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Newsletter n° 23 del 28 aprile 2015
AGGIORNAMENTO NORMATIVO
E GIURISPRUDENZIALE
A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI
Coordinata e diretta dal Dott. Claudio Biondi
COMUNE DI ASSO (CO) – PONTE SUL FIUME LAMBRO
SEGRETARI COMUNALI
1) MINISTERO DELL’INTERNO, ALBO NAZIONALE SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI – decreto 16
aprile 2015 - rimborso spese di viaggio per partecipazione a corsi di specializzazione.
(clicca qui per accedere ai contenuti del decreto)
ACCESSO, PRIVACY E TRASPARENZA
2) ALBO PRETORIO ON LINE: NO AI DATI PERSONALI PUBBLICATI TROPPO A LUNGO.
E’ illecito pubblicare nell'albo pretorio on line documenti contenenti dati personali oltre il termine previsto dalla legge. Il
principio è stato ribadito dal Garante privacy che ha vietato alla Regione Valle d'Aosta [doc. web n . 3882453] l'ulteriore
pubblicazione sul proprio sito web dei dati personali di un dipendente presenti nella delibera di Giunta con la quale il
lavoratore veniva trasferito ad altro ufficio per incompatibilità ambientale.
Nel dare ragione al dipendente che aveva segnalato la violazione, l'Autorità ha rilevato che la pubblicazione dei dati personali
del lavoratore sul sito della Regione oltre il termine di 15 giorni previsto dalla legge, non essendo prevista da alcuna norma,
determina una diffusione illecita di dati personali. Il Garante ha ritenuto, inoltre, non conforme al principio di pertinenza e non
eccedenza del Codice privacy la messa online della delibera contenente una serie di informazioni risultate eccessive, nonché
lesive della dignità del lavoratore (nome e cognome del dipendente, valutazioni sulla professionalità e sul comportamento,
motivi del trasferimento, dettagli su rapporti conflittuali, difficoltà di funzionamento dell'ufficio attribuiti alla sua presenza).
Con il provvedimento, il Garante ha chiarito, infine che qualora la Regione intendesse mettere on line altri documenti, ad es.
tutte le delibere adottate dagli organi collegiali, potrebbe farlo solo dopo aver proceduto alla anonimizzazione dei dati
personali in esse eventualmente presenti. Entro 180 giorni la Regione dovrà comunicare al Garante le misure adottate per
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adeguare la pubblicazione delle delibere in Internet alle prescrizioni impartite.
Con un separato procedimento l'Autorità si è riservata di valutare l'applicazione della sanzione amministrativa prevista per
l'illecita diffusione di dati.
2.1) T.A.R. FRIULI VENEZIA GIULIA, TRIESTE, 10 APRILE 2015, N. 176 - Accesso agli atti: i consiglieri
comunali possono non motivare la richiesta.
I consiglieri comunali hanno un diritto di accesso agli atti che si può ritenere sostanzialmente illimitato, senza che la richiesta
debba essere motivata. Al consigliere comunale e provinciale la speciale normativa in materia riconosce, infatti, un diritto
pieno e non comprimibile non prevedendo alcun limite nemmeno a tutela di esigenze di riservatezza. Resta fermo, tuttavia, il
dovere per i consiglieri medesimi di mantenere il segreto "nei casi specificamente determinati dalla legge".
2.2) TAR LOMBARDIA, BRESCIA, SENTENZA 8 APRILE 2015, N. 497 - Contratti pubblici: i segreti
commerciali non giustificano la riservatezza totale.
Nel caso degli accordi commerciali con soggetti pubblici le parti private non possono esigere la riservatezza sull’intero
contenuto negoziale, e certamente non sul sinallagma che descrive la composizione dei contrapposti interessi dei contraenti. È
quanto emerge dalla recente sentenza Tar Lombardia, Brescia sezione 1, sentenza 8 aprile 2015, n. 497: da un lato, chi è
legittimato a esercitare l’accesso deve, infatti, essere in grado di conoscere esattamente non solo la struttura e le finalità
dell’accordo ma anche i dettagli che hanno rilievo economico o comunque interessano la gestione di un bene pubblico;
dall’altro, l’amministrazione ha la necessità di dimostrare il buon uso delle risorse pubbliche. In questa prospettiva, sono
accessibili e devono rimanere tali tutte le clausole contenenti i reciproci obblighi e diritti dei sottoscrittori.
La relazione fra tra diritto di accesso e riservatezza delle imprese
L’articolo 24 comma 6-d) della legge 241/1990 sottrae all’accesso i documenti riguardanti la vita privata e la riservatezza tanto
delle persone fisiche quanto delle imprese, a protezione (tra l’altro) di interessi industriali e commerciali di cui le stesse siano
titolari.
Nella contrattualistica pubblica, in linea generale, la tutela del segreto commerciale può essere invocata in relazione a quegli
aspetti metodologici non compresi nello stato della tecnica, che abbiano un carattere assolutamente originale, o attinenti alla
tutela del disegno, dei processi o che riguardino il cosiddetto “know-how” in senso stretto, ossia le conoscenze tecniche, le
esperienze operative e gli studi applicativi suscettibili di essere utilizzati anche da terzi.
In tema di bilanciamento fra esigenze di difesa delle parti e tutela della riservatezza delle imprese e dei loro segreti
commerciali (quali espressione dei superiori valori della concorrenza e del mercato), la Corte di giustizia (sezione 3, sentenza
14 febbraio 2008, C-450/06, Varec) ha elaborato, con riferimento specifico al settore degli appalti, in maniera innovativa, le
disposizioni, ratione temporis applicabili, sancite dagli articoli 1, n. 1 direttiva 89/665/Cee e 15, n. 2, direttiva 93/36/Cee (ora
articolo 21 della direttiva 2014/24/UE), che disciplinano la relazione fra tra diritto di accesso e diritto alla riservatezza delle
imprese, affermando che non solo le amministrazioni pubbliche ma anche gli organi giurisdizionali nazionali investiti di un
ricorso, oltre a garantire la sicurezza delle informazioni acquisite giudizialmente, devono poter decidere di non trasmettere
alle parti tali informazioni se ciò risulti necessario a garantire la tutela della leale concorrenza o degli interessi legittimi degli
operatori economici.
Il contenzioso e la decisione del Tribunale lombardo
La particolare vicenda che ha costituito oggetto del contenzioso dinanzi al Tar Lombardia, trae origine dalla decisione, assunta
dalla Commissione per l’Accesso ai documenti amministrativi, di riconoscere a un socio dell’Automobil Club di Brescia, il diritto
all’accesso relativamente al contratto dalla stessa stipulato, unitamente ad Aci Brescia Service srl, con tre società private, e
avente a oggetto la concessione d’uso di un noto marchio. Contro detta decisione e contro le note di Automobile Club Brescia,
manifestanti la volontà di rispettare, comunque, la decisione della Commissione per l’Accesso, proponeva ricorso al Tar una
delle tre società contraenti, al fine di vedersi riconosciuto il diritto alla riservatezza, assunto da tutte le parti con apposita
previsione del contratto.
Il Tar Lombardia Brescia, sezione 1, con la sentenza n. 497/2015 ha stabilito che la clausola di riservatezza inserita in un
contratto è contra legem e inapplicabile nella parte in cui tende ad ampliare l’area della riservatezza oltre i limiti tutelati dal
legislatore. E, invero, la clausola contrattuale di riservatezza secondo cui “per tutta la durata del presente Contratto e per un
periodo di due anni dalla sua cessazione, da qualunque causa determinata, ciascuna parte si obbliga a non diffondere o
comunicare a terzi, nonché a mantenere la massima riservatezza sulle informazioni soggettivamente o oggettivamente
confidenziali o segrete di cui sia venuta a conoscenza per effetto del presente Accordo Quadro”, determinava una evidente
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disposizione dei diritti di terzi. La tutela della riservatezza rimane, pertanto, confinata a quelle informazioni che le parti private
forniscono al soggetto pubblico:
- sulla propria organizzazione interna;
- sulle relazioni con parti terze;
- sulle proprie strategie commerciali, purché tali informazioni non siano state utilizzate nell’accordo per pesare la
controprestazione del soggetto pubblico.
Sotto un diverso profilo, devono poi rimanere riservate eventuali informazioni, relative a persone determinate o determinabili,
contenenti dati sensibili ex articolo 4, comma 1-d) del Dlgs 196/2003.
Il Tar ha ritenuto, in questo senso, che per stabilire quali clausole, premesse o dichiarazioni contenute nel contratto rientrino
nelle ipotesi di riservatezza, è necessario il coinvolgimento della società ricorrente, con successiva verifica da parte del
soggetto pubblico che custodisce il documento. Il ricorso è stato, pertanto, parzialmente accolto, con la previsione
dell’instaurazione di un contraddittorio tra le parti, finalizzato all’individuazione delle clausole contrattuali, premesse e
dichiarazioni ostensibili e la conseguente definizione dei relativi adempimenti procedurali a carico delle parti medesime.
La tutela dei segreti industriali
La questione del rapporto tra l’accesso e tutela della riservatezza dei cosiddetti “segreti industriali” è momento coessenziale
alla regolamentazione dell’attività contrattuale della Pubblica amministrazione. Per garantire la concorrenza e l’efficienza della
spesa pubblica, il vantaggio competitivo di una impresa, espressione della sua capacità tecnico-organizzativa, è un valore che
va tutelato.
In questo senso, spossando l’asse sulla specifica normativa in materia di accesso in corso di gara d’appalto, l’articolo 13,
comma 5 del Dlgs 163/2006, sancisce una posizione normativa di privilegio della tutela dei segreti industriali a scapito delle
esigenze di trasparenza relative alle documentazioni di gara; ciò in quanto, nel conflitto tra i contrapposti interessi, il
legislatore opera un bilanciamento volto, prioritariamente, a garantire la tutela del know-how imprenditoriale (Cons. Stato,
sezione 6, sentenza 19 ottobre 2009, n. 6393). La parte interessata ha, in ogni caso, l’onere di indicare motivatamente quali
parti della documentazione prodotta debbano qualificarsi come segreti commerciali o industriali.
AMBIENTE ED ECOLOGIA
3) LA CONSULTA BOCCIA LE REGIONI SUI TRIBUTI INTEGRATIVI SUI RIFIUTI.
Viola la competenza dello Stato in materia di trattamento e smaltimento dei rifiuti l’introduzione a livello regionale di un
contributo integrativo a carico dei soggetti che gestiscono impianti di pre-trattamento e di trattamento di scarti animali,
contributo che ha in realtà natura tributaria, poiché deriva la sua fonte esclusiva nella legge regionale, non da un rapporto
contrattuale tra le parti, ed è altresì connotato dalla doverosità della prestazione e dal necessario collegamento del prelievo
alla pubblica spesa.
Richiamando la propria costante giurisprudenza, la Corte costituzionale ha statuito nella sentenza n. 58 del 10 aprile 2015,
pubblicata in Gazzetta n. 15 del 15 aprile 2015, che l’interferenza tra ambiti di competenza formalmente ripartiti tra lo Stato
(la tutela dell’ambiente) e le Regioni (potestà impositiva di tributi propri), ovvero anche concorrenti (tutela della salute,
governo del territorio), deve essere risolta attraverso l’adozione del cosiddetto principio di prevalenza, quando appaia
evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo a una materia piuttosto che ad altre (sentenze n. 50
del 2005 e n. 370 del 2003), ovvero quando l’azione unitaria dello Stato risulti giustificata dalla necessità di garantire livelli
adeguati e non riducibili di tutela ambientale su tutto il territorio nazionale (sentenza n. 67 del 2014).
Il fatto
Nel caso in esame, originato dalla questione di legittimità sollevata da una Commissione Tributaria Provinciale, i giudici della
Consulta hanno pronunciato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 16, comma 4, della legge della regione Piemonte 24
ottobre 2002, n. 24 (“Norme per la gestione dei rifiuti”) che, sul presupposto dello svolgimento di attività rientrante nella
gestione dei rifiuti, impone ai gestori di impianti di pre-trattamento e trattamento di scarti animali (trattati ad alto rischio e a
rischio specifico di encefalopatia spongiforme bovina BSE) l'obbligo di corrispondere un tributo annuo ai Comuni sede degli
impianti.
La decisione della Corte costituzionale
Ad avviso della Corte, infatti, la riserva di legge statale di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., mira a
preservare il bene giuridico “ambiente” dai possibili effetti distorsivi derivanti da vincoli imposti in modo differenziato in
ciascuna Regione, riservando alla competenza legislativa esclusiva dello Stato lo scopo di disciplinare in maniera uniforme gli
incentivi e disincentivi che inevitabilmente anche l’imposizione fiscale produce sulle singole scelte economiche di investimento
e finanziamento delle imprese operanti nel settore dei rifiuti (i cosiddetti “effetti allocativi”) come comparto produttivo
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generativo di effetti sugli equilibri ambientali dei territori interessati. La ricostruzione operata dai Giudici costituzionali,
presuppone invero l’inquadramento degli scarti animali all’interno della definizione di rifiuto di cui all’articolo 183, comma 1,
lettera a), del Dlgs 3 aprile 2006 n. 152, c.d. Codice dell’Ambiente, come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si
disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”, nonché dell’attività di trattamento e trasformazione, al pari della
raccolta, del trasporto, del recupero e dello smaltimento come modalità di “gestione” dei rifiuti, ai sensi dell’articolo 183,
comma 1, lett. n), del Dlgs n. 152/2006.
Per completezza, recita il dispositivo della pronuncia, ai sensi dell’articolo 185, comma 2, lett. b), del citato Codice
dell’Ambiente, gli scarti di origine animale vengono sottratti alla disciplina dei rifiuti, rientrando al contrario sotto le norme
sanitarie e di polizia veterinaria relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano, di cui al
Regolamento CE/2002/1774, soltanto se inquadrati come “sottoprodotti” ai sensi dell’articolo 184-bis come sostanze originate
da un processo di produzione di cui non costituisce scopo primario e nella certezza, al momento della sua produzione, della
sua riutilizzazione senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale, cui certamente non
appartengono quelli ad alto rischio e a rischio specifico di BSE (ossia Bovine Spongiform Encephalopathy - encefalopatia
spongiforme bovina), che debbano essere necessariamente inceneriti o coinceneriti, come espressamente previsto dalla
medesima normativa della regione Piemonte.
Le conclusioni della Corte
Fugato ogni dubbio interpretativo, la Corte costituzionale sottolinea pertanto come la disciplina dei rifiuti sia costantemente e
indiscutibilmente ricompresa nella materia della ‘tutela dell’ambiente e dell’ecosistema’, riservata alla competenza esclusiva
dello Stato ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lett. s), Cost., anche se interferisce con altri interessi e competenze, di
modo che deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale, ferma
restando la competenza delle Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali.
Con la conseguenza che, avendo anche riguardo alle diverse fasi e attività di gestione del ciclo dei rifiuti stessi e agli ambiti
materiali ad esse connessi, la disciplina statale, anche in attuazione degli obblighi comunitari, stabilisce un livello di tutela
uniforme che si applica sull’intero territorio nazionale e che opera come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province
autonome dettano in altre materie di loro competenza esclusiva o concorrente, per evitare che possano derogare o diminuire
il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato.
CONTABILITA’ E FINANZE
4) GUIDA ALL'ARMONIZZAZIONE/3: AVANZO DI AMMINISTRAZIONE ALLA PROVA DELLE SPESE
VINCOLATE.
Pubblichiamo il terzo e il quarto di cinque approfondimenti sulla gestione operativa delle nuove regole contabili per la
copertura dei disavanzi alla luce dell'armonizzazione, da applicare nei rendiconti 2014 e nelle procedure di riaccertamento
straordinario dei residui. Le puntate precedenti sono consultabili nella news del 24 aprile.
Il risultato di amministrazione positivo non è, di per sé, indicatore di sana gestione. Ai fini di una corretta e puntuale analisi
finanziaria occorre infatti verificare la piena ricostituzione dei vincoli di bilancio in esso confluiti. In altre parole, occorre avere
contezza della capacità dell'ente di finanziare le spese vincolate e gli accantonamenti di legge. Secondo le disposizioni
dell'articolo 187 del Tuel, il risultato di amministrazione è distinto in fondi liberi, fondi vincolati, fondi destinati agli
investimenti e fondi accantonati. Costituiscono quota vincolata del risultato di amministrazione le economie derivanti da:
• entrate cui la legge o i principi contabili attribuiscono uno specifico vincolo di destinazione;
• mutui e finanziamenti contratti per il finanziamento di investimenti determinati;
• trasferimenti erogati a favore dell'ente per una specifica destinazione determinata;
• entrate accertate straordinarie, non aventi natura ricorrente, cui l'amministrazione ha formalmente attribuito una specifica
destinazione. In questo caso, occorre però che l'ente non abbia rinviato la copertura del disavanzo di amministrazione negli
esercizi successivi e abbia provveduto, nel corso dell'esercizio, alla copertura di tutti gli eventuali debiti fuori bilancio.
I fondi accantonati comprendono gli accantonamenti per passività potenziali (fondi rischi) e il fondo crediti di dubbia
esigibilità. La quota destinata agli investimenti è costituita dalle economie in conto capitale senza vincoli di specifica
destinazione ed è utilizzabile con provvedimento di variazione di bilancio solo a seguito dell'approvazione del rendiconto.
L'utilizzo
La quota libera dell'avanzo di amministrazione può essere utilizzata con provvedimento di variazione di bilancio, nel rispetto di
specifiche finalità e di preciso ordine di priorità. Questo avanzo è utilizzabile:
• per la copertura dei debiti fuori bilancio;
• per i provvedimenti necessari per la salvaguardia degli equilibri di bilancio di cui all'articolo 193 del Tuel ove non possa
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provvedersi con mezzi ordinari;
• per il finanziamento di spese di investimento;
• per il finanziamento delle spese correnti a carattere non permanente;
• per l'estinzione anticipata dei prestiti.
L'avanzo di amministrazione libero non può essere utilizzato nel caso in cui l'ente si trovi in situazioni di anticipazione di
tesoreria (articolo 222 del Tuel) o di utilizzo di fondi vincolati non reintegrati (articolo 195 del Tuel), fatto salvo l'utilizzo per i
provvedimenti di riequilibrio del bilancio. Le quote accantonate o vincolate del risultato presunto di amministrazione possono
essere utilizzate per le finalità cui sono destinate anche prima dell'approvazione del conto consuntivo dell'esercizio
precedente. In questo caso è però necessaria una relazione documentata del dirigente competente, dalla quale si evinca la
necessità di applicazione dell'avanzo presunto al bilancio (anche provvisorio) al fine di garantire la prosecuzione o l'avvio di
attività soggette a termini o scadenza, la cui mancata attuazione determinerebbe danno per l'ente.
I controlli
Entro il 31 gennaio (termine coerente con la scadenza del bilancio di previsione al 31 dicembre dell'anno precedente) la Giunta
verifica l'importo delle quote vincolate e accantonate del risultato di amministrazione presunto sulla base di un preconsuntivo
dell'anno precedente. Se la quota vincolata o accantonata del risultato di amministrazione presunto è inferiore rispetto
all'importo applicato al bilancio di previsione, l'ente provvede immediatamente alle necessarie variazioni di bilancio. Nel caso
in cui il risultato di amministrazione non sia sufficiente a comprendere le quote vincolate, destinate e accantonate, l'ente
risulta comunque in disavanzo di amministrazione (trattasi di disavanzo sostanziale). Questo disavanzo è iscritto come posta a
se stante nel primo esercizio del bilancio di previsione, oppure può trovare copertura negli esercizi successivi, in ogni caso non
oltre la durata della consiliatura. L'eventuale disavanzo di amministrazione complessivo (fondo cassa più residui attivi meno
residui passivi, al netto fondo pluriennale vincolato) deve essere applicato all'esercizio in corso di gestione contestualmente
alla delibera di approvazione del rendiconto. In caso di mancata adozione della delibera, si applicano le conseguenze previste
per la mancata approvazione del rendiconto di gestione, ovvero, dovrà applicarsi l'articolo 141, comma 2 del Tuel, secondo cui
il Prefetto, con lettera notificata ai singoli consiglieri, fissa un termine di 20 giorni per l'approvazione della delibera, decorso il
quale nomina un commissario e scioglie il consiglio.
(Fonte: Il Sole 24 Ore)
4.1) GUIDA ALL'ARMONIZZAZIONE/4: L'EXTRA-DEFICIT DA RIACCERTAMENTO NON ENTRA NEL «PREDISSESTO».
