La ràgola del Pozzo - La Memoria dei Luoghi
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La ràgola del Pozzo - La Memoria dei Luoghi
Alcuni anni fa Chiara è tornata a San Bonaventura per rivedere i luoghi della giovinezza. Non ha più ritrovato la casa natale, abbattuta per far posto a una villa, ma in un angolo, buttata per terra come un rottame, era rimasta la ràgola del pozzo. Chiara ha accarezzato quella carrucola e quanti pensieri si sono risvegliati! È stato come se la ràgola girasse ancora, portando alla luce, dal pozzo della vita, l’acqua limpida degli affetti e dei ricordi. (…) Il racconto di Chiara è straordinariamente ricco di umanità e di cultura, che a tratti raggiunge esiti di alta poesia. (…) Il racconto stupisce fin dalle prime battute per la capacità narrativa di Chiara, apprezzabile appieno nel dolce dialetto marchigiano, ma godibile anche nell’attenta “traduzione” di Bruno Morbidelli Leggendo mi veniva di fare un confronto con la rude espressività lombarda (in particolare bergamasca): poveri noi, non arriveremo mai a una capacità di comunicare così coinvolgente! Marino Anesa La ràgola del Pozzo Bruno Morbidelli, nato ad Ostra (An) nel 1942, si è laureato con la tesi in storia medioevale “Montalboddo (oggi Ostra) nel periodo delle signorie”. Nel 1995 ha pubblicato il libro di carattere storico “Ostra – I tre conventi dei cappuccini”, nel 1996 ha curato il volume “Don Antonio Morganti - Apostolo della carità”. Intanto era iniziata per caso e continuata con passione la sua ricerca sulla cultura popolare contadina, che lo ha portato a dare diffusione, in collaborazione con il circolo culturale “La Gioconda” di Ostra, a varie raccolte: “I dittadi di Montalbòdo” (1993), “Io de stornelli ne so mille” (1994), “Io de stornelli ne so mille più mille (1996), “Evviva evviva l’Anno nòvo e la Pasquella” (1996), “Le preghiere delle pôre vecchiette nostre” (1998). Chira Rina Eletta da San Bonaventura Copertina di Andrea Crostelli e Paolo Mancini Ostra 2000 Ostra 2000 Chiara Rina Eletta da San Bonaventura La ràgola del pozzo Memorie e ragionamenti di una del “branco” a cura di Bruno Morbidelli Prefazione di Marino Anesa Trascrizioni musicali di Piercarlo Fontemagi Ostra 2000 Illustrazioni: Disegni di Chiara Rina Eletta da San Bonaventura Quattro disegni dell’artista Andrea Crostelli Inserto fotografico: Giorgio Selva Fotografie d’epoca gentilmente concesse da: Antici Giuseppe, Balducci Gabriele, Barchiesi Carlo, Barchiesi Giancarlo, Casci Gioacchino, Cioci Romano, Conti Stefano, Ferraris Luigi Vittorio, Lucentini Flaviana, Manoni Enzo, Manoni Patrizio, Marcantognini Lucio, Pirani Giorgio, Ricciotti Tarcisio, Sagrati Sante, Sellari Giuliano, Staccioli Paola, Verzolini Renato. Impaginazione e stampa: Tecnostampa - Ostra Vetere © Tecnostampa Edizioni Luglio 2000 Tutti i diritti riservati È vietata la riproduzione anche parziale di immagini e testo La ràgola del pozzo Memorie e ragionamenti di una del “branco” Corso Mazzini, 93 - Ostra Filiali: Senigallia - Morro D’Alba - Passo Ripe di M. Fiscaletti & C. Via E. Mattei, 13 - 60030 Serra de’ Conti Prodotti ortofrutticoli Via delle Selve, 26 - 60010 Ostra Sapori tipici delle Marche Presso la Cantina Vicoma SS. Arceviese, 55 – Pianello di Ostra SCAC Soc. Coop. Agricola Conserviera Via Cesano Bruciata – Cesano di Senigallia Via Direttissima del Conero – 60021 Camerano Presentazione U na vera figlia della nostra campagna marchigiana, di queste colline belle ed ospitali. In barba alle guerre, alle miserie, alla fame. I suoi sono paesaggi umani, pennellati a tinte più o meno forti; racconti tragicomici, escono a getto continuo disegnando una fitta trama intrisa di saggezza e sincerità. È una testimone preziosa, Chiara Rina Ele tta da San Bonaventura. Presa per mano dal paziente Bruno Morbidelli c’introduce al “branco”, a quando “Comannàa mussolini” (volutamente citato con la minuscola), alle “fàa coi bugaròzzi e le pastarèlle col pane”... Le sue parole arrivano diritte e, dal cuore della memoria, portano storie, appunti di una vita scolpiti nell’intimo della protagonista. Sgorgano pure, da una sorgente che vorremmo non si estinguesse mai ma che purtroppo è destinata a prosciugarsi. Quella cultura popolare contadina, infatti, non potrà resistere ancora a lungo, se non grazie a pubblicazioni come questa. Che strani effetti fa, la memoria. Ci fa sentire piccoli piccoli, al cospetto del tempo implacabile. In quella “scatola nera”, ficcata in chissà quale parte del cervello, sono racchiuse vite, passioni, speranze, dolori, amori che si avvicendano senza una logica apparente, che s’imprimono indelebilmente nell’animo umano. E quelle vite, passioni, speranze, quei dolori, straripano prepotenti, magari proprio nell’attimo in cui la vita si fa più corta. Un libro che si fa leggere con penetrante curiosità, quella stessa con cui è stato pensato, scritto, assemblato e dato alle stampe. E quanto netti si stagliano i contrasti, le differenze che si fanno stridenti con la nostra società tecnologica, individualista, iperconsumista. Due mondi che si guardano da lontano, separati da un breve lasso di tempo, e fanno fatica a trovare dei nessi, a riconoscersi. Oggi c’è Internet, ci sono mezzi sofisticati - “robba da Merécani”, direbbe Chiara – che farebbero impallidire i semplici contadini di allora. Siamo più ricchi, moderni, disinvolti ma anche uniformati, sempre più 7 appiattiti sulle stesse consuetudini, gli stessi gusti. È un po’ come se vi fosse un’unica umanità, dalla collina al mare, dalla montagna alla città. Lo squittio dei telefonini, gli hamburger, la corsa delle utilitarie e degli scooter ci fanno un po’ tutti uguali, senza distinzioni geografiche, appartenenze. Confrontiamo questo nostro universo con il mondo, piccolo ma intenso, di San Bonaventura e siamo proprio noi a sentirci minuti, prigionieri di quello stesso portentoso Golem che siamo stati capaci di creare. Quei dialetti (le lingue, necessariamente al plurale) che distinguevano una contrada dall’altra e fornivano a ciascuno la sua precisa identità, non fanno il paio con il grigio italiano della tv o l’inglese standardizzato di finanza e computer. Un libro, questo, che va centellinato, come un buon vino d’annata, riuscendo ad assaporare, pagina dopo pagina, la sua genuinità, le istantanee perfettamente a fuoco di quella gente che aveva, con dignità, “la terra ‘ntéll’ogna”. Alessandro Giambartolomei Direttore della rivista Agrifoglio 8 Prefazione Q uanti cambiamenti nei modi di vivere e di pensare e con quale rapidità avvengono nella società contemporanea! C’è da rimanere disorientati. Qualcuno si ribella al vortice, spesso insensato, delle “novità” e sente l’urgenza di riaffermare scelte e punti di vista, storie e saperi che un malinteso progresso disprezza o, nel migliore dei casi, dimentica. Così ha fatto Chiara Rina Eletta da San Bonaventura che, aiutata dalla vigile e affettuosa presenza di Bruno Morbidelli, ha narrato e scritto la sua vita: gioie e dolori, come si dice, ma soprattutto orgoglio della propria cultura e difesa dei valori di solidarietà e sensibilità che consolano il cuore e la mente. I risultati dei numerosi incontri tra la “narratrice” e il “ricercatore” sono raccolti in questo volume, che si fa leggere come uno straordinario racconto e stupisce fin dalle prime battute per la capacità narrativa di Chiara, apprezzabile appieno nel dolce dialetto marchigiano, ma godibile anche nell’attenta “traduzione” di Bruno Morbidelli. Con grande attenzione e mano sicura, che gli deriva anche dalla sua professione di insegnante, Bruno ha raccolto col registratore la storia di Chiara, limitandosi a “guidare” lo scorrere dei ricordi ed eliminare qualche passo ripetitivo. Il compito più faticoso (posso ben comprenderlo, avendo fatto lo stesso tipo di ricerche) è stato il successivo lavoro di trascrizione del testo dialettale e di traduzione in lingua italiana. La parola passa ora ai lettori, che non possono purtroppo vivere l’emozione del racconto diretto, ma hanno comunque la possibilità di cogliere dalle pagine del libro la ricchezza poetica e culturale delle memorie e dei ragionamenti di Chiara. Cos’è, se non poesia, un brano come questo, uno fra i tanti disseminati come perle nelle trame della narrazione: Una volta il sole si lamentava perché la luna di notte andava, e ci va anche adesso, via nuda, lo tradisce il sole. Ogni tanto, quando vede passare una nuvola lì vicino, si nasconde di dietro. Però è inutile che si faccia vedere a poco a poco, tanto ormai lo sappiamo tutti come si comporta con il sole: lui è stufo dopo un giorno di duro lavoro, va a letto e s’addormenta subito; lei poco dopo si alza 9 e si approfitta. Il pensiero corre al grande poeta recanatese, che pure parlava alla luna, e il paragone non sembri irriverente: la differenza sta negli strumenti a disposizione, non certo nella potenza espressiva. Alcune tecniche narrative usate da Chiara sono tipiche del racconto popolare, come questo bellissimo epilogo, che richiama l’immagine di una fabulatrice alla fine della storia e del pubblico rapito all’ascolto: Cuèste era dell’anno che succedìa nigò e po’ troppe ne so! L’arconterò? Sci la morte non m’aritròa l’arconterò a paja nòa. Il testo è impreziosito da orazioni, stornelli, filastrocche, indovinelli e proverbi popolari, patrimoni delle passate generazioni, conservati come reliquie. Chiara non si limita a parlare: spesso ritiene necessaria la scrittura, per fissare i pensieri in modo più ordinato. Questo vale soprattutto per le spiegazioni di alcune tecniche di lavoro agricolo, che, con piglio didattico, illustra anche con disegni. Il libro diventa così una specie di sussidiario scolastico, quasi una compensazione per gli studi che Chiara non ha potuto continuare dopo la terza classe delle elementari, chiamata dall’urgenza del lavoro per sopravvivere. Una vita dura, passata a capo chino con le mani nella terra, ognuno “con l’attrezzo suo”, invocando il soccorso della “divina pazienza” e rivolgendo all’Altissimo gli interrogativi sulla giustizia e il senso della vita: O Dio del cielo, o Dio del Paradiso perché n’avéde fatto lo mondo paro Avéde fatto ‘l povero e lo ricco chi avéde dato il dolce a chi l’amaro. Alcuni anni fa Chiara è tornata a San Bonaventura per rivedere i luoghi della giovinezza. Non ha più ritrovato la casa natale, abbattuta per far posto a una villa, ma in un angolo, buttata per terra come un rottame, era rimasta la ràgola del pozzo. Chiara ha accarezzato quella carrucola e quanti pensieri si sono risvegliati! È stato come se la ràgola girasse ancora, portando alla luce dal pozzo della vita l’acqua limpida degli affetti e dei ricordi. Marzo 2000 da Bergamo, col cuore nelle Marche Marino Anesa* * Di Cazzaniga (Bergamo), è uno dei più affermati studiosi e ricercatori della cultura popolare. 10 Nota introduttiva del ricercatore C hiara Rina Eletta da San Bonaventura è una donna di campagna, nata negli anni ’20 (del secolo scorso!). Ha studiato solo fino alla terza elementare, ma ha saputo ugualmente scrivere o dettare o incidere in cassette queste pagine, dimostrando lucidità, perspicacia e, spesso, anche una notevole autoironia. Ai tempi di Chiara, in campagna, si viveva in branco: il branco della famiglia patriarcale o quello più ampio del vicinato o della contrada. E Chiara Rina Eletta è una del branco delle bambine, delle ragazze e delle mogli che vivevano in campagna tra gli anni ’20 e gli anni ’60. In branco si lavorava nei campi, in branco si stava attorno al camino o al caldo della stalla, in branco si andava a lavare i panni o ad imbiancare il corredo al fiume, in branco ci si recava alla Messa, alle fiere, ai mercati, alle feste. Chiara, perciò, non racconta tanto una vicenda individuale, quanto la storia, le abitudini quotidiane, le usanze e le credenze del branco dei contadini, che erano allora la stragrande maggioranza della popolazione del nostro territorio. Gli argomenti da narrare o da approfondire li ha scelti lei; perché lei sa quali erano i problemi diffusi e reali del suo tempo (la fatica, il mangiare, il vestire…), lei sa su quali valori il suo mondo fondava la propria esistenza (la fede, il lavoro, la sobrietà, la solidarietà…). Chiara vive ed osserva la gente, la vita e il mondo, con uno sguardo attento, lucido e perspicace; e le vicende di ieri, di cui ella è testimone e custode, sono solo apparentemente e temporalmente lontane da noi ed estranee alla realtà d’oggi, tanto che lei è portata regolarmente a stabilire dei confronti. Infatti il suo sguardo va oltre la superficie e le apparenze, penetra nel mondo interiore, suo e della sua gente, ne coglie i sentimenti e le emozioni, le attese e le delusioni, i valori e le mediocrità, senza infingimenti, con naturale, spontanea semplicità. E li affida al suo narrare, seguendo il ritmo, ora lento, ora pressante, della memoria. Come una vera affabulatrice, secondo il costume e l’arte di un tempo in cui, attorno al narratore, la gente condivideva il piacere dell’ascolto 11 e dello stare insieme. Da parte mia ho invitato Chiara, che in realtà sa parlare correntemente l’italiano, ad esprimersi nel suo dialetto, perché nella sua gioventù la lingua usata era quel dialetto che ormai se ne sta andando, portando con sé tutto il suo sapore e il suo mondo. Il suo vernacolo ci restituisce così l’atmosfera del passato e richiama l’attenzione sulla vita quotidiana di quel branco rurale che conosceva soltanto la fatica. Pur vivendo Chiara nel territorio di Ostra, il suo linguaggio risente della vicinanza di Belvedere e Morro d’Alba e quindi subisce l’influenza del dialetto iesino. Come ho scritto in altra occasione, ho avuto modo di rilevare differenze dialettali da contrada a contrada, tra famiglie della stessa contrada e, perfino, all’interno della stessa famiglia. Questo fenomeno si riscontra un po’ ovunque: basti ricordare che il fiorentino Dante sapeva ben distinguere le differenze dialettali degli abitanti di Borgo San Felice e dei cittadini di Strada Maggiore della città di Bologna. Ho voluto aggiungere al racconto in vernacolo la traduzione in italiano per dare la possibilità di comprendere la storia di Chiara sia a coloro che sono lontani dal nostro territorio, sia alle giovani generazioni che oggi, incuranti delle loro radici, non conoscono più né le storie, né il modo di esprimersi dei loro antenati. Nella traduzione ho cercato di mantenere il più possibile intatto il registro colloquiale e familiare, lasciando invariate le pause ed eliminando la ripetizione superflua, solo quando giovava a rendere meno faticosa la narrazione. Ho riportato in corsivo parole dialettali più difficili da comprendere intuitivamente e, per la loro spiegazione, rinvio al piccolo vocabolario posto in appendice. I termini e le locuzioni che, tradotti letteralmente, avrebbero assunto un significato ambiguo, sono stati resi a senso. Ho aggiunto al testo, poi, alcune note per spiegare ciò che a me, per primo, non era chiaro: anche per queste devo ringraziare l’ineguagliabile pazienza di Chiara Rina Eletta da San Bonaventura. Ostra, 31 gennaio 2000 12 Bruno Morbidelli P arte P rima Sott’al crì’ So’ nada a San Bonaventura Sono nata a San Bonaventura So’ nada ’nté ’na casa che stèra da cima de ’n cocuzzolo, lassù a San Bonaventura, ’nté i confini de Montalbò’, Belvedé’, Morro d’Alba e Senigaja. La contradia pìa ’l nome da ’na chiesetta, ’ndó ce venìa ’n frade capuccìno, Padre Gerardo, a di’ la Sono nata in una casa che stava in cima ad un cocuzzolo, lassù a San Bonventura, ai confini di Montalboddo, Belvedere, Morro d’Alba e Senigallia. La contrada prende il nome da una chiesetta, dove veniva un frate cappuc cino, Padre Gerardo, a dire la Messa la domenica. Ce lo portava il vetturi no Duilio de Gioannétto col cavallo. D’estate, durante la mietitura, diceva la Messa alle cinque di mattina, per ché i contadini della contrada miete vano tutti anche di domenica, sennò il grano andava tutto ai passeri e alle formiche. Sapete che cosa si diceva: “ Finché la roba è al campo tutti hanno parte tanto!” Una mattina una bambinetta, che abitava lì vicino, quando si è svegliata e la madre assisteva alla Messa, è entra ta dentro la chiesetta completamente nuda. Gli uomini dicevano: “Bambi netta, se avessi avuto quindici o sedici anni...!” Dunque avete capito il luogo dove sono nata: erano tutti contadini, quali più rozzi, quali meno. Si sapeva tutto di tutti, eravamo affiatati perché si face vano assieme le faccende più grosse, si giocava a bocce, all’inverno a carte den tro la stalla e si stava al caldo; si man giavano anche due semi di zucca, la fava bruscata e si beveva un bicchiere di “ammezzato”. A casa nostra c’erano le giovani non sposate e babbo col fiasco del vino: per questo ci veniva la gente! Ebbene io sono nata, ultima della Anni ‘20. Ersilia Tinti Bordini con bimba (coll. Gabriele Balducci). 15 Messa la doménniga. Ce ’l portàa ’l vetturì’ Duilio de Gioànnetto col cavallo. D’istàde, durante le mededùre, dicìa la Messa alle cinque de la madìna, perché i contadì’ della contradia medìa tutti anca la doménniga, scinó ’l gra’ gìa tutto ai passeri e alle formìghe. Sapéde que se dicìa: “Finché la robba al campo tutti ci’ha parte tanto!” ’Na madìna ’na monelletta, che stèra lì vicino, quanno s’è svejàda e la madre era a la Messa, è boccàda drendo la chiesetta tutta nuda. ’Sti òmmini dicìa: “Monelletta, sci avessi ûdo quindici o sedici’ anni...!” Donca éde capìdo ’l pòsto ’ndó so’ nada: era tutti contadì’, quali più ruzzi e quali meno. Se sapìa nigò de tutti, fumma affiadàdi, perché se facéa le facenne grosse assieme, se giogàa a bocce, all’inverno a carte drendo la stalla e se stèra càlli; se magnàa anca du’ becche e fàa brusca e se bevìa ’n bicchiero d’ammezzado1. A casa nostra c’era le giovane e babbo col fiasco del vi’: appòsta ce nìa la gente! Embè io so’ nada, ultima della coàda, pròpio ’nté cuélla casa lassù da cima, che adè ha buttado giù pe’ fàccene una nòva. M’arcòlto Paolì’, Ileana Contardi. Anni ‘30 (coll. Gabriele Balducci). covata, proprio in quella casa lassù in cima, che adesso hanno buttato giù per costruirne una nuova. Mi ha raccolto Paolino, un vicino, perché la levatrice non aveva fatto in tempo ad arrivare. Quando ero più grande, Paolino mi diceva continuamente: “Figlia mia, ti 1 Ammezzàdo: mezzovino, vinello. Dopo la pigiatura dell’uva, allora fatta con i piedi, sopra i vinacci che rimanevano in fondo al tino, si versavano acqua calda e un po’ di zucchero. Si chiudeva il tino e si faceva bollire per cinque giorni circa. Quindi si cavava il liquido ottenuto e lo si metteva in una botte, versandovi sopra la “grana”, ossia acini di uva fresca. Dopo una ventina di giorni l’ammezzado era pronto, un mezzovino a bassa gradazione. 16 un vicinàdo, perché la mammàna nìa fatto in tempo ’rivà’. Quann’ero più grànna, Paolì’ me dicìa sempre: “Fija mia, t’ho ’rcòlto io, eri brutta e piccola, le feccétte. Sci non passi ’nté ’l sacco, vèni più bòna del vi’”1 E a mamma ié dicìa sempre: “Marì’, ce la farémo ’na donna?” Dicìa cuscì perché io non magnàa gnè, non me piacìa: ero ’na stécchia! M’arcordo pogo de quann’ero piccola e ’n ci’ho mango n’arsomèjo, prò me ’rcontàa ’sti genidóri e nonni che io da quattro anni già sapìa le laude. Era piccola, secca, me mettìa su dritta sopra ’l camì’ e lóra stèrene a sentì’, anca le padrone. ’Mpò’ m’arcordo che, dobo fatto, me battìa le ma’. M’arcòrdo che io alla madìna d’inverno gèra sempre ’nté ’l letto de nonno e nonna a ’mpàrà’ le preghiere, cansó’, stornelli, ’mpo’ de nigò. Nonna cìa pacènsia: quanno me lìa ditte due vo’, già lìa ’mparàde. Cuélla vo’ cìa la testa bòna, n’è como adè’ che non m’arcordo de gnè. Dobo, quanno ho comensàdo la scòla, dicìa la maestra a mamma: “Sta monella bécca subbedo!” ho raccolto io, eri brutta e piccola, le feccette. Se non passi nel sacco, vieni più buona del vino”. E a mamma dice va sempre: “Maria, ce la faremo una donna?” Diceva così perché io non mangiavo niente, il cibo non mi piace va: ero uno stecchino! Mi ricordo poco di quando ero pic cola e non ho neppure una fotografia, però mi raccontavano i miei genitori e i miei nonni che a quattro anni io già sapevo le litanie. Ero piccola, secca; mi mettevano in piedi sopra il camino e loro mi stavano ad ascoltare, anche le padrone. Un po’ mi ricordo che, dopo che le avevo recitate, mi battevano le mani. Mi ricordo che la mattina d’inver no andavo sempre nel letto di nonno e nonna mi insegnava le preghiere, le canzoni, gli stornelli, un po’ di tutto. Nonna aveva pazienza: quando me l’aveva detti due volte, già li avevo imparati. A quell’età avevo la testa buona, non è come adesso che non mi ricordo di niente. Dopo, quando ho cominciato ad andare a scuola, la maestra diceva a mamma: “Questa bambina capisce subito!” 1 Quando si mutava il vino, le fecce in fondo alla botte venivano messe in un sacco della farina per farle scolare, finché non erano completamente asciutte. Quelli che avevano più vino nonmettevano le fecce nel sacco, ma le facevano depositare in una grande bigoncia, che poteva contenere anche un ettolitro. Questo sistema di decantazione dava un vino più buono di quello normale. 17 La scola La scuola Ai tempi nostri se gèra a scòla a pìa, coi soccolòni ’nté i pìa d’inverno, d’istade e de primavera gèmma scalsi, già de febbraro c’era cuélle giornade calle, anc’à gennaro se scalsamma, se pïàa le scarpe su le ma’ e via a scòla co’ ’na fetta de pa’ ’nté la borcia, qualche vo’ anca muffa; pe ’l companadigo non c’era gnè. Se partìa a digiù, tante le vo’ gèmma a magnà’ cuélla fetta drendo ’l cesso, ché émma fame, e non iéla fèmma a spettà’ fina le ùnneci. Quanno rivàsci giù drendo cuèlla scòla ’n c’era mango la stufa ’ccésa, ’n c’èra mango la bidella. Cuélla scòla era como ’na cadapécchia, su per giù de ’na cappanna a pianteré’: fortuna che dangià venìa comensànno la scòla nòa. A mezzogiorno ce lassàa, ma la Ai tempi nostri si andava a scuola a piedi, con gli zoccoloni nei piedi d’in verno, mentre all’estate e in primavera andavamo scalzi; già da febbraio c’era no quelle giornate calde, anche a genna io ci scalzavamo, si prendevano le scar pe in mano e via a scuola con una fetta di pane, qualche volta anche ammuffi ta, nella borsa; come companatico non c’era niente. Si partiva a digiuno, tante volte andavamo a mangiare quella fetta di pane dentro il gabinetto, perché ave vamo fame e non gliela facevamo ad aspettare fino alle undici. Quando arrivavi nella scuola non c’era nemmeno la stufa accesa, nem meno la bidella. Quella scuola era come una catapecchia, era una capanna a pianterreno: fortuna che già venivano costruendo la scuola nuova. A mezzogiorno ci lasciava tornare Scuola di Massa San Giacomo (Tirassegno). Anno 1925 (coll. Giuliano Sellari). 18 a casa, ma io la prima elementare l’ho fatta di sera laggiù al “Tirassegno”. Pensate un po’! Ci lasciava alle quattro di sera, c’erano da fare quattro chilome tri di strada. Già in autunno, quando il cielo era nuvoloso e pioveva, si prendevano certe paure! Io, che avevo tanta paura delle civette, le sentivo cantare, stridere, mi mettevo a correre quando rimanevo sola, perché la mia era l’ultima casa ai confini di Montalboddo. Fino alla fonte Ragosto c’erano altri scolari, ma dopo ero sola. Tante volte i genitori mi man davano incontro mio fratello, ma lui sapeva che io avevo paura, allora si met teva dietro una fratta e scagliava sassi sulle querce. Dopo io correvo anche di più e lui si metteva a ridere forte. Allora dicevo a mamma: “È meglio che non ce lo mandate quel somaro!” Anzi è come oggi che i bambini vanno all’asilo, a scuola con i pulmini: prima la fèra de sera: io la prima l’ho fatta giù ’l “Tirassegno”. Pensade ’mpò vuà! Ce lassàa alle quattro de sera, c’émma da fa’ quattro chilometri de strada. Già d’autunno, quann’èra ’rnuvolado e pioéa, certe paure se piàa. Io, ch’io tanta paura delle cioétte, le sentìa a cantà’, a stride’, me mettìa a cure quanno armanìa sola, perché la mia era l’ultima casa sui confini de Montalbò’. Finànta giù la fonte Ragosto c’era l’altri scolari, ma dobo era sola. Tante le’ ò ce mannàa a ’ncontramme mi’ fradello, ma lu’ sapìa ch’io paura, se mettìa drèdo la fratta e tiràa le sassade ’nté le cerque. Dopo io curìa anca de più e lu’ se mettìa a rìde’ forte. Allora ié dicìa a mamma: “È meio che non ce’l mannàde a cuél somaro!” Anzi è como adè che i monelli va Fonte di Ragosto (coll. Giancarlo Barchiesi) 19 Anno scolastico 1931- 32: classi prima, seconda e terza della Scuola Elementare di Pianello, presso l’abitazione Giombini. In prima fila: Paolino Paolinelli – Severino Romagnoli – Duilio Silvestrini – Gilberto Cimarelli - Elio Pirani – Augusto Berta – Gino Berta – Secondo Camerucci – Lino Peverieri – Rinaldo Pianelli – Sestilio Ricciotti. In seconda fila: Ida Bartolini - Velia Ricciotti – Anna Maria Leoni – Anna Maria Cucchi – Milena Leoni – Vera Pasqualini – Gina Berta – Lena Bartolini. In terza fila: (?) – Gina Pirani – Rita Giombini – Ferruccio Marchetti – Augusto Perini – (?) Pirani – Alma Ricciotti. (coll. Gabriele Balducci). all’asilo, a scòla coi pulmini: monta su avanti casa e li ’rporta lì. Anca sci piove, l’ombrella non ié serve; a me l’ombrella me la dèra sempre quanno pioìa, perché la tenìa a conto, ma qualche monello dispettoso le rompìa. Allora ié dèra un corpetto vecchio co’ le pezze: ’l mettìa su la testa e via! Podìa mèttelo anca davanti all’occhi, tanto le maghine non c’era, al più cuàlca biscighétta o cuàlche cavallo se ’ncontràa, ma n’era tanti fitti! Donca, la prima l’ho fatta lì ’l tirasegno che era vicino al ponte della Massa, e la maestra se chiamàa salgono davanti casa e sono riportati lì. Anche se piove l’ombrello non gli serve. A me davano sempre l’ombrello quando pioveva, perché lo tenevo a conto, invece qualche monello dispettoso lo rompeva e allora gli davano una giacca vecchia con le pezze: la metteva sulla testa e via! Avrebbe potuto metterla anche davanti agli occhi, tanto le macchine non c’era no, al più si incontrava qualche bici cletta o qualche cavallo, ma questi non erano tanto fitti. Dunque, la prima l’ho frequentata lì, al Tirassegno, che si trovava vicino al ponte della Massa, e la maestra si chiamava Domenighelli Tina, una supplente si chiamava Alba 20 Domenighelli Tina, e ’na suplènte se chiamàa Alba Sturba, e ’n’antra Bice Baranca. La prima classe, como v’ho ditto, era de sera: alla madina fèra la II e la III. Dobo ha fatto la scòla nòa e lì ci’ho fatto la seconda e la terza. La maestra era Angeletti Laura in Olivetti: me volìa tanto be’. Era la prima a finì’ i compidi e me mannàa a guardà’ ’l monello sua, Omero; cuéll’altri due, Graziella e Gigi, era a scòla lì co’ noà. Me mannàa anca su alto a pïà’ latte e caffè. Cìa ’na serva che se chiamàa Desdèmola. Quanno piàa cuélla bella colazió’, co’ la fame che cìa, l’averìa pappàda ’nté ’n momento. Noà cuélla robba lì non se podìa magnà’, mango quanno stèsci male. Scì, te fèra ’n goccio de caffè col grà’ bruscàdo ’nté ’l carbó’, mezzo bruciacchiàdo. Chi cìa i guadrì’ bruscàa l’orzo mónno, era più bòno, ma ’n se podìa piantà’ che anca lì volìa la parte ’l padró. Era chiamado ‘monno’ perché ’n cìa la camicia de pula come l’altro orzo ed era anca più dolce. Era ’na qualità che se battìa col bastó’ e po’ ié se dèra ’na scroellàda co’ la croellétta e po’ se bruscàa: se mettìa nté ’na latta sul forno o scinó su la servapadella vicino a la fiàra o, sempre sul trepìa sul carbó’. Arpìo la parola della maestra: ce mannàa in due, col cariòlo e la damigiana, a pïà’ l’acqua u la pompa ’ndó stèra Roscetto. Po’ ce fèra scarpì’ l’erba ’nté ’l giardì’, ce fèra fa’ ’l teadro e Sturba, un’altra Bice Baranca. La prima classe, come vi ho già detto, era di sera: la mattina si insegnava alle classi seconda e terza. In seguito hanno costruito la scuola nuova e lì ho frequentato la seconda e la terza. La maestra era Angeletti Laura in Olivetti: mi voleva molto bene. Ero la prima a terminare i compiti e mi mandava a badare al figlioletto suo più piccolo, Omero; gli altri due, Graziella e Gigi, erano a scuola lì con noi. Mi mandava anche al piano di sopra, (dove era la sua abitazione), a prenderle il caffellatte. Aveva una domestica che si chiamava Desdemola. Quando prendevo quella bella colazione, con la fame che avevo, l’avrei pappata in un momento. Noi quella roba lì non potevamo man giarla, nemmeno quando stavi male. Sì, ti facevano un goccio di caffè col grano bruscato sui carboni, mezzo bruciac chiato. Chi aveva i quattrini bruscava l’orzo ‘monno’, che era più buono, ma non si poteva piantare perché anche in quello il padrone pretendeva la parte. Era chiamato ‘mondo’ perché non aveva la camicia di pula come l’altro orzo ed era anche più dolce. Era una qualità di orzo che si batteva con il bastone e poi gli si dava una stacciata con la ‘croel letta’. Veniva quindi messo ad abbru stolire sopra una latta nel forno o sul treppiedi vicino alla fiamma o sopra i carboni accesi. Riprendo a parlare della maestra: ci mandava in due, col ‘cariòlo’ e la damigiana a prender l’acqua sul pozzo con la pompa, dove stava di casa Roscetto. Altre volte ci faceva carpire 21 dobo ce regalàa ’na caramella. Me mannàa anca a portà’ via la monnezza giù ’l grasciàro del contadì’. Me volìa be’ ’mbelpò’. Dicìa sempre a mamma: “ ’Sta monèlla fàdela studià’!” Oste, scì che m’averìa piaciudo: sarìa gida a Montalbò’ a pìa anca du’ ’olte al giorno, envéce non cìa mango da pensà’, co’ nantri cinque fradelli e sorelle che cìa dannànse a me. Dicìa ’sti genidori:- La scòla è fatta pei fiji dei signori, vuà bisogna che ’mparàde a fadigà’ sci voléde magnà’ ’n pezzo de pa’. E lì non te podìsci ribellà’: o bevi o ’ffòghede! l’erba nel giardino; ci faceva fare anche il teatro e dopo ci regalava una cara mella. Mi mandava anche a portar via l’immondizia giù il letamaio del conta dino. Mi voleva molto bene. Diceva sem pre a mamma: “Questa bambina fàtela studiare!” Oh sì che mi sarebbe piaciu to: sarei andata a Montalboddo a piedi anche due volte al giorno, invece non ci dovevo neppure pensare, con altri cinque fratelli e sorelle che erano nati prima di me. Dicevano i miei genitori: “La scuola è fatta per i figli dei signori, voi dovete imparare a lavorare se volete mangiare un pezzo di pane!” E a quel tempo non ti potevi ribella re. “O bevi o ti affoghi!” ’Gnuno l’attrezzo suo Ognuno l’attrezzo suo Finìda la scòla, già te portàa a fadigà’ giùppe ’l campo. Te fèra l’attrezzi adatti pe’ l’età e litta dovìsci sta’ col brango; quanno pròpio non iéla fèsci più, te mannàa ’mpezzetto sotta ’na meriggia, ma piano piano dovìsci ’rpïà’ ’l via. Noà c’émma i genidori troppo bòni, alla madina te lassàa dormì’ ’mpo’ de più quanno non c’era ’l fié, i baci, ma quanno c’era da ’rcòje la spiga toccàa alsàsse prima della levàda del sole e quanno era callo, vèro le nove e mezza, se lassàa gi’. Cuélla vo’ era orario del sole, non era como adè’! ’Nté le faméje tutti cìa ognuno l’attrézzo sua, anca i Finita la scuola, già i genitori ti portavano a lavorare per il campo. Ti costruivano gli attrezzi adatti per l’età e lì tu dovevi stare con il branco; quando proprio non gliela facevi più, ti mandavano per un po’ all’ombra, ma piano piano dovevi riprendere il via. Noi avevamo i genitori troppo buoni; la mattina ti lasciavano dor mire un po’ di più quando non c’erano i bachi, il fieno, ma quando c’era da raccogliere la spiga, bisognava alzarsi prima del sorgere del sole e poi, quan do era caldo, verso le nove e mezza si smetteva di lavorare. A quel tempo si seguiva l’orario del sole, non era come adesso! Nelle famiglie ognuno aveva 22 grànni: oramai cìi pïàdo ma’. Solo chi nìa tanta voja de fadigà dicìa: “E sa a cuéllo i’ariesce, ci’hà l’attrezzo mejo!” E babbo dicìa: “Serà ’l sopramànnigo che non funsióna!” Sci cualchidù’ te pïàa l’attrezzo tua, te fèra ’ncaolà’, sìa da tené’ ognuno ’l sua, ce se scrivìa anca ’l nome. C’era uno vicino casa nostra, sa que ìa fatto? ’Nté ’l mànnigo cìa scritto col ferro ’nfôgàdo: “Oggi non l’amprèsto, domà’ serve a me. Era ròspo ’mbelpo’:’n t’averìa dàtto mango ’na corda pe’ strozzàtte! Prò è morto anca lu’, l’attrézzi s’è scordàdo de pïàlli e mango i soldi. “Iè ’rmàsti sotta la guanciale” – se dicìa coscì. Adè ve n’arcónto una da ride’, basta che non pensàde male, ve ’l digo prima. Pare schifosa, ’nvéce noliè pe’ gnè’. ’Na ò la farina, ’l gra’, tigàmi de robba ’vansàda se tenìa ’nté le càmbore, perché le case era pîne de monelli, dormìane anca cinque sei ’nté ’na càmbora. ’Sta donna cìa ’l marìdo morto sul letto e lìa stèra a sède’ sopra al sacco della farina de granturco. Piagnìa e sbattìa le ma’’nté ’l mezzo ai ginocchi, dìmo coscì, ’ndó c’era la farina pe’ la pulènta. E stade a sentì’ que dicìa: “Pôro marìdo mia, ié piacìa tanto cuésta ma chì sotta! È morto e n’ha polùdo fanne mae ’na stufàda!” E piagnìa piagnìa, ma alla gente che stèra lì l’attrezzo suo, anche i grandi: ormai ci avevi preso mano. Solo chi non aveva tanta voglia di faticare diceva: “E sa che a quello gli riesce, ha l’attrezzo migliore!” E babbo diceva: “Sarà il soprammanico che non funziona!” Se qualcuno ti prendeva l’attrezzo tuo, ti faceva incavolare, ognuno dove va tenere il suo, ci scriveva anche il nome. Un vicino di casa nostra sa che cosa ha fatto? Aveva scritto sul mani co con il ferro infuocato: “Oggi non lo presto, domani serve a me!” Era molto tirchio: non ti avrebbe dato nemmeno una corda per strozzarti. Però è morto anche lui, si è scordato di prendere gli attrezzi e anche i soldi. “Gli sono rima sti sotto il guanciale!” – si diceva così. Adesso ve ne racconto una da ride re, basta che non pensate male, ve lo dico prima. Pare schifosa, invece non lo è per niente. Una volta la farina, il grano, i tegami con la roba avanzata si tene vano nelle camere, perché le case erano piene di monelli, dormivano anche cinque sei in una camera. Una donna aveva il marito morto sul letto e lei stava a sedere sopra il sacco della fari na di granturco. Piangeva e sbatteva le mani in mezzo ai ginocchi, diciamo così, dove c’era la farina per la polen ta. E state a sentire che cosa diceva: “ Povero marito mio, gli piaceva tanto questa qui sotto! È morto e non ha mai potuto farne una stufata!” E piange va piangeva, ma alla gente che stava 23 ié venìa da rìde’, perché chi podìa sapé’ che parlàa de pulènta! Fàmo basta co’ le mattidà de le donne, adè v’arcónto de ’n’ômo. i’èra morta la moje, piagnìa e dicìa: “Pôra mojé’ mia, cuànte le vo’ t’ho guardàdo drendo al comò, alla cassetta per véde’ que c’era! Cuànte ’olte te volìa buttà’ da la finè’ e po’ m’artenìa! Cuànte le ò t’ho ditto da mazzàtte, adè’ sai morta da per te! Tìa messo a spendoló giù pe’ la finè’ e te m’hai ditto: “Làsseme! Làs semme!” Me so’ commosso e t’ho lassàdo! Adè como fô? C’era ’l prède che ié fèra coraggio, ié dicìa: “Campo io, che non ce lo ûda mae! Te la tròo una!” “No, sapé! Sto be’ coscì!” Quanno ’l prède era riàdo da pìa de le scale l’archiàma: “Sor curàdo, m’arcomànno, non ve scordàde de cuéllo che m’éde ditto!” Cuéste era dell’anno che succedìa nigò e i sorci portàane la farajolìna. E po’ troppe ne so! L’arconterò? Sci la morte non m’aritròa, l’arconterò a paja nòa. lì veniva da ridere, perché chi poteva sapere che parlava della polenta! Facciamo basta con le mattità delle donne, adesso vi racconto di un uomo. Gli era morta la moglie, piangeva e diceva: “Povera moglietta mia, quan te volte ti ho guardato dentro il comò, la cassetta per vedere che cosa c’era! Quante volte ti volevo buttare dalla finestra e poi mi trattenevo! Quante volte ho detto d’ammazzarti, adesso sei morta da per te! Ti avevo messo a pen zoloni dalla finestra e tu mi hai detto ‘lasciami lasciami!’ Mi sono commosso e t’ho lasciato! Adesso come faccio?” Il prete gli faceva coraggio, gli dice va: “Campo io, che non ce l’ho avuta mai! Te ne trovo una!” “No, sapete! Sto bene così!” Quando il prete era arriva to a piedi delle scale, (quest’uomo) lo richiama: “Sor curato, mi raccoman do, non vi scordate di quello che mi avete detto!” Queste erano dell’anno che succe deva ogni cosa e i topi portavano la mantellina. E poi troppe ne so! Le rac conterò? Se la morte non mi ritrova le racconterò a paglia nuova. ’Na faméja da ’mirà’ Una famiglia da ammirare Serà d’artornà a ’rcontà’ le cose serie. Per di’ la veredà ’n tra sorelle, e anca tra fradèlli, se gèra d’accordo perché, quanno c’è la pace ’n tra la coppia, dobo i fjòli vène su be’. Mamma sopportàa nigò; quanno Sarà di tornare a raccontare le cose serie. A dire la verità andavamo d’ac cordo tra sorelle, e anche tra fratelli, perché, quando c’è armonia nella cop pia, dopo i figli crescono bene. Mamma sopportava tutto; quando qualcosa non 24 La famiglia Ricciotti Emiliano al completo, con tre figli, cinque figlie, generi, nuore, nipoti. 25 aprile 1955. (coll. Tarcisio Ricciotti). cualchicò’ ’n gèra be’, dicìa:” Divina pacènsia aiudàdeme!” Babbo cuàlche vo’ luccàa, prò sfogàa da per lu’, non la pïàa né co’ mamma, né co’ noà. Volìa be’ a tutti sei, prò le fémmene - dicìa sempre - ié dèra tanta soddisfazió’. Non rispondémma mae male, fadigàmma tutte d’accordo. C’era ’l maschio più piccolo (era cinque anni più granno de me) era ’mpo’ tignosétto, ma cuéllo più granno era ’n santo. Me dicìa a me: “M’arlùstri le scarpe, te regàlo ’n soldo”: Io sùbbedo. “ E po’, sci me pulisci la biscighétta, te regàlo du’ soldi”: Allora scì, iè lavàa anca le ròde, i pedàli, ié mettìa ’l fazzolétto pulìdo ’nté la sella per no’ sporcà’ le càlse. Ma più de nigò è che non era ’na dittadura a casa nostra: per fadigà’ andava bene, diceva: “Divina pazienza aiutatemi!” Babbo qualche volta gri dava, però si sfogava da solo, non la prendeva né con mamma né con noi. Voleva bene a tutti sei, però le femmine - diceva sempre - gli davano maggiore soddisfazione. Non rispondevamo mai male, lavoravamo tutte d’accordo. Il maschio più piccolo (era di cin que anni più grande di me) era un po’ capriccioso, ma quello più grande era un santo. Mi diceva: “ Se mi lucidi le scarpe, ti regalo un soldo”. Io subito. “E poi, se mi pulisci la bicicletta, ti regalo due soldi”. Allora sì, gli lavavo anche le ruote, i pedali, gli mettevo il fazzolet to pulito sopra la sella, perché non si sporcasse i pantaloni. Soprattutto a casa nostra non c’era una dittatura: nel lavorare facevi quel lo che volevi, non erano lavori forza 25 facéi cuéllo che volìsci, n’èra laóri forsàdi, como ’nté tante case, e dobo vène spontanea la volontà de fadigà’. Anca quanno se falciàa ’l gra’, ’l fiè’, sappàa ’l gra’, ’l granturco, se mettémma ’n pezzetto sotta la merìggia. Dicìa babbo: “Dobo rèsce de più, quanno uno s’è ’rposàdo ’mboccó’!” Envéce mi’ sòcero dicìa: “Sci uno s’arpòsa, dobo è peggio, l’ossi dôle de più!” La testa ié ragionàa luscì. Prò anca ’nté la fameja nostra c’era la severidà: non se bastignàa, se gèra sempre alla Messa, se dicìa lo rosario alla sera. Finànta che c’era ’ste sorelle gióvene era ’na faméja da ’mirà’. Noà c’émma solo sei èttri de terra, dieci persone, s’ajudàmma da tutte le vie, tenémma tante bèstie. Quann’èra agosto, settèmbre fèmma la fòja d’ólmo, mòro, caccìa, àrbori, salce, foje de figo quanno ’n c’era più ’l frutto, pàmpene d’ûa, brollì’ dell’óppi finida l’ûa, po’ finida la jànda le brance de cerqua. A di’ la veredà fumma peggio delle cavallètte: quanno fùmma passàdi noà, pulìmma tutti i fossi, le sélve che c’era lì dentórno. Quann’era ’l sàbbedo e sera c’era’na fila de crinelle pîne de ’sta foja. Le bestie magnàa be’ e babbo tutto contento, perché ’l padró’ ’l lodàa che cìa ’na stallàda de bestie bèlle. Fumma tutti d’accordo a fadigà’, ognùna c’émma l’attrezzo addattado all’edà. Quanno c’è ’n capo che dirige be’, t’aggùsta a fadigà’. Dobo magàra per premio te por- ti come in tante famiglie e così viene spontanea la volontà di lavorare. Anche quando si falciava il grano, il fieno, si zappava il grano, il granturco, ci met tevamo per un po’ sotto l’ombra. Diceva babbo: “Il lavoro riesce di più, quando uno si è riposato un pezzettino!”. Invece mio suocero diceva: “Se uno si riposa, dopo è peggio, perché le ossa dolgono di più!”. La testa gli ragionava così! Però anche nella famiglia nostra c’era la severità: non si bestemmiava, si andava sempre alla Messa e la sera si recitava sempre il rosario. Fino a quando c’erano le mie sorelle non spo sate era una famiglia d’ammirare. Noi avevamo solo sei ettari di terra, dieci persone, ci aiutavamo in tutti i modi, tenevamo tante bestie. Nei mesi d’agosto e di settembre facevamo la foglia d’olmo, di moro, d’acacia, degli alberi, di salice, le foglie di fico, quando non c’era più il frutto, i pampini della vite e le foglie degli oppi, una volta che si era vendem miato; in seguito, raccolta la ghianda, le foglie di quercia. In verità eravamo peggio delle cavallette: dove passavamo noi, pulivamo tutti i fossi, le macchie che c’erano dintorno. Il sabato sera c’era una fila di ‘cri nelle’ piene di questa foglia. Le bestie mangiavano bene e babbo era tutto con tento, perché il padrone lo lodava perché aveva una stalla piena di bestie belle. Eravamo tutti d’accordo nel lavorare e ognuno, come ho già detto, aveva l’at trezzo adattato all’età. Quando c’è un capo che dirige bene, ti piace lavorare. Dopo, magari, per premio ti portava 26 tàa al mare ’mpàr de vo’ all’anno e como c’era ’na puzza de ’na festa te ce mannàa e quanno gèmma in giro de domenniga o a ’na festa (cuélla vo’ ’n se ne perdìa una!), mercàdi e fiére (ce n’era anca du’ al mese), se devertémma, almànco finànta che non c’è stada la guerra. Fumma tutti d’accordo. Como de Pasqua c’èra i sercìzzi a Santa Croce; prima fèmma ’mbiròccio de faétta o granturchétto pe’ le bestie, custodìmma pùi cunìi e via tutti alle funsió’. Pe’ la cena magnàmma ’mpezzo de pa’ camminànno; delle vo’ c’era la créscia ch’émma fatto ’l pa’. E via tutt’an brango! La domenniga, po’, venìa i vicinàdi a giogà’ a bòcce, a carte d’inverno; c’émma l’ara bella piana, se giogàa be’ e babbo era sempre lì di ò col fiasco del vì’. Ce venìa anca pe’ cuéllo. C’era’n vicinàdo che dicìa: “Da’ ’mbicchierétto de vi’ a uno, comènça a èsse’ quattro soldi!” Era tirchio! Noà dicémma: “Spellarìa ’l pidocchio per pïàje la pèlle!” Cuélli ròspi ’l vi’ ’l vendìa; noà, envéce, ce ’l volìa tutto per casa. Prò cuéllo ce lìa da vende’ e bevìa l’amezzàdo: appòsta cìa ’l fónno del sua: al padró’ non ié dèra gnè, era tutta robba sua. Col passà’ dell’anni s’è sposàde tutte ’ste sorelle: dal ’30 al’40 cìa ûdo du’ morti e quattro sposarìzzi: tre maridade e uno ’mojàdo. Pôri genidori! s’è datti da fa’, accompagnàdi col male: la vecchiara dei al mare un paio di volte l’anno; come si sentiva odore di festa, ti ci mandava e, quando andavamo in giro la domenica o per una festa (quella volta non se ne perdeva una!), mercati e fiere (ce n’era no anche due al mese), ci divertivamo, almeno fino a quando non è iniziata la guerra. Ad esempio a Pasqua c’erano gli ‘esercizi’ a Santa Croce; prima faceva mo un biroccio di favino o di grantur chetto per le bestie, custodivamo i polli e i conigli e via tutti alle funzioni. Per cena mangiavamo un pezzo di pane camminando; qualche volta c’era la cre scia perché avevamo fatto il pane. E via tutti in branco! La domenica poi venivano i vicini di casa a giocare a bocce, a carte d’in verno; avevamo l’aia bella piana, vi si giocava bene e babbo era sempre lì din torno con il fiasco del vino. Ci venivano anche per quello. C’era un vicino che diceva: “Dare un bicchieretto di vino a uno comincia ad essere quattro soldi!” Era tirchio! Noi dicevamo: “Spellerebbe il pidocchio per prendergli la pelle”. Quelli avari il vino lo vendevano; noi, invece, lo consumavamo tutto per casa. Quello ce l’aveva da vendere e beveva l’ ‘ammezzàdo’: per questo aveva il podere di sua proprietà: al padrone non doveva dare niente, era tutta roba sua. Col trascorrere degli anni si sono sposate tutte le mie sorelle: dal ’30 al ’40 la nostra famiglia ha avuto due morti e quattro sposalizi: tre maritate e uno ammogliato. Poveri genitori, si son dati da fare, accompagnati dal male: la vec chiaia dei nonni. A quel tempo non si 27 nonni. Cuélla vo’ ’n se pïàa la pensió’, se pagàa tutte le medicine, l’ospedale. Del ’40, che non c’era i soldi per pagà’ l’ospedale, c’è venudi a sequestrà’ le vacche: ha toccàdo a troà’ i soldi per pagà’ l’ospedale. Ottantalire a cuéi tempi! prendeva la pensione, si pagavano tutte le medicine e l’ospedale. Nel ’40, quando non c’erano i soldi per pagare l’ospeda le, son venuti a sequestrare le vacche: si son dovuti trovare (in prestito) i soldi per pagare l’ospedale. Ottanta lire a quei tempi! I fradelli I fratelli Io ci’avìa anca du’ fradelli: io volìa be’ a tutti due uguale, ma era uno più bòno e uno meno bòno. Uno non volìa manco gi’ a scòla. ’Na ò mamma i’ha datto ’na magnàda de fàa per portalla alla maestra e lu’ sa que ha fatto? La fàa l’ha datta al porchetto de ’n compagno sua e po’ s’è messi tutti due a giogà’ a piàstre1 intanto ’l porco magnàa la fàa. S’è fatto mezzodì, è ’rvenudo a casa e mamma i’ha ditto: “Que t’ha ditto la maestra della fàa? E lu’ i’hà risposto: “M’ha ditto ‘ringrazzia tanto alla tua mamma della fava!’ ”. Ma pensade vuà como l’ha comedada be’! ’L porchetto l’avìa magnada, ma cuéllo, perdéro, comedàa be’ quattr’ovi ’nté ’n piatto! Non gli piacìa né a gì a scòla né a fadigà’. Quann’era piccolo, mi’ Avevo anche due fratelli: volevo bene a tutti e due allo stesso modo, ma uno era più buono e uno meno buono. Uno non voleva neppure andare a scuo la. Una volta mamma gli ha dato una mangiata di fava perché la portasse alla maestra e lui sa che cosa ha fatto? La fava l’ha data al maiale di un compa gno suo e poi si sono messi tutti e due a giocare a ‘piastre’, mentre il maiale mangiava la fava. È arrivato mezzo giorno, è ritornato a casa e mamma gli ha domandato: “Che cosa ti ha detto la maestra della fava? E lui le ha risposto: “Ringrazia tanto la tua mamma per la fava!” Ma pensate voi come l’ha siste mata bene! Il maiale l’aveva mangiata, ma quello, veramente, sistemava bene quattro uova in un piatto! Non gli piaceva andare né a scuo la, né a lavorare. Quando era piccolo, 1 piastre: gioco con le stesse regole delle bocce, che sono sostituite da mezzi mattoni o ciottoli schiacciati. Questi, una volta lanciati dai giocatori, devono avvicinarsi ad uno più piccolo, che funge da boccino. 28 padre dicìa: “Chi fadìga magna, chi non fadìga non magna!”. Allora lu’ ch’era piccolino non spiegàa ’ncó, dicìa: “ Chi fìga magna, chi non fìga non magna! Io magno scì, figo no!”. E s’è mantenudo sempre con cuéll’idea. Adè, poretto, è morto, però non ié piacìa a fadigà’. S’è fatto tutta la guerra in Albania, Russia, ha perso ’n occhio al fronte russo, e a sessant’anni è morto. Io m’arcordo che è partido l’11 aprile 1939, e po’ ha scoppiado la guerra. È ’rmasto sotta finànta al 1943, e po’ l’ha ’rmannàdo, perché ’n cìa più n’occhio. mio padre diceva: Chi fatica mangia, chi non fatica non mangia!” Allora lui, che era piccolino e ancora non parlava bene rispondeva: “Chi fìga mangia, chi non fìga non mangia! Io mangio sì, figo no!” Ed è rimasto sempre con quell’idea. Adesso, poveretto, è morto, però non gli piaceva lavorare. Ha combattuto tutta la guerra in Albania, in Russia, ha per duto un occhio sul fronte russo e, a ses sant’anni, è morto. Io mi ricordo che è partito l’11 apri le 1939, e poi è scoppiata la guerra. È rimasto sotto le armi fino al 1943 e poi l’hanno congedato, perché non aveva più un occhio. Le tre Messe della pôra mamma Le tre Messe della povera mamma La doménniga mamma ce chiamàa vèro le cinque, perché lìa volìa scontà’1 ’mpo’ de Messe. Alle sei se partìa da là San Bonaventura. Cuéi granni gèra alla Messa tardi, noà monelli, como ce chiamàa noà tre più piccoli (io, mi’ fradello e mi’ sorella), ce portàa la pôra mamma a ’ste Messe. Ce alsàmma ’mpo’ de fuga, a lavàsse con cuéll’acqua jàccia e po’ se partìa co’ ’mpàr de zoccoli ’nté i pìa, sci fèra pròpio freddo, e le scarpe su le ma’. Sci c’era la malta, La domenica mamma ci svegliava verso le cinque, perché lei voleva ‘sconta re’ qualche Messa. Alle sei si partiva da San Bonaventura. Quelli grandi anda vano alla Messa tardi, noi ‘monelli’, come ci chiamavano noi tre più piccoli (io, mio fratello e mia sorella), ci porta va a queste Messe la povera mamma. Ci alzavamo un po’ in fretta, ci lava vamo con quell’acqua fredda e poi si partiva con un paio di zoccoli nei piedi, se faceva proprio freddo, e le scarpe sulle mani. Se c’era il fango, questo schizza va; fino sulla testa arrivavano gli schiz 1 Scontàre: assistere ad una Messa per liberare dalle pene del purgatorio un caro defunto. 29 sguilsàa; ànta su la testa ’rivàa i stùl si, tutta la vesta sguilsàda, che po’ pe’ pulìlla c’era da fadigà’ ’n’ora co’ la scopétta mollàda ’ntéll’àqua: sci era de terra gèra be’, ma sci era de strada ’ndó se butta la bréccia, facìa como ’l cimènto e la calce dràuliga. Dónca gèmma a Montalbò’ a pìa: du’ o tre ne partìa da casa nostra, altre du’ tre da Marietta de Panaro, e po’ gèmma giù, cominciàmma a chia mà’ a Fonte Ragosto a Quinta, po’ più in qua c’era la Tambùra, chiamamma la Tambura, e po’ la Santóna, e po’ Daniela del Barchiese. Cualcun’altra s’accompagnàa perché ce sentìa a chiacchierà’: cualchidùna coi monelli, cualchidùna no. Po’ quanno ’rivàmma a Montalbò’ se lavàmma i pìa ’nté la cannella de Roscetto: c’era cuélla ròda grossa col manfro che se giràa a ma’. Scinó, quanno n’era móllo, ’rivàmma fina su le scalette de la Palandróna. Per quanno ’rivàmma su, vèro le sei e tre quarti le sette, lìa era già arlevàda. Cuélla vo’ c’era la luma, ’n s’accendìa la luce como adè’. Lì le scalette, lì de giù ce lassàmma i zòcchi a bocca sotta, perché sci pioìa ’n s’ammollàa, e ce mettémma le scarpe, anca i calsétti d’inverno. All’istàde ce lavàmma, ma d’inverno no: ’n c’émma gnè per sciuccàcce. Pensade vuà... con cuéi pìa, tutti sguilsàdi! Po’ tutte alla Messa. Cuélla pôra mamma ne piàa due e anca tre: prima gèra a Santa Croce, po’ al Crocifisso, zi, tutta la veste era schizzata e poi, per pulirla, bisognava lavorare per un’ora con la spazzola bagnata nell’acqua: se la veste si era sporcata di terra, andava bene, ma se s’era sporcata sulla strada dove si butta la ghiaia, ci si formava come il cemento o la calce idraulica. Dunque andavamo a Montalboddo a piedi: due o tre ne partivano da casa nostra, altre due tre da Marietta de Panaro, e poi andavamo giù e, a fonte Ragosto, cominciavamo a chia mare Quinta, e poi più in qua c’era la Tambura, e la chiamavamo, poi la Santona e Daniela del Barchiese. Qualcun’altra si accompagnava perché ci sentiva chiacchierare: qualcuna con i ‘monelli’, qualcuna da sola. Quando arrivavamo a Montalboddo, ci lavavamo i piedi nel pozzo di Roscetto: c’era quella ruota grossa col manico che si girava a mano. Sennò, quando la stra da non era bagnata, arrivavamo fino sulle scalette della Palandrona. Quando arrivavamo lassù, verso le sei e tre quar ti le sette, lei si era già alzata. Quella volta c’era il lume, non si accendeva la luce elettrica come adesso. Lì per le scalette lasciavamo gli zoc coli rovesciati, così se avesse piovuto non si sarebbero bagnati. Ci metteva mo le scarpe, d’inverno anche le calze. D’estate ci lavavamo, ma d’inverno no: non avevamo niente per asciugarci. Pensate voi... con quei piedi tutti schiz zati! Poi tutte alla Messa. Quella pove ra mamma ne prendeva due e anche tre: prima andava a Santa Croce, poi al Crocifisso, poi a San Francesco. Io 30 po’ a San Francesco. Io fèra le tigne perché començàa a èsse’ stufa, avìa fame. La prima Messa cercàa da sta’ bòna, ma po’ me stufàa. Allora mamma me compràa ’n cavallùccio; c’era cuéi cavallùcci de pasta che li fèra cuélla ciambellàra vèro santa Croce. Ce gèra apposta io alla Messa, pe’ magnà’ ’n cavallùccio. Sgaggiàa anca la ciambellara: “Tre caramelle ’n soldo, tre caramelle ’n soldo!” Allora mamma tante le ò me compràa cuélle, scinó ’n cavallùccio che costàa du’ soldi, cuélli grossi quattro. facevo i capricci perché cominciavo a stancarmi, avevo fame. La prima Messa cercavo di stare buona, ma poi mi stan cavo. Allora mamma mi comprava un ‘cavalluccio’; c’erano quei ‘cavallucci’ di pasta che li preparava quella ‘ciambel lara’ vicino a Santa Croce. Alla Messa ci andavo proprio per questo: per mangiare un ‘cavalluccio’. Gridava pure la ciambellara: “Tre cara melle un soldo, tre caramelle un soldo!” Allora mamma qualche volta me le com prava, sennò un ‘cavalluccio’ che costa va due soldi, quelli grossi quattro. ’N brango vèro Montalbò’ In branco verso Montalboddo Quanno fumma ’mpo’ più granni a la Messa a Montalbò’ ce se gèra da per noà. Fumma ’n brango, otto dieci fedàcce. Ce se chiamàa da ’na casa all’altra, perché cuélla vo’ ’n c’era l’invidia; scì c’era anca cuélla ò ’mpo’ de rabbia, sci una era ’mpo’ più bella, ci’avéa ’na vesta ’mpo’ più bella..., ma se stèra be’ tutt’an branco. Partémma da là San Bona ventura e vène ’mpo’ a pìa finànta a Montalbò’! C’émma da fa’ ’n’ora de strada. Piàmma le scarpe su le ma’, i calsetti all’inverno con l’àsti ghi (cuélla ò ’n c’era i colànte, c’era l’àstighi!), ’l velo per su la testa, ’l fazzoletto da naso. Solo cuélle che facìa l’amore cìa la borscét- Quando eravamo un po’ più grandi, alla Messa a Montalboddo ci andavamo da sole. Eravamo un branco, otto dieci ragazze... Ci si chiamava da una casa all’altra, perché a quel tempo non c’era l’invidia; sì, c’era anche quella volta un po’ di rabbia, se una era un po’ più bella, se aveva un abito un po’ più bello..., ma si stava bene tutte in branco. Partivamo da San Bonaventura e vieni un po’ su fino a Montalboddo! Dovevamo percorrere un’ora di strada. Prendevamo le scarpe sulle mani, le calze d’inverno con gli elastici (a quel tempo non c’erano le collant, c’erano gli elastici!), il velo per mettere sulla testa, il fazzoletto da naso. Solo quelle che facevano l’amore avevano la borset ta. Mamma diceva: “Prendi la borsetta, 31 ta. Mamma dicìa: “Pìa la borscétta, métte nigò lì drendo!” Ma cuélle che non fèra l’amore la robba ce nìa tanta uguale: tutta su le ma’. Oh, c’era con noà una de ’ste amighe, che era bèlla eh!, ma cìa le ma’ ’mpo’ prégne, cìa le mane lasche: se perdìa ’na vo’ n’àstigo, ’na vo’ ’n calsetto: ’na vo’ anca ’na scarpa s’è persa! Toccàa artornàsse anca pe’ mezzo chilometro a cercàje ’sta scarpa. Co’ ’na scarpa ’n ce fa gnè nisciù, ma sci trovàa n’àstigo la gente non l’ardèra perché era soldi cuélla vo’. Quanno passàmma pe’ la Massa, como v’ho ditto, ce fermàmma da Palandró’, envece pe’ ’l Paradiso c’era la Bianchétta. Quanno fumma rivàdi lì, ’st’amiga s’è ’ccòrta che non cìa più n’àstigo, ’n cìa più ’n calsetto: ’n calsétto ne ’l mettìsci, ma senza n’àstigo come fèsci? ’L legàvi co ’n fazzoletto da naso. Cuélla vo’ le gonne n’era tanto curte, n’è como adè’ che c’è le minigónne! ’St’amiga se vergognàa perché ni tanto perdìa cualchicò’. Tante le ò dimannàa: “C’éde ’l lènso?” ’L lènso sarìa ’n pezzo de pezza vecchia strisciada: ce se legàa le gambe de’ puj, quanno se portàa a vende’. Qualche vo’ ié dèra ’l lènso la Palandróna o la Bianchetta. Quanno se perdìa ’l fazzoletto da naso toccàa a domannàllo a ’n’amiga tua e... ’n c’era como adè cuélli de carta! E a pensà’ che cualchidù’ cìa le bóje ’nté ’l naso, ma ’n se guardàa a gnè. Noà ié dicémma: “La testa ’n te la perdi mae?” metti tutto lì dentro!” Ma quelle che non erano fidanzate di roba ne aveva tanta ugualmente: tutta sulle mani! Oh, c’era con noi una di queste mie amiche, che era bella eh!, ma aveva le mani un po’ come quelle delle donne gravide, aveva le mani che lasciavano cadere tutto: una volta si perdeva un elastico, un’altra volta una calza, una volta addirittura una scarpa s’è persa. Bisognava ritornare indietro anche per mezzo chilometro a cercarle la scarpa. Con una scarpa non ci fa niente nessu no, ma se trovava un elastico la gente non lo restituiva perché a quel tempo erano soldi! Quando passavamo per la Massa, come vi ho detto, ci fermavamo da Palandró, invece per il Paradiso c’era la Bianchetta. Arrivate lì questa mia amica si è accorta che non aveva più un elastico, non aveva più una calza: la calza non la mettevi, ma senza un ela stico come facevi? Legavi la calza con il fazzoletto da naso. Quella volta le gonne non erano tanto corte, non era come adesso che ci sono le minigonne! Questa amica si vergognava perché ogni tanto perdeva qualcosa. Qualche volta chiedeva: “Ce l’avete il ‘lenso’?” Il ‘lenso’ è una striscia di un pezzo di stof fa vecchia: ci si legava le gambe dei polli, quando si portavano a vendere. Qualche volta le dava il ‘lenso’ la Palandrona o la Bianchetta. Quando si perdeva il fazzo letto da naso, bisognava domandarlo ad una tua amica e.. non c’erano come oggi quelli di carta! E pensare che qualcuno aveva le croste nel naso, ma non si guar 32 Po’ se gèra alla Messa, la Messa cantada a Santa Croce. Cuélla lì ce piacìa tanto, c’era la chiesa pîna pîna. Cuélla vo’ piacìa a gi’ a la Messa tardi, po’ sgappài dalla chiesa, te fèri quattro passeggiade giuppe la piazza e po’ ’rpïài la via de casa: arcavài le scarpe, le pïài su le ma’ e litta, quanno boccài giuppe ’l Paradiso o giuppe la Massa, di’ pure che quanno c’era ’ste sorelle più granni, c’era sempre cualchidù’ che le venìa accompagnà’, perché dimannàa amore: non se fèra como adè’, magara ’nté le balère! Cuélla vo’, alle feste, se gèra apposta alla Messa tardi e se fèra i quattro giri de piazza, perché te dimannàa l’òmmini. Allora noàltri sempre più addrèdo per vede’, pe’ cridigà’, magàri sci era bello o brutto, sci gèra magàra insieme... E po’, quanno ’rivài a casa, ’rcontài a mamma quanno se magnàa, che c’era stado cuéllo c’avìa dimannàdo a cuélla, a cuéll’altra e noaltri ’mpo’ più monellòtti fumma più addrèdo. Noàltri co’ mamma fumma como sorelle, s’arcontàa nigò. A me magari me ne fèra sapé’ poghe, perché era la più piccola, e ’ste sorelle, quanno c’era da di’ cualco’ de più da nascosto gèra là la càmbora e la chiudìa la porta. A me non me ce facìa boccà’, perché spargìa le saette. Sapéde... no? “I puj, i monelli e i vecchi è cuélli che smèrda la casa!” Dobo, quanno so’ doventada più granna anch’io, se gèra sempre dava a niente. Noi le dicevamo: “La testa non te la perdi mai?” Poi si andava alla Messa, la Messa cantata a Santa Croce. Quella lì ci pia ceva tanto, la chiesa era piena piena. Quella volta piaceva andare alla Messa tardi, poi uscivi dalla chiesa, facevi quattro passeggiate per la piazza e poi riprendevi la via di casa: toglievi le scar pe, le prendevi sulle mani e lì, quando iniziavi la discesa del Paradiso o della Massa, di’ pure che, quando c’erano le sorelle mie più grandi, c’era sempre qualcuno che le veniva ad accompagna re, perché chiedeva di fidanzarsi: non si faceva come adesso, magari nelle bale re! A quel tempo, nei giorni di festa si andava di proposito alla Messa tardi e si facevano i quattro giri di piazza, per ché ti chiedevano gli uomini. Allora noi restavamo più indietro per vedere, per criticare, magari se era bello o brutto, se per caso andavano assieme... E poi, quando arrivavi a casa, raccontavi a mamma, mentre si mangiava, che c’era stato quello che aveva domandato quel la, quell’altra e noi un po’ più giovani eravamo ancora indietro. Noialtri con mamma eravamo come sorelle, si raccontava ogni cosa. A me forse me ne facevano sapere poche, per ché ero la più piccola, e queste sorelle, quando c’era da confidare qualcosa di più nascosto andavano nella camera e chiudevano la porta. Non mi ci facevano entrare, perché spargevo le chiacchiere. Lo sapete... no? “I polli, i monelli e i vec chi sono quelli che smerdano la casa!”. 33 alla Messa tardi con cuéll’amighe mia: Cardìna de Gresta, Righetta del Frate, Linda del Panaretto, e po’ c’era Isola e Antonia de Pacente... Gèmma via tutte ’n mucchio. Cuélla vo’ c’era anca cuàlche maschio, prò c’era sempre la rónda sa... De una de ’ste fjòle c’era sempre cuàlca madre: sole le fjòle ’n ce se mannàa manco alla Messa tardi, perché avìa paura che le rapìa... chissà che ié succedìa! Dopo tante vo’, quanno fumma giù ’l ponte della Massa s’encontràa cuélle del Loredèllo e anca uno che me volìa... Cuéllo me vedìa venì’ giù pe’ la còsta de Manó’ e lu’ aspettàa giù da pìa eh, giù ’l ponte! Quanno che fumma lì, s’encrociàa: c’era anca la sorella sua che venìa su col branco co’ noà. Noà miga ci’anvergognàmma co’ le scarpe su le ma’, po’ sci era d’istade, como ho ditto, lì da Roscétto c’era la pompa, lì se lavàmma be’ e po’ ’spettamma ’nté ’l sole che se sciuccàa i pìa e po’ ce mettemma i zoccoli, cuélli fatti da per noà co’ l’arvànzi, col ferretto ’nté ’l tacco e su la pónta. Noàltre, quanno se caminàa, fumma ’mpo’ ariàde: ce pïàmma pe’ le mane, lì oltra la piazza, e fèmma ’mpo’ le gallettèlle. Allora se caminàa con cuéi zoccoli... popón popón popón ‘nté cuéi madù’ oltra la piazza chioppàa... Mamma mia, quanto saremmo stade ruzze! Prò envéce dicìa ch’eravamo cuélle ’mpo’ più fini de cuél’altre, perché In seguito, quando sono diventata più grande anch’io, si andava sempre alla Messa tardi con quelle amiche mie: Cardina di Gresta, Righetta del Frate, Linda del Panaretto, e poi c’era Isola e Antonia de Pacente... Andavamo via tutte assieme. Quella volta c’era anche qualche maschio, però c’era sempre la ronda sa! C’era sempre qualche madre di una di queste ragaz ze: non mandavano le figlie da sole neppure alla Messa tardi, perché aveva no paura che le rapivano... chissà che cosa sarebbe potuto mai succedere loro! Dopo, tante volte, scendendo, quando eravamo al ponte della Massa, incon travamo quelle del Loretello ed anche uno che mi voleva... Quello mi vedeva venir giù per la discesa di Manó’ e lui mi aspettava giù in fondo, sul ponte! Quando eravamo lì, ci incrociava: c’era anche sua sorella che si univa al branco assieme a noi. Noi mica ci ver gognavamo con le scarpe sulle mani; poi, se era d’estate, come ho detto, lì da Roscetto c’era la pompa: ci lava vamo bene, aspettavamo al sole che si asciugassero i piedi e poi ci mettevamo gli zoccoli, quelli fatti da noi con gli avanzi, col ferretto sotto il tacco e sulla punta. Quando si camminava, noi ci davamo delle arie: ci prendevamo per mano, lì per la piazza, e facevamo un po’ le vanitose. Allora si camminava con quegli zoccoli... popón popón popón su quei mattoni nella piazza facevano rumore... Mamma mia, quanto saremo state rozze! A pensare che dicevano che eravamo quelle un po’ più fini delle 34 c’era anche de peggio, eh! Dentro la chiesa cuélla pôra mamma ce dicìa: “Monelle, stade ’mpo’ attenti! Caminàde in pónta de pìa, che chioppa ’mpo’ meno”. E che chioppa meno, anca da cima c’era ’l ferro, come ’l ferro da cavallo, tanto da pìa ’nté ’l tacco quanto da cima ’nté la pónta. Cuélle scarpe duràa ’mbelpo’, ’n se finìa mae perché per tèra ’n ce toccàa la sòla, ce toccàa’l fèro: cambiài ’l fèro, sci tante le ò se staccàa perché le teste delle bollétte se consumàa, ma le scarpe ’n se consumàa mae. La gioventù le cambiàa ’mpo’ più spesso, ma l’anziani le portàa anche trent’anni! E po’ chi cìa i pìa fatti be’, le scarpe ’n se storcìa. Io, digo la veredà, n’è che so’ fatta be’, prò i pìa era fatti be’: le scarpe anche adè’, è vent’anni che ce l’ho n’è storte pe’ gnè, non è che pènde da ’na via o dall’altra, perché quann’ero monella i pìa era corretti be’: ’n paro de scarpe le dovìsci portà’ sei o sett’anni. Pensa ’mpo’ i pìa era tutti gricciadi, da cima i dédi era tutti mucchiàdi, ce fèra i lupì’, ’nté ’l calcàgno se facéa tutte biscìghe e bóje... e lì se gèra avanti. altre, perché ce n’erano anche di peggio eh! Nella chiesa quella povera mamma ci raccomandava: “Ragazze, state un po’ attente! Camminate in punta di piedi, che fa un po’ meno rumore!” E che face vamo meno rumore! Anche sulla punta c’era il ferro, come il ferro di cavallo, tanto in fondo sotto il tacco, quanto in cima sulla punta. Quelle scarpe dura vano molto a lungo, non finivano mai, perché la suola non toccava per terra, ci toccava solo il ferro: cambiavi il ferro, se tante le volte le teste delle bullette si consumavano, ma le scarpe non si con sumavano mai. I giovani le cambiava no un po’ più spesso, ma gli anziani le portavano anche trent’anni. E poi chi aveva i piedi benfatti, le scarpe non si sformavano. Io, dico la verità, non è che sono fatta bene, però i piedi erano benfatti: le scarpe anche adesso sono vent’anni che ce le ho e non sono stor te per niente, non pendono né da una parte né dall’altra, perché quand’ero piccola i piedi erano corretti bene: un paio di scarpe le dovevi portare sei o sette anni. Pensa un po’: i piedi erano tutti raggrinziti, in cima le dita erano tutte ammucchiate, ci venivano i calli; nel tallone si formavano tutte vesciche e croste... e lì si andava avanti! ’N salto avanti: da San Girolamo Un salto avanti: da San Girolamo Adè’ fô n’antro salto avanti e po’ como ’l gambero ne farémo due all’indrìa. Quanno me so’ sposàda, Ora faccio un altro salto in avanti e poi, come il gambero, ne faremo due all’indietro. Quando mi sono sposata, 35 lajù ’ndo’ stèmma de casa, giù cuélla buga, giù ’l Trapónsio, anca lì se gèra alla Messa. Me piacìa a gi’ a la Messa a Montalbò’, perché c’ero ’bituàda... e po’ vidìa anca i parenti, ’ste sorelle, vidìa spesse vo’ a babbo a mamma, zio, zia... Ce gèra anca apposta, ma n’era tanto contenti che gèmma alla Messa tardi sa... All’inverno te ce mannàa ma all’istàde, capirai quanno c’era da fa’, ’n te ce mannàa manco! Allora io cercàa sempre a tirà’ via a fa’ da magnà’: prima facìa quattro o cinque sfoje de maccarù’; d’inverno se facèa i maccarù sens’ovi, ce ne volìa quattro o cinque sfoje perché fumma in dieci, facèa l’intingolo, alla sveltra facéo la càmbora e po’ dopo se gìa a Montalbòdo. Le scarpe anche cuélla vo’ se piàa su le ma’; fino a che ’n ci’avéo i monelli piccoli, gìo be’, perché me vestìo io, vestìi tutti. Gìa su Montalbòdo sempre con mi’ marido, gèmma su a pìa... e anca lajù cìa le compagne: c’era Elvia de Barigello, c’era le fjòle del Vesco... Nadia e altre du’ e tre ragazze, c’era le fjòle de Sacchettóne, c’era le Piermatteo, c’era anca Gaetano de Piermatteo, n’amigo de scòla che ce fumma gìdi insieme giù ’l Tirassegno... Allora ce gèmma su insieme... quanno fumma lassù, su la chiesetta delle Grazie, lì ce stèra de casa la Primavera: ce mettémma le scarpe. Scinónca ce le mettémma da l’altra mane, ’ndó c’era ’na casetta piccola -adè manco m’arcordo chi ce stèra, laggiù dove stavamo di casa, giù quella buca, giù vicino al Triponzio, anche lì si andava alla Messa. Mi piaceva anda re alla Messa a Montalboddo, perché c’ero abituata... e poi vedevo anche i parenti, le sorelle mie, spesse volte vede vo babbo e mamma, zio, zia... Ci anda vo anche per questo, ma i suoceri non erano tanto contenti, eh, che andavamo alla Messa tardi... All’inverno ti ci lasciava andare, ma all’estate, capirai quando c’era da fare, manco ti ci mandava. Allora io cercavo di affrettarmi a preparare da mangiare: prima stendevo quattro o cinque sfoglie di maccheroni; d’inverno si facevano i maccheroni senza le uova, ci volevano quattro o cinque sfoglie perché eravamo in dieci. Preparavo il sugo, alla svel ta riordinavo la camera e poi dopo si andava a Montalboddo. Le scarpe anche quella volta si prendevano sulle mani; fino a quando non avevo i figli piccoli, andavo bene, perché vestita io vestivi tutti. Andavo a Montalboddo sempre con mio marito, andavamo su a piedi... e anche laggiù avevo le compagne: c’era Elvia di Barigello, c’erano le figlie del Vesco... Nadia e altre due e tre ragaz ze, c’erano le figlie di Sacchettó, c’erano le Piermatteo, c’era anche Gaetano di Piermatteo, un amico di scuola per ché c’eravamo andati assieme giù al Tirassegno... Allora andavamo su assieme... e quando eravamo lassù, sulla chiesetta delle Grazie, lì abitava la Primavera: ci mettevamo le scarpe. Oppure ce le mette vamo dall’altra parte della strada, dove 36 - lì ce facéa boccà’ drendo casa, pôretta! Cuélla ce dèra ’no straccio pe’ pulì’ i pìa, mettémma le scarpe lì. Dobo per paga, quanno venìa arcoje ’mpo’ de legna, ié se dèra ’mpar de fascine, scindó al tempo dell’ua, ’na golùppa d’ua, al tempo del granturco ié se dèra pe’ ’na magnàda de polenta, al tempo del grane - passàa capace - ié se dèra ’mpiatto de grane... se cosàa sempre, s’arconoscìa ’ste persone che ce fèra métte’ le scarpe. Cuélla lì, poretta, ié se dicìa la Moscétta, - vedéde c’adè’ m’arcòrdo - era ’na vecchietta piccoletta, ’mpo’ curva, ma era deligatìna sa, aveva ’na bella cucinetta calda, cìa ’l fôgo, ce facéa boccà’ sempre drendo cuélla, poretta. Dopo l’arconoscémma: quanno venìa giù casa ié se dèra anca’n goccio de vi’. Dobo se partìa, se gèra a la Messa: a me me piacèa anca dobo sposàda, perché tenìa la moda di quann’ero giovena, de fa’ ’na passeggiada giuppe la piazza. Te guardàa la gente, prò ormai sapìa ch’ìo preso marido, non è che te guardàa più tanto. Prò anca pe’ guardà’ le vedrine, guardà’ le mode... ma cuélla vo’ le mode m’ha toccàdo a lassàlle gì’ tutte. c’era una casetta piccola - adesso non mi ricordo chi ci abitava -, lì ci faceva entrare dentro casa, poveretta! Quella ci dava uno straccio per pulire i piedi, mettevamo le scarpe lì. Dopo, come paga, quando veniva a raccogliere un po’ di legna, le si dava un paio di fasci ne, oppure al tempo dell’uva, un involto di uva, al tempo del granturco le si dava per una mangiata di polenta, al tempo del grano di solito passava e le si dava un piatto di grano... ci cosava sempre, si era riconoscenti con queste persone che ci facevano mettere le scarpe. Quella lì, poverina, era chiamata la Moscetta -vedete che ora mi ricordo!- era una vecchietta piccolina, un po’ curva, ma era delicatina, sa! Aveva una bella cucinetta calda, aveva il fuoco; quella, poverina, ci faceva entrare sempre den tro. Le eravamo riconoscenti: quando veniva giù casa, le si dava anche un goccio di vino. Dopo si partiva, si andava alla Messa: a me piaceva anche dopo spo sata, perché tenevo la moda di quando ero giovane, fare una passeggiata per la piazza. La gente ti guardava, però ormai sapeva che avevo preso marito, non è che mi guardava più tanto. Però anche per guardare le vetrine, guarda re la moda... ma quella volta ho dovuto lasciarle perdere tutte le mode. 37 “Giuppe ‘l campo ogni porco ruma” Per il campo ogni porco ruspa A casa nostra ce fèmma la robba per conto nostro: compràmma la pezza e po’ la portàmma a tajà’ dalla Santarella, la sarta nostra. Lìa ce la strongàa e noà la cucémma: venìa be’. Po’ la stiràmma col ferro a carbó’. Ce dicìa mamma: “Sta’ ’tènto fija, che casca giù ’l carbó’! ’Ste sorelle più granne se facéa la vesta per cónta de lóra e con la dèlma che ci’avìa fatto la sarta. Cuscì tajàa la vèsta pe’ noà più piccole, tajàa le camicie da ômo, le calse, le mudanne pe’ l’òmmini. Facìa ’mpo’ de nigò. ’L pôro babbo sapède che dicìa? Dicìa: “Fjòle giuppe ’l campo ogni porco ruma, drendo casa la donna ha da sapé’ fa’ nigò! Quanno se bócca ’nté le case e ’n s’arcàva le gambe, se va a finì’ male: s’è malvisto da tutti!” Allora ’ste sorelle avìa ’mparado a fa’ nigò: merletti, calzetti, solette, maglie, ricamà’, tajà’ i linsòli, foderette, pagni addosso. Quanno vidìa a tajà’, mamma dicìa: “Fjòle, cento misure e ’n tajo solo!” Nelsò ’ndó avìa ’mparado ’ste sorelle; me sa che gèra a tajà’ veste, calze e camicie pe’ l’òmmini e po’ con cuél modello lì, pei più grossi l’allargàa, i più piccoli l’ampiccolìa. Se fèra da per noà anca i fazzoletti da naso. Pe’ l’òmmini compràa la pezza a scacchi, pe’ le donne bianghi, rosa. Cuélli da ômo più granni, da donna anca piccoletti. Se fèra anca cuélli A casa nostra ci facevamo i vestiti per conto nostro: compravamo la stof fa e poi la portavamo a tagliare dalla Santarella, la sarta nostra. Lei ce la tagliava e noi la cucivamo: veniva bene. Poi la stiravamo con il ferro a carbone. Mamma ci raccomandava: “Stai attenta figlia, che cade giù il carbone!” Le sorelle mie più grandi si faceva no il vestito da sole e con il modello che aveva tagliato la sarta. Così tagliavano la veste per noi più piccole, tagliavano le camicie da uomo, i pantaloni, le mutan de per gli uomini. Facevano un po’ di tutto. Il povero babbo sapete che cosa diceva? Diceva: “Figliole per il campo ogni porco ruspa, dentro casa la donna deve saper fare tutto. Quando si entra in una casa e non si riesce a sbrigarsela, si va a finire male: si è malvisti da tutti!” Allora le sorelle mie avevano impa rato a far tutto: merletti, calze, solette, maglie, a ricamare, tagliare le len zuola, le federe, i vestiti da indossare. Quando vedeva tagliare, mamma dice va: “Figliuole, cento misure e un taglio solo!” Non so dove avevano imparato que ste sorelle; penso che andavano a farsi tagliare le vesti, i pantaloni e le camicie per gli uomini e poi con quel modello lì, per i più grandi l’allargava, per i più piccoli lo rimpiccioliva. Facevamo da sole anche i fazzoletti da naso. Per gli uomini si comprava la stoffa a scacchi, per le donne bianca e rosa. I fazzoletti da uomo erano più grandi, da donna 38 da saccoccì’ per l’òmmini, laoràdi col filo de madassìna. La pôra mamma, pe’ fa’ amparà’ noà più piccoli, dicìa: “Daje ’n fazzoletto da naso, faje fa’ l’urèllo a giorno!” anche piccoletti. Si facevano anche quelli da taschino per gli uomini, lavorati con il filo di matassina. La povera mamma, per far imparare noi più piccoli, diceva: “Dagli un fazzoletto da naso, fagli fare il giornino!” Cresima e Comugnió’ Cresima e Comunione ’Na ò la cresima se fèra a 6 anni. La sàntola era mi’ sorella, cuélla più granna. Cuélla vo’ era guasci como adè: del 1929 se fèra ’na vestina bianga co’ ’no spolverì’ blu sopra, che l’ho portado pe’ parecchi anni, finànta che boccàa i bracci ’nté le mannighe. Semo gidi a pìa a Montalbò’ a cresimàsse, po’ sémo ’rvenùdi a casa. Ìa invidado ’mpo’ de parenti, ’n pranzetto, e ’n tra tutti ìa fatto ’no scudo! Cuélla vo’, prò, era muntubè. Babbo me l’ha messi da parte e me l’ha ’rdàtti quanno ho sposàdo. Cuél vestido lì, della Cresima, era ’l primo che m’ìa fatto nòo. Quanno del 1930 ha sposàdo mi’ sorella, cuélla più granna, con cuél vestido i’hò portado ’l mazzo dei fiori: tanto non ce fèra la paccóna! A 7 anni se fèra la Comugnió’, e lì ce volìa tutto nòo! Dicìa mamma: “Speràmo che questa è l’ultima!” Ce volìa l’ànnima sensa nisciuna macchia e io era vestida tutta de biango: la veste lónga, biànga anca la camicia sotta, de cottó’, che tessìa Un tempo la Cresima si faceva a sei anni. La madrina era mia sorella, quel la più grande. Quella volta era quasi come adesso: del 1929 si indossava una vestina bianca con uno spolverino sopra, che ho portado per parecchi anni, fino a quando le braccia entravano nelle maniche. Siamo andati a piedi per la Cresima a Montalboddo e poi siamo ritornati a casa. Avevano invitato alcuni paren ti, un pranzetto, e tra tutti avevo fatto uno scudo. Quella volta, però, era molto. Babbo me l’ha messo da parte e me l’ha ridato quando ho sposato. Il vestito della Cresima è stato il primo che mi hanno fatto nuovo. Quando nel 1930 ha sposato mia sorel la, quella più grande, con quel vestito le ho portato il mazzo dei fiori: tanto non ci facevo la vanitosa! A sette anni si faceva la Comunione ed allora ci voleva tutto nuovo. Diceva mamma: “Speriamo che questa sia l’ultima!” Ci voleva l’anima senza alcuna mac chia e io ero vestita tutta di bianco: la veste lunga, bianca anche la camicia sotto, di cotone, che tesseva mamma (la 39 mamma (la cannùttiera non c’era in circolazió’): le calsòle coi lacci (non c’era l’àstigo per noà), e la sottoveste sempre de cottó’, laoràde a ma’ da ’ste sorelle, sul collo ’na cèntine o ’n merlettì’, davanti qualche disegnetto carino, fatto col filo molinè sempre biàngo pe’ la Comugnió. canottiera non c’era in circolazione): le calze con i lacci ( non c’era l’elastico per noi) e la sottoveste sempre di cotone, lavorate a mano da queste sorelle mie, sul collo una cèntine o un merlettino, davanti qualche piccolo disegno carino, ricamato col filo molinè sempre bianco per la Comunione. Bambine e bambini (cresimini e non) nel chiostro di San Francesco il 20 aprile 1937, festa del Corpus Domini. In prima fila da sinistra: -?- , Arturo Mallucci, Marcella Mannarini, -?-, Fedora Fratoni, Anna Diamantini, Guido Novelli (bambino seduto a terra), Egle Sgariglia, Emilietta Diamantini, Corinna Galli, -?- ,Oliviero Migliorelli, Oliviana Olivi, Franceschina Marchetti. In seconda fila da sinistra: Rossana Micci,ElenaManoni,FernandaFermi,LinaMallucci,GraziellaMarcellini,?Mannarini,-?-,AlfaBonazza, Miranda Micci, -?- , Giuseppina Catalani, Lidia Bramucci. In terza fila da sinistra: Mario Marcellini, -?- , Fabio Cecchetti, -?- , Adelino Pellegrini, Adalberto Bruschi, Giancarlo Bedini, Flora Frulla, Marcella Trillini, Nazzarena Della Vedova, Anna Bacchiocchi, Mirella Migliorelli. In quarta fila da sinistra: Gabriele Paglialunga, ? Coacci, Rodolfo Luzi, Innocenzo Berrettini, Floriano Frulla, Alfonsina Pettinari (con fascio littorio, scudo sabaudo e stella in testa, rappresenta l’Italia), Bruna Abbrugiati, Giuliana Olivi, Floriana Ferretti, Delfina Paglialunga, Carla Barchiesi, Renza Sellari. Nella fila in alto da sinistra: Carlo Carbini, Tarcisio Bedini, Manlio Bedini, ? Coacci, Agnese Marcellini, -?- , Elena Paradisi, Maria Teresa Bedini, Marisa Benni (coll. Carlo Barchiesi). 40 Per me anca le prime scarpe nòe, scinó me le compràa sempre vecchie. I calzolari arvendìa anca cuélle vecchie: era sotta de gomma e sopra de pezza. Se compràa ’n par de nùmberi o tre più granne e duràa finànta 11-12 anni. Le portàa solo su la piazza o drendo la chiesa: como facìa a consumasse? Per me anche le prime scarpe nuove, sennò me le comprava sempre vecchie. I calzolai rivendevano anche quelle vec chie: erano sotto di gomma e sopra di pezza. Si compravano di un paio di numeri o tre più grandi e duravano fino a undici dodici anni. Si portava no solo sulla piazza o dentro la chiesa: come facevano a consumarsi? Eulalia (nata 1924) ed Elena Pianelli (nata 1925) nel giorno della loro prima Comunione. (coll. Gabriele Balducci). 41 Vestidi per altre occassió’ Vestiti per altre occasioni Pe’ altre occassió’ envéce se fèra ’sti laorétti, ’sti merlettì, ’ste cèntine col filo coloràdo de tutti i colori che volìsci. C’era ’l filo a madassìne che ’ncó’ ce l’ho da 60 anni, anca da 80 anni fa. Era chiamàdo filo perlè, molinè, segrinè. Quest’ultimo era tanti fili fini messi assieme. Dobo fèmma tutte agàde e ’sti fili i spartémma e ce se laoràa robba fina como lino, ’l mùsciolo, la pelle d’ôvo: questa però la usàa i signori! Quanno ce sposàmma. se fèra ’sta robba chì, perché la pagàa lo ragazzo, midà del vestido da sposa, midà della càmbora, delle scarpe, del velo o ’l cappelletto. La donna, envéce, allo sposo ié pagàa la camicia, le mudànne, i calzetti, du’ fazzoletti da naso, ’l ciurlì o la gravàtta, le cannuttiere non le portàa nisciù de’ contadì, non so mango sci c’era in circolazió’. Mango le mudànne l’òmmini non portàane tutti; tante le ò succedìa le calse stroppe. C’era uno che stèra a sède ’nté ’na sedia buga como le calse sua: s’ènne accorti che ié ce giogàa ’l gatto. Era ’mpo’ vecchiotto: ve lo ’mmaginàde vua, che scenàda è venuda fòra? Ne succedìa delle belle, ma anca le brutte. Pure le calse se tajàa e se cucìa ’nté ’n casa, ma tante le ò la maghina per cùce’ era vecchia ’mbelpò’, fèra ’nté la righetta la cadenèlla, e sci tiràa ’mpo’ quando se mettìane a cosció’, brau!.. se scucìa! I poretti armanìa Per altre occasioni invece si faceva no questi lavoretti: merletti e centine, col filo colorato di tutti i colori che vole vi. C’era il filo a matassine che conservo da sessant’anni, anche da ottant’anni fa. Era chiamato filo perlè, molinè, segrinè. Quest’ultimo era di tanti fili fini messi insieme. Dopo li tagliavamo tutti in ‘agate’ (di una lunghezza adatta per un’infilatura nell’ago), li dividevamo e ci si lavorava la stoffa delicata come il lino, il ‘musciolo’, la ‘pelle d’ovo’: questa però la usavano i signori. Si preparava questa roba qui per quando ci si sposava, perché il ragazzo ne pagava la metà; pagava anche la metà del vestito da sposa, metà dei mobili della camera, delle scarpe, del velo o del cappelletto. La donna, invece, pagava allo sposo la camicia, le mutande, le calze, due fazzoletti da naso, il papillon o la cravatta; le canottiere non le portava nessuno, non so neppure se c’erano in circolazione. Neanche le mutande erano portate da tutti gli uomini e capitava, a volte, che i pantaloni fossero bucati. C’era uno che stava seduto in una sedia bucata come i suoi pantaloni: si sono accorti che gli ci giocava il gatto! Era un po’ vecchiotto: ve lo immaginate, voi, che scenata è venuta fuori? Ne capitavano delle belle, ma anche delle brutte. Pure i pantaloni si tagliavano e si cucivano in casa, ma talvolta la macchina da cucire era molto vecchia, faceva nella cucitura la ‘catenella’, e se tirava un po’ quando gli uomini si mettevano accoscia ti... brau... si scucivano! I poveretti rima 42 co’la vergogna scuperta! Mamma ci dicìa:- ’Nté ’l cavallo fàdece du’ tre righette, coscì non sa da sdruge’!” Scinó, anca de battidure i sforsi era tanti, sci non era cucìdi col filo de réfe bòno, se sdrucìa fàciole. Era tutti rigadì’ tessudi ’nté ’n casa: sci n’era manganàdi be’, erane duri che sci li mettìi ’mpiazzadi be’, stèrene su dritti da per lóra. Podede ’maginàvve como era mòrbedi addosso! E po’ dobo sei sette anni che li portàane ce se ’taccàa pezze sopra pezze, tante le ò non se sapìa qual era la vera sorte. E i linsòli? Li vedìsci stesi ’nté qualche faméja ruzza, era pezze sopra pezze, tre ’olte una sopra l’altra, magàri anca cucìdi a ma’, col filo colorado. De cuélle mamma dicìa: “Donne pénce, n’hanne mai toccado l’ago!” Ma la colpa era sempre de cuéi più granni che non ìa ’mparàdo. ’N tra la susta e le pezze pesàa quanto ’na cupèrta, e lì quanno boccàa ’na sposa, ’nté ’na fameja luscì, che magàra a casa sua era ’na diferenza como al giorno e la notte, se crepàa dalla pasció’! A cuéi tempi la donna non c’era la moda a gì’ a casa del ragazzo prima de sposà’, era ’na donna finida sci pe’ le sorte che non la sposàa. Quanno ha toccàdo a me avìa ’mpo’ cambiado: io ce so’ gida ’mpar de ò. Mamma per otto giorni ha portado ’l muso, me dicìa:- Sci te lassa gì’, armàni giódiga... sai contenta? Io non ce pensàa per gnè: me volìa tanto be’!!! nevano con ‘la vergogna’ scoperta! Mamma ci diceva: “Nel cavallo fateci due tre cuci ture, così non si scuciono!” Sennò anche durante la trebbiatura gli sforzi erano tanti, se non erano cuciti col filo de réfe buono, i pantaloni si scucivano facilmen te. Erano tutti di rigatino, tessuti in casa: se non erano stati manganati bene, erano così duri che se li mettevi piazzati bene, stavano diritti da soli. Potete immaginare come erano morbidi una volta indossati! E poi, dopo sei o sette anni che li portavano, ci si attaccavano pezze sopra le pezze, tante le volte non si sapeva più quale era la stoffa originale. E le lenzuola? Le vedevi stese in qualche famiglia rozza, erano pezze sopra pezze, tre volte una sopra l’altra, magari anche cucite a mano col filo colorato. Di quelle mamma diceva: “Donne disordinate, non hanno mai toccato l’ago!” Ma la colpa era di quelli più grandi che non glielo avevano insegnato. Tra il luridume e le pezze quel le lenzuola pesavano quanto una coperta; quando in una famiglia così entrava una sposa e magari, rispetto a casa sua, c’era una differenza come tra il giorno e la notte, quella crepava dalla sofferenza! A quei tempi non c’era l’usanza che la donna andasse a casa del fidanzato prima di sposare, sarebbe stata una donna finita se per caso non l’avesse sposata più. Quando è toccato a me, era un po’ cambiato: io ci sono andata un paio di volte. Mamma per otto giorni mi ha portato il muso, mi dice va: “Se ti lascia andare, rimani zitella... sei contenta?” Io non ci pensavo per niente: mi voleva tanto bene!!! 43 La tèssédùra La tessitura Adè che sémo su ’st’argumento ve digo como se facìa a tesse’ ’nté’n casa. Quanno che mamma ce fèra la dòda, al venardì gèra al mercado a Montalbòdo e compràa ’n pacco de cottó’, fatto tutti madassù’, cuscì. Adesso che siamo su quest’argomen to vi parlo di come si tesseva a casa nostra. Quando mamma preparava la dote, il venerdì andava al mercato a Montalboddo e comprava un pacco di cotone, raccolto in grandi matasse, così. Dobo se mettìa uno per vo’ ’nté ’l dopanadóre. C’era prepràdi, tajàndo tra ’n nòdro e l’altro ’na canna, grossa tre centìmedri de diàmedro, tanti ‘cannellù’ lónghi ’na venticinquìna de centimedri. Lì col mulinèllo ce se ’nvuricchiàa ’sto filo de cottó’; se ne mettìa la quinta parte del madassó’, se dividìa per cinque cannellù’. Dopo le si mettevano, una alla volta, nel dipanatoio. Intanto erano già stati preparati, tagliando, tra un nodo e l’al tro, una canna grossa tre centimetri di diametro, tanti ‘cannelloni”, lunghi una venticinquina di centimetri. Attorno a questi, aiutandosi con il mulinello, si avvolgeva questo filo di cotone: si distri buiva ogni grande matassa in cinque ‘cannelloni’. E dobo c’era n’antro aggéggio quadràdo, alto ’n medro, diviso in quattro parte, che cìa tutti buganèlli e lì c’era tutti fil de fèri o cannùcce fine fine, e se ficcàa drendo ’sti E dopo c’era un altro attrezzo qua drato, alto un metro, diviso in quattro parti, che aveva tanti piccoli buchi; lì c’erano tutti fili di ferro o canne sottili 44 cannellù’ pîni de filo, anca quaranta cannellù’ ce stèra ’nté ’st’aggéggio, ch’era chiamàdo ‘l’urdidóre’. E po’ ’sti fili li dovìsci ficcà’, uno per uno, ’nté i bughi de ’na tàolétta, che stèra bollàda sopra l’urdidóre e ci’avéa tanti buganelli quanti i cannellù’. Po’ dovìsci pïà’ tutti i fili dei cannellù’ ‘nté ’na ‘olta, spartìdi a midà (20 x 20) e ce se fèra il nòdro, che po’ mettìsci sul becchedèllo da cima de n’antro aggeggio, alto più de du’ medri, spartìdo in du’ parte, era gemelli, e fissate una da cima e una da pìa della cappànna. Questo aggeggio ci’avéa tutti piri o becchedèlli, da lóngo quattro dédi da uno co’ l’altro, fatti be’ co’ la carta vedràda: dovìa èsse’ lisciàdi be’. Lì se cominciàa da cima a legàcce ’sto mazzo de filo sul piro da cima, e po’ ’na donna caminàa alla drìa sempre co’ ’sti fili e gèra finànta da pìa della cappànna e lì ce n’èra l’altro aggeggio uguale. sottili e lì venivano infilati questi ‘can nelloni’ pieni di filo: anche quaranta ‘cannelloni’ entravano in questo attrez zo, che era chiamato orditoio. E poi si prendeva il filo di ogni ‘can nellone’, uno per uno, e lo dovevi far passare in un buco di una tavoletta che stava fissata sopra l’orditoio e che aveva tanti buchi quanti erano i ‘cannelloni’. Poi dovevi prendere tutti i fili assieme, divisi a metà (20 x 20) e farci un nodo per appoggiarlo sul primo cavicchio di un altro attrezzo, alto più di due metri, diviso in due parti e sistemate (rispetti vamente) in cima e in fondo alla capan na. Questo attrezzo aveva tutti cavic chi o pioli, lontani quattro dita l’uno dall’altro. Questi pioli dovevano essere stati lisciati molto bene con la carta vetrata. Così si cominciava da cima a legarci il mazzo di fili sul primo piolo e poi una donna camminava all’indietro, sempre con questi fili e andava fino in fondo alla capanna, dove c’era un altro E sempre coscì, avanti e drìa, finànta che ’n s’èra voidàdi tutti attrezzo uguale. Si andava sempre così, avanti e 45 ’sti cannellù’. Una stèra sempre lì l’urdidóre: scì se ne finìa uno, dovìa sùbbedo argiontà’ ’l filo co’ n’antro cannelló’ pîno. Dovìsci sta’ sveja, no’ ’ncantàda, ché scì ’l mettìsci ’ndó l’ìsci messo la ’olta prima, fèsci ’n cavallo. Era chiamàdo coscì, e sùbbedo bisognàa rimedià’, scinó perdìsci la pendìgola, e sci ’n se rimediàa, gèra spregàdo tanto filo. Te dicìa: “Sai ’mbranàda! Pensa lì: scì sai svojàda, dillo! Chì ce vôle l’occhi sveltri e la mente aperta!” Dovìsci pensà’ sempre lì; ogni dieci viaggi avanti e drìa fèra ’n segno ’nté ’l filo co’ le brance dei càoli, che marcàa be’ e, lavandolo, va via. ’Sto laòro se fèra sempre d’inverno, ché c’era più tempo. Dobo, voidàdi i cannellù’, se cavàa tutto ’sto filo da ’sti piròli e se ’nvuricchiàa ’ntorno al collo pe’ non fàllo ’ntreccià’; po’ ’l portàa su casa, mettìa ’l cennéràle per terra e ’l poggiàa lì sopra. Dobo in due se giràa ’l subbio, fatto de legno con du’ ingranàggi. Una, a sède’ per terra, tiràa forte ’sto po’ po’ de madassó’ como ’na treccia, pe’ fàllo ’nvuricchià’ be’ ’nté ’l subbio del telaro. Tutto dogajàdo be’, ce se fèra ’n gran nòdro, e po’ se mettìa per liccio e po’ per dente. Lì scì che ce volìa l’occhi fini e bòni: i denti del pèttene era tutti vicini, ce volìa ’na stecchia de canna d’India, fina como ’na lama de rasó re, con tre dentìni. Lì te ce mettìa ’n filo per vo’ e ’l tirài verso te. indietro, fino a quando non si erano svuotati tutti i ‘cannelloni’. Una stava sempre vicino al portacannelloni: se uno se ne finiva, doveva subito aggiuntare il filo con quello di un altro cannelllone pieno. Dovevi stare sveglia, non incan tata, perché se lo mettevi dove l’avevi messo la volta prima, facevi un ‘caval lo’. Era chiamato così, e subito bisogna va rimediare, sennò perdevi il bandolo, e se non si rimediava, andava sprecato tanto filo. Ti diceva: “Sei imbranata! Pensa a quello che fai: se sei svogliata, dillo! Qui ci vogliono gli occhi svelti e la mente aperta!” Dovevi fare attenzio ne; ogni dieci viaggi avanti e indietro si faceva un segno nel filo con le foglie dei cavoli, che marcavano bene e, lavando (la tela), il segno va via. Questo lavoro si faceva sempre d’in verno, perché c’era più tempo. Dopo, svuotati tutti i ‘cannelloni’, si toglieva tutto il filo da quei pioli e lo si avvolgeva attorno al collo per non farlo intreccia re; poi lo si portava in casa, si stende va il ‘cennerale’ sul pavimento e vi si appoggiava sopra il filo. Quindi in due si girava il subbio, fatto di legno e che aveva due ingranaggi. Una, a sedere per terra, tirava forte questo po’ po’ di grande matassa come una treccia, per farlo avvolgere bene nel subbio del tela io. Tutto uguagliato bene, ci si faceva un gran nodo e poi si metteva per liccio e poi per dente. In quel lavoro sì che ci volevano gli occhi aguzzi e buoni: i denti del pettine erano tutti vicini, occorreva una scheggia di canna d’India, tagliente quanto la lama del rasoio, con tre den 46 Questo sempre in due. Sci saltài ’n dentì’, ce fèra ’n fallo: dovìsci guastà’ nigò e ’rgì’ arèdo, scinó ’l fàllo ’nté la pezza, oltra che fèra brutto, se stroppàa prima. Era tutto calcolàdo! tini. Lì ci mettevi un filo per volta e lo tiravi verso di te. Questo sempre in due. Se saltavi un dentino, si formava un fallo: dovevi guastare tutto e ritornare indietro, sennò il fallo, oltre ad essere brutto, faceva strappare prima la pezza. Adè su ’sto telàro ve digo anca ’n indovinello: Quattro còsce’nté ’n bel lètto tutte quattro fa n’affètto, trìcche- tràcche dàje dàje gira gira le sonaje; la sorcétta senza pelo tricche-tràcche ié dà daéro, c’è n’affare senza barba più se calsa e più s’allarga. Pe’ ’n fàvve pensà’ male ve digo sùbbedo che le quattro còsce è le bande del telàro, ’l letto è tutti i fili bianchi vicini vicini; ogni vo’ che se càlsa la pèdiga, c’è du’ ’ncan nàbule che fa rimóre; la sorcétta è la trughèlla fatta a conca con due buganìni, ’ndó è stada messa la cannellina del filo, cuéllo per tèsse’; l’affàre sensa barba è la pèdiga, e Era tutto calcolato. Adesso su questo telaio vi dico anche un indovinello: Quattro cosce in un bel letto tutte quattro fa un effetto tricche tracche dagli dagli girano girano i sonagli; la sorcetta senza pelo tricche tracche gli dà davvero; c’è un aggeggio senza barba più si spinge più si allarga. Per non farvi pensare male vi dico subito che le quattro cosce sono le ‘bande’ del telaio, il letto sono tutti i fili bianchi vicini vicini; ogni volta che si spinge la calcola, ci sono due rotelline, chiamate ‘ncannabule’ che fanno rumore; la ‘sor cetta’ è la spoletta fatta a conca con due piccoli buchi, dove è stata messa la can nellina del filo, quello per tessere; ‘l’affare 47 più ce se càlsa più allarga la pàsa, che sarìa tutti i fili de cottó’ che sta formànno la pezza. Co’ ’sto telaro mamma tessia le lintime, i linsoli, i rigadì’, i sciuccamà’, le veste, le calse pe’ l’ommini, i toaiàdi, ’mpo’ de nigò, finànta i pagnùcci pe’ le donne. Alla madina d’inverno se alsava alle 5, fèra le faccenne, piccìàa ’l fôgo e po’ ne portàa ’na scallinàda ’ndó tessìa, perchè era freddo. Quanno era ora de colazió’, vèro le 9, già ìa scòsso ’n segno: che sarìa sette bracci dal naso alla pónta dei senza barba’ è la calcola e più ci si spinge e più si allarga la ‘pasa’ (ossia le fila dell’ordito), che sono tutti i fili di cotone che stanno formando la pezza. Con questo telaio mamma tesseva le tele del materasso e dei pagliericci, le len zuola, i rigatini, gli asciugamani, le vesti, i pantaloni per gli uomini, i tovagliati, un po’ di tutto, perfino i pannolini per le donne. La mattina d’inverno mamma si alzava alle cinque, sbrigava le faccende, accendeva il fuoco e poi ne portava uno scaldino dove tesseva, perché era fred do. Quando era ora di colazione, verso le nove, aveva già superato un ‘segno’: Giselda Luzietti (al fuso), Ileana Contardi (arcolaio) e, sullo sfondo, Armanda Luzietti. Anno 1952 (coll. Gabriele Balducci). 48 dìdi. I segni li fèra, como v’ho ditto, co’ le brance dei càoli: quanno urdìa, cuélle ’nté ’l filo biango macchiàa ’mbelpo’ be’. Mamma era bràa muntubè’, dèra i colpi giusti, parìa ’na campanella. Anca noà ce pròvàmma, ma non fumma bràe como lìa. Dobo finido ’l subbio del filo che lìa tessudo tutto, quanno era rivado ’l filo ’nté i licci, ce fèra un gran nodo e po’ la ’nvuricchiàa ’nté ’n basto’ stretto bembè, e po’ mettìa la tàola, che ce se mettìa ’l pa’ pe’ fallo levidà’, sopra ’l taolì e lì ce spianàa ’sto rodolo de tessudo e sopra ’n’antra tàola con peso. Pe’ ’sto peso ce fèra montà a me e mamma co’ mi’ sorella tiràa una per vo’, una da cima e una da pìa co’ ’sta tàola e io sopra cascàa ’na olta de qua ’na olta de là: me piacìa muntubè’. Era chiamado “a manganà” per fallo doventà’ più mòrbedo. che sarebbero sette braccia dal naso alla punta delle dita. I segni li faceva, come vi ho detto, con le foglie dei cavoli: quando ‘urdìa’, cioè tesseva, quelle foglie nel filo bianco macchiavano molto. Mamma era molto brava, dava i colpi giusti, pareva una campanella. Anche noi ci provava mo, ma non eravamo brave come lei. Quando aveva tessuto tutto il filo del subbio e il filo era arrivato nei ‘licci’, ci faceva un gran nodo, avvolgeva la pezza, molto stretta, in un bastone. La metteva, poi, sulla tavola, dove ci si metteva il pane per farlo lievitare, appoggiata sopra il tavolo e lì ci stendeva questo rotolo di tes suto e sopra ci appoggiava un’altra tavo la con un peso sopra. Al posto di questo peso ci faceva salire me: mamma e mia sorella tiravano questa tavola una per volta, una da una parte e una dall’altra e io, che stavo sopra, cadevo una volta di qua e una volta di là e mi divertivo tanto. Questa operazione era chiamata ‘manga natura’ e serviva per far diventare il tes suto più morbido. 49 A biancà’ i linsoli al fiume Ad imbiancare le lenzuola al fiume Quanno ’sti genidori nostri col telàro tessìa ’l panno per fa’ i linsòli, se gèra a biancà’ ’nté ’l fiume. Prima scarpémma l’erba e co’ ’na scopa lavàmma la breccia, po’ móllàmma le pèzze del panno; quanno le tiràmma su ’nté la banchetta, fèmma tutte pieghette, ’na spèce a organetto, e dobo una tenìa ’sto panno piegado e cuéll’altra pïàa la pezza co’ ’na ma’ per parte e tiràa. E coscì se stendìa per terra sopra Quando i nostri genitori avevano tessuto il panno con il telaio per fare le lenzuola, si andava ad imbiancar lo al fiume. Prima toglievamo l’erba e con una scopa lavavamo la ghiaia, poi bagnavamo le pezze del panno; quando le tiravamo su nella ‘banchetta’, faceva mo tutte pieghette, come fosse un orga netto, e poi una teneva il panno piegato e l’altra lo prendeva con una mano per parte e tirava. E così si stendeva per terra sopra la ghiaia lavata e, quan Veneranda Chiappetti (nata nel 1903) sciacqua le lenzuola nel fiume Misa. Foto anni ’30 (coll. Lucio Marcantognini). 50 a ’sta breccia lavada e, quanno col mese d’agosto se sciuccàa spesso, dovìsci ’rmollàllo ’n’antra ô, anca 7 o 8 ’olte al giorno. Qualche ’olta s’ernuvolàa e tronàa: toccàa a’rcòjelo de fuga, scinó podìa ’rivà’ la pianara e portàa via anca a noà. ’Sti genidori cìa spaurìdo, perché ’na ô è venuda la pianara de Sant’Anna, chiamada coscì perché era 26 de lùjo, pròpio ’l giorno de la santa. Ha ditto ’sti genitori che giù pe’ ’l fiume ha portàdo via nigò: cadaste de legna... C’era i contadì’ che cìa la mandria dei porci vicino al fiume ié l’ha portadi via tutti. Uno che ’traérsàa col biroccio e le vacche è ’riàda ’st’aqua ’nté ’na ô, era alta como ’n muro e l’ha strascinàdo via. A pensà’ che c’era ’l sole chì da noà, ma in montagna nìa fatta muntabe’. Ma pensàde vuà: noà c’émma ’l cariòlo, carcàmma ’ste canè’ pîne de panno e via a casa. Una pïàa ’l timó’ e cuéll’altra spegnìa sotta l’aqua sette otto chilomedri a pìa, scalse, troni e lampi, anca sensa ombrella. Quanno ’rivàsci a casa mezza morta, magnàsci ’mpezzo de pa’ duro, co’ ’n capo d’ûa o ’mpòmmidoro; delle ’olte caminanno fèsci l’uno e l’altro, e cuél lavoro lì toccàa a fallo pe’ ’na quarantina de giorni finché non era bello biango. ’Na ’olta per settimana, al sàbbedo, se buttàa su, se dicìa coscì. Se fèra bóje’ ’n callàro d’aqua e po’ con pezzo de ninsòlo vecchio se fèra ’l do con il mese di agosto si asciugava spesso, dovevi bagnarlo di nuovo, anche sette o otto volte al giorno. Qualche volta il cielo si annuvolava e tuonava: bisognava raccogliere i panni alla svelta, sennò sarebbe potuta arri vare la fiumana, che portava via anche noi. I genitori ci avevano spaventati, perché una volta è venuta la fiumana di sant’Anna, chiamata così perché era il 26 luglio, proprio il giorno della santa. Hanno raccontato i genitori che giù per il fiume ha portato via tutto: cata ste di legna... C’erano i contadini che avevano la mandria dei porci vicino al fiume, glieli ha portati via tutti. Uno che attraversava il fiume con il biroc cio e le vacche, è arrivata quest’acqua all’improvviso, era alta come un muro, e l’ha trascinato via. E pensare che da noi c’era il sole, ma in montagna ne aveva fatto tanta di acqua. Pensate voi: noi avevamo il ‘cariòlo’, caricavamo queste ‘canestre’ piene di panno e via a casa. Una prendeva il timone e l’altra spingeva sotto l’acqua per sette otto chilometri a piedi, scalze, tuoni e lampi, anche senza ombrello. Quando arrivavi a casa mezza morta, mangiavi un pezzo di pane duro con un grappolo d’uva o un pomodoro; delle volte camminando facevi l’uno e l’altro. Quel lavoro lì bisognava farlo per una quarantina di giorni, finché il panno non era bello bianco. Una volta per settimana, il sabato, si ‘buttava su’: si diceva così. Si faceva bollire una caldaia d’acqua e poi con un pezzo di lenzuolo vecchio si face 51 cenneràle, che se poggiàa su la secchia de la boccàda. Se stacciàa ’na callaròla de cénnera lì sopra e giù l’aqua boìda. Da pìa de la secchia c’era ’n bugo co’ ’no spinèllo de legno e se cavàa la ranna, speciale pe’ lavà’ i pagni e lavàcce anca la testa: rescìa de più a ’mbiancàsse ’sto panno facènno coscì. Finido a ’mbiancà’ se fèra tutte pieghétte e po’ ’l torcèllo, ma ’l panno dovìa èsse’ sciucco be’. Uno da cima uno da pìa ’nté ’l taolì’, uno tiràa forte e cuéll’altro giràa tónno per fa’ ’l torcèllo.’Sti torcelli dovìa èsse’ fatti be’: non ce dovìa esse’ mango ’na griccia. E all’inverno se cucìa i linsòli coll’ago per ’taccà’ i teli insieme, da cima e da pìa l’urèllo a giorno, ’nté cuélli per sopra ce se mettìa ’l merletto o ’na bella sfiladùra. Ce se fèra anche i lavori col telarìno: se portàa a disegnà’ da ’na ricamadrìge e, quanno non c’era da fadigà’ giùppe ’l campo chi ricamàa, chi ’l merlétto, chi ’l giornino, chi le maje, chi i calsetti, solette coi ferri, chi col crocè: disoccubadi non ce stera nisciù: sìa da fadigà’ sci volìsci magnà’! Quanto tempo e fadìga se dovìa fa’ pe’ trasformà’ la cànnipa e ’l cottó’ a linsòli: c’era da fadigàcce più de n’anno. Adè è sparìdo nigò, ’sta mistigànza: c’è tutto prònto... basta il dio quadrì’! va il ‘cennerale’, che si metteva sopra la secchia del bucato. Si stacciava una calderella di cenere lì sopra e vi si but tava l’acqua bollente. In fondo alla secchia c’era un buco con una spina di legno, da dove si toglieva il ranno, ch’era speciale per lavare i panni e per lavarci anche la testa: facendo così il panno imbianca va prima. Finito d’imbiancare, si facevano tutte pieghette e poi il ‘torcello’, ma il panno doveva essere ben asciutto. Uno si metteva in cima ed uno in fondo al tavolino, uno tirava forte e l’altro gira va attorno per fare il ‘torcello’. Questi ‘torcelli’ dovevano essere fatti bene: non ci doveva essere neppure una grinza. E all’inverno si cucivano le lenzuo la con l’ago, per attaccare i teli insie me: in cima e in fondo il giornino, in quelli per sopra si metteva il merletto o un bello sfilato. Ci si facevano anche i lavori col telaio da ricamo: si portava (il lenzuolo) a disegnare da una rica matrice e, quando non c’era da lavorare per il campo, chi ricamava, chi il mer letto, chi il giornino, chi le maglie, chi le calze, chi le solette con i ferri, chi col telaio da ricamo, chi con l’uncinetto: senza far niente non ci stava nessuno: si doveva lavorare se volevi mangiare! Quanto tempo e fatica si doveva fare per trasformare la canapa e il cotone in lenzuola: c’era da lavorarci più di un anno. Adesso è scomparso tutto, questa mesticanza (di lavori): c’è tutto pron to... basta il dio quattrino! 52 La cannipa La canapa Dado che adè v’ho ditto che, oltra al cottó, se ’dopràa la cannipa, ve digo che se piantàa de marso e aprile; quanno era d’agosto se scarpìa: da ’na parte se mettìa i maschi, ch’era più alti e ci’avìa ’l fiore che cascàa, e da ’na parte le fémmene, più basse e ci’avìa la somènte. Se fèra tutti mannocchietti, e se portàa a madurà ’nté ’l fiume, tutta sott’acqua e sopra ce se mettìa ’n peso e sopra anche ’no stratto de breccia. Bisognàa pontàlla be’ scinó, sci venìa la pianàra, la portàa via e dopo ’ndó c’era ’l fiume stretto, c’era la gente che l’aspettàa per portalla via e così fèra le corde e cuélla bòna per la tela, senza fadigàcce tanto. Dato che ora vi ho detto che oltre il cotone si usava la canapa, aggiun go che questa si piantava in marzo o aprile; quando era d’agosto si sradica va: da una parte si mettevano i maschi, che erano più alti e avevano il fiore che stava cadendo, e dall’altra le femmine, più basse, che avevano il seme. Si facevano tutti piccoli mannoc chi, che si portavano a maturare al fiume, tutti sott’acqua, perché sopra ci si metteva un peso ed anche uno strato di ghiaia. Bisognava fissarla bene (la canapa), sennò, se veniva la fiumana, la portava via e dopo, dove il fiume si restringeva, c’era la gente che l’aspettava per portarla via e così faceva le corde e, con la canapa più buona, la tela, senza faticare tanto. 53 Dopo otto giorni se gèra a tiràlla fòra: se mettìa a sciuccà’, e po’ se portàa a casa, e lì se pïàa la macìgna, la ’ngràmbola e la cincija e po’, quanno era finida, se levàa cuélle lische ’rmaste co’ le ma’ e se facéa, como che c’era la moda da fa’, tutte madàsse, che dobo se mettìa ’nté la conocchia per filà’. Adè ve fô vede’ como era fatta la cincija, la macìgna e la ’ngràmbola. Vedede ’sti disegni è ridigoli perché me trema ’mpo’ le ma’, ’na olta me venìa anche be’, ma adè non me dice più ’l vero gnè, mah... sarà la gioventù! Dopo otto giorni si andava a tirarla fuori: la si metteva ad asciugare e poi la si portava a casa. Lì si pigliavano la ‘macìgna’, la ‘’ngràmbola’ e la ‘cincija’ e po’, quando era finita, si toglievano con le mani le lische rimaste e si facevano, come era usanza di fare, tutte matasse, che poi si mettevano sulla conocchia per fare il filo. Adesso vi faccio vedere come erano fatte la ‘cincija’, la ‘macìgna’ e la ‘ ’ngràmbola’. Vedete, questi disegni sono ridico li, perché mi tremano un po’ le mani. Un tempo mi venivano anche bene, ma adesso niente mi dice più il vero, mah... sarà la gioventù! ‘L Museo dell’agricoltura Il museo dell’agricoltura Chi è vecchi como me, ’l sa be’ como era fatti ’st’attrezzi, io l’ho dopràdi ’mbellepò de vo’ da monella, e anca dobo maridàda perché anche ’ndó so’ boccàda c’era cinque fémmene, se ’dopràa ’mbelpò’ la cannipa. E sci volede vede ’st’attrezzi, giù le Grazie de Senegaja c’è nigò, tutto a disposizió’, c’è dalla a alla zéta. Io ce so’ gida per meredo de ’n amigo nostro e non ci’ha fatto pagà’ niè, ma io so ’rmasta matta, perchè m’ha ’rcordado tutte le cose che ’dopramma quanno ero monella. Ogni attrezzo c’è ’na tabella suppe ’l muro pe’ Quelli che sono vecchi come me, lo sanno come erano fatti gli attrezzi, io l’ho usati molte volte quando ero ragaz zetta, e anche dopo sposata, perché anche nella famiglia nella quale sono entrata c’erano cinque femmine, e si usava molto la canapa. E se volete vedere gli attrezzi, alle Grazie di Senigallia c’è tutto, tutto a disposizione: dalla a alla zeta. Io ci sono andata grazie ad un nostro amico e non ci ha fatto pagare niente, ma io sono rimasta stupita, perché mi ha ricorda to tutte le cose che usavamo quando ero bambina. Per ogni attrezzo c’è una tabel la sul muro che dà spiegazioni a quelli 54 spiegà’ a cuélli che non ha fatto mai i contadì’. ’St’amici nostri è persone astùde, ’struìde; a pensà’, prò, che io spiegàa a lóra, sensa lègge’ la tabella sapìa tutti i nomi de nigò: ma quanto m’ha piaciudo! Gìdece, po’ vedrede sci è bello ’mbelpò’, sarìa “ ’L Museo dell’agricoltura”, ma c’è certe cose che te fa ’rmane a bocca aperta. C’è certe bótte grosse che tenerà 60-70 tòllidri, c’è anca ’l nome. M’arcordo de una, sarìa del Conte Ferraris, che ci’hà ’na tenuda là per la via del Vaccarìlle. che non hanno fatto i contadini. Questi amici nostri sono persone sveglie, istru ite.... Pensate, però, che ero io che davo spiegazioni a loro; senza leggere la tabel la conoscevo i nomi di tutti gli attrezzi: ma quanto mi è piaciuto! Andateci, poi vi renderete conto se è molto interessante; è il “Museo dell’agri coltura”: certe cose che ti lasciano a bocca aperta. Ci sono alcune grosse botti che conterranno 60-70 ettolitri, c’è anche il nome (del proprietario). Mi ricordo di una, del conte Ferraris, che ha una tenuta sulla via del Vaccarile. Galline e maccarù’ Galline e maccheroni A me nonna me ’nsegnàa a fa’ da colazió’, da magnà’ a mezzogiorno, tajolì’o quadrelli, ’na olta al giovedì maccarù, ma all’inverno senza ôi non me venìa be’. Quanno cominciàa ad èsse’ vèro carnoàle, allora le galline fedàa. Cuélla vo’ se tenìa fòra, fedàa in giro, ’nté le coàrole non ié piacìa perché c’era i pidocchi pullì’. Gèra giù pe’ le fratte, sotta le cadàsse, ’nté i pajàri fèra la buga nella, anca ’nté le bughe dell’olmi, i mori, ’ndó ià ’ncontràa; tante le ò, sci c’era ’l gallo, non se ’rtroàa ’ndó fedàa, scappàa fòri le coàde de pulcinelli. Allora quanno i ’rtroàsci ’st’ôi, me dicìa nonna: “Rómpeli prima ’nté ’mpiàtto: sci ’l ventèllo se squintèr Nonna mi insegnava a preparare la colazione, il mangiare a mezzogiorno, ‘tajolìni’ e ‘quadrelli’, una volta, il gio vedì, i maccheroni, ma d’inverno senza uova non mi venivano bene. Quando si avvicinava il carnevale, allora le galline facevano le uova. Quella volta venivano tenute all’aperto, facevano le uova in giro, a loro non piacevano le ‘covarole’ perché c’erano i pidocchi dei polli. (Le galline) andavano (a far le uova) nelle fratte, sotto le cataste (di legna), facevano una piccola buca nei pagliai, anche nelle buche degli olmi, dei gelsi, dove capita va. Talvolta, se c’era il gallo, se non si ritrovava dove facevano le uova, usciva no fuori delle nidiate di pulcinelli. Quando le si ritrovavano queste uova, nonna mi diceva: “Rómpele prima in un piatto: se il tuorlo si squaglia, 55 na vôl di’ che è tristi valli!” A me a falla co’ l’ôi la pasta me piacìa ’mbelpo’, ma volìa che li impastasse duri. Dicìa: “Coscì te vène mejo la sperna!” Ma ’na fadiga! E po’ dobo fatto cuélla faccènna lì, sùbbedo prònta ’n’antra, magari a staccià’ pe’ ’l pa’ ’na olta per settimana. Cuéllo non me piacìa per gnè: dovésci staccià’ ’n sacco de farina per vo’ con due stacce: ce volìa muntube’, guasci tre ore. Quél laòro lì ’l facìa controgenio, ma cuélla vo’ le donne avìa da sapé’ fa’ nigò e sta sotta al comanno sensa fiadà’. Ansi è como adè: sci ié comanni qualcò’ te risponne male e te manna ’nté cuél paese. Io a nonna non ié risponnéa mai male, e po’ sci sentìa ’sti genitori che dicìsci ’na parola storta, sgaggiàa muntubè’. vuol dire che le uova sono marce. Mi piaceva molto fare la pasta con le uova, ma (nonna) voleva che le impastassi dure. Diceva: “Così ti viene meglio la sfoglia!” Ma era una fatica! Appena sbrigata quella faccenda lì, subito pronta un’altra, magari a stac ciare (la farina) per il pane una volta la settimana. Quella non mi piaceva affat to: dovevi stacciare un sacco di farina per volta con due stacci: occorreva molto tempo, quasi tre ore. Quel lavoro lì lo facevo controvoglia, ma a quei tempi le donne dovevano saper far tutto e obbedi re senza fiatare. Anzi è come adesso: se gli comandi qualcosa, ti risponde male e ti manda a quel paese. Io a nonna non rispondevo mai male. E poi, se aves sero sentito i miei genitori che dicevo una parola storta, mi avrebbero molto sgridato. Le caramelle de frutta Le caramelle di frutta E po’ nonna ce volìa be’ ’mbelpo’. All’istàde preparàa le pròìste pe’ l’inverno, mettìa a seccà’ sul forno o ’nté ’l sole fighi, bregnù, ùa; e le mela fèra le fettarèlle e po’ le fèra passì’ e le ’nfilsàa co’ ’no spago, le ’taccàa ’nté ’n chiodo al sole e po’ le mettìa ’nté ’na sacchetta bianga. All’inverno per regàlo ce dèra cuélla robba lì al posto delle caramelle e cioccolade e noà fumma tutti contenti. Tante le ò non era pròpio secchi be’ tanto i fighi como i bregnù, ce fèra ’mpo’ de muf- E poi nonna ci voleva molto bene. D’estate preparava le provviste per l’in verno: metteva a seccare sul forno fichi, prugne e uva . Tagliava a fettine le mele e le faceva appassire, le infilzava in uno spago e le appendeva ad un chiodo al sole e poi le conservava in una sacchetta bianca. All’inverno per regalo ci dava quella roba lì al posto delle caramelle e dei cioc colatini e noi eravamo contenti. Qualche volta non erano ben seccati tanto i fichi come le prugne, vi si formava un po’ di 56 fetta, ma nonna ce dicìa: “Cuélla è la zuccarina che butta fòra ’l frutto”. Anca quanno era ’l tempo delle ceràse, che facìa cuéi vermini drendo, ce dicìa che non fèra male perché s’erane ’ncreàdi lì drendo... e po’ bastàa che non fusse stado de venardì! muffa, ma nonna diceva: “Quella è la ‘zuccherina’ che mette fuori il frutto”. Anche quando era il tempo delle cilie gie e dentro vi si formavano dei vermi, (nonna) ci diceva che non facevano male, perché erano nati lì dentro... e poi bastava che non fosse stato venerdì! Visita ai tremodàdi Visita ai terremotati Una de ’ste domenighe semo gidi a véde’ ’ndó è passado ’l trémòdo, a Belvedé’ de Fabriano, co’ ’l prede nostro: è stada ’na ’speriènsa. Va be’ che s’è visto anca ’nté la televisió’, prò dal vero è più comprensivo. ’Na faméja ci’ha ospidado e ci’ha spiegado tutta la situazió’. Pôretti, fèra compasció’: poga robba ha podudo arpìà’! Cuélla faméja lì se la passàa anca be’, cìa le vacche, le pegore, i pòrci, poi pui e cunìi. Pensade ’mpo’ vuà a lassà’ nigò. Cualchicò’ ha ’rpreso, ma è fadìga anca a gìcce per güernàlle, perché c’è sempre i vigili del fôgo che non vôle, ma tanto lóra ce vanne listésso. Adè’ cìa ’na bella casetta tutta de legno, gliel’ha dàtta Merloni, perché ci’ha ’n fjòlo che fadìga da Merloni, ma ce n’è muntebè’ de cuélle casette. Sci vedede vuà: è fatte be’ ’mbelpo’, c’è callo drendo Una di queste domeniche siamo andati, con il nostro prete, a vedere dove è passato il terremoto, a Belvedere di Fabriano: è stata un’esperienza. Va bene che si è visto anche in televisione, però dal vero si comprende meglio. Una famiglia ci ha ospitato e ci ha spiegato tutta la situazione. Poveretti, facevano compassione: poca roba hanno potuto riprendere. Quella famiglia lì se la pas sava anche bene, aveva le vacche, le peco re, i porci, poi polli e conigli. Pensate un po’ voi a lasciare tutto. Qualcosa ha ripreso, ma è faticoso anche andare a governare (le bestie), perché ci sono sempre i vigili del fuoco che non voglio no, ma tanto loro ci vanno ugualmen te. Adesso (quella famiglia) ha una bella casetta tutta di legno, gliel’ha data Merloni, perché ha un figlio che lavora da Merloni, ma ce ne sono diverse di quelle casette. Se vedeste: sono costru ite molto bene, c’è caldo all’interno di più che qui da noi, ci sono due came 57 più che chì da noà, c’è due cambore grànne, ’na cucina e lôgo còmedo, se capisce! La casa sua, per quanto fusse stada più brutta, tanto era avezzi a sta’ lì, adè’ non ce s’artròa e po’ è da lóngo dalle bestie. Alla madina sentìa a cantà’ i galli, a stride’ i porchetti, a sbelà’ le pegore. Adè’ è da lóngo, ha da caminà’ ’mpo’ pe’ gìlli a güernà’; adè non sente a radà’ le vacche! Se tròa lì sotta ’na montagna, émo visto anca i cavalli, che lìa messi a pascolà’, e dobo li portàa drendo ’na baracca perché cominciàa a èsse’ notte. C’era ’n vento che te carcàa. M’è ’rmàsta ’na visió’ davanti all’occhi: quanto fa compasció’, pôra gente! re grandi, una cucina e il gabinetto, si capisce! Nella loro casa, per quanto fosse stata più brutta, tanto c’erano abituati a stare lì; adesso non ci si ritrovano e poi (la casetta nuova) si trova lontana dagli animali. (Prima) la mattina sen tivano i galli cantare, stridere i porci, belare le pecore. Adesso sono lontani e loro devono camminare un po’ per andarli a governare. Adesso non sento no muggire le vacche! (La casa vecchia) si trova sotto una montagna; abbiamo visto anche i cavalli, perché li avevano mandati al pascolo e dopo li riportava no dentro una baracca, perché comin ciava ad annottare. C’era un vento che ti caricava. Mi è rimasta una visione davanti agli occhi: quanto fa compassione, povera gente! ’L trémòdo del ’30 Il terremoto del ’30 Io m’arcordo quanno è passado ’sto trémòdo chì da noà, era ’na monella e m’è ’rmasto ’mpresso ché cuélla vo’ non fumma asperti, credemma che fusse stado non so que, adesso envéce ce sta la televisió’, te spiega be’ che non è ’n gastìgo dal cielo. Cuélla vo’ pensàmma che venìa la fine del mónno; anca cuélla vo’ è stado grosso. Noà c’émma la casa vecchia coi trài che scappàa e boccàa dal muro. Era ’na madina vèro colazió’, lóra granni somentàa giù ’l campo, a noà ce lassàa lì casa a guardà’ i nonni Mi ricordo quando è passato il ter remoto qui da noi, ero una bambina e mi è rimasto impresso perché, quella volta, non ne avevamo esperienza, cre devamo che fosse non si sa che, adesso invece c’è la televisione, ti spiega che non è un castigo (mandato) dal cielo. Quella volta pensavamo che venisse la fine del mondo: anche quella volta (il terremoto) è stato forte. Noi avevamo la casa vecchia con le travi che uscivano e rientravano dal muro. Era mattina verso l’ora di colazio ne, i grandi seminavano per il campo, lasciavano noi in casa a badare ai 58 che, pôretti, non ce stèra co’ la testa. Émma ’ncadorciàdo la porta da pìa delle scale e non podémma mango scappà’ via. Alla notte non volémma mango gi’ a dormì’, ma fumma spaéndàdi: un po’ c’émma la casa vecchia muntubè’, émma paura de fa’ la morte dei sorci. Cuélla vo’ non c’émma tanti mobili como adè; c’émma la màtte ra, la vedrìna, che la scossa grossa lìa buttada mezzo alla cucina, e po’ c’émma ’na tàola lónga che ce tenìa le pigne, i ticèlli, la terìna ’ndó se buttàa la ménèstra, c’era la scaffa ’ndó i piatti e i bicchieri sonàa a coccio, le brocche ’nté lo sciacquaròlo sbattìa insieme, sotta a lo sciacquaròlo c’era du’ callàri, uno per còce la menèstra, cuéllo più granne pe’ coce’ i maccarù. Sotta, ’l callaro è tónno, no?! Embè’, sdingolava de qua e de là: parìa che cualichidù lo smoìa. Le pigne e i tiscèlli rotti ’nté ’l mezzo del piangìdo, era un sacco de cocci. Dicìa babbo che le vacche s’èrene messe tutte a gambe larghe e radàa co’ l’occhi sbranàdi, ’l ca’ baiàa, e lóra che stèrene a sède’ per terra che fèra colazió’, tremàa la terra, ha ditto che se sentìa de più. ’Nté la chiesa lì vicino anca ié l’ha fatta a fa’ sonà’ le campane: pensade vuà como era grosso. Se sentìa la gente che sgaggiàa da Montalbò’ e casa nostra, cascàa giù i madù’ dal camì’. C’era zia nonni che, poveretti, non ci stavano con la testa. Avevamo messo il catorcio alla porta a piedi delle scale e non potevamo neppure scappare fuori. La notte non volevamo neanche andare a dormire, perché eravamo spa ventati, anche perché avevamo la casa molto vecchia e avevamo paura di fare la morte dei topi. A quel tempo non avevamo tanti mobili come adesso; avevamo la madia, la vetrina, che la scossa l’aveva buttata in mezzo alla cucina, e poi avevamo una lunga tavola dove tenevamo le pignatte, i tegami di coccio, la terrina dove si serviva la minestra, c’era lo scaffale dove i piatti e i bicchieri suonavano a coccio, le brocche nel lavello sbattevano insieme; sotto il lavello c’erano due cal dai, uno per cuocere la minestra e quel lo più grande per cuocere i maccheroni. Sotto il caldaio è tondo, no? Ebbene, dondolava di qua e di là: sembrava che qualcuno lo smuovesse. Le pignatte e i tegami di coccio in mezzo al pavimento erano un sacco di cocci. Diceva babbo che le vacche si erano messe tutte a gambe larghe e muggiva no con gli occhi sbarrati, il cane abba iava e loro, siccome stavano seduti per terra per fare colazione, hanno sentito di più la terra tremare. Nella chiesa lì vicino (il terremoto) è riuscito a far suonare le campane: pensate voi come è stato forte! Si sentiva la gente che gridava da Montalboddo a casa nostra, cadeva no giù i mattoni dal camino. Alla zia nostra, che scaldava la polenta nel fuoco 59 nostra che scaldàa la pulenta ’nté ’l fôgo co’ la padella sopra ’l tre pìa, che sarìa stada la servapadèlla, iè cascado giù ’n madó’ drendo la padella, squilzàa fòri la pulenta. Adè’ pare che fa rìde’, ma a trovasse lì non era tanto sbaffante. È como quanno se dice: “Belvede’ è ’mbel paese, ma Montefà è ’mbrutto passà”. Sta’ a véde’ è bello, ma a fàlle le cose, gambia sòno! con la padella sopra il treppiedi, che è chiamato ‘la servapadella’, le è cadu to un mattone dentro la padella e la polenta è schizzata fuori. Adesso sem bra far ridere, ma trovarsi lì non era per niente divertente. E come quando si dice: “Belvedere è un bel paese, ma Montefano è un brutto passare”. Stare a guardare è bello, ma a farle le cose, cambia musica! ’L maremodo de Senigaja Il maremoto di Senigallia Dobo ’mpo’ d’anni è passado ’l maremodo a Senigaja e noà c’émma i parenti che stèra vicino al maro. Ha buttado fòri ’l maro e i’ha ’llagàdo tutta la casa. Cìa i letti drendo la cambora stèra a galla. È venudi a dormì’ su da noà pe’ ’mbelpo’, finché non s’è sciuccada la casa. Noà ’l posto ce l’émma, c’era anche le càmbore ’nté ’l palazzo de le padróne, tanto lóra stèra ’nté la casa sua a Jesi. Cìa qualche cambora vòdia perché ’l palazzo era a tre piani e lóra era du’ zidèlle, ce capìa be’ drendo. Allora ’nté ’sta càmbora babbo ci’ha messo du’ tréspoli con quattro tàole, con pajareccio de paja e lì ha dormido, i linsoli se l’ha portadi. Sci era d’agosto se podìa méttece le brance del granturco al posto della paja, ma con cuélla situazió’ tutto gèra be’. Dopo qualche anno è passato il maremoto a Senigallia e noi avevamo i parenti che abitavano vicino al mare. È uscito fuori il mare e gli ha allagato tutta la casa. I letti dentro la camera galleggiavano. Quei parenti sono venu ti a dormire su da noi per parecchio tempo, finché non s’è asciugata la casa. Noi avevamo lo spazio, c’erano anche le camere nel palazzo delle padrone, tanto loro stavano nella propria casa a Jesi. C’era qualche stanza vuota, perché il palazzo era a tre piani e loro erano due zitelle: c’entravano bene dentro! Allora in quella camera babbo ci aveva messo due trespoli con quattro tavole, con un pagliericcio di paglia e lì hanno dormito (i parenti nostri): le lenzuola se le sono portate loro. Se fosse stato di agosto si sarebbe potuto metter ci le foglie di granturco al posto della paglia, ma con quella situazione tutto andava bene. 60 Anch’io ci’ho dormido ’nté la paja, almeno ’ndrìzza la schìna. Finànta che ’n s’è sposada mi’ sorella, quattro ’nté ’n letto non ce se capìa; dobo anca dormì’ in tre n’era fàciole. Fusse stadi i letti piani como adè’ tanto passa, ma i scartocci del granturco finànta che non s’era manganàdi ’mpo’, ’ndó c’era ’l monte ’ndó ’na buga: ce dormerìa questi d’adè’? Anch’io ho dormito nella paglia, almeno raddrizza la schiena. Fino a quando non si è sposata mia sorella, quattro in un letto non ci si entrava; dopo anche a dormirci in tre non era facile. Fossero stati i letti piani come adesso, sarebbe stato passabile, ma i cartocci del granturco, fino a quando non si erano ammorbiditi un po’, dove lasciavano un monte e dove una buca: ci dormirebbero questi d’adesso? ’L pôro nonno Il povero nonno Quann’ero piccola, como v’ho ditto, a me me toccàa armàne su casa a guardà’ cuélla pôra nonna e cuél pôro nonno. I nonni è stadi lucidi fina ottant’anni, dobo nonno gèra via de testa, pôretto. Cuélla vo’ se dicéa che gèra via de testa, adè’ la chiama l’artèrosclerósi. Toccàa a sta’ ’tenti che scappàa via. Ha toccàdo a méttelo a dormì’ solo, perché pôra nonna non ié dèra pace. Babbo ìa messo ’l lettino ’nté ’l magazzì’: c’era ’mpo’ de sacchi como gra’, farìna de granturco pei pòrci, la somènte della spagna, lupinella, trafojo, sémbola. Tutto da ’na parte ben messo. Sapé que ha fatto ’na notte? Ha sciolto tutti i sacchi, ha tiràdo fòra i cartòcci che c’era drendo al pajariccio (cuélla vo’ ’l madaràzzo non usàa), la coperta ha fatto 25 pezzi, Quando ero piccola, come vi ho detto, mi toccava rimanere in casa per badare a quella povera nonna e a quel povero nonno. I nonni sono stati lucidi fino a ottant’anni, dopo nonno andava via di testa, poveretto. A quel tempo si diceva che ‘andava via di testa’, adesso (quella malattia) viene chiamata ‘arterioscle rosi’. Occorreva stare attenti, perché scappava via. È stato necessario met terlo a dormire da solo, perché non lasciava mai in pace la povera nonna. Babbo gli aveva sistemato il lettino nel magazzino: c’era un po’ di sacchi come di grano, farina di granturco per i porci, il seme dell’erba medica, della lupinella, del trifoglio, la semola. Tutto ben messo da una parte. Sapete che cosa ha fatto una notte? Ha sciolto tutti i sacchi, ha tirato fuori i cartocci che c’erano dentro il pagliericcio (allora il materasso non si 61 ha sbrégàdo nigò, ha mistigàdo tutto assieme, anca le penne del guanciale, ìa fatto como ’na condidèlla. Pensàa mamma: “Stanotte envèce babbo ha dormìdo!” Scinó tutta la notte dicìa forte: “La mamma e la mimma! La mimma e la mamma!” E po’ luccàa forte “Babboooo!” Duràa qualche minùdo a sgaggià’. Per tre anni, giorno e notte era sempre luscì. Era anca cégo! Quanno s’è alzado babbo pe’ gìllo a véde’, nonno tutto tranquillo i’hà ditto: “Nenè, stanotte ho fadigàdo sempre!” “Ma que averéde fatto babbo mia? Que m’éde fatto? Guarda chì!” S’è messo le ma’ sulla testa, era da doventà’ scémi! Pensàde ’mpo’ arcapà’ nigò! E nonno tranquillo: “Io n’ho fatto niè! booh!! Ma chi è stadi?” Pôro babbo! Con la santa pacènsia l’ha vestido e po’ tutti d’accordo ce sémo messi all’opra: ci’ha volsùdo ’na settimana per sistemà’ nigò e po’ la somènte gèra be’, passàa ’nté ’l croèllo la croèllétta, ma fasciòli, cece, cicerchia, gra’, sémbola, robba dei pòrci: ìa mischiado nigò. Pensàde quanto s’è dàtto da fa’ tutta la notte! I genidóri dormìane ch’era stufi, lu’ stèra zitto, non luccàa. Pôra nonna! Lìa ìa perso le gambe, caminàa con du’ bastù’, non se podìa fa’ più dormì’ insieme al marido, perché nonno la scoprìa sempre, non la fèra dormì’ mae. Dicìa la notte: “Nenè, chì vicino c’è usava), della coperta ha fatto venticin que pezzi, ha strappato tutto quanto, ha mischiato tutto assieme: aveva fatto come un’insalatina mista. Pensava mamma: “Stanotte invece babbo ha dormito!” Sennò per tutta la notte diceva sempre: “La mamma e la mimma! La mimma e la mamma!” E poi gridava forte “Babboooo!” Durava qualche minuto a gridare. Per tre anni, giorno e notte, era sempre così. Era anche cieco. Quando babbo si è alzato per andar lo a vedere, nonno tutto tranquillo gli ha detto: “Nenè, stanotte ho faticato sempre!” “Ma che cosa avrete fatto, babbo mio? Che cosa mi avete fatto? Guarda qui!” Si è messo le mani sulla testa: era da diventare scemi! Pensate un po’ a dover capare di nuovo tutto! E nonno, tranquillo: “Io non ho fatto niente! Booh!! Ma chi è stati?” Povero babbo! Con la santa pazien za l’ha vestito e poi tutti d’accordo ci siamo messi al lavoro: ci è voluta una settimana per sistemare tutto. Il seme andava bene, passava nel “croèllo’ e nella ‘croellétta’, ma fagioli, cece, cicer chia, grano, semola, roba per i porci: aveva mischiato tutto. Pensate quanto si era dato da fare per tutta la notte! I genitori dormivano perché erano stan chi, lui stava zitto, non gridava. Povera nonna! Lei aveva perso l’uso delle gambe, camminava con due bastoni, non si poteva più farla dormi re col marito, perché nonno la scopri va sempre, non la faceva dormire mai. Diceva la notte: “Nenè, qui vicino c’è 62 ’na madràna!” Lìa, pôretta, è stada lucida scinànta su l’ultimo, ma nonno non ce stèra co’ la testa. Noà monelli ié dicémma: “Nonno, que me lassàde a me, quanno moréde?” E lu’ risponnìa: “Sci môro coi sentimenti, te lasso i pendenti! Sci môro co’ la paròla, te lasso la pistòla!” Scinó dicìa anca: “ A te te lasso ’l creapòpolo coi pendenti!” E noà non sapémma mango que volìa di’. Nonna ’nvéce dicìa a me: “Te lasso la cupèrta da sposa e i cerchiù’ d’oro!” La cupèrta era guàsci nòa perché se mettìa sul letto solo quanno c’era ’n prànso lì casa e quanno passàa l’Aqua santa. A me chissà quanta ’mportànsa me dèra, me parìa ch’era più calcolàda de cuél’altre, perchè io pel campo ’n ce gìa, ’ncó’ era piccola, e me fèra guardà’ ai nonni. una scrofa!” Lei, poverina, è stata lucida fino alla fine, ma nonno non ci stava con la testa. Noi più piccoli gli dicevamo: Nonno, che cosa ci lasciate quando morite?” E lui rispondeva: “Se muoio con i sentimenti, ti lascio i penden ti! Se muoio con la parola, ti lascio la pistola!” Sennò diceva pure: “A te lascio il ‘creapopolo coi pendenti’!” E noi non sapevamo neppure che cosa volesse dire. Nonna invece mi diceva: “Ti lascio la coperta da sposa e i cerchi d’oro!” La coperta era quasi nuova, perché si metteva sul letto solo quando c’era un pranzo e quando passava l’acquasan ta. Chissà quanta importanza mi dava, mi sembrava di essere rispetta ta più delle altre, perché io non andavo per il campo, ancora ero piccola e mi facevano badare ai nonni. Nonna mia Nonna mia Arvenìa da la scòla e sùbbedo me fèra alsà’ ’mpezzetto a nonna mia. La vestìa, ’mpo’ fèra da sola, le mudànne non le portàa, ié mettìa i calsetti, lacciàa le scarpe, e lìa da sède’ sul letto mettìa i sottanèlli (chiamàdi coscì), tutti grètti su la vida co’ ’na fascia e ’n gancio che lìa non ci’arriàa a ’ggancià’; prima la camicia de cottó’, po’ ’l busto. Cuéllo ’l portàa tutte le donne pe’ Ritornavo da scuola e subito mi facevano alzare per un po’ nonna mia. La vestivo, un po’ s’aiutava da sola, le mutande non le portava, le mettevo le calze, allacciavo le scarpe, mentre lei da seduta sul letto indossava i ‘sottanelli’ (chiamati così), tutti arricciati sulla vita con una fascia e un gancio che lei non arrivava ad allacciare; prima la camicia di cotone, poi il busto. Questo lo portavano tutte le donne per fare la 63 ’rfà’ la vida più schiantàda, anca cuélli fèmma da per noà. Se compràa le battecche de canna d’inda, e du’ bacchette d’acciàro per dannànse coi uncinèlli e l’occhièlli; po’ la pezza la tessìa mamma. Dobo sopra, sci era istàde, se mettìa solo ’l sacchétto e ’l sottanèllo, all’inverno du’ tre sottanèlli e la maglia fatta coi ferri da per noà: prima la camicia de cottó’, po’ ’sta maja, po’ ’l sacchetto; sulle spalle, sci era pròpio freddo, ’no scialpó’ grèo, nero grande, che se tiràa per dòda: solo cuéllo era de lana scindó la lana n’èra fatta pei contadì’. vita più snella: anche i busti facevamo da sole. Si compravano le battecche di canna d’India e due battecche d’acciaio, per davanti, con i ganci e gli occhielli; poi la pezza la tesseva mamma. Dopo sopra, se era estate si indossavano solo la camicia e il ‘sottanello’, all’inverno due o tre ‘sottanelli’ e la maglia fatta con i ferri da noi: prima la camicia di cotone, poi questa maglia, poi il ‘sac chetto’; sulle spalle, se era proprio fred do, uno scialle pesante, nero e grande, che si portava in dote: solo quello era di lana, sennò la lana non era fatta per i contadini. Quando era sistemata bene, prendevo nonna a braccetto e la Po’ a nonna, quann’èra custodìda bembè’, la pïàa a braccetto e la portàa ’nté la cucina, ié dèra cualchicò da magnà’. A lìa ié piacìa ’l pa’ condìdo col sale, ajo, ojo, erbette, acédo: sarìa la suppa lombarda. Dicìa: “ Questa scì che m’abbìtta, me guzza l’appedido!” Era fresca roscia como ’na rosa, io ié dèra certi baciòtti col chiòppo, e portavo in cucina, le davo qualcosa da mangiare. A lei piaceva il pane condito con sale, aglio, olio, prezzemolo, aceto: la ‘zuppa lombarda’. Diceva: “Questa sì che mi piace, mi stuzzica l’appetito!” Era fresca, rossa come una rosa, io le davo certi bacioni con lo schiocco, e lei mi diceva: “Tu hai tanta voglia di scherzare, io per niente!” Io vi dico la verità: volevo più bene a nonna che a 64 mi dicìa: “Te ci’hai tanta fantasia, io pe’ gnè!” Io ve digo la veredà: volìa più be’ a nonna che a mamma! Farò male a dillo, ma perché co’ nonna fumma più ’taccàde, me ’scoltàa, envéce mamma, pôretta, cìa altri pensieri, cìa le cose più ’mportànte: a me non me calcolàa como nonna. Anca i monelli ha bisogno d’èsse’ calcoladi, envéce ’na ò i fèra i fjòli e li mettìa lì da ’na parte finché n’era granni. Dobo l’ho capìdo, che me volìa be’ como a cuél’altri. Dicìa babbo: “ I fjòli è como i dèdi delle ma’: quale dédo te taii, te fa dòle tutti uguali!” Ìa ragió’. Adè che ce so’ rïàda anch’io, ce n’ho tre e per me è tutti uguali. Sci senti a dì’ a uno che uno ié vôi be’ e uno meno, te dà pasció’, perché ’na madre che l’ha portàdi per nove mesi, i’ha dàtto ’l latte per più de du’ anni, non pôle non voléje be’! Po’ ’na madre ci’ha tre parte de ’n fjòlo, anca ’l padre ci’ha parte ma, a pròporsió’, ’l padre i’hà dàtto ’na parte sola. C’è anca ’sta cansoncina pei fjòlini che dice: “Saper voléde di chi son io? Io son del babbo e la mamma mia. Ecco vedéde: questa gambìna è pròpio tutta della mia mammì na. Poi quest’altra eccola qua: è pròpio tutta del mio papà. Così le braccia, così l’occhietti le paroline, i sorrisétti son divisi tutti a metà fra la mia mamma e il mio papà. mamma! Farò male a dirlo, ma perché con nonna eravamo molto affezionate, mi ascoltava, invece mamma, poveret ta, aveva altri pensieri, aveva preoccu pazioni più importanti: non mi dava importanza come nonna. Anche i bambini hanno bisogno di essere calcolati, invece un tempo si face vano i figli e li si metteva da una parte finché non erano grandi. In seguito l’ho capito che (mamma) mi voleva bene come a quegli altri. Diceva babbo: “I figli sono come le dita delle mani: quale dito ti tagli, ti fanno male tutti allo stesso modo!” Aveva ragione. Adesso ci sono arrivata anch’io: ne ho tre e sono tutti uguali. Se senti dire a qualcuno che ad uno gli vuoi bene e ad un altro meno, ti fa soffrire, perché una madre, che li ha portati per nove mesi, gli ha dato il latte per più di due anni, non può non volergli bene. Poi una madre ha tre parti di un figlio, vi ha parte anche il padre ma, in proporzione, il padre gli ha dato una parte sola. C’è anche questa canzoncina per i bambini che dice: “Saper volete di chi son io? Io son del babbo e della mamma mia. Ecco vedete: questa gambina è proprio tutta della mia mammina. Poi quest’altra eccola qua: è proprio tutta del mio papà. Così le braccia, così l’occhietti le paroline, i sorrisetti son divisi tutti a metà fra la mia mamma e il mio papà. Non può nessuno portarmi via: io son del babbo e della mamma mia”. 