Untitled - Istituto di Psicologia Scolastica

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INDICE
Editoriale....................................................................................................................... 173
Maria Rosaria Strollo
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Senso di comunità e benessere a scuola ..................................................................... 179
Cinzia Albanesi, Anna Marcon, Elvira Cicognani
La costruzione competente della relazione educativa:
Logos, Mithos e Pathos ................................................................................................ 201
Maria Francesca Freda, Giovanna Pagano, Giovanna Esposito
Dal setting istituito al setting istituente: riflessioni per lo sviluppo della
relazione educativa nel processo di insegnamento-apprendimento ........................ 225
Claudia Venuleo, Sergio Salvatore, Rossano Grassi, Piergiorgio Mossi
La relazione educativa da un vertice gruppale ......................................................... 243
Giorgia V. Margherita
Esercitare la giustizia in classe: voti, valutazioni e giudizi . ..................................... 267
Patrizia Selleri
RECENSIONI............................................................................................................... 285
REFEREE...................................................................................................................... 289
Editoriale
Maria Rosaria Strollo*
* Responsabile dell’Area Comune della SSIS Campana - Ateneo Federico II
Il contributo che la ricerca Psicologica ha tradizionalmente offerto agli insegnanti
in formazione è vasto ed articolato e si va orientando oggi sempre più in direzione
della costruzione di possibili itinerari finalizzati all’acquisizione di strategie di scelta
relativamente a ciò che è ritenuto più utile piuttosto che maggiormente efficace ai
fini dei processi di istruzione. Si tratta di un obiettivo connesso al profondo e radicale mutamento che ha coinvolto nel corso degli ultimi trent’anni l’immagine della
scuola e dell’insegnante.
In sintesi si può dire che questo mutamento ha comportato un passaggio dall’immagine del docente inteso in termini di funzionario/impiegato, a quella dell’insegnante inteso come professionista, e dunque dal modello della Razionalità Tecnica
- secondo cui l’attività dell’insegnante consisterebbe nella soluzione di problemi
resa rigorosa dall’applicazione di teorie e tecniche a base scientifica - al modello
della riflessione nel corso dell’azione - finalizzato all’acquisizione della capacità di
adottare soluzioni didattiche creative e consapevoli a fronte di situazioni connotate
da una estrema unicità, instabilità e, molto spesso, conflittualità. A questo proposito
Donald Schön osserva che “quando qualcuno riflette nel corso dell’azione, diventa
un ricercatore operante nel contesto della pratica. Non dipende dalle categorie consolidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del caso unico”.
L’insegnante, dunque, non è più colui che è deputato alla mera trasmissione dei
contenuti della cultura, ma un professionista chiamato ad intervenire con responsabilità su situazioni talora incerte, compiendo scelte a partire dal proprio bagaglio di
conoscenze e dalla propria esperienza; l’uno e l’altra devono necessariamente confluire in quella che si definisce ricerca didattica.
Le difficoltà incontrate in questi anni nell’ambito della formazione universitaria
degli insegnanti sono connesse al fatto che l’università italiana non ha una solida
tradizione di formazione iniziale degli insegnanti, avendo sempre puntato alla cultura
“disciplinare” più che alla costruzione di professionalità. Si è sempre dato per scontato che fosse sufficiente preparare il futuro insegnante sui soli contenuti disciplinari.
Non si considera, dunque, che le pratiche educative, perché siano “scientificamente” gestite, controllate e valutate, necessitano certamente di competenze disciplinari,
ma anche di competenze psico-pedagogiche, relazionali ed organizzative oltre che
di una consapevolezza teorica relativamente ai fini del processo educativo a partire
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dai quali scegliere gli strumenti più idonei al loro raggiungimento. Su quest’ultimo
punto vale la pena soffermarsi: ciò che si richiede all’insegnante è sostanzialmente
una capacità di autoriflessione, di mettersi continuamente in discussione, allo scopo
di far emergere e criticare le tacite comprensioni sorte attorno alle esperienze di una
pratica molto spesso segnata quanto meno dalla ripetitività. Ebbene, quanto a questo
segmento, la formazione iniziale si scontra con una rappresentazione delle discipline
psicologiche e delle altre scienze dell’educazione, a partire dalla quale molto spesso
si costruisce un sistema di attese focalizzato sull’acquisizione di tecniche e strategie
pratiche piuttosto che su un arricchimento della riflessione teorica su di esse e sullo
sviluppo di una competenza autoriflessiva rispetto al proprio agire professionale.
Ci si attende, molto spesso, strategie scientifiche nel senso tradizionale del termine, ovvero generalizzabili in ogni contesto di istruzione, che consentano il raggiungimento degli obiettivi formativi, individuati utilizzando il metro tradizionale
dell’attenzione e dell’acquisizione quantitativa dei contenuti disciplinari, a volte con
una evidente nostalgia per il bel tempo passato, in cui la scuola era regolata da norme
condivise da docenti e studenti o a cui gli studenti si adattavano passivamente.
In realtà, le ragioni del gap tra l’offerta formativa della scuola e la risposta ad essa
delle nuove generazioni sono di ordine socio-politico culturale, prima che tecnico.
La distanza tra ciò che avviene dentro e ciò che avviene fuori la scuola si fa via via
più consistente, senza che la scuola sia in grado di aprirsi ai mutamenti economici,
politici e culturali dei processi alla base della modificazione delle strutture di base
della società (immigrazione, famiglia, ruolo della donna, manipolazione politica delle fonti di informazione, ecc..). A fronte di questi mutamenti, le proposte educative
della scuola rimangono per lo più inalterate rispetto al passato, sicché lo spettro
dell’abbassamento culturale temuto a fronte del processo di scolarizzazione di massa, diviene oggi realtà inconfutabile, non perché dovesse necessariamente esserne
la naturale e logica conseguenza, bensì perché al processo di scolarizzazione non
è conseguita la messa in crisi della concezione elitaria della scuola sia a livello di
contenuti che di metodologie.
La scuola continua, così, ad essere il luogo in cui trasmettere la cultura rigidamente disciplinare anche a coloro a cui è estranea, misconoscendo e ignorando i contenuti di esperienza nella maggior parte degli studenti. Anche questo è un modello
legittimo, ma non l’unico modello possibile.
Oggi, nell’ambito del discorso psicologico e pedagogico ci troviamo di fronte ad
una pluralità di modelli che definiscono obiettivi diversi, spesso antitetici – si pensi
al polisemico concetto di comunità aperto ad interpretazioni contrastanti ovvero in
termini di “luogo di omologazione culturale” vs “luogo di costruzione culturale”
- ma tutti legittimi perché espressione di diversi punti di vista culturali e politici, e
rispetto ai quali è necessario che il docente prenda posizione conoscendone le radici
storiche, politiche e culturali, i precedenti che hanno contribuito alla loro genesi e
alla loro fisionomia, prima di preoccuparsi di acquisire la tecnica più idonea al raggiungimento degli obiettivi individuati dai modelli stessi.
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EDITORIALE
Uno dei compiti della psicologia e della pedagogia è, dunque, quello di formare
gli insegnanti ad individuare i nessi esistenti tra la riflessione sui diversi modelli educativi e le ricadute pratico-operative che da essi derivano, analizzarli in profondità e
non superficialmente attraverso il senso comune, avendo cioè come obiettivo non la
mera trasmissione dei contenuti, che mai è stato l’unico obiettivo della scuola, ma la
formazione dei futuri cittadini. Si tratta di formare gli insegnanti a fare continuamente i conti con le proprie credenze, convinzioni e ragioni personali, e ad assumersene
la responsabilità in termini di definizione degli obiettivi e delle strategie formative
individuate, di costruire le condizioni perché si crei un costante feedback tra l’individuo, la professione che svolge e la società. Questo scambio, afferma Popper, “può
essere notevolmente amplificato da una cosciente autoriflessione. […] Il processo
dell’apprendimento – della crescita della conoscenza soggettiva - è sempre fondamentalmente lo stesso. È critica immaginativa. Questo è il modo in cui trascendiamo
il nostro ambiente locale e temporale cercando di pensare circostanze oltre la nostra
esperienza: cercando di trovare, costruire, inventare e anticipare nuove situazioni
- vale a dire situazioni di prova, situazioni critiche - e cercando di localizzare, determinare e sfidare i nostri pregiudizi e le nostre assunzioni abituali”.
Si tratta, in altri termini, di fornire ai formatori strumenti scientificamente fondati di revisione del proprio “agire educativo spontaneo”, affinché siano attivi ed
autonomi costruttori dei presupposti teorici a partire dai quali interpretare la propria
esperienza formativa piuttosto che fornire quadri teorico-pratici prescrittivi: “gli insegnanti – afferma Schön - dovrebbero essere stimolati a riflettere sulle modalità
per mezzo delle quali strutturano la loro pratica di insegnamento all’interno di un
contesto che spesso può rivelarsi ostile alla riflessione nel corso dell’azione, allo
scopo di osservare e spiegare come altri insegnanti e amministratori si comportano
all’interno del sistema di una scuola. Essi dovrebbero essere aiutati a immaginare e a
sperimentare mediante interventi concreti finalizzati ad incrementare le loro libertà,
all’interno della scuola, rispetto all’utilizzo di nuovi approcci all’apprendimento e
all’insegnamento. Essi dovrebbero essere incoraggiati a pensare che il sapersi adattare e contribuire alla vita della scuola rappresenta una componente rilevante della
loro pratica”.
Ebbene, a fronte di questi nuovi obiettivi relativi alla formazione degli insegnanti, è urgente la costruzione di strumenti didattici pensati e costruiti in modo tale da
poter cogliere la pluralità di visioni del mondo che può caratterizzare i “modi di
vivere l’insegnamento”.
In questo quadro i contributi della rivista possono essere letti come proposte di
costruzione di una scuola in termini di comunità coevolutiva, di luogo in cui lo “stare
bene” dell’insegnante e degli allievi si realizza nella condizione dell’esser-ci in senso
culturalmente transattivo, non dello star-ci in modo psicologicamente residenziale.
La costruzione di una comunità educante in senso democratico, come emerge trasversalmente da tutti i contributi, è, dunque, un lavoro di fine e non grossolana relazione
educativa, dinamico e sofferto, di memoria, di attraversamento delle identità, di ar175
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ricchimento reciproco, di coesione, di riconoscimento delle storie, certamente non di
sottrazione ed omologazione alle tradizioni culturali micro e macro-territoriali.
Riferimenti bibliografici
Bertolini, P., La responsabilità educativa, Il Segnalibro, Bologna 1996.
Bonetta, G., Luzzatto G., Michelini M., Pieri M.T. (a cura di), Università e formazione degli insegnanti: non si parte da zero, Forum, Udine, 2002.
Popper, K.R., La conoscenza e il problema corpo-mente, Il Mulino, Bologna 1996.
Schettini, B., L’educazione alla cittadinanza e alla vita democratica fra aperture e
resistenze, in Strollo M. R., a cura di, Ambiente, cittadinanza, legalità. Sfide educative per la società del domani, Franco Angeli, Milano 2006, pp.63-71.
Schön, D.A., Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica
professionale, Dedalo, Bari 1993.
Schön, D.A., Formare il professionista riflessivo. Per una nuova prospettiva della
formazione e dell’apprendimento nelle professioni, trad. it a cura di Striano M.,
Franco Angeli, Milano 2006.
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TEMA:
LA RELAZIONE EDUCATIVA
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Senso di comunità e benessere
1
a scuola
Cinzia Albanesi*, Anna Marcon*, Elvira Cicognani*.
* Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G. M. Bertin”, Università di Bologna
1. Introduzione
Il senso di comunità può favorire il benessere a scuola attraverso il miglioramento della relazione educativa?
Questo contributo nasce nel tentativo di spiegare perché pensiamo si possa rispondere affermativamente a questo quesito. Lo facciamo a partire da una prospettiva teorica, tipicamente di psicologia di comunità, che riconosce nelle relazioni interpersonali e sociali un aspetto centrale nella definizione di benessere, e assegna
al soggetto un ruolo attivo nel costruire il proprio contesto di vita. Essere integrati
nella comunità scolastica e sentirsi parte attiva in essa, dal nostro punto di vista,
rappresentano le premesse “necessarie” affinché le prassi scolastiche si orientino
verso un clima di reciprocità, collaborazione e mutuo supporto e possano favorire
l’instaurarsi di relazioni educative promotrici di crescita, apprendimento e benessere
per ciascuno dei suoi attori.
Nei primi paragrafi vedremo i diversi approcci con i quali è stato affrontato lo studio del benessere nel contesto scolastico, focalizzando l’attenzione sui singoli attori
della scuola (docenti, studenti), sulle loro interazioni e sul contesto socio-organizzativo in cui sono inseriti. Nella seconda parte esamineremo il concetto di senso di comunità prendendo in esame i suoi effetti sulla relazione educativa e sul benessere di
insegnanti e studenti. Infine nell’ultimo paragrafo proponiamo un modello integrato
di senso di comunità da utilizzare come base per l’analisi e l’intervento delle prassi
scolastiche in un ottica di promozione del benessere
2. Il benessere nella prospettiva individuale
Ad un livello individuale, il tema del benessere (o malessere) è stato esaminato
considerando i singoli “attori” presenti nel contesto della scuola, nell’ambito dei
rispettivi ruoli (es. studenti, docenti). A questo riguardo possiamo avvalerci dei contributi di una vastissima letteratura scientifica in ambito psicologico, che, sulla scia
dell’estensiva definizione di salute proposta dall’OMS, ha esplorato le molteplici
dimensioni e articolazioni della condizione di benessere.
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Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 179 - 199
Negli ultimi vent’anni, l’attenzione della ricerca e della letteratura scientifica è
passata dal cercare di comprendere le cause del malessere psicologico e psico-sociale (a livello di salute mentale: es. sintomi di ansia, depressione; fisica: es. comportamenti a rischio per la salute; sociale: es. comportamenti trasgressivi) e del funzionamento “ottimale”. Sono stati conseguentemente introdotti numerosi costrutti per
descrivere il benessere, riconducibili a due principali visioni o “filosofie”, l’una che
identifica il benessere con la presenza di stati affettivi piacevoli (es. felicità, emozioni positive, soddisfazione per la vita, benessere soggettivo), visti come fini a se
stessi, meta desiderabile in una logica essenzialmente individualistica (edonismo)
(Diener et al 1999), l’altra che riconduce il benessere individuale ad aspetti come
il possesso di competenze, sviluppo positivo, crescita, autorealizzazione, resilienza
ed empowerment (eudaimonia) (Ryff, 1989; Ryan, Deci, 2001; Cowen, 2000). In
questa prospettiva, studiare il benessere a scuola significa indagare i vissuti personali di soddisfazione, felicità, il possesso di capacità (es. skills, capacità di coping
e resilienza), la presenza di indicatori di “sviluppo positivo” nei diversi attori della
scuola (studenti, docenti) e porre attenzione ai fenomeni che segnalano la presenza
di vissuti di malessere e disagio. Qui di seguito ci soffermeremo in particolare sulle
ricerche effettuate con studenti e insegnanti.
2.1 Il benessere degli studenti
Gran parte delle ricerche empiriche condotte con gli adolescenti hanno preso in
esame studenti e sono state realizzate a scuola, anche perché si tratta di un contesto
in cui sono più facilmente raggiungibili. Non sempre però l’attenzione era rivolta al
contesto scolastico di per sé e al suo ruolo nel favorire il benessere. La letteratura
scientifica ha mostrato particolare interesse soprattutto verso lo studio di atteggiamenti e comportamenti disfunzionali e verso i sintomi di malessere e disagio, ed in
misura limitata verso gli indicatori “positivi” di benessere e soddisfazione. Sono
infatti proliferate ricerche che hanno approfondito, ad esempio, fenomeni come il
bullismo, il disagio adolescenziale, l’abuso di sostanze e i comportamenti trasgressivi nelle scuole e hanno messo in luce il ruolo dei fattori individuali, sociali e contestuali che li influenzano. Nell’ambito della psicologia dell’adolescenza, il ruolo della
scuola (rilevato ad esempio mediante variabili individuali quali gli atteggiamenti
degli adolescenti verso la scuola, verso gli insegnanti, i compagni, la motivazione
allo studio, il rendimento scolastico) è stato tipicamente indagato nell’ambito delle
ricerche finalizzate ad esplorare vari aspetti dello sviluppo adolescenziale. Modelli
dello sviluppo come quello ecologico (Bronfenbrenner, 1986) hanno infatti ispirato tentativi di mettere a fuoco le interdipendenze fra i diversi “sistemi” (famiglia,
gruppo dei pari, scuola, vicinato, comunità) all’interno dei quali gli adolescenti si
sviluppano e il loro ruolo nel favorire processi evolutivi e di adattamento “ottimali”
(“positive youth development”).
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TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
La necessità di focalizzare l’attenzione sul contesto della scuola nell’ambito della promozione del benessere degli adolescenti è oramai ampiamente riconosciuta,
anche se generalmente la scuola è vista per lo più come contenitore entro il quale
effettuare interventi di prevenzione del disagio e di promozione dello “star bene”
rivolti ai suoi attori più giovani (es. mediante l’utilizzo di varie metodologie anche
specifiche per questo tipo di contesto quali l’educazione socioaffettiva, la life skills
education.) piuttosto che come soggetto e attore della promozione del benessere, con
alcune eccezioni significative.
A livello internazionale, ad esempio, il ruolo centrale della scuola nella promozione del benessere è stato riconosciuto in movimenti come quello delle “Health Promoting Schools” dell’OMS (in Europa) e il “Coordinated School Health Programme
(nel contesto USA). Una Health Promoting School è una scuola che ha un insieme
organizzato di regolamenti, procedure, attività e strutture finalizzate a proteggere
e promuovere la salute e il benessere degli studenti, dello staff e dei membri della
comunità scolastica più allargata. Il movimento delle HPS assume come riferimento
il concetto di salute dell’OMS, che nella sua ampia accezione lo connette a quelli di
qualità della vita e di benessere di tutti gli attori di un contesto sociale.
2.2 Il benessere dei docenti
Gli studi che hanno indagato il benessere dei docenti provengono soprattutto dall’ambito della salute organizzativa e si sono focalizzati principalmente sulla qualità
della vita lavorativa ed organizzativa e come essa si ripercuota sul livello di stress
e di benessere personale, oltre che sul grado di motivazione e di impegno profuso
nella propria attività.
Un certo interesse è stato rivolto anche ad approfondire il ruolo del senso di efficacia personale dei docenti e gli effetti che esso produce su qualità, soddisfazione e
commitment lavorativi (Di Fabio et al, 2006; Caprara et al, 2006). In base a questa
prospettiva il successo di un’organizzazione, come ad esempio la scuola, dipende
dalle risorse che i membri possiedono, sono in grado di attivare e mettere in comune,
ma anche dalle convinzioni condivise di essere capaci di raggiungere collettivamente gli obiettivi prefissati, di dominare le circostanze e di affrontare i problemi .
Le ricerche finora condotte su questo fenomeno hanno messo in evidenza i legami fra alcune variabili come l’impegno organizzativo, l’impegno professionale, il
comportamento organizzativo prosociale e la soddisfazione professionale.
L’ambito di ricerca che ha prodotto maggiori risultati è quello che ha approfondito il fenomeno dello stress lavorativo e del burnout2 nell’ambito della professione
docente, tentando di mettere a fuoco i fattori esplicativi a livello individuale e organizzativo.
Un modello teorico utilizzato in questa letteratura per spiegare il fenomeno del
burnout è quello di Karasek (Demand-Control Model, 1979) in base al quale lo stress
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Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 179 - 199
lavorativo deriva dalla combinazione fra percezione di forti richieste lavorative e
basso controllo percepito sul lavoro. Un altro modello più complesso è il Job Demands-Resources Model (Bakker, Demerouti, 2007) che individua all’origine del
burnout, uno sbilanciamento tra richieste lavorative e risorse disponibili per farvi
fronte. In questa prospettiva si produce burn-out o “malessere lavorativo” quando: a)
le richieste del lavoro richiedono sforzi fisici e/o psicologici eccessivi per mantenere
un livello di prestazione ottimale; b) le risorse del singolo (fisiche, psicologiche, sociali) necessarie per affrontare le richieste lavorative non sono sufficienti.
Al di là dei singoli modelli, la recente letteratura evidenzia la necessità, per
risolvere le discrepanze tra le persone ed il lavoro, di focalizzarsi non solo sull’individuo, potenziandone per esempio le risorse e le capacità di far fronte alle
situazioni di stress, ma anche sul luogo di lavoro, e sulle relazioni che il singolo vi
intrattiene.
Questa nuova prospettiva sottende un modo diverso di affrontare la questione del
benessere, considerandolo come un fenomeno che si origina/attualizza nel contesto
delle relazioni interpersonali e di gruppo (es. relazioni fra studenti, fra studenti e
docenti, a livello di gruppo classe).
3. Il benessere nella prospettiva relazionale
Gli studi che hanno cercato di comprendere il benessere in un’ottica relazionale
sono pochi, soprattutto in riferimento al contesto scolastico. Assumere una prospettiva relazionale significa focalizzare l’attenzione sul benessere nel contesto di relazioni interpersonali, adottando come unità di analisi, ad esempio, la diade studentedocente e rilevando il benessere mediante indicatori non solo individuali ma anche
relazionali. Le ricerche si sono limitate ad affrontare questo aspetto utilizzando indicatori individuali.
Un tema specifico oggetto di indagine è la relazione tra autoefficacia degli insegnanti, successo scolastico e benessere degli studenti. Vari studi hanno messo in
luce che le convinzioni di efficacia degli insegnanti possano influenzare il successo
scolastico e lo sviluppo cognitivo degli studenti (Caprara et al, 2006).
Inoltre, si è dimostrato che l’efficacia dei docenti correla con gli atteggiamenti
positivi degli studenti verso la scuola, con la loro autostima ed efficacia; anche la
motivazione degli allievi ed il loro coinvolgimento in attività scolastiche ne è positivamente influenzata, con conseguenze dirette sul rendimento.
Le convinzioni di efficacia personale degli insegnanti possono influenzare la riuscita scolastica degli studenti in vari modi: gli insegnanti efficaci (più degli insegnanti
poco efficaci) possono implementare metodi didattici innovativi; possono impiegare
metodi di gestione della classe e metodi di insegnamento che favoriscono l’autonomia degli studenti e riducono la necessità di supervisione sulle loro attività; possono
gestire meglio i problemi della classe e mantenere gli studenti centrati sul compito.
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TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Gli insegnanti efficaci sono inoltre maggiormente capaci di riconoscere e apprezzare il contributo degli altri attori della scuola al suo funzionamento e di percepire la
scuola come capace di perseguire la sua mission. Sono conseguentemente più motivati e disposti ad instaurare relazioni collaborative con colleghi e genitori.
In ambito internazionale vi sono studi che hanno evidenziato la stretta connessione tra caratteristiche del docente, come lo stile professionale, e il rendimento scolastico degli allievi. Opdenakker e Van-Damme (2006), ad esempio, hanno trovato che
la collaborazione fra insegnanti e il supporto agli studenti producevano effetti positivi sul rendimento scolastico e sul benessere segnalando comunque l’importanza di
prestare attenzione al contesto nel quale le relazione si producono.
Questa ottica di analisi diviene centrale nella ricerca sul benessere organizzativo,
che, utilizzando una proposta di Avallone e Paplomatas (2005) può essere definito
come “l’insieme dei nuclei culturali, dei processi, e delle pratiche organizzative che
animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico
e sociale delle comunità lavorative” (p.11).
4. Il benessere organizzativo
Il tema del benessere organizzativo ha assunto particolare interesse nel contesto italiano negli ultimi anni, anche a seguito dell’attenzione della Commissione
Europea che nella direttiva 2002-2006 sulla salute psicofisica nei luoghi di lavoro
(COM/2002/0118def.) invitava gli Stati membri ad occuparsi della Promozione del
benessere nei contesti di lavoro in un’ottica di prevenzione dei rischi psicosociali
emergenti (stress, burnout, mobbing). Tale indicazione è stata recepita in Italia nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni, tramite una Direttiva del Ministro della
Funzione Pubblica sulle misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo (24 marzo, 2004), che sollecita l’attuazione di indagini conoscitive e di azioni
concrete di miglioramento.
Ne sono conseguiti una serie di studi, sul benessere organizzativo nelle pubbliche
amministrazioni (Province, Regioni, Comuni, Scuola, Università, ecc.) che hanno permesso di concettualizzare il costrutto di benessere organizzativo, individuandone le
dimensioni costitutive, e di avviare ricerche empiriche sui fattori che lo influenzano.
Alla base di questo crescente interesse c’è la consapevolezza che il benessere organizzativo risiede nella qualità delle relazioni esistenti tra le persone ed il contesto
di lavoro, e che, agendo su aspetti contestuali, su variabili legate al clima, alla cultura
organizzativa e agli stili di convivenza sociale (psychosocial work environment) si
può promuovere il benessere organizzativo e di riflesso influenzare la produttività,
la motivazione e la disponibilità al lavoro (Bond, Bunce, 2001; Avallone, Bonaretti,
2003). In quest’ottica, si pone pertanto attenzione al lavoratore, alle sue condizioni
di vita, intrecciate indissolubilmente con le caratteristiche del posto di lavoro.
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Coerentemente con tali asserzioni Sangiorgi (2005) sulla base di una revisione
della letteratura esistente, riconduce il benessere di un lavoratore ad aspetti dell’individuo, da un lato, e dell’organizzazione complessiva, dall’altro. Secondo l’autore
si può parlare di benessere quando il lavoratore prova soddisfazione per il lavoro e
l’attività che svolge, in una organizzazione che possiede specifiche caratteristiche
“oggettive” (presenza di adeguate risorse, di locali adatti, ecc) e “soggettive” (percezione positiva della cultura e del clima dell’organizzazione).
La distinzione tra cultura e clima è approfondita da Barone (2005) secondo cui il
clima è qualcosa di molto simile allo stato umorale di una persona, ed è fortemente
influenzato da fattori legati all’individuo (come per esempio la percezione di certezza e stabilità occupazionale; l’orgoglio di appartenenza e la qualità delle relazioni
interpersonali intrattenute sul posto di lavoro) e da fattori legati all’organizzazione
(igiene e qualità degli ambienti di lavoro; qualità percepita della linea gerarchica e
della comunicazione).
La cultura abbraccia invece i tratti più profondi, sedimentati nel tempo, di un’organizzazione ed è metaforicamente riconducibile al “carattere” di una persona; ne
sono un esempio gli eventi reiterati nel tempo che sanciscono la storia e l’identità di
un’organizzazione.
In questa prospettiva la cultura organizzativa ha la proprietà di resistere più a
lungo nel tempo e di subire trasformazioni lente: essa non è facilmente modificabile
perchè il sistema di valori ha radici antiche ed è condiviso. Il clima, invece, prende
forma più velocemente ed altrettanto velocemente muta (Barone, 2005).
Un’organizzazione, come per esempio la scuola, può essere idealmente rappresentata come un iceberg (Minzberg, 1983), la cui punta è costituita dai prodotti, dai
risultati, da una struttura visibile. Alla base però vi sono degli elementi sommersi,
riconducibili a variabili quali la cultura, il clima, i valori, le percezioni dei singoli
lavoratori, che svolgono un ruolo fondamentale nella definizione del benessere.
Anche la direttiva del 24/03/04 aveva proposto un modello di benessere multidimensionale articolato in tre macroaree:
• caratteristiche strutturali (presenza di un ambiente di lavoro salubre, confortevole ed accogliente; adozione di azioni per prevenire gli infortuni e i rischi professionali);
• caratteristiche organizzative (obiettivi chiari ed espliciti, coerenza tra enunciati
e prassi operative, valorizzazione delle competenze e degli apporti dei singoli;
apertura all’ambiente esterno e all’innovazione tecnologica e culturale; scorrevolezza operativa, rapidità di decisione, supporto all’azione verso gli obiettivi);
• caratteristiche relazionali (ascolto delle istanze dei dipendenti; trasmissione delle
informazioni pertinenti per il lavoro; creazione di un ambiente relazionale franco,
comunicativo e collaborativo).
Si possono poi individuare anche elementi di natura trasversale, quali l’equità
di trattamento a livello retributivo, l’assegnazione di responsabilità, la promozio184
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
ne del personale, la trasmissione del senso di utilità sociale. È dunque agendo su
questi aspetti che si può promuovere il benessere nelle organizzazioni, comprese
le scuole.
Ad oggi sono pochi gli studi che hanno applicato questa prospettiva di analisi
al contesto scolastico. Questo lo si deve probabilmente alla natura complessa dell’
“organizzazione scuola”, che deriva in parte dalla duplice natura del servizio che
eroga e in parte dall’ essere un sistema a bassa integrazione o a “legame debole”
(Weick,1980) in cui i diversi attori sono legati fra loro, ma ognuno mantiene la propria identità e separatezza anche in relazione alla scarsa importanza che la gerarchia
riveste sul funzionamento della scuola (D’angelo, Pallotta, 2003).
Alcune ricerche hanno invece indagato l’impatto di diverse variabili organizzative sul benessere esperito dai docenti. Evans, per esempio (1998) ha preso in esame i
fattori che influenzano il morale e la soddisfazione professionale dei docenti (cfr. anche Hart et al, 2000). L’autore ha trovato che il fattore più importante è il contesto in
cui il docente lavora, e in specifico, fattori come il livello di retribuzione, l’ambiente
fisico e il grado di centralizzazione del potere. Coerentemente con tali risultati, Todino e Avallone (1999) hanno trovato che i docenti sono complessivamente soddisfatti
del loro lavoro, e apprezzano in particolare il livello di autonomia, il tempo libero di
cui dispongono, le relazioni con i colleghi e i superiori, mentre sono meno soddisfatti
delle possibilità di carriera.
Sono soprattutto le condizioni dell’ambiente lavorativo che discriminano fra i
docenti soddisfatti e insoddisfatti e in particolare, il grado di sostegno, di autonomia, e di sicurezza forniti dall’ambiente e il numero di studenti. Gli ambienti di
lavoro che offrono sostegno, nei quali i docenti hanno la possibilità di collaborare
e prendere parte attiva ai processi decisionali sembrano quindi favorire l’impegno
nell’attività di insegnamento rinforzando le intenzioni di continuarla. Anche Tripeni
(2006) a seguito di un’ indagine conoscitiva effettuata tra gli insegnanti di alcune
scuole lombarde ha trovato che la qualità della vita lavorativa degli insegnanti è
strettamente connessa al sostegno sociale fornito dalle reti formali e informali della
scuola; l’autore, inoltre, alla luce di questo studio sostiene che farsi carico del lato
soggettivo dell’organizzazione della scuola è estremamente importante sia nell’ottica di promuoverne il benessere sia per favorirne il successo.
Caratteristiche organizzative, relazionali e strutturali interagiscono nel determinare dunque il benessere degli attori della scuola, come in questo caso dei docenti.
Questi aspetti sono stati ripresi da Konu e Rimpela (2002) i quali hanno proposto
un modello complessivo di benessere a scuola (School Well Being Model), che utilizza alcuni indicatori che in parte si sovrappongono a quelli di benessere organizzativo
fin qui proposti.
Partendo dal modello sociologico del benessere di Allardt (1989) gli autori hanno
individuato 4 categorie di indicatori di benessere nella scuola: condizioni e caratteristiche strutturali (having); relazioni sociali (loving); mezzi per l’autorealizzazione
(being); stato di salute. Nello specifico l’having riguarda la presenza di un ambien185
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te sicuro, protetto, non rumoroso che facilita lo svolgimento dell’attività didattica.
Anche le dimensioni delle classi, il tipo di materie e curricola offerti, la presenza di
adeguati servizi per i diversi attori della scuola (mense, servizi sanitari, servizi di
assistenza e counseling, ecc.) sono aspetti che, pur riguardando principalmente il
contesto di apprendimento, rientrano in questa categoria.
Avere un ambiente strutturalmente adeguato non è però sufficiente per parlare di
benessere a scuola. È necessario anche che in questo contesto ci sia un clima “positivo”, dato da relazioni (tra studenti, tra studenti e docenti, tra scuola e famiglia)
basate sulla cooperazione ed il rispetto (loving), e in cui sia data a ciascun attore la
possibilità di partecipare attivamente ai processi decisionali e di essere valorizzato
per il proprio contributo al processo educativo-formativo. Tali condizioni favoriscono esperienze di apprendimento positive e sentimenti di autorealizzazione (being).
Infine, in accordo con Allardt (1976) lo stato di salute inteso come assenza di sintomi
fisici e psicologici di disagio e malattia è una parte essenziale del benessere dei singoli membri di un’organizzazione.
Tutti questi aspetti concorrono a creare il benessere dell’organizzazione scuola
che è in stretta connessione ed interazione con fattori di influenza esterni come la
famiglia ed il contesto sociale più generale.
Da questa articolata concettualizzazione emerge una visione della scuola come di
una “comunità” basata su scambi ed interscambi reciproci tra i diversi attori. Qui di
seguito ci soffermeremo pertanto ad esaminare il concetto di comunità, delineandone
le caratteristiche specifiche e le potenzialità euristiche per lo studio del benessere
relazionale nel contesto della scuola.
5. L’idea di comunità
Che cos’è una comunità? Non si può dare una risposta univoca a questa domanda
dal punto di vista del significato dal momento che ritroviamo nel termine comunità,
sia l’idea del territorio delimitato da mura o da confini (cum- moenia), sia l’idea del
dono (cum-munus) con il quale si stabilisce una reciprocità di rapporto con l’altro.
Si può intendere con Weber (1986) come “una relazione sociale in cui la disposizione dell’agire poggia su una comune appartenenza soggettivamente sentita degli
individui che ad essa partecipano” (p. 39) o come una “unità territoriale in cui vi
è predominanza di rapporti personali diretti, presenza di forme di socializzazione
comuni, presenza di certe forme di sentimenti di appartenenza, e la potenziale globalità dei rapporti sociali” (Ferrara, 1996). Per Martini e Torti (2003) il concetto di
comunità è riassumibile in tre dimensioni: locale-territoriale, relazionale, partecipativa. La dimensione localistica indica che la delimitazione territoriale può essere
distintiva rispetto ad altri sistemi sociali, anche se un sistema sociale, per essere
tale, non deve necessariamente essere radicato in un luogo preciso, ma è sufficiente
che ne siano identificabili i tratti culturali tipici; la dimensione relazionale, si espri186
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
me nella coesione tra i membri che formano il tessuto sociale, mentre la dimensione
partecipativa richiama “il processo attraverso il quale i normali cittadini possono
contribuire alla presa di decisioni rispetto a questioni che riguardano la comunità e,
di conseguenza, la loro vita” (Martini, Torti, 2003; p.59). Puddifoot (2003) enfatizza la dimensione locale della comunità in riferimento alla necessità di un locus inteso come l’elemento che consente l’identificazione e il senso di appartenenza alla
comunità. Il locus, anche nella comunità territoriale, non è definito esclusivamente
come luogo fisico ma, in quanto caratteristica distintiva della comunità, anche dai
pattern di relazione sociale e culturale che la caratterizzano.
