Romanus Orbis
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Romanus Orbis Antologia tematica a cura di D. Guerra Analisi di testi “maggiori”* * Per questa sezione sono state utilizzate selezioni di passi da quattro raccolte antologiche sui maggiori poeti latini di Edizioni di Scuola e Cultura: Naturae species ratioque (Lucrezio), a cura di P. Fornasiero e L. Mutterle, Sermo amatorius (Catullo, Ovidio), a cura di G. Ghiselli, Certi fines (Orazio), a cura di C. Cignolo, e Physis (Virgilio, limitatamente al tema della natura), a cura di R. Strumìa. II Lucrezio Naturae species ratioque a cura di Patrizia Fornasiero e Maria Lodovica Mutterle Il testo de rerum natura I, 1-43 Hominum voluptas Il poema si apre con l’invocazione a Venere, dea dell’amore, principio vivificatore dell’universo. La potenza della dea viene rappresentata con la vivida immagine del risveglio a primavera della natura, dove domina la legge dell’amore che governa la procreazione e riproduzione delle specie. Persino Marte, dio della guerra, si piega di fronte alla bellezza di Venere e la stessa violenza si placa di fronte all’amore che riporta la serenità della pace. Proprio quest’ultima viene sentita dal poeta come condizione indispensabile per attendere alla composizione della propria opera e per permettere a Memmio, indicato come destinatario del poema, di seguire il messaggio epicureo proposto. Praecepta 1. Aeneadum… voluptas: “O madre della stirpe di Enea, gioia degli uomini e degli dei”; Aeneadum (= Aeneadarum) genetrix: la dea viene invocata prima di tutto come progenitrice dei Romani; divumque = deorumque. 2. alma: “che dà la vita”; l’agg. deriva dalla radice del verbo alere, “nutrire”. caeli… signa: “sotto gli astri che scorrono nel cielo”; subter = sub. 3-4. quae… concelebras: “che popoli il mare solcato dalle navi, le terre feconde di messi”; frugiferentis = frugiferentes. 5. visitque… solis: “e vede, una volta nata, la luce del sole”; visit deriva da visere, desiderativo di videre; exortum è part. passato, concordato con genus. 7-8. tibi… flores: “per te la terra creatrice produce soavi fiori”; suavis = suaves; daedala: l’agg. contiene l’idea della creazione artistica. 10. Nam… diei: “Infatti non appena si manifesta la stagione primaverile”; verna concorda con species ma, per ipallage, è da riferire a diei. 11. et… favoni: “e, dischiuso, spira il soffio del fecondo favonio”; reserata: il participio richiama l’idea dei venti liberati dal dio Eolo; genitabilis: l’attributo, riconducibile a gigno, esprime attraverso il suffisso -bilis l’idea della possibilità di creare la vita. 12-13. aeriae… vi: “prima gli uccelli dell’aria annunciano te, o dea, e il tuo arrivo, colpiti nel cuore dalla tua forza”; corda è acc. di relazione dipendente da perculsae. 14-15. inde… amnis: “Poi le fiere e gli armenti saltano per i pascoli rigogliosi e attraversano i rapidi fiumi”; ferae, pecudes: asindeto; amnis = amnes. 15-16. ita… pergis: “così, catturata dalla tua grazia, ardentemente ogni creatura ti segue dove vuoi condurla”; Inno a Venere 05 Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis: Voluptas: il termine corrisponde al greco hedoné e designa quello che, secondo la filosofia epicurea, è il piacere catastematico. Lucrezio intesse l’elogio della voluptas in II, 1-22, dove – attraverso l’immagine dell’uomo sulla riva che guarda il travaglio di chi è alle prese con il mare in tempesta – esprime l’idea che il maggior piacere per la natura umana deriva dall’esser priva di dolori, ossia dal “piacere stabile” che si verifica in assenza di turbamento (atarassìa) e di dolore (aponìa). Esso si contrappone al piacere “mobile” di cui parlano i cirenaici, che costituisce il godimento psico-fisico e, comportando una eccitazione, procura anche turbamento. Nell’incipit del poema, il termine – oltre a riproporre l’idea cardine del piacere catastematico proprio della filosofia epicurea – indica anche l’amore come principio vitale che regola la vita dell’universo e viene attribuito sia agli uomini che agli dei, in quanto anch’essi determinati dalle leggi fisiche degli atomi. 10 15 te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus summittit flores, tibi rident aequora ponti placatumque nitet diffuso lumine caelum. nam simul ac species patefactast verna diei et reserata viget genitabilis aura favoni, aeriae primum volucres te, diva, tuumque significant initum perculsae corda tua vi. inde ferae pecudes persultant pabula laeta et rapidos tranant amnis: ita capta lepore te sequitur cupide quo quamque inducere pergis. 14 L’invocazione a Venere ha suscitato un problema di interpretazione, in quanto secondo la filosofia epicurea gli dei sono estranei alle vicende umane e appare dunque contraddittorio chiedere alla divinità di garantire le condizioni di pace necessarie per intraprendere la composizione del poema. Diverse sono state le spiegazioni: Boyancé ad es. ha visto in essa la forza fecondante della natura; Giancotti ha individuato nel dualismo Venere/Marte una allegoria della contrapposizione vita/morte; i più concordano nello scorgere in Venere il simbolo della voluptas epicurea. Si deve inoltre sottolineare il fatto che Venere fosse la dea protettrice della gens Memmia e Iulia, cosicché l’invocazione potrebbe costituire il tentativo di riallacciarsi alla tradizione romana. Sul testo Il passo inizia con nove versi (Aeneaedum… caelum) che contengono l’invocazione a Venere, svolta secondo i canoni dell’inno religioso. Essa si apre con una serie di epiteti (Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, alma) che ritardano la comparsa del nome della dea creando attorno a lei un alone di sacralità e continua con la richiesta di aiuto. Il testo prosegue con un alto grado di elaborazione formale, come si può notare dalla presenza di anafore (quae… quae), di verbi composti e allitteranti collocati all’inizio di verso (concelebras… concipitur), del poliptoto in anafora che accentra l’attenzione sulla dea (te… te… te… tibi… tibi). Il tono risulta particolarmente solenne anche per la presenza di arcaismi e termini composti (navigerum… frugiferentis) nonché per la struttura sintattica di ampio respiro (di cui si offre lo schema), assai ricca di enjambement (vv. 3-4; 4-5; 6-7; 7-8): Senza di te Venere non può / provare il piacere che la buona fama / consente; lo può / solo se tu lo permetti. Chi oserà paragonarsi / ad un simile nume? Senza di te nessuna casa è in grado / di largire figliuoli, né può un genitore / trovare sostegno nella progenie; lo può, / solo se tu lo permetti. Chi oserà paragonarsi ad un simile nume? Una terra che fosse privata del tuo culto / non riuscirebbe a trovare difensori / ai suoi confini; ci riuscirebbe, / solo se tu lo permetti. Chi oserà paragonarsi / a un simile nume? Catullo, Carme 61, vv. 61-75 vv. 1 – 5 Aeneadum genetrix… alma Venus quae… (concelebras) quae… concelebras quoniam concipitur -que (quoniam) visit vv. 6 – 9 te fugiunt venti te nubila caeli (fugiunt) tellus summittit flores rident aequora -que nitet caelum La figura di Venere ritorna nei versi 21-28 ( quae… leporem) che ribadiscono la sua importan15 capta, quamque femminili perché concordano con il genere di pecus. 17-18. montis… virentis = montes… virentes. 19. omnibus (animalibus). 20. efficis… propagent: “fai in modo che ardentemente le generazioni continuino stirpe per stirpe”. 21-22. quae… quicquam: “E poiché tu sola governi la natura e senza di te niente approda alle divine spiagge della luce e niente sussiste di lieto e di amabile”; in luminis oras: l’espressione costituisce una reminescenza degli Annales di Ennio (Vahlen I, 110 -114) riportata da Cicerone in De re publica I, 64. 24. te… esse: “desidero che tu mi sia compagna nello scrivere versi”; scribendis versibus: dativo del gerundivo con valore finale. 26. Memmiadae nostro: “per il nostro discendente dei Memmi”; il patronimico nobilita il destinatario dell’opera. 27. omnibus ornatum… rebus: “ricco di tutti i pregi”; il verbo orno regge l’ablativo strumentale. 28. quo… leporem: “Tanto più concedi, o dea, eterno fascino alle mie parole”. 29. fera moenera militiai (= munera militiae): “le feroci opere della guerra”. 30. omnis = omnes; concorda con terras. sopita: predicativo di moenera. 32. mortalis = mortales; accusativo retto dal verbo iuvare. moenera: cfr. v. 29. Mavors: arcaismo per Mars. 33-34. in… amoris: “che spesso s’abbandona nel tuo grembo, vinto da eterna ferita d’amore”; devictus: il preverbo de esprime l’idea del vincere completamente; volnere = vulnere. 3537. atque… ore: “e così guardandoti, reclinato il collo ben tornito, nutre d’amore gli occhi avidi desiderandoti, o dea, e il respiro di lui, mentre giace supino, pende dalle tue labbra”; suspiciens: il preverbo sub indica lo sguardo rivolto dal basso verso l’alto di Marte verso Venere; tereti: l’aggettivo viene usato per qualificare oggetti lavorati al tornio, di cui si sottolinea la bellezza formale; reposta = deposita; inhians costruito con in e l’accusativo esprime l’intensità del desiderio; eque = et ex: la preposizione regge l’ablativo tuo ore. 38-40. hunc… pacem: “Tu, o dea, circondando con il tuo corpo divino lui, che sta sdraiato, spargi dalla tua bocca denique per maria ac montis fluviosque rapaces frondiferasque domos avium camposque virentis omnibus incutiens blandum per pectora amorem 20 efficis ut cupide generatim saecla propagent. Amor: il termine appare strettamente connesso a voluptas. Esso è usato nel passo tre volte: nel verso 19, indica l’impulso di tutte le creature a riprodursi, garantendo così la continuità della vita nell’universo; tale valore è qui rafforzato dalla presenza dell’avverbio cupide che esprime la particolare intensità del desiderio, come al verso 16. Negli altri due casi (v. 34 e 36) il vocabolo è usato per descrivere la passione che Marte prova verso la bellezza fisica di Venere. quae quoniam rerum naturam sola gubernas nec sine te quicquam dias in luminis oras exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam, te sociam studeo scribendis versibus esse 25quos ego de rerum natura pangere conor Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni omnibus ornatum voluisti excellere rebus. quo magis aeternum da dictis, diva, leporem. effice ut interea fera moenera militiai 30per maria ac terras omnis sopita quiescant. nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reicit aeterno devictus vulnere amoris, 35atque ita suspiciens tereti cervice reposta pascit amore avidos inhians in te, dea, visus, eque tuo pendet resupini spiritus ore. è Venere che screzia di fiori la primavera scintillante per le gemme, è Venere che sospinge nei noti calici i boccioli che spuntano al vento di Zefiro, è Venere che sparge l’acque feconde della rugiada scintillante che la brezza notturna lascia cadere… è Venere che ha dato ordine che tutte le rose al mattino coprano il capo alle Vergini: Ella, fatta del sangue del Padre e dei baci di Amore, delle gemme , delle fiamme, delle porpore del sole, non avrà pudore a sciogliere domani il rossore verecondo che stava nascosto sotto la veste di fuoco, sposa con un vincolo senza pari… Pervigilium Veneris vv. 13-26 16 za nell’universo attraverso una doppia anafora (te… te; neque… neque). Accanto alla dea compaiono gli altri due interlocutori: il poeta indicato prepotentemente dal pronome di prima persona (ego) e il dedicatario nobilitato dal patronimico (Memmiadae nostro). Si tratta probabilmente di Gaio Memmio, personaggio di illustre discendenza di cui sono pervenute scarse notizie biografiche. Di lui sappiamo che fu tribuno della plebe nel 66 a. C., pretore nel 58 a.C., propretore in Bitinia nel 57-56 a. C. ed aspirò al consolato nel 54 a.C. In quell’anno incorse nell’accusa di broglio elettorale (de ambitu) e fu condannato all’esilio che scontò ad Atene. Qui ricevette in dono dalla città il terreno occupato dalle rovine della casa di Epicuro, dove egli intendeva edificare la propria dimora, dimostrando scarsa sensibilità per la memoria del Maestro. Ad Atene morì nel 50 a. C. Della sua produzione poetica ci è rimasto solo un brevissimo frammento di intonazione erotica. La figura di Memmio è citata da Catullo che fece parte del suo seguito in Bitinia nella speranza, poi disattesa, di riceverne dei vantaggi economici (Carmina X, 12); da Cicerone che lo ricorda come uomo dotato di vasta cultura e capace oratore in Brutus 247 e riferisce sul soggiorno ateniese in Ad familiares XIII, 1. Lucrezio dedica a Memmio l’opera probabilmente vedendo in lui il rappresentante della società colta del suo tempo che poteva fungere da destinatario del messaggio filosofico epicureo. Numerosi sono i punti del poema in cui egli viene citato: I, 25, 42, 103, 403, 1057; II, 141, 184; V, 7, 94, 865, 1282. Questi versi si chiudono con la forte allitterazione da dictis, diva che sottolinea il valore che il poeta attribuisce al termine lepos, indicatore della grazia e del garbo della conversazione che possono divenire vera e propria seduzione. Nel passo, inoltre, lepos è usato sia al verso 15 per indicare la forza d’attrazione che Venere esercita su tutte le creature sia al verso 28 per esprimere l’effetto di seduzione che la parola scritta esercita. 17 Una Diva (Venere) scorrea lungo il creato / a fecondarlo, e di Natura avea / l’austero nome: fra’ celesti or gode / di cento troni, e con più nomi ed are / le dan rito i mortali; e più le giova / l’inno che bella Citerea la invoca. U. Foscolo, Le Grazie, vv. 32-37 Gaio Memmio figlio di Lucio aveva un’ottima competenza nelle lettere, ma in quelle greche: per quelle latine aveva solo disdegno; come oratore era fine, e con un linguaggio piacevole; ma siccome rifuggeva non solo dalla fatica di parlare, ma anche da quella di preparare i discorsi, impoverì il proprio talento nella misura stessa in cui ridusse l’operosità. Cicerone, Brutus 247 Né più mai toccherò le sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque, / Zacinto mia, che te specchi nell’onde / del greco mar da cui vergine nacque / Venere, e fea quelle isole feconde / col suo primo sorriso, … U. Foscolo, A Zacinto vv. 1-6 dolci parole, chiedendo, o illustre, una tranquilla pace per i Romani”; recubantem: participio presente concordato con hunc, retto da super; suavis = suaves; incluta = inclita. 41-43. nam… saluti: “Né noi possiamo comporre questa opera con animo tranquillo in tempi difficili per la patria né, in tali circostanze, l’illustre stirpe di Memmio può sottrarsi alla salvezza comune”; hoc: accusativo neutro retto da agere sulla scorta di IV, 969 dove l’espressione compare con il medesimo significato; patriai = patriae; desse (= deesse): l’infinito dipende da un potest sottinteso ricavabile dal precedente possumus. hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circumfusa super, suavis ex ore loquelas 40funde petens placidam Romanis, incluta, pacem. nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo possumus aequo animo nec Memmi clara propago talibus in rebus communi desse saluti. hoc patriai tempore iniquo Il primo secolo a. C. fu travagliato dall’urto tra la potenza della classe egemone conservatrice e la volontà di rinnovamento delle nuove forze sociali... Le guerre sociali e la prima guerra civile acuirono le difficoltà del momento, gli squilibri economici le esasperarono. Si diffuse tra gli intellettuali il desiderio di potersi rifugiare in qualcosa che distogliesse il pensiero dalla politica e dalle preoccupazioni della vita... Si volle vedere nel De rerum natura anche un’opera di contestazione politica. Ma ben diverso proposito è quello di indicare la via alla tranquillità (che si trova nell’abbandono, semmai, degli affanni politici) e quello di protestare contro un metodo e un sistema di vita pubblica e contro un costume civile. F. Semi, Società lingua letteratura nell’antica Roma, Treviso, 1980, vol. II, p. 88 I due motivi (della generazione e della pace) si rivelano concordanti se vengono riferiti al fondamentale carattere costruttivo di ciò che in Venere è rappresentato. Generare è costruire, pacificare o mantenere la pace è pure costruire, cioè comporre ciò che è contrapposto, associare ciò che è dissociato, contenere ciò che tende a scomporsi e a contrapporsi. Il mantenere la pace è cosa non meno attiva che il crearla: è anch’esso un pacificare, in quanto che comporta il vigere e l’attivo sormontare del principio pacificatore, ossia costruttivo. Invocando da Venere il mantenimento della pace Lucrezio invoca, dunque, cosa congrua al carattere eminentemente attivo di ciò che Venere impersona. D’altra parte, sottolineando tale carattere, si ribadisce l’inadeguatezza dell’identificazione fra Venere e il “piacere in riposo”, giacché questo non può essere che una conseguenza dell’operare di quella, e si rivela, altresì, l’infondatezza di ogni connessione con le inattive divinità epicuree. Se la Venere lucreziana non è la divinità tradizionale, né una divinità epicurea degli intermundî, la consueta accusa di contraddizione rivolta all’epicureo Lucrezio è priva di fondamento. Di contro al rifiuto delle divinità tradizionali, di contro alla dottrina dell’assoluto disinteresse degli dei epicurei per le vicende umane, in Lucrezio è saldo il convincimento che il principio impersonato in 18 I versi 38-40 (hunc… pacem) propongono, poi, di nuovo Venere che concede pace serena agli uomini, chiedendola a Marte, vinto dall’amore. L’immagine del dio tra le braccia della dea è proposta con l’efficacia di un gruppo scultoreo in cui risalta il collo ben tornitodi Marte, il suo sguardo pieno di desiderio rivolto alla dea e il suo totale abbandono. La chiusa (vv. 41-43) richiama il dedicatario, sottolinea il fine dell’opera di proporre la salvezza dell’uomo e lascia intendere con l’espressione generica patriai tempore iniquo che il poema sia stato composto in un periodo politico tormentato, variamente collocato. Si è infatti supposto che si tratti della sedizione di Clodio o della guerra di Cesare in Gallia (58-51 a. C.) o della guerra contro Mitridate, re del Ponto (74-64 a. C.) o infine delle lotte tra Mario e Silla (8279 a. C.). L’ipotesi più probabile appare quella che assegna la composizione del poema alla prima metà degli anni cinquanta. PROPOSTA DI PERCORSO VENERE: LA POTENZA DELL’AMORE • Inni omerici V (VII - VI sec. a.C.) • Saffo, frammento 1 Voigt (VII – VI sec. a.C.) • Prassitele, Afrodite di Cnido (340 a.C.) • Venere di Milo (II a.C.) • Ovidio, Metamorfosi IV, 167 – 193 (I d.C.) • Pervigilium Veneris in Anthologia Latina (V – VI d.C.) • A. Poliziano, Stanze cominciate per la giostra di Giuliano de’ Medici I, 68 – 92 (1475) • S. Botticelli, La primavera (1478) • S. Botticelli, Nascita di Venere (1483) • G.B. Marino, Adone (1623) X, XI • A. Vivaldi, Concerto n. 1 La primavera in Le quattro stagioni (1678 – 1741) • A. Cabanel, Nascita di Venere (1863) • P. Picasso, Vénus et amour (1967) Venere sia reale e operante se altro mai. Come rinfacciargli dunque la sua invocazione? Se ciò ch’egli implora, la pace, deriva per lui precisamente dal principio ch’egli invoca, come tacciare d’incongruenza la sua preghiera? Essendo Venere una allegoria l’invocazione in effetti è rivolta al principio in essa allegorizzato. Se si riflette sull’essenza di questo, sulla sua universalità e, soprattutto, sulla sua immanenza nell’uomo, si perviene alla conclusione che, invocando Venere, Lucrezio in fondo invoca l’uomo. La pace umana che egli implora, dagli uomini dipende, secondo la dottrina ch’egli professa. Perciò non occorre che la sua invocazione s’estenda per l’immensità dell’universo, tanto quanto s’estende il principio raffigurato in Venere, e quindi si rivolga ad esseri e a forze che l’uomo non può padroneggiare. Se ciò ch’egli domanda a Venere dipende dall’uomo, la sua invocazione si restringe alla sfera umana dell’universale principio personificato da Venere, all’ambito dell’immanenza dei motus genitales auctificique nell’uomo. (F. Giancotti, Religio, natura, voluptas, Bologna 1989, pp. 362-363) 19 Il testo de rerum natura II, 1-61 Quibus ipse malis careas cernere suave est Il proemio del II libro si apre con l’efficace immagine delle regioni dei sapienti, dove essi conducono un’esistenza serena, contrapposta al vuoto affannarsi della maggior parte degli uomini. Ciò che muove alla ricerca della ricchezza e del potere, procurando un continuo tormento, è l’incapacità di comprendere che la natura ha bisogno di poco per elargire la felicità: essa chiede soltanto che la sofferenza resti lontana dal corpo e l’affanno dallo spirito. Lucrezio coglie qui l’occasione per esemplificare la differenza che intercorre tra i piaceri naturali e necessari e il loro opposto, costituito dalle varie manifestazioni della ricchezza. In realtà, solo la ragione può mettere in fuga le ansie e le angosce degli uomini, come la luce del giorno mette in fuga le paure che tormentano i bambini nel buio, dimostrando la loro inconsistenza. Praecepta 1-2. Suave (est); mari magno: abl. di stato in luogo; turbantibus… ventis: abl. assoluto con valore temporale; e… laborem: “guardare dalla terraferma il grande travaglio di un altro”, prop. soggettiva retta dal precedente suave est. 3-4. quemquamst: crasi per quemquam (soggetto di vexari) e est; quibus… careas: prop. interrogativa indiretta dipendente da cernere. 6. suave (est). 5. tua… pericli: “senza che tu prenda parte al pericolo”. 7-8. nil = nihil; bene… serena: “che occupare le serene regioni elevate, ben fortificate dalla dottrina dei sapienti”. 9. despicere: “guardare dall’alto”; queas: il verbo servile della relativa regge gli infiniti despicere e videre; quest’ultimo, a sua volta, regge errare, quaerere, certare, contendere, niti. 10. palantis = palantes : “andando alla ventura”. 12. praestante labore: “con straordinaria fatica”. 13. ad… potiri: i due infiniti completano il significato di nitor. 14. o… caeca!: accusativi esclamativi; mentis = mentes. 1516. qualibus… quodcumquest!: “in quali tenebre di vita e in quanti pericoli è trascorso quel po’ di tempo che ci è concesso!”. 16-17. nonne… latrare: “non vedi forse che nient’altro la natura reclama per sé”; videre: forma di infinito esclamativo; nil = nihil; latrare regge le prop. completive utqui (=ut)… absit e (ut) fruatur e significa propriamente “abbaiare”, da cui passa ad indicare il “richiedere ad alta voce”. 18. mente fruatur: “di godere nell’anima”; il verbo ha come soggetto sott. natura. La conoscenza, garanzia di felicità 05 10 15 Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari quemquamst iucunda voluptas, sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est. suave etiam belli certamina magna tueri per campos instructa tua sine parte pericli. sed nil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapientum templa serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere vitae, certare ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumque potiri. o miseras hominum mentis, o pectora caeca! qualibus in tenebris vitae quantisque periclis degitur hoc aevi quodcumquest! nonne videre nil aliud sibi naturam latrare, nisi utqui corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur iucundo sensu cura semota metuque? Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte, ch’essa possa essere qualcosa che ci tocchi da vicino, e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori, non avremmo bisogno della scienza della natura Epicuro, Massime capitali, XI 26 Il limite in grandezza dei piaceri è la detrazione di ogni dolore. E dovunque è piacere, e per tutto il tempo che persiste non c’è né dolore fisico né spirituale. Epicuro, Massime capitali III Sul testo L’immagine dell’uomo che se ne sta sulla riva a guardare il naufrago dipinge in modo assai efficace la condizione di chi – privo di dolore – può assaporare il piacere; essa ripropone circolarmente l’espressione suave (est) – presente al verso 1 e al verso 4 – che, aprendo e chiudendo il quadro, richiama l’attenzione sull’idea principale. Al v. 3 e al v. 19 è usato l’aggettivo iucundus, rispettivamente come qualità di voluptas e di sensus, mentre al v. 31 il termine ricompare sotto forma di avverbio (iucunde) che determina l’espressione corpora curare. In tutti i casi la parola è utilizzata in un contesto dove si cita o si descrive l’ideale epicureo del piacere, di cui il proemio del II libro costituisce un significativo elogio: la condizione di chi è privo di dolore nel fisico (v. 18: corpore seiunctus dolor absit, descrizione dell’aponia epicurea) e di affanno nella mente (vv. 18-19: mente fruatur iucundo sensu cura semota metuque, definizione dell’atarassia epicurea) e può dunque raggiungere quello stato che consente la felicità. Non è un caso che l’avverbio iucunde compaia nei versi che ritraggono un gruppo di amici trascorrere il tempo in una natura amica, secondo il modello epicureo dell’amicizia come massimo bene. Grande è la distanza che separa il saggio, colui che ha raggiunto tale felicità, dai comuni mortali: essa trova espressione nel testo attraverso un’altra efficace immagine poetica, quella dei munita templa dei vv. 7 e seguenti. La conoscenza razionale delle cose permette al sapiente di conquistare una serenità irraggiungibile da chi erra perché cerca di prevalere sugli altri lottando con la propria intelligenza (certare ingenio) o la propria origine sociale (contendere nobilitate) al fine di raggiungere la ricchezza o il potere. L’immagine è introdotta da dulcius est, in variatio rispetto al precedente suave est. Il termine templum indica in origine una porzione di cielo che gli aruspici scrutano per osservare il volo degli uccelli e trarre i loro presagi e passa successivamente ad indicare uno spazio libero e vasto, con l’idea di elevatezza e santità. Significativo l’uso del verbo despicere, che ben esprime l’atto di guardare (specio) dall’alto verso il basso (de) da parte di chi ha conquistato una superiore serenità rispetto agli uomini che si affannano inutilmente. Nei versi 20–33 è possibile individuare la tripartizione dei piaceri operata da Epicuro: 27 Alcuni vollero divenire famosi e rinomati ritenendo così di procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini. Ammesso che in tal modo la loro vita sia diventata veramente sicura, essi hanno acquistato un bene secondo natura; ma se la loro vita non lo è divenuta, non hanno raggiunto quel bene secondo natura sotto il cui impulso hanno agito fin dall’inizio. Epicuro, Massime capitali VII Se ciò che procura i godimenti dei dissoluti li liberasse dai timori della loro mente riguardo alle cose celesti e alla morte e ai dolori, e se insegnasse loro qual è il limite dei desideri e dei dolori non avremmo di che biasimarli, colmi come sarebbero di ogni piacere e senza mai avere di che soffrire nell’anima e nel corpo, ciò che è appunto il male. Epicuro, Massime capitali VI 20. corpoream… naturam: “al corpo”; ad e l’acc. è usato qui al posto del più usuale dativo. 21. quae… cumque = quaecumque; il pronome regge una relativa impropria. 22. delicias… possint: “così da poter offrire anche molti piaceri”; uti (= ut) introduce una frase di natura finale-consecutiva. 23. gratius: oggetto di requirit. 24-28. si… templa: serie di prop. ipotetiche (simulacra sunt, domus fulget auroque renidet, citharae reboant); lumina… suppeditentur: “perché sia fornita luce ai banchetti notturni”; fulget: il verbo, della II coniugazione, è usato qui al posto di fulgere, più frequente in Lucrezio; nec… templa: “né le cetre fanno risuonare le sale dai soffitti dorati”. 29. cum tamen: “quando tuttavia”; si contrappone a si non del v. 24; l’avverbio significa “nonostante la mancanza dei beni di lusso appena descritti”; inter… molli: “coricati su un morbido prato”. 31. non… opibus: “con poca spesa”; litote. 32. praesertim cum: “specialmente quando”; anni tempora: “la stagione”. 33. viridantis = viridantes. 34. citius: il comparativo di maggioranza è legato a quam si del v. 36. 35-36. textilibus… iacteris: “se ti agiti in coperte dipinte e nella rossa porpora”; in plebeia veste: “in una coperta plebea”. 37. nil = nihil. 39. quod… putandum (est): “per il resto, bisogna pensare che non giovino per nulla neppure all’animo”; quod superest: espressione incidentale. 40-41. si… cientis: “a meno che, quando vedi le tue legioni agitarsi nel campo Marzio producendo immagini di guerra”; cum videas: il cum narrativo con valore temporale dipende dalla prop. successiva tum… effugiunt; cientis = cientes: 42-43. subsidiis… animatas: “(quando vedi le legioni) rafforzate da grandi aiuti e dalla forza della cavalleria e le fai fermare cariche di armi e parimenti animate da ardore”, secondo il testo del Munro. 43a. fervere… vagari: “vedendo la flotta agitarsi e vagare di qua e di là”; il verso è citato da Nonio come appartenente al II libro ed è solitamente inserito in questo punto dagli editori. 4445. his… pavidae: “allora, spaventate da queste cose, le superstizioni non fuggano impaurite dall’animo”. 46. 20 ergo corpoream ad naturam pauca videmus esse opus omnino, quae demant cumque dolorem, delicias quoque uti multas substernere possint gratius interdum neque natura ipsa requirit, si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes 25 lampadas igniferas manibus retinentia dextris, lumina nocturnis epulis ut suppeditentur, nec domus argento fulget auroque renidet nec citharae reboant laqueata aurataque templa, cum tamen inter se prostrati in gramine molli 30 propter aquae rivum sub ramis arboris altae non magnis opibus iucunde corpora curant, praesertim cum tempestas arridet et anni tempora conspergunt viridantis floribus herbas. nec calidae citius decedunt corpore febres, 35 textilibus si in picturis ostroque rubenti iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est. quapropter quoniam nil nostro in corpore gazae proficiunt neque nobilitas nec gloria regni, quod superest, animo quoque nil prodesse [putandum; 40 si non forte tuas legiones per loca campi fervere cum videas belli simulacra cientis, subsidiis magnis † epicuri † constabilitas, ornatas armis † itastuas † pariterque animatas, 43a fervere cum videas classem lateque vagari, I versi 42-43 costituiscono il luogo più corrotto del poema, in quanto mancano o sono corrotti nei codici. Il codice Q li omette, lasciando lo spazio corrispondente a tre versi; i codici O e G presentano la seguente incomprensibile lezione, scritta in lettere maiuscole: SUBSIDIIS MAGNIS EPICURI CONSTABILITAS / ORNATAS ARMIS ITASTATUAS TARITERQUE ANIMATAS. Nell’impossibilità di restituire il testo autografo, la proposta generalmente accettata è et ecum vi al posto di epicuri (v. 42) e ornatasque… statuas al posto di ornatas… itastatuas (v. 43), entrambe congetture del Munro. 28 • I piaceri naturali e necessari (vv. 20-22). • I piaceri naturali, non necessari (vv. 29-33): Lucrezio propone il quadro di un gruppo di amici che si abbandonano alle delizie di un paesaggio che ha i tratti tipici del locus amoenus (l’acqua e il fresco ombroso delle piante). L’immagine traduce uno dei massimi valori della filosofia epicurea, quello dell’amicizia (philia), individuata come il legame più valido per raggiungere la felicità. • I piaceri né naturali né necessari (vv. 24-28): statue d’oro di giovani che reggono lampade per illuminare i simposi notturni, case piene d’oro e d’argento, alti soffitti dorati sono esempi di quella ricchezza inseguita dagli uomini, che li svia dalla vera felicità. L’elenco continua ai vv. 34 e seguenti. L’immagine dei candelabri a forma umana è probabilmente ispirata da un passo dell’Odissea, in cui si descrive il palazzo di Alcinoo, re dei Feaci. Fanciulli d’oro sopra solidi piedistalli / si tenevano dritti, reggendo in mano fiaccole accese, / illuminando le notti ai banchettanti in palazzo. Odissea, VII, 100 ss.. La ripresa della struttura sintattica del cum narrativo al v. 41 e al v. 43a, con la variazione del compl. oggetto, sottoli- … un brano in cui, più che in ogni altro luogo del poema, canta trionfalmente l’ideale dell’atarassia conquistata, della hedonè katastematiké raggiunta e delibata con gioioso abbandono. Il brivido di pessimismo, che erompe dal v. 54 (omnis cum in tenebris praesertim vita laboret) e che serve ad introdurre il gruppo formulare dei versi finali, in fondo è dettato più che altro dalla necessità di staccare recisamente la cecità e la follia degli uomini comuni dalla felicità degli eletti iniziati al verbo di Epicuro… Eppure proprio questo proemio ci presenta, insiema con quello del L. IV, l’eccezione di un assoluto silenzio sul nome e la persona di Epicuro, che invece grandeggia negli altri proemi. Qui canta solo la gioia che si raggiunge rivivendo profondamente entro di sé gli ammaestramenti del Graius homo; l’assurdo Epicuri che la maggior parte della tradizione manoscritta reca al v. 42 è forse dovuto alla sorpresa di lettori o copisti poco intelligenti e intimamente persuasi che in ogni proemio ci dovesse essere l’esplicita menzione del Maestro. Il suo nome invece è assente, ma presente nella manifestazione, mai così nitida come qui, della felicità derivante dai suoi precetti e della folle miseria delle masse cieche che non hanno avuto la ventura d’iniziarvisi. E. Paratore, commento a Lucrezio, De rerum natura, pp. 191-92 29 vacuum… solutum: predicativi di pectus. 47. quod si: “ma se”. 48. re vera: “in realtà”; curaeque sequaces: “e gli affanni che non danno tregua”. 50-51. audacterque… versantur: “e audacemente si aggirano tra i re e i potenti”; potentis = potentes; ab auro: “che proviene dall’oro”, compl. di origine. 52. purpureai = purpureae, forma di genitivo arcaico. 53. quid… potestas?: “perché dubiti che questo potere sia tutto della ragione?” ; omni’… rationi’: elisione della s finale; omni’: predicativo del soggetto. 54. omnis… laboret: “specialmente perché tutta la vita si affatica nelle tenebre”. 55. veluti: l’avverbio, in correlazione con il successivo sic, introduce un paragone. 57-58. nilo… futura: “cose che non si devono per nulla temere più di quelle che i bambini temono nel buio e si immaginano che stiano per accadere”; nilo = nihilo; pavitant: il verbo ha valore frequentativo e non è attestato prima di Lucrezio. 59-61. hunc… ratioque: “dunque è necessario che disperdano questo terrore dell’animo e queste tenebre non i raggi del sole né i lucidi dardi del giorno, ma la razionale conoscenza della natura”; necessest = necesse est; species ratioque: endiadi. his tibi tum rebus timefactae religiones 45 effugiunt animo pavidae; mortisque timores tum vacuum pectus linquunt curaque solutum. quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus, re veraque metus hominum curaeque sequaces nec metuunt sonitus armorum nec fera tela 50 audacterque inter reges rerumque potentis versantur neque fulgorem reverentur ab auro nec clarum vestis splendorem purpureai, quid dubitas quin omni’ sit haec rationi’ potestas? omnis cum in tenebris praesertim vita laboret. 55 nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus interdum, nilo quae sunt metuenda magis quam quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura. hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest 60 non radii solis neque lucida tela diei discutiant, sed naturae species ratioque. sed tua me virtus tamen et sperata voluptas suavis amicitiae quemvis efferre laborem suadet et inducit noctes vigilare serenas quaerentem dictis quibus et quo carmine demum clara tuae possim praepandere lumina menti, res quibus occultas penitus convisere possis. hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest non radii solis neque lucida tela diei discutiant, sed naturae species ratioque. Lucrezio, De rerum natura I, 140-148 30 nea, citando prima le forze di terra (legiones) e poi quelle di mare (classem), l’incapacità di tutto questo spiegamento di forze di sconfiggere le paure dell’animo. L’espressione per loca campi è un probabile riferimento al Campo Marzio, con allusione alle manovre militari tenute da Cesare alle porte di Roma prima di partire per la Gallia; esse furono duramente criticate da Memmio, il destinatario del poema di Lucrezio. Per descrivere i timori dell’uomo, l’autore ricorre ad una similitudine con il mondo dell’infanzia (v. 55: veluti pueri): essa ricorda un passo del Fedone platonico, dove si attribuisce al fanciullino che è dentro di noi la paura della morte. Mentre però per Platone, il rimedio a tale paura consiste nella presa di coscienza dell’immortalità dell’anima, per Lucrezio, al contrario, lo sgomento causato dalla morte e dalle idee collegate all’oltretomba viene sconfitto solo dalla certezza della mortalità dell’anima umana. Il passo si chiude con un gruppo di versi formulari (vv. 59-61), che compaiono identici in I, 146-148, in III, 91-93 e in VI, 39-41 e, negli ultimi due casi citati, sono preceduti dalla medesima similitudine dei pueri che si legge nel proemio del libro II. Il riutilizzo di questi versi in parti significative dell’opera, come sono i proemi, fa pensare ad un’idea chiave che viene programmaticamente ripresa: essa richiama in modo sistematico il fine dell’opera di offrire uno strumento di indagine razionale della realtà per liberare l’uomo dalle tenebre in cui è vissuto fino a quel momento. Le false conoscenze vengono in questi versi personificate e descritte come entità in grado di provare timore (v. 44: timefactae; v. 45: pavidae) e fuggire dall’animo (v. 45: effugiunt animo). La personificazione prosegue ai vv. 48 e seguenti, riferita ai timori (metus) e agli affanni (curae). Contro le false conoscenze solo la ragione può riportare la vittoria e diradare le tenebre in cui l’uomo è immerso. Il paragone tra l’uomo che brancola nel buio dell’ignoranza e i bambini che, nel buio della notte, hanno paure che si rivelano inconsistenti alla luce del giorno, riprende un’idea che è sottesa all’intero proemio, come si può notare da alcuni termini chiave (14: o pectora caeca!; 15: qualibus in tenebris vitae; 54: in tenebris; 59: tenebras). Il quadro chiude, in modo altrettanto icastico di come era iniziato, un proemio particolarmente ricco di immagini poetiche, attraverso cui passano idee essenziali della filosofia epicurea. 31 Ebbene, Socrate, disse, come a persone che avessero paura, provati a farci animo. O piuttosto, non come se avessimo paura noi, ma forse c’è anche dentro di noi un bambino che ha di cosiffatti timori. E questo provati a persuaderlo del contrario: che non deve aver paura della morte come d’uno spauracchio. Platone, Fedone 77 d Ad alcuni molto giovani che stanno ad occhi spalancati, quando è buio, appaiono molte figure in movimento, sì che spesso, spaventati, si nascondono. Aristotele, De insomniis, 462 Quale utilità o quale profitto cerchiamo di ottenere quando bramiamo sapere ciò che a noi è occulto, in che modo e per quali cause avvengano i movimenti dei corpi celesti? E chi vive seguendo principi tanto rustici o chi è divenuto tanto insensibile e avverso allo studio della natura che rifugga da ciò che è degno di essere conosciuto e non ne faccia ricerca e non ne abbia stima alcuna, se non ne trae qualche piacere o utilità? Cicerone, De finibus bonorum et malorum III, 37 Il testo de rerum natura II, 167-183 Tanta stat praedita culpa Nel brano proposto vengono delineate due diverse interpretazioni della natura: quella antropocentrica e finalistica e, contrapposta ad essa, quella epicurea. Secondo la prima, la natura è stata creata dall’intervento della divinità per soddisfare i bisogni degli uomini: tale posizione è decisamente rigettata da Lucrezio il quale afferma che, se si osservano i fenomeni celesti e terrestri, risulta evidente la manchevolezza della natura rispetto ai bisogni dell’uomo. Ancora una volta invece, come già nel proemio dell’opera, viene riproposta una concezione edonistica che vede nella voluptas l’unico principio generatore delle cose e garanzia della loro continuità. Praecepta 167. materiai: genitivo arcaico. 168. naturam… posse: prop. oggettiva dipendente da credunt; dum… numine: “senza l’intervento degli dei”. 169. tanto… admoderate: “tanto armoniosamente in accordo con i bisogni degli uomini”. 170. tempora… annorum: “le stagioni”; mutare… creare: infiniti dipendenti da possunt. 171-172. et… cetera: acc. coordinato a fruges, dipendente da creare; mortalis… vitae: “alle quali la guida della vita convince gli uomini a volgersi e lei stessa conduce”; dia voluptas: apposizione del sogg. 173. res per: anastrofe; blanditur: “li lusinga”, regge la completiva saecla propagent. 174. quorum (=eorum)… causa: “per loro”, ovvero per i mortali. 175176. omnibu’… videntur: “sotto ogni aspetto appaiono allontanarsi assai dalla verità”; omnibu’ = omnibus; magno opere: loc. avverbiale. 177. quamvis… ignorem: prop. concessiva; quae sint: prop. interr. indiretta. 178. hoc: prolettico della successiva prop. oggettiva nequaquam… mundi; ex… rationibus: “in base ai fenomeni stessi del cielo”; ausim: congiuntivo perfetto sincopato di audeo, con valore potenziale. 180. divinitus: “per volere di Dio”, avverbio. 181. tanta… culpa: “di tanto grande difetto essa è dotata”; praedita: concordato con natura, regge l’abl. tanta… culpa. 182. quae = et ea. 183. nunc… expediemus: “ora esporremo ciò che resta da dire sui movimenti”. Il mondo non è frutto di volontà divina At quidam contra haec, ignari materiai, naturam non posse deum sine numine credunt tanto opere humanis rationibus atmoderate 170 tempora mutare annorum frugesque creare et iam cetera, mortalis quae suadet adire ipsaque deducit dux vitae dia voluptas et res per Veneris blanditur saecla propagent, ne genus occidat humanum. quorum omnia causa 175 constituisse deos cum fingunt, omnibu’ rebus magno opere a vera lapsi ratione videntur. nam quamvis rerum ignorem primordia quae sint, hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim confirmare aliisque ex rebus reddere multis, 180 nequaquam nobis divinitus esse creatam naturam mundi: tanta stat praedita culpa. quae tibi posterius, Memmi, faciemus aperta. nunc id quod superest de motibus expediemus. Infine, per i mari e i monti e i fiumi rapinosi/ e le frondose dimore degli uccelli e le pianure verdeggianti,/ a tutti infondendo nei petti carezzevole amore (blandum… amorem),/ fai sì che ardentemente propaghino le generazioni (saecla propagent) secondo le stirpi. Lucrezio, De rerum natura, I, 17-20 46 Sul testo Il passo si apre con la citazione della dottrina di alcuni (quidam) i quali sostengono che il mondo rivela un notevole accordo con i bisogni dell’uomo (169: tanto… admoderate; 174: quorum… causa) e pertanto postulano l’intervento della divinità nella vita della natura (168: naturam… numine). Tale visione teleologica, cantata con entusiastici accenti poetici nell’Inno a Zeus di Cleante (III sec. a.C.), è con ogni probabilità da attribuire agli stoici; su di essi il giudizio di Lucrezio è lapidario: chi pensa in questo modo si allontana decisamente dalla verità (176: magno… videntur). A tale interpretazione, Lucrezio oppone la sua visione del mondo, quella in cui dux vitae è il piacere, per raggiungere il quale l’uomo organizza la propria vita e in virtù del quale ne estende la durata oltre la propria morte: il piacere è così operante nell’esistenza umana da assurgere quasi esso stesso al ruolo di divinità (172: dia voluptas). L’accenno alla voluptas, i motivi dell’amore e della vita, la consonanza di blanditur saecla propagent del v. 173 rispetto a blandum… saecla propagent di I 19 sg., fanno tornare a mente l’inno a Venere del primo proemio; ma la Venere del v. 173 rientra in una sfera limitata, diversa da quella della Venere proemiale: significa soltanto l’unione sessuale, cioè uno dei vari, innumerevoli effetti degli universali motus genitales e auctifici degli atomi che, secondo la nostra interpretazione, la Venere proemiale impersona. (Lucrezio, La natura, a cura di F. Giancotti, p. 453). Molti sono gli elementi che si possono utilizzare a sostegno della tesi epicurea che la natura non è stata creata per volontà divina, ma essi si possono tutti sintetizzare nella constatazione di quanto grande sia la manchevolezza della natura (181: tanta… culpa), troppo grande per considerarla frutto di un intervento divino. Il v. 181 è, in genere, utilizzato come una delle principali testimonianze per sostenere la tesi del pessimismo lucreziano, ma esso può venire fortemente ridimensionato se si assume il contenuto del verso alla luce della visione antropocentrica, messa in discussione da Lucrezio: la natura, cioè, rivela sì la sua imperfezione se si indaga in che misura risponde ai bisogni degli uomini ma, anche in una natura siffatta, l’uomo può ugualmente raggiungere la felicità. Con la promessa di riprendere ancora questa riflessione – che verrà mantenuta in V, 195-234 – il passo si chiude passando a trattare i movimenti degli atomi. 47 E tutto questo universo che intorno alla terra si avvolge / a te obbedisce ove che tu conduca e da te vuole essere dominato; / tale ministro tu possiedi nelle mani invincibili, / la bifida folgore ardente sempre vigorosa / sotto i cui colpi cade tutta la natura; / e con essa tu indirizzi la ragione universale che in ogni cosa / si aggira, mescolandosi al grande e ai piccoli astri lucenti. Cleante, Inno a Zeus, 7-13 Il testo de rerum natura I, 80-101 Peperit scelerosa atque impia facta Il sacrificio di Ifianassa è il caso emblematico dell’empietà della religione che spinge un padre a violare i vincoli di natura più sacri per ottenere il favore degli dei a vantaggio della comunità. L’esercito greco è, infatti, bloccato da una violenta tempesta in un porto dell’Aulide nella Beozia orientale e non riece a salpare per Troia. Il motivo è l’ira di Artemide in quanto il re Agamennone aveva ucciso una cerva a lei sacra. Il ministro della religio, Calcante rivela che la dea sarebbe stata placata solo con il sacrificio della figlia di Agamennone, Ifianassa. Per l’Autore questo rito religioso di espiazione non si può giustificare, anzi si può ritenere un vero e proprio delitto perché gli dei non si interessano delle vicende umane, vivono felici negli intermundia. Praecepta 80. Illud in his rebus: “Questo a tale proposito”, formula di transizione usata da Lucrezio, di solito, per prevenire un’obiezione. Il riferimento è lo studio della natura fatto da Epicuro; vereor ne: prop. completiva retta da un verbum timendi introdotta da ne in quanto si teme sia avvenuta una cosa indesiderata. 81. impia… elementa: “che ti inizi ai principi di una dottrina empia”. 82. indugredi = ingredi; quod contra: “Che anzi”, quod è un acc. di relazione; illa religio: “quella tanto decantata religione”. 83. scelerosa = scelesta. 84. quo pacto: “così come”; Triviai = Triviae, Diana è dea dei crocicchi oltre che della caccia. Questo appellativo è stato spiegato come allusivo ai suoi tre aspetti (celeste, terrestre e sotterraneo) oppure al fatto che nelle città greche la sua statua fosse posta nei crocicchi. 85. Iphianassai : gen. del nome omerico (Il. 9, 145) di Ifigenia. 85. prima virorum: “il fior fiore degli eroi”. 87-88. cui… profusast: “E appena la benda, avvolta attorno ai suoi virginei capelli acconciati, scese da una parte e dall’altra delle guance in due liste di uguale altezza”; simul = simul ac; infula: bende poste attorno al capo delle vittime da cui pendevano le vittae. 90. hunc propter: “accanto a lui (Agamennone)”, la preposizione posposta si ha nel significato locale non causale. 91. aspectu suo: “vedendola”, la presenza di suo si giustifica perché il sogg. di sensit è Ifigenia; civis = cives. 92. terram… petebat: “s’abbatteva a terra sulle ginocchia”. 94. quod… regem: “l’aver per prima Empietà della religione 80 85 90 Illud in his rebus vereor, ne forte rearis impia te rationis inire elementa viamque indugredi sceleris. quod contra saepius illa religio peperit scelerosa atque impia facta. Aulide quo pacto Triviai virginis aram Iphianassai turparunt sanguine foede ductores Danaum delecti, prima virorum. cui simul infula virgineos circumdata comptus ex utraque pari malarum parte profusast, et maestum simul ante aras adstare parentem sensit et hunc propter ferrum celare ministros aspectuque suo lacrimas effundere civis, muta metu terram genibus summissa petebat. nec miserae prodesse in tali tempore quibat, Antisfrofe IV E il maggiore dei re così parlo: “ Mala sorte è la mia se obbedienza rifiuto, mala sorte se la figlia sacrifico, splendore della mia casa, e qui, presso l’altare, nei fiotti di sangue della vergine sgozzata, contamino le mie mani paterne. Quale delle due sorti è peggiore? Come posso disertare le navi e tradire l’alleanza? E dunque plachi il sacrificio i venti e sgorghi il sangue della vergine! Questo, con ira e furore, mi è forza desiderare. E così sia”. Strofe V E immerse il collo nel collare della necessità. E spirando dal mutato cuore sacrilegio, empietà, profanazione, ecco, fu pronto a tutto osare. Poiché ai mortali incoraggia con i suoi turpi consigli miserabile insania, fontana di calamità. Così sofferse il padre di farsi sacrificatore della figlia, aiuto alla guerra punitrice del ratto di una femmina, lustrazione alle navi per il suo salpare. 54 Sul testo Lucrezio, dopo aver presentato la religio come un nemico dell’umanità, in questo passo vuol rassicurare Memmio e i lettori che la religione è certamente empia ma non così la sua dottrina. Tale convincimento vuol trasmetterlo fin dall’inizio quando il medesimo concetto di empietà (v. 82) è ripetuto invertito (vv. 83-84). Una patina di sublimità stilistica pervade tutto il passo ed è determinata nei i vv. 80-86 dall’uso di arcaismi (indugredi, scelerosa), dal risalto dato al nome Iphianassa che occupa tutto il primo emistichio, secondo una tecnica arcaica, dalla ricchezza di figure retoriche come impia rationis che è una ipallage. Inoltre il verso culminante della scena (v. 86) è composto da una triplice allitterazione di ductores Danaum delecti che nel contempo svolge anche la funzione di perifrasi per indicare i condottieri greci ed è in forte contrasto con prima virorum (grecismo di stampo omerico) ed entrambi suonano quasi ironici con turparunt sanguine foede collocato in posizione finale di verso per sottolineare la gravità della colpa. Nei vv. 87-92 l’Autore ricerca un pathos molto forte attraverso una serie di subordinate in polisindeto che lasciano il discorso in sospeso fino all’ultimo verso (v. 92) che culmina con una ricercata allitterazione e due cesure che inquadrano con maggior efficacia muta metu (nesso paronomastico) e terram staccato da petebat, che rimarcano la presa di coscienza di Ifianassa, la sua disperazione e il suo terrore. Antisfrofe V Non valsero preghiere della figlia, né che il padre chiamasse ella per nome, né la verginale età, a piegare i duci bramosi di guerra. E ai servi del sacrificio, dopo i voti agli dei, dette suoi ordini il padre. Prona ella era, col volto a terra, caduta sulle sue vesti. Lei prendessero come capra selvatica; lei, con risoluto cuore, sollevassero sopra l’altare; e la sua bocca, la bella prora del suo bel volto, perché non gridasse maledizione alla casa, volle ancorata e chiusa Strofe VI con la violenza di muti bavagli. Le scivolarono ai piedi le vesti del colore del croco; e dagli occhi pietosi con dardi di pietà feriva ora l’uno ora l’altro i suoi sacrificatori. E pareva un’immagine dipinta, e voleva parlare, ella che tante volte, con quella sua voce pura di intatta vergine, amorosamente, in onore del padre amato, intonato aveva il peana del buono augurio alla terza libagione. Eschilo, Agamennone 55 Anzitutto considera la divinità come un essere vivente incorruttibile e beato, e non attribuibile nulla contrario all’immortalità, o discorde dalla beatitudine… Perciò gli dei certo esistono: evidente infatti n’è la conoscenza: ma non sono quali il volgo li crede; perché non li mantiene conformi alla nozione che ne ha. Non è perciò irreligioso chi gli dei del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei. Perché non sono prenozioni ma presunzioni fallaci, le opinioni del volgo sugli dei. Pertanto dagli dei ritraggono i maggiori danni gli stolti e malvagi, ed i maggiori beni i buoni e saggi… Epicuro, Lettera a Meneceo 123-124 chiamato il re con il nome di padre”, Ifigenia è la primogenita; quod introduce una prop. dichiarativa retta da prodesse; patrio = patris. 95. sublata… manibus: “sollevata da braccia di uomini”. 96-97. non… Hymenaeo: “non perché, compiuto il sacro rito nuziale, fosse accompagnata dallo splendido corteo nuziale”, claro: agg. che è stato inteso da alcuni collegato alla sonorità dei canti nuziali; da altri allo splendore delle fiaccole nuziali del corteo, per Giancotti è preferibile unire questi significati e aggiungere per di più quello di “nobile”. comitari ha valore passivo; Hymenaeo è il dio greco degli sponsali che divenne personificazione del canto nuziale intonato tra i partecipanti al corteo che accompagnava la sposa a casa dello sposo. 98. casta inceste: costrutto variamente interpretato. Alcuni lo traducono come “pura impuramente” per indicare come Ifianassa rimanesse vergine a prezzo di un sacrificio sacrilego; Castiglioni suggerisce, invece, il riscontro con nessi greci e quindi “malauguratamente vergine, sposa non sposa”; chi come il Bailey unisce, invece, inceste con concideret : “empiamente cadesse vittima”, comunque qualsiasi scelta è difficile perché diminuisce l’espressività del costrutto. 99. mactatu maesta parentis: “vittima dolorosa immolata dal padre”. ut: valore finale; felix faustusque: riecheggia la formula augurale del rito: quod bonum faustum felix fortunatumque sit. quod patrio princeps donarat nomine regem. 95 nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras deductast, non ut sollemni more sacrorum perfecto posset claro comitari Hymenaeo, sed casta inceste nubendi tempore in ipso hostia concideret mactatu maesta parentis, 100 exitus ut classi felix faustusque daretur. tantum religio potuit suadere malorum. IF. : Se avessi, padre, la voce di Orfeo / che incantava le pietre portandole appresso / e con le parole stregassi chi voglio / lo farei; / ma le parole sagge ch’io dico / non possono altro che suscitare le lacrime. / Io mi piego ai ginocchi tuoi, supplice, / il mio corpo che un giorno mia madre / ti partorì; non m’uccidere prima del tempo; / dolce è vedere la luce, non mi costringere / a vedere le cose sotterra. / Per prima io t’ho chiamato mio padre / e tu figlia, per prima seduta / sui tuoi ginocchi, ho dato e ricevuto / soavi tenerezze; e tu dicevi: / Ti vedrò, o figlia, felice / nella casa di un uomo degno di noi / vivere un giorno, e fiorire ?”. / E a mia volta, sospesa al tuo collo / che ora tocco con la mano: “Ed io / t’accoglierò nella mia casa, vecchio / con dolci abbracci e ti ricambierò / la fatica d’avermi cresciuta”. / No, in nome di Pelope e d’Atreo / e di mia madre che soffrì dolori / già un tempo per me, e ora di nuovo. / Che c’è tra me e gli amori di Alessandro / e d’Elena? E come queste cose / m’hanno condotto alla rovina, padre? / Guardami dunque, e dammi un bacio / perché morendo abbia di te un ricordo / se non vuoi dare retta a ciò che dico. / Fratello, per quanto piccino, soccorri i tuoi cari / e piangi insieme a me, supplica il padre / che tua sorella non muoia. Anche ai bimbi / giunge un sentore dei mali. / Guarda; tacendo ti prega, o padre anche lui, / abbi pietà di me, risparmiami. / In due t’imploriamo, io già grande / lui piccolo; ti siamo entrambi cari. / Tutto il discorso dirò in una sola parola; / la cosa più dolce ai mortali è vedere la luce / la più triste il mondo sotterra. / è folle chi desidera morire; / è meglio vivere male che avere una fine gloriosa. Euripide, Ifigenia in Aulide, quarto episodio 56 Il rito sacrificale (vv. 93-101) viene volutamente descritto con l’uso di formule che richiamano quello matrimoniale (sublata vorum manibus… ad aras deductast, claro comitari Hymenaeo) e culmina nella formula augurale e allitterante felix faustusque che diventa esemplificazione della condanna di Lucrezio non solo del fatto mitologico descritto ma soprattutto della religione romana in quanto nesso formulare usato dai magistrati e dai sacerdoti romani per chiedere agli dei di essere propizi alle loro imprese. L’ambiguità lessicale viene sciolta nel contrasto introdotto da non ut… sed che serve a sottolinea la gravità del delitto e l’indignazione dell’Autore. Questi versi sono, anche, contrappuntati dalla commiserazione del poeta per la sorte di Ifianassa : miserae (che continua l’allitterazione della –m già presente nel verso precedente), tremibunda, casta inceste, (figura etimologica con antitesi resa più forte dall’accostamento diretto dei due termini), hostia maesta per un sacrificio crudele imposto da una religione empia. PROPOSTA DI PERCORSO IL SACRIFICIO DI IFIGENIA • Euripide, Ifigenia in Aulide • Ennio, Ifigenia • Cicerone, Orator 22, 74 • Plinio, Naturalis historia, 35, 36 • Livio, Ab U. c. VIII, 7, 8 –22; 8,1 • Racine, Iphigénie en Aulide So che cosa mi si potrebbe ribattere a questo punto: “è così: Dio non concede benefici, ma tranquillo e indifferente a noi, volta le spalle al mondo e si occupa di altro, oppure non fa nulla (il che ad Epicuro sembra la massima felicità), e i benefici non lo toccano più delle offese”. Chi dice ciò non ode le voci di coloro che pregano e che dovunque, levate le mani al cielo, fanno dei voti in publico e in privato, e gli uomini non sarebbero stati tutti concordi in questa follia di rivolgersi a divinità sorde e a dei impotenti, se non avessimo sperimentato i loro benefici che, ora offerti spontaneamente, ora concessi in seguito alle preghiere sono grandi, opportuni e vengono a stornare da noi gravi minacce. Chi è così disgraziato, così negletto, chi è stato generato con un destino così duro e per una sofferenza tale da non aver sperimentato l’immensa generosità degli dei? Osserva intorno a te persino coloro che piangono la loro sorte e si lamentano: scoprirai che neppure loro sono stati esclusi del tutto dai benefici celesti e che non c’è nessuno al quale non sia arrivato qualcosa da quella fonte inesauribile. O forse è poco ciò che viene equamente distribuito a tutti coloro che nascono? Per tralasciare quei doni che in seguito vengono dispensati con un criterio che non è di disuguaglianza, forse la natura ci ha fatto un dono troppo piccolo quando ci ha donato se stessa? Seneca, De beneficiis IV 4, 1-3 57 Il testo de rerum natura III, 830-869 Nil mors est ad nos neque pertinet hilum La morte è un’esperienza che non riguarda l’uomo, perché è assenza di ogni sensazione e tutto ciò che non può colpire i sensi non può produrre sofferenza. A sostegno di questa affermazione, Lucrezio porta due esempi, riferiti rispettivamente al passato e al futuro: non è possibile provare dolore per gli avvenimenti accaduti durante le guerre puniche, perché in quel periodo non esistevamo; ma neppure sarà possibile provare dolore in futuro, dopo la morte, perché anima e corpo si separeranno ed è solo la loro intima unione che assicura la sensazione. L’argomentazione prosegue considerando altre due supposizioni, che, anche se accettate, non mutano l’assunto iniziale: si può ipotizzare che dopo la morte l’animo e l’anima conservino singolarmente la sensazione, ma questo non cambia la condizione dell’uomo, che è formato dalla loro unione; si può, infine, supporre che la materia di cui siamo composti si ripresenti in futuro nel medesimo assetto attuale – anzi, è assai probabile che ciò sia accaduto nel tempo illimitato già trascorso – , ma anche in questo caso l’interruzione del ricordo impedirà di provare dolore. Praecepta 830. nil = nihil; neque… hilum: “e non ci riguarda affatto”. 832. velut: introduce una similitudine tra passato e futuro, il cui secondo termine di paragone è segnalato dalla congiunzione sic del v. 838; nil (= nihil)… aegri: “nessuna sensazione dolorosa”. 833. ad confligendum: prop. finale implicita, espressa da ad e l’acc. del gerundio; venientibus… Poenis: abl. ass. con valore temporale. 834. cum: regge i successivi contremuere e fuere, forme di perfetto arcaico per contremuerunt e fuerunt, ed esprime una prop. temporale; belli… tumultu: “scosse dal trepido tumulto della guerra”. 835. horrida: “orrendamente”; l’aggettivo, concordato con omnia del v. 834, è usato in funzione predicativa; sub… oris: “sotto le volte del cielo”. 836-7. utrorum… esset: “sotto il regno di quale dei due popoli dovessero cadere tutti gli uomini”; prop. interr. ind. contenente una perifrastica passiva, di cui omnibus humanis rappresenta il dativo d’agente. 838-9. cum… fuerit: prop. temporale, in cui l’uso del futuro II esprime l’anteriorità della separazione tra corpo e anima rispetto al non esistere più; animai = animae, gen. arcaico; quibus e = e quibus, anastrofe. 840-1. haud… quicquam: “nulla”, soggetto di poterit, che regge i due infiniti accidere e movere. 843. et… sentit: “e se conserva la sensazione”; il sogg. è animi natura animaeque potestas del v. seg.; nostro de corpore: va riferito al verbo della temporale. 844. distractast = distracta est, L’uomo non deve temere la morte 830 Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum, quandoquidem natura animi mortalis habetur. et velut anteacto nil tempore sensimus aegri, ad confligendum venientibus undique Poenis, omnia cum belli trepido concussa tumultu 835 horrida contremuere sub altis aetheris oris, in dubioque fuere utrorum ad regna cadendum omnibus humanis esset terraque marique, sic, ubi non erimus, cum corporis atque animai discidium fuerit quibus e sumus uniter apti, 840 scilicet haud nobis quicquam, qui non erimus tum, accidere omnino poterit sensumque movere, non si terra mari miscebitur et mare caelo. La legge del due… presiede al funzionamento di tutto il poema, sistematicamente costruito sulla ripetizione sia fonica che verbale e strutturale… Ma è soprattutto nelle unità semantiche e ritmico-stilistiche maggiori (quali l’emistichio e il verso) che il raddoppio raggiunge rapporti per così dire geometrici… Rilevante per concinnitas stilistica e corrispondenza concettuale è III, 830 nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum: una ripetizione assente nel modello, nonostante la centralità del principio (cfr. Epicuro, Ep. ad Men. 124). I. Dionigi, Lucrezio. Le parole e le cose, pp. 75 ss., passim 72 Nulla per noi è la morte: giacché ciò che si è dissolto non ha sensibilità e ciò che non ha sensibilità non è nulla per noi. Epicuro, Mass. Cap. II Sul testo I versi svolgono un tema particolarmente importante nella prospettiva di Lucrezio: la necessità di liberare l’uomo dalla paura della morte. Questo assunto era già stato annunciato nei versi 35-40 del III libro e la successiva spiegazione della natura dell’animo e dell’anima ha appunto come scopo quello di arrivare a parlare della paura che più sconvolge l’uomo. Lucrezio tratta questo tema in pieno accordo con il pensiero di Epicuro, come risulta immediatamente alla lettura di passi quali Mass. Cap. 2 o Ep. ad Men. 124-125, in cui l’espressione “nulla per noi è la morte” corrisponde esattamente al verso lucreziano nil igitur mors est ad nos, variato e precisato da neque pertinet hilum. L’importanza del tema è sottolineata anche da un dato strutturale: i versi che lo contengono sono posti al centro del poema, ribadendo così con la loro collocazione la centralità della riflessione in essi affrontata. Un altro aspetto, infine, che segnala la rilevanza del passo, è il tono particolarmente elevato di questi versi, ottenuto mediante una cura attenta del termini. Si possono notare, infatti, forme arcaiche (830, 845, 852, 866: nil; 835: contremuere; 836: fuere; 838: animai; 849: data fuerint; 855: materiai; 860: vitai); esempi di aferesi (844: distractast; 860: iectast; 862: futurumst); parole inconsuete (830, 867: hilum; 839, 846: uniter apti; 845: comptu; 851: repetentia); versi fortemente espressivi come 835 – ispirato probabilmente dal poeta epico Ennio –, in cui il ricorrere della -r conferisce alle parole un rilevante valore onomatopeico o come 842, in cui le parole allitteranti sottolineano l’espressione iperbolica con la quale si afferma l’impossibilità di avvertire qualcosa con i sensi dopo la morte, o, infine, come 869 che, riecheggiando un’espressione di Amphis, poeta greco comico del IV secolo, evidenzia efficacemente il contrasto tra la vita e la morte attraverso la disposizione chiastica dei termini. A partire dal verso 847, si può trovare una chiara testi73 Africa terribili tremit horrida terra tumultu “L’orrida terra africana tremò per il terribile tumulto” Ennio, Ann. 310 V 2 … e a tal punto mutevoli furono le sorti del conflitto (sc. la guerra tra Romani e Cartaginesi) e dubbio l’esito, che i vincitori furono più dei vinti vicini al rischio della rovina. Livio, Ab urbe condita XXI, 1, 2 Tutto il genere umano in questo momento è in trepidazione se dovrà vedere voi come padroni del mondo oppure i Cartaginesi. Livio, Ab urbe condita XXIX, 17, 6 Consideriamo che anche in questo senso ci sono buone speranze che il morire sia un bene. Infatti la morte può essere solamente una di queste due cose: o chi è morto non è più nulla e non ha percezione di nulla, oppure, come si dice, essa comporta una specie di mutamento e di trasmigrazione dell’anima da questo luogo a un altro. Se essa non comporta percezione alcuna, ma è simile a uno di quei sonni durante i quali chi dorme non vede più niente, neppure in sogno, la morte sarebbe davvero un enorme vantaggio… Ma se la morte è un andare via di qui per arrivare in un altro luogo e se è vero che, come si dice, le anime di tutti i morti si trovano in quel luogo, quale bene, o giudici, sarebbe più grande di questo? Platone, Apol. di Socrate 40, passim Nulla c’è di temibile nel vivere per chi si sia veracemente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più. E così anche aferesi. 845. nil… nos: “per nulla tuttavia ci riguarda”; nil = nihil. 847. si… aetas: “se il tempo abbia raccolto la nostra materia”; inizia qui un per. ip. di II tipo, la cui protasi è costituita da tre proposizioni (si collegerit, redegerit, fuerint) sostenute tutte dall’apodosi pertineat. 848. ut… est: “come ora è sistemata”, prop. modale. 849. data fuerint: arcaismo per data sint. 851. interrupta… nostri: “una volta che sia stata interrotta la nostra facoltà di ricordare”. 852-3. et… fuimus: “e ora nulla della nostra esistenza precedente ci tocca”; nil = nihil; ante… fuimus: prop. relativa che specifica nobis; de illis: “per quello che fummo”, il dimostrativo sottolinea la lontananza delle vite passate rispetto all’attuale. 854. cum respicias: “se guardi”; il cum narrativo, con valore ipot., regge l’acc. omne spatium e l’interr. indiretta quam sint. 855. materiai = materiae. 856. multimodis: “vari”; avverbio in funzione attributiva rispetto a motus; hoc: prolettico della successiva prop. oggettiva semina… fuisse; possis: potenziale del presente. 857-8. semina… haec eadem: soggetto dell’infinitiva; quibus e = e quibus. 859. nec… mente: “né tuttavia possiamo richiamare alla mente ciò”. 859. inter… iectast = interiecta est, con tmesi ed aferesi; vitai = vitae. 861. deerrarunt (= deerraverunt)… omnes: “tutti i moti vitali errarono di qua e di là, lontano dai sensi”. 862-3. debet… esse: “deve esistere”; misere… futurumst (= futurum est): “se accadrà qualcosa di infelice e doloroso”; cui: si appoggia ad ipse. 864-5. esseque… conciliari: “ed impedire che esista colui al quale possano toccare i mali”; probet è forma contratta di prohibet. 866. scire licet: “è chiaro che”; formula usata da Lucrezio per introdurre la conclusione di un ragionamento; nil = nihil. 867-8. posse: regge miserum fieri; neque… natus: “e non c’è alcuna differenza tra essere nati una volta e non esserlo mai. 869. mortalem… ademit: “quando la morte immortale ha tolto la vita mortale”. 845 850 855 860 865 et si iam nostro sentit de corpore postquam distractast animi natura animaeque potestas, nil tamen est ad nos qui comptu coniugioque corporis atque animae consistimus uniter apti. nec, si materiem nostram collegerit aetas post obitum rursumque redegerit ut sita nunc est atque iterum nobis fuerint data lumina vitae, pertineat quicquam tamen ad nos id quoque factum, interrupta semel cum sit repetentia nostri. et nunc nil ad nos de nobis attinet, ante qui fuimus, <nil> iam de illis nos adficit angor. nam cum respicias immensi temporis omne praeteritum spatium, tum motus materiai multimodis quam sint, facile hoc accredere possis, semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta haec eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse. nec memori tamen id quimus reprehendere mente; inter enim iectast vitai pausa vageque deerrarunt passim motus ab sensibus omnes. debet enim, misere si forte aegreque futurumst; ipse quoque esse in eo tum tempore, cui male possit accidere. id quoniam mors eximit, esseque probet illum cui possint incommoda conciliari, scire licet nobis nil esse in morte timendum nec miserum fieri qui non est posse, neque hilum differre an nullo fuerit iam tempore natus, mortalem vitam mors cum immortalis ademit. mortalem... ademit: L’idea dell’eternità della morte si ritrova in un frammento di Amphis, poeta greco del IV sec. d. C.: La morte è immortale, una volta che uno sia morto. Amphis, apud Athen. 336c 74 monianza della teoria palingenetica di Lucrezio, secondo la quale gli atomi, nei loro infiniti movimenti, possono trovarsi a formare le medesime aggregazioni della materia, dando così origine alla rinascita di alcuni corpi. La teoria è molto vicina, nel suo significato complessivo, a quella elaborata dallo stoicismo, come si può vedere per esempio da un passo delle Epistole di Seneca (36, 9); quello che muta, però, radicalmente è la spiegazione offerta dai due autori in merito a tale palingenesi: mentre, infatti, per Lucrezio il ricostituirsi dei medesimi aggregati di atomi è il risultato del tutto casuale dei moti della materia, per Seneca, invece, la rinascita è frutto di un atto consapevole di quella Ragione provvidenziale che regge il mondo. Il concetto è espresso, nei versi di Lucrezio, con due periodi di ampia struttura sintattica: vv. 847-851 pertineat stolto è chi afferma di temere la morte non perché gli arrecherà dolore sopravvenendo, ma perché arreca dolore il fatto di sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano che ci addolori nell’attesa. Il più terribile dei mali dunque, la morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e qundo essa sopravviene noi non siamo più.Essa non ha alcun significato né per i viventi né per i morti, perché per gli uni non è niente, e, quanto agli altri, essi non sono più. Epicuro, Ep. ad Men. 124-125 id quoque factum (esse) cum interrupta sit si collegerit -que redegerit ut sita nunc est atque fuerint data vv. 854-858 hoc adcredere possis cum respicias semina fuisse multimodis quam sint ut nunc sunt quibus e nunc nos sumus I due periodi sono tra loro divisi da un distico particolarmente curato dal punto di vista retorico; il v. 852 è infatti caratterizzato pressoché per intero da allitterazioni: et nunc nil ad nos de nobis attinet ante, rilevate anche dal poliptoto La morte non porta alcun danno: perché nos/nobis e così pure il v. 853 presenta il nesso allitterante una cosa arrechi danno, occorre la presenza di un dannegiato. Se poi hai tanta adficit angor, che sottolinea il pregnante termine angor, brama di una vita più lunga, pensa che di indicante la sensazione di soffocamento che consegue al tutti gli esseri che scompaiono dalla vista e dolore. ritornano in seno alla natura, donde erano usciti e donde presto emergeranno ancora, nessuno si annienta. Essi cessano di esistere, ma non periscono, e la morte, che paventiamo e cerchiamo di allontanare, interrompe la nostra esistenza, non la annulla.Verrà di nuovo il giorno che ci riporterà alla luce, giorno che molti rifiuterebbero, se non tornassero alla vita dopo aver perso ogni ricordo del passato. Seneca, Ep. ad Luc. 36, 9-10 75 L. Perelli Il timore della morte Lo scopo principale del poema lucreziano è la liberazione degli uomini dal timore degli dei e della morte: le due paure sono strettamente collegate, perché il timore della morte è spesso congiunto con la credenza nelle presunte pene della vita ultraterrena. Tutta la trattazione della scienza della natura è concepita con questa funzione, di liberare l’umanità dalle due paure che l’angosciano e che sono l’origine di tutti i suoi mali. Epicuro, dimostrando che nell’universo tutti i fenomeni sono opera di leggi meccaniche, ha escluso la possibilità di un intervento divino, e dimostrando che l’anima è fatta di atomi corporei e segue la stessa sorte ha escluso la possibilità della sopravvivenza dell’anima. Gli inni più entusiastici e trionfali che il poeta rivolge a Epicuro sono quelli dove lo celebra come il vincitore dei mostri della religione (I, 62-72), e come colui che ha dimostrato l’inesistenza del regno dell’Acheronte (III, 130). Nell’introduzione al primo libro, che è l’introduzione generale a tutto il poema, Lucrezio osserva quanto sia difficile liberare l’umanità dallo stato di oppressione e di angoscia in cui è stata ridotta dalle credenze religiose e dalle paure superstiziose inculcate dai vati. Gli uomini potrebbero resistere a tali paure e minacce se sapessero con certezza che l’anima è mortale, e che quindi non vi è alcuna pena ultraterrena da temere; ora invece essi non conoscono quale sia la natura dell’anima, e quale il suo destino dopo la morte. Occorre perciò per dissipare la paura dell’aldilà dare una spiegazione naturale e razionale di tutto l’universo, e in particolare della natura dell’anima, spiegando come si formino quei simulacri dei morti che ci atterriscono nella veglia e in sonno, e disperdendo quella tenebra di ignoranza e di paura che avvolge gli animi al pensiero della morte (I, 102-135). All’inizio del terzo libro, accingendosi a dimostrare la mortalità dell’anima, Lucrezio afferma che in tal modo intende cacciare il timore dell’Acheronte, che turba dalle radici tutta la vita umana, tutto tingendo del nero colore della morte e non lasciando che alcun piacere rimanga puro. Dal timore della morte nascono tutte le passioni, i vizi, i delitti che travagliano l’umanità … Non si può dire che Lucrezio abbia tradito il pensiero di Epicuro; soltanto egli ha accentuato un aspetto particolare della dottrina del maestro, facendo del timore della morte e degli dei l’unica fonte di turbamento e di angoscia, e mettendo in ombra altre cause su di cui Epicuro si sofferma, come ad esempio il non conoscere il giusto limite dei piaceri e dei dolori, il non possedere un retto criterio per giudicare della validità delle sensazioni, il non credere nella libertà del volere umano e il sentirsi soggetti alla sorte o alla necessità. È probabile che non soltanto Lucrezio, ma anche altri discepoli di Epicuro prima di lui avessero dato più ampio sviluppo alla polemica contro il terrore dell’oltretomba, o per esigenze polemiche contro i filosofi avversari, o per una reviviscenza dello spirito religioso. Cicerone nelle Tusculanae (I, 5, 10) deride la paura dei mostri e dei giudici infernali... a cui nessuno più crede, e aggiunge in tono di scherno: “Eppure vi sono interi libri di filosofi che disputano proprio contro queste credenze”. Qui Cicerone allude certamente agli epicurei. L’operetta di Plutarco Non è possibile condurre una vita felice seguendo Epicuro dedica l’ultima parte della trattazione (circa un terzo dell’intera opera) a combattere l’opinione che la dottrina epicurea possa veramente giovare a liberare l’uomo dalla paura degli dei e della morte, o che comunque gli uomini possano essere più felici non credendo nell’intervento divino delle cose umane. Plutarco dice che le pene dell’Ade spaventano soltanto pochi ingenui, mentre ben più paurosa è la prospettiva che Epicuro offre di una morte priva di ogni sensibilità e di ogni forma di sopravvivenza. (L. Perelli, Lucrezio poeta dell’angoscia, pp. 75-79 passim) 85 Il testo de rerum natura III, 931-953 Cur non ut plenus vitae conviva recedis? La morte è una legge di natura, cui è vano ribellarsi e che è invece equo accettare; l’importante, d’altronde, non è la lunghezza del tempo vissuto – magari tra dolori e tedio – ma la qualità della vita vissuta: chi ha vissuto con gioia e serenità può – afferma Lucrezio con un’immagine che torna molte altre volte nella filosofia e nella poesia antica – allontanarsi appagato dal banchetto della vita Doctrina Infine: se d’improvviso Natura emettesse la voce, / e rimproverasse, lei stessa, uno di noi, in questo modo: / “Che grandi ragioni tu hai, o mortale, di lasciarti così andare / a lamenti penosi? perché piangi e la menti la morte? / Se ti è stata gradita la vita trascorsa prima di adesso, / e se tutte le sue bellezze non scivolarono via, come / raccolte in un vaso forato, e sparirono senza darti gioia, / perché non ti allontani come un convitato sazio di vita, / e accetti nell’animo, o stolto, una quiete senza più ansie? / Ma se ciò che hai raccolto è svanito, sprecato, / e la vita ti pesa, perché cerchi di aggiungere ancora / ciò che ancora verrà meno, sparirà senza dar gioia, tutto / non metti fine, piuttosto, a vita e tormento? / Cose ch’io possa architettare e inventare per te, / che ti piacciano, non ce n’è più: sono sempre le solite, tutte. / se il tuo corpo già non marcisce per gli anni, e le membra / non sono indebolite, spossate, tuttavia tutto resta lo stesso, / anche se ti incaponissi a vincere vivendo tutte le età, : e anche, perfino, se tu non dovessi aver più destino di morte’. Cosa potremmo rispondere, se non che intenta un giusto processo, / Natura, ed espone con le sue parole una tesi fondat? / e se uno già vecchio si lamentasse, / e la propria fine compiangesse, misero, più del dovuto, : non giustamente ancor più lo dovrebbe rioprendere, e sgridarlo con aspra voce? (Trad. di G. Milanese) Talvolta potrai anche consolare te stesso così: “Il buon Anco chiuse anche lui gli Importante non è vivere molto, ma vivere bene 935 940 945 950 Denique si vocem rerum natura repente mittat et hoc alicui nostrum sic increpet ipsa ‘quid tibi tanto operest, mortalis, quod nimis aegris luctibus indulges? quid mortem congemis ac fles? nam si grata fuit tibi vita anteacta priorque et non omia pertusum congesta quasi in vas commoda perfluxere atque ingrata interiere, cur non ut plenus vitae conviva recedis aequo animoque capis securam, stulte, quietem? sin ea quae fructus cumque es peeriere profusa vitaque in offensast, cur amplius addere quaeris, rursum quod pereat male et ingratum occidat omne, non potius vitae finem facis atque laboris? nam tibi praeterea quod machiner inveniamque, quod placeat, nil est: eadem sunt omnia semper. si tibi non annis corpus iam marcet et artus confecti languent, adem tamen omnia restant, omnia si perges vivendo vincere saecla, atque etiam potius, si numquam sis moriturus’; quid respondemus, nisi iustam intendere litem naturam et veram verbis exponere causam? grandior hic vero si iam seniorque queratur atque obitum lamentetur miser amplio aequo, non merito inclamet magis et voce increpet acri? Dice Epicuro: “È cosa molesta cominciare sempre a vivere”; infatti è una vita sempre imperfetta, quella. Nessuno può essere pronto alla morte quando entra nella vita: noi dovremo sempre vivere come se avessimo abbastanza vissuto: e nessuno può pensare in tale modo se si mette a ordire ogni giorno la trama della propria esistenza. Ci sono di quelli che cominciano a vivere quando è tempo di morire; altri che cessano di vivere prima di cominciare. Seneca, Ep. ad Lucilium, XXIII 86 Il testo de rerum natura IV, 1058-1072 Fugitare decet simulacra et pabula amoris È doloroso per l’uomo abbandonarsi ad un sentimento d’amore esclusivo, che si nutre dell’immagine dell’amato, del suono del suo nome, se egli è lontano. È preferibile rivolgersi ad altro oggetto e vincere una passione coinvolgente e totalizzante ricorrerendo ad altri amori, alla vulgivaga Venus. Così il tormento e la sofferenza delle ferite d’amore scompariranno perché curate sul nascere. Praecepta 1058. nobis: “per noi”, dat. etico. autemst = autem (poi) est. 1060. et = et sic; frigida cura: “ gelida pena”, per Canali tale iunctura , originale ed unica, ha un valore di spiegazione antifrastica. 1063-1064. pabula… sibi: “allontanare da sé ogni esca d’amore”. 1065. iacere… quaeque: “gettare l’umore raccolto in un qualunque corpo”, quaeque = quaecumque. 1066. semel: “per sempre”. 1067. servare sibi: “tenere per noi”. 1068. alendo: “a nutrirla”. 10681069. vivescit et inveterascit… gliscit… atque… gravescit: verbi incoativi che sottolineano, in un climax ascendente, il crescere della passione d’amore. 1069. furor atque aerumna: “l’ardore e il tormento”. 1071. vulgivagaque… cures: “e non le curi ancora fresche passando dall’uno all’altro amore vagabondo”; vulgivaga : composto che ricorre anche in 5, 932 ed è presente solo in Lucrezio. Seguire la vulgivaga Venus Haec Venus est nobis; hinc autemst nomen amoris, hinc illaec primum Veneris dulcedinis in cor 1060 stillavit gutta et successit frigida cura. nam si abest quod ames, praesto simulacra tamen [sunt illius et nomen dulce obversatur ad auris. sed fugitare decet simulacra et pabula amoris absterrere sibi atque alio convertere mentem 1065 et iacere umorem collectum in corpora quaeque nec retinere, semel conversum unius amore, et servare sibi curam certumque dolorem. ulcus enim vivescit et inveterascit alendo inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit, 1070 si non prima novis conturbes vulnera plagis vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures aut alio possis animi traducere motus. Crede che tutto l’universo debba muoversi per alleviare il suo amore,... dice che la brama gli impedisce di prendersi cura di alcunché... Quindi per uno in tali condizioni bisogna usare il seguente metodo di cura: fargli vedere quanto è futile ciò che desidera, quanto è degno di disprezzo, come è del tutto senza valore, come è facile realizzarlo da un’altra parte o in altro modo o trascurarlo affatto; inoltre bisogna talvolta trovargli un diversivo in altre inclinazioni, preoccupazioni, affanni, affari, e spesso infine bisogna curarlo con il cambiamento di luogo, come si fa con i malati che non si ristabiliscono. Certuni ritengono anche che si debba scacciare il vecchio amore con un nuovo amore, come chiodo scaccia chiodo; ma soprattutto bisogna fargli capire quale eccesso di pazzia furiosa comporti l’amore. Di tutte le passioni nessuna certo è più violenta... Cicerone, Tusculanarum Disputationum IV, 73-75 90 Spregia i piaceri: quello che ottieni con dolore, nuoce. Orazio, Ep. I, 2, 55 Sul testo È l’inizio del passo finale del IV libro che è incentrato sull’amore, tema trattato sia a livello fisiologico che psicologico. La scelta di Lucrezio di addurre come descrizione esemplificativa delle illusioni delle passioni proprio l’amore significa come l’argomento dovesse interessarlo. Già in questi primi versi Lucrezio consiglia di soddisfare l’istinto sessuale senza nessun coinvolgimento affettivo che crea dolore e tormento e allontana l’uomo dall’atarassia e dall’ideale della filosofia epicurea cioè il raggiungimento della voluptas. Venere, che viene qui evocata ben tre volte, personifica il piacere sessuale, che è un bene, mentre l’amore è follia. È saggio chi riesce a distinguerli. La tecnica di elaborazione formale che all’inizio presenta l’anafora di hinc, si caratterizza per le allitterazioni del fonema –h ( haec, hinc) che puntualizza l’origine dell’amore e continua con il fonema –c (convertere, collectum in corpora, convertum) che culmina nel verso 1067 curam certum che descrive la preoccupazione (curam che compare anche nel v. 1060 e nel v. 1071), e la sofferenza sicura che genera l’amore. Il concetto è ripreso e approfondito nei vv. 1068-1070 in cui il termine tecnico ulcus apre l’analisi psicologica dell’animo innamorato introdotta da furor e aerumna. Nei medesimi versi e nei due conclusivi del passo la presenza del fonema –v (vivescit, inveterascit, gravescit, novis, vulnera) culmina nell’emistichio vulgivagaque vagus Venere che rappresenta lo scioglimento del problema. Infine la ricorrenza lessicale di cura, amor e Venus sottolinea ulteriormente il codice della poesia amorosa di stampo neoterico cui Lucrezio nella descrizione dell’amore si riferisce. 