Ineguaglianza in crescita
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Ineguaglianza in crescita
MARZO 2014 - N.2 Ineguaglianza La sfida del secolo Swoboda Pickett Wilkinson Esping-Andersen Smeeding Morelli Thompson Fitoussi Saraceno Salverda Blanden Elgar De Vogli Gurmai Schmit ■ Contributi di Kate Pickett, Richard Wilkinson e Gøsta EspingAndersen ■ Ineguaglianza in crescita ■ I molteplici effetti dell’ineguaglianza ■ Prospettive di policy sull’ineguaglianza www.progressiveeconomy.eu L’iniziativa L’Economia Progressista è stata lanciata nel 2012 dal gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo. Direttore: Marcel Mersch, L’Economia Progressista, Gruppo S&D, Parlamento europeo. Condirettori per questa edizione: Gøsta Esping-Andersen, Professore di Sociologià, Universitat Pompeu Fabra, Barcellona, e Kate Pickett, Professoressa di Scienze sociali, University of York Contatto: [email protected] Per ogni domanda su questa pubblicazione potete contattare James Royston Mail: [email protected] S&D Gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti & Democratici al Parlamento europeo Rue Wiertz 60, B-1047 Brussels Cos’è... L’Economia Progressista OBIETTIVI L’Economia progressista è un’iniziativa lanciata nel 2012 con un obiettivo centrale: promuovere un dibattito realmente pubblico e informato sulle politiche economiche e sociali tanto a livello europeo, quanto ai livelli nazionali e globale, e promuovere attivamente il pensiero progressista ai livelli politico e accademico. L’Economia Progressista è un’iniziativa di lungo termine con una visione strategica del suo contributo al pensiero e all’azione progressisti. Senza un dibattito pubblico, senza scelte politiche chiare, non può esserci una reale democrazia. La mancanza di decisioni produce malcontento, populismo e la crescita dell’antipolitica. I progressisti hanno il compito di dimostrare ai cittadini che esiste un’alternativa e di lavorare per vincere la “battaglia delle idee” in quei settori chiave per il futuro delle nostre società. Questa è la ragione per cui il gruppo S&D ha lanciato l’iniziativa L’Economia Progressista. Un’iniziativa che mira a creare uno spazio nuovo e partecipato per un dibattito pubblico e informato e che vuole contribuire a costruire una moderna visione economica e sociale di stampo progressista per l’Europa. ATTIVITÀ IN CORSO facebook.com/ euprogressiveeconomy twitter.com/ProgressEcon www.progressiveeconomy.eu L’iniziativa è cominciata nel novembre 2012 con la pubblicazione della prima Indagine annuale indipendente sulla crescita (iAGS). Ogni anno, più istituti economici (OFCE, IMK e ECLM) pubblicano una iAGS, in cui forniscono analisi dettagliate, previsioni e raccomandazioni per l’economia europea. La prossima iAGS sarà pubblicata nel novembre 2014. L’Economia Progressista è orgogliosa di sostenere questo lavoro, che per la prima volta fornisce una solida alternativa all’Indagine annuale sulla crescita della Commissione, report che è alla base delle scelte annuali di politica economica del Consiglio europeo e delle raccomandazioni specifiche per paese membro. L’iniziativa è stata lanciata pubblicamente alla prima conferenza annuale, che si è tenuta a Bruxelles il 7 marzo 2013, a ridosso del Consiglio europeo di Primavera, e alla quale hanno partecipato esponenti di alto livello del mondo della politica, dell’università, dei media e della società civile. L’iniziativa intende dar vita a un evento annuale più ampio, all’interno del quale confluiscano le diverse attività e le tante persone coinvolte. La prossima conferenza annuale si terrà nel marzo 2014 a Bruxelles con un “Forum dell’Economia Progressista” sul tema “DISUGUAGLIANZE”. L’obiettivo di questo Forum annuale è di mettere insieme un numero sempre più ampio di progressisti, provenienti dall’università, dalla politica, dai sindacati e dalla società civile, che siano attivamente impegnati nel rafforzare e promuovere le idee progressiste nei campi economico e sociale in Europa e nel mondo. NUOVE ATTIVITÀ PEAC: Il progetto PEAC mira a promuovere la ricerca universitaria di stampo progressista su questioni sociali ed economiche e a facilitare la trasmissione delle conoscenze accademiche ai processi politici (da qui il Progressive Economy Academic project), in particolare attraverso un’annuale Call for papers. PEPA: Il progetto PEPA ha l’obiettivo di approfondire e ampliare la dimensione democratica della governance economica e sociale europea a livello degli stati membri, dell’Eurozona e dell’Ue, contribuendo a uno scambio durevole di politiche nei campi sociali ed economici in linea con le tesi e i valori comunemente definiti progressisti (Progressive Economy Parliamentary Alliance). Il progetto include un’Assemblea annuale PEPA, il cui primo incontro si è tenuto il 4-5 dicembre 2013. EVENTI DELL’ECONOMIA PROGRESSISTA: Al fine di contribuire a uno scambio aperto e inclusivo di idee ed esperienze tra i progressisti di tutta Europa, L’Economia Progressista darà vita a un ricco programma di eventi in varie parti del Vecchio Continente. Nel 2013, un serie di eventi di alto livello si sono tenuti a Lisbona, Brighton, Bordeaux e Budapest. QUESTIONI POLITICHE: Attraverso le sue attività, l’iniziativa intende affrontare, in particolare, tre questioni politiche: “La crescita in tempo di crisi”, “Mercati del lavoro progressisti”, “Uguaglianza sociale” e “L’economia progressista globale”. Inoltre l’iniziativa punta a rafforzare saperi e risposte politiche in queste aree attraverso studi mirati e una serie di workshop. RIVISTA PER UN’ECONOMIA PROGRESSISTA: La attività dell’iniziativa finiranno in una pubblicazione regolare con contributi di accademici, policymaker e stakeholder. L’obiettivo di questa pubblicazione è la circolazione del pensiero progressista e la trasmissione di saperi e idee tra sfere accademiche e politiche. WEBSITE: Il nuovo sito internet di Economia Progressista avrà un ruolo attivo nello sviluppare i progetti PEAC e PEPA e, più in generale, nel fornire un’importante fonte di informazione e scambio per i progressisti sulle sfide economiche e sociali. Sommario Prefazione 09 Hannes Swoboda, Eurodeputato, Gruppo S&D Introduzione con i contributi dei 10 condirettori Kate Pickett, Professoressa di Epidemiologia, University of York, & Richard Wilkinson, Professore emerito di Epidemiologia sociale, University of Nottingham Ridurre le disuguaglianze attraverso la democrazia economica. Come le varie forme di democrazia tengono a freno le disuguaglianze (rappresentanze di lavoratori, sindacati, partecipazione azionaria dei dipendenti, etc) migliorando al contempo la produttività e il benessere. Gøsta Esping-Andersen, Professore di Sociologia, University Pompeu Fabra, Barcellona Come cambia la famiglia e come le disuguaglianze intaccano le aspettative di vita dei bambini. Come la crescita delle disuguaglianze nella forza lavoro e nel reddito delle famiglie sono rafforzate dai cambiamenti nella demografia famigliare e come questa a sua volta influenza le opportunità di vita. Disuguaglianze in crescita 24 Timothy Smeeding, Direttore dell’Istituto per la ricerca sulla povertà e Professore emerito di Relazioni pubbliche in Arti e Scienze, La Follette School of Public Affairs, University of Wisconsin-Madison & Salvatore Morelli, Ricercatore universitario - CSEF - Università di Napoli “Federico II” & Jeffrey Thompson, Economista, Board of Governors of the Federal Reserve System I trend recenti nelle disuguaglianze di reddito nei paesi sviluppati. Quali sono i primi segnali? Ci sono variazioni significative tra le nazioni? Le società si stanno polarizzando? I trend si stanno riducendo? Jean-Paul Fitoussi, Professore di Economia, Università LUISS, Roma & Francesco Saraceno, Senior Economist, OFCE, Parigi I fattori delle disuguaglianze: sfide passate e attuali per l’Europa Wiemer Salverda,Coordinatore del progetto di ricerca internazionale (gini-research.org) sugli impatti delle disuguaglianze sulla crescita (GINI) La redistribuzione del reddito può aiutare a modificare la crescita delle disuguaglianze? Gli effetti multipli delle disuguaglianze 49 Jo Blanden, Senior Lecturer in Economia, University of Surrey, e Ricercatore associato, Centre for Economic Performance, London School of Economics Le opportunità limitano le disuguaglianze Frank Elgar, Professore associato di Psichiatria, McGill University, Montréal Uguaglianza, coesione sociale e benessere Roberto De Vogli, Professore associato in Fattori sociali sulla salute globale, Department of Public Health Sciences, University of California Davis (UCD) Disuguaglianze e crisi ambientale: è giunto il tempo di detronizzare il neoliberismo globale Quali politiche contro le disuguaglianze 72 Zita Gurmai, eurodeputata, Presidente delle donne del Pse Maggiore uguaglianza di genere per il 2014 e oltre! Nicolas Schmit, Ministro del Lavoro, dell’Occupazione e dell’Immigrazione, Lussemburgo, e Coordinatore della rete di ministri dell’Occupazione e degli Affari sociali per il Partito dei socialisti europei. Combattere le disuguaglianze: verso un efficace mix di politiche nazionali ed europee 09 Prefazione Benvenuti a questa seconda edizione della Rivista dell’Economia Progressista, che è incentrata sulla disuguaglianze ed è co-diretta da due tra i principali intellettuali in questo campo, Kate Pickett e Gøsta Esping-Andersen. Hannes Swoboda, Eurodeputato, Austria, Presidente del gruppo S&D al Parlamento europeo Le disuguaglianze rappresentano una problematica che deve essere posta al centro della pianificazione delle politiche, in Europa e altrove. Il legame tra disuguaglianze economiche e il benessere generale è palese. Ma la questione delle disuguaglianze non si riduce solo a questo. Le disuguaglianze non riguardano semplicemente la povertà: riguardano il più generale fallimento nel garantire a tutti pari opportunità, pari accesso ai servici pubblici e la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli famigliari. La Rivista si pone come piccolo contributo a questo dibattito. Lo fa chiedendo ad accademici e policymaker di affrontare varie questioni come quelle di genere e quelle ambientali, sperando così di poter fornire spunti di riflessione sui motivi per cui il tema delle disuguaglianze vada posto in cima alle nostre agende in tutte le aree politiche. Tali questioni saranno affrontare al nostro prestigioso Forum annuale, che si terrà a marzo al Parlamento europeo di Bruxelles. L’evento è aperto al pubblico e sarà trasmesso in streaming. Ci saranno contributi da parte di molti degli autori presenti in questo numero della Rivista, così come altre figure di spicco come Joseph Stiglitz e Martin Schulz. Maggiori dettagli saranno disponibili sul sito dell’Economia Progressista (progressiveeconomy.eu). Spero di vedervi! Ridurre le Disuguaglianze Attraverso la Democrazia Economica* Richard Wilkinson, Professore emerito di Epidemiologia sociale, University of Nottingham Kate Pickett, Professoressa di Epidemiologia, University of York Kate e Richard sono cofondatori del “The Equality Trust and The Alliance for Sustainability and Prosperity” Pickett and Wilkinson mettono in luce quanto le disuguaglianze possano essere dannose per il benessere della stragrande maggioranza delle persone in una società. In questo articolo, ci si focalizza sui modi in cui si può ottenere una maggiore uguaglianza attraverso la democrazia economica. FIn tanti comprendono quanto dannose possano essere le disuguaglianze. C’è un comune punto di vista per cui la disuguaglianza importa solo nella misura in cui crei povertà o se è considerata dai più iniqua – ossia se i ricchi e poveri non meritino ciò che hanno. Ma questo è un punto di vista ingenuo. In realtà, le disuguaglianze hanno forti e profondi effetti sul benessere di un’ampia maggioranza. La nostra ricerca, e quelle di tanti altri ricercatori nel mondo, mostra che quasi tutti i problemi sociali e di salute, che tendono a essere più comuni nelle zone più basse della scala sociale, hanno anche la propensione a peggiorare nelle società con la più larga forbice di reddito tra ricchi e poveri. Come esseri umani, abbiamo reazioni psicologiche profondamente radicate verso le disuguaglianze e queste si riflettono in peggiori condizioni di salute e benessere della popolazione, in una minore coesione sociale, più violenze e tanti altri problemi. Abbiamo descritto tutto ciò in un recente articolo di questo giornale.4 Qui ci concentriamo sui modi in cui si può ottenere una maggiore uguaglianza attraverso la democrazia economica. * Questo articolo si basa su Wilkinson RG e Pickett KE, The World We Want. International Labour Review, Spring 2014 Wilkinson RG, Pickett K. The Spirit Level: Why Equality is Better for Everyone. London: Penguin, 2010. 1 Creare una società più equa Ci sono diversi differenti approcci all’aumento dell’uguaglianza. Più spesso le persone pensano a una tassazione più progressiva e a sistemi di sicurezza sociale più generosi. Certo, dobbiamo affrontare l’elusione fiscale, porre fine ai paradisi fiscali e mettere in piedi una tassazione più progressiva, in modo che i ricchi possano versare all’erario una maggiore proporzione del loro reddito rispetto ai meno abbienti. Tuttavia ci sono due debolezze di fondo in questo approccio: in primo luogo, ogni progressione su tasse e benefit può essere stravolta dai cambiamenti di governo, e in secondo luogo, c’è sempre la tendenza delle persone a pensare che le tasse siano una sorta di furto legalizzato e che il governo stia rubando il loro denaro. Questo a dispetto del fatto che quasi tutta la creazione di produzione e ricchezza sia un processo cooperativo. Gli standard di vita e il reddito di ognuno dipendono dall’intera società e dalle sue infrastrutture. I ricchi non sarebbero tali senza una popolazione istruita, forniture elettriche, sistemi di trasporto, l’accumulazione di conoscenze tecniche e scientifiche e così via. Gli standard di vita sono il prodotto dell’azione combinata di un vasto numero di persone. Un approccio ancora più basilare alla riduzione delle disuguaglianze consiste nel ridurre le differenze nei redditi delle persone prima della tassazione. Nella nostra ricerca abbiamo rilevato che alcune delle società più eque ottengono maggiori livelli di uguaglianza attraverso la redistribuzione, mentre in altre si parte da differenze minori nei redditi pretassazione.1 I benefici sociali di una maggiore uguaglianza non sembrano dipendere da come questa maggiore uguaglianza è ottenuta. 11 Le ampie differenze di reddito che si notano in determinati paesi sono prima di tutto il riflesso di una tendenza dei redditi più alti a crescere più rapidamente dei redditi del resto della società. Nel corso delle ultime decadi, le grandi multinazionali sono state potenti generatrici di disuguaglianze. Dagli anni ’70 ai primi anni ’80, i manager delle 350 compagnie più grandi degli Usa hanno ricevuto salari venti o trenta volte più alti della media degli operai manifatturieri. Nel corso del primo decennio del ventunesimo secolo hanno ricevuto salari 200 o 400 volte più alti.2 Tra le 100 aziende più grandi della Gran Bretagna (FTSE 100 companies), la media delle paghe dei manager è stata circa 300 volte più alta del salario minimo.3 Nonostante i differenziali si siano allargati in più paesi, questo è accaduto in maniera meno rapida che negli Usa. Gli stipendi più alti sono stati, nel migliore dei casi, solo debolmente legati ai risultati ottenuti dalle compagnie. In assenza di forti sindacati e di un efficace movimento di lavoratori, i trend sembrano riflettere la carenza di qualsiasi vincolo democratico che abbia efficacia sui redditi più alti. Se è così, allora parte della soluzione potrebbe essere mettere in piedi vincoli efficaci estendendo la democrazia nelle nostre istituzioni economiche. L’importanza dei movimenti sindacali I cambiamenti di lungo termine nelle disuguaglianze per i paesi più sviluppati mostrano un’inversione a ‘U’ nel corso del ventesimo secolo e dei primi anni del ventunesimo secolo, con un’alta disuguaglianza fino agli anni 30 seguita da un lungo declino fino agli anni ’70. Da allora, intorno al 1980 o poco più tardi, la disuguaglianza ha cominciato a crescere fino a che, nei primi anni del ventunesimo secolo, alcuni paesi sono tornati a livelli di disuguaglianza mai visti dagli anni ’20. Questo schema riflette il rafforzamento e il successivo indebolimento dei movimenti sindacali durante il ventesimo secolo. Se consideriamo la quota di forza lavoro nei sindacati come misura della forza dei movimenti dei lavoratori, la relazione con la disuguaglianza è palese. La Figura 1 mostra il rapporto tra la disuguaglianza e la quota di forza lavoro nei sindacati in 16 paesi Ocse in vari punti tra il 1966 e il 1994.5 Ogni punto è un paese in una data particolare. Quando gli iscritti al sindacato calano, le disuguaglianze aumentano. Cosa confermata anche da dati più recenti (Figura 2). Anche in Svezia, i recenti e rapidi aumenti delle disuguaglianze sono associati al declino degli iscritti al sindacato dai primi anni ’90 e in particolare dal 2006. All’interno dei singoli paesi, gli iscritti al sindacato e le disuguaglianze vanno di pari passo, come si vede per esempio nel caso degli Usa su http://www.epi.org/publication/unionsdecline-inequality-rises/.[Eisenbray R, Gordon C. As Unions decline, inequality rises. Economic Policy Institute 2012]. La connessione tra iscritti al sindacato e disuguaglianze non dovrebbe essere vista semplicemente come il riflesso di cosa riescono a fare i sindacati per gli stipendi dei loro iscritti. Piuttosto, la relazione indica il rafforzamento e il successivo indebolimento della generale influenza politica e ideologica dei movimenti progressisti. L’aumento delle disuguaglianze, più o meno a partire dal 1980, è quasi sicuramente attribuibile in larga parte al potere politico dell’ideologia neoliberista. Per ottenere sostanziali riduzioni delle disuguaglianze in futuro occorrerà ricreare un movimento politico duraturo. Il ruolo della politica Mishel L, Sabadish N. Pay and the top 1%: How executive compensation and financial-sector pay have fuelled income inequality. Issue Brief: Economic Policy Institute, 2012. One Society. A third of a percent. London: The Equality Trust, 2012. 4 Pickett, Reducing Inequality: an essential step for development and wellbeing, Journal for a Progressive Economy, November 2013. 5 Gustafsson B, Johansson M. In search of smoking guns: What makes income inequality vary over time in different countries? American Sociological Review 1999:585-605. 2 3 Come esseri umani, abbiamo reazioni psicologiche profondamente radicate verso le disuguaglianze e queste si riflettono in peggiori condizioni di salute e benessere della popolazione, in una minore coesione sociale, più violenze e tanti altri problemi. Figura 1 I paesi con sindacati più forti hanno meno disuguaglianza (dati per 16 paesi Ocse 1966-1994) 40 35 Disuguaglianza (Gini) 30 25 20 15 0 10 20 30 40 50 60 70 80 % della forza lavoro nei sindacati Fonte: G ustafsson B, Johansson M. In search for a smoking gun: what makes income inequality vary over time in different countries? LIS Working Paper 172; 1997. 90 13 Figura 2 Copertura sindacale e Disuguaglianza salariale nei paesi Ocse più recenti (circa 2007-10 per più paesi) 100 Belgium Austria Sweden 90 Finland France Netherlands Denmark 80 Italy 70 Copertura sindacale Norway median, union coverage 60 Germany Ireland 50 Switzerland Czechoslovakia 40 Australia Great Britain Poland Hungary 30 Canada 20 New Zealand United States Japan 10 median, 90/10 wage ratio 0 1.0 1.5 2.0 2.5 3.0 3.5 4.0 Tasso di salario alto su salario basso (90/10) Fonte: Colin Gordon, Giugno 2012 4.5 5.0 – in contrapposizione alle rigide forze di mercato – nella riduzione avvenuta nel ventesimo secolo e nel successivo aumento delle disuguaglianze è inoltre confermato dal Rapporto della Banca mondiale sugli otto paesi (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong, Tailandia, Malesia e Indonesia) che sono stati chiamati “le tigri asiatiche”.6 Il rapporto descrive come, con programmi ben pubblicizzati di “crescita condivisa”, tali paesi abbiano tutti ridotto volutamente i loro differenziali di reddito nel periodo tra il 1960 e il 1990. Le politiche hanno incluso in vario modo riforme agrarie, con sussidi per abbassare i prezzi dei fertilizzanti e così rafforzare i redditi rurali, programmi di distribuzione della ricchezza, programmi di edilizia popolare di larga scala e assistenza alle cooperative di lavoratori. Il report della Banca mondiale afferma che in tutti i casi i governi hanno ridotto le disuguaglianze innanzitutto perché si sono trovati in crisi di consensi, spesso per l’opposizione dei rivali comunisti, e hanno avuto pertanto il bisogno di un più ampio sostegno popolare. Per esempio, la Corea del Sud contro la Corea del Nord, Taiwan e Hong Kong contro le rivendicazioni della Cina. Senza dimenticare le operazioni dei gruppi di guerriglieri comunisti. Qui come nei paesi sviluppati, è un errore credere che i principali cambiamenti delle disuguaglianze siano arrivati grazie alle forze impersonali del mercato piuttosto che a seguito di processi politici e ideologici. Abbiamo bisogno di aumentare le rappresentanze dei lavoratori nei cda aziendali e aumentare la quota nell’economia composta da mutue, cooperative, aziende con capitale partecipato dai dipendenti e imprese sociali. Aziende più democratiche tendono ad avere differenze salariali più piccole tra i dipendenti. Nel gruppo cooperativo Madragon in Spagna (che ha 84 mila impiegati e un fatturato annuale di 13 miliardi) il rapporto medio tra i salari è di 1 a 5. Nel settore pubblico i rapporti sono in genere di 1 a 10 e di 1 a 20. Circa la metà dei paesi appartenenti all’Unione europea hanno attuato misure per la rappresentanza dei dipendenti nei cda aziendali. Le diverse misure in Europa si trovano sul sito di Eurofound (http://www.eurofound.europa.eu/ eiro/1998/09/study/tn9809201s.htm). Alcune misure sono molto deboli: occorre rafforzarle in modo sostanziale e farle adottare da tutti i paesi. E’ evidente che il settore delle imprese a capitale partecipato da stakeholder sta crescendo ed è sempre più forte.7 In Gran Bretagna le cooperative hanno avuto prestazioni migliori del resto dell’economia nei quattro anni precedenti il 2012, il settore delle imprese sociali sta crescendo e va meglio del settore delle piccole e medie imprese, mentre le aziende con capitale partecipato dai dipendenti hanno creato nuova occupazione in maniera più rapida delle aziende più tradizionali, oltre a pagare stipendi più alti ed essere al contempo competitive. All’opinione pubblica piacciono le aziende più democratiche, secondo una ricerca della Co-Ops Uk del 2010 per la quale queste sono considerate oneste, affidabili e un buon modo di fare affari, mentre le imprese private sono considerate spietate e avide.8 Così come per le differenze di reddito più basse e le buone performance economiche, le cooperative, le aziende a capitale partecipato dai dipendenti e più in generale il settore degli stakeholder hanno altri vantaggi. La vita comunitaria si è indebolita sostanzialmente nei paesi ricchi nelle ultime generazioni ma, come Oakeshott osserva, l’assunzione di un dipendente può trasformare un’impresa da un pezzo di proprietà a una comunità.9 Forse un senso più forte di comunità al lavoro potrebbe rimpiazzare il senso di comunità che si è perso nella zone residenziali? E’ anche probabile che strutture meno gerarchiche al lavoro possano iniziare a cambiare l’esperienza del lavoro, rendendo possibile per più persone ottenere un senso di autostima ed essere gratificate dal loro lavoro. Ovviamente, la sensazione delle persone di non avere il controllo al lavoro, la sensazione di ingiustizia e lo squilibrio tra lo sforzo e la ricompensa sono tutti aspetti connessi a peggiori condizioni di salute e di benessere.10 Gli stipendi elevati e l’elusione fiscale sono due indicatori di quanto problematico possa essere il conflitto tra ricerca del profitto e interesse pubblico. Altri indicatori includono le azioni di contrasto, finanziate dalle aziende, all’evidenza scientifica dei danni associati ai prodotti, come il ruolo delle compagnie petrolifere nell’opposizione alla scienza del clima, la manipolazione delle authority create per salvaguardare l’interesse pubblico e l’influenza politica che minaccia il funzionamento delle istituzioni democratiche. Freudenberg nel suo Lethal but Legal: Corporations, Consumption, and Protecting Public Health, suggerisce che il conflitto tra interesse pubblico e ricerca del profitto nelle grandi aziende è oggi una minaccia maggiore per la salute pubblica.11,12 World Bank. The East Asian miracle. Oxford: Oxford University Press, 1993. Kerry B. From UK plc to Co-op UK: transforming the private sector. In: Hattersley R, Hickson K, editors. The socialist way: social democracy in contemporary Britain. London: IB Tauris, 2013. 