Alla luce di queste diverse accezioni del termine possiamo domandarci se ha
senso pensare alla scuola come ad una comunità e in caso affermativo, a quali sono
le dimensioni tra quelle proposte che appaiono maggiormente rilevanti per la scuola
(o meglio per le scuole) di oggi.
6. La scuola come comunità
L’analisi della letteratura internazionale non solo ci permette di affermare con un
buon margine di sicurezza che possiamo utilizzare il concetto di comunità per riferirci alla scuola (Irwin, Farr, 2004), ma in qualche caso ci suggerisce (Sergiovanni,
1999) addirittura di sostituire la metafora della scuola come organizzazione con la
metafora della scuola come comunità, immaginando che la prima abbia le caratteristiche della gesellschaft3, mentre la seconda quella della geimenschaft di tonnesiana
memoria.
Altri autori (cfr. Hiatt Michael, 2001, Vieno 2005) che accolgono maggiormente
l’influenza del pensiero post moderno e criticano la visione romantica e tradizionalista della comunità nell’accezione proposta da Tönnies, suggeriscono di considerare
la scuola come Learning Community intesa come quell’organizzazione nella quale
i membri acquisiscono idee, accettano la responsabilità di sviluppare e mantenere
l’organizzazione, lavorano insieme, comprendendosi reciprocamente e tollerando le
reciproche diversità.
Per quanto riguarda gli elementi che identificano il concetto di comunità la letteratura ha focalizzato l’attenzione, anche per quanto riguarda l’ambito scolastico,
sia alla dimensione localistico territoriale sia alla dimensione relazionale mostrando,
con una certa ricchezza di contributi (cfr. Payne et al, 2003), che la dimensione della
scuola è una variabile rilevante per determinare se essa possa avere o meno le caratteristiche di una comunità (cfr. Flecknoe, 2003). Nello specifico, in analogia con
quanto emerso studiando le comunità di residenza, si è visto che scuole di “piccole
dimensioni” favoriscono lo sviluppo di relazioni significative e aumentano le possibilità di darsi metodologie di lavoro orientate in senso paritario e collaborativo (la
collegialità); tutti aspetti che sono basilari per lo sviluppo del senso di comunità tra
gli insegnanti.
187
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6.1 Il senso di comunità
Prima di procedere ad analizzare in che modo una scuola si “fa” comunità e
quindi le condizioni che favoriscono l’instaurarsi di relazioni significative occorre
definire quali sono le caratteristiche distintive di tali relazioni riferite alla comunità.
Sarason (1974) propone di identificarle nel senso di comunità, inteso come “la percezione di similarità con altri, una riconosciuta interdipendenza, una disponibilità a
mantenere tale interdipendenza offrendo o facendo per altri ciò che ci si aspetta da
loro, la sensazione di appartenere a una struttura pienamente stabile e affidabile”.
McMillan e Chavis (1986) definiscono il senso di comunità come “la certezza soggettiva che i membri hanno di appartenere e essere importanti gli uni per gli altri e
per il gruppo e una fiducia condivisa nella possibilità di soddisfare i propri bisogni
come conseguenza del loro essere insieme”. Esso è costituito da quattro dimensioni:
senso di appartenenza (belonging) che corrisponde al sentimento di fare parte di una
comunità; influenza (influence), identificata con la possibilità del singolo di partecipare e dare il proprio contributo alla vita della comunità in un rapporto di reciprocità;
soddisfazione dei bisogni (fulfillment of needs) che esprime il concetto secondo cui
la relazione tra individuo e comunità deve essere positiva per l’individuo che può
soddisfare alcuni bisogni in ragione dell’appartenenza al gruppo/comunità e connessione emotiva condivisa (shared emotional connection), definita dalla qualità dei
legami e dalla presenza di una storia comune.
Il modello proposto da Mc Millan e Chavis (1986) è stato assunto come base teorica dalla maggior parte degli studiosi che si sono occupati di questo costrutto, anche
per quanto riguarda l’esame del senso di comunità a scuola.
6.2 Il senso di comunità a scuola
Recentemente si possono rintracciare diversi studi sul senso di comunità a scuola.
Ad esempio Rovai (2004), in un articolo di validazione del Classroom and School
Community Inventory, propone una distinzione tra i costrutti di ambiente scolastico
(generico), clima scolastico e cultura scolastica (più ampio ma sovrapposto in parte
a quello di clima). In questa prospettiva, l’autore considera il senso di comunità
scolastico come la misura del clima scolastico (“la personalità” della scuola) e per
definirlo teoricamente fa riferimento alla revisione del modello elaborato con Chavis
da parte di Mc Millan (1996) .
Anche Royal e Rossi, in un contributo del 1996, propongono un modello articolato in dieci dimensioni (fiducia; lavoro di gruppo; comunicazione; visione, valori
e obiettivi condivisi; cura, rispetto, riconoscimento, ambiente accogliente) che gli
autori riconducono a quelle già proposte McMillan e Chavis.
Va rilevato, tuttavia, che la convergenza con il modello quadripartito del senso
di comunità spesso si ferma alla dimensioni teoriche, che fanno fatica a trovare una
188
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
traduzione operativa coerente tra diversi autori. Non c’è da meravigliarsi dunque
della moltiplicazione degli strumenti di misura del costrutto (cfr. Maton e Salem,
1995; Lunsboury e Deneui, 1996), attribuibili a divergenze fra gli studiosi su alcuni
aspetti della natura stessa del senso di comunità, ma soprattutto alla tendenza ad
utilizzare il termine in modo onnicomprensivo per indicare una varietà di gruppi ed
entità sociali (cfr. Cicognani et al, 2006). Questo fenomeno riguarda massicciamente anche il senso di comunità a scuola: gli strumenti di misurazione del costrutto si
sono moltiplicati, a volte in continuità con il modello quadripartito (Royal, Rossi,
1996), a volte in opposizione ad alcuni aspetti dello stesso. Cartland e i suoi collaboratori (2003), ad esempio, hanno criticato il Sense of Community Index, uno degli
strumenti più popolari per misurare il senso di comunità, perché, secondo loro, non
permette di rilevare il senso di appartenenza alla scuola nei gruppi minoritari, dal
momento che gli item riferiti al senso di appartenenza in realtà finiscono per rilevare
l’omogeneità all’interno del gruppo degli studenti e propongono in alternativa una
misura del “capitale sociale scolastico4” (quanto gli studenti ne hanno personalmente e quanto ne mettono a disposizione degli altri) che definiscono Hospitality scale.
Anche Rovai (2002) e Rovai et al (2004, 2005) passando in rassegna gli strumenti
di misura del senso di comunità scolastico studentesco, ne sottolinea la varietà e la
disomogeneità.
Sebbene l’uso di strumenti anche molto diversi tra loro ponga dei problemi sul
piano scientifico e metodologico, soprattutto relativamente alla comparabilità dei
risultati delle ricerche, esso non diminuisce il valore euristico del concetto di senso
di comunità a scuola.
6.3 L’importanza del senso di comunità a scuola
Il senso di comunità si è dimostrato un predittore significativo del livello di benessere degli attori scolastici e un fattore protettivo rispetto ad una pluralità di esiti
sfavorevoli.
Battistich e Allen (1997), ad esempio, studiando la relazione tra senso di comunità scolastico e coinvolgimento in problemi comportamentali degli studenti
hanno trovato che il senso di comunità è un fattore protettivo e che a maggiore
senso di comunità corrisponde una minore adozione di comportamenti violenti,
uso di sostanze e vittimizzazione. Sanchez et al (2005) hanno dimostrato che esiste una relazione tra senso di appartenenza, motivazione allo studio e prestazioni
scolastiche (cfr. anche Goodenow, 1993; Hagborg, 1998); tale relazione è più
forte per gli studenti di origine ispanica e per le ragazze, che generalmente hanno
livelli più elevati di senso di comunità scolastico. Anche i lavori di Battistich et
al (2004), Watson et al (1997) hanno mostrato la presenza di una relazione tra
senso di comunità, orientamento positivo nei confronti della scuola e piacere di
frequentarla.
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Osterman (2000) afferma che sentirsi parte di una comunità è l’elemento qualificante del processo di apprendimento. L’autrice ritiene che per incrementare il
senso di comunità degli studenti sia necessario lavorare molto sulle relazioni tra
pari sviluppando pratiche che le favoriscano all’interno della scuola. A questo proposito, Johnson et al (1995) hanno dimostrato che gli studenti che sperimentano
maggiore senso di comunità percepiscono la scuola come un luogo più sicuro e partecipano maggiormente alle attività proposte in classe. Osterman (2000), inoltre,
condividendo la posizione di Dewey (1958), evidenzia che proporre attività condivise finalizzate allo sviluppo del senso di comunità è responsabilità della scuola
e degli insegnanti. A sostegno di questa posizione Van Petegem, et al (2007), ad
esempio, hanno trovato che il comportamento interpersonale degli insegnanti (misurato in relazione al livello di controllo della comunicazione in classe e al livello
di prossimità nella relazione con gli studenti), è un predittore significativo del clima di classe.
6.4 Gli insegnanti possono promuovere il senso di comunità?
Allo scopo di capire il modo in cui gli insegnanti possono contribuire allo sviluppo
del senso di comunità degli studenti, diversi autori hanno studiato il senso di comunità degli stessi insegnanti (Bryk, Driscoll, 1988). Ma (2003) ha trovato che se gli
insegnanti enfatizzano l’importanza del senso di comunità, è meno probabile che gli
studenti abbandonino la scuola, mentre è più probabile che accettino i valori proposti
dagli insegnanti. Royal et al (1996) hanno trovato che il senso di comunità è maggiore
tra gli insegnanti che lavorano nelle scuole più piccole rispetto a quelle più grandi e in
quelle private (vs. quelle pubbliche). In genere, mentre le differenze tra scuole piccole
e grandi sono state spiegate facendo riferimento alla possibilità di instaurare relazione
significative, le differenze tra scuole pubbliche e private sono state ricondotte alla
condivisione di valori e alla maggiore omogeneità che caratterizza le seconde rispetto
alle prime. Lee et al (1991) hanno confermato che nelle scuole private gli insegnanti hanno maggiore senso di comunità rispetto a quelle pubbliche, e hanno spiegato
questa differenza in relazione a variabili di tipo organizzativo. In particolare, gli autori distinguono tra scuole “a legami lenti” (tipicamente scuole pubbliche) e scuole
“integrate” (tipicamente scuole cattoliche private). Le prime sono caratterizzate da
mancanza di condivisione e consenso sulla mission, struttura burocratico-verticistica,
e situazioni di gruppo vissute come luoghi del conflitto; le scuole “integrate”, invece,
hanno obiettivi organizzativi consensuali e condivisi e maggiore comunicazione tra
pari. Inoltre, sono generalmente strutture più piccole e ciò contribuisce a ridurre la
burocratizzazione che, come diceva Weber (1947), rende più difficili quelle relazioni
interpersonali che contribuiscono a creare il senso di comunità. Questa diversa organizzazione, oltre a produrre livelli diversi di senso di comunità, influenza il livello di
soddisfazione e la percezione di efficacia nell’ambiente scolastico da parte degli inse190
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
gnanti. In particolare Lee et al (1991) hanno trovato che nelle scuole orientate in senso comunitario gli insegnanti sviluppano il proprio sentimento di soddisfazione e di
efficacia facendo riferimento sia all’esperienza che hanno in classe sia alla percezione
sociale interna alla scuola, mentre nelle scuole “ a legami lenti” il senso di soddisfazione personale degli insegnanti finisce per essere legato prevalentemente al livello di
controllo esercitato sulle classi, poiché la scuola non offre occasioni di confronto con
una rappresentazione sociale condivisa della figura dell’insegnante.
Newmann et al (1989) hanno studiato l’impatto di dieci variabili organizzative
sul senso di comunità del personale della scuola (insegnanti e dirigenti scolastici).
I risultati hanno mostrato che i maggiori predittori del senso di comunità sono la
capacità del dirigente scolastico di dare sostegno e prendersi cura degli insegnanti,
la capacità degli insegnanti di sostenersi reciprocamente, la condivisione di informazioni sui contenuti delle attività curricolari e il rispetto e la condivisione delle norme
da parte degli studenti. Di minore importanza, ma comunque significativo, risulta
l’orientamento all’innovazione, inteso come la possibilità, da parte degli insegnanti,
di dotarsi di nuovi strumenti di lavoro.
Anche Royal e Rossi (1996, 1999) hanno esaminato alcune variabili organizzative scolastiche e la loro relazione con il senso di comunità degli insegnanti:
tra queste, l’anzianità di servizio (in analogia con la durata della residenza), lo
status organizzativo (livelli di investimento e responsabilità), la partecipazione
ad attività extracurricolari (perché incoraggiano lo sviluppo di legami anche con
i membri dello staff incaricati della “sorveglianza”), le dimensioni della scuola e
la presenza di “strutture intermedie” nel contesto scolastico. Royal e Rossi (1996)
hanno trovato che l’anzianità di servizio non è una variabile rilevante e nemmeno
lo status. A scuola la soddisfazione lavorativa e la chiarezza dei ruoli sono correlate positivamente al senso di comunità. Gli insegnanti e i membri dello staff scolastico che hanno maggiore senso di comunità, inoltre, vedono più favorevolmente
l’introduzione delle riforme e il loro impatto nel contesto scolastico. La presenza
di strutture intermedie, e nello specifico l’uso del lavoro di gruppo nella scuola,
incrementano in modo significativo il senso di comunità (cfr anche Tobin et al,
2006).
7. Un modello integrato del senso di comunità a scuola
La rassegna della letteratura fin qui presentata ha evidenziato che superare prospettive di analisi parcellizzate, passando da visioni centrate unicamente sull’individuo, a favore di visioni che tengano contemporaneamente in considerazione variabili
individuali, relazionali e organizzative ci permette di pensare alla scuola come a
una comunità complessa, non riconducibile alla somma delle sue parti, con una sua
identità e un benessere che si costruisce e co-costruisce attraverso l’azione sinergica
dei diversi attori.
191
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 179 - 199
Ci pare però di poter aggiungere che una scuola capace di sentirsi e fare comunità
può diventare luogo elettivo di promozione del benessere relazionale e organizzativo anche attraverso il perseguimento della missione principale delle scuole di oggi
(ovvero creare ambienti di apprendimento che favoriscano l’acquisizione di capacità
cognitive, relazionali e della crescita personale) che richiede che i vari attori della
scuola (dirigenti, insegnanti, staff, genitori) operino di concerto per tale obiettivo.
Affinché ciò sia possibile occorre che la scuola attivi un processo di ricerca e analisi
del proprio essere organizzazione, lo (ri)orienti verso pratiche di comunità considerando gli attori della scuola come parti che interagiscono, si influenzano e ne sono
influenzate. Alla luce dei contributi presi in esame, infatti, si può ragionevolmente
affermare che per accrescere e consolidare il senso di comunità della scuola e nella
scuola è necessario agire un cambiamento orientato da principi di responsabilizzazione, valorizzazione e collaborazione tra i diversi attori.
Coerentemente con tale prospettiva, Strike (2004) propone un modello di scuola
come comunità, intendendo con questa definizione una scuola capace di perseguire
la propria missione educativa e di funzionare come organizzazione. Nello specifico,
per l’autore una scuola è comunità nel momento in cui soddisfa quattro condizioni
(denominate le quattro C): persegue un progetto educativo condiviso dai diversi attori (Coesione); presenta condizioni strutturali/organizzative che facilitano le relazioni
ed il coinvolgimento (Contatto); garantisce sostegno e cura tra i diversi attori della
scuola (Cura) e dà prova di condivisione dei linguaggi e del progetto educativo
(Coerenza). L’aspetto su cui l’autore focalizza maggiormente l’attenzione è quello
della Coerenza, che potremmo descrivere come una dimensione sovraordinata rispetto alle altre, riconducibile alla “cultura dell’organizzazione scolastica”. Essa è
sostenuta dalle seguenti condizioni:
- presenza di una struttura amministrativa a orientamento democratico (vs burocratico)
- presenza di un’ idea (vision) di cos’è una buona comunità educativa e di cosa
deve produrre un sistema educativo.
Secondo Strike contribuiscono a creare coerenza, e quindi una cultura orientata
in senso comunitario all’interno della scuola, le possibilità di scelta (quindi l’autonomia nel processi decisionali che riguardano gli individui) e l’esistenza di norme
che vengono interiorizzate.
Si tratta di due aspetti estremamente importanti che presi insieme ci consentono di
tenere uniti gli aspetti tradizionali e “moderni” dell’essere e sentirsi comunità. Da un
lato, infatti, il fatto che l’individuo approvi e senta proprie le norme che la comunità
propone significa che l’individuo e la comunità hanno una concezione comune della
realtà scolastica. Ciò contribuisce a rendere la comunità luogo sicuro per l’individuo
e rinforza il suo senso di appartenenza ad essa. Dall’altro, prevedere la possibilità di
scegliere (anche cosa condividere) all’interno della comunità, protegge l’individua192
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
lità dei membri, valorizza le differenze e contrasta l’idea che la comunità non possa
manifestarsi se non in presenza di omogeneità e somiglianza. Ciò è di particolare
importanza a scuola, in quanto luogo in continuo cambiamento, dinamico e instabile
per eccellenza. Gli aspetti culturali non esauriscono le variabili del modello, che pure
sono state descritte da Strike piuttosto sommariamente. Ci pare però di poter dire,
alla luce dei risultati delle ricerche empiriche, che affinché si possa parlare di scuola
come comunità è necessario che la visione condivisa si esprima in attività che hanno
obiettivi che le persone contribuiscono a raggiungere insieme. Fare insieme e curare
i processi che sostengono questo fare (con una particolare attenzione alla gestione
dei ruoli e dei conflitti) valorizza la dimensione partecipativa dell’essere comunità
(cfr. Martini, Torti, 2003) e la dimensione più squisitamente affettiva del sentirsi
comunità (Coesione).
Similmente ne risultano incrementati il sentimento di far parte di una comunità e
gli aspetti che si riferiscono al sostegno, alla soddisfazione dei bisogni ed alla cura
(Cura). Manca, a nostro avviso, nel modello fin qui elaborato la valorizzazione dei
legami (esterni), delle collaborazioni con il territorio e della capacità di costruire
rete, aspetti importanti perché la scuola si configuri come una comunità aperta e
capace di scambiare risorse con altre comunità (vicine o sovraordinate): ciò ci ha
spinto ad a aggiungere una dimensione ulteriore al modello, una quinta C denominata Connessioni, che si riferisce proprio a questi ultimi aspetti.
Fig. 1 - Modello integrato del senso di comunità scolastico
Coerenza
idee/pensare
Coesione
fare/sentire
Cura
integrare
Contatto
Condivisione della mission e dei
valori
Attività (Coesio- Prendersi cura e vane Sentire)
lorizzazione
Aspetti strutturali:
informazione
Significato e costruzione del PoF
Lavorare con
(Coesione fare)
Capacità /opportuni- Aspetti strutturali:
tà di aiuto e sostegno aggregazione
reciproco (aspetti
affettivi)
Cultura e identità
della scuola (asse
delle tradizione)
Gestione dei
conflitti
Soddisfazione dei
bisogni
Connessioni
con il territorio
Contatto con i
genitori
Contatto con
ambiente esterno
Presenza di risorse Reti e strutture
di supporto
Delega e chiarezza dei ruoli
Il modello così articolato può essere utilizzato come strumento per leggere ed
osservare il contesto scolastico di appartenenza e per promuovere azioni volte ad
193
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 179 - 199
incrementare il senso di comunità a scuola a partire da un’analisi delle strategie e
delle pratiche organizzative che dovrebbe consentire agli attori scolastici (in primis
dirigenti e insegnanti) di verificare quanto esse sono orientate in senso comunitario
e quanto contribuiscono al benessere della scuola come “forma” che emerge dalle
connessioni delle relazioni, delle azioni, dei linguaggi e saperi di cui ciascuno è
parte.
Note
1 Il presente contributo nasce nell’ambito del lavoro di ricerca realizzato all’interno del progetto
“Sostegno al successo scolastico e formativo Promossi in Benessere” Codice 2006-0881/RER, Ente
Gestore Villa Umbra-Scuola di Amministrazione Pubblica PG. Desideriamo ringraziare Norma Bonocore e i partner del progetto (Facoltà di Psicologia, Istituzione G.F. Minguzzi –ANEKA, Mathetica, Asaer) per il supporto allo svolgimento delle attività.
2 Letteralmente burnout significa “bruciarsi”, è una sindrome diffusa soprattutto tra le professioni
d’aiuto (infermieri, medici, psicologic, ecc..) e descrivibile come un lento processo di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare
lo stress accumulato (Maslach, Leiter, 1997)
3 Gesellschaft si riferisce alla società caratterizzata da relazioni fondate su base contrattuale, fredde
e riferite a contenuti limitati; Gemeinschaft si riferisce alla comunità come sistema di relazioni
tipiche del mondo tradizionale intrise di fiducia reciproca, lealtà generalizzata.
4 Gli autori usano il termine capitale sociale scolastico nel senso di tolleranza e accoglienza.
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TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
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Riassunto
Obiettivo del presente contributo è proporre una riflessione sul senso di comunità
come strumento di promozione del benessere a scuola. Vengono dapprima presentati
i costrutti di senso di comunità e benessere psicosociale e discussa la loro rilevanza
nel contesto scolastico a partire da una rassegna della letteratura internazionale, includendo anche alcuni contributi di psicologia organizzativa.
La tesi che guida questa riflessione è la seguente: per accrescere e consolidare
il senso di comunità della scuola e nella scuola è necessario agire un cambiamento
orientato da principi di responsabilizzazione, valorizzazione e collaborazione tra
i diversi attori. La scuola diventa comunità quando è in grado di attivare cambiamenti organizzativi che valorizzano e costruiscono relazioni tra i diversi attori e
promuove benessere quando è capace di cogliere la rilevanza strategica del diventare e del sentirsi comunità per perseguire la sua mission educativa. L’articolo si
chiude con la proposta di un modello integrato di studio del senso di comunità a
scuola.
198
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Abstract
Aims of the present contribution were to discuss the role of sense of community as a central factor for the development of well-being at school and to examine
relational and organizational characteristics of school settings that predict sense of
community and well-being.
In the paper definitions of personal, interpersonal and organizational well-being
and sense of community were presented. Their relevance and their relationships in
the school setting were discussed through an international literature review.
Based on this analysis, in order to promote sense of community and well being,
schools should orient their practice and change their organizational features according to “communitarian” principles of collaboration and democracy. Finally an integrated model to study sense of community at school was proposed.
Ricevuto Maggio 2007.
199
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
La costruzione competente della
relazione educativa: Logos, Mithos e
Pathos
Maria Francesca Freda, Giovanna Pagano, Giovanna Esposito*
* Dipartimento di Scienze Relazionali – Università degli Studi di Napoli Federico II
Apprendere senza pensare è tempo perso,
pensare senza apprendere è pericoloso
- Confucio -
A partire dalla legge sull’Autonomia è molto mutato lo scenario della scuola,
in quanto: “L’autonomia delle istituzioni è garanzia di libertà di insegnamento e
di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di
interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona
umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire il loro successo formativo,
coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con
l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento” (Decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275. Art. 1, comma 2).
L’articolo citato, che apre la Legge sull’Autonomia, pone fortemente in evidenza
la valorizzazione della professionalità dei docenti e dei dirigenti, il potenziamento
della valenza collegiale all’interno della scuola e l’ancoraggio della scuola stessa al proprio territorio. A partire da questo Regolamento, infatti, ciascun sistema
scolastico è chiamato a costruire un’offerta che, interloquendo con le richieste del
quadro nazionale, sia orientata a rispondere ai bisogni formativi del territorio, alla
domanda delle famiglie e dell’utenza, alle caratteristiche degli studenti e all’esigenza di migliorare l’efficacia del processo formativo. La Norma dell’Autonomia
sembra, dunque, prescrivere uno spostamento di baricentro dalla scuola-istituzione
alla scuola-servizio, ovvero da una scuola definita da missive nazionali e standardizzate ad una scuola capace di ancorare la sua azione al contesto locale, in un’ottica di “servizio” (Salvatore, Scotto di Carlo, 2005). Questo passaggio, connotandosi
in primis, come richiesta dei modelli culturali che orientano i processi educativi,
sta attualmente attraversando una fase di complessa elaborazione dialettica tra una
201
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
dimensione più tradizionale e istituzionale e una dimensione, invece, più contemporanea e innovativa.
Questo è lo scenario cui, oggi, l’istituzione scolastica fa riferimento ed esso viene
proposto non per presentare una semplice e mera analisi della norma o del comportamento sociale relativo ad essa, ma un’introduzione ai processi trasformativi
che orientano la scuola, volti ad istituire nuove prassi, ed in un processo circolare,
dunque ad attribuire nuovi significati e valori alla stessa norma. Pertanto, si può
ipotizzare, che tra la scuola disegnata dalla riforma e la scuola reale dei comportamenti vi sia la mediazione costruttiva della cultura, delle categorie di interpretazione
simbolica attraverso cui la norma acquista un senso e il senso stesso si trasforma in
prassi (Salvatore, Scotto di Carlo, op. cit.). In questo lavoro, tratteremo la relazione
educativa da un punto di vista psicologico, interpretandola come contesto organizzativo del processo di insegnamento/apprendimento. Riteniamo, infatti, che per individuare criteri di costruzione e gestione della relazione educativa, essa non possa
essere concettualizzata come contenitore relazionale ed affettivo di un processo di
apprendimento, pensato in termini meramente cognitivi, quanto piuttosto che essa
vada concettualizzata nei termini di un dispositivo di significazione (semiotico) del
contesto educativo, di tipo operativo, culturale ed emozionale, attraverso cui è possibile definire e ridefinire costantemente gli interlocutori dello scambio, organizzare
prassi ed identificare scopi. Per individuare criteri di costruzione e gestione della relazione educativa riteniamo altresì necessario un passaggio metodologico che da un
ruolo di sfondo, o tutto al più di cornice del processo di insegnamento apprendimento, conferisca alla relazione educativa un ruolo di oggetto del discorso educativo.
1. Alcuni presupposti paradigmatici e teorici
A partire dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi abbiamo assistito a profondi mutamenti relativi ai modi di concepire il pensiero umano ed i processi di
conoscenza. Guba e Lincoln (2000) hanno tratteggiato il progressivo evolversi di
prospettiva attraverso cui sono stati affrontati i principali quesiti che regolano la
costruzione della conoscenza: quesiti di natura ontologica che riguardano la natura
della realtà e di ciò che è conoscibile; quesiti di natura epistemologica che riguardano la relazione tra colui che conosce ed oggetto della conoscenza; quesiti di natura
metodologica che riguardano le strategie e le strumentazioni del processo di conoscenza. Nel corso dell'ultimo secolo si è assistito ad un progressivo spostamento
da un paradigma1 positivista fondato su di un irrinunciabile legame tra conoscenza
scientifica e verità, ontologicamente volto a cogliere le leggi universali che reggono
il funzionamento della realtà (realismo ingenuo), orientato da una prospettiva epistemologica di tipo dualista ed oggettivista che tratta come separati soggetto e l'oggetto
di conoscenza e fondato su metodologie sperimentali di tipo quantitativo, verso un
paradigma costruttivista e verso prospettive partecipatorie dei processi di costruzio202
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
ne della conoscenza2. Il paradigma costruttivista, rispetto al quesito ontologico, si
muove in senso relativista: le realtà sono conoscibili solo quali costruzioni mentali
molteplici, socialmente ed esperenzialmente fondate; la relazione tra soggetto ed
oggetto di conoscenza è di tipo transazionale: indagatore ed indagato sono legati in
una struttura di interdipendenza ed i risultati sono creati attraverso l'istituirsi della
relazione di conoscenza (emergentismo), più che essere scoperti in essa, i metodi
sono prevalentemente di tipo qualitativo e discorsivo.
In psicologia, il passaggio da una logica positivista di costruzione del sapere ad
una logica di tipo costruttivista e socio-costruttivista ha implicato uno spostamento
del focus dall'interesse per la realtà, all'interesse per il significato ed inoltre, dallo
studio dei processi che presidiano alla scoperta della realtà verso lo studio dei processi che presidiano alla sua costruzione in termini di rappresentazioni individuali e
condivise. Tale svolta paradigmatica può essere compresa solo se analizziamo il concetto di costruttivismo e le sue successive declinazioni nei termini di socio-costruttivismo, cogliendone similitudini, ma anche fondamentali differenze. Il costruttivismo
si fonda sull'ipotesi ampiamente dimostrata in numerose ricerche sperimentali, già
nella prima metà del secolo scorso, secondo cui una attività costruttiva dei soggetti
si esprime a tutti i livelli del processo di elaborazione delle informazioni (Ugazio,
1998). Secondo l'ipotesi costruttivista i processi di conoscenza della realtà sono
strutturati in ragione degli schemi, delle categorie, dei sistemi di credenze del soggetto conoscitore nonché in senso più generale dalla visione del mondo, e dagli scopi
che esse perseguono. Si tratta del profilarsi di un punto di vista nuovo sull’essere
umano e quindi anche dell'assetto concettuale necessario per indagare la sua vita, le
sue condotte, le sue conoscenze. In base ad un presupposto costruttivista è possibile
ipotizzare che ogni individuo costruisca l'ambiente in cui si colloca, dandogli significato in ragione delle proprie categorie (Salvatore, 2004b). Rispetto al costruttivismo
ciò che qualifica il socio-costruttivismo e le sue declinazioni costruzioniste (Gergen,
1999) è l'ipotesi secondo cui le categorie, gli schemi, i sistemi di credenze, così come
le stesse intenzioni e gli scopi, siano intersoggettivi, si strutturino e si mantengano
cioè nella relazione sociale, nella struttura di interdipendenza generata dalle condizioni del discorso.
Nella prospettiva socio-costruttivista interagiscono il costruttivismo e l'interazionismo, favorendo così una visione della mente come un sistema al contempo capace
di costruire significato e di costruirsi entro e per mezzo del rapporto sociale (Salvatore, op. cit.). Prospettiva emergente che, ponendo al centro dell'interesse i processi
attraverso cui i soggetti danno senso al mondo ed alle loro vite, si occupa di studiare
gli intrecci tra processi mentali e processi culturali. Tra mente e cultura si genera un
rapporto circolare, dove la mente è concepita in termini semiotici, in cui processi
socialmente costruiti e condivisi come gli schemi o le narrazioni o le categorie del
pensiero scientifico, sono adottate nei processi di costruzione della realtà. In questa
prospettiva, dunque, la mediazione tra pratiche sociali e funzioni psichiche è affidata
ai processi simbolici di costruzione dei significati; si fa riferimento ad una mente
203
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
storicamente situata, attivamente coinvolta nei processi di costruzione di senso i cui
sistemi di categorizzazione della realtà sono socialmente costruiti e costantemente
negoziati in quel forum rappresentato dalla cultura (Freda, 2004). In altre parole, i
segni non hanno un significato prestabilito, al di là di quello che assumono in ragione dei modi in cui sono utilizzati entro la contingenza dello scambio comunicativo.
L'adozione di un segno, per esempio una parola (o di una combinazione di segni),
non è un'operazione meramente linguistica, ma un atto di comunicazione: si tratta di
un modo di fare qualcosa attraverso il dire qualcosa (Austin, 1962). In ragione di ciò,
il valore psicologico di un segno non è dato dal suo contenuto semantico ma dalla
funzione che esso assume nella regolazione dello scambio discorsivo.
Nel presente lavoro, a partire da una concezione semiotica dei processi mentali si
propone un punto di vista che integra un modello culturalista dei fenomeni psicosociali ed un modello psicodinamico. Al fine di esplorare la complessità della relazione
educativa, si propone un modello di costruzione del significato cui contribuiscono
processi emozionali di natura inconscia, processi culturali, spesso di natura implicita, e processi del pensiero razionale ed operativo. Si giunge così ad una concezione
unitaria dei processi di costruzione del significato che trae supporto da diversi filoni
di studio volti all’esplorazione del rapporto tra emozione e pensiero, da studi che
ipotizzano un carattere allo stesso tempo circolare e gerarchico di funzionamento
dei processi mentali, volto a coniugare l’azione di queste due sfere e volto quindi
ad elaborare e superare una scissione tra affettivo e cognitivo, posti nella tradizione
scientifica rispettivamente l’uno al servizio del sentire e l’altro al servizio del pensare e del conoscere (Dewey, 1939).
Si è già discusso in una prospettiva culturalista della concezione di mente come
costruttrice di significati, per esplorare il modello proposto, ci resta ora da approfondire il modo di funzionamento inconscio della mente in una prospettiva semiotica.
In particolare, nei paragrafi successivi del presente lavoro, si proverà ad utilizzare il modello integrato dei processi che presidiano alla costruzione del significato dell’esperienza per comprendere come essi contribuiscano alla costruzione della relazione educativa. Nell’ottica psicodinamica, introdotta dalla teorizzazione di
Sigmund Freud, l’inconscio assume un ruolo fondamentale nella regolazione del
funzionamento psichico. A partire dalle prime concezioni di Freud (1899, 1915) sul
concetto di inconscio come modo di funzionamento primario della mente, regolato
dal principio del piacere e operante, tra gli altri meccanismi, attraverso una sostituzione della realtà esterna con quella interna, alcuni autori, hanno sviluppato, in un
ottica psicodinamica, una prospettiva semiotica di mente, fondata su di una concezione categoriale di funzionamento dei processi psichici, in cui l’inconscio assume
il ruolo di centrale primaria di significazione (Matte Blanco, 1975; Fornari, 1979).
Il presupposto fondamentale da cui si muove la teorizzazione di Matte Blanco (op.
cit.) è quello di una natura strutturalmente antinomica dell’essere umano in quanto
fondata su due modi di essere tra loro simultanei ed incompatibili: un modo di essere
conscio, che tratta la realtà come divisibile ed eterogenea, fondato sull’asimmetria
204
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
della logica aristotelica; l’altro, un modo di essere inconscio della mente che tratta la
realtà come unica ed indivisibile fondato su di una logica simmetrica e generalizzante. Se il primo modo corrisponde in linea generale al pensiero, il secondo corrisponde all’emozione. Matte Blanco non giustappone i due modi di essere della mente,
ma li considera componenti complementari della processualità psichica. Ciò implica
che l’emozione non può essere considerata, unicamente, quale funzione psichica che
irrompe nel rapporto tra pensiero e realtà, ma quale modo di funzionamento della
mente che sistematicamente interviene nell’organizzazione della realtà stessa: per
Matte Blanco l’emozione è madre del pensiero.
In questa direzione un ruolo significativo nel processo di costruzione dei significati viene attributo al modo d’essere inconscio della mente e con esso alle emozioni.