65 Orfane Sbriscia con la nonna. Foto fine ’800 (coll. Flaviana Lucentini). 66 Non può nessuno portarmi via: io son del babbo e della mamma mia”. Prò per me la madre n’ha messe de più de sostanse: sbajarò, ma la testa me porta coscì! Non me so’ ’rcordàda de di’ che cuélla vo’ le donne portàane tutte ’l sinàle: anca a nonna ié ’l mettìa sempre. C’è anca la cansó: Mamma me l’ha fatto lo sinale io me l’ho misuràdo e me sta bene. L’amor la vô fa’ con chi me pare, con chi me pare e poi piace a méne. L’amor con chi me pare la farìa con chi me pare e dal par mia. E po’ se dicìa: Avéde le bellezze che v’abbónda più lóngo lo sinale che la gonna. ’Na ò un sinàle costàa 30 centè’. Fade ’l vostro conto: 1 soldo era 5 centè’. Fatta l’operazió’? Sci volìsci fa’ ’n sinàle a una era ’n gran regàlo, como a n’ômo regalàsci ’na gravàtta. Ma stade a sentì’ che educazzió’ che c’era ’na vò’. Le donne, como v’ho ditto, portàa tutte ’l sinàle dannànse, se dicìa la paranànse, e ce nascondìa anca i frutti e cualca tozzétto de pa’: mi’ sòceri i chiamàa ‘i rodèlli’! prima de comensà’ la fila ’dopràmma i rodèlli e non se spregàa gnè! Allora, ’n ve l’ho finìdo de di’, se mettìa nnigò, anca oltra pe’’l campo, ’nté ’sta paranànsa e, quanno se vedìa una co’ la trippa gros- Però per me la madre ne ha messe di più di sostanze: sbaglierò, ma la testa mi fa pensare così! Non mi sono ricordata di dire che un tempo tutte le donne portavano il grembiule: anche a nonna glielo mette vo sempre. C’è anche lo stornello: “Mamma me l’ha fatto lo sinale io me l’ho misurato e me sta bene. L’amor la vô fa’ con chi me pare, con chi me pare e poi piace a méne. L’amor con chi me pare la farìa con chi me pare e dal par mia”. E poi si diceva: “Avéde le bellezze che v’abbónda più lóngo lo sinale che la gonna”. Una volta un ‘sinale’, ossia un grem biule, costava trenta centesimi. Fate il vostro conto: 5 centesimi facevano 1 soldo. Fatta l’operazione? Se volevi fare un ‘sinale’ a una, era un gran regalo, come se avessi regalato una cravatta ad un uomo. Ma state a sentire quanta edu cazione c’era una volta. Le donne, come vi ho detto, portavano tutte il grembiu le davanti, si diceva “la paranànse”, e ci si nascondevano anche i frutti e qualche tozzettto di pane: i miei suo ceri li chiamavano “ i rodèlli”! Prima di cominciare il filone, mangiavamo “i rodelli” e non si sprecava niente. Allora, non ve l’ho finito di dire, si metteva ogni cosa, anche per il campo, in questo grembiule ma, quando si vedeva una con la pancia grossa (per ché incinta), lo si doveva lasciare scen dere aperto, perché gli angoli in fondo si tenevano puntati nella cintura, così il grembiule faceva da bisaccia, sennò 67 sa, sia da spontà’, perché se tenìa pontàdi i spigoli da pìa ’nté la cinta, coscì che fèva da goluppa, scinó ’sta porétta ch’era gravida, pensàa che c’era cualchiccò’ de iottonerìa. Ié se fèra sentì’ cuel che ci’avìsci, ma guai quanno ‘nté ’l brango ce n’era una luscì, non podìsci nomminà’ niè’ de le robbe che ’n se troàa, scinò nascìa i fiòli macchiàdi, sci ci’avìa proprio vòja ’rbuttìa. E que era como adè’ che c’è de nigò. anca le ’ngurie e melù’ ’l mese de gennàro se tròa, co’ ’sti caluriferi, frigoriferi c’è nigò tuttto l’anno, solo che i fiòli ce n’è poghi. ’Na ò, quanno se gèra a troà’ ’na ’nfantàda ié se portàa sùccaro, pasta como fidelini, ’na dozzina d’òi, cuélli parenti ’na gallina, chi ce fèra da compare e commàre, oltra de regàlo all’infante, anca ’mpàr de cappù’, come l’hanne portàdi a me solo del maschio prò, perché era ’na faméja stimàda che ié fumàa i cojó’:’l sapìa la moda che curìa! E como era bòno cuel brodo del cappó’! quella poveretta che era gravida pensa va che ci fosse qualche ghiottoneria. Le si faceva assaggiare quello che avevi, ma guai quando nel branco ce n’era una così, non potevi nominare niente delle cose che non di trovavano, sennò nascevano i figli macchiati, se (la donna) aveva proprio voglia (di quella cosa)abortiva. E che era come adesso che c’è di tutto, anche le angurie e i meloni si trovano nel mese di gennaio: con questi caloriferi, frigoriferi c’è ogni cosa tutto l’anno, solo che ci sono pochi figli. Una volta, quando si andava a trovare una puerpera le si portava zucchero, pasta come i fedelini, una dozzina di uova, i parenti una gallina, chi faceva da com pare o comare, oltre al regalo per il neo nato, anche un paio di capponi, come li hanno portati anche a me, solo quando mi è nato il maschio però, perché era una famiglia stimata, alla quale fuma vano i coglioni: la conoscevano la moda che c’era! E com’era buono quel brodo di cappone! “Magnàde e beéde e badàde a campà’!” “Mangiate, bevete e badate a campare!” Adè prò artornàmo alla pôra nonna. M’arcòrdo, quanno ’st’òmini giogàa a carte giù la stalla, io giogàa a carte co’ lìa, pôretta, se stèra d’accordo sa, e lìa a me me volìa be’ ’mbelpò’. E io quanto ié volìa be’: Adesso, però, ritorniamo alla pove ra nonna. Mi ricordo che, quando gli uomini giocavano a carte nella stalla, io giocavo a carte con lei, poveretta: era vamo d’accordo eh, e lei mi voleva molto bene. E io quanto gliene volevo di bene: 68 stèra sempre co’ nonna che, pôrétta, stèra sul letto, perché cuélla vo’ ’n c’era la sedia a rodèlle; è stada tre anni inferma sul letto, prò era sempre bella pulìda, la lavàmma, io la pettenàa, ié fèra le trecce, tajàa l’ógna ’nté le ma’ e i pìa, ié lavàa la faccia... po’ certi baci ié dèra! Lìa, pôretta, stèra a sède ’ttorno a cuél fôgo bella fresca, perché magnàa e bevìa e ’n fadigàa: sa ch’era bella fresca quanno stèra alzada. Quanno stèra a letto, ci’avìa ’l letto sempre bello arfàtto, i linsòli pulìdi. Cuélla pôra mamma ce tenìa, perché capidàa sempre la gente... Po’ cuélla nonna di fjòli ne avéa fatti otto, ma vivi ce nìa solo tre: c’era armàsti babbo, zio e ’na fémmena. Lìa dicìa: “N’è venudi be’ solo tre!” Dicìa como quanno se mette ’na coàda de pulcì’. Se dicìa: “ ’Mpò n’ènne ’rivàdi, ’mpo’ è morti ’ntéll’ovo”. De ventiquattro venticinque pulcì’, ne venìa avanti tre quattro, e tante le ò cinque sei: sa, per fòrsa, cuélli che venìa avanti era ’mpo’ racchidinìdi, perché da beccà’ cuélla vo’ n’era tanto como adè che c’ènne i mangìmi. Quélla vo’ ié se dèra n’àceno de gra’, du’ mollìghèlle de pa’ pe’ fàlli ’mparà’ a beccà’ e tante ’olte, quann’èra d’istàde li lassài fòri, gìa lì ’ttorno al grasciàro, ’ndó c’era i vèrmenétti, prò pôre bestie venìa su’ mpo’ secchettèlle... prò era bòni, oste s’èra bòni! Adè li chiàmane ‘i ruspanti’! Ma adè ’n se tròa più, mango ’nté le stavo sempre con nonna che, poverina, stava sul letto, perché quella volta non c’era la sedia a rotelle; è stata tre anni inferma sul letto, però era bella pulita, la lavavamo, io la pettinavo, le facevo le trecce, le tagliavo le unghie nelle mani e nei piedi, le lavavo la faccia...poi certi baci le davo! Lei, poveretta, stava a sede re intorno a quel fuoco bella fresca, per ché mangiava, beveva e non lavorava: per forza era bella fresca quando stava alzata. Quando stava a letto, il letto era sempre ben riordinato, le lenzuola puli te. Quella povera mamma ci teneva, per ché capitava sempre la gente... Quella nonna aveva partorito otto figli, ma vivi ne aveva solo tre: erano rimasti babbo, zio e una femmina. Lei diceva: “Ne son venuti bene solo tre!” Diceva come quando si mette una covata di pulcini. Si diceva: “Alcuni non sono arrivati, altri sono morti nell’uovo!” Di ventiquattro venticinque pulcini, ne crescevano tre quattro, qualche volta cinque sei. Per forza, quelli che cresce vano erano un po’ rachitici, perché il beccare quella volta non era abbondan te come adesso che ci sono i mangimi. Quella volta gli si dava un chicco di grano, due mollichette di pane per farli imparare a beccare e tante volte, quan do era d’estate, venivano lasciati fuori, andavano attorno al letamaio, dove c’erano i vermicelli, però, povere bestie, crescevano un po’ magrette... però erano buone, osteria se erano buone! Adesso li chiamano ‘ruspanti’! Ma adesso non si trovano più, nemmeno nelle case dei contadini, proprio quelli rozzi rozzi; 69 case de’ contadì’, pròpio cuélli ruzzi ruzzi; n’ènne più como cuélla vo’. E cuélla pôra nonna stèra su cuél letto, come ’na rosa, bella, pulìda, fresca... e io ero sempre lì vicino, de giorno arcontàa sempre le storièlle... Ma quanto ié voléo be’: se rispettàa i vecchi ’na volta, sa! Babbo e mamma pe’ nonno e nonna ci’avéano ’no rispètto, tutti e due. Dicìa : “Magnàde e beéde e badàde a campà’!” Benànche non pïàa la pensió’, l’ansiani ’na ’olta erane trattadi be’ listesso. Mi’ padre, quanno gèmma a magnà’, il primo piatto ’l dèra a nonno e nonna. E ’l governo non dèra ’na lira de pensió’, però non ié fèra mancà’ gnè, benànche non c’era tanta possebeledà. Alla sera, prima de gì’ al letto, ié mettìa ’l madó’ giù i pìa per fàjeli scaldà’: quanno era stado mezz’ora vicino al carbó’, ’l madó’ s’enfogàa e mantenìa ’l caldo per qualche ora. Intanto s’andormìa be’ e la notte era tranquilli. Io alla madina alle quattro, como v’ho ditto sul principio, gèra sempre ’nté ’l letto co’ lora pe’ ’mparà’ tutte ’ste cansoncelle e preghiere che ’nco’ ce l’ho ’nté ’l cervello. Le ’mparàa subbedo e nonno me dicìa: “ Chi te l’ha fatta ’sta ’mbrolletta, ’l pioà della Grancetta? Chi te la guasterà, il pioà de Comborà?” Envece nonna me dicìa: “Te sai como la donna ’studa, che scioje la fascina e brucia la legadura”. Io non sapìa que volìa di’, e mango lìa me la spiegàa. Quanno cominciàa a non sono più come quelli di una volta. E quella povera nonna stava su quel letto, come una rosa, bella pulita, fre sca... e io ero sempre lì vicino, di gior no raccontava sempre le storielle... Ma quanto le volevo bene: si rispettavano i vecchi una volta, eh! Babbo e mamma, tutti e due, avevano rispetto per nonno e nonna. Dicevano: “Mangiate, bevete e badate a campare!” Benché non prendessero la pensio ne, gli anziani un tempo erano trattati bene ugualmente. Mio padre, quando andavamo a mangiare, il primo piatto lo dava a nonno e nonna. E il governo non dava una lira di pensione, però non gli si faceva mancare niente, seb bene non ci fossero tante possibilità. La sera, prima di andare a letto, gli mette vo il mattone giù ai piedi per farglieli riscaldare: quando era stato mezz’ora vicino al carbone, il mattone si infuoca va e manteneva il caldo per qualche ora. Intanto (i nonni) si addormentavano bene e la notte stavano tranquilli. Io la mattina alle quattro, come vi ho detto all’inizio, andavo sempre sul letto insieme a loro per imparare tutti questi stornelli, e preghiere, che anco ra conservo nel cervello. Le imparavo subito e nonno chiedeva: “Chi te l’ha fatta questa linguetta, il pievano della ‘Grancetta’? Chi te la guasterà, il pieva no di ‘Comborrà’?” Invece nonna mi diceva: “Tu sei come la donna astuta, che scioglie la fascina e brucia la legatura”. Io non sapevo che cosa volesse dire e nemmeno lei me lo spiegava. Quando cominciavo a capire, 70 capì’, arpensào: me’l dicìa perché cìa ’l cervello aperto, pïàa subbedo cuéllo che me ’nsegnàaa lìa. ci ripensavo: me lo diceva perché avevo il cervello aperto, che apprendeva subito quello che mi insegnava lei. La Comugnió’ ’nté ’n casa La Comunione in casa M’arcòrdo che cualche vo’, a ’sti nonni, ié portàa la Comugnió’ ’nté casa nostra. ’Na ò, quanno portàa la Comugnió ai maladi, partìa ’l prede dalla chiesa e c’era sempre ’l sagrestà’ co’ l’ombrella e ’l campanello. ’L prede portàa l’Ostia giù pe’ lo stòmigo, drendo ’na scatoletta, e sempre sonànno rivàa ’nté ’n casa, a pìa. Iè se preparàa ’n altarì’ co’ due Mi ricordo che qualche volta a questi nonni gli portavano la Comunione in casa nostra. Una volta, quando portava la Comunione ai malati, il prete partiva dalla chiesa e c’era sempre il sagrestano con l’ombrello e il campanello. Il prete portava l’Ostia sullo stomaco, dentro una scatoletta, e sempre scampanel lando arrivava in casa, a piedi. Gli si preparava un altarino con due cande 71 candelette, ’nté ’l mezzo un santo, co’ ’n mazzo de fiori e ’na toajétta sotta e lì ce poggiàa l’Ostia, finànta che confessàa l’ammalado. E po’ sapede le candele con que le fèmma? C’era cuélla vo’ la cera vecchia de quanno gèmma a compagnà’ i morti, tutta la gente a pìa co’ ’na candela su le ma’. Quanno c’era ’l vento, colava giù e cuélla sa ’rpiàa e po’ se colava ’nté ’n bossolo pe’ falla lentà’. Se preparàa ’na canna longa ’n palmo e mezzo, tajàndola sotta dal nodo e dobo buttamma ’sta cera sciolta drendo. ’Nté ’l mezzo ce mettemma ’no stoppì’ fatto col filo de cottó’ doppio tre quattro vo’. All’inverno la mettemma fòri della finè’ per fa’ stregne’ la cera; all’istade ’n tra l’acqua iàccia. Dobo con cortello spaccàmma la canna e... fatto ’l candelotto! Cuélla vo’ se studiàa tutte, non se spregàa niè. line, in mezzo un santo, con un mazzo di fiori e una tovaglietta sotto e lì ci appoggiava l’Ostia, fino a quando ( il prete) confessava l’ammalato. E po’ sapete con che cosa facevamo le candele? C’era quella volta la cera vec chia di quando andavamo ad accom pagnare i morti, tutta la gente a piedi con una candela in mano. Quando c’era vento, (la cera) colava giù e quella si riprendeva e poi si colava in un bosso lo per farla allentare. Si preparava una canna lunga un palmo e mezzo, taglian dola dopo il nodo, e quindi la riempi vamo con questa cera sciolta. Nel mezzo ci mettevamo uno stoppino formato con il filo di cotone raddoppiato tre quattro volte. All’inverno la mettevamo fuori dalla finestra per far solidificare la cera; all’estate nell’acqua fredda. Dopo con un coltello spaccavamo la canna ed ecco fatto... il candelotto! Quella volta se ne studiava di tutte, non si sprecava niente. Fàa, bécche e vèrmode pe’ la conoscenza Fava, semi di zucca e vermouth per la conoscenza Scusade che adè ’rcambio argomento: como me vène pensado cualchicò, bisogna che la scrivo subbedo, ’mpezzo al giorno quanno ci’ho tempo. Me pare d’èsse’ como una vicino casa mia che pïàa da ’ na montagna all’altra; dicìa coscì: “Adè ho fatto la sperna, mó fô l’intingolo col ticello co’ ’l carbó’, accanto al fôgo. Scusate se ora cambio argomen to: come mi viene in mente qualcosa, bisogna che la scrivo subito, un pezzo al giorno, quando ho tempo. Mi sembra d’essere come una mia vicina di casa che prendeva da una montagna all’al tra; diceva così: “Adesso ho fatto la sfo glia, ora preparo il sugo con il tegame di coccio sul carbone, accanto al fuoco. 72 Coscì bóie piano piano ’l pomidoro, dopo la sperna sa sciuccada e trido i tajolì, prima ho messo l’acqua’nté i pui, ieri so’ gida al mercado, ho portado a vènde’ l’ôi e ’mpar de picciù. L’ôi era ’n soldo e du’ centè, i picciù envece 15 soldi”. Manco ’na lira non c’era a cuéi tempi! ’Na lira ce lìa solo ’l capoccia. Quanno gèmma in giro in qualche sido, ’nté ’na festa e chi cìa mai ’n soldo ’nté la saccò? Chi era ’mpo’ ricchi compràa le becche, i lupì’, la fàa; cualchidù anca le caramelle. Que cìa ’mparado mamma? Bru scamma la fàa, le becche co’ ’na padella ’nté ’l fôgo e le portamma ’nté ’no scartoccio e le magnamma lassù la festa: coscì fumma dal paro con cuéi più fortunadi de noà. Tante le ò anche i lupì’: ’na ’olta all’anno i compràa secchi e po’ li mettìa a móllo. È coscì che se fèra ’na ò, la studiàa mèjo che podìa. Quanno a tempo dei morti se gèra al Camposanto, se mettìa due o tre con cuélle bancarelle pe’ la strada tra Montalbò e ’l cimidero e sgaggiàa: “Calde aròste!” E noà bardascétte, rabbide de fame, fèmma le tigne fina che non tìa datto 5 soldi che ce venìa solo 6 o 7 castagne: una era fràdia, una bruciacchiàda, e... ’na ripinezza ’n se pïàa de scigùro! Apposta cuélla vo’ ’n c’era né colisterolo, né tigliceridi! Sci ìsci séde, te dicìa: “Adesso la prima can nella che trovàmo, beéde!” E coscì Così il pomodoro bolle piano piano; intanto la sfoglia si è asciugata e taglio i ‘tajolini’. Prima ho messo l’acqua nel pollaio, ieri sono andata al mercato, ho portato a vendere le uova e un paio di piccioni. Le uova si vendevano a un soldo e due centesimi, i piccioni inve ce quindici soldi”. Nemmeno una lira c’era a quei tempi! Una lira ce l’aveva solo il capoccia. Quando andavamo in giro in qual che luogo, ad una festa, chi aveva mai un soldo in tasca? Quelli un po’ ricchi compravano i semi di zucca, i lupini, la fava, qualcuno anche le caramelle. Che cosa ci ha insegnato mamma? Bruscavamo la fava, i semi di zucca con una padella sul fuoco e li portavamo in un cartoccio e li mangiavamo lassù durante la festa: così eravamo alla pari con quel li più fortunati di noi. Talvolta anche i lupini: una volta l’anno (mamma) li comprava secchi e poi li metteva a bagno. È così che si faceva un tempo: (mamma) la studiava meglio che potesse. Quando al tempo dei morti si anda va al Camposanto, per la strada tra Montalboddo e il cimitero c’erano due o tre con le bancarelle che gridavano: “Caldarroste!”. E noi ragazzette, sem pre affamate, facevamo i capricci fino a quando non ti avevano dato cinque soldi con i quali si compravano 6-7 castagne: una era fradicia, una bruciacchiata e... una indigestione non si prendeva di sicuro! Per questo a quel tempo non c’era né il colesterolo, né i trigliceridi. Se avevi sete, ti diceva: “Adesso il primo rubinetto che troviamo, bevete!” E così 73 ce contentàa. L’omini c’era ’sta moda chì: sci uno vidìa ’n’amigo, dicìa: “Gimo a be’ ’nté l’osteria un bicchiero de vi’ ”. Anca uno che cìa lo ragazzo della fiòla, per la conoscenza coi genidori de lu’, e de lìa, gèrene a be’ ’n bicchiero de vi’, e cuélli che podìa de più pagàa ’n bicchierì’ de Vèrmode o de Marsala, cuélli ’mpo’ più paccù’: questo era solo i genidori dell’ômo, per faje vede’ che la fiòla boccàa ’nté ’na fameja ricca. Dobo envéce era peggio dell’altri, io ne so cualchico’, perché ci’avìa sbattùdo. A cuéi tempi era bello, perché quanno venìa ’na festa, e lì c’ogni tanto te venìa a troà i parenti: se rispettàmma con cugini, zii. Como c’era ’na puzza da parente, se gèra a troà, se magnàa ’na smaccaronàda e un cuniàccio insieme, anca ’n gallo. Non è como adè che coi parenti te vedi solo quanno môre ’na persona cara, e cuàlche sposarìzzio. Ma anca cuélli, quanno se sposa, anvìta solo all’amici, comincia a scancellà’ anca lì i parenti. Per conto è mejo, che adè ce vôle centomila anche de più per persona, e chi ci’ha ’sta pensió’ como la mia, te fa gì fòri strada. Po’ adè c’è n’antra moda: quanno émo sposado noà, non c’era la moda che la madre della sposa gèsse al pranso, ’rmanìa a casa da sola, a piagne; cualchidùna piagnéa perdéro. C’era ’na vicina de casa che non gèra d’accordo co’ la fiòla, e ci accontentava. Gli uomini avevano questa usanza. Se uno vedeva un amico, diceva: “Andiamo all’osteria a bere un bicchiere di vino!” Anche uno che aveva la figlia fidanzata, per fare conoscenza con i genitori di lui, e di lei, andavano a bere un bicchiere di vino; e quelli che avevano maggiori possibilità pagavano un bicchierino di Vermouth o di Marsala, specialmente quelli un po’ boriosi. Si comportavano così soltanto i genitori del fidanzato, per far vedere che la figlia entrava in una famiglia ricca. Dopo, invece, era peggio re delle altre: io ne so qualcosa, perché mi ci sono imbattuta. A quei tempi era bello, perché, quando arrivava una festa, ogni tanto ti venivano a trovare i parenti: ci si rispettava con cugini, zii. Come c’era un odore di parentela, si andava a tro vare: una mangiata di maccheroni e un conigliaccio insieme, anche un gallo. Non è come adesso che con i parenti ti vedi solo quando muore una persona cara, e per qualche matrimonio. Ma anche quelli, quando si sposa no, invitano solo gli amici, comincia no anche a cancellare i parenti. Per un conto è meglio, perché adesso ci vuole centomila lire e anche di più per per sona, e a chi ha una pensione come la mia, lo manda fuori strada. Poi adesso c’è un’altra moda: quando abbiamo sposato noi, non c’era l’usan za che la madre della sposa andasse al pranzo, ma rimaneva a casa da sola a piangere, qualcuna piangeva davvero. C’era una vicina di casa che non anda 74 gli dicìa la fiòla: “Sci piagni quanno me sposo, te sputo addosso!” E la madre i’hà risposto: “Te non sai sci piàgno dal dispiacé’ o dalla contentezza!” Alla domeniga appresso se ’nvidàa alla madre per véde’ ’ndó era boccàda la fiòla, per faje véde’ la càmbora, perché cuélla vo’ non ce se gèra prima de sposà’ a casa del ragazzo, ché sci te lassàa gì’, era fadìga artroànne ’n antro: s’armanìa zitella. va d’accordo con la figlia. Le diceva la figlia: “Se piangi quando mi sposo, ti sputo addosso!” E la madre le ha rispo sto: “Tu non sai se piango dal dispiace re o dalla contentezza!” La domenica successiva si invita va la madre della sposa, perché vedesse dove era entrata la figlia, per farle vede re la camera, perché quella volta non si andava a casa del ragazzo prima di spo sarsi, perché, se ti lasciava, era difficile trovarne un altro: si rimaneva zitelle. In brango alle feste In branco alle feste Gémo più annànse. Cuélla vo’ n’era como adè’, non c’era bisogno a gì ’nté la palestra, spèce quanno tirài ’n giorno la falce fenàra. Se cominciàa a maggio col fié’ e se duràa fina agosto, anche quindici giorni a falciàa ’l gra’! Eppure, quann’èra la sera, c’era la voja a gi’ a ballà’. Questo quanno non c’era la guerra. Quando era più granna, io gèra co’ ’ste sorelle, che gèrene a ballà de scannafojadùre, de carnoàle a Montalbò’ sulle scòle vecchie, e po’ anca se gèra a pìa fina a Monsanvido: de Carnoàle ’nté le piazzette, como c’era ’mpo’ de spazio se mettìa uno co’ l’organetto e via... se ballàa. C’era anca i gruppi che ballàa: quanto me piacìa a me! Ballàa anca chi non sapìa fa’. Venìa a chiamà’ anca a me e chissà Andiamo più avanti. Quella volta non era come adesso: non c’era il biso gno di andare in palestra, specialmen te quando tiravi tutto il giorno la falce fienaia. Si cominciava a maggio con il fieno e si durava fino ad agosto: anche quindici giorni a falciare il grano! Eppure, quando scendeva la sera, c’era la voglia di andare a ballare. Questo (accadeva) quando non c’era la guerra. Quando ero più grande, io andavo con le mie sorelle, che andavano a ballare durante le scartocciature, il carnevale a Montalboddo sulle scuole vecchie, e poi si andava a piedi fino a Montesanvito: a Carnevale nelle piazzette, come c’era un po’ di spazio si metteva uno con l’or ganetto e via... si ballava. C’erano anche i gruppi che ballavano: quanto mi pia ceva! Ballavano anche quelli che non sape 75 quanto era contenta, benànca che ’nté i pìa cìa le zàndole fatte a ma’ da ’sti fradelli coi cupertù’ vecchi delle biscighette, con du’ cinte sopra e... avanti popolo! Le scarpe cuélle della Comugnió’ non m’era più bòne, anca se mamma me lìa fatte ’mpo’ de nùmberi più granne, prò era ’l pìa che crescìa ’mbelpò’. D’inverno portàa anca cuélle delle sorelle con ’mpar de calzétti nèrti fatti coi ferri, anca du’ pari pe’ rîmpì’ le scarpe. A volte prò non c’era manco le scarpe! Quanno se gera alla festa de sera, ’nté le strade se vedìa certi branghi como le pegore: òmmini, donne, monelli. E dopo se ’rvenìa a casa de notte, se fèmma compagnia l’uno co’ l’altro. Quanno fumma giovene, c’era sempre cuéllo che ce venìa a domannà amore, appena piài la strada de casa, da cima della Massa, scinó cuélla del Paradiso, perché ’ndó passamma la casa nostra era da lóngo uguale. Come v’ho ditto, fumma ai confini de Montalbò. Tanto alle feste, le fiere, i mercadi, non se mancàa mae, perché mamma ce nìa de ’ste femmene quattro: una sul forno e una ’nté la pala, como se dicìa ’na’ò, e due ’ncó sotta al crì! E lì se filàa dritto como volìa mamma; te mettìa su, quanno volìa lìa. A me m’è toccado ’mpò tardi: avìa diciassette anni quanno ha sposado la penultima e lì fina a cuélla vano ballare. Venivano ad invitare anche me e chissà quanto ero contenta, benché ai piedi avessi i sandali fatti a mano dai miei fratelli con i vecchi copertoni delle biciclette, con due strisce sopra e... avanti popolo! Le scarpe, quelle della Comunione, non erano più buone per me, anche se mamma me le aveva comprate di qualche numero più grandi, perché era il piede che cresceva tanto. D’inverno cal zavo anche quelle delle sorelle con un paio di calze grosse lavorate con i ferri: anche due paia (ne occorrevano) per riempire le scarpe. A volte, però, non c’erano nep pure le scarpe! Quando si andava ad una festa di sera, nelle strade si vedevano certi bran chi come le pecore: uomini, donne e bambini. E dopo si ritornava a casa di notte, ci facevamo compagnia l’uno con l’altro. Quando eravamo non sposate, c’era sempre quello che veniva a domandarci amore, non appena prendevi la strada di casa, in cima alla Massa o in cima al Paradiso, perché la nostra casa, dove passavi, era lontana uguale. Come vi ho detto abitavamo ai confini di Montal boddo. Non si mancava mai, tanto alle feste quanto alle fiere e ai mercati, per ché mamma ne aveva quattro di queste femmine: come si diceva una volta, una sul forno, una sulla pala (per infornare) e due ancora sotto il ‘crino’. E lì si filava diritto come voleva mamma; ti metteva in mostra, quando voleva lei. A me è toccato un po’ tardi: avevo diciassette anni quando ha sposa to la penultima e lì, fino a quel momen 76 vo’ toccàa a sta’ sotta al crì. Non è como adè: sci ’na madre ci’hà du’ fémmene, una da venti e una da sei, anca cuélla piccola vôle fa’ i pagni e cuéi scarpó’, le ‘calte’ ié dìcene, come cuélla granna! to, bisognava rimanere sotto il ‘crino’. Non è come adesso: se una madre ha due femmine, una da vent’anni e una da sei, anche quella piccola vuole i vestiti e que gli scarponi, le “calte” le chiamano, come quella grande. Le scarpe Le scarpe Appròposito di scarpe, i calzolari fadigàa muntubè, perché le scarpe dovìa durà finànta che n’èra pròpio finìde. L’arsolàa, ce mettìa i sopra tacchi, coscì chi non crescìa più ’l pìa, le finìa. Chi era ricchi, quanno non i’èra più bòne, le portàa a vènde’ a midà prezzo da cuélli che vendìa le scarpe, e cuélli le ’rvendìa e ce guadagnàa. A me vecchie non me piacìa per gnè’, prò finànta che crescìa ’l pìa non cìa tornaconto a falle, ché diedro a me non cìa più nisciù’. Dobo che era la volta mia, cioè sgappàda dal crì, ha cominciado le guerre, prima cuélla dell’Africa, e po’ in continuaziò’, e la robba bella chi ce lìa la piattàa. Allora, sapéde que se dicìa? “L duce ha fatto la sala d’ingegno, monéde de carta e scarpe de legno!” Certi zoccoloni alti, che noà li chiamàmma “i cariarmàdi”. Cualchidù’ ce cascàa ancó’; ‘scarpe ortopedighe’, chiamade anca coscì ché sotta era tutte a ’mpezzo, ’rcoperte col camoscio sindèdigo, pelle sindèdiga, e pezza e i ferri ’nté ’l A proposito di scarpe i calzolai lavo ravano molto, perché le scarpe doveva no durare fino a quando non erano consumate del tutto. Le risuolavano, ci mettevano i soprattacchi, così quelli che non crescevano più le finivano. I ricchi , quando (le scarpe) non gli andavano più bene, le davano a metà prezzo a quelli che le rivendevano , guadagnandoci. A me quelle vecchie non piacevano, però fino a quando mi cresceva il piede non avevo il tornacon to a farle, dal momento che dietro di me non c’era più nessuno. In seguito, quando è arrivato il turno mio, ossia sono uscita da sotto il ‘crino’, sono iniziate le guerre: prima quella d’Africa e poi in continuazione. E chi aveva la roba bella, la nasconde va. Sapete che cosa si diceva allora? “Il duce ha fatto la sala d’ingegno, mone te di carta e scarpe di legno!” Certi zoccoloni alti che noi chiamavamo “i carrarmati”. Qualcuno ci cadeva pure. Scarpe ortopediche, chiamate anche così, perché sotto erano tutte un pezzo, ricoperte con il camoscio sintetico, pelle sintetica, pezza e ferri nel tacco e sulla 77 tacco e la pónta: quanno caminàsci giù pe’ ’l corso o drendo la chiesa fèsci rimóre como tanti cavalli che gèra al galoppo. C’era a vènde’ anca solo ’l sotta de ’ste scarpe e dobo se fèra le cinte co’ i’artài dei pagni, scinó sci cìsci ’n cappello de feltro vecchio ce se fèra la tomàra sopra e, dentórno, le ’mbollàmma con cuélle bollette ’rlustre, color d’oro. Oh, non ce crederéde... venìa ganze! S’adattamma co’ nigò, tutto fèra brodo. punta: quando camminavi giù per il corso o dentro la chiesa facevi rumore come tanti cavalli al galoppo. C’era a vendere anche solo il sotto di queste scarpe e dopo si facevano le strisce con i ritagli dei vestiti; sennò, se avevi un vecchio cappello di feltro ci si faceva la tomaia e la fissavamo tutt’intorno con quei chiodini lucidi, color oro. Oh, non ci crederete... (quelle scarpe) venivano belle! Ci adattavamo a tutto, tutto faceva brodo! Como s’arlustràa le scarpe Come si lucidavano le scarpe Adè’ v’arcónto como se ’rlustràa le scarpe ’na ò. Cuélle de la gioventù se compràa ’na scattolétta d’arlùstro, ma questo chì ’n se podìa ’doprà’ pe’ cuélle dei vecchi e monèlli: se fèra ’ntè n’antro modo. Dovéde sapé’ che all’inverno era pîne de tèrra perché le strade de campagna, scì, c’era ’mpo’ de breccia grossa como i mezzi madù’ o prède, ma era più cuélle che c’era la ciógàja, e tutta cuélla malta se la magnàa, ’mpregnàa nigò, perché ce passàa vacche e biròcci guàsci tutti i giorni. I contadì’ dovìa gì’ al mulì’ a macenà’ ’l gra’ pe’l pa’, che se fèra ’na ’olta ogni otto giorni: mezzo quintàle de farina ’gni volta. Po’ a segondo le faméje como era ’mpopolàde, anca 25 persone, e lì ce Adesso vi racconto come si lucida vano una volta le scarpe. Per quelle dei giovani si comprava una scatoletta di lucido, ma questo non si poteva usare per quelle dei vecchi e bambini: si faceva in un altro modo. Dovete sapere che d’inverno (le scar pe e gli zoccoli) erano pieni di terra, per ché le strade di campagna, sì, c’era un po’ di breccia grossa come i mezzi mat toni o le pietre, ma erano di più quelle con la ‘ciógàja’ e tutto quel fango se la mangiava, impregnava tutto, perché ci passavano vacche e birocci quasi tutti i giorni. I contadini dovevano andare al mulino a macinare il grano per il pane, che si faceva una volta ogni otto gior ni: mezzo quintale di farina ogni volta. Poi a seconda di come erano numerose le famiglie, anche venticinque persone, e lì ne occorreva un quintale, compresa 78 ne volìa anca ’n quintàle ’n tra fa la pasta nigò. Cuélla vo’ non se podìa magnà’ la pasta cómpra, ’na ò al mille, quanno c’era cualchidù’ ’mportante, che po’ sci era contadì’; sci era paesà’, gradìa de più le tajadèlle fatte co’ rasagnòlo, benànche co’ poghi ôi. E po’, oltra a macenà’ ’l gra’, se portàa i panetti del granturco: sarìa cuéllo scartàdo muffo, se macenàa i tùdoli, nigò pei porchétti; envéce cuéllo scelto se spartìa col padró’, e dobo se dèra ai pùi e pe’ la pulènta, che se comensàa da ottobre finànta a Pasqua, anca tre o quattro ’olte la settimana, condìda co’ le cipolle e pómmidòri, sarìa ‘la pacchia’. E anca co’ ’l vincòtto1, quanno c’era ’l porco fresco ’mpezzo de salciccia, du’ costarèlle; qualche vo’ col toccafìsso, qualche vo’ ’l lardo e ’mpo’ de cacio. Como se fèra era sempre bòna, anca coi fiori de càoli, cuélli a palla: nigò fèra brodo. Allora squsàde: comenso ’na cosa e vô a finì’ ’nté ’n’antra. Dobo se gèra al mulì’ pe’ macenà’ la venàccia, la jànda, l’orzo, la somènte dei spì’ chiamadi ’i spì de scànci: fa cuélle piastrèlle grànne como ’n bottó’ dei cappotti. Anca cuélle se coìa pe’ macenà’ ai porci: adè’ mango se véde più ’nté le fratte, ha belle che fatto sparì’ nigò, mango i rùghi non se véde più, ’na ò ce scal- 1 quella per fare la pasta. Quella volta non si poteva mangiare la pasta comprata, se non una volta al mille, quando c’era qualcuno importante, e poi se era un contadino; se era un paesano, questo preferiva le tagliatelle fatte con il matte rello, sia pure con poche uova. E poi, oltre che a macinare il grano, si portavano i tutoli del granturco, i panet ti scartati perché ammuffiti: si macina va tutto per i porci. Invece il granturco scelto si spartiva con il padrone, e dopo si dava ai polli e per la polenta, che si cominciava a mangiare da ottobre fino a Pasqua, anche tre o quattro volte la settimana, condita con cipolle e pomo doro, che si chiamava ‘la pacchia’. E anche con il ‘vincotto’; quando c’era il porco, ammazzato da poco, un pezzo di salsiccia, due costine; qualche volta con lo stoccafisso, qualche altra volta con il lardo e un po’ di formaggio. In qualun que modo si facesse, era sempre buona, anche con i cavolfiori o le verze: tutto faceva brodo. Scusate: comincio un argomento e vado a finire in un altro. Dopo si anda va al mulino per macinare le vinacce, la ghianda, l’orzo, il seme degli spini, chia mati ‘gli spini scanci’: (questi) fanno quelle piastrelle grandi come un bottone dei cappotti. Anche quelle si coglievano per macinarle per i porci: adesso nep pure si vedono più nelle fratte. Hanno quasi fatto sparire ogni cosa, nemmeno i rovi si vedono più, mentre una volta ci vincotto: mosto bollito, fino a ridursi ad un terzo e, quindi, usato come condimento. 79 dàmma ’l forno; adè’ c’è ’rmàsta la caccìa, cuélla ’ncó’ s’è salvàda, anca cuélle téghe lì è bòne pei porchétti da ’ngràsso. ’Na ò più era grassi e più ’l padró’ e ’l contadì’ era contenti, ché cìa ’l lardo quattro o cinque déda, anca ’n palmo: lo spartémma pe’ tutto l’anno, ’l colisteròlo era de sótta, giù fónno dei pìa. Coscì arvô a finì’ ’nté le scarpe: sa co’ fèra ’sti ansiàni? Pïàa la scopétta, l’ammollàa e po’ l’integnéa lì ’nté la fulìgina del camì’, anca ’nté ’l ténto del callàro, e con cuéllo arlustràa le scarpe, cuélle per gi’ in giro. Pei zòccoli d’inverno li morbidìa co’ la sógna del porchétto. Mi’ sòcero la chiamàa ‘la grascia’: pïàa ’mpezzo de grasso, cuéllo del distrutto, e pïàa ’n carbó’ ’ccéso e ce’nvuricchiàa dentorno ’sto grasso, como ’na lonzétta. Bruciàa finànta che non s’era smorciàdo ’l carbó’. E l’attaccàa co’ ’na cordèlla ’nté ’n chiodo, su ’n trào e quanno era passàdi ’mpo’ de mesi doventàa anca rancia. Questa servìa pe’ ’rpulì, ’ngrassà’ le scarpe e i zoccoli ; quanno te passàa vicino ’n ca’, ’n gatto, te venìa a liccà’: cuélla era fame, eh!!! scaldavamo il forno. Adesso c’è rimasta l’acacia, quella ancora si è salvata, anche quelle teghe sono buone per i porci da ingrasso. Una volta più (i porci) erano grassi e più erano contenti il padrone e il contadino, perché avevano il lardo alto quattro o cinque dita, anche un palmo: lo spartivamo per tutto l’anno, il coleste rolo era giù in basso, sotto i piedi. Così vado a finire di nuovo nelle scarpe: sa cosa facevano questi anziani (per luci dare le scarpe e gli zoccoli)? Prendevano una spazzola, la bagnavano e poi la intingevano nella fuliggine del camino, anche nel ‘nero’ del caldaio, e con quello lucidavano le scarpe, quelle per andare in giro. Gli zoccoli d’inverno li ammorbidi vano con la ‘sogna’ del porco. Mio suoce ro la chiamava ‘la grascia’: prendeva un pezzo di grasso, quello dello strutto, e un carbone acceso e vi avvolgeva dintorno questo grasso, come una piccola lonza. Bruciava fino a quando non si fosse spento il carbone. E con una piccola corda l’appendeva ad un chiodo, fissato ad una trave, e dopo qualche mese diven tava anche rancida. Questa (‘sogna’) ser viva per ripulire e ingrassare le scarpe, gli zoccoli; quando ti passava vicino un cane, un gatto, questo ti veniva a lecca re: quella era fame, eh! La sógna pe’ bestie e... cristià’ La ‘sogna’ per bestie e... cristiani La sógna, prò, se ’dopràa anca pe’ biscigóni che venìa alle vacche, La ‘sogna’, però si usava anche per i vesciconi che venivano alle vacche, per 80 pe’ ógne’ ’l collo quanno se spizzigàa col giógo; l’ognìa co’ ’sta sógna anca quanno cìa l’ernia billigàle; servìa anca pe’ le ciaccadùre sotta i pìa, tanto le bestie anca ai cristià’. Otto o nove mesi dell’anno, anca de più, gèmma scalsi, ce fèra le ciaccadùre sotta i pìa, ce fèra la madèria che sarìa l’infezió’. Ce mettémma cuélla sógna per fàlla madurà’, scindó i ’mpiàstri co’ le nàlbe. Quann’era madùro ce ’l foràa co’ l’ago e lì se guarìa. Vallo a fa’ adè’, sa quante le ò tocca a tajà’ la gamba! ungere il collo quando si irritava con il giogo; le ungevano con questa ‘sogna’ anche quando (le vacche) avevano l’ernia ombelicale; (la ‘sogna’) serviva anche per le ammaccature sotto i piedi, tanto per le bestie quanto per i cristiani. Per otto o nove mesi all’anno, anche di più, andavamo scalzi, venivano delle ammaccature sotto i piedi, ci si for mava la “materia” che è l’infezione. Ci mettevamo quella ‘sogna’ per farla matu rare, sennò gli impiastri con la malva. Quando la piaga era matura, ce la fora vano con l’ago e a quel punto si guariva. Se lo si facesse adesso, sai quante volte toccherebbe tagliare la gamba! La Madonna Montagnòla La Madonna Montagnola Noà,’na ò, se caminàa sempre a pìa: a Senigaja, a Jesi, a Chiaravalle. Ce alsàmma alle due de notte per gì’ alla Madonna Montagnòla, la festa la segónda domeniga de maggio. Passàmma a campi co’ le scarpe su le ma’, se lavàmma i pìa giù ’l ponte delle Prède, a Chiaravalle. E lì spettàmma la Pròcisció’ che venìa dalla Montagnòla d’Ancona, a pìa finànta all’Albarigi. Cuélle vecchiette scalse drìa la Pròcisció’ ì’ha’rcavàdo ’sta cosa chì: È tanto tempo che caminàmo è più le scarpe che lugràmo che ’l guadàgno che ci’avémo, Padarnostro... Ma sci era scalse, como fèra a Noi, una volta, camminavamo sempre a piedi: a Senigallia, a Jesi, a Chiaravalle. Ci alzavamo alle due di notte per andare alla Madonna Monta gnola, la festa (cadeva) la seconda dome nica di maggio. Passavamo a campi con le scarpe sulle mani, ci lavavamo i piedi giù al ponte delle Pietre, a Chiaravalle. E lì aspettavamo la processione che veniva a piedi dalla Montagnola di Ancona fino agli Alberici. Quelle vec chiette scalze in processione avevano inventato questa canzone qui: “È tanto tempo che camminiamo son più le scarpe che consumiamo che il guadagno che ci abbiamo. Padrenostro”... Ma, se erano scalze, come facevano a 81 lugrà’ le scarpe? Dòbo, ’rivàda la statua della Madonnina, l’ha messa lì l’altàre e tutti i credenti ce gèra a sfregà’ ’n fazzoletto, ’na scialbétta, ’n cappello, ’mberétto: se chiama la Madonna della Mercède, che si venera nella chiesa parrocchiale della Montagnòla nel supùrbio d’Ancona. Non so sc ’ncó’ fa ’ste funzió’. consumare le scarpe? Una volta arrivata, la statua della Madonnina l’hanno messa sull’altare e tutti i fedeli ci andavano a strofinarci un fazzoletto, una sciarpina, un cappel lo, un berretto: si chiama la Madonna della Mercede, che si venera nella chie sa parrocchiale della Montagnola nel suburbio d’Ancona. Non so se ancora si facciano queste funzioni. La gida al maro La gita al mare Adè m’arcòrdo che, quann’èro monella, cuél pôro babbo dicéa: “ Domènniga, bardàsci, ve porto al maro!” Mamma mia, le contentezze! Iè s’aiudàa a fadigà’ tutti contenti: “Doménniga ce porta al maro, gimo al maro!” I’obbèdìmma, ce se alsàa presto a ’rcòje la spiga. “Dàdeje fedù, fedàcce! D’accordo diméniga ve porto a Senigaja, gémo a fa’ ’l bagno!” S’alsàmma a la madìna vero le cinque e gèmma giù a pìa, scalsi giù pe’ le strade con cuéi còdeni, ’nté cuélle strade segondàrie. Ci’avìa sotto i pìa la pelle dura come le sòle, a caminà’ sempre scalsi, capirai! Anca all’invèrno gèmma scalsi, sa; dicìa che facéa be’ pe’ le bugànse, c’adè’ li chiama ‘i gelóni’. Babbo chiappàa su anca i bardàsci de zio, sempre cuélli più piccoli; cuélli grànni, oltra che fèrane l’amore, se vergognàa a venì’ con Adesso mi ricordo che, quando ero bambina, quel povero babbo diceva: “Domenica, ragazzi, vi porto al mare!” Mamma mia, che contentezza ! Lo si aiutava a lavorare tutti contenti: “Domenica ci porta al mare, andiamo al mare!” Gli obbedivamo, ci si alzava presto a raccogliere la spiga. “Forza, ragazzi, ragazze! D’accordo, domenica vi porto a Senigallia, andiamo a fare il bagno!” Ci alzavamo la mattina verso le cin que e andavamo giù a piedi, scalzi giù per quelle strade con quei sassi grossi, in quelle strade secondarie. Avevo sotto i piedi la pelle dura come le suole, capi rai, a camminare sempre scalzi! Anche all’inverno andavamo scalzi, eh; dice va che faceva bene per le ‘buganze’, che adesso chiamano i geloni. Babbo prendeva con sé anche i figli di zio, sempre quelli più piccoli. Diceva babbo: “Adesso facciamo la scorciatoia!” Passavamo giù per San Martino, anda 82 noà. Dicìa babbo: “Adè’ fàmo la scórtadóra!” Passàmma giù pe’ San Martì’, gèmma a finì’ giù ’l Trapónso, pïàmma d’in su là ’l Grottì’, e po’ la strada della Romana, Sant’Angiolo. ’Gni tanto dicémma: “Ma quanno s’arìa a ’sto Senegàja? Ma quant’è da lóngo? E babbo rispónnìa: “ ’N’an tr’oretta!” Arcaminàsci, arcàminàsci tutti contenti, ma ’n s’ariàa mae. Tanto d’in giù gèra be’, sempre d’annanse a babbo, lu’ a drédo con bastó’ su le spalle, ’ndó cìa legàda la goluppa del pa’, ’na bottija d’amezzàdo, ’n pomidòro, ’na fetta de lónza o presciùtto per fa’ colazió’. Ce fermàmma a sède’ per terra pe’ riposàsse ’mpo’... e via n’antro po’. Quanno arrivàsci giù ’l maro, vèro le otto, n’è che cìsci voja da ’spettà’: boccàmma sùbbedo ’ntell’aqua, coi pìa solo prò. Dobo babbo ce pïàa ’n costumo a noléggio e via ’n tra l’aqua finànta a mezzogiorno. Anca babbo mettìa’l costumo, ma c’era cuéi montagnòli pròpio gèrane’n tra l’aqua vestidi, sci era fresco anca’l corpétto. Tiràa su le calse finànta ’nté ’l ginocchio, co’ le scarpe legade assieme l’una co’ l’altra, po’ una per parte su la spalla, una d’annanse una drìa; col bastó ’ndó cìa legàdo lo scorsadàrbolo (cuéi più fini ’l chiamàa ’l fazzoletto da spesa’), co’ ’sta golùppa ce mettìane ’mpo’ de nigò e via... caminàa ’n tra l’aqua. Quanno riàa cuéll’onde grosse, se mollàa fina ’n tra ‘losimo vamo a finire giù il Triponzio, poi pren devamo d’in su là verso il Grottino, e poi la strada della Romana, Sant’Angelo. Ogni tanto chiedevamo: “Ma quando si arriva a questa Senigallia? Quant’è lontana?” E babbo rispondeva: “Un’altra oretta!” Riprendevi a camminare, cam minavi di nuovo, ma non si arriva va mai. Tanto d’in giù andava bene; sempre avanti a babbo e lui indietro con un bastone sulle spalle, dove aveva legato l’involto del pane, una bottiglia d’ ‘ammezzàdo’, un pomodoro, una fetta di lonza o prosciutto per fare cola zione. Ci fermavamo seduti a terra per riposarci un po’... e via un altro po’. Quando arrivavi al mare, verso le otto, non è che avevi voglia d’aspettare: entravamo subito nell’acqua, con i piedi soltanto, però. Dopo babbo ci prendeva un costume a noleggio e via nell’acqua fino a mezzogiorno. Anche babbo metteva il costume, ma quelli proprio montagnoli andavano nell’acqua vestiti, se era fresco anche con la giacca. Tiravano su i pantaloni fino al ginocchio, con le scarpe lega te insieme, l’una con l’altra, una per parte su una spalla: una davanti e una di dietro, con il bastone dove avevano legato lo ‘scorzadarbolo’ (quelli più fini lo chiamavano ‘fazzoletto da spesa’), con questa ‘goluppa’, dove ci mettevano un po’ di tutto, e via... camminavano nell’acqua. Quando arrivavano quelle ondate grosse, si bagnavano tra ‘losi mo e il guaio’: pareva che l’avessero 83 e guaio’: parìa che se lìa fatta addosso. Quanto ci ’aérà riso chi stèra sdraiàdi sotta cuéll’ombrellù’! Sci ce fusse stada ’na cinaprésa como ci’hanne adè’, tiràa fòra ’mbel cinema treàdo, sensa caminà’ tanto! Ma ’rtornàmo al maro: era mezzogiorno e gné la facìa a tiràcce fòra cuél pôro babbo. C’émma tutti i labbri neri, ma tanto como sia stésci ’n tra l’aqua, perché ’n bagno luscì nésci fatto mae. Da quanno eri nado ’l fèri ’nté ’na bacinèlla e dobo, capirai, te lavàvi ’nté ’na caldaròla. Quann’èra d’istàde boccàvi giuppe ’l granturco a lavàtte, all’inverno ’n te lavàvi mae: fatta addosso. Quanto ci avranno riso quelli che stavano sdraiati sotto quegli ombrelloni! Se ci fosse stata la cinepre sa, come ce l’hanno adesso, ne avrebbero ricavato un bel cinema o teatro, senza camminare tanto! Ma ritorniamo al mare: era mezzo giorno non gliela faceva a tirarci fuori quel povero babbo. Avevamo tutte le lab bra nere, tuttavia restavi nell’acqua, perché un bagno così non l’avevi fatto mai. Da quando eri nato lo facevi in una bacinella e, in seguito, capirai, ti lavavi in una calderella. D’estate entra vi in mezzo al granturco per lavarti, d’inverno non ti lavavi mai: ti davi Giornata al mare. Foto anno 1938 (coll. Giorgio Pirani). 84 te davi ’na bòtta giù la stalla, ma capisci che ’nté ’na caldaròla te ce lavi pogo! L’aqua sempre jàccia, se mettìa a scallà’ ’mpo’ ’nté ’l callàro, ma dovìsci giontàlla ’mpo’, perché cuélla del callàro ’n bastàa. Ce sarìa volsùdo ’na stufétta de cuélle che ce s’ammazzàa i porchetti, allora scì che te podìsci lavà’ be’, ma ’n c’era mango la possibilidà, ’n c’era gnè! Intanto babbo gèra a comprà’ ’na cartàda de pesce fritto: sarà stado du’ giumèlle, du’ ciangàde, ma como era bono! E ce dicìa: “Daje sgàppa fòri, oh, sgàppa fòri!” Oh, niente da fa’! Badavi a sta’ lì drendo. Alla fine te tiràa fòri, te mettìi a magnà’ lì ’n tra cuélla sabbia. N’è che se guardàa tanto tovàja e tovajòli, c’era solo ’n boccó de tovaja ’ndó era poggiàdo ’l pa’. E lì magnàvi cuél pesce fritto ’nté la carta,’nté cuél pesciolìno piccolo piccolo ce fésci anca tre mòschi. Col pa’, quant’era bòni! Ma noà magnàmma pogo, per gì’ n’antra ò dréndo al maro. E quanno mae se fèra ’mbagno luscì! una lavatina giù la stalla, ma , capisci, che in una calderella ti ci lavavi poco! L’acqua sempre fredda, la si metteva a riscaldare un po’ sul caldaio, ma dove vi aggiungerne un po’, perché quella del caldaio non bastava. Ci sarebbe voluta una stufetta di quelle che (si usavano quando) si ammazzava il porco, allora sì che ti saresti potuto lavare bene, ma non c’era neppure la possibilità, non c’era niente! Intanto babbo andava a comprare una cartocciata di pesce fritto: sarà stato due ‘pugnelli’, due ‘ ciangàde’, ma come era buono! E ci diceva: “ Forza esci fuori! Oh, esci fuori!” Oh, niente da fare! Badavi a rimanere lì dentro. Alla fine ti tirava fuori, ti mettevi a mangiare lì, su quella sabbia. Non è che si guardava tanto alla tovaglia e ai tovaglioli, c’era solo un pezzo di tova glia, dove era appoggiato il pane. E lì mangiavi quel pesce fritto nella carta: in quel pesciolino piccolo piccolo ci facevi tre morsi. Con il pane, quanto erano buoni (quei pesciolini)! Ma noi mangiavamo poco, per andare un’altra volta dentro il mare. E quando mai si faceva un bagno così! La via de casa... coraggio e vida lesta! La via di casa... coraggio e camminiamo svelti! Vèro le cinque arpïàvi la via de casa... Allora scì ch’èra dura! Solo a pensàcce, con cinque o sei ore a ’mmóllo, le gambe gné la fèra più. Verso le cinque riprendevi la via di casa... Allora sì che era dura! Solo a pensarci, dopo essere stati cinque o sei ore a bagno, le gambe non ce la facevano 85 Dice che l’aqua del maro fa be’, ma quanno uno ne ’l fa mae ’l bagno, ’l maro te’ndebolìa. Caminàsci a pìa, vinìsci su tutto smòrto, sfinìdo,’n tra cuélla breccia, tra i sassi grossi: ’gni tanto pròvàsci a cascà’. Sci la strada era mólla, perché scìa pioùdo, ce dicìa: “Pas sàde’ndó c’è le prède, i còdeni, che non sbiscia!” Noà’nvéce, como’l somaro, ce l’ha la strada bòna... embè sempre a fossi! Dobo ce sporcàmma, ’nté ’na cannèlla ce lavàa e... avanti popolo! Ma le gambe ’n ce la fèra più, ma bisognàa fa’ “ ’l core in pace el culo in péce” - se dicìa ’na ò! Babbo ce dicìa: “Coraggio e vida lèsta, più ne famo e meno na resta!” A cuél pôro babbo ié dicìa ’gni tanto: “‘Ndó sémo’riàdi? “Sémo chì al Valló’!” Questo, quanno passàmma là, giuppe’l Filetto. “’Ndó sémo riàdi, bab bo?” “Sémo a Sant’Àngiolo!” “’Ndó sémo riàdi babbo?” “Sémo a San Silvestro!” “Sémo al Grottì!” Pensa ’mpo’, ancó’ dal Grottì a casa nostra i chilomedri che c’era da fa’! E lì al Grottì babbo se fermàa e ce compràa’na gazzosa: como era bòna! ’N se bevìa mae. E po’ via... passàmma giù pe’ cuéi trapónsi. ’Gni tanto a cuél pôro babbo ié dicéa: “Babbo, chi ce sta chì?” “Ce sta cuéllo!” “Babbo, chi ce sta qua?” “Ce sta cuél’altro!” Sicché era anca ’na noja dobo tutto sa, perché lu’, pôretto, caminàa, ci’avìa ’l bastó’ sulle spalle co’ la golùppa. Sottovoce pregàa più. Dicono che l’acqua del mare faccia bene, ma quando uno non lo faceva mai il bagno, il mare ti indeboliva. Camminavi a piedi, avanzavi tutto smorto, sfinito, tra quella breccia. tra i sassi grossi: ogni tanto stavi per casca re. Se la strada era bagnata, perché aveva piovuto, (babbo) ci diceva: Passate dove ci sono le pietre, i ‘ciocci’, perché non sci vola!” Noi, invece, come il somaro, ce l’ha la strada buona... ebbene sempre a fossi! Dopo ci sporcavamo, in una fontanella (babbo) ci lavava e... avanti popolo! Le gambe non ce la facevano più, ma bisognava fare “il cuore in pace e il culo in pece” - si diceva un tempo. Babbo ci diceva: “Coraggio e vita lesta, più ne facciamo e meno ne resta!” A quel pove ro babbo domandavo ogni tanto: “Dove siamo arrivati?” “Siamo al Vallone!” Questo quando passavamo la per la strada del Filetto. “Dove siamo arriva ti, babbo?” “Siamo a Sant’Angelo! “Dove siamo arrivati, babbo?” “Siamo a San Silvestro! “Siamo al Grottino!” Pensa un po’, ancora dal Grottino a casa nostra, quanti chilometri c’erano da fare! E lì, al Grottino, babbo si fer mava e ci comprava una gassosa: come era buona! Non si beveva mai. E poi via... passavamo giù per quei Triponzi. Ogni tanto a quel povero babbo chiedevo: “Babbo, chi abita qui?” “Ci abita quel lo”. “Babbo, chi ci abita qua?” “Ci abita quell’altro!” Sicché, dopo tutto, era una noia eh, perché lui, poveretto, cammi nava, aveva il bastone sulle spalle con l’involto. Pregava anche sottovoce. Arrivavamo a casa più morti che 86 ancó’. Rivàmma a casa più morti che vivi, pròpio finìdi, ’n tra l’Ave Maria. Mango ié la fèmma a parlà’. Ce dicìa cuélli più granni: “E que éde leàdao anca ’l battesimo? A sta’ ’n tra l’aqua tutto ’sto tempo!” N’è c’aspettàvi pe’ magnà’, pïài e gìi a letto; lì dormìvi fino alla madìna alle nove alle dieci. ’Na cotta luscì: pensa ’mpo’ a gi’ a fa’ ’l bagno giù ’l maro, pe’ gìsse a lavà, pe’ boccà’ ’ntéll’aqua, ’n ce se boccàa mae: ce boccàvi scì pïài l’aqua quanno piòìa, te facévi la doccia, cuélla vo’ mango ’l sapìi co’ era, noà la chiamàa ‘la goccia’! Daéro’l popolo è gambiàdo muntubè al mejo, no’ como salùde, ma como ’l magnà’, ’l vestì’, ’l divertì’, tutti i còmedi che volémo, solo che adè s’arvà alla drèdo, s’è lentàdi i freni, chi era impostàdi be’ ’ncó ne ’l sente, ma cuélli spregù’, cuélli che non s’èe ’rcàade mae le gambe, che n’ha sapùdo giostrà’, comènsa a gi’ male, ié sta riànno l’aqua ’nté la góla, con cuél pogo che guadàgna tutte ’ste tasse, medicine, dal medigo sci paghi te sta ’mpo’ a sentì, scinó hai da spettà’ n’anno prima de fa’n’analise: sai quante le ò fai a tempo a morì’! Dicìa babbo: “Fjòi, gìmo a rotta de collo!” E sci ce fusse adè, chissà che avrìa ditto! vivi, completamente sfiniti, all’ora dell’Avemaria. Nemmeno ce la facevamo a parlare. Ci dicevano quelli più grandi: E che, avete levato anche il battesimo? A restare nell’acqua tutto questo tempo!”. Non è che aspettavi per mangiare, pren devi e andavi a letto fino alla mattina dopo alle nove, alle dieci. Una cotta così: pensa un po’ ad andare a fare il bagno al mare, per andarsi a lavare, per entra re nell’acqua. Non ci si entrava mai: ci entravi solo se prendevi l’acqua quando pioveva, ti facevi la doccia; quella volta neppure lo sapevi cos’era, noi la chia mavamo la “goccia”! Davvero il popolo è molto cambiato in meglio, non come salute, ma come il mangiare, il vestire, i divertimenti, tutte le comodità che vogliamo; soltanto che ora si ritorna indietro, si sono allen tati i freni: quelli che si erano imposta ti bene ancora non lo risentono, ma gli spreconi, quelli che non hanno mai cavato fuori le gambe, che non hanno saputo giostrare, cominciano ad andare male: gli sta arrivando l’acqua alla gola. Con quel poco che guadagnano (devono pagare) tutte queste tasse, le medicine; dal medico se paghi ti sta un po’ a senti re, sennò devi aspettare un anno prima di fare un’analisi: sai quante volte fai a tempo a morire! Diceva babbo: “Figlioli, andiamo a rotta di collo!” E se ci fosse adesso, chis sà che cosa direbbe! 87 Breccia, còdeni e biròcci Breccia, ciocci e barrocci Parlàmo sempre de gì’ scalsi: ’nté cuélle strade segondarie era tutta malta; quanno pioìa ce fèra tutte pescóle, tutti cuéi scadafòssi. La breccia de fiume non ce se podìa portà’, perché la malta la ingollàa tutta; allora ce se buttàa còdeni grossi, mezzi madù’ per mette’ i pìa quanno pioìa tanto, scinó era perigolo che te ’nfilsài lì e ce volìa due a ’rtiràtte fòra. Anca quanno passàsci col biroccio e le vacche, era coscì, te ’ffonnàsci. ’Nté le strade comunale envéce ’l Comù’ te obligàa a fatte portà’ la breccia ’mpo’ più fina, ma anca lì, quanno gèsci co’ la biscighétta toccàa ’rcapà’ i punti più bòni, scinó cascàsci perché la breccia era grossa, che tanto c’era le ròde dei birocci che la ciaccàa. D’istàde tutti i contadì’ careggiàa la breccia, chi quattro medri, chi sei, a segondo l’èttri de terra che ci’avìa. I birocci ce passàa muntubè ’nté le strade perché, oltra che gi’ al mulì, dovìa careggià’ l’aqua presa dalle fonte co’ le bótte pe’ le bestie, portà’ a pilà’ la sulla, ’l trafòjo, la spagna. Non gèra le maghine ’nté le case: solo la maghina per batte’ ’l gra’ e, pe’ portàlla su pe’ la costa, che noà fumma ’ntéll’alto, ce volìa avanti la macchina da bàtte’ sei o sette pari de vacche o bua. Pel levadóre envéce bastàa du’ pari de vacche: era leziéro. Parliamo sempre dell’andare scal zi: in quelle strade secondarie era tutto fango; quando pioveva ci faceva tutte quelle pozzanghere. tutti quei solchi! La breccia di fiume non ci si poteva porta re, perché il fango la inghiottiva tutta; allora ci si buttavano ciocci, mezzi mattoni per poggiare i piedi quando pioveva tanto, sennò c’era il pericolo che affondavi e bisognava essere in due per tirarti fuori. Anche quando passa vi con il biroccio e le vacche, era così: affondavi. Nelle strade comunali, invece, il Comune ti obbligava a portare la brec cia un po’ più fina, ma anche lì, quan do andavi in bicicletta toccava scegliere i punti migliori, sennò cascavi perché la breccia era grossa, perché tanto, poi, c’erano le ruote dei barrocci che la schiacciavano. D’estate tutti i contadi ni carreggiavano la breccia: chi quattro metri, chi sei, a seconda degli ettari di terra che avevano. I barrocci passavano spesso sulle strade perché, oltre ad andare al muli no, dovevano carreggiare, con le botti, l’acqua per le bestie, presa dalle fonti, portare a pilare la lupinella, il trifoglio, l’erba medica. Le macchine (per la pila tura) non andavano nelle case: solo la macchina per trebbiare il grano e, per portarla su per la salita, perché noi abi tavamo sull’alto, ci volevano sei o sette paia di vacche o buoi. Per il ‘levatore’, invece, bastavano due paia di vacche: era leggero. 88 Cuélla vò’ ’na fameja su cento cìa ’l cavallo, cualchidù’ ’l somaro, scinó pe’ strada c’era solo vacche col biroccio. Quanno s’è cresimade ’ste sorelle, che l’ha tenude per Cresima du’ signore de Montalbò’, non ié la fèra a caminà’ a pìa. Allora babbo ha ’nfioccado le vacche, i’ha messo le coperte, e po’ ha messo du’ sedie per ’ste sàntole e le monèlle stèra a sède’’nté le bande del biroccio. Toccàa tenésse forte con cuéi codeni! Se dice per dittado: “ ’Na breccia po’ arbaltà’ ’n carro!” È vero! perché le bighe che era lezziére succedìa da ’rbaltasse. Sci s’arvedésse adè sarìa bello gnè a gìsse a gresimà’ col biroccio e le vacche! Ma ’ndó vai... anche ’nté le strade segondarie passa le maghine! Me ’rcontàa mamma mia che lìa ha sposado del 1908 co’ la pariglia de cavalli. Io ié dicìa perché non ci’hà fatto ’no ritratto, è perché cuélla vo’ i fottografi non gèra fòri dalla bottega. L’arsomejo l’ha fatto, però drendo: fortuna, almeno li vedo sempre, è ’no ricordo bello. A quel tempo una famiglia su cento aveva il cavallo, qualcuno il somaro, sennò per strada c’erano solo vacche col biroccio. Quando si sono cresimate le mie sorelle, l’hanno tenute per cresima due signore di Montalboddo, che non gliela facevano a camminare a piedi. Allora babbo ha infioccato le vacche gli ha messo le coperte, e poi ha messo due sedie per queste madrine, mentre le bambine stavano sedute sulle bande del biroccio. Bisognava tenersi forte con quei ciocci! Per proverbio si dice: “Una breccia può ribaltare un carro!” È vero, perché alle bighe, che erano leggere, capitava di ribaltarsi. Se si rivedesse adesso, sarebbe pro prio bello andarsi a cresimare con il biroccio e le vacche. Ma dove vai... anche nelle strade secondarie passano le auto mobili! Mi raccontava mamma mia che lei aveva sposato nel 1908 con la pari glia di cavalli. Io le chiedevo perché non ci avesse fatto una fotografia, ma quella volta i fotografi non uscivano dalla bot tega. Il ritratto l’ha fatto, però dentro: è una fortuna perché almeno li rivedo sempre: è un bel ricordo! La gentàja La gentaglia ’Sti genidóri mia ’rcontàene che ai tempi de lóra la gentàja c’è stada sempre; te chiamàa per nome fòra de notte, sci uno ce lìa con te, chiamàa como amìgo, envéce te sparàa e non se sapìa chi era stado. I miei genitori raccontavano che ai tempi loro c’è stata sempre la genta glia; se uno ce l’aveva con te, di notte ti chiamava fuori per nome, chiamava come amico, invece ti sparava e non si sapeva chi era stato. A quel tempo nelle 89 Cuélla vo’ ’nté le finè’ non c’era le pursiàne, c’era i scurétti, sarìa i sportèlli. Alla sera i chiudìa sci c’era cualchidù’ presi sott’occhio. ’Nté le finè’ cìa le gattaròle che adè’ mango se véde più ’nvèlle: era fatto de madù’ messi ’mpo’ spari, ’gni tanto c’era cualche fessùra per véde’ de fòra e cuélli fòra non podìa véde’ a cuélli drendo, che li spiàa. L’ho viste anch’io ’nté cuàlca casa vecchia. Ié domannàa a babbo: “Com’è che’nvéce della finè’ c’è cuéi madù’?” E lu’ me rispondìa: “È ’na sigurézza!” Dicìa babbo mia: “Male non fa’ e paura n’avé’!” Prò, tante le ò, anca sci uno era ’nocènte, pe’ sbàjo s’artroàa ’nté i guai. Nonno mia gèra de notte a casa de cuéll’altro fjòlo che ié fedàa ’na vacca; iè scappàdo uno da drèdo ’na fratta, i’ha datto ’na bòtta ’nté la testa co’ la cassa dello schioppo. Nonno luccàa, ma questo i’ha ditto: “Sta’ sitto, scinó t’abbrugio. Bada a caminà’ ché n’era per te, è stado ’no sbajo!” Intanto lu’ ha ’rleàdo, è gido ’mbelpò’ co’ ’no sfri gio sulla fronte. M’arcòrdo che cìa ’na cigadrìce, noà volémma sapé que ìa fatto e lu’ ce l’arcontàa. Ce dicìa che ’l be’ e ’l male c’è stado sempre. Anca le donne che armanìa pregne da gióvene o che scappàa via de notte ’n se portàa be’. Arcontàa nonna che una lìa fatto da niscòsto dei genidóri e po’ lìa messo drendo al grasciàro: è morto, porettì’! finestre non c’erano le persiane, c’erano gli scuri, che sarebbero gli sportelli: se qualcuno era preso di mira, la sera li chiudeva. Nelle finestre c’erano le ‘gat taiole’ che adesso non si vedono più in nessun luogo: erano fatte con mattoni messi un po’ dispari, non ben allineati in modo che ogni tanto ci fosse qualche fessura per vedere di fuori, mentre quel li di fuori non potevano vedere quelli che stavano in casa, che li spiavano. Le ho viste anch’io in qualche casa vecchia. Domandavo a babbo: Come mai, invece della finestra ci sono quei matto ni?” E lui mi rispondeva: “È una sicu rezza!” Diceva anche, però, il mio babbo: “Male non fare e paura non avere!” Però, talvolta, anche se uno era innocente, per sbaglio si ritrovava nei guai. Mio nonno andava di notte da quell’altro suo figlio, perché gli figliava una vacca: gli è usci to fuori uno da dietro una fratta, gli ha dato una botta in testa con la cassa dello schioppo. Nonno gridava, ma quello gli ha detto: “Sta’ zitto, sennò faccio fuoco. Bada a camminare perché non era per te, è stato uno sbaglio!” Intanto lui ha buscato, è andato per parecchio tempo con una ferita sulla fronte. Mi ricordo che aveva una cicatrice, noi volevamo sapere che cosa aveva fatto e lui ce lo raccontava. Ci diceva che il bene e il male ci sono sempre stati. Anche le donne che rimanevano incin te senza essere sposate o che scappavano via di notte, non si comportavano bene. Raccontava nonna che una aveva parto rito di nascosto dei genitori e poi aveva messo (il neonato) dentro il letamaio: è 90 ’N’antra lìa buttado drendo al bugo della ladrìna; una medìa (cuélla vo’ co’ le falcétte), è gida drèdo a ’n cavallétto, ha fatto ’l fjòlo e po’ è ’rgìda a mède’, prò s’ènne ’corti tutti benànca che cìa le gonne lónghe. Fa ribrezzo a ’rcontàllo, allora è mejo como fanne adè’ che pïa la pìndola e vanne a ròde levàde. I fjòli non ci’hanne più tempo nisciù’ a fàlli, se fa nigò currènno, non c’è più tempo mango de fa’ da magnà’, se compra nigò cotto e tutto, anca i monèlli se tròa fatti e tutto: e que volémo da Dio? Dobo è venudo ’l duce, mussolì’: lo scrìo accuscì, ve sta be’? Quella vo’ ’sta brigàja ’n c’era più, era sparìdo nigò, non c’era mango bisogno de ’ncadorcià’ le porte. Se dicìa: “ ’L re col soldàdo, ’l duce col bastó’, ’l prède co’ l’inferno tutto ’l popolo tène fèrmo!” Prò n’è che se stèra tanto be’, sapé’! morto, poverino! Un’altra l’aveva buttato dentro il buco della latrina; una, men tre mieteva (quella volte con le falci), è andata dietro ‘un cavalletto’, ha fatto il figlio e poi è ritornata a mietere; però si sono accorti, sebbene avesse la gonna lunga. Fa ribrezzo a raccontarlo, allora è meglio come fanno oggi che prendono la pillola e vanno a ruota libera. Nessuno ha più il tempo di fare i figli, si fa tutto correndo, non c’è più tempo neppure per preparare da mangiare, si compra tutto cotto e pronto, anche i bambini si tro vano fatti e tutto: e che cosa vogliamo da Dio? In seguito è venuto il duce, musso lini: lo scrivo così, vi sta bene? Allora questa gentaglia non c’era più, era tutto sparito, non c’era neppure bisogno di chiudere le porte con il catorcio . Si diceva: “Il re con il soldato, il duce con il bastone, il prete con l’inferno tutto il popolo tiene fermo!”. Però, non è che si vivesse tanto bene, sapete! Comannàa mussolini Comandava mussolini Adè’ che v’ho mentovado ’l duce, digo che quanno so’ nada e cresciuda io, comannàa mussolini (scusade sci ’sto nome ’l fô a lettra minuscola perché ’nté cuéi anni n’ha cominàde troppe). Io so che ha cominciado a comannà de millenovecentoventidue: io ’ncò’ non c’era al mónno, ma per como m’arcontava ’sti genidori, non era tanto mòrbedo. Ora che vi ho nominato il duce, vi debbo dire che, quando sono nata e cre sciuta io, comandava mussolini (scusa te se questo nome lo scrivo con la lettera minuscola, perché ne ha combinate trop pe). Io so che ha cominciato a comanda re nel 1922: io ancora non ero al mondo ma, per come mi raccontavano i miei genitori, non era tanto morbido. Appena ha iniziato a comandare 91 Appena ha cominciado a comannà’ c’era ’n fradello de mamma che non se volìa fa comannà’ da cuéi fascisti più piccoli de lu’, allora j’hà toccado a gi’ via in Ameriga, ché j’ha dàtto tante de cuélle snerbàde che lìa coppàdo! Ha ditto mamma, che cìa drìa la schina tutta rigada roscia, che jé ci’avìa fatto i solchi, con cuéi nervi che era più grossi delle corde che ce se legàa i tori e le vacche. Dicìa babbo che era ’n materiale insapevole: non era né fèro né corda, ’n materiale molto be’ resistente. E lì toccàa a fa’ cuéllo che dicìa lora, scì non volìi morì torturàdi. c’era un fratello di mamma che non si voleva far comandare da quei fasci sti più giovani di lui. Allora è dovuto andare in America, perché gli hanno dato tante di quelle nerbate che l’ave vano accoppato! Ha detto mamma che aveva la schiena tutta rigata, rossa, che gli ci avevano fatto i solchi, con quei nervi che erano più grossi delle corde, con cui ci si legavano i tori e le vacche. Diceva babbo che erano di un materiale sconosciuto: non era né ferro né corda, un materiale molto resistente. E lì toc cava fare quello che dicevano loro, se non volevi morire torturato. Lupetti e Balilla Lupetti e Balilla In seguito, quando cominciavo a diventare grande, io lo vedevo che, se non facevi quello che dicevano loro (i fascisti), erano guai grossi! Anche a scuola toccava vestirsi come volevano loro. Allora noi femmine avevamo la gonnella nera pieghettata, la camicia bianca, le calze bianche, le scarpe nere e il berretto nero in testa. I maschi, inve ce, chiamati i “Balilla”, pantaloni neri fino al ginocchio, la camicia nera con gli spallini dove ci si infilava un fazzo letto giallo e che era fermato davanti con un cerchietto rotondo di metallo e sulla testa un berretto nero con una nappa nera che penzolava giù per la schiena, scarpe nere e calzini bianchi. Prima, però, c’erano i “ Lupetti” da tre fino a sei anni: quelli erano vestiti Dobo, quanno comensàa a fàmme granna, io ’l vedìa che sci non fèsci cuéllo che dicìa lóra, era guai grossi! Anche a scòla toccàa a vestìsse como che volìa lóra. Allora noà femmene c’émma la gonnella nera pieghettada, la camigia bianga, i calzetti bianghi, le scarpe nere e la beretta nera su la testa. I maschi ’nvece, chiamàdi “i Balilla”, calse nere finànta al ginocchio, la camicia nera coi spallìni che ce ’nfilava un fazzoletto giallo, davanti era fermàdo con cerchietto tónno de metallo e sulla testa ’na beretta nera con mappo che spendolava giù pe’ la schina, scarpe nere e calsetti bianghi. Prima, prò, c’era i Lupetti da 3 anni fina a 6: cuélli era vestidi uguale 92 ai Balilla, ma ’ntorno alla vida ci’avìa ’na fascia granna gialla, allora era chiamadi “i Lupetti”, po’ “i Balilla”, po’ “i Giovini Avanguardisti”, po’ i “ Fascisti”; le fémmene “Piccole Italiane”, “Giovane Avanguardiste”. allo stesso modo dei Balilla, ma intor no alla vita avevano una fascia gran de gialla. Allora la gioventù era chia mata così: i “Lupetti”, poi i “Balilla”, poi i “Giovani Avanguardisti”, poi i “Fascisti”; le femmine “Piccole italiane” 93 E daje a canta’ “Fischia ’l sasso”, “Giovinezza”, “Il Carso era una pròra” e “Noi siamo i squadristi e sotto a chi tocca, noi siamo per Mussolini e guai a chi lo tocca!” E po’ gènno in avanti, co’ la guerra d’Africa, è sgappàda fòra anca questa: e “Giovani Avanguardiste”. E forza a cantare “Fischia il sasso”, “Giovinezza”, “Il Carso era una prora” e “Noi siamo gli squadristi e sotto a chi tocca, noi siamo per mussolini e guai a chi lo tocca!” E poi, andando avanti, con la guerra d’Africa, è uscita fuori anche questa: Co’ la testa del Negus ce fâmo l’orinale, per fa’ piscià’ ’l fascista nazionale. Con la testa del Negus ci facciamo l’orinale, per far pisciare il fascista nazionale. Con la pelle del Negus ce fâmo lo scendiletto per fa’ pistà’ i fascista quanno va a letto. Con la pelle del Negus ci facciamo lo scendiletto per far pistà’ il fascista quando va a letto. C’era chi dicìa anca questa; era como se facéa ’l segno de croce: Nel nome del duce la fame se redùce la sera sensa luce, la notte coi ’rioplà’ la madìna sensa pa’. Quanno se dicìa ‘bongiorno’ se magnàa ’na volta al giorno adè che salutàmo alla romana ’n se magna mango ’na ò la settimana. C’era chi diceva anche questa; era come se si facesse il segno di croce: “Nel nome del duce la fame si riduce la sera senza luce la note con gli areoplàn la mattina senza pan. Quando si diceva ‘buongiorno’ si mangiava una volta al giorno adesso che salutiamo alla romana non si mangia nemmeno una volta la settimana”. Se facéa anca coscì: Si faceva anche così: Cuésto è pel duce, (saluto alla romana) cuésto è pel re, (saluto militare) cuésto pel papa, (ma’ ’nté lo stòmmigo) e cuésto per te. (segno dei corni) S’arcóntàa anca che uno léa fatta “Questo è pel duce, (saluto alla romana) questo è pel re, (saluto militare) questo pel papa, (mano sullo stomaco) e questo per te”. (segno delle corna) Si raccontava pure che uno l’aveva fatta in mezzo alla piazza e ci aveva lasciato scritto: 94 ammèzzo la piazza e ci’aìa lassàdo scritto: Chì la faccio e chì la lascio Per il duce e per il fascio. Sci le tasse na ridùce gnènte al fascio, tutt’al duce! “Qui la faccio e qui la lascio per il duce e per il fascio. Se le tasse non le riduce Niente al fascio, tutta al duce”! Balilla e Figlie della lupa formano la M, indicante Mussolini: al centro l’Italia, rappresentata dalla fanciulla con stella del regno in testa, fascio littorio e stemma sabaudo. La foto è stata scattata, in Ostra, nel cortile dell’oratorio S. Cuore, adiacente alla chiesa di Santa Croce. Sono riconoscibili nella prima fila a sinistra di “figlie della lupa”:1ª Alfa Bonazza – 2ª Marcella Tigrini – 3ª Redenta Sartini – 4ª Nazzarena Della Vedova -5ª Marisa Benni – 6ª Maria Teresa (Sesetta) Bedini – 7ª Agnese Marcellini. Seconda fila di bambine: 1ª Graziella Marcellini - 2ª Anna Bacchiocchi - 3ª Floriana Ferretti. 4ª Fiorisa Bedini - 5ª Mirella Migliorelli - 6ª Elena Paradisi – 7ª Bruna Abbrugiati - 8ª Renza Sellari. Prima fila di “balilla” al centro: 1° Mario Marcellini – 2° Oliviero Migliorelli 3ª (?) - 4° Giorgio Monticelli – 5° Carlo Carbini – 6ª Floriano Frulla – 7° Bedini Attilio – 8° Gabriele Paglialunga – 9° Lamberto Massioni. Fila a destradei“balilla”:1°PierluigiCatozzi–2°LubranoAbbrugiati–3°MarcelloCarbini–4°?–5°Lorenzo Catalani – 6° Rodolfo Luzi – 7° Albo Pettinari - 8° Tarcisio Bedini (pittore). L’Italia è rappresentata da Alfonsina Pettinari. Anno 1936 (Coll. Aldo Paglialunga). 95 Inaugurazione del Monumento ai Caduti in Piazza Vittorio Emanuele (ora Piazza dei Martiri). Ostra, anno 1925 (coll. Giuseppe Antici). Gli Avanguardisti al sabato fascista al Mercatale. Ostra 1939 (coll. Giuliano Sellari). 96 108ª Legione Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale “Stamura”. Autorità ed istruttori del Corso Premilitare – Ostra 24 maggio 1933. In prima fila: Gino Casci – Cristanziano Nardi- Maresciallo CC. – Massimiliano Bosi – Federale(?) – Arrigo Osti – Ercole Osti; -(?) – (?) – (?). In seconda fila: Oddo Massioni – Argentino Argentati – Nello Massioni – (?) – Rodolfo Boschetti – (?) - Adelelmo Chiodi. In terza fila: Roberto Francoletti – Gioacchino Mazzanti – Romano Ruggini – Riccardo Frattesi – Mario Brillanti – Angelo (Otello) Paradisi – Marino Frulla – (?) - (?). In ultima fila: Gino Primavera – (?) – Italo Panni – Vincenzo Sagrati – Giuseppe Catozzi - (?) – Antonio Manoni – Rocchegiani Luigi (coll. Gabriele Balducci). Manifestazione in Piazza Vittorio Emanuele. Ostra, anni ’30 (Coll. Patrizio Manoni). 97 I figli della Lupa: 24 maggio 1935. In prima fila da sinistra: Lena Olivetti - Carlo Carbini - Aurelio Stefanelli - Augusto Frattesi - Aldo Barchiesi - Ciro Casci Ceccacci - Emiliano Mencucci - Francesco Cioci - Maestra Sig.na Santinelli. In seconda fila: Carlo Grilli - Massimo Manoni - Lino Staccioli - Ivano Cappannari - Filippo Papalini - Enzo Mazzanti - Rolando Paglialunga - Fabio Cecchetti. In alto: Ines Figini (ragazza) - Giuliano Coacci – Ezio Bacchiocchi - Alvaro Ambrosini - Carlo Animali (Alighiero) Alfredo Ambrosini - Ornello Olivetti – Giuseppe Paglialunga (coll. Romano Cioci). 98 Anniversari e medàje Anniversari e medaglie E como c’era ’n anniversario de cualcò, mussolini facìa vestì a tutti in divisa e fa’ ’l corteo pe’ la piazza de Montalbòdo e gèra a finì lì davanti al monumento che cuélla ’olta era lì in piazza, dannànse all’orlògio. E i combattenti como babbo, zio e tanti altri che è stadi feridi la guèra del quìnnici, ma è ’rtornadi a casa salvi, se mettìa lì davanti al monumento: due portàa ’na grillànda de bacca ròlo e la banda sonàa la cansó’ “ ’L Piave”. A babbo ’l mettìa guàsci sempre de guardia al monumento, in quattro: uno pe’ spigolo, perché lu’ era stado ferido tre vo’: ’na volta’ nté la testa, ’na scheggia de ’na bombarda nemiga; quanno è morto, ancò lìa drendo alla testa. Benànca ferido gravemente ha aiudado a ’n’amigo che lìa coperto la tèra; lu’ l’ha ’rtirado fòri e j’ha dàtto tante medaje al valor militare. ‘N’antra ’olta jè boccada ’na scheggia ’nté ’n ginocchio, ’n’antra ’olta j’hà spezzado ’na recchia e, quanno è ’rvenudo per sempre, ’l governo j’ha dàtto ’l diploma firmado da Re Vittorio Emanuele III, che adè n’el so ’ndò ‘ndó sta: prima era ’taccado su, lì la càmbora, ma dopo io ho sposado, c’è stada ’n’antra guèra del ’43, boh ’ndó sarà gido a fenì’... Tanto io ’l so a mente, però sci c’era era mejo. Lu’, poretto, ’l tenìa tanto acconto. E come c’era l’anniversario di qualcosa, mussolini faceva indossa re a tutti la divisa, andare in corteo per le vie di Montalboddo e si anda va a finire lì davanti al monumento, che a quel tempo stava lì in piazza, davanti all’orologio. E i combattenti come babbo, zio e tanti altri, che sono stati feriti durante la guerra del ’15, ma sono ritornati salvi a casa, si met tevano lì davanti al monumento: due portavano una ghirlanda d’alloro e la banda suonava la canzone “Il Piave”. Babbo lo mettevano quasi sempre a guardia del monumento, (erano) in quattro, uno per angolo, perché lui era stato ferito tre volte: una volta sulla testa, una scheggia di bombarda nemi ca. Quando (babbo) è morto, ancora l’aveva dentro alla testa. Benché ferito gravemente, ha aiutato un amico che era stato coperto dalla terra; lui l’ha tirato fuori ed ha ricevuto, per questo, tante medaglie al valor militare. Un’altra volta gli è entrata una scheggia in un ginocchio, un’altra volta gli ha spezzato un orecchio e, quando è ritornato per sempre, il governo gli ha dato il diploma, firmato dal re Vittorio Emanuele III, che adesso non lo so dove sta: prima era appeso su (una parete) della camera. Dopo io ho spo sato, c’è stata un’altra guerra nel ’43, boh dove sarà andato a finire... Tanto io lo ricordo a memoria, però se fosse rimasto sarebbe meglio. Lui, poveret to, lo teneva tanto a conto. 99 Le medaje l’ha volsùde drendo la cassetta quanno è morto. ’Gni vo’ che c’era ’na cerimonia, ’l 4 maggio, ’l quattro novembre e l’altre festicciòle che c’era a Montalbòdo, se le ’taccàa tutte davanti. Ce gèmma sempre anche noà monelli, pe’ vedéllo como stèra de guardia: parìa ’na guardia del papa non battìa manco l’occhi. Le medaglie le ha volute dentro la bara quando è morto. Ogni volta che c’era una cerimonia , il 4 maggio, il 4 novembre e le altre festicciole che c’era no a Montalboddo, se le appendeva tutte davanti. Ci andavamo anche noi picco li, per vederlo come stava di guardia: sembrava una guardia del papa e non batteva neppure le palpebre. ’Na creatura pe’ l’esònero Una creatura per l’esonero Babbo ’rcontàa spesso de la guerra del quìnnici. ’Na sera era de guardia alla polveriera co’ n’antro, amìgo como ’n fradèllo. S’èra ’ndormentàdo ’sto pôretto. Passa la spezió’, l’ha ’rtroàdo che dormìa: e i’hà leàdo l’arme. Cuél disgrazziàdo, como òpre l’occhi, se tròa co’ du’ persone avanti l’occhi, sens’arme, s’è messo a urlà’, piàgne forte, dicènno: “Pôro fijo de mamma mia!” Era della bassa Italia. Quanno babbo spesso l’ar cóntàa, ce piagnìa e dicìa: “Io a casa e lu’, pôrìno, a Gaeda!”. Cuéll’altro, cuéllo che lìa scoperto che dormìa, ha ’vansàdo de grado, ma a tempo de guerra i gradi non era bello avècceli, perché, ’l dicìa anca ’sti fradèlli mia, chi cìa i gradi al fronte dovìa gi’ annànse, in prima lìnia. Allora fèra i cagnolì’, se fèra chiappà’ i pidocchi dai soldàdi. Babbo dicìa che a Gaéda c’era le carcere penale che ’nté le celle c’era sempre l’aqua che, sci non la buttà- Babbo raccontava spesso della guer ra del ’15. Una sera era di guardia alla polveriera con un altro, amico come fratello. Questo poveretto si era addor mentato. Passa l’ispezione, l’hanno trovato che dormiva e gli hanno levato l’arma. Quel disgraziato, come apre gli occhi, si trova due persone avanti agli occhi, (era) senza armi, si è messo ad urlare, a piangere forte, dicendo: “Povero figlio di mamma mia!” Era della bassa Italia. Quando babbo spes so lo raccontava, ci piangeva e diceva: “Io a casa e lui, poverino, a Gaeta!” Quell’altro, quello che l’aveva sco perto che dormiva, è avanzato di grado, ma al tempo di guerra non era bello avere i gradi perché, lo dicevano anche i miei fratelli, quelli che al fron te avevano i gradi dovevano andare avanti, in prima linea. Allora faceva no i cagnolini, si facevano acchiappa re i pidocchi dai soldati. Babbo diceva che a Gaeta c’erano le carceri penali, dove, nelle celle, c’era 100 sci via, te lagàa la stansa. Su dritto non ce podìsci sta’, perché la càmbora era molto bassa e dovìsci sta’ curvo. Apposta, quanno uno fa ’n laóro brutto da sforsàsse muntubè’, se dice: “E qu’è como le carcere de Gaéda?” Mi’ padre ha fatto ’l milidàre in Sardegna; ’nté l’isola de Caprera ha fatto anca la guardia al monumento de Garibaldi. Arcóntàa ancó’ che c’era ’n soldàdo che stèra tanto male, marcàa vìsida, l’ha messo in lista, e lu’ stèra cólco che non iéla fèra a sta’ su dritto. È passàdo ’n graduàdo e gli ha ditto, mentre ié dèra ’n calcio: “Àlsade poltróne, ché tu stai mèjo de me!” I’hà risposto ’l tenente medigo: “Scusi capitano, quando dice che il soldàto sta mèglio di lei, io smetto di fare il tenente medico!” Era le due del pomeriggio, alle quattro cuél soldàdo è morto. Quanno ’rcontàa ’ste cose, mi’ padre ié se rîmpìa l’occhi de lagrime. È passàdi tantissimi anni e ’ncó’ me ’rcòrdo. Noà monelli fumma sempre curiosi a fàje ’rcóntà’ della guerra, a pensà’ che dobo ce sèmo passàdi anca noà, ’nté cuéi disastri, ma ’sti genidóri n’ha passàde tre de guerre. Anca du’ sorelle e ’n fradèllo mia n’ha viste tre, era fjòli prò s’arcorda de quanno babbo era in convaliscènsa e dovìa ’rpartì’ in guerra. Lassàa a mamma incinta, s’è svenùda, è cascàda giù per terra, e babbo i’hà ditto: “Io bisogna che parto, scinó vô a finì’ a Gaeta como disartóre. sempre l’acqua che, se non la buttavi via, ti allagava la stanza. Non pote vi stare su dritto, perché la camera era molto bassa e dovevi stare curvo. Apposta, quando uno fa un lavoro brutto e si deve sforzare molto, si dice: “E che è come le carceri di Gaeta?” Mio padre ha fatto il militare in Sardegna; nell’isola di Caprera ha fatto anche la guardia al monumento di Garibaldi. Raccontava pure che c’era un soldato che stava tanto male, marcava visita, l’ha messo in lista e lui stava sdraia to perché non gliela faceva a stare su dritto. È passato un graduato e gli ha detto, mentre gli dava un calcio: “Alzati poltrone, perché tu stai meglio di me!” Gli ha risposto il tenente medi co: “Scusi capitano, quando dice che il soldato sta meglio di lei, io smetto di fare il tenente medico!” Erano le due del pomeriggio, alle quattro quel solda to è morto. Quando mio padre raccontava que ste cose, gli si riempivano gli occhi di lacrime. Sono passati tantissimi anni e ancora mi ricordo. Noi monelli era vamo sempre curiosi a fargli raccon tare della guerra, e pensare che dopo ci siamo passati anche noi, in quei disa stri, ma i genitori ne hanno passate tre di guerre. Anche due sorelle e un fratello mio ne hanno viste tre; erano bambini, però si ricordano di quando babbo era in convalescenza e doveva ripartire per la guerra. Lasciava mamma incin ta, (questa) è svenuta, è cascata per terra, e babbo le ha detto: “Bisogna che 101 Sci vène avanti ’sta creatura avrò l’esonero. Con quattro fjòli, scì Dio me ce fa rigà’, starò a casa per sempre!” Parole confortanti pe’ genidóri e pe’ la moje: lo ’nsumbio sua, per fortuna, è venùdo a luce! io parta, sennò vado a finire a Gaeta come disertore. Se viene avanti questa creatura, avrò l’esonero. Con quattro figli, se Dio mi ci fa arrivare, starò a casa per sempre!” Parole confortan ti per i genitori e per la moglie: il suo sogno, per fortuna, è venuto alla luce! Le fede delle donne alla patria Le fedi delle donne alla patria A babbo j’ha scocciàdo quanno mussolini ha datto l’ordene de consegna’ tutte le fede delle donne (l’ommini cuélla volta non ce lìa). Lu’ cuélla non gné la volìa pròpio da’ alla patria; dicìa: “Io jé l’ho messa ’nté ’l dedo quanno ho sposado, e adesso l’ho da da’ a lóra?” Ma tanto cuélla vo’ toccàa a fa’ coscì e zitti, scinó ’n te podìsci presenta’ manco sul comù a domanna’ cualchiccò... e po’ te pïàa sott’occhio e dopo era càoli amari. A babbo gli ha scocciato quando mussolini ha dato l’ordine di consegna re tutte le fedi delle donne (gli uomi ni quel tempo non ce l’avevano). Lui quella non la voleva proprio dare alla patria; diceva: “Io gliel’ho messa nel dito quando l’ho sposata e, adesso, la devo dare a loro?” Ma tanto quella volta bisognava fare così e zitti, sennò non ti potevi presentare nemmeno sul Comu ne a domandare qualcosa… e poi ti prendevano sott’occhio e dopo… erano cavoli amari! Armàmoce e gìdece Armiamoci e andateci Dicìa babbo mia: “Prima mussolini te dà i soldi per fatte fa’ i monelli, e po’ quanno è granni te li mànna a ’mmazzà’ ”. A lu’ a la guèra del ’15 ié dicìa che, sci ci’avéi quattro fiòli, te dèra l’esonero”. Allora lu’ ce nìa 3 e, quanno è ’rvenudo a licensa ché era stado ferido, n’è stato co’ le mane in ma’, Diceva il mio babbo: “Prima musso lini ti dà i soldi per farti fare i figli, e poi, quando sono grandi te li manda ad ammazzare!” A lui durante la guerra del ’15 gli dicevano che, se avevi quattro figli, ti davano l’esonero. Allora lui ne aveva tre e, quando è tornato in licenza perché era stato ferito, non è stato con le mani in mano, ma ne ha messo al 102 ma n’armésso al monno n’antro: coscì era quattro. Dopo, finìda la guèra, da magna’ gli dovìa da’ lu’. Po’ mussolini, quando è sòrto lu’, dicìa che ’nté ’n metro de tèra ce podìa campà’ quattro persone: pensade vuà quanto se podìa magna’! E po’ mussolini a tutti i soldadi che gèra per terra, per mare e per aria, prima della guerra, dicìa: “Fjòli, armàmoce e gìdece!” mondo un altro: così erano quattro. Dopo, finita la guerra, però, gli dove va dare lui da mangiare. E poi mussoli ni, quando è andato al potere lui, diceva che in un metro di terra potevano cam pare quattro persone: pensate voi quan to si poteva mangiare! E poi Mussolini, a tutti i soldati che andavano per terra, per mare e per aria, prima della guerra diceva: “Figlioli, armiamoci e andateci!” Ojo de rìgeno Olio di ricino M’arcordo che ’na ò babbo era gido a Jesi a porta’ l’oî e i puji a le padrone che all’istade stèra lassù ’nté ’l palazzo accosto a noà, ma quanno c’era la scòla gèra giù ’l palazzo a Jesi: era due ’nsegnanti. Allora sentide che scena! Passàa i fascista giù pe’ la piazza cantanno e a questa donna “jé facea ’mpo’ schifo”, ha ditto. Vedi ’n po’ che ce n’era uno in giro lì che ha ’nteso! L’ha presa in dui, l’ha portada dréndo ’na trattoria, i’ha fatto magnà due piatti de fasciòli. Po’ uno è gido a pïà un lidro d’ojo de rìgeno e jé l’ha fatto be’ tutto. Po’ j’ha tiràdo su la gonna de drìa, l’ha pontàda su la cinta e l’ha portada a spasso accuscì giù pe’ la città. Pensàde ’mpo’ vu’! ’Sta poretta j’èra morto ’l marìdo in guèra: j’èra scappado ditto perché ’n polìa sentì’ tutto ’sto casì. Mi ricordo che una volta babbo era andato a Jesi a portare le uova e i polli alle padrone che d’estate stavano lassù nel palazzo accanto a noi, ma, quando c’era la scuola, andavano giù nel palaz zo a Jesi: erano due insegnanti. Allora sentite che scena! Passavano i fascisti giù per la piazza cantando e a questa donna “le faceva un po’ schifo”, ha detto. Vedi un po’ che ce n’era uno lì in giro che ha sentito! L’hanno presa in due, l’hanno portata dentro una tratto ria, le hanno fatto mangiare due piatti di fagioli. Poi uno è andato a prendere un litro d’olio di ricino e glielo hanno fatto bere tutto. Poi le hanno tirato su la gonna di dietro, gliel’hanno puntata sulla cintura e l’hanno portata a spas so per la città in quella condizione. Pensate un po’ voi! A quella poveretta le era morto il marito in guerra: le erano scappate dette (quelle parole), perché non poteva sentire tutto quel casino. 103 Viva ’l duce, viva ’l re, eia eia alalà! Viva il duce, viva il re eia eia alalà! N’avemo viste e ’ntese de le brutte, ma cuélla ’olta scì te stèra be’, era coscì, scinó te convenìa a fa’ como ha fatto zio che, scì aspettàa ’n’antro po’, jé facìa la buccia: j’ha convenudo a gi’ ann’Ammèriga. Cuélla vo’, prò, ’n c’era la delinquenza como adè, solo che dovésci fa’ nigò, cuéllo che dicea lora. Io m’arcordo, quanno gèra a scòla, anche a noà ci’ha ’mparado la maestra a di’ “viva ’l duce, viva ’l re eia, eia, alalà!” C’era dréndo la scola ritratti granni che pïàa mezzo muro, c’era ’l re con tutta la fameja: la moje se chiamàa la regina Èllena, nata a Montenegro, con le fìje Jolanda, Mafalda, Umberto, Giovanna e Maria, che po’ ha sposado a re Boris d’Ungheria. E po’ c’era mussolini: ’ndò guardàsci c’era la faccia sua e ’l fascio de torcoli ’nté i muri, ’nté i ponti, ’nté le figurette delle strade. ’Ndò guardàsci c’era lu’ e po’ non jé bastava la moje, cìa anca l’amante, Claretta Petacci. Ci’avìa anca due fioli ’sto Benito: a ’na parènte mia, che ha fatto n’antro monello ’mpo’ tardi, e me pare che avìa 44 o 45 anni, e j’hà messo nome Benìdo, allora scì che j’hà dàtto per premio 500 lire! A cuéi tempi butteli via! Dopo, quanno è venuda la guerra ultima, le donne gèra a pròtesta’ che non ce la fèra a gi’ avanti co’ Ne abbiamo viste e sentite delle brut te, ma a quel tempo, se ti stava bene, era così, sennò ti conveniva fare come ha fatto zio che, se aspettava ancora un po’, gli avrebbero fatto la pelle: gli è con venuto andare in America. In quel periodo, però, non c’era la delinquenza come adesso, soltanto che dovevi fare tutto quello che dicevano loro (i fascisti). Io mi ricordo che, quando andavo a scuola, anche a noi la maestra ci aveva insegnato a dire “Viva il duce, viva il re eia eia alalà!” C’erano, dentro la scuola, ritratti grandi che prendeva no mezza parete, c’era il re con tutta la famiglia (reale): la moglie si chiamava la regina Elena, nata nel Montenegro, con le figlie Jolanda, Mafalda, Umberto, Giovanna e Maria, che poi ha sposato il re Boris d’Ungheria. E poi c’era mus solini: ovunque guardassi, nei muri, sui ponti, nelle ‘figurette’ delle strade c’era la faccia sua e il fascio di basto ni. Ovunque guardassi c’era lui e, poi, non gli bastava la moglie: aveva anche l’amante Claretta Petacci. Aveva anche due figli questo Benito (mussolini): a una mia parente che ha fatto un altro figlio un po’ tardi, mi pare che avesse 44 o 45 anni, e gli ha messo nome Benito, allora sì che le ha dato per premio cin quecento lire! A quei tempi buttale via! In seguito, quando è venuta l’ultima guerra, le donne andavano a protestare che non ce la facevano ad andare avanti con la tessera, che i bambini volevano 104 la tessera, allora i monelli volìa magna’, e quanno era la sera, non s’andormentàa perché avìa fame. Allora dicìa: “Compràdeje i giogàttoli e vedréde che dopo s’andormènta!”. Ma cuélla vo’, prò, i fjòli ne morìa ’mbelpo’, era como ’l terzo monno adè. Non c’era manco le medicine è vero, ma se morìa anche dalla racchìa, se campava col latte della madre fino a 3 anni e, dopo sdovezzato, un pezzo de pa’ mollo col vi’. ’Mpo’ cuélla vo’ i fiòli ne nascìa muntibè’, n’ è como adè che dìcene “è troppo uno!”. mangiare e, quando era la sera, non si addormentavano perché avevano fame. Allora diceva (mussolini): “Compra tegli i giocattoli e vedrete che dopo si addormentano!” Quella volta, però, i bambini ne morivano tanti, era come il terzo mondo di adesso. Non c’erano nemmeno le medicine, è vero, ma si moriva anche di rachitismo. Si campava con il latte della madre fino a tre anni e, dopo, tolto il latte, un pezzo di pane bagnato con il vino. Un po’ che a quel tempo di figli ne nascevano parecchi, non era come ades so che dicono: “È troppo uno!” ’N muso, ’na cagnara... se gìa a letto e se passàa Un muso, un litigio… si andava a letto e passava ’Sti giorni su la televisio’ ha ditto che noà d’Ancona sémo cuélli che cémo meno fjòli, adè fa cualchicò, per fàjene fa’ de più, ma inùdole: ha messo la legge che le donne pòlene arbottì, è como la legge della separaziò’. Ma perché a tempo nostro se gèra sempre d’accordo col marido? no! Tante vo’ se portàa ’l muso, chi era più aperti facìa a cagnara, se menavene ’ncò’. A me non m’è mae capitado, le bastonade, ma ’l muso tante le ô. Quanno vedìsci cualcò stòrto, io n’era capace de maltrattallo, allora se mettìa ’n magò ’nté lo stòmmigo e se facìa ’l muso, ma In questi giorni alla televisione hanno detto che noi di Ancona siamo quelli che abbiamo meno figli; ades so fanno qualcosa per fargliene fare di più, ma è inutile: hanno messo la legge che le donne possono abortire, è come la legge del divorzio. Ma perché al tempo nostro si anda va sempre d’accordo con il marito? No! Tante volte si portava il muso: quelli che erano più aperti litigava no, si menavano pure. A me non sono mai capitate le bastonate, ma il muso tante volte. Quando vedevi qualcosa storto, io non ero capace di maltrat tarlo, allora mi si metteva un magone nello stomaco e si teneva il muso ma, 105 dopo ’mpo’, quanno se gìa a letto se passava. Ah sa, sci ’gni volta che fai a cagnara, te vène la voja de gi’ via, ahivoja quante ’olte cambi prima de morì! Ma cuéllo allora non è vero be’: è solo polìdiga! dopo un po’, quando si andava a letto, passava. Eh, se ogni volta che litighi, ti viene la voglia di andare via, hai voglia quante volte cambi (marito) prima di morire! Ma quello, allora, non è vero bene: è solo politica! Léttre ridigole e la censura Lettere ridicole e censura Io magari, quanno facìo l’amore, con la penna ié ’l dicìo tante le vo’ che jé volìo be’, ma quanno c’era lu’ presente non ci’avìa ’l coraggio, doventào róscia come ’mpomodoro. ’Nté le léttre scì che ié ’l dicìa, che po’ le lettre era tutte censurate giù Ancona, e lóra sa quanto ce ridìa! E po’ le rispappolàa cuélle ridigole, come questa: “Cara Terè’ mia, môro per te! Me brillo de qua, me brillo de là, ma a te non te vedo ’nvèlle! Sci tu vedi quajù c’è certi negòzzi e certe bottéghe, altro che ’ndó t’ho pagàdo la vesta róscia, io, lì da Nocè! E po’ tra treni, càmi, ottomòbboli e tranvàai, è peggio de la fiera su da noà. Cara Terè, non ci’ho più gnènte da dìtte. Te mànno tanti baci como cuélli che t’ho dàtto diédro al pajàro della pula. Questo è ’l più bello como cuélla vo’ che passàa lo ’rop làno c’arluzzicàa como ’n vitrio: t’arcordi? Ciao Terè” Antògnio Io, quando ero fidanzata, magari con la penna glielo dicevo tante volte che gli volevo bene, ma quando lui era presente non n’avevo il coraggio, diventavo rossa come un pomodoro. Nelle lettere sì che glielo dicevo, ma poi le lettere erano tutte censurate in Ancona, e loro sa quanto ci ridevano! E poi diffondevano quelle ridicole, come questa: “Cara Teresa mia, muoio per te! Mi giro di qua, mi giro di là, ma non ti vedo in nessun luogo! Se tu vedessi quaggiù, ci sono certi negozi e certe botteghe, altro che dove ti ho pagato la veste rossa, lì da Nocè! E poi fra treni, camion, automo bili e tranvai, è peggio della fiera su da noi. Cara Teresa, non ho più niente da dirti. Ti mando tanti baci come quelli che ti ho dato dietro al pagliaio della pula. Questo è il più bello come quel la volta quando passava l’aeroplano che luccicava come il vetro: ti ricordi? Ciao Terè Antonio” 106 Cuélla vo’, quanno uno saludàa, c’era chi dicìa “ciao!”, ma più che parte se dicìa “nanno”... “nanno” come ai monellétti co’ la manina. Se’mparàa: “Fa’ ’mpo’ nanno!” Allora aprìa e chiudìa ’l pugno, come quanno se fa le ’ntevenóse. ’N’antro scrivìa al padre, s’è sbajàdo: ’nvéce da scrìve’ “caro padre”, ha scritto: “Caro schiòppo, te fô sapé’ che so’ boccàdo drèndo al corpo dei cavalli, so’ cascàdo e me so’ rótto ’na gamba, altrettànto spero de vuà tutti in faméja. Te fô sapé’ che hai da rómpe’ ’l muso alla vacca da sólco, Faòrì, Galantì no. La faétta là da bòra ormai sarà bella! Dìje a mamma sci fa ’l minchió’, ’l fèsse ’nté la padella de mezzo, che quanno l’ha fatto ne mannàsse ’mpezzo anca a me. Te fô sapé’ che fô ’l soldàdo in Ancona, ma co’ ’sta guerra prima da ’rnì in Italia ce serà tempo. Saludi e baci paga la multa e taci”. Cuélla vo’, cioè al tempo de guerra, anca chi era fòri d’Italia perdaéro, non tutti francàa le léttre. Sa que ce scrivìa ’nté la busta: “Mezza lira non la móllo pe’ comprà’ ’l francobollo, metteremo a spese guerra tanto paga l’Inghilterra” Però i’ha risposto coscì: “Son d’accòrdo co’ l’Inglese, che dovrà pagà’ le spese, ma fintànto santo Iddio il bollìn lo metto io”. A quel tempo, quando uno salutava, c’era chi diceva ‘ciao!’, ma più spesso si diceva ‘nanno’, ‘nanno’ come i bambi netti con la manina. Si insegnava: “Fai un po’ ‘nanno’!” Allora (il bambino) apriva e chiudeva il pugno, come quan do si fanno le endovenose. Un altro scriveva al padre, si è sba gliato: invece di scrivere “caro padre” ha scritto: “Caro schioppo, ti faccio sapere che sono entrato dentro il corpo dei cavalli, sono caduto e mi sono rotto una gamba, altrettanto spero di voi tutti in fami glia. Ti faccio sapere che devi rompere il muso alla vacca “da solco”, Favorì non Galantì. Il favino, là dalla parte rivolta a nord, ormai sarà bello! Di’ a mamma che se mi prepara il “minchione”, lo fac cia nella padella, ne mandasse un pezzo anche a me. Ti faccio sapere che faccio il soldato in Ancona, ma con questa guerra, prima che io ritorni in Italia passerà del tempo. Saluti e baci, paga la multa e taci”. Quella volta, cioè al tempo di guerra, anche chi si trovava fuori dell’Italia per davvero, non tutti affrancavano le lette re. Sa che cosa si scriveva sulla busta? “Mezza lira non la mòllo Per comprare il francobollo, metteremo a spese guerra tanto paga l’Inghilterra”. Però gli si rispondeva così: “Son d’accordo con l’inglese che dovrà pagar le spese, ma fintanto santo Iddio il bollìn lo metto io”. 107 Dobo toccàa a pagà’ la tassa a noà; anca mi’ fradèllo ce fèra perché era prima in Albania, po’ in Russia. I soldi che ié mannàmma no’ iè ’riàa: era costretti a fa’ luscì, però ce fèra pagà’ la sopratassa, sci volìsci sapé’ le nodizie (’n’antra vo’: ‘béve o ’ffògade’). Embè, sémo nadi ’nté n’èppoga brutta, ma ’n fradèllo mia e du’ sorelle anca peggio: ha subìdo tre guerre, la spagnòla, la venùda del fascio (l’hanne vissudo dal principio e la fine), n’ha passàde anca più de me, ma... finché s’arcónta va sempre be’. Ah, me so’ scordàda de una che dicìa: “Mi marido non ha volsùdo lassà’ la moje e i fiji, sindó sotta l’arme ormai podìa èsse’ stado colonnello, anca caporale!” La scala gilàrchica sua gèra alla rèdo, ’nvéce da gi’ all’avanti! Dopo dovevamo noi pagare la tassa; anche mio fratello faceva così, perché prima si trovava in Albania, poi in Russia. I soldi che gli mandavamo non gli arrivavano: (i soldati) erano costret ti a fare così, però a noi facevano pagare la soprattassa, se volevi avere le notizie. Un’altra volta: “Bevi o affogati”. Ebbene siamo nati in un’epoca brut ta, ma un fratello mio e due sorelle anche peggio: hanno subito due guerre, la spagnola, l’avvento del fascismo (l’han no vissuto dal principio alla fine), ne hanno passate anche più di me, ma… finché le si racconta va sempre bene. Ah, mi sono dimenticata di una che diceva: “Mio marito non ha voluto lasciare la moglie e i figli, sennò sotto le armi ormai sarebbe potuto essere stato colonnello, anche caporale!” La sua scala gerarchica andava all’indietro, invece di andare in avanti! Quanno cambia vento...! Quando cambia il vento…! Adè che m’arcòrdo, n’ho saltàdo ’mpezzo de cuélla donna che i fascista lìa purgada. Hanne ditto che quanno è gida a casa ’ncò gìa de corpo. Sapéde que ha fatto? L’ha messa drendo ’na bottìja e l’ha chiusa bembè e po’ ’l marido, che ha’rpïàdo dopo, ha ditto: “Lassela sta’, che quanno cambia vento, scì ci’arivo, ancò i’rconóscio: jela fô be’ tutta a ’na ’ngozzada! Adesso che mi ricordo, ne ho salta ta una parte (del racconto) di quella donna che i fascisti avevano purgata. Hanno detto che, quando è tornata a casa, ancora andava di corpo. Sapede che cosa ha fatto? L’ha messa dentro una bottiglia e l’ha chiusa perbene e poi il marito, che aveva ripreso più tardi, ha detto: “Lasciala stare perché, quando cambierà il vento, se ci arrivo, ancora li riconosco: gliela farò bere tutta con 108 Pensàde ’mpo’ vuà che rinvècchio è ’nudo fòra! Altre che lo sciampàgne ch’emo compràdo quanno semo gidi alla gida ’nté la Francia! A sta’ lì più de vent’anni como s’era formentato be’! una ingozzata!” Pensate un po’ voi che invecchiamento ne è derivato! Altro che lo champagne che abbiamo com prato quando siamo andati in gita in Francia! Come si era fermentato bene a star lì per più di vent’anni! De que ce nutrémma noà Di che cosa ci nutrivamo Scusade che ne pïo pezzo ’n qua e pezzo in na. Adè ve vojo parlà’ de que ce nutrémma noà. D’inverno cece, fasciòli, càoli, cicerchia, foje de campo, fava lessa, grespìgni, làssene, melanciàne, peverù’, bisèlli, scarciòfeni, zucche fresche d’istàde e secche d’inverno, cuélle tónne, zalle che magna i porchétti. Se piàa le becche, se bruscàa sul forno per magnà’ quanno c’era cualchidù’ alla diménniga e po’ la buccia dura de fòra se cocìa como ’n pastó’ ai porci e cuéllo de mezzo la lessàa e po’ la condìa co’ lardo, ajo e rosamarì’: bòna perché ’n c’era mejo. ’Sti nonni e genidori conservàa nigò pe’ l’inverno: pomidòri se mettìa al sole le pacche secche, po’, quando le ’dopràa, le mettìa a móllo. La conserva lìa colàda e seccada sopra la tàola della salada al sole finànta che n’èra stretta e po’ la maneggiàa, ce fèra tutti panetti e, quanno scartocciàa ’l granturco, se levàaa ’l panetto de granturco, ’l cartòccio se pulìa bembè’ e po’ ce se mettìa ’sti panetti de conserva; se legàa da cima con Scusate se ne prendo un pezzo di qua e un pezzo di là. Adesso vi voglio parlare di che cosa ci nutrivamo noi. D’inverno cece, fagioli, cavoli, cicerchia, foglie di campo, fava lessata, crespigni, rafani, melan zane, peperoni, piselli, carciofi, zucche fresche d’estate e secche d’inverno, quelle gialle e rotonde che mangiavano i porci e che si lasciavano per l’inverno. Si prende vano i semi, si abbrustolivano sul forno per mangiare la domenica, quando c’era qualcuno, e poi la scorza dura di fuori era cotta come un pastone per i porci e la parte interna veniva lessata e poi condita con lardo, aglio e rosmarino: buona per ché non c’era di meglio. I miei genitori e i nonni conserva vano tutto per l’inverno: i pomodori, tagliati a metà, si mettevano a seccare al sole, poi, quando si usavano, venivano messi a bagno. La conserva veniva cola ta e seccata al sole sopra la tavola della salatura, fino a quando non si era con densata, e poi la si lavorava. Si facevano tutti panetti e, quando si scartocciava il granturco, si pulivano perbene i cartocci e poi si mettevano (all’interno, al posto del tutolo asportato) questi panetti di 109 filo e se conservàa fresca como ’nté la carta oliàda, ma quanno la gèsci a magnà’ n’era ’n granché! Toccàa a méttela a móllo e sfaràlla co’ ’na furcina prima de ’dopràlla, quattro pezzi de lardo con po’ de cuélla era un pastó’, quasci como quello del porchetto. Dobo è venudo fòra ’l salecìdio, se trovàa dallo spizziàle, ma tutti non ne ’l podìa comprà’. Po’ se conservàa i peverù’ sott’acédo, sani, anca spezzàdi; po’ l’ulìa nera ’nté ’na brocca, vettìna, ticèlli, cuéllo che cìsci: sale ajo e finocchio salvadigo. A Nadale, quanno se compràa ’n chilo de melarance, ce se mettia le scòrse per daje ’l prefùmo. L’ulìa vèrda se tenìa a móllo ’nté ’na secchia 40 giorni, cambiàje l’aqua spesso e po’ sotto salamòra e se magnàa a maggio e giugno, condìda co’ ’na cipólla: era bòna. D’istàde che fedàa de più le galline, se mettìa l’ôi sotto calce. I contadì’ fèra ’na buga sotta terra, larga ’n mèdro e mezzo, fónna du’ medri e lì ce smorciàa ’na mezza quintalàda de calcìna: servìa per da’ ’l verdoràmo alle vide, ce se ’mbiancàa le case dréndo, ma chi ié piacìa la pulizìa, perché le case era dei padrù’ e ’l contadì’ svojàdo non ce consumàa la calcìna. Dicìa “tocca al padró’!”, ma i padrù’ se ne fregàa e cualchidù’ dréndo casa era como ’na topàra e ’ndó c’era le gióvene tante le ò, perdaéro, non ci’averìsci magnàdo mango le noce e l’ôi tosti. conserva; si legavano in cima con un filo e (la conserva) si manteneva fresca come nella carta oleata, ma quando andavi a mangiarla, non era un granché! Prima di usarla bisognava metterla a bagno e smi nuzzarla con una forchetta: quattro pezzi di lardo con un po’ di quella (conserva) veniva fuori un pastone quasi come quel lo per il porco. In seguito è uscito l’acido salecidico, si trovava dallo speziale, ma tutti non avevano i soldi per comprarlo. Poi si conservavano i peperoni sott’ace to, interi, anche spezzati; poi l’oliva nera in una brocca, anfora, tegami, in quello che avevi: sale, olio e finocchio selvatico. A Natale, quando si comprava un chilo d’arance, vi si aggiungevano le scorze (di queste) per darle il profumo. L’oliva verde si teneva a bagno quaranta giorni in una secchia, si cambiava spesso l’acqua e poi in salamoia; si mangiava a maggio e giu gno, condita con una cipolla: era buona. D’estate, quando le galline depositano più uova, queste venivano messe sotto la calce. I contadini facevano una buca sotto terra, larga un metro e mezzo, profonda due metri e lì si spegneva un mezzo quin tale di calcina: serviva per dare il verde rame alle viti, ci si imbiancava l’interno della casa, ma soltanto quelli ai quali piaceva la pulizia, perché le case appar tenevano ai padroni e il contadino svo gliato non ci sprecava la calcina. Diceva: “Tocca al padrone!”, ma i padroni se ne infischiavano. La casa di qualche (con tadino) all’interno era una topaia e, dove c’erano le giovani da maritare, talvolta non ci avresti mangiato neppure le noci e le uova sode. 110 L’ôi sotta calce e lo gnométto dei carceràdi Le uova sotto calce e il gomitoletto dei carcerati Allora ’st’ôi sotta calce: se fèra ’n solàro d’ôi e uno de calcìna; i contadì’ grossi ce ne mettìa anca sopra a cento. Anche cuélli, quanno i rompìsci, se squinternàa, ma se magnàa listesso, ce se fèra i maccarù’ all’inverno, quanno c’era cualchidù’. Qualche vo’ la domeniga la frittàda co’ la golétta del porco, co’ ’na salciccia, du’ costarelle, la cipolla. Quanno de Carnoàle du’ castagnòli e cresciòle; po’ le pónte dei vidàlbeni, col mentrasto, coll’ajétto fresco, co’ la farina de granturco: venìa zalla la frittada! Po’ mollìghe de pa’, farina de gra’ e ’mpò’ d’aqua fèra piatto: tutt’ôi non se podìa fa’. Po’ se conservàa i fighi seccàdi al sole o sul forno, bregnù’, ùa, fette de mela, l’ulìa nera e po’, quanno secche be’, como v’ho ditto’n’antra ò, li mettìa ’nté ’na sacchettina bianga. Coi fighi secchi ce se fèra anca le lonze o salami de figo, se macenàa co’ la maghinétta delle salcicce e ce mettemma le noce, ma spezzettade col cortello, ’mpò’ de mistrà che se fèra col vì’ e la somènte dell’anice. Cualchidù ce mettìa la somènte del finocchio salvadigo: chi era più pôrétti. Dobo se mischiàa bembè, se smenàa como ’l massòlo de pa’, se fèra tutte lonzétte e se magnàa all’inverno, ’mpar de fette perù’: era bòni, lì non c’era né conservanti né Allora queste uova sotto calce: si face va un solaio di uova ed uno di calcina; i contadini, che avevano un podere gran de, ce ne mettevano anche più di cento. Anche quelle (uova), quando le rompe vi, si squagliavano, ma si mangiavano ugualmente, ci si facevano i macche roni all’inverno quando c’era (ospite) qualcuno. Qualche volta la domenica la frittata con la ‘goletta’ del porco, con una salsiccia, due costine, la cipolla. A carnevale due castagnole e le ‘cresciole’; poi con le punte delle vitalbe, mentastro, aglietto fresco e farina di granturco: la frittata veniva gialla. Poi molliche di pane, farina di grano e un po’ d’acqua faceva piatto: (una frittata) soltanto con le uova non si poteva fare. Si conservavano, poi, i fichi seccati al sole o sul forno, le prugne, l’uva, fette di mele, l’oliva nera: quando era tutto seccato bene, come vi ho detto un’altra volta, si metteva in un sacchetto bian co. Con i fichi secchi ci si faceva no anche le ‘lonze’ o salami di fico: si macinavano (i fichi secchi) con la mac chinetta delle salsicce, ci mettevamo le noci, spezzettate con il coltello, un po’ di mistrà, che si preparava con il vino e il seme dell’anice. Qualcuno ci metteva il seme del finocchio selvatico: quelli più poveretti. Dopo si mischiava perbene, si lavorava come l’impasto del pane, si facevano tutte ‘lonzette’, che si mangia vano d’inverno, un paio di fette per uno: 111 coloranti; de fòra ce mettémma le brance de figo per falli mantené’ teneri e per la pulizia, legàdi co’ lo spago. Nonna dicìa: “Pïa lo gnomét to dei carceradi!” Coscì li legamma e li taccàmma su come i salami, e lì se tenìa pe’ l’inverno. Appropòsito cuéllo spago era chiamàdo cuscì perché ’l fèra i carceràdi, che ié toccàa a fadigà’ li drendo: n’era como adè’ che ci’hà televisió’, mùsica e donne a piacé’! erano buoni; non avevano né conservan ti né coloranti. Di fuori ci mettevamo le foglie di fico, legate con lo spago, per farli mantenere teneri e per la pulizia. Nonna diceva: “Prendi il gomitoletto dei carcerati!” Così li legavamo e li appen devamo in alto come i salami, e lì si conservavano per l’inverno. Quello spago era chiamato così, per ché lo facevano i carcerati, che doveva no lavorare lì dentro (il carcere): non era come adesso che hanno televisione, musica e donne a piacimento. Fàa coi bugaròzzi e le pastarèlle col pane Fava con i bacherozzoli e i biscotti con il pane Quanno all’inverno se magnàa la fava, c’era i bugaròzzi anca due per àceno: buttàsci via ’l bugarozzo, che chioppàa sotta i denti, e se magnàa lo stesso. Ve digo la verédà almeno lì non c’era i conservanti como adè, fumma como cuélli che ’nté cuélla nazió’ magnàa anca formìghe e bugaròzzi: ’l dicìa ’n giorno la televisió’ e po’ anca i serpenti, cuélli scì ch’era bòni, pe’ lóra! Ma sci vuà ce fade caso anca i monelli vène su mejo che chi da noà, como cuélli dei zingari è tutti belli e baffudelli, benànche enne scalsi, ’n se lava mai e magna male. Envéce chì da noà ’ste donne ié basta un fjòlo solo, cualchidù’ vène su pure padìdo, benànche ci’ha tutti i ben di Dio. Ié compra tutti i biscotti che se tròa ’nté la circolazió’; a Quando all’inverno si mangiava la fava, c’erano anche due bacherozzoli per acino: buttavi via il bacherozzolo, che schioccava sotto i denti, e si man giava ugualmente. In verità almeno non c’erano i conservanti come oggi; erava mo come gli abitanti di quella nazione che mangiano anche le formiche e gli scarafaggi: lo diceva un giorno la tele visione. E poi (mangiano) anche i ser penti: quelli sì che sono buoni, per loro! Ma se voi ci fate caso, anche i bambini crescono meglio che qui da noi, come i figli degli zingari: sono tutti bei paf futelli, benché (vadano) scalzi, non si lavano mai e mangiano male. Invece qui da noi alle donne basta un figlio solo e qualcuno (di questi) viene su anche patito, nonostante che abbia tutti i ben di Dio. (I genitori) gli comprano tutti i biscotti che si trovano sul mer 112 pensà’ che io quanno era monella c’era le padrone ’nté ’l palazzo ’taccado ’nté la casa nostra, e me chiamàa a portà’ fòra la cenera del gatto ’ndó fèra ’l bisogno, e me regalàa due pastarelle. E io, sa que fèra? Le magnàa col pa’, me servìa come companadigo. Quanno ìsci séde, c’era l’acqua della brocca. Pensade vuà, cuélla vo’ non c’era l’inquinamento. Quanno gèmma giù ’l fiume a pïà’ la breccia pe’ ’mbreccià’ le strade de campagna o a mette’ a madurà’ la cànnipa, mollàmma ’l pa’ co’ l’acqua del fiume e, per bé’, fèmma ’na bughetta e lì bevemma. cato; e pensare che, quando ero bambi na, le padrone che stavano nel palazzo unito a casa nostra, mi chiamavano per portare fuori la cenere, dove il gatto faceva i suoi bisogni, e mi regalavano due biscotti. E io sa che cosa facevo? Li mangiavo con il pane, mi servivano da companatico. Quando avevi sete, c’era l’acqua della brocca. Pensate voi: a quel tempo non c’era l’inquinamento. Quando andava mo giù al fiume a prendere la ghiaia per imbrecciare le strade di campagna o per mettere a maturare la canapa, bagnava mo il pane con l’acqua del fiume e, per bere, facevamo una buchetta e lì beve vamo. ’L pa’ sopra nigò Il pane sopra ogni cosa Le pastarèlle era bòne, ma anca’l pa’ era bòno, sapé! ’L pa’ per noà era sopra nigò; sènsa ’l pa’ ’n sarìa qua! Quanno c’era ’l pa’ e ’na rénga taccàda ’nté ’l camì, eri appòsto: ’gni tanto gèsci là co’ ’na fetta de pa’, ié dèsci ’na sfregàda e lì magnàsci. La rénga armanìa lì, giorni e giorni, finànta c’èra’mpo’ de sale. Pïo de qua e zómpo de là, prò adè volìa ’rcóntà’ de ’na ò, quanno se fèra ’l pa’ de casa. Quanno pioìa, io, ch’ero la più piccola, non sapìa fa’ ’ncó’ a rigamà’, a fa’ cuéi laóretti deligàdi. Allora mamma tessìa, ’ste sorelle rigamàa, a me che era più scartarèlla, me toccàa a staccià’ I biscotti erano buoni, ma anche il pane era buono, sapete! Il pane era sopra ogni cosa, senza il pane non sarei qua! Quando c’era il pane e un’aringa attaccata nel camino, eri a posto: ogni tanto andavi là con una fetta di pane, gli davi una sfregata (nell’aringa) e lì mangiavi. L’aringa rimaneva lì giorni e giorni, fino a quando c’era un po’ di sale. Prendo di qua e salto di là, però adesso volevo raccontare di una volta, quando si faceva il pane di casa. Quando pioveva, io, che ero la più pic cola, non sapevo ancora ricamare, fare quei lavoretti delicati. Allora mamma tesseva, le mie sorelle ricamavano; a 113 pe’ ’l pa’, ma era ’n laóro che non me gèra a cicerchia. Allora sa que fera? Envéce de buttà’ ’mpiàtto de farina pe’ staccia, ce ne buttàa du’ pe’ staccia, coscì me s’è sfonnàda la staccia e ho ’rtroàdo ’l modo, almanco pe’ ’na ’olta, per lassà’ gi’ de staccià’. Dobo, co’ ’na staccia sola, ha toccàdo a finì’ a nonna, ché alla madìna dobo c’era da fa’ ’l pa’. Po’, finìdo de staccià, toccàa a tirà’ giù ticèlli, pigne, cupèrchi, mortale, macenetto del pepe, del caffè, cioè del’orzo, e spolverà’ nigò, leà le ragnadéle: era ’na rottura ogni otto giorni. Prima de fa’ ’l pa’, a casa nostra, c’era sempre da fa’ ’sto laóro; apposta adè’ n’ho più voja de pulì’, perché troppo presto m’ha toccàdo a comincià a pulì’ la casa. Prò la fecènna che me’rmanìa de più’nté lo stòmmigo era sempre a staccià pe’ ’l pa’. Anca dobo sposàda me toccàa guasci sempre, me salvàa solo i quaranta giorni da ’nfantàda: cuélle vo’ me rispettàa perdéro: sarìa ’na buciàrda sci dicesse che non me sparagnàa le fecènne grosse. ’L pa’ era ’na fécènna che giva fatta bembè. Quattro cinqu’ore prima de sera se dovìa métte’ a móllo ’l lèvido; quanno era tutto móllo be’, se fèra ’na buga granna drendo la conca della màttera, ’ndó c’era la farina già stacciàda, e co’ ’mpo’ d’aqua càlla se mettìa giù ’sto lèvido sfaràdo bembè: ’n cìa da ’rmàne’ nisciù’ granèllo e me, che ero la carta meno utile, toc cava stacciare (la farina) per il pane, ma era un lavoro che non mi andava a cicerchia (non sopportavo). Allora sa che facevo? Invece di buttare un piatto di farina per staccio, ce ne buttavo due per staccio, così mi si è sfondato e ho trovato il modo, almeno per una volta, per lasciare andare di stacciare. Dopo, con uno staccio solo, è toccato a nonna finire (di stacciare), perché la mattina dopo c’era da fare il pane. Poi, finito di stacciare, toccava tira re giù i tegami, le pignatte, coperchi, mortaio, macinino del pepe, del caffè, cioè dell’orzo. E spolverare ogni cosa, levare le ragnatele: era una rottura ogni otto giorni. Prima di fare il pane, a casa nostra, c’era sempre da fare que sto lavoro; apposta adesso non ho voglia di pulire, perché troppo presto mi è toc cato incominciare a pulire la casa. Però la faccenda che mi rimaneva di più sullo stomaco era sempre stacciare per il pane. Anche dopo sposata mi toc cava quasi sempre, mi salvavano solo i quaranta giorni di puerperio: quelle volte mi rispettavano per davvero: sarei una bugiarda se dicessi che non mi risparmiavano le faccende grosse. Il pane era una faccenda che andava fatta perbene. Quattro cinque ore prima di sera si doveva mettere a bagno il lie vito; quando era tutto ben bagnato, si faceva una buca grande dentro la conca della madia, dove c’era la farina già stacciata, e con un po’ di acqua calda si metteva giù questo lievito sfarinato perbene: non ci doveva rimanere nes 114 l’aqua dev’èsse’ stàda càlla, ma no’ a scottà’, scindó ’l pa’ venìa bréncio. Dobo messo giù ’sto lèvido e l’aqua calla, ce se mettìa ’mpo’ de farina, se mistigàa ’mpo’ lento e se ’rcoprìa co’ ’na sfiòràda de farina e ce se fèra ’na croce. La madìna dobo toccàa alsàsse presto, d’istàde vèro le tre, d’inverno vèro le cinque. Toccàa piccià ’l fôgo, métte’ a scallà’ l’aqua ’nté ’l caldàro, no’ boìda, ma càlla be’, sìa da riscallà’ nigò, lèvido e farina, ch’era drendo la màttera,’mpastà’ be’ e dobo se smenàa bembè, po’ s’armettìa drendo la conca, tutt’ammùcchio, se coprìa co’ ’na toàja e ’na cupèrta pe’ ’na mezz’ora; po’ s’arfèra ’l massòlo, ’mpo’ per vo’ sa smenàa finànta che n’era fina ’sta pasta, e via le file ’nté le tàole co’ ’na tovàja e ’n tra ’na fila e ’n’antra se fèra ’na pieghetta co’ ’sta tovàja, pe’ no’ falla taccà’ e s’arcoprìa co’ la tovàja e cuperta, all’inverno anca due cupèrte: ’nté le case c’era freddo muntubè, spèce sci la cucina n’era sopra la stalla. Ah, m’è nûdo ammènte: finìdo de fa’ le file o pagnotte del pa’, da ùltimo se lassàa a règola ’na pagnotta pe’ fa’ le cresce e ’na pagnottella per fa’ ’l lèido: sopra cuèsta chì ce se fèra ’na croce col cortèllo e se mettìa ’nté ’mpiàtto pe’ la volta che s’arfèra ’l pa’ drendo la conca. Quanno se fèra ’l pa’ de Sant’Antò’, se fera ’na croce anca su tutte le pagnotte. Fra tanto ’n’ômo scallàa ’l forno e, quann’era callo, tutto bell’anfo- sun granello e l’acqua doveva essere calda, ma non scottare, sennò il pane veniva aspro. Dopo, messo giù questo lievito e l’acqua calda, ci si metteva un po’ di farina, si mischiava un po’ lenta mente e si ricopriva con una spolverata di farina e ci si faceva una croce. La mattina dopo toccava alzarsi presto, d’estate verso le tre, d’inverno verso le cinque. Toccava accendere il fuoco, mettere a scaldare l’acqua nel caldaio, non bollita, ma calda bene, si doveva riscaldare ogni cosa, lievito e farina, che era dentro la conca, impa stare bene e dopo si lavorava perbene, poi si rimetteva dentro la conca, tutto a un mucchio, si copriva con una tovaglia e una coperta per una mezz’ora, poi si rifaceva la massa, poi si lavorava un po’ per volta fino a quando non era una pasta fine, e via i filoni nelle tavole con una tovaglia e, tra un filone e l’altro, si faceva una pieghetta per non farle attaccare e si ricopriva con la tovaglia e coperta, all’inverno anche due coperte: nelle case c’era molto freddo, specie se la cucina non era sopra la stalla. Ah, mi è venuto in mente: finito di fare i filoni o pagnotte del pane, in ulti mo si lasciava di solito una pagnotta per fare le cresce e una pagnottella per fare il lievito: sopra questa qui ci si faceva una croce con il coltello e si metteva in un piatto per la volta che si rifaceva il pane dentro la conca. Quando si faceva il pane di Sant’Antonio, si faceva una croce anche su tutte le pagnotte. Frattanto un uomo scaldava il forno e, quando era caldo, tutto bell’infuocato, 115 gàdo, tiràa via i carbù’ pe’ facce la carbonella, pulìa la piana co’ ’l móndolo e infornàa, quanno le file s’era sollevàde be’. Rîmpìdo ’l forno bembè, se mettìa ’l chiùso e, co’ la pala che se’nfornàa, se fera ’na croce sopra, ’nté i madù’ de sopra al chiuso. tirava via i carboni per farci la carbo nella, puliva la piana con il ‘móndolo’ e infornava, quando i filoni si erano ben lievitati. Riempito il forno perbene, si metteva il ‘chiuso’ e, con la pala con cui si infornava, si faceva una croce sopra, nei mattoni di sopra al ‘chiuso’. Suppa lombarda e sardelle Zuppa lombarda e sardelle ’N’antra cosa bòna da magnà’ cuélla vo’ era la zuppa lombarda, che piacìa tanto alla pôra nonna. Se fèra alle quattro de sera, per vint’ore1, anca col pa’ muffo: gli odori e l’acédo iè levàa ’mpo’ ’l sapore della muffa. E po’ c’èra le sardèlle. M’arcòrdo che, quanno se vendegnàa, alla sera se pistàa l’ua coi pìa, du’ tre omini dréndo a cuéi tinacci granni, finànta le undici, anca finànta a mezzanotte e dobo se magnàa du’ sardelle, no’ alice cuélle che c’è adè’. Era pròpio sardella, che mango se vede più in circolazió’, eppure era bòne ’mbelpo’: sarà che c’era anca la fame! Un’altra cosa buona da mangiare a quei tempi era la ‘zuppa lombarda’, che piaceva tanto alla povera nonna. Si preparava alle quattro di pomeriggio, a ‘vint’ore’, anche con il pane ammuffito: gli odori e l’aceto gli toglievano un po’ il sapore della muffa. E poi c’erano le sardelle. Mi ricordo che, quando si vendemmiava, la sera si schiacciava l’uva con i piedi, due o tre uomini dentro quei tini grandi, fino alle undici, anche fino a mezzanotte, e dopo si mangiavano due sardelle, non le alici che ci sono oggi. Erano proprio sardine, che nemmeno si vedono più in circolazione; eppure erano molto buone: sarà che c’era anche la fame! 1 vint’óre: ossia “venti ore” a partire dal suono dell’Ave Maria del giorno precedente, che d’estate avviene verso le ore venti. Pertanto la merenda di “vint’óre” cadeva intorno alle ore sedici. 116 Capanna con forno e porcile (foto Dino Ferro 1968). ’L mortòrio Il funerale Co’ ’sto discorso chì, del magnà’, c’è compreso anca quanno se gèra a ’ccompagnà’ ’l morto. Quanno morìa qualche vicinado, due gèra a chiamà’ ’l morto: uno segnàa la gente che ce gèra e cuél’altro intanto parlàa del morto, di como era morto e dicéa l’orario dell’accompagno. Po’ uno gèra a güérnà’ le vacche o tori o pegore, da magnà’ a conìj, pui, e ’na donna gèra a preparà’ da magnà’ per cuélli de casa e anca pei parenti. E guàsci sempre toccafisso o baccalà. E lì se mucchiàa ’mbèl branco, era ’l modo pe’ riunìsse assieme. ’L giorno che fèra ’l mortorio, ’na donna co’ ’na canèstra de Con questo discorso del mangiare è compreso anche quando si andava ad accompagnare un morto. Quando mori va qualche vicino di casa, due (persone) andavano “a chiamà’ ’l morto” (ad invi tare per il funerale): uno segnava le per sone che ci andavano e quell’altro intan to parlava dello scomparso, di com’era morto, e diceva l’orario del funerale. Poi uno andava a governare le vacche, i tori, le pecore, a dare da mangiare ai conigli, ai polli, e una donna andava a prepa rare da mangiare per quelli di casa ed anche per i parenti. E quasi sempre stoc cafisso o baccalà. E in quell’occasione se ne ammucchiava un bel branco, era il modo per riunirsi (tutti) insieme. Il giorno in cui si faceva il funerale 117 fette de pa’, ’n gran piatto de lonza passàa da magnà’ a tutti, compreso ’l prede e ’l beccamorto. ’N’antra donna passàa da be’. C’era cualchidù’ se fèra anca quattro bicchieri de vi’, sci era bòno. Quella vo’ ce volìa ’l beccamòrto pe’ vestì’ i morti, fusci obligàdo a chiamàllo. Allora a casa del morto, quanno dèra ’na fetta de pa’, passàa da be’ con bicchiero solo, a lu’, prò, ié dèra ’n bicchiero per conto sua, perché èrane schifi. Dalle parte de mi’ marìdo, a Corinaldo, ’l beccamorto se portàa drìa ’na mezza palla, sarìa ’n palló’ tajàdo a midà, e bevìa lì. Certo era ’na bella chìcchera! ’L beccamorto anca de battidùre iudàa per pïà’ du’ acini de gra’; quann’era ora de magnà’ nisciù ce gèra co’ lu’ a magnà’ ’nté li stesso piatto. Era ’na porzió’ per due, anca tre: coscì se magnàa anca per tre. Lu’ era solo e se pappàa nigò e co’ ’sta palla bevìa, fèra Pasqua, prò fadigàa ’ncó’ eh! E se portàa a casa ’l gruzzoletto del gra’: per lu’ gèra be’, anca sci duràa quaranta giorni la battidùra. Làsso pèrde’ ’sto beccamorto arpìo ’l mortòrio. Finìdo bembè’ l’accompagno, du’ conoscenti o vicinadi se mettìa uno per parte, avanti al cancello del Camposanto, e a tutti se pagàa, segondo como podìa: cuélla vo’ se dèra ’na lira a cuéi granni, i monelli dieci soldi, e cuélli che portàa la grillanda ié dèra du’ lire, perché pesàa più della una donna passava da mangiare a tutti, compreso il prete e il becchino, con una canestra di fette di pane e un gran piat to di lonza. Un’altra donna passava da bere. C’era qualcuno che si beveva anche quattro bicchieri di vino, se (questo) era buono. Quella volta ci voleva il becchino per vestire i morti, eri obbligato a chia marlo. Allora in casa del morto, quando davano una fetta di pane, si passava da bere con un bicchiere solo; a lui, però, si dava un bicchiere solo per lui, per ché ne erano schifi. Dalle parti di mio marito, a Corinaldo, il becchino portava con sé una mezza palla, ossia un pallone tagliato a metà, e beveva lì. Certamente era una bella chicchera! Anche durante la trebbiatura il bec chino aiutava per prendere due chicchi di grano; quando era ora di mangiare, nessuno andava a mangiare con lui nello stesso piatto. Era una porzione per due, anche per tre: così (il becchino) mangiava anche per tre. Lui era solo e si pappava tutto e con quella palla beveva, faceva pasqua, però lavorava pure eh! E si portava a casa il mucchietto di grano: per lui andava bene, anche se la trebbia tura durava quaranta giorni. Lascio perdere il becchino e ripren do il funerale. Finito perbene l’accom pagno, due conoscenti o vicini di casa si mettevano, uno per parte, davanti al cancello del camposanto, e pagavano tutti, secondo le possibilità (della fami glia del morto): a quel tempo si dava una lira agli adulti, ai bambini dieci soldi, e a quelli che avevano portato la ghir landa due lire, perché (questa) pesava 118 candela. Cuélla vo’ chi gèra ’compagnà’ ’l morto ’nté le famèje tutte cìa ’na candela chi da ’n chilo, chi da mezzo chilo, secondo como passàa la casa. Sgappàdi da la porta del camposanto, cuélli ch’era gìdi a chiamà’ ’l morto invidàa a magnà’ lì l’osteria da Lisa. Chi podìa de più fèra ’l toccafìsso, i più pôrétti ’na sardèlla. Quanno po’ se magnàa se dicìa: “Caro Giuà, mentre tu fésci ’l viaggio delle Tabarnèlle, i tua fedèli compagni magnàvane ’l toccafìsso lì da Lisa”. Po’, quanno cualchidù’ ’ccendìa la pipa, dicìa: “Caro Giuà, la tèra che te copre fusse leziéra como ’l fume della pipa!” Envéce, quando morìa qualche angioletto dicìane “’no scudo e ’mpiànto, in paradìso santo” e a noà monelli ce dèra ’no scudo perù’ perché, sci era ’na fémmena ce li volìa per fàje la dòda e sci era maschio cualchidù’ l’apprezzàa anca de più. A noà monelli, po’ ce dèra da magnà’, a tutti sul taolì’, perché c’era da caminà’ a pìa per parecchi chilomedri, toccàa a rescì’ diedro i cavalli che portàa ’l carettó’. Cuéll’angioletti piccolini o portàa la cassettina quattro maschietti più granni o la portàa ’n omo solo e ié se dèra ogni tanto ’l gàmbio. Anca cuélla vo’ c’era diferènsa ’n tra ’l pôretto e lo ricco: lo ricco pïàa ’l carrettó’ de prima che cìa tutte tendine nere co’ tutte strisce color d’oro e i cavalli co’ le cuperte più della candela. Quella volta, per chi andava ad accompagnare il morto, tutte le famiglie avevano una candela, chi da un chilo e chi da mezzo, secondo come se la passavano. Usciti dalla porta del camposanto, quelli che erano andati “a chiamà’ ’l morto” invitavano a mangiare lì l’oste ria da Lisa. Quelli che avevano maggiori possibilità offrivano lo stoccafisso, i più poveri una sardella. Mentre, poi, si man giava, si diceva: “ Caro Giovanni, men tre tu facevi il viaggio delle Tavernelle, i tuoi fedeli compagni mangiavano lo stoccafisso lì da Lisa”. Poi, quando qual cuno accendeva la pipa, diceva: “Caro Giovanni, la terra che ti copre sia legge ra come il fumo della pipa!” Invece quando moriva un bambi no, si diceva “uno scudo e un pianto, in paradiso santo” e a noi bambini ci davano uno scudo per uno perché, se era una femmina ci volevano (gli scudi) per farle la dote e se era un maschio lo si apprezzava anche di più. A noi bambini , poi, ci davano da mangiare, a tutti, sul tavolo, perché c’era da camminare per parecchi chilo metri: bisognava riuscire a star dietro ai cavalli che trasportavano il carretto ne. La cassettina degli ‘angioletti picco lini’ la portavano quattro maschietti più grandi o un uomo solo e gli si dava ogni tanto il cambio. Anche quella volta c’era distinzione tra il povero e il ricco: il ricco prendeva il carrettone di prima (classe) che aveva tutte tendine nere con le strisce color oro e i cavalli bardati con coperte nere, 119 nere guarnìde li stesso e su la testa dei cavalli un bel pennacchio alto di tutti i colori. Envéce morìa ’n pôretto, de segonda: carro vecchio che se vedìa dréndo la cassetta, i cavalli sensa gnè e tanti anca ’n cavallo solo. Embè? È ’rmasta solo la morte giusta, de resto non c’è niè. guarnite nello stesso modo, e sulla testa un bel pennacchio alto di tutti i colori. Invece, se moriva un povero, (si faceva il funerale) di seconda: carro vecchio che lasciava vedere dentro la bara, i cavalli senza niente e molti anche un solo caval lo. Ebbene? È rimasta solo la morte giu sta, del rimanente non c’è niente. Il mortorio: donne con candele. Pianello di Ostra, luglio 1955 (coll. Gabriele Balducci). La jànda e ’l porchetto grasso La ghianda e il porco grasso Babbo, quanno gèra in giro, scì vedìa ’n chiòdo, ’n dado, ’rcoìa su nigò. A tempo della jànda, ’rivàa a casa co’ le saccòcce pîne, benànche che c’émma ’na fila de cèrque e tutte le madìne se alsàmma presto Babbo, quando andava in giro, se vedeva un chiodo, un dado, raccoglieva tutto. Al tempo della ghianda, ritornava a casa con le tasche piene (di ghianda), benché avessimo una fila di querce e tutte le mattine ci alzavamo presto per 120 arcòjela, scinó c’era cuéll’altri contadì’ che la fregàa: da ’na parte della strada era la nostra, prò cascàa anca su cuéllo de lóra e la sua cascàa da noà. Chi era più svéltri rîmpìa ’l canè’ o ’l bóssolo. E po’, quanno tiràa ’l vento se alzàmma allo scuro, como se vedìa... prònti lì. Se fèra a nàsta chi n’arcojéa de più. Quanno era madùra, se montàa su alto a bàttela o, da per tèra se tiràa la mazzafrómbola. La jànda se dèra ai porchétti d’ingràsso, fresca e secca sul forno. Cuèsta se portàa a macenà’ pe’ fa’ ’mbèl pastó’,’n bel bevéró’ pe’ ’l porchetto. E la carne del porchétto era ’mbelpò’ più bòna che adè’, tanto i magri che ’l grasso: più c’era ’l lardo bello e più te stimàa ’l padrò’. Vôl di’ che ìsci datto da magnà’ a stufo, e lóra se pïàa la pacca bella pulìda, midà de nigò, anche ’l sangue ié piacìa. Noà ’l cocémma ’nté ’na téja de ràmo col fôgo sotta e sopra: era chiamàdo a smijàccio1. Prò ’l mazzarèllo, finànta che sgappàa ’l raccoglierla, sennò gli altri contadini ce la prendevano: da una parte della stra da (la ghianda) era nostra, però casca va anche sul terreno loro e la loro cade va sulla terra nostra. Chi era più svelto riempiva il canestro o il bossolo. E poi, quando tirava il vento, ci alzavamo col buio: non appena ci si vedeva… erava mo pronti lì (sotto le querce). Si faceva a gara a chi ne raccoglieva di più. Quando (la ghianda) era matura, si saliva sulla pianta a batterla con un palo o da per terra si scagliava la mazzafrombola. La ghianda si dava ai porci d’ingrasso, fre sca e seccata sul forno. Questa si portava a macinare per preparare il pastone, un bel beverone per il porco. E la carne del porco era molto più buona di (quella di) adesso, tanto il magro quanto il grasso: più il lardo era alto, più ti stimava il padrone. Voleva dire che avevi dato da mangiare in abbondanza (al maiale), del quale i padroni si pigliavano una pacca bella e pulita e metà di tutto, anche il sangue gli piaceva. Noi lo cuocevamo in una teglia di rame con il fuoco sotto e sopra: era chiamato “a smijàccio”. Per cuocerlo “a smijaccio” con lo zucchero, 1 smijàccio: piatto tipico locale, detto più comunemente “porcellétto”. Si prepara così: prendere un tegame o una teglia, ungerla con lo strutto, versarvi due mestoli di sangue, facendolo passare in un colino e tre mestoli di acqua, aggiungere sale, pepe, aglio a spicchi. Prendere poi dei grassi (es.: omènto) e dei magri (i “rosci” di maiale, ossia la carne più insanguinata, quella che si trova sotto la gola (il cannàccio), un po’ di milza ecc.) e metterli a cuocere a pezzetti con un po’ di strutto e cipolla in una padella, salare, un po’ di pepe e farli cuocere bene, affinché venga fuori tutto il grasso liquido, e poi aggiungere il tutto nel tegame del sangue: fuoco sotto e sopra finché non si forma una crosticina. Se si dovesse stringere troppo, si aggiunga un po’ di acqua calda, secondo come piace a ognuno: denso o morbido. 