Cartellina Seminario Autunnale 2014

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Cartellina Seminario Autunnale 2014
Seminario Autunnale
23 – 26 Ottobre 2014
Reg. Num. 6188 – A
VILLA
NAZARETH
“UNO SGUARDO SUL MONDO. LA
SIRIA, L’IRAQ E POI?”
Villa Nazareth – Fondazione “Comunità Domenico Tardini” ONLUS
Via D. Tardini 33-35, 00167 Roma – Tel. 06-895981, Fax. 06-6621754
Siti web: www.villanazareth.org, collegio.villanazareth.org, www.vnservizi.it
E-mail: [email protected], [email protected]
UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
PROGRAMMA
“UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?”
Giovedì 23 Ottobre
In giornata: Arrivo a Villa Nazareth ed accoglienza
Ore 19:00 Celebrazione Eucaristica
Ore 20:00
Cena e saluto del card. Achille Silvestrini, di mons. Claudio Maria Celli,
della prof.ssa Angela Groppelli, del prof. Carlo Felice Casula, del dott.
Massimo Gargiulo, della dott.ssa Maria Cristina Girardi, della dott.ssa
Anna Berloco, di Piersilverio Pozzi e di Rosarita Di Gregorio.
A seguire
Presentazione del seminario a cura degli studenti della Commissione
Cultura
Venerdì 24 Ottobre
Ore 11:15 Conferenza: “Dalla primavera araba ad oggi. Un profilo storico e
geopolitico del Medioriente”
Relatori:
Massimo Campanini, storico ed orientalista
Nima Baheli, analista geopolitico
Moderatore: Alessandro Leopardi
Ore 13:30 Pranzo
Ore 16:45 Inaugurazione Anno Accademico
Ore 19:30 Vespri
Ore 20:00 Cena
Sabato 25 Ottobre
Ore 08.30 Colazione Comunitaria
Ore 09:00 Integrandoci… :riflessioni e curiosità sulla cultura mediorientale
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Ore 11:00 Laboratorio degli studenti: Intercultura: l’integrazione attraverso
il fumetto
Relatrice: Takoua Ben Mohamed, fumettista tunisina
Moderatrice: Gaia Coltorti
Ore 13:00 Pranzo
Ore 16:00 Conferenza: “Testimonianze ed immagini da terre perseguitate”
Relatori:
don Renato Sacco, coordinatore nazionale Pax Christi
Linda Dorigo, foto reporter
Andrea Milluzzi, giornalista
Moderatrice: Giulia Santi
Ore 19:20 Celebrazione Eucaristica
Ore 20:00 Cena
Ore 21:00 Premiazione concorso fotografico
Domenica 26 Ottobre
Ore 09.30 Incontro dei Giovani Laureati di Villa Nazareth per l’avvio
dell’anno accademico
Ore 12:00 Celebrazione Eucaristica presieduta dal Cardinale Achille
Silvestrini in occasione del Suo compleanno
Ore 13:00 Pranzo e conclusione del seminario. Saluti e partenze
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
INDICE
 Biografie dei relatori – pag. 5
 Articolo n.1: “Iraq, il folle “califfato” di Al Baghdadi che i musulmani non possono
accettare”, Massimo Campanini - pag. 7
 Articolo n.2: “Intervista a don Renato Sacco: le vittime di Assad sono un pretesto”,
Antonio Sanfrancesco - pag. 9
 Articolo n.3: “Quelli che restano”, Andrea Milluzzi - pag.11
 Articolo n.4: “Stato islamico, interessi regionali, caos: ecco come si è arrivati a questo
punto”, Nima Baheli - pag. 14
 Articolo n.5: “I conti segreti dell’Isil”, Martin Chulov - pag. 22
 Articolo n.6: “L’Isis soffia sul fuoco del Libano”, Andrea Milluzzi - pag. 24
 Articolo n. 7: “Il Califfato che avanza”, Leone Grotti - - pag. 27
 Articolo n.8: “Fermare la tragedia umanitari in Iraq”, Padre Luciano Larivera - pag. 30
 Articolo n.8: “Per fortuna è arrivato il Califfo”, Maurizio Blondet - pag. 36
 Articolo n.9: “Parliamo di uomini, non di numeri”, Chiara Nardinocchi, - pag. 40
 Articolo n.10: “E l’America spera negli ayatollah”, Rodolfo Casadei - pag. 42
 Bibliografia – pag. 44
 Filmografia – pag. 45
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Biografie dei relatori
Massimo Campanini
Laureato in filosofia nel 1977 e diplomato in lingua araba nel 1984, ha
insegnato a contratto nelle università di Urbino e Milano, come ricercatore
all’Orientale di Napoli, e attualmente è professore associato di storia dei paesi
islamici all’Università di Trento. Fin dall’inizio si è occupato di filosofia islamica,
medievale e moderna, di studi coranici e di storia contemporanea dei paesi
arabi e dei movimenti islamisti radicali. Ha pubblicato oltre 100 articoli e 32
libri, tra i quali ricordiamo l’ultimo “Storia del Medio Oriente contemporaneo”.
Nima Baheli
Analista geopolitico con oltre 6 anni di esperienza nei settori della politica
estera e dell’economia. Ha collaborato con “Limes – Rivista italiana di
geopolitica”, “ISPI – Istituto per gli studi di politica internazionale”, “Reset
Dialogues on Civilizations”. Ha presenziato in funzione di esperto geopolitico in
vari programmi diffusi da Rainews24, Press TV, RadioRai1, RadioRai2,
RadioRai3, Radio Vaticana, Radio 24, RSI – Radiotelevisione Svizzera e Radio
Radicale. Ha altresì tenuto attività didattica in seminari, master e conferenze in
collaborazione con l’Università degli Studi de “La Sapienza” (sia con la facoltà
di Economia e Commercio, Studi Orientali che con quella di Scienze Politiche),
ISPI, La Civiltà Cattolica, Anci, Arabpress e Assoil School/Conforma. Tiene da
anni dei corsi di lingua e cultura persiana.
don Renato Sacco
Nato nel 1955, è parroco di alcune piccole parrocchie sul Lago d’Orta, in
provincia di Verbania, diocesi di Novara. Fa parte della Commissione diocesana
Giustizia e Pace e, dal maggio 2013, è Coordinatore Nazionale di Pax Christi.
E’ stato tra i primi preti obiettori alle spese militari, subendo anche qualche
pignoramento e un processo penale, con assoluzione, il 4 giugno 1991, per
aver invitato a non spendere soldi per le armi. Ha partecipato alla marcia a
Sarajevo nel dicembre 1992 con don Tonino Bello. Ha seguito per Pax Christi
diverse situazioni di guerra, in particolare in Iraq, dove è stato molte volte,
prima, durante e dopo la guerra. Continua ad avere rapporti con la Chiesa
Caldea, in particolare con l’attuale Patriarca Louis Sako. Ha seguito (anche per
motivi geografici, ma non solo) fin dall’inizio tutta la “questione F35”, il nuovo
aereo da guerra che viene realizzato a Cameri, in provincia di Novara.
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Linda Dorigo
Fotografa, giornalista e documentarista indipendente. Specializzata dell’area
mediorientale, Iran in particolare, si occupa di donne, diritti e religioni. Ha
trascorso gli ultimi due anni a Beirut, in Libano, dove insieme al giornalista
Andrea Milluzzi ha lavorato al progetto “Rifugio. Viaggio tra le comunità
cristiane del Medio oriente”. La loro ricerca è apparsa su diversi media
internazionali (tra cui CNN, Le Monde, Le Figaro, Radio Rai, Huffington Post, La
Stampa). Collabora con diverse testate (Marie Claire L’Espresso, Le Monde, Der
Spiegel tra gli altri), e con l'associazione Kineo per lo sviluppo e la ricerca
audiovisiva. Ha realizzato il film documentario "Safar-e-sabz" - Viaggio Verde
dedicato alla situazione iraniana contemporanea.
Andrea Milluzzi
Giornalista professionista, nato nel 1981. Lavora al quotidiano Liberazione per
7 anni occupandosi di politica, economia e società. Collaboratore di varie
testate nazionali (L'Espresso, Pagina99, Huffington Post) e co-fondatore del sito
www.reportageitalia.it, ha pubblicato i libri "Cgil, 100 anni al lavoro" nel 2006)
e "Stato d'Italia" nel 2011.
Takoua Ben Mohamed
È un'illustratrice tunisina nata nel 1991 a Douz. Dall’età di otto anni vive a
Roma: il padre, membro di uno dei più grandi movimenti oppositori al governo
dell’allora dittatore Ben Alì, vi si era trasferito anni prima come rifugiato
politico. Fin dall'adolescenza si è dedicata al graphic journalism, mettendo in
mostra in diverse città italiane storie a fumetti su tematiche come l'infanzia
sotto la dittatura di Ben Alì, la Primavera araba, pregiudizi e razzismo, diritti
umani, con l’obiettivo di raccontare, attraverso l’arte, realtà a molti
sconosciute. Attualmente frequenta il corso di cinema d'animazione presso
l'Accademia Nemo di Arti Digitali a Firenze e collabora con Village Universel,
Italiani+ e Near.
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Articolo n.1: “Iraq, il folle “califfato” di Al Baghdadi che i
musulmani non possono accettare”, Massimo Campanini
Dal sito www.reset.it – 21 luglio 2014
L’Iraq come stato unitario ormai non esiste più. Il Nord curdo è incamminato verso
un’autonomia sempre più ampia che prima o poi si trasformerà in indipendenza
esplicita; il Sud sciita finirà per gravitare sempre più accentuatamente verso l’Iran; il
centro sunnita ospita il neonato sedicente “califfato” proclamato dall’ISIS,
l’organizzazione jihadista-qaidista che mira a una riscrittura del quadro politico del
Levante. Un altrimenti poco noto personaggio, Abu Bakr al-Baghdadi, si è proclamato
“califfo” di questo preteso nuovo stato sunnita. Il termine “califfo” (khalifa) significa
letteralmente “vicario” o “sostituto”. È utilizzato due volte nel Corano, la prima in
riferimento ad Adamo (Q. 2:30), la seconda in riferimento a Davide (Q. 38:26). In
entrambi i casi si parla dei due patriarchi come dei “vicari” di Dio sulla Terra, soprattutto
per quanto attiene Adamo, padre del genere umano; in nessuno dei due casi tuttavia
l’intento è esplicitamente politico. Il termine califfo ha assunto una valenza politica
quando si è trattato di sostituire il Profeta defunto nelle sue funzioni di capo della
comunità musulmana (le funzioni religiose di messaggero divino erano evidentemente
morte con lui). Il califfato evoca non solo l’epoca d’oro dell’Islam, quando questa civiltà
era in rapida espansione e diffondeva una fulgida luce civile e di pensiero, ma evoca
soprattutto l’unità della Comunità musulmana (umma), il privilegio di essere stata scelta,
guidata da Dio. Si tratta di un vero e proprio mito, di cui il califfato è stato
tradizionalmente il simbolo. Soprattutto il tempo dei primi quattro successori del Profeta
Muhammad (morto nel 632), cioè Abu Bakr (r. 632-634), ‘Umar (r. 634-644), ‘Uthman
(r. 644-656) e ‘Ali (r. 656-661), i cosiddetti “califfi ben guidati” (khulafa’ rashidun), è
considerato dai sunniti come il tempo ineguagliabile della grandezza e della perfezione
dell’Islam, per cui cercare di riprodurlo ha il senso di riprodurre le circostanze
eccezionali del prevalere dell’Islam come religione, come sistema politico e come
cultura. Vero è che le dinastie succedutesi dopo i “califfi ben guidati”, cioè gli Omayyadi di
Damasco (r. 661-750) e gli Abbasidi di Baghdad (r. 750-1258), hanno rappresentato un
arretramento dell’ideale e hanno vissuto una progressiva decadenza. Ma la mitologia del
califfato è sopravvissuta alle tempeste della storia. Tuttavia, dal punto di vista del
pensiero politico, la teorizzazione del califfato è avvenuta tardivamente rispetto
all’evolversi dell’istituzione. I due autori che hanno costituito le pietre miliari, insieme
ad altri pensatori che non è il caso di ricordare qui, sono Ibn Hanbal (m. 855) e alMawardi (m. 1058). Il primo è il teorizzatore o forse meglio il sistematizzatore
dell’utopia retrospettiva dell’eccellenza e della precedenza. Secondo questa concezione
utopica, l’epoca dei califfi ben guidati è stata appunto quella della perfezione dell’Islam, il
modello cui rivolgersi per costruire il futuro della politica; e inoltre i califfi ben guidati si
sono succeduti in ordine di eccellenza e di perfezione morale, per cui Abu Bakr era
migliore di ‘Umar e così via (questa idea è respinta dagli sciiti secondo i quali il migliore
era ‘Ali ed ‘Ali avrebbe dovuto diventare califfo del Profeta immediatamente dopo la
morte di Muhammad). Dal canto suo, al-Mawardi è stato il primo sistematico
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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teorizzatore della dottrina del califfato sunnita nel celebre Al-Ahkam al-Sultaniyya (Le
istituzioni del potere). Le dottrine di al-Mawardi rappresentano tuttora la più compiuta
delineazione della teoria e si fondano sui seguenti capisaldi: 1) il califfo deve essere
maschio, libero, pubere, sano di corpo e di mente; 2) deve essere qurayshita cioè
appartenere alla tribù del Profeta Muhammad; 3) deve essere dotto in scienze religiose,
deve insomma essere un ‘ulema, in grado di emettere pareri giuridici e religiosi; 4) deve
saper guidare gli eserciti in battaglia; 5) deve essere eletto per libera scelta della
comunità (ikhtiyar) attraverso i suoi rappresentanti che sono poi gli stessi ‘ulema. In età
contemporanea la teorizzazione del califfato è stata ripresa e rinnovata dal siro-egiziano
Rashid Rida (1865-1935) che nel 1922 ha pubblicato il Califfato o imamato supremo
(Al-Khilafa aw al-imama al-‘uzmà). Il libro anticipava di poco l’abolizione del califfato
ottomano, l’ultimo sopravvissuto nel mondo islamico, da parte di Mustafa Kemal Ataturk.
Rida recuperava alcuni princìpi classici, come l’origine qurayshita del califfo e la
suaexpertise in scienze religiose, ma li inseriva nell’orizzonte di una profonda
trasformazione del pensiero politico islamista in reazione alla modernità. Dopo Ridà, la
rivendicazione del califfato è diventata un leit-motiv delle organizzazioni di islamismo
politico, a partire dai Fratelli Musulmani, nati in Egitto nel 1928 per opera di Hasan alBanna (1906-1949). In ogni caso, si è trattato sempre di una rivendicazione
universalista, trans-nazionale, che mirava a una composizione pacifica delle variegate
anime del mondo islamico. Questa necessaria ricostruzione storica dimostra in maniera
evidente che le pretese al califfato del jihadista Abu Bakr al-Baghdadi sono largamente
illegittime e infondate. Non solo non è né qurayshita né un ‘ulema, non solo non è stato
eletto dalla libera scelta della comunità ricevendo l’approvazione e il giuramento di
fedeltà (bayʻa) del popolo, ma soprattutto il suo obiettivo non è il ricompattamento
universalistico della umma, ma la sua lacerazione settaria. I jihadisti contemporanei,
infatti, aspirano a scatenare una fitnainterna alla comunità, un “dissenso” o meglio
“discordia”, che consenta loro di fare piazza pulita dei loro nemici, di imporre la loro
visione integralista dell’Islam, di condannare come peccatori e anti-musulmani tutti
coloro che non ne condividono le idee. Da questo punto di vista è ovvio che la
maggioranza dell’opinione pubblica sunnita, così come – e questo è più importante – la
maggioranza degli ‘ulema sunniti, guardi con sospetto, o addirittura con aperta ostilità,
alle pretese di Abu Bakr al-Baghdadi e dell’ISIS. D’altro canto, è altrettanto ovvio che i
jihadisti cerchino di reprimere e di conculcare i diritti (delle donne), i cosiddetti falsi
musulmani (tutti quelli che non la pensano come loro), le minoranze (gli sciiti – la
questione dei cristiani, sebbene mediatica, è marginale nel contesto locale). La fitna, la
discordia e il caos che le organizzazioni jihadiste progettano di diffondere nel Levante, si
pone un passo avanti della strategia dello scomparso Bin Laden. Il suo jihadismo
pretendeva di unire sotto la bandiera del Profeta tutti i sinceri musulmani nemici
dell’Occidente sia pure attraverso il terrorismo. La strategia dell’ISIS è di gettare il
Levante nel caos per destabilizzare gli stati e le monarchie e così favorire una presa del
potere violenta a prescindere dal consenso comunitario.
