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Pubblicato il 14 Settembre 2012
Il Balletto Teatro di Torino ha portato nel Polesine uno dei suoi spettacoli più acclamati
Le Vergini di Levaggi alla Badoer
servizio di Athos Tromboni
FRATTA POLESINE (RO) - Ci sono due libri, dai quali sono stati tratti due film divenuti cult-movies, libri
che indagano il rapporto fra l'adolescenza femminile e la morte: il primo libro che citiamo è Picnic ad
Hanging Rock dell'australiana Joan Lindsay (da cui l'omonimo film del regista Peter Weir); il secondo
libro è Le vergini suicide dello statunitense Jeffrey Eugenides (da cui il film Il giardino delle vergini
suicide della regista Sofia Coppola). Nel primo caso la morte delle adolescenti è un fatto accidentale,
propiziato dall'azzardo per la ricerca del nuovo, dell'incognito, dell'immaginifico, del misteriosofico
(l'iniziazione al mistero...), sulle scoscese rocce di Hanging Rock. Nel secondo caso la morte avviene
per suicidio, cinque sorelle adolescenti che in meno di dodici mesi si tolgono la vita. Ogni riferimento a
cose è persone reali è puramente casuale. Ma rimane marcato un indelebile fatto vero: il passaggio
dall'adolescenza all'età adulta può turbare e modificare psiche, pensieri, atteggiamenti, e smuovere dallo stato latente i
paradigmi del desiderio autodistruttivo. Abbiamo letto in qualche comunicato stampa, prima di partecipare allo spettacolo Le
Vergini alla Villa Badoer di Fratta Polesine, che il coreografo Matteo Levaggi e lo staff di CorpiCrudi che ha curato
l'allestimento, si sono in qualche misura accostati ai due film citati come a due possibili fonti tematiche.
Il film di Weir enuclea una sorta di conflitto
fra natura (Hanging Rock) e cultura
(l'iniziazione al mistero, il desiderio
faustiano della conoscenza); quello della
Coppola
indaga
il
rapporto
fra
accettazione e rifiuto della realtà, mentre
la coreografia di Levaggi non si pone nel
solco di quelle ottiche, anche se il fuoriuscire della disperazione e il precipitare
dentro l'assoluto si trasformano in gesto
danzato col sapore della non-speranza.
L'azione
di Le Vergini a tutto può
richiamarsi,
fuorché
alla
foia
autodistruttiva dei suicidi e men che meno
alla gaiezza e alla spensieratezza proprie
della prima adolescenza: i sei ballerini (tre
ragazzi e tre ragazze) percorrono lo spazio
scenico con geometrie disegnate sulla
danza classica ma la gestualità o la
postura è contemporanea, quella del
dopo-Ailey, del dopo Cunningham, del
dopo-Bausch. I loro movimenti, gli assiemi, gli assolo, i passi di coppia, sono ben impostati, misurati e obbedienti a quella
disciplina coreografica cha caccia agli antipodi l'improvvisazione cara ai danzatori di poco talento e minor fantasia. Il sapore è
comunque da ultima chanches, da resa dei conti con se stessi, da conflitto esistenziale.
E ciò nonostante (o... forse... grazie a ciò) il pathos cresce di minuto in minuto, fino al top che, sulla musica di La Bella
Addormentata di Cajkovskij (più precisamente, sull'Adagio della Rosa e sulle Variazioni di Aurora , musica consonante per
una gestualità programmaticamente dissonante) riesce a strappare un lungo applauso a scena aperta ad un pubblico non
numeroso, dato il freddo improvviso del tardo pomeriggio e della serata estiva (lo spettacolo era all'aperto). La cornice ideale,
per tale epopea delle Vergini di Levaggi, era la suggestiva Villa Badoer, la cui bellezza classica e purezza palladiana non ci
stancheremo mai di ammirare.
Crediti fotografici: Fototeca gli Amici della Musica.Net
Nella miniatura in alto: il coreografo Matteo Levaggi
Al centro: un assieme di Le Vergini a Villa Badoer
In basso: il saluto finale dei sei danzatori