121 sangue, ’l dovìa muscinà’ sensa fermàsse, scinó doventàa subbedo duro, tutt’an tozzo, ch’era, prò, bòno pe’ lessà’. De ’sto sangue a smijàccio ce ne dèra ’na cucchiajàda perù’ a colazió’, anca a cena delle vo’; ’l fèra bastà’ ’na ventina de giorni. Anca lésso tante le ò ’l fèra co’ ’na cipollétta: era bònissimo... e coscì passàmma la vida. il ‘mazzarello’, finché usciva il sangue, doveva mescolarlo senza fermarsi, sennò (questo) diventava subito denso, tutto un coagulo che, però, era buono per les sare. Di questo sangue “a smijàccio” ce ne davano un cucchiaio per uno a cola zione, talvolta anche a cena; lo facevano durare una ventina di giorni. Qualche volta lo preparavano anche lessato con una cipolletta: era buonissimo… e così passava la vita. Vento de’ porci, ladri, ranocchie e ricci Vento dei porci, ladri, ranocchie e ricci Lassù a San Bonaventura d’inverno gelàa nigò, fèra ’nté i coppi certi bombolù’! ’N tra ’l gelo e la neve fischiàa’, po’, la bora: se dicìa ’l vento de maro. Altri tempi tiràa ’l vento dei porci, cualchidù’ ié dice ’l burì, la curina. Adè che se parla del vento me vène pensado che era l’occasió’ bòna pei ladri. De notte, quanno c’era ’l vento grosso, approfittàane: ’l vento fèra rimóre, intanto nascondìa che lóra sbottàa. Anca quanno c’era la luna pîna, era ’n’occasió’ bòna: coscì vedìa be’ i pui e i dindi che dormìa su le piante. Vedìa be’ anca a gi’ a sbarcà’ i passeri ’nté i pajàri e i pulàri, ma cuélli almànco te domannàa paré; te chiamàa e te dicìa: “Se pôle sbarcà’?” Èrene in tre quattro: due tenìa lo sbarco granno e uno o due menàa co’ ’mpàlo a sfugà’ i passeri e ne chiappàa mun- Lassù a San Bonaventura d’inverno gelava ogni cosa, faceva certi ghiaccioli grossi! Tra il gelo e la neve, poi, fischia va la bora: si diceva il vento di mare. Altri tempi tirava il vento dei porci, qualcuno lo chiama “il burì”, “la corì na” (sciroccco). Adesso che si parla del vento, mi viene pensato che era l’occasio ne buona per i ladri. Di notte, quando c’era il vento forte, (questi) ne approfit tavano: il vento faceva rumore, intanto copriva i loro colpi. Anche quando c’era la luna piena (era un’occasione buona per i ladri): così vedevano bene i polli e i tacchini che dormivano sulle piante. Si vedeva bene anche per andare a pren dere con lo “sbarco” i passeri nei pagliai e nei pulari, ma quelli almeno ti chia mavano e ti dicevano: “Si può ‘sbarca re’? Erano in tre quattro: due tenevano lo sbarco grande e uno o due menavano con un palo per mettere in fuga i passeri 122 tibè’, spece quanno c’era la née. Pe’ magnà ié fèra nigò. De notte se gèra co’ la ciància o co’ la cendilèna a chiappà’ le ranocchie ’nté le pozze, ’nté ’l fiume; sci venìa bellighènno, se fermàa ’nté cuàlche casa e se mettìane a giogà’ a carte. C’era mi’ genero, che gèra dal nònneso,cìa ’l surbùjo ’nté ’n fosso granno: sci ce pistàsci te fonnàsci, como le sabbie mòbbole: sci gèsci lì te ’ntruffolài, fonnàsci lì e ’n gné la fèsci a ’rnì’ fòra. Lì ce stèra tante ranocchie, ’n tra cuélla sbiòbba ce vivéa be’; po’ quanno pioviggicàa venìa ’n tra ’l scì e ’l no dell’aqua, se chiappàa mèjo. Tutto cuésto ’l fèva pe’ ’rmagnà’ ’mpo’ de carne. Sa, anca quanno gèmma a ’rcòje la iànda, sotta la cerqua c’era cuàlche riccio, perché cuélli magna la iànda, finànta che c’è, dobo magnarà i vèrmini. Allora i pïàmma e po’ quanno s’allóngàa, ié dèra co’mmartèllo. Fintanto che morìa mettémma a bóje’ ’na padellàda d’aqua; quanno l’aqua trescàa, se dovìa buttà’ giù ’sto riccio. Po’ ié se fèra la barba co’ lo rasóre e se magnàa anca la pelle: piccàa ’na massa ’nté la bocca, prò è bòno, ci’hà ’l sapore della carne del porchétto. Quanno non c’è mèjo, è bòno: “Quanno non c’è mèjo, se va a dormì’ co’ la móje!” Cuéi tempi bastàa che fusse stàdo carne tutto era bòno, perché la carne se magnàa de rado, n’è como adè’ che se magna tutti i giorni e, po’ cuèlla scelta:’l grasso tutto via! e ne acchiappavano molti, specie quan do c’era la neve. Per mangiare andava bene ogni cosa. Di notte si andava con la ‘ciancia’ o con la lampada ad acetilene ad acchiappare le rane nelle pozze, nel fiume; se veniva piovigginando, si fer mavano in qualche casa e si mettevano a giocare a carte. Mio genero andava da suo nonno, che aveva un acquitrino in un fosso grande: se ci mettevi un piede, ti affondavi, (era) come le sabbie mobili: e andavi lì, ti ingarbugliavi, affondavi lì e non gliela facevi a venirne fuori. Lì ci stavano tante rane, tra quella melma ci vivevano bene; poi, quando piovigginava, venivano tra il sì e il no dell’acqua e le si acchiappava meglio. Sa, anche quando andavamo a rac cogliere la ghianda, sotto le querce c’era qualche riccio, perché quelli mangia no la ghianda, fino a quando (questa) c’è, dopo mangeranno i vermi. Allora li prendevamo e poi, quando (il riccio) si allungava, gli si dava (una botta) con il martello. Fintanto che non moriva, si metteva a bollire una padellata d’acqua; quando l’acqua bolliva, si doveva butta re giù questo riccio. Poi gli si faceva la barba con il rasoio e si mangiava anche la pelle: piccava un sacco nella bocca, però (il riccio) è buono, ha il sapore della carne di porco. Quando non c’è di meglio, è buono: “Quando non c’è di meglio, si va a dormire con la moglie!” A quei tempi bastava che fosse stato carne, tutto era buono, perché la carne si mangiava di rado, non era come adesso che si mangia tutti i giorni e poi quella scelta: il grasso via tutto! 123 I frutti bòni de ’na ò La frutta buona di una volta Noà de frutti ce n’émma ’mbelpò’. Prima de tutti i mandolì’, che fiorìa de gennaro. C’è anca la cansona: Giovanottina che pòsci fiorire come la mandolella de gennàre ’riverà lo vento primaverile e da le fronde te farà cadere E da le fronde te farà cadere te levarà la palma da le mane. Te levarà la palma e po’ ’l mazzetto ’rtorna a far l’amor bel giovanétto. Te levarà la palma e po’ lo fiore bel giovanétto torna a fa’ l’amore. Po’ rivàa le ceràse; cuélle prò ’n ce l’émma. Allora gèmma a rubàlle da ’n vicinàdo che ce nìa tante de piante, grosse como le cerque. Mi’ fradèllo montàa su alto, rompìa le verzèlle e me le buttàa giù. Io arparàa sotta co’ la veste. Po’ ’rivàa le brùgnole, le pera de San Giovanno, po’ i bregnù’ zalli, i ventèllétti, cuélli de San Piedro, cuélli spertigù, i susini, le pera brutte e bòne, cuélle a campana, cuélle moscadèlle, cuélle de San Luìge, cuélle sùcchero a manna, pera William, cuélle de San Jàgomo e cuélle de Sant’Anna; po’ i perastrù’ d’inverno, le pera brénce, po’ le melella de tante razze che ’ncó’ le ’nsumbio, cuélle rosétte, cuélle bianchèlle, le mela codógne, le mela granàde, mela verde, mela rustiga, mela guanciòla roscia, melella donne, che non Noi avevamo molta frutta. Prima di tutti i ‘mandolini’ (mandorle immatu re), che fiorivano a gennaio. C’è anche uno stornello: Giovanottina che possa fiorire come la mandolella de gennàre, ’riverà lo vento primaverile e da le fronde ti farà cadere. E da le fronde ti farà cadere ti levarà la palma da le mane. Ti levarà la palma e po’ ’l mazzetto ’rtorna a far l’amor bel giovanétto. Ti levarà la palma e po’ lo fiore bel giovanétto torna a fa’ l’amore. Poi arrivavano le ciliegie, quelle, però, non le avevamo. Allora andava mo a rubarle da un vicino che ne aveva tante piante, grosse come le querce. Mio fratello saliva sull’albero, spezzava i rametti e me li buttava giù. Io li ripren devo da sotto con la veste. Poi arrivavano (a maturazione) le prugne, le pere di San Giovanni, poi le susine gialle (le gocce d’oro), i ‘ventellet ti’, le prugne di San Pietro, quelli ‘sper tigù’, le susine, le pere brutte ma buone, quelle a campana, quelle moscatelle, quelle di San Luigi, quelle ‘zucchero e manna’, le pere William, quelle di San Giacomo e quelle di Sant’Anna; poi le pere grosse d’inverno, le pere aspre, poi le melelle di tutte le qualità che ancora le sogno, quelle ‘rosa’, quelle ‘bianchelle’, le mele cotogne, le mele granate, le mele verdi, le mele rustiche, le mele a guancia rossa, le melelle donne, che non ci sono più in circolazione, rosa gentile e poi i 124 c’è più in circolazió’, rosa gentile e po’ i fighi della signora, rustighelli. verdacchi, bianchelli, nerelli, a melanciana, cuéi rodolù’ le noce, le màndole, i lazzaròli (nome italiano bumbriàli) infine le giuggiole, le sòrbe, le nespole: “Quando vedéde le nespole piagnéde, perché è l’ultimo frutto dell’istàde”: E scì, le se mettìa a madurà’ ’n tra la paja, era bòne. E co’ ’sta robba ce se fèra colazió’. Non v’ho ditto ancó’ dei pèrsi chi: pèrsichi spìccia l’osso, persichi zalli, guanciòla roscia e zalla senza pelo, rosci, persichi rustighelli, era tutti cuélli che c’émma noà. Anca i brecòccoli. Insomma babbo piantàa nigò e sapìa ’nnestà’ nigò. E tutto l’anno c’era sempre cualchicò’. I frutti se portàa anca al padró’, al fattore, alla sarta, al calsolàro, allo sparanghino, ’ndó che se lavamma i pìa quanno gèmma a Montalbò, se’ rcordàmma ’mpò’ de tutti, chi fèra del be’. C’era ’mpo’ più amore, adè’ è tutti affaristi, non te darìa mango ’na corda pe’ strozzàtte: questo è ’n dittado! Adè’ hanne buttado giù nigò, ma non se magna più i frutti bòni como cuélla vo’ che se maduràa ’nté la pianta col sole; adè’ n’è finidi de crésce’... e via ’nté i caloriferi, frigoriferi, comi li volémo chiamà’. Io quanno ci’arpènso quanto era bòni ’nté cuélle piante vecchie! È como se dice per dittato: “È la gallina vecchia che fa bòn bròdo!” fichi della signora, i rustichelli, i ver dacchi, bianchelli, nerelli, a melanzana, quelli ‘rodolù’, le noci, le mandorle, i lazzaroli (nome italiano ‘i bumbriàli’); infine le giuggiole, le sorbe, le nespole. “Quando vedete le nespole, piangete, perché è l’ultimo frutto dell’estate”. Eh sì, le si mettevano a maturare tra la paglia, erano buone. E con questa frutta si faceva colazione. Non vi ho parlato ancora delle pesche: pesche spiccagnole, pesche gial le, pesche guancia rossa e gialla senza peli, rosse, pesche rustichelle: sono tutte quelle che noi avevamo. Anche le albi cocche. Insomma babbo piantava tutto e sapeva innestare tutto. E tutto l’anno avevamo qualcosa. I frutti si portavano anche al padro ne, al fattore, alla sarta, al calzola io, al conciapiatti, (alla casa) dove ci lavavamo i piedi quando andavamo a Montalboddo: ci ricordavamo un po’ di tutti quelli che ci facevano del bene. C’era un po’ più amore, adesso sono tutti affaristi, non ti darebbero neppu re una corda per strozzarti: questo è un modo di dire! Adesso hanno sradicato tutte le piante, ma non si mangia più la frut ta buona come quella che si maturava sulla pianta con il sole; adesso (i frutti) non hanno finito di crescere… e via nei caloriferi, frigoriferi, come li vogliamo chiamare. Io ripenso a quanto erano buoni su quelle piante vecchie! Come si dice per proverbio: “È la gallina vecchia che fa buon brodo!” 125 I conti col padró’ I conti con il padrone Magàra avessìma portato solo i frutti al padró’! A cuéi tempi fadigàmma tanto e non se mettìa da ’na parte gnè; era poghi chi cìa la posció del sua, fumma guàsci tutti sotto padró’. Noà, quanno ’nco’ c’era vivi i nonni, fumma 10 persone, ’nté sei èttri de terra. ’L padró’ piàa ’l settanta e noà ’l trenta, ma se dèmma tutti da fa’ e da magnà’ non c’è mangàdo mae. Dicìa babbo: “Poveri scì, ma ricchi d’onore! È meio ’n piatto de bòna cera che uno de maccarù!”. Avìa ragió’! ’Na ò, se portàa la robba al padró’: 12 ôi al mese, 40 de carnoàle e 50 de Pasqua; po’ ’mpàr de cappù’ a San Tomàsso, ’mpàro a Nadale anno nòo, le galline a carnoàle, le pullàstre anno nòo, tutti i mesi verdura frutti ajo cipolle; agosto, appéna finìdo da mède’, un par de galli co’ ’n mazzo de spighe de gra’: tante spighe per quanti cavalletti o barchette. Si diceva: “Porto ’l cónto dei cavalletti al padró’ co’ ’sti galli”. Sci tenìsci dìndi o òga, toccàa a portàjene una; prò quanno venìa fòra, non volìa véde’ ’ntorno casa ’l gra’ o l’ùa beccada: e que i’émma da dàje, le brustolìne? Prò noà non se podìa fa’ ché all’istàde erane sempre lì, ma ce volìa be’ perché le rispettàmma. Tenémma anca i dindi, ma li gèmma a curà’ ’nté i campi granni dei vicinadi: quanno Magari avessimo portato soltanto la frutta al padrone! A quei tempi fatica vamo tanto e non si risparmiava niente; erano pochi quelli che avevano il podere in proprietà, eravamo quasi tutti sotto padrone. Noi, quando ancora i nonni erano vivi, eravamo dieci persone in sei ettari di terreno. Il padrone prendeva il settanta (per cento) e noi il trenta, ma ci davamo tutti da fare e da mangiare non c’è mai mancato. Diceva babbo: “Poveri sì, ma ricchi d’onore! È preferibile un piatto di buona cera (a testa alta), che uno di maccheroni!” Aveva ragione! Una volta si portava questa roba al padrone: dodici uova il mese, quaranta a Carnevale e cinquanta a Pasqua; poi un paio di capponi a San Tommaso, un paio a Natale e anno nuovo, le galline a Carnevale, le pollastre l’Anno nuovo. Tutti i mesi verdura, frutti, aglio e cipolle; ad agosto, appena terminato di mietere un paio di galli con un mazzo di spighe di grano: tante spighe per quanti ‘cavalletti’ o ‘barchette’. Si diceva: “Porto il conto dei cavalletti al padrone con questi galli”. Se tenevi i tacchini o le oche, bisognava portagliene una; però, quando veniva (a controllare), non vole va vedere intorno casa il grano o l’uva beccata: e che cosa gli davamo da becca re, i brustolini? Però noi non potevamo tenere i tacchini e le oche attorno casa, perché d’estate (le padrone) stavano sempre lì, ma ci volevano bene, perché noi le rispettavamo. Tenevamo anche i tacchini, ma li andavamo a “curare” 126 era battudo e ’rcòlto la spiga, non dicìa gnè, tanto ce lavoràa co’ le vacche e ’l pertigaro. Tante le ò se dèra ’na ma’ a fa’ ’na faccènna. A la fine dell’anno ’l fattó’ tiràa ’l conto dell’entrade e delle spese e, quanno era la fì’ era sempre più le spese che ne ’l guadagno. E coscì pe’ ’l contadì’ c’era la meno parte. Anca quanno tajàmma la legna giù pei fossi, fèmma lo scapeccio, podàmma le vide, toccàa a daje sempre la midà, perché cuélla vo’ non ce lìa nisciù’ i riscallamenti. Noà che cémma la casa tutta sbuganàda como ’na croellétta, mettémma su ’na fascina per vo’, per riscaldasse ’mpo’. Babbo, quanno ié facìa ’l conto ’l fattó’, dicìa sempre: “C’è qualche sbajo, prò va be’!”. Tanto ’l sapìa che su qualcò avìa di scigùro ’mbrojàdo, ma toccàa a sta’ sittti. Sul fattó’ c’era ’n dittàdo che dicìa: “Lasseme fa’ ’l fattore ’n anno, sci non m’arricchiscio io, sarà ’l mio danno”. (farli beccare) nei campi grandi dei vicini: quando avevano raccolto la spiga e trebbiato, non dicevano niente, tanto ormai aravano il campo con le vacche. Qualche volta si dava loro una mano a fare una faccenda. Alla fine dell’anno il fattore tira va il conto delle entrate e delle spese e, alla fine, erano sempre più le spese che il guadagno. E così, per il contadino, c’era la parte più piccola. Anche quan do tagliavamo la legna giù per i fossi, facevamo la capitozzatura, potavamo le viti, toccava consegnare sempre la metà, perché a quel tempo nessuno aveva i riscaldamenti. Noi, che avevamo la casa tutta buchi come una ‘croelletta’, mette vamo sul fuoco una fascina alla volta, per riscaldarci un po’. Babbo, quando il fattore gli faceva il conto, diceva sempre: “C’è qualche sba glio, però va bene!” Tanto lo sapeva che su qualcosa di sicuro l’aveva imbroglia to, ma bisognava stare zitti. Sul fatto re c’era anche un proverbio che diceva: “Lasciami fare il fattore un anno, se non mi arricchisco io, sarà il mio danno”. I baci da séda I bachi da seta Adè ve vojo ’rcontà’ ’mpo’ della fadìga dei contadì’ de ’na ò. Se comensàa vèro maggio a alsàsse alla madina vèro le 4 quanno c’era i baci da seda a daje da magnà’, a mudàlli, métteli ’nté i cartù pulidi, a fa’ la foja. Noà fèmma un’oncia e tre e quattro Adesso vi voglio raccontare un po’ della fatica dei contadini di una volta. Si cominciava verso maggio ad alzarsi la mattina verso le quattro, quando c’era da dare da mangiare ai bachi da seta, mutarli, metterli nei cartoni puliti, fare la foglia. Noi ne allevavamo un’oncia e 127 ottavi, ma c’era qualche contadì’ ne fèra anca due once. Noà c’émma ’n logàle pei baci granno e lóngo ’na decina de medri, com’èra granno e lóngo’l palazzo sotta, era tutto all’andró. C’émma ’na bella brigattiéra fatta a castèllo e ’na ventina de sturì’ per parte; ce volìa ’na scala a libretto per montà’ ’nté l’ultime file su cima a dàje da magnà’, mudàlli. E pensà’ che se gèra a pïàlli co’ ’na scatolétta granna pogo più de ’n pacchétto de sigarette; dobo 4-5 giorni già era 4-5 cartù’ pîni. Dal princìpio se spezzàa la foja de mòro fina como i tajolì’, dobo sempre più grossa como le tajadèlle. Passàdi i primi quattro giorni, i baci dormìa tre giorni, gambiàa la pelle e po’ s’arisvejàa. Coscì pe’ n’antre du’ volte: quattro giorni magnàa e tre dormìa. Quanno se svejàa cìa la magnarellétta pe’ quattro giorni, dormìa n’antri tre e po’ s’arisvejàa e cìa la magnarèlla. Magnàa notte e dì, ’n se fermàa mae: parìa che piòìa ’nté la brigattiera. Crescìa sotta l’occhi: appena nadi è grossi como ’na virgola e ’nté poghi giorni crescìa ’l triplo, venìa grossi como ’n dédo mignolo. Toccàa a mudàlli ’n giorno scì e uno no, sempre i cartù’ pulìdi e la foja co’ la magnarèlla ié se dèra sana. Dèra gusto a guardàlli: comensàa la foja da cima finànta a pìa. Prima da gi’ in séda, stèra ’n giorno ’ncantàdi, non magnàa, e po’ arcomensàa a magnà’. Tenémma la brigattiera ben pulìda, tre o quattro ottavi, ma qualche conta dino ne allevava anche due once. Per i bachi noi avevamo un locale grande e lungo una decina di metri, com’era grande e lungo il palazzo al pianterre no: era tutto l’androne. Avevamo una bella bigattiera fatta a castello e una ventina di ‘sturini’ per parte; ci voleva una scala a libretto per salire sulle ulti me file in alto a dare da mangiare ai bachi e a mutarli. E pensare che si andava a prenderli con una scatoletta poco più grande di un pacchetto di sigarette; dopo quat tro o cinque giorni già erano quattro o cinque cartoni pieni. Al principio si spezzava la foglia di gelso, fina come i ‘tajòlini’, in seguito sempre più grossa come le tagliatelle. Dopo i primi quattro giorni i bachi dormivano per tre gior ni e cambiavano la pelle. Poi altre due volte mangiavano per quattro giorni e dormivano per tre. Quando si sveglia vano avevano la ‘magnerelletta’ per quattro giorni, dormivano altri tre gior ni e, quando si risvegliavano, avevano la ‘magnarella’ per otto giorni. Man giavano notte e giorno, non si ferma vano mai: sembrava che piovesse nella bigattiera. Crescevano a vista d’occhio: appena nati sono grossi quanto una virgola e in pochi giorni crescevano il triplo, diventavano grossi come un dito mignolo. Bisognava mutarli un giorno sì ed uno no, sempre i cartoni puliti, e la foglia con la ‘magnarella’ gli si dava intera. Si provava piacere a guardarli: cominciavano (a mangiare) la foglia in cima fino in fondo. 128 la foja dovìa èsse’ bella sciucca; sci pioìa, toccàa a tajà’ le rame ’nté ’l moro e mèttele a sciuccà’ drendo ’l magazzì’. A noà i mori non ce bastàa, gèmma a fa’ la foja ancó’ da qualche contadì’ che cìa i mori e non fèra i baci. Chissà che ce parìa a gi’ a casa d’altri! ’Sti baci a gi’ be’ bisognàa fàlli gi’ in séda drendo ’n mese, ma, sapéde, c’èra chi non cìa tanta pulizia e ié ne gèra a male muntibè’. L’ultimi giorni bisognàa parlà’ piano, non fa’ rimóre; pïàmma la paletta ’nfôgàda e ce buttàmma l’acédo, ché dicìa che favorìa de gi’ in séda. Quanno tiràa la curìna non sìa da roprì’ le finè’, non fa’ boccà’ drendo ’l vento scinó i baci se trasformàa a vacche: sarìa che non fa ’l bozzo per niè, armanìa lì mezze morte como ’n vermine, coscì: Prima d’andare in seta, stavano un giorno incantati, non mangiavano, e poi riprendevano a mangiare. Tenevamo la bigattiera ben pulita, la foglia doveva essere ben asciutta; se pioveva, bisogna va segare i rami del moro e metterle ad asciugare dentro il magazzino. I mori non ci bastavano, andavamo a fare la foglia da qualche contadino che aveva i mori e non allevava i bachi. Chissà che cosa ci pareva ad andare a casa d’altri! Bisognava che questi bachi andas sero in seta più o meno in trentasei giorni, ma, sapete, c’era chi non aveva tanta pulizia, così molti gli andavano a male. Gli ultimi giorni bisognava par lar piano, non fare rumore; prendevamo una paletta infuocata e ci buttavamo sopra l’aceto, perché si diceva che favo riva l’andare in seta. Quando tirava lo scirocco non si dovevano aprire le fine stre per non fare entrare il vento, sennò i bachi si trasformavano in ‘vacche’, ossia non facevano il bozzolo per nien te, rimanevano lì morti come un verme, così: (vedi illustrazione). Per quando andavano in seta, biso gnava aver preparato il ‘bosco’: ci si mettevano le ‘frattelle’ con la senape messa a seccare, i rafani, la paglia e l’intelaiatura esterna era fatta con stri sce di canna o con sarmenti d’oppio. In un giorno, l’ottavo della ‘magnarella’, se andava bene, (i bachi) salivano tutti alle ‘frattelle’ a fare il bozzolo. C’erano sempre, però, alcune ‘fiappe’ e qualche ‘doppione’, ossia due animali in un boz zolo solo. Quelli scelti erano fatti così. Per quanno gìa in sèda, toccàa avé fatto ’l bosco: ce se mettìa le frattelle fatte con la sennipa messa a seccà’, le lassene, la paja e il casso de fori era fatto co’ le breghe de canna o le rocce d’oppio. ’Nté ’n giorno, l’ottavo della magnarella, sci gèra be’, gèra tutti 129 ’nté le frattelle a fa’ ’l bozzo. C’era sempre, prò, ’mpo’ de fiappe e qualche doppió’, che sarìa due annimali ’nté ’n bozzo solo. Cuélli scelti era fatti coscì: Invece le ‘fiappe’ e i ‘doppioni’ così: E questi valevano meno, passavano di seconda. Quando i bachi andavano in seta, c’era sempre qualcuno che ci veniva ad aiutare, perché in quei giorni ci incontrava il fieno, l’acqua alle viti, dare lo zolfo e la foglia tutti i giorni. Erano giorni duri. Io mi ricordo che, quando ero piccola, ho preso una decina di bozzoli e poi l’ho nascosti dentro una scatola di scarpe per paura che i geni tori mi sgridassero, ma non sapevo che, dopo un po’ di tempo, diventavano far falle. Allora una notte si svegliano babbo e mamma, sentono questo gran rumore, avevano quasi paura a guardare den tro a quella scatola. Quando ci hanno guardato, hanno visto quelle farfalle che svolazzavano e i bozzoli tutti bucati; hanno pensato subito che soltanto io, che ero una bambina, avevo potuto fare una pazzia simile. E, allora, riprendo il filo del discorso di questi bachi. Quando erano diventati bozzoli, dopo qualche giorno si staccavano dalle ‘frattelle’, e si chiamavano anche i vicini, lavora vamo insieme perché ci voleva molto a staccarli. Si mettevano in un lenzuolo bianco ben puliti e dopo li ritiravano le filande. Il padrone, che non aveva fatto niente, andava a riscuotere i soldi e li metteva nei conti alla fine dell’anno. I conti li facevano loro (il padrone e il fattore), che avevano studiato, men tre il contadino no: così te la rigirava no tanto bene. Babbo, però, era esperto e non lo imbrogliavano, tanto la scuola sua valeva come la terza media d’oggi. Envece le fiappe e i doppiù’ coscì: E questi valìa meno, passàa de segonda. Quanno gèrene in séda c’era sempre cualchidu’ che ce venìa aiudà’, perchè cuéi giorni lì ci’ancuntràa ’l fié’, l’aqua a le vìde, da’ ’l sólfo e la foja da fa’ tutti i giorni. Era giorni duri. Io m’aricordo quann’ero piccola, ho preso’na decina de bozzi e po’ l’ho piattadi drendo ’na scàttola de scarpe per paura che ’sti genidori me sgaggiàa, ma non sapìa che, dopo ’mpo’ de tempo, doventàa papelle, allora ’na notte se sveja babbo e mamma, sente ’sto gran rimóre, avìa guàsci paura de guardacce drendo a ’sta scattola. 130 Quanno ci’ha guardado vede ste’ papelle che svolazàa e i bozzi tutti bughi; ha pensado sùbbedo che altro io che era ’na monella podìa avé’ fatto ’na mattidà coscì. E allora arpìo la pendégola de ’sti baci. Quanno era diventadi bozzi, dobo ’n po’ de giorni se staccàa dalle frattelle, e se chiamàa anca i vicinadi, fèmma insieme perché ce volìa muntubè’ a staccàlli. Se mettìa ’nté ’n linsòlo biango ben pulidi e dobo li ritiràa le filandre e ’l padró’, che n’avìa fatto gnè, gèra a riscòde i soldi e li mettìa a conti alla fine dell’anno. I conti li fèra lóra ch’ìa studiàdo, ’l contadì’ no: coscì te la ’rgiràa tanto be’. Babbo, prò, era ’spèrto e ne ’l fregàa, tanto la scòla sua valìa como la tersa media adè’. Colono che rastrella la “lozza”, ossia i rifiuti dei bachi da seta. San Bonaventura di Ostra 1941 (coll. privata). Dai baci e dai lòghi còmmedi… a la tèra e ai Merécani! Dai bachi e dai gabinetti… alla terra e agli Americani A cuéi tempi, como v’ho ditto, i contadì’ fèra i baci perché valìa muntubè’ i bozzi scelti: c’era la prima, la seconda e la tersa scelta. Le ‘vacche’ n’arendìa gnè, i piàa pei verminàcci, anca quanno ìa filàdo la séda del bòzzo bòno: cuéi ch’era drendo i servìa pe’ l’uccèlli, pe’ la caccia, pe’ la pesca. Anca lì era como ’l porco: ’n se buttàa via gnè. Quella robba dei lètti dei baci (caccoli e nervi delle fòje, c’è chi la chiamàa la ‘lòzza’), se stendìa A quei tempi, come vi ho detto, i con tadini allevavano i bachi, perché vale vano molto i bozzoli scelti: c’erano di prima, di seconda e di terza scelta. Le ‘vacche’ non valevano niente, le prende vano per i vermacci, anche quando era stata filata la seta del bozzolo buono: quelli che erano dentro servivano per gli uccelli, per la caccia, per la pesca. Anche in questo caso era come per il porco: non si buttava via niente. La roba dei letti dei bachi (feci e nerva tura delle foglie, c’era chi la chiamava 131 La sbozzolatura, ossia la ripulitura dei bozzoli, davanti alla porta del Consorzio Agricolo Provinciale di Casine di Ostra nel giugno 1942. Delle 24 donne attorno al tavolo sono riconocibili a partire da destra: 1ª Ester Reginelli - 2ª Liliana Giancamilli - 3ª Anna Bedini – 4ª Severina Mari – 5ª Natalina Frattesi- 6ª Mariannina Moretti – 7ª ? – 8ª Lina Pirani - 9ª Giannetta Antoncecchi – 10ª Marcella Paradisi – 11ª Jone Paradisi - 12ª Irma Olivetti – 13ª Bianca Fabbri - 14ª Nara Cursi – 15ª Bellocchi Elvira – 16ª Augusta Veschi 17ªGinaManoni-18ErsiliaPierpaoli–19ªOrtenziaGalli –20ªAnnaMancini–21ªIldaCandi–22ªStamura Pachieca – 23ª Rosalia Berrettini – 24ª Elvira Catozzi (coll. Giuliano Sellari). 132 ’ntéll’àra co’ lo rastèllo, ’gni tanto se giràa pe’ fàlla seccà’. Quann’era secca bembè, se dèra alle bestie. Como la buttàmma fora, sci c’era qualche vacca i puj i dindi era rabbìdi pe’ beccàlle; cuàlca ’olta magàra ci’armanìa anca ’mbacio o due, se fèrene a sbezzigòtti ché tutti ’l volìa. Prò cuéi giorni te fera schifo a magnà’ l’ôi, non li ’dopràmma, se vendìa a chi ne ’l sapìa! N’è che l’ôi era tristi, perché tanto, quanno i puj stèrene fòra, ruspàa sempre e beccàane nigò: sempre cercà’ i vèrmini ’n tra la gràscia, c’era i gabinetti drédo a ’na pianta, a’mpajàro, nigò in giro; tanto anca ’l Signore l’ha ditto: “Fumma pólvera e ’rdoventàmo polvera!” Quanno se pulìa ’l lògo còmmedo,’ndó se buttàa? ’Ntéll’orto: càoli, scarciòfeni e fàa! Chi cìa ’l cagatóre, ’n cappannacio fatto de cannucciàja, ’gni tanto toccàa scarcàllo, almanco ’n se fèra alla pèggio, che tante case toccàa a sta’ ’tènti da non pistàcce, quanno era de battedùre, succedìa ’nté cuàlche posto e po’ ’ndó c’era ’mbranco de monelli. Noà per quello tanto gèra be’: era muràdo sotta a quello del padró’. L’òpra se divertìa a gìcce, perché luscì non ce lìa nisciù’. Dicìa mi’ sòcero, che lóra gèra a scarcà’ i lòghi còmmedi ’nté ’l paese de notte, che ié toccàa a daje cualchicò’ de regalo, perché te ’l fèra scarcà’: era concime pe’ la tèra, anca pe’ l’orto. la ‘lòzza’), veniva stesa sull’aia con il rastrello, ogni tanto si girava per farla seccare. Quando s’era seccata perbene, si dava alle bestie. Se c’era qualche ‘vacca’, non appena la buttavamo fuori, i polli, i tacchini erano rabbiosi per beccarla; qualche volta, magari, ci rimaneva anche un baco o due: (i polli e i tacchini) facevano a beccate, perché tutti lo volevano. Però in quei giorni ti faceva schifo mangiare le uova, non li usavamo, si vendevano a chi non lo sapeva (che cosa avevano beccato le galline).Non è che le uova fossero cattive, perché tanto, quando i polli stavano fuori ruspavano sempre e beccavano di tutto: sempre a cercare i vermi nel letame, c’erano i gabinetti dietro una pianta, un pagliaio, tutto in giro. Tanto anche il Signore ha detto: “Eravamo polvere e ridiventiamo pol vere!” Quando si puliva il gabinetto, dove si buttava? Nell’orto: cavoli, car ciofi e fava! Chi aveva il ‘cagatore’, un capannaccio fatto di cannucciaia, ogni tanto doveva scaricarlo. Almeno non la si faceva dove capitava, perché in tante case, al tempo della trebbiatura, biso gnava stare attenti a non calpestarla; capitava in qualche posto, specie dove c’era un branco di bambini. Noi, in que sto, andavamo bene: c’era il gabinetto in muratura sotto a quello del padrone. La manodopera si divertiva ad andarci, perché così non ce l’aveva nessuno. Diceva mio suocero, siccome insie me con quelli di casa andava di notte a scaricare i gabinetti in paese, che dove va regalare qualcosa, perché glielo face 133 Ha ditto che portàa a vende’ certi fiori de càoli, belli como cuélli ’n ce lìa nisciù’. Adè’ gné se dà più ’ntéll’orti, ché dice che fa venì’ la salmonella. Per forsa, con cuéi detersivi, cuéi acidi che c’è e peggio ancó’ cuéi diserbanti, cuéi pesticidi che c’è in circolazió’! Adè dai baci so’ gida a fenì’ ’nté la tèra, anca de cuèsto me piacerìa a di’. Como ho ditto, adè ’nté la tèra ’l gabinetto ’n ce sa da buttà’ più, avrà ragió’, ma ’ndó va a fenì? Giù ’l maro! ’L pesce se magna? Cuèllo non fa male? Quanno se buttàa ’nté la tèra, se dicìa: “La tèra purga nigò!” Anca quanno io compràa cuéi pagni vecchi ’nté cuélle bancarelle, che ce li mannàa l’Amèrega, quanno fumma porétti, mìa consijàdo de métteli du’ tre giorni sotta tèra: era como disinfettàdi. Po’ i lavàa, dicìa che ’n c’era più perìgolo che s’attaccàa cualca maladìa a ’sti bardàsci. Io ce fèra e, grazzie a Dio, non s’è taccàdo gnè. Adè sèmo doventàdi Merégani noà, perché ’n vestìdo ’l pòrtane malappena ’na stagió’ e po’ via… drendo i sacchi: vestidi, cappotti, pastrani, scarpe, borce, linsòli, cuperte. Pàssane guàsci ’na ’olta al mese, ora ’na ditta, ora ’n’antra, prò la Caritas no’ li pôle mannà’ al terso mónno, perché hanne paura delle maladìe: allora noà que sémo ’mpestàdi? ’L so, i soldi è mejo, ma i soldi è fadìga a scarpìlli: è como leà’ vano svuotare: era concime per la terra, anche per l’orto. Ha detto che portava a vendere certi fiori di cavoli: belli come quelli non ce l’aveva nessuno! Adesso non si butta più (quella roba) negli orti, perché si dice che faccia venire la sal monella. Per forza, con quei detersivi, quegli acidi che ci sono e, peggio anco ra, quei diserbanti, quei pesticidi che ci sono in circolazione! Adesso dai bachi sono andata a finire nella terra: anche di questo mi piacerebbe parlare. Come ho detto, adesso nella terra il gabinetto non ci si butta più. Avranno ragione, ma dove va a finire? Giù al mare! Il pesce, si mangia? Quello non fa male? Quando si buttava nella terra si diceva: “La terra purga tutto!” Anche quando io in quelle bancarelle compravo quei vestiti vecchi, che ci inviava l’America, quan do eravamo poveri, mi era stato consi gliato di metterli due o tre giorni sotto terra: così era come fossero stati disin fettati. Poi io li lavavo, dicevano che non c’era più pericolo che si attaccasse qualche malattia a questi ragazzi. Io ci facevo e, grazie a Dio, non si è attacca to niente. Adesso siamo diventati americani noi, perché un vestito lo portano a mala pena una stagione e poi via… dentro i sacchi: vestiti, cappotti, scarpe, borse, lenzuola, coperte. Passano quasi una volta il mese, ora una ditta ora un’al tra, però la Caritas non li può inviare al terzo mondo, perché hanno paura delle malattie: allora noi… e che siamo appestati! Lo so, sono preferibili i soldi, 134 ’l lardo ai gatti! N’è vero? Coi soldi ce cómprane la robba cuéi nostri e dobo du’ mesi no’ ié piace più. Io ’l vèngo dicènno: “Regolàdeve, fiòi, ché dobo ’l tempo bòno vène cuéllo tristo”. Troppa grascìa! ’Ncó’ ’n ce sémo ’ccorti, ’ncó questi noèlli ne ’l sa, perché no’ i’è mangàdo mae gnè. Sci ’sto scritto ’l lègge la gioventù, me manna’n colpo. Basta che, sci me ’l manna, fusse ’n colpo de fortùna! ma è difficile togliere questi: è come levare il lardo ai gatti! Non è vero? Con i soldi comprano la roba quelli nostri e dopo due mesi non gli piace più. Io lo vengo dicendo: “Regolatevi, figlioli, perché dopo il tempo buono viene quel lo cattivo!” Troppo spreco! Ancora non ci siamo accorti, ancora questi pivelli ni non lo sanno, perché non gli è mai mancato niente. Se la gioventù legge questo scritto, mi manda un colpo. Basta che, se me lo manda, sia un colpo di fortuna! Se magna e se fadìga Si mangia e si fatica Arpènso tante le ò quanta fadìga se fèra cuélla vo’, e como se magnàa male. La madina a colazzió’ e la sera a vint’ore se magnàa sempre giù pei campi, a sède’ per terra. Quann’era de somenti: ligùmi, fàa, foje e padàde, mezze iàcce, ’l pa’ anche muffo, ’n bicchiero d’amezzado. Quann’èra callo e sciucco se stèra be’ a sède’, ma quanno era móllo, toccàa a magnà’ da su dritti. Spesse vo’, de noèmbre e decèmbre, se stèra sotta l’aqua, quanno fùmma giù pei fossi a tajà’ le legna, a tajà’ i cannedi, a scapeccià’ como olmi, mori, cerque, àrbori, caccìa, spini bianchi, roghi scanci. Se fèra le legna per tutto l’inverno pe’ ’l fôgo e pe’ ’l forno. E toccàa a tené’ a conto le legna como ’l pa’! Tante volte ripenso a quanta fati ca si faceva un tempo, e come si man giava male. La mattina a colazione e il pomeriggio a ‘vint’ore’ si mangiava sempre per i campi, seduti per terra. Al tempo della semina: legumi, fava, erbe di campo e patate quasi fredde, il pane ammuffito, un bicchiere di ‘amezzàdo’. Quando era caldo e asciutto, si stava bene seduti, ma quando era bagnato, bisognava mangiare in piedi. Spesse volte, di novembre e dicembre, si stava sotto l’acqua, quando eravamo giù per i fossi a tagliare la legna, i canneti, a capitozzare gli olmi, i gelsi, le querce, gli alberi, a tagliare l’acacia, gli spini bianchi, i rovi ‘scanci’. Si faceva la legna per tutto l’inverno per il fuoco e per il forno. E bisognava risparmiare la legna come il pane! Quella volta si prendevano anche i 135 Cuélla vo’ se piàa anca i cambolù del granturco, i bistorni i gemma a fa’ giù pe’ ’l fiume, sempre pe’ ’l forno, perché ’l pa’ se fèra ogni otto giorni, cualchidù anca 12 o 13 giorni. All’inverno se mantenìa ’mpo’ de più. Sa que dicìa: “Sci se sbaja a fa’ da magnà’ sarà pe ’n giorno, ma sci se sbaja ’na infornada de pa’ dura 10 o 12 giorni: allora bisogna stàcce attenti a fa’ ’l fornaro!” Dicìa pure: “Sci sbai ’na ’nfornada de pa’, sarà per 10 giorni, ma sci sbai a pià’ moje o marido è per finché campi!” E ’na ò non ce se divedìa ’n tra marido e moje, ma adè ogni piccola scaramucciàda, via! vanne uno per conto sua! Ié va be’, perchè enne poghi cuélli che ’n’ ci’hà ’n laòro tanto la donna che l’omo, como sia càmpane li stesso. Cuélli che trìbola è cuéi pôri fiòli. Adè la moda de oggi chi è che tribbola più de tutti, oltra i pôri monèlli, è i vecchi, perché ié tocca a sta’ sempre soli, ’nté ’n casa! gambi del granturco, i cardi li andava mo a fare giù per il fiume, sempre per il forno, perché il pane si faceva ogni otto giorni, qualcuno anche per dodici tredici giorni. D’inverno (il pane) si manteneva un po’ di più. Sa che cosa si diceva? “Se si sbaglia a preparare da mangiare sarà per un giorno, ma se si sbaglia un’infornata di pane durerà dieci dodici giorni: bisogna stare atten ti a fare il fornaio!” Si diceva pure: “Sbagli un’infornata di pane, sarà per dieci giorni; ma se sbagli a prender moglie o marito è per finché campi!”. Un tempo non ci si divideva tra marito e moglie, invece adesso ogni piccola scaramuccia… via! Ognuno va per conto suo. Gli va bene, perché sono pochi quelli che non hanno un lavoro, tanto la donna quanto l’uomo: comun que sia, campano ugualmente. Chi sof fre, però, sono quei poveri figli. Secondo l’usanza d’oggi quelli che soffrono di più, oltre i poveri bambi ni, sono i vecchi, perché devono restare sempre soli in casa. Mazzetti de fiori e… ’na lèndola Mazzetti di fiori e una sbornia ’Na ò, ’nvéce, fumma sempre ’mbrànco. Quanno se fèra i pajàri del fiè’, la mìstica, se fèra insieme coi vicinadi. Alla madìna toccàa alsàsse presto. la vergàra preparàa da colazió’: la frittada co’ la cipolla, oppure padàde in umido (pomidori e cipolla), frittada coi pomidori anca Una volta, invece, eravamo sempre in branco. Quando si facevano i pagliai del fieno, della ‘mistica’, si lavorava insieme ai vicini. La mattina bisogna va alzarsi presto. La ‘vergara’ prepara va la colazione: frittata con la cipolla oppure patate in umido (pomodori e cipolla), frittata con i pomodori, anche 136 co’ la farina, mollìghe de pa’, anca co’ ’mpo’ de farina de granturco. Po’ alle dieci se fèra ’l bocconcèllo: ’na fetta de lónza, ’na bréga de cipolla, ’n capo d’ajo. A mezzogiorno maccarù’ co’ l’ôi, ’n pezzo de conìo o gallo. A vint’òre o la suppa lombarda o limù’, cuélli da tajo, condìdi co’ l’ojo e ’l sùcchero, e po’ a cena l’ansalàda e n’ovo tòsto. Questo a casa mia quanno se fèra i laóri grossi, como a falcià’, fa’ i pajàri, vangà’ la vigna, vangà’ i filù’, falcià’ lo stramo. E dobo ’ste sorelle più granne preparàa tanti mazzétti de fiori como garòfeni, giràni, lillà, spighetto e ne dèra ’n mazzetto perù’ a ’sti ômmini. Sci c’era qualche gióveno che zironzàa ’ntorno casa avìa ’na speranza, ma ’nvéce cuéllo era ’n gesto de tenerezza verso tutti. Mentre se fadigàa, daje a cantà’! Quanno era la sera ’rivàa qualche mezza sbòrnia, cualchidù’ se dicìa qualche parola d’offesa e se ’taccàa ancó’. Tanto più che se parla de vi’, cioè de sbornie, ve n’arcónto una. Io avéa 5 anni e stèro a casa de ’n’amìga mia. Era capidàdo lì ’n contadì’ nòo a sappà’ ’l gra’ e sìa portàdo drìa da magnà’ e ’n buttijóne de vi’ róscio. Io e ’st’amìga n’émo bïûdo ’mbicchiero perù’ e ce sémo pïàde tutte due ’na lèndola! ’Ste sorelle mia piagnìa, dicìa: “Mamma, questa ce môre!” Fèra i rudolòtti ’n tra l’erba! Dobo cuélla vo’ non l’ho pïàda più, prò ’l vi ’me piàce. con la farina, molliche di pane, anche con un po’ di farina di granturco. Poi, alle dieci, si prendeva un bocconcel lo: una fetta di lonza, una tunica di cipolla, una testa d’aglio. A mezzogior no maccheroni con le uova, un pezzo di coniglio o di gallo. A ‘vint’ore’ o la zuppa lombarda o i limoni, quelli da taglio, conditi con l’olio e lo zucchero, e poi a cena l’insalata e un uovo sodo. Questo a casa mia quando si faceva no i lavori più impegnativi come falcia re, fare i pagliai, vangare la vigna, van gare i filari, falciare lo strame. Le mie sorelle più grandi preparavano tanti mazzetti di fiori come garofani, gerani, ‘lìlla’, lavanda e ne davano uno per uno agli uomini. Se c’era qualche giovane che gironzolava intorno casa aveva una speranza, invece quello era solo un gesto di gentilezza verso tutti. Mentre si lavorava… giù a cantare! La sera arrivava anche qualche mezza sbornia, qualcuno diceva una parola offensiva e si attaccavano pure. Tanto più che si parla di vino, cioè di sbornie, ve ne racconto una. Io avevo cinque anni e stavo a casa di una mia amica. Era capitato lì un contadino nuovo a zappare il grano ed aveva por tato con sé da mangiare e un bottiglio ne di vino rosso. Io e questa amica ne abbiamo bevuto un bicchiere per uno e ci siamo prese tutte e due una sbornia! Le mie sorelle piangevano e chia mavano: “Mamma, questa ci muore!” Io facevo i ruzzoloni tra l’erba. Da quel la volta non ho preso più una sbornia, però il vino mi piace. 137 ’N fiasco de vi’, ’na bròcca d’aqua e… i tòri Un fiasco di vino, una brocca d’acqua e… i tori Quanno de falciadùre ’n tra vicinàdi, se pïàa ’n bel fiasco de vì’ e ’na brocca d’aqua fresca e se portàa da be’. Ce gèra la gióvena, sci c’era, scinó ’na sposa. Se cambiàmma la veste, se lavàmma i pìa, ’na pettenàda che lì te osservàa: era ’na venticinquina anca trenta ômini, giovini e sposàdi e bevìa anca sci nìa séde. Quanno se falciàa i stràmi, le donne ’n c’era perché era duro; dovìsci fa tutte mucchiette, parìa le rose. Non se podìa falcià’ ’l 16 lujo, Madonna del Carmine, se dicìa la Madonna del vento, perché tiràa ’na curìna che carcàa ’ste mucchie, le portàa per aria como le penne de’ puji. E cure co’ lo rastello: n’arpïài pogo. Se cercàa allora de falcià’ prima o dobo, sci era finìdo de mède’, perché c’era cuéi grani alti, se seccàa tardi e la battidùra gèra a finì’ agósto. Dobo ce boccàa ’l tempo e toccàa a falcià’ quanno era bòno, perché cuéllo stramo ’l magnàa le bèstie. Se fèra ’l pajàro della mistigànsa, se mettìa giù scartòcci del granturco, battidùre della spagna, sulla, lupinella, presarése, récchie d’èpre, la spe ràgna, brance e cime del granturco, tutta l’erba che nascìa ’nté ’l campo, el favarìle: fèra ’n mischietto. A ma’ a ma’ che ’sta robba era secca, Quando si falciava insieme ai vici ni, si prendeva un bel fiasco di vino e una brocca d’acqua fresca e si portava da bere. Ci andava una giovane non sposata, se c’era, sennò una sposa. Ci cambiavamo la veste, ci lavavamo i piedi, una pettinata perché ti osserva vano: erano una venticinquina o anche trenta uomini, giovani e sposati e beve vano anche se non avevano sete. Quando si falciavano gli strami, le donne non c’erano perché era un lavo ro pesante; dovevi fare tutti mucchietti: sembravano rose. Non si poteva falciare il 16 luglio, Madonna del Carmine, che era chiamata ‘Madonna del vento’, per ché tirava uno scirocco che caricava i mucchi (di strame), li portava per aria come le penne dei polli. E voglia a corre re con il rastrello: ne riprendevi poco. Si cercava di falciare allora prima, se ave vamo finito di mietere, o dopo, perché c’erano quelle qualità di grano alto, che si seccava tardi e la trebbiatura andava a finire ad agosto. Dopo dipendeva dal tempo e bisognava falciare quando c’era bel tempo, perché quello strame lo man giavano le bestie. Si faceva un pagliaio, vi si metteva no i cartocci e i pennacchi del grantur co, la ‘speràgna’, le trebbiature dell’erba medica, della lupinella, del trifoglio: si faceva un mischietto. A mano a mano che questi foraggi si seccavano, si faceva un mucchio e, quando era tutto pronto, si mettevano nel pagliaio, lo aguzzava 138 fèra ’n mucchio e dobo quann’era prònto nigò mettemma tutto ’nté ’l pajàro, ’l guzzàmma bembè’, da cima la croce. All’inverno le bestie s’arcoràa, prò che fusse stada secca e sciucca, scinó fèsci ’n grasciàro. Quanno ’l tajàa co’ la tajafié’, leàda la fardèlla, coprìa ’ndó ìsci tajàdo co’ ’na ’mbàlla e ’na tàola pe’ non fàcce boccà’ l’aqua quanno pioìa. Dicìa babbo: “Quanno all’inverno è nigò secco, sci manga ’na fila de pa’ sul taolì’, vai da ’n vicinàdo te la ’mpresta, dobo iéla ’rdésci, ma sci manga da magnà’ pe’ ’na stallàda de bestie, anca 15, e que ié dai le bécche?” Cuélle, quanno è ora de magnà’, se méttene a radà’ tutte d’accordo, spèce i tori, altro che la musiga a tutto volù’! Toccàa a legalli forte: sci sciòìa i tori era ’n macèllo, non gioàa né frusta né bastó’. Sci c’era n’omo solo, toccàa a chiamà’ ’n vicinàdo, scornàa, calciàa. Po’ sci gèra ’n tra le vacche... addio! Pei tori c’era ’n murétto: le vacche nìa da véde’, scinó mango magnàa. Se dice per dittàdo: “Urla come ’n toro!” mo perbene e in cima (ci conficcava mo) la croce. All’inverno le bestie se lo godevano, purché i foraggi fossero stati seccati bene e asciutti, sennò facevi un letamaio. Quando lo si tagliava con la tagliafieno, tolta la ‘fardèlla’, si copri va dove avevi tagliato con una balla e una tavola, per non farci entrare l’acqua quando pioveva. Diceva babbo: “Quando all’inverno è tutto secco, se manca un filone di pane sulla tavola, vai da un vicino e te lo impresta, dopo glielo resti tuisci, ma se manca da mangiare per una stalla piena di bestie, anche quin dici, e che cosa gli dai i semi di zucca?” Quelle, quando è ora di mangiare, si mettono a muggire tutte insieme, specie i tori, altro che la musica a tutto volume! Bisognava legarli forte: se scioglievano i tori era un finimondo, non bastava né la frusta né il bastone. Se c’era un solo uomo, bisognava chiamare un vicino, perché il toro scornava, calciava. Poi, se andava tra le vacche… addio! Per i tori nella stalla c’era un muretto: non dove vano nemmeno vederle la vacche, sennò neppure mangiavano. C’è anche questo modo di dire: “Urla come un toro!” ’Na vacca per parte e ’l nevone del’30 Una vacca per parte e la gran nevicata del ’30 Tanto più che se parla de stalla, sa que fèra babbo? D’inverno, quanno pioìa o nenguìa, fatto nigò, se buttàa cólco ’n tra le bestie. Co’ le Tanto più che si parla di stalla, sa che cosa faceva babbo? D’inverno, quan do pioveva o nevicava, sbrigato tutto quanto, si sdraiava tra le bestie. Lui 139 vacche lu’ ce parlàa, se mettìa vicino alla greppia ’n tra la paja, se coprìa con corpetto, e ’na vacca per parte col fiàdo lo scallàa. Lì ce stèra anca ’n par d’ore a dormì’. Dicìa che se stèra càlli. Noà ié dicémma: “Anca ’l Bambinello lo scallàa ’l bue e l’asinello!” ’Sti maschi giogàane a carte; cuàlca vo’, quanno era proprio disoccupàdi, ce venìa anca i vicinàdi, e lì ’l lògo pe’ scolàsse ’n fiasco de vi’. E me dicìane: “Te, nì, va a bruscà’ du’ àceni de fàa!” Io la sapìa fa’ be’: quanno la mettìa ’nté ’na padellétta, con goccio parlava con le vacche, si metteva tra la paglia, vicino alla greppia, si copriva con una giacca, e una vacca per parte lo scaldava con il fiato. Restava lì a dor mire anche per un paio d’ore. Diceva che si stava caldi. Noi gli dicevamo: “Anche il Bambinello lo scaldavano il bue e l’asinello!” I maschi di casa giocavano a carte; qualche volta, quando proprio non avevano nulla da fare, ci venivano anche i vicini, e lì era il luogo per sco larsi un fiasco di vino. E mi dicevano: “Tu, nina, vai ad abbrustolire due acini di fava!”. Io la sapevo preparare bene: quando la mettevo in una padelletta, con un goccio d’olio sale e pepe, era un qual Ostra, corso Umberto I (oggi corso Mazzini) durante il nevone del 1929 (coll. Renato Verzolini). 140 d’òjo sale e pepe, era cualchicò’ da liccàsse i dédi. Ce lassài gi’ anca a giogà’ a carte, perché ié se ognìa le carte. Sci la bruscàa sotta la céndra ’nfogàda, me venìa be’ ’mbelpo’. Mìa ’mparàdo nonno, me dicìa: “Faje figo co’ ’na roccétta!” Cacciàa la roccétta ’nté ’l mucchietto della fàa e quella gonfiàa, venìa téndra, se staccàa la buccia dall’aceno, perché pïàa l’aria. La magnàa anca ’sti nonni che non cìa più ’n dente: da cinquant’anni i’èra cascàdi tutti. Sci ié dèsci ’n dédo drendo la bocca, cìa le gingìlie dure e tajènte, te fèra ’rcomannà’ l’anima, sci pe’ scherso te moscàa. cosa da leccarsi le dita. Si smetteva anche di giocare a carte, perché si ungevano. Se le abbrustolivo sotto la cenere infuocata, mi venivano molto bene. Mi aveva inse gnato nonno. Mi diceva: “Falle ‘figo’ con un sarmentino!” Ficcavo il sarmentino nel mucchietto della fava e quella si gon fiava, diventava tenera, si staccava la buccia dall’acino, perché prendeva aria. La mangiavano anche i nonni che non avevano più un dente: da cinquant’anni gli erano cascati tutti. Se gli davi un dito dentro la bocca, avevano le gengive dure e taglienti, ti facevano raccomandare l’anima, se per scherzo ti mordevano. Quando c’è stato la grande nevicata Ostra, Viale del Littorio (oggi Viale G. Matteotti) durante il nevone del 1929 (Coll. Renato Verzolini). 141 Quanno c’è stado ’l nevó’ del ’30, lì da noà cìa fatto i rifìli alti tre mèdri, rivàa al paro delle finè’ ’l segóndo piano del palazzo. Nenguìa col vento de maro che lì casa nostra ce pïàa perdéro. Quanno babbo s’è alsàdo alla madìna è gìdo pe’ roprì’ la porta della stalla, s’è troàdo dannànse ’n muro de neve. Ha ditto: “Quanno l’ho vedùdo, me se chiudìa ’l fiàdo. E como famo a sgrascià’ la stalla? ’Ndó passàmo pe’ gì’ a tajà’ la roba: paja, pula, ’l fié’, la mìstiga?” S’è troàdo perso. Dobo s’è alsàdi ’sti fratelli, i’ha dàtto ’na ma’ a fa’ la rótta co’ le pale, ma ’ndó la buttasci? Era più alta de du’ mèdri. I pùj volìa sgappà’, l’òghe pure, ma ’ndó le mannàsci? Armanìa infilsàde ’n tra la neve; ’l ca’ drendo la cuccia non se vedìa, ma sgnattìa como pe’ di’: “Venédeme a librà’!” Non me so’ scordàda più del nevó’ e del tremòdo, du’ cose brutte ’mbelpo’ ’nté du’ anni. Del ’32, po’, è morto nonno. Ricordi bruttissimi. del ’30, lì da noi si erano formati muc chi (di neve) alti tre metri, arrivava no all’altezza delle finestre del secondo piano del palazzo. Nevicava con il vento di mare e lì casa nostra ci prendeva per davvero. Quando la mattina babbo si è alzato ed è andato ad aprire la porta della stalla, si è trovato davanti ad un muro di neve. Ha detto: “Quando l’ho visto, mi si chiudeva il respiro. E come facciamo a togliere il letame dalla stal la? Dove passiamo per andare a tagliare la roba: paglia, pula, fieno, ‘mistiga’?” S’è sentito perso. Dopo si sono alzati i miei fratelli, gli hanno dato una mano a fare la rotta con le pale. Ma dove buttavi la neve? Era più alta di due metri. I polli volevano andar fuori, le oche pure, ma dove le potevi mandare? Rimanevano infilzate tra la neve; il cane dentro la cuccia non si vedeva, ma guaiva come per dire: “Venitemi a liberare!” Non mi sono mai dimenticata di quella grande nevicata e del terremoto: due cose molto brutte in due anni. Nel ’32, poi, è morto nonno. Ricordi bruttissimi. Le laude in latì’, presepi e sepolcri Le litanie in latino, presepi e ‘sepolcri’ La prima cosa bella che m’arcòrdo, quanno nonno me pïàa a braccio, me mettìa su dritta ’nté ’l camì’ a fàmme di’ le laude in latì’ e le cansoncì’, ch’ìa amparàdo da nonna. Ìa solo quattr’anni, tutti a sta’ sentì’ a me, anca le padrone. Chissà que me parìa che tutti La prima cosa bella che mi ricordo è quando nonno mi sollevava con le brac cia e mi metteva in piedi sul camino per farmi dire le litanie in latino e le canzon cine, che io avevo imparato da nonna. Avevo solo quattro anni, tutti mi stavano ad ascoltare, anche le padrone. Chissà 142 me calcolàa. Dobo gèra a recidà’ de nadàle in tutte le chiese, ché mamma ce portàa a véde’ ’i presèpi: io miga me vergognàa! C’era a chi ié piacìa tanto a sta’ sentì’, me rigalàa un soldo, allora scì che l’artroàa tutte. Ce venìa tre caramelle: ’n ve pare gnè? Dobo de Pasqua la settimana santa se començàa al giovedì santo a visidà’ i sepolcri ’nté le chiese; ’l venardì prima alla madìna se visidàa ’l cadalètto e la Madonna Doloràda lì ’l Crocifisso e chi n’era polsùdi gi’ a visidà’ i sepolcri al giovedì sera ce gèra al venardì madìna. Babbo ce portàa col biroccio nonno e nonna, finànta che ce stèra co’ la testa, e ce se grégàa cualchidun’àntro lì di ó, qualche vecchietto o vecchietta. Pôro babbo, quante ne fèra pei genidóri, ma pe’ lu’ n’ha polsùdo fa’ gnè nisciù! M’arcòrdo anca que se fèra ’nté le chiese all’Ottavario dei morti. Preparàa ’n tappédo per tèra e po’ ce mettìa du’ cavalletti, ’na tàola a forma de cassa da morto, e po’ ’l coprìa co’ ’na cupèrta nera, guarnìda color oro e le france zalle, po’ du’ candelieri da capo du’ a fónno: parìa proprio che c’era ’l morto sotta. Cuàlca ò c’era perdéro: succède a morì’ anca ’l giorno dei morti. Sapé’, c’era uno che dicìa al sagrestà’ che sonàa le campàne a morto: “Chi è morti?” “Gnènte gnènte, ’n contadì’!” Pensàde vuà como fumma stimàdi noà contadì’, como ’no suppo de tèra! che cosa mi sembrava il fatto che tutti mi davano importanza. A Natale anda vo a recitare in tutte le chiese, perché mamma ci portava a vedere i presepi: io non mi vergognavo mica! C’era qualcuno al quale piaceva ascoltarmi e mi rega lava un soldo: allora sì che le ritrovavo tutte (le canzoncine)! Con un soldo ci si compravano tre caramelle: non vi pare niente? A Pasqua, durante la settimana santa, si cominciava al giovedì santo a visitare ‘i sepolcri’ nelle chiese; il venerdì santo la mattina si visitava il catafalco e la Madonna Addolorata lì nella chiesa del Crocifisso e quelli che non erano potuti andare a visitare i sepolcri il giovedì ci andavano il venerdì mattina. Babbo ci portava con il biroccio nonno e nonna, fino a quando ci stavano con la testa, e ci si univa qualcun altro di lì vicino, qual che vecchietto o vecchietta. Povero babbo, quante ne faceva per i genitori, ma per lui non ha potuto fare niente nessuno! Mi ricordo anche che cosa si faceva nelle chiese durante l’Ottavario dei morti. Si preparava un tappeto per terra e poi ci si mettevano due cavalletti, una tavola a forma di cassa da morto, e poi la copriva no con una coperta nera, guarnita color oro con le frange gialle; poi due candelieri da capo, due in fondo: pareva proprio che sotto ci fosse il morto. Qualche volta c’era per davvero: succede di morire anche il giorno dei morti. Sapete, c’era uno che diceva al sagre stano, che suonava le campane a morto: “Chi è morto? “Niente niente, un conta dino!” Pensate voi come eravamo stimati noi contadini, come uno ‘zuppo’ di terra. 143 Émo rumàdo sempre ’nté la tèra Abbiamo ruspato sempre nella terra Non piace a nisciù’ avé’ la terra ’ntéll’ógna, ma sci finisce i contadì’, se la passa male tutti, camparà più allóngo i scignóri, ma là, ’nté cuélle tabarnèlle da ’mpiano solo, c’è scritto de fòra: “Chìtta alla Gran Madre antica con legge uguale torna tutti i viventi”. Noà saremo più ’gnorànti, perché èmo rumàdo sempre ’nté la tèra, como fèra ’l porchétto, quanno ’l legàmma sotta ’na cerqua: prima magnàa cuélla sopra, la jànda la sfioràa, po’ cuèlla che pistacchiàa ci’arpassàa dobo, rumàa, boccàa col muso sotta tèra, finànta che nìa ’rtroàda tutta. Quanno era móllo se ’ntrociàa tutto, apposta quanno uno se sporca, se dice: “Te sai sporcàdo tutto como ’mporchétto!” È da capìllo che i contadì’ è sporchi e puzza: quanno cominciàsci a portà’ via la gràscia, anca otto giorni, c’era i pìa quann’èra la sera toccàa a tenélli a móllo ’na mezz’ora, per ’rfarli mòrbedi e po’ tanto ’ntéll’ógna ci’armanìa. ’N c’era i stiàli, tante le ò t’affonnàsci ’nté ’l grasciàro, boccài giù finànta ’nté i ginòcchi. Cuélli era stiàli fatti de gràscia, neri, anca de moda! Prò, in compenso ’l contadì’ como dicia cuel fradé sci vedìsci ’l primo frutto, n’aceno d’ua, cìccero in bocca, ‘nvece i pôri fradicèlli ’na gallina cotta ’ntéll’aqua! Era coscì, perché al pôro contadì’ toccàa portàlli a vènde’ l’òi, i pui pe’ ’rvestìsse Non piace a nessuno avere la terra nell’unghia, ma se finiscono i conta dini, se la passano male tutti, cam peranno più a lungo i signori, ma là, in quelle casette ad un piano solo, c’è scritto di fuori: “Qui alla Gran Madre antica con legge uguale tornano tutti i viventi”. Noi saremo più ignoranti, per ché abbiamo ruspato sempre nella terra, come faceva il porco, quando lo legava mo sotto una quercia: prima mangiava quella (ghianda) sopra, la ghianda la sfiorava, poi quella che pesticciava ci ripassava dopo, ruspava, entrava col muso sotto terra, fino a che non l’ave va ritrovata tutta. Quando era bagna to, si infangava tutto, apposta quando uno si sporca, si dice: “Ti sei sporcato tutto come un porco!” È da capirlo per ché i contadini sono sporchi e puzzano: quando cominciavi a portar via il leta me, anche per otto giorni, i piedi la sera toccava tenerli a bagno una mezz’ora, per rifarli morbidi e poi tanto nelle unghie ci rimaneva (il letame). Non c’erano gli stivali, tante le volte ti affon davi nel letamaio fino alle ginocchia. Quelli erano stivali fatti di letame, neri, anche alla moda! Però, in compenso, il contadino come diceva quel frate se vedeva il primo frutto, un acino d’uva, cicero (subito) in bocca!,ivece i poveri fraticelli una gallina cotta nell’acqua! Era così, per ché al povero contadino toccava portarli a vendere i polli, le uova per vestirsi e comprare il cotone per fare la dote alle 144 e comprà’ ’l cottó’ per fa’ la dòda alle fémmene. Pôrétti chi ce nìa più de una! I maschi portàa a casa, envéce le fémmene sfruttàa la faméja, e i padrù’ ’ndó c’era i maschi era più contenti. Ma, santo Dio, sci non c’era le fémmene, que fèra l’òmmini, se sposàa ’n tra de lóra? Come fanne adè’! E i fjòli chi li fèra? Cuélla vo’ n’era struìdi como adè’, che i fjòli se compra, se fa co’ la proétta! Gimo ’mpo’ annànse! Le vedremo delle belle! Adè’ sci vede n’attempàdo a fa’ cualchicò’, sa que ié dice? “Ma va’ a magnà’ ’na cubétta de pangòtto!” Sente ’mpo’ que émo da sentì’ a di’ prima de morì’. Pacensia, e que vô’ rispónne’? Te tappa la bocca! Ènne struìdi, vanne a scòla pe’ ’mparà’ l’edugazió’ alla rovèrsa. Io tante le ò ce penso: quanno fumma piccoli noà, guai a rispónne’ a cuélli più granni de noà! Ma adè’ no’ sta a sentì’ più a nisciù’, comènsa a di’: “Che balle!” femmine. Poveretti quelli che ne ave vano più di una! I maschi portavano a casa, invece le femmine sfruttavano la famiglia e i padroni erano più con tenti dove c’erano i maschi. Ma, santo Dio, se non c’erano le femmine, che facevano gli uomini, si sposavano tra loro? Come fanno adesso! E i figli chi li faceva? Quella volta non erano istruiti come adesso, che i figli si comprano, si fanno con la provetta! Andiamo un po’ avanti! Ne vedremo delle belle! Adesso se (qualcuno) vede un attempato fare qualche cosa, sa che gli si dice? “Ma va a mangiare una scodella di pancotto!” Senti un po’ che cosa dobbiamo senti re a dire prima di morire. Pazienza, e che vuoi rispondere? Ti tappa la bocca! Sono istruiti, vanno a scuola per impa rare l’educazione alla rovescia. Io tante volte ci penso: quando eravamo picco li noi, guai a rispondere a quelli più grandi di noi! Ma adesso non stanno a sentire più nessuno, cominciano a dire: “Che balle!” ’Na vida ’n tra le bestie… e lì la fine Una vita tra le bestie … e lì la fine ’L pôro babbo ìa lassàdo ’n vidèllo fòra. Ce fèra sempre: dobo ch’ìa pocciàdo dalla madre, i lassàa fòra, quann’èra tempo bòno. Dicìa che coscì venìa su piano piano più bòni e, quanno doventàa tori, per portàlli a vènde’ ie se fèra in due. Cuélli che ni portàa mae fòra, la prima vo’ quanno i portàa a la fiera, no’ ié la Il povero babbo aveva lasciato un vitello fuori. Ci faceva sempre: dopo che (i vitelli) avevano preso il latte dalla madre, se era bel tempo, li lasciava andare fuori. Diceva che così cresce vano piano piano più buoni e, quando diventavano tori, bastavano due persone per portarli a vendere. Quelli che non li portavano mai all’aperto, la prima volta 145 La stalla. Da notare come le vacche mansuete sono legate solo con una catena attorno al collo, mentre le manze ancora “scavèstre”, ossia non ben domate, sono legate anche per la testiera. (foto Dino Ferro 1968). fèra mango tre òmmini a tenelli. Sa, nìa visto mae ’l sole, le piante, le biscighette… Era spaèndàdi, scor nàa, allora toccàa a pïà’ ’l biroccio co’ le vacche e legàlli drìa al biroccio pe’ ’l collo, ’na cadéna ’nté la testiéra, ’n’antra cadéna ’nté i corni e, tante le ô, spostàa anca ’l biroccio. ’Na bestia de sette otto quintàli ce lìa la forsa, sìa magnàdo tre quattro quintali de fàa. Se dicìa per dittàdo. “Ci’hài la forsa de ’n toro!” Cuélli n’era sfruttàdi, più era grassi e più valìa. Ié se mettìa i fiocchi, quanno se portàa a la fiera co’ ’la frusta de drìa. C’era de cuélli che quando li portavano alla fiera, non glie la facevano a tenerli neppure tre uomi ni. Sa, non avevano visto mai il sole, le piante, le biciclette… Erano spaventati, scornavano; allora bisognava prendere il biroccio con le vacche e legarli per il collo dietro al biroccio: una catena attor no alla testa, un’altra intorno alle corna e, talvolta, spostavano anche il biroccio. Una bestia di sette otto quintali ce l’ave va la forza: aveva mangiato tre o quattro quintali di fava! C’era anche il modo di dire: “Hai la forza di un toro!” Quelli non erano sfruttati, più erano grassi e più valevano. Gli si mettevano i fiocchi, quando si portavano alla fiera con la frusta di dietro, perché alcuni non vole 146 non volìa caminà’, cuèlli che non s’era mae portàdi fòra ìa paura de nigò, toccàa a mascaràlli. Apposta babbo li portàa fòra da piccolini. Proprio ’n vidèllo piccolo, prò, che cìa ’l capostorno, l’ha mannàdo al cimidèro perché, pe’ tenéllo, a babbo gli s’è ’nvuricchiàda la corda ’nté le gambe, l’ha fatto cascà’ e lì per tèra i’hà pistàdo ’nté la pansa e l’ha rotto drendo. Col biroccio mi’ cugnàdo l’ha portàdo sùbbedo all’ospedale, ma ’l pôro babbo è ’rmàsto sotta i ferri. A pensà’ che stèra sempre ’n tra le bestie, era como gioièlli per lu’ e guai chi ié toccàa la stalla! Ce passàa midà della giornàda. Quanno fedàa ’na vacca, otto giorni prima tutte le notte se alsàa du’ tre ’olte a gìlla a véde’, ce parlàa e, quanno ìa fedàdo, ié dèra ’l beveró’, l’aqua càlla co’ la sèmbola per otto giorni. Dicìa: “Alle donne quanno se sgràa ié se mazza le galline e lóra, pôre bestiòle, ha bisogno como le donne!” Le tenìa a riposo ’na mesàda; quanno le taccàa no’ ié fèra fa’ i sforsi pe du’ mesi. Dicìa: “Vedi, ié manca la parola! Quanno ié do ’l beveró’, me licca ’nté le ma’, pare che me vôle ringrazzià’ ”. E arcontàa che uno ié menàa alle bestie col bastó’. ’Na ò i’è capidàdo a tiro, s’è’mbestialìda, l’ha pïàdo a scornàde e l’ha stéso morto lì per tèra: s’è’rcordàdo che ié menàa! C’era anca le vacche como i tori che scalciàa, scornàa: toccàa a sta’ vano camminare, quelli che non erano mai stati portati all’aperto avevano paura di tutto, bisognava coprire loro gli occhi. Apposta babbo li portava fuori da piccolini. Proprio un vitello piccolo, però, che aveva il capostorno, l’ha man dato al cimitero perché, per tenerlo, a babbo si è attorcigliata la corda attorno alle gambe, l’ha fatto cadere e lì per terra (il vitello) l’ha calpestato sulla pancia e gli ha provocato un’emorragia interna. Con il biroccio mio cognato l’ha portato subito all’ospedale, ma il babbo è rima sto sotto i ferri. E pensare che stava sempre tra le bestie, queste erano come gioielli per lui e guai a chi gli toccava la stalla! Ci tra scorreva metà della giornata. Quando stava per partorire una vacca, otto gior ni prima tutte le notti si alzava due tre volte per andarla a vedere, ci parlava e, quando aveva partorito, gli dava il beve rone, acqua calda con la semola, per otto giorni. Diceva: “Per le donne, quando partoriscono, si ammazzano le galline e loro, povere bestiole, hanno bisogno come le donne!” Le teneva a riposo per una mesata; quando le aggiogava non gli faceva fare gli sforzi per due mesi. Diceva: “Vedi, le manca la parola! Quando le do il beve rone, mi lecca nella mano, pare che mi voglia ringraziare”. E raccontava che uno menava le bestie con il bastone. (La vacca), una volta che le è capitato a tiro, si è imbestialita, l’ha preso a scor nate e l’ha steso morto lì per terra: si era ricordata che la bastonava! C’erano anche le vacche, come i tori, che scal 147 ’tènti! Quanno gèsci in giro, non te podìsci fatte véde’ a menà’ le bestie, te fèra contravensió’. Sci i portàsci alla fiera, mango co’ la frusta, ié fèra i segni: dobo no’ le volìa, perché se maccàa la carne. Babbo ’rcontàa pure che uno a Belvedé’ cìa le màghine da bàtte’, era cinquant’anni che ce lìa. Era mudorìsta, maghinìsta: sarà stado pradigo delle màghine? Embè, è cascàdo drendo al battidóre, l’ha troàdo tutto spezzàdo sul pajàro della paja. Cìa la camicia, i’hà preso la mànniga, po’ ’l braccio e l’ha tiràdo drendo. Era proprio ’l destino de fa’ cuélla fine lì. E como ’l pôro babbo: ’na vida è stado ’n tra le bestie e lì ha ûdo la fine. ciavano e scornavano: bisognava stare attenti! Quando andavi in giro, non ti potevi far vedere che menavi le bestie, ti facevano contravvenzione. Se le portavi alla fiera, neppure con la frusta (le pote vi toccare), perché gli lasciava i segni: dopo non le volevano, perché si ammac cava la carne. Babbo raccontava pure che uno a Belvedere aveva le trebbia trici, erano cinquant’anni che le aveva. Era un motorista, macchinista: sarà stato pratico di macchine? Ebbene, è caduto dentro il battitore; l’hanno trova to tutto a pezzi sul pagliaio della paglia. Indossava la camicia, (la trebbia) gli ha preso la manica, poi il braccio e l’ha tirato dentro. Era proprio destino che facesse quella fine lì. Proprio come il povero babbo: una vita è stato tra le bestie e lì ha avuto la fine. Sett’anni d’abbondanza e sette de carestia Sette anni di abbondanza e sette di carestia Quanta carta e tempo ce vorìa per ’rcontà’ nigò! Me piacerìa tanto, ma è la quistió’ che so’ ’témpàda, ci’ho da pulì’ che n’ho più voja, c’è da ripulì’ i pantaló’1, c’è l’orto, i pui, conìi, da gi’ in giro, e fa’ nigò ’n ci’arièscio più. Più de nigò me piace a scrìe, prò comènsa a tremà’ le ma’, spesso sbajo, m’andormènto sopra ’l Quanta carta e tempo ci vorrebbe ro per raccontare tutto! Mi piacerebbe tanto, ma la questione è che sono attem pata, ho da pulire e non ho più voglia, c’è da ripulire i pantaloni, c’è l’orto, ci sono i polli, i conigli, c’è d’andare in giro e a fare tutto non ci riesco più. Più di tutto mi piace a scrivere, però comin cia a tremarmi la mano, spesso sbaglio, 1 L’autrice aiuta i familiari in un lavoro a domicilio, consistente nel togliere i fili superflui ai pantaloni. 148 guadèrno... Eh, n’è passàdi dei compleànni, Nadali e Pasque: la quistió’ è tutta lì! E po’ le cose le scrìo du’ vo’, perché fô da magnà’, m’arvène pensàdo cualchicò’, me l’appónto, e dobo finànta alla sera na scrìo più, me se scancèlla ’nté ’l cervèllo: ce vorìa ’na maghina davanti all’occhi, che gira sempre, sci che girìa be’! E po’ babbo dicìa anca questo: “Sci vène la carestìa ’nté la bocca delle bestie è un guai!” È como adè sci chiude le fabbrighe, finisce le risorse, cuélla vo’ pel contadì’ c’era la stalla e la terra, gnènte più. Dicìa sempre cuél pôro babbo: “C’è sett’anni d’abbondanza e sett’anni de carestìa, como le sette vacche magre e le sette spighe vòde, le sette vacche grasse e le sette spighe pîne”. Sta scritto anca su la Bibbia, è vero. Dobo del tempo bòno vène cuéllo tristo: è sempre ’na ròda che gira. Quanno pioìa tanto, fèra le lame la terra. Dicìa: “Gran lame, gran fame!” È vero! Di’ppure che cuéll’anno passàa la grandina, portàa via tutto l’arcòlto, oppure venìa ’na gran seccarécia, toccàa a gi’ a pïà’ l’aqua giù ’l fiume pe’ le bestie. Le pozze se seccàa e i pozzi non ié rèscìa a venà’. Pensàde ’mpo’ vuà: ’na bestia all’istàde non ié bastàa mezzo ettòledro al giorno, quanno tiràa ’l pertégàro, s’ardunàa i còi, ’l fié’; coscì s’attaccàa ’nté la tròcca, se n’engozzàa mezza. Co’ la seccaréccia toccàa a gi’ tutti i giorni giù ’l fiume co’ ’na mi addormento sopra il quaderno… Eh, ne son passati di compleanni, Natali e Pasque: la questione è tutta lì! E poi le cose le scrivo due volte, perché preparo da mangiare, mi viene pensato qualco sa, me l’appunto, e dopo fino a sera non scrivo più, mi si cancella dal cervello. Ci vorrebbe una macchina davanti agli occhi, che girasse sempre: sì che andreb be bene! E poi babbo diceva anche questo: “Se viene la carestia nella bocca delle bestie è un guaio!” È come se adesso chiudes sero le fabbriche, finirebbero le risorse; quella volta per il contadino c’erano la stalla e la terra, niente più. Diceva sem pre il povero babbo: “Ci sono sette anni di abbondanza e sette anni di carestia, come le sette vacche magre e le sette spi ghe vuote, le sette vacche grasse e le sette spighe piene”. Sta scritto anche nella Bibbia, è vero. Dopo il tempo buono viene quello cattivo: è sempre una ruota che gira. Quando pioveva tanto, la terra fra nava. Diceva: “Grandi frane, grande fame!” È vero. Di’ pure che quell’anno passava la grandine, portava via tutto il raccolto, oppure veniva una grande siccità, bisognava andare a prendere l’acqua per le bestie al fiume. Le ‘pozze’ si seccavano e nei pozzi l’acqua non ci riusciva a sgorgare dalla vena. Pensate un po’ voi: a una bestia dl’estate, quan do tirava l’aratro, radunava i covi o il fieno, non bastava un mezzo ettolitro al giorno; così s’attaccava nella ‘trocca’, se ne ingozzava mezza. Con la siccità bisognava andare 149 botte grossa anca 10 tòllidri, dieci e più chilomedri de strada, se fèra bé’ lajù, ma per quanno era rïàde a casa, su per cuélla còsta, arbeìa’n’antra ò. Du’ tre pari de vacche ce volìa per ’rtirà’ su ’sto biròccio, tanto co’ la botte dell’aqua anca co’ la breccia. Embè, como v’ho ditto, la carestìa ’gni tanto venìa. tutti i giorni al fiume con una botte grossa anche dieci ettolitri; dieci e più chilometri di strada, si facevano bere laggiù, ma, per quando erano arrivate a casa, su per quella salita, bevevano di nuovo. Per tirare su il biroccio ci vole vano due tre paia di vacche, tanto con la botte dell’acqua ed anche con la ghia ia. Ebbene, come vi ho detto, la carestia ogni tanto arrivava. Crocicchi, paure e grandina Crocicchi, ‘paure’ e grandine E po’ c’era anca ’sta cridiga chì: tutti l’anni a Montalbò’ venìa i missionari, gèra anca ’nté le chiese de campàgna e tutta la settimana c’era la funsió’. Piacìa tanto, alla fì’ piantàa ’na Croce de ferro ’nté ’n crocicchio, co’ la dàda ’l mese e l’anno. A San Bonaventura lìa messa ’nté ’no spìgolo, sulla terra del Lanaro: ìa fatto ’na spiazzòla, lìa messa ’l quindici de maggio 1935. ’Na ò ’nté ’na contràdia ’na ò ’nté ’n’antra, da lóngo da le case, ’ndó ce podìa esse’ le paùre: ’na ò dicìa che c’era, sarà stado anca vero! Anca mi’ sòcera arcontàa che de notte se portàa l’ùa col biròccio ai padrù’; se partìa col sole ma, fatto nigò (pistàlla, torchià’ i raspi), gèra a finì’ anca a mezzanotte. E lìa argèra a casa da sola, perchè mi’ sòcero aiudàa ’nté le cantìne per pïà’ ’na lira. Allora ha ditto: “Tutta ’na ò s’è C’era anche questa critica: tutti gli anni a Montalboddo venivano i mis sionari, andavano anche nelle chiese di campagna e per tutta una settima na c’era la funzione. (Questa) piaceva tanto, alla fine piantavano una croce di ferro in un crocicchio, con la data, il mese e l’anno. A San Bonaventura l’ave vano messa in un angolo, sulla terra del Lanaro: avevano costruito una piazzo la, l’avevano messa il 15 maggio 1935. (Mettevano le croci) una volta in una contrada una volta in un’altra, lonta no dalle case, dove potevano esserci le ‘paure’: un tempo si diceva che c’erano, sarà stato anche vero! Anche mia suocera raccontava che, quando si portava l’uva con il biroccio ai padroni, si partiva con il sole ma, sbrigato tutto (schiacciarla, torchiare i raspi), si andava a finire anche a mez zanotte. E lei tornava a casa da sola, perché mio suocero aiutava nelle canti ne per prendere una lira. 150 fermàde le vacche, s’è messe a gambe larghe e le recchie dritte, non caminàa mango co’ la frusta; ho vedùdo ’n’ombra sul biròccio, ’na persóna me parìa (cuélla vo’ sul biròccio ce volìa la linterna e la luce ’n ne fèra tanta!). Me so’ spaurìda e ho ditto ‘tanto que c’è ’l deàolo ?’ Ho vedùdo ’na sfiammàda e le vacche s’è’rmésse a caminà’ ”. Lì, sci c’ero io era morta, ma lìa era como ’n cavalliére, nìa paura de gnè! Se sentìa a dì’ che cualchidù’ vidìa ’n porchétto, ’na persóna vestida de nero s’affiancàa vecìno e altre robbe. Uno che era propio pauròso a caminà’ de notte, ’na vo’ che c’era la luna, vedìa l’ombra da vecìno: più curìa e cuélla sempre vecìno, ché currìa co’ lu’: sa, era la merìggia sua! È riàdo a casa co’ la léngua de fòra; dobo che i genidóri iél’ha spiegàdo, s’è ’mpo’ calmàdo. Allora artornàmo ai missionari. C’era ’sta cridiga chì che dicìa: “ ’Ndó va i missionari dobo ce fa la gràndina!” Era vero... ma sarà stado che lìa da fa’ e ’ncuntràa lì, perché la gràndina è a raggiàde, ’ndó che pïa fa dòle, te mànna a male. E non è per tutto uguale: ’n’anno l’ha fatta grossa como l’ôi d’òga, c’è chi lìa pesàda sette etti, tutta sbrozzolósa. Alle padrone nostre i’ha rotto tutti i vedri delle finè’, toccàa a chiùde’ i scurétti, scinó boccàa drendo casa. Sci c’era le maghine como adè’, sai i danni! Dìcene che non porta carestia. ’Ndó che non Allora ha detto: “All’improvviso si sono fermate le vacche, si son messe a gambe larghe e le orecchie dritte, non camminavano neppure con la frusta; ho visto un’ombra sul biroccio, mi sembra va una persona (quella volta sul biroc cio ci voleva la lanterna, ma questa non illuminava molto!). Mi sono spaventata e ho detto ‘tanto che c’è il diavolo?’ Ho visto una fiammata e le vacche si sono messe di nuovo a camminare”. Lì, se ci fossi stata io, sarei morta, ma lei era come un cavaliere, non aveva paura di niente! Si sentiva dire che qualcuno vedeva un porco, una persona vestita di nero che ti si affiancava vicino e altre storie. Uno che era proprio pauroso a camminare di notte, una volta che c’era la luna vedeva l’ombra vicina a lui: più correva e più quell’ombra correva con lui sempre lì vicina: sa, era l’ombra sua! È arrivato a casa con la lingua di fuori; dopo che i genitori glielo hanno spiegato, si è un po’ calmato. Allora ritorniamo ai missionari. C’era questa critica che diceva: “Dove vanno i missionari dopo ci cade la grandine!” Era vero… ma sarà stato che la doveva fare ed incontrava proprio lì, perché la grandine cade a raggiera, dove coglie fa male, ti rovina. E non è dapper tutto della stessa misura: un anno l’ha fatta grossa come le uova dell’oca, c’è chi l’aveva pesata setti etti ed era tutta bernoccoli. Alle nostre padrone aveva rotto tutti i vetri delle finestre: bisogna va chiudere gli scuretti, sennò entrava in casa. Se ci fossero state le automobili come adesso, sai i danni! 151 pïa! Ma ’ndó che pïa te fa piàgne’, altroché! Anca ’st’anno è passàda chì da noà, ha portado via ’n tèrso d’ùa, ha sbranciàdo nigò, la robba non cresce più gnè; anca i frutti, i pomidòri è tutti ’ntaccàdi: chi l’ha da vènde’ ni vôle nisciù, tocca a vèndeli per pogo. E non porta la carestia? Noà non c’è mango per casa. Dicono che la grandine non porta carestia. Dove non cade! Ma dove cade ti fa piangere, altroché! Anche quest’anno è passata qui da noi, ha portato via un terzo dell’uva, ha rotto le foglie di tutte le piante, che non crescono più; anche i frutti, i pomodori sono tutti ammacca ti: nessuno li vuole comprare, bisogna venderli per poco. E (la grandine) non porta carestia? Noi non abbiamo (i pomodori) neppure per casa! La mededùra La mietitura A cuéi tempi la mededùra se cominciàa vèro ’l dieci de giugno. Sci c’era bisogno de comprà’ i cappelli de paja, quanno fumma gióvene, se gèra tutti alla fiera; dobo sposàda ce gèra solo ’l capoccia e la vergàra: e po’ se comensàa a mède’. Cuélla vo’ i grani c’era de tante razze e venìa prima. Stade ascoltà’ de quante razze c’era: ’l Mentàna, Frasinédo Todeno, San Pastóre, Mara, Gentilrosso, Gentilbianco, Marzòtto, ’l Funo e ’l Damiano Chiesa. Toccàa a mède’ presto, mezzo barzòtto, scinó cascàa i’àceni. Quanno s’ardunàa i côi, giù fónno del biroccio, ogni viaggio ce n’era ’na caldaròla. Gèra be’ al contadì’, cuéllo non gèra a finì’ ’nté ’l barcó’, se mettìa da ’na parte pei pùj. Da che m’arcòrdo io, se tajàa ’l gra’ radènte terra co’ la falcetta, A quei tempi si cominciava a miete re verso il dieci di giugno. Se c’era biso gno di comprare i cappelli di paglia, quando eravamo giovani, andavamo tutti alla fiera; dopo sposata ci andava no soltanto il capoccia e la ‘vergara’: e poi si cominciava a mietere. Quella volta c’erano tante qualità di grano e maturavano prima. Sentite quante qualità c’erano: il Mentana, il Frasineto Todeno , San Pastore, Mara, Gentilrosso, Gentilbianco, Marzòtto, il Funo e il Damiano Chiesa. Bisognava mieterlo presto, mezzo verde, sennò cascavano i chicchi. Quando si radu navano i covoni, ad ogni viaggio, sul fondo del biroccio ne rimaneva una cal derella. Andava bene al contadino, quel lo non andava a finire nel barcone, si metteva da una parte per i polli. Da quando mi ricordo io, il grano si tagliava rasente il terreno con la falce, perché era basso, e vedevi la terra di 152 perché era basso, e cuéi contadì’ che fadigàa be’ vedìsci cuélla terra rasàda como la barba dell’òmmini, cuéi bei còi pari, legàdi be’, perché le pegorèlle del gra’ era tajàde pare e messe be’ ’nté ’l còvo, legàdo sempre col gra’ e col piretto de legno. Sapìa legàlli anch’io perché babbo dicìa: “ ’Mparàde anca ’sta faccènna, sci c’è bisogno la sapéde fa’; fàde ’mpo’ de nigò, ’mparade l’arte e mettédelo da ’na parte: s’arpìa quanno sèrve!” Allora arpìo a’rcontà’ de ’sto gra’, quanno ’l medémma per terra. Ha duràdo pògo perché, quanno era la sera, camminàmma tutti gobbi, non se la fèra a ’ndrizàsse. Dicémma ’sta cansó’1: C’era ’n gobbo co’ ’na gobba gobbo era ’l padre, gobba era la madre, gobbo ’l fradèllo, gobba la sorèlla la faméja dei gobbù’. Andarono in viaggio Co’ ’l padró’ de ’n gran battello era gobbo pure quello, era gobbo pure quello. E le féce belle nozze, ce ’nvidò ’l segretario, gobbo come ’n dromedàrio, gobbo come ’n dromedàrio. E dobo tanto tempo gli nacque ’mbèl bambino anche lui col suo gobbìno, 1 quei campi, dove i contadini lavorava no bene, rasata bene come la barba degli uomini, i bei covoni ben pareggiati, legati bene, perché le ‘pegorelle’ del grano erano tagliate pari e sistemate bene nel covone, legato sempre col grano e con il ‘piretto’ di legno. Sapevo legarli bene anch’io perché babbo diceva: “Imparate anche questa faccenda, se c’è bisogno la sapete fare; fate un po’ di tutto, impa rate l’arte e mettetela da una parte: si riprende quando serve!” Allora riprendo a raccontare di quando mietevamo questo grano a terra. È durato poco perché, quando era sera, camminavamo tutti gobbi, non ci si riusciva a raddrizzarci. Cantavamo questa canzone: “C’era ’n gobbo co’ ’na gobba gobbo era ’l padre, gobba era la madre, gobbo ’l fradèllo, gobba la sorèlla la faméja dei gobbù’. Andarono in viaggio col padró’ de ’n gran battello era gobbo pure quéllo, era gobbo pure quéllo. E le féce belle nozze, ce ’nvidò ’l segretario, gobbo come ’n dromedàrio, gobbo come ’n dromedàrio. E dobo tanto tempo gli nacque ’mbèl bambino anche lui col suo gobbìno, Vedere la trascrizione musicale a p. 493. 153 anche lui col suo gobbìno. E lo dà ad una balia, con tre gobbe alte ’n medro due davanti e una de diedro, due davanti e una de diedro. anche lui col suo gobbìno. E lo dà ad una balia, con tre gobbe alte ’n medro due davanti e una de diedro, due davanti e una de diedro”. Benanche stufi, cantàmma listesso. Dobo qualche anno ’sto gra’ non se fèra più radènte, perché chi ce nìa 5 - 6 èttri ce volìa ’mbelpò’ de giorni a mède’. I vicinàdi cìa tutti da mède’ ’l sua. Allora se comensàa a mèdelo a l’altezza de ’n ginocchio. La razza del gra’ era più alto, sarìa stado ’l Fraginédo (cuéllo basso era ’l Mentàna). I gra’ se n’è gambiàdi ’mbellipò’; a mèdelo alto rescìa ’mbelpò’ de più, solo che piccàa le stóppole. Le gambe, quann’èra la sera, era tutte sfrigiàde, fèra sangue. Po’ quanno ardunàmma i còi, anca peggio; dobo lo stramo se falciàa quanno era finìdo da mède’: cuéllo prò era laóro pe’ l’òmmini, perché era fadìga multubè’. Se duràa anca 15 giorni e con cuélla falcettóna grossa. Spesse vo’ ce pïàa la manzòla ’nté ’l polso e dolìa muntubè’. Quann’èra la sera ce se dèra ’na ónta co’ la sógna e alla madìna via ’n’antra ò. Dobo ’mpo’ d’anni émo gambiàdo: émo pïàdo la falce fenàra co’ l’archétto, pe’ fa’ le pegorèlle pare. C’è volsùdo ’mpo’ pe’ ’mparàcce co’ l’archétto, ma quanno c’èra pïàdo la ma’, venìa certe pegorèlle belline, che dèra gusto a guardàlle e se pïàa mejo p’abbracciàlle su pe’ méttele ’nté ’l covo. Benché stanchi, cantavamo ugual mente. Dopo qualche anno il grano non si mieteva più radente (al terreno), per ché chi ne aveva cinque o sei ettari ci voleva molto a mieterlo. I vicini aveva no da mietere il loro. Allora si è iniziato a tagliarlo all’altezza del ginocchio. Era una qualità di grano che cresceva più alto, era il Frasineto (quello basso era il Mentana). Sono state cambiate diverse qualità di grano; a mieterlo alto riu sciva molto di più, solo che piccavano le stoppie. A sera le gambe erano tutte graffiate, sanguinavano. Poi, quando radunavamo i covoni, anche peggio; lo strame si falciava quando si era finito di mietere: quello, però, era un lavoro da uomini, perché era molto faticoso. Si durava a mietere anche quindici gior ni e con quella falce grossa. Spesse volte si prendeva nel polso la ‘manzòla’, che faceva molto male. La sera la ungevamo con la ‘sógna’ e la mattina via un’altra volta. Dopo alcuni anni abbiamo cambiato di nuovo: abbiamo preso la falce fena ia con l’archetto, per fare le ‘pegorelle’ pare. C’è voluto un po’ per imparare a falciare con l’archetto, ma quando uno ci aveva preso la mano, venivano certe ‘pegorelle’ belline, che dava piacere a guardarle e si prendevano anche meglio per abbracciarle e metterle nel covone. 154 Pensàde vuà come fùmma pôretti, ma birbi: ’n c’era i soldi pe’ comprà’ l’archetto, allora gèmma ’nté ’na vengaròla, tajàmma ’n véngo grosso più de ’n dedo e lì se legàa la pónta ’nté cuél fèro che tène la falce fenàra e ’l calcagnòlo e ’l culo se legàa ’nté ’l mànnigo vicino alla cornétta. E coscì ai soldi s’armediàa co’ la testa fina. Pensate voi come eravamo poveretti ma birbi: non c’erano i soldi per com prare l’archetto, allora andavamo in un salice, tagliavamo un vimine più gros so di un dito e lì si legava la punta in quel ferro che tiene la falce fenaia e il ‘calcagnòlo’, mentre la parte più grossa veniva legata nel manico, vicino alla ‘cornetta’. Così alla mancanza di soldi si poneva rimedio con la testa fina. Ognuno la feccènna sua Ad ognuno il suo compito Presémpio de mededùre c’era ognuno la feccènna sua: la falciatùra del gra’ toccàa sempre ai più ribùsti, più gióvini, perché arcòje le pegorèlle era capàce tutti, vecchi e monellotti, cominciànno dai sette otto anni, sci le pegorèlle n’era tante grosse e, più de nigò, sci era fatte be’. Anca lì c’era chi era esàtti e chi brodolù’, che le lassàa sciamennàde; allora ié se dicìa: “Brodoló’, vedi che sciamennamènto che fai? Arvòltede de drìa, guarda a quell’altri, como è fatte be’!” Io non so’ stada mai ’na fugóna, ’na presciolósa a fa’ le faccènne, prò, quann’era fatte, era fatte be’, perlomeno me ’l dicìa anca quanno gèra a fadigà’ ’nté le rette: ’l poléde anca domannà’, che ve l’ardìce sci è veredà. ’L so che a fadigà’ male rèsce de più, pro dobo ’n c’è risultàdo. Allora pe’ favve capì’, la mededùra Per esempio durante la mietitura ognuno aveva il suo compito: la falcia tura del grano toccava sempre ai più robusti, più giovani, perché a raccoglie re le ‘pecorelle’ erano capaci tutti, vecchi e monellotti, cominciando dai sette otto anni, se le ‘pecorelle’ non erano tanto grosse e, più di tutto, se erano fatte per bene. Anche in quel lavoro c’erano quelli esatti e quelli brodoloni che le lascia vano sciamannate; allora gli si diceva: “Brodolone, vedi che ‘sciamannamento’ fai! Voltati di dietro, guarda quegli altri, come son fatte bene (le ‘pecorelle’)! Io non sono stata mai una fretto losa nel fare le faccende, però, quando (queste) erano fatte, erano fatte bene, perlomeno me lo dicevano anche quando andavo a lavorare nelle ‘rette’: lo potete anche domandare, che ve lo ridicono se è verità. Lo so che a lavorare male riesce di più, però dopo non c’è il risultato. Allora, per farvi capire, la mietitura si faceva così: se, per esempio, quattro 155 se fèra coscì: presempio, sci quattro persone falciàa, de drèdo ce volìa due arcòje le pegorelle e uno a legà’ i còi: ’na ò, como v’ho ditto, se legàa col piro e coi balsi de gra’, ma dobo, vèro l’anni ’40, era venùda fòri la pressa e legàdi col fil de fèro e lì, a legà’, era più adatta ’na persona forte e grossa, che pesàa ’mbelpo’, coscì la pressa piàa tutti i denti e i còi venìa più grossi e legàdi più stretti: pesàa anca quaranta chili, sci ’l gra’ era bello. persone falciavano, di dietro ce ne vole vano due per raccogliere le ‘pecorelle’ ed una per legare i covoni: una volta, come v’ho detto, (questi) si legavano con il ‘piro’ e con i ‘balsi’ di grano, ma dopo, verso gli anni ’40, è uscita fuori la ‘pres sa’ e (i covoni venivano) legati con il fil di ferro e lì, per legare, era più adatta una persona forte e grossa, che pesava molto, così la pressa agganciava tutti i denti e i covoni venivano più grossi e legati più stretti: pesavano anche qua ranta chili, se il grano era bello. Quann’èra la sera dobo notte, se ’rdunàa ’sti còi, ce se fèra i cavalletti da 13 còi, da 17, da 21, da 29, sempre de bicco: quello era chiamàdo “ ’l birro”, perché stèra a cavallo sopra al cavallétto. Sotta se mettìa quattro còi grànni in croce, po’ la segónda fila ’n tantì’ più stretti e, su su, sempre più stretti: alla fì’ se mettìa ’l birro. Cualchidù’ dicìa: “Toh, méttelo su te, ’l montó’, che sai ribùsto!” Spesso, lì da noà, toccàa al montagnòlo, che era ’mpezzo de salsicció’ alto e grosso, e lu’ era La sera, dopo notte, si radunavano i covoni, ci si facevano i ‘cavalletti’ da 13 covoni, da 17, da 21, da 29, sempre di numero dispari: l’ultimo era chiama to ‘il birro’ (montone), perché stava a cavallo sopra il ‘cavalletto’. Sotto si met tevano quattro covoni grandi in croce, poi la seconda fila, un po’ più stretti: alla fine ‘Il birro’. Qualcuno diceva:” Toh, mettelo su tu, il montone, che sei robusto!” Spesso lì da noi, toccava al montagnolo, che era un pezzo di salsic cione alto e grosso e lui era tutto conten to, perché lo stimavamo. ‘Il birro’, messo 156 tutto contento che lo stimàmma. ’Sto birro coprìa tutto ’l cavallétto, messo a spiòe’: l’aqua sbisciàa via quanno pioìa. Po’ se fèra anca le barchétte (mi’ sòcero le chiamàa le ‘coàde’), ch’èra fatte coscì: tre file de còi su dritti, tre per tre messi dal paro, se tenìa uno coll’altro; la fila de mezzo dovìa èsse’ messa ben dritta, ’mpostàda be’, allora ’n se sfasciàa. ’Gni barchetta era fatta co’ 70-80 còi, perché dobo se ne mettia n’antre du’ file sopra: ’na fila voltàda co’ le teste da ’na parte, la segónda fila da n’antra. Se ne podìa fa’ tre file; lì ’l birro non ce volìa, scinó la fila sopra era tanti birri e dobo fèra a cagnàra! Io scherso. Solo che, quanno se fèra ’ste barchétte, toccàa a careggiàlli ’mbelpo’ ’sti còi, perché era rade, n’era como i cavalletti che i còi erane poghi e venìa i mucchi più fitti: se fadigàa de meno. a spiovente, copriva tutto il ‘cavalletto’: quando pioveva, l’acqua scivolava via. Poi si facevano anche le ‘barchette’ (mio suocero le chiamava le ‘covate’), che erano fatte così: tre file di covoni su dritti, tre per tre messi pari: si sostene vano l’uno con l’altro. La fila di mezzo doveva essere messa ben dritta, impo stata bene, allora non si sfasciava la “barchetta”. Ogni barchetta era fatta con 70-80 covoni, perché dopo (la prima) se ne mettevano altre due file sopra: una fila rivoltata con le spighe da una parte, la seconda fila da un’altra. Si potevano fare tre file; lì ‘il birro’ non ci voleva, se no la fila di sopra sarebbe stata compo sta da tanti ‘birri’, che dopo facevano a cagnara! Io scherzo, ma solo che, quan do si facevano queste ‘barchette’, toccava trasportarli molto questi covoni, perché le ‘barchette’ erano rade, non erano come i ‘cavalletti’ che avevano pochi covoni, i mucchi venivano più fitti e si faticava di meno. Sette otto giorni prima che venìa la màghina da batte’ ’nté ’n casa se piàa vacche e biroccio e se comensàa a ’rdunà’, se portàa ’sti Sette otto giorni prima che venisse la trebbiatrice in casa, si prendeva no vacche e biroccio e si cominciava a radunare, si portavano questi covoni 157 còi ’ntéll’ara ben pulìda, preparàda al giorno prima: se levàa l’erbàccia, i sassi col sappétto e ’l rastèllo. Carcàmma nigò ’nté la cariòla e se portàa via: l’erbaccia quann’era secca se bruciàa e i sassi se buttàa ’nté le strade de tèra. Su ’sto biroccio ce se comedàa anca cinquanta còi: uno comedàa sul biroccio e ’n’antro buttàa su ’sti còi col forcó’; ’sti laóri era uguale tanto pe’ l’òmo che la donna. Tutti ’sti còi era ben messi a scala sul biròccio, non se podìa guzzà’ ’l biroccio, perché toccàa a legàlli. ’L biroccio dovìa traersà’ l’aquaréccio, ’ndó se fèra de somènti pe’ fa’ cùre’ l’aqua, cave, scadafòssi, como i volémo chiamà’. Allora ’l càrco se podìa ’rbaltà’, toccàa a legà’ col cànnipo dal timó’, ’ndó c’era du’ campanèlle, al mulinèllo de drèdo. Passàa sopra a ’sti còi du’ cànnipi granni e se tiràa finànta al mulinello, ’ndó c’era ’na rodèlla fatta a ’ngranaggio e con du’ ferri lónghi che era sistemàdi co’ le cadéne e anelli che servìa pe’ tirà’ più forte ’l cànnipo. C’è chi i chiamàa ‘torcolacci’, torcoladóri, che se ’nfilàa ’nté ’l mulinèllo, ’ndó c’era quattro bughi per parte, e du’ persone ribùste tiràa forte più che podìa finànta che venìa, ’mpo’ era ’no sfòrso grosso, ma coscì ’l biroccio, carcàdo alto, sbandàa pogo ’nté i scadafòssi, solchi, aquarécci, che se chiudìa con sei sette vangàde, scinónca, pe’ no’ fadigà’ a roprìlle, ce se mettìa du’ tre fascine de cam- nell’aia ben pulita, preparata il giorno prima: si levava l’erbaccia, i sassi con la zappetta e il rastrello. Caricavamo tutto quanto nella carriola e si portava via: l’erbaccia si bruciava quando era secca e i sassi si buttavano nelle strade di terra. Sul biroccio si sistemavano anche cinquanta covoni: uno sistemava sul biroccio e un altro buttava su i covo ni con il forcone: questi lavori erano uguali tanto per l’uomo quanto per la donna. Tutti questi covoni erano messi a scala sul biroccio, però non si pote va aguzzare il carico, perché toccava legarlo. Il biroccio doveva attraversare i solchi di scolo, ‘cave’, ‘scadafossi’, come li vogliamo chiamare, che si facevano durante la semina per far scorrere l’ac qua. Allora il carico si poteva ribaltare, toccava a legarlo col canapo dal timone, dove c’erano due anelli, al mulinello di dietro. Passavano sopra questi covo ni due canapi grossi e si tirava fino al mulinello, dove c’erano una rotella, fatta ad ingranaggio, e due ferri lunghi che erano sistemati con catene e anel li e che servivano per tirare più forte i canapi. C’è chi li chiamava “torcolàcci”, ‘torcoladóri”, i quali si infilavano nel mulinello, dove c’erano quattro buchi per parte. Due persone robuste tirava no il più forte possibile finché (il cana po) veniva; era uno sforzo grosso, ma così il biroccio, caricato alto, sbandava poco nei ‘scadafossi’, solchi, ‘aquaréc ci’. Questi venivano chiusi con sei sette vangate, se no, per non faticare poi ad aprirli, ci si mettevano tre fascine di 158 bolù’ per ròda del biroccio, coscì sconcassàa meno ’l biroccio e non se ’rbaltàa. Chi n’era prudenti de fa’ luscì succedìa arbaltàsse ’sto biròccio; oltra che se sgranàa tanto gra’, sci era la tèra piana gèra be’, ma sci era su pe’ ’na costa, anca d’in giù, succedìa i guai: se podìa strozzà’ ’na vacca, ’n bua, che buttàa via ’l giógo, per cuésto se portàa drìa ’n cortèllo pe’ tajà’ la corda delle taèlle che passàa sotta la gola della bestia, anca ’l caézzó’, pe’ liberàlla. Anca sci buttàa via ’l giógo, ié spizzicàa ’nté ’l collo e se ’ncollàa – se dicìa coscì – e dobo la bestia finànta che ’n s’era guarìda non se podìa taccà’ per ’mbelpo’ de tempo. Cuésto ’l pô sapé’ uno che ha fatto ’l contadì’, scinónca ce vorrìa tutti disegni fatti da n‘aspèrto, pe’ fàvve capì’ como era fatto nigò. Pôretta a me!, volerìa fa’! ’Nté ’l cervèllo e ’ntéll’occhi ce l’averìa, ma dobo, quanno vô a disegnà’ co’ làbbise non me vène be’. Como ho da fa’? Ve farò véde’ ’l barcó’ ’ntéll’ara. Sotta se fèra ’n cerchio granno, tónno, ovale, guadràdo, como uno piacìa de più e como c’era ’l posto per métte’ la màghina da bàtte’, e po’ se rimpìa de mezzo e se gèra sempre su ’mpo’ più stretto, fatto be’; chi ce tenìa era ’n capolaóro. Sci c’era cuàlche còo ’mpo’ spostàdo , co’ la tàola del biroccio, cuélla de drèdo, che se manéggia mejo, menàa ’nté ’l culo dei còi: dev’èsse’ ‘gamboloni’ per ogni ruota del biroccio, così il biroccio sconquassava meno e non ribaltava. A quelli che non erano prudenti di fare così succedeva che il biroccio si ribaltava: oltre che si sgra nava tanto grano, se il terreno era pia neggiante, andava bene, ma se si tro vava su per una salita, anche d’in giù, succedevano i guai: si poteva strozzare una vacca, un bue che buttava via il giogo. Per questo si portava dietro un coltello per tagliare la corda delle golette che passava sotto la gola della bestia; (si tagliava) anche il cavezzone per liberarla. Anche se (la bestia) buttava via il giogo, si feriva nel collo e se ‘’ncol làa’ – si diceva così – ( si gonfiava) e dopo la bestia, finché non era guarita, non poteva essere aggiogata per molto tempo. Questo lo può sapere uno che ha fatto il contadino, se no ci vorrebbero tutti disegni fatti da un esperto, per farvi capire come era fatto tutto quan to. Poveretta me! Nel cervello e negli occhi ce l’avrei, ma dopo, quando vado a disegnare col lapis non mi viene bene. Come devo fare? Vi farò vedere il bar cone nell’aia. Sotto si faceva un cerchio grande, tondo, ovale, quadrato, come a uno piaceva di più e come c’era il posto per mettere la trebbiatrice, e poi si riem piva in mezzo e si andava sempre su un po’ più stretto, fatto bene: chi ci teneva faceva un capolavoro. Se c’era qualche covone un po’ spo stato, con la tavola del biroccio, quella di dietro che si maneggiava meglio, menava nel culo dei covi: dovevano 159 stati tutti pari como ’n muro, le spighe tutte drendo, coscì ’n’aquàda ’na sgrandinàda era salve. essere stati tutti pari come un muro, le spighe tutte in dentro, così erano salve da un’acquata, una grandinata. Toccàa a bàtte’ presto scinó era perigolósi ’sti barcù ’ntéll’ara: ’l temporale, cuàlche fùlmino, quanno ’na faméja era sott’occhio cualchidù’ ié Toccava trebbiare presto se no erano pericolosi questi barconi nell’aia: il tem porale, qualche fulmine, un dispetto di notte, se la famiglia era (presa) sott’oc 160 La mietitura: donne e bambini affaccendati con le “pegorèlle”. Anni ’30 (coll. Luigi Vittorio Ferraris). La mietitura: breve sosta. Anno 1938 circa. (Coll. Luigi Vittorio Ferraris). 161 Mietitura presso la colonia Pandolfi Vincenzo di Pianello di Ostra. Da sinistra: Pandolfi Vincenzo, Reginelli Elvio, Pandolfi Graziella, Pandolfi Mario, Conti Sara, Amici Rosa. Anno 1958 circa (coll. Gabriele Balducci). Mietitura 1958 circa a Pianello di Ostra. Da sinistra: Rosa Amici, Riccardo Rocchetti, Luigi Amici, Pandolfi Pasquina con Elvio Reginelli, Sara Conti, Vanda Amici, un bevitore, Latino Pandolfi, che “códa la falce fenàra”. (coll. Gabriele Balducci). 162 fèra ’n dispetto de notte. Podìa anca pïà’ fôgo, se stèra tènti anca i monelli coi fulminànti, cualchidù’ che fumàa, se stèra all’erta cuéi giorni. C’era chi de notte ’l curàa, perché era tutta lì la risorsa del contadì’: ’l gra’ e le bestie. Alla fì’ che ’sto barcó’ era guzzo, ce se ’nfilsàa le croce, como ve l’ho ditto ’n’antra ò, cuélle che se piantàa ’l 3 de maggio giùppe i campi, ’l giorno de Santa Croce. chio da qualcuno. (Il barcone) poteva anche prender fuoco, si stava attenti anche ai monelli con i fiammiferi, a qualcuno che fumava, si stava all’erta in quei giorni. C’era chi lo curava di notte, perché era tutta lì la risorsa del contadino: il grano, e le bestie. Alla fine questo barcone era aguzzo, ci si infilzavano le croci, come vi ho detto un’altra volta, quelle che si pianta vano per i campi il 3 maggio, il giorno di Santa Croce. Le battidùre Le battidùre Quanno se gèra a bàtte’, toccàa alsàsse anca le tre della notte; se sentìa a sonà’ la séréna la prima vo’, ’ntanto mettìa a modo ’l mudóre, c’era ’l Landìni che gèra avanti a testa càlla, ce volìa ’l fôgo sotta per fàllo partì’. Dobo, quanno comensàa a batte’, sonàa du’ ’olte ’na seréna (parìa como la Croce Roscia!): cuélle era l’avviso per cuélli da lóngo. ’Ntànto s’era scallàdo ’l mudóre, cominciàa a girà’ anca la trébbia e po’, pian piano, partìa anca ’l leadóre, cuéllo della paja; la pula se tiràa fòri da sotta la trebbia: c’era uno che fèra ’l pularòlo e tre quattro donne e monèlli a spégne’ via co’ lo rastello, uno sul pajàro della pula. C’era chi cìa ’l pulàro, chiuso tónno tónno co’ la cannucciaja che se tajàa giù ’l fiume. La pula coscì ’n Quando si andava a trebbiare, biso gnava alzarsi anche alle tre di notte; si sentiva suonare la sirena la prima volta, intanto mettevano in moto il motore, c’era il Landini che girava a testa calda, ci voleva il fuoco sotto per farlo partire. Dopo, quando si cominciava a trebbiare, la sirena suonava due volte (sembrava quella della Croce Rossa!): era l’avviso per quelli che stavano lontani. Intanto s’era scaldato il motore, cominciava a girare anche la trebbia e poi, pian piano, partiva anche l’elevato re, quello della paglia; la pula si tirava fuori da sotto la trebbia: c’era uno che faceva il ‘pularolo’ e tre quattro donne e i monelli a spingerla via con il rastrello, uno sul pagliaio della pula. Qualcuno aveva il ‘pularo’ chiuso tutt’intorno con la cannucciaia che si tagliava giù al fiume. La pula così non si disperdeva col vento, per l’inverno era una risorsa 163 se sciammennàa col vento, pe’ l’inverno era ’na risórsa pe’ le bestie: se mischiàa col granturchetto, ’l faìno, sènnipa, rape. ’Ste robbe se piantàa l’ultime settimane d’agósto che fèra cuéi accuazzù’: se piantàa a raggio co’ le ma’ como quanno se sciammennàa ’l concìme. Sci pioìa, nascìa fitta ’sta verdùra e se fèra; quanno era ora venìa alto anca du’ medri tanto ’l faì’ che ’l granturchétto. Se fèra vèro febbràro e marso; sci non fèra tanta néve o gelàde venìa bella muntubè’. Dobo se tridàa co’ la trida a ma’: era ’n falció grosso la fattézza como le falcette che se medìa ’l gra’, sopra a legno nèrto con tajo grosso ’nté ’l mezzo. E lì se mettìa ’na bracciàda de ’st’erba e se spezzàa lónga ’n palmo, co’ ’na civiéra de pula: fèra como ’na condidèlla, col forcó’ se mischiàa bembè’ e le vacche s’arcoràa. Era radi chi cìa la tridaforaggi. Cuélla a ma’ più o meno era fatta coscì per le bestie: si mischiava con il gran turchetto, il favino, la senape, le rape. Questi foraggi si piantavano le ulti me settimane d’agosto quando faceva quei grossi acquazzoni: si piantavano a raggiera con le mani come quando si spargeva il concime. Se pioveva, questa verdura nasceva fitta e cresceva bene; quando era ora veniva alta anche due metri tanto il favino quanto il gran turchetto. Si tagliava verso febbraio e marzo; se non faceva tanta neve o gelate questa roba cresceva molto bella. Dopo si tritava con la trita a mano: era un falcione grosso e della stessa forma delle falci con cui si mieteva il grano, fissato ad un legno spesso con un taglio grosso in mezzo. Lì si metteva una bracciata di quest’erba e si spezzava lunga un palmo e la si mischiava con una ‘civiera’ di pula: si faceva come una conditella. Si mischiava perbene con il forcone e le vacche se la godevano. Erano rari quel li che avevano la tritaforaggi. Quella a mano era fatta così: 164 165 ’Ste maghine del gra’ Queste macchine del grano Adè ve fô véde’ como me le ’rcòrdo io ’ste maghine del gra’. È ’n disegno ridìgolo! Ce volerìa ’l quaderno del disegno, làbbise, i colori ’mpo’ bembè e più de nigò... il sopramànnigo ché cuéllo che ’dopro io non funsióna be’! Le ma’ trema; ’na ò , quanno coloràa non c’era ’no sbaffo de fòra, i disegni fatti be’ ce li mannàa all’isposizió’ a Roma. Anca i dettati sensa sbai li mannàa a Roma. Adesso vi faccio vedere come mi ricordo io queste macchine per trebbia re il grano. È un disegno un po’ ridico lo! Ci vorrebbe il quaderno di disegno, il lapis, i colori un po’ perbene e più di tutto… il ‘soprammanico’, perché quello che uso io non funziona bene! Le mani tremano; una volta, quando coloravo, non c’era uno sbaffo di fuori: i disegni fatti bene ce li mandava all’esposizio ne a Roma. Anche i dettati corretti li inviavano a Roma. 166 Cuélla ò ’nté le pagelle se pïàa insuficente, sufficente, lodevole, e bòno. Io no’ pe’ lodàmme, ma i vódi era i mijóri. Non guardàde adè’: metto du’ consonanti ’ndó ce ne vôle una sola, ne metto una ’ndó ce ne vôle due. ’Mpo’ anca a scrìve’ non è fàciole! Tante le ò se dice: “Uno ’mpo’ ruzzo scrive como parla! Ma que vôi pretènde’? Tre classe solo e po’ è 69 anni che non vô più a scòla! Quella volta nelle pagelle si prende va insufficiente, sufficiente, lodevole e buono. Non per lodarmi, ma i miei voti erano i migliori. Non guardate adesso: metto due consonanti dove ce ne vuole una sola, ne scrivo una dove ce ne vogliono due. Un po’ che anche a scri vere non è facile! Talvolta si dice di uno un po’ rozzo: “Scrive come parla!” Ma cosa vuoi pretendere? Tre classi e poi dopo più di settant’anni che non vado più a scuola! Le scannafojadùre La scartocciatura De scannafojadure fèmma insieme coi vicinàdi; prima se scannafojàa, po’ se magnàa cuélli che avìa scannafojaàdo e dobo se ballàa scalsi con cuéi panni pîni de pólvera. Chi nìa voja de fadigà’ stèra piattadi drédo i pajàri, drédo le fratte. Più che altro era gioventù che non se volìa sporcà’, ma dobo mango a magnà’ non se invidàa. Scappàa fòra quanno sentìa a sonà’ l’organetto, erane belli pulidi, ma noà c’émma la trippa pîna e loro vôdia. Cuélla vo’ ’na magnàda era gradìda più d’adè’, perché non capidàa tanto spesso. A cuéi tempi, quanno ’rivàa ’na festa, se gèra anca a trovà’ i parenti per magnà’ ’mpezzo de carne e du’ maccarù’ tutt’ovo. Si faceva la scartocciatura (del gran turco) insieme con i vicini; prima si scartocciava, poi mangiavano quelli che avevano scartocciato e alla fine si balla va scalzi con quei vestiti pieni di polvere. Quelli che non avevano voglia di lavorare stavano nascosti dietro i pagliai, dietro le fratte. Più che altro erano giovani che non si volevano sporcare, ma dopo non erano invitati neppure a mangiare. Uscivano fuori quando sentivano suonare l’organetto, erano belli puliti, ma noi avevamo la pancia piena e loro vuota. Quella volta una mangiata era gradita più di adesso, perché non capi tava tanto spesso. A quei tempi, quando capitava una festa, si andava anche a trovare i parenti per mangiare un pezzo di carne e due maccheroni fatti con le sole uova (e farina, senza aggiunta di acqua). 167 Beccùde, schérsi e balle ‘Biccude’, scherzi e frottole La pôra mamma ’rcontàa che lóra d’inverno stèra su a filà’ e l’òmmini chi fèra la sgàrza, chi capàa ’l véngo, chi fèra le breghe de canna pe’ fa’ le canè’, i canestrèlli. Questo anca al tempo mia l’òmmini fèra cualchicò e, sci proprio ìa finìdo nigò, giogàa a carte o gèrene al letto prima delle donne. Sapéde que fèra le donne quanno armanìa sole? Fèra la beccùda: ’mpastàa la farina de granturco con l’aqua e sale e po’ la cocìa. Mettìa ’na brancia de càoli sotta, ’ndó ìa leàdo la bràcia del fôgo (l’aròla era ’nfogàda), sopra ce poggiàa ’sta specie de créscia, sopra ci’armettìa ’n’antra brància de càolo e po’ la coprìa co’ la bràcia. La pôra mamma dicia ch’era bòna muntubè, ma ’na vo’ i’è venudo scupèrto. C’era ’l fradèllo che ìa magnàdo la fòja, stèra a senti’ drèdo la porta, e se vedìa ancó’ perché le porte era tutte scassàde, ce passàa anca i gatti. Allora co’è che ha fatto? È gìdo’ntórno al fôgo, col di’ ch’era gìdo al letto e no’ ié s’era scallàdi i pìa; ha pïàdo la paletta, ha començado a sappà’ ’nté ’sta bràcia, ié l’ha spezzàda tutta. Cuélle donne, anca mamma (èrane tre sorelle e tre fradèlli – sei fjòli, tutti co’ la fame!) ié dice: “Ma que fai? o matto!” “Ah scì! Noà gìmo al letto e vuà magnàde? Brutte ruffiane, non se fa coscì!” Ié lìa ’ncenneràda tutta. La povera mamma raccontava che loro d’inverno rimanevano alzati per filare e gli uomini chi faceva la ‘sgar za’, chi sbucciava il vimini, chi faceva le strisce di canna per intrecciare le canestre, i canestrini. Anche al tempo mio gli uomini facevano qualcosa e, se proprio avevano finito tutto, giocavano a carte o andavano a letto prima delle donne. Sapete che cosa facevano le donne quando rimanevano sole? Cuocevano la ‘biccùda’: impastavano la farina di granturco con acqua e sale e poi la cuo cevano. Mettevano una foglia di cavolo sotto, dove avevano levato la brace (l’ ‘aròla’ era infuocata), sopra ci posa vano quella specie di crescia e sopra ancora un’altra foglia di cavolo e poi la coprivano con la brace. La povera mama diceva che era molto buona, ma una volta sono state scoperte. Un fratello aveva mangiato la foglia, stava a sentire dietro la porta, e si vedeva pure perché le porte erano tutte malmesse, ci passavano anche i gatti. Allora che cosa ha fatto? È andato vici no al fuoco con il dire che era andato a letto e non gli si erano scaldati i piedi; ha preso la paletta, ha cominciato a zappare in quella brace e gli ha spezza to tutta la ‘biccùda’. Quelle donne, anche mamma (erano tre sorelle e tre fratelli – sei figli, tutti con la fame!) gli dico no: “Ma che fai? O matto!” “Ah sì, Noi andiamo a letto e voi mangiate? Brutte ruffiane, non si fa così!” Gliel’aveva 168 ’N’antra ò mamma ìa messo ’l callàro co’ l’aqua sul cadenàccio, ’n so sci cocìa le péra, le padàde… boh! Vène oltra uno de ’sti fradèlli che se magenàa de cualchicò’, lèà ’l cupèrchio del callàro e dice: “Que ce fàde la rànna pe’ lavà’? Toh, ce butto ’sti calsétti, ch’è quindici giorni che li porto!” C’era da rìde’? Le mattidà c’è stade sempre, ma se gèra anca d’accòrdo, perché c’èra i genidóri severi, ma bòni. Allora ’na ò ’nté ’n casa ce gèra ’l sartóre, lo spelanghìno, ’l barbiére, ’l maniscalco a tajà’ l’ógna e ferà’ le bestie da laóro, la sarta, la rigamadrìge, ’l calsolàro e, mentre lóra stèra in casa a laórà’ ié se dèra anca da magnà’, più che parte padàde, cipolla e pomidori, fòje e ligùmi. ’N calsolàro, mentre’rconciàa le scarpe, alsa l’occhi: ’taccàda su vicino al camì’ ’nté ’mbecchedèllo c’era ’mpèzzo de códiga. ’Ntórno al fôgo c’era la pigna dei fasciòli che bollichiàa. ’L calsolàro pïa ’sto pezzo de códiga e la butta drendo ’n tra i fasciòli. Era solo, pensàa: “Cuèsti oggi è più bòni!” Arìa ’na vecchietta, guardàa, cercàa… ’L calsolàro ié fa: “Que cercàde, nonna?” “Ah, c’era lìtta ’mpèzzo de códiga,’nté ’sto barbacà’, becchedèllo, que volémo di’! Non la vedo! Stèra chìtta al càllo… Ce ognìa le moròighe tutte le madìne”. Cuéllo ié fa: “L’averà magnàda ’l gatto!” “Macché, era più de du’ mesi che la ’dopràa!” sporcata tutta di cenere! Un’altra volta mamma aveva messo il caldaio coll’acqua sul catenaccio: non so se cuoceva le pere, le patate… boh! Si avvicina, uscendo dalla camera, uno dei fratelli che si immaginava qualco sa, toglie il coperchio e dice: “Che fate il ranno per lavare? Toh, ci butto queste calze, perché sono quindici giorni che le porto!” C’era da ridere? Le pazzie ci sono sempre state, ma si andava anche d’accordo, perché c’erano i genitori severi, ma buoni. Una volta nelle case ci andavano il sarto, il conciabrocche, il barbiere, il maniscalco a tagliare l’unghia e a fer rare le bestie da lavoro, la sarta, la rica matrice, il calzolaio e, mentre questi stavano in casa a lavorare, gli si dava anche da mangiare, per lo più patate, cipolle e pomodori, foglie e legumi. Un calzolaio, mentre cuce le scarpe, alza gli occhi: appesa su in alto vicino al camino, su un gancio c’era un pezzo di cotica. Intorno al fuoco c’era la pignatta dei fagioli che bollicchiava. Il calzolaio prende quel pezzo di cotica e la butta dentro tra i fagioli. Era solo, pensava: “Questi oggi sono più buoni!” Arriva una vecchietta, guardava, cercava… Il calzolaio le fa: “Che cercate, nonna?” “Ah, c’era lì un pezzo di cotica, in questo barbacane, gancio… come lo vogliamo chiamare! Non la vedo! Stava qui al caldo… Ci ungevo le emorroidi tutte le mattine”. Quello le fa: L’avrà mangiata il gatto!” “Macché, erano più di due mesi che la usavo!” Quel calzolaio non vi è rimasto fino 169 ’Sto calsolàro non c’è ’rmàsto finànta a mezzogiorno, ha troàdo ’na scusa, c’è ’rnùdo ’n’antro giorno. Ma quante ne succedìa ’na ò! Sarà stàdo cuell’ànno che se soffiàa ’l naso coi mezzi madù’? Cuèsto pure se dicéa, quanno se’rcontàa ’na balla grossa. Oppure anca: “Me la vôi da’ da bé? N’ho séde sa!” Scinó: “Gimo fòra va, ché questa drendo casa non ce cape!” a mezzogiorno, ha trovato una scusa, c’è ritornato un altro giorno. Ma quante ne succedevano una volta! Sarà capitato quell’anno in cui si soffiava il naso con i mezzi mattoni? Questo pure si diceva quando si raccontava una frottola gros sa. Oppure anche: “Me la vuoi dare da bere? Non ho sete sa!” Sennò: “Andiamo fuori va, perché questa dentro casa non c’entra!” Como se vanga Come si vanga A parlà’ non vàlo gnè, ma a scrìe, quanno comènso, non finìscio più, magàra vô ’ndó me porta ’l cervello: è che la pénna l’ho dopràda como la vanga. ’Na ò se dicìa, quanno se gèra a vangà’: “Adè pïàmo la pénna e gimo a scrìe ’n filó!” E pe’ ’na settimana sana sempre a vangà’ e vangà’. C’era uno che volìa sposà’ a la fija de ’mpadronàle, allora a ’sto signorino l’ha messo alla pròa. L’ha messo a vangà’ con bòllide che non ci’arescìa nisciù’. Uno che ié volìa be’ i’hà ditto piano: “Sci vôi rèscì’ con esso, tacca pogo e caccia spesso!” E luscì ha fatto: ci’ha rèsciùdo e l’ha sposàda! È vero? ’Ncó’ è vivi chi l’arcónta, que ne so! Ce l’hanne ’rcontàdo, perché sci uno vanga e tacca grosso, pare che càcci più de rado, ma ’rmàne la terra pe’ la prima sbrozzolósa, l’erba non s’ammànta e ’nté le A parlare non valgo niente, ma a scrivere, quando comincio, non finisco più, magari vado dove mi porta il cer vello: il fatto è che la penna l’ho adope rata come la vanga. Una volta si diceva, quando si andava a vangare: “Adesso prendiamo la penna e andiamo a scri vere un filare!” E per una settimana intera sempre a vangare e vangare. C’era uno che voleva sposare la figlia di un proprietario, allora questo signo rino l’ha messo alla prova. L’ha messo a vangare con un ‘bolide’, con il quale non ci riusciva nessuno. Uno che gli voleva bene gli ha detto piano: “Se vuoi riuscirci con lui, intacca poco e caccia spesso”. Così ha fatto: c’è riuscito e l’ha sposata! È vero? Ancora son vivi quelli che lo raccontano, che cosa ne so! Ce l’hanno raccontato, perché se uno vanga e intac ca grosso, pare che tiri fuori più di rado, ma la terra rimane per la prima grossa, l’erba non si copre e nelle viti rimango 170 vìde armàne i vòdi, bocca giù ’l sole, ‘nsómma ci’arcàccia l’erba. E dobo ’l padró te ’l dicìa che non va be’. L’erba dentórno alla vide dovésci gi’ a scarpìlla co’ le ma’ e ’n tra cuélla terra dura te venìa le scar pirèlle ’nté l’ógna e ce venìa fàciole i giradédi, che alla fì’ non se guarìa, cascàa anca l’ógna, ansi è como adè’ che anca chi fadìga ’nté la tèrra, l’ortolà’ ci’hànne i guànti, gné se roìna le ma’, se dànne anca la vernìge ’nté l’ógna, pìane anca le vidamìne, sci casca i capìi e sci se spèzza l’ógna è segno che ha bisogno de rinforsàsse, mango scalzi non ce va più nisciù’, non ié pïa scigùro i giradédi e segadédi. no i vuoti, vi entra il sole, insomma ci rinasce l’erba. E dopo il padrone ti dice va che non andava bene. Dovevi andare a carpirla con le mani l’erba dintorno alle viti e tra quella terra dura ti veniva no le scarpirèlle nell’unghia e venivano facilmente i giraditi, che alla fine non si guarivano, cascava anche l’unghia, anzi è come adesso che anche chi fatica nella terra, l’ortolano, ha i guanti, non gli si rovinano le mani, si danno anche lo smalto nell’unghia, prendono anche le vitamine, se gli cascano i capelli o se si spezzano le unghie è segno che ha bisogno di rinforzarsi, nemmeno scalzi ci va più nessuno, non gli prendono di sicuro i giraditi e i segaditi. Como ce curàa ’sti genidóri Come ci curavano i genitori A noà, quanno ce pïàa i giradédi, ce fèra métte’ ’n filo de lana, legà’ ’l dédo e, quanno venìa fòra ’mbernòccolo, ce ’l legàa con filo de séda e a pogo a pogo cascàa. Ma cuélla roba lì non fa più, io ci’ho fatto la pròa, ma ho da gi’ a bruciàllo dal dermatologo. Anca quanno c’era le bugànse, sci c’era la neve se gèra scalsi ’n tra la neve, scindó ’na ciangàda, giumèlla, gèmena, manciàda como la volémo chiamà’, de sembola la buttàmma ’nté i carbù’ ’cési e lì se mettìa ’l calcàgno vicino, cuél fume fèra be’ pe’ le bugànse, scindó anca il fume de le brance de noce, ma sci vô fa’ Quando ci prendevano i giraditi, ci facevano mettere un filo di lana, legare il dito e, quando veniva fuori un ber noccolo, ce lo legavano con un filo di seta e a poco a poco cadeva. Ma quel la roba lì non fa più, io ci ho fatto la prova, ma devo andare a bruciarlo dal dermatologo. Anche quando c’erano i geloni, se c’era la neve si andava scalzi tra la neve, sennó un pugnello, una giumel la, una manciata, come la vogliamo chiamare, di semola la buttavamo sui carboni accesi e lì si metteva il tallone vicino, quel fumo faceva bene ai geloni, sennó anche il fumo delle foglie di noce, ma se vuoi far tribolare una persona, 171 tribbolà’a ’na persona, la sentènsa brutta “che te venésse le bugànse ’ntè la léngua o i giràdédi segadèdi” è a posto. È como la rógna. Certo che ’na vo’ ce se curàa ’mpo’ a la mèjo, ma tante le ò funsionàa. Quanno c’émma la febbre, ’sti genidori tenìa ’na pìndola (se pïàa sfuse da lo spiziàle), anca ’na candelétta, o scinó confettini cannellì’, e còscì passàa la febbre. Cualchidù’ gèra dallo spiziale, tiràa ’l prezzo: “Sci me ’l dai per tanto, be’, scinó non ne ’l posso pïà’”. Argèra via sensa gnè, prò ne morìa muntibe’ più d’adè’. Pe’ ’n dolor de testa c’era ’n cascè: se partìa a pìa per gìllo a comprà’, non c’era la cassetta del prònto soccorso como c’ènne adè’. Se se pïàa ’l tèdeno se morìa, le donne partorìa a casa, non c’era la pulizia ’nté le case dei contadì’, ce boccàa l’infezió’. Dobo, già al tempo mia, fèra bóje’ l’acqua ’nté ’l callàro e drendo ce mettìa ’n fiasco sènsa sgàrza,’l fèra bóje’n’orétta: coscì ’st’aqua era sterilizzàda. Non c’era i guanti, pe’ disinfettà’ le ma’ c’era ’l ‘supplimàdo’; ’nté ’l bellighétto del monello ce mettìa 10 soldi: ’sta monedìna ne ’l so a que servìa, ’l seccàa. Dobo ’l bellighetto se sotterràa, ma cuél fjòlo non dovìa artrovàllo mae, scinó se dicìa ch’èra scarognàdo. Sci ìsci ’l rafreddore, te mettìa alla sera, prima de ’ndormentàtte, ’na sacchetta de cénnera ’nfôgada sopra allo stòmigo; tante le ô c’era anca ’n carbó’, cuàlca luda, podém- un’imprecazione brutta “che te venisse ro i geloni sulla lingua o i giraditi o i segaditi” è a posto. È come la rogna. Certo che una volta ci si curava un po’ alla meglio, ma talvolta funzionava. Quando avevamo la febbre, i genitori avevano una pillola (si acquistavano sfuse dallo speziale), anche una cande letta, sennò i confettini ‘cannellì’, e così la febbre passava. Qualcuno andava dallo speziale, tirava sul prezzo: “ Se me lo dà per tanto, bene, sennò non lo posso pren dere” Andava via senza niente, però ne morivano molti di più di adesso. Per il mal di testa c’era un cachet: si partiva a piedi per andarlo a prendere, non c’era la cassetta del pronto soccorso come adesso. Se si prendeva il tetano, si mori va, le donne partorivano in casa, non c’era la pulizia nelle case dei contadini, c’entrava l’infezione. In seguito, già al tempo mio, si faceva bollire l’acqua, per un’oretta, nel caldaio e dentro ci si met teva un fiasco senza sala: così l’acqua del fiasco era sterilizzata. Non c’erano guanti, per disinfettare le mani c’era il sublimato corrosivo; nell’ombelico del neonato ci si mettevano dieci soldi: non so a cosa servisse questa monetina, lo seccava. Dopo l’ombelico si sotterrava, ma quel figlio non doveva più ritrovar lo, sennò si diceva che era sfortunato. Se avevi il raffreddore, ti si mette va di sera, prima che ti addormentassi, un sacchetto di cenere infuocata sopra lo stomaco; talvolta c’era anche qual che pezzetto di brace, avremmo potuto anche prender fuoco… adesso scherzo, 172 ma anca pïà’ fôgo... adè’ scherso, però è vero! Sgaggiàmma sci scottàa. Cuélli più granni mettìa a bóje’ ’na pigna de vi’ e po’ ce mettìa anca ’na bella presòtta de pepe. Gèréne a letto mezzi brilli, alla madina già se stèra mejo, anca noà monelli. Prò al vi’ ié dèra fôgo. Sci te dolìa la trippa, mettìa su ’n tiscellétto d’aqua, ce buttàa ’mpo’ de cuéll’orzo che bruscàmma da per nòà, ’l macenàa ’nté ’l macenetto: venìa quattro pacche ’nté ’n aceno. E lì era ’l caffè co’ ’na cucchiaràda de succhero e se passàa i dolori. Io tante le ô ’l dicìa anca sci non me dolìa, per be’ ’n goccio d’aqua ténta e dolce, scinó ’l caffè se bevìa solo ’nté cuéll’occasione lì. E po’ quanno fumma giùppe ’l campo scalsi, benànca c’èmma le piante dei pìa dure come le solette delle scarpe, ogni tanto te piccàa cualchicò como stoppole del gra’, della spagna che sarìa l’erba medica, ’l trafòjo, la lupinèlla che co’ la falce fenàra era tajàde a sfecchia e te se ’nfilsàa como l’aghi ’ntè i pìa, cuélle più lónghe te piàa ’nté l’osso pace: como dèra gusto! Guasci te la fèra fa’ addosso, po’ ’ndó c’era la bója ce boccàa l’infezió’, la madèria, che per mannàlla via ce fèmma impàcchi co’ l’acqua salàda; sci fusse adè’ toccàa a tajà’ la gamba ché ce bócca ’l todeno ce se môre ’ncó’. Po’ n’antra cosa: quanno fumma ’ntèll’edà de doddici e treddeci anni, su lo sgo lùppo no, allora a cualchidù’ ié venìa però è vero! Gridavamo, se scottava. Quelli più grandi mettevano a bol lire una pignatta di vino e poi ci met tevano anche una bella presa di pepe. Andavano a letto mezzi brilli; alla mat tina già si stava meglio, anche noi bam bini. Però al vino gli davano fuoco. Se ti faceva male la pancia, metteva no (sul fuoco) un tegamino d’acqua, ci buttavano un po’ di quell’orzo che bru scavamo in casa, lo macinavamo con il macinino: ogni chicco veniva spaccato in quattro pezzi. Quello era il caffè con un cucchiaio di zucchero e i dolori pas savano. Io qualche volta lo dicevo anche se non mi faceva male (la pancia), per bere quel goccio d’acqua colorata e dolce, perché il caffè si beveva solo in quell’oc casione. E poi, quando eravamo scalzi per il campo, benché avessimo le piante dei piedi dure come le solette delle scarpe, ogni tanto ti piccava qualcosa come le stoppie del grano, della ‘spagna’ che sarebbe l’erba medica, della lupinella che con la falce fenaia erano tagliate oblique e ti si infilzavano come gli aghi nei piedi, quelle più lunghe ti prende vano nella caviglia: come dava gusto! Quasi te la faceva fare addosso, poi dove c’era la crosta ci entrava l’infezio ne, il pus e, per mandarlo via, ci face vamo gli impacchi con l’acqua salata; se fosse adesso toccherebbe tagliare la gamba, perché ci entra il tetano, ci si muore pure. Poi un’altra cosa: quando eravamo nell’età di dodici e tredici anni, sullo sviluppo no, allora a qualcuno veniva 173 i bresciòli grossi como ’na noce, como è venùdi anca a me, era pîni de marcia, se fèra madurà’ coi impiàstri delle nalbe, l’infezió’ dentorno fèra ’na chiazza, e quanno era venùdi a capo, se bugàa da per lóra, scinó dicìa mamma – “adè’ ’l foràmo, coscì se guarisce prima”. C’è anca chi ce mettìa ’l fiore del lardo, lo raschiàa col cortèllo, e cuél grasso lì ’l fèra madurà’. ’L dolore finànta che nìa sfogàdo!! Non c’era calmanti omo c’è adè’, io ’ncó’ ci’ho i segni. Cuélla adè’la chiama l’acma giovanile, più gémo annànse e più se ne sente a di’, se dicìa ancó’: “Quanno hai preso marido te va via nigò, dobo s’allatta se gambia ’l sangue e se sfoga. È vero! Sci po’ ci’avésci ’no sfrigio, sapéde con cuél medigàa? Sci capidàa su casa ce buttàa un goccio d’ojo ganfì, cuéllo che se mettìa ’nté la luma per luminà’; sci capidàa giù pel campo che fumma sempre scalsi, piccàa ’no spì’, ’na stóppola, succedìa a tajasse co’ la falcetta, la falce fenàra, piccàsse col forcó’, tajàsse co’ la sàppa, se gèra drìa ’na pianta, se fèra la pipì e se lavàa con cuélla. E sci gèra a lóngo a guarisse, nonna gèra a còje’ le brance dei rughi, la rapetta, ’n’erba che se tròa giuppe i fossi. All’inverno ’ste robbe non c’era, era secche, allora pïàa ’l velo de ’na cipolla e ce mettìa cuéllo, servìa per non fa’ taccà’ la pezza che ce se legàa sopra. E giù du’ ’olte al giorno l’aqua bóìda e salada. Oh, ve dirò: gèra ’mpo’ a lóngo, ma se ’rguarìa perdéro. no i foruncoli grossi come una noce, come sono venuti anche a me, erano pieni di pus, si facevano maturare con impiastri di vitalbe, l’infezione attorno faceva una chiazza e quando ( i foruncoli) erano venuti a matura zione si bucavano da soli, sennó - dice va mamma - “Adesso lo foriamo, così guarisce prima”. C’era anche chi ci metteva il fiore del lardo, lo raschiava con il coltello, e quel grasso lì lo faceva maturare. Che dolore finché non aveva sfogato! Non c’erano calmanti come adesso, io ancora ho i segni. Quella adesso la chiamano l’acne giovanile, più andiamo avanti e più se ne sente parlare; si diceva ancora: “Quando hai preso marito, ti va via ogni cosa, dopo si allatta, si cambia il sangue e si sfoga”. È vero! Se poi ti eri procurato un’escoria zione, sapete con che cosa la medica vano? Se capitava in casa ci buttavano un goccio d’olio , quello che si mette va nel lume per far luce; se capitava giù per il campo, dove camminavamo sempre scalzi, piccava uno spino, una stoppia, capitava di tagliarsi con la falce, con la falce fenaia, pungersi con il forcone, tagliarsi con la zappa… si andava dietro una pianta, si faceva la pipì e con quella si lavava (la feri ta). E se questa ritardava a guarirsi, nonna andava a cogliere le foglie dei rovi, la ‘rapetta’, un’erba che si trova per i fossi. All’inverno queste erbe non c’erano, perché secche, allora prendeva il velo di una cipolla e ci metteva quello: serviva per non far attaccare (alla feri 174 ta) il pezzetto di stoffa che ci si legava sopra. E giù due volte al giorno l’acqua bollita e salata. Oh, vi dirò: andava un po’ a lungo, ma ci si guariva davvero. ’N c’è mangàda mae la fadìga Non c’è mancata mai la fatica ’Nté la pozza su casa mia c’era le ranocchie e ’gni tanto cualchidùna venìa a galla: scì na’ chiappàsci sul momento, t’argèra a fónno e n’archiappài più. Coscì càpida ’nté la testa mia: quanno me vène pensàda ’na cosa, la déo di’ sùbbedo, scinó me la scòrdo e chissà quanno ’rtorna a galla! Adè penso a quanta fadìga émo fatto ’nté la vida e non podìsci riclamà’ quella vo’, toccàa a sta’ lì col culo! Sci c’è ’na cosa che ’n ce mangàa mae ’na ò, ma a di’ la veredà anca adè, è propio la fadìga. ’Sti genitori nostri volìa che ’mparasci a fa’ nigò. Presempio all’inverno, quanno ce se podìa ’rposà’ ’n boccó’, oltra de l’ago, l’uncinetto, ferri, ce fèra fa’ anca la sgarza e ìa ’mparado anch’io a sgarzà’ le sedie: l’òmmini fèra ’l telaro de legno e po’ ce ’ntessémma la sgarza. Sgra nàmma, po’, anca ’l granturco coi furèlli. Nuà donne se dovìa filà’, urdì’ e tesse’, fa’ le cannelle, i cannellù, métte per liccio e per pèttene e po’ tessémma regadì’, panno, la spina Nella pozza a casa mia c’erano le rane e ogni tanto qualcuna veniva a galla: se non la prendevi subito, ritor nava a fondo e non la prendevi più. Così capita nella testa mia: quando mi ritorna in mente una cosa, la devo dire subito, sennò me la dimentico e chissà quando ritornerà a galla! Ora penso a quanta fatica abbiamo fatto nella vita e non potevi protestare quella volta, biso gnava stare lì e basta. Se c’è una cosa che non ci mancava mai una volta, ma a dir la verità anche adesso, è proprio la fatica. I nostri genitori volevano che imparassimo a fare tutto. Per esempio l’inverno, quando ci si poteva riposare un po’, oltre (i lavori) con l’ago, l’unci netto, i ferri, ci facevano fare anche la “sgarza” e io avevo imparato anche a “sgarzare” le sedie: gli uomini costrui vano l’intelaiatura di legno e poi noi ci intessevamo la ‘sgarza’. Sgranavamo, poi, (i panetti) di granturco con i ‘furel li’. Noi donne dovevamo filare, ordire e tessere, preparare le ‘cannelle’ e i ‘can nelloni’. Mettere per liccio e per pettine e poi tessevamo rigatino, panno, la ‘spina’ per gli asciugamani, la tela per i mate rassi, per le materassine, i ‘pagnucci’. 175 pei sciuccamà’, le lintime pei madarazzi, pe’ le madrazzine, pagnucci. Mamma cìa ’mparado nigò. Cuèsto, prò, me pare d’avèvvelo ditto’n’antra vo’. L’omini fèra: cri, crinelle, civiere per portà’ drendo la stalla paja, fié; canestre e canestri per vendegnà’, per portà’ a vende’ l’ôi, i pui; le canestre bianche col vengo sbucciado che se lassàa due vengaròle apposta e se tajàa quanno ìa cacciado, dopo se sbucciàa be’ e cuéllo servìa pe’ ’na canestra per portà’ da magnà giù pe ’l campo, per quanno se battìa, per mette’ i pagni lavàdi e ben cuperti: la cacciàa sotta ’l letto. ’Ste canestre, quanno era fatte, le mettìa sotta ’na secchia granna e ce smorciàa ’na coccia de solfo e venìa bianghe, pogo belle! Ce se fèra anche sporte e canè per gì a fa’ spesa, e portà’ a vende’ la robba: fèra a nàsto chi le fèra più belle! Mamma ci aveva insegnato (a fare) tutto. Questo, però, mi pare di avervelo detto un’altra volta. Gli uomini facevano crini, crinelle, civiere per portare den tro la stalla la paglia e il fieno, canestre e canestri per vendemmiare, per porta re a vendere le uova, i polli; le canestre bianche con il vimini senza buccia: si lasciavano due salici appositamente e il vimini si tagliava quando (la pian ta) aveva germogliato. Dopo veniva sbucciato perbene e quello serviva per la canestra con cui si portava da mangia re per il campo o quando si trebbiava, per mettere i panni lavati e ben coper ti, che cacciavano sotto il letto. Quando queste canestre erano state intrecciate, venivano messe sotto una secchia gran de e lì si spegneva una ‘coccia’ di zolfo: diventavano bianche, molto belle! (Con il vimini) ci si facevano anche le spor te e i canestri per andare a fare spesa e portare a vendere la roba: facevano a gara a chi le intrecciava più belle! 176 Mesi, feste e santi Mesi, feste e santi ’Gni mese cìa la sua strofétta: Ogni mese aveva la sua strofetta: Gennaro mette ai monti la parrucca, Febbraro grànni e piccoli in parùcca Marzo di lieta prigionìa Aprile di bei colori orna la via Maggio vive tra musica d’uccelli Giugno l’uva appesa ai ramoscelli Luglio falcia le messi al solleone Agosto avaro assàndo le ripone Settembre i dolci grappoli arubìna Ottobre avaro assàndo riempie la tina Novembre ride e ammucchia le fòje in terra Dicembre l’anno l’ammazza e lo sottèra. Gennaro mette ai monti la parrucca, Febbraro gràndi e piccoli imbacucca Marzo (libera il sol) di prigionìa Aprile di bei colori orna la via Maggio vive tra musica d’uccelli Giugno (ama i frutti appesi) ai ramoscelli Luglio falcia le messi al solleone Agosto va ansando e le ripone Settembre i dolci grappoli arrubìna Ottobre di vendemmia empie la tina Novembre ride e ammucchia le fòje in terra Dicembre ammazza l’anno e lo sotterra. Poi de gennàro c’è la Pascuèlla o Befana, de febbràro ’l Carnoàle, a marzo, che è pazzerello, nisciù ié dà fiducia e va a segóndo la luna, ’na ò ce pô ’ncuntrà’ anca Pasqua: ’n tra marzo e aprile se méttene d’accordo. Maggio va in amore i gatti e ràja i somàri, prò, in compenso c’è tante feste; ’n tra maggio e giugno fiorisce le rose e tanti antri fiori, c’è la Scènsió’, ’l Corpo Dòmmini, San Giovanno, San Luige, San Piedro e San Paolo, ’n so s’ènne gemellàdi insié’, lujo c’è la Madonna del vento, al sedece; agosto, envéce, al quìnnece è ’mportante ’l perdó’ de mezzo agosto; settembre c’è la Natività della Madonna ai otto (io so tutta la storia); ottobre il quattro San Francesco, Di gennaio c’è la Pasquella o la Befana, di febbraio il Carnevale, a marzo, che è pazzerello, nessuno dà fiducia; (il mese) va secondo la luna e talvolta ci può capitare Pasqua: si mettono d’accordo tra marzo e apri le. A maggio vanno in amore i gatti e ragliano i somari, però, in compen so, ci sono tante feste; tra maggio e giugno fioriscono le rose e tanti altri fiori, ci sono le feste dell’Ascensione, del Corpus Domini, di San Giovanni, di San Luigi, San Pietro e Paolo che, non so, si sono gemellati. Al 16 luglio c’è la Madonna del Vento, invece il 15 agosto è importante il ‘perdono’ di metà agosto; all’8 set tembre c’è la Natività della Madonna (io ne conosco la storia); a ottobre il 4 177 all’otto c’è la sùplica della Madonna de Pompei, po’ c’è San Gaudè’ e le tre fiere. Novembre, embè, bisogna che l’apprezzamo, tanto chi crede anca chi non crede: embè i santi non li crede tutti ma i morti sci: chi venti, chi trenta… Io, presempio, ’n tra nonni, nonne, genidóri, fradèlli, sorella, zii, zie, nepódi, cugnàde, cugnàdi, cugini, sòceri… ce n’ho ’na trentacinquina. Mia non iéla fô a tirà’ ’l conto, prò me l’arcòrdo be’ tutti quanti. E po’ c’è ’l quattro novembre che babbo l’arcordàa sempre e po’ all’11 novembre la nascida de mi’ fjio, la prima 17 gennàro, l’ultima 1 agosto, tre passerotti, cioè un passerotto e du’ passerine: è stàda la gioia più grànna che ci’hò ûdo ’nté la vida. Quanno l’ho cresimàdi, l’ho comunnigàdi e s’è sposàdi, como ce fèra la paccóna! M’ha dàtto solo soddisfazió’, grazzie a Dio. Adè arvò a finì’ i mesi dell’anno, scusàde! Pïo chì e zómpo de là, perché quanno ho pïàdo la pendégola, vorìa finì’ la madàssa, però cualchicò’ m’asfùja sempre. Allora dobo all’11 de novembre c’è San Martì’ che s’è spezzàdo ’l mantèllo per dàllo a ’n pôrétto ’nfreddolìdo: ce farémma noà? È ’na leggènda bellissima. Cuél giorno se pïàa cuàlca sbornia, perché c’era da sentì’ ’l vi’ nòo, se portàa all’amici ’nté la cantìna, alla sera se fèra festa, se comensàa a giogà’ a carte. Al 18 San Luga: se pianta ’mpo’ de fàe e biselli per presto sci non gèla. Al 30 è Sant’Andrea: “Pìa ’l pòrco e pela! Sci n’è grasso aspètta a San Tomàsso, sci c’è San Francesco, all’8 c’è la supplica della Madonna di Pompei, poi ci sono San Gaudenzio e le tre fiere. Novembre deve essere apprezzato da tutti, sia da chi è credente sia da chi non crede: ebbene i santi non tutti li credono, ma i morti sì: chi (ne ha) venti, chi trenta… Io, per esempio, tra nonni, nonne, genitori, fratelli, sorella, zii, zie, nipoti, cognate, cognati, cugini, suoceri… ne ho una trentacinquina. Non ce la faccio a tirare il conto, però me li ricordo bene tutti quanti. Poi c’è il 4 novembre, che babbo ricordava sempre; l’11 novembre la nascita di mio figlio, la prima (figlia) il 17 gennaio e l’ultima l’1 di agosto: tre passerotti, cioè un passerotto e due passerine: è stata la gioia più grande che ho avuto nella vita. Quando li ho cresimati, l’ho comunicati e si sono sposati, come ci facevo la vanitosa! Mi hanno dato solo soddisfazioni, grazie a Dio. Adesso ritorno nei mesi dell’anno, scusate! Prendo qui e salto là, perché, quando ho preso il bandolo, vorrei fini re la matassa, però qualcosa mi sfugge sempre. Allora dopo, all’11 di novem bre, c’è San Martino che s’è spezzato il mantello per darlo a un poverello infreddolito: ci faremmo noi? È una leggenda bellissima. Quel giorno si prendeva qualche sbornia, perché c’era da sentire il vino nuovo; si portavano gli amici nella cantina, la sera si faceva festa, si cominciava a giocare a carte. A San Luca, il 18 novembre, si piantano un 178 magna ’mpo’ aspètta a Sant’Antò’”. A dicembre c’è i santi della fàa: San Biagio dalla gola d’oro, San Ruffo, Santa Bibiana, Santa Bàrbera. Oh, adè che semo sul discorso, nonna mìa spiegàdo della vida de ’sta santa e mìa ’mparàdo sta cansó’: Bàrbera bella quanno che nascìa, subbidamènte la madre morìa. Quanno fu capo de’ venticinqu’anni Venne la nòva che Barbera era granna. Ié dice le monnighe del convento: “Bàrbera, ecco tu’ padre che te vène a tròa’, mannìsceje la sedia e la corona!” I’ha mannìdo la sedia e la corona E po’lìa i’ha ditto: “Co’ c’éde, babbo, che stade pensoso?” “Non sto pensoso e mango sto a pensà’, solo che t’ho troàdo a maridà’!” “Ma io so’ maridàda e son ben maridàda dal primo giorno che so’ ’ngeneràda! “Vòjo sapé’ a chi hai pïàdo!” “Al Fijo de Maria che m’ha iudàdo!” “Al Fijo de Maria lo lasceria e ’no ricco imperadóre pïèrài!” “Al Fijo de Maria ne’l vojo lassà’ Èno ricco imperadóre non vojo pïà’!” Se alsa su cuéllo candélo padre Ié le comença a da’ le bastonàde, tre volte tónno la fece girà’, e po’ a tèra la fece cascà’. E così è morta santa. Pensàde vua che padre mòrbedo che cìa! Per Santa Bàrbera se dicìa anca “Sta’ ’ntórno al fôgo e guàrdela!”, perché è giorni freddi. Cuél giorno se fèra festa e se gèra alla Messa e po’ di fave e di piselli per (averli) pre sto se non gela; a dicembre ci sono i santi della fava: San Biagio, San Rufo, Santa Bibiana, Santa Barbara. Oh, adesso che siamo sul discor so, nonna mi aveva spiegato la vita di questa santa e mi aveva insegnato questa canzone: Bàrbara bella quanno che nascìa, subidamènte la madre morìa. Quanno fu capo de’ venticinqu’anni Venne la nòva che Barbera era granna. Ié dice le monache del convento: “Bàrbera, ecco tu’ padre che te vène a tròa’, mannìsceje la sedia e la corona!” I’hà mannìdo la sedia e la corona E po’ lìa i’ha ditto: “Co’ c’éde, babbo, che stade pensoso?” “Non sto pensoso e mango sto a pensà’, solo che t’ho troàdo a maridà’!” “Ma io so’ maridàda e son ben maridàda dal primo giorno che so’ ’ngeneràda! “Vòjo sapé’ a chi hai pïàdo!” “Al Fijo de Maria che m’ha iudàdo!” “Al Fijo de Maria lo lasceria e ’no ricco imperadóre pïèrài!” “Al Fijo de Maria ne’l vojo lassà’ Èno ricco imperadóre non vojo pïà’!” Se alsa su cuéllo candélo padre Ié le comença a da’ le bastonàde, tre volte tónno la fece girà’, e po’ a tèra la fece cascà’. E così è morta santa. Pensate voi quale padre ‘morbido’ aveva! Per Santa Barbara si diceva anche “Sta’ intorno al fuoco e guardala!”, per ché sono giorni freddi. Quel giorno si 179 s’arcóntàa ’sta cosa chì. ’Na donna gèra alla Messa, ha visto ’na vicinàda che sciacquàa la boccàda e i’ha ditto: “Oggi ’n se làa, giàmo alla Messa!” E cuélla i’ha risposto: “Santa Barbera e Santa Barberìna, oggi vojo sciacquà’ la mia boccadìna!” Oh, è ’rmàsta taccàda ’nté la banghetta! Questo l’arcontàa sempre mamma. Gènno óltra, a decèmbre ’l 6 c’è San Nicolò da Bari, all’8 ’na fèsta ’mportànte, la Madonna del Con cezió’, al 10 “Madonna Loredàna soccorède a chi ve chiama, chiamà ve chiamo io, soccorède al bisógno mio!” Al 13 (tréddece) è Santa Lucia, ’l giorno più curto che ce sia, al 21 è San Tomàsso: ’rcordàdeve de portà’ i cappù’ al padró’, scinó ve mànna via dal fónno! faceva festa, si andava alla Messa e si raccontava questa cosa qui. Una donna andava alla Messa, ha visto una vicina che sciacquava il bucato e le ha detto: “Oggi non si lava, andiamo alla Messa!” E quella le ha risposto: “Santa Barbara, Santa Barbarina, oggi voglio sciacquare il mio bucatino!” 