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Articolo n. 2: “Intervista a don Renato Sacco: le vittime di
Assad sono un pretesto ”, Antonio Sanfrancesco
Dalla rivista settimanale Famiglia Cristiana – 28 agosto 2013
Quello che è successo in Afghanistan, Iraq e Libia evidentemente non ha insegnato
nulla», spiega il coordinatore nazionale del movimento don Renato Sacco,
«l'Occidente prima vende le armi a questi regimi e poi li attacca»
«In Siria un conflitto c’è già, si tratta di vedere come spegnere il fuoco non come
alimentarlo. Di fronte a una guerra non si può rispondere con un’altra guerra. Vuol dire
che di una tragedia ne facciamo due». Don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax
Christi, si dice «triste ed amareggiato» per la piega che stanno prendendo gli eventi in
Siria.
L’America dice che non si può più restare inermi di fronte ai crimini commessi dal
regime di Assad.
«La guerra, ogni guerra è un’avventura senza ritorno. Anzi, come ha detto papa
Francesco, è il suicidio dell’umanità. Basta vedere a quello che è successo in Afghanistan,
in Iraq, in Libia: il rovesciamento del capo del regime non ha portato affatto la pace. È
una storia che si ripete sempre, con amarezza: noi abbiamo sempre cullato i dittatori, li
abbiamo ritenuti nostri amici, li abbiamo armati e poi abbiamo detto che bisognava
fargli la guerra. È successo con Saddam e poi con Gheddafi. La comunità internazionale
ha fatto di tutto con la sua indifferenza a far precipitare della situazione, l’Italia stessa ha
venduto le armi alla Libia e poi si è detto che bisognava bombardare. Questa non è pace.
La guerra non è mai la strada da percorrere, come afferma la Dottrina sociale della Chiesa
e come ha ribadito qualche giorno fa mons. Tomasi, osservatore permanente della Santa
Sede presso l’Ufficio Onu di Ginevra. Una chiave di questo precipitare degli eventi
potrebbe essere quella delle pressioni esercitate da parte delle lobby delle armi. Qualcuno
parla già di accordi economici e militari tra Usa e Arabia Saudita».
Ma le vittime degli attacchi di Assad non vanno tutelate?
«Chi oggi si scandalizza di fronte alle vittime siriane, se lo fa per arrivare alla guerra lo fa
per interessi. Poi le vittime vengono dimenticate e non se ne parla più. In Iraq nel mese
di luglio ci sono stati mille morti, siamo arrivati ai livelli di violenza del 2006 e nessuno
parla più. Quando si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per
amore delle vittime ma per amore dei propri affari e dei propri interessi. Essere in
Afghanistan ci dà la visibilità di sedere al tavolo degli accordi internazionali. Poi succede
che alcuni piccoli progetti di cooperazione in alcuni villaggi afghani non vengono
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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finanziati dalla comunità internazionale perché sono troppo piccoli e non fanno notizia.
Invece sarebbero i passi per la pace».
Come se ne esce dal pasticcio siriano?
«La soluzione in tasca non ce l’ha nessuno, bisogna cercarla. L’unica cosa di cui sono
certo è che la guerra non è la soluzione. È come avere un figlio che dà problemi, l’unica
cosa che so è che non lo devo uccidere anche se mi fa disperare. L’intervento armato a
sostegno dell’uno o dell’altro schieramento porterebbe alla catastrofe totale, renderebbe
esplosiva tutta l’area mediorientale già instabile con conseguenze devastanti per tutti, a
cominciare dall’Europa.. Io credo che la comunità internazionale in passato non abbia
fatto quasi nulla per fermarsi e vedere cosa stava succedendo in Siria. La soluzione passa
dall’abbandono dell’intervento militare. Non forniamo più armi, isoliamo le lobby degli
armamenti. È una strada in salita, quella della pace, faticosa, è un cammino, come diceva
don Tonino Bello. La Siria, come la Libia, fa notizia adesso, fra un mese o due non se ne
parlerà più. A nessuno interessa da dove arriva il gas, chi glielo fornisce. Come è
successo a Sarajevo, per anni abbiamo fatto finta di non vedere, abbiamo venduto le
armi a chi bombardava Sarajevo, io ho le foto e le testimonianze, poi abbiamo deciso di
intervenire e fare la guerra. Così abbiamo guadagnato due volte vendendo le armi agli
uni e agli altri. Temo che con la Siria finisca proprio così».
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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Articolo n. 3: “Quelli che restano”, Andrea Milluzzi
Reportage settembre 2014
Nella Siria lacerata dalla guerra civile, i cristiani che non abbandonano il Paese
preferiscono allinearsi al regime di fronte alle incognite della ribellione, sempre
più influenzata dall’estremismo islamico. Viaggio all’interno di una minoranza che
si arma per disperazione.
«Scriverai di me? Allora devi scrivere che amo il mio Paese, il mio Presidente e i miei
connazionali. La Siria è una e dobbiamo tornare a vivere insieme». Shamo è una ragazza
di 25 anni di Barabait, o Chiesa Madonna, piccolo villaggio nella valle della Jazira, nel
Kurdistan siriano. Sta stendendo al vento i panni appena lavati, mentre in salotto sua
madre aspetta che il pane lieviti sotto le coperte. Shamo e la sua famiglia si occupano
della piccola e antichissima chiesa siro-ortodossa del villaggio, dove da tempo non viene
più nessuno: «Chiesa Madonna ha 1.500 anni e mio padre ne è il custode. Io dovrei
essere il prossimo, ma appena ne avrò l’occasione me ne andrò in Europa», confessa
Kamil, fratello di Shamo. Il futuro della Siria si gioca sulla pelle dei giovani come Shamo e
Kamil, innamorati del loro Paese ma pronti a lasciarlo se non cesseranno le violenze e le
divisioni che da più di tre anni lo stanno squassando. Il 4 giugno scorso Bashar al-Assad,
al potere dal 2000, dopo un trentennio di regno del padre Hafez, ha vinto le elezioni con
l’88% delle preferenze. Il voto, considerato una farsa al di fuori dei confini nazionali, si è
svolto in un Paese che, fra morti, rifugiati e sfollati, in tre anni ha perso oltre il 40% della
popolazione e che ha al suo interno più di 6 milioni di sfollati. La Siria è talmente divisa
che al Nord e in quasi tutto il Kurdistan i funzionari di Stato non hanno potuto
trasportare le urne elettorali. Gli ulteriori sette anni di presidenza che al-Assad si è
guadagnato saranno decisivi per capire se la Siria tornerà a essere una nazione unita o
se seguirà il destino a cui è stata lasciata la Somalia, «un Paese fallito con i signori della
guerra a regnare su fazzoletti di terra», come l’ha recentemente definita Lakhdar
Brahimi, inviato speciale dell’Onu dal 2012 fino a pochi mesi fa. «Noi cristiani siamo
gente pacifica e vogliamo mantenere la convivenza con i musulmani. Ma è uno strazio
vedere la nostra gente umiliata e i nostri luoghi occupati dai fondamentalisti. Per questo
andremo fino in fondo e vinceremo questa guerra», tuona Ahdi, ufficiale cristiano
dell’esercito lealista e creatore della milizia volontaria di Saydnaya, poco a nord di
Damasco. Il monastero di Nostra Signora di Saydnaya sovrasta la collina a soli 30
chilometri di distanza da Maaloula, villaggio di grande valore simbolico per il
cristianesimo perché vi si tramanda l’aramaico occidentale: «Saydnaya è seconda solo a
Betlemme per importanza storica - osserva la superiora, madre Febronia -. Ci sono
trentasette chiese e questo convento ha più di 1.500 anni. Siamo nel cuore della
cristianità, ma il mondo ci ha abbandonato e non abbiamo più nemmeno la forza di
alzare gli occhi al cielo e chiedere al nostro Dio di aver pietà di noi». Finora Saydnaya si è
salvata dalla guerra. Non si può dire lo stesso di Maaloula, che per mesi è stata nelle mani
dei miliziani islamisti del fronte al-Nusra, formazione qaedista. A metà aprile l’esercito di
Damasco ha riconquistato la città, poche settimane dopo che le dodici suore rapite dal
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
convento di Mar Tekla erano state liberate. Adesso Maaloula è una città disabitata dove si
contano i danni provocati dall’assedio e dai combattimenti. «Noi soldati cristiani siamo
stati gli ultimi ad arrenderci ad al-Nusra. Eravamo disposti anche a distruggere i nostri
luoghi sacri pur di cacciare quei cani terroristi da Maaloula», racconta Ali, 32enne
tecnico informatico che adesso vive con la zia a Damasco, vicino al quartiere di Jobar,
dove spari ed esplosioni non sono mai cessati. Grazie all’aiuto delle truppe libanesi di
Hezbollah e delle formazioni sciite giunte dall’Iraq e forte delle armi russe e delle
strategie militari dei pasdaran iraniani, dal dicembre scorso il regime ha strappato alle
opposizioni ampie zone del Paese. Sul Qalamoun, la montagna dell’Antilibano che divide
la Siria dalla valle della Bekaa libanese, sventolano le bandiere a due stelle dei lealisti dopo
le offensive militari che hanno riconquistato Yabroud, la zona cristiana del Krac dei
Cavalieri (il grande castello dell’epoca crociata), al-Qusair e Adra. Da quest’ultimo paese,
a 40 chilometri da Damasco, erano giunti i racconti degli ultimi orrori commessi dai
fondamentalisti: «Ho visto uomini gettare nel fuoco alcuni dipendenti di un forno
pubblico in quanto “servi di Assad”. Ho visto sgozzare decine di persone, cristiane e
musulmane, e ho visto appendere le loro teste a un albero di Natale. Ho visto uomini
tagliare la gola dei figli di una donna colpevole di aver provato a nasconderli. È questa la
libertà che vogliono?», racconta una donna sulla quarantina davanti a un capannello di
persone nel cortile della farmacia di Santa Croce, a Damasco. È seduta su una sedia e un
raggio di sole le illumina gli occhi che si abbandonano alle lacrime quando ammette di
aver mandato i suoi figli a rovistare nella spazzatura: «Si sono salvati perché ho
insegnato loro qualche verso del Corano e quindi sono riusciti a fuggire con me da
Adra».
A Damasco, schierati
La maggioranza dei cristiani di Damasco e dintorni non ha dubbi a schierarsi a fianco
del regime e dell’esercito. La propaganda di Stato enfatizza la necessità di salvare la Siria
dai «terroristi» e le testimonianze che giungono dalle città del Paese in mano ad al-Nusra
o allo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) hanno un impatto maggiore dei
bombardamenti, degli arresti e degli assedi. Padre Paolo Dall’Oglio è scomparso da oltre
un anno e di altri due vescovi ortodossi, Yohanna Ibrahim e Bulos Yazigi, non si hanno
notizie da aprile 2013. «La nostra gente ha paura perché pensa che se un vescovo è stato
rapito chissà cosa può succedere alle persone normali – osserva dietro l’anonimato un
prete del Patriarcato siro-ortodosso di Bab Touma, sulla cui facciata campeggiano le
gigantografie di padre Ibrahim e padre Yazigi -. C’è chi vuole prendere le armi e
difendersi e chi vuole lasciare la Siria. È difficile far cambiare loro idea quando ci sono
3.800 famiglie siriache sfollate, vescovi rapiti e continue denunce di persecuzioni contro
i cristiani». Damasco è sotto assedio da qualsiasi punto la si guardi. Gran parte del centro
è tornato nelle mani dei lealisti e gli abitanti provano a recitare una vita normale,
tenendo i negozi aperti, andando a pranzare nei ristoranti e organizzando il traffico con
semafori e vigili. Il rumore di esplosioni e scontri a fuoco arriva dalle periferie. Bab
Touma, che comprende il suq più grande d’Oriente, è un dedalo di stradine ciottolose
dove si affacciano vecchie case sbilenche e gli abitanti si aggirano laboriosi fra botteghe
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
e negozi. Qui vive e lavora la maggioranza dei cristiani: «Quando tutti i siriani erano 4
milioni, gli armeni erano 230mila, ora che i siriani sono 17 milioni gli armeni sono solo
80mila - spiega il prete della comunità fra una stretta di mano e l’altra ai suoi fedeli
durante una visita al cimitero -. La fuga è cominciata ben prima della guerra, ma questa
tragedia non riguarda solo i cristiani. Sono i musulmani a soffrirne di più, perché loro
sono la maggioranza».
Verso lo stallo
In occasione delle elezioni centinaia di profughi hanno voluto far ritorno dal Libano alle
loro case, nonostante il governo di Beirut avesse chiaramente dichiarato di essere
indisponibile a una nuova accoglienza: «L’esercito sta conquistando posizioni e anche se
è tutto distrutto, per un siriano è più dignitoso piantare una tenda sul proprio suolo
piuttosto che su quello straniero», spiegano i soldati di pattuglia a Damasco. Gli accordi
di pacificazione fra le truppe ribelli e il regime permettono alle famiglie di fare ritorno a
casa, come è accaduto a Homs, ma il dramma degli sfollati interni è ben lontano
dall’essere risolto: «Solo oggi da noi sono arrivate 300 nuove famiglie a cui offriamo
pranzo e cena. Man mano che i combattimenti si spostano vediamo flussi provenire da
nuove città», spiega Ra’id, custode della parrocchia melchita di Jaramana, città a mezz’ora
dalla capitale, famosa per aver accolto migliaia di profughi iracheni nel 2003. Centri della
Caritas, dei gesuiti, Patriarcati di tutte le confessioni sono mobilitati giorno e notte per
distribuire quel poco di aiuti che riescono a varcare gli sbarramenti della guerra. A fine
gennaio anche il campo palestinese di Yarmuk ha potuto finalmente ricevere viveri e
coperte. Da molti mesi sotto l’assedio dalle forze di Damasco, Yarmuk è uno scheletro
rumoroso che custodisce i corpi di almeno una dozzina di bambini, morti di fame
nell’indifferenza del mondo esterno. Bashar al-Assad e i suoi fedelissimi sono riusciti a
ricostruire il cordone vitale che lega Damasco alla città di Latakia, sul mare, e alla costa
abitata dagli alauiti di cui fanno parte, mentre il Nord è ancora un buco nero dove la
guerra inghiotte qualsiasi cosa. A questo vortice di distruzione stanno tentando di
sottrarsi i curdi e i siriaci della Jazira, regione a Nord-Est del Paese. Alcuni cristiani
hanno deciso di scendere in campo con una polizia, il Sutoro, e una milizia, il Consiglio
militare siriaco (Msf) di fanteria leggera. «Questa è la nostra terra e ci sentiamo uniti al
popolo curdo nella lotta per l’indipendenza - spiega Barsom, un giovane cristiano siriaco
-. Nel frattempo però col regime dobbiamo ancora venire a patti». Barsom è stato da
poco eletto nel neonato parlamento della Rojava, il nome che i curdi danno alla regione
nord-orientale della Jazira, in cui oggi sono la maggioranza. Pochi giorni dopo è stato
arrestato e torturato dai poliziotti del regime. «So che i miei genitori sono fieri di me e
che quando escono di casa possono camminare a testa alta»: Losian ha 21 anni, il corpo
tatuato con simboli cristiani e un tappeto con il disegno dell’ultima cena appeso sopra la
testa. Da cinque mesi è un soldato del Consiglio militare siriaco, di base a Gharduka,
insieme ad altri quattro ragazzi siriaci. Sommando le loro età si arriva a malapena a
cento anni. Avevano una vita normale, adesso hanno già combattuto e ucciso: «Mentre
sparavo non pensavo a cosa stavo facendo. Solo dopo che ho smesso mi sono accorto di
aver ammazzato quegli uomini, ma non mi sentivo in colpa», spiega Orom, 19 anni, che
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
durante la battaglia nella vicina Tall Hamis ha attaccato una macchina del fronte alNusra. Questa è la vita che la Siria offre oggi ai suoi figli.
