Ineguaglianza in crescita

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Ineguaglianza in crescita
MARZO 2014 - N.2
Ineguaglianza
La sfida del secolo
Swoboda
Pickett
Wilkinson
Esping-Andersen
Smeeding
Morelli
Thompson
Fitoussi
Saraceno
Salverda
Blanden
Elgar
De Vogli
Gurmai
Schmit
■ Contributi di Kate Pickett, Richard Wilkinson e Gøsta EspingAndersen
■ Ineguaglianza in crescita
■ I molteplici effetti dell’ineguaglianza
■ Prospettive di policy sull’ineguaglianza
www.progressiveeconomy.eu
L’iniziativa L’Economia Progressista è stata lanciata nel 2012
dal gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo.
Direttore:
Marcel Mersch, L’Economia Progressista, Gruppo S&D, Parlamento europeo.
Condirettori per questa edizione:
Gøsta Esping-Andersen, Professore di Sociologià, Universitat Pompeu Fabra, Barcellona,
e Kate Pickett, Professoressa di Scienze sociali, University of York
Contatto:
[email protected]
Per ogni domanda su questa pubblicazione potete contattare James Royston
Mail: [email protected]
S&D
Gruppo dell’Alleanza Progressista dei
Socialisti & Democratici
al Parlamento europeo
Rue Wiertz 60, B-1047 Brussels
Cos’è...
L’Economia Progressista
OBIETTIVI
L’Economia progressista è un’iniziativa lanciata
nel 2012 con un obiettivo centrale: promuovere
un dibattito realmente pubblico e informato sulle
politiche economiche e sociali tanto a livello europeo,
quanto ai livelli nazionali e globale, e promuovere
attivamente il pensiero progressista ai livelli politico e
accademico. L’Economia Progressista è un’iniziativa
di lungo termine con una visione strategica del suo
contributo al pensiero e all’azione progressisti.
Senza un dibattito pubblico, senza scelte politiche
chiare, non può esserci una reale democrazia.
La mancanza di decisioni produce malcontento,
populismo e la crescita dell’antipolitica. I progressisti
hanno il compito di dimostrare ai cittadini che esiste
un’alternativa e di lavorare per vincere la “battaglia
delle idee” in quei settori chiave per il futuro delle
nostre società. Questa è la ragione per cui il gruppo
S&D ha lanciato l’iniziativa L’Economia Progressista.
Un’iniziativa che mira a creare uno spazio nuovo
e partecipato per un dibattito pubblico e informato
e che vuole contribuire a costruire una moderna
visione economica e sociale di stampo progressista
per l’Europa.
ATTIVITÀ IN
CORSO
facebook.com/
euprogressiveeconomy
twitter.com/ProgressEcon
www.progressiveeconomy.eu
L’iniziativa è cominciata nel novembre 2012
con la pubblicazione della prima Indagine annuale
indipendente sulla crescita (iAGS). Ogni anno, più
istituti economici (OFCE, IMK e ECLM) pubblicano una
iAGS, in cui forniscono analisi dettagliate, previsioni
e raccomandazioni per l’economia europea. La
prossima iAGS sarà pubblicata nel novembre 2014.
L’Economia Progressista è orgogliosa di sostenere
questo lavoro, che per la prima volta fornisce una solida
alternativa all’Indagine annuale sulla crescita della
Commissione, report che è alla base delle scelte annuali
di politica economica del Consiglio europeo e delle
raccomandazioni specifiche per paese membro.
L’iniziativa è stata lanciata pubblicamente alla
prima conferenza annuale, che si è tenuta a Bruxelles
il 7 marzo 2013, a ridosso del Consiglio europeo di
Primavera, e alla quale hanno partecipato esponenti
di alto livello del mondo della politica, dell’università,
dei media e della società civile. L’iniziativa intende dar
vita a un evento annuale più ampio, all’interno del
quale confluiscano le diverse attività e le tante persone
coinvolte. La prossima conferenza annuale si terrà nel
marzo 2014 a Bruxelles con un “Forum dell’Economia
Progressista” sul tema “DISUGUAGLIANZE”. L’obiettivo
di questo Forum annuale è di mettere insieme un
numero sempre più ampio di progressisti, provenienti
dall’università, dalla politica, dai sindacati e dalla società
civile, che siano attivamente impegnati nel rafforzare e
promuovere le idee progressiste nei campi economico e
sociale in Europa e nel mondo.
NUOVE ATTIVITÀ
PEAC: Il progetto PEAC mira a promuovere
la ricerca universitaria di stampo progressista su
questioni sociali ed economiche e a facilitare la
trasmissione delle conoscenze accademiche ai
processi politici (da qui il Progressive Economy
Academic project), in particolare attraverso
un’annuale Call for papers.
PEPA: Il progetto PEPA ha l’obiettivo di
approfondire e ampliare la dimensione democratica
della governance economica e sociale europea a
livello degli stati membri, dell’Eurozona e dell’Ue,
contribuendo a uno scambio durevole di politiche
nei campi sociali ed economici in linea con le tesi e i
valori comunemente definiti progressisti (Progressive
Economy Parliamentary Alliance). Il progetto include
un’Assemblea annuale PEPA, il cui primo incontro si è
tenuto il 4-5 dicembre 2013.
EVENTI DELL’ECONOMIA
PROGRESSISTA: Al fine di contribuire a uno
scambio aperto e inclusivo di idee ed esperienze tra i
progressisti di tutta Europa, L’Economia Progressista
darà vita a un ricco programma di eventi in varie
parti del Vecchio Continente. Nel 2013, un serie di
eventi di alto livello si sono tenuti a Lisbona, Brighton,
Bordeaux e Budapest.
QUESTIONI POLITICHE: Attraverso
le sue attività, l’iniziativa intende affrontare, in
particolare, tre questioni politiche: “La crescita in
tempo di crisi”, “Mercati del lavoro progressisti”,
“Uguaglianza sociale” e “L’economia progressista
globale”. Inoltre l’iniziativa punta a rafforzare saperi e
risposte politiche in queste aree attraverso studi mirati
e una serie di workshop.
RIVISTA PER UN’ECONOMIA
PROGRESSISTA: La attività dell’iniziativa
finiranno in una pubblicazione regolare con contributi
di accademici, policymaker e stakeholder. L’obiettivo
di questa pubblicazione è la circolazione del pensiero
progressista e la trasmissione di saperi e idee tra sfere
accademiche e politiche.
WEBSITE: Il nuovo sito internet di Economia
Progressista avrà un ruolo attivo nello sviluppare i
progetti PEAC e PEPA e, più in generale, nel fornire
un’importante fonte di informazione e scambio per i
progressisti sulle sfide economiche e sociali.
Sommario
Prefazione
09
 Hannes Swoboda, Eurodeputato, Gruppo S&D
Introduzione con i contributi dei
10
condirettori
 Kate Pickett, Professoressa di Epidemiologia, University of York,
& Richard Wilkinson, Professore emerito di Epidemiologia sociale,
University of Nottingham
Ridurre le disuguaglianze attraverso la democrazia economica. Come
le varie forme di democrazia tengono a freno le disuguaglianze (rappresentanze
di lavoratori, sindacati, partecipazione azionaria dei dipendenti, etc) migliorando al
contempo la produttività e il benessere.
 Gøsta Esping-Andersen, Professore di Sociologia,
University Pompeu Fabra, Barcellona
Come cambia la famiglia e come le disuguaglianze intaccano le
aspettative di vita dei bambini. Come la crescita delle disuguaglianze nella forza
lavoro e nel reddito delle famiglie sono rafforzate dai cambiamenti nella demografia
famigliare e come questa a sua volta influenza le opportunità di vita.
Disuguaglianze in crescita
24
 Timothy Smeeding, Direttore dell’Istituto per la ricerca sulla
povertà e Professore emerito di Relazioni pubbliche in Arti
e Scienze, La Follette School of Public Affairs, University of
Wisconsin-Madison & Salvatore Morelli, Ricercatore universitario
- CSEF - Università di Napoli “Federico II” & Jeffrey Thompson,
Economista, Board of Governors of the Federal Reserve System
I trend recenti nelle disuguaglianze di reddito nei paesi sviluppati. Quali
sono i primi segnali? Ci sono variazioni significative tra le nazioni? Le società si stanno
polarizzando? I trend si stanno riducendo?
 Jean-Paul Fitoussi, Professore di Economia, Università LUISS,
Roma & Francesco Saraceno, Senior Economist, OFCE, Parigi
I fattori delle disuguaglianze: sfide passate e attuali per l’Europa
 Wiemer Salverda,Coordinatore del progetto di ricerca
internazionale (gini-research.org) sugli impatti delle disuguaglianze
sulla crescita (GINI)
La redistribuzione del reddito può aiutare a modificare la crescita delle
disuguaglianze?
Gli effetti multipli delle
disuguaglianze
49
 Jo Blanden, Senior Lecturer in Economia, University of Surrey, e
Ricercatore associato, Centre for Economic Performance, London
School of Economics
Le opportunità limitano le disuguaglianze
 Frank Elgar, Professore associato di Psichiatria, McGill University,
Montréal
Uguaglianza, coesione sociale e benessere
 Roberto De Vogli, Professore associato in Fattori sociali sulla
salute globale, Department of Public Health Sciences, University of
California Davis (UCD)
Disuguaglianze e crisi ambientale: è giunto il tempo di detronizzare il
neoliberismo globale
Quali politiche contro le
disuguaglianze
72
 Zita Gurmai, eurodeputata, Presidente delle donne del Pse
Maggiore uguaglianza di genere per il 2014 e oltre!
 Nicolas Schmit, Ministro del Lavoro, dell’Occupazione e
dell’Immigrazione, Lussemburgo, e Coordinatore della rete di
ministri dell’Occupazione e degli Affari sociali per il Partito dei
socialisti europei.
Combattere le disuguaglianze: verso un efficace mix di politiche nazionali
ed europee
09
Prefazione
Benvenuti a questa seconda edizione della Rivista dell’Economia
Progressista, che è incentrata sulla disuguaglianze ed è co-diretta da
due tra i principali intellettuali in questo campo, Kate Pickett e Gøsta
Esping-Andersen.
Hannes Swoboda,
Eurodeputato, Austria,
Presidente del gruppo
S&D al Parlamento
europeo
Le disuguaglianze rappresentano una problematica che deve
essere posta al centro della pianificazione delle politiche, in Europa
e altrove. Il legame tra disuguaglianze economiche e il benessere
generale è palese. Ma la questione delle disuguaglianze non si riduce
solo a questo. Le disuguaglianze non riguardano semplicemente la
povertà: riguardano il più generale fallimento nel garantire a tutti pari
opportunità, pari accesso ai servici pubblici e la conciliazione dei tempi
di lavoro con quelli famigliari.
La Rivista si pone come piccolo contributo a questo dibattito.
Lo fa chiedendo ad accademici e policymaker di affrontare varie
questioni come quelle di genere e quelle ambientali, sperando così
di poter fornire spunti di riflessione sui motivi per cui il tema delle
disuguaglianze vada posto in cima alle nostre agende in tutte le aree
politiche.
Tali questioni saranno affrontare al nostro prestigioso Forum
annuale, che si terrà a marzo al Parlamento europeo di Bruxelles.
L’evento è aperto al pubblico e sarà trasmesso in streaming. Ci saranno
contributi da parte di molti degli autori presenti in questo numero della
Rivista, così come altre figure di spicco come Joseph Stiglitz e Martin
Schulz. Maggiori dettagli saranno disponibili sul sito dell’Economia
Progressista
(progressiveeconomy.eu).
Spero di vedervi!
Ridurre le
Disuguaglianze Attraverso
la Democrazia Economica*
Richard Wilkinson,
Professore emerito
di Epidemiologia
sociale, University of
Nottingham
Kate Pickett,
Professoressa di
Epidemiologia,
University of York
Kate e Richard sono
cofondatori del “The
Equality Trust and The
Alliance for Sustainability
and Prosperity”
Pickett and Wilkinson mettono
in luce quanto le disuguaglianze
possano essere dannose per
il benessere della stragrande
maggioranza delle persone in
una società. In questo articolo,
ci si focalizza sui modi in cui
si può ottenere una maggiore
uguaglianza attraverso la
democrazia economica.
FIn tanti comprendono quanto dannose
possano essere le disuguaglianze. C’è un
comune punto di vista per cui la disuguaglianza
importa solo nella misura in cui crei povertà
o se è considerata dai più iniqua – ossia se i
ricchi e poveri non meritino ciò che hanno. Ma
questo è un punto di vista ingenuo. In realtà,
le disuguaglianze hanno forti e profondi effetti
sul benessere di un’ampia maggioranza. La
nostra ricerca, e quelle di tanti altri ricercatori
nel mondo, mostra che quasi tutti i problemi
sociali e di salute, che tendono a essere più
comuni nelle zone più basse della scala sociale,
hanno anche la propensione a peggiorare nelle
società con la più larga forbice di reddito tra
ricchi e poveri.
Come esseri umani, abbiamo reazioni
psicologiche profondamente radicate verso
le disuguaglianze e queste si riflettono in
peggiori condizioni di salute e benessere della
popolazione, in una minore coesione sociale,
più violenze e tanti altri problemi. Abbiamo
descritto tutto ciò in un recente articolo di
questo giornale.4 Qui ci concentriamo sui
modi in cui si può ottenere una maggiore
uguaglianza attraverso la democrazia
economica.
* Questo articolo si basa su Wilkinson RG e Pickett KE, The World We Want. International Labour Review, Spring 2014
Wilkinson RG, Pickett K. The Spirit Level: Why Equality is Better for Everyone. London: Penguin, 2010.
1
Creare una società più equa
Ci sono diversi differenti approcci
all’aumento dell’uguaglianza. Più spesso
le persone pensano a una tassazione più
progressiva e a sistemi di sicurezza sociale più
generosi. Certo, dobbiamo affrontare l’elusione
fiscale, porre fine ai paradisi fiscali e mettere
in piedi una tassazione più progressiva, in
modo che i ricchi possano versare all’erario
una maggiore proporzione del loro reddito
rispetto ai meno abbienti. Tuttavia ci sono
due debolezze di fondo in questo approccio:
in primo luogo, ogni progressione su tasse e
benefit può essere stravolta dai cambiamenti
di governo, e in secondo luogo, c’è sempre la
tendenza delle persone a pensare che le tasse
siano una sorta di furto legalizzato e che il
governo stia rubando il loro denaro. Questo a
dispetto del fatto che quasi tutta la creazione
di produzione e ricchezza sia un processo
cooperativo. Gli standard di vita e il reddito
di ognuno dipendono dall’intera società e
dalle sue infrastrutture. I ricchi non sarebbero
tali senza una popolazione istruita, forniture
elettriche, sistemi di trasporto, l’accumulazione
di conoscenze tecniche e scientifiche e così via.
Gli standard di vita sono il prodotto dell’azione
combinata di un vasto numero di persone.
Un approccio ancora più basilare alla
riduzione delle disuguaglianze consiste nel
ridurre le differenze nei redditi delle persone
prima della tassazione. Nella nostra ricerca
abbiamo rilevato che alcune delle società più
eque ottengono maggiori livelli di uguaglianza
attraverso la redistribuzione, mentre in altre
si parte da differenze minori nei redditi pretassazione.1 I benefici sociali di una maggiore
uguaglianza non sembrano dipendere da come
questa maggiore uguaglianza è ottenuta.
11
Le ampie differenze di reddito che si
notano in determinati paesi sono prima di tutto
il riflesso di una tendenza dei redditi più alti a
crescere più rapidamente dei redditi del resto
della società.
Nel corso delle ultime decadi, le grandi
multinazionali sono state potenti generatrici
di disuguaglianze. Dagli anni ’70 ai primi
anni ’80, i manager delle 350 compagnie più
grandi degli Usa hanno ricevuto salari venti o
trenta volte più alti della media degli operai
manifatturieri. Nel corso del primo decennio
del ventunesimo secolo hanno ricevuto
salari 200 o 400 volte più alti.2 Tra le 100
aziende più grandi della Gran Bretagna (FTSE
100 companies), la media delle paghe dei
manager è stata circa 300 volte più alta del
salario minimo.3 Nonostante i differenziali si
siano allargati in più paesi, questo è accaduto
in maniera meno rapida che negli Usa. Gli
stipendi più alti sono stati, nel migliore dei
casi, solo debolmente legati ai risultati ottenuti
dalle compagnie. In assenza di forti sindacati
e di un efficace movimento di lavoratori, i
trend sembrano riflettere la carenza di qualsiasi
vincolo democratico che abbia efficacia sui
redditi più alti. Se è così, allora parte della
soluzione potrebbe essere mettere in piedi
vincoli efficaci estendendo la democrazia nelle
nostre istituzioni economiche.
L’importanza dei movimenti
sindacali
I cambiamenti di lungo termine nelle
disuguaglianze per i paesi più sviluppati
mostrano un’inversione a ‘U’ nel corso
del ventesimo secolo e dei primi anni del
ventunesimo secolo, con un’alta disuguaglianza
fino agli anni 30 seguita da un lungo declino
fino agli anni ’70. Da allora, intorno al 1980 o
poco più tardi, la disuguaglianza ha cominciato
a crescere fino a che, nei primi anni del
ventunesimo secolo, alcuni paesi sono tornati a
livelli di disuguaglianza mai visti dagli anni ’20.
Questo schema riflette il rafforzamento
e il successivo indebolimento dei movimenti
sindacali durante il ventesimo secolo. Se
consideriamo la quota di forza lavoro
nei sindacati come misura della forza dei
movimenti dei lavoratori, la relazione con la
disuguaglianza è palese. La Figura 1 mostra
il rapporto tra la disuguaglianza e la quota di
forza lavoro nei sindacati in 16 paesi Ocse in
vari punti tra il 1966 e il 1994.5 Ogni punto è
un paese in una data particolare. Quando gli
iscritti al sindacato calano, le disuguaglianze
aumentano. Cosa confermata anche da dati
più recenti (Figura 2). Anche in Svezia, i recenti
e rapidi aumenti delle disuguaglianze sono
associati al declino degli iscritti al sindacato
dai primi anni ’90 e in particolare dal 2006.
All’interno dei singoli paesi, gli iscritti al
sindacato e le disuguaglianze vanno di pari
passo, come si vede per esempio nel caso degli
Usa su http://www.epi.org/publication/unionsdecline-inequality-rises/.[Eisenbray R, Gordon
C. As Unions decline, inequality rises. Economic
Policy Institute 2012].
La connessione tra iscritti al sindacato e
disuguaglianze non dovrebbe essere vista
semplicemente come il riflesso di cosa riescono
a fare i sindacati per gli stipendi dei loro iscritti.
Piuttosto, la relazione indica il rafforzamento
e il successivo indebolimento della generale
influenza politica e ideologica dei movimenti
progressisti. L’aumento delle disuguaglianze,
più o meno a partire dal 1980, è quasi
sicuramente attribuibile in larga parte al potere
politico dell’ideologia neoliberista. Per ottenere
sostanziali riduzioni delle disuguaglianze in
futuro occorrerà ricreare un movimento politico
duraturo. Il ruolo della politica
Mishel L, Sabadish N. Pay and the top 1%: How executive compensation and financial-sector pay have fuelled income inequality. Issue Brief: Economic Policy Institute, 2012.
One Society. A third of a percent. London: The Equality Trust, 2012.
4
Pickett, Reducing Inequality: an essential step for development and wellbeing, Journal for a Progressive Economy, November 2013.
5
Gustafsson B, Johansson M. In search of smoking guns: What makes income inequality vary over time in different countries? American Sociological Review 1999:585-605.
2
3
Come esseri umani, abbiamo reazioni psicologiche
profondamente radicate verso le disuguaglianze
e queste si riflettono in peggiori condizioni di
salute e benessere della popolazione, in una
minore coesione sociale, più violenze e tanti altri
problemi.
