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pag. 1 Introduzione «La meccanica quantistica è degna di ogni
Introduzione
«La meccanica quantistica è degna di ogni rispetto, ma una voce interiore
mi dice che non è ancora la soluzione giusta, è una teoria che ci dice molte cose,
ma non ci fa penetrare più a fondo il segreto del Grande Vecchio». Questo scrii
veva Albert Einstein a Max Born nel dicembre del 1926 . L’anno successivo sarebbe stata portata a termine l’opera di fondazione teorica della moderna fisica
degli atomi e delle particelle, ma Einstein non avrebbe più modificato il suo
giudizio, e sarebbe rimasto sempre convinto che in essa ci fosse qualcosa
d’irragionevole. Non volle sacrificare le proprie idee circa la portata conoscitiva
della scienza, anche di fronte all’evidenza di una teoria che andava accumulando
importanti risultati; agli esiti indeterministici della meccanica quantistica, egli
contrapponeva la convinzione della «possibilità di un modello della realtà, vale a
dire di una teoria che rappresentasse le cose stesse e non soltanto la probabilità
della loro esistenza»ii. Per questo, scelse di vivere l’isolamento del proprio scetticismo e del proprio dissenso; accettò con ironia la fama di eretico cocciuto che
con gli anni si era conquistata presso i colleghi; lavorò fino alla fine al proprio
programma di ricerca, per elaborare una teoria unitaria dei campi che fosse rigorosamente causale.
Come noto, Einstein sostenne nei confronti dei difensori della cosiddetta
interpretazione ufficiale della meccanica quantistica una polemica scientifica e
filosofica durissima; a Niels Bohr e alla scuola di Copenhagen, ancora poco
prima di morire, rimproverava di aver tradito con le loro tesi quello che, a suo
giudizio, doveva essere lo scopo programmatico della fisica: «la descrizione
completa di ogni situazione reale (individuale) che si suppone possa esistere indipendentemente da ogni atto di osservazione o di verifica»iii. Certamente, si
può sostenere che una teoria che si limiti ad affermazioni statistiche sulle quantità misurabili di un sistema fornisca anche una descrizione coerente della realtà
ed esaurisca ogni possibile comprensione del mondo fisico; ma ciò è consentito,
per Einstein, solo pagando un altissimo prezzo filosofico, ovvero assumendo che
si possa considerare reale solo ciò che è direttamente osservabile. Abraham Pais
racconta che una volta, durante una conversazione con Einstein sui problemi
della teoria dei quanti, sentì rivolgersi all’improvviso questa domanda: «Veramente Lei è convinto che la Luna esista solo se la si guarda?»iv.
Questioni del genere, che aprono la scienza a un confronto critico con i temi classici della teoria della conoscenza, sono scomparsi da tempo dagli scritti e
dagli interessi professionali di un fisico. Gerald Holton ha descritto una sorta di
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mutazione culturale, che avrebbe prodotto nella seconda metà del secolo scorso
una nuova figura di scienziato, in grado di realizzare importanti conquiste conoscitive senza essere illuminato, né deviato, da dibattiti epistemologiciv. Così, la
realtà stessa della ricerca scientifica di oggi costituirebbe la più evidente violazione del credo einsteiniano, secondo il quale «la scienza senza epistemologia è –
ammesso che sia possibile – primitiva e confusa». A differenza del passato, allo
scienziato non è richiesta, né servirebbe, alcuna particolare competenza storicoepistemologica, oppure un esplicito interesse filosofico, per affrontare i problemi più complessi della sua disciplina. Ma quel passato non ci riporta alle origini
del pensiero scientifico moderno, quando i confini tra scienza e metafisica erano
ancora sfumati e le discussioni attorno ai principi della dinamica potevano risolversi in sottili questioni di teologia; rievoca piuttosto un periodo relativamente
recente, nel quale peraltro furono gettate le basi delle grandi rivoluzioni concettuali del nostro secolo: Einstein citava gli scritti di Hume, Max Planck dava vita
a una disputa filosofica con Ernst Mach su una delle più importanti riviste di
fisica tedesche, Werner Heisenberg usava categorie di chiara derivazione kantiana per motivare il programma della meccanica quantistica, e Bohr discuteva con
il filosofo Harald Høffding sull’uso dell’analogia nella teoria quantistica
dell’atomo.