Fornari (1979) ha definito simbolizzazione affettiva un modo di categorizzazione
inconscio della realtà in ragione del quale gli oggetti con cui si entra in rapporto
sono connotati affettivamente. La simbolizzazione affettiva fonda un modo di categorizzazione emozionale della realtà distinto, e costantemente in interazione, da un
modo di simbolizzazione operativa che consente di organizzare la realtà in termini
di percezione, cioè nel suo significato cognitivo. La simbolizzazione affettiva non
funziona solo in termini di codice di corrispondenza, per cui ad un oggetto della
realtà è attribuibile un significato di natura inconscia ed affettiva, ma funziona anche come codice attanziale, come vero e proprio atto di significazione, vale a dire
come orientamento all’azione. Connotare emozionalmente un determinato contesto
significa essere spinti ad agire, a trasformare l’emozione in un agito emozionale che
può essere considerato come l’evacuazione dell’emozione entro la relazione. Si sta,
in sintesi, dicendo che gli attori impegnati in una attività costruiscono emozionalmente – in termini di simbolizzazione affettiva – gli elementi dell’ambiente con il
quale si rapportano e contribuiscono in tal modo a definire il funzionamento della
relazione. Riprendendo l’ottica intersoggettiva cui si è fatto riferimento nelle prime
parti di questo paragrafo, possiamo ipotizzare che la costruzione emozionale della
realtà non avvenga nella singola mente, non appartenga ai singoli attori, ma sia frutto
della loro interazione. Carli e Paniccia (2003) hanno definito collusione la simbolizzazione affettiva di un contesto, condivisa emozionalmente da chi a quel contesto
partecipa. La collusione è un processo di socializzazione delle emozioni che deriva
dalla condivisione della simbolizzazione affettiva di un contesto. Essa costituisce un
tramite emozionale che organizza la relazione individuo/contesto e fonda la prevedibilità emozionale di questo rapporto (Carli, 1990) in quanto inconscia, la collusione
non è direttamente rilevabile, le persone la vivono, la agiscono ma non ne hanno una
immediata consapevolezza, essa fonda i processi di costruzione di senso del contesto
e le sue pratiche, ma può essere pensata solo attraverso un sospensione dell’azione
produttiva.
Il discorso sin qui condotto è volto a sostenere una partecipazione del modo di
funzionamento inconscio ed emozionale della mente nella costruzione dei significati
degli oggetti della realtà e nell’orientamento delle pratiche entro i contesti. Per esem205
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
pio, calando il discorso in ambito scolastico, quanto detto implica il considerare la
dimensione inconscia come fondamentale processo di significazione che definisce
(istituisce) la cornice di senso (contesto) culturale entro cui e in ragione della quale vengono costruite le dimensioni della relazione educativa. Inoltre, il costrutto di
collusione, che rispetto a quello di simbolizzazione affettiva, mostra una più ampia
apertura al contesto e alle relazioni interindividuali, ci permette di considerare in una
prospettiva semiotica ed affettiva anche il funzionamento delle organizzazioni, infatti, per quanto, in passato, il comportamento delle organizzazioni è stato ridotto a pura
razionalità funzionale, si ritiene oggi che non sia possibile escludere le dinamiche
emozionali, intese come dinamiche caratterizzate della logica della simbolizzazione
affettiva e delle sue vicende di condivisione sociale, poiché esse non possono essere
più considerate un residuo problematico, un ostacolo, ma piuttosto una componente essenziale per il funzionamento dell’organizzazione stessa. Entro la prospettiva
semiotica è possibile considerare anche le organizzazioni dal punto di vista dei processi di significazione che le costruiscono, ovvero di quei processi mentali che gli
attori usano intersoggettivamente per costruire il senso della loro partecipazione,
orientare le proprie prassi e definire i propri scopi. La tesi da cui ci si muove, in
termini ampi è così proponibile: la costruzione intersoggettiva del senso è fondamentalmente bidimensionale; essa è mediata da dispositivi semiotici che rispondono
da un lato ai modi del pensiero intenzionale e razionale, dall’altro alla logica dell’inconscio (Salvatore, Freda et. al., 2003; Salvatore, 2004a). Dall’intreccio di queste
due fondamentali modalità di funzionamento della mente emergono diversi livelli e
diverse modalità di costruzione della realtà, tra cui un posto significativo assumono
i livelli di costruzione configurazionale della realtà tra cui includiamo la narrazione,
il mito, la costruzione delle credenze che fondano il senso comune e gran parte dei
processi culturali. In questo livello sono rintracciabili gradienti del funzionamento
conscio e gradienti del funzionamento inconscio che si vanno ad integrare secondo
un’altra logica specifica che presidia alla negoziazione quotidiana del senso nelle
relazioni sociali ed alla costruzione quotidiana della propria identità. Si tratta di una
logica che si pone in uno spazio intermedio tra la logica, fondata sull’inclusione/
esclusione propria della categorizzazione operativa, e la logica, fondata sull’eguaglianza/identità, propria della categorizzazione emozionale, una logica peculiare
fondata sulla costruzione di categorie analogiche e volta a generare configurazioni di
senso. Tali configurazioni pur se da un lato tendono a fissarsi e reificarsi in abitudini
interpretative, dall’altro mantengono una struttura aperta continuamente ridefinibile
e trasformabile nello scambio sociale. Alla luce di quanto detto si sta argomentando
che la costruzione intersoggettiva del senso, che abbiamo definito bidimensionale,
in ragione del continuo e circolare intreccio dei due fondamentali modi di funzionamento della mente, opera in modo, almeno, tridimensionale per cui tra i processi di
categorizzazione emozionale della realtà ed i processi di categorizzazione asimmetrica ed eterogeneizzante della realtà si colloca un terzo livello in cui la realtà viene
organizzata in configurazioni di senso fondate sulla relazione parte tutto e costruite
206
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
in ragioni di criteri di somiglianza e analogia. Si sta sostenendo l’ipotesi, dunque,
che modi di funzionamento operativi e razionali della mente, che definiamo logos,
modi di funzionamento emozionali, che definiamo pathos, e modi di funzionamento
configurazionali, che definiamo mithos, e che scaturiscono dall’intreccio dei due
precedenti, concorrono costantemente alla costruzione dei significati che orientano i
processi psicosociali, la vita di un organizzazione, le relazione che in esse si svolgono e le modalità dei singoli di essere e sentirsi parte di un tutto.
Per sintetizzare, proponiamo una schematizzazione dei tre diversi livelli di costruzione del significato e, dunque, del contesto organizzativo, collegati a specifici e
distinti modi di funzionamento delle mente e dello scambio sociale:
- Logos categorizzazione operativa fondata su processi di classificazione esplicativa della realtà. Questo livello tratta gli oggetti della realtà come realtà distinte e
separate e si fonda su una logica volta ad individuare nessi lineari di causa-effetto
tra tali entità. Nella tradizione filosofica il termine logos rimanda al pensiero critico, razionale ed obiettivo, un pensiero che pone l’uomo in relazione alla verità
ed alla totalità, in un modo che pone al vaglio credenze e pregiudizi.
- Mythos categorizzazione convenzionale, ovvero i processi di organizzazione
della realtà entro configurazioni dotate di senso. Il riferimento è qui ai processi
culturali, ovvero a quel tipo di pensiero che produce consenso, attraverso la creazione di storie, miti, copioni e modelli di interpretazione della realtà che fondano
il senso comune inteso come ragnatela di significati che orienta la convivenza sociale. Nella tradizione filosofica il termine mito rimanda ad un racconto investito
di sacralità relativo alle origini del mondo ed al modo con cui, il mondo stesso, e
gli esseri umani hanno raggiunto la forma presente. Allo stesso tempo il mito è la
trasformazione narrativa di momenti legati alla dimensione del rito, dei processi
che regolano le forme dei rapporti e dei sistemi di convivenza dalle origini all’attualità. Il mito non conosce le leggi che governano la natura, le cause della vita e
degli eventi, il mito è un ordinatore della realtà che risponde alle esigenze di un
gruppo che organizza in una struttura le sue credenze.
- Pathos categorizzazione emozionale della realtà e dunque i processi di simbolizzazione affettiva del contesto, caratterizzati da un processo abbagliante e generalizzante di conoscenza, dove compaiono confusi i limiti fra mondo interno e
mondo esterno, tra sé e l’altro. Il termine pathos deriva dal greco “Paschein” e rimanda a significati quale “sofferenza”, “emozione” , nel presente discorso questo
termine viene utilizzato per la sua capacità di evocare le dimensioni emozionali
che attraversano i processi di costruzione dei significati.
Si ritiene che i tre livelli di costruzione del significato, a cui è si fatto riferimento,
attraversino qualsiasi relazione di natura organizzativa e contribuiscano, nel loro
intreccio, tutti in modo significativo e fondamentale a definirne i suoi confini, le
sue prassi ed i suoi scopi. Pertanto, lungi dal porsi come oggetti concreti della real207
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
tà da trattare separatamente, essi costituiscono vertici attraverso cui ricorsivamente
guardare allo svolgersi dei processi organizzativi, al loro funzionamento e alle loro
disfunzioni. Nel presente lavoro, utilizzeremo tali vertici per analizzare la relazione
educativa ed, in particolare, le competenze necessarie ad una sua organizzazione e
gestione.
2. Relazione educativa e competenze degli insegnanti
Per molto tempo l’insegnamento è stato considerato una “vocazione”: solo chi
mostrava un’attitudine alla relazione con i più piccoli e i giovani, una certa dose
di pazienza e passione poteva definirsi un “buon insegnante”. Pontecorvo (1999)
ritiene che, nella rappresentazione ingenua del senso comune, l’insegnamento sia
caratterizzato da tre specifici aspetti:
- dalla pregnanza contestuale dell’aula, ritenuta il luogo di questa professione e
considerata in maniera avulsa e non connessa ad altri contesti;
- dall’individualità della professione, in quanto si pensa che tutto dipende dalle
scelte prese dal singolo;
- dalle competenze dichiarative (conoscenze dei contenuti, delle metodologie, ecc)
più che da competenze procedurali (come si programma, come si gestisce un’aula, ecc).
Alla luce dei cambiamenti normativi, questo modello culturale dell’insegnamento, sembra, oggi, mostrare tutta la sua inadeguatezza nel sostenere la costruzione
della professione “insegnante” in quanto essa necessità oggi di modelli ben più articolati. Per esempio, l’aula non è identificabile con “il” luogo unico della professione,
in quanto “esistono” tutta una serie di pratiche lavorative, anche collegiali, che pur
avendo luogo “fuori”, “prima”, “dopo” e “attorno” all’aula, sono altrettanto essenziali per la realizzazione di una pratica professionale esperta” (Pontecorvo, 1999,
p.324), lo stesso luogo dell’insegnamento non è più intrinsecamente legato all’aula
e/o al gruppo classe essendo oggi possibili una serie di attività di laboratorio, nonché
organizzazioni della didattica trasversali ai gruppi classe. Con il pluralismo dei contesti emerso con il cambiamento legislativo, è stato ed è tutt’ora necessario riflettere
sui nuovi compiti degli insegnanti, dunque sulle loro competenze e sui loro obiettivi.
Essi non sono chiamati soltanto a utilizzare strumenti per raggiungere gli obiettivi
prefissati di apprendimento, ma anche a definire progettualmente scopi e senso del
loro stesso agire, quindi la discrezionalità dell’insegnamento non riguarda soltanto il
che cosa, ma anche il come e, soprattutto, il perché dell’istruzione ricordando, in tal
modo, che il progetto educativo non appartiene al soggetto destinatario, ma alla cultura in cui esso, attraverso il processo educativo, è chiamato ad iscriversi (Salvatore,
Scotto di Carlo, op. cit.).
208
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Gli insegnanti sono chiamati a relazionarsi con una molteplicità di fattori che
non possono essere ricondotti alla sola trasmissione di un sapere né alla verifica
dell’acquisizione di questo, da parte degli alunni, ma piuttosto a mettere in campo
una molteplicità di competenze, così come viene, in parte, sottolineato nel Documento Ministeriale: “Il sistema educativo italiano 2006”3. In questo documento, al
capitolo 8: “Insegnanti e personale dell’educazione”, ci si sofferma sulla figura dell’insegnante ed in particolare al paragrafo 8.1.6 Curriculum, competenze specifiche,
specializzazione, il Ministero esplicita le competenze richieste agli insegnanti della
scuola dell’autonomia e così si afferma che il profilo professionale dell’insegnante
è caratterizzato dal:
1.
“possedere adeguate conoscenze nell’ambito dei settori disciplinari di propria
competenza, anche con riferimento agli aspetti storici ed epistemologici;
2. ascoltare, osservare, comprendere gli allievi durante lo svolgimento delle attività formative, assumendo consapevolmente e collegialmente i loro bisogni
formativi e psicosociali al fine di promuovere la costruzione dell’identità personale, femminile e maschile, insieme all’auto-orientamento;
3. esercitare le proprie funzioni in stretta collaborazione con i colleghi, le famiglie, le autorità scolastiche, le agenzie formative, produttive e rappresentative
del territorio;
4. inquadrare, con mentalità aperta alla critica e all’interazione culturale, le proprie competenze disciplinari nei diversi contesti educativi;
5. continuare a sviluppare e approfondire le proprie conoscenze e le proprie competenze disciplinari nei diversi contesti educativi;
6. rendere significative, sistematiche, complesse e motivanti le attività didattiche
attraverso una progettazione curricolare flessibile che includa decisioni rispetto
a obiettivi, aree di conoscenza, metodi didattici;
7. rendere gli allievi partecipi del dominio di conoscenza e di esperienza in cui
operano, in modo adeguato alla progressione scolastica, alla specificità dei contenuti, all’interrelazione contenuti-metodi, come pure all’integrazione con altre
aree formative;
8. organizzare il tempo, lo spazio, i materiali, anche multimediali, le tecnologie
didattiche per fare della scuola un ambiente per l’apprendimento di ciascuno e
di tutti;
9. gestire la comunicazione con gli allievi e l’interazione tra loro come strumenti
essenziali per la costruzione di atteggiamenti, abilità, esperienze, conoscenze e
per l’arricchimento del piacere di esprimersi e di apprendere e della fiducia nel
poter acquisire nuove conoscenze;
10. promuovere l’innovazione nella scuola, anche in collaborazione con altre scuole e con il mondo del lavoro;
11. verificare e valutare, anche attraverso gli strumenti docimologici più aggiornati,
le attività di apprendimento/insegnamento e l’attività complessiva della scuola;
209
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
12. assumere il proprio ruolo sociale nel quadro dell’autonomia della scuola, nella
consapevolezza dei doveri e dei diritti dell’insegnante e delle relative problematiche organizzative e con attenzione alla realtà civile e culturale (italiana
ed europea) in cui essa opera, alle necessarie aperture interetniche nonché alle
specifiche problematiche dell’insegnamento ad allievi di cultura, lingua e nazionalità non italiana”.
In questo quadro ministeriale, è possibile evidenziare come, in alcuni passi, il
concetto di competenza si sovrapponga a quello di obiettivo e come vi sia un’ assenza di organizzazione gerarchica tra i diversi punti elencati; le competenze espresse
e richieste sembrano essere trasformate in una sorta di “dover essere” senza, però,
l’esplicitazione di quelle dimensioni che le costituiscono. In sintesi, se da un lato,
è possibile cogliere la complessità dei compiti e delle competenze dell’insegnante,
dall’altro si evidenzia una serie di ambiguità e incertezze, che rispecchiano questa
fase di transizione culturale. In altre parole, i passaggi del Documento illustrano e
descrivono quelle azioni competenti, necessarie e utili agli insegnanti, per fronteggiare i cambiamenti apportati dalla riforma dell’Autonomia, senza però esplicitare
quali siano le competenze necessarie all’insegnamento per attuare tali azioni. Ma,
anche in assenza di tale esplicitazione, il Documento, proprio perché connesso ai
mutamenti sociali e culturali, propri dell’Autonomia, permette di cogliere la complessità della relazione educativa, favorendo l’emergere del concetto di formazione,
non più solo come legato ad una mera trasmissione di saperi, di norme e di valori, ma
anche come una negoziazione dei saperi e una condivisione di significati, aprendo
così alla possibilità di poter concettualizzare l’insegnante come un “professionista
autonomo e riflessivo” (Binanti, 2003). La complessità delle competenze dell’insegnante acquista, pertanto, una maggiore complessità se, si chiede all’insegnante di
entrare in maniera esplorativa nel mondo dei suoi alunni, con le coordinate culturali
del suo ambiente di vita e di contesto, quindi, in una maniera sempre nuova, mai data
per scontata e in maniera riflessiva, dove la riflessività sta ad indicare un processo
di pensiero sulla stessa pratica formativa nei suoi termini progettuali, rispetto allo
specifico alunno e/o alla classe.
3. Logos, Mythos e Pathos nella relazione educativa competente
Utilizziamo, ora, il Documento Ministeriale, presentato nella parte precedente
di questo lavoro, come pretesto per descrivere le tre dimensioni della costruzione
e organizzazione di senso che fondano la costruzione della relazione educativa, il
rapporto tra queste dimensioni e lo sviluppo di specifiche competenze che possono
promuovere l’evoluzione della relazione stessa. Tra questi tre livelli viene ipotizzato
un rapporto di tipo circolare e ci muoveremo nell’analisi partendo proprio dal livello
del Logos, non perché considerato primario nel processo di costruzione della relazio210
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
ne educativa, ma perché esso rappresenta le dimensioni più immediatamente visibili
e classificabili. È lo strato più esterno del processo di costruzione del significato, che
è caratterizzato da più strati fra loro concentrici.
Dal vertice osservativo del Logos, la relazione educativa è vista come cornice materiale di una pratica educativa fondata su oggetti discreti e sulla necessità di sviluppare competenze tecniche utili ad una loro trasmissione e, pertanto, da questo punto
di vista, il Documento Ministeriale fa riferimento a competenze quali l’esercizio
specifico dei propri compiti, la capacità di approfondimento del proprio campo disciplinare, la progettazione delle attività curriculari, l’organizzazione spazio-temporale
delle lezioni per giungere, infine, alla competenza della verifica e della valutazione.
Come si può intuire, queste competenze esplicano quei momenti della relazione educativa dove l’insegnante assolve quei compiti più strettamente disciplinari, operativi
e tecnici, in cui è chiamato a trasmettere ai propri alunni un sapere già categorizzato
ed elaborato e che gli alunni devono assumere in sé per poterlo apprendere. Il sapere
che viene trasmesso è un sapere oggettivato, fondato sul pensiero dividente, razionale e asimmetrico che tratta la realtà in termini di categorizzazione e di distinzioni.
Il livello del logos nel processo educativo definisce le fondamentali fasi di un uso
dei significati e delle risorse di senso disponibili in modo operativo, che può essere
funzionale al raggiungimento, nella relazione educativa, di prodotti concreti, reificabili e spendibili. Se, da un lato, questo livello di uso dei significati, si pone come
vertice fondamentale e fondante la pratica educativa, su cui non ci soffermeremo a
lungo solo perché meglio analizzato e trattato da altre discipline, prima fra tutte la
didattica, dall’altro esso rileva la sua parzialità nella gestione delle fasi di transizione, dei momenti critici del processo educativo, così come nella gestione di procedure
utili a contestualizzare il processo educativo in ragione della specificità territoriale
e culturale dei suoi interlocutori. Queste situazioni si connotano, infatti come fasi e
funzioni del processo educativo che, per essere gestite, richiedono l’alternanza di
una logica che considera la scuola e l’educazione come cornici di obiettivi e scopi
chiusi e definiti a priori, con logiche in grado di assumere lo stesso processo educativo come categoria di senso da costruire e ricostruire intersoggettivamente nello
scambio educativo e la scuola come contesto di produzione di significati attraverso
cui dare senso e scopo della stessa vita scolastica (Bruner, 1996 ; Salvatore, Scotto di
Carlo, op. cit.). La radice etimologica greca sckolè, della parola “scuola”, che rimanda ad una dimensione di fermata, pausa, conversazione ci aiuta a focalizzare questa
funzione del processo educativo inteso come uno spazio per pensare e confrontarsi
in cui le materie scolastiche potrebbero avere un senso per insegnanti e studenti in
quanto considerate come terreno di incontro fra soggetti conoscenti, dotati, oltre che
di pensiero astratto anche di esperienze, storie, soggettività. In ragione di questo processo, la Signora Letteratura, la Signora Filosofia, la Signora Matematica si possono
trasformare in quella letteratura, quella filosofia, quella matematica che si caricano
continuamente di nuovi significati in relazione al dialogo vivo tra esseri umani che
si svolge nelle classi. Si tratta di sostenere fasi del processo educativo in cui sia
211
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
possibile mettere in discussione i criteri normativi che lo fondano, verso l’apertura
di spazi di incertezza, unico terreno possibile per lo scambio e la co-costruzione
di conoscenze. In ragione di ciò, al secondo livello di costruzione del senso, che
abbiamo definito Mithos, si fa riferimento a specifiche competenze dell’insegnante,
diverse da quelle disciplinari, in quanto ci si riferisce alla area “negoziale” della
relazione educativa. Da questo vertice, l’insegnante è chiamato a “negoziare” con
chi gli sta di fronte, sia esso l’alunno, la classe, i genitori, il corpo docenti. È l’area
della relazione educativa intesa come “scambio” dei significati di quanto trasmesso
nel livello del Logos, poiché i significati delle cose, della realtà, non sono dati, ma
vanno trovati-scoperti-costruiti in relazione ai contesti culturali che li esprimono e
in cui hanno luogo.
È necessario, ora, precisare ciò che si intende con l’espressione “negoziare”. Il
termine, già da anni significativamente presente nel contesto scolastico (Bruner,
1986), ha dato adito ad ambiguità che possono essere meglio comprese risalendo
alle radici etimologiche del termine, che convenzionalmente è associato al verbo
“trattare”. Etimologicamente, questa voce verbale, assume un duplice significato:
uno derivante dal supino latino tractum che rimanda all’idea di una trattativa commerciale e che nel contesto scolastico si può esprimere come trattativa degli oggetti
di conoscenza, degli strumenti e delle modalità di valutazione relative al processo di
trasmissione delle conoscenze proprio del Logos, mentre dall’altro lato, il termine
stesso può fare riferimento ad un approfondimento e quindi alla negoziazione come
possibilità di sviscerare, entrare dentro un oggetto di approfondimento per esplorare
i diversi significati che esso può assumere nella regolazione dello scambio comunicativo. L’approfondire a cui si fa qui riferimento implica che l’insegnante non solo
abbia da dire, ma anche da ascoltare e tenerne conto, implica l’istituzione di spazi di
negoziazione in cui produrre senso, produrre intersoggettivamente codici locali su
cui fondare l’azione educativa.
La soggettività e la cultura entrano nella relazione educativa in maniera preponderante, in modo tale che insegnante ed alunno non possono essere considerati semplici mittenti e destinatari di un oggetto di conoscenza, ma piuttosto siano coinvolti
attivamente in una costruzione di un rapporto che si articola attraverso l’intreccio
di diverse dimensioni: da quelle di ordine educativo a quelle soggettive, culturali e
affettive (Lecciso, Liverta Sempio, Marchetti, 2005). Ne consegue, che sia l’apprendimento che l’insegnamento non possono essere considerati come due rami distinti
di un albero, in quanto non hanno forma e senso, se considerati isolatamente; ma
vanno considerati come un albero trattato nella sua interezza e complessità, nel suo
intreccio di rami in cui l’attenzione va, anche a quel processo vitale che permette la
crescita dei rami e dunque all’albero intero. Il processo vitale, a cui ci si riferisce, è
proprio quello della costruzione dei significati, dell’approfondimento (negoziazione) del senso che viene dato nell’hic et nunc della relazione educativa. L’accesso
al significato, come sottolinea Bruner (1990), avviene proprio attraverso processi
interattivo-culturali, in quanto ciascun soggetto, continua l’autore, può costruire la
212
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
conoscenza di sé e del mondo tramite quei processi interattivi che sono per loro
natura situati in uno specifico contesto storico-culturale. Per queste ragioni non è
concepibile una condizione umana “indipendente” dalla cultura di cui è espressione
(Geertz, 1973), ma piuttosto è necessario che essa sia lo specchio e il frutto di un’interazione reciproca. Ne consegue che la stessa conoscenza della realtà dipende dalla
versione del mondo che noi mutuiamo e di cui siamo portatori, e che la nostra costruzione di senso avviene attraverso una posizione attiva e interattiva nei confronti
della stessa cultura.
Insegnanti e allievi, dunque, attraverso la loro azione nello spazio educativo ed
attraverso la loro relazione, realizzano progressivamente una rete di significati, come
se fosse una carta geografica in divenire che si organizza gradualmente, in maniera
sempre più complessa e sempre pronta ad essere regolata e riaggiustata, proprio
perché immersa nelle dinamiche della socialità. Tale continuo lavoro di negoziazione dei significati condivisi, dunque, ha ragione d’essere in quanto l’agire degli
attori stessi è un attività che consolida, reinterpreta, fà evolvere i significati di base e
dunque ciò comporta uno sviluppo delle conoscenze e della propria formazione. Le
modalità di partecipazione ai processi di insegnamento/apprendimento degli alunni
e degli insegnanti, infatti, sono orientate alla luce dei significati che vengono dati
proprio a questi processi e dunque alla relazione dei diversi oggetti/interlocutori che
danno forma alla propria esperienza. È per tali ragioni che la conoscenza è frutto
della negoziazione del senso che a sua volta è relativo alla stessa relazione (Bruner,
1996).
È attraverso la mediazione dei diversi concetti, infatti, che si arrivano a costruire
i concetti oggetto dell’apprendimento e tali concetti non sono altro che una modalità
di relazione con il mondo, che acquisiscono senso e forma in funzione del modo
con cui vengono adoperati nella costruzione intersoggettiva del discorso educativo.
L’apprendimento si configura, dunque, come una dinamica ricorsiva (circolarità ermeneutica) e ciò comporta che l’oggetto di conoscenza (dello specifico processo di
apprendimento), è contemporaneamente processo istituente e mediatore dell’insegnamento/apprendimento.
Il processo di insegnamento/apprendimento, dunque, è regolato da significati condivisi che vengono di volta in volta sottoposti ad un lavoro di ridefinizione negoziale. Questi significati condivisi fondano le regole dell’organizzazione e stabiliscono il
rispettivo modo di intendere i ruoli all’interno dell’attività educativa; tali significati
se, in alcune fasi del processo educativo, vengono assunti ad oggetto del discorso e
vengono pensati, possono, nel tempo, sostenere l’iscrizione dell’azione educativa in
campi di intersoggettività (Salvatore, 2004). Come altri lavori, in questo stesso volume, hanno modo di approfondire (Selleri e Venuleo, Salvatore et. Al.), il processo di
costruzione dei significati, che gli attori operano, viene mediato dalle stesse azioni,
dai discorsi, dalle prassi istituite, come per esempio le modalità di valutazione, e ciò
comporta che se da un lato le modalità di partecipazione al processo formativo sono
espressione della negoziazione dei diversi attori, dall’altra parte le modalità di par213
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
tecipazione affermano, con valenza performativa, i significati che sostanziano quella
specifica modalità di partecipazione alla pratica formativa. Nel Documento Ministeriale, in esame, è possibile ritrovare alcuni passaggi che fanno riferimento alla competenza negoziale dei significati agiti nel processo. Essi sono relativi per un verso
alla capacità di comprendere l’altro attraverso attività quali l’ascoltare, l’osservare,
e dall’altro alla capacità di costruire contesti di partecipazione e dall’altro ancora,
in modo specifico, ad inquadrare i domini della conoscenza in specifici contesti di
senso che li rendono fruibili in determinati contesti locali.
Le competenze utili a gestire lo scambio, per di più, sono legate allo sviluppo di
competenze alla negoziazione ed allo sviluppo di competenze di natura riflessiva,
volte ad istituire un registro meta in cui lo stesso scambio e le sue modalità diventano
oggetti di conoscenza. è proprio attraverso l’istituzione di questo registro meta e assumendo la stessa relazione educativa come oggetto di conoscenza che è possibile accedere ad una riflessione sull’ultimo vertice di analisi che abbiamo definito Pathos.
Il livello di costruzione di significato afferente al livello del Pathos è quello
maggiormente legato all’area della simbolizzazione affettiva, quindi all’area delle
emozioni collusivamente condivise, ed esso ci conduce verso quell’area invisibile
della relazione educativa che spesso si tende ad ignorare. Essa, invece, se osservata e assunta a oggetto di pensiero, può permettere uno sviluppo significativo della
relazione. Le dinamiche di simbolizzazione affettiva, infatti, sono sia premessa che
conseguenza di specifici modelli mentali attivati dal contesto educativo e rappresentano, dunque, una dimensione fondante la relazione educativa, in quanto partecipano
al funzionamento del pensiero, alla costruzione del discorso e alla distribuzione dei
ruoli al suo interno. La dimensione emozionale, semioticamente intesa, istituisce i
processi organizzativi della trasmissione e dello scambio e, pertanto, se pensata e
assunta nel processo, può favorire la costruzione di una relazione educativa orientata
in modo coerente al raggiungimento dei suoi scopi.
Le emozioni attraversano il processo di apprendimento-insegnamento e la loro
condivisione, collusivamente assunta, istituisce una prevedibilità del rapporto emozionale in una dimensione intersoggettiva, rispetto alla quale, fasi di sospensione
dell’azione educativa, divengono fondamentali per poter riconoscere tale prevedibilità emozionale e per attivare anche una sua trasformazione in senso di sviluppo.
La sospensione dell’azione e l’attivazione di un pensiero sulle emozioni, che attraversano la relazione educativa, si configurano, inoltre, nell’esercizio di una competenza che Salvatore e Guidi (2006) hanno definito: “competenza riflessivo-generativa”. Attraverso questa competenza, l’insegnante, nello specifico del nostro tema
(ma ciò vale per qualsiasi soggetto inserito in un contesto che vive un’esperienza di
intersoggettività), è invitato a mentalizzare le trame affettive della relazione per attivare così nuovi processi interpretativi e quindi generare diverse e nuove opportunità
di senso della realtà entro cui e in cui è coinvolto.
Questa competenza è definita anche riflessiva, ma è necessario sottolineare che
l’adozione di un registro meta non è rivolta, in questo caso, alla dimensione più
214
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
disciplinare della relazione educativa, né agli oggetti culturali, ma ai processi di simbolizzazione affettiva che la fondano, in quanto, attraverso un processo di pensiero
sulle emozioni, è possibile una trasformazione/traduzione dal codice ipergeneralizzante ed omogeneizzante degli affetti (Matte Blanco op. cit.) a quello narrativo delle
rappresentazioni mentali che orientano le prassi e dunque a quello operativo.
Se guardato dal vertice del Pathos, ogni processo di conoscenza è, in primo luogo,
un’impresa emotiva (Bion, 1962; Blandino, Granieri, 2002) essendo, poi, le funzioni
cognitive superiori (il pensiero, l’apprendimento, la conoscenza), inestricabilmente
intrecciate alle funzioni emotivo-affettive, così come lo stesso Freud aveva illustrato
e come la Klein (1932) e successivamente gli studi di Bion hanno evidenziato. Questi
autori sono partiti dallo studio della relazione primaria fra madre e bambino, che può
essere considerata una forma primitiva di relazione educativa e hanno, pertanto, fornito importanti spunti di riflessione per la studio della relazione educativa. Melanie
Klein, infatti, sottolineando il ruolo primario delle fantasia, intesa come rappresentante della vita mentale inconscia, dei sentimenti e degli affetti nella determinazione
del modo di apprendere, evidenzia come ciò che si impara è condizionato dal mondo
interno del soggetto. Bion, con il concetto di rêverìe, sottolinea, ancora una volta,
l’importanza delle emozioni nella relazione fra madre e bambino, e sottolinea che il
ruolo di madre non si limiti alla fondamentale funzione del contenere le emozioni ma
si esplichi anche in una centrale funzione di pensiero sulle emozioni volta ad elaborare, addomesticare, chiarire, differenziare i diversi tipi di sentimenti aprendo così la
possibilità di dare ad essi significato. Bion parla di “apprendimento dall’esperienza”
poichè il soggetto apprende e pensa a partire dalle proprie emozioni per mezzo di un
iniziale aiuto di un’altra mente (quella della madre), la quale, fungendo da modello funzionale, trasmette al bambino la capacità di pensare, ovvero di acquisire una
crescente capacità di riflettere sull’esperienza, di rappresentarsela, di trasformare
le emozioni in contenuti mentali. Il processo illustrato da Bion, in particolar modo
rispetto alla relazione madre-figlio, può essere utilmente ripreso per riflettere sui processi formativi, ed in particolare sulla relazione che caratterizza le aule scolastiche
dove ci si auspica che l’insegnante svolga una funzione parentale di contenimento
ed elaborazione delle emozioni attivatesi nell’hic et nunc della relazione e legate ai
processi di conoscenza. La capacità di pensare, infatti, dipende dal sentire e dal capire quello che ci accade dentro; si può davvero pensare solo se si è in contatto con
le proprie emozioni ed è solo lo sviluppo dell’affettività e dell’emotività, la capacità
di contenerla ed elaborarla che permette di pensare e apprendere. Non è possibile promuovere un apprendimento senza sapere che cosa succede emotivamente nel
momento in cui si interagisce con quel determinato allievo, in quanto nell’intervento
educativo le emozioni rappresentano il presupposto e il supporto dell’apprendimento
cognitivo: non esiste apprendimento senza emozione e non esiste educazione senza
coinvolgimento emotivo.
Dalla prospettiva del Pathos, così come la abbiamo introdotta, il fondamentale
concetto di conoscenza come processo di elaborazione delle esperienze emotive e la
215
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
connessa funzione di rêverìe, rappresentano, però, solo un aspetto della dimensione
riflessiva-generativa caratterizzante e fondante questo livello della relazione educativa, in quanto si riferiscono a qualsiasi processo di conoscenza ed alla relazione,
tra l’allievo e l’insegnante, considerata come un’estensione della stessa relazione
madre-figlio, in assenza di riferimenti alla specifica struttura di interdipendenza che
si genera nel contesto scolastico. Abbiamo visto, infatti, che con il modo d’essere
inconscio della mente, ogni persona può simbolizzare le cose, le persone, gli eventi con cui si relaziona, in maniera tale da trasformare quella cosa, quella persona,
quell’evento in emozioni che rispondano al vissuto emozionale, elaborato nei confronti dello stimolo percepito e che queste categorizzazioni possono essere condivise
dando luogo alla collusione (Carli, Paniccia, 2003). Se caliamo la relazione insegnante/allievo in un contesto specifico, che non solo è quello scolastico, ma quello, per
esempio, relativo ad uno specifico contesto territoriale, entriamo in una prospettiva
situazionale di analisi dei processi emozionali che quindi non sono più legati al processo di conoscenza generalmente inteso, ma si connotano come processi collusivi
che orientano emozionalmente la simbolizzazione della specificità del contesto e la
costruzione dell’intera rete di relazioni. Assumendo la relazione tra individui e contesti come unità di analisi, il concetto di rêverìe può essere inteso come possibilità
di pensare i processi di simbolizzazione affettiva degli oggetti del contesto da parte
di chi a quel contesto partecipa ed il modo in cui essi sono collusivamente condivisi.
Pensiamo semplicemente, a come possano essere diverse le dinamiche emozionali
che attraversano la relazione educativa in una scuola considerata come fortemente
problematica, in cui docenti e allievi sono considerati a rischio, rispetto alle dinamiche che si generano in una scuola considerata, fiore all’occhiello di un territorio.