Altra importante problematica derivante dall'armonizzazione è quella dell'impatto del primo risultato d'amministrazione
determinato con le nuove regole sui piani di riequilibrio finanziario pluriennale ex articolo 243-bis del Tuel in essere al 1°
gennaio 2015. I piani di riequilibrio finanziario pluriennali (da elaborare in situazioni di "predissesto") sono lo strumento
previsto dal Dl 174/2012 per quegli enti, che, versando in una situazione di disavanzo strutturale, cercano di evitare il dissesto
mediante la completa emersione delle criticità finanziarie, soprattutto se derivanti dalla gestione dei residui.
Il meccanismo
La procedura prevede un percorso massimo decennale di risanamento del bilancio, soprattutto di parte corrente,
accompagnato dalla possibilità di sfruttare risorse straordinarie messe a disposizione dalla Cassa depositi e prestiti in termini
sia di anticipazione di liquidità sia di fondo di rotazione. Presupposto per accedere al piano pluriennale è dunque l'emersione
di un disavanzo di dimensioni tali da non poter essere riassorbito con le normali regole previste dall'articolo 188 del Tuel, che
dunque necessiti di un periodo più lungo per il suo recupero, all'interno di un serio sforzo di risanamento strutturale del
bilancio. L'eventuale disavanzo derivante dal riaccertamento straordinario dei residui (primo passaggio dell'armonizzazione) e
dal primo o ulteriore (per gli enti già in sperimentazione) accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità, impatta
sicuramente sull'evoluzione del piano di riequilibrio pluriennale.
Il disallineamento temporale
Il maggior disavanzo derivante dalla prima fase applicativa dell'armonizzzione (riaccertamento straordinario con
reimputazione dei residui agli esercizi successivi in applicazione del principio della competenza finanziaria rafforzata e
finanziamento del fondo crediti di dubbia esigibilità) è riassorbibile in 30 anni (lo prevede il Dm del 2 aprile 2015). Il disavanzo
derivante dalle vecchie gestioni disciplinate dal Tuel, compreso quello emergente dal riaccertamento ordinario dei residui,
deve essere riassorbito negli esercizi previsti nel bilancio di previsione e, comunque, non oltre la consiliatura. Se un ente si
trova in una situazione di predissesto, invece può beneficiare del termine decennale. Come si possono coniugare questi due
aspetti?
Binari paralleli
La sezione Autonomie della Corte dei conti, nelle sua delibera n. 4/2015, contenente le linee di indirizzo per il passaggio alla
nuova contabilità delle regioni e degli enti locali, ha ben evidenziato le possibili influenze dei maggiori disavanzi da
armonizzazione sui piani pluriennali in essere, rappresentate soprattutto dall'esigenza di dover individuare maggiori entrate o
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minori spese per finanziare il disavanzo aggiuntivo rispetto a quello "programmato" nell'ambito del predissesto. Ma come
coniugare le diverse cadenze temporali dei due programmi di rientro? Il predissesto infatti prevede un massimo di 10 anni,
l'armonizzazione concede 30 anni. Sul punto la Corte non si è ancora pronunciata. Ad opinione di chi scrive, al momento, la
situazione legislativa prevede due percorsi separati. Le fonti normative che consentono tempi di recupero dei deficit
eccezionali rispetto a quanto previsto dall'articolo 188 del Tuel (articolo 243-bis del Tuel per il predissesto e articolo 3, commi
16 e seguenti del Dlgs 118/2011 e Dm 2 aprile 2015) rimangono entrambe vigenti e pienamente operative nei rispettivi campi.
Per questo motivo, il disavanzo previsto nel predissesto dovrà essere ripianato in massimo 10 anni, quella nascente dalla
prima applicazione dell'armonizzazione in 30 anni.
Le conseguenze
Le due grandezze, però, si cumulano a livello di bilancio annuale e pluriennale. In fase di previsione annuale e pluriennale,
infatti, gli enti, nell'ambito dei loro equilibri finanziari, dovranno garantire la copertura sia della/e quota/e di disavanzo
prevista nel piano di riequilibrio, sia della parte di disavanzo da armonizzazione che verrà imputata al periodo finanziario di
riferimento. Un esempio sul bilancio annuale 2015 può aiutare. Facciamo il caso di un ente che nel 2015 abbia l'esigenza di
finanziare un piano di rientro pluriennale per il ripiano in 10 anni, in quote costanti, di un deficit di un milione di euro. La quota
2015, pertanto, è pari a 100mila euro. Il riaccertamento straordinario e il primo accantonamento al fondo crediti di dubbia
esigibilità, invece, comporta un disavanzo di 2 milioni, che si decide di finanziare sempre, in quote costanti, in 30 anni. La
quota annuale 2015, dunque, ammonta a 80mila euro. Il disavanzo cui dovrà farsi carico il previsionale 2015 sarà di 180mila
euro. Nel nostro esempio, la stessa cifra dovrà essere finanziata nel pluriennale 2015/2017.
4.2) L'ACCOPPIATA RENDICONTO-RIACCERTAMENTO «SCHIACCIA» I COMUNI - Dai sindaci nuova
richiesta di proroga.
A due giorni dal termine, nei Comuni italiani si respira ancora tanto affanno e preoccupazione per la scadenza del rendiconto.
La richiesta reiterata di avere più tempo a disposizione deriva non tanto dalla chiusura dell'anno 2014, ma dall'operazione di
riaccertamento straordinario dei residui, che deve essere concomitante. I responsabili finanziari sono alle prese con un grande
sforzo, acuito dalle molteplici prove che hanno dovuto affrontare dal 1° gennaio: split payment e novità fiscali, compilazione
questionari fabbisogni standard, avvio della fatturazione elettronica (che a volte si sono unite anche a ulteriori cambiamenti,
come quello del software). Anche per questa ragione ieri l'Anci, per bocca del coordinatore delle associazioni regionali Daniele
Manca, è tornata a chiedere il rinvio del termine del 30 aprile: « Dai territori, dalle Città, dalle Anci regionali, arrivano segnali
inequivocabili di difficoltà a rispettare le scadenze previste, a causa dell'accumularsi di adempimenti», ha detto Manca. Nei
giorni scorsi il Governo ha sempre respinto questa ipotesi, che comunque per essere percorsa ha bisogno di una norma:
l'ultima occasione è quella del decreto enti locali in cantiere per i prossimi giorni.
Oltre ai nodi applicativi già indagati nei giorni scorsi (si veda per esempio Il Quotidiano degli enti locali e della Pa di ieri e del 20
aprile), a rendere difficile la vita degli enti sono anche problemi organizzativi e di programmazione.
La "solitudine" del ragioniere
Troppo spesso il ragioniere, soprattutto negli enti di minori dimensioni, fatica ad ottenere le informazioni necessarie per
conoscere la reale situazione del residuo attivo e passivo e quindi per valutare se la somma può essere
• mantenuta a residui
• eliminata (risultato di amministrazione)
• reimputata secondo esigibilità.
Nonostante si sia sottolineato da tempo la necessità del coinvolgimento e della responsabilizzazione dell'intera struttura,
spesso i ragionieri si ritrovano soli. Ovviamente l'attività è più complessa per i residui che risalgono a decenni fa.
Il timore del fondo crediti di dubbia esigibilità
Del tutto nuovo è l'obbligo di calcolare sui residui attivi (crediti non riscossi) il fondo crediti di dubbia esigibilità. Nel sistema
contabile precedente l'appostazione di un vincolo sull'avanzo era sporadica, volontaria, solo su alcune poste e calcolata sulla
base di stime soggettive. Ora l'armonizzazione contabile richiede di quantificare e analizzare residuo per residuo e di
effettuare una sorta di "bonifica" dei residui attivi confermati, già dal riaccertamento straordinario. Questo accantonamento
ovviamente "erode" il risultato di amministrazione ed è un'operazione diversa dal fondo crediti di dubbia esigibilità che si deve
stanziare nel preventivo a fronte delle nuove entrate previste nel 2015.
Impatto dell'accertamento delle entrate per autoliquidazione
I nuovi principi impongono di accertare le entrate per autoliquidazione del contribuente (Imu, Tasi, eccetera) per l'importo già
riscosso alla data del riaccertamento. Di conseguenza vanno eliminati gli eventuali residui attivi iscritti solo sulla base di stime
o elementi desunti dalle banche dati dell'ente.
I problemi delle entrate vincolate
L'armonizzazione richiede una contabilizzazione che dà evidenza corretta delle voci che derivano da mutui, trasferimenti
pubblici, vincoli da legge o da principio contabile, sia nella fase di iscrizione in bilancio, sia nella fase in cui confluiscono nel
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risultato di amministrazione, sia a livello di fondo cassa. L'armonizzazione contabile, in ultima analisi, rimarca il ruolo della
programmazione, ma anche della gestione contabile "ordinata" e consapevole del bilancio, dove si conoscono le informazioni
che sono dietro ad ogni residuo attivo e passivo. Se tutto ciò non è già stato "conquistato", lo dovrà essere velocemente.
4.3) QUOTE VINCOLATE INUTILIZZABILI SENZA IL PREVENTIVO APPROVATO.
Senza l'approvazione del nuovo bilancio di previsione 2015-2017 gli enti locali non potranno applicare le quote vincolate e
accantonate del risultato di amministrazione, mettendo a rischio la continuità della gestione e dei procedimenti.
Impegni tecnici e avanzo vincolato
I nuovi principi contabili vietano l'assunzione degli impegni cosiddetti automatici o tecnici, che il vecchio ordinamento (articolo
183, commi 2 e 5, del Tuel in vigore fino al 31 dicembre 2014) prevedeva per garantire il rispetto dei vincoli di
legge/regolamentari o del vincolo di destinazione delle entrate. Con il riaccertamento straordinario questi impegni, qualora
non perfezionati, saranno cancellati per confluire nell'avanzo vincolato del nuovo risultato di amministrazione all'1° gennaio
2015 ed essere reiscritti in competenza, secondo necessità. Il riaccertamento straordinario dei residui deve essere approvato
nella stessa giornata in cui il consiglio comunale approva il rendiconto 2014, e cioè entro il 30 aprile 2015 (punto 9.3
dell'allegato n. 4/2 al Dlgs 118/2011). Un ente che dovesse rispettare questa scadenza, però, nel caso in cui stesse ancora
gestendo il proprio bilancio in esercizio provvisorio (in quanto la scadenza del bilancio preventivo è stata posticipata al 31
maggio 2015 ad opera del Dm del 16 marzo scorso) sarebbe impossibilitato a utilizzare subito le quote confluite nel risultato di
amministrazione al 1° gennaio 2015, con particolare riferimento a quelle vincolate e accantonate. L'applicazione dell'avanzo
vincolato alle annualità 2015-2017, infatti, potrà avvenire tramite l'inserimento dei relativi stanziamenti nel bilancio
preventivo e non con variazione all'esercizio provvisorio, in quanto il nuovo articolo 175 del Tuel, al comma 9-ter, non ha
previsto questa possibilità, che invece è stata introdotta per l'immediato utilizzo del Fondo pluriennale vincolato.
I problemi
Questa situazione rischia di creare non poche difficoltà operative agli enti locali. Alcuni impegni tecnici, infatti, potrebbero
aver fornito copertura finanziaria a obbligazioni giuridiche sorte nei primi mesi del 2015, senza tuttavia maturare le condizioni
necessarie per poter confluire nel fondo pluriennale vincolato. Se infatti l'ordinamento ammette – nelle more del
riaccertamento - il pagamento e l'incasso a residuo di somme non esigibili al 1° gennaio 2015, si registra al contrario un "vuoto
normativo" nei principi, dato che non viene contemplata la possibilità – perlomeno nelle ipotesi strettamente collegate alla
necessità di garantire la continuità di servizi essenziali - di mantenere gli impegni tecnici comunque perfezionati entro il 30
aprile 2015. L'obbligo di cancellare questi impegni e farli confluire in avanzo comporta, come conseguenza, che non sarà
possibile dare corso al pagamento delle spese finanziate per questa via fino a quando il bilancio preventivo 2015-2017 non
sarà approvato, con il rischio di dover violare l'obbligo di pagamento delle fatture entro 30 giorni (Dlgs 231/2002). O ancora,
l'utilizzo dei fondi potrebbe essere collegato a dei tempi di rendicontazione che, se non rispettati, porterebbero alla decadenza
dal contributo. A regime il legislatore ha previsto un sistema "facilitato" di utilizzo delle quote accantonate e vincolate, che
consente la loro applicazione anche in assenza di un bilancio approvato, ovvero in esercizio provvisorio, attribuendone la
competenza ai responsabili di servizio o alla giunta (articolo 175, comma 5-quater, lettera c) e articolo 187, comma 3quinquies del Tuel). Questo sistema, tuttavia, troverà applicazione solamente a partire dal 2016, mentre per il 2015 gli enti (ad
eccezione degli sperimentatori) dovranno applicare la disciplina delle variazioni in vigore lo scorso anno. Nei fatti quindi viene
preclusa la possibilità di utilizzare queste quote fino a quando non sarà approvato il nuovo bilancio di previsione 2015-2017, il
cui termine potrebbe essere prorogato anche oltre il 31 maggio 2015.
Le prospettive
La proroga del termine per l'approvazione del riaccertamento straordinario dei residui (attività tra l'altro strettamente
collegata al rendiconto 2014) sarebbe funzionale non solo a concedere più tempo per espletare questa delicata operazione,
ma anche a superare l'empasse in cui si verrebbero a trovare gli enti che non possono utilizzare le quote vincolate in esercizio
provvisorio. In queste condizioni sembra inevitabile far confluire questi impegni nel fondo pluriennale vincolato, anche se
sarebbe stato più semplice, nella fase di avvio della riforma, che i principi avessero previsto espressamente la possibilità di fare
confluire gli impegni nel fondo o nell'avanzo con riferimento alla data del 30 aprile anziché a quella del 1° gennaio.
4.4) DOPPIO BINARIO PER GLI IMPEGNI SULLE SPESE LEGALI.
Nella nuova contabilità, vi è un doppio binario per le spese legali a seconda che siano da remunerare all'avvocatura interna o a
soggetti esterni agli enti locali. Il principio contabile applicato 4/2 - in assenza di una determinabilità a priori dell'anno di
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esigibilità del relativo debito ma nell'obbligo della piena copertura finanziaria ante perfezionamento dell'obbligazione giuridica
- prevede per entrambi lo stanziamento della spesa nell'anno in cui il contenzioso ha inizio ma, per contro, un diverso
trattamento in fase di imputazione dell'impegno all'esercizio in cui l'obbligazione giuridica viene a scadenza (ovvero
all'esercizio in cui viene determinato l'esito del giudizio), con conseguentemente diverso comportamento degli uffici in fase di
riaccertamento straordinario dei residui.
L'avvocatura interna
Per quanto riguarda la spesa nei confronti dei dipendenti addetti all'avvocatura interna, va ricordato preliminarmente che è
possibile procedere alla sua liquidazione solo in caso di esito del giudizio favorevole all'ente; pertanto, si è in presenza di
un'obbligazione passiva condizionata al verificarsi di un evento futuro incerto. Una volta stanziata la spesa, non si potrà
procedere con l'impegno se non qualora il giudizio termini (positivamente per l'ente) nel medesimo anno, determinando così
un'economia che confluirà nell'avanzo vincolato fino al verificarsi (o meno) della vittoria in giudizio, garantendo in tal modo la
copertura dell'eventuale spesa in futuri esercizi. Ovviamente nell'anno in cui la spesa va "reiscritta", anche al fine del rispetto
dei vincoli del Patto di stabilità, si può dar corso alla copertura con risorse dell'anno svincolando l'avanzo.
Gli incarichi a legali esterni
In caso di conferimento dell'incarico a legali esterni, al contrario, il principio prevede in deroga che l'impegno venga imputato
all'esercizio in cui è firmato il contratto. Se il giudizio non è terminato, a fine anno si dovrà procedere alla reimputazione della
spesa all'esercizio in cui presumibilmente lo sarà, attraverso il fondo pluriennale vincolato di parte corrente. In tal caso la
reimputazione non dovrebbe comportare un aggravio ai vincoli del Patto di stabilità considerato che il fondo pluriennale
vincolato è considerato fra le entrate e spese finali rilevanti (si veda il paragrafo D.2 della circolare Rgs n. 6/2014).
Il riaccertamento straordinario
Gli enti che in questi giorni sono chiamati al riaccertamento straordinario dovranno determinare se il residuo passivo è relativo
a un contenzioso già instaurato o per il quale è già stato sottoscritto un contratto con gli eventuali avvocati esterni: se ciò non
fosse, il residuo andrebbe cancellato. Diversamente, va valutato se il giudizio è concluso:
• in caso positivo, per l'affidamento esterno si mantiene il residuo mentre per l'avvocatura interna si verifica se il giudizio è
favorevole all'ente mantenendo a bilancio la disponibilità solo in questo caso;
• in caso negativo, per l'incarico esterno si procede alla reimputazione attraverso l'utilizzo del fondo pluriennale vincolato
mentre per l'incentivo ad avvocati interni si cancella la spesa vincolando il relativo avanzo.
4.5) STRETTA DELLA CORTE DEI CONTI: PRANZI, OMAGGI E CATERING NON SONO «SPESE DI
RAPPRESENTANZA».
Giro di vite della Corte dei conti sulle spese di rappresentanza degli enti locali, oggetto di specifica disciplina dall'articolo 16,
comma 26 della legge 148/2011 che le ha assoggettate al controllo della Corte stessa, oltre che alla pubblicazione sul sito
istituzionale dell'ente per una loro maggiore pubblicità.
E così spese per buffet, pranzi istituzionali, acquisti di targhe indicative di monumenti cittadini, omaggi floreali, manutenzione
dell'auto di rappresentanza del sindaco, pulizia e abbellimento della sala comunale per la celebrazione dei matrimoni civili,
acquisti di bandiere tricolore, acquisti di libri per omaggi generici, cuscini floreali per funerali di amministratori, acquisti di
corone di fiori per cerimonie di commemorazioni di feste civili e religiose , servizio bar e rinfreschi in occasione di feste
patronali o feste locali in genere, gemellaggi, insomma spese assunte dall'amministrazione a titolo di spese di rappresentanza,
con tanto di impegno di spesa e titoli giustificativi, non sono legittime.
Ad affermarlo la sezione regionale di controllo per le Marche della Corte dei conti che con quattro delibere, la n. 101, 102,
103, 104 dello scorso 12 marzo, fotografa e censura una diffusa abitudine di Comuni, Province e Regioni che spesso imputano
a spese di rappresentanza omaggi vari, viaggi istituzionali, pranzi, non meglio definiti nel loro scopo istituzionale e che di
rappresentanza hanno ben poco.
Attenzione: non che tutte queste spese non siano sostenibili dall'ente, ma almeno alcune devono trovare una diversa e più
giusta imputazione nel bilancio. Questo, nella migliore delle ipotesi perché invece, in molti altri casi, si tratta di spese
ingiustificate.
Si pensi alle note cene o pranzi di lavoro che spesso si svolgono a corredo di incontri politici o riunioni che tradiscono una
inconsistente finalità rappresentativa dell'Ente.
Le spese di rappresentanza
Secondo l'insegnamento dominante nella giurisprudenza contabile, allora, una spesa può essere correttamente considerata e
imputata in bilancio come «spesa di rappresentanza» se risponde ai seguenti requisiti:
• stretta correlazione della spesa con le finalità istituzionali dell'amministrazione;
• necessità di proiezione all'esterno dell'ente in relazione alla quale la spesa di rappresentanza si rivela strumentale;
• rigorosa motivazione dello specifico interesse istituzionale perseguito;
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• dimostrazione del rapporto fra l'utilitas che l'Ente intende conseguire tramite la sua proiezione all'esterno, sotto forma di
promozione turistica o di sviluppo economico, e la spesa erogata;
• qualificazione del soggetto destinatario della spesa, che deve essere rappresentante dell'ente beneficiario dell'omaggio, e
rispondenza della spesa a criteri di ragionevolezza e congruità;
• necessità per l'ente di promuovere la propria immagine all'esterno dei confini istituzionali con documentate probabilità di
sviluppo economico, sociale, culturale.
Le spese che «non rientrano»
Al contrario, esulano dell'ambito dell'attività di rappresentanza quelle spese che non siano strettamente destinate a
conservare o incrementare il prestigio dell'ente o a promuovere la sua immagine all'esterno, nel rispetto della diretta inerenza
dell'attività finanziata come spesa di rappresentanza ai propri fini istituzionali.