8 Simon G, Mayo E. Good business? Public perceptions of co-operatives. London: Co-operatives UK, 2010. 9 Oakeshott R. Jobs and fairness: the logic and experience of employee ownership. Norwich: Michael Russell, 2000. 6 7 15 Nonostante nei paesi sviluppati viviamo in una fase di benessere e lusso senza precedenti, siamo comunque immersi in problematiche economiche e sociali con enormi costi umani. Siamo tutti toccati dall’impatto delle disuguaglianze: queste aumentano le malattie mentali, la depressione e l’ansia, indeboliscono la vita comunitaria e intensificano le nostre preoccupazioni su come siamo visti e giudicati. Considerazioni come queste hanno probabilmente contribuito alla rinascita di interesse nelle strutture economiche istituzionali più democratica. Ma allo stesso tempo, i sistemi tradizionali di condivisione della proprietà sono diventate sempre meno adatti al controllo delle moderne compagnie. Un rapporto dal titolo Workers on Board, del Congresso sindacale britannico, ha messo in luce come negli anni ’60 la maggior parte delle partecipazioni erano possedute da individui con un interesse di lungo termine in piccolo numero di compagnie.13 Ma oggi in diversi paesi la stragrande maggioranza delle partecipazioni sono in mano a istituti finanziari che differenziano i loro investimenti in centinaia o persino migliaia di aziende, fanno profitto attraverso operazioni commerciali di breve termine e hanno una piccola o nessuna conoscenza o nessun interesse di lungo termine nelle compagnie in cui hanno investito. Il report del Congresso sostiene che questo fenomeno ha raggiunto un livello in cui una grande compagnia quotata in borsa potrebbe avere migliaia o decine di migliaia di azionisti e avere difficoltà ad avere informazioni complete su di essi. Allo stesso tempo la moderna produzione richiede sempre più l’apporto delle esperienze e delle conoscenze di molte persone altamente formate, al punto che il valore di una compagnia è oggi dettato più dal valore del gruppo integrato di dipendenti con le loro competenze e conoscenze che da quello del capitale e dei beni immobili posseduti. Questo significa che acquistare e vendere un’impresa corrisponde ad acquistare e vendere un gruppo di persone. Un processo atrocemente anacronistico, specialmente quando questo gruppo di persone potrebbe portare avanti la propria compagnia democraticamente. Potrebbe sembrare un’utopia ad alcuni lettori immaginare come il settore delle imprese a capitale partecipato dagli stakeholder possa competere allo stesso livello delle grandi multinazionali e con l’aumento di concentrazione di capitale in sempre meno mani (si legga de Vogli a tal proposito). Ma non è di sicuro fuori dalle competenze del governo creare un quadro di incentivi fiscali e legislativi per aumentare la democrazia economica. Disuguaglianze, consumismo, sostenibilità e qualità della vita Nonostante nei paesi sviluppati viviamo in una fase di benessere e lusso senza precedenti, siamo comunque immersi in problematiche economiche e sociali con enormi costi umani. Siamo tutti toccati dall’impatto delle disuguaglianze: queste aumentano le malattie mentali, la depressione e l’ansia, indeboliscono la vita comunitaria e intensificano le nostre preoccupazioni su come siamo visti e giudicati. Con il risultato di danneggiare le relazione sociali e rendere più difficile per noi rilassarci e godere della compagnia dell’altro. Senza dimenticare i problemi strettamente legati alla violenza, all’abuso di droga e al mobbing. Ridurre le disuguaglianze non è solo la chiave per migliorare tali aspetti della vita sociale e del benessere, ma anche il modo per ridurre il consumismo. Il consumismo non è il riflesso di una natura umana profondamente votata all’accumulo. Semmai è un segnale del potere disfunzionale della competizione per lo status nelle relazioni sociali. Il consumismo è in realtà una forma alienata del segnale sociale, attraverso la quale cerchiamo di mantenere e comunicare un certo senso di autostima agli altri. Bosma H, Marmot MG, Hemingway H, Nicholson AC, Brunner E, Stansfeld SA. Low job control and risk of coronary heart disease in Whitehall II (prospective cohort) study. British Medical Journal 1997;314(7080):558-65. 11 Freudenberg N. Lethal but Legal: Corporations, Consumption, and Protecting Public Health: Oxford University Press, 2014. 12 Oreskes N, Conway EM. Merchants of Doubt: how a handful of scientists obscured the truth on issues from tobacco smoke to global warming. New York: Bloomsbury, 2010. 13 J. W. Workers on Board: The case for workers’ voice in corporate governance. In: Congress TU, editor. TUC. U.K., 2013. 10 Le politiche progressiste hanno perso di vista l’orizzonte verso il quale dovremmo provare a muoverci. Invece di avere un’economia al servizio della gente, ci siamo ritrovati a servire l’economia, a pensare che i cambiamenti sociali ed economici non fossero più sotto controllo. La riduzione delle disuguaglianze e la concomitante riduzione della pressione sul consumo potrebbe significare che nelle società opulente le persone potrebbero essere più propense a usare i benefici derivanti da un incremento della produttività per garantirsi maggiore tempo libero piuttosto che cercare di accrescere il benessere materiale. La Nuova Fondazione di Economia ha suggerito che una settimana di 21 ore potrebbe diventare la norma in un’economia sostenibile.14 Le indagine sul benessere suggeriscono che il consumismo implica un sacrificio di tempo che potrebbe essere speso meglio con amici, familiari e comunità.15 La riduzione dei problemi sociali e di salute ottenuti da società più eque è così ampia perché tale riduzione è stata estesa a una larga maggioranza della società. Con la riduzione delle disuguaglianze potremmo non soltanto ridurre il consumismo ma anche migliorare la qualità di vita della maggioranza delle persone. Se i principali sforzi per ridurre le disuguaglianze fossero focalizzati sull’espansione della democrazia economica in tutte le sue forme – rappresentanze di lavoratori e sindacati nei cda, mutue, aziende con capitale partecipato dai dipendenti e cooperative – allora potremmo anche cominciare a trasformare il modo in cui la gente vive il lavoro. La vita di comunità potrebbe essere più solida e lo stato di insicurezza ridotto. L’indebolimento del movimento operaio durante gli ultimi 25 anni del ventesimo secolo è stato accompagnato anche dal declino di qualsiasi visione comune di stampo progressista su come migliorare le nostre società. Le politiche progressiste hanno perso la capacità di visualizzare un orizzonte verso il quale muoversi. Invece di avere un’economia al servizio della gente, ci siamo ritrovati a servire l’economia, a pensare che i cambiamenti sociali ed economici non fossero più sotto controllo. Il risultato è stato una politica che ha perso idealismo e capacità di ispirare. I tentativi di riforma vanno in pezzi e perdono coerenza e orientamento: non sono più visti come passi verso un futuro migliore. Oggi abbiamo bisogno di una nuova visione che sia d’ispirazione per attuare una transizione non solo verso la sostenibilità ma anche verso una società capace di migliorare la qualità della vita di ognuno di noi. Nell’ultimo periodo delle politiche progressiste, tra gli anni ’60 e ’70, c’è stato un fallimento nel concepire e produrre cambiamenti strutturali necessari ad assicurare il progresso. Il risultato è stato che il progresso si è fermato e in alcuni casi si è andati indietro. Oggi è urgente intraprendere un audace lavoro concettuale per creare un punto di vista su un futuro sostenibile che ispiri le persone, per discutere, sviluppare e mettere a punto le nostre visioni al fine di assicurare che in futuro potremmo dar vita a un progresso reale massimizzando in modo sostenibile il benessere umano. Tanto la ricerca di sostenibilità, quanto la massimizzazione del benessere implicano cambiamenti in alcuni aspetti controproducenti dei nostri sistemi economici e sociali. L’umanità non può sviluppare stili di vita sostenibili sulla base di forti disuguaglianze a livello internazionale e di un consumismo sfrenato, con la nostra vita economica dominata da potenti corporation che evitano qualsiasi tipo di responsabilità democratica. ■ Coote A, Franklin J, Simms A, Murphy M. 21 Hours: Why a Shorter Working Week Can Help Us All to Flourish in the 21st Century: New Economics Foundation, 2010. The Harwood Group. Yearning for balance: Views of Americans on consumption, materialism, and the environment. Takoma Park, Maryland: Merck Family Fund, 1995. 14 15 17 Come i Cambiamenti della Famiglia e le Disuguaglianze di Reddito colpiscono le Opportunità di Vita dei Bambini Gøsta EspingAndersen, Professore di Sociologia, Universitat Pompeu Fabra, Barcellona Questo articolo, scritto da uno dei membri del nostro comitato scientifico, solleva il problema del forte impatto che le disuguaglianze avranno sulla prossima generazione se non saranno prese le giuste contromisure. Oggi, nella maggior parte dei paesi Ue, un bambino su cinque vive sotto la soglia di povertà. Esping-Andersen attira l’attenzione sul gap crescente tra genitori con alti livelli di istruzione e quelli con bassi livelli e sul tempo investito nei bambini. Questi trend preoccupanti prefigurano un futuro preoccupante e alti livelli di disuguaglianza nelle vite dei nostri bambini. Le nazioni più avanzate hanno assistito all’aumento della disuguaglianza di reddito negli ultimi decenni. In alcuni casi, come negli Usa e in Gran Bretagna, anche in modo abbastanza drammatico. E’ largamente condiviso che il trend è determinato innanzitutto dai gap salariali crescenti tra il basso e l’alto. Chi ha competenze elevate ha visto crescere il proprio salario, mentre i lavoratori sotto qualificati hanno dovuto affrontare salari ridotti e disoccupazione.1 Basterebbe questo a negare pari opportunità alla prossima generazione, ai bambini di oggi. Ci saranno sempre più differenze tra i genitori nella capacità di investire nel futuro dei loro bambini diventerà e questo dovrebbe a sua volta ridurre la mobilità intergenerazionale.2 Ciò su cui si è meno dibattuto è come la parallela trasformazione demografica delle famiglie possa esacerbare questi trend. Si tratta di due tipologie di cambiamento che potrebbero portare a una polarizzazione sociale o, come dice Sarah McLanahan, produrre un mondo di destini divergenti. I cambiamenti nelle famiglia si stanno polarizzando? Le prime bugie in un’improvvisa – e abbastanza inaspettata – inversione di rotta nel comportamento di coppia. Nel passato, i più istruiti erano meno inclini a sposarsi e più portati al divorzio. Questo modello si sta invertendo e, come risultato, testimoniamo una crescente concentrazione di famiglie fragili nella fascia meno istruita (e a più basso reddito) della popolazione. Per semplificare da una mia ricerca, il tasso di divorzio tra gli americani meno istruiti è due volte più alto rispetto ai più istruiti. Riscontriamo più o meno lo stesso modello in Europa.3 Ugualmente, troviamo una concentrazione ancora più alta di nuclei monoparentali tra le madri meno istruite e meno pagate (o inattive). Che sia in Svezia o negli Stati Uniti, circa l’80 per cento di tutti i nuclei monoparentali sono situato nel più basso quintile di reddito. La figura sotto presenta i più recenti tassi di povertà infantile per paese (dalla metà alla fine del primo decennio del secolo). La soglia di povertà è in questo caso il 50 per cento del reddito medio. Per una panoramica sul tema: C. Goldin and L. Katz, The Race between Education and Technology. Belknap Press (2008) Un’eccellente sintesi di come le disuguaglianze intacchino la struttura delle opportunità si trova in Miles Corak, ‘Income inequality, equality of opportunity, and intergenerational mobility’. IZA Discussion Paper, no. 7520 (2013). 3 Riportato in G. Esping-Andersen (2009), The Incomplete Revolution. Cambridge: Polity Press 1 2 19 Nei paesi anglosassoni e mediterranei un bambino su cinque vive in povertà; questo rischia di essere la norma tra le famiglie con genitori single. E in alcuni casi il trend è ancora più critico. Il tasso di povertà infantile in Gran Bretagna è cresciuto di circa 25 per cento negli ultimi due decenni ed è il doppio in Spagna. Ancora peggio, dove la povertà infantile è diffusa, questa tende anche a essere più persistente. La mia stima (basata sui dati dei panel ECHP e US PSID) mostra che negli Usa almeno il 60 per cento della famiglie povere con bambini rimangono tali per 3 o più anni. Niente a che vedere con il 3 per cento della Danimarca o il 9 per cento della Germania.4 Ma questa è una prima importante lezione da imparare. Quando le madri lavorano, la povertà infantile si riduce notevolmente. Tra le famiglie con due genitori praticamente scompare; per la madri single il tasso cala nettamente. I dati in Svezia lo illustrano bene: nelle coppie con un solo lavoratore, la povertà infantile è al 18,5% e diminuisce all’1,4 quando ci sono due lavoratori; nelle famiglie con un solo genitore disoccupato troviamo un tasso di povertà del 54,5% che cala all’11% quando lei è occupata. Nei paesi nordici hanno una situazione migliore, in merito alla povertà infantile, grazie al loro straordinario welfare state e alla quasi piena occupazione delle donne madri.5 Questo mi porta alla seconda tipologia di cambiamenti demografici famigliari, ossia l’impennata di occupazione di donne e in particolare di madri. Questa è ovviamente una buona notizia visto che incide positivamente Povertà infantile. Tutte le Famiglie Povertà infantile Famiglie con madri single 60 50 40 30 20 10 0 Denmark Sweden Norway Netherlands France Germany UK Italy Spain US Fonte: Luxemburg Income Study Cross-Natural data. Si definisce povertà quella al di sotto del 50% del reddito medio (aggiustato). G. Esping-Andersen and J. Myles, ‘Economic inequality and the welfare state’. Chapter 25 in W. Saverda, B. Nolan and T. Smeeding, eds. The Oxford Handbook of Economic Inequality. Oxford University Press (2009). 5 Questi dati si possono trovare nel family data base dell’OECD. 4 Società che permettono forti disuguaglianze nel welfare per i bambini finiranno inevitabilmente per disinvestire nel loro potenziale produttivo. sulla povertà infantile, ma potrebbe anche aggravare le disuguaglianze. Perché? Prima di tutto, è chiaro che la crescita della forza lavoro femminile è stata socialmente asimmetrica. Le donne più istruite generalmente mostrano tassi più alti di occupazione rispetto a quelle a basso livello di istruzione. E quanto le seconde fanno un lavoro, sono più propense a interromperlo e/o a chiedere un part-time. Dove il gradiente sociale della forza lavoro femminile tende più verso l’alto ci si aspetterebbe un effetto aggiuntivo di disuguaglianza a livello famigliare. Questo è così specialmente da quando l’“assortative partnering” è in crescita, in particolare nella parte bassa e in quella alta della piramide sociale. Nelle società più avanzate, circa metà di tutte le coppie occupate appartengono allo stesso “quintile” di reddito.6 Due professionisti raddoppieranno i loro redditi alti e perciò si distanzieranno dal resto. E se l’occupazione femminile è particolarmente bassa tra i meno istruiti, la base della piramide andrà ancora più in basso in termine di reddito relativo. Ma è il reddito femminile, a conti fatti, a provocare una più ampia polarizzazione del reddito? Logica viole che sia più probabile che questo accada dove le asimmetrie educative nella forza lavoro femminile siano grandi, come nelle prime fasi della “rivoluzione” femminile. Comparando le nazioni, ci aspetteremmo dunque un effetto produttivo di disuguaglianze in paesi come Italia o Spagna, ma non in Scandinavia dove praticamente tutte le donne lavorano. E quindi, qui i fattori demografici familiari aggiuntivi potrebbero giocare un ruolo maggiore – in primo luogo nella propensione al partner. Per esempio, in certi paesi le donne molto istruite hanno molte più probabilità di restare single e questo potrebbe ovviamente ridurre l’effetto bonus sul reddito associato con l’essere una coppia con alto livello di istruzione e con doppio reddito. Ma ancora una volta ci troviamo qui a testimoniare un’autentica inversione di rotta (più visibile negli Usa): i tassi di matrimoni in crescita tra i più istruiti vanno in parallelo all’aumento dei single tra i meno istruiti. Sorprendentemente ci sono state poche ricerche in questo caso ed è dunque difficile presentare conclusioni solide. In uno dei pochi studi che si focalizzano direttamente sull’effetto del matrimonio assortativo, l’economista americano Hyslop conclude che l’occupazione delle donne aumenta le disuguaglianze, prima di tutto perché quelli che guadagnano alti stipendi tendono a sposarsi tra loro. Ma il peso dell’evidenza indica la direzione opposta. Studi più recenti concludono che l’effetto del reddito femminile sta producendo uguaglianza in sostanzialmente tutte le nazioni avanzate, incluse quelle dove la rivoluzione femminile è più lenta.7 O, per essere più precisi, con l’occupazione femminile che diventerà sempre più universale, il suo potenziale di produzione di uguaglianza crescerà. Questo spiega perché troviamo in maniera sistemica effetti fortemente egualitari in Scandinavia. Il motivo per cui osserviamo questo anche in nazioni con un profilo ancora più distorto di forza lavoro è meno evidente. Una spiegazione interessante è l’effetto di riduzione della povertà da parte dell’occupazione femminile. Una seconda spiegazione è che il trend verso la polarizzazione delle remunerazioni si riscontra soprattutto tra i maschi e molto meno tra le donne. E una terza sta nella redistribuzione del governo: famiglie a basso reddito ricevono più trasferimenti mentre quella ad alto reddito sono tassate più fortemente. Per dati dettagliati si può consultare il capitol 5 in OECD’s Divided We Stand (OECD, 2011) Forse la migliore panoramica sul tema si può trovare in Susan Harkness, ‘Women’s employment and household economic inequality’. Chapter 7 in J. Gornick and M. Jantti, eds. Income Inequality: Economic Disparities and the Middle Class. Stanford University Press (2013). See also OECD’s Divided We Stand (2011) 6 7 21 Le opportunità di vita dei bambini si stanno davvero polarizzando La foto della famiglia cambia e l’aumento delle disuguaglianze economiche sta decisamente peggiorando le strutture di opportunità per le prossime generazioni. Quando la forbice tra gli standard di vita delle famiglie si allarga, allo stesso modo cresce la capacità dei genitori a investire nella loro prole. Infatti, recenti ricerche negli Usa rivelano un abisso sempre più profondo: negli ultimi decenni, i genitori nel quintile di reddito più alto hanno triplicato le loro spese per i bambini mentre il trend è stagnante nell’ultimo quintile. L’effetto netto è che le famiglie ad alto reddito adesso spendono sette volte di più per un bambino di quanto facciano quelle con basso reddito. Questo ha un’influenza sulla salute dei bambini e sulla qualità della loro assistenza e dell’esperienza scolastica.8 L’effetto sul reddito è particolarmente forte per le famiglie povere, più negli Usa che in Europa. Ma questo è solamente un problema di titolo. Un bambino povero ha più probabilità di vivere in peggiori condizioni di salute e, in media, abbandonerà la scuola due anni prima rispetto a un bambino non povero. Questo ultimo successivamente passa a un’istruzione di livello ancora più alto e, infine, all’età adulta. Un bambino di una famiglia povera ha più del doppio delle possibilità rispetto agli altri di diventare un genitore povero.9 Disuguglianza di reddito e Mobilità intergenerazionale dei redditi Gini Disuguaglianza 0,6 0,5 0,4 0,3 0,2 0,1 0 Denmark Norway Finland Canada Sweden Germany France Italy Spain Fonte: il grafico è riprodotto da G. Esping-Andersen, The Incomplete Revolution (Chapter 4) Questi effetti sono ben documentati in G. Duncan and R. Murnane, eds, Whither Opportunity? Rising Inequality, Schools, and Children’s Life Chances. Russell Sage (2011) Una sintesi degli effetti sui bambini presentati qui si può trovare in G. Esping-Andersen (2009: Chapter 4 ) 8 9 Sebbene i crescenti dualismi nel welfare per l’infanzia siano prodotti dall’ampliarsi dei differenziali di reddito o di genitorialità (o peggio, dai due fattori al contempo), il risultato netto sarà probabilmente lo stesso: meno mobilità generazionale. E’ difficile spiegare il preciso meccanismo causale che produce questi risultati: è semplicemente un effetto legato al reddito? O ci sono dei fattori reali da cercare tra le caratteristiche dei genitori? Come sottolineano gli esperti di sviluppo infantile e più recentemente, James Heckman, tutti le evidenze mostrano che i semi delle opportunità di vita dei bambini vanno colti presto, in particolare nell’età prescolastica. Questo è vero anche quando sono più dipendenti dai loro genitori – non soltanto economicamente, ma forse ancora più importante in termini di apprendimento e sviluppo cognitivo. E qui osserviamo ancora una volta uno scenario di destini divergenti. C’è prima di tutto un gap che si sta allargando tra genitori con alta istruzione e quelli con bassa istruzione per quanto riguarda il tempo speso con i bambini e la qualità di questo tempo. I più istruiti dedicano circa due volte il tempo speso dai meno istruiti, hanno grosso modo il doppio delle probabilità di leggere con i loro bambini ogni giorno e faranno conoscere anche un vocabolario più ricco che, più avanti, darà ampiamente i suoi frutti. Questa propensione tende sicuramente a rafforzarsi in quanto il divorzio e la monogenitorialità sono sempre più concentrati nella fascia socio-economicamente bassa della popolazione. Dagli studi OCSE-PISA si vede per esempio che i bambini di madri single, in media, avranno un punteggio del 10% inferiore sui test cognitivi rispetto a quelli con due genitori (a parità di altri fattori). La curva del Grande Gatsby Sebbene i crescenti dualismi nel welfare per l’infanzia siano prodotti dall’ampliarsi dei differenziali di reddito o di genitorialità Qui ancora una volta attingo ampiamente da Corak (2013, op.cit). 