Ovviamente non stiamo ipotizzando che nella prima scuola vi siano più emozioni
che nella seconda e nemmeno che nella prima scuola le emozioni siano connotate
più negativamente che nella seconda, stiamo solo ipotizzando che la variabilità dei
contesti costituisce un pretesto per una varietà dei processi di simbolizzazione affettiva e delle dinamiche che portano ad una loro condivisione e che ricorsivamente tali
dinamiche collusive orientano in modo differenziato la costruzione della relazione
educativa. Si sta dicendo che se è vero che tutti i processi di conoscenza, e le relazioni deputate ad una loro evoluzione, sono attraversate da dinamiche emozionali,
tali dinamiche assumono una connotazione specifica in ragione della specificità dei
protagonisti e delle situazioni in cui i protagonisti interagiscono. Vi è così un continuo dialogo emozionale con gli interlocutori simbolizzati nel contesto sociale, che
se da un lato garantisce una prevedibilità emozionale dei rapporti, dall’altro funziona
come un misconoscimento dell’altro, nella sua dimensione di estraneità, ovvero di
altro non aprioristicamente conosciuto (Carli, Paniccia, op. cit.). In questo senso la
possibilità di pensare emozioni non solo permette agli insegnanti di contenere ed
elaborare le dinamiche emozionali che regolano il processo di apprendimento, a prescindere dalla variabilità dei contesti, ma può connotarsi come funzione generativa
volta a riconoscere e trasformare le premesse di senso che orientano, in quello speci216
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
fico contesto, la relazione educativa, le sue prassi ed i suoi scopi. In quest’ottica, la
competenza riflessivo-generativa dell’insegnante opera come possibilità di riflettere
sulle cornici di senso della relazione educativa, permettendo così di orientare e riorientare la relazione educativa in funzione delle trasformazioni emergenti e delle
situazioni locali. In altre parole, è attraverso una sospensione dell’azione ed una
elaborazione delle dinamiche collusive, che si può giungere alla creazione di nuove
forme di organizzazione, nate appunto da una trasformazione delle dinamiche di
simbolizzazione affettiva e dal riconoscimento dell’altro come estraneo, come altro
ancora da conoscere (Carli, Paniccia, op. cit.) .
La relazione con l’estraneo, non è così facile, in quanto costa fatica e implica,
per l’insegnante, una competenza a stare con se stessi, ad essere “soli”, poiché è
solo la solitudine, intesa come una possibilità di conoscenza fondata sulla comunicazione e non sull’allagamento dell’altro con le proprie dinamiche affettive (Carli,
2001), che consente di andare alla scoperta dell’estraneità e che permette di passare
dall’emozione come agito ad un pensiero sull’emozione che produce conoscenza.
La solitudine è, dunque, un passaggio imprescindibile per poter vedere l’altro e accoglierlo nella sua alterità, per conferirgli una configurazione emozionale né statica
né scontata; è un punto di partenza per la costruzione di una dimensione di scambio,
volta al raggiungimento di un prodotto. Essa, come accennato, la si vive superando
la confusione emozionale che deriva dal mettere negli altri le proprie fantasie e,
quindi, ha a che fare con un riappropriarsi delle proprie emozioni, attraverso proprio un processo di sospensione dell’azione produttiva, ponendo così le premesse
per un pensiero sulla relazione educativa stessa e le emozioni che la fondano e
caratterizzano.
Risulta chiaro come la competenza, in questa dimensione della relazione educativa, possa esercitare un’importante funzione ai fini dell’insegnamento e dell’apprendimento, e di quanto essa per la sua formazione richieda l’istituzione di setting
specifici, fondati sulla sospensione dell’azione e sull’attivazione di un registro meta
in grado di promuovere pensiero sulle emozioni collusivamente agite nel contesto.
Attraverso l’istituzione di spazi utili all’esercizio di un pensiero riflessivo sulle emozioni si può sostenere la funzione dell’insegnante nell’esercizio di una competenza
volta a interpretare il sistema entro cui è collocato, ad analizzare ed a generare e rigenerare ricorsivamente il contesto della propria azione educativa (Salvatore, Scotto
di Carlo, op. cit.).
Dunque, se dal vertice del Logos era possibile osservare la dimensione “trasmissiva” della relazione educativa e se dal Mithos la stessa relazione educativa era
fondata sullo scambio negoziale, ora, nell’area relazionale afferente alla dimensione del Pathos, la relazione assume senso solo attraverso una sospensione dell’azione produttiva e un’assunzione della stessa relazione educativa e delle dinamiche
emozionali che la fondano come oggetto del pensiero, per riconoscere, orientare e
trasformare quella relazione visibile e concreta, osservabile dal vertice del Logos e
del Mithos.
217
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
Riprendendo il Documento Ministeriale, alla luce di quest’ultimo vertice osservativo, si può notare come in esso, l’area della competenza operativa sia stata sviscerata
attraverso una descrizione di saperi e di procedure competenti; l’area della competenza negoziale è stata valorizzata, così come abbiamo avuto modo di sottolineare con
il riferimento a delle “azioni competenti”, volte alla progettualità ed alla contestualizzazione dei processi educativi. Le competenze che fanno, invece, riferimento alle
dinamiche emozionali fondanti la relazione educativa sono lasciate come sfondo, alcuni indizi come il riferimento al piacere dell’apprendimento, alla partecipazione, alla
fiducia ne lasciano intravedere la pregnanza, ma esse non trovano uno spazio deputato
ad una loro esplicitazione. Questa assenza di esplicitazione rischia di trasformarsi in
un dover essere per gli insegnanti, in un monito alla loro capacità di rendersi gradibili
agli studenti che, se non pensato in termini di metodi e competenze, rischia di tradursi
in un condiviso sentimento di impotenza, rischia di sostenere una costruzione dei
processi di negoziazione come trattativa commerciale di oggetti, modi e scopi più che
come negoziale condivisione di un senso del processo formativo.
4. La relazione come competenza dell’insegnante
Il discorso fin’ora delineato assume una notevole importanza nella scuola d’oggi,
quindi nella scuola dell’Autonomia, in quanto la variabilità con cui essa s’imbatte,
abbiamo visto, è notevole e, confermando il venire meno del carattere dato della sua
utenza, quindi di un carattere uniformato e definito, non soggetto a mutamenti, la
scuola (i docenti, i dirigenti) è chiamata a farsi carico non solo della dimensione più
strettamente disciplinare e operativa del processo d’insegnamento-apprendimento,
ma anche della costruzione organizzativa, negoziale, condivisa del processo stesso (Salvatore, Scotto di Carlo, 2005) e per fare ciò non sono più sufficienti le sole
procedure operative, definite una volta per tutte, in cui predomina la dimensione
della trasmissione dell’oggetto di sapere, ma diviene necessario interagire con la
variabilità ambientale e tradurla da fattore critico in risorsa. Per raggiungere tale
obiettivo occorrono, dunque, insegnanti competenti, in senso generativo, che oltre
ad agire, come da norma relazionale e sociale, le premesse di senso che fondano la
socialità e, nello specifico che istituiscono la relazione educativa, sappiano anche
dare senso e significato a quelle premesse, riconoscendole anzitutto, dialettizzandole
poi. Questo percorso porta al raggiungimento di quella competenza definita “competenza organizzativa” ovvero di una “competenza a svolgere una funzione e un ruolo
nell’organizzazione senza “agire” in essa relazioni simbolizzate in modo familistico
e senza agire comportamenti pensando che non vi siano costi all’agito emozionale,
non pensato” (Carli, Paniccia, 1999, p.108). Viene richiesta la capacità di leggere,
capire il contesto in cui ci si trova e di collocarsi utilmente, realisticamente al suo
interno e ciò comporta una comprensione dell’organizzazione, dei suoi obiettivi, dei
ruoli e delle funzioni, ma anche una comprensione del senso emozionale dell’orga218
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
nizzazione che viene dato dall’insegnante stessa, dagli alunni e dalla scuola nel suo
complesso.
Per questo motivo la competenza organizzativa può essere considerata anche
come una competenza ermeneutico-strategica, che permette di interpretare, dare
senso alle emozioni per poi mettere in atto una strategia d’azione che sia funzionale
al raggiungimento dello scopo, che nel caso specifico del nostro lavoro è la costruzione competente di una relazione educativa, in quanto, operando attraverso una
continua categorizzazione e ricostruzione del rapporto tra prassi e contesto, permette
di individuare le possibilità di sviluppo dell’azione professionale stessa (Salvatore,
Mannarini, Rubino, 2004).
Calata nello specifico campo scolastico, questa competenza pone le basi per quella che Carli (2001) definisce la “competenza ad insegnare, intesa come coniugazione delle proprie conoscenze sull’oggetto d’apprendimento, con le conoscenze del
contesto relazionale-emozionale entro il quale l’apprendimento, necessariamente,
avviene” (ivi, p.71). Questa competenza non è operativa, né culturale, ne emozionale, ma è la competenza che permette, all’insegnante, di iscrivere la propria azione
formativa all’interno del contesto scuola, inteso come risorsa per l’apprendimento.
Non è più la sola conoscenza dell’insegnante o la sua capacità di trasmettere quello
specifico sapere a favorire l’apprendimento e non è nemmeno la “buona e non conflittuale” relazione a permettere il raggiungimento dell’obiettivo, ma è la capacità
di pensare la propria pratica formativa, contestualizzandola e relazionandola alla
classe, all’alunno, alla famiglia dell’alunno, ai colleghi...alla scuola .
La competenza ad insegnare, consistendo in una capacità metodologica a interpretare, dare senso, ai modelli culturali e di funzionamento che caratterizzano il contesto organizzativo (Carli, 2001), permette all’insegnante di potersi relazionare all’
altro e dunque all’estraneità. L’insegnante attraversando la dimensione della solitudine, posizionandosi nel suo contesto relazionale in modo competente e produttivo
e considerando non solo l’area relazionale propria del Logos, ma anche quelle che
afferiscono al Mithos e al Pathos, riscontrando in esse elementi e dinamiche imprescindibili alla gestione e organizzazione della relazione quindi dell’altro.
È solo all’interno di questo complesso quadro che acquista senso l’ultimo punto
del documento in cui viene richiesto all’insegnante la “competenza” ad “assumere il proprio ruolo sociale nel quadro dell’autonomia della scuola... e delle relative
problematiche organizzative, con attenzione alla realtà civile e culturale (italiana ed
europea) in cui essa opera e alle necessarie aperture interetniche...”. Il Documento
Ministeriale, che abbiamo assunto come pretesto per approfondire i livelli e le componenti della relazione educativa, dunque, ci mostra complessivamente alcune precise azioni e compiti che gli insegnanti sono chiamati a mettere in atto, che possono
essere, però, definite “competenze”, laddove l’insegnante, insieme con il suo contesto specifico d’azione, riesce a riflettere, a mentalizzare ed elaborare quelle categorie
emozionali che hanno fondato e che danno senso allo specifico contesto relazionale
per poi agire in modo da facilitare lo sviluppo del sistema stesso.
219
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
Nell’ottica che stiamo proponendo, la competenza ad insegnare è da inquadrare
come la capacità di pensare e di organizzare la complessità di uno scenario caratterizzato dal Logos, dal Mithos e dal Pathos (Freda, 2003) e, pertanto, il processo
formativo e dunque la relazione educativa, se orientato in un’ottica di competenza
“generativa” e quindi organizzativa, non potrà non tener conto delle tre dimensioni
di costruzione del senso che, fin’ora, abbiamo trattato. È l’attraversamento, dunque,
delle tre dimensioni di costruzione di senso che porta l’insegnante a collocarsi in
una relazione educativa competente, infatti, è fra i vertici osservativi del Logos, del
Mithos e del Pathos che bisogna collocare la “nuova” competenza dell’insegnante,
in quanto il collocarsi fra quei vertici implica un’assunzione dei diversi modi di funzionamento mentale, che costruiscono il contesto e dunque anche di ciò che accade
fra insegnanti e alunni.
La visione dell’inconscio, in chiave al contempo semiotico e intersoggettiva, che
abbiamo illustrato lungo tutto il nostro lavoro, ci permette, dunque, di collocare l’
“emozione” all’interno del processo di insegnamento-apprendimento, concettualizzandola, in definitiva, come un dispositivo intersoggettivo di regolazione del processo di apprendimento. Confucio affermava che apprendere senza pensare è tempo
perso e che pensare senza apprendere è pericoloso: egli ha così espresso, anticipando
inconsapevolmente aspetti della teoria di Matte Blanco, la “conditio sine qua non” di
un apprendimento/insegnamento semiotico, in quanto non vi è apprendimento senza
pensiero, senza quindi una sospensione dell’azione e un’elaborazione delle dinamiche di simbolizzazione affettiva. È chiaro come lo stesso pensare, semioticamente
inteso, implichi un apprendimento, in quanto mobilita quei processi di negoziazione
e di elaborazione del senso. Una relazione educativa senza pensiero non può che
condurre al restare imbrigliati in posizioni statiche che non permetterebbero di relazionarsi all’iperdifferenzazione e alla variabilità contestuale, propria della scuola
dell’Autonomia.
La “relazione educativa”, come è ormai ben evidente, non è riducibile al mero
rapporto dell’alunno con l’oggetto del sapere o alla relazione “visibile” fra l’alunno e l’insegnante, in quanto essa è frutto e al contempo espressione di una più
articolata rete di emozioni, affetti, simbolizzazioni, significati, pensieri, agiti... e
per poterla costruire in maniera competente è necessario che la relazione educativa stessa sia una “competenza” dell’insegnante. È per questi motivi che l’attenzione non può essere più rivolta solamente alla sola cornice visibile e tangibile
della relazione educativa, ma è necessario che anche ciò che è al suo interno, che
ne determina la forma, la natura, emerga e venga assunto a oggetto di riflessione
ed è solo attraversando le tre dimensioni del Logos, Mithos e Pathos che è possibile cogliere come le dinamiche emozionali, in quanto fondanti e organizzanti
la relazione educativa, nell’ottica della simbolizzazione affettiva, possano essere
quegli strumenti a cui l’insegnante può fare riferimento per poter costruire in maniera competente la “relazione educativa competente”. È la presa in carico della
relazione educativa che permette all’insegnante di potersi relazionare con i propri
220
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
alunni, la propria classe, la scuola in maniera competente da poter raggiungere gli
scopi prefissi.
Note
1 Con il termine paradigma si fa riferimento con Kuhn (1962) all’insieme delle teorie, delle regole
e delle procedure accettate e praticate da una comunità scientifica. Esso in una specifica comunità
scientifica assume il carattere di matrice disciplinare (Kuhn, 1977).
2 La classificazione dei paradigmi scientifici secondo gli autori prevede lungo il continuum tra positivismo e costruttivismo la presenza di un paradigma definito neopositivismo e di un paradigma definito teoria critica per l’approfondimento dei quali si rimanda a Lincoln, Guba (2000). Nell’ultima
edizione del lavoro ai quattro paradigmi ne viene aggiunto un’altro definito di tipo partecipatorio
che lungo il continuum si colloca dopo il costruttivismo.
3 Ogni anno l’Unità Italiana di Eurydice aggiorna le informazioni relative al sistema educativo nazionale. Il documento è patrocinato dal Ministero della Pubblica Istruzione – Direzione Generale per
gli Affari Internazionali dell’ Istruzione Scolastica Indire – Unità Italiana di Eurydice.
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Riassunto
Il presente lavoro si propone di trattare la relazione educativa, interpretandola
come contesto organizzativo del processo di insegnamento/apprendimento.
Partendo dalla legge sull’Autonomia, che ha modificato lo scenario socio-culturale entro cui si articola il sistema scolastico e assumendo come pretesto di riflessione una sezione del Documento Ministeriale, “Il sistema educativo italiano 2006”,
in cui vengono espresse le competenze richieste agli insegnanti, si sono delineati i
criteri di costruzione e gestione della relazione educativa, che non può essere concettualizzata come un semplice contenitore relazionale ed affettivo di un processo di
apprendimento, pensato in termini meramente cognitivi.
Partendo, dunque, da una concezione semiotica dei processi mentali, la
relazione educativa, è stata concettualizzata nei termini di un dispositivo di significazione (semiotico) del contesto educativo, di tipo operativo (Logos), culturale (Mithos) ed emozionale (Pathos), attraverso cui è possibile definire e ridefinire costantemente gli interlocutori dello scambio, organizzare le prassi ed identificare scopi, al
fine di poter costruire una relazione educativa competente.
Abstract
This work aims to address the educational relation, interpreting it as organizational context of the teaching / learning process.
We started considering the the law on autonomy wich changed the socio-cultural scenario of the school system, and a section of the Ministerial Document "The
italian educational system 2006", where are defined the competence required from
teachers.
Using this two documents as the basis of our reflection we defined the methods
of construction and conduction of the educational relation. Such educational relation
223
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 201 - 224
cannot be a simple relational and emotional container of a merely cognitive learning
process.
Using a semiotic conception of mental process we conceptualized the educational
relation as a device capable to give semiotic meaning to the educational relation as a
device capable to give semiotic meaning to the educational context. An operational
(Logos), cultural (Mythos) and emotional (Pathos) device usable to continuosly define the protagonist, to organize the praxis and identify the aims in order to construct
a competent educational relation.
Ricevuto Maggio 2007.
224
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Dal setting istituito al setting
istituente: riflessioni per lo
sviluppo della relazione educativa
nel processo di insegnamentoapprendimento
Claudia Venuleo*, Sergio Salvatore**, Rossano Grassi***, Piergiorgio Mossi***
* Ricercatore di Psicologia Clinica, Università del Salento
** Professore straordinario di Psicologia dinamica, Università del Salento
***Dottorando in Psicologia Clinica, Dipartimento di Scienze Pedagogiche, Psicologiche e Didattiche , Università del Salento
Lo scenario odierno confronta gli attori scolastici (i docenti in primis), con un
basilare elemento di criticità/sviluppo della relazione educativa: il problema metodologico-organizzativo di come praticare i processi formativi in ragione di un fruitore
non più assumibile come scontatamente dato, in conseguenza della radicale trasformazione del contesto socio-culturale.
In proposito, il presente articolo intende discutere la seguente tesi fondamentale: tale scenario, implica e sollecita una trasformazione strutturale della professione
docente: da sistema di azione funzionante in rapporto a contesto dato (istituito) a
sistema di azione chiamato a costruire le condizioni del proprio esercizio.
1. Il setting istituito
La maggior parte delle professioni non necessitano di costruire il senso della propria funzione per esercitare la propria competenza tecnica. Nell’azione di rivolgersi
ad un medico, ad un avvocato, ad un commercialista è già implicito il significato
della consultazione: si tratta di occuparsi, a seconda dei casi, della propria salute,
della propria situazione giudiziaria, economica, finanziaria… Ciò consente al medico, ad esempio, di dare per scontata la condivisione del significato della propria
attività con il paziente, dunque la comprensione dei reciproci ruoli ed aspettative: il
perché dell’incontro è inscritto nella tecnica. Il profano si rivolge all’esperto assu225
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 225 - 241
mendo da un lato di non avere le competenze tecniche per affrontare autonomamente
l’oggetto del proprio interesse, dall’altro che tali competenze siano possedute dal
proprio interlocutore, e, dall’altro ancora, che quest’ultimo - a determinate condizioni (es. pagamento dell’onorario) - sia disponibile ad esercitarle in suo favore. L’uno
si configura come colui che manca di, l’altro come colui che provvederà a. E vi è
convergenza, tra esperto e profano, in quanto a punti di vista su chi ricopra l’una o
l’altro ruolo.
La competenza tecnica dell’esperto è in definitiva sufficiente in questi casi sia a
spiegare il senso della richiesta che a regolare il rapporto con il profano (Carli, Paniccia, & Lancia, 1998). Il contenuto tecnico della prestazione non dipende peraltro
dalla qualità di questa rapporto: il medico non userà due principi attivi diversi per
curare due persone che presentano la stessa malattia; l’ingegnere non modificherà i
calcoli in funzione di chi è il suo cliente. La tecnica in questi casi funziona indipendentemente dalle circostanze contestuali in cui si dispiega.
Indichiamo con setting istituito il modello di azione professionale che configura
l’azione professionale come un sistema di norme e procedure date, definite a priori
dal consulente e/o dall’istituzione di cui egli fa parte. Nel setting istituito la relazione tra esperto e profano non è un criterio organizzante la prassi; è semplicemente il
luogo materiale/funzionale entro cui si declinerà la prestazione.
È evidente che in diverse circostanze ci attendiamo utilmente che il setting sia del
tipo che stiamo qui richiamando con il termine “istituito”: non sarebbe auspicabile
l’eventualità di un ingegnere o di un medico “sensibile al contesto”, che modifica
prescrizioni e calcoli in ragione, ad esempio, dello status sociale del cliente.
1.1 Il setting dato a scuola
Come ogni altro scambio intersoggettivo umano, anche il processo di insegnamento-apprendimento è sempre organizzato da un qualche presupposto culturale
(aspetti normativi e valoriali condivisi, codici e premesse di significato) che non
viene stipulato entro il rapporto fra docente e studente, ma costituisce l’a priori su
cui la relazione educativa può inizialmente appoggiarsi per organizzarsi (Salvatore,
Ligorio, & De Franchis, 2005).
Si può ad esempio osservare come la funzione docente presupponga a proprio
fondamento la posizione di dipendenza dell’allievo; una posizione che implica l’adesione del destinatario ad una visione dell’agire educativo che qualifica il docente
come oggetto di investimento (Morozzo della Rocca, & Salvatore 1995). L’essere
disciplinati in classe, l’arrivare puntuali, l’eseguire i compiti, l’attenzione a ciò che
il docente spiega, sono, da questo punto di vista, prima che espressioni di un modello
comportamentale-motivazionale (buona volontà, coscienziosità, ecc.), il precipitato di un universo simbolico condiviso in cui docenti e discenti sono immersi. Ciò
d’altra parte non significa che essi pensano, significano, interpretano, si rapportano
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TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
nel medesimo modo agli oggetti (norme, procedure, compiti, ecc.) del loro comune
sistema di attività. Un docente può ad esempio connotare come essenziale la corretta
esecuzione di un compito, che lo studente, dalla sua posizione e seguendo un altro
criterio interpretativo, categorizza come difficile o noioso. Ciò tuttavia non impedisce loro di essere in rapporto, sulla base di premesse di secondo ordine (cioè: sovraordinate) che organizzano e coordinano le interpretazioni generando uno spazio
di consensualità sul senso da attribuire al sistema di attività in cui sono implicati dunque anche alla variabilità delle posizioni e degli atteggiamenti individuali. Senza
il comune riferimento a tali premesse di secondo ordine, il processo di insegnamento
non potrebbe dispiegarsi: una volta venuto meno ad esempio l’assunto che riconosce
nel docente colui che sa e nell’allievo colui che deve essere guidato, disciplinato e
formato gli allievi si autorizzerebbero a presentarsi in classe seguendo criteri soggettivi, potrebbero decidere autonomamente cosa studiare, il docente potrebbe affidare
loro lo svolgimento della lezione o la verifica dell’apprendimento realizzato.
In questo senso la relazione educativa può essere configurata, al pari di altre relazioni professionali, come un setting istituito (Mehan, 1978), che pone come dato
l’accordo su chi, cosa, come, perché si insegna. “Dato” nel senso che tale accordo
opera come un’insieme di presupposti non dichiarati che rendono sensato ciò che si
fa a scuola e configurano le “regole del gioco” definenti il reciproco posizionamento
(Harrè & Gillet, 1994) dei partecipanti all’attività formativa.
In quanto istituiti, questi significati regolativi non sono - per definizione - oggetto di conoscenza dichiarativa. Vengono utilizzati in quanto tali: applicati, agiti
e affermati attraverso i segni (discorsi, comportamenti) scambiati nella interazione
educativa.
Gli atti discorsivi e comportamentali hanno dunque una valenza performativa
(Salvatore & Pagano, 2005): per il fatto stesso che si esercitano, istituiscono come
realtà data la cornice di senso che li informa. Nel proporre un contenuto didattico,
nell’atto stesso di esporlo in un certo modo, l’insegnante afferma ciò che è utile
trasmettere/apprendere, ciò che è secondario, ciò che deve essere sottolineato o
solo evocato; cosa può essere dato per scontato e cosa ha bisogno di spiegazioni; attribuisce in definitiva statuto d’evento e carattere di pregnanza a certi fatti,
mentre lo rifiuta ad altri; suggerisce ciò che è considerato pertinente dire o fare
entro il setting formativo (pertinentizza), si pone come filtro rispetto ai molteplici
percorsi di apprendimento che lo studente potrebbe intraprendere in rapporto a un
contenuto/sapere disciplinare (in questo senso ne propone una selezione), e ancora
indirizza il processo di inscrizione di tale contenuto entro una classe più ampia di
oggetti, dunque guida il processo di categorizzazione, ovvero di costruzione di
mappe concettuali che fonda l’organizzazione del sapere; in definitiva definisce
il quadro semiotico di riferimento che orienta il processo di interpretazione (pertinentizzazione, selezione, e categorizzazione) che qualifica la fruizione del messaggio da parte dell’allievo, dunque l’ambito di significazione entro il quale egli è
chiamato a muoversi.
227
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 225 - 241
La definizione di tale ambito d’altra parte, se da un lato pone dei vincoli all’interpretazione soggettiva della situazione, dall’altro non ne prescrive i percorsi, che
risulteranno dall’autonoma attività interpretativa degli interlocutori, dispiegata entro
ed in virtù della negoziazione intersoggettiva. Così ad esempio, se uno studente entra
in classe 10 minuti dopo il suono della campanella che segna l’inizio delle lezioni,
entro una comune definizione della sua azione come ritardo, si potrà riconoscere in
tale circostanza il segno ora della sua pigrizia (interpretandolo dunque come atto che
parla delle caratteristiche personali dell’allievo), ora del suo disinteresse (interpretandolo come atto che parla del suo rapporto con il docente e/o con la scuola tutta),
ecc.
Ciò che rende ad un setting formativo il suo carattere istituito non è dunque la
fissità dei significati attribuiti agli oggetti/eventi che caratterizzano il sistema di attività, ma il fatto di assumere che vi sia un accordo sul modo di interpretarli, come se
il loro valore comunicativo fosse immanente, impermeabile rispetto al tempo e allo
spazio.
1.2 Il setting istituito in classe
Quello che segue è un trascritto di una breve interazione tra un insegnante di
matematica e la sua classe di una scuola superiore. Lo analizziamo con l’intento di
evidenziare - senza alcuna pretesa di sistematicità - quali e quanti presupposti vengono affermati ed agiti di fatto - performativamente - attraverso gli atti discorsivi che
docente e allievi reciprocamente producono.
Insegnante: Allora ragazzi oggi io intendo interrogare qualcuno. Giovanni? Dovrei interrogare: Claudio vieni per favore, Carlo.
Carlo: Si
Insegnante: Adesso vediamo voi due. Sirigatti, non c’è?
Gruppo di studenti: No, non c’è, c’era Maria ma è andata via.
Insegnante: Adesso vediamo voi, poi nel frattempo vediamo. Magari Giovanna.
Dai Claudio.
Gruppo di studenti: Geometria?
Gruppo di studenti: No, matematica..
Gruppo di studenti: Matematica o Geometria?
Insegnante: La geometria fa sempre parte della matematica, non è un’altra cosa…
Allora iniziamo dalla geometria, mi date un libro per favore?
Gruppo di studenti: Ah… di geometria?
- Allora, ragazzi: l’appellativo implica ed attiva un modello di rapporto. Nel caso,
una struttura di relazione informale, sostanziata in chiave di prossimità. I “ragaz228
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
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zi” non sono gli “studenti”, sono un oggetto acontestuale; si potrebbe dire: ciò che
resta degli studenti una volta che questi siano “alleggeriti” del loro contenuto di
ruolo, delle ragioni funzionali per cui sono in rapporto tra loro e con il docente.
io intendo: l’insegnante áncora la decisione ad una propria intenzione/volontà
personale, piuttosto che, ad esempio, ad un criterio di utilità (“verifichiamo l’apprendimento prima di introdurre altri concetti”), o normativo (“devo interrogare”). Trova senso, da questo punto di vista, il “per favore” che connota anche la
decisione dello studente di avvicinarsi o no alla cattedra per essere interrogato
come espressione di volontà personale. In definitiva, in questo modo si veicola
l’idea dello scambio tra determinazioni di intenzionalità mediate dal valore convergente riconosciuto alla relazione interpersonale entro cui tali determinazioni
sono rappresentate dispiegarsi.
interrogare: è una dimensione costitutiva della tradizionale lezione didattica, volta alla verifica dell’apprendimento realizzato; l’uso della parola merita tuttavia
una sottolineatura dal momento che della verifica rende rilevante la dimensione
asimmetrica propria della routine in questione; la mancanza di ulteriori specificazioni sulla contingenza di tale circostanza (connessione con altri momenti del
lavoro didattico, finalità della decisione...), contribuisce a qualificarne il senso di
procedura istituita dotata di senso compiuto.
qualcuno: il riferimento ad un soggetto generico afferma il punto di vista per cui
la centratura è sull’attività (qualcuno serve perché l’interrogazione avvenga) più
che sulla funzione che essa assolve per chi è chiamato ad interpretarla.
“Sirigatti non c’è?” - “No, non c’è, c’era Maria ma è andata via. In primo luogo,
si può ipotizzare che con la sua risposta lo studente locutore attenua la potenziale
rottura dell’assetto di prossimità veicolata dall’uso da parte del docente del cognome. Si può tuttavia aggiungere che la risposta, allo stesso tempo, va in risonanza con la proposta semiotica del docente: evocando Maria in connessione con
Sirigatti si mobilita una categoria metaindividuale come referente dell’interrogazione. In altri termini, si co-costruisce il senso dell’interrogazione come azione
finalizzata non al singolo studente, bensì rivolta ad un collettivo indifferenziato
(del tipo: Maria, Sirigatti, o chicchessia, purché qualcuno), coerentemente alla
proposta del docente connotante tale attività come fine in sé.
Geometria o matematica?. Questa domanda, all’apparenza banale, veicola una
potente proposta performativa: la costruzione di una articolazione del campo di
esperienza nei termini di due oggetti distinti.
La geometria fa sempre parte della matematica, non è un’altra cosa: L’insegnante non entra in rapporto con il senso performativo della domanda; piuttosto,
la negozia – in termini di correzione - nel suo contenuto semantico immediato,
opponendo ad esso un diverso ordine semantico, basato sul proprio sistema culturale di riferimento (il modello epistemologico che definisce l’unità gnoseologica
di geometria e matematica). Qui troviamo l’esercizio di ciò che intendiamo come
setting istituito. L’insegnante propone il proprio modello in quanto norma, cioè
229
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 225 - 241
criterio di verità in ragione del quale dare significato al discorso degli allievi.
Ciò evidentemente implica considerare tale discorso come uno scarto rispetto
alla realtà attesa, piuttosto che come espressione di un codice culturale ulteriore
- nel caso: l’articolazione di geometria e matematica in quanto segmenti discreti
dell’esperienza scolastica (articolata in ragione dei libri differenti, così come,
probabilmente, della distinzione delle ore di lezione, ecc…), piuttosto che forme
dello scibile.
- “Iniziamo dalla geometria. Mi date un libro?”: È interessante osservare che nella
situazione di interazione esaminata la proposta di senso avanzata performativamente dagli studenti per quanto contrastata sul piano dichiarativo, nei fatti viene
fatta propria dall’insegnante sul piano degli atti. L’insegnante, infatti, assume gli
ancoraggi materiali (il libro) ed i marcatori linguistici (“iniziamo da”) veicolati
dalla proposta semiotica degli studenti. In altri termini aderisce/si proietta entro il
mondo esperienziale dove geometria e matematica sono due oggetti diversi, fonte
e alimento di pratiche socio-comunicative differenziate.
Prendiamo in considerazione un successivo pattern dello stesso scambio comunicativo.
Insegnante: Vediamo, qualche definizione per esempio. Carlo dammi una definizione di poligono. Intanto, come lo definiresti un poligono? Allora…
Carlo: …. (rimane in silenzio)
Insegnante: Allora…Carlo... un poligono. Disegnalo, disegna un poligono. Vediamo dalla rappresentazione grafica di capire come potremo definirlo, disegna
un poligono qualsiasi, disegnalo.
- qualche definizione/una definizione di poligono: l’uso dell’aggettivo (quale) e
dell’articolo (un) indeterminativo contribuisce ad indurre/riprodurre un frame interpretativo che rende rilevante (pertinentizza) l’azione del definire rispetto allo
specifico oggetto a cui tale azione si applica.
- Intanto. Il senso appena richiamato sembrerebbe ulteriormente alimentato dal
successivo uso del termine “intanto”, che connota l’oggetto da definire in termini
contingenti, strumentali, pretestuali: è come se definire il poligono non avesse valore in sé, ma fosse un passo, di passaggio, per permettere alla pratica condivisa
di svilupparsi.
- (silenzio). Carlo non entra esplicitamente in conflitto con il frame interpretativo
dell’insegnante. Produce piuttosto un atto che potremmo definire “di confine”,
né pienamente compatibile (l’interrogazione presuppone che l’interrogato dica
qualcosa), né pienamente incompatibile (la scena muta è una possibile, sia pure
marginale, opzione a disposizione dell’interrogato). Tale posizionamento “transizionale” rende l’atto polisemico, oggetto di una molteplicità di possibili interpretazioni: |non so rispondere|; |non voglio rispondere|; |non capisco la domanda|;
230
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
|devo pensare/ho bisogno di tempo|; |aspetto un suggerimento”|, ecc.
- Allora… Carlo…un poligono. È l’insegnante a “sciogliere” - a vincolarla ad una
direttrice interpretativa - la polisemia dell’atto dell’altro, anche in questo caso
operando sul piano performativo. Sollecitando lo studente ad una risposta, carica
il silenzio dello studente di un significato di impedimento contingente a rispondere (piuttosto, ad esempio, di indisponibilità strutturale ad aderire alla richiesta).
In questo modo viene agito – ed al contempo riprodotto – uno dei fondamentali
assunti dell’attività didattica: l’adesione dello studente al proprio ruolo, dunque
la interpretazione degli scarti in chiave di impossibilità/incapacità, piuttosto che
di uscita dalle regole del gioco.
- Disegnalo, disegna un poligono. Vediamo dalla rappresentazione grafica di capire come potremo definirlo, disegna un poligono qualsiasi, disegnalo. Questa
iniziativa discorsiva si presta ad un duplice ordine di considerazioni. In primo
luogo, sembrerebbe conseguente alla precedente sollecitazione e volta a rinforzarne il senso. È come se l’insegnante assumesse ed agisse – realizzandola
tramite l’azione - un’idea di questo tipo: “Carlo accetta di essere interrogato,
ne comprende il significato; se sta in silenzio è perché si riconosce non in grado di produrre la performance che egli stesso considera adeguata al ruolo”. Il
silenzio di Carlo in questo modo assume il valore di un’adesione al ruolo, al
contempo assoluta e paradossale: lo studente è costruito come così identificato
con il ruolo al punto da impedirsi di parlare in quanto riconosce di non avere
nulla di adeguato da dire. Ovviamente, sono possibili anche altre letture di questo pattern comunicativo. Tuttavia, quella che stiamo qui proponendo risulta
coerente con il successivo sviluppo dell’iniziativa discorsiva dell’insegnante.