Articolo n. 4: “Stato islamico, interessi regionali, caos
ecco come si è arrivati a questo punto”, Nima Baheli
Dal sito www.reset.it – 14 ottobre 2014
In un Medio Oriente dove ormai molti stati sembrano essersi frantumati su linee etnicoconfessionali, rimettendo in gioco i vecchi confini coloniali franco-britannici, l’idea
stessa che sciiti, alauiti, sunniti, cristiani, yazidi, arabi e curdi possano convivere
assieme sembra una fantasia. Se a tutto ciò aggiungiamo la forza militare,
apparentemente, dirompente dello Stato Islamico (IS) si potrebbe pensare che la
tradizione di tolleranza e multiculturalismo che per molti secoli ha caratterizzato il
Medio Oriente sia arrivata a un termine. L’IS è il frutto di un vuoto di autorità creatosi
con l’indebolimento del regime assolutista siriano e l’incapacità del governo di Nouri
Kamal al-Maliki di condividere il potere con le varie minoranze nazionali a seguito dello
smantellamento da parte americana del sistema repressivo creato da Saddam Hussein. Il
“Califfato” a differenza di alcuni dei propri predecessori quali, per esempio, il regime dei
Talebani, che avevano dei “tutori” espliciti nel Pakistan e ai quali obbedivano, ha
dimostrato di non essere suscettibile di controllo da parte dei propri ‘mentori ‘come
Arabia Saudita, Qatar, Giordania e Turchia, in special modo ora che è ricco di denaro,
armi e combattenti. L’IS si ispira alle scorribande beduine del settimo secolo che
portarono alla caduta degli imperi persiano e bizantino e alla formazione dell’impero
islamico. Secondo questa dottrina militare la “Jazira” (il territorio prevalentemente
desertico che comprende la Siria orientale e l’Iraq centro-occidentale) è da considerarsi
come un mare interno dal quale colpire qualsiasi area “litoranea” con incursioni rapide e
repentine. La creazione di “Suraqiya”, una combinazione di Siria e Iraq prefigurata alla
fine degli anni quaranta da Anton Sa’ada, il fondatore del Partito nazionalsocialista
siriano, sembra infine aver preso forma. Tuttavia dopo un’analisi più approfondita le
variabili in gioco sembrano essere molte. Una di esse è relativa alla reale profondità di
questo fattore di disintegrazione. A parte la Libia dove la disintegrazione ha messo
radici, altrove in realtà essa è meno presente. Inoltre la possibilità di una guerra
duratura potrebbe portare le varie comunità a sopportare dei sacrifici e mettere da parte
le proprie differenze. Questo ovviamente in concomitanza con una strategia inclusiva da
parte del governo iracheno di Haidar al-Abadi che faciliti la collaborazione di leader
sunniti credibili all’azione di governo. Le rivoluzioni del 1920 e del 1958 sono da
considerarsi come dei buoni precedenti in cui le varie comunità si riunirono sotto lo
stendardo di uno scopo condiviso. Militarmente gli Stati Uniti sono riluttanti a farsi
coinvolgere con truppe regolari sul terreno: Washington punta a distruggere la
leadership dello Stato Islamico tramite l’uso di omicidi mirati tramite droni e aerei. Al
culmine degli sforzi bellici statunitensi contro la rete di al-Qaeda, i comandanti operativi
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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del gruppo avevano una aspettativa di vita media di soli due anni. Tuttavia qualsiasi
campagna efficace di omicidi mirati necessita di un orizzonte temporale di vari anni.
Inoltre i quadri islamisti hanno dimostrato di essere flessibili tatticamente e
strategicamente adattandosi velocemente ad eventuali attacchi aerei e diluendosi
intimamente con il tessuto urbano. I 200.000 organici delle Forze Armate irachene
potrebbero essere una ottima risorsa per “bonificare” i centri urbani. Tuttavia saranno
necessari vari mesi prima che le loro capacità di combattimento vengano affinate dagli
addestratori statunitensi e iraniani. Anche con un esercito iracheno rivitalizzato,
sbarazzarsi dell’IS, in particolare nelle città, sarà un compito incredibilmente difficile.
All’apice della guerra civile in Iraq nel 2007 gli Stati Uniti schieravano ben 20 brigate. La
liberazione di Fallujah nel 2004 fu molto complessa; si dovette praticamente sigillare la
città per poi conquistarla casa dopo casa. Diventa quindi nodale il ruolo delle potenze
regionali. L’IS è soprattutto una minaccia per i paesi mediorientali, più che per gli Stati
Uniti e i paesi occidentali. Se è vero che la Turchia, l‘Iran, il Qatar e l’Arabia Saudita
hanno vari gradi di “interesse” nella frammentazione del Medio Oriente dall’altra,
qualora gli stati arabi sunniti continuassero a rimanere silenziosi di fronte a questa
aberrazione dell’Islam, prima o poi essa presenterà loro il conto. Anche Ankara e
Teheran avrebbero non pochi problemi dalla nascita di uno stato indipendente curdo in
Iraq e Siria. L’islamismo estremista deve quindi essere affrontato soprattutto all’interno
della regione e non da un intervento militare dell’occidente. Il paese più coinvolto in
questa crisi è l’Iran. Teheran ha investito notevoli risorse finanziarie, politiche e militari
negli ultimi dieci anni per garantirsi un Iraq che fosse un forte stato sciita e un partner
strategico per la Repubblica islamica. L’Iraq è oggi uno dei principali partner
commerciali dell’Iran, con un interscambio di circa 13 miliardi dollari nel 2013. È in
programma anche l’apertura di una pipeline lunga 67 miglia che dovrebbe fornire
all’Iraq 3-4 milioni di metri cubi di gas naturale al giorno, facendo guadagnare all’Iran
3,7 miliardi dollari l’anno. L’Iraq è visto come una priorità fondamentale nella politica
estera regionale iraniana: l’obiettivo è che a Baghdad non ci sia mai un governo ostile
che possa permettere a forze straniere e neanche agli stessi iracheni di attaccare l’Iran,
come avvenuto nel corso della sanguinosa guerra Iran – Iraq del 1980-1988. Inoltre in
base al trattato di Qasr-e Shirin, stipulato nel 1723 fra gli imperi persiano e ottomano,
Teheran vanta dei diritti di tutela e controllo sui santuari sciiti iracheni, avendo,
teoricamente, la capacità di intervenire militarmente qualora essi siano in pericolo.
L’Iran si trova costretto a combattere una guerra su due fronti contro i gruppi estremisti
sunniti in Siria e in Iraq. Nel 2012, quando la caduta di Assad sembrava sicura, l’Iran ha
inviato migliaia di addestratori iraniani, di combattenti di Hezbollah e le milizie sciite
irachene per sostenere il governo ba’athista. Ha inoltre contribuito fornendo una
quantità enorme di armamenti, donando 500 milioni di dollari al mese per gli stipendi
dei funzionari governativi siriani ed erogando un prestito da 7 miliardi dollari per lo
sforzo bellico siriano. Il conflitto siriano ha trasformato l’Iraq in una importante base
operativa iraniana finalizzata ad aiutare il proprio alleato damasceno. Milizie, armi e
denaro sono affluiti dall’Iran alla Siria attraverso l’Iraq e il Libano. Tuttavia migliaia di
miliziani sciiti iracheni che combattono in Siria stanno ora ritornando a casa per
rispondere alla chiamata alle armi emessa dal leader spirituale sciita iracheno il Grande
Ayatollah Ali al-Sistani in difesa dei luoghi sacri dall’attacco sunnita, indebolendo così
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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temporaneamente la capacità di combattimento del governo siriano. A giugno il capo
della brigata dei pasdaran Al Qods, Qasem Soleimani, si era recato varie volte a Baghdad
per analizzare la situazione sul campo e coordinare la risposta. La brigata al-Qods, forte
di 5.000 combattenti effettivi, ha la missione di “implementare” le priorità di politica
estera della Repubblica islamica al di fuori dei confini nazionali. L’esiguo numero dei
suoi membri non ne limita gli interventi dal momento che negli ultimi anni è sempre
stata presente in Siria, Libano, Afghanistan e Iraq. In Iraq più che un ruolo diretto e
attivo sul campo di battaglia le unità della brigata stanno portando avanti una funzione di
addestramento nell’ottica di creare forze paramilitari sciite che possano contrastare più
efficacemente gli attacchi delle milizie sunnite. Non è un caso che le milizie sciite (la
brigata Badr principalmente) abbiano avuto un ruolo di primo piano nella recente
liberazione della città turcomanna-sciita di Amerli dall’assedio dell’IS. Uno degli
strumenti più preziosi ed utili è l’Asaib ‘Ahl al-Haq (Lega dei Giusti), una milizia sciita
creata a suo tempo al fine di indebolire il movimento guidato da Muqtada al-Sadr. Il suo
leader, Qais al-Khazali, è un uomo fidato di Suleimani e, come Hezbollah, Asaib al-Haq è
una struttura profondamente religiosa e ideologica che agisce parallelamente allo Stato,
minandolo o lavorando con esso quando necessario. Un’altra importante milizia filo
iraniana è la brigata Badr, che dopo essere stata sciolta, è riapparsa sotto la guida del
leader del Consiglio Supremo Islamico dell’Iraq, Sayyid Ammar Al Hakim. Anche il Jaish
al-Mahdi (Esercito del Mehdi) di Muqtada al-Sadr potrebbe tornare utile all’Iran al fine di
proteggere le città sante sciite. L’Iran ha tuttavia deciso di non mettere tutte le sue “uova”
nel paniere sciita, ma ha adottato un nuovo approccio nei confronti del governo
regionale del Kurdistan (KRG), rifornendolo di armi. Fatto confermato dallo stesso
presidente del KRG Barzani il quale ha detto che “L’Iran è stato il primo paese a fornirci
armi e munizioni.” Tutto ciò con l’obiettivo ovvio di contenerne ulteriori future richieste
di autonomia. Alla luce di queste considerazioni è alquanto improbabile che l’Iran
intervenga in forma più estesa, evitando che il conflitto degeneri in una guerra settaria
come invece vorrebbe l’IS e probabilmente l’Arabia Saudita, ovviamente a meno che
non si profili all’orizzonte una minaccia credibile a Baghdad o alle città sante di Najaf e
Karbala. Suleimani ha anche cercato di risolvere il problema della mancanza di una
copertura aerea alle milizie sciite e alle Forze Armate irachene. Baghdad disponeva di
soli elicotteri e di due aerei ad elica Cessna armati di missili Hellfire. Consapevole
dell’importanza del controllo dello spazio aereo Teheran è accorsa in aiuto del proprio
alleato regionale decidendo di agevolare la fornitura da parte russa e bielorussa di una
dozzina di aerei Sukhoi 25 di seconda mano e fornendo essa stessa un numero
imprecisato (almeno cinque) di vecchi aerei rinnovati iracheni che l’Iran detiene da anni
come riparazione dei danni di guerra. In base a fonti americane Teheran avrebbe
istituito un apposito centro di controllo a Baghdad nella base aerea di Rasheed,
precedentemente usata dagli statunitensi sotto il nome di Camp Redcatcher, dislocandovi
una piccola flotta di droni di sorveglianza Ababil. Se fin qui si possono vedere le azioni di
coloro che, all’interno dell’establishment iraniano, sono maggiormente propensi a
guidare la controffensiva grazie alle milizie sciite irachene vi sono altri funzionari , vicini
al presidente Rohani e al ministero degli Esteri, i quali temendo che l’Iran possa essere
sovraesposto nelle varie crisi, sono più aperti a un certo grado di cooperazione con gli
Stati Uniti. Sono loro che, per arrestare la disintegrazione dello Stato iracheno, si sono
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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dimostrati disponibili a scaricare Maliki, reo di aver perseguito una politica settaria che
ha permesso all’IS di far proseliti tra la componente sunnita della popolazione irachena,
e sostenere la nascita di un governo di unità nazionale con a capo il nuovo primo
ministro iracheno Haidar al-Abadi, che invece ha incassato il credito di tutte le
componenti etnico-confessionali della società. Questo filone di pensiero punta ad
ottenere il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dello status di potenza regionale
legittima, consapevole e matura. L’Iran è uno dei pochi sistemi politici mediorientali con
una serie di controlli ed equilibri e un certo livello di responsabilità e di dibattito. Se a
prima vista può sembrare che l’ideologia sia l’elemento chiave dei processi decisionali
iraniani, al contrario, sono gli interessi nazionali a dettarne in gran parte le azioni. E
molto spesso questi interessi, come per esempio in Afghanistan e in Iraq, convergono
con quelli degli Stati Uniti. Questo tipo di cooperazione tra gli Stati Uniti e l’Iran non è
una cosa nuova. Nel 2003, Teheran accolse tacitamente l’invasione e il rovesciamento di
Saddam Hussein da parte degli Stati Uniti. Nel 2007, all’apice della guerra civile irachena
le due cancellerie collaborarono per salvare l’Iraq dal baratro. Gran parte del merito va
ricondotto all’allora capo del Consiglio Supremo Islamico dell’Iraq, Abdul Aziz al-Hakim,
e al presidente iracheno Jalal Talabani i quali lottarono per far convergere il sostegno
iraniano e statunitense su Nouri Kamal al-Maliki. E nell’ufficio del primo ministro a
Baghdad, nell’estate del 2007 l’ambasciatore statunitense, Ryan Crocker, incontrò
Hassan Kazemi Qomi, il suo omologo iraniano per dipanare l’intricata matassa irachena.