Figura 1 I paesi con sindacati più forti hanno meno disuguaglianza (dati per 16
paesi Ocse 1966-1994)
40
35
Disuguaglianza (Gini)
30
25
20
15
0
10
20
30
40
50
60
70
80
% della forza lavoro nei sindacati
Fonte: G
ustafsson B, Johansson M. In search for a smoking gun: what makes income inequality vary over time in different countries? LIS Working Paper 172; 1997.
90
13
Figura 2 Copertura sindacale e Disuguaglianza salariale nei paesi Ocse
più recenti (circa 2007-10 per più paesi)
100
Belgium
Austria
Sweden
90
Finland
France
Netherlands
Denmark
80
Italy
70
Copertura sindacale
Norway
median, union coverage
60
Germany
Ireland
50
Switzerland
Czechoslovakia
40
Australia
Great Britain
Poland
Hungary
30
Canada
20
New Zealand
United States
Japan
10
median, 90/10 wage ratio
0
1.0
1.5
2.0
2.5
3.0
3.5
4.0
Tasso di salario alto su salario basso (90/10)
Fonte: Colin Gordon, Giugno 2012
4.5
5.0
– in contrapposizione alle rigide forze di mercato
– nella riduzione avvenuta nel ventesimo secolo
e nel successivo aumento delle disuguaglianze
è inoltre confermato dal Rapporto della Banca
mondiale sugli otto paesi (Giappone, Corea del
Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong, Tailandia,
Malesia e Indonesia) che sono stati chiamati
“le tigri asiatiche”.6 Il rapporto descrive come,
con programmi ben pubblicizzati di “crescita
condivisa”, tali paesi abbiano tutti ridotto
volutamente i loro differenziali di reddito nel
periodo tra il 1960 e il 1990.
Le politiche hanno incluso in vario modo
riforme agrarie, con sussidi per abbassare
i prezzi dei fertilizzanti e così rafforzare i
redditi rurali, programmi di distribuzione della
ricchezza, programmi di edilizia popolare
di larga scala e assistenza alle cooperative
di lavoratori. Il report della Banca mondiale
afferma che in tutti i casi i governi hanno
ridotto le disuguaglianze innanzitutto perché
si sono trovati in crisi di consensi, spesso per
l’opposizione dei rivali comunisti, e hanno
avuto pertanto il bisogno di un più ampio
sostegno popolare. Per esempio, la Corea
del Sud contro la Corea del Nord, Taiwan e
Hong Kong contro le rivendicazioni della Cina.
Senza dimenticare le operazioni dei gruppi
di guerriglieri comunisti. Qui come nei paesi
sviluppati, è un errore credere che i principali
cambiamenti delle disuguaglianze siano arrivati
grazie alle forze impersonali del mercato
piuttosto che a seguito di processi politici e
ideologici.
Abbiamo bisogno di aumentare le
rappresentanze dei lavoratori nei cda aziendali
e aumentare la quota nell’economia composta
da mutue, cooperative, aziende con capitale
partecipato dai dipendenti e imprese sociali.
Aziende più democratiche tendono ad avere
differenze salariali più piccole tra i dipendenti.
Nel gruppo cooperativo Madragon in Spagna
(che ha 84 mila impiegati e un fatturato
annuale di 13 miliardi) il rapporto medio tra i
salari è di 1 a 5. Nel settore pubblico i rapporti
sono in genere di 1 a 10 e di 1 a 20. Circa la
metà dei paesi appartenenti all’Unione europea
hanno attuato misure per la rappresentanza
dei dipendenti nei cda aziendali. Le diverse
misure in Europa si trovano sul sito di
Eurofound (http://www.eurofound.europa.eu/
eiro/1998/09/study/tn9809201s.htm).
Alcune misure sono molto deboli: occorre
rafforzarle in modo sostanziale e farle adottare
da tutti i paesi.
E’ evidente che il settore delle imprese
a capitale partecipato da stakeholder sta
crescendo ed è sempre più forte.7 In Gran
Bretagna le cooperative hanno avuto
prestazioni migliori del resto dell’economia nei
quattro anni precedenti il 2012, il settore delle
imprese sociali sta crescendo e va meglio del
settore delle piccole e medie imprese, mentre le
aziende con capitale partecipato dai dipendenti
hanno creato nuova occupazione in maniera
più rapida delle aziende più tradizionali, oltre a
pagare stipendi più alti ed essere al contempo
competitive. All’opinione pubblica piacciono le
aziende più democratiche, secondo una ricerca
della Co-Ops Uk del 2010 per la quale queste
sono considerate oneste, affidabili e un buon
modo di fare affari, mentre le imprese private
sono considerate spietate e avide.8
Così come per le differenze di reddito più
basse e le buone performance economiche, le
cooperative, le aziende a capitale partecipato
dai dipendenti e più in generale il settore
degli stakeholder hanno altri vantaggi. La vita
comunitaria si è indebolita sostanzialmente
nei paesi ricchi nelle ultime generazioni ma,
come Oakeshott osserva, l’assunzione di un
dipendente può trasformare un’impresa da un
pezzo di proprietà a una comunità.9 Forse un
senso più forte di comunità al lavoro potrebbe
rimpiazzare il senso di comunità che si è perso
nella zone residenziali? E’ anche probabile che
strutture meno gerarchiche al lavoro possano
iniziare a cambiare l’esperienza del lavoro,
rendendo possibile per più persone ottenere un
senso di autostima ed essere gratificate dal loro
lavoro. Ovviamente, la sensazione delle persone
di non avere il controllo al lavoro, la sensazione
di ingiustizia e lo squilibrio tra lo sforzo e
la ricompensa sono tutti aspetti connessi a
peggiori condizioni di salute e di benessere.10
Gli stipendi elevati e l’elusione fiscale
sono due indicatori di quanto problematico
possa essere il conflitto tra ricerca del
profitto e interesse pubblico. Altri indicatori
includono le azioni di contrasto, finanziate
dalle aziende, all’evidenza scientifica dei
danni associati ai prodotti, come il ruolo
delle compagnie petrolifere nell’opposizione
alla scienza del clima, la manipolazione delle
authority create per salvaguardare l’interesse
pubblico e l’influenza politica che minaccia il
funzionamento delle istituzioni democratiche.
Freudenberg nel suo Lethal but Legal:
Corporations, Consumption, and Protecting
Public Health, suggerisce che il conflitto tra
interesse pubblico e ricerca del profitto nelle
grandi aziende è oggi una minaccia maggiore
per la salute pubblica.11,12
World Bank. The East Asian miracle. Oxford: Oxford University Press, 1993.
Kerry B. From UK plc to Co-op UK: transforming the private sector. In: Hattersley R, Hickson K, editors. The socialist way: social democracy in contemporary Britain. London: IB Tauris, 2013.
8
Simon G, Mayo E. Good business? Public perceptions of co-operatives. London: Co-operatives UK, 2010.
9
Oakeshott R. Jobs and fairness: the logic and experience of employee ownership. Norwich: Michael Russell, 2000.
6
7
15
Nonostante nei paesi sviluppati viviamo in una
fase di benessere e lusso senza precedenti, siamo
comunque immersi in problematiche economiche
e sociali con enormi costi umani.
Siamo tutti toccati dall’impatto delle
disuguaglianze: queste aumentano le malattie
mentali, la depressione e l’ansia, indeboliscono
la vita comunitaria e intensificano le nostre
preoccupazioni su come siamo visti e giudicati.
Considerazioni come queste hanno
probabilmente contribuito alla rinascita di
interesse nelle strutture economiche istituzionali
più democratica. Ma allo stesso tempo, i sistemi
tradizionali di condivisione della proprietà sono
diventate sempre meno adatti al controllo delle
moderne compagnie. Un rapporto dal titolo
Workers on Board, del Congresso sindacale
britannico, ha messo in luce come negli anni
’60 la maggior parte delle partecipazioni erano
possedute da individui con un interesse di lungo
termine in piccolo numero di compagnie.13 Ma
oggi in diversi paesi la stragrande maggioranza
delle partecipazioni sono in mano a istituti
finanziari che differenziano i loro investimenti
in centinaia o persino migliaia di aziende, fanno
profitto attraverso operazioni commerciali di
breve termine e hanno una piccola o nessuna
conoscenza o nessun interesse di lungo termine
nelle compagnie in cui hanno investito. Il report
del Congresso sostiene che questo fenomeno
ha raggiunto un livello in cui una grande
compagnia quotata in borsa potrebbe avere
migliaia o decine di migliaia di azionisti e avere
difficoltà ad avere informazioni complete su di
essi.
Allo stesso tempo la moderna produzione
richiede sempre più l’apporto delle esperienze
e delle conoscenze di molte persone altamente
formate, al punto che il valore di una
compagnia è oggi dettato più dal valore del
gruppo integrato di dipendenti con le loro
competenze e conoscenze che da quello del
capitale e dei beni immobili posseduti. Questo
significa che acquistare e vendere un’impresa
corrisponde ad acquistare e vendere un
gruppo di persone. Un processo atrocemente
anacronistico, specialmente quando questo
gruppo di persone potrebbe portare avanti la
propria compagnia democraticamente.
Potrebbe sembrare un’utopia ad alcuni
lettori immaginare come il settore delle imprese
a capitale partecipato dagli stakeholder
possa competere allo stesso livello delle
grandi multinazionali e con l’aumento di
concentrazione di capitale in sempre meno
mani (si legga de Vogli a tal proposito). Ma non
è di sicuro fuori dalle competenze del governo
creare un quadro di incentivi fiscali e legislativi
per aumentare la democrazia economica.
Disuguaglianze, consumismo,
sostenibilità e qualità della vita
Nonostante nei paesi sviluppati viviamo in
una fase di benessere e lusso senza precedenti,
siamo comunque immersi in problematiche
economiche e sociali con enormi costi
umani. Siamo tutti toccati dall’impatto delle
disuguaglianze: queste aumentano le malattie
mentali, la depressione e l’ansia, indeboliscono
la vita comunitaria e intensificano le nostre
preoccupazioni su come siamo visti e giudicati.
Con il risultato di danneggiare le relazione sociali
e rendere più difficile per noi rilassarci e godere
della compagnia dell’altro. Senza dimenticare
i problemi strettamente legati alla violenza,
all’abuso di droga e al mobbing.
Ridurre le disuguaglianze non è solo la
chiave per migliorare tali aspetti della vita sociale
e del benessere, ma anche il modo per ridurre
il consumismo. Il consumismo non è il riflesso
di una natura umana profondamente votata
all’accumulo. Semmai è un segnale del potere
disfunzionale della competizione per lo status
nelle relazioni sociali. Il consumismo è in realtà
una forma alienata del segnale sociale, attraverso
la quale cerchiamo di mantenere e comunicare
un certo senso di autostima agli altri.
Bosma H, Marmot MG, Hemingway H, Nicholson AC, Brunner E, Stansfeld SA. Low job control and risk of coronary heart disease in Whitehall II (prospective cohort) study. British
Medical Journal 1997;314(7080):558-65.
11 Freudenberg N. Lethal but Legal: Corporations, Consumption, and Protecting Public Health: Oxford University Press, 2014.
12 Oreskes N, Conway EM. Merchants of Doubt: how a handful of scientists obscured the truth on issues from tobacco smoke to global warming. New York: Bloomsbury, 2010.
13 J. W. Workers on Board: The case for workers’ voice in corporate governance. In: Congress TU, editor. TUC. U.K., 2013.
10 Le politiche progressiste hanno perso di vista
l’orizzonte verso il quale dovremmo provare
a muoverci. Invece di avere un’economia al
servizio della gente, ci siamo ritrovati a servire
l’economia, a pensare che i cambiamenti sociali
ed economici non fossero più sotto controllo.
La riduzione delle disuguaglianze e la
concomitante riduzione della pressione sul
consumo potrebbe significare che nelle società
opulente le persone potrebbero essere più
propense a usare i benefici derivanti da un
incremento della produttività per garantirsi
maggiore tempo libero piuttosto che cercare
di accrescere il benessere materiale. La Nuova
Fondazione di Economia ha suggerito che
una settimana di 21 ore potrebbe diventare
la norma in un’economia sostenibile.14 Le
indagine sul benessere suggeriscono che il
consumismo implica un sacrificio di tempo
che potrebbe essere speso meglio con amici,
familiari e comunità.15
La riduzione dei problemi sociali e di
salute ottenuti da società più eque è così
ampia perché tale riduzione è stata estesa
a una larga maggioranza della società. Con
la riduzione delle disuguaglianze potremmo
non soltanto ridurre il consumismo ma anche
migliorare la qualità di vita della maggioranza
delle persone. Se i principali sforzi per
ridurre le disuguaglianze fossero focalizzati
sull’espansione della democrazia economica
in tutte le sue forme – rappresentanze di
lavoratori e sindacati nei cda, mutue, aziende
con capitale partecipato dai dipendenti
e cooperative – allora potremmo anche
cominciare a trasformare il modo in cui
la gente vive il lavoro. La vita di comunità
potrebbe essere più solida e lo stato di
insicurezza ridotto.
L’indebolimento del movimento operaio
durante gli ultimi 25 anni del ventesimo
secolo è stato accompagnato anche dal
declino di qualsiasi visione comune di stampo
progressista su come migliorare le nostre
società. Le politiche progressiste hanno perso
la capacità di visualizzare un orizzonte verso il
quale muoversi. Invece di avere un’economia al
servizio della gente, ci siamo ritrovati a servire
l’economia, a pensare che i cambiamenti sociali
ed economici non fossero più sotto controllo.
Il risultato è stato una politica che ha perso
idealismo e capacità di ispirare. I tentativi di
riforma vanno in pezzi e perdono coerenza e
orientamento: non sono più visti come passi
verso un futuro migliore.
Oggi abbiamo bisogno di una nuova
visione che sia d’ispirazione per attuare una
transizione non solo verso la sostenibilità ma
anche verso una società capace di migliorare la
qualità della vita di ognuno di noi. Nell’ultimo
periodo delle politiche progressiste, tra gli anni
’60 e ’70, c’è stato un fallimento nel concepire
e produrre cambiamenti strutturali necessari
ad assicurare il progresso. Il risultato è stato
che il progresso si è fermato e in alcuni casi si
è andati indietro. Oggi è urgente intraprendere
un audace lavoro concettuale per creare un
punto di vista su un futuro sostenibile che ispiri
le persone, per discutere, sviluppare e mettere
a punto le nostre visioni al fine di assicurare
che in futuro potremmo dar vita a un progresso
reale massimizzando in modo sostenibile il
benessere umano.
Tanto la ricerca di sostenibilità, quanto
la massimizzazione del benessere implicano
cambiamenti in alcuni aspetti controproducenti
dei nostri sistemi economici e sociali. L’umanità
non può sviluppare stili di vita sostenibili
sulla base di forti disuguaglianze a livello
internazionale e di un consumismo sfrenato,
con la nostra vita economica dominata da
potenti corporation che evitano qualsiasi tipo di
responsabilità democratica. ■
Coote A, Franklin J, Simms A, Murphy M. 21 Hours: Why a Shorter Working Week Can Help Us All to Flourish in the 21st Century: New Economics Foundation, 2010.
The Harwood Group. Yearning for balance: Views of Americans on consumption, materialism, and the environment. Takoma Park, Maryland: Merck Family Fund, 1995.
14 15 17
Come i Cambiamenti della Famiglia e le
Disuguaglianze di Reddito colpiscono le
Opportunità di Vita dei Bambini
Gøsta EspingAndersen,
Professore di
Sociologia, Universitat
Pompeu Fabra,
Barcellona
Questo articolo, scritto da
uno dei membri del nostro
comitato scientifico, solleva
il problema del forte impatto
che le disuguaglianze avranno
sulla prossima generazione se
non saranno prese le giuste
contromisure. Oggi, nella maggior
parte dei paesi Ue, un bambino
su cinque vive sotto la soglia di
povertà. Esping-Andersen attira
l’attenzione sul gap crescente
tra genitori con alti livelli di
istruzione e quelli con bassi
livelli e sul tempo investito
nei bambini. Questi trend
preoccupanti prefigurano un
futuro preoccupante e alti livelli
di disuguaglianza nelle vite dei
nostri bambini.
Le nazioni più avanzate hanno assistito
all’aumento della disuguaglianza di reddito
negli ultimi decenni. In alcuni casi, come
negli Usa e in Gran Bretagna, anche in modo
abbastanza drammatico. E’ largamente
condiviso che il trend è determinato
innanzitutto dai gap salariali crescenti tra il
basso e l’alto. Chi ha competenze elevate
ha visto crescere il proprio salario, mentre
i lavoratori sotto qualificati hanno dovuto
affrontare salari ridotti e disoccupazione.1
Basterebbe questo a negare pari opportunità
alla prossima generazione, ai bambini di oggi.
Ci saranno sempre più differenze tra i genitori
nella capacità di investire nel futuro dei loro
bambini diventerà e questo dovrebbe a sua
volta ridurre la mobilità intergenerazionale.2
Ciò su cui si è meno dibattuto è come la
parallela trasformazione demografica delle
famiglie possa esacerbare questi trend. Si
tratta di due tipologie di cambiamento che
potrebbero portare a una polarizzazione sociale
o, come dice Sarah McLanahan, produrre un
mondo di destini divergenti.
I cambiamenti nelle famiglia si
stanno polarizzando?
Le prime bugie in un’improvvisa – e
abbastanza inaspettata – inversione di rotta nel
comportamento di coppia. Nel passato, i più
istruiti erano meno inclini a sposarsi e più portati
al divorzio. Questo modello si sta invertendo
e, come risultato, testimoniamo una crescente
concentrazione di famiglie fragili nella fascia meno
istruita (e a più basso reddito) della popolazione.
Per semplificare da una mia ricerca, il tasso di
divorzio tra gli americani meno istruiti è due volte
più alto rispetto ai più istruiti. Riscontriamo più o
meno lo stesso modello in Europa.3 Ugualmente,
troviamo una concentrazione ancora più alta di
nuclei monoparentali tra le madri meno istruite
e meno pagate (o inattive). Che sia in Svezia o
negli Stati Uniti, circa l’80 per cento di tutti i nuclei
monoparentali sono situato nel più basso quintile
di reddito. La figura sotto presenta i più recenti
tassi di povertà infantile per paese (dalla metà
alla fine del primo decennio del secolo). La soglia
di povertà è in questo caso il 50 per cento del
reddito medio.
Per una panoramica sul tema: C. Goldin and L. Katz, The Race between Education and Technology. Belknap Press (2008)
Un’eccellente sintesi di come le disuguaglianze intacchino la struttura delle opportunità si trova in Miles Corak, ‘Income inequality, equality of opportunity, and intergenerational
mobility’. IZA Discussion Paper, no. 7520 (2013).
3
Riportato in G. Esping-Andersen (2009), The Incomplete Revolution. Cambridge: Polity Press
1
2
19
Nei paesi anglosassoni e mediterranei un
bambino su cinque vive in povertà; questo
rischia di essere la norma tra le famiglie con
genitori single. E in alcuni casi il trend è ancora
più critico. Il tasso di povertà infantile in Gran
Bretagna è cresciuto di circa 25 per cento negli
ultimi due decenni ed è il doppio in Spagna.
Ancora peggio, dove la povertà infantile
è diffusa, questa tende anche a essere più
persistente. La mia stima (basata sui dati dei
panel ECHP e US PSID) mostra che negli Usa
almeno il 60 per cento della famiglie povere
con bambini rimangono tali per 3 o più anni.