Interviene infatti un doppio salto, che nei fatti modifica la routine dialogica sostanziante l’interrogazione. Il primo salto avviene con il recupero di una diversa
area dell’identità di ruolo dei partecipanti. La sollecitazione a disegnare nei
fatti modifica il senso stesso dell’interazione, che a questo punto non si configura più come un controllo sull’apprendimento acquisito relativamente ad una
capacità/conoscenza, ma come induzione di un processo di co-costruzione di
conoscenza (si potrebbe aggiungere: con l’insegnante nella funzione di zona di
sviluppo prossimale dell’allievo). Se si vuole, si è prodotta una trasformazione
(momentanea o persistente che sia, qui non è rilevante) del frame |interrogazione| in modo che esso incorpori un diverso contenuto di attività. Tale salto si associa all’emergere di un nuovo posizionamento, richiamato dall’uso della prima
persona plurale e di una formulazione aperta, di sapore ottativo, piuttosto che
imperativo (“Vediamo come potremo definirlo”). A questo punto non vi è più un
insegnante opposto ad uno studente di cui controllare il possesso di una certa
qualità, ma un soggetto collettivo (un noi) impegnato in uno sforzo condiviso
volto ad ottenere un risultato il cui incerto riscontro (si veda in proposito l’uso
in chiave di possibilità dell’ausiliare “potere”) attesta ulteriormente il valore
dell’investimento esercitato.
231
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 225 - 241
1.3 Qualche commento
Ciò che ci sembra un elemento che l’analisi ora proposta ha permesso di rilevare
è il fatto che il processo di coordinamento della reciprocità sostanziante le interazioni viene messo in atto attraverso ed in ragione di procedure di microregolazione
del significato che non implicano negoziazioni esplicite, ma piuttosto si esercitano
attraverso l’incessante, non intenzionale ed implicita attribuzione performativa di
valore comunicativo al posizionamento dell’altro; o meglio: alla rappresentazione
di tale posizionamento. Ad esempio, come abbiamo visto, l’insegnante produce uno
shift nella routine dell’interrogazione non come risposta al contenuto comunicativo
di Carlo (il suo silenzio), ma in ragione della propria riorganizzazione del senso
nei termini della quale incorpora nel proprio sistema di significati tale condotta
dell’allievo.
In definitiva, ogni attore è al contempo chiuso nella propria autoreferenzialità interpretativa ed al contempo capace di entrare in rapporto microregolativo con l’altro.
Per quanto limitata, la precedente analisi ci sembra illustri in modo sufficientemente chiaro come la cultura educativa implicata in questo scambio tratti la soggettività dei partecipanti (intesa in senso lato come l’insieme dei mondi di significato che
mediano/organizzano l’esperienza che essi fanno del setting formativo e della loro
partecipazione al suo interno) come eteroregolabile ed allo stesso tempo come una
componente data del format didattico (Salvatore, & Scotto di Carlo, 2005). Simile
presupposto - spesso implicito - alimenta l’aspettativa secondo la quale si possono
prevedere e prescrivere valori, norme, richieste di ruolo, operando come se la risposta cooperativa degli attori cui vengono proposte regole e condizioni di partecipazione dipendesse essenzialmente dalla coerenza del messaggio e dalla legittimità/
sensatezza del suo contenuto.
Simile concezione pedagogica trova peraltro sostegno nella letteratura psicologica: basti pensare alla teoria dell’utilità attesa (Edwards, 1954), secondo la quale la
funzionalità o desiderabilità di un comportamento si fonda sul calcolo della probabilità (aspettativa) e dell’utilità (valore) di particolari conseguenze; l’uomo è concepito
come un soggetto razionale capace di valutare oggettivamente/razionalmente costi
e benefici delle alternative di azione, e di agire congruentemente con queste. Una
prospettiva, questa, che in ultima istanza è espressione di un derivato epistemologico
secondo il quale il valore dei segni scambiati è inscritto negli oggetti stessi, in ragione
(per il fatto stesso di essere parte) del contesto in cui occorrono (Salvatore, 2007).
2. Limiti di una concezione istituita del setting
Ogni modello educativo (e più in generale professionale) ha i propri vincoli di
esercizio, le condizioni, cioè, entro le quali si rende applicabile. Abbiamo ad esempio già osservato come il setting istituito presupponga la condivisione dei codici di
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TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
significazione tra docente e studenti. Tale modello risulta d’altra parte impraticabile
nelle situazioni in cui l’utenza non condivide i presupposti che consentono l’incontro
con la funzione docente; in altri termini, in quelle circostanze entro le quali l’assenza di una comune matrice di significati rende reciprocamente incommensurabili le
posizioni degli attori implicati. Il punto è che il non darsi di tali condizioni sembra
oggi una regola, piuttosto che un’eccezione con cui occasionalmente l’insegnante è
chiamato a confrontarsi. E la ragione di ciò non ha a che fare con la sostanza o qualità in sé delle proposte educative della scuola - affermarlo significherebbe pensare
all’istituzione scolastica come ad un sistema chiuso, impermeabile, incondizionato
dai contesti (sociali, storici, economici, culturali) in cui pure si inscrive e che, almeno fino ad un certo punto, le hanno dato legittimità, riconoscendola come espressione di un mandato sociale.
Come è stato da più punti di vista osservato, nella società “complessa” (Luhmann, & De Giorgi, 1992) e iperdiferrenziata, a venir meno non sono solo gli a priori
culturali fondanti l’agire educativo, ma più in generale i sistemi di significato che
fondano l’agire sociale e l’investimento sui principi, le regole, i domini di valore di
cui le istituzioni (anche quelle scolastiche) sono in parte espressione. La scuola si
confronta con una utenza composita e differenziata nelle sue attese, caratteristiche e
modalità di declinare la partecipazione alla vita scolastica (Carli, 2001; Pinto et al.,
proposto per la pubblicazione; Mossi & Salvatore, submitted), così come a quella
comunitaria (Ferrari Occhionero, 2001). Differenze queste che evidenziano come la
categoria |studente| sia un’astrazione che non rende conto della pluralità dei sistemi
di senso che l’attraversano ed organizzano l’identità dei soggetti che tramite tale
classe di significato sono denotati; sistemi di senso che spesso appaiono incompatibili con le tradizionali regole del gioco fondanti i processi di apprendimento e di
lavoro collettivo.
Il dibattito accesosi attorno all’opportunità o meno di mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche, è solo uno dei tanti indizi che informano sulla difficoltà ad assumere lo studente in termini di radicale alterità, tale non necessariamente in quanto
diverso da un punto di vista etnico o religioso, ma perché irriducibile alle condizioni
istituite del setting di insegnamento-apprendimento.
Il carattere di alterità antropologica dell’utenza mette la scuola dinanzi a due
opzioni di fondo. La prima la possiamo definire: strategia di assimilazione. Essa assume il carattere istituito dell’agire educativo, dunque cerca di intervenire sui fattori
che ne impediscono il funzionamento atteso. L’altra logica la definiamo dell’accomodamento. Essa interpreta la frattura del copione che orienta l’azione professionale
come esito dell’incontro con il carattere di estraneità dell’utenza ed usa gli eventi
critici per sviluppare l’appropriatezza del setting, in modo da renderlo mediatore e
luogo di incontro con essa.
Nel primo caso la mancata implicazione dell’utenza nel setting formativo viene
trattata come una perturbazione risolvibile attraverso l’insistenza su strumenti e procedure che non mettono in discussione il modello educativo/formativo esistente. Nel
233
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 225 - 241
secondo caso l’eterogeneità dell’utenza viene intesa come informazione di ritorno
sull’opportunità di elaborare un modello di relazione educativa capace di interagire
con la variabilità del contesto, trattata come un fattore costitutivo, piuttosto che come
incidente o fattore di disturbo contingente, del funzionamento del sistema di azione
professionale. Possiamo parlare, in questo secondo caso, di una concezione istituente
del setting formativo: diversamente dal setting istituito, quello istituente, o negoziale
(Salvatore & Scotto di Carlo, 2002) non dà per scontata la cooperazione tra docente
e classe e non considera le regole che consentono al processo di insegnamento di
dispiegarsi condizioni ad esso preesistenti; al contrario, interpreta le regole del gioco
che fondano gli ambienti di insegnamento-apprendimento come la risultante di un
continuo processo di co-costruzione e negoziazione di significati. E ciò a partire
dall’idea secondo la quale gli oggetti, le regole, le procedure messe in campo nel
processo di insegnamento-apprendimento non hanno in sé obiettivi e non prescrivono le modalità del loro utilizzo. Essi vanno piuttosto considerati dei dispositivi che
si configurano in modo situato in ragione della contingenza delle circostanze in cui
sono iscritti. La relazione educativa in questa prospettiva non è una semplice cornice, ma ciò attraverso cui il processo di insegnamento-apprendimento si dispiega. Il
docente è quindi chiamato non solo ad insegnare, ma anche a costruire, sviluppare,
monitorare e verificare le condizioni organizzative e di rapporto con l’utenza che lo
mettono nelle condizioni di insegnare.
3. Il carattere ermeneutico dell’insegnamento
Il modello del setting istituente fa proprio il punto di vista – sostenuto da diverse aree del pensiero psicologico contemporaneo – secondo cui il processo di insegnamento-apprendimento non può essere configurato come un semplice processo
di trasmissione-acquisizione di dati: la mente non elabora pacchetti di informazioni
ma significati (Bruner, 1990). Significati che non sono proprietà degli oggetti ma del
loro incontro con i dispositivi semiotici che li interpretano, li qualificano, li utilizzano e in questo senso li generano, in modo particolare ed idiosincratico (piuttosto
che riproduttivo ed universalistico), in ragione dei contesti locali di identità e attività in cui sono inscritti (Harré & Gillett, 1994; Valsiner & van der Veer 2000). In
quest’ottica il processo di insegnamento-apprendimento si configura come un’attività ermeneutica che procede attraverso l’attribuzione/costruzione di un senso agli
elementi (contenuti didattici, tecniche, procedure, regole, attività …) che lo abitano.
L'insegnante, da questo punto di vista, può offrire condizioni e modalità di esercizio
alla funzione di apprendimento (definendo/selezionando/organizzando le condizioni
su cui il processo ermeneutico si dispiegherà) ma non ne definisce gli esiti (Salvatore
& Scotto di Carlo, 2003).
Ai fini del nostro discorso, è utile evidenziare come la tesi della contestualità e
situatività dei significati abbia importanti implicazioni metodologiche nel processo
234
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
di insegnamento-apprendimento. Segnaliamo in particolare due punti:
a) viene meno l’idea della istruttività dello stimolo didattico (Salvatore & Scotto Di
Carlo, 2005): i contenuti trasmessi dall’insegnante non vengono ricevuti e acquisiti dagli allievi con gli stessi criteri e la stessa intenzionalità con cui sono messi
in campo; lo studente si rapporta infatti a qualsiasi segno prodotto dal docente
attraverso la mediazione dei sistemi di significato (modelli culturali, simbolici,
cognitivi) di cui localmente dispone;
b) viene meno l’idea di saperi e tecniche il cui valore d’uso e la cui applicabilità
siano senza tempo e senza luogo - validi dunque per tutti, ubiquitariamente e per
sempre, indipendentemente dal contesto (interpersonale, organizzativo, sociale,
istituzionale) e dalla dinamica di scambio in cui il loro impiego viene proposto.
In sintesi, il riconoscimento del carattere contingente del significato rende assai
incerta l’efficacia di una strategia formativa fondata su di una concezione istruttiva
o procedurale del processo di insegnamento: la prima non tiene in debito conto l’autonomia interpretativa dei fruitori; la seconda ignora la natura contesto-specifica dei
modelli che regolano i processi di insegnamento-apprendimento.
Il docente si trova così in un situazione peculiare, per certi versi paradossale: da
una parte è sua funzione specifica (istituzionalizzata dal mandato sociale) quella di
promuovere apprendimento; non può dunque limitarsi ad inscrivere la propria azione
professionale all’interno dei modelli e delle premesse di cui gli allievi sono portatori,
lasciandosi cioè meramente assimilare dall’universo simbolico dell’utenza; dall’altra, non può operare malgrado il cliente, imponendo in modo normativo il proprio
punto di vista educativo su cosa e su come sia utile/opportuno/necessario pensare, essere, fare entro il setting formativo. Come diverse aree disciplinari (non solo
pedagogia, ma anche epistemologia, antropologia, sociologia, psicologia ed anche
biologia) hanno evidenziato, non è possibile infatti prescrivere i modelli simbolici
che governano il modo con cui gli attori interpretano il proprio ruolo ed il contesto
in cui sono inscritti.
In questa sede non vogliamo limitarci a segnalare simile paradosso, del resto sperimentato quotidianamente dagli insegnanti in termini di incertezza, insoddisfazione,
senso di impotenza. Per individuare a partire da esso una prospettiva di sviluppo è
d’altra parte opportuno tenere in conto un principio teorico-metodologico generale:
l’attività semiotica di interpretazione-costruzione di significato degli attori se da un
lato è autonoma, dall’altro è comunque vincolata ed esercitata entro, a partire e nei
termini delle categorie che il contesto culturale mette a disposizione. In altri termini,
se va riconosciuto che ogni individuo pensa e parla in ragione dal proprio universo
interpretativo, è altrettanto opportuno rilevare che per fare ciò utilizza le categorie
(cognitive ed affettive) e i registri narrativi che trova disponibili entro il contesto.
L’autonomia semiotica del soggetto si alimenta di risorse simboliche che il soggetto
si abilita ad utilizzare in ragione del proprio essere parte di un sistema di appartenenza (dunque di una cultura).
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Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 225 - 241
In questo senso, il modo dello studente di rappresentar(si), connotar(si), narrar(si)
l’esperienza, è sempre rappresentazione/narrazione di secondo grado, vincolata agli
ambiti/dispositivi di significazione (i contenuti dei compiti richiesti, il modo di presentarli, le forme di rapporto che propone agli allievi, l’organizzazione spazio-temporale dei lavori, ecc) che l’insegnante gli mette a disposizione.
Come abbiamo provato ad evidenziare nell’analisi del trascritto, l’azione didattica
si pone non solo come veicolo, ma anche come inveramento di criteri di adeguatezza
e di interpretazione del ruolo. Si pensi al silenzio di Carlo, lo studente cui l’insegnante di matematica ha chiesto la definizione di poligono. Attribuirgli un significato nei
termini del proprio frame interpretativo (un frame che assume l’inscrizione dello studente entro le regole del gioco previste dal setting formativo e che interpreta quindi
la sua mancata risposta in chiave di incapacità, piuttosto che di indisponibilità strutturale ad aderire alla richiesta) è una delle azioni che il docente aveva a disposizione;
un’alternativa, sarebbe stata assumere come oggetto del discorso il silenzio stesso;
in altri termini non attribuirgli immediatamente un significato, dando per scontato
il riferimento dello studente allo stesso universo di significati dell’insegnante, ma
usare nel caso specifico il silenzio (più in generale il segno prodotto dallo studente)
come un pretesto per sviluppare il livello di negoziazione condivisa del senso di ciò
che sta avvenendo.
Si tratta, in definitiva, di sviluppare fino in fondo l’implicazione legata al riconoscimento del carattere negoziale e situato del significato. La conoscenza non è
un lavoro o un bagaglio cognitivo individuale ma un prodotto che emerge in spazi
specifici (situati) di intersoggettività, dove gli attori costruiscono discorsivamente
versioni e rappresentazioni condivise di quanto stanno realizzando insieme. Il contesto educativo - da questo punto di vista - è esso stesso un evento di costruzione
sociale, cui anche l’insegnante partecipa, proponendo, incoraggiando, alimentando,
convalidando (in un modo o nell’altro), premesse e criteri di rapporto. L’attività
educativa può dunque essere concepita come opportunità di praticare il sistematico
superamento dei vincoli che le dimensioni simboliche istituite pongono alla possibilità di generare nuovo senso. È questa una diversa, ma non incompatibile, a nostro
avviso, definizione di apprendimento.
4. Dal setting applicativo al setting negoziale
Se è vero che l’efficacia del processo di insegnamento è strettamente connessa
al grado di investimento degli studenti e al valore che essi attribuiscono all’agire
educativo, allora essa può essere alimentata attraverso la creazione di dispositivi
che, in quanto inscrivibili nei loro modelli categoriali e nel loro orizzonte di esperienza, possano funzionare al contempo da ancoraggio per e da vettori di sviluppo
dei loro schemi di conoscenza; dispositivi dunque compatibili rispetto al sistema di
significati con cui gli studenti danno valore all’ambiente, al contempo non appiattiti
236
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
sui loro linguaggi contestuali. Uno di noi, con altri, ha definito in termini di salienza
semiotica (Salvatore & Scotto Di Carlo, 2005) la qualità di un setting formativo di
questo tipo, capace di configurarsi come contesto simbolicamente pregnante per il
sistema d’identità e di intersoggettività degli allievi.
Un simile contesto si può sviluppare nella misura in cui gli studenti vengano messi nelle condizioni di riconoscere nel sistema formativo (nei suoi contenuti, nelle sue
modalità) non solo un’attualità fatta di impegni, di compiti, di scadenze, di regole…,
ma anche e soprattutto un progetto (un perché) e un’ipotesi di sviluppo del proprio
futuro, dunque del proprio desiderio, non solo formativo ma anche esistenziale, in
definitiva un rapporto tra ciò che stanno facendo come studenti e ciò che sono, e
desiderano essere.
L’insegnante può sviluppare la salienza simbolica del setting formativo, nella
misura in cui lo configura come veicolo non solo di pensieri-già-pensati ma dapensare, ovverosia nel momento in cui organizza situazioni che oltre a funzionare
da contenitori delle pratiche di insegnamento/apprendimento, operino come pre-testi
per generare significati e pratiche di riflessione. Il che significa valorizzare e porre
attenzione non solo al testo da apprendere, ma anche al contesto in cui e attraverso
cui viene appreso, non solo all’esito ma anche al processo che genera apprendimento, dando voce alla relazione in cui si inscrive.
Se il setting istituito implica/giustifica una logica di insegnamento che non prevede mediazioni/specificazioni sul cosa, come e perché, il setting istituente richiede
una logica negoziale che assumendo la pluralità dei punti di vista in gioco, lascia
spazio al loro riconoscimento. Il suo prodotto cognitivo e relazionale è la pratica
socio-semiotica dell’estraneità. Dove per “estraneità” intendiamo un modello di relazione simbolica con l’oggetto che lo tratta come non immediatamente dato, scontatamente ri-conoscibile (Montesarchio & Crotti, 1993; Paniccia, 2003).
Evidentemente, la pratica del setting istituente richiede metodologie di lavoro
specifiche, strutturanti ed al contempo flessibili, che permettano al setting stesso
di configurarsi come un testo “aperto”, da costruire, da esplorare, sperimentare,
costantemente passibile di ristrutturazione. In questo senso il processo educativo è
insieme progetto ed esperienza. In quanto progetto, è caratterizzato da finalità, che
lo sottraggono alla causalità; in quanto esperienza, è un viaggio non scontatamente
prescritto da regole date, continuamente sottoponibile a revisione, in funzione di
ciò che appare utile, interessante o significativo in quel momento, in quel contesto.
In quest’ottica ci pare di poter leggere l’insistenza di diversi autori sulla necessità
di una cultura dei processi formativi che si apra ai vissuti e alle narrazioni (Montesarchio & Marzella, 2002; Montesarchio & Venuleo, 2003; Freda, 2004; Di Vita &
Granatella, 2006), intesi non come spazio altro dall’apprendimento, ma come riconoscimento del ruolo giocato dai dispostivi semiotici degli allievi e della possibilità
di procedere attraverso e non malgrado le teorie sulla relazione, sul ruolo di studente,
di insegnate, sull’uso del processo formativo, che la loro domanda esprime.
237
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 225 - 241
Esplicitare tali teorie - gli assunti posti in premessa - non è operazione fine a se
stessa; significa creare un contesto in cui i codici di riferimento possano essere attraversati, elaborati, pensati. E ciò a partire dal punto di vista per cui il processo di
insegnamento ha valenza formativa non solo nella misura in cui in esso si mobilitano
determinati contenuti, ma in quanto capace di configurarsi come contesto di produzione di senso, dunque dispositivo interpretante (e non solo interpretabile) della
esperienza di presenza nel mondo degli attori implicati.
Il setting negoziale non implica, insomma, un appiattimento sui linguaggi contestuali degli studenti; se così fosse, pur promovendo la loro partecipazione, verrebbe
meno nella sua principale valenza di essere motore di sviluppo dei loro modelli di
conoscenza. Esso fa proprio piuttosto il punto di vista per cui l’efficacia del processo
di insegnamento è legata alla sua capacità di incrementare la pensabilità/rappresentabilità/narrabilità dell’esperienza scolastica e dell’identità di ruolo dello studente,
operando come contesto di natura perturbativa, che permetta al contempo di:
- mobilitare i sistemi di conoscenza degli allievi (creando condizioni per esplicitarli);
- sfidare la tenuta delle premesse che ne fondano l’organizzazione (le condizioni di
validità, le implicazioni);
- sostenere metodologicamente i tentativi di ristrutturazione concettuale con i quali
essi rispondono alla perturbazione del precedente assetto.
In quest’ottica, l’azione dell’insegnante si muove entro i vincoli delle premesse
(cognitive, affettive, simboliche) proposte dal cliente e ne promuove al contempo lo
sviluppo, rendendo visibili, parlabili, dialogabili le risorse simboliche che lo possono alimentare.
5. Prospettive
Il modello educativo ora proposto ha due implicazioni a nostro avviso rilevanti:
una concerne la reinterpretazione della funzione docente, l’altra – strettamente connessa - la reinterpretazione della logica che guida l’intervento psicologico a scuola.
Sul primo punto, come già evidenziato, la logica del setting istituente permette
una diversa lettura di quegli eventi che, segnalando la mancata implicazione dello
studente nel setting formativo, si presentano come critici per l’insegnante; essi possono infatti essere reinterpretati come il segno non di ciò che manca allo studente,
ma della diversità di parametri che organizzano la sua presenza, dunque, in ultima
analisi, di ciò che manca al setting per entrare in rapporto con tale differenza. Si
tratta in altri termini di chiedersi non come cambiare l’allievo ma come cambiare
il contesto di apprendimento in modo che sia per lui appetibile, ovvero utilizzabile/
comprensibile – e ciò, vale la pena precisarlo non come valore in sé, ma come meto238
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
do per produrre processi di apprendimento efficaci.
In tale ottica, l’agire professionale del docente si viene a configurare in termini
bidimensionali. Da un lato, come competenza tecnica che regola l’azione didattica
entro le aree e i momenti dati del rapporto con l’utenza; dall’altro la competenza
metodologica volta a costruire le condizioni di setting e di relazione con il fruitore necessarie per sviluppare e governare tali aree/momenti, dunque per esercitare
l’azione didattica.
Una tale prospettiva comporta - questo è il secondo punto che vogliamo richiamare - una ridefinizione della funzione psicologica in rapporto alla professione docente. Secondo la cultura educativa consolidata, all’insegnante non compete trattare
il contesto della propria azione professionale; tale contesto può costituire un fattore
di disturbo o di vincolo del processo di insegnamento, tuttavia non è di per sé oggetto di regolazione da parte del docenti (Cfr. Morozzo della Rocca, 1993). Il che è
un altro modo per dire che l’insegnante tende ed è legittimato a ragionare in termini
di contesto istituito (Mehan, 1978). La prospettiva del setting istituente rappresenta dunque un’operazione di innovazione culturale, che la psicologia può aiutare a
perseguire. Perché ciò accada è tuttavia necessaria una funzione psicologica a sua
volta in grado di operare secondo la logica del setting istituente; in altri termini, una
psicologia in grado di perseguire l’incontro con la domanda scolastica in termini di
pratica di alterità.
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240
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Riassunto
La relazione educativa si basa su presupposti culturali che non sono negoziati tra
studenti ed insegnanti, ma semplicemente usati nell’interazione. A partire dall’analizzato del trascritto di una interazione comunicativa in classe si discutono condizioni di utilizzo e limiti di un tale modello di relazione educativa. Inoltre, si evidenzia
come il cambiamento antropologico dell’utenza scolastica solleciti a considerare la
funzione di insegnamento non più solo in chiave tecnica, come azione didattica, ma
volta anche a costruire, sviluppare, e verificare le condizioni organizzative e di rapporto con l’utenza necessarie per l’esercizio dell’azione didattica.
Abstract
The educational relation is grounded on cultural assumptions which are not subject
to student-teacher negotiation, but are simply used in their interaction. Starting from
the analysis of a transcript of communicative interaction in class, we discuss conditions and constraints concerning this education model. Moreover we highlight how
the anthropological change in the student population invites us to think of teaching
no more as a purely technical activity, a didactic action, but also as being aimed at
constructing, developing and testing the organizational and relational conditions required for the didactic action itself.
Ricevuto maggio 2007.
241
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
La relazione educativa da un vertice
gruppale
Giorgia V. Margherita*
* Dipartimento di Scienze Relazionali - Università degli Studi di Napoli Federico II
Il gruppo vive oggi nel contesto scolastico un momento molto fruttifero per diverse ragioni di carattere generale, teorico ed epistemologico.
Nelle scienze sociali di oggi “pluralità”, “molteplicità” e “eterogeneità” si considerano come aspetti costitutivi della realtà e dell’esistenza umana.
Le persone, come le organizzazioni sociali, sono calate in relazioni e situazioni
in continua evoluzione, in divenire, in movimento verso nuovi assetti sempre più
flessibili, fragili, precari ed estemporanei.
Nella “società dell’incertezza”, come la definisce il sociologo Z. Bauman (1999),
si respingono concetti come stabilità e durata, il tempo è frammentato, le cose e le relazioni hanno perso la propria originaria struttura: si fluidificano. La “libertà”, come
conquista dell’epoca postmoderna, può essere tutelata a patto che essa sia coniugata
con atti collettivi, come la solidarietà.
In questo scenario si delinea sempre più chiaramente un quadro di competenze
complesse richiesto ai sistemi educativi che dovrebbero assicurare, da una parte la
trasmissione di conoscenze e valori tramite la formazione dei giovani, e dall’altra
assolvere ad un mandato di difesa e protezione della gruppalità societaria dalle ansie
collegate alla precarietà. Infatti, mentre emergono nuove paure sociali, le istituzioni
perdono la loro funzione di tradizionale reti di protezione e in parallelo cambiano
anche i tradizionali valori condivisi. Non sono quindi più sufficienti modelli lineari,
ma si rende necessario aprirsi a nuovi paradigmi meno rassicuranti, ma più aderenti
ai cambiamenti sociali.
La psicologia dinamica ci insegna come il vertice “gruppale”, per proprie peculiari caratteristiche, sia il vertice della complessità e rappresenti una scelta epistemologica che si fonda sull’interpretazione pluralistica della realtà (Corbella, 2003; Di
Maria, Lo Vanco 1995; Lo Verso, Papa 1995). Nel gruppo interagiscono l’individuale ed il sociale, la mente e la relazione, attraverso linguaggi e modalità di osservazione che portano costantemente a ridefinirsi rispetto alle caratteristiche dell’altro,
caratteristiche che si declinano a più livelli a partire dal piano somatico fino a quello
istituzionale-culturale. Il gruppo, pertanto, può essere uno spazio ideale dove destrutturate codici e valori, significati, modalità di pensiero e dunque affrontare una
realtà in divenire con modelli interpretativi aperti.
243
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
1. Il gruppo negli spazi educativi
A partire dagli studi di Bruner (1990, 1996) si è messo in evidenza il carattere interattivo e sociale della conoscenza, essa non è solo frutto di un’elaborazione personale da parte dei soggetti, ma è il risultato di una serie di processi intersoggettivi che
si costruiscono in un contesto storico – culturale. Attraverso la psicologia culturale e
la prospettiva costruttivista si sviluppa una concezione educativa in cui la Scuola si
configura come luogo interattivo in cui interpretare i saperi, negoziare i significati e
costruire in modo condiviso prodotti culturali (Bruner, 1996).
L’apprendimento che i modelli cognitivisti vedevano come attività prettamente
mentale viene inquadrato come un’attività relazionale e sociale e quindi non collocabile esclusivamente su un piano individuale. Infatti, nell’ambito del costruttivismo sociale non si parla più solo di apprendimento bensì di “insegnamento
- apprendimento”, processi circolari, definibili in base a più ampie dimensioni del
contesto.
Nuovi approcci al tema dell’istruzione definiscono nuove forme di organizzazione della conoscenza, nuovi apprendimenti da promuovere, nuovi modelli della
didattica.
Nel tradizionale modello lineare di insegnamento si presupponeva che il docente
trasferisse informazioni e contenuti disciplinari attuando un travaso allo studente
indipendentemente da bisogni, caratteristiche, condizioni organizzative. A ciò corrispondeva un apprendimento “passivo” inteso come ritenzione e replica dei messaggi
e delle informazioni. In questa organizzazione della didattica la relazione educativa
era di tipo duale/acontestuale, quindi la comunicazione si supponeva unidirezionale
(dal docente all’allievo) e la metodologia era esclusivamente la lezione frontale.
Oggi il processo di insegnamento/apprendimento è invece da intendersi come uno
scambio, una trasmissione reciproca di conoscenze, una costruzione di senso e di
significati condivisi tra i partecipanti allo stesso contesto socio-culturale.
Nuovi modelli di interpretazione dei fenomeni educativi si affacciano sulla scena
scolastica tenendo conto della circolarità dei processi che si svolgono all’interno di
relazioni plurime. Relazioni che si svolgono in gruppi, collocati a loro volta in contesti sociali che danno senso alle esperienze.
Comincia a trovare spazio il gruppo come risorsa nel processo di apprendimento,
in particolar modo attraverso la collocazione della classe in posizione centrale, come
soggetto e strumento attivo del processo di formazione.
Si sviluppano allora nuove pratiche che, attraverso il discorso, il confronto con il
punto di vista dell’altro, la negoziazione e i processi dialogici strutturano i significati
della conoscenza. Nascono nuove metodologie “attive” che stravolgono le modalità
tradizionali dei processi formativi ed educativi. L’apprendimento cooperativo (Cudini, S., Francescato, D., Putton, A., 2001), l’educazione socio-affettiva (Pontecorvo
C., Ajello A.M., Zucchermaglio C, 1991, 1995), la peer education (Mennarini, 2005;
Venza, Grassi, Mandolà, 2007), ne sono un esempio.
244
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Tali metodologie fanno leva sul gruppo e sulla costruzione di un ambiente educativo caratterizzato da un clima di collaborazione, cooperazione e responsabilità, ad
esempio favorendo lo scambio di conoscenze ed esperienze tra pari.
Se il gruppo è presente in molti approcci come strategia educativa e mostra le potenzialità di uno spazio dove poter costruire conoscenze, altresì il gruppo si connota
spesso nella rappresentazione comune, come un serbatoio di dinamiche affettive ed
emotive; un “problema da gestire” quindi, e da sempre, in tutti gli spazi dell’istituzione scuola, in classe innanzi tutto e nella didattica.
Pensiamo a come la dimensione del gruppo sia costantemente presente dalla lezione/spiegazione (l’insegnante al cospetto del gruppo) fino all’interrogazione/valutazione (l’allievo alla presenza non solo dell’insegnante ma dei anche dei compagni);
tutto l’iter scolastico avviene alla presenza inesorabile del gruppo.
Esiste poi l’ampia gamma di gruppalità che gli insegnanti incontrano a scuola:
oltre alla classe, il collegio docenti, il consiglio d’istituto, i gruppi di progetto, la
tanto auspicata collegialità della programmazione e ovviamente l’incontro con il
polo famiglia, con la sua gruppalità, portatrice di valori e significati emotivi ed
affettivi.
Dunque il gruppo nella scuola è incontrato, è spesso temuto, a volte pensato,
usato, progettato.
La scuola e la sua rete si configurano come un vero e proprio sistema di gruppi a
più livelli.
Può essere quindi introdotto l’interrogativo: quali concetti possiamo utilizzare
dei modelli psicodinamici e clinici di gruppo per riflettere sulle gruppalità che ha
luogo nel contesto scolastico?
Da un punto di vista psicodinamico il gruppo designa una struttura, o meglio
un’organizzazione delle relazioni tra più soggetti che fa si che i loro rapporti producano delle configurazioni e dei processi specifici, spesso inconsapevoli, inconsci.
Il gruppo è uno spazio relazionale; uno spazio mentale, un vertice di lettura della
realtà, anche uno strumento operativo. Esso è il “setting”, il contenitore metodologico di processi che acquistano senso solo se inquadrati in termini di relazioni e
contesti.
Il gruppo a scuola è il contenitore dei processi educativi e diventa un utile strumento operativo se è pensato nei suoi aspetti costituitivi ed allora si trasforma a
propria volta in luogo per pensare, accogliere, trasformare.
I modelli psicodinamici di gruppo potranno essere utili nella misura in cui si
caleranno in contesti che favoriscano il pensiero sull’organizzazione Scuola, promuovendo una migliore qualità delle relazioni (insegnanti/genitori/allievi). Di ogni
specifico gruppo scolastico andranno pertanto definiti obiettivi, regole e funzioni,
oltre a eventuali strategie che favoriscano/ostacolino i cambiamenti.
Si produrranno così specifiche modalità di funzionamento gruppale, che saranno
incontrate da chi nella scuola opera con diverse professionalità (insegnanti, dirigenti
scolastici, ma anche psicologi).
245
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
Questa rivista ha ospitato, ad esempio, un fertile dibattito (Cfr. Montesarchio,
2005) che è stato una sorta di monito agli psicologi ad utilizzare il gruppo a scuola
non “come spazio di occupazione, bensì di riflessione” non come “opportunismo
ma come opportunità”. In particolar modo oggi gli psicologi usano massicciamente
il gruppo nel contesto scolastico con vari obiettivi: orientamento, prevenzione del
rischio, della dispersione, educazione alla salute, alla legalità, alle differenze; e con
utenza varia: bambini, adolescenti, insegnati, genitori.
In alcuni casi il gruppo viene utilizzato come mera tecnica, come uno strumento totalmente sganciato dagli obiettivi espliciti dell’organizzazione scolastica. Ad
esempio, quando esso può venire adoperato dagli psicologi per lavorare sulle emozioni, emozioni che si pretenderebbero avulse alla scuola e risiedenti solo in chi
partecipa al gruppo (il gruppo di formazione per insegnanti, il gruppo di prevenzione
per gli adolescenti, il sostegno ai genitori).
Usato in questo modo il gruppo nega la formazione di un pensiero integrato sull’organizzazione scolastica, che se accettato, produrrebbe invece un possibile apprendimento. Proprio gli psicologi, in questi casi, scindono e negano ciò che invece
dovrebbero riconoscere ovvero emozioni ed affettività come costituenti essenziali
proprie dell’intera istituzione.