Per lo stesso motivo non hanno nulla a che vedere con le spese di rappresentanza, correttamente qualificate, gli omaggi fatti a
dipendenti o amministratori dell'ente conferente o gli omaggi offerti nell'ambito di normali rapporti istituzionali in favore di
soggetti che, anche se esterni all'ente, non siano rappresentativi degli organismi di riferimento.
Gli stessi gemellaggi rientrano fra le spese di rappresentanza solo se si fondano sulla concreta e congrua esigenza per gli enti
gemellati di manifestarsi all'esterno e di accrescere il proprio ruolo istituzionale in un contesto più' ampio in vista di concrete
aspettative di promozione della propria vocazione turistica e culturale, di creazione di nuovi sbocchi commerciali, di ricerca di
prospettiva di sviluppo della propria economia.
4.6) ASSOCIAZIONI SPORTIVE DILETTANTISTICHE FUORI DALLO SPLIT PAYMENT.
Tra i molteplici chiarimenti opportunamente (e forse tardivamente) offerti dalla circolare n. 15/E/2015 dell'Agenzia delle
entrate in materia di split payment c'è anche un'indicazione molto attesa per gli enti locali, relativa al trattamento da riservare
alle realtà che adottano il regime forfetario previsto dall'articolo 1 della legge 398/1991, per cui è stato sancito che la scissione
dei pagamenti non trova applicazione.
In molti casi, infatti, le amministrazioni locali ricorrono a soggetti che utilizzano questo particolare regime destinato alle
associazioni senza scopo di lucro, alle associazioni sportive dilettantistiche, alle pro loco e alle associazioni bandistiche e cori
amatoriali (e simili) che non superano un determinato volume di proventi (il limite è attualmente fissato in € 250.000).
La scelta (su opzione) di utilizzare tale soluzione è dettata in buona misura dalle semplificazioni di cui è possibile fruire, sia dal
punto di vista della determinazione dell'Ires e dell'Iva (su base forfetaria) sia dal punto di vista contabile, garantendo un più
agevole (e meno oneroso) adempimento degli obblighi fiscali.
Il regime Iva forfetario
In particolare, in materia di Iva, oltre all'esenzione dalla presentazione della dichiarazione (annuale) è previsto il versamento
dell'imposta a debito relativa alle attività commerciale mediante l'applicazione di deduzioni forfetarie, la cui consistenza
dipende dalla tipologia di prestazione svolta.
Più specificamente, l'obbligo di versamento (su base trimestrale) è commisurato al 90% dell'Iva a debito sulle fatture emesse
per sponsorizzazioni, ai 2/3 dell'Iva a debito per la cessione o concessione di diritti di ripresa televisiva o trasmissione
radiofonica ed al 50% negli altri casi.
Rispetto alla fiscalità diretta, invece, è stabilito un coefficiente di redditività del 3% commisurato essenzialmente ai proventi di
natura commerciale, a cui è applicata l'aliquota Ires ordinariamente esistente.
Fuori dalla split payment
È del tutto evidente che il regime di applicazione dell'Iva previsto dal meccanismo forfetario indicato avrebbe comportato
rilevanti problematiche a seguito dell'introduzione del regime dello split payment per le amministrazioni pubbliche, ivi inclusi
gli enti locali. I soggetti in «forfetaria», infatti, non avrebbero più incassato l'ammontare dell'Iva sulle fatture emesse nei
confronti degli enti pubblici soggetti al regime dello split payment, di cui (normalmente) avrebbero versato all'erario
periodicamente soltanto una quota. Per di più senza la possibilità di «recuperare» l'Iva precedentemente trattenuta in sede di
dichiarazione Iva posto che, come detto, quest'ultima non deve essere presentata.
Per risolvere la questione, ed evitare un'iniqua penalizzazione per le realtà che utilizzano tale regime, la circolare ne prevede
l'esclusione dall'applicazione del meccanismo della scissione dei pagamenti.
E' affermato, infatti, da una parte, che tra le «ipotesi di esclusione» devono ricomprendersi «le operazioni rese da fornitori che
applicano regimi speciali che, pur prevedendo l'addebito dell'imposta in fattura, sono caratterizzati da un particolare
meccanismo forfetario di determinazione della detrazione spettante».
Dall'altra parte, invece, è precisato che «le particolari modalità di liquidazione dell'Iva da parte del fornitore, in ragione
dell'ammontare delle operazioni attive effettuate, inducono a escludere tali operazioni rese nell'ambito oggettivo di
applicazione del meccanismo della scissione dei pagamenti».
AGGIORNAMENTO A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI (U.P.E.L.)
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Gli adempimenti degli enti locali
Di conseguenza, gli enti locali potranno (e dovranno) evitare di trattenere l'Iva sui mandati emessi nei confronti degli enti non
commerciali che hanno optato per il regime delle associazioni sportive dilettantistiche per versarla direttamente all'Erario,
dovendo effettuarne il pagamento integrale al fornitore che dovrà provvedere autonomamente all'adempimento degli
obblighi di versamento.
La tempistica di emanazione della circolare, alla luce delle scadenze relative alla liquidazione periodica da parte di tale realtà
dell'imposta (la più vicina è al prossimo 16 maggio), consente anche di regolarizzare le eventuali situazioni in cui
transitoriamente sono state seguite diverse modalità. Ad esempio mediante il pagamento (da parte degli enti) dell'Iva
trattenuta nelle more della predisposizione dei chiarimenti definitivi (ora pervenuti) sui diversi regimi speciali di applicazione
dell'Imposta sul valore aggiunto.
CONTRATTI E APPALTI
5) NIENTE CENTRALIZZAZIONE DEGLI ACQUISTI PER I SERVIZI SOCIALI.
L'acquisizione dei servizi sociali è regolata dalla legge 328/2000 e non dal Codice dei contratti. Lo sostiene la sezione regionale
di controllo per la Lombardia della Corte dei conti nella deliberazione n. 169/2015.
La questione
L'articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti impone ai Comuni non capoluogo di Provincia di procedere all'acquisizione
di lavori, beni e servizi nell'ambito delle unioni dei Comuni, ove esistenti, oppure costituendo un accordo consortile oppure
ancora ricorrendo a un soggetto aggregatore o alle Province. In alternativa, possono utilizzare gli strumenti elettronici di
acquisto gestiti da Consip o da altro soggetto aggregatore. Tutt'altro regime è quello instaurato dalla legge 328/2000, che
regola il sistema integrato degli interventi e servizi sociali, il cui articolo 6 affida ai Comuni le relative funzioni amministrative.
Oltre alla programmazione, progettazione e realizzazione del sistema locale dei servizi, l'indicazione delle priorità e dei settori
di innovazione, l'erogazione di servizi, prestazioni economiche e attività assistenziali, ai Comuni è consegnato l'onere di
autorizzare, accreditare e vigilare sui servizi sociali e sulle strutture.
L'accreditamento
Nel caso di specie, il Comune ha approvato il bando per l'accreditamento dei servizi di assistenza educativa-scolastica, in base
al quale le cooperative presentano la candidatura e vengono iscritte all'albo presso cui le famiglie degli alunni diversamente
abili possono scegliere per ottenere il servizio. Sulla base della scelta delle famiglie, il Comune eroga un voucher
corrispondente al monte ore annuo di assistenza al quale ha diritto l'alunno e provvede a formalizzare l'affido del servizio alle
cooperative, con impegno di spesa e sottoscrizione del contratto d'appalto. Un sistema, dunque, radicalmente diverso
dall'evidenza pubblica regolata dal Codice dei contratti, in particolare quello innestato dal comma 3-bis dell'articolo 33, che
attraverso l'escamotage della centrale unica tende a razionalizzare le procedure e diminuire i «consumi intermedi». Quale
regime? Il Comune chiede legittimamente alla Corte dei conti come si possano conciliare i due sistemi, posto che l'uno – quello
inserito nel Codice – deriva dalla normazione d'urgenza in materia di spending review ed è espressione del principio di
coordinamento della finanza pubblica; l'altro – quello della legge quadro sui servizi sociali – è proprio di un corpus normativo
speciale. E chiede in particolare se per il servizio di assistenza educativa-scolastica si possa continuare a operare con il sistema
dell'accreditamento, che non risulta abrogato, posto che l'altra opzione imposta dal legislatore, ossia il ricorso al mercato
elettronico, non è percorribile per queste tipologie di servizi.
La prevalenza delle norme speciali
La conclusione cui giungono i magistrati contabili lombardi non lascia adito a dubbi: il servizio di erogazione dell'assistenza
educativa e scolastica soggiace alle norme ordinamentali e organizzative introdotte con la legge 328/2000. Il ragionamento si
dipana tutto sulla netta distinzione tra le due discipline:
• la prima, relativa ai servizi sociali, è una normativa specifica;
• la seconda si applica agli acquisiti di beni, servizi e forniture in un'ottica limitativa della spesa per consumi intermedi, in
esecuzione dei processi di revisione della spesa.
Nell'un caso si disciplina la modalità di erogazione di un servizio pubblico, nell'altro si pongono limitazioni alla modalità di
acquisizione di beni o servizi strumentali. Del resto, concludono, la ripartizione concettuale ha fondamento normativo
nell'articolo 30 del Codice, le cui disposizioni, comprese quelle relative alle centrali di committenza, non si applicano alle
concessioni di servizi.
(clicca qui per accedere alla delibera 169/2015 della Corte dei conti Lombardia)
AGGIORNAMENTO A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI (U.P.E.L.)
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5.1) CONTRATTI PUBBLICI: SÌ ALLA CONSEGNA ANTICIPATA DEL SERVIZIO SE CONSENTE DI EVITARE UN
DANNO GRAVE.
Con una recente sentenza, la Sezione I del Tar Sardegna ha affermato che dopo l’entrata in vigore del Dlgs n. 53 del 20.3.2010
(“Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il
miglioramento dell'efficacia delle procedure di ricorso in materia d'aggiudicazione degli appalti pubblici”), che ha modificato,
con l’articolo 1 l’articolo 11 del Codice dei contratti, l’esecuzione in via d’urgenza del servizio da aggiudicare, prevista
dall’articolo 11 comma 9, del Dlgs n. 163 del 2006 è consentita anche durante il termine dilatorio di cui al comma 10 e durante
il periodo di sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto previsto dal comma 10-ter, ma solo nella
limitata ipotesi in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara “determinerebbe un grave danno
all’interesse pubblico che è destinata a soddisfare”.
Il principio di diritto
Se da un lato, dunque, per effetto di quanto disposto dall'articolo 11, comma 10, del Codice dei contratti pubblici, la
stipulazione del contratto non può avvenire prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del
provvedimento di aggiudicazione definitiva, al fine di consentire ai diversi soggetti interessati di far valere le loro ragioni
avverso l’aggiudicazione della gara prima che si producano gli effetti di natura contrattuale, dall’altro va considerata
l’esistenza della peculiare “deroga”, che ammette, appunto, l’“esecuzione d’urgenza” (per sua natura avente efficacia solo
precaria e provvisoria).
La norma generale preclude quindi all’amministrazione di stipulare il contratto con il soggetto aggiudicatario prima che sia
decorso il suddetto termine dilatorio (cd. “stand still”), fatti salvi i casi indicati dal precedente comma 9°, specifico e limitato ai
“casi di urgenza” ( e dal successivo comma 10 bis).
Occorre quindi considerare che l’ordinamento interno consente che la regola dello “stand still” possa essere derogata nei casi
in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara determinerebbe un “grave danno all’interesse
pubblico” che è destinata a soddisfare.
Ciò in base all’articolo 11 comma 9° del Dlgs 163/2006, come modificato e integrato dall’articolo 1 comma 1 lett. b) del Dlgs
53/2010.
Il mancato rispetto di tale disposizione non incide però sul provvedimento di aggiudicazione definitiva. Infatti la violazione
della clausola (e del principio) di "stand still", incide solo sull’azione dell’amministrazione successiva all’aggiudicazione, ma non
può comportare, da sola, l'annullamento del (precedente atto di aggiudicazione (cfr. Consiglio di Stato, Sezione III, 12.7.2011
n. 4163).
Ciò è confermato dall’articolo 121, comma 1°, lett. c) del Codice del processo amministrativo (Dlgs n. 104 del 2 luglio 2010)
secondo cui il giudice che annulla l'aggiudicazione dichiara l'inefficacia del contratto (solo) se la violazione del termine dilatorio
di cui dell'articolo 11, comma 10°, del codice dei contratti pubblici "abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di
mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, “aggiungendosi a vizi propri
dell'aggiudicazione definitiva”, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento”.
Ciò premesso, il Tar Sardegna ha ritenuto che, nel caso di specie, l’Amministrazione avesse effettivamente la “necessità” di
garantire la “continuità” del servizio, avente natura essenzialmente assistenziale, posto che la sua interruzione avrebbe
determinato oggettivamente un “grave danno all’interesse pubblico”.
Il Consiglio di Stato ha affermato, in analoga fattispecie, che “dette ragioni di urgenza, ai sensi dell’articolo 11, comma 9, del
Dlgs n. 163 del 2006, e successive modificazioni, consentono di derogare al periodo di stand still, tenuto conto della natura
essenziale del servizio e delle specifiche finalità di interesse pubblico perseguite” (Consiglio di Stato, Sezione, III, 3.7.2013 n.
3568).
Così come “la consegna anticipata dei lavori segue di norma l’aggiudicazione definitiva, ma oggettivi ed inequivocabili motivi di
urgenza nella realizzazione dei lavori consentono la immediata esecuzione dei lavori stessi, sotto riserva di legge, anche dopo
l’aggiudicazione provvisoria, e l’ipotesi è contemplata in sede di giurisprudenza amministrativa” (cfr. Cons. Stato, Sezione III ,
del 5.1.2012 n. 12).
In questi casi, dunque, la consegna anticipata è ammessa (cfr. anche Tar Emilia Romagna 23.1.2014 n. 110; Tar Sardegna
9.1.2013 n. 3).
Il caso
Nella specie, veniva impugnata la determina con cui il responsabile comunale del servizio aveva aggiudicato definitivamente la
gara per lo svolgimento di servizi alla persona, nonché quella con cui veniva disposta l'esecuzione anticipata del servizio, prima
della sottoscrizione del contratto e dello spirare del termine di stand still prescritto dalle norme comunitarie e interne a
presidio del diritto alla difesa giurisdizionale.
Argomenti, spunti e considerazioni
La conclusione del Tar sardo, Sezione I, con la sentenza n. 693 del 10 aprile 2015, persuade.
E’ facendo esercizio di sano realismo, infatti, che è stata introdotta nel diritto interno la possibilità di “consegna d’urgenza”,
AGGIORNAMENTO A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI (U.P.E.L.)
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avendo il legislatore italiano stabilito, con la norma derogatoria, una situazione riferita ad una ristretta tipologia di ipotesi,
qualificate necessarie e indispensabili per garantire la giusta tutela all’interesse pubblico (in particolare per evitare il “grave
danno”). In questi ristretti limiti, lo strumento della consegna anticipata non si pone in contraddizione neppure con il diritto
UE, in quanto utilizzabile al solo fine di assicurare, nelle more, il servizio (assistenziale) ritenuto indispensabile.
Utile e importante si rivela anche la precisazione, operata in parte motiva dai giudici sardi, secondo la quale “Le due situazioni
(contratto, esecuzione d’urgenza) si mantengono comunque a livelli ben differenziati, avendo il legislatore previsto, quale
controprestazione per colui che esercita il servizio in via d’urgenza (senza contratto) solo un “diritto al rimborso” (v. articolo 11
comma 9 del codice contratti 163/2006).”. Chi infatti esercita il servizio in via d’urgenza, nei casi qui considerati, lo fa senza
contratto, sicché può aver diritto solo ad un rimborso.
5.2) T.A.R. CAMPANIA, NAPOLI, SEZ. I, 15 APRILE 2015, N. 2125 - Revoca delle procedure ad evidenza
pubblica.
La valutazione dell'interesse pubblico nella determinazione di revoca di una procedura ad evidenza pubblica consiste in un
apprezzamento discrezionale non sindacabile nel merito da parte del Giudice Amministrativo, salvo che non risulti viziato sul
piano della legittimità per manifesta ingiustizia ed irragionevolezza.
5.3) TAR PIEMONTE SENTENZA 17 APRILE 2015, N. 631 - Requisiti economici e tecnici, avvalimento solo
se la prestazione del garante è ben specificata.
Un contratto di avvalimento formulato attraverso la tautologica riproduzione della formula legislativa della messa a
disposizione delle «risorse necessarie di cui è carente il concorrente», o espressioni equivalenti, appare inidoneo a
un’adeguata verifica sia dei requisiti di idoneità all’affidamento della commessa; sia, in fase di esecuzione del contratto, al
controllo dell’esattezza della prestazione resa, e quindi del grado di diligenza e di professionalità esigibile dalla parte obbligata.
Il principio di diritto
Con sentenza 17 aprile 2015, n. 631, la prima sezione del Tar Piemonte si è pronunciata sulla peculiare fattispecie di
avvalimento del solo requisito finanziario (cosiddetto di garanzia), osservando come proprio connettendo a tale requisito un
mero obbligo di garanzia patrimoniale, attivabile in fase di esecuzione del contratto ed avulso dalle modalità organizzative
dell’apparato operativo-aziendale dell’impresa ausiliaria, parte della giurisprudenza giunge a sostenere che la sola indicazione
(anche per relationem) del fatturato, e quindi del limite economico entro il quale tale garanzia patrimoniale potrà essere
attivata, valga a soddisfare l’obbligo di determinatezza o determinabilità del contratto di avvalimento, ai sensi dell’articolo
1346 c.c.
Rispetto a questo modello, ha precisato il Tar Piemonte, ben altro è quando si tratti di un avvalimento del requisito di capacità
tecnico-economica, attraverso la verifica del quale l’amministrazione è chiamata a vagliare anche la specifica affidabilità e
attitudine del concorrente alla realizzazione delle prestazioni oggetto della gara: la puntuale indicazione delle attività svolte,
del periodo di gestione, del relativo importo contrattuale e dei destinatari dei servizi resi, è infatti giustificata dall’esigenza
della stazione appaltante di acquisire conoscenza della precedente attività dell’impresa, in quanto le precedenti esperienze
maturate rappresentano significativi indici della sua capacità di eseguire la prestazione oggetto dell’appalto.
Laddove, dunque, il requisito prestato presenti anche valenza tecnica-organizzativo - essendo finalizzato a dimostrare che
l’operatore economico che partecipa alla gara è in possesso di quella specifica competenza risultante dall’avere svolto, nel
settore oggetto dell’appalto e per l’indicato periodo temporale, determinati lavori o servizi - è logico che detta competenza
venga specificata attraverso l’indicazione dei mezzi e delle esperienze pregresse ad essa correlate e poste a disposizione ai fini
dell’attuazione dell’impegno negoziale. Diversamente, verrebbe vanificata la ragione giustificativa dell’obbligazione solidale
gravante sull’ausiliaria, atteso che il regime di responsabilità può operare soltanto se viene specificamente indicata la
prestazione cui tale responsabilità si riferisce. Non è possibile, d’altra parte, postulare un inadempimento contrattuale e la
conseguente responsabilità di un soggetto il cui obbligo è stato genericamente dedotto in contratto, potendo il soggetto
ausiliario, per andare esente da responsabilità, rilevare proprio la mancanza di una specifica obbligazione e l’assenza di
conseguente violazione contrattuale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 maggio 2014, n. 2365).
Ciò premesso, il Tar Piemonte ha concluso nel senso che l’avvalimento avente ad oggetto l’esperienza pregressa, oltre che il
fatturato, può spiegare la sua funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner commerciale con solidità tecnica ed
economica proporzionata ai rischi di inadempimento contrattuale solo se rende palese la concreta dimensione e qualità delle
capacità aziendali di cui si dà mandato all’ausiliata di avvalersi.
Invero, anche per l’avvalimento “di garanzia” - figura nella quale l’ausiliaria mette in campo unicamente la propria solidità
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economica e finanziaria a servizio dell’ausiliata, ampliando così lo spettro della responsabilità per la corretta esecuzione
dell’appalto - l’ormai consolidata e più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ritiene che il relativo contenuto non possa
rimanere astratto, cioè svincolato da qualsivoglia collegamento con risorse materiali o immateriali, finendosi altrimenti col
frustrare anche la funzione di garanzia allo stesso sotteso (ex multis Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 301;
Cons. Stato, sez. III 17 giugno 2014, n. 3058 e 22 gennaio 2014 n. 294): sicché si ritiene che anche per tale tipologia di
contratto sia richiesta l’adeguata indicazione, a seconda dei casi, del fatturato globale e dell’importo relativo ai servizi o
forniture nel settore oggetto della gara, nonché degli specifici fattori della produzione e di tutte le risorse che hanno permesso
all’ausiliaria di eseguire le prestazioni analoghe nel periodo richiesto dal bando (Cons. Stato, sez. III, 22 gennaio 2014 n. 294 e
17 giugno 2014 n. 3057). Identico principio non può che valere, a fortiori, nel caso qualificabile come di avvalimento “misto”,
cioè tecnico-operativo oltre che finanziario, ove, come si è detto, il contenuto del contratto ingloba profili di capacità ed
esperienza tecnico-professionale dell’impresa ausiliaria (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisdizionale, 21 gennaio 2015, n. 35).