0h, è rimasta attacca ta nella banchetta. Questo lo raccontava sempre mamma. Andando avanti, a dicembre, il 6 c’è San Nicolò da Bari, all’8 una festa impor tante la Madonna della Concezione, al 10 la Madonna lauretana “soccorrete chi vi chiama, chiamare vi chiamo io, soccorrete al bisogno mio”. Al 13 è Santa Lucia, al 21 è San Tommaso: ricordatevi di portare i cap poni al padrone, se no vi manda via dal fondo! Muratori. Da sinistra: Nazzareno Gregorini – Enrico Bocchini detto “Zighetto” - Umberto Argentati – Angelo (Otello) Paradisi – Adriano Evangelisti – Cesare Argentati – Arturo Argentati. 180 ’L brodo de Nadàle e Pasqua Il brodo di Natale e Pasqua ’Po’ ’riva Nadàle: cuéllo scì che s’aspettàa perdéro, perché sentémma le prime castàgne, melarance, lupì’, ma non se podìa fa’ ’na scorpacciàda come famo adè’! La vigilia se fèra ’na gran festa. A mezzo giorno se preparàa spaghétti chi podìa, scinó maccherù’ de casa sens’òi, co’ lo stoccafisso, e po’ cece, càoli; alla sera lo stoccafisso ’nté la gradìgola o ’nté ’l ticèllo, con du’ breghe de canna sotta pe’ non fàllo taccà’, mollìghe, àjo, erbétte, ojo, aqua, vì’,’l fôgo sotta e sopra ’nté ’l copèrchio: venìa bòno muntubè’. Scinó ’nté ’l ticèllo, in umido, co’ la cipólla, l’aqua, ’l pomedoro, sale, pepe, ojo: te fèra liccà’ i dédi. A cena c’era anca i ragazzi de ’ste sorèlle. Dobo mezzanotte salsicce o scinó ’na bistecca de porco perù’ co’ l’ansalàda, castagne e melarance: le portàa i ragazzi delle giovene, ansieme a lo regàlo pe’ la ragazza, e cualche bottija de liquori e lì si sbibbocciàa anca finànta le quattro. Dobo ’l giorno de Nadàle se ’rnoàa tutti cualchiccò: il ragazzo ié fèra o ’l buà, o ’l cappotto, o le scarpe, scial bétta, borcétta, a segóndo como se la passàa. E la ragazza a lo ragazzo ié fera camicia e gravàtta, la spilla d’oro ’nté la gravatta, fazzoletti da naso, calzetti, segondo que ié servìa; po’ se fèra ’l regàlo anca a cuéllo che venìa co’ lo ragazzo, o’l fradèllo o la sorella o ’n’antro, a portà’ le castagne: ié se Poi arriva Natale: quello sì che si aspettava per davvero, perché sentiva mo le prime castagne, arance, lupini, ma non si poteva farne una scorpaccia ta come facciamo adesso! La vigilia si faceva una gran festa. A mezzogiorno chi poteva preparava gli spaghetti, sennó maccheroni di casa senza uova, con lo stoccafisso, e poi cece, cavoli; la sera lo stoccafisso sulla graticola o nel tegame, con due strisce di canna sotto per non farlo attaccare, molliche, aglio, prezzemolo, olio, acqua, vino, il fuoco sotto e sopra nel coperchio: veniva molto buono. Sennò nel tega me, in umido, con la cipolla, l’acqua, il pomodoro, sale, pepe, olio: ti faceva leccare le dita. A cena c’erano anche i fidanzati delle mie sorelle. Dopo mezzanotte salsicce o sennò una bistecca di porco per uno con l’in salata, castagne e arance: le portavano i ragazzi delle giovani, insieme al rega lo per la ragazza, e qualche bottiglia di liquori e lì si bisbocciava anche fino alle quattro. Dopo il giorno di Natale tutti rinno vavano qualcosa: il fidanzato le faceva o il collo di pelo o il cappotto, o le scarpe, sciarpetta, borsetta, a seconda di come se la passava. E la ragazza al fidanzato gli faceva camicia e cravatta, la spilla d’oro nella cravatta, fazzoletti da naso, calze, secondo quello che gli serviva; poi si faceva il regalo anche a quello che veniva con il fidanzato, o il fratello, o la sorella o un altro, a portare le castagne: 181 fèra ’na maja, sci era ’na donna ’l fazzoletto da testa o ’na sciàlpa. Coscì era la moda, prima de la guerra, envéce a me è gida male anca cuélla occasió’ lì. ’L giorno de Nadàle ’ntè l’intìngolo ce se mettìa i ventriòri del cappó’ o della dindela, anca li pìa che sarìa le sàmpe de ’ste bestie, la coradèlla del cunìo e ’sta carne se spartìa oltra oltra sinànta anno nòo. Sci c’era ’l lusso se magnàa’l brodo de cappó’ o della dindela, ma che brodo! Se magnàa solo nté ’n’occasió’ luscì, a Nadàle: guadrellétti o tajolinelli, ma che roba! Envece a Pasqua le fétte mólle: se piàa ’l piatto granno, che ce gèra ’n callàro de brodo. Prima se fèra boìi’ ’nté ’l caldàro e po’ ’nté la pigna granna accanto al fôgo, se mettìa giù ’nté ’sto piatto de terra cotta smaltàdo, o smalto róscio o nero, po’ sempre ’n solàro de fette de pa’ co’ sopra l’erbétte, el cascio e giù ramajolàde de brodo, sempre solàri a segondo quante persone era; anca tre cupétte de ’ste fette belle, mólle, ’nsuppàde de brodo, prò ’l pa’ era fatto de casa. Sci fusse stàdo cuéllo cómpro d’adè’, era ’mpancòtto! Ma ’sto brodo ’l magnàsci du’ ò all’anno, e le donne quanno era ’nfantàde. Tante le ò ’n te podìsci fa’ véde’ a magnà’ ’sto brodo, scinó fèsci languì’ a quell’altri. ’Ndó c’era i monelli toccàa la ’nfantàda a magnà’ prima. Cualchidù’ dicìa: “ ’Ste donne fanne i bardàsci pe’ magnà’ ’l brodo!” Cuélla gli si faceva una maglia, un fazzoletto da testa o una sciarpa se era una donna. Così era la moda, prima della guerra, invece a me è andata male anche quella occasione lì. Il giorno di Natale nel sugo ci si mettevano i ventrigli del cappone o della tacchina, anche i piedi, che sareb bero le zampe di queste bestie, il fegato del coniglio e questa carne si divideva oltre oltre fino all’anno nuovo. Se c’era il lusso si mangiava il brodo del cappone o della tacchina, ma che brodo! Si mangiava solo in un’occasione così, a Natale: quadretti e tagliolini, ma che roba! Invece a Pasqua le fette bagnate: si prendeva il piatto grande, dove entra va un caldaio di brodo. Prima si faceva bollire nel caldaio e poi nella pignatta grande accanto al fuoco, si metteva giù in questo piatto di terracotta smalta to, o smalto rosso o nero, poi sempre un solaio di fette di pane con sopra il prezzemolo, il cacio e giù ramaiolate di brodo, sempre solai a seconda di quante persone erano: anche tre piatti fondi di queste fette belle, bagnate, inzuppate di brodo, però il pane era fatto in casa. Se fosse stato quello comprato di adesso, sarebbe stato un pancotto! Ma questo brodo lo mangiavi due volte all’anno e le donne durante il puerperio. Tante volte non ti potevi far vedere a man giare questo brodo, sennò facevi lan guire gli altri. Dove c’erano i monelli, la puerpera doveva mangiare prima. Qualcuno diceva: “Queste donne fanno i figli per mangiare il brodo!”. Quella 182 vo’ era vero brodo! Le galline anca de tre anni, le dindele li stesso; beccàa nigò fòra dei mangìmi. Adè le galline, oltra che a beccà’ ’sta robba moderna, quanno è ’n’anno sci ne mazzi môre da per lóra, le dindele listésso. E qui dev’èsse’ bòne, è como a da’ marido a’na bardascia da 10 anni! Po’ se dice: “’L pa’ de ’n giorno, ’l vi’ de n’anno e la móje de ventun’anno. Nigò al giusto sua, perché sci falci l’erba troppa tenera, quanno la vai a rastellà’ non ci’armàne più gnè. Listésso è la donna, fenisce prima, dobo’n ci’armàne gnè. E vuà òmmini que fàde? Gide a’rtroàa’n’antra? Ma cuélle smuficchiade? Ah!, me sa che n’è tanto gènnigo a magnà ’nté ’n piatto sporco che ci’hà magnàdo cuell’altri, n’è vero? Va be’ che adè’, ’ndó te brilli, se véde i guanti in giro! Ma, tiràmo annànse; dicìa Zighetto: “Ma li vedrémo a ’sti cagarèlla!” volta era vero brodo! Le galline anche di tre anni, le tacchine ugualmente; beccavano ogni cosa, tranne i mangi mi. Adesso le galline, oltre che beccano questa roba moderna, quando hanno un anno, se non le ammazzi, muoiono da sole, le tacchine lo stesso. E qui devono essere buone, è come dare marito a una ragazza di dieci anni! Poi si dice: “Il pane di un giorno, il vino di un anno e la moglie di ventun anni”. Ogni cosa al suo momento, perché se falci l’erba troppo tenera, quando la vai a rastrella re, non ci rimane più niente. La stessa cosa è la donna, finisce prima, dopo non ci rimane niente, e voi uomini che fate? Andate a ritrovarne un’altra? Ma quel le “smuficchiate”? Ah!, mi sa che non è tanto igienico mangiare in un piat to sporco, dove hanno mangiato quegli altri, non è vero? Va bene che adesso, dove ti vòlti, si vedono guanti in giro! Ma tiriamo avanti; diceva Zighetto: “Ma li vedremo questi cacarella!”. Ròsbi, òi e… ròspi Roast-beef, uova e… avari! Cuélla vo’ le scorpacciàde se fèra quanno gèsci a ’n prànso, c’era de cuélli che ce stèra anca male du’ tre giorni. Uno che ’l conoscìo be’ ’nté ’mpranso s’è magnàdo diciòtto fettine de ròsbi, sensa di’ prima bròdo, allésso, tajadèlle: cuèsta era la quarta portàda. Po’ dobo non ve digo l’arròsto, l’ansalàda, ’l dolce; ’l caffè n’usàa, mango i frutti. Ma cuésto Quella volta le scorpacciate si face vano quando andavi a un pranzo, c’erano di quelli che ci stavano male due tre giorni. Uno che conosco bene in un pranzo si è mangiato diciotto fetti ne di roast-beef, senza dire che prima (aveva preso) brodo, lesso, tagliatelle: questa era la quarta portata. Poi dopo non vi dico l’arrosto, l’insalata, il dolce; il caffè non si usava, nemmeno la frut 183 alla notte - l’ha ’rditto la móje - n’ha dormìdo mae, è gido giù la stalla, ha pïàdo le mòrse de corda, cuélle che se guidàa le vacche, e s’è messo a fa’ i massaggi ’nté lo stòmmigo e la trippa con cuélle! È gido be’ che gn’hà pïàdo ’na paràdise, “’na paranànsa” se dicìa! È gido liscio, prò s’arcorderà anca dobo morto. ’Na ò tanto pe’ ’na donna che ’na magnàda ce se dèra la vida! Embè l’òmmini cualchidù’ fèra compasció’! Sapéde, quanno se falciàa l’erba o se tajàa ’na fratta, se podìa ’ltroà ’na coàda d’òi, perché, como v’ho ditto, le galline fedàa in giro. Allora cuésto tajàa i spi’, ha ’ltroàdo ’na coàda de venticinque òi: quìnnici n’ha biùdi e cuell’altri l’ha piattàdi pe’ ’n’antro giorno. Ié dicìa la madre: “Pièdre, non magni oggi? Com’è, stai male?” E lu’ fèra i rudolozzi per terra. “Me dôle la trippa!” “Te metto a bóje’ ’n goccio d’aqua ténta co ’sto gra’ brusco?” ’L sapìa lu’ perché se rudolàa ’nté ’l piancìdo, ma quanno ci’ariàa ’nté ’l magnà’ era como quanno vedìa ’na donna: era rabbìdi de fame! Embè n’antro, ch’ìa magnàdo diciotto pacche de melanciàne, ha ditto: “Bràa mamma: poghe, ma bòne!” Po’ lasso gì’ a ’rcontà’ ’ste cose che mango ce crederéde: domannàdelo a cuélli dal tempo mio, vedréde sci è vero! No ai signori eh, a ’n contadì’ ’mpo’ numberóso in faméja: vedréde sci ve ’rcónto le trappole baraónde padàde bugie, ta. Ma questo alla notte - l’ha detto la moglie - non ha dormito mai, è anda to giù la stalla, ha preso le “morse” di corda, quelle con cui si guidavano le vacche, e si è messo a fare i massaggi nello stomaco e nella pancia con quelle. È andata bene che non gli ha preso una paralisi: una ‘parananza’ si diceva. L’ha scampata liscia, però si ricorderà anche dopo morto. Una volta tanto per una donna quanto per una mangiata si rischiava la vita! Ebbene, qualche uomo faceva compassione! Sapete, quando si falciava l’erba o si tagliava una fratta, si poteva ritrova re una covata di uova, perché, come vi ho detto, le galline facevano le uova in giro. Allora questo tagliava gli spini, ha trovato una covata di venticinque uova: quindici li ha bevuti e quegli altri l’ha nascosti per un altro giorno. Gli dice va la madre: “Pietro, non mangi oggi? Com’è, stai male?” E lui faceva i roto loni per terra:” Mi fa male la trippa! “Ti metto a bollire un goccio d’acqua colorata con il grano brusco?” Lo sape va lui perché si rotolava sul pavimento, ma quando (gli uomini) ci arrivavano a mangiare era come quando vedevano una donna: erano ‘rabbiti’ (rabbiosi) di fame! Ebbene un altro, che aveva man giato diciotto ‘pacche’ di melanzane, ha detto: “Brava mamma, poche ma buone!” Lascio andare dal raccontare queste cose, perché neppure ci crederete: domandate lo a quelli del tempo mio, vedrete se è vero! Non ai signori, eh, a un contadino dalla famiglia un po’ numerosa: vedrete se vi racconto trappole, baraonde, pata 184 como le voléde chiama’ eh! Quanno se riàa ’nté la robba bòna, non se fèra i ruscì como tante le ò fèra le vacche. Ié se dicìa: “Fai i ruscì oggi? Li ’rmàgni stasera”. Como ce fèmma anca noà: cresce tajàde1, pulènta, frìgoli, tajolì’, guadrèlli, cece, fàa, fasciòli, càoli s’armagnàa alla madìna a colazió’, riscallàdi era bòni. Per dittàdo se dice: “È sempre càoli riscallàdi!” Quanno s’ariscallàa, toccàa a buttàcce ’n goccétto d’ojo, scinó se taccàa ’nté la padèlla. Le padèlle, i callàri, nigò era guasci tutte de ramo. L’ansiàni dicìa: “Tocca lévallo sùbbedo dallo ramo, perché doventa verdoramo, gonfia e fa male!”, ma ’l posto ce n’era tanto e se dicìa: “Fòri i rospi che non paga l’affitto!” E po’ ’l dice anche i medighi, che è necessario a fa’ ’sti vènti. È brutta sci sai sull’ottomòbbole: ajo e cipolla disinfètta, ma ce vôle la maschera! So’ matta? Dicéde la veredà! Fortuna che non me conoscéde! Le cose è mèjo dille chiare: “Parole chiare e micìzzia lónga!”. Un altro dittàdo, ma sci stàde con me, ve ci’ha stufàde a sentìlli. Quante me ne fàde per orgòjo, tanto sapéde ch’io non me ne pïjo, più me ne fàde e più bène ve vòjo. te, bugie, come le volete chiamare eh! Quando si arrivava nella roba buona, non si facevano gli scarti come talvolta facevano le vacche. Gli si diceva: “Fai gli scarti oggi? Li rimangi stasera!” Come facevamo anche noi: “cresce tajàde”, polenta, “frigoli”, quadrucci, cece, fava, fagioli, cavoli si mangiavano di nuovo la mattina a colazione. Riscaldati erano buoni. Per proverbio si dice: “Son sempre cavoli riscaldati!” Quando si riscaldava (qualcosa), toccava buttarci un goccetto d’olio, se no si attaccava nella padella. Le padelle, i caldai e tutto quanto erano quasi sempre di rame. Gli anziani dicevano: Tocca levarlo subito (il cibo) dal rame, perché diventa verderame, gonfia e fa male!” Ma il posto (fuori dalla pancia) ce n’era tanto e si diceva: “Fuori gli avari che non pagano l’affit to!” E poi lo dicono anche i medici, che è necessario fare questi vènti. Il brutto è se stai sull’automobile: aglio e cipolla disinfettano, ma ci vuole la maschera! Sono matta? Dite la verità! Fortuna che non mi conoscete! Le cose è meglio dirle chiare: “Parole chiare e amicizia lunga!” Un altro proverbio, ma se state con me, vi ci stancate a sentirli. Quante me ne fate per orgoglio, tanto sapete che io non me la piglio, più me ne fate e più bene vi voglio. 1 Piatto tipico locale. Con farina di granturco si preparano cresce dello spessore di mezzo centimetro, poi si tagliano a rombi, larghi un centimetro circa. Questi vengono cotti per tre minuti circa in acqua bollente. Poi, lasciandoli nell’acqua, si condiscono con il sugo preparato in precedenza: solitamente lardo soffritto con aglio; se si può aggiungere anche una salsiccia e, se si preferisce, un po’ di conserva. 185 Guardàmma la luna… nuda! Guardavamo la luna… nuda ’Na ò guardàmma sempre la luna. Se guardàa quanno ’na dònna partorìa, anca sci aìa finìdo ’l tempo, finànta che fèva ’l quarto la luna nòa, pîna; quella vecchia, l’ultimo quarto, se guardàa pe’ métte’ ’na coàda de pulcì’, dindi, òghe: se dicìa che a métteli a luna nòa non gèra be’, bisognàa spettà’ ’l quarto bòno e ’ncuntrà’ che nascìa a luna crescente. Fa’ ’l conto che i pulcì’ nascìa dobo ventun giorno, i dindi ventinove giorni e l’oghétte 31 giorno, prò l’òi dovìa èsse’ stàdi freschi: sci era stantiòli o morìa ’nté l’òo o doventàa valli. Gèra be’ sci la fiòcca o la dinda o l’òga che li coàa cìa tanta febbre, scinó ne venìa abbè poghi, ma a sapéllo! E chi ié l’ha misuràa? Mai nisciù! Allora quelle pôre bestie ’nfebbrìde li fèra nàsce’ anca tutti. Quanno le gèsci alsà’ la madìna pe’ fàlle beccà’ e bé’ e fa la cacca, la pïàsci pe’ ’n’ala, sotta vedìsci cuélle bestiòle tutte nade e le scòrse dell’òi spaccàde a midà, envece scì la madre cìa poga febbre ne nascìa mango ’na midà. C’era anca ’sta moda chì: ’nté la cóa ce se mettìa, ’n tra la paja, ’mpèzzo de fèro, servìa per quanno tronàa, scinónca i troni, sci ’l pulcì era ’ncreàdo ’l fèra morì’ ’ntéll’òo. Po’, quanno s’era messo ’l crì ’nté ’mpòsto, non sìa da mòve’ scinànta che n’era nadi. Non sia da fa’ mango Una volta guardavamo sempre la luna. La si guardava quando una donna partoriva: anche se aveva finito il tempo, (non partoriva) fino a quan do la luna nuova, non faceva il primo quarto; quella vecchia l’ultimo quarto, si guardava per mettere una covata di pulcini, tacchini, oche: si diceva che a metterli a luna nuova non andava bene, bisognava aspettare il quarto buono in modo da incontrare che (i piccoli) nascessero a luna crescente. Fai il conto che i pulcini nascevano dopo ventun giorni, i tacchini ventinove, le ochette trentun giorni, però le uova dovevano essere state fresche: se erano stantìe o (il pulcino) moriva nell’uovo o (le uova) diventavano marce. Andava bene se la chioccia o la tacchina o l’oca che li cova va aveva la febbre, se no pochi venivano bene, ma a saperlo! E chi gliela misu rava? Mai nessuno! Allora quelle povere bestiole con la febbre li facevano nascere anche tutti. Quando le andavi ad alzare la mattina per farle beccare, bere e fare la cacca, la prendevi per un’ala, sotto vedevi quelle bestiole tutte nate e i gusci delle uova spaccati a metà, invece, se la madre aveva poca febbre, non ne nasce va neppure la metà. C’era anche questa moda qui: nella cova ci si metteva tra la paglia un pezzo di ferro, serviva per quando tuonava, se no i tuoni, se il pulcino era in embrio ne, lo facevano morire nell’uovo. Inoltre, quando il ‘crino’ si era messo in un posto, non lo si doveva spostare sino a 186 i bòtti, era mejo allo scuro e cuélle madre rustighe sìa da coprì’ co’ ’na canè’, scinónca cualca madre snaduràda fujàa via e dobo l’òi doventàa iàcci, morìa’ntéll’òo e coscì gèra a male nigò. Parlànno sempre de ’sta luna, quanno c’era ’l quarto bòno, se tajàa ’na sfiézza de capìji, che crescìa de più. Ahivoja a’rcontà’ nigò de la luna! Mango me vène ammènte nigò. C’era ’na volta ’l sole che se lamèntàa perché la luna de notte gèra, e ce va anc’adè, via nuda, ’l tradisce al sole. ’Gni tanto che véde passà’ ’n nugolo lì vicino, se piàtta lì drèdo. Ma que se piatta a fa’? Tanto ormai ’l sole ’l sa! Per fortuna se fa véde’ a pogo a pogo e quanno ’ncó è como ’na falcètta è ’l momento bòno a fàsse sette segni de croce: se dicìa che c’è ’na devozió’ ’nté ’sto primo quarto. Prò è inùdole che se fa véde’ a pogo a pogo, tanto ormai ’l sapémo tutti como se comporta col sole: lu’ è stufo dobo un duro giorno de laóro, va al letto e s’andormènta sùbbedo; lia pogo dobo s’arlèa e s’approfitta no! Vuà che séde tanto ’struìdi ’nté ’sto paese, troàdeme ’na vecchia che ha solo un mese! Quanno ’l sapéde me ’l fade sapé’ che io, sci ’n so morta, sto chì de casa! E po’ sentìde questa: “ ’L bimbo ’nté la culla, la terra luna e sole, tutte ’ste cose l’ha creàde ’l Signore!” N’è vero? Sci vuà sapéde ’n’antro mistero, spiegàdemelo no! quando (i pulcini) non erano nati. Non si dovevano fare neppure i botti, era meglio (tenere la cova) al buio e certe madri rustiche dovevano essere coperte con una canestra, se no qualche madre snaturata fuggiva via e dopo le uova diventavano fredde, (i pulcini) moriva no nell’uovo e così andava tutto a male. Parlando sempre della luna, quan do c’era il quarto buono, si tagliava un ciuffo di capelli, così (questi) cresceva no di più. Hai voglia a raccontare tutto della luna! Nemmeno mi viene in mente tutto. Una volta il sole si lamentava per ché la luna di notte andava, e ci va anche adesso, via nuda; lo tradisce il sole. Ogni tanto, quando vede passare una nuvola lì vicino, si nasconde di dietro. Ma che si nasconde a fare? Tanto ormai il sole lo sa! Per fortuna si fa vedere a poco a poco e, quando ancora è come una falce, è il momento buono per farsi sette segni di croce: si diceva che fosse una devozione in questo primo quarto. Però è inutile che si faccia vedere a poco a poco, tanto ormai lo sappiamo tutti come si comporta con il sole: lui è stufo dopo un giorno di duro lavoro, va a letto e s’addormenta subito; lei poco dopo si alza e si approfitta, no! Voi che siete tanto istruiti in que sto paese, trovatemi una vecchia che ha solo un mese! Quando lo sapete me lo fate sapere che io, se non sono morta, sto qui di casa! E poi sentite questa: “Il bimbo nella culla, la terra luna e sole, tutte queste cose l’ha create il Signore!” Non è vero? Se voi sapete un altro miste ro, spiegatemelo, no! 187 ’Ste mòde chì Queste mode qui Adè ve vòjo arcontà’ ’mpo’ como se passàa ’l Nadàle a’ tempi de quanno era monella io. Allora ’l giorno de Nadàle se magnàa ’mpo’ de menèstra, ’mpezzétto d’allésso per uno, po’ dobo du’ castagne, ’na melarancia per uno, dolci gnènte: a cuéi tempi ’n c’era né panettó’ e né ciambelló’, ’n se podìa fa’ gnènte. La sera de Nadàle s’armagnàa i’arvànzi del giorno e lì se finìa la seràda co’ du’ castagne cotte sotta la cénera. Quanno era la vigilia de Nadale, portàa su ’na capòccia per parte ’nté l’aròla, che dovìa bastà’ finànta a Pascuélla. C’era ’sta moda chì e la sera de Pascuélla se portàa fòra ’sto ciòcco che ancó’ ardìa e se dovìa mette’ ’nté ’na croce d’oppio, finché n’era finida. Andando avanti rivàa ’l carnoàle, se facìa du’ cresciòle, du’ castagnòli. E lì passàa. Rivàa la quaresima, se cominciàa a magnà’ a la mèjo, sinànta mezza quarésema. Cuél giorno se dicìa che s’arinvìda ’l carnoàle con castagnoli e cresciole. Se gèra casa per casa a segà’ la vecchia: ’na donna col fazzoletto legàdo sotta la barba, ’l naso lóngo de cartó’, la conocchia, ’n fiasco de vi’ bòno, ’na scopa messa a ramacòllo, ’na collana de fighi como ’na bracciaròla, e via… se festeggiàa! S’archiamàa ’l carnoàle, e po’ ’sta donna, oltra della conocchia ’l fuso Adesso vi voglio raccontare un po’ come si passava il Natale al tempo in cui ero bambina io. Allora il giorno di Natale si mangiava un po’ di minestra, un pezzetto di lesso per uno, poi due castagne, un’arancia per uno, niente dolci: a quei tempi non c’erano né panet tone, né ciambellone, non si poteva fare niente. La sera di Natale si mangiava no gli avanzi del giorno e lì si finiva la serata con due castagne cotte sotto la cenere. Quando era la vigilia di Natale, si portava in casa un pedale per parte sull’ ‘arola’ e questi dovevano bastare fino a Pasquella. C’era questa usanza qui e la sera di Pasquella si portava fuori questo ciocco, che ancora ardeva, e lo si doveva mettere in una ‘croce’ d’op pio, finché non si era consumato tutto. Andando avanti arrivava il Carnevale, si preparavano due cresciole, due casta gnole. E lì passava. Arrivava la quare sima e si cominciava a mangiare alla meglio, sino a mezza quaresima. Quel giorno si diceva che s’invitava di nuovo il carnevale con castagnoli e cresciole. Si andava casa per casa a segare la vecchia: una donna con il fazzoletto legato sotto la scucchia, il naso lungo di cartone, la conocchia, un fiasco di vino buono, una scopa messa di tra verso sulle spalle, una collana di fichi messa come quella fascia che sostiene un braccio ingessato, e via… si festeg giava. Si richiamava il carnevale, e poi questa donna, oltre la conocchia, il fuso e la scopa, aveva anche una collana di 188 e la scopa, ciaìa anca ’na collana de fighi secchi sul collo, che io’ncó’ li fô d’istàde seccàdi al sole. Po’ se gìa avanti rivàa la Pasqua: se facèa ’l ciambellone, ’na fettarella per uno ’l giorno, ’n’antra fettarella per uno la sera, ’n’antra fettarèlla ’l giorno dobo, se se n’arvanzàa ’mpo’, la spartìa per tutti. ’L sàbbedo santo, quanno alle 10 se scjoìa le campane, sci ’na pianta da frutto non fèra mae i frutti, c’è chi ce legàa ’n véngo ’nté ’l pedàle: quell’anno i frutti i fèra, prò dicìane ch’era peccàdo. Sempre quanno se scioìa le campane a chi ié dolìa le gambe se fèra caminà’ magari a règgeli in due. Chi stèra be’ se mettìa a cùre’; ai monellétti che ’ncó’ ’n gèra soli se pïàa ’na manina per parte e se fèra cùre’: dicìa che fèra be’, ’mparàa a caminà’ prima e ai vecchi sciòìa le gambe. Se sonàa anca la raganella, ch’era fatta co’ ’na canna grossa spaccàda da cima: ’na bréga s’alsàa su e sotta ce mettìa ’na rodèlla de legno con tutte ’ntàcche fatte col cortèllo a forma de ’ngranàggio. ’L mànnigo dall’altra parte della canna: se fèra ’n bugo e ce se ’nfilsàa ’sto mànnigo fatto be’ co’ ’na roccia grossa como ’mpòllice delle ma’. ’Sta roccia era d’oppio e fèsci rodà ’sta canna e cuélla rodèlla de legno ’ncastràda tra le breghe de canna fèra forte più de ’na raganella quanno canta. Tutte le faméje cìa i fjòli, ne fèra una perù’, e fèra ’no rimóre de gnè! fichi secchi sul collo, che io ancora fac cio d’estade, seccati al sole. Poi si anda va avanti e arrivava Pasqua: si faceva il ciambellone, una fettina per uno a mezzogiorno, un’altra fettina per uno la sera, un’altra fettina il giorno dopo, se ne avanzava un po’, veniva spartita tra tutti. Il sabato santo, quando alle 10 si scioglievano le campane, se una pian ta da frutto non faceva mai i frutti, c’era chi ci legava un vimini nel pedale: quell’anno i frutti li faceva, però dice vano che era peccato. Sempre quando si scioglievano le campane, se a qualcu no facevano male le gambe lo si faceva camminare, magari reggendolo in due. Chi stava bene si metteva a correre; i monelletti che ancora non andavano da soli si prendevano per una manina per parte e li si faceva correre: si diceva che faceva bene, imparavano a cammina re prima e ai vecchi si scioglievano le gambe. Si suonava anche la ‘raganella’, che era fatta con una canna grossa spaccata in cima: una parte si alzava e sotto ci si metteva una rotella di legno con tutte intaccature, a forma di ingranaggio, fatte con il coltello. Il manico dall’altra parte della canna: si faceva un buco e ci si infilzava il manico fatto con un sarmento grosso come un pollice delle mani. Questo sarmento era d’oppio e (con questo) facevi ruotare questa canna : la rotella di legno, incastra ta nella canna tagliata in due, faceva (un rumore) più forte (di quello) di una raganella quando canta. Tutte le 189 Era forte como de cuélle batti stràngole che ’na ò sonàa ’l Venardì Santo giùppe la piazza p’anvidà’ alla gente alle funsió’: le campàne era legàde! C’era anca ’sta moda chì: ’l sabbedo santo se lassàa ’n oppio e ’na vide da legà’, pe’ legàlla cuél giorno: c’era ’na devozió. ’Nté la settimana santa se piantàa le viole, i garofanini, le margheride che venìa doppie, anca robba de ortaggi venìa più belli. De gennaro il 25 c’è San Paolo dei Segni: sci gela ’nté cuél giorno, le sèrpe gné la fa a tirà’ fòra la testa e pe’ cuéll’anno ce n’è poghe de bisce, sci ’nvéce non gela, all’istàde ce n’è ’mbellepo’. Se dicìa anca: “Sci vedi ’na persòna bòna la madìna del primo maggio, per prima madinàda, all’istàde vedi poghe bisce; envéce sci ne vedi muntebè’ vôl di’ che, per prima madìna, hai vedùdo ’na persona malamènte”. E po’ ’n’antro dittàdo: “Sci la madìna del primo maggio non te alsi prima della leàda del sole, cualchidù’ te pô métte’, pe’ scherso, ’na rama de spi’ biango ch’è già spanàdo su la finè’ ”. Cuésto volìa di’ che fusci dormentóna: “T’ha messo anca ’l maggio su la finè’!” Sci piòe ’l 3 de maggio, ’l giorno de santa Croce, bócca ’l vèrmene ’nté le noce e cuélla madìna, prima della leàda del sole sìa da piantà’ le croce giuppe ’l campo. ’L quattro de maggio, San Paolì’ e famiglie avevano i figlioli, ne facevano una per uno, e facevano un rumore da niente! Era forte come quello delle bat tistrangole che una volta si suonavano il Venerdì santo per le vie del paese ( per la piazza) per invitare la gente alle funzioni: le campane erano legate! C’era anche questa moda qui: per il Sabato santo si lasciavano un oppio ed una vite da legare, per legarla in quel giorno: era come una devozione. Nella settimana santa si piantavano le viole, i garofanini, le margherite che veniva no doppie, anche gli ortaggi, perché cre scevano più belli. Il 25 gennaio c’è San Paolo dei segni (Conversione di San Paolo): se in quel giorno gela, la serpe non ce la fa a tira re fuori la testa e in quell’anno ce ne saranno poche di bisce, se invece non gela, all’estate ce ne saranno parecchie. Si diceva anche: “Se vedi una persona buona la mattina del primo maggio, di primo mattino, all’estate vedi poche bisce; invece se ne vedi tante vuol dire che, di primo mattino, hai visto una persona cattiva”. E poi un altro detto: “Se la mattina del primo maggio non ti alzi prima della levata del sole, qualcuno ti può mettere, per scherzo, un ramo di spini bianchi, che è già sbocciato, sulla fine stra”. Questo voleva dire che eri un’ad dormentata: “Ti ha messo anche il mag gio sulla finestra!” Se piove il 3 maggio, giorno di Santa Croce, entra il verme nelle noci e, quella mattina, prima della levata del sole, si doveva piantare le croci giù per 190 San Fiorà’, non se toccàa né farina, né gra’, non se boccàa drendo all’orto; se coìa la robba al giorno prima: se stèra attenti de ’rcordàsse. ’L 4 de dicembre ’n se dovìa fa’ la boccàda: se dicìa che una era ’rmàsta taccàda’nté la banchetta! Al 24 de giugno c’era la notte de San Gioànno: ’nté i crocìli de strada ce gèra le streghe a sbiaccolà’. Uno curioso c’è gido a véde’ de nascosto e l’ha sgranfiàdo tutto. Al giorno dobo i’hà ditto la móje: “E que hai fatto?” E lu’ ié l’ha ’rcontàdo e la móje è ’rmàsta secca! Era stada proprio lìa, era ’na strega! È vero? E che ne so, se sentìa a ’rcontà’. Appòsta c’era ’sta moda che uno, quanno ciaìa ’na fattura, sìa da guastà’ ’l guanciàle e le penne se dovìa gi’ ’nté ’n crocevia, e dàje fôgo pe’ brucià’ le streghe. ’Na ò ce se credìa perdéro, ma c’era anca la veredà. Mi’ cugina, cuélla bella, ciaìa taccàdo ’st’anvìdia: ié dolìa sempre lo stòmmigo. Ié l’ha scupèrta ’na chiromànte, i’hà ditto: “Te sai gida a sappà’ ’l gra’ ’nté ’na casa, ’ndó che c’era ’n gioveno che te volìa e te l’hai rispénto, i’hai calciàdo. A mezzogiorno ci’hài magnàdo la minè’ coi guadrèlli!” Era proprio coscì. I’ha ditto: “Fa’ coscì, a ’sto mo’:” Metti i pagni ’nté ’l caldàro coll’aqua, pïa ’na furcìna de figo, falli boje e ’nfìlsa sempre de continuo a ’sti pagni ‘na mezz’ora, po’ te capidarà uno lì casa, perché non tròa lôgo e te senterài male, t’arve- il campo. Il 4 maggio, San Paolino e San Fiorano, non si toccava né farina né grano, non si entrava nell’orto, si coglie va la roba il giorno prima: si stava attenti a ricordarsene. Il 4 dicembre non si doveva fare il bucato: si diceva che una era rimasta attaccata nella ‘banchetta’. Il 24 giugno c’era la notte di San Giovanni: nei crocicchi delle strade ci andavano le streghe a chiacchierare. Uno, curioso, c’è andato a vedere di nascosto e (una strega) l’ha graffia to tutto. Il giorno dopo gli ha detto la moglie: “E che hai fatto?” E lui glielo ha raccontato e la moglie è rimasta secca. Era stata proprio lei: era una strega! È vero? E che ne so, si sentiva raccontare. Apposta c’era questa moda che uno quando aveva una fattura, doveva gua stare il guanciale e si doveva andare in un crocevia a dar fuoco alle penne, per bruciare le streghe. Una volta ci si credeva per davvero, ma c’era anche la verità. A mia cugina, quella bella, aveva attaccato questa invidia: le doleva sem pre lo stomaco. Gliela ha scoperta una chiromante, le ha detto: “Tu sei andata a zappare il grano in una casa, dove c’era un giovane che ti voleva e tu l’hai respinto, l’hai calciato. A mezzogiorno ci hai mangiato la minestra coi qua dretti!” Era proprio così. Le ha detto: “Fai così, in questo modo: metti i vestiti in un caldaio con l’acqua, prendi una forcella di fico, falli bollire e infilza sempre di continuo questi vestiti per una mezz’ora, poi ti capiterà uno lì 191 nerà lo stommigo, i guadrèlli che hai magnàdo quaranta giorni fa!” E non ce crederéde: è stado proprio coscì. Era dieci anni più granna de me e ’ncó’ è viva, sapè’! Adè ’n se sente a di’ più gnè. Dice: “Sci uno non ce crede, non ci’attàcca ’st’invidia. E anca le paure pare che sia sparìde, per forsa a pìa de notte non ce camìna più nisciù’! ’Na ò, de notte, c’era anca chi gèra a pïà’ ’l tesoro, prò sci n’era fatto per te, dicìa che dèrene le legnàde e non se vidìa nisciù’: sarà stadi i spiridi maligni! ‘Rcontàa nonna che ’na faméja lìa gido a pïà’ e cìa troàdo ’na campàna d’oro, prò n’era fatto pe’ cuèlli. Coscì, quanno l’hanne carcàda ’nté ’na maghina de piazza, ié l’ha scassàda tutta e dobo ’n chilomédro de strada ié cascàda per terra. Cuélli drendo ha visto ’n gran lampo de fôgo e s’ertroàdi ’nté ’l mezzo a ’na fratta de spì’. Dobo ha fatto di’ tante Messe, pe’ scongiurà’ ’l deàolo: non podìa troà’ pace. Dicìane ’sti antennàdi nostri che ’na ò, piattàane soldi e oro sotta terra, i ricchi dobo morìa e non s’arcordàa a pïàlli. La gente i ’nsumbiàa e ié dicìa ’ndó era. Uno ìa ’nsumbiàdo ’sto morto che ià ditto: “Va’ lì cuél punto, ce troarài ’l tesoro, prò ci’hài da magnà’ sette cresce càlle lì sopra, dobo scàa che l’artròarài. Adè v’arcónto la mia. Quanno ho fatto la prima monella, dormìa alla rèdo. Tutta ’na ò ho ’ntèso a casa, perché non trova luogo, e ti sen tirai male, vomiterai dallo stomaco i quadretti che hai mangiato quaranta giorni fa! Non ci crederete: è stato pro prio così. Era dieci anni più grande di me e ancora è viva, sapete! Adesso non si sente dire più niente. Dice: “Se uno non ci crede, questa invi dia non ci attacca”. E anche le paure pare che siano sparite: per forza, a piedi di notte non ci cammina più nessuno! Una volta, di notte, c’era anche chi andava a prendere il tesoro, però se (il tesoro) non era fatto per te, si diceva che ti davano le legnate e non si vedeva nessuno: saran no stati gli spiriti maligni! Raccontava nonna che una famiglia lo era andata a prendere e ci aveva tro vato una campana d’oro, però non era fatta per quelli. Così, quando l’hanno caricata su una macchina di piaz za, gliela ha scassata tutta e dopo un chilometro di strada gli è cascata per terra. Quelli dentro hanno visto un gran lampo di fuoco e si sono ritrovati in mezzo a una fratta di spini. Dopo hanno fatto dire tante Messe per scon giurare il diavolo: non potevano trovare pace. Dicevano questi antenati nostri che una volta nascondevano soldi e oro sotto terra, i ricchi dopo morivano e non si ricordavano di prenderli. La gente li sognava e (le anime) gli diceva no dov’era (il tesoro). Uno aveva sogna to questo morto che gli ha detto:” Va’ lì in quel posto, ci troverai il tesoro, però ci devi mangiare lì sopra sette cresce calde, dopo scava che lo troverai”. Adesso vi racconto la mia. Quando 192 rampinàmme suppe ’l letto e me s’é pusàdo sopra la trippa, che non ié la fèra né a sgaggià’, né a giràmme, né a chiamà’a mi’ marìdo. Me sentìa di’ ’nté ’na recchia: “Va’ giù la Madonna della Rosa, fa scontà’ cinque Messe!” Po’ ho ’ntéso ’n gran chioppo per terra, parìa ’n madó’, e me so’ ripresa’. Se dicìa ch’era ’l pesarèllo; c’è chi ’l chiamàa lo sprevengolo. Dice che sia ’n’ànnima che n’arpòsa e sta be’ solo lì, ma te chiude ’l fiàdo. Boh, io l’ho ’ntéso ormai tre vo’. Mi’ socera mi dicìa che non è gnè: è ’l sangue ch’è in movimento. Lo sprevengolo non podìa èsse’ stàdo perché mi dicìa delle Messe. Quante cose c’era ’na ò! Pre sempio sci uno sentìa l’arlòggio de San Vito, parìa n’arlòggio perdéro. Io, quanno da giovana ero sola, drendo casa, battìa drendo al muro drìa a ’n quadro; alla sera stèra ’nté la càmbora a scrìe a mi’ ragazzo, ’l sentìo de continuo, fèra dieci o quinneci battùde, po’ se fermàa e po’ arpìàa. ’Nté cuèlla càmbora c’era morti ’sti nonni, ma era tanti bòni! E po’ mamma del be’ ié ne fèra di’ ’mbelpo’, como v’ho ditto: oltra che l’ascóltàa lìa, le fèra scontà’ anca a cuélli che spettàa da pìa della chiesa, pe’ avé’ la caridà. Dicìa: “Tante grazzie, ve sconto ’na Messa per i morti vostri”. Ce n’era sempre tre quattro de ’ste persone che aspettàane la caridà. ho fatto la prima monella, dormivo supina. Tutto in una volta ho sentito (uno) arrampicarsi su per il letto e si è posato sopra la trippa, io non gliela facevo a gridare, né a girarmi, né a chiamare mio marito. Mi sentivo dire in un orecchio: “Va’ giù la Madonna della Rosa, fa’ scontare cinque Messe!”. Poi ho sentito un gran botto per terra, sembrava un mattone, e mi sono ripre sa. Si diceva che era il pesarello: c’è chi lo chiamava lo sprevengolo. Dicono che sia un’anima che non riposa e che sta bene solo lì, ma ti chiude il fiato. Boh, io l’ho sentito ormai tre volte. Mia suocera mi diceva che non è niente: è il sangue che è in movimento. Lo sprevengolo non poteva essere stato, perché mi diceva delle Messe. Quante cose c’erano una volta! Per esempio, se uno sentiva l’orologio di San Vito, pareva un orologio per davvero. Io, quando da giovane ero sola dentro casa, lo sentivo battere dentro il muro, dietro a un quadro; la sera stavo nella camera a scrivere al mio ragazzo, lo sentivo di continuo, faceva dieci o quindici bat tute, poi si fermava e poi riprendeva. In quella camera erano morti i nonni, ma erano tanto buoni! E poi mamma del bene gliene faceva dire tanto, come vi ho detto: oltre che l’ascoltava lei (la Messa), la faceva ascoltare anche a quel li che aspettavano in fondo alla chiesa per avere l’elemosina. Dicevano: “Tante grazie, vi sconto una Messa per i morti vostri”. Ce ne erano sempre tre o quattro di queste persone che aspettavano l’ele mosina. 193 Tre angioletti, Adàmo e ’l lupo mannàro Tre angioletti, Adamo e il lupo mannaro Adè ve vojo dì anca ’sta moda chì. Ai tempi nostri quànno nascìa ’n monèllo, dicìa cuélle più granni: “Adè’ arìa la levadrìge e drendo la valìce ci’hà ’n monellétto, el porta a cuélla sposa!” Noà ce credémma. Po’ dobo è nûda fòra la storia della cicogna: anca lì ce se credìa, prò parìa mistèro ’mpossìbole, ma tanto gèrene annànse co’ sta moda chì. E dobo ce dicìa anca: “Co’ ’n fiolìno ce se crèa tre angioletti: l’angioletto bòno è ’l Bambinello, po’ ’l monellétto e cuéll’altro ’l deaolétto. Quanno ’l monellétto era grannicèllo sci era bòno ìa vénto ’l Bambinello, sci envéce venìa su tristo, sfrenàdo, ìa vénto cuell’altro coi cornétti. E noà ce credémma, prò dicìa che ’l Bambinello tanto ié stèra a pistà’ ’nté i pìa e ne ’l bandonàa mae. Finànta che nìa battizzàdo, comannàa de più cuèllo coi cornétti, e dopo ’l battésemo i’hà leàdo ’l peccàdo originàle, cuèllo se cancèlla col battésemo, pïàa ’l sopravvènto l’Angioletto Custode e non te lassa più. Apposta se dice ’l Padarnostro all’Angelo Custode, che custodìsse l’ànnima finànta al punto della nostra morte. E ce se credìa a ’ste storie, ma anca a la storia della mela… Embè, cuélla finànta a ’n certo punto ce se credìa. Quanno fusci rïàdo all’uso de ragió’ (cuella vo’ a ventun’anno),’n ce se credìa più tanto, fumma tutti Adesso vi voglio dire anche questa moda qui. Ai tempi nostri, quando nasceva un monello, dicevano quelle più grandi: “Adesso arriva la levatrice e dentro la valigia ha un monelletto e lo porta a quella sposa!”. Noi ci crede vamo. Poi dopo è venuta fuori la storia della cicogna, anche lì ci si credeva, però pareva un mistero impossibile, ma tanto andavano avanti con questa moda qui. E dopo ci dicevano anche: “Con un figlioletto ci si creano tre angioletti: l’angioletto buono è il Bambinello, poi il monelletto e quell’altro il diavoletto”. Quando il monelletto era grandicello, se era buono, aveva vinto il Bambinello, se invece cresceva cattivo, sfrenato, aveva vinto quell’altro con i cornetti. E noi ci credevamo, però dicevano che il Bambinello gli stava tanto a pestare nei piedi e non lo abbandonava mai. Finché non lo avevano battezzato, comanda va di più quello con i cornetti, e dopo quando il Battesimo gli aveva levato il peccato originale, quello si cancella con il Battesimo, prendeva il sopravven to l’angioletto custode e non ti lascia va più. Apposta si dice il Paternoster all’Angelo custode, che custodisca l’ani ma fino al punto della nostra morte. E ci si credeva a queste storie, ma anche alla storia della mela…embè, a quella ci si credeva fino a un certo punto. Quando eri arrivato all’uso della ragione (quella volta a ventuno anni), 194 più adrìa ’nté cuél lado lì, prò ’sta mela non confrónta alle parole che dicìa Gesù Cristo ’nté ’l Paradiso Terèstre, quanno ha ditto: “Adamo, perché ti nascondi?” E lu’ i’hà risposto: “Perché so’ nudo!” E lì che te fa pensà’, che non è la mela! Gimo annànse va! Dopo c’era anca ’sta storia chi. A cuéi tempi lì se parlàa muntubè’ del lupo mannàro. Dicìa ch’era ’na maladìa e cuélli più granni de noà ’rcontàane che c’era ’n gioveno che cìa ’sta maladìa e fèra l’amore co’ ’na bella bardàscia e, per ditto della gente, i’èra gido ’nté le récchie de ’sta ragazza. Allora lìa, quanno lu’ è partìdo da lì casa, i’è gida drèdo, l’ha seguìdo poco da lóngo, perché ha visto ch’èra partìdo tanto de fuga, perché dicìane che quanno dovènta lupo mannàro, ’mpo’ prima s’accorgìa. Ié pïàa como ’na crisi. È riàdo a casa, ha comensàdo a urlà’. Allora la ragazza ìa ’ntéso a di’ che sci uno ci’hà cualchiccò’ su le ma’, ’na falcetta, ’n martèllo basta ferìllo e fàje sgappà’ tre gocce de sangue: coscì arvène normale. E lìa, da drìa ’na pianta iél’ha fatta a fàje ’n tàjo’nté ’mbràccio e po’ è fujàda via, sensa fàsse chiappà’. Alla domènniga dopo l’ha visto co’ ’sto braccio ’nfasciàdo e i’ha ditto: “Que hai fatto?” E lu’ i’hà risposto “Gnènte!” Non volìa fàjelo sapé’ alla ragazza, perché era tanta bella, ìa paura che sci ’l sapìa ’l lassàa gi’. Envece con cuélle tre gocce de sangue s’è guarìdo e lìa iél’ha non ci si credeva più tanto, eravamo tutti più indietro da quel lato lì, però questa mela non corrisponde alle paro le che diceva Gesù Cristo nel Paradiso Terrestre quando ha detto: “Adamo, perché ti nascondi?” e lui gli ha rispo sto: “Perché sono nudo!”. È lì che ti fa pensare che non è la mela! Andiamo avanti, va! Dopo c’era anche questa storia qui. A quei tempi si parlava molto del lupo mannaro. Dicevano che era una malattia e quelli più grandi di noi rac contavano che un giovane aveva que sta malattia, faceva l’amore con una bella ragazza e, per detto della gente, (il fatto) era arrivato alle orecchie di questa ragazza. Allora lei, quando lui è partito da lì casa, gli è andata die tro, l’ha seguito poco da lontano, perché aveva visto che era partito tanto in fret ta, perché dicevano che, quando diven ta lupo mannaro, si accorgeva un po’ prima. Gli prendeva come una crisi. È arrivato a casa, ha cominciato ad urla re. Allora la ragazza aveva inteso dire che, se uno ha qualcosa sulle mani, una falce, un martello, basta ferirlo e fargli uscire tre gocce di sangue: così ritorna normale. E lei, da dietro una pianta, gliel’ha fatta a fargli un taglio in un braccio e poi è fuggita via. La domeni ca dopo l’ha visto con un braccio fascia to e gli ha detto: “Che cosa hai fatto?” e lui le ha risposto “niente!”. Non voleva farglielo sapere alla ragazza, perché era tanto bella, aveva paura che, se l’aves se saputo, l’avrebbe lasciato. Invece con quelle tre gocce di sangue si è guari 195 ditto e s’è sposàdi. Sempre sci è vero, ne ’l so, l’arcontàane costora. to, lei glielo ha detto e si sono sposati. Sempre se è vero, non lo so, lo racconta vano quelli di casa mia. Invidie, fatture, occhio tristo Invidie, fatture, occhio cattivo Ce n’ho ’n’àntre po’ de mòde da ’rcontàvvene. Quanno i santoli o le santole portàa ’n monèllo a battizzà’ ’n se dovìa ’rvoltà’ mae, scinó, pôri fiolétti, podìa cascà’ o pïà’ le paùre. ’N te dovìsci ’rvoltà’ mae anca sci gìi a pïà’ l’ovi per métte’ sotto la fiocca, scinó doventàa tutti valli. ’Na ’olta ai monellétti addosso ié se fèra portà’ ’mbaerétto fatto de pezza róscia, drendo ce mettìane ’na medajòla de qualsiasi santo, segondo chi te stèra più a côre, po’ tredici acini de gra’, scinó ’mpezzétto de lèvido del pa’, po’ ’l pelo del tasso. Se fèra ’sto baerétto e se cucìa dentórno bembè co ’na cèntine: venìa bellino! Co’ ’na spilla balia ié se taccàa ’nté ’l busto. Cuélla vo’ ’l portàa piccoli e granni: cuéi granni fèra la vida più schiantàda e i monelletti ié reggìa la schina a modo da tenélla dritta. E ’sto baerétto servìa pe’ non fàcce taccà’ le invidie e le fattùre. La medaiòla la portàa anca i granni: all’òmmimi ié se taccàa da cima della finta delle calse; anca ’nté ’l portafòjo cìa tutti ’n santarèllo, te proteggìa dal malocchio e dal male. Quanno i dindi, i pulcì’, le bestie non beccàa se gèra a fa’ l’aqua. Ce Ce n’ho altre ancora di usanze da raccontarvi. Quando i padrini e le madrine portavano un monello a bat tezzare, non si dovevano voltare mai indietro, sennò, poveri figlioletti, avreb bero potuto cadere o prendere degli spa venti. Non ti dovevi rivoltare mai nem meno quando andavi a prendere le uova per mettere sotto la chioccia, sennò (le uova) diventavano tutte fradicie. Una volta ai monelletti gli si face va portare addosso un baveretto fatto di pezza rossa; dentro ci mettevano una medaglietta di qualsiasi santo, secondo chi ti stava più a cuore, poi tredici chic chi di grano, se no un pezzetto di lievito del pane, poi il pelo del tasso. Si faceva questo baveretto e si cuciva dintorno perbene con una centina: veniva bellino! Con una spilla balia glielo si attaccava nel busto. Quella volta lo portavano (il busto) piccoli e grandi: a quelli grandi faceva la vita più snella e ai monellet ti gli reggeva la schiena in modo che la tenessero diritta. Questo baveretto ser viva per non farci attaccare le invidie e le fatture. La medaglietta la portavano anche i grandi: agli uomini gli si attac cava in cima della finta dei pantaloni; anche nel portafoglio tutti avevano un santino: ti proteggeva dal malocchio e 196 n’era una a Montalbò, che stèra vicino alla chiesa del Crocefisso. Mettìa l’aqua ’nté ’n bicchiero o’na buttijétta, ce buttàa giù ’mpizzighetto de gra’ e dicìa un padarnostro a sant’Anna, santa Libbràda e a Sant’Antò’ e co’ ’st’aqua ce dovìi mollà’ le bestiole e fàjela be’. Ai monelletti se mollàa ’na ma’ e se passàa ’nté i braccètti e le gambétte buttànno via, e su la faccétta buttà’ vèro la testina, dicenno tre padarnostri a cuéi santi, alla fì’ se buttàa sul fôgo e se dicia tre volte: “Birbo via!” Oh, a chi cìa fede ié fèra be’! Ma sarìa mejo ’na benedizió’ annànse a ’n santo, io digo! ’Ntórno a le donne ’nfantàde, como pe’ ’l monellétto appena nado, c’era ’n deaolétto, coscì dobo quaranta giorni l’anfantàda argèra alla Messa co’ ’na candela pe’ da’ alla chiesa e ce gèra ’n’antra persóna pe’ compagnìa, pe’ scaccià’ ’sto deaolétto. È vero? E que ne so! Pensàde vuà, quante ce n’è de ’ste baraónde! Sci se sente a strìde’ la cioétta, porta disgrazzie. Quanno piagne ’l ca’ ne succède delle grosse. Anca ’l nostro spesso piàgne quanno è drendo al recinto, prò, sapéde que ci’hà? È stàdo sciòlto, ha conosciùdo ’na cagnétta, ha ’ntéso l’odóre, adè, quann’è legàdo, piagne. Perché ’l sa lu’! Dobo sci traèrsa ’n gatto nero dannànse, porta sfortuna. Quanno le galline canta da gallo, mazzàdele sùbbedo, ché brama la morte al padró’! Senteréde che brodìno! Po’, sci è vecchia, anca mejo: “Gallina dal male. Quando i tacchini, i pulcini, le bestie non beccavano si andava a fare l’acqua. Ce n’era una a Montalboddo, che stava vicino alla chiesa del Crocifisso. Metteva l’acqua in un bicchiere o in una botti glietta, ci buttava un pizzichetto di grano e diceva un Pater noster a Sant’Anna, a Santa Liberata e a Sant’Antonio e con quest’acqua ci dovevi bagnare le bestiole e fargliela bere. Per i monelletti ci si bagnava una mano e si passava sui braccetti e sulle gambette buttando via, e sulla faccetta buttando verso la testina, dicendo tre Pater noster a quei santi; alla fine si buttava sul fuoco e si diceva tre volte: “Birbo via!” Oh, a chi aveva fede gli faceva bene, ma sarebbe meglio una benedizione davanti a un santo, io dico! Attorno alla puepera, come per il neonato, c’era un diavolet to, così dopo quaranta giorni che aveva partorito questa ritornava alla Messa con una candela per darla alla chiesa e ci andava un’altra persona per compa gnia, per scacciare questo diavoletto. È vero? E che ne so! Pensate voi, quante ce ne sono di queste baraonde! Se si sente stridere la civetta, porta disgrazie. Quando piange il cane, ne succedono delle grosse. Anche il nostro spesso piange, quando è dentro al recin to, però, sapete che ha? È stato sciolto, ha conosciuto una cagnetta, ha inteso l’odore; adesso, quando è legato, pian ge. Il perché lo sa lui! Dopo, se un gatto nero ti attraversa davanti, porta sfortu na. Quando le galline cantano da gallo, ammazzatele subito, perché brama la 197 vecchia fa bon brodo!”. Sci ’l gallo canta da gallina, sapéde que succede? La casa va a rovina! Mazzàdelo sùbbedo e ne ’l mettéde drendo al surgeladóre: condìdelo co’ ojo ajo salvia e rosamarì’, sale e pepe; ce se pô fa’ anca rimpidìccio colle mollìghe, òi, ’l cacio parmigià’, limó’ grattàdo, nóce moscàda, àjo, erbétte: altro che porta la casa a roìna! Te fa liccà’ i dédi! Po’ sci sopra ce mettéde ’mpo’ de fettarèlle de pansétta, allora sci che t’aggùsta! Si dicìa ancó che c’era cualchidù che cìa l’occhio tristo, chiamàdi invidiosi. Sci vidìa a ’n monellétto ’l toccàa e dicìa: “Dio te benedìga!” Coscì no’ ié fèra l’invidia. C’era una -’rcontàa nonna - che cìa l’occhio tristo, avvisàa la gente, non volìa fàje del male. Chiamàa: “Cadarì’, manna via cuéi dindòli che vengo giù io!” I dindi è deligàdi como i monèlli, e n’èra colpa sua sci cìa l’occhio tristo, c’era nada: anca cuèsto poèsse vero! C’è chi ci’hà ’n pregio che canta be’, ’n’antro balla be’, ’n’antro è struìdo, ’n’antro è ’n testó’, ’n’antro è bello, uno è brutto: e qu’è colpa sua? Peggio per lu’ che ci’ha da campà’ tutto l’anno! E po’ ’n’antra: sci uno se segna col dèdo le maladìe addosso, ha da di’: “Salve me tòcco!”, scinó ié vène anca a lu’.Non se pôle fa’ gàccigo ai monelli appena magnàdo, perché pe lo rìde’ ié vène i fantiòli. Dicedeme quante ne so ? Ho ragió’? ’N se finisce mae! morte al padrone. Sentirete che brodino! Poi, se è vecchia, anche meglio: “Gallina vecchia fa buon brodo!” Se il gallo canta da gallina, sapete che cosa succede? La casa va in rovina! Ammazzatelo subito e non lo mettete dentro il congelatore: conditelo con olio aglio salvia e rosma rino, sale e pepe; ci si può fare anche il ripieno con le molliche, uova, cacio parmigiano, limone grattugiato, noce moscata, aglio, erbette: altro che porta la casa in rovina, ti fa leccare le dita! Poi se sopra ci mettete alcune fettine di pancetta, allora sì che ti gusta! Si dice va ancora che qualcuno aveva l’occhio cattivo: (questi) erano chiamati ‘invi diosi’. Se vedeva un monelletto, lo tocca va e diceva: “Dio ti benedica!” Così non gli faceva l’invidia. C’era una –raccon tava nonna –che aveva l’occhio cattivo, avvisava la gente, non voleva fargli del male. Chiamava: “Caterina, manda via quei tacchini piccoli che vengo giù io!” I tacchini sono delicati come i monel li, e non era colpa sua se aveva l’occhio cattivo, c’era nata: anche questo può essere vero! C’è chi ha un pregio che canta bene, un altro balla bene, un altro è istruito, un altro è un testone, un altro è bello, uno è brutto: e che è colpa sua? Peggio per lui che ci deve campare tutto l’anno! E poi un’altra: se uno si indica le malattie addosso, deve dire “salve mi tocco!”, se no gli viene anche a lui. Non si può fare solletico ai monelli appena mangiato, perché dal ridere gli viene la poliomielite. Ditemi quante ne so! Ho ragione? Non si finisce mai! 198 Lo Rosario Il Rosario Po’ cuélla vo’ tutte le sere se dicìa lo Rosario in ladì. Ecco como se dicìa ’l padarnostro: “Padarnostro così ’ncèlo santo ficèdo nomentùa, adevègnat regnen tùa, fiàtte volontà stùa, sìgudi in cèlo e sìgudi in terra, parinòstro quodidiàno da nobisòdia, dèbida nòbi debidanòstra, sìgude nosse o demìtibus debitòrimum nòstra, de indibucàsse in tentazió sedeliba nòsse maloàmme”. “Marì, éde chiuso i pùi?” “Almarìa, grazzia pîna, domini stègo, benedetta tu mulieribùsse, benedetta ’l frutto ventre stoièso. Santa Maria mader de Dio ora pre nòbis peccatorìbusse, nunchetinòra mòrtese nostràmme”. “Gloria al Padre, del Figlio e Spirito Santo com’era in principia nunca e sempre seculòro ame”. Mentre se pregàa ce s’arcodàa sci i’ha datto ’l beveró al porchetto, o ìsci chiappado i dindòli e altre ròbbe. Questo qualche vo’ succedìa anca da noà. Adè ve digo le laude, con cuél che capitàa da dì’ Crie ellèi so, Criste ellisò. Padre cilisdèo, ora prònò. (la mimma la mamma) Fili rivènda mundi deo, ora prònò. (la mamma la mimma) Spiriti santi deo, ora pronò (la mimma la mamma) (Stade sitto, babbo!) Santa trinitas sonosdèo, ora pronò Poi a quel tempo tutte le sere si diceva il Rosario in latino. Ecco come si recitava il Padre nostro: “Padarnostro così ’ncèlo santo ficèdo nomentùa, adevègnat regnen tùa, fiàtte volontà stùa, sìgudi in cèlo e sìgudi in terra, parinòstro quodi diàno da nobisòdia, dèbidanòbi debi danòstra, sìgude nosse o demìtibus debitòrimum nòstra, de indibucàsse in tentazió sedelibanòsse maloàm me”. “Maria, hai chiuso i polli?” “Almarìa, grazzia pîna, domi ni stègo, benedetta tu mulieribùs se, benedetta ’l frutto ventre stoièso. Santa Maria mader de Dio ora pre nòbis peccatorìbusse, nunchetinòra moòrtese nostràmme”. “Gloria al Padre, de Figlio e Spirito Santo com’era in principia nunca e sempre seculòro ame”. Mentre si pregava ci si ricordava se era stato dato il beverone al porco, se avevi chiuso i tacchini piccoli e altre cose. Questo qualche volta succe deva anche a casa nostra. Adesso vi dico le litanie, con quello che capitava di dire (durante la loro recita). Crie ellèi so, Criste ellisò. Padre cilisdèo, ora prònò. (la mimma la mamma) Fili rivènda mundi deo, ora prònò.(la mamma la mimma) Spiriti santi deo, ora pronò (la mimma la mamma) (State zitto, babbo!) Santa trinitasso 199 Santa Maria (arcòrdàteve de gi’ a pagà’ ’l debbedo in farmacia) (e con cuèl pago, co’ le bèccighe!) Santa Dei genedri Santa virgo virgino, ora pronò Madre di Criste (oh, i’éde dato ’l beveró al porchetto?) (scìne) Madre divine grazie, ora pronò Madre purissima (éde chiuso be’ lo stipo?) (Oh, non m’arcòrdo) Madre gastis sima Madre inviolada (bisogna assicuràsse!) Madre intemerada (adè badàde a rispónne’, ce vô dobo!) Madre amabole (sentìde che musica!) Madre asmirabole (non sornac chiàde, svéjàdeve!) Madre buon consijo (oprìde l’occhi, scinò cascàde sul fôgo!) Madre creadore (attizzàde su be’ ’sta legna! ’n vedéde che ce rimpîmo de fume!) Madre Salvadòre (dade a me, ’n se fa luscì co la paletta!) Virgo prudentissima, ora pronò Virgo veneranda, ora pronò Virgo prediganda (arcordàdeme che ci’ho d’arconciàvve le calze!) Virgo pote (oggi cìo tutto’l culo de fori: sentìsci che vento!) (almànco ve scioràsta!) Virgo cleme, ora pronò Virgo fedele ora pronò Specolo ingiustizia, ora pronò Sède sapiense (al mercàdo ce portà- nosdèo, ora pronò Santa Maria (ricordatevi di andare a pagare il debito in farmacia) (e con che cosa lo pago, co’ le lacrime secche!) Santa Dei genedri Santa virgo virgino, ora pronò Madre di Criste (oh, avete dato il beve rone al porco?) (si) Madre divine grazie, ora pronò Madre purissima (hai chiuso bene il porcile?) (Oh, non mi ricordo) Madre gastissi ma Madre inviolada (bisogna assicurar si!) Madre intemerada (adesso bada a rispondere, ci vado dopo!) Madre amabole (senti che musica!) Madre asmirabole (non russare, sve gliatevi!) Madre buon consijo (aprite gli occhi, sennò cascate sul fuoco!) Madre creadore (attizza su bene que sta legna! Non vedi che ci riempia mo di fumo!) Madre Salvadòre (da’ a me, non si fa così con la paletta!) Virgo prudentissima, ora pronò Virgo veneranda, ora pronò Virgo prediganda (ricordatemi che vi devo rammendare i pantaloni!) Virgo pote (oggi avevo tutto il culo di fuori: sentissi che vento!) (almeno vi raffreddavate!) Virgo cleme, ora pronò Virgo fedele ora pronò Specolo ingiustizia, ora pronò Sède sapiense (ci portiamo al mercato la tacchina?) 200 mo la dinda?) Causa nostra letizia (fàdela cresce… ce famo de più) Vaspiri duàle, ora pronò Vasso norabole (e scì gniéla famo a vèndela) Vasso insegno devozione (la magnamo!) Rosa mistica (te sta’ sitto, bada a risponne!) Dure savilliga (sentìde ’sto vento: ce porta via ’l pajaro de la mistiga) Dure sebornia (iusso che sbornia!) Domo nosauria (la mamma la mimma) Sède risarca (Se gela la trocca stanotte!) Diamo macèli (la sciojémo domàne!) Stella madudina e se fa la neve?) Saolo sinfirmòro (sciojémo anca cuélla) Refuggio mpeccatoro (con que?) Consolàde san frittòro (col culo vostro, badàde a rispónne’!) Ausilio ncristianòro (la mimma e la mamma) Regina ngelòro (porca paletta… ve la fenìde babbo?) Regina padrieccàro, pronò Regina pròfettàro, pronò (magnarìa du’ ranocchie!) Regina postolòro pronò ( io i passeri del pulàro!) Regina màrtiro, nò ( co’è ’sta puzza: c’avéde fatto nonno?) Regina confessòro, nò (la mimma la mamma) Regina vergìno (éde messo drendo Causa nostra letizia (fatela crescere… ci faremo di più!) Vaspiri duàle, ora pronò Vasso norabole(e se poi non gliela faremo a venderla?) Vasso insegno devozione (la mangia mo!) Rosa mistica (tu sta’ zitto, bada a rispondere!) Dure savilliga (senti questo vento: ci porta via il pagliaio della mistica!) Dure sebornia (osteria che sbornia!) Domo nosauria (la mamma la mimma) Sède risarca (gela la ‘trocca’ stanot te!) Diamo macèli (domani la scioglia mo!) Stella madudina (e se fa la neve?) Saolo sinfirmòro (scioglieremo anche quella) Refuggio mpeccatoro (con che cosa?) Consolàde san frittòro (col culo tuo, bada a rispondere!) Ausilio ncristianòro (la mimma e la mamma) Regina ngelòro (porca paletta… ve la finite babbo?) Regina padrieccàro, pronò Regina pròfettàro, pronò (mangerei due ranocchie!) Regina postolòro pronò (io i passeri del ‘pulàro’!) Regina màrtiro, nò (cos’è questa puzza: cos’avete fatto nonno?) Regina confessòro, nò (la mimma la mamma) Regina vergìno (avete messo dentro la scala, sennò ce la rubano!) 201 la scala, scinò ce la frega!) Regina santarunònio (Chi, ’l dimònio?) Regina siniràbboli originali con cetta. (spètta alsàtte!) Regina sacratissimi rosari (me s’è ’nformigàdo ’n pìa!) Regina pace (slóngalo, te se passa!) Angiul dei quitoli speccadamùndi, esàudi nos dominè Angiul dei quitoli speccadamundi, esàndi nos dominè Angiul dei quitoli speccadamundi, miserere nobi. Po’, quanno se dicìa ai morti, si risponnìa “ora pròèi” Se dicìa: Récchia materna sdo mini sdomini, perpetua lucedèi requiescandimpàce àme. E se finìa, tutt’insié’, co’ ’sta orazió’: “Signore V’aringrazio che c’ede guardado ’sto santo giorno, guar dàdece pure ’sta santa notte dalle disgrazie, dalla mala gente, dai temporali, dai gastighi del monno. Signore guardàdece ambraccia a voe, Ve domanno la santa bene dizió’. Gesù mia, Signor mia, ve dono ’l côre e l’anima mia”. Po’ babbo dicìa: “Sai cristiano?” Tutti responnìa: “Sci, per grazia di Dio. Qual è ’l segno del cristiano? E tutti: “ ’L segno della santa croce”. Po’ se finìa col dimandà’ la santa benedizió’: “Nonno, benedizió’!” “Nonna, benedizió!” “Babbo, benedizió’!” Regina santarunònio (chi, il demo nio?) Regina siniràbboli originali concet ta. (aspetta ad alzarti!) Regina sacratissimi rosari (mi si è informicolito un piede!) Regina pace (allungalo, ti si passe rà!) Angiul dei quitoli speccadamùndi, esàudi nos dominè Angiul dei quitoli speccadamundi, esàndi nos dominè Angiul dei quitoli speccadamundi, miserere nobi. Poi quando si dicevano le pre ghiere per i morti, si rispondeva “ora pròèi”. Si diceva: “Récchia materna sdomini sdomini, perpetua lucedèi requiescandimpàce àme”. Poi si diceva, tutti insieme, que sta preghiera: “Signore, V’aringrazio che c’ede guardado ’sto santo giorno, guar dàdece pure ’sta santa notte dalle disgrazie, dalla mala gente, dai tem porali, dai gastighi del monno. Signore guardàdece ambraccia a voe, Ve domanno la vostra santa benedizió’. Gesù mia, Signor mia, ve dono ’l côre e l’anima mia”. Infine babbo domandava: “Sei cristiano?” Tutti rispondevamo: “Sì, per grazia di Dio”. “Qual è il segno del cristiano?” E tutti: “Il segno della santa croce”. Alla fine si domandava la santa benedizione: “Nonno, benedizione’!” “Nonna, benedizione!” “Babbo, bene 202 “Mamma, benedizió!” E lóra responnìa: “Dio te benediga!” E coscì gèmma al letto. Cuélla vo’ c’émma ’mpo’ de supestizió’, però a’sto rosario ’ncó’ ce se guarda finànta che semo vivi noà; questi d’adè’ ’nvéce, ce ride. dizione’!” “Mamma, benedizione!” E loro rispondevano: “Dio ti benedica!” E così andavamo a letto. A quel tempo avevamo un po’ di superstizioni, però al rosario anco ra ci teniamo, finché siamo vivi noi; questi di adesso, invece, ci ridono. Lo rosario d’istàde e le rogazió Il rosario d’estate e le rogazioni D’istàde, proprio quanno fumma stufi, lo rosario gèra da ’na parte, dicemma solo le laude in latì’ co’ ’mpo’ de padarnostri, prima al Signore e la Madonna e po’ a San Vincè che ce guardàsse dalla gràndola, fulmini, collere e tempeste, e po’ a Sant’Antò’ ce guardàsse le bestio- D’estate, proprio quando eravamo stufi, il rosario andava da una parte, dicevamo solo le litanie in latino con un po’ di Paternoster, prima al Signore e alla Madonna, e poi a San Vincenzo che ci guardasse dalla grandine, fulmi ni, collere e tempeste, e poi a sant’An tonio che ci guardasse le bestiole, a 203 le, a San Sidòro ’l padró’ de contadì’, e po’ ai morti nostri, a tutti infermi che se ’rcomànna delle nostre orazzió’, e i poveri agonizzanti che si tròa in angonìa ’nté’sto giorno e ’sta notte, Signore libbràdeli delle sue pene. Questo a casa mia, se ’rcordàa babbo. Po’ all’inverno l’eltroàa tutte le sante coi santarelli. Dicìa: “Santantò’ da Padoa che dispensi treddici grazzie al giorno, fanne una anca per noà, fa’ sparì ste guerre, fa’ venì’ presto la santa pace per tutto ’l mónno. Sant’Antò’ del corpo santo che ’l Signore ti ama tanto, lu’ te ama io ti prego, fa’ sta grazia che io te chiedo. Envece ’ndó so’ boccàda anca all’inverno ’l fèra più abbreviàdo. Invece a San Bonaventura, de maggio, se fèra anca tre giorni de rogazió’. Li fèra padre Gerardo, cuéllo che venìa a di’ la Messa ’nté la chiesetta nostra, tre giorni annànse all’Ascensió’. Pïàa ’na croce, ’l sagrestà’ e via in tutte le strade, fèra duecento medri ogni stradina e benedìa tutte le campagne, e noà tutti in proscisció’ de diedro. ’L frade nominàa ’l nome dei santi cantànno, presempio ‘San Vincenzo!.... e noà ‘orate pre nobi’. E po’ dicìa cantanno “dalla carestia, dalla grandina, dalla gelada, da tutte le tempeste”, e noà rispondemma ‘liberanò Domine’. De santi n’artroàa muntibè’ ’nté tre giorni. Scì c’era tre crocìli de strade, ne fèra uno per madina, e questo dobo la guerra è sparido nigò. Sant’Isidoro il padrone dei contadini, e poi ai morti nostri, a tutti gli infer mi che si raccomandano alle nostre preghiere, e ai poveri agonizzanti che si trovano in agonia in questo giorno e in questa notte. Signore liberateli dalle loro pene. Questo a casa mia, si ricor dava babbo. Poi all’inverno le ritrovava tutte le sante con i santarelli. Diceva: “Sant’Antonio da Padova che dispen si tredici grazie al giorno, fanne una anche per noi, fai sparire le guerre, fai venire presto la santa pace in tutto il mondo. Sant’Antonio dal corpo santo, che il Signore ti ama tanto, lui ti ama io ti prego, fa’ questa grazia che io ti chiedo”. Invece (nella famiglia) dove sono entrata anche all’inverno il rosa rio lo faceva più abbreviato. Invece a San Bonaventura di mag gio, si facevano anche tre giorni di rogazioni. Le faceva padre Gerardo, quello che veniva a dir la Messa nella nostra chiesetta, tre giorni prima dell’Ascensione. Prendeva una croce, il sagrestano e via in tutte le strade, per correva duecento metri ogni stradina e benediva tutte le campagne, e noi tutti dietro in processione. Il frate nominava il nome dei santi cantando, per esempio “San Vincenzo”, e noi “orate pro nobi”. E poi diceva cantando “dalla carestia, dalla grandine, dalla gelata, da tutte le tempeste” e noi rispondevamo “liberanò domine”. Di santi ne ritrovava moltis simi nei tre giorni. Se c’erano tre cro cicchi di strade, ne faceva uno per mat tina, ma questo dopo la guerra è sparito del tutto. 204 Processione nella festa annuale presso la chiesa di San Bonaventura (coll. E. Manoni). Non me credìa mae a girà’ coscì Non credevo mai di girare così Anca sci ce rìdene, sai que fô? Finanta che so’ viva e capìscio ié ’l digo lo Rosario e ié lo ripèdo: quando so’ morta, ’l tròa scritto, sci gné dà fôgo! C’è chi è astùdi che ’l tène accónto! Ède capìdo o fàde Anche se ci ridono, sai che faccio? Finché sono viva e capisco glielo dico e glielo ripeto; quando sono morta, lo trova scritto, se non gli dà fuoco! Quelli che sono astuti lo tengono a conto! Avete capito o fate orecchie da tonti? Una volta 205 recchie da tónti? ’Na ò sci non stésci a sentì’, te dicìa: “Ma que ci’hai le recchie foderàde de presciùtto? Que fai de casàdo ‘Menefrègo’?” Oh, nìa studiàdo, ma cìa sempre ’n dittàdo pronto; se véde che cìa i talènti più genuìni de chi ìa studiàdo. Dicìa mi’ fradèllo, cuèllo che ’n volìa gi’ a scòla: “Te que dìghi: chi è più struìdi chi studia o chi gira?” Io risponnìa: “Chi studia!” Lu’ mi dicìa: “N’è vero, perché io so’ gido in Albania, in Russia, ho visto tante cose, come ’l maro Albàltigo, ’l Danubio, le medetrebbie, che noà ancó’ fèmma la mededùra co’ la falcetta. Dannànze vedi ’l grane, drédo i sacchi pîni. Se ne vedìa tre quattro ’nté ’na distensió’ de tèra, l’elicotteri che dà giù la ròbba, nave, barcù’ da pesca, tante cose che vuà l’éde viste solo ’nté le figùre. Io, envéce, l’ho vedùde e l’ho toccàde! Allora qu’è mejo: vedélle dal vero o studiàlle?” Ma adè la gente studia e ce va anca a véde’: n’è vero che è coscì? ’Mpo’ del mónno n’ho visto anch’io como ’l Danubio, la Mànniga, émo traérsàdo tanti fiumi e ’l mare Adriadigo, émo visto anca le grotte de Postùmia, ’l cemidèro di Redipuglia, a Gorizia ’l cemidèro milidàre con 150.000 morti e lì, ’nté cuélle zone cìa combattùdo babbo mia e mi’ fradèllo quello più grànno, che dobo, pôrìno, l’ha portàdo a morì’ de fame in Germania a Lisbruch. Mentre caminào ’nté cuéi posti, ’ncó’ c’è le trincèe, pensàa “Chitta ci’ha pistàdo babbo, qua mi’ se non stavi a sentire, ti dicevano: “Ma che hai, le orecchie foderate di prosciut to? Come fai di casato ‘Menefrego’?” Oh, non avevano studiato, ma avevano sem pre un detto pronto; si vede che avevano i talenti più genuini di chi aveva stu diato. Diceva mio fratello, quello che non voleva andare a scuola: “Tu che dici, chi è più istruito chi studia o chi gira?” Io rispondevo: “Chi studia!” Lui mi dice va: “Non è vero, perché io sono andato in Albania, in Russia, ho visto tante cose, come il mare Baltico, il Danubio, le mietitrebbie, quando noi ancora face vamo la mietitura con la falce. Davanti vedi il grano, dietro i sacchi pieni. Se ne vedevano tre quattro ( di mietitreb bie) in una distesa di terra; gli elicotte ri che danno giù la roba, navi, barconi da pesca, tante cose che voi l’avete viste solo nelle figure. Io, invece, l’ho viste e l’ho toccate! Allora che è meglio: vederle dal vero o studiarle?” Ma adesso la gente studia e ci va anche a vedere: non è vero che è così? Un po’ di mondo l’ho visto anch’io, come il Danubio, la Manica; abbiamo attra versato tanti fiumi e il mare Adriatico, abbiamo visto anche le grotte di Postumia, il cimitero di Redipuglia, a Gorizia il cimitero militare con 150.000 morti e lì, in quelle zone, aveva combat tuto il mio babbo e mio fratello, quello più grande, che dopo, poveretto, l’han no portato in Germania a Innsbruck. Mentre camminavo in quei posti, anco ra ci sono le trincee, pensavo: “Qui ci ha messo i piedi babbo, qua mio fratello!” Ti faceva venire i brividi! 206 fradèllo!” Te fèra venì’ i brìidi! E po’ noà sémo gìdi a Cracovia, ’ndó c’è nado ’l papa, Ugoslavia, Budapest, in Scozia, in Inghilterra, in Francia, in Svizzera, a Lurdes, a po’ drendo l’Italia sémo gidi ’nté dièrsi posti, adè mango m’arcòrdo de tutti. Non me credìa mae a girà’ coscì. Le montagne sta ferme e le persone camìna e non se pô di’: “ ’Nté ’sta strada ’n ce passo più!” C’era uno ’mbriàgo che stèra mezzo curvo ’nté la porta de casa sua… Passa de lì ’n’amigo e ié dimànna: “Que fai, Lisà’?”. “Spetto ’l bugo de la chiave! Dice tutti (e po’ ’l vedo anch’io!) che ’l mónno gira e coscì ha da passà’ chì dannànze!” Poi noi siamo andati a Cracovia, dove è nato il papa, in Jugoslavia, a Budapest, in Scozia, in Inghilterra, in Francia, in Svizzera, a Lourdes; e poi, in Italia, siamo andati in diversi posti, adesso nemmeno mi ricordo di tutti. Non credevo mai di girare così. Le mon tagne stanno ferme e le persone cammi nano e non si può dire “in questa strada non ci passo più!” C’era un ubriaco che stava mezzo curvo davanti alla porta di casa sua… Passa di lì un amico e gli domanda: “Che fai, Lisandro?” “Aspetto il buco della serratura! Dicono tutti (e poi lo vedo anch’io!) che il mondo gira… e così deve passare qui davanti!” Erba d’amore e… l’addugazió’! Erba d’amore e… l’educazione Non se finisce mae de parlà’. Da ragazzòtte fumma tutte uguale, non se pensàa de altro, stèmma a ’ngattù’ ’nté ’l prado per cercà’ l’erba spigaròla. Sapéde no qual è? Fatta ’na spèce delle spighe del gra’, solo che è ’n filo d’erba. Allora dicémma: “Me vò be’, me vò male, me ama, me dessìdera e me sposa” e pensàmma a uno che ce piacìa. Sci capitàa che ce volìa be’, ce amàa, ce dessideràa, ce sposàa, fumma tutte contènte como quanno se fa ’l solidàrio co’ le carte: sci vène, sémo contenti. Quanno gèmma giuppe ’l campo , troàmma l’erba d’amore, pïàmma ’na Non si finisce mai di parlare. Da ragazzotte eravamo tutte uguali, non si pensava ad altro, stavamo a gattoni nel prato per cercare “l’erba spigarola”. Sapete no qual è? È simile alle spighe del grano, solo che è un filo d’erba. Allora dicevamo: “Mi vuol bene, mi vuol male, mi desidera e mi sposa!” E pensavamo ad uno che ci piaceva. Se capitava che ci voleva bene, ci amava, ci desiderava, ci sposava, eravamo tutte contente come quando si fa il solitario con le carte: se viene, siamo contenti. Quando andavamo giù per il campo, trovavamo l’erba d’amore, prendevamo una foglia, la mettevamo su un braccio 207 brancia, la mettèmma ’nté ’n braccio e dicémma coscì: “Erba d’amore sci me vòi be’ fàmme ’n fiore; sci me voi male fàmme ’na piaga che me frìge e che me côce!” Dicédeme la veredà, quanto fumma lusingàde! Sci ci’armanìa l’amprónta, se vede che ce volìa be’: sa comm’èra vero! È como cuèllo che dicìa: “Fô l’amore de nascosto de lìa, perché non vôle la madre!”. Caperài, noà pensàmma a cualchidù’ bello, che cuéllo ’n ce pensàa per gnè’; cuéll’edà lì ’n se capisce gnè’. Capàce fumma su ’n’olmo che fèmma la frónda, vedémma a passà’ uno giù la strada, ié fèmma ’n fischio; cuéllo s’arvoltàa a guardà’, non vidìa a nisciù’: noà drendo all’olmo mude como ’mpésce. Badàa a caminà’, arfèmma ’n’antro fischio e cuello s’arfermàa. Quanno ’n c’era mamma, sa!, scinó non volìa a fa’ ’sti schérsi. Anca quanno gèmma pe’ strada che passàa avanti cualchidù’, guai sci se ridìa: non volìa che ciucciolàm ma piano, perché podìa pensà’ che dicémma male de cuéllo. L’addugazió’ ce le ’mparàa anche quanno magnàmma. Ce dicìa: “Magnàde a bocca chiusa, non sbia sciàde a bocca ropèrta che scinó si vede l’aggéggi dréndo bocca!”. De tante raccomandazió’ calchidùna s’è scancellàda. Sci te vedìa a métte’ ’l dédo ’nté ’l naso, allora sgaggiàa: “Que scàrchi le càmbore? Làvede se recchie scinó ce nasce ’na buga de fàa! Stréccede si capìji: me pari ’na e dicevamo così: “Erba d’amore, se mi vuoi bene fammi un fiore; se mi vuoi male fammi una piaga che mi frigge e che mi cuoce!” Ditemi la verità, quanto eravamo illuse! Se ci rimaneva un’im pronta, si vede che ci voleva bene: sa come era vero! È come quello che dice va: “Faccio l’amore di nascosto da lei, perché non vuole la madre!” Capirai, noi pensavamo a qualcuno bello, men tre quello non ci pensava per niente; a quell’età non si capisce niente. Capitava che eravamo su un olmo a fare la foglia, vedevamo passare uno per la strada, gli facevamo un fischio; quello si rivoltava a guardare, non vedeva nessuno: noi dentro (il foglia me) dell’olmo mute come un pesce. (Quello) badava a camminare, faceva mo un altro fischio e quello si fermava di nuovo. Quando non c’era mamma, sa, se no lei non voleva che facevamo questi scherzi. Anche quando andava mo per strada e qualcuno (ci) passava davanti, guai se si rideva! Non voleva che parlassimo piano, perché (quello) poteva pensare che dicevamo male di lui. L’educazione ce la insegnava anche quando mangiavamo. Ci diceva: “Mangiate a bocca chiusa, non masti cate a bocca aperta che se no si vedono gli aggeggi dentro la bocca!” Di tante raccomandazioni qualcuna si è can cellata. Se ti vedeva mettere il dito nel naso, allora sgridava: “ Che, scarichi le camere? Lavati le orecchie se no ci nasce una buca di fava! Strécciati que sti capelli: mi pari una fascina di rovi 208 fascina de rughi tutta scompiciàda!” C’era una che dicìa: “Non me guardàde che so’ scompïàda, scinó me pètteno tutti i sàbbedi”: Magari è vero! A cuéi tempi l’ansiàne che portàane ’l ciùccio se ’l guastàa ’na ò per settimana, se dèrene ’na rastrellàda dannànse, ce mettìa ’mpettinì’ e via: gèra de moda coscì. tutta scompigliata!” C’era una che diceva: “Non mi guar date che sono scapigliata, se no mi pet tino tutti i sabati”. Magari è vero! A quei tempi le anziane che portavano il ciuccio se lo guastavano una volta per settimana, si davano una rastrellata davanti, ci mettevano un pettinino e via: andava di moda così. 209 L’onóre è ’na gran bella cosa L’onore è una gran bella cosa Cuélla vo’, a forsa da gì a le feste, a le fiere, ai mercàdi, a ballà’, prima o poi le fémmene se sestémàa ’mpo’ tutte ma, quanno c’èra li ragazzi de ’ste sorelle, tutte le sante domennighe mi’ padre e mi’ madre dicìa sempre: “Fjòli, guardàde che l’onore è ’na gran bella cosa!” O l’argiràa da ’na via o l’argiràa da ’n’antra, gìa a sbàtte’ sempre lì. Cuélla vo’ se gèra là la càmbora a ragionà’, prò quann’era la sera e comensàa’mpo’ a’mbrunì’ l’aria, co’ facéa mamma? Piàa la luma e l’appicciàa, te la mettìa lì a lo spìgolo della porta. E lì ’n se sturzàa tanto eh! perché dovìa esse’ birbi ’mbelpò’ pe’ fregàlla a mamma, perché lìa sapìa nigò, sapìa i movimenti, sapìa tutto eh! E dobo po’, quanno sentìa che c’era ’mpo’ de silènsio, passàa oltra lì ’nté ’l corridóre, chiamàa “Artemì’, Gi’, è ora de scappà’, è ora de cena!” Envéce ancó’, capirài, c’era da preparà’ ’l taolì’; prò intànto le venìa mettènno all’erta. E po’, pôrétta, è stada bràa’mbelpò’, sa, dovémma dà’ mente a lia, c’era ’l tempo dobo de fàlle le cose, anzi ce n’era anca troppo. Sci émma comensàdo magari ’mpèzzo prima se fumma stufàdi abbastanza presto. Avéa ragió’ sa, pôretta! Quanno gèmma alla festa e c’era li ragazzi de’ ste sorelle, io volìa caminà’ ’mpo’ alla sveltra, ma lìa dicìa: “Gìmo piano, gìmo piano, le Quella volta, a forza di andare alle feste, alle fiere, ai mercati, a ballare, prima o poi le femmine si sistemava no un po’ tutte ma, quando c’erano i fidanzati delle mie sorelle, tutte le sante domeniche mio padre e mia madre dicevano sempre: “Figlioli, guardate che l’onore è una gran bella cosa!” O la rigi rava da una parte o la rigirava da un’al tra, andava a sbattere sempre lì. A quel tempo si andava nella camera a ragio nare (d’amore), però quando era sera e cominciava un po’ ad imbrunire, che cosa faceva mamma? Prendeva il lume e l’accendeva, te lo metteva lì nell’an golo della porta. E lì non si scherzava tanto eh! Dovevano essere birbi tanto per imbrogliare mamma, perché lei sapeva tutto, capiva i movimenti, immaginava tutto, eh! E poi, se sentiva che c’era un po’ di silenzio, passava lì nel corrido io e chiamava: “Artemisia, Gigia, è ora di uscire, è ora di cena!” Invece anco ra, capirai, c’era da preparare la tavola; però intanto ti veniva avvertendo. E poi, poveretta, è stata molto brava; sa, dove vamo dare retta a lei: ci sarebbe stato in seguito il tempo per farle certe cose, anzi ce ne sarebbe stato anche troppo. Se avessimo magari iniziato un po’ prima, ci saremmo stancati presto. Aveva ragio ne, sa, poveretta! Quando andavamo ad una festa e c’erano i fidanzati delle mie sorelle, io volevo camminare un po’ alla svelta, ma lei diceva: “Andiamo piano, andia mo piano, aspettiamole!” Talvolta nella 210 aspettàmo!” Delle vo’ c’era la strada ’mpo’ curva, allora li ragazzi e le ragazze gèra ’mpo’ più piano, capace che giù de diedro schiacciàa anca ’n bacio, mamma già subbedo s’allarmava, perché era notte. Se stèra sempre scortàdi, sa: era peggio d’adesso quanno c’è ’n carico pesante che ci’ha ’na machina davanti e una de drèdo, scinónca como ’l papa... ’na robba coscì. Era sempre scortàde le fjòle, ’n se mannàa mae sole: gèra a ballà’, la madre era sempre taccàda. Allora, quanno era la sera, se gèra accompagnà’ lo ragazzo finànta a pìa de le scale. Cuélla vo’ pure la gente ’mpo’ maligna c’era, perché tante le ò lassàvi la biscighetta fòri, a qualcù’ ié ce facéa rabbia che venìa a fa’ l’amore lì casa, magari ié facéa ’n dispetto, bugàa la biscighetta... Allora cuél pôro babbo, quann’era ’n tra ’l lume e scùro, pïàa ’sta biscighetta e la mettìa rampinàda lì dréndo le scale. Allora, quann’era ’na cert’óra, lo ragazzo de ’ste sorèlle gèra a pìa de le scale, se gèra a ‘ccompagnà’ no... Ma cuélla pôra mamma, sempre a sède lì ’l camì’, facéa finta che tenìa le ma’ su l’occhi, ma i dedi era larghi.. voja sci vedìa be’ giù pìa de le scale! Le porte dev’èsse’ stade aperte, perché sci chiudìa le porte, mmm.... dobo era càoli amari, eh! Se stèra lajù a pìa de le scale, cualche vo’ anca ’n quarto e lìa caràsciàa ...eeecchè eeecchè eeec- strada c’era una curva, allora i ragazzi e le ragazze andavano un po’ più piano, forse giù dietro (la curva) avrebbe ro potuto darsi anche un bacio, allora mamma subito si metteva in allarme, perché era notte. Si stava sempre con la scorta, sa: era peggio di adesso quando c’è un trasporto eccezionale che ha una macchina davanti ed una di dietro, oppure come il papa…. Una cosa così! Le figlie erano sempre scortate, non si mandavano mai sole: andavano a balla re e la madre era attaccata a loro. Allora, quando era notte, si andava ad accompagnare il fidanzato fino a piedi delle scale. Quella volta c’era pure della gente un po’ cattiva, perché tante le volte se lasciavi la bicicletta fuori, a qualcuno faceva rabbia che (quel ragaz zo) si era fidanzato lì casa, magari face va un dispetto, bucava la bicicletta… Per questo quel povero babbo, quando era sull’imbrunire, prendeva la bicicletta e la metteva arrampicata lì dentro il vano delle scale. Allora, quando era una certa ora, il fidanzato delle mie sorelle anda va in fondo alle scale e si andava ad accompagnarlo, no… Ma quella povera mamma, sempre seduta presso il cami no, fingeva di tenere le mani davanti agli occhi, ma le dita erano larghe… Voglia se vedeva bene giù in fondo alle scale! Le porte dovevano essere lasciate aperte, perché se chiudevano le porte, mmm.… dopo erano cavoli amari, eh! Si rimaneva giù in fondo alle scale, qualche volta anche un quarto, ma lei raschiava con la gola… eeecchè eeecchè eeecchè! Dovevi capire che cos’era quello: 211 chè! Dovìsci capì co’ era cuéllo, era l’avviso, era stufa de ’spettà’, avìa paura de qualcò’. Coscì lì ne combinai poche, perché te vidìa da su casa, anca sci ié volìi da’ ’n bacio...’ste sorelle ne ’l so, ma lo ragazzo mia era sempre sotta l’arme: sci era lì casa embè anch’io sarìa stada como cuèll’altre... Pôretta, po’ sci ce stésci anca dieci minuti o ’n quarto , a lìa parìa ’n’ora: comensàa alsàsse su, mettìa a posto le sedie, studàa ’l fôgo... “Adè studo ’l fôgo eh! Dobo sci hai freddo fa’ como te pare!” Dicìa coscì, tanto t’avvisàa. Sul fôgo tiràa giù ’na mezza cadinèlla d’aqua e giràa, prò a letto ’n ce gìa sa... Giràa da la cucina a la càmbora, dalla càmbora alla cucina e dobo a cuéi pôri disgraziadi ié toccàa a gì via, perché capìa che dèra fastidio. era l’avviso che era stufa di aspettare, che aveva paura che succedesse qualco sa. Così lì ne combinavi poche, perché ti vedeva da casa, anche se gli volevi dare un bacio… Le sorelle mie non lo so…, ma il fidanzato mio era sempre sotto le armi: se fosse stato lì casa, ebbene anch’io sarei stata come le altre… Poveretta! Se ci rimanevi anche dieci minuti o un quarto, a lei pareva un’ora: cominciava ad alzarsi, metteva a posto le sedie, spegneva il fuoco… “Adesso spengo il fuoco eh! Dopo se hai freddo, fa’ come ti pare!” Diceva così, intanto ti avvisava. Sul fuoco tirava una mezza catinella d’acqua e girava, però a letto non ci andava sa... Girava dalla cucina alla camera, dalla camera alla cucina e dopo a quei poveri disgraziati toccava andare via, perché capivano che stava no dando fastidio. Lo sposalizzio de cuélla grànna: Gigia Lo sposalizio di quella grande: Gigia De quanno s’è sposàda, nel ’30, la più granna de ’ste sorelle non m’arcordo de tanto. I’hò portàdo ’l mazzo dei fiori e è stàda la prima ’òlta che so’ montàda ’nté l’èttomobole. M’arcòrdo anca che, quanno magnàmma, iè cascàdo ’n dente, era ’n sopradènte: cuélla vo’ ’l chiamàa coscì. Ce nìa uno sopra l’altro, ’l dentista mango c’era, ’n medigo fèra nigò: barba, capìi e baffi - se dicìa Di quando si è sposata, nel ’30, la più grande delle mie sorelle non mi ricordo tanto. Io le ho portato il mazzo di fiori ed è stata la prima volta che sono salita in un’automobile. Mi ricordo anche che, mentre mangiavamo, le è caduto un dente, era un sopraddente: quella volta lo si chiamava così. Ne aveva uno sopra l’altro, il dentista non c’era, un medico faceva tutto: barba, capelli e baffi – si diceva così. E poi, se ci fosse stato, non 212 Sposi campagnoli: Maria Veschi e Augusto Morbidelli. Ostra, anno 1921 coscì. E po’, sci c’era, n’era fatto pei pôrétti! Ma gèmo annànse! I pranzi se fèra ’nté ’n casa, fumma tanti de parenti, perché prima de lìa, ciaìa n’antre du’ nôre, ’l marido, erane tre fradelli. ’L magnà’ cuélla vo’ era coscì: sarebbe stato fatto per i poveretti! Ma andiamo avanti! I pranzi si facevano in casa, erava mo tanti parenti, perché il marito aveva due fratelli e, prima di lei, (quella fami glia) aveva altre due nuore. Il menù quella volta era così: mine 213 Oggi sposi. Foto fine anni ’30. Da tener presente che il cappellino della sposa e i guanti in pelle dello sposo solitamente non venivano acquistati, ma presi a noleggio. minestra de brodo coi guadrelli de casa, l’allésso co’ le foje (l’ubbiédi, grugni, cuél c’ancuntràa); po’ i maccarù’, l’aròsto co’ l’ansalàda, ’na fetta de ciambelló’. Cuélla vo’ tiràa i confetti como i matti, rompìa anca piatti e bicchieri, e po’ sci c’era i gióveni vedìa ’na stra in brodo con i quadretti fatti in casa, il lesso con verdura (bietole, cico ria, quello che capitava); poi i macche roni, l’arrosto con l’insalata, una fetta di ‘ciambellone’. Quella volta tiravano i confetti come i matti, rompevano anche piat ti e bicchieri, e poi se i giovani vede 214 ragazza bella... poretta lìa! Toccàa a caccià’ la testa sotta al taolì’, scinónca a ’nvuricchiasse la testa co’ la salviétta. Toccàa ’mbelpò’ alla segonda mi’ sorella, che era carina muntubè; Artemisia era ’na bambola, cìa ’na coda che ié pendìa giù pe’ le spalle, tutta riccia co’ ’mbèl fiocco drìa la testa, moretta. Cuélla ce nìa ’mbellipo’ de scardafù’ dentorno. Capiréde: era sul fiore del bel cantà’: quindici’anni! Po’ era stada mannàda a servizio co’ le padrone nostre; magnàa be’, s’era fatta più bella che mae: mango parìa ’na contadina! Finido de magnà’, se saludàa a tutti e via a casa a pìa, ’na ventìna de chilomedri de strada. La màghina de piazza non se podìa badurlà’ mango a magnà’, ce n’era una sola a Montalbò’. Mi’ sorella ha sposàdo col cappelletto e la velétta avanti all’occhi. Io dicìa: “Co’, te sai mascaràda?” E po’ la vèsta color panna e lo spolverì’ nero, ’n boà de golpe sul collo, ié lìa pagàdo la faméja, ma mango’n’arsomèjo ìa polùdo fa’, perché ’l marìdo pròpio cuéll’anno dal fónno piccolo era gìdo ’nté uno ’mbelpò’ più granno e avìa fatto 70 lire de débbedo. Del ’30! pensade vuà. Settanta lire quante era cuélla vo’! C’era chi cìa dieci lire era riccóni. Allora ha fatto alla mèjo. Mamma piagnìa, dicìa: “Quanno se levarà tutto cuél débbedo?” Envéce tre maschi e ’l padre con quattro donne tutte d’accordo, vano una ragazza bella… povera lei! Toccava mettere la testa sotto la tavola, sennò avvolgersi la testa con la salviet ta. Prendevano di mira molto la mia seconda sorella, Artemisia, che era molto carina. Era una bambola, aveva una coda che gli scendeva sulle spalle, tutta riccia, con un bel fiocco dietro la testa, moretta. Quella ne aveva dintorno parecchi di ammiratori. Capirete: era sul fiore del bel cantare: quindici anni! Poi era stata mandata a servizio dalle nostre padrone, mangiava bene, si era fatta più bella che mai: nemmeno sem brava una contadina! Finito di mangiare, si salutava tutti e via a casa a piedi, una ventina di chilometri di strada. L’automobile di piazza non si poteva fermare nep pure a mangiare: ce n’era una sola a Montalboddo. Mia sorella ha sposato con il cappel letto e la veletta davanti agli occhi. Io le dicevo” Cosa, ti sei mascherata?” E poi il vestito color panna, lo spolverino nero, un boa di volpe attorno al collo, che glielo aveva pagato la famiglia (del marito), però neppure una fotografia ha potuto fare, perché proprio quell’an no il marito da un fondo piccolo era andato in uno molto più grande e aveva contratto settanta lire di debito. Del ’30, pensate voi, quante erano settanta lire quella volta! Quelli che avevano dieci lire erano ricconi. Allora ha fatto alla meglio. Mamma piangeva, diceva: “Quando toglierà tutto quel debito?” Invece tre maschi e il padre con quattro donne 215 presto s’è libbràdi. Cuéi tempi chi cìa i maschi era fortunadi. Gigia, la sorella mia, ìa ’ncuntràdo ’nté ’na faméja pôretta, ma ricchi d’onore e umili. La casa l’ha vista cuél giorno c’ha sposàdo per la prima ’olta, ansi è como adè’ che vanne a casa de lo ragazzo dobo otto giorni! Gigia po’ aìa fatto l’amore con due. ’L primo dobo ’n’annàda ha ’nsumbiàdo al padre morto e i’ha ditto: “Va’ sotta cuéll’ulìa, scava e trovarai ’l tesòro!” E perdéro cìa troàdo’n giògo de bòcce d’oro e lu’ è gido an Ameriga a scambiàlle pe’ non fàsse scoprì qua. Lìa confidado solo co’ la madre e mi’ sorella, ma ’sti genidori nostri non ha volùdo sapé’ più gnè, perché pensàa che fusse stada ’na sqùsa e n’arnìa più. Envéce dobo du’ anni è ’rnùdo, ma lìa s’era già maridàda co’ quest’altro. A cuélla sorella lì io la fèra rabbì’, boccàa a’ngattù’ sotta ’l letto (avìa cinque e sei anni), stèra a sentì’ e po’ ’rcontàa a mamma. Ié dicìa: “Zazà ha baciado a Gigia!” Tante le ò capìa i càoli pei ciùffoli, perché parlàane piano, vedìa le mòsse dalle france della cupèrta. Lu’, près se, volìa sapé’ cualchicò... sci ìa baciàdo a cuéllo vecchio, e lìa dicìa “no!” e piagnìa. Allora io ho ardàtto arrèdo e via a mamma: “Zazà ha menàdo a Gigia, piàgne!” Mamma va su: “Que c’è?” E lu’ ié fa: “Gnente, gnente, cose che succède!” Dobo s’è ’ccòrti ch’io li controllàa e me chiamàa “portalòffe”. Me tutte d’accordo, presto si sono liberati. A quei tempi quelli che avevano i maschi erano fortunati. Gigia, mia sorella, era capitata in una famiglia povera, ma ricca d’onore e umile. La casa l’ha vista per la prima volta il giorno che ha spo sato, anzi è come adesso che vanno a casa del fidanzato dopo otto giorni! Gigia, poi, è stata fidanzata con due. Il primo dopo un anno circa ha sogna to il padre morto che gli ha detto: “Va’ sotto quell’oliva, scava e troverai il teso ro!” E davvero vi ha trovato un gioco di bocce d’oro e lui è andato in America per scambiarle e non farsi scoprire qua (in Italia). L’aveva confidato solo con la madre e con mia sorella, ma i nostri genitori non hanno voluto sapere più niente, perché pensavano che fosse stata una scusa e non sarebbe tornato più. Invece, dopo due anni è ritornato, ma lei si era già maritata con quest’altro. Io facevo arrabbiare quella sorella lì: entravo gattoni sotto il letto (avevo cinque sei anni), stavo a sentire e poi raccontavo tutto a mamma. Le dicevo: “Nenè ha baciato Gigia!” Talvolta pren devo cavoli per zufoli, perché parlavano piano: vedevo solo i movimenti dalle frange della coperta. Lui, forse, voleva sapere qualcosa… se aveva baciato il fidanzato di prima, e lei rispondeva “no!” e piangeva. Allora io son torna ta indietro e via da mamma: “Nenè ha menato a Gigia, che piange!” Mamma sale in casa: “Che c’è?” E lui le fa: “Niente niente: cose che capitano!” Dopo si sono accorti che io li con trollavo e mi chiamavano “portalof 216 dovìa da’ ’n calcio como se fa a ’n gatto! Ma “cuél che fai serà ’rfàtto!” Vedi ’mpo’: quanno ’rvenìa a licensa mi’ ragazzo , lo stesso scherso me ’l facìa mi’ nipode. È pròpio vero. Dicìa babbo: “’L pèttene sta sul camì’!” Dittàdi de ’na ò, adè’ non ce se mette più, è gambiàdo nigò, anche ’l pèttene! fe” (“racconta-frottole”). Mi avrebbero dovuto dare un calcio come si fa ad un gatto! Ma “quello che fai, sarà rifatto!”. Vedi un po’: quando ritornava in licen za il mio ragazzo, lo stesso scherzo me lo faceva mio nipote. È proprio vero. Diceva babbo: “Il pettine sta sul cami no!” Proverbi di una volta, adesso non ci si mette più, è cambiato tutto, anche il pettine! Artemisia: bella e sfortunàda Artemisia: bella e sfortunata La segonda sorella, Artemisia, era pròpio bella, ma ’mpo’ sfortunada su l’amore. ’L primo l’ha conosciùdo a 15 anni, ma mamma non volìa perché era ’n garzó’ de ’n contadì’ vicino a noà, ma stèra tanto da lóngo, al Poggio de San Marcello. A cuéi tempi parìa che fusse all’estro, envéce lui gèra avanti e diedro co’ la biscighetta. È stadi ’sieme guasci du’ anni, e ’sti genidóri ha domannàdo le ’nformazió’ de la faméja e non era tante bòne: ce vôle troppo tempo a ’rcontàlle. Lu’ era bravissimo, ma l’ha fatto lassà’ gi’ listésso. Lìa ha pianto tanto, ma cuélla vo’ toccàa a sta’ a sentì’ i genidóri. Dobo pògo s’è fidansàda co’ n’antro, ma cuéllo non gèra, era bugiardo. E po’ anca n’antro, anca cuéllo l’ha spedìdo dobo poche feste. Ha ’ncuntrado che me so’ cresimàda io, m’avìa regalàdo ’no scudo: pensàde La seconda sorella, Artemisia, era proprio bella, ma un po’ sfortunata in amore. Il primo ragazzo l’ha conosciu to a quindici anni, ma mamma non voleva, perché era il garzone di un con tadino vicino a noi, ma abitava tanto lontano: a Poggio San Marcello. A quei tempi pareva che fosse all’estero, inve ce lui andava avanti e indietro con la bicicletta. Sono stati insieme quasi due anni; i nostri genitori hanno chiesto informazioni sulla famiglia e non erano tanto buone: ci vorrebbe troppo tempo a raccontarle. Lui era bravissimo, ma (i genitori) gliel’hanno fatto lasciar anda re ugualmente. Lei ha pianto tanto, ma quella volta bisognava stare a sentire i genitori. Poco dopo s’è fidanzata con un altro, ma quello non andava bene, era bugiardo. E poi anche un altro; anche quello l’ha spedito dopo poche feste. (In quel periodo) è capitato che mi sono cre simata io, mi aveva regalato uno scudo: 217 vuà del ’29! Era soldóni, ma dobo pogo ’n ce l’ha volùdo più perché la terza e quarta festa volìa fa’ cuéllo che dicìa lu’. “Gnente... via... stamo ognuno a casa nostra!” Dobo, ’l quarto, era ’n contadì’ nòvo, ce s’è messi bembè’ e con cuéllo s’è sposàda; co’ la guerra dell’Àfriga se scrivìa. Anca a Artemì’ io la fèra rabbì’: ié leggìa le léttre e po’ ’rcontàa a mamma. ’L sapéde anca lì que m’è successo? Quanno scrivìa mi’ ragazzo a me, quanno ’ncontràa mi’ fradello in licensa, pïàa le léttre, le sbollàa e le leggìa a presensa de mamma, ché lìa era nalfabéda. Éde capido? “Fa’ del be’ scòrdede, fa’ del male pènsece!”: m’è ’rvenùde tutte a galla. Prò sapede que ha fatto babbo? È gido a Montalbò, ha compràdo ’na seradùra e m’ha fatto ’nchiavà’ la cassetta, perché dicìa: “Questo non va be’, L’amore se fa in due!” Lu’ era più comprensìvo de tutti, mi’ fradello era cuéllo che m’ha fatto sempre rabbì’, e lu’ ridìa dobo, me pïàa sempre in giro. Prò, sci ci’arpènso a cuél che facìo a ’ste sorelle, m’accòrgio ch’era ’gnorante anch’io. Va be’ che non capìo, ma finànta a lìtta, me ci’ariàa. pensate voi del ’29! Erano soldoni, ma poco dopo non ce l’ha voluto più, perché la terza o quarta festa voleva fare quello che diceva lui. “Niente… via! Ognuno a casa nostra!” Il quarto era un contadino nuovo, ci si sono messi perbene e con quello s’è sposata; durante la guerra d’Afri ca si scrivevano. Io facevo arrabbiare anche Artemisia: leggevo le sue lettere e poi lo raccontavo a mamma. Sapete che cosa m’è successo anche in questo caso? Quando mi scriveva il fidanzato ed incontrava che mio fratello era in licenza, prendeva le lettere, le apriva e le leggeva in presenza di mamma, perché lei era analfabeta. Avete capito? “Fa’ del bene scordati, fa’ del male pensaci!”: mi sono ritornate tutte a galla. Però, sapete che cosa ha fatto babbo? È andato a Montalboddo, ha comprato una serratura e m’ha fatto inchiavare la cassetta, perché diceva: “Questo non va bene: l’amore si fa in due!” Lui era più comprensivo di tutti, invece mio fratello era quello che mi ha fatto sempre arrab biare, e lui dopo ci rideva, mi prendeva sempre in giro. Però, se ripenso a quello che facevo alle mie sorelle, mi accorgo che ero ignorante anch’io. Va bene che non capivo, ma fino a lì ci arrivavo. Ìnese:’na bella mòra! Ines: una bella mora! Co’ Ìnese, la penultima, fumma più dal paro: solo tre anni de diferènsa. Cuélla s’è messa co’ uno e cuéllo l’ha sposàdo, prò de contro genio, Con Ines, la penultima, eravamo più alla pari: solo tre anni di differenza. Lei si è fidanzata con uno e quello ha spo 218 non ne ’l volìa. Anca cuélla era ’na bella mora; quanno gèmma in giro, la gioventù dicìa sempre cualchicò. L’òmmini era ’mpo’ più stronsétti che questi d’adè’, parìa rabbìdi de fame quanno vidìa ’na donna; adè’ ’n se fréga pe’ gnè. Io gèra sempre assieme, cominciàa a guardà’ anca a me, ma Ìnese era più madùra. Dobo s’è fatta ’sto ragazzo, i’hà datto qualca parola bòna e non se l’ha spicciàdo più dentorno. Ha preso anca du’ schiaffi da ’n’antro, perché parìa che tenìa i pìa ’nté du’ staffe. Cuésto chì ìa messo lo roffià’ che, pe’ pïà’ ’na camicia o ’n cappello, i’hà ditto a ’sto ragazzo: “Vedrai che ié la famo a convertìlla!” Envéce Ìnese non s’è libbràda più dal primo, che i’hà ditto: “Ho giurado avanti a ’na chiesa: sci me sposa be’, scinó l’ammàzzo!” Cuélla vo’ se giogàa la gioventù, pe’ ’na ragazza: che scémi! Ne ’l so sci ve l’ho ’rcontàdo ’n’antra vo’: chi era forte domannàa le ragazze, chi era vergognosi ié fèra le dichiarazió’ pe’ léttra, cuélli pròpio adrìa mettìa lo roffià’ e dobo ’l portàa lì casa tutto bello sbarbàdo, capii tajàdi, co’ tanto de gravàtta, scarpe ’rlùstre. Le madre preparàa la cena, li mannàa mezz’ora là ’nté la càmbora, e lì sci se piacìa be’, scinó se dicìa “t’ardò risposta!” Era giorni ’mpo’ pîni d’ansia, cualchidù’ facìa compasció’, pôretti! Sci ìsci fatta bocca bòna, armanìa sato, però controvoglia, non lo voleva. Anche lei era una bella mora; quando andavamo in giro, i giovani dicevano sempre qualcosa. Gli uomini erano un po’ più audaci di quelli di adesso, sem bravano rabbiosi per la fame, quando vedevano una donna; adesso non gli importa niente. Io andavo sempre insie me, cominciavano a guardare anche me, ma Ines era più matura. Dopo si è fatta quel ragazzo, gli ha dato qualche parola buona e non se l’ha spiccicato più din torno. Ha preso anche due schiaffi da un altro, perché pareva che tenesse i piedi in due staffe. Questo qui aveva messo il ruffiano che, per una camicia o un cap pello, gli aveva detto a questo ragazzo: “Vedrai, Francé’, che gliela facciamo a convertirla!” Invece Ines non s’è libera ta più del primo, che le aveva detto: “Ho giurato davanti ad una chiesa: se mi sposa bene, sennò l’ammazzo!” A quei tempi ci si giocava la gioventù per una ragazza: che scemi! Non lo so se ve l’ho raccontato un’al tra volta: chi era coraggioso domandava le ragazze, chi era timido le faceva le dichiarazioni per lettera, quelli proprio indietro mettevano il ruffiano, che dopo portava (il giovane) lì casa, tutto bello sbarbato, capelli tagliati, con tanto di cravatta, scarpe lucide. La madre pre parava la cena, li mandava mezz’ora là nella camera e lì, se piaceva alla ragazza, bene, se no si diceva: “Ti darò risposta!” Erano giorni un po’ pieni d’ansia, qualcuno faceva compassione, poveretto! Se aveva fatto bocca buona, rimaneva amara. Le ragazze, che aspet 219 amara. Le ragazze che spettàa lì casa se facìa véde’ a rigamà’ o fa ’l merlétto, ’l giornì’, cuce i linsòli, no co’ le ma’ ’nté le saccò’. Fa rìde’ arcontàllo! Adè’ basta che sia bràe a fa’ l’amore! Envéce, ’na ò, dovìsci fa l’uno e l’altro! Adè’ ’l marìdo ha da fa’ da magnà’, lavà’ i piatti, ’rfàsse ’l letto, gì’ a fa’ spésa e tante altre cosétte, scinó arvànne a casa della madre: non i’hài da luccà’, scinó te tira cuél che ci’hà su le ma’. Sci sgàggi, alsa la voce de più, envéce dovrìa èsse’ mùdole ché ’l prede dice cuél giorno che sposa: “La moje dée èsse’ sottomessa dal marido!” C’è la paridà? Cuélla paròla bisogna che la scancèlla! tavano a casa, si facevano vedere a rica mare o a fare il merletto, il giornino, a cucire le lenzuola, non (stavano) con le mani nelle tasche. A raccontarlo fa ride re! Adesso basta che (le ragazze) siano brave a fare l’amore! Invece, una volta, dovevi fare l’uno e l’altro! Oggi il marito deve preparare da mangiare, lavare i piatti, riordinare il letto, andare a fare la spesa e tante altre piccole faccende, sennò (le spose) ritor nano a casa della madre: non devi gri dare, se no ti tira quello che ha in mano. Se gridi, (la donna) grida di più, invece dovrebbe essere muta, perché il giorno del matrimonio il prete dice: “La moglie deve restare sottomessa al marito!” C’è la parità? Quella parola bisogna cancel larla! Piagnistèi e musi lónghi Piagnistei e musi lunghi “Marìdo a chi tròa, moje a chi tocca!” Dicìa be’ ’l dittàdo de ’na ò, prò vorrìa sapé’ como fèra ’na bardàscia a troà’ marido, sci stèra sempre sott’al cri’. Ancó’ se dovìa finì’ ’l calassàro vecchio, ’l nòo non dovìa mango comparì’! Sapésta vuà como è brutto a èsse’ l’ultimi del branco! Io ce ’l so, perché ce so’ passàda, me parìa che n’era calcolàda gnè’, envéce n’era vero. ’Sti genidóri nostri èrane giusti e bòni, comprensìi, volìa be’ a tutti uguale, ma io, finànta stèra sott’al crì’ non capìo. Coscì so’ doventàda trista, perché “Marito a chi trova, moglie a chi tocca!” Diceva bene il detto di una volta, però vorrei sapere come faceva una ragazza a trovare marito, se stava sempre sotto al ‘crino’. Ancora si doveva finire la catasta vecchia, la nuova non doveva nemmeno esser notata. Sapeste voi come è brutto essere gli ultimi del branco! Io lo so, perché ci sono passa ta, mi pareva di non essere calcolata per niente, invece non era vero. I nostri genitori erano giusti e buoni, compren sivi, volevano bene a tutti ugualmente, ma io, fino a che stavo sotto il ‘crino’, non lo capivo. Così sono diventata cat 220 per me ’n c’era mae gnè’: piagnistèi, musi lónghi quannno volìa gi’ drèdo a lóra, alle sorelle più granni, e n’era possìbole. Cuànta pacènzia, cuélla pôra mamma! Ma non me menàa sa: me piàa co’ le bòne. Tutti i venardì che gèra a Montalbò’, anca le fiere, arvenìa a casa sempre càrca co’ la canè’ sulla testa e la spara sotta pe’ no’ sfonnà’ ’l cervèllo. Sempre a pìa, io la gèra ancontrà’, quanno la vedìa da lóngo mezzo chilomedro; aiudàa a portà’ la canè’: la calàva giù da su la testa, e pïàmma una per parte ’nté le mànnighe, finànta che n’era rivàda drendo casa. Era bòna, calma, ma quanno comensàa a tirà’ fòra la robba, sentìa che dicìa: “Cuésta è per Gigia, cuésta è per Artemisia, pe’ Tizio, Caio e Simbròjo, e per me mae niè’, perché me passàa la robba che n’era bòna a cuélli più granni, allora io doventàa trista, trista ’mbelpo’. Sa, non me la podìa fa’ a me: quanno n’era più bòna a chi la dèra? Per me la comédàa ’ste sorelle. Io che vidìa le mighe mia, una era fija ùniga, ’n’antra avìa solo ’n fradèllo, me rodèa drendo a ’n podé èsse’ dal paro… Prò era poghe le faméje che cìa poghi fjòli, era tutte numberóse, adrittùra ’na faméja , ié dicìa Girinó, ciaìa diciotto fiòi: era como ’na coàda de pulcì’. A cuélli non ié fèra mango pagà’ le tasse. Scì, ma sett’òtto fémmene, anca de più, da maridàlle era como avécce tante cambiàle. Ne ’l so, poèsse che ié convenìa a pagà’ le tasse! Prò cuélla tiva, perché per me non c’era mai nien te: piagnistei, musi lunghi, quando volevo andare dietro a loro, alle sorelle più grandi, e non era possibile. Quanta pazienza quella povera mamma! Ma non mi menava sa: mi prendeva con le buone. Tutti i venerdì che andava a Montalboddo, anche alle fiere, ritorna va a casa sempre carica con la cane stra sulla testa e la ‘spara’ sotto per non sfondare il cervello. Sempre a piedi, io le andavo incontro, quando la vedevo lontana mezzo chilometro, l’aiutavo a portare la canestra: la tirava giù dalla testa e la prendevamo per i manici una per parte, fino a quando non eravamo arrivate dentro casa. Ero buona, calma, ma quando cominciava a tirare fuori la roba, sentivo che diceva: “Questa è per Gigia, questa è per Artemisia, per Tizio, Caio e Sempronio, e per me mai niente, perché mi passava la roba che non era più buona a quelli più grandi, allora io diventavo cattiva, molto cattiva. Sa, non me la poteva fare per me: quando non mi era più buona, a chi la dava? Per me l’adattavano le mie sorelle. A me, che vedevo le amiche mie, una era figlia unica, un’altra aveva solo un fra tello, rodeva dentro a non poter essere alla pari (con loro). Però erano poche le famiglie che ave vano pochi figli, erano tutte numerose, addirittura una famiglia, gli si diceva ‘Girinó’, aveva diciotto figli: era come una covata di pulcini. A quelli non gli faceva neppure pagare le tasse. Sì, ma sette otto femmine, anche di più, da 221 vo’ c’era cuél clima lì. C’era uno che ìa pïàdo móje e non ce magnàa ’l pa’. I’hà ditto n’amìgo: “Règolede, màgnece ’l pa’!” Cuéllo sapéde que ià rispòsto? “Chì ce so’ nàdo e chì ce vojo morì’!” Era doventàdo secco como ’no spì’… “Dàje ’mpo’, tre anni tre fjòli: sci continui alluscì, fai la scuàdra del palló’ presto!” ’N’antro cìa ’l passo da lóngo dalla provinciale ’na quinnicìna venti mèdri, dicìa che volìa métteli in fila 4x4 finànta da cima… No ié l’ha fatta, perché è morto! Ié n’ha fatti fa’ uno all’anno e, quanno li portàa a battizzà, ié dicìa: “Arivedérci a ’n’antr’ànno, sor curàdo!” El curàdo era tutto contento, intanto lu’ venìa pïànno, no? Tutti ié dà cualchicò! Quanno è morto, pôrétto, n’ha mantenùdo la promessa. Allora como ve l’ardìgo che a nàsce’ ultimi della coàda è ’mpo’ dura la fascènna, dobo se dovènta tristi coi genidóri, pare che sia falsi, envéce n’è vero: ié ’l fèra fa’ ’l bisogno! Donca, finànta che stèra sott’al crì’ ’l mónno ’n me parìa giusto, guàsci tutti ciàìa più de me: a pensà’ che envéce io cìa ’na faméja de cuèlle mèjo e podìa anca contentàmme. Prò me so’ ’ccòrta dobo, troppo tardi. Almànco sott’al crì’ se respiràa, i vénghi è ràdi… Dobo so’ gìda a finì’ sotta la prèda del molì’, che m’ha scrocciolàdo bembè. maritare era come avere tante cambia li. Non lo so, forse gli conveniva paga re le tasse! Però quella volta c’era quel clima lì. C’era uno che aveva preso moglie e non ci mangiava il pane. Gli ha detto un amico: “Regolati, mangiaci il pane!” Sapete che cosa gli ha risposto quello? “Qui ci sono nato e qui ci voglio morire!” Era diventato secco come uno spino… “Dagli un po’, tre anni tre figli: se continui così, fai presto la squadra di pallone!” Un altro, che aveva il passo (di casa) lontano una quindicina venti metri dalla provinciale, diceva che voleva metterli in fila quattro per quattro fino in cima (al passo)… Non gliel’ha fatta, perché è morto. Gliene ha fatti fare uno all’anno e, quando li portava a battez zare, gli diceva: “Arrivederci al prossi mo anno, sor curato!” Il curato era tutto contento, intanto lui veniva prendendo, no? Tutti gli danno qualcosa! Quando è morto, poveretto, non ha mantenuto la promessa. Allora, ve lo dico di nuovo, è un po’ dura la faccenda a nascere ultimi della covata, dopo si diventa cattivi con i genitori, pare che siano falsi, invece non è vero: glielo faceva fare il bisogno! Dunque, fino a quando stavo sotto il crino, il mondo non mi pareva giusto, quasi tutti avevano più di me: a pen sare che, invece, io avevo una famiglia di quelle migliori e avrei potuto anche accontentarmi. Però mi sono accorta troppo tardi. Almeno sotto il ‘crino’ si respirava, i vimini sono radi… Dopo sono andata a finire sotto la (macina) di pietra del molino, che mi ha rotto le ossa perbene. 222 P arte S econda Affogàda a vent’anni Sgappàda dal crì’ e sposàda Uscita dal ‘crino’ e sposata Po’ io so’ sgappàda dal crì’, propio sulla crisi de nigò. Nel novembre del ’40 ha sposàdo la tèrsa de ’ste sorelle e so’ venùda fòri io propio sul colmo del peggio: cuél musolìni avìa volsùdo fa’ la guèra! Ciaìa otto milioni di baionétte, tutti gioànotti da mannà’ a morì’ mazzàdi. N’era mèjo che li lassàa a fa’ i contadì’? ’Ntanto io nel novembre del ’43 già ìa sposàdo. Ìa conosciudo ’sto ragazzo ’nté l’arsomèjo, ce semo scritti per un po’ de mesi sensa sapé’ chi era. Lu’ a me mìa conosciùdo a Montalbò’ ’nté ’na licensa - me spiegàa. Ma tanto io non sapìa chi era, perché ’sti sgarzettóni ce n’era tanti che te scrivìa, che te venìa a bussà’ ’nté ’na spalla. E po’, quanno sgappàsci a ’na festa, ’na fiera, ’n mercàdo c’è n’era sempre du’ tre che te venìa dimandà’, a chiede’ amore, a fa’ dichiarazió’. Cuélli che ’n cìa ’l coraggio, scrivìa. Io era ’rivàda abbastànsa, già diciott’anni cominciàa a èsse’ ora a troà’ marido. Che scemi! Como fumma adrìa, come le ròde del rimorchio! Bisognàa per vent’anni esse’ sistemada, scinò podìsci ’rmàne’ zitèlla... e n’era mejo? Dicìa i genidori: “È mejo ’n tristo marido che ’n bòn fradello!” Sarà anca vero, perché le giódeghe non era calcolàde gnè… ma anca a ’ffogàsse a vent’anni! Poi io sono uscita dal ‘crino’, proprio sulla crisi di ogni cosa. Nel novembre del ’40 ha sposato la terza delle mie sorelle e sono venuta fuori io, proprio sul colmo del peggio: quel mussolini aveva voluto fare la guerra! Aveva otto milioni di baionette, tutti giovanotti da mandare a morire ammazzati. Non sarebbe stato meglio, se li avesse lasciati a fare i contadini? Intanto io nel novembre del ’43 avevo sposato. Ho conosciuto questo ragazzo nella fotografia, ci siamo scritti per un po’ di mesi senza sapere chi era. Lui mi aveva conosciuto a Montalboddo, durante una licenza – mi spiegava. Ma tanto io non sapevo chi era, perché ce n’erano tanti di giovanotti spavaldi che ti scrivevano, ti venivano a bussare su una spalla. E poi, quando andavi ad una festa, una fiera, un mercato ce n’erano sempre due o tre che ti venivano a domandare, a chiedere amore, a fare una dichiarazione. Quelli che non ne avevano il coraggio scrivevano. Io ero arrivata abbastanza, già a diciotto cominciava ad essere ora di trovare marito. Che scemi! Come eravamo indietro, come le ruote del rimorchio! A vent’anni bisognava essersi sistemati, se no potevi rimanere zitella… E non sarebbe stato meglio? Dicevano i genitori: “È meglio un cattivo marito che un buon fratello!” Sarà anche vero, perché le nubili non erano calcolate niente… ma anche affogarsi a vent’anni! 225 Vacche moje e bùa al paese tua Vacche, moglie e buoi al paese tuo “Vacche, moje e bùa pìlli al paese tua”. Se dicìa coscì, almànco se scoprìa i defètti. C’era cualchidù’ che pïàa ’na stragniéra, cuélli che podìa, e gèra sempre angìro. Cuélla que fèra? ’L pelàa bembè’, ce fèra ’n fjòlo e po’ argèra a casa sua: portàa via la razza dell’Italia. Dicìa ch’èra più calli, io non posso giudigà’ perché ho conosciudo solo uno, prò dìcene coscì le stragniére! Ma tanto cuélli più granni de noà dicìa: “Gesù Cristo ha alsàdo la scura e l’ha fatte tutte ’na misura!” E allora perché sa da gi’ a pïà’ moje e marìdo stragniéri, quanno le cose sta coscì? Adè’ le scéjene come le vôle, prò dobo armàne a bocca ’sciucca. Sci uno n’è venudo su da monèllo co’ l’intensió’ de fadigà’, n’ampàra più, pe’ fa’ ’na facènna ce pìcchia ’mbelpò’. ’Na ò se dicìa: “Quanto ce pìcchi, quanto mammeda t’ha fatto?” Toccàa a fàlla de prèscia e falla be’. Prò “ ’l presto e ’l be’ n’è stado mae assié’!” Te dicìa: “ ’Sta giuggiolóna o giuggioló’ pilìcchia pilìcchia e gn’arièsce gnè!” Io da parte mia non me lo ’ntéso a di’ mae, ma que ne so sci sotta sotta me l’hanne ditto! Perché ’sti genidóri a noà ci’hà ’mparàdo che le facènne se dovìa fa’ bembè. Dicìa: “Dobo a fàlle malamente se ’mpàra sùbbedo!” Ìa ragió’. Presémpio, quanno ’rfèmma ’l letto, ’n ce dovìa ’rmàne ’na gric- “Vacche, moglie e buoi prendili al paese tuo”. Si diceva così, almeno si scoprivano i difetti. Qualcuno prendeva una straniera, quelli che potevano, e andavano sempre in giro. Quella che faceva? Lo pelava perbene, ci faceva un figlio e poi ritornava a casa sua: portava via la razza dell’Italia. Diceva che (gli Italiani) erano più caldi; io non posso giudicare perché ne ho conosciuto solo uno, però le straniere dicono così. Ma tanto quelli più grandi di noi dicevano: “Gesù Cristo ha alzato la scure e l’ha fatte tutte di una misura!” E, allora, perché si deve andare a prendere moglie e marito stranieri, quando le cose stanno così? Adesso le scelgono (le mogli) come vogliono, però dopo rimangono a bocca asciutta. Se uno non è venuto su da monello con l’intenzione di faticare, non impara più: per fare una faccenda ci mette molto. Una volta si diceva: Quanto ci metti, il tempo che ci ha messo a farti tua madre?” Toccava a farla alla svelta (una faccenda) e farla bene. Però “il presto e il bene non sono mai stati insieme!” Ti dicevano: “Questa giuggiolona o giuggiolone cincischia cincischia e non gli riesce niente!” Per quanto mi riguarda non me lo sono sentito mai a dire, ma che ne so se sotto sotto me l’hanno detto! Perché i genitori a noi ci hanno insegnato che le faccende si dovevano fare perbene. Dicevano: “Dopo a farle male si impara subito!” Avevano ragione. Per esempio, quando rifacevamo il letto, 226 cia, quanno spazzàmma per terra se dovìa caccià’ la pónta de la scopa ’nté tutte le scorfìne dei madù’, quanno stiràmma i pàgni... guai ’na pìga, quanno s’arconciàa sempre col filo uguale, se cucìa co’ la maghina se dovìa fa’ la righétta dritta, quanno se taccàa le pèzze ’nté i linsòli dovìsci fa’ i punti sottile sotta le toppe; ’nté le calse dell’omini, sìa stade tajàde be’ o guadràde o rettàngole sci vedìa i punti del filo ’mpo’ lónghi, ci dicìa: “Ma que séde, pènce?” I punti de fòri non sìa da véde’, sci se vedìa dovìa èsse’ stadi tutti la stessa dimensió’, scinó cighettàa o ce la fèra sqùce. C’era la severidà e appòsta s’amparàa a fadigà’ be’. Envéce i contadì’ grossi bastàa che rumàa giuppe ’l campo e dobo, quanno sposàa a uno che cìa ’l fónno piccolo, all’inverno c’era pogo da fa’ e stèra co’ le ma’ ’nté le ma’. Fèra brutto a véde’ ’na donna sensa fa’ gnè. E babbo dicìa: “Émo dàtto via ’l vi’ bòno, émo pïàdo l’acédo!” Cuélla vo’ era luscì. Adè’ basta che sa fa’ l’amore: cuélla s’ampàra fàciole! E po’ i capìi comedàdi, l’ógnia vernigiàde, le ma’ belle mòrbede, tutte stuccàde ’nté ’l muso, la bócca ’na ò viola ’na ò róscia ’na ò blu, ’nté i capìi ce méttene ’n grasso. ’L sapéde? So anca ’na cansó’, che dice coscì: Le donne d’oggi giorno al posto del cervello ci mettono la crusca o ’l grasso de gamèllo non ci doveva rimanere una grinza; quando spazzavamo per terra si doveva ficcare la punta della scopa in tuttie le crepe tra un mattone e l’altro; quando stiravamo i vestiti… guai a una piega; quando si ricuciva sempre con il filo uguale; se si cuciva con la macchina si doveva fare la righetta dritta; quando si cucivano le pezze nelle lenzuola, dovevi fare i punti sottili sotto le toppe; i pantaloni degli uomini dovevano essere tagliati bene o quadrati o rettangolari e se vedeva i punti del filo un po’ lunghi, (mamma) ci diceva: “Ma che, siete imbranate?!?” I punti non si dovevano vedere da fuori; se si vedevano, dovevano essere tutti della stessa dimensione, se no cicchettava o ce li faceva scucire. C’era la severità e apposta si imparava a lavorare bene. Invece per i contadini grossi bastava che (le donne) lavorassero per il campo e dopo, quando sposavano uno che aveva il fondo piccolo, all’inverno c’era poco da fare e stavano con le mani in mano. Faceva brutto vedere una donna senza far niente. E babbo diceva: “Abbiamo dato via il vino buono, abbiamo preso l’aceto!” Quella volta era così. Adesso basta che (una donna) sappia fare l’amore: questo si impara facilmente! E poi i capelli ben sistemati, le unghie verniciate, le mani belle morbide, tutte truccate sul muso, la bocca una volta viola una volta rossa una volta blu, nei capelli ci mettono il grasso. Lo sapete? So anche una canzone che dice così: “Le donne d’oggi giorno al posto del cervello 227 in modo che la permanènte pian piano sparirà coscì vedrem la moda di cent’anni fa. ci mettono la crusca o ’l grasso de gamèllo in modo che la permanènte pian piano sparirà così vedrem la moda di cent’anni fa. La moda più curiosa son propio i zoccoloni che portan le ragazze in tutte le stagioni, non solo le ragazze ma le zitèlle ancor non guarda più il decòr non guarda più il pudor. La moda più curiosa son proprio gli zoccoloni che portan le ragazze in tutte le stagioni, non solo le ragazze ma le zitelle ancor non guarda più il decòr non guarda più il pudor. ’N’antra moda bella è adè’ la minigonna te fa véde’ le gambe fina a la vergogna, per fa’ véde le cosce e ancor ’mpo’ più su in modo che la sposi e non la lasci più. Un’altra moda bella è adè’ la minigonna te fa veder le gambe fina a la vergogna, per far veder le cosce e ancor un po’ più su in modo che la sposi e non la lasci più. Io le scrìo ’ste cose, perché m’arcòrdo, e le penso, ma non è che le crìdigo sapé! Perché anca io era ’mbizïósa e perché non se podìa fa’ scinó oste sci m’arìa piaciùdo! Truccàde ènne ’mbelpò’ più belle, solo che s’armàne male, quanno se àlsane alla madìna, fa ’mbrutto véde’, prò ’nté quattro quattr’otto s’aggiùsta sùbbedo, ce méttene ’l tempo, la ròbba pronta, pàrtene per gi’ a scòla o fadigà’. La casa armàne luscì: lètti ’rguàsti e que i fa? Se dicìa ’na ò: “Vèstidi alla moda tajolì’: tutta bròda”. Adè’ sci vai a véde’, ’nté le càmbore della gioventù, ’l muro, non Io le scrivo queste cose, perché mi ricordo e le penso, ma non è che le critico, sapete! Perché anch’io ero ambiziosa e perché non si poteva fare, se no, oste se mi sarebbe piaciuto! (Le donne) truccate sono molto più belle, solo che ci si rimane male, quando si alzano la mattina, fanno un brutto vedére, però in quattro quattr’otto si aggiustano subito, ci mettono il tempo, la roba pronta, partono per andare a scuola o a faticare. La casa rimane così: letti disfatti e che cosa importa? Si diceva una volta: “Vèstiti alla moda ‘tajolini”: tutta broda!” Adesso, se vai a vedere il muro, nelle camere della gioventù, non ce n’è un 228 ce n’è ’mpezzo de muro scupèrto, tutti pezzi de giornàli de cuéi cantanti proféridi, capijù’, bóccole ’nté le recchie, ’ntè ’l naso, tattuàggi dappertutto, anca... ’n tra momenti ’l digo! No è! Basta che sbràida ’na cansó’ che n’è italiana...tutta mùsega alta, che se sente da lóngo du’ chilomedri. Salta e balla, pare ’mmattìdi, solo che ’nté ’l muro non c’è mango ’n chiodo pe’ tacca’ ’n santo: questa è veredà! Càmpane uguale, anca sci non va alla Messa. Dicìa babbo mia: “Campa ’l lepre che ’n ce va mae!” Artòrno a di’ de ’sti cantanti: quanto me piace a me cuélle cansó’ vecchie, ditte in italiano! Noà che n’émo studiato almànco capìmo anca sci te mànna ’nté cuél paese: li stragniéri, ossia le cansó’ de lóra sbraidàda non capìmo niè’. Eh, da settant’anni a ’sta parte ’l popolo como è gido annànse, tutte ’ste scòle como c’è adè’, ce fusse stade a tempo mia, averìa fatto i salti mortàli per podécce gi’, envéce c’era cuélle poghe classe, era fatte pei maschi e per cuélli che podìa. Va be’ che la tersa de cuélla vo’ valìa como le medie d’adè’. Eh scì perché io vedo a questi d’adè’, io ié digo: “Famme ’sto conto, co’ la mente como fô io”. Non me ’l fa, pïa cuél… ’na spece de cassetta, calsa i bottù’ e vène fòra ’l conto che io già l’ho fatto co’ la mente. Io ié digo: “Ma coscì s’ancéppa ’l cervello! Cristo ce l’ha messo pe’ dopràllo sa, no pe’ spartì’ le recchie! pezzo scoperto, tutti ritagli di giornali di quei cantanti preferiti, capelloni, boccole nelle orecchie, nel naso, tatuaggi dappertutto, anche… quasi quasi lo dico! No è! Basta che sbraita una canzone che non è italiana… Tutta musica ad alto volume che si sente lontano due chilometri. Saltano e ballano, sembrano ammattiti, solo che nel muro non c’è neppure un chiodo per attaccare un santo: questa è verità! Campano ugualmente, anche se non vanno alla Messa. Diceva il mio babbo: “Campa il lepre che non ci va mai!” Ritorno a parlare di questi cantanti: quanto mi piacciono quelle canzoni vecchie, dette in italiano! Noi che non abbiamo studiato almeno capiamo, anche se ti mandano a quel paese: gli stranieri, ossia delle canzoni sbraitate da loro, non ci capiamo niente. Eh, da settant’anni a questa parte come è andato avanti il popolo! Ci fossero state al tempo mio tutte queste scuole come ci sono adesso, avrei fatto i salti mortali per poterci andare! Invece c’erano quelle poche classi, erano fatte per i maschi e per quelli che potevano. Va bene che la terza di quella volta valeva come le medie di adesso! E sì, perché io vedo questi di adesso, gli dico: “Fammi questo conto, con la mente come faccio io”. Non me lo fa, prende quella specie di cassetta, spinge i bottoni e viene fuori il conto che io ho già fatto con la mente. Io gli dico: “Ma così s’inceppa il cervello! Cristo ce l’ha messo per adoperarlo sa, non per spartire le orecchie!”. 