Luna Tiburtina

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Luna Tiburtina
Luna Tiburtina
Il rettangolo cartonato appeso al vetro non lascia dubbi, sentenzia
inappellabile: GUASTO.
Solo leggerlo mi dà un brivido, pietrificandomi.
L’ascensore non funziona. Guasto, appunto, inutilizzabile. La
prima volta in trent’anni. Lo so perché da trent’anni a Tiburtina non
sono mai rimasto a piedi con questo ascensore.
-Ci lavorano dal pomeriggio, dotto’.- Puntualizza Carlos dalla
portineria, l’inflessione a metà tra il peruviano stretto e il romanesco
di borgata, le fotografie del Machu Picchu con i nipoti piccoli,
appiccicate sul plexiglas della guardiola.
Sei piani da salire, la zavorra di otto ore d’ufficio, quattro per
gamba, pese come pietre.
Allora respiro, rifletto. Già sono stremato.
Non posso però perdere il programma in tv, ormai c’ho fatto la
bocca: l’allunaggio di Armstrong in digitale, dalla partenza fino al
rientro: il viaggio più significativo mai intrapreso. Me lo sognavo da
bambino.
Non mi va di salire a piedi, come non mi va di perdere il
programma. In altre circostanze aspetterei la fine dei lavori,
pazientemente, ma stasera vado di fretta.
Altro respiro, buona volontà, poi comincio a salire. Un piccolo
passo per uno allenato, un passo enorme per uno come me.
Gli ascensori si fermano, è una cosa normale. Qua però è così
insolito che tutti sembrano accorgersene, le porte allora sono
spalancate, e dalla tromba delle scale fanno capolino teste che si
affacciano, eccitate e un po’ stordite dalla novità. Neanche l’avessero
incendiato, il povero ascensore!
Al primo piano l’odore di cipolla mi ricorda che ho pranzato col
solito panino di plastica. Devo avere l’aria di un cane affamato,
adesso, perché un sorriso compassionevole e un dente d’oro mi fanno:
-Un ciòfte, vuoi?- Ervin mi spiega che giù al bar di Tirana ne
mangia sempre quattro o cinque, insieme ad un paio di rachí. In Italia
se li prepara da solo, se la macinata è buona.
-Polpette!- Le ribattezzo io addentandone una. Ne mangerei
volentieri un’altra, ma devo continuare a salire. Il programma sta per
cominciare.
Un piccolo scalino per uno come Armstrong, una catena montuosa
per uno come me.
Al secondo piano Doròta domanda se ho incrociato i tecnici. Flette
gli accenti in una cantilena narcotizzante, mi ipnotizza. Ancora in
lutto per Wojtyla, l’ingresso dell’appartamento è zeppo di fotografie,
una veduta di Wadowice, scopro che anche lei è nata lì.
-No, guarda, non so niente.- Mentre salgo continuo a dirle che non
so, forse finiranno presto, se sono lì dal pomeriggio, che non c’è da
preoccuparsi. Al terzo piano Mikail si unisce al discorso, mi afferra
per un braccio e offre una sigaretta.
-Per carità, devo arrivare al sesto, rischio di svenire se fumo, ma
grazie- Lui se ne dispiace, certo che il tabacco che si fa spedire
dall’Ucraina sia il migliore.
Altri scalini, lo sguardo basso. Un piccolo passo per un ex operaio
sovietico, una marcia forzata per un impiegato terziario italiano come
me, uno che non si è mai spostato da qui, neanche per andare in gita
a Perugia con la scuola, tanti anni fa, per colpa della varicella.
Il quarto piano è già fiatone, devo smettere di fumare, ricominciare
a correre. Da domani, giuro.
Faccio caso all’elefante sulla porta, braccia e occhi, porpora e
brillantini. Ne esce odore d’incenso e la sagoma di un pigiama verde,
la pelle olivastra, gesti calmi impastati nel fango del Gange. Insiste per
farsi chiamare Mario, anche se il nome vero è Tarun. Concordiamo
una partita a scacchi, ma non prima di domani, ché stasera mi
aspetta la tv, il mio volo nello spazio.
Ancora scalini. Un piccolo passo per un elefante, un passo lento
con un elefante in braccio per me, ogni volta che alzo un ginocchio.
Al quinto piano grondo come un pecorino, Farid domanda divertito
se ho bisogno d’aiuto. Infila il nome di Baghdad ogni sette, massimo
dieci parole. Fa per cominciare uno di quei racconti che si annunciano
interessanti ma interminabili. Fortuna che le grida allegre dei suoi
marmocchi riescono a interromperlo, così posso continuare a salire,
ormai manca poco.
Sesto piano, zerbino col gatto Silvestro disegnato in rilievo. Il mio
vicino di casa è dietro la porta, chiusa come al solito. Come al solito
non lo vedo, ma so che è là dietro: lo tradisce sempre un colpetto di
tosse.
-Ciao Dug.- Gli sussurro senza più fiato, convincendomi che da
domani, lo giuro, niente più motorino.
-Ciao.- Fa lui. E non apre mai. Resta lì dietro e ascolta.
-Ascensore rotto…Sentito casa? Che tempo fa a Melbourne?
-Caldo.
Varco la porta, un grande passo per me.
Tolgo i vestiti, poi doccia, poi divano. Scarto un pacchetto di
patatine fritte, aceto e formaggio. Da domani palestra e cibi sani, da
domani. Lo giuro.
Faccio in tempo a sorbire un po’ di pubblicità, e finalmente
comincia.
Il conto alla rovescia, i combustibili e i comburenti, la fiammata
gassosa che spinge i razzi, il modulo lunare, il piedone di Armstrong
sulla polvere grigia. Paf!
Un piccolo passo eccetera.
Resto un po’ deluso, non so bene perché, quasi sbadiglio.
Trecento e ottantaquattromila chilometri con un missile ad alta
tecnologia, lo spazio aperto, tute termiche argento, bombole
d’ossigeno: un piccolo passo per Armstrong.
Il giro del mondo con un ascensore guasto, venti minuti nella
tromba delle scale, giacca e cravatta, debito di ossigeno: un passo
gigantesco, per uno come me.
Paolo Grassi