91 Ebbene, il desiderio irrazionale che ha il predominio sull’opinione che conduce a ciò che è retto, portato verso il piacere della bellezza, corroborato vigorosamente dai desideri ad esso congeneri della bellezza dei corpi, una volta raggiunta vittoria per il comando, prendendo il nome da questa sua vigora, viene chiamato eros o amore. Platone, Fedro, 238 b - c Dunque, da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura. Ciascuno di noi, pertanto, è come una contromarca di uomo, diviso com’è da uno in due, come le sogliole. E così ciascuno cerca sempre l’altra contromarca che gli è propria. Platone, Simposio 191 c-d Vi consiglio anche di mantenervi contemporaneamente due amanti; chi può averne più di una, è più corazzato. Quando il cuore, diviso in due parti, corre fra un amore e l’altro, il primo toglie energie al secondo…Tu invece, che sventuratamente ti sei affidato a una donna sola, devi, almeno ora, cercarti un nuovo amore. Ovidio, Remedia amoris 440 Il testo de rerum natura IV, 1073-1120 Non est pura voluptas È il passo fondamentale per cogliere la concezione dell’amore nella filosofia epicurea in quanto degli scritti di Epicuro sull’argomento non sono rimasti che pochissimi frammenti. La passione d’amore è presentata sia a livello fisico che psicologico. Essa viene considerata una malattia anzi una follia che trova la sua causa nei simulacra rerum. Infatti sono proprio quelli della persona amata che si insinuano in noi e ci obbligano a desiderarla. Ma poiché si tratta di particelle infinitamente piccole e leggere, esse rimangono sempre inafferrabili anche quando cerchiamo di carpirle nell’amplesso amoroso. Di qui nasce la delusione ma soprattutto un desiderio insaziabile che è alla base di quella sofferenza dell’animo così combattuta dalla filosofia epicurea. Praecepta 1075-1076. purast = pura est : è un piacere incontaminato dalla passione. sanis: coloro che sono esenti da legami amorosi. miseris: coloro che sono vinti dall’amore; potiundi: “di possedersi reciprocamente”. 1077. incertis erroribus: “in un vagare indeterminato”. 1078. fruantur: fruor regge l’abl. 1079. quod petiere: “Ciò che inseguivano”. 1081. osculaque adfligunt: “e baciando premon la bocca contro la bocca in modo da far male”. 1082. stimuli… laedere: “ci sono stimoli occulti che spingono ad aggredire proprio l’oggetto”, instigo e l’infinito è una costruzione usata da L. dopo i verbi che indicano spingere, indurre. 1083. rabies: “furore”, antica forma di gen. sing. illaec: nom. pl. neutro. 1084. Venus: indica l’appagamento del desiderio sessuale. inter amorem: “nell’atto d’amore”. 1085. admixta: è sottinteso morsibus. 1088. quod… repugnat: “ma la natura si oppone mostrando che accade il contrario”, contra è collegato con fieri. 1091. membris… intus: “viene assorbito dentro” . 1092. quae = et ea, nesso relativo. partis = partes. 1093. hoc… cupido: “per questo motivo viene soddisfatta facilmente la sete e la fame”. 1094-1096. ex… misella: “ma del volto di una persona e di un bel sembiante nulla è lecito godere dentro di noi se non gli esili simulacri; e questa misera speranza è spesso rapita dal vento”; fruendum è gerundio usato con valore passivo e concordato con nil; raptast: aferesi per rapta est. 1097. ut… cum: “come quando”. sitiens: “l’assetato”. 1098. qui… possit: prop. relativa impropria con valore La follia d’amore Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem, sed potius quae sunt sine poena commoda sumit. 1075 nam certe purast sanis magis inde voluptas quam miseris. etenim potiundi tempore in ipso fluctuat incertis erroribus ardor amantum nec constat quid primum oculis manibusque [fruantur. quod petiere, premunt arte faciuntque dolorem 1080 corporis et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfligunt, quia non est pura voluptas et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum quodcumque est, rabies unde illaec germina surgunt. sed leviter poenas frangit Venus inter amorem 1085 blandaque refrenat morsus admixta voluptas. namque in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam. quod fieri contra totum natura repugnat; unaque res haec est, cuius quam plurima habemus, 1090 tam magis ardescit dira cuppedine pectus. nam cibus atque umor membris adsumitur intus; quae quoniam certas possunt obsidere partis, hoc facile expletur laticum frugumque cupido. ex hominis vero facie pulchroque colore 1095 nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenvia; quae vento spes raptast saepe misella. ut bibere in somnis sitiens cum quaerit et umor non datur, ardorem qui membris stinguere possit, sed laticum simulacra petit frustraque laborat 1100 in medioque sitit torrenti flumine potans, sic in amore Venus simulacris ludit amantis nec satiare queunt spectando corpora coram nec manibus quicquam teneris abradere membris possunt errantes incerti corpore toto. 92 Amplesso carnale non giovò mai; già molto è se non fa danno. Epicuro, Sentenze e frammenti 80 Sul testo Il passo è un exemplum della teoria fisiologica e psicologica dell’amore. Alla base della descrizione della passione d’amore vi è un tono drammatico e vibrante che culmina nel v. 1112 facere interdum velle et certare videntur. L’assurdità della passione amorosa è messa in luce non solo nell’espozione complessiva ma anche nelle scelte lessicali come il verbo ludere che con il significato di illudere mette in guardia dal pericolo di possesso che è tipico di chi ama. La descrizione risente di una tecnica formale ripresa dalla poesia ellenistica. La figura retorica dell’allitterazione domina questi versi: redit rabies… revisit (v. 1117), e inoltre corpora coram (v. 1102). Frequenti sono anche le parole allitteranti nelle sillabe iniziali: flore fruuntur (v. 1105), pausa parumper (v. 1116) o le allitterazioni di sillabe iniziali delle due ultime parole: labefacta liquescunt (v. 1114) e collecta cupido (v. 1115). Particolare è, inoltre, la costruzione riflessiva presente nel se remordet (v. 1135) e la metonimia di manibus ad indicare carezze. La perfetta aderenza del poeta al linguaggio topico della poesia amorosa presente sia nei comici che nei poeti ellenistici si riscontra nella scelta di misella e del verbo certare. L’espressività lucreziana si manifesta in molti punti con la creazioni di sintagmi difficili da tradurre per la creatività che sottendono come faciunt… dolorem (v. 1079), illaec germina surgunt (v. 1083), frangit… inter amorem (v.1084), quod fieri contra totum natura repugnat (v. 1088), hoc facile expletur… cupido (v. 1093), datur in corpus… fruendum (v.1095), la costruzione nec reperire malum id possunt quae machina vincat (v. 1119). Infine la descrizione dell’atto d’amore è resa con la forza metaforica di alcuni verbi e la stessa immagine agricola dell’irrorazione dei campi offre una dimensione naturale e quindi universale all’atto amoroso. 93 Non è meraviglia s’io canto / meglio d’ogni altro cantore, / perché più il cuore ad amore m’astringe / e meglio son disposto al suo comando. / Cuore e corpo e sapere e senno / e forza e potere ci ho messo. / Così il freno mi stringe ad amore / che altrove non tardo… Bernart de Ventadorn, Canzone Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte. D. Alighieri, Inferno, canto V, vv. 103105 Il panno della sua veste si incollava al velluto della giacca di lui; essa rovesciò indietro il candido collo che si gonfiava d’un respiro; e languente, tutta in lacrime, con un lungo fremito e nascondendo il viso, s’abbandonò. Flaubert, Madame Bovary … Perdona /alle lagrime mie, perdona al cieco / desio che m’arde. Se fra queste braccia / dato mi fosse un sol momento stringere… / Se questi labbri su quei labbri… Ahi misero! / Ahi che al sol pensarlo entro le vene / di foco d’un fiume mi trabocca, e tutti / tremano i polsi e combattutte e l’ossa. V. Monti, Pensieri d’amore, IV consecutivo. membris = membrorum. 1099. laticum: in questo contesto indica l’acqua. 1100. Canali ha visto le sequenze introdotte dall’enclitica -que non parallele ma alternative traducendo “oppure”. 1101. simulacris ludit amantis: “illude gli amanti”, amantis = amantes. 1102. nec… coram: “e non riescono a saziare i corpi osservando quei corpi da vicino”. 1103. abradere: “raschiare via”. 1105. membris collatis: abl. ass. 1106. aetatis: “della gioventù”. 1107. in… arva: “in questo consiste l’amore nell’irrorare il campo femmineo”, in eost: aferesi per in eo est. 1108. adfigunt: “comprimono”. 1109. inspirant: “respirano profondamente”. 1110. nequiquam: “invano”. nil = nihil. 1111. abire: “introdursi”. 1112. facere… videntur: “sembrano voler fare ciò e lottare (riguardo a ciò)”, certo indica le battaglie d’amore. 1113. in… haerent: “stanno avvinti nei lacci di Venere”. 1114. membra… liquescunt: “fino a quando le membra si sciolgono, spossate dalla forza del piacere”. 1115. se erupit: “si libera”. 1116. parumper: “per un po’”. 1117. revisit: “rivisita”. 1118. cum… quaerunt: “quando si chiedono che cosa mai vogliano ottenere”. 1119. machina: “mezzo”. 1120. usque adeo incerti tabescunt: “fino a tal punto smarriti essi languiscono”. 1105 denique cum membris collatis flore fruuntur aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus atque in eost Venus ut muliebria conserat arva, adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris et inspirant pressantes dentibus ora, 1110 nequiquam, quoniam nil inde abradere possunt nec penetrare et abire in corpus corpore toto; nam facere interdum velle et certare videntur: usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent, membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt. 1115 tandem ubi se erupit nervis collecta cupido, parva fit ardoris violenti pausa parumper. inde redit rabies eadem et furor ille revisit, cum sibi quod cupiant ipsi contingere quaerunt, nec reperire malum id possunt quae machina vincat: 1120 usque adeo incerti tabescunt vulnere caeco. Perciò negli uomini l’organo genitale risulta essere non ubbidiente e prepotente, come un animale che non vuole sentire ragione, e cerca di aver predominio su tutto con le sue furibonde passioni. E a loro volta nelle donne quelli che sono chiamati matrice e utero, per queste medesime ragioni sono come un animale desideroso di generare suoi figli, il quale, quando rimanga senza frutto per molto tempo dopo la sua stagione, lo sopporta male e si irrita e va errando per ogni parte del corpo, ostruendo le vie d’uscita dell’aria e non permettendo di respirare, porta a difficoltà estreme e produce malattie di ogni genere. E questo dura fino a quando il desiderio e l’amore dei due sessi, congiungendosi insieme, spingano a cogliere un frutto come quello degli alberi e seminare nella matrice, quasi come in un campo arato essere viventi invisibili a causa della loro piccolezza e non ancora formati, e poi, separandoli, li facciano diventare grandi nutrendoli dentro, e in seguito a questo, mettendoli alla luce, portino a compimento la generazione dei viventi. Platone, Timeo 91B-D 94 P. Boyancé L’amore come illusione [Alla descrizione fisiologica dell’amore], segue l’affermazione che i nomi mitologici di Venere e di Cupido designano appunto il piacere e il desiderio. L’affermazione è importante perché identifica al processo cieco e brutale, e in ogni caso puramente fisico, le grandi divinità onorate con tali nomi. E l’affermazione è in gran parte lo scopo di tutta la descrizione precedente. Ma appena abbiamo gustato il piacere, e già la fredda inquietudine ne prende il posto: essa sembra legata con il fatto che il desiderio si porta non più direttamente al corpo che l’ha risvegliato, ma alla rappresentazione mentale della persona amata, ai “simulacri” e al “nome caro”. È facile trarre la conseguenza: non bisogna asservirsi a una tale rappresentazione, ma occorre fuggirla e volgere ad altro la mente; non avevamo visto che questo può farsi a nostro piacimento? La ricerca del piacere sessuale può e deve essere separata dalla follia e dalla miseria che porta con sé l’amore esclusivo di una sola persona. E Lucrezio conclude che bisogna ricercare la Venere vulgivaga e separare Venere dall’amore; il piacere sessuale, è un bene, ma l’amore è una follia: il poeta qualifica sani coloro che adottano quest’atteggiamento. La concezione che ci sembra così brutale, che significa insomma la condanna di ciò che si intende ordinariamente per amore, e l’apologia del piacere animale sono assolutamente nello spirito dell’epicureismo. Conviene però osservare che non implica la compiacenza per le follie della carne: come ogni piacere che corrisponde a un desiderio naturale, questo trova il suo limite, cioè il suo grado più alto, nell’appagamento del desiderio, ed esclude le raffinatezze del voluttuoso, come le esclude per esempio per quel che riguarda i piaceri della mensa. Per questo motivo il poeta, che poco fa paragonava l’effetto del desiderio amoroso a quello di una ferita, ci mostra ora la follia che si impadronisce degli amanti proprio al momento del possesso; e il quadro che ne fa, di un vigore incomparabile, al quale nulla è paragonabile nella letteratura antica, sembra mostrare che i piaceri d’amore non possono rientrare nel novero dei piaceri puri. Vi sarà dunque contraddizione con quel che abbiamo già detto, seguendo lo stesso Lucrezio? Lo si potrebbe pensare. Lucrezio di fatto stabilisce un’opposizione fra la fame e la sete, che comportano una completa soddisfazione, e l’amore che non si sazia che di immagini, di “simulacri”. Questo possesso di un corpo estraneo, al quale esso si accanisce con un furore insensato, non è che un’illusione, un’illusione senza posa rinascente, man mano che il desiderio si rianima dopo l’appagamento. A leggere questi versi non sembra che non vi possano essere piaceri puri in amore? Che le illusioni ne fanno sempre parte integrante? Certamente resta possibile una conciliazione, se si potesse ammettere che il desiderio amoroso possa essere interamente liberato dalle immaginazioni avventizie che lo complicano e lo disperdono nell’atto stesso del possesso. Tale conciliazione è necessaria, se Lucrezio resta veramente fedele all’epicureismo. Ma non si può negare che egli mette talmente in luce le debolezze, le miserie dell’amore da sembrar piuttosto propendere per il pessimismo. E proprio questo accento un po’ in contraddizione con lo spirito della sua scuola è la miglior ragione per credere a un’esperienza personale, la cui amarezza difficilmente si lascia sottoporre a una regola dalla teoria ottimistica del sistema. (da Lucrezio e l’epicureismo, trad. it. Brescia, 1985, pp. 214-219) 95 Il testo de rerum natura IV, 1121-1140 Labitur interea res, languent officia Le conseguenze dell’amore si risentono non solo a livello fisico perché si perdono le forze per la fatica ma soprattutto psicologico. L’uomo diventa remissivo ai voleri della donna amata, è pronto a disperdere le proprie ricchezze e quelle familiari in gioielli, stoffe preziose, scarpe alla moda, nell’organizzazione di banchetti e feste suntuose solo per farle piacere. Tutto è vano però perché la sofferenza emerge immediatamente o quando l’innamorato si ferma a riflettere sulla inutilità di una vita trascorsa in questo modo, senza far nulla oppure quando l’ambiguità di un discorso o il tarlo della gelosia corrode il suo animo durante un momento di gioia conviviale. Praecepta 1121. Adde quod: “Aggiungi che”, completiva. 1123. labitur… fiunt: “ Si disperde nel frattempo la ricchezza e si trasforma in drappi di Babilonia”, Babylonica è emendamento del Pio al Babylonia dei manoscritti, per analogia con Babylonica del v. 1029. Città principale della Mesopotamia dove si producevano abbigliamenti raffinati. 1124. aegrotat… vacillans: “la reputazione vacilla indebolita”. 1125. unguenta… rident: “sorridono unguenti e bei calzari sicioni nei piedi”; unguenta compare nei manoscritti. Bailey propende per un passo corrotto difficilmente sanabile (crux); Sicyonia: da Sicione, città del Peloponneso, luogo di produzione di questo tipo di calzatura morbida ed elegante. 1126. scilicet et: “E, certo”. 1127. thalassina: “di un purpureo marino”. 1128. exercita: “consunta”. 1129. bene parta patrum: “i guadagni dei padri ottenuti con onestà”; parta: part. pf. di pario. anademata: è una legatura ornamentale del capo (diadema). mitrae: una specie di cuffia (mitria). 1130. Alidensia: “Alinda”, in Caria. Cia: “Ceo”, isola delle Cicladi. Lachmann ha dimostrato come probabilmente Lucrezio ha confuso, indotto nell’errore da Varrone, Ceo e Cos. 1131. eximia veste et victu: “con sfarzo di decorazioni e di portate”. ludi: “svaghi”. 1135. se… remordet: “a volte si rode”, rara la costruzione riflessiva del verbo. 1136. lustris: “nei bordelli”. 1137. aut… reliquit: “o perché essa ti lascia nel dubbio di una parola ambigua”. 1138. quod: pron. relativo; cupido… cordi: “confitta nel cuore preso dal desiderio”. 1140. quod: valore causale. Insensatezza dell’amore Adde quod absumunt viris pereuntque labore, adde quod alterius sub nutu degitur aetas. labitur interea res et Babylonica fiunt, languent officia atque aegrotat fama vacillans. 1125 † unguenta † et pulchra in pedibus Sicyonia rident. scilicet et grandes viridi cum luce zmaragdi auro includuntur teriturque thalassina vestis assidue et Veneris sudorem exercita potat. et bene parta patrum fiunt anademata, mitrae, 1130 interdum in pallam atque Alidensia Ciaque vertunt. eximia veste et victu convivia, ludi, pocula crebra, unguenta, coronae, serta parantur, nequiquam, quoniam medio de fonte leporum surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat, 1135 aut cum conscius ipse animus se forte remordet desidiose agere aetatem lustrisque perire, aut quod in ambiguo verbum iaculata reliquit quod cupido adfixum cordi vivescit ut ignis, aut nimium iactare oculos aliumve tueri 1140 quod putat in vultuque videt vestigia risus. “Infatti gli innamorati provano dispiacere per quei benefici che hanno fatto, non appena si siano liberati dalla loro passione; invece, per i non innamorati non verrà mai un tempo in cui bisogna cambiare parere. Infatti, questi non per necessità, ma spontaneamente, e in modo da provvedere alle proprie cose nella migliore maniera possibile, fanno benefici secondo la loro capacità. Platone, Fedro 231 A 96 L’uomo d’indole bennata non ha “destino di salvezza” se non nel sorvegliare la propria giovinezza e nel tenerla lontano dalle sozzurre dell’assillo carnale. Epicuro, Sentenze e Frammenti 82 Sul testo Il passo, emblematico delle ansie che trafiggono il cuore dell’innamorato, contiene la famosa espressione medio de fonte leporum surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat (vv.1133-1134) che esemplifica, con la sua lapidarietà, il pessismismo di Lucrezio sulla condizione dell’uomo, riconfermato dall’emistichio nequiquam, quoniam (v. 1133) che suona come solenne ed inesorabile condanna. La tecnica ellenistica è presente con la topica della poesia amorosa nella scena del banchetto, in mezzo al fasto delle vesti e delle gioie fino alla squisita finezza del verso 1140 in voltuque videt vestigia risus che descrive la gelosia che si impossessa dell’innamorato. Nel passo i vocaboli greci ed esotici sono usati dal poeta per creare l’atmosfera della festa (Babylonica, Sicyonia, zmaragdi, thalassina, anademata, mitriae, Alidensia Ciaque). Inoltre la ricercatezza formale continua con la costruzione al singolare se… rimordet del v. 1135 e le anafore di adde (vv. 1121-1122) e di quod (1136, 1137 ripresa poi nel v. 1140) e infine, persino l’allitterazione che non è troppo frequente nel brano (parta patrum ripresa nel verso seguente con pallam, veste, victu, cum conscius, cupido cordi) sembra piegarsi al lampeggiare di quel riso (vultuque videt vestigia). A me pare uguale agli dei chi a te vicino così dolce suono ascolta mentre tu parli Benedetto sia ‘l giorno e ‘l mese et l’anno e la stagione e ‘l tempo et l’ora e ‘l punto e ‘l bel paese e ‘l loco ov’io fui giunto da’ duo begli occhi che legato m’ànno; et benedetto il primo dolce affanno ch’i ebbi ad esser con Amor congiunto, et l’arco et le saette ond’i’ fui punto, e le pieghe che ‘nfin al cor mi vanno. Benedette le voci tante ch’io chiamando il nome de mia Donna ò sparte, e i sospiri et le lagrime e ‘l desio; et benedette sian tutte le carte ov’io fama l’acquisto, e ‘l pensier mio, ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte. F. Petrarca, Canzoniere LXI e ridi amorosamente. Subito a me il cuore si agita nel petto solo che appena ti veda, e la voce si perde sulla lingua inerte. Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, e ho buio negli occhi e il rombo del sangue alle orecchie. E tutta in sudore e tremante come erba patita scoloro: e morte non pare lontana a me rapita di mente. Saffo, fr.31, trad. di S. Quasimodo 97 Il testo de rerum natura IV, 1153- 1170 Nam faciunt homines plerumque cupidine caeci Dopo aver constatato come sia difficile, una volta caduti nelle reti d’amore, scioglierne i nodi, Lucrezio descrive come l’uomo ostacoli spesso se stesso non solo ignorando i difetti della donna che desidera ma anche scambiandoli per qualità. Così agli occhi dell’innamorato la donna mingherlina diventa una “gazzella” o quella piccola di statura “una delle Grazie, tutta pepe”. Non si accorge, il poverino, del male cui va incontro. Praecepta 1154. non sunt his: dat. di possesso. his: sono le donne. commoda: “qualità”. 1155-1156. multimodis… vigere: “Pertanto vediamo donne sotto molti aspetti brutte e deformi essere teneramente amate e tenute in altissimo onore”. 1157. alios alii: “l’un l’altro” . 1157-1158.Venerem… placent: “si esortano a placare Venere”, ut con valore completivo. 1158. foedo… amore: “da un ignobile amore”, compl. di causa efficiente. 1160. nigra: la donna con i capelli scuri; acosmos: “veste in modo semplice”. 1161. caesia Palladium: “gli occhi verdi ‘un ritratto di Minerva’”, era il colore degli occhi della dea Minerva. Per Palladium si intende una statua lignea di Pallade. 1163. cataplexis… honoris: “una meraviglia, piena di maestà”. 1165. Lampadium: “un temperamento focoso”. 1166. ischnon eromenion: “un sottile amorino”. 1167. rhadine: “delicata”; verost = vero est. 1168. tumida: emendamento del Bernays a iamina presente nei manoscritti. at… Iaccho: “quella robusta, dal seno enorme, Cerere dopo il parto di Bacco”. Iacco è stato identificato per lo più con Bacco. 1169. simula Silena: “naso schiacciato ‘Silena’. Silena è femm. di Sileno, divinità boschereccia o precettore di Bacco. saturast = satura est. Il punto, benché sia abbastanza controverso nella tradizione manoscritta, tuttavia viene interpretato come il nom. femm. di Satyrus quindi si traduce “una satira”. labeosa philema: “quella labbrona ‘un nido di baci’”. 1170. longum est: uso dell’indic. in luogo del condizionale italiano con una locuzione impersonale. Cecità dell’amore nam faciunt homines plerumque cupidine caeci et tribuunt ea quae non sunt his commoda vere. 1155 multimodis igitur pravas turpisque videmus esse in deliciis summoque in honore vigere. atque alios alii irrident Veneremque suadent ut placent, quoniam foedo adflictentur amore, nec sua respiciunt miseri mala maxima saepe. 1160 nigra melichrus est, immunda et fetida acosmos, caesia Palladium, nervosa et lignea dorcas, parvula, pumilio, chariton mia, tota merum sal, magna atque immanis cataplexis plenaque honoris. balba loqui non quit, traulizi, muta pudens est; 1165 at flagrans odiosa loquacula Lampadium fit. ischnon eromenion tum fit, cum vivere non quit prae macie; rhadine verost iam mortua tussi. at tumida et mammosa Ceres est ipsa ab Iaccho, simula Silena ac saturast, labeosa philema. 1170 cetera de genere hoc longum est si dicere coner. Io voglio del ver la mia donna laudare ed asembrarli la rosa e lo giglio; più che stella diana splende e pare, e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio. Verde river’ a lei rasembro e l’are, tutti color di fior’, giano e vermiglio, oro ed azzurro e ricche gioi’ per dare: medesmo Amor per lei rafina meglio. G. Guinizelli, Io voglio del ver la mia donna laudare vv.1-8 98 … i difetti e le bruttezze dell’amica restano inosservati all’amante accecato, e magari sono quelli che gli piacciono… Orazio, Sat. I, 3, 45 Sul testo Questo passo è singolare perché Lucrezio, pur mettendo a nudo con la sua saggezza le stoltezze degli uomini, invita al sorriso. Alcuni critici hanno voluto scorgere nella casistica proposta il frutto di un’esperienza autobiografica in quanto viene descritta una profonda esperienza del cuore umano. Stilisticamente l’uso diffuso di termini greci (melichrus, acosmos, chariton mia, cataplexis, traulizi, ischnon eromenion, rhadine) rispecchia il gergo elegante dei salotti alla moda romana al punto che A. Traglia ha supposto che questi vocaboli fossero scritti in greco. Parallelamente si può notare anche un intento canzonatorio che emerge dalla contrapposizione fra una ricercatezza lessicale (grecismi e al v. 1159 allitterazione miseri mala maxuma) e l’uso di parole tratte dal sermo familiaris e dal repertorio dei comici quali parvula, loquacula, mammosa, simula, labeosa che prendono avvio dal v. 1157 con suadent con la scansione trisillabica tipica di Plauto. Infine l’uso di diminutivi, di costrutti come esse in deliciis, tipici del linguaggio della poesia amorosa specialmente dei circoli ellenizzanti rende questo passo un interessante specimen del rapporto tra la tecnica lucreziana e neoterica. Gli epicurei ritengono che il saggio non debba innamorarsi… Sostengo-no che l’amore non è mandato dagli dei… Diogene Laerzio,Vite dei fil. X, 118 A giudizio di molti Quinzia è bella; per me è longilinea /ha carnagione bianca e bel portamento. Le concedo queste doti, / singolarmente, / ma non le concedo di essere, nel complesso, la bella che dicono: / non c’è grazia, / non c’è in quella donna d’ampie forme neppure un grano di sale. / Lesbia sì che è bella, lei che è bellissima tutta nel suo insieme, /lei da sola ha rubato a tutte le altre ogni loro attrattiva. Catullo, Liber, carme 87 Venere, sempre, come che ci vinca, /non arde mai di fiamme vergognose. Il peccato d’amore è sempre puro. Orazio, Odi, I, 27, 18-24 … Dirai bruna anche colei che avrà la pelle nera /più di pece d’Illiria; quella losca/dirai che rassomiglia a Citera; /la scialba paragonala a Minerva; / chiama snella colei che non si regge /da tanto è magra; svelta la piccina; / bene in carne la grassa: ogni difetto / copri con il pregio che più l’assomiglia. Ovidio, Ars Amatoria 2, 657-661 Chi dice che di fanti una schiera, chi di cavalieri e chi di navi, sia quanto di meglio è al mondo; io dico: ciò che amiamo... E il passo lieve di lei, il volto suo che ha luce di gioventù amo vedere, ben più che i carri lidii e l’armi atte alla guerra. Saffo, fr. 16 Voigt 99 Sermo amatorius antologia tematica a cura di Giovanni Ghiselli 1 2 Lacerazione 1.- Paura della donna Come in quella greca, nella letteratura romana la paura della donna sembra presente fin dalle origini. Essa suggerisce al Catone il vecchio di Tito Livio alcune parole sulla necessaria sottomissione della femina per tenere sotto controllo una natura altrimenti intemperante. Così si esprime il censore quando parla, nel 195 a. C., contro l’abrogazione della lex Oppia che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone; queste scesero in piazza proprio per manifestare a favore dell’annullamento della legge, la quale vietava tra l’altro di indossare vesti multicolori o di girare per Roma su un cocchio a doppio traino di cavalli . “Maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum...date frenos impotenti naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae facturas... omnium rerum libertatem, immo licentiam, si vere dicere volumus, desiderant” (XXXIV, 2, 11-14)1. I nostri antenati non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un tutore, e che stessero sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti... allentate il freno a una natura così intemperante, a una creatura riottosa e sperate pure che si daranno da sole un limite alla licenza... desiderano la libertà, anzi, se vogliamo chiamarla con il giusto nome, la licenza in tutti i campi. “Extemplo simul pares esse coeperint, superiores erunt”, continua Catone (XXXIV, 3, 2), appena cominceranno a essere pari, saranno superiori. Lo dirà ancora Marziale (40 ca-104 d.C.) nella clausola di un suo epigramma: “Inferior matrona suo sit, Prisce, marito: / non aliter fiunt femina virque pares” (VIII, 12, 3-4), la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l’uomo e la donna diventano pari. Certi maschi dunque vorrebbero l’abrogazione della donna o per lo meno quella della femmina umana indipendente, perché terrorizzati. Le sue rivendicazioni fanno paura come quelle di un esercito in rivolta. Sentiamo l’inizio del discorso di Catone, il quale dà voce all’ansia dell’uomo che sta perdendo il potere sulla donna un’ansia abbastanza diffusa anche tra i maschi attuali: Si in sua quisque nostrum matre familiae, Quirites, ius et maiestatem viri retinere instituisset, minus cum universis feminis negotii haberemus: nunc domi victa libertas nostra impotentia muliebri hic quoque in foro obteritur et calcatur, et quia singulas sustinere non potuimus universas horremus. Equidem fabulam et fictam rem ducebam esse virorum omne genus in aliqua insula coniuratione muliebri ab stirpe sublatum esse; ab nullo genere non il cambio dell’imperatore faceva sperare la licenza delle truppe e la speranza di gratifiche in seguito alla guerra civile. La ribellione delle donne dunque ha aspetti comuni con una rivolta militare e suscita riflessioni analoghe motivate dalla medesima paura del disordine. (Vedremo più avanti che, coerentemente con questa paura, l’austero censore, nella Satira I 2 di Orazio, consiglia di frequentare i postriboli dove le donne si pagano). Si veda la Stazione VII in Erotikòs lògos. 1 Il termine licentia qui ripetuto è utilizzato da Tacito, con alcune altre “considerazioni puramente moralistiche” (E. Auerbach, Mimesis, vol. I, p. 44) per invalidare le ragioni di una rivolta scoppiata tra le legioni della Pannonia dopo la morte di Augusto: “nullis novis causis nisi quod mutatus princeps (da primus+capio, era il titolo di Augusto che passò ai suoi successori) licentiam turbarum et ex civili bello spem praemiorum ostendebat “, Annales, I, 16, per nessun’altra novità se non che 3 summum periculum est si coetus et concilia et secretas consultationes esse sinas…Equidem non sine rubore quodam paulo ante per medium agmen mulierum in forum perveni (XXXIV, 2, 1-4, 8). Se ciascuno di noi, Quiriti, avesse stabilito di conservare il diritto e la sovranità del marito sulla madre di famiglia, ora avremmo meno briga con le donne tutte insieme: ora la nostra libertà, vinta in casa dalla donna che non vuole accettare il dominio, anche qui nel foro viene calpestata e schiacciata, e siccome non siamo riusciti a trattenerle una per una, le temiamo tutte insieme. Certo io credevo che fosse una storia inventata che tutta la razza dei maschi fosse stata radicalmente soppressa da una congiura di donne; da nessuna razza non deriva un pericolo estremo se si permettono riunioni e assemblee e consultazioni segrete… Di sicuro non senza un certo arrossire poco fa sono arrivato nel foro in mezzo a una schiera di donne. Maiestatem viri: è una maiestas che Catone considera laesa da questa licentia femminile. Il censore non arriva a proporre all’insolenza femminile la lex maiestatis che in epoca repubblicana imputava il tradimento all’esercito o l’abuso di potere aimagistrati, delitti che, appunto, ledevano la maestà del popolo romano; comunque, spiega Tacito, facta arguebantur, dicta impune erant (Annales, I, 72), le azioni venivano messe sotto accusa, le parole restavano senza punizione. Per lungo tempo del resto non era stata applicata, finché Augusto e ancor più Tiberio la ripristinarono per colpire i famosi libelli, gli opuscoli diffamatori prodotti dall’opposizione. Lucio Valerio, il tribuno della plebe che aveva proposto l’abrogazione della lex Oppia, nella sua replica al discorso di Catone sostenne che l’eleganza, i monili e la cura della persona sono le magistrature delle donne: “munditiae et ornatus et cultus, haec feminarum insignia sunt” (7, 9). Alle feminae infatti non possono toccare magistrature né sacerdozi, né trionfi, né insegne militari, né premi o bottino di guerra (7, 8); dunque le munditiae e il cultus ne costituiscono il compenso: “his gaudent et gloriantur, hunc mundum muliebrem appellarunt maiores nostri” (7, 9), di queste godono e si vantano, questo i nostri antenati hanno chiamato eleganza femminile. D’altra parte, continua il tribuno, “Numquam salvis suis exuitur servitus muliebris, et ipsae libertatem quam viduitas et orbitas facit detestantur” (7, 12), finché i loro uomini sono in vita mai si toglie la schiavitù femminile, e loro stesse detestano la libertà che consegue alla loro condizione di vedove e orfane. Le donne preferiscono abbigliarsi secondo le disposizioni dei mariti che della legge “et vos in manu et tutela, non in servitio debetis habere eas et malle patres vos aut viros quam dominos dici” (7, 13), e voi dovete tenerle sotto il vostro controllo e la vostra protezione, non in stato di schiavitù e preferire essere chiamati padri o mariti piuttosto che padroni. È un argomento tipico dell’humanitas del circolo degli Scipioni: lo troviamo infatti, negli Adelphoe di Terenzio (commedia rappresentata nel 160 a. C.) riferito al rapporto padri-figli: “il dovere del padre è questo. abituare il figlio a comportarsi bene / piuttosto per scelta sua che per paura di un altro. / In questo un padre è diverso da un padrone (Hoc pater ac dominus interest ). Chi non sa fare questo / confessi che non sa avere autorità sui figli (vv. 74-77). Dopo questi discorsi pro e contro la legge “aliquanto maior frequentia mulierum postero die sese in publicum effudit” (8, 1), una folla ancora più grande il giorno seguente dilagò in piazza e la legge che era stata proposta e fatta approvare nel 215 a. C. in medio ardore Punici belli (XXXIV, 1, 3) in mezzo alle fiamme della guerra punica, viginti annis post abrogata est quam lata (8, 3) venne abrogata vent’anni dopo che era stata approvata. 4 2.- Esperienza totalizzante Verso la fine della repubblica la donna si afferma definitivamente e per l’uomo sono dolori. Di qui il miser che nella letteratura latina, a partire da Catullo, assume il significato di persona infelice per l’amore non contraccambiato. Il poeta di Verona in effetti per la prima volta rende la donna e il desiderio di lei protagonisti della poesia latina. In questo senso Catullo è il primo vero poeta d’amore della letteratura latina. “A Roma non si può parlare di una produzione di poesia d’amore prima di Catullo: questa realtà, che ai nostri occhi può apparire sorprendente, ha una duplice spiegazione, legata al modo di far cultura e di concepire il rapporto uomo-donna. Sino al periodo della declinante repubblica il comporre poesia priva d’impegno civile non doveva essere giudicato degno della gravitas del cittadino romano: anche i primi letterati, tutti schiavi o liberti, sino all’eques Lucilio, se si prescinde dalla loro produzione drammatica, concepirono l’epos come la logica attività poetica” (P. Fedeli, La poesia d’amore, in Lo spazio letterario di Roma antica, I, p. 143). I ceti al potere, continua Fedeli, “si accontentarono di mantenere il controllo sul sapere storico e su quello giuridico”, mentre una “sporadica produzione di carmi erotici” risale probabilmente al circolo di Lutazio Catulo (console nel 101 a. C.) ma “solo con Catullo si assiste alla diffusione di un canzoniere in cui una donna occupa il ruolo centrale, perché nel mondo del poeta costituisce il culmine di tutti gli affetti” (op. cit., p.144). A partire dal liber del Veronese, nella successiva elegia, l’amore diviene un’esperienza totalizzante e la donna assume il ruolo della dominatrice, la vera domina nella relazione che dunque, per l’uomo amante, diventa un servitium. Con Catullo comincia a delinearsi un codice di comportamento che prosegue con gli elegiaci. Dopo di lui altri poeti sentiranno l’esigenza di porre una donna-padrona al centro del loro canto1. Nel carme del discidium (8), miser è la prima parola che qualifica l’autore (Miser Catulle, v. 1) quale amante infelice poiché tradito. Miser è comunque chi cade vittima della passione d’amore: lo è Catullo stesso quando è affascinato da Lesbia nel c. 51: “misero quod omnis (= omnes) / eripit sensus mihi” (51, vv. 5-6) il che a me infelice porta via tutti i sensi. Il poeta potrebbe smettere di essere miser solo allontanandosi dalla donna che ama: “Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis /et deis invitis desinis esse miser? (76, vv. 11-12) perché tu non ti irrobustisci nel carattere e non ti ritrai di qui / e non smetti di essere infelice contro la volontà degli dei? Ma deporre d’un tratto un lungo amore è difficile (difficile est longum subito deponere amorem, v. 14) poiché questo è diventato come una peste o un cancro, malattie dalle quali non si guarisce senza l’aiuto degli dèi. dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria” (Il mestiere di vivere, 24 maggio 1941). E più avanti: “Chi ha, gli sarà dato” (23 novembre 1945). L’identificazione della donna amata con la domina imperiosa che ama meno, o addirittura non ama l’uomo asservito, si può commentare con una riflessione psicologica di C. Pavese: “Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige, è amato. Cioè, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: 1 5 3.- Amore malattia “O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam /e xtremam iam ipsa in morte tulistis opem, / me miserum aspicite et, si vitam puriter egi, / eripite hanc pestem perniciemque mihi, / quae mihi subrepens imos ut torpor in artus / expulit ex omni pectore letitias” (76, vv. 17-22), O dei, se vostra forza è avere misericordia, o se ad alcuni mai / portaste l’estremo aiuto già dentro la morte stessa, / guardate me disgraziato e, se ho passato la vita senza tradire, / strappatemi questa peste e rovina, / che strisciando, come paralisi, in fondo alle mie membra, / ha cacciato da tutta l’anima la gioia di vivere. Pestem perniciemque in nesso allitterante significano la rovina totale. Pernicies è imparentata etimologicamente con neco, uccido, nex, uccisione, noceo, nuoccio, nonché con le parole greche , necròs, , nékus, morto, , nékuia, evocazione dei morti. L’infelicità dell’amore deluso dunque ha la forza negativa di una malattia mortale ed è necessario liberarsi dalla donna, per salvarsi la vita: “Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa, / aut (quod non potis est) esse pudica velit; / ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum. / O di, reddite mi hoc pro pietate mea” (76, vv. 23-26): Non chiedo più quel miracolo, che quella là contraccambi il mio affetto, / o (cosa di cui non è capace) che voglia essere pudica; / io desidero stare bene e lasciare questo male oscuro. / O dei, datemi questo in cambio della mia devozione. A proposito della identificazione tra amore e malattia “inventata” da Catullo, poi proseguita nell’elegia latina, e non solo, vediamo un paio di occorrenze della parola morbus, riferita all’amore in Tibullo e in Properzio1. Tibullo denuncia il male (malum ) arrecato da Cupido il quale gira, invece che inermis, come sarebbe bene, armato di strali (tela) e infligge ferite a molti: “et mihi praecipue, iaceo cum saucius annum / et faveo morbo, cum iuvat ipse dolor” (II, 5, 109-110), e soprattutto a me, siccome giaccio ferito da un anno, e accolgo con favore la malattia, dal momento che proprio il dolore mi fa piacere. Il dolore procuratogli da Nemesi infatti lo aiuta a trovare i mezzi per cantarla: “usque cano Nemesin, sine qua versus mihi nullus / verba potest iustos aut reperire pedes” (vv. 111112), sempre canto Nemesi, senza la quale nessun verso mio può trovare le parole o i metri giusti2. Properzio sostiene che l’amore è l’unica malattia incurabile: “Omnis [= omnes] humanos sanat medicina dolores: / solus amor morbi non habet artificem” (II, 1, 57-58), la medicina risana tutti i dolori umani: solo l’amore non ha uno specialista del male. Anche il poeta umbro però va in cerca della piaga amorosa “Interea nostri quaerunt sibi vulnus ocelli” (II, 22, 7), intanto i miei occhi cercano chi li ferisca. L’idea che l’amore sia una malattia incurabile trova echi in a. C. circa, morto a Roma intorno al 15a. C., ha scritto quattro libri di elegie, pubblicati fra il 26 e il 16 a. C. I primi tre cantano l’amore per Cinzia, il IV, quello delle elegie romane, racconta per lo più miti, riti della tradizione, episodi della storia di Roma e italica. 2 La stessa funzione riconoscerà Proust al dolore arrecatogli da Albertine: “Facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto l’aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie “scartoffie”, Il tempo ritrovato, p. 242. Tibullo, nato a Gabii o a Pedum, nel Lazio rurale fra il 55 e il 50 a. C., morì tra il 19 e il 18 a. C. Sotto il suo nome ci è giunto il Corpus tibullianum, tre libri di elegie. Sono sicuramente e autenticamente tibulliani i primi due che cantano l’amore per due donne, Delia e Nemesi. Il terzo, che gli umanisti divisero in due parti, è un’ antologia di vari autori, compreso Tibullo. Quintiliano lo definisce tersus atque elegans maxime…auctor (Institutio oratoria, X, 93), l’autore più elegante e raffinato, nel campo dell’elegia dove i latini possono sfidare i Greci. Properzio, nato ad Assisi nel 49 1 6 Petronio (Satyricon 42, 7: “Sed antiquus amor cancer est”, ma un amore vecchio è un cancro); d’altra parte vedremo anche i Remedia amoris di Ovidio e quelli di Lucrezio. Tra i moderni, una descrizione dell’amore come patologia “inoperabile” è stata fatta da Proust in Un amore di ). Swann (v. Cesare Pavese ribalta la posizione del vulnus: per lui è la vita che infligge ferite e l’amore anestetizza il dolore: “Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness ) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l’amore goduto è un anestetico e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione?” (Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1938). Si potrebbe commentare questa affermazione intelligente con quest’altra di Pindaro: infatti sotto nobili gioie muore la sciagura recrudescente domata (Olimpica II, 19-20: “ ”). / Sull’amore come malattia sentiamo G. B. Conte: “L’esperienza d’amore come esperienza di sofferenza non è novità dell’elegia latina. È questo, anzi, il nucleo generatore di un’ampia serie di connotazioni che nella tradizione della letteratura d’amore si dispongono tutt’intorno alla metafora dell’eros-nosos: amore malattia, amore-ferita, amore-follia, amore-veleno (l’elegia latina, si sa, lavora quasi sempre su materiale di riuso, mutuandolo consapevolmente dal tesoro della grande erotica greca; parla, con accenti propri, una lingua comune). Nel caso dell’eros-nosos la cifra propriamente elegiaca consiste in una particolare declinazione del paradigma: amore non soltanto è malattia, ma anche e soprattutto malattia immedicabile: Omnis humanos sanat medicina dolores: / solus amor morbi non habet artificem (Properzio 2, 1, 57 s.: La medicina guarisce tutti i dolori umani: / solo l’amore non ha uno specialista capace di curarlo). La medicina toglierebbe la malattia, ma insieme toglierebbe la possibilità stessa di fare poesia in forma elegiaca, giacché la forma dell’esperienza elegiaca sta anche nella costrittività di questo binomio: malattia e rifiuto di guarigione. Non a caso la guarigione riuscita (e la liberazione dai vincoli dolorosi del servitium ) sarà posta nella chiusa della più grande raccolta di Properzio, dove significa insieme fine reale dell’amore e commiato del genere (3, 24, 17 s.)” (G. B. Conte: Ovidio, Rimedi contro l’amore, pp. 18-19). “Grazie a Catullo una nutrita serie di vocaboli acquista diritto di cittadinanza nel linguaggio d’amore: basterà ricordare la definizione dell’amore come dolor (2, 7) ardor (2, 8) cura (2, 10; 68, 51), ma anche come morbus (76, 25), come pestis e pernicies che s’insinua nelle membra simile a un torpor (76, 20) e le divora (31, 15); oppure la definizione dell’amata come desiderium (2, 5); dell’innamorato come vesanus (7, 10) miser (8, 1; 51, 5) e dell’innamorata che si strugge come misella (31, 14); dell’innamoramento come equivalente dell’ineptire (8, 1), del perdite amare (45, 3) dell’amore deperire (35, 12), del tabescere (68, 55) dell’ardere (68, 53)” (P. Fedeli, in Lo spazio letterario di Roma antica, 1, p. 153). L’infelicità amorosa può riguardare tanto gli uomini quanto le donne poiché l’amore è spesso insidiato da un destino tragico: chi ama è vittima della passione che lo assoggetta, e in quanto tale è infelice. Misera è Arianna abbandonata da Teseo (numerose sono le ricorrenze nel carme 64). La Didone di Virgilio, poco dopo che ha visto Enea è già “infelix pesti devota futurae” (Eneide, I, 712), disgraziata, consacrata alla rovina imminente: infatti dopo un altro po’ di tempo dovrà morire “misera ante diem” (IV, 697), disgraziata prima del suo giorno, come vedremo più avanti. 7 4.- Amore e angoscia Il motivo della disgrazia d’amore è presente già nel carme 51, incentrato sul tema dell’incanto (e dello spavento) amoroso. Questo carme traduce l’ode di Saffo 2 D. fino al v.12; nell’ultima strofe abbandona il modello, forse per un altro, operando così una contaminatio. Catullo accusa in particolare l’otium che all’autore procura un’esagerata eccitazione amorosa (otio exultas, v. 14) e, alludendo probabilmente al caso di Elena di Troia, conclude: “Otium et reges prius et beatas / perdidit urbes” (vv. 15-16), lo stare senza far niente ha già mandato in rovina re e città opulente. Ille mihi par esse deo videtur, ille, si fas est, superare divos, qui sedens adversus identidem te spectat et audit dulce ridentem: misero quod omnis eripit sensus mihi. Nam simul te, Lesbia, aspexi, nihil est super mi, <post modo vocis;> lingua sed torpet, tenuis sub artus flamma demanat, sonitu suopte tintinant aures, gemina teguntur lumina nocte. Otium, Catulle, tibi molestum est, otio exsultas nimiumque gestis: Otium et reges prius et beatas perdidit urbis. “Quello mi sembra essere simile a un dio / quello, se non è una bestemmia, superare gli dei / l’uomo che sedendo di fronte continuamente ti / osserva e ti ascolta/mentre sorridi con dolcezza, il che a me infelice / porta via tutti i sensi: infatti appena ti vedo, Lesbia, non mi rimane nemmeno / un filo di voce in bocca. / Ma la lingua si paralizza, sotto le membra sottile / scorre una fiamma, e diun suono loro / squillano le orecchie, gli occhi si coprono/di una doppia notte. / Lo stare senza far niente ti fa male Catullo: / stando senza far niente ti esalti e ti sfreni troppo. / Lo stare senza far niente ha già mandato in rovina / re e città opulente”. Diamo la traduzione dell’originale greco. “Quello mi sembra pari agli dei essere l’uomo che davanti a te sta seduto e da vicino ti ascolta dolcemente parlare e sorridere amabilmente, cosa che a me certo sconvolge il cuore nel petto: appena infatti ti guardo per un momento, allora non è possibile più che io dica niente ma la lingua mi rimane spezzata, un fuoco sottile subito corre sotto la pelle, e con gli occhi non vedo nulla e mi rombano le orecchie e un sudore freddo mi cola addosso, e un tremore mi prende tutta, e sono più verde dell’erba, poco lontana dall’essere morta appaio a me stessa ma bisogna sopportare tutto poiché...”. 8 Direi che le parole della poetessa greca sono più concrete non solo perché, come scrive Pavese “il realismo, in arte, è greco” (Il mestiere di vivere, 29 settembre 1946), ma anche perché nella donna l’amore mancato, o la gelosia qual è in questo caso il motivo della pena, infligge maggiore sofferenza corporea, come l’amore appagato dà più gioia anche fisica. Un altro frammento di Saffo rappresenta lo sconvolgimento causato dall’amore come una tempesta: “Eros mi ha squassato l’anima, come vento che nel monte si abbatte sulle querce” (fr. 50 D.). “L’immagine è singolare e pertinente: l’amore scuote Saffo come il vento scuote le querce, e il dato essenziale del paragone è che l’attacco è violento e fisico: la raffica improvvisa è simile al tipo di passione a cui ella si riferisce”. Così Bowra (La lirica greca da Alcmane a Simonide, p. 264), ma lo scuotimento è anche mentale. Amore come uragano e follia si trova successivamente nel frammento (6 D.) più famoso di Ibico (seconda metà del VI secolo): “in primavera fioriscono i meli cotogni, alberi sacri ad Afrodite, irrigati dalle correnti dei fiumi dov’è il giardino intatto delle vergini, e i fiori della vite crescendo sotto i tralci ombrosi dei pampini sbocciano, ma per me Eros rimane sveglio e tormentoso. Come Borea tracio, bruciante sotto la folgore, egli avventandosi dalla parte di Cipride con aride follie, oscuro e impudente, con prepotenza e senza tregua fa la guardia al mio cuore”. “Questa visione di Eros divinità terribile per la follia che provoca nella vita umana, magico potere che impone all’uomo una condotta a lui estranea, trovava forse consonanze (non ancora rilevate dalla critica) nella cultura tardo arcaica, se Simonide poteva rappresentare la passione d’amore come assillo (oistros) di Afrodite, come divino potere ossessivo capace di limitare in chi ne è posseduto la possibilità di essere valente nei termini dell’etica aristocratica dell’ . Di qui l’avvio verso opinioni, che diverranno correnti nella cultura del IV secolo, di Eros demone distruttore da temersi per le catastrofi che suscita con le folli passioni, o dell’amore come malattia, come elemento negativo della , o come fatto dell’io irrazionale. La struttura del frammento si articola nell’antitesi tra la figurazione realistica di un giardino sacro alle ninfe, fiorente nel lieto rigoglio di primavera, e il destino del poeta custodito senza tregua da un Eros ardente e tempestoso come l’invernale vento di Tracia” (G. Perrotta-B. Gentili, Polinnia, p. 299). L’assillo potente di Afrodite tessitrice di inganni in Simonide è una delle cause (con la brama di guadagno e quella delle contese) che possono impedire all’uomo di essere valente. L’assillo che tormenta come persecuzione amorosa si trova anche in Eschilo: nel Prometeo incatenato la fanciulla Iò bramata da Zeus e trasfigurata in mucca (v. 588), viene punta, perseguitata da un tafàno (v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi (v. 569). Dostoevskij attraverso Dimitri Karamazov interpreta lo struggente desiderio amoroso come una tempesta nel sangue: “Sono tempeste, perché la lussuria è una tempesta più di ogni altra”. Tali perturbazioni sono scatenate dalla bellezza: “La bellezza è una cosa terribile, una cosa spaventosa. È terribile perché è indefinibile, e non si può definirla perché Dio l’ha circondata di enigmi” (I fratelli Karamazov, p. 160). La sofferenza amorosa può essere tanto intensa da portare all’odio per la donna e al desiderio di morire (v. vol. 1). L’uomo che riceve tormento dalla femmina a volte arriva a desiderare la non esistenza di tale strumento di perdizione e di tortura. 9 5.- Amore e contraddizione In Catullo si ritrova il motivo dell’amore come squilibrio e contraddizione insanabile, già presente nella poesia greca. Molto noto è il distico elegiaco del carme 85 di Catullo: Odi et amo . Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior 1. Odio e amo. Forse tu domandi come faccia questo. Non so, ma sento che accade e mi tormento. Nel carme 8 il poeta rivolge un’apostrofe a se stesso per trovare la forza di uscire dallo squilibrio che lo tormenta: “Miser Catulle, desinas ineptire” (v. 1). “La logica che domina la poesia d’amore di Catullo è quella della contraddizione: nel compiaciuto e insistente ricorso all’autocommiserazione, che lo spinge addirittura a trasferire il proprio ego in personaggi femminili (Arianna, Berenice)… Nell’ambito della logica della contraddizione è scontato che si debba assistere a tentativi di conciliazione degli opposti: nel c. 85 l’antitesi fra bene velle e amare si condensa nell’ossimorico odi et amo, mentre nel c. 92 a Lesbia che parla male di Catullo fa da pendant un Catullo che la copre d’improperi e tuttavia l’ama” (P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, I, p. 151). Il tema odio-amore prosegue in Ovidio il quale negli Amores2 scrive: “Odi, nec possum cupiens non esse quod odi” (II, 4, 5) odio e non posso non desiderare quello che odio. Nei Remedia amoris il poeta di Sulmona rinnega questo atteggiamento tipico di anime poco fini: “sed modo dilectam scelus est odisse puellam; / exitus ingeniis convenit iste feris. / Non curare sat est; odio qui finit amorem, / aut amat aut aegre desinet esse miser” (vv. 655-658), ma è un delitto odiare una ragazza amata fino a poco tempo prima; / una conclusione del genere si addice ad animi rozzi. / Basta non curarsene; chi vuole finire l’amore con l’odio / o ama o con fatica smetterà di essere disgraziato. Ma per Ovidio l’amore è un gioco. Sulla linea dell’amore-odio Paolo Silenziario (VI sec. d. C), in uno dei suoi circa ottanta epigrammi rimasti nell’Antologia Palatina considera l’oltraggio della donna che gli ha sbattuto la porta in faccia aggiungendo parole ingiuriose, come una forma di hybris che eccita ancora di più il suo folle amore (V, 256). Ritroviamo la compresenza di stati d’animo contraddittori nell’ondeggiare psicologico e sentimentale del Petrarca: “Pace non trovo e non ho da far guerra/ e temo e spero, et ardo e son un ghiaccio,/e volo sopra ‘l cielo e giaccio in terra/e nulla stringo e tutto ‘l mondo abbraccio... Pascomi di dolor, piangendo rido,/egualmente mi spiace morte e vita:/in questo stato son, Donna, per vui” (Canzoniere, CXXXIV). Le coppie amore-odio e amore-morte tracceranno un lungo itinerario in letteratura. il distico finale del carme 72: “Qui potis est?, inquis. Quod amantem iniuria talis / cogit amare magis, sed bene velle minus “(vv. 7-8), come può essere?, chiedi. Poiché una tale offesa costringe l’amante ad amare di più ma a voler bene di meno. E’ la conflittualità catulliana fra sesso e amore” (Traina, Di fronte ai classici, p. 263). 2 Composti tra il 18 e il 15 a C. in 5 libri, poi rielaborati e ridotti a tre, intorno all'1 a. C. Dell’1-2 a. C. sono anche i Remedia amoris. “Nota l’antitesi fra faciam e fieri: quello che accade non è un qualcosa che Catullo sia in grado di controllare, ma qualcosa che accade e che lui può solo subire, sentire nelle sue conseguenze dolorose ... L’analisi razionale non conduce al dominio dei sentimenti ma solo alla loro osservazione, all’ammissione di trovarsi in loro balia” (G. B. Conte, Scriptorium Classicum 2, p. 79). L’ossimòro condensa la contraddizione lacerante del poeta che dissocia l’amare dal bene velle: la componente sensuale da quella affettiva, come chiarisce bene 1 10 5.- Amore, fides e amicitia Nell’opus maximum di Catullo, il carme 64, di 408 esametri, ritroviamo la figura patetica della donna abbandonata. Nelle tragedie greche Deianira (nelle Trachinie di Sofocle) e Medea (nella tragedia omonima di Euripide) vengono tradite e lasciate sole dopo essere state per lo meno sposate e resa madri. Non così Arianna del poeta latino. La figlia di Minosse, piantata in asso da Teseo mentre dormiva nell’isola di Dia, al risveglio si dispera, corre come una puledra e impreca contro il perfido amante: “Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris, / perfide, deserto liquisti in litore, Theseu? / Sicine discedens neglecto numine divum / inmemor a! devota domum periuria portas?” (64, vv. 132-135): è così che tu, traditore, condottami via dal focolare paterno, mi hai abbandonata in una spiaggia deserta, Teseo, traditore? È così che tu, fuggendo dopo avere disprezzato il potere dei numi, dimentico ah! porti a casa i tuoi maledetti spergiuri? L’imprecante anafora Perfide “fa riferimento al suo essere venuto meno alle promesse basate sulla fides, un principio cardine del carme” (G. B. Conte, Scriptorium Classicum 2, p. 63). Poco più avanti la ragazza rimpiange le nozze mancate: “At non haec quondam blanda promissa dedisti / voce mihi, non haec, miserae, sperare iubebas, / sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos. / Quae cuncta aerii discerpunt irrita venti. / Nunc iam nulla viro iuranti femina credat /nulla viri speret sermones esse fideles /quis (= quibus) dum aliquid cupiens animus praegestit apisci, / nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt; / sed simul ac cupidae mentis satiata libido est, / dicta nihil metuere (= metuerunt, perf. gnomico), nihil periuria curan” ( 64, vv. 139-148) Però non queste promesse mi facesti una volta con voce suadente, non questo mi inducevi, disgraziata a sperare, ma un matrimonio felice, ma le nozze desiderate. Tutte promesse che, vane, disperdono i venti nell’aria. Ora nessuna donna creda più nell’uomo che giura, nessuna speri che siano sincere le parole degli uomini; il loro animo libidinoso, finché agogna di ottenere qualcosa non teme di fare alcun giuramento, non risparmia le promesse; ma appena è sazio il piacere del desiderio amoroso, non hanno paura delle promesse, né si curano degli spergiuri. “Sono proprio le false promesse di matrimonio che Arianna rimprovera con più veemenza all’eroe in fuga: e l’intero episodio a tratti assume l’aspetto di un exemplum mitico dell’inattendibilità dei giuramenti d’amore maschili (vv. 139-148). Arianna arriva a dire che si sarebbe accontentata della condizione servile, pur di rimanere legata a Teseo (vv. 158-163): la sua completa impotenza viene sintetizzata nell’impossibilità di fare ricorso da una parte al sostegno familiare, dall’altra a quello coniugale (vv. 180-183). Fuori da queste sfere di appartenenza, per la donna non sembra possibile trovare protezione” (M. Bettini, Letteratura latina, 2, p. 70). Teseo pagherà il fio della sua perfidia. Arianna abbandonata glielo augura e lo prevede: “sed quali solam Theseus me mente reliquit, / tali mente, deae, funestet seque suosque” (vv. 200-201), con quale animo Teseo mi lasciò sola, con tale, o dee, getti nel lutto se stesso e i suoi. In effetti Giove ascolta la preghiera e la nemesi si compie: “annuit invicto caelestum numine rector” (v. 204), il re degli dèi annuì con il suo assenso invincibile. “La fides violata incorre qui nella punizione divina: Arianna, credendosi ormai destinata alla morte, aveva invocato su Teseo la maledizione degli dèi, e la sua preghiera non era rimasta inascoltata. Teseo è immemor tanto delle promesse ad Arianna (il matrimonio) quanto di quelle al padre (issare le vele bianche) e questo suo carattere costante è quello che lo porta tanto a tradire la donna che lo ama quanto a provocare la morte del proprio padre” (Conte, Scriptorium classicum 2, p. 89). 13 In questo poemetto la vicenda di Arianna tradita la descrizione, in oltre 200 versi, della storia ricamata sulla coperta del letto nuziale, inserita nelle nozze di Peleo e Teti, e il tradimento di Teseo è contrapposto all’amor, al foedus, alla concordia degli sposi con motivi tipici dell’epitalamio: “nullus amor tali coniunxit foedere amantes, / qualis adest Thetidi, qualis concordia Peleo” (vv. 355-356), nessun amore ha unito gli amanti con un patto tale quale la concordia che c’è tra Peleo e Teti. Per il poeta di Sirmione la lealtà reciproca è un valore di base in ogni relazione umana, soprattutto in un grande amore, e la sua sofferenza deriva proprio dal mancato rispetto di tale patto sacro da parte della donna che fu, afferma, “amata nobis quantum amabitur nulla” (8, 5), amata da me quanto non sarà amata nessuna. Catullo attribuisce la malafede anche alle femmine umane, e forse Teseo che abbandona Arianna ai suoi occhi rappresenta il vendicatore delle infedeltà da lui stesso subite dalla propria donna: “Nulli se dicit mulier mea nubere malle / quam mihi, non si se Iupiter ipse petat. / Dicit; sed mulier cupido quod dicit amanti / in vento et rapida scribere oportet aqua” (70 ), la mia donna dice di non volere unirsi ad altri piuttosto che a me, neppure se Giove la corteggiasse. Dice così, ma quello che la donna dice all’amante smanioso, bisogna scriverlo nel vento e nell’acqua che le porta via. “Dicebas quondam solum te nosse Catullum, / Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem. / Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam, / sed pater ut gnatos diligit et generos” (72, 1-4), una volta dicevi di conoscere profondamente solo Catullo, Lesbia, e di non voler possedere Giove piuttosto che me. Allora ti ho amata non solo come il volgo un’amica, ma come il padre ama i figli e il suocero i generi. È interessante nosse del v. 1 poiché ci suggerisce che amare una persona costituisce la più reale e profonda delle conoscenze. Ipsipile, regina di Lemno, un’altra vittima di Giasone, cui rimprovera l’infedeltà, usa il verbo cognosco nello stesso senso: “Non ego sum furto tibi cognita; pronuba Iuno” (Her. 6, 45) non hai avuto con me rapporti sessuali di nascosto; fu pronuba Giunone. Insomma conoscere è amare e chi non ama non ha vere conoscenze. Dell’amore “è scritto che chi ne fosse privo, anche se sapesse parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli, altro non sarebbe che un rame risonante e un tintinnante cembalo” (Th. Mann, Tonio Kröger, p. 285; l’autore cita la prima lettera ai Corinzi di Paolo, 13, 1). La stessa idea si trova nel conoscere biblico: “Conoscere significa penetrare sotto la superficie, allo scopo di giungere alle radici, e pertanto alle cause; significa “vedere” la realtà senza paludamenti… non significa essere in possesso della verità, bensì andare sotto lo strato esterno e tentare, criticamente e attivamente, di avvicinarsi sempre più alla verità. Questo modo di penetrazione creativa trova espressione nell’ebraico jadoa, che significa conoscere e amare nel senso della penetrazione sessuale maschile” (E. Fromm, Avere o essere?, p. 63). Sembra che questo jadoa corrisponda al nostro nosse . D’Annunzio stabilisce tra la conoscenza e il piacere un nesso ancora più forte: la vita “ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c’insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito” (Il fuoco, del 1900, p. 95). La perfidia amorosa allora è anche un tradimento intellettuale e conoscitivo. 14 Sull’amore e la fides leggiamo i due distici del carme 87: “Nulla potest mulier tantum se dicere amatam / vere, quantum a me Lesbia amata mea est. / Nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta, / quanta in amore tuo ex parte reperta mea est”, nessuna donna può dire di essere stata amata tanto sinceramente quanto la mia Lesbia è stata amata da me. Nessuna lealtà in alcun patto fu mai tanto grande quanto nell’amore per te è stata trovata da parte mia. A proposito del v. 3 Conte nota che “Foedus e fides sono legati etimologicamente: foedus è “l’accordo”, il trattato stipulato secondo le sacre regole della fides” (Scriptorium classicum 2, p. 81). Fides insomma è il rispetto del foedus. Nel carme 109 Catullo, ricorda a Lesbia la promessa fatta da lei di un amore non solo felice (iucundus) ma anche eterno (perpetuus), e nel pentametro conclusivo (v. 6) utilizza la parola amicitia che “aveva per i Romani un significato più specifico che per noi, e indicava l’esistenza fra due persone di un legame di alleanza politica, basato sulla lealtà (fides ), che comportava sincerità e aiuto reciproci. Trasportati all’interno di una relazione sentimentale, questi principi ne fanno ben altro che un’avventura irregolare.” (G. B. Conte, Scriptorium classicum 2, P. 89). Il poeta chiede agli dei “ut liceat nobis tota perducere vita / aeternum hoc sanctae foedus amicitiae” (vv. 5-6), che sia concesso a lui e a Lesbia di portare avanti per tutta la vita questo patto eterno di amicizia santa. Essa è tale quando è disinteressata, ossia non basata sulla considerazione dell’utile. Altrimenti è negotiatio, commercio2. ne? Fidem iurata fefellit, / et facies illi quae fuit ante manet... Longa decensque fuit: longa decensque manet. / Argutos habuit: radiant ut sidus ocelli, /per quos mentita est perfida saepe mihi. / Scilicet aeterni falsum iurare puellis / di quoque concedunt, formaque numen habet” (Amores, III, 3, 1-2 e 8-12), devo credere che ci sono gli dèi? Ha tradito la parola data, / eppure le rimane l’aspetto che aveva prima... Era alta e ben fatta; alta e ben fatta rimane. / Aveva gli occhi espressivi: brillano come stelle gli occhi, / con i quali spesso la perfida mi ha ingannato. / Certo anche gli dèi eterni permettono alle ragazze / di giurare il falso, e la bellezza ha una potenza divina. Ovidio conclude dicendo che dio è un nome senza sostanza, oppure, se esiste, ama le belle fanciulle e certamente ordina che solo loro abbiano tutto il potere: “si quis deus est, teneras amat ille puellas: / nimirum solas omnia posse iubet” (Amores, III, 3, 25-26). 2 Ovidio invece consiglierà di usare l’amicitia come il cavallo di Troia adatto a inoculare l’amore: “Nec semper Veneris spes est profitenda roganti; / intret amicitiae nomine tectus amor. / Hoc aditu vidi tetricae data verba puellae; / qui fuerat cultor, factus amator erat” (Ars Amatoria, I, 717-720), non sempre la speranza d’amore deve essere dichiarata da chi chiede; l’amore entri coperto dal nome di amicizia. Con questo tipo di ingresso ho visto raggirare una ragazza rigida; quello che era stato l’amico era diventato l’amante. 1 L’Arianna dei Fasti (un calendario in distici composto fra il 3 e l’8 d. C. quando fu interrotto, dall’esilio, al sesto dei dodici libri che dovevano essere; dovevano illustrare gli antichi miti e costumi latini) toglie fiducia a tutti gli uomini: “dicebam, memini, “periure et perfide Theseu”: / ille abiit; eadem crimina Bacchus habet: / nunc quoque “nullo viro” clamabo “femina credat” (Fasti, III, 475-477, dicevo, ricordo, “Teseo spergiuro e traditore”: / quello è andato via; Bacco commette lo stesso delitto: / anche ora esclamerò: “nessuna donna si fidi più di un uomo”. Del resto l’Arianna del carme di Catullo, come Medea, ha tradito il padre e ha fatto morire il fratellastro, il Minotauro, per favorire l’uomo del quale era innamorata: “Eripui, et potius germanum amittere crevi, / quam tibi fallaci supremo in tempore deessem” (vv. 150151), ti salvai e decisi di perdere il fratello piuttosto che non esserti vicina, traditore, nel pericolo estremo. Ovidio riprende questo motivo, sia per quanto concerne Arianna tradita e la scarsa tenuta della parola dei maschi, sia per la non credibilità della femmina umana che è una creatura varia e sempre mutevole,”varium et mutabile semper /femina”, come aveva già detto Virgilio (Eneide, IV, 569-570). Per quanto riguarda l’instabilità e l’inaffidabilità delle giovani donne, il poeta di Sulmona negli Amores è più comprensivo: il tradimento infatti non sciupa la bellezza e perfino gli dèi lo concedono: “Esse deos credam- 15 Amore e fides Secondo E. Benveniste: “Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo ha quest’uomo in suo potere. Ecco perché fides diventa quasi sinonimo di potestas e di dicio. Nella loro forma primitiva, queste relazioni comportano una certa reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno procurava la sua garanzia e il suo appoggio. Ma proprio questo fatto sottolinea l’ineguaglianza delle condizioni”. A maggior ragione direi quando la fides è intrecciata con l’amore e chi la propone ama di più e chi ama meno ha il sopravvento”. È dunque un’autorità che si esercita contemporaneamente a una protezione su colui che vi si sottomette, in cambio e nella misura della sottomissione. Questa relazione implica potere di obbligare da una parte, obbedienza dall’altra. Lo si vede nella significazione precisa, molto forte, della parola lat. foedus (da *bhoides) stabilito all’origine tra contraenti di diseguale potenza” (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, p. 88). Cicerone nel De Officiis dà una definizione della fides: “Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas” (I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti. Subito dopo l’autore, imitando gli Stoici, etimologizza fides con fiat quod dictum est, deve essere fatto ciò che si è detto. Similmente in De republica IV, 7: “Fides enim nomen ipsum mihi videtur habere, cum fit, quod dicitur”, la fedeltà mi sembra avere il suo stesso nome quando si fa ciò che si dice. Nel De amicitia (del 44 a. C.) la fides è indicata come fondamento di quella stabilità e costanza che cerchiamo appunto nell’amicizia: “Firmamentum autem stabilitatis constantiaeque est eius, quam in amicitia quaerimus, fides” (65). “La fides significa l’abbandono, al tempo stesso fiducioso e completo, di una persona ad un’altra. Esso interviene (…) come salvaguardia dal vincolo sociale e in tutti i rapporti che collegano l’individuo ai suoi simili, sia che si tratti del matrimonio, dei vincoli tra il cliente e il suo patrono, oppure di una tutela, o dei contratti che itituiscono una società o stipulano le vendite. Fides significa dunque tributare a ciascuno ciò che gli è dovuto, nel rispetto degli accordi stabiliti. La fides si instaura quindi solo allorché lo ius di ciascuno è riconosciuto e garantito dagli altri; essa è la condizione stessa di ogni vita sociale. Non ci si stupirà perciò che Cicerone possa dichiarare: - il fondamento di ogni giustizia è la fides vale a dire la fedeltà agli impegni presi e la sincerità nelle parole” (M. Meslin, L’uomo romano. Uno studio di antropologia, p. 216). La fides è un valore forte non solo nei rapporti personali ma anche in quelli tra partiti e stati. Le Storie di Livio sono piene di esempi di fides ricompensata; la fine della fides sarà motivo di rimpianto in Tacito. La Sempronia del Bellum Catilinae di Sallustio è una donna la cui perfidia, non meno della lussuria, è consona al suo ruolo di congiurata: “ea saepe antehac fidem prodiderat” (25), ella spesso già prima aveva tradito la fede. Osserva al proposito P. Fedeli: “Il foedus amoris si basa sul rispetto della fides che non solo è uno degli elementi tradizionali della morale romana, ma è anche uno dei fondamenti del diritto. Si tratta di motivo tipicamente repubblicano, che tuttavia sopravvive, con aspetti e formule di tipo diverso, anche nel periodo imperiale (dalla fides praetorianorum alla fides militum alla fides legionum). Riferendosi a un contratto fra due persone in seguito ad un foedus, la fides è nozione giuridica oltreché morale. In amore essa implica non solo un accordo di tipo erotico, ma anche la ricerca di un’unione morale che talora supera le barriere sociali (…) Se Properzio riprende il motivo da Catullo” e anzi lo esaspera “ben diverso sarà l’atteggiamento di Ovidio, desultor amoris sin dai giovanili Amores e, poi, precettore di principi lontani dalla fides nell’Ars amatoria” (Lo spazio letterario di Roma antica, I, p. 166, 167, 168). Infatti Quintiliano lo defisce “utroque lascivior” (Institutio oratoria, X, 1, 93), più lascivo dell’uno e dell’altro, ossia di Tibullo e Properzio. 16 Sulla fides di Properzio offre altre considerazioni interessanti, sempre P. Fedeli: “Si tratta di un patto che non si fonda solamente sulla passione erotica, ma include slanci di tenerezza, tentativi di raggiungere un livello di comprensione reciproca, momenti di sincero attaccamento. Per di più la fides fa dell’amore un rapporto che neppure la morte può modificare: come Properzio si sforza di sottolineare in più d’una occasione, quello fra i due amanti è un legame che va al di là dell’umana esistenza. In I, 19 egli s’immagina che, quando nell’oltretomba incontrerà le più famose eroine del mito, nessuna avrà lo stesso fascino di Cinzia” (Properzio, Elegie, Introduzione di Paolo Fedeli, p. 19). Anche là lo spirito del poeta sarà per sempre della donna amata in vita: “traicit et fati litora magnus amor” (I, 19, 13), un grande amore varca anche le rive del fato. “Nella toccante conclusione del discorso pronunciato dall’ombra di Cinzia nella 4, 7 – seguita il Fedeli – la rappresentazione dell’amore che continuerà nel mondo degli inferi si colora addirittura di accenti erotici, nell’immagine delle ossa del poeta che si strofinano e si confondono con quelle della sua amata” (p. 19). Sentiamo le parole dell’umbra di Cinzia a Properzio: “nunc te possideant aliae: mox sola tenebo: / mecum eris et mixtis ossibus ossa teram” (IV, 7, 93-94), ora ti possiedano altre: presto ti avrò io sola: sarai con me e sfregherò le ossa con le ossa mescolate. L’amante morta finalmente aderisce al Cynthia prima fuit, Cyntia finis erit auspicato nel I libro ( 12, 20). “La fedeltà ad un’unica donna accomuna Properzio alla generazione più recente degli Alessandrini: Meleagro (autore di epigrammi, vissuto tra il 130 e il 60 a. C.), infatti, aveva proclamato la serietà dell’impegno erotico, opponendosi a quanti, come Callimaco, avevano visto nell’amore un semplice lusus senza obblighi di fedeltà. Ma Properzio va ben oltre, e lo si capisce sin dalla prima elegia: egli intende addirittura servire l’amata e la sua è una condizione di schiavitù (…) Questo atteggiamento costituiva una totale inversione di alcuni valori fondamentali della morale romana, in cui la dedizione e il servitium erano obblighi della donna nei confronti dell’uomo: accettare il servitium significa, oltre che nullo vivere consilio [I, 1, 6, vivere senza alcun proposito sano, secondo la docenza di Amor improbus che gli insegnò perfino a odiare le ragazze caste: “donec me docuit castas odisse puellas, v. 5], seguire la nequitia e rinunciare al tempo stesso ai vantaggi della vita socialmente impegnata; il poeta sa bene che questo atteggiamento farà di lui un oggetto di biasimo in tutta la città (2, 24, 5 sgg.): ma l’amore è furor che divora e contro una simile malattia non esistono rimedi (P. Fedeli, Introduzione a Properzio, Elegie, pp. 19-20). Altrettanto eterno sarà l’amore di Laura in una fantasia poetica del Petrarca (CCCII) che si eleva con il pensiero nel cielo di Venere dove rivide la donna “più bella e meno altera”. Quivi la splendidissima fece un gesto affettuoso e prese a parlare: “Per man mi prese e disse: “In questa spera / sarai ancor meco, se il desir non erra: / i’ so’ colei che ti diè tanta guerra / e compie’ mia giornata inanzi sera. // Mio ben non cape in intelletto umano: / te solo aspetto, e quel che tanto amasti / e là giuso è rimaso, il mio bel velo” (vv. 5-11). Nella letteratura contemporanea G. G. Marquez racconta la storia di un uomo che per cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni aspetta la donna di cui si era innamorato da ragazzo, Fermina Daza, quando lei era la più bella ragazza del Caribe e aveva “un’andatura da cerva”. Al funerale del marito, il dottor Urbino che l’aveva sposata per amore, riamato, Florentino Aziza, l’innamorato a vita, le disse: “Fermina, ho atteso questa occasione per più di mezzo secolo, per ripeterti ancora una volta il giuramento della mia fedeltà eterna e del mio amore per sempre” (Gabriel Garcia Marquez, L’amore ai tempi del colera, p. 58). 17 Lusso 1.- Nudus amor Ovidio (43 a. C. - 18 d. C.) manifesta una sensibilità nuova. Il poeta “donnaiolo” nel poemetto sui cosmetici per le donne li legittima poiché “culta placent “(v. 7 dei Medicamina faciei femineae, uscito intorno all’1 d. C.), e nell’Ars Amatoria (dello stesso periodo) afferma che è proprio l’eleganza a fargli preferire l’età moderna all’antica, presunta aurea: “prisca iuvent alios, ego me nunc denique natum / gratulor: haec aetas moribus apta meis” (III, 121-122), i tempi antichi piacciano ad altri, io mi rallegro di essere nato ora dopo tutto: questa è l’età adatta ai miei gusti, non perché, continua il Sulmonese, terre mari e monti sono stati domati dall’uomo, “sed quia cultus adest nec nostros mansit in annos / rusticitas priscis illa superstes avis” 127-128), ma perché c’è eleganza e non è rimasta fino ai nostri anni quella rozzezza sopravvissuta agli avi antichi. Mazzarino, menzionando gli autori favorevoli alla tecnica, indica Ovidio, “un poeta, non uno storico”, come colui nel quale si trova “una reazione al diffuso concetto di decadenza, ed una esaltazione del progresso tecnico, evidente, secondo lui, nell’attività industriale e commerciale sopravvenuta nel suo tempo (l’età di Augusto) (...) In fondo, si può dire che per l’uomo antico l’idea del progresso tecnico vive accanto a quella di decadenza; e talora è soffocata da questa, e talora, invece, emerge e predomina, senza che questo “dualismo” implichi contraddizioni di notevole importanza” (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, p. 16). A. La Penna, del quale seguirò diverse indicazioni contenute in un saggio del 1978, rileva la differenza tra la scelta di Ovidio e quelle di Properzio, Tibullo e anche di Orazio. “Properzio, il raffinato callimacheo, resta abbastanza fedele a un ideale femminile che sarebbe semplicistico definire arcaizzante, ma che del modello arcaico conserva un aspetto essenziale, il rifiuto del cultus. La bellezza perfetta è quella più vicina alla natura. Non è tra le sue elegie più felici, ma è tra le sue più celebri, quella (I 2) che sviluppa il concetto riassunto nel verso sentenzioso (8): “nudus Amor formae non amat artificem” (A. La Penna. Fra teatro, poesia e politica romana, p. 183), Amore nudo non ama la bellezza artefatta. Quindi La Penna cita i primi sei versi di questa elegia (I, 2) collocata “subito dopo quella che a modo suo fa da proemio (...) Quid iuvat ornato procedere, vita, capillo / et tenues Coa veste movere sinus, / aut quid Orontea crines perfundere murra, / teque peregrinis vendere muneribus, / naturaeque decus mercato perdere cultu, / nec sinere in propriis membra nitere bonis?”, a che giova, vita mia, venire con i capelli adorni, e muovere flessuosità delicate in drappo di Coo, o cospargere i capelli di mirra dell’Oronte, e venderti a doni stranieri, e sciupare lo splendore della natura con il lusso comprato, e non lasciare che le membra brillino della propria bellezza? Properzio insomma ama Cinzia al naturale: “Crede mihi, non ulla tuae est medicina figurae” (v. 7), credimi, non c’è bisogno di correzione per la tua bellezza. “Il cultus femminile – continua La Penna – rientra in quell’allargamento dei consumi che richiede e favorisce importazioni dannose dalle provincie e dall’estero, specialmente dall’area orientale: “peregrina munera, mercatus cultus”. La polemica contro gli ornamenti e il trucco è un vecchio tovpo~ della letteratura erotica antica, ma la vitalità che gli ridà Properzio si scorge 80 anche dal legame con l’antica e sempre attuale polemica romana contro il lusso, che spesso fa tutt’uno con la polemica contro le influenze greche e orientali” (p. 183). Tuttavia “il fascino di Cinzia dipende molto proprio dalla sua modernità, dall’eleganza del portamento, dalla grazia nella danza, dalla cultura letteraria e musicale, tutte cose che possono anche conciliarsi con la mancanza di trucco, ma che ci portano lontano dalla natura e stanno meglio con la raffinatezza del cultus (...) Del resto il modello femminile romano agrario-arcaico ha ben poco fascino su Properzio prima delle elegie romane” [quelle del IV libro, del 16 a. C., che contiene episodi della storia romana arcaica] (ivi). Nell’elegia dove vuole dimostrare che “nudus Amor formae non amat artificem” egli cerca esempi probanti dapprima nella bellezza spontanea della natura (I 2. 9-14), poi nella mitologia greca (15-24): non cerca esempi nella Roma arcaica o nella Sabina. Anche i modelli di fides e pudor li cerca nella letteratura e nella mitologia greca. In questo resta fedele a Catullo: quando Catullo, nella chiusa del carme 64, storna con orrore gli occhi dalla società romana contemporanea con i suoi odi feroci e la distruzione di ogni valore morale, non li rivolge, come faranno Sallustio o Livio, verso la società romana arcaica, ma verso il mito greco, verso il tempo in cui gli dèi frequentavano gli uomini ricchi di pietas” (p. 184). Tibullo invece è “più attaccato al modello femminile arcaico”. E’ esemplare di tale propensione “il famoso quadro di vita domestica che egli sogna mentre giace malato a Corcira e che fa da chiusa all’elegia I 3 (83 sgg.): Delia, rimasta fedele al poeta lontano, ha accanto a sé la vecchia madre, “sancti pudoris custos” (custode del sacro pudore); al lume della lucerna la madre fila e racconta favole; una giovane schiava fila anche lei” (p. 185). In effetti questo del poeta nato nel Lazio rurale sembra il quadro presentato da Tito Livio per illustrare la virtù di Lucrezia: i giovani parenti del re Tarquinio la trovarono: “nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem” (I, 57, 9), a notte inoltrata, intenta alla lana, tra le ancelle che lavoravano a lume di candela, seduta in mezzo alla casa. Il desiderio di Tibullo insomma sarebbe che Delia fosse come questa sposa esemplare. Però “da altre elegie del I libro sappiamo che la cortigiana Delia si adatta poco al modello; da altre del II libro sappiamo che ancora meno vi si adatta la volubile Nemesi” (p. 185). Tibullo dunque si trova a disagio nella metropoli, eppure “una parte notevole della sua poesia è radicata nella vita galante di Roma”. Nell’elegia programmatica di Tibullo (I, 1)troviamo il rimpianto del “modello etico arcaico, caratterizzato dalla pietas, dalla industria, dalla limitazione dei consumi” (La Penna, op. cit., p. 189)1 : “Divitias alius fulvo sibi congerat auro / et teneat culti iugera multa soli, / quem labor adsiduus vicino terreat hoste, / Martia cui somnos classica pulsa fugent:1 / me mea paupertas vita tradu[I, 3, 33-34. A me tocchi di celebrare i Penati patrii e di offrire incensi mensili all’antico Lare] così invoca con serietà non simulata. Qualcosa di liturgico, nella ripetizione di una formula consacrata, come parte del rito sacrificale per il compleanno, si può rintracciare in una delle sue elegie. Il focolare, da una scintilla del quale, secondo una versione dell’antica leggenda, sarebbe miracolosamente nato il bimbo Romolo, era ancora propriamente un altare” (W. Pater, Mario l’epicureo, pp. 1-2). 