anche oggi, se e quando l’IS verrà sconfitto, Abadi e il suo governo saranno
principalmente in debito con Washington e Teheran. Se Obama e Kerry hanno
ufficialmente escluso l’Iran dalla coalizione messa in piedi dagli Stati Uniti contro l’IS,
oggi sono principalmente gli aerei da guerra statunitensi e i carri armati della 81a
divisione corazzata iraniana (prestati ai curdi) che colpiscono gli obiettivi iracheni del
Califfato. Ufficialmente, le due nazioni non si parlano, ma se non esiste alcun canale
diretto per coordinare le attività militari in Iraq, il problema viene ovviato dai funzionari
iracheni, in particolare curdi e sciiti, che servono da corrieri delle comunicazioni militari
irano-statunitensi. La riluttanza ad esprimere pubblicamente questa cooperazione può
essere spiegata dalla paura sia di Teheran che di Washington di essere percepiti agli
occhi degli arabi della regione come una cospirazione di sciiti-persiani e cristianiamericani contro i sunniti in un momento in cui gli Stati Uniti hanno ancora bisogno
dell’appoggio saudita. In quest’ottica gli iraniani stanno cercando di superare il solco che
li divide dai sauditi, come dimostrato dalla recente visita a Riyadh del vice ministro degli
Esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian e dalla nomina di Haider al-Abadi, accolta con
favore da tutte e due le cancellerie. I sauditi erano visceralmente contrari a Nouri alMaliki, considerato troppo vicino a Teheran. Rohani ha messo fra le priorità del suo
governo l’impegno a migliorare le relazioni con i vicini arabi del Golfo Persico. Il tempo
per un disgelo potrebbe essere arrivato. L’espansione dell’IS è infatti fonte di
preoccupazione sia per Teheran che per Riyadh. Tuttavia i sauditi sono consapevoli che
una potenziale ascesa dell’Iran allo status di potenza regionale, comprensiva di una
normalizzazione dei suoi rapporti con il mondo occidentale, porterebbe a una
diminuzione del potere negoziale regionale di Riyadh con gli Stati Uniti. Ed è in questa
prospettiva che finora il ministro degli Esteri iraniano non ha accettato l’invito a recarsi
in Arabia Saudita. Zarif ha finora visitato varie nazioni del Consiglio di Cooperazione del
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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Golfo ma ha scientemente schivato Riyadh. Oggi l’IS ottiene la maggior parte delle
proprie entrate dal contrabbando (di petrolio, armi, antichità), dall’estorsione (la raccolta
di “tasse” sul territorio porta nelle tasche del gruppo circa 8 milioni di dollari al mese),
altri reati (rapine, contraffazione) e non da ultimo la presa l’11 giugno della Banca
Centrale di Mosul dove si sono impossessati di circa 400.000.000 di dollari. Tuttavia se
tornassimo al 2011 e 2012 vedremmo come buona parte del loro finanziamento di
centinaia di milioni di dollari provenisse dalle monarchie arabe del Golfo Persico – in
particolare Arabia Saudita, Qatar e Kuwait. Queste nazioni hanno usato l’IS per
indebolire l’influenza irano-sciita nella regione. E, a tutt’oggi, i cittadini sauditi
continuano a rappresentare una fonte di finanziamento importante per i gruppi sunniti
che operano in Siria. Tuttavia l’Arabia Saudita è seriamente minacciata dall’IS, la cui
ideologia pur essendo wahabita è molto diversa da quella saudita. Nel wahabismo vi è
una lettura duale dell’Islam, ben espressa dai Saud e dall’IS. Il filone dominante reputa
che l’identità saudita derivi direttamente da Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhab (il
fondatore di wahabismo) e da Abd-al Aziz Ibn Saud (quale fondatore della entità
statuale). Il secondo filone critica lo spostamento verso la statualità negli anni ’20 da
parte del re Abd-al Aziz Ibn Saud con relativo contenimento degli Ikhwan (da non
confondersi con quelli della Fratellanza musulmana) e la conseguente
istituzionalizzazione dell’impulso wahabita originario. L’IS si rifà a questa seconda
visione radicale ponendosi come un movimento correttivo del wahhabismo
contemporaneo e negando, in ultima analisi, la rivendicazione da parte della dinastia
saudita dell’autorità per governare. Se nei media la capacità militare dell’IS è
sopravvalutata, nel mondo reale le forze aeree saudite sono perfettamente in grado di
difendere i propri confini incenerendo qualsiasi colonna di terroristi che provi ad
avvicinarsi attraversando il deserto. L’Arabia Saudita possiede oltre 300 F-15, 72
Typhoon e più di 80 elicotteri d’attacco Apache. Includendo i sei paesi del Consiglio di
Cooperazione del Golfo si arriva a più di 600 aerei con capacità di combattimento. La
classe dirigente dell’Arabia Saudita è attualmente divisa in due. Da una parte vi sono gli
oltranzisti che plaudono a all’organizzazione di rigida ideologia salafita che sta prendendo
forma nel cuore del mondo islamico, considerato da loro patrimonio storico sunnita
usurpato da due governi sciiti, e che combatte il “fuoco” sciita iraniano con “fuoco”
sunnita. Dall’altra vi sono quelli che sono memori della rivolta contro Abd-al Aziz da
parte degli Ikhwan wahabiti che rischiò quasi di distruggere alle radici il wahhabismo
saudita verso la fine degli anni ‘20. La proclamazione del Califfato da parte di Al
Baghdadi è una dichiarazione di guerra ai sauditi. Tramite essa, dichiara di non
riconoscere gli stati nazione arabi moderni, e proclamandosi vero e legittimo erede del
mondo islamico, delegittima Re Abdallah quale custode delle Due Sante Moschee. In
questa prospettiva si possono leggere le due storiche dichiarazioni del Gran Muftì
d’Arabia Saudita e del re Abdullah bin Abdulaziz dello scorso agosto. Il Gran Muftì il 19
agosto ha messo in guardia contro il pericolo costituito dall’IS e da al-Qaeda. La
dichiarazione del Gran Muftì è stata preceduta il 1° agosto da un discorso del re
dell’Arabia Saudita, il quale affrontando il tema dell’IS, ha messo in guardia la
popolazione contro il pericolo di gruppi jihadisti armati che dichiarano i musulmani
moderati infedeli e causano lo spargimento di sangue innocente. Questo irrigidimento
ufficiale contro i gruppi jihadisti nella regione era stato formalizzato in marzo con la
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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classificazione di IS e Jabhat al-Nusra come gruppi terroristici. Ma come dimostrato
dalla recente Dichiarazione di Gedda il mondo arabo-sunnita non riesce a venire a patti
ideologicamente con questa minaccia. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, Egitto, Iraq,
Giordania, Libano hanno promesso di cooperare su più fronti nella lotta all’IS glissando
però sull’ipotesi di truppe di terra. Le dieci nazioni “si impegnano a fermare i terroristi
e i loro finanziamenti” così come a “partecipare sotto molto aspetti ad una coordinata
campagna militare”. Sono quattro le paure che viziano il loro possibile impegno. In primo
luogo, gli stati arabo-sunniti vedono l’attuale crisi irachena attraverso le lenti di uno
scontro nazionalistico-settario con l’Iran. A loro parere lo scontro militare con l’IS
porterebbe a un rafforzamento del governo sciita filo-iraniano di Baghdad a scapito dei
sunniti iracheni. Molti cittadini arabi, anche in Occidente, vedono nell’IS uno strumento
legittimo di sostegno alle ambizioni sunnite. In secondo luogo, questi stessi stati arabi
reputano che un indebolimento dell’IS in Siria, porterebbe a un rafforzamento del
regime del presidente Bashar al-Assad, visto come pilastro dell’influenza iraniana nel
Vicino Oriente. In terzo luogo questi stati, spesso creazioni artificiose del colonialismo
europeo e con forti squilibri etnico-economici al proprio interno, temono una ricaduta
interna nel caso in cui l’IS venisse da loro attaccata. A oggi una consistente percentuale
dei terroristi dell’IS proviene da paesi arabi e i confini che dividono la Siria e l’Iraq dalla
Giordania e dall’Arabia Saudita sono molto porosi. Un rapporto del Washington Institute
afferma che i sauditi detengono il secondo posto in termini numerici all’interno dei
gruppi jihadisti. Negli ultimi mesi, IS ha pubblicato video che mostrano i suoi
combattenti sauditi che, dopo aver strappato i loro passaporti, promettono di liberare la
“Terra delle Due Sacre Moschee” una volta che la loro missione in Siria ed Iraq sia stata
compiuta. In base a report statunitensi si stima che la maggior parte dei kamikaze in
Iraq provengano dall’Arabia Saudita e che circa il 40 per cento di tutti i combattenti
stranieri siano sauditi. Quale precedente storico si potrà ricordare come, a metà degli
anni 2000, il paese subì una serie di drammatici attentati di al-Qaeda legati ai
mujaheddin sauditi di ritorno a casa dal jihad in Afghanistan. Infine i paesi arabo
sunniti, Arabia Saudita in primis, sono consapevoli del fatto che, abbandonando la
leadership di questa guerra contro i gruppi jihadisti salafiti in mano irano-americana,
potrebbero fornire l’occasione a Teheran per espandere il proprio ruolo guadagnando
una ulteriore carta di contrattazione con l’Occidente in quanto nazione chiave in Medio
Oriente nella lotta al terrorismo. I sogni turchi di rinascita dell’impero ottomano di
qualche anno fa sono in gran parte falliti, danneggiando le tradizionali alleanze con
Arabia Saudita, Egitto, Iran e Israele. Al contempo se volessimo guardare al confine
meridionale di 1208 chilometri, vedremmo solo macerie. Come ricordato dal quotidiano
turco Hurriyet, oggi al posto della Siria e dell’Iraq sventolano sette bandiere differenti
che vanno dalla galassia delle organizzazioni curde siriane irachene o turche all’IS ai
ribelli siriani per arrivare al governo di Assad. E di questa anarchia Ankara non è
completamente incolpevole. La Turchia ha partecipato alla riunione di Gedda in cui
mediorientali degli Stati Uniti hanno annunciato il proprio appoggio alla strategia
finalizzata a “distruggere” l’IS in Iraq e Siria, senza però firmarne il comunicato finale. Si
reputa che la riluttanza di Ankara fosse da addebitarsi ai 49 cittadini turchi rapiti dal
consolato turco nella città settentrionale irachena di Mosul, quando fu conquistata dall’IS
nel mese di giugno. Il governo aveva tenuto sull’intera vicenda un completo embargo
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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mediatico fino alla loro liberazione avvenuta pochi giorni fa in stretto coordinamento
con l’Organizzazione Nazionale di Intelligence turca (MIT). La liberazione sarebbe stata
ottenuta grazie agli ottimi rapporti presenti fra i servizi turchi, l’Esercito Naqshbandi di
Mosul, il Consiglio delle Tribù di Mosul e il potente ex vice presidente iracheno sunnita
Tariq al-Hashimi, rifugiatosi in Turchia dopo le diatribe con al-Maliki. A riprova di
questo solido legame con gli ambienti “insurrezionali” iracheni il report comparso sul
sito web Takvahaber, identificato come il portavoce dell’IS in Turchia, secondo cui il
califfo Abu Bakr Al Baghdatiavrebbe personalmente approvato la liberazione a seguito
del rifiuto turco a dare sostegno attivo alla coalizione anti IS. Questa strana
“benevolenza” del califfo potrebbe essere spiegata da due fattori concomitanti: il primo
inerente un indebolimento del potere di IS in Iraq a favore dell’Esercito Naqshbandi e
del Consiglio delle Tribù di Mosul a seguito degli attacchi aerei statunitensi; il secondo in
relazione a una “campagna” mediatica finalizzata a conquistare i cuori e le menti
dell’opinione pubblica sunnita mostrando la propria benevolenza. In questa cornice è
lampante il contrasto nel trattamento “generoso” che sarebbe stato riservato agli ostaggi
turchi rispetto a quello riservato agli occidentali o agli sciiti. Se questa può essere
considerata una “vittoria” del governo turco, si teme al contempo che i gruppi jihadisti
ospitati all’interno dei confini in funzione anti siriana possano, nell’ipotesi di una
partecipazione di Ankara al conflitto iracheno, dichiarare il “jihad” contro la Turchia.
Nel mese di giugno, il giornale turco Milliyet ha riferito che circa il 10 per cento (3000
persone) dei combattenti dell’IS siano cittadini turchi. Molti di questi odiano il governo
dell’AKP al potere e reputano il presidente Erdogan non “un vero musulmano”. Si teme
che questi sostenitori turchi dell’IS possano scatenare una lotta violenta all’interno della
Turchia piazzando bombe nelle varie città in caso di una postura “ostile” del governo
turco. Diventa preoccupante nella stessa prospettiva come, in base a una recente
indagine condotta da Metropoll, solo il 62,5% di sostenitori dell’AKP reputino l’IS
un’organizzazione terroristica. L’ambiguità è tale che il Wall Street Journal, in un articolo
del 13 settembre ha definito la Turchia come un “non-alleato” ricordando le dichiarazioni
dell’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia Francis Ricciardone nelle quali
affermava che la Turchia “ha lavorato apertamente” con Jabhat al-Nusra, un gruppo
collegato ad al-Qaeda in Siria. Alcuni giornalisti turchi colpiscono ancora più forte
scrivendo come l’attuale leadership del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) abbia
dei “vincoli ideologici” nel contrastare l’IS in maniera esaustiva. Kadri Gursel scrive: “Il
governo dell’AKP ei suoi media non hanno mai descritto l’IS come un gruppo
terroristico, definendolo un ‘elemento radicale’”. In passato il governo turco avrebbe
garantito ospitalità e libero transito ai miliziani dell’IS diretti in Siria, finanziandoli
indirettamente tramite l’acquisto del greggio estratto dai pozzi della Siria orientale (un
politico dell’opposizione turca stima per un ammontare di $ 800 milioni). Diversi
giornalisti turchi hanno definito le frontiere turco-siriane una “autostrada jihadista a due
corsie” senza controlli fastidiosi e con la capacità di evacuare i feriti dell’IS in ospedali
turchi. È famosa la foto del comandante dell’IS Abu Muhammad ricoverato all’Ospedale
di Stato di Hatay a seguito di ferite ricevute in battaglia nell’aprile del 2014. I funzionari
turchi hanno risposto che gli ospedali turchi aiutano tutti i siriani malati o feriti che
vengono d’oltre confine. Insistendo quindi sul fatto che si tratti di un gesto umanitario e
non di sostegno politico all’IS. Un ruolo di primo piano è stato avuto dalla Fondazione
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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Turca per i Diritti dell’Uomo e delle Libertà e dell’Aiuto Umanitario (IHH). Un ente di
beneficenza islamico con legami con Bilal Erdogan, figlio del presidente Recep Tayyip
Erdogan. Secondo un rapporto del marzo 2010 dell’Istituto Internazionale per la Lotta al
Terrorismo IHH ha un bilancio annuale di 100 milioni di dollari con operazioni sul
campo in 120 paesi. L’IHH lavora con gli affiliati dei Fratelli Musulmani di tutto il mondo
e la prima spedizione nota di armi ai “fratelli siriani” è di settembre 2012. Il motivo di
questo “permissivismo” oltre alla volontà di far cadere Assad è legato al desiderio di
controbilanciare l’entità indipendente curdo siriana collegata con il Partito dei Lavoratori
del Kurdistan (PKK) curdo turco. La posizione di Ankara nei confronti del PKK è
ulteriormente complicata dal fatto che essi stiano giocando un ruolo importante nella
lotta contro l’IS nel nord dell’Iraq. Se il governo turco ha problemi con i curdi siriani del
Partito Democratico dell’Unità (PYD) e con il suo braccio militante, le Unità di Protezione
Popolare (YPG), ha invece coltivato negli anni un ottimo rapporto con il KRG iracheno. Il
governo turco vede di buon occhio la presenza di un Kurdistan iracheno strettamente
integrato nell’economia turca che funga da cuscinetto tra i jihadisti e il proprio
territorio e, in questa prospettiva, è stata apprezzata la presa di Kirkuk da parte dei
Peshmerga. Una conquista che aumenta la capacità produttiva petrolifera curdo
irachena. Il KRG non ha il diritto legale di esportare petrolio in maniera indipendente.
Tuttavia, nonostante le proteste del governo centrale iracheno, il KRG esporta petrolio in
Turchia utilizzando la Pipeline turco irachena.
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Articolo n.5: “I conti segreti dell’Isil”, Martin Chulov
Dalla rivista settimanale “Tempi” – 25 giugno 2014 / anno 20/ numero 25
Decine di chiavette usb trovate nel covo di due militanti, scrive Martin Chulov sul
britannico “Guardian”, hanno rivelato la forza economica del gruppo jihadista.
Due giorni prima della conquista di Mosul da parte dello Stato Islamico dell’Iraq e del
Levante (ISIL), gli iracheni avevano catturato il suo corriere più fidato. Dopo una notte
di interrogatori l’uomo, noto all’interno del gruppo islamico estremista come Abu Hajjar,
è crollato e ha svelato il nome del capo del comando militare dell’ISIL.
«Ci ha detto: “Non vi rendete conto di quello che avete fatto”», racconta un funzionario
dei servizi segreti. «Poi ha aggiunto: “A Mosul questa settimana si scatenerà l’inferno”».
Alcune ore dopo Abdulrahman al Bilawi, l’uomo per il quale faceva il corriere e che
aveva cercato di proteggere, è stato ucciso nel suo nascondiglio, nelle vicinanze di
Mosul. Dalla casa del defunto e dal quella del prigioniero, gli agenti iracheni hanno
sequestrato più di 160 chiavette usb che contenevano informazioni molto dettagliate sul
gruppo terroristico. Tra queste, i nomi veri e quelli di battaglia di tutti i combattenti di
origine straniera, le identità dei capi più anziani e i loro nomi in codice, le iniziali delle
talpe nei ministeri e ampi resoconti sulle finanze del gruppo.
«Eravamo esterrefatti. E lo erano anche gli statunitensi», commenta un alto funzionario
dell’intelligence irachena. «Nessuno di noi era a conoscenza di queste informazioni». Gli
agenti, tra cui quelli della CIA, stavano ancora decodificando e analizzando le chiavette
quando la profezia di Abu Hajjar si è avverata. Nel giro di tre giorni lo Stato Islamico è
avanzato su gran parte dell’Iraq settentrionale e centrale, prendendo il controllo di Mosul
e Tikrit, arrivando a minacciare Kirkuk, mentre gli uomini di tre divisioni dell’esercito
iracheno abbandonavano le divise e disertavano.
La sconfitta dell’esercito e la rapida avanzata dei ribelli hanno cambiato radicalmente gli
equilibri di potere in Iraq, indebolito il primo ministro Nuri al Maliki, permesso alle
forze curde di assumere il controllo della città contesa di Kirkuk e innescare una
reazione degli sciiti che minaccia la fragile situazione geopolitica della regione. Il 15
giugno l’ISIL ha diffuso delle foto che mostrano alcuni suoi combattenti nell’atto di
uccidere decine di soldati iracheni.
«Abbiamo cominciato a fare un po’ di conti in tasca allo Stato Islamico» racconta il
funzionario «Prima di conquistare Mosul, i jihadisti avevano 875 milioni di dollari in
beni e in contanti. In seguito, con i soldi rubati dalle banche e gli equipaggiamenti
militari di cui si sono impadroniti, hanno messo le mani su un altro miliardo e mezzo di
dollari». Sono cifre eccezionalmente alte, soprattutto per un’organizzazione nata pochi
anni fa. I leader del gruppo sono stati scelti con cura. Molti combattenti di rango
inferiore – uomini con una lunga esperienza sul campo di battaglia, che una decina di
anni fa hanno partecipato alla rivolta contro le forze statunitensi – non conoscono i nomi
dei loro compagni. L’acume strategico dell’ISIL è notevole, così come l’attenzione per i
dettagli. Nel corso dell’ultimo anno i servizi segreti stranieri hanno scoperto che l’ISIL si
è assicurato grosse somme di denaro sfruttando i pozzi petroliferi nell’est della Siria, che
controlla dalla fine del 2012, e rivendendo parte del petrolio al governo siriano. Inoltre
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
ricava profitti dal contrabbando di materiali di vario tipo, tra cui preziosi reperti rubati
negli scavi archeologici. Dopo il ritrovamento delle chiavette, i servizi segreti iracheni
hanno avuto a disposizione rendiconti dettagliati di tutte le spese dello sforzo bellico. È
risultato subito evidente che, in meno di tre anni, l’ISIL è profondamente cambiato e da
una banda raffazzonata di estremisti islamici è diventato probabilmente il gruppo
terroristico più ricco ed efficiente del mondo.
«Hanno guadagnato 36 milioni di dollari solo dal sito archeologico di Al Nabuk, in Siria,
dove si trovano reperti risalenti a ottomila anni fa» spiega il funzionario dell’intelligence
irachena «Gli occidentali ci chiedevano da dove arrivassero i soldi dei terroristi: 50mila
dollari da una parte, 20mila dall’altra. Ma erano solo noccioline. Ora sappiamo che si
sono arricchiti da soli e che non hanno il sostegno di nessuno stato. Non ne hanno
bisogno».
