valore, vero o presunto che sia, prevale su tutto. è la considerazione, amara, che fa anche il contadino Blepsidemo nel Pluto di Aristofane: “tutti cedono davanti al
profitto!” (v. 363). C. Marx afferma che il denaro significa: “la divinità visibile, la trasformazione
di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l’universale rovesciamento delle cose”20.
La cena si avvia alla conclusione, ossia al colmo dello schifo: “ibat res ad summam nauseam” (78,
5). Trimalcione oscenamente ubriaco fa entrare nel triclinio nuovi suonatori, si stende fino al
fondo del divano, poi ordina: “fingite me mortuum esse. dicite aliquid belli”, immaginate che sia morto.
Dite qualcosa di spiritoso. Segue un baccano d’inferno, con tanto di marcia funebre, che fa intervenire i pompieri; allora Encolpio e gli amici fuggono come se scappassero da un incendio.
è, finalmente, l’uscita da un labirinto.
giugno, grano da raccogliere a montagne, denaro a fiumi da
intascare, sono allora tanti commossi simboli dell’eterno, di
quel lavoro costruttivo che resta dopo di noi. Ebbene: tutta
questa poesia e religione della roba, che non è qui un simbolo economico ma tutta una complessa, generosa e disperata visione del lavoro, vagheggiato per se stesso e per la sua
nascosta speranza di immortalità, viene miseramente a crollare con la morte del protagonista.” (Introduzione di Luigi
Russo a Mastro Don Gesualdo di Verga, Mondadori, Milano
1960, p.14).
Trimalchione non ha successo, almeno nel suo tentativo di elevarsi culturalmente: a proposito del suo stile
Rostovzev afferma di essere incline a credere che Petronio
“abbia scelto il tipo del liberto per aver modo di fare del
nuovo ricco la figura più volgare che fosse possibile” (M..
Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, p. 67).
20 Manoscritti economico-filosofici del 1844 cit., p. 154.
“Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di
donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la
quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto
farla portare al camposanto”. Alla roba cede tutto, la roba
vince su tutto (omnia vincit res): “alle fiere gli armenti di
Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il
santo, colla banda, alle volte doveva mutar strada, e cedere
il passo”. La roba insomma ha qualche cosa di epico e
sacro. A questo proposito sentiamo Luigi Russo su Mastro
Don Gesualdo, un altro personaggio verghiano che per certi
versi può essere visto come un epigono di Trimalchione:
“La roba è l’ultima forma disperata con cui l’uomo cerca la
sua immortalità, essa è una metonimia di quel desiderio di
sopravvivenza, che c’è nel cuore di tutti gli umani. Ogni
buon colpo di zappa ha dunque il suo valore d’eternità. Le
fattorie grandi come chiese, i villaggi interi da fabbricare, le
terre da coltivare, a perdita di vista, eserciti di mietitori a
63
Il labirinto
Secondo Fedeli21, il labirinto “costituisce l’intelaiatura della cena sin dal suo inizio: la casa di
Trimalchione sembra rappresentare un’oasi per i protagonisti dopo le continue traversie; ma essa
svelerà presto la sua vera natura. Gradualmente si è introdotti nell’ambiguità che regnerà nella cena,
così come gradualmente si percorrono i corridoi di un labirinto… Anche la lunga serie di portate
a sorpresa è una proiezione dello schema del labirinto: come, infatti, chi esplora un labirinto se
imbocca un corridoio sbagliato è costretto a ritornare sui suoi passi, così i convitati, ed in particolare Encolpio, vengono continuamente spinti a formulare sulle portate congetture che si rivelano
ogni volta sbagliate e li costringono a ritornare sulle loro idee”.
Fedeli fa notare che la presenza del labirinto non è limitata e ridotta alla cena: “All’inizio della
parte del Satyricon a noi giunta, quando finalmente riesce a svignarsela dalla scuola di retorica (6 2),
Encolpio si mette alla ricerca di Ascilto, che prima di lui se l’è filata. Ma la Graeca urbs gli si configura subito come un labirinto, in cui è impossibile orientarsi; non solo Encolpio ignora dove sia l’uscita (6 3: nec quo loco stabulum esse sciebam), ma, errore fondamentale da parte di chi si trova in un labirinto, vaga senza conseguire una direzione precisa (63: nec viam diligenter tenebam): di conseguenza,
dato che egli non segue il filo di un ragionamento logico ma si affida al caso, finisce per tornare
sempre allo stesso punto, che è poi il punto di partenza (64: itaque quocumque ieram, eodem revertebar).
Anche il lupanare in cui troppo tardi Encolpio si accorge di essere entrato (74) si presenta sotto l’aspetto di un labirinto a due accessi: Encolpio entra da una porta, lo attraversa a capo coperto ed
esce dall’altra porta. All’uscita incontra Ascilto, anche lui mezzo morto di fatica, che nel racconto
delle sue peripezie per tutta la città alla ricerca della locanda ripropone il tema del labirinto (82: cum
errarem (...) per totam civitatem nec invenirem quo loco stabulum reliquissem)...
“La struttura del romanzo, per quanto possiamo giudicare, intreccia a un andamento lineare progressivo (da Marsiglia all’Egitto?) un andamento circolare, che riporta periodicamente sulla strada di
Encolpio personaggi già incontrati e già lasciati, in una sorta di ritorno indietro nel tempo che ha i
tratti angosciosi dell’inutile andirivieni del labirinto. L’immagine del labirinto (esplicitamente rievocata in 73) descrive assai bene l’apparente inutilità del continuo ritrovarsi in luoghi chiusi di Encolpio
(questo o quell’albergo, l’arena, la prigione, il lupanare, la casa di Quartilla o di Trimalchione, la nave
di Lica, il letto di Circe, la stamberga delle maghe) e del suo continuo evadere”.
D’altronde per l’eroe del romanzo antico il mondo ostile che deve affrontare, le mille prove che
deve superare prima di giungere alla soluzione felice altro non sono, in definitiva, se non la proiezione dello schema del labirinto, che da Petronio è caratterizzato con tale chiarezza per la prima
volta in modo esplicito… mi chiedo se la metafora del labirinto non possa aiutarci a scoprire in
Petronio la presenza di un motivo d’importanza fondamentale, che manca nella parte a noi giunta
e rappresenta la differenza maggiore tra Petronio e Apuleio, tra Petronio e i romanzi greci: il motivo della purificazione e dell’iniziazione dell’eroe attraverso la prova: il continuo vagare di Encolpio
in luoghi labirintici rappresenta la condizione necessaria perché, superata la serie di prove, egli sia
mondato da colpe e plachi l’ira divina”.22
21 Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 354 ss.
22 P. Fedeli, op. cit., p. 355. Il labirinto allude anche al
e l’ inestricabili giro (hic labor ille domus et inextricabilis error ); /
ma di fatto, commiserato il grande amore della fanciulla
regale, / Dedalo stesso distrìca gli inganni e le tortuosità del
palazzo / guidando le cieche orme con un filo” (vv. 23-30).
Il Minotauro prefigura l’incontro con i mostri dell’Inferno
che è poi incontro con una parte di se stessi.
mondo infero: non è un caso che nel VI dell’Eneide il protagonista prima di scendere agli Inferi veda raffigurato il labirinto cretese nel tempio di Apollo: “ il Minotauro c’è, ricordo di una Venere infame; / qui la famosa fatica del palazzo
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