10 (o peggio, dai due fattori al contempo), il risultato netto sarà probabilmente lo stesso: meno mobilità generazionale.10 La “Curva del Grande Gatsby” è stata coniata per la prima volta da Alan Kruger come un modo per illustrare come la struttura delle opportunità per le generazioni future è influenzata dai livelli di disuguaglianza raggiunti nel corso dell’infanzia. La curva mette in relazione due variabili: in primo luogo, la forza dell’associazione tra reddito dei genitori e della prole (quando il bambino è adulto); più alta è la correlazione e minore è la mobilità; e, in secondo luogo, il livello di disuguaglianza di reddito (misurato con il coefficiente Gini) che ha prevalso durante l’infanzia. Quello che raffigura la Curva del Grande Gatsby è sicuramente una curva inclinata positivamente. Paesi come l’Italia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti con i più alti livelli di disuguaglianza di reddito sono gli stessi nei quali troviamo un forte correlazione tra i redditi del bambino e del genitore. E viceversa, la mobilità inter-generazionale è ancora più grande – per la precisione quasi tre volte – in paesi (come quelli nordici) dove la disuguaglianza di reddito è modesta. La figura qui sotto lo spiega. Conclusioni Ci sono due ragioni oggi per le quali dovremmo preoccuparci della crescita delle disuguaglianze nella vita dei nostri bambini. Per prima cosa, demograficamente parlando, stiamo invecchiando; nei paesi a bassa fertilità lo scenario della futura popolazione è drammatico. Il nostro benessere quando saremo anziani dipenderà non semplicemente dal numero di giovani produttori di reddito, ma anche dalla qualità del loro capitale umano. Società che permettono forti disuguaglianze nel welfare per i bambini finiranno inevitabilmente per disinvestire nel loro potenziale produttivo. I risultati dell’indagine OCSE-PISA lo dimostrano con grande chiarezza. In paesi come gli Stati Uniti e la Spagna, un quinto dei quindicenni hanno ottenuto un risultato al di sotto dei minimi PISA; in società più egualitarie (come quelle tedesca e nordiche) la quota delle disfunzioni cognitive giovanili è sotto il 10%. La seconda ragione è semplicemente quella per cui il mondo che il Grande Gatsby incarna rappresenta una violazione diretta delle concezioni di base di giustizia e uguaglianza sociale che sostengono la nostra civilizzazione. ■ 23 Trend Recenti nelle Disuguaglianze di Reddito nei Paesi Sviluppati Timothy Smeeding, Direttore dell’Istituto per la ricerca sulla povertà e Professore emerito di Relazioni pubbliche in Arti e Scienze, La Follette School of Public Affairs, University of Wisconsin-Madison Questo articolo1 riesamina le disuguaglianze di reddito nei paesi Ocse. La Gran Bretagna e la Grecia sono in cima alla lista, con le società più diseguali, e inoltre mostrano anche un trend preoccupante in merito alla crescita della distanza tra le fasce più basse e quelle medie di queste società. Introduzione Il dibattito sulle disuguaglianze di reddito e i suoi effetti sulle opportunità, sulla mobilità sociale e su altri fenomeni è di forte attualità in parte a causa della Grande Recessione e in parte a causa della disponibilità di dati di lungo termine sul reddito dell’1 per cento più alto di unità fiscali nelle nazioni più ricche. Questo articolo riesamina i trend recenti nelle disuguaglianze di reddito per i paesi relativamente ricchi (OCSE), fornendo i principali dati su questi trend e suggerendo le maggiori problematiche da tenere in considerazione quando si discute dei modelli di disuguaglianza delle nazioni ricche. Ci sono diverse ragioni che spiegano l’interesse crescente nella questione distributiva. In primo luogo, diversi paesi hanno raggiunto livelli di disuguaglianza che si sono visti soltanto alla vigilia della seconda guerra mondiale, ponendo preoccupazioni pressanti riguardo l’inclusività e la giustizia sociale dello sviluppo economico, così come sull’efficacia e sul futuro delle politiche sociali. In secondo luogo, una crescente concentrazione di reddito e benessere nelle mani di pochi pone serie sfide ai principi del buon funzionamento delle democrazie così come il potere economico genera potere e condizionamenti politici. Per ultimo ma non per importanza, nonostante la portata della recente crisi, le problematiche distributive sono lontane dall’essere al centro del dibattito politico. Infatti, le risposte politiche più comuni sulla scia della crisi, come le politiche di austerità per limitare l’intervento del governo e la ridistribuzione, possono esacerbare piuttosto che ridurre la portata di concentrazione del reddito. La buona notizia è che la disuguaglianza può ora essere esaminata con una nuova ricchezza di dati che si sono resi disponibili nel corso degli ultimi 15 anni. Anche se questo amplia la possibilità di analisi, si deve essere consapevoli dei limiti e delle carenze che affliggono i dati così come il tentativo di confrontare le tendenze ei livelli in tutti i paesi. Esaminando la distribuzione del reddito Quando si esplora la disuguaglianza ci sono almeno due questioni principali da chiarire: la natura della dimensione sociale sotto inchiesta e l’indicatore di disuguaglianza che usiamo (compresa la sorgente dei dati). Gli autori desiderano ringraziare la loro organizzazione per il sostegno a questo lavoro, precisando di essere comunque i soli responsabili per tutte le opinioni e le conclusioni espresse. Per riconoscere la grandezza e la composizione delle famiglie, ogni reddito famigliare dovrebbe essere anche equivalentizzato (diviso attraverso una scala equivalente) in modo che i costi extra di numerose famiglie e delle economie di scala siano prese in considerazione. La scala equivalente usata qui è la “scala OCSE modificata”, che assegna un peso pari a 0,3 per ogni bambino, un peso pari a 1 per il primo adulto e di 0,5 per ogni componente aggiuntivo. Per esempio il reddito di una famiglia composta da due adulti e un bambino dovrebbe essere diviso per un fattore pari a 1,8. 3 C’è molto più accordo sulla definizione “ideale” di reddito e l’argomento è stato largamente indagato (si vedano le due raccomandazioni delle relazioni del Gruppo di esperti sulle statistiche bilanci delle famiglie - Canberra Reports 2001 e 2011) consentendo a molti ricercatori e istituti di statistica di produrre dati comparabili secondo precise linee guida. “I dati di consumo non sono ancora abbastanza paragonabili per essere utilizzati per l’analisi transnazionale; la comparabilità dei dati sulla ricchezza è all’inizio, ma non è ancora matura. Ci sono solo sporadici studi transnazionali sulla ricchezza o sull’indigenza”, per usare le parole usate nel nostro recente articolo per il secondo volume dell’Handbook of Income Distribution (Morelli, Smeeding e Thompson, di prossima pubblicazione). 4 Il confronto tra reddito familiare lordo e quello disponibile mette in luce il ruolo della redistribuzione fiscale nel tempo e all’interno dei paesi. 1 2 25 Prima di tutto, ci concentriamo sui redditi delle famiglie derivanti dal mercato (MI)2 e non su ricchezza, consumo o altre dimensioni di benessere.3, 4 Inoltre ci concentriamo sul reddito disponibile delle famiglie (DHI - proventi di mercato al netto delle imposte dirette e dei contributi sociali, compresi le liquidità del settore pubblico ed i trasferimenti di reddito quasi monetario). In secondo luogo, il coefficiente Gini è usato per descrivere il grado di concentrazione o disuguaglianza.5 L’indicatore può assumere valori da 0 a 100 e indica la presenza di una maggiore disuguaglianza come nell’aumento del Gini osservato.6 I coefficienti di Gini analizzati qui sono presi unicamente dal dataset7 dell’OCSE. Questa è considerata una scelta appropriata per due ordini di ragioni. Prima di tutto, i dati permettono una comparabilità tra paesi dei livelli di disuguaglianza e dei trend fino ad un periodo di tempo più recente. In secondo luogo, si possono trovare coefficienti Gini sia per il reddito disponibile che per quello di mercato in diversi paesi OCSE. La Situazione della Disuguaglianza nelle Nazioni Ricche Questi dati rivelano tendenze nella disuguaglianza per i paesi OCSE dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni ’80 come illustrato nella Figura 1; e in Figura 2, la tendenza a lungo termine nella disuguaglianza.8 Livelli I paesi della Tabella 1 sono disposti secondo il loro livello di disuguaglianza misurato con il DHI (dopo le tasse e il trasferimento di reddito) e mostra anche la disuguaglianza di MI e la differenza tra i due a causa della ridistribuzione fiscale e delle politiche di trasferimento. Cominciamo con l’estremità superiore delle barre. Il Regno Unito e la Grecia sembrano essere i paesi OCSE più diseguali stando al più recente coefficiente di Gini per l’“MI of 52” (reddito di mercato prima delle imposte dirette e dei trasferimenti). Questi paesi sono seguiti da vicino da Francia, Italia, Israele e Stati Uniti. All’altra estremità dello spettro, i più bassi MI Gini si trovano nei Paesi Bassi, Norvegia, Danimarca e Svezia. La disparità di reddito è ridotta attraverso la tassazione e trasferimenti finanziari come indicano le barre scure inferiori. Tuttavia, l’effetto redistributivo della tassazione e dei trasferimenti di reddito varia sensibilmente da un paese all’altro. Infatti, le imposte dirette e i trasferimenti riducono le differenze attese per singolo paese tra i redditi di qualsiasi coppia casuale di famiglie (in percentuale del reddito) di circa 24 punti percentuali (2*12 per cento) negli Stati Uniti e Canada o di 44 punti percentuali (2*22) per il Belgio e la Finlandia. Queste differenze non sono correlate con l’MI Gini in quanto le differenze minori, di 12-14 punti tra l’MI e il DHI Gini, si riscontrano in paesi ad alto tasso di disuguaglianza di DHI (Israele, USA) e paesi con un tasso più equo di DHI (Olanda). I paesi con grandi effetti redistributivi (20 o più punti percentuali) sono la Francia, la Germania, il Salvatore Morelli, Ricercatore universitario - CSEF – Università di Napoli “Federico II” Jeffrey Thompson, Economista, Board of Governors of the Federal Reserve System E’ apprezzabile notare che il coefficiente di Gini non è il solo indicatore disponibile sulla disuguaglianza né necessariamente il migliore. A chi interessato, consigliamo di leggere Atkinson e Morelli(2012) e Morelli, Smeeding e Thompson (di prossima pubblicazioni) per un’ulteriore discussione sui differenti indicatori sulla disuguaglianza. 6 Il coefficiente di Gini ha una più intuitiva, sebbene meno usata, interpretazione: “Un coefficiente di Gini dello G per cento significa che, se prendiamo 2 famiglie a casa dalla popolazione, la differenza attesa nei loro redditi è 2G volte la media”. (Atkinson and Morelli, 2012) Questo è, per esempio, particolarmente d’aiuto nell’interpretare gli effetti redistributivi delle tasse e dei trasferimenti (riduzione nel coefficiente di Gini) come una specifica riduzione nella differenza attesa nei redditi tra tutte le famiglie all’interno di un’economia. 7 Si veda il database sulla distribuzione dei redditi dell’OCSE, disponibile su http://www.oecd.org/els/soc/income-distribution-database.htm. Un’altra importante fonte di dati sulla disuguaglianza e per una più ampia lista di paesi e per un periodo più lungo è il database del Luxembourg Income Study( LIS) (http://www.lisdatacenter.org). 8 I valori reali sono in Appendice Tavola 1 5 Belgio e la Finlandia. Quelli con differenze di 15 punti o meno nel Gini includono Giappone e Australia. Grandi differenze nella redistribuzione delle nazioni suggeriscono che la classifica delle disuguaglianze non si mantiene sempre spostandosi dall’MI al DHI Gini. In particolare, sebbene Stati Uniti, Regno Unito e Israele si distinguano ancora per la loro distribuzione più diseguale,9 Italia e Francia mostrano molta più uguaglianza ora rispetto agli anni precedenti (vedi Appendice Tabella 1). In Figura 1, vi è una correlazione molto più elevata per gli MI Gini rispetto ai DHI Gini, cosa che suggerisce che le differenze di imposte e di politiche previdenziali sono fattori importanti della disuguaglianza misurata con il DHI. Trend Osserviamo nella Figura 1 (e Appendice Tabella 1) che tutti i paesi hanno sperimentato un notevole ampliamento delle disuguaglianze nei redditi di mercato dalla metà degli anni ‘80 (gli Usa hanno registrato un aumento del Gini di circa 6 punti percentuali, dal 44 al 50, mentre il Canada e il Regno Unito hanno avuto un incremento di 5 punti). L’unica eccezione è l’Olanda, dove il Gini lordo è diminuito durante gli anni 2000 dopo un aumento nella metà degli anni ‘90. Ancora più importante, quasi tutti i paesi hanno sperimentato crescenti disuguaglianze nel reddito disponibile sin dai primi anni ‘80, e solo in alcuni casi la distribuzione del reddito disponibile ha raggiunto un livello stabile (i casi più importanti sono Giappone, Italia e Regno Unito). Gli Stati Uniti hanno assistito a forti aumenti nella disuguaglianza negli anni ‘70 e ‘80 e solo modesti aumenti nella seconda metà degli anni ‘90. Tuttavia, il livello di disuguaglianza alla fine degli anni 2000 non era lontano da quello sperimentato nei primi anni ‘90. La disuguaglianza in altri paesi ha visto un calo negli anni ‘70 o ‘80 prima di aumentare negli anni ’90 (Finlandia, Svezia e Canada). L’evoluzione della disuguaglianza nel reddito disponibile (equivalente) delle famiglie è pertanto il chiaro risultato dell’evoluzione dei Questo modello resta praticamente immutato dalla metà degli anni ’70 a intorno al 2010. 9 sistemi di tassazione e di trasferimento in un determinato paese. Ulteriori analisi di questi dati avrebbero trovato che la maggior parte della crescita della disuguaglianza è dovuta al fatto che l’estremità superiore della distribuzione del reddito si sta allontanando dalla linea mediana. Questo è più sicuramente il caso in nazioni come la Svezia e le nazioni anglosassoni (Canada, Regno Unito, Australia, Stati Uniti). Ma per meglio esaminare i cambiamenti al vertice della distribuzione, possiamo attingere a dati fiscali che registrano con più chiarezza e costanza queste modifiche. Fasce di reddito più elevato Questa sezione si concentra su una nuova serie di dati (il World Top Income Database, WTID) calcolati dalle statistiche fiscali, descrivendo la quota di reddito nazionale pre-imposte pre-trasferimenti che si matura a favore della percentuale più ricca di popolazione di un paese, o le cosiddette “quote di reddito più elevato”. Questi dati sono costruiti a partire da tasse e atti amministrativi o da tabulazioni raggruppate, e sono particolarmente adatti per stimare i redditi di mercato della parte superiore della distribuzione del reddito. Il reddito dei ricchi è davvero molto difficile da individuare con le indagini sulle famiglie. Da un lato, l’uso di metodi di topcoding limita l’osservazione by construction di alti redditi. I dati basati sul fisco hanno anche i loro limiti. Più in particolare, l’evasione e l’elusione fiscale potrebbero influenzare in modo sostanziale la vera quota del reddito nazionale riguardante le unità fiscali ricche. Allo stesso modo, i cambiamenti nella legislazione fiscale potrebbero portare a un’espansione o a una riduzione della base imponibile, permettendo l’inclusione o l’esclusione di un mercato particolare o di altre fonti di reddito, e potrebbero anche influenzare il livello e potenzialmente il trend nelle fasce di reddito più elevato. Inoltre, questi dati sono registrati per unità fiscali, non per famiglie, e non ci può dire altro se non in merito alla redistribuzione. 27 Una crescente concentrazione di reddito e benessere nelle mani di pochi pone serie sfide ai principi del buon funzionamento delle democrazie così come il potere economico genera potere e condizionamenti politici. I nuovi dati chiariscono che per la maggior parte dei paesi oggetto dell’inchiesta il grosso delle azioni di distribuzione del reddito sono avvenute nelle fasce alte, specialmente dagli anni ’80. È possibile che gli andamenti delle disuguaglianze di reddito come mostrato in Figura 1 sono sottostimati nella misura in cui essi non stanno fotografando completamente ciò che sta accadendo nelle fasce alte. I Trend nelle Quote più alte La Figura 2 descrive la dinamica dell’1% più alto del reddito nazionale per tutti i paesi dell’OCSE disponibili con quote standardizzate a 100 nel 1980. Abbiamo raggruppato gruppo i paesi in diversi cluster: paesi europei nordici (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia), Europa meridionale (Italia, Portogallo e Spagna), Occidente di lingua inglese (Australia, Canada, Irlanda, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti) ed Europa continentale (Francia, Germania, Paesi Bassi e Svizzera) insieme al Giappone. I risultati indicano chiaramente che l’1% più alto è cresciuto nella maggior parte dei paesi oggetto dell’inchiesta. Il modello comune assume la forma di una U, ma l’estensione della “inversione a U” e la tempistica del punto di svolta variano tra i gruppi di paesi. In generale, le fasce più alte hanno subito una contrazione a partire dal periodo post-bellico prima di invertire l’andamento nei primi anni ‘80 e ‘90. Mentre l’Europa meridionale e i paesi anglosassoni hanno sperimentato un rimbalzo della crescita per le fasce più alte nei primi anni ‘80, i paesi nordici e dell’Europa continentale (Giappone compreso) hanno assistito a una relativamente modesta crescita delle fasce più alte nel corso degli anni ‘80, prima di mostrare segnali più chiari di un aumento della concentrazione del reddito durante gli anni ‘90. L’ aumento della disuguaglianza varia anche tra paesi. Per esempio, tra il 1980 e il 2010, l’1% più alto è aumentato del 40 per cento e del 15 per cento rispettivamente in Italia e in Spagna. Tuttavia, nello stesso periodo, l’1% più alto è più che raddoppiato in Portogallo. In Francia e Giappone, per i quali c’è una copertura completa di dati per il periodo, la quota superiore è aumentata rispettivamente di circa il 15 per cento e di quasi il 30 per cento tra la metà degli anni ‘90 e la metà degli anni 2000 (con l’eccezione della Norvegia, dove l’1% più alto è raddoppiato10 tra il 1990 e il 2000. Dopo il 1990 gli aumenti sono stati più modesti in altri paesi nordici. La fascia più alta della Danimarca è aumentata del 15 per cento tra la fine degli anni’80 e la fine degli anni ‘90, per poi diminuire nuovamente nei tardi anni ‘90 e nei primi anni 2000. La crescita post-1990 delle fasce più alte sembra essersi arrestata in Finlandia e in Norvegia negli anni 2000. Eppure, la Svezia mostra un aumento più costante e graduale per l’1% più alto: una variazione percentuale cumulativa del 70% a partire dagli anni ‘80. L’ondata dei redditi più alti è particolarmente forte nei paesi di lingua inglese (tranne la Nuova Zelanda). Australia, Canada, Regno Unito e Stati Uniti hanno visto i loro “top 1%” crescere del 60-70 per cento tra il 1990 e l’inizio della crisi finanziaria del 2007; l’Irlanda ha assistito alla crescita di circa il 90 per cento nello stesso periodo. La ciclicità delle quote dei redditi più alti è chiara anche nei trend con il WTID. Le recessioni hanno depresso i redditi dei ricchi soprattutto, ma la ripresa dei loro redditi è stata più forte. Nel 2005, la Norvegia ha sperimentato un picco, insolitamente ampio, nella fascia dell’1% più ricco. Questo è attribuibile all’anticipazione dei pagamenti dei dividendi in vista dei cambiamenti nella politica fiscale annunciati per il 2006. 10 Conclusioni Le classifiche tra nazioni sulla disuguaglianza misurata con il DHI, stando ai dati più recenti del 2010, sembrano in gran parte simili a come apparivano quindici o addirittura trenta anni fa. Nei paesi di lingua inglese (guidati dagli Stati Uniti e dal Regno Unito) si riscontra la maggiore disuguaglianza, mentre nei paesi nordici sono quelli con la disuguaglianza più bassa. Le principali differenze negli effetti di redistribuzione producono modelli molto diversi nella distribuzione. La redistribuzione, quindi, incide chiaramente sul livello finale di disuguaglianza DHI. La disuguaglianza DHI è (quasi) aumentata ovunque nel periodo 1970-2010, con una leggera frenata nel corso della Grande Recessione. Le piccole variazioni annuali producono forti tendenze per un periodo di 20-30 anni. Aumenti a lungo termine sono evidenti nei coefficienti di Gini (nonché in altre misure),10 nei redditi disponibili delle famiglie e anche nelle fasce di reddito più elevato. Le misure di distribuzione DHI sono aumentate di più tra gli anni ’70 e ’90 (a seconda del paese), ma sono cresciute meno (e a volte sono rimaste stabili) negli anni 2000. Esaminando le fasce più alte di reddito, tuttavia, vediamo che la disuguaglianza è ancora in aumento, senza però mostrare dei “picchi”. Il periodo 1950-1980, nel ricco Occidente, è sempre stato indicato come l’“età dell’oro” per l’occupazione, con estesi guadagni e aumenti salariali e disuguaglianze in diminuzione o stabili. Ma il modello è ora molto diverso: la maggior parte delle nazioni mostrano adesso un modello di disuguaglianza a forma di U, ossia con una disuguaglianza in crescita.11 Il WTID mostra una forma a U ancora più forte nel trend di disuguaglianza. E’ anche chiaro che si deve esaminare il reddito da capitale così come il reddito da lavoro nel valutare i trend di disuguaglianza. I redditi da capitale in crescita sono più concentrati nella parte alta della distribuzione. 