La disponibilità di risorse può aver spinto l’ISIL a tentare il tutto per tutto. Ma perfino
per i loro standard occupare due importanti città irachene nel giro di tre giorni, resistere
in alcune parti di Falluja e Ramadi e minacciare Kirkuk e Samara sono risultati davvero
notevoli. Nelle informazioni pubblicate sui social network del gruppo dal 10 giugno in
poi si coglie lo stupore dei combattenti di fronte ai loro successi. Alcune immagini
mostrano miliziani che piangono lacrime di gioia mentre decine di humvee rubati
all’esercito iracheno sfilano su un crinale sabbioso al confine con la Siria. Tra le forze
che hanno fatto irruzione a Mosul, dilagando poi in tutto l’Iraq centrale, ci sono jihadisti
stranieri, tra cui molti europei. Gran parte dei loro nomi sono noti alle agenzie di
intelligence occidentali, che hanno cercato di seguire i loro spostamenti anche dopo
l’arrivo in Turchia e la successiva sparizione oltre il confine siriano. L’usanza di
ribattezzare i nuovi arrivati ha contribuito a far perdere le loro tracce. Ma i servizi
segreti hanno acquisito molti dettagli sui familiari dei combattenti, come i numeri di
telefono e gli indirizzi e-mail. Le scoperte dell’intelligence contribuiranno ad arginare lo
Stato Islamico? La questione rimane in sospeso. «Alla fine li troveremo» dichiara il
funzionario iracheno «Sapevamo che avevano delle talpe nei ministeri e la cosa più
frustrante è che ne conosciamo solo le iniziali. Ci stiamo concentrando sulle sigle
contrassegnate con l’annotazione “di valore”. Altri nomi sono evidentemente meno utili
– aggiunge - Alcuni sono segnalati come “pigro”, “indeciso”, o “da controllare”. Oggi si sa
molto su come gli uomini dell’ISIL abbiano acquisito la loro forza. Non resta che
scovarli».
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Articolo n.6: “L’Isis soffia sul fuoco del Libano”, Andrea
Milluzzi
Dal sito www.pagina99.it – 13 ottobre 2014
SIRIA
Attorno ad Aarsal, enclave sunnita che ospita migliaia di profughi siriani, si
moltiplicano gli episodi violenti. Il Califfato prova a far saltare il fragile equilibrio
politico-militare del paese dei cedri combattendo contro Hezbollah. E cercando
consensi, come in Iraq, tra quei i sunniti che si sentono marginalizzati
Le milizie dello Stato Islamico assediano Kobane da più di venti giorni, ma la strenua
resistenza dei peshmerga dello Ypg e del Pkk l'ha finora salvata dalla capitolazione.
Nemmeno i raid americani e degli altri alleati sono riusciti a cambiare gli equilibri in
campo. I miliziani dell'Isis sono entrati in città da Est e da Nord, mentre i curdi sono
asserragliati sul versante occidentale del paese. Da questa mattina, secondo le fonti dello
stesso Ypg, a Kobane è una battaglia strada per strada. Più di 100.000 curdi sono fuggiti
e molti altri sono bloccati alla frontiera chiusa dalla Turchia.
Per settimane Ankara si è ostinata a non collaborare né con gli eterni nemici curdi, né
con la coalizione internazionale anti-Isis capeggiata dagli Usa. E solo nelle ultime ore il
governo turco si è deciso a mettere le sue basi militari a disposizione della coalizione.
Adesso è Kobane, quindi, ad essere al centro dell'attenzione di media e analisti. Posto
che non è facile fare previsioni su uno scenario, quello mediorientale, in continua
evoluzione, sarebbe ora di tenere sotto controllo anche Giordania e Libano, a partire dal
ruolo ricoperto da Hezbollah, nemico giurato degli jihadisti e alleato di Assad.
Guerra sul campo
Il paese di Aarsal, sulla Bekaa occidentale, è finito nel mezzo della guerra siriana da
molto tempo. Enclave sunnita in territorio controllato da dal partito religioso sciita,
Aarsal e il suo circondario ospitano decine di migliaia di profughi siriani in campi
profughi improvvisati. L'esercito libanese e le milizie paramilitari di Hezbollah, che
dall'inizio del 2014 pattugliano a braccetto questa porzione di confine, accusano gli
abitanti di Aarsal e i profughi siriani di offrire aiuto logistico e riparo ai miliziani della
Jabat al Nusra e dello stesso Isis, impegnati in Siria nelle zona del Qalamoun.
Parallelamente gli jihadisti lanciano attacchi per conquistare la loro "capitale libanese".
Dall'estate a oggi la situazione è ulteriormente peggiorata. Il 2 agosto scorso le milizie
fondamentaliste hanno portato un massiccio attacco ad Aarsal. Diciannove soldati
dell'esercito libanese e circa un centinaio di jihadisti hanno perso la vita e 37 fra soldati
e poliziotti sono stati rapiti. Sette di loro sono stati liberati, tre sono stati uccisi (due per
decapitazione e il terzo con un proiettile in testa), gli altri 27 sono ancora nelle mani dei
jihadisti. La situazione già tesa è peggiorata dall'azione dell'esercito del 25 settembre,
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
documentata da video che sono finiti in rete. I soldati di Beirut si sono recati nelle
tendopoli siriane nei pressi di Aarsal, hanno arrestato circa 500 uomini, stesi in terra
ammanettati e calpestati con gli scarponi, bruciato tende e terrorizzato le donne del
campo. I capi dell'esercito hanno preso le distanze da quell'azione, dichiarando che gli
incendi erano stati appiccati da "facinorosi della tendopoli". Non è bastato a calmare gli
animi. Manifestazioni di protesta contro l'esercito e Hezbollah si sono tenute ad Aarsal,
a Tripoli, nel Nord del Paese e in tutte le città a maggioranza sunnita.
In alcune di queste manifestazioni sono apparse le bandiere dell'Isis: ad Aarsal sono
state fatte ripiegare dagli stessi partecipanti al corteo, in alcuni sobborghi di Tripoli,
specialmente a Bab al Tabbaneh, sventolano ancora. L'escalation della tensione ha
favorito l'ennesimo tentativo dei jihadisti per Aarsal che il 5 ottobre scorso hanno
attaccato 15 posizioni di Hezbollah lungo la strada da Aarsal verso Sud. L'obiettivo fallito - era quello di riprendere il controllo della strada verso il Qalamoun, da dove erano
partiti, e di spaventare Hezbollah arrivando alle porte di Brital, paese vicino alla
roccaforte Baalbeck. "I terroristi soffiano sulle ceneri ancora accese della guerra civile
con l'obiettivo di destabilizzare il Libano. - ha detto a Le Figaro, Jean Qahwaji, generale
delle forze armate libanesi - Usano le loro cellule dormienti ad Aarsal, in tutta la regione
dell'Akkar e a Tripoli, per aprirsi un varco verso il Mediterraneo". Qahwaji prende le
distanze dalle violenze nei confronti degli arrestati di Aarsal ma giustifica "la reazione dei
soldati alle decapitazioni dei loro compagni". È lo stesso Qahwaji ad ammettere che
l'esercito libanese non ha le armi e la preparazione necessaria per fronteggiare la
minaccia jihadista, se dovesse aumentare. Beirut aspetta ancora la fornitura di armi per
3 miliardi di dollari promessa dall'Arabia Saudita, ma nel frattempo sta perdendo
posizioni in quella che rischia di diventare una guerra fra le varie fazioni jihadiste ed
Hezbollah.
Tutti contro tutti
Il confine siro-libanese è un teatro di guerra, a Tripoli gli scontri di quartiere vanno
avanti a colpi di decine di morti ogni mese nonostante la presenza dell'esercito, Dahiyeh,
la zona Sud di Beirut, è chiusa a chiunque non sia affiliato ad Hezbollah, ma la vita in
Libano continua a scorrere come niente fosse. Temprati da quaranta anni di guerre e
tensioni, i libanesi sanno come affrontare la minaccia dello sconfinamento della crisi
mediorientale. A metà agosto tre giovani di Beirut hanno postato in rete video in cui si
mostrano bruciare le bandiere nere dell'Isis. Il ministro della giustizia Ashraf Rifi ha
rilasciato una dichiarazione per chiedere di ritirare il video e di punire i tre per "un
gesto che offende i simboli religiosi e che può fomentare l'odio settario nel nostro
Paese". Il gesto dei giovani ha attirato sia l'approvazione e la solidarietà di altri libanesi
che la risposta dei più oltranzisti. Le bandiere dell'Isis sono state bruciate ad Achrafyeh,
cuore della Beirut cristiana e così subito dopo sulle mura di due chiese di Tripoli è
apparsa la scritta "lo Stato Islamico sta arrivando". "Se chiedessimo ai cristiani libanesi
un giudizio sui recenti accadimenti, probabilmente tutti direbbero che se non fosse per
Hezbollah l'Isis sarebbe già arrivato a Jounieh (periferia cristiana a Nord di Beirut,
ndr)" ha detto il patriarca dei maroniti Bechara al-Rai secondo quanto riportato dal
giornale libanese as-Safir. L'Economist ha stimato che 890 libanesi si sono uniti alle
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
truppe dell'Isis e si sono registrati (con tanto di video su Youtube) casi di attacchi suicida
in Siria e Iraq da parte di libanesi. Non solo, negli ultimi due giorni Jabat al Nusra ha
diffuso video di due soldati che, con tanto di divisa, dichiarano di aver disertato l'esercito
di Beirut per sposare la causa jihadista. In moltissimi villaggi libanesi sono nate ronde di
pattugliamento volontarie, ovviamente settarie, a difesa dei confini delle comunità da
qualsiasi interferenza esterna. Una riedizione della protezione fai-da-te, facilitata
dall'ampissima diffusione delle armi, che ricorda gli albori della guerra civile.
Il vuoto politico
Giovedì scorso il Parlamento libanese ha invalidato il tredicesimo tentativo di eleggere il
nuovo Presidente della Repubblica. Solo 57 parlamentari erano presenti in aula e le
votazioni sono state rimandate al 29 ottobre. Il mandato di Michel Sleiman è terminato
cinque mesi fa ma le distanze fra la coalizione 14 Marzo e la 8 Marzo non permettono di
eleggerne il successore. Secondo gli accodi di Ta'if del dopo guerra il Presidente libanese
deve essere un cristiano.
La 14 Marzo, capeggiata da Sa'ad Hariri e ostile al regime di Damasco, vorrebbe eleggere
il leader delle Forze Libanesi Samir Geagea, la 8 Marzo, dove spicca Hasan Nasrallah e il
suo Hezbollah, risponde con Michel Aoun. Tutti nomi, compreso quello del leader
socialista druso Walid Jumblatt, l'"ago della bilancia", che richiamano direttamente o per
gradi di parentela i protagonisti dei 15 anni di guerra civile. Dall'inizio della rivoluzione
siriana i due blocchi sono lontanissimi con la 14 Marzo che si è subito schierata al fianco
delle opposizioni ad Assad e la 8 Marzo pro-regime. La situazione è degenerata quando i
miliziani di Hezbollah hanno iniziato a combattere sul campo al fianco dell'esercito di
Damasco. Il coinvolgimento di una forza politica, fra l'altro al governo fino all'autunno
scorso, ha prosciugato di qualsiasi autorità il parlamento ed il governo ed ha allargato
all'infinito le fratture sempre presenti nella società libanese. "Finché Hezbollah sarà in
Siria al fianco di Assad il Libano sarà in pericolo" va dicendo da tempo Jumblatt, ed è in
buona compagnia. Il doppio ruolo di Hezbollah ha cambiato gli equilibri in tutti i settori
dello Stato. L'esercito, agli ordini dell'alleato-candidato Aoun, ha spesso fatto il gioco
voluto da Nasrallah. Lo stesso si può affermare in merito alla politica tenuta nella
prigione di Roumieh, alle porte di Beirut, dove sono rinchiusi molti sospetti terroristi
vicini a Jabat al-Nusra e all'Isis. Un recente rapporto dell'Onu ha evidenziato i metodi
illeciti delle autorità libanesi che non lesinano torture e privazioni dei diritti umani ai
carcerati. Roumieh è spesso teatro di manifestazioni sunnite e la liberazione di alcuni
prigionieri è la condizione richiesta dai leader jihadisti per rilasciare i 27 ostaggi
libanesi. Una richiesta a cui probabilmente nessuno può rispondere: "Non c'è alcuna
possibilità che qualcuno riesca a riportare l'orologio indietro nel tempo. - ha dichiarato
ad al-Monitor un anonimo ufficiale dei servizi segreti libanesi - È difficile da ammettere
ma gli eventi degli ultimi mesi sono più grandi delle possibilità che il Libano ha di
sopportarli. L'esercito è paralizzato. I politici sono deboli. Lo Stato è tutto fuorché uno
Stato: manca un Presidente da 5 mesi, abbiamo un governo di emergenza e un
parlamento a cui sono stati allungati i termini. È un miracolo se la vita va ancora avanti".
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Articolo n.7: “Il Califfato che avanza”, Leone Grotti
Dalla rivista settimanale “Tempi” – 25 giugno 2014 / anno 20 / numero 25
Qualche giorno fa, quando i terroristi islamici hanno conquistato la seconda città più
grande dell’Iraq, Mosul, rubato alle banche centinaia di milioni di dollari, liberato dalle
carceri 2.500 persone, confiscato i mezzi e le armi dell’esercito iracheno, almeno 500
mila cittadini sono fuggiti terrorizzati. Molti, invece, sono rimasti. Hanno lanciato pietre
contro i 40 mila soldati dell’esercito iracheno che hanno battuto in ritirata dalla sera alla
mattina, senza preavviso, e hanno appeso questo cartello su un ponte di Mosul: «Il
governatorato di Ninive vi accoglie». A fianco sventolava il manifesto che ritrae la
bandiera nera degli islamisti e la scritta: «Non c’è altro Dio al di fuori di Allah».
Il califfato islamico sognato fin dal 2006 dall’allora nascente Stato islamico dell’Iraq (Isi),
oggi è realtà sotto la guida di Abu Bakr Al Baghdadi, che lo guida dal 2010 e a quel primo
progetto ha aggiunto la Siria, trasformando il gruppo in Stato islamico dell’Iraq e del
Levante (Isil). Con la presa di Mosul, l’Isil è ormai in possesso di un vastissimo territorio
che si estende per almeno 500 chilometri e che va dall’Iraq alla Siria settentrionale senza
soluzione di continuità: il confine nazionale tracciato da Sykes e Picot, i diplomatici
inglese e francese che nel 1916 divisero il vecchio Medio Oriente ottomano in Stati arabi
controllati dall’Occidente, non ha più alcun senso ed esiste soltanto sulla carta.
L’esercito jihadista, perché di vere e proprie truppe militarizzate si tratta, torna così alle
origini: dall’Iraq era entrato in Siria e ora dalla Siria invade l’Iraq. Cogliendo al volo
l’occasione fornita dalla cosiddetta “Primavera araba” che nel 2011 ha colpito Damasco,
tramutata in guerra civile dalle tante milizie finanziate principalmente da Arabia Saudita
e Qatar che vorrebbero vedere il governo filo-sciita di Assad cadere, l’Isil ha conquistato
una dopo l’altra importanti città del nord come Raqqa e Deir Ezzor. Approfittando
dell’immobilismo di Barack Obama, che da anni discute se armare i ribelli “buoni” dando
di fatto il tempo ai terroristi di diventare ancora più forti, l’Isil ha consolidato il suo
potere in Siria. E sfruttando l’incapacità di governare del premier iracheno Al Maliki, che
ha favorito gli sciiti in ogni modo a danno dei sunniti, ha preso prima Fallujah, a gennaio,
e ora Mosul. Esercito iracheno e jihadisti si contendono diverse città, ma questo non è
che l’inizio perché già il portavoce dei terroristi Abu Mohammed Al Adnani ha
promesso: «Marceremo su Baghdad».
Per sapere che cosa significhi nella realtà di tutti i giorni il califfato islamico non è
necessario tornare indietro al VII secolo, ai tempi del primo califfo Abu Bakr o del
quarto (primo per gli sciiti), Ali, cugino e genero del profeta Maometto. Già dal 2013,
infatti, l’Isil ha trasformato in un califfato Raqqa e le testimonianze che giungono dalla
città sono tutt’altro che rassicuranti. I cittadini devono rispettare un rigido decalogo
islamico: le donne non possono portare i pantaloni, ma devono vestire il burqa e l’abaya.
Truccarsi è vietato, fumare è vietato, esporre nelle vetrine dei negozi abiti femminili è
vietato. Gli uomini non possono portare i jeans, non possono fumare sigarette, non
possono acconciarsi i capelli in modo moderno, gli imprenditori che hanno assunto nel
loro negozio delle donne devono chiudere. Infine, chiunque citi il nome dell’“Esercito
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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islamico dell’Iraq e del Levante” riceve 70 frustate. La legge dello Stato viene sostituita
dalla sharia, amministrata da corti islamiche. Secondo il quotidiano Al Rai Al Youm, a
febbraio in città è stata lapidata a morte una ragazza: era iscritta a Facebook, un atto
immorale «di grande malvagità».