Il caso
Nella specie, veniva contestata l’aggiudicazione provvisoria in forza dell’argomento secondo il quale l’aggiudicataria doveva
essere esclusa dalla gara per mancanza dei requisiti di capacità tecnica ed economica, sotto cinque distinti profili:
a) il contratto di avvalimento sarebbe "del tutto generico e privo dei requisiti tassativamente prescritti dalla legge": le
segnalate carenze riguardano, in particolare l’indicazione dell’oggetto, della durata e degli altri elementi utili richiesti
dall’articolo 88 del Dpr n. 207/2010;
b) in secondo luogo, nel contratto e nella dichiarazione dell’ausiliaria non sarebbero stati indicati i servizi analoghi svolti,
richiesti a pena di esclusione dalla gara;
c) sotto un ulteriore profilo, l’avvalimento risulterebbe illegittimo per non essere l’ausiliaria una Cooperativa sociale, bensì una
società di capitali, pur essendo la gara riservata alle Cooperative sociali di cui all’articolo 1, lett. a), della legge n. 381/1991;
d) ulteriore ragione di esclusione dalla gara deriverebbe dallo stato di passività e dal calo del fatturato registrato nei relativi
bilanci nel triennio 2011-2013;
e) la ricorrente rilevava, infine, che l’aggiudicataria - nel cui organico figurano solamente lavoratori autonomi e collaboratori sarebbe priva di personale subordinato dipendente, e quindi difetterebbe di un requisito fondamentale ai fini di gara.
Argomenti, spunti e considerazioni
La conclusione del Tar piemontese persuade. Tanto nella parte in cui ribadisce il principio, metagiuridico, del “parlar chiaro”
(l’avvalimento avente ad oggetto l’esperienza pregressa, oltre che il fatturato, può spiegare la sua funzione di assicurare alla
stazione appaltante un partner commerciale con solidità tecnica ed economica proporzionata ai rischi di inadempimento
contrattuale solo se rende palese la concreta dimensione e qualità delle capacità aziendali di cui si dà mandato all’ausiliata di
avvalersi), a garanzia della serietà degli impegni assunti fra le parti del contratto di avvalimento e, di riflesso, nei confronti
della stazione appaltante.
Ma anche, in termini più generali, nella parte in cui coniuga questo rigore (serietà degli impegni assunti multilateralmente) con
il riconoscimento di uno spazio adeguato per l’autonomia privata nella stessa combinazione – fra loro - delle diverse formule
contrattuali (nella specie, ben riflesso nel passaggio in cui si ribadisce l’apertura verso l’avvalimento misto, cioè tecnicooperativo oltre che finanziario, ove, appunto, il contenuto del contratto ingloba profili di capacità ed esperienza tecnicoprofessionale dell’impresa ausiliaria, su cui già si era espresso Cga Sicilia, n. 35/2015 citata).
5.4) CONSIGLIO DI STATO, SEZ. II, 22/4/2015 N. 1178 - Sulle forme di cooperazione tra amministrazioni
che possano ritenersi escluse dall'ambito di applicazione della normativa europea in tema di appalti
pubblici, e dunque dalla necessità di esperire prima una procedura ad evidenza pubblica.
E' da escludersi dall'applicazione del codice dei contratti e dalle direttive UE, e la piena legittimità, senza riserva alcuna, di
accordi, convenzioni e contratti di servizi tra l'Agenzia del demanio ed ogni altro soggetto pubblico, tra i quali le
amministrazioni statali centrali e periferiche e gli enti territoriali, nonché ogni ente pubblico o società per azioni (sempreché
totalmente in mano pubblica), finalizzati alla gestione e valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari. Il fine comune di tali
amministrazioni nel perseguire questi obiettivi, a ben vedere, prescinde totalmente dalla natura demaniale o patrimoniale dei
beni oggetto delle convenzioni, ed è piuttosto ravvisabile nell'esigenza pubblicistica di valorizzare economicamente e
socialmente il territorio attraverso il miglior utilizzo degli immobili, la cui realizzazione è una delle più idonee premesse per il
risanamento dei conti pubblici, come anche prefigurato nel decreto cd. "sblocca Italia" (p.es. all'art.17 del D.L. 12 settembre
2014 n. 133 conv. con mod. dalla L. 11 novembre 2014 n. 164).
Tutto ciò nell'ovvia necessaria premessa che l'eventuale trasferimento di risorse a favore dell'Agenzia resti entro i ristretti
limiti del riconoscimento di un corrispettivo forfettario a copertura delle spese vive sostenute.
AGGIORNAMENTO A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI (U.P.E.L.)
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EDILIZIA PRIVATA ED URBANISTICA
6) ABUSO EDILIZIO DELL'INQUILINO, SÌ ALLA DEMOLIZIONE MA NON ALL'ACQUISIZIONE GRATUITA DA
PARTE DEL COMUNE.
Qualora un abuso edilizio sia stato posto in essere su un immobile concesso in locazione, la relativa responsabilità va riferita al
conduttore. Questi, infatti, è l’unico soggetto che ha la materiale disponibilità del bene, salvo che non emerga un manifesto
coinvolgimento del proprietario che ha consentito l’abuso vietato. L’estraneità del proprietario all’abuso non implica
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi ma esclude la possibilità di
procedere all’acquisizione gratuita da parte del Comune. È quanto afferma il Tar Campania – Salerno, sez. I, con la sentenza 20
aprile, n. 873.
La vicenda storica
Le proprietarie di alcuni terreni, sui quali erano state realizzate opere edilizie abusive, erano destinatarie di alcune ordinanze
di demolizione emesse dal Comune. Tali provvedimenti venivano impugnati sul presupposto della estraneità delle proprietarie
dei terreni alla commissione dell’abuso, con la conseguente esclusione dalla possibilità di subire l’acquisizione dell’area di
sedime, e di quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe, in favore del patrimonio comunale (effetto previsto
dall’articolo 31 Dpr 380/2001 come conseguenza della mancata demolizione degli abusi, nel termine perentorio di giorni
novanta dalla notifica della relativa ordinanza).
In particolare, le proprietarie hanno supportato la loro argomentazione con la circostanza del non avere la disponibilità
dell’area, su cui erano sorti, a più riprese, gli edifici abusivi contestati, sottolineando come sia la precedente istanza di
condono edilizio quanto la successiva integrazione della stessa istanza erano state presentate dagli amministratori pro
tempore delle società che si erano succedute nell’affitto dei terreni. Le ricorrenti hanno rappresentato, inoltre, d’essere a
conoscenza del fatto che, sui loro terreni, insistevano varie costruzioni ma hanno segnalato la loro assoluta buona fede, nel
senso di essere convinte che le stesse costruzioni fossero state edificate legittimamente dai conduttori dei terreni; facevano,
inoltre, presente come tale situazione fosse nota al Comune.
La responsabilità dell’abuso edilizio
In linea generale, l’articolo 31, comma 2, Dpr 380/2001, prevede espressamente che, una volta accertata l’esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ne viene ingiunta la
rimozione o demolizione “al proprietario e al responsabile dell'abuso”.
Nello specifico, assume rilievo il principio pacifico secondo cui qualora un abuso edilizio sia stato posto in essere su un
immobile concesso in locazione, la relativa responsabilità va riferita al conduttore.
Questi, infatti, è l’unico soggetto che ha la materiale disponibilità del bene, salvo che non emerga un manifesto
coinvolgimento del proprietario che ha consentito l’abuso vietato.
Ciò in coerenza con i principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza 15 luglio 1991 n. 345, la quale ha escluso la
possibilità di procedere all’acquisizione gratuita da parte del Comune di un immobile, in caso di inottemperanza all’ordine di
ripristino in presenza di un abuso edilizio, qualora il proprietario sia estraneo all’abuso, in quanto il destinatario delle sanzioni
edilizie deve essere il responsabile dell’abuso.
I principi enunciati con riferimento alla fattispecie dell’acquisizione gratuita dell’immobile, in quanto aventi valenza generale,
sono agevolmente trasponibili all’intera materia sanzionatoria riferita agli abusi edilizi, trovando applicazione nella regola
generale secondo cui ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va applicata al responsabile dell'abuso edilizio
contestato.
Il proprietario, non autore dell'abuso e non committente delle opere, può ritenersi corresponsabile soltanto ove emerga un
suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dell'abuso edilizio stesso, tenuto conto che egli non è nella condizione
di avere la materiale detenzione del bene stesso.
Il proprietario locatore dell'immobile interessato da interventi abusivi realizzati dal conduttore, non avendo la disponibilità
materiale del bene, quindi, è in linea generale estraneo all'illecito e non può essere colpito dalla sanzione pecuniaria.
L’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità
non implica però l’illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi
confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene.
Invero, l’obbligo di emanare le ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva anche nei confronti di chi risulti essere il
proprietario, per come sancito a livello normativo, sussiste indipendentemente dall’essere anche responsabile delle opere
abusive, essendo il proprietario individuato dalla norma tra i soggetti che sono comunque in grado di porre fine alla situazione
antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell'abuso, in considerazione della natura non
meramente sanzionatoria, ma ripristinatoria dell’ordine di demolizione.
AGGIORNAMENTO A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI (U.P.E.L.)
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Diverso discorso è a farsi, invece, con riguardo alla sola parte del provvedimento concernente l'acquisizione gratuita, che, in
quanto disposta nei confronti del proprietario non colpevole dell’abuso è illegittima.
Infatti, l’acquisizione gratuita dell’area non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né
una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all’inottemperanza all’ingiunzione.
Consequenzialmente, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell’abuso non potendo operare nella sfera giuridica di
altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell’area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli
strumenti offerti dall’ordinamento.
Tale principio va coordinato con l’onere, ricadente sul proprietario, di attivarsi per il ripristino della situazione originaria dei
luoghi una volta venuto a conoscenza dell’abuso, nonché con l’esigenza di non aggravare l’Amministrazione procedente con
l’imposizione di accertamenti volti ad individuare l’autore dell’abuso.
Ciò soprattutto quando l’Amministrazione è a conoscenza, al momento dell’accertamento dell’abuso, che l’immobile era
condotto in locazione, con la conseguenza che la sanzione pecuniaria per l’abuso realizzato sull’immobile avrebbe dovuto
essere indirizzata al conduttore, al quale, avendo la disponibilità dell’immobile, è riconducibile la realizzazione dell’opera,
altrimenti dandosi ingresso ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva fondata sul solo titolo proprietario, contraria ai principi
sulla responsabilità amministrativa, fondata sull’elemento soggettivo.
Le eccezioni al principio
L’acquisizione gratuita dell’area su cui è stato realizzato un immobile abusivo non può essere dichiarata nei confronti del
proprietario che, del tutto estraneo al compimento dell’opera abusiva, non può ritenersi responsabile della stessa.
L’unica eccezione a tale principio sussiste quando il proprietario, sebbene non responsabile dell’abuso, sia venuto a
conoscenza dello stesso e non si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall’ordinamento.
Pertanto, l’Amministrazione, una volta che, come nella vicenda in esame, abbia ingiunto la demolizione dell’immobile abusivo
nei confronti del responsabile dell’abuso, non può operare l’acquisizione dell’immobile abusivo e dell’area di pertinenza ai
danni dell’ente ricorrente, proprietario del terreno, senza che risulti accertato il coinvolgimento anche morale del proprietario
nella commissione dell’illecito.
6.1) CONSIGLIO DI STATO SENTENZA 7 APRILE 2015, N. 1770 - Amministrazione lenta: risarcimento del
danno solo se il ritardo è «colpevole».
Il risarcimento del “danno da ritardo” nell’emissione di un provvedimento amministrativo va necessariamente collegato alla
colpa dell’Ente pubblico, che deve essere rigorosamente provata, oltre che collegata all’inerzia dell’Ente (Consiglio di Stato
sentenza 7 aprile 2015, n. 1770).
In linea di principio sono due le tipologie di danno derivante dalle lungaggini della Pa.
Il primo, definito danno da mero ritardo, che si delinea nella mera perdita di tempo derivante dal superamento dei termini di
conclusione del procedimento, a prescindere dalla spettanza del bene della vita richiesto.
Il secondo si configura qualora, a seguito di un accertamento giudiziale, o in via amministrativa, si rilevi la tardiva (o mancata)
emanazione di un provvedimento favorevole.
La domanda di risarcimento del danno da ritardo può essere accolta dal giudice solo in quest’ultima ipotesi, ossia qualora sia
intervenuto l’accertamento giudiziale della mancata o errata emanazione di un provvedimento vantaggioso per l’interessato
(suscettibile di appagare un "bene della vita") e a lui spettante.
Pertanto, se la parte privata insiste nel collegare la colpa della P.A. alla sola violazione del termine a provvedere, senza
allegare profili ulteriori, non v’è spazio per accogliere la sua domanda risarcitoria.
Ricostruzione della vicenda
Nella fattispecie di riferimento è stata definita la controversia tra un cittadino e un Comune pugliese, colpevole, secondo il
primo, di aver eccessivamente ritardato il rilascio di un titolo edilizio concernete la costruzione di un corpo scale del proprio
appartamento, crollato durante i lavori di ristrutturazione dello stabile principale.
Poiché nel frattempo l’amministrazione aveva rilasciato il permesso, il Tribunale amministrativo ha ritenuto ex post provata la
spettanza e ha condannato l’amministrazione a risarcire i danni per il ritardo.
A seguito di contestazione avvenuta dinanzi al Tribunale pugliese, il privato aveva così ottenuto il ristoro del danno subìto per
effetto del ritardo lamentato.
Si chiarisce che la concessione edilizia inizialmente rilasciata, aveva a oggetto la manutenzione straordinaria e sopraelevazione
di un villino, riportante l’espressa prescrizione che il vano scala (il cosiddetto torrino) “conservi le attuali dimensioni e
inclinazioni”.
Durante i lavori il torrino subiva un crollo. Dopo il verificarsi dei fatti l’Amministrazione constatava un’incongruenza tra lo stato
dei luoghi e quello riportato sui grafici di progetto relativamente all’originaria consistenza del vano scale, sicché la stessa
AGGIORNAMENTO A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI (U.P.E.L.)
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dapprima sospendeva i lavori riguardanti la ricostruzione del torrino scala, in quanto non assentito e con successivo
provvedimento, negava il titolo per la sua ricostruzione;, infine, con ulteriore provvedimento, inibiva l’attività edificatoria per
decadenza della concessione edilizia, evidenziando circostanze impeditive, o quanto meno scusanti l’adozione dell’atto di
diniego, determinate dalla falsa rappresentazione progettuale, cui è seguito un crollo del vano scale.
Provvedimenti illegittimi
Qualora un edificio pervenga a una integrale demolizione (anche a seguito della sua rovina per cause naturali) dopo che per
esso è stata rilasciata una concessione edilizia di ristrutturazione, questa concessione perde la propria efficacia perché non
esiste più l'edificio da ristrutturare, e per cui occorre, per la costruzione del nuovo edificio, un diverso e regolare titolo
abilitativo.
Non può farsi risalire la legittimità dei provvedimenti di diniego successivo al crollo, alle ragioni esplicitate nel primo
provvedimento di sospensione dei lavori, riguardanti la ricostruzione del torrino scala non assentito.
Infatti, la situazione di fatto creatasi a seguito dell’evento, che ha stravolto i presupposti su cui si era precedentemente
regolato il Comune, andava valutata in concreto dall’amministrazione e posta come elemento fondante della sua decisione.
Precisamente, l’amministrazione, non avrebbe potuto nuovamente valutare la questione inizialmente sottopostale, non
tenendo conto dei nuovi elementi fattuali.
E, il provvedimento adottato successivamente dal Comune che ha rilasciato in favore del ricorrente il permesso di costruire
sulla base della presentazione di un nuovo progetto, non può ritenersi tardivo.
Trattasi, a ben vedere, di un caso in cui, il semplice decorso del tempo non è sufficiente a fondare la risarcibilità del danno da
ritardo, in quanto è onere del privato dimostrare che già precedentemente all’accertamento giudiziale vi erano tutti i
presupposti per l’assentimento del progetto.
Presupposti che, invece, potevano a quell’epoca escludersi, avuto riguardo alla differenza tra quanto rappresentato in
progetto e il manufatto preesistente che si dichiarava di voler fedelmente ricostruire.
L’Amministrazione, dunque, in presenza di siffatte circostanze impeditive, o quanto meno scusanti, non avrebbe potuto
rilasciare il permesso a costruire richiesto e l’adozione successiva dello stesso, avvenuta a seguito delle modifiche progettuali,
non evidenzia una spettanza originaria in favore del richiedente.
Quest’ultimo per ottenere il risarcimento del danno da ritardo avrebbe dovuto provare che questo fosse inequivocabilmente
collegato alla colpa dell’amministrazione.
Al contrario, il soggetto interessato ha insistito nel collegare la colpa alla mera violazione del termine a provvedere, senza
allegare profili ulteriori, con la conseguente inammissibilità della richiesta risarcitoria.
Conclusioni
In definitiva, in sede di richiesta di accertamento del danno da ritardo nell'adozione di un atto della Pubblica amministrazione,
l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono in linea di principio presumersi iuris tantum in meccanica ed
esclusiva relazione al ritardo ma il danneggiato, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ. deve provare tutti gli elementi costitutivi della
relativa domanda.
Consequenzialmente, il mero superamento del termine fissato ex lege o in via regolamentare alla conclusione del
procedimento costituisce indice oggettivo, ma non integra piena prova del danno.
In tale ottica, nella specie, da una parte, il proprietario dell’immobile ha avanzato una mera doglianza circa il ritardo subìto
dall’Amministrazione che, dall’altro, la stessa amministrazione ha ragionevolmente argomentato la scusabilità del tempo
occorso per la definizione del procedimento il ritardo registrato.
Il privato, invece, si è limitato al mero riscontro di date senza fornire adeguato principio di prova anche con riferimento
all’elemento “colpa”, che non può essere in re ipsa, riscontrabile nella condotta dell’amministrazione.
La condanna al risarcimento del danno ingiusto si sarebbe configurata esclusivamente in presenza di un illegittimo esercizio
dell'attività amministrativa posta in essere dal Comune. Quindi, l’Amministrazione, che ha evidenziato circostanze impeditive,
o quanto meno scusanti, integrate dalla falsa rappresentazione progettuale, cui è seguito un crollo del vano scale, non è
tenuta ad alcun risarcimento, giacché siffatte circostanze sono valse a escludere un comportamento doloso o colposo
OPERE PUBBLICHE
7) SBLOCCA ITALIA, OGGI IN GAZZETTA IL BANDO PER I PICCOLI COMUNI.
Verrà pubblicata oggi sulla Gazzetta Ufficiale la Convenzione Mit-Anci per i “Nuovi progetti di intervento” per i piccoli Comuni.
A valere dalla data di pubblicazione, dalle ore 9.00 del 13 maggio i Comuni interessati potranno procedere all’invio delle
AGGIORNAMENTO A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI (U.P.E.L.)
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richieste. Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha firmato, infatti, il nuovo bando nazionale da 100 milioni di euro per
progetti di opere infrastrutturali nei Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.
Il decreto, dopo la registrazione alla Corte dei Conti in attuazione dell’articolo 3 dello Sblocca Italia, ha approvato una
convenzione con Anci, assegnando priorità agli interventi volti:
a) alla qualificazione e manutenzione del territorio, mediante recupero e riqualificazione di volumetrie esistenti e di aree
dismesse, nonché alla riduzione del rischio idrogeologico;
b) alla riqualificazione e all’incremento dell’efficienza energetica del patrimonio edilizio pubblico, nonché alla realizzazione di
impianti di produzione e distribuzione di energia da fonti rinnovabili;
c) alla messa in sicurezza degli edifici pubblici, con particolare riferimento a quelli scolastici, alle strutture socio-assistenziali di
proprietà comunale e alle strutture di maggiore fruizione pubblica.
