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n. 21/2012
L’ETÀ VITTORIANA AL CINEMA
di Paolo Zara
Il numero dei film la cui vicenda si svolge nell'età vittoriana è molto
alto, data anche la lunghezza del periodo (dal 1837 al 1901, più di 63
anni che rendono il regno secondo solo a quello di Francesco Giuseppe
d'Asburgo). Era quindi piuttosto difficile operare una scelta: alla fine
abbiamo deciso di privilegiare, oltre ai due film biografici con cui si apre
questa rassegna, alcune trasposizioni di romanzi che hanno comunque
segnato l'epoca, un paio di film che si riallacciano all'epoca d'oro
dell'imperialismo britannico e infine tre pellicole dedicate ad
altrettante figure che, soprattutto le prime due, hanno fortemente
colpito l'immaginario collettivo. Come il lettore si renderà conto, la
scelta non dipende da un giudizio di valore, perché fra le schede ci
saranno alcune opere di notevole livello artistico e altre che sono
soltanto dei dignitosi prodotti di consumo.
L’AMORE DI UNA GRANDE REGINA (Mädchenjahre einer Königin): regia di Ernst
Marischka, con Romy Schneider, Magda Schneider, Paul Hörbiger ecc. (1954)
Secondo film della grande attrice austriaca Romy Schneider, la futura interprete dei
tre film della serie “Sissi”, anch'essi girati da Marischka, racconta i primi anni di regno
di Vittoria, catapultata quasi improvvisamente sul trono inglese, e il suo matrimonio
d'amore con il principe Alberto di Sassonia. Tipico film in costume, intriso di
romanticismo (in realtà l'incontro tra la giovane regina e Alberto non avvenne
mentre, in incognito, si concedevano entrambi una vacanza in un tranquillo
alberghetto, lontano dai fasti della corte, perché i due si conoscevano prima
dell'ascesa al trono di Vittoria), magari convenzionale, ma illuminato dalla Schneider,
allora sedicenne.
THE YOUNG VICTORIA: regia di Jean-Marc Vallée, con Emily Blunt, Rupert Friend,
Miranda Richardson ecc. (2009)
Premio Oscar 2010 per i costumi, il film, che racconta la giovinezza della regina
Vittoria, da un anno prima che salisse al trono sino alla nascita del suo primogenito, è
in parte un remake del precedente, di cui conserva il carattere sentimentale e la
limitata aderenza alla realtà storica. Il regista canadese Jean-Marc Vallée, pur
ricostruendo con grande accuratezza l'ambiente, non può non inserire una buona
dose di romanticismo e di romanzesco, che mirano a controbilanciare il rigido
contesto british e la sontuosità un po' fredda della messinscena: così il principe
Alberto non rimase ferito nell'attentato alla regina, come invece avviene nel film,
anche se è vero che Alberto fece da scudo alla moglie mentre le venivano sparati
contro due colpi di pistola. Un'altra libertà il regista se la prende con il personaggio di
Leopoldo del Belgio, zio sia di Vittoria sia di Alberto, che appare autoritario e
interessato a controllare la vita della giovane regina attraverso il nipote, mentre nella
realtà, pur avendo favorito il matrimonio, era per la giovane Vittoria, rimasta presto
orfana, una sorta di figura paterna. All'altezza il cast, anche se Emily Blunt risulta alla
fine troppo bella e troppo “vecchia” rispetto al personaggio storico.
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KHARTOUM: regia di Basil Dearden, con Charlton Heston, Richard Johnson,
Laurence Olivier, Ralph Richardson ecc. (1966)
Il film racconta la storia di un controverso personaggio dell'età dell'imperialismo, il
generale Charles George Gordon, conosciuto come Gordon Pascià, che viene inviato
dal riluttante premier britannico William Gladstone ad evacuare 15000 egiziani e tutti
gli europei residenti a Khartoum, minacciata dall'esercito del Mahdi, un fanatico che si
proclama inviato di Maometto e destinato a pregare nelle moschee del Cairo,
Baghdad e Costantinopoli. Nonostante la difficile situazione Gordon decide di
difendere la città a oltranza, convinto che il suo sacrificio scatenerà una reazione in
patria e costringerà il governo inglese a mandare rinforzi. In effetti un piccolo corpo
di spedizione viene addestrato vicino alla capitale egiziana, ma con tale lentezza che il
Mahdi attacca la città e la conquista massacrandone gli abitanti e lo stesso Gordon. Il
film termina con una voce fuori campo che informa che i soccorsi giunsero solo due
giorni più tardi e che il Mahdi morì poco tempo dopo, mentre Egitto e Sudan
cadevano completamente sotto l'influenza inglese, soprattutto per la spinta
dell'opinione pubblica, ansiosa di “vendicare” la morte di Gordon.