10 11 S i veda Morelli, Smeeding e Thompson(di prossima pubblicazione). Si veda Gottschalk e Smeeding (1997; 2000). Riferimenti Atkinson, A.B., 1997. Bringing income distribution in from the cold. The Economic Journal, 107(441), pp.297–321. Atkinson, A., Morelli, S. (2012). “Chartbook of Economic Inequality: 25 Countries 1911–2010,” Institute for New Economic Thinking, October. Canberra Group, (2001). Final Report and Recommendations of the Canberra Expert Group on Household Income Statistics, Statistics Canada, Ottowa. Canberra Group, (2011). Canberra Group Handbook on Household Income Statistics, Second Edition, Geneva, at http://www.unece. org/fileadmin/DAM/stats/groups/cgh/Canbera_ Handbook_2011_WEB.pdf Gottschalk, P., Smeeding, T.M. (1997). “CrossNational Comparisons of Earnings and Income Inequality”. Journal of Economic Literature 35, 633–687. Gottschalk, P., Smeeding, T.M. (2000). “Empirical Evidence on Income Inequality in Industrialized Countries”, in A. B. Atkinson and F. Bourguignon (eds), Handbook of Income Distribution. Vol. 1, 261–308, Amsterdam, North-Holland. Morelli, Smeeding and Thompson(forthcoming) “Post-1970 Trends in Within-Country Inequality and Poverty” in A. B. Atkinson and F. Bourguignon (eds), Handbook of Income Distribution. Vol. 2, Elsevier North Holland L’aumento inarrestabile delle fasce più elevate di reddito pone nuove sfide al contenuto informativo della disuguaglianza di reddito. Misure convenzionali come il coefficiente di Gini potrebbero sottostimare sempre più la portata reale dei cambiamenti nelle disuguaglianze di reddito. Inoltre, ci sono prove che la relazione tra il Gini e le fasce più alte è diventata più debole negli ultimi dieci anni. ■ 23 29 Appendice Tavola 1: D isuguaglianze nel reddito delle famiglie e redistribuzione negli interventi dei governi nel tempo per una selezione di paesi Ocse. Inequality / Redistribution Australia Czech Republic Denmark Finland France mid-1970s mid-1980s around 1990 around 2000 mid-2000s around 2010 A. market income Gini 0.467 0.476 0.465 0.469 B. DHI - Gini 0.309 0.317 0.315 0.334 C. Redistribution = A - B 0.158 0.159 0.150 0.135 A. market income Gini 0.482 0.478 B. DHI - Gini 0.269 0.262 C. Redistribution = A - B 0.213 0.216 A. market income Gini 0.385 0.395 0.403 0.430 0.440 0.436 0.447 B. DHI - Gini 0.304 0.293 0.287 0.289 0.318 0.317 0.320 C. Redistribution = A - B 0.081 0.102 0.116 0.141 0.122 0.119 0.127 0.442 0.472 0.461 0.449 0.232 0.257 0.260 0.259 0.256 0.185 0.212 0.202 0.193 0.417 0.416 0.416 0.429 A. market income Gini B. DHI - Gini C. Redistribution = A - B A. market income Gini 0.373 0.396 B. DHI - Gini 0.221 0.226 0.215 0.227 0.232 0.252 C. Redistribution = A - B 0.152 0.170 0.202 0.189 0.184 0.177 A. market income Gini 0.387 0.479 0.478 0.483 0.479 B. DHI - Gini 0.209 0.218 0.247 0.254 0.260 C. Redistribution = A - B 0.178 0.261 0.231 0.229 0.219 0.000 A. market income Gini 0.473 0.490 0.485 0.505 B. DHI - Gini 0.277 0.287 0.288 0.303 C. Redistribution = A - B Germany mid-1990s 0.196 0.203 0.197 0.202 A. market income Gini 0.439 0.429 0.459 0.471 0.499 0.492 B. DHI - Gini 0.251 0.256 0.266 0.264 0.285 0.286 C. Redistribution = A - B 0.188 0.173 0.193 0.207 0.214 0.206 Inequality / Redistribution mid-1970s mid-1980s 0.424 0.345 around 1990 mid-1990s around 2000 A. market income Gini Greece B. DHI - Gini 0.345 0.354 C. Redistribution = A - B Israel Italy Japan New Zealand Norway Sweden United Kingdom United States 0.471 0.522 0.340 0.337 0.131 0.185 0.501 0.472 0.476 0.494 0.504 0.513 B. DHI - Gini 0.326 0.329 0.338 0.347 0.378 0.376 C. Redistribution = A - B 0.146 0.147 0.156 0.157 0.135 0.125 A. market income Gini 0.386 0.402 0.465 0.472 0.510 0.503 B. DHI - Gini 0.287 0.275 0.326 0.321 0.330 0.319 C. Redistribution = A - B 0.099 0.127 A. market income Gini 0.345 0.139 0.151 0.180 0.184 0.403 0.432 0.462 0.488 0.336 B. DHI - Gini 0.304 0.323 0.337 0.329 C. Redistribution = A - B 0.041 0.080 0.095 0.133 0.152 0.467 0.464 0.277 0.270 0.190 0.194 B. DHI - Gini 0.247 0.259 0.261 C. Redistribution = A - B Netherlands around 2010 A. market income Gini A. market income Gini Luxembourg mid-2000s A. market income Gini 0.426 0.473 0.474 0.484 0.424 0.426 0.424 B. DHI - Gini 0.263 0.272 0.292 0.297 0.292 0.284 0.288 C. Redistribution = A - B 0.163 0.142 0.201 0.182 0.187 0.132 A. market income Gini 0.408 0.468 0.488 0.484 B. DHI - Gini 0.271 0.318 0.335 0.339 C. Redistribution = A - B 0.137 0.150 0.153 0.145 A. market income Gini 0.351 0.404 0.426 B. DHI - Gini 0.222 C. Redistribution = A - B 0.129 0.136 0.454 0.335 0.317 0.137 0.447 0.423 0.243 0.261 0.276 0.249 0.000 0.161 0.165 0.171 0.174 A. market income Gini 0.389 0.404 0.408 0.438 0.446 0.432 0.441 B. DHI - Gini 0.212 0.198 0.209 0.211 0.243 0.234 0.269 C. Redistribution = A - B 0.177 0.206 0.199 0.227 0.203 0.198 0.172 A. market income Gini 0.378 0.469 0.490 0.507 0.512 0.503 0.523 B. DHI - Gini 0.269 0.309 0.355 0.337 0.352 0.335 0.341 C. Redistribution = A - B 0.109 0.160 0.135 0.170 0.160 0.168 0.182 A. market income Gini 0.406 0.436 0.450 0.477 0.476 0.486 0.499 B. DHI - Gini 0.316 0.340 0.349 0.361 0.357 0.380 0.380 C. Redistribution = A - B 0.090 0.096 0.101 0.116 0.119 0.106 0.119 Fonte: I dati sono ottenuti da OECD.Stat (estratto del 30 ottobre 2013). Dati elaborati dagli autori. Note: La tavola mostra l’estensione della disuguaglianza per una selezione di paesi Ocse. La disuguaglianza è misurata con i coefficiente di Gini per l’intera popolazione usando il reddito di mercato delle famiglie equivalizzato (Scala Ocse). (A. Market income Gini) o il reddito disponibile delle famiglie equivalizzato (B. DHI-Gini) ottenuto sottraendo le tasse dirette e i trasferimenti dal reddito di mercato. L’estensione della redistribuzione è ottenuta sottraendo i due indici Gini (C. Redistribution = A-B), Una misura diversa del potere redistributivo degli interventi fiscali dei governi (D. Redistribution), solo per l’età lavorativa, è ottenuto sottraendo il Gini Lordo e Netto basato solo sulla popolazione in età lavorativa (15-65 anni). 31 Figure 1 Il Trend nel coefficiente di Gini in una selezione di paesi Ocse (1980=100) Gini - Market income 80 100 120 140 80 100 120 140 80 100 120 140 Gini - Disposable income Canada Denmark Finland Germany Italy Japan Netherlands New Zealand Norway Sweden UK US time Fonte: I dati sono ottenuti da OECD.Stat (estratti il 30 ottobre 2013). I dati sono elaborati dagli autori. Note: L a disuguaglianza è misurata con il coefficiente Gini per l’intera popolazione usando il reddito di mercato delle famiglie equivalizzato (scala Ocse) o il reddito disponibile delle famiglie equivalizzato (Gini- Reddito disponibile) otttenuto sottraendo le tasse dirette e i trasferimenti dal reddito di mercato. Figure 2 Il trend del’1 per cento più ricco nei paesi Ocse (continua da pag 33) (1980=100) 350 Top1% dynamics : english Top1% dynamics : nordic 1980=100 1980=100 350 Australia Denmark Canada Finland Ireland 300 Norway 300 New Zealand Sweden UK US 250 250 200 200 150 150 100 100 50 50 1970 1980 1990 Year 2000 2010 1970 1980 1990 2000 Year Fonte: I dati sono ttenuti dal dataset WTID (estratti a settembre 2013). I dati sono elaborati dagli autori. Note: I dati sono stati originariamente elaborati per le analisi in Morelli, Smeeding e Thompson (di prossima pubblicazione). 2010 33 Figure 2 Il trend del’1 per cento più ricco nei paesi Ocse (1980=100) 350 Top1% dynamics : south Top1% dynamics : continental (and Japan) 1980=100 1980=100 350 Italy France Portugal Germany Spain Japan 300 300 Netherlands Switzerland 250 250 200 200 150 150 100 100 50 50 1970 1980 1990 2000 2010 1970 1980 Year Fonte: I dati sono ttenuti dal dataset WTID (estratti a settembre 2013). I dati sono elaborati dagli autori. Nota: I dati sono stati originariamente elaborati per le analisi in Morelli, Smeeding e Thompson (di prossima pubblicazione). 1990 Year 2000 2010 I Fattori delle Disuguaglianze: Sfide Passate e Attuali per l’Europa Jean-Paul Fitoussi, SciencesPo, Parigi e Università LUISS, Roma Francesco Saraceno, OFCE-SciencesPo, Parigi: SGPP, Giacarta; SEP-LUISS, Roma Questo articolo fornisce una descrizione del perché la disuguaglianza continua ad aumentare e affronta le implicazioni che questa avrà sulle politiche. Gli autori sostengono che le politiche attuali causano una carenza nella contribuzione da parte dei più ricchi e della famiglie a basso e medio reddito. Carenza che ha portato a un’economia più fragile e a condizioni più dure e inique nella società. La crisi ha posto al centro del dibattito politico il tema delle distribuzione del reddito e la questione della crescente disuguaglianza. Come ampiamente documentato, (FMI, 2007; Ocse, 2008; Piketty e Saez, 2013; Piketty, 2013; Piketty et al., 2011) la disuguaglianza è aumentata notevolmente nelle economie emergenti come in quelle sviluppate a partire dalla fine degli anni ’70. Ci sono ragioni per credere che l’aumento della disuguaglianza è stato uno dei fattori determinanti della crescita degli squilibri nell’economia mondiale, accrescendone la fragilità fin dall’inizio della crisi finanziaria globale (Fitoussi e Saraceno, 2010, 2011). La crisi, a sua volta, ha approfondito le disuguaglianze e ha creato un circolo vizioso che sta imponendo grandi costi sociali soprattutto ai paesi europei (iAGS, 2013; OECD, 2011; Pickett, 2013; Stiglitz, 2013). Ma perché le disuguaglianze sono cresciute in tale misura? E che cosa ha generato il circolo vizioso tra performance economica e distribuzione del reddito? Cosa implica questo per le politiche da attuare oggi e negli anni a venire? Questo articolo delineerà una risposta a tutte queste domande. Il tradizionale punto di vista sull’aumento delle disuguaglianze Il rapporto tra distribuzione del reddito e performance economica non ha avuto un ruolo importante nel dibattito economico degli ultimi quattro decenni a causa del ritorno in auge della tradizione neoclassica dopo la crisi keynesiana degli anni ‘70. La teoria neoclassica postula che i redditi sono “oggettivamente” determinati dai fondamentali dell’economia, cioè dalla produttività marginale dei fattori di produzione. Questo postulato conduce alla tradizionale dicotomia da libro di testo tra efficienza ed equità, cosa che sottende il concetto ottimalità di Pareto, e ha a lungo alimentato l’idea che il lavoro dell’economista sia quello di studiare le condizioni per l’allocazione ottimale delle risorse tra i partecipanti al processo economico (al fine di massimizzare il benessere sociale). Una volta che il benessere globale è massimizzato, gli economisti hanno lasciato il compito di scegliere la distribuzione del reddito a sociologi, politologi, antropologi, a condizione che tale distribuzione non distorca gli incentivi degli agenti. Con questa impostazione, l’aumento della disuguaglianza potrebbe essere spiegata attraverso l’azione congiunta di due fenomeni. Il primo è il rapido progresso tecnologico che ha caratterizzato la fine del ventesimo secolo; questi progressi sono legati principalmente alla rivoluzione delle IT e alla diffusione dei computer che hanno favorito maggiormente 35 i lavoratori altamente qualificati, a scapito di quelli con nessuna o poca istruzione (Katz e Autor, 1999; Rajan, 2010). Secondo il punto di vista tradizionale, il secondo fenomeno che ha un impatto sulla disuguaglianza salariale è la globalizzazione. L’ingresso di lavoratori poco qualificati, da economie emergenti e in via di sviluppo, in un mercato del lavoro globale ha abbassato la produttività media marginale del lavoro. Inoltre, l’aumento della concorrenza ha a sua volta aumentato la pressione sui sindacati e sui fattori che determinano i salari per eliminare le rigidità (si veda ad esempio Carta et al., 2004). La conseguenza di ciò è stata una riduzione della quota del lavoro sul reddito nazionale rispetto al capitale. Progresso tecnico basato sulle qualifiche e l’aumento della competizione nel mercato del lavoro globale potrebbe spiegare l’aumento (salariale) della disuguaglianza come un processo ineluttabile che la politica non è tenuta ad affrontare se non al prezzo di una riduzione del’efficienza e della crescita. L’idea che le “marea solleva tutte le barche” servirebbe come giustificazione per la straordinaria crescita dei redditi alti e di quella ancora più alti (l’”economia superstar”, si veda Dew-Becker e Gordon, 2005). Una giustificazione che ha caratterizzato i due decenni prosperosi degli anni ’90 e 2000. Merito o predazione? La crisi finanziaria ha cambiato la visione tradizionale. In primo luogo, perché, nonostante il duro colpo preso dal settore finanziario, questa ha colpito in maniera sproporzionata le persone dai reddito bassi o medi (OCSE, 2011; Stiglitz, 2013). In secondo luogo, perché ha richiamato l’attenzione su una più profonda comprensione dell’impatto della distribuzione del reddito sulle performance economiche al di là dei suoi effetti sugli incentivi. La crisi ha rappresentato nei fatti il punto di arrivo di un processo durante il quale le disuguaglianze hanno depresso la crescita o innescato la crescita del debito delle famiglie all’ultimo gradino della distribuzione (Cynamon e Fazzari, 2008; Fitoussi e Saraceno, 2010, 2011). In particolare, Galbraith (2012) e Stiglitz (2013) evidenziano che molto più che i fondamentali, come la globalizzazione e il progresso tecnologico, ciò che conta di più dell’aumento della disuguaglianza negli ultimi decenni è l’aumento dei comportamenti predatori. Per la precisione, poiché le élite si sono appropriate sempre più di una congrua parte della ricchezza nazionale, la crescente disuguaglianza sta ostacolando il benessere e distorcendo l’economia. L’aumento della ricerca di rendita (“rent-seeking”) e dei comportamenti predatori ha coinciso con il ruolo fondamentale svolto da una un sistema finanziario sempre più deregolamentato, dove lo scollamento tra salari e produttività marginale è diventato in breve tempo evidente. Galbraith e Stiglitz sostengono in modo convincente che la maggior parte di coloro che hanno i redditi più alti si sono a poco a poco specializzati nel massimizzare la parte della torta di cui si sono appropriatati piuttosto che contribuire a rendere la torta più grande. I prestiti predatori e l’uso smodato delle carte di credito, che stanno alla base della bolla dei subprime, sono gli esempi più tipici di comportamenti “rent-seeking” che hanno consentito di trasferire ingenti quantità di risorse dalle classi medio-basse a quelle dei ricchi. L’enfasi sul “rent- seeking” aiuta a spiegare perché a beneficiare dell’aumento della disuguaglianze di reddito negli ultimi decenni siano stati i redditi più alti (Piketty et al, 2011.); ancora più importante, sottolinea anche l’importanza delle scelte politiche. Il potere economico delle élite e la rivoluzione conservatrice nella politica si sono rinforzati a vicenda, con un conseguente aumento dei sistemi fiscali meno progressivi e un rimpicciolimento del welfare state (Creel e Saraceno, 2010; Hacker e Pierson, 2010). I rendimenti elevati nella finanza, e il crescente peso di questa sul Pil, hanno innescato un circolo vizioso per cui nessun investimento di settore potrebbe competere con i rendimenti offerti dal settore finanziario. Il risultato, secondo Galbraith e Stiglitz, è stato un enorme distrazione dei risparmi per usi produttivi verso delle attività finanziarie il cui valore è stato in gran parte gonfiato. La tendenza delle economie avanzate di saltare da una bolla a un’altra può quindi essere spiegato, tra le altre cose, dall’aumento della disuguaglianza (si veda anche Fitoussi e Saraceno, 2011). L’Europa, più che il resto del mondo, è entrata in un circolo vizioso, nel quale le disuguaglianze rendono la crisi ancora più dura, e a sua volta la crisi ha effetti iniqui sui differenti gruppi sociali e di reddito, rendendo così ancora più profonde le disuguaglianze e aumentando la fragilità dell’economia. La ricerca della rendita e l’ascesa della finanza sembrano più convincenti rispetto alla visione tradizionale nelle spiegare l’ascesa dell’economia superstar. Dopo tutto, è difficile mettere in relazione il reddito del top manager al suo contributo marginale ai ricavi dell’azienda, per non parlare del benessere sociale. Le disuguaglianze e la crisi europea Dal 2010 la crisi globale si è evoluta in una crisi del debito sovrano europeo, svelato dai gravi problemi di finanza pubblica della Grecia. Invece di essere interpretato come il segno di un grave problema di governance dell’Eurozona (Fitoussi e Saraceno, 2013; Saraceno, 2013) la questione è stata affrontata dai leader europei come un problema di “dissolutezza fiscale”. Le autorità europee non si sono chieste come mai un problema di debito privato, come in Spagna e l’Irlanda, sia diventato un problema di debito pubblico (Fitoussi, 2013). Di conseguenza l’austerità è stata generalizzata, nella periferia come nel cuore dell’Eurozona, soffocando la crescita e ritardando la ripresa. Ancora più importante, le politiche di austerità e le riforme strutturali liberiste hanno sfilacciato il tessuto sociale, specialmente nei paesi periferici, rendendo ancora più profonde le disuguaglianze. Mentre i profitti e i mega guadagni sono oggi ai livelli pre-crisi, una parte crescente della popolazione vive sotto la soglia della povertà e percentuali elevate di disoccupazione sono presenti in particolari sezioni della società (donne e giovani; si veda iAGS, 2013). Il corso preso dalle politiche in Europa resta un puzzle: con una recessione che blocca i bilanci e che costringe il settore privato a ridurre la leva finanziaria, non vi è alcun motivo di ridurre l’indebitamento del settore pubblico, specialmente quando il settore bancario stringe i cordoni del credito ai privati. Di fronte a un tasso di disoccupazione storicamente elevato e in alcuni paesi superiore a quello degli anni trenta, non è certo una buona idea perseguire politiche di approvvigionamento (Saraceno, 2014). Il risultato è una crescente paura della deflazione nell’area euro le cui conseguenze sui debiti, privati o pubblico, sarebbero problematiche. In altre parole l’Europa, più del resto del mondo, è entrata in un circolo vizioso in cui la disuguaglianza rende la crisi più dura e la crisi a sua volta ha effetti iniqui su diversi gruppi sociali e di reddito, aumentando così ancora di più profonde la disuguaglianza e la fragilità dell’economia. Non è questo il luogo per discutere le radici della crisi europea o per valutare future prospettive (cf. Fitoussi, 2013). Le politiche seguite dai paesi europei, l’austerità e le riforme dal lato dell’offerta in un momento in cui la radice del problema è la domanda aggregata, non sono state inevitabili. Queste politiche sono servite solo ad approfondire la recessione e a imporre costi ingenti alle famiglie con redditi bassi o medi (e alle piccole e medie imprese), rendendo così la disuguaglianza, e la conseguente fragilità economica, più dura. Queste politiche non lasciano modo di scoprire il reale tasso potenziale di crescita dell’economia, piuttosto stanno favorendo un percorso caotico: la crescita attraverso le bolle seguite dalle crisi finanziarie ed economiche. ■ 37 Riferimenti Card, D. et al. (2004) “Unions and Wage Inequality,” Journal of Labor Research 25: 519–62. Creel, J. and F. Saraceno (2010) “The Crisis, Automatic Stabilisation, and the Stability Pact,” Revista de Economia y Estadistica XLVIII (1): 75–104. Cynamon, B.Z. and S.M. Fazzari (2008) “Household Debt in the Consumer Age: Source of Growth-Risk of Collapse,” Capitalism and Society 3. Dew-Becker, I. and R.J. Gordon (2005) “Where Did the Productivity Growth Go? Inflation Dynamics and the Distribution of Income,” Brookings Papers on Economic Activity 2005: 67–150. Fitoussi, J.-P. (2013) Le Théorème Du Lampadaire. Paris: Les liens qui libèrent. Fitoussi, J.-P. and F. Saraceno (2010) “Europe: How Deep Is a Crisis? 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Vengono utilizzati due fattori importanti per spiegare questa tendenza preoccupante: una crescita dei redditi di mercato diseguali e/o un calo della redistribuzione del reddito attraverso imposte e trasferimenti. Rising L’aumento della disuguaglianza di reddito: redditi di mercato e redistribuzione La disuguaglianza è aumentata nella maggior parte dei paesi negli ultimi tre decenni. Una vasta gamma di paesi, che vanno da Danimarca, Finlandia, Svezia e Paesi Bassi ai paesi baltici e altri paesi della CEE, e compresi anche il Regno Unito e, al di fuori dell’Europa, Australia, Canada e Stati Uniti, hanno visto un aumento nelle disuguaglianze del 28% a partire dagli anni ‘80. Sorprendentemente gran parte della crescita (19%) è concentrata negli anni ‘90 (Appendice Tabella 1). Questa riguarda i redditi familiari netti, che risultano dopo che sono stati aggiunti i trasferimenti sociali e che le imposte sul reddito sono state sottratte dai redditi di mercato. Pertanto una combinazione di questi due fattori è responsabile dell’aumento: una crescente disuguaglianza dei redditi di mercato e/o una redistribuzione di reddito in calo attraverso tasse e trasferimenti. Per prima cosa, daremo un’occhiata al primo. La dispersione dei redditi di mercato non è conosciuta in un formato comparabile come la disuguaglianza di reddito netto. Ciò è dovuto in parte ai problemi di osservazione statistica (soprattutto dei redditi da capitale) e di definizione (ad esempio, sono incluse le pensioni finanziate da capitali? O gli affitti su abitazioni occupate dai proprietari?), in parte ai problemi di misurazione della disuguaglianza dato che il coefficiente di Gini riscontra difficoltà con i redditi negativi (che si riferiscono anche al capitale ), in parte ancora all’uso di elementi equivalenti per la composizione del nucleo familiare (vedi Appendice riquadro 1). Tuttavia, da altri dati emerge che i redditi di mercato sono cresciuti in modo significativamente più diseguale. In primo luogo, i redditi più elevati non hanno goduto di buona fama negli ultimi anni.1 Ancora una volta, per un ampio numero di paesi, troviamo una crescita del 21% nella fascia corrispondente al 10% più ricco della popolazione a partire dal 1980, con più della metà di questa concentrata negli anni ‘90 (Appendice Tabella 1). I redditi dell’1% più ricco della popolazione cavalcano questa crescita con un aumento del 37% e una concentrazione ancora più forte negli anni ‘90. In secondo luogo, i redditi da lavoro sono la tipologia più importante di reddito di mercato, ma, contrariamente ai redditi top, non riguardano tutta la popolazione ma solo quella parte che ha un lavoro retribuito. Per una corretta comparazione delle disuguaglianze nei redditi familiari, ci concentriamo sui guadagni annuali ricevuti dalle famiglie. Una ricerca comparativa interessante (RED, 2010) mostra Questo riguarda i redditi lordi dopo i trasferimenti ma prima della tassazione e la loro quota nel reddito complessivo è una misura differente dal coefficiente di Gini. Dato che le famiglie ad alto reddito plausibilmente ricevono una parte minore dei trasferimenti, queste hanno una quota nel reddito lordo che verrà plausibilmente sottostimata nei redditi di mercato. 1 una forte crescita tra i primi anni ‘80 e la metà degli anni 2000 per la varianza (una misura che presta più attenzione alla estremità inferiore del coefficiente di Gini) negli Usa, nel Regno Unito, in Svezia e in Germania (rispettivamente +57%, 49%, 71% e 105%). Di nuovo l’aumento si concentra significativamente negli anni ‘90. Tuttavia, non tutti i paesi seguono necessariamente lo stesso schema: la diseguaglianza dei guadagni delle famiglie danesi non è cambiata (+6 %).2 Anche se in linea di principio sembra sufficiente sapere che tanto la disuguaglianza dei redditi di mercato quanto quella dei redditi netti sono aumentate, per giustificare la conclusione che la redistribuzione dei redditi è diminuita, una ricerca diretta è in grado di sostenere questa affermazione e consente anche di distinguere i ruoli della tassazione e dei trasferimenti. I contributi di RED (2010) mostrano inoltre che per le famiglie con guadagni, le disuguaglianze tra i loro redditi disponibili hanno mostrato una tendenza all’aumento. Sharpe e Capeluck (2012) hanno scoperto che in Canada meno della metà dell’incremento delle disuguaglianze nei redditi di mercato a partire dal 1980 è stato determinato da trasferimenti e tasse. Blomgren et al. (2012, 15) indicano un forte calo negli effetti redistributivi in Finlandia a partire dalla metà degli anni ‘90, nonostante il fatto che il ruolo dei trasferimenti sia effettivamente cresciuto. Bjørnskov et al. (2012, 14 ) mostrano che in Danimarca all’aumento delle redistribuzione corrisponde solo un piccolo aumento della disuguaglianza di reddito netto, ma hanno riscontrato anche piccoli cambiamenti nelle disuguaglianze di reddito di mercato delle famiglie. Brewer e Wren-Lewis (2012, tabella 5) in Gran Bretagna indicano un aumento della disuguaglianza nei redditi di mercato del 74% (varianza – ho lasciato fuori le pensioni) e un incremento ancora più grande della disuguaglianza nei redditi netti (90%). Bjørnskov et al. (2012, 23). 