1 Walter Pater nel primo capitolo (intitolato La religione di Numa) del suo Mario l’epicureo (del 1885) mette in rilievo la sussistenza, nel poeta di Delia e Nemesi, della “primitiva e più semplice religione patriarcale, la religione di Numa… Tracce di tale sopravvivenza si possono cogliere, al di là degli atteggiamenti meramente artificiosi della poesia pastorale latina, in Tibullo, che ci ha conservato molti particolari poetici delle antiche consuetudini religiose di Roma: “At mihi contingat patrios celebrare Penates / reddereque antiquo menstrua thura Lari” 81 cat inerti, / dum meus adsiduo luceat igne focus. / Ipse seram teneras maturo tempore vites / rusticus et facili grandia poma manu;/nec spes destituat, sed frugum semper acervos/praebeat et pleno pinguia musta lacu” (vv. 1-10), altri ammassi per sé ricchezza d’oro giallo e possieda molti iugeri di terra coltivata, ma lo spaventi un’ansia continua per l’avvicinarsi del nemico, e la tromba di Marte fatta suonare gli cacci il sonno: me il possesso di poco faccia passare una vita tranquilla, purché il mio focolare brilli di un fuoco sempre acceso! Io stesso pianterò tenere viti nella stagione opportuna da contadino e grandi alberi da frutto con mano esperta; e la speranza non mi deluda ma mi offra sempre mucchi di grano e mosto denso nel tino ricolmo.Qui come si vede essere rusticus (v. 8) non è un difetto; non è nemmeno un ostacolo all’amore poiché più avanti “il poeta contadino si trasforma in poeta innamorato (il passaggio avviene mediante l’immagine dell’abbraccio notturno con la sua donna al riparo dall’ostile mondo esterno, vv. 45-48). E, al v. 57, compare Delia. A lei il poeta consacra la propria esistenza, lasciando ad altri, in primo luogo al patrono Messalla, la gloria della guerra” (G. B. Conte-E. Pianezzola, Il libro della letteratura latina, Edizione Modulare, 8, p. 459). Vediamo i versi dell’abbraccio nel luogo rustico e protetto: “Quam iuvat immites ventos audire cubantem et dominam tenero continuisse sinu. / aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster, / securum somnos igne iuvante sequi” (I, 45-48), quanto mi piace udire dal letto i venti furibondi e stringere la signora dal morbido seno, oppure, quando l’Austro tempestoso versa gelide piogge abbandonarsi senza preoccupazioni ai sonni favoriti dal fuoco. Ecco una rusticari gradevole. Quindi La Penna passa a Orazio “che, specialmente in amore, è poco sedotto da modelli arcaici. Pirra è simplex, ma simplex munditiis” (Odi I, 5, 5), semplice nell’eleganza. Si tratta di un’eleganza semplice eppure ricercata o per lo meno voluta. L’aggettivo simplex qualifica la bellezza essenziale anche nell’Ode I 38 dove Orazio dichiara il suo odio per lo sfarzo dei Persiani: “Persicos odi, puer, adparatus... .Simplici myrto nihil adlabores / sedulus curo” (vv. 1 e 5-6), non voglio che tu ti affatichi con zelo ad aggiungere alcunché al semplice mirto. L’eleganza semplice è prescritta da Isocrate nello scritto parenetico (di autenticità non certa, del 380 a. C. ca) A Demonico: cerca di essere nel tuo abbigliamento elegante ma non ricercato (27). Sentiamo Conte: “Simplex munditiis è un ossimoro, perché i due termini hanno associazioni di significato opposte, la semplicità e la ricercatezza (munditia ) (...) Come ha detto bene Romano, “il concetto classico di semplicità nell’eleganza è scolpito in questo ossimoro che potrebbe essere assunto come motto del programma stilistico di Orazio” (G. B. Conte, Scriptorium Classicum 3, p. 22). rizzato dall’insonnia. -dum…luceat: proposizione condizionale con sfumatura restrittiva.- 1 somnos…fugent: la mancanza di sonno può essere causata dalla guerra o dall’ambizione. Il tiranno è caratte- 82 2.- Prudens simplicitas Del resto, anche Cicerone consigliava una semplicità elegante al suo gentiluomo quando pone le basi del galateo nel De Officiis (del 44 a. C.): “quae sunt recta et simplicia laudantur. Formae autem dignitas coloris bonitate tuenda est, color exercitationibus corporis. Adhibenda praeterea munditia est non odiosa nec exquisita nimis, tantum quae fugiat agrestem et inhumanam neglegentiam. Eadem ratio est habenda vestitus, in quo, sicut in plerisque rebus, mediocritas optima est” (De Officiis, I, 130), viene lodata la naturalezza e la semplicità. Ora la dignità dell’aspetto deve essere conservata mediante il bel colore dell’incarnato, il colore con gli esercizi fisici. Inoltre deve essere impiegata un’eleganza non fastidiosa né troppo ricercata, basta che eviti la trascuratezza contadinesca e incivile. La semplicità insomma non è rozza, sprovveduta e inopportuna ma voluta e conquistata. Lo stesso criterio deve essere adottato nel vestire, dove, come nella maggior parte delle cose la via di mezzo è la migliore. Per quanto riguarda la conversazione, il De officiis consiglia: “maximeque curandum est, ut eos, quibuscum sermonem conferemus, et vereri et diligere videamur... Deforme etiam est de se ipsum praedicare, falsa praesertim, et cum inrisione audentium imitari militem gloriosum” (I, 136, 137), e soprattutto bisogna stare attenti a mostrarsi rispettosi e affettuosi con quelli con i quali parleremo... indecoroso è anche dire bene di se stesso, soprattutto falsamente, e imitare il soldato millantatore in mezzo allo scherno di quanti ci odono. La medesima mediocritas è consigliata da Seneca, che biasima la moda seguita soprattutto da cinici e stoici e suggerisce a Lucilio di evitarla: “asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur evita” (Epist., 5, 1), evita una mancanza di cura ferina e la testa incolta e la barba troppo trascurata e l’odio dichiarato all’argenteria e il giaciglio posto a terra e tutto il restante apparato che segue l’ambizione per una via distorta. Per Seneca è auspicabile la via di mezzo: “non splendeat toga, ne sordeat quidem” (5, 3), non brilli la toga, ma neppure sia sudicia. Gli atteggiamenti estremi possono riuscire “ridicula et odiosa” (5, 4). Il proposito del filosofo stoico è vivere secondo natura: “Nempe propositum nostrum est secundum naturam vivere: hoc contra naturam est, torquere corpus suum et faciles odisse munditias et squalorem adpetere et cibis non tantum vilibus uti sed taetris et horridis. Quemadmodum desiderare delicatas res luxuriae est, ita usitatas et non magno parabiles fugere dementiae. Frugalitatem exigit philosophia, non poenam; potest autem esse non incompta frugalitas” (5, 4-5), evidentemente il nostro progetto è vivere secondo natura: è contro natura questo tormentare il proprio corpo e odiare l’eleganza a portata di mano, e cercare lo squallore e fare uso di cibi non solo a buon mercato ma disgustosi e ripugnanti. Come è segno di dissolutezza desiderare le raffinatezze, così è segno di pazzia evitare i beni comuni e procurabili a prezzo non grande. La filosofia reclama la misura non la tortura; del resto la misura può essere non disadorna. In ogni modo, se è stupido chi valuta un cavallo dalla sella e dalle briglie, è stupidissimo chi giudica l’uomo dall’abbigliamento o dalla condizione sociale che ci sta attorno come un abito: “stultissimus est qui hominem aut ex veste aut ex condicione, quae vestis modo nobis circumdata est, aestimat” (47, 16). La semplicità non rozza e sprovveduta viene definita prudens simplicitas, semplicità accorta, da Marziale (X, 47, v. 7) il quale la considera uno dei mezzi che abbelliscono la vita (vitam quae faciant beatiorem, v. 1). Secondo La Penna: “Il quadro più fascinoso del modello femminile “moderno” è stato dipinto proprio da Orazio: è il quadro della bellezza elegante della moglie di Mecenate” (p. 185). L’autore allude all’Ode II 12 dove la giovane e splendidissima Licimnia è ricordata mentre danza e gareggia di spirito senza dedecus e senza che il suo fidum pectus (v. 16), il cuore fedele, vacilli. 83 Non che Orazio non avverta i pericoli della “modernità”. Egli nelle odi civili “alle seduzioni della matura virgo, presto moglie adultera, contrappone la severa madre sabina che fa lavorare duramente i suoi figli (Carm. III 6. 17-44); non dico che si tratta di preoccupazioni fittizie: la società, per evitare la rovina, doveva arrestare la corruzione; Orazio, però, si trovava a suo agio in un altro mondo, dove per salvarsi non c’era bisogno di tornare al rigore arcaico” (La Penna, op. cit., p. 185). Giorgio Pasquali sostiene che “ai tempi di Augusto matrimoni d’amore dovevano avvenire, se proprio una lex Iulia, citata dal giureconsulto Marciano (Dig. 23, 2, 19) proteggeva i figli e le figlie contro l’arbitrio del padre che non volesse senza giusta ragione consentire a un matrimonio da essi desiderato. La relazione tra Mecenate e Terenzia sono descritte da Orazio stesso non diverse dalla vita comune di due amanti. Il poeta conferma a Mecenate che la Musa volle che egli dicesse il canto di lei, i suoi occhi fulgidi, il petto fido agli amori mutui: II 12, 13 me dulcis dominae Musa Licymniae / cantus, me voluit dicere lucidum / fulgentis oculos et bene mutuis / fidum pectus amoribus” (G. Pasquali, Orazio lirico, p. 488). E’ la quarta delle sette strofe asclepiadee prime che formano l’ode. Le tre precedenti contengono la recusatio, il rifiuto dell’epos storico e della poesia di argomento mitologico, generi per i quali l’autore non è portato. Vediamo la traduzione di questi versi con i quali il poeta entra in medias res : a me la Musa ha imposto dolci canti per Licimnia signora, che io dica degli occhi splendidamente brillanti e del cuore santamente fedele al reciproco amore.- dulcis = dulces.- fulgentis (= fulgentes) oculos: si ricordi la scheda sugli occhi. Licimnia è Terenzia, la moglie di Mecenate. Sentiamo ancora Pasquali: “Di lei il poeta vanta non solo la prontezza di spirito nel conversare, ma la grazia che, fanciulla, aveva dimostrato nel danzare, sia pure non motus ionicos ma balli più adatti a una ragazza di buona famiglia, la quale danzando pensi solo a compiere un dovere religioso: quam nec ferre pedem dedecuit choris / nec certare ioco nec dare brachia / ludentem nitidis virginibus sacro / Dianae celebris die” (vv. 17-20), per lei non fu sconveniente muovere il passo alle danze né gareggiare con lo spirito né porgere le braccia mentre giocava alle vergini eleganti nel giorno sacro a Diana assai festeggiata. “Avrebbe cent’anni prima un poeta romano osato lodare abilità di tal genere in una donna?, in una fanciulla?” (G. Pasquali, Orazio lirico, p. 488). Su Mecenate e la sua irreprensibile moglie tutt’altra testimonianza dà Seneca, quando il potente patrono della cultura era morto da diversi decenni: “Feliciorem [rispetto a Regolo indicato come documentum fidei, documentum patientiae, modello di lealtà e resistenza, De providentia, III, 9, composto negli ultimi anni di vita del filosofo] ergo tu Maecenatem putas, cui, amoribus anxio et morosae uxoris cotidiana repudia deflenti, somnus per symphoniarum cantum ex longiquo lene resonantium quaeritur?” (De providentia, III, 10), consideri dunque più fortunato Mecenate, che, agitato da passione amorosa e addolorato per il quotidiano rifiuto di una moglie capricciosa, cerca il sonno per mezzo di canti accompagnati da strumenti musicali che suonano dolcemente da lontano? Le mode e i costumi cambiano rapidamente, quem ad modum temporum vices, quasi come le stagioni: la danza e lo spirito praticati dalla Sempronia di Sallustio, nemmeno cinquant’anni prima, erano considerati “instrumenta luxuriae : “litteris Graecis, Latinis docta, psallere saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt” (Bellum Catilinae, 25), sapeva di greco e di latino, suonare, danzare più elegantemente di quanto si convenga a una donna per bene, e molte altre arti che sono strumenti di lussuria. Del resto gli stessi strumenti possono essere usati con fini diversi, perfino opposti: Sempronia aveva tradito la fede (fidem prodiderat) un valore, si è visto, che appartiene all’ambito erotico, giuridico e morale. Vedremo che non dissimile da questa donna “malamente” evoluta è la Poppea di Tacito. “Orazio osa di più, esalta le arti che essa sa adoperare per aguzzare e per irritare l’amore o diciamo pure la sensualità del marito: flagrantia detorquet ad oscula cervicem, aut facili saevitia negat, quae poscente magis gaudeat eripi, interdum rapere occupet (vv. 25-28), volge il collo ai baci ardenti, o con affabile crudeltà nega quelle carezze che gode di lasciarsi strappare più di chi le chiede e talvolta è la prima a strappare? “Le parole ultime ricordano il pignus dereptum lacertis aut digito male pertinaci (Ode I, 9, 23-24, il pegno strappato alle braccia o al dito che resiste appena), salvo che il poeta parla forse qui con più franchezza della moglie dell’amico e protettore che non facesse colà della puella indeterminata. L’avrebbe fatto se il matrimonio di Mecenate non fosse stato un matrimonio d’amore? L’abisso che in civiltà primitive si apre tra l’amore e il matrimonio, era colmato, si vede bene di qui, nell’età augustea” (G. Pasquali, Orazio lirico, p. 489). 84 3.- Ovidio: cultus e amor Veniamo a Ovidio. In questo poeta la tragedia amorosa diventa lusus, e il dio doloroso, o piuttosto il demone del dolore (Apollonio Rodio, Le Argonautiche, IV, 64), che porta Medea alla sofferenza e alla follia, diventa un dio ludico nelle mani del tenerorum lusor amorum (Tristia, IV, 10, 33), cantore dei teneri amori (così si definisce il poeta in esilio, con rimpianto). “Il suo, dunque, sarà un lusus ricco di raffinatezza e di eleganza, pervaso di sottile ironia nei confronti dei predecessori” (P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, 1, 156). L’Ars amatoria (in distici elegiaci) costituisce una precettistica erotica in tre libri: nei primi due il poeta fa il maestro d’amore agli uomini, nel terzo alle donne. Questa raccolta a sfondo didascalico fu completata nell’1 o nel 2 d. C., come i Remedia amoris e i Medicamina faciei femineae. Alla fine dell’Ars Amatoria leggiamo: “Lusus habet finem... Ut quondam iuvenes, ita nunc, mea turba, puellae/inscribant spoliis Naso Magister Erat” (III, 809 e 811-812), il gioco è finito... Come una volta i giovani, così ora le ragazze, mio seguito, scrivano sulle prede Nasone Fu Il Maestro. Di questo magistero amoroso impartito ai giovani, maschi e pure femmine, il poeta dovrà pentirsi e dolersi: nei Tristia scritti in esilio (11-12 d C.) ricorda che duo crimina lo hanno mandato in rovina: carmen et error (II, 207); l’error è uno sbaglio, mai chiarito, nei rapporti del poeta con l’imperatore che ne è rimasto offeso e il carmen turpe è l’Ars Amatoria per la quale Ovidio viene accusato di essersi fatto maestro di immondo adulterio: “arguor obsceni doctor adulterii” (II, 212). “La disinvoltura con cui la materia viene trattata indica il distacco che si è consumato nei confronti della precedente esperienza elegiaca. Il protagonista degli Amores [in distici elegiaci; composti tra il 18 e il 15 a C. in 5 libri, poi rielaborati e ridotti a tre, intorno all’1 a. C.] è anticonformista, spregiudicato, libertino, impertinente: e poiché non prende sul serio la morale tradizionale romana, e neanche fa dell’amore un mondo di valori nuovi e alternativi rispetto a quelli dominanti nella tradizione e nella società, tutto per lui diventa un lusus elegante e raffinato. L’esito naturale di questa nuova interpretazione dell’elegia sarà la didascalica amorosa dell’Ars amatoria e dei Remedia amoris costruiti per gioco sul modello della poesia didascalica seria, questi trattati si proporranno esplicitamente di insegnare l’uno il codice erotico della società galante, gli altri gli antidoti contro la seduzione insegnata” (G. B. Conte, Scriptorium 2, p. 164). Osserva La Penna: “in Ovidio troviamo l’irrisione aperta della rusticitas, è Ovidio che della negazione della rusticitas fa un aspetto essenziale del suo mondo galante” (op. cit., p. 188). “La trattazione del libro dedicato alle donne”, il terzo, “incomincia, dopo il lungo proemio, con una specie di inno al cultus (Ars III 101-128). Il passo è celebre (...) Senza cultus non avremmo i frutti della terra, il vino e le messi. La forma, la bellezza, è dono divino; è il cultus che dà la bellezza anche a chi non l’ha. Si obietta che le donne dei tempi antichissimi non ricorsero al cultus: è perché i mariti, duri soldati, erano rozzi, senza gusto. La rudis simplicitas caratterizzò la Roma arcaica; ma nunc aurea Roma est, e alla splendida Roma di oggi, coi suoi superbi edifici, corrisponde meglio il cultus. Si colloca qui la più esplicita professione di modernità lanciata da Ovidio (121 sg.): Prisca iuvent alios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec aetas moribus apta meis” (La Penna, op. cit., p. 188), le anticaglie piacciano agli altri, io mi compiaccio di essere nato solo ora: questa è l’età adatta ai miei gusti. E’ un ribaltamento del mito dell’età dell’oro: il presunto “paese guasto” è più pia85 cevole e gradito del “mondo casto” (Dante, Inferno, XIV, 94 e 96). Anche all’inizio dei Medicamina faciei Ovidio,come abbiamo visto, proclama: “culta placent” (v. 7), piace ciò che è curato: i palazzi, la terra, la lana, le donne. Un cultus che include la cura del corpo e dello spirito. “Ordior a cultu” (Ars amatoria, III, 101). Così Ovidio inizia, dopo il lungo proemio, la precettistica riservata alle donne nel terzo libro. Cultus, riferito come qui alla vita della donna, indica più o meno la “cura della persona” e quindi la “raffinatezza” (Conte-Pianezzola, Il libro della letteratura latina, Edizione Modulare, 8, p. 513). A proposito dell’Ars Amatoria, La Penna cita “forma sine arte potens” (III, 258), la bellezza è una potenza senza artifici, ma, fa notare, “tutta l’opera si colloca al di là della natura, dell’istinto, anche della sensualità, ed esalta l’efficacia dell’usus e del cultus”. Grazie all’usus le donne non più giovani perpetuano il loro fascino (Ars II 675 sgg.) e vincono la lotta contro il tempo (677): “Illae munditiis annorum damna rependunt” (p. 187), quelle con l’eleganza compensano i danni del tempo. E, aggiunge Ovidio, con i trattamenti di bellezza fanno in modo di non sembrare vecchie: “et faciunt cura, ne videantur anus” (678). E’ anche l’usus del resto, l’esperienza, che rende appetibili le non più giovanissime: “utque velis, Venerem iungunt per mille figuras: / invenit plures nulla tabella modos” (679-680), e, purché tu lo voglia, fanno l’amore componendo mille figure; nessun quadro ha trovato più posizioni. Un altro encomio del cultus si trova nei primi versi dei Medicamina faciei . “L’elogio del cultus collocato all’inizio dei Medicamina faciei esalta più ampiamente che quello collocato nel III libro dell’Ars l’importanza del cultus nella lavorazione della terra, nel mutamento delle condizioni naturali. Segue l’elogio del cultus in quanto dà splendore e lusso alle abitazioni e all’abbigliamento (7-10): “Culta placent: auro sublimia tecta linuntur; / nigra sub imposito marmore terra latet; / vellera saepe eadem Tyrio medicantur aëno; / sectile deliciis India praebet ebur” (p. 198), le cose curate piacciono: gli alti palazzi vengono coperti d’oro; la terra nerra rimane nascosta sotto il marmo sovrapposto; spesso anche la lana è tinta con una caldaia di Tiro; l’India offre al lusso avorio intarsiato1. I versi successivi contrappongono “con disprezzo, anche se temperato dalla comicità, la rusticitas dei tempi antichi” al lusso moderno: “Forsitan antiquae Tatio sub rege Sabinae / maluerint quam se rura paterna coli, / cum matrona, premens altum rubicunda sedile, / adsiduo durum pollice nebat opus, / ipsaque claudebat, quos filia paverat, agnos, / ipsa dabat virgas caesaque ligna foco” (Medicamina faciei, vv. 11-16), forse le antiche Sabine sotto il re Tazio preferirono curare i campi paterni piuttosto che se stesse, quando la sposa, seduta arrossata sull’alto sgabello, filava con pollice instancabile il suo duro lavoro, e lei stessa chiudeva gli agnelli che la figlia aveva portato al pascolo, lei stessa metteva verghe e legna fatta a pezzi sul focolare. Le antiche Sabine erano delle contadinone prive di grazia. Tutt’altra posizione nei confronti dei Sabini è quella di Tito Livio che elogia l’educazione severa e rigida di quel popolo “quo genere nullum quondam incorruptius fuit” (I, 18, 4), del quale mai alcuno anticamente fu più austero. Un epigramma di Marziale (XI, 15) comprende entrambe queste posizioni: il poeta afferma di avere scritto anche chartae austere leggibili dalla moglie di Catone e dalle Sabine qualificate come horribiles (vv. 1- 2). passato, adesso Roma è d’oro e possiede le grandi ricchezze del mondo sottomesso. 1 Nel III libro dell’Ars amatoria si legge: “Simplicitas rudis ante fuit, nunc aurea Roma est / et domiti magnas possidet orbis opes” (vv. 113-114), la rozza semplicità è del 86 Subito dopo Ovidio nei Medicamina faciei “torna ai tempi moderni per giustificare pienamente il bisogno di cultus da parte delle puellae; e non si tratta di abbigliamento a buon mercato” (La Penna, op. cit., p. 199): At vestrae matres teneras peperere puellas: / vultis inaurata corpora veste tegi, / vultis odoratos positu variare capillos, / conspicuam gemmis vultis habere manum;/induitis collo lapides oriente petitos, / et quantos onus est aure tulisse duos” (Medicamina faciei, vv. 17-22), invece le vostre madri hanno partorito fanciulle delicate: volete che il corpo sia coperto da veste intessuta d’oro, volete mutare con l’acconciatura i capelli profumati, volete avere una mano che colpisce lo sguardo con i gioielli; mettete al collo perle cercate in oriente e all’orecchio due così grandi che è faticoso reggerle. Le donne non si possono biasimare per questo, tant’è vero che la moda del lusso è stata accolta anche dagli uomini: “Nec tamen indignum: sit vobis cura placendi, / cum comptos habeant saecula vestra viros. / Feminea vestri potiuntur lege mariti, / et vix, ad cultus, nupta, quod addat, habet” (vv. 23-26) tuttavia non è disdicevole: abbiate pure cura di piacere, dal momento che la vostra generazione presenta uomini eleganti. I vostri mariti si impossessano della consuetudine femminile e la sposa ha appena qualcosa da aggiungere alle loro ricercatezze. In alcuni casi Ovidio ci presenta le proprie osservazioni “in modo ambiguo”, attribuendole a personaggi poco attendibili. Per esempio, una contrapposizione fra le formosae audaci di oggi e le sporche Sabine delle origini di Roma è elaborata da una lena, una mezzana (Am. I 8. 39 sgg.): Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae / noluerint habiles pluribus esse viris; / nunc Mars externis animos exercet in armis, / at Venus Aeneae regnat in urbe sui. / Ludunt formosae: casta est quam nemo rogavit; / aut si rusticitas non vetat, ipsa rogat”, forse le sporche Sabine sotto il regno di Tazio non avranno voluto essere disponibili per più uomini; ora Marte tiene occupati gli animi in guerre straniere, ma è Venere che regna nella città del suo Enea. Le belle si divertono: è casta quella cui nessuno ha fatto proposte; oppure se non lo impedisce la selvatichezza, è lei che fa le proposte. E ovviamente non sono sempre proposte decenti. “Altrove – continua La Penna – negli Amores è la stessa impostazione di giuoco sofistico che toglie aggressività all’irrisione della rusticitas : cito, per esempio, un passo di III 4 (37 sgg.), l’elegia dove si vuole dimostrare che è meglio lasciare le puellae senza sorveglianza: Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx, / et notos mores non satis Urbis habet, / in qua Martigenae non sunt sine crimine nati, / Romulus Iliades Iliadesque Remus” (p. 186). E’ davvero rozzo quello che una moglie adultera offende e non conosce bene i costumi di Roma nella quale i figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il figlio di Ilia Remo1. che vuole giocare a palla viene ripreso da Apollonio Rodio: nelle Argonautiche Afrodite promette al figlio che, se farà innamorare Medea di Giasone, gli regalerà una palla fatta di cerchi dorati che lanciata lascia nell’aria un solco splendente, come una stella (III, v. 141). Allora il fanciullo pregava la madre di dargliela subito (v. 148). Amore come dio giocoso appare già in Anacreonte che nel fr. 5 D. rappresenta Eros chiomadoro mentre con una palla purpurea colpisce il poeta, ormai vecchio, e lo invita a giocare con una fanciulla dal sandalo variopinto; il gioco del resto non esclude la tristezza poiché la ragazza di Lesbo critica la chioma oramai bianca dello spasimante anziano e rimane a bocca aperta davanti a un’altra. Eros 1 87 4.- Lusus et pudor Procediamo con i suggerimenti di Ovidio. “L’ambiguità giocosa investe, naturalmente, anche l’Ars amatoria (...) Il pudor è bandito come rusticus, almeno da una certa fase in poi della strategia di conquista della donna” (La Penna, op. cit., p. 187). Del resto è pur vero che “la strategia amorosa si sa adoperare soltanto quando non si è innamorati” (C. Pavese, Il mestiere di vivere, 24 ottobre 1940). Ovidio consiglia al corteggiatore l’audacia e la facondia che sarà nutrita dalla forza del desiderio: è il rem tene verba sequentur di Catone trasferito in campo erotico: “fac tantum cupias, sponte disertus eris” (Ars Amatoria, I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza sforzo. Per la conquista parlare è decisivo: la parola audace e suadente metterà in fuga il rusticus Pudor: “Conloqui iam tempus adest; fuge rustice longe / hinc Pudor: audentem Forsque Venusque iuvat”, I, 605-606), è già tempo di parlarle; fuggi lontano di qui, rozzo Pudore, la Sorte e Venere aiutano chi osa. “Non solo le goffe e rozze sabine, ma anche eroine greche fanno le spese della satira contro la rusticitas. Per esempio, sarebbe interessante vedere come vengono trattate nelle opere erotiche di Ovidio Penelope, Andromaca, Tecmessa. Mi limito a un solo esempio: è Penelope stessa a dirci che cosa pensa di lei il suo raffinato ed esperto marito (Her. I. 77 sg.): Forsitan et narres quam sit tibi rustica coniunx, / quae tantum lanas non sinat esse rudes” (p. 186), forse a lei racconti quanto sia rozza tua moglie, la quale soltanto alla lana non permette di essere ruvida (“lei” è la straniera che tiene Ulisse peregrino amore, v. 76: lo stesso tipo di relazione che Deianira rinfaccia a Eracle in Heroides IX, 49). “Ma nel mito greco si possono trovare ben altre figure femminili adatte a simboleggiare e a proclamare il libero e raffinato gusto moderno. In un’eroina del genere è trasformata la tragica Fedra, che interpreta a suo modo il passaggio dal regno di Saturno al regno di Giove: quello fu il regno della pietas e della rusticitas, questo il regno della libertà e del piacere (Her. 4. 131 sgg.): Ista vetus pietas, aevo moritura futuro, / rustica Saturno regna tenente fuit; / Iuppiter esse pium statuit quodcumque iuvaret / et fas omne facit fratre marita soror” (p. 187), questa vecchia bontà destinata a morire in futuro, c’era quando Saturno governava rozzi regni; Giove stabilì che fosse buono tutto quanto piaceva e rende del tutto naturale che la sorella sia sposata al fratello. La cretese innamorata ovviamente scrive a Ippolito per convincerlo a soddisfare i suoi desideri come del resto fece il toro con Pasifae: “Flecte, ferox animos: potuit corrumpere taurum/mater: eris tauro saevior ipse truci?” (vv, 165-166), piega superbo i tuoi sentimenti: mia madre poté sedurre un toro: sarai tu più feroce di un toro tremendo? E’ questo il mito, irriso da Ovidio, delle Cretesi pervertite, nato, probabilmente, quando i guerrieri micenei, poco dopo la metà del secondo millennio, invasero Creta e videro le raffigurazioni di donne troppo libere e discinte rispetto ai loro canoni. “Paride, per riguardo di Elena, non tratta Sparta come la lena trattava le Sabine di Tazio, ma la ritiene indegna della bellezza di Elena (Her. 16. 191 sgg.): Parca sed est Sparte, tu cultu divite digna;/ad talem formam non facit iste locus; / hanc faciem largis sine fine paratibus uti/deliciisque decet luxuriare novis. / Cum videas cultus nostra de gente virorum, qualem Dardanias credis habere nurus?” (La Penna, op. cit., p. 187), ma Sparta è scarsa, tu sei degna di ricca raffinatezza; a tale bellezza non si addice questo luogo; a quest’aspetto si confà l’uso di vesti infinitamente copiose e abbondare di delizie mai viste. Vedendo l’eleganza degli uomini della nostra gente, quale credi che abbiano le ragazze troiane? 88 Questo fu uno degli argomenti, o dei pensieri, che spinsero Elena all’adulterio secondo Ecuba la quale, nelle Troiane di Euripide, accusa la maliarda di avidità non solo sessuale. “Tra gli amanti infedeli è menzionato Enea, che causò la morte di Didone; e tuttavia egli “famam pietatis habet” (Ars III 39): giocosa polemica con Virgilio che aveva giustificato il suo pio eroe. Anche gli elogi del cultus vanno letti nel contesto della polemica libertina col regime (...) Con Augusto (...) la società romana guariva dalla crisi tornando al modello etico arcaico, caratterizzato dalla pietas, dall’industria, dalla limitazione dei consumi, ecc. Questa concezione “catoniana” della crisi e della sua soluzione veniva raccordata abbastanza bene con una concezione soteriologica e messianica di più vasta risonanza: ritorno dell’età dell’oro (...) ” (La Penna, op. cit., p. 190), che abbiamo visto nell’elegia programmatica di Tibullo (I, 1). Una significativa contrapposizione di Ovidio a Esiodo, in particolare al proemio della Teogonia, viene individuata da La Penna nel proemio dell’Ars Amatoria dove l’autore “non si proclama ispirato da Apollo e dalle Muse (...) la fonte della nuova opera è l’esperienza: “usus opus movet hoc” [v. 29, è l’esperienza che fa nascere quest’opera]; in base all’esperienza egli canterà il vero (“vera canam”, 30) (e in questo credo che Ovidio non si contrapponga più ad Esiodo, ma gli si accosti). L’unica divinità che viene invocata è Venere” (op. cit., p. 198). La proclamata pratica del vero risente non direi tanto di Esiodo, cui le Muse dell’Olimpo si presentarono con queste parole: noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo, quando vogliamo anche far sentire la verità (Esiodo, Teogonia, vv. 27-28), quanto piuttosto della lezione storiografica di Tucidide che “legiferò” non solo per gli storiografi. Polibio che ripete formule tucididèe potrebbe sottoscrivere queste parole di Ovidio: “usus opus movet hoc: vati parete perito; / vera canam” (Ars I, 29-30), l’esperienza fa nascere quest’opera: obbedite al poeta esperto; canterò fatti veri. La dea è indicata come il nume che ha designato nel poeta il maestro artista, pilota e auriga dell’amore: “me Venus artificem tenero praefecit Amori; / Tiphys et Automedon dicar Amoris ego” (Ars Amatoria, I, vv. 7-8), Venere mi ha preposto a foggiare il delicato amore; io sarò chiamato il Tifi (il pilota della nave Argo) e l’Automedonte (l’auriga di Achille) dell’Amore. La Penna poi indica “qualche altro passo interessante del III libro dell’Ars dove la polemica contro il gusto arcaizzante ritorna in forma satirica. Ecco il quadro dell’incessus rozzo (303 sg.): illa, velut coniunx Umbri rubicunda mariti, / ambulat, ingentis [= ingentes] varica fertque gradus” (p. 189), quella cammina come la moglie rubiconda di un marito umbro, e procede a grandi passi con le gambe divaricate. E’ questo un rusticus… motus (vv. 305-306) che fa scappare gli uomini (fugatque viros, v. 300). “Non è detto – prosegue La Penna – che Ovidio, rievocando questa moglie rubiconda dell’antico contadino umbro, pensasse, per contrasto, alla severa madre sabina rievocata da Orazio: certo il contrasto è gustoso. Ci sono nelle opere erotiche parecchi altri indizi più chiari di satira e parodia dell’arcaismo etico del regime augusteo (...) Qui non è il caso di entrare in dettagli; basta vedere come importanti motivi nazionali della poesia di regime sono distorti con elegante parodia. Per esempio, la discendenza dei Romani da Venere attraverso Enea, celebrata da Virgilio, serve per riaffermare che Roma è la città dove la dea dell’amore dispiega tutta la sua potenza (Ars I 60): mater in Aeneae constitit urbe sui,” (op. cit., p. 189), la madre si è fermata nella città del suo Enea. 89 Aspetti della decadenza Seneca nel De Beneficiis (del 64 d. C.) segnala tra gli aspetti della corruzione del suo tempo la moda della dissoluzione dei vincoli matrimoniali, la sparizione della pudicizia femminile e la complicità dei mariti: “Coniugibus alienis ne clam quidem sed aperte ludibrio habitis, suas aliis permisere. Rusticus, inhumanus ac mali moris et inter matronas abominanda condicio est, si quis coniugem suam in sella prostare vetuit et vulgo admissis inspectoribus vehi perspicuam undique” (I, 9, 3), dopo che si sono presi gioco delle mogli altrui, neppure di nascosto ma palesemente, hanno concesso le proprie agli altri. E’ rozzo, incivile, di cattiva educazione, e tra le matrone la sua qualità è aborrita se uno ha vietato a sua moglie di esibirsi nella portantina e di farsi portare in giro da tutte le parti bene in vista per essere osservata pubblicamente. Analoga considerazione fa Parini (1729-1799) quando attribuisce il disprezzo del pudore, e della fedeltà matrimoniale, ai nobili satireggiati nel suo poema: “D’altra parte il Marito ahi quanto spiace, / E lo stomaco move ai dilicati / Del vostr’Orbe leggiadro abitatori, / Qualor de’ semplicetti avoli nostri / Portar osa in ridicolo trïonfo / La rimbambita Fe’, la Pudicizia, / Severi nomi!” (Il Mattino, vv. 292-298). In Madame Bovary il marito, Charles Bovary, è un individuo che tanto “spiace”, soprattutto a sua moglie la quale non si sente trattenuta dai vincoli imposti dal pudore coniugale: “La conversazione di Charles era piatta come un marciapiede, vi sfilavano le idee più comuni nella loro veste più ordinaria, senza suscitare la minima commozione, d’allegria o di sogno. Lo diceva lui stesso, non aveva mai provato la curiosità, durante il suo soggiorno a Rouen, di andare a sentire a teatro gli attori di Parigi. Non sapeva nuotare, né tirar di scherma, né usar la pistola, un giorno non seppe neppure spiegare alla moglie un termine d’equitazione che lei aveva trovato in un romanzo. E un vero uomo, invece, non avrebbe dovuto conoscer tutto, eccellere in ogni attività, essere in grado, insomma, d’iniziare la propria donna alle violenze della passione, alle raffinatezze della vita, agli innumeri misteri? Non insegnava nulla Charles, non sapeva nulla Charles, non immaginava nulla Charles: credeva che lei fosse felice, ma lei gliene voleva per tutta quella tranquillità imperturbabile, per tutta quella pacifica pesantezza, per tutta quella stessa sazietà di cui era l’origine” (p. 34). Un uomo rozzo dunque: quando la moglie bella, insoddisfatta, poco affettuosa e cortese, è viva e convive con lui, egli non si accorge dei tradimenti, e dopo il suicidio di lei, leggendo le sue lettere, spiandola dopo che è morta, si offende a morte: “C’eran tutte le lettere di Léon. Questa volta nessun dubbio era più possibile! Le divorò sino all’ultima riga, frugò in ogni angolo, in ogni mobile, in ogni tiretto, dietro i muri, singhiozzando, urlando, smarrito, impazzito. Scoprì una scatola, la sfondò con un calcio. Il ritratto di Rodolphe gli balzò davanti, tra un disordinato profluvio di messaggi d’amore” (p. 279). “Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx” (Amores III, 4, 37), è davvero rozzo quello che una moglie adultera offende. Fa coppia con questo L’eterno marito (1871), Pavel Pavlovic, di Dostoevskij: “Un individuo simile nasce e si sviluppa unicamente per ammogliarsi e, una volta ammogliato, per trasformarsi unicamente in un’appendice della moglie, anche quando egli abbia una personalità sua, ben determinata. La proprietà essenziale di un simile marito è quel certo ornamento. Egli non può non essere cornuto, così come il sole non può non risplendere, però non soltanto non ne sa mai nulla, ma non potrà mai saperlo per le leggi medesime della natura…E a un tratto, in modo del tutto inatteso, Pavel Pavlovic si fece con due dita le corna sulla fronte calva, e ghignò piano, a lungo. Rimase così, con le corna e ghignando, per mezzo minuto almeno, guardando Vel’ caninov [è l’eterno amante] negli occhi in una specie di ebbrezza della più perfida insolenza” (F. Dostoevkij, L’eterno marito, p. 39 e p. 65). 90 5.- Misura La Penna procede richiamando alcuni aspetti del dibattito svoltosi nel 195 a. C. sull’abrogazione della lex Oppia. Abbiamo già visto la posizione di Catone che si opponeva al lusso e alla libertas femminile da lui intesa come licentia (Livio, XXXIV, 2, 11-14). “Il dibattito dei tempi di Catone non era certo inattuale nella Roma augustea, e ciò avrà pesato nell’indurre Livio a dargli tanto rilievo. L’etica del principato, come tutti sanno, ostentava una certa ispirazione catoniana; essa si riconosceva bene nel comportamento che Sallustio (...) attribuiva agli avi (Cat. 9. 2): “in suppliciis deorum magnifici, domi parci”, splendidi nel culto degli dèi, economi in casa1. Ma la stessa età augustea offriva anche, in teoria, senza parlare della realtà, modelli etici diversi: proprio uno dei maggiori artefici del regime, Mecenate, si presentava e veniva presentato come l’uomo tanto energico nella vita pubblica quanto ben disposto agli agi e ai piaceri nel meritato ozio che succede e precede le fatiche dello stato (...) In modo sottile, brillante, dunque, Ovidio cancella il ritorno ai prischi costumi; e implicitamente cancella (...) l’interpretazione della storia romana dopo le guerre puniche come un processo di decadenza. Il cultus, anche se accordato con lo splendore della Roma augustea (...) sembra piuttosto frutto di un progresso lungo, di inizio non recente, che ha cancellato a poco a poco la rusticitas arcaica (...) Ovidio nella celebrazione del cultus data nel III dell’Ars (v. la p. e. i vv. 121 e sgg. citati sopra) sembra risentire del concetto, e dell’entusiasmo, della pienezza dei tempi. Esiodo, chiuso nella concezione ciclica, vorrebbe non essere nato nell’età in cui vive, cioè nell’età del ferro, la più feroce e infelice di tutte (Opere 174 sg.) (...) Quando Ovidio proclama con entusiasmo “ego me nunc denique natum / gratulor”, sembra contrapporsi all’antico vate di Ascra: non escluderei un’allusione, anche se non sono sicuro: Esiodo è poeta ben presente nella poesia augustea, ovviamente noto a Ovidio” (p. 195). Nei Medicamina “il cultus si presenta chiaramente come lusso; Ovidio non si preoccupa di porre limiti; certamente sa, anche se non si preoccupa di esporcelo, quali spese il cultus comporta e quale attività commerciale presuppone: materie prime o prodotti rifiniti vengono Il concetto torna nel Bellum Iugurthinum: “Nam ante Carthaginem deletam... metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere” (41), infatti prima della distruzione di Cartagine… il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia apparvero. E’ l’imperialismo moralistico di Sallustio: le conquiste dunque non devono soffocare l’antica virtù: quella per cui i giovani desideravano più le armi e i cavalli da guerra che puttane e banchetti: “magisque in decoris armis et militaribus equis quam in scortis atque conviviis lubidinem habebant” ( Bellum Catilinae, 7). L’impero infatti si conserva facilmente con i mezzi con i quali lo si è dapprima conquistato:” nam imperium facile iis artibus retinetur, quibus initio partum est (2). 1 Sallustio nel Bellum Catilinae: afferma che la decadenza dei costumi a Roma è iniziata con la caduta di Cartagine e con la fine della paura dei nemici e particolarmente del metus punicus: “Sed ubi… Carthago aemula imperii Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere” (10), ma quando… Cartagine, rivale del popolo romano, fu distrutta dalle fondamenta, tutti i mari e le terre erano aperti, la fortuna cominciò a incrudelire e a sconvolgere tutto. Quelli che avevano sopportato con facilità fatiche, pericoli, situazioni incerte e difficili, per questi l’ozio e la ricchezza, beni desiderabili in altre circostanze, furono motivo di peso e di miseria. Pertanto prima crebbe il desiderio di denaro, poi di potere: quelle passioni furono per così dire l’esca di tutti i mali. 91 dalle provincie o dal lontano oriente; anche nel corso della trattazione (che, com’è noto, si riduce per noi a poche decine di versi) le provenienze esotiche sono talvolta indicate [9 Tyrio ; 10 India ; 21 oriente ; 51 Libyci ; 74 Illyrica ; 82 Attica ; 94 Ammoniaco]: si direbbe, insomma, che Ovidio accetta in pieno l’espansione dei consumi e l’economia mercantile in cui essa si colloca” (La Penna, op. cit., p. 199). Nell’Ars amatoria (il III libro risale allo stesso periodo dei Medicamina faciei cui Ovidio accenna ai vv. 205 e sgg.), nota ancora La Penna, “l’atteggiamento è più cauto” e la celebrazione “dell’aurea Roma e della modernità è accompagnato dal rifiuto delle grandi ricchezze, del lusso smodato: la Roma augustea corrisponde ai gusti d’Ovidio perché ha eliminato ogni traccia di rusticitas, non perché vi affluiscono l’oro e oggetti preziosi o perché i ricchi Romani hanno grandi e splendide ville sul mare (Ars III 123-126): non quia nunc terrae lentum subducitur aurum / lectaque diverso litore concha venit, / non quia decrescunt effosso marmore montes, / nec quia caeruleae mole fugantur aquae” (p. 200), non perché ora alla terra si sottrae il duttile oro e arrivano perle pescate in mari opposti, non perché decrescono i monti per le cave di marmo, né perché le acque azzurre vengono respinte dai moli, ma perché, come abbiamo già visto, cultus adest… nec mansit rusticitas (vv. 127-128). Ovidio dunque “nelle sue oscillazioni poco tormentate si ferma alla proposta di un cultus misurato che eviti gli eccessi del lusso e, nello stesso tempo, di una raffinatezza dannosa. Per l’uomo egli rifiuta un trattamento dei capelli e della pelle che lo renda simile agli eunuchi servitori di Cibele (Ars I 505 sgg.): l’ideale virile è un equilibrio fra la mundities e la robustezza data dagli esercizi del Campo Marzio (ibid. 513 sg.): Munditiae placeant, fuscentur corpora Campo; / sit bene conveniens et sine labe toga. Dunque, né rusticitas né effeminatezza” (A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, p. 201). L’eleganza piaccia, siano abbronzati i corpi al Campo Marzio; la toga stia bene e sia senza macchie. Inoltre i denti siano senza tartaro (careant rubigine dentes, Ars, I, 513), i piedi abbiano calzari della loro misura (mentre l’a[groiko del IV dei Caratteri di Teofrasto ha la scarpa più larga del piede), il taglio di barba e capelli sia buono, le unghie siano ben limate et sint sine sordibus (517), senza sporcizia, non ci siano peli nella cavità delle narici, non ci siano cattivi odori nel fiato né addosso alla persona. “Cetera lascivae faciant concede puellae/et si quis male vir quaerit habere virum” (521-522), il resto lascia che lo facciano le donne lascive e chi, uomo presunto, desidera possedere un uomo. Questa consigliata all’uomo, al maschio, è la via di mezzo suggerita, come abbiamo già visto, pure da Cicerone e da Seneca. Lo stile dell’incedere. “L’incessus cafonesco della donna, che fa pensare alla moglie rubiconda del contadino umbro, va evitato, ma senza adottare l’incedere troppo molle di alcune donne di città dalle tuniche fluenti (Ars III 301 sgg.)” (A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana cit.p. 201) . Vediamo i versi che dipingono la femmina troppo flessuosa e teatrale: “Haec movet arte latus tunicisque fluentibus auras / accipit, extensos fertque superba pedes” (vv. 301-302), questa muove i fianchi con abilità e prende aria nella tunica ondeggiante, e porta avanti i piedi allungandoli con superbia. Il modo di camminare fa parte dello stile: “discite femineo corpora ferre gradu: / est et in incessu pars non contempta decoris” (vv. 298-299), imparate a portare il corpo con passo femminile: anche nel modo di incedere c’è una parte non disprezzabile dello stile bello. Decor è formato su decet, quindi significa che il bello stile può variare, siccome è quanto si addice a ciascuna 92 persona o situazione, come il greco prevpon. A questo proposito si può citare Cicerone: “nihil decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura” (De Officiis, I, 110), niente si addice contro il volere di Minerva, cioè se la natura è contraria o si oppone. Non ci si deve opporre alla natura universale, tanto meno alla propria. Poco più avanti si legge: “id enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime suum” (I, 113), a ciascuno si addice più di tutto ciò che è più personale. Vale anche la pena di ricordare lo stile che Ovidio (Ars III 479 sg.) raccomanda alla puella per le lettere agli amanti: parole eleganti, ma non rare né troppo raffinate: “Munda sed e medio consuetaque verba, puellae, / scribite: sermonis publica forma placet”, ragazze, scrivete parole eleganti ma del frasario comune e correnti: il linguaggio usuale piace. Naturalmente anche in Orazio c’è corrispondenza, soprattutto nel rifiuto dell’arcaismo, fra la poetica e il gusto della vita1. Lo stile del ridere. “Quis credat? Discunt etiam ridere puellae, / quaeritur atque illis hac quoque parte decor”: Chi lo crederebbe? Le ragazze imparano anche il modo di ridere, cercando pure con questo aspetto di accrescere la loro avvenenza ( Ars III, vv. 281-282). Ovidio dà delle indicazioni che si riassumono nel v. 286: “sed leve nescioquid femineumque sonet”, comunque (il ridere) esprima un non so che di delicato e femminile. Quelle che si lasciano andare alla sghignazzata rischiano la sguaiataggine: “ut rudit a scabra turpis asella mola” (v. 290), come la brutta asinella raglia dalla ruvida macina. Questo verso realmente ruvido rende fonicamente il riso sgraziato della ragazza asina. Marziale commenta questa parte dell’Ars notando che il poeta di Sulmona (precisamente Paelignus ) aveva consigliato di ridere: “ride si sapis, o puella, ride” (II, 41), ridi ragazza, se hai giudizio, ridi, ma non a tutte le ragazze: “sed non dixerat omnibus puellis”. Infatti una tal Massimina che ha tre denti deve mettersi addosso espressioni tristi, frequentare donne in lutto e distrarsi solo con le Muse tragiche. Dunque: “plora, si sapis, o puella, plora”, piangi ragazza se hai giudizio, piangi. Lo stile del vestire. “Vesti troppo costose, specialmente purpuree, vengono sconsigliate alle donne eleganti (Ars III 169 sgg.): “Quid de veste loquar? Nec nunc segmenta requiro / nec quae de Tyrio murice, lana, rubes. / Cum tot prodierint pretio leviore colores, / quis furor est census corpore ferre suos?” (p. 201). Che devo dire della veste? Io non chiedo le frange d’oro, né te, lana, che rosseggi per la porpora di Tiro. Dal momento che sono venuti fuori tanti colori a prezzo più basso, che pazzia è portare sul corpo il proprio patrimonio? Potremmo rispondere che l’esibizione che puzza di soldi è il furor tipico del liberto arricchito scandalosamente, come Trimalchione “Anche senza portare altre prove, credo di poter affermare che questo è il gusto dominante dell’Ars amatoria, benché nella valorizzazione del cultus essa tocchi la punta più avanzata: un equilibrio diverso da quello dell’oraziano simplex munditiis, ma pure in qualche modo simile, lontano dalla rozzezza arcaica, ma anche al di qua del lusso fastoso e insolente di molti ricchi Romani di oggi. Questa specie di classicismo è dettato nello stesso tempo dal gusto e dalla preoccupazione, quasi dalla paura, che suscita l’ampliamento incontrollato dei consumi” (op. cit., p. 202). Questa conclusione del quinto capitolo del saggio di La Penna mi sembra appropriata pure per i nostri tempi. 1 La nota è di La Penna, op. cit., p. 212, la traduzione mia. 93 Orazio CERTI FINES a cura di Chiara Cignolo Esordio delle Odi nel Cod. Ambr. O. 136. Sup. (Milano, Biblioteca Ambrosiana) 44 M 1. Le intenzioni poetiche I quattro libri delle Odi rappresentano la fase della maturità di Orazio, dal punto di vista sia poetico che umano: la perfezione formale ormai raggiunta si sposa con un equilibrio ormai conquistato, che traluce dal tono più pacato e riflessivo, e ne è sostenuta. Di ciò Orazio è perfettamente consapevole, e numerose sono le liriche in cui dà rilievo alla proprie scelte formali e tematiche. I primi tre libri, pubblicati in una prima edizione nel 23 a. C., si aprono con la dedica a Mecenate (Odi I 1Í), scritta verosimilmente per ultima, o fra le ultime, e poi collocata in apertura; già questa apertura afferma la scelta della poesia lirica e individua chiaramente nei poeti di Lesbo, Alceo e Saffo, i modelli formali della tradizione greca. In alcune liriche Orazio accenna a voler cantare anche temi impegnativi e solenni, in particolare di carattere politico; ma si tratta spesso di elenchi di temi possibili, di fatto non svolti; viceversa, altre liriche precisano le intenzioni poetiche più vere della raccolta, a volte con carattere esplicitamente programmatico. Così, l’ode I 6, dedicata al generale Vipsanio Agrippa, poi genero di Augusto, è incentrata sul topos della recusatio, particolarmente caro ai poeti lirici ed elegiaci di età augustea. Orazio si dichiara impari a cantare le imprese miltari di Agrippa, affermando che potranno essere adeguatamente celebrate da un poeta epico quale Vario, amico di Virgilio, Mecenate e Orazio stesso; ribadisce così la natura squisitamente lirica della propria ispirazione poetica. Scriberis Vario fortis et hostium victor Maeonii carminis alite, quam rem ferox navibus aut equis miles te duce gesserit. E scriverà di te / l’opera di Vario ove batte / l’ala d’Omero: Eroe / vincitore di nemici, / guida dovunque superbi soldati / portarono guerra, / su navi, su cavalli. (Odi I 6. 1-4, trad. E. Mandruzzato) L’ultima strofa, dedicata alla poesia lirica, suona appunto come una vera e propria dichiarazione di poetica, non tanto rispetto allo stile, quanto piuttosto rispetto ai temi (il convito, l’amore) e al tono (levis). Nos convivia, nos proelia virginum sectis in iuvenes unguibus acrium cantamus, vacui sive quid urimus non praeter solitum leves. Io canto conviti / e battaglie di vergini / dalle curate unghie con i giovani aspre, / da tutto sciolto, lieve / anche nella fiamma. (Odi I 6. 17-20, trad. E. Mandruzzato) La scelta di un tono levis, pacato e delicato, emerge con chiarezza dal finale dell’ode I 16, che suona come una palinodia rispetto al tono più impetuoso e aggressivo che aveva caratterizzato la stagione giovanile degli Epodi. Compesce mentem: me quoque pectoris temptavit in dulci iuventa fervor et in celeres iambos misit furorem. Nunc ego mitibus E sia pace tra noi. Anche / il mio cuore tentò / la febbre della dolce / giovinezza, la follia / scrisse i giambi veloci. / Ora quella cupezza / 45 mutare quaero tristia, dum mihi fias recantatis amica opprobiis animumque reddas. matura, e questo cerco, e il canto / è mutato, l’ingiuria / è finita; puoi / essermi amica, donarmi / l’anima tua. (Odi I 16. 22- 29, trad. E. Mandruzzato) La scelta di temi e di toni è per Orazio, come vedremo, anche scelta di un modo di vita; e così, accanto alla più impegnativa ode di apertura, si può porre l’ode I 32, sviluppata su un tono familiare, caratterizzato dal riferimento alle abitudini agresti, che così naturalmente si sposano alla posizione etica di Orazio. Poscimus, si quid vacui sub umbra lusimus tecum, quod et hunc in annum vivat et pluris, age dic Latinum, barbite, carmen, Lebio primum modulate civi, qui ferox bello tamen inter arma, sive iactatam religarat udo litore navim, Liberum et Musas Veneremque et illi semper haerentem puerum canebat et Lycum nigris oculis nigroque crine decorum. O decus Phoebi et dapibus supremi grata testudo Iovis, o laborum dulce lenimen mihi cumque salve rite vocanti. Ti prego, se talvolta liberi scherzammo insieme all’ombra, ora tu, o cetra, suona un carme latino che quest’anno e molti altri viva nel futuro, tu modulata prima dal poeta di Lesbo che, pur se fiero in guerre, anche tra l’armi o negli approdi della squassata nave a un lido equoreo cantava Libero e le Muse e Venere e Amore che va sempre a lei d’accanto, e il suo Lico leggiadro dai capelli neri e dai neri occhi. Gloria di Febo, scudo di testuggine, grata alle mense del supremo Giove, dolce sollievo ad ogni affanno, assistimi se devoto t’invoco. (I 32, vv. 1-16, trad. L. Canali) L’esclusione dei temi solenni e altisonanti appare quasi obbligata da circostanze personali nell’ode I 19, dedicata a Glicera: circostanze umoristicamente personificate in Venere e Dioniso, che incombono sul poeta e gli impongono di tornare a un amore che egli considerava concluso. Mater saeva Cupidinum Thebanaeque iubet me Semelae puer et lasciva Licentia finitis animum reddere amoribus. Urit me Glycerae nitor splendentis Pario marmore purius; urit grata protervitas et vultus nimium lubricus aspici. In me tota ruens Venus Cyprum deseruit, nec patitur Scythas aut versis animosum equis Parthum dicere nec quae nihil attinet. La madre d’ogni brama, / la crudele, il figlio/ di Sèmele tebana, / la tentazione / viva, vogliono ridarmi / all’amore, che fu chiuso. / La luce di Glìcera mi arde, che splende pura più del marmo pario, / e amo il suo corruccio, il suo volto lambito dagli sguardi. Venere grande viene / da Cipro ad assalirmi, / non accetta che parli / di Sciti, di Parti pronti volteggiatori, / e di tutto ciò che è da lei lontano. (Odi I 19, vv 1-4, 9-12, trad. E. Mandruzzato) 46 Orazio e i modelli greci Orazio ha preso spunti non solo da Alceo, ma, com’è noto, anche da Anacreonte; ha scritto non soltanto da vecchio, carmi che nello stile vogliono arieggiare Pindaro e che portano in fronte come motto la traduzione di sentenze del vate tebano; ha inserito nei suoi carmi parole celebri di Ennio. Pure né antichi né moderni lo dicono imitatore di Anacreonte, di Pindaro, di Bacchilide, di Ennio. Ha rielaborato nella maggior parte delle poesie motivi che non possono essere anteriori all’ellenismo; eppure nessuno lo chiama seguace e continuatore della poesia ellenistica, o dei continuatori romani della poesia ellenistica, dei neóteroi. Ha scritto su argomenti romani odi romane, in cui né un pensiero né un sentimento né un’espressione potrebbero essere stati pensati, sentiti, espressi in tal modo se non da un cittadino romano dell’età di Augusto. (…) Nonostante gli sdegni e i dispregi di esteta, che nutre contro certa rozzezza vigorosa della letteratura romana primitiva, Orazio è per certi aspetti più vicino ad essa che non ai poeti dell’età augustea: di fronte ai grandi Greci si sente libero come Plauto ed Ennio, non legato come Catullo e Calvo (…). Ennio e più Plauto erano liberi nel trattare i modelli greci, perché non erano vincolati dalla scienza filologica come Catullo, che ha a volte nel tradurre e nell’imitare scrupoli di grammatico; ma la grammatica, che ha nei suoi princìpi inceppato i neóteroi, ha pure liberato Orazio da preconcetti: questi sa che altro è il compito del traduttore e dell’imitatore, altro quello del poeta. (…) Come si chiama nelle lingue antiche l’attività di colui che vuole porre a fianco di un’opera classica una nuova opera di bellezza pari, sì che la vicinanza del modello, eccitando al confronto, renda più evidenti i pregi di quella moderna? In greco si chiama non mímesis ma zêlos, in latino non imitatio ma aemulatio.... Può venir fatto di chiedersi perché mai Orazio abbia scelto a modello Alceo, non per esempio Stesicoro o Pindaro. Risposta adeguata a questa domanda, come ben s’intende, non si può dare: quest’è il segreto del poeta. Ma si può forse formulare la domanda altrimenti e chiedere se lo ... zélos Alkaiikòs (“emulazione di Alceo”) di Orazio non corrisponda bene allo spirito dell’età sua... Lo spirito dell’età augustea fu non solo classico ma classicistico. Antonio volle essere un re ellenistico, Augusto un magistrato romano... Augusto non riuscì a vincere l’ellenismo. Già sotto i suoi successori prossimi il principato si avvia a divenire regno... Orazio appartiene al periodo più severamente classico dell’età augustea. Molto è in lui di ellenistico, ma egli, non che non se ne sia accorto, ma lo ha creduto elaborato e fuso nel crogiuolo della sua anima di Romano antico e di Greco antico; noi vediamo forse più chiaro nel suo spirito e nella poesia sua che non egli stesso: la materia ellenistica si ribella in lui talvolta alla forma classica... L’arte di Orazio è classicistica; e per questa ragione o anche per questa ragione, egli gareggia con Alceo, non con Pindaro né con Stesicoro né con Ibico, nella metrica e nello stile... Orazio trasporta non molti metri lesbii, che riproduce con severità rigorosissima, quali glieli aveva insegnati a comprendere non tanto l’orecchio suo quanto la dottrina metrica varroniana. Chi non vuol sapere né di polimetria né di larghe strofe, non può propriamente imitare Pindaro, il cui stile ha bisogno di estendersi nell’ampiezza del periodo ritmico: la rispondenza di membri brevi appartiene in certo modo all’aphelés (“semplice”), all’ischnòn (“disadorno”). E quel ch’è detto dei ritmi, si applica anche allo stile. (G. Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1964, pp. 104 ss., 136-140) 47 Doctarum hederae praemia frontium Il Testo ODI I 1 L’ode costituisce il proemio del I libro e svolge funzione di testo programmatico e di dedica a Mecenate (anche gli Epodi, le Satire, le Epistole iniziano nel suo nome e si aprono con la dedica a lui). Il tema è quello, ben noto alla lirica greca, della riflessione sui generi di vita: c’è chi ama gli onori della politica, chi si dedica all’agricoltura, chi al commercio, chi alla vita militare … Orazio rivendica per sé la vocazione poetica e aspira alla gloria immortale che solo dalla poesia può derivare. La struttura è quella della Priamel (‘preambolo’), particolarmente adatta all’elencazione di una serie di attività e interessi a cui nel finale il poeta contrappone la propria scelta (v. riquadro p. 50). L’affermazione del valore della poesia diventa poi dichiarazione programmatica di poetica. Non ci sono indizi cronologici interni ma il fatto che si tratti di un proemio e la corrispondenza con l’ode di commiato III 30 (dal punto di vista formale sono le uniche due odi dei primi tre libri in asclepiadei minori) inducono a pensare che sia stata composta in occasione della prima pubblicazione (23 a. C.). Metro: asclepiadeo minore 1 Maecenas atavis: su Mecenate v. riquadro a fronte; atavis: ‘antenato’. Edite: da edere nel senso di ‘generare’. 2 O et: iato. 3 Sunt ... iuvat: costruisci: sunt (alii) quos iuvat collegisse pulverem Olympicum … curriculo: ablativo strumentale: ‘con il cocchio’. 4 Collegisse: perfetto aoristico. 4 ss. Metaque ... deos: costruisci: (quos) et meta (= metaque) evitata fervidis rotis et palma (= palmaque) nobilis evehit ad deos dominos terrarum, con meta e palma entrambe soggetto di evehit. Metae erano le due colonnine poste alle due estremità del circo, attorno alle quali dovevano girare i cocchi. Fervidis: ‘infuocate’ per la velocità. Evitata: ‘sfiorata’. Palmaque: metonimia per victoria. Nobilis: in senso attivo, ‘che dà gloria’. Terrarum dominos: apposizione di deos. Evehit ad deos: iperbole per ‘esaltare’. 7 Hunc: dipende da iuvat (v. 4), costruisci: hunc (iuvat) si turba mobilium Quiritium certat tollere tergeminis honoribus. Tergeminis honoribus: ablativo strumentale; sono le tre cariche più alte del cursus honorum, questura (o edilità curule), pretura, consolato. 9 s. Illum: dipendente ancora da iuvat (v. 4); costruisci: illum (iuvat) si condidit proprio horreo quicquid verritur de Libycis areis. Quicquid de Libycis verritur areis: espressione iperbolica per dire ‘tutto il grano che si raccoglie sulle aie africane’. 11 ss. Gaudentem ... demoveas: costruisci: numquam demoveas gaudentem (= eum qui gaudet) findere sarculo agros patrios Attalicis condicionibus. Attalicis 05 10 Maecenas atavis edite regibus, o et praesidium et dulce decus meum: sunt quos curriculo pulverem Olympicum collegisse iuvat metaque fervidis evitata rotis palmaque nobilis terrarum dominos evehit ad deos; hunc, si mobilium turba Quiritium certat tergeminis tollere honoribus; illum, si proprio condidit horreo quidquid de Libycis verritur areis. Gaudentem patrios findere sarculo agros Attalicis condicionibus numquam demoveas, ut trabe Cypria Myrtoum pavidus nauta secet mare; Attalicis condicionibus: i re di Pergamo, gli Attalidi, erano famosi per la magnificenza e lo sfarzo delle loro corti. Orazio avrà forse pensato in particolare ad Attalo III, ultimo sovrano di Pergamo, che morendo nel 133 a. C. aveva lasciato in eredità il proprio regno al popolo romano. Attalo era dunque per antonomasia simbolo di ricchezza e l’eredità di Attalo era diventata proverbiale come simbolo di una fortuna inaspettata (cf. Odi II 18). 48 Apre l’ode l’apostrofe a Mecenate (la figura del nobile protettore campeggia anche all’inizio degli Epodi, delle Satire e delle Epistole) ma la sua presenza è limitata a questa sede iniziale e non incide poi sullo sviluppo del componimento. Il tono è decisamente solenne e ufficiale: nel primo verso le voci atavus e editus sono di registro epico ed esaltano il prestigio del personaggio; il secondo verso, con il nesso praesidium et dulce decus, fa luce su un rapporto che è allo stesso tempo ufficiale e amichevole. C. Cilnio Mecenate discendeva da una nobile famiglia di Arezzo, la gens Cilnia, forse di lucumoni (v. Sat. I 6. 1-4 e Odi III 29. 1 Tyrrhena regum progenies); a Roma fu uomo politico e letterato; per scelta, rimase sempre fedele all’ordo equester e non volle mai ricoprire altre cariche sebbene, per il suo prestigio personale e per l’amicizia con Ottaviano, avesse ampi poteri soprattutto come ispiratore di una politica culturale finalizzata a quella ricostruzione morale e religiosa tenacemente voluta e perseguita dall’imperatore. Fu amico e protettore di letterati e divenne il centro di un circolo al quale aderirono, oltre a Virgilio e Orazio, Properzio, Domizio Marso, Gaio Melisso, Lucio Varo, Cornelio Gallo e Vario Rufo. Sul particolare rapporto di amicizia che lo legava a Orazio e sulle modalità del primo incontro fa luce la satira I 6, ma numerosi sono i riferimenti e le attestazioni di stima e di affetto sparsi in tutta l’opera di Orazio. SUL TESTO 3-6 Il primo quadro è introdotto direttamente senza mediazioni: la scena è quella dello stadio in cui campeggia la figura di chi aspira alla vittoria nelle competizioni agonistiche. Nota la vivacità d’immagine ottenuta grazie ad alcuni particolari significativi: la polvere sollevata dai cocchi, la meta sfiorata dalle ruote incandescenti per la velocità e finalmente la palma della vittoria che innalza il vincitore al livello degli dei. Orazio riecheggia qui la concezione greca che faceca della vittoria sportiva un motivo di onore sociale, di gloria e di immortalità (si pensi alla tradizione poetica dell’epinicio, il canto in onore della vittoria). I vincitori dei grandi giochi nazionali erano accolti in patria come trionfatori e venivano loro tributati onori eccezionali (addirittura erano mantenuti a spese pubbliche dallo stato); la loro gloria ricadeva sulla famiglia e sull’intera città. 7-8 Il secondo quadro raffigura l’uomo politico votato agli onori della carriera e al favore della folla. In età repubblicana i magistrati erano effettivamente scelti dal popolo ed eletti nei comitia; formalmente la consuetudine delle votazioni era stata mantenuta da Augusto, sebbene il princeps facesse di fatto valere le sue preferenze. La descrizione è più sintetica ma comunque efficace per l’accenno alla folla tumultuante in occasione delle elezioni: nell’espressione mobilium turba Quiritium si legge una certa sfumatura parodica per l’accostamento dello spregiativo turba e dell’aggettivo mobilis, che indica la volubilità e la leggerezza della folla, al solenne epiteto di Quirites, i Romani in quanto discendenti di Romolo-Quirino. La valutazione espressa da Orazio sulla massa popolare è la stessa che in sat. I 6. 9-10 Terzo quadro: il grande proprietario terriero. Caratteristica di questo personaggio sono l’avidità e la brama di guadagno, espresse icasticamente dal verbo condidit, che denota il compiacimento di accumulare, ammucchiare sacchi di grano nascondendoli come tesori, e dall’iperbole del v. 10. 11-14 Quarto quadro: il modesto agricoltore, il piccolo proprietario terriero in contrapposizione al precedente latifondista. Questa figura ha una connotazione positiva e ha alle spalle la concezione romana dell’agricoltura come unico mestiere che dia una dignità sociale in quanto garantisce l’autosufficienza. A nobilitare la descrizione interviene anche una notazione di carattere sentimentale, l’attaccamento alla piccola proprietà di famiglia espresso dall’aggettivo patrios (‘ereditati dal padre’). Questo contadino non ha ambizioni di ricchezza e si accontenta di vivere del suo lavoro (è il tema caro a Orazio dell’accontentarsi e del vivere secondo le proprie possibilità, vd. Epistole); neppure promesse di ricchezze favolose lo indurrebbero ad allontanarsi dalla sua proprietà e a solcare il mare. Quest’ultimo riferimento introduce un tema tradizionale: il contrasto tra la sicurezza rappresentata dalla terra e le insidie del mare. Nel v. 14 la collocazione di pavidus nauta tra Myrtoum e mare esprime tutta la paura dell’inesperto contadino di fronte ai pericoli del mare. 15-18 Il quinto quadro introduce la figura del mercante che, in opposizione al contadino, è ben contento di vivere sul mare: nei momenti di maggior rischio invoca la terra, ma poi resta fedele alla sua vita di uomo di 49 condicionibus: ‘con promesse degne di Attalo’, cioè particolarmente vantaggiose; v. riquadro p. 49. Demoveas: cong. potenziale. 13 Ut: finale. Trabe Cypria: ‘con una nave di Cipro’. 14 Myrtoum … mare: il mare fra il Peloponneso e le Cicladi, oppure il mare a Sud dell’Eubea. 15 ss. Luctantem ... sui: costruisci: mercator metuens Africum luctantem fluctibus Icariis laudat otium et rura oppidi sui. Luctantem: costruzione alla greca del verbo con il dativo. Icariis fluctibus: il mare Icario è il tratto di Egeo compreso tra le isole di Samo e Micono. Africum: vento di SudEst particolarmente impetuoso. Metuens: dum metuit. 19 Indocilis … pati: costruzione poetica dell’aggettivo con l’infinito esegetico. 19 ss. Est qui ... spernit: costruisci: est qui spernit nec pocula veteris Massici, nec demere partem de solido die; da spernit dipendono l’accusativo (pocula) e l’infinitiva, con una variazione sintattica scandita dalle correlative nec … nec (cf. v. 21 s. nunc … nunc). Massici: pregiato vino campano. Solido … de die: ‘della giornata lavorativa’. 21 Membra: accusativo di relazione. 22 Lene: riferito per enallage a caput anziché a aquae. 23 Lituo: brachilogia per litui sonit. 24 Matribus: dat. d’agente. 25 Detestata: participio passato di verbo deponente usato con valore attivo. Sub Iove: ‘a cielo aperto’. 27 s. Catulis … fidelibus: dat. d’agente. Teretes … plagas: le reti da caccia di filo ben ritorto’. Marsus: i Marsi erano una popolazione dell’Appennino laziale particolarmente bellicosa. 29 s. Me ... superis: costruisci: hederae, praemia doctarum frontium, miscent me dis superis. Hederae: pianta sacra a Bacco, simbolo della poesia. 31 Gelidum nemus: il bosco sacro delle Muse; gelidus: ‘fresco’. 32 ss. Tibias … cohibet: lett. ‘trattiene il flauto’; refugit tendere barbiton: ‘si rifiuta di accordare la cetra’. Euterpe … Polyhymnia: due delle Muse. Lesboum: allusione ai poeti Alceo e Saffo. 36 Sublimi feriam sidera vertice: espressione proverbiale che corrisponde al nostro ‘toccare il cielo con un dito’, letteralmente ‘con la punta del capo’. 15 20 25 30 35 luctantem Icariis fluctibus Africum mercator metuens otium et oppidi laudat rura sui: mox reficit rates quassas indocilis pauperiem pati. Est qui nec veteris pocula Massici nec partem solido demere de die spernit, nunc viridi membra sub arbuto stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae; multos castra iuvant et lituo tubae permixtus sonitus bellaque matribus detestata; manet sub Iove frigido venator tenerae coniugis inmemor, seu visa est catulis cerva fidelibus, seu rupit teretes Marsus aper plagas. Me doctarum hederae praemia frontium dis miscent superis, me gelidum nemus Nympharumque leves cum Satyris chori secernunt populo, si neque tibias Euterpe cohibet nec Polyhymnia Lesboum refugit tendere barbiton. quodsi me lyricis vatibus inseres, sublimi feriam sidera vertice. Confronti Sul motivo della Priamel nella lirica greca si possono confrontare: Saffo fr. 27A D. = 16 L. P. “c’è chi dice che la cosa più bella sia una schiera di cavalieri, chi di fanti, chi di navi, ma io dico che è ciò che si ama”; Pindaro fr. 221 Sn. M. “c’è chi si rallegra degli onori e delle corone conseguite con i cavalli rapidi come il turbine, chi della vita nei talami sfarzosi, chi gode di solcare il mare su una nave veloce”. 50 mare. La descrizione è tutta giocata sul contrasto: nel momento del pericolo la terraferma e l’attività agricola ad essa legata sono vagheggiate come una meta agognata e sono definite otia (sottolineato dall’allitterazione con oppidi) in contrapposizione ai negotia del commercio; subito dopo (mox, con un passaggio repentino rimarcato dall’asindeto), passata la tempesta, il mercante è già tutto dedito a rassettare le reti senza nessuna intenzione di cambiare vita. La differenza tra il pavidus nauta del v. 13 e il mercator metuens (allitterante) del v. 16 consiste proprio in questo: la paura del primo è connaturata con il suo carattere mentre quella del secondo è legata al momento e dipende da fattori esterni, scomparsi i quali la paura svanisce. 19-22 Il sesto quadro rappresenta colui che ama il dolce far niente, bere un bicchiere di buon vino e trascorrere il giorno all’ombra di un arbusto o sulla riva di un ruscello. È stato osservato che alla base di questa descrizione ci potrebbe essere l’influenza di un modello lucreziano (II 29 ss.), e che quindi ci possa essere un riferimento all’ideale del saggio epicureo, ma in questo caso l’accento non è posto tanto sul concetto di atarassia, quanto sulla ricerca del godimento materiale. 23-25 Settimo quadro: il guerriero che ama le operazioni belliche. In questa scena spiccano due elementi: l’attenzione all’aspetto fonico per riprodurre in qualche modo il suono delle trombe con l’eccezionale ricorrenza della t e la notazione patetica condensata nella formula bella … matribus detestata in cui risuona il dolore delle madri che perdono i figli in guerra. 25-28 Ottavo quadro: il cacciatore che passa giorni e notti fuori casa, dimentico degli affetti familiari, pur di catturare la selvaggina. La vivace rappresentazione della scena di caccia è incentrata su tre elementi: la lunga permanenza all’addiaccio, l’azione dei cani che stanano una cerva, il cinghiale che passa strappando le reti. Tra questi particolari si inserisce un rapido cenno al motivo tradizionale dell’incompatibilità tra l’attività venatoria e l’amore (v. 26). 29-36 Il pronome anticipato in incipit in posizione enfatica e rimarcato dall’anafora (v. 30) segna la fine della Priamel e l’ingresso in scena del poeta (appena accennato all’inizio dal meum del v. 2) che conclude la serie delle inclinazioni umane affermando la sua vocazione poetica. L’accostamento del concetto di poesia come doctrina, che emerge da doctarum … frontium, e del simbolo bacchico dell’edera fa luce sulla concezione oraziana dell’attività artistica, frutto allo stesso tempo di ars e di ingenium, cioè di abilità tecnica e di ispirazione divina. Il riferimento al boschetto delle Muse indica l’isolamento necessario alla creazione poetica e l’ostentato distacco dal volgo (secernunt populo), che sarà ripreso nel celebre odi profanum vulgus et arceo (odi III 1) e risponde al rifiuto aristocratico dei gusti del popolo proprio della poesia alessandrina. Il richiamo alle Muse è una manifestazione di modestia e il riferimento ai poeti di Lesbo e ai lirici (forse i nove del canone alessandrino, Pindaro, Bacchilide, Saffo, Anacreonte, Stesicoro, Simonide, Ibico, Alceo e Alcmane) è un’indicazione programmatica del genere letterario cui Orazio si attiene. Nella epistola XIX del primo libro Orazio afferma di aver battuto le vie ignote agli altri e di avere primo introdotto nella poesia latina i metri di Alceo e i giambi del poeta di Paros rinnovando con argomenti propri il ritmo e lo spirito della poesia archilochea (vv. 23-25). Nel commiato posto in fine ai tre libri delle Odi, Orazio si vanta di avere primo ridotto il canto eolico in melodie italiche (III 30. 13); e l’Aeolium carmen era propriamente il canto di Alceo, del poeta greco che “sulla cetra d’oro avea cantato le asprezze del mare, dell’esilio e della guerra” (Od. II 13. 26-28) vale a dire i patimenti i quali fanno dura e fanno grande l’esistenza degli uomini. Questo canto eolico di Alceo — non alio dictum prius ore (Epist. XIX 32-33) — lui solo, poeta lirico di Roma (latinus ... fidicen), aveva fatto canto latino: e questa lode nel congedo del terzo libro va certamente riferita alle alcaiche e alle saffiche dove Orazio non si riporta mai a modelli ellenistici: classica vuole essere la sua forma, e classici sono i suoi modelli. Negli epodi è l’Archiloco romano; nei primi tre libri delle Odi l’Alceo romano; nel quarto vorrebbe risuscitare un altro modello, Pindaro, ma la polimetria e l’ampiezza strofica di Pindaro non sono adatte all’emulo di Alceo: nel quarto libro Orazio fa sentire ricordi, motivi, fraseggiamenti pindarici: ma anche là egli resta il poeta dei metri lesbii. (C. Marchesi, op. cit. pp. 499-500); vd. M 8: Coscienza d’artista 51 Priamel L’ode introduttiva I 1, Maecenas atavis edite regibus, è probabilmente uno dei componimenti più tardi della collezione dei tre libri; è difficile che un poeta componga un proemio prima che la sua opera sia vicina al compimento. Non è perciò improbabile che quasi tutti i passi di quest’ode che ci richiamano alla mente passi di altre odi siano in effetti echi deliberati o variazioni di essi, e che a Maecenas atavis rappresenti, anche sotto quest’aspetto, una vera e propria ouverture ai tre libri. (…) Esaminando la struttura di quest’ode si riconosce facilmente in essa lo schema familiare di una “priamel” (praeambulum). Nella poesia greca, come anche altrove, era un’abitudine assai antica il condurre fino al punto che più importava a chi parlava o cantava mediante una serie di esempi preparatorii, del tipo: “Per uno questa cosa è la più bella, un altro stima quest’altra al di sopra di tutte, un altro quest’altra ancora, ma per me la cosa migliore è avere (o essere) …”. (…) Nel preambolo dell’ode I 1 le attività dei vari tipi di uomini servono a porre in risalto, per contrasto, il modo di vita del poeta e la sua scala di valori. La rassegna dei differenti bíoi richiama analoghi passi della poesia greca, p. es. Pindaro (…), Solone (…), Euripide (…), Bacchilide (…). Un gran numero di simili passi può essere stato noto a Orazio. Se un poeta latino intendeva aprire un suo componimento con l’equivalente greco degli honores conferiti dal voto del populus Romanus (vv. 7 sg.), la scelta della timé derivante dalla vittoria nelle corse delle bighe ai giochi olimpici doveva sembrare abbastanza naturale. (…) Orazio probabilmente aveva presenti molti passi greci, simili sia nel contenuto che nella forma, e li usò liberamente, né fu influenzato soltanto dalla poesia. La descrizione dei vari tipi di bíoi e dei loro relativi meriti aveva una parte importante ni trattati della filosofia popolare ellenistica con la quale Orazio aveva familiarità. In quasi tutta l’ode Orazio non dice nulla di particolarmente originale. Ciò che voleva porre in evidenza in questo proemio ai suoi nuovi carmi era un’ardita, anche se non arrogante, enunciazione delle proprie speranze e – come preparazione ad essa – un’elaborata variazione di un tema che era stato spesso trattato in precedenza. La parte di maggior peso dell’ode, tuttavia, è la sua ultima frase: quodsi me lyricis vatibus inseres, sublimi feriam sidera vertice. È istruttivo raffrontare questa chiusa con la fine del componimento dedicatorio di Catullo: quare habe tibi quidquid hoc libelli, qualemcumque; quod, o patrona virgo, plus uno maneat perenne saeclo. Non sarebbe esatto dire che Catullo parla con minore sicurezza o con più modestia di Orazio. La differenza sta nella portata del pensiero, e per di più, nel rapporto tra la conclusione e il resto del componimento. Consideriamo prima quest’ultimo punto. In Catullo la preghiera finale alla Musa è unita, con un debole legame, alla dedica a Cornelio Nepote; in Orazio le parole quodsi me lyricis vatibus inseres, proprio perché sono indirizzate a Mecenate, sono strettamente connesse con l’inizio. In secondo luogo Catullo dice semplicemente “possa il mio libro sopravvivere per molti secoli”, motivo questo comune nella sua poesia e in quella dei suoi contemporanei. Orazio, invece, pone dinnanzi al lettore un’ardita immagine poetica: sublimi feriam sidera vertice. Infine, Catullo considera il suo libro come una realizzazione isolata, laddove la più orgogliosa speranza di Orazio è che il suo nome, grazie a questi carmina, possa essere aggiunto ai nomi dei poeti antichi tanto ammirati, Pindarus novemque lyrici. Essere accolto come degno erede della loro poesia, essere letto da quei lettori che ancora nutrivano interesse per le liriche classiche della Grecia, questo sarebbe il coronamento della sua vita. (Ed. Fraenkel, Orazio, op. cit., pp. 317 ss.) 52 M 2. Il sentimento della vita La scelta di vita cui è ispirato il tono e anche la forma espressiva delle Odi ha uno dei suoi nuclei tematici fondamentali nella riflessione – ispirata probabilmente anche da un invecchiamento precoce – sulla fugacità del tempo e sull’incombere inevitabile della morte, e molte sono le odi che lo sviluppano, con forme e immagini diverse. Nell’ode a Sestio (I 4 Í) la finitezza del tempo umano è rievocata per contrasto dalla constatazione della circolarità del tempo naturale e del ritorno felice della primavera; nell’ode a Taliarco (I 9 Í) la riflessione sulla necessità di concentrarsi sul momento presente senza crearsi false illusioni per il futuro trova spunto nell’occasione di un inverno insolitamente freddo; altra volta il senso della precarietà dell’esistenza parte da uno spunto autobiografico (II 13). Il tema è trattato talvolta in tono negativo: così nell’ode I 28, la conclusione inevitabile della morte suggerisce la vanità di ogni impresa umana, e il tono è quello della desolazione: Tu maris et terrae numeroque carentis arenae mensorem cohibent, Archyta, pulveris exigui prope litus parva Matinum munera nec quicquam tibi prodest aerias temptasse domos animoque rotundum percurrisse polum morituro. Occidit et Pelopis genitor, conviva deorum, Tithonusque remotus in auras, et Iovis arcanis Minos admissus habentque Tartara Panthoidea iterum Orco iudice te non sordidus auctor naturae verique. Sed omis una manet nox et calcanda semel via leti. Dant alios Furiae torvo spectacula Marti, exitio est avidum mare nautis; mixta senum ac iuvenum densentur funera, nullum saeva caput Proserpina fugit. Tu che andavi misurando il mare e la terra e l’infinita sabbia, Archita, ora ricopre il modesto tributo d’un pugno di polvere presso il lido del Matino, e nulla ti giova l’aver tentato e percorso le dimore celesti e il curvo arco del cielo con il tuo animo morituro. Ma anche il padre di Pelope morì, pur commensale dei numi, e Titone che ascese nell’alto dei cieli, e Minosse, sebbene partecipe dei segreti di Giove, e di nuovo discese nel tartareo Orco il Pantoide, egli, come tu sai, insigne interprete della natura e del vero. Ma tutti attende una stessa notte, e una volta dobbiamo pur calcare la via dell’Erebo. Le Furie gettano alcuni in spettacolo al torvo Marte, i marinai trovano la morte nell’avido mare; si affollano esequie di vecchi e di giovani, nessuna testa sfugge alla crudele Proserpina. (I 28, vv. 1-20; trad. L. Canali) In genere, però, anche nelle odi che inclinano a una conclusione negativa prevale un profondo equilibrio interiore, che mai cade nel tono drammatico, ma, caso mai, in quello leggero e disincantato, in cui traspare il senso della misura, e l’invito a non “alienare” il tempo concesso alla vita in attività dispersive. La celeberrima ode a Leuconoe (I 11 Í) costituisce la sintesi più nota e riuscita di questo motivo, condensato nella formula carpe diem (le cui radici sono già in Ep. 13). Per questa via, il sentimento trapassa naturalmente in una riflessione morale piena di delicatezza e spontaneità. Così, nell’ode a Dellio (II 3 Í) il tema della fugacità del tempo dà le basi al tema dell’aequa mens, della necessità di mantenere un atteggiamento equanime e costante nelle vicende alterne della vita. L’ode a Postumo (II 14 Í) si spinge ancora oltre, evidenziando con serenità la necessità del distacco dalle cose terrene di cui l’uomo è padrone soltanto per poco tempo. 53 Vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam Il Testo ODI I 4 Il tema dell’ineluttabilità della morte è suggerito dalla constatazione della circolarità del tempo naturale quale emerge dal ciclico ritorno della primavera. La prima parte del testo (vv. 18) è incentrata sulla descrizione della primavera, la seconda (vv. 13-20), di tono più filosofico, sul concetto del sopraggiungere della morte che accomuna gli uomini in uno stesso destino. Il dedicatario, Lucio Sestio Quirino, era stato un seguace di Bruto e come tale aveva partecipato alla guerra del 42, forse come commilitone di Orazio; in seguito si avvicinò ad Augusto, che lo nominò console nel 23. La composizione sembra comunque essere stata anteriore a questa data, soprattutto per motivi di carattere formale. Metro: strofa archilochea cat. 1 Solvitur: ‘si dissolve’, ‘si stempera’. Grata vice: ‘al gradito ritorno’. Veris et Favoni: endiadi; il Favonius è lo Zefiro, tiepido vento primaverile. 2 Carinas: sineddoche per naves. Machinae: macchinari che servivano per far scendere (trahunt) in mare le navi. 3 Neque iam: ‘non più’. Gaudet: ‘si gode’, quindi ‘se ne sta tranquillo in (presso il)’. Stabulis … igni: ablativi dipendenti da gaudet. Arator = agricola. 5 Ducit choros: ‘guida le danze’. Imminente luna: ‘al raggio della luna splendente in cielo’. 6 Decentes. ‘leggiadre’, ‘graziose’. 7 Alterno ... pede: nella danza si poggia altenativamente a terra un piede e poi l’altro. 8 Dum ... officinas: costruisci: dum Vulcanus ardens visit gravis (= graves) officinas Ciclopum. Gravis … officinas: ampio iperbato e metonimia. 9 s. Nunc ... solutae: costruisci: nunc (in anafora qui e al v. 11) decet impedire nitidum caput aut viridi myrto aut flore quem terrae solutae ferunt. Nitidum: ‘lucente’. Impedire: ‘cingere’, ‘ornare’. Terrae quem …: anastrofe. Solutae: ‘sciolte dalla morsa del gelo’. 