Classico film epico, talvolta verboso, ma con grandi attori, ottimamente fotografato,
efficace nel montaggio, grandioso nelle scene di battaglia, è considerato una pellicola
di transizione fra una visione agiografica dell'imperialismo inglese e una più critica,
prevalente a partire dagli anni '70, come si capisce dal rispetto con cui è presentata la
figura del Mahdi, magistralmente interpretato dal grande Laurence Olivier. Non
sempre aderente alla realtà storica, il film mostra comunque anche i maneggi e gli
intrighi della politica estera britannica.
L'UOMO CHE VOLLE FARSI RE (The Man Who Would Be King): regia di John Huston,
con Sean Connery, Michael Caine, Christopher Plummer ecc. (1975)
Tratto da un racconto di Rudyard Kipling, il film di John Huston ha avuto una lunga
gestazione: già progettato negli anni '50, con Clark Gable e Humphrey Bogart come
protagonisti, poi sostituiti nelle intenzioni del regista da Burt Lancaster e Kirk Douglas
prima, da Robert Redford e Paul Newman poi, fu infine girato con Sean Connery e
Michael Caine nel ruolo di due massoni, Daniel Dravot e Peachy Carnehan, exsottufficiali dell'esercito inglese, che decidono di conquistare un regno tra le
montagne del Kafiristan, regione che più di venti secoli prima era stata dominata da
Alessandro Magno. È un affascinante film d'avventura, apparentemente vecchio stile
e forse per questo sottovalutato, ma dotato di grandissima fantasia e inventiva, che
mischia sapientemente umorismo e dramma, verità e ironia, satira e azione, esotismo
e spettacolo, interpretato da due grandissimi attori (segnò la definitiva affermazione
di Connery anche presso la critica). Il racconto di Kipling era una sorta di metafora
dell'imperialismo inglese, perché nella storia dei due avventurieri che conquistano un
territorio primitivo e vi portano civiltà e giustizia ottenendone in cambio potere e
ricchezze, era facilmente riconoscibile la celebrazione del “fardello dell'uomo
bianco”, l'immagine della Gran Bretagna che porta nel mondo civiltà e progresso.
John Huston si pone invece in una prospettiva critica, introducendo nel film una serie
di notazioni e battute che demitizzano la “grandezza” dei due avventurieri, così come
evidenziano la stupidità di molti atteggiamenti e molte pratiche adottate da inglesi ed
europei nei confronti dei popoli sottomessi. Da questo punto di vista il film è anche
una gustosa satira, non solo della massoneria, ma soprattutto del colonialismo
ottocentesco.
IL DR. JEKILL E MR. HYDE (Dr. Jekill and Mr. Hyde): regia di Victor Fleming, con
Spencer Tracy, Ingrid Bergman, Ian Hunter, Lana Turner ecc. (1941)
Remake di un film del 1931, girato dal regista di origine russa Rouben Mamoulian, è la
trasposizione più famosa, se non la più riuscita, del romanzo di Robert Louis
Stevenson, “The strange case of Dr. Jekill and Mr. Hyde”. La trama è dilatata in
confronto al romanzo di Stevenson, tutta giocata sul filo della rivalità tra due storie
d’amore che si specchiano a vicenda: da una parte la candida Beatrix, dall’altra la
sensuale Ivy, anche se solo questa sarà in realtà «contesa dalla doppia personalità del
dottore», a significare che troppo spesso è il male a sedurre il bene e non viceversa. Il
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film, girato in un suggestivo e poetico bianco e nero, si caratterizza per il cast di
rilievo, in cui spicca l’intensa recitazione di Ingrid Bergman, che inizialmente avrebbe
dovuto sostenere il ruolo della fidanzata di Jekyll, che poi invece, con uno strano
rovesciamento, andò a Lana Turner, l’efficace ricostruzione degli ambienti vittoriani e
degli esterni delle tipiche notti londinesi illuminate dalla fioca luce dei lampioni a gas, i
dialoghi più letterari e, rispetto all’originale, talvolta prolissi, e l’aggiunta di alcune
memorabili sequenze oniriche di stampo freudiano. Nel personaggio di Hyde,
interpretato come Jekill dal grande Spencer Tracy, il regista punta a un maggior
realismo e realizza una più raffinata penetrazione psicologica, rinunciando agli
effettismi “mostruosi” presenti nell’interpretazione di Fredric March
nell’adattamento del 1931. Tuttavia, rispetto a quest’ultimo, nell’opera di Fleming la
tensione drammatica rischia di scadere nel melodramma, forse perché smorzata dalle
preoccupazioni moralistiche dei produttori.