Ciò mostra anche quanto può essere agito nella relazione educativa docente-allievi, nel momento in cui essa viene considerata avulsa dall’organizzazione scolastica,
come in una concezione di insegnamento tutto già pre-costruito “nei programmi ministeriali” o nella mente del docente indipendentemente dai bisogni degli studenti, dal
contesto, dalle condizioni organizzative, della classe e della scuola, dall’ambiente.
Si è visto quindi, e si vedrà, come un rischio incombente a Scuola, sia quello di
scindere nei processi educativi il piano affettivo da quello cognitivo (o se si vuole,
secondo la famosa tassonomia di Bloom (1956), i tradizionali obiettivi cognitivi da
quelli socio-affettivi).
Tale scissione tenderà a riprodursi anche negli spazi (setting) delle varie tipologie gruppali. Allora si avrà da una parte il “gruppo” dove lavorare sulle emozioni,
sulle relazioni, sul “saper essere”, generalmente negli spazi extracurricolari: magari
dei laboratori, nell’atelier creativo, (territorio degli psicologi, degli psicopedagogisti
e di qualche volenteroso docente); dall’altra il gruppo non pensato ma da gestire
quotidianamente nella didattica, nei luoghi dove si dovrebbero incontrare i saperi, i
contenuti, le cose da imparare, insomma i luoghi dell’apprendimento.
Ed invece il gruppo potrebbe essere utilizzato come uno spazio dove lavorare a
creare integrazioni, nessi, nodi, raccordi: cioè saldare scissioni.
Allora il fare gruppo avrebbe l’utilità di fare dialogare competenze e ruoli diversi,
in un’ottica di scambio, per esempio tra psicologi ed insegnanti.
Naturalmente ciò non vuol dire che il gruppo-classe che incontra il docente nell’iter scolastico sia equivalente a quello che incontra lo psicologo, in interventi ed
azioni puntuali, riproducendo la stessa fenomenologia. Però, se inquadriamo alcune
specifiche dinamiche che si sviluppano nel contesto scolastico, ci accorgiamo che
246
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
tanto lo psicologo, quanto l’insegnante hanno una funzione simile in quanto sono
formatori, e si pongono come obiettivi la conoscenza e la trasformazione.
Dunque il gruppo andrebbe visto come spazio per favorire relazioni tra gruppi,
tra insegnanti ed insegnanti, tra scuola e famiglia, scuola e territorio, nell’ottica dello
sviluppo e creazione di opportunità e spazi per accogliere le diverse domande dei
soggetti nella scuola, in primo luogo quelle degli studenti.
2. La classe e/o il gruppo
La classe è un gruppo di apprendimento con una serie di compiti comuni, da
svolgere, predefiniti istituzionalmente. Ma essa è contemporaneamente, ad un altro
livello, un gruppo affettivo che dovrebbe soddisfare alcuni bisogni individuali e
collettivi. Come ogni altro tipo di gruppo, essa è quindi attraversata da specifiche
dinamiche relazionali di carattere emotivo, più o meno evolute, più o meno consapevoli.
La classe come gruppo è dunque una realtà psichica che trascende gli individui e
configura uno spazio mentale e relazionale sovraindividuale, che ha una vita propria
emotiva, sotterranea, silente.
Per soddisfare gli obiettivi educativi è necessario che in parallelo le dimensioni
affettive e cognitive debbano procedere di pari passo. Lo sviluppo e la crescita, sul
piano relazionale e cognitivo, dovrebbe quindi svolgersi tanto per il singolo individuo quanto per il gruppo. Anche in questo caso si possono presentare elementi
di scissione. Non di rado si parla di “classe ufficiale, classe manifesta” e di “classe
segreta” per identificare quegli aspetti gruppali ed istituzionali a carattere del tutto
inconscio (Maggiolini, 2005).
In un‘ottica psicodinamica, in particolare riferendosi al lavoro dello psicoanalista
inglese W. Bion (1967) si può notare come nei gruppi vi sia sempre un duplice livello
di funzionamento. Osserva Bion che ogni gruppo di persone si riunisce sempre per
“fare qualcosa”, con un obiettivo consapevole, generalmente di cooperazione, collegato alla realtà. Così si configura un gruppo di lavoro con una funzione razionale.
Dall’altra parte, all’interno del gruppo, sono attive a volte sullo sfondo ed a volte
in primo piano, tendenze emotive molto forti, di carattere regressivo e primario che
possono ostacolare gli individui nel raggiungimento degli obiettivi che il gruppo si
propone. Tali configurazioni emotive vengono definite da Bion: gli assunti di base.
Da una parte la classe è un gruppo di lavoro regolato da norme, ruoli, funzioni,
obiettivi, compiti, dall’altra essa è anche è anche un gruppo basico, retto da una vita
affettiva ed emotiva, in questo caso le relazioni, espresse come assunti di base, ostacolano il compito, cioè gli obiettivi educativi.
La classe, come gruppo di lavoro, può quindi presentare problemi connessi con il
manifestarsi degli assunti di base. Penso a quella tipologia di situazioni che hanno a
che fare con il clima, l’atmosfera, la tonalità emotiva prevalente, per esempio conflit247
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
ti, demotivazione, mancanza di coesione nel gruppo. Ciò naturalmente in contrasto
con gli obiettivi produttivi e razionali di un gruppo orientato al compito.
Bion ha descritto gli assunti di base come fenomeni tipici di un gruppo, che si
presentano come manifestazioni di emozioni intense e primitive, che svolgono un
ruolo determinante nell’organizzazione dei bisogni e desideri del gruppo. Essi sono
meccanismi di difesa collettivi di natura inconsapevole, “fantasie inconsce” comuni
che rispondono essenzialmente alle domande implicite del gruppo perché siamo qui?
che scopo ha il gruppo? La loro funzione è quella di proteggere il gruppo da angosce primitive. Bion propone tre assunti fondamentali nella vita mentale del gruppo:
Assunto di base di Dipendenza, di Accoppiamento, di Attacco-Fuga. Alcuni autori
propongono una lettura degli assunti di base applicati alla classe (Jacobone, 1998).
Nell’assunto di dipendenza descritto da Bion vi è l’idea che una sola persona, il
leader idealizzato, al pari di una divinità, possa proteggere, nutrire spiritualmente,
garantire la sopravvivenza del gruppo e risolverne tutti i problemi dei singoli. Ogni
membro del gruppo si sente privo di iniziativa e vive una dimensione di impotenza
rispetto alla possibilità di cavarsela da solo. Stabilisce così un rapporto di dipendenza con il leader a discapito della fiducia nel gruppo. Tale assunto può essere, per
esempio, mantenuto da un insegnante che blocca, esclusivamente su se stesso, il potere assoluto della conoscenza. Ciò può avvenire anche in gruppi in cui prevale una
tendenza all’idealizzazione, rivolta tanto all’insegnante quanto ad una parte della
classe, che però paralizza attraverso una relazione di dipendenza accompagnata da
vissuti di colpa, e svalorizzazione.
Nell’Assunto di base di Attacco-fuga il gruppo si organizza per difendersi e fuggire da un nemico o per aggredire qualcuno o qualcosa di pericoloso da cui si sente
minacciato.
In classe si può ad esempio avere in clima di competizione, di insubordinazione,
di rifiuto rispetto ai compiti, alle attività. Lotta e fuga sono dinamiche che si mescolano. Ancona (1999) per esemplificare questo aspetto nella scuola, parla di fuga da
un sistema vitale, ciò è valido tanto per gli alunni (drop out), quanto per i docenti
demotivati rispetto al proprio lavoro. Molteplici e a differenti livelli sono i possibili
sistemi di evasione; uno può essere la “fuga nella malattia” per i ragazzi, ma si tratta
di fuga anche in tutti quei casi in cui ci si ripiega su di sé in una sorta di narcisismo
che equivale al non esserci. Questo sentimento è speculare negli insegnanti ed esprime quella “disaffezione alla scuola che è una sorta di malattia”. (ibidem).
Nell’Assunto di base di Accoppiamento il gruppo individua il motivo del suo
esistere nel fatto che da un’unione interna al gruppo, una coppia, due membri del
gruppo, o due sottogruppi, ma anche da un’alleanza di idee nascerà qualcosa che
rappresenta continuità e vita nel gruppo. In particolare si instaura un sentimento di fiduciosa speranza per l’avvento di un Messia, (ma anche un evento, un’ idea) che avrà
carattere salvifico per il gruppo; in realtà, la speranza non dovrà mai realizzarsi.
A volte l’assunto di accoppiamento si manifesta in termini di oggetti scissi, per
esempio lo scisma tra due parti del gruppo o sottogruppi che possono spaccarne la
248
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
coesione. In classe può essere la scissione in bravi/non bravi, motivati/demotivati,
idonei/non idonei, facili/difficili.
Riprendendo il doppio livello di funzionamento del gruppo la pedagogia ha anche
postulato i rischi di un’evoluzione poco equilibrata del gruppo scolastico (Meirieu,
1987) con possibili “deviazioni” che privilegiano esclusivamente il versante cognitivo o il versante emotivo.
Nel primo caso si ha una Deviazione economicista: il gruppo punta sulla qualità del risultato, si identifica esclusivamente nel compito, nel gruppo di lavoro, che
viene idealizzato, sopravvalutato. Vi un’efficacia produttiva, a scapito della valorizzazione relazionale. Il gruppo è ben organizzato, presenta una suddivisione di
compiti e ruoli, che rende il lavoro funzionale; ma i ruoli sono fissi e non sono mai
intercambiabili.
Nel secondo caso il gruppo vira verso una Deviazione fusionale: si privilegiano
le relazioni affettive, si dà spazio alle identificazioni reciproche, all’omogeneità. I
bisogni interni dei membri del gruppo trovano spazio attraverso un rispecchiamento reciproco, questo avviene a discapito della produttività didattica. Non vi è un
progressivo avanzamento rispetto al compito, che viene disinvestito. L’insegnante
tenderebbe a sacrificare la funzione didattica per privilegiare esclusivamente quella
di riferimento psicologico per gli alunni. Ottenendo così l’effetto di far perdere importanza ai contenuti disciplinari e rischiando una “deriva affettiva” che cristallizza
il piano delle competenze e delle conoscenze.
Se da differenti modelli si mostra l’importanza di saldare il piano affettivo ed il
piano cognitivo, all’insegnate si chiede anche di tenere nella mente tanto l’individuo
quanto il gruppo, tanto l’allievo quanto la classe, tanto i bisogni personali quanto le
spinte collettive.
All’insegnate potrebbe essere utile assumere una “visione binoculare” di osservazione (per adottare un termine ripreso da Bion), una visione che contempli uno
sguardo contemporaneamente “sui campi opposti, ed al tempo stesso collegati, delle
relazioni individuali e delle relazioni di gruppo”.
Questo vuol dire che se i singoli allievi avranno bisogni diversi, ritmi e modalità
di apprendimento differenti, anche la classe come gruppo avrà i propri bisogni da
accogliere.
Da una parte l’individuo, dall’altra il gruppo, chiede alla classe di soddisfare
una serie di esigenze implicite. Se il singolo ha bisogni quali l’accettazione, l’essere
visto, l’essere riconosciuto nell’unicità della propria identità di persona, il gruppo
come entità a se stante chiede alla classe la possibilità di sperimentare forme di
autonomia dei singoli e nello stesso tempo presenta l’esigenza di avere momenti
fusione e con-fusione collettiva, in una dimensione che non sia sentita però come
fagocitante o pericolosa. Ciò avviene in funzione di specifici tempi infatti, la classe,
come ogni gruppo istituzionale, attraversa alcune fasi particolarmente delicate dove
si acutizzano gli aspetti emotivi, come la nascita, il momento di “fondazione” e la
conclusione del percorso.
249
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
Se in alcuni momenti saranno in primo piano le esigenze di autonomia dei singoli
studenti, in altri momenti sarà utile per l’insegnante lavorare sulla possibilità del
gruppo di sperimentare un sentimento di coesione-appartenenza, che sarà propedeutico alla possibilità di condividere obiettivi e scopi in quanto gruppo di lavoro.
In sintesi, per farsi carico delle particolari dinamiche emotive che la classe presenta, forse sarà utile pensare che esse hanno luogo non solo perché esiste una realtà
fisica e psichica di un “gruppo” che produce una comunanza di pensieri, affetti,
emozioni, ma perché esiste un gruppo istituzionale che presenta alcune peculiarità
relazionali. Tali peculiarità non sono solo di tipo organizzativo, ma hanno una forte
valenza emotiva.
1) Il gruppo dei ragazzi si trova a scuola, non di spontanea volontà. I ragazzi sono
quindi obbligati al lavoro scolastico. La classe è un gruppo dato, non è gruppo
scelto, ma è aggregato a priori.
Nella scuola, con vicende alterne, si è lavorato sulla possibilità di aggregare le
classi secondo diversi criteri quali la didattica modulare, le classi parallele, aperte,
la ricomposizione laboratoriale, aggregando i gruppi, ad esempio per interesse.
Naturalmente il problema si pone a più livelli, dal punto di vista psicologico è
legato alla motivazione ed al riconoscimento di un ruolo nel gruppo e nell’istituzione, ciò vale tanto per gli studenti che per gli insegnanti.
2) In classe vi è una specifica relazione asimmetrica: vi è un adulto ed un gruppo di
studenti (bambini o ragazzi).
Tale asimmetria non è naturalmente solo generazionale, ma è legata al potere.
Il sistema istituzionale sancisce il potere dell’insegnante, il potere “adulto” della
conoscenza, dei saperi e quello della valutazione/controllo. Sono queste ultime dimensioni, ovvero le dinamiche di potere che raccolgono, come si vedrà, molti degli
aspetti emotivi della relazione educativa.
Le emozioni intervengono in modo pervasivo all’interno delle organizzazioni sociali. La scuola, come ogni sistema sociale, se da un lato è caratterizzata da dimensioni come la razionalità ed il consenso (e dunque si fonda su obiettivi, norme, funzioni, ruoli), d’altra parte è sede di componenti istituzionali che ne fanno un luogo di
appartenenze, di aspetti motivazionali, di bisogni primitivi, dinamiche affettive, non
sempre orientate agli obiettivi che la scuola, si propone, in quanto sistema sociale
(Carli, Paniccia 1981; 1999).
I processi di gruppo avvengono, oltre che a livello relazionale, interpersonale, al
livello dei rapporti individui-gruppi ed istituzioni. La scuola ha un mandato sociale
quindi deve dar conto di capacità di progettazione, trasformazione. Vi sono momenti
in cui tali funzioni si paralizzano. Ed allora ad esempio la lettura degli assunti di base
si allarga alle dinamiche dell’istituzione scolastica.
Ne potranno essere manifestazioni quella “malattia della scuola” (Ancona, 1999),
quel distacco, allontanamento fisico ed emotivo dalla scuola, che coinvolge i parte250
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
cipanti al contesto scolastico. Un altro aspetto è l’atavico conflitto Scuola/Famiglia
che si esplica nel contendersi il primato di gruppo più significativo nel tramandarsi
la cultura di generazione in generazione. O in altri momenti, il sentimento di magica
attesa in relazione alla possibilità della società di cambiare, mentre si susseguono
riforme politiche, ma i nostri programmi ministeriali risalgono a tempi remoti.
Per promuovere trasformazioni, dunque per produrre apprendimento ed educazione, gli aspetti emotivi presenti (non solo nel gruppo ma nel contesto scolastico
tutto), devono essere considerati, presi in carico, pensati, laddove è possibile condivisi, per non essere negati ed “agiti”.
Possiamo in sintesi rappresentare la relazione educativa nel campo scolastico con
un triangolo. Il vertice di lettura che adottiamo è quello del gruppo. Ciò che interessa
mostrare però sono i nessi, i legami, con gli altri vertici di lettura che concorrono insieme a formare una costruzione plurifocale che come tale può essere considerata.
Gruppo
Soggetti (Docente, Allievi)
Istituzione Scuola
3. Il docente nel gruppo e nel campo educativo
Rispetto al polo docente quanto affermato farebbe pensare che all’insegnante
venga richiesta una competenza di conduzione di un gruppo a tutti gli effetti; naturalmente ciò non vuol dire che il docente debba “fare lo psicologo”, ma piuttosto
considerare la rilevanza dei processi che in gruppo si possono attivare.
Un aspetto da osservare attentamente riguarda la posizione del docente nella classe. L’uso del vocabolo gruppo-classe non convince perché (non sempre, ma spesso)
esso rischia di rimandare alla presenza di un osservatore che si presuppone possa
osservare da una posizione esterna oggetti e processi. Così facendo si rischia di aderire ad un approccio che nasconda “l’illusione di osservare” oggettivamente ed in
maniera a-relazionale la realtà (Borgogno, 1978). L’osservatore invece costruisce
l’oggetto della conoscenza ed è presente nel campo, proprio come l’insegnante è nel
251
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
gruppo e ne costruisce insieme dinamiche e significati. Se all’insegnante si chiede di
riconoscere dinamiche emotive ed affettive, spesso contenerle, ciò è possibile solo
se si assume che di tali processi ne fa parte.
L’insegnante si trova in un campo comune di condivisione emozionale, ed il campo da considerare è complesso e non è solo quello della classe, ma è un campo istituzionale.
Possiamo considerare come aspetti importanti da tenere nella mente per il docente:
1) La propria funzione a partire da un ruolo e da una posizione.
2) I significati affettivi, ideologici, culturali in relazione alla formazione ed all’ agire
educativo.
3.1 Le dinamiche di potere ed il ruolo del docente
Si è visto come il ruolo dell’insegnante sia asimmetrico in termini di potere.
Se trattiamo della dimensione dell’influenza e del potere all’interno della classe è
necessario un breve riferimento al ruolo del leader e alla funzione della leadership,
concetti molto studiati dalla psicologia dei gruppi e delle organizzazioni (vedi riquadro 1).
Nel linguaggio quotidiano compaiono frequentemente i termini di leader, leadership, dall’inglese to lead, guidare, condurre, influenzare.
Il leader può essere definito come chi influenza maggiormente un gruppo e se i
processi di influenza sociale sono reciproci (il leader influenza ma è anche influenzato), si può affermare che il leader è la persona che può influenzare gli altri membri di
un gruppo più di quanto essa ne sia influenzata. Il leader può essere formale come nei
gruppi istituzionali, designato dall’esterno o emergere spontaneamente, può essere
legittimo ed illegittimo, può ricoprire un ruolo sociale; il leader comunque detiene il
consenso del gruppo.
Alcuni studi sulla leadership hanno affrontato le caratteristiche del leader in base
a tratti di personalità, e comportamenti (la leadership carismatica), altri approfondiscono le funzioni della leadership come fenomeno complesso considerando le relazioni del leader con il gruppo in funzione della situazione e del contesto.
L’insegnante è il leader organizzativo, del gruppo di lavoro, ha un mandato istituzionale che presume il raggiungimento di determinati obiettivi rispetto a compiti,
ma non sempre è leader affettivo. A volte il leader organizzativo non è lo stesso del
leader emozionale, cioè colui che funge da catalizzatore e che interpreta la dimensione degli affetti del gruppo.
Se l’insegnante ha, attraverso il proprio ruolo, la possibilità di favorire la partecipazione collettiva creando un clima di scambio, un sistema dinamico, un ambiente
che favorisca l’educazione, allora è tutto il campo che educa così come è in tutto il
campo che si esplicano le dinamiche di influenza e di potere.
252
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Una lettura in chiave sistemica (Malagoli Togliatti e Rocchetta Tufani, 1990)
vede la classe come un sistema complesso, rilevando l’importanza per il docente di
fungere, nel sistema gruppo, da stimolo e da aiuto a pensare, autosservandosi, autoorganizzandosi.
Carli (2002) mostra come chi partecipa allo stesso contesto produce una serie
di accordi inconsapevoli, “collusioni” che simbolizzano e rappresentano in modo
condiviso il contesto.
Uno degli aspetti di “simbolizzazione emozionale collusiva “ nella scuola ha a che
fare con la relazione di potere che si incarna nella pratica della disciplina1. La scuola
viene rappresentata da chi ne fa parte, come istituzione di controllo, come sistema
di potere tra differenti generazioni. Il potere, nella classe, è rappresentato dal potere
della valutazione: “l’adulto che sa” sui giovani che non sanno e devono dimostrare
di apprendere. Così, da una parte l’adulto può avere il bisogno rassicurante di controllare (o la stessa paura di perdere il controllo, dell’ostilità, dell’insubordinazione,
del ribaltamento di una gerarchia di potere con la classe in primo piano), dall’altro, i
ragazzi manifestano il bisogno di sfuggire a tale controllo con varie possibili configurazioni (evitare il giudizio, cercare l’accettazione affettiva, negare la valutazione
con noncuranza, per esempio svalorizzando chi studia).
Altro aspetto sono le possibili alleanze inconsce o collusioni con la famiglia, altro
gruppo-istituzione. Ad esempio, la famiglia si allea con il ragazzo contro la scuola
per dimostrare quale sia l’istituzione, il gruppo più forte (gli insegnanti sono ignoranti, non capiscono, la scuola non ti valorizza, non serve a niente). Ma pensiamo anche alla scuola che sia allea con i ragazzi contro la famiglia. La relazione tra docente
e allievo si sovrappone alla relazione genitoriale ponendosi come relazione alternativa, migliore. Ciò che si produce è un insegnamento sganciato dal contesto istituzionale che riproduce mimeticamente il rapporto con altri gruppi sociali, in primis la
famiglia. Le dimensioni del “potere” si possono anche articolare armonicamente con
le dimensioni del “sapere” e produrre invece un potere legato alle competenze.
Il vertice del gruppo poi ci consente di considerare la dimensione di potere in
termini un po’ diversi; il gruppo permette un pensiero multiplo, democratico (Corrao, 1995). L’insegnate come conduttore di un gruppo è un “co-pensatore” (Neri,
1995) che arretra rispetto ad alcune dimensioni di potere per cederle al gruppo non
programmando tutto a priori ma costruendo ricerca ed apprendimento insieme agli
altri, costruendo esperienze e negoziando i significati.
I processi educativi non saranno il risultato di una trasmissione di conoscenzecompetenze calate dall’alto ma il frutto di una cultura condivisa nella relazione che
prende corpo proprio nello spazio del gruppo. In quest’ottica è il gruppo che produce
conoscenza ed apprendimento; è il campo relazionale che educa, spazio potenziale
di una conoscenza, che è sempre complementare e dialogica e prevede una logica di
scambio, di trasmissione reciproca.
La funzione del docente sarà poi quella di assicurare le condizioni relazionali in
cui sia possibile produrre trasformazioni, per esempio ponendosi come mediatore
rispetto a contenuti, saperi, ma anche processi. Per esempio promuovendo una con253
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
sapevolezza delle procedure, dei metodi, degli obiettivi da raggiungere. Dunque non
rinunciando al potere di una competenza organizzativa che lo configura anche come
un esperto di setting. Dove per setting si intendono una serie di regole e di condizioni
materiali e mentali che definiscono, e permettono il dispiegarsi di processi relazionali. Si intende dunque per setting una cornice, un ambiente costante, stabile, affidabile, che il docente garantisce nei processi educativi. Ciò implica da una parte l’organizzazione di un ambiente fisico (con aspetti concreti come spazi, tempi, in funzione
di obiettivi, con relative modalità per raggiungerli) e dall’altra rinvia ad un ambiente
psichico, ad una disposizione mentale, dove diventa rilevante la consapevolezza del
proprio ruolo, della propria posizione e del ruolo degli allievi con specificità, limiti,
confini. Pensiamo al rischio del docente di negare, in parte, aspetti del ruolo, come la
valutazione, o di interpretarli in modo rigido, o di stravolgerli con aspetti seduttivi.
Ciò va visto anche in relazione alla rappresentazione che l’insegnante ha del proprio
agire educativo.
Riquadro 1
Stili di leaderschip
Gli studi di Lewin Lippitt e White (1939) e di Lippitt e White (1968) evidenziarono la ormai storica distinzione tra leadership autoritaria, permissiva, e democratica, espressioni rispettivamente di
autorità inibitoria, lassista e promotrice. Il contesto delle prime ricerche fu quello di un doposcuola
per gli adolescenti, anche per questo i lavori vengono citati sempre per esaminare la possibile leadership in classe.
La leadership autoritaria. Il leader ha il potere assoluto sul gruppo; ha il potere decisionale, di giudizio, controlla le direttive e le norme, determina le attività del gruppo e le relazioni. Egli resiste ad
ogni cambiamento, generalmente impedisce al gruppo di partecipare alla scelta ed opera in modo
tale da essere indispensabile per il funzionamento del gruppo. Infatti senza di lui il gruppo crolla,
come a dire: senza quell’insegnante la classe si disintegra, non ha forza di coesione.
Come insegnante segue un modello tradizionale, garantisce il compito, procede per obiettivi a lungo
e a breve termine, se qualcuno lo disattende, lo stimola, attende il risultato, generalmente assegna
dei tempi. La produttività è buona, ma non creativa, né originale: nel gruppo spesso si sviluppa
competizione, aggressività.
Leadership lassista o laissez faire. Il ruolo del leader è permissivo, a volte passivo; non assume
iniziative ne dà suggerimenti, non incoraggia, né giudica; ha una partecipazione meccanica, opera
come esecutore di ciò che il gruppo gli affida. Il gruppo è libero di decidere le attività.
Vi possono essere situazioni in cui l’insegnante comunica anche un certo disinteresse, come a dire
“siamo qui per un compito, ma voi fate come volete”, Non investe emotivamente sulla classe. Il
gruppo non funziona la produttività è bassa ed il clima è negativo.
Leadership Democratica. Il leader democratico cerca di ottenere la partecipazione del gruppo alle
attività, compresa la condivisione degli obiettivi. Concorda un programma e garantisce presenza e
sostegno.
Lo spirito di “unità” ed il clima del gruppo sono fattori importanti. Decentra la responsabilità piuttosto che accentrarla, rinforza e favorisce le relazioni, utilizza il conflitto come modalità positiva per
promuovere idee. Il leader democratico giudica il successo del gruppo nella misura in cui il gruppo
procede anche senza leader. Dunque il gruppo sviluppa creatività ed autonomia.
254
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
3.2 Significati del progetto educativo e della formazione. Formazione, trasformazione, deformazione.
Ogni formatore/educatore porta con sé un progetto e ha una personale visione
delle proprie attività, del proprio agire.
Enriquez E. (1980) ha mostrato come ogni progetto formativo-educativo si riferisce a modelli di intervento più o meno impliciti, a “fantasmi” che ogni formatore porta con sé e che applica entrando in relazione con l’altro. Vi possono essere
immagini, idee, credenze, rappresentazioni mentali tipiche che appartengono alla
percezione implicita, affettiva del proprio operare, tanto del docente quanto dello
psicologo clinico (Capello, 1995).
Riflettere sui propri modelli formativi dovrebbe aiutare il formatore-educatore a
tener presenti alcune dimensioni inconsapevoli che orientano le prassi di intervento
e l’azione. Il problema allora non è quello di non avere modelli che riflettono dunque
dinamiche inconsce, fantasmi, collusioni, ma quello di poter eventualmente trovare
a tali dimensioni uno spazio di riconoscimento e di riflessione, per non agirle.
Enriquez mostra i rischi di alcuni modelli tipici in cui il formatore-educatore satura totalmente con dinamiche inconsapevoli i significati dell’esperienza formativa,
in tal modo la relazione con l’altro viene negata, insieme a tutto ciò che è imprevedibile ed estraneo dell’incontro:
Il modello del formatore. Il formatore orientato da tale modello è colui che assume il compito di sostituire o modificare strutture ritenute inadeguate con una forma
“buona”, ideale. Naturalmente la rappresentazione di tale forma è diversificata, ciò
che è costante è il ruolo del formatore che si pone pedagogicamente come portatore
di valori, credenze valide in un determinato contesto (ma non in assoluto). Questo
è il modello del buon maestro, del buon genitore. La formazione è già pensata e
definita, compiuta a priori: ogni scarto dal modello deve essere colmato. Il rischio è
anche quello di uniformare le persone che divengono capaci di mimesi ma private
della ricchezza dell’esperienza.
Il modello del maieuta. Secondo tale modello lo scopo implicito della formazione/educazione è far emergere, o “lasciar nascere” le potenzialità inibite. Tali
potenzialità si presuppongono esistenti nel singolo allievo come persona. In tale
visione il formatore deve solo far crescere quanto è già esistente. L’atteggiamento
è quello dell’ascolto incondizionato, empatico di incondizionata disponibilità. In
un processo di questo tipo si tiene conto solo di dimensioni idealizzate negando
conflittualità, contraddizioni, ambivalenza, che sempre connotano le esperienze.
La relazione è di tipo iperprotettivo: si tende ad instaurare legami privilegiati con
alcuni, piuttosto che con altri; lo spazio dell’altro è esclusivamente quello del desiderio del maieuta, che a sua volta si sottrae alla relazione in virtù di una presunta
neutralità.
255
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
Il modello del riparatore. Il riparatore è una sorta di “buon samaritano” che tende
a farsi carico dei problemi dei “bisognosi” sacrificandosi per gli altri; ha una visione
manichea della realtà: le società sono cattive, colpevoli. Pur avendo le istituzioni
bisogno di buon samaritani e del loro aiuto, l’interrogativo che sorge è: perché si
fa la scelta di mitigare le sofferenze altrui? Perché ci si sostituisce a quello che le
istituzioni sociali dovrebbero fare ? In realtà spesso, attraverso il proprio sacrificio,
si contribuisce in parte a tener in piedi dimensioni sociali che non sono in grado di
fare fronte a problematiche, nonché si rischia di soffocare l’altro alienandolo dalle
proprie possibilità.
Il modello del terapeuta. Il suo compito è curare-guarire-restaurare. Il modello è
quello medico-taumaturgico dove i significati simbolici rimandano ad una medicina
sacrale, alla malattia, al dolore, al quale si oppone il farmaco risolutore e quindi una
vita “normale” e “sana”.
Enriquez ci ricorda come oggi il concetto di salute si basa sulla possibilità di
adattarsi a situazioni perturbanti.
Il modello interpretante. È legato ad una diffusione della psicologia, o meglio
dello psicologismo, una sorta di imperialismo dell’inconscio. Comportamenti ed
emozioni vengono etichettati, incasellati. Si interpreta allo scopo di far assumere
consapevolezza all’altro, si traducono gli eventi, in termini di significati nascosti,
estrapolandoli da relazioni e situazioni.
Ed ecco che emergono etichette diagnostiche, valutazioni, come il “nevrotico”,
il “ripetente”, “il negato in matematica”, “il difficile”, “il diverso” “il giocatore di
pallavolo” che hanno una valore rassicurante poiché inquadrano un problema ma
escludono i dinamismi della relazione e la possibilità per l’altro di aprirsi al cambiamento.
Infatti, uno dei pericoli maggiori è essere guidati prevalentemente dalla necessità
di verificare i propri assunti; questo vale sia per proposizioni di tipo teorico, come
possono essere pericolose diagnosi di personalità, ma anche per le dimensioni che
appartengono al “senso comune”. Si pensi ad esempio alle possibili impostazioni
iniziali prevenute, a pregiudizi, a presunte simpatie/antipatie a tutto quello che riconduce ciò che è sconosciuto, ignoto a categorie date.
Il modello militante. Il formatore orientato da tale modello presume la possibilità di produrre cambiamento ed ha la ferma convinzione di poter “pilotare”
le trasformazioni sociali. Egli si pone come depositario di un messaggio, di una
missione, non discutibile. Si ragiona per categorie antagoniste buono-cattivo,
amico-nemico. Il militante ha difficoltà a mettersi in discussione e diventa, così,
paradossalmente uno strumento di conservazione di quella struttura sociale che lui
vorrebbe modificare. Il rischio può essere quello di colludere, per esempio, con
gli allievi contro le istituzioni (la stessa scuola, la famiglia) e di perdere la dina256
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
mica dei rapporti di convivenza. Le trasformazioni sociali appaiono pilotate e non
agevolate. Per non parlare degli aspetti seduttivi. Vi è anche il trasgressore che si
propone come missione di liberare dai tabù e dai divieti sociali, per favorire una
spontaneità che mette in discussione e contesta l’ordine sociale tout court. Si può
arrivare finanche ad un modello del distruttore che fa emergere esclusivamente,
nell’altro, aspetti poco costruttivi.
Un esempio che sicuramente è fruibile si ha nella lettura del film L’attimo Fuggente di P. Weir (1989) nella lettura di Blandino e Granieri (1995) utilizzato per
mostrare i possibili fallimenti formativi.
Alla fine degli anni 50, un’ insegnate di materie letterarie in una prestigiosa Accademia il Professor Keating (Robin Williams), nella sua battaglia che potrebbe essere legittima contro l’autoritarsimo e il conformismo, finisce per manipolare gli
allievi portandoli ad agire piuttosto che pensare, cioè facendo l’opposto di quello
che dovrebbe essere un lavoro educativo-formativo. Continuano gli autori “Quello
rappresentato nel film è un atteggiamento fortemente antipsicologico e non etico,
poiché il docente, sotto l’apparenza di un atteggiamento libertario, in realtà veicola
la sua rabbia repressa, spinge gli allievi ad attuare quella ribellione della quale lui a
suo tempo non era stato capace" (p.34).
Siamo alla presenza di una situazione in cui vi è un assenza di consapevolezza
da parte dell’insegnante rispetto alle proprie emozioni che guidano l’uso di “modelli
e teorie liberatori”, il risultato è che non si libera un bel niente, non si promuove un
contesto di apprendimento bensì un contesto di azione dove le emozioni prendono il
posto del pensiero (ibidem).
I significati affettivi ed emotivi relativi al compito formativo scolastico possono
variare da insegnante ad insegnante, come variano le spinte motivazionali che diventano parte costitutiva dell’identità professionale del docente (come espresso in modo
diretto ed ironico nelle pagine letterarie di S. D’Onofri del riquadro 2).
Si sono descritti una serie di modelli da intendersi come orientativi, sia perché
sono possibili le interazioni tra più modelli, sia perché si vuole cercare di mettere
in evidenza come i modelli relazionali e culturali non sono nella mente del singolo
formatore/educatore ma sono appartenenti al gruppo, all’istituzione, alla cultura organizzativa della scuola.
I modelli formativi del docente incontreranno i modelli culturali dei ragazzi, che
a loro volta si rappresenteranno il contesto scolastico e i processi di insegnamentoapprendimento, la formazione, l’agire educativo, ed anche gli oggetti culturali (le
discipline, ad esempio), producendo in modo condiviso una serie di processi collusivi (Carli, 2002).
257
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
Riquadro 2
“Quelli che” da Registro di Classe di Sandro Onofri, (2000), Einaudi, Torino
“Quelli che… di questi tempi, con gli scrutini, non fanno che interrogare e interrogare.
Quelli che… tanto non serve a niente.
Quelli che… lo sciopero è solo una perdita di tempo.
Quelli che… chi sciopera crea disagio solo ai colleghi.
Quelli che… fate come volete basta che non mi fate tornare di pomeriggio un’altra volta.
Quelli che… per quello che ci danno.
Quelli che… io, con questi studenti qua, posso concedere al massimo un cinque.
Quelli che… io do tutti sei, mica voglio tornare a fare il recupero.
Quelli che… ma questi sono bestie, cosa gli vuoi dare?