12 Poscat: sott. immolari sibi. 13 Aequo … pede: ‘con piede imparziale’; con ipallage. Pulsat pede: gli antichi avevano l’abitudine di bussare alle porte con il piede e non con la mano. 13 s. Pauperum tabernas regumque turres: antitesi. 15 Vitae ... longam: costruisci: summa vitae brevis nos vetat inchoare spem longam. 17 Domus exilis Plutonia: perifrasi per ‘l’aldilà’; il regno di Plutone è exilis in quanto ‘vuoto’, privo di vita e di ricchezza. Quo = et eo. Simul = simul ac. Mearis = meaveris. 18 Sortiere = sortieris. Talis: ablativo di mezzo. 19 Mirabere = miraberis. Quo calet: ‘per il quale arde di passione’. 20 Tepebunt: ‘cominceranno a provare amore’. 05 10 15 Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni trahuntque siccas machinae carinas, ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni nec prata canis albicant pruinis. Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna, iunctaeque Nymphis Gratiae decentes alterno terram quatiunt pede, dum gravis Cyclopum Volcanus ardens visit officinas. Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto aut flore, terrae quem ferunt solutae. Nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis, seu poscat agna sive malit haedo. Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turris. O beate Sesti, vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam; iam te premet nox fabulaeque Manes et domus exilis Plutonia; quo simul mearis, nec regna vini sortiere talis nec tenerum Lycidam mirabere, quo calet iuventus nunc omnis et mox virgines tepebunt. Confronti: il motivo del ritorno della primavera Lucrezio V 737 ss. it ver et Venus et Veneris praenunitus ante / pennatus graditur, Zephyri vestigia propter / Flora quibus mater praespargens ante viai / cuncta coloribus egregiis et odoribus implet. Catullo 46. 1 ss. iam ver egelidos refert tepores, / iam caeli furor aequinoctialis / iucundis Zephyri silescit auris. 54 Venere e il suo corteo Venere, detta Citerea in quanto secondo la leggenda sarebbe nata dalla spuma del mare presso l’isola di Citèra, era solitamente accompagnata delle tre Grazie e delle Ninfe. La pianta a lei sacra era il mirto, profumato arbusto tipico della macchia mediterranea. Vulcano e i Ciclopi: Vulcano, lo sposo di Venere, è il dio romano del fuoco, infuocato e arrossato dai bagliori delle fiamme (ardens, v. 9); secondo una versione del mito, alle sue dipendenze lavoravano i Ciclopi, esseri giganteschi con un solo occhio. Essi fabbricavano i fulmini di Giove nelle loro officine situate o nell’Etna o nelle isole Eolie o nell’isola di Lemno, a seconda delle varianti del mito. Fauno: divinità agreste protettrice del bestiame. Mani: gli spiriti dei morti che erano oggetto di culto. SUL TESTO L’apertura consiste in una descrizione del ritorno della primavera mediante due accenni al risveglio della natura – il disgelo e il ritorno del vento tiepido da un lato (v. 1) e il cessare del biancheggiare dei prati per la brina dall’altro (v. 4) – e due alla ripresa delle attività umane sospese durante l’inverno, la navigazione (v. 2), la pastorizia, l’agricoltura (v. 3). È evidente in questa strofa l’attenzione agli effetti musicali (per esempio l’allitterazione vice veris o l’assonanza solvitur … Favoni). Sul piano formale da rilevare anche al v. 3 il chiasmo stabulis … pecus aut arator igni. Con la seconda strofa il discorso si sposta dall’ambiente umano e naturale a quello mitico: con il ritorno della primavera riprendono le danze delle Grazie e delle Ninfe guidate da Venere e ricomincia il lavoro dei Ciclopi sotto la sorveglianza di Vulcano. I due quadri sono in netta contrapposizione: alla leggiadra scena delle danze del corteo di Venere al chiarore della luna segue, introdotta dal dum che indica l’esatta contemporaneità, quella del pesante lavoro dei Ciclopi nel soffocante caldo delle loro officine. La connessione tra Venere e la primavera è di immediata evidenza in quanto la dea dell’amore simboleggia la forza della vitalità, il risveglio della vita; più arduo è il riferimento a Vulcano: secondo una interpretazione la ripresa delle attività dei Ciclopi e di Vulcano in primavera sarebbe dovuta al fatto che in questa stagione di frequenti temporali è necessario produrre una grande quantità di fulmini; secondo un’altra interpretazione questo riferimento sarebbe introdotto come implicito invito a godere del presente perché in ogni momento possono arrivare i fulmini di Giove. Con la terza strofa si ritorna alle attività umane per sottolineare la necessità di rinnovare, in occasione del ritorno della primavera, anche i rapporti con le divinità celebrando banchetti rituali e facendo sacrifici. I primi due versi della strofa (9-10) invitano a inghirlandarsi di mirto, pianta sacra a Venere (evidente richiamo ai vv. 5 ss.), e di fiori che la terra produce in seguito al disgelo primaverile (terrae … solutae richiama, anche lessicalmente, il motivo iniziale dell’ode); gli ultimi due invitano a celebrare Fauno con sacrifici di agnelli o capretti. La transizione alla seconda parte dell’ode, di carattere più filosofico, è piuttosto brusca e non è facile cogliere il collegamento. Dopo le immagini serene della descrizione della primavera, il v. 13 si apre improvvisamente con la menzione in incipit della pallida Mors, personificazione della morte vista nell’atto di bussare alle porte di tutte le case indistintamente. Il collegamento tra le due parti può essere costituito dal concetto sottinteso che al tornare la primavera bisogna abbandonare le tristezze e darsi alla gioia, prima che la morte, sempre in agguato, arrivi a portarci via. A questa immagine della morte segue l’apostrofe al dedicatario Sestio, non a caso nominato subito dopo i reges, in quanto personaggio potente. Il v. 15 ripropone il tema della brevità della vita che non consente di nutrire speranze a lungo termine (cf. Odi I 11. 6); di seguito un accenno fugace al nulla che ci aspetta nell’aldilà, la nox eterna, i Manes, e la domus exilis Plutonia. Questo sintetico accenno è sufficiente a richiamare alla mente le più dettagliate immagini dell’oltretomba di Odi II 14: e come lì l’ode si conclude con il riferimento a tutti i beni da abbandonare, qui il finale è incentrato sui piaceri che non si vivranno più, il piacere del vino e del convivio (nec regna vini sortiere talis) e il piacere dell’amore identificato nella figura del giovinetto Licida. 55 A Permitte divis cetera Il Testo ODI I 9 Ancora una variazione sul tema del vivere l’oggi nel modo migliore senza preoccuparsi di cosa accadrà domani; l’occasione in questo caso è un inverno insolitamente freddo per un Romano e un momento in cui si apprezzano i piaceri del calore domestico e del buon vino. Il destinatario delle raccomandazioni oraziane è in questo caso il giovane Taliarco, dietro il cui nome greco, forse fittizio, non sappiamo chi si celi. Non ci sono indizi per la data di composizione ma una certa somiglianza con l’epodo 13 ha fatto pensare piuttosto a una datazione alta. Metro: strofa alcaica 1 Ut = quomodo. Stet: ‘si erge’. Nive: abl. di causa. 2 Soracte: il Soratte, oggi monte S. Oreste o S. Silvestro, si trova a una quarantina di chilometri a Nord di Roma; non è molto alto ma è ben visibile perché isolato e caratterizato da un profilo particolarmente scosceso. Nec iam: ‘e non più’. 3 Laborantes: ‘affaticate’ per il peso della neve. 4 Flumina: non certo il Tevere ma piccoli corsi d’acqua. Constiterint. ‘si siano arrestati’. 5 Dissolve frigus: ‘allontana il freddo’. Super foco: ‘sul focolare’; costruzione poetica. 6 Large: ‘in abbondanza’. Benignius: comparativo assoluto ‘senza risparmio’. 7 s. Deprome: ‘tira fuori’, ‘spilla’. Quadrimum … merum: merum = vinum, ‘vino di quattro anni’, vino di media qualità. Sabina … diota: ‘dall’anfora sabina’, ipallage. 9 Permitte: ‘affida’; divis = dis. Qui simul = nam simul atque ii. 10 Stravere = straverunt. Aequore fervido: abl. di luogo senza in. 11 Deproeliantis = deproeliantes. 13 ss. Quid ... adpone: costruisci: fuge quaerere quid futurum sit cras et lucro adpone quemcumque dierum fors dabit. Fuge quaerere = noli quaerere. Quem … cumque: tmesi; dierum gen. partitivo. Fors = Fortuna, Tyche. Lucro adpone: ‘consideralo un guadagno’. 15 s. Nec … sperne: imperativo negativo poetico. Puer: predicativo. Dulces = dulcis. Neque tu choreas: sott. sperne. 17 Virenti: scil. tibi, dipendente da abest. 18 Morosa: ‘intrattabile’. Et campus et areae: il Campo Marzio e le piazze. 20 Composita … hora: ‘all’ora fissata’. Repetantur: cong. esortativo, ‘siano frequentati’. 21 s. Nunc ... ab angulo: costruisci: nunc et gratus risus, proditor, puellae latentis ab initimo angulo, sottintendi repetatur. Proditor: ‘rivelatore’. 22 s. Pignus dereptum: sottintendi ancora repetatur. Male pertinaci: ‘che non offre abbastanza resistenza’, male = parum. 05 10 15 20 Vides ut alta stet nive candidum Soracte nec iam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constiterint acuto. Dissolve frigus ligna super foco large reponens atque benignius deprome quadrimum Sabina, o Thaliarche, merum diota. Permitte divis cetera, qui simul stravere ventos aequore fervido deproeliantis, nec cupressi nec veteres agitantur orni. Quid sit futurum cras, fuge quaerere, et quem Fors dierum cumque dabit, lucro adpone, nec dulcis amores sperne puer neque tu choreas, donec virenti canities abest morosa. Nunc et campus et areae lenesque sub noctem susurri conposita repetantur hora, nunc et latentis proditor intumo gratus puellae risus ab angulo pignusque dereptum lacertis aut digito male pertinaci. 56 Il re del banchetto: i Romani avevano l’abitudine di eleggere durante i conviti un rex convivii, o, con nome greco, un simposiarca. Il re del banchetto veniva sorteggiato (sortiri) con i tali, gli astragali, un tipo di dadi costituiti da ossa di animali (gli astragali, appunto, cioè ossa del tarso). Aveva il compito di regolare il simposio dando disposizioni sulla quantità di vino da bere e sulle proporzioni in cui esso doveva essere miscelato con l’acqua. A questa figura e a questa abitudine Orazio allude più volte, esplicitamente in Odi I 4. 18 (regna vini sortiere talis), in modo più velato forse nel nome di Taliarco, dedicatario della nona ode del primo libro, e ancora, in modo negativo, in Sat. II 6 68 ss. (siccat inaequalis conviva solutus / legibus insanis, seu quis capit acria fortis / pocula, seu modicis uvescit laetius), in cui si contrappone la cena alla buona tra amici di campagna, dove ciascuno può regolarsi come crede, ai conviti ufficiali dove è necessario adeguarsi all’etichetta e sottostare alle direttive del simposiarca. SUL TESTO L’ode ha inizio con uno spunto realistico e la prima strofa è interamente dedicata a una descrizione di paesaggio invernale: domina il profilo scosceso del Soratte, che si erge in tutta la sua imponenza e il suo candore, ricoperto di neve in un inverno eccezionalmente freddo; intorno si estendono i boschi anch’essi appesantiti dalla neve e i corsi d’acqua gelati. Gli elementi del paesaggio sono come personificati, le silvae laborant e i flumina constiterint, due azioni normalmente riferite a esseri umani, e la descrizione dell’ambiente esterno diventa una sorta di trasposizione e oggettivazione dello stato d’animo del poeta. La seconda strofa sposta l’immagine a una scena d’interno incentrata su due elementi decisamente positivi, il fuoco e il vino, che costituiscono una sorta di difesa rispetto al freddo (dissolve frigus), che è il freddo dell’esterno legato alla stagione invernale, ma anche freddo dell’anima. Quello del vino è un motivo centrale nella filosofia oraziana e il fatto stesso che il vocativo del destinatario sia collocato tra due espressioni indicanti il vino sottolinea ulteriormente la rilevanza della metafora del vino. A partire dalla terza strofa la riflessione si stacca dalla situazione contingente e il tono diventa più filosofico; l’ode assume la forma della parenesi, cioè dell’esortazione. L’invito ad affidarsi agli dei (v. 9) è sembrato ad alcuni in contraddizione con la filosofia epicurea, secondo la quale gli dei o non esistono o non si interessano delle vicende umane; in realtà la divinità è qui da intendere nel senso di forza soprannaturale che regola la vita umana e contro la quale l’uomo non può esercitare la propria volontà. La potenza delle divinità si manifesta qui nell’atto di placare la furia dei venti in lotta tra loro sul mare (vv. 9 ss.) e gli effetti della calma che segue si estendono anche alla terraferma (vv. 9 s.). L’immagine di questo scenario naturale non ha niente a che vedere con la rappresentazione dell’ambiente invernale nella prima strofa: lì, infatti, l’intento era puramente descrittivo, mente qui il valore è paradigmatico. L’ultima parte della poesia consiste in un’esortazione gnomica a vivere intensamente la vita concentrandosi sul presente senza preoccuparsi del futuro e a godere, finché si è giovani, dei piaceri dell’amore. Il v. 13 ripropone il tema centrale dell’ode I 11 e i versi seguenti si concentrano sul motivo della giovinezza, momento di gioia e di vitalità, in contrapposizione alla vecchiaia. Nunc, in anafora al v. 18 e al v. 21 è l’oggi, il momento presente della giovinezza, e si contrappone nettamente al cras del v. 13, cioè il futuro su cui grava l’incertezza. Saper vivere il momento presente significa abbandonarsi a quei piaceri legati all’amore che sono caratteristici della giovinezza: la frequentazione dei luoghi d’incontro quali le piazze, le frasi d’amore sospirate nell’oscurità della notte, i giochi a nascondersi e a ritrovarsi. La scena finale è descritta con delicato realismo: il gioco tra un ragazzo e una ragazza, che si nasconde per poi essere ritrovata e pagare un pegno, è vista con gli occhi di chi, ormai maturo guarda la spensierata letizia dei giovani con tenero compiacimento, ma non senza una certa commozione. 57 Et spatio brevi spem longam reseces Il Testo ODI I 11 Il tema della fugacità del tempo, colto in una felice sintesi di immagini, trova in questa ode la più celebre delle formulazioni. Il motivo è di derivazione epicurea, così come epicureo è anche il rifiuto dell’astrologia. La riflessione sul tempo è caratterizzata dalla malinconia che nasce dal contrasto tra il presente, che l’uomo cerca di cogliere, e il futuro, che incombe minaccioso. Destinatario è una fanciulla dal nome greco, Leuconoe, qui rappresentata come persona seguace delle mode astrologiche e incline a credere a qualsiasi profezia sul futuro. Non ci sono indizi per la datazione del componimento. Metro: asclepiadeo maggiore 1 Ne quaesieris: imp. negativo che esprime qui piuttosto un’accorata raccomandazione che non un vero e proprio ordine. Scire nefas: scil. est. 2 Leuconoe: nome greco fittizio: ‘la fanciulla dall’animo candido’: ma nulla è dato sapere della donna che si cela dietro lo pseudonimo. Nec = neve, neu. Babylonios … numeros: ‘i calcoli degli astrologi babilonesi’. L’astrologia era nata, in connessione con gli studi di astronomia, a Babilonia e i Babilonesi erano celebri per le loro conoscenze nel campo della mantica. Quest’arte, già molto diffusa nella cultura greca in età ellenistica, aveva riscosso grande successo popolare anche a Roma. Temptaris = temptaveris. Ut: esclamativo. 4 Costruisci: seu Iuppiter (tribuit nobis) plures hiemes, seu tribuit ultimam (hanc), quae … Hiemes = annos, per sineddoche; ultimam: predicativo (‘come ultimo’). 5 Costruisci: quae nunc debilitat mare Tyrrhenum oppositis pumicibus e intendi oppositis pumicibus come abl. strumentale. 6 Sapias: cong. esortativo (come i seguenti liques, reseces), ‘sii saggia’. Vina liques: ‘versa il vino, bevi con gusto’, ma liquare vina significa propriamente filtrare il vino, attraverso una tela o un colino. Spatio brevi: abl. assoluto con valore causale (ma secondo altri abl. strumentale da unire a spem longam reseces). 7 Fugerit: futuro perfetto con valore risultativo. 8 Aetas = tempus. Credula: l’aggettivo, con valore predicativo, indica l’atteggiamento di chi si dimostra immmotivatamene fiducioso. Postero: scil. diei. 05 Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati! Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem quam minimum credula postero. Carpe diem Il motivo del carpe diem, abbozzato in nuce e in un modo meno incisivo, nell’epodo 13, nella formulazione rapiamus amici occasionem de die, è qui sintetizzato e reso più significativo grazie alla pregnanza semantica di carpere. Già Porfirione, l’antico scoliasta di Orazio, notava la provenienza del verbo dal lessico agricolo e osservava come all’immagine fosse sottesa la metafora del cogliere un fiore o un frutto. Recentemente il Traina ha sottolineato come più propriamente carpere significhi “prendere a spizzico”, “con un movimento lacerante e progressivo che va dal tutto alle parti: come sfogliare una margherita o mangiare un carciofo”. Dunque l’immagine che Orazio suggerisce è quella della contrapposizione tra il tempo in astratto, nella sua continuità (aetas), e quella parte di tempo (dies) che l’uomo può strappare (carpere) al tutto. 58 Il tema del tempo è costante e incombente e mi pare precipuo nella poetica oraziana: una sensibilità allarmata precocemente e che sarebbe ossessiva se l’esprit e l’eleganza mentale non la dominassero ci ricorda l’invida aetas, i fugaces … anni, l’irreparabile tempus. Questa temporalità inoppugnabile impreziosisce le buone cose intanto che ne decreta la brevità e la perdita; non per questo rende più tollerabili quelle brutte, volgari. In questo senso profondo si radica, cresce e si ramifica la pianta della poesia oraziana. Senza questa inclinazione dell’ombra sulla meridiana e lo struggente fruscio della clessidra non riusciremmo, credo, a valutare nel giusto grado di intensità i motivi dell’eros, dei fiori, del vino e delle altre letizie e seduzioni. Potrebbero addirittura sembrare un repertorio, sennonché quella incrinatura di ambiguità e quella ruga nel loro bene illusivo ne accusa la grazia e il pathos. Le più ariose aperture, i più nitidi mivimenti si spiccano proprio da questo tronco: quelle frasi che si stagliano nell’altezza del silenzio, incancellabili. (M. Luzi) SUL TESTO 1-3 L’ode si apre con una considerazione generale: non è lecito voler sapere quale limite di tempo gli dei abbiano posto alla vita di ciascuno. Scire nefas esprime la motivazione del concetto svolto da tu fino a Leuconoe; nefas ha una sfumatura sacrale e implica l’idea della trasgressione alle leggi divine. A tutto ciò si contrappone, in modo negativo, l’atteggiamento di chi vuole a tutti i costi ‘tentare la sorte’ (temptare), violando il limite imposto alla conoscenza umana. Orazio suggerisce invece, come risposta alla precarietà della condizione umana, la via della sopportazione, della patientia (ut melius, quidquid erit, pati!), con un chiaro riferimento a uno dei principali requisiti della saggezza stoica. 4 ss. Alla riflessione teorica segue una breve ma intensa immagine a cui apre la via, fungendo quasi da ponte, la sineddoche (hiemes) che anticipa e orienta l’attenzione sul quadro invernale; efficace la duplice personificazione, del mare Tirreno sfiancato dalla furia delle tempeste (debilitat) e degli scogli che sembrano opporglisi di proposito (oppositis … pumicibus). Di fronte all’impossibilità di prevedere il corso della vita, Orazio (dopo l’accenno del v. 3) rinnova alla fanciulla, e al lettore, l’invito a dimostrarsi saggi (sapias) aderendo ai suoi consigli: vina liques e spatio brevi / spem longam reseces. Il riferimento al bere va inteso alla luce della concezione oraziana in cui il vino assume quasi un valore di simbolo del godimento del presente. La contrapposizione tra la longa spes e lo spatium breve sintetizza la drammaticità della condizione umana oppressa dal contrasto tra l’inesauribilità delle aspettative e l’esiguità del tempo concessole. 7 s. Nell’ultimo verso, nell’efficace e celebre formulazione dell’invito a non credere nel futuro e a cogliere piuttosto il momento presente, si concentra la sintesi della riflessione oraziana. Dum loquimur, fugerit invida / aetas: l’accostamento del presente e del futuro anteriore, che indica l’azione già compiuta, sintetizza ed esprime l’idea della fugacità del tempo, già passato prima ancora che l’uomo se ne renda conto. Il tempo, visto nel suo continuo sfuggire di mano all’uomo, è come personificato e la sua fuga incessante sembra quasi dettata dalla volontà di strappare all’uomo (invidus) tutte le gioie della vita. L’efficace accostamento di aggettivo e sostantivo è sottolineato dalla collocazione in enjambement. La formula carpe diem, assurta ormai al rango di proverbio e di citazione autonoma, risulta particolarmente significativa, oltre che per il valore specifico del verbo (v. riquadro), per l’originale e pregnante accostamento di un verbo concreto qual è carpo a un sostantivo astratto come dies. Quest’ultimo imperativo, che a sua volta implica ancora il divieto di cedere alle aspettative per il futuro, si ricollega agli imperativi iniziali (ne quaesieris … ne temptaris); “il carpe diem, serrato in un cerchio di divieti, appare sempre connesso col divieto complementare, ‘non pensare al domani’” (Traina). 59 Aequam memento servare mentem Il Testo ODI II 3 I motivi dell’ode sono tra i più cari a Orazio: il tema della fugacità della vita umana (vd. in particolare Odi I 4) e quello dell’aequa mens, di tradizione epicurea. Il sentimento di precarietà e la malinconia per la transitorietà della bellezza e della giovinezza trovano una delle più riuscite espressioni nel simbolismo della rosa. Non ci sono indizi cronologici sicuri se non il terminus post quem del 30 a. C., anno del ritorno di Quinto Dellio dall’Oriente. Metro: strofa alcaica 1 Rebus in: anastrofe. 2 ss. Non secus ... laetitia = non secus (= aliter) <quam> in bonis <rebus servare memento> temperatam <mentem> ab insolenti laetitia. 4 Moriture: ‘che sei destinato a morire’. 7 Bearis = beaveris. 8 Interiore nota Falerni: ‘con una vecchia bottiglia di falerno’. La nota (metonimia per ‘anfora’) era l’etichetta che si applicava all’anfora recante l’indicazione della data in cui essa era stata riposta nella cantina. I vini più vecchi, e più pregiati, sono quelli delle file più interne. 9 Quo = quare, ‘per quale ragione?’. 11 Ramis: abl. strumentale. 13 s. Huc ... rosae: costruisci: huc ferre iube vina et unguenta et nimium breves flores amoenae rosae. 15 s. Res: ‘il patrimonio, le condizioni economiche’ (secondo altri ‘la situzione favorevole’). Aetas = tempus. 1516 Sororum … trium: le Parche, Cloto, Lachesi e Atropo; secondo il mito la vita di ogni uomo dipende dalla quantità di filo che le tre sorelle filavano. Atra fila sono dunque i ‘fili del destino’ e sono scuri (atra) perché inevitabilmente portano con sé il pensiero della morte. Patiuntur: ‘lo consentono’. 17 ss. Cedes … cedes: anafora. Coemptis saltibus: ‘dai terreni che hai comprato e messo insieme poco per volta’. 18 Villa: ‘la casa di compagna’. 19 Extructis in altum: ‘ammucchiate’. 21 ss. Divesne ... Orci: costruisci: nil (= nihil) interest <utrum> natus <sis> dives (divesne = utrum dives) a prisco Inacho, an pauper et de infima gente moreris sub divo, <tu qui eris> victima Orci nil miserantis. 21 Inacho: mitico capostipite dei re di Argo. 23 Sub divo moreris: ‘hai per tetto il cielo’, ‘vivi all’aperto’, senza una casa. 25 Eodem cogimur: ‘siamo guidati in uno stesso luogo’. 25 ss. Omnium ... cumbae: costruisci: sors <nostrum> omnium versatur urna, exitura serius ocius, et impositura nos cumbae (= cymbae) in aeternum exsilium. 28 Cumbae: la barca di Caronte con cui le anime venivano traghettate al di là dell’Acheronte. 05 10 15 20 25 Aequam memento rebus in arduis servare mentem, non secus in bonis ab insolenti temperatam laetitia, moriture Delli, seu maestus omni tempore vixeris, seu te in remoto gramine per dies festos reclinatum bearis interiore nota Falerni. Quo pinus ingens albaque populus umbram hospitalem consociare amant ramis? Quid obliquo laborat lympha fugax trepidare rivo? Huc vina et unguenta et nimium brevis flores amoenae ferre iube rosae, dum res et aetas et Sororum fila trium patiuntur atra. Cedes coemptis saltibus et domo villaque flavos quam Tiberis lavit, cedes, et exstructis in altum divitiis potietur heres. Divesne, prisco natus ab Inacho, nil interest an pauper et infima de gente sub divo moreris, victima nil miserantis Orci: omnes eodem cogimur, omnium versatur urna serius ocius sors exitura et nos in aeternum exilium inpositura cumbae. 26 Versatur urna ... sors: la metafora fa riferimento alla consuetudine di interrogare il futuro gettando in un recipiente pietruzze con su scritte le sortes e agitando finché una sorte non cadeva fuori. Serius ocius: asindeto disgiuntivo. 27 Verso ipermetro: l’ultima sillaba di aeternum si lega in sinalefe alla prima del verso seguente (ec-). 60 Quinto Dellio, conosciuto forse da Orazio durante la permanenza nell’esercito di Bruto e Cassio, cambiò più volte partito: dopo la battaglia di Filippi, passò dalla parte dei cesaricidi a quella di Antonio e, prima di Azio, a quella di Ottaviano, di cui ottenne il favore, ma dovette convivere con la fama meritata di ‘saltimbanco (desultor) delle guerre civili’, secondo la definizione che ne diede Messalla Corvino (Sen. suas. 1. 7). SUL TESTO L’ode si apre con un motivo gnomico (vv. 1-8): il concetto dell’imperturbabilità dell’animo è di derivazione sia epicurea che stoica. La solennità dell’enunciazione è accentuata dall’imperativo (memento) e dalla collocazione del sostantivo (mentem) e del suo aggettivo (aequam) ai due estemi della frase. In incipit e clausola di verso si oppongono invece di due aggettivi aequam e arduis in “un’antitesi quasi visiva” (Ussani). L’invito che Orazio rivolge al dedicatario Dellio, e con lui al lettore, è quello di ricercare la serenità interiore (aequam … mentem) nelle difficoltà della vita (rebus in arduis) e allo stesso modo la moderazione (ab insolenti temperatam, scil. mentem, laetitia) nella buona sorte (in bonis). Efficace l’accostamento del vocativo (Delli) e del participio futuro (moriture), collocati in posizione di rilievo alla fine della prima strofa per richiamare l’attenzione sulla mortalità dell’uomo (concetto svolto in modo più articolato nell’ultima strofa). La sezione centrale (vv. 9-16) contiene la descrizione di un locus amoenus (vv. 9-12) e l’invito a un banchetto (vv. 13-16) introdotti come contropartita positiva al triste destino dell’uomo: anche nelle vicende tristi della vita e pur con la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte, l’uomo deve comunque seguire l’invito della natura stessa alla serenità. L’ombra accogliente prodotta dall’abbraccio dei rami del pino (pinus ingens) e del pioppo (alba … populus) e il piacevole e rinfrescante scorrere dell’acqua (lympha fugax) di un ruscello tortuoso (obliquo … rivo) sono gli elementi che definiscono un quadro vivace in cui la natura risulta come animata; da notare in particolare la ricercata collocazione delle parole e la musicalità dei versi 11 ss. La scena conviviale è contesta a sua volta di elementi tipici: il vino (vina), i profumi (unguenta) e le ghirlande di fiori (flores amoenae … rosae). La rosa è tradizionalmente simbolo della fugacità della bellezza e della vita e l’accenno alla sua breve esistenza (nimium breves) introduce una nota di maliconia che apre la via alla minacciosa immagine delle tre Parche, pronte a tagliare il filo della vita di ciascuno (v. 15 s.). La terza e ultima parte (vv. 17-28) torna al tono gnomico con una intensa riflessione sull’ineluttabilità della morte. Essa prende avvio dal richiamo alla necessità di abbandonare in mano agli eredi (potietur heres) tutti i beni faticosamente accumulati nel corso della vita: terreni (saltus), case (domus, villa), richezze (divitiae). La strofa successiva sviluppa la constatazione che davanti alla morte non c’è differenza di condizione sociale: il ricco discendente di nobile stirpe (prisco natus ab Inacho) e il povero nullatentente (pauper et infima de gente) sono allo stesso modo vittima dell’inesorabile Dite, che di nessuno ha compassione (victima nil miserantis Orci). La strofa conclusiva ribadisce il comune destino di tutti gli uomini, tutti ugualmente soggetti prima o dopo alla stessa sorte. I due participi futuri (exitura e impositura) richiamano moriture del v. 4 e l’ode sembra così iscriversi dentro una cornice di segnali che rinviano all’irrevocabilità della morte. Dopo le immagini delle Parche (v. 15) e dell’Orco (v. 24), campeggia nel finale quella della barca di Caronte che sembra allontanarsi verso il mondo degl’inferi dove le anime sono come inghiottite nell’eternità del silenzio. 61 Fugaces labuntur anni Il Testo ODI II 14 Il motivo della brevità della vita e inesorabilità della morte è qui connesso con quello della necessità di dare il giusto valore alle cose sapendo che non esse ci appartengono stabilmente e anzi siamo destinati a lasciarle. È evidente l’affinità dell’argomento e delle riflessioni con l’ode II 3, ma qui le immagini si fanno più plastiche e realistiche e più insistita diventa l’osservazione della morte e dell’aldilà. Il destinatario, Postumo, non è altrimenti conosciuto e ciò ha indotto addirittura al sospetto, comunque non provato, che si tratti di un nome fittizio; a prescindere comunque da chi sia il personaggio, qui egli offre l’occasione per una meditazione sulla morte. Non ci sono indizi per la datazione. Metro: strofe alcaica 1 Labuntur: ‘scorrono’. 3 Rugis et instanti senectae: endiadi; senectae = senectutis. Instans: ‘incombente’. 4 Indomitae: ‘indomabile’. 5 s. Non si ... tauris: costruisci: si trecenis tauris quotquot eunt dies, amice, places inlacrimabilem Plutona. Inlacrimabilem: ‘implacabile’. 7 Plutona: accusativo nella forma greca. Ter amplum: ‘triforme’. 8 s. Tristi … unda: la palude Stigia. 9 Scilicet: ‘senza dubbio’. 10 Quicumque … vescimur: perifrasi per indicare i mortali. 13 Carebimus: ‘ci terremo lontani’. Marte: metonimia per ‘guerra’. 14 Rauci … Hadriae: l’Adriatico fragoroso per le tempeste. 15 s. Nocentem … Austrum: lo scirocco autunnale, pericoloso perché portatava la malaria. Metuemus: ‘ci guarderemo da’, ‘staremo lontani’. 17 s. Visendus … Cocytos: perifrasi per ‘si deve morire’. Cocito è uno dei fiumi infernali. Flumine languido: abl. di modo. 19 s. Longi … laboris: gen. della pena; intendi longus nel senso di ‘eterno’. 22 s. Neque ... sequetur: costruisci: neque ulla harum arborum, quas colis, te, brevem dominum, sequetur, praeter invisas cupressos. Quas colis: relativa prolettica. 23 Invisas cupressos: i cipressi erano simbolo di morte perché ornavano, oltre ai giardini, le tombe. 25 Absumet: ‘si godrà’. Dignior: ‘più saggio’ perché capace di godersi quei beni custoditi troppo gelosamente dal precedente proprietario. Caecuba: scil. vina, plurale per il singolare. 26 Centum clavibus: iperbole per dire ‘con mille riguardi’. 26 ss. Et mero ... cenis: costruisci: et tinget pavimentum mero (= vino) superbo (‘generoso’) potiore cenis pontificum. Pontificum … cenis: abl. di paragone = cenarum pontificum. Geryonen (acc. greco): mostro dai tre corpi umani, ucciso da Ercole. 9 s. Tityon 05 10 15 20 25 Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni nec pietas moram rugis et instanti senectae adferet indomitaeque morti, non si trecenis quotquot eunt dies, amice, places inlacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi conpescit unda, scilicet omnibus, quicumque terrae munere vescimur, enaviganda, sive reges sive inopes erimus coloni. Frustra cruento Marte carebimus fractisque rauci fluctibus Hadriae, frustra per autumnos nocentem corporibus metuemus Austrum: visendus ater flumine languido Cocytos errans et Danai genus infame damnatusque longi Sisyphus Aeolides laboris, linquenda tellus et domus et placens uxor, neque harum quas colis arborum te praeter invisas cupressos ulla brevem dominum sequetur. Absumet heres Caecuba dignior servata centum clavibus et mero tinguet pavimentum superbo, pontificum potiore cenis. (acc. greco): uno dei giganti ucciso da Diana perché aveva tentato di fare violenza a sua madre Latona. 18 s. Danai genus infame: le cinquanta figlie di Danao che secondo il mito avevano ucciso i rispettivi mariti durante la prima notte di nozze. 19 s. Sisyphus Aeolides: Sisifo, figlio di Eolo, aveva rivelato a Esopo il luogo in cui Zeus aveva nascosto sua figlia Egina dopo averla rapita. Tutti erano condannati a pene eterne e inutili. 62 A questa [caducità della vita] la saggezza non ha, si direbbe, altro da contrapporre che la tempestività. Quello che ci viene dato come seduzione, lusinga, tentazione, prendiamolo: prendiamolo senza indugi o rinvii, godiamone ora, è così breve la sua durata, è così fragile la sua grazia e il suo incanto. Carpe diem, la giovinezza è un soffio, è così rapido a declinare e spengersi il desiderio. L’ombra, il Cocito, l’onda omnibus enaviganda sommergerà parimenti ogni cosa esistita. C’è tristezza in quello che io provo scrivendo queste parole, d’altronde fedeli al pensiero e ai moti del cuore di Orazio. Ma ce n’è nel poeta dei Carmina e delle Satire o lo stile umano raggiunto ha eliminato ogni tristezza nello stesso modo che la ardua perfezione formale si eleva al di sopra dei suoi propri argomenti? Il pensiero della morte, la caducità di ogni cosa amabile divengono un substrato della coscienza che non è più possibile qualificare con i nostri aggettivi. L’elegia è superata. Non è una imperturbabile saggezza a sconfiggerla ma la ferma acquisizione di consapevolezza a esorcizzarla. Il pathos ha libero tutto il suo campo – è vero. Ma solo finché non turba la matura riflessione sulla sorte umana a cui dobbiamo essere preparati. Lo siamo? Lo è il poeta? Sulle insufficienze di tutti è pronto a sorridere il testo. (M. Luzi) SUL TESTO Il primo verso, con l’esclamazione e la ripetizione del vocativo (anadiplosi), introduce fin dall’inizio il tono del lamento funebre e la riflessione prende l’avvio dalla constatazione dell’inesorabile passare degli anni, implicitamente paragonato allo scorrere silenzioso e inarrestabile dell’acqua (fugaces … labuntur). La strofa è dominata da una nota di amara irreligiosità, di marca epicurea, dettata dalla consapevolezza che davanti alla morte neppure gli dei possono soccorrere. A partire dal v. 5 la riflessione lascia il posto alle immagini e si apre una finestra sull’oltretomba: in primo piano campeggia Plutone, inesorabile e implacabile neppure al prezzo di tre ecatombi al giorno (l’iperbole vuole in qualche modo stigmatizzare l’eccesso di scrupolo religioso tanto più inutile quanto più zelante); circondati dalla palude Stigia sono poi il mostro Gerione e il gigante Tizio. L’accenno alla sorte comune che attende tutti i mortali è svolto in tono simile a II 3. 21-23. La quarta strofa introduce il motivo dell’inutilità dei tentativi di difendersi dalla morte: l’anafora dell’avverbio frustra (vv. 13 e 15), in posizione incipitaria, sottolinea l’impossibilità di sfuggire. La prima eventualità da evitare è la guerra, causa di morte per eccellenza; un secondo rischio è quello della navigazione, qui simboleggiata dal riferimento al mare Adriatico, che indica convenzionalmente qualsiasi mare (la ricorrenza del suono F più liquida abbia un effetto imitativo nella menzione dei pericoli rappresentati dal mare); terza situazione da evitare è quella del soggiorno in città nella stagione inclemente, rappresentata dall’Austro. La quinta strofa torna alla raffigurazione dell’oltretomba introdotte da un secondo gerundivo (visendus). L’insistenza di questa forma verbale a intervalli quasi regolari nel corso dell’ode (v. 11 enaviganda, v. 17 visendus e v. 21 linquenda) produce quasi l’effetto di un ritornello che di tanto in tanto ricorda l’idea della necessità della morte. Tre sono le immagini che campeggiano: il fiume Cocito con il suo scorrere torpido e inesorabile; le Danaidi e Sisifo occupati dalle rispettive pene (versare acqua in recipienti senza fondo; spingere su un monte un masso che subito ricadeva). L’ultima strofa, carica di struggente nostalgia, si riaffaccia sulla vita per sottolineare la necessità di abbandonarne i piaceri (espressa dal gerundivo linquenda), enumerati in un elenco scandito dal polisindeto: la tellus e la domus rappresentano i beni materiali, le proprietà e la moglie amata (placens uxor) in generale gli affetti. La pianta di cipresso è l’unica cosa che seguirà il padrone dopo la morte, almeno fin sulla tomba: era sacra a Dite e i suoi rami venivano appesi alle porte delle case in lutto e ornavano le pire nei funerali. La chiusa è dominata dal contrasto tra il vecchio padrone, che non si è reso conto di essere brevis dominus, cioè non ha avuto la consapevolezza della temporaneità del possesso e non ha saputo godere dei suoi beni e anzi li ha gelosamente e scioccamente costuditi come in previsione di disporne per l’eternità, e l’heres dignior, che al contrario vuole godere di quei beni e addirittura li dissipa e li spreca (tinguet pavimentum). 63 Una scelta “laica” Nel V sec. a. C. la cultura greca incominciò la grande elaborazione di una morale fondata sulla libertà interiore dell’individuo, morale in cui la comunità statale o era assente o non aveva più un peso primario. I valori interiori possono essere fondati su una garanzia divina e ultraterrena (che permette una relativa integrazione nelle religioni tradizionali): è questa la via socratico-platonica; la via stoica non ne diverge sostanzialmente e verrà in seguito sempre più accostandosi ad essa. Ma i valori interiori possono essere anche affidati unicamente, o quasi unicamente, all’uomo, parte di una natura spiegata scientificamente secondo principi propri, senza interventi divini: è la via democritea-epicurea. Nessuno può sostenere che Orazio l’abbia percorsa con piena consapevolezza e con rigore: egli è sensibile anche ad altre sollecitazioni filosofiche e culturali, al clima politico del tempo; manca di ogni settarismo e di ogni intransigenza, manca di qualsiasi spinta “illuministica” contro la religione tradizionale. Ma nello stesso tempo nessuno può negare che, al di là di alcuni ondeggiamenti, egli è in sostanza su quella via: il valore della vita è affidato al piacere del presente (solo in parte all’immortalità della poesia): lo rende possibile la capacità dell’uomo di liberarsi dalle paure e, quindi, dall’ansia del domani, ma nessuna divinità, nessuna provvidenza lo garantisce; comunque la possibilità di dare un valore alla vita si giuoca tutta su questa terra, in questa vicenda irripetibile che è la vita dell’individuo, punto luminoso, ma effimero, nel buio del tempo. Il messaggio morale di Orazio alla civiltà europea è stato soprattutto un messaggio di autarkeia (=autosufficienza, bastare a se stessi) laica. In questo senso può ancora esercitare un fascino su chi cerchi di dare un senso ad una vita dissacrata che rifiuti non solo le garanzie ultraterrene, ma anche le garanzie offerte dalle varie teologie calate nella storia, per es. dallo storicismo. Il piacere di Orazio tende ad uscire dalla storia, ma in senso opposto al misticismo; e la misura di Orazio esclude qualsiasi esaltazione esasperata dell’uomo, qualsiasi invasamento irrazionale, dionisiaco per il superuomo, furore in cui la morale “laica” cerca invano di sottrarsi al fascino del mito e del misticismo, anzi cerca solo di sostituirli. Dunque morale laica e ancorata alla ragione. (...) Ma anche il piacere presuppone l’autarkeia. Noi siamo abituati a legare il concetto di piacere con quello di soddisfazione del bisogno. Ovviamente, la connessione in senso filosofico è giusta. Ma il concetto di “bisogno”, o almeno il valore che noi gli diamo di solito, è estraneo alla morale oraziana: il messaggio epicureo di Orazio non è rivolto a gente che ha “bisogno”, ma a gente che ha superato la fase del “bisogno”. Anche Orazio accoglie teoricamente il precetto epicureo di limitare i piaceri a quelli naturali e necessari; ma quanti dei suoi inviti si attengono in realtà ad un tale precetto? Ora la libertà dal bisogno presuppone una società tranquilla in uno stato sicuro: perciò la sua gratitudine verso il principe salvatore e verso il suo regime. Presuppone, inoltre, una posizione decorosa in quella società: e questa posizione è assicurata al poeta dal mecenatismo... Voglio, riprendendo il problema posto dalla morale laica di Orazio, far sentire quanta distanza ci divide da quel tipo di morale che, ripeto, è una componente importante della morale antica ed europea. L’interiorità autosufficiente che non ci unisca agli altri con un legame essenziale, è un valore tramontato: resuscitare Orazio come maestro di un’arte di vivere sarebbe un gioco da professori o da esteti. L’etica più avanzata di oggi ritrova un vincolo d’amore con gli altri al di là dei miti di salvezza religiosa, ma anche al di là di un edonismo e razionalismo aristocratico. In questa ricerca, però, rileggere Orazio può essere utile se, oltre l’orgoglio dell’autarkeia, se ne avvertono le incrinature, le contraddizioni, le inquietudini. (da Orazio e la morale mondana europea, Introduzione a Orazio, Tutte le opere, a cura di E. Cetrangolo, Firenze, Sansoni 1968, pp. CLXXV-CLXXIX). 64 M 3. Una vita semplice, tra natura e poesia … Dalla concezione oraziana dell’esistenza e del tempo scaturisce una vera e propria filosofia di vita, fondata su alcuni ideali di fondo: un luogo tranquillo dove abitare, che assume il valore simbolico di rifugio esistenziale, di angulus in cui si trova conforto (Í Odi II 6); il criterio dell’aurea mediocritas e di un certo distacco dalle alterne vicende della sorte, che garantisce la tranquillità dell’animo (Odi II 10 Í); uno stile di vita semplice e sobrio, che nulla concede al lusso (Odi II 18 Í). Contribuiscono a delineare il quadro anche morale della forma di vita scelta da Orazio tocchi di carattere paesaggistico come quelli della celebre ode alla fonte Bandusia (III 13 Í), luogo reale e allo stesso tempo di sogno, metaforico; o tocchi di carattere intimistico come quelli dell’ode a Aelio (III 17 Í), col suo invito, nell’imminenza della tempesta, a rinchiudersi in casa, luogo anch’esso reale e al contempo simbolo dell’esistenza protetta. C’è comunque anche al fondo di questa rappresentazione idillica qualche spunto più risentito: così nell’ode III 16 la rinuncia alla ricchezza è prospettata come rinuncia ad una occasione di abbassamento spirituale, e nell’ode III 24, ancora più esplicitamente, la scelta della povertà è configurata come una scelta contro la corruzione. Da questo punto di vista – di una polemica sociale chiara, anche se misurata – si capiscono meglio liriche come quella a Fosco (I 22 Í), in cui Orazio sottolinea che la base di una vita serena è la coscienza. Il tono prevalente è comunque quello dell’abbandono, in odi in cui la semplicità levigata ed essenziale della forma è la più immediata espressione di una scelta di vita morale sì, ma che è anche di stile e di modi: così l’amore per la semplicità fa tutt’uno con le scelte di poetica: modesti sono i desideri del poeta (Odi I 31 Í) così come sobri ed essenziali i suoi gusti (Odi I 38 Í). Nonostante la sobrietà dei gusti e la semplicità dello stile, Orazio cade talvolta nel lezioso, o per idoleggiamento della vita vicina alla natura, o per manierismo letterario, come nell’ode I 17. Di me tuentur, dis pietas mea et musa corsi est. Hinc tibi copia manabit ad plenum benigno riris honorum opulenta cornu. Hic in recucta valle caniculae vitabis aestus et fide Teia dices laborantis in uno Penelopen vitramque Circen; hic innocentis pocula Lesbii duces sub umbra nec Semeleius cum Marte confundet Thyoneus proelia nec metues protervum suspecta Cyrum, ne male dispari incontinentis iniciat manus et scindat haerentem coronam crinibus inmeritamque vestem. Gli dei mi proteggono; agli dei sono accette la mia religione e la mia poesia. Qui scorrerà a te doviziosa l’Abbondanza, con il suo liberal corno pieno sino all’orlo dei doni della campagna; qui, in una valle appartata, eviterai gli ardori della Canicola, e sulla lira di Anacreonte canterai Penelope e la marina Circe, entrambe innamorate dello stesso uomo; qui all’ombra sorseggerai tazze del vino innocuo di Lesbo; né Bacco di Semele attaccherà briga con Marte; né tu avrai da temere che il violento Ciro, geloso di te, troppo diseguale di forze, ti metta brutalmente le mani addosso, e ti strappi la corona intrecciata ai capelli e la veste immune da qualsiasi colpa. (vv. 13-28; trad. T. Colamarino) 65 Ille terrarum mihi praeter omnis angulus ridet Il Testo ODI II 6 L’ode presenta una struttura bipartita: la prima sezione (vv. 1-12) svolge il motivo dell’amico pronto a seguire l’altro in capo al mondo (vd. Epod. I pp. 10-11); la seconda (vv. 13-23) quello dell’elogio di una città come angulus esistenziale prima ancora che spaziale. Destinatario è l’amico Settimio, raccomandato a Tiberio in epist. I 9 e che Augusto menziona in una lettera a Orazio parzialmente tramandataci da Svetonio. La cronologia è incerta, ma l’ipotesi più probabile è che l’allusione ai Cantabri non ancora sottomessi (v. 2) si riferisca agli anni della spedizione cantabrica di Augusto (26-25) e alla successiva ribellione del 24 a. C. Metro: strofa saffica 1 Aditure: ‘pronto a venire’. Cantabrum: singolare per il plurale. Indoctum ferre = qui nondum didicit. 3 Barbaras Syrtis: Syrtis = Syrtes; l’aggettivo è trasferito dagli abitanti alla regione. Maura … unda: ‘il mare africano’ (metonimia). 5 s. Tibur ... senectae: costruisci: utinam Tibur positum Argeo colono sit sedes meae senectae. Tibur: Tivoli, di fondazione argiva. Positum = conditum. Argeo … colono: dativo d’agente; Argeo = Argivo. Meae … senectae: ‘dativus commodi’ (secondo altri genitivo di specificazione). 7 Sit: sott. utinam. Modus: ‘termine’. Lasso: sott. mihi. 9 Unde = at si inde. Prohibent: sott. me, ‘mi tengono lontano’. 10 ss. Dulce ... Phalantho: costruisci: petam flumen Galaesi dulce ovibus pellitis et rura regnata Laconi Phalantho. Pellitis ovibus: si tratta delle oves tectae di cui parla Varrone, pecore allevate in Attica e a Taranto, che per la qualità pregiata della lana venivano ricoperte di pelli perché non si sporcassero. Regnata: participio passato passivo di un verbo normalmente intransitivo. Laconi … Phalantho: dat. d’agente. Taranto era stata fondata dallo spartano Falanto. 14 ss. Ubi ... Venafro: intendi: ubi mella non decedunt mellibus Hymetti et baca certat bacae viridi Venafri. Decedunt = cedunt. Bacae: = cum baca. 17 s. Tepidas … brumas: ‘miti inverni’. 18 ss. Et ... uvis: costruisci: et Aulon, amicus fertili Baccho, minimum invidet uvis Falernis. Fertilis ha valore causativo: ‘Bacco che fa prosperare le viti’. 22 Beatae … arces: ‘fertili colline’. 22 ss. Ibi ... amici: costruisci: ibi tu sparges debita lacrima calentem favillam amici vatis. Calentem … favillam: ‘le ceneri ancora calde’, perché il poeta è ancora vivo. Debita … lacrima: ‘con lacrime dovute’ all’affetto. 05 10 15 20 Septimi, Gadis aditure mecum et Cantabrum indoctum iuga ferre nostra et barbaras Syrtis, ubi Maura semper aestuat unda, Tibur Argeo positum colono sit meae sedes utinam senectae, sit modus lasso maris et viarum militiaeque. Unde si Parcae prohibent iniquae, dulce pellitis ovibus Galaesi flumen et regnata petam Laconi rura Phalantho. Ille terrarum mihi praeter omnis angulus ridet, ubi non Hymetto mella decedunt viridique certat baca Venafro, ver ubi longum tepidasque praebet Iuppiter brumas et amicus Aulon fertili Baccho minimum Falernis invidet uvis Ille te mecum locus et beatae postulant arces: ibi tu calentem debita sparges lacrima favillam vatis amici. 66 Luoghi lontani. Gadis è Cadice, nel Sud della Spagna, per gli antichi l’estremo confine occidentale. I Cantabri erano una popolazione particolarmente ribelle nel Nord-Ovest della Spagna. Le due Sirti sono il golfo di Sidra e il golfo di Gabes, sulle coste della Libia e della Tunisia. I Mauri abitavano il territorio a Ovest delle Sirti e l’aggettivo Maurus si riferiva comunemente all’Africa settentrionale. Il Galeso è un piccolo fiume che sfocia a Nord di Taranto. Venafro era una località, oggi nel Molise, rinomata per i suoi oliveti. L’Aulone era una collina nei pressi di Taranto famosa per il vino. SUL TESTO La prima strofa svolge il tema dell’amico pronto a seguire l’amico fino agli estremi confini del mondo. Nel caso specifico la meta lontana è rappresentata da tre zone agli estremi confini occidentali dell’Impero: Cadice, che per gli antichi rappresentava appunto la località più a Ovest, il territorio dei Cantabri, particolarmente ostili ai Romani e ribelli proprio negli anni delle guerre di conquista (Cantabrum indoctum iuga ferre nostra, v. 2) volute da Augusto, e infine le Sirti e i territori circostanti, zone desertiche e inospitali del Nord Africa, non a caso qualificate con l’epiteto di barbaras (v. 3). Che dietro a questa poco allettante prospettiva di viaggio verso terre lontane ci fosse la volontà di Augusto di avere Orazio presso di sé come segretario personale è ipotesi non sufficientemente comprovabile. Più facile che lo spunto iniziale del viaggio sia un omaggio al topos letterario e un pretesto per il proseguimento dell’ode con il vagheggiamento delle località familiari e dell’angulus tranquillo e lontano dagli affanni dove vivere serenamente. La seconda e la terza strofa introducono l’aspirazione (utinam sit … ripetuto due volte al v. 6 e al v. 7) a trascorrere una vecchiaia serena nell’amata Tivoli o nell’altrettanto cara Taranto; si tratta di due città menzionate spesso da Orazio come luoghi ideali di soggiorno, perché tranquille e appartate (cf. epist. I 7. 44). (E del resto che il desiderio di Orazio sia soprattutto quello di porre fine a una vita troppo carica di impegni emerge chiaramente dal v. 7 s., dove modus … maris et viarum sarà da intendere nel senso di ‘viaggi per terra e per mare’ e militiae non tanto in riferimento specifico all’esperienza nell’esercito dei cesaricidi, che risaliva ad anni troppo lontani, ma piuttosto nel senso generale di ‘combattere’, anche con valore traslato.) La presentazione delle due città, con rifermenti ai rispettivi fondatori, i discendenti dell’argivo Anfiarao per Tivoli e lo spartano Falanto per Taranto, ricorda il tono dei mitici racconti di fondazione riconducibili alla letteratura eziologica, diffusa e tanto apprezzata in età ellenistica. Con la quarta strofa il discorso si sposta dal piano della realtà e dell’interesse per un luogo geografico reale a quello dell’idealizzazione del locus amoenus cioè del vagheggiamento di un luogo che, più che essere un luogo fisico, è un vero e proprio ‘luogo dello spirito’. L’espressione ille terrarum mihi praeter omnis angulus ridet, con cui si apre la strofa, ha già in sé tutti gli elementi che ci consentono di percepire questo mutamento di prospettiva: il dimostrativo enfatico evidenziato in incipit di verso, la personificazione del locus che ridet, quasi a voler stabilire un legame affettivo con il poeta, la definizione del luogo come angulus, con una connotazione di protezione e di rifugio dal mondo. La rappresentazione del luogo ideale prosegue poi con la menzione di alcuni elementi tradizionali della topica del locus amoenus: il miele più dolce, l’olio migliore, il clima mite e infine il vino di ottima qualità. Questo luogo così delineato richiede necessariamente la presenza, accanto al poeta, dell’amico Settimio, che fin dall’inizio era stato presentato come disponibile a qualsiasi spostamento in nome dell’amicizia. La chiusa getta uno sguardo più avanti nel tempo, alla morte del poeta, quando l’amico avrà il compito di rendere omaggio alle sue spoglie piangendo sulle ceneri ancora calde. Forse non è casuale che gli epiteti con cui Orazio si riferisce a sé dopo morto siano quelli di vates e amicus, quasi a voler ribadire l’importanza e la centralità nella sua vita della vocazione poetica (vd. M. 8) e del sentimento di amicizia (vd. M. 4). 67 Aurea mediocritas Il Testo ODI II 10 L’ode sviluppa in tono gnomico il motivo filosofico del giusto mezzo tra due eccessi opposti, motivo teorizzato da Aristotele ma presente già prima nella cultura greca e concetto topico anche a livello divulgativo. Il testo si può suddividere in due parti: nella prima (vv. 1-12) domina il tema del giusto mezzo, nella seconda (vv. 13-24) quello della mutevolezza della sorte. Non vi sono indizi cronologici sicuri; se il Licinio a cui l’ode è dedicata è Lucio Licinio Murena, la composizione potrebbe risalire al 23, l’anno del consolato, o essere di poco posteriore. Metro: strofa saffica 1 Rectius vives: il comparativo sottintende, come secondo termine di paragone, un riferimento alla condotta trascorsa o attuale del personaggio (‘meglio di quanto hai fatto finora o fai’). Licini: probabilmente Lucio Licinio Murena, figlio del console Murena difeso da Cicerone nel 63 a. C., e adottato da A. Terenzio Varrone, padre di Terenzia, moglie di Mecenate. Nel 22 fu coinvolto in una congiura contro Augusto in seguito alla quale trovò la morte. Altum: scil. mare. 2 Urgendo: ‘spingendoti troppo verso’. 3 Premendo: ‘rasentando, costeggiando’. 4 Iniquum: ‘diseguale’ perché frastagliato, dunque ‘pericoloso’. 6 Tutus: ‘sicuro’ per la scelta della via di mezzo. Caret: con l’abl. (sordibus), ‘è privo di’, ‘si astiene da’, dunque ‘evita’. 8 Sobrius: ‘lucido’ in quanto non accecato dalla brama di ricchezza. 11 s. Summos … montes: ‘le cime dei monti’, come vuole la posizione dell’aggettivo. 13 Infestis … secundis, scil. rebus, abl. di luogo. 14 Alteram: sia rispetto alle res infestae che alle res secundae. 15 Pectus: ‘l’animo’. Informes: ‘squallidi’. 16 Iuppiter: Giove qui inteso come divinità che presiede ai fenomeni atmosferici. Idem: ha valore avversativo qui e al v. 22. 17 s. Non ... erit: costruisci: si nunc (est) male, non erit sic et (= etiam) olim. Olim riferito al futuro, ‘in avvenire’. 18 ss. Quondam ... Apollo: costruisci: quondam (= interdum) Apollo suscitat cithara Musam tacentem neque semper tendit arcum. Cithara è abl. strumentale. 21 Rebus angustis: abl. di luogo. 23 Contrahes: futuro con valore imperativo; vento: abl. di causa retto da turgida. 5 10 15 20 Rectius vives, Licini, neque altum semper urgendo neque, dum procellas cautus horrescis, nimium premendo litus iniquum. Auream quisquis mediocritatem diligit, tutus caret obsoleti sordibus tecti, caret invidenda sobrius aula. Saepius ventis agitatur ingens pinus et celsae graviore casu decidunt turres feriuntque summos fulgura montis. Sperat infestis, metuit secundis alteram sortem bene praeparatum pectus. Informis hiemes reducit Iuppiter, idem submovet. Non, si male nunc, et olim sic erit: quondam cithara tacentem suscitat Musam neque semper arcum tendit Apollo. Rebus angustis animosus atque fortis adpare; sapiens idem contrahes vento nimium secundo turgida vela. Come s’è detto, la conquista della serenità e della libertà, fondate sulla metriótes e sull’autárkeia, conquista a cui è arrivato attraverso la meditazione delle Satire e l’esperienza che in esse si riflette, è il primo presupposto delle Odi. Bisogna, però, subito aggiungere che questa conquista non dà un possesso saldo e definitivo: la saggezza è qualche cosa che va sempre riconquistata: perciò il culto della saggezza è una tensione dinamica, non una calma imperturbabile. (…) (A. La Penna, op. cit., p. 93) 68 SUL TESTO L’ode si apre con la metafora della navigazione, in cui la vita umana è simboleggiata dalla nave. L’invito rivolto a Licinio a perseguire una vita migliore (rectius vives) si colloca sul piano della condotta morale ed è chiaro fin dall’inizio come secondo Orazio la saggezza, il recte vivere, consista nella ricerca del giusto mezzo. La nave della vita di ciascuno deve percorrere la rotta mediana: non esporsi al rischio di veleggiare troppo al largo (neque altum semper urgendo), né, per converso, rasentare le coste irte di scogli e pericolose per i bassifondi (neque … nimium premendo litus iniquum). La seconda strofa introduce il concetto di aurea mediocritas, concetto cardine della “filosofia” oraziana: non si tratta di ‘mediocrità’, ma della virtù preziosa (aurea) di chi sa scegliere la ‘giusta misura’ evitando gli eccessi (cf. Cic. de off. I 25: (mediocritas) quae est inter nimium et parum). In questo testo i due opposti sono riscontrati nel tipo di abitazione: da un lato non abbassarsi a vivere nello squallore di una vecchia casa in disuso (caret obsoleti sordibus tecti), dall’altra non ambire a una reggia tanto sontuosa da suscitare invidia (caret invidenda … aula). La terza strofa mostra gli effetti a cui va incontro chi, per ambizione personale, non aderisce all’ideale della mediocritas. Si tratta di un motivo convenzionale espresso mediante tre immagini che si susseguono rapidamente: il pino di grandi dimensioni scosso dai venti, le alte torri che cadono rovinosamente e le cime dei monti colpite dai fulmini. Nota come nei tre casi spiccano gli aggettivi ingens, celsae, summos, che, accomunati dalla nozione di altezza, alludono all’atteggiamento di chi ha mire troppo elevate e cerca di innalzarsi oltre misura. Il verso 13, giocato sul contrasto tra i due verbi (sperat e metuit) e i due aggettivi (infestis e secundis), introduce il concetto dell’aequa mens (svolto in odi II 3. 1-4 e qui ripreso nell’ultima strofa), l’atteggiamento che l’animo del saggio (bene praeparatum pectus) deve saper mantenere in ogni circostanza della vita. Nelle avversità non deve lasciarsi andare alla disperazione e deve invece nutrire la speranza di un miglioramento (sperat infestis … alteram sortem); nella buona sorte non deve illudersi scioccamente, ma prevedere la possibilità di un rovescio di fortuna (metuit secundis alteram sortem). Per chiarire il concetto Orazio stabilisce un primo parallelo tra le vicende umane e quelle atmosferiche: la sorte muta così come si alternano le stagioni dell’anno (v. 15 s.); in seguito approfondisce il concetto introducendo la figura di Apollo, la cui varietà di funzioni ricorda la varietà della vita stessa: a volte si diletta piacevolmente con la cetra (quondam cithara tacentem suscitat Musam), a volte tende minaccioso l’arco mortale (arcum tendit). Nel primo caso il dio è visto nella luce benigna di protettore delle arti, e della poesia in particolare, nel secondo si fa invece riferimento alla credenza che Apollo lanciasse epidemie contro gli uomini con le mortali saette (si ricordi l’episodio iniziale dell’Iliade). L’ultima strofa riprende la metafora della navigazione concludendo l’ode con un movimento circolare; la ripresa è segnata dal futuro contrahes che richiama il vives del v. 1. Ritorna il concetto dell’aequa mens e dell’atteggiamento moderato da tenere in tutte le circostanze: nelle difficoltà (della navigazione e della vita) è necessario dimostrarsi forti e coraggiosi, ma è anche opportuno ammainare le vele e mantenersi modesti quando il favore dei venti rischia di far oltrepassare i limiti. L’espressione rebus angustis (v. 21) può essere intesa in senso generale ‘nelle difficoltà’ (cf. v. 13), ma nell’ambito della metafora della navigazione sembra più suggestivo vedere un riferimento agli ‘stretti bracci di mare’ dove tra scogli e bassifondi si rivelano l’abilità e la fermezza del navigatore. 69 Fides et ingeni benigna vena Il Testo ODI II 18 L’ode svolge il motivo della polemica contro il lusso, ricondotto al tema tipicamente oraziano dell’inutilità della ricchezza di fronte alla morte (i vv. 1-14 sono una dichiarazione di preferenza personale per la semplicità; i vv. 15-28 introducono la condanna della smania di costruire; i vv. 2940 sviluppano il tema dell’equità della morte). Non c’è destinatario e la supposizione si tratti di Mecente non trova riscontro: il tono gnomico fa piuttosto pensare a una destinazione generale. Non ci sono indizi per la datazione, ma l’affinità con i temi e il tono delle satire fanno propendere per una datazione piuttosto alta. Metro: sistema ipponatteo 1 s. Ebur: l’avorio è simbolo si sfarzo regale. Aureum … lacunar: ‘soffitto a cassettoni con decorazioni d’oro’, altro simbolo di una ricca abitazione. 3 Trabes … Hymettiae: ‘architravi di marmo dell’Imetto’, pregiato marmo di colore blu-grigio. 4 s. Ultima ….Africa: abl. di stato in luogo poetico; il marmo numidico, di colore giallo, proveniva dalle miniere situate nell’odierna Tunisia. Recisas: ‘tagliate’. 5 ss. Ignotus heres: predicativo del soggetto. Attali … regiam: vd. Odi I 1, p. 48. 7 s. Nec ... clientae: costruisci: nec honestae clientae trahunt mihi Laconicas purpuras. La porpora laconica era molto pregiata e simbolo tradizionale di sontuosità. Le honestae clientae sono le distinte mogli dei clientes, persone di rango elevato: il fatto che tali persone tessessero per qualcuno era considerato un onore. Trahere porporas: ‘tessere tessuti di porpora’. 8 At: l’avversativa introduce la parte positiva di questa prima sezione: se nella casa di Orazio non ci sono tutti quei simboli di lusso finora elencati, ci sono però in lui preziose qualità morali. 10 s. Est: sott. apud me. Fides: è una qualità morale fondamentale nella concezione oraziana e uno dei valori più alti nell’ambito del sistema dei valori romano. Ingenii benigna vena: l’ispirazione poetica che non può andare disgiunta dalle qualità morali. Benigna: ‘ricca’, ‘abbondante’. Pauperemque ... petit: costruisci: et dives petit me pauperem: esprime in generale il vanto per le amicizie importanti. 11 Supra: avverbio. 13 Largiora: neutro sostantivato, ‘ulteriori doni’. 14 Unicis Sabinis: ‘della mia sola Sabina’, il nome del popolo indica per metonimia il territorio. Orazio si riferisce al dono ricevuto da Mecenate della villa in Sabina (cf. Sat. II 6. 1 ss.). 05 10 Non ebur neque aureum mea renidet in domo lacunar, non trabes Hymettiae premunt columnas ultima recisas Africa neque Attali ignotus heres regiam occupavi nec Laconicas mihi trahunt honestae purpuras clientae. At fides et ingeni benigna vena est pauperemque dives me petit; nihil supra deos lacesso nec potentem amicum largiora flagito, satis beatus unicis Sabinis. Il verso 15 introduce alla seconda sezione del componimento e al motivo del passare del tempo che vanifica tutte le attività umane. Orazio denuncia l’assurdità dell’agire umano: i giorni scorrono uno dopo l’altro e l’uomo si affanna a commissionare marmi e a costruire case, senza tener conto del fatto che la vita è di breve durata e che si avvicina il giorno della morte. Addirittura per la smania di incrementare il proprio latifondo a scapito del vicino alcuni arrivano all’atto sacrilego di rimuovere le pietre terminali; oppure, per avidità, espropriano i clienti dei loro beni e questi sono costretti ad abbandonare la casa, portando con sé i penati e i figli. Dal v. 29 si passa alla terza parte, al tema della morte che sopraggiunge imparziale per tutti: nulla certior tamen / rapacis Orci fine destinata aula divitem manet / erum. Quid ultra tendis? Aequa tellus / pauperi recluditur / regumque pueris, nec satelles Orci / callidum Promethea / revexit auro captus. Hic superbum / Tantalum atque Tantali / genus coercet, hic levare functum / pauperem laboribus / vocatus atque non vocatus audit. (Eppure non c’è sala / più pronta per ricevere il signore, / al termine prefisso, / di quella della morte che ti prende. / Oltre che cerchi? Si apre la terra eguale / al povero e a chi nacque da re, / e il nocchiero del regno delle ombre / non fu preso dall’oro, / non riportò Prometeo l’accorto. / Così imprigiona il prevaricatore / Tantalo e la sua razza. / A sollevare il povero che soffre / e ha finito il suo compito / viene chiamato e viene non chiamato. Trad. E. Mandruzzato). 70 Frigus amabile ODI III 13 Metro: sistema asclepiadeo III 05 10 15 O fons Bandusiae splendidior vitro, dulci digne mero non sine floribus, cras donaberi haedo, cui frons turgida cornibus primis et venerem et proelia destinat. Frustra: nam gelidos inficiet tibi rubro sanguine rivos lascivi suboles gregis. Te flagrantis atrox hora Caniculae nescit tangere, tu frigus amabile fessis vomere tauris praebes pecori vago. Fies nobilium tu quoque fortium me dicente cavis inpositam ilicem saxis, unde loquaces lymphae desiliunt tuae. Suono e visione Rare sono le allitterazioni onomatopeiche in Orazio: qui al v. 15 s. è riprodotto il rumore dell’acqua (unde Loquaces / Lymphae desiLiunt tuae); in I 22. 23 s.: duLce ridentem LaLagen amabo, / duLce Loquentem è evocata la voce di Làlage (e ricordiamo che il nome Làlage in greco significa “chiacchierina”); in I 4. 13 s. Pallida Mors aequo Pulsat Pede PauPerum tabernas / regumque turres risuona il passo della morte personificata. Complessivamente si tratta di pochi casi. Osserva il Traina: “Luce e colore, molto più che suono. Orazio non ha la “imagination auditive” di Virgilio: in una poesia come la latina, che rispetto alla greca, privilegia i valori fonici, Orazio punta piuttosto sui valori visivi (…). Ama poco l’allitterazione, la più tipicamente latina delle figure di suono (…). Traina, Introduzione a Orazio. Odi e epodi, Milano 19903, p. 41 s. 71 1 O fons Bandusiae: personificazione della fonte. Bandusiae è gen. epesegetico. 2 Vitro: ‘cristallo’. 2 Digne: vocativo riferito a fons, che è di genere maschile. Mero = vino. Non sine floribus: litote intensiva, ‘con molti fiori’. 3 Donaberis: costruzione di dono con l’abl. della cosa donata e l’acc. della persona. 4 Turgida cornibus primis: ‘gonfia per le corna nascenti’. 5 Et venerem et proelia: Venerem è metonimia per amorem e i due sostantivi formano un’endiadi ‘le battaglie amorose’. 6 s. Frustra: ‘invano’, riferito a quanto precede. Gelidos … rivos: ‘la fresca corrente’, plurale poetico e iperbato. Inficiet: ‘tingerà’. Tibi: dat. commodi riferito alla fonte. 8 Lascivi suboles gregis: ‘la prole del gregge ruzzante’, perifrasi per haedus. 9 Atrox: ‘impietosa’. Flagrantis … Caniculae: ‘della canicola ardente’, cioè il momento più caldo dell’estate; iperbato. 10 Nescit = nequit. Frigus amabile: ‘gradita frescura’. 11 Fessis vomere: ‘stanchi di arare’. 12 Pecori vago: ‘al bestiame errate’. 13 Tu: anafora con il te del v. 9 e il tu del v. 10. Nobilium … fontium: gen. partitivo. La fonte di Bandusia, grazie al canto di Orazio, sarà ricordata al pari di altre celebri fonti cantate dai poeti greci. 14 ss. Me dicente: abl. assoluto con valore causale. Impositam ilicem: ‘il leccio che sovrasta’. Loquaces: personificazione delle acque zampillanti che sono dette ‘chiacchierine’. Si noti l’allitterazione della l che riproduce in modo quasi onomatopeico il gorgoglio dell’acqua. Il Testo L’ode è formalmente un inno che svolge il motivo occasionale della ricorrenza festiva, forse quella dei Fontanalia (13 ottobre), durante i quali, secondo Varrone, si gettavano ghirlande nelle fonti e si compivano libagioni. La fonte di Bandusia potrebbe essere una fonte presso Venosa, città natale di Orazio, o, più verosimilmente, una fonte nel suo podere sabino. Al di là della circostanza, l’ode svolge il topos del locus amoenus e spicca per la perfezione formale con cui sono raffigurati i particolari visivi del paesaggio ed è riprodotta la musicalità della sorgente. Non ci sono indizi cronologici, ma la maturità dello stile e la consapevolezza di sé che il poeta mostra di avere fanno propendere per una datazione bassa. Dum potes, aridum conpone lignum Il Testo ODI III 17 Il dedicatario dell’ode è probabilmente Lucio Elio Lamia, console nel 3 d. C. ma non è sicuro che l’occasione sia quella del compleanno di costui, come si potrebbe supporre dalle parole genium curabis. Il motivo svolto è quello del contrasto tra la nobiltà di natali del personaggio (vv. 1-9) e la precarietà dell’esistenza (vv. 9-16). Alla malinconia che deriva dall’incertezza del domani fa fronte l’esortazione ad allestire il banchetto che porrà fine alla tristezza. Non ci sono indizi per la datazione. Metro: strofa alcaica Elio, che trai nobiltà dal vetusto Lamo (poiché si dice che da lui presero nome i primi Lamii, attraverso i memori fasti l’intera progenie dei loro nipoti, tu trai origine da quel capostipite che è fama sia stato il primo a regnare su Formia e, signore per ampio tratto, sul Liri che inonda le spiaggie di Marica), domani, se non erra la cornacchia, annosa presaga di pioggia, d’Euro si abbatterà la tempesta a cospargere il bosco di molte foglie e il lido di inutili alghe. Adesso, finché puoi, raccogli legna secca. Domani coi tuoi servi, sgombri d’opere, onorerai il tuo Genio con un porcello di due mesi e vino. (trad. L. Canali) 05 10 15 Aeli vetusto nobilis ab Lamo – quando et priores hinc Lamias ferunt denominatos et nepotum per memores genus omne fastus, auctore ab illo ducis originem, qui Formiarum moenia dicitur princeps et innantem Maricae litoribus tenuisse Lirim, late tyrannus, – cras foliis nemus multis et alga litus inutili demissa tempestas ab Euro sternet, aquae nisi fallit augur annosa cornix. Dum potes, aridum conpone lignum; cras Genium mero curabis et porco bimenstri cum famulis operum solutis. L’immunità del saggio, dell’amante, del poeta Il racconto dello scampato pericolo è la prova della solenne dichiarazione iniziale: la divinità protegge da ogni pericolo l’uomo puro da colpe. Il motivo dell’immunità del saggio non è originale e sembra essere un tema di derivazione stoica (cf. p. es. Seneca, Tieste v. 380 ss.). Nel nostro caso, però, la struttura simmetrica dell’ode induce a mettere in relazione il primo verso con gli ultimi e a considerare che l’integritas vitae di cui Orazio parla non ha tanto una valenza etica, quanto piuttosto si manifesta nel suo amore per Làlage e nella composizione di poesie in suo onore. Dunque l’immunità del saggio diventa l’immunità dell’amante, in osservanza al topos caro alla poesia erotica alessandrina e noto anche ai poeti elegiaci latini (cf. p. es. Tibullo I 2. 27 s. e Properzio III 16. 11 ss.). Se nell’ode I 22 è l’amante e il compositore di poesie amorose a rimanere sano e salvo, altrove Orazio amplia e approfondisce l’idea: il poeta in generale (non solo quello d’amore) godrà ovunque della protezione delle Muse e degli dei (cf. I 17 13 sg.). 72 Integer vitae scelerisque purus ODI I 22 Metro: strofa saffica 05 10 15 20 1 Integer … purus: aggettivi sostantivati, soggetto di non eget. Vitae: gen. di rel. Si noti il chiasmo del primo verso. Mauris iaculis: i Mauri combattevano di solito a cavallo con il giavellotto. Mauris è qui aggettivo. 3 s. Venenatis … sagittis: abl. strum. dip. da gravida (‘piena’). Nota il doppio iperbato intrecciato. 4. Fusce: v. Epistola I 10, di cui Fusco è destinatario. 5 s. Sive ... Hydaspes: costr.: sive facturus (sit) iter per Syrtis (= Syrtes) aestuosas, sive per inhospitalem Caucasum, vel (per ea) loca quae lambit fabulosus Hydaspes. 9 ss. Nam ... inermem: costruisci nam lupus in Sabina fugit me inermem dum canto meam Lalagen et vagor ultra terminum expeditis curis. Terminum: il confine della proprietà. Curis … expeditis: ‘lasciate da parte le preoccupazioni’. 13 s. Quale portentum: apposizione di lupus; ‘mostro quale’, in anastrofe. Militaris Daunias: ‘la bellicosa Daunia’, la Puglia. Daunias è nom. sing. alla greca. Latis … aesculetis: abl. di luogo poetico, ‘nei vasti querceti’. 15 s. Iubae tellus: perifrasi per indicare la Numidia. 17 Pone = si pones, in anafora col v. 21. Pigris … campis: abl. di luogo ‘nelle desolate lande’, iperbato intrecciato con i due seguenti nulla … arbor e aestiva aura. 22 Quod latus mundi: ‘zona del mondo che’. Quod è oggetto di urget il cui soggetto sono nebulae malusque Iuppiter (‘le nebbie e il cielo inclemente’). 20 Iuppiter: metonimia per ‘cielo’. 22 In terra domibus negata: ‘in una terra inabitabile’ per l’eccessivo calore. 23 s. Dulce: aggettivo in funzione avverbiale. Integer vitae scelerisque purus non eget Mauris iaculis neque arcu nec venenatis gravida sagittis, Fusce, pharetra–, sive per Syrtis iter aestuosas sive facturus per inhospitalem Caucasum vel quae loca fabulosus lambit Hydaspes. Namque me silva lupus in Sabina, dum meam canto Lalagen et ultra terminum curis vagor expeditis, fugit inermem, quale portentum neque militaris Daunias latis alit aesculetis nec Iubae tellus generat, leonum arida nutrix. Pone me pigris ubi nulla campis arbor aestiva recreatur aura, quod latus mundi nebulae malusque Iuppiter urget, pone sub curru nimium propinqui solis, in terra domibus negata: dulce ridentem Lalagen amabo, dulce loquentem. vv. 8-9 Fabulosus Hydaspes: ‘il leggendario Idaspe’, affluente dell’Indo; l’India era considerata un territorio fantastico. I tre luoghi nominati erano tutti infestati da belve feroci. 13-14 La Puglia, terra di Dauno, e terra natale di Orazio era infestata dai lupi. 15-16 Leonum ... nutrix: apposizione di tellus. Nota l’accostamento ossimorico di arida e nutrix. I vv. 17-20 sono una perifrasi per indicare le regioni fredde del nord, così come i vv. 21-22 indicano le regioni torride del sud. 73 Il Testo L’ode, indirizzata all’amico Fusco, svolge il tema dell’intangibilità dell’uomo moralmente integro; esso è concretizzato nell’episodio di una passeggiata in un bosco della sua tenuta sabina durante la quale Orazio, immerso nei suoi pensieri, incontra un lupo il quale, alla vista del poeta, pure inerme, fugge via. Il tema dell’immunità dell’uomo puro da colpe si intreccia con quello, tipicamente alessandrino e caro ai poeti elegiaci latini, dell’inviolabilità di chi ama. Non ci sono elementi per la datazione: se il Giuba menzionato al v. 15 fosse il re di Numidia posto sul trono da Augusto nel 25 a. C. avremmo un terminus post quem, ma è più verosimile che si tratti piuttosto del più antico Giuba I, partigiano di Pompeo che si uccise nel 46 a. C. dopo la sconfitta di Tapso. Nec cithara carentem Il Testo ODI I 31 Quest’ode è un inno ad Apollo ampliato dalla riflessione gnomica sul tema dell’ideale di vita oraziano: il testo si apre con la preghiera (vv. 1-3), passa poi al motivo del contrasto tra gli ideali di vita del poeta e quelli degli altri – in una Priamel che richiama quella di Odi I 1 (vv. 3-16) – per poi tornare alla preghiera (vv. 17-20). La data di composizione è sicura in quanto si tratta di una poesia d’occasione, scritta per la dedicazione da parte di Ottaviano, nel 28 a. C., del tempio di Apollo sul Palatino, in adempimento di un voto per la vittoria su Sesto Pompeo nel 36 a. C. Metro: strofa alcaica 1 s. Quid ….Quid …: anafora. Dedicatum … Apollinem: costruzione passiva analoga a quella di donare (dedicare deum scil. aede). Patera: coppa, larga e piatta, utilizzata nelle libagioni. 3 Liquorem = vinum. 3 ss. Non opimae ... rura: complementi oggetti di un sottinteso verbo di chiedere (‘il poeta non chiede …’). Feracis = feraces, da riferire anche a Sardinia. 5 s. Aestuosae ... armenta: ‘gli armenti gradevoli a vedersi dell’arido Salento’ (secondo altri aestuosae Calabriae è dat. retto da grata: ‘gli armenti che sono grati all’arido Salento’). 7 s. Quae ... amnis: costruisci: quae Liris amnis taciturnus mordet quieta aqua. Il Liris, oggi Garigliano, è un fiume che scorre tra il Lazio e la Campania. Taciturnus mordet: ‘consuma impercet-tibilmente’. 9 s. Premant ... vitem: costruisci: (illi) quibus Fortuna dedit vitem, premant (vitem) falce Calena. Premant … falce … vitem: ‘potino le viti con la falx vinatoria’. Calena. ‘di Cales’, riferito per enallage alla falce. 10 ss. Dives et ... merce: costruisci: et dives mercator exsiccet aureis culillis vina reparata Syra merce. Dives et: anastrofe. Aureis … culillis: abl. strumentale; culilla sono propriamente coppe di terracotta riservate al culto, ma qui si deve intendere nel senso di coppe particolarmente pregiate. Vina Syra reparata merce: ‘vini barattati con merce orientale’. 13 ss. Dis carus ipsis: sott. mercator est. Quippe … revisens … inpune: ‘se ha rivisto indenne’. 15 s. Me … me: anafora che sottolinea il contrasto tra i gusti degli altri e quelli di Orazio. Cichorea: grecismo della lingua d’uso. Leves: ‘facilmente digeribili’. 17 ss. Frui ... carentem: costruisci: precor, Latoe, dones mihi et frui paratis et valido (me) et degere senectam cum integra mente nec turpem nec carentem cithara. 5 10 15 20 Quid dedicatum poscit Apolline vates? Quid orat, de patera novum fundens liquorem? Non opimae Sardiniae segetes feracis, non aestuosae grata Calabriae armenta, non aurum aut ebur Indicum, non rura, quae Liris quieta mordet aqua taciturnus amnis. Premant Calena falce quibis dedit Fortuna vitem, dives et aureis mercator exsiccet culillis vina Syra reparata merce, dis carus ipsis, quippe ter et quater anno revisens aequor Atlanticum inpune: me pascunt olivae, me cichorea levesque malvae. Frui paratis et valido mihi, Latoe, dones, et, precor, integra cum mente, nec turpem senectam degere nec cithara carentem. Motivi ricorrenti Aurum aut ebur Indicum: oro e avorio, favolose ricchezze dei paesi orientali, sono simboli tradizionali di lusso e come tali oggetto di polemica (cf. Odi II 18. 1-8). Mercator … dis carus ipsis: il motivo dei pericoli del mare a cui si espongono i commercianti è tradizionale (cf. Odi I 1. 15-18) e chi per mestiere deve solcare continuamente i mari di certo è protetto dagli dei per il solo fatto di tornare salvo da ogni viaggio. Me pascunt olivae …: anche l’ideale della semplicità e della moderazione, qui rappresentato dalla dieta frugale, fatta di olive, cicoria e malva, elementi tradizionalmente considerati umili, è topico. L’accenno alle preferenze alimentari non è fine a se stesso e assume un valore più ampio in riferimento ai gusti e allo stile di vita in generale. 74 Neque dedecet myrtus me ODI I 38 Metro: strofa saffica 05 Persicos odi, puer, adparatus, displicent nexae philyra coronae: mitte sectari, rosa quo locorum sera moretur. Simplici myrto nihil adlabores sedulus, curo: neque te ministrum dedecet myrtus neque me sub arta vite bibentem. L’ode descrive una scena conviviale, o meglio l’allestimento di un convivio, e si apre con un programmatico rifiuto di ogni sfarzo e con l’invito a un servitore a non indugiare nella ricerca (mitte sectari) di rose fuori stagione (la cui coltivazione era segno di ricercatezza e di lusso eccessivo e come tale moralmente riprovevole). Il testo va letto in chiave simbolica: il lusso orientale (Persicos … apparatus), le ghirlande di fiori elaboratamente intrecciate (nexae philyra coronae), la rosa tardiva (rosa … sera) sono metafore dello sfarzo e della ricercatezza che Orazio dichiara di non apprezzare. Tale rifiuto ha una duplice ricaduta: sul piano della poetica significa il rifiuto di argomenti eroici e solenni (e per il momento non si dice ancora a vantaggio di quali altri), su quello della vita la scelta della semplicità e della moderazione. La seconda strofa costituisce la parte propositiva del componimento: l’elemento centrale è il simplex myrtus, preferito alle ghirlande di fiori e alla rosa tardiva come ornamento adatto sia al ragazzo che serve a tavola sia al poeta che banchetta. La scelta dell’aggettivo simplex spicca per la pregnanza di significato e acquista valore programmatico. Anche in questa seconda parte è evidente la simbologia: il mirto, pianta sacra a Venere, rinvia alla scelta della poesia d’amore così come il riferimento al bere (me … bibentem) allude alla predilezione per la poesia conviviale. 75 1 Persicos … apparatus: lo sfarzo dei Persiani era proverbiale, ma qui l’allusione è più in generale al lusso orientale. Puer: appellativo poetico del servitore, senza riferimento all’età. 2 Displicent: ‘non mi piacciono’. Philyra: nome greco del tiglio, dalla cui corteccia si ricavava un filo usato, come qui, per intrecciare ghirlande di fiori. La scelta del termine greco rimarca la ricercatezza di simili addobbi. 3 Mitte sectari: imperativo negativo di uso poetico. Mitte = omitte, ‘smetti, cessa’; sectari, intensivo di sequi, indica la ricerca lunga e perseverante. Quo locorum = ubi, forma di avverbio col partitivo simile a ubi terrarum. 3 s. Rosa … sera moretur: si tratta delle ultime rose, che a volte possono ancora trovarsi alla fine dell’estate o all’inizio dell’autunno. 5 s. Simplici ... curo: costruisci: curo nihil (= non curo quicquam) adlabores simplici myrto (dat.); intendi nihil curo nel senso di ‘non m’importa’ dunque ‘non voglio’ e adlaborare, verbo coniato da Orazio, nel senso di ‘affaticarsi per aggiungere’. Sedulus: l’aggettivo è riferito al puer, ma si tratta di un’enallage per l’avverbio. 6 s. Neque te … dedecet … neque me = et te decet … et me. Ministrum: è il puer che serve a tavola e che svolge funzione di coppiere. 7 s. Sub arta vite: i critici sono divisi sull’interpretazione dell’aggettivo: secondo alcuni si tratta di un ‘folto pergolato’, secondo altri di uno ‘stretto pergolato’. Questa seconda possibilità rimarcherebbe il concetto di semplicità sottolineando la modestia della proprietà del poeta. Il Testo Breve componimento, di carattere simposiaco, posto a conclusione del primo libro delle Odi in funzione di commiato. Come di solito i proemi e gli epiloghi, ha il tono di dichiarazione programmatica di poetica: la scelta della semplicità e dell’essenzialità, che caratterizza in generale lo stile di vita di Orazio, assume qui più specificamente il valore di credo artistico. Non ci sono indizi cronologici, ma il fatto che si tratti di un epilogo fa supporre che l’ode sia stata composta fra le ultime della raccolta. Simplex munditiis La prima cosa che si nota è che questa breve poesia (Odi I 38) è simplex munditiis in maniera insolita: è composta da una serie di frasi asindetiche, brevi e dirette. L’effetto di questa semplicità voluta è ancora più sorprendente in quanto Persicos odi, puer, apparatus viene immediatamente dopo l’ode Nunc est bibendum, che si compone quasi interamente (vale a dire dal v. 5 in poi) di un unico periodo lungo ed elaborato. La semplicità della forma è uno specchio fedele del pensiero: la frase simplici myrto nihil adlabores seudulus curo potrebbe essere considerata come il succo del componimento. Tutto è qui leggero e gioioso (…). L’ode appartiene a quella classe di componimenti – epigrammatici o di altro genere – che hanno come argomento i preparativi per un semplice banchetto. Si tratta di una piccola poesia assai graziosa. Se occupasse un posto ordinario nella collezione, nessuno andrebbe a cercare un significato speciale sotto la superficie. Essa però non si trova in un posto ordinario, ma conclude un libro di liriche quali nessun lettore romano aveva mai visto prima, un libro che rappresentava uno degli esperimenti più audaci della storia della poesia antica. Dobbiamo quindi pensare che Orazio volle che l’ode, al di là del suo significato apparente, si collegasse in qualche modo al nuovo tipo di poesie contenute in questo libro. Questa conclusione sarebbe necessaria anche se non trovasse conferma nella funzione analoga svolta dai due componimenti conclusivi dei due libri successivi; le sue conseguenze, tuttavia, sono sorprendenti. Ci troviamo di fronte a un libro che contiene odi tanto solenni come Iam satis terris o Quem virum aut heroa o, proprio alla fine, Nunc est bibendum; purtuttavia, nel suo epilogo siamo invitati a considerare parole come simplici myrto nihil adlabores sedulus curo come il credo artistico del poeta. Dobbiamo riconoscere che l’eironeía, l’atteggiamento di un uomo che è abitualmente un dissimulator opis propriae, è qui portata agli estremi. Orazio non mente nei riguardi di se stesso qui più che altrove; purtuttavia indulge a un’enorme sottovalutazione. Perché lo fa? Per modestia? Va cercata una spiegazione più convincente. Il tono dimesso e i semplici ideali di quest’epilogo vanno certamente considerati insieme – e anche contrapposti – all’orgogliosa sicurezza e alle forti pretese che appaiono nelle odi finali del secondo e del terzo libro. Ma solo questo fatto non basterebbe a spiegare il ritegno di Persicos odi, puer, apparatus. Orazio non avrebbe chiuso il suo libro con questo componimento se non avesse considerato essenziale alle sue liriche l’ideale artistico che vi è simboleggiato. Era convinto che l’arte, pur essendo necessaria per produrre buone poesie, non sarebbe stata di nessun aiuto se non avesse avuto un sostegno nella natura, vale a dire nella natura del poeta che era cresciuta insieme a lui fin dalla sua prima infanzia, dandogli una vita interiore tutta sua. (…) Così il simbolo della sua poesia da lui scelto per la fine del primo libro, anche se non esprime tutta la verità, è in ogni caso portavoce della sola verità. (Ed. Fraenkel, Orazio, op. cit., pp. 407 ss.) 76 M 4 … amicizia e convivialità Dalla concezione della vita di Orazio scaturisce, insieme all’esigenza di un saggio uso del tempo, il riconoscimento dell’alto valore degli autentici rapporti interpersonali e dei momenti di svago e di socialità rappresentati dal convivio. Gli amici sono una presenza confortante nella vita di Orazio e continuamente le loro figure affiorano dai testi. Sono amici famosi, a cominciare da Virgilio, affidato con trepidazione alla nave che lo trasporta verso la Grecia (Odi I 3), e ricordato anche nella commossa ode per la morte dell’amico comune Quintilio Varo (I 24). 