MARY REILLY: regia di Stephen Frears, con Julia Roberts, John Malkovich , Michael
Gambon, Glenn Close ecc. (1996)
La storia del Dr. Jekyll e Mr. Hyde dal punto di vista di Mary Reilly, cameriera in casa
del medico. Un fiasco al botteghino e una fredda accoglienza da parte della critica,
che ha sparato a zero soprattutto su Julia Roberts, considerata improbabile nella
parte di una povera ragazza con alle spalle un’infanzia di angherie e maltrattamenti. Il
tandem regista-sceneggiatore (lo stesso delle “Relazioni pericolose”) ha puntato, al
di là dell’apparenza “gotica” e senza la ricerca di facili effetti speciali, soprattutto
sugli aspetti psicologici della storia, facendone un dramma di colpa e oppressione. Fin
dalle prime scene il regista dimostra di non essere interessato a un semplice film
horror in costume, bensì a un viaggio nella parte oscura dell’Inghilterra vittoriana,
all’indagine sul rapporto di complicità tra servi e padrone, attraverso un film girato
prevalentemente in interni chiusi e soffocanti, con rare sortite in esterni. Il film gioca
le sue carte migliori nel lasciar immaginare in luogo del mostrare (esemplare la
sequenza in cui gli orrori perpetrati da Hyde sono descritti dalla stanza d'un bordello
intrisa di sangue), nel sottintendere piuttosto che nel dire (il rapporto tra Mary Reilly
e Mr. Hyde, verso cui Julia Roberts prova un misto di attrazione e repulsione, portato
al punto d'incandescenza senza farlo deflagrare).
IL RITRATTO DI DORIAN GRAY (The picture of Dorian Gray): regia di Albert Lewin,
con George Sanders, Hurd Hatfield, Lowell Gilmore, Angela Lansbury ecc. (1945)
Classica versione di uno dei più celebri romanzi dell'estetismo europeo, “The picture
of Dorian Gray” di Oscar Wilde, «girata con uno stile raffinato e accurato che
asseconda bene il melodramma e il conflitto interiore di Dorian, grazie anche a una
sceneggiatura molto letteraria e ricca di dialoghi brillanti che derivano direttamente
da Wilde». Il film, girato in bianco e nero, anche se in alcune sequenze il quadro è a
colori, è bene interpretato da una schiera di grandi attori, fra cui spiccano George
Sanders, perfetto nel dare un’aria ironica e acuta al cinico e brillante Lord Wotton,
prototipo del cattivo maestro, e Hurd Hatfield, «altrettanto perfetto nella fissità quasi
da automa con cui riesce a rendere sia l’eterna giovinezza di Dorian sia il tumulto del
suo animo che cede alla corruzione, ma lo fa senza sollievo». Un'abile regia fa del film
una delle migliori trascrizione di romanzi, particolarmente efficace nel rendere
«l’eleganza del male», che si esprime sia nella raffinata compostezza di Lord Wotton
sia nello sguardo del protagonista, da cui traspare «una malvagità celata dalla
bellezza esteriore e perpetrata con l’aria trasognata del santo, allo scopo senza scopo
di sperimentare il lato oscuro dell’anima».