Il tributo umiliante
Le cose non vanno meglio per i cristiani. Come previsto dal Corano, a febbraio i
terroristi hanno fatto loro questa proposta pubblicando un editto: o vi convertite
all’islam o ve ne andate dal paese o pagate il tributo umiliante (gizya) per mantenere la
vostra religione ed essere protetti dallo Stato islamico. Così, i più ricchi sono ora costretti
a versare ai loro «protettori» 13 grammi d’oro puro (circa 400 euro), i meno abbienti
200 euro e i poveri 100. Chi non può pagare deve convertirsi, andarsene o morire. I
cristiani inoltre devono evitare «di portare la croce o altri simboli legati alla Bibbia nei
mercati e nelle piazze dove ci siano dei musulmani». Non possono suonare le campane
delle chiese, «utilizzare altoparlanti per far sentire la preghiera» e «celebrare i loro riti
fuori dalle chiese». Allo stesso modo «devono obbedire alle regole imposte dall’Isil, come
a quelle legate alla discrezione nel modo di vestirsi». Infine, le chiese distrutte dagli stessi
terroristi «non potranno essere restaurate». Questa annotazione finale dell’editto non è
di poco conto se si considera che dal 2013 gli islamisti hanno attaccato due chiese a
Raqqa, distrutto la croce che si trovava su una di queste e saccheggiato l’interno dei
luoghi di culto. Inoltre, la chiesa greco-cattolica dedicata a Nostra signora
dell’annunciazione è stata simbolicamente trasformata nel quartiere generale degli
islamisti.
Il califfato, però, non è un incubo solo per i cristiani ma anche per i musulmani. Almeno
tre uomini, secondo quanto previsto dalla sharia, sono già stati crocifissi in piazza per
avere «ucciso dei musulmani». La prima crocifissione, avvenuta a marzo, è stata
giustificata così: «Giudichiamo le persone e le puniamo secondo la sharia, che ci guida
nel portare la responsabilità di preservare i genuini insegnamenti dell’islam». I
musulmani di Raqqa hanno descritto a un giornalista del Guardian la loro nuova vita:
«Oggi viviamo in uno stato di paura e terrore. Noi siamo musulmani ma la nostra
religione guida la vita delle persone, non può essere imposta con la forza». E ancora:
«L’Isil ha bandito la musica, ora si può ascoltare solo il Corano. Anche le sigarette sono
state bandite: se trovano un locale dove vengono vendute lo bruciano, imprigionano il
negoziante e lo frustano». Anche chi non partecipa alla preghiera del venerdì viene
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
frustato in piazza.
«Voglio diventare un mujaheddin»
Questi echi di un mondo che credevamo finito molti secoli fa non riguarda però solo la
Siria e l’Iraq. I gruppi affiliati o legati ad Al Qaeda, che sembravano deboli e sconfitti fino
a pochi anni fa, sono tornati in auge in tutto il mondo. Basta citare qualche nome: Boko
Haram in Nigeria, Al Shabaab in Somalia e Kenya, Aqmi nel Maghreb, Ansar Dine in
Mali, i talebani in Afghanistan e Pakistan. L’Isil non fa parte di questi perché si è staccato
da Al Qaeda, ha rifiutato la leadership di Al Zawahiri (successore di Bin Laden) e in
diverse province siriane combatte attivamente la fazione qaedista di Al Nusra. In
questi scontri “fratricidi” sono già morti migliaia di miliziani.
Frizioni e divergenze tra i gruppi islamisti non fermeranno però l’avanzata di questa
internazionale jihadista, perché l’obiettivo non è semplicemente Baghdad o Damasco,
come dichiarato a tempi.it dal giornalista della Stampa Domenico Quirico: «Il califfato
non è il frutto della visione di un imam svitato che arringa in una moschea, ma una
strategia che l’Occidente non riesce a capire. Da una parte è la creazione di un vero e
proprio Stato fondato sulle regole dell’islam più radicale, dall’altra una base logistica per
sfidare gli Stati islamici confinanti (che loro definiscono traditori) e poi affrontare
l’Occidente. Non hanno paura del confronto militare e confermano di essere in grado di
porci una sfida globale». Questo è proprio quello che l’Occidente non vuole vedere: «La
nuova Al Qaeda ha alzato il livello del confronto e i suoi obiettivi. Non siamo più di fronte
a cellule di terroristi ma a eserciti che si muovono dal Sahara alla Mesopotamia.
L’Occidente però non li capisce – continua Quirico –, non riesce a comprendere che loro
non hanno interessi economici o politici. A muovere la storia infatti non c’è solo questo:
c’è anche la religione. Purtroppo gli occidentali, e gli americani per primi, non vogliono
capirlo».
Eppure basterebbe ascoltare le loro parole. Un religioso sunnita dell’Isil educava così i
bambini della provincia siriana di Idlib nel 2013: «I cristiani sono infedeli. Obama è
infedele. Chi dice che Gesù è figlio di Maria è un miscredente e va scannato». Un altro
imam faceva ripetere a bambini di dieci anni: «Allah è il nostro maestro, loro invece non
hanno maestri. Il loro cattivo maestro è l’America e malvagio è il loro destino. Da grande
voglio diventare un mujaheddin».
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
23 –26 Ottobre
Articolo n.8: “Fermare la tragedia umanitari in Iraq”, Padre
Luciano Larivera
Dal quaderno n°3941di Civiltà Cattolica del 06 settembre 2014 - (Civ. Catt. III
345-448 )
Stati Uniti, Unione europea, Nazioni Unite e Governo iracheno non sono riusciti a
impedire la violenza contro le popolazioni cristiane, yazide, shabak, turcomanne, sciite e
sunnite «moderate» a Mossul e nella piana di Ninive. Per loro non è rimasta, secondo i
casi, che la conversione forzata, la morte, la schiavitù (per le donne) o la fuga. Anche ad
Aleppo, la più grande città siriana, i cristiani temono la «pulizia religiosa» o la fuga
forzata, se le milizie dell’Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) prenderanno il
controllo dei loro quartieri. Lo Stato e Califfato islamico — come l’Is si è proclamato
dall’inizio del ramadan il 29 giugno — ha potuto assediare a morte migliaia di yazidi
sulle montagne irachene del Sinjar, prendere il controllo della diga di Mossul e avanzare
verso Erbil, capitale della Regione autonoma del Kurdistan iracheno. In agosto sono
iniziati sia i bombardamenti aerei statunitensi per liberare gli yazidi, riconquistare la
diga e alleggerire la pressione dei jihadisti; sia le iniziative occidentali per rinforzare
l’apparato bellico dei curdi iracheni; sia le missioni di soccorso umanitario agli sfollati,
che sono stati accolti dai curdi, anche in Siria. Adesso per molti delle centinaia di migliaia
di iracheni in fuga soltanto l’esilio sembra garantire un minimo di sicurezza e
prosperità.
Gli interventi della Santa Sede
In diversi modi e varie occasioni Papa Francesco, gli Organi della Santa Sede e
l’Episcopato iracheno e mediorientale, come pure i vescovi italiani e di tutto il mondo,
sono intervenuti per implorare la pace in Iraq e in Siria e chiedere soccorsi
internazionali. Al termine della preghiera dell’Angelus del 20 luglio scorso, il Santo Padre
lanciava un pressante appello per ricordare nella preghiera le comunità cristiane in Iraq:
«Ho appreso con preoccupazione le notizie che giungono dalle Comunità cristiane a
Mossul (Iraq) e in altre parti del Medio Oriente, dove esse, sin dall’inizio del
cristianesimo, hanno vissuto con i loro concittadini offrendo un significativo contributo
al bene della società. Oggi sono perseguitate; i nostri fratelli sono perseguitati, sono
cacciati via, devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente con
loro. A queste famiglie e a queste persone voglio esprimere la mia vicinanza e la mia
costante preghiera. Carissimi fratelli e sorelle tanto perseguitati, io so quanto soffrite, io
so che siete spogliati di tutto. Sono con voi nella fede in Colui che ha vinto il male! E a
voi, qui in piazza e a quanti ci seguono per mezzo della televisione, rivolgo l’invito a
ricordare nella preghiera queste comunità cristiane». Nella lettera del 9 agosto al
Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, il Pontefice ha scritto: «Nel rinnovare il mio
appello urgente alla comunità internazionale a intervenire per porre fine alla tragedia
umanitaria in corso, incoraggio tutti gli organi competenti delle Nazioni Unite, in
particolare quelli responsabili per la sicurezza, la pace, il diritto umanitario e
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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l’assistenza ai rifugiati, a continuare i loro sforzi in conformità con il Preambolo e gli
Articoli pertinenti della Carta delle Nazioni Unite». Successivamente il Pontefice, non
potendosi recare di persona in Iraq, vi ha inviato, dal 12 al 20 agosto, il cardinale
Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. L’exnunzio a Baghdad, durante i bombardamenti e l’intervento anglo-statunitense del 2003,
ha potuto assistere alla tragedia umanitaria in corso; prendere contatto con le vittime,
portando la parola di speranza del Papa e propria, soprattutto durante la sua
permanenza ad Erbil e nelle altre città del Kurdistan iracheno, dove gli sfollati hanno
ricevuto generosa accoglienza; ha potuto, quindi, incontrare le autorità civili ed
ecclesiali di quei luoghi. In una lettera firmata l’8 agosto, e consegnata dall’Inviato
personale del Papa al presidente iracheno Fuad Masum, il Pontefice ha scritto: «Mi
rivolgo a lei con il cuore pieno di dolore mentre seguo la brutale sofferenza dei cristiani e
di altre minoranze religiose costretti a lasciare le loro case, mentre i loro luoghi di culto
sono distrutti». Il Papa poi ha ricordato gli sforzi compiuti perché l’Iraq sia messo sulla
strada della convivenza pacifica, nella quale i membri delle minoranze vengano
considerati cittadini alla pari degli altri. Ha rinnovato il suo appello «a tutti gli uomini e le
donne che hanno responsabilità politiche perché usino tutti i mezzi per risolvere la crisi
umanitaria». Infine ha espresso gratitudine «per tutto quello che il popolo iracheno può
fare per alleviare le sofferenze dei suoi fratelli e sorelle». Poi, il 18 agosto, il Patriarca di
Babilonia dei Caldei, Louis Sako, ha fatto queste richieste a Paesi e Organizzazioni
internazionali con maggiore responsabilità morale: «1. Intervenire immediatamente
portando aiuti di prima necessità: acqua, cibo medicinali, servizi sanitari ecc. 2. Liberare
i villaggi e i luoghi occupati il più presto possibile e in modo stabile. Non bisogna lasciar
morire la speranza delle popolazioni. 3. Assicurare una protezione internazionale a
questi villaggi per incoraggiare le famiglie a rientrare nelle loro case e continuare la loro
vita normale in sicurezza e pace. Più volte la gente ci ha gridato: aiutateci a ritornare a
vivere!». Lo stesso giorno, in aereo, di rientro dal suo viaggio apostolico in Corea (13-18
agosto), Papa Francesco ha parlato della tragedia irachena e della guerre nel mondo nel
corso dell’incontro con i giornalisti al seguito (cfr Oss. Rom.,20 agosto 2014, 4 s.). Alla
domanda: «Lei approva questo bombardamento americano attuato per prevenire il
genocidio e difendere le minoranze anche cattoliche?», il Pontefice ha risposto: «In
questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare
l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra,
ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. Fermare
l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con
questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli
e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si
ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata l’idea delle
Nazioni Unite: là si deve discutere, dire: “Èun aggressore ingiusto? Sembra di sì. Come lo
fermiamo?”. Soltanto questo, niente di più». Il Papa ha concluso: «Perché a me dicono: “I
cristiani, poveri cristiani...”. Ed è vero, soffrono. I martiri, sì, ci sono tanti martiri. Ma qui
ci sono uomini e donne, minoranze religiose, non tutte cristiane, e tutti sono uguali
davanti di Dio. Fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità, ma è anche un
diritto dell’aggressore, di essere fermato per non fare del male». Rispondendo a un
giornalista giapponese, il Papa ha poi affermato: «E oggi noi siamo in un mondo in
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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guerra, dappertutto! Qualcuno mi diceva: “Lei sa, Padre, che siamo nella Terza Guerra
Mondiale, ma ‘a pezzi’?”. Ha capito? È un mondo in guerra, dove si compiono queste
crudeltà». E ha proseguito con una duplice riflessione: «Vorrei fermarmi su due parole.
La prima è crudeltà. Oggi i bambini non contano! Una volta si parlava di una guerra
convenzionale; oggi questo non conta. Non dico che le guerre convenzionali siano una
cosa buona, no. Ma oggi arriva la bomba e ti ammazza l’innocente con il colpevole, il
bambino, con la donna, con la mamma... ammazzano tutti. Ma noi dobbiamo fermarci e
pensare un po’ al livello di crudeltà al quale siamo arrivati. Questo ci deve spaventare!
Non lo dico per fare paura: si può fare uno studio empirico. Il livello di crudeltà
dell’umanità, in questo momento, fa piuttosto spaventare. «E l’altra parola sulla quale
vorrei dire qualcosa, e che è in rapporto con questa, è la tortura. Oggi la tortura è uno dei
mezzi quasi — direi — ordinari dei comportamenti dei servizi di intelligence, dei
processi giudiziari… E la tortura è un peccato contro l’umanità, è un delitto contro
l’umanità; e ai cattolici io dico: torturare una persona è peccato mortale, è peccato
grave! Ma di più: è un peccato contro l’umanità. Crudeltà e tortura. Mi piacerebbe tanto,
a me, che voi nei vostri media, faceste delle riflessioni: come vedete queste cose, oggi?
Com’è il livello di crudeltà dell’umanità? E cosa pensate della tortura? Credo che farà
bene a tutti noi riflettere su questo».
Un commento: per la pace giusta
Il Pontefice, nel suddetto incontro del 18 agosto, ha ribadito la dottrina del Catechismo
della Chiesa Cattolica sulle condizioni dell’uso moralmente giusto della forza militare (ius
ad bellum), e sul ruolo apicale e legittimante del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e del
diritto internazionale, che include il diritto umanitario (ius in bello). Il grido profetico
della Chiesa è: «Mai più la guerra!». Il suo magistero non si riduce alla «giustizia della e
nella guerra», ma si incentra e si fonda sulla «pace giusta» e sulla solidarietà («carità»)
internazionale. Essa non si occupa di proporre strategie e tattiche belliche. Questo non
rientra nella sua missione e nelle sue competenze. Questo spetta alle autorità civili e
militari e ai laici esperti, anche cattolici. La Chiesa si esprime legittimamente nel
chiedere di fermare l’ingiusto aggressore; nel giudicare la necessità militare o meno di
un intervento armato come ultima ratiodella politica (cfr Papa Francesco nel settembre
2013 contro i bombardamenti statunitensi in Siria, e Giovanni Paolo II contro l’invasione
in Iraq nel marzo 2003); nel verificare la legittimità del processo politico che decida per
l’intervento armato; così come nel denunciare ogni genere di crimine, e in particolare il
non rispetto della proporzionalità degli effetti nell’impiego della forza legittima. La Santa
Sede si pone in prima linea nel promuovere soluzioni diplomatiche di compromesso
intelligente e nel soccorrere le popolazioni in emergenza umanitaria, potendo usare
anche gli strumenti della Caritas internationalis e della collaborazione delle Chiese locali
e delle ong cattoliche. Propone e sostiene il più ampio consenso internazionale al fine di
aiutare gli indifesi e gli indigenti. Al loro benessere è infatti funzionale la sicurezza locale,
regionale e globale, che si deve fondare sulla condivisione dei poteri sovrani e sulla
corresponsabilità di ogni Stato, in proporzione alle sue possibilità. Ciò esige che vadano
potenziati gli organismi internazionali e le istituzioni statali chiave. In primo luogo è
fondamentale il consolidamento di un esercito, di una polizia e di un apparato
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giudiziario nazionali, inter-tribali in Iraq, Afghanistan ecc. Perché sempre più problemi
«comuni e in comune» travalicano le possibilità di soluzioni nazionali o regionali. E
perché non ci siano zone nel mondo non governate (ossia in mano a criminali e
terroristi). La Chiesa non sostiene un pacifismo imbelle e ingenuo al fine di condannare
un militarismo che assolutizza l’efficacia della violenza. La sua proposta per il
progressivo disarmo mondiale (anche delle idee e nei cuori) si associa alla graduale
realizzazione di istituzioni sovrannazionali efficaci, perché innanzitutto esse creano
fiducia tra gli Stati. E così promuovono la buona fede nella stipula degli accordi
interstatali, come pure l’accoglienza sia delle verifiche sul rispetto dei patti sia delle
sanzioni comminate da organismi terzi o comuni. Ovviamente, per promuovere la pace
è necessario conoscere che cosa è veramente la guerra (e non che cosa vorremmo che
fosse), perché è una costante nella storia umana. Anche se preferiamo che nessuno usi
la violenza perché un altro assecondi i propri voleri e accetti la «pace» che gli si voglia
imporre. Tuttavia occorre conoscere e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche
quelli della comunicazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra,
frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere
un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo
«Stato di diritto». È cruciale studiare e comprendere perché e come l’Is combatte. La sua
è una guerra di religione e di annientamento. Non va confusa o ridotta ad altre forme, da
quella bolscevica a quella dei khmer rossi. Strumentalizza il potere alla religione e non
viceversa. La sua pericolosità è maggiore di al-Qaeda. Giudicare la legittimità di
interventi mirati spetta al legittimo governo di Baghdad che li ha richiesti; agli organi
dell’Onu, in primis al Consiglio di Sicurezza, che non si è opposto (con la Cina che è
sembrata apprezzare); a chi li attua; e alla comunità degli esperti di guerra e di diritto
internazionale. Tuttavia costoro hanno il dovere di rispondere ai dubbi e alle critiche dei
loro cittadini e dell’opinione pubblica internazionale. Analisti militari attestano che
l’attuale soluzione armata non è efficace. Limitarsi a questo mezzo può continuare a
permettere all’Is spazi di conquista e occasioni di atrocità maggiori. All’Is vanno
interdetti i rifornimenti di armi, l’arruolamento e l’addestramento di nuovi combattenti, i
canali di finanziamento, le infrastrutture energetiche e logistiche. Ma non basta «l’arte
della guerra»: servono la politica interna, la diplomazia, la religione, l’economia (ossia un
lavoro per i giovani mediorientali e non un impiego in attività criminali e mercenarie).