05 10 15 Sic te diva potens Cypri, sic fratres Helenae, lucida sidera, ventorumque regat pater obstructis aliis praeter Iapyga, navis, quae tibi creditum debes Vergilium; finibus Atticis reddas incolumem precor et serves animae dimidium meae. Illi robur et aes triplex circa pectus erat, qui fragilem truci commisit pelago ratem primus, nec timuit praecipitem Africum decertantem Aquilonibus nec tristis Hyadas nec rabiem Noti, quo non arbitrer Hadriae maior, tollere seu ponere volt freta. Così te la dea signora di Cipro, e d’Elena i fratelli, astri lucenti, proteggano, e il padre dei venti, tutti gli altri frenati eccetto l’Iapige, o nave che rispondi di Virgilio a te affidato: rendilo incolume, ti prego, al suolo d’Attica, e salva la metà della mia vita. Triplice bronzo e legno di quercia intorno al cuore ebbe chi per primo affidò il fragile legno al torvo mare, né temette d’Africo l’avventarsi in contesa agli Aquiloni, né le sinistre Iadi, né la furia del Noto, arbitro e re dell’Adriatico, voglia placarne o sollevarne i flutti. (I 3, 1-15; trad. L. Canali) 05 10 Ergo Quintilium perpetuus sopor urget? cui Pudor et Iustitiae soror, incorrupta Fides, nudaque Veritas quando ullum inveniet parem? Multis ille bonis flebilis occidit, nulli flebilior quam tibi, Vergili. Tu frustra pius, heu, non ita creditum Dunque, il sonno eterno grava su Quintilio? Quando il Pudore e l’incorrotta Fede, sorella della Giustizia, e la nuda Verità potranno trovare un altro a lui pari? Da molti buoni pianto egli cadde, ma da nessuno fu pianto più che da te, o Virgilio. Tu invano pia, ahimè!, chiedi agli dèi Quintilio: no, non per questo Per la morte di Varo A me pare che finora nella valutazione del carme si sia scarsamente rilevato il nodo dei sentimenti di Orazio: il suo dolore e il suo rimpianto si uniscono al dolore e al rimpianto di Virgilio e una tale fusione sarebbe inconcepibile senza l’amore che unisce fra loro i sopravvissuti e i sopravvissuti con lo scomparso. E in questo reticolo la corrispondenza d’amore è il fondamento del debito che il poeta venosino ha contratto con Virgilio di cui ha ammirato le Bucoliche e conosce le Georgiche e qualche canto dell’Eneide che circolava (…). La consolazione e alla fine il rimedio che il sollecito affetto di Orazio propone non sono in contrasto con Virgilio: la pietas del Mantovano – possesso non effimero, ma ardua conquista dello spirito dopo l’esperienza epicurea pur sempre sottesa e mai emarginata – non gli impedisce la rassegnazione, la resa dell’uomo, anche dell’uomo che prega e fa poesia, alla divinità. (…) Della brigata virgiliana Quintilio è il personaggio di cui vorremmo sapere di più: certamente non celebre 77 15 poscis Quintilium deos. Quid si Threicio blandius Orpheo auditam moderere arboribus fidem? num vanae redeat sanguis imagini, quam virga semel horrida, non lenis precibus fata recludere, nigro compulerit Mercurius gregi? durum: sed levius fit patientia quicquid corrigere est nefas. glielo avevi affidato. Forse che, se tu modulassi più dolcemente del tracio Orfeo la cetra che gli alberi udirono, ritornerebbe il sangue nella vana immagine dopo che Mercurio, inaccessibile alle preghiere di riaprire il destino, l’ha spinto con la verga orrida nel gregge nero? È duro: ma con la rassegnazione divien più lieve tutto ciò che il dio non consente di cambiare. (vv. 5-20; trad. M. Gigante) Sono però anche amici per noi sconosciuti, ma non meno cari al poeta, come Numida, tornato forse dalla guerra cantabrica (Odi I 36), in onore del quale è bello allestire un festino, o come Pompeo Varo, commilitone a Filippi, il ritorno del quale, pure, è motivo di gioia e occasione per ricordare il passato comune (Odi II 7 Í). Et ture et fidibus iuvat placare et vituli sanguine debito custodes Numidae deos... Cressa ne careat pulchra dies nota, neu promptae modus amphorae neu morem in Salium sit requies pedum neu multi Damalis meri Bassum Threicia vincat amystide neu desint epulis rosae neu vivax apium vel breve lilium. Giova propiziare con musica e incenso il rituale sangue d’un vitello gli dei protettori di Numidia (…) Questo bel giorno non sia privo d’un candido segno, né vi sia freno all’anfora nel bere, né Damali, assetata di vino, / vinca Basso nel tracannare coppe secondo il costume / dei Traci, né alle mense difettino le rose, l’apio vivace, l’effimero giglio. (I 36, vv. 1-3, 10-16; trad. L. Canali) come il poeta L. Vario Rufo, ma critico letterario come Plozio. Del circolo di Mecenate e, diciamo meglio, di Virgilio è un rappresentatne genuino e modesto: senza Orazio sarebbe rimasto nell’ombra, nell’ambito epiureo della vita nascosta dove veramente era a suo agio. (…) Ma Virgilio ebbe certo in Quintilio l’amico più vicino. Quando morì Quintilio, l’anima segreta ovvero la coscienza critica del Circolo, Virgilio credeva fermamente nella partecipazione della divinità alla vita dell’individuo e del mondo: il suo dolore, più profondo che in altri, è pure uno sgomento e un dubbio, anche se alla fine la fiducia nella divinità diventa un riconoscimento dell’onnipotenza divina, la rassegnata consapevolezza del limite e della condizione effimera dell’uomo. L’uomo è nulla, il dio è tutto. La poesia diversamente coltivata da Virgilio e Quintilio non può sbarrare il passo alla morte. Quintilio muore: per Virgilio c’è un aldilà, che Quintilio aveva certamente escluso dal suo orizzonte, ma che esiste e non può essere violato. Un dio vi guarda l’anima di chi non è più e il poeta che può come Orfeo ammansire le belve e incantare gli alberi non può superare l’ultima frontiera dell’effimera vita. Virgilio aveva già cantato il destino di Euridice, aveva visto a Cuma l’ingresso agli Inferi e aveva già lasciato disegnare la storia dell’impero all’ombra di Anchise: l’aldilà non era una sua immaginazione malata o sterile, era la sede dei trapassati che nessun prodigio umano può restituire alla vita. L’uomo non può mutare la volontà del dio: né le virtù né la poesia possono cambiare il destino. La poesia però consola la perdita ed eterna la memoria. Come di Virgilio e di Orazio, così di Quintilio il nome non è morto: morirà con la fine del nostro mondo. (M. Gigante, Lettura di Orazio carm. I 24 Requiem per Quintilio, in Atti del convegno nazionale di studi su Orazio, Torino 1992, pp. 169 ss.i 78 Connesso al tema dell’amicizia è, naturalmente, quello del convivio: il rapporto con gli amici prevede il momento gioioso del banchetto in cui trionfa il piacere e la lode del vino. Il vino è conforto ed eccitazione, e si lega alla bellezza e all’amore (Odi III 21 Í); e si carica anche di un valore simbolico in quanto emblema della poesia ispirata da Dioniso (Odi I 18): di qui i rinnovati inviti a bere, ripresi dalla tradizione lirica, ma spesso con toni umoristici tipicamente oraziani. Da lunae propere novae, da noctis mediae, da, puer, auguris Murenae. Tribus aut novem miscentur cyathis pocula commodis? qui Musas amat imparis, ternos ter cyathos attonitus petet vates, tris prohibet supra rixarum metuens tangere Gratia nudis iuncta sororibus. Versa in fretta, ragazzo: / per la nuova luna, per la mezzanotte, / per l’augure Murena: o tre o nove misure / si versano. E uno che ama / il numero trino delle Muse domanda / tre volte tre misure (egli è lo smemorato poeta) ma oltre le tre è divieto della Grazia e delle ignude sorelle che temono la violenza. (III 19, vv. 9-17; trad. E. Mandruzzato). Come in ogni aspetto della vita umana, anche riguardo al vino Orazio invita comunque alla moderazione e a non cadere negli eccessi dell’ebbrezza e nella scompostezza: Natis in usum laetitiae scyphis pugnare Thracum est; tollite barbarum morem verecundumque Bacchum sanguineis prohibete rixis. Vino et lucernis Medus acinaces immane quantum discrepat; impium lenite clamorem, sodales, et cubito remanete presso. Fare battaglia con le coppe, nate / per la gioia, è da Traci. Eliminate / questa usanza selvaggia. Niente risse / e niente sangue: Dioniso è purezza. Tra il vino e le lucerne, l’akinake / dei Medi è dissonanza mostruosa. / Basta grida sacrileghe, compagni, e restate col gomito appoggiato. (Odi I 27, vv. 1-8; trad. E. Mandruzzato) Con simili tocchi, che recuperano anche questo tema ad una visione in largo senso morale, un invito a cena rivolto a Mecenate con la precisazione che si berrà vino di modesta qualità, diventa il pretesto per una garbata riflessione sullo stile di vita del poeta e quelli dell’amico protettore (Odi I 20 Í), o un discreto richiamo ad una vita più semplice e tranquilla (Odi III 29). La euthymía, la tranquillità dell’animo è impossibile per gli uomini illusi ed erranti non illuminati dalla saggezza; ma illusioni ed errori hanno le loro cause nella condizione, nella natura umana; le cause permangono anche per il saggio che si è ritirato nel suo ‘porto’ o nella sua ‘rocca’ fuori dalle tempeste... La condizione umana è caratterizzata innanzi tutto dalla temporalità, che pone il suggello più chiaro con la morte. L’incertezza del domani e la paura della morte sono per l’epicureismo e per Orazio la causa prima dell’infelicità e dei vizi dell’uomo, a cominciare dalla brama di accumulare ricchezze ad ogni costo, che è, appunto, brama di procurarsi sicurezza per il futuro. (A. La Penna, op. cit., p. 93) 79 Recepto dulce mihi furere est amico Il Testo ODI II 7 Il ritorno a Roma dell’amico Pompeo Varo, commilitone nell’esercito repubblicano di Bruto negli anni 43 e 42, e a differenza di Orazio rimasto negli anni successivi ancora coinvolto nelle guerre civili, è occasione per ringraziare gli dei dell’insperata salvezza e di allestire un banchetto per festeggiare. Accanto al tema del simposio, trionfa quello dell’amicizia che domina i versi dedicati alla rievocazione dei comuni trascorsi militari, le gioie conviviali nei momenti di pausa, la sconfitta di Filippi (inferta ai cesaricidi da Marco Antonio e Ottaviano) e poi i due diversi destini. Le numerose notazioni autobiografiche culminano nel ricordo della fuga e dell’abbandono dello scudo, fatto questo che può realmente essere accaduto, ma che si inserisce in un filone letterario ben noto della lirica greca arcaica (vd. riquadro). L’ode deve essere stata composta nel 29 o poco dopo, anno in cui Augusto concesse l’amnistia a tutti i superstiti delle guerre civili, consentendo così il ritorno di Pompeo Varo. Metro: strofa alcaica 1 s. Saepe ... duce: v. introduzione. Tempus in ultimum: ‘il momento estremo’, dunque il ‘pericolo estremo’. Bruto ... duce: abl. assoluto. Militiae = militum. 3 Redonavit = reddidit. Quiritem: ‘cittadino con pieni diritti’, in seguito all’amnistia. 5 Pompei: bisillabo per sinizesi. Prime: ‘più caro’. 6 ss. Morantem ... diem: ‘il giorno lento a passare’. Fregi: ‘accorciai’, lett. ‘ruppi’. Nitentis (nitentes) ... capillos: acc. di relazione, in iperbato, dipendente da coronatus (‘inghirlandato’). Malobathro: olio profumato ricavato da una pianta orientale. 10 Sensi: ‘provai’, ‘feci l’esperienza di’. Relicta ( ... parmula): per le ascendenze letterarie v. riquadro; parmula è diminutivo di parma, scudo piccolo e leggero. Non bene: litote, ‘senza onore’. 11 Fracta: sott. est. Minaces: i soldati di Bruto, minacciosi anche nel momento della sconfitta. 12 Turpe ... mento: ‘caddero proni a terra vergognosamente’. Turpe: acc. avverbiale (= turpiter). Tetige(re) = tetigerunt. 13 Per hostis (= hostes): ‘attraverso le schiere nemiche’. Mercurius: dio protettore dei poeti. Celer: predicativo, ‘velocemente’. 14 Denso ... aere: ‘in una densa nube’, iperbato. Sustulit: ‘mi portò via’. 15 s. Te ... aestuosis: costruisci: unda resorbens te rursus tulit in bellum fretis aestuosis. Te è oggetto sia di resorbens (‘risucchiandoti’) che di tulit. Fretis ... aestuosis: abl. strumentale, ‘con i suoi flutti agitati’. 17 Obligatam ... dapem: ‘il banchetto promesso in voto’. 18 Latus: ‘il fianco’, per metonimia ‘il corpo’. Doppio iperbato intrecciato. 19 Depone: ‘adagia’. Lauru: declinato secondo la IV declinazione. 20 Cadis: ‘orci di vino’, abl. 05 10 15 20 O saepe mecum tempus in ultimum deducte Bruto militiae duce, quis te redonavit Quiritem dis patriis Italoque caelo, Pompei, meorum prime sodalium cum quo morantem saepe diem mero fregi coronatus nitentis malobathro Syrio capillos? Tecum Philippos et celerem fugam sensi relicta non bene parmula, cum fracta virtus et minaces turpe solum tetigere mentum. Sed me per hostis Mercurius celer denso paventem sustulit aere; te rursus in bellum resorbens unda fretis tulit aestuosis. Ergo obligatam redde Iovi dapem longaque fessum militia latus depone sub lauru mea nec parce cadis tibi destinatis. Oblivioso levia Massico ciboria exple, funde capacibus inguenta de conchis. Quis udo deproperare apio coronas 80 25 curatve myrto? Quem Venus arbitrum dicet bibendi? Non ego sanius bacchabor Edonis: recepto dulce mihi furere est amico. Precedenti letterari L’episodio della fuga, che sia realmente accaduto o meno, è rievocato con evidenti riferimenti ad analoghi episodi cantati da lirici greci arcaici, tutti poeti soldati. Già Archiloco, per sottrarsi alla morte, aveva abbandonato lo scudo: “Qualcuno dei Sai si fa bello dello scudo, arma irreprensibile che io lasciai, non volendo, presso un cespuglio. Ma io stesso sfuggii il destino di morte. Quello scudo vada in malora: in seguito me ne procurerò un altro non peggiore” (fr. 6 D.). E poi Alceo: “Salvo è Alceo, ma non i suoi strumenti di Ares” (fr. 428 L.P.). Anche l’intervento salvifico da parte di Mercurio (divinità protettrice dei poeti, cf. Odi II 17. 29 Mercurialium ... virorum) attinge a precedenti della tradizione greca, e precisamente a Omero: nei duelli tra eroi gli dèi erano soliti dei loro protetti anche sottraendoli al nemico. retto da parce. Tibi destinatis: ‘tenuti in serbo per te’. 21 s. Oblivioso: ‘che fa dimenticare gli affanni’. Levia ... ciboria: ‘le coppe levigate’. Doppio iperbato intrecciato. Funde: ‘versa’, sui capelli’. 23 Conchis: ‘vasetti’ a forma di conchiglia per gli unguenti. 23 ss. Quis ... myrto?: costruisci: quis curat deproperare (‘apprestare rapidamente’) coronas udo apio vel myrto? Udo = uvido, perché cresce in luoghi ricchi di acqua. Apio: appio o sedano, pianta usata per fare corone, come il mirto, sacro a Venere. 25 s. Venus: ‘il colpo di Venere’ era il colpo più fortunato nel lancio dei dadi (quando cioè uscivano quattro numeri diversi). Arbitrum .. bibendi = rex convivii, v. scheda 000. 26 ss. Non ... sanius bacchabor: ‘mi darò all’orgia non più moderatamente’. Edonis: secondo termine di paragone; gli Edoni erano una popolazione tracia particolarmente dedita al vino. Recepto ... amico: costruisci: dulce mihi est furere infinito sostantivato), recepto amico. Il senso dell’amicizia In Orazio una vitalistica propensione personale verso l’amicizia affettuosamente interpretata (…), si sposa ad una propensione anche ideologica per essa che gli trasmette la scuola epicurea. Il poeta infatti ci documenta come nella sua villa sabina, negli incontri conviviali con gli amici, tra gli argomenti di discussione – tutti di carattere filosofico essoterico – figurava una quaestio intorno all’amicizia e alle cause della sua nascita: se essa, cioè, derivasse ‘da utilità o da virtù’ (usus rectumne, Sat. II 6, 73-76). La risposta di Orazio non poteva che essere quella, epicurea, dell’usus, dal quale faceva nascere anche le leggi (Sat. I 3. 99-110). È significativo che, alla base dello stesso ‘utile’ da cui ha origine la società, Orazio scorga il medesimo atteggiamento di reciproca indulgenza che è a fondamento dell’amicizia (Sat. I 3. 67-72). Alla domanda: ignoscis amicis? (Epist. II 2. 210) Orazio aveva risposto con l’intera satira I 3, che espone quel codice di indulgenza (…) che Persio (I 116-17) loderà in Orazio e secondo il quale si deve gestire il rapporto di amicizia (Sat. I 3 54) (…) L’amicizia è proprio l’ambito in cui si deve e si può realizzare, nella forma esperienzialmente più evidente ed alta, quel rapporto di giustizia indulgente che, conseguendo l’utile, costituisce la società stessa. Pur restando quindi nella sfera del privato, giusta i dettami epicurei (Sat. I 3. 142), l’amicizia diventa il mezzo con cui si costruisce una società buona, addirittura ‘felice’, perché basata sulle possibilità illimitate di benessere che solo la vicendevole indulgenza sa produrre (Sat. I 3. 139-42) (L.F. Pizzolato, Amicizia, in Enciclopedia Oraziana, Roma, 1997 vol. II, pp. 552 sgg.) 81 Tu spem reducis mentibus anxiis Il Testo ODI III 21 L’occasione del componimento è un convito in onore di Marco Valerio Messalla Corvino, quasi coetaneo e amico di Orazio, suo compagno di studi ad Atene e d’armi a Filippi, illustre uomo di stato ma anche cultore di filosofia e grande oratore. Pare che coltivasse una particolare passione per il vino, come confermerebbe quest’ode: una personalità come la sua richiede del vino speciale, un vino invecchiato per quasi quarant’anni, l’età del poeta, appunto. Il tema centrale è dunque quello dell’elogio del vino e dei benefici da esso portati. Si stabilisce poi una sorta di parallelismo tra il vino e la vita dell’uomo per quanto riguarda l’età e il carattere: il vino di quarant’anni è un vino mite, quasi stanco, che rispecchia l’indole del quarantenne Orazio, ormai avviato verso l’età senile. Corvino fu console nel 31 e vincitore sugli Aquitani nel 28: l’ode può forse risalire a un periodo di poco successivo a queste occasioni. Metro: strofa alcaica O nata con me quand’era console Manlio, sia che tu provochi lamenti oppure scherzi, o risse o folli amori, oppure, anfora amica, agevole sonno, per qualunque occasione prescelto il massico vino conservi, tu degna d’essere smossa in un giorno propizio, discendi! Corvino vuole che s’imbandiscano vini maturati dal tempo. Egli, sebbene trasudi di discorsi socratici, non sarà così arcigno da sdegnarti; si narra che anche al vetusto Catone il vino spesso la virtù riaccese. Tu l’estro per lo più restio desti infondendo assillo delizioso; tu sveli gli affanni dei sapienti ed i loro disegni arcani con Lieo giocoso; tu riporti speranza agli animi ansiosi e aggiungi forze al povero e coraggio: poi non teme corone d’iracondi monarchi né armi di guerrieri. Libero e Venere, se anche lei assista lieta, e le Grazie, lente a sciogliersi, e splendenti lucerne ti faranno durare finché Febo tornando fughi gli astri. 05 10 15 20 (Trad. L. Canali) 82 O nata mecum consule Manlio, seu querellas sive geris iocos seu rixam et insanos amores seu facilem, pia testa, somnum, quocumque lectum nomine Masicum servas, moveri digna bono die, descende, Corvino iubente promere languidiora vina. Non ille, quamquam Socraticis madet ermonibus, te negleget horridus: narratur et prisci Catonis saepe mero caluisse virtus. Tu lene tormentum ingenio admoveas plerumque duro; tu sapientium curas et arcanum iocoso consilium retegis Lyaeo. Tu spem reducis mentibus anxiis viresque et addis cornua pauperi post te neque iratos trementi regum apices neque militum arma Te Liber et si laeta aderit Venus segnesque nodum solvere Gratiae vivaeque producent lucernae, dum rediens fugat astra Phoebus Abitudini conviviali Il convito di Orazio è la cena romana (…). Tuttavia questa tradizione romana con i suoi problemi serve solo in parte a capire il senso e il rilievo che il convito assume nella lirica e nelle epistole di Orazio. Nel costume la cena aveva assunto una funzione non priva di ambiguità: momento necessario nel ritmo della giornata, in quanto rilassamento e preparazione di nuove energie per i nuovi negotia (…), ma nello stesso tempo rottura dei negotia e loro rimozione, almeno per un tempo limitato, dalla coscienza. Il secondo aspetto si era accentuato, naturalmente, col progresso del lusso; ma Orazio, che pure rifiuta decisamente la gozzoviglia, accentua ulteriormente la funzione di rottura: il convito, attraverso la pausa dei negotia, ha il compito di interrompere e cancellare le curae, sia come tensione dell’animo negli affari sia come angoscia (nel senso del greco mèrimnai); anzi Orazio gli assegna per lo più la funzione di superare la fondamentale angoscia lucreziana dell’esistenza, acuita da una sensibilità particolare per il tempo come corsa ineluttabile e logoramento o distruzione: perciò è il vino come causa di oblio, come droga, che assume nel convito la funzione centrale. Nelle satire del secondo libro Orazio si è dilettato a dissertare di gastronomia in versi; nelle odi conviviali i cibi non vengono descritti: il convito è evocato col profumo delle rose, degli unguenti, ma soprattutto col vino. Naturalmente si deve tener conto della differenza dei generi lettarari: la lirica filtra in modo diverso la realtà quotidiana: anche ad un livello non sublime, quale vuol essere per lo più quello di Orazio lirico, una descrizione delle portate, quale ricorre più volte in epigrammi di Marziale, sarebbe riuscita sconveniente; ma una ragione più sostanziale è che il vino, molto più del cibo, dà al convito la sua funzione liberatoria. Nel definire questa funzione Orazio si ispira decisamente alla lirica greca arcaica (Archiloco, Alceo, Anacreonte), e nello stesso tempo all’epicureismo: dunque le radici del senso poetico che assume la cena romana in Orazio, vanno cercate quasi tutte nella cultura greca; ma nuova, e felice, è la sintesi di motivi della lirica greca arcaica, o, talvolta, della poesia ellenistica, con la meditazione epicurea: una sintesi la cui importanza, per millenni, nella poesia europea è facile valutare. (…) I personaggi a cui il poeta rivolge i suoi inviti, sono angustiati dai loro negotia, politici o economici: sembra che nessuno svolga le sue occupazioni con serenità, letizia, entusiasmo. Mecenate è, sotto questo aspetto, un caso tipico: negli inviti a cena Orazio non giustifica l’esortazione ad afferrare i doni dell’ora presente con la morbosa inquietudine del suo carattere. Il convito e il vino sono il rimedio alle civiles curae, che il grande personaggio sente pesare su di sé, anche quando per l’impero le preoccupazioni causate dai nemici esterni non sono affatto gravi (Carm. III 8) (…). I destinatari, se non sono stressati dalla politica, sono stressati dalle loro attività lucrose, come Manlio Torquato, l’importante oratore forense di Epist. I 5, o l’ignoto Virgilio di Carm. IV 12. Insomma l’invito al simposio e al vino raramente si stacca da un contrasto acuto con una vita affannosa (Carm. II 11. 17 s. Dissipat Euhius / curas edacis), e in questo modo s’inserisce in una meditazione lirica di carattere generale, dove si carica di una ricca funzione simbolica. (A. La Penna, op. cit., p. 278 ss.) 83 Prelo domitam Caleno tu bibes uvam Il Testo ODI I 20 L’ode non è propriamente una vocatio ad cenam, ma rientra comunque nella tipologia dei testi di carattere occasionale legati ai biglietti d’invito. Il destinatario è Mecenate che si suppone abbia già accettato l’invito e che ora venga a sapere che cosa si berrà. La data di composizione non è determinabile con sicurezza, ma un punto di riferimento si può trovare nell’accenno all’applauso che Mecenate ricevette in teatro alla sua prima apparizione dopo la guarigione da una grave malattia databile con buona probabilità al 29 a. C. Metro: strofa saffica 1 s. Sabinum scil. vinum; il vino di Sabina era vino di qualità mediocre. Modicis … cantharis: abl. di mezzo, ‘in coppe di poco prezzo’. 2 s. Quod ... levi: costrui-sci: quod ego ipse Graeca testa conditum levi (= condidi et levi). Ego ipse: ‘con le mie mani’. Testa è l’anfora nella quale il vino si travasava, dopo la fermentazione, e si sigillava. Conditum: ‘travasato’. Levi = oblevi, ‘spalmai’: le angore erano sigillate con della pece spalmata sul tappo. 3 s. Datus ... plausus: costruisci: cum plausus datus (est) tibi in theatro. Vd. introduzione. 5 s. Clare … eques: clare è congettura preferibile a care tramandato dai codici, in quanto meglio si accorda con il titolo di eques. Ut ... imago: costruisci: ut ripae paterni fluminis et simul iocosa imago monits Vaticani redderet laudes tibi. Ut: consecutivo. Paterni fluminis: il Tevere, che nasceva in Etruria, patria di Mecenate. / s. Vaticanui montis: colle sulla destra del Tevere. Iocosa … imago: l’eco degli applausi che sembrava provenire dai luoghi circostanti. 9 s. Caecubum ... uvam: costruisci: tu bibes Caecubum et uvam domitam prelo Caleno. Bibes: futuro con valore concessivo, ‘bevi pure’. Domitam … uvam: ‘uva spremta’, perifrasi per dire ‘vino’. Prelo … Caleno: abl. di mezzo, ‘col torchio di Cales’, città della Campania rinomata per il vino. 10 ss. Mea ... colles: costruisci: nec Falernae vites neque Formiani colles temperant mea pocula. Temperant: il verbo si riferisce all’abitudine di mescolare il vino con l’acqua ed è riferito, con una costruzione piuttosto audace, al vino anziché all’acqua. 5 10 Vile potabis modicis Sabinum cantharis, Graeca quod ego ipse testa conditum levi, datus in theatro cum tibi plausus, clare Maecenas eques, ut paterni fluminis ripae simul et iocosa redderet laudes tibi Vaticani montis imago. Caecubum et prelo domitam Caleno tu bibes uvam: mea nec Falernae temperant vites neque Formiani pocula colles. I vini oraziani Falernus: il falerno, vino prodotto nell’omonimo territorio della Campania, era uno dei vini migliori e più rinomati. Caecubus: il cecubo era un vino pregiato prodotto nell’omonima pianura del Lazio. Anche i colli di Formia e la zona di Cales, oggi Calvi, in Campania, erano famose per la qualità dei loro vini. Sabinum vinum: il vino di Sabina era invece un vino di qualità mediocre. 84 Il tòpos del pranzo modesto rientra nella tradizione, ma in questo caso l’idea del vino non pregiato diventa simbolo dello stile di vita del poeta, del suo gusto per la semplicità, e dallo spunto occasionale dell’invito si passa così al contenuto etico. Le prime due strofe si riferiscono all’invito, l’ultima sviluppa il confronto tra i gusti di Orazio e quelli di Mecenate. SUL TESTO L’apertura dell’ode presuppone che l’invito a Mecenate sia già stato formulato e accettato, dunque il fatto contingente è solo uno spunto occasionale per alcune riflessioni che, partendo dal motivo del vino, arrivano a investire lo stile di vita di Orazio in confronto con quello del suo nobile amico. Il primo verso introduce immediatamente due parole-chiave, vilis e modicus, riferite rispettivamente al vino sabino e alle coppe in cui esso è servito, incrociati in un doppio iperbato. I due aggettivi da un lato rispondono alla volontà di aderire al topos letterario della modestia del pranzo offerto, ma vanno anche letti come allusioni allo stile di vita semplice e modesto che Orazio predilige (in particolare modicus non può non far venire alla mente i concetti positivi di medietas e mediocritas). Se è vero che il vino sabino è un vino di modesta qualità, è anche vero che Orazio ha usato una cura particolare nel conservarlo: lui stesso si è occupato di travasarlo e il fatto che sia stata utilizzata un’anfora greca secondo alcuni interpreti significa che il vino è stato in un’anfora precedentemente utilizzata per vino pregiato che avrebbe trasferito in parte il suo profumo nel nuovo contenuto. Questo vino è particolarmente caro a Orazio per un motivo personale: è infatti stato travasato in un’occasione felice per Mecenate, in concomitanza, cioè, con la sua guarigione da una grave malattia che lo aveva colpito. La seconda strofa svolge il motivo del plauso che la folla tributò al ritorno di Mecenate in società; l’immagine è efficacemente costruita tramite la personificazione delle rive del fiume Tevere e del colle Vaticano che sembrano assistere all’evento unendosi all’applauso. L’ultima strofa ritorna al tema del vino in aperto contrasto con la prima: al vino di modesta qualità che si beve a casa di Orazio si contrappongono i vini pregiati a cui è abituato Mecenate, il Cecubo, il vino di Cales, il Falerno e il vino di Formia. Nota come il desiderio di varietas abbia portato il poeta alla scelta di espressioni diverse per menzionare i tre vini: il primo è semplicemente detto Cecubum scil. vinum, il secondo è detto, con una originale perifrasi, prelo domitam Caleno … uvam, il terzo e il quarto sono il risultato dell’azione dei Falernae …vites e Formiani … colles che personificati riempiono il bicchiere di Mecenate. Anche qui, come nella prima strofa, il riferimento al vino non è fine a se stesso ma assume un significato più ampio come allusione allo stile di vita di Mecenate, superiore alla medietas praticata da Orazio. Orazio ha atteggiamenti spesso e volentieri negativi: parole e toni rinunciatari, deprecativi, dissuadenti. Egli deplora gli eccessi ed esorta alla frugalità. Ma la sua frugalità, come ogni alta sua caratteristica, è lungi dall’essere fanatica. In verità nessuno più di lui indulge a semplici piaceri quale, ad esempio, quello di gustare un bicchiere di vino sabino: e qui Orazio è epicureo. “Cogliete le rose in bocciolo finché potete” è una massima significativa, molto importante, del suo modo di pensare. (M. Grant, op. cit., p. 253) 85 Dona praesentis cape laetus horae Il Testo Odi III 8 Nel tema dell’amicizia il rapporto con Mecenate riveste un valore particolare, supportato, al di là delle naturali differenze, da una profonda affinità di sensibilità e di intuizione della vita; già rappresentato nella satira VI, esso traspare in diversi componimenti di occasione, talora preoccupati per la salute dell’amico (II 17), talaltra affettuosamente interessati ai suoi rapporti coniugali (II 12). Particolarmente significativo, in quanto contiene una sottile allusione alla “estraneità” di Orazio alla politica di Augusto (che incoraggiava i matrimoni, mentre Orazio rimase iriducibilmente scapolo), è un altro invito a bere, rivolto a Mecenate in occasione delle ferie di Marte. Metro: strofa saffica Mecenate, signore dei due linguaggi, che farà l’amico tuo celibe al primo di marzo, che vogliono questi fiori nella mia casa, i carboni accesi sulle zolle vive, le teche dell’incenso? Quando mi salvai dalla rovina dell’albero nel mio podere avevo fatto voto a Libero d’un amabile mensa e d’un capro bianco. E oggi è l’anno; questo giorno di festa toglierà la pece che sigillava l’anfora usa dal tempo di Tullo a respirare fumo. Leva, Mecenate, cento coppe in onore dell’amico tuo salvo, le lucerne vive attendano, non turbate da grida, l’alba. Lascia i pensieri della Città tua grande. Caduta è la schiera di Cotisone il dace, i Medi muovono tra loro la dolente guerra, il nemico vecchio, il Cantabro, sulle rive di Spagna obbedisce, le ultime catene nostre lo domarono, lo Scita slaccia l’arco, pensa ritorni sulle sue pianure. E dunque non pensare che il popolo abbia angustia, e non troppo vegliare; torna un oscuro, cogli in letizia il dono di quest’ora, lascia le gravi cose. (Trad. E. Mandruzzato) 05 10 15 20 25 86 Martiis caelebs quid agam kalendis, quid velint flores et acerra turis plena miraris positusque carbo in caespite vivo, docte sermones utriusque lingua? Voveram dulcis epilas et album Libero caprum prope funeratus arboris ictu. Hic dies anno redeunte festus corticem adstrictum pice dimovebit amphorae fumum bibere institutae consule Tullo. Sume, Maecenas, cyathos amici sospitis centum et vigilis lucernas perfer in lucem; procul omnis esto clamor et ira. Mitte civilis super urbe curas: occidit Daci Cotisonis agmen, Medus infestus sibi luctuosis dissidet armis, servit Hispaniae vetus hostis orae Cantaber, sera domitus catena, iam Scythae laxo meditantur arcu cedere campis. Neclegens, ne qua populus laboret, parce privatus nimium cavere et dona praesentis cape laetus horae: linque severa. M 5 Amore e ironia Nella concezione della vita di Orazio, l’amore occupa un posto particolare, perché sentito da un lato come un naturale fattore di attrazione, dall’altro come un fattore di turbamento; di qui un approccio caratterizzato, come per altri aspetti della sua esperienza, da una scelta di misura, che risolve il contrasto in uno sguardo ironico, in cui il poeta coinvolge in primo luogo se stesso, ma che è un modo per accettarlo e nello stesso tempo tenerlo a distanza. C’è al fondo di questo atteggiamento una valutazione dell’amore e della donna come fonte di incertezza e problemi; e di fatto, talvolta Orazio rappresenta l’amore come una forza debilitante, che riduce un uomo a uno stato di effeminata mollezza (Odi I 8 Í); talaltra tratteggia la donna come un essere imprevedibile e incostante, che seduce e subito delude (Odi II 8 Í). Questo atteggiamento si può riscontrare nelle liriche in cui sembra trasparire una esperienza più diretta della passione d’amore. Nonostante l’impegno a non lasciarsi coinvolgere, anche Orazio si lascia andare a manifestazioni di gelosia: così nell’ode a Lidia (I 13) che esaltando le qualità del giovane Telefo suscita la reazione passionale e sdegnata del poeta: Cum tu, Lydia Telephi cervicem roseam, cerea Telephi laudas bracchia, vae, meum fervens difficili bile tumet iecur. Tunc nec mens mihi nec color certa sede manet, umor et in genas furtim labitur, arguens quam lentis penitus macerer ignibus. Lidia, quando mi elogi Tèlefo per il collo ‘che è di rose’, quelle braccia di Tèlefo ‘di cera’, a me una brutta bile gonfia il fegato, mente e sangue si perdono e le lacrime rigano il viso senza che mi accorga e denunciano il fuoco lento che mi consuma. (Odi, I 13, vv. 1-8, trad. E. Mandruzzato) Si tratta certo di situazioni e di figure circonfuse da un’aura di malizia; ma in ogni caso consigliano all’uomo maturo un certo distacco. È la posizione che Orazio elabora ad es. nell’ode ad Albio (I 33 Í), in cui invita l’amico che soffre a prendere atto della irrazionalità dell’amore, e soprattutto nell’ode a Pirra, in cui Orazio rappresenta con sollievo l’idea di essere ormai in salvo dalle tempeste d’amore (Odi I 5 Í). Da questo punto di vista, la dialettica dell’amore si risolve nel gioco della civetteria e della seduzione, dove anche la gelosia non è che un momento del rapporto amoroso. Così, nell’ode a Cloe (I 23), il poeta si rivolge alla ragazza che lo fugge, sicuro che verrà il tempo in cui anche lei cederà alla forza dell’amore, ricorrendo al topos malizioso e affettuoso dell’immagine del cerbiatto spaventato che fugge sui monti la tigre o il leone: 87 Vitas inuleo me similis, Chloe, quaerenti pavidam montibus aviis matrem non sine vano aurarum et silvae metu. (…) Atqui non ego te, tigris ut aspera Gaetulusve leo, frangere persequor: tandem desine matrem tempestiva sequi viro. Mi sfuggi, Cloe: sei come un cerbiatto che cerca alla montagna senza vie la madre spaventata, e porta in cuore timore vago di vento e di selva. (…) Ma non t’inseguo io come una tigre feroce, un leone d’Africa, non voglio infrangerti. Allora lascia la madre, è tempo di marito. (Odi, I 23, vv. 1-4, 9-12, trad. E.Mandruzzato) Col tema d’amore, in questa prospettiva, si intreccia la riflessione sul tempo che passa, come nell’ode a Lalage (II 5 Í), in cui la constatazione della riluttanza della ragazza – paragonata prima a una giovenca non ancora soggiogata e poi all’uva non ancora matura – e l’invito ad arrendersi alla legge dell’amore aprono la via al motivo più generale della fugacità della vita. Così, se talvolta il poeta si rivolge con apparente rudezza alla donna che scongiura di aprirgli dichiarando che non starà alla porta in eterno (III, 10), secondo il modello letterario del parakalusithyron (serenata alla porta), altra volta lo scontro è solo il preludio alla riappacificazione, come nel celebre “contrasto” con Lidia (Odi III 9 Í). O quamvis neque te munera nec preces nec tinctus viola pallor amantium nec vir Pieria paelice saucius curvat, supplicibus tuis parcas, nec rigida mollior aesculo nec Mauris animum mitior anguibus: non hoc semper erit liminis aut aquae caelestis patiens latus. Ah, se omaggi insistenze volti bianchi d’amore marito con amante / pieria di razza, nulla / ti piega, non punire chi viene supplicando, / o dura più del rovere o amara più del serpe, / non sempre reggerò / alle piogge celesti su questa soglia dura. (III 10, vv. 13-20; trad. E.Mandruzzato). In questo contesto, l’esperienza d’amore si configura come un gioco, in cui le due parti giocano ciascuna la sua partita, ma ben sapendo che è un gioco. Altra volta però il fenomeno dell’amore trova una rappresentazione allo stesso tempo più oggettiva e più panica, come nella raffigurazione della gioia che provoca la venuta del Fauno anche tra le Ninfe, che pure lo sfuggono (III, 18). Ludit herboso pecus omne campo cum tibi nonae redeunt Decembres, festus in pratis vacat otioso cum bove pagus... Scherza tutto il bestiame nell’erboso piano quando in tuo onore tornano le none di dicembre il villaggio in festa ruzza sui prati, con il bove che riposa... Ne viene comunque, come costante delle poesie d’amore di Orazio, un tono disincantato e talvolta cinico, che peraltro non esclude delicatezza di sentimenti, sia nei consigli all’amico a non rinunciare agli amori di un’ancella (II, 4, dove il giudizio brutale della Satira I 2 è capovolto); o nella delicata comprensione dell’attesa d’amore di Glicera, per 88 cui si invoca la presenza di Venere, assieme a quella del suo corteo di Grazie e Ninfe (Odi I 30): O Venus regina Cnidi Paphique, sperne dilectam Cypron et vocantis ture te multo Glycerae decoram transfer in aedem. Fervidus tecum puer et solutis Gratiae zonis properentqueNymphae et parum comis sine te Iuventas Mercuriusque. Venere, Venere / che regni a Cnido e a Pafo, trascura l’amata Cipro / e vieni nella bella / casa di Glicera, che ti chiama con molte onde d’incenso. Febbre d’amore / voli con te, e le Grazie dai veli sciolti / e le Ninfe: e quella cui dai eleganza, / la giovinezza. Quella di Mercurio. (trad. E. Mandruzzato) Un tono malizioso caratterizza un’altra preghiera a Venere, questa volta per dichiarare la rinuncia all’amore e insieme alla poesia erotica, e allo stesso tempo per richiedere da parte della dea una vendetta sulla fanciulla amata (Odi III 26); mentre una singolare commistione tra il tema d’amore e della convivialità caratterizza un’altra ode forse più tarda, dove Orazio invita Lidia a preparare da bere, alludendo ad un’altra conclusione del festino (Odi III, 28). Vixi puellis nuper idoneus et militavi non sine gloria; nunc arma defuncumque bello barbiton hic paries habebit, laevom marinae qui Veneris latus custodit. Hic, hic ponite lucida funalia et vectis et arcus oppositis foribus minacis. O quam beatam diva tenes Cyprum et Memphin carentem Sithonia nive regina, sublimi flagello tange Chloen semel arrogantem. Sono vissuto, ho amato, fino a ieri, e non senza bravura o senza gloria. E ora le mie armi e questa cetra / veterana staranno qui, alla parete che protegge il fianco sinistro di Venere del mare. Ecco, le fiaccole di luce, qui, a questo punto. E gli archi minacciosi, le leve per forzare porte ostili – ma tu Dea che sei signora di Cipro e in Menfi dove mai cade la neve, Regina, con la punta della sferza / tocca una volta Cloe, fanciulla / presuntuosa. (trad. E. Mandruzzato) A Orazio l’amore non dettò nessun accanto di passione. Prima dei trent’anni, rivolgendosi di proposito agli uomini innamorati, faceva sentire il gelo beffardo e raziocinante dell’analisi lucreziana. Senza più la crudezza di quella seconda satira scritta con la foga nel neofita epicureo, egli restò fedele a precetti così conformi all’indole sua che rifuggiva dagli stati ansiosi e aveva bisogno di placide comodità. Le donne di Orazio sono quelle del mondo galante: fresche, agili, graziose: che si stancano dei loro amanti e appunto perciò non stancano mai: e se si ha voglia di rivederler è perché sono andate via presto: immagini rapide e capricciose di giovinezza, senza la vacuità opaca e prolissa della manti ideali. Orazio non le presenta a lungo: le fa intravedere appena per un gesto o un tratto del loro corpo: Pirra, tempestosa come il mare (I, 5); Lidia che porta sulla bocca il ricordo di un bacio (I, 13); Clori dalle spalle fulgenti come la luna che scintilla pura sulle acque notturne (II, 15); e Cìnara, la rapace, la preferita, che restò giovane e bella perché giovane morì (IV, 13). Orazio sente e fa sentire la donna come armonia, mai come gravezza: come incantesimo, mai come delirio; e la coglie nello splendore dello sguardo o del sorriso, nella morbida grazia della danza, nel fascino di quelle riluttanze che assentiscono, di quei no che dicono di sì, nella seduzione stessa della menzogna, ... (Marchesi, op. cit., p. 503-504) 89 Donne pericolose Amando perdere Il Testo Odi I 8 L’ode è rivolta a Lidia, nome che compare più volte nelle Odi, ed è una sorta di intercessione in favore del giovane Sìbari, vittima del suo amore. Orazio rivolge alla donna una serie di domande sul perché dell’abbandono da parte del ragazzo delle sue abituali attività; domande che rimangono senza risposta ma alle quali il lettore può facilmente rispondere riconoscendo l’origine di tale situazione nella passione amorosa che distrugge l’uomo facendolo illanguidire nell’inerzia. L’ode si conclude con un riferimento mitologico: Sìbari, nel suo ritiro dalle attività e dai contatti sociali, è come Achille, nascosto dalla madre sull’isola di Sciro, fra le figlie del re Licomede, per sottrarlo al pericolo di morte nella guerra di Troia. Non vi sono indizi cronologici, ma lo stile è piuttosto quello del primo Orazio. Metro: sistema saffico maggiore Dimmi, Lidia, ti prego / per tutti gli dei, perché vuoi rovinarmi Sìbari / col tuo amore? Perché odia / l’afa del Campo, pur sopportando sole e polvere? / perché più non cavalca / con i compagni d’arme e non sa reggere il morso / dei cavalli di Gallia? / perché teme l’acqua del biondo Tevere? o evita / d’ungersi d’olio, quasi / fosse sangue di vipera, e non ha più le braccia / piegate dalle armi, / famoso com’era nel lanciare asta e disco? / o perché si nasconde, / come il figlio di Teti marina, quando Troia / in lacrime periva, / per non essere spinto contro i Lici alla morte? (trad. M. Ramous) 05 10 15 Lydia, dic, per omnis te deos oro, Sybarin cur properes amando perdere, cur apricum oderit campum patiens pulveris atque solis, cur neque militaris inter aequales equitet, Gallica nec lupatis temperet ora frenis? Cur timet flavom Tiberim tengere? Cur olivum sanguine viperino cautius vitat neque iam livida gestat armis bracchia, saepe disco, aepe trans finem iaculo nobilis expedito? Quid latet, ut marinae filium dicunt Thetidis sub lacrimosa Troiae funera, ne virilis cultus in caedem et Lycias proriperet catervas? Orazio poeta d’amore Nos convivia, nos proelia virginum cantamus, vacui sive quid urimur, non praeter solitum leves. Orazio, scrivendo queste parole, è sincero, ed esse convengono perfettamente alla prima raccolta di odi: qui egli vola di fiamma in fiamma senza bruciarsi le ali. Non vi è ragione di credere che le varie Lydie, Lyce, Lyde, che egli canta, siano figure soltanto letterarie, per quanto (…) i motivi siano spesso derivati, anche nei particolari, dalla letteratura. Ma nei primi tre libri delle Odi udiamo ben di rado fremere quegli accenti di passione, che ci scuotono sino in fondo all’anima nella poesia di Catullo... La differenza è, secondo me, di stile. Orazio negli Epodi, ove vuole emulare Archiloco, lascia libere le briglie della passione amorosa ma, e più ancora, specie in poesie giovenili, all’odio. (…) Il primo canzoniere è anch’esso frutto dello zèlos per Alceo, come gli Epodi dello zèlos per Archiloco; ma i suoi principii di arte sono divenuti in questi tre libri più complicati, hanno risentito anch’essi gli effetti della restaurazione augustea: (…) gli atteggiamenti poetici sono qui più composti e meno sciolti che non nei canzonieri lesbici, a quello stesso modo che opere di arte neoattica presentano figure e movimenti più dignitosi a meno liberi che non rilievi attici antichi. (G. Pasquali, Orazio lirico, Studi, ristampa a c. d. A. La Penna, Firenze 1964, pp.392 ss.) 90 ODI II 8 Enitescis pulchrior multo Metro: strofa saffica 05 10 15 20 Ulla si iuris tibi perierati poena, Barine, nocuisset unquam, dente si nigro fieres vel uno turpior ungui, crederem: sed tu simul obligasti perfidum votis caput, enitescis pulchrior multo iuvenumque prodis publica cura. Expedit matris cineres opertos fallere et toto taciturna noctis signa cum caelo gelidaque divos morte carentis. Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident simplices Nymphae ferus et Cupido semper ardentis acuens sagittas cote cruenta. Adde quod pubes tibi crescit omnis, servitus crescit nova nec priores impiae tectum dominae reliquunt saepe minati. Te suis matres metuunt iuvencis, te senes parci miseraeque nuper virgines nuptae, tua ne retardet aura maritos. La bellezza si presenta a Orazio soprattutto sotto l’aspetto della luminosità: il nitor di Glìcera, di Pirra, di Ebro. Orazio... dice bene Mandruzzato, “circondò sempre di bellezza le sue donne fugaci”; e la bellezza “è forse nella poesia greca soltanto una sottocategoria della luce”. Non a caso le famiglie di niteo e splendeo hanno in Orazio un totale di 41 occorrenze contro le 18 di Catullo e le 31 di Virgilio... con l’aggiunta di un aggettivo caro a Orazio, purus... (Carm. 1, 19, 5 seg.: Glicerae nitor/ splendentis Pario marmore purius...). (A. Traina, op. cit. p. 44) 91 1 ss. Si … nocuisset … si fieres … crederem: periodo ipotetico dell’irrealtà. Iuris … peierati (= periurati): ‘per i tuoi giuramenti falsi’, singolare per il plurale. 3 s. Dente … nigro: abl. di qualità. Uno … ungui: abl. di limitazione. Turpior: comparativo assoluto. 5 s. Obligasti ... votis: ‘hai giurato sul tuo perfido capo’ (lett. ‘hai legato il tuo perfido capo con giuramenti’). 7 Pulchrior: ‘più bella’ sott. di prima. 7 s. Prodis: ‘incedi’. 8 Iuvenum … pulbica cura: apposizione del soggetto, ‘affanno comune a tutti i giovani’. 9 s. Expedit: impersonale, ‘(ti) giova’. Cineres ... fallere: ‘farti beffe delle ceneri sepolte di tua madre’; fallere: sogg. sott. te; cineres è maschile. 10 ss. Et toto ... carentis (= carentes): costruisci: et (fallere) taciturna signa noctis cum toto caelo et (-que) divos carentes gelida morte. Taciturna signa: ‘gli astri muti’; gelidaque … morte carentis: ‘che non conoscono la gelida morte’. Serie di iperbati (toto … cum caelo, taciturna … signa, gelida … morte, divos … carentis). 14 Inquam: ‘io credo’. 15 Simplices: ‘ingenue’. Ferus: ‘spietato’, in anastrofe. 16 Ardentis (= ardentes) … sagittas: ‘le frecce roventi’. 17 Cote cruenta: abl. strumentale allitterante, ‘con la sua cote rossa di sangue’. 18 Adde quod: ‘e aggiungi che’, ‘e ancora’. Pubes: ‘la gioventù’. Tibi: dat. di vantaggio. 19 Priores: ‘i vecchi (amanti)’. 20 Tectum: metonimia per domum. 21 Saepe minati: participio congiunto con valore concessivo (‘anche se lo hanno sempre minacciato’). 22 Suis … iuvencis: ‘per i loro figli’ (iuvenci = iuvenes). 23 ss. Senes parci: sott. metuunt; ‘i vecchi sobri’, nel senso di ‘moderati’ anche nella passione amorosa. Miseraeque … virgines: sott. metuunt; ‘le sventurate fanciulle’. 24 s. Tua … aura: ‘la tua seduzione’. Ne retardet: completiva retta dal sottinteso metuunt. Il Testo Barìne è il prototipo della donna pericolosa, bella e spergiura impunita, che continua a ripetere menzogne e man mano diventa sempre più bella, affascinando e legando a sé schiere di giovani. Nei confronti di una simile donna il problema è mantenere la propria libertà: non cadere nelle spire dei suoi inganni e non finire nella schiera dei suoi schiavi. Orazio non è certo la vittima dello spergiuro e anzi è libero da questa catena e può permettersi uno sguardo distaccato e sorridente, come quello degli dei che ridono degli inganni d’amore (del resto già un antico motivo e proverbio callimacheo recitava: “i giuramenti d’amore non entrano nelle orecchie degli dei”). Non lo stesso sorriso si possono permettere madri e giovani spose di quanti sono succubi del fascino di Glìcera. Sic visum Veneri Il Testo ODI I 33 Il destinatario è lo stesso dell’epistola I 4, quasi certamente il poeta elegiaco Albio Tibullo, carissimo amico di Orazio, qui afflitto da maliconia a causa di un amore non corrisposto per una donna indicata con lo pseudonimo di Glìcera. La struttura dell’ode è tripartita: la prima strofa è dedicata alle pene d’amore di Tibullo; la seconda e la terza solgono il motivo topico, di tradizione alessandrina, della catena d’amore (Licoride ama Ciro, questi ama Foloe che non lo vuole: tutto per un crudele gioco di Venere); l’ultima strofa ritorna al tema della sofferenza personale, questa volta, però, in riferimento Orazio, anch’egli vittima, in passato, di un amore non corrisposto. Non vi sono indizi per la datazione. Metro: sistema asclepiadeo secondo Albio, Albio, non dolerti così al ricordo della crudele Glìcera, non intonare solo e sempre lamentose elegie, se un giovane, rotta la fede, t’eclissa ai suoi occhi. Con la sua bella fronte, per Ciro Licòride avvampa d’amore e Ciro invece la fugge per la scontrosa Fòloe: ma prima che questa si conceda a un amante che disprezza, le capre si uniranno ai lupi delle Puglie. Così piace a Venere, che per suo diletto crudelmente sottomette all’insopportabile giogo anima e corpo differenti. Anch’io, e mi chiamava più nobile amore, fui ridotto in dolci ceppi dalla liberta Mìrtale, più sfrenata dei flutti del mare che scavano le insenature calabre. (Trad. M. Ramous) 05 10 15 Albi, ne doleas plus nimio memor inmitis Glycerae neu miserabilis decantes elegos, cur tibi iunior laesa praeniteat fide. Insignem tenui fronte Lycorida Cyri torret amor, Cyrus in asperam declinat Pholoen: sed prius Apulis iungentur capreae lupis, quam turpi Pholoe peccet adultero. Sic visum Veneri, cui placet inparis formas atque animos sub iuga aenea saevo mittere cum ioco. Ipsum me melior cum peteret Venus, grata detinuit compede Myrtale libertina, fretis acrior Hadriae curvantis Calabros sinus. Una donna di Orazio Che Pirra sia una donna fittizia e che la scena possa non rinviare a una specifica esperienza di Orazio è possibile. Ma ciò che non si può escludere è che il passo presuppone un’esperienza dolorosa del poeta. Un’esperienza tormentata e grata solo nel ricordo, che si turba al pensiero che ora tocca ad un altro vivere la lacerazione e lo sconvolgimento che crea questa donna, una donna che seduce con la sua semplicità elegante e che sconvolge la vita di chi di lei si innamora perché è mutevole come l’aria. C’è comunque in questa ode, e forse non per questa donna, l’esperienza di un amore non certo ancora spento, di una gelosia mal celata, di un orgoglio irridente solo per essersi salvato col naufragio. Certo nell’atteggiamento di Orazio c’è la realizzazione della norma epicurea di liberarsi da ogni affanno, e perciò anche dell’amore, se questo diventa tormento e sofferenza. La sua poesia esprime qui questa capacità del suo spirito, la vittoria della volontà, ma ottenuta con l’esercizio di umiltà e la dichiarazione di smarrimento. Il naufrago è restituito alla terra come l’uomo che è uscito dalla tempesta dell’amore. L’amore è dunque smarrimento, naufragio, follia come di chi si arrischia i un elemento di pericolo, alla parte più inaffidabile della natura, il mare, che è come l’amore. Uscire dalla propria stasi esistenziale (mollis inertia), dirà in Ep. 14. 1, per affidarsi, per cercare l’amore, è come l’ansia di chi vuol raggiungere un’altra terra e avvicinare a ciò che la natura ha posto lontano e reso inconciliabile: è esplorazione dolorosa e assurda. (O. Bianco, La donna in Orazio, in Letture oraziane a c. di G. Bruno, Venosa 1992, p. 20 s.) 92 Nescius aurae fallacis ODI I 5 Metro: sistema asclepiadeo terzo 05 10 15 Quis multa gracilis te puer in rosa perfusus liquidis urget odoribus grato, Pyrrha, sub antro? Cui flavam religas comam simplex munditiis? Heu quotiens fidem mutatosque deos flebit et aspera nigris aequora ventis emirabitur insolens, qui nunc te fruitur credulus aurea, qui semper vacuam, semper amabilem sperat, nescius aurae fallacis. Miseri, quibus intemptata nites: me tabula sacer votiva– paries indicat uvida suspendisse potenti vestimenta maris deo. “L’odicina, che è tra le più fini di Orazio, riunisce in concisa e nitida forma il moderato erotismo e la prosaica leggerezza che rispondevano al temperamento del poeta: ma l’immagine di Pirra infedele, di Pirra cattiva, che pur sapeva essere aurea e amabilis, e che raccoglieva in nodo la sua chioma flava e così, simplex munditiis, gli veniva incontro nei non dimenticati colloqui d’amore, vi sparge un tepore di voluttà, una sottile vena di rimpianto”. (B. CROCE, Poesia antica e moderna, Bari 19432, p. 101). 93 1 ss. Quis ... antro?: costruisci: quis gracilis puer, perfusus liquidis odoribus, urget te, Pyrrha, sub grato antro? Gracilis: ‘agile’, ‘snello’. Urget: ‘stringe’. Liquidis: ‘rilucenti’. Grato: ‘ameno’. Pyrrha: nome fittizio, forse in allusione al colore rosso dei capelli. 4 Cui: dat. di vantaggio, ‘per piacere a chi’. Flavam: ‘bionda’, ma l’aggettivo flavus include tutte le sfumature di biondo, compreso il biondo ramato. Religas: ‘annodi’. 5 Simplex munditiis: ‘semplice nella (tua) eleganza’. Fidem: ‘la promessa’, non mantenuta, di amore eterno. 6 ss. Et aspera ... insolens: costruisci: et emirabitur, insolens, aequora aspera nigris ventis. Insolens: ‘non essendoci ancora abituato’. Nigris … ventis: abl. di causa. 8 Qui ... aurea: costruisci: (is) qui nunc credulus fruitur te aurea. Te fruitur: ‘gode di te’. Credulus: ‘fidandosi’. Aurea: con valore affettivo, ‘tutta d’oro’, nel senso di ‘perfetta’. Qui … qui …: anafora. Vacuam: scil. te; ‘libera per lui’, ‘sua’. 10 s. Aurae … fallacis: ‘dell’incostanza del vento’. 11 s. Miseri ... nites: ‘infelici quelli che si lasciano abbagliare dalla tua luce senza conoscerti’. 12 ss. Me ... deo: costruisci: sacer paries, tabula votiva, indicat me suspendisse uvida vestimenta potenti deo maris. La frase fa riferimento all’abitudine, da parte dei naufraghi, di appendere alle pareti del tempio di Nettuno gli abiti inzuppati e delle tavolette votive su cui erano rappresentate le circostanze del naufragio, come segno di gratitudine per essere stati salvati dal pericolo. Il Testo Nell’ode si si intrecciano due temi topici già della lirica greca: quello dell’innamorato respinto, geloso del giovane amante, e quello dell’innamoramento equiparato al naufragio, nel momento in cui per l’incostanza dell’animo femminile l’amore viene meno. Il testo può essere suddiviso in tre parti: la prima strofa (vv. 1-5) presenta la coppia felice vista dagli occhi dell’ex-amante; la seconda e la terza strofa (vv. 5-12) contengono una riflessione di quest’ultimo sull’infelice destino dell’ingaro giovane amante, ora felicemente ricambiato, ma destinato a naufragare nella disperazione non appena l’animo della donna cambierà; l’ultima strofa (vv. 12-16) è una considerazione finale dal punto di vista di chi si sente un sopravvissuto al naufragio d’amore e per questo ringrazia gli dei. Secondo alcuni sarebbe da considerare tra le odi più antiche, secondo altri tra quelle della maturità, in considerazione dell’atteggiamento distaccato dalla passione per cui essa potrebbe rappresentare la conclusione del percorso relativo alla problematica amorosa. (v. riquadro a fronte) Currit ferox aetas Il Testo ODI II 5 L’ode è una riflessione sulla riluttanza all’amore della fanciulla, non ancora arresasi alla legge naturale dell’amore, non senza qualche accenno malinconico al motivo del tempo che passa. Non c’è un destinatario. La struttura si articola in tre blocchi: vv. 1-9 situazione attuale; vv. 9-16 prospettiva futura; vv. 7-24 ricordo degli amori passati. Non vi sono indizi per la datazione: se Lalage è la stessa dell’ode I 22, dove la ragazza ricambia l’amore, si deve pensare che questa ode sia anteriore a quella, che a sua volta, comunque, è di datazione incerta. Metro: strofa alcaica 1 Soggetto sott. è Lalage. 2 Munia comparis: ‘i doveri della compagna di giogo’; metafora della coppia formata da uomo e donna: munia comparis = officia uxoris. 3 Tauri ruentis in venerem: ‘del toro che si slancia nella furia d’amore’; venus è metonimia per indicare l’amore nella sua dimensione fisica. 5 ss. Circa ... praegestientis: costruisci: est circa campos virentis (= virentes) animus tuae iuvencae, nunc solantis gravem aestuum fluviis, nunc praegestientis ludere cum vitulis in udo salicto. Circa … est: ‘è rivolto a …’. 9 Praegestientis: ‘che è smanioso di …’. 10 ss. Iam ... colore: costruisci: iam autumnus varius purpureo colore tibi distinguet lividos racemos. 13 Soggetto sott. è sempre Lalage. Il concetto della Nemesi d’amore è tradizionale in poesia: chi ora fugge prima o poi si troverà a inseguire e viceversa. 14 s. Et ... annos: costruisci: et annos quos tibi dempserit illi adponet. Dempserit: ‘avrà sottratto’. Adponet: ‘aggiungerà’. 17 Dilecta: sott. a te. Quantum … fugax: sott. dilecta est. 18 Non Chloris: sott. dilecta est. Albo … umero: abl. di causa, singolare per il plurale. 19 s. Nocturno … mari: ‘sul mare di notte’. Cnidusve Gyges: Gige di Cnido è il terzo amore passato dopo Foloe e Chloris. La provenienza da Cnido sarà da ricollegare al culto della dea Venere professato nell’isola. La bellezza del fanciullo è tale che inserito in un gruppo di fanciulle non potrebbe essere riconosciuto (allusione all’episodio mitico di Achille nascosto dalla madre fra le figlie del re Licomende, a Sciro, per sottrarlo alla guerra). 21 Sagacis = sagaces. 23 s. Discrimen obscurum: apposizione di quem, riferito al fanciullo. Solutis crinibus ambiguoque voltu: abl. strumentali dipendenti da falleret o di causa dipendenti da obscurum. La quarta strofa amplia la riflessione sul 05 10 15 20 Nondum subacta ferre iugum valet cervice, nondum munia comparis aequare nec tauri ruentis in venerem tolerare pondus. Circa virentis est animus tuae campos iuvencae, nunc fluviis gravem solantis aestum, nunc in udo ludere cum vitulis salicto praegestientis. Tolle cupidinem immitis uvae: iam tibi lividos distinguet autumnus racemos purpureo varius colore; iam te sequetur; currit enim ferox aetas et illi quos tibi dempserit adponet annos; iam proterva fronte petet Lalage maritum, dilecta, quantum non Pholoe fugax, non Chloris albo sic umero nitens ut pura nocturno renidet luna mari Cnidusve Gyges, quem puellarum inseres choro, mire sagacis falleret hospites discrimen obscurum soltis crinibus ambiguoque voltu. cambiamento di atteggiamento della ragazza e introduce il motivo del passare del tempo, la cui percezione è soggettiva: per chi è giovane ogni anno vissuto è un guadagno, per chi ha ormai oltrepassato la maturità è invece una perdita. Ferox aetas è una delle tante definizioni oraziane per indicare il tempo che corrode e che strappa violentemente all’uomo tutto ciò che ha. 94 Si prisca redit Venus ODI III 9 Metro: sistema asclepiadeo IV 05 15 20 ‘Donec gratus eram tibi nec quisquam potior brachia candidae cervici iuvenis dabat, Persarum vigui rege beatior.’ ‘Donec non alia magis arsisti neque erat Lydia post Chloen, multi Lydia nominis, Romana vigui clarior Ilia.’ ‘Me nunc Thressa Chloe regit, dulcis docta modos et citharae sciens, pro qua non metuam mori, si parcent animae fata superstiti.’ ‘Me torret face mutua Thurini Calais filis Ornyti, pro quo bis patiar mori, si parcent puero fata superstiti.’ ‘Quid si prisca redit Venus diductosque iugo cogit aeneo, si flava excutitur Chloe reiectaeque patet ianua Lydiae?’ ‘Quamquam sidere pulchrior ille est, tu levior cortice et inprobo iracundior Hadria, tecum vivere amem, tecum obeam lubens.’ Duplice è il metro con cui misura i valori femminili: uno per le donne native di Roma, ed uno per le altre. Augusto stesso approvò questo criterio di distinzione, in vista di proteggere la virtù della donna romana. Senonché, come risultato, ecco Orazio giudicato il meno serio fra tutti i poeti d’amore. E dire che, proprio quando scrive d’amore, Orazio non è sempre frivolo: a volte, anzi, tocca note profonde: “Benché egli sia più bello di un astro e tu più leggero del sughero e più irritabile del turbolento Adriatico, con te mi piacerebbe vivere, con te volentieri morirei.” (M. Grant, op. cit., p. 246) 95 1 Gratus eram tibi: ‘ero nelle tue grazie’, ‘ti piacevo’. 2 s. Nec ... dabat: costruisci: nec quispiam iuvenis potior dabat brachia candidae cervici. Potior: ‘preferito’, sott. ‘a me’. Dare brachia = amplexari, complecti. 4 Rege … Persarum: i re persiani erano proverbiali per le loro ricchezze: ‘più di un pascià’, ‘più di un nababbo’. 5 Alia: abl. di causa dipendente da arsisti. 6 Arsisti: ‘fosti in preda alla passione’. Erat … post: ‘veniva dopo’. Lydia: la donna un tempo amata parla di sé in terza persona. Chloen: accusativo alla greca; Cloe è la donna ora amata. 7 Multi … nominis: gen. di qualità, ‘di molta fama’, grazie ai carmi del poeta. 8 Romana … Ilia: secondo termine di paragone; Ilia, o Rea Silvia, era la madre di Romolo e Remo. 9 Regit: ‘è la mia signora’. Thressa = Thracia. 10 Dulcis ... sciens: costruisci: docta dulcis (= dulces) modos et sciens citharae. Docta: ‘esperta in’, regge l’acc. di relazione. Modos: ‘ritmi’. 12 Si … superstiti: ‘se il fato lascerà in vita lei che è l’anima mia’. Superstiti = ita ut mei sit superstes. 13 Torret: ‘mi brucia’. Face mutua: ‘con fuoco ricambiato’. 14 Thurini … Ornyti: ‘di Ornito di Turii’, città greca nel golfo di Taranto. 17 Quid si: ‘E se’. Prisca … Venus: ‘l’antico amore’. 18 Diductostque (et quos deduxit) ... aeno: ‘e riunisce sotto un giogo di bronzo quelli che separò’. Il bronzo allude all’eternità del vincolo. 19 Excutitur: ‘viene scacciata’. 20 Reiectaeque … Lydiae: dat. di vantaggio. 22 Ille: cioè Calais. Tu: ‘e tu invece’, asindeto avversativo rafforzato dal chiasmo (pulchrior ille … tu levior). Levior cortice: ‘più leggero di un sughero’, paragone che esprime l’idea di incostanza. Improbo … Hadria: secondo termine di paragone; l’Adriatico era considerato molto burrascoso. 24 Amem … obeam: congiuntivi potenziali. Libens = libenter, enallage. Il Testo Si tratta di una lirica amorosa dialogica, un dialogo a ‘botta e risposta’ tra Orazio e Lidia che un tempo si amavano. Il ripensamento sul passato amore nella prima parte e la descrizione della situazione presente nella seconda sono svolte in forma di battute di strofe tetrastiche che si corrispondono in studiati parallelismi e sembrano fare eco l’una all’altra. Le prime due strofe (vv. 18) riguardano il passato, la terza e la quarta (vv. 9-16) il presente, la quinta e la sesta (vv. 17-24) la riconciliazione. Non vi sono indizi cronologici; la qualità artistica sembra escludere una datazione alta. Il canto amebeo La struttura dialogica dell’ode si ispira alla tipologia del canto amebeo, un tipo di composizione lirica di origine popolare costruita sul gioco di ‘botta e risposta’ tra due personaggi, per lo più due innamorati. Di queste composizioni si possono riconoscere le tracce nella commedia e in Teocrito oltre che in un frammento di Saffo (121 L. P.), frammento di dialogo fra una fanciulla e il suo innamorato. La tecnica del carme amebeo fu poi ripresa e perfezionata dai poeti ellenistici: diversi epigrammi dell’Antologia Palatina presentano dialoghi d’amore in cui ciascuno dei due interlocutori ripete la frase precedentemente pronunciata dall’altro aggiungendovi un elemento nuovo. Orazio, ispirandosi anche al precedente latino rappresentato dal carme 45 di Catullo, rielaborò ulteriormente lo schema compositivo ottenendo una struttura lineare e perfettamente simmetrica. SUL TESTO Nella prima strofa è il poeta che per primo parla ricordando la sua felicità ai tempi dell’amore con Lidia, oggi vanificato dalla presenza di un altro giovane amante, efficacemente ritratto nell’atto di cingere le braccia al collo della fanciulla. Il motivo della felicità che deriva dalla persona amata superiore a qualsiasi ricchezza è un topos della poesia d’amore ed è qui svolto nella forma del paragone con il re di Persia, le cui ricchezze erano proverbiali (v. 4). Nella seconda strofa è la fanciulla che risponde, riprendendo quasi letteralmente le parole dell’ex amato: donec ….donec, arsisti richiama gratus eram, erat … post richiama potior e vigui è ripreso letteralmente. Anche nel cuore di Orazio ora si è fatto posto per un’altra persona e Lidia non ne è più la regina incontrastata. Se per il poeta l’amore di Lidia significava uno stato di beatitudine, per lei quell’amore rappresentava una fama pari a quella di Rea Silvia. Per il poeta,dunque, l’amore rappresentava una sorta di benessere interiore (beatior), per la donna, con una nota di civetteria tutta femminile, ciò che conta è il fatto di essere celebrata (clarior). In modo sottile Orazio introduce così il tema della forza della poesia come mezzo di celebrazione e di esaltazione della donna amata (va notato come nel v. 7 il nome di Lidia sia sapientemente collocato all’interno del genitivo di qualità multi … nominis). Nella terza strofa la parola torna al poeta, che conferma di avere una nuova fiamma, della quale mette in luce le qualità artistiche (sa cantare e suonare: v. 10), forse volendo insinuare un confronto con Lidia, con una punta di malizia; per la nuova amante egli sarebbe disposto a morire. La risposta di Lidia, sempre nella terza strofa, introduce a sua volta il nome della nuova fiamma, di cui enuncia con un a certa ufficialità il nome, la provenienza e la paternità, quasi a voler suscitare la gelosia del poeta. I versi 15 e 16 sono quasi una ripetizione dei vv. 11-12 con alcune sostituzioni: al non metuam mori di Orazio corrisponde il bis patiar mori di Lidia, disposta a morire addirittura due volte; all’anima, detto di Cloe, nel senso di ‘persona amata’, corrisponde puer quasi a insinuare che a differenza di Orazio il nuovo amante è un ragazzo nel fiore della giovinezza. Le ultime due strofe sono un’apertura sul futuro: inizia il poeta a suggerire la possibilità di un riavvicinamento con due interrogative che presentano l’ipotesi di un ritorno di fiamma tra lui e Lidia (vv. 17 s.) e di un allontanamento di Cloe a vantaggio di Lidia (vv. 19 s.). E Lidia non dimostra esitazioni a cogliere il suggerimento e dichiara la sua disponibilità e il suo desiderio, nonostante la bellezza di Calais e il carattere non facile del poeta (levior cortice, improbo iracundior Hadria), di riannodare il vecchio amore. 96 M 6. Politica e poesia Anche la politica costituisce per Orazio un tema molto particolare, perché da un lato sostanzialmente estraneo al suo sentimento e al suo stile di vita, ma dall’altro “obbligato” dalle pressioni di Augusto e di Mecenate. Le odi ad esso dedicate, in effetti, hanno spesso un tono forzato e artificioso, salvo quando affrontano il tema in una prospettiva rispondente alla sensibilità etica e poetica proprie di Orazio. In questo senso il tema entra talvolta nelle Odi come causa per l’uomo di una dispersione, contro cui risuona – ad es. nell’ode II 11 (Ô) – l’invito tipicamente oraziano a non preoccuparsi dei problemi della politica e delle guerre, ma a vivere il tempo che ci è concesso. Il tema della brevità della vita, della necessità di non nutrire speranze oltre i limiti concessi all’uomo e di non perdersi dietro agli aeterna consilia, è lo stesso che in I 4. 15 o in I 11. 7. Altra volta il tema entra nella poesia delle Odi come preoccupazione per il turbamento indotto dalle guerre e dagli scontri politici in tutta la comunità. Così nell’ode I 14 le tristi sorti dello stato sconvolto dalle guerre civili sono sintetizzate nell’allegoria della nave in balia della tempesta (commentata già da Quintiliano, Inst.or. VIII 6. 44), con un chiaro omaggio al modello greco di Alceo (fr. 30 D). O navis, referent in mare te novi fluctus. O quid agis? Fortiter occupa portum. Nonne videris, ut nudum remigium latus et malus celeri saucius Africo antemnaeque gemant ac sine funibus vix durare carinae possint imperiosius aequor? Non tibi sunt integra lintea, non di, quos iterum pressa voce malo... Nave, altri flutti ti sospingeranno di nuovo in mare. Ahimé, che fai? Sta’ salda in porto. Non t’avvedi com’è spoglio il tuo fianco di remaggio e il tuo albero è leso dal veloce Africo, come le antenne gemono e la chiglia priva di gomene non potrà resistere all’ira soverchiante delle acque? Non hai le vele intatte, né i numi da invocare se di nuovo t’incalzi il rischio... (Odi I 14, vv. 1-10, trad. L. Canali) In questo senso acquistano, almeno in parte, accenti di sincerità alcune poesie dedicate a Augusto, o che formulino preghiere per la sua conservazione (I 35), o che esprimano e chiedano esultanza per il suo ritorno (III 14) o che ridomandino l’imperatore, sicurezza della patria (IV 5), o ne lodino le imprese (IV 15). All’idea della sicurezza finalmente garantita a Roma e alla sua civiltà si ispira anche una delle Odi più celebri, quella scritta per la morte di Cleopatra (I, 37 Í), in cui il tema politico è vivificato dall’esultanza per lo scampato pericolo: Nunc est bibendum, nuc pede libero pulsanda tellus. La ricostituzione della civiltà di Roma è il motivo ispiratore delle cosiddette ‘odi romane’, le prime sei del terzo libro, che documentano l’adesione al programma augusteo con il forte richiamo alle virtù tradizionali romane. In apertura (ode III 1) Orazio si propone come cantore di temi morali e civili, ri97 volgendosi in qualità di poeta vate, sacerdote delle Muse, ai giovani e alle fanciulle, le persone più adatte ad accogliere il suo messaggio morale: Odi profanum vulgus et arceo. Favete linguis: carmina non prius audita Musarum sacerdos virginibus puerisque canto. Odio la folla / senza tempio. Lontano ne vivo. Piamente ascoltate, / canti non prima auditi io devoto delle Muse per vergini e fanciulli canto. (Odi III 1. 1-4, trad. E. Mandruzzato) Dopo questa strofa, che fa da preambolo all’intero ciclo, l’ode sviluppa il motivo della ricchezza come fonte di ansia e preoccupazione e della necessità di desiderare solo ciò che basta. L’ode III 2 affronta il tema pindarico della necessità della virtus che rende immortali e del valore della morte per la patria: Dulce et decorum pro patria mori: mors et fugacem persequitur virum nec parcit inbellis iuventae poplitibus timidove tergo. Virtus, repulsae nescia sordidae, intaminatis fulget honoribus nec sumit aut ponit securis arbitrio popularis aurae. Virtus, recludens inmeritis mori caelum, negata temptat iter via coetusque volgaris et udam spernit humum fugiente pinna. Morire per la terra dei padri / è dolce bellezza. La morte / chi fugge l’insegue, non perdona ai garretti / e alle spalle impaurite di gioventù senza lotta. Il Valore non sa vergognose / sconfitte. Ha luce / di puri onori. Non riceve, / non rende le scuri come il vento della città chiede. Il Valore apre il cielo / a chi non meritò di morire: si apre il cammino / per le vie dell’impossibile. E lascia le folle di sempre : il grande volo, e l’umida terra. (Odi III 2, vv. 13-24; trad. E. Mandruzzato) L’ode III 3 si apre con l’elogio dell’uomo giusto e tenace nei suoi propositi – cioè della necessità di rifare il carattere romano, come condizione della grandezza di Roma. Iustum et tenacem propositi virum non civium ardor prava iubentium, non voltus instantis tyranni mente quatit solida neque Auster, dux inquieti turbidus Hadriae, nec fulminantis magna manu Iovis; si fractus inlabatur orbis, inpavidum ferient ruinae. E l’uomo giusto, / fedele al suo fine, non scuote nello spirito / compatto passione cittadinesca, obliqua / consigliatrice, né sguardo minaccioso / di tiranno, né il vento signore tumultuoso / del mare senza pace, né la mano grande / di Giove che folgora. Se il mondo si apra e crolli / lo troverà senza paura. (vv. 1-8; trad. E. Mandruzzato) L’inizio dell’ode III 4 costituisce il proemio alla seconda parte del ciclo e, dopo un’invocazione alla musa Calliope e una dichiarazione della propria vocazione alla poesia, passa a esaltare l’opera pacificatrice di Augusto, paragonato a Giove vincitore dei Titani: Descende caelo et dic age tibia regina longum Calliope melos, seu voce nunc mavis acuta Discendi dal cielo / e dimmi sul flauto un lungo canto / o con l’acuta voce o le corde e la cetra / di Febo, 98 Rodolfo Strumìa PHYSIS Fenomeni naturali nella poesia greca e latina dell’età classica Edizioni di Scuola e Cultura 1 A Brigitte, en elle tout séduit, la beauté, la jeunesse, la grâce! Nulle voix n’a de plus doux accents, nul regard plus de charme avec plus de tendresse … a Nausica Isotta Angelica Tamara Taide Erminia Ondina Carmen Lesbia … e a tutte le altre manifestazioni dell’eterno femminino, la cui bellezza rivaleggia con quella della natura … … nuvole incendi tuoni echi lampi onde cieli torrenti arcobaleni 2 VIRGILIO Dalle «Bucoliche» 1) Querce colpite dal fulmine Saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset, de caelo tactas memini praedicere quercus. (I, vv. 16-17) «Ricordo che spesso, se la mente non fosse stata ottenebrata, le querce colpite dal fulmine ci preannunciavano questa sventura». _______________ 1) La 1° ecloga consiste nel dialogo fra due pastori che in conseguenza della guerra civile hanno avuto sorti ben diverse: Titiro, grazie alla protezione di potenti personaggi, è riuscito a conservare le sue proprietà terriere; Melibeo, al contrario, si è visto confiscare gli amati campi e ora è costretto a esulare verso una terra che immagina lontana. Nei versi sopra citati Melibeo ricorda che, in passato, sinistri presagi avrebbero dovuto mettere in allarme lui e quei proprietari terrieri che, come lui, sono ora incorsi nella confisca dei beni. 2) Sinfonia campestre Fortunate senex, hic inter flumina nota et fontis sacros frigus captabis opacum: hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes Hyblaeis apibus florem depasta salicti, saepe levi somnum suadebit inire susurro; hinc alta sub rupe canet frondator ad auras, nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes, nec gemere aëria cessabit turtur ab ulmo. (I, vv. 51-58) «Fortunato vecchio! qui tra i corsi d’acqua a te ben noti e le sacre sorgenti te ne andrai in cerca dell’ombrosa frescura; da una parte, dal vicino confine, come sempre, la siepe a cui le api iblee succhiano il fiore del salice, spesso col suo sommesso brusio ti farà scivolare nel sonno; dall’altra parte, sotto un’alta rupe lo sfrondatore effonderà nell’aria il suo canto, e tuttavia nel frattempo non cesseranno di tubare le roche colombe, oggetto delle tue cure, né la tortora da un alto olmo». _______________ 2) Melibeo si compiace per la fortuna toccata all’amico Titiro e benevolmente lo invidia per il fatto che, unico fra tanti, ha conservato il possesso delle proprie terre e potrà anche in futuro continuare a godere le delizie della campagna. L’aggettivo Hyblaeis deriva da Ibla, monte della Sicilia celebre per il miele; ma, dato che la scena è collocata nella pianura padana e non in Sicilia, esso va considerato un semplice epiteto esornativo. 3) Scende la sera … et iam summa procul villarum culmina fumant maioresque cadunt altis de montibus umbrae. (I, vv. 82-83) 157 «E già, lontano, fumano i comignoli dei casolari e più lunghe scendono dagli alti monti le ombre». _______________ 3) È la conclusione, soffusa di mestizia, della 1° ecloga: Titiro invita lo sventurato amico a trascorrere nella sua dimora, ove non mancherà di nulla, la notte che sta sopraggiungendo. 4) Tramonta il sole Adspice, aratra iugo referunt suspensa iuvenci, et sol crescentes decedens duplicat umbras; me tamen urit amor … (II, vv. 66-68) «Guarda, i giovenchi riportano gli aratri sospesi al giogo, e il sole declinando raddoppia le ombre; me, tuttavia, l’amore continua a bruciare …». _______________ 4) È l’amaro sfogo del pastore Coridone, innamorato senza speranza di un bel ragazzo, Alessi. 5) Invito al canto in primavera Dicite, quandoquidem in molli consedimus herba: et nunc omnis ager, nunc omnis parturit arbos, nunc frondent silvae, nunc formosissimus annus. (III, vv. 55-57) «Cantate, dal momento che ci siamo adagiati su soffice erba: e ora ogni campo e ogni albero germoglia, ora frondeggiano i boschi, ora l’anno è nella sua stagione più bella». _______________ 5) È l’invito a dare inizio al carme amebeo, rivolto ai pastori Dameta e Menalca da Palemone, che essi hanno scelto come giudice della loro gara di improvvisazione poetica. 6) Il mirabile concento della natura Nam neque me tantum venientis sibilus austri, nec percussa iuvant fluctu tam litora, nec quae saxosas inter decurrunt flumina valles. (V, vv. 82-84) «Una gioia così grande non mi reca né il sibilo dell’austro che sopraggiunge, né le rive contro cui si frangono le onde, né i torrenti che scorrono giù tra le rocce delle valli». _______________ 6) Per esprimere l’entusiasmo suscitato in lui dal canto di Menalca, il pastore Mopso ricorre ad immagini che si riferiscono ai più suggestivi fenomeni naturali. 7) I teneri canneti del Mincio Huc ipsi potum venient per prata iuvenci; hic virides tenera praetexit harundine ripas Mincius, eque sacra resonant examina quercu. (VII, vv. 11-13) 158 «Qui per i prati spontaneamente verranno ad abbeverarsi i giovenchi; qui il Mincio orla di tenere canne le verdi rive, e dalla sacra quercia ronzano gli sciami <di api>». _______________ 7) Dafni invita il pastore Melibeo ad assistere alla gara di improvvisazione poetica fra Coridone e Tirsi, sottolineando l’amenità del luogo in cui essa sta per svolgersi. 8) Riparo dalla calura estiva Muscosi fontes et somno mollior herba, et quae vos rara viridis tegit arbutus umbra, solstitium pecori defendite: iam venit aestas torrida, iam lento turgent in palmite gemmae. (VII, vv. 45-48) «Muscose fonti, erba più soffice del sonno, e voi che il verde corbezzolo copre con rada ombra, difendete il bestiame dalla canicola: già viene la torrida estate, già sul flessibile tralcio son turgide le gemme». _______________ 8) Coridone, nella sua tenzone poetica con Tirsi, invoca ombra e frescura per il bestiame, contro la calura dell’estate. 9) La natura come stato d’animo C. Stant et iuniperi et castaneae hirsutae; strata iacent passim sua quaeque sub arbore poma; omnia nunc rident: at, si formosus Alexis montibus his abeat, videas et flumina sicca. T. Aret ager; vitio moriens sitit aëris herba; Liber pampineas invidit collibus umbras: Phyllidis adventu nostrae nemus omne virebit, Iuppiter et laeto descendet plurimus imbri. (VII, vv. 53-60) «C.: Si ergono <forti e rigogliosi> i ginepri e gli ispidi castagni, giacciono a terra dappertutto, ciascuno sotto il suo albero, i frutti, tutto ora è ridente; ma se il bell’Alessi si allontanasse da questi monti, vedresti asciutti persino i fiumi». «T.: I campi sono riarsi, per un male dell’aria l’erba muore di sete, Bacco nega ai colli l’ombra dei pampini; <ma> all’arrivo della nostra Fillide tutto il bosco tornerà a verdeggiare, e Giove scenderà <sulla terra> con la pioggia fecondatrice in gran quantità». _______________ 9) Nel canto di Coridone, quando è presente Alessi, il giovane amato, la natura appare in pieno rigoglio; se egli si allontana, tutto inaridisce. Nel canto di Tirsi, in assenza dell’amata Fillide la siccità desola i campi, ma se essa ritorna, ecco che cade dal cielo una benefica pioggia e tutto verdeggia. In entrambe le quartine è evidente che la natura non è più soltanto descrizione oggettiva, ma diventa stato d’animo, paesaggio spirituale. 10) La rugiada sull’erba sul far del mattino Frigida vix caelo noctis decesserat umbra, cum ros in tenera pecori gratissimus herba. (VIII, vv. 14-15) 159 «La fredda ombra della notte era appena svanita dal cielo, quando la rugiada sulla tenera erba è più gradita al bestiame» _______________ 10) «e Damone, appoggiato ad un liscio tronco di ulivo, così prese a dire». Damone, che ama perdutamente Nisa, già a lui promessa, si tormenta al pensiero che la giovane l’abbia abbandonato per sposare un altro e, rievocando con accenti accorati il primo sorgere della sua funesta passione, medita il suicidio. 11) Colline digradanti fino al fiume … qua se subducere colles incipiunt mollique iugum demittere clivo, usque ad aquam et veteres, iam fracta cacumina, fagos… (IX, vv. 7-9) «… là dove i colli cominciano ad abbassarsi e a digradare con dolce pendio, fino all’acqua <del fiume Mincio> e ai vecchi faggi dalle punte ormai spezzate …». _______________ 11) Si ritiene che in questi versi Virgilio abbia descritto il podere che la sua famiglia e lui stesso avevano posseduto, nel territorio di Mantova, prima che esso venisse confiscato a vantaggio di un veterano della guerra civile. 