DORIAN GRAY: regia di Oliver Parker, con Ben Barnes, Colin Firth, Rachel HurdWood, Fiona Show, ecc. (2009)
La più recente versione del romanzo di Wilde viene realizzata da un habitué (sue le
trasposizioni di “L’importanza di chiamarsi Ernesto” e “Un marito ideale”) negli
adattamenti dell’autore inglese, il regista Oliver Parker. Il nuovo Dorian Gray punta
molto sull'horror (la soffitta minacciosa, la voce del quadro nascosto in soffitta, i
vermi che visualizzano la corruzione morale di Dorian, il “mostro” che quasi esce dal
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quadro nella scena finale) e stravolge la trama del romanzo inserendo un'ellissi
temporale (il protagonista si allontana per 20 anni da Londra e quando torna trova
naturalmente gli altri radicalmente cambiati) e un personaggio femminile
“rivoluzionario” (la figlia suffragetta di Wotton, l'anima dannata di Dorian, che
s’innamora del protagonista). La regia di Parker, piena di movimenti di camera, ma
non sempre attenta a cogliere le psicologie dei personaggi, punta soprattutto sugli
effetti speciali, che vorrebbero illustrare gli incubi nevrotici del protagonista e
rendere visibile la sua mostruosità, la miscela umana e ripugnante di un dandy intento
a realizzare una vita inimitabile, vendendo l'anima al diavolo, ma essi, pur
spettacolari, non riescono da soli a far decollare il film.
BRAM STOKER’S DRACULA: regia di Francis F. Coppola, con Anthony Hopkins, Gary
Oldman, Keanu Reeves, Winona Ryder, Tom Waits ecc. (1992)
Il Dracula di Coppola, ennesima rivisitazione del mito del vampiro, è probabilmente
uno dei film più coinvolgenti e stravaganti degli anni ’90. Realizzato con misurati
effetti speciali e tecniche relativamente “povere” (numerose dissolvenze, iridi,
sovrimpressioni e giochi di luce), che hanno tuttavia fruttato al film tre Oscar (trucco,
costumi e montaggio effetti sonori), è un grande calderone dove si trova un po’ di
tutto: sangue, inseguimenti a cavallo in perfetto stile western, passioni che vincono il
tempo, nostalgia, amore, presentato con eccezionale forza visiva, specialmente nella
sequenza iniziale della battaglia contro i Turchi, nella ricostruzione della Londra
vittoriana e nella sequenza centrale, che sembra una sorta di incubo psichedelico il cui
tema centrale è proprio l’inarrestabile forza dell’amore. Il personaggio di Dracula,
brillantemente interpretato dall’attore inglese Gary Oldman, assume una dimensione
tragica e la vicenda una forte sottolineatura erotica, innanzitutto nel personaggio di
Lucy Westenra, l’amica di Mina, ma anche nell’attrazione che la protagonista prova
per il conte. Dracula assume così un aspetto umano, vulnerabile, che affascina lo
spettatore, rendendo quasi simpatica la figura da incubo che il vampiro rappresenta
nell’immaginario collettivo. Certamente Dracula rimane sempre crudele, succhia con
avidità, anzi con voluttà, il sangue delle sue vittime e getta con la massima
noncuranza un neonato nelle fauci delle donne-vampiro, ma in diverse scene ne
emerge il lato sentimentale, come nella sequenza del caffè, quando accarezza
dolcemente la mano di Mina e appare un romantico seduttore che il fato ha costretto
a diventare un mostro crudele e spietato.
LA VERA STORIA DI JACK LO SQUARTATORE (From Hell): regia di Allen e Albert
Hughes, con Johnny Depp, Heather Graham, Ian Holm ecc. (2001)
Ambientato nel famigerato quartiere di Whitechapel, nel 1888, è uno dei molti film,
probabilmente il migliore, dedicati al primo serial-killer-mediatico della storia. Opera
«di atmosfere e di straordinaria "pittura"», presenta una Londra «gotica», buia e
nebbiosa, magistralmente ricostruita in studio e perfettamente fotografata, in cui si
alternano l'eleganza della vita nobiliare e il degrado dei sobborghi. In essa si
compiono gli efferati omicidi di prostitute attribuiti a un misterioso Jack the Ripper,
sulle cui tracce si mette l'ispettore Fred Abberline, ottimamente interpretato da
Johnny Depp, che grazie all'aiuto della prostituta Mary Kelly scopre che essi sono
frutto di una macchinazione massonica per insabbiare il segreto di un principe reale.