Quelli che… la scuola sarebbe così bella se solo non ci fossero i ragazzi.
Quelli che… noi, che facciamo i professori, lo facciamo per una vocazione.
Quelli che… nessuno lo capisce.
Quelli che… è così bello stare in mezzo ai giovani.
Quelle che…, ehi, sbrighiamoci, a me alle cinque se ne va via la baby-sitter.
Quelli che… senta, Preside, lei deve prendere provvedimenti con questa classe qui.
Quelli che…, con questi giovani, che si presentano col cappellino in testa, e il chiuwinggum in
bocca.
Quelli che… io fra dieci giorni sarò in settimana bianca.
Quelli che… a me mi mancano solo due anni per la pensione.
Quelli che… a me ne mancavano tre, ma mi hanno fregato.
Quelli che… lasciano la macchina alla stazione, sennò lo stipendio se ne va via per la benzina.
Quelli che… io sono un professore serio, i miei voti vanno dal due al cinque.
Quelli che… ma com’è, com’è che le colleghe so’ diventate tutte racchie?
Quelli che… in questa cazzo di scuola non c’è manco una saponetta.
Quelli che… ma dopo, c’è qualcuno che mi dà un passaggio?
Quelli che… ma in gita chi ci va quest’anno?
Quelli che… abbiamo studiato tanto, e guarda come ci ritroviamo.
Quelli che… tanto puoi insegnargli quello che ti pare, questi quando escono da qui che ti credi
che gli resta?
Quelli che… l’hai vista la supplente di ginnastica quanto è bòna?
Quelli che… ma quanto ci danno per la maturità?
Quelli che… basta, basta fare gli psicologi, qui chi non fa non merita.
Quelli che… tanto lo so, vi lamentate e poi a fine anno promuovete tutti.
Quelli che… io non ero così.
Quelli che… invece no, questo ragazzo è proprio educato, buono, non disturba mai, sta zitto zitto:
sette!
Quelli che… è tutta fatica sprecata.
Quelle che… ma dove l’hai comprato ‘sto cappottino?
Quelle che… se rinasco voglio fa’ la bidella.
Quelli che… queste giovani generazioni, senza valori, senza più padri.
Quelli che… a noi ci dovrebbero dare l’indennità per i rischi che ci accolliamo.
Quelli che… la loro materia la sanno così, non c’è mica bisogno di studiare.
Quelli che… ma tu non sei un po’ troppo largo di maniche?
Quelli che… io il verbale non lo scrivo.
Quelli che… i genitori sono peggio dei figli.
Quelli che… per questi qui, quello che so basta e avanza.
Quelli che… guardano quelli che…, e pensano: questi, beati loro, questi non hanno ancora capito.”
258
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Benché lo scopo dell’organizzazione scolastica sia definito in termini di trasformazioni ed i processi educativi abbiano come obbiettivo il cambiamento vi sono
casi in cui la formazione può essere vista come un processo “non di trasformazione”
come mostra Kaës (1998). Lo psicoanalista francese nel suo lavoro sui gruppi e sulle
istituzioni mostra come gli insiemi, i gruppi, e le istituzioni, si tengano insieme grazie a patti, alleanze, contratti inconsci, a volte organizzati in positivo su desideri e
investimenti reciproci, a volte in negativo, su rifiuti e rimozioni.
Anche nella formazione/educazione a volte permangono aspetti rimossi e negati
perché si suppone che mettano in pericolo il legame intersoggettivo, un legame che
si inscrive tra le generazioni ed ha la specifica funzione di garanzia di continuità
della specie.
La formazione marcata dall’organizzazione narcisistica dunque si inscrive nel
negativo quando, attraverso meccanismi di difesa collettivi, trasmette una sorta di
missione sociale, come quella di soddisfare ad esempio alcuni desideri irrealizzati,
non in forma costruttiva e propositiva, ma come elementi non pensabili, non simbolizzabili. Ciò che si trasmette è tutto ciò che manca alla metabolizzazione psichica,
ciò che non è stato elaborato in termini di sofferenza, e dunque passa, senza trasformazione, di generazione in generazione.
Per esemplificare l’idea della formazione narcisistica Kaës ricorre al mito di Pigmalione. Nelle Metamorfosi di Ovidio Pigmalione, re di Cipro e scultore, si innamora perdutamente di una statua di avorio da lui scolpita in forma perfetta, ideale femminile e rappresentazione della propria arte. Durante i riti d’onore ad Afrodite, egli
implora: “O Dei, se è vero che voi potete concedere tutto, (275) io ho un desiderio:
vorrei che fosse mia sposa” e non osa dire “la fanciulla d’avorio” ma dice una donna
simile a quella d’avorio”(X, 243-297). Venere commossa da questo stato amoroso
dà vita alla statua, Galatea.
Kaës coglie del mito il lato negativo dell’innamorarsi dell’oggetto creato, illudendosi di averlo creato. Egli solleva i seguenti interrogativi: quale è lo spazio dell’oggetto formato? è un oggetto a rango di feticcio? un doppio femminile come lo era
Eco per Narciso? si tratta di metamorfosi, di trasformazione o di deformazione? non
è forse questo un esercizio di dominio, come può esserlo una relazione seduttiva? In
questo tipo di relazione il patto, la collusione è: “Tu mi appartieni, faremo insieme
meglio di qualunque altro”, così da parte del formando si avrà l’illusione di essere
stato costruito dal formatore.
In questo caso ciò che manca è l’illusione, tutto è scontato, non c’è spazio per un
incontro autentico con l’altro e per la trasformazione che ogni relazione porta, non
c’è spazio per la crescita, per l’apprendimento, per il cambiamento.
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4. Gli studenti, l’adolescenza ed il gruppo.
“Solo attraverso il tempo si conquista il tempo”
T.S.Eliot
4.1 Cenni sulla psicodinamica dell’adolescenza
Da qualsiasi vertice ci si occupi del tema tutte le teorie tendono a rilevare come
una moltitudine di fattori concorra a rendere questa fase dello sviluppo uno dei momenti del ciclo di vita maggiormente caratterizzato da mutamenti. La tappa evolutiva
dell’adolescenza si configura, quindi, come una fase di transizione (Blos, 1979) in
cui non si è ancora adulti, ma non si è più bambini, essa è anche per certi aspetti una
situazione di crisi, un punto di non ritorno.
Le teorie psicodinamiche mettono in luce le trasformazioni violente che l’adolescente deve affrontare a partire dal piano somato-psichico. Il corpo cambia trasfigurandosi, le spinte pulsionali della pubertà ripropongono sulla scena psichica antichi
conflitti. Compiti evolutivi sono la ricerca di una nuova identità e la costruzione di
una rappresentazione di Sé come separata dall’altro, il distacco dalle relazioni familiari infantili, la costruzione di nuove identificazioni.
Alcuni autori vedono l’adolescenza come un processo simile ad un “lutto da elaborare” (Meltzer,1978) dovuto al distacco-separazione dai genitori arcaici ed ai rimaneggiamenti in termini di relazioni oggettuali. Il lavoro del lutto si presenta sia
come possibile disinvestimento delle figure genitoriali sia come sovrainvestimento
di ciò che si è perduto, compresa la propria identità infantile e pertanto può essere accompagnato da sentimenti depressivi, da vissuti di confusione, svalutazione, colpa.
Dal versante cognitivo Piaget (1941) mostra come l’adolescente, consolidando le
operazioni formali, accede al pensiero ipotetico deduttivo che è un pensiero astratto,
che cambia i connotati alla conoscenza. La conoscenza non è più accumulazioni di
dati ma riflessione su di sé e sul proprio pensiero, si accede al relativismo delle posizioni, ma anche ad un pensiero creativo, alla metaconoscenza. Il pensiero da operazionale diventa proposizionale, è un pensiero “alla seconda potenza” che si apre al
dubbio, all’incertezza, alle possibilità, alla complessità della realtà. Cambiano la rappresentazioni della realtà e cambiano le rappresentazioni mentali di Sé, dell’altro.
Sia la psicoanalisi che la psicologia evolutiva mettono in luce come l’identità si
costruisca in un campo intersoggettivo di relazione con l’altro (la madre, il genitore,
le figure di accudimento primario, dunque anche l’educatore).
Winnicott (1960) aveva rilevato il valore dell’ambiente di sostegno, l’Holding,
che si sviluppa a partire dalla relazione con il primo oggetto d’amore: la madre,
che attraverso quella particolare modalità di porsi definita preoccupazione materna
primaria, comprende e permette al bambino di sperimentare il possesso dei propri
bisogni e di sviluppare in modo autentico e creativo il proprio Sé. Winnicott (1965)
260
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
descrive l’adolescenza con la metafora: ”il dibattersi della bonaccia”, sintetizzando
i bisogni dell’adolescente che oscillano tra il bisogno di sfidare ambiente, il bisogno
di evitare false soluzioni ed il sentirsi reale.
Inoltre Winnicott sottolinea la sfida che l’adolescente lancia alla società, sfida che
una società sana ed adulta dovrebbe poter raccogliere senza opporvi rappresaglie.
Intanto, il lavoro con gli adolescenti mobilita negli operatori grandi risonanze
emotive che vanno da sentimenti di sfida e lotta a sentimenti di vuoto, sospensione,
confusione.
È utile riflettere pertanto sulle analogie che ci sono tra l’instabilità che caratterizza naturalmente questa tappa evolutiva e quello lo stato di incertezza che fa riferimento a dimensioni più ampie di tipo sociale e culturale, che coinvolge oggi, a più
livelli, individui, gruppi, istituzioni.
4.2 Funzione del gruppo dei pari in adolescenza
In una prospettiva psicodinamica, la funzione del gruppo durante la fase adolescenziale soddisfa proprio bisogni di stabilità e costanza; il gruppo dei pari rappresenta un valido sostegno nei processi di costruzione identitaria e in quelli di separazione dalle figure genitoriali.
Meltzer (1978) afferma che, nella confusione che domina la condizione adolescenziale, l’adolescente vaga attraverso varie comunità, gruppi sociali, in cerca
dell’identità definitiva.
Vi è la società degli adulti, legata ai valori generativi, il gruppo prepubere dei
bambini con le incertezze tra interno/esterno, maschile/femminile, buono/cattivo,
quello dei pari, ed infine l’isolamento.
Il gruppo dei coetanei è il luogo dove l’adolescente riesce a cristallizzare le continue oscillazioni, mantenendo una sufficiente mobilità senza l’intervento degli adulti.
è nella comunità degli adolescenti che si attua la coincidenza tra stati mentali e realtà
esterna; qui si può reggere ed idealizzare la confusione, e può essere un luogo dove
ci si confronta con i sentimenti depressivi che devono essere elaborati.
Altri autori sottolineano l’importanza dei processi di idealizzazione (Laufer,
1964) evidenziando la funzione del gruppo dei pari come un nuovo Ideale dell’Io
che promuove l’adattamento sociale, e pone gratificazioni narcisistiche. Pensiamo
all’importanza di riconoscersi nei valori, nei giudizi, negli interessi (i gusti, la moda,
gli idoli) del gruppo nel suo insieme. Vi possono essere situazioni però nelle quali
si manifesta uno “pseudo Ideale dell’Io”, che produce situazioni di conformismo ed
identità imitative.
Il gruppo ha funzioni differenti per maschi e femmine. Il gruppo monosessuale
è importante per il preadolescente poiché offre rappresentazioni immagini, valori
relativi alla corporeità, all’identità sessuale e di genere. I gruppi maschili sono più
orientati all’azione e all’esplorazione, all’avventura, per verificare l’autonomia dalle
261
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
figure genitoriali, scongiurando le paure infantili; i gruppi femminili sono più organizzati intorno ai simboli ed alle parole che servono alle preadolescenti ad elaborare
la loro nascente femminilità attraverso il confronto/differenza con la figura materna
(Pietropolli Charmet, 2000). Il gruppo eterosessuale consente poi, in maniera eterogenea, il confronto con nuove relazioni e antiche esperienze familiari conflittuali.
Il ruolo assunto dal gruppo dei coetanei si può porre a garanzia di identificazioni, ogni membro riconosce problematiche simili, ed anche parti di sé negli altri, si
sperimentano relazioni speculari, appartenenze. Generalmente il gruppo ha funzioni
protettive, di sostegno; in altri casi invece amplifica meccanismi di difesa primitivi,
come la scissione, proiezione, espulsione, ed allora il gruppo viene utilizzato per
dare sfogo, per esempio, a sintomatologie antisociali diventando “un aggregato di
isolati” (Winnicott, 1965) Ed ecco nascere la banda, il branco, in cui si cancellano gli
affetti, si disorganizzano le relazioni, l’azione si sostituisce al pensiero, ed il gruppo
perde quella funzione di possibile elaborazione della sofferenza e dei processi emotivi propri dell’adolescenza.
Il gruppo dei pari, nella propria funzione positiva, serve a transitare dalla dipendenza familiare. Attraverso l’appartenenza ad un gruppo sociale, esso rappresenta
uno spazio di indipendenza dagli adulti, che sostiene nel processo di separazione individuazione (Blos,1979) che l’adolescente compie. Nel gruppo è possibile anche
sperimentare quei conflitti relativi ai legami familiari in modo non pericoloso ed
eventualmente far coesistere aspetti scissi e non integrati. Per esempio, il desiderio
di essere unico ed essere identico agli altri, sperimentare distanze e vicinanze, quote
di regressione e atteggiamenti propositivi.
Si sono descritte le funzioni del gruppo dei pari, come gruppo naturale, primario,
spontaneo in cui l’adolescente conosce, apprende, fa esperienze. La classe come
detto in precedenza, è un gruppo secondario, è un gruppo dato, definito istituzionalmente. Proprio per questo la classe è uno spazio sociale riconosciuto, un gruppo
legittimo, è può diventare un laboratorio dello stare insieme, ed offrire la possibilità
di poter costruire modalità di stare insieme.
La classe può costituirsi come risorsa preventivo – educativa nei casi in cui si
pone come area intermedia tra lo spazio cognitivo ed affettivo (Giori, 1998) come
area transizionale di esperienza (Winnicott, 1971) tra i bisogni del mondo interno e
le esigenze della realtà esterna.
5. In conclusione
Si è visto come la dimensione gruppale abbia in sé la possibilità di integrare prospettive complesse, fornendo il confronto con modelli di cambiamento di tipo non
lineare. Da questa prospettiva epistemologica il gruppo nei contesti educativi può
essere uno spazio in cui formarsi, trasformarsi e “deformarsi” costruttivamente, decostruendo certezze, categorie, note; uno spazio che consenta alle forme di assumere
262
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
senso in cui l’essere in formazione possa trovare accoglienza e venire alla luce con
la propria identità multipla (Gentile, 2007).
Il gruppo diventa strumento operativo a scuola quando si pone come dispositivo
che salda scissioni, crea nessi, attiva la capacità di pensare alle relazioni e ai contesti
in cui esse si dispiegano.
è il caso in cui in classe si unificano, dialogando, non solo il piano affettivo e
quello cognitivo, il gruppo di lavoro ed il gruppo delle dinamiche emotive, ma anche le dimensioni individuali (i bisogni, le domande degli studenti) e le dimensioni
istituzionali. (Per esempio, nel momento in cui i ragazzi diventano consapevoli della
propria identità formativa di studenti, degli obiettivi dell’organizzazione scolastica,
della relazione che intercorre tra loro ed il contesto educativo).
Ciò in sintonia con una linea di sviluppo che vede come missione dell’istituzione
scolastica la possibilità di porsi come luogo in cui elaborare modelli di rappresentazione dell’ambiente sociale, modelli necessari alle nuove generazioni per entrare
in rapporto con il contesto e dare ad esso significato (Salvatore, Scotto di Carlo,
2005).
La possibilità di poter “rappresentare” l’istituzione Scuola può essere il primo
passo per poter costruire quella indispensabile fiducia nelle istituzioni, nell’erogazione di servizi all’altezza di aspettative, bisogni individuali e domande sociali.
Romei (1995) ricordava delle istituzioni una funzione “educativa” fondamentale:
quella di garantire la libertà individuale in uno spazio relazionale.
Note
1 è interessante notare, con Carli, come disciplina è un vocabolo che indica contemporaneamente
sia i contenuti, le materie di studio, sia le regole, il modo di comportarsi.
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Sommario
Il lavoro affronta le problematiche connesse con le dinamiche di gruppo a scuola.
Si mostra come la classe possa essere uno strumento attivo nei processi educativi,
nel momento in cui si colloca come uno spazio di possibile integrazione di aspetti
cognitivi ed emotivi.
Il ricorso ai modelli psicodinamici di gruppo delinea un’area in cui il gruppo
265
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 243 - 266
è inquadrato come spazio mentale, relazionale, nonché come strumento operativo
se adeguatamente ancorato agli obiettivi dell’organizzazione scolastica. Vengono
mostrati gli aspetti costitutivi della classe come “gruppo di lavoro” istituzionale considerando, ad esempio, le dinamiche di influenza e di potere che coinvolgono il
ruolo del docente come leader di un campo emotivo più ampio. Pertanto i significati
affettivi ed emotivi legati al progetto educativo del docente incontrano a scuola una
vero e proprio sistema di gruppalità che si estende a più ampi livelli del sociale. Infine, viene analizzata quella specifica funzione del gruppo in adolescenza e si avanza
l’ipotesi che il gruppo a scuola possa configurarsi come risorsa preventiva.
Abstract
The work deals with the problems linked to the dynamics of group at school. We
show how the class can be an active instrument in the educational processes as it
takes its stand as space of possible integration of cognitive and emotional aspects.
The resort to psycodynamic models of group outlines an area in which the group
is set as mental, relational space and at the same time as operative instrument, if suitably anchored to the objectives of the school organization.
The constitutive aspects of the class as group of institutional work are shown
considering for example the dynamic of influence and power which involve the role
of the teacher as leader of wider emotional field.
Therefore the affective and emotional meanings linked to the educational project
of the teacher meet at school a true and real system of group that goes to wider
levels of social area. It’s analysed in the end that specific function of group in the
adolescence and it is put forward the hypothesis that the group at school can become
a preventive resource.
Ricevuto Maggio 2007.
266
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Esercitare la giustizia in classe: voti,
valutazioni e giudizi
Patrizia Selleri*
* Facoltà di Psicologia, Alma Mater Studiorum Università di Bologna
1. Introduzione
Il tema della valutazione degli alunni è da decenni al centro delle discussioni sul
funzionamento delle scuole, anche perché la funzione educativa dell’insegnante non
può prescindere da una dimensione valutativa che gli assegna la responsabilità di
esprimere, con gli strumenti di cui dispone, un punto di vista autorevole sui progressi
scolastici ottenuti dagli alunni.
Negli anni’70 ha avuto inizio il dibattito sulla necessità di adottare rigorose
procedure docimologiche nel corso delle valutazioni scolastiche, in modo da poter garantire agli alunni una valutazione oggettiva, depurata da effetti trasversali,
come l’origine sociale o le simpatie dell’insegnante; inoltre distinguere tra funzione
sommativa e formativa della valutazione ha aperto la strada ad una riflessione sulla
didattica e sul significato che l’attribuzione di un voto può avere nei diversi momenti del percorso scolastico. Negli anni’80, con l’avvio di un periodo di rinnovamento culturale dei programmi e dell’organizzazione scolastica (articolazione modulare nella scuola primaria; sperimentazioni nella scuola secondaria), il problema
del modo in cui valutare gli alunni continua ad essere un elemento su cui si fonda
una progressiva diversificazione di ciò che fino a pochi anni prima poteva essere
inteso, “al singolare”, con il termine “scuola”, ma che sempre di più si differenzia
al suo interno dando vita a tante “scuole” diverse, non solo in relazione alle finalità
relative agli otto anni della scuola di base (dove sono già scomparsi i voti!), ma
soprattutto per quanto riguarda i percorsi scolastici successivi, dove emerge sempre
più profonda la separazione tra licei ed istituti tecnico-professionali, all’interno dei
quali la valutazione, ancora espressa in voti, si avvicina sempre di più all’idea di
selezione.
Poi, dagli anni’90 ad oggi, nel dibattito sulla scuola il tema della valutazione
degli alunni ha assunto una valenza ancora diversa, oggetto di discussione anche
in relazione alla progressiva autonomia didattica attribuita alle singole scuole; così,
mentre da un lato viene introdotta la promozione con il “debito formativo”, dall’altro
si fa strada l’esigenza di un sistema di valutazione nazionale ed internazionale, in
grado di offrire alla Comunità Europea un insieme di informazioni confrontabili sia
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Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 267 - 283
sui livelli di apprendimento raggiunti dagli alunni sia sul funzionamento delle scuole
e sul lavoro degli insegnanti (Carugati, Selleri, 2005, cap.7).
Inoltre, negli anni, le scuole primarie e secondarie di primo grado hanno visto
trasformare i voti in giudizi e i giudizi in indicatori di rendimento; hanno elaborato
faticosamente il portfolio di ogni alunno, mentre istruzione professionale, tecnica e
liceale è rimasta ancorata all’utilizzo dei voti. Quindi ancora oggi un alunno che a
giugno si confronta con un giudizio sommativo (da ottimo a sufficiente) sulla preparazione raggiunta al termine della scuola dell’obbligo, si ritrova dopo solo due mesi
a dover “ragionare”, in termini altrettanto sommativi, utilizzando però la tradizionale
“media tra i voti”.
Comunque è innegabile che un voto numerico possa essere un indicatore, un
punto di riferimento condiviso per insegnanti, alunni e genitori, soprattutto quando
la scala dei voti è negativa. Mettiamo comunque da parte, almeno per il momento, la
discussione su quale sia la formula migliore per rendere esplicito l’andamento di un
alunno durante il percorso scolastico e concentriamo la nostra attenzione sulle fasi
che precedono queste comunicazioni ufficiali di successo o insuccesso, perché non è
tanto il “numero” o il “giudizio” attribuito ad un alunno ad essere ora oggetto di discussione, quanto piuttosto il percorso di costruzione del significato che, all’interno
delle classi, viene fatto dell’intero processo di valutazione.
2. La vita quotidiana delle classi
Per meglio discutere le dinamiche psicosociali che accompagnano la produzione
di voti e giudizi, è bene fare della classe il luogo di studio di queste pratiche quotidiane che scandiscono la vita in comune di insegnanti ed alunni; in altre parole l’unità
d’analisi da cui partire per cercare di dipanare l’intreccio tra idee, rappresentazioni,
attribuzioni ed aspettative reciproche non può che essere il luogo fisico in cui insegnanti ed alunni costruiscono la loro storia in comune, assegando precisi significati
alle parole ed alle azioni che caratterizzano le interazioni quotidiane (Carugati, Selleri, 1996).
Infatti è proprio lo studio dell’interazione in classe a ricordarci che la relazione insegnanti-alunni è caratterizzata da alcuni elementi stabili nel tempo, che si
ritrovano anche in contesti sociali diversi per tradizione e cultura (Selleri, 2004).
In primo luogo il potere dell’insegnante nei confronti degli alunni regola una relazione fortemente asimmetrica che si esprime, per esempio, nella frequenza con
cui alcune strutture discorsive appaiono sistematicamente nelle interazioni tra insegnanti ed alunni; prendiamo come classico esempio l’uso della sequenza Domanda-Risposta-Valutazione (Sinclair, Cloulthard, 1975), caratterizzata dal fatto che
all’insegnante viene riconosciuto il potere di esprimere apertamente una valutazione sulla risposta ottenuta dall’alunno (D: Formula per l’area del rettangolo?; R:
b x h; V: Molto bene!), una prerogativa che scompare nelle relazioni simmetriche,
268
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
dove il terzo turno può essere caratterizzato, per esempio, da una espressione di
cortesia ((D: Formula per l’area del rettangolo?; R: b x h; R: Grazie, mi era venuto
un dubbio!).
In secondo luogo, all’interno del contratto didattico tra insegnanti ed alunni
(Schubauer-Leoni, 1986), si costruiscono e si negoziano le regole della vita quotidiana in classe. Il sistema generale di norme regola soprattutto le questioni legate
alla trasmissione delle conoscenze, e quindi ogni insegnante, attraverso la propria
disciplina, rende esplicite alcune indicazioni di comportamento richieste agli alunni, mentre confina nell’implicito dell’interazione la possibilità tacita di negoziare le
stesse norme dichiarate apertamente. I lavori sulla vita sotterranea delle classi (Corsaro,1997) ci offrono un esempio che può essere riletto proprio adottando la prospettiva del contratto didattico. Quando le insegnanti di scuola materna, di fronte ad un
litigio scoppiato a causa di un giocattolo personale che un alunno ha portato a scuola
nonostante il divieto esplicito di farlo, riaffermano per tutti la regola generale (“Non
si portano i giochi da casa!”), i piccoli alunni non abbandonano affatto l’abitudine
di portarsi qualcosa da casa, ma si orientano su piccoli oggetti, che si possono facilmente nascondere nelle tasche, perché hanno già imparato che nel rispetto, almeno
apparente, delle regole si trovano gli spazi di negoziazione. Sanno che le insegnanti,
una volta riproposta la regola, non si comporteranno come tutori della legge e quindi
non sorveglieranno la classe andando alla ricerca dei comportamenti “da multare”;
se non ci saranno più litigi a causa degli oggetti portati da casa, le insegnanti volgeranno la loro attenzione altrove.
Questi comportamenti di reciproca indulgenza (“Non controllo se tu non mi provochi!”) consentono di affrontare il tema del rispetto delle regole a scuola partendo da una prospettiva diversa; anche in questo caso ciò che interessa non è tanto
l’enunciazione esplicita della norma, l’anticipazione delle sanzioni previste per le
infrazioni e la conseguente azione dell’insegnante, quanto piuttosto l’uso che delle
regole viene fatto per richiamare principi generali di comportamento, ogni qualvolta
la relazione tra un insegnante e gli alunni viene messa in discussione da violazioni
esplicite del contratto didattico.
Argomenti come diritti, giustizia, etica e rispetto sono i grandi themata (Moscovici, Vignaux,1994) che costituiscono il nucleo culturale delle nostre idee e rappresentazioni sul mondo, sulle persone e sulle cose; sono valori collettivi ma potenzialmente conflittuali, poiché richiamano giudizi su cosa sia “giusto o sbagliato”; una
volta declinati nell’esercizio quotidiano delle nostre attività, sulla base della nostra
appartenenza a gruppi sociali e dei diversi ruoli che esercitiamo, ci offrono un elaborato repertorio di comportamenti; richiamati all’interno di una discussione in classe
hanno anche la funzione di legittimare l’azione dell’insegnante di fronte ai superiori,
agli alunni ed alle loro famiglie, poiché spostano la discussione dall’ambito del fatto
particolare a quello più generale dei principi sociali.
269
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 267 - 283
2.1 Le classi come comunità morali
Damon e Hart (1992) articolano la definizione di “morale” attraverso tre aspetti
peculiari: il rispetto delle regole sociali, l‘esistenza di una struttura di giustizia e
l’orientamento verso gli altri. Ogni classe scolastica può quindi essere definita come
una comunità morale, in quanto esistono regole che devono essere applicate in modo
equo ed imparziale dagli insegnanti che, tra i loro compiti, hanno anche quello del
“prendersi cura” non solo dell’apprendimento, ma soprattutto dell’educazione degli
alunni.
Come hanno mostrato Jackson et al. (1993), nei discorsi tra insegnanti ed alunni
si possono mettere in evidenza alcune precise categorie di interventi morali espliciti: si va dal modo in cui vengono trattate discipline come l’educazione civica (ma
possiamo aggiungere tutte le “educazioni”, da quella ambientale a quella stradale),
ai giudizi morali (altruismo, sacrificio, coerenza con i propri valori) espressi su personaggi storici o di attualità, ai temi scelti per le conferenze (il pacifismo, i diritti
degli oppressi, la lotta alle droghe) fino ad arrivare ai commenti espliciti sul comportamento degli alunni (“Questo modo di fare non mi piace, da te mi sarei aspettato
di più!”).
L’ambito della ricerca etnografica offre numerose descrizioni di queste pratiche
quotidiane situate nei contesti scolastici, utilizzando anche l’analisi del discorso e
della conversazione per illustrare la trama fine delle interazioni che coinvolgono
insegnanti ed alunni.
Alcuni studi hanno approfondito la struttura delle interazioni che hanno lo scopo
di scambiare informazioni sui rapporti di autorità in aula e le relative pratiche quotidiane messe in atto dagli insegnanti per riaffermare questa asimmetria di status, il cui
rispetto diventa una sorta di testimonianza costante e palese, resa da tutti gli alunni,
del valore dell’autorità dell’adulto. Si può quindi condurre un’analisi della gestione
della classe partendo proprio dalla nozione di potere asimmetrico, legittimato e riconosciuto. L’autorità dell’insegnante si esercita in forme implicite, quando indirizza
le discussioni, aiuta la ricostruzione degli eventi, organizza la classe nei modi e nei
tempi che ritiene opportuni per concludere il lavoro, ed in forme esplicite, quando
giustifica o sanziona: in altre parole l’insegnante, esercitando la propria autorità sulla
classe, definisce la cornice che dà vita al contesto in cui avviene l’apprendimento, poiché la caratteristica di reciprocità insita nella nozione di autorità (che si può
esercitare solo se gli altri sono disposti a riconoscerla, altrimenti si passa a forme
di controllo!) consente di costruire le routine discorsive ed organizzative della vita
quotidiana (Selleri, 2004).
La vita sociale di ogni classe può quindi essere riletta attraverso la struttura di
partecipazione costruita attraverso le conversazioni quotidiane (Macbeth, 1991); per
esempio, ricorrere ad una generica formula di anonimato per riproporre una regola
generale alla classe, consente all’insegnante di ricordare in maniera soffice che una
delle sue prerogative è quella di poter sanzionare in modi diversi i comportamenti
270
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
non adeguati (“Signori e signore, portatemi i vostri lavori, ma ricordate che se non
li avete eseguiti potrete incorrere in una punizione”).
Allo stesso modo la nomina diretta di un alunno può essere utilizzata come azione di controllo diretta (“Sentiamo proprio quel ragazzo così impegnato a guardare
sotto il banco!”), oppure come una sorta di aiuto concesso alla classe, sfruttando le
diverse competenze degli alunni come una risorsa per chi fatica a seguire il lavoro
della classe (“Sentiamo come farebbe lui, che è molto esperto, così gli altri possono
partire da lì…”).
Anche il silenzio dell’insegnante di fronte ad un alunno è un segno di autorità
esplicita, utilizzato per sottolineare la rottura di una regola, oppure per evidenziare
un errore; non ci sono dubbi che il silenzio sia una caratteristica legata all’esercizio
del potere dell’insegnante, infatti agli alunni non è consentito il medesimo comportamento (“Rispondi, altrimenti andrai a rispondere dal preside.. (silenzio dell’alunno)…sto per dirlo per la terza volta…la terza volta vai fuori”).
Ora, poiché il raggiungimento degli obiettivi educativi di una lezione è consentito
dalla condivisione degli obiettivi sociali ed organizzativi sulla base dei quali sarà
possibile impostare tutta l’attività didattica, l’autorità dell’insegnante deve essere
chiara, esplicita, e costruita nell’interazione.
D’altro canto, soprattutto nella scuola superiore, gli insegnanti hanno come compito istituzionale quello di valutare assegnando voti e quindi acquisiscono un potere
indiscutibile sugli alunni, poiché con i loro giudizi possono arrivare fino al punto
di scandire i tempi del percorso di studio, come accade quando viene fatto ripetere
l’anno scolastico e quando questo accade l’aspetto morale del significato assunto
dalle regole riappare con tutta la sua forza dilemmatica attraverso la domanda: è
giusto tutto ciò? In altre parole, l’insegnante è stato troppo ligio e severo con alcuni,
mentre con altri ha adottato una maggiore discrezionalità, oppure ha applicato con
implacabile equità un sistema di valutazione oggettivo che non ha tenuto in nessun
conto ciò che egli conosce degli alunni e che attraverso la materia da lui insegnata
ha anche contribuito a costruire? A parità di rendimento, alcuni studenti sono stati
premiati ed altri puniti?
2.2 Le classi come aule di tribunali
Weiner (2003) propone di descrivere il contesto dell’aula scolastica in analogia
con il contesto dell’aula di giustizia, perché in entrambe si prendono decisioni su
fatti che si discostano da ciò che è sancito, regolato ed atteso dalla comunità.
A scuola l’insuccesso di un alunno diventa l’evento cruciale per riaffermare alcune norme di giustizia distributiva nella classe, per esempio il fatto che il fallimento
debba essere associato a qualche tipo di rimprovero o punizione, scelte tra quelle
già anticipate a suo tempo tra le pratiche di conduzione della classe, condivise tra
insegnanti ed alunni ed utilizzate con coerenza nel tempo.
271
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 267 - 283
L’Autore descrive il caso, fittizio, di un alunno che abbia molte abilità, ma mostri
scarso impegno e uno sforzo minimo, ottenendo così un voto insufficiente in una
prova. Chiede poi ad altri alunni di mettersi nei panni di un insegnante e di attribuire
a quel soggetto fittizio un punteggio che vada da +5 a -5 (massimo valore positivo vs.
massimo valore negativo): cosa possiamo aspettarci? Appunto che, come nelle aule
di giustizia, la sanzione (in questo caso il punteggio attribuito) sia adeguata al reato
commesso, seguendo un principio di proporzionalità unito al fatto che il soggetto da
giudicare abbia consapevolezza di ciò che ha fatto e ne riconosca la responsabilità
morale. Quindi, tornando al nostro caso fittizio, il punteggio a lui assegnato sarà
tanto più basso quanto nella descrizione del caso sarà sottolineata una maggiore
mancanza di sforzo e di impegno per riuscire nella prova.
Di fronte ad un insuccesso scolastico, avere capacità e mancare di impegno è
assimilabile ad una ”colpa grave”, poiché la presenza delle capacità sposta senza
ombra di dubbio la causa dell’insuccesso su aspetti, come l’impegno, che il soggetto
può controllare direttamente; inoltre viene considerato quasi immorale non realizzare fino in fondo le capacità a disposizione. In questo senso la risposta dell’insegnante
di fronte ad una prova scadente è, come nei dispositivi delle sentenze, determinata
almeno da due aspetti: il fatto concreto (il risultato in questione in un caso e il reato
nell’altro) e il grado di colpa o di responsabilità attribuita allo studente rispetto all’insuccesso (oppure all’imputato per il reato).
D’altra parte gli insegnanti, allo stesso modo dei giudici, sono spinti a fare inferenze sulla responsabilità individuale di chi hanno di fronte, per decidere quanto
duramente debbano reagire al fatto contestato, poiché uno dei loro compiti è amministrare la giustizia in classe ed è stato mostrato come consentire che un successo
sia ottenuto senza sforzo porta a percepire quel risultato come non adeguatamente
meritato e faccia sorgere sentimenti d’ingiustizia tra gli altri alunni della classe, mettendo così in dubbio l’equità dell’insegnante e contemporaneamente la sua autorità
sul gruppo (Feather, 1999).