La stabilità e la sicurezza saranno garantite soltanto se i sunniti in Siria e in Iraq
avranno gli stessi diritti politici, civili, sociali ed economici delle altre etnie e gruppi
religiosi. Ma questa soluzione di «politica interna» sarà fattibile soltanto se le potenze
regionali troveranno un accordo per interrompere lo scontro settario tra sunniti e sciiti e
mettere pace tra l’Iran e le Monarchie del Golfo. E soprattutto se gli intellettuali
musulmani svuoteranno il conflitto ideologico-religioso tra le scuole interpretative
sunnite sul jihad. La guerra dai tratti religiosi è estremizzata anche contro i musulmani
sunniti che non sono «veramente» salafiti, inclusi i Fratelli Musulmani, Hamas, i
wahabiti sauditi e i jihadisti al-Qaeda. Costoro sono apostati, secondo l’Is, perché non
perseguono il Califfato globale, ma al massimo Stati nazionali governati dalla sharia. E
per conquistare il consenso e l’aiuto del maggior numero di «veri musulmani», l’Is
incorporerà anche le attività tipiche di al-Qaeda: attentati suicidi anche nei Paesi non a
maggioranza musulmani. Deve destare attenzione la capacità dell’Is di attirare volontari
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da tutto il mondo, ma pure numerose donne nei territori occupati. Esse accettano di
combattere per quel jihadismo maschilista, perché l’Is proteggerebbe e promuoverebbe
i diritti del proprio gruppo sunnita. Il «Califfato islamico» offre un’identità e
un’appartenenza sociale — qualcosa e qualcuno per cui morire e avere il paradiso — e,
insieme, un progetto politico, benché teocratico, di «Stato di diritto», di welfare e
«cosmopolitismo». Sono trasmutate queste categorie della modernità occidentale, che
per di più si stanno svuotando di senso, di valori e di forza motrice soprattutto in Europa.
Il ruolo delle religioni e degli intellettuali musulmani
Non lascia indifferenti il recente editoriale, «Noi in fuga dalla realtà», di E. Galli della
Loggia: in particolare gli europei occidentali non sono in grado di affrontare con
realismo lo scontro con il sedicente Califfato islamico, avendo evitato di riflettere su
«religione, guerra e civiltà» (non semplice «cultura»). La religione è un fenomeno
sociale potente anche a livello globale. Ne è prova pure l’eco in Occidente dell’incontro
del Papa con i giornalisti del 18 agosto; ma anche l’attenzione dei media sulla politica
interna di Israele. Ma contro la guerra religiosa scatenata dall’Is, data la sua non
disponibilità a cessare il fuoco e a negoziare, la risposta sbagliata è una controffensiva
armata di stampo religioso, anche soltanto intra-islamico: si radicalizzerebbe
l’islamismo dell’Is nelle menti e nei cuori di molti musulmani. Le armi da fuoco sono di
pertinenza della politica, quelle delle religioni sono il dialogo e la formazione di
coscienze rette e corrette. Lo ha rimarcato la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per il
Dialogo Interreligioso del 12 agosto. In essa si fa osservare che la contestazione della
restaurazione del «Califfato» «da parte della maggioranza delle istituzioni religiose e
politiche musulmane non ha impedito ai jihadisti dello “Stato Islamico” di commettere e
di continuare a commettere atti criminali indicibili». Ed essi vengono elencati. «Nessuna
causa può giustificare tale barbarie e certamente non una religione. Si tratta di una
gravissima offesa all’umanità e a Dio che è il Creatore». Il Documento prosegue: «La
situazione drammatica dei cristiani, degli Yazidi e di altre comunità religiose
numericamente minoritarie in Iraq esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da
parte dei responsabili religiosi, soprattutto musulmani, delle persone impegnate nel
dialogo interreligioso e di tutte le persone di buona volontà. Tutti devono unanimemente
condannare senza alcuna ambiguità questi crimini e denunciare l’invocazione della
religione per giustificarli. Altrimenti quale credibilità avranno le religioni, i loro seguaci
e i loro leader? Quale credibilità potrebbe avere ancora il dialogo interreligioso così
pazientemente perseguito negli ultimi anni? «I leader religiosi sono inoltre chiamati a
esercitare la loro influenza sui governanti per la cessazione di questi crimini, la
punizione di coloro che li commettono e il ripristino dello Stato di diritto in tutto il Paese,
assicurando il rientro di chi è stato cacciato. Ricordando la necessità di un’etica nella
gestione delle società umane, questi stessi leader religiosi non mancheranno di
sottolineare che sostenere, finanziare e armare il terrorismo è moralmente
riprovevole». E il Documento rivolge un appello a tutti i musulmani perché si uniscano
nel combattere questa dottrina estremista. Segnaliamo che il Gran Muftì — la massima
carica religiosa nazionale — dell’Arabia Saudita, il 9 agosto, come in precedenza il suo
Re, ha dichiarato che «lo Stato Islamico e al-Qaeda sono apostati». Anche il suo omologo
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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egiziano è intervenuto, denunciando il Califfato islamico come minaccia per l’islam. Il
Gran Muftì turco ha ribadito che le atrocità commesse in Iraq e Siria non trovano posto
nella religione musulmana, ma sono una malattia della società; non sono giustificabili
nell’islam e in alcuna sua setta. Sulla stessa linea si sono espressi il Segretario generale
della Organizzazione della Cooperazione islamica e quello della Lega Araba.
Rimarchevole l’azione del Grande Ayatollah Alì al-Sistani, la massima autorità religiosa e
morale per gli sciiti in Iraq. Egli ha crea¬to i presupposti politici per le dimissioni
dell’ex-premier iracheno al-Maliki; altrimenti non si sarebbe aperta la possibilità di un
nuovo Governo, credibilmente nazionale perché inclusivo, ma che aspetta di essere
varato entro il 10 settembre dallo sciita Haider al-Abadi, il premier incaricato. Sistani è
colui che, senza prendere posizione in un partito, continua a voler ritessere la stoffa
sociale, cioè interconfessionale e multietnica, dell’Iraq. Per questo il suo nome è tra
quelli proposti per il Nobel della pace 2014. Il Califfato islamico è un proto-Stato, benché
terrorista. Domina su circa 6 milioni di abitanti, offre servizi pubblici e combatte la
corruzione dei funzionari pubblici per conquistare le menti e i cuori dei suoi sudditi
sunniti. Persegue obiettivi religiosi usando «in modo apocalittico» gli strumenti della
politica, dell’economia e della forze armate. La comunità islamica mondiale ha il dovere
di distruggere nei cuori di tutti i musulmani una concezione estremista del Corano e
della tradizione islamica. A tutti spetta però il dovere di non strumentalizzare l’islam (e
nessuna religione) per fini egemonici politici, economici o settari.
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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Articolo n.9: “Per fortuna è arrivato il Califfo”, Maurizio
Blondet
Dal sito www.effedieffe.com – 8 settembre 2014
Le atrocità del Califfo al Mossad: occhio alle menzogne
«Strage in Iraq, uccisi 500 yazidi. Donne e bambini sepolti vivi». Sui media, i titoli sono
riprodotti con lo stampino. «300 donne ridotte schiave sessuali» dal Califfo, decine di
migliaia di yazidi e cristiani un fuga, i bravi peshmerga (tanto amati da Israele) che
aprono un corridoio umanitario. Tutto vero e terribile (così ci assicurano gli inviati
speciali). Tanta tragedia ha almeno un vantaggio: ha fatto sparire le atrocità israeliane su
Gaza, le immagini di morte e distruzione ebraiche.
Si metteva male, stavolta, per Sion. Troppi goym s’erano indignati del genocidio, in tutto
il mondo. Per tornare a fare le vittime, stavolta, non basta nemmeno ricorrere alla
vecchia misura propagandistica: scritte anti-ebraiche sui muri a Roma e Parigi,
occasione di articolo frementi di civiltà sul rinascente antisemitismo europeo. S’è dovuto
organizzare una campagna contro un mostro sacro del «diritto umanitario», Amnesty
International, accusandola di antisemitismo, perché minaccia di documentare le atrocità
commesse a Gaza in un futuro processo presso il Tribunale Internazionale.
Si è arrivati a questo: che il Times di Londra aveva persino rifiutato un articolo di Elie
Wiesel (o dell’uomo che sotto questo nome ha riscosso il Nobel come sopravvissutotipo dei Lager di sterminio nazisti), dove Wiesel diceva che a Gaza era Hamas ad
ammazzare i bambini palestinesi, non le bombe e le cannonate ebraiche. Eppure gli
accenti del grande sopravvissuto non potevano essere più alti e vibranti: «Gli ebrei
hanno rifiutato la pratica di sacrificare bambini 35000 anni fa; adesso è la volta di
Hamas». «Nella mia vita ho visto bambini ebrei gettati nel fuoco», ha scritto Wiesel
senza spiegare dove e come (la sua memoria dei Lager si arricchisce di sempre nuovi,
tremendi dettagli via via che passano i decenni), «e adesso, vedo bambini musulmani
utilizzati come scudi umani – in entrambi i casi da adoratori del culto della morte che
non li differenzia dagli adoratori di Molok». Niente, il Times non ha voluto il pezzo. A
questo punto, che fare? Per fortuna è apparso il Califfo. Un musulmano più cattivo degli
israeliani, che compie più atrocità di Sion e del glorioso Tsahal. Seppellisce vivi bambini
yazidi, uccide cristiani. Anzi, peggio: «Abu Bakr al-Baghdadi ha dato ordine di infibulare
tutte le ragazze e le bambine presenti sul suolo iracheno». Mette in pericolo la Cristianità
(di cui i media scoprono improvvisamente l’esistenza minacciata) e le «conquiste delle
donne», stringe nella reazione alla minaccia la Bonino ed il buon Socci, unifica la Boldrini
non meno dell’ateo devoto neocon Giuliano Ferarra – nello stesso raccapriccio. Tutto
l’occidente unito. Obama ordina il bombardamento delle posizioni dell’ISI: due bombe
(due). Con delicatezza, quei ribelli e quegli armamenti sono costati un occhio al
contribuente USA. Applausi, la guerra continua. Mandiamo armi pesanti ai peshmerga
tanto amati da Sion (come abbiamo già fatto ai ribelli siriani che poi si sono rivelati
essere l’ISIS): loro ci difenderanno, i valori giudeo-cristiani sono affidati alle loro mani
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civilissime, sicuramente Hollywood sta già producendo il film: Peshmerga, con Angelina
Jolie e Jonny Depp. I bambini di Gaza, il sangue, le macerie, il genocidio sotto gli occhi
dell’Occidente? Dimenticati. Hanno distrutto case, ospedali, scuole, cimiteri, la centrale
elettrica. Hanno lasciato su questo monte di macerie 250 mila senza tetto che non hanno
cibo né acqua. Migliaia di feriti senza cure né ospedali, e nemmeno ambulanze (hanno
sparato sulle ambulanze). Non ce ne preoccupiamo più, basta, la notizia è scomparsa.
Adesso, ci insegnano a piangere sugli yazidi. I grandi giornali USA possono finalmente
postare vignette come quella di cui sopra, con un bell’amalgama fra terroristi veri,
terroristi falsi e patrioti che difendono il proprio suolo (Hezbollah, Hamas). Gli attivisti di
Sion, incaricati dell’Hasbara, possono postare equivalenze un po’ azzardate come
questa: «Chi è con Hamas contro Israele, sostiene il califfato». Hillary Clinton può
dichiarare quanto segue: «Cosa succede in Europa? Ci sono enormemente più
manifestazioni contro Israele che contro la Russia, eppure questa s’è impadronita di un
pezzo di Ucraina ed ha abbattuto un aereo civile». La Russia ha abbattuto un aereo
civile!?: un po’ forte, un po’ azzardato, tanto che rischia di scoprire il gioco. Il gioco che si
chiama «disinformazione», ed è in pieno corso a proposito dell’atroce Califfo. I
giornalisti nostrani ci vanno a nozze. Favoriti da provvidenziali vuoti di memoria o santa
ignoranza. Hanno dimenticato che la truppa dello IS è finanziata ed armata dai sauditi ed
è stata addestrata da istruttori americani per distruggere il regime di Assad in Siria, e che
ha recuperato Humvee, carri armati e artiglieria mobile Made in USA con il suo assalto
di sorpresa alle truppe irachene: e sùbito la Casa Bianca, invece di prendersela con i
tagliagole, ha messo sotto accusa il premier iracheno Al Maliki – di cui chiaramente
cerca di provocare la caduta. I giornalisti non hanno visto gli articoli dove Edward
Snowden, l’ex analista della National Security Agency, lo spifferatore dei loschi segreti
americani, ha spiegato che per creare lo ISIS ci si sono messi in tre, «the British and
American intelligence and the Mossad worked together to create the Islamic State of
Iraq and Syria (ISIS)». Lo scopo, «creare un’organizzazione capace di attrarre tutti gli
estremisti del mondo in un posto solo». Siccome oggi lo Stato ebraico manca di un
nemico reale, grosso e minaccioso abbastanza da giustificare lo slogan «Israele si sta solo
difendendo», la creazione dell’ISIS serve anche a questo: «La sola soluzione per la
protezione dello Stato ebraico è creare un nemico presso i suoi confini». Mica un nemico
vero: un islamismo che «semini discordia e violenza settaria» fra i musulmani, en
passant rendendo odioso l’Islam, allarmando gli occidentali sul pericolo verde, e
coalizzandoli a difesa della civiltà giudaico-cristiana. Appunto la funzione che svolge Abu
Bakr Al Baghadli, il califfo. Ammesso che questo sia il suo nome, anzi non concesso:
«Abu Bakr» fu il nome del primo califfo dopo Maometto, ed è chiaramente un nome
inventato per suggestionare. Secondo Snowden, e l’intelligence iraniana, il suo vero
nome è Elliot Shimon, figlio di padre e madre ebrea, addestrato in guerra psicologica
contro le società arabo-islamiche, oltreché in arte militare, teologia islamica ed oratoriaretorica islamista dal Mossad. In altri periodi della sua vita l’hanno chiamato «Emir
Daash» (dalla sigla dell’ISIS in arabo), in altri, ha avuto il nome di Ibrahim ibn Awad ibn
Ibrahim Al Al Badri Arradoui Hoseini. Gli americani gli hanno fornito un passato giusto,
detenendolo per qualche tempo (le date sono incerte) a Camp Bucca, la più vasta
prigione che le forze occupanti USA hanno gestito in Iraq (l’hanno chiusa nel 2009),
presso la frontiera col Kuwait. La Croce Rossa, in un suo rapporto riservato del 2004, ha
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scritto che il 90% degli iracheni che gli americani detenevano a Camp Bucca erano stati
arrestati «per caso», ossia senza motivo. Alcuni ex detenuti di Camp Bucca hanno detto
ad Al Jazeera che quello era «una scuola di Al Qaeda», dove gli americani lasciavano che
gli elementi più estremisti radicalizzassero gli arrestati «per caso». Un carceriere, l’ex
ufficiale della US Air Force James Skylar Gerrond, l’ha definita «una pentola a pressione
dell’estremismo». Riapparso come Califfo, l’ex prigioniero (o addestrato) fa il diavolo a
quattro proprio mentre Israele rade al suolo Gaza con tutti i suoi abitanti. Israele
ammazza duemila palestinesi, fra cui 470 bambini? E il Califfo «seppellisce vivi 500
yazidi», e in più «ordina l’infibulazione di tutte le donne». Andare a combattere contro
Israele? Il Califfo sancisce: «Combattere gli apostati vicini è più importante che
combattere gli infedeli lontani», aggiungendo: «Il Profeta aveva combattuto Quraysh
prima di passare a combattere gli ebrei di Banu Qurayza» (è davvero ben istruito).