2 In poche parole, anche se la ridistribuzione sta aumentando, di solito è insufficiente a compensare la crescente dispersione dei redditi di mercato. Cambiamenti fondamentali nella distribuzione dei redditi del mercato del lavoro E’ stato un lungo e ancora incompiuto addio al mondo del singolo capofamiglia (se mai esistito). Attualmente, le famiglie con doppio e triplo reddito sono la maggioranza (57%) tra tutte le famiglie che ricevono un reddito da lavoro retribuito (retribuzione lorda annuale ) in Europa, ed essi comprendono una quota del 75% di tutti i dipendenti. Importante, e non sorprendente: le famiglie con più percettori di stipendi si concentrano verso la parte superiore della distribuzione dei salari delle famiglie. Le famiglie monoreddito costituiscono l’88 % del decile inferiore delle famiglie con guadagni da lavoro e solo l’11% del decile superiore. E’ il contrario per le famiglie con più redditi (Salverda e Haas, 2014). Le poche famiglie monoreddito che si attestano verso l’alto sono anche nella parte superiore della distribuzione dei salari individuali; tuttavia, le molte famiglie con più percettori di reddito ci arrivano combinando i guadagni dai livelli inferiori nella stessa distribuzione. Ciò ha dato luogo a una situazione complessa con cui le istituzioni e le politiche di redistribuzione del reddito sono ancora alle prese. Panousi et al. (2013) sottolineano la natura permanente del cambiamento. La crescita dei percettori multipli è andata di pari passo con la transizione verso l’occupazione femminile e il lavoro a tempo parziale, anche se in alcuni paesi più di altri. Lavoro femminile e part-time che sono aumentati durante la crisi, rendendo la disoccupazione più attenuata del 41 previsto. Orario di lavoro più breve e un livello inferiore di paga (oraria) oggi vanno di pari passo molto più di prima: i lavori part-time si concentrano ai più bassi livelli di retribuzione e occupazioni, specialmente nel settore privato. Allo stesso tempo, la “nuova normalità” degli stipendi multipli ha sostenuto la crescita di posti di lavoro aggiuntivi negli anni ’90 e 2000 per quelle famiglie che già avevano una persona al lavoro, con la conseguenza, nella migliore delle ipotesi di una riduzione limitata della disoccupazione domestica, quando non di un aumento. In questo modo, il tasso d’occupazione (employment-to-population rate) individuale potrebbe salire mentre quello delle famiglie è ristagnato se non calato. Il Regno Unito fornisce il più lampante esempio di questa separazione. Nel 1980 i due tassi di occupazione erano circa pari al 72-74%, ma fino al 2005 il tasso d’occupazione individuale è aumentato di 5 punti percentuali, mentre quello delle famiglie è sceso di 7 punti percentuali, portando a un divario di 12 punti percentuali (Blundell e Etheridge 2010, in RED 2010). Si noti anche che per l’Ue nel suo complesso il tasso di occupazione delle famiglie è diminuito ulteriormente a causa dell’attuale crisi (-2 punti percentuali). La nuova situazione ha diverse importanti implicazioni. In primo luogo, questi sviluppi smussano l’uso del tasso di disoccupazione tradizionale come indicatore utile per il mercato del lavoro. E’ importante sottolineare anche che i percettori multipli di stipendio riguardano le coppie e le famiglie più grandi, mentre allo stesso tempo la quota di famiglie composte da una sola persona è aumentato rapidamente – quasi raddoppiando negli ultimi decenni. Quindi, anche se più percettori in una famiglia possono fornire qualche assicurazione contro le conseguenze della disoccupazione fintanto che il partner può continuare a lavorare, questo non aiuterà le famiglie composte da una persona. In secondo luogo, l’aumento delle disuguaglianze nei guadagni (annuali) individuali è diventato un importante contributo alla disuguaglianza crescente nei guadagni delle famiglie sopra indicate. Questo riflette le differenze nei livelli paga oraria3 e la loro congiunzione crescente con le ore di lavoro (part-time). In terzo luogo, per effetto della combinazione di due o più percettori di stipendio in una famiglia, i lavoratori con basso salario si potrebbero trovare adesso nelle famiglie della parte alta della distribuzione del reddito. Questo limita l’efficacia degli strumenti calibrati sui singoli individui per limitare le disuguaglianze salariali, non solo quelli tradizionali come il salario minimo, ma anche quelli più recenti come i crediti d’imposta per gli individui occupati o le esenzioni dai contributi per il datore di lavoro. E’ il caso anche di quelle misure mirate per chi ha famiglia a carico come il credito d’imposta sui redditi da lavoro. In quarto luogo, nonostante i loro redditi elevati, le famiglie della fascia alta potrebbero pagare meno tasse del previsto – almeno nei paesi che hanno una tassazione indipendente dei redditi individuali - e aggiungere altra disuguaglianza nei redditi netti. Ad esempio, in Olanda, le famiglie del decile più alto dei redditi pagano un’aliquota media effettiva che è poco meno del 20% del reddito lordo, ma questo tasso diverge significativamente tra le seconde fonti di reddito (12%), i primi percettori (22%) e i percettori singoli (27% - 28%). Il rovescio della medaglia è che può influire sulla solidarietà: perché un individuo dovrebbe accettare di pagare più tasse in quanto partner di un altro percettore e insieme avere un reddito familiare più alto rispetto a un altro individuo che guadagna lo stesso importo ma ha un partner senza stipendio è single? Il tasso P90:P10 ha avuto un’impennata del 30% in Usa, Canada, Danimarca, Olanda e Germania tra i primi anni ’80 e la metà degli anni 2000. 3 Contributi alle politiche e rimedi alle disuguaglianze di reddito Le politiche di redistribuzione comprendono da un lato trasferimenti basati sull’assistenza sociale e sull’assicurazione sociale, e dall’altro la tassazione. I pesi di queste due politiche così come i loro effetti differiscono significativamente tra paesi. Tuttavia, alcuni cambiamenti negli ultimi decenni sono stati ampiamente condivisi. La riscossione delle imposte sul reddito è stata ridotta in modo significativo. In particolare, i tassi marginali più alti delle imposte sul reddito personale sono diminuiti di un quarto, dal 56% nel 1981 al 41% nel 2005.4 La maggior parte del calo è concentrato tra il 1984 e il 1991. Ciò ha ridotto le entrate fiscali correnti e con esse il finanziamento alla redistribuzione. Ugualmente importante, ha avuto anche un crescente effetto comportamentale di lungo termine, stimolando le paghe elevate nelle imprese e la crescita dei redditi più elevati (Piketty, Saez e Stantcheva, 2011). Inoltre, si sono favoriti i risparmi e la formazione della ricchezza di lungo termine. L’introduzione di tasse più basse sui redditi da capitale in sistemi a due livelli ha ulteriormente incoraggiato questa situazione. Per la Finlandia la crescita dei redditi più elevati è attribuito all’aumento dei redditi da capitale e alla riduzione della loro tassazione introdotta nel 1993; malgrado un aumento, la redistribuzione ha potuto compensare l’aumento concomitante della disuguaglianza (Blomgren, 2012). Questo si collega alla crescente importanza dell’eredità ai tempi di una bassa crescita (Piketty, 2014).6 Tuttavia, l’imposta sul reddito è solo una parte della storia delle imposte dirette. Molti paesi impongono contributi non progressivi sulla sicurezza sociale e la progressività complessiva differisce poco tra paesi, inclusi quelli con tasse elevate (OCSE, 2012). Aggiungendo a ciò la tassazione indiretta, l’imposta sul valore aggiunto (IVA) aggiunge ancora un altro fattore importante con un effetto regressivo sulla disparità di reddito (Figari e Paulus, 2012). Famiglie a basso reddito consumano una grande parte dei loro redditi, se non di più, e con ciò contribuiscono con importi relativamente più elevati di IVA. Preoccupa il fatto che i paesi dell’Ue abbiano aumentato l’IVA in maniera significativa per rispondere alla crisi.7 Al fianco della tassazione, i trasferimenti sono la principale arteria di redistribuzione. Come detto, la sua importanza varia da un paese all’altro. Sharpe e Capeluck (2013) attribuiscono il 70% dell’effetto redistributivo ai trasferimenti e solo il 30% alla tassazione. Brewer e Wren-Lewis (2012) mostrano come la crescente disuguaglianza dei redditi di mercato (74%) è andata di pari passo con una maggiore mitigazione della tassazione (+77%), che però è rimasta insufficiente mentre l’effetto mitigante dei trasferimenti si andava decisamente affievolendo (+11%). Da un’indagine approfondita sugli effetti della redistribuzione a fronte della crescente disuguaglianza, Marx e Van Rie (2014) concludono che la redistribuzione ridotta è stata spesso il motivo principale per cui la disuguaglianza è aumentata dopo la metà degli anni ‘90. Accanto a imposte e trasferimenti, che definiscono il reddito disponibile, l’accesso delle famiglie ai servizi sociali (assistenza sanitaria, istruzione, sostegno alla famiglia e trasferimenti agli anziani) determina il vero valore del loro reddito netto, che differisce notevolmente nel confronto internazionale. Qui Marx e Verbist (2014) concludono che “i paesi con le performance migliori tra quelli ricchi in termini di risultati economici, occupazione, coesione sociale e uguaglianza hanno una cosa in comune: un grande stato sociale che fa diverse cose allo stesso tempo, investendo nelle persone, stimolandoli e sostenendoli nell’essere attivi, e anche proteggendo adeguatamente loro e ai loro figli la protezione quando tutto il resto fallisce”. Continuamente disponibile per 15 dei circa 30 paesi nel database degli Indicatori fiscali mondiali, si veda Sabirianova Peter et al. (2010). 4 Domeij et al (2010, 193; in RED 2010) riscontrano un tasso di risparmio cresciuto per gli altri redditi in Svezia dopo il 1990. Si veda anche l’Economist del 4 gennaio 2014 e il Financial Times del 7 gennaio 2014. 7 Bargain et al. (2013) giungono a una conclusione favorevole sugli effetti redistributivi durante la crisi finanziaria ma non include la tassazione indiretta. 5 6 43 Discussione Le politiche redistributive hanno continuato a ridurre le disuguaglianze, ma anche quando la loro dimensione è cresciuta, l’effetto è diminuito a fronte della crescente disuguaglianza dei redditi di mercato, in particolare dei reddito familiari da lavoro. Si mette all’ordine del giorno la necessità di affrontare direttamente l’ineguaglianza dei redditi di mercato, ad esempio, introducendo o aumentando i salari minimi e riducendo la ricerca di rendite indebite che sembrano aver superato i massimi livelli di retribuzione. Anche se il salario minimo aiuta certamente a migliorare il salario di sussistenza delle famiglie, il suo effetto sulla distribuzione del reddito è diventato più flebile. I suoi ruoli principali sono, in primo luogo e come sempre, l’evitare un’eccessiva concorrenza al ribasso dei salari che influisce negativamente sulla crescita della produttività e degli investimenti di capitale umano, e, dall’altro, la limitazione delle finanze necessarie per la ridistribuzione a famiglie a basso reddito. Il governo britannico lo ha capito recentemente.8 L’analisi e l’interesse di policy-making sono per lo più rivolti ai redditi bassi e alla povertà, ma molto poco è disponibile su alti redditi e retribuzioni. Recentemente, l’OCSE ha introdotto una (ancora molto incompleta) statistica sugli alti stipendi accanto alla incidenza delle basse retribuzioni, ma anche una volta completata offrirà solo l’inizio dello studio comparativo sistematico dei contributi della fascia superiore alla disuguaglianza i suoi sottostanti fattori. Il World Top Income Database è stato estremamente efficace nel contribuire a concentrarsi su tali redditi, ma il suo mantenimento dipende fondamentalmente da contributi volontari. Sono necessari un ampliamento e un approfondimento del database e l’incorporamento dell’analisi sistematica dei suoi indicatori. Inoltre, gli stessi effetti delle imposte e dei trasferimenti sui redditi di mercato, relativamente alla crescita delle disuguaglianze, devono essere esaminati: gli effetti comportamentali di lungo periodo di riduzione delle imposte sui redditi alti, i redditi di capitale, e l’ereditarietà. Un coordinamento internazionale è altamente consigliabile per porre fine agli attuali cambiamenti repentini del tasso d’imposta che, andando in una direzione di diminuzione, possono finire solo in un disastro. Lo stesso vale per gli effetti della tassazione a base individuale sugli esiti delle famiglie. Non vi è alcun motivo per riorientare verso la famiglia e la tassazione congiunta; al contrario, i crediti d’imposta generali devono essere controllati per i loro effetti sulla famiglia e sostituiti da crediti mirati laddove desiderabili. Al di là dell’effetto immediato sulla distribuzione delle retribuzioni e dei redditi, il focus di lungo periodo dovrebbe essere posto sulla distribuzione famigliare del lavoro, tra cui esplicitamente la dimensione delle ore lavorative. Così l’efficacia e l’efficienza dell’apparato redistributivo possono essere notevolmente migliorate allo stesso tempo. Ugualmente, la visione di lungo periodo dei benefici e dei trasferimenti sociali comporta forti effetti di durata, disuguaglianza intergenerazionale dei tagli motivati nel breve periodo. In un mondo caratterizzato da una riduzione quantitativa, potranno dunque la tassazione e i trasferimenti essere modificati in quanto unica politica attiva, volta a superare la crisi, ma che ha avuto però di fatto uno scarso effetto a parte quello di elevare i valori finanziari detenuti dalle famiglie a reddito alto? Non sarà facile, e la svolta sarà tanto politica quanto economica. Sappiamo tutti che i quartieri poveri possono essere facilmente trasformati, quindi perché questo non dovrebbe accadere per interi paesi? Per le diseguaglianze di un paese, l’esempio latinoamericano indica che si può fare (Bird e Zolt, 2013). Catturare alti redditi e le più grandi ricchezze non può essere troppo difficile con l’aiuto delle quotidiane e dettagliate statistiche di Bloomberg sui “paperoni”. ■ Un aumento strutturale del suo livello, preferibilmente con un impegno Ue a un livello relativo fissato al 60% del salario medio orario, è da preferire alla continua ingerenza politica sulla regolazione del salario minimo. 8 Riferimenti Bargain, Olivier, Tim Callan, Karina Doorley, and Claire Keane. 2013. Changes in Income Distributions and the Role of Tax-Benefit Policy during the Great Recession: An International Perspective. IZA Discussion Paper No 7337. http://ftp.iza.org/dp7737.pdf Bird, Richard, and Eric Zolt. 2013. Taxation and Inequality in the Americas: Changing the Fiscal Contract? International Center for Public Policy Working Paper 13-15, Georgia State University. http://aysps.gsu. edu/isp/images/ispwp1315.pdf Bjørnskov, Christian, Ioana Neamtu and Niels Westergård-Nielsen. 2012. 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Ottawa. www.csls.ca/reports/csls2012-08.pdf. 45 Appendix Tavola 1: Cambiamenti nelle disuguaglianze di reddito: Trend nelle medie dei paesi, 1980-2010 Gini coefficient of household net equivalised incomes Total 30 countries of which with an increasing Gini coefficient Rise (points) Countries Rise (%) Top-income shares in gross incomes Top-10% Top-1% Countries with rising shares Countries Rise (pcpt) Countries with rising shares Rise (%) Countries Rise (pcpt) Rise (%) Changes 1980-1990 18 8 0.028 12% 13 3.0 12% 12 1.6 18% 1990-2000 22 22 0.044 19% 15 3.4 12% 16 2.1 28% 2000-2010 30 19 0.022 8% 10 1.8 5% 9 0.6 8% 1980-2010 18 17 0.065 28% 16 5.8 23% 16 2.6 37% 6 0.070 30% 7 9.3 37% 6 3.9 62% All 17 (pcpt) Rising 7 (pcpt) All 16 (pcpt) Rising 6 (pcpt) Consistent rise Levels (countries) All 30 (Gini) Rising 6 (Gini) Start level 0.241 0.256 27.8 28.0 6.4 6.6 End level 0.304 0.327 33.3 37.2 8.9 10.5 In parecchi casi quando i dati mancano per determinati anni, ci si rifà al più vicino periodo comparabile. Fonte: database GINI e WTID: http://gini-research.org/articles/data_2 and http://topincomes.g-mond.parisschoolofeconomics.eu/ Box 1: Perché la redistribuzione potrebbe essere (progressivamente) minore di quanto pensiamo Gli effetti di redistribuzione sono oggi comunemente determinati attraverso il confronto tra i redditi di mercato e i redditi disponibili, entrambi sulla base di un’equivalizzazione per la composizione del nucleo familiare. In linea di principio, l’equivalizzazione è una buona cosa da fare per determinare quale valore abbia un certo reddito per una famiglia, a seconda del numero di adulti e bambini. Tuttavia, equivalizzare i redditi di mercato rende difficile riconoscere la loro disuguaglianza ‘nel campo’ (ad esempio, i migliori redditi non sono equivalizzati) e può anche portare a una stima sbagliata della misura della redistribuzione attraverso imposte e trasferimenti. L’equivalizzazione esercita un forte effetto equalizzante dato che le famiglie più grandi si concentrano sui redditi di mercato più alti, mentre le famiglie composte da una persona si trovano all’estremità inferiore. Il forte aumento dei single negli ultimi decenni rafforzeranno l’effetto. L’equivalizzazione è responsabile per il 38% del gap tra le disuguagliazne nei redditi di mercato non equivalizzati e le disuguaglianze nette equivalizzate nel caso canadese. L’assunto sembra essere che l’equivalizzazione ha lo stesso effetto sia sui redditi di mercato che sui redditi disponibili. Tuttavia, una serie completa di dati canadesi può illustrare che questo non è il caso. La figura seguente confronta la dimensione degli effetti redistributivi quando si equivalizza o meno. La differenza relativa tra i due mostra la dimensione della sovrastima della ridistribuzione dovuta all’equivalizzazione. L’effetto cresce dal 14% a metà degli anni ‘90 al 22% alla fine degli anni 2000. La redistribuzione canadese, dal reddito di mercato al reddito disponibile: l’effetto dell’equivalizzazione delle famiglie, 1976-2011 25% 20% 15% 10% Overestimation 5% 0% -5% 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 -10% Non-equivalised -15% -20% -25% -30% -35% Calcolato da http://www5.statcan.gc.ca/cansim/a03. Equivalised 47 Analogamente, Brzozowski et al. (2010, figura 7; vedere RED 2010) mostra un effetto di equivalizzazione per i guadagni delle famiglie che crescono dal 7% a metà degli anni ‘90 all’11% a metà degli anni 2000. Salverda et al. (2013, figura 2.12) mostra come le disuguaglianze nel reddito netto per le famiglie di lavoratori olandesi dopo il 1990 sono rimaste piatte dopo l’equivalizzazione mentre prima dell’equivalizzazione sono cresciute di circa un quarto. Il risultato è che viene trascurato un punto importante: il contributo della formazione delle famiglie all’evoluzione della disuguaglianza. È importante indagare effettivamente questo effetto. Le persone possono cambiare questo comportamento, o essere costrette a cambiare a causa della crescente disuguaglianza - come molti hanno dimostrato vendendo la propria casa dopo la debacle dei mutui americani. Per questo motivo non uso qui il database dell’Ocse sulle disuguaglianze di reddito e le povertà in merito ai redditi di mercato. ■ 49 La Disuguaglianza Riduce le Opportunità Jo Blanden, Senior Lecturer in Economia alla University of Surrey e Ricercatrice associata al Centre for Economic Performance, London School of Economics. La disuguaglianza nei risultati è considerevole in molti stati membri dell’Ue. Questo incide sul benessere degli individui in un dato periodo. Tuttavia, l’evidenza suggerisce che ciò tocca anche la prossima generazione dato che i bambini sono profondamente influenzati dalla situazione dei genitori. Infatti, l’evidenza suggerisce che più disuguaglianza implica un impatto più forte della situazione svantaggiata dei genitori sui risultati dei bambini. “La disuguaglianza nei redditi più alti sarebbe meno di una preoccupazione se coloro che hanno un basso reddito cominciassero a percepirne uno alto a un certo punto della loro carriera, o se i bambini con genitori a basso reddito avessero una buona chance di salire la scala dei redditi una volta cresciuti. In altre parole, se noi avessimo un alto livello di mobilità, saremmo ogni anno meno preoccupati dal livello di disuguaglianza.” (Krueger, 2012) In parole povere, credere nell’uguaglianza di opportunità implica che i risultati delle persone non dovrebbero dipendere da dove queste sono partite. Tuttavia, ci sono molte ragioni per cui i risultati delle persone nella vita - istruzione, occupazione e reddito - potrebbero essere legati alla condizione materiale dei loro genitori. A seconda della causa di queste connessioni è probabile che via una maggiore o minore sensazione che “qualcosa deve essere fatto”. Molti sarebbero d’accordo sul fatto che dovrebbe essere affrontato il tema dell’accesso alle opportunità di lavoro derivanti dall’uso di collegamenti genitoriali, considerato che le differenze che provengono da trasmissioni genetiche richiederebbero drastiche azioni, e che ribaltarli potrebbe portare a inefficienza se quelli con un buon potenziale si vedono negato l’accesso ai migliori posti di lavoro. Gli economisti stimano comunemente un unico numero – l’elasticità intergenerazionale – per riassumere la portata della mobilità intergenerazionale. Questo fornisce informazioni sull’ammontare medio di ogni differenza di reddito tra genitori che è stata trasmessa ai figli. Per esempio, prendiamo due famiglie confinanti con figli della stessa età; una con un reddito due volte più alto dell’altro. Se hanno una mobilità media e l’elasticità intergenerazionale è dello 0,40, allora il figlio della famiglia più ricca guadagnerà circa il 40% in più rispetto al figlio della famiglia povera. Per le ragioni sopraindicate, non ci si aspetterebbe alcuna associazione nei redditi tra le generazioni; l’elasticità intergenerazionale non sarà zero. La nostra comprensione di ciò che è numericamente auspicabile per questa associazione può essere facilitata dal confronto dei livelli di mobilità intergenerazionale tra paesi. Con tali paragoni in mano, è possibile valutare la mobilità come “relativamente debole” e “relativamente forte“, e dopo cominciare a considerare possibili spiegazioni per le differenze di mobilità intergenerazionale. Dati che misurano i redditi in due generazioni non sono comuni, e spesso differiscono tra i paesi in modi sottili, tanto da poter avere un impatto sulle nostre conclusioni sulla mobilità alta o bassa di una nazione.