229 Le dichiarazió’ d’amore Le dichiarazioni d’amore Adè sapede quo ’nteso su te la televisió’? Arvà de moda a scrìve’ le dichiarazió’ d’amore, per cuélli che ’n ci’hà ’l coraggio a domannà’ ’na donna. A cuéi tempi le léttre venìa tutte censurate, como ho ditto altre vo’; prima de leggele noà, passàa ’nté le ma’ dei asperti: con cualchiduna ci’averà riso de siguro, ma per forsa toccàa a sta’ lì, non fumma sole a riceve’ le léttre aperte. Io me n’arcordo cualchiduna de cuélle che scrivéa a me; m’è ’rmàste a mènte, prò, solo cuélle ridìgole e cuélle sentimentali. Ce n’era cualchiduno che scrivìa be’, ma ’nté cuàlca léttra c’era propio da ride’: scrivìa guasci como ’n monello che ìa fatto la prima elementare, volìa sprime’ cuéllo che gli dettàa ’l côre. In calegrafìa tanto tanto passàa, ma mancàa le sìlibe o ce ne mettìa due ’ndó non ce le volìa, como sto facendo io adè: pe’ scrive’ in dialetto so’ tutta fòri fase. Non m’arcordo cuélle silibe che ce sa da mette; montebè’ de vo’ me fermo a scrive’, perché non m’arcordo. Adesso ne scrivo una de cuélle dichiarazió’ che m’hanne scritto a me. Allora: Gentilissima signorina, te scrivo queste righe per ditte sci te vôi mette’ a fa’ la more commé. Homparado dalla cente che brodèsso nté ciàmpìsci, ma io spetto anche n’anno, basta che me dighi de sci. Adesso, sapete, che cosa ho sentito alla televisione? Ritorna di moda scrivere le dichiarazioni d’amore, per quelli che non hanno il coraggio di domandare una donna. A quei tempi le lettere venivano tutte censurate, come ho detto altre volte; prima di leggerle noi, passavano nelle mani degli esperti: con qualcuna ci avranno riso di sicuro, ma per forza toccava a star lì, non eravamo le sole a ricevere le lettere aperte. Io me ne ricordo qualcuna di quelle che scrivevano a me; mi sono rimaste in mente, però, solo quelle ridicole e quelle sentimentali. Ce n’era qualcuno che scriveva bene, ma in qualche lettera c’era proprio da ridere: scriveva quasi come un monello che aveva fatto la prima elementare, voleva esprimere quello che gli dettava il cuore. In calligrafia tanto tanto passava, ma mancavano le sillabe o ce ne metteva due dove non ce le voleva, come sto facendo io adesso: per scrivere in dialetto sono tutta fuori fase. Non mi ricordo le sillabe che ci si devono mettere, molte volte mi fermo nello scrivere, perché non mi ricordo. Adesso ne scrivo una di quelle dichiarazioni che hanno scritto a me. Allora: “ Gentilissima signorina, te scrivo queste righe per ditte sci te voi mette’ a fa’ la more commé. Homparado dalla cente (gente) che brodèsso nté ciàmpìsci (per adesso non ti ci impìcci), ma io spetto anche n’anno, basta che me dighi de sci. Homparado 230 Homparado che voi anca coi soldi, ma i soldi non fa felice le persone; fa contento questo core arisponneme de sci. Tuo miradóre .... Il nome non ce ’l posso mette’ perché ancora è vivo. Questa è ’n’antra. Amatissima Signorina ade te digo cuéllo che te vorria di quano te vedo ma non cio lcoragio. Quano te vedo me fa como lcaldaro daqqua unte lfogo, più fai fogo e piu laqqua riscalla, io più te vedo e più minammoro, ala Domenega sci vo a Montalboddo che non ce sai te no me parre festa, e po’ quano to nteso a cantà mai fatto nammorà anca de piu, aspeto na tua risposta a braci apperte non ne poso scorda risponneme ai capido; tuo amatissimo. Envece questa era de uno disperado che fèra ’l soldado; un anno prima c’eravamo incontradi chiedendomi amore, ma questo scrivéa be’, sensa errori e bella caligrafia. Tripolitania 10 – 4- 1940 Gent.ma Signorina anzi tutto ti chiedo scusa se ti dovessi disturbare con questo mio scritto, ma nel medesimo tempo credo che non ti offenderai né te, né altra persona. Bensì in questi giorni ricorre l’anniversario del nostro incontro, ma il destino è stato all’incontrario, e con pazienza seguiamo il nostro destino. Tu eri la ragazza che il mio cuore desiderava di amare, che mai si cancellerà. Se sapessi dove mi trovo! In questi deserti sconfinati, sono passati dei che voi (vuoi uno) anca coi soldi, ma i soldi non fa felice le persone; fa contento questo core arisponneme de sci. Tuo miradóre ….” Il nome non ce lo posso mettere, perché ancora è vivo. Questa è un’altra: “Amatissima signorina ade te digo cuéllo che te vorria di quano te vedo ma non cio lcoragio. Quano te vedo me fa como lcaldaro daqqua ente lfogo, più fai fogo e piu laqqua riscalla, io più te vedo e più minammoro, ala Domenega sci vo a Montalboddo che non ce sai te no me parre festa, e po’ quano to nteso a cantà mai fatto nammorà anca de piu, aspeto na tua risposta a braci apperte non ne poso scorda risponneme ai capido; tuo amatissimo”. Invece questa era di un disperato che faceva il soldato; un anno prima ci eravamo incontrati e mi aveva chiesto amore, ma questo scriveva bene, senza errori e bella calligrafia: “Tripolitania 10 – 4- 1940 Gent.ma signorina, anzi tutto ti chiedo scusa se ti dovessi disturbare con questo mio scritto, ma nel medesimo tempo credo che non ti offenderai né te, né altra persona. Bensì in questi giorni ricorre l’anniversario del nostro incontro, ma il destino è stato all’incontrario, e con pazienza seguiamo il nostro destino. Tu eri la ragazza che il mio cuore desiderava di amare, che mai si cancellerà. Se sapessi dove mi trovo! In questi deserti sconfinati, sono passati dei brutti giorni e dei momenti 231 brutti giorni e dei momenti pericolosi per la vita, ma fino qui è andato tutto bene e si sopporta dei sacrifici che te non hai immagine, ma in questi momenti per far passare la tristezza penso alla bella vita civile, alla gioventù, e vedo avanti ai miei occhi te! Quella ragazza che avrei voluto fosse stata la compagna della mia vita. Ma tutto è finito; se non ci rivedremo più, ti auguro un buon matrimonio e un’eterna felicità con il tuo, oggi l’amore per me è il maneggio delle armi, in cui mi difendo e che è dovere da compiere come soldato, con tutto il cuore ti ricordo sempre, mai ti dimenticherò, il tuo ammiratore. Questo, poverino, è morto. Émma fatto pochissime parole insieme, perché in occasió de ’na festa era venudo a chiéde’ amore e con poche parole l’ho illiminàdo, però la sua lunga léttra m’è rimasta ’mpò’ impressa, perché era triste e appassionata. pericolosi per la vita, ma fino qui è andato tutto bene e si sopporta dei sacrifici che te non hai immagine, ma in questi momenti per far passare la tristezza penso alla bella vita civile, alla gioventù, e vedo avanti ai miei occhi te! Quella ragazza che avrei voluto fosse stata la compagna della mia vita. Ma tutto è finito; se non ci rivedremo più, ti auguro un buon matrimonio e un’eterna felicità con il tuo, oggi l’amore per me è il maneggio delle armi, in cui mi difendo e che è dovere da compiere come soldato, con tutto il cuore ti ricordo sempre, mai ti dimenticherò, il tuo ammiratore”. Questo, poverino, è morto. Ave vamo fatto pochissime parole insieme, perché in occasione di una festa era venuto a chiedere amore e con poche parole l’ho eliminato, però la sua lunga lettera mi è rimasta impressa, perché era triste e appassionata. Chi sarà ’sto còso, coscì romantico? Chi sarà questo coso, così romantico? Quanno s’è sposàda l’ultima de ’ste sorelle ci’avìa diciassett’ànni e allora la pôra mamma m’ha ditto: “Ormai tocca a te!” Cuélla vo’ non è che io stèro male, ma perché io cì’avéo tutta cuélla marsumaja davanti... cinque fradèlli e sorelle avanti a me, a me nun c’era mai gnè. Quando si è sposata l’ultima delle mie sorelle, io avevo diciassette anni e allora la povera mamma mi ha detto: “Ormai tocca a te!” Quella volta non è che io stavo male, ma perché avevo tutta quella “marsumaglia” davanti: cinque tra fratelli e sorelle prima di me e per me non c’era mai niente. Quando si son 232 Quanno s’è sposàdi tutti dicìa: “Fino adè’ ’l cadassàro ’n se cominciàa, adè’ cominciàmo la cadàssa tua”. ’Sti genidóri fèra coi fiji cuéllo che facìa co’ le cadàsse: finànta c’è cuélla vecchia, ’n se ne comènsa cuélla nòa. E cuélla pôra mamma me portàa sempre ’n giro, me facìa tanti pàgni: spolverì, cappotti, vestidi... Non me ne facìa, digo, uno pe’ stagió’, ma pogo ié mancàa. ’N giorno io so’ gida a Montalbò’, m’è venùdo a parlà’ uno che me piacìa tanto. Io guasci guasci iè avrìa ditto de scì, ma cuélla pôra mamma ha ditto: “Prima domànna que partìdo è, quanti fradèlli è...” Dobo ié l’ho dimannàdo... capirai: era cinque fradèlli! “No, no, fija, ’n te ce métte’! Lì sai trattàda como ’n ca’ sotta la tàola! Vedi ’mpo’ da troà’ uno che cìsce du’ fradèlli, ’n fradèllo solo...” Embè ’n giorno m’è riàda ’na léttra, me spiegàa chi era, ma io ne ’l conoscìa; dicéa ch’èra con cuéll’amigo che piacìa a me... A Montalbòdo mìa visto, ié ero armàsta imprèssa... Allora m’ha scritto ’na léttra da ’ndó stèra sotta l’arme. Sci m’arcordo me dicéa coscì: “Gentilissima signorina, anzitutto vi chiedo perdóno se vi disturba questo mio scritto, perché vo’ non mi conoscete. Io vi ho visto a Montalboddo, ero con i miei amici di Filetto. Appena vi ho visto, con la vostra amica, così bella, elegante mi siete rimasta molto impressa nel mio cuore che sposati tutti, diceva (mamma): “Fino ad ora il “catastaro” non si cominciava, adesso cominciamo la catasta tua”. Mamma le chiamava le “cadàsse”. I miei genitori facevano con i figli quello che facevano con le cataste (di fascine): fino a che c’è la catasta vecchia, non si incomincia quella nuova. E quella povera mamma mi portava sempre in giro, mi faceva tanti panni: spolverini, cappotti, vestiti… Non me ne faceva, dico, uno per stagione, ma poco ci mancava. Un giorno sono andata a Montalboddo, m’è venuto a parlare uno che mi piaceva tanto. Io quasi quasi gli avrei detto di sì, ma quella povera mamma ha detto: “Prima domanda che partito è, quanti fratelli sono…” Dopo gliel’ho domandato…. Capirai: erano cinque fratelli! “No, no, figlia mia, non ti ci mettere! Lì sarai trattata come un cane sotto la tavola! Vedi un po’ di trovare uno che abbia due fratelli, un fratello solo…” Ebbene un giorno m’è arrivata una lettera, mi spiegava chi era, ma io non lo conoscevo; diceva che era con quell’amico che piaceva a me… Mi aveva visto a Montalboddo, gli ero rimasta impressa… Allora m’ha scritto una lettera da dove si trovava sotto le armi. Se mi ricordo, mi diceva così: “Gentilissima signorina, anzitutto vi chiedo perdono se vi disturba questo mio scritto, perché vo’ non mi conoscete. Io vi ho visto a Montalboddo, ero con i miei amici di Filetto. Appena vi ho 233 non vi potrà più scordare. Volevo parlarvi, ma le parole mi son morte in gola, perché io sono un giovane un po’ timido, per chiedere d’amare una bella fanciulla come voi, ma se voi accettate questo mio immenso amore, vi giuro che vi farò felice per tutta la vita ed io mi dichiarerò l’uomo più felice del mondo. Se voi accettate questa dichiarazione, saremo tanto felici per tutta la vita. Io dal giorno che vi ho vista, non trovo più pace, siete sempre davanti ai miei occhi, nei miei sogni, nella mia mente e nel mio cuore che così bella ed elegante non vi potrò più scordàre. Chissà quale felicità proverei, se quando ricevo la vostra lettera, leggessi un bel sì d’amore. Vi giuro e vi ripeto che sarei l’uomo più fortunato del mondo. Accettate questo mio amore che arde per voi. Con la speranza di un bel sì vostro amiratore Albertino Panini.” Stèra co’ gli amici del Filetto... ma io n’avìa guardàdo tanto a cuéllo, io l’avéo anca vedùdo, ma chi s’arcordàa la faccia de cuéllo: io guardào a cuel’àltro, me piacìa cuel’àltro. Allora quanno m’è riàda ’sta léttra tutta commovènte: “Mamma mia, chi sarà ’sto còso, tutto romantico!” Ho pïàdo ’sta léttra e po’ l’ho messa lì da ’na parte. Mamma me dicìa: “È ora che te decìde. Domànna le condizió’ de como se tròa, quanti fradèlli è, ’ndó sta de casa...” È passado ’mpo’ de giorni, dopo visto, con la vostra amica, così bella, elegante mi siete rimasta molto impressa nel mio cuore che non vi potrò più scordare. Volevo parlarvi, ma le parole mi son morte in gola, perché io sono un giovane un po’ timido, per chiedere d’amare una bella fanciulla come voi, ma se voi accettate questo mio immenso amore, vi giuro che vi farò felice per tutta la vita ed io mi dichiarerò l’uomo più felice del mondo. Se voi accettate questa dichiarazione, saremo tanto felici per tutta la vita. Io dal giorno che vi ho vista, non trovo più pace, siete sempre davanti ai miei occhi, nei miei sogni, nella mia mente e nel mio cuore che così bella ed elegante non vi potrò più scordare. Chissà quale felicità proverei, se quando ricevo la vostra lettera, leggessi un bel sì d’amore. Vi giuro e vi ripeto che sarei l’uomo più fortunato del mondo. Accettate questo mio amore che arde per voi. Con la speranza di un bel sì vostro ammiratore Albertino Panini” Stava con gli amici di Filetto…ma io non avevo guardato tanto quello, io l’avevo anche visto… ma chi si ricordava la faccia di quello: io guardavo quell’altro, mi piaceva quell’altro. Allora, quando è arrivata questa lettera tutta commovente: “Mamma mia, chi sarà questo coso, tutto romantico!” Ho preso questa lettera e poi l’ho messa lì da una parte. Mamma mi diceva: “È ora che ti decidi. Domanda le condizioni di come si trova, quanti fratelli sono, dove sta di casa…” 234 iè dovéa rispónne’ no... Arpensào a tutte cuélle parole belle, cuélla vo’ cuélle parole romantiche te piacìa, ne ’l sapéi sci pôl’èsse’ stàde vere o tutta polìdica. Vere non me parìa, perché io non me vedéo bella. Allora i’hò risposto, i’hò ditto che voléo sapé’ ’ndó stèra, ’ndó non stèra... Po’ quanno arturnàa a casa vedémo... Sci ce volemo scrìve’ cualca léttra... ’Nvéce lu’ me scrivéa tutti i giorni, tutti i giorni m’arrivàa ’na léttra lì casa, ma io ogni tre quattro ié ne risponnéo una. E po’ c’era sempre cuélle parole lì. Alla fine ié dicéo sempre: “Sci ce piacémo, quanno ’rvénéde a casa, vedémo!” Sono passati un po’ di giorni, dopo io gli dovevo rispondere no… Ripensavo a tutte quelle belle parole, quella volta quelle parole romantiche ti piacevano, non lo sapevi se potevano essere state vere o tutta politica. Vere non mi parevano, perché io non mi vedevo bella. Allora gli ho risposto, gli ho detto che volevo sapere dove stava, dove non stava… Poi quando ritornava a casa, avremmo visto… Se ci volevamo scrivere qualche lettera… Invece lui mi scriveva tutti i giorni, tutti i giorni mi arrivava una lettera a casa, ma io ne rispondevo una ogni tre o quattro. E poi c’erano sempre quelle parole lì. Alla fine gli dicevo sempre: “Se ci piacciamo, quando ritornate a casa, vedremo!” M’anvergognàa como ’n ca’ Mi vergognavo come un cane Sicché da gennaro sémo gidi a finì vèro maggio, quanno è venudo a casa in licenza. ’Na sera, era d’istàde vero ’l dieci de maggio, io falciàa ’l fié giuppe ’l campo, perché babbo güernàa le bestie e mamma stèra su casa: de dieci eravàmo ’rrmàsti tre persó’ ’nté la famija, perché i nonni era morti, le sorelle s’era sposàde tutte, i fradèlli sotto l’arme. Io falciàa ’l fié’: c’era da fa’ pe’ tre persone, con tutte cuélle bestie che c’era! Te vedo rivà’ ’na biscighetta che te lucìa, giù pìa del campo passàa la strada; ho vedùdo ’sta bicicletta che ’rlucìa tanto: chi sarà? Non ce pensàa no, Sicché da gennaio siamo andati a finire verso maggio, quando è venuto a casa in licenza. Una sera, era d’estate verso il dieci maggio, io falciavo il fieno per il campo, perché babbo governava le bestie e mamma stava in casa: di dieci eravamo rimaste tre persone in famiglia, perché i nonni erano morti, le sorelle si erano sposate tutte, i fratelli sotto le armi. Io falciavo il fieno: c’era da fare per tre persone, con tutte quelle bestie che c’erano! Ti vedo arrivare una bicicletta che luccicava tanto: chi sarà? Non ci pensavo, perché non me l’aveva detto che ritornava a casa. Quando l’ho visto per 235 perché non me lìa ditto c’artornàa a casa. Quanno l’ho visto suppe lo stradèllo, la persóna tutta elegante, licche licche como era chic! Capirai, pensàde io: ci’avìa le gambe tutte sporche, i pìa tutti neri perché l’erba comensàa a èsse’ fràdia, ch’èra ’mpo’ dura e sotta fa cuélla mélma... Lu’ mette giù la biscighetta e po’ me vène ’ncuntrà’... io a testa bassa m’anvergognàa como ’n ca’. M’ha saludàdo, i’hò risposto a malappéna a mezza bócca, ho badàdo a finì’ de falcià’ cuélla ravàra e po’ ho pïàdo la falce fenàra su le spalle, ’l corno l’avéo taccàdo addosso. Cuélla vo’ per métte’ la códe c’era ’l corno no, la bóssola e ’l corno. Ci’avéo ’l corno perchè la bóssola buttàa fori l’aqua, ’nvece ’l corno tenìa l’aqua. C’era ’n pezzo de fil de fèro co’ ’na pezzòla da cima pe’ mollà la falce fenàra prima da dàje la códe, pe’ códàlla no. E allora gìmo su casa, io davante e lu’ diédro. Avrà ditto: “Chissà chi è ’sta cojóna che non parla mae?” Ho messo giù la falce fenàra, c’era babbo lì la stalla, lu’ ha saludàdo a babbo, i’hà dàtto la ma’ e io so’ gìda a lavà’ i pìa giù ’l pozzo. Ho pïàdo ’na caldaròla d’aqua, me so’ dàtta ’na botta ai pìa, ’na bòtta a le ma’. Pensade vuà come profumàa io a falcià! De cuéi tempi già se sudàa be’. E dobo è venùda fori cuélla pôra mamma... Non ié avìa ditto tutto cuéllo che me scrivìa, cìa pensàdo da per lìa, perché io cuélla vo’ da quant’èro vergognosa gne la lo ‘stradello’, la persona tutta elegante, licche licche com’era chic! Capirai, pensate (com’ero) io: avevo le gambe tutte sporche, i piedi tutti neri perché l’erba cominciava ad essere fradicia, perché era un po’ dura e sotto fa quella melma… Lui mette giù la bicicletta e poi mi viene ad incontrare… Io, a testa bassa, mi vergognavo come una cane. Mi ha salutato, gli ho risposto a malapena a mezza bocca, ho badato a finire di falciare quella striscia d’erba e poi ho preso la falce fenaia sulle spalle, il corno ce l’avevo appeso addosso. Quella volta per mettere la cote c’era il corno no, la ‘bossola’ e il corno. Avevo il corno, perché la ‘bóssola’ buttava fuori l’acqua, invece il corno la tratteneva. C’era un pezzo di fil di ferro con una pezzuola in cima per bagnare la falce fenaia prima di darle la cote, per affinarla, no. E allora andiamo a casa, io davanti e lui dietro. Avrà detto: Chissà chi è questa cogliona che non parla mai?” Ho messo giù la falce fenaia, c’era babbo lì, nella stalla, lui l’ha salutato, gli ha dato la mano e io sono andata a lavare i piedi giù al pozzo. Ho preso una calderella d’acqua, mi son data una botta ai piedi, una botta alle mani. Pensate voi come profumavo io a falciare! In quella stagione già si sudava bene. E dopo è venuta fuori quella povera mamma… Non le avevo detto tutto quello che mi scriveva, ci aveva pensato da sola, perché io quella volta, da quant’ero vergognosa, non riuscivo nemmeno a 236 facéo manco a presentàielo. Dobo l’ha invidàdo a boccà’ su. È boccàdo su e cuélla pôra mamma avìa dàtto ’na aggiustàda ’nté la cambora, ma prima ha volsùdo sapé’ ’mpo’ de che fameja era, l’informazió’. Po’ ci’ ha ditto: “Gide ’mpo’ là la càmbora. Sci ve piacéde, pensàdece vuà, scinó è inùdole che ve scrivéde”. Era già cinque sei mesi che sa scrivéa. E allora dobo semo gidi là la càmbora, prò io parlào pogo, i’hò fatto qualca domànna e lu’ me rispondìa. Po’ dobo semo sgappàdi, l’ha invidàdo a cena e lu’ c’è stado a cena. Po’ è partido e ha ditto: “Ci’ho d’arvenì’ domane a sera?” “Vènce ’mpo’, prò porta le léttre, le cartoline, nigò!” presentarglielo. Dopo l’ha invitato a salire in casa. È entrato su e quella povera mamma aveva dato una aggiustata alla camera, ma prima ha voluto sapere un po’ di quale famiglia era, le informazioni. Poi ci ha detto: “Andate un po’ là in camera. Se vi piacete, pensateci voi, se no è inutile che vi scrivete”. Erano già cinque sei mesi che ci scrivevamo. E allora dopo siamo andati là, nella camera, però io parlavo poco, gli ho fatto qualche domanda e lui mi rispondeva. Poi dopo siamo usciti, (mamma) l’ha invitato a cena e lui c’è stato a cena. Poi è partito e ha detto: “Ci posso tornare domani sera?” “Vienici un po’, però porta le lettere, le cartoline ogni cosa!” Lu’ venìa e me troàa a falcià’ Lui veniva e mi trovava a falciare Alla sera dobo arrìva, pòrta su le cartoline, le léttre, perché ce l’émma scritte che ’n c’era male no, in cinque mesi! Io ce n’avéo ’na mucchia che mettìa paura. E allora La sera dopo arriva, porta su le cartoline, le lettere, perché ce l’avevamo scritte che non c’era male no, in cinque mesi! Io ne avevo un mucchio che metteva paura. E allora le porta su, 237 le porta su, intanto le bruciàmo, léttre e cartolìne, e po’ gìmo la là càmbora. Comincia a discóre’, io sempre a testa bassa, e po’ io stèra là la càmbora, ma miga stèra co’ le mane ’nté le ma’, io fadigàa sempre, facéa ’l merletto o facéa i calsétti coi fèri o cucìa cualcò’. Cìa – come dice ’l dittàdo – tre bracci e ’na lèngua sola”. Co’ le mane in ma’ ’n ce se dovìa sta’, perché mamma non volìa, dovìa fadigà’ le donne; coscì te vedìa l’ômo ch’eri bràa, che sapéi fa’ nigò. Anca per cuéllo ’l dicéa: per fàtte passà’ be’. E lu’ parlàa, io cuàlca parola rispondéa, sempre pogo. Dobo m’ha portàdo le fottografie, ha portàdo anca ’na boccétta de profumo, ’na scattolétta de cipria e ’no spruzzatore: cuélla vo’ ’n se sapìa mango co’ era perché ’ste sorelle scì ce lìa la robba la cipria e... basta. Non è che c’era tante cose cuélla vo’: c’era la cipria e la brillantìna, ma da noà pe’ la brillantina ’n c’era i soldi, ce mettémma l’ojo su la testa, l’ojo bòno, cuéllo d’ulìa: ’l mettémma ’nté ’l palmo de ’na ma’ e po’ con dédo passàmma tutti i capéi e l’òmmini gèrene via ónti como le cose. Cuélla vo’, lavài la testa quanno facéi la boccàda, dobo i capéi era tutti belli ónti, ’rlucìa da lóngo perché l’ojo d’ulìa lucidàa be’. La vasellìna, la brellantìna, cuélle cose lì non usàa da nó’, perché costàa anca i soldi eh! Cominciàmma a discorre’, la sera dobo ce voléa artornà’; io la robba intanto le bruciamo, lettere e cartoline, e poi andiamo là in camera. Comincia a discorrere, io sempre a testa bassa, e poi io stavo là in camera, ma mica stavo con le mani in mano, io faticavo sempre, facevo il merletto o facevo le calze con i ferri o cucivo qualcosa. Avevo – come dice il detto - tre bracci e una lingua sola. Con le mani in mano non ci si doveva stare, perché mamma non voleva, le donne dovevano faticare sempre, così l’uomo ti vedeva che eri brava, che sapevi fare di tutto. Anche per quello (mamma) lo diceva: per farti passare bene. E lui parlava, io rispondevo qualche parola, sempre poco. Dopo m’ha portato le fotografie, ha portato anche una boccetta di profumo, una scatoletta di cipria e uno spruzzatore: quella volta non si sapeva neppure che cosa fosse perché le mie sorelle, sì, ce l’avevano la roba: la cipria e… basta! Non è che c’erano tante cose quella volta: c’erano la cipria e la brillantina, ma da noi per la brillantina non c’erano i soldi, sulla testa ci mettevamo l’olio, l’olio buono, quello d’oliva: lo mettevamo sul palmo di una mano e poi con il dito passavamo tutti i capelli e gli uomini andavano via unti come le cose… Quella volta lavavi la testa quando facevi il bucato, dopo i capelli erano tutti belli unti, luccicavano da lontano perché l’olio d’oliva lucidava bene. La vasellina, la brillantina non si usavano da noi, perché costavano dei soldi, eh! Cominciammo a discorrere, la sera 238 l’avéo accettàda, per forza ha toccàdo a fàllo ’rtornà’. Coscì è venùdo per quìnneci giorni. Po’ è ’rpartido, ha ditto: “Ce scrivémo”. Coscì émo continuado a scrìve’; io ’nté le léttre ’mpo’ me spriméo, ma co’ la bocca vicino a lu’ no’ ié la faceo a sprìmeme pe’ gnè. M’arvergognào como ’n ca’. Lu’ me parlàa de la faméja sua, la situazió’, io stèra a sentì. Po’ da maggio i’hà ’rdàtto ’na licensa agosto: ’l mannàa a casa a mède’, a bàtte’. Tanto tutte le sere lu’ ce venìa su sempre, me trovàa giuppe ’l campo a falcìà’ ’l gra’, me trovàa a falcià ‘l fié, a fa’ la foja pe’ le bestie... Lì casa ’n me ce trovàa mae sènsa fa’ gnè. E sa lu’ ce stèra attaccàdo, pensàa: “Questa è una che fa per casa!” È passàdo ’l tempo, io vergognosa come sempre; lu’ tante le ò provàa a mètte’ la ma’ su ’na spalla, ma cojó io ié la levàa sùbbedo, perché sci me vedìa cuélla pôra mamma... uum! Passàa oltra lì ’l corridóre e po’ quann’era la sera picciàa ’l lume. Passàa sempre avanti e ’ndièdro, te chiamàa. Quanno era notte e ’n ce vedéi più a fadigà passàa lì ’l corridore e te dicìa: “Oh, è ora de cenaaa!” Allora te toccàa a sgappà’, aiudàvi a preparà’ ’l tàolì. Coscì anca cuélla licènsa è passàda. Po’ n’ha ûda ’n’antra a novembre, la licènsa pe’ soménà’. Anca lì tutti i giorni, tutte le sante sere c’ha fatto Gesù Cristo era sempre la su casa, con la biscighetta a fa’ dopo ci voleva ritornare; io la roba l’avevo accettata, per forza ho dovuto farlo ritornare. Così è venuto per quindici giorni. Poi è ripartito, ha detto: “Ci scriviamo!” Così abbiamo continuato a scrivere; io nelle lettere un po’ mi esprimevo, ma con la bocca vicino a lui non gliela facevo ad esprimermi per niente. Mi vergognavo come un cane. Lui mi parlava della famiglia sua, la situazione, io stavo a sentire. Poi da maggio gli hanno di nuovo dato una licenza ad agosto: lo mandavano a casa a trebbiare. Tanto tutte le sere ci veniva su sempre, mi trovava a falciare il fieno, a fare la foglia per le bestie… A casa non mi trovava mai senza far niente. E sa che lui ci stava attaccato, pensava: “Questa è una che fa per casa!” È passato il tempo, io vergognosa come sempre; lui talvolta provava a mettere la mano su una spalla, ma cojó’! Io la levavo subito, perché se mi vedeva quella povera mamma… uum! Passava per il corridoio e poi, quando era sera, accendeva il lume. Passava avanti e indietro, ti chiamava. Quando era notte e non ci vedevi più a faticare, passava nel corridoio e diceva: “Oh, è ora di cenaaa!” Allora ti toccava uscire (dalla camera), aiutavi a preparare la tavola. Così anche quella licenza è passata. Poi ne ha avuta un’altra a novembre, la licenza per seminare. Anche lì tutti i giorni, tutte le sante sere che ha fatto Gesù Cristo era sempre a casa mia; con la bicicletta a fare sempre 239 sempre cinque sei chilomedri de strada: ne ’l so quanti è perché, s’è a lìnia d’aria, è ’mpo’ meno, ma sci passi attorno era da lóngo. E venìa tutte le sere; anca lì ’n ce se beccàa gnè, per tutti i quìnneci giorni ch’è duràda la licènsa. S’èra ’na monèlla d’adè è differente, ma cuélla vo’ io era vergognosa sa… Avìa diciott’anni ma ’n sapìa mango como se fèra; quando una portàa ’n fjòlo ’n sapìa mango como c’era boccàdo drendo. N’era como adè, era cuscì, a casa nostra ’n se dicìa le cose. Capirai, quanno c’era le sorelle più grànne, cuélla pôra mamma se chiudìa là la càmbora, quanno dovìa da’ i cighetti: io stèra a sentì’ ma ’n sapìa cuél che volìa di’; anca a pìa de le scale cighéttàa, pôretta, ìa paura sempre... E allora è passada anca cuélla licensa lì. Po’ ha ûdo ’n mese de convalescènsa, era d’inverno. Va be’ che a casa sua se fadigàa anca d’inverno, se stèra sempre giuppe ’l campo ché c’era tanta tèra da ruspà’, c’era tanto podà, tanto nigò, ma tanto lu’ ce ’l troàa ’l tempo: tutte le sante sere venìa su como se sìa. E lì ’ncomensàa ’mpo’ de più a sprìme’. Lu’ m’arconntàa cuéllo che ié avìo scritto, sa ’mpo’ de più me ’ncomensào a sprime’. Anca questa è passàda, dobo ’l mese è ’rgìdo via, ma è ’rmasto sempre luscì: a bocca sciùcca. cinque sei chilometri di strada: non lo so quanti sono perché, se in linea d’aria, sono un po’ meno, ma se passi attorno è lontano. E lui) veniva tutte le sere; anche lì non si beccava niente, per tutti i quindici giorni che è durata la licenza. Se fossi stata una monella d’adesso, sarebbe stato differente, ma quella volta io mi vergognavo sa… Avevo diciott’anni, ma non sapevo neppure come si faceva; quando una (donna) portava un figlio, non sapevo neppure come (questo) c’era entrato dentro. Non era come adesso, era così: a casa nostra non si dicevano le cose. Capirai, quando c’erano le sorelle più grandi, quella povera mamma si chiudeva là in camera, quando doveva dare i cicchetti: io stavo a sentire, ma non sapevo quello che voleva dire; anche in fondo alle scale cicchettava, poveretta, aveva sempre paura… E allora è passata anche quella licenza lì. Poi (il ragazzo) ha avuto un mese di convalescenza: era d’inverno. Va bene che a casa sua si faticava anche d’inverno, si stava sempre per il campo perché c’era tanta terra da ruspare, c’era tanto potare, tanto di tutto, ma lui lo trovava il tempo: tutte le sante sere, come sia, lui veniva su (da me). E lì incominciavo ad esprimermi un po’ di più. Lui mi raccontava quello che gli avevo scritto… sa, un po’ di più cominciavo ad esprimermi. Anche questa (licenza) è passata: dopo un mese è ripartito, ma è rimasto sempre così: a bocca asciutta! 240 Ié do ’n bacio! Gli do un bacio! Arvène a casa a maggio. Allora ho ditto a cuélla pôra mamma: “Guar dàde mamma, io fino adè’ n’ho volsùdo mae che me toccàsse o che me désse ’n bacio, adè quanno vène a casa in licensa, iè do ’n bacio!” E mamma: “Buzzarà anca a te! E sci dobo te lassa gi’? Che ne sai ancora, non ne ’l conósci, ’n ce sai stàda mango dodici dì insieme, che ne sai como la pensa. Se ci’hà ’n’antra ragazza, sci lassù ci’hà ’na donna... ma per caridà sa, fija mia, per caridà!” Io envece volìa dàje ’n bacio, quanno che arvenìa. Io stèra sempre all’erta no, perché ’na ò passàa pe ’l Paradiso, ’na ò per la Massa, io stèra da cima del campo a vedéllo spuntà co’ la biscighetta; stèra all’erta perché ce pensàa c’arrivàa. Propio cuéi giorni lì dovìa venì’ a casa, io ce pensàa che me fèra ’na improvvisàda. Quanno l’ho visto, là cima del campo, che venìa oltra, ancó’ da lóngo tre quattrocento medri, me so’ messa a cùre’, l’hò bracciàdo e i’hò dàtto ’n bacio: quanto è stado contento! ’Nté ’na guancia! Io non sapìa gnè como se baciàa... allora i’hò dàtto ’n bacio ’nté ’na guancia. Quanto è stado contento, ha visto che me so’ aperta ’mpo’ de più co’ lu’, ha capìdo che ié voléo be’. Scinó, como v’ho ditto, sci provàa a métteme le mane addosso, io ié le levào, perché avéa paura, capirai con Ritorna a casa a maggio. Allora ho detto a quella povera mamma: Guardate mamma, io fino ad ora non ho voluto mai che mi toccasse o che mi desse un bacio, adesso, quando viene in licenza, gli do un bacio!” E mamma: “Man naggia anche a te! E se dopo ti lascia andare… Che ne sai ancora, non lo conosci, non ci sei stata insieme neppure dodici dì, che ne sai come la pensa. Se ha un’altra ragazza, se lassù ha una donna… ma per carità sa, figlia mia, per carità!” Io, invece, volevo dargli un bacio, quando ritornava. Stavo sempre all’erta no, perché una volta passava per il Paradiso, una volta per la Massa e io stavo là, in cima al campo, per vederlo spuntare con la bicicletta, perché pensavo che arrivava. Proprio quei giorni lì doveva venire a casa e io pensavo che mi faceva una improvvisata. Quando l’ho rivisto, da là in cima al campo, che veniva oltre, ancora lontano tre quattrocento metri, mi sono messa a correre, l’ho abbracciato e gli ho dato un bacio: quanto è stato contento! Su una guancia! Io non sapevo niente di come si baciava… allora gli ho dato un bacio su una guancia. Quanto è stato contento: ha visto che mi sono aperta un po’ di più con lui, ha capito che gli volevo bene… Se no, come vi ho detto, se provava a mettermi le mani addosso, io gliele levavo, perché avevo paura. Capirai, con tutti quei sermoni che ti faceva 241 tutti cuéi sermù’ che te dèra cuélla pôra mamma, te dèra certi sermó, altro che ’l prede sull’altare. E po’ cuél pôro babbo che facéa? Tutte le sante sere che c’era anca i ragazzi de ’ste sorelle, anca quanno c’era il mia, dicìa: “Fjòli, la faccia polìda è ’na gran cosa! Quanno che tu te pôi mette’ ‘l cappello all’adèdro, la gente non pô di’ gnènte. L’onore è la cosa più bella che c’è!” Lu’ dicìa sempre cuélla. Po’ cuélla pôra mamma, quanno s’era sposàda a diciannov’anni, i’hà dàtto cento lire pe’ premio. Lavoràa ’nté ’na contèa, lajù a Monsanvido; c’era ’na quarantina cinquanta ragazze e cuélle che se sposàa con onore ié fèra ’l rigàlo ’l conte. Capirai i’hà dàtto cento lire ’l conte de cuélla vo’: s’è sposàda dell’otto, del 1908. Pensàde vuà, ’l pôro babbo ce tenìa ’mbelpo’ a ’st’onore, sempre co’ ’st’onore e allora io, oltra che me fèra sempre ’l sermó’ cuélla pôra mamma, oltra cuél pôro babbo che ce dicéa sempre coscì, me toccàa a pensàcce, a sta’ ’tènti perché mi dicìa cuélla pôra mamma: “Guarda che de le sorelle tue ’n s’è podùdo di’ gnè, sci ce bócca le chiacchiere, te mànno via sensa dòda, sensa ’mpezzo de panno, gnènte, te vai via luscì, i pagni che porti addosso. E lì allora toccàa a tremà’ ’mpo’, te mettìa propio cuélla timènza... perché n’omo chissà sci te piàa fôgo a toccàtte! Dicèa sempre alluscì: “Mette ’mpo’ ’n fulminante ’cceso vicino a ’n pajàro... vedrai como arde! Cuéllo è lo stesso!” quella povera mamma: ti faceva certe prediche, altro che il prete sull’altare. E quel povero babbo che faceva? Tutte le sante sere, in cui c’erano anche i ragazzi delle mie sorelle, anche quando c’era il mio, diceva: “Figlioli, la faccia pulita è una gran cosa! Quando ti puoi mettere il cappello all’indietro, la gente non può dir niente. L’onore è la cosa più bella che c’è!” Lui ripeteva sempre questo. A quella povera mamma, quando si è sposata a diciannove anni, le hanno dato cento lire per premio. Lavorava in una contea, laggiù a Montesanvito; c’erano una quarantina di ragazze e a quelle che si sposavano con onore il conte faceva un regalo. Capirai, il conte le ha dato cento lire di quella volta: (mamma) si è sposata nel 1908. Pensate voi, il povero babbo ci teneva molto a quest’onore, sempre con questo onore. E allora a me, oltre che mi faceva sempre il sermone quella povera mamma, oltre quel povero babbo che ci diceva sempre così, toccava a pensarci, a stare attenta, perché mi diceva quella povera mamma: “Guarda che delle tue sorelle non si è potuto dire niente, se ci entrano le chiacchiere, ti mando via senza dote, senza un pezzo di panno, niente: tu vai via così, con i (soli) panni che porti addosso”. E lì, allora, toccava tremare un po’, ti metteva proprio quel timore… perché chissà, se un uomo ti toccava, prendevi fuoco! Diceva sempre così: “Metti un po’ un fiammifero acceso vicino a un pagliaio… vedrai come arde! Quello è lo stesso!” 242 La sposa e lo sposino di campagna: anno 1908. 243 Guai a le quàje strofellàde! Guai alle quaglie chiacchierate Cuélla vo’ noà sci se sapìa cualchicò’ sci vedéa a ’n cane, vedéa ’n somàro, a ’n gatto, a ’n toro, prò sapéi ch’era difèrente de noà, de noà femmene, scinó como facéi a sapéllo. Cuélla ’olta ’n tra monèlli ’n se dovéa giogà’ insieme, maschi e fémmene eh! Cojó, como te chiamàa cuélla pôra mamma sùbbedo sci vidìa che giogài coi maschi! E allora sémo venùde su sempre ’mpo’ cojóne! Pensàde vuà, cuéllo ch’è venùdo a fa’ l’amore lì casa, quanta pacensia ci’avrà ûdo con me! Perché toccàa a gì’ piano con cuéi scherzi là, perché sci facéa ’na cosa ’mpo’ che non gèra, io... via! ié dicìa ‘licenziado’ eh! Allora ce pensàa, vidìa ch’io era timida, non pensàa ch’era stada co’ n’antro, ’l capìa anca lu’, perché tanto se véde sùbbedo le persone, le quaje stroffellàde, se véde sùbbedo. Dicéa cuélla pôra mamma: “Cuélla è ’na quaja stroffellàda!” Quanno se gèra in giro, se vidìa cuéll’òmmini che magari tenìa ’l braccio sul collo a le ragazze, che se baciàa vicino a la bocca, ma chi sapìa? Cuélla volta cuélla pôra mamma dicìa, quanno vidìa coscì: “Sa quant’è mejo che va a fa’ schifo dréndo la càmbora, sènsa fàsse véde’ giuppe le strade, a da’ scàndolo!” E che po’ ’n facìa gnè de male. Dobo, sci per sorta cuélla lì se stizzàa co’ lo ragazzo, era fadìga che n’artròàa n’antro sa; cuélla Quella volta noi sapevamo qualcosa se si vedeva un cane, si vedeva un somaro, un gatto, un toro, però sapevi che erano diversi da noi, da noi femmine, se no come facevi a saperlo! Quella volta tra monelli non si doveva giocare insieme, maschi e femmine, eh! Cojó’, come ti chiamava subito quella povera mamma, se ti vedeva che giocavi con i maschi! E allora siamo cresciute sempre un po’ coglione! Pensate voi: quello che è venuto a fare l’amore in casa quanta pazienza avrà avuto con me! Perché bisognava andar piano con quegli scherzi là, perché, se faceva una cosa un po’ che non andava, io… via! Gli dicevo “licenziato” eh! Allora ci pensava, vedeva che io ero timida, non pensava che io ero stata con un altro, lo capiva anche lui, perché tanto si vedono subito le persone, le quaglie chiacchierate si capiscono subito. Diceva quella povera mamma: “Quella è una quaglia ‘strofellata’!” Quando si andava in giro, si vedevano quegli uomini che magari tenevano il braccio sul collo alle ragazze, che si baciavano vicino alla bocca, ma chi sapeva? Quella volta quella povera mamma diceva, quando vedeva così: “Sa quant’è meglio che va a fare schifo dentro la camera, senza farsi vedere per le strade e dare scandalo!” E che, poi, non facevano niente di male. Dopo, se per caso quella (ragazza) lì si lasciava per un litigio con il ragazzo, era fatica che ne ritrovasse un altro sa; 244 che avìa fatto a l’amore, cuélla sci che la stroffellàa cuél’altro segondo, che ce venìa, perché ìa paura ch’era stada co’ n’antro, cuélla scì che c’era da combatte cuélla pôra donna finché ’n pïàa marìdo. Pure cuélle che gèra a casa de lo ragàzzo era strofellàde. ’Ste sorelle mia miga ce l’ha fatte gi’, ci’hà comensàdo a gi’ ’mpo’ la segónda e la tersa, ma la prima ’n ce l’ha fatta gì’ mae. E po’ ’n c’è gida da sola manco la segónda, c’è gida cuélla pôra nonna, perché lìa s’anvergognàa. Perché ha ditto: “E sci te lassa gi’ dobo, sai stada anca a casa de lo ragazzo. Sai matto que fèra de male, perché era stada a casa de lo ragazzo... È che lìa non ce podìa gì’ diedro, qualla pôra mamma, perché ’n ce gèra nisciuna. S’anvergognàa, ìa paura che magari fosse gidi su la càmbora, aésse fatto cualchicò’... quella che era stata fidanzata, quella sì che la interrogava il secondo che andava da lei, perché aveva paura che fosse stata con un altro, quella povera donna sì che aveva da combattere finché non aveva preso marito! Pure quelle che andavano a casa del ragazzo erano chiacchierate. Alle sorelle mie mica ce l’ha fatte andare, ci avevano cominciato ad andare un po’ la seconda e la terza, ma la prima non ce l’ha fatta andare mai. E poi non c’è andata da sola neppure la seconda, c’è andata (insieme) quella povera nonna, perché lei si vergognava”. Diceva la povera mamma: “E se dopo ti lascia, sei stata anche a casa del ragazzo…!” Sai mai che cosa faceva di male ad andare a casa del ragazzo! È che lei non ci poteva andare dietro, quella povera mamma, perché non ci andava nessuna. Si vergognava, aveva paura che magari (i fidanzati) fossero andati sulla camera, avessero fatto qualcosa… Boh, sci se baciàa… Boh, se si baciavano… Dobo che ero sposàda, tante vo’ ié l’ardicéo: “A mamma, vo’, pe’ sapé’ tutte ste cose, pe’ èsse coscì maliziosa... ce séde passàda anca vo’… apposta...” E lìa me dicéa: “Sa che ce so’ passàda anch’io, ma guai sci te vidìa cuélla pôra mamma mia, manco che t’affacciassi su la finé’ in due non volìa, avìa paura che stèmma troppo vicino!” Pensa ’mpo’, lìa Dopo che ero sposata, tante volte glielo dicevo: “Mamma, voi’, per sapere tutte queste cose, per essere così maliziosa… ci siete passata anche voi, apposta…” E lei mi diceva: “Sa che ci sono passata anch’io, ma guai se ti vedeva quella povera mamma mia, non voleva neppure che ti affacciassi sulla finestra in due, aveva paura che stessimo troppo vicini!” Pensa un po’, 245 pure a diciott’anni ancó’ non fèra l’amore, a diciannove ha sposàdo: ha fatto l’amore ’n’annàda con cuél pôro babbo. Dev’èsse’ che anca pe’ lóra prima ce volìa ’mpo’ a conóscese, miga se pô fa’ como…, ne ’l so como chi…, ... como le dinde che, quanno vede ’l dindo, se prepara. Envéce ’na ò con tutte cuélle cose che c’era, ’n c’era mango le spiegazió’, gnè’, ’n se sapìa gnè. Ade’ è gambiàdo nigò! ‘Na vo’, m’arcordo, gèra a scòla e a fa’ i còmpidi io era ’mpo’ svéltra, allora la maestra me dicìa: “Te che già hai finido a fa’ ’l còmpido, vàmme su alto, di’ a Desdè sci me fa ’n goccio de tè”. E allora sa, io vô su, non è che chiamo. So’ passàda ’nté la scòla, de dréndo, lì c’era le scale che portàa sùbbedo su casa. So’ gìda su, ma po’, quanno so’ stàda lì, me so troàda davanti ’na scèna: c’era Desdè che se baciàa co’ lo ragazzo. Boh sci se baciàa, che ne so... stèrene ’ttaccàdi! Quanno ha visto a me, è ’rmàsti ’mpo’ male perché lóra no ’l pensàa: sapìa che la maestra fèra la scòla! I’hò ditto: “Desdè, ha ditto la maestra che ié fàde ’n goccio de tè o capomìlla ché ié dôle lo stòmmigo”: E po’ so’ fujàda via perché m’ha fatto brutto a véde’ luscì. Capirai, ancó io fèra la segonda! M’ha dìtto: “Vène chì, vène chì, c’adè ’l fô sùbbedo!” Io prò spettàa ’nté le scale, perché cuéll’ômo lì me facéa piedà a vedéllo. Dobo l’ho spettàdo, ha fatto ’sto tè e po’ l’ho portàdo giù a la maestra. lei pure a diciott’anni ancora non era fidanzata, a diciannove aveva sposato: è stata fidanzata un anno con quel povero babbo. Dev’essere che anche per loro prima ci voleva un po’ di tempo per conoscersi, mica si può fare come, non lo so come chi… come le tacchine che, quando vedono il tacchino, si preparano. Invece una volta con tutte quelle cose che c’erano, non c’erano neppure le spiegazioni, niente, non si sapeva niente. Adesso è cambiato tutto quanto. Una volta, mi ricordo, andavo a scuola e a fare i compiti io ero un po’ svelta, allora la maestra mi diceva: Tu, che hai già finito a fare il compito, vammi su alto, di’ a Desdè se mi fa un goccio di tè”. E allora, sa, io vado su, non è che chiamo. Sono passata nella scuola, dentro, lì c’erano le scale che portavano subito in casa. Sono andata su, ma poi, quando sono arrivata lì, mi sono trovata davanti una scena: c’era Desdè che si baciava con il ragazzo. Boh, se si baciavano, che ne so… stavano attaccati! Quando mi hanno visto, sono rimasti un po’ male, perché non ci pensavano: sapevano che la maestra faceva la scuola! Gli ho detto: “Desdè, ha detto la maestra se le fate un goccio di tè o camomilla, perché le fa male lo stomaco!” E poi sono fuggita via, perché m’ha fatto brutto vedere così. Capirai, ancora io facevo la seconda! Mi ha detto: Vieni qui, vieni qui, che adesso lo faccio subito!” Io però aspettavo sulle scale, perché quell’uomo lì mi faceva pietà a vederlo. 246 Io sitta como ’na mosca: miga l’ho ditto mango a mamma quanno so’ gìda a casa. Ci’hò pensàdo sempre sa, me so’ ’rcordàda prò, quann’èra granna be’, che comensàa a capì’ anch’io cuél ch’èra a sta’ co n’ômo. Dicìa: “Vedi que facéa cuélla! ’L sapìa lìa, ché se vulìa be’ ”. Dopo ho aspettato, ha fatto questo tè e poi l’ho portato giù alla maestra. Io zitta come una mosca: mica l’ho detto nemmeno a mamma, quando son tornata a casa. Ci ho pensato sempre, sa; mi son ricordata quando ero grande bene e cominciavo a capire anch’io quello che era a stare con un uomo. Dicevo: “Vedi che faceva quella! Lo sapeva lei, perché si volevano bene!” Cuélli d’adè’ Quelli di adesso Cuélli d’adè’ ’n ce fa più caso, io tante le ò vô via col treno, vô a troà mi fija, che sta lassù che s’è sposàda a Pesaro. Su cuél treno se baciane, s’abbracciane e su l’auto de la città, ch’è chiamado ‘l’auto de la città’, lì pure se baciane, se ’bbracciane, guàsci me fa pietà a vedélli, sarà perché ormai è svanìdo nigò per nuà, ma tanto quanto era bello prima. Te vedéi se pïàvane pe’ la mane e se volíane be’, e se volìa be’ como cuélli d’adè’ sa. Penso che cuélli d’adè, quanno che è passàdi tre quattro mesi saranno stufi peggio... del porco c’arbàlta ’l tròcco. Per forsa no, appena se conósce già comènsàne a gi’ insieme, comensàne guasci già a gi’ a letto insieme e coè ’na robba normale! Dobo sa, capirai, quann’è al tempo nostro cuélli ’n se guardàne più mango col binògolo! È perché ènne stufi no! ’Nvece noà, capirai, quanno che Quelli di adesso non ci fanno più caso; io talvolta vado via con il treno, vado a trovare mia figlia, che sta lassù, perché si è sposata a Pesaro. Su quel treno si baciano, si abbracciano e sull’auto di città lì, che è chiamato ‘l’auto di città’, lì pure si baciano, si abbracciano, quasi mi fanno pietà a vederli: sarà perché ormai è svanito tutto quanto per noi, ma tanto quanto era bello prima! Tu vedevi che si prendevano per mano e si volevano bene; ci si voleva bene come quelli di adesso, sa. Penso che quelli di adesso, quando son passati tre quattro mesi, saranno stufi peggio… del porco che ribalta il truogolo. Per forza no, appena si conoscono già cominciano quasi ad andare a letto insieme e che cos’è, una roba normale! Dopo sa, capirai, quando sono all’età nostra quelli non si guardano più nemmeno con il binocolo! È perché sono stufi, no! Invece noi, capirai, quando sono 247 so’ gìda a fa’ lo striscio, lo sfrìscio, boh nel so mango como se chiama, me dicéa: “Quanno éde ûdo i primi rapporti?” “E quanno càoli l’ho ûdi, a vent’anni, quanno me so’ sposàda!” E co’ è como cuélle d’adè che a dodici’anni comènsa già a gi’ co’ l’ômmini! Non tutte, ma parecchie scì, eh! Adè’ dìcene che ci’hanne da gi’, è mejo... vedremo ’mpo’ come gìmo a fenì’... me sa miàndo de campà’ qualche altro anno, sci ci’arìvo, nel duemila ci’ariverò, ma me sa miando da véde’ cuél che succederà, co’ ’st’avanzamendo che fanne, co’ st’ intelligenza: ié parene da capì’ tanto più che noà. Vedi già se véde chì: i fjòli non nascene più, ci’hanne tutti i mezzi adè. Cuélla vo’ io non sapéa mango cuél che era, sentìa a di’ tante le ò... passàa anca da cojóna ché n’éa visto mango co’ era mai. La prima vo’ l’ho visti, quann’era al tempo de guèra. Ìo visto cha a ’n tedesco iè cascàda per tèra ’na scatolétta, ié s’è ropèrta, iè cascàda per terra cuélla robba. I’ho ditto a mi’ marìdo: “Que sarà cuélla?” Dobo c’era gli sfollàdi giù casa nostra, c’era Vincè de Tajanèllo, c’era ’l padró’ ’l padre, la madre, e c’era Maria de Landó col marìdo, che sarìa stado Peppe de Landó e... me guardàa, s’è messi a rìde’, m’ha ditto: “Chiaré’, Chiaré’...!” E chissà co’ ha da di’ “Chiaré’ Chiaré’, sci n’ìo visto mae, che càolo ne so a que servìa. Eh, adè tutte ’ste cose andata a fare lo striscio, lo ‘sfriscio’, boh, non lo so neppure come si chiama, mi diceva: “ Quando avete avuto i primi rapporti?” “E quando cavolo l’ho avuti? A vent’anni, quando mi sono sposata!” E che cos’è come quelle di adesso che a dodici anni cominciano già ad andare con gli uomini! Non tutte, ma parecchie sì, eh! Adesso dicono che ci devono andare, è meglio… Vedremo un po’ come andremo a finire… non vedo l’ora di campare qualche altro anno, se ci arrivo… Nel duemila ci arriverò, ma non vedo l’ora di vedere quello che succederà, con questo avanzamento che fanno, con questa intelligenza: gli pare di capire tanto più di noi! Vedi, già si vede da qui: i figli non nascono più, hanno tutti i mezzi adesso (per non farli nascere). Quella volta io non sapevo neppure quello che erano, (ne) sentivo parlare tante le volte… passavo anche da cogliona, perché non avevo visto mai neppure cosa fossero (i preservativi). La prima volta li ho visti, quando era al tempo di guerra. Avevo visto che a un tedesco era cascata per terra una scatoletta, gli si è aperta, gli è cascata per terra quella roba. Gli ho detto a mio marito:” Che cosa sarà quella?” C’erano gli sfollati a casa nostra, c’era Vincè de Tajanello, c’era il padrone con il padre e la madre, c’era Maria di Landó con il marito, che sarebbe Peppe di Landó e … mi guardavano, si sono messi a ridere, mi ha detto: “Chiaré’ Chiaré’…! E chissà che avevano da dirmi “Chiaré’ Chiaré’, se non li avevo visti mai, che 248 nòe, modèrne, prò le maladìe me sa che ce n’è de più. I fiji ni vôle fa’ più nisciù’, uno è troppo, ’nvece me sa che, per cuél che dice, bisogna fàlli i fiji, perché scinó in Italia gìmo male, semo cuélli che sémo più addiedro de tutti. Adè’ va be’ che ci’hanne da gi’ a fadigà’, ’n c’è nisciù’ che li guarda; è vero che li sbatte de qua li sbatte de là, ma sci arpïàsse le moda de ’na ò, che ce fusse ’mpo’ meno lusso, ’mpo’ meno còsa, a tené’ ’mpo’ più accónto e a fa’ qualche fijo de più, capàce che se tròa mejo anca lóra quanno è più vecchi, perché almeno... Io vedo che quanno so’ stada all’ospedale, ce n’ho tre de fiji, ’na ’olta me ce venìa uno, ’na ’olta me ce venìa n’antro, sola ’n so’ stada mae; ’na ’olta me ce stèra mi’ marìdo, ’na ’olta me ce stèra cuéllo più granno, ’n’antra vo’ ’l segondo, ’n’antra ò la più piccola e po’ c’era le móje, c’era i marìdi, como sia sola ’n ce so’ stada mae. Ma chi ci’ha ’n fijo solo, ma chi vôi che te ce sta sempre? Eh, ci’hanne da fa’, dobo sci ci’ha ’n fijo, magàri ci’ha ’n nipode, ha da guardà’ a cuéllo, ’n te ce pôle venì’ no! ’Nvéce a la notte a me me c’è stadi sempre, quanno c’è stado bisogno. Dobo ce se lamenta ma io ne ’l so... cavolo ne sapevo a che cosa servivano! Eh, adesso tutte queste cose nuove, moderne, però le malattie, mi sa che ce ne sono di più. I figli non li vuole più nessuno, uno è troppo, invece mi sa che, per quello che si dice, bisogna farli i figli, perché se no in Italia andiamo male, siamo quelli che sono più indietro di tutti. Adesso va bene che hanno d’andare a lavorare, non c’è nessuno che li guarda (i figli); è vero che li sbattono di qua li sbattono di là, ma se riprendesse la moda di una volta, che ci fosse un po’ meno lusso, un po’ meno cose, a tenere un po’ più a conto e a fare qualche figlio di più, forse si troveranno meglio anche loro, quando saranno vecchi, perché almeno… Io vedo che quando sono stata all’ospedale, ce ne ho tre di figli, una volta veniva uno, una volta me ce ne veniva un altro, sola non sono stata mai. Una volta mi ci stava mio marito, una volta mi ci stava quello più grande, un’altra volta il secondo, un’altra volta la più piccola e poi c’era la moglie, c’erano i mariti: come sia, sola non ci sono stata mai. Ma chi ha un figlio solo? Ma chi vuoi che ti ci stia sempre? Eh, hanno da fare. Dopo, se ha un figlio, magari ha un nipote, ha da badare a quello, non ti ci può venire no! Invece la notte mi ci sono stati sempre, quando c’è stato bisogno. Dopo ci si lamenta, ma io non lo so… 249 La biscighetta La bicicletta Parlamo sempre de cinquant’ani fa, anca de più, quanno ’nté le famèje c’era malappéna ’na biscighétta: ’ndó c’era tre o quattro giovini, la piàa ’na festa perù’; le donne toccàa a falla sempre a pìa. Io ci’hò ’mparado a gìcce da monella, con cuélla da ômo, ma per me non c’era mae. Quanno me so’ fatta lo ragazzo, lu’ ce lìa da donna, però avìa fatto ’na taolétta al posto della canna. Dobo che me so’ sposada, me portàa ’nté la taolétta, prima de sposasse cuélle poghe license che era a casa, me mettìo a sède’ sul manubrio. Eppure era bello: se stèra a faccia a faccia, coi bracci mia sul collo sua. Stasera, mentre scrivo, c’è la televisió’, fa véde’ “gheo&gheo”: là in India va via in bicicletta. L’ho ditto co’ mi’ marido: “Vedi cuélli è como noà sessant’anni fa. Anche “Linia verde” è gido là, è calado giù dall’apparecchio, cuéll’aspèrto, ha preso la biscighétta e ci’hà carcàdo anca ’na donna che sapìa parlà’ be’ l’italiano, ’nté cuélle strade de terra e sassi pròpio como ’na ò da nóà. M’arcòrdo che ’na ò me s’è stizzata cuélla pôra mamma. Noà c’émma parenti a Senigàja e c’era du’ cugine, tre ansi, ma due era propio amìghe mia. Venìa su ’gni tanto a la doménniga, venìa a magnà’ su casa. Era venùde su cuél giorno col tandem. Dobo i’ho ditto: “Me l’amprestàde, ’l lassàde quassù ché Parliamo sempre di cinquant’anni fa, anche di più, quando nelle famiglie c’era a malapena una bicicletta: dove c’erano tre o quattro giovani, la prendevano una festa per uno; alle donne toccava sempre ad andare a piedi. Io ho imparato ad andarci da monella, con la bicicletta da uomo, ma per me non c’era mai. Quando mi son fatta il ragazzo, lui ce l’aveva da donna, però aveva preparato una tavoletta al posto della canna. Dopo che mi sono sposata mi portava sulla tavoletta; prima di sposarmi, durante quelle poche licenze quando era a casa, mi mettevo a sedere sul manubrio. Eppure era bello: si stava a faccia a faccia, con le braccia mie sul collo suo. Stasera, mentre scrivo, la televisione fa vedere “Geo & Geo”: là, in India, vanno via in bicicletta. L’ho detto con mio marito: “Vedi quelli sono come noi sessant’anni fa. Anche (il presentatore di) “Linea verde” è andato là, è sceso giù dall’aeroplano, quell’esperto, ha preso la bicicletta e ci ha caricato anche una donna che sapeva parlare bene l’italiano: quelle strade di terra e sassi erano proprio come quelle di una volta da noi. Mi ricordo che una volta mi si è stizzata quella povera mamma. Noi avevamo dei parenti a Senigallia e c’erano due cugine, anzi tre, ma due erano proprio mie amiche. Venivano su ogni tanto la domenica, venivano a mangiare a casa nostra. Quel giorno erano venute su col tandem. Dopo gliel’ho 250 dopodomà’ c’émo da gi’ a Jesi. E ce l’ha lassàdo. Donca so’ gìda a Jesi con la biscighetta, col tandem, co’ mi’ ragazzo, ch’era in licènsa: quanto m’ha piaciùdo! Io ’n sapéa mango cuél che era: du’ biscighette ’taccàde assieme. Prò sémo gìdi a Jesi a portà’ la ròbba al padró’, dobo c’era l’amici de lo ragazzo mia, che l’era gìdo a troà’ che cuélla vo’ fèra ’l soldàdo insieme. Quanto m’è piaciùdo suppe cuélla strada, io stèra diedro, mi’ ragazzo stèra avanti. Cuélla pôra mamma è stàda stizzàda otto giorni, perché ce so’ gìda col mi’ ragazzo. Capirai, c’émma portàdo mi’ nepóde con noà, l’èmma messo davanti, ’nté ’l portabagài, pensa ’mpo’. Chissà ’ndó lassài cuéllo, sci volìi fa’ cualchicò’! Mango ’n bacio te podìi da’, perchè cuéllo arcontàa nigò! detto: Me lo prestate? Lo lasciate quassù perché dopodomani dobbiamo andare a Jesi”. E ce lo hanno lasciato. Dunque sono andata a Jesi con la bicicletta, col tandem, con il mio ragazzo che era in licenza: quanto mi è piaciuto! Io non sapevo neppure quello che era: due biciclette attaccate insieme. Però siamo andati a Jesi a portare la roba al padrone; dopo c’erano gli amici del mio ragazzo, che lo erano andati a trovare quella volta che faceva il soldato insieme. Quanto mi è piaciuto su per quella strada: io stavo dietro, il mio ragazzo avanti. Quella povera mamma è stata stizzata otto giorni, perché ci sono andata con il mio ragazzo. Capirai, avevamo portato con noi mio nipote, l’avevamo messo davanti, nel portabagagli, pensa un po’! Chissà dove lo lasciavi quello, se volevi fare qualche cosa! Neppure un bacio ti potevi dare, perché quello raccontava tutto! Porte vecchiotte e… magó’ Porte vecchiotte e… magoni! Vedède vuà, è proprio coscì. ’Gni tanto ’nté ’sto cervello c’è ’mpo’ de cianfrusàja: s’è mistigàde le cose de ’na ò con cuèlle d’adè’ e ’n se finisce mae d’arcontà’. Allora, quanno ch’era giovena, se gèra ’nté la càmbora co’ lo ragazzo, ma stàde a sentì’ quanto era rigoróso. La porte de ’na ò, como nigò, era ’mpo’ vecchiotte e i càlchini era ’mpregnàdi de rùgena. Quanno se roprìa e chiudìa anca Vedete voi, è proprio così. Ogni tanto in questo cervello c’è un po’ di cianfrusaglia: si sono mischiate le cose di una volta con quelle di adesso, e non si finisce mai di raccontare. Allora, quando ero giovane, si andava nella camera con il ragazzo, ma state a sentire quanto rigore c’era. Le porte di una volta, come tutto quanto, erano un po’ vecchiotte e i cardini erano pieni di ruggine. Quando si aprivano e si chiudevano anche con 251 col vento, fèva cuél cigolìo iiih… iiih! Babbo ’mpolìa sentì’ e via co’ la ’mpollìna dell’ojo e ’na penna de dindòla, lónga, cuélla delle l’ale, e dàje a passà’ ’nté tutti i càlchini a vógne’. E ’nté cuélla della càmbora mamma ce ’rbuttàa ’mpo’ de cénnera pe’ non fàlla socchiùde’, ma non gioàa: se ribattìa uguale. Allora ìa ’mparàdo a póntàcce ’na scarpa. Pensàde vuà che rigorosità: c’era ’rmàsto venti giorni de sposàmme! Io dicìo: “Ma, mamma!” Sci io leào la scarpa, lìa ce la ’rmettìa. “Fija mia: non se pô di’ quattro, scinànta che n’è drendo al sacco!” La ronda era sempre in agguàdo, sci ’mpodìa fa’ altro, mannàa oltra a babbo col fiasco del vì, ché lu’ bastàa podìa da’ da bé’ a uno ch’era tranquillo. Jé dicìa mi’ fradèllo: “Mamma stasera è de guardia!” Lìa era tranquilla quanno ìa finido la licenza, allora se rilassàa. Quanto peso i’averò leàdo cuél giorno che me so’ sposada! Ìa ragió, ce so’ passàda anch’io co’ le fémmene. Quanto è bello cuél giorno, ’l più bello de la vida. Dicìa: “C’è tanto tempo dopo!” Ma perché sa da passà’ cuél magó? Tanto più che se dice del magó’, sentìde cuésta. C’era una giovena, ’mpo’ addetràda, che curàa ’l panno ’nté ’l fiume. Passa ’n frade, se ferma, ié dice: “Que fa signorina? Se prepara la dòda per pià’ marido?” Lìa: “Scì!” E lu’: “Ié l’ha spiegàdo nisciù che prima de sposàsse deve toje’ ’l vèrmene drendo?” “E lìa: No! E como se fa a il vento, facevano quel cigolio iiih… iiih! Babbo non poteva sentire e via con l’ampollina dell’olio e una penna di tacchina, lunga, quella delle ali, e forza a passare ad ungere tutti i cardini. E in quella della camera mamma ci buttava anche un po’ di cenere per non farla socchiudere (da sola), ma non giovava: si ribatteva ugualmente. Allora (mamma) aveva imparato a puntarci una scarpa. Pensate voi che rigore: c’erano rimasti venti giorni per sposarmi! Io dicevo: “Ma… mamma!” Se io levavo la scarpa, lei ce la rimetteva: “Figlia mia, non si può dir quattro, finché non è dentro il sacco!” La ronda era sempre in agguato, se non poteva far altro, mandava babbo con il fiasco del vino, perché a lui bastava poter dar da bere a uno che era tranquillo. Gli diceva mio fratello: “Mamma stasera è di guardia!” Lei era tranquilla, quando (il ragazzo) aveva finito la licenza, allora si rilassava. Quanto peso le avrò levato il giorno che mi sono sposata! Aveva ragione, ci sono passata anch’io con le femmine. Quanto è bello quel giorno, il più bello della vita. (Mamma) diceva. “C’è tanto tempo dopo!” Ma perché si deve passare quel magone? Tanto più che si dice del magone, sentite questa. C’era una giovane, un po’ arretrata, che curava il panno nel fiume. Passa un frate, si ferma e le dice: “Che cosa fa signorina? Si prepara la dote per prender marito? Lei: “Sì!” E lui: “Glielo ha spiegato nessuno che prima di sposarsi deve togliere il verme 252 leàllo?” E lu’ i’hà ’mparàdo. È ’rgìda a casa incaolàda co’ la madre: “Perché non m’hai ditto niè’? Non podìo sposà’, sci non leào ’l vèrmene!” Ha spiegàdo como ìa fatto. La madre se métte a piàgne’: “Fija mia, ormai non te sposa più nisciù!” Al giorno appresso arvà giù ’l fiume, arpàssa ’sto frade, ié dice: “Como va?” “Ah scì, mamma ha ditto che ormai non me sposa più nisciù… senza ’l vèrmene!” E ’l frade, che ne sapìa una più del deàolo: “Sta’ tranquilla, sci è per cuésto… adè ce l’armettémo sùbbedo!” È vero? Che ne so! L’ho’ntéso a ’rcontà’! dentro? E lei: “No! E come si fa a levarlo?” E lui glielo ha insegnato. (La giovane) è tornata a casa incavolata con la madre: “Perché non mi hai detto niente? Non potevo sposare, se non levavo il verme dentro!” Ha spiegato come aveva fatto. La madre si mette a piangere: “Figlia mia, ormai non ti sposa più nessuno!” Il giorno dopo ritorna al fiume, passa di nuovo quel frate che le dice: “Come va?” “Ah sì, mamma ha detto che ormai non mi sposa più nessuno… senza quel verme!” E il frate, che ne sapeva una più del diavolo: “Sta’ tranquilla, se è per questo… adesso ce lo rimettiamo subito!” È vero? Che ne so! L’ho sentito raccontare! Quanno s’è sfasciàdo nigò… Quando si è sfasciato tutto quanto Adè ve vojo ’rcontà’ ’mpo’ la guerra. Avrìa finido a settembre del ’43, chìa deposidado l’arme l’Italiani, e noà se fumma ’mpo’ tranquillizzadi. È vero che ’ncó tanto ’sti fradèlli e mi’ ragazzo era sotta l’arme, però pensamma che presto i podémma ’rvéde’, envéce dobo scì ch’è venùdo ’l peggio! Non podémma avé’ mango più notizzie, perché sci scrivìa scoprìa ’ndó era nascosti. Appena s’è sfasciado nigò, cioè s’è messo giù l’arme, i comannanti dei soldadi italiani i’hà ditto: “Scappàde ’ndó ve pare, non ve fade pïà’ scinò ve porta al Adesso vi voglio raccontare un po’ della guerra. Sarebbe finita nel settembre del ’43, perché gli Italiani avevano deposto le armi e noi ci eravamo un po’ tranquillizzati. È vero che ancora tanto i miei fratelli quanto il mio ragazzo erano sotto le armi, però pensavamo che presto li avremmo potuti rivedere, invece dopo sì che è venuto il peggio! Non potevamo più avere nemmeno notizie, perché, se scrivevano, scoprivano dove erano nascosti. Appena si è sfasciato tutto quanto, cioè si son deposte le armi, i comandanti dei soldati italiani gli hanno detto: “Scappate dove vi pare, non vi fate prendere se no vi 253 campo de concentramento. Un fradello mia, che fèra ’l soldado a Trieste, l’ha pïàdo con tanti altri compagni, l’ha portadi al campo de concentramento, in Isbruc Ger mania e lì è ’rmasto, è morto de fame. Era ’n ragazzo alto un medro e settantasette, pesàa ’n’ottantina de chili. Quanno è morto, era ’rdótto a pesà’ ’na trentina de chili. Se sfamàa co’ le bucce delle cartófe, sarìa padade ’rcolte ’nté i buzzi della monnézza. Questo ce l’ha ’rcontàdo ’n’amìgo che era co’ lu’. Ci’hà ’rportàdo l’arlògio e ’l borcellì’. Cuéllo è scappàdo via, ha aùdo fortuna da ’rnì’ a casa, ma era ’n’azzardo! Sci s’accorgìa, te tiràa ’na schioppettada como ’mpàssero. Mi’ fradello ìa paura e non s’è mosso: pôrìno, che morte avrà fatto! Ci’hà ditto cuél compagno che piagnìa sempre. Ce credo: ha lassado a casa la moje, che stèra male, e du’ fjolétti che l’ho tiradi su io, chè dobo la moje è morta anca lìa a 33 anni, la stessa edà de mi’ fradello. Anca lu’ è morto a 33 anni. Pôra mamma, quanno l’ha sapudo! Lìa e babbo ce gèrene via de testa. Dobo anca de cuéll’altro fradello è venuda la nòva che ’n cìa più ’n’occhio, ié lìa cavàdo ’na scheggia sul fronte russo. Quanno è successo lu’ non ce vedìa più;’ n’antro compagno sua cìa le gambe spezzade. Allora mi’ fradello l’ha carcàdo su le spalle tutto ’nsanguenàdo, cuéllo ’l guidàa e lu’ ’l portàa senza a vedécce. È portano al campo di concentramento. Un mio fratello che faceva il soldato a Trieste, l’hanno preso con tanti altri compagni, l’hanno portato al campo di concentramento a Innsbruck, in Germania, e lì è rimasto, è morto di fame. Era un ragazzo alto un metro e settantasette, pesava una ottantina di chili; quando è morto, era ridotto a pesare una trentina di chili. Si sfamava con le bucce, raccolte nei bidoni dell’immondizia, delle ‘cartòfe’, che sarebbero patate. Questo ce l’ha raccontato un amico che era con lui. Ci ha riportato l’orologio e il borsellino. Quello è scappato via, ha avuto fortuna di ritornare a casa, ma era un azzardo! Se si accorgevano, ti tiravano una schioppettata come a un passero. Mio fratello aveva paura e non si è mosso: poverino, che morte avrà fatto! Ci ha detto quel compagno che piangeva sempre. Ci credo: ha lasciato a casa la moglie, che stava male, e due figlioletti che l’ho fatti crescere io, perché dopo la moglie è morta anche lei a trentatré anni, la stessa età di mio fratello. Anche lui è morto a trentatré anni. Povera mamma quando l’ha saputo! Lei e babbo ci andavano via di testa. Dopo anche di quell’altro fratello è venuta la notizia che non aveva più un occhio, glielo aveva cavato una scheggia sul fronte russo. Quando è successo, lui non ci vedeva più; un altro compagno suo aveva le gambe spezzate. Allora mio fratello l’ha caricato sulle spalle tutto insanguinato: quello lo guidava e lui lo portava senza vederci. Ha camminato 254 caminàdo per parecchi chilomedri prima da ’rivà’ ’nté ’na infermerìa coi pìa mezzi congelàdi. Ha ditto che, sci se fermàa, se taccàa le scarpe per terra, da quanto era gelàdo. Dobo ha aùdo fortuna de ’rnì’ a casa. Sapé’ quanta pensió’ ié dèra? Ventottomila lire al mese: a cuéi tempi sarà stado como 200.000 lire adè’. E ié passàa ’n’occhio de vedro: cuélla era tutta la risorsa! Ma tanto dicìa ’sti genidori: “Mejo questo co’ ’n’occhio solo che l’altro per gnè!” E po’ non v’ho ditto de mi’ ragazzo. Dobo c’ha deposidado l’arme, non se sapìa ’ndó era gido a finì’. Pe’ ’mpò’ de tempo non podìa scrìve’, perché se trovàa ’nté ’n bosco, a pìa delle montagne de Torino. Erane ’mpo’ de fuggiaschi già da parecchi giorni. Dal principio dormìane ’nté ’na cappànna de cannucciàja, ma non cìa gnè da magnà’. Non cìa né carta né penna. Dobo tre o quattro giorni i’era venuda tanta fame; allora ha visto ’na casa da lóngo. Camminànno è gidi lì, ha bussado pe’ domandàje ’mpezzo de pa’, perché s’era sfamadi ’mpo’ solo co’ le bacche che c’era ’nté ’l bosco. Allora cuélla brava gente i’hà datto da magnà’ e i’hà datto anca i pagni da borghese, perché, se li vedìa i Tedeschi che era militari, li portàa tutti al campo de concentramento. E lì fadigàa ’nté i campi e ié dèra da magnà’. ’N giorno te védo ’rivà’ ’na lettra che dicìa: “Cara Chiara, il mio lavoro è cuéllo dei campi, sto bene, per parecchi chilometri prima di arrivare in un’infermeria con i piedi mezzo congelati. Ha detto che , se si fermava, si attaccavano le scarpe per terra da quanto era gelato. Dopo ha avuto la fortuna di ritornare a casa. Sapete quanta pensione gli davano? Ventottomila lire al mese: a quei tempi saranno state come duecentomila lire di adesso. E gli passavano un occhio di vetro: quella era tutta la risorsa! Ma tanto dicevano i miei genitori: “Meglio questo con un occhio solo che l’altro per niente!” E poi non vi ho detto del mio ragazzo. Dopo che (l’Italia) ha deposto le armi, non si sapeva dove fosse andato a finire. Per un po’ di tempo non poteva scrivere, perché si trovava in un bosco, ai piedi delle montagne di Torino. Erano alcuni fuggiaschi già da diversi giorni. Al principio dormivano in una capanna di canne di palude, ma non avevano niente per mangiare. Non aveva né carta né penna. Dopo tre o quattro giorni gli è venuta tanta fame; allora ha visto una casa in lontananza. Camminando sono andati lì, hanno bussato per domandare un pezzo di pane, perché si erano un po’ sfamati solo con le bacche che c’erano nel bosco. Allora quella brava gente, gli ha dato da mangiare e gli ha dato anche i vestiti da borghese, perché, se li vedevano i Tedeschi che erano militari, li portavano tutti al campo di concentramento. E lì (il mio fidanzato) lavorava nei campi e gli davano da mangiare. Un giorno ti vedo arrivare una lettera che diceva: “Cara Chiara, il mio 255 te saludo e questo è il mio indirizzo: Novero Alberto Vanda di Nole 42 Ciriè Torino”. Io ho pensado lì per lì: “E que sarà matto!” Dobo io piagnìa, babbo m’ha ditto: “Questo è ’nté ’na faméja, sta tranquilla, non te pôle spiegà’ scinò lo scopre, perché le lettre ènne tutte censuràde”. Ho pïàdo ’sta lettra e co’ la bicicletta vô giù casa della madre. Anca a lìa ié n’era ’rivàda una. Envece de dì’ ‘cara mamma’, i’hà scritto: “Cara Elvia, fadigo giù pel campo, sto bene, saluda anche Pasquale. Questo è l’inderizzo”. Allora i’hò risposto ’mpo’ più tranquilla, sensa fàmme capì’ ch’era la ragazza, poghe parole, solo per avé’ nodìzzie: era più de ’n mese che non se sapìa più gnè. Dobo me scrivìa qualche lettra, de rado, co’ l’inderìzzo de cuélla faméja, sensa spiegà gnè de como se troàa lì. Io ’rconoscìo la scrittura ch’era lu’. Anca alla madre ’l padre ié dicìa che stèra be’, avìa cambiàdo anca ’l nome per paura che i Tedeschi l’artroàa. lavoro è quello dei campi, sto bene, ti saluto e questo è il mio indirizzo: Novero Alberto Vanda di Nole 42 Ciriè Torino” Io ho pensato lì per lì: “E che sarà matto!” Dopo io piangevo, babbo mi ha detto: “Questo è in una famiglia, sta tranquilla, non ti può spiegare se no lo scoprono, perché le lettere sono tutte censurate”. Ho preso questa lettera e con la bicicletta vado a casa della madre. Anche a lei ne era arrivata una. Invece di dire “cara mamma”, le ha scritto: “Cara Elvia, fatico giù per il campo, sto bene, saluta anche Pasquale. Questo è l’indirizzo”. Allora gli ho risposto un po’ più tranquilla, senza farmi capire che ero la ragazza, solo per avere notizie: era più di un mese che non si sapeva più niente. Dopo mi scriveva qualche lettera, di rado, con l’indirizzo di quella famiglia, senza spiegare perché si trovava lì. Io lo riconoscevo dalla scrittura che era lui. Anche alla madre il padre le diceva che (il figlio) stava bene: aveva cambiato anche il nome per paura che i Tedeschi lo ritrovassero. Ventisette giorni coi pìa che sanguinàa Ventisette giorni con i piedi che sanguinavano È passado ’mpo’ de tempo e mi’ fradello se volìa sposà’ co’ la sorella de mi’ ragazzo. Allora ié scrivo ’na léttra dicendo: “Lucio e Daria se sposa e tu’ padre vôle che io sposo per progura, perché non manna via È passato un po’ di tempo e mio fratello si voleva sposare con la sorella del mio ragazzo. Allora gli scrivo una lettera dicendo: “Lucio e Daria si sposano e tuo padre vuole che io mi sposo per procura, perché non manda via la 256 la fjòla, sci non vô giù io”. Cuélla vo’ se podìa sposà’ anca con pezzo de carta, c’era ’sta legge chì, ma io non era d’accordo, mango mamma non era contenta: sci ’l marido morìa, alla moje ié dèra la pensió’. Allora mi’ ragazzo, quanno ha ’ntéso ’sta lettra, erane in quattro militari, ha ditto: “Io azzardo a gi’ a casa: chi vôle venì’ con me?” Lassù l’alte montagne cominciàa a essèce tanta neve, dormìane ’nté ’na capanna e decisero de partì’ in due, cuéll’altri piagnìa. Ha preso a campi, ’nté le strade manco sìa da presentà’: Tedeschi e fascisti era sempre in circolazió’. Fossi, fiumi, trovàa brava gente che l’aiudàa a traversà’ co’ la barca. Era novembre, è caminàdi per ben 27 giorni coi pìa che sanguinàa. A ’rcontà’ tutto ’l tragitto ce vô ’n quaderno pîno pîno! È ’rivàdi a casa con vestido da sposo, che ié lìa datto ’sta faméja, cuéllo del marido. Pensade vuà quanno l’ho visto! Non è vero!, non è vero! Eppure era lu’. Anca a casa prò non se podìa fa’ vede’ in giro perché si ’l vidìa i Tedeschi, ’l portàa via: como sentìa a bajà’ ’l ca’, sùbbedo drendo al rifuggio. Drendo 20 giorni ha volsùdo sposà’, perché, como ho ditto, mi’ fradello se sposàa co’ la sorella. Io non volìa perché era stada insieme solo quattro licenze da 15 giorni e ’l mese de convalescenza: mango ’l conoscìo be’. figlia se non vado giù io”. Quella volta ci si poteva sposare anche con un pezzo di carta, c’era questa legge qui, ma io non ero d’accordo, nemmeno mamma era contenta: se il marito moriva, alla moglie le davano la pensione. Allora il mio fidanzato, quando ha compreso la lettera, erano in quattro militari, ha detto: “Io azzardo a tornare a casa: chi vuole venire con me?” Lassù sulle alte montagne cominciava ad esserci tanta neve, dormivano in una capanna e decisero di partire in due, quegli altri piangevano. Ha preso per i campi, sulle strade nemmeno si doveva presentare: Tedeschi e fascisti erano sempre in circolazione. Fossi, fiumi… trovavano brava gente che li aiutava ad attraversare con la barca. Era novembre, hanno camminato per ben ventisette giorni con i piedi che sanguinavano. A raccontare tutto il tragitto, ci vorrebbe un quaderno pieno pieno. (Il mio ragazzo) è arrivato a casa con il vestito da sposo, che glielo aveva dato quella famiglia, il vestito del marito. Pensate voi quando l’ho visto! Non è vero, non è vero! Eppure era lui! Anche a casa, però, non si poteva far vedere in giro, perché se lo vedevano i Tedeschi, lo portavano via: come sentiva abbaiare il cane, subito dentro al rifugio! Entro venti giorni ha voluto sposare, perché, come ho detto, mio fratello si sposava con la sorella. Io non volevo perché ero stata insieme solo durante le quattro licenze e il mese di convalescenza: nemmeno lo conoscevo bene! 257 ’Mpàr de galli e la móje al padró’ Un paio di galli e la moglie al padrone Quando presentasci al padró’ ’na moje ’mpo’ bella, ce fèsci la vernia tua e ’l padró’ te lodàa; ma, sci era tanto e quanto, fèsci magra figura, perché ’na ò, non so sci ve l’ho ditto, c’èra ’sta moda chì. Dopo ’mpo’ de giorni che ìsci preso moje, piàsci ’mpar de galli e presentài la moje al padró’. E dobo te ’rdèra qualchicò’ da regalo. Cuélla vo’, quanno sposàsci, se boccàa ’nté ’na faméja anca de 25 e 30 persone, ’ndó c’era 4 o 5 nòre, se dicìa 4 o 5 canti, ’gnuno cìa 3 anca 4 monelli, al tempo mia; scinò cuélli più grandi ce nìa anca 7 o 8. E dopo le fameje apposta era ’mbellipò’. Cuélla vo’ i padrù’, como v’ho ditto, s’intromettìa anca ’nté ’ste cose chì. Vulìa véde’ sci era ’na donna svéltra, messa be’. Pensade vuà che a babbo mia la móje iè l’ha scelta la padróna ’l giorno che battìa ’l gra’. La padrona guardàa da su la finè, tanto a pesà’ ’l gra’ c’era ’l fattó’. Quanno magnàa ha ditto: “Adè scegliemo la ragazza a Nenè!”. Ce n’era ’mbràngo de ’ste bardàsce, s’è guardàde da una coll’altra. La padrona ha ditto forte: “Mimma d’Argentì’!” Cuell’àltre è ’rmàste ’mpo’ male, perché babbo era ’mbòn partìdo e de ’na famèja stimàda. E da lì è partìda la storia d’amore; mamma cìa sedici’anni, a diciotto ha sposàdo. Ogni tre anni nascìa ’n monèllo. Quando presentavi al padrone una moglie bella, ci facevi la figura tua e il padrone ti lodava; ma se era tanto e quanto facevi una magra figura, perché una volta, non so se ve l’ho detto, c’era questa moda qui. Dopo un po’ di giorni che avevi sposato, prendevi un paio di galli e presentavi la moglie al padrone. Dopo ti dava qualcosa come regalo. Quella volta, quando ti sposavi, si entrava in una famiglia anche di venticinque o trenta persone, dove c’erano quattro o cinque nuore, si diceva quattro o cinque “canti”: ogni ‘canto’ aveva tre anche quattro monelli al tempo mio, se no quelli più grandi (di me) ce ne avevano anche sette o otto. E dopo nelle famiglie apposta erano in molti. Quella volta i padroni, come vi ho detto, si intromettevano anche in queste cose qui. Volevano vedere se era una donna svelta, messa bene. Pensate voi che a babbo la moglie gliel’ha scelta la padrona il giorno che trebbiava il grano. La padrona guardava dalla finestra, tanto a pesare il grano c’era il fattore. Quando mangiavano ha detto: “Adesso scegliamo la ragazza a Nenè!” Ce n’era un branco di ragazze, si sono guardate l’una con l’altra. La padrona ha detto forte: “Mimma d’Argentì!” Quelle altre sono rimaste un po’ male, perché babbo era un buon partito e di una famiglia stimata. E da lì è partita la storia d’amore: mamma aveva sedici anni, a diciotto ha sposato. Ogni tre 258 Babbo ce fèra ’l paccó’, perché mamma era ’n fusto, non spetta a me lodàlla, ma guardàdela là ’l camposanto! Ié dicìa: “Mimma, bella e lónga!” E sa, lu’ ce fèra la figura sua, quanno la presentàa ai padrù’. Babbo era più basso, ’sti generi ’l pïàa in giro, ié dicìa: “Vu’ ce rivàsta?” E lu’ ié risponnìa: “S’è visto!” Ansiéme avìa fatto sei fjòli! Anca mi’ marìdo ha volsùdo mantené’ ’sta moda’ de presentà’ la sposa al padró’: non podìa fa’ a meno! Coscì, dobo ’mpo’ de giorni che ìa sposàdo, ha pïàdo ’mpar de galli e m’ha portàdo a fa’ conosce’ al padró’. I padrù contraccambiàa con cualchiccò’; a me m’ha fatto ’mpar de sciuccamà’. C’è chi fèva ’na sottaveste, chi ié fèra ’l velo per su la testa; cuéi più ricchi anca ’na vestarèlla, scinonca i calsétti, ’n fazzoletto per su la testa, a segondo chi ciaìa ’l borcellì’ gonfio. Io me so’ contentàda de cuéllo che mìa fatto. M’accolto be’. Dicìa babbo: “Dannànse all’occhi è mèjo ’n gesto de bòna cera che ’mpiàtto de pasta sciucca!” Chissà sci ié sarò piaciùda? E que ne so! Quanno venìa spesso ’nté ’n casa, me calcolàa tanto ’l padre; anca ’l fijo è stado sfollàdo ’l tempo del fronte ’nté ’n casa nostra: era monellòtto, ce curìa tre anni con me, più piccolo, prò con me ce discorìa sempre. Io i’hò dàtto anca i linsòli e ’l guanciale per dormì’. Prò me rispettàa perdéro, ’ncó’ quanno me ’ncùntra me saluda. ’L padre e la anni nasceva un monello. Babbo ci faceva il grande, perché mamma era un fusto, non spetta a me lodarla, ma guardatela là al camposanto! Le diceva (babbo): “Mimma, bella e lunga!” E sa lui ci faceva la figura sua, quando la presentava ai padroni. Babbo era più basso, i generi lo prendevano in giro, gli dicevano: “Voi ci arrivavate?” E lui gli rispondeva: “Si è visto!” Aveva fatto sei figli assieme! Anche mio marito ha voluto mantenere questa moda di presentare la sposa al padrone: non poteva fare a meno! Così, dopo un po’ di giorni che avevo sposato, ha preso un paio di galli e m’ha portato a farmi conoscere dal padrone. I padroni contraccambiavano con qualcosa; a me hanno dato un paio di asciugamani. Chi faceva una sottoveste, chi un velo per sopra la testa; quelli più ricchi anche una vestina, sennò le calze, un fazzoletto da testa, a secondo chi aveva il borsellino gonfio. Io mi sono accontentata di quello che mi ha fatto. Mi ha accolto bene. Diceva babbo: “Davanti agli occhi è meglio un gesto di buona maniera che un piatto di pastasciutta!” Chissà se gli sarò piaciuta. E che ne so! Quando veniva spesso in casa, il padre mi calcolava tanto; anche il figlio è stato sfollato, al tempo del fronte, in casa nostra: era un monellotto, ci correvano tre anni con me, più piccolo, però con me discorreva sempre. Io gli ho dato anche le lenzuola e il guanciale per dormire. Però mi rispettava per davvero; ancora, quando mi incontra, mi saluta. 259 madre è da muntubè’ ch’ènne morti. Prò arpìo la pendegola de ’sta moda: è sparìda a pogo a pogo dobo della guerra, scinànta che cuàlche lecchìno, cadorciàro, como ’l volémo chiamà’, stèva sotta padró’, anca sci ce rimettìa la pelle; era fannàdighi no, como cuèlli che tène pe ’na squadra de palló’. Coscì hanne continuàdo a sta’ ’nté ’l fónno sinànta l’ultimi strèmi, portàane i regali ai padrù’ de niscòsto, prò sci s’accorgìa cuell’altri…! Allora è sparìda anca ’sta moda de presentà’ ’ste móje como cuélle ’nté la passarèlla d’adè’. Te fèva métte’ i pagni più belli che cìsci in circolazió’, per fàcce i paccù’ i marìdi. Se dicìa “veste ’mbastó’ pare ’n pavó!”, ma sci la faccia, ’l muso como volemo di’, era tónno, sbirlóngo, guadràdo, non se podìa gambià’; non c’era tutte ’ste vernìge como c’è adè’, scinónca ’mpo’ la gambiàa la bruttezza alla bellezza. M’arìa piaciùdo anca a me, sci ce fusse stàdi ’sti trucchi, ma dobo eri calcolàda ’na donna de strada: guai, perdìi l’onore! Tanto non ce tenìa ’sti più granni de noà! Magàra è vero, mèjo a èsse’ stadi como Cristo ciaìa fatti, perché anca adè’ cualchidùna pare ’na pupa custodìda be’, ma valle a vedé’ la madìna quanno s’alza: tra creme màscare pare la gréda quanno scarcàmma la pozza! Sci le metti ’nté ’n campo, ’ndó becca i passeri che fa danno, funsióna da spauracchi! Io scherso. A tutti piacerìa a èsse’ belli, ma Il padre e la madre è da molto tempo che sono morti. Però riprendo il filo di questa moda: è sparita a poco a poco dopo la guerra, sino a quando qualche leccaculo, ruffiano, come li vogliamo chiamare, stava sotto padrone, anche se ci rimettevano la pelle; erano fanatici come quelli che tengono per una squadra di pallone. Così hanno continuato a stare nel fondo sino agli ultimi estremi, portavano i regali ai padroni di nascosto, però se si accorgevano quegli altri…! Allora è sparita anche questa moda di presentare queste mogli come quelle nella passerella di adesso. Ti facevano mettere i vestiti più belli che avevi in circolazione, perché i mariti ci facessero i vanitosi. Si diceva “vesti un bastone pare un pavone!”, ma se la faccia, il muso, come vogliamo dire, era tondo, bislungo, quadrato, non si poteva cambiare; non c’erano tutte queste vernici come ci sono adesso, sennó un po’ la cambiano la bruttezza in bellezza. Sarebbe piaciuto anche a me, se ci fossero stati dei trucchi, ma dopo eri calcolata una donna di strada: guai, perdevi l’onore! Tanto non ci tenevano quelli più grandi di noi! Magari è vero, meglio essere stati come Cristo ci aveva fatti, perché anche adesso alcune paiono delle pupe custodite bene, ma vai a vederle la mattina quando si alzano: tra creme, maschere sembrano la creta quando scaricavamo la pozza! Se le metti nel campo, dove beccano i passeri che fanno danno, funzionano da spauracchi! Io scherzo. 260 tanto se dice “ ’Mbèllo e ’mbrutto sta be’ da per tutto”! Solo che ’na ò se guardàa ’mbel personale, sci cìa le gambe dritte, ’na bella chioma de capìi, sci era ribusta, scinónca dicìa che gné la fèra a tirà’ ’nànse ’na faméja; po’ giusto giusto… guardàa ’ncó’ sci cìa ’mbèll’altarì’, scinónca como lattài i monelli? ’Nsómma se guardàa ’mpo’ de nigò, ma, adè’, que vedi? ’N se pôle véde’ più sci ci’hà le gambe dritte, storte, grosse, piccole: pòrtene tutte le càlse como l’òmmini! ’Na ò me piacìa anca a me! Gnènte de meno ’na ò me so’ messa ’l vestido de mi’ fradèllo e ci’hò fatto n’arsomèjo per quanto m’ero ’nnamoràda de portà’ le calse! Prò non l’ho fatto véde’ a babbo ’sto ritratto, scinò lu’ dicìa. “Le donne che mette le calse è cuélle che mette sotta i pìa al marìdo”: A una più rigojósa del marìdo dicìa: “A cuéllo i’hà messo la gonna e lìa s’è messa le calse!” Pensàde vuà, nìa da comannà’ la donna, ce tenìa ’st’òmmini a comannà’, a tené’ le móje ’mpo’ schiave. A cuéi tempi anca i predi dicìa che le donne dovìa sta’ sotta ai comandi del marido, muntebè iela fèra, cualchidùna gèra a finì’ al malinconio: ’na vo’ ’l chiamaa coscì. Non tutti prò era coscì, io non me posso lamentà’. Adè’ che c’è ’sta paridà, ’mbellipo’ non pìane mango móje, le madre iéle dà cotte e crude, gné fa mangà’ niè’. E chi sta mèjo de lóra? Finché la barca va! Como ve saréde accorti, quanno A tutti piacerebbe essere belli, ma tanto si dice “Un bello e un brutto stanno bene dappertutto!” Solo che una volta si guardava il bel personale, se (la donna) aveva le gambe diritte, una bella chioma di capelli, se era robusta, sennó dicevano che non gliela faceva a tirare avanti una famiglia. Poi, giusto giusto, guardavano ancora se aveva un bell’altarino, se no come allattava i monelli? Insomma si guardava un po’ di tutto, ma, adesso, che vedi? Non si può vedere più se hanno le gambe dritte, storte, grosse, piccole: portano tutte i pantaloni come gli uomini! Una volta piaceva anche a me! Niente di meno una volta, per quanto mi ero innamorata di portare i pantaloni, mi sono messa il vestito di mio fratello e ci ho fatto una fotografia. Però non l’ho fatto vedere a babbo questo ritratto, sennó lui diceva: “Le donne che mettono i pantaloni sono quelle che mettono sotto i piedi il marito!” A una più risoluta del marito diceva: “A quello gli ha messo la gonna e lei si è messa i pantaloni!” Pensate voi, la donna non doveva comandare, questi uomini ci tenevano a comandare, a tenere le mogli un po’ schiave. A quei tempi anche i preti dicevano che le donne dovevano sottostare ai comandi del marito; molte gliela facevano, ma qualcuna andava a finire al ‘malinconio’: una volta lo chiamavano così! Non tutti, però, erano così, io non mi posso lamentare. Adesso che c’è la parità, molti non prendono neppure moglie, le madri gliele danno cotte e crude, non gli fanno mancare niente. E 261 comènso ’na cosa, vô a finì’ da pìa della ripa. Allora ve volìa feni’ da di’ che adè’ sci ’na bardàscia è fatta be’ o male ’n se véde: da pìa ci’hà le calse, da cima ci’hà maje, casacche, camiciotti, sacchetti granni granni. ’Na ò se dicìa, sci i pagni era ’mpo’ làschi: “ ’Ndó hai pïàdo la misura, ’ntorno casa?” E coscì ’n se vede sci ci’hà l’altarì’, sci è gobbe, ’n se sconsìdera sci è maschio o fémmena: i capij tajàdi a zero, le bóccole le porta anca i maschi, la coda listésso, scarpù ’nté i pìa, che pe’ voltà’ be’ ’nté ’na curva, bisogna che la pïa granna como ’l camio e rimorchio, le ma’ non ié se vede, malapena la pónta dei dédi, pare ch’enne stremensìdi dal freddo, porettì’! chi sta meglio di loro? Finché la barca va! Come vi sarete accorti, quando comincio una cosa, vado a finire ai piedi della ripa. Allora volevo finire di dirvi che adesso, se una ragazza è fatta bene o male, non si vede: in basso ha i pantaloni, in alto ha maglie, casacche, camiciotti, giacche grandi grandi. Una volta si diceva, se i vestiti erano un po’ lenti: “Dove hai preso la misura, intorno casa?” E così non si vede se hanno l’altarino, se sono gobbe, non si distinguono se sono maschi o femmine: I capelli tagliati a zero, gli orecchini li portano anche i maschi, la coda ugualmente, scarponi nei piedi che, per voltare bene in una curva, bisogna che la prendono grande come il camion con il rimorchio; le mani non gli si vedono, malapena la punta delle dita, pare che siano striminziti dal freddo, poverini! La màghina da cuce La macchina da cucire Io ho sposado propio quanno c’era ’l passaggio del fronte e la robba era tanto fadìga a trovalla, allora ’ste sorelle, che cìa ’na bòna doda, m’hanne datto cualchicò’ anche lora. Pensade vuà! Per fa’ la maghina da cuce ce volìa 200 lire del ’43, e non l’ho comprada, perché era tutta robba utartica. Babbo m’ha ditto: “Spetta a compralla! Passarà ’sto fronte, finirà ’sta guerra! Te do 200 lire, la compri quanno è passado Io ho sposato proprio quando c’era il passaggio del fronte e trovare la roba era molto faticoso; allora le mie sorelle, che avevano avuto una buona dote, mi hanno dato qualcosa anche loro. Pensate voi! Per comprare la macchina da cucire ci volevano duecento lire del ’43, e non l’ho comprata, perché era tutta roba autarchica. Babbo mi ha detto: “Aspetta a comprarla! Passerà questo fronte, finirà questa guerra! Ti do duecento lire, la compri quando è passato tutto quanto”. Dopo due anni le 262 nigò. E dobo due anni le 200 lire non valìa più gnè: pe’ compralla ce volìa mille lire! E coscì non l’ho poduda comprà’ più. A pensàcce be’ è como adè’: argìmo alla dredo, e como se dice: “ ‘L topo alla drèdo non ce va!” Ma io che me piace a faje la caccia giù pe’ l’orto, me tocca a daje la sappàda de drèdo, perché la prima volta ’n’el sapìa: ié l’ho datta davanti. Osteria, como ha ardatto a drèdo! E non ié l’ho fatta a chiappallo. E noà adesso famo uguale: cuéi due soldi de la pensió ’n’arìa più invelle, argìmo alla drèdo. duecento lire non valevano più niente: per comprarla ci volevano mille lire! E così non l’ho potuta comprare più. A pensarci bene è come adesso: ritorniamo all’indietro, è come si dice: “La talpa all’indietro non ci va!” A me, però, piace darle la caccia giù per l’orto e mi tocca darle una zappata di dietro. La prima volta non lo sapevo: gliel’ho data davanti. Osteria, come ha ridato indietro! E non sono riuscita a prenderla. E noi, adesso, facciamo la stessa cosa: quei due soldi della pensione non arrivano più in nessun luogo, ritorniamo all’indietro. La veste da sposa L’abito da sposa Anca pe’ fa’ le spese, cioè la dòda, dovìa regalà’, oltre i pónti della tessera, anca cuàlca pagnotta de pa’. A cuéi tempi se sposàa tutti con vestido, perché dicìa i genidóri nostri: “Fade ’n vestidèllo, fjole, perché la veste bianga se porta solo cuél giorno, po’ ’n se porta più. Allora fade ’n vestidèllo blu, marrone, nero, como ve piace de più”. Po’ sulla testa c’era ’l cappelletto. ’Ste sorelle mia ha fatto luscì. E dobo i vestidi se l’hanno godùdi. Avìa ragió’ i genidóri, ma a me perché me piacéa tanto la veste bianga e io, da quando ero piccola, me parìa da esse’ la regina che mette la veste. Io l’ìa messa quanno me so’ comunigàda; quanno me so’ gresimàda no, perché cuélla vo’ gèra Anche per fare le spese, cioè la dote, si doveva regalare, oltre i punti della tessera, anche qualche pagnotta di pane. A quei tempi tutti si sposavano con un vestito, perché dicevano i nostri genitori: “ Fate un vestitello, figliole, perché la veste bianca si porta solo quel giorno, poi non si porta più. Allora fate un vestitello blu, marrone, nero, come vi piace di più”. Poi in testa c’era il cappellino. Le mie sorelle hanno fatto così. E dopo i vestiti se li sono goduti. Avevano ragione i genitori, ma a me piaceva tanto la veste bianca e, da quando ero piccola, mi pareva di essere la regina che indossa il vestito. Io l’avevo messa quando mi sono comunicata; quando mi sono cresimata no, perché quella volta andava di moda una vesti263 de moda ’na vestina bianca sotta e lo spolverì’ sopra. Invece quanno me so’ comunigada mìa fatto la veste lónga che me piacìa tanto. Figùrde, l’ho portada per tre quattr’anni: mamma prima me léa scortàda, dobo che so’ cresciuda me l’ha slongada, sicché per quattro anni d’istàde portào sempre cuélla, finànta che m’era ’mpo’ bòna sulle spalle. Gèra via con cuélla vestinèlla misera misera, prò a me me piacéa tanto, perché de lusso i pàgni ’n ce l’avéo. Cuélla vo’, co’ tre sorelle dannànse, me toccàa a sta’ sotta ’l crì. Allora non ve l’ho finida da dì’, quando me so’ sposada ho ûdo fortuna: semo gidi a Sinigàja, poghi giorni prima, quann’è ’rvenudo mi’ ragazzo, a troà’ la pèzza pe’ la veste: ’n se troàa envèlle perché cuélla vô tutta la robba chi ce l’avéa lìa piattàda sotta i rifùggi. Allora gimo a ’sto Sinigàja e lajù, cerca ’nté ’n posto cerca ’nté ’n’antro, nisciuno ce l’avéa. Ma tanto possibile, ché io vojo sposà’ de bianco, ’n sa da troà’! E doppo gìmo ’nté ’no spazzì’, cuéllo che ce fèmma sempre spesa noà. Ha ditto: “Io ce l’ho, prò accade che me dade ’n cambio, oltre de’ soldi, anca ’mpo’ de pa’!” E allora noàltri (venìa sempre a Montalbòdo ’sto spazzì’) i’émo ditto che al venardì dopo ié portàmma su ’na fila de pa’, oltre i soldi. Ce ne volìa otto medri per falla longa, a cinque lire al medro emo speso quaranta lire. Era como un na bianca sotto e lo spolverino sopra. Invece, quando mi sono comunicata, (mamma) mi aveva fatto la veste lunga che mi piaceva tanto. Figuratevi, l’ho portata per tre quattr’anni: mamma prima me l’aveva accorciata, dopo, quando sono cresciuta, me l’ha allungata, sicché per quattro anni d’estate portavo sempre quella, finché mi era un po’ buona di spalle. Andavo via con quella vestarella misera misera, però a me piaceva tanto, perché non avevo panni di lusso. Quella volta, con tre sorelle davanti, mi toccava stare, come vi ho detto, sotto il ‘crino’. Allora, non ve l’ho finito di dire, quando mi sono sposata ho avuto fortuna: siamo andati a Senigallia pochi giorni prima, quando è ritornato il mio ragazzo, per trovare la stoffa per il vestito: non si trovava da nessuna parte, perché, in quel tempo, tutta la roba, chi ce l’aveva, l’aveva nascosta nei rifugi. Allora andiamo a questa Senigallia e laggiù, cerca in un posto cerca in un altro, nessuno ce l’aveva. Ma tanto era possibile che non si doveva trovare? Io volevo sposare di bianco. Alla fine andiamo dall’ambulante, da quello dove noi facevamo sempre spesa. Ha detto: “Io ce l’ho, però bisogna che mi date in cambio, oltre dei soldi, anche un po’ di pane! E allora noi (veniva sempre a Montalboddo questo ambulante) gli abbiamo detto che il venerdì dopo gli portavamo su una fila di pane, oltre i soldi. Ci volevano otto metri (di stoffa) per fare (un abito) lungo: a cinque lire il metro, abbiamo speso quaranta lire. 264 milió’ adè. A cuéi tempi, del’43, ancora ’n c’era stada la svalùda dei soldi e 40 lire era como un milió’ adè. E dopo, sai, anca a tajàlla e nigò, ce n’è volsùdi de soldi, ma ho fatto ’sta vesta. Cuscì con cuélla vesta lónga me so’ levàda ’na soddisfazió’: almanco ’na volta ’nté la vida! Era come un milione di adesso. A quei tempi, del ’43, ancora non c’era stata la svalutazione dei soldi. E dopo, sai, anche a tagliare la stoffa e tutto il resto ce ne sono voluti altri, ma ho fatto questo vestito. Così, con quel vestito lungo, mi son tolta una soddisfazione: almeno una volta nella vita! L’esposizió’ e la stima L’esposizione e la ‘stima’ Adè v’arcónto como gèra de moda a tempo mia quanno ’na donna sposàa. A vent’anni era guasci tutte maridàde, salvo cualchidùna che la ’rvolìa ardà’ a cristarèllo como ié lìa dàtta – se dicìa coscì! Cuélle, envéce, capìa più de noà, argèra a ’mparadìso sigùro, a parte ’l peccàdo d’Eva, co’ ’sta mela! Allora co’ du’ tre anni d’amore se preparàa la dòda: fila, tesse, cuce e rigàma. Dicìa una che volìa dàje marido: “Mi’ fjòla racàmana, centégna, è la prima calsettàra de Morro!” La dòda ben stiràda da la ricamadrìge, se stendìa sopra al letto, la cassétta, ’l comò, ’l cassóncì’; ‘nté ’mposto tutti linsòli, foderétte, cupèrte, sottocupèrte, madrazzìna chi podìa, scindó solo madrazzìna o solo sottocuperta. Non proprio sopra l’altro, sìa da métte’ a scala per vède’ tutti i rigàmi, giornì’, merlétti fatti a ma’. Dobo ’na fila de camicie de cottó’, sottoveste, mudànne, nigò Adesso vi racconto come andava di moda, al tempo mio, quando una donna si sposava. A vent’anni erano quasi tutte maritate, salvo qualcuna che la voleva ridare a cristarello come gliela aveva data – si diceva così. Quelle, invece, capivano più di noi, andavano in paradiso di sicuro, a parte il peccato di Eva, con questa mela! Allora con due tre anni di fidanzamento si preparava la dote: fila, tessi, cuci e ricama. Diceva una che voleva darle marito: “Mia figlia ricama, rifinisce a smerli, è la prima di Morro a fare le calze con i ferri!” La dote, ben stirata dalla ricamatrice, si stendeva sopra il letto, la cassetta, il comò, il cassoncino. In un posto tutte le lenzuola, federe, coperte per sopra, coperte per sotto, materassina chi poteva, se no solo materassina o solo coperta per sotto. Non si dovevano disporre uno sopra l’altro, ma a scala, per lasciar vedere tutti i ricami, gli orli a giorno, i merletti fatti a mano. 265 de cottó’; po’ fazzolétti da testa, da naso e pannolì’; po’ ’na mucchia de calsètti fini e grossi fatti a ma’, comprese anca le maje per sotta, sempre fatte a ma’; po’ scarpe pe’ la Messa e ’mparo alte pe’ ’l campo. Quanno stésci pe’ sposà’, la diménniga prima s’arnoàa ’n vestìdo, ’mpar de scarpe, calsétti e vélo e se mettìa nigò lì, all’esposizió’. Po’ scialbétte pe’ ’l collo fatte coi ferri o col crocè, po’ lo scialbó grèo: pesàa sulle spalle! Cuéllo era nero, servìa anca pe’ ’nvuricchià’ i monelli piccoli, ché sciuccamà’ de spugna ’n c’era pei contadì’. Dopo dodeci tovajòli e la tovàja granna, ’na decìna de sciuccamà’ de spina tessùdi da mamma, con quattro licci; po’ ’nté ’na canè’, piccolina como ’mportagioièlli che c’è adè’ in circolazió’, ce se mettìa aghi, dedàle, spille balie, spille da la testa nera, che cualchidù’ ce pontàa lo scialpó’ su la testa pe’ tenéllo fermo; po’ du’ rocchétti di filo, uno bianco e uno nero, ’no gnométto de filo de rèfe e ’no gnométto dei carceràdi; l’avvànsi delle madassìne da rigàmo te le fera portà’ via, po’ ’mpar de ciavàtte da càmbora, cuélle de pezza che adè’ ne porta più nisciù perché c’è mèjo. Me pare che ho ditto nigò. ’L giorno de la stima, dobo magnàdo, se carcàa tutta ’sta robba ’nté ’l biroccio, se coprìa nigò co’ ’na madrazzìna o ’na coperta e se partìa co’ le vacche tutte ’nfioccàde. Le portàa i fradèlli o i cogìni , chi ’n Dopo una fila di camicie di cotone, sottovesti, mutande, tutto quanto di cotone; poi fazzoletti da testa, da naso e pannolini; poi un mucchio di calze fine e grosse, fatte a mano (con i ferri), comprese anche le maglie per sotto, sempre fatte a mano; poi scarpe per la Messa e un paio alte per il campo. Quando stavi per sposare, la domenica precedente si rinnovava un vestito, un paio di scarpe, calze e velo e si metteva tutta quanta la dote lì, in esposizione. Poi le sciarpe per il collo fatte con i ferri o con l’uncinetto, poi lo scialle pesante: pesava sulle spalle! Quello era nero, serviva anche per avvolgere i monelli piccoli perché, per i contadini, non c’erano gli asciugamani di spugna. Dopo dodici tovaglioli e la tovaglia grande, una decina di asciugamani tessuti a spina da mamma, con quattro licci; poi in un canestro piccolino, come un portagioielli che c’è adesso in circolazione, ci si mettevano aghi, ditale, spille balia, spille dalla testa nera, con le quali qualcuno ci fissava ‘lo scialpó’ ” sulla testa per tenerlo fermo; poi due rocchetti di filo, uno bianco e uno nero, un gomitolo di filo di refe e un gomitolino dei carcerati; gli avanzi delle matassine da ricamo te le facevano portar via, poi un paio di ciabatte da camera, quelle di pezza che adesso non porta più nessuno, perché c’è di meglio. Mi pare di aver detto tutto. Il giorno della ‘‘stima’’, dopo mangiato, si caricava tutta questa roba sul biroccio, si copriva tutto con una materassina o con una coperta e si partiva con le vacche tutte infioccate. Le 266 cìa né fradèlli né sorelle e cugnàdi, ce gèra ’l padre dello sposo. Non ci’hò messo du’ pisciatóri, ’l cadì, ’l brocchétto, luma a petròjo e, po’, sgapparà cualcos’àltro. Se segnàa tutti i capi de ’sta dòda e po’ la carta la tenìa ’l padre della donna, scinnó podìa negà’ che nìa dàtto la dòda la faméja de lu’. Se fèra firmà’ pe’ èsse’ più scigùri. Co’ ’sta dòda partìa ’na giovena e ’na sposa, mettìa a posto tutta ’sta robba e arfèra ’l letto con cuàlche schérso como ’l sùcchero giù pe’ ’l letto o ’l sacco co’ linsòlo sopra, ’n campanèllo ligàdo sotta la réde del letto, e altri schèrsi che nelsò. ’L letto non podìa ’rmàne arfàtto più de otto giorni dalla stima. ’L giorno de la stima se fèra ’l prànzo a casa della donna e l’altro de lo sposalìzzio ’l fèra l’ômo. Ma caperài, quanno ho sposàdo io ’n c’era tanta allegria, un fradèllo prigioniero, l’altro, che s’è sposàdo ’l giorno c’ho stimàdo io, cìa ’n occhio de vedro. È la guerra che m’ha roinàdo i giorni e l’anni più belli. portavano i fratelli o i cugini, chi non aveva né fratelli, né sorelle e cognati, ci andava il padre dello sposo. (Nell’elenco) non vi ho messo due orinali, il catino, il brocchetto, il lume a petrolio e, poi, uscirà fuori qualcos’altro. Si scrivevano tutti i capi di questa dote e poi la carta la teneva il padre della sposa, se no la famiglia dello sposo avrebbe potuto negare di aver ricevuto la dote della sposa. Si faceva firmare, per essere più sicuri. Con questa dote partivano una giovane e una sposa: sistemavano tutta questa roba e rifacevano il letto con qualche scherzo come lo zucchero giù per il letto o il ‘sacco’ con il lenzuolo di sopra, un campanello legato sotto la rete del letto, e altri scherzi che non so. Il letto non poteva rimanere rifatto per più di otto giorni dalla ‘stima’. Il giorno della ‘‘stima’’ si faceva il pranzo a casa della donna e quello dello sposalizio lo faceva l’uomo. Ma, capirai, quando ho sposato io, non c’era tanta allegria: un fratello prigioniero, l’altro, che s’è sposato il giorno che ho ‘‘stimato’ io, aveva un occhio di vetro. È la guerra che mi ha rovinato i giorni e gli anni più belli. Tutt’ambranco su la Balilla! Tutti in branco sulla Balilla Coscì, dobo la stima, è riàdo ’l giorno de lo sposalizzio. Non ce sémma mango finìdi a conosce’ né con lu’ né colla faméja che ce semo sposàdi. Ma fumma, como ho Così, dopo la ‘stima’, è arrivato il giorno dello sposalizio. Non c’eravamo neppure finiti di conoscere né con lui né con la famiglia, quando ci siamo sposati. Ma eravamo, come ho detto, 267 ditto, nel ’43, sul cólmo della guerra. Era propio cuéi giorni che l’Italia ìa messo giù l’arme, e sci vedìa ’n ômo in giro ’l portàa al campo de concentramento. Era ’na madìna bella, ’l sole bello: era il ventuno de novembre: de cuéi tempi ’l sole non pòlèsse stado tanto bello, ma era ’na madina calda. Quanno è ’rivàda la màghina lì casa, cuélla de Quinto del Miccio, era cuélle maghine lónghe, ’na Balilla me pare che era; ce ne semo montàdi su parecchi ’nté cuélle strade ’mpo’ brutte, pîne de malta... ma era bello sciucco cuélla madìna. Semo gìdi su a Montalbòdo. A la Messa tardi émo sposàdo, alla Messa delle undeci. Quanno sémo ’rivadi su, la gente era propio lì davanti alla chiesa, era l’orario guàsci de boccà’ drendo pe’ la Messa, la chiesa era guasi pîna. Noà calàmma giù da la maghina, io con cuélla veste lónga. Cuél giorno métteme ’mpo’ ’sta vesta bella, lónga, ’l cappelletto, ’na bella ’cconciatura sulla testa: cuélla volta, boh!, mango so come se chiamàa: adè ié dice “l’acconciatura”. Quanno calo giù da la maghina, la gente sa, me guardàa ché oltre che me conoscìa a Montalbòdo, c’era anca cuéi giovanotti che tante vo’ m’era venudi a domandà’ e allora io ce facéo ’mpo’ la paccóna. Bócco drendo a la chiesa co’ ’sta bella vèsta lónga, se mettémo ’n ginocchio sull’altare, la gente era nel ’43, sul colmo della guerra. Erano proprio quei mesi in cui l’Italia aveva deposto le armi e (i Tedeschi), se vedevano un uomo in giro, lo portavano al campo di concentramento. Era una mattina bella, il sole bello: era il 21 di novembre. In quella stagione il sole non può essere stato tanto bello, ma era una mattina calda. Quando è arrivata la macchina a casa, quella di Quinto del Miccio (era una di quelle macchine lunghe, mi pare che fosse una Balilla), ce ne siamo saliti su parecchi, in quelle strade un po’ brutte, piene di fango… ma era bello asciutto quella mattina. Siamo andati su a Montalboddo. Abbiamo sposato alla Messa tardi, alla Messa delle undici. Quando siamo arrivati, la gente era proprio lì davanti alla chiesa, era quasi l’ora di entrare dentro per la Messa; la chiesa era quasi piena. Noi scendemmo giù dalla macchina, io con quella veste lunga. Quel giorno m’ero messa quest’abito bello, lungo, il cappellino, una bella acconciatura sulla testa: quella volta, boh, nemmeno so come si chiamava, adesso si dice ‘acconciatura’. Quando scendo dalla macchina, la gente, sa, mi guardava, perché, oltre che mi conoscevano a Montalboddo, c’erano anche quei giovanotti che tante volte erano venuti a domandarmi e, allora, io ci facevo un po’ la vanitosa. Entro dentro la chiesa con questa bella veste lunga, ci mettiamo in ginocchio sull’altare, la chiesa era piena di gente, non mi sono rivoltata, me lo diceva quella 268 Una Balilla a Pianello di Ostra. Sul cofano La maestra sig.na Nerina Gambioli con un bimbo, mentre un balilla giunge a lunghi passi (coll. Gioacchino Casci Ceccacci). pîna la chiesa: non me so’ ’rvoltàda, me ’l dicéa cuélla lì vicina: “Guarda, la chiesa è pîna de gente! Sta’ ’tènta a no’ sbajà’!” Non ho sbajàdo. Prima ce sémo confessadi, po’ sémo gidi su, m’ha portado a sposà’ mi’ fradello e la moje de mi’ fradello, ch’era la sorella de mi’ marido. Dopo, quanno sémo sgappàdi, volémma gi’ a fa’ le fottografie, ma capirai... ci’hà ditto ’l prede: “Tiràde via a sposà’ e po’ gide a casa!” A noàltre ci’hà sposado Don Noè Giannini, l’arciprède. E dopo c’era anca la costante de l’arciprede, e po’ c’era anca Pettenelli, ché le carte ié lì vicino: “Guarda, la chiesa è piena di gente! Sta’ attenta a non sbagliare!” Non ho sbagliato. Prima ci siamo confessati, poi siamo andati su, mi ha portato a sposare mio fratello e la moglie di mio fratello, che era la sorella di mio marito. Dopo, quando siamo usciti, volevamo andare a fare le fotografie, ma capirai… Ci aveva detto il prete: “Tirate via a sposare e poi andate a casa!” Ci ha sposato Don Noè Giannini, l’arciprete. E dopo c’era anche la perpetua dell’arciprete, c’era anche Pettinelli, perché le carte a mio marito gliel’hanno fatte quel povero Pettinelli e Cioci che stava 269 l’ha fatte cuél pôro Pettenelli a mi’ marido e Cioci ch’era sul Comù’. Sa que i’hà ditto: “Tirade via a sposà’ e po’ te, quanno sei stado a casa venti giorni o un mese con tu’ moje, dopo arvài al Corpo, t’arvài a presentà’ eh!” perché Pettenelli dicéa ch’era ’mpo’... uno che tenéa ’mpo’ al governo. Allora noàltri, sgappadi da la chiesa, non sémo manco gidi a fa’ le fottografie... cuélla vo’ dicéa “l’arsomèjo”! Via sùbbedo a casa, scinò te portàa via ’l marìdo! Semo montàdi tutti ’mbrango su la Balilla, perfino ’nté i parafanghi, era granni, ce se stèra a sède be’, parémma ’na carovana. Podéa èsse’ stado ’n giorno d’oro, perché era ’n sole bello, envéce ’n fugge, ’n fugge: fortuna che ’n ci’hà visto i Tedeschi!” (impiegato) sul Comune. Sa che cosa gli ha detto: “Sbrigatevi a sposare e poi tu, quando sei stato a casa venti giorni o un mese con tua moglie, ritorni al Corpo, ti vai a presentare di nuovo eh!” Sa, si diceva che Pettinelli era un po’… uno che teneva un po’ per il governo. Allora noi, usciti dalla chiesa, non siamo andati a fare le fotografie… quella volta si diceva ‘l’arsomèjo’! Via subito a casa, se no ti portavano via il marito! Siamo saliti tutti in branco sulla Balilla, perfino sui parafanghi, erano grandi, ci si stava bene a sedere: sembravamo una carovana. Avrebbe potuto essere stato un giorno d’oro, perché c’era un sole bello, invece un fuggi fuggi: fortuna che non ci hanno visto i Tedeschi! Né benvenùda, né bentroàda! Né benvenuta, né ben trovata Allora semo gidi a casa. Lajù ci’aspettàa le sorelle, cuélle mie ch’era sposade, ci’aspettàa ’mpo’ de parenti, cuélli de mi’ marido: ’na trentina fumma. Lajù avanti casa émo fatto le fottografie: ancó’ ce l’ho! È ’no ricordo bello, per quanto che era cuélle istantanee, ché mi’ marido quann’era sotta l’arme avìa comprado ’na maghinetta: allora co’ cuélla ce facéa le fottografie. Quann’èro giavane, ce l’ha fatte ’mpo’ a tutti, a me, a ’sti fradelli mia, cuélla ’olta era vivi, a babbo e mamma, cuélla vo’ ce facéa Allora siamo andati a casa. Laggiù ci aspettavano le sorelle, quelle mie che erano sposate, ci aspettavano alcuni parenti, quelli di mio marito: eravamo una trentina. Laggiù, davanti casa, abbiamo fatto le fotografie: ancora ce le ho! È un ricordo bello, per quanto quelle fossero delle istantanee, perché mio marito, quando era sotto le armi, aveva comprato una macchinetta: allora con quella ci faceva le fotografie. Quando ancora non ero sposata, ce l’aveva fatte un po’ a tutti: ai miei fratelli, quella volta erano vivi, a babbo, a mamma: a quei tempi ci face270 ’mpo’ ’l pacconcello... E chi ce l’avìa ’na maghina fottografica? Cuélla vo’ ’n ce lìa nisciuno! Allora avémo fatto ’mpo’ de fottografie avanti casa, a me me sapìa tanto bello esse’ adornàda luscì da tutti i parenti, in più perché era ’na bella giornada de sole. Dicéa mamma mia: “Quanno ’rivi a pìa de le scale, sci te spetta la socera, daje ’n bacio, e dìje bentroàda”. Noà, envece, ce semo datti ’n bacio e po’ lìa, po’ perché era de cuélle ’mpo’ all’antìga, non m’ha ditto né “benvenuda”, né “bentroàda”! Cuélla vo’ le madre diedro non ce gèra, perché portàa disgrazia; manco le socere non ce gèra quanno se sposàa: spettàa lì casa, c’era la moda. C’era solo cuél pôro babbo, ’sti fradelli c’era solo uno, perché de uno ’n se sapéa gniè’; c’era solo cuéllo che s’è sposado co’ la sorella de mi’ marido: ha sposado al giovedì, noà la domenniga. Cuéllo, pôro monello!, era senza ’n occhio: cuél giorno s’era messo ’na benda ’nté ’l l’occhio: ìa fatto ’na benda nera io, e dopo ié lo passàa l’occhio de vedro. Émo fatto ’ste fottografie, ce semo messi a magnà’. Ìa fatto ’n pranzetto: le tajadèlle, cuélla ôlta ne ’l so se l’avrà fatte tutt’ovi, e po’ c’era l’arrosto e l’ansalàda e ’mpo’ de... ne ’l so sci c’era ’l ciambelló’. Poga robba, comunque è stado ’n pranzetto ’mpo’... Émo tirado i confetti; già l’émma tiràdi anca lassù la piazza quanno sémo sgappàdi. Cuélla vo’ se va un po’ il vanitosetto… E chi ce l’aveva una macchina fotografica? Quella volta non ce l’aveva nessuno! Allora abbiamo fatto alcune fotografie avanti casa, mi sembrava tanto bello essere circondata così da tutti i parenti, in più era una bella giornata di sole. Diceva la mia mamma: “Quando arrivi ai piedi delle scale, se ti aspetta la suocera, dalle un bacio e dille ‘bentrovata’! ” Noi, invece, ci siamo date un bacio e poi lei, anche perché era di quelle un po’ all’antica, non mi ha detto né ‘benvenuta!’, né ‘ben trovata’! A quei tempi le madri non ci andavano dietro (la sposa), perché portava disgrazia; nemmeno le suocere ci andavano, quando si sposava (un figlio): c’era l’usanza che aspettassero lì casa. (Con me) c’era solo quel povero babbo, dei fratelli ce n’era uno solo, perché dell’altro non si sapeva niente. C’era solo quello che si è sposato con la sorella di mio marito: lui ha sposato il giovedì, noi la domenica. Quel povero ragazzo era senza un occhio: quel giorno si era messo una benda nera, che gliel’avevo fatta io. Abbiamo fatto queste fotografie e poi ci siamo messi a mangiare. Ci ha fatto un pranzetto: le tagliatelle, quella volta non lo so se l’avrà fatte con sole uova; poi c’era l’arrosto e l’insalata e un po’… non lo so se c’era il ‘ciambellone’. Poca roba, comunque è stato un pranzetto un po’… Abbiamo tirato i confetti; l’avevamo lanciati anche in piazza, quando siamo usciti (dalla chiesa). Quella volta si tiravano i confetti, adesso invece si 271 tiràa i confetti; adè, envéce, se tira la pasta, la minestra, ’l riso, ’mpo’ de nigò; envece cuélla vo’ se tiràa solo i confetti: tutti ’mbranco de monelli che te venìa dintorno perché volìa i confetti. Finido a magnà’, perché era de novembre e i giorni è curti, cominciàa a èsse’ scuro... Allora, sai, mi’ socera cìa da fa’ tutte le faccende, mi’ socero cìa da güernà’ le bestie, mi’ marido toccàa a spojàsse anca lu’ che toccàa gi’ aiudà’ giù la stalla, perché mi’ socero cìa ’mbranco de vacche. tira la pasta, la minestra, il riso, un po’ di tutto; invece quella volta si tiravano solo i confetti: ti veniva dintorno tutto un branco di monelli, perché volevano i confetti. Finito di mangiare, poiché era di novembre e le giornate sono corte, cominciava ad essere buio… Allora, sai, mia suocera aveva da fare tutte le faccende, mio suocero aveva da governare le bestie, mio marito toccava spogliarsi anche lui per andarlo ad aiutare giù la stalla, perché mio suocero aveva tante vacche. Sgombrado ’l taolì’ e smorciàda la luma Sgomberata la tavola e spento il lume Io non ce so’ gida fòra aiudà’. Cuélla sera ho messo a posto ’mpo’ la robba, emo arcòlto su i piatti, ho lavàdo i piatti, dopo ho sgombrado ’l taolì’. Cuélla volta a magnà’ ’nté la cucina ’n c’era posto, émo magnàdo ’nté ’na càmbora, ce dormìa i monelli, mi’ marido col fradello; émo messo a posto ’l letto, émo fatto tutte ’mpo’: riassettato su la càmbora, leàdo le tàole, i cavalletti che c’era pe’ fa’ ’l taolì’; émo portàdo fòra cuélla robba lì. ’Ntanto comensàa a èsse’ vèro le otto e anca più. E dobo cuélla vo’ nun c’era né luce, ’n c’era gnè: là la càmbora nostra cìa messo ’n beccùccio, ’sto beccuccio gèra col gas... col carburo... che manco m’arcordo: è passàdi Io non ci sono andata fuori ad aiutare. Quella sera ho messo a posto un po’ la roba; abbiamo raccolto i piatti, ho lavato i piatti, dopo ho sgomberato la tavola. Quel giorno non c’era posto per mangiare in cucina, abbiamo mangiato nella camera dove dormivano i monelli, mio marito col fratello; abbiamo messo a posto il letto; tutte ci siamo date da fare: abbiamo riassettato la camera, levato le tavole e i cavalletti che c’erano per fare il tavolo, abbiamo portato fuori quella roba lì. Intanto cominciava ad essere verso le otto e anche più. Quella volta non c’era la luce, non c’era niente: là in camera nostra (la suocera) ci aveva messo un beccuccio, questo beccuccio andava col gas… con 272 tanti tanti anni. C’era ’n beccuccio lì la cucina e uno pe’ càmbora, ’nté cuélle càmbore principale: ’nté cuélla dei soceri, ’nté cuélla nostra; in cuélla dei monelli ’n c’era; ce n’era uno lì, ’nté ’l corridore che lucciàa a tutti. Dobo a la sera, prima da gi’ a letto toccàa a spiccià’... a smorcià’ cuéllo lì, ma io... perché cuélla vo’ gèra la moda a tirà’ la luma a petròjo, cuélla pôra mamma dicéa “luma a petròjo”, ci’avìa messo ’l petròjo... Allora ho picciàdo la luma. Dobo c’era la moda che ’sto lume ’l gèra a smorcià’ la socera. Quanto t’eri spojado, gìi a letto, podéi chiamà’ la socera: “Mamma, pe’ piacé’ venìde a smorcià’ la luma!” E allora c’émma cuélla moda lì. Adè, envece, cuélla moda lì ’n c’è: la sòcera ié porta ’l caffè a letto a la madina. il carburo… che nemmeno mi ricordo: sono passati tanti anni! C’era un beccuccio nella cucina e uno per camera, nelle camere principali: in quella dei suoceri, in quella nostra; in quella dei ragazzi non c’era; ce n’era uno lì, nel corridoio che faceva luce a tutti. La sera, prima di andare a letto toccava spegnere quello lì, ma io… Quella volta andava di moda portare in dote il lume a petrolio, quella povera mamma diceva “lume a petrolio”, ci aveva messo il petrolio… Allora ho acceso il lume. Dopo c’era l’usanza che questo lume lo andava a spegnere la suocera. Quando t’eri spogliato, andavi a letto, potevi chiamare la suocera: “Mamma, per piacere venite a spegnere il lume!” Allora avevamo quella moda lì. Adesso, invece, non c’è più: la mattina la suocera porta il caffè a letto. Caffè o… pisciadóre? Caffè o… orinale? Io ’l caffè a letto scì... a la madìna dovéo portàllo via io ’l caffè, perché.. a la notte sci te sgappàa...da... (po’ sto sitta ma...) toccàa a falla ’nté l’orinàle. Dobo lo portài fòri a la madina: cuélla era la tazza del caffè! Miga c’è da rìde’: cuélla vo’ i vasi... i chiamàa “ ’l pisciadóre”, ce n’era uno pe’ parte, ’nté ’l comodì’: uno dalla parte mia e uno dalla parte sua. Cuél pôro babbo sa que dicìa: “Camìni tanto pe’ gi’ insieme, c’è Io il caffè a letto sì… alla mattina dovevo portarlo via il caffè, perché alla notte, se ti scappava da… (poi sto zitta, ma…), toccava a farla nell’orinale. Dopo lo portavi fuori alla mattina: quella era la tazza del caffè! Mica c’è da ridere: quella volta i vasi… li chiamavano il “pisciadóre”; ce n’era uno per parte, nel comodino: uno dalla parte mia e uno dalla parte sua. Quel povero babbo sa che cosa diceva: “Cammini tanto per andare insie273 bisogno de fànne due?” Lu’, quanno gèmma a fa’ le spese pe’ pïà’ marido, dicìa luscì: “Basta uno de pisciadóre: que ce ne fai de due?” Embè noà ne ’dopràmma uno, uno ’l tenémma ’mpo’ più addiédro pe’ quanno... - dicéa sempre cuélla pôra mamma... - pe’ ’na maladìa, quanno c’è ’l dottore, quanno una fa ’n fjòlo. C’era ’l cadì’, c’era ‘l brocchetto, c’era i du’ pisciadóri... parlàmo chiaro de como che era. Io cìa la pettenessa, ’n c’era cuélla vo’ ’l lavandì’, ’l lavandì’ de fèro como ce lìa mamma mia c’adesso arvà de moda. Io ’l lavandì’ e ’l brocchetto ’l tenìa drendo la pettenessa, l’orinali li tenìa drendo i comodì’, uno per parte; prò ’l brocchetto della cosa l’ho ’dopràdo quanno m’è nada la monella, scinò la faccia toccàa a lavàlla là la cucina, ché la madìna ’n scìsci ’l tempo de gi’ a pïà’ l’acqua prima là la cucina e po’ gitte a lavà’ la faccia là la càmbora. E po’ là la cambora squilzavi nigò, perché ’l dovéi métte’ per tèra ’l lavandì’. Como facévi: ’l cadì’ ’l poggiavi sopra ’na sedia? Allora te lavàvi la faccia ’nté la cucina. Se sciuccàmma tutti ’nté ’n’asciuccamà’, fumma in dieci. Io ce nìo messi due, ma cuéllo m’ha ditto: “Non lo sporcàde, lassàdelo sta’ per quanno c’è cualcù’”. Allora cuéllo ’l tenémma ’mpo’ più arrèdo. Cuscì è passada. me, c’è bisogno di farne due?” Lui, quando andavamo a fare le spese per prendere marito, diceva così: “Basta un orinale: che ce ne fai di due?” Ebbene, noi ne adoperavamo uno, l’altro lo tenevamo un po’ più indietro per quando… - diceva quella povera mamma… - per una malattia, quando c’è il dottore, quando una fa un figlio. C’era il catino, c’era il brocchetto, c’erano due orinali… parliamo chiaro di come era. Io avevo la pettiniera, non c’era quella volta il lavandino, il lavandino di ferro come ce l’aveva mamma mia, che adesso è tornato di moda. Io il lavandino e il brocchetto lo tenevo dentro la pettiniera, gli orinali dentro i comodini, uno per parte; però il brocchetto l’ho adoperato quando mi è nata la monella, se no la faccia toccava lavarla là in cucina, perché la mattina non avevi il tempo d’andare a prendere l’acqua prima là in cucina e poi andarti a lavare la faccia là nella camera. E poi là nella camera schizzavi tutto quanto, perché lo dovevi mettere per terra il lavandino. Come facevi: appoggiavi il catino sopra una sedia? Allora ti lavavi la faccia nella cucina. Ci asciugavamo tutti in un (solo) asciugamano, eravamo in dieci. Io ce ne avevo messi due, ma quello (mio suocero) mi ha detto: “Non lo sporcate, lasciatelo per quando c’è qualcuno!” Allora quello lo tenevamo un po’ più indietro. Così è passata. 274 La vèsta róscia La veste rossa Pe’ ’l giorno dobo sposàda io ìa preparàdo ’na veste róscia: cuélla vo’ ce se tenìa! La madre te fèra ’l vestido bello pe’ la domenniga dobo, la veste bella per le battidure, la veste róscia pe’ i giorni dobo. Mamma mia ce tenìa muntubè’: anca sci non fumma belle, ma dovìsci fa’ figùra. Ma ce tenìa ’mpo’ tutti. Quanno fùsci mezzo a ’n campo te distinguìa da cuéll’altri, co’ ’sta veste róscia. A me, so’ scigùra, me distinguìa be’. Pensàde vuà, la madina dobo sposàda mi’ sòcero ha ditto: “Adè gimo a somentà’ stamadìna. Te, Chià’, (no ‘Vu’: me dava del vu’!) pïàde la sappa e gide a sappà’, a sfinà’ la tèra davanti a la somenatrice”. Ma io, que dovéo fa’, ’na persóna sola davanti a la somenatrice che è granna... Io dovéo sfinà’ cuéi suppi de tèra che c’era passàdo prima co’ lo zigo zago, co’ lo stirpadóre: io dovéo passà’ avanti. Cercàa a daje sveltra, pe’ no’ passà’ da cojóna, toccàa a daje sveltra ma ’n ce rescìa, no... Capirai, me so’ presa...’na....! Pensàde vuà... la notte c’ho sposàdo, envece da gi’ a la gìda, ’l giorno dobo dovéo gi’ a sappà’, ma po’ a sappà’ de che razza! Ìa messa la vesta nòa, róscia; dicìa che la sposa ci’hà la bella vesta róscia là dal Panì’, se véde la sposa vestida de róscio. Se vedìa be’ scì, perché ’nté cuél campo granno Per il giorno dopo sposata io avevo preparato una veste rossa: quella volta ci si teneva! La madre ti faceva il vestito bello per la domenica dopo, la veste bella per la trebbiatura, la veste rossa per i giorni dopo (sposata).La mia mamma ci teneva molto, anche se non eravamo belle, dovevi ben figurare. Ma ci tenevano un po’ tutti. Quando ti trovavi in mezzo a un campo, ti distinguevano dagli altri, con questa veste rossa. Sono sicura che mi distinguevano bene. Pensate voi, la mattina dopo sposata mio suocero ha detto: “Adesso andiamo a seminare, stamattina. Tu, Chiara, (no “Vu’”: mi dava del ‘voi’), prendete la zappa e andate a zappare, ad affinare la terra davanti alla seminatrice”. Ma io, come potevo farcela, una persona sola davanti alla seminatrice che è grande… Io dovevo affinare quelle zolle di terra dove prima c’era stato passato ‘zigo zago’, con l’erpice: io dovevo passare avanti. Cercavo di zappare alla svelta, per non passare da cogliona, toccava a dargli svelta, ma non ci riuscivo, no… Capirai, mi son presa… una…! Pensate voi… la notte che ho sposato, invece di andare alla gita, il giorno dopo dovevo andare a zappare, ma poi a zappare di che razza! Avevo messo la veste nuova, rossa; dicevano che la sposa, là dal Panì’, aveva una bella veste rossa, si vedeva la sposa vestita di rosso… Si vedeva bene sì, perché in quel campo grande come ce l’avevamo noi, c’ero solo io 275 como ce l’émma noà, c’ero solo io sola là ’l mezzo. C’era le vacche co’ la somenatrice: cuélle era o da cima o da pìa... se vedìa be’ là ’l mezzo da per me sola... Era ’nté’ ’l mezzo a ’na marémma da per me, a sappà’. Mi’ marido, ’l padre e ’l fradello chi strippàa, chi somentàa, chi fèra i solchi. Io da per me, como la pegorèlla smarìda, a sappà’. ’Mpo’ che c’era ’na bella pegora addosso! là in mezzo. C’erano le vacche con la seminatrice: quelle erano in cima o in fondo (al campo)… Si vedeva bene là, in mezzo, che ero sola… Ero in mezzo a una maremma da sola, a zappare. Mio marito, il padre e il fratello chi passava l’erpice, chi seminava, chi faceva i solchi. Io tutta sola come la pecorella smarrita, a zappare. Un po’ che avevo un bel magone addosso! Padàde co’ la buccia: gimo be’! Patate con la buccia: andiamo bene! Ce porta da magnà’ a colazió’ mamma, mi’ sòcera, se mettémma a sède’ per tèra, lì ’n c’era gnè, ’n c’era ’na balla, sci fusse stada!, ma manco cuélla ’n c’era. Sopra ’no suppo se mettéa a sède’. Ci’hà portàdo la colazió’: c’era le padade in podàcchio. Sai como l’avìa fatte, cuélle padade piccoline? L’avìa fatte a tocchetti senza levàje la buccia! Io, quanno vô pe’ magnà’... como sapore era bòne, ma quanno vô pe’ magnà’... sento ’sta buccia. Pensào drendo de me: “È que le padade nòe che gné se fa’ a sbuccialle... cuélle nòe è fadiga a sbucciàlle. Tante le ô, anca sci le sbucci, ci’armane ’mpo’ de cuélla pellarìna, ma queste la pelle era cuélla dura. Lajù le sbucciàa co’ lo strofinaccio, adè ié dîmo “lo strofinaccio”, cuélla vo’ se dicìa “lo straccio”. Le sbucciàa luscì. Dicéa: “Que stai lì a pelà’! Le magni Mamma, mia suocera, ci porta da mangiare a colazione, ci mettemmo a sedere per terra, lì non c’era niente. Non c‘era una balla, ci fosse stata!, ma anche quella non c’era. Sopra una zolla ci si metteva a sedere. Ci ha portato la colazione: c’erano le patate in ‘potacchio’. Sai come le aveva fatte, quelle patate piccoline? L’aveva fatte a tocchetti senza levargli la buccia! Io, quando vado per mangiare… come sapore erano buone, ma quando vado per mangiare… sento questa buccia. Pensavo dentro di me: “Che sono patate novelle che non si riesce a sbucciarle?” Quelle novelle è difficile sbucciarle. Talvolta, anche se le sbucci, ci rimane quella pellicola, ma la buccia di queste era dura. Laggiù le sbucciava con lo strofinaccio, adesso lo chiamiamo ‘lo strofinaccio’, quella volta si chiamava ‘lo straccio’. Diceva (mia suocera): Che stai lì a pelare! Le mangi così!” 276 luscì”. “Cojó’!, - pensào io - gimo be’!” Mamma intanto cìa ’visàdo: “ Le mòde sìa da lassà’ da pìa delle scale!” Al giorno émo magnàdo l’arvànzi che c’era dal giorno prima. S’era arvanzàdo ’mpo’ de maccarù’, qualche pezzo de carne, ’mpo’ cuélle peggio: ’l collo, la testa, ’na gamba. ’Mbè’, tanto al giorno è gido be’. I maccarù’ era cuélli coll’ôvi, n’era tutt’ovi, ma tanto se magnàa be’. “Cojó’ – pensavo io – andiamo bene!” Mamma intanto ci aveva avvisato: “Le mode devono essere lasciate a piedi delle scale!” A mezzogiorno abbiamo mangiato gli avanzi del giorno prima. Erano avanzati un po’ di maccheroni, qualche pezzo di carne, un po’ quelli peggiori: il collo, la testa, una gamba. Ebbene, tanto al giorno è andato bene. I maccheroni erano quelli con le uova, anche se non con le sole uova, ma tanto si mangiavano. ’N se magnàa da quanto piccàa Non si mangiavano da quanto piccavano Alla sera a cena co’ c’era de cuéi tempi? Dicéa cuél pôro mi’ sòcero: “Va’ a coje’ du’ scorpìgni jù ’l campo!” Cuéi scorpìgni che piccàa juppe la gola... Noàltri a casa nostra se magnàa scì, se mettìa giù... Io ié dicìa ‘i crespigni’, lu’ ié dicìa “scorpìgni”, perché giù da noà, ’ndó so’ boccàda io, c’era uno che parlàa de Ripe, uno che parlàa de la Tomba, io che parlào de Montalbòdo, c’èra n’incrocio. Pensàde vuà quann’è nadi i monelli: pïàa ’mpo’ dal padre, ’mpo’ da me, ’mpo’ dai nònnesi. E allora dicéa mi’ sòcero a cuéll’altre monèlle, cuéll’altre fjòle: “Va’ a coje’ du’ scorpìgni!”. Gèra a coje’ i scorpìgni, ma cuélle non s’antendìa: cojéa cuéi grossi ch’era bòni pe’ còce’, no’ pe’ condì’. Da noà li cojémma anca noà, prò pïàmma La sera, a cena, che cosa c’era a quei tempi? Diceva quel povero mio suocero: “Va’ a cogliere due crespigni giù al campo!” Quei crespigni che piccavano giù per la gola… Noi, a casa nostra, si mangiavano sì, si piantavano pure… Io li chiamavo ‘crespigni’, lui li chiamava ‘scorpìgni’, perché giù da noi, (nella famiglia) dove sono entrata io, c’era uno che parlava (il dialetto) di Ripe, uno quello di Castelcolonna, io quello di Montalboddo: c’era un incrocio. Pensate voi quando sono nati i monelli: prendevano un po’ dal padre, un po’ da me, un po’ dai nonni. E allora diceva mio suocero a quelle altre ragazze, a quelle altre figlie: “Va’ a cogliere due ‘scorpìgni’!” Andavano a cogliere i crespigni, ma quelle non se ne intendevano: coglievano quelli grossi che erano buoni per cuocere, 277 cuélli piccolini piccolini che avìa buttàdo fòra le fojòline cuélla vo’. E po’ ce mettémma ’mpo’ de tughèlla, de ginestrèlla, ’mpo’ de pimpinella. e po’ dobo ce mettémma ’na branciòlétta d’ajo, cuéllo arcacciàdo: era bòna cuéll’ansaladèlla mista, prò no’ cuéi crespìgni soli che te piccàa giuppe la gola, ’n se magnàa da quanto piccàa. ’L pa’, ’mbè’ la sera ’l pa’ se podìa magnà’... ’mbè’... Sa, que dicìa mi’ sòcero: “Albertino (che sarìa stado mi’ marido), è uno de spesa... perché cuéllo magna ’mbelpo’. ’L pa’ ne magna tanto e anca ’l companatigo ’l vorrìa tanto!” Ma ’l companatico ’n c’era... C’era ’sto piatto de scorpìgni solo e ’n c’era gnent’àltro. Ancó’ ’l porco non s’era ’mazzàdo, scinò sci s’era ’mazzàdo ’l porco, capàce fettàa anca ’na fettarèlla de lónza che sci la mettéi controluce vidìi ’l paese da cuéll’altra parte. Magari…, ma giù da noà ’l paese non se vidìa perché... guardài dentórno... io dicìa ch’era la buga de la Marcóna... “Era boccàda ’nté la buga de la Marcóna!” - dicémma noà. Guardài dentórno vedéi solo ’l cielo. C’era cuéi contadì’ da cima cuélle cocuzzole, noà eravàmo giù cuélla buga... Per caridà, sci ci’arpenso adè’, me pare da sognàllo, me vène la carnepolìna... e pensà’ ch’è stado vero. non per condire. Li coglievamo anche noi, a casa mia, però prendevamo quelli piccolini piccolini che avevano da poco messo fuori le foglioline. E poi ci mettevamo un po’ di ‘trughella’, di ginestrella, un po’ di pimpinella, e poi dopo ci mettevamo una fogliolina d’aglio, quello che aveva germogliato di nuovo : era buona quell’insalatina mista, però non quei crespigni soli che ti piccavano giù per la gola: non si mangiavano da quanto piccavano! Il pane, be’, la sera lo si poteva mangiare… così e così. Sa che cosa diceva mio suocero: “Albertino che sarebbe mio marito – è uno di spesa (che fa spendere molto)… perché quello mangia molto. Mangia tanto pane e anche di companatico ne vorrebbe molto…!” Ma il companatico non c’era. C’era solo questo piatto di crespigni e non c’era altro. Ancora il porco non era stato ammazzato, se no, se fosse stato ammazzato il porco, forse (ci sarebbe stata) anche una fettina di capocollo che, se la mettevi controluce, da quell’altra parte vedevi il paese. Magari…, ma giù da noi il paese non si vedeva perché… guardavi dintorno… io dicevo che era la “buca della Marcona”… “Sono entrata nella ‘buca della Marcona’!” – dicevamo noi. Guardavi dintorno, vedevi solo il cielo. C’erano quei contadini in cima a quei cocuzzoli, noi eravamo in quella buca… Per carità, se ci ripenso adesso, mi pare di sognarla, mi viene la pelle come quella dei polli… E pensare che è stato vero! 278 ’N marìdo pe’ opera de lo spirito santo Un marito per opera dello spirito santo Ci’avìa i sòceri ’mpo’ ruzzi sa! Mi’ sòcera era ’mpo’ ruzzétta eh! Sapéde cuélla ci’avéa ’sti otto fjòli, no. S’è sposàda... ma ne ’l sapìa quanno s’era sposàda, n’è che sapìa la dada de nascida nigò, lì tutti cuèi fjòli ’n s’arcòrda nisciù. Me sa che s’è sposàda vèro del dodici, perché nel tredici è nada ’na fémmena, nel quattordici n’è nado ’n’antro. Dobo ’sto maschio, porànnima, chissà sci era ’mpo’ deperìdo, iè morto dobo sette otto dieci mesi. Dobo ’l marìdo iè gìdo sotto l’arme, a la guerra del quìnneci e, dobo ’mpo’ de mesi ch’è gìdo in guerra, è morto al fronte. Nel sedici iè morta la sòcera, che sarìa la nonna de mi’ marido, po’ nel diciassette iè morto ’l sòcero. Nel diciotto, benànche ’n ci’avéa ’l marìdo iè nado Albertino, mi’ marido. “Ma’, como l’avéde fatto, per opera de lo Spirito Santo?” Tante le ô, quanno fadigàmma con me mi’ sòcero me l’arcóntàa, m’arcontàa la vida de lu’ no. Ha ditto che ’nté ’sti quattro anni n’era morti quattro, c’è stada ’sta guèra, lu’ era a casa perché ancó’ era giovane prò ’n ce ’l pïàa sotta l’arme perché non stèra be’ manco de salude, era ’mpo’ piccolo, ’na mezza cartùccia, ma pe’ la regina era bòno. ’Na ò se dicìa “Chi n’è bòni pe ’l re, mango pe’ la regina!”. Envéce lu’ è stado bòno pe’ la regina! Me sa che n’èra manco ’rivàdo d’edà! Avevo i suoceri un po’ rozzi, sa! Mia suocera era un po’ rozzetta, eh! Sapete quella aveva questi otto figli, no! Si è sposata… ma non lo sapeva quando si era sposata, non è che sapesse la data di nascita tutto quanto, lì tutti quei figli non si ricorda nessuno. Mi sa che si è sposata verso il ’12, perché nel ’13 è nata una femmina, nel ’14 è nato un altro figlio. Dopo il maschio, povera anima, chissà se era un po’ deperito, le è morto dopo sette otto dieci mesi. Dopo il marito le è andato sotto le armi, alla guerra del ’15 e, pochi mesi dopo che era andato in guerra, è morto al fronte. Nel ’16 le è morta la suocera, che sarebbe la nonna di mio marito, poi nel ’17 le è morto il suocero. Nel ’18, benché non avesse il marito le è nato Albertino, mio marito. “Mam ma, come l’avete fatto… per opera dello spirito santo?” Tante volte, quando faticavamo insieme, mio suocero me lo raccontava, mi raccontava la vita sua, no. Ha detto che in questi quattro anni ne erano morti quattro, c’è stata la guerra; lui era a casa perché ancora era giovane, però non ce lo prendevano sotto le armi perché era un po’ piccolo, non stava bene neppure di salute. Mi sa che non era arrivato nemmeno d’età! Allora lui, sa che aveva fatto? Era fidanzato con un’altra, no, le diceva la C…., ma questa vedova, che sarebbe stata la cognata, era con lui e c’era lì 279 Allora lu’ sa que avéa fatto? Facéa l’amóre co’ ’n’antra no, ié dicéa la C...., ma ’sta vedova che sarìa stada la cognàda, c’era con lu’ e c’era ’na giovana armàsta lì casa. Allora n’era armàsti solo tre. Con mi’ sòcera, che ’l marido i’èra morto, sa que facéa? Ènne gidi insieme. ’N pezzo lìa ha ditto c’ha insistido, ma dobo lu’ era ’n pignolétto che dev’èsse’ che ce provàa ’na mucchia de volte, allora è venudo fòri Albertì’, mi marido. Era armàsta gravida. Dicìa: “ ’Mpo’ la Panìna è armàsta gravida! Chissà chi sarà stado? Il marìdo iè morto in guerra!” Eh, ’l sapìa lu’ chi era stado: era stàdo ’l cognàdo! Ha ditto ’n giorno da quanto era fastidioso, perché era piccoletto, ma era un pignolinèllo, ’n giorno i’hà datto ’na spénta e l’ha buttàdo drendo la trocca dell’acqua delle bestie e l’avìa fatto mollà’ tutto. E dopo zia, sarìa stada la sorella de mi’ socero, cuélla che era la giódiga armàsta, ha ditto che lìa ne vidìa ’mbelpo’ de cose brutte, li vedìa sul letto, l’era chiappàdi, lìa ’l sapìa che lu’ ce gèra insieme, a dormì’ no ma..., oste!, sci ce gera insieme! Coscì alla fì’ è nado ’sto Albertino. casa una rimasta zitella. Allora erano rimasti solo in tre. Con mia suocera, alla quale era morto il marito, sa che cosa faceva? Sono andati insieme. Un pezzo lei ha detto che (lui) ha insistito, perché era un po’ testardo e deve essere che ci aveva provato tante volte: alla fine è venuto fuori Albertino, mio marito. Era rimasta incinta. Diceva (la gente): “(Guarda) un po’: La Panina è rimasta incinta! Chissà chi sarà stato? Il marito le è morto in guerra!” Eh, lo sapeva lui chi era stato: era stato il cognato! (Mia suocera) ha detto che un giorno, da quanto era fastidioso, perché era piccolino, ma testarduccio eh, gli ha dato una spinta e l’ha buttato dentro alla vasca dell’acqua delle bestie e l’aveva fatto bagnare tutto. Dopo zia, che sarebbe stata la sorella di mia suocera, quella che era rimasta zitella, ha detto che lei ne vedeva tante di cose brutte: li vedeva sul letto, li aveva sorpresi, lei lo sapeva che lui ci andava insieme, a dormire no… ma, oste!, se ci andava insieme! Così alla fine è nato questo Albertino. Como me ce sarò ’ncuntràda... Come mi ci sarò incontrata… È gida avanti per due e tre anni, n’ha fatta ’n’antra del venti, ’n’antra del ventidue, n’antro del ventiquattro, n’antro del ventisei, n’antro del (La cosa) è andata avanti per due tre anni. (Mia suocera) ne ha fatta un’altra nel ’20, un’altra nel ’22, un altro nel ’24, un altro nel ’26, un altro 280 ventinove, ’n m’arcordo manco tutti com’è: era ’na bella coàda! Prò quann’era stado del ventidue o del ventitrè toccàa a sposàsse, ché lóra stèrene insieme ma dobo non li segnàa, no, su la chiesa. Lìa pïàa la pensió’ del marido morto, intàndo se devertìa co’ quest’altro! Prò dobo ’l prede non li segnàa ’sti fjòli ’nté la chiesa, allora i’hà toccàdo a sposàsse. S’è sposàdi. E dobo, in seguito i’é venùdi tutti ’st’altri fiji, finànta al trentasette. E allora mi’ socero (io ’l chiamào babbo e a mi’ socera mamma), quanno fadigàmma insieme m’arcontàa tutta la vida sua chìa fatto. Ié dicìa: “Dobo como éde fatto co’ cuél’altra ragazza, che ci fèsta l’amore” “Eh, como ho fatto? A cuélla i’hà saputo fadìga, ma tanto ormai m’ha toccàdo a sposà’ quest’altra!” Ormai c’era gido a dormì’ insieme, a cuélla l’ha lassàda gi’. Prò... sarà gidi d’accordo ne ’l so, perché mamma, mi’ sòcera, era una ruzza ’mbelpo’, ma lu’ gèra sempre a fadigà’ fòri, ’nté le cantine del padró’, e lìa pïàa tutta la faméja con tutti cuéi fjòli: apposta era ruzza sa. ’N se sapìa com’era vestìdi; ’l più piccolo, porànnima, quann’era d’inverno, scalzo, co’ ’na camicétta de cottó’ sotta, ’na vestinèlla sopra... Lì ’n se cambiàa tanto sa, era ’mpo’ ruzzi sa... Ma como me ce sarò ’ncuntràda? La gente dicìa: “La Chiara ch’era tanta deligàda con cuélla famìja del ’29. Non mi ricordo nemmeno tutti come sono: era una bella covata! Però, quando è stato del ’22 o ’23 toccava sposarsi, perché loro vivevano insieme, ma non li segnava, no, sulla chiesa. Lei prendeva la pensione del marito morto, intanto si divertiva con quest’altro! Però dopo il prete non li segnava questi figli nella chiesa, allora hanno dovuto sposarsi. Si sono sposati. E in seguito gli sono venuti tutti questi altri figli, fino al ’37. E allora mio suocero (io lo chiamavo ‘babbo’ e a mia suocera ‘mamma’), quando faticavamo insieme, mi raccontava tutta la sua vita che aveva fatto. Gli domandavo: “Dopo come avete fatto con quell’altra ragazza, con cui eravate fidanzato?” “Eh, come ho fatto? A quella le è dispiaciuto, ma tanto ormai ho dovuto sposare quest’altra!” Ormai c’era andato a dormire insieme, quell’altra l’ha lasciata andare. Però… saranno andati d’accordo, non lo so, perché mamma, mia suocera, era tanto rozza, ma lui andava sempre a lavorare fuori, nelle cantine del padrone, e lei si teneva tutta la famiglia con tutti quei figli: apposta era rozza, sa. Non si sapeva come erano vestiti; il più piccolo, povera anima, quando era d’inverno, scalzo, con una camicetta di cotone sotto, una vestina sopra… Lì non ci si cambiava tanto, sa, erano un po’ rozzi, sa… Ma come mi ci sarò incontrata? La gente diceva: “Chiara, che era tanto delicata con quella famiglia, come ha fatto a incontrare in una casa così?” 281 como ha fatto ’ncuntrà’ ’nté ’na casa luscì!” Ma cuélla vo’ ’n se sapìa, ’n se conoscìa... Era gente da soldi per caridà! Quanno so’ boccàda io cìa ducentomilalire! Nel ’43 ducentomilalire era tanto, ma ni sapìa spende’ i soldi no, perché vendìa sempre ’na robba bòna e compràa le sardèlle, vendìa i presciutti, vendìa le lónze e compràa le sardèlle, vendéa ’l vi’... ’mbè’ no, ’l vi’ se bevìa anca bòno scì. ma quella volta non si sapeva, non si conosceva… Era gente di soldi, per carità! Quando vi sono entrata io, aveva duecentomila lire. Nel ’43 duecentomila lire erano tante, ma (i soldi) non li sapeva spendere, perché vendeva sempre la roba buona e comprava le sardelle, vendeva i prosciutti, vendeva le ‘lónze’ e comprava le sardelle, vendeva il vino… be’ no!.. il vino si beveva, anche buono, sì! Pane col vi’, tajolì’ e polentó’ Pane con il vino, tagliolini e polentone Tante le ô quann’èra la sera e lóra gèra a letto, io e mia cognàda Federìga qué fèmma? C’era ’na taolàda de pa’ che bastàa pe’ quindici giorni, prò nun voléa mi’ sòcero che se magnàa, ma noà, quanno lóra era gidi a letto, fèmma fénta da fa’ i calzétti (io ié ’mparàa perché cuélla cognàda piccola, quanno so’ boccàda io, cìa dodici tredici’ànni, non sapìa fa’ perché la madre ’nsegnàa solo a ’ste fjòle a rumà’ là pe ’l campo, envece bisognàa anca fadigà’ dendro casa!). Allora questa chì, pôra monèlla, pensàde a sedeci’anni i’hà toccàdo a sposà’, a tirà’ avanti ’na faméja... Capirai: era boccàda lì dagli Antighi ch’era ’na casa de cuélle sonòre eh! Era una de cuélle famije ’ndó le fjòle sapìa fa’ nigò. Allora noà stèmma lì attorno al fôgo, ié ’nsegnàa a fa’ ’l calsétto, Qualche volta, quando di sera loro andavano a letto, io e mia cognata Federica che cosa facevamo? C’era una tavolata di pane che bastava per quindici giorni, però non voleva mio suocero che si mangiasse, ma noi, quando loro erano andati a letto, fingevamo di fare le calze. Io glielo insegnavo perché quella cognata piccola, quando sono entrata io, aveva dodici tredici anni, non sapeva fare, perché la madre insegnava alle figlie solo a ruspare là per il campo, invece bisognava lavorare anche dentro casa! Allora questa qui, povera ragazza, a sedici anni ha dovuto sposare, a tirare avanti una famiglia… Capirai, era entrata lì dagli Antichi, che era una casa di quelle sonore eh! Era una di quelle famiglie, dove le figlie sapevano fare tutto. Allora noi stavamo lì attorno al fuoco a fare una calza, intanto chiude282 intanto chiudémma la porta della cucina e lóra era più in na, ’n sentìa... Pïàmma ’l pa’ e po’ pïàmma ’n mezzo bicchiero de vi’, cuéllo róscio, bòno, e lì mollàmma ’l pa’ col vi’: quant’era bòno prima da gi’ a letto, perché c’émma ’na fame! Capace magnàvi ’n piatto de menèstra, ma a me cuélla menèstra sensa pa’ ’n me gèra giù, con cuéi tajolì’ sens’ovi... quant’era tristi! C’era tre quattro pezzi de lardo che gèra a galla, sopra lì ’nté cuél piatto granno... C’era i piatti granni che coprìa tutto ’l taolì’. E lì c’era cuéi tajolì’ grossi como ’n dédo, toccàa a tajàlli! Sens’ôi, sci li tajàvi fini se spezzàa tutti... E alla sera se magnàa cuélla robba lì d’inverno e po’ se magnàa anca presto, quanno ’n se fadigàa giuppe ’l campo, che ’n se guadagnàa gnè. Dicìa cuél pôro babbo, mi’ sòcero: “Oggi ’n s’è guadamniàdo gnè, manco se podrìa magnà’! Facémo ’l polentó’!” E se facìa ’l polentó’. Sa co’ facìa? Pïàa ’l treppìa, “la serva della padella” ’l chiamàa, po’ mettìa su ’na padellàda d’acqua, sul fôgo, ’nté la fjàra, e po’ buttàa giù ’na sessolàda de farina de granturco tutta ’na volta. Io nìo mae visto a fa ’coscì, perché a casa nostra cuélle schifènze lì ’n se magnàa. E po’ sa que facìa? Mi’ sòcera ’l facìa, perché io ne ’l sapìo fa’. Dicìa che ne ’l sapìo fa’. In quanto a cuéllo e le cresce tajàde no’ le sapìo fa’: veramente è vero perché a casa nostra, como ho ditto, ’n se fèra vamo la porta della cucina e loro erano più in là, non sentivano… Prendevamo il pane e poi prendevamo un mezzo bicchiere di vino, quello rosso, buono, e lì bagnavamo il pane col vino: quanto era buono prima di andare a letto, perché avevamo una fame! Forse avevi mangiato un piatto di minestra, ma a me quella minestra senza pane non mi andava giù, con quei tagliolini senza uova… quanto erano cattivi! C’erano tre quattro pezzi di lardo che galleggiavano in quel piatto grande… C’erano i piatti grandi che coprivano tutta la tavola. E lì c’erano quei tagliolini grossi come un dito, toccava tagliarli. Senza uova, se li tagliavi fini, si spezzavano tutti… D’inverno, la sera si mangiava quella roba lì e poi si mangiava anche presto, quando non si faticava giù per il campo, che non si guadagnava niente. Diceva quel povero babbo, mio suocero: “Oggi non s’è guadagnato niente, nemmeno si potrebbe mangiare! Facciamo il polentone!” E si faceva il polentone. Sa cosa faceva (mia suocera)? Prendeva il treppiedi, lo chiamava ‘la serva della padella’, poi metteva su una padellata d’acqua, sul fuoco, in mezzo alle fiamme, e poi buttava giù una sessolata di farina di granturco, tutta in una volta. Io non avevo mai visto fare così perché a casa nostra schifezze simili non si mangiavano. Poi sa che faceva? Mia suocera lo faceva, perché io non lo sapevo fare. (Lei) diceva che io non lo sapevo fare. In quanto a quello e alle ‘cresce tagliate’ non le sapevo fare: veramente è vero perché a casa nostra, 283 cuélle schifézze lì. Buttàa giù ’sta farina tutta ’na ’olta, facéa ’n gran pangòtto da mezzo: era ’na gran bòccia ’n mezzo a cuélla padèlla grànna. E lì co’ la cucchiara buttàa su l’acqua boìda dentorno a ’sta farina: de fòri venìa cuélla còsa liscia como non so, como fa’ ’n mucchio de cimènto, de fòri facìa liscio... da mezzo armanìa tutta farina. Dopo quann’era stado mezz’ora lì sul fôgo su cuélla padella, co’ la cucchiàra spaccàa ’sto monte: ’nté ’l mezzo era tutta farina. Allora dopo ’mpo’ s’ammollàa ’sta farina coll’acqua boìda. Po’ ce buttàa ’l sale e la magnàa luscì, scondìda. Dicìa mi’ sòcero: “Quant’è bona! Sentide quant’è bòna” me dicìa a me, me dèra del vu’, perché ’l vu’ cuélla vo’ era più educàdo no? Ma a me non me gèra giù, ne magnàa du’ tre cucchiaràde e… armanìa co’ la fame pe’ compagnia. come ho detto, non si facevano quelle schifezze lì. (La suocera) buttava giù questa farina tutta in una volta, faceva una grande poltiglia in mezzo: era una grande boccia in mezzo a quella padella grande. E lì con un cucchiaia buttava su l’acqua bollente intorno a questa farina: di fuori veniva quella cosa liscia non so come, come fa un mucchio di cemento, di fuori rimaneva liscio… in mezzo rimaneva tutta farina. Dopo, quando era stato mezz’ora lì sul fuoco su quella padella, con il cucchiaio spaccava questo monte: nel mezzo era tutta farina. Allora, dopo un po’ si bagnava questa farina con l’acqua bollente. Poi ci buttava il sale e la mangiavano così, senza condimento. Diceva mio suocero: “Quant’è buona! Sentite quant’è buona!” - diceva a me. Mi dava del ‘vu’, perché il ‘voi’ quella volta era di maggiore educazione, no! Ma, a me, non mi andava giù, ne mangiavo due tre cucchiaiate e… rimanevo con la fame per compagnia. Comènsa ’l calvario Comincia il calvario ’Nté la faméja de mi’ marìdo per me c’è stado propio ’n calvario: fadìga a stufo, alsàsse presto alla madìna e gi’ a letto tardo alla sera, laóri pesanti. Me dicìa mi’ sòcero: “Vu’ podéde fadigà’ forte como ’na vacca sòda”. Fina a 23 anni non ci’hò aùdo i fjòli, allora se dicìa così ’na vacca Nella famiglia di mio marito per me c’è stato proprio un calvario: fatica a stufo, alzarsi presto la mattina e andare a letto tardi la sera, lavori pesanti. Mi diceva mio suocero: “Voi potete faticare forte come una vacca soda!” Fino a ventitré anni non ho avuto figli, allora si diceva così: una vacca quando non 284 quanno n’era gravida e no’ ’lattàa dovìa esse’ sempre sotta. Scì, a me piacìa a sta’ sotta, ma qualche vo’ anca sopra! Adè’ scherzo! E dobo i giorni, gènno avanti, finìdo a somentà’, c’era da fa’ lo scapeccio. Capirai... lo scapéccio duràa ’na quindicina de giorni... Lora su alto a tajà’, noàltri per tèra a spezzà’ tutti cuéi pali... I pali servìa pe’ le vide, pe’ ’ncannà’ i pomidori all’istàde. I pali i pïàmma tutti. Dobo le rocce le pïàmma pe’ ’ncannà’ i besèlli, po’ dobo le rocce fine fine, cuélle pe’ ’l fôgo, ma vulìa che se fèra be’. Babbo, ’n quanto a cuéllo ’l contentàa perché io ero diligàda a fadigà’. Mìa ’mparàdo ’l pôro babbo, dicìa: “La persona che vène da ’n fónno piccolino ampàra a fadigà’ deligado”. Noàltri perché c’émma la tèra poga no? sei èttri, envéce lajù ce n’era ’na quindicina, vent’èttri. Allora in cuéllo ’l contentàa, perché facìo cuélle belle fascine, fatte be’, corte, spezzade be’ e po’ dobo le legàa mi’ socera, prò le legàa be’ perché dobo le dovéa vénde’, capido! ’Mpo’ le dèra al padró, ma cuélle fatte mejo le vendìa pe’ pïà’ qualche soldo, perché, pôrétti!, non era pôrétti sa: quanno so’ boccàda io, como v’ho ditto, cì’avéa ducentomila lire! Ce lìa ditto mi’ sòcero pe’ fa’ ’l paccó, che cìa i soldi. Finido lo scapéccio, quann’era vicino a Nadàle, c’era da fa’ la cannafòja, tajà’ i cannédi: caréggia trenta quaranta fasci de canna dal cannédo era gravida e non allattava doveva stare sempre sotto. Sì, a me piaceva stare sotto, ma qualche volta anche sopra! Adesso scherzo! E i giorni dopo, andando avanti, finito di seminare, c’era da fare “lo scapeccio”. Capirai… la capitozzatura durava una quindicina di giorni… Loro in alto (sugli alberi) a tagliare, noi a terra a spezzare tutti quei rami… I rami servivano per le viti, per incannare i pomodori all’estate. I rami li prendevamo tutti. Dopo i sarmenti (più grossi) li prendevamo per incannare i piselli, infine i sarmenti fini fini, quelli per il fuoco, ma (mio suocero) voleva che si sistemassero bene. Babbo, in quanto a quello lo accontentavo, perché vedeva che ero delicata nel faticare. Mi aveva insegnato il povero babbo, diceva: “La persona che viene dal fondo piccolino impara a lavorare delicato” Noi avevamo poca terra, no? Sei ettari, invece laggiù ce n’erano una quindicina, venti ettari. Allora in quella cosa lo accontentavo, perché facevo quelle belle fascine, fatte bene, corte, spezzate bene e poi dopo le legava mia suocera, però le legava bene perché le doveva vendere, capito! Un po’ le dava al padrone, ma quelle fatte meglio le vendeva per prendere qualche soldo, perché, poveretti!, non erano poveri sa: quando sono entrata io, come vi ho detto, avevano duecentomila lire! Ce lo aveva detto mio suocero, per vantarsi che aveva i soldi. Finita la potatura, quando era vicino a Natale, c’era da fare la cannafoglia, tagliare i canneti: trasporta (sulle 285 giù pìa del campo e pòrteli ’mpo’ su i filù’, un fascio in qua un fascio in na? ’L vedi sci te scròcciola bembè! Li mettémma giuppe i filù’ pe’ ’ncannà’ le vide no. Le lassàmma ’n par de fasci pe’ cosà’, ’ncannà’ i pomidori, pe’ ’ncannà’ i fagioli... Dobo cuél’altre le spandémma un fascio in qua un fascio in na, su pe’ cuél monte a careggià’... Quann’era la sera, a cuéi tempi te la sentivi la voja de sturzà’ ma, sci fusse adè’, me fa cascà’ i capìji! spalle) trenta quaranta fasci di canna dal canneto, giù in fondo al campo, e portali un po’ su per i filari, un fascio di qua ed uno di là? Lo vedrai se ti spezza perbene! Ne lasciavamo un paio di fasci per cosare, incannare i pomodori, per incannare i fagioli… Dopo quelle altre le spandevamo un fascio qua un fascio in là, su per quel monte trasportandoli (sulle spalle)… Quando era la sera, a quei tempi te la sentivi la voglia di scherzare, ma, se fosse adesso, mi farebbe cadere i capelli! Le cugnàde e altri laóri Le cognate ed altri lavori Finido lo scapéccio, cominciàa a podà’, c’era ’na quindicina o venti filù’ tutti da podà’: oppi - ié dicìa ‘l’arbori’ -, e vide. Lì noà dovémma arcoje’ tutte le legna: io e mi’ cognàda, che cìa tredici’ànni, fadigàmma sempre noàltre due, fortuna che cìa ’mpo’ lìa da confidàmme, perché scinó mi’ sòcera ’n parlàa mae, stèra sempre lì con cuél muso gùzzo. Non parlàa mae perchè ’mpo’ sarà stada gelosia, ’mpo’ perché io ero ’mpo’ ’mbiziosa, ancò’ sai tenéa ’mpo’ le mòde de casa mia. Dicìa che le dovéo buttà’ via cuélla pôra mamma, ma me podìa buttà’ giù como ’na vecchia, ancó’ cìa vent’anni! A me me picìa, me piacìa damme ’na giustàda ai capiji... Dalla parrucchiera cuélla vo’ ’n Finita la capitozzatura, si incominciava a potare, c’erano una quindicina o venti filari tutti da potare: oppi – li chiamava ‘l’àrbori’ – e viti. In quel lavoro noi dovevamo raccogliere tutte le legna: io e mia cognata che aveva tredici anni, lavoravamo sempre (insieme) noi due: fortuna che avevo un po’ lei con cui confidarmi, perché, se no, mia suocera non parlava mai, stava sempre lì con quel muso aguzzo. Non parlava mai, perché un po’ sarà stata gelosia, un po’ perché io ero ambiziosa; ancora, sai, tenevo un po’ le mode di casa mia. Quella povera mamma diceva che le dovevo buttare via, ma non mi potevo buttar giù come una vecchia, ancora avevo vent’anni! Mi piaceva… mi piaceva darmi una aggiustata ai capelli… Dalla parrucchiera quella volta non 286 Pagliai. Da notare nel pagliaio centrale un mattone a penzoloni, per trattenere la paglia, e il medullo o mallone con l’aggiunta, che serviva per non far portar via dal vento il fieno o la paglia quando ancora il pagliaio non era ben pressato. (foto Dino Ferro 1968). ce se gìa sa, i lavàa da per me, sempre co’ la ranna, come v’ho ditto, i lavàa da per me... A tajà’ prima gèmma da ’ste sorelle, ma lóra s’era sposàde, ’n c’era più la possebilità e tante le ô ié dèsci ’na sforbigiàda da per te. A ’ste cognàde mia, con me ce n’èra ’rmàste altre due piccole, ié li tajào io i capiji, ié tajào i pagni: tante le ô sci ci’avéo ’n pezzo de scàmpolo finché ’n ci’avìo i fjòli io, ’n pezzo de pèzza vecchia, ’n pezzetto capàce m’arvansàa de ’na vesta mia, ié ce facéo ’na gonnèlla ci si andava, sa, li lavavo da sola, sempre con il ranno, come vi ho detto, li lavavo da sola… Prima andavamo dalle mie sorelle a tagliarli (i capelli), ma loro si erano sposate, non c’era più la possibilità e tante volte gli davi una sforbiciata da sola. Alle mie cognate, con me ce n’erano rimaste altre due piccole, glieli tagliavo io i capelli, gli tagliavo i vestiti: qualche volta, se avevo un pezzo di scampolo finché non avevo i figli io, un pezzo di stoffa vecchia, quando mi avanzava un pezzetto di una veste mia, gli ci facevo una gonnella con due tre colori. Mi voleva287 con du’ tre colori. Me vulìa be’ sa, tutte e due: me ’l vôle tuttóra, ancó’ me vène sempre a troà’! Con me se confidàa. Cuélla piccola, embè era troppo piccola, cuélla sci sentìa ’mpo’ a di’ qualcò’, curìa a gillo a ’rcontà’ a la madre, ma cuél’altra con me è stada como ’na sorella, anche mèjo. Lì, non ve l’ho fenìdo de di’, fenido lo scapéccio, ha comensàdo a podà’, fenìdo da podà’, Dio benedetto!, cominciàa a sappà’ ’l gra’. Ma lì c’era sempre da fadigà’, da la madìna presto a la sera tardo! Quanno mi’ sòcero partìa co’ la biscighétta, gèra al paese, a Montalbòdo, non so tante le ô a Sinigàja, allora prima da partì’ dicìa a mi’ marido: “Guarda, Albertì’, c’è da fa’ cuélla faccènna lì, cuélla faccènna là!” Capirai, tante le ’olte al venardì, quanno partìa, lóra gèra al mercàdo, a me ’n me dicéa gnè. Io ero abbituàda a gìcce, no: mamma me ce portàa sempre al mercàdo. Ié dicìa a mi’ marìdo: “Ce gimo anca noà?” I primi mesi qualca vo’ me ci’hà portàdo, ma dopo mi’ sòcero guardàa brutto no: comannàa ’ste faccènne, envéce capàce ce vidìa su la piazza. E po’ alla fine ié l’ha ditto pure a Albertì’, i’hà ditto: “Oh, fjòli, c’è da fadigà’, ’n c’è più tempo da gi’ in giro!” Sicché m’ha toccàdo métteme giù a fadigà’. Gèra via mi’ sòcero e dicìa: “Ah oggi c’è da fa’ cuélla faccenna lì, quanno arvèngo a casa io, no bene, sa, tutte e due: me lo vogliono tuttora, ancora mi vengono sempre a trovare. Con me si confidavano. Quella piccola be’, era troppo piccola; quella, se sentiva un po’ a dire qualcosa, correva per andarlo a raccontare alla madre, ma quell’altra con me è stata come una sorella, anche meglio. Lì, non ve l’ho finito di dire, terminata la capitozzatura, hanno cominciato a potare; finito di potare, Dio benedetto!, cominciavano a zappare il grano. Ma lì c’era sempre da faticare: dalla mattina presto alla sera tardi! Quando mio suocero partiva con la bicicletta, andava al paese, a M ontalboddo, non so, qualche volta a Senigallia, allora prima di partire diceva a mio marito: “Guarda, Albertino, c’è da fare quella faccenda lì, quella faccenda là!” Capirai, spesso il venerdì, quando (i suoceri) partivano, andavano al mercato, a me non dicevano niente. Io ero abituata ad andarci, no: mamma mi ci portava sempre al mercato. Io dicevo a mio marito: “Ci andiamo anche noi?” I primi mesi qualche volta mi ci ha portato, ma dopo mio suocero guardava brutto no: comandava queste faccende, invece capitava che ci vedeva sulla piazza. E poi, alla fine, gliel’ha detto pure ad Albertino. Gli ha detto: “ Oh, figli, c’è da faticare, non c’è più tempo di andare in giro!” Sicché ho dovuto mettermi giù a faticare. Andava via mio suocero e diceva: “Ah, oggi c’è da fare quella faccenda lì, quando ritorno a casa io, fate che sia fatta; quella faccenda là: 288 fade che sia fatta; cuélla faccenna là: c’è da portà’ via ’l piscio delle bestie, c’è d’arcomédà’ la grascia e c’è da fa’ cuéllo e c’è...” A me me rimpìa la testa prima da fàlle ’ste faccènne, prò tanto toccàa a sta’ sitti, toccàa a fàlle e sitti. Pensàde vua: ho comensàdo a mette’ giù ’l primo giorno, ha duràdo dodici’anni, quanto sacco avrò rimpìdo? Era pîna pîna, ’n ne podéo più: dobo apposta so’ gida a fenì’ a l’ospedale. Per caridà!, io dicia sempre, quanno so’ gìda a fenì’ male luscì: “ I fiji, quanno che ci’arrivo a védeli a pïa’ moje, na da sta’ co’ me sa! A da sta’ per conto sua, io magari me metto ’nté lo stipo del porchétto, prò insieme non ce sto, non vojo che la nora trìbbola com’ho tribbolàdo io. Cuscì ho fatto sa. Émo fatto ’sta casetta ch’è piccola, pare ’n garage, ma quanno s’è sposàdo, io me so’ contentàda solo d’avé ’na cucinétta stretta stretta, ’ndó ce godìa a malappena ’rvoltàsse me e mi’ marìdo, e la càmbora. ’L resto l’ho lassàdo tutto a lóra: i’émma fatto ’l bagno (già cuélla vo’ cominciàa ad èssece i bagni anca in campagna), i’émo datto la càmbora, i’émo fatto la sala... Non era tanto posto manco pe’ lóra, prò tanto, como sia, era ’mpo’ mejo de como stèra io: inùdele che cìa la cambora granna, che me ce capìa tutti e tre i monèlli, prò non stésci contenta. c’è da portare via il piscio delle bestie, c’è da sistemare il letame e c’è da fare quello e c’è…” Mi riempivano la testa prima di farle queste faccende, però tanto toccava stare zitti, toccava farle e zitti. Pensate voi: ho incominciato ad inghiottire il primo giorno, è durato dodici anni (questo andazzo), quanto sacco avrò riempito? Ero piena piena, non ne potevo più: dopo apposta sono andata a finire all’ospedale. “Per carità – io dicevo sempre, quando sono andata a finire male così – i figli, se arrivo a vederli prender moglie, non devono stare con me, sa! Devono stare per conto proprio: magari io mi metto nel porcile, però insieme non ci sto, non voglio che la nuora soffra quello che ho sofferto io”. Così ho fatto. Abbiamo fatto una casetta, ch’è piccola, pare un garage, ma, quando ha sposato (mio figlio), io mi sono accontentata solo di avere una cucinetta stretta stretta, dove c’era il posto appena per girarsi io e mio marito, e la camera. Il resto l’ho lasciato tutto a loro ( agli sposi): gli abbiamo fatto il bagno (già quella volta cominciava ad esserci i bagni anche in campagna), gli abbiamo dato la camera, gli abbiamo fatto la sala... Non c’era tanto posto nemmeno per loro, però tanto, come sia, era un po’ meglio di come stavo io: inutile che avessi la camera grande, dove ci entravano tutti e tre i monelli, però non stavi contenta! 