Considerato da molti critici «il miglior film fantastico a cavallo dei due secoli», ma di
forte valenza critica e sociale, cala lo spettatore in un vero inferno, dove droga, sesso
e violenza dominano la vita umana e il mondo appare spietato e quasi senza
possibilità di redenzione, anche se il protagonista, pur “perdente, ottiene almeno una
volta la sua parziale vittoria.
LA VITA PRIVATA DI SHERLOCK HOLMES (The private life of Sherlock Holmes): regia
di Billy Wilder, con Robert Stephens, Geneviève Page, Colin Blakely, Christopher Lee
ecc. (1970)
Può apparire paradossale, ma dei numerosissimi film dedicati alla figura di detective
creata da Arthur Conan Doyle il migliore, la trasposizione più convincente, è quella di
Billy Wilder, sulla cui sceneggiatura, opera dello stesso Wilder e di uno dei suoi
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abituali collaboratori, I. A. L. Diamond, Michael e Mollie Hardwick hanno poi scritto
l’omonimo romanzo. Quello che il film ci offre è un Holmes da una parte in linea con la
tradizione (a differenza di quello recente incarnato da Robert Downey jr.), ma al
tempo stesso diverso, che deve affrontare «un caso anomalo, contorto, dove nulla è
come appare e che lo porterà ad una sconfitta e non solo da detective». “La vita
privata di Sherlock Holmes” è, infatti, un film sullo «svelamento delle apparenze»,
dove nulla è quello che sembra: il cigno del balletto di Tchaikovsky è in realtà, su un
altro lago, una principessa, l’affascinante vedova belga Madame Valladon è la spia
tedesca Ilse von Hoffmanstahl, i frati trappisti sono anch’essi spie, il mostro di Loch
Ness è un sottomarino, il castello storico una base militare. Lo stesso Holmes, geniale,
misogino, imperturbabile come nelle opere di Conan Doyle, appare gelido e cinico, poi
omosessuale, sposato, totalmente disinteressato al fascino della bella spia, che però,
a poco a poco, fa breccia nel suo cuore, per cui, quando la donna sarà giustiziata per
spionaggio dai giapponesi, soffrirà in silenzio, confortato solo dalle note strazianti del
violino e dalla soluzione al 7 % di cocaina – 5, dato che Watson provvederà ad
adulterarla. Così il compassato e talvolta monocorde detective di Conan Doyle
diventa un personaggio complesso, percorso da una vena di malinconia, che dona «un
alone caldo d’umanità anche al genio della fredda razionalità, riportandolo al dolore
di tutti».
THE ELEPHANT MAN: regia di David Lynch, con Anthony Hopkins, John Hurt, Anne
Bancroft, John Gielgud ecc. (1980)
Candidato a otto premi Oscar, anche se poi non ne vinse nessuno, il film del
controverso regista David Lynch, che per una volta rinunciò in gran parte ai suoi deliri
visionari, racconta, pur con qualche libertà, la vera storia del mostruoso John C.
Merrick (1862-1890). L'uomo, affetto da una grave forma di neurofibromatosi,
divenne un fenomeno da baraccone e, dopo essere stato scoperto dal
dottor Frederick Treves (sulle cui memorie si basa il film) fu accolto nel London
Hospital e lì curato anche grazie al fondo che la stessa Regina Vittoria aprì a suo
favore. Fotografato in un suggestivo bianco e nero, che immerge la pellicola in
un'atmosfera volutamente datata, convincente anche nei rari squarci visionari e
onirici, coerente e articolato nella sceneggiatura, perfetto nella ricostruzione degli
ambienti, è un «saggio sulla diversità umana, la tolleranza e la conoscenza di quei
"mostri" che sono gli altri», dietro la cui maschera, magari aberrante, mostruosa,
ripugnante, si cela la nostra stessa umanità, lo stesso desiderio d'affetto, lo stesso
desiderio di essere trattati sempre come esseri umani. Il film, significativamente, si
apre e si chiude sul primo piano di un paio di occhi, quelli della madre di John Merrick,
uno sguardo che riassume la pietà e l'amore che alla fine il protagonista riceve dal
dottor Treves, dal regista, per fortuna ancora lontano dai futuri accademismi e
virtuosismi, e dagli spettatori, partecipi di un storia a tutto tondo e dai contenuti
autentici e commoventi.
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