Sono finanziabili progetti per investimenti da 100 mila a 400 mila euro. L’assegnazione delle risorse statali avverrà in base alle
graduatorie definite in relazione alla consistenza dei piccoli Comuni per ogni Regione previa assunzione, da parte dell’Ente
interessato, dell’impegno a procedere alla pubblicazione del bando di gara o della determina a contrarre entro il 31 Agosto
2015.
Il Programma “Nuovi progetti di interventi” permetterà di realizzare da un minimo di 250 a un massimo di 1000 interventi nei
piccoli Comuni.
(clicca qui per accedere alla convenzione)
(clicca qui per accedere al disciplinare)
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(clicca qui per accedere alla ripartizione)
7.1) TAR LOMBARDIA-MILANO, SENTENZA 9 APRILE 2015, N. 914 - Cogenerazione elettrica, legittimo
non incentivare allo stesso modo tutte le tecnologie.
La seconda sezione del Tar Lombardia-Milano, con la sentenza 9 aprile 2015, n. 914, ha affermato che la tesi per cui, anche
dopo il 1° gennaio 2011, la produzione combinata di energia elettrica e calore conforme ai parametri dettati dalla pregressa
delibera Aeeg n. 42/2002 possa continuare ad avvantaggiarsi dell’esenzione dall’obbligo di acquisto dei certificati verdi e della
priorità di dispacciamento, non appare confortata né dalla lettera, né dal fondamento dell’evoluzione normativa che ha
interessato il regime giuridico degli impianti di cogenerazione. Invero, l’indirizzo regolatorio volto a riservare tali dispositivi di
vantaggio alla sola cogenerazione ad alto rendimento appare del tutto conforme all’approccio (per così dire) “incrementale”
seguito dal legislatore, volto cioè a garantire un costante allineamento tra le misure di sostegno (di cui viene onerato il sistema
nel suo complesso) e i maggiori benefici ambientali conseguibili grazie all’evoluzione tecnologica.
Il principio di diritto
La cogenerazione, consistendo nella produzione combinata di energia elettrica/meccanica e di energia termica (calore)
ottenute in impianti che utilizzano la stessa energia primaria, ha il vantaggio di risparmiare combustibile. Per valutare se
l’impianto in questione ha ottenuto effettivamente un risparmio di combustibile, rispetto al consumo di quello che si sarebbe
ipoteticamente conseguito con la produzione separata, si sono nel tempo adottate due diverse tecniche di verifica. Tale
avvicendamento, come si vedrà di seguito, illumina l’intentio legislatoris di compulsare gli operatori a efficientare i propri
impianti a mano a mano che lo sviluppo scientifico lo renda possibile.
La delibera Aeeg del 19 marzo 2002, n. 42, cui il Dlgs 16 marzo 1999, n. 79 rinviava per la definizione dei requisiti necessari ad
accedere ai benefici di esenzione dall’obbligo di acquisto dei certificati verdi e di priorità di dispacciamento, prescriveva due
valori-soglia (riferiti a ciascun anno di produzione): il conseguimento di un risparmio di energia primaria almeno del 10%
rispetto alla produzione separata di energia e calore; la circostanza per cui almeno il 15% dell’intera produzione (di energia
elettrica e calore) fosse rappresentata dal calore.
La direttiva 2004/8/Ce e il successivo Dlgs n. 20/2007 di recepimento, sempre ai fini della misurazione della energia primaria
risparmiata, stabiliscono che invece debba aversi riguardo al rendimento globale dell’impianto; secondo tale indice l’energia
elettrica e il calore prodotti dall’impianto debbono rappresentare almeno il 75% del combustibile utilizzato. Qualora l’impianto
nel suo complesso non rispetti tale condizione, è consentito di scorporare virtualmente la parte dell’impianto che ha prodotto
“in cogenerazione”, riconoscendo solo proporzionalmente i relativi benefici (sempre che, per tale parte, il risparmio di energia
primaria sia superiore al 10%).
AGGIORNAMENTO A CURA DI UNIONE PROVINCIALE ENTI LOCALI (U.P.E.L.)
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Il nuovo corso regolatorio ha affidato il riconoscimento della cogenerazione ad alto rendimento a canoni più stringenti: nella
prima fase (regolata dalla delibera Aeeg n. 42/02) si prescriveva una quantità minima di calore da produrre rispetto all’intera
produzione dell’impianto, pari al 15%; nella fase successiva, si riconoscono i benefici alla sola quota di energia elettrica legata
al calore prodotto. In definitiva, mentre in passato, una volta rispettati i predetti valori soglia, l’intera produzione dell’impianto
veniva qualificata come energia da cogenerazione, nel nuovo regime, ove non sussistano le condizioni di rendimento globale,
l’impianto reale può essere virtualmente scisso in due porzioni, di cui solo una viene qualificata come cogenerativa, mentre la
residua quota di produzione è assoggettata all’obbligo dei certificati verdi.
L’approccio selettivo seguito dal legislatore, per cui a partire dal 2011 gli impianti ad alto rendimento, in quanto
tecnologicamente più evoluti, vengono incentivati con misure di maggior sostegno rispetto alle forme di cogenerazione
tradizionali, trova conferma nei seguenti indici ermeneutici:
- l’obiettivo (cfr. l’articolo 1 della direttiva 2004/8/Ce) di accrescere l’efficienza energetica e promuovere una migliore tutela
dell’ambiente non può che passare attraverso la scelta discriminante di incentivare le forme di cogenerazione che consentono
un maggiore risparmio di energia primaria, nonché i potenziali benefici in termini di prevenzione delle perdite di rete e di
riduzione delle emissioni;
- se non fosse consentito al regolatore di graduare le tipologie di “sostegno”, non ci sarebbe modo di incentivare gli operatori
ad incrementare il “rendimento” cogenerativo dei rispettivi impianti;
- proprio a scongiurare che le due qualificazioni normative di cogenerazione (di cui una più restrittiva dell’altra) restino prive di
conseguenze giuridicamente rilevanti, l’articolo 1, comma 2, del Dlgs n. 20/2007, precisa come solo “ad integrazione” delle
definizioni riportate nel medesimo articolo “si applicano le definizioni di cui al decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79”;
- ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del Dlgs n. 20/2007 (cui corrisponde l’articolo 12, comma 3, della direttiva), la totale
equiparazione tra le due forme di cogenerazione è temporalmente limitata al 31 dicembre 2010;
- diversamente opinando, risulterebbe finanche discriminatorio accordare il medesimo beneficio, utilizzando (come rimarcato
dal Gse) “criteri più restrittivi per impianti più nuovi e criteri meno restrittivi per impianti più vecchi”, in spregio del principio di
parità di trattamento “il quale impone che situazioni simili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non
siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato” (nella giurisprudenza della
Cgue, ex multiis, cfr. sentenze del 16 dicembre 2008, Arcelor Atlantique e Lorraine e a., C 127/07, Racc. pag. I 9895, punto 23;
del 12 maggio 2011, Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, C 176/09, Racc. pag. I 3727, punto 31, nonché del 21 luglio 2011,
Nagy, C 21/10, Racc. pag. I 6769, punto 47).
In questo quadro, il “sostegno” alla cogenerazione garantito dall’artciolo 7 della direttiva 2004/8/Ce non contiene affatto un
vincolo per il legislatore nazionale di incentivare allo stesso modo tutte le forme di cogenerazione, per contro autorizzando gli
Stati membri (come, per l’appunto, accaduto in Italia) a riconoscere alle forme cogenerazione non ad alto rendimento (come
quella ex delibera Aeeg n. 42/02) un regime di sostegno alternativo (rappresentato a titolo di esempio, dai certificati bianchi,
al 30%, per cinque anni). Si colloca, invero, lungo il medesimo itinerario ermeneutico anche la sentenza Cgce del 26 settembre
2013, causa C-195/12, IBV&Cie SA c. Region Wallonne, dove la Corte europea ha sì riconosciuto che l’ambito di applicazione
della direttiva 2004/8/Ce non è limitato ai soli impianti di cogenerazione che hanno la caratteristica di essere impianti ad alto
rendimento ai sensi di tale direttiva, ma ha nel contempo precisato che, per quanto attiene, più specificamente, alle scelte da
operare in occasione dell’elaborazione dei regimi nazionali di sostegno alla cogenerazione, gli Stati membri mantengono un
ampio potere discrezionale (cfr. punto 61). Inoltre, riguardo alla forma che possono avere detti regimi di sostegno, si osserva
che il considerando 26 della direttiva 2004/8 elenca le varie forme a cui hanno fatto generalmente ricorso gli Stati membri,
ovvero certificati verdi, aiuto agli investimenti, esenzioni o sgravi fiscali, restituzioni d’imposta o regimi di sostegno diretto dei
prezzi.
L’impostazione sin qui seguita, fondata sulla cosiddetta successione tecnologica, è confermata e non certo contraddetta dalla
direttiva 2012/27/Ue (la quale ha abrogato a decorrere dal 5 giugno 2014 la direttiva 2004/8/Ce), recepita con il Dlgs 4 luglio
2014, n. 102. A ben vedere, infatti, l’articolo 10, comma 15, del Dlgs n. 104/2014 (corrispondente all’articolo 14, comma 11,
della direttiva 2012/27/UE), nell’escludere per il futuro forme di sostegno e incentivazione per gli impianti cogenerativi non ad
alto rendimento (ovvero quei regimi di incentivazione alternativi ai certificati verdi di cui si è discorso poc’anzi), non ha per
questo dato ad intendere retrospettivamente che, prima della sua entrata in vigore, le due forme di cogenerazione dovessero
essere necessariamente coincidenti.
Da ultimo, il Tribunale lombardo ha precisato che la descritta evoluzione normativa esclude, ‘a fortiori’, che il riconoscimento
ottenuto negli anni precedenti al 2011, potesse ingenerare un legittimo affidamento circa il perdurare dei medesimi benefici
anche per gli anni a venire, nonostante l’intervenuta modifica del quadro regolatorio.
Il caso
Nella specie, una società, premesso di essere titolare di un impianto turbogas per la cogenerazione di vapore e di produzione
di energia elettrica, entrato in esercizio commerciale il 15 luglio 1997, lamenta il mancato riconoscimento da parte del Gse, a
partire dal 2011, dell’esonero dall’obbligo di acquisto dei certificati verdi previsto dalla delibera Aeeg n. 42/02.
Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione del Tar Lombardia appare persuasiva. Appare infatti evidente che il “sostegno” alla cogenerazione garantito
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dall’articolo 7 della direttiva 2004/8/Ce non contiene affatto un vincolo per il legislatore nazionale di incentivare allo stesso
modo tutte le forme di cogenerazione, per contro autorizzando gli Stati membri (come, per l’appunto, accaduto in Italia) a
riconoscere alle forme cogenerazione non ad alto rendimento (come quella ex delibera Aeeg n. 42/02) un regime di sostegno
alternativo (rappresentato a titolo di esempio, dai certificati bianchi, al 30%, per cinque anni). Anche perché, come ben
chiarito anche dalla sentenza Cge del 26 settembre 2013, causa C-195/12, IBV&Cie SA c. Region Wallonne, che, per quanto
attiene, più specificamente, alle scelte da operare in occasione dell’elaborazione dei regimi nazionali di sostegno alla
cogenerazione, gli Stati membri mantengono un ampio potere discrezionale.
L’approccio selettivo seguito dal legislatore nazionale, per cui a partire dal 2011 gli impianti ad alto rendimento, in quanto
tecnologicamente più evoluti, vengono incentivati con misure di maggior sostegno rispetto alle forme di cogenerazione
tradizionali, trova del resto conferma nella logica stessa della direttiva 2004/8/Ce, che è quella di accrescere l’efficienza
energetica e promuovere una migliore tutela dell’ambiente. Il che non può che passare attraverso la scelta discriminante di
incentivare le forme di cogenerazione che consentono un maggiore risparmio di energia primaria, nonché i potenziali benefici
in termini di prevenzione delle perdite di rete e di riduzione delle emissioni, e d’altra parte se non fosse consentito al
regolatore di graduare le tipologie di “sostegno”, non ci sarebbe modo di incentivare gli operatori ad incrementare il
“rendimento” cogenerativo dei rispettivi impianti.
PERSONALE
8) MINISTERO PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: RICOLLOCAZIONE DEL PERSONALE MEDIANTE I PROCESSI
DI MOBILITÀ PREVISTI DALL’ART. 1, COMMI 424 E 425, DELLA LEGGE 190/2014 E DALL’ART. 7, COMMA
2-BIS DEL DECRETO-legge 192/2014.
E' disponibile all'indirizzo http://www.mobilita.gov.it/ la funzionalità che consente a ciascun ente di area vasta l'inserimento
dei dati relativi al personale destinatario della ricollocazione mediante procedure gestite dal portale della mobilità, ai sensi dei
commi 423 e seguenti della legge 23 dicembre 2014, n. 190. L'inserimento è finalizzato a favorire l'incontro della domanda e
dell'offerta di mobilità.
Le amministrazioni, per poter accedere al sistema, dovranno registrarsi sull'applicativo al fine di ottenere le apposite
credenziali di accesso che saranno inviate via mail all'indirizzo del referente individuato dell'amministrazione.
Per informazioni ed assistenza si potrà contattare il desk tecnico attraverso il numero telefonico 06/82888782 dalle ore 9:30
alle ore 13:30, oppure scrivere ai seguenti indirizzi di posta elettronica [email protected] e [email protected]
Eventuali quesiti di carattere normativo potranno essere indirizzati al seguente indirizzo di posta elettronica
[email protected]
Con riferimento alla procedura di rilevazione dei fabbisogni di personale e delle facoltà di assunzione, che sarà completata con
funzionalità che saranno rese attive entro il mese, si precisa che la prima fase della procedura rimane in linea per consentire
alle amministrazioni mancanti di completare l'inserimento dei dati. Venerdì, 24 aprile 2015
8.1) I RISPARMI DA TURN OVER 2013 POSSONO FINANZIARE NUOVE ASSUNZIONI - Niente riserva agli
ex provinciali.
I risparmi derivanti dalle cessazioni di personale intervenute nel 2013 e non utilizzati nel 2014 per nuove assunzioni possono
essere destinati a questo scopo nel 2015 e sfuggono dal vincolo per cui gli ingressi devono essere riservati al personale in
sovrannumero di Province e Città metropolitane. La Corte dei conti della Sardegna, con il parere 32 del 21 aprile, offre così una
lettura estensiva della possibilità sia di utilizzare i resti del 2013 per assunzioni a tempo indeterminato nel 2015, sia di
escludere queste assunzioni dai vincoli dettati dalla legge 190/2014. Questa lettura, coerente con le indicazioni della Funzione
Pubblica, limita il vincolo di destinazione al collocamento del personale degli enti di area vasta alle sole assunzioni a tempo
indeterminato finanziate con le cessazioni del 2014 e 2015, cioè a quelle che finanziano i programmi del fabbisogno di
personale del 2015 e del 2016.
Il contesto
Il Dl 90/2014 ha previsto che dal 2014 gli enti locali soggetti al Patto possono utilizzare per finanziare le nuove assunzioni a
tempo indeterminato i risparmi derivanti dalle cessazioni del triennio precedente. La sezione Autonomie della Corte dei Conti,
con la delibera 27/2014, ha escluso che la norma consenta di utilizzare queste somme per le cessazioni degli anni precedenti.
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In modo consolidato le sezioni regionali consentono di avvalersi dei risparmi derivanti dalle cessazioni del 2013 non utilizzate
per effettuare assunzioni nel 2014. Per la Corte dei Conti della Sardegna, «qualora la cessazione sia intervenuta nel 2013,
l'ente Locale soggetto al Patto di stabilità avrà nel 2014 una capacità assunzionale pari al 60% della spesa sostenuta per il
personale cessato nel 2013. Se l'assunzione non viene effettuata nel 2014, ma programmata per il 2015 si potrà cumulare la
capacità assunzionale del 2014 con quella del 2015, sempre che nel 2014 siano intervenute cessazioni». Nella stessa direzione
va la delibera 24/2015 della Corte dei Conti della Campania: «Il 2014 si pone come momento di cesura con l'anteriore
regolamentazione e registra un sostanziale ridisegno dei diversi limiti stabiliti in precedenza». La Corte dei Conti della
Lombardia ha accolto questa tesi, ma (delibera 120/2015) con la limitazione che il Comune doveva «aver programmato, nelle
forme previste dalla legge, una nuova assunzione per il triennio successivo».
Il passo avanti
È da considerare scontato che i risparmi per le cessazioni degli anni precedenti al 2013 non possano essere utilizzati per
finanziare nuove assunzioni da parte degli enti locali soggetti al Patto di stabilità (parere Corte Conti Lombardia 139/2015). La
conclusione ulteriore che viene tratta dai giudici contabili della Sardegna è che queste capacità di spesa non sono
necessariamente destinate alle assunzioni del personale che gli enti di area vasta collocheranno in sovrannumero: «Qualora le
cessazioni siano intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle
limitazioni introdotte dalla legge 190/2014». Il parere arriva a questa conclusione sulla base delle previsioni della legge, che al
comma 424 detta il vincolo per le assunzioni del 2015 e del 2016, e della circolare 1/2015 di Funzione pubblica e degli Affari
regionali, per la quale le assunzioni programmate nel 2014 sono escluse dai vincoli della legge di stabilità 2015.
(clicca qui per scaricare l’allegato)
8.2) SANATORIA DEI CONTRATTI DECENTRATI, LA RAGIONERIA ESCLUDE FORME DI RECUPERO
«DIVERSE».
Dopo le prime pronunce rese dalle giurisdizioni del lavoro in materia di applicazione della sanatoria sui fondi e sui contratti
decentrati integrativi introdotta dall’articolo 4 del Dl 16/2014, convertito dalla legge n. 68/2014, la confusione regna sovrana e
le amministrazioni locali, impegnate sul fronte attuativo di tali disposizioni, chiedono ausilio alle istituzioni competenti, dalle
sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, alla Ragioneria generale dello Stato, le quali annaspano nel generale caos
applicativo che si è venuto a determinare, tentando lodevoli lanci di salvagente all’indirizzo degli enti interessati mediante la
formulazione di avvisi di orientamento che possano rappresentare utili viatici operativi nella generale ambiguità di una
materia tanto complessa, quanto incerta.
I quesiti posti
È così che, tra le tante amministrazioni interessate, il Comune di Benevento ha formulato specifiche richieste di chiarimenti al
dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, il quale, mediante il proprio Ispettorato generale per gli ordinamenti del
personale (Igop), ha redatto i pareri richiesti in ordine a talune questioni che attengono alla corretta applicazione delle
predette disposizioni, trasmettendoli, con nota prot. n. 17739 del 10 marzo scorso, all’amministrazione comunale.
I quesiti posti dal Comune erano sostanzialmente i seguenti:
1) se le somme attribuite a titolo di indennità di disagio al personale di vigilanza debbano essere considerate somme aventi
destinazione non appropriata ed, inoltre, se altri emolumenti gravanti sulla parte variabile del fondo a vario titolo (incentivi
alla progettazione, compensi per legge 328/2000, compensi e/o incentivi per la realizzazione dei Prusst) possano rientrare
nella fattispecie prevista dal comma 3 della norma in oggetto;
2) se, qualora si opti per il recupero sul fondo, in caso di incapienza dello stesso sia necessario procedere al recupero delle
somme indebitamente percepite direttamente dai soggetti che hanno percepito tali emolumenti o se vi siano possibili
soluzioni alternative;
3) se, per quanto concerne il personale dirigente, la quota di risorse derivante dall’applicazione dell’articolo 26, comma 3, del
Ccnl 23 febbraio 1999 possa essere considerata acquisita al fondo e permanentemente conservata per i prossimi dieci anni,
trattandosi di amministrazione che ha deliberato il piano di riequilibrio finanziario ai sensi dell’articolo 243-bis, comma 9, del
Dlgs n. 267/2000 e la cui adesione al fondo di rotazione comporta l’eliminazione di risorse aggiuntive dal fondo.
Le risposte della Rgs
L’Ispettorato, con nota dell’Ispettore generale capo, ha così reso i seguenti avvisi sulle questioni poste: “Con riferimento ai
primi due punti risulta necessario in via preliminare verificare l’applicabilità dell’articolo 4 del decreto legge citato in oggetto
alla fattispecie rappresentata da codesto Comune. A questo proposito si ravvisa che la norma citata non appare riferibile a
procedimenti pressoché conclusi (reversali di incasso 2012-2013-2014) in data antecedente alla entrata in vigore della norma
stessa.”.