289 Il “pularo”: da notare il luogo dove veniva puntata la falce: vicino al cancello del pularo (foto Dino Ferro 1968). La “traggia” (o “trèa”), lo “stirpatore”, l’aratro di legno ed altri attrezzi (foto Dino Ferro 1968). 290 Porcili e gabbione per il trasporto della “madràna”, quando questa veniva portata a”farla ’rcoprì’ dal guèrro”. (foto Dino Ferro 1968). Capanna (foto Dino Ferro 1968). 291 La pozza con la banchetta per lavare e la pompa per irrigare l’orto (foto Dino Ferro 1968). Il “grasciaro” con le tamerici (foto Dino Ferro 1968). 292 Fiori attorno al pozzo (foto Dino Ferro 1968). 293 Mi’ socera avanti co’ ’n culo sbiràdo Mia suocera avanti con il culo di traverso E dobo, non ve l’ho fenido da dì, a la doménniga a casa nostra pe’ caridà!, s’arispettàa. Sabbedo a sera già se comensàa a fa’ festa. A la domenniga lì a la madìna, prima de gi’ a la Messa, se gèra a fa’ l’erba giuppe i fossi. Cera tutti cuei fossi da pulì’, c’émma quattro o cinque fossi lónghi, sarà stadi... giràa tutto ’l campo... miga ’l so quanti chilòmedri era. ’L campo ’l giràa tónno, po’ c’era i fossi giuppe ’l mezzo: lì dovéi pulìlli tutti, cuél falàsco dovéi fallo tutto pe’ le bestie. Rîmpìsci le crinelle, sci era da lóngo ’l carreggiàsci coi fasci. E dobo gèsci a la Messa. Capirài, dovéi vestìtte ’nté ’n quarto d’ora, envéce io com’era abiduàda a sta’ ’nté lo specchio prima da partì’, me guardàa de qua me guardàa de là, non c’era ’n pelo storto quann’éo fatto. Envéce lajù dobo, lajù c’era i peli storti eh! Dovéi vestìtte de fuga e po’ gi’ a la Messa, perché sonàa. Sci ch’era sciucco, passàa pei campi, portai le scarpe su le ma’, perché era più curta la strada; sci, envéce, era móllo, toccàa a passà’ tónno, e dobo mettemma le scarpe lì vicino a la chiesa de San Giròlimo. N’era tanto da lóngo: in linia d’aria sarà stado un chilomedro e mezzo. Gèmma a la Messa, venuda a casa da la Messa, io cìa ’l vizzio che me piacìa ’n momento a sta’ cinque E dopo, non ve l’ho finito di raccontare, la domenica a casa nostra si rispettava, per carità! La sera del sabato già si incominciava a far festa. La domenica mattina lì (a casa dei suoceri), prima di andare alla messa, si andava a fare l’erba giù per i fossi. C’erano tutti quei fossi da pulire, avevamo quattro o cinque fossi lunghi, saranno stati… giravano tutto il campo… mica lo so quanti chilometri erano. Il campo lo giravano attorno, poi c’erano i fossi giù nel mezzo: li dovevi pulire tutti, dovevi fare tutto quel falasco per le bestie. Riempivi le ‘crinelle’; se era lontano lo portavi con i fasci (sulle spalle). E dopo andavi alla Messa. Capirai, dovevi vestirti in un quarto d’ora, invece io ero abituata a stare davanti allo specchio prima di partire: mi guardavo di qua, mi guardavo di là, non c’era un pelo storto quando avevo fatto. Invece laggiù c’erano i peli storti, eh! Dovevi vestirti alla svelta e poi andare alla Messa, perché suonava. Se era asciutto, passavo per i campi, portavi le scarpe sulle mani, perché la strada era più corta; se, invece, era bagnato, bisognava passare attorno, e dopo mettevamo le scarpe lì vicino alla chiesa di San Girolamo. (La chiesa) non era tanto lontana: in linea d’aria sarà stata (lontana) un chilometro e mezzo. Andavamo alla Messa; tornando a casa dalla Messa, io avevo l’abitudine che mi piaceva stare un momento, cin294 minùdi a chiacchierà’, quanno c’era ’n’amìga mia. Ormai émma fatto conoscenza, lìa pure me volìa be’, gèmma tante le ’olte insieme; quann’era giovana la conoscìa be’. C’era anca cuéll’amighe de le cognàde mia pure me parlàa como venèmma giù da la Messa. Capirai, mi’ socera caminàa avanti co’ ’n culo sbiràdo: cuélla la dovéi capì’ che dovésci gi’ a casa a tirà’ via. Era vero che toccàa lassà’ gi’ tutte le mode. que minuti, a chiacchierare, quando c’era un’amica mia. Ormai avevamo fatto conoscenza, lei pure mi voleva bene, andavamo tante volte insieme, quando non era sposata, la conoscevo bene. C’erano anche quelle amiche delle mie cognate che mi parlavano pure, come tornavamo giù dalla Messa. Capirai, mia suocera camminava avanti con un culo di traverso: quella la dovevi capire subito che dovevi tirar via ad andare a casa. Era vero che bisognava lasciar andare tutte le usanze. Intìngolo, conserva e porco Condimento, conserva e porco Gìi giù a casa, te spojàvi de fuga, mettìi a posto i pagni e po’ via: c’era d’argi’ a fa’, segondo che tempi era, prima de fa’ le tajadèlle al giorno (le tajadèlle se fèra sens’ovi, se chiamàa le tajadèlle ma tanto era sens’ovi, d’inverno!), c’era da fa’ ’na faccènna de qua o de là, c’era da rîmpì’ la trocca pe’ le bestie, a careggià’ l’acqua, iudà’ l’òmmini, da gi’ a fa’ ’na faccènna giuppe ’l campo: cuélla vo’, quanno ho sposàdo io, la vendégna già era fatta. C’era da gi’ magari... c’era ’na pianta de pera d’arcòje’, cuélle le lassàa pe’ la domenniga, cuélle faccènne lì. Dobo dovéi gi’ su a fa’ l’intìngolo, pîài ’na bracciàda de legna su le ma’, de legna cuélle spezzade ’mpo’ fine, accènde’ ’l fôgo, a pïà’ du’ carbó’, lóra cìa cuél treppìa, po’ cìa Andavi a casa, ti spogliavi alla svelta, mettevi a posto i vestiti e poi via, c’era da ritornare a lavorare, secondo che tempi erano, prima di fare le tagliatelle al giorno (le tagliatelle si facevano senza uova, si chiamavano tagliatelle, ma tanto, d’inverno, erano senza uova), c’era da fare una faccenda di qua o di là, c’era da riempire (d’acqua) la vasca per le bestie, trasportare l’acqua, aiutare gli uomini, andare a fare una faccenda per il campo: quella volta, quando ho sposato io, la vendemmia già era stata fatta. C’era magari… c’era una pianta di pere da raccogliere, quelle le lasciava per la domenica, quelle faccende lì. Dopo dovevi andare su a preparare il condimento, prendevi una bracciata di legna sulle mani, quella legna spezzata un po’ fina, per accendere il fuoco prendevi due carboni; loro avevano quel 295 ’n fornèllo de madù’ fatto, mettéi i carbó’ lì drendo e lì facéi l’intìngolo. Dicìa mi’ sòcera: “Pïa ’n pezzetto de lardo” e me ’l preparàa lìa. Ié dicìa: “Preparàdemelo ’mpo’ vo’, perché io ne ’l so quanto ce ne mettéde”. Nei primi tempi lìa me ’l preparàa ’n pezzetto de lardo grànno quanto quattro dédi, per dieci persóne già era sufficiente. Capirai, quattro lardèlli! Quanno era fatto cuéllo, buttàvi giù cuél pommidòro che, como ho ditto ’n’antra vo’ no, se mettìa a seccà’ cuélla conserva ’nté ’l sole, quanno era secca ce facéi i panétti, l’invoricchiàa de fòri co’ ’ste brance de granturco: ié levàa ’l panètto al granturco, ma lassàa ’l céppo sotta, allargàa le brance e po’ mettéa giù ’sto panetto de conserva ’n tra mezzo e po’ arlegàa ’l panétto da cima le foje de granturco e cuéllo stèra ’ncartàdo li drendro, se mantenéa ’mpo’ fresco, prò quanno facéi l’intìngolo dovéi pïànne ’na cucchiaràda, po’ dovéi mèttelo co’ ’n tantì’ d’acqua tébbeda, perché ’n sa sciojéa co’ l’acqua jàccia. Mettéi a scaldà’ ’n goccetto d’acqua ’nté ’n tegamèllo, tiébbida, po’ ’nté ’n piatto co’ la furcìna la sfarài: cuélla conserva, era dura no, dura como ’l pa’. La sfarài cuélla conserva e po’ la buttavi giù en tra l’intìngolo, muh... c’era tutti cuéi tozzetti quanno gìsci a magnà’, n’era ’n granché ma tanto mejo ’n c’era! De cuéi tempi ancó’ ’l porco n’era ’mazzàdo, i conìji ’n ce n’era tanti, treppiedi, poi avevano un fornello fatto di mattoni; mettevi i carboni lì dentro e lì preparavi il condimento. Diceva mia suocera: “Prendi un pezzetto di lardo!” e me lo preparava lei. Le dicevo: “Preparatemelo un po’ voi, perché io non lo so quanto ce ne mettete”. Nei primi tempi me lo preparava un pezzetto di lardo, grande quanto quattro dita, per dieci persone già era sufficiente. Capirai, quattro pezzetti di lardo! Quando era soffritto quello, buttavi giù quel pomodoro che, come ho detto un’altra volta, no, si metteva a seccare quella conserva al sole; quando era secca ci facevi i panetti, li avvolgevi di fuori con le foglie di granturco: al granturco gli levavi il panetto, ma lasciavi il ceppo sotto, allargavi le foglie e ci mettevi dentro, in mezzo, questo panetto di conserva; poi in cima legavi le foglie di granturco e (il panetto di conserva), incartato lì dentro, si manteneva un po’ fresco, però, quando facevi il condimento, dovevi prenderne una cucchiaiata, poi dovevi metterlo con un po’ d’acqua tiepida, perché non si scioglieva con l’acqua fredda. Mettevi a scaldare un goccetto d’acqua in un tegamino, tiepida, poi in un piatto, con la forchetta, lo spezzettavi: quella conserva era dura, no, dura come il pane. La spezzettavi e poi la buttavi giù in mezzo al condimento, muh… c’erano tutti quei tozzetti quando andavi a mangiare, non era un granché, ma tanto meglio non c’era! In quei tempi ancora il porco non era stato ammazzato, i conigli non ce n’erano tanti, perché non c’era nemme296 perché ’n c’era manco ’l tempo de custodìlli... La domenniga ’sti maccarù’ e po’ ’l segondo ’n c’era sa. Aah là casa nostra c’era ’l segondo, magàri ’n aceno d’ulìa o c’era... non so o c’era ’na mela, ma lì ’l segóndo no’ c’era, se magnàa ’n piatto o due de maccaró’ sens’òvi... era bòni tante volte perché como se dice “quanno c’è la fame è bòno nigò!” E dobo de segondo ’n c’era gnè, ’n vulìa manco che se pïàa ’l pa’ mi’ sòcero, perché dicìa “ ’l pa ’n se consuma, quanno se magna la pasta basta cuélla!”. Ih, comensàmo be’! Dobo, quanno che uno ha ’mazzàdo ’l porco embè tanto, como sia, era ’mpo’ mèjo, se magnàa ’mpo’ mèjo. ’Mazzàdo ’l porco prima de tutti se magnàa la goletta, ’na fetta de goletta la mettéi ’nté ’l sugo, l’ingrassàa ’l sugo ’mpo’ e po’ ne pïài ’n pezzetto dobo la pasta, prò quann’era la domenniga sa, ma scinò non volìa. Dobo anca quanno che c’era anca ’n pezzetto de salciccia a la sera, mezza salciccia per’ò, dobo le lonze no, fino a maggio non se podìa comensà’, le salcicce se lassàa per quanno se sappàa ’l gra’, quanno se fadigàa ’nté ’l fiè’, ’mpo’ le mettémma giù... Mi’ sòcera vulìa che se mettéa ’nté ’n barattolo de vedro e po’ sciòjìa ’mpo’ de distrutto, ce buttàa sopra ’l distrutto pe’ coprìlle, qualcu’ ce mettìa l’oljo, lóra ce buttàa ’l distrutto perché - dicìa - se mantenìa più ténere. Po’ se magnàa de mède, de mededùre. Se portàa giù no il tempo di custodirli… La domenica questi maccheroni e poi il secondo non c’era, sa. Ah, là casa nostra c’era il secondo, magari un acino d’oliva o c’era… non so o c’era una mela, ma lì il secondo non c’era: si mangiava un piatto o due di maccheroni senza uova… erano buoni, tante volte perché, come si dice, “quando c’è la fame, tutto è buono!” E dopo di secondo non c’era niente, mio suocero non voleva nemmeno che si prendesse il pane; diceva: “Il pane non si consuma, quando si mangia la pasta, basta quella!” Iiih, cominciamo bene! Dopo, quando uno ha ammazzato il porco, be’ tanto come sia, andava un po’ meglio, si mangiava un po’ meglio. Ammazzato il porco, prima di tutto si mangiava la ‘goletta’, una fetta di goletta la mettevi nel sugo, l’ingrassava un po’ e poi ne prendevi un pezzetto dopo la pasta, però quando era la domenica, sa, se no (il suocero) non voleva. Dopo quando c’era anche un pezzetto di salsiccia la sera, mezza salsiccia per uno; dopo le ‘lonze’ no, fino a maggio non si potevano cominciare; le salsicce si lasciavano per quando si zappava il grano, quando si faticava nel fieno, un po’ le mettevamo giù… Mia suocera voleva che si mettessero in un barattolo di vetro e poi scioglieva un po’ di strutto, ci buttava sopra lo strutto per coprirle; qualcuno ci metteva l’olio, loro ci buttavano lo strutto, perché – diceva – si mantenevano più tenere. Poi si mangiavano durante la mietitura. Si portavano giù (nel campo) durante 297 de mededùre, ma se sentìsta cuélle salcicce quanno le gèsta a magnà’: lappàa... parìa i sòrbi! Tanto anca cuélle toccàa a magnàlle, perché mèjo ’n c’era! la mietitura, ma aveste sentito quelle salsicce quando le andavate a mangiare: allappavano… sembravano le sorbe. Tanto bisognava mangiare anche quelle, perché meglio non c’era! In biscighétta su la segonda colonna de’ monti In bicicletta sulla seconda colonna di monti Tante le ô de mededure giù casa de lóra chiamàa i montagnòli, a mède; cuélli lì de ó i primi anni prèsse ce venìa, ma dobo perché ’l magnà’ n’era tanto bòno, era fadìga a troàlla la gènte lì de ó, pe’ fa’ insiéme a mède’. Allora gèra a chiamà’ i montagnòli. Ce so’ gida anch’io ’na vo’ co’ mi’ marìdo, co’ la bicighetta: émo caminàdo dalle quattro alle otto. Sémo ’rivadi su la Castelletta, su de sopra, su la seconda colonna de’ monti, manco ’l so ’ndó sta. Noiàltri stamo ’nté ’n posto brutto ma cuélli...; in quanto all’aria ce n’ha ’mbelpo’ eh, ma stèra proprio disoriendàdi, stèra ’nté ’n paesetto, ’n c’era manco l’ufficio postale, èrane lì quattro o cinque case... Quanno semo riàdi, stèra facènno i maccarù sens’ôi, magnàa peggio de guajù da noà; ci’hà le pègore... come ’l cacio ce l’avìa a stufo, ma el resto ’n cìa tanta robba, ché la robba del campo ’n cìa gnè. Ce sémo fermàdi a magnà’, émo fatto ’l contratto, quanno dovéa Talvolta per la mietitura a casa dei suoceri si chiamavano i montagnoli per mietere; quelli lì vicino può darsi che ci venivano i primi anni, ma dopo, poiché il mangiare non era buono, era difficile trovarla la gente lì vicino, per mietere insieme. Allora si andava a chiamare i montagnoli. Ci sono andata anch’io una volta con mio marito, con la bicicletta: abbiamo camminato dalle quattro alle otto. Siamo arrivati sulla Castelletta, su in alto, sulla seconda fila di monti; non lo so neppure dove sta. Una volta ci sono andata anch’io con la bicicletta. Noi stiamo in un luogo brutto, ma i montagnoli, in quanto all’aria ne hanno tanta, ma stavano proprio isolati. Stavano in un paesetto, dove non c’era nemmeno l’ufficio postale; c’erano quattro o cinque case. Quando siamo arrivati, stavano facendo i maccheroni senza uova, mangiavano peggio di quaggiù da noi; avevano le pecore e il formaggio in abbondanza, ma del resto non avevano tanta roba, perché nel campo non avevano niente. Ci siamo fermati a mangiare, 298 arrivà’ ié scrivémma, perché cuélla vo’ ’n c’era i mezzi del talèfono. Allora dobo sémo arpartìdi da lassù. Finànta ch’è gido d’in giù è gido be’, la bicighétta ’n c’era bisogna da spedalà’, ma quanno émo pïàdo d’in su de là d’Arcevia a veni’ d’in su, tutta a pìa sémo venudi su io e mi’ marìdo. Era càllo e non ce voléo pensà’, a venì’ a spégne’ cuélla bicighétta: io era cotta como l’ansalàda sott’acédo. Dobo ce sémo fermadi anca cuàlche pezzo a sède’ sotta la meriggia, po’ émo arpîàdo ’mpo’ a caminà’ e semo riàdi finànta Arcèvia. Io cuélla vo’ non è perché gèra tanto in giro, coscì, quanno ho visto Arcevia ’taccàda suppe cuél monte, noà sémo passadi sotta, mi’ marìdo me spiegàa ’mpo’, la cava de la piédra… Embè, fino a lì è gido be’, comensàa a calà’ ’l sole. E dobo émo arpïàdo d’in giù per Arcevia, d’Arcevia e venì’ de qua vero noà, e lì argèra be’, litta ’n c’era manco bisogno de pedalà’, manco da tirà’ ’l freno perché cuélla vo’ pe’ la strada ’n ce n’era tanti a impiccià’ davanti, sci c’era cuàlca gallina de contadì’ o qualche ca’, prò le maghine ’n c’era, e la gente che gèra giuppe le strade la domenniga a sera, ce sarà stada qualca ragazza ma non è ch’erane ’n granché, sicché la strada era lìbbera. Sémo gidi be’ finché venìa d’in giù, dobo émo arpïàdo la piana, spedàla ’mpo’ ancó’ i chilomedri che c’era. Boh, chissà quanti n’avrémo abbiamo fatto il contratto, gli avremmo scritto quando dovevano arrivare, perché quella volta non c’erano i mezzi del telefono. Allora dopo siamo partiti da lassù. Finché è andato in discesa, è andato bene, in bicicletta non c’era bisogno di pedalare, ma quando abbiamo preso la salita di là da Arcevia a venire in su, io e mio marito siamo venuti su (facendo) tutta la strada a piedi. Era caldo e non ci volevo pensare a venire su, a spingere quella bicicletta: io ero cotta come l’insalata sott’aceto. Dopo ci siamo fermati anche un po’ a sedere sotto l’ombra, poi abbiamo ripreso un po’ a camminare e siamo arrivati fino ad Arcevia. Io, quella volta, non è che andavo tanto in giro, così, quando ho visto Arcevia attaccata su per quel monte (noi siamo passati sotto), mio marito mi spiegava un po’, la cava di pietra… Ebbene, fino a lì è andato bene, cominciava a calare il sole. E dopo abbiamo ripreso in discesa per Arcevia. D’Arcevia a venire in qua verso noi, andava di nuovo bene: lì non c’era nemmeno bisogno di pedalare, neppure di tirare il freno, perché quella volta per la strada non ce n’erano tanti davanti ad impicciare. Sì, c’era qualche gallina dei contadini o qualche cane, ma le macchine non c’erano, e della gente giù per le strade la domenica sera ci sarà stata qualche ragazza, ma non è che fossero in tante: sicché la strada era libera. Siamo andati bene finché c’era la strada in discesa, dopo abbiamo ripreso la pianura: pedala un po’ ancora per 299 fatti, miga ’l so. Quanno so’ gida a casa la sera non se sentìa tanto le pulce eh, fumma stracchi muntubè’. Sémo gidi a dormì’. La madina ce sémo rialsàdi, mi’ socero ha ditto: “Stamadìna c’è da gi’ su dal contadì’, a gi’ a spianà l’ara co’ la barèlla”. Pïàmma la barèlla, era de legno, pesàa anca da vòdia, figuràmoce da pîna! Èmo spianàdo l’ara bembè’, ’ndó c’era ’l monte la mettémma ’ndó c’era la buga; émo fadigàdo sempre uno co’ la vanga e n’antro co’ la pala a carcà’, po’ gèmma a scarcà’, cuél’altro arvangàa e l’altro arcarcàa: facémma ’n pezzo per’ò, io e mi’ marìdo. Tutto ’l giorno cuscì: pensàde vuà como ce sémo riposàdi della fadìga del giorno innanze! (tutti quei) chilometri che c’erano! Boh, chissà quanti ne avremo percorsi, mica lo so. Quando sono arrivata a casa la sera, non si sentivano tanto le pulci eh, eravamo troppo stanchi. Siamo andati a dormire. La mattina ci siamo alzati, mio suocero ha detto: “Stamattina c’è d’andare su dal contadino, a spianare l’aia con la barella. Abbiamo preso la barella, era di legno, pesava anche da vuota, figuriamoci da piena! Abbiamo spianato l’aia perbene, (toglievamo la terra) dove c’era un rialzo e la mettevamo dove c’era una buca; abbiamo faticato sempre, uno con la vanga e un altro con la pala a caricare, poi andavamo a scaricare; e di nuovo quell’altro vangava e l’altro caricava: io e mio marito facevamo un pezzo per uno. Tutto il giorno così: pensate voi come ci siamo riposati dalla fatica del giorno prima! I mededóri montagnòli I mietitori montagnoli Non ve l’ho fenìdo da di’. Allora quanno ’sti montagnòli venìa a mède quaggiù si’arpïàa ’mpo’, s’arpïàa, perché lì da nuà se magnàa pogo, prò quann’èra le medidùre tante le vô, vèro le dieci, si facéi colazió ’n po’ presto la madina, quand’era vèro le dieci capace portàa giù ’na fetta de pa’ co’ ’na brega de cipolla, ’no spicchio d’ajo... magnavi cuélla robba lì... ’Na spiga d’ajo: quant’era bòna! Si c’era ’na fettarella de lonza po’... anche mejo! Co’ ’n acino de sale e ’n Non ve l’ho finito di dire. Allora quando venivano a mietere qui dalle nostre parti, ci si riprendeva un po’, ci si riprendeva, perché da noi si mangiava poco, però, quando era il tempo della mietitura, spesso, verso le dieci, se si era fatta colazione presto la mattina, (la vergara) portava nel campo una fetta di pane con un pezzo di cipolla, uno spicchio d’aglio.... e si mangiava quella roba lì. Quanto era buona una spiga d’aglio! Se c’era una sottile fetta 300 bicchiero de vi’. Lajù, ’ndó che me so’ sposada io, c’era ’l vi’, l’ammezzado ’n c’era! ’L vi’ era bòno! ’Sti montagnoli stèra lì ’na quindicina o venti giorni, finànta n’émma finìdo de mede. Cuéi giorni lì se stèra ’mpo’ be’, se stèra allegri, se cantàa, émma ’mparado a cantà’ ’mpo’ a la montagnòla, nuà dicemma “alla birbara”, ma lora cantàa accuscì, émma ’mparàdo da lora. Prò, perché professionisti non fumma nisciù’, io sentìa a sbela’ a lora e sbelào anch’io co’ lora. E m’è ’rmasto ’mpò de ’sta cosa de montagnola. Quanno ch’era a giorno, la madina a colazió cocémma la zucca, ’mbè cuélla ni piacéa ’mbelpo’, perché dicéa “la zucca tocca a méttese ’l corpétto!” Veramente lora, quando che stèra lì da nuà, d’istade portàa i scarpù’ alti, i calzetti de lana e po’ anche ’l corpétto la madina se mettìa. Nuà dicemma “Que sai montagnolo?” “ ’Ndó che n’ passa lo freddo, manco lo callo”- dicìa lu’. Era un giovano lì, gèra via tutto vestido proprio d’invernale, nuà tutti mezzi nudi, sai, cuélla ’olta era callo, non se guardàa, se tiràa su le mànnighe, scalzi, co’ cuélla vestarella lì con cuélli poghi indumenti sotta, invece lóra gèrane ben copèrti, avìa paura che pïàa freddo, camicia, canottiera, giacchetta. Se la cavàa propio sul bòno del caldo, si no manco cuélla, si ne ’l dicemma noaltre; se la cavàa... quando se fal- di lonza, poi, era anche meglio! Con un pizzico di sale e un bicchiere di vino: laggiù, nella casa dove sono entrata da sposata, c’era il vino, non c’era “l’ammezzato”. Il vino era buono! I montagnoli rimanevano quindici o venti giorni, finché non avevamo finito di mietere. In quei giorni si stava un po’ bene, si stava allegri, si cantava, avevamo imparato a cantare un po’ “alla montagnola”. Noi dicevamo “alla birbara”, ma loro (i montagnoli) cantavano così e noi avevamo imparato da loro. Però non eravamo professionisti: io sentivo loro “belare” e “belavo” anch’io con loro. E mi è rimasta un po’ di quell’aria “alla montagnola”. Quando era giorno, la mattina a colazione cuocevamo una zucca, però a loro quella non piaceva molto, perché dicevano “La zucca (rinfresca)... bisogna mettersi la giacca!” Veramente i montagnoli, quando lavoravano da noi d’estate, portavano gli scarponi alti, le calze di lana e poi si mettevano anche la giacca la mattina. Noi dicevamo: “Che sei... montagnolo?!?” “Dove non passa il freddo, non passa neppure il caldo” rispondeva lui. (Questo) era un giovane, andava vestito proprio come d’inverno, invece noi eravamo mezzi nudi. Sai, a quel tempo era caldo, non si guardava (alle convenienze), ci si tirava su le maniche, scalzi, con quella veste leggera, con quei pochi indumenti intimi; invece loro andavano ben coperti, avevano paura di prender freddo; (indossavano) camicia, canottiera e giacchetta: 301 ciàa, s’ardunàa i covi... Dopo magari, quann’èra vèro le quattro, mi’ socera dicìa: “Adesso vô a pià’ ’n bocco’ de qualcò’”. Capace venìa giù co’ ’n piatto granno, era chiamada “la zuppa lombarda”: mollàa ’l pa’ co ’n goccio d’acqua e acédo, po’ ce mettìa ’mpo’ de sale e pepe, po’ ce mettìa giù ’mpo’ d’erbette e cuàlche pezzi de ajo grossi: chi ’l volìa magnà’ ’l magnàa e chi ne ’l volìa magnà’ ’l buttàa via . Ma se magnàa cuélla vo’, perchè era bòno anche cuéllo lì, pizzigàa ’mpo’... sa ’n c’era ’l fiado tanto odoróso quanno se stèra vicino! A vint’ore tante le vo’ portàa giù ’sta zuppa lombarda, tante le vo’ compràa i limù’ cuélli lì che se chiamàa “i limù ’da tajo” e condìa cuélli vèro le quattro. E po’ s’arcenàa a la sera, vèro le ùnneci, quanno se gèra su a casa, ’n piatto d’ansalada. Quann’èra d’istade c’era qualche ceppo d’ansalada, prò non è come adè se se pïa ’l core de mezzo, l’ànnima sola, cuélla ’olta se magnàa nigò perché ce n’era poga d’ensalada, ma ’n c’era manco ’l tempo de custodilla, era ’mpo’ brutta. Comunque se magnàa nigò: ’na brancia d’ansalada, tante le vo’ anche ’n’ovo tosto, tante le vo’ ’na fetta de lonza, o ’na salsiccia de cuélle sotto ’l distrutto, era lappose che ’n se magnava prò i quìnnici o venti giorni che se midìa, se magnàa ’mpo’ de più. La madina la zucca o du’ padade in umido, du’ melanciane, du’ pomidori primaticci: condìi si toglievano questa solo sul caldo più forte perché glielo dicevamo noi; sennò se la cavavano quando si falciava, si radunavano i covi... Quando erano le quattro circa, mia suocera diceva “Adesso vado a prendere un boccone di qualcosa”. Talvolta ritornava al campo con un piatto grande, che era chiamata “la zuppa lombarda”: bagnava il pane con un po’ di acqua e aceto, poi ci metteva un pizzico di sale e pepe, vi aggiungeva un po’ di prezzemolo e qualche pezzo grosso di aglio. Chi lo voleva lo mangiava e chi non lo voleva lo buttava via. Ma si mangiava anche l’aglio in quel tempo, perché era buono anche quello, pizzicava un po’... Sai, non c’era il fiato tanto profumato, quando si stava vicini. A “vint’ore” (verso le quattro) talvolta (mia suocera) portava questa “zuppa lombarda”, altre volte comprava i limoni che si chiamavano “da taglio”, li condiva e ce li portava. La sera, verso le undici, si cenava quando si tornava a casa: un piatto d’insalata. Quando era l’estate c’era qualche ceppo d’insalata, però non come adesso che si prende solo l’interno, l’anima sola; a quel tempo si mangiava tutto, perché ce n’era poca d’insalata, perché non c’era il tempo di curarla, era un po’ brutta; comunque si mangiava tutto: una foglia d’insalata, qualche volta anche un uovo sodo, altre volte una fetta di lonza o una salsiccia di quelle conservate nello strutto, erano aspre o rancide e non si riusciva a mangiarle. Però in quei quindici o venti giorni della mietitura si mangiava un po’ di più. La 302 ’n pommidoro co’ la cipolla. Lì intégnéi ’l pa’, ’n piattì per ù’ quanno c’era la gente; scinò quanno fumma da per nuà, se magnàa tutti a ’n trocco come i porchetti. Cuscì è passada. mattina la zucca o due patate in umido, due melanzane, due pomodori ‘primaticci’ conditi con la cipolla: lì intingevi il pane, un piatto per ciascuno, quando c’era gente non della famiglia; sennò si mangiava tutti ad un truogolo come i maiali. Così è passata. “Vint’ore” durante la mietitura in una colonia a Pianello di Ostra (coll. Gabriele Balducci). 303 Cantàsci… levài ’mpensiéro Cantavi… levavi un pensiero Con cuéi montagnoli, quando ci’avéi preso ’mpo’ d’affezió era anca simpatichi, era bravi. Quando ci’avéi preso ’mpo’ d’affeziò, guasci guasci quanno se ne partìa dispiacéa, perché èrene brài, èrene bardàsci che no’ stèrene tanto ’nté la combrìccola. Prò la sera, quanno se gera a casa da lo faticà’ comensàa a cantà’1: Quei montagnoli, quando ti ci eri un po’ affezionato, erano anche simpatici, erano bravi. Ti ci affezionavi e, quando partivano, ti dispiaceva, perché erano bravi; erano ragazzi che non stavano tanto nella combriccola, però la sera, quando si tornava a casa dopo la fatica, cominciavano a cantare: Quanto me piace l’aria de ’ste parte se gode ’l paradiso giorno e notte. Se gode ’l paradiso giorno e notte ch’io de ’sto mondo ne godo ’na parte. Si gode ’l paradiso notte e giorno io ne godo ’na parte ma de ’sto mondo. Quanto me piace l’aria de ’ste parte se gode ’l paradiso giorno e notte. Se gode ’l paradiso giorno e notte ch’io de ’sto mondo ne godo ’na parte. Si gode ’l paradiso notte e giorno io ne godo ’na parte ma de ’sto mondo. Tutti me dice ch’io non so cantare miga so’ stado a la scola a imparare. Miga so’ stado a la scola a la scola non so cantà’ perché so’ ’na fiola. Miga so’ stada a la scola latina non so cantà’ perché so’ piccolina. Miga non so’ stada a la scola maestra non so cantà’ perché la prima è questa. Tutti me dice ch’io non so cantare miga so’ stado a la scola a imparare. Miga so’ stado a la scola a la scola non so cantà’ perché so’ ’na fiola. Miga so’ stada a la scola latina non so cantà’ perché so’ piccolina. Miga non so’ stada a la scola maestra non so cantà’ perché la prima è questa. Guarda che bella luna che belle stelle questa è ’na notte da rubà’ le donne. Ma chi ruba le donne non è chiamadi ladri è chiamadi giovanetti innamoradi. Guarda che bella luna che belle stelle questa è ’na notte da rubà’ le donne. Ma chi ruba le donne non è chiamadi ladri è chiamadi giovanetti innamoradi. 1 Vedere la trascrizione musicale a p. 487 304 E po’ cuélla vò lì ’n dolìa manco le gambe. Quanno venìi a casa la sera, avésci voja de scherza’ perché dréndo ’l giorno ’n bicchiero d’acqua e vi’ bevéi ’mpo’ spesso, perché quanno se falcia tante le vo’, scì le ravàra è longhe, ogni ravàra quando gìsci da cima mezzo bicchiero de vi’ e mezzo d’acqua, po’ mettìi giù altri du’ o tre bicchieri d’acqua e po’ daje a falcià’ e a sudà’. Lì se comensàa a mollà’ la camicia a la madina a le quattro fino a la sera alle ùnneci. Quanno se gèra a casa ’n c’era la doccia per fa’ eh; te dèsci ’na lavada giù la pozza e via ’na botta ai bracci… Cuélla vo’ già cominciàa a èsse’ ’mpo’ migliorade le cose: se falciàa basso ’l gra’, ma quando se midìa c’arcoiéi cuélle pegorelle te spicconàa tutti i bracci, tutte le gambe; quando la sera te facìa sangue le gambe. Gèsci giù la pozza, te dai ’na lavada sa cuéll’acqua sporca, mezza tróbbeda perché, quando se medéa, le pozze comensàa a calà’ l’acqua e ce n’era armasta poga. Noà la tiramma su, la mettemma ’nté ’na trocca e dopo da lì l’arpîàmmma ’mpo’ chiara, perché quann’è l’istade le pozze va arpulide no; nuà arpulèmma la pozza, c’era tutta cuélla cosa, mi’ socero la chiamava “la lècca”, nuà la chiamàmma “la malta”. E po’ dopo lì ce chiappàmma le ranocchie, perché le ranocchie, quanno avéi portado via tutta l’acqua, gèra ’nté cuélla biòbba: lì ce chiappamma le ranocchie e po’ le magnamma: quant’era bone! Solo che io avéo In quelle sere non facevano male neppure le gambe. Quando andavi a casa avevi voglia di scherzare, perché durante il giorno bevevi spesso un bicchiere di acqua e di vino. Quando si falciava e le “ravare” erano lunghe, ogni volta che si ritornava in cima si beveva mezzo bicchiere di vino e mezzo d’acqua, ingoiavi altri due o tre bicchieri d’acqua e poi riprendevi a falciare e a sudare. La camicia cominciava a bagnarsi di sudore la mattina alle quattro fino alla sera alle undici. Quando si ritornava a casa non c’era la doccia eh! Ci si dava una lavata nella pozza, una sfregatina alle braccia e via! Le cose a quel tempo erano già un po’ migliorate: il grano veniva falciato basso, ma quando si mieteva e tu raccoglievi le “pecorelle”, quelle ti pungevano tutte le braccia, tutte le gambe e la sera le gambe sanguinavano. Andavi giù la pozza e ti davi una lavata con quell’acqua sporca, mezzo torbida, perché al tempo della mietitura già l’acqua cominciava a diminuire e ce n’era rimasta poca.. Noi la tiravamo su, la mettevamo nella “trocca” e poi la riprendevamo un po’ chiara. D’estate le pozze andavano pulite e noi la ripulivamo: c’era tutta quella cosa che mio suocero chiamava ‘la lecca’, noi invece la melma. Dopo ci prendevamo le rane, perché le rane, quando avevi tolto tutta l’acqua, andavano a rifugiarsi nella melma: lì le prendevamo e poi le mangiavamo: quanto erano buone! Solo 305 paura de scortigàlle. Mi’ fradello mi dicìa: “Tènele tènele!” Ma co’ ‘tènele’: benànche era ammazzade e morte tanto se movìa, le mettéi su la padella ancó’ se movìa, perché la ranocchia, ne ’l so com’è che ci’hà, non so che sa da di’ se ci’hà cuéi muscoli che se move... Oh, era morte e scortigàde anco’ nel ticèllo se movìa. Anco’ non ve l’ho finido a di’: quann’era la sera… C’era ’sti montagnoli, se divertimma ’mpo’, se schersàa, se cantàa, magari como l’uccellì’ drendo la gabbia, sci non canta per amor canta per rabbia. Coscì se mannàa via ’mpo’ de pensieri. Sci cantàsci cinque minudi, levài ’mpensiero brutto, non se pensàa a como me trovào io, a como se stèra a casa mia... Quanno i montagnoli ìa finido la campàgna se pagàa e argèra a casa colla biscighétta e la falce fenàra. Cuélla vo’ per strada podìsci portà cuéllo che te parìa; sci vedìsci qualche cavàllo radi e qualche biscighétta. La strada era tutta deserta: cuàlca persona caminàa a pìa tanto prima che dobo del fronte. che io avevo paura di scorticarle. Mio fratello mi diceva ‘tienile, tienile!’, ma come tenerle? Benché fossero state uccise, da morte tuttavia si muovevano. Le mettevi in padella e ancora si muovevano, perché la rana, non so cosa dire, ha quei muscoli che si muovono... Oh, erano morte e scorticate che ancora si muovevano nel tegame! Ancora non ho finito di raccontarvi di quando era la sera... C’erano questi montagnoli, ci divertivamo un po’, si scherzava, si cantava, magari come l’uccellino ch’è in gabbia: se non canta per amor, canta per rabbia. Così si mandava via un po’ di pensieri. Se cantavi cinque minuti, levavi un pensiero brutto, non si pensava a come mi trovavo io, a come (invece) si stava a casa mia… Quando i montagnoli avevano finito la campagna, venivano pagati e ritornavano a casa in bicicletta e con la falce fienaia. Quella volta per strada potevi portare quello che ti pareva: se vedevi qualche raro cavallo e qualche bicicletta. La strada era tutta deserta: qualche persona camminava a piedi tanto prima che dopo il passaggio del fronte. Stèmma alla speranza de Dio Stavamo alla speranza di Dio Adè che c’è cascàdo ’l discorso ve vojo ’rcontà’ ’mpo’ de la guèra e del fronte. All’edà mia, de cuélla vo’, uno è spensieradi, ma noà podìsci Adesso che c’è capitato il discorso, vi voglio raccontare un po’ della guerra e del fronte. All’età mia, di quella volta, uno è spensierato, ma noi potevamo 306 sta’ allègri? Du’ fradèlli non sapisci ’ndó era, sempre paura che te portàa via ’l marido, sotta ’l comànno tedesco, i genidori non podìsci gi’ a trovàlli: le ragazze sole era perigoloso a caminà’ tanto pe’ strada che pei campi. Stèmma alla speranza de Dio. Non se ’mparàa gnè, non c’era la radio, non c’era talèfeno, non c’era televisió’. Sci cualchidù’ compràa ’l giornale, spargìa ’mpo’ le nodìzzie da per tutto, scinò era como ’nté ’na carcere. Quanno l’Italia ha deposidado l’arme, se dicìa: “È finìda la guerra!” Scì, dobo è venudo ’l grosso chì da noà! forse stare allegri? Due fratelli non si sapeva dove fossero, sempre con la paura che ti portassero via il marito, sotto il comando tedesco, i genitori non potevi andarli a trovare: per le ragazze sole era pericoloso camminare tanto per strada quanto per campi. Stavamo alla speranza di Dio. Non si avevano notizie, non c’era la radio, non c’era il telefono, non c’era la televisione. Se alcuni compravano il giornale, diffondevano un po’ le notizie da per tutto, se no era come in un carcere. quando l’Italia ha deposto le armi, si diceva: “È finita la guerra!” Sì, dopo è arrivato il grosso qui da noi! I volantini de l’Alléàdi I volantini degli Alleati Prima che ’rivàsse ’l fronte i Alléàdi ce buttàa dei volantini co’ la Cicogna1, ’ndó c’era scritto: “Piattàde la robba, fade i rifùggi sotta tèra, ’mazzade le bestie come tori, porci, videlli, pui, conìi, e po’ affumigàdela, scattolàdela!” Scì, cìa ’visàdo perché passàa ’l battajóne esse esse che ce pïàa nigò. È stado vero! Ma cuélla vo’ non c’era surgeladóri né frigoriferi, e non c’era mezzi pe’ scattolà’, conservà’. Sci ’mazzàsci ’na gallina, ossìa ’n gallo, ’n conìo, per fallo bastà’ più de ’na ô ’l mettémma ’nté ’na salvietta, legàdo Prima che arrivasse il fronte, gli Alleati ci lanciavano con la Cicogna dei volantini, dove era scritto: “Nascondete la roba, fate i rifugi sotto terra, ammazzate le bestie come tori, porci, vitelli, polli, conigli, e poi affumicate (la carne), scatolatela!” Sì, ci avevano avvisato perché passava il battaglione SS che ci prendeva tutto quanto. È stato vero! Ma quella volta non c’erano né surgelatori, né frigoriferi, e non c’erano i mezzi per scatolare, conservare. Se ammazzavi una gallina, ossia un gallo, un coniglio, per fallo durare per più di una volta, lo 1 Cicogna: aereo di ricognizione. 307 co’ ’na corda giù fónno del pozzo ’ntra scì e no dell’aqua, e se mantenìa tre o quattro giorni. E po’ l’ultimo giorno, specialmente d’istàde, toccàa a magnà’ anca qualche bestiòla sens’osso. “Va be’ - se dicìa - tanto i denti no’ li rompe, non ci’hà l’osso!” mettevamo in una salvietta, legato con una corda giù nel pozzo quasi a sfiorare l’acqua, e si manteneva tre quattro giorni. E poi, l’ultimo giorno, specialmente d’estate, toccava mangiare anche qualche bestiola senza osso. “Va bene – si diceva – così i denti non li rompe, non ha l’osso!” Foto con scenografia: anni ’30. Da sinistra: Ugo Ricciotti, Renzo Tomassoni, Ferruccio Conti (coll. Stefano Conti). Vèrmini, mignàtte e le gingìlie de nonna Vermi, mignatte e le gengive di nonna Adè’ che sémo sul discorso dei denti, ve digo che a tempi arrèdo non se podìa gi’ dal dentista. Quanno ce dolìa i denti, c’era ’na donna Adesso che siamo sul discorso dei denti, vi dico che nei tempi passati non si poteva andare dal dentista. Quando ci facevano male i denti, c’era una donna 308 a Belvedé’ che i curàa: mettìa sul carbó’ ’ceso ’n ticelletto d’aqua e quanno boìa ce buttàa giù ’na robba. Dicìa che ’mazzàa ’sti vèrmini che se ’n creàa ’nté i denti. Dobo émo scuperto che era la somente della cipolla e lì per lì ié fèra be’; anche a moschiccià’ ’na spiga d’ajo: l’andormentàa a ’ste bestiacce. Ma quanno s’arisvejàa rosigàa più de prima. E scì, s’èrene riposade! Pare da minchiù’ arcontà’ ’ste cose, ma i dentisti era radi e po’ i contadì’ non ce podìa gì’, era solo pei benestà’. Quanti ce n’era a quarant’anni non cìa più ’n dente! E campàa anca più d’ottant’ànni. Per una era anca nonna. Tante le ô ié mettémma ’n dédo drendo la bocca: fèra dole ’mbelpò’, cìa le gingilie dure muntubè’ e po’ magnàa anca la fàa busca, e ’l pa’ volìa sempre la gocèlla, ché la mollìga ié fèra dole’ lo stòmmigo. Era grassa e róscia como ’na rosa, solo che l’ultimi anni non ié ce fèra più le gambe, caminàa co’ du’ bastó’ e ié toccàa a mette’ le mignatte pe’ sciugà’ ’l sangue. Se compràa da lo spizzià’, era nere como i lumagotti. Le ’taccàa ’nté ’l collo e cuélle tiràa finanta n’era pîne be’ e dobo se buttàa via. Sarà stada la pressió’ alta, ma cuélla vo’ non c’era tutte ’ste servidù che c’è adè’ e se gera annànse luscì. Scusade qualche sbajo, ma a scrìve’ in dialetto è ’mpo’ fadiga, e a Belvedere che li curava: metteva sui carboni accesi un tegamino d’acqua e, quando (questa) bolliva, ci buttava dentro una roba. Diceva che ammazzava i vermi che si erano generati nei denti. In seguito abbiamo scoperto che (quella roba) era il seme della cipolla e, sul momento, faceva bene; (faceva bene) anche mordicchiare una spiga d’aglio: le addormentava quelle bestiacce. Quando si svegliavano, però, rosicavano più di prima. E sì, si erano riposate! Pare da minchioni raccontare queste cose, ma i dentisti erano rari e poi i contadini non ci potevano andare: (i dentisti) erano soltanto per i benestanti. Quanti, a quarant’anni, non avevano più un dente! E campavano anche più di ottant’anni. Una di queste (persone) era nonna. Qualche volta le mettevamo un dito dentro la bocca; faceva molto male, aveva le gengive molto dure e, poi, mangiava anche la fava abbrustolita e del pane voleva sempre la crosta, perché la mollica le faceva male allo stomaco. Era grassa e rossa come una rosa, soltanto negli ultimi anni non la sorreggevano più le gambe, camminava con due bastoni e doveva mettersi le mignatte, per togliere il sangue. (Le mignatte) si compravano dallo speziale, erano nere come i lumaconi. Le attaccava nel collo e quelle succhiavano fino a che non erano piene e dopo venivano buttate via. Sarà stata la pressione alta, ma quella volta non c’erano tutte queste schiavitù che ci sono oggi e si andava avanti così. Scusate qualche sbaglio, ma a scrive309 po’ tanto in tanto me pïa da fa’ ’na pennighella, e dobo m’accorgio che vo’ anca fòri riga, che la maestra mia ce tenìa tanto. A Nadale mamma ce fèra scrìve’ ’na letterina anca alla maestra per li augùri, e m’ha risposto con tanti ringraziamenti dicendo che la letterina non c’era nemmeno uno sbajo. Ma adè’ me so’ scorretta ’nté nigò, le ma’ comènsa a tremà’, la zòcca se ’nceppa... ma sarà la gioventù! re in dialetto è un po’ faticoso e poi, di tanto in tanto, mi va di fare una pennichella, e dopo mi accorgo che vado anche fuori riga, perché la maestra ci teneva tanto. A Natale mamma ci faceva scrivere una letterina anche alla maestra per gli auguri e (la maestra) mi ha risposto con tanti ringraziamenti dicendo che nella letterina non c’era neppure uno sbaglio. Ma adesso mi sono scorretta in tutto, la mano comincia a tremare, la zucca s’inceppa… ma sarà la gioventù! Era tutta libertà pe’ lóra Era tutta libertà per loro È mejo lassà’ pèrde’ e artórno al discorso de prima. Ha comensàdo a passà’ ’l fronte chì da noà: prima i Tedeschi. Facìa i rastrellamenti, portàa via le vacche, le pegore, i pui, l’ôi, ’l vi’ e po’ nigò, cuéllo ch’era bòno da magnà’. E non podìsci fa’ resistenza, scinò te sparàa, ansi toccàa a faje bocca da ride’. Era tutta libertà per lóra, ma a cuéi tempi tutti podìa gi’ ’nté le case a pïà’ la robba, Tedeschi, fascisti, comunisti, cuélli de Salò; a dilla chiara comannàa tutti e co’ l’arme te sottomettìa, anca ’l più superbo. Le donne sempre rinchiuse, podìa fa’ tutti cuéllo che volìa: boccàa drendo casa sensa domannà’ ‘se pôle?’, drendo la càmbora, anca sci stésci sul letto. Sparàa bombe a ma’, co’ ’l È meglio lasciar perdere e ritorno al discorso di prima. Il fronte è cominciato a passare qui da noi: per primi i Tedeschi. Facevano i rastrellamenti, portavano via le vacche, le pecore, i polli, le uova, il vino, tutto quanto era buono da mangiare. E non potevi fare resistenza, se no ti sparavano, anzi bisognava far loro bocca da ridere. Era tutta libertà per loro, ma a quei tempi tutti potevano andare nelle case a prendere la roba, Tedeschi, fascisti, comunisti, quelli di Salò; a parlare chiaramente comandavano tutti e con le armi ti sottomettevano, anche il più superbo. Le donne (dovevano stare) sempre rinchiuse, potevano fare tutti quello che volevano: entravano dentro casa senza domandare “si può?”; (entravano) dentro la camera, anche se stavi a letto. Sparavano bombe a mano, con il 310 moschetto; volìa sapé’ sci c’era l’òmmini. Se sentìa cannonàde da per tutto, ’gni giorno se ’mparàa ch’era morto cualchidù’, portàa via le famèje sane, dai vecchi ai monèlli. Po’, ’nté la contradia nostra ìa ’mazzado ’n tedesco, giù pìa del fosso del Traponzo: vedi ’mpo’ i Tedeschi co’ ha fatto? Ha fatto ’n rastrellamento, se l’ha presi tutti a pìa, dovìa partì’ tutti, l’ha carcàdi… ’na pulizia tutte le faméje. Noà lì casa nostra fumma venticinque ’nté la stalla: fortuna che da noà ’n c’è passàdi; c’era donne, monèlli piccoli, una che se dovìa sgravà’, era ’n disastro. Stèmma tutti lì dendro la stalla perché ancó’ ’l fronte era proprio su pe’ ’l chiòppo che passàa. L’ha portàdi tutti là, fino là vèro Monteràdo, a pìa, l’ha fatti caminà’ tutti e co’ i moschetti puntàdi diedro e avanti e lì no’ sgappàa via nisciù’ sa. Pôretti, i’hà toccàdo a gi’ là, tutti sitti. Capàce ié dicìa “Metteteve in pìa”, era da sta’ in pìa; dicìa “Mettéteve a sède’ ”, dovìsci méttete a sède’. E lì no’ se schersàa coi Tedeschi eh! Li dovéi guardà’ be’ e rispettàlli, perché scinó te la facéa la buccia. Dobo una, pôretta, da quanto ìa paura s’è ’mmattìda, sgaggiàa no: era ’na giovana armàsta. Sa, lìa, pôretta, dei’òmmini ’n volìa sapé’ gnè, envéce du’ tre tedeschi ìa datto fastidio. Sicché s’era ’mmattida e allora i Tedeschi n’ha legàda lì ’l letto, scinó cuélla facìa casino! Dobo passàdo ’mpo’ de tempo le sorelle, che ce moschetto; volevano sapere se c’erano gli uomini. Si sentivano ovunque cannonate, ogni giorno si apprendeva che era morto qualcuno, portavano via famiglie intere: dai vecchi ai bambini. Poi, nella contrada nostra avevano ucciso un tedesco, giù in fondo al fosso del Triponzio: vedi un po’ cosa hanno fatto i Tedeschi? Hanno fatto un rastrellamento, l’hanno presi tutti, a piedi, li hanno caricati… una pulizia in tutte le famiglie. A casa noi eravamo venticinque nella stalla: per fortuna non ci sono passati; c’erano donne, bambini piccoli, una che doveva partorire, era un disastro. Stavamo tutti lì, dentro la stalla, perché ancora il passaggio del fronte era proprio sul colmo. Li hanno portati tutti là, fino verso Monterado, a piedi, li hanno fatti camminare tutti e con i moschetti puntati dietro e avanti e lì non scappava nessuno, sa! Poveretti, hanno dovuto andare là, tutti zitti. Capitava che gli dicessero “Mettetevi in piedi!”, dovevano stare in piedi; dicevano “Mettetevi a sedere!” e dovevi metterti a sedere. E non si scherzava con i Tedeschi, eh! Li dovevi guardare bene e rispettarli, perché, se no, ti facevano la pelle. Dopo una (donna), poveretta, da quanto aveva paura si è ammattita, urlava: era una giovane rimasta (non sposata). Sa, lei, poveretta, degli uomini non voleva sapere niente, invece due tre tedeschi le hanno dato fastidio. Sicché si è ammattita e allora i Tedeschi l’hanno legata lì sul letto, se no quella faceva casino! Un po’ di tempo 311 n’avìa altre du’ tre, l’ha troàda morta, ligàda ’nté ’l letto, che da già puzzàa. L’ha presa, ì’hà toccàdo a sotterràlla lì vicino casa: ha fatto ’na buga, l’ha ’nvuricchiada ’nté ’n linsòlo e l’ha ’rcupèrta lì, perché non se podìa portà’ al camposanto... con cuélle brugnole che tiràa! Ce ne sarìa tante d’arcontà’, se pïa chì se salta là, ’gni vòlta te ne vène arpensàda una! C’era uno de fronte da noà, quanno ch’è ’rivàdi i’Alleàdi, che ha ditto: “Eeeh, è ’rivàdi i Inglesi, tutti omenóni alti grossi. Cuélli adè ce lìbbera”. E n’ha ’ntéso i Tedeschi! I’hà ditto ‘badile’, ‘vanga’... Loro ’l dicìa a modo de lóra. I’hà fatto fa’ ’na bella buga lónga, perché questo che dicìa era ’na persóna alta, e po’ i’hà sparàdo lì sull’orèllo della buga e via l’ha buttàdo dendro e lì l’ha lassàdo scopèrto. Pôri fjòli, la móje a piàgne’ cuélli che c’era a casa, perché i fjòli a casa c’era solo cuélli sotta i quindici’ànni, perché cuel’àltri era belle che partìdi tutti. A piàgne’ se sentìa là casa nostra, pôretti: ìa ’mazzàdo ’l marìdo, ìa ’mazzàdo ’l padre! Cuélla vo’ non dovìsci parlà’ tanto, eh! ’Gni vento che tiràa dovéi cambià’! Sci c’era i Tedeschi, dovéi volé’ be’ ai Tedeschi, scì c’era i partigiani, dovéi rispettà’ i comunisti partigiani e sci c’era i fascisti dovéi rispettà’ i fascisti. E lì toccàa a voltasse sempre faccia como le medàje. dopo le sorelle, perché ne aveva altre due tre, l’hanno trovata morta, legata nel letto che già puzzava. L’hanno presa e hanno dovuta sotterrarla lì vicino casa: hanno scavato una buca, l’hanno avvolta in un lenzuolo e l’hanno ricoperta lì, perché non la si poteva portare al camposanto… con quelle susine (pallottole) che tiravano. Ce ne sarebbero tante da raccontare, si prende qui e si salta là, ogni volta te ne viene pensata una! C’era di fronte a noi, quando sono arrivati gli Alleati, un (uomo) che ha detto: “Eeeh, sono arrivati gli Inglesi, tutti uomini alti e grossi. Quelli adesso ci liberano!” E non hanno inteso i Tedeschi! Gli hanno detto: ‘badile’, ‘vanga’… Loro lo dicevano a modo loro. Gli hanno fatto scavare una buca lunga, perché quello che aveva parlato era una persona alta, e poi gli hanno sparato lì sull’orlo della buca e via… l’hanno buttato dentro e lì l’hanno lasciato scoperto. Poveri figli, la moglie a piangere! (I figli) quelli che erano a casa, perché i ragazzi a casa c’erano solo quelli sotto i quindici anni, perché quegli altri erano quasi partiti tutti. Si sentiva piangere là a casa nostra, poveretti: le avevano ammazzato il marito, gli avevano ammazzato il padre! Quella volta non dovevi parlare tanto, eh! Ogni vento che tirava dovevi cambiare! Se c’erano i Tedeschi, dovevi voler bene ai Tedeschi, se c’erano i partigiani, dovevi rispettare i comunisti partigiani e se c’erano i fascisti dovevi rispettare i fascisti. E lì toccava voltare sempre faccia come le medaglie. 312 La spagnòla e Santa Maria Appara La spagnola e Santa Maria Appara Era guasi como cuéll’anno della spagnòla. Arcontàa mamma e nonna che ne morìa quattro cinque al giorno ’nté la contradia nostra; non podìa fàje mango la cassa, li invuricchiàa con ninsòlo e drendo al letto del biroccio. Non chiamàa mango ’l carettó’, mango ’l prede. E po’ non m’arcòrdo sci l’ho ’rcontàdo: vicino al paese c’era una che cìa ’na robba de disinfettante: te ’l mettìa ’nté ’l fazzoletto e te dovìsci legà’ ’l fazzoletto davanti al naso e la bocca, pe’ no’ slargà’ ’sta pesta. Questo quante le ô ce l’arcontàa! Era quasi come quell’anno della spagnola. Raccontavano mamma e nonna che ne morivano quattro o cinque al giorno nella nostra contrada; non potevano nemmeno fargli la cassa, li avvolgevano con un lenzuolo e (deponevano il morto) nel letto del biroccio. Non chiamavano neppure il carrettone, neppure il prete. E poi, non me lo ricordo se ve l’ho raccontato: vicino al paese c’era una (donna) che aveva una roba come disinfettante: te la metteva nel fazzoletto e tu dovevi legare il fazzoletto davanti al naso e la bocca, per non diffondere questa pestilenza. Quante volte ce lo Chiesetta di Santa Maria Appara in un particolare del quadro “La peste, San Gaudenzio e Santa Maria Apparve”, eseguito nel 1657 da Francesco Carsidoni e conservato nella sala consiliare del Municipio di Ostra (foto D. Ubaldi). 313 Morìa più de ’sta pesta che cuélli al fronte. E dopo hanne ditto che hanne fatto ’sti sopravissudi col prede un pellegrinaggio a Santa Maria Appara, la chiamàa coscì l’innalfabèti! E ’ sta Madonnina ha fermado ’sta pèsta; c’è scritto anca sopra al quadro “peste e tremòdo”. E da lì i più credenti, sempre più follàdi, se trovàa presente a ’gni piccola festa; anca “anno vecchio - anno nòvo” c’è ’na piccola funzió’ como cuélla de la prima guèrra. E noà a pìa, non se mangàa mae. Pensàde quanti chilometri da San Bonaventura! raccontava! Morivano più (persone) per questa pestilenza che quelli al fronte. Dopo hanno detto che i sopravvissuti hanno fatto con il prete un pellegrinaggio a Santa Maria Appara: la chiamavano così gli analfabeti! E questa Madonnina ha fermato questa pestilenza; c’è scritto anche sopra al quadro “peste e terremoto”. E da quel fatto i più credenti, sempre più numerosi, vi si trovavano presenti ad ogni piccola festa; anche ad “anno vecchio – anno nuovo” c’è una piccola funzione, come quella della prima guerra. E noi, a piedi, non si mancava mai. Pensate quanti chilometri da San Bonaventura! Co’ la coda ’n tra le gambe! Con la coda tra le gambe! Che disastro ch’è stado! A Montalbò’ pure quanti n’ha ’mazzadi! M’arcòrdo che dicéa: “Oggi ha’ ’mazzàdo a cuéllo, oggi ha ’mazzàdo a cuél’altro. Là fòr de pòrta, quanno c’ha ’mazzàdo cuéi partigiani... noà conoscémma a tutti! Dicìa che li portàa via co’ la cariòla, perché cuélla vo’ ’n c’era manco ’l carettó’ da morto. La gente tutta avìa paura, ’n ce gèra nisciù’, li portàa via co’ la cariòla! Dicìa: “Oggi ha ’mazzàdo ’n fascista! Oggi ha mazzàdo ’n tedesco, oggi ha ’mazzàdo ’n partigià’ ”. Là n’ha ’mazzadi parecchi, pôrétti, i partigiani: ancó’ c’è ’l monumento scritto là. Anca cuél pôro Pet Che disastro c’è stato! Pure a Montalboddo quanti ne hanno ammazzati! Mi ricordo che diceva: “Oggi hanno ammazzato quello, oggi hanno ammazzato quell’altro”. Là, fuori di porta, quando hanno ammazzato quei partigiani… noi conoscevamo tutti! Si diceva che li portavano via con la carriola, perché quella volta non c’era nemmeno il carrettone da morto. Tutta la gente aveva paura, non ci andava nessuno (all’accompagno), li portavano via con la carriola! Dicevano: “Oggi hanno ammazzato un fascista! Oggi hanno ammazzato un tedesco, oggi hanno ammazzato un partigiano”. Là, ne hanno ammazzati parecchi di partigiani, poveretti: anco314 tenelli... sarà stado ’l partido sua ma n’era tristo! Tutti i giorni se sentìa a di’. Noà a Montalbòdo ce se gèra pogo, ma ’na vo’ che sgappàvi n’amparài parecchie. Sci dovìsci gi’ a fa’ cualcò’ sul municipio, ce gèsci, facésci le cose che dovésci fa’ e po’ via sgappàsci via sùbbedo perché n’era tempo da sta’ tanto in giro le donne. L’òmmini era brutta perché te li portàa via, ma le donne pure n’era tanta bella. Sci eri una ’mpo’ vecchiétta, embè... tanto e quanto, ma sci era una ’mpo’ giovana toccàa a sta’ tènti, sa toccàa, non giuàa manco a caminà’ a testa bassa. M’arcòrdo anca ’na sorella mia, ch’era sposàda, cìa ’na monelletta piccola ch’era tanta bellina, te lìa presa ’n polacco. Dicìa:” Questa è mia la bambina, questa è mia. A la mamma vène via con me!” ’L marìdo dicìa: “Eh scì, questa è mi’ móje!” Eh, ié toccàa a sta’ sitto. “Io portare via signora e bambina!” Eh scì, ’l marìdo l’ha pïàdo co’ le bòne e dobo i’ha regalàdo ’n sacco de roba. Infine l’ha lassàda ma... Mi’ sorella s’era messa a piàgne... I Polacchi pure sa, sci li pïài be’, gèra be’, ma sci li pïài non tanto be’, anca cuélli... miga c’era da scherzà’ ’mbelpo’! Dobo quanno che c’era ’sti partigiani, ’sti comunisti, gèsci in giro mi’ marìdo toccàa a sta’ tenti ’mbelpo’. A me me piacéa a gi’ via insieme, me piacìa continuà a fa’ la cóppia como fèmma quann’era in ra là c’è il monumento con una scritta. Anche quel povero Pettinelli… sarà stato (il fascismo) il partito suo, ma non era cattivo! Tutti i giorni si sentiva dire (qualcosa) . Noi a Montalboddo ci si andava poco, ma una volta che uscivi ne imparavi parecchie. Se dovevi andare a fare qualcosa sul municipio, ci andavi, facevi le cose che dovevi fare e poi scappavi via subito, perché per le donne non erano tempi da stare tanto in giro. Per gli uomini era brutta perché te li portavano via, ma per le donne pure non era tanto bella. Se eri un po’ vecchietta beh… tanto e quanto, ma se eri un po’ giovane toccava a stare attenti, non giovava neppure camminare a testa bassa. Mi ricordo anche che un polacco aveva preso una sorella mia, che era sposata e aveva una bambinetta piccola tanto bellina. Diceva (il polacco): “Questa è la bambina mia, questa è mia. La mamma viene con me!” Il marito diceva: “Eh sì, questa è mia moglie!” Eh, gli toccava stare zitto. “Io portare via signora e bambina!” Eh sì: il marito l’ha preso con le buone e dopo (il polacco) gli ha regalato un sacco di roba. Infine l’ha lasciata, ma… Mia sorella si era messa a piangere… I Polacchi pure, sa, se li prendevi bene, andava bene, ma se li prendevi non tanto bene, anche quelli… mica c’era da scherzare tanto! Dopo, quando c’erano i partigiani, i comunisti, andavi in giro, ma a mio marito toccava a stare molto attento. A me piaceva andare via insieme, mi piaceva continuare a fare la coppia 315 licenza, ma toccàa a sta’ tenti: sci vedìi a cuàlchidù’, gìsci su a pìa a Montalbòdo, toccàa a fermàsse diedro a ’n greppo, buttàsse giù , fermi sitti, finché n’era passàdi. I fascisti passàa coi camion e cantàa “Giovinezza”, i comunisti “Bandiera róscia”, toccàa a sta’ più calmi perché cuélli erane ’mpo’ meno... Era tutta gente che sparàa, miga scherzàa! Dovìsci fa’ como i mudi e badà’ a caminà’ como fa’ i ca’: co’ la códa ’n tra le gambe! come facevamo quando veniva in licenza, ma toccava a stare attenti: se vedevi qualcuno, quando andavi a piedi a Montalboddo, toccava fermarsi dietro a un greppo, buttarsi a terra, (restare) fermi, zitti, finché non erano passati. I fascisti passavano con i camion e cantavano “Giovinezza”, i comunisti “Bandiera rossa”: toccava a stare più calmi, perché quelli erano un po’ meno… Era tutta gente che sparava, mica scherzava! Dovevi fare come i muti e badare a camminare come fanno i cani: con la coda fra le gambe! Lajù casa nostra Laggiù casa nostra Lajù casa nostra, como dagià v’ho ditto, drendo la stalla fumma 25: vecchi, donne e monelli. Fumma ’nté ’na buga, la casa non se vedìa, ma le cannonade ce cascàa listésso. Capiréde, ’ntorno casa nostra c’era ’mpostadi 16 cannù’, ìa fatto tutte buge, per métte’ anca le mitrajatrice. Quanno sparàa tutti, ce fèra tené’ le finè’ tutte spalangàde, ’l comò e l’armario ’mmezzo a la càmbora, perché scinó… quando tiràa ’ste cannonade, tutte ’na ’olta tiràa, vèro là Monterado tiràa, sballàa giù le finestre, spaccàa i vedri. Rivàa schegge da tutte le parte. Pensàde vuà, io ìo sposàdo cuéll’anno, a véde tutta cuélla robba sottosopra. La robba de la dòda mia ’mpo’ l’émma piàttada sull’àrbori; Laggiù casa nostra, come già vi ho detto, dentro la stalla eravamo in venticinque: vecchi, monelli e donne. Eravamo in una buca, la casa non si vedeva, ma le cannonate ci cascavano ugualmente. Capirete, intorno casa nostra c’erano impostati sedici cannoni, avevano fatto tutte buche, per mettere anche le mitragliatrici. Quando sparavano tutti, ci facevano tenere le finestre spalancate, il comò e l’armadio in mezzo alla camera, perché se no… quando tiravano quelle cannonate, tiravano tutte in una volta verso Mon terado, si scardinavano le finestre, si spaccavano i vetri. Arrivavano schegge da tutte le parti. Pensate voi, io avevo sposato in quell’anno, a vedere tutta quella roba sottosopra. La roba della mia dote l’ave316 c’era l’àrbori tutti infrascàdi, dentro la croce dell’arboro mettemma cuélle robbe ’mpo’ più piccole. Po’ émma fàtto ’na buga sotto tèra, ma perché sotto tèra la robba se rovinàa eh! Dobo, quanno che c’era l’Alleadi lassàa le cassette de fèro lì, allora la robba se mettìa anca lì drendo. I Tedeschi - dicemma ’l battajóne delle SS - ’ndó passàa lóra portàa via nigò. Noà le vacche l’émma piattade là ’l campo, due de qua due de là, dendro i cavalletti: fèmma ’l contorno coi covi, ce fémma como de fòri, po’ li coprémma sopra e lì ce mettemma le vacche drendo, ’n mezzo. Po’ che facìa cuélle vacche? Cuélle vacche, sci gné portavi da be’ radàa, se facéa sentì’ da lóngo. Da magnà’ ce lìa, se mettìa a magnà’ ’l gra’ ’nté i cavalletti, ’nté i còvi, la paja... ’L magnà’ ne ’l cercàa, ma quanno volìa be’, toccàa portaje da be’ scinò cominciàa a radà’ forte. Quale ’nté i cavalletti piattàde, quale giuppe ’l fosso (c’émma ’n fosso grànno ’mbelpo’, po’ sotta cuélle piante coperte lì, émma fatto ’no recinto, pe’ no’ fàlle sgappà’ le legàmma ’nté le piante) l’émo salvàde tutte. Tante le ô se vedìa cuélle bestie a cùre giuppe i campi, ché ié sgappàa via a la gente, anca ai Tedeschi: capàce che le rubbàa, ié sgappàa via. ’Gni tanto vidìsci fujà’ via ’n porchetto, ’na vacca, ’n vidèllo, se vedìa gi’ de galoppo giuppe ’sti campi cuélle bestie... vamo nascosta un po’ sugli alberi; c’erano gli alberi ben coperti dalle foglie, dentro la croce dell’albero mettevamo quelle robe un po’ più piccole. Poi avevamo fatto una buca sotto terra, ma sotto terra la roba si rovinava eh! Dopo, quando gli Alleati hanno lasciavano le cassette di ferro lì, allora la roba si metteva anche lì dentro. I Tedeschi, - dicevamo “Il battaglione SS” – dove passavano loro, portavano via tutto quanto. Noi avevamo nascosto le vacche nel campo, due di qua e due di là, dentro i ‘cavalletti’: facevamo il recinto con i covi, ci facevamo come dei fori, poi lo coprivamo sopra e lì dentro ci mettevamo le vacche, in mezzo. Poi, che facevano quelle vacche? Quelle vacche, se non gli portavi da bere, muggivano, si facevano sentire da lontano. Da mangiare ce l’avevano, si mettevano a mangiare il grano nei cavalletti, nei covi, la paglia… Il mangiare non lo cercavano, ma quando volevano bere, bisognava portarglielo, se no cominciavano a muggire forte. (Le bestie) quali nascoste nei cavalletti, quali giù per il fosso (avevamo un fosso molto grande, poi sotto quelle piante piene di fogliame avevamo fatto un recinto, per non farle scappare le legavamo alle piante), le abbiamo salvate tutte. Spesso si vedevano quelle bestie correre giù per i campi, perché scappavano via alla gente, anche ai Tedeschi: può darsi che le rubavano e gli scappavano via. Ogni tanto vedevi scappare via un porco, una vacca, un vitello, si vedevano quelle bestie andare al galoppo giù per i campi… 317 Passàdo ’sto fronte, noà como vacche ’n ce l’ha portàde via, manco ’l vi’ ’nté la cantina. C’è boccàdi drendo casa scì, ìa guardàdo dappertutto, ha ispezionado pe’ vede’ si c’era cualcò’ perché cuélla vo’ c’era anca i partigiani che gèra ’nté le case, stèra lì, magnàa e bevìa, de notte gèrene a pïà’ la robba dai signori e po’ la magnàa a casa dei contadì’ ’ndò era ’mpo’… Giù da noà c’è venùdi, n’ha troàdo gnènte, nisciù’, è partidi, ’n ci’hà fatto i dispetti i Tedeschi. Scì, ci’avéa fatto tutte trincèe ’tónno casa, ci dicìa che noà n’émma d’avé’ paura perché... lóra ci’avéa i cannù’, le mitrajatrici… Fumma... cosàdi da tutte le parte: sci vidìi c’era sedici cannù’! Sparàa da tutte le parte. E allora dobo cascàa anca lì certe bombe, certe bughe como le pózze, tajàa le rame dell’olmi ’ndó chiappàa cuélle schegge, rame grosse che momenti gnié la facéi a ’bbracciàlle co’ le ma’: ièla facéa a tajàlle. Pensade vuà sci pïàa addosso a ’na persona! Noà, quanno sentémma cuélle bòtte se gobbàmma giù... Scì, capirai!, facéa cualcò’ gobbàtte giù: miga te rendéi conto, cuéllo che podìa èsse’ stado. Ce sémo salvàdi pe’ miràcolo, perché stèmma cólchi giùppe i fòssi. A la notte mi’ marìdo (lu’ se n’antendìa ’mpo’) dicéa: “Boccàmo ’mpo’ drendo ’sto fosso fónno, ché chì tanto sémo ’mpo’ meno scopèrti!” Ma sci ce cascàa ’na bomba lì vicino te coprìa Passato il fronte, a noi le vacche non ce l’hanno portate via, nemmeno il vino della cantina. (I Tedeschi) ci sono entrati sì dentro casa, hanno guardato dappertutto, hanno ispezionato per vedere se c’era qualcosa, perché in quel tempo c’erano anche i partigiani che andavano nelle case; stavano lì, mangiavano e bevevano, di notte andavano a prendere la roba dai signori e poi la mangiavano a casa dei contadini, dove era un po’… Giù da noi i Tedeschi ci sono venuti, non hanno trovato niente, nessuno; sono partiti, non ci hanno fatto i dispetti. Sì, ci avevano fatto tutte trincee attorno casa, ci dicevano che noi non dovevamo aver paura perché… loro avevano i cannoni, le mitragliatrici… Eravamo cosati (protetti) da tutte le parti: se vedevi c’erano sedici cannoni! Sparavano da tutte le parti. E allora, dopo, cascavano anche lì certe bombe, certe buche come le ‘pozze’, dove prendevano quelle schegge tagliavano i rami degli olmi, rami grossi che quasi non gliela facevi ad abbracciarle con la mano: riuscivano a tagliarli. Pensate voi se prendevano addosso ad una persona! Noi, quando sentivamo quegli scoppi ci abbassavamo giù… Sì, capirai, aveva qualche risultato chinarti giù: mica ti rendevi conto di quello che poteva essere stato. Ci siamo salvati per miracolo, perché stavamo sdraiati giù per i fossi. La notte mio marito (lui se ne intendeva un po’) diceva: “Entriamo un po’ dentro questo fosso profondo, perché qui siamo un po’ meno scoperti!” Ma se fosse cascata una bomba lì vici318 giù e ’n t’artroàa manco ’l deàolo là drendo! Era fossi fóndi e po’ de notte ce podèsse stàdi ràgani, bisce perché tutto sull’istàde s’è svolto ’l fronte. Ce podèsse stàde chissà quante bestiàcce. Stèmma lì sotta, sentémma passà’ cuélle bombe sopra, che paréa i cariòli: gèra via caminàa e po’ sentémma... baan! Spaccàa ’ndó che cascàa, sentéi ’l chiòppo, vedéi ’na sfumàda de fôgo. Stèsci lì tutto grucciàdo, sempre per paura che te cascàa addosso. Quanti giorni brutti s’è passàdi! Quanno se gèra a fa’ la fòja vedéi su cuéll’olmi cuélle rame tajàde, c’era le schegge ’nfilsàde lì: pensàde ’mpo’ sci pïàa addosso a ’na persona, addosso alle bestie... Quante ce n’è stadi rovinàdi, bestie e cristiani a tempo de guèra: che disastro ch’è stàdo! no, ti avrebbe coperto e non ti avrebbe ritrovato nemmeno il diavolo lì dentro! Erano fossi profondi e poi, di notte, ci potevano essere ragani, bisce, perché tutto (il passaggio) del fronte si è svolto d’estate. Ci potrebbero essere state chissà quante bestiacce! Stavamo lì sotto, sentivamo passarci sopra quelle bombe che parevano i carrioli: andavano via, camminavano e poi sentivamo… baan! Dove cadevano spaccavano, sentivi lo scoppio, vedevi una fumata di fuoco. Stavi lì, tutto rannicchiato, sempre per paura che te ne cadesse una addosso. Quanti giorni brutti abbiamo passato! Quando si andava a fare la foglia, vedevi su quegli olmi quei rami tagliati, c’erano le schegge infilzate lì: pensate un po’ se prendevano addosso ad una persona, addosso alle bestie… Quanti sono rimasti rovinati, bestie e cristiani, al tempo di guerra: è stato un gran disastro! Gente de tutte le razze Gente di tutte le qualità Cuélla vo’ l’òmmini non podìa scappà’ in giro ché li chiappàa per fa’ le buge. Le donne se salvàa le ottantenne. Non podìsci gi’ in giro, perché c’era de tutte le razze: c’era i partigiani che gèrene a passà’ ’nté i campi, i fascisti comannàa ’mpo’ de più passàa per le strade co’ le camionétte, i Tedeschi cìa più cavalli che mezzi, ’na passàda era como In quel periodo gli uomini non potevano andare in giro, perché li prendevano per fare le buche. Delle donne si salvavano le ottantenni. Non potevi andare in giro, perché ce n’erano di tutte le qualità: c’erano i partigiani che andavano a passare per i campi, i fascisti comandavano un po’ di più passavano per le strade con le camionette, i Tedeschi avevano più cavalli che mezzi; per un certo periodo 319 dice ’n vecchio dittado: “ Chi s’alza prima comanna!”. E cuélla vo’ era luscì. A ’rpensàcce, sci uno c’êsse d’arpassà’ n’antra ô, è mejo a morì’: a ’rcontàallo non pare vero! Vedìsci giù pei campi le vacche, le pegore, i porci fujàa spaentàdi dalle cannonàde, le mine. Quanno gìsci ó pe ’l campo; a cuéi tempi, toccàa a sta’ ’tenti: sci vidìi ’n mucchietto de tèra, miga se podìsci gi’ vicino, toccàa a dillo a lóra, a cuélli lì, cuéi polacchi. Perché sa co’ facéa i Tedeschi? Facéa’na buga, ce mettéa la mina e po’ la coprìa co’ la tèra. Sci vedìsci la terra smossa, podéi pensà’ ch’era stado ’n topo e, a volte, se gèra a véde’, capace era stado ’n topo, prò pe’ la paura se chiamàa sempre a lóra. Facéa como ’l topo che ruma sotta tèra e fa cuélle mucchie de tèra, sopra. Le coprìa luscì le mine. ’Ndo ch’era passàdi i Tedeschi: avéa minàdo nigò, avéa minado i pónte, avéa minàdo le strade, avìa minàdo i campi... Toccàa a sta’ ’ttenti ’mbelpo’. Quanti ce n’è capidàdi pôretti! Io conoscéo uno vicino casa mia, porànnima, gèra a casa da la Messa, ’n fjòlo da sedici diciassett’anni, non s’antendìa no! I granni ’l sapìa com’èra i proiettili, com’èra cuéllo com’èra cuél’àltro, ma cuéi fjòli luscì non era aspèrti no, n’era gidi mae da nisciuna parte, ’n sapìa com’èra fatti i proiettili, com’èra fatte le bombe. Cuéllo, porannima, era come dice un vecchio proverbio: “Chi si alza per primo comanda!” E quella volta era così. A ripensarci, se uno ci dovesse ripassare un’altra volta, è meglio morire: a raccontarlo non pare vero! Vedevi giù per i campi le vacche, le pecore, i porci fuggivano spaventati dalle cannonate, delle mine. Quando andavi lungo il campo, in quei tempi, toccava stare attenti: se vedevi un mucchietto di terra, mica potevi andarci vicino, bisognava dirlo a loro, a quelli lì, a quei polacchi. Perché sa cosa facevano i Tedeschi? Facevano una buca, ci mettevano una mina e poi la coprivano con la terra. Se vedevi la terra smossa, potevi pensare che fosse stata una talpa e, a volte si andava a vedere, forse era stata una talpa, però per la paura si chiamava sempre loro (i Polacchi). (I Tedeschi) facevano come la talpa che scava sotto terra e fa quei mucchi di terra sopra. Le coprivano così le mine. Dove erano passati, i Tedeschi avevano minato tutto quanto: avevano minato i ponti, avevano minato le strade, avevano minato i campi… Bisognava stare molto attenti. Quanti ce ne sono capitati, poveretti! Io conoscevo uno vicino casa mia, povera anima, che tornava a casa dalla Messa, un ragazzo di sedici diciassette anni, non se ne intendeva no! I grandi lo sapevano com’erano i proiettili, come era quello come era quell’altro, ma quei figli così non erano esperti no, non erano mai andati da nessuna parte, non sapevano come erano fatti i proiettili, come erano fatte le bombe. Quello, povera anima, l’ha 320 l’ha pïàdo su le ma’, iè scoppiàdo su le ma’: è ’rmasto lì. Troppi ce n’era che ìa portàdo via le ma’! preso sulle mani, gli è scoppiato sulle mani: è rimasto lì. Troppi ce n’erano che avevano perduto le mani! I Polacchi co’ la palétta I Polacchi con la paletta ’Gni tanto me ne vène a’mmènte una. ’Ndó che facéa le bughe ’sti Tedeschi che ce mettìa giù le mine l’arcoprìa co’ la tèra e ci’armanìa ’n montiròzzolo no; la tèra era ’mpo’ fresca, sci ce lìa messa da pogo. Dobo, quann’è venudi i Polacchi ci’avìa ’n vizio lóra. Cuélla vo’ i gabinetti non è che c’era ’nté le case, eh: ’ndó che ié ’ncuntràa, quanno ié sortìa, ce se mettìa. Allora i Polacchi e i Inglesi sa co’ facìa? Ci’avéa ’na palettina drèdo, sempre, se la portàa ’taccàda ’nté la cintùra, como quanno uno ci’hà ’n maràccio che gèra a fa’ le legna, no, su pe’ le montagne. Ié se dice ‘el maraccio’. Allora pïàa ’sta palettina, fèra ’na buganèlla e po’, quanno lìa fatta, la coprìa como facìa ’l gatto. Allora delle ’olte capàce s’armanéa anca fregàdi eh! Se gèra a chiamà’ ’na persóna che s’antendìa a gi’ a guardà’ ’nté cuél monte de tèra e ce s’armanìa fregàdi: envéce della mina ce trovài ’n’antra cosa! E dobo c’era anca da rìde’ eh! Prò era più pulìdi che noà, perché noà non è che se facéa cuél laóro lì, se facéa la buga e po’ s’arcoprìa: eh, se facéa in giro, ’ndó che s’ancun- Ogni tanto me ne viene pensata una. Dove facevano le buche i Tedeschi, che ci mettevano le mine e le ricoprivano con la terra, ci rimaneva un monticello, no. La terra era un po’ fresca, se ce l’avevano messa da poco. Dopo, quando sono venuti i Polacchi, (questi) avevano un’abitudine. Quella volta i gabinetti non c’erano nelle case, eh: dove gli incontrava, quando gli scappava, ci si mettevano. Sa, allora, cosa facevano i Polacchi e gli Inglesi? Avevano una palettina dietro, sempre, se la portavano appesa alla cintura, come quando uno ha un ‘maraccio’ per andare a fare la legna, no, su per le montagne. Lo si chiama il ‘maraccio’. Allora prendevano questa palettina, facevano una buchetta e po’, quando l’avevano fatta la coprivano come fa il gatto. Allora, delle volte, magari si rimaneva anche fregati, eh! Si andava a chiamare una persona che se ne intendeva per andare a guardare in quel monticello di terra e ci si rimaneva fregati: invece della mina , ci trovavi un’altra cosa! E dopo c’era anche da ridere eh! Però erano più puliti di noi, perché noi non è che si faceva quel lavoro lì, non si faceva la buca e poi la si rico321 tràa se facìa. Eh, cualca vo’ toccàa a sta’ ’tenti anca ’ndó se mettìa i pìa. Babbo mia non vulìa; lì c’era ’n gabinetto fatto de canna e lì se gèra lì drendo, ’nté ’l cagatóre. ’N se dovéa fa’ a la peggio, anca pe’ le mosche, pe’ la polizìa, pe’ nigò. Anca giù casa ’ndó so’ boccàda io c’era ’n cappannaccio lì, se gèra lì drendo, ma, quanno t’ancuntràa giù ’l campo, co’ gìi a fa’ ’na cursa su casa? Toccàa a fàlla ’ndó che t’ancuntrài. Tanto era luscì! La carta igienica c’era le foje de le piante sci era d’istàde, sci era d’inverno l’erba per tèra. Toccàa a sta’ ’tenti perché, sci te ci’ancuntrài ’nté l’ortìga, capace che era càoli amari: ’n c’era cuélla vo’ “dieci piani de morbidezza”! priva: eh, si faceva in giro, dove che incontrava si faceva. E qualche volta bisognava stare attenti a dove si mettevano i piedi. Il mio babbo non voleva, lì c’era un gabinetto fatto di canne e si andava lì dentro, nel ‘cagatore’. Non la si doveva fare qua e là, anche per le mosche, per la pulizia, per tutto. Anche nella casa, dove sono entrata io, c’era un capannaccio lì, si andava lì dentro, ma, quando ti incontrava nel campo, e che andavi a fare una corsa fino casa? Toccava a farla dove che ti incontravi. Tanto era così! Per la carta igienica c’erano le foglie, se era d’estate; se era d’inverno l’erba per terra. Toccava a stare attenti perché, se ti incontravi nell’ortica, magari erano cavoli amari: non c’erano quella volta “dieci piani di morbidezza!” Polacchi, ‘maccaóni’, tùdoli e ciarle Polacchi, ‘maccaóni’, panetti e ciarle È ’rivàdi li Inglesi, i Polacchi; lì casa nostra cìa fatto ’l comando, ce tenìa ’n camion lì, che ce dormìa là drendo. Ci’hà rispettado ’mbelpo’, io ié fèra da magnà’, me dèra la farina de riso pe’ fa’ da magnà’, ma gnéla fèra a fàcce le tajadèlle no e allora ’na ’olta ié l’ho fatte co’ la farina nostra; cuélla ’olta era d’istàde, c’era anca l’ovi e ié l’ho fatte co’ l’ovi. Allora, quanno le magnàa, dicìa i Polacchi: “Io sposare signorina italiana per mangiare maccaóni!” Ié Sono arrivati gli Inglesi, i Polacchi; a casa nostra ci hanno fatto il comando, ci tenevano un camion e vi dormivano dentro. Ci hanno rispettato molto, io gli preparavo da mangiare, mi davano la farina di riso per fare da mangiare, ma non gliela facevo a farci le tagliatelle e, allora, una volta gliel’ho fatte con la nostra farina; quella volta era d’estate, c’erano anche le uova e gliel’ho fatte con le uova. Allora, quando le mangiavano, dicevano i Polacchi: “Io sposare signorina italiana per mangiare maccaóni!” 322 piacìa ’mbelpo’. Lóra cìa la farina de riso: co’ vôi fa’ co’ la farina de riso? ’Na volta ci’hò provado a falli, ié l’ho fatta a impastàlli, ma dobo no’ ié l’ho fatta a sfojàlli, l’ho smenàdi ma po’ la sfoja me se spezzàa tutta: era ’na schifezza! Lóra perché magnàa ’mbelpo’ cuélla farina de riso, cuél pa’, cuél pa’ nero nero, ma prò sa che facìa? ’L mettìa su la padella, ce mettìa giù ’n sacco de burro, margarina... cuél ch’era ne ’l so, lóra ce l’avéa ’nté cuéi barattoli grossi, c’era scritto ‘Kelkès’, cuél ch’èra ne ’l so, s’èra formaggio… lo mettìa giù ’nté la padella…’Ncontràa d’istàde, lóra mettìa a còce’ anca i panetti de granturco, ’n tra cuélla padèlla ’n tra cuéll’ojo (interruzione: “Chiara!” “Oh!”) Allora non ve l’ho fenìdo da di’ che ’gni tanto me tocca lassà’ gi’ perché chì casa nostra c’è sempre che ce capita cualchidù’. (interruzione) Scusade c’ho interrotto ’n’antra vo’, ’gni tanto me capita cualchidù’. Allora ’sti Inglesi e Polacchi pïàa ’sti panetti, era téneri, era bòni eh, che prò valli a magnà’ adè’ co’ ’sto colisterolo alto che c’è! I facìa frìgge’ ’nté la padella co’ ’sto burro, margarina, formaggio como che sia: ne mettìa giù ’mbelpo’ sa. Ma quanti ne magnàa! Ma màgnali adè’, sai ’l colisteròlo va a cinquecento, no a trecento solo! Dobo lóra ce dèra le cioccolade, le saponette, scattolàmi de formag- Gli piacevano molto. Loro avevano la farina di riso: cosa vuoi fare con la farina di riso? Una volta ci ho provato a farli (i maccheroni),: gliel’ho fatta ad impastarli, ma dopo non gliel’ho fatta a fare la sfoglia, l’ho lavorato l’impasto, ma poi la sfoglia mi si è spezzata tutta: era una schifezza! Loro mangiavano molto quella farina di riso, quel pane, quel pane nero nero… però sa quello che facevano? Lo mettevano su una padella, ci mettevano giù un sacco di burro, margarina… non so quello che era. Loro lo tenevano in quei barattoli grossi, c’era scritto ‘Kelkès’, quello che era non lo so… se era formaggio…lo mettevano giù nella padella… Incontrava d’estate, così mettevano a cuocere anche i panetti (di granturco) in quella padella tra quell’olio… (interruzione: “Chiara!” “Oh!”) Allora non ve l’ho finito di dire: ogni tanto mi tocca lasciare andare, perché qui casa nostra ci capita sempre qualcuno. (nuova interruzione). Scusate che mi sono interrotta un’altra volta: ogni tanto mi capita qualcuno! Allora questi Inglesi e Polacchi prendevano i panetti di granturco, erano teneri e buoni eh, che però va un po’ a mangiarli adesso con questo colesterolo alto che c’è! Li faceva friggere nella padella con questo burro, margarina, formaggio che sia: ne mettevano giù tanto, sa! Ma quanti (panetti) mangiavano! Ma mangiali adesso, sai il colesterolo: va a cinquecento, no a trecento soltanto! Dopo loro ci davano le cioccolate, le saponette, scatolami di formaggi, 323 gi, sardine, carne, biscotti, zigarette a ’st’òmmini. A mi’ marido quante zigarette i’hà datto! Era chiamade “trentatré”! Era bòne sa, l’avéa vizziado be’. Prima lu’ ci’avìa la cartina, ’ntè la cartina mettìa ’l tabacco; quanno ’n ce lìa, perché in giro non ce se gèra tutti i giorni, quanno ’n ce lìa gèra cercà’ dappertutto... arvoltàa anca le saccocce pe’ podé’ fa’ ’na zigaretta. Quanno ié pïàa voja de fuma’ e ’n c’era più i Polacchi: i’avìa datto cuél vizzio co’ cuélle zigarette bòne... Fumàa fumàa ma dobo non ce lìa, toccàa lassà’ gi’ perché anca lu’ cìa lo stòmmigo che ’n gèra tanto be’. I Polacchi erane quattro: c’era ’l capitano della Cicogna, che era giù pìa del campo nostro. Avéa fatto il campo, cìa tajàdo ’n bel pezzo de granturco, dobo ce l’ha pagàdo, ha buttado giù tutte le piante pe’ levàsse ’sta Cicogna, perché giù da pìa del campo nostro c’era n’appezzamento de tèra tutta piana, bella, c’era ’n gran fosso, ’ndó ce currìa l’acqua, ma ha buttado giù tutte le piante. Io pensào: “Cuscì ci’hò meno da fadigà’ quann’è l’inverno: da scapeccià, da fa’ tutto cuél gran falàsco!” Cuéll’anno lì ’l falasco ’n c’è stado da fa’ perché avéa spianàdo giù, tajàdo nigò. Erane brài, ma sa... miga i dovìsci provogà’, che anca lóra cìa ’l sangue ’nté le véne, come l’òmmini nostri. Sci dicìa cualchicò’, ’na parola stòrta, non li guardàsci su l’occhi, bassà- sardine, carne, biscotti, sigarette agli uomini. A mio marito quante sigarette gli hanno dato! Erano chiamate ‘trentatré’. Erano buone sa, l’avevano viziato bene. Prima lui aveva la cartina, nella cartina metteva il tabacco; quando non ce l’aveva, perché in giro non ci si andava tutti i giorni, quando non ce l’aveva, l’andava a cercare dappertutto… rivoltava anche le tasche per poter fare una sigaretta, quando gli prendeva voglia di fumare e non c’erano più i Polacchi: gli avevano dato quel vizio con quelle sigarette buone… Fumava fumava, ma dopo non ce le aveva, toccava lasciar andare, perché anche lui aveva lo stomaco che non andava tanto bene. I Polacchi erano quattro: c’era il capitano della Cicogna, che era in fondo al nostro campo. Avevano fatto il campo (d’aviazione), avevano tagliato un bell’appezzamento di granturco, dopo ce l’hanno pagato, hanno buttato giù tutte le piante per far levare la Cicogna, perché ai piedi del nostro campo c’era un appezzamento di terra tutta pianeggiante, bella, c’era un gran fosso, dove scorreva l’acqua, ma hanno buttato giù tutte le piante (anche del fosso). Io pensavo: “Così ho meno da faticare durante l’inverno: meno da capitozzare, da tagliare tutto quel gran ‘falasco’ ”. Quell’anno lì il ‘falasco’ non c’è stato da fare, perché avevano spianato, avevano tagliato tutto. (I Polacchi) erano bravi, ma sa… mica dovevi provocarli, perché anche loro avevano il sangue nelle vene, come gli uomini nostri. Se dicevano qualcosa, 324 sci la testa e fésci fénta de gnè, perché a vent’ànni - dicìa nonna mia - è belli tutti, perciò dovésci fa’ coscì, scinò pogo da lóngo da casa nostra c’era du’ tre spose, c’era ’na giovena. A cuélle ié piacìa a chiacchierà’ coi soldàdi che ce ne passàa parecchi. Giù pìa del campo, como v’ho ditto, c’era’l campo d’aviazió’ della Cicogna. Le camionette dei soldàdi portàa giù ’l combustibile, la robba, perché tanto ce ne vulìa pe’ levàsse la Cicogna. E la robba ’ndó’ la pïàa, miga ce lìa ’l carburante? Toccàa portàllo co’ ’sti camion, co’ ’ste gente. Passàa giù lì avanti casa de lóra; a ’ste donne ié piacéa ’mpo’ a discòrre’, ié piacéa ’mpo’ a sficcanasà’. Dobo ’sti soldàdi co’ hanne fatto? ’Na sera, era ’n tra ’l lume e scùro, va su casa, c’era armàsto ’l vecchio e c’era ’n’anzianòtto, ’l marìdo de cuélla più grànna. Ha comensàdo a di’: “Fòri fòri vuàltri, fòri fòri. Noi dormire co’ le voi signore, noi noi!” Era ’n gruppétto de ’sti soldàdi. Eh eèh... co’ ha fatto ne ’l so, ma dobo l’hanne denunciàdi, ha fatto ’mpo’ ma gni’ hànno polsùdo fa’ gnè. È venude lì casa nostra che c’èra ’l comanno dell’Alleàdi, ma il comannante i’hà ditto: “L’rconoscéde?”. Cuélli che era lì da noà non era stadi, valli a chiappà’ de quale compagnia erane! E lóra iéla facéa ’mpo’ fina: a ’sta gente chì ’n gné se podéa fa’ tanta fina perché, pôretti, passàa mesi e una parola storta, non li guardavi sugli occhi, abbassavi la testa e facevi finta di niente, perché a vent’anni – diceva mia nonna – son tutti belli, perciò dovevi comportarti così, se no, poco lontano da casa nostra, c’erano due tre spose, c’era una giovane non sposata. A quelle piaceva chiacchierare con i soldati che ce ne passavano parecchi. In fondo al campo (nostro), come vi ho detto, c’era il campo d’aviazione della Cicogna. Le camionette portavano giù il combustibile, la roba, perché tanto ce lo voleva per far levare (in volo) la Cicogna. E la roba dove la prendevano, mica ce l’avevano (laggiù) il combustibile! Bisognava portarlo con questi camion, con questa gente, che passava giù, davanti a casa loro; a queste donne piaceva un po’ discorrere, gli piaceva ficcanasare. Dopo che cosa hanno fatto questi soldati? Una sera, sul crepuscolo, sono entrati in casa; c’era rimasto il vecchio e c’era un anzianotto, il marito di quella più grande. Hanno cominciato a dire: “Fuori, fuori voi, fuori fuori! Noi dormire con le voi signore, noi noi!” Era un gruppetto di questi soldati. Eh eèh… cosa hanno fatto non lo so, ma dopo li hanno denunciati, hanno indagato un po’, ma non gli hanno potuto fare niente. (Quelle donne) sono venute lì a casa nostra dove c’era il comando degli Alleati, ma il comandante gli ha chiesto: “Li riconoscete?” Quelli che erano lì da noi non erano stati, vai un po’ ad indovinare di quale compagnia erano! E loro gliela facevano un po’ fina: a questa gente qui non gliela si poteva fare 325 mesi che le donne ne le vedéa mae, le moje le ragazze che era. Sicché è stàdo inùdele che l’ha denunciàdi, prò i pôri marìdi ch’era sotta l’arme hanne dovudo subì’ anca ’ste cose qua! Eh, è gido be’, è finido cuscì! Io non posso di’ ch’è vero, ma le ciarle s’era sparse al largo. tanto fina perché, poveretti, passavano mesi e mesi senza vedere mai le donne, le moglie le fidanzate che fossero. Sicché è stato inutile che li hanno denunciati, però i poveri mariti che erano sotto le armi hanno dovuto subire anche queste cose qua. Eh, è andato bene, è finito così! Io non posso dire che è vero, ma le ciarle si erano diffuse largamente. Gli Italiàni è più càlli Gli Italiani sono più caldi Anche mi’ fradello l’arcontàa, ché lìa portado in Russia. Là le donne era guasci tutte armade de cortelli, puntiròli, falcette. Puntiròli e cortelli li infilàa su pe’ le manighe o drendo ai stivali, e le falcette ’nté le cinte delle veste, perché anche là c’era chi stèra alla mossa e chi envece non volìa tradì’ ’l marido o lo ragazzo. Anca l’Italiani, sapé, non era belli eh! ’Mpo’ cìa anca ’na parte de ragió’: 4 o 5 anni de guerra, s’èrene buttadi allo sbarajo, quanno cìa l’occasió’ non scherzàa tanto… Po’ dìcene ch’è più calli! Anche mio fratello lo raccontava, perché l’avevano portato in Russia. Là le donne erano tutte armate di coltelli, punteruoli, falci. I punteruoli e i coltelli li infilavano su per le maniche o dentro gli stivali, e le falci nella cintura delle vesti, perché anche là c’era chi stava alla mossa e chi invece non voleva tradire il marito o il fidanzato. Anche gli Italiani, sapete, non erano belli, eh! Un po’ avevano una parte di ragione: quattro o cinque anni di guerra, si erano buttati allo sbaraglio, quando avevano l’occasione, non scherzavano tanto… Poi dicono che (gli Italiani) sono più caldi! ’Na paura! Una paura! A di’ la verédà dobo sposàda è cambiado nigò. Oltra che del ’43 già era tre anni de guerra, propio ’nte ’l peggio, so’ gida an galèra. Non è pel marido, è che ’nté la fameja non A dire la verità dopo sposata è cambiato tutto. Oltre che nel ’43 già erano passati tre anni di guerra, nel momento peggiore sono andata in galera. Non è per il marito, è che nella famiglia non 326 conoscìi a nisciù’: conoscìsci solo la fadiga! Gnènte divertimenti, in giro non podìsci gi’, né a ’na festa da sola. Sci te pïàa te fèra i sfregi, perché c’era gente, como v’ho ditto, de tutte le specie fuggiaschi. E non podìsci riclamà’ a nisciù, era libertà da ’mazzà’, da violentà’. E a chi te gèsci a rivòlge’? Giù pei campi ne vedìsci certe squadre, ogni tanto. Un giorno so’ gida a fa’ ’l granturchétto, ’n bel fascio pe’ le vacche. ’Sto granturchetto era alto du’ medri anca più. Me scappa tre soldati da ’n tra mezzo e me dice: “Dove sta Giannina?” Io spauràda i’hò ditto: “Non… nelsò!” E po’ so fujàda drìa a’n filó’, sensa a carcà’ ’l fascio: ’l cùre’, non me se vedìa le gambe. C’era mi’ sòcero drendo la stalla, m’ha ditto: “Qu’è successo?” Piagnènno i’hò ditto: “C’è ’n branco de soldadi, vôle sapé’ ’ndó sta Giannina”. Io avìa sposado ch’era poghi mesi, non la conoscìa. Dobo hanne portado su ’l fascio del granturchetto, l’ha messo drendo la stalla e io piattàda drendo al rifuggio co’ mi’ marìdo: ma perché era brài, scinò sci volìa strucinà’, t’artròàa.... I Tedeschi a casa de ’n’amìga mia ha visto le vèste drendo l’armàrio, volìa sapé’ ’ndó era signorina. Cuéi pôri vecchi ié dicìa che non c’era, era sposàda da lóngo. Ma era armàdi, volìa sparà’. Toccàa a pïà’ certe paure! conoscevo nessuno: conoscevo solo la fatica! Niente divertimenti, in giro non potevi andare, né a una festa da sola. Se ti prendevano ti facevano le sevizie, perché c’era gente, fuggiaschi, come vi ho detto, di tutte le specie. E non potevi reclamare con nessuno, c’era libertà d’ammazzare, di violentare. E a chi andavi a rivolgerti? Per i campi vedevi, ogni tanto, certe squadre! Un giorno sono andata a fare il granturchino, un bel fascio per le vacche. Questo granturchino era alto due metri, anche più. Mi escono fuori tre soldati da lì in mezzo e mi domandano: “Dove sta Giannina?” Io spaventata gli ho risposto: “Non …non lo so!” E poi sono fuggita dietro a un filare, senza caricare il fascio: il correre (che ho fatto), non mi si vedevano le gambe. C’era mio suocero dentro la stalla, m’ha chiesto: “Che è successo? Piangendo gli ho detto: “C’è un branco di soldati, vogliono sapere dove sta Giannina”. Io avevo sposato da pochi mesi, non la conoscevo. Dopo (i soldati) hanno portato su il fascio del granturchino, l’hanno messo dentro la stalla e io (sono rimasta) nascosta dentro al rifugio con mio marito: ma perché erano bravi, se no, se volevano cercarti (dappertutto), ti ritrovavano… I Tedeschi a casa di un’amica mia hanno visto la veste dentro l’armadio, volevano sapere dove “era signorina”. Quei poveri vecchi gli dicevano che non c’era, (perché) era sposata lontano. Ma (i Tedeschi) erano armati, volevano sparare. Toccava a prendere certe paure! 327 Alla Messa co’ la camionetta Alla Messa con la camionetta Giù casa nostra, envéce, c’era ’sto capitano de la Cicogna, che tante le ô la domenniga ce carcàa su la camionétta e ce portàa a la Messa. Noàltre, tutte contente, chissà chi ce paréa da èsse’! Perché giù da noà c’era lóra, ce dèmma l’aria, ’n’importansa, gèmma a la Messa co’ la camionetta e come stèrene devòdi ’sti Polacchi, i Inglesi: n’è come noà che capace vedi una co’ ’na vesta bella, t’arvolti a guardàlla, vedi ’n’antro che ci’hà le scarpe sporche i’arguàrdi, a uno che ’n ci’hà i capéi messi be’ ié s’arguàrda, non sémo devòdi come era lóra drendo la chiesa, lóra drendo la chiesa ’n s’arvoltàa a guardà’ de drèdo, venìa a la Messa e ce stèra con devozió’. Dobo co’ ha fatto? I Polacchi venìa lì casa, avéa ’ntéso che ’l vi’ era bòno, dicìa ‘vino vino’ e facìa véde’ che mettìa ’nté la bocca ’l bicchiero... Dopo il dèmma noà, prò sai a dàje ’na bottija da ’n lidro, ce lassàa duecento lire sotta... ma cuélla vo’ duecento lire era ’mbelpo’ eh! Cuélla volta c’era i soldi de carta ancora in giro, perché il Duce avéa fatto “soldi de carta e scarpe de legno”. Eeh, ce lassàa duecento lire sotta ’sta bottija e noà tutti contenti: c’émma ’na botte de vi’! Ha durado pogo, prò, perché lóra s’è ritiràdi, cioè ha fatto l’avanzàda, è gìdi alle case sua, perché ormai l’Italia l’avìa vénta lóra, l’avìa presa. I Giù casa nostra, invece, c’era questo capitano della Cicogna, che talvolta la domenica ci caricava sulla camionetta e ci portava alla Messa. Noi, tutte contente, chissà che cosa ci pareva di essere! Siccome giù da noi c’erano loro, ci davamo un po’ di arie, un’importanza; andavamo alla Messa con la camionetta e come stavano devoti i Polacchi, gli Inglesi: non sono come noi che magari vedi una con una veste bella, ti rivolti a guardarla, vedi un altro che ha le scarpe sporche e lo guardi, uno che non ha i capelli messi bene lo si guarda, non siamo devoti come loro dentro la chiesa; loro, dentro la chiesa, non si rivoltavano a guardare dietro, venivano alla Messa e ci stavano con devozione. Dopo che cosa hanno fatto? I Polacchi venivano a casa nostra, avevano sentito che il vino era buono, dicevano “vino vino!” e facevano vedere che portavano il bicchiere alla bocca… Dopo noi glielo davamo, però, sai, a dargli una bottiglia da un litro ci lasciavano duecento lire sotto… ma quella volta duecento lire erano tante eh! Quella volta circolavano ancora i soldi di carta, perché il Duce aveva fatto “soldi di carta e scarpe di legno”! Eeeh, ci lasciavano duecento lire sotto questa bottiglia e noi (eravamo) tutti contenti: avevamo una botte di vino! È durato poco, però, perché loro si sono ritirati, cioè hanno fatto l’avanzata, sono tornati alle loro case, perché ormai l’avevano vinta loro l’Italia, l’ave328 Polacchi so’ stàdi brài. Ce sémo gìdi là, in Polonia, sci uno avesse ûdo l’endirizzo, se podìa gi’ a troà’ sci ancó’ era vivi. vano presa. I Polacchi sono stati bravi. Ci siamo andati là, in Polonia: se uno avesse avuto l’indirizzo, poteva andarli a trovare, se erano ancora vivi. Campàne a festa! Campane a festa E dobo sentémma sonà’ le campane a festa, ’l campanó’ de Montalbòdo, se sentìa da giù casa nostra. Eeeh, prima sònàa quanno era ’nudo l’armistizzio. Babbo mia dicéa: “Eh, fjòli, eeh sòna ’l campanó’, è l’armistizzio, ma i fjòli nostri ’n sapémo ’ndò è!” Dobo l’armistizzio, n’è finida la guèra, veramente ha durado ’n’antro anno. Cuésto scì ch’è stado duro, prima noà n’émma visto gnè, c’émma solo i dispiacé’ dei fradèlli ch’era sotta l’armi, i ragazzi, scinò ’n s’era visto gnè. Dobo scì ch’è passado ’l fronte dappertutto. Fortuna che ’n cìa i monelli ancó’! I monelli, pôretti, quanti n’è morti, anca de notte a sta’ in giro luscì, quanno se sentìa le cannonàde, l’apparecchi... Scusàde (tossisce), ’gni tanto me vène la tòssa. Dobo allora, quanno è finida la guèra del tutto, sonàa le campàne a festa. Anca noà fèmma festa, ma n’è che podéi saltà’ tanto, perché ce n’era parecchi che n’era arvenùdi, cuél’altri ch’era arvenùdi era ferìdi, e po’ la guèra ci’avéa lassàdo ’n sacco de carestìa, anca sci a noà i Todéschi, i Polacchi ’n cìa E dopo sentimmo suonare le campane a festa, il campanone di Mon talboddo, si sentiva fino a giù casa nostra. Eeeh, prima suonava quando era venuto l’armistizio. Il mio babbo diceva: “Eh, figli, eeh… suona il campanone, è l’armistizio, ma i figli nostri non sappiamo dove sono!” Dopo l’armistizio non è finita la guerra, veramente è durata un altro anno. Questo sì che è stato duro, prima noi non avevamo visto niente, avevamo solo il dispiacere per i fratelli che erano sotto le armi, per i ragazzi, se no non si era visto niente. Dopo sì che è passato il fronte dappertutto. Fortuna che ancora non avevo i monelli! Quanti ne sono morti di bambini, anche a stare in giro così di notte, quando si sentivano le cannonate, gli aeroplani… Scusate (tossisce), ogni tanto mi viene la tosse. Dopo allora, quando è finita la guerra del tutto, suonavano le campane a festa. Anche noi facemmo festa, ma non è che potevi saltare tanto, perché ce n’erano parecchi che non erano ritornati, quegli altri che non erano ritornati erano feriti, e poi la guerra ci aveva lasciato tanta carestia, anche se a noi i Tedeschi, i Polacchi non 329 portàdo via gnè. Fumma anca ’mpo’ allegri per la fine de la guèra perché quattr’anni è longhi eh, prò - come se dice - quanno mancàa i fradelli, mancàa i genidori, mancàa i fjòli, eeh quanti anni brutti è stadi! Eeeh, quanto è stàdo bello! Queste è ròbbe che ’n te le scòrdi più sa. Dicémo è stàdo ‘bello’ perché i tempi brutti passàdi como cuélli speràmo ’nté la vida nostra de non passàlli più, perché ormai so’ vecchia, ma vurrìa che ne passàsse manco i fjòli mia, perché ancó’ dappertutto c’è ’sta guerrìja, senti su la televisió’ adè’ guerra de là, guerra de qua, ammazzamènti... Como accèndi la televisió’ ’mazza da tutte le parte, c’è sempre cuélle cose lì. Ma, per caridà Signore!, quante tocca a sentìnne prima da morì’! Ma adè ve vojo fa’ rìde, v’arcónto de ’n contadì’ che cìa le pegore. Quanno è finida la guerra chi da noà, se podìa ’rportà’ a magnà’ l’erba giù pe’ ’l campo, prò ancó’ qualche cannonada se arsentìa, magari ’mpo’ da lóngo, ’gni tanto bombardàa. E questo avìa legàdo le pegore ’nté la cintura e queste, a sentì’ ’sti bòtti, tiràa una da ’na via e una da ’n’antra e l’ha straginàdo. Allora lu’ (era ’mpo’ matto) dicìa così: “L’ho legade ’nté la vida, ma me tiràa made qua e made là, m’ha straginàde ’mpez e so’ riàdo ’nté la stalla, ho preso ’l forcó’, n’ho ’mazzade dô”. Parlàa ’mpo’ de Senigaja. ci avevano portato via niente. Eravamo anche un po’ allegri per la fine della guerra perché quattro anni sono lunghi eh, però – come si dice – quando mancavano i fratelli, mancavano i genitori, mancavano i figli, eeh, quanti anni brutti sono stati! Eeeh, quanto è stato bello! Questi sono fatti che non te li scordi più, sa. Diciamo è stato ‘bello’, perché i tempi brutti passati come quelli speriamo di non passarli più nella nostra vita, perché ormai sono vecchia, ma vorrei che non li passassero nemmeno i figli miei, perché ancora dappertutto c’è questa guerriglia: senti in televisione che adesso c’è la guerra di là, guerra di qua, ammazzamenti… Come accendi la televisione (senti che) ammazzano da tutte le parti, succedono sempre quelle cose lì. Ma, per carità Signore, quante tocca sentirne prima di morire! Ma adesso vi voglio far ridere, vi racconto di un contadino che aveva le pecore. Quando è finita la guerra qui da noi, si potevano riportare a mangiare l’erba giù per il campo, però ancora qualche cannonata si sentiva, ogni tanto bombardavano. E questo aveva legato le pecore nella cintura e queste, a sentire questi scoppi, tiravano una da una parte e una da un’altra e l’hanno trascinato. Allora lui (era un po’ matto) diceva così: “L’ho legate nella vita, ma mi tiravano di qua e di là, mi hanno trascinato un pezzo e sono arrivato sulla stalla, ho preso il forcone, ne ho ammazzate due!” Parlava un po’ (il dialetto) di Senigallia. 330 Tanto pe’ rìde’ Tanto per ridere Dopo quattr’anni de guèra se pôle anca ’rcomensà’ a rìde’, no!” Allora, tanto pe’ rìde’, v’arcónto ’mpo’ sempre de ’sto contadì’ ’mpo’ detràdo tanto pe’ ’l dialetto como de talènto e de casàdo. Stèra sotta de ’sto teritòrio de noà. Era pïàdo ’mpo’ in giro da diversi amìghi, che se ritène più spèrti. Allora ’na ò co’ la posta, ’l servizio, sarìa oggi la coriéra, ’sto contadì’ è gido ’nté la cità de Senegàja (parlàa ’mpo’ de Roncidèi), va da lo spiziale, c’era la stadiéra, sarìa la pesa, vede tutte e due le spère ’nté ’l zero. Ha ditto: “Dàje, vedi ch’è dagià megiogiórno! vèmme a da’, alla sveltra, la pumàda per da basso! Scinó sci perdo la posta, dobo con che càolo vô a casa a Montalbòdo?” ’L farmacista s’è messo a rìde’, i’hà ditto: “Ma cuéll’arlògio lì non va be’, è fermo da jéra!” I’hà parlàdo anca lo speziale ’nté ’l dialetto sua, coscì ’sto contadì’ s’è trancuillizzàdo. ’N’antra ò, sotta le feste de Nadàle, me pare d’avéllo ditto, i ragazzi delle gióvene chi portàa castagne, melarance, chi anca ’l toró’ de cioccolàdo, e anca cuéllo biàngo de mèle, nocciòle, e de fòra ci’hà como ’n’ostia. La fjòla iè ne dà ’mpèzzo: “Toh ba’, magna!” “E que me dai ’l gès?” “No, ba’ è lo sturión! Magna ch’è bono!” ’N’antra ò è montàdo ’nté ’na cerqua a tajà’ le rame pe’ scaldàsse e s’è messo no’ ’nté la rama c’armanìa ’nté Dopo quattro anni di guerra si può anche ricominciare a ridere, no! Allora, tanto per ridere, vi racconto un po’ di questo contadino un po’ arretrato tanto per il dialetto come per il talento ed il casato. Abitava di sotto del fondo nostro. Era preso in giro da diversi amici, che si ritengono più esperti. Allora una volta con la posta, il servizio (pubblico), sarebbe oggi la corriera, questo contadino è andato nella città di Senigallia parlava un po’ (il dialetto) di Roncitelli -, va dallo speziale, c’era una stadera, sarebbe la pesa, vede tutte e due le sfere sullo zero. Ha detto: “Dagli, vedi ch’è già mezzogiorno! Vienimi a dare, alla svelta, la pomata per le parti basse, se no, se perdo la posta, dopo con che cavolo vado a casa a Montalbòdo?” Il farmacista si è messo a ridere, gli ha detto: “Ma quell’orologio lì non va bene, è fermo da ieri!”. Gli ha parlato anche lo speziale nel dialetto suo, così questo contadino si è tranquillizzato. Un’altra volta, nelle feste di Natale, mi pare d’averlo detto, i fidanzati delle giovani chi portava le castagne, arance, chi anche il torrone di cioccolato e anche quello bianco di miele, nocciole e che di fuori ha come un’ostia. La figlia gliene dà un pezzo: “Toh, babbo, mangia!” “E che mi dai, il gesso?” “No, babbo è lo sturione (voleva dire ‘torrone’). Mangia che è buono!” Un’altra volta è salito su una quercia a tagliare i rami per scaldarsi e si è messo non sul ramo che rimaneva sulla quercia, ma s’è sistemato nella parte 331 la cerqua, ma s’è messo ’nté la parte che, dobo segàda, cascàa per tèra. Lu’ segàa e cantàa: “Sci sai del mio partido, parabombombó, parabombombó!” Tutta ’na ò, sega e sega… parabombombó! Per tèra lu’ e la rama! Dobo fiottàa: “Dio…dio..!” Ma pensàde cuànte le ò venìa pïàdo in giro dall’amìghi! ’L giorno che battìa ’l grà’, c’è da sta’ tènti lì la pascùia no! Uno va drendo la stalla, apre la cannella dell’aqua e sciòje tutti i tori. Capiréde! Cìa ’na quinnicìna de vacche, sette otto tori… ’N tra cuélle vacche ’sto contadì’, pôrétto, co’ ’n bastó’ menàa de qua, menàa de là… Tre quattro òmmini non iè la fèva a mannàlli a posto. Dobo, quanno lìa ’rmannàdi tutti a posto sua, l’ha legàdi, po’ ha ditto: “Io non so perché quanno battémo ’l grà’ i tori ’nsógna (volìa di’ “ ’nsumbia”) sempre, non so perché!” Miga ’n se n’è ’rdatto ch’era stàdo ’n dispetto. Troppo ce n’è d’arcontà’ de cuésto chì. ’Na ò, sempre de battidùre, quanno è gidi a magnà’, ci’hà troàdo ’na taràngola ’nté ’l piatto ’n tra i fischiotti: ìa pïàdo l’aqua pe’ còceli ’nté la buga, chìa fatto da per lóra. Chi ’n cìa ’l pozzo, ce n’era ’mbellipò che fèra ’na buga, ’na spèce de pozzétto, in sotta ’mpar de mèdri, e l’aqua la pïàvane lì! No che l’aqua fusse stada inchinàda, perché non c’era né diserbi, né l’atrazzìna, poghi concimi, ma taràngole, vèrmini de tèra, ranocchie, raganelle e cualc’àltra bestiòla che giràa ’l che, dopo segata, cascava per terra. Lui segava e cantava: “Se sei del mio partito, parabombombó, parabombombó!” Tutto in una volta, sega e sega… parabombombó! Per terra lui e il ramo. Dopo si lamentava addolorato: “Dio.. dio…!” Ma pensate quante volte veniva preso in giro dagli amici! Il giorno che trebbiava il grano, c’era da stare attenti lì la bascula, no! Uno va dentro la stalla, apre il rubinetto dell’acqua e scioglie tutti i tori. Capirete! Aveva una quindicina di vacche, sette otto tori… Tra quelle vacche questo contadino, poveretto, con un bastone menava di qua, menava di là… Tre quattro uomini non gliela facevano a mandarli al posto. Dopo, quando li aveva rimessi tutti al posto loro, li ha legati, poi ha detto: “Io non so perché, quando trebbiamo il grano, i tori “’nsógna” – voleva dire “sognano”) sempre… Non so perché!” Mica si era reso conto che era stato un dispetto! Troppo c’è da raccontare di questo qui. Una volta, sempre durante la trebbiatura, quando sono andati a mangiare, hanno trovato una salamandra nel piatto in mezzo alle pipe: per cuocerle aveva preso l’acqua nella buca che avevano fatto da soli. Chi non aveva il pozzo, ce n’erano parecchi che facevano una buca, una specie di pozzetto, profondo un paio di metri, e l’acqua la prendevano lì. Non che l’acqua fosse stata inquinata, perché non c’erano né diserbanti, né l’atrazina, pochi concimi, ma salamandre, vermi di terra, rane, raganelle e qualche altra bestiola, che girava il mondo, cascava lì dentro, per disgrazia… Allora questa 332 mónno cascàa lì drendo, pe’ disgrazia… Allora ’sta taràngola era cotta coi boccolotti: boni, eh! All’anno dobo ’sto contadì vidìa che ni magnàa contenti quei boccolòtti… allora i’hà ditto: “Magnàde trancuìlli che l’aqua ’st’anno l’émo passàda co’ la civiera della stalla!” Pensàde vuà, la civiera è rada: sci ce mettisci dendo’n gatto, passàa listésso! Era fatta pe’ tené’ la paja,’l fié’! ’St’omo era proprio ’mpo’ adrìa, como la martinìcchia del biroccio. Passàdi l’anni, va a domannà’ laóro ’nté ’na fàbbriga, ’ndó fadigàa mi’ marìdo. Va lì, vede al padró’, ié dice: “Oh, chì ce pïàde a cuélli dell’otto?” ’L padró’ i’hà guardàdo, ridènno, i’hà ditto: “No! Chì c’è cuélli del nove!” Ha capìdo che ’l pïàa pe’ ’l culo, è partìdo, como se dice, co’ la coda mezzo alle gambe, brontolànno. È che vulìa lassà’ gì’ a fa’ ’l contadì’. Era i primi tempi che s’era ropèrte ’ste fàbbrighe. Cuélla vo’ li capàa l’operài, i contadì’ volìa lassà’ gi’ tutti la tèra, pe’ gi’’nté ’n laóro più stimàdo. Ma que se credìa? De pïà’ ’l papa pe’ la barba? Sapéde uno como s’è presentàdo, pe’ fàsse pïà’ a laorà’? I’hà ditto: “Que mestiere fai? E lu’ i’hà risposto: “Zappilografo! E n’è ’n mestiere bello? Non ce vôle mango ’n diploma, solo ’n certifigato de forsa ’ntéll’òssi, n’accàda a métte’ ’l nero ’nté ’l biango, basta magnà’, bé’ ’mbicchiero de vì’ e, oltra oltra, anca ’na biùda d’acedèllo”. salamandra era cotta con le pipe: buone eh! L’anno dopo questo contadino vedeva che non le mangiavano contenti quelle pipe… allora gli ha detto: “Mangiate tranquilli perché l’acqua quest’anno l’abbiamo passata con la ‘civiera’ della stalla!” Pensate voi, la civiera ha i vimini radi: se ci mettevi dentro un gatto, ci passava ugualmente! (La civiera) era fatta per tenere la paglia, il fieno! Quest’uomo era proprio indietro come la ‘martinicchia’ del biroccio. Passati gli anni, va a domandare lavoro nella fabbrica, dove lavorava mio marito. Va lì, vede il padrone, gli dice: “Oh, qui prendete quelli dell’otto?” Il padrone lo ha guardato, ridendo, gli ha detto: “No, qui ci sono quelli del nove!” (Il contadino) ha capito che lo prendeva per il culo, è partito, come si dice, con la coda in mezzo alle gambe, brontolando. È che voleva lasciare andare a fare il contadino. Erano i primi tempi che si erano aperte queste fabbriche. Quella volta (i padroni) li sceglievano gli operai; i contadini volevano tutti abbandonare la terra, per andare in un lavoro più stimato. Ma che si credevano, di prendere il papa per la barba? Sapete come uno si è presentato, per farsi assumere al lavoro? (Il padrone) gli ha domandato: “Che mestiere fai?” E lui gli ha risposto: “Zappilografo! E non è un mestiere bello? Non ci vuole nemmeno un diploma, solo un certificato di forza nelle ossa, non è necessario mettere nero su bianco, basta mangiare, bere un bicchiere e, via via anche una bevuta di acetello”. 333 S’è raffinàdo ’mpo’ de nigò. Si è raffinato un po’ di tutto Dobo de la guèra ce semo raffinàdi ’mpo’ tutti, perché Inglesi Polacchi e Merigàni ha cominciàdo a buttà’ i disinfettanti, dicìa ch’era ’l D.D.T. cuélla vo’, prò ha ’mazzàdo tante bestiacce eh, como ciarafìgole e mòsche gnié l’ha fatta a sterminàlle, ma como pidocchi, pulce, cose... sàppere co’ deàolo era, i’hà dàtto giù ’na bella bòtta. ’N ce n’era più tante, i pidocchi semo stadi sensa ’na ventina d’anni anca più. Eh no, anca trent’anni! E dobo è ’rvenùdi fòri adè’. ’Mpo’ d’anni passàdi s’è rinteso a di’ de ’sti pidocchi. Dicìa ch’era ’na ’pidemìa! Me sa che l’avrà portàdi cuélli ch’è venùdi da fòri, dall’èstro. Cuéi barbóni, cuéi pidocchióni l’avrà portàdi, perché scinó qua in Italia era sparidi del tutto i pidocchi. Ma dobo, sai, vai ’nté le stazió’, vai ’nté ’l treno e dobo da uno all’altro, ’nté cuéi dormidòri lì, che adè’ c’enne che dormene per tèra, ’nté cuéi madaràzzi lì, dobo basta che uno ce se ’poggia sul treno pe’ piàsseli. Non è più como ’na vo’, ’na ô ’n se viaggiàa, adè’ se viaggia eh! e dobo te s’attàcca; tocca sta’ ’tenti! Adè’ c’è le gente in giro de tutte le razze, c’è cuélli pulìdi, ma c’è anca cuélli sporchi. Ce n’è cualcù’ che quanno te se métte a sède’ vicino, pôrétti a noà! A d’èsse’ che co’ l’aqua fa como noà prima de la guèra, te lavàsci ’nté ’na sagrema d’aqua quanno ’n c’era gnè ancó’. Dobo pian piano s’è raffinàdo ’mpo’ de nigò. Dopo la guerra ci siamo raffinati un po’ tutti, perché Inglesi Polacchi e Americani hanno cominciato a buttare i disinfettanti; quella volta si diceva che era il D.D.T., però ha ammazzato tante bestiacce eh, come zanzare e mosche non ce l’ha fatta a sterminarle, ma come pidocchi, pulci, cose… zecche come diavolo erano, gli ha dato una bella botta. Non c’erano più tante (bestiacce), siamo stati senza pidocchi per una ventina di anni e anche più. E no, anche trent’anni! E dopo sono ritornati fuori adesso. Qualche anno fa si è sentito di nuovo parlare di questi pidocchi. Dicevano che era un’epidemia! Mi sa che l’avranno portati quelli che sono venuti da fuori, dall’estero. Quei barboni, quei pidocchiosi l’avranno portati, perché se no qua in Italia i pidocchi erano spariti del tutto. Ma dopo, sai, vai nelle stazioni, vai sul treno e dopo (i pidocchi) passano da uno all’altro; in quei dormitori lì, che ci sono adesso dove dormono per terra, in quei materassi lì: dopo basta che uno ci si appoggia sul treno. Non è più come una volta, una volta non si viaggiava, adesso si viaggia, eh! E dopo ti si attaccano (i pidocchi): tocca stare attenti! Adesso in giro c’è gente di tutte le razze, ci sono quelli puliti, ma anche quelli sporchi. Ce n’è qualcuno che, quando ti si mette a sedere vicino, poveretti a noi! Dev’essere che con l’acqua fa come noi prima della guerra, ti lavavi in un goccio d’acqua, quando non c’era niente ancora. Dopo, piano piano, si è raffinato un po’ tutto quanto. 334 Stalla e greppie più moderne: le bestie hanno la tazza per bere. (foto Dino Ferro 1968) Àcheri e ciambòtti Acari e rospi Oggi, quanno scrivìa ho vedùdo ’nté la televisió’ ’n’aspèrta che dicìa: “Bisogna sbàtte’ tutte le madìne linsòli, cupèrte e tappédi fora della finè’o terrazzi, scinó c’è tanti àcheri!” Ma stàdeme a sentì’: prima de nigò ne ’l so que robba è e po’, sci pe’ vedélli ce vôle la lenta che li fa doventà’ più grossi, sci c’è adè, al Oggi, mentre scrivevo, ho visto in televisione un’esperta che diceva: “Tutte le mattine bisogna battere fuori dalla finestra o sui terrazzi, lenzuola, coperte e tappeti, se no ci sono tanti acari!” Ma statemi a sentire: prima di tutto non so che roba sono e poi, per vederli, ci vuole la lente che li fa diventare più grossi. Se ci sono adesso, al tempo mio 335 tempo mia coè che c’era? C’era le càmbore che se vedìa, dalle crepacce dei madù’, le vacche giù la stalla. E po’ ’n s’embiancàa mae. Quanno se gèra a scopà’ ’nté cuèlle crepàcce col becco della scopa de mèllega, se passàa tutte le scorfine dentorno al madó’, perlomeno cuésto se fèra a casa de noà, no’ ’nté tutte le faméje. Non digo che ’n c’era mango ’na pulcia da noà, perché cuélla vo’ pulce e pidocchi era como ’na pidemìa: anca le faméje più polìde tanto ce lìa, perché quanno se gèra a scòla se taccàa, bastàa a sta’ de bango vicino… Prò c’era cuélle faméje, ’ndó c’era ’mbranco de òmeni e monelli, ’na donna o due al massimo que ìa da fa’? Pôretta, cìa da fa’ nigò e gi’ anca giuppe ’l campo. Dicìa uno vicino casa mia: “Quanno camìno ó pe’ la càmbora ’n tra pulce e scìmice per tèra, chiòppa como le cippollàcce giùppe ’l campo!” Ansi, pôretta, a la móje la fèra passà’ be’! Perdéro era coscì ’ndó non c’era le giovane. Sotta ’l letto ce spazzàa ’na ò ’gni sei sette mesi: quanno tiràane fòra la scopa era como ’na ravàra de pólvera. Dicìa uno: “ ’Ste donne, quanno scopa, tira ’na ravàra ’n tra paja pula tèra, che ce vôle lo rastèllo e la pala pe’ carcàlla!” E la buttàa fòra da la finè’. Pare robba da non crédece, ma era coscì: se raschiàa le scale co’ la paletta, quanno venìa su l’òmmini da giù la stalla coi zòcchi pîni de paja, cos’è che c’era? C’erano le camere da dove, attraverso le crepe dei mattoni, si vedevano le vacche sotto nella stalla. E poi non si imbiancavano mai. Quando si andava a scopare in quelle crepe con la punta della scopa di saggina, si passava in tutte le fenditure dintorno al mattone; perlomeno questo si faceva a casa nostra, non in tutte le famiglie. Non dico che da noi non c’era nemmeno una pulce, perché a quel tempo pulci e pidocchi erano come un’epidemia: anche le famiglie più pulite tanto ce li avevano, perché quando si andava a scuola (questi insetti) si attaccavano, bastava stare di banco vicino… Però in quelle famiglie, dove c’era un branco di uomini e monelli, una donna o due al massimo che cosa doveva fare? Poveretta, doveva fare tutto ed andare anche per il campo. Diceva uno vicino casa mia: “Quando cammino sul pavimento della camera tra le pulci e le cimici, per terra scoppietta come le ‘cipollacce’ giù per il campo!” Anzi alla moglie, poveretta, la faceva passare bene! Per davvero era così, dove non c’erano le giovani. Sotto il letto ci si spazzava una volta ogni sei sette mesi: quando tiravano fuori la scopa (da sotto il letto), era come una ‘falciata’ di polvere. Diceva uno: “Queste donne, quando scopano, tirano una ‘falciata’ che, tra paglia pula e terra, ci vuole il rastrello e la pala per caricarla!” E la buttavano fuori dalla finestra. Pare roba da non crederci, ma era così: si raschiavano le scale con la paletta, quando venivano su gli uomini dalla stalla con gli zoccoli 336 Anna Schiavoni la venditrice di semi, fava e lupini durante la fiera del bestiame (foto Dino Ferro 1968). pula, tèra. E quanno se scàllàa ’l forno? Allora scì! Sci pioìa po’ anca mejo, ’ndó passàa… le ’mprónte! Era como giuppe ’l campo la cucina! ’Na donna ce volìa sempre lì a ’rcòje’ su, pe’ véde’ ’mpo’ pulìdo. Allora adè’ me dice dell’acari! Ma sci adè’ c’è i piangìdi tutti lisci, non c’è ’na crepàccia, se làa tutti i giorni, ’nté le case ’n c’è più i trài né filétti che ce se fermàa ’n sacco de pólvera, ragnadéle, ogni du’ tre anni se ’mbiànga, i letti non c’è più i pajarécci de paja o de brance de granturco, non c’è più i trespoli le tàole, c’è le belle réde, se gàmbia anca quanno è ’mpo’ vecchie, i bei pieni di paglia, pula e terra. E quando si scaldava il forno? Allora sì! Se pioveva poi anche meglio, dove passavano… (lasciavano) le impronte! La cucina era come per il campo! Ci voleva una donna sempre lì a raccogliere su, per vedere un po’ pulito. Allora adesso mi parlano degli acari! Ma se adesso ci sono i pavimenti tutti lisci, non c’è una crepa, si lavano tutti i giorni, nelle case non ci sono più i travi né i travetti, dove ci si fermava un sacco di polvere, di ragnatele; ogni due tre anni s’imbianca, nei letti non ci sono più i pagliericci di paglia o di foglie di granturco, non ci sono più i trespoli e le tavole, ci sono le belle reti, 337 madaràzzi de marga, mango più de lana fatti da sé como ce lìa ’na ò io: ’nté ’l madaràzzo ce se dormìa quanno te sposàsci! I guanciali prima era de penne o de crina, lo scarto della robba che n’era bòna né pe’ filà’ né pe’ fa’ le corde. La stóppa era i culi della cànnipa, che ’ncó’ io ce l’ho in giro… Allora con tutte ’ste gran cose moderne e polìde sci c’è l’agheri adè, ’na ò ce se nascondìa anca i ciambòtti, ma ’n se vidìa ’n tra cuèlla monnézza! che si cambiano quando sono un po’ vecchie, i bei materassi di marca, nemmeno più di lana fatti in casa come ce l’avevo una volta io: nel materasso ci si dormiva quando ti sposavi! I guanciali prima erano di penne o di crine, lo scarto della roba che non era buona né per filare, né per fare le corde. La stoppa erano i culi della canapa e ancora ce l’ho in giro… Allora con tutte queste gran cose moderne e pulite se ci sono gli acari adesso, una volta ci si nascondevano anche i rospi, ma non si vedevano tra quella immondizia! ’L vento dei pòrci Il vento dei pòrci Io digo la veredà, da giovena pulce e pidocchi, quanno se gèra a scòla li conoscìa, ma ’n ce dormìa tanto su la testa, ché mamma como s’accorgìa ce dèra ’na mollàda ai capìj coll’ojo ganfì: bruciàa ’mbelpo’ ma toccàa sopportà’, scinó ’ste sorelle me isolàa da lóra, non volìa che toccàa ’l pèttene, non me volìa su le gambe sua a sède’, non me volìa drendo la càmbora. Era ’na disciplina, ma ìa ragió’! Ma ’ndó so’ boccàda da sposa, la casa era ’na parte vecchia e du’ càmbore più nòe; la càmbora mia era ’nté ’l pezzo nòo e non c’era le bestiacce, ma ’nté le càmbore vecchie c’era stado ’n contàdì’ prima de lóra che cìa le scìmice e cuèlle è fadìga ’mbelpo’ a scoàlle. Io cìa Io dico la verità, da giovane pulci e pidocchi, quando si andava a scuola, li conoscevo, ma non ci dormivano tanto sulla testa, perché mamma, come si accorgeva, ci dava una bagnata ai capelli coll’olio canforato: bruciava molto, ma bisognava sopportare, se no le sorelle mi allontanavano da loro, non volevano che toccassi il pettine, non mi volevano a sedere sulle gambe, non mi volevano dentro la camera. Era una disciplina, ma avevano ragione! Ma dove sono entrata da sposa, la casa era una parte vecchia e (aveva) due camere nuove; la camera mia era nella parte nuova e non c’erano le bestiacce, ma nelle camere vecchie c’era stato un contadino prima di loro che aveva le cimici e quelle è molto difficile scovarle. Io avevo paura che mi si attaccasse338 paura che me se taccàa, mango i monelli non ci mannàa mai a dormì’ ’nté i letti de cuell’altri zii e nonni per la paura: è gido be’, non s’è taccàde! È per cuésto io digo che adè non c’è tutte ’ste bestiòle che dìcene. Farà per vènde’ ’ste lane mirìno, cupèrte, guanciàli, copremadaràzzi… e ’sti du’ soldi de pensió’ basterìa a campàcce pe’ non gì’ a surpà’ ’sti bardàsci, che ci’hà da sta’ tènti, a caminà’ sull’urèllo, per gì’ annànse le faméje sua. Le case adè è tutte belle, perché anca i contadì’ ci’hà guasci tutti la segonda casa, benànche cuélla vecchia la tène chiusa, la serve pe’ magazzì’. Le case adè so’ belle e de lusso, non è como cuélla che so’ nada io: c’era ’na cortellàda delle scale che la tenémma in pìa co’ le taòle e le forche. Cuélla vo’ del tremòdo grosso l’ha stronàda tutta, dal muro era staccàda, stèra sospesa. Quanno tiràa cuél vento dei porci, venìa ’sto vento da vèro Montalbò’, era jaccio e s’infiltràa ’nté ’ste crepacce e boccàa anca drendo casa, noà, quanno tiràa forte, gèmma giù da pìa de lo stradèllo, sotta le cerque, coscì fumma salvi, scinó capace fèmma la morte dei sorci, sci badàmma a sta’ lì. Quanno scappàmma giù pe’ ’ste scale, le fèmma tutte curènno per paura che ce venìa i madù addosso. Noà, che fumma più piccoli, ce stradàa cuèlli più granni, ma, sci ro, per la paura nemmeno i monelli ci mandavo a dormire nei letti di quegli altri zii e nonni: è andato bene, non si sono attaccate (quelle bestiacce). E per questo io dico che adesso non ci sono tutte queste bestiole che dicono. Faranno per vendere queste lane merinos, coperte, guanciali, coprimaterassi, ma non ci si possono buttare questi due soldi di pensione: basterebbe camparci per non andare a pesare su questi ragazzi, che già devono stare attenti, a camminare sull’orlo, per tirare innanzi le loro famiglie. Adesso le case sono tutte belle, perché anche i contadini hanno quasi tutti la seconda casa, benché quella vecchia la tengono chiusa, la utilizzano per magazzino. Le case adesso sono belle e di lusso, non sono come quella dove sono nata io: c’era un canterto delle scale che lo tenevamo su con le tavole e le forche. Quella volta il grosso terremoto l’aveva sconcatenata tutta, (il canterto) era staccato dal muro, stava sospeso. Quando tirava quel vento dei porci, quello da verso Montalboddo, era gelido e si infiltrava nelle fenditure ed entrava anche dentro casa, noi, quando tirava forte, andavamo giù in fondo allo ‘stradello’, sotto le querce, così eravamo salvi, se no magari facevamo la morte dei sorci, se continuavamo a stare lì. Quando scappavamo per le scale, le facevamo tutte correndo per paura che ci cadessero addosso i mattoni. Noi, che eravamo più piccoli, ci guidavano quelli più grandi, ma, se ci ripenso, 339 ci’arpènso, mi’ fradèllo, cuèllo che ce curìa cinque anni con me, era sfrenàdo. Sa que fèra? C’era l’olmi fitti ’ntórno alla pozza e, quanno la pozza era pîna, dobo le pioverìe d’autunno armanìa sempre pîna, lu’ giràa ’nté l’urello dell’aqua e volìa che ce gèsse anch’io. Se tenìa co’ ’na ma’ ’ntéll’olmi, ma sci mettìa ’l pìa in fallo gèra drendo. Caperéde como se salvàa: c’era tre mèdri d’aqua! Anca quanno ce fèra ’l gèlo sopra, c’era dell’invernàde che fèra ’l gelo nèrto tre dèda, lu’ se fidàa a gi’ sopra, perché c’era uno che sopra ’l gelo, quanno era nèrto tre dèda, ce giogàa alle bocce, prò ha ûdo ’na gran spauràda: ’n giorno de sole bello ’sto gelo s’è staccàdo tónno tónno e i’ha fatto barcalèva! Ne ’l so como s’è salvàdo ché n’è gido sotta, ma co’ ’sta paura non s’è ’rguarìdo più. Dicìa babbo mia che le paure non se mèdega con gnè. È ’rmàsto sempre pallido, parìa la morte su dritta, non ha pïàdo manco móje, stèra sempre male. Adè mango gela più como ’na ò, fa solo du’ stagió’, la primavera e l’autunno non c’è più. Cuella vo’ c’era i coppi, ogni coppo cìa ’n candelotto de gèlo e noà magnàmma cuél gelo che crochiàa sotta i denti: parìa la fàa brusca! E po’ mettémma la neve ’nté ’mbicchiero e mettémma giù ’l vi’ róscio: era bòno muntubè’! mio fratello, quello che aveva cinque anni più di me, era sfrenato. Sa che cosa faceva? C’erano gli olmi fitti intorno alla pozza e, quando la pozza era piena, dopo le piogge d’autunno rimaneva sempre piena, lui girava sul margine dell’acqua e voleva che ci andassi anch’io. Si teneva con una mano negli olmi, ma se metteva il piede in fallo andava dentro. Capirete come si sarebbe salvato: c’erano tre metri d’acqua! Anche quando ci faceva il gelo sopra, c’erano delle invernate che faceva il gelo spesso tre dita, lui si fidava ad andarci sopra, perché c’era uno che sopra il gelo, quando questo era alto tre dita, ci giocava a bocce, però ha avuto un grande spavento: un giorno di bel sole questo ghiaccio si è staccato tondo tondo e gli ha fatto ‘barcaleva’! Non so come si sia salvato, perché non è andato sotto, ma con quella paura non si è più guarito. Diceva il mio babbo che le paure non si curano con niente. (Quello) è rimasto sempre pallido, pareva la morte in piedi, non ha preso nemmeno moglie, stava sempre male. Adesso nemmeno gela più come una volta; ci sono solo due stagioni, la primavera e l’autunno non ci sono più. Quella volta c’erano i coppi, ogni coppo aveva un candelotto di gelo e noi mangiavamo quel gelo che crocchiava sotto i denti: pareva la fava brusca! E poi mettevamo la neve in un bicchiere e vi versavamo il vino rosso: era molto buono! 