Holton utilizza le testimonianze del fisico teorico Sheldon Glashow e le osservazioni del filosofo Hilary Putnam per condurre la sua analisi sulle cause che
avrebbero determinato il rapido declino di una consolidata tradizione scientifico-filosofica, e favorito l’emergere di una scienza che, pur avendo perso ogni
contatto fecondo con l’epistemologia, appare oggi, a suo avviso, «prestigiosa e
interessante come non lo è mai stata, sia come prodotto. sia come processo». Si
può certo discutere sulle responsabilità delle principali scuole di filosofia della
scienza, le quali, nel tentativo di piegare la logicità di ciò che gli scienziati vanno
facendo alle loro idee sul metodo e sulla razionalità, hanno finito molto spesso
per produrre immagini caricaturali dell’impresa scientifica. Ma ciò non contribuirebbe ad attenuare la sensazione che sia definitivamente tramontata la figura
di scienziati come Heisenberg, Bohr, Born, Pauli, Schrödinger, Einstein e de
Broglie, i quali, pur con le loro notevoli differenze, «si consideravano sia scienziati, sia uomini di cultura con il compito e il bisogno psicologico di un quadro
coerente del mondo». Così, il crollo di un’esplicita tensione epistemologica non
è probabilmente sufficiente a spiegare perché i temi che alimentarono per molti
anni le discussioni fra Bohr e Einstein, e che svolsero un ruolo non secondario
nell’elaborazione di uno dei più potenti schemi di comprensione del mondo fisico, siano oggi quasi totalmente ignorati, come se essi non presentassero più
aspetti problematici.
In realtà, secondo Karl Popper, a partire dagli anni Trenta si sarebbe formato e sviluppato con grande rapidità un gruppo di fisici «che non si sono associati
a tali discussioni perché le considerano, a ragione, di carattere filosofico, e per-
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ché ritengono, a torto, che discussioni di carattere filosofico non abbiano importanza alcuna per la fisica»vi. Le cause di quella che egli considera una rottura
con la tradizione galileiana non andrebbero tuttavia ricercate né nella scarsa rilevanza per la scienza dei problemi affrontati dai filosofi, né nelle inevitabili trasformazioni sociologiche prodottesi all’interno della comunità degli scienziati.
Secondo Popper, l’idea che tutto ciò che conta nella ricerca sia la padronanza
del formalismo matematico e le sue applicazioni, e l’idea che ci si debba liberare
dai nonsensi della filosofia nascerebbero dalla scienza stessa, o meglio dalle
compromissioni filosofiche di alcuni influenti fisici teorici e dalle soluzioni che
essi diedero alle difficoltà inerenti all’interpretazione della meccanica quantistica: «Nel 1927, Niels Bohr, uno dei massimi teorici nel campo della fisica atomica, introdusse il cosiddetto principio di complementarità, che comportava la
“rinuncia” al tentativo di interpretare la teoria atomica come descrizione di alcunché»vii. Quel principio fu presentato e difeso come lo strumento più efficace,
forse l’unico che consentisse di evitare le contraddizioni derivanti dalla possibilità di associare al formalismo della teoria interpretazioni diverse; dal fatto cioè
che, per es., esso sia traducibile, quando vogliamo parlare di un microoggetto,
nel linguaggio descrittivo delle onde o delle particelle. Tutta l’originalità della
soluzione di Bohr si ridurrebbe nell’aver posto un’insolita relazione logica a difesa della coerenza interna del formalismo matematico; la complementarità escluderebbe, infatti, per principio che si possano ricondurre a una sola interpretazione le differenti applicazioni sperimentali del formalismo. Bohr sostenne il
suo punto di vista muovendo dalla semplice constatazione dell’impossibilità fisica di «combinare una coppia qualsiasi di tali applicazioni contrastanti in un
solo esperimento. Così il risultato di ogni singolo esperimento è coerente con la
teoria e risulta da essa formulato in modo non ambiguo. Questo, disse Bohr, è
tutto ciò che possiamo sapere. Dobbiamo rinunciare alla pretesa di comprendere di più, e anche alla speranza di poter mai andare oltre»viii.
Popper diceva che questo era quanto era riuscito a capire della complementarità dopo diversi anni di riflessione, e ricordava che lo stesso Einstein aveva
ammesso di non essere stato in grado di darne una formulazione soddisfacente,
«nonostante i molti sforzi che gli ho dedicato». Forse, però, quel principio si limitava davvero a porre vincoli rigidi alla comprensione razionale della realtà.