12) Un locus amoenus al riparo dai flutti ‘Huc ades, o Galatea! Quis est nam ludus in undis? Hic ver purpureum, varios hic flumina circum fundit humus flores, hic candida populus antro imminet et lentae texunt umbracula vites. Huc ades: insani feriant sine litora fluctus’. (IX, vv. 39-43) «‘Qui vieni, o Galatea! Quale diletto vi è mai tra le onde? Qui vi è la primavera splendida di colori, qui intorno ai corsi d’acqua il suolo fa sbocciare fiori variopinti, qui un bianco pioppo sovrasta la grotta e le flessuose viti intrecciano ombrosi ripari. Qui vieni: lascia che i flutti furiosi flagellino il lido’». __________________ 12) Nella rielaborazione virgiliana dello spunto teocriteo dell’Idillio XI (vv. 42-48), benché la situazione immaginata sia la stessa (l’invito che il ciclope Polifemo rivolge alla ninfa Galatea a lasciare la sua dimora marina per andare a convivere con lui nella spelonca), il centro dell’interesse non è il personaggio femminile, praticamente assente, bensì la natura, descritta nel rigoglio dei fiori e delle piante, con un gusto ancora vicino al cromatismo ellenistico: tuttavia, già si può cogliere qualche nota caratteristica del paesaggio virgiliano: l’albero solitario (il bianco pioppo tipico della pianura padana) e le molli, invitanti ombre delle grotte e del fogliame. Ma ciò che soprattutto distingue il passo virgiliano dal modello greco è lo spiritualizzarsi del paesaggio, la funzione simbolica che in esso assumono alcuni elementi, in particolare gli insani fluctus: comincia a profilarsi quello che sarà il leit-motiv della poesia virgiliana, il contrasto «fra un Eden romito e pacifico e un mondo inquieto e pauroso, che gli urge e spumeggia d’intorno» (E. Paratore). 13) È caduto il vento: tutto è silenzio e pace Et nunc omne tibi stratum silet aequor et omnes, adspice, ventosi ceciderunt murmuris aurae. (IX, vv. 57-58) 160 «Ed ora ogni specchio d’acqua, appianato, ti rimane in ascolto in silenzio e, osserva, son caduti tutti i soffi del vento mormorante». _____________________ 13) Nelle parole del giovane Licida, sembra che la natura, raccogliendosi in un improvviso silenzio e in una tranquilla quiete, si predisponga ad ascoltare attentamente il canto di Meri. 14) Fresche sorgenti e soffici prati Hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycori, hic nemus … (X, vv. 42-43) «Qui vi sono fresche sorgenti, qui soffici prati, o Licoride, qui il bosco …». _________________ 14) La persona loquens è Cornelio Gallo, cui Virgilio, per debito di amicizia, rivolge nella 10^ ecloga una sorta di consolatio, per lenire col dono della poesia una sua delusione d’amore. Gallo, uomo politico, comandante militare, letterato e poeta, aveva avuto una relazione amorosa con la liberta Volumnia, di professione mima – cioè attrice di varietà, ballerina e spogliarellista –, il cui “nome d’arte” era Citeride, ma che egli chiamò Licoride negli Amores, una raccolta di elegie in quattro libri a lei dedicata. La donna, però, l’aveva poi abbandonato per seguire un altro militare. Nei versi sopra citati, Virgilio immagina che Gallo si trovi in Arcadia, un paese di sogno, e che, tutto preso dalla bellezza dell’ambiente circostante, voglia attirare in esso anche la donna amata. 15) Tra le nevi e i ghiacci … tu procul a patria, nec sit mihi credere tantum! Alpinas, ah, dura nives et frigora Rheni me sine sola vides. Ah, te ne frigora laedant! ah, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas! (X, vv. 46-49) «… tu, lontano dalla patria (potessi io non credere una tale enormità!), da sola, senza di me, vedi, o crudele, le nevi alpine e i geli del Reno. Ah, non ti nuoccia il freddo! Ah, che l’aspro ghiaccio non ti tagli i teneri piedi!». ________________ 15) Licoride, abbandonato Gallo, ha seguito il suo nuovo amante, un ufficiale impegnato in un’impresa militare transalpina. Gallo, che nonostante il tradimento subìto continua ad amare la donna, pieno di affettuosa e trepidante sollecitudine per lei inorridisce al pensiero che sia lontana, indifesa, in un ambiente che per la sua asprezza non le si confà per nulla. Licoride in realtà non è sola, ma tale appare al poeta perché con lei non c’è lui a proteggerla. Dalle «Georgiche» 1) Il disgelo primaverile Vere novo, gelidus canis cum montibus umor liquitur et zephyro putris se glaeba resolvit… (I, 43-44) 161 «Al principio della primavera, quando sui candidi monti il ghiaccio si scioglie e la zolla si stempera soffice per lo spirare di zefiro …». _______________ 1) Al ritorno della primavera deve senza indugio ricominciare il lavoro dei campi, l’opera silenziosa e tenace degli uomini e degli animali, volta a strappare alla terra i suoi frutti. 2) Estati piovose e inverni asciutti, garanzia di buon raccolto Umida solstitia atque hiemes orate serenas, agricolae: hiberno laetissima pulvere farra, laetus ager … (I, vv. 100-102) «Chiedete nelle vostre preghiere estati piovose e inverni sereni, o coloni: se l’inverno è asciutto, molto abbondante è il grano, fecondo il campo …». _______________ 2) Gli agricoltori devono augurarsi piovosa l’estate, perché ne sia temperata l’eccessiva arsura, asciutto e sereno l’inverno, perché il ghiaccio secchi la terra e la riduca in polvere. 3) Acqua stagnante in terreno paludoso <Quid> … quique paludis collectum humorem bibula deducit arena? Praesertim incertis si mensibus amnis abundans exit, et obducto late tenet omnia limo, unde cavae tepido sudant umore lacunae. (I, vv. 113-117) «E <che dirò> di colui che con sabbia assorbente devia l’acqua stagnante in un terreno paludoso? Tanto più se nei mesi variabili il fiume in piena straripa, e occupa per ampio tratto tutto il terreno ricoprendolo di melma, onde le pozze traspirano tiepida umidità». _______________ 3) Il contadino spesso è costretto a impegnarsi anche in lavori di bonifica del terreno. 4) Lo scatenarsi dei venti nell’imminenza della mietitura Saepe ego, cum flavis messorem induceret arvis agricola et fragili iam stringeret hordea culmo, omnia ventorum concurrere proelia vidi, quae gravidam late segetem ab radicibus imis sublimem expulsam eruerent, ita turbine nigro ferret hiemps culmumque levem stipulasque volantes. (I, vv. 316-321) «Quando già il contadino faceva entrare nei campi biondeggianti il mietitore e <questi> già recideva le messi dal fragile stelo, spesso io vidi i venti scontrarsi in battaglie di ogni genere, tali che per largo tratto strappavano dalle più profonde radici le spighe ricolme e le disperdevano in alto, e così la tempesta col suo nero turbine portava via i leggeri steli e le stoppie volanti». _______________ 4) Il fatto che la bufera si scateni d’estate, quando lo sviluppo vegetativo è in uno stadio molto avanzato, rafforza l’impressione della presenza di una forza avversa che repentinamente vanifica la fatica del contadino proprio quando egli ha ormai la certezza di un buon raccolto. 162 5) Lo scroscio della pioggia e la folgore Saepe etiam inmensum caelo venit agmen aquarum et foedam glomerant tempestatem imbribus atris collectae ex alto nubes; ruit arduus aether et pluvia ingenti sata laeta boumque labores diluit; implentur fossae et cava flumina crescunt cum sonitu fervetque fretis spirantibus aequor. Ipse pater media nimborum in nocte corusca fulmina molitur dextra; quo maxima motu terra tremit, fugere ferae et mortalia corda per gentis humilis stravit pavor; ille flagranti aut Athon aut Rhodopen aut alta Ceraunia telo deicit; ingeminant austri et densissimus imber; nunc nemora ingenti vento, nunc litora plangunt. (I, vv. 322-334) «Spesso anche viene giù dal cielo un’enorme massa d’acqua e le nubi raccolte dall’alto addensano una burrasca orrida per foschi nembi; precipita l’alto cielo e spazza via con un diluvio i rigogliosi seminati e le fatiche dei buoi; si riempiono i fossati e i fiumi nel loro alveo si gonfiano rumoreggiando e il mare ribolle per lo spirare dei flutti. Il padre stesso (scil. Giove) in mezzo al buio dei nembi scaglia fulmini con la destra lampeggiante; a quel moto la vastissima terra trema, fuggono le fiere e la paura che abbatte getta a terra per ogni dove i cuori mortali; quello con l’infuocato dardo scrolla o l’Athos o il Rodope o gli alti Cerauni; raddoppiano di violenza i venti e, fittissima, la pioggia; ora per l’impetuoso vento gemono i boschi e le spiagge». _______________ 5) Drammatica descrizione di un temporale, che devasta i campi coltivati e con la sua furia dirompente sgomenta i cuori. Benché Virgilio condivida il concetto stoico che l’ordine cosmico è stato disposto dalla Provvidenza in modo che anche gli uomini dalla sua conoscenza possano trarre vantaggio per le loro attività, tuttavia l’influsso lucreziano fa sì che in questo passo, come nel precedente, il tono poetico inclini verso un certo pessimismo. 6) I segni che preannunciano il vento Continuo ventis surgentibus aut freta ponti incipiunt agitata tumescere et aridus altis montibus audiri fragor aut resonantia longe litora misceri et nemorum increbrescere murmur. Iam sibi tum curvis male temperat unda carinis, quom medio celeres revolant ex aequore mergi clamoremque ferunt ad litora, cumque marinae in sicco ludunt fulicae notasque paludes deserit atque altam supra volat ardea nubem. Saepe etiam stellas vento impendente videbis praecipites caelo labi noctisque per umbram flammarum longos a tergo albescere tractus, saepe levem paleam et frondes volitare caducas aut summa nantes in aqua conludere plumas. (I, vv. 356-369) 163 «D’un tratto, al levarsi dei venti, o i flutti del mare agitati cominciano a gonfiarsi e sugli alti monti principia a udirsi un secco fragore (scil. il primo tuono, che annuncia la bufera) o le spiagge da lungi risonanti cominciano a rimescolarsi e a divenire più fitto il fremito dei boschi. Già l’onda non risparmia i curvi fianchi delle navi, quando i veloci smerghi volano indietro dal mezzo del mare e, avvicinandosi alla riva, emettono le loro rauche strida, e quando le marine fòlaghe scherzano all’asciutto e l’airone abbandona le note paludi e vola al di sopra di un’alta nube. Spesso anche, al levarsi del vento, vedrai delle stelle cadere a precipizio per il cielo e, nella tenebra notturna, biancheggiare alle <loro> spalle lunghe scie di fiamma, spesso <vedrai> volteggiare lievi pagliuzze e foglie staccatesi <dai rami> o folleggiare le piume galleggianti sulla superficie dell’acqua». _______________ 6) I fenomeni che Virgilio, prendendo spunto da un passo di Arato (Phaen., vv. 909-912 e 924-932), qui descrive «sono segni così evidenti della prossima bufera, che l’intento didascalico appare soltanto un pretesto per una descrizione poetica dai grandiosi effetti di suono, sullo sfondo di vastissimi orizzonti montani e marini gravidi di tempesta» (L. Perelli). Si noti, poi, come sia il gioco delle fòlaghe sul lido sia il lieve folleggiare delle pagliuzze e delle piume mascherino l’inquietudine che pervade la natura all’approssimarsi del vento e siano in realtà segno dell’intima irrequietezza che precede la bufera. 7) I segni che preannunciano la pioggia At Boreae de parte trucis cum fulminat et cum Eurique Zephyrique tonat domus, omnia plenis rura natant fossis atque omnis navita ponto umida vela legit. Numquam imprudentibus imber obfuit: aut illum surgentem vallibus imis aëriae fugere grues aut bucula caelum suspiciens patulis captavit naribus auras aut arguta lacus circumvolitavit hirundo et veterem in limo ranae cecinere querellam. Saepius et tectis penetralibus extulit ova angustum formica terens iter et bibit ingens arcus et e pastu decedens agmine magno corvorum increpuit densis exercitus alis. Iam variae pelagi volucres et quae Asia circum dulcibus in stagnis rimantur prata Caystri, certatim largos umeris infundere rores, nunc caput obiectare fretis, nunc currere in undas et studio incassum videas gestire lavandi. Tum cornix plena pluviam vocat improba voce et sola in sicca secum spatiatur harena. (I, vv. 370-389) «Ma quando provengono fulmini dalla parte del truce Borea e quando rimbombano di tuoni la casa di Euro e quella di Zefiro, tutta la campagna nuota per il traboccare dei fossati e sul mare ogni navigante raccoglie le umide vele. La pioggia non ha mai recato danno senza che si avesse la possibilità di prevederla: al suo approssimarsi, o le gru dall’alto volo fuggono nel fondo delle valli o la vaccherella, levando il muso al cielo, aspira l’aria con le narici dilatate o la stridula rondine vola e rivola intorno agli specchi d’acqua e le rane nel fango cantano l’antico lamento. Più spesso la formica porta le uova fuori della parte più riposta della <sua> casa, ripercorrendo lo stetto cammino, e il grande arcobaleno assorbe l’acqua e, allontanandosi dal pasto in numerosa schiera, lo stormo dei corvi schiamazza battendo fittamente le ali. Inoltre, i variopinti uccelli del mare e quelli che frugano in giro 164 per i prati asiatici nei dolci stagni del Caistro tu puoi vederli versarsi sulle spalle a gara abbondanti spruzzi d’acqua, ora tuffare il capo nelle onde, ora lanciarsi nei flutti e invano smaniare per la brama di lavarsi. E ancora, la petulante cornacchia invoca a gran voce la pioggia e passeggia da sola fra sé e sé sulla spiaggia asciutta». _______________ 7) Anche in questo passo, non solo per influsso del suo modello Arato, Virgilio mostra di condividere la dottrina provvidenzialistica degli Stoici e, in particolare, il concetto che la divinità abbia concesso all’uomo la possibilità di prevedere da sicuri indizi gli avversi fenomeni atmosferici e, conseguentemente, di evitarne o almeno limitarne i danni. Borea, il vento del nord, è detto “truce” in quanto apportatore di tempeste. Quanto alla formica, contrariamente a ciò che afferma Virgilio, all’avvicinarsi della pioggia porta le uova dentro la tana. L’arcobaleno nel mondo classico era considerato segno di cattivo tempo, oggi, al contrario, nell’opinione popolare annuncia il ritorno del sereno dopo un temporale; ma entrambe le credenze sono prive di fondamento scientifico. Il Caistro è un fiume della Ionia nell’Asia Minore. L’ultima immagine, della cornacchia che come una vecchia misantropa e nevrastenica cerca la solitudine e procede a scatti sulla spiaggia, ripropone il motivo dell’ansiosa irrequietezza che prende gli esseri viventi all’approssimarsi di un fortunale. 8) I segni che preannunciano il bel tempo Nec minus ex imbri soles et aperta serena prospicere et certis poteris cognoscere signis: nam neque tum stellis acies obtunsa videtur, nec fratris radiis obnoxia surgere Luna, tenuia nec lanae per caelum vellera ferri; non tepidum ad solem pinnas in litore pandunt dilectae Thetidi alcyones; non ore solutos immundi meminere sues iactare maniplos. At nebulae magis ima petunt campoque recumbunt, solis et occasum servans de culmine summo nequiquam seros exercet noctua cantus. Apparet liquido sublimis in aëre Nisus et pro purpureo poenas dat Scylla capillo; quacumque illa levem fugiens secat aethera pennis, ecce inimicus atrox magno stridore per auras insequitur Nisus; qua se fert Nisus ad auras, illa levem fugiens raptim secat aethera pennis. Tum liquidas corvi presso ter gutture voces aut quater ingeminant, et saepe cubilibus altis, nescio qua praeter solitum dulcedine laeti, inter se in foliis strepitant; iuvat imbribus actis progeniem parvam dulcesque revisere nidos. (I, vv. 393-414) «Allo stesso modo potrai da sicuri indizi prevedere e presagire dopo la pioggia il ritorno del sole e le belle giornate. Infatti, non si vede allora offuscato il fulgore delle stelle né la luna sorgere sottoposta ai raggi del fratello (scil. il sole) né muoversi per il cielo lievi bioccoli di lana (scil. le nuvole «a pecorelle»); non stendono le penne al tiepido sole sul lido le alcioni care a Tetide, e i sozzi maiali non pensano a scuotere col grugno i fasci di fieno fino a scioglierli. Ma le nebbie si dirigono piuttosto verso il basso e si adagiano sulla pianura, e, osservando il tramonto del sole da una sommità (scil. di un albero o di un tetto), inva- 165 no la civetta fa risonare senza posa i suoi tardi canti. Appare, alto nel limpido cielo, Niso, e Scilla sconta la pena per il purpureo capello; dovunque essa fuggendo fende con le ali l’aria leggera, ecco che ostile, implacabile, con acute strida per l’aria la insegue Niso; dove Niso si dirige in alto, essa fuggendo precipitosamente fende con le ali l’aria leggera. Allora i corvi, comprimendo la gola tre o quattro volte, ripetono limpidi gridi e spesso negli alti giacigli, lieti per non so quale insolita dolcezza, strepitano tra loro in mezzo al fogliame: piace ad essi, cessata la pioggia, tornare a rivedere la piccola prole e i dolci nidi». _______________ 8) Altrettanto prevedibile del cattivo tempo è il ritorno del sereno: in particolare, ciò che qui afferma Virgilio sopravvive nelle credenze popolari espresse nei noti proverbi « cielo a pecorelle, acqua a catinelle» e « nebbia bassa bel tempo lassa». Quando Ceìce, figlio di Lucifero, re di Trachis, perì in naufragio nell’Egeo, e la sua sposa Alcione per il dolore si uccise gettandosi in mare, Teti, impietosita dalla loro infelice sorte, li tramutò in uccelli marini. Scilla, figlia di Niso re di Megara, innamoratasi di Minosse che stava assediando la città, recise al padre il capello purpureo a cui era legata la sua vita, ma, anziché ottenere da Minosse gratitudine, fu da lui messa a morte come figlia snaturata. Gli dèi poi mutarono lei in ciris, o airone bianco, e Niso in un uccello di rapina che sempre l’insegue. 9) I preannunci dati dalla luna Si vero solem ad rapidum lunasque sequentes ordine respicies, numquam te crastina fallet hora, neque insidiis noctis capiere serenae. Luna revertentes cum primum colligit ignis, si nigrum obscuro comprenderit aëra cornu, maximus agricolis pelagoque parabitur imber: at si virgineum suffuderit ore ruborem, ventus erit: vento semper rubet aurea Phoebe. Sin ortu quarto – namque is certissimus auctor – pura neque obtunsis per caelum cornibus ibit, totus et ille dies et qui nascentur ab illo exactum ad mensem pluvia ventisque carebunt, votaque servati solvent in litore nautae Glauco et Panopeae et Inoo Melicertae. (I, vv. 424-437) «Se poi presterai attenzione all’ardente sole e alle fasi della luna che si susseguono ordinatamente, mai t’ingannerà il tempo del domani, né sarai preso dall’insidia di una notte serena. Quando la luna recupera il suo splendore (scil. nella fase crescente, dopo il novilunio), se cingerà il nero aere con i corni oscuri, per i contadini e il mare si preparerà assai copiosa la pioggia: se invece soffonderà sul suo volto un virgineo rossore, vi sarà vento: per il vento sempre rosseggia l’aurea Febe. Se poi alla quarta levata – questo, infatti, è il segnale più sicuro – andrà per il cielo pura e con i corni limpidi, tutto quel giorno e gli altri che nasceranno da esso sino al termine del mese saranno immuni da pioggia e venti, e i marinai scampati scioglieranno sul lido i loro voti a Glauco e Panopea e a Melicerta figlio di Ino». _______________ 9) A seconda dell’aspetto che assume, la luna può preannunciare pioggia, vento, o bel tempo. Febe, sorella di Febo, la Diana dei Romani, è la dea della luna. Glauco, Panopea e Melicerta sono divinità protettrici dei naviganti. Glauco, pescatore della Beozia, per avere gustato una certa erba si trovò trasformato in una divinità. Panopea è una delle Nereidi. Melicerta, figlio di Atamante e di Ino, col nome di Palemone divenne nume tutelare dei naviganti. 166 10) I preannunci dati dal sole Sol quoque et exoriens et cum se condet in undas, signa dabit; solem certissima signa sequuntur, et quae mane refert et quae surgentibus astris. Ille ubi nascentem maculis variaverit ortum conditus in nubem medioque refugerit orbe, suspecti tibi sint imbres; namque urget ab alto arboribusque satisque Notus pecorique sinister. Aut ubi sub lucem densa inter nubila sese diversi rumpent radii, aut ubi pallida surget Tithoni croceum linquens Aurora cubile, heu! male tum mites defendet pampinus uvas, tam multa in tectis crepitans salit horrida grando. Hoc etiam, emenso cum iam decedit Olympo, profuerit meminisse magis; nam saepe videmus ipsius in vultu varios errare colores ; caeruleus pluviam denuntiat, igneus euros; sin maculae incipiunt rutilo immiscerier igni, omnia tunc pariter vento nimbisque videbis fervere : non illa quisquam me nocte per altum ire neque a terra moneat convellere funem. At si, cum referetque diem condetque relatum, lucidus orbis erit, frustra terrebere nimbis et claro silvas cernes Aquilone moveri. Denique, quid vesper serus vehat, unde serenas ventus agat nubes, quid cogitet umidus Auster, sol tibi signa dabit… (I, vv. 438-463) «Anche il sole, sia quando sorge sia quando si celerà tra le onde, offrirà segnali; sicurissimi sono i segni che accompagnano il sole, sia quelli che reca al mattino sia quelli <che reca> al sorgere delle stelle. Quand’esso chiazzerà di macchie il suo primo levarsi e, celandosi in una nube, sparirà dal mezzo del cielo, aspéttati piogge; e infatti incalza dall’alto Noto, funesto agli alberi e ai coltivi e al bestiame. O quando sul far del giorno tra fitte nuvole i raggi eromperanno qua e là, o quando pallida sorgerà l’Aurora lasciando il croceo letto di Titono, ahimé! allora il pampino non riuscirà a proteggere le uve mature, in così gran quantità sui tetti balza crepitando l’ispida grandine. Ancor più gioverà ricordare questo, quando ormai si allontana dal cielo che ha percorso in tutta la sua estensione; spesso, infatti, vediamo sul suo stesso volto errare svariati colori: ceruleo, annuncia pioggia, rosso fuoco, <annuncia> i venti (lett. «gli euri», venti dell’est); se poi delle macchie cominciano a mescolarsi col suo fuoco rutilante, allora vedrai ogni cosa agitarsi ugualmente per il vento e per i nembi: in quella notte nessuno potrebbe indurmi a procedere per l’alto mare e a scioglier la fune da terra. Ma se, quando riporterà il giorno e dopo averlo portato poi lo celerà, il disco sarà limpido, senza ragione ti lascerai atterrire dai nembi e vedrai le selve agitarsi sotto il soffio del sereno Aquilone. Insomma che cosa apporti la sera sul tardi, da quale parte il vento sospinga nubi apportatrici di sereno, che cosa mediti il piovoso Austro, il sole te lo farà presagire». _______________ 10) I pronostici da prendersi al sorgere e al tramontar del sole. 167 11) Un’eruzione dell’Etna … Quotiens Cyclopum effervere in agros vidimus undantem ruptis fornacibus Aetnam, flammarumque globos liquefactaque volvere saxa! (I, vv. 471-473) «Quante volte vedemmo l’Etna traboccante dagli squarciati crateri riversarsi con un fiume di lava nelle campagne dei Ciclopi e rovesciare vortici di fiamme e massi liquefatti!». _______________ 11) Tra i fatti prodigiosi che parvero sinistramente accompagnare l’uccisione di Giulio Cesare (15 marzo del 44 a.C. ) vi fu anche una violenta eruzione dell’Etna. Con l’espressione Cyclopum… in agros Virgilio indica le campagne siciliane che si stendono sui fianchi e ai piedi dell’Etna, alludendo alla credenza che in esso vi fosse la fucina (cfr. fornacibus) di Vulcano e che i ciclopi fossero gli aiutanti del dio. 12) Una rovinosa inondazione del Po Proluit insano contorquens vertice silvas fluviorum rex Eridanus, camposque per omnes cum stabulis armenta tulit… (I, vv. 481-483) «Inondò le selve schiantandole con la furia dei suoi gorghi l’Eridano (= il Po), il re dei fiumi, e per tutte le campagne trascinò via con sé gli armenti insieme con le stalle». _______________ 12) Anche questi versi sono tratti dal brano relativo ai fatti prodigiosi avvenuti poco prima o poco dopo l’assassinio di Cesare. 13) Fulmini a ciel sereno e comete Non alias caelo ceciderunt plura sereno fulgura nec diri totiens arsere cometae (I, vv. 487-488) «Mai in altre circostanze cadde un maggior numero di fulmini a ciel sereno né così frequentemente rifulsero minacciose comete». _______________ 13) Cfr. la nota al passo precedente. Si riteneva che i fulmini a ciel sereno presagissero avvenimenti di insolita gravità. Quanto alle comete, qui Virgilio probabilmente allude a quella che dopo la morte di Cesare fu visibile nel cielo di Roma per sette notti consecutive e che (cfr. Svetonio, Divus Julius, 88) fu ritenuta l’anima di lui accolta in cielo. Nel presente contesto, invece, essa è interpretata come segno funesto. L’uso del plurale cometae ha indotto alcuni commentatori a ritenere che in quel tempo siano state scambiate per comete anche delle meteoriti. 14) Incendi boschivi causati da imprudenza … nam saepe incautis pastoribus excidit ignis, qui, furtim pingui primum sub cortice tectus, robora comprendit, frondesque elapsus in altas ingentem caelo sonitum dedit; inde secutus per ramos victor perque alta cacumina regnat, 168 et totum involvit flammis nemus et ruit atram ad caelum picea crassus caligine nubem, praesertim si tempestas a vertice silvis incubuit, glomeratque ferens incendia ventus. (II, vv. 303-311) «… spesso, infatti, ad incauti pastori sfugge il fuoco, che, dapprima furtivamente covando sotto l’oleosa corteccia, investe il tronco e, serpeggiando verso il fogliame in alto, manda al cielo un vasto crepitio; poi, propagandosi, regna vittorioso per i rami e le alte cime, e avvolge con le sue fiamme tutto il bosco e, denso di una caligine del colore della pece, scaglia al cielo una nera nube, specialmente se dall’alto si è scatenata sui boschi la bufera, e il vento addensa e propaga gli incendi». _______________ 14) Virgilio raccomanda al contadino di non mescolare alle viti tronchi di olivo selvaggio, facile esca per un incendio; quando questo sia divampato, le viti perdono dalla radice ogni vigore e nemmeno a potarle possono ricrescere e verdeggiare come prima; ha il sopravvento l’oleastro infecondo dalle foglie amare. 15) La primavera dell’anno e la primavera del mondo Ver adeo frondi nemorum, ver utile silvis; vere tument terrae et genitalia semina poscunt. Tum pater omnipotens fecundis imbribus Aether coniugis in gremium laetae descendit, et omnes magnus alit magno commixtus corpore fetus: avia tum resonant avibus virgulta canoris et Venerem certis repetunt armenta diebus: parturit almus ager Zephyrique tepentibus auris laxant arva sinus; superat tener omnibus umor: inque novos soles audent se germina tuto credere, nec metuit surgentes pampinus austros aut actum caelo magnis aquilonibus imbrem, sed trudit gemmas, et frondes explicat omnes. Non alios prima crescentis origine mundi inluxisse dies aliumve habuisse tenorem crediderim: ver illud erat, ver magnus agebat orbis et hibernis parcebant flatibus euri, cum primae lucem pecudes hausere virumque terrea progenies duris caput extulit arvis, immissaeque ferae silvis et sidera caelo. Nec res hunc tenerae possent perferre laborem, si non tanta quies iret frigusque caloremque inter, et exciperet caeli indulgentia terras. (II, vv. 323-345) «La primavera, appunto, è propizia al fogliame dei boschi, è propizia alle selve; in primavera la terra è turgida e chiede semi germinatori. Allora il padre onnipotente, l’Etere, con piogge fecondatrici discende nel grembo della sposa felice, e, grande, mescolandosi con il gran corpo <di lei>, dà vita agli esseri tutti: allora le macchie fuor di mano risuonano degli uccelli canori e gli armenti in quei determinati giorni cercano nuovamente l’accoppiamento: il terreno datore di vita si accinge a produrre e alle tiepide brezze di Zefiro i campi dischiudono il grembo; in tutti abbonda tenera linfa: e con sicurezza i germi osano affi- 169 darsi ai soli novelli, e il pampino non teme il sorgere degli austri o l’acquazzone spinto dal cielo da violenti aquiloni, ma mette fuori le gemme e dispiega tutte le fronde. Sono propenso a credere che giorni non diversi splendessero alla prima origine del mondo nascente, che non diversa fosse la loro temperie: primavera era quella, primavera il grande universo viveva e gli euri si astenevano dai soffi procellosi, quando i primi animali bevvero la luce e la terrestre progenie degli uomini sollevò il capo fuori dalle dure zolle, e furon messe le fiere nei boschi e le stelle nel cielo. E invero le creature ancor tenere non potrebbero sopportare questo travaglio se tra il freddo (scil. dell’inverno) e il caldo (scil. dell’estate) non si frapponesse una così grande calma, e non favorisse la terra la clemenza del clima». _______________ 15) Questa lirica celebrazione della primavera, che prende spunto dalla precettistica sulla stagione più adatta per piantare la vite, ripresenta l’antico mito delle nozze fecondatrici fra il Cielo e la Terra, la quale, rigogliosa di linfe vitali, appare al poeta come la madre amorosa di innumerevoli creature. 16) Le rive del sinuoso Mincio orlate di canneti … propter aquam, tardis ingens ubi flexibus errat Mincius et tenera praetexit harundine ripas (III, vv. 14-15) «… presso l’acqua, dove ampio il Mincio erra con i suoi lenti giri flessuosi e orla di teneri canneti le rive». _______________ 16) Viene qui evocato un paesaggio assai caro al poeta, che l’aveva frequentato negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. 17) Corsi d’acqua dalle rive erbose … saltibus in vacuis pascunt et plena secundum flumina, muscus ubi et viridissima gramine ripa, speluncaeque tegant et saxea procubet umbra. (III, vv. 143-145) «… <gli allevatori> le fanno pascolare in spaziose praterie e lungo corsi d’acqua rigonfi, dove cresca il muschio e più verde d’erba sia la riva, e delle grotte offrano riparo e dalle rupi si proietti l’ombra». _______________ 17) Son qui descritte alcune delle cure che gli allevatori dedicano alle cavalle quando sono gravide. 18) L’impeto del vento del nord … qualis Hyperboreis Aquilo cum densus ab oris incubuit, Scythiaeque hiemes atque arida differt nubila: tum segetes altae campique natantes lenibus horrescunt flabris summaeque sonorem dant silvae, longique urgent ad litora fluctus: ille volat, simul arva fuga, simul aequora verrens. (III, vv. 196-201) 170 «… come l’Aquilone, quando violento si avventa dalle regioni iperboree e disperde le tempeste della Scizia e le nuvole asciutte: allora le alte messi e i campi ondeggianti si arruffano ai soffi benigni, e le cime dei boschi rumoreggiano, e lunghe si incalzano a riva le ondate: ed esso vola, nella sua fuga spazzando nello stesso tempo i campi e le distese marine». _______________ 18) All’impeto del vento settentrionale è paragonata la corsa sfrenata del cavallo di quattro anni che, volando per le aperte pianure come fosse libero dalle redini, imprime appena le orme a fior dell’arena. 19) La violenza del maroso contro la scogliera … fluctus uti medio coepit cum albescere ponto, longius ex altoque sinum trahit, utque volutus ad terras immane sonat per saxa, neque ipso monte minor procumbit; at ima exaestuat unda verticibus nigramque alte subiectat arenam. (III, vv. 237-241) «… come un flutto, quando ha cominciato a biancheggiare in mezzo al mare, assai da lontano e dall’alto trascina la curvatura dell’onda e, rotolando verso terra, risuona terribilmente fra gli scogli, e si abbatte non inferiore <in altezza> alla scogliera stessa; il fondo dell’onda poi ribolle di vortici e scaglia dal basso in alto la nera sabbia». _______________ 19) La grandiosa similitudine, di derivazione omerica, del maroso che si avventa contro la scogliera costituisce il termine di confronto con l’impeto del toro che, sconfitto dal suo rivale nell’amore per una bella giovenca, «dopo aver ripreso le forze, muove all’assalto e si slancia con gran furia contro il nemico ormai dimentico». 20) La rugiada dell’alba At vero Zephyris cum laeta vocantibus aestas in saltus utrumque gregem atque in pascua mittet, Luciferi primo cum sidere frigida rura carpamus, dum mane novum, dum gramina canent, et ros in tenera pecori gratissimus herba. (III, vv. 322-326) «Ma quando poi, all’invito degli zefiri, la gioiosa estate manderà l’uno e l’altro gregge (scil. le capre e le pecore) nelle balze e nei pascoli, al primo spuntare della stella di Lucifero (scil. all’alba) incamminiamoci per la fresca campagna, finché il mattino è giovane, finché i prati biancheggiano <di brina> e la rugiada sulla tenera erba è più gradita al bestiame». _______________ 20) Dopo aver brevemente trattato del modo in cui si devono governare le pecore e le capre, il poeta prende a descrivere la bella stagione estiva. 21) Il mutar delle condizioni atmosferiche nel corso della giornata (in relazione al modo di governar pecore e capre) Inde ubi quarta sitim caeli collegerit hora, et cantu querulae rumpent arbusta cicadae, ad puteos aut alta greges ad stagna iubebo 171 currentem ilignis potare canalibus undam: aestibus at mediis umbrosam exquirere vallem, sicubi magna Iovis antiquo robore quercus ingentes tendat ramos, aut sicubi nigrum ilicibus crebris sacra nemus accubet umbra: tum tenues dare rursus aquas et pascere rursus solis ad occasum, cum frigidus aëra vesper temperat, et saltus reficit iam roscida luna, litoraque alcyonem resonant, acalanthida dumi. (III, vv. 327-338) «Poi, quando la quarta ora del giorno (scil. fra le 9 e le 10) farà nascere la sete, e le stridule cicale con il loro canto faranno crepare gli alberi, ti esorterò a far bere alle greggi, presso i pozzi o gli stagni profondi, l’acqua corrente in canali di leccio: invece, nel pieno della calura a cercare una valle ombrosa, se in qualche luogo una grande quercia di Giove dall’antico tronco protende enormi rami, o un bosco cupo di fitti lecci si stende con la sua sacra ombra: allora <ti esorterò> a dar <loro: scil. a pecore e capre> di nuovo limpida acqua e a farle pascolare di nuovo fino al tramonto del sole, quando la frescura della sera mitiga l’aria, e già la luna con la sua rugiada ristora le verdi balze, e i lidi risuonano dei gridi dell’alcione e i cespugli del canto del cardellino». _______________ 21) Raccomandazioni del poeta per la difesa delle greggi dai pericoli stagionali. 22) Neve, ghiaccio e nebbia nelle lande desolate della Scizia Illic clausa tenent stabulis armenta, neque ullae aut herbae campo apparent aut arbore frondes; sed iacet aggeribus niveis informis et alto terra gelu late septemque adsurgit in ulnas. Semper hiemps, semper spirantes frigora cauri; tum Sol pallentis haut umquam discutit umbras, nec cum invectus equis altum petit aethera nec cum praecipitem Oceani rubro lavit aequore currum. Concrescunt subitae currenti in flumine crustae, undaque iam tergo ferratos sustinet orbis, puppibus illa prius, patulis nunc hospita plaustris, aeraque dissiliunt volgo vestesque rigescunt indutae, caeduntque securibus umida vina, et totae solidam in glaciem vertere lacunae, stiriaque inpexis induruit horrida barbis. Interea toto non setius aëre ninguit … (III, 352-367) «Lì (scil. nella Scizia) tengono chiusi nelle stalle gli armenti e non appaiono erbe nei campi né foglie sugli alberi; ma la terra giace per largo raggio squallida per il cumulo della neve e per l’alto ghiaccio e si eleva per l’altezza di sette cùbiti (scil. più di tre metri). Sempre vi regna l’inverno, sempre vi soffia il maestrale apportatore di freddo; inoltre il sole giammai riesce a dissipare le pallide ombre (scil. la grigia caligine delle nebbie), né quando, salito sul <suo> cocchio, si dirige verso l’alto cielo, né quando bagna il cocchio che scende veloce nelle rosse acque dell’Oceano (scil. al tramonto). Sul corso d’acqua d’un tratto si rapprendono incrostazioni di ghiaccio, e ben presto il fiume può sostenere sul suo dorso le ruote ferrate (scil. dei carri), e quella stessa superficie che prima era ricetto alle navi ora lo è agli ampi carri agricoli; e il bronzo dappertutto si spacca e le vesti diventano rigide 172 dopo essere state indossate, e <gli Sciti> fanno a pezzi a colpi di scure il vino, che normalmente è liquido, e interi laghi si trasformano in duro ghiaccio, e le gocce irrigidite induriscono sulle barbe arruffate. Frattanto, non diversamente per tutto il cielo nevica …». _________________ 22) Gli alberi scheletriti e privi di fogliame sono un elemento consueto nella tipologia del locus horridus, ma la Scizia, nella descrizione dai tratti surrealistici e fiabeschi che ne fa Virgilio, si configura nel complesso come un paesaggio pallido e spettrale, privo di connotati che si distinguano da una perenne e indifferenziata distesa di ghiaccio e neve. I suoi abitanti, dalle barbe arruffate e ispide di ghiaccioli, come dice il poeta nel seguito del brano, che qui non si riporta, con urla di gioia portano i cervi, che una valanga o la neve improvvisamente accumulatasi, immobilizzandoli, ha reso per loro facile preda, nei propri antri scavati sotto terra e, simili ai giganteschi orchi delle fiabe, ammassano sul focolare e danno alle fiamme tronchi di quercia e interi olmi. La frase aeraque dissiliunt del v. 363 allude forse a recipienti di bronzo che si spaccano quando si gela il liquido in essi contenuto; quanto a non setius del v. 367, il poeta intende dire che non diversa dalla morsa del gelo è l’oppressione della cappa nevosa del cielo. 23) Un limpido ruscello serpeggiante … non qui per saxa volutus purior electro campum petit amnis … (III, 521-522) «… né il ruscello che, serpeggiando tra i sassi, più limpido dell’ambra scende al piano …». ___________________ 23) Nel descrivere la moria del bestiame nel Norico, Virgilio a un certo punto sofferma la propria affettuosa attenzione su un giovenco che, affranto «per la morte del fratello» con lui aggiogato all’aratro e a sua volta colpito dal morbo che sta per sopraffarlo, non trova conforto nella vista delle cose a lui prima gradite: «non possono attirare il suo animo né le ombre degli alti boschi, né i morbidi prati, né il ruscello…». Il termine electrum è qui impiegato nel significato, secondo alcuni, di «ambra gialla», secondo altri, di «elettro», una lega costituita da quattro parti d’oro e da una di argento, di colore simile a quello dell’ambra. 24) Fonti, stagni e ruscelli At liquidi fontes et stagna virentia musco adsint et tenuis fugiens per gramina rivus… (IV, vv. 18-19) «Ma presso vi siano limpide fonti e stagni verdeggianti di muschio e un ruscello che scorra furtivo e sottile tra l’erba …». _______________ 24) È un particolare della precettistica relativa alla scelta del sito più consono a un alveare, che Virgilio desume, in parte, da Aristotele e Varrone. 25) Il sole dischiude il cielo con la luce estiva … ubi pulsam hiemem Sol aureus egit sub terras, caelumque aestiva luce reclusit … (IV, vv. 51-52) «… quando l’aureo sole ha sospinto e cacciato l’inverno sotto terra, e con la luce dell’estate ha dischiuso il cielo» 173 _______________ 25) «… esse (scil. le api) percorrono balze e boschi e suggono fiori dagli splendidi colori e, per bere, sfiorano leggere i corsi d’acqua». 26) Il freddo e il gelo dell’inverno … et cum tristis hiems etiamnum frigore saxa rumperet et glacie cursus frenaret aquarum… (IV, 135-136) «… e quando il tetro inverno ancora spaccava le pietre col freddo e frenava il corso delle acque col ghiaccio …» _______________ 26) «… egli già spiccava gli steli del tenero giacinto, facendosi beffe dell’estate lenta a venire e dell’indugio degli zefiri». Virgilio sta parlando di un vecchio, oriundo di Còrico, città della Cilicia, proprietario beato di un modesto campicello presso Taranto, che asserisce di aver visto di persona e conosciuto come abile coltivatore e floricultore. 27) L’onda del mare scindendosi penetra negli anfratti di una grotta … Est specus ingens exesi latere in montis, quo plurima vento cogitur inque sinus scindit sese unda reductos … (IV, vv. 418-420) «Vi è, nel fianco di un monte corroso <dalle acque>, una vasta grotta, dove l’onda è spinta in massa dal vento e poi si divide penetrando negli anfratti appartati <di essa>». _______________ 27) Viene descritto l’antro di Proteo, figlio di Oceano e Teti, dio marino cui sono noti il passato, il presente e il futuro. La grotta accoglie una gran quantità di onde che, diramandosi nei suoi numerosi anfratti, perdono la loro forza d’urto. 28) La canicola Iam rapidus torrens sitientes Sirius Indos ardebat caelo, et medium sol igneus orbem hauserat; arebant herbae et cava flumina siccis faucibus ad limum radii tepefacta coquebant … (IV, vv. 425-428) «Già l’ardente Sirio (= la canicola) che brucia gli Indiani assetati avvampava nel cielo, e il sole infuocato aveva compiuto metà del suo giro; inaridiva l’erba e i raggi disseccavano gli incavati letti dei fiumi dalle foci asciutte, bollenti fino alla melma del fondo …». _______________ 28) È il momento in cui Proteo dal mare fa ritorno alla propria spelonca, conducendo con sé il suo branco di foche. 29) Gli uccelli cercano tra il fogliame riparo dalla sera o dalla pioggia invernale … quam multa in foliis avium se milia condunt, vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber … (IV, vv. 473-474) 174 «… come le migliaia di uccelli che si riparano tra le foglie <degli alberi>, quando la sera o la pioggia invernale li spingono giù dai monti …». _______________ 29) Così numerose sono le ombre dei morti che, commosse dal canto di Orfeo, salgono leggere dalle più profonde sedi dell’Erebo, affollandosi intorno a lui. 30) I fiumi infernali … quos circum limus niger et deformis harundo Cocyti tardaque palus inamabilis unda alligat et noviens Styx interfusa coërcet. (IV, vv. 478-480) «E tutt’attorno li (scil. i defunti) stringono il nero fango e gli squallidi canneti del Cocito e l’orribile stagnante acqua dalla lenta corrente, e lo Stige, nove volte girando attorno, li rinserra». _______________ 30) In questi versi il poeta descrive le barriere che impediscono alle anime dei trapassati ogni possibilità di fuga, e lo squallore del paesaggio infernale. Il limus niger, che anticipa la “belletta negra” dell’Inferno dantesco (VII, 124), e la palus inamabilis dalla tarda unda sono la perfetta antitesi delle “chiare, fresche e dolci acque” del locus amoenus: l’acqua è lenta perché tutto è stagnante in questo mondo senza vita, dove le ombre hanno un’esistenza effimera. E la deformis harundo, che ben s’intona al fosco e squallido paesaggio dell’Averno, è molto diversa dai teneri canneti con cui il Mincio orla le sue verdi rive nell’ecloga VII (vv. 12-13: hic viridis tenera praetexit harundine ripas / Mincius) o nella serena visione proemiale (v. 15) del 3° libro delle Georgiche. 31) Le lande dell’estremo nord, coperte di ghiaccio e neve Solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis lustrabat raptam Eurydicen atque inrita Ditis dona querens … (IV, vv. 517-520) «Da solo percorreva le distese ghiacciate degli Iperborei e il nevoso Tanai e le terre mai spoglie di neve proveniente dai monti Rifei, dolendosi di Euridice <a lui> rapita e dei vani doni di Dite». _______________ 31) Orfeo, disperato per la definitiva perdita della sua sposa, si spinge fino alle più lontane regioni settentrionali, desideroso di solitudine e insensibile alle asprezze della natura e del clima. Gli Iperborei erano, per gli antichi, i mitici abitanti dell’estremo nord; il Tanai è l’attuale Don; Riphaei è il nome che veniva dato a monti favolosi, situati ai più remoti confini della Sarmazia o della Scizia. 175 Dall’ «Eneide» 1) I venti infuriano sul mare Haec ubi dicta, cavum conversa cuspide montem impulit in latus; ac venti, velut agmine facto, qua data porta, ruunt et terras turbine perflant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis una Eurusque Notusque ruunt creberque procellis Africus, et vastos volvunt ad litora fluctus. Insequitur clamorque virum stridorque rudentum. Eripiunt subito nubes caelumque diemque Teucrorum ex oculis: ponto nox incubat atra. Intonuere poli et crebris micat ignibus aether, praesentemque viris intentant omnia mortem. (I, vv. 81-91) «Dopo aver proferito queste parole, <Eolo,> capovolta l’asta, con la cuspide percosse la cava montagna nel fianco; e i venti, come in schiera serrata, si precipitano per dove è stato offerto <loro> un varco e spazzano la terra con il loro turbinio. Si abbattono sul mare e tutto dai più profondi abissi lo sconvolgono insieme Euro e Noto e Africo dai frequenti fortunali e rotolano contro i lidi enormi ondate. Tengono loro dietro grida di uomini e stridore di sartie. D’un tratto le nubi sottraggono alla vista dei Teucri il cielo e la luce del giorno; sul mare si stende una tetra notte. Rimbomba di tuoni la volta celeste e l’aria lampeggia di fulmini frequenti, e ogni cosa minaccia agli uomini l’imminenza della morte». _______________ 1) La flotta di Enea al largo della Sicilia viene improvvisamente investita da una tempesta scatenata da Eolo, il dio dei venti, a ciò sollecitato da Giunone, ostile all’eroe troiano e desiderosa di impedirgli l’approdo in Italia stabilito dai fati. 2) Immutabilità dei fenomeni naturali In freta dum fluvii current, dum montibus umbrae lustrabunt convexa, polus dum sidera pascet… (I, vv. 607-608) «Finché i fiumi correranno al mare, finché le ombre ai monti copriranno le pendici, finché il cielo darà alimento agli astri …». _______________ 2) Enea promette a Didone, regina di Cartagine, come compenso dovuto alla pietà da lei dimostrata verso gli esuli troiani e all’aiuto che generosamente e disinteressatamente ad essi si appresta a fornire, una gloria perenne, garantita dall’immutabilità e durevolezza dei fenomeni naturali evocati. Per quanto concerne la frase polus dum sidera pascet, si tenga presente che secondo gli antichi le costellazioni si nutrivano dei vapori esalanti dalla terra e dal mare nonché dalla componente ignea dell’aria. 3) Declina la notte e volgono al tramonto le stelle … et iam nox umida caelo praecipitat suadentque cadentia sidera somnos. (II, vv. 8-9) 176 «… e già l’umida notte rapidamente declina e le stelle volgenti al tramonto invitano al sonno». _______________ 3) Con questo accenno all’ora tarda, nel quale è sottinteso il pensiero che, intorno, uomini e cose hanno già trovato nel riposo notturno un ristoro ai travagli della vita, Enea sembra volersi sottrarre al racconto della caduta di Troia e delle sue peripezie per terra e per mare, ma in realtà, sebbene ciò comporti per lui il rinnovarsi del dolore, si accinge ad esaudire il desiderio espresso dalla regina Didone. 4) La furia devastatrice di un incendio o di un torrente montano … in segetem veluti cum flamma furentibus austris incidit, aut rapidus montano flumine torrens sternit agros, sternit sata laeta bovomque labores praecipitesque trahit silvas; stupet inscius alto accipiens sonitum saxi de vertice pastor. (II, vv. 304-308) «… come quando, sotto l’infuriare dei venti (lett. «degli austri»), il fuoco assale improvvisamente le messi, o un torrente reso vorticoso dalle acque montane investe i campi, abbatte i rigogliosi seminati e le fatiche dei buoi e trascina via a precipizio le selve; trasalisce il pastore che, ignorandone la causa, ode il frastuono dalla sommità di una rupe». _______________ 4) Enea, destatosi di colpo e salito sul tetto della casa, ode in lontananza il crepitio delle fiamme che stanno divorando la città di Troia, occupata a tradimento dai Greci. 5) Lottan fra loro i venti ed è sconvolto il mare … adversi rupto ceu quondam turbine venti confligunt, Zephyrusque Notusque et laetus eois Eurus equis; stridunt silvae saevitque tridenti spumeus atque imo Nereus ciet aequora fundo (II, vv. 416-419) «… come talora, scatenatasi una bufera, lottano fra loro venti contrari, Zefiro e Noto ed Euro lieto per i <suoi> cavalli orientali; fischiano le selve e lo spumeggiante Nereo infierisce col tridente e dal fondo degli abissi sconvolge le distese marine». _______________ 5) Richiama al poeta l’immagine del cozzo di venti contrari la violenta zuffa divampata fra il gruppo dei Troiani capeggiati da Enea e il drappello di Greci cui essi hanno strappato Cassandra, già loro preda. Nereo è una divinità marina, figlio di Oceano e Gea, sposo dell’oceanina Doride e padre delle Nereidi. 6) L’impeto travolgente di un fiume in piena Non sic, aggeribus ruptis cum spumeus amnis exiit oppositasque evicit gurgite moles, fertur in arva furens cumulo camposque per omnis cum stabulis armenta trahit… (II, vv. 496-499) «Non così (scil. non con lo stesso impeto), quando, rotti gli argini, un fiume straripa spumeggiante e con i suoi gorghi abbatte gli opposti ripari, irrompe nei campi infuriando con la piena delle sue acque e per tutte le piane trascina via gli armenti insieme con le stalle …». 177 _______________ 6) Alla violenza del fiume in piena viene paragonato l’irrompere dei Greci attraverso la porta del palazzo di Priamo, finalmente abbattuta dai fitti colpi di ariete; fra gli assalitori si distingue Pirro, il figlio di Achille, spinto da una furiosa smania di strage. 7) Tempesta sul mare Postquam altum tenuere rates nec iam amplius ullae apparent terrae, caelum undique et undique pontus, tum mihi caeruleus supra caput adstitit imber noctem hiememque ferens, et inhorruit unda tenebris. Continuo venti volvont mare magnaque surgunt aequora, dispersi iactamur gurgite vasto; involvere diem nimbi et nox umida caelum abstulit, ingeminant abruptis nubibus ignes (III, vv. 192-199) «Quando le navi ebbero preso il largo e non si vedeva più alcuna terra, cielo da ogni parte e da ogni parte mare, allora fosco sopra il mio capo si fermò un livido nembo recante notte e burrasca, e l’onda rabbrividì nelle tenebre. Subito dopo raffiche di vento sconvolgono il mare e le acque si gonfiano, enormi; siamo sballottati qua e là dalle onde burrascose; i nembi hanno occultato il giorno e un’umida notte ha fatto sparire il cielo, dalle squarciate nuvole raddoppiano le folgori». _______________ 7) Un’improvvisa tempesta investe la flotta di Enea salpata da Creta dopo che l’eroe ha ricevuto dai Penati, apparsigli in sogno, la rivelazione che non è quell’isola, bensì l’Esperia, la terra a lui promessa dai fati. 8) Il sole tramonta e scendono le ombre Sol ruit interea et montes umbrantur opaci (III, v. 508) «Intanto, il sole rapidamente declina e i monti si coprono d’ombra facendosi scuri». _______________ 8) Enea e i suoi compagni, giunti navigando in prossimità dei monti Cerauni, rilievi della costa epirota, approdano col proposito di trascorrere la notte distesi sul lido, all’asciutto. 9) Notte stellata Necdum orbem medium Nox Horis acta subibat: haud segnis strato surgit Palinurus et omnis explorat ventos atque auribus aëra captat: sidera cuncta notat tacito labentia caelo, Arcturum pluviasque Hyadas geminosque Triones, armatumque auro circumspicit Oriona (III, vv. 512-517) «E non ancora la notte, sospinta dalle Ore, era giunta a metà del suo corso: alacre, Palinuro si alza dal <suo> giaciglio ed esamina tutti i venti e con l’orecchio cerca di cogliere le vibrazioni dell’aria: osserva tutte le costellazioni trascorrenti nel cielo silente, Arturo e le piovose Iadi e le due Orse, e con lo sguardo abbraccia Orione armato d’oro». _______________ 178 9) Mentre i Troiani sono ancora immersi nel sonno, Palinuro, il timoniere della nave di Enea, levatosi, scruta il cielo stellato e, accertatosi delle favorevoli condizioni atmosferiche, segnala che è il momento di salpare. Arcturus è la stella più fulgida della costellazione di Bootes, vicino alla coda dell’Orsa Maggiore. Le Iadi sono un gruppo di stelle della costellazione del Toro: sorgono in maggio e si riteneva che apportassero pioggia. Trio significa propriamente «bue da lavoro» e allude alla figura delle due costellazioni chiamate anche “Grande Carro” e “Piccolo Carro”. L’espressione armatum auro si riferisce alla cintura e alla spada del cacciatore Orione che, nel catasterismo subìto da questo personaggio mitologico, sono rappresentate da due file di stelle. 10) Rosseggia l’aurora Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis ... (III, v. 521) «E già, messe in fuga le stelle, rosseggiava l’Aurora …». _______________ 10) Sorge l’Aurora, quando Enea e i suoi scorgono in lontananza alture nell’ombra e, bassa a fior d’acqua, la costa dell’Italia. 11) L’Etna in eruzione … horrificis iuxta tonat Aetna ruinis interdumque atram prorumpit ad aethera nubem turbine fumantem piceo et candente favilla attollitque globos flammarum et sidera lambit, interdum scopulos avolsaque viscera montis erigit eructans liquefactaque saxa sub auras cum gemitu glomerat fundoque exaestuat imo. Fama est Enceladi semustum fulmine corpus urgueri mole hac ingentemque insuper Aetnam impositam ruptis flammam exspirare caminis; et fessum quotiens mutet latus, intremere omnem murmure Trinacriam et caelum subtexere fumo. (III, vv. 571-582) «… lì vicino l’Etna rimbomba di crolli spaventosi e talvolta lancia verso il cielo una nera nuvola fumante di un turbine color della pece e di faville incandescenti e solleva vortici di fiamme e lambisce le stelle, talvolta eruttando scaglia in alto macigni e le viscere del monte strappate via e addensa e lancia in aria con un rumore sordo rocce liquefatte (scil. lava) e ribolle dai più profondi abissi. È fama che da questa mole sia schiacciato il corpo di Encelado semiarso dal fulmine e che l’immenso Etna posto sopra di lui dagli squarciati crateri soffi fuori fiamma; e che ogniqualvolta egli cambia il fianco spossato tutta la Trinacria tremi rimbombando e dal di sotto col fumo oscuri il cielo». _______________ 11) Enea e i suoi compagni approdano ai lidi dei Ciclopi. Encelado, uno dei Giganti che osarono lottare contro gli dèi dell’Olimpo, fu da Giove colpito con il fulmine e sepolto vivo sotto l’Etna. 12) Una notte nuvolosa e non illuminata dalla luna Noctem illam tecti silvis immania monstra 179 perferimus nec quae sonitum det causa videmus. Nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aethra siderea polus, obscuro sed nubila caelo, et lunam in nimbo nox intempesta tenebat. (III, vv. 583-587) «Quella notte, protetti dai boschi, sopportiamo quegli spaventosi prodigi e non vediamo quale causa produca quel fragore. Infatti, non v’era fulgore di stelle né la volta celeste mostrava il brillio del firmamento, ma <solo> nuvole v’erano nel fosco cielo, e la notte profonda teneva nascosta in un nembo la luna». _______________ 12) Enea e i suoi compagni, approdati nella terra dei Ciclopi, nel buio della notte non possono rendersi conto che i bagliori che vedono e il fragore che odono sono causati dall’attività eruttiva di un vulcano. 13) Sorge il giorno Postera iamque dies primo surgebat Eoo umentemque Aurora polo dimoverat umbram … (III, vv. 588-589) «E già il giorno seguente sorgeva al primo apparir di Lucifero e l’Aurora aveva rimosso dal cielo l’umida ombra …». _______________ 13) All’alba si fa incontro ai Troiani il greco Achemenide, che Virgilio rappresenta come un compagno di Ulisse per dimenticanza abbandonato dall’eroe nella terra dei mostruosi Ciclopi. 14) Sorge il giorno Postera Phoebea lustrabat lampade terras umentemque Aurora polo dimoverat umbram… (IV, vv. 6-7) «L’aurora del giorno seguente rischiarava con la luce del sole le terre e aveva rimosso dal cielo l’umida ombra …». _______________ 14) Sul far del giorno Didone, regina di Cartagine, confida alla sorella Anna il nascente sentimento d’amore per l’eroe troiano approdato alla sua terra. Febo è un epiteto di Apollo, il dio del sole. 15) La luna si fa oscura e tramontano le stelle Post ubi digressi lumenque obscura vicissim luna premit suadentque cadentia sidera somnos … (IV, vv. 80-81) «Poi, dopo che si sono separati (scil. Didone ed Enea) e a sua volta la luna, fattasi oscura, nasconde la sua luce e le stelle, volgendo al tramonto, invitano al sonno …». _______________ 15) Al termine del banchetto, protrattosi per gran parte della notte, dopo che Enea si è ritirato, Didone, «sentendosi sola, si affligge nella casa vuota, e si adagia sul letto tricliniare lasciato libero <dall’eroe troiano> ». 180 16) Temporale improvviso Interea magno misceri murmure caelum incipit, insequitur commixta grandine nimbus (IV, vv. 160-161) «Intanto il cielo comincia a turbarsi con grave rimbombo, e subito tien dietro uno scroscio di pioggia misto a grandine …». _______________ 16) Un temporale, scatenatosi all’improvviso, disperde i cavalieri partecipanti alla caccia. Didone ed Enea, rifugiatisi nella stessa spelonca, vi celebrano il loro connubio, a cui lampi e tuoni e l’ululato delle ninfe sugli alti monti presagiscono un esito tragico. 17) Una robusta quercia resiste alle raffiche dei venti Ac velut annoso validam cum robore quercum Alpini Boreae nunc hinc, nunc flatibus illinc eruere inter se certant; it stridor et altae consternunt terram concusso stipite frondes; ipsa haeret scopulis et quantum vertice ad auras aetherias, tantum radicem in Tartara tendit … (IV, vv. 441-446) «E come quando i venti del nord provenienti dalle Alpi, soffiando ora da un lato ora dall’altro, fanno tra loro a gara a svellere una quercia robusta per l’annoso fusto; continuo è il sibilo e, per lo scuotimento del tronco, le foglie coprono il terreno formando un alto strato; essa sta abbarbicata alle rocce e quanto con la cima punta verso l’alto cielo di tanto affonda le radici nelle profondità della terra… ». _______________ 17) Alla resistenza che la vecchia quercia oppone alle raffiche dei venti è paragonata l’inflessibilità con cui Enea, ormai deciso ad abbandonare Didone, respinge le sue insistenti preghiere, a lui riportate da Anna, sorella della regina, perché, almeno, si trattenga ancora un poco. 18) Quiete notturna Nox erat et placidum carpebant fessa soporem corpora per terras silvaeque et saeva quierant aequora, cum medio volvontur sidera lapsu, cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres, quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis rura tenent, somno positae sub nocte silenti. (IV, vv. 522-527) «Era notte e per tutta la terra stanchi i corpi godevano un placido sopore, quiete eran le selve e le acque dei mari prima agitate, quando le stelle volgono a metà del loro corso, quando tace ogni campo, gli animali terrestri e i variopinti uccelli, e quelli che frequentano le distese dei limpidi laghi e quelli che dimorano nelle piane irte di cespugli spinosi, immersi nel sonno nella notte silente». _______________ 18) Nel silenzio della notte, mentre tutti gli esseri viventi sono immersi in un placido sonno, Didone, assillata da propositi suicidi, vive una veglia angosciosa. 181 19) Aurora Et iam prima novo spargebat lumine terras Tithoni croceum linquens Aurora cubile. (IV, vv. 584-585) «E già la nascente Aurora, lasciando il croceo letto di Titono, illuminava di nuova luce la terra». _______________ 19) Ai primi albori, l’infelice Didone vede le navi troiane allontanarsi veloci a vele spiegate e, in preda alla disperazione, rimugina vani propositi di vendetta. 20) Un livido nembo preannuncia tempesta Ut pelagus tenuere rates nec iam amplius ulla occurrit tellus, maria undique et undique caelum: olli caeruleus supra caput adstitit imber noctem hiememque ferens et inhorruit unda tenebris. (V, vv. 8-11) «Quando le navi ebbero raggiunto il mare aperto e non compariva più alcuna terra, mari da ogni parte e da ogni parte cielo, sopra il suo (scil. di Enea) capo si fermò un livido nembo recante notte e burrasca e l’onda rabbrividì nelle tenebre». _______________ 20) Mentre la flotta troiana, salpata da Cartagine, si trova già in alto mare, all’improvviso un nembo ricopre la volta del cielo e livido minaccia tempesta. 21) L’imperversare dei venti sul mare Mutati transversa fremunt et vespere ab atro consurgunt venti atque in nubem cogitur aër … (V, vv. 20-21) «I venti, mutati, sibilando soffiano di traverso e si vanno levando dal fosco occidente e l’aria si addensa formando una nube». _______________ 21) I venti che prima soffiavano da nord mutano direzione e fischiando imperversano sul mare, investendo la flotta di Enea. 22) L’arcobaleno … ceu nubibus arcus mille iacit varios adverso sole colores. (V, vv. 88-89) «… come l’arcobaleno proietta sulle nubi, per il sole avverso, mille diversi colori». _______________ 22) Ai variopinti colori dell’arcobaleno sono paragonati i rutilanti bagliori che, sbucato dal fondo del tumulo di Anchise, padre di Enea, manda un serpente al quale «chiazze di un azzurro cupo tingono il dorso e un fulgore variegato d’oro accende le squame». 182 23) Uno scoglio ora sommerso dalle onde, ora affiorante dal mare Est procul in pelago saxum spumantia contra litora, quod tumidis submersum tunditur olim fluctibus, hiberni condunt ubi sidera cori; tranquillo silet immotaque attollitur unda campus et apricis statio gratissima mergis. (V, vv. 124-128) «C’è nel mare aperto, a una certa distanza, di fronte agli spumeggianti lidi uno scoglio, che talvolta è sommerso e battuto dai flutti rigonfi, quando il maestrale d’inverno nasconde le stelle (scil. con una livida nuvolaglia); in tempo di bonaccia tace e ne affiora sull’onda immota una spianata, ed è sosta graditissima agli smerghi che amano il sole». _______________ 23) Su questo scoglio Enea fa piantare un fronzuto leccio che nella gara delle navi (uno dei giochi funebri in onore di Anchise) costituisca la meta, cioè il segnale, paragonabile all’attuale «boa», intorno al quale i naviganti dovranno virare. 24) Grandinata … quam multa grandine nimbi culminibus crepitant… (V, vv. 458-459) «… con quanta grandine gli scrosci crepitano sui tetti …» _______________ 24) «… con così fitti colpi l’eroe (scil. Entello) continuamente con l’una e l’altra mano percuote e fa girare Darete», il suo antagonista nella gara del «cesto», una sorta di pugilato. 25) Stelle cadenti … caelo ceu saepe refixa transcurrunt crinemque volantia sidera ducunt. (V, vv. 527-528) «… come spesso, staccatesi dal cielo, lo attraversano e si traggon dietro la chioma le stelle cadenti». _______________ 25) La similitudine si riferisce alla freccia scagliata da Aceste, che «volando prese fuoco fra le limpide nubi e tracciò nel cielo un sentiero fiammeggiante e sparì consumandosi fra i venti impalpabili». 26) Temporale improvviso … effusis imbribus atra tempestas sine more furit tonitruque tremescunt ardua terrarum et campi: ruit aethere toto turbidus imber aqua densisque nigerrimus austris … (V, vv. 693-696) «… tra rovesci di pioggia una fosca tempesta senza misura imperversa e per il rombo dei tuoni incominciano a tremare monti e piane: precipita da tutto il cielo un temporale furioso per la massa d’acqua e nerissimo per le continue e impetuose raffiche dei venti …». 183 _______________ 26) L’improvviso temporale è inviato da Giove, al quale Enea con accorate preghiere ha chiesto un intervento provvidenziale, per spegnere l’incendio che alle navi hanno appiccato le donne troiane, stanche delle peripezie per mare e desiderose di fermarsi ad Erice. 27) Le mefitiche esalazioni della grotta vicina al lago d’Averno Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu, scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris, quam super haud ullae poterant impune volantes tendere iter pinnis: talis sese halitus atris faucibus effundens supera ad convexa ferebat. (VI, vv. 237-241) «C’era una grotta profonda e orrenda per l’ampia voragine, sassosa, protetta da un cupo lago e dalle fitte ombre dei boschi, sopra la quale nessun volatile poteva impunemente avventurarsi ad ali spiegate: tali esalazioni dalle oscure fauci sprigionandosi salivano verso la volta celeste». _______________ 27) Enea e la Sibilla, compiuti i riti prescritti, attraverso la spelonca che si apre nei pressi del lago d’Averno si apprestano a scendere nel sotterraneo regno dei morti. 28) Il camminar nei boschi di notte all’incerto chiarore della luna … quale per incertam lunam sub luce maligna est iter in silvis, ubi caelum condidit umbra Iuppiter et rebus nox abstulit atra colorem … (VI, vv. 270-272) «… come, se la luna è velata, sotto una luce fioca si cammina nei boschi, quando Giove ha rabbuiato il cielo e la nera notte ha tolto alle cose il loro colore …» _______________ 28) «… così <la Sibilla ed Enea> procedevano avvolti dall’oscurità nella notte solitaria attraverso la tenebra e le vuote case di Dite (= Plutone) e gli impalpabili regni». 29) Come d’autunno si levan le foglie… … quam multa in silvis autumni frigore primo lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus trans pontum fugat et terris immittit apricis … (VI, vv. 309-312) «… quante sono le foglie che nei boschi ai primi freddi dell’autunno staccatesi <dai rami> cadono <al suolo>, o quanti sono gli uccelli che dall’alto mare si adunano a terra, quando la fredda stagione li fa fuggire al di là del mare e li spinge verso regioni solatie» _______________ 29) …così numerose sono le anime dei defunti che si accalcano sulle rive del fiume Acheronte per essere traghettate da Caronte sull’altra sponda e avviarsi alla loro eterna dimora. 184 30) Le brezze della sera e il chiarore della luna Adspirant aurae in noctem nec candida cursus luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus. (VII, vv. 8-9) «Spirano favorevoli le brezze verso sera, né la luna lucente ostacola la rotta, il mare risplende sotto il tremulo chiarore». _______________ 30) Compiute le esequie della propria nutrice Caieta, Enea salpa dal porto che da allora porterà il nome di lei (oggi Gaeta). 31) Calma di vento all’aurora Iamque rubescebat radiis mare et aethere ab alto Aurora in roseis fulgebat lutea bigis: cum venti posuere omnisque repente resedit flatus et in lento luctantur marmore tonsae. (VII, vv. 25-28) «E già il mare cominciava a rosseggiare sotto i raggi <del sole> e dall’alto del cielo l’Aurora rifulgeva dorata sulla sua rosea biga: quando posarono i venti e d’un tratto cadde ogni alito e i remi fendevano con fatica l’immobile distesa». _______________ 31) All’aurora smettono all’improvviso di spirare quei venti che il dio Nettuno aveva suscitato per spingere le navi di Enea lontano dai pericolosi lidi della maga Circe. 32) Il mare s’ ingrossa … fluctus uti primo coepit cum albescere ponto, paulatim sese tollit mare et altius undas erigit, inde imo consurgit ad aethera fundo … (VII, vv. 528-530) «… come, quando il flutto ha cominciato a biancheggiare sulla superficie marina, a poco a poco il mare si solleva e più in alto erge le onde, quindi dal più profondo abisso s’innalza verso il cielo». _______________ 32) Termine di confronto è la lotta che, fomentata dalla Furia Aletto su richiesta della dea Giunone, divampa accanita fra i rustici indigeni del Lazio e i giovani troiani accorsi in aiuto di Ascanio, figlio di Enea. 33) Rupe marina immota contro i marosi Ille velut pelagi rupes immota resistit, ut pelagi rupes magno veniente fragore, quae sese multis circum latrantibus undis mole tenet; scopuli nequiquam et spumea circum saxa fremunt laterique inlisa refunditur alga. (VII, vv. 586-590) «Egli (scil. il re Latino) come immota rupe di mare aperto resiste, come al frangersi di una gigantesca ondata rupe di mare aperto, che si regge nella sua mole, mentre intorno le urla- 185 no in gran numero i marosi; invano mugghiano gli scogli e, all’ingiro, le rocce coperte di schiuma, e l’alga nell’urto rifluisce ai suoi fianchi». _______________ 33) Come la rupe marina che resiste alla violenza degli elementi, il re Latino sulle prime si oppone alle pressanti richieste che da più parti gli vengono rivolte di scendere in guerra contro i Troiani. 34) La quiete notturna Nox erat et terras animalia fessa per omnis alituum pecudumque genus sopor altus habebat … (VIII, vv. 26-27) «Era notte e per ogni dove un sonno profondo soggiogava gli esseri viventi spossati dalla stanchezza, le stirpi dei volatili e degli animali terrestri …» _______________ 34) «… allorché il padre Enea, turbato nel cuore dalla funesta guerra, sulla riva sotto la fredda volta del cielo si pose a giacere e concesse alle membra un tardivo riposo». 35) Il fulmine … haut secus atque olim tonitru cum rupta corusco ignea rima micans percurrit lumine nimbos. (VIII, vv. 391-392) «… proprio come quando, erompendo da un corrusco tuono, una striscia di fuoco (scil. un fulmine) balenando attraversa con il suo fulgore i nembi». _______________ 35) Termine di confronto è la fiamma amorosa che percorre le membra di Vulcano quando Venere, la sua sposa, con le sue candide braccia lo cinge in un tenero amplesso, ricorrendo alle sue arti seduttive per ottenere dal dio nuove splendide armi per Enea. 36) La stella del mattino … qualis ubi Oceani perfusus Lucifer unda, quem Venus ante alios astrorum diligit ignis, extulit os sacrum caelo tenebrasque resolvit. (VIII, vv. 589-591) «… come quando, rorido dell’acqua di Oceano, Lucifero, che Venere predilige tra tutti gli astri fiammanti, ha sollevato il sacro volto nel cielo e dissolto le tenebre». _______________ 36) Alla fulgida stella del mattino è paragonato il giovane Pallante, figlio del re arcade Evandro, «splendido nel suo mantello e nelle sue armi policrome». 37) Nube rosseggiante per i raggi del sole … qualis cum caerula nubes solis inardescit radiis longeque refulget. (VIII, vv. 622-623) «… come quando una cerulea nube diventa rossa come il fuoco ai raggi del sole e rifulge da lontano». 186 _______________ 37) Simile alla nube rosseggiante è la bronzea e imponente corazza «dai riflessi di sangue» fabbricata da Vulcano e donata da Venere al figlio Enea insieme con le altre splendide armi forgiate dal dio. 38) L’aurora Et iam prima novo spargebat lumine terras Tithoni croceum linquens Aurora cubile: iam sole infuso, iam rebus luce retectis… (IX, vv. 459-461) «E già la nascente Aurora, lasciando il croceo letto di Titono, illuminava di nuova luce la terra: sorto già il sole, disvelate già dalla luce le cose… » _______________ 38) «… Turno desta alle armi i suoi uomini, cinto d’armi lui stesso». 39) Scrosci di pioggia e grandine … quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis verberat imber humum, quam multa grandine nimbi in vada praecipitant, cum Iuppiter horridus austris torquet aquosam hiemem et caelo cava nubila rumpit … (IX, vv. 668-671) «… con quanta intensità giungendo da occidente sotto i piovosi Capretti la pioggia sferza la terra, con quanta grandine gli scrosci si rovesciano in mare, quando Giove, rabbuffato, con gli austri avventa un turbine di pioggia e su nel cielo percuote e squarcia cavi ammassi di nubi». _______________ 39) Agli scrosci della pioggia e della grandine è paragonata la gragnuola di frecce e proiettili che dall’alto delle mura i Troiani scagliano contro gli assalitori. I Capretti sono due stelle della costellazione dell’Auriga, il cui sorgere poco dopo l’equinozio di autunno segna un periodo di forti perturbazioni atmosferiche. 40) I primi aliti di vento … ceu flamina prima cum deprensa fremunt silvis et caeca volutant murmura, venturos nautis prodentia ventos (X, vv. 97-99) «… come quando fremono i primi aliti di vento impigliati nel fitto dei boschi e fanno udire in giro sordi brontolii, forieri ai naviganti di imminente tempesta» _______________ 40) … così mormoravano tutti gli abitatori del cielo accogliendo con diverso atteggiamento le argomentazioni con cui Giunone aveva cercato di replicare al discorso di Venere in favore di Enea e dei Troiani. 41) Le comete e la stella Sirio … non secus ac liquida si quando nocte cometae sanguinei lugubre rubent aut Sirius ardor; 187 ille sitim morbosque ferens mortalibus aegris nascitur et laevo contristat lumine caelum (X, vv. 272-275) «… non diversamente da come talvolta nella limpida notte luttuosamente rosseggiano comete del colore del sangue o la vampa di Sirio; essa sorge recando agli infelici mortali sete e morbi e contrista il cielo con una luce sinistra» _______________ 41) «… arde l’elmo sul capo <di Enea> e, fra i pennacchi, dal vertice si sprigiona una fiamma e l’aureo scudo sprizza ampi bagliori di fuoco». Sirio è una stella della costellazione del Cane, che gli antichi ritenevano apportatrice di siccità e pestilenze. 42) La zuffa di venti contrari … Magno discordes aethere venti proelia ceu tollunt animis et viribus aequis (non ipsi inter se, non nubila, non mare cedit; anceps pugna diu, stant obnixa omnia contra) … (X, vv. 356-359) «… Come nel vasto cielo venti discordi si danno battaglia con pari impeto e pari forze (non cedono essi l’uno all’altro, non si ritraggon le nubi né il mare; a lungo incerta è la lotta, <poiché> tutti gli elementi contrastano fra loro ostinatamente) …» _______________ 42) «… non diversamente le troiane schiere e le schiere latine corrono allo scontro; si sta piede contro piede, uomo contro uomo, in mischia serrata». 43) Uno scoglio immoto sotto l’urto dei marosi … velut rupes, vastum quae prodit in aequor, obvia ventorum furiis expostaque ponto, vim cunctam atque minas perfert caelique marisque, ipsa immota manens. (X, vv. 693-696) «… come una rupe, che sporge verso l’immensa distesa delle acque, esposta alle furie dei venti e soggetta ai marosi, sostiene tutta la violenza e le minacce del cielo e del mare, restando essa immota». _______________ 43) Allo scoglio che immoto resiste alla furia dei venti e dei flutti è paragonato Mezenzio, re degli Etruschi di Cere, alleato di Turno, che, senza cedere di un passo, impavidamente resiste all’assalto dei nemici, scagliatisi in massa contro di lui. 44) Grandinata Ac velut effusa si quando grandine nimbi praecipitant, omnis campis diffugit arator omnis et agricola et tuta latet arce viator, aut amnis ripis aut alti fornice saxi, dum pluvit in terris, ut possint sole reducto exercere diem … (X, vv. 803-808) 188 «E come, se talvolta con un rovescio di grandine si abbattono i nembi, fugge qua e là dai campi ogni aratore ed ogni contadino e il viandante si tiene al coperto in un sicuro riparo, o lungo le sponde di un fiume o sotto l’arcata di un’alta rupe, finché piove sulla terra, perché, al ritorno del sole, possa seguitare la giornata …» _______________ 44) «… così, benché investito da ogni lato da strali, Enea sopporta la tempesta di guerra, finché completamente smetta di tuonare». 45) Un torrente impetuoso ostacolato da massi … ceu saxa morantur cum rapidos amnis, fit clauso gurgite murmur vicinaeque fremunt ripae crepitantibus undis … (XI, vv. 297-299) «… come, quando dei massi rallentano impetuosi torrenti, si produce nel chiuso gorgo un rimbombo e rumoreggiano le vicine rive allo scrosciare delle onde» _______________ 45) «un diverso fremito percorse le labbra degli Ausonidi», turbatisi nell’udire le parole di Diomede riferite dall’ambasciatore latino Venulo. 46) Flusso e riflusso del mare … qualis ubi alterno procurrens gurgite pontus nunc ruit ad terras scopulosque superiacit unda spumeus extremamque sinu perfundit harenam, nunc rapidus retro atque aestu revoluta resorbens saxa fugit litusque vado labente relinquit … (XI, vv. 624-628) «… come quando il mare, correndo avanti con alterno flusso, ora si precipita verso terra e col frangente passa sopra gli scogli spumeggiando e <poi> con la sua curvatura bagna l’estremo lembo della spiaggia, ora rifluisce vorticando e risucchiando nella risacca ciottoli rivoltolati, e abbandona il lido venendo meno l’onda …» _______________ 46) … così per due volte gli Etruschi ricacciano i Rutuli in fuga verso le mura, per due volte respinti si volgono a guardare proteggendosi con le armi le spalle. 47) I cavalli del Sole Postera vix summos spargebat lumine montis orta dies, cum primum alto se gurgite tollunt Solis equi lucemque elatis naribus efflant. (XII, vv. 113-115) «Il nuovo giorno, sorgendo, illuminava appena le cime dei monti, quando dal profondo gorgo emergono i cavalli del Sole e spirano la luce con le nari levate in alto». _______________ 47) Allo spuntar del giorno si fanno i preparativi per il duello fra Enea e Turno, che deciderà l’esito della guerra. 189 48) Nembo temporalesco Qualis ubi ad terras abrupto sidere nimbus it mare per medium (miseris heu praescia longe horrescunt corda agricolis: dabit ille ruinas arboribus stragemque satis, ruet omnia late); ante volant sonitumque ferunt ad litora venti … (XII, 451-455) «Quale un nembo, quando, scoppiato un temporale, attraverso il mare si dirige verso terra (da lontano agli sventurati contadini rabbrividisce il cuore ahimé presago: esso porterà rovina agli alberi e devastazione ai seminati, per ampio raggio abbatterà ogni cosa); gli volano innanzi i venti e ne recano il fragore ai lidi …» _______________ 48) «… tale il comandante reteo (scil. Enea) guida la sua schiera contro i nemici». L’epiteto Rhoeteius deriva dall’omonimo promontorio della Troade. 49) Incendi boschivi e torrenti montani Ac velut immissi diversis partibus ignes arentem in silvam et virgulta sonantia lauro, aut ubi decursu rapido de montibus altis dant sonitum spumosi amnes et in aequora currunt quisque suum populatus iter… (XII, 521-525) «E come fuochi appiccati in punti diversi ad un’arida selva e a cespugli crepitanti di alloro, o quando con travolgente discesa da alti monti spumeggianti torrenti rumoreggiano e si rovesciano verso il piano, devastando ciascuno il suo percorso …» _______________ 49) «… non più fiaccamente entrambi, Enea e Turno, si lanciano nella mischia; ora, ora dentro ribolle l’ira, ne scoppiano i petti che non sanno darsi per vinti, ora con tutte le forze si corre a ferire». 50) Qual masso che dal vertice… Ac veluti montis saxum de vertice praeceps cum ruit avolsum vento, seu turbidus imber proluit aut annis solvit sublapsa vetustas; fertur in abruptum magno mons improbus actu exsultatque solo, silvas armenta virosque involvens secum … (XII, 684-689) «E come un masso precipitando dalla cima di un monte, quando frana divelto dal vento, o dilavandolo lo scalza la pioggia scrosciante o con gli anni lo mina alla base il corso del tempo; da grande spinta è trascinato nel dirupo il rovinoso macigno e rimbalza al suolo, travolgendo con sé selve e armenti e uomini …» _______________ 50) «… così Turno attraverso le schiere scompigliate si precipita verso le mura della città, dove la terra per ampio tratto è intrisa del sangue versato e l’aria sibila di dardi…». 190 Petronio Arbitro Ubique naufragium est a cura di Giovanni Ghiselli Canova Edizioni di Scuola e Cultura 1 2 Un capolavoro anomalo Neglegentia e simplicitas Il Satyricon è un capolavoro, quasi sicuramente dell’età di Nerone, come vedremo, e molto probabilmente di quel Petronio descritto da Tacito nel capitolo 18 del XVI libro degli Annales. [18] De C. Petronio pauca supra repetenda sunt. nam illi dies per somnum, nox officiis et oblectamentis vitae transigebatur; utque alios industria, ita hunc ignavia ad famam protulerat, habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. proconsul tamen Bithyniae et mox consul vigentem se ac parem negotiis ostendit. dein revolutus ad vitia seu vitiorum imitatione inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset. unde invidia Tigellini quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem. ergo crudelitatem principis, cui ceterae libidines cedebant, adgreditur, amicitiam Scaevini Petronio obiectans, corrupto ad indicium servo ademptaque defensione et maiore parte familiae in vincla rapta. A proposito di C. Petronio devo ricordare alcuni particolari risalendo più indietro. Difatti passava le giornate dormendo, le notti nei doveri e nei piaceri della vita; e come l’operosità aveva portato altri alla rinomanza, così questo l’indolenza, ed era considerato non un dissoluto o un dissipatore, come i più tra quelli che sperperano le proprie fortune, ma uno dalla voluttà raffinata. Le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità. Tuttavia, come proconsole in Bitinia, e poi come console, si mostrò vigoroso e all’altezza dei compiti. Quindi, ritornato ai vizi o per la sua mimesi dei vizi fu ammesso tra i pochi intimi di Nerone, quale arbitro del buon gusto, al punto che il principe niente considerava bello e fine in quel fasto se non quanto Petronio gli avesse approvato. Di qui l’invidia di Tigellino come contro un rivale più forte nella conoscenza dei piaceri. Quindi sollecita la crudeltà del principe, passione cui le altre cedevano il passo, imputando a Petronio l’amicizia di Scevino, non senza avere corrotto uno schiavo perché lo denunciasse e avere tolto all’accusato ogni possibilità di difesa in quanto la maggior parte della servitù era stata gettata in carcere. La sui neglegentia, la noncuranza di sé quale virtù suprema dello stile, viene attribuite dallo storico a questo elegantiae arbiter, maestro di buon gusto alla corte di Nerone, l’imperatore che “nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset”, niente considerava bello e fine in quel fasto se non quanto Petronio gli avesse approvato. Egli, premette Tacito, di giorno dormiva mentre passava la notte tra i doveri e i piaceri della vita, e come gli altri dall’operosità, quest’uomo era stato portato alla rinomanza dall’indolenza, “habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu”, ed era considerato non un dissoluto e un dissipatore, come i più tra quelli che sperperano le proprie fortune, ma uno dalla voluttà raffinata. Petronio peraltro aveva scelto lo stile della semplicità: “Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam, praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur” le sue parole e i suoi 3 atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità1. Ebbene l’ autore del Satyricon, Petronius Arbiter, attraverso l’io narrante Encolpio, considera la propria opera caratterizzata da una straordinaria semplicità “novae simplicitatis opus” (Satyricon, 132, 15). “Che questo Petronio sia il nostro, è più probabile che possibile. Anzitutto c’è il nome, o, per meglio dire, il soprannome. Il personaggio di Tacito è un C. Petronio, conosciuto alla corte di Nerone come l’“arbitro del buon gusto”. Il nostro sia nei titoli dei manoscritti che nelle citazioni dei grammatici è indicato come Petronio Arbitro”.2 Secondo me questo personaggio non solo è l’autore del Satyricon ma è l’inventore o per lo meno il codificatore dello stile della sui neglegentia, la (studiata) noncuranza di sé che caratterizza nei secoli l’aristocrazia europea. Il motto che riassume questo stile potrebbe essere l’affermazione di Pericle: in effetti amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza ( , Tucidide, II, 40, 1). In fondo J. J. Winckelmann non ha fatto che echeggiare questa dichiarazione del Pericle di Tucidide quando ha scritto: “Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione... La nobile semplicità e la quieta grandezza delle statue greche costituiscono il vero segno caratteristico degli scritti greci dei tempi migliori”3. Più avanti Tucidide indica la semplicità come il nutrimento di quell’anima nobile che venne ), fu sancito ogni genere di malizia nel negata dalle guerre civili: a causa di queste ( mondo greco e sparì, derisa, la semplicità cui per lo più la nobiltà partecipa ( , III, 83, 1). Sembra l’elogio funebre della nobiltà che è anche, forse soprattutto, semplicità, ingenuità e schiettezza. che l’Anonimo Sul sublime4 attriUn correlativo stilistico letterario di questa neglegentia è l’ buisce a Omero e ad altri grandi della letteratura come Sofocle, Pindaro, Demostene e Platone. L’autore annovera Omero tra i grandissimi nei quali egli stesso ha rilevato non pochi difetti ( … ) i quali però non sono errori volontari ma piuttosto sviste dovute a casuale ) e prodotte distrattamente dalla loro stessa grandeznoncuranza ( za (33). 1 Insomma, come nel caso di Sofronia della Gerusalemme liberata, “le negligenze sue sono artifici”: “La vergine tra ‘l vulgo uscì soletta, / non coprì sue bellezze, e non l’espose, / raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta, / con ischive maniere e generose. / Non sai ben dir s’adorna o se negletta, se caso od arte il bel volto compose. / Di natura, d’Amor, de’ cieli amici / le negligenze sue sono artifici” (II, 18). Sembra un manifesto del dandy antico. “Il dandismo non è, come molte persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e dell’eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Così, ai suoi occhi, desiderosi sopra tutto di distinzione, la perfezione della toeletta consiste nella massima semplicità, che è, in realtà, il miglior modo di distinguersi” (Ch. Baudelaire, Curiosità estetiche, del 1869, tr. it. in Il sistema letterario, Ottocento, di Guglielmino-Grosser, Principato, Milano 1992, p. 1150) 2 V. Ciaffi, (a cura di) Satyricon di Petronio, Utet, Torino, 1967, p. 56. 