Come si vede, Israele e il Califfo coi suoi takfiri hanno lo stesso nemico: gli sciiti, Iran,
Assad, Hezbollah. È una sorprendente coincidenza? Basta aver dimenticato, come fanno i
giornalisti, quelle foto del maggio 2013 in cui il senatore McCain posava con i bravi
ribelli anti-siriani, molti dei quali – oh sorpresa – oggi militano nell’ISI e stanno col
Califfo Al-Mossad. Era andato a trovarli nelle retrovie, e s’era felicitato con loro. Anche
loro si erano felicitati con lui (oggi, McCain accusa Obama di mollezza perché bombarda
poco i suoi amici di ieri). Ma i giornalisti non ricordano. Nessuno sparga più lacrime su
Gaza, adesso i Lorenzo Cremonesi, i Maurizio Molinari eccetera vi fanno spargere
lacrime sui poveri cristiani in Iraq costretti a lasciare le loro case (che sotto Saddam
abitavano sicuri): non c’è ateo occidentalista cui non si inumidiscano le ciglia al racconto
delle loro disgrazie. E degli yazidi, poi, poveretti! nessuno ne sapeva niente, fino all’altro
ieri. Adesso l’Occidente si mobilita per loro, per loro bombarda e a loro lancia cibo ed
acqua. Anche loro, sotto Saddam, avevano cibo, acqua ed abitazioni. Sono state le
invasioni americane a devastare le loro vite, come quelle di tutti gli iracheni.
Non che non siano vere queste sciagure, e quelle altre che il Califfo procurerà. Sono stati
riuniti da ogni parte del mondo dei fanatici sgozzatori, che filmano i loro assassinii e li
postano sui social network. Cercate di vedere che – come Israele – stanno ammazzano
dei musulmani. Non solo sciiti, ma sunniti dell’Iraq vengono terrorizzati; e questi, se
scappano nelle zone kurde, sono dai curdi trattati come nemici: come fanno gli israeliani.
Ma cercate – sotto la tempesta informativa, che contrasta così tanto con il buco
informativo di altre tragedie –, imparate a sentire il puzzo della disinformazione, della
propaganda, del «due pesi due misure»: i media plaudono all’intervento umanitario di
Obama in Iraq, mentre nel Donbass, dove il regime di Kiev compie una strage nel
silenzio dei media ed è in corso una catastrofe umanitaria voluta e favorita dagli
americani, un intervento umanitario russo è vietato: Obama e la NATO hanno avvertito
che lo considererebbero «una invasione dell’Ucraina». Dovreste ormai sapere come
sono bravi, i soliti noti, nella «narrativa». Come sono bravi a ficcare le mani nel sangue, e
piangere come vittime. Uno l’abbiamo nominato, è Elie Wiesel. Un altro è Bernard
Henry Lévy, il philosophe che ha incitato all’intervento francese in Libia, l’uomo che ha
detto «La primavera araba è buona per Israele», l’uomo di cui il Corriere (al contrario
del Times) ha pubblicato una difesa dei massacri israeliani a Gaza che unisce minacce a
menzogne rivoltanti, una vera vergogna per il «grande» giornale: «A Parigi, col pretesto
di difendere la Palestina, migliaia di uomini e donne se la sono presa di nuovo con gli
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ebrei. A questi imbecilli oltre che mascalzoni, o viceversa, ricordiamo, ad ogni buon
conto, che mescolare ebrei e israeliani in una stessa riprovazione è il principio stesso di
un antisemitismo che, in Francia, viene punito dalla legge – (...) Non c’è aggressione, ma
contrattacco di Israele di fronte alla pioggia di missili che, ancora una volta, si abbattono
sulle sue città e che nessuno Stato al mondo avrebbe tollerato così a lungo; che Gaza è, in
effetti, una sorta di prigione ma, avendola gli israeliani evacuata ormai da quasi dieci
anni, non si capisce come potrebbero esserne i carcerieri. Cosa pensare, invece, di
Hamas che mantiene l’enclave sotto il giogo, che tratta i propri abitanti come ostaggi».
Lacrime per i poveri cristiani iracheni, è giusto. Ma le lacrime sono mancate per le
decine di guerre che gli Stati Uniti hanno sferrato contro l’Iraq perché altrimenti Israele
non si sentiva tranquillo, portando il Paese all’età della pietra e alla guerra civile
permanente, un milione di morti dopo: da Bush padre a Clinton, da Bush figlio ad
Obama Operation Desert Shield; Operation Desert Storm; Operation Provide Comfort I
and II; Operation Southern Watch; Operation Desert Strike; Operation Northern Watch;
Operation Desert Fox; Operation Southern Focus; Operation Iraqi Freedom; Operation
New Dawn, fino alla attuale Operation «Humanitarian» di Obama.
Come siamo umani, noi occidentali. Come siamo teneri.
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23 –26 Ottobre
Articolo n.10: “Parliamo di uomini, non di numeri”,
Chiara Nardinocchi
Dal sito www.repubblica.it – 20 agosto 2014
A più di tre anni dallo scoppio del conflitto, l'emergenza umanitaria siriana
peggiora di giorno in giorno. La guerra ha decimato la popolazione costretta spesso
a varcare i confini e rifugiarsi nei campi profughi. Medici Senza Frontiere ha girato
un video per raccontare la giornata di chi la guerra la vive in prima persona e
cercare di umanizzare le cifre che sempre più spesso prendono il posto delle
persone.
La gente in Siria ha bisogno di tutto". A dirlo è il Luigi Montagnini, medico anestesista e
vicepresidente di Medici senza frontiere. Lui in Siria c'è stato, quando ancora era
possibile alle strutture medico sanitarie esercitare sul campo. Adesso MSF è presente nei
campi profughi in Iraq, Libano, Giordania e Turchia ove molti siriani hanno trovato
rifugio. Per raccontare il dramma vissuto da milioni di persone che da più di tre anni
convivono con la distruzione e l'inumanità della guerra, MSF ha girato dei video dal titolo:
"L'impatto della guerra: Un giorno nella vita del conflitto siriano". Riportare umanità.
"Uno dei gesti più importanti che ho fatto quando ero ad Aleppo - afferma Montagnini - è
tato quello di recuperare un orsacchiotto per una bambina ricoverata nel nostro
ospedale". Un gesto, anche dei più semplici, può ridare un nome alle vittime elencate
nelle statistiche che rimbalzano nei media e spesso allontanano i fatti dalla loro vera
portata. "La cosa di cui c'è più bisogno adesso - continua - è ricreare per queste persone
un contesto fatto d'umanità spazzato via da una guerra che ha devastato ciò che
avevano. Quello che si capisce quando si conoscono queste persone è che a loro manca
tutto". Una percezione difficile da comprendere se si è a chilometri dal conflitto. "Tutti
sanno quello che sta succedendo in Siria, ma è davvero difficile capire quello che questa
gente sta vivendo. In fondo basta vedere poi come la comunità internazionale agisce
quando cercano rifugio in altri stati". Un grido d'allarme. Dopo il rapimento di cinque
operatori, MSF ha lasciato gran parte dei progetti presenti nel territorio siriano. Una
scelta che non è dipesa dalla volontà, ma dall'isolamento da parte della comunità
internazionale. "Il progetto dove ho lavorato a nord di Aleppo – spiega Montagnini - è
stato smantellato per via delle difficili condizioni. Il rischio è diventato enorme non solo
per noi, ma anche per i nostri pazienti. Adesso alcuni progetti li portiamo avanti grazie a
delle persone del posto". Una situazione inaffrontabile senza il sostegno della comunità
internazionale che sembra aver voltato le spalle a molte organizzazioni umanitarie. "Non
riusciamo a capire questo ostruzionismo - sottolinea il vicepresidente di MSF - Già in
Somalia abbiamo assistito a una situazione analoga. Il problema è che la nostra
organizzazione, come molte altre, non viene più percepita come un attore indipendente,
ma come parte in causa. È un grido d'allarme generalizzato, perché non esistono più
guerre convenzionali, ma in campo ci sono così tante forze che diventa difficile dialogare
con tutti". L'emergenza dentro l'emergenza. L'assistenza sanitaria in Siria è del tutto
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inesistente. Molti medici sono morti e le strutture sono state bombardate e saccheggiate.
Ai civili siriani manca ogni sorta di cura, anche per malattie che con la guerra non hanno
nulla a che fare come diabete e ipertensione. I bambini non sono vaccinati e le donne
devono partorire senza assistenza. "Il lavoro è enorme - seguita Montagnini - e non
riusciamo a far fronte a tutto. Siamo partiti con programmi per le ferite di guerra, ma i
problemi principali sono quelli legati alla medicina comunitaria. Adesso siamo presenti
in campi profughi dove mancano acqua potabile e servizi igienici, ancora più importanti
delle medicine". Un'emergenza amplificata dagli ultimi accadimenti in Iraq. "Stiamo
assistendo - dice - a un controesodo. I siriani che si erano rifugiati a nord dell'Iraq,
adesso cercano di tornare in Siria, ma si trovano schiacciati tra due confini di paesi in
guerra. Il flusso di persone è incredibile, per non parlare delle problematiche legate alla
mancanza di acqua e di beni di prima necessità".
Un giorno nel conflitto. Per "umanizzare" il conflitto siriano Medici senza Frontiere
(MSF) ha promosso "L'impatto della guerra", un documentario multimediale che
racconta un giorno nella vita del conflitto in corso in Siria dalla prospettiva degli
operatori sanitari, dei pazienti e dei rifugiati. Per girarlo sono stati chiamati registi e
fotografi come Kate Brooks, Yuri Kozyrev, Moises Saman, Daniel Etter, e Ton Koene che
nel dicembre 2013 hanno visitato le cliniche e gli ospedali di MSF negli insediamenti di
rifugiati a Domiz in Iraq, nella Valle della Bekaa in Libano, a Ramtha e Amman in
Giordania, al fine documentare la situazione e il lavoro che viene svolto nel corso di una
giornata.
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Articolo n. 11: “E l’America spera negli ayatollah”,
Rodolfo Casadei
Dalla rivista settimanale “Tempi” – 25 giugno 2014 / anno 20 / numero 25
Obama non farà nulla per difendere Baghdad. Anzi, lascerà all’Iran il compito di
salvare il paese. Con tutti i rischi che gli Stati Uniti ben conoscono.
No, gli Stati Uniti non interverranno massicciamente in difesa del governo iracheno di Al
Maliki sotto assedio, tutt’al più faranno l’indispensabile perché lo Stato islamico dell’Iraq
e del Levante (Isil) non vinca completamente la partita. Per una ragione che pochi sono
disposti a confessare e che la retorica anti-jihadista dell’amministrazione americana
occulta accuratamente: l’avanzata dei terroristi sunniti è funzionale alla politica degli
Stati Uniti in Medio Oriente dopo il ritiro delle loro truppe dall’Iraq, concluso nel
dicembre 2011. Sul posto sarebbero dovute restare alcune migliaia di unità a garantire
la stabilità del paese e a far progredire l’addestramento delle forze locali, ma il primo
ministro sciita, anche per le pressioni di Teheran, non raggiunse alcun accordo con
Obama e l’esodo americano fu totale. Otto anni di occupazione militare, una guerra
costata 139 mila morti (di cui 4.400 americani) e 130 miliardi di dollari spesi per
armare e addestrare l’esercito iracheno post-Saddam hanno prodotto l’ascesa al potere a
Baghdad di un governo amico dell’Iran e molto freddo nei confronti di Washington.
Da qui la necessità di cambiare strategia: piuttosto che lasciar scivolare l’Iraq, con tutte
le sue armi e il suo petrolio, nella sfera d’influenza iraniana, per l’America è molto
meglio veder realizzato quel “piano B” di cui molti parlarono negli anni più caldi della
crisi interna irachena, quelli fra il 2005 il 2007. Cioè la spartizione del paese fra sunniti,
sciiti e curdi, le tre componenti etno-religiose tenute insieme con la forza da Saddam
Hussein. Non essendo più possibile esercitare sull’Iraq la propria influenza, gli Stati Uniti
puntano sul piano B per assestare all’Iran un doppio colpo: non solo sottraggono agli
ayatollah un alleato strategico, ma li spingono verso un intervento militare diretto per
salvare tale alleato, con tutti i rischi di impantanamento che gli americani ben
conoscono.
Obama non può dire queste cose ad alta voce, ma le dicono per lui gli editorialisti
del New York Times. Scrive Thomas Friedman: «È stato l’Iran ad armare le milizie sciite
con gli ordigni esplosivi che hanno ucciso e ferito tanti soldati americani. L’Iran voleva
che ce ne andassimo. Ed è stato ancora l’Iran a fare pressioni su Maliki perché non
firmasse l’accordo che avrebbe dato copertura legale alla presenza delle nostre truppe.
L’Iran voleva essere l’egemone regionale. Bene, generale Suleimani (il comandante delle
truppe speciali iraniane, ndr), “Questa birra è per te”. Ora sono le tue forze a essere
sovraesposte in Siria, Libano e Iraq, mentre le nostre sono tornate a casa. Buona
fortuna. Con l’Iran ancora sottoposto a sanzioni e le sue forze impegnate a combattere
insieme a quelle di Hezbollah in Siria, Libano e Iraq, beh, diciamolo: vantaggio per
l’America».
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Le strategie di Washington
Dall’Ucraina alla Siria all’Iraq, la politica estera americana appare sempre più basata
sulla lezione imparata dagli errori del passato: impantana i tuoi nemici (Russia, Iran)
come tu fosti impantanato (Vietnam, Afghanistan, Iraq). Che Isil non sia isolato come si
vuol far credere lo si può capire da molti indizi. Mentre si scontrano sanguinosamente
con le truppe di Baghdad, i suoi uomini hanno solo scaramucce minori coi curdi, che
grazie all’offensiva in corso si sono impadroniti di Kirkuk e di altre posizioni strategiche
da mettere al servizio di un Kurdistan indipendente. Gli ostaggi turchi sono stati rilasciati
e Ankara non ha nessuna intenzione di intervenire, mentre i ribelli del vecchio Baath e
alcune milizie tribali sunnite combattono a fianco degli uomini dell’Isil. Su Washington
splende il sole.
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UNO SGUARDO SUL MONDO. LA SIRIA, L’IRAQ E POI?
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BIBLIOGRAFIA
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Publi Affairs Publisher 2013
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2012
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FILMOGRAFIA
“18 days”, regia di AA. VV., 2011
“Bahrain: Shouting in the dark”, regia di May Ying Welsh, 2011
“Border”, regia di Alessio Cremonini, 2013
“Cairo Drive”, regia di Sherief Elkatsha, 2013
“Green zone”, regia di Paul Greengrass, 2010
“M.A.R.E. Storie di Mediterraneo, Arabi, Rivolte ed Europa”, regia di L. Savino, M. Di
Noia ed E. Pierandrei, 2011
“Plus jamais peur”, regia di Mourad Ben Cheikh, 2011
“Rouge parole”, regia di Elyes Baccar, 2011
“Silvered Water, Syria Self-Portrait”, regia di O. Muhammed e W. S. Bedirxan, 2014
“Tahrir (Piazza della Liberazione)”, regia di Stefano Savona, 2011
“Tahrir 2011: The Good, the Bad, and the Politician”, regia di T. Ezzat, A. Abdalla, A. Amin
ed A. Salama, 2011
“The Square”, regia di Jehane Noujaim, 2013
“The Uprising”, regia di Peter Snowdon, 2013
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Un ringraziamento particolare a tutti gli studenti e le studentesse
che hanno offerto la loro collaborazione e il loro supporto nella
realizzazione del seminario:
Stefano Argyrou, Michele Brescia, Alessia Bove, Cosmin Cozma,
Giacomo Guarini, Jashwanni Grewal, Erica Immorlano, Alessandro
Leopardi, Erika Magnafico, Nino Marzullo, Adolfo Perrotta,
Mariangela Rosato.
Gaia Coltorti
Miriam Corrado
Martina Murabito
Giulia Santi
Gennaro Cataldo
Giuseppe Melcore
Vittorio Ruggieri
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