Bohr avrebbe risolto le difficoltà interpretative che gravavano su una particolare
teoria in una lezione filosofica ed epistemologica generale: la coerenza della fisica viene garantita a condizione che si eviti di spingere le nostre esigenze di conoscenza oltre ciò che è consentito da una corretta applicazione del formalismo
alle situazioni effettivamente realizzabili. Con questa clausola, Bohr rendeva
immune la teoria da contraddizioni; ma, secondo Popper, egli obbligava la
scienza a rinunciare per sempre al suo grande compito, che consisterebbe nel
«dipingere un’immagine coerente e comprensibile dell’Universo», e riesumava la
vecchia filosofia strumentalistica del cardinale Bellarmino e del vescovo Berke-
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ley. Che si tratti solo di questo, lo dimostrerebbe, a suo avviso, il fatto che il
principio di Bohr si è rivelato completamente sterile per la fisica; esso, in realtà,
«non ha suscitato che poche discussioni filosofiche, e alcune argomentazioni diix
rette a confondere i critici e soprattutto Einstein» .
Con termini più forti, Mario Bunge e Imre Lakatos hanno espresso lo stesso concetto. Il primo ha presentato la complementarità come uno pseudoprincipio, dimostratosi particolarmente utile per «consacrare le oscurità e le incoex
renze, proprio come il mistero della trinità sussume molti misteri minori» . Il
secondo ha visto nell’interpretazione di Copenhagen della moderna teoria quantistica una delle massime espressioni dell’oscurantismo filosofico: «Nella nuova
teoria», afferma Lakatos, nel suo più famoso saggio epistemologico, «il famigerato “principio di complementarità” di Bohr tramutò l’incoerenza (debole) in una
caratteristica reale finale e basilare della Natura, e unì il positivismo soggettivista, la dialettica antilogica e persino il linguaggio comune della filosofia in
un’alleanza non santa. Dopo il 1925, Bohr e i suoi soci introdussero un nuovo
abbassamento, senza precedenti, degli standard critici per le teorie scientifiche.
Ciò condusse nella fisica moderna a una disfatta della ragione e al culto anarchico del caos e dell’incomprensibilità»xi.
L’adesione della comunità scientifica a questa interpretazione si spiegherebbe soltanto perché non ci si rese conto a sufficienza che essa nascondeva un
principio filosofico, e perché essa fu presentata e imposta come un’ortodossia da
parte della quasi totalità di quei fisici che avevano dato i maggiori contributi alla
costruzione della meccanica quantistica. John Heilbron ha parlato di imperialismo intellettuale del gruppo di Bohr durante gli anni Trenta, e in un recente
saggio ha ricostruito il tentativo, operato soprattutto da Pauli, Jordan e dallo
stesso Bohr, di derivare dal punto di vista di Copenhagen un’epistemologia universale, che essi vedevano confermata dai problemi fondamentali della biologia e
della psicologiaxii. Paul Forman ha posto l’accento sull’incidenza delle condizioni
culturali e sul ruolo esercitato da un ambiente intellettuale ostile, dominato da
orientamenti irrazionalistici, dal rifiuto preconcetto della causalità e del determinismo rigoroso; la sua analisi lo ha portato a concludere che «la meccanica
quantistica acausale era particolarmente ben accetta ai fisici tedeschi per
l’irresistibile opportunità che offriva di migliorare la loro immagine pubblica.
Ora anche essi potevano polemizzare contro il rigido, razionalistico concetto di
causalità e sperare di riconquistare in tal modo il prestigio perduto»xiii. Tutto ciò
avrebbe lentamente soffocato le voci di dissenso, di chi continuava a vedere nella fisica non uno strumento per la previsione di risultati o per ogni altro genere
di applicazioni pratiche, ma un mezzo per comprendere il mondo in cui viviamo.