Niente a che vedere con il 3 per cento della
Danimarca o il 9 per cento della Germania.4
Ma questa è una prima importante lezione
da imparare. Quando le madri lavorano, la
povertà infantile si riduce notevolmente. Tra
le famiglie con due genitori praticamente
scompare; per la madri single il tasso cala
nettamente. I dati in Svezia lo illustrano bene:
nelle coppie con un solo lavoratore, la povertà
infantile è al 18,5% e diminuisce all’1,4
quando ci sono due lavoratori; nelle famiglie
con un solo genitore disoccupato troviamo un
tasso di povertà del 54,5% che cala all’11%
quando lei è occupata. Nei paesi nordici hanno
una situazione migliore, in merito alla povertà
infantile, grazie al loro straordinario welfare
state e alla quasi piena occupazione delle
donne madri.5
Questo mi porta alla seconda tipologia
di cambiamenti demografici famigliari, ossia
l’impennata di occupazione di donne e in
particolare di madri. Questa è ovviamente una
buona notizia visto che incide positivamente
Povertà infantile.
Tutte le Famiglie
Povertà infantile
Famiglie con madri single
60
50
40
30
20
10
0
Denmark
Sweden
Norway
Netherlands
France
Germany
UK
Italy
Spain
US
Fonte: Luxemburg Income Study Cross-Natural data. Si definisce povertà quella al di sotto del 50% del reddito medio (aggiustato).
G. Esping-Andersen and J. Myles, ‘Economic inequality and the welfare state’. Chapter 25 in W. Saverda, B. Nolan and T. Smeeding, eds. The Oxford Handbook of Economic
Inequality. Oxford University Press (2009).
5
Questi dati si possono trovare nel family data base dell’OECD.
4
Società che permettono forti disuguaglianze nel
welfare per i bambini finiranno inevitabilmente
per disinvestire nel loro potenziale produttivo.
sulla povertà infantile, ma potrebbe anche
aggravare le disuguaglianze. Perché?
Prima di tutto, è chiaro che la crescita della
forza lavoro femminile è stata socialmente
asimmetrica. Le donne più istruite generalmente
mostrano tassi più alti di occupazione rispetto
a quelle a basso livello di istruzione. E quanto le
seconde fanno un lavoro, sono più propense a
interromperlo e/o a chiedere un part-time. Dove
il gradiente sociale della forza lavoro femminile
tende più verso l’alto ci si aspetterebbe un
effetto aggiuntivo di disuguaglianza a livello
famigliare.
Questo è così specialmente da quando
l’“assortative partnering” è in crescita, in
particolare nella parte bassa e in quella alta
della piramide sociale. Nelle società più
avanzate, circa metà di tutte le coppie occupate
appartengono allo stesso “quintile” di reddito.6
Due professionisti raddoppieranno i loro redditi
alti e perciò si distanzieranno dal resto. E se
l’occupazione femminile è particolarmente bassa
tra i meno istruiti, la base della piramide andrà
ancora più in basso in termine di reddito relativo.
Ma è il reddito femminile, a conti fatti, a
provocare una più ampia polarizzazione del
reddito? Logica viole che sia più probabile che
questo accada dove le asimmetrie educative
nella forza lavoro femminile siano grandi, come
nelle prime fasi della “rivoluzione” femminile.
Comparando le nazioni, ci aspetteremmo
dunque un effetto produttivo di disuguaglianze
in paesi come Italia o Spagna, ma non in
Scandinavia dove praticamente tutte le donne
lavorano. E quindi, qui i fattori demografici
familiari aggiuntivi potrebbero giocare un ruolo
maggiore – in primo luogo nella propensione
al partner. Per esempio, in certi paesi le donne
molto istruite hanno molte più probabilità di
restare single e questo potrebbe ovviamente
ridurre l’effetto bonus sul reddito associato con
l’essere una coppia con alto livello di istruzione
e con doppio reddito. Ma ancora una volta
ci troviamo qui a testimoniare un’autentica
inversione di rotta (più visibile negli Usa): i tassi
di matrimoni in crescita tra i più istruiti vanno in
parallelo all’aumento dei single tra i meno istruiti.
Sorprendentemente ci sono state poche
ricerche in questo caso ed è dunque difficile
presentare conclusioni solide. In uno dei pochi
studi che si focalizzano direttamente sull’effetto
del matrimonio assortativo, l’economista
americano Hyslop conclude che l’occupazione
delle donne aumenta le disuguaglianze, prima
di tutto perché quelli che guadagnano alti
stipendi tendono a sposarsi tra loro. Ma il peso
dell’evidenza indica la direzione opposta. Studi
più recenti concludono che l’effetto del reddito
femminile sta producendo uguaglianza in
sostanzialmente tutte le nazioni avanzate, incluse
quelle dove la rivoluzione femminile è più lenta.7
O, per essere più precisi, con l’occupazione
femminile che diventerà sempre più universale,
il suo potenziale di produzione di uguaglianza
crescerà. Questo spiega perché troviamo in
maniera sistemica effetti fortemente egualitari in
Scandinavia. Il motivo per cui osserviamo questo
anche in nazioni con un profilo ancora più
distorto di forza lavoro è meno evidente.
Una spiegazione interessante è l’effetto di
riduzione della povertà da parte dell’occupazione
femminile. Una seconda spiegazione è che il
trend verso la polarizzazione delle remunerazioni
si riscontra soprattutto tra i maschi e molto meno
tra le donne. E una terza sta nella redistribuzione
del governo: famiglie a basso reddito ricevono
più trasferimenti mentre quella ad alto reddito
sono tassate più fortemente.
Per dati dettagliati si può consultare il capitol 5 in OECD’s Divided We Stand (OECD, 2011)
Forse la migliore panoramica sul tema si può trovare in Susan Harkness, ‘Women’s employment and household economic inequality’. Chapter 7 in J. Gornick and M. Jantti, eds.
Income Inequality: Economic Disparities and the Middle Class. Stanford University Press (2013). See also OECD’s Divided We Stand (2011)
6
7
21
Le opportunità di vita dei
bambini si stanno davvero
polarizzando
La foto della famiglia cambia e l’aumento
delle disuguaglianze economiche sta
decisamente peggiorando le strutture di
opportunità per le prossime generazioni. Quando
la forbice tra gli standard di vita delle famiglie si
allarga, allo stesso modo cresce la capacità dei
genitori a investire nella loro prole. Infatti, recenti
ricerche negli Usa rivelano un abisso sempre
più profondo: negli ultimi decenni, i genitori nel
quintile di reddito più alto hanno triplicato le loro
spese per i bambini mentre il trend è stagnante
nell’ultimo quintile. L’effetto netto è che le
famiglie ad alto reddito adesso spendono sette
volte di più per un bambino di quanto facciano
quelle con basso reddito. Questo ha un’influenza
sulla salute dei bambini e sulla qualità della loro
assistenza e dell’esperienza scolastica.8 L’effetto
sul reddito è particolarmente forte per le famiglie
povere, più negli Usa che in Europa. Ma questo
è solamente un problema di titolo. Un bambino
povero ha più probabilità di vivere in peggiori
condizioni di salute e, in media, abbandonerà
la scuola due anni prima rispetto a un bambino
non povero. Questo ultimo successivamente
passa a un’istruzione di livello ancora più alto e,
infine, all’età adulta. Un bambino di una famiglia
povera ha più del doppio delle possibilità rispetto
agli altri di diventare un genitore povero.9
Disuguglianza di reddito e Mobilità intergenerazionale dei redditi
Gini
Disuguaglianza
0,6
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
0
Denmark
Norway
Finland
Canada
Sweden
Germany
France
Italy
Spain
Fonte: il grafico è riprodotto da G. Esping-Andersen, The Incomplete Revolution (Chapter 4)
Questi effetti sono ben documentati in G. Duncan and R. Murnane, eds, Whither Opportunity? Rising Inequality, Schools, and Children’s Life Chances. Russell Sage (2011)
Una sintesi degli effetti sui bambini presentati qui si può trovare in G. Esping-Andersen (2009: Chapter 4 )
8
9
Sebbene i crescenti dualismi
nel welfare per l’infanzia
siano prodotti dall’ampliarsi
dei differenziali di reddito
o di genitorialità (o peggio,
dai due fattori al contempo),
il risultato netto sarà
probabilmente lo stesso:
meno mobilità generazionale.
E’ difficile spiegare il preciso meccanismo
causale che produce questi risultati: è
semplicemente un effetto legato al reddito?
O ci sono dei fattori reali da cercare tra
le caratteristiche dei genitori? Come
sottolineano gli esperti di sviluppo infantile e
più recentemente, James Heckman, tutti le
evidenze mostrano che i semi delle opportunità
di vita dei bambini vanno colti presto, in
particolare nell’età prescolastica. Questo è
vero anche quando sono più dipendenti dai
loro genitori – non soltanto economicamente,
ma forse ancora più importante in termini di
apprendimento e sviluppo cognitivo. E qui
osserviamo ancora una volta uno scenario
di destini divergenti. C’è prima di tutto un
gap che si sta allargando tra genitori con alta
istruzione e quelli con bassa istruzione per
quanto riguarda il tempo speso con i bambini
e la qualità di questo tempo. I più istruiti
dedicano circa due volte il tempo speso dai
meno istruiti, hanno grosso modo il doppio
delle probabilità di leggere con i loro bambini
ogni giorno e faranno conoscere anche un
vocabolario più ricco che, più avanti, darà
ampiamente i suoi frutti. Questa propensione
tende sicuramente a rafforzarsi in quanto il
divorzio e la monogenitorialità sono sempre più
concentrati nella fascia socio-economicamente
bassa della popolazione. Dagli studi OCSE-PISA
si vede per esempio che i bambini di madri
single, in media, avranno un punteggio del
10% inferiore sui test cognitivi rispetto a quelli
con due genitori (a parità di altri fattori).
La curva del Grande Gatsby
Sebbene i crescenti dualismi nel welfare
per l’infanzia siano prodotti dall’ampliarsi dei
differenziali di reddito o di genitorialità
Qui ancora una volta attingo ampiamente da Corak (2013, op.cit).
10 (o peggio, dai due fattori al contempo), il
risultato netto sarà probabilmente lo stesso:
meno mobilità generazionale.10 La “Curva del
Grande Gatsby” è stata coniata per la prima
volta da Alan Kruger come un modo per
illustrare come la struttura delle opportunità
per le generazioni future è influenzata dai
livelli di disuguaglianza raggiunti nel corso
dell’infanzia.
La curva mette in relazione due variabili:
in primo luogo, la forza dell’associazione tra
reddito dei genitori e della prole (quando il
bambino è adulto); più alta è la correlazione
e minore è la mobilità; e, in secondo luogo, il
livello di disuguaglianza di reddito (misurato
con il coefficiente Gini) che ha prevalso durante
l’infanzia. Quello che raffigura la Curva del
Grande Gatsby è sicuramente una curva
inclinata positivamente. Paesi come l’Italia, la
Gran Bretagna e gli Stati Uniti con i più alti livelli
di disuguaglianza di reddito sono gli stessi nei
quali troviamo un forte correlazione tra i redditi
del bambino e del genitore. E viceversa, la
mobilità inter-generazionale è ancora più grande
– per la precisione quasi tre volte – in paesi
(come quelli nordici) dove la disuguaglianza di
reddito è modesta. La figura qui sotto lo spiega.
Conclusioni
Ci sono due ragioni oggi per le quali
dovremmo preoccuparci della crescita delle
disuguaglianze nella vita dei nostri bambini.
Per prima cosa, demograficamente parlando,
stiamo invecchiando; nei paesi a bassa fertilità lo
scenario della futura popolazione è drammatico.
Il nostro benessere quando saremo anziani
dipenderà non semplicemente dal numero di
giovani produttori di reddito, ma anche dalla
qualità del loro capitale umano. Società che
permettono forti disuguaglianze nel welfare
per i bambini finiranno inevitabilmente per
disinvestire nel loro potenziale produttivo. I
risultati dell’indagine OCSE-PISA lo dimostrano
con grande chiarezza. In paesi come gli Stati
Uniti e la Spagna, un quinto dei quindicenni
hanno ottenuto un risultato al di sotto dei
minimi PISA; in società più egualitarie (come
quelle tedesca e nordiche) la quota delle
disfunzioni cognitive giovanili è sotto il 10%.
La seconda ragione è semplicemente
quella per cui il mondo che il Grande Gatsby
incarna rappresenta una violazione diretta delle
concezioni di base di giustizia e uguaglianza
sociale che sostengono la nostra civilizzazione. ■
23
Trend Recenti nelle
Disuguaglianze di Reddito
nei Paesi Sviluppati
Timothy Smeeding,
Direttore dell’Istituto
per la ricerca sulla
povertà e Professore
emerito di Relazioni
pubbliche in Arti e
Scienze, La Follette
School of Public
Affairs, University of
Wisconsin-Madison
Questo articolo1 riesamina le
disuguaglianze di reddito nei
paesi Ocse. La Gran Bretagna e
la Grecia sono in cima alla lista,
con le società più diseguali,
e inoltre mostrano anche un
trend preoccupante in merito
alla crescita della distanza tra le
fasce più basse e quelle medie di
queste società.
Introduzione
Il dibattito sulle disuguaglianze di reddito
e i suoi effetti sulle opportunità, sulla mobilità
sociale e su altri fenomeni è di forte attualità
in parte a causa della Grande Recessione e
in parte a causa della disponibilità di dati di
lungo termine sul reddito dell’1 per cento
più alto di unità fiscali nelle nazioni più
ricche. Questo articolo riesamina i trend
recenti nelle disuguaglianze di reddito per i
paesi relativamente ricchi (OCSE), fornendo
i principali dati su questi trend e suggerendo
le maggiori problematiche da tenere in
considerazione quando si discute dei modelli di
disuguaglianza delle nazioni ricche.
Ci sono diverse ragioni che spiegano
l’interesse crescente nella questione
distributiva. In primo luogo, diversi paesi hanno
raggiunto livelli di disuguaglianza che si sono
visti soltanto alla vigilia della seconda guerra
mondiale, ponendo preoccupazioni pressanti
riguardo l’inclusività e la giustizia sociale dello
sviluppo economico, così come sull’efficacia
e sul futuro delle politiche sociali. In secondo
luogo, una crescente concentrazione di reddito
e benessere nelle mani di pochi pone serie
sfide ai principi del buon funzionamento delle
democrazie così come il potere economico
genera potere e condizionamenti politici. Per
ultimo ma non per importanza, nonostante
la portata della recente crisi, le problematiche
distributive sono lontane dall’essere al centro
del dibattito politico.
Infatti, le risposte politiche più comuni sulla
scia della crisi, come le politiche di austerità
per limitare l’intervento del governo e la
ridistribuzione, possono esacerbare piuttosto
che ridurre la portata di concentrazione del
reddito.
La buona notizia è che la disuguaglianza
può ora essere esaminata con una nuova
ricchezza di dati che si sono resi disponibili nel
corso degli ultimi 15 anni.
Anche se questo amplia la possibilità di
analisi, si deve essere consapevoli dei limiti e
delle carenze che affliggono i dati così come il
tentativo di confrontare le tendenze ei livelli in
tutti i paesi.
Esaminando la distribuzione del
reddito
Quando si esplora la disuguaglianza ci sono
almeno due questioni principali da chiarire: la
natura della dimensione sociale sotto inchiesta
e l’indicatore di disuguaglianza che usiamo
(compresa la sorgente dei dati).
Gli autori desiderano ringraziare la loro organizzazione per il sostegno a questo lavoro, precisando di essere comunque i soli responsabili per tutte le opinioni e le conclusioni espresse.
Per riconoscere la grandezza e la composizione delle famiglie, ogni reddito famigliare dovrebbe essere anche equivalentizzato (diviso attraverso una scala equivalente) in modo che
i costi extra di numerose famiglie e delle economie di scala siano prese in considerazione. La scala equivalente usata qui è la “scala OCSE modificata”, che assegna un peso pari a
0,3 per ogni bambino, un peso pari a 1 per il primo adulto e di 0,5 per ogni componente aggiuntivo. Per esempio il reddito di una famiglia composta da due adulti e un bambino
dovrebbe essere diviso per un fattore pari a 1,8.
3
C’è molto più accordo sulla definizione “ideale” di reddito e l’argomento è stato largamente indagato (si vedano le due raccomandazioni delle relazioni del Gruppo di esperti sulle
statistiche bilanci delle famiglie - Canberra Reports 2001 e 2011) consentendo a molti ricercatori e istituti di statistica di produrre dati comparabili secondo precise linee guida. “I dati
di consumo non sono ancora abbastanza paragonabili per essere utilizzati per l’analisi transnazionale; la comparabilità dei dati sulla ricchezza è all’inizio, ma non è ancora matura.
Ci sono solo sporadici studi transnazionali sulla ricchezza o sull’indigenza”, per usare le parole usate nel nostro recente articolo per il secondo volume dell’Handbook of Income
Distribution (Morelli, Smeeding e Thompson, di prossima pubblicazione).
4
Il confronto tra reddito familiare lordo e quello disponibile mette in luce il ruolo della redistribuzione fiscale nel tempo e all’interno dei paesi.
1
2
25
Prima di tutto, ci concentriamo sui redditi
delle famiglie derivanti dal mercato (MI)2 e non
su ricchezza, consumo o altre dimensioni di
benessere.3, 4
Inoltre ci concentriamo sul reddito
disponibile delle famiglie (DHI - proventi
di mercato al netto delle imposte dirette e
dei contributi sociali, compresi le liquidità
del settore pubblico ed i trasferimenti di
reddito quasi monetario). In secondo luogo,
il coefficiente Gini è usato per descrivere il
grado di concentrazione o disuguaglianza.5
L’indicatore può assumere valori da 0 a
100 e indica la presenza di una maggiore
disuguaglianza come nell’aumento del Gini
osservato.6 I coefficienti di Gini analizzati qui
sono presi unicamente dal dataset7 dell’OCSE.
Questa è considerata una scelta appropriata
per due ordini di ragioni. Prima di tutto, i dati
permettono una comparabilità tra paesi dei
livelli di disuguaglianza e dei trend fino ad
un periodo di tempo più recente. In secondo
luogo, si possono trovare coefficienti Gini sia
per il reddito disponibile che per quello di
mercato in diversi paesi OCSE.
La Situazione della
Disuguaglianza nelle Nazioni
Ricche
Questi dati rivelano tendenze nella
disuguaglianza per i paesi OCSE dalla
metà degli anni ’70 alla metà degli anni
’80 come illustrato nella Figura 1; e in
Figura 2, la tendenza a lungo termine nella
disuguaglianza.8
Livelli
I paesi della Tabella 1 sono disposti secondo
il loro livello di disuguaglianza misurato con il
DHI (dopo le tasse e il trasferimento di reddito)
e mostra anche la disuguaglianza di MI e la
differenza tra i due a causa della ridistribuzione
fiscale e delle politiche di trasferimento.
Cominciamo con l’estremità superiore delle
barre. Il Regno Unito e la Grecia sembrano
essere i paesi OCSE più diseguali stando al più
recente coefficiente di Gini per l’“MI of 52”
(reddito di mercato prima delle imposte dirette
e dei trasferimenti). Questi paesi sono seguiti
da vicino da Francia, Italia, Israele e Stati Uniti.
All’altra estremità dello spettro, i più bassi
MI Gini si trovano nei Paesi Bassi, Norvegia,
Danimarca e Svezia.
La disparità di reddito è ridotta attraverso
la tassazione e trasferimenti finanziari come
indicano le barre scure inferiori. Tuttavia,
l’effetto redistributivo della tassazione e dei
trasferimenti di reddito varia sensibilmente da
un paese all’altro.