3 J. J. Winckelmann, Pensieri sull’imitazione dell’arte greca, p. 32. 4 Sul sublime è un trattato, anonimo appunto, generalmente attribuito a un retore fiorito verso la metà del I sec. d. C. Dovrebbe essere un seguace di Teodoro di Gadara, che ebbe tra gli allievi anche l’imperatore Tiberio. La sua scuola sosteneva l’anomalia e l’elemento patetico che conferisce efficacia persuasiva al discorso. 4 Una morte con stile Il maestro di eleganza della corte neroniana con i suoi successi suscitò l’invidia di Tigellino5 che lo accusò di essere amico di Scevino, uno dei congiurati contro Nerone. Petronio si uccise con la stessa neglegentia con la quale era vissuto: si tagliò le vene, poi le legò di nuovo e le riaprì: “audiebatque referentis nihil de immortalitate animae et sapientium placitis, sed levia carmina et facilis versus. Servorum alios largitione, quosdam verberibus adfecit. Iniit epulas, somno indulsit, ut quamquam coacta mors fortuitae similis esset” (Annales, XVI, 19), ascoltava gli amici che non gli raccontavano nulla sull’immortalità dell’anima né gli riportavano massime filosofiche ma poesie leggere e versi allegri. Tra gli schiavi alcuni premiò, altri fece frustare. Andò a cena e si abbandonò al sonno, affinché la morte, sebbene imposta, sembrasse casuale. “Di solito si osserva che quelle poesie e quei versi ci riportano agli epigrammi di sapore alessandrino contenuti nel Satyricon. Ma bisogna andare più in là. Nella prospettiva degli Annales, i discorsi filosofici o gli argomenti eroici, che il personaggio rifiuta, ci riporta del pari alla morte socratica di Seneca6 o a quella come sul campo di Lucano7. Non interessa sapere se il Petronio di Tacito, suicidandosi a quel modo, abbia voluto o no scherzare sulle pose un po’ scolastiche e retoriche dei due che si erano uccisi l’anno prima… Importa far notare che per Tacito un rapporto tra quei due generi di morte, e un rapporto di contrasto, esisteva, e che egli proprio dal Satyricon, dalle polemiche più o meno esplicitamente in esso contenute, poteva aver tratto l’ispirazione per quella più tragica e definitiva polemica. E direi pure ricavata dal romanzo… la scena in cui Petronio, già aperta la via al sangue, alcuni schiavi gratifica con elargizione, altri con sferzate. C’è un qualche cosa di Trimalcionesco in tutto questo, quasi una volontà di sbalordire con un gioco di contrasti, di mostrare ad un tempo due facce, generosa l’una, spietata l’altra. E, a voler scendere più a fondo, un che di Trimalcionesco, di quel Trimalcione proprio che da vivo fa il morto e per cui vita e morte si risolvono in volontà di potenza e controllo di sé, lo si potrebbe trovare in quel Petronio che si incide le vene, poi a capriccio le lega, e poi le apre di nuovo, quasi a volersi sentire già morto o una volta morto vivo ancora, con gli altri che certo lo piangono, spettacolo più che realtà”.8 “Nulla ci costringe a storcer Petronio a interpretazioni, le quali lo portino via dall’epoca che unica sembra addirglisi; epoca di grandiosità teatrale, di stravagante e grottesco istrionismo, di guizzanti contrasti, di foschi bagliori, di orgia, in cui dominano i saliti in potenza, i miserabili fatti signori, gente d’avventura, di grossolanità e di perversa raffinatezza, i bassi fondi della società 5 Secondo Tacito, come abbiamo visto, Nerone “nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset”, niente considerava piacevole e raffinato in quell’abbondanza, se non ciò che Petronio gli avesse approvato, “unde invidia Tigellini quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem”, di qui l’invidia di Tigellino come contro un rivale più forte nella conoscenza dei piaceri. Nell’incipit dell’Agricola Tacito aveva riflettuto sul vizio dell’invidia in generale, chiamandolo, con l’ignoranza del bene, comune ai piccoli e ai grandi stati: “vitium parvis magnisque civitatibus commune”. In effetti Dante individua questo vizio soprattutto nelle corti: “La meretrice che mai dall’ospizio / di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune, delle corti vizio”, Inferno, XIII, vv. 64-66. A. Schopenhauer in Parerga e paralipomena fa una descri- zione perspicua: “alla gloria dei meriti di alta specie si oppone l’invidia; l’invidia che vi si oppone fin dai primi passi, perfino quando si tratta di meriti di infimo grado e non si ritira fino all’ultimo; perciò appunto l’invidia contribuisce parecchio a peggiorare il corso del mondo, e Ariosto con ragione definisce la vita come questa assai più oscura che serena vita mortal, tutta d’invidia piena (Orlando furioso, IV, 1). L’invidia è appunto l’anima dell’alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi specie” (op. cit., Tomo I, p. 11). 6 Annales, XV, 62 7 Annales, XV, 70. 8 V. Ciaffi, op. cit., p. 58. 7 ammantati di splendore e d’oro. In tal senso gli storici della letteratura discorrono per Petronio di sfondo sociale del I secolo d. C. e più specialmente del tempo di Nerone… Il Satyricon è una potente, tumultuosa rappresentazione della vita secondo lo spirito del primissimo Impero, una visione umana di realistica evidenza, di incisive intuizioni psicologiche, di spregiudicatezza picaresca”.9 Un’opera composita “In un codice miscellaneo del sec. XV, il Traguriensis o Parisinus 7989, gli estratti di Petronio… sono indicati come “frammenti del quindicesimo e sedicesimo libro”.10 Secondo Fellini lo stato frammentario in cui ci è giunta l’opera è la ragione principale del suo fascino: “Il Satyricon è un testo misterioso prima di tutto perché è frammentario. Ma il suo frammentarismo in un certo senso è emblematico. Emblematico del generale frammentarismo del mondo antico quale appare a noi oggi”.11 Dopo il regista sentiamo un disciplinarista di primo livello: “La caratteristica formale più evidente del Satyricon è l’alternanza di brani in prosa e brani in poesia, il cosiddetto “prosimetro”. Gli inserti metrici contrappuntano continuamente la narrazione prosastica e risultano perfettamente integrati nel racconto: continuano l’azione o la commentano, offrendo comunque elementi utili a esplicitarne il significato”.12 Un poco come le parti corali delle tragedie. Nella letteratura italiana il primo prosimetro è la Vita Nuova di Dante. Un altro genere cui è stato detto appartenga il Satyricon è la satira menippea13 che presenta il prosimetro e il travestimento derisorio di situazioni serie. In latino abbiamo frammenti delle Saturae Menippeae di Varrone e l’Apokolokyntosis14 di Seneca, l’inzuccamento del divo Claudio, ossia la derisione continua dell’imperatore morto, presentato come brutto, scemo e crudele. Interessanti sono alcune considerazioni di M. Bachtin sulla satira menippea che il critico russo (1895-1975) considera parte della “letteratura carnevalizzata”.15 9 G. Funaioli, Studi di letteratura antica, Zanichelli, Bologna, 1947, p. 114. 10 V. Ciaffi, op. cit., p. 9. 11 F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980, p. 101. Il regista di Rimini in un altro libro racconta: “Durante la convalescenza dalla pleurite allergica avevo riletto Petronio ed ero rimasto affascinato da un particolare che prima non avevo saputo notare: le parti mancanti, cioè il buio, fra un episodio e l’altro. Già a scuola, quando si studiavano i prepindarici, avevo cercato di riempire con l’immaginazione il vuoto fra i vari frammenti... quella faccenda dei frammenti mi affascinava davvero. Mi colpiva l’idea che la polvere dei secoli avesse conservato il battito di un cuore ormai spento. Mi fece pensare alle colonne, alle teste, agli occhi mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografia cimiteriale dell’Appia antica o in generale ai musei archeologici” (Intervista sul cinema, Laterza, Bari 1987, p.). 12 G. B. Conte, Scriptorium Classicum, Le Monnier, Firenze 2001, vol. 6, p. 9. 13 Denominazione dovuta al filosofo cinico Menippo di Gadara, del III secolo a. C. 14 54 d. C., anno della morte dell’imperatore Claudio. 15 M. Bachtin, Dostoevskij, tr. it. Einaudi, Torino 1968, pp. 147 sgg. Bachtin ascrive a questo tipo di letteratura “il dialogo socratico” il quale “come genere determinato ebbe vita breve, ma nel suo processo di disgregazione si formarono altri generi dialogici, tra cui la satira menippea. Ma non la si può, naturalmente, considerare come un puro prodotto della decomposizione del “dialogo socratico” (come a volte si fa) poiché le sue radici affondano direttamente nel folclore carnevalesco...”. Un nesso tra il dialogo socratico-platonico e il romanzo viene suggerito anche da Nietzsche: “il dialogo platonico fu per così dire la barca su cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature: stipate in uno stretto spazio e paurosamente sottomesse all’unico timoniere Socrate, entrarono ora in un nuovo mondo, che non poté mai saziarsi di guardare la fantastica immagine di questo corteo. Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d’arte, il modello del romanzo: questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico simile a quello in cui per molti secoli la stessa filosofia ha vissuto rispetto alla teologia, cioè come ancilla. Questa fu la nuova posizione della poesia, in cui Platone la spinse sotto la pressio- 8 Niente altro che una satira menippea sviluppata fino ai limiti del romanzo è il Satyricon di Petronio... La satira menippea “divenne uno dei principali portatori del sentimento carnevalesco nella letteratura fino ai nostri giorni... La satira menippea è caratterizzata dalla eccezionale libertà di invenzione narrativa e filosofica... La particolarità più importante del genere della menippea è che la più audace e sfrenata fantasia è qui internamente motivata, giustificata, illuminata da un fine puramente filosofico-ideale: quello di creare situazioni eccezionali per provocare e sperimentare l’idea-parola filosofica, la verità, impersonata nella figura del saggio che cerca questa verità. Sottolineiamo che la fantasia serve qui non per la incarnazione positiva della verità, ma per la sua ricerca, provocazione e, soprattutto per la sua sperimentazione… A questo fine i personaggi della satira menippea salgono in cielo, scendono agli inferi, visitano la luna, vagano attraverso paesi assolutamente fantastici, si trovano in situazioni di vita eccezionaliCaratteristico della menippea è il largo uso di generi inseriti: novelle, lettere, orazioni, simposi ecc.; è caratteristica la mescolanza di discorso in prosa e in versi…”.16 Altra componente riconoscibile in questa “miscela originalissima di forme letterarie”17 è la fabula milesia, ossia la novella licenziosa introdotta nelle lettere latine in età sillana da Cornelio Sisenna che tradusse i di Aristide di Mileto (II sec. a. C.). Appartengono a questo genere la storia del fanciullo di Pergamo (85-87) e quella della “Matrona di Efeso” (111-112), di cui ci occuperemo più avanti. “In conclusione, credo che ormai si debba ammettere che i rapporti con la fabula Milesia e con la satira menippea individuano e privilegiano solo due componenti del romanzo: la mescolanza di prosa e versi da un lato e il carattere licenzioso e dissacratorio di alcune novelle dall’altro. Nonostante l’indubbia importanza di tali componenti, né l’una né l’altra ci aiutano a decifrare il romanzo nel suo complesso. C’è da chiedersi, addirittura, se il titolo stesso del romanzo di Petronio non sia una creazione posteriore di chi volle sottolineare un rapporto privilegiato proprio con la satira menippea.18 Paolo Fedeli insiste sul rapporto tra epos e romanzo che ne raccoglie la successione quasi come un figlio: “Già in Hegel, dall’Estetica ai Lineamenti di filosofia del diritto, la nascita del romanzo moderno s’identifica con la definitiva scomparsa dell’epos ed è necessaria conseguenza del succedersi delle epoche universali”19. Leggiamo qualche parola di Hegel che definisce il romanzo “la moderna epopea borghese”. Il filosofo dell’idealismo mette in luce analogie e diversità tra epica e romanzo: “Qui ricompare da un lato la ricchezza e la multilateralità degli interessi, delle condizioni, dei caratteri, dei rapporti di vita, il vasto sfondo di un mondo totale ed insieme la manifestazione epica di avvenimenti. Quel che manca è però la condizione del mondo originariamente poetica da cui si origina l’epos vero e proprio. Il romanzo nel senso moderno presuppone una realtà già ordinata a prosa, sul cui terreno più appariscente che ne caratterizza la struttura: l’alternanza di prosa e versi. Alla luce, però, dei recenti ritrovamenti papiracei (il cosiddetto romanzo di Iolao), che hanno mostrato come il prosimetrum fosse adottato – non solo sotto forma di citazione dotta – anche nel romanzo greco, è possibile recuperare anche per questo aspetto una linea di continuità fra la produzione romanzesca ellenistica e quella petroniana: ciò ci permette di risalire in modo ancora più agevole al grande archetipo del romanzo d’amore, d’avventura e di viaggi, costituito dall’Odissea”. 19 op. cit., p.. 346. ne del demonico Socrate” (La nascita della tragedia, p. 95). 16 M. Bachtin, op. cit., 149. 17 G. B. Conte, Scriptorium Classicum cit., p. 9 18 P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, Salerno, Roma 1993, vol I, p. 348. La tradizione manoscritta di Petronio – continua Fedeli – oscilla fra Petronii Arbitri Satyricon, Petronii Arbitri Satirarum libri, Petronii Arbitri satyri fragmenta, Satirici libri. Su tutti i titoli grava il sospetto di formulazione non originaria, proprio perché tutti inquadrano in un genere letterario, la satira menippea, l’opera petroniana: in tal modo si sarà pensato di giustificare il fenome- 9 no esso, nella propria cerchia e riguardo sia alla vivacità degli avvenimenti che agli individui e al loro destino, cerca di ridare alla poesia, nei limiti in cui ciò è possibile con i presupposti dati, il diritto da lei perduto. Perciò una delle collisioni più comuni e più adatte per il romanzo è il conflitto della poesia del cuore con la prosa contrastante dei rapporti e l’accidentalità delle circostanze esterne”.20 Un itinerario di lettura Per il nostro lavoro non ha troppa importanza definire il genere di appartenenza di questo lungo e splendido frammento; comunque possiamo dire che nel Satyricon compaiono, parodiati, diversi temi presenti nel romanzo greco. Molti di questi risalgono all’epos21, in particolare alla madre di tutti romanzi, che è l’Odissea: per esempio la separazione degli amanti i quali poi si riuniscono. Nel romanzo ellenistico si tratta di due giovani di sesso diverso, mentre qui, nel travestimento derisorio del poema omerico fatto da Petronio, c’è un “triangolo” omosessuale; nell’Odissea c’è l’ira divina che perseguita il protagonista; ebbene la collera del nume nella parodia di Petronio diventa la gravis ira Priapi (139), ossia del dio dell’erezione, un dio grande, forse il più grande dell’opera, il quale provoca l’impotenza del personaggio principale, Encolpio. Il triangolo amoroso del Satyricon è formato da due giovani avventurieri non digiuni di lettere22: Encolpio, il personaggio narrante, uno scholasticus come si è detto, un frequentatore di scuole, Ascilto, più rozzo e spregiudicato, e da un ragazzino sedicenne Gitone conteso dai due.23 “Petronio, con questi suoi personaggi, e con l’irrefrenabile dinamismo del suo narrare, anticipa per un verso le figure dei medievali clerici vagantes, o intellettuali vagabondi, dall’altro il romanzo picaresco24 spagnolo. Ma il suo romanzo possiede una carica erotica intensa, che può raggiungere l’oscenità, sempre riscattata, tuttavia, da una girandola di trovate linguistiche, o dall’improvviso verificarsi di eventi che stemperano nella beffa, nell’ironia e talvolta nella malinconia la crudezza del contesto”.25 Noi andremo cercando i brani collegabili al tema dell’amore, in particolare dell’amore adulte- 20 G. W. F. Hegel, Estetica, tr. it., Einaudi, Torino 1992, Tomo II, p. 1447. 10 Fine della cultura Contro l’eloquenza bolsa All’inizio del testo che ci è arrivato (il libro XV quasi completo con la Cena Trimalchionis, e parti del XIV e del XVI su un totale di 20 o 24 libri, come l’Odissea) troviamo una discussione nel portico di una scuola tra Encolpio e il retore Agamennone sulle cause della corruzione dell’eloquenza. Encolpio denuncia la separazione della scuola dalla vita: “et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes, quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed mellitos verborum globulos et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa” (1, 3), e perciò io penso che i ragazzi nelle scuole diventino stupidissimi, poiché niente ascoltano o vedono di quello che è utile nella vita, ma pirati che stanno in agguato sulla spiaggia con le catene, ma tiranni che scrivono editti con i quali ordinano ai figli di tagliare le teste dei loro padri, ma responsi dati contro la pestilenza che si sacrifichino tre vergini o più, ma polpette di parole tonde e mielate e tutte le espressioni e le azioni quasi condite di papavero e sesamo. è la critica della scissione tra letteratura e vita che si ritrova in Marziale: “Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyasque / invenies: hominem pagina nostra sapit” (X, 4), non qui troverai Centauri, Gorgoni e Arpie: la nostra pagina sa di uomo. “Controluce questo negativo rivela un positivo petroniano: “Io penso che questi ragazzi a scuola si rimbecilliscono perché non odono né vedono nulla di ciò che abbiamo sottomano”. è un j’accuse in nome della concretezza e del realismo, il nocciolo della poetica petroniana”1. L’hominem di Marziale può essere avvicinato alla prima parola dell’Odissea, anche se è come significato specifico più assimilabile a virum. Petronio, epicureo, atticista e classicista, dichiara che la vita contiene situazioni più interessanti di tutte le scuole di retorica. “Petronio è pittore del vero, e ridà l’accento stesso della vita degli umili divenuti grandi; la saporosa loquela di ogni giorno, sciolta dalle rigide leggi della scuola, la ridà adattata ai temperamenti e alla cultura degli interlocutori del romanzo, con una festività, una lepidezza, una proprietà, una efficacia che sono una meraviglia. Non egli parla: fa parlare”2. Il discorso di Encolpio infatti è anche un rifiuto del retoricume stucchevole e oblioso. “Tutta retorica. Vesciche piene d’aria”3. In particolare Encolpio mette sotto accusa il cattivo gusto dello stile asiano grasso e bolso, dando voce all’atticismo di Petronio: “qui inter haec nutriuntur, non magis sapere possunt, quam bene olere qui in culina habitant. pace vestra liceat dixisse, primi omnium eloquentiam perdidistis. levibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet” (2, 2), quelli che vengono nutriti in mezzo a questi banchetti, non possono avere un gusto migliore del profumo di 1 Luca Canali, op. cit.., p. 4. 2 G. Funaioli, op. cit., p. 14. 3 J. Joyce, Ulisse, tr. it., Mondadori, Milano, p. 172. 13 quelli che abitano in cucina. Con vostra pace mi sia concesso di avere affermato che voi per primi avete rovinato l’eloquenza. Infatti con suoni leggeri e vani, suscitando certi giochi di parole, avete fatto in modo che il corpo dell’orazione si afflosciasse e cadesse4. Quindi Encolpio mette sotto accusa il tipo dello studioso, estraneo alla vita, lo stesso che Nietzsche definirà “l’eterno affamato, il ‘critico’ senza piacere e senza forza, l’uomo alessandrino, che è in fondo un bibliotecario e un emendatore, e si acceca miseramente sulla polvere dei libri e degli errori di stampa”5. Il protagonista del Satyricon lo contrappone ai grandi tragici: “nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. et ne poetas solum ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video” (2, 3-5), ancora i giovani non erano chiusi nelle vuote declamazioni, quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c’era ancora un erudito cresciuto nell’ombra a scempiare gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici6, si peritarono a cantare in versi omerici. E per non far venire solo i poeti come testimoni, di certo non trovo che Platone né Demostene si sono abbassati a questo genere di esercitazione7. Lo stile deve risaltare non per gli orpelli ma per una sua bella naturalezza: “grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit” (2, 6), l’orazione grande e, per così dire, pura, non è chiazzata né enfatica ma si eleva per bellezza naturale. L’orazione insomma non deve essere truccata né artefatta, come non deve esserlo la donna8. “In una narrazione che dal grosso e pingue realismo ascende via via fino al terribile non esistono gonfiatezze; legge sua è l’eleganza, la vigile misura, e la legge sta scritta a caratteri indimenticabili in principio (2 6): grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit. Qui è il rovescio della letteratura convenzionale. Petronio, questo meraviglioso ascoltatore e contemplatore del reale umano, reagisce contro la negazione sotto i primi Cesari affermatasi del buon senso e del buon gusto, contro il vuoto delle lettere, contro “il vanissimo strepito delle parole”, contro “le bollicine melate di frasi e i detti e i fatti quasi sparsi di sesamo e papavero”9. 4 è questo il correlativo stilistico dell’ira di Priapo. situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat”(Institutio oratoria, I, 2, 18), prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno. Il maestro pallido desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo. Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano: “puah!, quei furfanti, ho capito. Tu dici quelle facce pallide, gli scalzi” ( ! ' & $ ! & &" " ( & ! & ! &, Nuvole, vv. 102-103). 8 Si può pensare alla storia di Eracle al bivio riportata dai Memorabili di Senofonte (II, 1, 21-34) 9 G. Funaioli, op. cit. p. 114. Infatti si può dire della bellezza quanto Sofocle afferma della ! in uno dei versi conclusivi dell’Antigone: la verità è sempre una cosa dritta ( ! ' !, v. 1195). Nel prologo dell’Edipo re (v.39) il sacerdote chiede aiuto al sovrano contro la peste e la sterilità, sia della terra sia delle donne, in quanto, afferma, sei detto e sei ritenuto quello che ci ha raddrizzato la vita ( ! !$ ' " ! ). 5Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. it. Adelphi, Milano, 1977, p. 123. 6 Il canone alessandrino dei nove lirici più importanti comprendeva Saffo, Alceo, Anacreonte (lirica monodica), Simonide, Bacchilide, Pindaro, Alcmane, Stesicoro, Ibico (lirica corale); quasi tutti poeti d’amore e maestri dei latini. 7 Anche Quintiliano vuole escludere l’ombra, la solitudine e la muffa dall’educazione del ragazzo che sarà un buon oratore: “Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reform?dare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco 14 Secondo Funaioli tale reazione non può essere più tarda del primo impero: “Una così sana reazione nel III secolo? Ma c’è in quell’età che abbia in genere qualche vena e senso di scrittore nel mondo pagano? C’è fra gli Italici già dopo Tacito e Giovenale o, se piace, anche Svetonio, una fibra così vigorosamente individuale di artista, quando alla poesia o alla prosa del gentilesimo sono inaridite le interne fonti dell’essere? Il disorientamento, si sa, è già vasto da Adriano in poi; da allora, nella poesia e nella prosa, è grettezza, angustia di purismo letterario, pedanteria, imitazione, disfacimento: almeno fra gli Italici, ché in provincia nuove energie si annunziano con Apuleio, poi sboccanti nel cristianesimo. Non a caso l’unico che avesse da dire qualcosa di suo e di sentito nella Roma del II secolo, M. Aurelio, scrisse in greco, nella lingua in cui meglio oramai si esprimevano le correnti ideali etiche e religiose avviatrici di quella fede che di lì a poco trasformò le anime e le lettere”10. “Si era caduti dall’antica grandezza, poiché ci si era discostati dall’imitazione dei classici: tesi puristica, che è poi quella di un Seneca il Retore e di un Quintilano. Oppure, passando dai pregiudizi letterari a quelli morali, poiché ci si era allontanati dall’antica virtù e ci si era immersi nella crapula: e in proposito da Catone in poi c’è tutta una letteratura. O infine, trasferito il problema dalla terra al cielo, poiché gli uomini non erano più religiosi11: e qui i termini di confronto sono Persio e Giovenale”12. Le retorica asiana aveva già ricevuto critiche, pur blande, dallo stesso Cicerone “rodiese” il quale sostiene che l’eloquenza, lasciata Atene13, andò peregrinando per tutta l’Asia, e da questa contaminazione derivarono gli “Asiatici oratores non contemnendi quidem nec celeritate nec copia, sed parum pressi et nimis redundantes” (Brutus, 51), gli oratori dell’indirizzo asiano, non trascurabili certo, per quanto riguarda la vivacità e la facondia, ma poco concisi, e sovrabbondanti. Migliori dunque i Rodiesi e più simili agli Attici: “Rhodii saniores et Atticorum similiores”. Molto più critico verso la retorica asiana è Dionisio di Alicarnasso. Lo storiografo e maestro di retorica trasferitosi a Roma nel 30 a. C. nello scritto Sui retori antichi condanna l’eloquenza del tempo successivo ad Alessandro Magno considerata insopportabile per la teatralità: “l’eloquenza misia o frigia, l’etera venuta di recente da taluni fondi dell’Asia”, riuscì a scacciare la moglie legittima, ossia l’eloquenza attica (1-3). Su questa linea di condanna si trova Encolpio: “Nuper ventosa haec et enormis loquacitas Athenas ex Asia commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere adflavit, semelque corrupta regula, eloquentia stetit et obmutuit. Ad summam, quis postea, Thucydidis, quis Hyperidis ad famam processit?” (2, 7-8), poco fa questa colossale logorrea piena di vento è tornata ad Atene dall’Asia e ha soffiato, come da un astro latore di morbi, sugli animi dei giovani che si alzano verso le cose grandi, e una volta corrotti i princìpi, l’eloquenza si arrestò e ammutolì. Insomma chi, dopo questo, si avvicinò alla fama di Tucidide, chi di Iperide?14. 10 ibidem. 11 Cfr. 44, 18: “quia nos religiosi non sumus, agri iacent”, poi- Demostene Per la corona (330 a. C.). 14 Oratore ateniese coetaneo di Eschine, fu con Demostene nel partito antimacedone. Fu fatto uccidere da Antipatro nel 322 a. C. Viene ricordato da Cicerone tra gli oratori capaci di parlare atticamente (attice dicere) entusiasmando il pubblico, con Pericle, Eschine e soprattutto Demostene (Brutus, 290). ché non abbiamo religione, i campi sono abbandonati. 12 V. Ciaffi, op. cit., p. 49. 13 Con allusione a Eschine: l’oratore ateniese andò in esilio a Rodi dopo che la sua orazione pronunciata Contro Ctesifonte, il quale aveva proposto una corona di merito a Demostene, fu respinta dai giudici favorevoli a quella di 15 Anche la poesia è decaduta: “ac ne carmen quidem sani coloris enituit sed omnia quasi eodem cibo pasta non potuerunt usque ad senectutem canescere” (2, 8), e neppure la poesia brillò del colore della salute ma tutte le opere alimentate per così dire dal medesimo cibo non riuscirono a incanutire fino alla vecchiaia. Nel paese guasto l’alimento della scuola, della poesia, della vita non può che essere avariato e quindi la corruzione è diffusa dappertutto. Infine la pittura, argomento sul quale Petronio tornerà: “pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit” (2, 9), anche la pittura non ha avuto risultato diverso dopoché la sfrontatezza degli Egiziani ha trovato la scorciatoia di un’arte tanto grande15. Notiamo il biasimo dell’audacia che nei tradizionalisti non manca mai. “Certo che sul piano delle idee, se non della scrittura, Petronio è un uomo d’altri tempi. L’alessandrinismo per lui è già del tutto al di qua della barriera. Per le lettere il problema non è toccato, ma lo è invece per la pittura, quando egli, per bocca di Encolpio, parla con disprezzo della pittura degli egittizzanti, con allusione scoperta al terzo stile pompeiano, e di una scorciatoia per l’arte, che attraverso un luogo di Plinio il Vecchio su Filosseno si riferisce chiaramente a quel periodo delle arti figurative. E la pittura, l’alessandrina, è paragonata all’oratoria che con essa fiorì, quella asiana, negata in blocco sempre da Encolpio nella sua violenta requisitoria in proposito e scusata solo sul piano della convenienza da Agamennone nella sua replica. E altrettanto per la poesia, ché nei riguardi della polemica più viva e recente, quella tra Lucano e Virgilio, egli, intermediario Eumolpo, tiene le parti del secondo. Né tuttavia della decadenza egli cerca una spiegazione storica e concreta, al modo dell’autore del “Sublime” o di quello del “Dialogo”16. 15 La tecnica compendiaria viene di solito attribuita al cosidetto terzo stile pompeiano. Si può vedere un esempio di tale tecnica nella casa dei Vettii (poco prima della metà del I sec. d. C.). “Non bisogna confondere, come spesso s’è fatto, questa pittura compendiaria, cioè rapida ed evocativa, con il moderno impressionismo, che tende a rendere con assoluta immediatezza un’emozione visiva. Consideriamo, scegliendo a caso, il gruppo di Ermafrodito e Sileno, nella casa dei Vettii. Il discorso pittorico è rapido, ha una cadenza accentata, vivace; ma scorre su uno schema del tutto convenzionale. è una pittura a macchia… Nel giardino della Villa di Livia a Roma ( metà del I sec. d. C.), si ha un “inventario” di piante, raffigurate a memoria: il pittore conosce la forma di ogni singolo albero o arbusto e la descrive con sicurezza; ma ciò che viene precisato con rapidi tratti di colore non sono le cose che l’artista vede, bensì le nozioni che ha di esse. Non dunque lo spettacolo della natura, ma le immagini della mente prendono forma e si fanno evidenti nell’arte; e la tecnica rapida e per cenni, compendiaria, non è una tecnica creata per rendere con immediatezza le emozioni visive ma per tradurre visivamente quelle immagini. Si spiega così come questa tecnica diventi anche più rapida e intensa nella pit- tura cristiana delle catacombe, le cui immagini puramente simboliche non hanno alcun rapporto con la realtà oggettiva” (G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, La Nuova Italia, Firenze 1958, vol. 1, p. 161). è insomma una pittura lontana dal realismo rimpianto da Encolpio. “Anche nel ritratto si parte da “tipi”… Nelle tavolette che, tra I e V secolo, si ponevano in Egitto sulla mummia nei sarcofagi (detti ritratti del Fayum), la persona è rappresentata per lo più frontalmente, con grandi occhi spalancati per dare l’idea della vita; ma solo l’accentuazione di qualche tratto fisionomico richiama la figura reale del defunto. è, come si vede, un procedimento che non parte dal “vero” ma, muovendo dall’idea o dal tipo, tende ad accostarsi al vero: un procedimento, cioè, che va dal generale al particolare senza tuttavia implicare una presa diretta del reale” (G. C. Argan, op. cit., p. 162.). Fra tali ritratti viene mostrato quello di Paquio Proculo e sua moglie che provenie da una casa di Pompei e risale al I sec. d. C. 16 V. Ciaffi, op. cit. p. 48. Vedremo più in là le spiegazioni dell’Anonimo e di Tacito. Più avanti Ciaffi torna sull’argomento per avallare la datazione neroniana del Satyricon: “Nel primo episodio del racconto, quello della 16 Contro l’educazione snervata Quindi il maestro di retorica Agamennone parla, da esperto, dello stato, non buono, della scuola. Egli è uno che nella scuola ha sudato (ipse in schola sudaverat, 4, 1). La colpa della decadenza secondo lui è degli allievi e dei loro genitori, non dei maestri qui necesse habent cum insanientibus furere (3, 2), i quali sono costretti a delirare con i pazzi e, per avere uditori, devono assecondare i ragazzi. “Nam nisi dxerint quae adulescentuli probent, ut ait Cicero, “soli in scholis relinquentur”17. sicut ficti adulatores cum cenas divitum captant, nihil prius meditantur quam id quod putant gratissimum auditoribus fore: nec enim aliter impetrabunt quod petunt, nisi quasdam insidias auribus fecerint”(3, 2-3), infatti se non avranno detto quello che i ragazzi probabilmente approvano, come dice Cicerone, “verranno lasciati soli nelle scuole”. Come i parassiti adulatori delle commedie, quando danno la caccia alle cene dei ricchi, niente pensano prima di ciò che ritengono sarà graditissimo agli ascoltatori: né infatti otterranno ciò che agognano in altro modo se non avranno teso qualche trabocchetto alle orecchie.18 Quindi il maestro di eloquenza, continua Agamennone, deve fare come il pescatore se vuole catturare l’attenzione dei giovani: “sic eloquentiae magister, nisi tamquam piscator eam imposuerit hamis escam, quam scierit appetituros esse pisciculos, sine spe praedae morabitur in scopulo” (3, 4), se, come un pescatore non avrà messo sugli ami l’esca di cui sappia che i pesciolini avranno appetito, si attarderà sullo scoglio senza speranza di preda. Viene in mente l’immagine di Musil: “viveva con la disperata ostinazione di un pescatore che getta le sue reti in un fiume asciutto”19. Anche i genitori sono meritevoli di rimproveri di un maestro abituato a “insudare molto nelle cose”20: “parentes obiurgatione digni sunt, qui nolunt liberos suos severa lege proficere” (4, 1) poiché non vogliono che i loro figli migliorino con una dura disciplina. Secondo Agamennone i genitori, resi troppo frettolosi dall’ambitio, non concedono agli studi dei figli i lunghi tempi necessari alla formazione di una buona cultura e di buoni oratori: “primum enim sic ut omnia, spes quoque suas ambitioni donant. deinde cum ad vota properant, cruda adhuc studia in forum impellunt et eloquentiam, qua nihil esse maius confitentur, pueris induunt adhuc nascentibus. quod si paterentur laborum grascuola di retorica, l’esercitazione pronunziata da Encolpio e la risposta a lui rivolta dal maestro si concentrano intorno a un problema, crisi dell’eloquenza e sue cause, che è tipico della società intellettuale del I sec., dall’anonimo autore del “Sublime” a Quintiliano (che scrisse un De causis corruptae eloquentiae, perduto), da Quintiliano all’autore del “Dialogo”. Ma il tempo tanto più si delimita, se dall’eloquenza passiamo alla poesia. La requisitoria pronunziata da Eumolpo in via per Crotone contro il nuovo indirizzo anti-virgiliano dell’epica, che sacrifica il mito alla storia, non si può che riferire a Lucano... Né altra è la determinazione cronologica, se passiamo dalla letteratura alle arti figurative. Encolpio, sulla fine della dissertazione da cui siamo partiti, dopo aver detto che con una scuola del genere non ci sono più né oratori né storici né poeti, aggiunge: “Ed anche la pittura non finì altrimenti, da quando gli egittizzanti con la loro improntitudine trovarono una scorciatoia per tanta arte” (2, 9). Ora questa “improntitudine degli egittizzanti”, che ridusse la via dell’arte a una “scorciatoia”, mi sembra corrispondere al terzo stile di Pompei, che a Pompei si chiuse, proprio nella regione della città greca, con il terremoto del 63, e che anche noi chiamiamo egittizzante, perché vi dominano elementi orna- mentali tolti dal repertorio di quell’ambiente geografico e culturale, quali fiori di loto e papiro, motivi a volute, teste di sfinge, ecc.” (op. cit., pp. 54-55). 17 Nella Pro Caelio del 56 a. C. Cicerone critica il rigorismo etico del primo stoicismo scrivendo precisamente: “Illud unum derectum iter ad laudem cum labore qui probaverunt prope soli iam in scholis sum relicti” (41), coloro che sostennero quell’unico percorso diretto alla gloria con la fatica, sono rimasti quasi soli nelle scuole. 18 Altrettanto si potrebbe dire della televisione-spazzatura di oggi. Qui si vede che la vita imita la commedia, secondo la constatazione di O. Wilde: “la vita imita l’arte assai più di quanto l’arte imiti la vita… Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica” (La decadenza della menzogna, in Oscar Wilde, Opere, p. 224). Ai giorni nostri la vita, quella dei più, imita la televisione che fornisce modelli sconci. 19 L’uomo senza qualità, cit., p.247. 20 Cfr. Machiavelli, Il principe, par. 25. 17 dus fieri, ut studiosi iuvenes lectione severa irrigarentur, ut sapientiae praeceptis animos componerent, ut verba atroci stilo effoderent, ut quod vellent imitari diu audirent, <ut persuaderent> sibi nihil esse magnificum, quod pueris placeret: iam illa grandis oratio haberet maiestatis suae pondus” (4, 2-3), per prima cosa infatti sacrificano all’ambizione, come ogni altra cosa, anche le proprie speranze. Poi, siccome si affrettano verso i desideri, spingono nel foro talenti ancora acerbi e fanno indossare a ragazzini nemmeno nati del tutto l’eloquenza di cui pure riconoscono che non c’è nulla di più grande. Se lasciassero, dico, che si scalassero i gradini della fatica, in modo che i giovani desiderosi di cultura si innaffiassero di letture serie e ordinassero le menti con le regole della sapienza, e scavassero le parole con penna inesorabile, e ascoltassero a lungo quello che vogliono imitare, e si convincessero che niente di ciò che piace ai ragazzi è magnifico; allora quella grande oratoria avrebbe il peso della sua maestà.21 Insomma il maestro sudato ripete l’antica regola esiodea: davanti al valore gli dèi hanno posto il sudore (Opere, 289).22 I giovani non sono più sottoposti a prove severe e non c’è abbastanza disciplina: “nunc pueri in scholis ludunt, iuvenes ridentur in foro, et quod utroque turpius est, quod quisque<puer> perperam didicit, in senectute confiteri non vult” (4, 4), ora i ragazzi nelle scuole giocano, da giovani fanno ridere nel foro, e cosa che è più vergognosa di entrambe queste, quello che ciascuno da ragazzo ha imparato male, in vecchiaia non vuole ammetterlo. Non è una severità fine a sé stessa.23 Quel che bisogna evitare è che i ragazzi si abituino a non prendere niente sul serio, altrimenti c’è il rischio che trovino irrisori o insignificanti i sentimenti, 21 Il poeta Eumolpo, molto più avanti, afferma la medesima necessità di una cultura letteraria assai ampia e profonda per il raggiungimento di risultati significativi: “ceterum neque generosior spiritus vanitatem amat, neque concipere aut edere partum mens potest nisi ingenti flumine litterarum inundata” (118, 3), del resto uno spirito di razza non ama il vuoto, né una mente può concepire o produrre un’opera se non è inondata dall’ampio fiume della letteratura. La polemica verte contro le velleità dei dilettanti pressocché improvvisatori. è questo un discorso specifico sulla poesia che richiede comunque grande disciplina: i modelli sono Omero, i lirici, Virgilio e la curiosa felicitas (118, 5) l’accurata fecondità di Orazio. Chiunque vorrà comporre un’opera impegnativa come le guerre civili “nisi plenus litteris, sub onere labetur” (118, 6), se non sarà colmo di cultura letteraria, cadrà sotto il peso. Perciò non si devono presentare i fatti della storia con veste metrica, ma ci vuole ispirazione e capacità trasfigurativa. I gusti di Petronio “in letteratura sia latina che greca sono classici: la sua critica a Lucano e al Bellum civile stesso indicano che è un ammiratore ortodosso della pratica poetica di Virgilio” (J. P. Sullivan, op. cit., p. 81). Eumolpo in questo capitolo in effetti indica come modelli Omero e i lirici Virgilio e Orazio e prescrive: “curandum est ne sententiae emineant extra corpus orationis expressae” (118, 5), bisogna evitare che le sentenze risaltino staccate dall’insieme della composizione. La frase staccata dall’insieme caratterizza lo stile della decadenza: poiché “la vita borghese è micrologia, visione analitica e riduttiva nella quale l’esistenza non fa più balenare un senso globale che la illumini e le dia valore… Come per Nietzsche e Musil la vita non dimora più nella totalità, un’anarchia dei singoli atomi corrode le grandi unità del discorso e dell’esistenza, ogni particolare acquista autonomia a spese del tutto” (C. Magris, L’anello di Clarisse, Einaudi, Torino 1984, p. 191 e p. 195). Insomma “L’arte deve soprattutto e innanzitutto abbellire la vita, cioè rendere noi stessi sopportabili e se è possibile graditi agli altri: con questo compito davanti agli occhi, essa ci modera e tiene a freno, crea forme di relazione, lega i non educati a leggi di convenienza, di pulizia, di cortesia, del parlare e tacere a tempo giusto. Poi l’arte deve nascondere o trasformare nell’interpretazione tutto ciò che è brutto... e far brillare ciò che è significativo di fra ciò che è inevitabilmente o invincibilmente brutto”. (F. Nietzsche, Umano troppo umano, tr. it., Mondadori, Milano 1978, vol II, p. 64). 22 La stessa "! si trova nell’Elettra di Sofocle quando la protagonista dice alla sorella Crisotemi: “bada che senza sforzo faticoso nessuna impresa ha successo” ( % ! " & , v. 945). La troviamo nella favola di Eracle al bivio, riportata nei Memorabili di Senofonte da uno scritto di Prodico di Ceo: la Virtù dice al giovinetto che nessuna delle cose belle e buone concedono gli dèi agli uomini senza fatica e impegno ( " " " " ! ! & ! "! &, II, 1, 28) . Nell’Operetta morale di Leopardi Il Parini ovvero della gloria (del 1824) il poeta del Giorno avverte un giovane discepolo che pochissimi saranno in grado di ammirarlo: “quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta”. 18 le idee, i princìpi o addirittura la stessa vita. Agamennone conclude la sua arringa con un esempio di improvvisazione, del resto elaborata, in coliambi. In questa ribadisce la necessità di una disciplina austera e di impiegare come esempi i maestri sommi, ossia Omero, Demostene e Cicerone. Quest’ultimo è indicato quale modello non certo in quanto oratore accusato di asianesimo: Quintiliano ci fa sapere che alcuni contemporanei lo accusavano di essere “tumidiorem et Asianum et redundantem et in repetitionibus nimium” (Inst. XII, 10, 12), troppo enfatico e Asiano e ridondante ed eccessivo nelle ripetizioni. Il Cicerone esemplare “sembra quello espresso nell’Orator e nel De optimo genere oratorum, che supera la controversia asianico-atticista e preferisce la teoria dello stile piano, elevato e intermedio, ciascuno adatto a tipi diversi di argomenti o per produrre effetti diversi”.24 Anche Petronio, vedremo, usa diversi sermones, l’urbanus o il plebeius, variando lo stile a seconda di chi pronuncia il discorso. 23 Per la necessità della disciplina e contro la mollezza nella scuola e nell’educazione in generale si schiera anche Quintiliano: “Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis [=omnes] mentis et corporis frangit. Quid non adultus concupiscit, qui in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit, iam cocum intellegit, iam conchylium poscit” (Inst., I, 2, 6), quella molle educazione che chiamiamo indulgenza, spezza tutte le forze della mente e del corpo. Che cosa non desidera da adulto quello che si trascina nella porpora? Ancora non pronuncia le prime parole, già capisce il cuoco, già esige le ostriche.- mollis educatio: sembra ricordare il già diverse volte citato: ! & di Tucidide ( II, 40, 1). Educazione severa non significa però botte ai bambini: “Caedi vero discentes…minime velim. Primum quia deforme atque servile est et certe, (quod convenit, si aetatem mutes), iniuria est (Inst., I, 8, 13), non vorrei che gli scolari venissero battuti. Prima di tutto poiché è cosa brutta e da schiavi e certamente, (cosa che è adatta se cambi l’età) è un’offesa. I bambini devono essere trattati con riguardo: “in aetatem infirmam et iniuriae obnoxiam nemini debet nimium licere” (I, 8, 17), a nessuno deve essere consentito troppo nei riguardi di un’età debole ed esposta alle offese. Lo stesso, e ancora di più in Giovenale: “Maxima debetur puero reverentia” (XIV, 47), massimo rispetto si deve al ragazzo. Quindi finché giocano non c’è nulla di male, anzi il gioco tante volte si addice alla paideia: “lusus hic sit” (Inst., I, 1, 20) sia questo un gioco consiglia Quintiliano a proposito dei primi passi dell’educazione. Oppure il gioco si pratichi nell’intervallo: “Danda est tamen omnibus aliqua remissio”, bisogna dare comunque a tutti un poco di riposo. E, poco più avanti: “Nec me offenderit lusus in pueris; est et hoc signum alacritatis…Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. Mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt” (I, 3, 10-12), né mi dispiacerebbe il gioco nei ragazzi; è anche questo un segno di vivacità... Ci sono anche alcuni giochi non inutili ad acuire gli ingegni, quando, postisi vicendevolmente dei piccoli quesiti di ogni genere, fanno a gara. Anche i caratteri si scoprono in maniera più diretta nel gioco. “Il gioco è il lavoro dei bambini” (J. Hillman, Il codice dell’anima, p. 217). 19 Consonanze tacitiane Un rimprovero ai genitori simile a quello dell’Agamennone di Petronio lo rivolge Messalla nel Dialogus de oratoribus di Tacito (ambientato tra il 75 e il 77 e redatto, probabilmente, un quarto di secolo più tardi): “Quis enim ignorat et eloquentiam et ceteras artis descivisse ab illa vetere gloria non inopia hominum, sed desidia iuventutis et neglegentia parentum et inscientia praecipientium et oblivione moris antiqui?” (28), chi non sa infatti che l’eloquenza e le altre arti sono decadute da quella gloria antica non per carestia di uomini, ma per l’infingardaggine della gioventù, la noncuranza dei genitori, l’ignoranza dei maestri e l’oblio del costume antico?1 Del buon costume antico una delle colonne, tanto nell’esercito quanto a scuola, era la severa disciplina, tant’è vero che Messalla premette questo argomento: “prius de severitate ac disciplina maiorum circa educandos formandosque liberos pauca praedixero”, dirò prima poche parole sulla severità e la disciplina dei nostri antenati riguardo l’istruzione e l’educazione dei figli.2 Per quanto riguarda la disciplina militare è emblematico l’episodio di Tito Manlio Torquato. Questo console durante la guerra con i Latini (340-338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre. Su un piatto della bilancia il console mette la caritas per il figlio e pure l’ammirazione per la virtus del ragazzo che però è stato ingannato da una vana imagine decoris (vana immagine di onore); sull’altro ci sono i consulum imperia, gli ordini del console e la disciplina militare. Il conto finale è l’ordine secco dell’esecuzione capitale: “I, lictor, deliga ad palum” (I, 8, 20), vai littore, legalo al palo. durrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’hanno imparata, per incuria della memoria, poiché per fiducia nella scrittura, ricordano dall’esterno, da segni estranei, non dall’interno, essi da se stessi: dunque non hai trovato un farmaco della memoria ma del ricordo”(275a). Così viene confutata la tecnologia da Platone. La “ragione grafica” ha invaso ormai il mondo dell’informazione e della comunicazione, persino la memoria è divenuta uno scriba. Del resto anche in latino parole come obliviscor “dimentico” e oblivio “dimenticanza” traggono la propria significazione dal gesto di eradere una superficie su cui sono state tracciate delle lettere Quanto alla desidia, lo stesso Tacito nell’Agricola (del 98) ne segnala la pericolosità per l’ingegno e gli studi, in quanto essa crea l’assuefazione e la dipendenza: “ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris facilius quam revocaveris: subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur” (3, 1), come i nostri corpi lentamente crescono, in fretta si estinguono, così le attività dell’ingegno si possono più facilmente schiacciare che risvegliare: infatti si insinua anche il piacere dell’inerzia stessa e l’inattività dapprima odiosa finisce col farsi amare. 2 La disciplina non solo fa parte del mos dei Romani ma costituisce addirittura uno degli aspetti del fas. Maurizio Bettini chiarisce bene la differenza di significato tra fas e mos. “Dunque, il mos collettivo si configura come una decisione presa da un “gruppo”, il quale raggiunge un consensus su un certo comportamento: dopo di che, il medesimo gruppo ha la capacità di affermare nel tempo questo tipo di comportamento, trasformandolo 1 Oblivio e desidia sono due parole chiave. Nell’Odissea dimenticare è il verbo più negativo (cfr. ! ! Odissea, IX, 97, dimenticare il ritorno: “Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l’Odissea. Ma anche l’aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono “dire il ritorno”; per chi canta versi senza l’appoggio di un testo scritto “dimenticare” è il verbo più negativo che esista; e per loro “dimenticare il ritorno” vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi, cavallo di battaglia del loro repertorio” (I. Calvino, Perché leggere i classici, Einaudi, Milano 1995, pp. 15-16). Dimenticare viceversa è uno dei vizi di Trimalchione che lo denuncia da solo: “Tam bonae memoriae sum, ut frequenter nomen meum obliviscar” (Satyricon, 66), ho una memoria così buona che spesso dimentico il mio nome. I ragazzi oggi usano sempre meno la memoria, come aveva previsto Platone nel mito di Theuth del Fedro. Il dio Theuth è il Prometeo o l’Hermes degli Egiziani: egli si reca dal re Thamus, che dovrebbe corrispondere ad Ammone, quindi a Zeus, e gli presenta le sue invenzioni elogiandole: i numeri, il calcolo, l’astronomia, la geometria, il tavoliere, i dadi, e le lettere; di queste in particolare dice: “renderanno gli Egiziani più saggi e più capaci di ricordare: è stato trovato un farmaco della memoria e della sapienza” (274e); ma il “re di tutto quanto l’Egitto”, rispose: “tu, essendo il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quanto essa può. Questa infatti pro- 20 G. De Sanctis commenta questa guerra notando che la forza vincente dei Romani era “la consuetudine di sfruttare nella lotta per l’esistenza tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna compassione di sé” (Storia Dei Romani, vol II, p. 261). A chi si intebnde di greco, T. M. Torquato fa venire in mente Creonte dell’Antigone in particolare quando dice: “Non c’è male più grande dell’a! & $ ! ). / Essa manda in rovina le città, questa ribalta / le narchia ( famiglie, questa nella battaglia spezza / le schiere dell’esercito in fuga; invece le molte vite / di quel"! ! )”, vv. 672-675). li che vincono, le salva la disciplina ( "!$ La bellezza della disciplina militare viene rimpianta anche dall’eroe Germanico durante la rivolta delle sue legioni dopo la morte di Augusto (14 d. C.): parlando ai soldati che poi gli si sottomettono, domanda loro dove fossero finiti la modestia militaris, ubi veteris disciplinae decus (Annales, I, 35) la subordinazione militare, dove lo splendore dell’antica disciplina. Così dovrebbe essere anche nella scuola e in casa secondo i tradizionalisti. Sentiamo ora la polemica di Messalla3: “Nam pridem suus cuique filius, ex casta parente natus, non in cellula emptae nutricis, sed gremio ac sinu matris educabatur, cuius praecipua laus erat tueri domum et inservire liberis” (28), infatti nei tempi antichi a ciascuno il figlio nato da casta madre veniva allevato non nella cella di una nutrice prezzolata ma nel grembo e nel seno della madre la cui lode particolare era custodire la casa e prestare le proprie cure ai figli. L’ottima maestra iniziale dunque deve essere la madre e la prima educazione sana si succhia con il latte materno. In certi momenti poteva fare le veci della madre una parente anziana (maior aliqua natu propinqua ) che doveva essere comunque probatis spectatisque moribus, di eccellenti e specchiati costumi e davanti a lei nessuno poteva dire parole turpi o fare atti sconvenienti. Tale donna poteva anche essere la madre, come Cornelia per i Gracchi, Aurelia per Cesare, Azia per Augusto. Questa disciplina severa (quae disciplina ac severitas) conservava la integrità della buona natura, la motivava alle arti liberali e a dedicarsi completamente allo studio del ramo prescelto, fosse questo l’arte militare, il diritto o l’eloquenza. così in mos o mores” (M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi, Torino 2000, p. 257). Il mos allora nasce dal consensus. “Cicerone, Tusculanae, I, 35, afferma persino che il consensus di tutti corrisponde alla “naturalità”: “Quodsi omnium consensus naturae vox est, omnesque qui ubique sunt consentiunt esse aliquid (…) nobis quoque idem existimandum est” (ivi, p. 253, n. 27), se il consenso di tutti è voce di natura, e tutti dappertutto sono d’accordo su qualcosa... anche noi dobbiamo pensare lo stesso. La consuetudo poi impone l’affermarsi del mos lungo lo scorrere del tempo e il volgere delle stagioni. In questo senso il mos si presenta profondamente diverso da ciò che i Romani definivano fas: la parola divina (cfr. P. Cipriano, Fas e nefas, Università degli Studi di Roma, Istituto di Glottologia, Roma 1978), simile a quella che si esprime nel fatum o “destino”; quella “parola” impersonale che solo esistendo manifesta la volontà degli dèi e si realizza nella forma di un “diritto divino” che è appunto nefas violare (cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, II, pp. 348-349) Nella rappresentazione culturale romana, il fas è qualche cosa che si impone da solo, indipendentemente dal iudicium individuale della persona... Il fas sta scritto direttamente nella natura. Esso costituisce la regola che prescrive di non commettere certe azioni di particolare gravità, la cui mostruosità è fuori discussione. Perché il fas agisca come norma di comportamento, non c’è dunque bisogno di un gruppo che su di esso ha raggiunto un consensus, né di una consuetudo che si afferma nel tempo... Mos e fas sono due cose diverse, e possono non coincidere. Interessante il modo in cui, negli Annali di Tacito, viene riportata la domanda che il legato Bleso avrebbe rivolto ai soldati che minacciavano una rivolta: “Cur contra morem obsequii, contra fas disciplinae vim meditentur?”(Annales, I, 19, 3). Il testo distingue nettamente fra i due diversi tipi di trasgressione. Il rifiuto dell’obsequium è un atto “contra morem”: ma non rispettare la disciplina militare, ossia un modello che a Roma ha un valore culturale fortissimo, è addirittura inaccettabile, contra fas. Si veda, ad esempio, Livio, 5, 6, 17, dove la mancanza di rispetto (espresso dal verbo vereor) per la disciplina compare alla fine di un elenco di comportamenti rovinosi per la città di Roma: “non senatum, non magistratus, non leges, non mores maiorum, non instituta patrum, non disciplinam vereri”., è addirittura inaccettabile, assurdo, contra fas” (Bettini, op. cit., p. 258). 3 Ricorda quella del Discorso Giusto delle Nuvole di Aristofane contro la nuova educazione propugnata dal Discorso Ingiusto. 21 è un elogio della disciplina come mezzo per temprare e rendere ottime le nature buone: “Indizi di una natura aristocratica: non degradare mai i propri doveri, pensando che siano i doveri di tutti; non voler rinunciare mai alla propria responsabilità e non volere dividerla con nessuno”.4 Ma, lamenta Messalla, ora è tutto cambiato innanzitutto poiché i genitori non si occupano dei figli e l’educazione avviene per delega: “At nunc natus infans delegatur Graeculae alicui ancillae” (29), ora il bambino appena nato si affida a un’ancella greca, cui si aggiungono un paio di schiavi dei peggiori. Viene fuori qui l’antipatia dei tradizionalisti italici per la razza dei graeculi, il risentimento che forse spinse Virgilio a cercare capostipiti troiani piuttosto che greci per i Romani di alto lignaggio. Ora la delegata è la televisione. Del resto gli stessi genitori non sono migliori dei loro servi nella decadenza: “Quin etiam ipsi parentes non probitati neque modestiae parvulos adsuefaciunt, sed lasciviae et dicacitati, per quae paulatim impudentia inr?pit et sui alienique contemptus” che anzi gli stessi genitori non abituano i fanciulli all’onestà e alla moderazione ma alla sfrenatezza e alla maldicenza attraverso cui a poco a poco si insinuano l’impudenza e il disprezzo di sé e degli altri. Ricorda l’alta considerazione del pudore nelle Nuvole dove il Discorso Giusto ( ! & ! &) racconta che al tempo dell’antica educazione la moderazione ! , v. 962) era tenuta in gran conto, mentre il ragazzo educato dai cattivi maestri vicever( " sa, oltre essere impudente, è negatico e controversico ( # & &! , vv. 1172-1173), ossia lui pure incline alla dicacitas. Quindi Messalla biasima i vizi particolari di Roma propria et peculiaria huius urbis vitia, “paene in utero matris concipi mihi videntur, histrionalis favor et gladiatorum equorumque studia” (29), sembrano quasi concepiti nello stesso grembo materno, la simpatia per gli istrioni, la passione per i gladiatori e i cavalli. Nell’animo dei ragazzi occupatus et obsessus, occupato e bloccato da tali studia non rimane spazio per l’interesse nei confronti delle arti liberali. Perfino i maestri si adeguano ai gusti della plebaglia: “colligunt enim discipulos non severitate disciplinae nec ingenii experimento, sed ambitione salutationum et inlecebris adulationis”, infatti raccolgono i discepoli non con la severità della disciplina né con la prova dell’ingegno, ma con la compiacenza interessata degli omaggi e con le lusinghe dell’adulazione. La scuola, continua Messalla (30), non fa più studiare gli autori né l’antichità, né la storia. Si cercano solo le lezioni dei retori. Anche negli ultimi tempi si leggono poco gli auctores mentre si dà grande importanza al didattichese, alla retorica delle “conoscenze” e “competenze” vuote o semivuote di contenuti, e i pochi testi presi in considerazione vengono commentati soltanto con il mostrare le figure retoriche. Vesciche piene d’aria. La disciplina di una volta esigeva che gli oratori possedessero un’ottima cultura generale: Cicerone, che Messalla indica come un modello, nel Brutus, dopo avere fatto la storia dell’eloquenza, indica la complessità della sua preparazione che spaziava dal diritto civile, alla filosofia, alla geometria, alla musica, alla grammatica, alla logica, all’etica, alla fisica, non senza le arti liberali. Dunque: “ex multa eruditione et plurimis artibus et omnium rerum scientia exundat et exuberat illa admirabilis eloquentia” (30), da una grande istruzione e moltissime discipline e da una cultura completa trabocca e fluisce quella meravigliosa eloquenza5. 4 F. Nietzsche, Di là dal bene e dal male, tr. it. Mursia, Milano, 1977, p.202. 5 Secondo Cicerone la conoscenza dei fatti storici e di quelli letterari è indispensabile finanche alla crescita della persona; lo afferma nell’Orator: “Nescire autem quam natus sis acciderit, id est semper essere puerum. Quid enim est aetas homi- nis, nisi ea memoria rerum veterum cum superiore aetate contexerit?”(120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragzzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si intesse con la vita di quelli venuti prima attraverso la memoria storica? 22 Fine della convivialità Cibo e parola L’episodio successivo del Satyricon è quello centrale della cena di Trimalchione dove trionfano, con il padrone di casa, il cibo, il cattivo gusto, l’impudenza, la volgarità, e il sesso viene raccontato come strumento di ascesa sociale. “Nella tradizione “alta” filosofica della letteratura conviviale, il cibo di norma non compare, è come censurato: il simposio ha inizio quando il banchetto è giunto al termine… Nel convito di Trimalchione la prospettiva è completamente rovesciata: il cibo domina la parola. è stato dimostrato che la Cena per molti aspetti è costruita come il rovesciamento del Simposio”1. Stiamo per assistere a uno di quei conviti volgari che Seneca consiglia di schivare per togliere occasioni all’ira: “vitare vulgares convictos memento” (De ira, II, 28). La Cena viene annunciata da uno schiavo di Agamennone: “unus servus Agamemnonis interpellavit trepidantes et: “quid vos?” inquit “nescitis, hodie apud quem fiat? Trimalchio, lautissimus homo, horologium in triclinio et bucinatorem habet subornatum, ut subinde sciat, quantum de vita perdiderit” (26, 8-9), interruppe la nostra agitazione e disse: “ma come? non sapete da chi oggi si fa festa? Trimalchione, uomo sontuosissimo, ha un orologio2 nella sala da pranzo e un trombettiere addetto, per sapere ogni momento quanta parte di vita abbia perduto. Ora vediamo qualche aspetto di questa famigerata Cena cui gli scholastici Encolpio, Ascilto e Agamennone assistono sbalorditi, un poco come noi. 1 G. B. Conte, Scriptorium Classicum cit., 6, p. 6. 2 Probabilmente ad acqua. “A questo punto si potreb- La mescita” il cui motivo principale è quello del tradimento di Molly-Penelope. “Cucù… Pendola rintoccò”]. Perché tutto questo accadesse era necessario – si capisce – che si sviluppasse non solo la tecnica moderna della misurazione del tempo, ma anche il sentimento moderno, che vede nel prodotto di quella tecnica il nostro carnefice: era necessario, insomma, che Balzac dicesse l’uomo “garrotté par le temps” e Baudelaire facesse dell’Horloge uno dei personaggi delle Fleurs du Mal, aggiungendolo ai simboli ancestrali (“au vent, à la vague, à l’étoile, à l’oiseau, à tout ce qui fuit”). Certo, la latinità ha conosciuto quasi tutte le sfumature del sentimento soggettivo del tempo, da quella più ovvia del fugerit invida aetas [Orazio, Odi, I, 11, vv. 7-8] sino a quella più rara e opposta della lentezza insopportabile (così Ovidio nei Tristia)… In certo senso, tutta la Cena è un esorcismo contro il tempo (conformemente all’antichissimo motivo conviviale); ed un esorcismo simile è anche la finta morte del finale”. (M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea, Bulzoni, Roma 1981, p. 139). be situare la risposta a una perplessità più che legittima: perché l’orologio di Trimalcione (dico l’oggetto in se stesso) non riappare nel corso della Cena? Per la verità, non si può trascurare il fatto che il progetto del monumento funebre includa anche un orologio (“horologium in medio, ut quisquis horas inspiciet, velit nolit, nomem meum legat” (71, 11), in mezzo ci deve stare un orologio affinché, chiunque guarderà l’ora, voglia o non voglia, legga il mio nome.); graziosa invenzione, che testimonia l’attaccamento di Trimalcione all’oggetto e ai suoi valori simbolici, ma che non basta a fare dello horologium una presenza tematica... Gioverà ricordare, piuttosto, che l’impiego tematico dell’orologio, nella narrativa, è cosa molto moderna. S’intende che il caso letterario più singolare resta quello di Joyce, che con abilissima ostinazione fa attraversare tutto l’enorme edificio di Ulysses dal tema, grottesco e straziante, di quel celebre orologio a cucù, persecutore di Mr. Bloom [Particolarmente nell’XI capitolo “Le sirene - 31 Cibo e sesso Trimalchione, il “tre volte potente” appare nella palestra delle terme come un anziano calvo che, vestito con una tunica rossa, gioca a palla in mezzo a ragazzi zazzeruti (27). Una scena questa ripresa dal romanzo Quo vadis? di H. Sienkiewicz (del 1896): “Le reminiscenze del Satyricon non si limitano agli aspetti di macroscopica evidenza: Nerone a banchetto equivale al Trimalchione della cena, sulla scia di un’analogia in voga ancor oggi fra i critici petroniani, e i conviti a corte seguono lo schema della cena petroniana): esse sono presenti nei più impensati dettagli (ad esempio Ligia e il piccolo Aulo che giuocano a palla assistiti dagli spheristae ricordano Trimalchione che giuoca a palla nelle terme con l’assistenza degli schiavetti; Vinicio che giunge in ritardo, per di più ubriaco fradicio, al banchetto ricorda il comportamento di Abinna nella cena petroniana”3. Quindi il liberto straricco si avvia verso casa portato su una lettiga, avvolto in una coperta scarlatta, preceduto da quattro battistrada agghindati e da una carrozzina a mano “chiramaxio in quo deliciae eius vehebantur, puer vetulus, lippus domino Trimalchione deformior” (28), nella quale veniva trasportato il suo tesoruccio, un giovane vecchietto, cisposo, più brutto del suo padrone Trimalchione. Questo amasio giovane-vecchio sembra incarnare alcuni tra i vizi del padrone: il cattivo gusto, la bruttezza che si individua, come la bellezza, immediatamente negli occhi, l’omosessualità congiunta all’adulterio. La sua età ibrida e il suo aspetto deforme fanno pensare addirittura ai mostri dei primordi. Oppure ai neonati dalle tempie bianche ( ! , Opere, v. 181) della bassa età del ferro di Esiodo, o anche alla vita, come viene apostrofata dal duca di Vienna travestito da frate in Misura per misura di Shakespeare (del 1604): “Thou hast nor youth nor age / But as it were an after dinner sleep / Dreaming of both” (III, 1), tu non hai giovinezza né vecchiaia, ma è come se dormissi dopo pranzo sognando di entrambe queste età4. Poi i giovani giungono alla casa di Trimalchione ed entrano nella sala da pranzo dove cominciano a mangiare un antipasto molto ricco (gustatio valde lauta, 31, 8). Per ultimo fa il suo ingresso il padrone: “cui locus novo more primus servabatur” (31, 8) al quale era riservato il primo posto con insolita procedura. Infatti il primo posto del primo letto (summus in summo) era riservato all’ospite di maggior riguardo; mentre all’ospitante era destinato il primo posto del terzo letto (summus in imo). Vediamo dunque l’entrata in scena di questo primo uomo: “In his eramus lautitiis, cum ipse Trimalchio ad symphoniam allatus est positusque inter cervicalia minutissima expressit imprudentibus risum” (32, 1), eravamo in mezzo a questo lusso, quand’ecco che fu portato dentro a suon di musica lo stesso Trimalchione e situato tra cuscini minuscoli strappò una risata inconsulta. 3 P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, cit., vol. IV, un lato, alla spagnola; tutta ritinta, vestita con goffa eleganza di seta rossa sgargiante, un ventaglio di piume in una mano e l’altra mano levata a sorreggere tra due dita la sigaretta accesa”. 4 Queste parole costituiscono l’epigrafe del già citato Gerontion di Eliot. p. 152. Forse di questa apparizione e di quello che segue si è ricordato Pirandello nella didascalia che descrive l’ingresso in scena di Madama Pace, la ruffiana della Figliastra dei Sei personaggi: “megera d’enorme grassezza, con una pomposa parrucca di lana color carota e una rosa fiammante da 36 Esibizione e vanitas Entrato, sempre addobbato di rosso, Trimalchione, come s’è già detto, ostenta gli anelli portati nella mano sinistra: uno grande placcato d’oro (anulum grandem subauratum 32, 3) e uno d’oro massiccio ma tutto come costellato di pezzetti di ferro (totum aureum, sed plane ferreis veluti stellis ferruminatum), quindi denuda il braccio destro armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo (32, 4), ornato da un bracciale d’oro e di un cerchio d’avorio intrecciato con una lamina luccicante, infine si cincischiò i denti con uno stuzzichino d’argento (pinna argentea dentes perf?dit, 33). è un monumento classico, aere perennius, al cattivo gusto, alla volgarità dell’eterno cafone arricchito.5 Un’altra volgarità colossale fuoriesce dalla bocca di questo signore in rosso quando viene portato un vino etichettato come vecchio di cento anni, “Falernum Opimianum6 annorum centum”. L’anfitrione dunque batté le mani ed esclamò: “eheu… ergo diutius vivit vinum quam homuncio. quare tangomenas faciamus. vita vinum est. verum Opimianum praesto. heri non tam bonum posui, et multo honestiores cenabant” (34), ahimé... dunque il vino vive più a lungo dell’omuncolo. perciò facciamo baldoria. è vita il vino. per giunta vi offro dell’Opimiano. Ieri ne ho messo in tavola di meno buono e avevo a cena gente di maggior riguardo. Il tema della vanitas della vita umana prosegue attraverso l’ostensione di uno scheletrino d’argento (larva argentea, 34, 8) snodabile che il padrone gettò sulla mensa facendogli assumere diverse posizioni, quindi aggiunse due esametri e un pentametro: “eheu nos miseros, quam totus homuncio nil est! / sic erimus cuncti, postquam nos auferet Orcus. / Ergo vivamus, dum licet esse bene.” (34, 10), ahi poveri noi, come tutto l’omuncolo è nulla! così saremo tutti, dopoché l’Orco ci avrà portato via. Dunque viviamo, finché è consentito stare bene.7 Il vivamus di Trimalchione come risposta alla vanitas della vita ricorda quello di Catullo (5, 1) che però è coordinato all’amemus senza il quale non c’è vita, mentre questo gli subordina un benessere di altro genere. 5 “La storia degli anelli d’oro: il più interessante capi- Nigrino, 21). 6 Risalirebbe all’anno del consolato di L. Opimio, il 121 a. C. Una data sicuramente fasulla come le citazioni letterarie di Trimalchione. 7 Il lamento sulla vanità e insignificanza della vita umana è coerente con il ridurla a “nascita copula e morte”. Cito ancora Eliot che nella sua Terra desolata utilizza il Satyricon, e in Fragment of an agon vv. 33-35, rappresenta gli uomini rimasti, o tornati, alla scimmia, come Sweeney la cui formula è “Birth, and copulation and death. / That’s all, that’s all, that’s all, that’s all, / Birth, and copulation, and death”.(Frammento di un agone. Nascita, e copula e morte, tutto qui, tutto qui, tutto qui, tutto qui, Nascita, e copula, e morte). Eppure tale riduzione non è possibile: “Ciò che è più biologico – il sesso, la nascita, la morte – è anche ciò che è maggiormente imbevuto di cultura. Le nostre più elementari attività biologiche – come mangiare, bere, defecare – sono strettamente legate a norme, divieti, valori, simboli, miti, riti, cioè a ciò che vi è di più specificamente culturale; le nostre attività più culturali – come parlare, cantare, danzare, amare, meditare – mettono in moto i nostri corpi e i nostri organi, tra cui il cervello” (E. Morin, La testa ben fatta, cit., p. 37). Il vino che vive ed è vita, oltre farci notare l’allitterazione e la paronomasia, evoca il ricordo delle precedenti tolo di storia del costume dell’epoca imperiale, particolarmente dell’epoca giulio-claudia... Claudio eredita da Caligola, ed affina e organizza, il predominio dei liberti imperiali nella corte. Ma dietro questi tre potentissimi liberti [Callisto, Pallante eNarcisso] c’è la grande massa di tutti i liberti, imperiali o non, in tutto l’impero. Sono una borghesia affaristica e prepotente. Affrontano talora i rischi della legge, pur di portare l’ anulus aureus, gabellandosi per cavalieri. La pressione di questa borghesia significa soprattutto una cosa: l’intensificazione dell’economia monetaria... burocrazia (questa burocrazia dei liberti imperiali) significa economia monetaria, intensità di circolazione dei mezzi legali di pagamento. L’economia naturale delle grosse domus senatorie è colpita a morte” (S. Mazzarino, L’impero romano cit., 1, pp. 215-216). Il filosofo Nigrino di Luciano denuncia la pacchianeria dei ricchi romani che si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro cattivo gusto: “come fanno a non essere ridicoli i ricchi con le loro stesse persone dal momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita delle mani denunciano il loro & cattivo gusto?” ( "& & ! & ! ! & & ! & & & 39 Il banchetto si svolge con diverse sorprese culinarie, piatti strani, sofisticati, conditi perfino con giochi di parole. Quattro servi portarono un vassoio con pollame, pancetta di scrofa, leporemque in medio pinnis subornatum, ut Pegasus videretur (36, 2) e nel mezzo una lepre provvista di ali perché sembrasse un Pegaso. Inoltre c’erano quattro statuette di Marsia che versavano il garum piperatum (36, 3) una salsa pepata sopra dei pesci i quali nuotavano come in un canale. Quindi i ghiotti parassiti applaudono sollecitati dalla servitù: “Damus omnes plausum a familia inceptum et res electissimas aggredimur” (36, 4). “Non minus et Trimalchio eiusmodi methodio laetus “Carpe” inquit. Processit statim scissor et ad symphoniam gesticulatus ita laceravit obsonium, ut putares essedarium hydraule cantante pugnare. Ingerebat nihilo minus Trimalchi lentissima voce: ‘Carpe, carpe’. Ego suspicatus ad aliquam urbanitatem totiens iteratam vocem pertinere, non erubui eum qui supra me accumbebat, hoc ipsum interrogare. At ille, qui saepius eiusmodi ludos spectaverat: ‘vides illum’ inquit ‘qui obsonium carpit: Carpus vocatur. Ita quotienscumque dicit “Carpe”, eodem verbo et vocat et imperat” (36, 5-8), non meno lieto anche Trimalchione, per tale portata, ordinò: “scalca!”. Si fece avanti subito lo scalco e, gesticolando a suon di musica, squarciò la pietanza in modo da farti pensare che un gladiatore sul carro combattesse accompagnato dalla musica di un organo idraulico. Incalzava nondimeno Trimalchione calcando sulle sillabe: “Scalca, scalca!”. Io, avendo sospettato che quella parola ripetuta tante volte mirasse a qualche facezia, non mi vergognai di chiedere proprio questa spiegazione al commensale sdraiato alla mia sinistra. Ma quello, che molto spesso aveva assistito a giochini del genere, disse: “vedi quello che scalca la pietanza: si chiama Scalca. Così tutte le volta che dice “scalca!” con la medesima parola lo chiama e gli dà l’ordine. Fedeli sostiene che “l’elemento caratterizzante in Trimalchione sia la sua ambiguità: nei cibi a sorpresa che imbandisce ai commensali, nello spingerli continuamente verso soluzioni che si rivelano comunque fallaci, nel modo di comportarsi nei loro confronti (il rapido passaggio dalla lusinga all’insulto dalla querimonia funebre all’invito a godere delle gioie della vita), nel modo di trattare gli schiavi, con subitanei trapassi dall’ambiguità al lassismo… L’ambiguità di Trimalchione si esplica, talora, anche a livello semantico: basti pensare alla polivalenza di Carpe (36 6), che può essere imperativo di carpere, vocativo di Carpus (lo schiavo, a cui l’ordine è rivolto) e può nascondere al tempo l’invito a carpere diem, che ben s’inquadra nella tendenza di Trimalchione a filosofeggiare in maniera esistenziale, con frasi di contenuto analogo e soprattutto in questa parte della cena”8. Quindi compare la moglie del padrone, Fortunata, sulla quale un commensale, Ermerote fornisce alcuni ragguagli ad Encolpio che gli aveva domandato: “quae esset mulier illa, quae huc atque illuc discurreret” (37), chi fosse quella donna che correva di qua e di là. In versione moderna e apparentemente più raffinata ci sono le donne eliotiane che banalizzano le grandi figure dell’arte europea: “In the room the women come and go / Talking of Michelangelo” (The love song of J. Alfred Prufrock9), nella stanza le donne vanno e vengono parlando di Michelangelo. celebrazioni letterarie della pianta di Bacco: “non piantare nessun altro albero prima della vite” scrive Alceo che trova un’eco precisa in Orazio: “Nullam, Vare, sacra vite prius severis arborem” (Odi, I, 18, 1), non piantare, Varo, nessun albero prima della vite sacra. Trimalchione che è un latifondista assente dai suoi terreni non si cura della coltivazione ma gode del prodotto del lavoro altrui. 8 P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, cit., vol. IV, p. 358. 9 Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, del 1917. Auerbach nel suo libro su Il realismo nella letteratura occidentale riporta alcune di queste frasi e giudica il linguaggio di Ermerote “quello un po’ becero e snervato d’un mercante cittadino incolto, pieno di frasi fatte” e, aggiunge, “vi si sente il tono sanguigno con cui vengono espressi sentimenti vivaci ma triviali”(Mimesis, Il realismo nella lettertura occidentale, tr. it. Einaudi, Torino 1956, p. 32). 40 La donna della Fortuna Fortunata è una che ha fatto, con il marito, un’arrampicata sociale, misura i soldi con lo staio (nummos modio metitur, 37, 2) ha scalato il cielo ed è il factotum di Trimalchione: “in caelum abiit et Trimalchionis topanta est” (37, 4). Sembra che il collante della loro unione sia l’interesse economico: anzi degli smisurati beni del marito assente pare si occupi solo la moglie onnipresente: “ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria providet omnia, est ubi non putes. est sicca, sobria, bonorum consiliorum – tantum auri vides, – est tamen malae linguae, pica pulvinaris. quem amat, amat; quem non amat, non amat” (37, 6-8), lui nemmeno sa quanto possieda tanto è straricco; ma questa troia vede e provvede a tutto, è dove tu non penseresti. è astemia, frugale, di buoni propositi, vedi altrettanto oro, tuttavia ha una brutta lingua, una gazza da cuscino. Chi ama ama, chi non ama non ama. Qui si vede che la buona moglie è tale per la sua funzione di amministrare il denaro: ella stessa anzi diviene un mucchio d’oro (tantum auri) il bene più prezioso per questi nuovi signori del mondo che sono i liberti il cui motto può essere una sentenza dello stesso Trimalchione: “credite mihi: assem habeas, assem valeas; habes, habeberis” (77)10, credetemi, hai un asse, vali un asse; hai, sarai considerato. Se Fortunata sia bella o no non è detto, e non ha alcuna importanza; quello che conta è che sia assimilata all’oro la cui brama ha offuscato e stravolto tutti i valori, come sosterrà più avanti (88) il vecchio poeta e libertino Eumolpo che Encolpio incontrerà in una pinacoteca. Il presentatore Ermerote poi dà altre informazioni sull’ambiente e “il denaro resta il criterio unico di giudizio”11. “Infatti a base di tutte le sue parole sta la convinzione che la ricchezza sia il bene maggiore, quanto maggiore tanto meglio (“tanta est animi beatitudo”), che la bontà della vita non stia che nell’abbondanza di ottime cose e nello sguazzarvi, e che ogni uomo, com’è perfettamente naturale, agisce per il suo utile. E con tutto ciò non è egli stesso che un piccolo uomo, pieno di rispetto e di ammirazione per i ricchissimi. Così dunque costui descrive non soltanto Fortunata, Trimalcione e i suoi commensali, ma, senza saperlo, anche se stesso. A dir la verità, come vediamo, egli ha un punto di vista alquanto unilaterale, parla più per sentimenti e per associazioni che per logica, ma dice le cose estesamente e, per così dire, plasticamente, parla col cuore sulle labbra e senza peli sulla lingua, non lascia nulla nel buio, vuota il sacco…”12. Trimalchione, secondo Ermerote, va anche oltre il denaro: egli è l’incarnazione dell’onnipotenza che viene dalla proprietà della roba, al punto da non avere più nemmeno bisogno del tramite del denaro: “Nec est quod putes illum quicquam emere. omnia domi nascuntur: lanae, credrae, piper; lacte gallinaceum si quaesieris, invenies” (38), non c’è da pensare che quello compri qualche cosa. Tutto gli nasce in casa: lana, cedri, pere; se ti metterai a cercare il latte di gallina lo troverai. A proposito della falsa onnipotenza della roba si possono ricordare i verghiani Mazzarò e Mastro Don Gesualdo. 10 Si può notare la struttura paratattica, senza il si. 11 Luca Canali, op. cit., p.38. 12 E. Auerbach, Mimesis cit., p. 32. Nel Bellum Catilinae da tempo veramente abbiamo perduto la corrispondenza tra il valore reale dei nomi e le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l’audacia nel male coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo. Il modello è Tucidide il quale ricorda che durante la ! &) di Corcira ci fu una transvalutazione guerra civile ( generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario: “e cambiarono arbitrariamente l’usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l’audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di par- ( 25) Catone, parlando in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati “solo” confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole: “iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est” (52, 11), già 41 Quindi (39) prende la parola Trimalchione stesso, questa volta sfoggiando cultura con una citazione dell’Eneide (sic notus Ulixes?13 ) e menzionando, per la prima ma non ultima volta, l’eroe omerico che nella cultura occidentale significa la personificazione dell’intelligenza, e pure lo scelerum inventor14, l’orditore di misfatti. “Non a caso Trimalchione cita Ulisse e in lui s’identifica: lo fa perché in lui vede riflessa la sua stessa ambiguità e di lui esalta proprio la capacità d’essere polytropos ( è significativo che, sia pure con motivazioni diverse, ad Ulisse finiscano per richiamarsi tutti i protagonisti del Satyricon: Encolpio, e con lui Ascilto, è un Ulisse peregrinante; Gitone ed Eumolpo, come si è visto nell’episodio della nave, assumono funzioni di Ulisse: si delinea sempre più una trama di continue allusioni all’Odissea)”.15 tito” ( " ! # # !" "! " ! " & Il prevalere dell’utile nei rapporti umani a partire dal matrimonio che obbedisce alla logica del mercato è una costante dei drammi di Ibsen: “in ogni caso la verità che viene estorta è sempre la stessa: il non amore, il matrimonio senza affetto, le nozze come mercato. Il teatro di Ibsen è un teatro che non ha storie d’amore, che non conosce le passioni del cuore... è così dominante siffatta pratica del matrimonio di calcolo che anche le giovanissime assumono presto questa stessa aria di cinismo. Nella Donna del mare Hilde è una adolescente ma ragiona già in base al computo dei soldi. La sorella le chiede all’improvviso se accetterebbe una eventuale proposta di matrimonio di Lyngstrand, e Hilde è prontissima a ribattere: “Per carità! Non ha un soldo. Non ha da vivere nemmeno per se solo” (III). Dietro la sovrastruttura del matrimonio, della famiglia, dei supposti buoni sentimenti, emerge a poco a poco la grande struttura della società borghese ottocentesca, dominata dal denaro, dal lavoro, dall’ansia della carriera, dall’affermazione sociale. Il teatro ibseniano mostra ed evidenzia una tremenda crudeltà nei rapporti interpersonali. La durezza psicologica dei personaggi è vistosa. In Casa di bambola Nora parla di prendere in prestito del denaro, ma dichiara candidamente di non interessarsi punto dei danni che possono derivare ai creditori. In un mondo in cui le relazioni sono dominate dal denaro, dalla merce-denaro, anche i rapporti umani diventano mercificati, anonimi” (R. Alonge, Epopea borghese nel teatro di Ibsen, Guida Editori, Napoli, 1983, p. 67) 13 II, 44: Così poco conoscete Ulisse?, detto da Laocoonte. 14 Ibidem, II, 164 15 P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, cit., vol. I, p. 358. , (III, 82, 4). L’idea che la ricchezza per i più sia il sommo bene e che esso sia del resto ingannevole, anzi mortale, è uno dei topoi più diffusi della sapienza antica. Il culto idolatrico del denaro porta all’annientamento di ogni altro valore. D. H. Lawrence fa su questo tema una riflessione che si può collegare al cambiamento dei significati delle parole in certi periodi: “Tutte le grandi parole, pensava Connie, erano diventate vane per la gente della sua generazione; amore, gioia, felicità, casa, padre, madre, marito, tutte quelle grandi parole erano presso che morte ora, e andavano morendo di giorno in giorno. La casa non era che un luogo dove si viveva; l’amore una cosa che non ingannava più; la gioia una parola da applicarsi a un bel charleston; la felicità un termine ipocrita usato per ingannare gli altri; il padre era una persona che si godeva la vita; il marito un uomo con cui si viveva e si cercava di tenere il buon umore. E quanto al sesso, l’ultima grande parola, non era che un nome da cocktail applicato a una eccitazione fugace che divertiva un istante e lasciava più flaccidi di prima… Il denaro? Forse era un’altra cosa. Si aveva sempre bisogno di denaro. Il denaro, il successo, la dea-cagna... erano necessità permanenti…Per far muovere il meccanismo della vita, si ha bisogno di denaro. Bisogna averne. Bisogna avere denaro. Non si ha veramente bisogno di nient’altro, in fondo. Tutto qui! Non è colpa nostra se viviamo; e, dal momento che viviamo, il denaro è una necessità, la sola necessità assoluta. Di ogni altra cosa, alla peggio, si può fare a meno. Ma non del denaro. Per l’ultima volta: tutto qui!”