Considerare un voto negativo come l’equivalente di una sanzione meritata ci porta a spostare la nostra attenzione sulla posizione assunta dall’insegnante, che ha la
responsabilità, di fronte alla classe, di ragionare anche in termini di giustizia retributiva, assegnando a ciascuno un riconoscimento per il lavoro svolto, attività da cui
possono derivare anche sanzioni importanti, come una bocciatura, anche se prima di
arrivare a questa azione estrema l’insegnante conduce una “sistematica campagna
di informazione” sui rischi che determinate condotte potrebbero comportare. Per
esempio, se uno studente si presenta senza aver fatto i compiti, l’insegnante non può
semplicemente far finta di niente, ma deve prendere posizione davanti all’alunno ed
alla classe, sfidato apertamente nella sua veste di “giudice imparziale”. Se punisce
raddoppiando i compiti per il giorno successivo, cerca però di fare in modo che la
trasgressione non si verifichi più né in quell’alunno né in altri; ha quindi uno scopo
utilitaristico, anche se virtuoso, nel decretare la sanzione: il “prezzo pagato dal singolo” di fronte agli altri, è utile per ristabilire l’ordine generale dei rapporti tra diritti
272
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
e doveri in classe (Weiner, 2003). Naturalmente, in caso di recidiva da parte dello
studente in questione, verrà aumentata l’entità della punizione; se è la prima volta
che accade un fatto c’è più tolleranza da parte dell’insegnante (ci sono le attenuanti
generiche!), ma se l’infrazione viene perseverata, anche la punizione aumenta.
Effettivamente l’analogia con l’ambito giuridico è illuminante, perché fa uscire
la tematica della valutazione scolastica dall’angusta definizione di pratica situata in
un contesto specifico, appunto quello scolastico, rispetto al quale nei decenni si è
arricchita (o forse appesantita?) di strumenti e tecniche che hanno fatto perdere di
vista agli insegnanti le ragioni profonde, conflittuali e radicate storicamente che da
sempre hanno accompagnano l’espressione di una valutazione e del relativo giudizio
su un soggetto.
Tracce di questa ideale affinità si possono ritrovare anche nei lavori di Foucault
(1975:196), che sottolinea come “l’errore dell’allievo è un’ inettitudine ad adempiere ai suoi compiti ed il castigo disciplinare deve essere essenzialmente correttivo”,
mentre l’esame che si rende necessario per giungere a questo castigo, “contornato
da tutte le sue tecniche documentarie, fa di ogni individuo un caso ”, essenzialmente
da punire.
Secondo l’Autore, questa spinta a ragionare in termini di singolo caso rappresenta la nascita di una nuova forma di potere, che si avvale dei risultati scientifici offerti
dalle diverse discipline allo scopo di tracciare per ogni soggetto le caratteristiche
individuali che sanciscono le differenze, ottenute dalle misure, dagli scarti statistici,
dalle “note” che lo accompagnano negli anni. e che, come una profezia che si autoavvera, finiscono con l’ottenere un grado di “adattamento” elevato tra il giudizio
scaturito dall’esame delle prove tecniche e il comportamento della persona.
Quindi, se a scuola “non si può non valutare”, che almeno si riesca a tenere separati i diversi piani che si intersecano nell’esprimere un voto: il giudizio generale
sull’alunno, costruito nell’interazione (quindi strettamente legato alle idee ed alle
rappresentazioni dell’insegnante circa il proprio ruolo in quella scuola e in quella
classe), il modo in cui si è arrivati ad ottenere una valutazione (senza avere una
fiducia cieca negli strumenti di rilevazione e di misura spesso realizzati dagli stessi
insegnanti di classe), l’uso che di un voto può essere fatto nei confronti del singolo
e della classe, da non considerare mai come la “somma di singoli casi”, ma sempre
come un gruppo con un a propria storia.
2.3 Le aule come luogo di “messa alla prova”
Le formulazioni giuridiche ci vengono in aiuto ancora una volta, perché nei codici esiste la possibilità che la condanna sia accompagnata da un periodo di “messa
alla prova”, durante il quale il soggetto avrà modo di mostrare quanto e come un
fatto della sua vita sia stato oggetto di un percorso di riflessione da cui sia scaturita
la volontà esplicita di non cadere più nel medesimo errore.
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Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 267 - 283
In un lavoro condotto da Reyna e Weiner (2001), ad un campione di insegnanti
vengono presentati quattro studenti fittizi che hanno avuto un’insufficienza in una
prova d’esame; due di questi studenti sono descritti come responsabili in prima persona dell’insuccesso (uno non ha studiato, l’altro non si è impegnato abbastanza),
il terzo è descritto senza le capacità necessarie per lo studio e del quarto si dice che
è arrivato nella classe da poco tempo. In seguito, per ogni studente, viene chiesto
agli insegnanti di esprimersi sulla opportunità di adottare un certo numero di azioni educativo-didattiche, che vanno dalle punizioni ai premi. A seguito di un’analisi
fattoriale, condotta sulle risposte degli insegnanti, sono stati messi in luce quattro
fattori, denominati distanziare (assegnare compiti extra, mandare lo studente dal
preside); squalificare (ignorare lo studente, non concedergli il beneficio del dubbio
di fronte ad un voto/comportamento al limite del tollerato); incoraggiare (premiare
lo studente, metterlo in buona luce); prendersi cura (condurre lo studente a fare del
lavoro extra per rimediare, usare per lui criteri diversi da quelli usati per il resto della
classe). Le azioni didattiche che compongono il fattore distanziare sono state utilizzate soprattutto nei confronti degli studenti giudicati responsabili del proprio insuccesso ed hanno implicazioni di giustizia retributiva, mentre i fattori prendersi cura e
incoraggiare sono relativi agli studenti giudicati non responsabili dell’insuccesso: si
tratta di azioni concrete, orientate a rimuovere gli ostacoli e che non implicano una
sanzione a fronte del risultato.
Quindi, se gli insegnanti hanno l’intenzione di punire gli studenti applicano nei
loro confronti un principio di giustizia retributiva, mentre se vogliono “metterli alla
prova”, concedendo il beneficio del ravvedimento, forniscono gli strumenti per avere
una seconda possibilità.
Il tema delle azioni didattiche da utilizzare di fronte all’insuccesso degli alunni è stato oggetto di approfondimento anche nel contesto italiano, utilizzando un
campione di 952 insegnanti donne provenienti dalla scuola dell’obbligo e dal biennio della scuola secondaria di secondo grado (Carugati, Selleri, 2004). Interrogate
attraverso un questionario su quali possano essere le attività didattiche da adottare
nei confronti di un alunno in difficoltà scolastica, le risposte delle insegnanti sono
state sottoposte ad analisi fattoriale, dalla quale sono emersi tre fattori: il primo
rimanda alla costruzione di un ambiente favorevole all’apprendimento (dare fiducia all’alunno, confrontarsi con i genitori, assicurarsi che abbia sempre capito, migliorare l’atmosfera della classe); il secondo richiama un’attività che si potrebbe
definire di aumento della consapevolezza rispetto alle ragioni dell’insuccesso (far
lavorare l’alunno in un piccolo gruppo, ma anche con un compagno che riesca meglio di lui a scuola, insegnargli ad essere più preciso e rigoroso nel lavoro, sottoporlo a frequenti valutazioni); il terzo utilizza il confronto sociale come stimolo per
riuscire (mettere l’alunno in competizione con gli altri, promettergli un premio se
farà meglio, mostrargli che in dietro rispetto ai compagni, assegnare più compiti
a casa). In questa ricerca le caratteristiche degli alunni non sono state trattate sperimentalmente come nel precedente lavoro di Reyna e Weiner (2001), ma è stata
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TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
invece costruita una variabile dicotomica, chiamata “mistero”, partendo dall’item
“Le differenze di intelligenza fra gli alunni costituiscono un mistero che la scienza è
incapace di risolvere”; in questo modo il campione originario risulta diviso un due
sottogruppi, uno favorevole e l’altro meno favorevole al fatto che l’intelligenza sia
“qualcosa di misterioso anche per la scienza”. Quando si utilizza la variabile “mistero” per approfondire la costruzione dei tre fattori, si nota che sul fattore che contiene le attività didattiche orientate a realizzare un ambiente favorevole all’apprendimento c’è un maggiore accordo da parte del gruppo di insegnanti che non ritiene
l’intelligenza un fatto misterioso, mentre sui fattori aumento della consapevolezza
rispetto alle ragioni dell’insuccesso e confronto sociale sono le insegnanti con una
posizione favorevole al mistero ad esprimere punteggi maggiori; in altre parole, di
fronte all’insuccesso del singolo alunno, orientare l’intervento di recupero solo su
di lui (aumento della consapevolezza e confronto sociale) oppure sul contesto (ambiente favorevole all’apprendimento) è una scelta molto più riconducibile alle idee
ed alle rappresentazioni che orientano l’azione piuttosto che alle caratteristiche del
caso concreto. Essere certi che l’intelligenza sia definibile scientificamente, magari
intermini di un dono di natura o di un programma biologicamente determinato, oppure essere meno fiduciosi in tutto ciò porta ad individuare spetti diversi sui quali
far leva per intervenire di fronte all’insuccesso.
I risultati di questo lavoro ci suggeriscono una volta di più come il tema della
valutazione degli alunni e delle azioni educative che ne derivano (si potrebbe dire,
parafrasando un testo classico “Dei giudizi e delle pene”!) non si articoli solo a
livello di azioni, ma soprattutto a livello di idee e rappresentazioni sulle questioni
importanti relative al rapporto tra natura e cultura nella costruzione delle abilità individuali (Matteucci, 2007). Bocciata, forse definitivamente, la speranza di trovare lo
strumento di valutazione perfetto, gli insegnanti, in quanto attori sociali, non possono fare altro che costruire un quadro di riferimento che vada dall’individuale al collettivo, che permetta la convivenza, in ognuno di loro, di piani diversi di riflessione
e di azione, che consenta di ridurre i conflitti quotidiani tra ciò che si dovrebbe fare
e ciò che forse è utile fare, che fornisca legittime spiegazioni dei loro comportamenti
e di quelli dei loro alunni.
Traccia di questa tendenza a passare da un piano di riferimento all’altro è messa
in luce anche in un recente volume di Millet e Thin (2005); partendo dallo studio
di un campione di dossier scolastici redatti da insegnanti francesi al termine della scolarità obbligatoria, gli autori illustrano come oggettive difficoltà degli alunni,
che a volte presentano evidenti ritardi nell’acquisizione delle abilità linguistiche e
profonde lacune nelle diverse materie, non vengono prese realmente in considerazione nei giudizi degli insegnanti. Questi ultimi non fanno riferimento all’esistenza
di possibili difficoltà cognitive, ma spiegano gli scarsi risultati con altre dimensioni,
come l’elevato numero di assenze, una mancanza di studio, di impegno e di lavoro
sistematico, il peso dei problemi familiari che impediscono un effettivo investimento scolastico. Quando poi gli alunni vengono descritti come potenzialmente capaci,
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Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 267 - 283
a volte addirittura capaci e molto intelligenti, da questo giudizio sul “potenziale”
individuale deriva una valutazione ancora più severa degli scarsi risultati ottenuti,
soprattutto quando questi ultimi sono accompagnati da comportamenti che esprimono una responsabilità diretta nell’insuccesso da parte dell’alunno (per esempio
se sistematicamente si assenta il giorno delle verifiche) e quindi il giudizio negativo
dato dall’insegnante viene spiegato riferendosi esclusivamente alle caratteristiche
“sanzionabili” allo studente, che “non ha lavorato abbastanza”, non ha messo in atto
i comportamenti richiesti dalla scuola. Nella stesura di questi giudizi abbonda infatti
l’uso del condizionale (potrebbe riuscire; otterrebbe la sufficienza se..) seguito dai
soliti “ma” che anticipano l’individuazione degli ostacoli per il raggiungimento degli
obiettivi scolastici; è un po’ come se, tra le righe, ci fosse scritto che questi alunni,
nonostante la fortuna di possedere abilità pari agli altri, non hanno saputo approfittare delle tante possibilità offerte dalla scuola: sono stati “messi alla prova” per più di
una volta, ma non si sono ravveduti.
3. Giudizi e voti
Bressoux e Pansu (2003) riprendono l’dea che le istituzioni scolastiche, come
quelle penali, siano accomunate dal potere di giudicare gli individui e soprattutto dal
potere di fare accettare loro ciò che da quel giudizio deriva, sia essa una punizione
esplicita o una sanzione ritenuta coerente con il fatto commesso; poiché la formazione di un giudizio è un processo che consiste nel produrre inferenze a partire dalle
informazioni possedute, anche nel caso in cui siano molto scarse oppure non proprio
di prima mano, i giudizi sulle persone possono essere anche scarsamente obiettivi.
In questa sede non è importante decidere se si tratti di errori nel processare le
informazioni o di distorsioni sistematiche e se quindi gli insegnanti siano limitati
nelle loro capacità di emettere un giudizio valido a causa di funzionamenti cognitivi
carenti; ciò che ci interessa è mettere in luce il modo in cui i giudizi sugli alunni vengono legittimati nella vita quotidiana delle classi, indipendentemente dalla loro oggettività e validità. A questo proposito basti ricordare che il giudizio dell’insegnante
risente anche di un effetto “contesto”, relativo alla composizione della classe: più è
elevato il voto medio, più il giudizio dell’insegnante tende ad essere severo verso
il basso; quindi il giudizio sul singolo alunno non si costruisce solo a partire dal
punteggio numerico, o dal voto ricevuto nelle prove, ma esiste un effetto compartivo
tra gli alunni che rende la scala dei voti di una classe difficilmente comparabile con
quella usata in una classe analoga (Monteil, 1989). Detto questo, all’insegnante resta
il problema di come far accettare all’alunno il giudizio espresso su di lui (insieme al
voto che ne deriva) e questa non è un’operazione a costo zero per nessuno, perché
sull’aleatorietà dei giudizi e dei voti anche molti alunni potrebbero ben dire la loro!
Ma l’autorità che l’insegnante è riuscito a mantenere, in molti casi anche faticosamente, sarà sufficiente a convincere l’alunno di aver svolto con attenzione,
276
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
imparzialità e senso di giustizia l’arduo compito di giudicarlo? Probabilmente no ed
i lavori sull’influenza sociale (Mucchi Faina,1996) possono aiutarci a fare un po’ di
chiarezza, soprattutto pensando alle situazioni di insuccesso scolastico.
Prendiamo un insegnante che si ponga nei confronti degli alunni (i target del
processo d’influenza) come una fonte autoritaria: legittimato dal suo potere comunicherà i giudizi su ogni singolo alunno così come li ha formulati e non si porrà altra
questione che la richiesta di un adeguamento da parte loro; chi non si adeguerà sarà
“allontanato” in vari modi, fino ad arrivare alla bocciatura.
Un insegnante può invece porsi come fonte credibile, soprattutto quando gli alunni gli riconoscono, oltre a conoscenze e competenze nel suo ambito disciplinare,
anche caratteristiche come la sincerità e la coerenza; in questo secondo caso l’insegnante deve necessariamente argomentare di fronte alla classe il giudizio attribuito
ad ogni alunno, soprattutto quando è negativo, perché aprire una discussione a partire dal proprio punto di vista gli consente di condividere con tutta la classe le ragioni
che l’hanno prodotto.
Gli studi sulla norma d’internalità ci offrono un interessante stimolo per proseguire la riflessione che intreccia il tema della giustizia con quello della valutazione. Con
la locuzione “norma d’internalità” s’intende la valorizzazione, socialmente appresa,
delle spiegazioni dell’insuccesso scolastico caratterizzate da un’attribuzione interna
della responsabilità (per una rassegna: Matteucci, 2004). Si tratta di una spiegazione
causale, costruita durante le interazioni quotidiane in famiglia ed a scuola e che viene utilizzata dagli alunni fin dai primi anni di scuola, soprattutto perché nel contesto
scolastico svolge la funzione (anche in questo caso utilitaristica!) di negoziare nel
gruppo classe alcune variazioni di giudizio dell’insegnante ( Dubois et al., 2003); in
altre parole, nel corso della loro socializzazione scolastica, gli alunni imparano che
di fronte all’insegnante (un adulto, con autorità nei loro confronti e con il potere di
assegnare voti e giudizi) si è passibili di un giudizio meno severo se è l’alunno stesso
a fornire una spiegazione dell’insuccesso in termini di caratteristiche individuali,
interne e controllabili (“Certo, questa volta non ho studiato abbastanza”). Avevamo
già visto come gli stessi insegnanti, dal loro punto di vista, utilizzino i processi di
attribuzione causale per esercitare la giustizia retributiva tra gli alunni; qui siano di
fronte a processi di natura analoga, utilizzati però dagli alunni per “mettersi in buona
luce” di fronte agli insegnanti, potremmo dire per catturare la loro benevolenza. Almeno nella nostra cultura occidentale, assumersi pubblicamente la responsabilità di
un evento negativo è ritenuto un segno di maturità, una condotta eticamente corretta,
un indicatore per un possibile ravvedimento; l’alunno che offre all’insegnante questa immagine di se stesso gli offre soprattutto un efficace strumento di negoziazione
sociocognitiva, poiché gli consente di continuare ad essere una fonte credibile, visto
che la spiegazione dell’insuccesso prodotta dall’alunno è quella che l’insegnante si
attendeva, che conferma davanti a tutta la classe quanto lui avesse ragione. Il conflitto che potrebbe scaturire da un voto o da un giudizio negativo viene così regolato
in classe trovando un accordo sulle spiegazioni delle cause che l’hanno prodotto;
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Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 267 - 283
questo non trasforma un’insufficienza in una sufficienza, ma certamente attenua gli
aspetti negativi del giudizio globale sull’alunno.
4. Motivazione e valutazione scolastica
Il fatto che poi molti alunni non approfittino nel modo migliore di quanto viene
fatto a scuola ci rimanda al tema della motivazione ad apprendere, strettamente collegato anche al processo di valutazione.
Secondo Elliot e Dweck (2005), il concetto di motivazione alla riuscita non è definito in modo chiaro nella letteratura ed anche sul piano empirico è difficile trovare
una coerenza tra la definizione del costrutto e gli strumenti per operazionalizzarlo.
Molte ricerche si sono focalizzate solo sulle caratteristiche interne agli individui, tralasciando le influenze del contesto, mentre altre ricerche hanno messo in luce come
le medesime caratteristiche individuali possano essere di fatto costruite socialmente,
per esempio come accade nelle esperienze di cooperazione tra pari; inoltre lo studio
delle attuali società multietniche mostra il peso della cultura su queste caratteristiche, che si potrebbero pensare solo intraindividuali: basta ricordare gli studi che
indicano come anche la definizione di termini ampiamente usati negli strumenti per
studiare la motivazione, per esempio successo, insuccesso e apprendimento, abbiano
differenti connotazioni semantiche in culture diverse (Li, 2003).
Un tema centrale nella letteratura sulla motivazione è la nozione di competenza,
intesa come il bisogno fondamentale dell’individuo di padroneggiare gli strumenti,
o meglio gli artefatti materiali, procedurali e concettuali (Cole, 1996) messi a disposizione nei contesti; in questo modo si attivano comportamenti osservabili (e quindi
valutabili) orientati verso il raggiungimento della competenza.
D’altro canto la motivazione alla competenza è presente in tutti gli aspetti della vita quotidiana, soprattutto per quanto riguarda il benessere individuale, perché
sono i risultati positivi che spingono a continuare, mentre i fallimenti di cui non si
capiscono bene le ragioni portano a successivi comportamenti di evitamento, accompagnati da sentimenti di colpa e insoddisfazione; nel corso della vita gli individui
apprendono a controllare e dirigere i loro interessi e la loro motivazione attraverso la
definizioni degli obiettivi personali e le strategie per raggiungerli (Elliot e Church,
1997), ma non dimentichiamo che sempre nel corso della vita si assiste spesso ad un
decremento di questa spinta alla competenza, quando le circostanze non permettono di esercitare questa attività, perché magari diminuiscono le opportunità di farlo,
come negli anziani, ma rimane sempre stabile la tensione ad evitare le situazioni in
cui si sperimenta l’incompetenza.
Urdan e Migdley (2003) indicano che nel passaggio dalle scuole elementari alle
medie si assiste negli alunni ad una caduta della percezione della propria competenza
relativa agli obiettivi di apprendimento e questo ha un’associazione negativa con
la percezione della propria efficacia nella riuscita scolastica, con un aumento delle
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TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
strategie per evitare le novità, adottando comportamenti di self-handicapping, che
suggeriscono un abbassamento della motivazione alla competenza.
Gli alunni hanno bisogno di competenza, di sapere in classe cosa possono o non
possono fare; è un modo per uscire dall’incertezza delle scelte e delle azioni che
ne derivano, per orientarsi rispetto alle loro possibilità nei confronti delle richieste
degli adulti; quindi una valutazione negativa può essere definita nell’interazione tra
l’insegnante e l’alunno non come punizione senza appello, ma come elemento da cui
ripartire in modo virtuoso per attivare, mantenere o aumentare la motivazione alla
competenza.
La classe è nuovamente il punto di riferimento, perché la motivazione alla competenza si può costruire tra i compagni (la vita sotterranea delle classi; la gestione
collaborativa della attività) e come suggerisce Bronfenbrenner (1989) la competenza
può essere capita solo in termini di efficacia agita in contesti specifici, essendo il
prodotto di risposte individuali a richieste sociali.
5. Conclusioni
Ogni sistema educativo non può prescindere da modalità di valutazione, ma è
bene rileggere questo processo in prospettiva evolutiva.
Nella scuola primaria la valutazione dovrebbe probabilmente rinunciare ai tecnicismi che spesso si riducono solo in “confermane” di ciò che gli insegnanti già
conoscono . In questa fascia d’età l’idea di una valutazione degli alunni orientata ad
individuare dei potenziali di sviluppo e di apprendimento, e quindi ispirata all’approccio socio-costruttivista (Carugati, Selleri, 2005), potrebbe essere sicuramente
molto utile, perchè modalità di verifica dinamiche, non solo su contenuti specifici
(per intenderci le discipline) ma su abilità logiche e di ragionamento, potrebbero
fornire agli insegnanti maggiori indicazioni per costruire momenti di apprendimento
significativi.
Come fare? Per esempio lavorando sugli errori che le prove di verifica (ma meglio sarebbe le attività quotidiane della classe) hanno messo in luce. Perchè qualcuno
ha sbagliato e perchè invece qualcuno ha fatto bene? Che tipo di ragionamento sta
dietro un risultato positivo? Si può prendere quel ragionamento dei bambini e trasformalo nella costruzione collettiva di un ragionamento esternalizzato e condiviso
da tutti gli alunni della classe? I lavori sul discorso in classe lo mettono in luce con
molta chiarezza (Pontecorvo et al., 2004), anche se ancora in molte classi quella del
discutere insieme per costruire conoscenza resta più un’attività episodica piuttosto
che la modalità abituale con cui procedere. Se proprio dovesse servire un ulteriore
elemento per aiutare a svelare il fraintendimento che si è creato sul tema della valutazione nella scuola primaria, basti ricordare che anche il passaggio all’ordine di
scuola successivo avviene sulla base di un giudizio espresso dagli insegnanti che
hanno trascorso in molti casi anche cinque anni con quei bambini: cosa ci si aspetta
279
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 267 - 283
che possano dire dei loro alunni, che hanno visto crescere e che hanno guidato in
quella crescita che ora devono valutare?
Un po’ diverso, ma non di tanto, può essere il ragionamento sul tema della valutazione condotto nella secondaria di primo grado; anche qui vale quanto è stato detto
in precedenza, soprattutto per le valutazioni che indirizzano il passaggio dell’alunno
nei licei o negli istituti tecnici e professionali. Certo, ora si accentua la connotazione
disciplinare del curricolo e le materie sono precise categorie offerte per “mettere ordine” nel sapere, ma ancora una volta, mentre il lavoro quotidiano dovrebbe offrire a
tutti la possibilità di costruire insieme la conoscenza, perchè “due teste sono meglio
di una”, la valutazione dovrebbe tener conto del fatto che nel percorso scolastico
successivo i voti rappresenteranno il modo di rendere pubblica la posizione di un
alunno nei confronti degli altri. Allora, come fare per aiutare gli alunni ad anticipare
le richieste di cui saranno oggetto dopo pochi mesi? Per esempio costruire insieme
la scala dei voti, valutare insieme i lavori, esprimere i criteri che portano a valutare
un lavoro come ottimo o insufficiente. è ovvio che gli alunni potranno essere un
po’ ingenui o fingere di esserlo per creare le condizioni per una valutazione a loro
più favorevole. E di fronte a questo? Verrebbe da dire “molto bene”, perchè questi
comportamenti sono indicatori concreti (e per una volta tanto oggettivi!) di quanto
il lavoro sulla valutazione sia stato produttivo; dai loro discorsi che si potrà capire
quanto facciano riferimento ad aspetti etici e morali, a forme di giustizia retributiva
o distributiva, all’impegno piuttosto che all’opportunismo, all’individualismo contrapposto ad una considerazione attenta dei bisogni e delle difficoltà degli altri.
Arrivati poi nella scuola secondaria di secondo grado, giudizio e valutazione si
fondono nel voto e la profonda discontinuità con gli otto anni precedenti può disorientare gli alunni. Non è infrequente, soprattutto negli anni del biennio iniziale,
trovare studenti che non ricostruiscono le ragioni di un’insufficienza grave che si
ripropone in ogni compito in classe; si potrà dire che non sono efficaci nello studio,
che non hanno acquisito un metodo di lavoro, comunque spesso si tratta di alunni
che soggettivamente credono di aver fatto abbastanza, magari perché hanno studiato
sempre di più, mentre il risultato indica loro il contrario.
Cosa fare in questi casi? Magari mettere in atto dei processi virtuosi di “sana
competizione con se stessi”, assegnando a questi alunni obiettivi raggiungibili, oppure fare in modo che, almeno nel primo anno delle superiori, i risultati delle verifiche continuino ad essere oggetto di discussione, magari trovando anche il coraggio
di spiegare che i voti sono solo una misura, quindi un criterio generale su cui c’è
consenso dentro e fuori la scuola, ma che ogni voto è composto da elementi con
pesi di volta in volta diversi. Forse, per esercitare la giustizia in classe, o meglio per
essere valutati dai propri alunni come persone capaci di azioni che ristabiliscano un
giusto equilibrio in classe, sarebbe bene affermare apertamente di fronte a tutti che
un alunno con valutazioni sempre eccezionali per tutto l’anno scolastico ha mostrato
meno progressi di chi è passato da un “due periodico” ad un quattro scarso, facendo
in modo che, per una volta, anche gli ultimi possano essere i primi.
280
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
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Riassunto
Il presente contributo contiene una riflessione sulla valutazione scolastica ispirata
dall’idea di metterne in luce gli aspetti formativi, a volte tralasciati in favore dell’uso
di tecniche di misurazione. La valutazione degli alunni, vista come una pratica sociale condivisa tra insegnanti ed alunni in un contesto di moralità e di giustizia, diventa
quindi un modo attraverso il quale attribuire significato all’attività congiunta ed uno
strumento capace di mettere in discussione le ragioni e le spiegazioni dei comportamenti del singolo alunno in relazione alla classe di cui è parte integrante. In questa
prospettiva, l’insuccesso scolastico può essere visto come uno dei tanti elementi che
costruiscono la storia comune di ogni classe, utile per riaffermare le regole generali
della vita scolastica.
282
TEMA: LA RELAZIONE EDUCATIVA
Abstract
This paper describes a reflection about school evaluation, starting from the social
and educational aspects of a set of practices that have overall goals of individual
measurement.
Student evaluation, seen as a social practice done toghether by teachers and students in a moral and justice context, became a way to give meaning to the everyday
class activity and a tool to discuss reasons and motivation of individual conducts in
front of the classmates.
In this perspective, school failure can be seen as an element to build the commune history of each class, usefull to affirm the fundamental norms of the school
life.
Ricevuto aprile 2007.
283
RECENSIONI
Elisabetta Perulli
Rappresentare, riconoscere e promuovere le competenze
Il concetto di competenza nella domanda clinica e sociale di benessere e sviluppo
Franco Angeli, Milano, 2007, pag. 121
Il volume propone un’interessante ed approfondita riflessione sul costrutto di
competenza; riflessione che assume svariate connotazioni e ripercussioni, sia sul
versante dell’analisi e dell’arricchimento teorico, sia sul piano della definizione di
criteri di orientamento degli interventi volti alla promozione e allo sviluppo delle
competenze entro i contesti.
Entro una prospettiva psicologico-clinica che […vede nell’analisi dei nessi e dei
significati sottesi alle domande o ai fabbisogni espressi, una componente centrale e
distintiva della pratica professionale, prima ancora della applicazione di modelli o
strumenti di intervento], l’autrice invita ad un’analisi “prudente” dei diversi modelli
teorici della competenza che orientano le differenti prassi, senza la quale si corre il
rischio di scivolare in tecnicismi operativi svuotati di senso. In ragione dell’evidente
proliferare di modelli e di richieste di individui “competenti” che sappiano contribuire allo sviluppo di organizzazioni competitive sul mercato del lavoro, emerge
quindi come fondamentale la necessità di analizzare innanzitutto la specifica “rappresentazione” del costrutto di competenza in virtù della quale poter “riconoscere” o
interpretare i significati sottesi alle numerose e diversificate domande oggi rivolte in
ambito clinico e sociale e, solo di conseguenza, orientare modelli di intervento volti
alla “promozione” delle stesse che tengano conto della contingenza e della specificità dei vari contesti.
A partire da un excursus storico sull’evoluzione del costrutto che evidenzia il
progressivo passaggio da modelli “individualisti” a modelli socio-costruttivisti della
competenza, il volume si interroga innanzitutto su una specifica questione, quella
inerente la natura “individualista”, disposizionale e stabile della competenza o, in
contrasto, la sua connotazione distribuita, intersoggettiva e situata. Come sottolinea
Cristina Zucchermaglio, autrice della prefazione al libro, si tratta di una contrapposizione che complessifica non solo il panorama teorico, ma che abbraccia inevitabilmente la questione relativa alla definizione di criteri di orientamento delle prassi
entro i diversi contesti. La discussione intorno al costrutto di competenza, quindi,
proposta da Elisabetta Perulli, va oltre la definizione dell’ “oggetto-competenza”, ma
si articola per una più ampia riflessione, sia intorno alla tematica dei sistemi sociali
di scambio e di convivenza, sia del rapporto tra l’individuazione e la promozione
delle competenze entro i diversi setting; rapporto che inevitabilmente conduce al
discorso sulla possibilità di concepire sia una funzione di “conoscenza” delle com285
Psicologia Scolastica - Volume 6, Numero 2 - pp. 285 - 287
petenze o funzione diagnostica, sia una funzione di “azione sulle competenze” o
funzione di intervento e, in altre parole, tra un “oggetto competenza” da individuare,
rilevare ed analizzare, ed una “competenza-prodotto” da promuovere o potenziare ai
fini dello sviluppo e del benessere dei diversi attori implicati. Da qui, l’analisi che il
volume propone di una rilettura del costrutto di competenza in base alla teoria della
collusione elaborata da Carli e Paniccia (2003) e del contributo che essa apporta alla
concettualizzazione del costrutto con riferimento allo specifico rapporto tra individuo e contesto. La collusione, in qualità di processo di simbolizzazione affettiva
condivisa dai partecipanti ad uno specifico contesto, indica una dimensione della
relazione che da un lato riduce la polisemia delle interazioni sociali fondate su categorie emozionali primitive, ma dall’altro ostacola la relazione “competente” fondata
sullo scambio produttivo e sul riconoscimento dell’estraneità. In tal senso, è possibile concettualizzare una funzione competente, ovverosia un processo di analisi che
orienti lo stabilirsi di relazioni di scambio funzionali al cambiamento, e allo stesso
tempo un oggetto competenza (la competenza personale e dell’altro) che è l’oggetto
di tale processo di analisi. È in questa accezione di funzione competente che la competenza viene intesa come capacità autoriflessiva entro gli specifici contesti, in grado
di orientare processi di costruzione di committenza del personale cambiamento e
come consapevolezza di sé e della relazione con l’estraneità.
Ed è sempre a partire dall’ancoraggio ad un paradigma socio-costruttivista e ad
una prospettiva clinica di analisi della domanda sottesa alle molteplici richieste di
intervento, che l’autrice propone una rilettura interpretativa del concetto di competenza entro specifici modelli teorici, come quello motivazionale di McClelland o
quello delle rappresentazioni sociali di Serge Moscovici, e analizza successivamente
specifiche domande, contesti e casi entro cui più frequentemente la competenza viene ad assumere oggi una rilevanza significativa. Il contesto scolastico è tra questi un
ambito entro cui la richiesta di alunni o di docenti competenti assume un’importanza
centrale. Non è più sufficiente, infatti, formare studenti con “semplici” competenze
teorico-tecniche o avvalersi di docenti con competenze didattico-disciplinari da riprodurre fedelmente malgrado la specificità dei contesti e dei loro protagonisti, ma
diviene necessario formare ed “usufruire” di persone con competenze più “complesse” che sappiano, cioè, “combinare” e “mobilizzare” (Le Boterf, 1994, 2000) le diverse risorse, conoscenze e abilità in possesso per realizzare una performance efficace entro i diversi contesti. L’enfasi posta sulla trasversalità e complessità delle attuali
richieste di competenze trova conferma nello specifico dei contesti organizzativi,
entro cui il sempre più acclamato “diritto all’apprendimento”, che si esplica attraverso i dispositivi formativi previsti dal lifelong learning, sembra estendersi ad una
dimensione di sviluppo individuale, autoconsapevolezza e capacità di adattamento
che si interconnette sempre più con l’idea di un “diritto al benessere” professionale
e personale. Nei contesti esaminati, ma anche in altri ambiti considerati nel volume
e inerenti le istituzioni pubbliche, la psicologia clinica e la pratica psicoterapeutica,
il costrutto di benessere sembra sempre più congiungersi con quello di competenza,
286
RECENSIONI
contribuendo al proliferarsi di interventi funzionali sia al cambiamento, sia allo sviluppo, sia alla prevenzione che all’adattamento.
L’attualità e la complessità delle tematiche affrontate nonché, allo stesso tempo,
la semplicità espositiva con cui esse vengono descritte ed analizzate, contribuiscono
a rendere il volume agevole e usufruibile da parte di diverse categorie di professionisti, non solo psicologici coinvolti entro contesti di richieste di interventi di sviluppo
di competenze, ma anche docenti, studenti, formatori in generale, che si ritrovano
oggi ad “affrontare”, in senso lato, il discorso intorno alla competenza, alla sua definizione, apprendimento e promozione.
Giovanna Esposito
Riferimeni bibliografici
Carli, R., Paniccia, R.M. (2003), Analisi della domanda, Il Mulino, Bologna.
Le Bortef, G., (1994), De la competence: essay sur un attracteur étrange, Paris,
Les éditions d'Organization.
Le Bortef, G., (2000), Construire les compètences individuelles et collectives,
Paris, Les édition d'Organization.
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Referee 2007
Dario Bacchini
Barbara Cordella
Gino Delle Fratte
Antonio Iannaccone
Fiorella Monti
Santa Parrello
Claudia Venuleo
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