[1] Tuttavia, diversi studi dimostrano che l’associazione dei redditi tra genitori e bambini è debole nelle nazioni nordiche. Inoltre, la nozione di “Sogno americano”, ossia di una elevata mobilità, è contraddetta da una mole impressionante di prove che dimostrano che, di fatto, le opportunità di vita di bambini poveri e di quelli ricchi sono fortemente diseguali negli Stati Uniti.[2] [3] [4] E’ evidente che la caratteristica che definisce i paesi nordici rispetto agli Stati Uniti sta nella distribuzione del reddito. Ad esempio, a metà degli anni ’80 l’indice del coefficiente Figura 1 Disuguaglianza di reddito e Associazione dei redditi nelle generazioni Preferred income beta .5 Fitted values USA .4 GBrit Italy France .3 Norway Sweden .2 Germany Canada Australia Finland Denmark .1 .2 .25 .3 .35 Gini coef f icient 1995 Fone: Figure da Blanden (2013), grafico leggermente rivisto. .4 .45 51 Gini nelle nazioni nordiche è stato intorno allo 0,2 rispetto allo 0,35 negli Stati Uniti.[5] Vi è ora un numero crescente di prove [6, 4] che completano il quadro e che rivelano come le nazioni con un alto grado di disparità di reddito all’interno di una generazione possono che anche avere disuguaglianze più persistenti tra le generazioni. La Figura 1 mostra la mia versione di ciò che è stato indicato come la Curva del Grande Gatsby,[7] basata su un piccolo campione di ricchi paesi anglofoni ed europei. Questo mostra chiaramente un abbastanza forte rapporto tra il coefficiente di Gini per il reddito e la misura stimata di mobilità. Parte della spiegazione di questa associazione può essere trovata nelle case e a scuola, mentre parte della connessione è dettata dal mercato del lavoro. I genitori più ricchi sono in grado di effettuare investimenti supplementari nello sviluppo dei loro bambini. Alcuni di questi non sono direttamente correlati alla ricchezza finanziaria: per esempio, aiutare i bambini nel fare i compiti a casa è più facile per i genitori più ricchi, dato che sono più istruiti. Tuttavia, altri avranno un costo materiale e sono quindi probabilmente più importanti nei paesi in cui i ricchi sono più ricchi. Se i ricchi sono due volte più abbienti di coloro che stanno a metà della scala sociale (Usa), anziché una volta e mezza (Scandinavia)[5] possono spendere questa maggiore ricchezza relativa in scuole private, lezioni private e sostegno all’Università: aggiungendosi così a una maggiore serie di vantaggi per la prossima generazione. Alcune delle relazioni tra opportunità e disuguaglianza avvengono perché entrambe sono determinate da quanto le abilità vengono premiate. Le differenze negli investimenti rischiano di portare a differenze nei risultati scolastici e nelle competenze per i bambini provenienti da ambienti diversi. La misura in cui tali competenze e tali risultati contribuiscono alla disuguaglianza intergenerazionale dipenderà dalla misura in cui questi sono premiati nel mercato del lavoro. Tali ricompense sono anche un fattore importante della misura della disuguaglianza. Una visione alternativa è che il rapporto si sposta dalla mobilità alla disuguaglianza, mentre una carenza di pari opportunità porta a un numero ristretto di persone con preziose competenze nel mercato del lavoro; ciò aumenta quello che gli economisti chiamano “returns to skills”, ossia il peso delle competenze nel determinare il livello dei salari, e dunque conduce a una maggiore disuguaglianza. E’ difficile chiarire completamente il peso che dovrebbe essere dato a queste spiegazioni. [8] Sembra probabile che sia l’istruzione che il mercato del lavoro giochino un ruolo. I gap emergono presto nel sistema formativo e sembrano incrementarsi uno sull’altro.[9] Ma c’è anche l’evidenza di un forte rapporto tra paesi e nel tempo tra i rendimenti dell’istruzione superiore e l’elasticità del reddito intergenerazionale.[8][10] Se le nazioni intendono davvero migliorare le pari opportunità allora occorre focalizzarsi sul colmare i gap in materia di istruzione attraverso la limitazione delle disuguaglianze nei risultati. Così come si guarda alla quantità media di mobilità in una società, gli economisti considerano anche la quantità di mobilità tra le diverse classi di reddito. Ad esempio, ci sono più probabilità che un povero migliori la sua posizione rispetto a un ricco che peggiori la sua? Il confronto tra le nazioni nordiche da un lato e Stati Uniti e Regno Unito dall’altro La disuguaglianza nei risultati è considerevole in molti stati membri dell’Ue. Questo incide sul benessere degli individui in un dato periodo. Tuttavia, l’evidenza suggerisce che ciò tocca anche la prossima generazione dato che i bambini sono profondamente influenzati dalla situazione dei genitori. Infatti, l’evidenza suggerisce che più disuguaglianza implica un impatto più forte della situazione svantaggiata dei genitori sui risultati dei bambini. indica che in tutti questi paesi i più ricchi riescono a trasferire i loro privilegi alla prossima generazione: ciò che è diverso è che nei paesi più diseguali essere un po’ sopra o un po’ sotto la media riveste un’importanza maggiore.[11] Questo potrebbe suggerire che lo stato sociale e il sistema scolastico riescono meglio a colmare i gap in queste società, forse perché i gap sono minori. Miles Corak ritiene che il confronto tra nazioni più piccole e omogenee come quelle nordiche e gli Usa potrebbe non essere il modo migliore per individuare le giuste politiche. Piuttosto, Corak guarda a ciò che può insegnare il caso canadese, paese che ha una maggiore mobilità rispetto al suo vicino meridionale.[8] I suoi suggerimenti vanno più verso il congedo parentale, un più ampio accesso alle cure sanitarie e maggiori compensazioni per le risorse didattiche. Evidenze empiriche di altri lavori che mostrano una minore mobilità verso il basso in Canada rispetto agli Stati Uniti, potrebbero anche indicare che il più alto reddito relativo tra i ricchi negli Stati Uniti è utilizzato per fornire un ammortizzare per quei bambini che non potrebbero averlo in altro modo.[12] Quindi quali sono le implicazioni di questo studio per l’Europa? Una nuova analisi basata su dati comparabili[13] indica che sembra esserci un rapporto tra pari opportunità e disuguaglianza all’interno dell’Europa (1), suggerendo che la disuguaglianza limita le opportunità anche tra quei paesi più omogenei. È interessante notare che la ricerca sugli atteggiamenti verso la disuguaglianza[14] negli anni ‘80 e ‘90 mostra una marcata differenza nella percezione della disuguaglianza tra gli Stati Uniti e l’Europa soprattutto tra i gruppi più poveri, con i cittadini statunitensi meno interessati dalla disuguaglianza. Una spiegazione di ciò è che in gli Stati Uniti, a fronte dell’evidenza, i poveri hanno una grande fiducia nel Sogno Americano e pertanto nella prospettiva di una mobilità. I cittadini Ue sembrano essere più realistici nelle loro aspettative. L’ importanza di affrontare la disuguaglianza di reddito come leva politica per incoraggiare la mobilità potrebbe quindi essere un messaggio politico che gli europei sono predisposti ad ascoltare. ■ An exception to this is the formerly communist Eastern European nations where there appears to be no evidence of such a relationship. 1 53 Figura 2 Disuguaglianza di reddito e Associazione tra Educazione dei genitori e Reddito futuro dei bambini 60 Association between parental education and later earnings Luxembourg Fitted values 50 Greece Spain Ireland 40 Italy United Kingdom France 30 Sweden Denmark 20 Finland Belgium Germany Netherlands Austria 10 .2 .25 .3 LIS Gini mid-2000s Fonte: Stime di Jerim (2014) combinate con I coefficienti Gini ottenuti dal LIS dall’autore. .35 Riferimenti [1] Jäntti, M. and S. Jenkins. 2013. ‘Income Mobility.’ IZA Discussion Papers 7730. Accessed 29/11/2013 from http://ftp.iza.org/dp7730.pdf. [2] Björklund, A. and M. 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Sostenere la prosperità, il benessere e l’ordine sociale nel corso del 21esimo secolo richiederà inevitabilmente politiche aggressive che rafforzino il tessuto sociale e allo stesso tempo promuovano una maggiore uguaglianza economica. L’aumento della disuguaglianza tra ricchi e poveri e la prova inconfutabile sulle sue conseguenze sociali negative dipingono un quadro fosco del futuro. I salari reali della metà inferiore della forza lavoro sono diminuiti costantemente dal 1970 mentre i redditi dell’1% più ricco della popolazione sono quadruplicati. La disuguaglianza di reddito è aumentata nella maggior parte dei paesi nel corso degli ultimi tre decenni. La ricchezza è ora più che mai concentrata nelle mani dei ricchi. La disuguaglianza di reddito è il focus di ricerca sui determinanti sociali della salute e della violenza. Le conseguenze della disuguaglianza sono estreme. Come altri articoli a questo riguardo hanno descritto, la disuguaglianza accorcia l’aspettativa di vita, peggiora la salute, limita la mobilità sociale e contribuisce ai problemi sociali, tra cui l’uso di droga, la violenza e la criminalità.1, 2, 3, 4, 5 Diverse indipendenti e sistematiche valutazioni di questi fatti hanno concluso che la disuguaglianza contribuisce ai comportamenti criminali e antisociali tra cui omicidi, reati con armi da fuoco, aggressioni, episodi di razzismo, furti e aggressioni sessuali.6, 7, 8 Queste non sono piccole variazioni statistiche dei dati. La disuguaglianza di reddito spiega circa la metà della variazione dei tassi di omicidio tra gli stati americani e le province canadesi.9, 10, 11 Studi internazionali hanno trovato associazioni analoghe relativamente a omicidi e incarcerazioni.1, 4, 12, 13 Anche nei bambini e negli adolescenti, la disuguaglianza ha un impatto negativo sulla salute mentale e il benessere,14, 15 e ovviamente si riferisce alla vittimizzazione da bullismo scolastico,16, 17 al bullismo a scuola,18 all’alcolismo minorile,19 alle gravidanze in età adolescenziale,4 e all’abbandono scolastico.1 La disparità economica - non la povertà caratterizza i luoghi più pericolosi per vivere. Ricerca dei percorsi causali Che la disuguaglianza minacci la salute e il benessere è appurato. Il come è una questione più complicata. La ricerca in questo 57 settore sta ancora cercando di evidenziare i meccanismi causali che sono alla base di questi effetti, tuttavia sono stati individuati due percorsi complementari. Uno è un percorso materiale e semplice: la disuguaglianza inibisce gli investimenti (in percentuale del PIL) in infrastrutture pubbliche e dei servizi pubblici come la sanità e l’istruzione. L’ idea è che, come la disuguaglianza aumenta, il ricco trae meno vantaggi da una redistribuzione della ricchezza per il bene comune.20, 21 Il secondo percorso, più insidioso, riguarda gli effetti socialmente corrosivi sulla vita di comunità.1 La disuguaglianza lacera il tessuto sociale e divide comunità e intere società attraverso demarcazioni economiche. Le spaccature tra i ricchi e i poveri favoriscono le sensazioni di privazione, aumentano l’ansia di classe e i conflitti e riducono i livelli di fiducia e di efficacia nelle comunità. Sentirsi povero ha poco a che fare con la povertà in senso assoluto, come la mancanza di necessità di base nella vita. Il sentirsi relativamente “privati” porta a espliciti paragoni sociali tra quello che si ha e quello che non si ha. Come ha scritto l’endocrinologo Robert Sapolsky, “il modo più sicuro per sentirsi poveri è quello di essere continuamente informati di quello che gli abbienti hanno quando si è indigenti” (p. 98).22 Naturalmente, questi percorsi materiali e psicosociali si intrecciano e si rafforzano a vicenda. 23, 24 Le società più diseguali con bassi livelli di fiducia e di coesione sociale tendono ad essere più conservatrici nei loro valori e a favorire un ruolo limitato per il loro governo nella vita sociale.1 Uno studio condotto negli Stati Uniti ha rilevato che la spesa pubblica per sanità e istruzione è negativamente correlata sia alla disuguaglianza di reddito che alla mortalità degli adulti.21 Tuttavia, come possibile percorso “causale” esplicativo, le conseguenze psicosociali della disuguaglianza hanno un forte supporto empirico. 3, 7, 24, 25 Ad esempio, la relazione tra la disuguaglianza di reddito e la fiducia nei 33 paesi riportati nella figura sottostante mette in relazione i legami tra tassi di disuguaglianza e di omicidi, la mortalità degli adulti e l’aspettativa di vita.5, 13) La coesione sociale come strumento di politica Una volta spaccate dalla disuguaglianza, le comunità non riescono più a funzionare come vere e proprie comunità. Le opportunità di socializzazione diminuiscono24, il volontariato cala 23, la paura della criminalità aumenta26, si indebolisce il sostegno sociale25, la fiducia si abbassa e5 le scuole diventano più violente.17 I controlli sociali sulla violenza non funzionano più.3, 11 In poche parole, le società disuguali non hanno la capacità sociale per sostenere la salute e il benessere. Questa capacità (o “capitale sociale”) è, in sostanza, il valore delle reti sociali per le persone. Il capitale sociale può essere misurato in termini di partecipazione della comunità, di coesione sociale, di volontariato, di affiliazioni di gruppo, o di generale fiducia sociale.26, 27 E’ generata attraverso l’appartenenza a gruppi, siano essi scuole, luoghi di lavoro, colleghi, gruppi religiosi o gruppi ricreativi. Vivere e lavorare in coese reti cooperative, dove la reciprocità e la fiducia sono più la norma che l’eccezione, ha vantaggi significativi per la salute mentale e fisica.28, 29, 30 E, come il capitale economico, l’avere riserve di capitale sociale Una volta spaccate dalla disuguaglianza, le comunità non riescono più a funzionare come vere e proprie comunità. Le opportunità di socializzazione diminuiscono, il volontariato cala, la paura della criminalità aumenta, si indebolisce il sostegno sociale, la fiducia si abbassa e le scuole diventano più violente. I controlli sociali sulla violenza non funzionano più. In poche parole, le società diseguali non hanno la capacità sociale per sostenere la salute e il benessere. a portata di mano, è particolarmente utile in aree economicamente svantaggiate31 o durante i periodi di incertezza economica.32 Costruire il capitale sociale è una buona politica pubblica. Tali attività sociali condivise per la salute e il benessere sono alla base della controversa natura di disuguaglianza di reddito. La buona notizia è che le agenzie pubbliche, tra cui tutti i livelli di governo, possono aumentare il capitale sociale e lo sviluppo sociale fornendo i mezzi e le opportunità ai cittadini di interagire, collaborare ed essere coinvolti nelle loro comunità. E, dal momento che la coesione sociale giustifica alcune delle conseguenze dannose delle disuguaglianze, le politiche che sia aumentino la coesione sociale e sia riducano le disuguaglianze, potrebbero avere maggiori effetti sulla salute e il benessere di qualunque altra strategia. Nel 1835, lo storico francese e pensatore politico Alexis de Tocqueville scrisse che la vita comunitaria in America è alla base di tutte le libertà democratiche. “Gli americani di tutte le età, di tutte le fasi di vita e tutti i tipi di indole stanno sempre formando associazioni” (p. 24). 33 Quasi due secoli dopo, la ricerca mostra ciò che i primi studiosi avevano intuito, ossia che l’essenza di una fiorente repubblica democratica non sta nelle sue strutture giuridiche o nel commercio, ma nelle connessioni sociali che danno origine a queste istituzioni, in primo luogo. ■ Riferimenti 1. Wilkinson RG, Pickett KE. The spirit level: why more equal societies almost always do better. Penguin, London, 2009. 2. Butchart A, Engström K. Sex- and age- specific relations between economic development, economic inequality and homicide rates in people aged 0-24 years: a crosssectional analysis. Bull World Health Organ. 2002;80(10):797-805. 3. Kawachi I, Kennedy BP, Wilkinson RG. 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Income inequality and homicide rates in Canada and the United States. Can J Criminol.2001;43:219-236. 59 Figure 1 Correlazione tra fiducia e disuguaglianza di reddito 4 Denmark Switzerland Taiwan Netherlands Fiducia (unità SD) 2 Norway Finland Sweden Cz Rep Germany Canada UK Latvia USA Philippines Slovenia Australia Israel Japan S.Korea NZ Portugal France Ireland Croatia Spain Venezuela 0 Chile Russian Fed. Hungary -2 S.Africa Uruguay Poland Dominican Rep. -4 .2 .3 .4 .5 Disuguaglianza dei redditi (Index Gini) Correlazione tra disuguaglianze di reddito e fiducia nei 33 paesi (r=.51, dopo che le differenze nei redditi pro capite sono stati mantenuti costanti) SD= unità di deviazione standard. I cerchi illustrano il peso delle popolazioni per paesi. Fonte: A merican Journal of Public Health. La American Public Health Association non è responsabile della traduzione di questa figura. .6 11. Kennedy BP, Kawachi I, Prothrow-Stith D, Lochner K, Gupta V. 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New York: Vintage Books; 1945. 61 Disuguaglianze e crisi ambientale: è giunto il tempo di detronizzare il neoliberismo globale Roberto De Vogli, PhD, MPH, Professore associato di Fattori sociali determinanti della crisi globale al Department of Public Health Sciences, University of California Davis (UCD) Indirizzo: Roberto De Vogli, Department of Public Health Sciences, School of Medicine, University of California Davis, One Shields Ave. Med Sci. 1-C, Davis, CA 95616 (US) (email: [email protected]) Sommario: Gli ultimi tre decenni di globalizzazione neoliberale e di liberalizzazione del commercio e della finanza sono stati caratterizzati da un’accelerazione delle disuguaglianze economiche globali e dal degrado ambientale. Una grande quantità di evidenze empiriche indicano che la disuguaglianza economica rappresenta un importante ostacolo all’adozione di accordi internazionali per la lotta ai cambiamenti climatici. Un’eccessiva disuguaglianza erode le condizioni di una fiducia generalizzata e promuove opinioni molto diverse su quali soluzioni “eque” adottare contro la crisi climatica nella nazioni ricche e in quelle povere. Le distanze socio-economiche più ampie promuovono anche un aumento della competizione di status e delle aspirazioni materialistiche che, a loro volta, intensificano il consumismo e un più rapido esaurimento delle risorse naturali (uno degli ostacoli più grossi per raggiungere la sostenibilità). Rompere il circolo vizioso della crescente disuguaglianza e del deterioramento ecologico globale richiede politiche urgenti per ridurre le emissioni di gas serra tanto nei paesi sviluppati quanto in quelli in via di sviluppo. I cambiamenti politici verso un mondo più sostenibile ed equo includono un accordo globale sui cambiamenti climatici sulla base dell’“uguale diritto di inquinare”, tasse globali sulle emissioni di carbonio e una serie di misure di redistribuzione economica tra e all’interno dei paesi. Ancora più importante, questo richiede un nuovo modello di sviluppo al posto dell’attuale modello del neoliberismo globale. 63 La straordinaria estensione delle disuguaglianze Secondo l’Università delle Nazioni Unite (UNU) e l’Istituto mondiale per la Ricerca sullo sviluppo economico (WIDER), nel 2008 il 2% più ricco tra tutta la popolazione adulta possedeva metà della ricchezza globale delle famiglie, mentre la metà più povere del mondo ne possedeva appena l’1%. Nello stesso anno, il coefficiente di Gini per le disuguaglianze nella ricchezza a livello mondiale, un indice che va da 0 (valore minimo) a 1 (valore massimo), è stato stimato a 0,89. Questo è il valore che si avrebbe in una popolazione di dieci persone nel caso in cui una persona ha avuto 1.000 dollari e le altre nove solo 1. La Figura 1 presenta i dati per 180 nazioni ordinate secondo il reddito nazionale lordo (RNL) pro capite (a parità di potere d’acquisto del dollaro internazionale corrente) dagli Indicatori sullo sviluppo globale della Banca mondiale del 2012. Anche se alcuni autori hanno sostenuto che la globalizzazione economica ha ridotto le disuguaglianze economiche tra paesi e creato una “parità di condizioni”, la forma che rappresenta l’attuale distribuzione della ricchezza assomiglia ancora a una piramide. Gli ultimi decenni di deregolamentazione del commercio e della finanza sono stati caratterizzati da un’accelerazione delle disuguaglianze economiche globali. La Figura 2 mostra un andamento temporale nella diseguaglianza della ricchezza globale misurata come differenza media nell’RNL pro capite (metodo Atlas, dollaro internazionale corrente) tra 88 nazioni dal 1960 al 2010. Figura 1 La Piramide delle Disuguaglianze nella Ricchezza Mondiale tra 180 Nazioni classificate per Reddito Nazionale Lordo (RNL) pro capite PPP (dollaro corrente internazionale), 2009 1 Classifica dei paesi per RNL pro capite PPP (dollaro corrente internazionale), 2009 20 40 60 80 Luxembourg ($55,940) Ireland ($33,170) Estonia ($19,420) Botswana ($13,060) Bosnia and Herzegovina ($8,840) 100 Jordan ($5,790) 120 Mongolia ($3,660) 140 Tajikistan ($2,070) 160 Nepal ($1,170) 180 Congo DR ($310) Fonte: W orld Bank’s World Development Indicators database (2012). [Ristamoa di De Vogli R. Progress or Collapse: the Crises of Market Greed. New York and London: Routledge (Taylor & Francis), 2013.] Le disuguaglianze erodono le condizioni di una generalizzata fiducia e creano un diffuso disaccordo su quali soluzioni alla crisi climatica siano più “eque” e “bilanciate”. In linea con le precedenti evidenza, la figura mostra che dopo un periodo stabile negli anni ‘60, la disuguaglianza nella ricchezza globale è aumentata rapidamente tra il 1970 e il 2010, ossia durante l’era della globalizzazione “neoliberista”. Uno dei meccanismi per spiegare il rapido aumento della disuguaglianza economica globale riguarda l’aumento delle multinazionali (per lo più con sede in nazioni sviluppate) che hanno accumulato una quantità enorme di ricchezza negli ultimi decenni. Un recente studio ha rivelato che 1.318 multinazionali posseggono complessivamente, attraverso le loro azioni, le società ad alta capitalizzazione azionaria e le aziende manifatturiere più grandi del mondo, che rappresentano circa il 60% del fatturato globale. Lo stesso studio dimostra anche che una “super entità” di 147 aziende, meno dell’1% del totale, controlla circa il 40% dell’intera ricchezza di questo network. Se si considerano gli attori finanziari globali come gli hedge fund, i fondi pensionistici privati, le società di assicurazioni e le banche di Principali differenze nell’RNL pro capite, metodo Atlas (dollaro corrente) Figura 2 Il trend della Disuguaglianza della Ricchezza Globale (Principali Differenze nell’RNL pro capite, metodo Atlas – dollaro corrente internazionale) tra 88 Nazioni, 1960-2010 20000 15000 10000 5000 0 1960 1970 1980 1990 2000 Tempo (anno) Fonte: World Bank’s World Development Indicators database (2012). [Ristamoa di De Vogli R. Progress or Collapse: the Crises of Market Greed. New York and London: Routledge (Taylor & Francis), 2013.] 