340 La fiera del bestiame (foto Dino Ferro 1968). Una delle prime arature con il “Landini”. In primo piano Armando Bolletta. Anno 1950 circa (coll. Gabriele Balducci). 341 Dobo la liberazió’ Dopo la liberazione Gira e rigira como ’na gulla, vô a fenì’ sempre su casa mia, envéce dopo la liberazió’ de Montalbòdo, no mia, io stèra sempre an galèra, giù casa de mi’ marìdo: fadìga a stufo e du’ tajolì’ sens’òvi, fatti anca con ’mpo’ de farina de fàa, che piacìa ai sòceri. Ma coè che ’n piacìa a lóra? Qualche vo’ se magnàa anca ’l pangòtto co’ ’n goccétto d’ojo, fasciòli e cece, padade e càoli. Solo quanno era là de Pasqua, qualche fettarella de lonza per’ù’, fina come ’n’ostia, con du’ scorpìgni che raschiava le donsìlle da quanto era duri. Passàdo ’l fronte, l’Alliàdi ha datto ’mpo’ de lavoro tanto l’ommini che le donne, a rîmpì’ le ghirbe de nafta. ’Mpo’ cìa sollevàdo, pagava be’, ma dobo anche cuélla risorsa lì ha finido, tiràmma avanti a forsa de stenti. A la sera lì, ditto lo rosario, chi gèra a letto, chi noà donne fèmma ’l calsetto e la maja, scinò a filà’. Non c’era né televisió’, né aràdio: gèsci al letto dalla disperazió’ co’ la fame. Se campàa a tessera! Te lassàa tre quintali de gra’ a testa. ’Ndó c’era tanti monelli, gèra mejo ché lóra magnàa meno, ma ’ndó era tutti granni se tiràa la cinta, tanto anca sci cualchidù’ furbo cìa ’l gra’ nascosto dall’anno prima, dobo tanto ’l mulì’ non te ’l podìa macenà’. Dovésci portàtte drìa la tessera, come adè’ la bolletta d’accompagno, e sci te Gira e rigira come una ‘gulla’, vado a finire sempre a casa mia, invece dopo la liberazione di Montalboddo, non mia, io stavo sempre in galera a casa di mio marito: fatica a stufo e due tagliolini senza uova, fatti anche con un po’ di farina di fava, che piacevano tanto ai suoceri. Ma che cosa non piaceva loro? Qualche volta si mangiava anche il pancotto con un goccetto d’olio, fagioli e cece, patate e cavoli. Solo quando era vicino alla Pasqua qualche fettina di lonza per uno, fina come un’ostia, con due crespigni che raschiavano le tonsille da quanto erano duri. Passato il fronte, gli Alleati hanno dato un po’ di lavoro tanto agli uomini che alle donne, per riempire le ghirbe di nafta. Un po’ ci avevano sollevato, ma dopo quella risorsa lì è finita e tiravamo avanti a forza di stenti. La sera, detto il rosario, chi andava a letto, di noi donne chi faceva la calza e la maglia, se no filava. Non c’era la televisione, né la radio: andavi a letto dalla disperazione con la fame. Si campava a tessera. Ti lasciavano tre quintali di grano a testa. Dove c’erano tanti bambini, andava meglio, perché questi mangiavano meno, ma dove erano tutti grandi si tirava la cinghia; anche se qualche furbo aveva il grano nascosto dall’anno precedente, dopo tanto non lo poteva macinare al mulino. Dovevi portarti dietro la tessera, come adesso la bolletta d’accompagno, e se ti beccavano erano cavoli buoni per 342 beccàa era càoli bòni per chi ci’ha ’l diabete: era caòli amari . Anca pe’ comprà’ la dòda, sci c’era vecchi e monelli gèra ’mpo’ be’, ma ’ndó c’era tanta gioventù gèra male, non se podìa fa’ tanta vèrnia. L’ansiani le scarpe, como v’ho ditto, le portàa anca più de dieci anni: sòle sopra sòle, tacchi sopra tacchi, ferétti como cuélli dei cavalli, e l’ommini le bollette grosse tutte pîne le piante e i tacchi. Se caminàa sempre a pìa, all’istàde scalsi e all’inverno un par de zoccàcci: se fèra l’anderma del pìa, e po’ li segài col segaccio ’nté ’n pezzo de legno d’àrbolo che era legno duro. Sopra se coprìa co’ la pezza de qualche artàjo de regadì’ o scinò, sci c’era ’n cappellaccio de feltro vecchio. E co’ cuélli lì anca i monelli ce gèrene a scòla: cuélle era scarpine correttìe! Ma prò, in compenso, tenìa i pìa caldi, ma quanno caminàsci pe’ strada, giù pe’ la piazza, drendo a la chiesa, non passàsci innoservàda con cuéi ferri! Da gióvena in giro ce gèmma sempre: de Pasqua, la Settimana Santa, a Carnoàle le Quarant’ore con quei pupi de carto’ sull’altare: ce gèmma tutte le sere. Prima fèmma un bel biroccio de favì’ per le bestie e po’ via a pìa tre quattro per fameja, fina giù ’l ponte della Massa. Fumma ’mbellepò’ e po’ dobo se ’ncontràmma con cuélle de Loredello: parìa ’na proscisció’. chi ha il diabete: erano cavoli amari! Anche per comprare la dote, se c’erano vecchi e monelli andava un po’ bene, ma dove c’era tanta gioventù andava male, non si poteva fare tanto lusso. Gli anziani, come vi ho detto, le scarpe le portavano anche più di dieci anni: suole sopra suole, tacchi sopra tacchi, ferretti come quelli dei cavalli, e gli uomini le piante e i tacchi pieni di quelle bollette grosse. Si camminava sempre a piedi, all’estate scalzi e all’inverno un paio di zoccolacci: si prendeva l’impronta del piede e poi segavi (gli zoccoli) in un pezzo di legno d’albero, che fosse duro. Sopra si copriva con la pezza di qualche ritaglio di rigatino o se no, se c’era un vecchio cappellaccio di feltro. E con quelli lì anche i monelli ci andavano a scuola: quelle erano scarpine correttive! Però, in compenso, tenevano i piedi caldi, ma quando camminavi per strada, per le vie del paese, dentro la chiesa, non passavi inosservata con quei ferri! Da giovane in giro ci andavamo sempre: di Pasqua, la settimana santa, a Carnevale le Quarant’ore con quei pupi di cartone sull’altare: ci andavamo tutte le sere. Prima caricavamo un bel biroccio di favino per le bestie e poi via a piedi tre quattro per famiglia, fino al ponte della Massa. Eravamo in tante e poi, dopo, ci incontravamo con quelle del Loretello: pareva una processione! 343 Quarant’ore e Teatro sacro nella chiesa collegiata di Santa Croce di Ostra. Anno 1971: è illustrata la parabola del Figliuol prodigo. (foto D. Ubaldi). La ginnàstiga nostra e cuélla d’adè’ La nostra ginnastica e quella di adesso Fumma ’mbèl brango, quanno gèmma in qualche sido, se partìa da cima della contradia fina da pìa. Discorrenno fèsci la strada, non t’acorgìsci; se gèra o a la Messa o a ’na funzió o a ’na festa: adè s’è smorciado nigò. Come mette ’n pìa fòra de casa, la maghina è pronta lì e dobo curre dallo spizziale a comprà’ le medicine per gi’ al logo còmmedo. Eravamo un bel branco, quando andavamo in qualche luogo; si partiva da cima della contrada fino in fondo. Discorrendo facevi la strada, non ti accorgevi; si andava o alla Messa o ad una funzione (religiosa) o ad una festa. Adesso si è spento tutto. Come (uno) mette un piede fuori di casa, la macchina è pronta lì e dopo si corre dallo speziale a comprare le medicine per andare al bagno. Per forza, non si cam344 Per forza, non cammina per niè! Magara adè se sbatte ’nté le discodeghe, ’nté le palestre: ’na ò la ginnastiga nostra era la falce fenàra, falcetta, vanga, sappa e rastello... e como te facìa mantené’ snella! E quanno se fèra i pajàri del fié’, la paja, la mistiga se carcàa certe forcàde de 30 - 40 chili e se buttàa sul pajàro, facenno sette o dieci scalì’, su pe’ lo scaló’ co’ ’sto forcó’ pîno de fié. E lì sci che se fèra i muscoli! A ’rpensàcce, se fèra insieme anca coi vicinadi e parìa ’na festa, perché tante le ò se magnàa i boccolotti col cunìo o la pasta co’ l’ôi: con cuélla fame che c’era in giro! E po’, quanno se fèra cuélle faccenne grosse, se piàa anche ’l bocconcello vèro le 10: ’na fetta de lonza co’ ’na brega de cipolla o ’n capo d’ajo, e se mettìa ’mpo’ de benzina ’nté ’l modóre. mina per niente. Magari adesso si sbattono nelle discoteche, nelle palestre; una volta la nostra ginnastica era la falce fenaia, falce, vanga, zappa e rastrello… e come ti mantenevano snella! E quando si facevano i pagliai del fieno, della paglia, della ‘mistiga’ si caricavano certe forcate di trenta quaranta chili e si buttavano sul pagliaio, facendo sette o dieci scalini, su per lo scalone con questo forcone pieno di fieno. E lì sì che si facevano i muscoli! A ripensarci, si lavorava insieme con i vicini di casa e sembrava una festa, perché tante volte o si mangiavano i ‘boccolotti’ con il coniglio o la pasta con le uova: con quella fame che c’era in giro! E poi, quando si facevano quelle faccende grosse, si prendeva anche un bocconcello verso le dieci: una fetta di lonza con un pezzo di cipolla o un capo d’aglio, e si metteva un po’ di benzina nel motore. Tessera e pa’ Tessera e pane ’Rtorno a parlà’ de ’sti anni cridighi, quanno se compàa a tessera. Presempio lo zucchero sci ’l pïài co’ la tessera, spendìsci ’na cosa giusta, envece a mercàdo nero era ’l doppio de più. La gente ’l pïàa cuéllo che i’aspettàa e po’ non ne ’l consumàa pe’ véndelo a mercado nero. È como i strozzì’ adè’. Cuélli che era a fa’ ’l soldado la tessera non ce lìa quanno ’rvenìa a licenza; toccàa a gì’ sul Comù’, ié fèra ’na carta e lì te passàa Ritorno a parlare di questi anni critici, quando si campava con la tessera. Per esempio, se prendevi lo zucchero con la tessera, spendevi una cosa giusta, invece al mercato nero costava più del doppio. La gente prendeva quello che le spettava e poi non lo consumava per venderlo al mercato nero. Era come gli strozzini di adesso. Quelli che erano a fare il soldato non avevano la tessera quando ritornavano in licenza; toccava andare sul Comune, gli facevano una 345 ’l pa’, la pasta, le cose più ncessarie, ma pagandole, non era a gràdise. Sci vuà vedésta como era nero ’l pa’ e la pasta, como cuéllo integrale adè’. Quanno ’l magnàsci, piccàa ’nté la bocca como i stoppolù’. Dicìa che ’nté la farina ce mischiàa l’ànnima dei gambolù’ del granturco. Perdéro c’era i pezzi de paja ’nté la mollìga; pôretti a chi toccàa magnàllo sempre, perché chi non producìa ’l gra’, toccàa a magnà’ cuéllo, vecchi monelli, ’nté ospedàli: de mejo non c’era! Quanno gèsci a fa’ spesa, ié dèsci ’na pagnotta de pa’ de gra’, per quanto anca cuéllo dei contadì c’era ’mbelpò’ de tridèllo, perché se stacciàa co’ la staccia lasca del granturco, però almanco era fatto de gra’ e lévido de casa. Quanno se sfornàa se sentìa l’odóre da ’n chilometro da lóngo. L’Alleàdi envece anca ’l pa’ ’l fèra co’ la farina de riso: quello n’era como i maccarù’ che se spezzàa, ma era biango e bòno. ’Mpo’ se campàa a tessera, dobo non se troàa mango più co’ la tessera, ’l gra’ più de cuéllo non se podìa macenà’. C’era de cuélli che, pe fa’ la créscia, ’l macenàa col macenétto del caffè, ié dèra ’na stacciàda a cuélle pacche de sémbola: cuéllo scì che te fèra digerì’! ’Mpo’ che c’era la fame, troppe le ò se gèra a letto co’ la trippa vòdia. ’L contadì’ te sfamàsci con frutto, ’n capo d’ùa, ma non te dovìsci fa’ véde’, perché i primi frutti se portàa al padró’. carta e con quella passavano il pane, la pasta, le cose più necessarie, ma pagandole: non erano a gratis. Se voi aveste visto come erano neri la pasta e il pane, come quello integrale di adesso. Quando lo mangiavi piccava nella bocca come i gambi del granturco. Si diceva che nella farina ci mischiavano l’anima dei gambi del granturco. Veramente c’erano pezzi di paglia nella mollica: poveretti quelli che dovevano mangiarlo sempre, perché chi non lo produceva il grano, doveva mangiare quello… vecchi e bambini, negli ospedali: di meglio non c’era! Quando andavi a fare spesa, (al commerciante) gli davi una pagnotta di pane di grano, per quanto anche in quello dei contadini c’era molto ‘tridello’, perché si stacciava con lo staccio largo del granturco, però almeno era fatto con il grano e lievito di casa. Quando si sfornava, si sentiva l’odore a un chilometro di distanza. Gli Alleati, invece, facevano anche il pane con la farina di riso: quello non era come i maccheroni che si spezzavano, ma era bianco e buono.Un po’ si campava a tessera, dopo non si trovava più nemmeno con la tessera; il grano, più di una certa quantità, non si poteva macinare. Alcuni, per fare la crescia, macinavano (il grano) con il macinino del caffè, gli davano una stacciata a quelle due ‘pacche’ di semola: quello sì che ti faceva digerire! Un po’ che c’era la fame, troppe volte si andava a letto con la trippa vuota. Il contadino si sfamava con un frutto, un grappolo d’uva, ma non ti dovevi far vedere, perché i primi frutti si portavano al padrone. 346 Festeggiamenti per il 40° anniversario della fondazione della Società di Mutuo Soccorso di Ostra, i cui soci, fra l’altro, gestivano la lettiga del “pronto soccorso”. Anno 1906 (Collezione Romano Cioci). 347 ’L milide e ’l cariòlo del pronto soccorso Il ‘milite’ e il ‘carriolo’ del pronto soccorso Adè’ ve digo ancó’ ’n’antra cosa. ’Nté cuéi tempi de tessera, quann’era ora de batte, ’l Comù’ mannàa ’na persona, che era chiamàdo “ ’l milide”. Se mettìa da fiango del pesadore e segnàa anca lu’ i coppù’ pîni de gra’. Alla fine tiràa ’l conto e sapìa quanti quintali de gra’ fèra. Sci ’l trattài be’, chiudìa ’n’occhio. ’Na ’olta uno per pogo ne chiudìa tutti e dó! Ié piacìa ’l vi’ e, ’n tra ’l sole la pólvera, magnàdo e bïudo be’, s’è pïàdo ’na bella lèndola, è cascàdo giù pe’ la costa della Massa, ha sbattudo ’nté ’na cerqua, era mezzo morto. Ce s’è ’ncontrado dobo ’mpezzo ’n’ômo che caminàa a pìa, véde ’sto ragazzo cólco per terra, va su a Montalbò’ a ’visà’ lo spedale che c’era uno mezzo morto. Cuélla vo’ non c’era pronti soccorsi: ha preso ’n cariòlo fatto como ’na biga, e sopra c’era ’na barella. L’ha fatta curènno la strada, ma tanto ’n tra a ’rivà’ su cuéllo a pìa, ’n tra questi a venì’ giù è partida più de ’n’ora. Intanto cuéllo aspettàa lì steso per terra che non dèra segni de vida. L’ha carcàdo sulla barella e dobo, finché gèra d’in giù, artenìa, gèra be’, ma di’nsù spégne ’mpo’ su pe’ la costa della Massa! Quanno ènne ’rigàdi da cima, era più morti cuélli che spegnìa che cuéllo che era su la barèlla. Adesso vi dico ancora un’altra cosa. In quei tempi di tessera, quando era ora di trebbiare, il Comune mandava una persona, che era chiamato ‘il milite’. (Questo) si metteva di fianco del pesatore e segnava anche lui le coppe piene di grano. Alla fine tirava il conto e sapeva quanti quintali di grano faceva. Se lo trattavi bene, chiudeva un occhio; una volta uno per poco non li chiudeva tutti e due. Gli piaceva il vino e tra il sole la polvere, mangiato e bevuto bene si è preso una bella sbronza, è cascato giù per la discesa della Massa, ha sbattuto contro una quercia, era mezzo morto. Ci si è incontrato, dopo un pezzo, un uomo che camminava a piedi: vede questo giovanotto sdraiato per terra, va su ad Montalboddo ad avvisare l’ospedale che c’era uno mezzo morto. Quella volta non c’erano i pronti soccorsi: hanno preso un ‘carriolo’, fatto come una biga e sopra c’era una barella. Hanno fatto la strada correndo, ma tanto tra l’arrivare quello su (a Montalboddo) a piedi e questi a venire giù, è passata più di un’ora. Intanto quello aspettava lì steso per terra e non dava segni di vita. L’hanno caricato sulla barella e dopo, finché andava d’in giù, trattenevano (il ‘carriolo’), andava bene, ma d’in su spingi un po’ su per la salita della Massa! Quando sono arrivati in cima, erano più morti quelli che spingevano che quello che stava sulla barella. 348 Cuélla vo’ non c’era tanta assistenza, envéce per como era malmesso, s’è ’rguarìdo. Da quanto ci’avìa l’occhi gonfi, parìa che i’èra venùdi de fòra. Quella volta non c’era tanta assistenza, invece per come era malridotto, quello si è guarito. Da quanto aveva gli occhi gonfi, pareva che (questi) gli fossero usciti fuori. Persi de fede, disviàdi sul laóro Sfiduciati, distolti dal lavoro Arcambiàmo discorso ’n’antra ô, argìmo all’argomento de la guèra. So’ stadi anni duri, se fùmma persi de fede, disviàdi sul laóro, perché anca le fécènne de campagna non se podìa fa’ e fatte a tempo sua, se ’ntardàa nigò. Dobo la vendégna del ’43 pe’ somentà’ a le vacche toccàa a métteje le cupèrte nere e, quanno ’rivàa n’apparecchio se sentìa da lóngo... via sotta le piante! Dobo del ’44: sappà’ ’l gra’, piantà’ ’l granturco: como sentìsci rimóre... via al cupèrto, perché sci vedìa ’n gruppetto de persone, gèréne a bassa còta e te mitrajàa. I linsòli e pagni bianghi non se podìa stende’ né per tèra né fòra. Presémpio: le piaétte dei monèlli, mettèndole per tèra ’l sole le ’mbiangàa e le macchie gèrene via mejo; anca i pagnucci delle donne, cuélla ô toccàa a lavà’ e ricuperà per prossimo mese ché non era ‘usa e getta’, manco ‘intervallo velo’! Allora, arpiàmo a drèdo, anca per falcià’ ’l fiène e fa i pajàri, toccàa a fadigà’ la madìna presto, scinò alla sera ’n tra ’l calà’ del sole. Anca la Cambiamo discorso un’altra volta, ritorniamo all’argomento della guerra. Sono stati anni duri, avevamo perduto la fiducia, eravamo distolti dal lavoro, perché anche le faccende di campagna non si potevano fare e farle a tempo debito, si ritardava tutto quanto. Dopo la vendemmia del ’43, per seminare alle vacche bisognava mettere delle coperte nere e, quando arrivava un apparecchio, si sentiva da lontano… via sotto gli alberi! Dopo, nel ’44, quando si zappava il grano, si piantava il granturco, come sentivi un rumore… via al coperto, perché se vedevano un gruppetto di persone, andavano a bassa quota e ti mitragliavano. Le lenzuola e i panni bianchi non si potevano stendere né per terra, né fuori. Per esempio le ‘piagette’ dei bambini, mettendole per terra, il sole le imbiancava e le macchie andavano via meglio; anche i pannolini delle donne, quella volta toccava lavare e recuperare per il mese successivo, perché non c’era ‘usa e getta’, nemmeno ‘intervallo velo’! Allora, riprendiamo indietro, anche per falciare il fieno e fare i pagliai, bisognava lavorare il mattino presto, se 349 La fienagione: da notare come tutte le donne portino il “sinale” (coll. Giuliano Sellari). mededùra è gida più allóngo. La battidùra anca la fine d’agosto. ’Nté i cavallétti, le barchétte c’èrene tante schegge, toccàa a sta’ ’tènti quanno montàsci su la maghina: sci boccàa ’na scheggia ’nté ’ battidóre, non iéla fèra a ’ngollàlla, la buttàa per aria e sci te chiappàa, sbrozzolósa com’èra, te’mazzàa o te podéa tajà’ la faccia, te podéa ’ccegà’. Non ce volìa montà’ nisciù’, che scinò era ’n mistiere a sciòje’ i còi, piacéa a tutte le donne, ma a cuèi tempi la paura era nùmbero uno. Dobo ’mpo’ de tempo c’è stada la vendégna del ’44. Mi’ marìdo montàa su l’oppi a còje l’ua e ’nté ’n bracciòlo ci’hà troàdo ’na bomba a ma’, no la sera sul tramonto del sole. Anche la mietitura è andata più a lungo. La trebbiatura anche alla fine di agosto. Nei cavalletti, nelle barchette c’erano tante schegge, bisognava stare attenti quando salivi sulla macchina: se entrava una scheggia nel battitore, questo non gliela faceva ad ingoiarla, la buttava per aria e se ti prendeva, ‘sbrozzolosa’ com’era, ti ammazzava o ti poteva tagliare la faccia, ti poteva accecare. Non ci voleva salire nessuno, sennò era una cosa facile sciogliere i covi, piaceva a tutte le donne, ma a quei tempi la paura era al numero uno. Dopo un po’ di tempo c’è stata la vendemmia del ’44. Mio marito saliva sugli oppi a cogliere l’uva e in un ramo ha trovato una bomba a mano, fatta 350 fatta como ’n pennèllo. Anca dobo du’ tre anni s’artroàa ’ste munizzió’. A ’n vicinàdo nostro ié lìa messa ’nté la ’mbrollétta della porta. E fortuna che anca mi’ marìdo sapìa como funsionàa! Dobo guèra quanti n’è morti, ’rmàsti struppi! ’Na parènte fèra da magnà’, un monellétto ìa troàdo ’st’ordigno, ma noà donne non sapémma que era. Ce giogàa, ha scoppiàdo: a lu’ i’hà portàdo via le manine e a la madre ’na scheggia i’hà cavàdo n’occhio. come un pennello. Anche dopo due tre anni si ritrovavano queste munizioni. A un nostro vicino di casa gliel’avevano messa (una bomba) nel saliscendi della porta. E fortuna che anche mio marito sapeva come funzionava! Dopo la guerra quanti ne sono morti, sono rimasti invalidi! Una parente faceva da mangiare, un bambino aveva trovato un ordigno, ma noi donne non sapevamo cosa fosse. (Questo bambino) ci giocava, gli ha scoppiato: a lui ha portato via le manine e alla madre una scheggia le ha cavato un occhio. “Non toccateli!” era l’avvertimento pressante degli anni del dopoguerra. Qui la classe V della Scuola Elementare di Pianello osserva il manifesto posto all’entrata della scuola stessa. Anno 1954 (Coll. Gabriele Balducci). 351 ’N tipo duro Un tipo duro Uno che conoscìa be’ io era stado richiamado, ha lassado la moje prégna e du’ fjòli, un maschio e ’na femmena, e dopo nove mesi era ora che nascìa, ma cìa du’ monelli drento la trippa. Cuélla vo’ se fèra ’nté ’n casa, non se gèra all’ospedale. Pensàde ’mpo’: se gèra a pìa de notte, le luce era tutte smorce, a chiamà’ la mammana; n’è che lìa fèra tanto de fuga: dovìa alsasse, vestisse, pïà’ la valige e via a pìa. Chi la gèra a chiamà’ ié fera strada, mango ’na pila non se podìa portà’, perché ancora non s’era sistemado be’: podìa pensà’ che c’era qualche nemìgo in giro. Per quanno è riàda la mammana era troppo tardi: era morta la madre coi fjòli. Alla madina è gidi su dai carabignéri a fa’ ’n telegramma al Comanno, ’ndó era ’ncó’ ’l marido. Quanno è riàdo lì casa, l’aspettàa fòra la madre, i parenti pe’ consolallo. Lu’, ’nvéce i’hà ditto, alla madre: “Vamme a còce’ tre quattro ovi! Ci’ho ’na fame che ’n ce vedo!” Ansi n’accuràa a faje coraggio: se ’l fèra da per lu’. Quanno ha finido de magnà’, è gido a véde’ la moje, solo sull’arco della porta. Va be’ che in guerra nìa visti a morì’ tanti, ma penso che ’na moje e du’ fjòli era de più! Era ’n tipo duro, l’ chiamavane ‘’l Tartero’. E dopo ’mpo’ ha preso ’n’antra moje, e se lamentàaa anca cuélla: ha fatto n’antri du’ fjòli, maschio e ’na fem- Uno che conoscevo bene era stato richiamato, ha lasciato la moglie incinta e due figli, un maschio e una femmina, e dopo nove mesi era ora del parto, ma lei aveva due bambini dentro la pancia. Quella volta si partoriva in casa, non si andava all’ospedale. Pensate un po’: si andava a piedi di notte, le luci erano tutte spente, a chiamare la levatrice. Non è che lei facesse tanto alla svelta: doveva alzarsi, vestirsi, prendere la valigia e via a piedi. Chi la andava a chiamare le faceva strada, nemmeno una pila si poteva portare, perché ancora non si era sistemato bene: si poteva pensare che in giro ci fosse qualche nemico. Per quando è arrivata la mammana era troppo tardi: era morta la madre con i figli. La mattina sono andati dai carabinieri per fare un telegramma al Comando, dove era ancora il marito. Quando (questo) è arrivato a casa, l’aspettavano fuori la madre, i parenti per consolarlo. Lui, invece, ha detto alla madre: “Vammi a cuocere tre quattro uova! Ho una fame che non ci vedo!” Anzi bisognava fargli coraggio: se lo faceva da solo! Quando ha finito di mangiare, è andato a vedere la moglie, solo sull’arco della porta. Va bene che in guerra ne aveva visti morire tanti, ma penso che la moglie e due figli fossero (qualcosa) di più! Era un tipo duro, lo chiamavano ‘Il Tartaro’. E dopo un po’ ha preso un’altra moglie, e si lamentava anche 352 mena. Prò cuélla vò’ non c’era ’l devorzio, scinó la moje era scappada via. quella: ha fatto altri due figli, maschio e femmina. Però quella volta il divorzio non c’era, se no la moglie sarebbe scappata via. Che vida da sposàda! Che vita da sposata! A quei tempi me parìa de sta’ an galera, no d’èmme’ sposàda: che vida c’ho fatto! Io co’ ’l marido ce stèra a la notte e po’ manco tutta sana perché noà contadì’ d’istàde fadigàmma anca 20 ore su 24; presempio de mededùre s’ardunàa i còi fina le undici, dobo magnàsci ’mboccó’ de pa’, ’na lavàda i pìa ’nté la pozza, gèsci a letto guasci a mezzanotte; ’mpo’ t’arbadurlàsci a fa’ l’amore, alle quattro in pìa ’n ’antra ô a fa’ i balsi del gra’, ché quanno era guazzàdo tenìa mejo. Al giorno mi’ socero ’n te ce facéa fadigà mai insieme, ié parlavi, ’l vedevi ’na volta o due, capace quanno gìsci a magnà’, scinò manco cuélla vo’ ’n se vidìa. Tante le ô lóra lavoràa là ’l campo e noà magari o che vangamma o che fèmma ’n altro laóro: allora ié portàa da magnà’ ai buffaràri là ’l campo e noà magnàmma spartìdi ’mpezzo de pa’ luscì. E po’, como ho ditto ’n’antra ò, l’istade sci c’è ’n pommidòro, sci c’è ’na cipólla, ma n’era contenti manco cuélla che se magnàa perché dicìa che la cipolla bisogna lassàlla sta’ pe’ l’inverno. A quei tempi mi pareva di stare in galera, non di essermi sposata: che vita che ho fatto! Io col marito ci stavo la notte e poi nemmeno tutta intera, perché noi contadini d’estate faticavamo anche venti ore su ventiquattro; per esempio durante la mietitura si radunavano i covi fino alle undici, dopo mangiavi un boccone di pane, una lavata ai piedi nella pozza, andavi a letto quasi a mezzanotte, un po’ perdevi tempo a fare l’amore, alle quattro in piedi un’altra volta a fare i ‘balsi’ di grano, perché (questo), quando era bagnato di guazza, teneva meglio. Durante il giorno mio suocero non ti ci faceva lavorare mai insieme; gli parlavi (al marito), lo vedevi una volta o due, magari quando andavi a mangiare, se no neppure in quel momento si vedeva. Spesso arava là nel campo e noi magari o vangavamo o facevamo un altro lavoro: allora si portava da mangiare ai buffarari là nel campo e noi mangiavamo divisi un pezzo di pane così. E poi, come ho detto un’altra volta, l’estate se c’era un pomodoro, se c’era una cipolla, ma (i suoceri) non erano contenti nemmeno che si mangiasse quella, perché dicevano che la cipolla 353 Eh, allora dobo quanno venìa la notte soli ce se stèra poghe ore insieme. Io quanno cìo cuélla monelletta, la prima che m’è nada, per me è stada ’na gran soddisfazió’: gèra a curà’ le pègore, dicìa sempre: “Signore t’aringràzio...!” C’émma perché anca le pègore, mi’ socera facìa ’l cacio… bisogna lasciarla per l’inverno. E allora dopo, quando veniva la notte, soli ci si stava poche ore insieme. Io quando avevo quella monelletta, la prima che mi è nata, per me è stata una grande soddisfazione: andavo a far pascolare le pecore, dicevo sempre: “Signore ti ringrazio…!” Avevamo anche le pecore, mia suocera faceva il cacio… Nisciùna compasció’… quanta compasció! Nessuna compassione… quanta compassione! Anca quanno era prégna, ’n me se sparagnàa nisciuna fadìga. Pre sempio, quanno s’ardunàa pe’ fa’ ’l barcó’, io più che altro stèra sempre sul biròccio a comedà i còi, anca quanno portàa i monèlli. Pensàde vuà, con cuélla buràccia grossa alsà’ tutto cuèl peso! La prima monelletta ’ncó’ era mezzo tempo, ’l maschietto era sul settimo mese, che sci fusse gida dalla mammàna, m’averìa ditto: “Méttede sùbbedo a riposo scinó te nasce prima del tempo!” Scì, domà’! ’N se gèra ’nvèlle, dovìsci fadigà’ e basta. L’ultima monellétta è nada ’l primo d’agosto, ne ’l so, sarò stada grossa! Era como ’na bótte, eppure nisciuna compasció’. Mi’ sòcera ce nìa ûdi otto, podìa avé compasció’ de me. ’Nvéce me dicìa: “ ’N c’è bisogno de fa’ i monèlli!” Allora scì che m’ha toccàdo a dìje: “Ma vo’ l’éde fatti! Allora anca a me piace avécceli!” Ié Anche quando ero incinta, non mi risparmiavano nessuna fatica. Per esempio, quando si radunava per fare il barcone, io più che altro stavo sempre sul biroccio a sistemare i covi, anche quando portavo i monelli. Pensate voi, con quella pancia grossa alzare tutto quel peso! La prima bambina era ancora a metà tempo, il maschietto era sul settimo mese così che, se fossi andata dalla mammana, mi avrebbe detto: “Mettiti subito a riposo, sennò ti nasce prima del tempo!” Sì, domani! Non si andava in nessun luogo, dovevi faticare e basta. L’ultima figlia è nata il primo agosto; non lo so, sarò stata grossa? Ero come una botte, eppure nessuna compassione. Mia suocera ce ne aveva avuti otto: avrebbe potuto avere compassione di me. Invece mi diceva: “Non c’è bisogno di fare i figli!” Allora sì che ho dovuto dirle: “Ma voi li avete fatti i monelli! Allora anche a me piace averceli!” Gliel’ho detto, calma, un po’ ridendo, 354 l’ho ditto, calma, ’mpo’ ridènno, ma drendo de me era pîna como l’òo. “E per que me so’ maridàda, solo pe’ gambià casa al peggio?” – ma questo no gné l’ho ditto. Per me ’nté la vida c’era e c’è solo fjòli e marìdo, de’ resto que vô de più? Valli a fa’ adè’! A 23 anni ’ncó’ ’n ce nìa nisciù, a 29 ce lìa tutti tre… vôl di’ che me piacìa, no! Quanno vedìa cuélle madre che dentórno ce nìa quattro cinque e uno ’nté la trippa, scì che me ce ’ncantàa a guardalle! Me parìa de véde’, como l’ho ditto ’n’antra ò, cuèlle gallinèlle che fedàa ’n tra le fratte e ’n s’artroàa i’ovi. Dobo 21-22 giorni scappàa a beccà’ co’ ’na coàda de pulcinellétti de drèdo che te fèra compasció’ per com’era premurosa la madre. Guai sci ne chiappai uno, te saltàa addosso, te dèra i sbezigòtti. Quanno de maggio falciài l’erba, fujàa ’na quaja co’ ’na filàda de fjòli appena nadi che ’ncó’ cìa la scorsa dell’òo taccàda. Quante ’olte l’émo viste! Miga ié se la fèra a chiappàlle! Se dice per dittàdo: “È sveltra como ’na quaja!” Alla madina, quanno gèra in amore, ’n tra ’l maschio che chiamàa alla fémmena e lìa che i’arisponnìa… era ’na mùsega! Ma adè’n c’è più, co’ tutti ’sti veleni, né quaje, né calandre, cuèlle bestiole che fèra la coétta per tèra… È sparìdo nigò, ma te fèra ’na compasció’ a vedélle com’era premurose coi fjòli. ma dentro di me ero piena come l’uovo. “ E per che cosa mi sono maritata, solo per cambiare casa al peggio?” – ma questo non gliel’ho detto. Per me nella vita c’erano e ci sono solo figli e marito, del resto che cosa voglio di più? Vai a farli adesso! A 23 anni ancora non ne avevo nessuno (di figli), a 29 ce li avevo tutti e tre…vuol dire che mi piacevano, no! Quando vedevo quelle madri che dintorno ce ne avevano quattro cinque e uno nella pancia, sì che mi ci incantavo a guardarle! Mi pareva di vedere, come ho detto un’altra volta, quelle gallinelle che facevano le uova tra le fratte e non si ritrovavano le uova. Dopo 21-22 giorni scappavano per beccare con una covata di pulcinelletti di dietro e ti faceva compassione per come la madre era premurosa. Guai se ne prendevi uno, (la madre) ti saltava addosso, ti bezzicava. Quando a maggio falciavi l’erba, fuggiva una quaglia con una fila di figli appena nati che ancora avevano il guscio dell’uovo attaccato. Quante volte le abbiamo viste! Mica si riusciva a prenderle! Si dice come motto: “È svelta come una quaglia!” La mattina quando (le quaglie) andavano in amore, tra il maschio che chiamava la femmina e lei che gli rispondeva… era una musica! Ma adesso non ci sono più, con tutti questi veleni, né quaglie, né allodole, quelle bestiole che facevano il piccolo nido per terra… È sparito tutto, ma ti faceva compassione vederle come erano premurose con i figli. 355 L’uccèlli: ’gnuno fa ’l verso sua! Gli uccelli: ognuno fa il suo verso! Tanto più che se parla dell’uccelli, ognuno fa ’l verso sua e tutti parla, sci li stai a sentì’. ’N tra aprile e maggio la cilìcchia o paruccia maschio dice al contadì’: “Piantacéce, piantacéce… tardacì… pudaccì, tardacì.. pudaccì .. tardacì! ”. Ne ’l so qualo serà ’l vero nome, ché quanno l’ha battizzàda io ’ncó’ n’era nada. Can tànno ié l’arcòrda al contadì ’ch’è ora de piantà’ l’ortaggi e legà’ le vide. La femmena canta: “Siccipàpa , siccipapa…” La tórtola nostrale canta: “Cucùza, cucùza, cucùza”. Cuélla rustiga sempre la tórtola fa “cru, cru, cru!” Cuélla del posto fa: “Cruccúuu, cruccúuu”, móèndo la testa da ’n su e da ’n giù, mentre sta chiamando ’l maschio. ’L tordo gentile fa “zic zic zic zic…” ; ’l merlo fischia “zi zi zi zi, chiò, chiò, chiò”. ’L rosciòlo fa “zzzz chioc, chioc, chioc… ’L tordo briscàro “crrr,crrr, crrr”; la calandra fa “chirulì, chirulì,chirulì, su, su, su!” ’L paóne fa “ghèèèèè ghèèèè ghèèèè”; le faraóne la femmena fa “tuttevàcche, tuttevacche, tuttevacche; ’l maschio “chièr, chièr, chièr”; ’l fagiano “ca, ca, ca”, quando è spaéntàdo sgaggia. A lo rusignòlo ié n’è capidada una bella. S’era messo a dormì sopra ’l maiòlo de ’na vida, cuélla parte che fa l’ua, e lì c’è quei ricci che fa ’l viticcchio vicino al capo, che sarìa ’l sampigó’. Questi chì cresce de notte e lo rusignòlo che dormìa Tanto più che si parla degli uccelli, vi dico che ognuno fa il suo verso e tutti parlano, se li stai a sentire. Tra aprile e maggio la cinciallegra o paruccia maschio dice al contadino: Piantacéce, piantacéce… tardacì… pudaccì, tardacì.. pudaccì .. tardacì!”. Così questo uccello è chiamato anche “piantaceci”. Non lo so quale sarà il suo nome vero, perché quando l’hanno battezzata io ancora non ero nata. Cantando glielo ricorda al contadino che è ora di piantare gli ortaggi e di legare le viti. La femmina poi canta così: “Siccipàpa , siccipàpa, siccipàpa”: La tortora canta: “Cucùza, cucùza, cucùza”. Quella africana, sempre tortora, fa “cru, cru, cru!” Quélla del posto fa: “Cruccuuu, cruccuuu”, muovendo la testa su e giù, mentre sta chiamando il maschio. Il bottaccio fa “zic zic zic zic…”; il merlo fischia “zi zi zi zi, chiò, chiò, chiò”. Il tordo sassello fa “zzzz chioc, chioc, chioc… La tordela “crrr, crrr, crrr”; l’allodola fa “chirulì, chirulì, chirulì, su, su, su!” Il pavone fa “ghèèèèè ghèèèè ghèèèè”; delle faraone la femmena fa “tuttevàcche, tuttevàcche, tuttevàcche”; il maschio “chièr, chièr, chièr”; il fagiano “ca, ca, ca”, quando è spaventato grida. All’usignolo gliene è capitata una bella. Si è messo a dormire sopra il tralcio di una vite, quella parte che fa l’uva, e lì ci sono quei ricci che fa il viticcio vicino al grappolo. Questi qui 356 non s’è ’ccòrto, i’hà ’ngainàdo le dèda. Quanno s’è ’ccòrto, s’è messo a cantà’: “Sci n’èra la vide… scì n’era la vide… sci n’era la vide… dormìa finànta giorno chiaro! chiaro! chiaro! La vite … la vite… la vite…. chiaro … chiaro … chiaro”. Envéce le tre notte più jàcce dell’anno, l’ultimi dì de gennàro, la merla, ch’èra tutta bianga, s’è piattàda drendo al camì, ce s’è ’ndormentàda, perché lì ce stèra calla, ma prò s’è ténta tutta: apposta adè’ è tutta nera! È vero? boooh! L’ho’ntéso a di’: a dillo ié la fô, ma a fàvvece créde’ no. Adè stade a sentì’ ’st’altra storia. ’L sapéde perché ’l pettoróscio d’annànse ci ’ha le penne macchiàde? ’L venardì santo, mentre volàa, s’è pusàdo sulla croce del Signore, ha vedùdo i spì’ infilsàdi ’nté la fronte: co’ ’no sbezzigòtto n’ha scarpìdo uno e ’no sguilso de sangue i’hà macchiàdo le penne sotta al becco. Apposta se chiama “pettoróscio”! crescono di notte e l’usignolo che dormiva non si è accorto: gli aveva avvinto le dita. Quando si è accorto, si è messo a cantare: “Sci n’èra la vide… scì n’era la vide… sci n’era la vide… dormìa finànta giorno chiaro! chiaro! chiaro! La vite … la vite… la vite…. chiaro … chiaro … chiaro!” Invece nelle tre notti più fredde dell’anno, gli ultimi giorni di gennaio, la merla, che era tutta bianca, si è nascosta dentro al camino; ci si è addormentata, perché lì ci stava calda, però si è tinta tutta: apposta ora è tutta nera! È vero? boooh! L’ho sentito raccontare: a dirlo gliela faccio, ma a farvici credere, no. Adesso state a sentire quest’altra storia. Lo sapete perché il pettirosso davanti ha le penne macchiate? Il venerdì santo, mentre volava, si è posato sulla croce del Signore, ha visto le spine infilzate sulla fronte: con una bezzicata ha tirato via una spina e uno schizzo di sangue gli ha macchiato le penne sotto il becco. Apposta si chiama “pettirosso”! Quanno me so’ sgravàda la prima vo’ Quando ho partorito la prima volta M’arcordo cuélla sera prima che me nascésse la monella, so’ gida a mógne. I’hò ditto a mi’ socera:- Io ci’hò i dolori!” “Eh, - ha ditto - co’ si dolori lì non nasce adè’ i monelli! Troppo ce vôle più grossi. Ancó vu’ ’n ce séde passàda mai!” “Cojó!, già Mi ricordo quella sera prima che mi nascesse la monella, sono andata a mungere. Le ho detto a mia suocera: “Io ho i dolori!” “Eh, - ha detto – con questi dolori non nascono adesso i figli! Troppo ci vogliono più grossi. Ancora voi non ci siete passata mai!” 357 comensàa a èsse’ grossi abbastanza” – pensào tra de me. E dopo cuélla ’olta mìa ditto cuélla pôra mamma: “Per caridà, quanno stai male fàmmelo sapé’ sa, ce vojo èsse’ anch’io assìste’ al pàrtolo!” Allora dicìa mi’ socera: “È le ùnnici, ’ndó vai ormai stasera!” Cuélla vo’ ’n c’era ’l talefano, ’n c’era gnè. “Eh, domadìna ’l faremo sapé’ a la madre!” Prò i dolori incominciàa a pïàmme sempre ’mpo’ più grossi ’mpo’ più grossi, ma io ’n sapìa quant’era grossi pe’ fa’ nàsce’ ’n fjòlo. Va be’, so’ gida a letto ma cuélla notte n’ho dormido. Dopo, vèro le cinque de la madìna, non ne podéo più, allora mi’ socera ha ditto al fjòlo, cuéllo piccolo: “Va’ a chiamà’ la madre!” È gido a chiamà’ cuélla pôra mamma, è venuda giù a pìa da lassù, pôretta!, . anca sensa magnà’ e dobo ha pïàdo ’na fetta de pa’ lì casa. Ha ditto: “Fija mia, - era vèro le otto e mezzo le nove - ma questi n’è dolori da fa’ nàsce’ ’n fjòlo!”. Anca lìa me l’ha ditto. Cojó! A tribbolà’ ’mpo’ fino a la sera, tutta la notte dopo. La madina dobo mìa pïàdo più forte, non ne podéo più. Allora è gidi a chiamà’ la levadrice. È ’nuda giù cuélla pôra Cardina. Ha ditto: “Fija mia, chì ancó’ c’è ’mpo’ de tempo”. Io, capirai, già era stufa, ’n ne podéo più, era du’ notti e du’ giorni che stàa a tribbolà’, ma cuélla vo’ ’n se gèra all’ospedale pe’ falla alla “Cojó’, già incominciano ad essere grossi abbastanza” – pensavo tra me. E dopo, quella volta, mi aveva detto quella povera mamma: “Per carità, quando stai male, fammelo sapere, sa; ci voglio essere anch’io ad assistere al parto!” Allora diceva mia suocera: “Sono le undici, dove vai ormai stasera!” Quella volta non c’era il telefono, non c’era niente. “Eh, domattina lo faremo sapere alla madre!” Però i dolori incominciavano a prendermi sempre un po’ più grossi, un po’ più grossi, ma io non sapevo quanto erano grossi per far nascere un figlio. Va bene, sono andata a letto, ma quella notte non ho dormito. Dopo, verso le cinque della mattina, non ne potevo più, allora mia suocera ha detto al figlio, quello piccolo: “Vai a chiamare la madre!” È andato a chiamare quella povera mamma, è venuta giù a piedi da lassù, poveretta, anche senza mangiare e dopo ha preso una fetta di pane a casa. Ha detto: “Figlia mia, - era verso le otto e mezzo le nove – ma questi non sono dolori da far nascere un figlio!” Anche lei me l’ha detto. Cojó’! A tribolare un po’ fino alla sera, tutta la notte dopo. La mattina dopo (i dolori) mi avevano preso più forte, non ne potevo più. Allora sono andati a chiamare la levatrice. È venuta giù quella povera Cardina. Ha detto: “Figlia mia, qui ancora c’è un po’ di tempo”. Io, capirai, già ero stufa, non ne potevo più, erano due notti e due giorni che stavo a tribolare, ma quella volta non si andava all’ospedale per farlo alla svelta il monello, sa! Dovevi star lì 358 sveltra ’l monello, sa! Dovìsci sta’ lì finché ’n te venìa propio grossi grossi. E dobo è ’rnuda giù dobo mezzogiorno. “Fija mia, - ha ditto me sa che passi anca stanotte”. Era de sabbedo, e va be’, è passàda anca la notte dobo. Arvène giù domenniga madìna. Ha ditto: “Oggi me sa che nasce!” La pôra Cardina, quanno vidìa che n’èra ora, dicìa: “Vo’ ma’ - dicìa a mi’ socera preparade cualcò’ da magnà’. Anca a mezzanotte la levadrice magna. Tutte l’ore magna la levadrice!”. E po’, quanno non ié gèra più, sa que facìa? ’L mettìa ’nté ’n pezzo de... coso come ’n tovajòlo: lì c’invoricchiàa, sci ié dèsci l’ôi, cuél che i dèsci, cacciàa giù pe’ lo stommigo, lìa portàa via nigò cuél che i dèsci, ’l lardo, cuél che i dèsci, pïàa nigò. Allora mi’ socera i’hà datto ’mpo’ d’ôi, lìa ha preso l’ôi e po’ ha ditto: “Ci’arvedémo vèro mezzogiorno!” È venùda giù vèro mezzogiorno, po’ ’sta monella è nada ma, sci sapìa che se dovéa tribbolà’ luscì... Ho ditto: “Non fô più ’n fjòlo manco… per caridà! a tribbolà cuscì!” finché non ti venivano proprio grossi grossi. E dopo (la mammana) è ritornata dopo mezzogiorno. “Figlia mia – ha detto – mi sa che passi anche stanotte!” Era di sabato, e va bene: è passata anche la notte dopo. (La levatrice) ritorna la domenica mattina. Ha detto: “Oggi mi sa che nasce!” La povera Cardina, quando vedeva che non era ora, diceva: “Voi, mamma – diceva a mia suocera – preparate qualcosa da mangiare. Anche a mezzanotte la levatrice mangia. Tutte le ore mangia la levatrice”. E poi, quando non le andava più, sa che cosa faceva? Lo metteva in un pezzo di… còso come un tovagliolo: lì ce lo avvolgeva, se le davi le uova, quello che gli davi, cacciava giù sopra lo stomaco, lei portava via tutto quanto quello che le davi: il lardo, quello che le davi, prendeva tutto quanto. Allora mia suocera le ha dato un po’ di uova, lei ha preso le uova e poi ha detto: “Ci rivedremo verso mezzogiorno!” È venuta giù verso mezzogiorno, poi questa monella è nata ma, se sapevo che si doveva tribolare così… Ho detto: “Non faccio un figlio manco… per carità! a tribolare così!” Finìda la dòja, artórna la vòja Finita la doglia, ritorna la voglia Oh, finìda la dòja, artórna la vòja! N’era manco dobo due anni e mezzo già è arnàdo ’n’antro fjòlo, ’l maschio. I fjòli me piacéa ’mbelpo’, n’ho fatti tre, ma sci no’ m’ero ’mmalàda, capa- Oh, finita la doglia, ritorna la voglia. Non erano passati nemmeno due anni e mezzo, già è nato un altro figlio, il maschio. Mi piacevano molto i figli, ne ho fatti tre, ma se non mi fossi amma359 ce ne fèra n’antri po’, perché quanno ci’hai le dòje ce se pensa, ma quanno è passado ’l dolore ’n ce se pensa più. Coscì è venùdo’l maschio. Pensàde quanto i soceri mia tenìa a conto: le mammàne toccàa a pagàlle, ’nvece i dottori no’ se pagàa, cuélla ’olta, dopo passada la guèra. E allora noà c’émma ’l dottore del Selétto, se chiama Sabaài, era ’l dottore nostro. Dicéa mi’ socero: “Gide a fàvve véde’ dal dottore, no da la mammàna!” Io, envéce, quanno gèra a Montalbò’, tante le ô a la Messa, ce gèra de rado, ma, quanno ce gèra, la mammàna m’avìa visto che cìo la trippa grossa, no. M’ha ditto: “Fija, quanno l’hai da fa’?” E io i’ho ditto: “Non ne ’l so sci a ottobre o noèmbre, de preciso non ne ’l so”. “E va be’! Dobo vène a fa’ ’na visida!” Ma io non gné podéo di’ che mi’ sòcero non vôle, perché c’è da pagà’. A lìa toccàa a pagàlla. E allora dobo è passàda luscì. Quanno stèra pe’ nàsce’ ’sto monèllo, ènne gidi a chiamà’ ’l dottore, ha fatto ’ni ’l dottore. Va be’ ch’io ho tribbolàdo pogo sa, ch’era ’l segondo ma... È venùdo ’sto dottore, ha ditto: “Adè’ ’l fàmo nàsce’!” Era le dieci e l’ha fatto nàsce’ ”. Capirai, è ’nudo oltra lu’, lu’ stèra là ’l Selétto, noà stèmma giuppe la buga. I soldi n’ha preso gnè, i’hà datto cuscì cualcò’ de rigàlo, non so sci i’hà datto quattro o cinqu’ovi e lu’ segnàa ’nté la cosa, ’nté ’l registro, che avéa assistido a ’n parto. E po’ in quan- lata, magari ne facevo ancora altri, perché quando tu hai le doglie ci si pensa, ma quando è passato il dolore, non ci si pensa più. Così è venuto il maschio. Pensate quanto i miei suoceri tenevano a conto: le levatrici bisognava pagarle, invece i dottori non si pagavano, quella volta, nel dopoguerra. E allora noi avevamo il dottore del Seletto, si chiamava Sabani, era il dottore nostro. Diceva mio suocero: “Andate a farvi vedere dal dottore, non dalla mammana!” Io, invece, quando andavo a Montalboddo, tante le volte alla Messa, ci andavo di rado ma, quando ci andavo, la mammana mi aveva visto che avevo la pancia grossa, no. Mi ha detto: “Figlia, quando lo devi fare?” E io le ho detto: “Non lo so se a ottobre o novembre; di preciso non lo so”. “Va bene! Dopo vieni a fare una visita!” “Ma io non le potevo dire che mio suocero non voleva, perché c’era da pagare. A lei toccava pagarla. E allora dopo è passata così. Quando stava per nascere questo monello, sono andati a chiamare il dottore, hanno fatto venire il dottore. Va bene che io ho tribolato poco sa, perché era il secondo, ma… È venuto questo dottore, ha detto: “Adesso lo facciamo nascere!” Erano le dieci e l’ha fatto nascere. Capirai, è venuto lui, che stava al Seletto, noi stavamo giù nella buca. Di soldi non ha preso niente, gli hanno dato così qualcosa di regalo, non so se gli hanno dato quattro cinque uova e lui segnava, nel registro, che aveva assistito a un parto. E poi in quanto a quello era bravo sa; sarà 360 to a cuéllo era brào sa; sarà stado ’mpo’ svéltro, ma era brào. Noaltri ce gèmma d’accordo, me venìa anca a fa’ le punture lì ca’ dobo quanno me so’ ’mmalada, pe’ non fàmme gi’ a l’ospedale. Me venìa a fa’ le punture ’ntevenóse lì casa, perché io n’ero più in grado, momenti, da gi’ oltra là a caminà’, perché toccàa a gi’ suppe i campi, poi ci’avìa tre monelli: que facéi? Li lasciài a casa da per lora? Toccàa portàlli drèdo. Cuélla piccolina, sedici mesi, me toccàa a pïàlla su i bracci, a portàlla drèdo, quanno ero ’rivada su, ero morta. Podéo fa’ la puntura dobo? Allora, pôretto, me le venià a fa’ lì casa: quant’era brào! stato un po’ svelto, ma era bravo. Noi ci andavamo d’accordo, mi veniva anche a fare le iniezioni lì casa, quando mi sono ammalata, per non farmi andare all’ospedale. Mi veniva a fare le iniezioni endovenose lì casa, perché io non ero più in grado, quasi, di andare là (al Seletto) camminando, perché toccava camminare per i campi, poi avevo tre monelli: che facevi? Li lasciavi a casa da soli? Toccava portarli dietro. Quella piccolina, sedici mesi, mi toccava prenderla in braccio e portarla dietro; quando ero arrivata su, ero morta. Potevo fare l’iniezione dopo? Allora, poveretto, me le veniva a fare lì casa: quanto era bravo! Bimbo che dorme all’aperto. Foto anno 1949. 361 Laòri e cansóni alla buffaràra Lavori e stornelli ‘alla buffarara’ Quanno che me so’ sposàda, como v’ho ditto, la faméja ’ndó’ so’ boccàda era ’mpo’ numberósa, co’ otto fjòli. Cuélla vo’, fumma nove persone, dieci col nonno e po’ dobo lì ha comènsàdo a gi’ avanti ’mpo’ peggio de quanno stèra a casa mia. Quanno era l’inverno toccàa alsàsse a la madìna presto a filà’ giù la stalla col filarìno, perché co’ la conòcchia io non sapéo fa’, e mi sòcera tesséa al telàro la dòda pe’ le fije, eh avéa quattro fémmene! Lì toccàa a fadigà’ a tutti. I buffaràri güèrnàa e po’ se gèra su vèro le nove, se mettìa su fasciòli, cece, segondo como c’era, o càoli a colazió’, e po’ dobo giuppe ’l campo: oggi a fa’ la cannafoja de ’sti tempi, oppure a gi’ a fa’ ’n fascio d’erba, a pulì i fossi e po’ dobo quann’era la doménniga se gèra a la Messa. Se venìa a casa, se fèra du’ maccarù’, cuélli sens’ovi, e po’ de ’sti tempi, sci c’era ’n pezzo de codiga del porco perché i presciutti li vendìa, le salcicce se pïàa mezza però quann’era de domenniga, ’nté i giorni de laóro la robba de maiàle ’n se magnàa. La sera a cena, de ’sti tempi, c’era du’ scorpìgni e c’era ’n ceppo d’ansalàda nera che adè’ se dà ai polli perché ’n se magna: a cuéi tempi se magnàa cuéll’ansalàda nera, che po’ ce n’era poga perché ’n c’era né l’acqua, né ’l tempo da piantàlla. Sicché cuscì se gèra avanti, se finìa Quando mi sono sposata, come vi ho detto, la famiglia dove sono entrata era un po’ numerosa, con otto figli. Quella volta eravamo in nove, dieci col nonno e poi dopo ha cominciato ad andare avanti un po’ peggio di quando stavo a casa mia. Quando era l’inverno toccava alzarsi la mattina presto per filare con il ‘filarino’, perché con la conocchia io non sapevo fare, e mia suocera tesseva al telaio la dote per le figlie. Eh, aveva quattro femmine! Lì bisognava lavorare tutti. I buffarari governavano e poi si andava su (in cucina) verso le nove; si mettevano su fagioli, cece, secondo come c’era, o cavoli a colazione, e poi dopo per il campo: oggi a fare la cannafoglia, oppure andare a fare un fascio d’erba, a pulire i fossi e poi, quando era domenica, si andava alla Messa. Si veniva a casa, si facevano i maccheroni, quelli senza uova, e poi, di questi tempi, se c’era un pezzo di cotica di porco perché i prosciutti li vendevano, delle salsicce se ne prendeva mezza per uno, però quando era di domenica: nei giorni di lavoro la roba di maiale non si mangiava. La sera a cena, di questi tempi, c’erano due crespigni e c’era un ceppo d’insalata nera che adesso si dà ai polli, perché non si mangia: a quei tempi si mangiava quell’insalata nera, che poi ce n’era poca, perché non c’era né l’acqua, né il tempo di piantarla. Sicché così si andava avanti, si finiva la serata. Si andava a letto un po’ tardi, mangiavi un po’ poco, perché a quei tempi si campava 362 la seràda. Se gèra a letto ’mpo’ tardi, magnài ’mpo’ pogo perché a cuéi tempi se campàa co’ la tessera. Dobo de la guèra s’è stadi ’mpo’ male ’mpo’ de tempo e cuscì se passàa. Adè, prò, ve vojo parlà’ ’mpo’ de’ buffarari. D’istàde s’alsàa a mezzanotte a güernà’ le bestie e po’ dobo chiamàa a quel’àltri, s’attaccàa le bestie pe’ gi’ a laórà’. Allora quanno che s’alsàa ’l buffaràro, pogo dobo toccàa alsasse le donne, se preparàa la colazió’ e po’ dobo se gèra giuppe ’l campo, quanno che ancó’ era scuro, vèro le quattro, a vangà’ i filù’ oppure a gi’ a fa’ la foja pe’ le bestie scinónca a gi’ a fa’ ’l granturchetto, a capezzà’ ’n fascio d’erba co’ la falcétta, sempre pe’ le bestie, a careggià’ l’acqua che c’era da careggiàlla pe’ le bestie, per mezzo chilometro co’ le callaròle, anca quaranta cinquanta callaròle per madìna che c’era ’na quindicina de bestie. Toccàa da’ da be’ a tutte co’ la caldaròla! E lì i buffarari se alsàa, güernàa le bestie e po’ mettìa sotta. Si dicìa cuscì a cuéi tempi: o le vacche o i boi cuél che è! Ce volìa pe’ ’l pertigaro quattro bestie, du’ pari, anca tre pari, quanno la tèra era dura. E lì dobo uno tenìa ’l pertigàro e quél’altro toccàa la stroppa. A volte toccàa anca a gi’ una a portàlla avanti ché ’ste bestie, cuélle ch’era vecchie, pôre bestie,’l sapìa che una dovìa sta’ da sólco una da mà’, ma cuélle ch’era giovane no’ stàa a sentì’ o che se fermàa, che se puntàa: toccàa a tiràlla avanti co’ le con la tessera. Dopo la guerra si è stati un po’ male per un po’ di tempo e così passava. Adesso, però, vi voglio parlare un po’ dei ‘buffarari’. D’estate (il buffararo) si alzava a mezzanotte a governare le bestie e poi dopo chiamava gli altri e si aggiogavano le bestie per andare ad arare. Allora quando si alzava il buffararo, poco dopo le donne dovevano alzarsi, si preparava la colazione e poi dopo si andava per il campo, quando ancora era buio, verso le quattro, a vangare i filari oppure andare a fare la foglia per le bestie oppure andare a tagliare il granturchino, a rimediare un fascio d’erba con la falce, sempre per le bestie, a trasportare l’acqua, che bisognava trasportarla per le bestie: mezzo chilometro con le calderelle, anche quaranta cinquanta calderelle per mattina, perché c’erano una quindicina di bestie. Bisognava dare da bere a tutte con la calderella. E lì, come vi ho detto, i buffarari si alzavano, governavano le bestie e poi mettevano sotto (le aggiogavano e andavano ad arare). Si diceva così a quei tempi: o le vacche o i buoi, quello che era! Ci volevano per (tirare) l’aratro quattro bestie, due paia, anche tre paia, quando la terra era dura. E lì, dopo, uno teneva l’aratro e quell’altro ‘toccava la stroppa’. A volte bisognava anche andare a portarla avanti qualcuna, perché queste bestie, quelle che erano vecchie, povere bestie, lo sapevano che una doveva stare nel solco, una ‘da mano’, ma quelle giovani non stavano a sentire: o si fermavano o si ‘puntavano’: bisognava tirarle avanti 363 corde, sicché certe ’olte ce volìa in tre. Scalsi, giuppe pe’ cuélle stóppole, era chiamàde ‘stoppole’ perché se falciàa’l gra’ co’ la falce fenàra, era anca bell’aggùzze, gìva be’: c’era i pìa sotta parìa le solette delle scarpe. De notte o che piccàa ’nté i pìa, o che s’inciampàa e lì toccàa fa’ como Dio voléa. E po’ dobo, quanno che era vèro le otto, se vidìa che ’l sole era alto e ancó’ la vergàra non portàa la colazió’. Sci portàa oltra la colazió de cuéi tempi c’era ’n pommidòro, ’na fettarella de lonza che sci la mettei controluce se vedéa la luna o ’l sole, che già s’era leàdo. E lì se magnàa a colazió’: ’n pezzo de pa’, a volte quann’era de cuéi tempi n’è che c’era tanta robba eh!, c’era tante le ô ’na frittàda, ma scinò a l’invèrno no eh! L’òi se vendìa pe’ comprà’ du’ sardèlle tante vo’ oppure pe’ fa’ le spese de casa perché quanno c’è tanti fjòli luscì co’ fai? Va be’ che se gìa via scalsi anca d’inverno, ma tanto i fjòli ce ne volìa sempre ’mpo’ pe’ le spese de casa. ’N c’era da pagà’ la luce, ’n c’era da pagà’ ’l telefono, ’n c’era da pagà’ ’l coso de la televisió’, prò pe’ tirà’ avanti cuélla famijòla ce voléa. Dobo, arpìo la parola de prima, quanno che se lavoràa, delle vo’ quanno che c’era bonumóre se facéa anca ’na cantadèlla. Allora adè’ ve fô sentì’ a cuéi tempi como se cantàa alla buffaràra1: 1 con le corde, cosicché a volte ci volevano tre (persone). Scalzi per quelle stoppie; erano chiamate ‘stoppie’ perché si falciava il grano con la falce fenaia. Erano anche belle aguzze (le stoppie), andava bene! C’erano i piedi sotto che parevano le suole delle scarpe. Di notte o che piccavano nei piedi o che si inciampava e lì toccava fare come Dio voleva. E poi, dopo, quando era verso le otto, si vedeva che il sole era alto e ancora la vergara non portava la colazione. Se portava oltre la colazione di quei tempi c’era un pomodoro, una fettina di lonza che, se la mettevi controluce, si vedeva la luna o il sole, che già s’era levato. E lì si mangiava a colazione: un pezzo di pane, a volte quando era di quei tempi non è che c’era tanta roba, eh! C’era talvolta una frittata, ma se no all’inverno no, eh! Le uova si vendevano per comprare due sardine oppure per fare le spese di casa, perché quando ci sono tanti figli così, cosa fai? Va bene che si andava scalzi anche d’inverno, ma tanto per i figli ce ne voleva sempre un po’ per le spese di casa. Non c’era da pagare la luce, non c’era da pagare il telefono, non c’era da pagare il còso (canone) della televisione, però per tirare avanti quella famigliòla ci voleva. Dopo, riprendo la parola di prima, quando si lavorava, a volte quando c’era il buonumore si faceva anche una cantatina. Allora adesso vi faccio sentire come si cantava a quei tempi alla buffarara: Vedere la trascrizione musicale a p. 488 364 Vojo mandà’’n saludo là quel campo dove laóra quel caro befùlco. (Va giù favorì Galantì) dove laóra quel caro befùlco.(va giù..) Vojo mandà’’n saludo là quel campo dove laóra quel caro befùlco. (Va giù favorì Galantì) dove laóra quel caro befùlco./ (va giù..) Caro befùlco manda giù ’sti buòi, me sono innamoràda dell’arte tuoi (bis) (schiocca la lingua: Favorì Galantì ancora sciocco). Caro befùlco manda giù ’sti buòi me sono innamoràda dell’arte tuoi (bis) (schiocca la lingua: Favorì Galantì ancora sciocco). Caro befulco manda giù ’ste vacche mi sono innamoràda del tuo bell’arte (bis) (va giù Falcó) Caro befulco manda giù ’ste vacche mi sono innamoràda del tuo bell’arte (bis) / (va giù Falcó) Adè ne penso’n’antra: Adesso ne penso un’altra: O Dio del cielo o Dio del paradiso perché n’avéde fatto lo mondo paro (bis). O Dio del cielo o Dio del paradiso perché n’avéde fatto lo mondo paro (bis). Avéde fatto ’l povero e lo ricco chi avéde dato ’l dolce a chi l’amàro (va’ giù Favorì Galantì..) Avéde fatto ’l povero e lo ricco chi avéde dato ’l dolce a chi l’amàro. ( va’ giù Favorì Galantì..) A chi avede dato ’l dolce a chi l’amàro. e a me m’avéde dàtto propio veléno (bis) (Schiocco di lingua: Va’ giù...!) A chi avede dato ’l dolce a chi l’amàro e a me m’avéde dàtto propio veléno (bis) / (Schiocco di lingua: Va’ giù...!) A chi avede dàtto ’l dolce a chi l’amaro forte a me m’avéde dàtto ’l veléno a morte (bis) (va giù va...!) A chi avede dàtto ’l dolce a chi l’amaro forte a me m’avéde dàtto ’l veléno a morte (bis) (va giù va...!) O brutta vecchia pòsci cascà’ morta perché non mandi fìjeda a pïà l’acqua (bis) (va giù!) O brutta vecchia pòsci cascà’ morta perché non mandi fìjeda a pïà l’acqua (bis). (va giù!) Perché non mandi fìijeda a pïà l’acqua giù la fontana l’amante l’aspetta (bis) Perché non mandi fìijeda a pïà l’acqua giù la fontana l’amante l’aspetta (bis) 365 Giù la fontana l’amante l’aspetta da li sospiri ha ’ntrobbidàdo l’acqua (bis) (va’ giù d’accòrdo! schiocco di lingua) Giù la fontana l’amante l’aspetta da li sospiri ha ’ntrobbidàdo l’acqua (bis) (va’ giù d’accòrdo! schiocco di lingua) Giù la fontàna l’amante li vuole da li sospiri ha ’ntrobbidàdo il sole (bis). Giù la fontàna l’amante li vuole da li sospiri ha ’ntrobbidàdo il sole (bis). Aratura con un paio di buoi maremmmani. Foto anni ’40 (coll. Luigi Vittorio Ferraris). Sull’olmi: vòja de mamma e de cansóni Sugli olmi: voglia di mamma e di stornelli Le donne sci gèra a fa’ la foja, pïàa la crinèlla, co’ la scala montàa su cima de cuéll’olmi alti, a volte c’era anca i ragani, perché stèra coperti tra le foje, stèra freschi. A me ’na vo’ me n’è saltàdo uno su le spalle, me so’ ’ntesa ’n chiòppo: mamma mia sci ci’arpènso adè’! Cuélla vo’ ancó’ Se le donne andavano a fare la foglia, prendevano la ‘crinella’, con la scala salivano su in cima a quegli olmi alti; a volte c’erano anche i ragani, perché stavano coperti tra le foglie, stavano freschi. A me una volta me n’è saltato uno sulle spalle, ho sentito un botto: mamma mia se ci ripenso adesso! Quella volta 366 ’n sapéo co’ podìa èsse’ stàdo. Scì te moscàa ’no ràgano, s’èra adè’ se morìa! Allora quanno era sull’olmo, tante le ô avrìa pianto, perché da lóngo da la famìja, da lóngo da babbo e mamma, non è como adè’ che c’è le maghine e va a tròà’ i genidóri quanno ié pare, cuélla vo’ se partìa a pìa, io cìo da fa’ sei sette chilomedri a pìa. Ade’ non ve digo, quanno ancó’ ero sola gìa be’, piàa la biscighétta, ma quanno che ci’avéo i fjòli dobo: uno ce l’avéo per la ma’, uno ’nté la trippa che ’l portàa e n’antro sulle spalle. Sci passàa a traèrso pei campi, fèsci le scortadóre, scinó era ’na decina de’ chilomedri, prò se troàa le maése, dovìsci saltà’ i fossi, spì che te piccàa ’nté i pìa, l’ortìga che te moscàa, ’gni tanto vedéi ’na biscia, ’gni tanto ’no ràgano, lucertole, ciambòtti, tutte le bestie che c’è giuppe la campagna, tutti l’animalétti: cuélla vo’ ’n c’era i veleni eh! Cuélla vo’ non morìa l’animali: ’gni passo ne vedéi de du’ tre qualidà. Pensàde ’mpo’ a fa’ tutti cuéi chilomedri a pìa, con cuél callo, quann’era l’istàde che se gèra a bàtte’ là casa de mamma mia che me piacìa tanto. Ce se gèra ’na vo’ ’gni tre quattro mesi a véde’ cuéi pôri genidóri che n’ha fatte tante pe’ nuà. La voja d’arvedélli era tanta e se supràa nigò. Anca quanno gìsci ’nté qualche altro posto como a la Messa, a ’na festa, portàsci drìa anca i monellétti. ancora non sapevo cosa sarebbe potuto accadere. Se ti mordeva un ragano, se era adesso si moriva! Allora, quando eri sull’olmo, qualche volta avresti pianto, perché lontana dalla famiglia, lontana da babbo e mamma; non era come adesso che ci sono le macchine e vai a trovare i genitori quando ti pare; quella volta si partiva a piedi, io dovevo fare sei sette chilometri a piedi. Adesso non vi dico: quando ancora ero sola, andava bene, prendevo la bicicletta, ma dopo, quando avevo i figli, uno ce l’avevo per mano, uno nella pancia perché ero incinta, e un altro sulle spalle. Se passavo attraverso i campi, facevo la scorciatoia, sennò erano una diecina di chilometri, però si trovava il terreno arato, dovevi saltare i fossi, gli spini ti piccavano nei piedi, l’ortica ti mordeva, ogni tanto vedevi una biscia, ogni tanto un ragano, lucertole, rospi, tutte le bestie che ci sono per la campagna, tutti animaletti: quella volta non c’erano i veleni, eh! Quella volta non morivano gli animali: ogni passo ne vedevi di due o tre specie. Pensate un po’ a fare tutti quei chilometri a piedi, con quel caldo, quando era d’estate e si andava a trebbiare a casa di mamma mia, perché mi piaceva tanto. Ci si andava una volta ogni tre quattro mesi a vedere quei poveri genitori, che ne hanno fatte tante per noi. La voglia di rivederli era tanta e si superava ogni ostacolo. Anche quando andavi in qualche altro posto come alla Messa, a una 367 Biroccio, trainato dalle mucche, transita sul ponte della contrada della Contessa. Anno 1935 circa. (coll. Luigi Vittorio Ferraris). E que c’ìsci ’l passeggì’? Te li incollài sulle spalle sci era da lóngo, sindó sui bracci. E allora arpìo ’n’antra vo’ indiedro e ve digo quanno se montàa sull’olmo a fa’ la fòja, delle vo’ venìa da piàgne, delle vo’, envéce, te mettèi a cantà’ dalla rabbia. Cominciài a di’1: Voj benediri lo fiore dell’olmo ce lo vorrebbe ’l libro del comando (bis). Ce lo vorrebbe ’l libro del comando pe’ ragionà’ con te ’n’orétta al giorno (bis). 1 festa, portavi dietro i monelletti. E che, avevi il passeggino? Te li caricavi sulle spalle se era lontano, se no in braccio. E allora riprendo un’altra volta indietro e vi dico che, quando si saliva sull’olmo per fare la foglia, delle volte ti veniva da piangere, delle volte, invece, ti mettevi a cantare dalla rabbia. Cominciavi a dire: Voj benediri lo fiore dell’olmo ce lo vorrebbe ’l libro del comando (bis). Ce lo vorrebbe ’l libro del comando pe’ ragionà’ con te ’n’orétta al giorno (bis). Vedere la trascrizione musicale a p. 491. 368 Il libro del comando ce’l vorrìa pe’ ragionà’ con te bellino mia (bis). Il libro del comando ce’l vorrìa pe’ ragionà’ con te bellino mia (bis). Voj benediri lo fiore de menta menta se chiama perché ’n fa la pianta (bis). Menta se chiama perché ’n fa la pianta la nostra lontananza ci tormenta (bis). Menta se chiama perché non fa lo fiore la nostra lontananza tormenta amore (bis). Voj benediri lo fiore de menta menta se chiama perché ’n fa la pianta (bis). Menta se chiama perché ’n fa la pianta la nostra lontananza ci tormenta (bis). Menta se chiama perché non fa lo fiore la nostra lontananza tormenta amore (bis). Dobo a volte, quanno se cantàa luscì, toccàa anca a gì’ sveltri, scinò i sòceri dicéa: “E qanto ié ce vôle a rîmpì’ ’na crinella de fòja oh, co’è tutta penne e voce como ’l cùcco!” Eh, paciensa!, toccàa a pïàlla, a ’nghiottìlle ’mpo’ giù tutte! Dopo a volte, quando si cantava così, toccava anche andare svelti, se no i suoceri dicevano: “E quanto gli ci vuole a riempire una crinella di foglia! Oh, cos’è tutta penne e voce come il cuculo!” Eh, pazienza!, toccava a prenderla, ad inghiottirle un po’ tutte! La pianéda del cantastorie La ‘pianéda’ del cantastorie Quanno se gèra a fa’ la foja se cantàa anca le cansó’ cuélle del cantastorie su la piazza co’ la fisarmonica. Po’ ci’avéa ’l pappagàllo co’ la gabbietta che dèra la pianéda della fortuna. I soldi non c’era prò, cuéi du’ soldi tre soldi che costàa, la gioventù ce li buttàa perché piacéa a sapé’ como se gèra a finì’. Adè’ dice ‘l’oròscopo’, ma a cuéi tempi se dicéa ‘la pianéda’, ‘la pianéda de la fortuna’. Quando si andava a fare la foglia, si cantavano anche le canzoni, quelle che i cantastorie sul paese cantavano con la fisarmonica. Poi (il cantastorie) aveva il pappagallo con la gabbietta, che dava la ‘pianéta della fortuna’. Non c’erano però i soldi, quei due tre soldi che costava la gioventù ce li buttava, perché gli piaceva sapere come si andava a finire. Adesso lo chiamano ‘l’oroscopo’, ma a quei tempi si diceva ‘la pianeta’, ‘la pianeta della fortuna’. 369 Allora uno sonàa la fisarmòniga, cuel’àltro passàa co’ ’sta gabbietta co’ sto pappagàllo e ié dicéa: “Pïa’na pianéda dela fortuna e dalla alla signorina, via!” E cuéllo la pïàa col becco e po’ te la dèra: un soldo, du’ soldi se pïàa, perché c’era anca i numeri del lotto, ma noà al lotto non ce giogàmma mae che ’n c’era ’na lira manco sci t’arbaltàvi sottosopra. A noà ce bastàa la pianéda per sapé’ le curiosidà, che destino ci’avéi. Dobo la leggéi, prò non è como adè’ che c’è l’oroscopo pe’ cuélli nadi a gennaro, febbràro marzo e via discorrènno. Cuélla vo’ la pianéda era unica. E va be’, cantàa ’ste storie chì, prò non so se sci iéla farò a finìlla tutta, ché la voce mia non me ci’arrìva più1. Due fratelli Antonio e Pasquale per interessi avean l’odio fra loro di far pace pensavan costoro Caino e Abele sembravan così. Allora uno suonava la fisarmonica, quell’altro passava con questa gabbietta con questo pappagallo e gli diceva: “Prendi una pianeta della fortuna e dalla alla signorina, via!” E quello la prendeva con il becco e poi te la dava: un soldo, due soldi si prendeva, perché c’erano anche i numeri del lotto, ma noi al lotto non ci giocavamo mai, perché non c’era una lira nemmeno se ti ribaltavi sottosopra. A noi ci bastava la pianeta per sapere le curiosità, quale destino avevi. Dopo lo leggevi, però non è come adesso che c’è l’oroscopo per quelli nati a gennaio, febbraio, marzo e via dicendo. Quella volta la pianeta era unica. E va bene, cantavano queste storie qui, però non so se gliela farò a finirla tutta, perché la mia voce non mi ci arriva più. Due fratelli Antonio e Pasquale per interessi avean l’odio fra loro di far pace pensavan costoro Caino e Abele sembravan così. Ma invece il minore fratello gli diceva : “Pasquale sai buono; se tu hai l’odio per me io ti perdono. In discordia non voj star con te!” Ma invece il minore fratello gli diceva : “Pasquale sai buono; se tu hai l’odio per me io ti perdono. In discordia non voj star con te!” Ma Pasquale brutale e cattivo le diceva: “Via stàmmi lontano, di far pace con te sarà sempre invano ed un giorno vedrai cosa fô!” 1 Ma Pasquale brutale e cattivo le diceva: “Via stàmmi lontano, di far pace con te sarà sempre invano ed un giorno vedrai cosa fô!” Vedere la trascrizione musicale a p. 492. 370 E un dì Antonio partì pe’ ’l mercàto va a comprare un grosso vitello tornàva poi dal mercatèllo verso sera col proprio garzó’. E un dì Antonio partì pe’ ’l mercàto va a comprare un grosso vitello tornàva poi dal mercatèllo verso sera col proprio garzó’. Salutava la moglie ed il figlio dieci anni aveva e si chiamava Tonino, e baciava nel viso il bambino, par che il sangue ié debba parlar. Salutava la moglie ed il figlio dieci anni aveva e si chiamava Tonino, e baciava nel viso il bambino, par che il sangue ié debba parlar. Ed un dì Antonio lontano si trova e Pasquale la preda ne aspetta, diedro casa rimane in vendétta con la rabbia e con l’odio nel cuor. Ed un dì Antonio lontano si trova e Pasquale la preda ne aspetta, diedro casa rimane in vendétta con la rabbia e con l’odio nel cuor. Ad un tratto lui véde a Tonino il nipote sì caro e gentìle, il bambino s’accòsta a quel vile che gli dice: “Ascoltami a me! Ad un tratto lui véde a Tonino il nipote sì caro e gentìle, il bambino s’accòsta a quel vile che gli dice: “Ascoltami a me! C’è tuo padre che qua presso aspetta, un po’ d’uva gli devi portare, qui nel campo del tuo buon compare francamente tu pôi pigliar. C’è tuo padre che qua presso aspetta, un po’ d’uva gli devi portare, qui nel campo del tuo buon compare francamente tu pôi pigliar. Ma il bambino che niente sospetta dallo zio, a tal detto lui crede, lì nel campo lui pone il suo piede, ad una vite si viene accostar. Ma il bambino che niente sospetta dallo zio, a tal detto lui crede, lì nel campo lui pone il suo piede, ad una vite si viene accostar. E d’uva dentro il cappello lui pose son tre grappoli grossi e maturi; il zio gli dice con detti sicuri: “Questi qui gli potranno bastar!” E d’uva dentro il cappello lui pose son tre grappoli grossi e maturi; il zio gli dice con detti sicuri: “Questi qui gli potranno bastar!” Ma non termina neànche la frase che lo zio su di lui si gètta ed esclama del bimbo vendetta Ma non termina neànche la frase che lo zio su di lui si gètta ed esclama del bimbo vendetta 371 oggi compiere alfine potrò. Ed è armato di un grosso falcétto nella faccia colpisce il meschino grida aiuto quel povero bambino mentre l’altro prosegue a menar. oggi compiere alfine potrò. Ed è armato di un grosso falcétto nella faccia colpisce il meschino grida aiuto quel povero bambino mentre l’altro prosegue a menar. E un terribile colpo alla gola al nipote fa allora morire, l’assassino credendo fuggire una voce l’inchioda colà. E un terribile colpo alla gola al nipote fa allora morire, l’assassino credendo fuggire una voce l’inchioda colà. E li vede così un cacciatore e gli punta su di lui la doppiétta ed esclama: “Del bimbo vendetta, o vigliacco, su te voglio far!” E li vede così un cacciatore e gli punta su di lui la doppiétta ed esclama: “Del bimbo vendetta, o vigliacco, su te voglio far!” E ciò dire le spara nel petto due colpi col proprio fucile, cadde a terra morendo quel vile, esalando l’estremo respir. E ciò dire le spara nel petto due colpi col proprio fucile, cadde a terra morendo quel vile, esalando l’estremo respir. Ma quando il padre alla sera ritorna, più non trova il suo caro bambino, a gran voce lui chiama Tonino e la madre sta lì a lacrimar. Ma quando il padre alla sera ritorna, più non trova il suo caro bambino, a gran voce lui chiama Tonino e la madre sta lì a lacrimar. Cerca e fruga alfin vien scoperto il cadavere del figlio adorato, in singhiozzi il padre ha scoppiato e la madre svenuta riman. Cerca e fruga alfin vien scoperto il cadavere del figlio adorato, in singhiozzi il padre ha scoppiato e la madre svenuta riman. A quel misero bimbo fu fatto un bellissimo e gran funerale ed invece l’unico Pasquale come un cane portato ne fu. A quel misero bimbo fu fatto un bellissimo e gran funerale ed invece l’unico Pasquale come un cane portato ne fu. Giammai l’odio assiste non dovrebbe fra due fratelli poi specialmente e frugando da un tratto la mente Giammai l’odio assiste non dovrebbe 372 fra due fratelli poi specialmente e frugando da un tratto la mente il delitto conduce così. Questa è’n’antra storia, cantàda da altri due che stèra in piazza ’l venàrdì. A questa ’n’antra aria ié dèra1: il delitto conduce così. Questa è un’altra storia, cantata da altri due che stavano in piazza il venerdì. A questa gli dava un’altra aria: C’era due compari fedèle e costumadi che sempre s’era amàdi con nessuna falsità C’era due compari fedèle e costumadi che sempre s’era amàdi con nessuna falsità Uno de ’sti compar ce lìa la moje bella modesta e santarèlla e piena di bontà. Uno de ’sti compari ce lìa la moje bella modesta e santarèlla e piena di bontà. Allora venne un giorno le vène un’imbasciàta la sua mamma malàda le voléva parlà’. Allora venne un giorno le vène un’imbasciàta la sua mamma malàda le voléva parlà’. Compare io mi parto la mia moje ti lascio la mia moje ti lascio sapélla ben trattà’. Compare io mi parto la mia moje ti lascio la mia moje ti lascio sapélla ben trattà’. Compare parti pure di me non dubitare fedele è il tuo compare fedel la fedeltà. Compare parti pure di me non dubitare fedele è il tuo compare fedel la fedeltà. Ma allora venne un giorno pensando nel maligno col suo falso disegno a la donna va a tentà’. Ma allora venne un giorno pensando nel maligno col suo falso disegno a la donna va a tentà’. 1 La donna ié rispose Vedere la trascrizione musicale a p. 492. 373 La donna ié rispose col cuore inviperìdo perché a lo mio marìdo a così lo voj ingannà’. col cuore inviperìdo perché a lo mio marìdo a così lo voj ingannà’. Sta’ zitta ingrata donna per la tua tale risposta come un cane arrabbiato ti vojo fa’ ammazzà’ Sta’ zitta ingrata donna per la tua tale risposta come un cane arrabbiato ti vojo fa’ ammazzà’ Le vojo andare incontro lo tuo marito amato ié devo raccontare le tue gran falsità. Le vojo andare incontro lo tuo marito amato ié devo raccontare le tue gran falsità. E giù per quella strada incontra il suo compare lo abbraccia a caro a care, compar t’ho da parlà’. E giù per quella strada incontra il suo compare lo abbraccia a caro a care, compar t’ho da parlà’. Se n’ero altro che io che t’avevo ben trattato la tua moje un peccato con me voléva fa’. Se n’ero altro che io che t’avevo ben trattato la tua moje un peccato con me voléva fa’. Compare questo è vero che San Giovanno vede compare per la fede me lo vojo giurà’. Compare questo è vero che San Giovanno vede compare per la fede me lo vojo giurà’. Compar dammi la fede giuro per San Giovanno compare io la scanno se questa è verità. Compar dammi la fede giuro per San Giovanno compare io la scanno se questa è verità. Va a casa’l suo marito ié bussa nelle porte solo per dàje morte la fece risveglià’. Va a casa’l suo marito ié bussa nelle porte solo per dàje morte la fece risveglià’. 374 Alzede moje mia si fanno ‘na gran festa nel luogo di Maria ti ci vojo portà’. Alzede moje mia si fanno ‘na gran festa nel luogo di Maria ti ci vojo portà’. Aspetta marito mia aspetta un sol momento la Vergine Maria l’andàmo a visità’. Aspetta marito mia aspetta un sol momento la Vergine Maria l’andàmo a visità’. La carca sul cavallo poi la mena per la via la scanna in fede mia a terra se ne va. La carca sul cavallo poi la mena per la via la scanna in fede mia a terra se ne va. Dopo le quarant’ore la Vergine beada dal cielo fu calàda a falla resuscità’. Dopo le quarant’ore la Vergine beada dal cielo fu calàda a falla resuscità’. Guarda sopra quel sasso dice Lucrezia mia risorge Gesù e Maria che l’andàsti a visità’. Guarda sopra quel sasso dice Lucrezia mia risorge Gesù e Maria che l’andàsti a visità’. Voialtri bona gente che mi state ascoltare se ci’avéde qualche compare sapédelo ben trattà’. Voialtri bona gente che mi state ascoltare se ci’avéde qualche compare sapédelo ben trattà’. Andarono nella chiesa a fare ’l giuramento avanti al Sagramènto s’è andàdi a’nginocchià’. Andarono nella chiesa a fare ’l giuramento avanti al Sagramènto s’è andàdi a’nginocchià’. Quando fu a mezza messa poi dopo nel giurare il suo falso compare in fumo se ne va. Quando fu a mezza messa poi dopo nel giurare il suo falso compare in fumo se ne va. 375 Voialtri bona gente che state bene attenti i falsi giuramenti badàdeli a non fa’. Voialtri bona gente che state bene attenti i falsi giuramenti badàdeli a non fa’. Io, perché me piacéa tanto ’ste storie, domandào i soldi a mamma, quann’èro giovane no: “Mamma, io le vojo!” Adè ce l’ho ancó’ tutte ’nté ’l cervello! Ne so tante tante, tutte dentro al cervello, prò non so fino a quanno ce la farò ancó’ a tenèccele, ’nté ’sta scattolétta piccola. Io, perché mi piacevano tanto queste storie, domandavo i soldi a mamma, quando ero giovane, no: “Mamma, io le voglio!” Adesso ce l’ho ancora tutte nel cervello! Ne so tante tante, tutte dentro il cervello, però non so fino a quando ce la farò ancora a tenercele, in questa scatoletta piccola. Filù’ da vangà’, biùde a ciùffolo e intìngolo Filari da vangare, bevute a piffero e sugo Finido de rèmpì’ ’na crinèlla de fòja, c’era ’n filó’ già pronto da vangà’ eh! E lì se vangàa quattro cinqu’ore. Sci uno avìa séde, ’n momento che ’n c’era manco l’acqua: te portàa ’na bottija d’acqua e lì taccài la bocca a ciùffolo, cuélla vo’ se dicìa ‘a ciùffolo’; ce bevéa quattro cinque persone. ’N c’era ’l bicchiéro drèdo: adè’ ’n bicchiero per’ò perché scinó... e po’ ’l guarda sci n’è lavàdo be’. Cuélla vo’ l’acqua del pozzo, te taccài la bocca ’nté la callaròla e lì gìva avanti cuscì. Quann’èra finìdo de vangà’ ’sti filù’, c’era da gi’ a fa’ ’n fascio d’erba e cuél pôro mi’ socero voléa che se facéa co’ la falcetta, perché le bestie la magnàa mejo, no’ co’ la falce fenàra. Sta’ ’mpo’ giù co’ la falcétta a Finito di riempire una ‘crinella’ di foglia, c’era un filare già pronto da vangare, eh! E lì si vangava quattro cinque ore. Se uno aveva sete, quasi non c’era nemmeno l’acqua: ti portava una bottiglia d’acqua e lì attaccavi la bocca a piffero, quella volta si diceva ‘a piffero’; ci bevevano quattro cinque persone. Non c’era il bicchiere dietro: adesso un bicchiere per uno, perché se no… e poi lo guardano se non è lavato bene. Quella volta l’acqua del pozzo, ti attaccavi la bocca nella calderella e lì andava avanti così. Quando avevamo finito di vangare questi filari, c’era d’andare a fare un fascio d’erba e quel povero mio suocero voleva che si tagliasse con la falce, non con la falce fenaia, perché le bestie la mangiavano meglio. Stai un po’ giù 376 ruspà’ be’ per tèra, a passà’ avanti a lóra che lavoràa, pe’ pulì’ be’ la tèra; ’n se buttàa via gnè. A cuéi tempi gnè, ’n se buttàa via! E dobo, quanno avéi fatto cuél fascio d’erba, gìvi su dréndo casa, era le undici. Me dicìa: “Gide a métte’ su ’mpo’ l’intìngolo, ’l da magnà’!”. Pïàvi ’na bracciadèlla de cuélle légna lì, picciàvi ’l fôgo e lì mettéi su l’intingolo, ié dicéa ‘l’intingolo’ i vecchi: ’mpo’ de lardo, tre quattro pezzetti, ’l mettéi su quanno aìa fatto ’l carbo’: capirài prima de fa’ i carbù’ ce volìa mezz’ora! Tre quattro pezzetti de lardo e po’ mettevi giù d’istade i pomidori freschi a pezzi, bucce giù nigò: se magnàa nigò! All’inverno, sci se fèra ’mpo’ de conserva all’istàde (sai como se facìa? Se mettìa ’nté ’l sole, facéa cuéi panétti duri, diventàa neri como’l carbó’) ne pïài ’n pezzetto pe’ mette’ ’nté ’l sugo: venìa fòra ’n sugo denso, nero che po’ ’n se sa co’ era: sci ce se pensa adè’ si dice che manco ’l ca’ ne ’l magna più! A volte ce se mettìa ’na costarella de sellaro, ’na branciolétta, ma non c’era manco ’l sellaro. De le caròde a cuéi tempi ’n se parlàa per caridà!, perché ’n c’era tempo a piantàlle e po’ ’n c’era manco la moda! E ’na cippolletta a volte ce se mettìa, sci c’era lì casa, scinó a gi’ fora a fa’ le scale a cure ’n c’era tempo, perché a mezzogiorno volìa magnà eh! E co’ facéi da magnà? Du’ tajolì’, quadrelli non volìa che se fèra, perché ce volìa troppa farina; du’ tajolì’ con la falce a ruspare bene per terra, a passare avanti a loro che aravano, per pulire bene la terra: non si buttava via niente. A quei tempi niente si buttava via! E dopo, quando avevi fatto quel fascio d’erba, andavi su dentro casa, erano le undici. Mi diceva (mia suocera): “Andate a mettere su un po’ il sugo, il da mangiare!” Prendevi una bracciatella di quelle legna lì, accendevi il fuoco e lì mettevi su il sugo, i vecchi lo chiamavano ‘l’intingolo’: un po’ di lardo, tre quattro pezzetti; lo mettevi su quando (il fuoco) aveva fatto i carboni: capirai, prima di fare i carboni ci voleva mezz’ora! Tre quattro pezzi di lardo e poi mettevi giù d’estate i pomodori freschi, a pezzi, bucce e tutto quanto: si mangiava tutto! All’inverno, se si faceva un po’ di conserva all’estate, ne prendevi un pezzetto per mettere nel sugo: veniva fuori un sugo denso, nero che poi non si sa cos’era: se ci si pensa adesso, si dice che nemmeno il cane non lo mangia più. A volte ci si metteva una piccola costola di sedano, una fogliolina, ma non c’era neppure il sedano. Delle carote a quei tempi non si parlava, per carità, perché non c’era il tempo di piantarle e poi non c’era neppure l’usanza. A volte ci si metteva una piccola cipolla, se c’era lì dentro casa, se no ad andare fuori e a fare le scale correndo non c’era tempo, perché a mezzogiorno volevano mangiare, eh! E cosa facevi da mangiare? Due tagliolini, i quadretti non volevano che 377 all’istade. Ecco lì passàa. De drèdo ’n c’era ’n pezzo de pa’. Io ch’ero abbituàda a casa mia che se magnàa la minestra, i quadrellìni fatti be’ all’istàde, anca lì ce se mettìa ’mpar d’ovi, ’nvéce lì se magnàa sempre sens’òvi e se dovìa fa’ solo i tajolì’: capirai mòrbedi con cuélla farina era come ’l pelo del topo. Intanto toccàa a sta’ lì. ’L pa’ ’n se dovéa pïà’, perchè se consumàa. E va be’! si facesse, perché ci voleva troppa farina; due tagliolini all’estate. Ecco lì passava. Dopo non c’era un pezzo di pane. Io che ero abituata a casa mia che si mangiava la minestra, i quadrettini fatti bene all’estate; anche lì (casa mia) ci si metteva un paio di uova, invece lì, (a casa dei suoceri), si mangiava sempre senza uova e poi si dovevano fare solo i tagliolini: capirai, con quella farina erano morbidi come il pelo del topo. Intanto bisognava stare lì. Il pane non si doveva prendere, perché si consumava. E va bene! “Vu’ séde ’mbizïósa” “Voi siete ambiziosa!” Quanno a 23 anni ci’ho ûdo la prima fijia, i’hò dàtto ’l latte mia fina a du’ anni, dobo du’ anni so’ ’rmàsta prégna del maschio, cuéllo pure... La fémmena tanto comensàa a magnà’: appena che i’hò levàdo ’l latte mia, co’ ié dào da magnà’? Dicìa mi’ sòcera: “Mettedéje l’ua, mettedéje ’no schianto d’ua vicino, dobo ampàra a magnà!” L’ua, cuscì, porànnima, sensa lavàlla: la mettìa a sède per tèra ’nté ’na balla, io magari vangàa ’l filó’. ’Gni tanto la spostào scinónca sci gèro a fa’ l’erba, la carcàa su la crinella, e cuél’altro ce lìo dendro la pansa ancó’! A me i fjòli m’ha piaciùdo tanto, ce n’ho tre perché, como v’ho ditto, me so’ ’mmalàda scinò ne avéa fatti n’antri tre, almanco, como ha fatto mamma mia: almanco, quanno che Quando a 23 anni ho avuto la prima figlia, le ho dato il mio latte fino a due anni, dopo due anni sono rimasta incinta del maschio, quello pure… La femmina tanto cominciava a mangiare: appena che le ho tolto il mio latte, che cosa le davo da mangiare? Diceva mia suocera: “Mettetele l’uva, mettetele un racimolo d’uva vicino, dopo impara a mangiare!” L’uva così, povera anima, senza lavarla: la mettevo a sedere per terra sopra una balla, io magari vangavo il filare. Ogni tanto la spostavo oppure, se andavo a fare l’erba, la caricavo sulla ‘crinella’, e quell’altro ancora ce l’avevo dentro la pancia. A me i figli mi sono piaciuti tanto, ce ne ho tre, perché, come vi ho detto, mi sono ammalata, se no ne avrei fatti almeno altri tre, come ha fatto 378 stai sul letto de morte, ce l’hai dentórno! N’è como ade’, chi ce n’ha uno già è troppo. Allora vôl dì’ che ce ne vôle mezzo!’ Eh, come girémo avanti non se sa. E allora arpìo sempre la parola de prima, a la sera, prima da gi’ a letto, per cena, como v’ho ditto, all’istàde c’era sempre cuéi crespìgni giuppe ’l campo, la trughella, la ginestrella, la pimpinella: cuélla vo’ se fèra cuél mischietto co’ ’na sàgrima d’ojo giusto pe’ scusa, perché pe’ l’ojo c’era l’ampollìna cuélla vo’. Co’ c’era como la moda d’adè’ che se butta giù co’ la bottìja! Cuélla vo’ co’ l’ampollìna; sci po’ la nora ce ne buttàa giù ’mpo’ de più, la socera dicìa: “Oste, stasera gide a càro ónto oh!” L’acédo scì ce n’era ’mpo’, ’l sale e via cuscì. E po’ se magnàa alluscì: l’ansalàda sola eh! ’L pa’ embè cuélla vo’ non te ’l negàa, la sera ne podéi magnà’ tre quattro fettarèlle. Prò io tante vo’ so’ gida a letto no co’ mi’ marìdo, ma co’ la fame! Quanno era vèro le otto e mezzo le nove, quann’era l’inverno, stacéi drendo casa, facéi i calsétti, facéi le maje, ma ’n se podìa fa’ manco ché ’l filo ’n se troàa! Io guastàa la robba mia pe’ ’sti monelli che quanto tribbolàa ne ’l so manco io. A véde’ adè’ a buttà’ via tutta cuélla robba, me ce vène giù le lagrime! Pe’ vestì’ i monèlli guastàa i tòrcèlli de panno e po’ ’n giorno, ’l giorno dell’anno nòo, a mi’ socero la mia mamma: almeno, quando stai sul letto di morte ce li hai dintorno. Non è come adesso, chi ne ha uno è già troppo. Allora vuol dire che ce ne vuole mezzo! Eh, come andremo avanti non si sa. E allora riprendo sempre la parola di prima. La sera, prima di andare a letto, per cena, come vi ho detto, c’erano sempre quei crespigni (raccolti) giù per il campo, la ‘trughella’, la ginestrella, la pimpinella: quella volta si faceva quel mischietto con una goccia d’olio giusto per scusa, perché per l’olio si usava l’ampollina quella volta. Cos’era come la moda di adesso che (l’olio) si versa con la bottiglia! Quella volta con l’ampollina; se poi la nuora ne versava un po’ di più, la suocera diceva: “Oste, stasera andate a carro oliato, oh!” L’aceto sì, ce n’era un po’, il sale e così via. E poi si mangiava così: l’insalata sola, eh! Il pane, ebbene quella volta non te lo negava, la sera ne potevi mangiare tre quattro piccole fette. Però io tante volte sono andata a letto non con mio marito, ma con la fame! Quando era verso le otto e mezzo le nove, d’inverno, stavi dentro casa, facevi le calze, facevi le maglie, ma non si potevano fare, perché non si trovava neppure il filo! Io guastavo la roba mia per questi monelli, che quanto soffrivano non lo so nemmeno io. A vedere adesso buttare via tutta quella roba mi ci vengono giù le lacrime! Per vestire i monelli guastavo i rotoli di panno e poi un giorno, il 379 co’ i’hò ditto: “Me dàde i soldi pe’ comprà’ ’n pacchetto de ténta ché ci’hò da tégne’ ’n panno pe’ fa’ ’na vesta a la monèlla?” Cuélla vo’ all’inverno fadigàmma sempre con cuéi fèri, fèmma sempre maje, calsétti e po’ dobo le tegnémma; compràmma la ténta, ’n pacchetto de ténta. Mettemma ’mpo’ de nigò sul callàro, e po’ tegnémma: ’n pezzo de panno, ’mpo’ de maje luscì... le tegnémma. Po’ magari scìsci la camicia bianga sotta cuélla de cottó’, ’ste maje sopra ténte, quanno che sudavi ’mpo’, va be’ che all’inverno ’n se suda tanto, ma sci sudavi ’mpo’, diventàa del colore della ténta de la maja la camicia sotta. Prò a cuéi tempi n’è che c’era de mejo. Allora, como v’ho ditto, ié l’ho dimandado a mi’ sòcero ’n pacchétto de ténta. Voléde sapé co’ m’ha rispòsto? “Eh, perché vu’ séde ’mbizïósa, ’n c’è bisogno: oggi è ’l primo dell’anno non se compra, ’n se fa le spese, perché chi spende ’l primo dell’anno spende sempre!” E pacenzia! Lì casa mia ’n c’era cuélla moda lì, ma toccàa a stàcce, scinò ’n se gèra d’accordo ’nté le faméje. Dobo io a forsa de mette giù, mette giù ’nté lo stòmmigo, cuélla vo’ era secca, pesào quarancinque quarantasei chili, a forsa de mette giù me so’ gonfiàda e... dobo la bomba schiòppa! giorno dell’anno nuovo a mio suocero cosa gli ho detto: “Mi date i soldi per comprare un pacchetto di tintura, perché devo tingere un panno per fare una veste alla monella?” Quella volta, d’inverno, lavoravamo sempre con quei ferri, facevamo sempre maglie, calze e poi dopo le tingevamo: compravamo la tintura, un pacchetto di tintura. Mettevamo un po’ di tutto sul caldaio e poi tingevamo: un pezzo di panno, un po’ di maglie… così le tingevamo. Poi, magari, avevi la camicia bianca sotto quella di cotone, queste maglie sopra tinte, quando sudavi un po’ (va bene che all’inverno non si suda tanto), ma se sudavi un po’ la camicia sotto diventava del colore della tintura della maglia. Però a quei tempi non è che c’era di meglio. Allora, come vi ho detto, gliel’ho domandato a mio suocero un pacchetto di tintura. Volete sapere cosa mi ha risposto? “Eh, perché voi siete ambiziosa, non c’è bisogno: oggi è il primo dell’anno non si compra, non si fanno le spese, perché chi spende il primo dell’anno spende sempre!” E pazienza! A casa mia non c’era quell’usanza lì, ma toccava starci, se no non si andava d’accordo nelle famiglie. Dopo io, a forza di mandare giù nello stomaco, quella volta ero magra, pesavo quarantacinque quarantasei chili, a forza da mettere giù mi sono gonfiata e… dopo la bomba scoppia! 380 Me tiràa giù i cervelli Mi tiravano giù anche le cervella Adè’ finìscio de di’. Dobo m’è venùdo ’l maschio, dobo du’ anni e mezzo. Cuéllo pure, porànnima, ch’era tanto meschinèllo, volìa solo ’l latte mia, ’n vulìa più gnè: ié dào qualche vo’ ’n pezzo de pa’, cuéllo ne ’l magnàa, ’l magnàa ’l pa’ móllo col vì’ la fémmena, ma ’l maschio ne ’l magnàa. E cuéllo passàa i giorni sani che ’n se sapìa cuello che mettìa giù. ’L sùcchero che se piàa ne ’l volìa, ’l caffé a cuéi tempi mango se parlàa, ’l latte ’n se podìa toccà’ cuéllo de le bestie, perché toccàa a fa’ cresce’ i vidèlli ché dobo’l padró’ sgaggiàa sci n’era vidèlli belli... Mi’ socero ’n voléa che se piàa ’l latte da le vacche, ma scinó a casa mia babbo mia mógnéa le vacche giuppe ’l campo quanno lavoràa d’istàde, ’l facéa ghiaccià’ ’n tantì’ perché troppo càllo podìa fa’ pïà’ la sciòlta e po’ se bevìa lì ’nté la boccalétta, ’na boccalétta de latte a tutti noàltri monèlli, noà tutti a cùre pe’ bé’ cuél latte mónto da la vacca lì… Cuélla vo’ ’n se pensàa che c’era la tubercolósi, ’n c’era gnènte... c’era c’era ma ’n se sapìa che ce polèsse stàdo qualcò’ ’nté ’l latte! E lì se bevéa cuél latte: quant’era bòno! Envéce a casa de mi sòcero ’n se toccàa ’l latte de le vacche eh!.. perché se dovìa lassà’ pèi vidèlli, che venìa su polpùdi. Era più contenti anca i padrù’. Scinónca sci cìa tanto latte le vacche, ce fèra mèjo ’na formétta de cacio, coscì servìa ’na Adesso finisco di dire. Dopo mi è arrivato il maschio, dopo due anni e mezzo. Quello pure, povera anima, che era tanto magrolino, voleva solo il mio latte, non voleva niente altro: gli davo un pezzo di pane, quello non lo mangiava, la femmina lo mangiava il pane bagnato con il vino, ma il maschio non lo mangiava. E quello passava dei giorni interi che non si sapeva quello che metteva giù. Lo zucchero che si prendeva non lo voleva, del caffè a quei tempi non si parlava neppure, il latte delle bestie non si poteva toccare, perché bisognava farci crescere i vitelli, perché dopo il padrone sgridava se i vitelli non erano belli… Mio suocero non voleva che si prendesse il latte dalle vacche, se no a casa mia il mio babbo mungeva le vacche giù per il campo, quando arava d’estate, faceva raffreddare (il latte) un momentino, perché troppo caldo avrebbe potuto far prendere la cacarella e poi si beveva lì nella caraffa, una caraffa di latte a tutti noi monelli. E noi tutti a correre per bere quel latte lì munto dalla vacca… Quella volta non si pensava che c’era la tubercolosi, non c’era niente… c’era, c’era ma non si sapeva che ci potesse essere stato qualcosa nel latte! E lì si beveva quel latte: quant’era buono! Invece a casa di mio suocero il latte delle vacche non si toccava, eh!, perché si doveva lasciare per i vitelli, che crescevano polputi. Erano più contenti anche i padroni. Sennò, se le 381 fettarèlla per’ù’ de mededùre. I fjòli crescéa da per lóra: sci crescéa crescèa, sci non crescìa morìa. I monèlli n’era consideràdi gnè’. Io ce tribbolào perché l’apprezzào tanto, per me era nigò, ’n c’era altro de mèjo ’nté la vìda! Embè, sci ci’arpènso, me pare ’no ’nsùmbio! E allora ’l maschio è stado sempre minghèlino, perché, pôrannima, passàa anca le giornàde sane che ’n se sapìa cuél che mettéa su la bocca. Io tante le ô de nascòsto ié dào ’n’ovo, cuéllo ié piacéa: ié sbattéo l’ovo con tantì’ de caffè, fatto col gra’ bruscàdo. Bruscàa ’l grane su ’n cuperchio, d’inverno, quanno c’era tempo, e lì macenàa ’n tantì’ de cuél gra’ brusco, ch’èra nero como ’l cappèllo, e ce mettìa giù ’n tantì de cuéllo, lo succhero me toccàa a fregàllo de nascosto perché n’era contenti pe’ gnènte i sòceri. Dobo, vedi ’mpo’ è venùda anca la fémmena, quel’altra piccola. Oh, piano piano, io a forsa d’allattàlli tutti tre, so’ gida a fenì’ propio a terra: me tiràa giù anca i cervèlli! Porànnima, la notte sempre taccàdi, co’ c’era como adè’! I’avéa fatto ’l padre ’n lettìno de tàole e lì c’émma messo ’l paiareccétto de paja, perché sci nascéa d’inverno, i cartòcci de granturco ’n c’era, toccàa a méttece la paja drendo. E con pezzo de telo de linsòlo, che toccàa a pïà’ i mia perché a cuéi tempi i sòceri non te li dèra. E lì co’ la paja. Quanno dobo era l’istàde e se scartocciàa ’l gran- vacche avevano tanto latte, ci faceva meglio una piccola caciotta, perché così ne serviva una piccola fetta per uno durante la mietitura. I figli crescevano da soli: se crescevano, crescevano; se non crescevano, morivano. I monelli non erano considerati per niente! Io ci soffrivo, perché li apprezzavo tanto, per me erano tutto, non c’era altro di meglio nella vita! Ebbene, se ci ripenso adesso, mi pare un sogno! E allora il maschio è stato sempre mingherlino perché, povera anima, passava anche delle giornate intere che non si sapeva che cosa metteva in bocca. Io talvolta di nascosto gli davo un uovo, quello gli piaceva: glielo sbattevo con un pochino di caffè, fatto con il grano bruscato. Bruscavo il grano su un coperchio, d’inverno, quando c’era tempo, e lì macinavo un po’ di quel grano brusco, che era nero come il cappello; ci mettevo un tantino di quello, lo zucchero dovevo fregarlo di nascosto, perché i suoceri non erano contenti per niente. Dopo, vedi un po’, è venuta anche la femmina, quell’altra piccola. Oh, piano piano, io a forza d’allattarli tutti e tre, sono andata a finire proprio a terra: mi tiravano giù anche le cervella! Povere anime, la notte sempre attaccati: e che, era come adesso? Il padre gli aveva fatto un lettino di tavole e lì avevamo messo ‘l pagliariccetto di paglia, perché se (i figli) nascevano d’inverno, i cartocci di granturco non c’erano, toccava metterci dentro la paglia. Quando dopo d’estate si ‘scartocciava’ il granturco, 382 turco, allora se pïàa i cartocci de granturco e se facéa ’n pajareccétto con cuélli. Prò venìa su dritti sa i fjòli, ci’avéa ’na bella schìna dritta, che dormìa ’nté ’l duro, per forsa! Che è como adè’ che dòrmene ’nté i letti de réde, réde ortopèdighe, madaràzzi de Permaflex, cuélla vo’ c’era solo ’n paerìccio de paja o de cartòcci. E lì se gèra avanti, co’ ’na coperta sopra, tante le ô quann’era freddo l’inverno ié ce se mettéa giù le giacchétte, le vesti mia, i sciuccamà’ e que c’era le coperte, pe’ cuéi fjòli? Tanto ’n compràa gnènte i sòceri, pe’ caridà! I fjòli era tiràdi su como adè’, pore bestie, i gattini e i cani. Po’,’n cìa manco ’l tempo de guardàlli, con tutte ’ste faccènne che c’era sempre da fa’; io bramàa che piovésse pe’ sta’ drendo casa pe’ custodì’ ’sti monelli, porànnime de Dio, che ’n ci’avéa gnènte, ’n ci’avéa né calsétti, né scarpe... Iè facéo le scarpe de pezza da per me. Certi modellini tirào fòri che sci le vedéi adè’... E va be’! allora si prendevano i cartocci di granturco e si faceva un pagliariccetto con quelli. Però venivano su diritti i figli, sa, avevano una bella schiena diritta, perché dormivano sul duro, per forza! Che è come adesso che dormono sui letti di rete, reti ortopediche, materassi Permaflex; quella volta c’era soltanto un pagliariccio di paglia o di cartocci. E lì si andava avanti, con una coperta sopra, tante volte, quando era freddo l’inverno, gli si metteva sopra le giacche, le mie vesti, gli asciugamani… E che, c’erano le coperte, per quei figlioli? Tanto i suoceri non compravano niente, per carità! I figli erano tirati su come adesso, povere bestie, i gattini e i cani. Poi non avevo nemmeno il tempo di guardarli, con tutte le faccende che c’erano da fare; io bramavo che piovesse per restare dentro casa, per custodirli questi monelli, povere anime di Dio, che non avevano niente: non avevano ne calze, né scarpe… Gli facevo le scarpe di pezza da per me sola. Tiravo fuori certi modellini che, le vedessi adesso… E va bene! Tóndo al fôgo Intorno al fuoco M’arcordo cuélla piccolina ’n giorno prima de gi’ all’ospedale, gera dentórno alle gambe della nònnesa, che magnàa all’inverno sempre tóndo al fôgo, cuélla madìna émma fatto ’l pa’, e cuélla bornìgia del forno se tiràa fòra e se buttàa ’ntè Mi ricordo che quella piccolina, un giorno prima che andassi all’ospedale, andava intorno alle gambe della nonna, che mangiava d’inverno sempre intorno al fuoco. Quella mattina avevamo fatto il pane e quella brace del forno si tirava fuori e si buttava in un bidone di latta 383 Mietitura. In primo piano un uomo con un “balso” di grano: Foto anni ’30 (coll.Giuliano Sellari). ’n taburlà’ de latta , che cìa lassàdo l’alliàdi ’ndó tenìa ’l carburante pei camio’ e la cicogna. Allora ’sta bornìgia d’inverno se portàa sull’aròla pe’ scaldàsse, pe fa’ l’intingolo, per còce’ i ligùmi, pe’ bruscà’ la fàa, e sci te mettìsci a sède’ lì d’annànse, te fèra certe vacche su pe’ le gambe, spèce sulle cosce ché la carne era téndera che non vidìa mae ’l sole, allora se dicìa: “Cuélla è stada a gambe larghe dèntorno al fôgo, è freddolosa!”. Se critigàa. Allora vô a dandéggio, ho comensàdo ’n discorso e n’ho finìdo. ’Sta bardascètta casca ’mpo’ a sède’ ’ntè ’sta bornìgia, i carbù’ non era proprio rosci ma tanto era ’nfogàdi, anca la céndera scottàa, era ’l giorno dobo, ’ncó’ c’era cuàlche carboncello. Lìa, porettina, lì sopra; cìa le calsòle, ma tanto ’mpo’ c’è riàdo ’nté la carne, ié c’émo messo sùbbedo l’olio, che ci avevano lasciato gli Alleati, dove tenevano il carburante per i camion e la Cicogna. Allora questa brace d’inverno si portava sulla piana del camino per scaldarsi, per fare il sugo, per cuocere i legumi, per bruscare la fava e, se ti mettevi a sedere lì davanti, ti faceva certe vacche su per le gambe, specie sulle cosce, perché la carne era tenera e non vedeva mai il sole; allora si diceva: “Quella è stata a gambe larghe intorno al fuoco, è freddolosa”. Si criticava. Allora vado a caso, ho cominciato un discorso e non l’ho finito. Questa ragazzetta casca un po’ a sedere in questa brace, i carboni non erano proprio rossi, ma tanto erano infuocati, anche la cenere scottava, era il giorno dopo, ancora c’era qualche carboncello. Lei, poverina, lì sopra; aveva i pantaloncini, ma tanto un po’ c’è arrivato nella carne, ci abbiamo 384 ma pe’ ’na ventina de giorni non se mettìa più a sède’. A la nònnesa i’hà sabùdo tanto fadìga, ma io i’hò ditto: “Ma fade ’l piacé’, miga n’éde fatto apposta!” messo subito l’olio, ma per una ventina di giorni non si metteva più a sedere. Alla nonna le è dispiaciuto tanto, ma io le ho detto: “Ma fate il piacere, mica l’avete fatto apposta!”. ‘L maschio e San Pasquale Il maschio e San Pasquale M’arcòrdo mi’ marido com’era contento quanno è nado ’l maschietto. ’L sapéde no? A cuéi tempi po’!, che pe’ avé’ ’na posció’ ce volìa i maschi! Allora l’òmmini era rigojósi quanno ce lìa. ’Sto monellétto nostro, como v’ho dìtto prima, crescìa be’ finànta cìa ’l latte mia, dobo non volìa ’mparà’ a magnà’: cuél che ié désci spudàa fòra. Per finànta a tre anni ié l’ho dàtto, ma dobo i’hò ditto: “Ormai basta, sai grànno: ’mpàra a magnà’!” Ma lu’, pôro còcco mia, non volìa gnè’. Allora mi’ sòcera ha ditto: “Portàdelo a San Pasquale de Montenovo, a fàje da’ ’na benedizzió’, a benedì’ du’ mollighèlle!” Mi’ marìdo ’na madìna s’è alsàdo alle quattro, l’ha svejàdo, te se l’ha ’ncollàdo su la groppa e è gìdo a ’sto San Pasquale: tre ore e più de strada! ’Rivàdo su, i’hà fatto la benedizió’, perché non spedìa mango be’ quanno parlàa, caminàa pogo... ’L padre ha fatto anca ’sta promessa: stèra a digiù’ finànta che n’arnìa a casa. E luscì ha fatto. C’émo capìdo muntubè’, ma, pôri cocchi, ìa da Mi ricordo come era contento mio marito, quando è nato il maschietto. Lo sapete, no? A quei tempi poi!, che per avere un podere ci volevano i maschi! Allora gli uomini erano orgogliosi quando ce li avevano. Questo monelletto nostro, come vi ho detto prima, cresceva bene fino a quando aveva il mio latte, dopo non voleva imparare a mangiare: sputava fuori ogni cosa che gli davi. Fino a tre anni gliel’ho dato (il latte mio), ma poi gli ho detto: “Ormai basta, sei grande: impara a mangiare!” Ma lui, povero cocco mio, non voleva niente. Allora mia suocera ha detto: “Portatelo a San Pasquale di Montenovo, a fargli dare una benedizione, a benedire due mollichelle!” Mio marito, una mattina, si è alzato alle quattro, l’ha svegliato, se l’è caricato sulle spalle ed è andato a questo San Pasquale: tre ore e più di strada. Arrivato su, gli ha fatto (dare) la benedizione, perché non era sciolto nemmeno bene quando parlava, camminava poco… Il padre ha fatto anche questa promessa: sarebbe stato a digiuno fino a quando non fosse ritornato a casa. E così ha fatto. Ci abbiamo capito molto, ma, poveri cocchi, dovevano mangiare il 385 magnà’ ’l pa’ solo, duro e muffo, du’ fòje, fasciòli, padàde, fàa, pulenta e scorpìgni como magnàmma noà; fa’ che ce fusse stati tutti i ben di Dio como c’è adè’, allora scì che ’mparàa a magnà’! pane solo, duro e ammuffito, due foglie cotte, fagioli, patate, fava, polenta e crespigni come mangiavamo noi. Se ci fossero stati tutti i beni di Dio che ci sono adesso, allora sì che avrebbe imparato a mangiare! Cansóni alla paroncina Stornelli alla ‘parroncina’ Finiscio de parlà’ de tutti ’sti problemi c’ho passàdo ’nté la vida; mettémo ’mpo’ le cose più in pace, ché adè’ ve vojo cantà’ ’n saltarèllo, ’na paroncìna...1 La vojo cantare’na paròncìna sopra la coccia de la maggiorana. (bis) Sopra la coccia de la maggiorana e l’arciprède ci’ha messo la péna. (bis) E l’arciprède ci’ha messo la pena se ce l’ha messa ié la voj levàre. (bis) Se ce l’ha messa ié la voj levàre sempre la paroncìna vojo cantare. (bis) Smetto di parlare di tutti questi problemi, che ho passato nella vita; mettiamo un po’ le cose più in pace, perché adesso vi voglio cantare un saltarello, una parroncina… La vojo cantare’na paròncìna sopra la coccia de la maggiorana. (bis) Sopra la coccia de la maggiorana e l’arciprède ci’ha messo la péna. (bis) E l’arciprède ci’ha messo la pena se ce l’ha messa ié la voj levàre. (bis) Se ce l’ha messa ié la voj levàre sempre la paroncìna vojo cantare. (bis) Stamadina mi alsài a bonóra trovài la mamma de lo bello mia.(bis) Mi dice dove vai così a bonóra perché non ami più lo fijo mia. (bis) Io ié risposi co’ lagrime al còre non posso amarlo che mamma non vôle. (bis) Io ié risposi co’ lagrima all’alma non posso amarlo ché non vôle mamma. (bis) Stamadina mi alsài a bonóra trovài la mamma de lo bello mia.(bis) Mi dice dove vai così a bonóra perché non ami più lo fijo mia. (bis) Io ié risposi co’ lagrime al còre non posso amarlo che mamma non vôle.(bis) Io ié risposi co’ lagrima all’alma non posso amarlo ché non vôle mamma.(bis) 1 Vedere la trascrizione musicale a p. 490. 386 È rivàda l’ora de lo mède’ È arrivata l’ora di mietere Adesso ve canto alla miedidóra. Quanno se medéva ’l gra’, como me pare d’avévve ditto ’n’antra vo’, i primi anni se pïàa per tèra, prima ancó’ se pïàa alto, alto ’n ginocchio, segondo como era alto ’l gra’, e dobo s’arfalciàa lo stramo. Era du’ fadìghe, prima a tajà ’l gra’ e po’ arcòje le pegorèlle, a ligà’ i còi ’n tra cuéllo stramo alto: c’era le gambe tutte spicconàde. La sera le gìvi a lavà’ giù la pózza, tutto sangue ’nté le gambe, tutte spicconate, arcòje cuélle pegorèlle tra cuélle stóppole alte. Era propio ’n gastìgo! E dobo pian piano ha fatto pïàllo per tèra, co’ la falcétta: duràa anca otto dieci giorni a tajà’ ’l gra’. E lì se cantàa, se cantàa cualca volta, sci non altro dalla rabbia. Si dicéa: “L’uccèllo quann’è drendo la gabbia sci non canta per amor, canta per rabbia!” E cuscì se cantàa alla medidóra1: Adesso vi canto ‘alla mietitora’. Quando si mieteva il grano, come mi pare d’avervi detto un’altra volta, i primi anni si prendeva per terra, prima ancora si prendeva alto, alto un ginocchio, a seconda di come era alto il grano, e dopo si falciava lo strame. Erano due fatiche, prima a tagliare il grano e poi raccogliere le ‘pecorelle’, a legare i covi, tra quello strame alto: c’erano le gambe tutte graffiate. La sera le andavi a lavare giù la pozza, tutto sangue, tutte punte, per raccogliere quelle pecorelle tra quelle stoppie alte. Era proprio un disastro! Dopo, pian piano lo hanno fatto tagliare per terra, con la falce: si durava anche otto dieci giorni a tagliare il grano. E lì si cantava, qualche volta si cantava, se non altro per la rabbia. Si diceva: “L’uccello quando è dentro la gabbia, se non canta per amore, canta per rabbia!” E così si cantava ‘alla mietitora’. Bell’è’rivàda l’ora de lo mède’ ve do la libertà con chi parlàde. (bis) Ve do la libertà con chi parlàde piccoli e grandi quanti ce ne séde. (bis) Me so’ fatto la ragazza montagnòla che per volé’ de Dio me s’è malàda. (bis) Che per volé de Dio me s’è malàda Bell’è’rivàda l’ora de lo mède’ ve do la libertà con chi parlàde. (bis) Ve do la libertà con chi parlàde piccoli e grandi quanti ce ne séde. (bis) Me so’ fatto la ragazza montagnòla che per volé’ de Dio me s’è malàda. (bis) Che per volé de Dio me s’è malàda 1 Vedere la trascrizione musicale a p. 489. 387 l’ho fatti venì’ i mèdici de fòra. (bis) L’ho fatti venì’ i mèdici de fòra i’hò fatto cavà’ ’l sangue da ’gni véna. (bis) I’hò fatto cavà’ ’l sangue da ’gni vena dopo che l’ho guarìda più mi ama. (bis) I’ho fatto cavà’ ’l sangue da lo côre dopo che l’ho guarìta più mi vôle. (bis) l’ho fatti venì’ i mèdici de fòra. (bis) L’ho fatti venì’ i mèdici de fòra i’hò fatto cavà’ ’l sangue da ’gni véna. (bis) I’hò fatto cavà’ ’l sangue da ’gni vena dopo che l’ho guarìda più mi ama. (bis) I’ho fatto cavà’ ’l sangue da lo côre dopo che l’ho guarìta più mi vôle. (bis) Dobo la sera, quann’era notte, stufi dalla fadìga, tante le ô se stàa lì ’mpo’ disperàdi, se pensàa a tutto ’l passàdo quanno c’era la bella gioventù (ma la gioventù mia è stada bruttissima, perché è stada sempre a mezzo la guèra, i fradèlli in guèra, ferìdi, morti...), prò quanno venìà la sera pe’ mandà’ via tutti cuéi pensieràcci se comensàa a cantà’ e se cantàa cuscì1: Dopo la sera, quando era notte, stufi dalla fatica, tante volte si stava lì un po’ disperati, si pensava a tutto il passato, quando c’era la bella gioventù (ma la gioventù mia è stata bruttissima, perché è stata sempre in mezzo alla guerra, i fratelli in guerra, feriti, morti…), però, quando veniva la sera, per mandare via tutti quei pensieracci, si cominciava a cantare e si cantava così: È notte è notte e lo padró’ sospira dice ch’è stada curta ma la giornàda. Ma s’è stàda curta io que i’hò da fare va’ da lo sole e fallo ritornare. S’è stada curta io que i’hò da dire va’ da lo sole e fallo rivenìre. È notte è notte e lo padró’ sospira dice ch’è stada curta ma la giornàda. Ma s’è stàda curta io que i’hò da fare va’ da lo sole e fallo ritornare. S’è stada curta io que i’hò da dire va’ da lo sole e fallo rivenìre. E po’ questa è anca l’aria di quanno uno cantàa i dispetti, ma io non è che ci’hò più voce ade’, sci era ’na vo’... ma adè’ no. Allora se cantàa i dispetti1: E poi questa è anche l’aria di quando si cantavano i dispetti, ma io non è che ho più la voce adesso, se era una volta… ma adesso no. Allora si cantavano i dispetti: 1 Vedere la trascrizione musicale a p. 487. 388 Donne, galline oche e anatre sull’aia. L’unico uomo: Gabriele Paglialunga. Foto anni’50 (coll. Giuliano Sellari). Giuppe ’sta contradia c’è ’na bella tutti ce fa l’amore nisciùn la piglia. Tutti ce fa l’amore nisciùn la piglia ce so’ stado anch’io pe’ cansonàlla. Ci sono stàdo anch’io pe’ cansonàlla prima dìje de scì e po’ abbandonàlla. Giuppe ’sta contradia c’è ’na bella tutti ce fa l’amore nisciùn la piglia. Tutti ce fa l’amore nisciùn la piglia ce so’ stado anch’io pe’ cansonàlla. Ci sono stàdo anch’io pe’ cansonàlla prima dìje de scì e po’ abbandonàlla. Ma guarda chi m’è venùdo a minchionare un giovane più giallo ma del melone. Ma del melone se ne fa le fétte sta’ sitto muccioló’ e gambe secche. Ma del melone se ne fa le scorze sta’ sitto muccioló’ e gambe storte. Ma guarda chi m’è venùdo a minchionare un giovane più giallo ma del melone. Ma del melone se ne fa le fétte sta’ sitto muccioló’ e gambe secche. Ma del melone se ne fa le scorze sta’ sitto muccioló’ e gambe storte. Ma va’ giù la pozza làvade sti pìa che ci’hài più pulce te che ’l cane mia. Ma va’ giù la pozza làvade sti pìa che ci’hài più pulce te che ’l cane mia. 389 Va’ giù la pozza làvade ’ste gambe che ci’hài più pulce te che sette cagne. Va’ giù la pozza làvade ’ste gambe che ci’hài più pulce te che sette cagne. Marèlla che stai sul letto e lunga e stésa mentre io sto fòri co’ ’na gamba tésa. Marèlla che stai sul letto e lunga e stésa mentre io sto fòri co’ ’na gamba tésa. Affàcciade a la finestra o bella bionda per nome io te chiamo Veneranda. In mezzo al petto tua ’na cerqua tonda e ce voj venì’ io a bàtte’ la ghianda. E ce voj venì’ io a bàtte’ la ghianda ’n ce vorrei lascià’ manco ’na fronda. E se ce vengo io la ghianda a bàtte’ non ce vojo lassà’ manco le brance. Affàcciade a la finestra o bella bionda per nome io te chiamo Veneranda. In mezzo al petto tua ’na cerqua tonda e ce voj venì’ io a bàtte’ la ghianda. E ce voj venì’ io a bàtte’ la ghianda ’n ce vorrei lascià’ manco ’na fronda.. E se ce vengo io la ghianda a bàtte’ non ce vojo lassà’ manco le brance. Voj benediri lo fiore de riso boccuccia riderella ma dammi un bacio. Boccuccia riderella ma dammi un bacio môro contento e vado in paradiso. Boccuccia riderella un bacio damme môro contento io vado in locànde. Voj benediri lo fiore de riso boccuccia riderella ma dammi un bacio. Boccuccia riderella ma dammi un bacio môro contento e vado in paradiso. Boccuccia riderella un bacio damme môro contento io vado in locànde. Questo si cantava al saltarello, ma io ormai comincio ad essere un po’ vecchia, la voce non ce l’ho più, allora, sai, e un po’ faticoso cantarlo: il saltarello sarebbe da dare tre botte, ma io non gliela faccio, ne darò due, tanto sarà uguale. Questo se cantàa al saltarèllo, ma io ormai comincio a èsse’ ’mpo’ vecchia, la voce ’n ce l’ho più, allora sai è ’mpo’ fadìga a cantàllo: ’l saltarèllo sarìa da da’ tre botte, ma tre botte io ’n gné la fô, ne darò due, tanto sarà uguale1. Voj benediri la resta del pesce 1 Negli stornelli a ballo (saltarello) la testimone riprende fedelmente la melodia degli stornelli a la paroncina. Unica variante è rappresentata dal fatto che in questo caso la sezione “ritornellata” anziché due volte, viene eseguita tre volte (… a tre bòtte). 390 Voj benediri la resta del pesce che la mio amore tiene due ragazze. (bis) E lo mio amore tiéne due ragazze e di lasciarne una ià rincresce. (bis) E di lasciarne una ià rincresce d’amàrle tutte e due non ci’arièsce. (bis) che la mio amore tiene due ragazze. (bis) E lo mio amore tiéne due ragazze e di lasciarne una ià rincresce. (bis) E di lasciarne una ià rincresce d’amàrle tutte e due non ci’arièsce. (bis) Mi sono innamoràdo di tre zoppe tutte e tre le vojo métte’ all’arte. (bis) Una la metto a cùce ’n’antra a tèsse’ la più bellina per dormì’ a la notte. (ter) Mi sono innamoràdo di tre zoppe tutte e tre le vojo métte’ all’arte. (bis) Una la metto a cùce ’n’antra a tèsse’ la più bellina per dormì’ a la notte. (ter) Presto alla fiera! Presto alla fiera! “Presto alla fiera e tardi alla battaglia!”- dicìa mi’ socero, quanno c’era la fiera a Montalbò’. Se portàa a vènde’ ’n toro, ’na vacca, i pùi, dìndi e oghe. Toccàa alsàsse a bonóra, fa’ tutte le faccènne, magnàmma ’n boccó de pa’ e via carcà’ ’na canè’ sulla testa. A me me ’l dicìa quanno c’era da portà’ ’l peso, scinó ce gèra solo ’l capoccia e la vergàra. Partìsci da casa co’ ’sta canè’ sulla testa, pîna de paja e sopra ce se mettìa ’ste bestie. Fèmma la spara col fazzoletto de scòrsa d’àrbolo, e lì ce se mettìa la canè’ pîna de ’ste bestie, anca trenta chili de peso: sci non c’era la spara, te averìa sfónnàdo la testa. Sci c’era du’ canè’, ce gèmma in tre: io più forte de mezzo, da ’na parte mi’ sòcera e da cuéll’altra mi’ cugnàda che “Presto alla fiera e tardi alla battaglia” – diceva mio suocero, quando c’era la fiera a Montalboddo. Si portavano a vendere un toro, una vacca, i polli, tacchini e oche. Bisognava alzarsi di buon’ora, fare tutte le faccende, mangiavamo un boccone di pane e via a caricare una canestra sulla testa. A me me lo diceva quando c’era da portare il peso, se no ci andavano solo il capoccia e la vergara. Partivi da casa con questa canestra sulla testa, piena di paglia e sopra ci si mettevano queste bestie. Facevamo la ‘spara’ col fazzoletto di scorza d’albero, e lì (sopra) ci si metteva la canestra piena di queste bestie, anche trenta chili di peso: se non ci fosse stata la ‘spara’ ti avrebbe sfondato la testa. Se c’erano due canestre, ci andavamo in tre: io, la più forte, in mezzo, da una parte mia suocera e da quell’altra mia 391 ’ncó era minorènne, ma era ora da cominciàccela a portà’ a la fiera per vènde’ anca a lìa. Era carina, anca lìa ha troàdo ’l ragazzo presto e ha sposàdo a 17 anni, per necessidà. Finànta che cìa a lìa lì casa me passàa mèjo, perché cìa una da confidàmme e po’ cuélla stèra dalla parte mia: se comprendémma. I genidóri era solo fadìga, sul laóro non sìa da discórre’, da rìde’; noà ’nvéce sótta sótta fèmma ’mpo’ de nigò. Quanno ’rcojémma le légna, l’òmini podàa o scapecciàa ’mpo’ da lóngo e lì sci che parlàmma dei pagni, le mode, le scarpe, i capìi, i ragazzi che la domannàa. cognata che ancora era minorenne, ma era ora da cominciare a portarla alla fiera, per vendere anche lei. Era carina, anche lei ha trovato presto il fidanzato ed ha sposato a 17 anni, per necessità. Fino a quando avevo lei in casa, mi passava meglio, perché avevo una con cui confidarmi e poi quella stava dalla parte mia: ci comprendevamo. Per i genitori c’era solo la fatica, sul lavoro non si doveva discorrere, né ridere; noi invece, sotto sotto, facevamo un po’ di tutto. Quando raccoglievamo la legna, gli uomini potavano o capitozzavano un po’ lontani, allora in quei momenti sì che parlavamo dei vestiti, delle mode, delle scarpe, dei capelli, dei ragazzi che la domandavano. Fèra la caridà ai soldàdi Faceva la carità ai soldati A tempo de guerra ce capidàa ’sti soldadi, ié guardàa a ’sta cognàda mia e dicìa: “Questa ancó’ non bòno!” Era del 1931, prò già signorinella. Certo vedìa a me, vent’anni, era bòna ma solo che n’èra per lóra, tanto nìa paura! Guardàa sempre basso, parìa che ìa perso cualchicò’. Prò anca a cuélli c’era cualchiduna che ié fèra la caridà: chi l’averà fatto pei soldi, chi pe’ la compasció, chi cìa cuél vizio non guardàa e non pensàa gnè. Anca sci armanìa pîne, dobo a cualchidù’ ié toccàa a fa’ da padre. Se dicìa: “L’occhi chi ié l’ha fatti l’ha Al tempo di guerra ci capitavano questi soldati, che guardavano questa mia cognata e dicevano: “Questa ancora non ‘bòna’!” Era del 1931, però già signorinella. Certo vedevano me, vent’anni, ero ‘bòna’, ma solo che non ero per loro: tanto non ne avevo paura! Guardavo sempre basso, sembrava che avessi perduto qualcosa. Però anche a quelli c’era qualcuna che gli faceva la carità: chi l’avrà fatto per soldi, chi per pena, chi aveva quel vizio non guardava e non pensava a niente. Anche se rimaneva incinta, dopo a qualcuno gli toccava fare da padre. Si diceva: “Gli occhi chi gliel’ha 392 fatti, le scarpe cualchidù’ ié le farà!” C’era una a Morro d’Alba, cìa ’mbranco de monelli, per campà’ ’l marìdo è gido a fadigà’ da lóngo: quattro o cinque anni n’è ’rnùdo mae. La moje è ’rmàsta incinta, ha scritto al marìdo, ha ditto: “ ’L sai che t’ho ’nsumbiàdo ’mpo’ de tempo fa: me so’ ’rtroàda gràida!” Lu’ ’mpezzo ci’hà pensàdo e po’, era ’nalfabédo, i’hà fatto rispónne’ da n’amìgo che ié leggìa le lettre e gli risponnìa: “Stade be’, vo’ Marianna? Lassàde che la gente diga!” Era cuéi tempi che ’n tra marìdo e móje se dèrene del ‘vu’. Era ’rmàsto soddisfatto: tanto ne campàa sette como otto. fatti l’ha fatti, le scarpe qualcuno gliele farà!”/. Una a Morro d’Alba, aveva un branco di monelli; per campare il marito era andato a lavorare lontano: in quattro cinque anni non è mai tornato. La moglie è rimasta incinta, ha scritto al marito, ha detto: “Lo sai che ti ho sognato un po’ di tempo fa: mi sono ritrovata incinta!” Lui per un po’ ci ha pensato e poi, era analfabeta, le ha fatto rispondere da un amico che gli leggeva le lettere e le rispondeva: “ State bene, voi Marianna? Lasciate che la gente dica!” Erano quei tempi in cui tra marito e moglie si davano del ‘voi’. Era rimasto soddisfatto: tanto ne manteneva sette tanto otto. Se ogni bacio facesse un buco… Se ’gni bacio fèsse ’n bugio… Anche quando ero giovane io, andava di moda darsi del ‘voi’. Con il mio fidanzato ci siamo scritti per cinque mesi, io non lo conoscevo e lui mi dava del ‘voi’; non vedevo l’ora che ritornasse per conoscerlo. Lui mi aveva visto in piazza a Montalboddo, me lo spiegava nelle lettere, ma non mi risultava che io lo conoscessi, lo vedevo nella fotografia. Quando è ritornato in licenza l’ho fatto sospirare un po’, però non gli avevo assicurato niente nelle lettere ma, siccome era tanto romantico, dopo tre quattro volte che veniva lì casa, l’ascoltavo, poi pensavo alla romanticheria delle lettere, delle cartoline (mi scriveva tutti i giorni! Mi aveva dedicato una Anca quanno era giovena io, gèra de moda a dàsse del ‘voi’. Co’ mi’ ragazzo ce sémo scritti cinque mesi, io ne ’l conoscìo e lu’ me dèra del voi; me sapìa miànno che ’rvenìa pe’ conóscelo. Lu’ a me mìa visto ’nté la piazza a Montalbò’, me spiegàa ’nté le lettre, ma io non me risultàa da conóscelo, ’l vidìa solo ’nté l’arsomèjo. Quanno è ’rvenùdo a licensa, l’ho fatto sospirà’ ’mpo’, perché non ìa siguràdo gnè ’nté le léttre, ma siccome ch’era tanto romantico, dobo tre quattro sere che venìa lì casa, l’ascoltàa, po’ arpensàa la romanticidà delle léttre cartoline (tutti i giorni 393 me scrivìa, mìa dedigado ’na cansó’) non i’hò ditto scì, ma l’ha capìda pe’ la timidezza che era a nùmbero uno! M’ha sapùdo pïà’ a pogo a pogo, s’avansàa, prò sci sgaràa ’n tantì’... sùbbedo ’l muso! Pensàde vuà... con cinque mesi che ce scrivémma ’na licènsa de 15 giorni. Ìa domannàdo ’l paré’ dai genidóri mia sci podìa venì’ tutte le sere lì casa e lóra i’hà ditto de scì. Alle due era sempre lì finànta le dieci de sera: ànsi era ’rvenùdo pe’ la licènsa agrìgola pe’ iudà’ ’nté casa sua! Alla madìna s’ammazzàa lì e dobo mezzogiorno venìa da noà. Dicìa ’l padre: “Tira più ’n pelo che ’mpàr de bua!” A pensà’ che, finìda la licènsa, è ’rpartìdo, mango ’n bacio non ce sémo dàtti. Pensade vuà como era rùstiga e vergognósa io, ma ’sti genidóri te mettìa ’na soggezió’: non dovìsci fatte métte’ le ma’ addòsso, per caridà! Guai sci se vidìa a dàsse ’n bacétto! Pôrétta a me como era addrìa, peggio delle ròde de rimorchio. Ha ùdo pacènsia a sopportàmme, sci era n’antro sa quante le ò mìa mannàdo ’nté cuél paese! Envéce lu’ me portàa rispetto e coscì stèra tranquillo sotta l’arme. Pensàa: “Se vergogna de me, co’ l’altri non ce va scigùro!” Io ié volìa be’, allora ’na ’olta, dobo ’mpo’ de tempo, ié l’ho ditto a mamma: “Ma’, stasera ié do ’n bacio!” Sapéde que m’ha ditto? M’ha ditto che ’na bardàscia ’mpo’ matta dicìa coscì: “Se ’gni bacio fèsse ’n canzone!) non gli ho detto sì, ma l’ha capito che la mia timidezza, che era al numero uno. Mi ha saputo prendere a poco a poco, si avvicinava, però se sgarrava un pochino…, subito il muso! Pensate voi… con cinque mesi che ci scrivevamo, una licenza di quindici giorni. Aveva domandato il consenso dei miei genitori se poteva venire tutte le sere e loro gli hanno detto di sì. Alle due era sempre lì fino alla dieci di sera: anzi era ritornato per la licenza agricola per aiutare a casa sua! La mattina si ammazzava lì (a casa sua) e dopo mezzogiorno veniva da noi. Diceva il padre: “Tira di più un pelo che un paio di buoi!” A pensare che, finita la licenza, è ripartito: nemmeno un bacio ci siamo dati. Pensate voi come io ero rustica e vergognosa, ma i miei genitori ti mettevano soggezione: non dovevi farti mettere le mani addosso, per carità! Guai se vedevano a darsi un bacetto! Povera me, come ero indietro, peggio delle ruote del rimorchio. (Il mio fidanzato) ha avuto pazienza a sopportarmi; se fosse stato un altro, sa quante volte mi avrebbe mandato a quel paese! Invece lui mi portava rispetto e così stava tranquillo sotto le armi. Pensava: “Si vergogna di me, con gli altri non ci va di sicuro!” Io gli volevo bene, allora una volta, dopo un po’ di tempo, gliel’ho detto a mamma: “Mamma, stasera gli do un bacio!” Sapete che mi ha detto? Mi ha detto che una ragazza un po’ matta diceva così: “Se ogni bacio facesse un 394 bugio, la faccia mia sarìa ’na grattacacia!” Prò co’ mamma ’n se sturzàa tanto eh!, perché era sempre ’nté ’l mezzo ai pìa. Io ’l volìa vicino: io fadigàa e lu’ ìa da sta’ bòno. Quanno c’era ’l fié’ venìa aiudà’, fèra la foja pei baci, venìa sul moro a fa’ la foja, prò dovìa montà’ su prima de me co’ la scala sul moro e ìa da ’rcalà’ giù dobo, ché scinó vedìa le gambe e mamma sbruntolàa. Mudàmma i baci ’nté la bigattiera, lu’ dovìa sta’ da cima della scala a librétto, sempre più ’n su de me. Ma que era rigoroso gnè a casa nostra! Pôretti, la testa ié portàa alluscì! Pe’ ’n cónto è stado più bello, dobo era tutto da scoprì’, cuélla vo’ era troppo, ma adè’ scòde i segni! Penso ch’era mejo cuélla vo’; adè a quarant’anni se sèntene vecchie: pôrette, comènsa a dòddici’anni! per fòrsa, ancó’ la pianta n’ha finìdo de cresce già la sfrutta. C’è ’sto dittado che dice: “ ’L pa’ de ’n giorno, ’l vi’ de n’anno e la móje de ventun anno!”. Sarìa più normale nigò: vedede, anca i frutti sci li cojéde quanno n’è madùri, n’è bòni; anca l’erba, falciàlla quanno è troppa tenera, è amara e non fa rescìda gnè! È tutti parogù’ che l’émo ’ntési di’ da cuélli più granni de noà. Solo che io, quanno comènso a scrìe, vô da ’na montagna all’altra. Per como ho comensàdo a scrìe ’l primo capìdolo so’ gida a finì’ fòri strada: que voléde fa! Po’ a scrìe ’sto dialetto de Montalbò’, me s’è scancellàdo tutto cuél pogo d’italiano buco, la mia faccia sarebbe una grattacacio!” Però con mamma non si scherzava tanto eh, perché era sempre in mezzo ai piedi. Io lo volevo vicino (il ragazzo): io lavoravo e lui doveva stare buono. Quando c’era il fieno, lui veniva ad aiutare, faceva la foglia per i bachi, però doveva salire sul moro con la scala prima di me e doveva scendere dopo, perché sennò vedeva le gambe e mamma brontolava. Mutavamo i bachi nella bigattiera, lui doveva stare in cima alla scala a libretto, sempre più in alto di me. Ma che era rigoroso per niente a casa nostra! Poveretti, la testa gli ragionava così! Per un conto è stato più bello, dopo c’era tutto da scoprire; quella volta era troppo, ma adesso si oltrepassano i segni! Penso che era meglio quella volta; adesso a quarant’anni si sentono vecchie: poverette, cominciano a dodici anni! Per forza, ancora la pianta non ha finito di crescere, già la sfruttano. C’è anche questo proverbio che dice: Pane di un giorno, vino da un anno e moglie da ventun anno!” Sarebbe più normale ogni cosa: vedete, anche i frutti se li cogliete quando non sono maturi, non sono buoni; anche l’erba, a falciarla quando è troppo tenera, è amara e non fa alcuna riuscita! Sono tutti paragoni che abbiamo sentito da quelli più grandi di noi. Solo che io, quando comincio a scrivere, vado da una montagna all’altra. Per come ho cominciato a scrivere il primo capitolo sono andata a finire fuori strada: che volete farci! Poi a scrivere questo dialetto di Montalboddo, mi 395 che parlào. Per fortuna cuélli ’sperti la capisce! Certo, sci me désse ’l vódo, non mèredo niè, tutt’al più 10 senza 0. si è cancellato tutto quel poco italiano che parlavo. Per fortuna quelli esperti comprendono questa cosa! Certo, se mi dessero il voto, non merito niente, tutt’al più 10 senza lo zero. Le parte dei padrù’ Le parti del padrone Adè ’rgambio montagna. Dobo del ’45, co’ mille lire non ce venìa più mango ’na ròda e più gèmma avanti non valìa più i soldi e i lavori non c’era, la gente ié toccàa gi’ all’estro, sci volìa campà’. Prima de la guèra i padrù’ pïàa ’l settanta per cento, ma quanno è ’rivàdi l’alliàdi i padrù non li volìa più. Pe’ ’mpo’ de tempo volìa la midà, e dobo piano piano ha comensàdo a vèndeje la terra ai contadì’, hanne ’bassado ’mpo’ la gresta; non c’era più la moda de portàje tante robbe como prima. ’Na vo’ se comensàa a San Tomasso volìa un par de cappù’, dodici ôi al mese, a segondo como c’era ’l fonno granno: più ettri era e più robba volìa. E po’ ’l giorno della vigilia de Nadàle’n’antro paro, anno nòvo un par de pollàstre, a carnoàle un par de galline, a Pasqua un par de galli e 50 ôi, agosto ’n’antro par de galli. C’era ’sta moda coscì: era chiamado ’l conto dei cavalletti, sarìa ’l gra’ medùdo. Se contàa quanti cavalletti o barchette, ogni cavalletto pïàa ’na spiga de gra’, 30 - 40 - 100 a segondo Adesso cambio di nuovo montagna. Dopo il ’45 con mille lire non ci veniva più nemmeno una ruota e più andavamo avanti e meno valevano i soldi e i lavori non c’erano; alla gente toccava andare all’estero se voleva campare. Prima della guerra i padroni prendevano il settanta per cento, ma quando sono arrivati gli Alleati, (questi) non volevano più i padroni. Per un po’ di tempo (i padroni) volevano la metà e dopo, piano piano hanno cominciato a vendere la terra ai contadini, hanno abbassato un po’ la cresta. Non c’era più l’usanza di portargli tante robe come prima. Una volta si cominciava a San Tommaso, volevano un paio di capponi, dodici uova la mese, a seconda di come era grande il fondo: più ettari erano e più cose volevano. E poi il giorno della vigilia di Natale un altro paio (di capponi), all’Anno nuovo un paio di pollastre, a Carnevale un paio di galline, a Pasqua un paio di galli e cinquanta uova, ad agosto un altro paio di galli. C’era questa moda così: era chiamata ‘il conto dei cavalletti’, che sarebbe quello del grano mietuto. Si contavano quanti ‘cavalletti’ o ‘barchette’ (c’erano), ogni cavalletto 396 la terra che cìsci. Dobo se fèra ’n mazzo de spighe e ce volìa i galli: “ Sor padró’, ecco qua il conto dei cavalletti col par de galli” E lóra, i padrù’, tiràa ’l conto quanto gra’ polìa fa’ cuéll’anno, e na sbajava ’mbelpò’. Dobo medùdo se gèra a spigà’ e su cuélla ’l padró’ non podìa prodènde. Allora i contadì più astùdi stroppàa anca le spighe ’nté ’l cavalletto e fèra dei bei mazzi; cualchidù’ ié tajàa la paja, allora pïàa meno posto, prò la sostanza ce n’era de più. E cuélla se battìa, quanno era finido’l barcó’. E quanno s’ardunàa ’l gra’, cioè i côi, pistacchiàa forte ’nté le spighe, cascàa ’l gra’ ’nté ’l fonno del biroccio. E pizzighetto per viaggio, quanno era notte la sera, la merce umentàa e cuéllo servìa pei pui, e dobo tanto li volìa anche lóra: sci fregàa dieci chili, cinque i’armagnàa lóra. Noà, quann’ero giovena, non c’émma i padrù’ rabbìdi, era du’ zidelle, c’era ’l fattore ’mpo’ più ’taccàdo, ma a batte’ ce mannàa ’l pesadóre, e cuéllo scì ’l trattasci be’, era mòrbedo, lassàa ’l quintale de gra’ pe’ la giovena. Ma c’era ’mpadró’ ròspo ’mbelpo’ che al contadì’ ié contàa anca i capi dell’ua, però ’l contadì’ era più furbo, ié li sgranciàa tutti, ié levàa i schiantelli per magnàlli: armanìa ’l conto dei capi, ma lo raspo era ’rmàsto ’mpo’ rado, lo spénnàa. E dopo quanno ’l padró’ l’arcontàa, ’l con- si prendeva una spiga di grano, trenta quaranta cento a seconda della terra che avevi. Dopo si faceva un mazzo di spighe e ci volevano i galli: “Signor padrone, ecco qua il conto dei cavalletti con un paio di galli” E loro, i padroni, tiravano il conto di quanto grano poteva fare in quell’anno e non sbagliavano molto. Dopo la mietitura si andava a raccogliere la spiga e su quella il padrone non poteva pretendere (nulla). Allora i contadini più astuti strappavano anche le spighe nel ‘cavalletto’ e facevano dei bei mazzi; qualcuno gli tagliava la paglia, allora prendeva minor posto, però la sostanza ce n’era di più. E quella (spiga) si trebbiava, quando era finito il barcone. E quando si radunava il grano, cioè i ‘covi’, si calpestava forte sopra le spighe, cascava il grano sul fondo del biroccio. E un pizzichetto per viaggio, quando arrivava la sera, la merce aumentava e quel (grano) serviva per i polli, dopo tanto li volevano anche loro (i padroni): se (il contadino) fregava dieci chili, cinque li mangiavano di nuovo loro, (i padroni). Noi, quando ero non sposata, non avevamo i padroni troppo esigenti, erano due zitelle, c’era il fattore un po’ più tirchio, ma a trebbiare ci mandava il pesatore e quello, se lo trattavi bene, era morbido: lasciava il quintale di grano per la giovane. Un padrone molto avaro che al contadino contava anche i grappoli d’uva, però il contadino era più furbo, glieli rimpiccioliva tutti: gli levava i racimoli per mangiarseli, così rimaneva il conto dei grappoli, ma il raspo rimaneva un po’ rado, era come spennato. E 397 Triste sorte di un galletto: sta per diventare cappone. Da notare: paletta con la cenere, filo, forbici, piatto per porvi la cresta e i testicoli. Non si spreca niente! (foto Dino Ferro 1968). tadì’ ié dicìa: “Sor padró’, ambè?” Disperado rispondìa: “I capi so’ tutti mal ridotti!” C’è tanto da capì’, “chi maneggia ’l mèle se licca le déda” l’arcontàa sempre babbo mia. C’era cuàlche padró’ che cìa quattro o cinque fónni vicini, allora cualchidù’ invidiàa cuéll’altri contadì’ e pe’ passà’ da bravi col padró’, sci ié se ’vansàa un par de quintali de gra’ dell’anno prima, ’l buttàa drendo al barcó’ per fasse volé’ be’ dopo, quando il padrone lo raccontava, il contadino gli diceva: “Signor padrone, ebbene?” Disperato rispondeva: “I grappoli sono tutti malridotti!” C’è tanto da capire, “chi maneggia il miele si lecca le dita!” – lo raccontava sempre il mio babbo. C’era qualche padrone che aveva quattro o cinque poderi vicini, allora qualcuno invidiava gli altri contadini e, per passare da bravo con il padrone, se gli si avanzava un paio di quintali di grano dell’anno precedente, lo buttava in 398 e per fa’ véde’ che era più brào de cuéll’altri contadì’. Coscì ’l padró’ ce pïàa la parte du’ ’olte. Se ’mparàa da cualchidù’ ché se fèra insieme a ’rdunà’ i côi, prò era radi cuéi vampolù. mezzo al barcone per farsi volere bene e per far vedere che era più bravo di quegli altri contadini. Così il padrone ci prendeva la parte due volte. Si imparavano (queste cose) da qualcuno con cui si faceva insieme per radunare i covi, però erano rari questi spacconi. “Padró non bòno, iéma iéma!” “Padró’ non bòno, iéma iéma!” Quante se n’arcontàa, quanno se fèra insieme! C’era ai tempi nostri ’sta moda chì. Se compràa ’l porchetto da piccolo e se tenìa finànta che n’era grasso be’. A tempo de’ frutti che cascàa della jànda, se ’nfilsàa ’mpiro per terra e lì venìa ligàdo ’l porchétto co’ n’anèllo ’nté ’l collo e ’na cadèna lónga tre mèdri, la collàna, ’na spèce de ’n ca’. Sci l’anello n’era messo be’, sci ’n t’accorgìsci, se podìa strozzà’. ’N contadì’ cìa ligàdo la scróa e gni’è capidàdo proprio cuscì. I’hà toccàdo a gi’ a dillo alla padrona. I’hà ditto: “Sòra padrona, me s’è strozzàda la scróa!” “E como ha fatto?” E questo ’gnorante, ’mpo’ ’ndeficènte i’hà ditto: “ Como io fusse ’l piròzzolo e vu’ foste la scróa: s’è giràda tónno tónno e s’è strozzàda!” Questo i’hà datto della scróa e lìa ’n s’accòrta! Adè ve digo anca cuésta. C’era ’l padró’ che dicìa al contadì’: “Sta sentì’ a me!” Cìa du’ bóssoli ligàdi co’ ’na corda, da l’uno all’altro c’iaìa Quante ce ne raccontavamo quando si lavorava insieme! Ai tempi nostri c’era questa usanza qui. Si comprava il porco da piccolo e lo si teneva fino a quando non era ben grasso. Al tempo dei frutti, quando cadeva la ghianda, si infilzava un bastone per terra e lì il porco veniva legato con un anello nel collo, il collare, e una catena lunga tre metri, come fosse un cane. Se l’anello non era messo bene, se non ti accorgevi, (il porco) si poteva strozzare. Un contadino ci aveva legato la scrofa e non gli è capitato proprio così? È dovuto andare a dirlo alla padrona. Le ha detto: “Signora padrona, mi si è strozzata la scrofa!” “ E come ha fatto?” E questo (contadino) ignorante e un po’ deficiente le ha detto: “Come io fossi il bastone e voi la scrofa: (questa) si è girata attorno e s’è strozzata!” Questo le ha dato della scrofa e lei non si è accorta! Adesso vi racconto anche questa. C’era il padrone che diceva al contadino: “Stammi a sentire!” Aveva due barattoli legati con una corda, dall’uno all’altro c’era una diecina di metri di 399 ’na decina de mèdri de distànsa. ’L padró’ i’hà ditto al contadì’: “Tène ’sto bóssolo ligàdo co’ ’sta corda e io vô da cuell’àltra parte co’ ’st’altro bóssolo. T’ho da dì’ ’na cosa che a voce ’n te ’l posso dì’! Funsióna como en talèfeno, ’scolta be’!” Allora parla ’l padró’ al contadì’, ié dice: “Sci no’ lassi gi’ de rubbà’, te manno via dal fónno!” ’L contadì’ i’arispónne: “Non se sente sor padró’!” ’L padró’ ié fa: “Scambiàmose, vène te de qua, che là ce vèngo io”. Allora parla ’l contadì’, ié dice: “Sci no’ lassi gi’ a gi’ co’ mi’ móje, te mànno a cuell’àltro mónno!” ’L padró’ ié fa: “Hai ragió’, ’n se sente gnè!” Coscì ’l contadì’ i’hà tappàdo la bocca al padró’ che i’hà convenùdo de sta’ sitto, ma n’è che se podìa sturzà’ tanto coi padrù’, sa! Quanno rivàane lì casa, iè se fèra l’inchino e l’òmmini cavàane ’l cappello. L’Alliàdi, durante la guerra non i volìa sentì’ mango lomminà’ e i padrù’ era doventàdi ’mpo’ più mòrbedi, perché ha vedùdo e ’ntéso che l’alliàdi non li podéa véde’, non volìa sentì’ a di’ ‘sor padró’ ’. “Padró’ non bòno! Iéma iéma”- dicea tutti. È venùda ’mpo’ più d’uguajànsa. E guai sci i partigiani te vedìa a portàje la robba: spettàa ’nté le strade e te la levàa. Cualchidù ha duràdo ’mpo’ de più a portàje ’sti rigàli de nascosto. Ìa portàdo ’na legge bella, ma ha duràdo pogo: era ’na pianta sensa ràdighe! distanza. Il padrone gli ha detto al contadino: “Tieni questo barattolo legato con questa corda e io vado da quell’altra parte con quest’altro barattolo. Ti devo dire una cosa che a voce non te la posso dire! Funziona come un telefono, ascolta bene!” Allora parla il padrone al contadino, gli dice: “Se non smetti di rubare, ti mando via dal fondo!” Il contadino gli risponde: “Non si sente, signor padrone!” Il padrone gli fa: “Scambiamoci (di posto), vieni tu qua e là ci vengo io. Allora parla il contadino, gli dice: “Se non smetti di andare con mia moglie, ti mando in quell’altro mondo!” Il padrone gli fa: “Hai ragione, non si sente niente!” Così il contadino gli ha chiuso la bocca al padrone, che ha trovato più conveniente stare zitto, ma non è che si potesse scherzare tanto con i padroni, sa! Quando arrivavano a casa, gli si faceva l’inchino e gli uomini si toglievano il cappello. Gli Alleati, durante la guerra, non li volevano sentire neppure nominare e i padroni erano diventati più morbidi, perché avevano visto e capito che gli Alleati non li potevano vedere, non volevano sentir dire “signor padrone”. “Padró’ non bòno! Iéma iéma”- dicevano tutti. È arrivata un po’ più d’uguaglianza. E guai se i partigiani ti vedevano portare la roba (ai padroni): aspettavano sulle strade e te la levavano. Qualcuno ha durato un po’ di più a portargli questi regali di nascosto. Era stata introdotta una legge bella, ma è durato poco: era una pianta senza radici! Allora i padroni si sono cambiati 400 Allora i padrù’ s’è gambiàdi ’mpo’, ce dèra la midà, ce lassàa fa’ ’mpo’ più como ce parìa, non ce stèra più sopra, perché anca lóra pensàa: “Chissà che vènto tirarà?” un po’, ci davano la metà, ci lasciavano fare un po’ più come ci pareva, non ci stavano più sopra, perché anche loro pensavano: “Chissà quale vento tirerà?” Le votazió’ Le votazioni Gémo avanti. Dobo del ’46 avémo fatto le vodàzió’. Como ce rispettàa chi fèra da capo! Vecchi, malàdi, donne gràvide le gèrene a pïà’ a casa. Anca io allàttàa: m’è venùdi a pïà’ e m’ha fatto passà’ annànse a tutti perché cìa la monèlla piccola e po’ m’ha ’rportàdo a casa sùbbedo. Mai servìda luscì! C’era maghine de piazza, ’n càmio’, tutti i pòghi mezzi che c’era in circolazzió’, funsionàa tutti, anca i cavàlli. È gìdo su De Gasperi. Io non sapìa mango che partìdo fusse: l’ho dimannàdo a mi’ marìdo, perché noà contadì’ non ce fregàa que partìdo era: cercàmma solo de sta’ ’mpo’ mèjo, tanto la fadìga nostra ’n ce la levàa nisciù’, ma almànco avésse réso ’mpo’ de più! Scinónca sci cualchidù’ te mettìa a testa d’in giù, non te cascàa mango ’n centè. A cuéi tempi dopo guerra c’era della gente che passàa ’nté le strade che dicìa: “Contadì’! Volede fadigà’ de notte? Ve metterémo la luce ’nté i campi! Volede l’acqua drendo casa? Scoperchiade ’l tetto!” La prima ’olta émo vodàdo solo sul comù’: ’na fila de persóne fina Andiamo avanti. Dopo, nel ’46, abbiamo fatto le votazioni. Come ci rispettava quello che faceva da capo! Andavano a prendere a casa vecchi, ammalati, donne gravide. Anche io allattavo: mi sono venuti a prendere a casa e mi hanno fatto passare avanti a tutti, perché avevo la monella piccola e poi mi hanno riportato a casa subito. Mai servita così! C’erano macchine di piazza, un camion, tutti i pochi mezzi che c’erano in circolazione, funzionavano tutti, anche i cavalli. È andato su (al governo) De Gasperi. Io non sapevo nemmeno di quale partito fosse, l’ho domandato a mio marito, perché a noi contadini ci importava di quale partito fosse: cercavamo solo di stare un po’ meglio, tanto la fatica nostra non ce la levava nessuno, ma almeno avesse reso un po’ di più, sennò se qualcuno ti metteva a testa in giù, non ti cascava neppure un centesimo! In quei tempi del dopoguerra c’era della gente che passava per le strade e diceva: “Contadini, Volete lavorare di notte? Vi metteremo la luce nei campi! Volete l’acqua dentro casa? Scoperchiate il tetto!” La prima volta abbiamo votato sol401 da pìa delle scale. Ma no’ ’na fila: tutte le scale pîne. Lassàa solo ’mpo’ de spazio per cuélli che ìa da vodà’ alla svéltra. E la gente dicìa: “Cuélla è più bella?!” E como me tant’altri colla trippa grossa, vecchi e malàdi. Dobo, quando s’è arvodàdo altre ô, s’è vodàdo quajù da pìa del paése ’ndó che c’era la madernidà, e po’, tra San Francesco e le scòle, c’è ’n curidóre: se boccàa oltra, lì c’era ’na stansa e lì s’arvodàa. ’Nsomma, non c’era più ’na gran folla como la prima ’olta, ma cuélla vo’, non m’arcòrdo be’, ma me pare che c’era ’na scheda sola, con du’ partìdi1. Era più fàciole: n’era como adè’! Ma pensàde vuà! Cuélla vo’ ce n’era parecchi inalfabèda: sci c’era adè’ con tutte ’ste schede, manco le roprìa pe’ gnè’. tanto sul Comune: una fila di persone fino in fondo alle scale. Ma non una fila: tutte le scale piene. Era lasciato un po’ di spazio per quelli che dovevano votare alla svelta. E la gente diceva: “Quella è più bella?” E, come me, tanti altri con la pancia grossa, vecchi e ammalati. Dopo, quando si è votato altre volte, si è votato quaggiù in fondo al paese, dove c’era la Maternità e, poi, tra San Francesco e le scuole, c’è un corridoio: si entrava lì oltre, lì c’era una stanza e lì si votava. Insomma, non c’era più una gran folla come la prima volta. Quella volta, non mi ricordo bene, ma mi pare che c’era una scheda sola, con due partiti. Era più facile: non era come adesso! Ma pensate voi! Quella volta c’erano parecchi analfabeti: se fosse stato adesso con tutte queste schede, nemmeno le avrebbero aperte. La marcànsìa dei Alliàdi La mercanzia degli Alleati Dal’45 in poi è ’rvenùdi tutti i soldàdi che era in guerra; questi ch’era chì da noà lìa mannàdi a casa. S’è comensàdo a ricostruì’ ’l paese, i negòzzi, a tirà’ fòri la robba piattàda, ha ’rpïàdo ’mpo’ nigò, anca sci ’l Dal ’45 in poi sono ritornati tutti i soldati che erano in guerra; questi che erano qui da noi li avevano mandati a casa. Si è cominciato a ricostruire il paese, i negozi, a tirare fuori la roba nascosta, ha ripreso un po’ tutto, anche 1 La testimone si riferisce evidentemente alle prime libere elezioni del secondo dopoguerra, ossia alle elezioni amministrative comunali che si sono tenute il 31 marzo 1946. In quella circostanza ad Ostra furono presentate due sole liste: una del partito della Democrazia Cristiana, che ottenne 1732 voti (47,05%) e 4 seggi, e la lista “Libertà e lavoro”, costituita da una coalizione di sinistra, che ottenne 1949 voti (52,95%) e 16 seggi. 