. (D. H. Lawrence, L’amante di Lady Chatterly (del 1928), tr. it. Mondadori, Milano 1980, p. 80) 42 Fine del buon gusto Superstizioni Anche in mezzo a una cena, si elogia da solo il padrone di casa, bisogna dare prova di avere fatto studi letterari: “oportet etiam inter cenandum philologiam nosse” (38, 4). Seguono infatti altre citazioni, per lo più spropositate, con le quali il liberto arricchito cerca di autorizzarsi come persona colta, risultando invece risibile e patetico, al pari di alcuni politici nostri quando provano a mettersi in bocca il latino. La prima competenza sfoggiata dal padrone di casa è quella astrologica sulla scorta degli Astronomica un poema di cinque libri, in esametri, che descrivono le costellazioni e l’influsso degli astri sul destino degli uomini. L’autore, Manilio, visse sotto Augusto e Tiberio. Alcune caratteristiche attribuite ai nati sotto i vari segni sono rimaste simili: gli scorpioni, per esempio, tendenzialmente sono venenarii et percussores (39, 11) avvelenatori e assassini1. Vengono definiti tutti dodici i segni i cui influssi corrispondono abbastanza a quelli attribuiti dagli astrologi moderni: sotto i gemelli (in geminis ) nascono bighe buoi coglioni “et qui utrosque parietes linunt” (39, 7), quelli che tengono i piedi in due staffe si dice ora. Trimalchione invece è un cancro: “in cancro ego natus sum, ideo multis pedibus sto, et in mari et in terra multa possideo; nam cancer et hoc et illoc quadrat” (Satyricon , 39, 8), io sono nato sotto il cancro, perciò mi reggo su molti piedi e possiedo molto mare e in terra; infatti il cancro fa quadrare da una parte e dall’altra. è una definizione sintetica della sua identità di “gigante dell’intrapresa privata”2. Anche Manilio attribuisce ai nati sotto il segno del Cancro abilità nel fare i soldi (Astronomica , IV, 162 sgg.). Tale competenza astrologica suscita l’applauso dei parassiti, un omaggio sicuramente atteso e gradito da Trimalchione: “”Sophos!” universi clamamus et sublatis manibus ad camaram iuramus Hipparchum Aratumque comparandos illi homines non fuisse” (40), bene3, gridiamo tutti insieme e, sollevate le mani al soffitto, giuriamo che Ipparco e Arato non sono stati uomini da paragonare con lui. 1 Macbeth che ha ucciso il suo re, e ha il pensiero avvelenato, dice alla moglie che l’ha aizzato: “O, full of scorpions is my mind, dear wife!” (III, 3), ho l’anima piena di scorpioni, moglie cara! Una curiosità per chi si diletta di astrologia che ancora attribuisce a questo segno tendenze del genere. Lo scorpione era l’emblema delle coorti pretorie e il segno zodiacale dell’imperatore Tiberio che aveva concentrato questa milizia scelta a Roma nei castra praetoria , se non l’aveva addirittura fondata. La tradizione senatoriale confluita in Tacito e in Svetonio ne ha fatto un ipocrita sanguinario fraintendendo spesso la moderatio di questo princeps: “come tutti gli uomini incerti, egli è apparso o vile o mendace; come tutti i dubbiosi (egli si doveva sentire assai piccolo in confronto col suo grande predecessore), è apparso un ipocrita” S. Mazzarino, L’impero romano cit., vol. I, p. 138). Tacito sembra confermare la reputazione, ancora viva, che lo scorpione sia il segno degli assassini: “nam legem maiestatis reduxerat” (Annales , I, 72), (Tiberio) infatti aveva rimesso in vigore la legge di lesa maestà, promuovendone la più spietata applicazione. Anche Ovidio raffigura lo Scorpione come una costellazione dalla forma cattiva: il Sole avvisa il figlio Fetonte, il quale gli ha chiesto di prestargli il suo carro, che dovrà affrontare tra gli altri: “saevaque circuitu curvantem bracchia longo / Scorpion” (Metamorfosi, II, 82-83), lo Scorpione che piega le chele feroci in un lungo circuito. Poco dopo il ragazzo terrorizzato lo vide “nigri madidum sudore veneni / vulnera curvata minitantem cuspide” (vv. 198199), mentre, grondante sudore di nero veleno, minacciava di ferirlo con la punta della coda girata. Fu allora che al giovane caddero le briglie di mano. 2 Luca Canali, op. cit., p. 24. 3 Sophos traslittera "&, opportunamente per adulare uno che si picca di conoscere la philologia e dovrebbe 43 Dopo l’ingresso di nuovi piatti, sempre preparati e disposti con il fine di sbalordire gli invitati, intervengono altri commensali. Seleuco esordisce con un’affermazione contraria alla forma di cultus minima che è il lavarsi: “ego – inquit – non cotidie lavor; baliscus enim fullo est, aqua dentes habet, et cor nostrum cotidie liquescit” (42), io, disse, non faccio il bagno tutti i giorni; infatti il bagno è un lavandaio, l’acqua ha i denti, e il nostro cuore si liquefa ogni giorno. Potrebbe essere una posa di origine cinico-socratica4: infatti questo liberto procede con qualche velleità filosofica tornando sul tema della vanitas ispirato da un funerale dal quale è appena tornato: “heu, eheu. utres inflati ambulamus. minoris quam muscae sumus, <muscae> tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam bullae” (42, 4), ahi ahi, giriamo come otri gonfiati. siamo meno delle mosche; le mosche almeno qualche capacità ce l’hanno, noi non siamo più che bolle5. Segue una tirata, “catoniana” contro i medici che hanno mandato in rovina Crisanto, l’amico morto; il medico quando non fa danno è solo una consolazione dello spirito depresso: “medicus enim nihil aliud est quam animi consolatio” (42, 5)6. Poiché la moglie del defunto è stata avara di lacrime, Seleuco conclude con una tirata contro le donne: “sed mulier quae mulier milvinum genus” (42, 7), ma una donna che sia una donna è una razza rapace, e con una diagnosi catastrofica del mal d’amore: “sed antiquus amor cancer est”. Un altro convitato, Filerote, fa l’elogio funebre del morto, pur senza nasconderne i difetti poiché, afferma: “linguam caninam comedi” (43, 3), ho mangiato lingua di cane, cioè ho assunto la spudoratezza dei cani. Dopo questo modo di dire proverbiale, e probabilmente popolare siccome non attestato da fonti letterarie7, nel geniale pastiche linguistico di Petronio troviamo una nota espressione dell’ Edipo re di Sofocle il cui protagonista dice: “Io, stimando me stesso figlio della Fortuna & ! &) / di quella che dà il bene, non rimarrò senza onore” (vv. 1080-1081). E Filerote: ( “plane Fortunae filius, in manu illius plumbum aurum fiebat” (43, 7), davvero figlio della Fortuna, in mano sua il piombo diventava oro. Il modello sofocleo viene degradato dal fatto che la presunzione di essere *) *) ! ) a Edipo dovrebbe portare onore, mentre questo defunto è considerato plane Fortunae filius per i miseri quattrini che ha accumulato. I quattrini del resto hanno aiutato il liberto oramai estinto a portare bene l’età fin oltre i settanta, a non diventare canuto (“aetatem bene gerebat, niger tamquam corvus”, probabilmente si tingeva ), mentre il figlio di Laio per la vergogna del disonore e per lo schifo dei suoi errori si cava gli occhi dopo avere esecrato ricchezza e potere (v. 380 e sgg.). Ma Edipo è altro tipo d’uomo: “Il nocciolo di quella vita era nobile, era di razza, poiché non mirava ai miseri quattrini, mirava alle stelle”, potremmo dire di lui come fa H. Hesse per uno dei sui personaggi più noti.8 essere dicti studiosus. Così si definiva Ennio con un calco dal greco ! &. Ipparco di Nicea è uno dei massimi astronomi greci, del II sec. a. C. , e Arato di Soli (315ca 240 ca a. C.), vissuto a lungo alla corte di Antigono Gonata re di Macedonia, scrisse un poemetto astronomico in 1154 esametri, i Fenomeni che fu tradotto in latino da Varrone Atacino, Cicerone e Germanico, il nipote di Tiberio. 4 Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi: “ ( & ! &” (Nuvole, v. 837). il Coro degli Uccelli più specificamente qualifica Socrate come & (v. 1553), non lavato. 5 Le bullae fanno pensare alla istantaneità tragica della vita. Così la ricorda il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch: “Che fummo? / Che fu quel punto acerbo / Che di vita ebbe nome?” (G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie) 6 Quest’ultima affermazione mi sembra acuta. Voglio aggiungerne un’altra di Proust, un malato cronico, ancora più radicale contro la genia aborrita da Catone, e non solo: “Per un’affezione che guariscono con i loro medicamenti (almeno, c’è chi sostiene che qualche volta ciò accade), i medici ne provocano altre dieci, in molti soggetti sani, inoculando loro quell’agente patogeno, cento volte più virulento di qualunque microbo, che è l’idea di una malattia” (I Guermantes, cit., p. 327). 7 Quintiliano parla di canina facundia (12, 9, 9 ). 8 H. Hesse, Il lupo della steppa, tr. it. Adelphi, Milano 1981, p. 188). 44 Quindi (44) parla Ganimede dando voce a credenze popolari che si trovano anche nella letteratura alta: che la carestia (annona) e la siccità (siccitas) dipendano, in ultima analisi, dall’empietà. è !&), la fame ( !&) e la sterilità, sono causate dal la tesi dell’ Edipo re di Sofocle dove la peste ( ! provocato dai delitti dal ! &. Secondo questo liberto c’è una combutta degli edili, ispettori del mercato, con i fornai: “itaque populus minutus laborat; nam istae maiores maxillae semper Saturnalia agunt”, e così il popolino sta male; infatti questi ganascioni fanno sempre carnevale. Nel buon tempo antico invece il pane costava quasi niente: “asse panem quem emisses, non potuisses cum altero devorare” (44, 11), il pane che avessi comprato con un asse non saresti riuscito a mangiarlo in due. Ma ultimamente le cose vanno di male in peggio: “nunc oculum bublum vidi maiorem. heu, heu, quotidie peius. haec colonia retroversus crescit tamquam coda vituli” (44, 12), ora ho visto un occhio di bue più grande. Ahi, ahi, ogni giorno peggio. Questa colonia cresce all’ingiù come la coda di un vitello. Seguono altre espressioni colorite e geniali che traggono origine, nell’autore del Satyricon, dall’osservazione del popolo e dalla conoscenza di Aristofane: “sed quare nos habemus aedilem trium cauniarum, qui sibi mavult assem quam vitam nostram?… sed si nos coleos haberemus, non tantum sibi placeret. nunc populus est domi leones, foras vulpes” (44, 13-14), ma perché ci teniamo un edile che vale tre fichi secchi, uno che preferisce un asse per sé alla nostra vita?… ma se noi avessimo i coglioni non sarebbe tanto soddisfatto di sé. ora la gente in casa è fatta di leoni, fuori di volpi9. La causa più vera però, secondo Ganimede, è l’ira degli dèi per l’immoralità e l’irreligiosità, l’idolatria degli uomini adoratori del denaro, la decadenza della pietas negli uomini e nelle donne: “ego puto omnia illa a diibus fieri. nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut numquam: et omnes redibant udi tamquam mures. itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri iacent...” (44, 1718), io credo che tutto questo derivi dagli dèi. Nessuno infatti considera il cielo cielo, nessuno rispetta il digiuno, nessuno stima un pelo Giove, ma tutti a occhi chiusi fanno il conto dei loro possessi. Prima le matrone in stola salivano a piedi nudi sul colle del Campidoglio, con i capelli sciolti, i cuori puri, e supplicavano Giove per l’acqua. E così subito pioveva a catinelle: o allora o mai più: e tutti tornavano bagnati come topi. ora gli dèi hanno i piedi felpati. Poiché non abbiamo religione, i campi sono abbandonati). Corporalità Trimalchione, rientrato da un’uscita igienica, dà un altro saggio di colossale volgarità lamentando i propri disturbi intestinali e dando licenza a tutti di non badare all’etichetta trattenendo le flatulenze: “alioquin circa stomachum mihi sonat, putes taurum. itaque si quis vestrum voluerit sua re causa facere, non est quod illum pudeatur. nemo nostrum solide natus est. ego nullum puto tam magnum esse tormentum quam continere. nemo nostrum solide natus est” (47), altrimenti ho un rimbombo intorno allo stomaco, un toro, fate conto. Pertanto, se qualcuno di voi volesse fare i suoi comodi, non ha di che vergognarsi. Nessuno di noi è nato senza fessure. Io penso che non ci sia tormento tanto grande quanto trattenersi. Ho riferito queste frasi sgradevoli poiché hanno una corrispondenza abbastanza puntuale nella Vita di Claudio di Svetonio: “Dicitur etiam meditatus edictum, quo veniam daret flatum crepitumque ventris in convivio emittendi, cum periclitatum quendam prae pudore ex continentia repperisset” (32), si dice pure che 9domi leones, foras vulpes: espressione analoga si trova nella Parabasi della Pace di Aristofane (del 421): ' ! ' ! ( ! sono leoni, in battaglia volpi. 45 ' (vv. 1189-90) in casa avesse preparato un editto con il quale concedeva licenza di emettere flatulenze e crepiti di ventre durante la cena, avendo saputo che un tale aveva corso pericolo in seguito al fatto di essersi trattenuto per la vergogna. A proposito di edicta ignobili e di festini senza gioia. Quindi il padrone di casa vanta i suoi smisurati e sconosciuti latifondi: “deorum beneficio non emo, sed nunc quicquid ad salivam facit, in suburbano nascitur eo, quod ego adhuc non novi. dicitur confine esse Tarraciniensibus et Tarentinis. nunc coniungere agellis Siciliam volo, ut cum Africam libuerit ire, per meos fines navigem” (48, 2), grazie a dio non compro niente, ma ora tutto quanto fa venire l’acquolina in bocca nasce in quel podere vicino alla città che io ancora non conosco. Si dice che fa da confine con le terre di Terracina e quelle di Taranto. Ora con dei campicelli voglio unire la Sicilia, in modo che, quando mi andrà di recarmi in Africa, possa navigare lungo le mie terre. Qui si trova il problema del latifondo che si estende dal I secolo d. C. a partire dall’Africa10. Segue un altro sfoggio di cultura letteraria indirizzato dal padrone di casa all’ospite colto, al retore Agamennone: “”ego autem si causas non ago, in domusionem tamen litteras didici11. et ne me putes studia fastiditum, tres bybliothecas habeo, unam Graecam, alteram Latinam12. dic ergo13, si me amas, peristasim declamationis14 tuae”. Cum dixisset Agamemnon: “pauper et dives inimici erant”, ait Trimalchio: “quid est pauper?” “Urbane”15 inquit Agamemnon, et nescio quam controversiam exposuit. Statim Trimalchio: “hoc” inquit “si factum est, controversia16 non est; si factum non est, nihil est”. Haec aliaque cum effusissimis prosequeremur laudationibus: “rogo” inquit “Agamemnon mihi carissime, numquid duodecim aerumnas Herculis tenes, aut de Ulixe fabulam17, quemadmodum illi Cyclops pollicem poricino extorsit? solebam haec puer apud Homerum legere. nam Sybillam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “ respondebat illa: “ ”” (48, 8), io anche se non tratto cause, tuttavia ho studiato le lettere per uso della casa. E perché tu non pensi che sia schifato degli studi, ho tre biblioteche, una greca, l’altra latina. Dimmi allora, per piacere, il tema della tua declamazione’. Avendo detto Agamennone: ‘un povero e un ricco erano nemici’, Timalchione fece: ‘che cosa è un povero?’ ‘Bravo’ disse Agamennone ed espose non so quale controversia. E subito Trimalchione :’questo’ disse se è un fatto, non è una controversia; se non è un fatto, non è niente’. Mentre accompagnavamo con sperticatissimi elogi queste e altre battute: ‘ti prego’ fece ‘Agamennone mio caris10 “Ma indubbiamente anche in Italia le grandi tenute 11 litteras didici: è il segno di riconoscimento degli scho- divennero sempre più estese e a poco a poco assorbirono le fattorie di media estensione e i poderetti contadineschi. Seneca lo dice esplicitamente ; ed egli poteva ben saperlo, essendo uno degli uomini più ricchi d’Italia, se non addirittura il più ricco, sotto Claudio e Nerone, e proprietario egli stesso di vaste tenute... Le tenute di media estensione furono a poco a poco rovinate dalla mancanza di vendita e vennero acquistate a buon mercato da grandi capitalisti. Questi ultimi naturalmente desideravano di semplificare la gestione delle loro proprietà, e, paghi di ottenerne un reddito sicuro se pur basso, preferivano dare la loro terra ad affittuari e produrre prevalentemente grano” (M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1964, p.115). In Italia vengono meno le culture intensive di vite e olivo poiché le province, divenute autarchiche, non assorbono più questi prodotti. Quindi si torna a coltivare il grano con metodi non razionali: i braccianti, schiavi o liberi, non forniscono un lavoro di qualità; i proprietari assenteisti del resto non li seguono lastici (Et tu litteras scis et ego dice Encolpio ad Ascilto nel decimo capitolo, siamo tutti e due letterati) ed è l’ambizione, velleitaria e patetica, di questo cafone arricchito. 12 tres... Graecam... Latinam: sembra che il pover’uomo non sappia che uno più uno fa due, oppure pensa che una delle letterature, probabilmente la greca, valga per due. 13 “Ergo al secondo posto, dopo il verbo principale, è un modo prediletto da Petronio per presentare la nuova azione come conseguenza immediata, e logicamente inevitabile, del fatto precedente” (M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea, cit., p. 122). 14 declamationis: declamatio è l’orazione pronunciata dal retore in una sala per intrattenere i presenti facendo spettacolo. 15 urbane: una delle tante battute che si possono ascrivere a un nonsense anticipato e casuale. 16 controversiam: è il dibattimento da posizioni contrapposte di una causa fittizia. Abbiamo cinque libri di Controversiae (e uno di Suasoriae ) lasciati da Seneca padre (55 ca a. C., 40 d. C.). 17 de Ulixe fabulam: sembra una storia strampalata, che 46 simo, ti ricordi le dodici fatiche di Ercole, o la storia di Ulisse, come il Ciclope gli storse il pollice con la tenaglia? Io ero solito da ragazzo leggere questo e altro in Omero. Infatti la Sibilla di sicuro a Cuma l’ho vista io stesso con i miei occhi sospesa in un’ampolla, e dicendole i fanciulli: ‘Sibilla, cosa vuoi?’ rispondeva lei: ‘morire voglio’. “Vi sono, in Trimalchione, molti tratti comuni con Nasidieno, il protagonista della satira II, 8 di Orazio. Anche Nasidieno è un cafone arricchito desideroso di far bella figura con i letterati che ha invitato per compiacere Mecenate: consapevole della propria inferiorità, si sforza di apparire all’altezza degli ospiti illustri, ma cade inevitabilmente nel ridicolo”.18 ! ": Trimalchione conclude questo suo discorso (48, 8) con una verità profonda: la Sibilla vuole morire perché nel paese guasto non c’è posto per i profeti. Né per i poeti: a proposito del tramonto degli dèi olimpi e della miscredenza dilagante nell’Atene dei sofisti il Coro dell’ Edipo re, ossia Sofocle stesso, nel secondo Stasimo domanda: “Se infatti tali azioni sono onorate, / perché devo eseguire la danza sacra?”(vv. 895-896). Mascherature Seguono altre trovate dei cuochi, portate stupefacenti e mirabolanti almeno per noi: infatti Apicio (età di Tiberio) nel trattato De re coquinaria ci fa sapere che era vanto degli esperti nell’arte culinaria preparare pietanze mascherate; il motto di tale cucina era: “a tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia”. Un maiale enorme viene portato intero su un vassoio. Trimalchione finge di adirarsi poiché non è stato sventrato e sta per punire il cuoco, dopo avere ordinato di spogliarlo (despolia, 49, 5). I commensali intercedono per lui: “solet fieri; rogamus, mittas; postea si fecerit, nemo nostrum pro illo rogabit” (49, 6), succede, ti preghiamo, lascialo andare; se lo farà ancora, nessuno di noi chiederà niente per lui. Encolpio preso da spietata severità dice all’orecchio di Agamennone che il servo sarebbe da punire ma Trimalchione cambia espressione e ordina al cuoco smemorato di sventrare il porco in presenza di tutti: “quia tam malae memoriae es, palam nobis illum exintera” (49, 8). Sicché: “recepta cocus tunica cultrum arripuit porcique ventrem hinc atque illinc timida manu secuit. nec mora , ex plagis ponderis inclinatione crescentibus tomacula cum botulis effusa sunt” (49, 9-10), il cuoco, ripresa la tunica, afferrò un coltello e con mano circospetta sventra il maiale da una parte e dall’altra. Senza indugio, dai tagli che si allargavano per la pressione del peso, sgorgarono salcicce con involtini. “...saremmo tentati di piegare ai nostri fini una frase del de generatione animalium aristotelico, "% ! & & ! "&, “come se la natura si fosse trasformata in automa”. Non doveva sfuggire ai commentatori l’importanza del fatto che Encolpio definisca tutto questo un automatum”19. Il racconto prosegue infatti con gli applausi e le felicitazioni al padrone di casa per questo bel meccanismo: “plausum post hoc automatum familia dedit et ‘Gaio feliciter’ conclamavit” ( 50, 1). Quindi il convivator, l’anfitrione Trimalchio, vantando la sua argenteria tira fuori un’altra amenità che confonde Cassandra con Medea: “in argento plane studiosus sum. habeo scyphos urnales plus minus C: quemadmodum Cassandra occidit filios suos, et pueri mortui iacent sic ut vivere putes” (52), dell’argenteria sono proprio appassionato. Di coppe da un’urna ne ho più o meno cento: c’è come Cassandra uccide i suoi figli e i bambini giacciono morti così che li diresti veri. 19 M. Barchiesi, op. cit., p. 142. sicuramente non si trova in Omero. 18 G. B. Conte, Scriptorium Classicum cit., 6, p. 7. 47 La profetessa troiana è uno strumento “culturale” utilizzato in vari modi da Trimalchione che più avanti (74), durante una sconcia litigata con la moglie, la chiama Cassandra caligaria , Cassandria zoccolona. Segue la caduta di un acrobata sul triclinio di Trimalchione che fa mostra di esserne ferito a un braccio, mentre il ragazzo implora perdono. Encolpio pensa a una iterazione della scena del cuoco e riutilizza la parola automatum: “nam puer quidem qui ceciderat circumibat iam dudum pedes nostros et missionem rogabat. pessime mihi erat, ne his precibus ridiculum aliquid catastropha quaereretur. itaque totum circumspicere triclinium coepi, ne per parietem automatum aliquod exiret” (54, 3-4), infatti il ragazzo che era precipitato già da un po’ di tempo si gettava ai nostri piedi e implorava il perdono. io mi sentivo a disagio assai pensando che con queste preghiere attraverso qualche battuta assurda si cercasse un colpo di scena. pertanto cominciai a esaminare tutto intorno la sala, temendo che attraverso la parete uscisse qualche congegno20. “Dissolutezze inaudite” Ora seguiamo un adulterio vero e proprio, che nel confronto con altre situazioni erotiche del Satyricon è un gioco pressocché innocente, quasi insipido e parrocchiale. Tale sarebbe stato di sicuro per Messalina l’imperatrice moglie di Claudio la quale secondo Tacito: “iam… facilitate adulteriorum in fastidium versa ad incognitas libidines profluebat”21, oramai volta alla noia per la facilità degli adultèri, si lasciava andare a dissolutezze inaudite22. Qui nel Satyricon l’adulterio, per non restare sciapo, è condito con un caso di licantropia. Chi 20 “è significativo che la parola ritorni più oltre (54, 4), quando (dopo la caduta dell’acrobata) Encolpio comincia a volgere gli occhi in giro per tutto il triclinio, ne per parietem automatum aliquod exiret. Qui Encolpio appare in preda a un vero e proprio “terrore tecnologico” (anche se la parola sembra più adatta a Chaplin, o al Tati di Mon oncle. Ma la catastropha (parola significativa!) si realizza senza bisogno di machinae tatrali celate nelle pareti: Trimalcione perdona con magniloquenza il colpevole e “improvvisa” versi (53, 3 e 6). Ebbene, anche questo è un automatum, nel senso che fa parte del copione preordinato. Qui tocchiamo un aspetto nuovo, strettamente connesso al tema: tutta la Cena tende a proporsi come una macchina, che riduce gli uomini ad automi ed esclude l’irruzione del caso. Quanto all’automatismo del comportamento, non c’è bisogno di molte dimostrazioni: basta ricordare i servi che si mettono automaticamente a cantare, appena chiamati a rendere servigi ai commensali, o i commensali stessi che, ormai presi nel meccanismo scattano unanimi ad applaudire o a baciare l’immagine dell’anfitrione; infine, l’orologio stesso ha un bucinatorem subornatum che (meglio che un automa, come sostenne il Mehrwaldt) sarà un trombettiere in carne e ossa, asservito alla macchina. Ricordiamoci ancora una volta del triclinio di Nerone, immagine del mondo resa nobile da un gigantesco meccanismo, e il divieto di lasciare i dispotici banchetti di Caligola. In quanto all’esclusione di ogni casualità (tipica da parte di Trimalcione, che ha per motto nihil novi mihi potest afferri), credo che l’unico episodio, in cui si possa dire con certezza che la forza della casualità sia quello del gallo” (M. Barchiesi, op. cit., p. 140) Lo vedremo più avanti. 21 Tacito, Annales , XI, 26. 22 L’incognita ed estrema libido fu quella di sposare l’amante Silio, e non a Claudio morto. L’uomo la incalzava (urgebat) con l’argomento che “flagitiis manifestis subsidium ab audacia petendum”, negli scandali scoppiati bisogna chiedere soccorso all’audacia. La terza moglie di Claudio è stata “consegnata ai posteri da Giovenale (6, 115-132) come prostituta di fatto (meretrix Augusta). Dalle fonti è ritratta, pressoché unanimemente, come massima esponente al femminile dei tria vitia tirannici (Questa 1995): avaritia, saevitia e libido, avidità di denaro, crudeltà, ed eccessi sessuali. Perde la vita quando si vota alla trasgressione suprema, cioè quando vuole sposarsi con C. Silio, descritto come il più bell’uomo della Roma del tempo, appartenente a un circolo aristocratico ostile all’imperatore, mentre è ancora la moglie di Claudio” (Francesca Cenerini, La donna romana, il Mulino, Bologna, 2002, p. 84) La novitas delle libidini accomuna diversi personaggi della corte imperiale romana: il Petronio di Tacito poco prima di morire, costretto al suicidio dall’invidia di Tigellino e dalla bestialità di Nerone, rinfaccia al princeps, per iscritto, “flagitia sub nominibus exoletorum feminarumque et novitatem cuiusque stupri” (Annales , XVI, 19), le vergogne con i nomi dei dissoluti e delle donnacce e la straordinarietà di ciascun obbrobrio. 48 parla è il commensale Nicerote che prima di iniziare la fabula dice di temere lo scherno degli scholastici presenti ma poi afferma che narrerà: “satius est rideri quam derideri” (61, 4), è meglio far ridere che essere derisi. Il racconto è preceduto da una citazione virgiliana con intento parodizzante: “haec ubi dicta dedit23, talem fabulam exorsus est” (61, 5), come ebbe detto queste parole iniziò questa storia intessuta di “paure magiche e già medievali” (V. Ciaffi, op. cit., p. 39). (V. inserto p. seg.). Trimalchione resta in tema raccontando una storia di streghe, quindi le definisce: “sunt mulieres plussciae, sunt Nocturnae, et quod sursum est, deorsum faciunt” (63, 9), sono donne che ne sanno di più, sono creature della Notte e quello che sta sopra lo fanno andare in giù. Una definizione che potrebbe entrare nel capitolo sulla paura che l’uomo ha della donna24. Dopo altre parole e altri versi Trimalchione volse l’attenzione al suo amasio che si chiamava Creso e avevamo già (28) intravisto: “puer autem lippus, sordidissimus dentibus, catellam nigram atque indecenter pinguem prasina involvebat fascia panemque semissem ponebat supra torum ac nausia recusantem saginabat” (64, 6), un ragazzo a dire il vero cisposo, dai denti infradiciati, infagottava una cagnetta nera e oscenamente grassa in una sciarpa verde e le poneva accanto sopra il divano una mezza pagnotta e la ingozzava mentre quella riluttava per il disgusto. Trimalchione si indispettisce per le premure dedicate alla bestia e sottratte a lui, quindi fa entrare un cane enorme, Scilace, “praesidium domus familiaeque” (64, 7), difesa della casa e della famiglia. La lite tra i due amanti indispettiti viene delegata ai cani: il puer lippus aizza la cagnetta contro il cagnaccio Scilace, ! #, il cucciolo, con effetto antifrastico, il quale “taeterrimo latratu triclinium implevit, Margaritamque Croesi paene laceravit” (64, 9), intronò il triclinio con un latrare orrendo e quasi sbranò la Perla di Creso. Oramai i due pervertiti hanno sfogato la rabbia attraverso gli animali e, quindi, si giunge ad una tregua: “Trimalchio ne videretur iactura motus, basiavit puerum ac iussit supra dorsum ascendere suum. non moratus ille usus <est> equo manuque plana scapulas eius subinde verberavit, interque risum proclamavit: ‘bucca, bucca, quot sunt hic?’” (64, 11-12), Trimalchione per non sembrare turbato da quel disastro, baciò il garzone e lo invitò a salirgli sul dorso. Quello, senza perdere tempo, lo impiegò come un cavallo e con le mani aperte gli batté ripetutamente le spalle e tra le risate gridò: “bocchino, bocchino, quante ce n’è qui?”. La scena mette in luce la tipica teatralità degli omosessuali, ancora più enfatica ed evidente di quella dei ragazzi e delle donne. Seguono altri interventi e altre portate. Entra Abinna il lapidarius incaricato del monumento funebre di Trimalchione, accompagnato dalla moglie Scintilla.25 23 Eneide, II, 790. Dopo l’addio della sposa fedele Creusa al marito esemplare Enea. 24 “La forza primaria e dominante dell’istinto si sua indifferenza, dovuta in gran parte al vino bevuto presso Scissa, non è tanto sicurezza di sé quanto ottusità. Tutti in genere, che si esaltino o si abbattano, che vogliano essere più di quello che sono o si umilino, sentono la loro bassa origine come una condanna…Trimalcione di tutto ciò ha lucida coscienza, mentre gli altri vi girano intorno in modo affannoso e disordinato. Anch’egli soffre dello stesso complesso d’inferiorità degli altri, come già mostra quel suo costruire la cena in funzione degli ospiti colti, pur senza mai rivolgersi direttamente ad essi, quasi fossero entità trascurabili, dove invece sono il suo limite. Ma egli cerca, in termini estetici o razionali, di vincere quel complesso, stabilendo con quell’altro mondo un rapporto, si tratti di adeguarsi ad esso, alle sue regole di buon gusto e cultura, o addirittura di sopraffarlo e batterlo sul suo terreno. Per lui il sapore dei vari piatti è nello stupore e nella sorpresa che destano... L’ambizione della cena è diventare spettacolo”. (op. cit. p. 40). mostra, nel Satyricon, non solo nel prevalere indiscusso delle ragioni del sesso, ma anche nello spazio riservato ad elementi di rilevante interesse antropologico e folclorico, come le favole di licantropia (Nicerote in 61, 6-62, 14) e di streghe (Trimalchione in 63, 3-10), come le magie “priapiche” di Proseleno ed Enothea (133, 4 sgg.), come il cannibalismo imposto dal testamento di Eumolpo ai cacciatori di eredità (141) e da questi, forse, realmente attuato in un agghiacciante regresso ad una ritualità ancestrale” (M. Bettini, La letteratura latina, La Nuova Italia, Firenze 1999, vol. 3, p. 183). 25 Secondo Ciaffi Abinna è l’unico dei dieci liberti colleghi di Trimalcione a non soffrire di un complesso di inferiorità per la loro origine servile: “solo Abinna, il bestione, è al di qua di ogni melanconia o dramma, ma la 49 Sguaiataggini Il marmista reclama la presenza di Fortunata che si era allontanata. Rientrata in pompa magna, la padrona di casa, si avvicina alla nuova ospite e fa sfoggio del suo oro, come il marito: “eo deinde perventum est, ut Fortunata armillas suas crassissimis detraheret lacertis Scintillaeque miranti ostenderet. ultimo etiam periscelides resolvit et reticulum aureum, quem obrussa esse dicebat” (67, 6), poi si giunse al punto che Fortunata faceva scivolare giù dalle braccia grassissime i suoi bracciali e li mostrava a Scintilla in ammirazione. Alla fine si tolse anche i cerchietti delle caviglie e la reticella aurea, d’oro zecchino. Sono mosse simili a quelle che abbiamo visto fare al marito il quale però trova da ridire e da competere con la sua signora: “notavit haec Trimalchio iussitque afferri omnia et: “videtis,” inquit “mulieris compedes: sic nos barcalae despoliamur. sex pondo et selibram debet habere. et ipse nihilo minus habeo decem pondo armillam ex millesimis Mercurii factam” (67, 7), Trimalchione notò questi maneggi e si fece portare tutto, poi disse: “vedete i lacci della femmina: così noi gonzi ci lasciamo spogliare. Deve averne sei libbre e mezzo. Io stesso ho un braccialetto di non meno di dieci libbre fatto con i millesimi di Mercurio. I millesimi spettanti a Mercurio invero se li è tenuti Trimalchione che evidentemente si è identificato con il dio dei guadagni e dei commerci. Quindi il convitator e i suoi ospiti di riguardo assumono uno stile simile a quello attribuito dai film ai grossi gangster tipo Al Capone. Trimalchione si fece pesare il bracciale d’oro, da tre chili e passa, su una bilancia che mandò in giro; Scintilla a sua volta si tolse un medaglione d’oro che chiamava Felicione e due orecchini per mostrarli a Fortunata elogiando il suo signore che glieli aveva comprati. Ma il lapidarius non ne gioisce e, certamente senza saperlo, si collega al ! ) della donna “idolo maligno” che risale all’Ippolito di Euripide. “”Quid?” inquit Habinnas “excatarissasti me, ut tibi emerem fabam vitream. plane si filiam haberem, auricolas illi praeciderem. mulieres si non essent, omnia pro luto haberemus, nunc hoc est caldum meiere et frigidum potare” (67, 10), Cosa? – fece Abinna – mi hai pelato per farti comprare la fava di vetro. Di sicuro se avessi una figlia le farei mozzare le orecchie. Se le donne non esistessero valuteremmo tutta questa roba come fango, ora questo è pisciare caldo e bere freddo. L’ultima battuta non è chiara; si può dire che è indecentemente volgare. Le due “signore”, sauciae26, toccate da questo colpo, scoppiano a ridere, ubriache, si scambiano baci e confidenze: “dum altera diligentiam matris familiae iactat, altera delicias et indiligentiam viri” (67, 11), mentre l’una sbandiera la premura di madre di famiglia, l’altra tira fuori i ragazzini favoriti e la trascuratezza del marito. Questo è l’eterno confronto delle donne tra la propria serietà e la superficialità dei loro uomini. Segue, in risposta muta ma significativa alle chiacchiere delle comari, una mossa da bordello del lapidarius infastidito dall’intesa tra le due donne, probabilmente l’amante e la moglie: “dumque sic cohaerent, Habinnas furtim consurrexit pedesque Fortunatae correptos super lectum immisit. ‘au au!’ illa proclamavit aberrante tunica super genua. composita ergo in gremio Scintillae indecentissimam rubore faciem sudario abscondit” (67, 12-13), mentre erano così unite, Abinna si alzò senza farsene accorgere e afferrati i piedi di Fortunata, glieli mise sopra il letto. “Ahi, ahi”, gridò quella, mentre la tunica le scivolava sopra le ginocchia. Ricompostasi quindi in grembo a Scintilla, nasconde con un fazzoletto la faccia più che mai oscena per il rossore. L’ indecentia, l’oscenità, caratterizza l’aspetto e lo stile di ragazzi, uomini, donne e animali di questo “paese guasto”27: ricordiamo il puer lippus, sordidissimus dentibus e la catellam nigram atque indecenter pinguem (64, 6). Seguono altre scene indecenti con il servo di Abinna, Massa, che storpia un verso di Virgilio (V, 1) pronunciando lunghe e brevi fuori posto e mescolando all’Eneide versi dell’Atellana al punto che 26 Ricordo che saucia appare già nella Medea exul di rose. Qui dunque è usato con ironia. 27 Cfr. Dante, Inferno, XIV, 94. Ennio e che l’aggettivo è topico per indicare le ferite amo- 52 il classicista Encolpio per la prima volta trova sgradevole Virgilio. Tuttavia Abinna elogia il suo schiavo, a parte che è circonciso e russa (recuticus est et stertit, 68, 7). Ma interviene Scintilla aggiungendo una funzione di Massa: “agaga est” (69), è il suo ruffiano. A questo punto ci mette bocca Trimalchione con il suo qui sine peccato est vestrum, primus in illum lapidem mittat: “Scintilla, noli zelotypa esse28 crede mihi, et vos novimus. sic me salvum habeatis, ut ego solebam ipsumam meam debattuere, ut etiam dominus suspicaretur et ideo me in vilicationem relegavit” (69, 3), Scintilla non essere gelosa. Credimi, conosciamo anche voi. Mi venga un colpo se non ero solito sbattermi proprio la mia padrona, al punto che anche il padrone sospettava e per questo mi confinò in campagna29. Il posto dell’artista Segue un epidipnis, un post-prandium con altri cibi cammuffati quali Cydonia mala spinis confixa, ut echinos efficerent (69, 7) mele cotogne con spine conficcate, in modo da renderle simili a ricci di mare. In un frammento di Ibico ( 6 D.) i meli cotogni sono alberi sacri ad Afrodite; la mela quindi è simbolo erotico, e forse queste spinate alludono alla credenza popolare che “non c’è amore senza spine”.30 Ma tale travestimento culinario non è ancora il peggio: viene recato un fericulum longe monstrosius (69, 7), una portata di gran lunga più snaturata: aveva l’aspetto di un’oca ingrassata (anser altilis) con intorno pesci e uccelli di ogni tipo e invece, disse Trimalchione, “de uno corpore est factum... ista cocus meus de porco fecit” (70), il cuoco insomma aveva fatto tutto con la carne di porco. Si vede bene che è continua la ricerca e l’esibizione del ribaltamento, del contro natura, e non solo nel sesso. Il cuoco era, per queste sue abilità, un uomo di valore, assimilato all’artista dalla denominazione datagli da Trimalchione: “non potest esse pretiosior homo. volueris, de vulva faciet piscem, de lardo palumbum, de perna turturem, de colaepio gallinam. et ideo ingenio meo impositum est illi nomen bellissimum; nam Daedalus vocatur” (70, 2), non ci può essere uomo più prezioso. purché tu lo voglia, da una vulva ti farà un pesce, da un lardo un colombo, da un prosciutto una tortora, da uno zampone una gallina. Perciò su mio suggerimento gli è stato dato un nome appropriatissimo; infatti si chiama Dedalo. Daedalus è pure un aggettivo, caro a Lucrezio, e rimanda alle cose fatte con arte e agli artisti che le fanno, come l’archetipico Daedalus. Nell’autore del De rerum natura è daedala, artista, tellus , la terra che fa spuntare fiori soavi per Venere (I, 7-8); poi artistici sono i carmi di Febo composti sopra la cetra (Phoebeaque daedala chordis / carmina, II, 505-506), inoltre la lingua, mobilis... verborum daedala lingua , agile artefice delle parole (IV, 551); e le statue (daedala signa , V, 1452) che danno gioia alla vita al pari della poesia e della pittura. La bellezza dell’arte dunque dà gioia, anche se crearla costa sofferenza come si vede nella vicenda del Daedalus di Ovidio che vola fuori dal labirinto e con le ali si eleva su per il cielo, sopra il potere del tiranno: “Possidet et terras et possidet aequora Minos / nec tellus nostrae nec patet unda fugae. / Restat iter caeli: caelo temptabimus ire”(Ars Amatoria , II, 35-37), possiede le terre e possiede la distesa marina Minosse, né la terra né il mare si aprono alla nostra fuga: rimane la via del cielo: tenteremo di andare per il cielo. Infatti “non potuit Minos hominis compescere pinnas” (v. 97) Minosse non poté frenare le ali di un uomo. Dedalo però perse il figlio. Forse il mito significa che il creatore da una parte non può essere imprigionato o coatto, dall’altra non può permettersi affetti privati, la paternità e la famiglia. L’artista moderno, come il cuoco di Trimalchione, non può concedersi più nemmeno la naturalezza31. 28 zelotypa è un grecismo, traslittera $ ! ), e fa parte del sermo plebeius dei liberti arricchiti. 29 Per il linguaggio usato dai protagonisti di questo banchetto, v. il paragrafo seguente sul plurilinguismo. 30 Nell’XI idillio di Callimaco il Ciclope innamorato assimila l’amata Galatea a un “dolce pomo” (v. 39) dopo averla invocata come “più candida del latte cagliato, più morbida di un agnello, più altera di un vitello, più brillante dell’uva acerba (v. 20-21). 31 Così sembra affermare in una fase del suo percor- 53 Linguaggio mescidato La Cena è il documento più impressionante del plurilinguismo che caratterizza il Satyricon. I personaggi del Satyricon parlano lingue diverse: Encolpio “usa una lingua letteraria mista a sermo familiaris, e adopera... le più classiche clausole metriche; lo stesso può dirsi di Ascilto, Agamennone ed Eumolpo, specie quando questi declama (e quando declama in versi, i versi sono perfetti); i commensali, invece, tutti ex schiavi, usano il sermo vulgaris, variato secondo le caratteristiche individuali; una categoria intermedia è quella di Trimalchione... ne risulta un misto di linguaggio erudito, a volte pretenzioso, e insieme plebeo: un sermo familiaris che si alterna spesso col sermo plebeius e col sermo rusticus... Encolpio usa comunemente il sermo familiaris, cioè un linguaggio in parte già usato da scrittori “classici” come Varrone, Cicerone (orazioni e lettere, sempre in parte), Catullo, Orazio satirico, Properzio, Vitruvio, Seneca (specie nell’Apocolocyntosis), ecc. Se qualche vocabolo o costrutto del sermo vulgaris è presente nella lingua di Encolpio, si tratta dell’eccezione, non della regola: eccezione dovuta appunto... all’influsso dell’ambiente in cui parla”.32 Per la lingua dei liberti sentiamo F. Di Capua: “Il capolavoro della mimesis ritmica si ha nei sermones conviviali dei commensali e dei colliberti di Trimalchione. Pieni di proverbi e di sentenze, ricchi di frizzi e di frasi calzanti, dalla sintassi libera e dalle movenze sciolte, dal ritmo spezzettato ma fluente, non c’è chi leggendoli non ne ammiri la vivacità espressiva, la comica naturalezza e la popolare schiettezza”.33 Quanto a Trimalchione, “la sua è una parlata “mista”; secondo che si rivolga ai colliberti o agli illustri ospiti, usa il sermo plebeius oppure il sermo familiaris, con velleità di lingua dotta”.34 Secondo Bettini, “il multiforme impasto linguistico con cui Petronio rende il parlato popolareggiante di Trimalchione e dei suoi rozzi commensali, distinguendolo dall’eloquio più elegante, ma anche più controllato e meno creativo di un Encolpio o di un Agamennone, rappresenta senza dubbio il più felice raggiungimento del realismo antico… Trimalchione e i suoi ospiti, da Seleuco a Filerote, da Ganimede a Ermerote, parlano una lingua zeppa di volgarismi e solecismi, grecismi e sgrammaticature che trovano conferma nei graffiti di Pompei e in altre fonti più tarde. E non si tratta solo dell’impasto linguistico: è la cultura stessa dei ceti medio-bassi, fatta di aneddoti e pettegolezzi, proverbi e credenze astrologiche, luoghi comuni e buon senso, sono la mentalità, la psiso il Tonio Kröger di T. Mann: “Proprio così, Lisaveta: il sentimento, il caldo e cordiale sentimento è sempre banale, inservibile; soltanto le esacerbazioni, le fredde estasi del nostro corrotto sistema nervoso di “artisti” sono valevoli ai fini dell’arte. è necessario essere qualcosa di extraumano, d’inumano, è necessario trovarsi, rispetto all’umano in una situazione stranamente lontana e neutrale, per essere in grado e anzi solo per sentirsi tentati di farne oggetto di rappresentazione, di giuoco, per raffigurarlo con gusto e con efficacia. Il dono dello stile, della forma, dell’espressione ha già come presupposto cotesto atteggiamento freddo e schifiltoso verso l’umano, più ancora, un tal quale immiserimento e svuotamento di umanità. Il sano e gagliardo sentimento (su questo non c’è dubbio) è privo di gusto... Ve l’assicuro, spesso mi sento mortalmente stanco di rappresentare l’umano senza prendervi parte” (tr. it., Mondadori, Milano 1970, p. 236 e 237. ) . Alla fine del romanzo però il protagonista arriva alla resipiscenza: “Ammiro coloro che, fieri ed impassibili, spregiando l’’uomo’, si avventurano sui sentieri che guidano alla grande, demoniaca bellezza: ma non li invidio. Perché, se qualcosa è realmente in grado di fare di un letterato un poeta, è appunto questo mio borghese amore per l’umano e il vivo e l’ordinario. Ogni bontà, ogni sorriso proviene da esso; e quasi mi sembra che sia quel medesimo amore del quale è scritto che chi ne fosse privo, anche se sapesse parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli, altro non sarebbe che un rame risonante e un tintinnante cembalo” (p. 285). 32 Petronio Arbitro Dal “Satyricon” a cura di Emanuele Castorina, , cit., p. 71 33 F. Di Capua, Il ritmo prosaico in Petronio, in “Giorn. ital. di filologia” I, 1948, p. 37 ss. 34 E. Castorina, op. cit.p. 79. 54 cologia, il carattere, le incoerenze, i salti logici e di umore dei singoli che troviamo rispecchiate nei dialoghi tra i commensali”35. A proposito di realismo antico Auerbach sostiene che il Satyricon rappresenta la realtà in maniera più ampia e meno stilizzata dei realisti alessandrini, quali Teocrito nelle Siracusane (XV) o Eroda nel lenone (III). Petronio, “come un realista moderno, pone la sua ambizione artistica nell’imitare senza stilizzazione un qualsiasi ambiente d’ogni giorno e contemporaneo, e nel far parlare alle persone il loro gergo. Con ciò raggiunge il limite estremo a cui sia arrivato il realismo antico”. Quindi prosegue: “La cena è un’opera di carattere puramente comico. I personaggi che vi compaiono sono, sia singolarmente che nei legami con l’insieme, mantenuti coscientemente e secondo un criterio unitario nel gradino stilistico più basso, tanto per la lingua quanto per il modo in cui sono visti... Nella letteratura moderna ogni personaggio, qualunque sia il suo carattere o la sua posizione sociale, ogni avvenimento, sia favoloso, sia di alta politica, sia strettamente casalingo, può venir dall’arte imitativa trattato seriamente, problematicamente e tragicamente. Ma questa è cosa del tutto impossibile nell’antichità... vige la legge della separazione degli stili... tutta la bassa realtà, tutto quello che è quotidiano, dev’esser rappresentato solo comicamente, senza approfondimento problematico”.36 Secondo Ciaffi, il linguaggio di Petronio è piuttosto una costruzione d’arte: “Se collochiamo Petronio nel I sec. d. C., quando ancora impera la dignità delle forme, il suo linguaggio diventa una scelta, con evidenti implicazioni di carattere estetico e morale, né l’esame di quel linguaggio può prescindere da una coscienza dell’autore in quel senso. Se lo trasferiamo invece, come il Marmorale ha suggerito… fra il II e il III sec. d. C., quando la lingua intellettiva decade con la scomparsa dei grandi autori e quella affettiva vi si sostituisce, il linguaggio di Petronio cessa di essere una scelta in funzione dell’arte e diventa la naturale espressione di una metamorfosi in atto. Direi che già sul piano linguistico l’ipotesi del Marmorale non regge... se quella lingua unificata di Petronio fosse la lingua in uso tra il II e il III sec. d. C. , uno dei momenti più oscuri e immiseriti nella storia della civiltà, non se ne comprenderebbe la salda energia, la stretta aderenza agli oggetti, l’interiore dialettica di stile e caratteri… Non riusciamo ad immaginare, in termini di storia letteraria, Petronio a cavallo di quei due secoli, poiché la sua poetica del realismo è troppo lontana da quella dell’arcaismo e del gusto novello... L’energia dello scrittore e l’energia della sua lingua non si giustificano, se non in rapporto a una tradizione letteraria ancora robusta, cui egli e la sua lingua si contrappongono con altrettanta robustezza”.37 35 M. Bettini, La letteratura latina, 3, p. 186. Indicherò tra poco incoerenze e sgrammaticature. 36 E. Auerbach, Mimesis, cit., pp. 37-38 37 V. Ciaffi, op. cit., pp. 51-52. 55 Fine del decoro Umanesimo e volgarità Dopo avere mostrato qualche altra trovata stupefacente, Trimalchione affranca i servi e nomina erede Fortunata. Gli schiavi sono uomini, proclama l’anfitrione rimasticando dottrine stoiche: “et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos malus fatus1 oppresserit. tamen me salvo cito aquam liberam gustabunt. ad summam, omnes illos in testamento meo manu mitto” (71), pure gli schiavi sono esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte2, anche se un destino cattivo li ha schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo, presto assaggeranno l’acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio testamento. Per quanto riguarda il contenuto, le parole di Trimalchione sembrano echeggiarne alcune dell’epistola 47 di Seneca: “Servi sunt”. Immo homines”, sono schiavi, sì e pure uomini. Del resto l’ex schiavo arricchito Trimalchione aveva usato anche un’espressione di spregio nei confronti dei suoi schiavi: “obiter et putidissimi servi minorem nobis aestum frequentia sua facient” (34), in pari tempo questi fetentissimi schiavi ci daranno meno afa con il loro affollarsi. Comunque nel Satyricon è presente Seneca la cui morte, descritta anch’essa da Tacito3 è pure confrontabile con quella dell’autore del Satyricon della quale sembra il rovesciamento. Bettini afferma che il Satyricon stesso sembra “nutrito di idee senecane: ma ribaltate. Tutto ciò che Seneca disprezza o bandisce diventa comportamento istintivo, pratica corrente dei personaggi del Satyricon.” Subito dopo però il latinista antropologo rileva delle analogie, certo non sistematiche, tra i due autori: “Non di rado, in verità, i personaggi di Petronio parlano utilizzando concetti di Seneca, servendosi persino delle parole stesse di Seneca: nell’improvvisare qualche verso moraleggiante (ad esempio, sull’esecrata onnipotenza del denaro: cap. 14, 24), o quando la circostanza suggerisce loro delle tirate di travolgente eloquenza5. Ma si tratta, non a caso, di performances volutamente enfatiche, di scoperte esercitazioni retoriche che non implicano alcun ravvedimento, ma solo un temporaneo e fortemente ironico contatto con quel mondo dei valori che si sa 1 Si noti che fatus (invece di fatum) è uno di quegli errori grammaticali denunciati dianzi. Non è l’unico caso del genere: troviamo balneus (41) per il neutro balneum, bagno, vinus (12) per vinum, caelus (45, 3) per caelum, lasanus (47, 5) per lasanum, vaso da notte, e altri ancora. “Più rari sono gli ipercorrettismi da maschile a neutro (libra 46, 7; nervia 45, 11; thesaurum 46). Nel passaggio dal latino all’italiano il genere neutro scompare, e i neutri latini sono diventati in italiano maschili. Il latino volgare anticipa dunque tale evoluzione, e ci fa capire tra l’altro come poté avvenire concretamente questa “scomparsa” di una categoria grammaticale: a poco a poco tutte le parole neutre divennero maschili” (Bettini, La letteratura latina cit., 3, p. 190). 2 “Quel che domina è il corpo, e anche i pensieri più alti sanno di vino e di cucina... per Ganimede la decadenza si misura sulla misura del pane, gli uomini per Trimalcione sono tutti uguali perché succhiarono tutti lo stesso latte” (V. Ciaffi, op. cit., p. 50). 3 Annales, XV, 62: “imaginem vitae suae relinquere testatur, dichiara per testamento che lascia l’immagine della sua vita. 4 Che abbiamo già citato. 5 Come quella di Encolpio di fronte al cadavere di Lica: 115, 12-19 Dove si trova la già ricordata sentenza di sapore senecano: “si bene calculum ponas, ubique naufragium est” cui segue un obiezione immaginata, poi una risposta e infine un’altra sentenza del medesimo gusto: “at enim fluctibus obruto non contingit sepultura. tamquam intersit, periturum corpus quae ratio consumat, ignis an fluctus an mora quicquid feceris, omnia haec eodem ventura sunt” (115, 17), ma in effetti a quello sommerso dai flutti non tocca la sepoltura. come se facesse differenza, quale agente consuma il corpo destinato a morire, il fuoco o l’acqua o il tempo. Qualunque cosa 57 che esiste, ma dal quale, senza vero rammarico o ripensamento, si fugge”6. Dopo il testamento, Trimalchione dà disposizioni al lapidarius per il proprio monumento funebre che deve essere, come per Seneca, l’immagine della sua vita, un’immagine capovolta rispetto a quella del filosofo: viene infatti riassunta dalla inscriptio satis idonea, l’iscrizione abbastanza adatta, con queste parole: “C. Pompeius Trimalchio Maecenetianus hic requiescit. huic seviratus absenti decretus est. cum posset in omnibus decuriis Romae esse, tamen noluit. pius, fortis, fidelis, ex parvo crevit, sestertium reliquit trecenties, nec umquam philosophum audivit. vale: et tu”( 71, 12), Caio Pompeo Trimalchione Mecenaziano, qui riposa. Gli fu decretato l’incarico di seviro in sua assenza. Pur potendo essere a Roma in tutte le decurie, non volle. Pio, forte, fedele, venne su dal nulla, lasciò trenta milioni di sesterzi, e non ascoltò mai un filosofo. Stai bene: anche tu7. A questo punto gli scholastici Encolpio e Ascilto tentano di scappare, ma, terrorizzati dal cane di guardia, cadono nella piscina. Vengono tratti in salvo dal portiere che, però, non permette loro di uscire. Segue la riflessione di Encolpio: “quid faciamus homines miserrimi et novi generis labyrintho inclusi, quibus lavari iam coeperat votum esse?” (73), cosa possiamo fare uomini disgraziatissimi e rinchiusi in un labirinto di nuovo tipo, per i quali lavarsi già cominciava ad essere un miracolo?8 Seguono dei bagni con altre putidissimae iactationes (73, 2) fetentissime bravate, di Trimalchione, poi succede un atto di superstizione con il quale viene ammazzato un gallo il cui cantare era considerato un cattivo presagio. “Haec dicente eo gallus gallinaceus cantavit. qua voce confusus Trimalchio vinum sub mensa iussit effundi lucernamque etiam mero spargi. immo anulum traiecit in dexteram manum et: “non sine causa” inquit “hic bucinus signum dedit; nam aut incendium oportet fiat, aut aliquis in vicinia animam abiciat. longe a nobis! itaque quisquis hunc indicem attulerit, corollarium accipiet”. dicto citius de vicinia gallus allatus est, quem Trimalchio iussit, ut aeno coctus fieret. laceratus igitur ab illo doctissimo coco, qui paulo ante de porco aves piscesque fecerat, in caccabum est coniectus” (74, 1-4), mentre quello parlava così un gallo cantò. Trimalchione turbato da questo verso ordinò che si versasse del vino sotto la tavola e che anche la lucerna fosse spruzzata di vino. Per giunta fece passare l’anello nella mano destra9 e disse: “non senza motivo questo trombettiere ha dato il segnale; infatti ci deve essere un incendio o qualcuno nei dintorni deve lasciare la vita. Lungi da noi! Perciò chiunque porterà questo iettatore, riceverà una mancia”. In men che non si dica fu portato un gallo dai paraggi e Trimalchione ordinò che venisse cotto in una casseruola. Tagliato dunque a pezzi da quel cuoco sapientissimo che poco prima aveva ricavato da un porco uccelli e pesci, fu gettato in pentola. amici: “In homine quoque nihil ad rem pertinet quantum aret, quantum feneret, a quam multis salutetur, quam pretioso incumbat lecto, quam perlucido poculo bibat, sed quam bonus sit” (Ep. 76, 15), anche nell’uomo dunque non conta quanto ari, quanto denaro presti, da quanti venga salutato, quanto sia prezioso il letto dove si stende, quanto fulgente la coppa dove beve, ma quanto sia buono. Io credo che Petronio prenda sul serio la letteratura e l’arte in genere, con l’atteggiamento di un classicista intelligente il quale sta dalla parte della bellezza e dell’ordine, pur sapendo che ciò è inutile e non cambierà il caos nel quale si è gettato di nuovo il genere umano. 7 Il seviratus e le decuriae, istituiti in onore di Augusto, erano cariche non prestigiose in quanto relative a incarichi subalterni.. 8 Per il significato del labirinto, v. più avanti.. 9 Il secondo dei due descritti a 32, 3. Sono scongiuri. tu avrai fatto andranno tutte a finire nel medesimo luogo. 6 M. Bettini, La letteratura latina cit., 3, p. 180. Quanto alla posizione della classe dirigente romana nei confronti degli schiavi stranieri, dopo l’assassinio del prefetto di Roma da parte di un liberto, l’ex console Gaio Cassio Longino, genero di Germanico, si esprime più o meno come un leghista contemporaneo a proposito dei lavoratori extracomunitari: “Postquam vero nationes in familiis habemus, quibus diversi ritus, externa sacra aut nulla sunt, conluviem istam non nisi metu coercueris” (Annales, XIV, 44), dopo che nella nostra schiavitù abbiamo queste razze che hanno usi diversi, riti stranieri o nessuno, questa spazzatura non si può reprimere se non con la paura. Siamo nel 61 d. C.: l’uomo politico impiega parole che abbiamo sentito ripetere in tempi recenti. Vediamo alcune parole di Seneca che configurano un’ideologia opposta a quella di Trimalchione e dei suoi 58 Osserva Barchiesi: “Credo che l’unico episodio, in cui si possa dire con certezza che la forza della casualità si insinua nella Cena, sia quello del gallo... esso viene catturato e affidato al cuoco…Così il gallo, il trombettiere “naturale” che aveva fatto casuale irruzione nell’ordinato cosmo trimalcionico, turbando il copione con il suo “spontaneismo”, viene integrato nella “macchina”: il tempo trimalcionico deve avere soltanto il suo trombettiere”10. Gelosie deformi Quindi è la volta di un’altra scena di gelosia che turba l’hilaritas del convito: “nam cum puer non inspeciosus inter novos intrasset ministros, invasit eum Trimalchio et osculari diutius coepit” (74, 8), infatti quando tra i servi del secondo turno fu entrato un ragazzo non brutto, Trimalchione gli saltò addosso e si diede a baciarlo con insistenza. A questo punto la moglie del pederasta si arrabbia e dà del cane al vecchio libidinoso. Sentiamo questa gentildonna: “itaque Fortunata, ut ex aequo ius firmum approbaret, male dicere Trimalchionem coepit et purgamentum dedecusque praedicare, qui non contineret libidinem suam. ultimo etiam adiecit: ‘canis’” (74, 9), allora Fortunata, per far valere il suo solido diritto alla pari, cominciò a inveire contro Trimalchione e a mettere in evidenza che era spazzatura e infamia poiché non controllava la propria libidine. Alla fine gli gettò in faccia anche: “cane”. Il lettore che conosce l’Odissea può assimilare, con un sorriso, il pervertito anziano alla bellissima Elena che, nella veste di adultera pentita, chiama se stessa (IV, v. 145), faccia di cagna. Trimalchione reagisce da par suo gettando in faccia alla moglie un calice e coprendola di insulti: ““quid enim” inquit “ambubaia non meminit se. de machina illam sustuli, hominem inter homines feci. at inflat se tamquam rana, et in sinum suum non spuit, codex non mulier. sed hic qui in pergula natus est aedes non somniatur. ita genium meum propitium habeam, curabo domata sit Cassandra caligaria”“ ( 74, 13)11, e che? – disse – la suonatrice di piffero non ricorda chi sia. L’ho tirata fuori dal palco degli schiavi, l’ho resa un essere umano come gli altri. Eppure si gonfia come una rana, e non si sputa in seno, un ceppo del supplizio, non una donna. Ma chi è nato in una capanna un palazzo non se lo sogna. Ma basta che mi assista il mio genio, farò in modo di domare questa Cassandra zoccolona. Poi Trimalchione minaccia di ripudiare la moglie e ordina al lapidarius di non mettere la statua di lei nel suo sepolcro: “ne mortuus quidem lites habeam” (74, 17), per non litigare almeno da morto. Anzi, conclude questa prima invettiva proibendo alla sua metà di baciarlo da morto. Post hoc fulmen (75), dopo questo fulmine, Abinna gli chiede di deporre l’ira: “nemo – inquit – nostrum non peccat. homines sumus, non dei.”, nessuno di noi non sbaglia. Uomini siamo, non dèi. Una variante del della comprensione che si trova nel Vangelo e in Menandro. Si aggiunge poi la preghiera di Scintilla a Trimalchione “ut se frangeret” (75, 2), perché si intenerisse, e la coppia di amici della coppia in collera commuove il padrone di casa che prima piange poi giustifica l’amore per quel tesoro del puer: “puerum basiavi frugalissimum, non propter formam, sed quia frugi est: decem partes dicit, librum ab oculo legit, thraecium sibi de diariis fecit, arcisellum de suo paravit et duas trullas. non est dignus quem in oculis feram? sed Fortunata vetat. (74, 4)”, ho baciato un ragazzino bravissimo, non per la sua 10 M. Barchiesi, op. cit., p. 141.Barchiesi si riferisce al maci, mendicanti, mime, buffoni.- non spuit: sputarsi in seno voleva dire allontanare il malocchio e Fortunata avrebbe dovuto farlo per la precarietà della sua fortuna.- aedes: “indica propriamente il “focolare domestico” (cfr. gr. “bruciare”; aestus “ribollimento”, “calore”), in particolare “abitazione” o “sede” di un dio, “tempio”; al plur. vale normalmente “casa” in quanto composta di più stanze o ambienti” (I. Dionigi, Verba et res, Laterza, Bari 1997, p. 91). bucinator addetto all’horologium (26, 9), uno degli aspetti tecnologici della cena. 11 ambubaia: è sostantivo formato sulla parola siriaca abbub=tibia, flauto. La usa, al plurale, Orazio nella satira II 1: “Ambubaiarum collegia”, corporazione delle suonatrici di flauto riunite in una sola razza (genus), spregevole,di pharmacopolae,mendici,mimae, balatrones, (vv. 1-2) spacciatori di far- 59 bellezza, ma perché è bravo: sa dividere per dieci, legge un libro appena lo vede, si è fatto una tunica tracia tagliando dalla sua paghetta, col suo denaro si è comprato una poltrona e due vasi. Non si merita che me lo porti negli occhi? Ma Fortunata non permette. Sembra che Trimalchione voglia presentare il suo amore come fondato su un’intesa spirituale, ma quel de diariis ricorda il diaria non sumo” (24) di Quartilla ed evoca prestazioni sessuali ricompensate. Poi l’anfitrione se la prende di nuovo con la moglie: “ita tibi videtur, fulcipedia? suadeo, bonum tuum concoquas, milva, et me non facias ringentem, amasiuncula: alioquin experieris cerebrum meum” (74, 5-6), ti sembra donna dai piedi puntellati? Dà retta: digerisci la tua fortuna, avvoltoio12, e non mi far ringhiare, amantucola: altrimenti farai esperienza della mia testa calda. Quindi il convitator fa un altro complimento agli ospiti, inveisce ancora contro Fortunata, ed esalta la sua carriera di imprenditore partito dalla prostituzione del proprio corpo. Del resto Svetonio13, sostiene che cominciò così anche la non meno fulgida carriera di Ottaviano che divenne Augusto, per cui non è assurdo che Petronio abbia voluto raffigurare in Trimalchione uno dei Cesari. Do la parola a Fedeli: “è esemplare la carriera di Trimalchione: anche egli è stato a modo suo un heredipeta, come i Crotoniati e come il captator di testamenti “par excellence”: l’imperatore (e mi chiedo se proprio questo motivo non abbia un’ importanza decisiva). Trimalchione è capitato in una famiglia priva di eredi e, una volta entrato nelle grazie del padrone, si è dovuto limitare – alla stessa stregua degli abitanti di Crotone – ad attenderne pazientemente la morte, per essere nominato coerede insieme con l’imperatore. A questo punto ha avuto inizio la sua irresistibile ascesa, grazie a un sagace impiego delle ricchezze (76, 1-11). L’exemplum, però, è al tempo stesso il limite e il simbolo di un ceto per Petronio destinato a sua volta a perire: Trimalchione, infatti, non solo non potrà mai trasmettere i suoi beni a una propria discendenza a causa della sterile unione con Fortunata (e anche questo motivo lo avvicina, in un certo qual modo, ai Crotoniati, che si negano la possibilità di avere figli: anche se Trimalchione reca in sé il cruccio di tale situazione); ma, proprio come i Crotoniati, è come se fosse già morto, tanto più che conosce il momento esatto della morte (77, 2) e si è preoccupato di farselo costantemente ricordare dal trombettiere e dalla macchina del tempo”14. Affetti e affari Ma ora sentiamo Trimalchione stesso: “nam ego quoque tam fui quam vos estis, sed virtute mea ad haec perveni. corcillum est quod homines facit, cetera quisquilia omnia. bene emo, bene vendo; alius alia vobis dicet. felicitate dissilio” (75, 8-9), infatti anche io sono stato come siete voi, ma con la mia capacità sono arrivato a questi traguardi. è questo cuoricino che fa gli uomini, il resto sono tutte bazzecole. compro bene, vendo bene; un altro vi dirà altro. io scoppio dal successo.- virtute: ancora la virtus senza morale che sarà codificata dal nostro Machiavelli, il contrario di quella platonico-senecana e poi cristiana.- corcillum: anche il cuore ha un significato ben diverso da quello che gli danno di solito i poeti e i filosofi.- bene emo, bene vendo: potrebbe essere il motto emblematico di Trimalchione e pure dell’ultimo Cesare Augusto d’Italia. 12 bonum tuum concoquas: è la versione plebea del “non rimane una vera donna e un’amante, sia pure, da strapazzo (amasiuncula). 13 Vita di Augusto, 68. 14 Petronio: Crotone o il mondo alla rovescia, “Aufidus” 1, 1987. seppe digerire la grande felicità”dell’ Olimpica I di Pindaro (vv. 56-57) che si riferisce alla colpa di Tantalo.- milva: Trimalchione ha fatto tesoro della sentenza di Seleuco: “sed mulier quae mulier milvinum genus (42, 7), una donna che sia una donna è una razza di avvoltoi. Dopo tutto Fortunata 60 Segue un’altra stoccata alla moglie: “tu autem, sterteia, etiamnum ploras? iam curabo fatum tuum plores”, poi tu russona continui a piangere? oramai ci penso io a farti piangere il tuo cattivo destino. Poi continua la rievocazione della propria carriera, il percorso in ascesa di un uomo intraprendente, ricco di corcillum, virtus e frugalitas: “sed, ut coeperam dicere, ad hanc me fortunam frugalitas mea perduxit. tam magnus ex Asia veni, quam hic candelabrus est. ad summam, quotidie me solebam ad illum metiri et ut celerius rostrum barbatum haberem, labra de lucerna ungebam. tamen ad delicias |femina| ipsimi |domini| annos quattuordecim fui. nec turpe est, quod dominus iubet. ego tamen et ipsimae |dominae| satis faciebam. scitis, quid dicam: taceo quia non sum de gloriosis” (75, 10-11), ma, come cominciavo a dire, a questo successo mi ha portato il mio essere una persona per bene. Arrivai dall’Asia tanto grande quanto questo candelabro. Insomma tutti i giorni ero solito misurarmi con quello e per avere il muso barbuto più in fretta mi ungevo le labbra con la lucerna. Tuttavia a quattordici anni soggiacqui alle voglie del mio padrone. Non è vergognoso quello che il padrone comanda. Io del resto accontentavo anche la padrona. Capite quello che dico: taccio poiché non sono di quelli che si vantano.15 Trimalchione procede raccontando le tappe della sua ascesa: il padrone lo fece coerede con Cesare16, per evitare che questo annullasse il testamento e si prendesse tutto. Il liberto ereditò comunque un patrimonio favoloso: “Nemini tamen nihil satis est. Concupivi negotiari. ne multis vos morer, quinque naves aedificavi, oneravi vinum – et tunc erat contra aurum – misi Romam” (76, 3), tuttavia nulla mai basta a nessuno. Mi venne la smania di mercanteggiare in grane. Per non trattenervi con molti particolari, feci costruire cinque navi, le caricai di vino, e allora valeva quanto l’oro, le mandai a Roma. Era già iniziato, sebbene non fosse ancora compiuto il processo di latifondizzazione che, durante il primo secolo in Italia, portò alla decadenza della cultura della vite e dell’olivo in favore di quella più estensiva del grano17. 15 Nietzsche considera segno positivo di paganesimo magia, da una adesione che oltrepassi quella dell’arte” (op. cit., pp. 308-309). Secondo me invece, con Petronio, Eros ha già bevuto del veleno ed è diventato un vizio. Contrappongo a questo, che considero un fraintendimento, alcuni brani di una cronaca del quotidiano “la Repubblica” del 2 settembre 2001 sull’elezione del più bello d’Italia a Pescara. Il titolo è Mister Italia pronto a tutto, l’inviata Romana Liuzzo. “è così, il variegato mondo di un concorso di bellezza: al mattino ci si fa la ceretta a vicenda, poi si ritocca il rimmel (se lo mettono tutti) discutendo di quanto siano state drammatiche le scene del G8 di Genova. E infine il sesso: “Uomini o donne non si guarda in faccia nessuno – spiega la gran parte dei concorrenti – proposte indecenti se verranno si vedrà. Il nostro motto? Mai dire mai”. Il vincitore, a detta della cronista, “il più femminile di tutti”, ha dichiarato: “Mi sono sempre depilato, anche sul sedere, detesto i peli, fin da piccolo”. Quando gli hanno chiesto se accetterebbe proposte indecenti, il più bello d’Italia ha risposto: “Inutile essere ipocriti: perché no?”. Adesso il padrone è la televisione, anzi chi possiede la televisione. E i nuovi liberti sono i servi della televisione, cioè, a vari livelli, quasi tutti. Non è necessario essere integralisti islamici per contestare queste porcherie. 16 Ecco un’altra colleganza del liberto arricchito con l’imperatore. 17 Lo stesso Rostozev, mentre ce ne dà notizia, avverte in una nota: “è evidente che per tutto il sec. I i latifon- la non conoscenza del peccato: “si prenda in mano un libro veramente pagano, per esempio Petronio, in cui non si fa, non si dice, non si vuole e non si giudica niente che non sia, secondo un criterio cristianamente ipocrita, peccato, anzi peccato mortale. E tuttavia, che senso di benessere nell’aria più pura, nella superiore spiritualità dell’andatura più veloce, nella forza liberata e traboccante, sicura del proprio avvenire! ... Paragonato a quel libro, il Nuovo Testamento rimane un sintomo di una cultura decadente e della corruzione – e come tale ha operato, come fermento della putrefazione” (Scelta di frammenti postumi, 1887-1888, tr. it. Mondadori, Milano 1976, p. 256). Più avanti il filosofo anti-cristiano rincara la dose: “Vediamo che cosa fa “il vero cristiano” di tutto ciò che non si raccomanda al suo istinto: l’insudiciamento e la denigrazione della bellezza, dello splendore, della ricchezza, dell’orgoglio, della sicurezza di sé, della conoscenza, della potenza – insomma dell’ intera cultura: il suo intento è quello di togliere la buona coscienza… Si legga Petronio immediatamente dopo il Nuovo Testamento: come si respira, come si spazza via da sé quella maledetta aria da baciapile!” (op. cit., p. 256). “E saturo paganesimo c’è, in Petronio, ben lontano da ogni annunzio di correnti spirituali nuove, di misticismo, di turbamenti interiori, che sono tanta parte per es. d’Apuleio, un uomo che pur visse entro i limiti del II secolo, da ogni attaccamento sentimentale qualsiasi al fenomeno della 61 Ci fu anche il momento della cattiva fortuna: “omnes naves naufragarunt; factum, non fabula18. uno die Neptunus trecenties sestertium devoravit” (76, 4), tutte le navi naufragarono; un fatto non una favola. In un sol giorno Nettuno inghiottì trecento milioni di sesterzi. Nettuno dunque è ostile a Trimalchione che così si assimila a Ulisse: come l’eroe omerico nemmeno il genio del fare “la roba” si scoraggia né va a fondo. “Putatis me defecisse? non mehercules mi haec iactura gusti fuit, tamquam nihil facti. alteras feci maiores et meliores et feliciores, ut nemo non me virum fortem diceret. scis, magna navis magnam fortitudinem habet. oneravi rursus vinum, lardum, fabam, seplasium, mancipia” ( 76, 4-6), credete che io mi sia perso d’animo? no, per Ercole questa iattura non mi ha lasciato del cattivo gusto, come se niente fosse. Ne ho fatto costruire altre più grandi, più belle e più sicure, in modo che nessuno potesse dire che non sono un uomo intrepido. Sai, una nave grande ha una grande intrepidezza. Le ho caricate di vino, lardo, fave, profumo, schiavi. A questo punto Trimalchione inserisce addirittura un elogio per Fortunata la quale: “rem piam fecit: omne enim aurum suum, omnia vestimenta vendidit et mi centum aureos in manu posit” (76, 7), fece una cosa santa: infatti vendette tutto il suo oro, tutti i vestiti e mi pose in mano cento monete d’oro. Perfino la pietas viene riconosciuta con il criterio del denaro. La devozione di Fortunata colse assolutamente nel segno poiché quel denaro fu il fermentum, il lievito del patrimonio. Quindi il liberto, oramai ricco, riscattò tutti i fondi che erano stati del suo padrone: “statim redemi fundos omnes, qui patroni mei fuerant” (76, 8). Diventando proprietario terriero è come se l’ex schiavo riscattasse un’altra volta se stesso. “Nel mondo antico la sola nobiltà riconosciuta è quella della terra, e una barriera insormontabile divide il mercante dal gentiluomo. Ecco perché alla fine della sua carriera Trimalchione, come tanti altri liberti, investe le sue ricchezze in terra, e cerca di acquistare lo status di “gentiluomo di campagna” (scorgiamo, qui tra l’altro, una delle ragioni profonde che impedirono la formazione di un capitalismo moderno nel mondo antico). Ma il parvenu Trimalchione non ha l’educazione necessaria per essere quel gentleman che sogna, e la sua mirabolante cena ce ne mostra a ogni piè sospinto l’irrimediabile volgarità. Divenuto il princeps libertinorum, il primo dei liberti della sua città, non potrà che scimmiottare goffamente i veri aristocratici”19. Quando ebbe accumulato dieci milioni di sesterzi Trimalchione riscattò tutti i fondi che erano appartenuti al suo padrone, si tolse dal commercio e si diede a prestare il denaro a usura ai liberti ( libertos fenerare, 76, 9). Poi fu spronato da un mathematicus, un astrologo, Graeculio Serapa nomine, consiliator deorum (76, 10), un grechetto di nome Serapa suggeritore degli dèi. Gli diede questo di dettero l’impronta alla vita economica dell’impero: non dobbiamo tuttavia dimenticare che non era affatto scomparsa, specialmente in Campania, la media proprietà” (Storia economica e sociale dell’impero romano, cit., p. 115, n. 24). Alcune decine di pagine prima infatti aveva scritto: “La principale esportazione italiana era quella del vino e dell’olio. L’aspetto della Campania, ch’era tutto un immenso vigneto, e il rapido sviluppo preso dalla viticultura nell’Italia settentrionale, non si spiegano se non ammettendo che il vino e l’olio d’Italia fossero esportati in grandi quantità nelle province occidentali e settentrionali dell’impero, e perfino nelle orientali. Puteoli, porto principale dell’Italia meridionale, e gli altri porti campani trafficavano su vastissima scala in vino ed olio, e così pure Aquileia nel settentrione. Ricordiamo che Trimalcione aveva acquistato la sua fortuna esportando vino, e che aveva relazioni con l’Africa. Oltre il vino e all’olio, l’Italia esportava in Occidente grandi quantità di manifatture” (op. cit., p.76). Nel brano letto sopra veramente sembra che il vino venga oramai importato a Roma . 18 fabula: “il termine…assai generico, serviva a designare ogni varietà di racconto, anche teatrale, dalla tragedia alla commedia, dal mimo alla farsa” (M. Bettini, La letteratura latina cit., 3, p. 175). 19 ibidem, p. 181. Un altro personaggio della letteratura che aspira al latifondo quale simbolo (mancato) di immortalità è Mazzarò del Verga: “appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua” (La roba). La roba per Mazzarò sostituiva gli affetti, gli amori, tutto: era la sua passion predominante: 62 responso in presenza di Abinna: “tu dominam tuam de rebus illis fecisti. tu parum felix in amicos es. nemo umquam tibi parem gratiam refert. tu latifundia possides. tu viperam sub ala nutricas” (78, 1-2), tu hai reso tua la padrona con quelle faccende. Tu hai poca fortuna con gli amici. Nessuno mai ti rende la gratitudine che ti deve. Tu possiedi latifondi. Tu nutri una vipera in seno. I latifondi in effetti sono il suo massimo vanto perché poi Trimalchione aggiunge che gli restano ancora trent’anni quattro mesi e due giorni da vivere e che, se riuscirà a congiungere i suoi poderi con l’Apulia, avrà fatto abbastanza strada nella vita. La tendenza al latifondo, che Augusto cercò di contrastare senza riuscirvi, rovinò l’agricoltura italica: “latifundia perdidere Italiam” scrive Plinio il vecchio (Naturalis historia, XVIII, 7). L’anfitrione poi vanta la grandezza e la sontuosità della casa che una volta era un cusuc (77, 4), un tugurio. Seguono le parole che contengono l’ideologia di questi liberti, la stessa del nostro tempo cosiddetto privo di ideologie: “credite mihi: assem habeas, assem valeas; habes, habeberis. sic amicus vester, qui fuit rana, nunc est rex.” (77), credetemi, hai un asse, vali un asse; hai, sarai considerato. Così il vostro amico che è stato una rana, adesso è un re. Il denaro insomma compie le trasfigurazioni più impensabili. Infatti il suo valore, vero o presunto che sia, prevale su tutto. è la considerazione, amara, che fa anche il contadino Blepsidemo nel Pluto di Aristofane: “tutti cedono davanti al profitto!” (v. 363). C. Marx afferma che il denaro significa: “la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l’universale rovesciamento delle cose”20. La cena si avvia alla conclusione, ossia al colmo dello schifo: “ibat res ad summam nauseam” (78, 5). Trimalcione oscenamente ubriaco fa entrare nel triclinio nuovi suonatori, si stende fino al fondo del divano, poi ordina: “fingite me mortuum esse. dicite aliquid belli”, immaginate che sia morto. Dite qualcosa di spiritoso. Segue un baccano d’inferno, con tanto di marcia funebre, che fa intervenire i pompieri; allora Encolpio e gli amici fuggono come se scappassero da un incendio. è, finalmente, l’uscita da un labirinto. giugno, grano da raccogliere a montagne, denaro a fiumi da intascare, sono allora tanti commossi simboli dell’eterno, di quel lavoro costruttivo che resta dopo di noi. Ebbene: tutta questa poesia e religione della roba, che non è qui un simbolo economico ma tutta una complessa, generosa e disperata visione del lavoro, vagheggiato per se stesso e per la sua nascosta speranza di immortalità, viene miseramente a crollare con la morte del protagonista.” (Introduzione di Luigi Russo a Mastro Don Gesualdo di Verga, Mondadori, Milano 1960, p.14). Trimalchione non ha successo, almeno nel suo tentativo di elevarsi culturalmente: a proposito del suo stile Rostovzev afferma di essere incline a credere che Petronio “abbia scelto il tipo del liberto per aver modo di fare del nuovo ricco la figura più volgare che fosse possibile” (M.. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, p. 67). 20 Manoscritti economico-filosofici del 1844 cit., p. 154. “Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto”. Alla roba cede tutto, la roba vince su tutto (omnia vincit res): “alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte doveva mutar strada, e cedere il passo”. La roba insomma ha qualche cosa di epico e sacro. A questo proposito sentiamo Luigi Russo su Mastro Don Gesualdo, un altro personaggio verghiano che per certi versi può essere visto come un epigono di Trimalchione: “La roba è l’ultima forma disperata con cui l’uomo cerca la sua immortalità, essa è una metonimia di quel desiderio di sopravvivenza, che c’è nel cuore di tutti gli umani. Ogni buon colpo di zappa ha dunque il suo valore d’eternità. Le fattorie grandi come chiese, i villaggi interi da fabbricare, le terre da coltivare, a perdita di vista, eserciti di mietitori a 63 Il labirinto Secondo Fedeli21, il labirinto “costituisce l’intelaiatura della cena sin dal suo inizio: la casa di Trimalchione sembra rappresentare un’oasi per i protagonisti dopo le continue traversie; ma essa svelerà presto la sua vera natura. Gradualmente si è introdotti nell’ambiguità che regnerà nella cena, così come gradualmente si percorrono i corridoi di un labirinto… Anche la lunga serie di portate a sorpresa è una proiezione dello schema del labirinto: come, infatti, chi esplora un labirinto se imbocca un corridoio sbagliato è costretto a ritornare sui suoi passi, così i convitati, ed in particolare Encolpio, vengono continuamente spinti a formulare sulle portate congetture che si rivelano ogni volta sbagliate e li costringono a ritornare sulle loro idee”. Fedeli fa notare che la presenza del labirinto non è limitata e ridotta alla cena: “All’inizio della parte del Satyricon a noi giunta, quando finalmente riesce a svignarsela dalla scuola di retorica (6 2), Encolpio si mette alla ricerca di Ascilto, che prima di lui se l’è filata. Ma la Graeca urbs gli si configura subito come un labirinto, in cui è impossibile orientarsi; non solo Encolpio ignora dove sia l’uscita (6 3: nec quo loco stabulum esse sciebam), ma, errore fondamentale da parte di chi si trova in un labirinto, vaga senza conseguire una direzione precisa (63: nec viam diligenter tenebam): di conseguenza, dato che egli non segue il filo di un ragionamento logico ma si affida al caso, finisce per tornare sempre allo stesso punto, che è poi il punto di partenza (64: itaque quocumque ieram, eodem revertebar). Anche il lupanare in cui troppo tardi Encolpio si accorge di essere entrato (74) si presenta sotto l’aspetto di un labirinto a due accessi: Encolpio entra da una porta, lo attraversa a capo coperto ed esce dall’altra porta. All’uscita incontra Ascilto, anche lui mezzo morto di fatica, che nel racconto delle sue peripezie per tutta la città alla ricerca della locanda ripropone il tema del labirinto (82: cum errarem (...) per totam civitatem nec invenirem quo loco stabulum reliquissem)... “La struttura del romanzo, per quanto possiamo giudicare, intreccia a un andamento lineare progressivo (da Marsiglia all’Egitto?) un andamento circolare, che riporta periodicamente sulla strada di Encolpio personaggi già incontrati e già lasciati, in una sorta di ritorno indietro nel tempo che ha i tratti angosciosi dell’inutile andirivieni del labirinto. L’immagine del labirinto (esplicitamente rievocata in 73) descrive assai bene l’apparente inutilità del continuo ritrovarsi in luoghi chiusi di Encolpio (questo o quell’albergo, l’arena, la prigione, il lupanare, la casa di Quartilla o di Trimalchione, la nave di Lica, il letto di Circe, la stamberga delle maghe) e del suo continuo evadere”. D’altronde per l’eroe del romanzo antico il mondo ostile che deve affrontare, le mille prove che deve superare prima di giungere alla soluzione felice altro non sono, in definitiva, se non la proiezione dello schema del labirinto, che da Petronio è caratterizzato con tale chiarezza per la prima volta in modo esplicito… mi chiedo se la metafora del labirinto non possa aiutarci a scoprire in Petronio la presenza di un motivo d’importanza fondamentale, che manca nella parte a noi giunta e rappresenta la differenza maggiore tra Petronio e Apuleio, tra Petronio e i romanzi greci: il motivo della purificazione e dell’iniziazione dell’eroe attraverso la prova: il continuo vagare di Encolpio in luoghi labirintici rappresenta la condizione necessaria perché, superata la serie di prove, egli sia mondato da colpe e plachi l’ira divina”.22 21 Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 354 ss. 22 P. Fedeli, op. cit., p. 355. Il labirinto allude anche al e l’ inestricabili giro (hic labor ille domus et inextricabilis error ); / ma di fatto, commiserato il grande amore della fanciulla regale, / Dedalo stesso distrìca gli inganni e le tortuosità del palazzo / guidando le cieche orme con un filo” (vv. 23-30). Il Minotauro prefigura l’incontro con i mostri dell’Inferno che è poi incontro con una parte di se stessi. mondo infero: non è un caso che nel VI dell’Eneide il protagonista prima di scendere agli Inferi veda raffigurato il labirinto cretese nel tempio di Apollo: “ il Minotauro c’è, ricordo di una Venere infame; / qui la famosa fatica del palazzo 64