2010 65 investimento, la concentrazione della ricchezza raggiunge livelli ancora più grotteschi. Nel 2010, 6 banche (Bank of America, JP Morgan Chase, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley) controllavano circa il 60% del prodotto interno lordo statunitense (PIL). L’impatto delle disuguaglianze sull’ambiente globale Gli ultimo decenni di aumento della disuguaglianza sono stati caratterizzati da un’accelerazione del degrado ecologico e del consumismo materiale che hanno condotto a una serie di crisi ambientali globali multiple e convergenti. I rapidi cambiamenti climatici e lo sfruttamento insostenibile delle risorse naturali come petrolio, acqua, pesci e cibo indicano che l’umanità si sta schiantando contro i limiti dell’ecosistema. In particolare, i cambiamenti climatici sono sempre più considerati come le maggiori minacce alla salute degli uomini e alla sicurezza del nostro futuro. La prova del progressivo riscaldamento del sistema climatico dovuto a un aumento delle concentrazioni globali di anidride carbonica, metano e protossido di azoto risultanti dalle attività umane è inequivocabile. Lo scioglimento diffuso di neve e ghiaccio, che ha fatto aumentare il livello medio del mare a livello globale, le inondazioni catastrofiche e le ondate di caldo sono segni di un progressivo deterioramento ecologico le cui conseguenze potrebbero includere il collasso della civiltà moderna. Gli ambientalisti propongono che l’obiettivo che l’umanità dovrebbe essere quello di fermare la crescita delle temperature medie globali al di sopra dei 2 gradi rispetto al livello pre-industriale. Il tetto di due gradi è considerato il “punto di non ritorno”, la soglia critica alla quale dovrebbero verificarsi alcuni feedback positivi non-lineari dell’ecosistema, producendo cambiamenti irreversibili in termini di stabilità del clima. La risoluzione della crisi ambientale globale richiede una rapida decarbonizzazione dell’economia unita a cambiamenti profondi politici, economici e comportamentali raggiungibili attraverso un’azione internazionale coordinata. Tuttavia, un gran numero di prove indica che l’eccessiva disuguaglianza globale crea maggiori ostacoli all’adozione di accordi internazionali ambientali e mina l’efficacia di una cooperazione internazionale per la lotta alla crisi ecologica globale. Queste disuguaglianze erodono le condizioni di una generalizzata fiducia e creano un diffuso disaccordo su quali soluzioni alla crisi climatica siano più “eque” e “bilanciate”: mentre le nazioni povere temono limiti ai loro sforzi per crescere economicamente e rispondere alle istanze del proprio popolo, alcuni paesi ricchi e potenti si rifiutano di tagliare i loro eccessi senza che i paesi in via di sviluppo facciano lo stesso. Si tratta di un classico esempio di “tragedia dei beni comuni“, in cui tutti perdono a meno che i giocatori inizino a collaborare e ad andare al di là dei propri ristretti interessi a breve termine. Infatti, se noi non prendiamo misure efficaci per affrontare la crisi climatica e ridurre la disuguaglianza internazionale, il collasso ecologico dovuto ai cambiamenti climatici e al rapido esaurimento delle risorse naturali sarà molto più difficile da evitare. C’è un altro meccanismo per il quale le disuguaglianze economiche globali e nazionali incidono sull’ambiente globale e sulla risoluzione delle crisi ecologiche imminenti. I ricercatori hanno trovato che le società più diseguali sono più divisibili socialmente, più gerarchiche e materialistiche rispetto a quelle più egualitarie. Ampie distanze materiali promuovono un aumento nella competizione di status e nelle aspirazioni materialistiche delle persone che lavorano più ore, spendendo la maggior parte del loro reddito in beni di lusso e risparmiando di meno. Poiché le disuguaglianze eccessive promuovono la competizione di status e aspirazioni materialistiche, queste intensificano anche il consumismo e un più rapido esaurimento delle risorse naturali - uno dei più grossi ostacoli al raggiungimento della sostenibilità. L’evidenza dimostra anche che le società più eque hanno “impronte ecologiche” più piccole, riciclano di più, la loro popolazione prende meno voli, consumano meno acqua e meno carne e producono meno rifiuti. Infine, come mostrato in Figura 3, i dati transnazionali indicano che gli imprenditori di paesi più equi sono più propensi (rispetto a quelli di paesi meno equi) ad accettare che i loro governi possano Alto Figura 3 D isuguaglianza di reddito e rating per rilevanza della conformità agli accordi internazionali sull’ambiente tra le imprese leader in 17 nazioni ad alto reddito Finland Denmark Austria Germany Netherlands Norway Switzerland Japan France New Zealand Canada UK Greece Belgium Italy Spain Australia USA Ireland Portugal Basso Score della conformità ambientale Sweden Israel Bassa Disuguaglianza di reddito Alta Fonte: I dati sulla disuguaglianza provengono dagli Indicatori sullo Sviluppo Umano. I dati sulla conformità agli accordi sull’ambiente tra le imprese leader provengono dall’indagine del World Economic Forum. [Ristampa di Wilkinson R, Pickett K, and De Vogli R. Equality, Sustainability and Quality of Life. British Medical Journal 2010 Nov 2;341:c5816.] 67 Se noi non prendiamo misure efficaci per affrontare la crisi climatica e ridurre la disuguaglianza internazionale, il collasso ecologico dovuto ai cambiamenti climatici e al rapido esaurimento delle risorse naturali sarà molto più difficile da evitare. prendere in considerazione come prioritari eventuali accordi ambientali internazionali. I meccanismi che spiegano perché una più alta percentuale di cittadini nelle società più eque sono più propensi ad adottare comportamenti più eco-friendly rispetto ai cittadini di società meno eque sono ancora oggetto di indagine scientifica. Una grande quantità di evidenze, tuttavia, suggeriscono che una spiegazione plausibile riguarda l’elevato livello di coesione sociale, fiducia interpersonale e senso di responsabilità collettiva nei confronti delle azioni per la difesa del bene comune che sono più prevalenti nelle società più eque rispetto a quelle più diseguali. Affrontare le disuguaglianze e la crisi climatica Un passo fondamentale verso un mondo più sano e sicuro lo si compierebbe attraverso una serie di riforme nazionali e internazionali volte a ripensare il sistema economico globale, non solo verso un percorso più sostenibile, ma anche verso una più equa distribuzione delle risorse economiche. Qui presento due idee che, se attuate, probabilmente comporterebbero notevoli progressi nella lotta alla crisi ambientale globale: a) la contrazione & la convergenza per affrontare il cambiamento climatico e b) una carbon tax globale. La crisi ambientale globale può essere affrontata attraverso programmi realizzabili capaci di convincere sia i paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo a intraprendere politiche più sostenibile ed eque. Le nazioni sviluppate devono portare avanti, per esempio, non solo la rapida de carbonizzazione delle loro economie e l’adozione di un più sobrio modello di consumo delle risorse naturali, ma devono anche aiutare i paesi poveri con tecnologie ambientali che potrebbero essere considerate come risarcimenti per le passate ingiustizie dell’imperialismo, della colonizzazione e dello sfruttamento. Le nazioni in via di sviluppo dovrebbero fare “la loro parte equa” e impegnarsi a fermare i cambiamenti climatici evitando di emulare gli stessi modelli di sviluppo economico addottati dalle nazioni ricche e affrontando al contempo i loro pressanti problemi di sviluppo. Tanto le nazioni sviluppate, quanto quelle in via di sviluppo devono impegnarsi a rispettare il principio per cui ogni cittadino del mondo ha un uguale diritto all’atmosfera. Negli ultimi anni, ci sono state varie proposte per affrontare i cambiamenti climatici sulla base di questo principio. Più di due decenni fa, Aubrey Meyer, fondatore del Global Commons Institute, ha proposto un modello chiamato “Contrazione & convergenza” per ridurre le emissioni di gas serra abbastanza da garantire concentrazioni “sicure e stabili” nell’atmosfera terrestre. Il modello fissa per prima cosa un tetto per le concentrazioni di gas serra a livello mondiale e una data entro la quale gli obiettivi dovrebbero essere raggiunti (ad esempio, i 350 ppm entro il 2050). Poi, assicura che il meccanismo utilizzato per raggiungere questo target sia equo attraverso la divisione delle emissioni di gas a effetto serra tra tutti i popoli del mondo e l’assegnazione di una quota ad ogni nazione basata sulla sua popolazione (contrazione). La “torta di carbonio“ globale sarebbe così condivisa tra le diverse nazioni del mondo nella forma di “diritti negoziabili “, con i singoli paesi che negoziano la propria quota in proporziono alle loro popolazioni nazionali. Il modello prevede che, nel tempo, i target di carbonio dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo convergano verso un Poiché le disuguaglianze eccessive promuovono la competizione di status e aspirazioni materialistiche, queste intensificano anche il consumismo e un più rapido esaurimento delle risorse naturali - uno dei più grossi ostacoli al raggiungimento della sostenibilità. di inquinamento, le nazioni che vogliono produrre più biossido di carbonio della loro quota sarebbero obbligate ad acquistare quote inutilizzate da altre nazioni.16 Il meccanismo permetterebbe di mettere in livello di inquinamento comune pro capite, con tutti i paesi pronti ad accettare lo stesso obiettivo di emissioni con un target sicuro di 350 ppm a livello globale (convergenza). In parallelo con la convergenza verso la parità Figura 4 C ontrazione e Convergenza: Un accordo globale sui cambiamenti climatici e il pari diritto all’inquinamento USA CONVERGENCE CONTRACTION 6 Former Soviet Union OECD less USA 3 Tonnes Carbon Per Capita China Rest of World India Gigatonnes Carbon (GTC) Cross 8 GTC Rest of World India China Former Soviet Union 4 GTC 0 OECD less USA USA 1800 1900 2000 2030 2100 2200 Fonte: Global Commons Institute (GCI) Website: www.gci.org.uk/contconv/cc.html Nota: Questo esempio mostra i tassi negoziati regionalmente di C&C. E’ per una contrazione del bilancio di 450ppm con convergenza entro il 2030 69 piedi un commercio in cui i paesi in via di sviluppo che non sono in grado di utilizzare in pieno i loro diritti possano vendere le loro quote ai paesi ricchi in cambio, per esempio, di progetti per sviluppo, sanità e istruzione. Questo significherebbe che paesi ricchi ad alta emissione pagherebbero i paesi più poveri e a basse emissioni, così da ottenere una certa redistribuzione del reddito. Più di recente, Chakravarty e altri colleghi hanno proposto un nuovo quadro di ripartizione del target globale per riduzione del carbonio tra le nazioni con un’enfasi posta sugli individui piuttosto che sui paesi. Utilizzando la distribuzione del reddito di ogni paese per stimare quanto la media di emissioni di gas serra sia distribuita tra i cittadini, hanno calcolato per ogni paese un target di riduzione del carbonio partendo da una soglia individuale di emissioni per ciascun cittadino. Il merito di questo quadro è che gli obiettivi nazionali per la riduzione del carbonio sono così legati al numero di ricchi “emettitori” indipendentemente da dove essi vivono. Alcuni commentatori potrebbero trovare proposte come questa, che intendono affrontare i cambiamenti climatici e al contempo la redistribuzione globale e l’eliminazione della povertà, troppo “di parte” nei confronti delle istanze dei paesi in via di sviluppo. È importante ricordare, però, che i paesi ricchi rappresentano solo il 15% della popolazione mondiale, ma emettono circa il 50% delle emissioni di anidride carbonica a livello mondiale. Inoltre, con un mondo che sta affrontando una crisi ecologica senza quartiere, niente è diventato più concreto per le nazioni ricche che aiutare i paesi in via di sviluppo nel mettere in piedi programmi ecologici e sradicare la povertà estrema. Da un punto di vista occidentale, questo sarebbe un atto di generosità e di interesse illuminato; non farlo, sarebbe come sabotare il nostro futuro. Come Dipesh Chakravarty una volta ha osservato, “a differenza delle crisi del capitalismo, non ci sono scialuppe di salvataggio per i ricchi e privilegiati” che li risparmierà da un eventuale disastro climatico. Numerosi autori hanno proposto anche una carbon tax globale come soluzione alternativa – o complementare - per affrontare i cambiamenti climatici, ma sono stati sollevati diversi dubbi circa gli effetti redistributivi potenzialmente regressivi. Tuttavia, un recente studio condotto da Davies e altri colleghi hanno trovato che, sebbene una carbon tax globale rischia in sé di avere effetti distributivi regressivi, se un sufficiente ammontare di ricavi viene indirizzato alla redistribuzione globale e alla riduzione della povertà, l’impatto negativo della tassa potrebbe essere neutralizzato. Secondo gli stessi autori, con uno schema di redistribuzione che reindirizza ampie quote di imposte alla povertà estrema, questa potrebbe essere eliminata in pochi anni al costo di appena il 33% dei ricavi dal carbonio. Anche se le proposte per le tasse sul carbonio sono state ferocemente attaccate per le loro presunte conseguenze negative sull’economia, è importante notare che alcuni paesi hanno unilateralmente adottato l’imposta per più di due decenni. La Finlandia è stata la prima ad attuare un’imposta nazionale sul carbonio nel 1990. Svezia, Norvegia e Paesi Bassi hanno seguito l’esempio. Anche alcuni paesi in via di sviluppo hanno adottato una carbon tax: il Costa Rica ne ha adottata una nel 1997. Tutti questi paesi hanno economie prospere e standard molto elevati di salute e benessere. Neoliberismo globale o prosperità sostenibile ed equa? Anche se i nuovi sistemi globali e le soluzioni praticabili per un futuro più equo e sostenibile sono necessari, sarebbe ingenuo supporre che essi siano anche sufficienti. Gli ultimi decenni, dominati dalla globalizzazione neoliberista, sono stati caratterizzati da un’accelerazione delle disparità economiche e della distruzione ambientale che ha prodotto problematiche ancora più gravi da affrontare per la sopravvivenza della civiltà moderna. Con la sua enfasi sulla crescita economica infinita, la massimizzazione del profitto sfrenato e la liberalizzazione illimitata della finanza e del commercio, il modello neoliberista di sviluppo sta spingendo tanto le società sviluppate quanto quelle in via di sviluppo di società verso una competizione sfrenata per i mercati e i profitti di tutto il mondo. Gli ultimi decenni, dominati dalla globalizzazione neoliberista, sono stati caratterizzati da un’accelerazione delle disparità economiche e della distruzione ambientale che ha prodotto problematiche ancora più gravi da affrontare per la sopravvivenza della civiltà moderna. Dato l’attuale modello di sviluppo, sembra quindi molto improbabile che qualsiasi progresso nella riduzione delle diseguaglianze e nella promozione della sostenibilità possa essere raggiunto. Con un tale paradigma di sviluppo, proposte e schemi per ridurre le disuguaglianze e promuovere la tutela dell’ambiente sono controbilanciate dalla necessità di paesi, aziende e singoli di massimizzare profitto e ricchezza senza vincoli. Le misure per affrontare la disuguaglianza e la minaccia del cambiamento climatico dovrebbero dunque essere ancorate ad azioni strutturali e sistemiche volte alla promozione di un cambiamento di paradigma per lo sviluppo economico e l’elaborazione di un nuovo modello di prosperità e cooperazione in cui crescita economica, mercati e profitti siano mezzi per l’umanità e non viceversa. ■ Wade RH. Winners and losers: The global distribution of income is becoming more unequal: That should be a matter of greater concern than it is. The Economist. 2001:93-7. Baer P, Harte J, Haya B, Herzog A, Holdren J, Hultman N, et al. Equity and greenhouse gas responsibility. Science. 2000; 289(5488): 2287. Huntingford C, Gash J. Climate equity for all Science. 2005; 309: 1789. Athanasiou T, Baer P. Dead Heat: Global Justice and Global Warming. New York: Seven Stories Press; 2002. Roberts J, Parks B. A Climate of Injustice: Global Inequality, North-South Politics and Climate Policy. 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Questo articolo lancia un appello a tutti i progressisti affinché si dia priorità alla parità di genere e ai diritti delle donne nelle politiche sociali ed economiche. Con le elezioni europee alle porte, i programmi elettorali e le priorità di partito in fase di finalizzazione per le elezioni del maggio 2014, è naturale chiedersi quale posto occupi tra queste priorità il tema dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere. La mia risposta è “naturalmente, dovrebbero essere centrali”. Lo dovrebbero essere in quanto, in primo luogo, i diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere sono questioni per le quali il Partito socialista europeo e i Socialisti e Democratici del Parlamento europeo sono sempre stati in prima linea. E pertanto dobbiamo rimanere il partito per le donne e per i diritti delle donne. In secondo luogo, perché l’attuale ambiente politico e socioeconomico sta creando le condizioni per una reazione conservatrice, un motivo serio per preoccuparsi e chiedere non un minore, ma anzi un maggiore impegno per la parità di genere e la promozione dei diritti delle donne. Oltre alla reazione conservatrice sui diritti delle donne, oggi, la crisi socioeconomica europea sta aprendo la strada ai partiti estremisti, i quali stanno salendo alla ribalta delle scene politiche nazionali ed europee imponendo le loro idee tradizionali e obsolete sui ruoli e sui diritti delle donne e portando le lancette dell’orologio indietro sull’empowerment delle donne. Dal momento che la crisi ha colpito negativamente l’occupazione, i diritti e l’empowerment delle donne, questa non può essere usata come scusa per mettere questi temi fuori dall’agenda politica. Al contrario, le donne del Pes reputano che l’Europa ha bisogno di più parità di genere proprio per uscire dalla crisi. Garantire l’empowerment economico delle donne Le misure di austerità che sono state adottate si traducono in gran parte in tagli alla spesa pubblica e nella privatizzazione dei servizi. Questi tagli colpiscono soprattutto i settori in cui le donne sono sovra-rappresentate (le donne costituiscono il in media il 69,2% dei lavoratori del settore pubblico nell’Ue), i servizi pubblici di cui principalmente le donne (istruzione, sanità, servizi sociali, ecc) e i programmi e i finanziamenti che promuovono i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere sia a livello nazionale ed europeo. Le politiche di austerità messe in atto in Europa dai governi conservatori hanno spianato la strada alla “crisi silenziosa”, rendendo le donne vittime invisibili della crisi a causa del duplice carico che grava su di loro, come confermato dallo studio della Lobby 73 europea delle donne chiamata “Il prezzo dell’austerity – l’impatto sui diritti delle donne e sull’uguaglianza di genere in Europa”. Gli sforzi dell’Ue per aumentare i tassi d’occupazione delle donne sono stati indeboliti nei 22 stati membri, fallendo l’obiettivo principale dell’Ue di raggiungere un tasso di occupazione del 75% per le donne e gli uomini entro il 2020. Inoltre, la Commissione europea spiega che le donne non sono più il “buffer” del mercato del lavoro. In altre parole, le donne venivano solitamente assunte quando la domanda era alta, ma ora sono state rimandate a casa perché la domanda per i contratti è bassa. L’Indagine Globale Mondiale nel 2005 ha rilevato che quasi il 40% degli intervistati ha convenuto che in tale situazione, gli uomini hanno più diritto al lavoro rispetto alle donne! Le giovani donne sono particolarmente colpite. In generale, la Commissione europea riconosce che le giovani donne hanno più probabilità dei giovani uomini a restare fuori da occupazione, istruzione o formazione (i cosiddetti NEET), principalmente perché hanno più probabilità di restare fuori della forza lavoro (o restare inattive). In aggiunta al tasso d’occupazione delle donne e alla qualità della loro occupazione, le politiche di austerità hanno un impatto anche sui salari. Il gap di genere nei salari (il Gender Pay Gap, GPG) è attualmente al 16,2% nella Ue. Poiché le politiche di austerità causano molto spesso il congelamento e i tagli dei salari, soprattutto nel settore pubblico, la Commissione europea teme un possibile ampliamento del GPG nei prossimi mesi/anni e un ribaltamento della tendenza attuale. Considerando che il gap medio tra le pensioni è del 39% in Europa - più del doppio del divario retributivo di genere - questo è ancora più preoccupante quando si affronta la situazione di donne anziane. Le donne del Pse si sono quindi impegnate in una campagna per colmare il divario di retribuzione e di investimento nelle donne nonostante la crisi. A tal fine, le donne del Pse hanno avanzato tre proposte: 1) L’introduzione di un audit sul Gender Pay Gap per verificare se tutti gli Stati membri si impegnano a ridurre del 2% all’anno il divario retributivo per tutte le coorti di età e per stato membro fino al raggiungimento della parità dei salari. 2) In parallelo, l’Ue dovrebbe migliorare il controllo dell’attuazione della normativa sulla parità e sulla lotta alle discriminazioni di genere, anche attraverso l’applicazione di sanzioni chiare e dissuasive, sia a livello nazionale che a livello europeo. 