Posizioni come quelle appena viste non rappresentano l’eccezione nei contributi che storici e filosofi della scienza hanno dato in questi anni alla ricostruzione della genesi della meccanica quantistica e al chiarimento dei suoi fonda-
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menti concettuali. Piuttosto, sembra essersi realizzato un ampio consenso attorno a due tesi interpretative che rendono possibili quei giudizi: la prima sostiene
l’origine filosofica, o quanto meno estranea a un rigoroso ambito teorico,
dell’idea di complementarità con la quale Bohr ritenne di aver chiuso definitivamente i problemi sollevati dalla natura duale della radiazione e della materia e
dalle relazioni di indeterminazione di Heisenberg; la seconda tende a presentare
l’interpretazione ufficiale della meccanica quantistica come il contributo di un
ristretto gruppo di fisici, i quali, per il fatto di condividere una stessa matrice
culturale o di aderire a una stessa metafisica, proposero, in realtà, un capovolgimento di concezioni epistemologiche consolidate e una ridefinizione delle finalità conoscitive della scienza.
Anche studiosi più interessati ai modi di costruzione delle teorie che ai contesti della loro giustificazione sono propensi ad ammettere che la meccanica degli atomi e delle particelle fu il risultato di un’interazione forte tra scienza e filosofia; essi avrebbero verificato concretamente con le loro analisi quanto sia difficile, in questo caso, operare una netta separazione tra le soluzioni proposte dai
singoli scienziati per risolvere specifici problemi tecnici e le loro convinzioni,
per es., circa il ruolo dei modelli, il problema della visualizzazione o la definizione operativa dei concetti. Ma quando si passa dalla constatazione
dell’esistenza di quell’interazione al tentativo di definirne la natura nascono le
differenze e i contrasti; è sempre possibile ricondurre il dibattito che si è andato
sviluppando attorno agli aspetti conoscitivi della meccanica quantistica, oppure
il disaccordo, tuttora esistente nella comunità scientifica, sui suoi fondamenti
concettuali, alle posizioni assunte in merito a questo problema. Tuttavia, qui
non è in gioco l’adesione o meno alla tesi, sulla quale si dividono gli epistemologi e gli storici, che assegna alla metafisica un ruolo ineliminabile nelle fasi più
audaci e creative dell’impresa scientifica. Certamente, non a questo tipo di interazione pensano coloro i quali hanno visto l’interpretazione di Copenhagen
come una variante di cattive filosofie usate strumentalmente per scopi scientifici; né tanto meno Popper, il quale fa risalire a uno scisma filosofico la formazione di una nuova generazione di scienziati, che, per essere stati educati alle ristrettezze e alla chiusure culturali di un rigido specialismo, hanno potuto accettare acriticamente la crisi di comprensione che ha investito la fisica del Novecento; o, infine, quanti ritengono, al contrario, che la perdita di interesse per le
questioni dei fondamenti sarebbe derivata da un prudente atteggiamento difensivo volto a impedire che la fisica si trasformasse in un labirinto di filosofie.
Tutte posizioni che sembrano prestare scarsa attenzione (o di non credere)
alle dichiarazioni dei principali protagonisti di questa storia; essi erano convinti
che le nuove scoperte scientifiche avessero contribuito a ridefinire problemi filosofici che fino ad allora erano stati considerati oggetto di pura speculazione:
Bohr sosteneva che la conoscenza del mondo degli atomi gettava «una nuova
luce sul vecchio problema filosofico dell’esistenza oggettiva dei fenomeni, indi-
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pendentemente dalle nostre osservazioni»xiv; Pauli diceva che «la situazione gnoseologica di fronte alla quale si era trovata la fisica moderna non era stata prevista da alcun sistema filosofico»xv; infine Heisenberg, ribadendo un concetto analogo, osservava che «ciò che era nato a Copenhagen nel 1927 non era solo una
prescrizione non ambigua per l’interpretazione degli esperimenti, ma anche un
linguaggio nel quale parlare della Natura su scala atomica, e in questo senso una
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parte della filosofia» . Con un linguaggio filosofico non sempre sufficientemente rigoroso essi tendevano a rivendicare il loro ruolo di scienziati che, per cogliere la natura dei processi quantistici, si erano trovati a rimettere in discussione
alcuni presupposti del pensiero scientifico moderno e a confrontarsi con i problemi classici della teoria della conoscenza.