Infatti, le imposte dirette e i trasferimenti
riducono le differenze attese per singolo
paese tra i redditi di qualsiasi coppia casuale di
famiglie (in percentuale del reddito) di circa 24
punti percentuali (2*12 per cento) negli Stati
Uniti e Canada o di 44 punti percentuali (2*22)
per il Belgio e la Finlandia. Queste differenze
non sono correlate con l’MI Gini in quanto le
differenze minori, di 12-14 punti tra l’MI e il
DHI Gini, si riscontrano in paesi ad alto tasso
di disuguaglianza di DHI (Israele, USA) e paesi
con un tasso più equo di DHI (Olanda). I paesi
con grandi effetti redistributivi (20 o più punti
percentuali) sono la Francia, la Germania, il
Salvatore Morelli,
Ricercatore
universitario - CSEF –
Università di Napoli
“Federico II”
Jeffrey Thompson,
Economista, Board
of Governors of the
Federal Reserve
System
E’ apprezzabile notare che il coefficiente di Gini non è il solo indicatore disponibile sulla disuguaglianza né necessariamente il migliore. A chi interessato, consigliamo di leggere
Atkinson e Morelli(2012) e Morelli, Smeeding e Thompson (di prossima pubblicazioni) per un’ulteriore discussione sui differenti indicatori sulla disuguaglianza.
6
Il coefficiente di Gini ha una più intuitiva, sebbene meno usata, interpretazione: “Un coefficiente di Gini dello G per cento significa che, se prendiamo 2 famiglie a casa dalla popolazione,
la differenza attesa nei loro redditi è 2G volte la media”. (Atkinson and Morelli, 2012) Questo è, per esempio, particolarmente d’aiuto nell’interpretare gli effetti redistributivi delle tasse e
dei trasferimenti (riduzione nel coefficiente di Gini) come una specifica riduzione nella differenza attesa nei redditi tra tutte le famiglie all’interno di un’economia.
7
Si veda il database sulla distribuzione dei redditi dell’OCSE, disponibile su http://www.oecd.org/els/soc/income-distribution-database.htm. Un’altra importante fonte di dati sulla
disuguaglianza e per una più ampia lista di paesi e per un periodo più lungo è il database del Luxembourg Income Study( LIS) (http://www.lisdatacenter.org).
8
I valori reali sono in Appendice Tavola 1
5
Belgio e la Finlandia. Quelli con differenze di 15
punti o meno nel Gini includono Giappone e
Australia.
Grandi differenze nella redistribuzione
delle nazioni suggeriscono che la classifica
delle disuguaglianze non si mantiene sempre
spostandosi dall’MI al DHI Gini. In particolare,
sebbene Stati Uniti, Regno Unito e Israele si
distinguano ancora per la loro distribuzione più
diseguale,9 Italia e Francia mostrano molta più
uguaglianza ora rispetto agli anni precedenti
(vedi Appendice Tabella 1). In Figura 1, vi è una
correlazione molto più elevata per gli MI Gini
rispetto ai DHI Gini, cosa che suggerisce che le
differenze di imposte e di politiche previdenziali
sono fattori importanti della disuguaglianza
misurata con il DHI.
Trend
Osserviamo nella Figura 1 (e Appendice
Tabella 1) che tutti i paesi hanno sperimentato
un notevole ampliamento delle disuguaglianze
nei redditi di mercato dalla metà degli anni
‘80 (gli Usa hanno registrato un aumento del
Gini di circa 6 punti percentuali, dal 44 al 50,
mentre il Canada e il Regno Unito hanno avuto
un incremento di 5 punti). L’unica eccezione è
l’Olanda, dove il Gini lordo è diminuito durante
gli anni 2000 dopo un aumento nella metà
degli anni ‘90.
Ancora più importante, quasi tutti i paesi
hanno sperimentato crescenti disuguaglianze
nel reddito disponibile sin dai primi anni ‘80, e
solo in alcuni casi la distribuzione del reddito
disponibile ha raggiunto un livello stabile (i
casi più importanti sono Giappone, Italia e
Regno Unito). Gli Stati Uniti hanno assistito
a forti aumenti nella disuguaglianza negli
anni ‘70 e ‘80 e solo modesti aumenti nella
seconda metà degli anni ‘90. Tuttavia, il livello
di disuguaglianza alla fine degli anni 2000
non era lontano da quello sperimentato nei
primi anni ‘90. La disuguaglianza in altri paesi
ha visto un calo negli anni ‘70 o ‘80 prima di
aumentare negli anni ’90 (Finlandia, Svezia e
Canada).
L’evoluzione della disuguaglianza nel
reddito disponibile (equivalente) delle famiglie
è pertanto il chiaro risultato dell’evoluzione dei
Questo modello resta praticamente immutato dalla metà degli anni ’70 a intorno al 2010.
9
sistemi di tassazione e di trasferimento in un
determinato paese.
Ulteriori analisi di questi dati avrebbero
trovato che la maggior parte della crescita della
disuguaglianza è dovuta al fatto che l’estremità
superiore della distribuzione del reddito si sta
allontanando dalla linea mediana. Questo è più
sicuramente il caso in nazioni come la Svezia e
le nazioni anglosassoni (Canada, Regno Unito,
Australia, Stati Uniti). Ma per meglio esaminare
i cambiamenti al vertice della distribuzione,
possiamo attingere a dati fiscali che registrano
con più chiarezza e costanza queste modifiche.
Fasce di reddito più elevato
Questa sezione si concentra su una
nuova serie di dati (il World Top Income
Database, WTID) calcolati dalle statistiche
fiscali, descrivendo la quota di reddito
nazionale pre-imposte pre-trasferimenti che
si matura a favore della percentuale più ricca
di popolazione di un paese, o le cosiddette
“quote di reddito più elevato”.
Questi dati sono costruiti a partire da
tasse e atti amministrativi o da tabulazioni
raggruppate, e sono particolarmente adatti
per stimare i redditi di mercato della parte
superiore della distribuzione del reddito. Il
reddito dei ricchi è davvero molto difficile da
individuare con le indagini sulle famiglie. Da
un lato, l’uso di metodi di topcoding limita
l’osservazione by construction di alti redditi.
I dati basati sul fisco hanno anche i loro
limiti. Più in particolare, l’evasione e l’elusione
fiscale potrebbero influenzare in modo
sostanziale la vera quota del reddito nazionale
riguardante le unità fiscali ricche. Allo stesso
modo, i cambiamenti nella legislazione
fiscale potrebbero portare a un’espansione
o a una riduzione della base imponibile,
permettendo l’inclusione o l’esclusione di un
mercato particolare o di altre fonti di reddito,
e potrebbero anche influenzare il livello e
potenzialmente il trend nelle fasce di reddito
più elevato. Inoltre, questi dati sono registrati
per unità fiscali, non per famiglie, e non ci può
dire altro se non in merito alla redistribuzione.
27
Una crescente concentrazione di reddito e
benessere nelle mani di pochi pone serie sfide ai
principi del buon funzionamento delle democrazie
così come il potere economico genera potere e
condizionamenti politici.
I nuovi dati chiariscono che per la maggior
parte dei paesi oggetto dell’inchiesta il grosso
delle azioni di distribuzione del reddito sono
avvenute nelle fasce alte, specialmente dagli
anni ’80. È possibile che gli andamenti delle
disuguaglianze di reddito come mostrato in
Figura 1 sono sottostimati nella misura in cui
essi non stanno fotografando completamente
ciò che sta accadendo nelle fasce alte.
I Trend nelle Quote più alte
La Figura 2 descrive la dinamica dell’1%
più alto del reddito nazionale per tutti i paesi
dell’OCSE disponibili con quote standardizzate
a 100 nel 1980. Abbiamo raggruppato gruppo
i paesi in diversi cluster: paesi europei nordici
(Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia),
Europa meridionale (Italia, Portogallo e Spagna),
Occidente di lingua inglese (Australia, Canada,
Irlanda, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati
Uniti) ed Europa continentale (Francia, Germania,
Paesi Bassi e Svizzera) insieme al Giappone.
I risultati indicano chiaramente che l’1%
più alto è cresciuto nella maggior parte dei
paesi oggetto dell’inchiesta. Il modello comune
assume la forma di una U, ma l’estensione della
“inversione a U” e la tempistica del punto di
svolta variano tra i gruppi di paesi. In generale,
le fasce più alte hanno subito una contrazione a
partire dal periodo post-bellico prima di invertire
l’andamento nei primi anni ‘80 e ‘90. Mentre
l’Europa meridionale e i paesi anglosassoni
hanno sperimentato un rimbalzo della crescita
per le fasce più alte nei primi anni ‘80, i paesi
nordici e dell’Europa continentale (Giappone
compreso) hanno assistito a una relativamente
modesta crescita delle fasce più alte nel corso
degli anni ‘80, prima di mostrare segnali più
chiari di un aumento della concentrazione del
reddito durante gli anni ‘90.
L’ aumento della disuguaglianza varia
anche tra paesi. Per esempio, tra il 1980 e il
2010, l’1% più alto è aumentato del 40 per
cento e del 15 per cento rispettivamente in
Italia e in Spagna.
Tuttavia, nello stesso periodo, l’1% più
alto è più che raddoppiato in Portogallo.
In Francia e Giappone, per i quali c’è una
copertura completa di dati per il periodo, la
quota superiore è aumentata rispettivamente
di circa il 15 per cento e di quasi il 30 per cento
tra la metà degli anni ‘90 e la metà degli anni
2000 (con l’eccezione della Norvegia, dove
l’1% più alto è raddoppiato10 tra il 1990 e
il 2000. Dopo il 1990 gli aumenti sono stati
più modesti in altri paesi nordici. La fascia più
alta della Danimarca è aumentata del 15 per
cento tra la fine degli anni’80 e la fine degli
anni ‘90, per poi diminuire nuovamente nei
tardi anni ‘90 e nei primi anni 2000. La crescita
post-1990 delle fasce più alte sembra essersi
arrestata in Finlandia e in Norvegia negli anni
2000. Eppure, la Svezia mostra un aumento
più costante e graduale per l’1% più alto: una
variazione percentuale cumulativa del 70% a
partire dagli anni ‘80.
L’ondata dei redditi più alti è
particolarmente forte nei paesi di lingua inglese
(tranne la Nuova Zelanda). Australia, Canada,
Regno Unito e Stati Uniti hanno visto i loro
“top 1%” crescere del 60-70 per cento tra il
1990 e l’inizio della crisi finanziaria del 2007;
l’Irlanda ha assistito alla crescita di circa il 90
per cento nello stesso periodo. La ciclicità
delle quote dei redditi più alti è chiara anche
nei trend con il WTID. Le recessioni hanno
depresso i redditi dei ricchi soprattutto, ma la
ripresa dei loro redditi è stata più forte.
Nel 2005, la Norvegia ha sperimentato un picco, insolitamente ampio, nella fascia dell’1% più ricco. Questo è attribuibile all’anticipazione dei pagamenti dei dividendi in vista dei
cambiamenti nella politica fiscale annunciati per il 2006.
10 Conclusioni
Le classifiche tra nazioni sulla disuguaglianza
misurata con il DHI, stando ai dati più recenti
del 2010, sembrano in gran parte simili a come
apparivano quindici o addirittura trenta anni
fa. Nei paesi di lingua inglese (guidati dagli
Stati Uniti e dal Regno Unito) si riscontra la
maggiore disuguaglianza, mentre nei paesi
nordici sono quelli con la disuguaglianza più
bassa. Le principali differenze negli effetti
di redistribuzione producono modelli molto
diversi nella distribuzione. La redistribuzione,
quindi, incide chiaramente sul livello finale di
disuguaglianza DHI.
La disuguaglianza DHI è (quasi) aumentata
ovunque nel periodo 1970-2010, con una
leggera frenata nel corso della Grande
Recessione. Le piccole variazioni annuali
producono forti tendenze per un periodo di
20-30 anni. Aumenti a lungo termine sono
evidenti nei coefficienti di Gini (nonché in altre
misure),10 nei redditi disponibili delle famiglie
e anche nelle fasce di reddito più elevato. Le
misure di distribuzione DHI sono aumentate di
più tra gli anni ’70 e ’90 (a seconda del paese),
ma sono cresciute meno (e a volte sono rimaste
stabili) negli anni 2000. Esaminando le fasce
più alte di reddito, tuttavia, vediamo che la
disuguaglianza è ancora in aumento, senza
però mostrare dei “picchi”.
Il periodo 1950-1980, nel ricco Occidente, è
sempre stato indicato come l’“età dell’oro” per
l’occupazione, con estesi guadagni e aumenti
salariali e disuguaglianze in diminuzione o
stabili. Ma il modello è ora molto diverso: la
maggior parte delle nazioni mostrano adesso
un modello di disuguaglianza a forma di U,
ossia con una disuguaglianza in crescita.11
Il WTID mostra una forma a U ancora più
forte nel trend di disuguaglianza. E’ anche
chiaro che si deve esaminare il reddito da
capitale così come il reddito da lavoro nel
valutare i trend di disuguaglianza. I redditi da
capitale in crescita sono più concentrati nella
parte alta della distribuzione.
10
11
S i veda Morelli, Smeeding e Thompson(di prossima pubblicazione).
Si veda Gottschalk e Smeeding (1997; 2000).
Riferimenti
Atkinson, A.B., 1997. Bringing income distribution
in from the cold. The Economic Journal, 107(441),
pp.297–321.
Atkinson, A., Morelli, S. (2012). “Chartbook of
Economic Inequality: 25 Countries 1911–2010,”
Institute for New Economic Thinking, October.
Canberra Group, (2001). Final Report and
Recommendations of the Canberra Expert Group
on Household Income Statistics, Statistics Canada,
Ottowa.
Canberra Group, (2011). Canberra Group
Handbook on Household Income Statistics,
Second Edition, Geneva, at http://www.unece.
org/fileadmin/DAM/stats/groups/cgh/Canbera_
Handbook_2011_WEB.pdf
Gottschalk, P., Smeeding, T.M. (1997). “CrossNational Comparisons of Earnings and Income
Inequality”. Journal of Economic Literature 35,
633–687.
Gottschalk, P., Smeeding, T.M. (2000). “Empirical
Evidence on Income Inequality in Industrialized
Countries”, in A. B. Atkinson and F. Bourguignon
(eds), Handbook of Income Distribution. Vol. 1,
261–308, Amsterdam, North-Holland.
Morelli, Smeeding and Thompson(forthcoming)
“Post-1970 Trends in Within-Country
Inequality and Poverty” in A. B. Atkinson and
F. Bourguignon (eds), Handbook of Income
Distribution. Vol. 2, Elsevier North Holland
L’aumento inarrestabile delle fasce più
elevate di reddito pone nuove sfide al contenuto
informativo della disuguaglianza di reddito.
Misure convenzionali come il coefficiente di Gini
potrebbero sottostimare sempre più la portata
reale dei cambiamenti nelle disuguaglianze di
reddito. Inoltre, ci sono prove che la relazione
tra il Gini e le fasce più alte è diventata più
debole negli ultimi dieci anni. ■
23
29
Appendice
Tavola 1: D
isuguaglianze nel reddito delle famiglie e redistribuzione negli interventi dei governi nel
tempo per una selezione di paesi Ocse.
Inequality / Redistribution
Australia
Czech
Republic
Denmark
Finland
France
mid-1970s
mid-1980s
around
1990
around
2000
mid-2000s
around
2010
A. market income Gini
0.467
0.476
0.465
0.469
B. DHI - Gini
0.309
0.317
0.315
0.334
C. Redistribution = A - B
0.158
0.159
0.150
0.135
A. market income Gini
0.482
0.478
B. DHI - Gini
0.269
0.262
C. Redistribution = A - B
0.213
0.216
A. market income Gini
0.385
0.395
0.403
0.430
0.440
0.436
0.447
B. DHI - Gini
0.304
0.293
0.287
0.289
0.318
0.317
0.320
C. Redistribution = A - B
0.081
0.102
0.116
0.141
0.122
0.119
0.127
0.442
0.472
0.461
0.449
0.232
0.257
0.260
0.259
0.256
0.185
0.212
0.202
0.193
0.417
0.416
0.416
0.429
A. market income Gini
B. DHI - Gini
C. Redistribution = A - B
A. market income Gini
0.373
0.396
B. DHI - Gini
0.221
0.226
0.215
0.227
0.232
0.252
C. Redistribution = A - B
0.152
0.170
0.202
0.189
0.184
0.177
A. market income Gini
0.387
0.479
0.478
0.483
0.479
B. DHI - Gini
0.209
0.218
0.247
0.254
0.260
C. Redistribution = A - B
0.178
0.261
0.231
0.229
0.219
0.000
A. market income Gini
0.473
0.490
0.485
0.505
B. DHI - Gini
0.277
0.287
0.288
0.303
C. Redistribution = A - B
Germany
mid-1990s
0.196
0.203
0.197
0.202
A. market income Gini
0.439
0.429
0.459
0.471
0.499
0.492
B. DHI - Gini
0.251
0.256
0.266
0.264
0.285
0.286
C. Redistribution = A - B
0.188
0.173
0.193
0.207
0.214
0.206
Inequality / Redistribution
mid-1970s
mid-1980s
0.424
0.345
around
1990
mid-1990s
around
2000
A. market income Gini
Greece
B. DHI - Gini
0.345
0.354
C. Redistribution = A - B
Israel
Italy
Japan
New
Zealand
Norway
Sweden
United
Kingdom
United
States
0.471
0.522
0.340
0.337
0.131
0.185
0.501
0.472
0.476
0.494
0.504
0.513
B. DHI - Gini
0.326
0.329
0.338
0.347
0.378
0.376
C. Redistribution = A - B
0.146
0.147
0.156
0.157
0.135
0.125
A. market income Gini
0.386
0.402
0.465
0.472
0.510
0.503
B. DHI - Gini
0.287
0.275
0.326
0.321
0.330
0.319
C. Redistribution = A - B
0.099
0.127
A. market income Gini
0.345
0.139
0.151
0.180
0.184
0.403
0.432
0.462
0.488
0.336
B. DHI - Gini
0.304
0.323
0.337
0.329
C. Redistribution = A - B
0.041
0.080
0.095
0.133
0.152
0.467
0.464
0.277
0.270
0.190
0.194
B. DHI - Gini
0.247
0.259
0.261
C. Redistribution = A - B
Netherlands
around
2010
A. market income Gini
A. market income Gini
Luxembourg
mid-2000s
A. market income Gini
0.426
0.473
0.474
0.484
0.424
0.426
0.424
B. DHI - Gini
0.263
0.272
0.292
0.297
0.292
0.284
0.288
C. Redistribution = A - B
0.163
0.142
0.201
0.182
0.187
0.132
A. market income Gini
0.408
0.468
0.488
0.484
B. DHI - Gini
0.271
0.318
0.335
0.339
C. Redistribution = A - B
0.137
0.150
0.153
0.145
A. market income Gini
0.351
0.404
0.426
B. DHI - Gini
0.222
C. Redistribution = A - B
0.129
0.136
0.454
0.335
0.317
0.137
0.447
0.423
0.243
0.261
0.276
0.249
0.000
0.161
0.165
0.171
0.174
A. market income Gini
0.389
0.404
0.408
0.438
0.446
0.432
0.441
B. DHI - Gini
0.212
0.198
0.209
0.211
0.243
0.234
0.269
C. Redistribution = A - B
0.177
0.206
0.199
0.227
0.203
0.198
0.172
A. market income Gini
0.378
0.469
0.490
0.507
0.512
0.503
0.523
B. DHI - Gini
0.269
0.309
0.355
0.337
0.352
0.335
0.341
C. Redistribution = A - B
0.109
0.160
0.135
0.170
0.160
0.168
0.182
A. market income Gini
0.406
0.436
0.450
0.477
0.476
0.486
0.499
B. DHI - Gini
0.316
0.340
0.349
0.361
0.357
0.380
0.380
C. Redistribution = A - B
0.090
0.096
0.101
0.116
0.119
0.106
0.119
Fonte: I dati sono ottenuti da OECD.Stat (estratto del 30 ottobre 2013). Dati elaborati dagli autori.