402 paesàno cuélla vo’ stèra peggio che ’l contadì’. Partìdi i Tedeschi, i’Alleàdi ìa ropèrto tutti l’ammàssi, e la gente coi cariòli, coi biròcci a gi’ a pïà’ ’l gra’; chi non ce lìa ’l mezzo... su le spalle, du’ tre viaggi, como le formìghe rabbìde oh! C’era la fame, hanne ’rvedùdo ’l gra’; era ’mpo’ d’anni che se magnàa ’l pa’ nero e ’n se sapìa de que era fatto: dicìa coi gamboló del granturco, cuéll’anima che cìa drendo. Dobo ’l ’45 anca al mulì’ se podìa gi’ a macenà’, scinó prima ’l macenàa col macenetto del caffè pe’ fa’ la crescia. Pe’ macenà’ ’n chilo de gra’ ce volìa mezza giornàda: te partìa la vòja de magnalla! L’alliàdi, quanno è partìdi, ha lassàdo le copèrte de lana, per lo meno cuélli che dormìa da noà, tante cioccolàde, saponette, le ‘checchès 33’ (cuscì era chiamàde le sigarette), tante cassette piccole e lónghe, tutte de fèro (cuélle che ce tenìa le munizzió’); cuélle piccole servìa pe’ i monelli pe’ gi’ a scòla. Era propio adàtte, perché ce gèra tutta la marcànsìa, solo che toccàa a sta’ ’tènti sci s’arrabiàa ché, sci se dèrene ’na sborciàda ’ntè la testa, ié la spaccàa. E mantenìa fresca anca ’na fétta de pa’ perché era de fèro. Dobo è sgappàde le penne, la bìrro, perché prima c’era l’nchiostro ’nté i calamàri. L’Alliàdi ìa portàdo le novidà: medicinali, diserbanti; ìa fatto sparì pidocchi, pulce, piàttole che cìa se il paesano quella volta stava peggio del contadino. Partiti i Tedeschi, gli Alleati avevano riaperto tutti gli ammassi, e la gente con i ‘carrioli’, con i barrocci andava a prendere il grano; chi non aveva il mezzo… sulle spalle, due tre viaggi, come le formiche rabbiose. Oh!, c’era la fame, hanno visto di nuovo il grano; erano alcuni anni che mangiavano il pane nero e non si sapeva di che cosa fosse fatto: dicevano con i gambi del granturco, quell’anima che avevano dentro. Dopo il ’45 anche al mulino si poteva andare a macinare, sennò prima lo si macinava con il macinino del caffè per fare la crescia. Per macinare un chilo di grano ci voleva mezza giornata: ti partiva la voglia di mangiarla (la crescia)! Gli Alleati, quando sono partiti, hanno lasciato le coperte di lana, per lo meno quelli che dormivano da noi, tante cioccolate, saponette, le ‘checchès 33’ (così erano chiamate le sigarette), tante cassette piccole e lunghe, tutte di ferro (quelle in cui tenevano le munizioni); quelle piccole servivano ai monelli per andare a scuola. Erano proprio adatte, perché ci entrava tutta la mercanzia, solo che bisognava stare attenti che (i ragazzi) non si arrabbiassero perché, se uno dava una ‘sborsata’ in testa (ad un altro), gliela spaccava. (La borsa) manteneva fresca anche la fetta di pane, perché era di ferro. Dopo sono uscite le penne, le biro, perché prima c’era l’inchiostro nei calamai. Gli Alleati avevano portato le novità: medicinali, diser403 invasi tutti. Passàa co’ la Cicogna, bassi, e dèra ’sto diditì. Po’ i Merigàni ha visto che l’Italiani era ’rmasti spellàdi como ’mpidocchio, cuscì ce mannàa tanta robba como scarpe, pagni, como famo noà adè al terso monno. Io i monelli li vestìo con cuélla robba lì per fina che n’èra granni. C’era tante bancarelle e coi soldi ce s’ariàa mejo che gìlli a comprà’ ’nté le botteghe, scinonca dai spazzì’, che ’rcominciààa a ’rvenì’ ’nté la piazza, como prima del ’39, sarìa prima della guerra. Io ’sti pagni li lavàa bembè e po’ cuélli che era granni e lónghi, i sdrucìa e po’ i modellàa ’nté la vida de ’sti monelli. Ahivoja, venìa bellini, e li vestìa be’ per cambialli scinoàltro: con cuélli nòvi noà non ce se rivàa coi sghei! Dobo la guerra a noà, per quanto ch’émma passado tutto cuéllo che v’ho ’rcontàdo, ce parìa ’mpo’ da risorge’. Scì: se pagàa tutte le medicine, se pagàa l’ospedale tanto la classe pôretta, como i ricchi; ’mbelpo’ i poretti toccàa a morì’ che non s’arivàa coi soldi, non c’era pensió’. C’era i sanadori per chi era tupergolosi, ma cuélla vo’ non c’era le medicine. Per guarisse, sci gèsci all’ospedale te mettìa ’nté l’isolamento: io m’arcordo che dobo ’l fronte ce n’era parecchi, maladi muntubè’: è che fumma stadi vicino alla gente de tutte le razze, como sémo rivàdi anca adè. Ce s’ammalàa anca pe’ la scar- banti; avevano fatto sparire pidocchi, pulci, piattole che ci avevano invaso tutti. Passavano bassi con la Cicogna e davano questo D.D.T. Poi gli Americani hanno visto che gli Italiani erano rimasti spellati come un pidocchio, così ci mandavano tanta roba come scarpe, vestiti, come noi facciamo adesso con il terzo mondo. Io vestivo i bambini con quella roba lì fino a quando non erano grandi. C’erano tante bancarelle e con i soldi ci si arrivava meglio piuttosto che andarli a comprare nei negozi, sennò dagli ambulanti, che riprendevano a venire in piazza, come prima del ’39, che sarebbe prima della guerra. Io questi vestiti li lavavo perbene e poi quelli che erano grandi e lunghi, li scucivo e poi li modellavo sulla vita di questi monelli. Hai voglia!, venivano bellini, e li vestivo bene, se non altro per cambiarli. Noi non ci arrivavamo con i soldi a comprare quelli nuovi. Dopo la guerra a noi, per quanto avessimo passato tutto quello che vi ho raccontato, ci sembrava di risorgere. Sì: si pagavano tutte le medicine, pagavano l’ospedale sia la classe povera come i ricchi; a molti poveri toccava morire, perché non ci arrivavano con i soldi, non c’era la pensione. C’erano i sanatori per quelli che erano tubercolosi, ma quella volta non c’erano medicine. Per guarirsi, se andavi all’ospedale, ti mettevano in isolamento: io mi ricordo che dopo il fronte ce n’erano parecchi, molto malati: è che eravamo stati vicino a gente di tutte le razze, come siamo arrivati adesso. Ci 404 La maestra Maria Frati della Scuola Elementare di Pianello osserva i suoi alunni, alcuni dei quali hanno come borsa le cassette di ferro, lasciate dagli Alleati. Da notare il primo camion di Pianello, un “Trerò” motore Lancia, riportato dall’Eritrea nel 1947 da Pianelli Ezio (Coll. Gabriele Balducci). sidà del magnà’ e po’ ai contadì’ toccàa a fadigà’ como i muli, sudàde ma de que razza!, non podìsci riguardatte per gnè. si ammalava anche per la scarsità di cibo e poi ai contadini toccava faticare come i muli, sudate ma di quale razza: non potevi riguardarti per niente. 405 Cuélla vo’ era anca peggio d’adè Quella volta era anche peggio di adesso Dobo la guerra ci’hà volsùdo cualc’ànno per méttese ’mpo’ al paro, però i padrù cìa lassado ’mpo’ de più la corda lenta, ma non podìsci scherzà’ tanto: c’era ’l dazio su tante cose, como sul vi’, sul porchetto. Se ne podìa tené’ anca due, uno pe’ ’l padró’ uno pel contadì’; però quanno se mazzàa bisognàa pesàllo e gi’ a staccà’ la bolletta, e po’ a portà’ la coradella la milza la bisciga i budelli a fa’ vede’ al vedrinàio. Un passo all’adrèdo: i primi anni ce sia da portà’ anca le pacche, dopo le bollàa coll’inchiostro, e cuél pezzo de códiga toccàa a buttàlla via. Se piàa ’l biroccio co’ le vacche e via a Montalbò, mettìa le pacche sopra a ’na taola e se coprìa co’ ninsòlo. Eh fjòli! Cuélla vo’ era anca peggio d’adè: prima che m’arcordo io c’era ’l dazio e po’ è venudo l’ige, la Vanoni, adè l’iva, e po’ adè tutte ’ste ’rtroàde: sanne anca ’ndó la vai a fa’. Alla madina basta calzà’ ’n bottó’, da drendo a cuélla specie de televisió’, te vène fòra anca cuél che fèsci cinquat’anni fa: tante le ò te fa ’rmàne’ matto: tocca ’n tasto e vène fòra ’l casàdo, ’l nome e anca quanti anni hai. Pe’ ’n conto fa be’ perdéro scinò noaltri vecchiotti sci vai drendo al Comù’ ’rmani ’mpappinàdo, non t’arcordi de gnè. ’Na ò me so’ ’ncontrada ’nté ’st’ufìci: a ’n omo i’hà domannàdo: “Quanno sede nado?” Dopo la guerra c’è voluto qualche anno per mettersi un po’ alla pari, però i padroni ci avevano lasciato un po’ di più la corda allentata, ma non potevi scherzare tanto: c’era il dazio su tante cose, come sul vino, sul porco. Se ne potevano tenere due ( di porci), uno per il padrone e uno per il contadino, però, quando lo si ammazzava, bisognava pesarlo, andare a staccare la bolletta e poi portare il fegato, la milza, la vescica, i budelli per farli vedere al veterinario. Un passo indietro: i primi anni ci si dovevano portare anche le pacche, dopo le bollava con l’inchiostro e quel pezzo di cotica lì toccava buttarla via. Si prendeva il biroccio con le vacche e via a Montalboddo; si mettevano le pacche sopra una tavola e si coprivano con un lenzuolo. Eh, figli! Quella volta era anche peggio di adesso: prima, per come mi ricordo io, c’era il dazio e poi è venuta l’I.G.E., la Vanoni, adesso l’I.V.A., e poi adesso tutte queste trovate: sanno anche dove la vai a fare. La mattina basta spingere un bottone, da dentro quella specie di televisore, ti viene fuori anche quello che facevi cinquant’anni fa: talvolta ti fa rimanere stupefatto: tocca un tasto e viene fuori il cognome, il nome e anche quanti anni hai. Per un conto fa bene davvero, sennò noi vecchiotti, se vai dentro il Comune, rimani impappinato, non ti ricordi di niente. Una volta mi sono incontrata in questi uffici. A un uomo (l’impiegato) gli ha domandato: “Quando siete nato?” 406 E lu’ i’hà risposto: “Me pare ’l trentadue d’agosto”. E cuélli s’è datti ’ na sguardada. “Sarà al 31, ’l trentadue non c’è!” E cuéllo: “Como non c’è! È vero che non so’ gido a scòla, ma troppi ce n’è de ’sti nùmberi!” Embè pacensia! Beadi ’sti arnòi che polene studià’, divertìsse, fumà’, gi’ an giro colle belle atomòbole, comènsane a fa’ l’amore quanno se la sèntene, e non ci’hà la tessera invelle. Finànta che fadìga i vecchi ié va a rode ónte, ma quanno non ci’hanne più chi manna la barca, dobo como fanne? Io a ’sti arnòi ié ’l vengo dicenno, ma da ’na recchia ié bócca e cuéll’altra ié scappa. Ma... ce vorrà pensà’ anche lóra. Muntubè na vène anca dai genidóri, e comènsa a di’: cuéllo ’l fa, cuéll’altro ce l’ha! Dobo vôle esse’ dal paro. Piacìa anca a noà a èsse’ dal paro, ma dicìa ’sti genidori: “Guardade a chi è peggio, mai a chi è mejo! ’L pesce grosso ha usado sempre!” E lui ha risposto: “Mi pare il trentadue di agosto” E quelli si sono scambiati uno sguardo. “Sarà il trentuno, il trentadue non c’è!” E quello: “Come non c’è! È vero che non sono andato a scuola, ma troppi ce n’è di questi numeri!” Ebbene, pazienza! Beati questi rinnovi (i giovani) che possono studiare, divertirsi, fumare, andare in giro con le belle automobili, cominciano a fare l’amore quando se la sentono e non hanno la tessera in nessuna cosa. Fino a quando lavorano i vecchi, (i giovani) vanno a ruote unte, ma quando non avranno più chi manda la barca come faranno? Io a questi rinnovi glielo vado dicendo, ma gli entra da un orecchio e da quell’altro gli esce. Ma… ci vorranno pensare anche loro! Molto dipende anche dai genitori, ma (i figli) cominciano a dire: “Quello lo fa, quell’altro ce l’ha!” Dopo vogliono essere alla pari. Piaceva anche a noi stare alla pari, ma dicevano i genitori: “Guardate a chi sta peggio, mai a chi sta meglio! Il pesce grosso c’è sempre stato!”. L’artigianelli Gli artigianelli Presempio dobo la guerra la gioventù ’na ’òlta all’anno ce gèra a tajà’ i capii, anca cualchidù’ a fa’ la permanente; noà i tajamma ’n tra sorelle, cuélle due più granne portàa la coda: cuélla vo’ gèra de moda. I capii se lavàa, como me pare d’avèvve ditto, ’na ’olta al mese Per esempio dopo la guerra la gioventù una volta l’anno andava a tagliare i capelli, qualcuna anche a farsi la permanente; noi li tagliavamo tra sorelle, quelle due più grandi portavano la coda: quella volta andava di moda. I capelli si lavavano, come mi pare d’avervi detto, una volta al mese, 407 Il “calsolàro” con i suoi lavoranti ed apprendisti. Attorno al deschetto da sinistra: Armando Ferretti, (dietro a lui Claudia Bedini), Nazzareno Bedini, (vicino alla porta la moglie Agata con in braccio il figlio Mariano), -?-, Santino Catozzi. Davanti, a terra, al centro: Giovanni Pagoni. Foto 1923 o 1924 (coll. Paola Staccioli). quanno se fèra la boccàda, co’ la ranna venìa lucidi, altro che adè tutte le teste ’ncollàde con cuél gel, con cuélla pulendèlla colorada. Quanno fumma ’mpo’ scapecciàde, ’na goccia d’oio d’olìa; cualchidù’, chi podìa, compràa la brillantina e l’òmmini la vasellina. Dobo cuàlche cridigó’ dicìa: “Vedi, cuéllo o cuélla como è liccadi, como è paccó’, como fa la vernia!” Cuélla vo’, per tajà’ i capìi l’ommini, fèra venì’ ’nté ’n casa ’l barbiere. E po’ ’nté ’n casa ce venìa anca l’altri artigianelli: lo sparanghino, quando si faceva il bucato: con il ranno venivano lucidi, altro che adesso tutte le testa incollate con quel gel, con quella polentina colorata. Quando eravamo un po’ scompigliate, una goccia d’olio d’oliva; qualcuno, chi poteva, comprava la brillantina e gli uomini la vasellina. Dopo qualche criticone diceva: Vedi, quello o quella come sono raffinati, come sono vanitosi, come fanno il lusso!” Quella volta, per tagliare i capelli, gli uomini facevano venire il barbiere in casa. E poi in casa ci venivano anche gli altri artigianelli: lo ‘sparanghino’, che sarebbe il 408 Il “calzolaro” Mazzanti Erminio e i suoi lavoranti. Da sinistra: -?-, Amleto Pettinari, Erminio Mazzanti, Arduino Barchiesi e Vito Massi (coll. Carlo Barchiesi). che sarìa ’rconciapiatti, pigne, brocche. E po’ ’l sarto a tajà’ calse e camicie pe’ l’ommini, ’l maniscalco a tajà’ l’ogna alle vacche, a metteje i ferri, anca chi cìa i cavalli i ferààa ’nté ’n casa. concia piatti, pignatte, brocche. E poi il sarto per tagliare pantaloni e camicie per gli uomini, il maniscalco a tagliare l’unghia alle vacche, a mettergli i ferri; anche chi aveva i cavalli li ferrava in casa. 409 I muratori della ditta Staccioli Dante ed altri lavoratori, in posa dopo il pranzo per la costruzione della casa colonica Frontini Attilio di Censi Buffarini. In prima fila da sinistra: 3°Giuseppe Bedini – 4° Sigifredo (Sisè) Argentati – 7° Vincenzo Cerioni –8° Emilio Argentati – 9° Severino Paradisi – 10° Agostino Cecchini - 11° Giacomo Carloni (Cannó). In seconda fila: 2° Lino Staccioli - 4ª Stamura Cappannari - 6° Nazzareno Lenci – 7° Sante Panni. In terza fila: 3° Piero Staccioli – 4° Arturo Argentati – 5° Quinto Bruschi – 7ª Nella Staccioli – 8° Nazzareno Olivetti –dietro il 9° Dante Catozzi – 10° Dante Staccioli – 12° Ciriaco Zingaretti – 13° Filiberto Stefanelli – 14° Carlino Frattesi. Nell’ultima fila in alto: 6° Vincenzo Frulla – 7° Carlo Bedini – 8° Giuseppe Selvetti - 9ª Mallucci Giselda – 12° Oddino Argentati – 15° Riccardo Frattesi. Anno 1940 circa (coll. Tarcisio Paradisi). Quanta gente pe’ la caridà Quanta gente per la carità! E po’ quanta gente pe’ la caridà: ’na fetta de pa’, du’ capi d’ua, ’na fascina, ’n panetto de granturco per fa’ la pulenta, ’na sessolàda de gra’, du’ teghe de fàa. Èrane ’mbellipo’: chi era struppi, chi era stadi al malincònio, chi stèra male e ’n podìa gi’ aiudà’ a fadigà’ ai conta- Quanta gente (passava nelle case per chiedere) la carità: una fetta di pane, due grappoli d’uva, una fascina, un panetto di granturco per fare la polenta, una sessolata di grano, due teghe di fava. Erano molti: alcuni erano storpi, alcuni erano stati al manicomio, altri stavano male e non potevano andare ad 410 di’, allora passàa spesso. Scindó ’l paesà’ che podìa all’istàde gèra a spigà’ dai contadì’ grossi e dobo portàa alla fi’ a batte la spiga e ce ’rcavàa anca ’na quintalàda de gra’. E ’n n’era gnè? Quanno rivàa lì casa cualchidù’, envéce de chiamà’, se mettìa a sède’ da pìa de le scale, dicìa ’l padarnostro forte, coscì la vergara sentìa e ié portàa ’na fètta de pa’; sci ’ncuntràa sul mezzogiorno, anca ’mpiàtto de minè’, tutti contenti ringrazziàa. C’era una ch’era ’mpo’ ’ndeficènte, se mettìa a cantà’ “ ’l biròccio ’l va, ’l biròccio ’l va, la ròda sens’ónto non gira va, ’l biroccio…”. Cantàa sempre cuèlla e giogàa co’ ’na sfiézza dei capìi: cuélla prò volìa bé’, oltra che sci ’ncontràa all’ora de magnà’ domannàa nigò. Ormai la conoscemma, ié dèmma sempre ’mpar de bicchierétti de vi’, era sempre mezza brilla, cantàa como ’n’armellìna1. Ié dicémma noà: “’L Padarnostro pei morti quanno ’l dìghi?” Rispónnìa: “Domà’!” Tutte le ’olte risponnìa luscì. C’era, envéce ’n’ômo che dicìa, quanno gèra pe’ la caridà: “Fàde la caridà a ’sto pôretto, che io ci’ho tre gambe e du calsétte!” Era ’l sòppo de Falconàra, cìa tre gambe, nisciuna para! Po’ cualchidù’ passàa anca co’ le aiutare i contadini, allora passavano spesso. Sennò il paesano che poteva all’estate andava a raccogliere la spiga dai contadini grossi e dopo portava a trebbiare la spiga e ci ricavava anche un quintale di grano. E non era niente? Quando arrivavano a casa nostra, alcuni, invece di chiamare, si mettevano a sedere in fondo alle scale, dicevano il Paternostro forte, così la vergara sentiva e gli portava una fetta di pane; se incontrava sul mezzogiorno, anche un piatto di minestra; tutti contenti ringraziavano. Una un po’ deficiente si metteva a cantare: “Il biroccio va, il biroccio va, la ruota senza olio non gira, il biroccio va”. Cantava sempre quella e giocava con una ciocca di capelli: quella però voleva bere oltre che, se incontrava l’ora di mangiare, domandava ogni cosa. Ormai la conoscevamo, le davamo un paio di bicchieretti di vino, era sempre mezza brilla, cantava come una “armellina”. Noi le dicevamo: “Il Paternostro per i morti quando lo dici?”. Rispondeva: “Domani!”. Tutte le volte rispondeva così. C’era invece un uomo che diceva, quando andava per l’elemosina: “Fate la carità a questo poveretto, perché io ho tre gambe e due calzini!”. Era lo zoppo di Falconara, aveva tre gambe, nessuna pari! Non si capisce perché abbia tanto da cantare l’ermellino o l’ermellino femmina, specie se gli dovesse capitare di rimanere sulla neve senza pelliccia (tutti gli danno la caccia!), ma l’espressione “cantare come un armellino” è molto diffuso nella nostra zona. 411 tràppole, dicìa a uno che i’èra morta ’na bestia, a ’n’antro ié dèra a créde’ che cìa ûdo le disgrazie in faméja, a ’n’antro che cìa tanto male ’nté ’n casa e ’n se sapìa manco de ’ndó era, ma tanto babbo dicìa sempre coscì: “La caridà è sempre mèjo a fàlla che ricévela!” Allora n’émo mannàdo mae via a nisciù’ sensa niè’. In cuànto alle bestie ne morìa muntebe’: a cualchidù’ capàce ié moria ’mporchétto col malrossì, ’na pegora gonfia, ’na vacca gràida, ’n toro strozzàdo, gonfio, col tèdeno: podìa èssece ’n tra l’erba o ’l fié ’mpezzo de fero. Se dicìa: “Ha ’ngollàdo ’n corpo strano!” Allora morìa e dobo cuél contadì’, sci succedìa de rado, be’ tanto tanto, ma cualchidù’ anca du’ ’olte all’anno e allora se gèra a gambe per aria, perché ’l padró’, sci era ’na cosa chiara ’mbè ne risentìa, ma sci se strozzàa non volìa sapé’ gnè’, cìsci da sta’ ’tènti. Le cadéne era legàde ’ntè le greppie co’ ’n’anèllo de ferro; tante le ò ce se ’ngainàa l’erba, ’l fiè’, e l’anello non giràa be’, se ’ncastràa, i tori era fogósi e se ’ngainàa facile. ’L porchétto, quanno magnàa ’mpo’ de più, sci iè piàa freddo, ié se fermàa la digestió’ e ié pïàa ’l malrossì, tutte bóje grosse. Cualchidù’ ’l magnàa, ’mbellepo’ le bestie le vendìa a bassa macellerìa, sci’nn’èra ’l male brutto, scindó venìa ’l vedrinàio, fèra fa’ ’na buga, buttàa nigò drendo e ce buttàa l’acido, Poi qualcuno passava anche con le frottole, uno diceva che gli era morta una bestia, un altro dava a intendere che aveva avuto disgrazie in famiglia, un altro che aveva tanto male in casa e non si sapeva neppure di dove era, ma tanto babbo diceva sempre così: “La carità è sempre meglio farla che riceverla!”. Allora non abbiamo mandato mai via nessuno senza niente. In quanto alle bestie ne morivano molte: a qualcuno moriva un porco con il “malrossino”, una pecora gonfia, una vacca gravida, un toro strozzato, gonfio, con il tetano: poteva esserci tra l’erba e il fieno un pezzo di ferro. Si diceva: “Ha ingoiato un corpo estraneo!”. Allora moriva e dopo quel contadino, se succedeva raramente, beh tanto tanto, ma qualcuno anche due volte l’anno e allora si andava a gambe per aria perché il padrone, se era una cosa chiara, ebbene non faceva il risentito, ma se (un bestia) si strozzava non voleva sapere niente: dovevi stare attento. Le catene erano legate nelle greppie con un anello di ferro; talvolta ci si avvolgeva l’erba, il fieno, e l’anello non girava bene, si incastrava, i tori erano focosi e si incastravano facilmente. Il porco, quando mangiava un po’ di più, se prendeva freddo, gli si fermava la digestione e gli prendeva il “malrossino”: tutte croste grosse. Qualcuno lo mangiava, molti le bestie le vendevano a bassa macelleria, se non era un brutto male, sennò veniva il veterinario, faceva fare una buca, buttava tutto dentro e ci metteva l’acido, così non la 412 coscì na magnài de scigùro. Cualchidù’ ce fèra ’l sapó’, ’l so fa’ anch’io: ve do la ricetta? E po’ no: ne ’l dòpra più nisciù’! Quanno c’era la carne a bassa macellerìa ’l basso popolo su ’l paese ce curìa a compràlla, perché costàa pogo pogo. C’era n’omo che sgaggiàa la bassa macelleria, la gente prò volìa sapé’ de qu’èra morta la bestia. Allora lu’ sapé’ que risponnìa? Dicìa sempre coscì: “È cascàda da ’na pianta!” La morte de ’na bestia pe’ ’l contadì’ era ’na disgrazzia grossa muntubè’, guasci como la morte de ’n cristià: te rompìa l’ossi, coscì c’era chi ce gèra per la cerca pe’ podé’ gi’ annànse co’ la faméja. Po’ pe’ la cerca ce venìa tutti i fradi del contornàle como c’era ’na festicciòla; comensàa da Morro, da Monte Latiero, San Marcello, Bel vedé’, Madonna del Sole, la Piéi, ’l Palazzo lì la Collina, Montenovo, Santa Maria Appara, Madonna della Rosa, Capuccì’. De cuésti chì, quanno ero piccola, passàa padre Candio co’ la scattolétta del tabacco, cuéllo sfarinàdo che se nàsa, e tre quattro sacchettìne de somènte como grugni, l’ansalàda riccia, ravanelli, erbette, càoli, e tutte somènte che pïàa co’ le ma’ sua. E noà dicémma: “Va’ a còje l’ansalàda dei fradi!” E po’ passàa cuéllo de lo stidùdo del Sagro Côre, Don Antò, che mantenìa tanti monelli. De vendégne ’rpassàa i capuccì col cavàllo e cìa mangiavi di sicuro. Qualcuno ci faceva il sapone, lo so fare anch’io, ve la do la ricetta? E poi no: non lo adopera più nessuno! Quando c’era la carne a bassa macelleria, il basso popolo sul paese correva a comprarla, perché costava poco poco. C’era un uomo che gridava la bassa macelleria, la gente però voleva sapere di che cosa era morta la bestia. Allora lui sapete che cosa rispondeva? Diceva sempre così: “È caduta da una pianta!”. La morte di una bestia per il contadino era una disgrazia molto grossa, quasi come la morte di un cristiano: ti rompeva le ossa, così c’era chi ci andava per la questua per potere andare avanti con la famiglia. Poi per la questua ci venivano tutti i frati dei dintorni appena c’era una piccola festa; cominciavano da Morro, da Montelatiero, San Marcello, Belvedere, Madonna del Sole, la Pieve, il Palazzo sulla Collina, Montenovo, Santa Maria Apparve, Madonna della Rosa, Cap puccini. Di questi qui, quando ero piccola passava Padre Candio con la scatoletta di tabacco, quello sbriciolato che si annusa, e tre quattro sacchettine di semi come cicoria, insalata riccia, ravanelli, prezzemolo, cavoli: tutti i semi che prendeva con le mani sue. E noi dicevamo: “Vai a cogliere l’insalata dei frati!” E poi passava quello dell’istituto Sacro Cuore, Don Antonio, che manteneva tanti monelli. Al tempo della vendemmia passavano di nuovo i 413 ’n barìlle pel mosto, mistigàa biango e róscio; po’ quanno che capitàsci lì te dèra da bé’: era bòno, come rosadèllo. Sci ce gèsci a fa’ n’ufìzzio, te dèra anca da magnà’: i fradi era caridadéoli. E po’ passàa pe’ la caridà chi sonàa le campane, ‘campanari’ dicemma: como se presentàa nùgolo da temporale, comensàa a sonà’ a distesa. Oh ’n ve dirò: tante le ò no, ma muntubè’ sbalgìa via troni e gràndola. Cappuccini con il cavallo e avevano un barile per il mosto, mischiavano bianco e rosso; poi quando capitavi lì (nel convento) ti davano da bere: era buono come rosatello. Se ci andavi a fare un uffizio ti davano anche da mangiare: i frati erano caritatevoli. E poi passavano per la carità quelli che suonavano le campane, li chiamavamo “campanari”: come si presentava un nuvolone da temporale, cominciavano a suonare a distesa. Oh vi dirò, talvolta no, ma molto spesso allontanavano tuoni e grandine. Giuà, Achille e ’l ventarèllo dei maccarù’ Giovanni, Achille, la distilleria e il venticello dei maccheroni C’era po’ uno, Giuà de Belvedé’, che ’n passàa propio pe’ la caridà; passàa p’avé cualcò e fa ’na chiacchieràda. Stade a sentì’ co’ dicìa de su’ móje: “Mi’ móje, sci la vedéde coscì, n’è bella sapé; ma, sci la vedésta nuda, è grassa como n’ardèlletto, cioìle como ’na goccia de latte, mòrbeda como ’n massolétto de sógna. Quanno l’ho sposàda, alla sera l’ho messa sopra al comò, ho pïàdo la luma, so’ gido tónno tónno, ’n sapìa com’era fatte le donne: quanno l’ho vista, so’ ’rmàsto matto in pìa!” Ancó’ non v’ho ditto d’Achille, che passàa co’ la trappola del martarello. Sci sapìa che cualchidù’ ’l chiappàa, ié dèra ’na piccola parte, e lu’ ce guadagnàa. Se ’ncollàa co’ ’mbastó’ ’sta trappola sulle spalle e via! Ìa inven C’era poi uno, Giovanni di Belvedere, che non passava proprio per l’elemosina; passava per avere qualcosa, per fare una chiacchierata. State a sentire cosa diceva di sua moglie: “Mia moglie, se la vedete così, non è bella sapete! Ma se la vedeste nuda è grassa come un pezzetto di lardo, bianca come una goccia di latte, morbida come un bel tocco di grasso. Quando l’ho sposata, la sera l’ho messa sopra al comò, ho preso il lume, le sono andato intorno; non sapevo come erano fatte le donne: quando l’ho vista sono rimasto matto in piedi”. Ancora non vi ho detto di Achille, che passava con la trappola del martarello. Se sapeva che qualcuno lo acchiappava, gli dava una piccola parte e lui ci guadagnava. Si caricava con un bastone questa trappola sulle spalle e via! Aveva inventato 414 tàdo da per lù’sta cansoncì’1: Martarèllo disgraziàdo ‘nté la trappola ce sai boccàdo, otto coniji che m’hai mazzàdo nove oghétte i’hai biùdo ’l sangue E adesso morirai infilsàdo, o martarello disgraziato! Intànto lu’, con cuél càolo de martarello tutti ié dèra cualchiccò’: òvi, farina, gra’, pa’. Dobo, quanno cìa ’mbel gruzzolo, ’l lassàa ’nté ’na casa e, quanno se gèra a Montalbò col biroccio, ié se portàa o ce mannàa cualchidù’ col cavallo: cìa tornacónto! Sai, sci cualchidù’ la sapìa lónga, ’n gné volìa da’ gnè, dicìa ridènno: “Adè’ ve ’l lasso dentórno casa!” Tutti émma paura, perché sci boccàa ’nté ’mpullàro dei pùi te li pulìa tutti. Anca i cunìi se tenìa fòra sotta ai pajàri. Se fèra ’n baldacchì prima de vià’ ’l pajàro co’ ’na capra de legno, como d’oppio, d’olmo, che fèra da cappannèllo, co’ ’mpo’ de pali tàole, se fèra como ’n connìgolo; de fòri se mettìa ’na réde, con i bastù’ che la tenìa tesa. Lì se buttàa giù da magnà’: i conìi gèra fòra e drendo, ma sci ce boccàa ’l martarèllo, ni salvàsci per gnè. Anca i pui che dormìa fora su le piante stèra pogo scigùri: c’era anca le dòndole, che se rampìna su le piante, ié béve ’l sangue. Anca noà, che c’émo ’n fosso vicino, st’anno c’è boccàde 1 da solo questa canzoncina: “Martarèllo disgraziàdo ‘nté la trappola ce sai boccàdo, otto coniji che m’hai mazzàdo nove oghétte i’hai biùdo ’l sangue E adesso morirai infilsàdo, o martarello disgraziato!” Intanto a lui, con quel cavolo di martarello, tutti gli davano qualche cosa: uova, farina, grano, pane. Dopo, quando aveva un bel gruzzolo, lo lasciava in una casa e, quando si andava a Montalboddo con il biroccio, gli si portava oppure ci mandava qualcuno con il cavallo: ci aveva il tornaconto! Sai, se qualcuno la sapeva lunga, non gli voleva dare niente, diceva ridendo: “Adesso ve lo lascio intorno casa!”. Tutti avevamo paura perché se (il martarello) entrava in un pollaio ti puliva tutti i polli. Anche i conigli si tenevano fuori sotto i pagliai. Prima di avviare il pagliaio, si faceva un baldacchino con una capra di legno come d’oppio, d’olmo, che faceva da capannello, con un po’ di pali e tavole, si faceva come un cunicolo; di fuori si metteva una rete con i bastoni che la tenevano tesa. Lì si buttava giù da mangiare: i conigli andavano fuori e dentro ma, se ci entrava il martarello, non li salvavi per niente. Anche i polli che dormivano fuori sulle piante stavano poco sicuri: c’erano anche le donnole che si arrampicano sulle piante e gli bevono il sangue. Anche a noi, che abbiamo un fosso vicino, quest’anno ci Vedere la trascrizione musicale a p. 494. 415 ’ste bestiàcce e ci’hà portàdo via ’na ventìna de pulcì piccoli; ’l bucio ’n c’era invèlle, ce semo còrti che c’era la réde ’nsanguenàda. L’ha fatti pas sà’ lì ’l bugio era malappena pogo più de ’n dèdo grosso, ma pe’ la fame tutti se dà da fa’: brestiàcce e cristià’. Allora n’ho fenìdo de di’ che ’na ò su da Don Antò’, ‘l Sagro Côre,’ndó che adè’ c’è la casa pell’ansiàni, cuélla vo’ c’era como n’orfanatrofio ’ndó stèra i fjòli sensa padre o madre; c’è stàdo ’mpo’ d’anni anca mi’ nipóde. Prima che sposàsse, l’ho guardàdo io, dobo ho pïàdo marìdo, i genidóri sua ’l padre in guerra, la madre stèra sempre male po’ è morta, i nònnesi gné la fèra più che era vecchi, l’ha messo lì drendo sinànta a ùnneci anni, dobo l’ha mannàdo ’nté n’antro orfanadrofio più da lóngo. Allora lì ’nté cuél Istidudo c’era ’na ò la distellerìa, affare de settant’anni fa, allora lì fadigàa tanti operai. A mezzogiorno sonàa la seréna, fischiàa, se sentìa tanti chilomedri da lóngo; allora quanno sentémma a fischià’, via sùbbedo se lassàa gi’ a fadigà’. Dicémma: “È ora a gì a métte’ per dente!” Anca quanno vèro le ùnnici e mezzo, tiràa cuél ventarello fresco, dicémma: “Cuésto è ’l ventarèllo dei maccarù’, perché da noà de mededùre se fèra spesso ’sti maccarù’. Dobo sposàda envéce se dicìa “ ’l ventarello dei tajolì’”: s’èra gambiàda la mùsega! ’Na cosa è a magnà’ co’ la furcìna, ’n’antra cosa sono entrate queste bestiacce e ci hanno portato via una ventina di pulcini piccoli; il buco non c’era in nessun posto, ci siamo accorti perché c’era la rete insanguinata. Li ha fatti passare lì, il buco era a malapena poco più (grande) di un dito grosso, ma per la fame tutti si danno da fare, bestiacce e cristiani. Allora non ho finito di dire che una volta su da Don Antonio, sul Sacro Cuore, dove adesso c’è la casa per gli anziani, quella volta c’era come un orfanotrofio dove stavano i figlioli senza padre o madre; c’è stato per un po’ di anni anche mio nipote. Prima che io sposassi, l’ho guardato io, dopo ho preso marito, dei genitori suoi il padre (era) in guerra, la madre stava sempre male, poi è morta, i nonni non gliela facevano più (a guardarlo) perché erano vecchi, (allora) l’hanno messo lì dentro sino a undici anni, dopo l’hanno mandato in un altro orfanotrofio più lontano. Allora lì in quell’istituto c’era una volta la distilleria, si tratta di settant’anni fa, allora lì lavoravano tanti operai. A mezzogiorno suonava la sirena, fischiava, si sentiva tanti chilometri lontano; allora quando sentivamo fischiare, si smetteva subito di lavorare. Dicevamo: “È ora di andare a mettere per dente!”. Anche quando, verso le undici e mezzo, tirava quel venticello fresco, dicevamo: “Questo è il venticello dei maccheroni”, perché da noi, durante la mietitura, si facevano spesso i maccheroni. Dopo sposata, invece, si diceva “il venticello dei tagliolini”: era cambiata la musica! Una cosa è mangiare con la forchetta, 416 è magnà’ co’ la cucchiàra: du’ ore dobo avìsci più fame de prima! La fame era sempre a nùmbero uno; cuélla vo’ n’ampicciàa ’l grasso e mango la trippa, te gobbàsci be’, era como ’na stecchia! un’altra cosa è mangiare con il cucchiaio: due ore dopo avevi più fame di prima! La fame era sempre al numero uno; quella volta non impicciava il grasso e neppure la pancia, ti chinavi bene, ero come una stecca. La “Distilleria Raffineria Spiriti e Liquori F.lli Maltoni” di Ostra. Da una cartolina del 1910/12. (collezione Renato Verzolini) De tante serve ’n ce n’è una salva! Di tante serve non ce n’è una salva! ‘Rcambiamo discorso ’n’antra ô. ’Nté le faméje era guasci sempre ’na dittadùra, ’ndó c’era muntibè’ de maschi, sci non c’era ’n capoccia serio e ’mpo’ risolùdo, miga se gèra avanti. Dicìa babbo: “Quanno ’nté ’na casa canta ’na massa de galli, non se fa mae giorno!” ’Sto dittado Cambiamo discorso un’altra volta. Nelle famiglie era quasi una dittatura; dove c’erano molti maschi, se non c’era un capoccia serio e un po’ risoluto, mica si andava avanti. Diceva babbo: “Quando in una casa canta un mucchio di galli, non si fa mai giorno”. Questo proverbio vuol dire che doveva 417 servìa che dovìa comannà’ ’l capoccia solo, ma a tutti non ié gèra giù. Èrane anca 25 o 30 persone ’nté le faméje, non se podìa èsse’ tutti la stessa idea, quattro cinque nôre, una la pensàa da ’na via e una da ’n’antra; dobo anca i maschi c’era sempre la pègora nera ’nté la faméja: c’era cuéllo sottomesso e cuéllo no. C’era anca i capoccia e la vergàra falsi: a ’na nôra la coccolàa, a cuéll’altra la strapazzàa. C’èra de cuélle che ce sapìa fa’ de più, cìa più rispetto pei sòceri: davanti i liccàa e drédo fèva i corni: è capidàdo coscì anca giù casa de noà. Noà all’istàde, per sette anca otto mesi se tenìa garzó’ e serva, ché la posció’ era quìnnici èttri e le facènne quann’èra ora, toccàa fàlle: fié’, baci, falcià’, sappà’, rastellà’, da’ ’l verdoràmo, ’l sólfo, tajà’ cannédi, legna, nigò ’n se la fèra a fàlle tutte. Bòni fumma poghi, pure per cuésto ’n ce fèra fermà’ sotto la miriggia, perché notte la sera curìa i soldi e da magnà’. Serve e garzù’ dicìa: “Nùgoli e pan fresco, la notte ’l tempo bòno el giorno tristo!” Coscì se riposàane ’mpo’, ma da noà non c’era mae riposo; per quanno piovìa lassàa da pulì’ ’l magazzì’, da ’nsaccà’ ’l gra’, ’l granturco, spezzà’ i tozzi del granturco muffo pe’ i porchètti, all’inverno a filà’, ’nsómma la robba che c’era da fa’ drendo la lassàa per quanno pioìa. Io coll’ago e laóri a ferri li fèva comandare solo il capoccia, ma a tutti non andava giù. C’erano anche venticinque trenta persone nelle famiglie, non si poteva essere tutti della stessa idea. Quattro cinque nuore, una la pensava in un modo e una in un altro; dopo anche tra i maschi c’era sempre la pecora nera della famiglia: c’era quello sottomesso e quello no. C’erano anche il capoccia e la vergara falsi: coccolavano una nuora, strapazzavano l’altra. C’erano di quelle (nuore) che ci sapevano fare di più, avevano maggior rispetto per i suoceri: davanti li leccava e di dietro facevano le corna. È capitato così anche a casa nostra. D’estate, per sette otto mesi, si tenevano garzone e serva, perché il podere era di quindici ettari e le faccende, quando era l’ora, bisognava farle: fieno, bachi, falciare, zappare, rastrellare, dare il verderame, lo zolfo, tagliare i canneti, la legna, tutto quanto e non si riusciva a farle tutte. Buoni (per lavorare) eravamo pochi, pure per questo (mio suocero) non ci faceva fermare sotto l’ombra, perché, quando era sera, correvano soldi e cibo. Le serve e i garzoni dicevano: “Nuvole e pane fresco, la notte il tempo buono e il giorno cattivo!” Così si riposavano un po’, ma da noi non c’era mai riposo; per quando pioveva lasciava da pulire il magazzino, da insaccare il grano, il granturco, spezzare i tozzi del granturco ammuffito per i porci, all’inverno a filare: insomma le faccende che c’erano da fare dentro casa le lasciava per quando pioveva. Io i lavori con l’ago e con i ferri li 418 de notte, po’ quanno cìa ’sti monelli, anca finànta a mezzanotte stèra lì a sguerciàmme col lume a petrojo; quann’era la madìna ’nté ’l naso fèva du’ cappe nere, parìa la folìgena del camì’ quanno soffiàsci ’l naso, po’ toccàa a tenéllo ’mpo’ basso scidónca svejàsci ’sti bardàsci (mi’ marìdo dormìa uguale!). Quante n’ho fatte pe’ amóre! Adè’ me ’l contraccambia. Quanno c’era la serva, io era contenta muntubè, oltra che era dal par mia, cìa anca la stessa idea. Me dicìa: “Ma como fai a stàcce? Io ’n ce starìa!” A pensà’ che dobo s’è ’nnamoràda del fradèllo de mi’ marido e s’è sposàdi. Dicìa mi sòcero: “Non te namorà’ de ’na serva: de tante serve ’n ce n’è una salva!” Envéce dopo ha battùdo sotta de lìa. facevo di notte, poi, quando avevo questi monelli, anche fino a mezzanotte stavo lì a sguerciarmi con il lume a petrolio; quando era la mattina nel naso si formavano due cappe nere, pareva la fuliggine del camino: quando soffiavi il naso, poi, bisognava tenerlo (il rumore) un po’ basso, sennò svegliavi i figli (mio marito dormiva ugualmente!). Quante ne ho fatte per amore! Adesso (i figli) me lo contraccambiano. Quando c’era la serva, io ero molto contenta, oltre che era della mia età, aveva anche la stessa idea. Mi diceva: “Ma come fai a starci? Io non ci starei!” A pensare che dopo si è innamorata del fratello di mio marito e si sono sposati. Diceva mio suocero: “Non ti innamorare di una serva: di tante serve non ce n’è una salva!” Invece dopo ha sbattuto sotto di lei. ’Rvenùda a galla troppo tardo Ritornata a galla troppo tardi Finànta io era sola, me respettàa, non como a casa mia, perché c’era diferènza como ’l giorno e la notte; dobo c’è boccàda ’st’altra, la serva padrona. Pel primo tempo ié parìa mejo de me, liccàa de più, io cìa i monèlli non podìa èsse’ la prima a partì’ pel campo. Col passà’ del tempo ha conosciudo a fónno l’umòre de la bestia, arvenìa a cercà’ a me, so’ ’rvenùda a galla io, prò era troppo tardo. Quanno ié dèra ’l latte mia, tanto Fino a quando io ero l’unica nuora, (i suoceri) mi rispettavano, anche se non come a casa mia, perché c’era la differenza come tra il giorno e la notte; dopo è entrata (in famiglia) quest’altra. Al principio gli pareva migliore di me, leccava di più, io avevo i monelli e non potevo essere la prima a partire per il campo. Col passare del tempo (i suoceri) hanno conosciuto a fondo l’umore della bestia, venivano a cercarmi, sono ritornata a galla io, però era troppo tardi. Quando gli davo il latte mio, tanto 419 ’mpo’ ce volìa, a cambiàlli e daje ’l latte ’na mezz’ora: già guardàane stòrto. Non ìa compasció’ perché lóra nìa levàdi otto, e non podìa véde’ a fànne tante. Quanno fèmma colazió’ ’nté ’n casa, io era sempre l’ultima a magnà’: prima preparàa ’l taolì’, e po’ alsàa e custodìa i monèlli, ’rfà’ ’l letto, intanto lóra magnàa: scì c’era ’n piatto perù, be’, scinó a me ci’armanìa pogo gnè. Apposta so’ gida a finì male! Quanno s’argèra giù pe’ ’l campo, non dovìsci èsse’ l’ultima: éde capido che vida? Da noà questo non succedìa, babbo dicìa: “Le donne quanno scappa dalla càmbora,’l letto dev’èsse’ ’rfàtto!” Sci c’era i monelli che dormìa, quanno se svejàa custodìa i fjòli, ’rfacèa ’l letto e nisciù ié fèra la fuga. Quanno se magnàa, se spettàa a tutti: prima preparàmma i piatti pei nonni e poi i genidóri, e tutti noà, ma era guasci sempre ’n piatto perù. A segonda l’anni te fèra la parte e po’ passàa da be’, dal più grànno finanta a me, ’l caganòttole. Me dicìa: “L’ultima è la pù ’rtiràda de tutti!” un po’ (di tempo) ci voleva, a cambiarli e dargli il latte una mezz’ora: già (i suoceri) guardavano storto, non avevano compassione, perché loro ne avevano allevati otto, e non potevano vedere a farne tante. Quando facevamo colazione in casa, io ero sempre l’ultima a mangiare: prima preparavo la tavola e poi alzavo e custodivo i monelli, rifacevo il letto, intanto loro mangiavano: se c’era un piatto per uno, bene, se no per me ci rimaneva poco o niente. Apposta sono andata a finire male! Quando si ritornava per il campo, non dovevi essere l’ultima: avete capito che vita? Da noi (in casa dei miei genitori) questo non succedeva, babbo diceva: “Quando le donne escono dalla camera, il letto dev’essere rifatto!” Se c’erano i monelli che dormivano, quando questi si svegliavano, (la madre) li custodiva, rifaceva il letto e nessuno le metteva fretta. Quando si mangiava, si aspettava tutti: prima preparavamo i piatti per i nonni e poi per i genitori e tutti noi, ma c’era quasi sempre un piatto per uno. Ti facevano la parte a seconda degli anni e poi passavano da bere, dal più grande fino a me, il ‘caganottole’ (la più piccola). (Babbo) mi diceva: “L’ultima è la più magrolina di tutti!” All’ospedale All’ospedale A forsa de’nghiottì’ giù, da fadigà’ ’mbelpò’, da ’lattà’ sti pôri fjòli mia me so’ malada proprio bembè’. A forza d’inghiottire, di faticare troppo, di allattare questi poveri figli miei mi sono ammalata proprio per420 ’L dottore de casa nostra, cuéllo del Selétto, ch’era brào eh, quanno ha visto che ci’avéo ’l soffio al côre, ci’avéo n’attàcco de pleure, comensàa a buttàsse ’mpo’ male, la broncopolmonide, m’ha portàdo lu’ a l’ospedale. Ho lassàdo cuéi tre monelletti. Eeeh, quanti pianti ho fatto! Pôri cocchi. Dicéo sempre: “Io ci’hò ’sti tre fiji e ni posso gòde’” L’avéo lassàdi po’ a chi? A ma’ de cortelli, perché i sòceri i fjòli s’era stufadi i sua, non è che ié menàa, ma li sgaggiàa. Cuélla granna, pôrina avéa sei anni, ’l maschio n’avéa quattro, la piccolina l’ho lassàda a sedici mesi. Pensàde vua, como stèra su l’ospedale, ce so’ stada 7- 8 mesi. Fortuna che propio a cuéi tempi è venuda fòra la pellicinina, e me l’ho schivada co’ otto mesi d’ospedale. E fortuna i contadì’ li mettìa sotta providenza sociale che sci toccàa a pagà’, ormai era bonanima da ’mbelpo’. Fortuna cuél pôro Quattrocchi, scinò ormai sai quante le vo’ era gida a fa’ la tèra pe’ ’l cèce, là da Gatto!1 Allora lu’, envece, m’hà tenudo su l’ospedale. Luscì è passada. bene. Il dottore di casa nostra, quello di Seletto, che era bravo eh, quando ha visto che avevo il soffio al cuore, un attacco di pleurite, cominciava a mettersi un po’ male, la broncopolmonite, mi ha portato lui stesso all’ospedale. Ho lasciato quei tre monelletti. Eeeh, quanti pianti ho fatto! Poveri cocchi! Dicevo sempre “Io ho questi tre figli e non li posso godere!” L’avevo lasciati, poi, a chi? A mano di coltelli, perché i suoceri si erano già stufati dei figli loro, non è che li bastonavano, ma li sgridavano. Quella (figlia) grande, poverina, aveva sei anni, il maschio ne aveva quattro, la piccolina l’ho lasciata a sedici mesi. Pensate voi come stavo all’ospedale, ci sono stata sette otto mesi. Fortuna che proprio in quei tempi è uscita la penicillina, così me la sono schivata (la morte) con otto mesi d’ospedale. E fortuna che i contadini li metteva sotto la previdenza sociale che, se toccava pagare, ormai ero ‘bonanima’ da molto tempo. Fortuna quel povero Quattrocchi, se no ormai sai quante volte ero andata fare la terra per il cece, là da Gatto! Lui, invece, mi ha tenuto sull’ospedale. Così è passata. 1 Gatto: è il soprannome della famiglia Aguzzi, un cui membro un tempo svolgeva la funzione di custode del cimitero. Da qui l’espressione “gi’a troà a Gatto!” = andare al cimitero, ossia morire. 421 ’L latte mia alle formìghe rabbìde Il latte mio alle formiche rabbiose Quanno m’ha toccado a gi’ su l’ospedale, io cìo ’l latte como ’na mungàna, podìa avé’ pïàdo anca ’mbiscigno. M’ha toccàdo a sdovezzà’ l’ultima a sedici mesi. All’ospedale m’ha toccàdo a ’rmannà’ adrìa ’l latte che ce nìo tanto, a cavàllo co’ ’na perétta, quelle de gomma, ’na spèce de cuélle de’ cristèri, solo che anvéce del piròlo ciaìa ’na pedriòla. Coscì ’l cavào e mi’ sòcera me ’l fèra buttà’ ’ntè le formìghe rabbìde. Dicìa che ’l portàa via, mah! Io ci’hò tribbolàdo ’mbelpo’, me c’era venùde tutte tòzze, ce fèra l’impàcchi co’ l’aqua calla, col suplimàdo. Io tribbolào da ’na via, e i pôri monelletti che non ié ’l dèra più tribbolàa da ’n’antra via. Embè, ce vôle pacensia! Quando son dovuta andare all’ospedale, io avevo il latte come una mucca da latte, avrei potuto aver preso anche un bambino a balia. Ho dovuto svezzare l’ultima a sedici mesi. All’ospedale mi ha toccato mandare indietro il latte che ne avevo tanto; (dovevo) toglierlo con una peretta di gomma, una specie di quelle (che si usano per) i clisteri, solo che invece della cannula aveva un imbuto. Così lo cavavo e mia suocera me lo faceva buttare sopra le formiche rabbiose. Diceva che (le formiche) lo portavano via, mah! Io ci ho sofferto molto, mi ci erano venute due cisti, ci facevo gli impacchi con l’acqua calda, con il sublimato. Io tribolavo per un motivo e i poveri bambinetti, ai quali non glielo davo più, soffrivano per un altro motivo. Ebbene, ci vuole pazienza. “Mamma, arvène presto!” “Mamma, ritorna presto!” ’Gni tanto m’arvène ammènte cualchicò de quann’era ’nté lo spedàle e po’ sarà l’ultima cosa che scordarò, perché ’nté ’l cervello ’na cosa brutta ci’armàne de più che una bella. Pensàde vuà que vôl di’ lassà’ tre fiji piccoli, el male che cìo: se parlàa de tubergolósi! Fortuna ch’io l’ho sapùdo quanno stèra mèjo; posso ringrazzià’ mille ’olte alla Madonnìna della Rosa. Ogni tanto mi ritorna alla mente qualcosa di quando stavo all’ospedale e poi sarà l’ultima cosa che scorderò, perché nel cervello una cosa brutta ci rimane di più di una bella. Pensate voi che cosa vuol dire lasciare tre figli piccoli, il male che avevo: si parlava di tubercolosi! Fortuna che io l’ho saputo quando stavo meglio; posso ringraziare mille volte la Madonnina della Rosa. Il giorno della “Giornata degli 422 ’L giorno della “Giornàda dell’ammalàdi” m’ha portàdo giuppe le scale dell’ospedale co’ la sedia, ché non mìa da strapazzà’; quanno so’ ’rnùda drendo l’ospedale le scale l’ho fatte camminànno: è stada ’na grazia o no? Ce credéde? Cìa anca ’l còre ai limiti. Da cuél giorno so’ stada sempre mèjo. Prima quaranta giorni allettàda, sensa mòveme. Quattrocchi, pôretto, ha ditto: “Cuésto è solo miràgolo! Ma como te sai fidàda a venì’ suppe le scale caminànno?” “La Madonna m’ha iudàdo!” Dobo, alla diménniga, ce mannàa sempre a casa, pe’ sta’ coi fiji e la faméja. Fumma tre spose, meno de trentatré anni, guasci tutte della T.B.C., per quanto ai bardàsci la più numberósa era io che ce nìa tre. Quanno era tempo bòno me venìa a troà mi’ marìdo, ce portàa anca la piccolina, scindó ce venìa ’gni tanto cuélla bardascétta da sei anni col maschietto de quattro. ’Na sera è riàdi lì che c’era ’l tempo brutto, cìa da fa’ più de quattro chilòmedri a pìa d’in su e quattro d’in giù. Pôri cocchi, tronàa, pioìa, cìa l’ombrèlla. Pensàde vuà quanto tribbolào io sensa sapé’ niè’ finànta che n’arvedìa nisciù’. So’ stada a guardàlli dalla finè’ dell’ospedale sinànta da pìa del corso, e qualche tratto de strada oppe’ ’l cimidèro, ma mìa da sguercià. È vero che cuèlla vo’ ’n c’era le màghine fòra che cuàlche biscighetta. Pensàa: “Sci ’ngóntra cualche male ’nten- ammalati” mi hanno portato giù per le scale dell’ospedale con la sedia, perché non mi dovevo strapazzare; quando sono ritornata dentro l’ospedale, le scale le ho salite camminando: è stata una grazia o no? Ci credete? Avevo anche il cuore ai limiti. Da quel giorno sono stata sempre meglio. Prima quaranta giorni allettata, senza muovermi. Quattrocchi, poveretto, ha detto: “Questo è solo un miracolo! Ma come ti sei fidata a venire su per le scale camminando?” “La Madonna mi ha aiutato!” Dopo, la domenica, ci mandava sempre a casa, per stare con i figli e la famiglia. Eravamo tre spose, meno di trentatré anni, quasi tutte con la tubercolosi; in quanto a figli la più numerosa ero io che ne avevo tre. Quando era tempo buono, mi veniva a trovare mio marito, ci portava anche la piccolina, sennò ci veniva quella bambinetta di sei anni con il maschietto di quattro. Una sera sono arrivati lì che c’era il tempo cattivo, avevano da fare più di quattro chilometri a piedi d’in su e quattro d’in giù. Poveri cocchi, tuonava, pioveva, avevano l’ombrello. Pensate voi quanto soffrivo io senza sapere niente fino a quando non rivedevo qualcuno. Sono stata a guardarli dalla finestra dell’ospedale sino in fondo al corso e qualche tratto della strada oltre per il cimitero, ma mi dovevo sguerciare. È vero che quella volta non c’erano le macchine al di fuori di qualche bicicletta. Pensavo: “Se incontrano qualche male intenzionato?” Quanti batticuori bisognava prendere! Una che 423 sionàdo?” Quante pasció’ toccàa a pià’! Una che conoscìa be’ a me, quanno ha visto ’sti du’ monellétti sotta l’aqua, ha ditto: “Fermàdeve, bardascétti! Spettàde che làssa gi’ a piòe!” Mango i’hà guardàdo, cuésti, per paura che fusse stadi malvivènti, perché io m’arcomannào sempre: “No’ stade a sentì’ a nisciù’, anca sci ve dice cose bembè!” Fortuna che dobo, quanno émo mijoràdo, la dimènniga, como v’ho ditto, ce dèra la libertà. Gèro a casa per da’ ’na sistemàda la càmbora, ’rconcià’ i pagni de mi’ marìdo e dei fjòli, e po’ lunedì madìna arpartìa a pìa, lassàa i corétti mia che per me era la vida, più de cualsiasi prèda preziosa! Partìo piagnènno, fèra la strada co’ la speransa che me fusse servìdo a cualchicò’, rivàa su, boccàa sotta le cupèrte e sfogàmme a sangozzà’. Drendo de me dicìa: “Non ne ’l fade per me, Madonnina mia! Fàdeme gòde’ ’sti tre tesori!” Cuésti, pôrettini, me venìa accompagnà’ finànta da cima della strada, li bracciàa, rîmpìa la faccetta de baci. L’ultima parola era cuélla: “Mamma, arvène presto!” ’Ste parole me ’rmanìa ’nté la gola. Quanto avrà tribbolàdo anca lora! Solo ’l padre, ’nté la faméja era ’ncomprési! Passàdi ’mpo’ de mesi, io m’era ’ngrassàda de venti chili, quaranta giorni sensa métte’ i pìa fòra dal letto, magnà’ bòno e ’mbelpo’, mi conosceva bene, quando ha visto questi due monelletti sotto l’acqua, ha detto: “Fermatevi, ragazzini! Aspettate che smetta di piovere!” (I miei figlioletti) nemmeno l’hanno guardata per paura che si trattasse di malviventi, perché io mi raccomandavo sempre: “Non state a sentire nessuno, anche se vi dice cose perbene!” Fortuna che dopo, quando abbiamo migliorato, la domenica, come vi ho detto, ci dava la libertà. Andavo a casa per dare una sistemata alla camera, rammendare i panni di mio marito e dei figli, e poi il lunedì mattina ripartivo a piedi, lasciavo i miei cuoricini che per me erano la vita, più di qualsiasi pietra preziosa. Partivo piangendo, facevo la strada con la speranza che mi fosse servito a qualcosa; arrivavo su (all’ospedale), entravo sotto le coperte e mi sfogavo a singhiozzare. Dentro di me dicevo: “Non lo fate per me, Madonnina mia! Fatemi godere questi tre tesori!” Questi, poverini, mi venivano ad accompagnare fino in cima della strada, li abbracciavo, riempivo la (loro) faccetta di baci. L’ultima (loro) parola era quella: “Mamma, ritorna presto!” Queste parole mi rimanevano in gola. Quanto avranno sofferto anche loro! (Avevano) soltanto il padre, in famiglia non erano compresi. Trascorsi un po’ di mesi, io mi ero ingrassata di venti chili, quaranta giorni senza mettere i piedi fuori dal letto, mangiare buono e abbondante, molto condito, carne, formaggi, rigato424 condìdo muntubè’, carne, formaggi, boccolotti, latte, caffè, te, ’l pa’ a stufo. Era ’na pacchia a paragó’ de la vida che se fèra cuélla vo’. Punture non ve digo cuante: me so’ gonfiàda como ’mpalló! Quanno passàa la vìsida i dottori, me guardàa fissàdi, dicìa: “Ormai sai fòra eh! Presto te mannàmo a casa!” Otto lunghi mesi, ce pensàde? ’L giorno ce passàa coscì. Como comensàa a sta’ mèjo, fèra vestidìni, i tajàa; quanno podìa gi’ a casa, i cucìa ’nté la maghina e po’ lì portàa via nigò cuèllo che ce volìa, e finìa ’nté lo spedale: calzettini, scarpette de pezza, pagnétti per sótta, rigamàa camiciòli, merletti, berettine. Cualchidù’ me venìa a tròà’, me dèra cualche soldo, io ’l buttàa lì pe’ ’ste cosétte. Anca le mònnighe dell’ospedale ce fèra fadigà a ’rconcià’ i guanciàli, a sciuccà’ i bisturi che ce operàa, a piegà’ le garzétte, a ’ncolla’ i guadrétti all’inglese, prò quanno non vidìa i medighi, scinó’ ié dèra le lónze, ié lavàa la testa. Adè’ le mònnighe non se véde più, erane bràe; la sora Lucia, po’, era bella e bòna. I medighi non volìa che fadigàmma, perchè c’era sempre la febbre e m’ha duràdo ’mpàr d’anni, prima da scacciàlla ’sta febbràccia. Dobo n’ho misuràda più e non me ’l credìa d’èsse’ riàda scinànta qua a èsse’ chiamàda nonna e bisnonna. ni, latte, caffè, tè, il pane a sazietà. Era una pacchia, se paragonata alla vita che si faceva quella volta. Iniezioni non vi dico quante: mi sono gonfiata come un pallone! Quando i dottori passavano la visita, mi guardavano fissandomi, dicevano: “Ormai sei fuori, eh! Presto ti mandiamo a casa!” Otto lunghi mesi, ci pensate? Il giorno ci passava così. Come iniziavo a star meglio, facevo vestitini, li tagliavo; quando potevo andare a casa, li cucivo con la macchina (da cucire) e poi da lì portavo via tutto quello che occorreva, e li finivo nell’ospedale: calzini, scarpette di pezza, panni piccoli per sotto; ricamavo camicette, merletti, berrettini. Qualcuno mi veniva a trovare, mi dava qualche soldo, io lo spendevo lì per queste cosette. Anche le monache dell’ospedale ci facevano lavorare a rammendare i guanciali, ad asciugare i bisturi con i quali (il chirurgo) operava, a piegare le garze, ad incollare i quadretti all’inglese, però quando non vedevano i medici, sennò (questi) le rimproveravano, lavavano loro la testa. Adesso le monache non ci sono più, erano brave; suor Lucia, poi, era bella e buona. I medici non volevano che lavoravamo, perché c’era sempre la febbre e mi è durata un paio d’anni, prima di mandarla via quella febbraccia. Dopo non l’ho misurata più e non avrei mai creduto che sarei arrivata sino a qua, ad essere chiamata nonna e bisnonna. 425 P arte T erza ‘N gettarèllo nòo ’L capoccia bassa la gresta e i fjòli se ne vanno Il capoccia abbassa la cresta e i figli se ne vanno ’Na ò sopportamma tante cose alla roversa, ma più che altro se stèra ’nté le fameje. C’era le faméje numberóse de quattro cinque canti, perché chi cìa i maschi li tenìa lì casa, stretti como ’nté ’na morsa de ferro e nìa da spartì’ nisciù’. Sci era ’mpadre mòrbedo dangià tanto tanto campài, ma sci comannàa uno dei fradèlli più granni, che tiràa l’aqua al mulì’ sua (anca cuèsto è ’n dittàdo), non se tiràa la sappa ’nté i pìa. Dónca, como v’ho ditto, pe’ ’mpàdre i fiji dovrìa èsse’ tutti uguali, ma ’n tra fradèlli, ’nté ’na coàda, c’è sempre la pègora nera e cuéllo birbo che frega; sci ha fortuna da fa’ ’l capoccia, pôretti a chi sta sotta! L’invidia e l’odio c’è stado sempre como Caino e Abele. ’Nté ’l doboguerra c’è stado anca ’sto pregio chì: ha ’bassàdo la gresta i padrù e anca i capi faméja, perché i fjòli se cercàa ’l laóro, e gèrene per conta de lóra. Le fameje grosse se n’è sfasciade ’mbelpo’. Era como ’na coccia grossa de geràni: la pianta era la faméja ’mpossessàda e i fjòli era i getti che se trapiantàa. Prò ’sti gettàrelli prima che fónna le ràdighe ce vôle ’l tempo, tèrra bòna, concìme, aqua e sole: ’l gettarèllo della faméja è la stessa cosa: prima da ’mpossessàsse, de méttese in careggiàda, ’na famèja ce vôle anni e anni de fortuna. Pe’ métte’ le radighe bòne, ce vôle Una volta sopportavamo tante cose al rovescio, ma di solito si stava in famiglia. C’erano le famiglie numerose di quattro cinque ‘canti’, perché chi aveva i maschi li teneva in casa, stretti come in una morsa di ferro e nessuno doveva spartire. Se era un padre morbido, tanto tanto campavi, ma se comandava uno dei fratelli più grandi, questo tirava l’acqua al suo mulino (anche questo è un proverbio!), non si dava la zappa sui piedi. Dunque, come vi ho detto, per un padre i figli dovrebbero essere tutti uguali, ma tra fratelli, nella covata, c’è sempre la pecora nera e quello birbo che frega; se ha la fortuna di fare il capoccia, poveretti quelli che stanno sotto. L’invidia e l’odio ci sono sempre stati, come Caino e Abele. Il dopoguerra ha avuto anche questo pregio qui: hanno abbassato la cresta i padroni ed anche i capifamiglia, perché i figli si cercavano il lavoro e andavano per conto loro. Si sono sfasciate parecchie famiglie grosse. Erano come un grosso vaso di gerani: la pianta era la famiglia patriarcale e i figli erano i getti che si trapiantavano. Però, prima che questi gettarelli affondino le radici, ci vuole tempo, terra buona, concime, acqua e sole: il gettarello della famiglia è la stessa cosa: prima che una famiglia si assicuri, si metta in carreggiata, ci vogliono anni e anni di fortuna. Per mettere buone radici, ci vuole che 429 che ’l padre fusse n’ômo sensa tanti vizzi e la madre bòna non fusse ’na spendacchióna. Allora la famijòla, ’l gettarèllo nòo ràdiga presto e be’, scinónca, sci è a la rovèrsa, ’l gètto ’ngiallìsce, non fa presa ’nté la terra e la faméja s’arbàlta a gambe per aria. Pe’ tené’ la faméja unìda, po’, tocca a sopportàsse da uno coll’altro; è che capémo i difetti dell’altri e no’ i nostri: sci se fa l’esame de coscènza, al mónno se girìa mèjo tutti! Envéce frega te che frego anca io! il padre sia un uomo senza tanti vizi e la madre buona non deve essere spendacciona. Allora la famigliola, il gettarello nuovo, affonda presto e bene le radici, sennò, se è il contrario, il getto ingiallisce, non fa presa nella terra e la famiglia si ribalta a gambe all’aria. Per tenere la famiglia unita, poi, bisogna sopportarsi l’uno con l’altro; succede che capiamo i difetti degli altri e non i nostri: se ci si fa l’esame di coscienza, al mondo andrebbero meglio tutti. Invece frega tu che frego anch’io! C’émma i nervi ’nceppadi Avevamo i nervi inceppati Quanno se spartìa le faméje grosse, se comensàa a chiude’ i malincòni, perché ’nté la famèja era ’na dittatura, e tutti non iéla fèra a sopportà’. Con quattro cinque anni de guerra già c’émma i nervi ’nceppadi, tanto chi era stadi in guerra, tanto noà che fumma a casa. C’era bisogno ’mpo’ de libertà. Dopo che ha liberado l’Italia, tutti émo aùdo ’mpo’ de solévo, perché émo mannàdo giù tante péne: pensade cuélle pôre mamme che i’hà ’mazzado cuéi fjòli fascisti partigiani, senza colpe alla giovane età. Tanto al fronte che a casa c’è stade in tutte le fameje ’ste pene, c’è gide pe’ l’ossi, per tanti anni, che po’ del tutto non se cancellarà mae. ’Sti ragazzi che hanne mazzado chì a Montalbo’, ce se pôle gì’ sem- Quando si dividevano le famiglie grandi, cominciavano a chiudere i manicomi, perché in famiglia c’era una dittatura e tutti non ce la facevano a sopportare. Già con quattro cinque anni di guerra avevamo i nervi inceppati, tanto quelli che erano stati in guerra, quanto noi che eravamo a casa. C’era bisogno di un po’ di libertà. Dopo che hanno liberato l’Italia, tutti abbiamo avuto un po’ di sollievo, perché avevamo mandato giù tante pene: pensate a quelle povere madri alle quali hanno ammazzato quei figli, ancor giovani e senza colpe, fascisti o partigiani (che fossero). Sia al fronte, sia a casa ci sono state in tutte le famiglie queste pene, ci sono andate per le ossa, per tanti anni e, poi, non si cancelleranno mai del tutto. 430 La famiglia.Garofoli. (coll. Lucio Marcantognini). pre a mette’ ’n fiore, la luce ’nté la tomba, ma como mamma mia e tante altre madre, non se sa mango ’ndó l’hanne sotterradi. A morì’ da ’na schioppettada è bruttissimo, ma a morì’ de fame penso che sia peggio, como è morto mi’ fradello al campo de concentramento. Del ’46 è venuda la nòva; del ’48 è morta anca la moje, a 33 anni; ha lassado due monelletti: uno da nove e una da sette, che ’l pôro padre l’ha vista a nasce’, del’41, e po’ non l’ha ’rmanmado più. L’ha ’rvisto ’nté lo ritratto. Quanno è doventadi granni, era contenti de sapé’ como era alti, sci era bòni, sci ié volìa be’... e quanto ce soffre pôri fiji! Da questi ragazzi che hanno ucciso qui a Montalboddo, ci si può sempre andare a mettere un fiore, la luce nella tomba, ma come mamma mia e tante altre madri non sanno neppure dove li hanno sotterrati (i loro figli). Morire per una schioppettata è bruttissimo, ma morire di fame penso che sia peggio, come è morto mio fratello in un campo di concentramento. Nel ’46 è arrivata la notizia, nel ’48 è morta anche la moglie, a 33 anni; ha lasciato due monelletti, uno da nove e una da sette (anni), che il povero padre aveva visto nascere nel’41 e poi non è stato rimandato più (a casa). (La figlia) l’ha rivisto nel ritratto. Quando (i due figli) sono diventati grandi, erano contenti di sapere come erano alti (i genitori), se erano buoni, 431 Tanto più sémo su ’st’argomento, adè che se divide ’ste coppie, quanto soffre ’sti fiji! Stanne insieme qualche anno, ’mpo’ de mesi, addrittura leggìa su ’n giornale, per mèjo gì la notte del madrimonio lu’ tenìa lo stereo alto col volume alto, la moje iel’hà bassàdo. Lu’ i’hà datto ’na botta ’nté la testa, e lìa al giorno dobo l’ha dinunciado e s’è spartidi. Pensade ’ndó semo ’rivàdi! Va be’ che “scherzi de ma’ è scherzi da villà’ ”, “però ’sto modio chì non paga” - cuélla pensò. Non ié gèra de sposàllo e al piccolo puntì l’ha mollàdo. Segondo vuà è giusto? ’N tra moje e marido bisogna pïàllo pe’ ’no scherzo. Va be’ che a me questo non m’è mae capitado: le ma’ addosso pe’ ’na carezza sci, ma ’l controllo non l’ha mae perso con me, mango coi fiji. E mango io co’ lu’. Quante vo’ burasca ’l mare, ma dobo ’rtorna al suo volere! se volevano loro bene… e quanto ci soffrono (ancora), poveri figli! Tanto più che siamo su quest’argomento, adesso che si dividono le coppie, quanto ci soffrono i figli! Stanno insieme qualche anno, un po’ di mesi. Addirittura leggevo su un giornale che, per meglio andare la notte del matrimonio, lui teneva lo stereo ad alto volume, la moglie gliel’ha abbassato. Lui le ha dato una botta sulla testa e lei, al giorno dopo, l’ha denunciato e si sono divisi. Pensate dove siamo arrivati! Va bene che “scherzi di mano sono scherzi da villano’’, “però questo modo qui non paga” – pensò quella. Non le andava di sposarlo e al minimo pretesto l’ha mollato. Secondo voi, è giusto? Tra moglie e marito bisogna prenderlo per uno scherzo. Va bene che a me questo non è capitato mai: le mani addosso per una carezza sì, ma il controllo (mio marito) non l’ha mai perduto con me, nemmeno con i figli. E nemmeno io con lui. Quante volte il mare diventa burrascoso, ma dopo ritorna al suo volere! ’L porchetto e ’l sórce Il porco e il sorce I soceri cuélla vo’ dicìa:” Spartéde spartéde, ’mparade ’ndó se compra ’l sale”. Quanno uno spartìa da la fameja, i vecchi dicìa sempre coscì, perché in giro ce gèrene sempre lora, ’l capoccia e la capoccia; cuél pogo che compràa pensàa lóra, i schiavi bastàa che fadigàsse. Sci vendìa l’òi, A quel tempo i suoceri dicevano: “Spartite spartite, (così) imparate dove si compra il sale!” Quando uno partiva dalla famiglia, i vecchi dicevano sempre così, perché in giro ci andavano sempre loro, il capoccia e la vergara: a quel poco che si comprava ci pensavano loro, gli schiavi bastava che lavorassero. Se ven432 i pui, sci compràa ’na magnada de pesce era siguro la sardella, l’altro pesce non era per noà, sci vansàa i soldi i portàa a casa per mettelli da ’na parte. A casa de’ genidóri mia se magnàa anca ’l pesce bòno, perché c’émma ’mparente a Senigaja e ce venìa spesso a casa de noà, portàa sempre ’l pesce bòno como seppie, pesciolina, sardoncini, calamaretti, raggia, cappole, lumaghine, gamberetti. Venìa su tutta la fameja per magnà’ le tajadelle col conijo. Non è che c’émma tanto guadamnio perché era cinque persone e, quanno era vivo anca ’l padre, erane in sei. Se dicìa “ ’l paesà’ largo de bocca e stretto de ma’ ”. Venìa in campagna, perché se magnàa la robba più genuina, po’ a casa nostra se magnàa anca be’; i soldi da ’na parte non c’era, però se facìa ’na vida discréda; como la carne se magnàa ’na ’olta per settimana, du’ pezzetti perù: ’n conijo o ’n gallo se dovìa spartì’ per dieci persone. ’Nté ’l macello non ce se gèra, finché c’era ’l porco se magnàa ’mpo’ de più la carne. Sapéde: del porchetto se buttàa via solo l’ogna! ’L pelo ’l pïàa ’l mazzarello per fa’ le scopette per pulì’ le scarpe, i pennelli, ’l muso le recchie ’mpo’ de codiga, la testa ce se fèra ’l brodo e ’mpo’ insieme al muso le recchie servìa pe’ fa’ la coppa, i zampetti, uno per vo’, ce se fèra i fascioli: se magnàa alla madina a colazió’. Manco l’ossi se buttàa via: devano le uova, i polli, se compravano una mangiata di pesce, era sicuramente la sardella, l’altro pesce non era per noi. Se avanzavano i soldi, li portavano a casa per metterli da parte. A casa dei miei genitori si mangiava anche il pesce buono, perché avevamo un parente a Senigallia, che veniva spesso a casa nostra e ci portava sempre il pesce buono come seppie, pesciolina, sardoncini, calamaretti, razza, vongole, lumachine, gamberetti. Veniva su con tutta la famiglia per mangiare le tagliatelle con il coniglio. Non è che ci avevamo tanto guadagno, perché erano cinque persone e, quando era vivo anche il padre, erano in sei. Si diceva: “Il paesano largo di bocca e stretto di mano!” (Il paesano) veniva in campagna, perché si mangiava roba più genuina, poi a casa nostra si mangiava anche bene; i soldi da parte non c’erano, però si faceva una vita discreta: la carne si mangiava una volta la settimana, due pezzetti per uno; si doveva dividere un coniglio o un gallo per dieci persone. Nel macello non ci si andava, finché c’era il porco si mangiava un po’ più di carne. Sapete: del porco si buttava via solo l’unghia! Le setole le prendeva il ‘mazzarello’ per fare i pennelli, le spazzole per pulire le scarpe; con il muso, le orecchie, un po’ di cotica, la testa ci si faceva il brodo e un po’, insieme al muso e le orecchie, serviva per fare la ‘coppa’; con gli zampetti, uno per volta, ci si faceva i fagioli: si mangiavano la mattina a colazione. Neppure gli ossi si buttavano via: ci si faceva il sapone. Sì, 433 ce se fèra’l sapó’! Scì, ce ’l fèra anca i sòceri mia. ’Na volta émo fatto ’l sapó’ anca co’ l’ojo. C’émma ’na damigiana d’ojo e da cima cìa messo ’n tappo de suro. Vedi ’mpo’ che ’n sorce l’ha rosigàdo, è cascado drendo, ’sto sorce, e lì ha biùdo tanto ojo, è morto e non iél’ha fatta a scappà’. Ci’hà toccàdo a fàcce tutto sapó’. È venudo be’ ’mbelpò’, avedoràa muntubè’, ma solo che la bóccàda se fèra ’na ò al mese, d’istade anca de più: quanno c’era ’l fiè’, che magara stèra per piòe’, c’era da fa’ la foja pei baci, allora la bóccàda armanìa pe’ ’n’antra ò. ce lo facevano anche i miei suoceri. Una volta abbiamo fatto il sapone anche con l’olio. Avevamo una damigiana d’olio e in cima ci aveva messo un tappo di sughero. Vedi un po’ che un sorcio l’ha rosicato, è cascato dentro, questo sorcio, lì ha bevuto tanto olio, non è riuscito a scappare fuori e è morto. Abbiamo dovuto farci tutto sapone. È venuto molto bene, odorava molto, ma solo che il bucato si faceva una volta al mese, d’estate anche più di rado: quando c’era il fieno, che magari stava per piovere, c’era da fare la foglia per i bachi, allora il bucato rimaneva lì per un’altra volta. “Gide a morì’ de fame!” “Andate a morire di fame!” Como v’ho ditto, io m’ero malàda e quanno dobo so’ sgappàda fòri dall’ospedàle, non so’ più volsùda tornà’ a casa de lóra. Anca mi’ marido vedìa le falsidà da parte dei genidóri, cuscì s’è deciso de scappà’ via. Fumma ’n gettarèllo, lenido, perché io ero ancó’ all’ospedale, mi’ marìdo con tre gettarelli minudìni, ’sti fjòli. Sémo partidi co’ gnènte. Ci’hà dàtto quattro sèdie, ’n taolì’ e tre quintali de gra’ pe’ cinque persone. ’N ci’hà datto altro, perché ’n volìa che gèmma via. Ce dicìa: “Gide a morì’ de fame!” Te mannàa anca le’mpregazió’, prò dicìa ’sti genidóri mia che la procisció’ ’ndó che sgàppa arbóc- Como vi ho detto, io mi ero ammalata e, quando sono uscita dall’ospedale, non ho voluto tornare più a casa loro. Anche mio marito vedeva le falsità da parte dei genitori, così si è deciso di andare via. Eravamo un gettarello malaticcio, perché io ero ancora all’ospedale, mio marito con tre gettarelli minutini, questi figli. Siamo partiti con niente. (Mio suocero) ci ha dato quattro sedie, un tavolo e tre quintali di grano per cinque persone. Non ci ha dato altro, perché non voleva che andassimo via. Ci diceva: “Andate a morire di fame!” Ti mandava anche le imprecazioni, però dicevano i miei genitori che la processione da dove esce rientra! 434 ca! Le sentenzie è como ’l palló’: sci ’l tiri ’nté ’l muro t’arvène addosso. È vero, sa: quell’altri è morti, noà grazzie a Dio ’ncó’ sémo qua. Quanno émo spartìdo semo gidi giù ’l piano, ’nté ’na casetta vecchia sensa luce, sens’aqua, sensa riscallamènti, sensa legna. Pagàmma ottanta mila lire d’affitto, ’n c’émma ’na lira. Pensàde che vida ch’émo fatto, a sfamà’ tre fiji! Io stèra male: cuélla vo’ co’ cuèlle maladìe infettìe lì ce se morìa e se taccàa anca ai fjòli. Per fortuna, como v’ho ditto, ch’è ’nuda fòra la pellicilìna, so’ stada fortunàda e ’ncó’ so’ qua. Non v’arcónto le tribbolazzió’, arpensàcce te sa rizza ’l pelo puttì. Io, quanno sento a di’ che sta male ’na madre che ci’hà i fjòli piccoli como lìa lassàdi io, me fa venì’ la carne pullìna. E va be’! Dicìa i sòceri: “Ha volsùdo spartì’, ié sta be’! Coscì ’mpàra!!” Cuélla vo’ sìa da sta’ ’nté la faméja e basta! Dittadura! Envéce noà sémo stadi mèjo muntubè’, almànco non dovìsci’nghiottì’ tutti cuéi magó’! Ma perché sa da tribbolà’? Ognuno comànna la robba sua e coi sudóri tua hai da tirà’ avanti la faméja tua. Sci te vôi formà’ ’na faméja, non sa da spellà’ ai genidóri né ì soceri. Vôj sta’ solo, te l’hai da spiccià da per te, i càoli tua! Me pare giusto como parlo. Adè’ è ’mpo’ più compligada la cosa: vànne a fadigà’ fòra, i monelli non se li pôle guardà’, allora li lassa ai soceri e genidóri. Io n’ho guardàdi sei, ma l’ho fatto per amore, ’n domà’ Le sentenze sono come il pallone: se lo tiri contro il muro, ti ritorna addosso. È vero, sa: quegli altri sono morti, noi, grazie a Dio, ancora siamo qua. Quando abbiamo diviso, siamo andati al piano, in una casetta vecchia senza luce, senza acqua, senza riscaldamenti, senza legna. Pagavamo ottantamila lire d’affitto, non avevamo una lira. Pensate che vita abbiamo fatto per sfamare tre figli! Io stavo male: quella volta con quelle malattie infettive lì ci si moriva e si attaccavano anche ai figli. Per fortuna è uscita, come vi ho detto, la penicillina: sono stata fortunata e ancora son qua. Non vi racconto le tribolazioni, a ripensarci ti si rizza il pelo ‘puttì’. Io, quando sento dire che sta male una madre che ha i figli piccoli come li avevo lasciati io, mi viene la pelle d’oca. E va bene! Dicevano i suoceri: “Hanno voluto spartire, gli sta bene! Così imparano!” Quella volta si doveva stare in famiglia e basta! Dittatura! Invece noi siamo stati molto meglio, almeno non dovevi inghiottire tutti quei magoni! Ma perché si deve soffrire? Ognuno comanda la roba sua e con i sudori suoi deve tirare avanti la famiglia sua. Se ti vuoi formare una famiglia, non si devono spellare né i genitori né i suoceri. Vuoi stare solo, te la devi sbrigare da solo, son cavoli tuoi! Mi pare giusto come parlo. Adesso è un po’ più complicata la cosa: si va a lavorare fuori (casa), i monelli (i genitori) non li possono guardare, allora li lasciano ai suoceri 435 che ho bisogno io spero che ricàmbia: s’arcordérà? Spero de scì! Ma adè’ è brutta, sci làssa ’l laòro, pèrde la pensió’... n’è como noà: fadigàsci giù pe’ ’l campo, li portài drìa sopra ’na balla, magnàa l’erba, la terra, ’mpo’ de nigò. Piagnìa, s’andormentàa lì; ié dèsci ’na cupèrta, ’n corpétto o ’na vestaccia, ’gni tanto li gèsci a véde’ sci c’era quàlche bestiaccia, le mosche non ié se dèra peso, boccàa anca drendo bocca. Pôrini... come le bestiòle è ’nùdi su! Grazie a Iddio sani e salvi, è cresciùdi uguale, non ié podìsci fa’ tante carézze, scinó te dicìa: “Co’ stai lì a pilicchià’, me fai compasció’!” e ai nonni. Io ne ho guardati sei, ma l’ho fatto per amore, un domani che ho bisogno, spero che ricambino: si ricorderanno? Spero di sì. Ma adesso è brutta, se uno lascia il lavoro, perde la pensione… non è come noi: faticavi per il campo, portavi i figli dietro sopra una balla, mangiavano l’erba, la terra, un po’ di tutto. Piangevano, s’addormentavano lì; gli davi una coperta, una giacca o una vestaccia; ogni tanto li andavi a vedere se c’era qualche bestiaccia, alle mosche non si dava peso: entravano anche dentro la bocca. Poverini… come bestiole sono cresciuti! Grazie a Dio sani e salvi, sono cresciuti ugualmente, non gli potevi fare tante carezze, se no ti dicevano: “Cosa stai lì a fare le moine, mi fai compassione!” Stèmma in pace Stavamo in pace Da soli, anca a magnà’ pane e cipolla ’na ’olta al giorno, stèmma in pace e, piano piano, con tanti sagrifìci, c’émo ’rcaàdo le gambe. Pensàde vuà: con tre fjòli piccoli avìa compasció’ anca ’l prède! ’Nté la scòla ai monèlli spesse vo’ ié dèra la refezió’, quanno mancàa qualche monèllo, e po’ tanto io che mi’ marìdo non gèmma ciaccolànno sensa fa’ gnè. Se gèra dai contadì’ grossi aiudà’ a fa’ le faccenne o ce dèra ’n fascio d’erba, legna pe’ scaldàsse alla sera, ’na magnàda de fàa, Da soli, anche a mangiare pane e cipolla una volta al giorno, stavamo in pace e, piano piano, con tanti sacrifici, abbiamo ritirato fuori le gambe. Pensate voi: con tre figli aveva compassione anche il prete! Nella scuola ai monelli spesse volte gli davano la refezione, quando mancava qualche bambino e poi, tanto io che mio marito non andavamo chiacchierando senza far niente. Si andava dai contadini ad aiutare a fare le faccende: o ci davano un fascio d’erba, la legna per riscaldarci la sera, una mangiata 436 ’n capo d’ùa, du’ fasciòli, l’ansalàda: scarchi propio non s’arnìa mae. Dobo émo messo su ’n vidèllo. Uno che cìa qualche soldo ce l’ha compràdo, noà ’l governàmma e dobo, quanno l’émo vendùdo ci’hà datto ’l terso: già era tanto! I soldi c’i volìa pe’ pagà’ l’affitto. di fava, un grappolo d’uva, due fagioli, l’insalata, del tutto scarichi non si ritornava mai. Dopo abbiamo messo su un vitello. Uno che aveva qualche soldo ce l’ha comprato, noi lo governavamo e dopo, quando l’abbiamo venduto, ci ha dato la terza parte: già era tanto! I soldi erano È stadi tempi duri, fortuna che m’ha ’rconosciùdo la previdenza sociale, pe’ n’anno m’ha datto la pensió’. Otto mesi d’ospedàle: ai contadì’, quanno cìsci cuélle malattie lì, t’arconoscìa. Cinquecento lire al giorno, quindicimila al mese, sémo scappàdi fòri, ma io non podìa riscallàmme per gnè: raggi tutti i mesi pe’ ’mpo’ d’anni, ma coll’aiudo de Dio sémo qua. necessari per pagare l’affitto. Sono stati tempi duri, fortuna che mi ha riconosciuto la previdenza sociale, per un anno mi ha dato la pensione. Otto mesi d’ospedale: i contadini, quando avevi quelle malattie lì, li riconosceva. Cinquecento lire al giorno, quindicimila al mese, siamo usciti fuori, ma io non potevo riscaldarmi per niente: per alcuni anni la radiografia tutti i mesi, ma coll’aiuto di Dio siamo qua. 437 Piano verde, luce e cinematografo Piano verde, luce e cinematografo A dìlla chiara, col passà’ dei’ànni fùmma gìdi ’mpo’ mèjo. ’L govèrno avìa fatto ’l piano vèrde pe’ i coltivadóri diretti. Noà stèmma, como v’ho ditto, a casa nàolo. Era ’na casa vecchia muntubè’, c’era le crepàcce che de notte se vidìa le stelle. Scì pioìa toccàa a roprì’ l’ombrella, e métte’ la cadinèlla sopra al letto, ’ndó c’era cuélle crepacce più grosse; sopra l’armàrio ce mettemma i stracci, per terra i bóssoli callaròle: questa è veredà! Quanno l’émo lassàda, cuél contadì’ che c’è ’nudo a sta’ l’ha compràda, i’hà toccàdo arfà’ tutto ’l tetto, ch’era fatto de tàole, da una all’altra ce boccàa ’na costa de cortèllo: Podìa stagnà’? C’era i coppi, scì, ma quanno piòe e nengue a vento, era ’na croellétta. Noà na podémma comedà ché fumma in affitto; per tre anni émo sopportàdo luscì. Si dice: “In affittto sai afflitto!”, perché, dobo finito de pagà’ ’n ciài né soldi né casa. Appòsta noà émma compràdo ’n pezzétto de tèra pe’ facce ’na casa, ma i soldi ’n c’era sa! A cuéi tempi s’era ropèrti i passi pe’ gi’ all’èstro. Anca mi’ marido dicìa de gi’ a fadigà’ fòra, perché non c’era modo de gi’ avanti, prò io non era contenta, perché uno se sposa pe’ sta’ vicini, envece lì anche ’n’anno stèrene da longo. “No, non famo gnè!” Se continuàa a gi’ a giornada dai contadì’ grossi e magnàmma; quan- A dirla chiara, con il passare degli anni siamo andati un po’ meglio. Il governo aveva fatto il ‘piano verde’ per i coltivatori diretti. Noi stavamo, come vi ho detto, a casa in affitto. Era una casa molto vecchia, c’erano delle crepe che di notte lasciavano vedere le stelle. Se pioveva, bisognava aprire l’ombrello e mettere il catino sopra il letto, sotto a dove c’erano quelle crepe più grosse. Sopra l’armadio ci mettevamo gli stracci, per terra barattoli, calderelle: questa è la verità! Quando l’abbiamo lasciata, quel contadino che l’ha comprata, per andarci a stare, ha dovuto rifare tutto il tetto, che era fatto di tavole, tra l’una e l’altra ci entrava la parte superiore di un coltello: potevano stagnare? C’erano sì i coppi, ma quando pioveva o nevicava a vento, era un setaccio. Noi non potevamo ripararla, perché eravamo in affitto. Per tre anni abbiamo sopportato così. Si dice: “In affitto, afflitto!, perché, finito di pagare, non hai né soldi né casa. Apposta avevamo comprato un appezzamento di terreno per costruirci una casa, ma i soldi non c’erano, sa. A quei tempi si erano aperti i passi per andare all’estero. Anche mio marito diceva di andare a lavorare fuori, perché non c’era modo di andare avanti, però io non ero contenta, perché ci si sposa per stare vicini, invece lì stavano anche un anno lontani. “No, non ne facciamo niente!” Si continuava ad andare a giorna438 no era la sera o ’na fascina pe’ scaldàsse, o ’n fascio d’erba per güernà’ ’n vidèllo. C’era ’mpo’ de laóro anca ’nté le rètte. I contadì’ ìa lassàdo gi’ ’mbellipò’, perché la tèra non fruttàa più niè, envéce notte ’l mese pïàvane la busta, anca sci fèra la grandina, ’na gelàda o qualsìasi tempesta gèra al lètto e non ce pensàa como quanno fèra i contadì’, che quanno c’era ’ste disgràzzie toccàa a grattàsse la testa e de que razza! Allora fèra case ’nté ’l paese, ’nté le grànne città: ié parìa d’èsse’ signóri, envéce i veri signori hanne fatto le ville in campàgna che c’è l’aria più bòna. Tanto dice ’l dittàdo “ ’L pesce grosso ha magnàdo sempre a cuéllo piccolo!” Adè’ màghine belle du’ tre pe’ faméja, va be’, è vero! ché sci vànne a fadigà’ ce ne vôle una per’ù’, ma non ce s’arèsce più a pagà’: talèfeno, sigurazzió, bollo, benzìna, la radio ’nté le màghine, luce, l’acqua, la monnézza... La luce noà l’émo quistàda del ’54: prima c’era la luma a petròjo, po’ ’l gassòmedro e po’… la luce. Quanno émo pïàdo la luce, ce mettémma le lampadìne da 15 candele, adè’ da 50, da 100, e la luce pure fòra, tutta la notte ’ccésa. E dobo se lamèntane che gné se fa’ a gi’ più avanti! Noà che fùmma vézzi male, al mèjo ce se va be’, al pèggio envéce è molto be’ peggio: speràmo che non venga più la guèra, scinó lóra non ié la fa, vézzi be’ com’è adè’: diver- ta dai contadini grossi e mangiavamo; quando era sera o una fascina per scaldarci o un fascio d’erba per governare un vitello. C’era un po’ di lavoro nelle ‘rette’. Parecchi contadini avevano lasciato (i terreni coltivati a mezzadria), perché la terra non fruttava più niente, invece alla fine del mese prendevano la busta (paga); anche se faceva la grandine, una gelata o qualsiasi temporale, andavano a letto e non ci pensavano come quando facevano i contadini, i quali, quando capitavano queste disgrazie, dovevano grattarsi il capo e di che razza! Allora costruivano case in paese, nelle grandi città: sembrava loro di essere signori, invece i veri signori hanno costruito le ville in campagna, dove c’è l’aria più buona. Tanto dice il proverbio: “Il pesce grosso ha mangiato sempre quello piccolo”. Adesso due tre macchine belle per famiglia, va bene, è vero, perché, se vanno a lavorare ce ne vuole una per ciascuno, ma non ci si riesce più a pagare: telefono, assicurazione, bollo, benzina, radio nelle macchine, luce, acqua, immondizia… L’illuminazione elettrica noi l’abbiamo presa nel ’54: prima c’era il lume a petrolio, poi il gasometro e poi… la luce. Quando abbiamo preso l’energia elettrica, ci mettevamo le lampadine da 15 candele, adesso da 50, da 100 e l’illuminazione pure fuori (dalle case), accesa tutta la notte. E poi si lamentano che non si riesce più ad andare avanti! Noi che eravamo abituati male, al 439 timenti de tutte le specie, magnà’ “bocca mia cuél che vôi tu!”, pagni ’na stagió’, po’ via...’nté ’l sacco dei pôretti! Io ve dìgo la verédà: la vernia m’ha piaciùdo, e ancora me piace, però drendo ’l credenzó’ ci’hò i cappotti de cinquant’anni fa! E me sa fadìga a buttàlli via: almànco me gàmbio quanno vojo! A me me piacìa tanto anca a ballà’, ma con la guèra è morto tutto: dal ’39 s’è rintéso a sonà’ dobo del ’60, perché tutte le faméje cìa cualchidù’ morto in guerra. Portàa ’ste monèlle mia a pìa anca a Pongelli. Anca ’l cantà’ ha finìdo tutto cuélla vo’, anca i cantastorie non se n’è ’ntési più. Al cinematografo sapéde da gióvena quante le ô ce so’ gida? Due vo’! E m’arcòrdo che era intitolàda: “Luciano Fèra mosca o sera pilòtta”, po’ “I tre moschettieri”. Manco parlàa, se vedìa solo le figure, po’ sempre co’ la paura che me portàa via lo ragàzzo. ’Na ’olta sémo gìdi ’nté ’n cinema a Belvedé’, ’na ô a Montalbò’. Quanno sgappàsci dal cinema, non dovìsci fa’ i gruppétti a parlà’ all’amìci, perché più de due non dovìsci sta’: sci te vedìa, volìa sapé’ de que parlài. E c’era anca ’l coprifôgo: tutte le luce smòrcie, anca ’nté ’n casa cuél piccolo lumì’ che cendìsci, dovìsci chiude’ i scuretti ’nté le finè’: questo fina tutto ’l 44. Fòri non se podìa piccià’ ’l fôgo mango de giorno, ché podìa èsse’ ’n segnale. Anca appena scoppiàda la guèrra, meglio ci si va bene, al peggio invece è molto difficile: speriamo che non venga più la guerra, se no loro non gliela fanno, abituati bene come sono adesso: divertimenti di tutte le specie, mangiare “bocca mia quello che vuoi tu!”, vestiti una stagione… poi via nel sacco per i poveretti! Io vi dico la verità: il lusso mi è piaciuto e ancora mi piace, però dentro il ‘credenzone’ ho i cappotti di cinquant’anni fa! E mi dispiace buttarli via: almeno mi cambio quando voglio! A me piaceva tanto ballare, ma con la guerra è morto tutto: dal ’39 si è sentito di nuovo suonare dopo il ’60, perché tutte le famiglie avevano qualcuno morto in guerra. Portavo ( a ballare) queste mie ragazze a piedi anche a Pongelli. Anche il cantare è finito tutto quella volta, anche i cantastorie non si sono sentiti più. Al cinematografo sapete quante volte ci sono andata da giovane? Due volte e mi ricordo che (il film) era intitolato “Ettore Fieramosca”, “Giuliano Serra pilota” e “I tre moschettieri”. (Il film) nemmeno parlava, si vedevano solo le figure, poi sempre con la paura che mi portassero via il ragazzo. Una volta siamo andati in un cinema a Belvedere, una volta a Montalboddo. Quando uscivi dal cinema, non dovevi fare i gruppetti per parlare con gli amici: se ti vedevano, volevano sapere di che cosa parlavi. E c’era anche il coprifuoco: tutte le luci spente, anche in casa se accendevi quel piccolo lumino, dovevi chiudere gli scuri delle finestre: questo fino al ’44. Fuori non si poteva 440 Montalbò’ era pîno de soldàdi: ’nté le scòle, ’nté l’asìlo, ’nté cuéi palazzi grossi che non ié servìa tutti i vani: c’era dappertutto. E quante ragazze ’nnamoràde, anca fidansàde, sposàde ‘gnèma gnèma!’ Hanne pïàdo certe sbornie! Cualchidùna che conoscìa io l’arcontàa. Cualchidùna s’è risposàde, ènne gide da lóngo, ma a cuéi tempi, quanno ’na ragazza ìa fatto l’amóre, per de più co’ ’n soldàdo, era giudigàda male, che po’ sémo gniorànte, perché ’n soldàdo è como n’antro ômo, ma la testa ié portàa luscì! accendere il fuoco nemmeno di giorno, perché poteva essere un segnale. Anche appena scoppiata la guerra, Montalboddo era piena di soldati: nelle scuole, nell’asilo, in quei palazzi grossi dove non servivano tutti i vani: c’erano (soldati) dappertutto. E quante ragazze innamorate, anche fidanzate, sposate “gnèma gnèma!” Hanno preso certe sbornie! Qualcuna che conoscevo io, lo raccontava. Alcune si sono in seguito sposate, sono andate lontano, ma a quei tempi, quando una ragazza era stata fidanzata, per di più con un soldato, era giudicata male. Questo perché siamo ignoranti: un soldato è come un altro uomo, ma la testa gli portava (a pensare) così. Co’ è la merenda? Che cos’è la merenda? I monelli ’ncominciàa a fasse granni, qualche 100 lire alla settimana le guadagnàa; noà gèmma sempre a fadigà’ dai contadì’ grossi, pïàmma ’n fascio d’erba o ’na fascina quanno era la sera, scarco, como ho ditto, non arvinìsci mae. ’L pa’ sul taolì’ n’è mae mancado, però al de fòra del pa’ ’l companadigo era sempre più scarso. Però i monelli è cresciudi li stesso. Quanno ’rvenìa dalla scòla, c’era du’ cucchiaràde de menèstra e de dredo non c’era più niè. Quanno sentìa de cuélli che stèra mejo de noà, dicìa “Venite, bambini, a prendere la merenda!”, io non m’anvergógno a I monelli incominciavano a farsi grandi, qualche cento lire la settimana le guadagnavano; noi andavamo sempre a lavorare dai contadini grossi, prendevamo un fascio d’erba o una fascina quando era sera, scarico, come ho detto, non ritornavi mai. Il pane sulla tavola non è mancato mai, però al di fuori del pane, il companatico era sempre più scarso. Però i monelli sono cresciuti ugualmente. Quando ritornavano dalla scuola, c’erano due cucchiaiate di minestra e poi non c’era più niente. Quando sentivo dire, da quelli che stavano meglio di noi, “venite, bambini, a prendere la merenda!”, io, non mi vergogno a 441 dillo, non sapìa mango co’ era. Dobo quanno gèra a scòla, ’sti monelli mia li mannàa via co’ ’na mela, co’ ’na fetta de pa’. Cuélla vo’ le mela con cento lire se ne pïàa tre chili. dirlo, non sapevo nemmeno che cos’era. Dopo, quando andavano a scuola questi monelli, li mandavo via con una mela, con una fetta di pane. Quella volta con cento lire si prendevano tre chili di mele. ’N facìa marcia a drèdo... Non facevano marcia indietro De resto altra robba non se podìa comprà, i soldi non se pïàa invelle; cuéllo che venìa fòra dalla terra, dobo ch’èmma datto più della midà al padró’, cuél che armanìa dovìsci pensà’ che l’anno era lóngo dòddici mesi e sci non tiràsci la cinta, alla fin dell’anno armanìsci a denti sciùcchi. Cuàlca fameja che non sapìa giostrà’ tanto be’, alla fine dell’anno gèra a finì’ pe’ la caridà, spèce cuélli che cìa ’n branco de monelli (cuélla vo’ non facìa tanto marcia a drèdo) era como cuélli del basso popolo adè. ’Mpo’ cìa d’accordo anca cuélli che comannàa, più monelli cìa e meno tasse pagàa. A questi d’adè’ non li convince: mejo pagà’ che mette’ al monno i fiòli! Ha ragió’: adè’ i fiòli sci uno li vôle se tròa dapertutto. Io per me non so’ d’accordo, me piace che i fjòli sia i mia e de mi’ marido, sci è possìbbole, basta che c’è la somènte: a ’mpresto se va a pïà’ ’na vanga, ’na falce fenàra, ma no la somente per fa’ i monelli: vattela a vede’ di chi è! Io ’l digo sempre: sci arvenisse ’sti Del resto altra roba non si poteva comprare, i soldi non si prendevano in nessun luogo; con quello che si ricavava dalla terra, dopo che avevamo dato più della metà al padrone, dovevi pensare che l’anno era lungo dodici mesi e, se non tiravi la cinghia, alla fine dell’anno rimanevi a denti asciutti. Qualche famiglia che non sapeva giostrare tanto bene alla fine dell’anno andava per l’elemosina, specie quelli che avevano un branco di monelli (quella volta non facevano marcia indietro) erano come quelli del basso popolo di adesso. Un po’ avevano d’accordo anche quelli che comandavano: più monelli si aveva e meno tasse si pagava. A questi di adesso (il governo) non li convince: meglio pagare che mettere al mondo i figli! Hanno ragione: adesso i figli, se uno li vuole, si trovano dappertutto. Io non sono d’accordo, mi piace che i figli siano miei e di mio marito, se è possibile, basta che ci sia il seme: in prestito si va a prendere una vanga, una falce fenaia, ma non il seme per fare i figli: vai a vedere di chi è! Io lo dico sempre: se ritornassero i nonni che 442 nonni che dicìa sempre “più gémo avanti e più gemo peggio”! Avìa ragió’: su certe cose staremo mejo, ma ’l monno s’è guastàdo muntubè’. dicevano sempre: “Più andiamo avanti e più andiamo peggio!” Avevano ragione: per certe cose staremo meglio, ma il mondo si è guastato molto. “L’erba mùzzica, i ca’ sciolti, i sassi legàdi!” “L’erba pizzica, i cani sciolti, i sassi legati” Questo se parla del 1957-58 in avanti. Allora émo ûdo coraggio e ce sèmo fatti la casa, ’na baracchétta, tutta a buffo e, piano piano, l’émo pagada. Capirede, a cuéi tempi l’émma pagada 1.750.000 lire e c’émma tre monelli piccoli! Fatta la casa, guasci “cóa fatta, gaggia morta!” S’è malàdo mi’ marìdo dalla troppa fadìga. È ’rnùdo dall’ospedale al tempo de mededùre. Lu’ stèra sotta la mirìggia, io falciàa ’l gra’ e ’sti tre monellétti mia me iudàa: la fémmena legàa i còi co’ la pressa che pesàa quanto lìa, avìa dodici’anni, ’l maschietto dieci’anni ’rcoìa le pegorèlle (io cercàa de falle piccolìne e fatte be’); la monellétta piccola, n’era granna eh, avìa sei anni, co’ ’na cordellétta strascinàa i balsi e i dèra alla sorella. Fadigàa tutti, porettì’! Cuell’ànno èmma pïàdo cuéi quattr’èttri de terra in affitto, toccàa dàsse da fa’, perché notte l’anno i soldi ’l padró’ li volìa, e noà ’ndó li tiràmma fòra? C’émma tutto ’l buffo de la casa, fumma ’nténti ’mpo’ dapertutto, interessi all’otto, al dieci per cento, notte Adesso si parla del 1957-58 in avanti. Allora abbiamo avuto coraggio e ci siamo fatti la casa, una baracchetta tutta a debito e, piano piano, l’abbiamo pagata. Capirete, a quei tempi l’abbiamo pagata un milione e settecentocinquantamila lire e avevamo tre figli piccoli. Fatta la casa, quasi “nido fatto, gazza morta”! S’è ammalato mio marito per la troppa fatica. È ritornato dall’ospedale al tempo della mietitura. Lui stava sotto l’ombra, io falciavo il grano e questi tre monelletti miei mi aiutavano: la femmina legava i covi con la pressa che pesava quanto lei, aveva dodici anni; il maschietto, dieci anni, raccoglieva le pecorelle (io cercavo di farle piccoline e fatte bene); la monelletta piccola, non era grande eh!, aveva sei anni, con una cordicella trascinava i balsi e li dava alla sorella. Lavoravano tutti, poverini! Quell’anno avevamo preso quattro ettari di terra in affitto, bisognava darsi da fare, perché alla fine dell’anno i soldi il padrone li voleva e noi da dove li tiravamo fuori? Avevamo tutto il debito della casa, eravamo in debito un po’ dappertutto, 443 l’anno non ’rcavàmma mango i soldi pell’interèssi. Mi’ marìdo i cercàa ’nté n’antro posto, pe’ èsse’ puntuale per dàjeli prima che scadìa la gambiàle. La gente ce li dèra tranquilli, perché vedìa la puntualidà. Dicémma co’ mi’ marìdo: “ ’St’anno c’émo ’mbelpo’ de terra, ce fa tanto gra’, tanto vi’!” Ma “chi fa i conti sensa l’oste, i fa du’ ’olte”! È veredà! Cuéll’anno te s’ha fatto ’na gelàda l’otto de maggio, che le vide scoperte l’ha seccàde tutte. Noà n’émo salvàde ’mpo’ perché c’émma du’ file de mori: cuélla sotta s’è salvàda ’mpo’ mejo. Dobo ’l gra’ cìa dagià tutto ’l nodro, vôl di’ che dagià ìa messo la spiga, stèra guasci de fòra e n’ha roinàdo più de la midà. A bon bisogno cuéll’anno è passàda anca la gràndola, allora spontanio venìa da di’: “Ma, cristarello, è ’mpo’ troppo!” E tanto que fésci? Toccàa a sta’ lì de casa: d’annanze alla volondà del Padre ’n ce se va!” ’N ce sèmo mae persi de coraggio; le vide toccàa a dàje verdoràmo e sólfo listesso, pe’ non fàlle pïà’ dalla maladìa; ’l gra’ ha toccàdo a falciàllo listesso, ardunàllo e bàttelo, benànca era guasci tutta paja e pula, ma tanto non podìi lassàllo lì, servìa pe’ le bestie ’sta robba. Dobo, tanto pe’ gambià e finì’ de méttece in crisi, c’émma ’n toro che ìa pïàdo ’l tèdeno, coscì ’l bóssolo, ’l bicchiero era pîno che gèra de fòra. E tu va’ a fa’ ’l contadì’! Co’ tutta ’sta sfortuna ce sta be’ interessi all’otto al dieci per cento; alla fine dell’anno non riuscivamo a mettere insieme neppure i soldi per gli interessi. Mio marito li cercava in un altro posto, per essere puntuale e restituirli prima che scadesse la cambiale. La gente ce li dava tranquilla, perché vedeva la puntualità. Dicevamo io e mio marito: “Quest’anno abbiamo molta terra, ci fa tanto grano, tanto vino!”. Ma “chi fa i conti senza l’oste, li fa due volte!”. È la verità! Quell’anno, all’otto di maggio ti ha fatto una gelata, che ha seccato tutte le viti scoperte. Noi ne abbiamo salvate un po’, perché avevamo due file di mori: quell’uva (lì) sotto si è salvata un po’ meglio. Dopo il grano aveva già tutto il ‘nodro’, vuol dire che già aveva messo la spiga, che stava quasi di fuori, e ne ha rovinato più della metà. A buon bisogno quell’anno è passata anche la grandine, allora veniva spontaneo da dire: “Ma, cristarello, è un po’ troppo!” E tanto cosa facevi? Toccava stare lì di casa: davanti alla volontà del Padre non ci si va! Non ci siamo mai persi di coraggio; alle viti bisognava dare il verderame e lo zolfo ugualmente, per non farle attaccare dalla malattia; il grano è stato necessario falciarlo ugualmente, radunarlo e trebbiarlo, benché fosse quasi tutta paglia e pula, ma tanto non potevi lasciarlo lì, questa roba serviva per le bestie. Dopo, tanto per cambiare e finire di metterci in crisi, avevamo un toro che ha preso il tetano, così il barattolo, il bicchiere era pieno che andava di fuori. E tu vai a fare il contadino! 444 ’st’arcónto chì. C’era uno del basso popolo, pe’ dilla chiara ’n contadì’, che ’na madìna d’inverno gèra alla fiera. Prima de rià’ ’nté ’l paese i’ha sortìdo de gi’ de corpo. Allora ha pensàdo: “Adè ’ndó me metto?” Ha vedùdo ’na macchia d’erba alta, iè venùdo pensàdo de boccà lì ’n tra mezzo. S’è messo giù, l’ha fatta e po’ stròppa ’n pugnèllo d’erba pe’ pulìsse. Vedi ’mpo’ ch’era l’ortìga! Quanno ancó’ era giù bello scupèrto, ché ié bruciàa ’mbelpo’, n’arriva currènno e abbaiàndo ’n ca’ da ’na casa lì vicino! ’Sto contadì’ va pe’ pïà’ ’n sasso pe’ mannà via cuélla bestiàccia, ma gné la fa a scarpìllo, perché era gelàdo nigò a cocco de pipa. Allora, tutto spaurìdo e co’ le biscìghe grosse giù da basso, ha ditto: “L’erba mùzzica, i ca’ sciolti, i sassi legàdi!” Anche da parte de noà, ’nté cuèi tempi disgraziadi, quanno ’n ce gèra gnè pe’ la via sua, se podìa di’: “L’erba mùzzica, i ca’ sciolti, i sassi legàdi!” Con tutta questa sfortuna ci sta bene questo racconto qui. C’era uno del basso popolo, per dirla chiaramente un contadino, che una mattina d’inverno andava alla fiera. Prima di arrivare in paese ha avuto bisogno di andare di corpo. Allora ha pensato: “Adesso dove mi metto?” Ha visto una macchia d’erba alta, gli è venuto pensato di entrare lì in mezzo. Si è messo giù, l’ha fatta e poi strappa un pugnello d’erba per pulirsi. Vedi un po’ che era ortica! Quando ancora era giù bello scoperto, perché gli bruciava tanto, non arriva correndo e abbaiando un cane da una casa lì vicino! Questo contadino va per prendere un sasso per mandare via quella bestiaccia, ma non riesce a carpirlo, perché era gelato tutto alla perfezione. Allora, tutto spaventato e con le vesciche grosse giù in basso, ha detto: “L’erba pizzica, i cani sciolti, i sassi legati!” Anche da parte nostra, in quei tempi disgraziati, quando non andava niente per il verso suo, si poteva dire: “L’erba pizzica, i cani sciolti, i sassi legati!” ’Na cava d’oro Una cava d’oro A cuéi tempi émma fatto bocca bòna quanno émo sapùdo che s’era ropèrta la contèa Ferraris, che cìa ’na massa de fónni, i contadì’ era gidi via tutti e la mannàa avanti ’sta terra coll’operai. Mi’ marìdo m’è gido a fa’ sùbbedo ’l libbrétto de laóro. Me ci’hà pïàdo a laorà’ como operaia, A quei tempi abbiamo fatto bocca buona quando abbiamo saputo che si era aperta la contea Ferraris, che aveva tanti poderi: i contadini erano andati via e mandava avanti (la contea) con gli operai. Mio marito mi è andato subito a fare il libretto di lavoro. (La contea) mi ha preso a lavorare come operaia, ci 445 ce tenìa anca in regola. Io me facéo 6-7 chilomedri per madina co’ la bicicletta e, caminànno, magnàa ’na fetta de pa’: cuélla era la colazió’, sensa bé’ manco ’na goccia d’aqua. Como pïàa la busta paga dal conte Ferraris, 8.000 lire al mese, a segondo le giornàde che se fèra, io la lassàa là dal fornàro per pagàcce ’l pa’. Prima se pïàa la farina, ’l pa’ ’l fèmma de casa, ma dobo gèra a giornàda, ’n c’era più tempo de fa’ ’l pa’. Quante tribbolazió’: la madìna prima a fa’ tutte le facènne de casa e po’ via…co’ la biscighetta, ’na fetta de pa’ sulle ma’ e annànse popolo! Toccàa a sta ’tènti che, sci rivàsci ’nté ’l laóro cinque minùdi dobo, te levàa ’n’ora de paga. Se comensàa a ’rpïà’’mpo’ de fiàdo, quanno ’na sera e non me so’ troàda licensiàda! Fumma ’na trentina de persone a fadigà’ ’nté cuélla contea. Quanno era de battidùre, ’rdunà’, fa i pajàri fumma anca quaranta. Allora fèva le squadre, cinque pe’ squadra. ’Na sera ardunassima i covi pe’ fa’ ’l barcó. Era da careggiàlli mezzo chilometro su pe’ ’na ripa, ché ’l mudóre col carro gnè la fèva a gìcce finànta a pìa; coscì ’gni viaggio ce volìa muntubè’. Cuéllo che fèva ’l barcó’ su casa ié toccàa spettà’ a noà. Allora ’st’operaio è gido a mògne’ ’na vacca pe’ be’ ’mpo’ de latte, ma ce l’ha chiappàdo ’l fattó’ in fallo. Coscì la sera ci’hà ditto: “La squadra ’ndó c’è cuello (’l nome ne ’l posso teneva anche in regola. Io mi facevo sei sette chilometri ogni mattina con la bicicletta e, camminando, mangiavo una fetta di pane: quella era la colazione, senza bere nemmeno una goccia d’acqua. Come prendevo la busta paga dal conte Ferraris, ottomila lire al mese, a seconda delle giornate che si facevano, io la lasciavo dal fornaio per pagarci il pane. Prima si prendeva la farina, il pane lo facevamo in casa, ma dopo andavo a giornata, non c’era più il tempo di fare il pane. Quante tribolazioni: la mattina fare tutte le faccende di casa e poi via… con la bicicletta, una fetta di pane sulle mani e avanti popolo! Toccava stare attenti perché, se arrivavi sul lavoro cinque minuti dopo, ti levava un’ora di paga. Si cominciava a riprendere un po’ fiato, quando una sera e non mi son trovata licenziata! Eravamo una trentina di persone a lavorare in quella contea. Al tempo della trebbiatura, del radunare (i covi), di fare i pagliai, eravamo anche quaranta. Allora faceva le squadre, cinque per squadra. Una sera radunavamo i covi per fare il barcone. Dovevano essere trasportati per mezzo chilometro su per una ripa, perché il motore con il carro non gliela faceva ad andarci fino in fondo, così ogni viaggio ci voleva parecchio tempo. Quello che faceva il barcone su casa doveva aspettare noi. Allora questo operaio è andato a mungere una vacca per bere un po’ di latte, ma il fattore l’ha sorpreso in fallo. Così la sera (il fattore) ci ha detto: “La 446 di’) domà’ resta a casa, esclusa dal laóro, licensiàda!” Pensàde vuà che magó’ che s’è messo ’nté lo stómmigo! Ho fatto tutta la strada piagnèndo. Pensào: “Cuéi soldi lì me serve pe’ compràcce ’l pa’, pe’ sfamà’ tre fjòli! ’Na cosa da gnè! Como famo? Mi’ marìdo sta male e ’n pôle fadigà’. Ma como se fa?” E piagnéo, piagnéo, disperàda. So be’ ch’emo passàdo ’na settimana in biango, con tutto cuél dèbbido che c’émma da pagà’. Pensàmma che ’n ci’archiamàa più e a restà’ sensa laóro… in pîno laóro era brutto ’mbelpo’. Me parìa d’avé troàdo ’na cava d’oro e tutta ’n tratto lìo persa. Che sci poi fumma stadi in colpa, avìa ragió’, ma a careggià’ cuéi còi su pe’ cuélla ripa, toccàa rampinàsse co le ma’ e i pìa, el còvo da cima del forcó’ ’na quarantina de chili te fèra fa’ ’l maghétto lìppede su cuélla ripa. Ma al capo operaio del conte, Ornello de Marchetto, ié dispiacéa muntubè e i’hà ditto al fattore: “Fattó’, pe’ ’n solo peccadóre, penedènza maggiore. Era la squadra che laoràa più de tutte! Pe’ uno ’n se pôle condannà’ tutti!” E Ornello la ûda vénta: dobo sette giorni ci’hà ’rchiamàdo. Dopo ’mpo’ de tempo s’è ropèrte anca le fabbrighe e mi’ marìdo e mi’ fjòlo c’ènne gidi sùbbedo, benànche mi’ marìdo ancó’ ’n n’èra ’rguarìdo. E da lì émo ’rcomensàdo a méttese ’mpo’ in careggiàda. squadra dove c’è quello (il nome non lo posso dire) domani resta a casa, esclusa dal lavoro, licenziata!” Pensate voi che magone mi si è messo nello stomaco! Ho fatto tutta la strada piangendo. Pensavo: “Quei soldi lì mi servono per comprarci il pane, per sfamare tre figli! Una cosa da niente! Come facciamo? Mio marito sta male e non può lavorare. Ma come si fa?” E piangevo, piangevo disperata. So bene che abbiamo passato una settimana in bianco, con tutto quel debito che avevamo da pagare. Pensavamo che non ci avrebbe richiamato più e restare senza lavoro… nel pieno del lavoro era molto brutto. Mi pareva d’aver trovato una cava d’oro e tutto ad un tratto l’avevo persa. Se poi fossimo stati in colpa, avrebbe avuto ragione (il fattore), ma a trasportare quei covi su per quella ripa, toccava arrampicarsi con le mani e con i piedi, il covo in cima al forcone , una quarantina di chili, ti faceva lasciare le budella lì su per quella ripa. Ma al capo operaio del conte, Ornello de Marchetto, gli dispiaceva molto e gli ha detto al fattore: “Fattore, per un solo peccatore, penitenza maggiore. Era la squadra che lavorava più di tutte! Per colpa di uno non si possono condannare tutti!” E Ornello l’ha avuta vinta: dopo sette giorni ci ha richiamato. Dopo un po’ di tempo si sono aperte anche le fabbriche e mio marito e mio figlio ci sono andati subito, benché mio marito non fosse ancora guarito. E da lì abbiamo cominciato a metterci in carreggiata. 447 Trebbiatura. Foto anni ’30 (coll. Luigi Vittorio Ferraris). Trebbiatura. Primo piano del Landini. (coll. privata). 448 Trebbiatura: dal barcone alla trebbiatrice. (Coll.Giuliano Sellari). 449 Trebbiatura nell’azienda Ferraris: si raccolgono gli ultimi covoni e “se guzza i paiàri”( coll. Santino Sagrati). Trebbiatura: si fatica e si scherza sollevando il sacco… ed anche l’amico (coll. Sante Sagrati) 450 Fasce, quadradi e pezze Fasce, quadrati e pannolini Tanto pe’ dìnne’n’antra. Io, quanno la televisió’ fa cuéi riclami che dice dei pagnetti dei monelli, fa véde’ che non passa la pipì super assorbente: a pensà’ che i nostri cìa ’mpèzzo de panno quadrado, preso ’nté i linsoli vecchi, ruzzo e iàccio d’inverno, chiamado la piaétta: ié mettéi cuélla piaétta e po’ ’na fascia e lì l’invuricchiài tuto ansiéme che parìa ’n salcicciotto. Po’ quanno avìa fatto la cacca, ’na lavàda co l’acqua iàccia e sci se fèra ’l culetto roscio, ’na bocconada1 de vì’ disinfettàa e dobo io cìa la cipria de quann’ero giovena, ce dèra cuélla, ’l borotalco c’era in circolazió’ ma ’n n’era pei contadì’. Dicìa cuéi più granni de noà che, a tempo de lóra, ’dópràa la farina de granturco al posto del borotalco. E po’ dice per cuélle granne: “Basta un gesto, e ti senti bella asciutta e pulìda”. Te fa véde’ che con cuéi vestidi trasparenti salta, balla, va in bicicletta e tutto appòsto! E ci credo! Ai nostri tempi, quanno se gèra a fadigà’ ’nté le contèe, falcià’, vangà’, a batte’, partìsci da casa alla madina alle 3 ’rvenìsci alla sera alle 10, anca le 11, magnàsci a sède’ per terra, a volte non c’era mango l’acqua pe’ lavasse le ma’. E si dovésci gi’ al logo còmmedo, prima progurasci ’na brancia Tanto per dirne un’altra. Io, quando la televisione fa quelle réclame che parlano dei pannolini dei bambini, fa vedere che sono super assorbenti e non lasciano passare la pipì, penso che i nostri (figli) avevano un pezzo di panno quadrato, preso nelle lenzuola vecchie, rozzo e freddo d’inverno, chiamato la ‘piagetta’: gli mettevi (al neonato) quella piagétta e poi una fascia e lì lo avvolgevi tutto insieme che pareva un salsicciotto. Poi, quando aveva fatto la cacca, una lavata con l’acqua fredda e, se il culetto si faceva rosso, una boccata di vino disinfettava e dopo io avevo la cipria di quando ero giovane, ci davo quella: il borotalco c’era in circolazione, ma non era per i contadini. Dicevano quelli più grandi di noi che, al tempo loro, si adoperava la farina di granturco al posto del borotalco. Poi (la televisione) dice per le donne : “Basta un gesto e ti senti bella asciutta e pulita!” Ti fa vedere che (la donna), con quei vestiti trasparenti, salta, balla, va in bicicletta e tutto è a posto. E ci credo! Ai nostri tempi, quando si andava a lavorare nelle contee, a falciare, vangare, trebbiare, partivi da casa la mattina alle tre, ritornavi la sera alle dieci, anche alle undici; (durante il giorno) mangiavi a sedere per terra, a volte non c’era nemmeno l’acqua per lavarsi le mani. 1 Si riferisce all’uso della bocca come spruzzatore. 451 de qualche pianta, sci c’era vicino, scinò ’n ceppo d’erba, dopo la piattàsci la pèzza o diedro ’na pianta, ’ntrà ’na fratta, drendo a ’n fosso, ’nté ’l mezzo al gra’, ’ndó era più nascosto. E po’ c’era sempre i sfacciàdi che te seguìa co’ l’occhi e che te dicìa: “S’è buttada la pujàna!” E non podìsci fa, como dice la televisió’, “usa e getta! Ti senti asciutta e pulìda!” Envece ’l materiale toccàa a ricuperàllo, servìa pe’ ’l prossimo mese. Non c’era carta, non c’era buste de plastiga, ce volìa ’n fazzoletto da naso in più e lì se nascondìa sotta l’erba; alla sera se gèra a ’rpïà’, a casa se lavàa. Bisognàa tené’ a conto de che razza! E se dovevi andare al gabinetto, prima ti procuravi una foglia di qualche pianta, se c’era lì vicino, se no un ceppo d’erba; dopo la nascondevi la pezza o dietro una pianta, in una fratta, dentro un fosso, in mezzo al grano, dove era più nascosto. E poi c’erano sempre gli sfacciati che ti seguivano con gli occhi e che ti dicevano: “Si è buttata la poiana!” E non potevi fare, come dice la televisione, “usa e getta! Ti senti asciutta e pulita!” Invece il materiale toccava ricuperarlo, sarebbe servito per il mese successivo. Non c’era la carta, non c’erano le buste di plastica, ci voleva un fazzoletto da naso in più e lì si nascondeva sotto l’erba; alla sera la si andava a riprendere, a casa si lavava. Bisognava tenere a conto di che razza! L’aqua del pozzo e la cena L’acqua del pozzo e la cena E po’ gèsci a casa a cuéll’ora, l’acqua ’nté le brocche non c’era, sci n’avìsci preparada prima de partì. Sìa da gi’ a pïà’ da ’n contadì’ ché noà ’l pozzo non ce l’émma, era da lóngo 6 o 700 medri. La dovìsci careggià’ pe’ ’l porchetto, pui e conìi, pe’ ’l ca’ e ’l gatto, pe’ lavà’, fa da magnà’ e pe’ lavà’ i piatti. Toccàa a pïà’ du’ brocche, una per ma’, e fa anca du’ viaggi, sci volìsci l’acqua per còce’ da magnà’. Quanno se gèra a giornàda dai contadì’, la minestra se cocìa alla sera per cena. Picciàmma ’l fôgo, se E poi tornavi a casa a quell’ora, l’acqua nelle brocche non c’era se non l’avevi preparata prima di partire. Si doveva andare a prenderla da un contadino, lontano sei settecento metri, perché noi non ce l’avevamo il pozzo. La dovevi trasportare per il porco, i polli, i conigli, il cane e il gatto, per lavare, fare da mangiare e per lavare i piatti. Bisognava prendere due brocche, una per mano, e fare anche due viaggi, se volevi l’acqua per cuocere da mangiare. Quando si andava a giornata dai contadini, la minestra si cuoceva la sera per cena. Accendevamo il fuoco, si met452 mettìa su ’l callàro, intanto se fèra le faccenne, una preparàa la spìndola co’ ’n mucchietto de farina e, se fèra du’ tajolì’ ’nté mezz’ora, se fèra la sperna. Dopo sci se fèra i guadrelli ce volìa ’mpo’ de più a tajàlli; anca l’intingolo ’nté mezz’ora se fera. C’era cûéi fornèlli fatti de madù’, se cendìa con un po’ de carbó’, che se smorciàa quanno se scaldàa ’l forno per côce ’l pa’: se stacciàa e po’ ’l mettémma ’nté ’na calloròla e se ’dopràa quanno servìa. teva su il caldaio, intanto si facevano le faccende, una preparava la spianatoia con un mucchietto di farina, si faceva la sfoglia e due tagliolini in mezz’ora. Dopo, se si facevano i quadretti ci voleva un po’ di più a tagliarli; anche il sugo si faceva in mezz’ora. C’erano quei fornelli fatti di mattoni, si accendevano con un po’ di carbone, che si spegneva quando si riscaldava il forno per cuocere il pane: lo si stacciava, poi lo mettevamo in una calderella e lo si adoperava quando serviva. Biùde a brocca Bevute a brocca Arpìo de quanno gèmma a fadigà’ ’nté ’sta contèa. Non c’era l’aqua, se gèra a pïà’ ’nté ’n pozzo co’ ’na brocca da ’na venticinquina de lidri, e tutti bevémma a brocca. Non se portàa ’l bicchiero, perché fumma 30 operai, e non ce fèra badurlà’ a be’ col bicchiero, ché la séde era tanta. Se ne bevìa 3 o 4 bicchieri, ce volìa troppo. Toccàa a caminà’ du’ chilòmedri per gì a pïà’ ’sta brocca d’aqua. Dopo ’n anno che la bevemma ’sto pozzo l’ha pulido, c’è boccado n’ômo drendo pe’ pulillo bembè’ e ci’hà trovado le bisce. L’émo sapudo dobo, scinó mejo a crepà’ de séde! Hanne ditto che le bisce pulisce l’aqua, ma pensade ’mpo’ vuà che schifo a ’rpensàcce! Io, quanno ero a casa mia prima Riprendo da quando andavamo a lavorare in quella contea. Non c’era l’acqua, si andava a prendere in un pozzo con una brocca da una venticinquina di litri, e tutti bevevamo a brocca. Non si portava il bicchiere, perché eravamo trenta operai, e non ci faceva perder tempo con il bicchiere, perché la sete era tanta. Se ne bevevano tre quattro bicchieri, ci sarebbe voluto troppo. Bisognava camminare due chilometri per andare a prendere questa brocca d’acqua. Dopo un anno che la bevevamo, hanno pulito questo pozzo, c’è entrato un uomo e ci ha trovato le bisce. L’abbiamo saputo dopo, se no (sarebbe stato) meglio crepare di sete. Hanno detto che le bisce puliscono l’acqua, ma pensate un po’ voi che schifo a ripensarci! Quando stavo a casa mia prima di sposare, ce l’avevamo il pozzo, lo 453 da sposà’, ce l’émma ’l pozzo, ’l pulémma tutti l’anni d’istàde, quanno l’aqua ce n’era poga, la cavamma tutta, finchè se rîmpìa la callarola. Dobo babbo ce boccàa: piàa ’n bastó’ co’ ’na corda mezzo alle gambe, legada ’nté ’sto bastó’, e gèra giù piano piano. Noà, in due, tenémma forte la corda, che passàa su la ràgola ben assigurada. ’L pulìa a specchio. E dèra gusto a be’ l’aqua, ce venìa tutto ’l contornàle a pïa’ ’st’aqua, anca tanta fresca, perché era lóngo settanta file de madù’, era profonno muntubè’. Adè’ l’aqua ’nté i pozzi non se pôle be’ più, dice che c’è ’n sacco de nitràdi. Cuélla ’olta non se fèra la pròa dell’aqua e non se sapìa sci era potàbole. Quanno isci séde te ’taccai la bocca ’nté la callaròla, ne tiràsci anca mezzo lidro, e non se pensàa gnè. Adè se bée cuélla delle bottìje, ma chi te dice sci cuélla è scigura? A pensà’ che ’n’amiga mia gèra a fa’ l’erba in giro perché ’l campo non ce lìa, e cìa ’mpo’ de cunìi. Ha ditto troppe le ’olte bevìa l’aqua del fiume, quanno facìa tre o quattro chilomedri a pìa co’ ’n gran fascio su le spalle. Quanno era tanto callo, buttàa giù ’l fascio dell’erba, fèra ’na buganella ’nté ’l fiume, se mettìa a ’nginòcchio e bevìa. Questo è vero: è vivi chi l’arconta! Adè’ l’aqua del fiume n’è bòna mango pe’ lavà’! pulivamo tutti gli anni d’estate, quando di acqua ce n’era poca. La tiravamo fuori tutta, finché si riempiva la calderella. Dopo ci entrava babbo: prendeva un bastone con una corda in mezzo alle gambe, legata in questo bastone, e andava giù piano piano. Noi, in due, tenevamo forte la corda, che passava sulla carrucola ben fissata. Lo puliva (il pozzo) a specchio. E dava gusto bere quell’acqua, ci veniva tutto il circondario a prendere quest’acqua, perché era profondo settanta file di mattoni, era molto profondo. Adesso l’acqua nei pozzi non si può più bere, si dice che ci sono tanti nitrati. Quella volta non si facevano le analisi dell’acqua e non si sapeva se era potabile. Quando avevi sete attaccavi la bocca nella calderella, ne ingoiavi anche mezzo litro, e non si pensava a niente. Adesso si beve quella delle bottiglie, ma chi ti dice che quella è sicura? A pensare che una mia amica andava a fare l’erba in giro, perché non aveva il campo e aveva alcuni conigli. Ha detto che troppe volte lei beveva l’acqua del fiume, quando faceva tre quattro chilometri a piedi con un gran fascio sulle spalle. Quando era tanto caldo, buttava a terra il fascio dell’erba, faceva una buchetta nel fiume, si metteva in ginocchio e beveva. Questo è vero: sono vivi quelli che lo raccontano! Adesso l’acqua del fiume non è buona nemmeno per lavare! 454 Donne de ’na ô e donne d’adè’ Donne di una volta e donne di adesso Cuélla vo’ c’era solo ’na strada: fadigà’ giùppe ’l campo oppure fa ’l contadì’! Era sempre cuélla, ’n n’èra como adè’ che c’è ’n sacco de strade ropèrte: capa laóro chi ha voja e po’, sci è ’mpo’ dura, lassa gi’! Quanno è ’l sabbedo c’è la piazza pîna, envéce d’amparà’ a fa’ cualchiccò. Dicìa nonna mia: “’Mpara l’arte e mettelo da ’na parte!” Va be’ che ai tempi nostri sci era como adè’, anch’io sarìa stada ’mbizziósa, como queste d’adè’. Adè’ v’arcónto que m’è capidàdo. ’Mpo’ d’anni fa semo gidi a ’na gida e io era ’rmasta ’mpo’ arèdo. Gèmma a véde’ ’n tempio, s’avvicina ’n’ômo ’mpo’ vecchietto como me e m’ha ditto: “Vu’, me sa, quanno siàsta giovena, siàsta bella!” I’hò risposto: “Dicédelo a mi’ marido, io non so sci è vero!” Allora vojo di’ che anca ai tempi nostri, sci ce fusse stada la possibilità, sarémma stadi più o meno de questi d’adè’. Tutta la quistió’ è che non c’émma la libertà, scinó i pezzi erane li stessi, solo che cuélla vo’, quann’era d’istade se coprémma col cappello de paja, manighe lónghe, per esse’ più cioìle, envece queste d’adè’ va al mare nude, se fa la lampida, più è nere e più se piace. Cuélla vo’ i contadì’ erene prezzàdi ‘suppi de terra’; ’na passada chi fèra i contadì’ non trovàa mango moje. Ma dicédeme ’mpo’ vuà: sci Quella volta c’era solo una strada: lavorare nel campo oppure fare il contadino. Era sempre quella, non era come adesso che c’è un sacco di strade aperte: sceglie il lavoro chi ha voglia e poi, se questo è un po’ duro, lo lascia andare. Quando è sabato, c’è la piazza piena, invece di imparare a fare qualcosa. Diceva nonna mia: “Impara l’arte e mettela da parte!” Va bene che ai tempi nostri, se era come adesso, anch’io sarei stata ambiziosa come queste di adesso. Adesso vi racconto che cosa mi è capitato. Alcuni anni fa siamo andati a una gita e io ero rimasta un po’ indietro. Andavamo a vedere un tempio, si avvicina un uomo un po’ vecchietto e mi ha detto: “Voi, mi sa, quando eravate giovane, eravate bella!” Gli ho risposto: “Ditelo a mio marito, io non so se è vero!” Allora voglio dire che anche ai tempi nostri, se ci fosse stata la possibilità, saremmo stati più o meno come questi di adesso. Tutta la questione è che non avevamo la libertà, sennò i pezzi erano gli stessi, solo che quella volta, quando era l’estate, ci coprivamo con il cappello di paglia, maniche lunghe, per essere più civili (bianche), invece queste di adesso vanno al mare nude, si fanno la lampada, più nere sono e più si piacciono. Quella volta i contadini erano stimati ‘suppi di terra’; per un periodo quelli che facevano i contadini non trovavano nemmeno moglie. Ma ditemi 455 moje non pïa, i fjòli non nasce più, ’l monno va a finì’. Mah! Me piace de campà’ qualc’altro anno, per véde’ ’mpo’! voi: se non si prende moglie, i figli non nascono più, il mondo va a finire. Mah! Mi piace campare qualche altro anno, per vedere un po’! Nozze d’oro Nozze d’oro In compenso émo fatto i cinquant’ànni, nozze d’oro. Per destino ha ’ncontrado stesso mese, stesso giorno di domeniga, dopo 50 anni uguale di domeniga. È stado bello muntubè’, c’era tante maghine, cuélla ’ndó stèmma noà era tutta ’nfioccada, c’era ’l sole co’ la neve. È stado molto più bello della prima ’olta, perché c’émma tutti i fiòli e nepodi, sorelle, parenti stretti dentorno a noà, generi, nuora, ’na nipode cìa la cinepresa. E la cerimonia è stada bellissima: avémo aùdo anca, per parte de ’na sorella de mi’ marido, ch’è sora a Roma, due telegrammi dal Vadigàno, firmadi dal Cardinale Sudàno. E tutta ’sta cerimonia l’ha messa sulla Voce Misena, che la tengo a conto più de l’oro. Mi’ fjòla, che fa ’l fottografo a Pesaro, m’ha fatto ’n album pîno de ’st’arsomèi de tutte le qualità.. C’émo aùdo ’n sacco de regali, perfino la televisió a colori, ’l vidio registradore, anello, servizzi, linsòli, robba intima, nome d’oro e tante altre cose. I linsòli me basta finché campo e po’ s’avansarà. Quanno ’rguardo la cassetta, me In compenso abbiamo fatto i cinquant’anni, le nozze d’oro. Dopo cinquant’anni, per destino ha incontrato lo stesso mese, lo stesso giorno di domenica. È stato molto bello, c’erano tante macchine; quella dove stavamo noi era tutta infioccata, c’era il sole con la neve. È stato molto più bello della prima volta, perché avevamo attorno a noi tutti i figli, i nipoti, le sorelle, parenti stretti, generi, nuora, una nipote aveva la cinepresa. E la cerimonia è stata bellissima: abbiamo avuto anche, per merito di una sorella di mio marito, che è suora a Roma, due telegrammi dal Vaticano, firmati dal Cardinale Sodano. E tutta questa cerimonia l’hanno messa su “La voce misena”, che tengo a conto più dell’oro. Mia figlia, che fa il fotografo a Pesaro, mi ha fatto un album pieno di fotografie di tutte le qualità. Abbiamo avuto un sacco di regali, perfino la televisione a colori, il videoregistratore, anello, servizi, lenzuola, biancheria intima, nome in oro e tante altre cose. Le lenzuola mi basteranno finché campo e poi mi avanzeranno. Quando riguardo la videocassetta, mi pare di sognare, non mi pare vero. 456 pare de ’nsumbià’, non pare ’l vero. Questo sogno, in dialetto si dice ’nsùmbio: è stado veramente indimenticabile. Adè sci ié se fèsse a rivà’ al 2003, sarìa bello anche troppo a fa’ sessant’anni insieme, sci non altro per fa’ véde’ a cuélli d’oggi, fàje capì’ che bisogna sopportasse da uno co’ l’altro, sci non altro a fàllo pei fii. Dicìa l’antenadi nostri: “Da per tutto c’è da discore, da fa’ a quistió’, anca i piatti ’nté la scaffa se move da per lora, però s’assesta, non se rompe!” Sarà tutti proverbi dei vecchi! Questi d’oggi non li vôle sentì’ ’sti dittadi, basta che dice: “Se fessarìe manco a ’rcontàlle! Envece c’è cualchidù, ’mbelpo’ più astudi de lora che l’apprezza, e fanne be’ ’mbelpo’. Io ié digo: “Tenéde a conto anche le mille lire, perché babbo dicìa “scì ’n ci’hai ’l centesimo non ce la fai a fa’ la lira!” Per fa’ la lira ce volìa venti soldi, pe’ fa’ ’n soldo venti centè’ e se cìsci 99 centesimi, non iéla fèsci a fa’ ’na lira. E questo è ’n dittado vecchio più de me! Però bisogna tenéllo drendo al cervello, sci volemo gi’ avanti sensa tanti lamenti; adesso se magna troppo, se sprega ’mbelpò’: pagni, scarpe, parrucchiera, tutti i divertimenti, tutti profumi, dall’estetiste… Po’ sci vai a guardalle alla madina quanno se alsa, cuéste donne chì, c’è diferenza como ’l giorno e la notte. ’Nvece al tempo de noà sci te dèsci ’mpo ’de cipria, dicìa che fusci cascada drendo ’l sacco della fari- Questo sogno in dialetto si dice “’nsùmbio”: è stato veramente indimenticabile. Adesso se gliela facessimo ad arrivare al 2003, sarebbe bello anche troppo fare i sessant’anni insieme, se non altro per far vedere a quelli d’oggi, far loro capire che bisogna sopportarsi l’uno con l’altro, se non altro farlo per i figli. Dicevano gli antenati nostri: “Dappertutto c’è da discorrere, fare a questione, anche i piatti nello scaffale si muovono da soli, però si assestano e non si rompono!” Saranno tutti proverbi dei vecchi! Questi d’oggi non li vogliono sentire questi ‘dittàdi’, basta che dicono: “Queste fesserie nemmeno a raccontarle! Invece ci sono alcuni, molto più astuti di loro, che li apprezzano, e fanno molto bene. Io gli dico: “Tenete a conto anche le mille lire, perché babbo diceva “se non hai il centesimo non riesci a fare la lira!” Per fare la lira ci volevano venti soldi, per fare un soldo venti centesimi e se avevi novantanove centesimi non gliela facevi a fare una lira. E questo è un detto vecchio più di me! Però bisogna tenerlo dentro il cervello, se vogliamo andare avanti senza tanti lamenti; adesso si mangia troppo, si spreca molto: vestiti, scarpe, parrucchiera, tutti i divertimenti, tutti profumi, dalle estetiste… Poi se vai a guardarle la mattina, quando si alzano, queste donne qui, c’è la differenza come tra il giorno e la notte. Invece al tempo nostro, se ti mettevi un po’ di cipria, dicevano che eri cascata dentro il sacco della farina, oppure dicevano: “Quella ha setacciato per 457 na, oppure dicìa “cuélla ha stacciado pe’ fa’ ’l pa’ e non s’è ’rlavada ’l muso”. E sci ’na contadina se mettìa ’l roscetto ’nté le ganàsce o la vernice ’ntéll’ogna, era stimàda ’na ragazza de strada. Le donne le volìa genuine, era più piaciude de cuélle della città. Finànta che non c’era la guerra, quanno se gera a batte, c’era giovinotti e giovine: sci te truccàsci, quanno stèsci mezza giornata ’n tra la polvera, te riducìa malandàda; allora era meio armàne come Iddio ci’hà fatto. Se sentìa le ciarle de qualche ômo che c’era certe donne quanno era su la piazza fera ’na bella figura, envece sci le guardasci alla madina, quanno s’arlevàa dal letto, fera ’n so ghé de scompagno, ’n’ parìa mango lora: sci lìi sposada, armanìsci ’mpo’ male. Se dicìa anca: “Smorciado la luma è tutte uguale!” Prò adè è gambiàdo nigò, anca pe’ noi vecchiarèlli: c’è i divertimenti de tutte le spece, sci uno pôle se va alle gide, c’è le ferie pe’ ansiàni… Sci uno vôle cuéi du’ soldi de pensiô’ ce l’arvôle tutti. Pe’ ’n conto è ’na cosa bella , scinó noaltri vecchi non sapémma mango quanto fa due più due. fare il pane e non si è lavata di nuovo il muso!” E se una contadina si metteva il rossetto o lo smalto nelle unghie, era giudicata una ragazza di strada. Le donne le volevano genuine, (queste) piacevano di più di quelle di città. Finché non c’era la guerra, quando si andava a trebbiare, c’erano i giovanotti e le giovani: se ti truccavi, quando stavi mezza giornata tra la polvere, diventavi proprio malandata; allora era meglio rimanere come Iddio ci