Il preliminare avviso reso sul punto appare condivisibile, in quanto, laddove il recupero di somme indebitamente corrisposte
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dall’amministrazione comunale si sia già integralmente concluso in periodo antecedente alla data di entrata in vigore della
norma in questione, il rapporto restitutorio può dirsi irrimediabilmente definito, con la conseguenza che la ripetizione
dell’indebito non può più realizzarsi mediante apprensione dai fondi futuri, ciò che travolgerebbe la relazione giuridica
definitivamente perfezionata con effetti di retroattività della norma non tollerabili dall’ordinamento generale. L’Ispettorato,
quindi, prosegue nell’illustrazione del parere reso, così determinando sui punti richiesti: «Ciò premesso, per quanto riguarda il
primo quesito, si ritiene non applicabile la disciplina di cui al comma 3, articolo 4 del richiamato Dl, in quanto il limite
temporale previsto dalla norma medesima viene identificato nel periodo che va dalla entrata in vigore dell’articolo 40, comma
3-quinquies del decreto legislativo n. 165/2001 per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 54 del decreto legislativo n.
15012009 sino all’anno 2012, cioè al previsto termine di adeguamento individuato dall’articolo 65 del medesimo decreto
legislativo n. 150/2009».
Francamente tale posizione non appare condivisibile, atteso che la norma in questione non pone espressamente alcun
termine iniziale di operatività ed il richiamo all’articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs n. 165/2001, come introdotto dall’art.
54 del decreto legislativo n. 150/2009, risulta, in vero, inconferente e poco comprensibile, tenuto conto che tale ultima
prescrizione nulla ha a che vedere con il meccanismo sanante portato dall’articolo 4 in parola, essendo collegata alla sola
fattispecie di amministrazioni pubbliche oggetto di apposita verifica da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei
conti, del dipartimento della Funzione pubblica o dal ministero dell’Economia e delle finanze (cfr. cit. comma 3-quinquies: “In
caso di accertato superamento di vincoli finanziari da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, del
Dipartimento della funzione pubblica o del Ministero dell’economia e delle finanze è fatto altresì obbligo di recupero
nell’ambito della sessione negoziale successiva.”), mentre la disposizione di cui trattasi costituisce principio generale
applicabile a tutte indistintamente le amministrazioni locali, a prescindere dalla circostanza che siano state oggetto di verifica,
ben potendo, quindi, le stesse, applicare tale sanatoria anche in occasione di autonome verifiche effettuate nell’ambito di
azioni di autotutela (cfr. comma 1 dell’articolo 4 del Dl n. 16/2014).
Non va dimenticato, al riguardo, che il documento di cui alla nota della presidenza del Consiglio dei ministri n. 10946 dell’8-12
agosto 2014 sull’applicazione dell’articolo 4 del Dl n. 16/2014, già oggetto del documento della Conferenza unificata rep. atti
n. 87/Cu del 10 luglio 2014, al punto I del n. 4 - Indicazioni operative, correttamente fa salvo, nell’ambito dell’attività di verifica
dei fondi di finanziamento del salario accessorio finalizzata all’applicazione delle norme qui in evidenza, “il termine di
prescrizione legale ai fini del recupero”, termine che, ai sensi dell’articolo 2946 c.c., è riferito al decennio di prescrizione
ordinaria, periodo temporale, quindi, che, ai fini degli effetti prodotti dallo scudo legale introdotto dal Dl n. 16, si estende ben
oltre il momento di entrata in vigore del comma 3-quinquies di cui sopra.
Prosegue, poi, l’Ispettorato, aggiungendo quanto segue: “In merito al secondo quesito, si ritiene che codesta Amministrazione
possa, ai fini della sostenibilità del recupero e nel rispetto dei principi generali previsti dall’art. 40, comma 3-quinquies del
decreto legislativo n. 165/200 l, procedere ad un recupero graduale a carico del fondo, prevedendo un numero di annualità
non superiore a quelle a cui si riferisce l’indebito e comunque nei limiti della capienza del fondo.”.
Dal riscontro fornito, dunque, parrebbe di capire che l’orientamento istituzionale si assesta, senza deroga alcuna, sul tenore
letterale della norma, non lasciando spazio, neppure nell’ipotesi rappresentata dall’ente di incapienza oggettiva del fondo, a
formule recuperatorie alternative. Tale assunto, in realtà desta qualche perplessità, atteso che l’incapienza del fondo e la sua
oggettiva impossibilità di consentire un recupero di somme entro il termine delle annualità in cui si è superato il limite
finanziario dello stesso, determinerebbe l’impercorribilità della sanatoria per superamento delle annualità recuperatorie, con
l’effetto, indiretto, di indurre l’amministrazione ad operare recuperi soggettivi (a carico dei singoli percettori, ove questo sia
possibile), con oneri, incertezze operative, costi ed improbabilità di integrale recupero, situazione tutta a danno dell’ente.
Sarebbe stato sufficiente ritenere che il termine legale delle annualità recuperatorie abbia natura meramente orientativa
(natura ordinatoria o sollecitatoria), ammettendo, di conseguenza, l’ampliamento delle annualità prescritte dalla norma
limitatamente ai casi in cui l’obiettiva insufficienza di disponibilità recuperatorie a carico del fondo (da provare da parte
dell’amministrazione interessata) imponga un’estensione del periodo temporale di ripetizione.
L’Ispettorato generale, infine, conclude sul terzo tema di incertezza rilevato dall’ente, così esprimendosi, al riguardo: “In
merito al terzo punto quesito, l'articolo 243-bis, comma 9 del decreto legislativo n. 267/2000 indica puntualmente le misure di
riequilibrio che l'amministrazione deve adottare in caso di accesso al Fondo di rotazione; la lettera a) del comma citato
prevede espressamente: a decorrere dall'esercizio finanziario successivo, riduzione delle spese di personale; da realizzare in
particolare attraverso l'eliminazione dai fondi per il finanziamento della retribuzione accessoria del personale dirigente e di
quello del comparto, delle risorse di cui agli articoli 15, comma 5, e 26, comma 3, dei Contratti collettivi nazionali di lavoro del
1° aprile 1999 (comparto) e del 23 dicembre 1999 (dirigenza), per la quota non connessa all'effettivo incremento delle
dotazioni organiche. Conseguentemente, si conferma che le quote di risorse ex articolo 26, comma 3, del CCNL 23.12.1999
non correlate ad un effettivo incremento di dotazione organica devono essere eliminate dal fondo della retribuzione
accessoria per la durata prevista dal comma 2 dell'articolo 243-ter del TUEL". L’affermazione non può che essere condivisibile,
atteso che la chiara lettera della disposizione richiamata nell’avviso non pare lasciare alcuna ragionevole incertezza
sull’effettiva portata della disposizione e sui conseguenti effetti dalla stessa prodotti. In disparte ogni altra considerazione,
tuttavia, l’utilità degli orientamenti resi è di tutta evidenza per le amministrazioni oggi cimentate sull’applicazione della
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sanatoria, per cui ci si augura che tali avvisi siano resi con maggiore frequenza, nell’ottica di un qualificato ed opportuno
ausilio reso alle amministrazioni interessate nel contesto dei rapporti di collaborazione istituzionale che contraddistingue le
relazioni tra enti centrali ed enti locali.
POLIZIA LOCALE E SICUREZZA
9) NO ALL'ORDINANZA D'URGENZA DEL SINDACO CONTRO IL PARCHEGGIO SELVAGGIO DI ROULOTTE.
Il Tar Toscana si è pronunciato sull'ordinanza adottata da un sindaco sul presupposto della constatazione che numerose aree
pubbliche destinate alla sosta dei veicoli sono occupate da mezzi di trasporto utilizzati come luogo di dimora o di
accampamento. Il Tar richiama rapporti della Polizia locale e segnalazioni attestanti l'abbandono di rifiuti in dette aree e la
turbativa che ne deriverebbe alla sicurezza pubblica ed all'ordinato vivere civile (sentenza 13 aprile 2015, n. 576, I sezione). Il
suddetto provvedimento adduce, a suo fondamento normativo, l'articolo 54 del Dlgs n. 267/2000 e l'articolo 2 del Dm 5
agosto 2008.
Il principio di diritto
Sennonché, hanno fatto notare i giudici amministrativi toscani, il contestato provvedimento si prefigge anche la tutela
dell'igiene pubblica, benché l'articolo 54 del Dlgs n. 267/2000, da esso richiamato, non preveda interventi in tal senso ma,
semmai, a salvaguardia dell'incolumità e della sicurezza pubblica.
Inoltre, le suddette norme richiedono la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per
l'incolumità pubblica, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria, essendo necessaria la documentata
necessità e urgenza attuale di intervenire a difesa degli interessi pubblici perseguiti (Tar Piemonte, I, 9.1.2015, n.46) e
dovendo comunque rilevare accadimenti non fronteggiabili con gli altri strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Tra i requisiti di validità delle ordinanze contingibili e urgenti vi è, inoltre, la fissazione di un termine di efficacia del
provvedimento: il carattere della contingibilità esprime l'urgente necessità di provvedere con efficacia ed immediatezza in casi
di pericolo attuale od imminente ed a ciò è correlata la natura necessariamente provvisoria, temporalmente limitata, di siffatti
provvedimenti (Consiglio di Stato, III, 5.10.2011, n.5471; Tar Toscana, I, 20.1.2009, n. 53). In tale contesto il potere di
ordinanza presuppone che la sussistenza di situazioni non tipizzate dalla legge sia suffragata da istruttoria adeguata e da
congrua motivazione, giustificante l'eccezionalità del potere cd extra ordinem esercitato (Tar Calabria, Catanzaro, I, 25.6.2013,
n. 709): solo in ragione di un'adeguata istruttoria e di un'esauriente motivazione si giustifica la deviazione dal principio di
tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale (Consiglio di Stato, V, 25.5.2012, n. 3077).
Non è perciò legittima l'ordinanza adottata da un sindaco con efficacia indeterminata nel tempo, alla stregua di un
provvedimento disciplinante la sosta o la circolazione ai sensi del codice della strada, che non dà contezza degli atti istruttori
che documenterebbero la situazione cui si è ritenuto di porre rimedio, ma si limiti ad un generico richiamo a rapporti della
polizia locale ed a segnalazioni, senza indicarne gli estremi e le circostanze di tempo e luogo alle quali essi si riferirebbero: in
tal modo, infatti, finisce per mancare l'imprescindibile dimostrazione della sussistenza degli eccezionali presupposti di gravità
ed urgenza propri dell'ordinanza contingibile e urgente (Tar Toscana, I, 20 gennaio 2009, n. 53).
Le stesse considerazioni valgono, ad avviso del Tar Toscana, per la finalità, parimenti evidenziata nel provvedimento
impugnato, della salvaguardia dell'igiene pubblica, se manca il supporto di un determinato accertamento di problematiche di
emergenza sanitaria, in assenza del quale la sola sussistenza di una situazione di precarietà igienica deve essere risolta con i
mezzi ordinari (Tar Lombardia, Milano, III, 6.4.2010, n. 981).
La sentenza qui considerata censura l'ordinanza contestata, peraltro, anche sotto il profilo dell'aver essa assunto a parametro
normativo di raffronto l'articolo 2 del Dm 5.8.2008, che definisce l'area di intervento a tutela della sicurezza urbana. Ciò
perché il suddetto decreto ministeriale ha ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica intesa come attività di
prevenzione e repressione dei reati ed esclude dal proprio ambito di applicazione la polizia amministrativa locale, con la
conseguenza che i poteri esercitabili dal Sindaco, ai sensi dei commi 1 e 4 dell'articolo 54 del Dlgs n. 267/2000, non possono
che essere quelli finalizzati alla prevenzione e repressione dei reati (si veda sentenza della Corte Costituzionale n. 196 del
1.7.2009).
Sulla base di tale precisazione, il Tar Toscana ha aderito all'indirizzo giurisprudenziale secondo cui "Non può…ritenersi
compatibile con la Carta costituzionale un potere atipico di ordinanza sganciato dalla necessità di far fronte a specifiche
situazioni contingibili di pericolo, in quanto, diversamente opinando, verrebbe ad essere attribuita in via ordinaria ai sindaci la
possibilità di incidere su diritti individuali in modo assolutamente indeterminato ed in base a presupposti molto lati suscettibili
di larghissimi margini di apprezzamento. Tali osservazioni portano a valorizzare il disposto del Dm del 5 agosto 2008 laddove
aggancia la difesa della sicurezza pubblica al rispetto di norme (preesistenti) che regolano la vita civile, con la conseguenza che
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il potere sindacale di ordinanza ex articolo 54 Dlgs 267/00, al di fuori dei casi in cui assuma carattere contingibile ed urgente,
non può avere una valenza creativa ma deve limitarsi a prefigurare misure che assicurino il rispetto di norme ordinarie volte a
tutelare l'ordinata convivenza civile, tutte le volte in cui dalla loro violazione possano derivare gravi pericoli per la sicurezza
pubblica. In altre parole, il potere in questione può essere esercitato qualora la violazione delle norme che tutelano i beni
previsti dal Dm del 5 agosto 2008 (situazioni di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità,
incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla viabilità o alterazione del decoro urbano) non assuma rilevanza solo
in sé stessa (poiché in tal caso soccorrono gli strumenti ordinari) ma possa costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di
criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica; in tal caso, venendo in gioco interessi che vanno oltre le normali
competenze di polizia amministrativa locale, il Sindaco, in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo di garante della
sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive del Ministero dell'interno,
alle misure necessarie a prevenire o eliminare i gravi pericoli che la minacciano" (Tar Lombardia, Milano, III, 6.4.2010, n. 981).
Il caso
Nella specie, un sindaco, con propria ordinanza, istituiva un divieto di sosta permanente delle vetture autocaravan sulle vie e
piazze cittadine, al di fuori degli spazi appositamente autorizzati. Un'associazione a tutela dei diritti degli utenti in autocaravan
chiedeva all'amministrazione la revoca del suddetto atto, mentre il Ministero dell'Interno invitava il Comune a revocare
oppure rettificare l'atto medesimo, il Giudice di Pace disapplicava più volte la citata ordinanza, e il Ministero delle
Infrastrutture diffidava il Comune a rimuovere la segnaletica di divieto con essa istituita. Negli anni successivi, tuttavia, il
Comune, anziché accogliere l'invito ministeriale, sanzionava vari utenti in autocaravan, dando vita a contenziosi innanzi al
Prefetto e al giudice ordinario.
Argomenti, spunti e considerazioni
La conclusione del Tar Toscana persuade. I giudici amministrativi toscani hanno infatti constatato, nella specie, un doppio
deficit dell'ordinanza contestata: per un verso, la non ricorrenza, in concreto, degli eccezionali fenomeni di grave pregiudizio
per la pubblica sicurezza formalmente dedotti nella motivazione del provvedimento e, per altro verso, il difetto di un'adeguata
e documentata attività istruttoria posta a supporto della potestà amministrativa extra ordinem esercitata dal Comune.
Impossibile, di conseguenza, accedere alla tesi della legittimità dell'atto adottato dal Sindaco.
Da notare, incidentalmente, anche che il ricorso avverso l'ordinanza è stato presentato dall'Associazione Nazionale
Coordinamento Camperisti, anziché da un singolo camperista, e al riguardo i giudici amministrativi toscani hanno riconosciuto
sussistente la legittimazione attiva, trattandosi di corpo intermedio portatore di un interesse collettivo, tutelabile in giudizio, e
sussistendo la sua rappresentatività rispetto all'interesse rilevante nella controversia in esame, alla luce dello Statuto
depositato in giudizio (Consiglio di Stato, VI, 11.7.2008, n. 3507).
9.1) I RESIDENTI NON POSSONO RICORRERE CONTRO LA PEDONALIZZAZIONE DEL CENTRO STORICO.
I giudici amministrativi si sono pronunciati sulla legittimazione attiva nel caso di ricorso presentato da un rilevante numero di
residenti e di commercianti che, insieme ad altri 3000 cittadini avevano a più riprese rappresentato all'Amministrazione
l'incongruità, l'illogicità e l'inadeguatezza del piano di pedonalizzazione sperimentale approvato con la deliberazione giuntale
impugnata (Tar Veneto, sezione I, sentenza 17.04.2015, n. 434).
Ad avviso dei giudici amministrativi veneti, la mera qualità di residente ovvero di cittadino - a differenza di quella di
commerciante - non è sufficiente a legittimare il ricorso avverso specifici atti di portata generale assunti dalla Pubblica
Amministrazione.
Il principio di diritto
Invero, è stato autorevolmente osservato che "la legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere
direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un
interesse attuale e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione
popolare a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione
attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva
che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa" (Consiglio di
Stato, sezione IV, 28 agosto 2001, n. 4544; in tal senso anche Consiglio di Stato, sezione IV, 6 dicembre 2013, n. 5830; id., 13
dicembre 2012, n. 6411; sotto tale profilo, anche Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 4/2011). In buona sostanza, la
legittimazione processuale si rinviene solo in capo ai soggetti che presentino una posizione differenziata, in virtù della
titolarità, a monte, di una posizione giuridica soggettiva sostanziale precipua: "Il presupposto e nel contempo l'effetto, è che
nel processo amministrativo, fatta eccezione per ipotesi specifiche in cui è ammessa l'azione popolare (ad esempio il giudizio
elettorale), non è consentito adire il relativo giudice unicamente al fine di conseguire la legalità e la legittimità dell'azione
amministrativa, ove ciò non si traduca anche in uno specifico beneficio in favore di chi la propone, il quale, a sua volta, deve
trovarsi in una situazione differenziata rispetto al resto della collettività e non sia un quisque de populo." (Tar Lombardia,
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Milano, sezione III, 6 novembre 2014, n. 2674; in tal senso anche Consiglio di Giustizia Amministrativa Sicilia, 19 marzo 2014,
n. 144)
Nel caso in esame, ha specificato il Tar Veneto, alla generica qualificazione di parte dei ricorrenti quali "residenti del centro
storico di Montebelluna", non si accompagna alcun elemento diretto a far supporre che in capo ad essi posso sussistere un
interesse differenziato, dotato dei necessari requisiti di attualità e di concretezza, che soli possono legittimare l'azione in
giudizio. Invero, in tale contesto, i "meri" residenti del centro storico, nella misura in cui deducono pregiudizi in realtà
ricollegabili agli effetti della pedonalizzazione e della conseguente nuova viabilità, hanno agito in giudizio non tanto sulla base
di un pregiudizio personale, diretto e differenziato, loro derivante dalla denunciata nuova situazione viabilistica – a differenza
di titolari di esercizio commerciale, i quali vantano una posizione differenziata e lamentano un rilevante calo di introiti -,
quanto piuttosto per far valere i diritti generali di una collettività locale che risente negativamente della detta nuova viabilità,
intesa in senso ampio, e che da essa si sente lesa.
In tale prospettiva, hanno concluso i giudici amministrativi veneti, questa parte dei ricorrenti (i residenti del centro storico) è
portatrice di un mero interesse diffuso, non assumendo la titolarità di alcuna posizione giuridica differenziata rispetto alla
collettività, con riferimento all'impugnazione di atti di portata generale; è' appena il caso di aggiungere, infatti, che la mera
sussistenza della residenza o domicilio nell'ambito del Comune di cui si tratta, non è circostanza tale da integrare la
dimostrazione di una lesione attuale e concreta della posizione giuridica dai medesimi vantata.
Il caso
Nella specie, diversi residenti e commercianti del centro storico del comune di Montebelluna, impugnavano la deliberazione
della Giunta Comunale avente ad oggetto "Servizio viabilità – piano di adeguamento e modifica della viabilità del centro
storico con sperimentazione pedonalizzazione tratto di Corso Mazzini", con la quale si stabiliva di dare avvio "alla fase di
sperimentazione di pedonalizzazione del tratto di Corso Mazzini dal Municipio sino all'intersezione con via Partigiani – Via C.B.
Cavour; venivano, altresì, impugnate le ordinanze attuative della detta deliberazione, meglio specificate in epigrafe, assunte
dal Dirigente del Settore Governo e Gestione del Territorio del Comune, per la regolamentazione della circolazione viaria e
l'istituzione della zona pedonale.
In relazione ai presupposti dell'istanza cautelare, in particolare, i ricorrenti evidenziavano che, a qualche settimana dalla sua
introduzione, l'assetto viabilistico introdotto dimostrava non solo la sua inefficacia, ma anche i danni gravi e irreparabili che
provocava alla cittadinanza ed ai commercianti, in riferimento, in particolare, all'aumento del rischio per la circolazione di
ciclisti e pedoni, all'innalzamento dei valori di smog e PM10 nel cosiddetto "anello" di attraversamento della città, al pauroso
calo di introiti per tutti i commercianti del centro di Montebelluna.