3) Le donne del Pse esortano l’UE a nominare un commissario specifico per l’Uguaglianza di genere e per i Diritti delle donne a partire dal 2014. I tagli sopra menzionati si riferiscono anche ai tagli nelle strutture e nei servizi per l’infanzia, tagli che mettono in pericolo l’indipendenza economica delle donne. A causa delle misure di austerità, la maggior parte delle famiglie torna a un modello tradizionale di cura, in cui viene smontato il ruolo dello Stato. Un modello che grava sulle famiglie e in particolare sulle donne. La maggioranza degli Stati membri devono ancora fare i dovuti sforzi per soddisfare i target di Barcellona stabiliti dal Consiglio europeo nel 2002. Tali obiettivi prevedono che “gli Stati membri dovrebbero sforzarsi a garantire entro il 2010 assistenza ad almeno il 90% dei bambini tra i 3 anni e l’età dell’obbligo scolastico e almeno il 33% dei bambini sotto i 3 anni di età”. Le donne del Pse invitano pertanto le istituzioni e i leader europeo a migliorare gli standard minimi nell’assistenza all’infanzia e nel congedo parentale, Le politiche di austerità messe in atto in Europa dai governi conservatori hanno spianato la strada alla “crisi silenziosa”, rendendo le donne vittime invisibili della crisi a causa del duplice carico che grava su di loro. incluso un accesso più semplice a servizi per l’infanzia di buona qualità, equamente accessibili e a prezzi convenienti, permettendo alle donne di progredire nella loro carriera e di rompere il tetto di cristallo, nonché dando a uomini e donne le stesse opzioni di condivisione delle responsabilità familiari. Come sottolineato nella nostra campagna nel 2007, le donne del Pes esigono che l’assistenza all’infanzia sia riconosciuto come un servizio pubblico di base in tutta Europa. Andare al di là dell’empowerment economico delle donne La lotta alla violenza nei confronti delle donne sta diventano essa stessa vittima di drastici tagli di bilancio decisi come parte delle soluzioni di austerità. L’indebolimento delle organizzazioni femminili comporta l’indebolimento della volontà e della possibilità di promuovere leggi e azioni forti per combattere ogni tipo di violenza contro le donne. Come risultato delle risposte dell’austerità alla crisi, assistiamo anche a tagli a spese e programmi mirati sui diritti delle donne e la parità di genere, come, per esempio, il programma della Commissione europea DAPHNE, che è in via di drastica riduzione. Il programma DAPHNE finanzia progetti volti alla lotta contro la violenza sulle donne. La violenza sulle donne resta un problema di “proporzioni epidemiche “ che colpisce le donne di tutti i gruppi socioeconomici. La violenza maschile basata sul genere è considerata la principale causa di morte e di invalidità delle donne tra i 16 e i 44 anni. Le statistiche hanno mostrato che una donna su tre è vittima di violenza nel corso della sua vita e che il 10% è vittima di stupro o tentato stupro. Recentemente, la Convenzione di Instanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne e alle violenze domestiche nel 2011 ha stabilito che non vi può essere vera parità tra donne e uomini se le donne subiscono violenze di genere su larga scala mentre le agenzie e le istituzioni statali volgono lo sguardo altrove. La violenza domestica ha un traumatico effetto su donne, uomini, bambini e anziani. Armonizzare le norme giuridiche, assicurando protezione e fondi comuni per le vittime in tutta Europa è quindi essenziale. Eppure la crisi attuale non è solo un fertile terreno per i reazionari dell’economia. I diritti umani fondamentali come il diritto alla riproduzione e alla salute sessuale (SRHR) sono oggi a rischio, come ad esempio in Spagna, a causa della crescita dei partiti dell’estrema destra che stanno imponendo visioni tradizionali conservatrici del ruolo e dei diritti delle donne. 75 La tendenza generale è una grave battuta d’arresto con una spettacolare reazione conservatrice, che si traducono in un attacco diretto contro le donne. Negare a una donna il diritto di fare la propria decisione per il proprio corpo significa negare il suo diritto fondamentale -si tratta di una forma di violenza sistematica. Il messaggio della campagna PES Women ‘Il mio corpo, i miei diritti’ è quindi molto necessario; ‘Il mio corpo, i miei diritti’ “invita alla protezione dei diritti delle donne, alla salute sessuale e riproduttiva e a fornire a donne e uomini adeguati servizi di assistenza sanitaria e di libera scelta per tutte le donne promuovendo l’educazione sessuale, l’assistenza medica e il sostegno, la prevenzione, la contraccezione, la pillola del giorno dopo e l’aborto e chiede che questi siano sostenibili e accessibili per tutte le donne e gli uomini, indipendentemente dalla loro ubicazione geografica, la loro origine o il loro status sociale. Garantire i diritti sessuali e riproduttivi non è solo un problema di salute, ma contribuisce anche all’empowerment delle donne e all’indipendenza economica. Non si può accettare il fatto che ad alcune donne europee, a causa della loro posizione geografica e/o status sociale, sarà - nell’Europa del ventunesimo secolo- ben presto negata la libera scelta e l’accesso ai SRHR, compreso l’aborto. Le precedenti e le attuali priorità non sembrano di fatto così diverse, e perciò il Partito Socialista Europeo continuerà le sue campagne e a dare priorità alla parità di genere e dei diritti delle donne. Non lasceremo all’Europa usare la scusa della crisi, perché non vogliamo che le nostre figlie, partner, sorelle tornino indietro con l’orologio di trent’anni. ■ La lotta alla violenza nei confronti delle donne sta diventano essa stessa vittima di drastici tagli di bilancio decisi come parte delle soluzioni di austerità. L’indebolimento delle organizzazioni femminili comporta l’indebolimento della volontà e della possibilità di promuovere leggi e azioni forti per combattere ogni tipo di violenza contro le donne. Combattere le disuguaglianze attraverso un efficace mix di politiche nazionali ed europee Nicolas Schmit, Ministro del Lavoro, dell’Occupazione e dell’Immigrazione, Lussemburgo, e Coordinatore del network dei ministri del Lavoro e degli Affari sociali per il Partito socialista europeo Questo articolo riconosce l’impatto positivo che la globalizzazione ha avuto sulla creazione di nuove opportunità per molte persone di sfuggire alla povertà. Tuttavia, nel caso dell’Europa e dell’America, la disuguaglianza è scoppiata e ha aumentato la precarietà e la disoccupazione dei lavoratori più giovani e più anziani, indebolendo la coesione sociale in diversi paesi europei. L’autore si riferisce alla “Troika”, che ha offuscato la visione europea, danneggiato l’originale modello sociale europeo e penalizzato le giovani generazioni. La disuguaglianza tra i paesi sta iniziando a diminuire. La globalizzazione ha permesso a centinaia di milioni di persone di sfuggire alla povertà, di vivere con dignità e di diventare non solo ‘produttori’ ma anche ‘consumatori’. Al contrario, nei paesi europei e negli Stati Uniti la disuguaglianza e la povertà sono veramente esplose. Questa problematica è stata certamente amplificata dalla crisi, ma risale ad un passato non solo recente. Disuguaglianza e povertà sono state considerate come ‘inevitabili’, causate dalla nuova redistribuzione tra le nazioni che la globalizzazione ha portato con sé. In “La mondialisation de l’inégalité “ (Globalizzazione e disuguaglianza, Ediz. Du Seuil, 2012), François Bourguignon analizza come “l’aumento della disuguaglianza nazionale tenda a eclissare il declino della disuguaglianza globale, che è nondimeno incontestabile“. A lungo trascurata, la questione delle disuguaglianze è tornata nel dibattito pubblico e nella riflessione economica. Il Fondo Monetario Internazionale non la sta ignorando, e propone anche una revisione del sistema della tassazione con l’obiettivo di tassare maggiori ricavi, in particolare l’ereditarietà (FMI Taxing Times, ottobre 2013). Il Direttore generale dell’FMI sostiene che la disuguaglianza “sta creando un circolo vizioso ovvero: più disuguaglianza c’è meno crescita apparentemente solida c’è e si avra’ dunque una sempre minore crescita generale insieme alla riduzione della creazione di posti di lavoro”. Nella sua relazione per la riunione di Davos nel 2014, il World Economic Forum classificato la disuguaglianza come il secondo più importante rischio allo sviluppo economico, sociale ed in particolare alla stabilità politica. L’aumento della disuguaglianza negli ultimi due o tre decenni ha avuto un effetto notevole. Nell’Unione europea, la disuguaglianza sta principalmente interessando quei paesi impantanati nella crisi del debito pubblico, ma comunque non risparmia neanche gli altri. La forbice salariale infatti aumenta, e allo stesso tempo la quota dei salari nella distribuzione del valore aggiunto è in declino. Secondo l’OCSE, citato sul Financial Times il 24 dicembre 2013, il Coefficiente Gini che misura il maggior incremento di disparità di reddito tra il 2007 e il 2011 in Irlanda è stato del +6,6 %, in Spagna 77 +6 %, in Grecia +2,5 %, in Francia del +2,2%, in Italia +1,5%; la media OCSE è stata del +1,2%. La precarietà del lavoro, che ha tra gli effetti un numero crescente di lavoratori poveri, sta fortemente aumentando anche in paesi altamente competitivi come la Germania. La disoccupazione, che colpisce i giovani ei lavoratori anziani in particolare, sta diventando una delle principali fonti di disuguaglianza e povertà. In breve, l’indebolirsi della coesione sociale in un certo numero di paesi europei sta incoraggiando l’emergere di movimenti popolari estremisti. E’ quindi urgente esaminare le ragioni fondamentali di questa crescente ineguaglianza che non possono essere staccate dalle politiche economiche seguite negli ultimi anni. Nelle sue “note conclusive sulla filosofia sociale verso la quale la Teoria Generale potrebbe portare”, John M. Keynes ha tratto due conclusioni che si applicano in vasta misura alla realtà economica di oggi, a quasi 80 anni dopo la pubblicazione del volume: “I due difetti principali dell’economia globale in cui viviamo sono, in primo luogo, il fatto che la piena occupazione non è garantita e in secondo luogo che la distribuzione della ricchezza e delle entrate è arbitraria e priva di uguaglianza.” (J.M. Keynes, Teoria generale, Payot, 2005 p. 366). Come nel 1930, la disuguaglianza sta al cuore della crisi. È necessario mettere la questione della distribuzione della ricchezza e dell’eredità nuovamente al centro dell’analisi economica e dell’azione pubblica. Questo è ciò che dovrebbe inizialmente essere fatto a livello nazionale. Le politiche salariali, sociali, la redistribuzione e le politiche fiscali sono in primo luogo una responsabilità dello Stato, ma, ci si chiede, i margini di azione che lo Stato possiede permettono realmente di prendere questa responsabilità? Le politiche sono sempre condotte nel quadro dei vincoli imposti dai trattati e le discipline dell’Unione economica e monetaria. In questo senso, l’appartenenza alla zona euro limita la possibilità di uno Stato membro, anche se, in teoria, le politiche sociali e fiscali rimangono comunque principalmente di competenza nazionale. La realtà è completamente diversa da cio’, il che è del tutto normale in una unione monetaria, nonostante questo fosse stato inizialmente volontariamente ignorato. Certo, i trattati europei non fanno da soli la battaglia contro la disuguaglianza di competenza dell’Unione. Ma secondo il Trattato, “l’Unione deve lavorare[...] per un’economia sociale di mercato altamente competitiva che miri alla piena occupazione e al progresso sociale”. La riduzione della disuguaglianza non figura, anche se la battaglia contro l’esclusione sociale è considerata uno dei settori in cui l’Unione sostiene e completa le attività degli Stati membri. In questo contesto, la strategia UE2020 promuove una riduzione del livello di povertà, mirando ad una riduzione del numero di persone colpite o minacciate da povertà ed esclusione sociale di 20 milioni entro il 2020. Questo obiettivo è lungi dall’essere raggiunto, e sta diventando sempre più inarrivabile. Nel 2012, 124.500 mila persone erano a rischio di povertà, pari al 24,8% della UE rispetto al 23,7% del 2008. Con un tasso del 35%, la Grecia ha registrato un aumento del 3,6% in un solo anno. I giovani esposti alla disoccupazione e alla precarietà del lavoro ne sono particolarmente minacciati. La politica europea ha bisogno di una nuova visione che ritorni al modello sociale originale per rispondere alle speranze del popolo d’Europa, ancora una volta Come si può costruire un futuro in cui il 40% dei giovani lavoratori di età compresa tra i 15 ei 24 anni non saranno in grado di ottenere un contratto a tempo indeterminato? Vi è una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro che aumenta direttamente la disuguaglianza. Neppure il destino dei lavoratori più anziani è migliore. Secondo la relazione della Commissione sull’occupazione e sulla situazione sociale nel giugno 2013, il 25,7% delle persone di età compresa tra 55 e 64 anni -i più esposti alla disoccupazione di lungo termine- è stato classificato come persone che vivono sotto la soglia di povertà e che soffrono di esclusione sociale. Il numero di bambini, inoltre, che vivono in povertà è aumentato in maniera significativa, in particolare in paesi come la Grecia e la Spagna. La situazione sociale è quindi peggiorata nell’Unione europea negli ultimi anni. Le politiche promosse dalla Commissione e in particolare dalla “Troika“ hanno portato a un aumento della disoccupazione, una riduzione dei salari, in particolare del salario minimo, e una brutale riduzione dei servizi sociali. Secondo il Report del Parlamento europeo sul ruolo e sulle attività della Troika, “la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è cresciuta al di là della media nei quattro paesi in questione e la riduzione dei servizi sociali e l’aumento della disoccupazione hanno portato a un aumento della povertà”. La ripresa della competitività esterna è stato l’obiettivo principale raggiunto dalle politiche di svalutazione interna che l’Unione ha abbracciato, in particolare nell’Eurozona durante la stagnazione, e per alcuni paesi durante una lunga recessione economica. Il rischio di un periodo di deflazione non può essere minimizzato. Le politiche di austerità non hanno fatto altro che distruggere il potenziale per la crescita e di far precipitare milioni di europei nella povertà e nell’incertezza. Non è sorprendente che la disuguaglianza sia progredita rapidamente. Nel suo libro “Il Prezzo della Disuguaglianza”, Joseph E. Stiglitz descrive questo circolo vizioso creato da politiche che favoriscono un aumento esplosivo nella disuguaglianza. “La disuguaglianza ci costa cara. Il prezzo della disuguaglianza è il deterioramento dell’economia, che diventa meno stabile e meno efficace, con meno crescita e la sovversione della democrazia”. Non è immaginabile che il calo del reddito reale da salari, un fenomeno che si è verificato negli Stati Uniti per 30 anni, possa essere controbilanciato in parte dall’aumento dell’indebitamento privato. Questo fenomeno è stato all’origine della crisi dei “subprime” e quindi della crisi finanziaria. Allo stesso tempo, la liquidità delle aziende è esplosa, come hanno fatto i rendimenti finanziari. La classe media ha subito questo shock, in particolare pagando il prezzo della crisi finanziaria negli Stati Uniti ma anche in Europa. In Germania, c’è stata una contrazione classe media: dal 1999 al 2009, è scesa dal 64% al 59% della popolazione, corrispondente a 4,5 milioni di persone. Tendenze simili si possono riscontrare in altri paesi. La scala sociale è stato rotta, un problema che continua a incidere su sempre più persone. L’idea neoliberista per cui la concentrazione della ricchezza è nelle mani di una piccola minoranza, il famoso 1% di cui parla Stiglitz, e chi investe genera crescita e creare i posti di lavoro di domani, non è in alcun modo supportata dai fatti. Abbiamo quindi urgente bisogno di cambiare corso, di reindirizzare le politiche 79 europee su crescita, occupazione e innovazione attraverso più solidarietà e giustizia. Abbiamo bisogno di promuovere il modello sociale europeo ancora una volta, non come una debolezza dell’Europa, ma come uno dei suoi punti di forza. Questo modello ha un fascino indiscutibile per le persone provenienti da altri continenti. I cinesi, i brasiliani e anche gli americani sono sempre più interessati a questo modello, che è in grado di connettere efficacia economica e solidarietà sociale in un modo che ha ben descritto Jacques Delors, dando forma a “equilibrio tra società e stato da un lato e l’individuo dall’altro”. Le politiche europee devono sostenere gli stati membri in questo ri-orientamento in una serie di settori. 1. L a politica sociale non può più essere una semplice variabile di aggiustamento. Ha bisogno di avere un posto nelle politiche europee e nella governance. Un riequilibrio all’interno del Consiglio è necessario. La logica finanziaria difesa dall’Ecofin e spesso ripetuta dal Consiglio europeo è troppo dominante. Una valutazione dell’impatto sulle politiche sociali è essenziale. È il ruolo del Consiglio EPSCO in particolare che deve essere rivalutato. Come stabilito dall’Articolo 9 del Trattato, è necessario chiedersi se le politiche sono nell’interesse dell’occupazione e dei diritti sociali della grande maggioranza dei cittadini. È pertanto necessario prendere in considerazione la questione dell’impatto della disuguaglianza sull’economia. Sempre più spesso, stiamo scivolando in questa “Darwin Economy”, come descritto dall’economista americano Robert Frank, il quale giunge alla conclusione che la diffusa concorrenza va contro il bene comune, distruggendo così ogni potenziale per la creazione. (Frank R. The Darwin Economy. Liberty, Competition and the Common Good, Princeton University Press 2011). Tuttavia, negli ultimi anni l’Unione europea è progredita poco in termini di rafforzamento della dimensione sociale dell’UEM. L’unico tangibile risultato della riflessione è il quadro di valutazione composto da cinque indicatori che comprendono il tasso di disoccupazione, il reddito lordo disponibile delle famiglie, il tasso di rischio povertà tra la popolazione in età lavorativa e la disuguaglianza. Ci sono progressi senza dubbio scarsi per quanto questi indicatori sociali facciano parte del processo del Semestre europeo. Ma gli indicatori non devono avere la precedenza sulle politiche. Quali conclusioni operative si possono trarre a livello di altre politiche, se si scopre che, per esempio, le politiche di austerità stanno generando disoccupazione e crescente disuguaglianza? Il documento sul quadro di valutazione degli indicatori degli affari sociali e dell’occupazione sviluppata dalla commissione per l’Occupazione e le protezioni sociali evidenzia chiaramente il fatto che la disuguaglianza si crea all’interno degli stati come conseguenza dell’aumento della disoccupazione, della riduzione del livello di ridistribuzione e, in taluni casi, dell’allocazione delle risorse di bilancio. Questa è un’osservazione irrilevante sulle politiche promosse dalla “Troika”. Quale posto dovrebbero avere gli indicatori in un dialogo sociale a livello europeo che deve Come negli anni ’30, la diseguaglianza è al centro della crisi. E’ necessario porre la questione della distribuzione della ricchezza e del patrimonio nel cuore dell’analisi economica e dell’azione pubblica. ripartire? Al momento, la misurazione della disuguaglianza è un indicatore statistico, niente di più. Questo non è sufficiente. Servono politiche di alto livello per definire ciò che il Presidente degli Stati Uniti Obama ha chiamato la “definizione dei nostri tempi”. 2. La competizione sociale e la riduzione della spesa pubblica e sociale non devono più essere gli strumenti privilegiati delle politiche per politiche sulla competitività. Le politiche di austerità di bilancio che riducono la spesa per l’istruzione, la ricerca, la formazione professionale, l’innovazione ecc., non favoriscono il rafforzamento di competitività. Si tratta semmai di politiche miopi che riducono il potenziale per la crescita e che penalizzano soprattutto le giovani generazioni. Servono politiche di consolidamento di bilancio che siano intelligenti e che non soffochino la crescita riducendo drasticamente la domanda interna e limitando gli investimenti necessari. Le politiche di austerity, invece, hanno portato alla scomparsa di decine di migliaia di piccole e medie imprese, e con loro di un certo numero di posti di lavoro. Secondo uno studio effettuato da un economista della Commissione, Jan In’t Veld, le perdite in termine di crescita e quindi di occupazione causate da queste politiche sono state notevoli. Inoltre, le protezioni sociali sono anche uno stabilizzatore automatico, senza il quale le conseguenza della crisi sarebbe state molto più dannose. L’Unione europea in generale e l’Eurozona in particolare necessitano di un livello minimo di previdenza sociale. Il dumping sociale crea tensioni pericolose per la coesione in Europa. Qualsiasi lavoro merita un salario che consenta al lavoratore di vivere con dignità e, dove necessario, il salario minimo garantito deve essere preso in considerazione in maniera sistemica. L’allargarsi delle disuguaglianze nei salari di cui beneficia solo una piccola minoranza deve essere ridotta. Una semplice riduzione dei salari non solo aggrava le disuguaglianze, ma si traduce anche in una depressione della domanda interna e, in ultima istanza, di aumento della disoccupazione. L’economia finanziaria guidata dalla speculazione sfrenata ha creato rendite reali che favoriscono la crescita vertiginosa della disuguaglianza salariale. Vi è una grande differenza tra l’economia reale e l’economia finanziaria: pertanto è necessario regolare quest’ultima. Abbiamo bisogno di rilanciare l’Europa Sociale in stretta associazione con un adattamento delle politiche macroeconomiche volte a una maggiore convergenza verso l’alto. In questo contesto, le esigenze occupazionali devono diventare un obiettivo concreto ed equivalente, anche in politica monetaria, come lo sono negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. 3. La concorrenza fiscale favorisce lo sviluppo delle disuguaglianze e pesa sul finanziamento del sistema di protezione sociale. L’Unione europea dovrebbe quindi svolgere un ruolo nella rimozione di questa costosa concorrenza fiscale, sia a livello europeo che a livello globale. La “best-offer taxation”, utilizzata per attrarre capitali e investitori, non 81 può essere un modello economico. È pertanto preferibile cooperare all’interno dell’Unione, anche su un’organizzazione di livello internazionale. A questo proposito, la tassazione non può essere considerata una zona dove dovrebbe prevalere il principio della sussidiarietà, in quanto i vincoli di bilancio sono sempre più rigidi, in particolare nell’Eurozona. In questa logica, i paesi europei dovrebbero sviluppare una base comune del principio di tassazione di tassazione che non limiti soltanto l’IVA e la tassazione dei redditi da capitale. La contraddizione tra i mercati dei capitali, i mercati del lavoro e i mercati dei beni (che si stanno integrando sempre di più) e i sistemi di tassazione (che rimangono essenzialmente nazionali) impoverisce gli stati e favorisce sempre più la disuguaglianza. A vincere sono coloro che hanno ricchezze cospicue e alta mobilità. La riduzione delle disuguaglianze comprende anche un impegno verso una maggiore giustizia fiscale. Per molti anni, il progetto europeo è stato correttamente collegato al tema della pace. Tale progetto ha beneficiato di un notevole sostegno dell’opinione pubblica, “convinto che un’Europa riunificata intendesse continuare sulla strada della civiltà, del progresso e della prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e i più poveri”. Poiché questo modello sociale è stato eroso dall’aumento delle disuguaglianze tra gli stati membri, allora l’adesione al progetto europeo è particolarmente essenziale per il futuro del nostro Stati. Al fine di evitare ogni rischio, la politica europea ha bisogno di una nuova visione che ritorni al modello sociale originale per rispondere alle speranze del popolo d’Europa, ancora una volta. ■ PROGRESSIVE ECONOMY FORUM 2014 INEQUALITY CONSEQUENCES FOR SOCIETY, POLITICS AND PEOPLE 5-6 MARCH 2014 EUROPEAN PARLIAMENT BRUSSELS WITH JOSEPH STIGLITZ FULL PROGRAMME & REGISTRATION AT PROGRESSIVEECONOMY.EU Hannes Swoboda • Jean-Paul Fitoussi • James K. Galbraith • Kate Pickett • Patrick Itschert • Edouard Martin • Jill Rubery • Emilie Turunen • Martin Schulz • Joseph E. Stiglitz • Jörg Asmussen • Peter Bofinger • Jutta Urpilainen • Pervenche Berès • Jim Clarken • Gosta Esping-Andersen • Nicolas Schmit PROGRESSIVE CONTACT: [email protected] Progressive Economy is an initiative supported by the S&D Group in the European Parliament @ProgressEcon ECONOMY euprogressiveeconomy Next edition: Special Edition Policy Report on the Annual Forum on Inequality