Gli sviluppi teorici e sperimentali della fisica avevano mostrato il carattere
arbitrario di alcune forme di interpretazione razionale della realtà che erano rimaste inalterate dai tempi di Galileo e Newton. In particolare, il concetto di
quanto di azione, che esprimeva la discontinuità essenziale dei processi fisici microscopici, aveva fatto emergere lentamente la consapevolezza che per descrivere
quei processi fosse impossibile rifarsi ai modelli di rappresentazione della fisica
classica. Nell’idea di complementarità, Bohr espresse efficacemente l’abbandono
del modello di descrizione spazio-temporale di tipo causale; ciò impediva di
pensare un elettrone come un oggetto fisico del tutto simile a un corpo materiale localizzabile nello spazio e nel tempo che si muove lungo una determinata
traiettoria. Gli oggetti della microfisica sono oggetti più complessi; essi popolano un livello della realtà che ci costringe non solo a rifondare i nostri apparati
teorici, ma anche a rivedere molte delle nostre convinzioni sulla natura dei fenomeni, sul ruolo dell’osservatore o sul significato stesso di legge scientifica. La
complementarità non era dunque un principio teorico nel significato classico
del termine, quanto piuttosto lo strumento per cogliere il contenuto conoscitivo
della nuova fisica. Con problemi di questa natura dovettero confrontarsi i fisici
che negli anni Venti del Novecento contribuirono a gettare le basi della meccanica quantistica. Le soluzioni che individuarono furono sempre risposte razionali a problemi molto concreti; ma essi interpretarono coerentemente il loro ruolo
di scienziati proprio perché compresero che quelle risposte comportavano una
più matura consapevolezza filosofica ed epistemologica.
N.B. Per le abbreviazioni utilizzate nelle note si rinvia a p. 295. I riferimenti ai testi già citati
rinviano al capitolo e al numero di noto in questo Volume.
i
A. Einstein, H. e M. Born, Scienza e vita. Lettere 1916-1955, Einaudi, Torino 1973, pp.
108-9.
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introduzione
ii
A. Einstein, On the Method of Theoretical Physics, Oxford University Press, New York 1933;
rist. in “Philosophy of Science”, 1, 1934, pp. 163-169: 168-69.
iii
A.Einstein, Replay to Criticism, in P.A. Schilpp (a cura di), Albert Einstein: PhilosopherScientist, The Library of Living Pbilosophers, Evanston, Illinois 1949, pp. 665-88: 667 [Albert
Einstein scienziato e filosofo, Boringhieri, Torino 1958].
iv
A. Pais, «Subtle Is the Lord...». The Science and the Life of Albert Einstein, Oxford University
Press, Oxford 1982, p. 5 [«Sottile è il Signore...». La vita e la scienza di Albert Einstein, Boringhieri,
Torino 1986].
v
G. Holton, Do Scientists Need a Philosophy?, “The Times Literary Supplement”, 2 november 1984, No. 4, 257, pp. 1231-34.
vi
K. Popper, Quantum Theory and the Schism in Physics, in K. Popper, Postscript to the Logic of
Scientific Discovery, Hutchison, London 1982, p. 100. [Poscritto alla logica della scoperta scientifica,
Vol. III, Il Saggiatore, Milano 1984].
vii
K. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, Bologna 1972, p. 574.
viii
Ibidem, p. 175
ix
Ibidem.
x
M. Bunge, Philosophy of Physics, Reidel, Dordrecht 1973, p. 116.
xi
I. Lakatos, Falsification and the Methodology of Scientific Research Programtnes, in I. Lakatos,
A. Musgrave (a cura di), Criticism and the Growth of Knowledge, Cambridge University Press,
Cambridge 1970, pp. 91-196: 145 [Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1976].
xii
J.L. Heilbron, The Earliest Missionaries of the Copenhagen Spirit, “Revue d’histoire des sciences”, 38 (3/4), 1985, pp. 195-230
xiii
P. Forman, Weimar Culture,Causality and Quantum Theory 1918-1927: Adaptation by
German Physicists and Mathematicians to a Hostile Intellectual Environment, “Historical Studies in
the Physical Sciences”, 3, 1975, pp. 1-116: 108.
xiv
N. Bohr, Die Atomtheorie und die Prinzipien der Naturbeschreibung, “The Naturwissenschaften”, 18, 1930, pp. 73-78: TA, p. 372.
xv
W. Pauli, Die philosophische Bedeutung der Idee der Komplementarität, “Experientia”, 6,
1950, pp. 72-85: 73; CSP2, pp. 1149-58: 1150; FG, pp. 22-31; 23.
xvi
W. Heisenberg, The Development of the Interpretation of the Quantum Theory, in W. Pauli
(a cura di), Niels Bohr and the Development of Physics, Pergamon Press, London 1955, pp. 12-29:
16.
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