Argomenti, spunti e considerazioni
La conclusione del Tar veneto lascia per vero qualche dubbio.
Il punto merita una precisazione. Non si tratta infatti di mettere in discussione sul piano generale l'assunto, ancor oggi di
stretta attualità, secondo il quale la legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente
correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale
e concreto all'annullamento dell'atto, altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela
dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa.
Si tratta, invece, semplicemente di domandarsi se davvero alla generica qualificazione di parte dei ricorrenti quali "residenti
del centro storico di Montebelluna" non si accompagni alcun elemento diretto a far supporre che in capo ad essi posso
sussistere un interesse differenziato, dotato dei necessari requisiti di attualità e di concretezza. Specie laddove essi, come nel
caso di specie, non espongano generiche doglianze ma deducano pregiudizi ricollegabili agli effetti della pedonalizzazione e
della conseguente nuova viabilità, in riferimento, in particolare, all'aumento del rischio per la circolazione di ciclisti e pedoni,
all'innalzamento dei valori di smog e PM10 nel cosiddetto "anello" di attraversamento della città.
Non persuade del tutto, detto altrimenti, che ci si trovi anche in un caso di questo genere di fronte al modello classico di
azione popolare, non essendo del tutto convincente l'idea che i semplici residenti nel centro storico abbiano agito in giudizio
non tanto sulla base di un pregiudizio personale, diretto e differenziato, loro derivante dalla denunciata nuova situazione
viabilistica – a differenza di titolari di esercizio commerciale, i quali vantano una posizione differenziata e lamentano un
rilevante calo di introiti -, quanto piuttosto per far valere i diritti generali di una collettività locale che risente negativamente
della detta nuova viabilità, intesa in senso ampio, e che da essa si sente lesa.
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RESPONSABILITA’ CONTABILE ED AMMINISTRATIVA
10) SEZIONI RIUNITE IN SEDE GIURISDIZIONALE DELLA CORTE DEI CONTI - sent. n. 8 del 19 marzo 2015:
danno all'immagine soltanto per i delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a.
L'art. 17, comma 30-ter, D.L. n. 78 del 2009 -inserito dalla L. di conversione n. 102 del 2009 e successivamente modificato
dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, D.L. n. 103 del 2009 convertito con modifiche nella L. n. 141 del 2009- va inteso nel senso
che le Procure della Corte dei Conti possono esercitare l'azione per il risarcimento del danno all'immagine solo per i delitti di
cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale.
E' questo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale della Corte dei Conti nella Sent. n. 8 del 19
marzo 2015.
La pronuncia si segnala per una piana ricostruzione della quaestio della tipologia di reati dai quali deriverebbe un danno
all'immagine della P.A. con conseguente azionabilità da parte delle Procure regionali della Corte dei Conti.
Il supremo consesso delimita le questioni di massima deferite dal Procuratore generale presso la Corte dei Conti cui è
chiamato a pronunciarsi nei termini che seguono: 1) "Se l'art. 17, comma 30-ter, del decreto legge 1° luglio 2009 n. 78, inserito
dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, e successivamente rettificato dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, del decreto
legge 3 agosto 2009 n. 103 convertito con modifiche nella legge 3 ottobre 2009 n. 141, nella parte in cui dispone che «le
Procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti
dall'articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97», debba intendersi riferito anche alle ipotesi di danni all'immagine discendenti
da reati comuni, ovvero ai soli delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale, come affermato dalla
Corte costituzionale (sentenza n. 355 del 2010, ordinanze n. 219 del 2011, n. 220 del 2011 e n. 286 del 2011)"; 2) "Se -ove si
ritenga estesa la perseguibilità del danno all'immagine anche ai casi discendenti da reati comuni- la disposizione di legge (art.
17, comma 30-ter del decreto legge 1° luglio 2009 n. 78, inserito dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, e
successivamente rettificato dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, del decreto legge 3 agosto 2009 n. 103 convertito con modifiche
nella legge 3 ottobre 2009 n. 141) relativamente alla sussistenza ed eccepibilità della nullità preprocessuale o processuale
concernente il danno all'immagine (nonché il correlato difetto di legittimazione del PM), debba ritenersi tuttora vigente, come
desumibile dalla soluzione data dalle SS.RR. nella sentenza n. 13/QM/2011 del 3 agosto 2011".
Tanto premesso, le Sezioni Riunite, in forza della funzione nomofilattica cui sono chiamate ad assolvere, evidenziano in primis
che, per motivi sistematici, non si possa prescindere "da un quadro di riferimento generale costituito non solo dal tessuto
ordinamentale, e dai principi che vi sono sottesi, ma anche dagli enunciati di carattere ermeneutico provenienti dal Giudice
delle leggi e dalla Suprema Corte, in quanto l'eventuale scostamento da tali parametri dovrebbe radicarsi in profondi
argomenti interpretativi o nuove prospettazioni prima non vagliate e, comunque, nel dovuto rispetto delle attribuzioni e delle
scelte riservate al legislatore dalla Carta costituzionale". Diversamente, "si rischierebbe di indulgere a operazioni
ermeneutiche espansive che appaiono eventualmente e eccezionalmente praticabili solo per colmare vistose lacune
normative ritenute fortemente pregiudizievoli sotto il profilo ordinamentale, sostanziale e processuale". Orbene, "si tratta [...]
di valutare attentamente il dato normativo secondo un canone di stretta interpretazione, anche mediante una lettura [...]
costituzionalmente orientata".
Innanzitutto, il Collegio inizia la sua disamina dalla sentenza n. 355 del 2010 della Consulta (alla quale sono poi seguite diverse
ordinanze di manifesta inammissibilità di analoghe questioni successivamente sollevate: cfr. Ord. Corte Cost. n. 219 del 2011;
n. 220 del 2011; n. 221 del 2011; n. 286 del 2011), attesa "la portata dei principi ivi espressi alla luce dell'ampiezza dello
scrutinio dei parametri costituzionali la cui violazione era stata invocata [...]".
Di seguito, i principali passaggi delle argomentazioni della parte motiva della menzionata sentenza del Giudice delle leggi
riportati in sintesi nella pronuncia del giudice contabile in rassegna:
- "è stato escluso che per il danno all'immagine ad un ente pubblico possa esservi un giudice diverso dalla Corte dei conti adita
in sede di giudizio di responsabilità; ma proprio per tale motivo è chiaro che la ratio della norma in questione è stata quella di
circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in
presenza di lesioni all'immagine dell'amministrazione";
- relativamente al bene giuridico che, con la normativa in questione, il legislatore ha inteso tutelare, il tema "è stato affrontato
sotto vari profili, sia in relazione alla discrezionalità del legislatore, per il quale è stata esclusa ogni manifesta irragionevolezza,
sia con riferimento alla peculiarità del soggetto tutelato P.A. - enti pubblici (che non è equiparabile alla persona umana i cui
diritti fondamentali hanno diversa collocazione nella Carta costituzionale) a cui fanno capo il prestigio, la credibilità e il
corretto funzionamento degli uffici pubblici", di guisa che "sono, dunque, proprio i principi di imparzialità e di buon
andamento della P.A. -beni direttamente tutelati nell'art. 97 della Costituzione- ed i suoi corollari consistenti nei canoni di
efficienza ed efficacia che costituiscono l'oggetto della protezione approntata dalla normativa in rassegna";
- "il precipitato complessivo che ne discende afferisce alla non arbitrarietà della scelta operata dal legislatore nel circoscrivere i
reati da cui può derivare il vulnus all'immagine della P.A. in relazione alla percezione esterna che si ha del modello di azione
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pubblica ispirato ai principi e ai canoni che trovano la loro tutela ultima nell'art. 97 della Costituzione, con la conseguenza che,
fuori da tale ambito, ogni estensione dei casi previsti dalla normativa in rassegna appare arbitraria".
La disamina del supremo collegio giurisdizionale contabile si sofferma poi sull'orientamento della Corte di Cassazione, che,
reiteratamente anche a sezioni unite civili (cfr. sentenze n. 14831 del 2011; n. 5756 del 2012; n. 9188 del 2012; n. 20728 del
2012), ha sottolineato come il legislatore del 2009 abbia "inteso circoscrivere, sul piano sostanziale e processuale, i casi in cui
può azionarsi il danno all'immagine di una P.A., escludendo ogni ampliamento del relativo ambito".
Tra le pronunzie rese in materia dai giudici di Piazza Cavour viene rammentata la sentenza n. 14605 del 2014 della Seconda
Sezione Penale, la quale offre un ulteriore contributo ermeneutico anche alla luce della normativa sopravvenuta, escludendo
che "la legge n. 190/2012, usando l'espressione "reato contro la pubblica amministrazione", abbia abrogato tacitamente
l'espressione di cui al combinato disposto degli artt. 17 L. n. 141/2009 e 7 L. n. 97/2001 ("delitti contro la pubblica
amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del Codice penale") poiché non ha regolato ex novo l'intera
[...], bensì ha inserito solo alcuni commi che insistono sul quantum dovuto in caso di danno all'immagine (il doppio della
somma di denaro o del valore patrimoniale o di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente); di guisa che le due
normative restano del tutto compatibili e, quindi, il termine "reato contro la P.A." deve ritenersi riferito ai delitti contro la P.A.
di cui si discute e previsti dal Capo I, Titolo II del Libro secondo c.p.".
Delineato il quadro dell'evoluzione giurisprudenziale, i giudici contabili ritengono nella pronuncia in disamina che "i passaggi
motivazionali del Giudice delle leggi, tutti intesi a ritenere non vulnerato il principio di razionalità da parte del Legislatore nello
"scegliere" alcuni reati, e non altri, da cui poter far discendere un danno all'immagine della P.A., siano del tutto condivisibili
poiché è stato esattamente individuato nell'art. 97 della Costituzione -che enuncia i canoni del buon andamento e della
imparzialità e da cui discendono i principi di efficienza, efficacia ed economicità dell'"agere" amministrativo- le norme poste a
tutela del bene che il legislatore ha inteso proteggere".
Fermo restando il suddetto approdo argomentativo, le Sezioni Riunite ritengono di apportare un quid pluris alla riflessione
ermeneutica svolta dalle altre supreme magistrature, soffermandosi su un ulteriore aspetto volto ad evitare forzature
interpretative. Ed invero, con riferimento all'espressione "nei soli casi e nei modi previsti dall'art. 7 della legge 27 marzo 2001
n. 97", si è operato da una parte della giurisprudenza contabile un frazionamento della norma in rassegna in due tronconi,
"inferendosene la presunta conseguenza che per i "casi", valga l'obbligo di comunicazione del P.M. penale limitatamente ai
delitti accertati con sentenza irreversibile previsti nel Capo I, Titolo II del Libro secondo; mentre, "i modi" indicherebbero il
generale obbligo del P.M. penale di comunicare al P.M. contabile l'esercizio dell'azione penale, discendente dall'art. 129 Disp,.
Att.ne c.p.p. per tutti i reati, con la conseguenza che la disposta salvezza del predetto art. 129 Disp,. Att.ne c.p.p.
consentirebbe l'azionabilità del danno all'immagine alla Pubblica Amministrazione per tutti i reati comuni".
Tale opzione ermeneutica non convince i supremi giudici contabili, atteso che agli stessi "sembra più conforme ad una esegesi
organica, leggere la norma in senso unitario nel senso di un precetto unico che è volto a delimitare l'area dei delitti da cui il
legislatore ammette possa derivarne un danno d'immagine della Pubblica Amministrazione "nei soli casi e modi previsti
dall'art. 7"; precetto -quest'ultimo- che va ad aggiungersi, quindi, all'obbligo di informativa discendente dall'art. 129 Disp,.
Att.ne c.p.p. che permane nella sua valenza generale originaria senza assurgere ad un ruolo di discrimine che darebbe corpo
ad un inammissibile "doppio binario" e che vanificherebbe, snaturandolo, il limite stesso voluto dal legislatore che finirebbe
con il perdere il proprio significato [...]".
In conclusione, il principio di diritto che la sentenza in esame enuncia in risposta al primo dei quesiti proposti è -come dianzi
riportato- quello secondo cui "l'art. 17, comma 30 ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono
esercitare l'azione per il risarcimento del danno all'immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del
codice penale", con conseguente assorbimento del secondo quesito, attesa la risposta data al primo.
Orbene, allo stato, soluzioni interpretative diverse potrebbero condurre verso interpretazioni "creative" non ancorate a
significativi referenti normativi e non ammesse "in presenza di un dettato normativo di per sé esaustivamente chiaro e
comunque corroborato dalle statuizioni della Corte Costituzionale e da conducenti affermazioni della Corte Regolatrice".
Quanto precede, nel confermare un corretto esercizio da parte del legislatore della discrezionalità conferitagli, non esclude
che lo stesso "possa individuare altri beni giuridici tutelabili e, quindi, altri reati cui collegare un possibile danno d'immagine
alla P.A." ad esito di una rimeditazione sul punto.
10.1) CORTE DEI CONTI, SEZIONE DI CONTROLLO PER IL VENETO, DELIBERA N. 182, DEL 19 MARZO 2015
- L'ente locale è responsabile del mancato controllo alla partecipata.
La Corte dei Conti, sezione di controllo per il Veneto, con la lunghissima delibera n. 182, del 19 marzo 2015, ha
sostanzialmente affermato che nei rapporti tra Comune e società partecipata, per tutta la durata della partecipazione è
compito dell'ente locale vigilare sull'attività della partecipata.
Gli obblighi del Comune che ha delle partecipazioni
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I giudici contabili, nell'analizzare i rendiconti di un Comune veneto hanno verificato in ordine alla tenuta effettiva degli
equilibri di bilancio e delle verosimiglianza delle previsioni relative che si sono riscontrati problemi di "governance" degli
organismi partecipati. Ad avviso dei giudici contabili, in relazione al complesso rapporto che si pone, a legislazione vigente, tra
ente locale e organismi comunque partecipati, occorre sottolineare in linea generale che l'utilizzo di risorse pubbliche impone
particolari cautele e obblighi in capo a tutti coloro che, direttamente o indirettamente, concorrono alla gestione di tali risorse,
radicandone pertanto sia la giurisdizione che il controllo della Corte dei Conti.
I suddetti obblighi e cautele sono inscindibilmente connessi alla natura pubblica delle risorse finanziarie impiegate e, pertanto,
non vengono meno neanche a fronte di scelte politiche volte a porre a carico degli organismi partecipati, e dunque
indirettamente a carico degli enti locali che partecipano al capitale di tali società, i costi di attività e servizi che, sebbene non
remunerativi per il soggetto che li svolge si prefiggono tuttavia il perseguimento di obiettivi di promozione economica e
sociale a vantaggio dell'intera collettività.
Osservano i giudici contabili che in realtà, scelte politiche siffatte, proprio per il negativo e ingente impatto che producono
sulle finanze e sul patrimonio dell'ente partecipante (in maniera più o meno rilevante a seconda dell'entità della quota di
capitale sociale posseduto), non presuppongono soltanto che quest'ultimo sia in grado di sopportarne i relativi oneri senza
pregiudizi per il proprio equilibrio finanziario e patrimoniale. Infatti, anche a fronte di enti dotati di risorse tali da poter far
fronte agli oneri connessi alle perdite di detti organismi, le eventuali scelte politiche volte ad addossare tali oneri all'ente e
partecipa dunque, in definitiva, alla collettività della quale detto ente è esponenziale richiedono, a monte, approfondite
valutazioni in merito alla coerenza dell'attività societaria.
Ciò, rispetto:
- alla missione istituzionale dell'ente;
- all'effettiva produzione di servizi di interesse generale, nonché in merito ai relativi costi/benefici;
- all'appropriatezza del modulo gestionale;
- alla comparazione con i vantaggi/svantaggi e con i risparmi/costi/risultati offerti da possibili moduli alternativi;
- alla capacità della gestione di perseguire in modo efficace, economico ed efficiente, in un'ottica di lungo periodo, i risultati
assegnati, anche in termini di promozione economica e sociale.
Non si può, inoltre, prescindere da un costante e attento monitoraggio in ordine all'effettiva permanenza dei presupposti
valutativi che hanno determinato la scelta partecipativa iniziale nonché da tempestivi interventi correttivi in reazione ad
eventuali
mutamenti che intercorrano, nel corso della vita dell'organismo, negli elementi originariamente valutati.
Compiti dell'ente locale
Per la Corte dei Conti veneta è necessario che il Comune indipendentemente dalla consistenza più o meno ampia delle proprie
partecipazioni, deve effettuare un effettivo monitoraggio sull'andamento gestionale delle stesse. Il che dovrebbe consentire di
prevenire fenomeni patologici e ricadute negative, a vario titolo, sul bilancio dell'ente.
Infatti, la necessità in altri termini di effettuare una seria indagine sui costi e ricavi e sulla stessa pertinenza dell'oggetto sociale
alle finalità dell'ente, non può prescindere da un'azione preventiva di verifica e controllo da parte del Comune in merito alle
attività svolte.
In tale prospettiva, l'intera durata della partecipazione deve essere accompagnata dal diligente esercizio:
a) di quei compiti di vigilanza: es., sul corretto funzionamento degli organi, sull'adempimento degli obblighi contrattuali;
b) di indirizzo: attraverso la determinazione degli obiettivi di fondo e delle scelte strategiche;
c) di controllo: sotto l'aspetto dell'analisi economico finanziaria dei documenti di bilancio che la natura pubblica del servizio e
delle correlate risorse, e la qualità di socio comportano.
I giudici contabili sottolineano l'esigenza di prestare particolare attenzione allo sviluppo di strutture organizzative e di
professionalità interne capaci di consentire all'ente un adeguato espletamento delle funzioni sopra richiamate, grazie anche
ad un efficace supporto agli organi di governo nell'esercizio delle attività di loro competenza nonché all'impiego di idonei
strumenti di corporate governance.
Un importante orientamento precedente
La Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Umbria, con la Sent. n. 354, dell'8 novembre 2006, ha affrontato la questione del
danno erariale collegato alla costituzione dei c.d. enti inutili che, anche se formalmente attivo ed operante in sinergia con altra
società consortile, è di fatto espressivo di un'attività economica inapprezzabile o del tutto nulla.
Preliminarmente il collegio esamina l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice contabile sollevata dalla difesa, in
relazione alla considerazione che le attività economiche prodromiche all'illecito erariale contestato sono state poste in essere
da un ente pubblico economico, nell'esercizio della sua attività d'impresa e come tali di pertinenza esclusiva del giudice
ordinario stante la loro natura prettamente privatistica. I giudici si pronunciano negativamente rilevando che già la Corte di
Cassazione con Ord. n. 19667 del 2003, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei Conti su tutte le iniziative risarcitorie
della Procura erariale a favore degli enti pubblici economici restando indifferente il carattere delle attività poste in essere
dall'ente medesimo. Tale postulato discende dalla nuova conformazione dell'illecito erariale quale danno alle pubbliche
finanze, invocabile in ogni ipotesi di maneggio od utilizzo di pubblico denaro ed in correlazione ad ogni tipo di rapporto fra
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agente responsabile di nocumento ed ente leso.
Nel merito, i giudici contestano ai convenuti di aver rinunciato a vigilare adeguatamente sulla società da essi costituita la
quale, deviando dai propri fini istituzionali, si è così convertita in una "società fittizia", ovvero una "scatola vuota", secondo il
linguaggio in uso nell'imprenditoria privata.
Il collegio ha riscontrato che la società interessata, sprovvista di proprie risorse umane e materiali non ha realizzato alcuna
attività di produzione diretta o indiretta di servizi, ovvero di "scambio", ma ha semplicemente "girato" ai suoi fornitori le
richieste di beni e servizi pervenutele dal Consorzio, facendo poi pagare al Consorzio stesso il prezzo che le è stato praticato
dai predetti fornitori maggiorato del 20%, "per compensare le sue spese generali e l'utile di impresa"; appare evidente che tale
maggiorazione, così come tutte le altre spese generali e di funzionamento pagate dal Consorzio per la società costituiscono
per il collegio uno spreco di pubblico danaro, in quanto correlate ad una inesistente attività imprenditoriale.
E' chiaro che un'attività economica di tal fatta è foriera di danno erariale poiché involge inutilmente beni e risorse pubblici
che, al contrario, se dirottati su più produttivi versanti, possono garantire il rispetto di quei canoni di efficienza ed efficacia.
Conclusioni
I giudici contabili ricordano che secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza contabile dalla trasgressione di
questi obblighi e dal perdurare di scelte del tutto irrazionali e antieconomiche, può scaturire una responsabilità per danno
erariale dei pubblici amministratori.