Note: La tavola mostra l’estensione della disuguaglianza per una selezione di paesi Ocse. La disuguaglianza è misurata con i coefficiente di Gini per l’intera
popolazione usando il reddito di mercato delle famiglie equivalizzato (Scala Ocse). (A. Market income Gini) o il reddito disponibile delle famiglie equivalizzato (B. DHI-Gini) ottenuto sottraendo le tasse dirette e i trasferimenti dal reddito di mercato. L’estensione della redistribuzione è ottenuta sottraendo i due
indici Gini (C. Redistribution = A-B), Una misura diversa del potere redistributivo degli interventi fiscali dei governi (D. Redistribution), solo per l’età lavorativa, è ottenuto sottraendo il Gini Lordo e Netto basato solo sulla popolazione in età lavorativa (15-65 anni).
31
Figure 1 Il Trend nel coefficiente di Gini in una selezione di paesi Ocse
(1980=100)
Gini - Market income
80 100 120 140
80 100 120 140
80 100 120 140
Gini - Disposable income
Canada
Denmark
Finland
Germany
Italy
Japan
Netherlands
New Zealand
Norway
Sweden
UK
US
time
Fonte: I dati sono ottenuti da OECD.Stat (estratti il 30 ottobre 2013). I dati sono elaborati dagli autori.
Note: L a disuguaglianza è misurata con il coefficiente Gini per l’intera popolazione usando il reddito di mercato delle famiglie equivalizzato (scala Ocse) o il reddito disponibile delle
famiglie equivalizzato (Gini- Reddito disponibile) otttenuto sottraendo le tasse dirette e i trasferimenti dal reddito di mercato.
Figure 2 Il trend del’1 per cento più ricco nei paesi Ocse (continua da pag 33)
(1980=100)
350
Top1% dynamics : english
Top1% dynamics : nordic
1980=100
1980=100
350
Australia
Denmark
Canada
Finland
Ireland
300
Norway
300
New Zealand
Sweden
UK
US
250
250
200
200
150
150
100
100
50
50
1970
1980
1990
Year
2000
2010
1970
1980
1990
2000
Year
Fonte: I dati sono ttenuti dal dataset WTID (estratti a settembre 2013). I dati sono elaborati dagli autori.
Note: I dati sono stati originariamente elaborati per le analisi in Morelli, Smeeding e Thompson (di prossima pubblicazione).
2010
33
Figure 2 Il trend del’1 per cento più ricco nei paesi Ocse
(1980=100)
350
Top1% dynamics : south
Top1% dynamics : continental (and Japan)
1980=100
1980=100
350
Italy
France
Portugal
Germany
Spain
Japan
300
300
Netherlands
Switzerland
250
250
200
200
150
150
100
100
50
50
1970
1980
1990
2000
2010
1970
1980
Year
Fonte: I dati sono ttenuti dal dataset WTID (estratti a settembre 2013). I dati sono elaborati dagli autori.
Nota: I dati sono stati originariamente elaborati per le analisi in Morelli, Smeeding e Thompson (di prossima pubblicazione).
1990
Year
2000
2010
I Fattori delle Disuguaglianze:
Sfide Passate e Attuali
per l’Europa
Jean-Paul Fitoussi,
SciencesPo, Parigi
e Università LUISS,
Roma
Francesco Saraceno,
OFCE-SciencesPo,
Parigi: SGPP,
Giacarta; SEP-LUISS,
Roma
Questo articolo fornisce
una descrizione del perché
la disuguaglianza continua
ad aumentare e affronta le
implicazioni che questa avrà sulle
politiche. Gli autori sostengono
che le politiche attuali causano
una carenza nella contribuzione
da parte dei più ricchi e della
famiglie a basso e medio
reddito. Carenza che ha portato
a un’economia più fragile e a
condizioni più dure e inique nella
società.
La crisi ha posto al centro del dibattito
politico il tema delle distribuzione del reddito
e la questione della crescente disuguaglianza.
Come ampiamente documentato, (FMI, 2007;
Ocse, 2008; Piketty e Saez, 2013; Piketty,
2013; Piketty et al., 2011) la disuguaglianza
è aumentata notevolmente nelle economie
emergenti come in quelle sviluppate a partire
dalla fine degli anni ’70. Ci sono ragioni per
credere che l’aumento della disuguaglianza
è stato uno dei fattori determinanti della
crescita degli squilibri nell’economia mondiale,
accrescendone la fragilità fin dall’inizio della
crisi finanziaria globale (Fitoussi e Saraceno,
2010, 2011). La crisi, a sua volta, ha
approfondito le disuguaglianze e ha creato un
circolo vizioso che sta imponendo grandi costi
sociali soprattutto ai paesi europei (iAGS, 2013;
OECD, 2011; Pickett, 2013; Stiglitz, 2013).
Ma perché le disuguaglianze sono cresciute
in tale misura? E che cosa ha generato il
circolo vizioso tra performance economica e
distribuzione del reddito? Cosa implica questo
per le politiche da attuare oggi e negli anni a
venire?
Questo articolo delineerà una risposta a
tutte queste domande.
Il tradizionale punto di vista
sull’aumento delle disuguaglianze
Il rapporto tra distribuzione del reddito
e performance economica non ha avuto un
ruolo importante nel dibattito economico degli
ultimi quattro decenni a causa del ritorno in
auge della tradizione neoclassica dopo la crisi
keynesiana degli anni ‘70. La teoria neoclassica
postula che i redditi sono “oggettivamente”
determinati dai fondamentali dell’economia,
cioè dalla produttività marginale dei fattori
di produzione. Questo postulato conduce
alla tradizionale dicotomia da libro di testo
tra efficienza ed equità, cosa che sottende
il concetto ottimalità di Pareto, e ha a lungo
alimentato l’idea che il lavoro dell’economista
sia quello di studiare le condizioni per
l’allocazione ottimale delle risorse tra i
partecipanti al processo economico (al fine
di massimizzare il benessere sociale). Una
volta che il benessere globale è massimizzato,
gli economisti hanno lasciato il compito di
scegliere la distribuzione del reddito a sociologi,
politologi, antropologi, a condizione che tale
distribuzione non distorca gli incentivi degli
agenti.
Con questa impostazione, l’aumento
della disuguaglianza potrebbe essere spiegata
attraverso l’azione congiunta di due fenomeni.
Il primo è il rapido progresso tecnologico che
ha caratterizzato la fine del ventesimo secolo;
questi progressi sono legati principalmente
alla rivoluzione delle IT e alla diffusione dei
computer che hanno favorito maggiormente
35
i lavoratori altamente qualificati, a scapito di
quelli con nessuna o poca istruzione (Katz e
Autor, 1999; Rajan, 2010). Secondo il punto
di vista tradizionale, il secondo fenomeno che
ha un impatto sulla disuguaglianza salariale è
la globalizzazione. L’ingresso di lavoratori poco
qualificati, da economie emergenti e in via di
sviluppo, in un mercato del lavoro globale ha
abbassato la produttività media marginale del
lavoro. Inoltre, l’aumento della concorrenza ha
a sua volta aumentato la pressione sui sindacati
e sui fattori che determinano i salari per
eliminare le rigidità (si veda ad esempio Carta
et al., 2004). La conseguenza di ciò è stata una
riduzione della quota del lavoro sul reddito
nazionale rispetto al capitale. Progresso tecnico
basato sulle qualifiche e l’aumento della
competizione nel mercato del lavoro globale
potrebbe spiegare l’aumento (salariale) della
disuguaglianza come un processo ineluttabile
che la politica non è tenuta ad affrontare se
non al prezzo di una riduzione del’efficienza e
della crescita. L’idea che le “marea solleva tutte
le barche” servirebbe come giustificazione
per la straordinaria crescita dei redditi alti e di
quella ancora più alti (l’”economia superstar”,
si veda Dew-Becker e Gordon, 2005). Una
giustificazione che ha caratterizzato i due
decenni prosperosi degli anni ’90 e 2000.
Merito o predazione?
La crisi finanziaria ha cambiato la
visione tradizionale. In primo luogo, perché,
nonostante
il duro colpo preso dal settore finanziario,
questa ha colpito in maniera sproporzionata le
persone dai reddito bassi o medi (OCSE, 2011;
Stiglitz, 2013). In secondo luogo, perché ha
richiamato l’attenzione su una più profonda
comprensione dell’impatto della distribuzione
del reddito sulle performance economiche al
di là dei suoi effetti sugli incentivi. La crisi ha
rappresentato nei fatti il punto di arrivo di un
processo durante il quale le disuguaglianze
hanno depresso la crescita o innescato la
crescita del debito delle famiglie all’ultimo
gradino della distribuzione (Cynamon e Fazzari,
2008; Fitoussi e Saraceno, 2010, 2011).
In particolare, Galbraith (2012) e Stiglitz
(2013) evidenziano che molto più che i
fondamentali, come la globalizzazione e il
progresso tecnologico, ciò che conta di più
dell’aumento della disuguaglianza negli ultimi
decenni è l’aumento dei comportamenti
predatori. Per la precisione, poiché le élite si
sono appropriate sempre più di una congrua
parte della ricchezza nazionale, la crescente
disuguaglianza sta ostacolando il benessere
e distorcendo l’economia. L’aumento della
ricerca di rendita (“rent-seeking”) e dei
comportamenti predatori ha coinciso con il
ruolo fondamentale svolto da una un sistema
finanziario sempre più deregolamentato,
dove lo scollamento tra salari e produttività
marginale è diventato in breve tempo evidente.
Galbraith e Stiglitz sostengono in modo
convincente che la maggior parte di coloro
che hanno i redditi più alti si sono a poco a
poco specializzati nel massimizzare la parte
della torta di cui si sono appropriatati piuttosto
che contribuire a rendere la torta più grande.
I prestiti predatori e l’uso smodato delle carte
di credito, che stanno alla base della bolla
dei subprime, sono gli esempi più tipici di
comportamenti “rent-seeking” che hanno
consentito di trasferire ingenti quantità di
risorse dalle classi medio-basse a quelle dei
ricchi.
L’enfasi sul “rent- seeking” aiuta a
spiegare perché a beneficiare dell’aumento
della disuguaglianze di reddito negli ultimi
decenni siano stati i redditi più alti (Piketty et
al, 2011.); ancora più importante, sottolinea
anche l’importanza delle scelte politiche. Il
potere economico delle élite e la rivoluzione
conservatrice nella politica si sono rinforzati
a vicenda, con un conseguente aumento
dei sistemi fiscali meno progressivi e un
rimpicciolimento del welfare state (Creel e
Saraceno, 2010; Hacker e Pierson, 2010).
I rendimenti elevati nella finanza, e il
crescente peso di questa sul Pil, hanno innescato
un circolo vizioso per cui nessun investimento
di settore potrebbe competere con i rendimenti
offerti dal settore finanziario. Il risultato,
secondo Galbraith e Stiglitz, è stato un enorme
distrazione dei risparmi per usi produttivi verso
delle attività finanziarie il cui valore è stato
in gran parte gonfiato. La tendenza delle
economie avanzate di saltare da una bolla a
un’altra può quindi essere spiegato, tra le altre
cose, dall’aumento della disuguaglianza (si veda
anche Fitoussi e Saraceno, 2011).
L’Europa, più che il resto del mondo, è entrata
in un circolo vizioso, nel quale le disuguaglianze
rendono la crisi ancora più dura, e a sua volta la
crisi ha effetti iniqui sui differenti gruppi sociali
e di reddito, rendendo così ancora più profonde
le disuguaglianze e aumentando la fragilità
dell’economia.
La ricerca della rendita e l’ascesa della
finanza sembrano più convincenti rispetto
alla visione tradizionale nelle spiegare l’ascesa
dell’economia superstar. Dopo tutto, è
difficile mettere in relazione il reddito del top
manager al suo contributo marginale ai ricavi
dell’azienda, per non parlare del benessere
sociale.
Le disuguaglianze e la crisi
europea
Dal 2010 la crisi globale si è evoluta in
una crisi del debito sovrano europeo, svelato
dai gravi problemi di finanza pubblica della
Grecia. Invece di essere interpretato come il
segno di un grave problema di governance
dell’Eurozona (Fitoussi e Saraceno, 2013;
Saraceno, 2013) la questione è stata affrontata
dai leader europei come un problema di
“dissolutezza fiscale”. Le autorità europee
non si sono chieste come mai un problema
di debito privato, come in Spagna e l’Irlanda,
sia diventato un problema di debito pubblico
(Fitoussi, 2013). Di conseguenza l’austerità è
stata generalizzata, nella periferia come nel
cuore dell’Eurozona, soffocando la crescita e
ritardando la ripresa. Ancora più importante,
le politiche di austerità e le riforme strutturali
liberiste hanno sfilacciato il tessuto sociale,
specialmente nei paesi periferici, rendendo
ancora più profonde le disuguaglianze.
Mentre i profitti e i mega guadagni sono oggi
ai livelli pre-crisi, una parte crescente della
popolazione vive sotto la soglia della povertà
e percentuali elevate di disoccupazione sono
presenti in particolari sezioni della società
(donne e giovani; si veda iAGS, 2013). Il
corso preso dalle politiche in Europa resta un
puzzle: con una recessione che blocca i bilanci
e che costringe il settore privato a ridurre
la leva finanziaria, non vi è alcun motivo di
ridurre l’indebitamento del settore pubblico,
specialmente quando il settore bancario stringe
i cordoni del credito ai privati. Di fronte a un
tasso di disoccupazione storicamente elevato
e in alcuni paesi superiore a quello degli anni
trenta, non è certo una buona idea perseguire
politiche di approvvigionamento (Saraceno,
2014). Il risultato è una crescente paura della
deflazione nell’area euro le cui conseguenze
sui debiti, privati o pubblico, sarebbero
problematiche.
In altre parole l’Europa, più del resto del
mondo, è entrata in un circolo vizioso in cui la
disuguaglianza rende la crisi più dura e la crisi
a sua volta ha effetti iniqui su diversi gruppi
sociali e di reddito, aumentando così ancora
di più profonde la disuguaglianza e la fragilità
dell’economia.
Non è questo il luogo per discutere le
radici della crisi europea o per valutare future
prospettive (cf. Fitoussi, 2013). Le politiche
seguite dai paesi europei, l’austerità e le
riforme dal lato dell’offerta in un momento
in cui la radice del problema è la domanda
aggregata, non sono state inevitabili. Queste
politiche sono servite solo ad approfondire
la recessione e a imporre costi ingenti alle
famiglie con redditi bassi o medi (e alle
piccole e medie imprese), rendendo così la
disuguaglianza, e la conseguente fragilità
economica, più dura. Queste politiche non
lasciano modo di scoprire il reale tasso
potenziale di crescita dell’economia, piuttosto
stanno favorendo un percorso caotico: la
crescita attraverso le bolle seguite dalle crisi
finanziarie ed economiche. ■
37
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39
Può la Redistribuzione
del Reddito Aiutare a Fermare la Crescita
delle Disuguaglianze?
Wiemer Salverda,
Coordinatore del
progetto di ricerca
internazione sugli
Impatti della Crescita
delle Disuguaglianze
(GINI, gini-research.org)
presso l’Amsterdam
Institute for
Advanced Labour
Studies, University of
Amsterdam
In questo articolo si confronta
l’aumento nella disuguaglianza
relativa ai redditi netti delle
famiglie in alcuni paesi europei
e in Canada, Stati Uniti e
Australia. Vengono utilizzati
due fattori importanti per
spiegare questa tendenza
preoccupante: una crescita dei
redditi di mercato diseguali e/o
un calo della redistribuzione
del reddito attraverso imposte e
trasferimenti.
Rising L’aumento della
disuguaglianza di reddito: redditi
di mercato e redistribuzione
La disuguaglianza è aumentata nella
maggior parte dei paesi negli ultimi tre
decenni. Una vasta gamma di paesi, che vanno
da Danimarca, Finlandia, Svezia e Paesi Bassi ai
paesi baltici e altri paesi della CEE, e compresi
anche il Regno Unito e, al di fuori dell’Europa,
Australia, Canada e Stati Uniti, hanno visto
un aumento nelle disuguaglianze del 28% a
partire dagli anni ‘80. Sorprendentemente gran
parte della crescita (19%) è concentrata negli
anni ‘90 (Appendice Tabella 1). Questa riguarda
i redditi familiari netti, che risultano dopo che
sono stati aggiunti i trasferimenti sociali e che
le imposte sul reddito sono state sottratte dai
redditi di mercato. Pertanto una combinazione
di questi due fattori è responsabile
dell’aumento: una crescente disuguaglianza
dei redditi di mercato e/o una redistribuzione di
reddito in calo attraverso tasse e trasferimenti.
Per prima cosa, daremo un’occhiata al primo.
La dispersione dei redditi di mercato non è
conosciuta in un formato comparabile come la
disuguaglianza di reddito netto. Ciò è
dovuto in parte ai problemi di osservazione
statistica (soprattutto dei redditi da capitale)
e di definizione (ad esempio, sono incluse le
pensioni finanziate da capitali? O gli affitti su
abitazioni occupate dai proprietari?), in parte
ai problemi di misurazione della disuguaglianza
dato che il coefficiente di Gini riscontra
difficoltà con i redditi negativi (che si riferiscono
anche al capitale ), in parte ancora all’uso di
elementi equivalenti per la composizione del
nucleo familiare (vedi Appendice riquadro 1).
Tuttavia, da altri dati emerge che i
redditi di mercato sono cresciuti in modo
significativamente più diseguale. In primo
luogo, i redditi più elevati non hanno goduto
di buona fama negli ultimi anni.1 Ancora una
volta, per un ampio numero di paesi, troviamo
una crescita del 21% nella fascia corrispondente
al 10% più ricco della popolazione a partire dal
1980, con più della metà di questa concentrata
negli anni ‘90 (Appendice Tabella 1). I redditi
dell’1% più ricco della popolazione cavalcano
questa crescita con un aumento del 37% e
una concentrazione ancora più forte negli
anni ‘90. In secondo luogo, i redditi da lavoro
sono la tipologia più importante di reddito di
mercato, ma, contrariamente ai redditi top,
non riguardano tutta la popolazione ma solo
quella parte che ha un lavoro retribuito. Per una
corretta comparazione delle disuguaglianze nei
redditi familiari, ci concentriamo sui guadagni
annuali ricevuti dalle famiglie. Una ricerca
comparativa interessante (RED, 2010) mostra
Questo riguarda i redditi lordi dopo i trasferimenti ma prima della tassazione e la loro quota nel reddito complessivo è una misura differente dal coefficiente di Gini. Dato che le
famiglie ad alto reddito plausibilmente ricevono una parte minore dei trasferimenti, queste hanno una quota nel reddito lordo che verrà plausibilmente sottostimata nei redditi di
mercato.
1
una forte crescita tra i primi anni ‘80 e la metà
degli anni 2000 per la varianza (una misura che
presta più attenzione alla estremità inferiore del
coefficiente di Gini) negli Usa, nel Regno Unito,
in Svezia e in Germania (rispettivamente +57%,
49%, 71% e 105%). Di nuovo l’aumento si
concentra significativamente negli anni ‘90.