10.2) CORTE DEI CONTI, SEZIONE GIURISDIZIONALE ABRUZZO SENTENZA N. 197/2013 - Danno erariale
per mancato pagamento della polizza assicurativa prima del sinistro.
Il fatto
Un dirigente Comunale, è stato condannato dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Abruzzo con la sentenza n. 197/2013,
per non aver curato il tempestivo pagamento del premio assicurativo a copertura, tra gli altri, del rischio terremoto,
precludendo così all'ente locale di ottenere il ristoro dei danni provocati al patrimonio immobiliare comunale dal sisma del 6
aprile 2009. Avverso la citata sentenza il ricorrente ha proposto ricorso, evidenziando in particolare come la Corte territoriale,
non avesse tenuto conto del l'affidamento che l'amministrazione aveva fatto sul ruolo del broker il quale, per prassi,
provvedeva a pagare i premi, certo del tempestivo rimborso. Inoltre, vi sarebbe stata erronea valutazione della Corte
territoriale nella quantificazione del danno in via equitativa.
Le motivazioni dei giudici di appello
Evidenzia il Collegio contabile, come attribuire valore di esimente ad una prassi fondata sulla "collaborazione" di un soggetto
terzo, il quale supplirebbe in questo modo alle deficienze di cassa dell'ente, pur se comprensibile su un piano pratico e logico,
non appare plausibile alla luce dei compiti e degli obblighi connessi con l'attività amministrativa. In questo caso è fuori da ogni
dubbio che la corretta tenuta del rapporto ricade sull'amministrazione, non rilevando, se non in punto di mero fatto, le attività
del broker che, tra l'altro, nel caso di specie risultano avere determinato una soluzione di continuità nella copertura dei rischi
del Comune, proprio in coincidenza con l'evento sismico. Il mancato pagamento non potrà che essere imputabile al Dirigente,
anche a fronte della circostanza, come dagli elementi istruttori è emerso che più volte il Comune è stato sollecitato al
pagamento, senza che a ciò sia corrisposto un riscontro concreto, e che non appare verosimile (o perlomeno che non è
provato in atti) che la deficienze di cassa si siano protratte così a lungo tanto da determinare poi i fatti realmente accaduti. Ciò
a dimostrare un sufficiente disinteresse dell'odierno appellante il quale si è limitato, attraverso l'atto di impegno, a
salvaguardare fondi, altrimenti non più spendibili, senza curarsi poi dei successivi adempimenti, ossia il materiale pagamento
della polizza assicurativa.
In merito alla quantificazione del danno
Rispetto al fatto che la sentenza non potesse essere emessa secondo un calcolo equitativo, essendo il danno certo, così come
afferma l'appellante, è un presupposto che il Collegio non può condividere. Infatti, è lo stesso appellante che, nel definire e nel
circoscrivere il danno agli immobili, porta in evidenza tutta una serie di variabili (costi effettivi sostenuti, interventi inseriti in
un più vasto piano edilizio, calcolo dei vantaggi conseguiti dal patrimonio immobiliare del Comune, intervento di altri Enti che
avrebbero provveduto alle riparazioni ed alla ristrutturazione, reale consistenza dell'indennizzo assicurativo...) che chiariscono
inequivocabilemente che se il danno è certo dal punto di vista oggettivo, lo è molto meno sotto il profilo della quantificazione.
Correttamente, pertanto, il Giudice di primo grado ha concluso che "il Collegio ritiene di dover liquidare equitativamente il
danno da addebitare al convenuto nella misura di complessivi euro 200.000,00 (duecentomila/00), somma comprensiva di
accessori fino alla data della sentenza. Ciò in ragione: da un lato, della elevata probabilità per il Comune di ottenere
dall'assicurazione il pagamento del sinistro in contestazione (ove il premio fosse stato regolarmente pagato alla scadenza
prevista), dedotta la franchigia contrattuale di 50.000 euro e nei limiti del massimale; dall'altro lato, di motivi di equità, dei
fisiologici margini di approssimazione della stima, dell'incertezza circa l'ammontare che sarebbe stato effettivamente
riconosciuto dall'assicurazione in base alle risultanze delle perizie di rito (mai svolte) e di eventuali contestazioni, dei vantaggi,
rivenienti dal consolidamento, anche sotto il solo profilo antisismico, di edifici di vecchia concezione".
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Sulla riduzione del danno
I Magistrati di appello, riconoscono, tuttavia, che la Corte territoriale, non ha considerato sufficientemente l'elemento
soggettivo che pur ha rilievo nella presente vicenda, ossia della partecipazione di altri soggetti alla causazione del danno.
Secondo la ricostruzione effettuata dal broker, appare fuori dubbio che si fosse in presenza di una generale deficienza
amministrativa. Lo stesso broker, infatti, evidenziava come fosse un atteggiamento frequente, presso l'amministrazione
comunale, il fatto di non procedere al pagamento dei primi assicurativi a scadenza. Risultano,infatti, versati in atti elementi tali
da far emergere che anche in altre occasioni, perfino con riguardo polizze RC Auto di automezzi comunali, vi siano state
omissioni e ritardi nei pagamenti, senza che chi mi aveva la responsabilità abbia assunto iniziative organizzative al riguardo. In
tal caso, ossia una responsabilità diffusa nell'amministrazione non supportata da possibili riscontri di puntuali provvedimenti
organizzativi, atti a rimuovere la prassi diffusa nel procedere ai pagamenti a scadenza, porta il Collegio a ritenere che la citata
responsabilità non possa essere attribuita al solo appellante ma vada condivisa anche con altri soggetti, i quali non sono stati
citati dalla Procura erariale. A ciò corrisponde, al danno equitativo evidenziato dalla Corte territoriale, una riduzione pari a
circa tre quarti del danno comminato all'appellante nella prima sentenza.
10.3) CORTE DEI CONTI SEZIONE REGIONALE DI CONTROLLO PER LA LOMBARDIA DELIBERAZIONE N.
138 DEL 30 MARZO 2015 - Vietato agli enti locali pagare le bollette con i proventi delle multe.
Gli enti locali possono legittimamente destinare la quota vincolata dei proventi derivanti da sanzioni amministrative al Codice
della strada alla manutenzione degli impianti relativi alla pubblica illuminazione, ma non al pagamento dei consumi di energia
elettrica per la pubblica illuminazione.
E' quanto ribadisce la sezione regionale di controllo per la Lombardia della Corte dei conti con la deliberazione n. 138 del 30
marzo 2015.
Il quesito
A seguito dei tagli ai trasferimenti disposti dalla Legge di stabilità n. 190 del 2014, un Comune si è posto nell'orizzonte di
operare una serie di misure finalizzate alla riduzione delle spese correnti, tra le quali quelle destinate a coprire i costi della
pubblica illuminazione.
Chiede alla sezione Lombardia se, per quanto concerne la partita della sicurezza stradale, sia possibile utilizzare i proventi
derivanti dalle sanzioni amministrative al codice della strada non solo per la costruzione e manutenzione degli impianti di
pubblica illuminazione ma anche per la copertura di una parte dei consumi di energia elettrica, in particolare per quella che
serve all'illuminazione di strade e piste ciclabili, al fine di rendere minimo il rischio stradale dell'utenza più vulnerabile (pedoni
e ciclisti).
Il Codice della strada
L'art. 208 del Codice della strada (D.Lgs. n. 285 del 1992) tratta dei proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie e ne
destina -al comma 4- il 50% per almeno un quarto a interventi di sostituzione, ammodernamento, potenziamento, dimessa a
norma e manutenzione della segnaletica; per almeno un altro quarto al potenziamento delle attività di controllo e di
accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, anche attraverso l'acquisto di automezzi, mezzi e attrezzature
per la polizia provinciale e municipale; per il resto a finalità connesse al miglioramento della sicurezza stradale (manutenzione
delle strade; installazione, ammodernamento, potenziamento, messa a norma e manutenzione delle barriere; sistemazione
del manto stradale; redazione dei piani di sicurezza; svolgimento corsi didattici finalizzati all'educazione stradale; misure di
assistenza e previdenza per il personale; interventi a favore della mobilità ciclistica).
Tra queste ultime finalità, il comma 5-bis ha introdotto anche quelle di promuovere assunzioni stagionali, finanziare progetti di
potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla sicurezza urbana e stradale, progetti di potenziamento dei servizi notturni
e di prevenzione, acquisto di automezzi, mezzi e attrezzature.
Il comma 5 affida ai singoli enti l'onere di determinare annualmente, con delibera di giunta, le quote da destinare alle predette
finalità, ferma la facoltà di destinare in tutto o in parte la restante quota del 50% dei proventi alle finalità di cui al comma 4.
Le destinazioni dei proventi
Ricco è stato il dibattito sull'art. 208 del Codice della strada, a motivo della ampia casistica prevista per l'utilizzo dei proventi,
che ha investito in particolar modo la parte in cui le risorse possono essere destinate a misure di assistenza e di previdenza per
il personale dei Corpi e servizi di polizia provinciale e municipale.
Dibattito che è stato caratterizzato nel tempo da numerosi contributi, molti dei quali assicurati dalla stessa magistratura
contabile, e che ora si arricchisce di un ulteriore elemento che contribuisce a meglio delimitare i contorni delle disposizioni
normative innestate dalla L. 29 luglio 2010, n. 120.
Disposizioni che, peraltro e come mette in evidenza la stessa sezione Lombardia nella deliberazione che si commenta, hanno
destato un certo interesse su tutto il territorio nazionale nella misura in cui offrono agli enti una fonte interessante e a suo
modo flessibile di risorse, "alternativa" rispetto ai tradizionali canali di finanziamento (tributi, tariffe, trasferimenti), penalizzati
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da una serie di fattori congiunturali.
Le spese per la pubblica illuminazione
Nel caso di specie, il Comune ha chiesto alla sezione di controllo della Corte dei conti se i proventi derivanti da sanzioni
amministrative, nella parte in cui la norma li destina alla sicurezza stradale e alla manutenzione degli impianti di pubblica
illuminazione, possono essere utilizzati anche per la copertura dei consumi di energia elettrica, in particolare per la parte che
serve alla illuminazione delle strade e piste ciclabili al fine di rendere minimo il rischio stradale dell'utenza più vulnerabile
(pedoni e ciclisti).
I magistrati contabili lombardi riportano alla memoria, nella deliberazione n. 138, un precedente parere del 2010 dei colleghi
della sezione Toscana, che hanno espresso un avviso parzialmente contrario, proponendo per quanto riguarda l'illuminazione
stradale la distinzione tra la realizzazione di un nuovo impianto e il mero pagamento delle bollette relative al consumo di
energia elettrica della rete stradale comunale.
Nel primo caso, e quindi nella ipotesi in cui si costruisca o manutenga un nuovo impianto, è possibile ricorrere ai proventi delle
sanzioni in quanto la spesa è destinata al "miglioramento della circolazione".
Nel secondo -pagamento delle bollette elettriche- siamo nel campo della spesa corrente, non rinvenibile in alcuna delle voci
elencate nell'art. 208, che non determina un miglioramento intrinseco della sicurezza stradale, nei termini esatti in cui si
esprime la deliberazione.
La sezione Lombardia sposa in pieno le tesi della sezione Toscana e le ripropone pedissequamente, aggiungendo a maggiore
esplicazione che l'utilizzo dei proventi può ritenersi ammissibile nella misura in cui la realizzazione di un nuovo impianto
elettrico sia direttamente connesso ad "interventi di sicurezza stradale a tutela degli utenti più deboli, quali bambini, anziani,
disabili, pedoni e ciclisti", in quanto direttamente connessa al miglioramento della sicurezza stradale di cui alla lett. c) del
comma 4 dell'art. 208.
RESPONSABILITA’ PENALE
11) DALL'INTERRUZIONE DI PUBBLICO SERVIZIO AI REATI AMBIENTALI, SCATTA L'ARCHIVIAZIONE PER
TENUITÀ DEL FATTO.
Via libera all'archiviazione dei reati minori, dal 2 aprile scorso, con l'entrat in vigore il decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28,
che ha introdotto il nuovo articolo 131-bis nel Codice penale - intitolato, esclusione della punibilità per particolare tenuità del
fatto - con la conseguente modifica di talune disposizioni del Codice di procedura penale e del decreto del Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale.
Le fattispecie diventate non punibli
Decreto in forza del quale i reati sanzionati con la pena detentiva fino a cinque anni oppure con la sanzione pecuniaria sola o
abbinata alla pena detentiva non sono punibili quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo,
l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
Scatta, dunque, la clausola di "non punibilità per tenuità del fatto" per tutte le contravvenzioni, per una serie di delitti previsti
dal Codice penale. Ad esempio:
- rifiuto di atti d'ufficio;
- interruzione di pubblico servizio;
- violenza privata;
- furto semplice;
- danneggiamento;
- truffa,
- appropriazione indebita.
Stessa sorte per alcune condotte criminose previste da leggi speciali:
- organizzazione di competizioni non autorizzate in velocità con veicoli a motore e partecipazione alle gare;
- omesso versamento dell'Iva;
- favoreggiamento dell'immigrazione clandestina;
L'impatto della tenuità sui reati ambientali
Interessati dalla norma che prevede l'archiviazione sono stati anche la gran parte dei reati previsti dal Testo unico
dell'ambiente:
- inosservanza dell'autorizzazione integrata ambientale (Aia), punito con l'ammenda da 5.000 a 26.000 euro (articolo 29quatoredecies, comma 3);
- scarico non autorizzato di acque reflue, punito con l'arresto da due mesi a due anni o con l'ammenda da 1.500 a 10.000 euro
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(articolo 137, comma 4);
- abbandono o deposito incontrollato di rifiuti pericolosi, punito con l'arresto da 6 mesi a due anni e con l'ammenda da 2.600 a
26.000 euro (articolo 256, comma 2);
- trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario o con dati incompleti e/o inesatti, punito con la reclusione fino a due anni
(articolo 258, comma 4);
- combustione illecita di rifiuti, punito con la reclusione da 2 a 5 anni (articolo 256-bis);
- esercizio di uno stabilimento senza autorizzazione alle emissioni in atmosfera, punito con l'arresto da 2 mesi a 2 anni o con
l'ammenda da 258 a 1.032 euro (articolo 279, comma 1).
Cosa cambia
Si tratta di reati per i quali il giudice, ai sensi del primo comma dello stesso articolo 131-bis del codice penale, può disporre in
qualunque fase del procedimento penale l'archiviazione al ricorrere di due presupposti (la particolare tenuità dell'offesa e la
non abitualità del comportamento ), il primo dei quali – recita la relazione illustrativa del decreto- si articola in due ulteriori
"indici- requisiti", costituiti dalle modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi in base ai criteri
stabiliti dall' articolo 133 del Codice penale (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell'azione,
gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato intensità del dolo o grado della colpa).
In altri termini, si richiede al giudice di rilevare se, sulla base dei suddetti "indici-requisiti" , sussista l' "indice-criterio" della
particolare tenuità dell'offesa e, con questo, coesista l' "indice–criterio" della non abitualità del comportamento. Di qui i
successivi commi 2, 3 e 4 dell' articolo 131-bis, in forza dei quali:
-l'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, quando l'autore del reato ha agito per motivi abietti o futili, o con
crudeltà, anche in danno degli animali o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della
vittima, ovvero quando la condotta ha cagionato, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una
persona;
-il comportamento è abituale nel caso in cui l'autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per
tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di
particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate;
-ai fini della determinazione della sola pena detentiva non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la
legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle che importano un aumento o diminuzione
della pena superiore a un terzo.
Applicazione nei processi pendenti
Sono disposizioni normative che, secondo l'attualissima sentenza della Corte di cassazione 15 aprile 2015 n. 15449, sono
applicabili a tutti i procedimenti in corso e che, dunque, ampliano la portata del decreto legislativo i cui effetti si potranno
apprezzare, almeno per quel che riguarda le violazioni in materia ambientale, con l'entrata in vigore delle nuove norme a
tutela dell'ambiente che il Parlamento intende inserire nel codice penale (si veda l'atto Senato n. 1345).
SERVIZI DEMOGRAFICI, ELETTORALE, STATO CIVILE
12) MINISTERO INTERNO: CIRCOLARE N. 6/2015 - Articoli 6 e 12 del decreto-legge 12 settembre 2014,
n. 132 (In tema di separazione personale, di cessazione degli effetti civili e di scioglimento del
matrimonio) — Chiarimenti applicativi.
(clicca qui per accedere alla circolare n. 6/2015 ivi allegata)
SOCIETA’ PARTECIPATE E SERVIZI PUBBLICI
13) SERVIZIO IDRICO, IL GESTORE IN HOUSE PUÒ SVOLGERE ATTIVITÀ COMPLEMENTARI.
Con il provvedimento AS1182 l'Antitrust concentra l'attenzione sulla normativa in materia di servizio idrico integrato,
mettendo in luce i dubbi emersi nella disciplina dei rapporti tra l'Autorità d'ambito e il soggetto gestore, a seguito delle
modifiche apportate al Dlgs 152/2006 (Codice dei contratti) dal Dl 133/2014 (cosiddetto «Sblocca Italia»), convertito in legge
164/2014.
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Nello specifico, l'articolo 7, primo comma, del Dl 133/2014 ha abrogato l'articolo 151, comma 7, del Dlgs 152/2006,
eliminando la previsione che «l'affidatario del servizio idrico integrato, previo consenso dell'Autorità d'ambito, può gestire altri
servizi pubblici, oltre a quello idrico, ma con questo compatibili, anche se non estesi all'intero ambito territoriale ottimale».
Se già prima di tale modifica l'articolo 151 del Dlgs 152/2006 recava aspetti d'incertezza in ordine ai rapporti tra l'ente di
governo dell'ambito e il gestore del servizio, ora la disposizione, sotto questo profilo, risulta ancor più ambigua e
problematica.
Nel provvedimento de quo un'Autorità d'ambito interpella appunto l'Authority per sapere se l'attuale servizio idrico affidato in
house possa essere mantenuto sul territorio, in presenza di un contratto di servizio che consente al gestore lo svolgimento di
ulteriori attività, «a condizione che siano complementari e comunque non prevalenti, fino ad un massimo del 30% del
fatturato annuo, purché esista una contabilità separata».
La questione non appare affatto scontata, dacché si tratta di accertare se la parziale abrogazione dell'articolo 151 nei termini
sopra esposti abbia inteso affermare un divieto (escludendo cioè il disimpegno di servizi complementari) o eliminare il vincolo
della previa autorizzazione dell'Autorità d'ambito alla prestazione di servizi diversi.
I requisiti per l'affidamento diretto
L'Antitrust propende per quest'ultima tesi, non senza sottolineare che la prestazione delle ulteriori attività da parte del
gestore in house deve comunque avvenire nel rispetto della disciplina sull'affidamento delle concessioni e degli appalti
pubblici.
A proposito dell'affidamento in house è il caso di ricordare che i requisiti previsti dall'ordinamento comunitario sono i
seguenti:
1) l'impresa affidataria deve essere una società a capitale totalmente pubblico;
2) l'ente pubblico controllante deve esercitare una funzione di controllo pari a quella che esso esercita sui propri uffici
(«controllo analogo»);
3) la società deve realizzare la parte più importante delle propria attività con l'ente controllante.
Soltanto a queste condizioni la società costituisce la longa manus di un ente pubblico che la controlla pienamente (Corte
costituzionale, sentenza n. 325/2010).
In tale contesto, la prevalenza del fatturato verso l'amministrazione controllante è necessaria in quanto, come ha chiarito la
Consulta, «lo svolgimento di prestazioni non marginali a favore di soggetti terzi renderebbe l'impresa "attiva sul mercato", con
conseguente alterazione delle regole concorrenziali e violazione dei principi di gara a evidenza pubblica». Ne deriva che «una
consistente attività "esterna" determinerebbe una deviazione dal modello in house, e verrebbe falsato il confronto
concorrenziale con altre imprese che non usufruiscono dei vantaggi connessi all'affidamento diretto» (Corte costituzionale,
sentenza n. 439/2008).
In questa prospettiva, non si vede proprio la ragione per cui il legislatore, all'articolo 151 del Dlgs 152/2006, abbia inteso
regolamentare la materia con una disciplina di dettaglio riferita alla gestione in house del servizio idrico integrato, facendo
sorgere inevitabilmente problemi di coordinamento normativo.
Certo è che, come si desume anche dal provvedimento in esame, qualsiasi dubbio interpretativo non può che essere superato
con il consueto richiamo ai principi comunitari.
(clicca qui per accedere al provvedimento Antitrust n. AS1182/2015)