Tuttavia, non tutti i paesi seguono
necessariamente lo stesso schema: la
diseguaglianza dei guadagni delle famiglie
danesi non è cambiata (+6 %).2
Anche se in linea di principio sembra
sufficiente sapere che tanto la disuguaglianza
dei redditi di mercato quanto quella dei redditi
netti sono aumentate, per giustificare la
conclusione che la redistribuzione dei redditi
è diminuita, una ricerca diretta è in grado di
sostenere questa affermazione e consente
anche di distinguere i ruoli della tassazione e
dei trasferimenti. I contributi di RED (2010)
mostrano inoltre che per le famiglie con
guadagni, le disuguaglianze tra i loro redditi
disponibili hanno mostrato una tendenza
all’aumento. Sharpe e Capeluck (2012) hanno
scoperto che in Canada meno della metà
dell’incremento delle disuguaglianze nei
redditi di mercato a partire dal 1980 è stato
determinato da trasferimenti e tasse. Blomgren
et al. (2012, 15) indicano un forte calo negli
effetti redistributivi in Finlandia a partire dalla
metà degli anni ‘90, nonostante il fatto che
il ruolo dei trasferimenti sia effettivamente
cresciuto. Bjørnskov et al. (2012, 14 )
mostrano che in Danimarca all’aumento delle
redistribuzione corrisponde solo un piccolo
aumento della disuguaglianza di reddito
netto, ma hanno riscontrato anche piccoli
cambiamenti nelle disuguaglianze di reddito di
mercato delle famiglie. Brewer e Wren-Lewis
(2012, tabella 5) in Gran Bretagna indicano
un aumento della disuguaglianza nei redditi di
mercato del 74% (varianza – ho lasciato fuori
le pensioni) e un incremento ancora più grande
della disuguaglianza nei redditi netti (90%).
Bjørnskov et al. (2012, 23).
2
In poche parole, anche se la ridistribuzione
sta aumentando, di solito è insufficiente a
compensare la crescente dispersione dei redditi
di mercato.
Cambiamenti fondamentali nella
distribuzione dei redditi del
mercato del lavoro
E’ stato un lungo e ancora incompiuto
addio al mondo del singolo capofamiglia (se
mai esistito). Attualmente, le famiglie con
doppio e triplo reddito sono la maggioranza
(57%) tra tutte le famiglie che ricevono un
reddito da lavoro retribuito (retribuzione lorda
annuale ) in Europa, ed essi comprendono
una quota del 75% di tutti i dipendenti.
Importante, e non sorprendente: le famiglie
con più percettori di stipendi si concentrano
verso la parte superiore della distribuzione dei
salari delle famiglie. Le famiglie monoreddito
costituiscono l’88 % del decile inferiore
delle famiglie con guadagni da lavoro e solo
l’11% del decile superiore. E’ il contrario per
le famiglie con più redditi (Salverda e Haas,
2014). Le poche famiglie monoreddito che
si attestano verso l’alto sono anche nella
parte superiore della distribuzione dei salari
individuali; tuttavia, le molte famiglie con più
percettori di reddito ci arrivano combinando
i guadagni dai livelli inferiori nella stessa
distribuzione.
Ciò ha dato luogo a una situazione
complessa con cui le istituzioni e le politiche
di redistribuzione del reddito sono ancora
alle prese. Panousi et al. (2013) sottolineano
la natura permanente del cambiamento. La
crescita dei percettori multipli è andata di pari
passo con la transizione verso l’occupazione
femminile e il lavoro a tempo parziale, anche se
in alcuni paesi più di altri. Lavoro femminile e
part-time che sono aumentati durante la crisi,
rendendo la disoccupazione più attenuata del
41
previsto. Orario di lavoro più breve e un livello
inferiore di paga (oraria) oggi vanno di pari
passo molto più di prima: i lavori part-time si
concentrano ai più bassi livelli di retribuzione e
occupazioni, specialmente nel settore privato.
Allo stesso tempo, la “nuova normalità”
degli stipendi multipli ha sostenuto la crescita
di posti di lavoro aggiuntivi negli anni ’90 e
2000 per quelle famiglie che già avevano una
persona al lavoro, con la conseguenza, nella
migliore delle ipotesi di una riduzione limitata
della disoccupazione domestica, quando
non di un aumento. In questo modo, il tasso
d’occupazione (employment-to-population
rate) individuale potrebbe salire mentre quello
delle famiglie è ristagnato se non calato. Il
Regno Unito fornisce il più lampante esempio
di questa separazione. Nel 1980 i due tassi di
occupazione erano circa pari al 72-74%, ma
fino al 2005 il tasso d’occupazione individuale
è aumentato di 5 punti percentuali, mentre
quello delle famiglie è sceso di 7 punti
percentuali, portando a un divario di 12 punti
percentuali (Blundell e Etheridge 2010, in
RED 2010). Si noti anche che per l’Ue nel suo
complesso il tasso di occupazione delle famiglie
è diminuito ulteriormente a causa dell’attuale
crisi (-2 punti percentuali).
La nuova situazione ha diverse importanti
implicazioni. In primo luogo, questi sviluppi
smussano l’uso del tasso di disoccupazione
tradizionale come indicatore utile per il
mercato del lavoro. E’ importante sottolineare
anche che i percettori multipli di stipendio
riguardano le coppie e le famiglie più grandi,
mentre allo stesso tempo la quota di famiglie
composte da una sola persona è aumentato
rapidamente – quasi raddoppiando negli ultimi
decenni. Quindi, anche se più percettori in una
famiglia possono fornire qualche assicurazione
contro le conseguenze della disoccupazione
fintanto che il partner può continuare a
lavorare, questo non aiuterà le famiglie
composte da una persona.
In secondo luogo, l’aumento delle
disuguaglianze nei guadagni (annuali)
individuali è diventato un importante
contributo alla disuguaglianza crescente
nei guadagni delle famiglie sopra indicate.
Questo riflette le differenze nei livelli paga
oraria3 e la loro congiunzione crescente con
le ore di lavoro (part-time). In terzo luogo,
per effetto della combinazione di due o
più percettori di stipendio in una famiglia,
i lavoratori con basso salario si potrebbero
trovare adesso nelle famiglie della parte alta
della distribuzione del reddito. Questo limita
l’efficacia degli strumenti calibrati sui singoli
individui per limitare le disuguaglianze salariali,
non solo quelli tradizionali come il salario
minimo, ma anche quelli più recenti come
i crediti d’imposta per gli individui occupati
o le esenzioni dai contributi per il datore di
lavoro. E’ il caso anche di quelle misure mirate
per chi ha famiglia a carico come il credito
d’imposta sui redditi da lavoro. In quarto
luogo, nonostante i loro redditi elevati, le
famiglie della fascia alta potrebbero pagare
meno tasse del previsto – almeno nei paesi che
hanno una tassazione indipendente dei redditi
individuali - e aggiungere altra disuguaglianza
nei redditi netti. Ad esempio, in Olanda, le
famiglie del decile più alto dei redditi pagano
un’aliquota media effettiva che è poco meno
del 20% del reddito lordo, ma questo tasso
diverge significativamente tra le seconde fonti
di reddito (12%), i primi percettori (22%) e i
percettori singoli (27% - 28%). Il rovescio della
medaglia è che può influire sulla solidarietà:
perché un individuo dovrebbe accettare di
pagare più tasse in quanto partner di un altro
percettore e insieme avere un reddito familiare
più alto rispetto a un altro individuo che
guadagna lo stesso importo ma ha un partner
senza stipendio è single?
Il tasso P90:P10 ha avuto un’impennata del 30% in Usa, Canada, Danimarca, Olanda e Germania tra i primi anni ’80 e la metà degli anni 2000.
3
Contributi alle politiche e rimedi
alle disuguaglianze di reddito
Le politiche di redistribuzione comprendono
da un lato trasferimenti basati sull’assistenza
sociale e sull’assicurazione sociale, e
dall’altro la tassazione. I pesi di queste due
politiche così come i loro effetti differiscono
significativamente tra paesi. Tuttavia, alcuni
cambiamenti negli ultimi decenni sono stati
ampiamente condivisi. La riscossione delle
imposte sul reddito è stata ridotta in modo
significativo. In particolare, i tassi marginali più
alti delle imposte sul reddito personale sono
diminuiti di un quarto, dal 56% nel 1981 al
41% nel 2005.4 La maggior parte del calo
è concentrato tra il 1984 e il 1991. Ciò ha
ridotto le entrate fiscali correnti e con esse il
finanziamento alla redistribuzione. Ugualmente
importante, ha avuto anche un crescente
effetto comportamentale di lungo termine,
stimolando le paghe elevate nelle imprese e
la crescita dei redditi più elevati (Piketty, Saez
e Stantcheva, 2011). Inoltre, si sono favoriti
i risparmi e la formazione della ricchezza di
lungo termine. L’introduzione di tasse più
basse sui redditi da capitale in sistemi a due
livelli ha ulteriormente incoraggiato questa
situazione. Per la Finlandia la crescita dei redditi
più elevati è attribuito all’aumento dei redditi
da capitale e alla riduzione della loro tassazione
introdotta nel 1993; malgrado un aumento,
la redistribuzione ha potuto compensare
l’aumento concomitante della disuguaglianza
(Blomgren, 2012). Questo si collega alla
crescente importanza dell’eredità ai tempi di
una bassa crescita (Piketty, 2014).6
Tuttavia, l’imposta sul reddito è solo una
parte della storia delle imposte dirette. Molti
paesi impongono contributi non progressivi
sulla sicurezza sociale e la progressività
complessiva differisce poco tra paesi, inclusi
quelli con tasse elevate (OCSE, 2012).
Aggiungendo a ciò la tassazione indiretta,
l’imposta sul valore aggiunto (IVA) aggiunge
ancora un altro fattore importante con un
effetto regressivo sulla disparità di reddito
(Figari e Paulus, 2012). Famiglie a basso
reddito consumano una grande parte dei loro
redditi, se non di più, e con ciò contribuiscono
con importi relativamente più elevati di IVA.
Preoccupa il fatto che i paesi dell’Ue abbiano
aumentato l’IVA in maniera significativa per
rispondere alla crisi.7 Al fianco della tassazione,
i trasferimenti sono la principale arteria di
redistribuzione. Come detto, la sua importanza
varia da un paese all’altro. Sharpe e Capeluck
(2013) attribuiscono il 70% dell’effetto
redistributivo ai trasferimenti e solo il 30%
alla tassazione. Brewer e Wren-Lewis (2012)
mostrano come la crescente disuguaglianza dei
redditi di mercato (74%) è andata di pari passo
con una maggiore mitigazione della tassazione
(+77%), che però è rimasta insufficiente
mentre l’effetto mitigante dei trasferimenti
si andava decisamente affievolendo (+11%).
Da un’indagine approfondita sugli effetti
della redistribuzione a fronte della crescente
disuguaglianza, Marx e Van Rie (2014)
concludono che la redistribuzione ridotta è
stata spesso il motivo principale per cui la
disuguaglianza è aumentata dopo la metà degli
anni ‘90. Accanto a imposte e trasferimenti,
che definiscono il reddito disponibile, l’accesso
delle famiglie ai servizi sociali (assistenza
sanitaria, istruzione, sostegno alla famiglia e
trasferimenti agli anziani) determina il vero
valore del loro reddito netto, che differisce
notevolmente nel confronto internazionale. Qui
Marx e Verbist (2014) concludono che “i paesi
con le performance migliori tra quelli ricchi in
termini di risultati economici, occupazione,
coesione sociale e uguaglianza hanno una
cosa in comune: un grande stato sociale che fa
diverse cose allo stesso tempo, investendo nelle
persone, stimolandoli e sostenendoli nell’essere
attivi, e anche proteggendo adeguatamente
loro e ai loro figli la protezione quando tutto il
resto fallisce”.
Continuamente disponibile per 15 dei circa 30 paesi nel database degli Indicatori fiscali mondiali, si veda Sabirianova Peter et al. (2010).
4
Domeij et al (2010, 193; in RED 2010) riscontrano un tasso di risparmio cresciuto per gli altri redditi in Svezia dopo il 1990.
Si veda anche l’Economist del 4 gennaio 2014 e il Financial Times del 7 gennaio 2014.
7
Bargain et al. (2013) giungono a una conclusione favorevole sugli effetti redistributivi durante la crisi finanziaria ma non include la tassazione indiretta.
5
6
43
Discussione
Le politiche redistributive hanno
continuato a ridurre le disuguaglianze, ma
anche quando la loro dimensione è cresciuta,
l’effetto è diminuito a fronte della crescente
disuguaglianza dei redditi di mercato, in
particolare dei reddito familiari da lavoro. Si
mette all’ordine del giorno la necessità di
affrontare direttamente l’ineguaglianza dei
redditi di mercato, ad esempio, introducendo
o aumentando i salari minimi e riducendo la
ricerca di rendite indebite che sembrano aver
superato i massimi livelli di retribuzione.
Anche se il salario minimo aiuta certamente
a migliorare il salario di sussistenza delle
famiglie, il suo effetto sulla distribuzione del
reddito è diventato più flebile. I suoi ruoli
principali sono, in primo luogo e come sempre,
l’evitare un’eccessiva concorrenza al ribasso
dei salari che influisce negativamente sulla
crescita della produttività e degli investimenti
di capitale umano, e, dall’altro, la limitazione
delle finanze necessarie per la ridistribuzione a
famiglie a basso reddito. Il governo britannico
lo ha capito recentemente.8
L’analisi e l’interesse di policy-making
sono per lo più rivolti ai redditi bassi e alla
povertà, ma molto poco è disponibile su alti
redditi e retribuzioni. Recentemente, l’OCSE
ha introdotto una (ancora molto incompleta)
statistica sugli alti stipendi accanto alla
incidenza delle basse retribuzioni, ma anche
una volta completata offrirà solo l’inizio dello
studio comparativo sistematico dei contributi
della fascia superiore alla disuguaglianza i
suoi sottostanti fattori. Il World Top Income
Database è stato estremamente efficace nel
contribuire a concentrarsi su tali redditi, ma il
suo mantenimento dipende fondamentalmente
da contributi volontari. Sono necessari un
ampliamento e un approfondimento del
database e l’incorporamento dell’analisi
sistematica dei suoi indicatori.
Inoltre, gli stessi effetti delle imposte
e dei trasferimenti sui redditi di mercato,
relativamente alla crescita delle disuguaglianze,
devono essere esaminati: gli effetti
comportamentali di lungo periodo di riduzione
delle imposte sui redditi alti, i redditi di
capitale, e l’ereditarietà. Un coordinamento
internazionale è altamente consigliabile per
porre fine agli attuali cambiamenti repentini
del tasso d’imposta che, andando in una
direzione di diminuzione, possono finire solo in
un disastro. Lo stesso vale per gli effetti della
tassazione a base individuale sugli esiti delle
famiglie. Non vi è alcun motivo per riorientare
verso la famiglia e la tassazione congiunta;
al contrario, i crediti d’imposta generali
devono essere controllati per i loro effetti sulla
famiglia e sostituiti da crediti mirati laddove
desiderabili. Al di là dell’effetto immediato sulla
distribuzione delle retribuzioni e dei redditi, il
focus di lungo periodo dovrebbe essere posto
sulla distribuzione famigliare del lavoro, tra
cui esplicitamente la dimensione delle ore
lavorative.
Così l’efficacia e l’efficienza dell’apparato
redistributivo possono essere notevolmente
migliorate allo stesso tempo. Ugualmente,
la visione di lungo periodo dei benefici e dei
trasferimenti sociali comporta forti effetti di
durata, disuguaglianza intergenerazionale dei
tagli motivati nel breve periodo.
In un mondo caratterizzato da una
riduzione quantitativa, potranno dunque la
tassazione e i trasferimenti essere modificati in
quanto unica politica attiva, volta a superare
la crisi, ma che ha avuto però di fatto uno
scarso effetto a parte quello di elevare i
valori finanziari detenuti dalle famiglie a
reddito alto? Non sarà facile, e la svolta sarà
tanto politica quanto economica. Sappiamo
tutti che i quartieri poveri possono essere
facilmente trasformati, quindi perché questo
non dovrebbe accadere per interi paesi? Per
le diseguaglianze di un paese, l’esempio
latinoamericano indica che si può fare (Bird e
Zolt, 2013). Catturare alti redditi e le più grandi
ricchezze non può essere troppo difficile con
l’aiuto delle quotidiane e dettagliate statistiche
di Bloomberg sui “paperoni”. ■
Un aumento strutturale del suo livello, preferibilmente con un impegno Ue a un livello relativo fissato al 60% del salario medio orario, è da preferire alla continua ingerenza politica
sulla regolazione del salario minimo.
8
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45
Appendix
Tavola 1: Cambiamenti nelle disuguaglianze di reddito: Trend nelle medie dei paesi, 1980-2010
Gini coefficient of household net equivalised
incomes
Total
30 countries
of which with an increasing Gini
coefficient
Rise
(points)
Countries
Rise
(%)
Top-income shares in gross incomes
Top-10%
Top-1%
Countries with rising shares
Countries
Rise
(pcpt)
Countries with rising shares
Rise
(%)
Countries
Rise
(pcpt)
Rise
(%)
Changes
1980-1990
18
8
0.028
12%
13
3.0
12%
12
1.6
18%
1990-2000
22
22
0.044
19%
15
3.4
12%
16
2.1
28%
2000-2010
30
19
0.022
8%
10
1.8
5%
9
0.6
8%
1980-2010
18
17
0.065
28%
16
5.8
23%
16
2.6
37%
6
0.070
30%
7
9.3
37%
6
3.9
62%
All 17
(pcpt)
Rising 7
(pcpt)
All 16
(pcpt)
Rising 6
(pcpt)
Consistent
rise
Levels
(countries)
All 30
(Gini)
Rising 6
(Gini)
Start level
0.241
0.256
27.8
28.0
6.4
6.6
End level
0.304
0.327
33.3
37.2
8.9
10.5
In parecchi casi quando i dati mancano per determinati anni, ci si rifà al più vicino periodo comparabile.
Fonte: database GINI e WTID: http://gini-research.org/articles/data_2 and http://topincomes.g-mond.parisschoolofeconomics.eu/
Box 1: Perché la redistribuzione potrebbe essere (progressivamente) minore di
quanto pensiamo
Gli effetti di redistribuzione sono oggi comunemente determinati attraverso il confronto
tra i redditi di mercato e i redditi disponibili, entrambi sulla base di un’equivalizzazione per la
composizione del nucleo familiare. In linea di principio, l’equivalizzazione è una buona cosa da
fare per determinare quale valore abbia un certo reddito per una famiglia, a seconda del numero
di adulti e bambini. Tuttavia, equivalizzare i redditi di mercato rende difficile riconoscere la loro
disuguaglianza ‘nel campo’ (ad esempio, i migliori redditi non sono equivalizzati) e può anche
portare a una stima sbagliata della misura della redistribuzione attraverso imposte e trasferimenti.
L’equivalizzazione esercita un forte effetto equalizzante dato che le famiglie più grandi si
concentrano sui redditi di mercato più alti, mentre le famiglie composte da una persona si trovano
all’estremità inferiore. Il forte aumento dei single negli ultimi decenni rafforzeranno l’effetto.
L’equivalizzazione è responsabile per il 38% del gap tra le disuguagliazne nei redditi di mercato
non equivalizzati e le disuguaglianze nette equivalizzate nel caso canadese.
L’assunto sembra essere che l’equivalizzazione ha lo stesso effetto sia sui redditi di mercato che
sui redditi disponibili. Tuttavia, una serie completa di dati canadesi può illustrare che questo non è
il caso. La figura seguente confronta la dimensione degli effetti redistributivi quando si equivalizza
o meno. La differenza relativa tra i due mostra la dimensione della sovrastima della ridistribuzione
dovuta all’equivalizzazione. L’effetto cresce dal 14% a metà degli anni ‘90 al 22% alla fine degli
anni 2000.
La redistribuzione canadese, dal reddito di mercato al reddito disponibile:
l’effetto dell’equivalizzazione delle famiglie, 1976-2011
25%
20%
15%
10%
Overestimation
5%
0%
-5%
1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010
-10%
Non-equivalised
-15%
-20%
-25%
-30%
-35%
Calcolato da http://www5.statcan.gc.ca/cansim/a03.
Equivalised
47
Analogamente, Brzozowski et al. (2010, figura 7; vedere RED 2010) mostra un effetto di
equivalizzazione per i guadagni delle famiglie che crescono dal 7% a metà degli anni ‘90 all’11%
a metà degli anni 2000. Salverda et al. (2013, figura 2.12) mostra come le disuguaglianze
nel reddito netto per le famiglie di lavoratori olandesi dopo il 1990 sono rimaste piatte dopo
l’equivalizzazione mentre prima dell’equivalizzazione sono cresciute di circa un quarto. Il risultato
è che viene trascurato un punto importante: il contributo della formazione delle famiglie
all’evoluzione della disuguaglianza. È importante indagare effettivamente questo effetto. Le
persone possono cambiare questo comportamento, o essere costrette a cambiare a causa della
crescente disuguaglianza - come molti hanno dimostrato vendendo la propria casa dopo la debacle
dei mutui americani. Per questo motivo non uso qui il database dell’Ocse sulle disuguaglianze di
reddito e le povertà in merito ai redditi di mercato. ■
49
La Disuguaglianza
Riduce le
Opportunità
Jo Blanden,
Senior Lecturer
in Economia alla
University of Surrey e
Ricercatrice associata
al Centre for Economic
Performance, London
School of Economics.
La disuguaglianza nei risultati
è considerevole in molti stati
membri dell’Ue. Questo incide sul
benessere degli individui in un
dato periodo. Tuttavia, l’evidenza
suggerisce che ciò tocca anche la
prossima generazione dato che
i bambini sono profondamente
influenzati dalla situazione
dei genitori. Infatti, l’evidenza
suggerisce che più disuguaglianza
implica un impatto più forte
della situazione svantaggiata dei
genitori sui risultati dei bambini.
“La disuguaglianza nei redditi più alti
sarebbe meno di una preoccupazione
se coloro che hanno un basso reddito
cominciassero a percepirne uno alto a
un certo punto della loro carriera, o se
i bambini con genitori a basso reddito
avessero una buona chance di salire la
scala dei redditi una volta cresciuti.
In altre parole, se noi avessimo un
alto livello di mobilità, saremmo ogni
anno meno preoccupati dal livello di
disuguaglianza.”
(Krueger, 2012)
In parole povere, credere nell’uguaglianza
di opportunità implica che i risultati delle
persone non dovrebbero dipendere da dove
queste sono partite. Tuttavia, ci sono molte
ragioni per cui i risultati delle persone nella vita
- istruzione, occupazione e reddito - potrebbero
essere legati alla condizione materiale dei
loro genitori. A seconda della causa di queste
connessioni è probabile che via una maggiore
o minore sensazione che “qualcosa deve essere
fatto”. Molti sarebbero d’accordo sul fatto che
dovrebbe essere affrontato il tema dell’accesso
alle opportunità di lavoro derivanti dall’uso
di collegamenti genitoriali, considerato che
le differenze che provengono da trasmissioni
genetiche richiederebbero drastiche azioni, e
che ribaltarli potrebbe portare a inefficienza se
quelli con un buon potenziale si vedono negato
l’accesso ai migliori posti di lavoro.
Gli economisti stimano comunemente un
unico numero – l’elasticità intergenerazionale
– per riassumere la portata della mobilità
intergenerazionale. Questo fornisce
informazioni sull’ammontare medio di ogni
differenza di reddito tra genitori che è stata
trasmessa ai figli. Per esempio, prendiamo due
famiglie confinanti con figli della stessa età;
una con un reddito due volte più alto dell’altro.
Se hanno una mobilità media e l’elasticità
intergenerazionale è dello 0,40, allora il figlio
della famiglia più ricca guadagnerà circa il
40% in più rispetto al figlio della famiglia
povera. Per le ragioni sopraindicate, non ci si
aspetterebbe alcuna associazione nei redditi tra
le generazioni; l’elasticità intergenerazionale
non sarà zero. La nostra comprensione di ciò
che è numericamente auspicabile per questa
associazione può essere facilitata dal confronto
dei livelli di mobilità intergenerazionale tra
paesi. Con tali paragoni in mano, è possibile
valutare la mobilità come “relativamente
debole” e “relativamente forte“, e dopo
cominciare a considerare possibili spiegazioni
per le differenze di mobilità intergenerazionale.
Dati che misurano i redditi in due
generazioni non sono comuni, e spesso
differiscono tra i paesi in modi sottili, tanto da
poter avere un impatto sulle nostre conclusioni
sulla mobilità alta o bassa di una nazione.[1]
Tuttavia, diversi studi dimostrano che
l’associazione dei redditi tra genitori e bambini
è debole nelle nazioni nordiche. Inoltre, la
nozione di “Sogno americano”, ossia di una
elevata mobilità, è contraddetta da una mole
impressionante di prove che dimostrano che, di
fatto, le opportunità di vita di bambini poveri e
di quelli ricchi sono fortemente diseguali negli
Stati Uniti.[2] [3] [4]
E’ evidente che la caratteristica che
definisce i paesi nordici rispetto agli Stati Uniti
sta nella distribuzione del reddito. Ad esempio,
a metà degli anni ’80 l’indice del coefficiente
Figura 1 Disuguaglianza di reddito e Associazione dei redditi nelle generazioni
Preferred income beta
.5
Fitted values
USA
.4
GBrit
Italy
France
.3
Norway
Sweden
.2
Germany
Canada
Australia
Finland
Denmark
.1
.2
.25
.3
.35
Gini coef f icient 1995
Fone: Figure da Blanden (2013), grafico leggermente rivisto.
.4
.45
51
Gini nelle nazioni nordiche è stato intorno allo
0,2 rispetto allo 0,35 negli Stati Uniti.[5]
Vi è ora un numero crescente di prove [6, 4]
che completano il quadro e che rivelano come
le nazioni con un alto grado di disparità di
reddito all’interno di una generazione possono
che anche avere disuguaglianze più persistenti
tra le generazioni. La Figura 1 mostra la mia
versione di ciò che è stato indicato come la
Curva del Grande Gatsby,[7] basata su un piccolo
campione di ricchi paesi anglofoni ed europei.
Questo mostra chiaramente un abbastanza
forte rapporto tra il coefficiente di Gini per il
reddito e la misura stimata di mobilità.
Parte della spiegazione di questa
associazione può essere trovata nelle case e
a scuola, mentre parte della connessione è
dettata dal mercato del lavoro. I genitori più
ricchi sono in grado di effettuare investimenti
supplementari nello sviluppo dei loro bambini.
Alcuni di questi non sono direttamente correlati
alla ricchezza finanziaria: per esempio, aiutare i
bambini nel fare i compiti a casa è più facile per
i genitori più ricchi, dato che sono più istruiti.
Tuttavia, altri avranno un costo materiale
e sono quindi probabilmente più importanti
nei paesi in cui i ricchi sono più ricchi. Se i
ricchi sono due volte più abbienti di coloro
che stanno a metà della scala sociale (Usa),
anziché una volta e mezza (Scandinavia)[5]
possono spendere questa maggiore ricchezza
relativa in scuole private, lezioni private e
sostegno all’Università: aggiungendosi così a
una maggiore serie di vantaggi per la prossima
generazione.
Alcune delle relazioni tra opportunità e
disuguaglianza avvengono perché entrambe
sono determinate da quanto le abilità vengono
premiate. Le differenze negli investimenti
rischiano di portare a differenze nei risultati
scolastici e nelle competenze per i bambini
provenienti da ambienti diversi. La misura in cui
tali competenze e tali risultati contribuiscono
alla disuguaglianza intergenerazionale
dipenderà dalla misura in cui questi sono
premiati nel mercato del lavoro. Tali ricompense
sono anche un fattore importante della misura
della disuguaglianza. Una visione alternativa
è che il rapporto si sposta dalla mobilità alla
disuguaglianza, mentre una carenza di pari
opportunità porta a un numero ristretto
di persone con preziose competenze nel
mercato del lavoro; ciò aumenta quello che gli
economisti chiamano “returns to skills”, ossia il
peso delle competenze nel determinare il livello
dei salari, e dunque conduce a una maggiore
disuguaglianza.
E’ difficile chiarire completamente il peso
che dovrebbe essere dato a queste spiegazioni.
[8]
Sembra probabile che sia l’istruzione che
il mercato del lavoro giochino un ruolo. I
gap emergono presto nel sistema formativo
e sembrano incrementarsi uno sull’altro.[9]
Ma c’è anche l’evidenza di un forte rapporto
tra paesi e nel tempo tra i rendimenti
dell’istruzione superiore e l’elasticità del reddito
intergenerazionale.[8][10]
Se le nazioni intendono davvero migliorare
le pari opportunità allora occorre focalizzarsi
sul colmare i gap in materia di istruzione
attraverso la limitazione delle disuguaglianze
nei risultati.
Così come si guarda alla quantità media
di mobilità in una società, gli economisti
considerano anche la quantità di mobilità tra
le diverse classi di reddito. Ad esempio, ci sono
più probabilità che un povero migliori la sua
posizione rispetto a un ricco che peggiori la
sua? Il confronto tra le nazioni nordiche da
un lato e Stati Uniti e Regno Unito dall’altro
La disuguaglianza nei risultati
è considerevole in molti stati
membri dell’Ue. Questo incide
sul benessere degli individui
in un dato periodo. Tuttavia,
l’evidenza suggerisce che
ciò tocca anche la prossima
generazione dato che i bambini
sono profondamente influenzati
dalla situazione dei genitori.
Infatti, l’evidenza suggerisce
che più disuguaglianza implica
un impatto più forte della
situazione svantaggiata dei
genitori sui risultati dei
bambini.
indica che in tutti questi paesi i più ricchi
riescono a trasferire i loro privilegi alla prossima
generazione: ciò che è diverso è che nei paesi
più diseguali essere un po’ sopra o un po’ sotto
la media riveste un’importanza maggiore.[11]
Questo potrebbe suggerire che lo stato
sociale e il sistema scolastico riescono meglio a
colmare i gap in queste società, forse perché i
gap sono minori.
Miles Corak ritiene che il confronto tra
nazioni più piccole e omogenee come quelle
nordiche e gli Usa potrebbe non essere il
modo migliore per individuare le giuste
politiche. Piuttosto, Corak guarda a ciò che
può insegnare il caso canadese, paese che ha
una maggiore mobilità rispetto al suo vicino
meridionale.[8]
I suoi suggerimenti vanno più verso il
congedo parentale, un più ampio accesso alle
cure sanitarie e maggiori compensazioni per le
risorse didattiche.
Evidenze empiriche di altri lavori che
mostrano una minore mobilità verso il basso
in Canada rispetto agli Stati Uniti, potrebbero
anche indicare che il più alto reddito relativo tra
i ricchi negli Stati Uniti è utilizzato per fornire
un ammortizzare per quei bambini che non
potrebbero averlo in altro modo.[12] Quindi
quali sono le implicazioni di questo studio per
l’Europa? Una nuova analisi basata su dati
comparabili[13] indica che sembra esserci un
rapporto tra pari opportunità e disuguaglianza
all’interno dell’Europa (1), suggerendo che la
disuguaglianza limita le opportunità anche tra
quei paesi più omogenei.
È interessante notare che la ricerca sugli
atteggiamenti verso la disuguaglianza[14] negli
anni ‘80 e ‘90 mostra una marcata differenza
nella percezione della disuguaglianza tra
gli Stati Uniti e l’Europa soprattutto tra i
gruppi più poveri, con i cittadini statunitensi
meno interessati dalla disuguaglianza. Una
spiegazione di ciò è che in gli Stati Uniti, a
fronte dell’evidenza, i poveri hanno una grande
fiducia nel Sogno Americano e pertanto
nella prospettiva di una mobilità. I cittadini
Ue sembrano essere più realistici nelle loro
aspettative. L’ importanza di affrontare la
disuguaglianza di reddito come leva politica per
incoraggiare la mobilità potrebbe quindi essere
un messaggio politico che gli europei sono
predisposti ad ascoltare. ■
An exception to this is the formerly communist Eastern European nations where there appears to be no evidence of such a relationship.
1
53
Figura 2 Disuguaglianza di reddito e Associazione tra Educazione dei genitori e
Reddito futuro dei bambini
60
Association between parental
education and later earnings
Luxembourg
Fitted values
50
Greece
Spain
Ireland
40
Italy
United Kingdom
France
30
Sweden
Denmark
20
Finland
Belgium
Germany
Netherlands
Austria
10
.2
.25
.3
LIS Gini mid-2000s
Fonte: Stime di Jerim (2014) combinate con I coefficienti Gini ottenuti dal LIS dall’autore.
.35
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Americans different?’ Journal of Public Economics
88, pp. 2009-2042.
55
Uguaglianza,
Coesione Sociale,
e Benessere
Frank J. Elgar,
Institute for Health
and Social Policy
and Department of
Psychiatry McGill
University
Sommario:
La crescente disparità di
ricchezza tra ricchi e poveri
minaccia la salute e il benessere,
inibisce la mobilità sociale, ed
è attualmente il più potente e
determinante fattore sociale della
violenza e dell’attività criminale.
Le ragioni sono dovute in gran
parte agli effetti socialmente
corrosivi delle disuguaglianze
sulla vita comunitaria. Sostenere
la prosperità, il benessere e
l’ordine sociale nel corso del
21esimo secolo richiederà
inevitabilmente politiche
aggressive che rafforzino il
tessuto sociale e allo stesso
tempo promuovano una maggiore
uguaglianza economica.
L’aumento della disuguaglianza tra ricchi
e poveri e la prova inconfutabile sulle sue
conseguenze sociali negative dipingono
un quadro fosco del futuro. I salari reali
della metà inferiore della forza lavoro sono
diminuiti costantemente dal 1970 mentre i
redditi dell’1% più ricco della popolazione
sono quadruplicati. La disuguaglianza di
reddito è aumentata nella maggior parte
dei paesi nel corso degli ultimi tre decenni.
La ricchezza è ora più che mai concentrata
nelle mani dei ricchi. La disuguaglianza di
reddito è il focus di ricerca sui determinanti
sociali della salute e della violenza. Le
conseguenze della disuguaglianza sono
estreme. Come altri articoli a questo riguardo
hanno descritto, la disuguaglianza accorcia
l’aspettativa di vita, peggiora la salute, limita
la mobilità sociale e contribuisce ai problemi
sociali, tra cui l’uso di droga, la violenza e la
criminalità.1, 2, 3, 4, 5
Diverse indipendenti e sistematiche
valutazioni di questi fatti hanno concluso
che la disuguaglianza contribuisce ai
comportamenti criminali e antisociali tra cui
omicidi, reati con armi da fuoco, aggressioni,
episodi di razzismo, furti e aggressioni
sessuali.6, 7, 8
Queste non sono piccole variazioni
statistiche dei dati. La disuguaglianza di
reddito spiega circa la metà della variazione
dei tassi di omicidio tra gli stati americani
e le province canadesi.9, 10, 11 Studi
internazionali hanno trovato associazioni
analoghe relativamente a omicidi e
incarcerazioni.1, 4, 12, 13
Anche nei bambini e negli adolescenti,
la disuguaglianza ha un impatto negativo
sulla salute mentale e il benessere,14, 15 e
ovviamente si riferisce alla vittimizzazione da
bullismo scolastico,16, 17 al bullismo a scuola,18
all’alcolismo minorile,19 alle gravidanze in età
adolescenziale,4 e all’abbandono scolastico.1
La disparità economica - non la povertà caratterizza i luoghi più pericolosi per vivere.
Ricerca dei percorsi causali
Che la disuguaglianza minacci la salute
e il benessere è appurato. Il come è una
questione più complicata. La ricerca in questo
57
settore sta ancora cercando di evidenziare
i meccanismi causali che sono alla base di
questi effetti, tuttavia sono stati individuati due
percorsi complementari. Uno è un percorso
materiale e semplice: la disuguaglianza inibisce
gli investimenti (in percentuale del PIL) in
infrastrutture pubbliche e dei servizi pubblici
come la sanità e l’istruzione. L’ idea è che,
come la disuguaglianza aumenta, il ricco trae
meno vantaggi da una redistribuzione della
ricchezza per il bene comune.20, 21
Il secondo percorso, più insidioso, riguarda
gli effetti socialmente corrosivi sulla vita di
comunità.1 La disuguaglianza lacera il tessuto
sociale e divide comunità e intere società
attraverso demarcazioni economiche. Le
spaccature tra i ricchi e i poveri favoriscono le
sensazioni di privazione, aumentano l’ansia di
classe e i conflitti e riducono i livelli di fiducia e
di efficacia nelle comunità.
Sentirsi povero ha poco a che fare con la
povertà in senso assoluto, come la mancanza
di necessità di base nella vita. Il sentirsi
relativamente “privati” porta a espliciti
paragoni sociali tra quello che si ha e quello
che non si ha. Come ha scritto l’endocrinologo
Robert Sapolsky, “il modo più sicuro per
sentirsi poveri è quello di essere continuamente
informati di quello che gli abbienti hanno
quando si è indigenti” (p. 98).22
Naturalmente, questi percorsi materiali e
psicosociali si intrecciano e si rafforzano a vicenda.
23, 24
Le società più diseguali con bassi livelli di
fiducia e di coesione sociale tendono ad essere più
conservatrici nei loro valori e a favorire un ruolo
limitato per il loro governo nella vita sociale.1
Uno studio condotto negli Stati Uniti ha rilevato
che la spesa pubblica per sanità e istruzione è
negativamente correlata sia alla disuguaglianza di
reddito che alla mortalità degli adulti.21
Tuttavia, come possibile percorso “causale”
esplicativo, le conseguenze psicosociali della
disuguaglianza hanno un forte supporto empirico.
3, 7, 24, 25
Ad esempio, la relazione tra la disuguaglianza
di reddito e la fiducia nei 33 paesi riportati nella
figura sottostante mette in relazione i legami tra
tassi di disuguaglianza e di omicidi, la mortalità
degli adulti e l’aspettativa di vita.5, 13)
La coesione sociale come
strumento di politica
Una volta spaccate dalla disuguaglianza, le
comunità non riescono più a funzionare come
vere e proprie comunità. Le opportunità di
socializzazione diminuiscono24, il volontariato
cala 23, la paura della criminalità aumenta26, si
indebolisce il sostegno sociale25, la fiducia si
abbassa e5 le scuole diventano più violente.17
I controlli sociali sulla violenza non funzionano
più.3, 11 In poche parole, le società disuguali
non hanno la capacità sociale per sostenere la
salute e il benessere.
Questa capacità (o “capitale sociale”) è,
in sostanza, il valore delle reti sociali per le
persone. Il capitale sociale può essere misurato
in termini di partecipazione della comunità, di
coesione sociale, di volontariato, di affiliazioni
di gruppo, o di generale fiducia sociale.26, 27
E’ generata attraverso l’appartenenza a gruppi,
siano essi scuole, luoghi di lavoro, colleghi,
gruppi religiosi o gruppi ricreativi. Vivere e
lavorare in coese reti cooperative, dove la
reciprocità e la fiducia sono più la norma che
l’eccezione, ha vantaggi significativi per la
salute mentale e fisica.28, 29, 30 E, come il capitale
economico, l’avere riserve di capitale sociale
Una volta spaccate dalla disuguaglianza, le comunità non
riescono più a funzionare come vere e proprie comunità.
Le opportunità di socializzazione diminuiscono, il
volontariato cala, la paura della criminalità aumenta, si
indebolisce il sostegno sociale, la fiducia si abbassa e
le scuole diventano più violente. I controlli sociali sulla
violenza non funzionano più. In poche parole, le società
diseguali non hanno la capacità sociale per sostenere la
salute e il benessere.
a portata di mano, è particolarmente utile in
aree economicamente svantaggiate31 o durante
i periodi di incertezza economica.32
Costruire il capitale sociale è una buona
politica pubblica. Tali attività sociali condivise
per la salute e il benessere sono alla base della
controversa natura di disuguaglianza di reddito.
La buona notizia è che le agenzie pubbliche,
tra cui tutti i livelli di governo, possono
aumentare il capitale sociale e lo sviluppo
sociale fornendo i mezzi e le opportunità ai
cittadini di interagire, collaborare ed essere
coinvolti nelle loro comunità.
E, dal momento che la coesione sociale
giustifica alcune delle conseguenze dannose
delle disuguaglianze, le politiche che sia
aumentino la coesione sociale e sia riducano
le disuguaglianze, potrebbero avere maggiori
effetti sulla salute e il benessere di qualunque
altra strategia.
Nel 1835, lo storico francese e pensatore
politico Alexis de Tocqueville scrisse che la vita
comunitaria in America è alla base di tutte le
libertà democratiche. “Gli americani di tutte le
età, di tutte le fasi di vita e tutti i tipi di indole
stanno sempre formando associazioni” (p. 24).
33
Quasi due secoli dopo, la ricerca mostra
ciò che i primi studiosi avevano intuito, ossia
che l’essenza di una fiorente repubblica
democratica non sta nelle sue strutture
giuridiche o nel commercio, ma nelle
connessioni sociali che danno origine a queste
istituzioni, in primo luogo. ■
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59
Figure 1 Correlazione tra fiducia e disuguaglianza di reddito
4
Denmark
Switzerland
Taiwan
Netherlands
Fiducia (unità SD)
2
Norway
Finland
Sweden
Cz Rep
Germany
Canada UK Latvia USA
Philippines
Slovenia
Australia Israel
Japan
S.Korea
NZ
Portugal
France Ireland
Croatia
Spain
Venezuela
0
Chile
Russian Fed.
Hungary
-2
S.Africa
Uruguay
Poland
Dominican Rep.
-4
.2
.3
.4
.5
Disuguaglianza dei redditi (Index Gini)
Correlazione tra disuguaglianze di reddito e fiducia nei 33 paesi (r=.51, dopo che le differenze nei redditi pro capite sono stati mantenuti costanti)
SD= unità di deviazione standard. I cerchi illustrano il peso delle popolazioni per paesi.
Fonte: A
merican Journal of Public Health.
La American Public Health Association non è responsabile della traduzione di questa figura.
.6
11. Kennedy BP, Kawachi I, Prothrow-Stith D, Lochner
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61
Disuguaglianze e crisi ambientale:
è giunto il tempo di detronizzare
il neoliberismo globale
Roberto De Vogli,
PhD, MPH, Professore
associato di Fattori
sociali determinanti
della crisi globale
al Department
of Public Health
Sciences, University of
California Davis (UCD)
Indirizzo:
Roberto De Vogli,
Department of Public Health
Sciences, School of Medicine,
University of California Davis,
One Shields Ave. Med Sci.
1-C, Davis, CA 95616 (US)
(email: [email protected])
Sommario:
Gli ultimi tre decenni di
globalizzazione neoliberale e di
liberalizzazione del commercio
e della finanza sono stati
caratterizzati da un’accelerazione
delle disuguaglianze economiche
globali e dal degrado ambientale.
Una grande quantità di evidenze
empiriche indicano che la
disuguaglianza economica
rappresenta un importante
ostacolo all’adozione di accordi
internazionali per la lotta
ai cambiamenti climatici.
Un’eccessiva disuguaglianza
erode le condizioni di una
fiducia generalizzata e promuove
opinioni molto diverse su quali
soluzioni “eque” adottare contro
la crisi climatica nella nazioni
ricche e in quelle povere. Le
distanze socio-economiche più
ampie promuovono anche un
aumento della competizione
di status e delle aspirazioni
materialistiche che, a loro volta,
intensificano il consumismo
e un più rapido esaurimento
delle risorse naturali (uno
degli ostacoli più grossi per
raggiungere la sostenibilità).
Rompere il circolo vizioso della
crescente disuguaglianza e del
deterioramento ecologico globale
richiede politiche urgenti per
ridurre le emissioni di gas serra
tanto nei paesi sviluppati quanto
in quelli in via di sviluppo. I
cambiamenti politici verso un
mondo più sostenibile ed equo
includono un accordo globale sui
cambiamenti climatici sulla base
dell’“uguale diritto di inquinare”,
tasse globali sulle emissioni di
carbonio e una serie di misure
di redistribuzione economica tra
e all’interno dei paesi. Ancora
più importante, questo richiede
un nuovo modello di sviluppo al
posto dell’attuale modello del
neoliberismo globale.
63
La straordinaria estensione
delle disuguaglianze
Secondo l’Università delle Nazioni Unite
(UNU) e l’Istituto mondiale per la Ricerca sullo
sviluppo economico (WIDER), nel 2008 il
2% più ricco tra tutta la popolazione adulta
possedeva metà della ricchezza globale delle
famiglie, mentre la metà più povere del mondo
ne possedeva appena l’1%. Nello stesso anno,
il coefficiente di Gini per le disuguaglianze nella
ricchezza a livello mondiale, un indice che va
da 0 (valore minimo) a 1 (valore massimo), è
stato stimato a 0,89. Questo è il valore che si
avrebbe in una popolazione di dieci persone nel
caso in cui una persona ha avuto 1.000 dollari
e le altre nove solo 1. La Figura 1 presenta i
dati per 180 nazioni ordinate secondo il reddito
nazionale lordo (RNL) pro capite (a parità di
potere d’acquisto del dollaro internazionale
corrente) dagli Indicatori sullo sviluppo globale
della Banca mondiale del 2012. Anche se alcuni
autori hanno sostenuto che la globalizzazione
economica ha ridotto le disuguaglianze
economiche tra paesi e creato una “parità di
condizioni”, la forma che rappresenta l’attuale
distribuzione della ricchezza assomiglia ancora a
una piramide.
Gli ultimi decenni di deregolamentazione
del commercio e della finanza sono stati
caratterizzati da un’accelerazione delle
disuguaglianze economiche globali. La
Figura 2 mostra un andamento temporale
nella diseguaglianza della ricchezza globale
misurata come differenza media nell’RNL pro
capite (metodo Atlas, dollaro internazionale
corrente) tra 88 nazioni dal 1960 al 2010.
Figura 1 La Piramide delle Disuguaglianze nella Ricchezza Mondiale tra 180 Nazioni
classificate per Reddito Nazionale Lordo (RNL) pro capite PPP (dollaro corrente internazionale), 2009
1
Classifica dei paesi per RNL pro capite PPP
(dollaro corrente internazionale), 2009
20
40
60
80
Luxembourg ($55,940)
Ireland ($33,170)
Estonia ($19,420)
Botswana ($13,060)
Bosnia and Herzegovina ($8,840)
100
Jordan ($5,790)
120
Mongolia ($3,660)
140
Tajikistan ($2,070)
160
Nepal ($1,170)
180
Congo DR ($310)
Fonte: W
orld Bank’s World Development Indicators database (2012).
[Ristamoa di De Vogli R. Progress or Collapse: the Crises of Market Greed. New York and London: Routledge (Taylor & Francis), 2013.]
Le disuguaglianze erodono le condizioni di
una generalizzata fiducia e creano un diffuso
disaccordo su quali soluzioni alla crisi climatica
siano più “eque” e “bilanciate”.
In linea con le precedenti evidenza, la figura
mostra che dopo un periodo stabile negli anni
‘60, la disuguaglianza nella ricchezza globale
è aumentata rapidamente tra il 1970 e il
2010, ossia durante l’era della globalizzazione
“neoliberista”.
Uno dei meccanismi per spiegare il rapido
aumento della disuguaglianza economica
globale riguarda l’aumento delle multinazionali
(per lo più con sede in nazioni sviluppate)
che hanno accumulato una quantità enorme
di ricchezza negli ultimi decenni. Un recente
studio ha rivelato che 1.318 multinazionali
posseggono complessivamente, attraverso le
loro azioni, le società ad alta capitalizzazione
azionaria e le aziende manifatturiere più grandi
del mondo, che rappresentano circa il 60% del
fatturato globale. Lo stesso studio dimostra
anche che una “super entità” di 147 aziende,
meno dell’1% del totale, controlla circa il
40% dell’intera ricchezza di questo network.
Se si considerano gli attori finanziari globali
come gli hedge fund, i fondi pensionistici
privati, le società di assicurazioni e le banche di
Principali differenze nell’RNL pro capite,
metodo Atlas (dollaro corrente)
Figura 2 Il trend della Disuguaglianza della Ricchezza Globale (Principali
Differenze nell’RNL pro capite, metodo Atlas – dollaro corrente
internazionale) tra 88 Nazioni, 1960-2010
20000
15000
10000
5000
0
1960
1970
1980
1990
2000
Tempo (anno)
Fonte: World Bank’s World Development Indicators database (2012).
[Ristamoa di De Vogli R. Progress or Collapse: the Crises of Market Greed. New York and London: Routledge (Taylor & Francis), 2013.]
2010
65
investimento, la concentrazione della ricchezza
raggiunge livelli ancora più grotteschi. Nel
2010, 6 banche (Bank of America, JP Morgan
Chase, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e
Morgan Stanley) controllavano circa il 60% del
prodotto interno lordo statunitense (PIL).
L’impatto delle disuguaglianze
sull’ambiente globale
Gli ultimo decenni di aumento della
disuguaglianza sono stati caratterizzati da
un’accelerazione del degrado ecologico e del
consumismo materiale che hanno condotto a una
serie di crisi ambientali globali multiple e convergenti.
I rapidi cambiamenti climatici e lo sfruttamento
insostenibile delle risorse naturali come petrolio,
acqua, pesci e cibo indicano che l’umanità si sta
schiantando contro i limiti dell’ecosistema.
In particolare, i cambiamenti climatici sono
sempre più considerati come le maggiori minacce alla
salute degli uomini e alla sicurezza del nostro futuro.
La prova del progressivo riscaldamento del sistema
climatico dovuto a un aumento delle concentrazioni
globali di anidride carbonica, metano e protossido di
azoto risultanti dalle attività umane è inequivocabile.
Lo scioglimento diffuso di neve e ghiaccio, che
ha fatto aumentare il livello medio del mare a livello
globale, le inondazioni catastrofiche e le ondate di
caldo sono segni di un progressivo deterioramento
ecologico le cui conseguenze potrebbero includere il
collasso della civiltà moderna.
Gli ambientalisti propongono che l’obiettivo che
l’umanità dovrebbe essere quello di fermare la crescita
delle temperature medie globali al di sopra dei 2 gradi
rispetto al livello pre-industriale. Il tetto di due gradi è
considerato il “punto di non ritorno”, la soglia critica
alla quale dovrebbero verificarsi alcuni feedback positivi
non-lineari dell’ecosistema, producendo cambiamenti
irreversibili in termini di stabilità del clima.
La risoluzione della crisi ambientale globale
richiede una rapida decarbonizzazione dell’economia
unita a cambiamenti profondi politici, economici e
comportamentali raggiungibili attraverso un’azione
internazionale coordinata.
Tuttavia, un gran numero di prove indica che
l’eccessiva disuguaglianza globale crea maggiori
ostacoli all’adozione di accordi internazionali
ambientali e mina l’efficacia di una cooperazione
internazionale per la lotta alla crisi ecologica globale.
Queste disuguaglianze erodono le condizioni di una
generalizzata fiducia e creano un diffuso disaccordo
su quali soluzioni alla crisi climatica siano più “eque”
e “bilanciate”: mentre le nazioni povere temono
limiti ai loro sforzi per crescere economicamente e
rispondere alle istanze del proprio popolo, alcuni
paesi ricchi e potenti si rifiutano di tagliare i loro
eccessi senza che i paesi in via di sviluppo facciano lo
stesso. Si tratta di un classico esempio di “tragedia
dei beni comuni“, in cui tutti perdono a meno che i
giocatori inizino a collaborare e ad andare al di là dei
propri ristretti interessi a breve termine. Infatti, se noi
non prendiamo misure efficaci per affrontare la crisi
climatica e ridurre la disuguaglianza internazionale,
il collasso ecologico dovuto ai cambiamenti climatici
e al rapido esaurimento delle risorse naturali sarà
molto più difficile da evitare.
C’è un altro meccanismo per il quale le
disuguaglianze economiche globali e nazionali
incidono sull’ambiente globale e sulla risoluzione
delle crisi ecologiche imminenti. I ricercatori hanno
trovato che le società più diseguali sono più divisibili
socialmente, più gerarchiche e materialistiche rispetto
a quelle più egualitarie. Ampie distanze materiali
promuovono un aumento nella competizione di
status e nelle aspirazioni materialistiche delle persone
che lavorano più ore, spendendo la maggior parte del
loro reddito in beni di lusso e risparmiando di meno.
Poiché le disuguaglianze eccessive promuovono la
competizione di status e aspirazioni materialistiche,
queste intensificano anche il consumismo e un più
rapido esaurimento delle risorse naturali - uno dei più
grossi ostacoli al raggiungimento della sostenibilità.
L’evidenza dimostra anche che le società più eque
hanno “impronte ecologiche” più piccole, riciclano
di più, la loro popolazione prende meno voli,
consumano meno acqua e meno carne e producono
meno rifiuti. Infine, come mostrato in Figura 3, i dati
transnazionali indicano che gli imprenditori di paesi
più equi sono più propensi (rispetto a quelli di paesi
meno equi) ad accettare che i loro governi possano
Alto
Figura 3 D
isuguaglianza di reddito e rating per rilevanza della conformità agli
accordi internazionali sull’ambiente tra le imprese leader in 17 nazioni
ad alto reddito
Finland
Denmark
Austria
Germany
Netherlands
Norway
Switzerland
Japan
France
New Zealand
Canada
UK
Greece
Belgium
Italy
Spain
Australia
USA
Ireland
Portugal
Basso
Score della conformità ambientale
Sweden
Israel
Bassa
Disuguaglianza di reddito
Alta
Fonte: I dati sulla disuguaglianza provengono dagli Indicatori sullo Sviluppo Umano. I dati sulla conformità agli accordi sull’ambiente tra le imprese leader
provengono dall’indagine del World Economic Forum.
[Ristampa di Wilkinson R, Pickett K, and De Vogli R. Equality, Sustainability and Quality of Life. British Medical Journal 2010 Nov 2;341:c5816.]
67
Se noi non prendiamo misure efficaci per
affrontare la crisi climatica e ridurre la
disuguaglianza internazionale, il collasso
ecologico dovuto ai cambiamenti climatici e al
rapido esaurimento delle risorse naturali sarà
molto più difficile da evitare.
prendere in considerazione come prioritari eventuali
accordi ambientali internazionali. I meccanismi che
spiegano perché una più alta percentuale di cittadini
nelle società più eque sono più propensi ad adottare
comportamenti più eco-friendly rispetto ai cittadini di
società meno eque sono ancora oggetto di indagine
scientifica. Una grande quantità di evidenze,
tuttavia, suggeriscono che una spiegazione plausibile
riguarda l’elevato livello di coesione sociale, fiducia
interpersonale e senso di responsabilità collettiva nei
confronti delle azioni per la difesa del bene comune
che sono più prevalenti nelle società più eque
rispetto a quelle più diseguali.
Affrontare le disuguaglianze
e la crisi climatica
Un passo fondamentale verso un mondo
più sano e sicuro lo si compierebbe attraverso
una serie di riforme nazionali e internazionali
volte a ripensare il sistema economico globale,
non solo verso un percorso più sostenibile,
ma anche verso una più equa distribuzione
delle risorse economiche. Qui presento
due idee che, se attuate, probabilmente
comporterebbero notevoli progressi nella lotta
alla crisi ambientale globale: a) la contrazione &
la convergenza per affrontare il cambiamento
climatico e b) una carbon tax globale.
La crisi ambientale globale può essere
affrontata attraverso programmi realizzabili
capaci di convincere sia i paesi sviluppati
che quelli in via di sviluppo a intraprendere
politiche più sostenibile ed eque. Le nazioni
sviluppate devono portare avanti, per esempio,
non solo la rapida de carbonizzazione delle
loro economie e l’adozione di un più sobrio
modello di consumo delle risorse naturali,
ma devono anche aiutare i paesi poveri
con tecnologie ambientali che potrebbero
essere considerate come risarcimenti per le
passate ingiustizie dell’imperialismo, della
colonizzazione e dello sfruttamento. Le nazioni
in via di sviluppo dovrebbero fare “la loro parte
equa” e impegnarsi a fermare i cambiamenti
climatici evitando di emulare gli stessi modelli
di sviluppo economico addottati dalle nazioni
ricche e affrontando al contempo i loro
pressanti problemi di sviluppo.
Tanto le nazioni sviluppate, quanto quelle in
via di sviluppo devono impegnarsi a rispettare
il principio per cui ogni cittadino del mondo ha
un uguale diritto all’atmosfera.
Negli ultimi anni, ci sono state varie
proposte per affrontare i cambiamenti climatici
sulla base di questo principio. Più di due
decenni fa, Aubrey Meyer, fondatore del Global
Commons Institute, ha proposto un modello
chiamato “Contrazione & convergenza” per
ridurre le emissioni di gas serra abbastanza
da garantire concentrazioni “sicure e stabili”
nell’atmosfera terrestre. Il modello fissa per
prima cosa un tetto per le concentrazioni di
gas serra a livello mondiale e una data entro la
quale gli obiettivi dovrebbero essere raggiunti
(ad esempio, i 350 ppm entro il 2050). Poi,
assicura che il meccanismo utilizzato per
raggiungere questo target sia equo attraverso
la divisione delle emissioni di gas a effetto serra
tra tutti i popoli del mondo e l’assegnazione
di una quota ad ogni nazione basata sulla sua
popolazione (contrazione).
La “torta di carbonio“ globale sarebbe
così condivisa tra le diverse nazioni del mondo
nella forma di “diritti negoziabili “, con i
singoli paesi che negoziano la propria quota in
proporziono alle loro popolazioni nazionali.
Il modello prevede che, nel tempo, i
target di carbonio dei paesi sviluppati e di
quelli in via di sviluppo convergano verso un
Poiché le disuguaglianze eccessive promuovono
la competizione di status e aspirazioni
materialistiche, queste intensificano anche il
consumismo e un più rapido esaurimento delle
risorse naturali - uno dei più grossi ostacoli al
raggiungimento della sostenibilità.
di inquinamento, le nazioni che vogliono
produrre più biossido di carbonio della loro
quota sarebbero obbligate ad acquistare
quote inutilizzate da altre nazioni.16 Il
meccanismo permetterebbe di mettere in
livello di inquinamento comune pro capite,
con tutti i paesi pronti ad accettare lo stesso
obiettivo di emissioni con un target sicuro di
350 ppm a livello globale (convergenza). In
parallelo con la convergenza verso la parità
Figura 4 C
ontrazione e Convergenza: Un accordo globale sui cambiamenti
climatici e il pari diritto all’inquinamento
USA
CONVERGENCE
CONTRACTION
6
Former Soviet Union
OECD less USA
3
Tonnes Carbon
Per Capita
China
Rest of World
India
Gigatonnes Carbon
(GTC) Cross
8 GTC
Rest of World
India
China
Former Soviet Union
4 GTC
0
OECD less USA
USA
1800
1900
2000
2030
2100
2200
Fonte: Global Commons Institute (GCI)
Website: www.gci.org.uk/contconv/cc.html
Nota: Questo esempio mostra i tassi negoziati regionalmente di C&C. E’ per una contrazione del bilancio di 450ppm con convergenza entro il 2030
69
piedi un commercio in cui i paesi in via di
sviluppo che non sono in grado di utilizzare
in pieno i loro diritti possano vendere le loro
quote ai paesi ricchi in cambio, per esempio,
di progetti per sviluppo, sanità e istruzione.
Questo significherebbe che paesi ricchi ad alta
emissione pagherebbero i paesi più poveri e
a basse emissioni, così da ottenere una certa
redistribuzione del reddito. Più di recente,
Chakravarty e altri colleghi hanno proposto un
nuovo quadro di ripartizione del target globale
per riduzione del carbonio tra le nazioni con
un’enfasi posta sugli individui piuttosto che sui
paesi. Utilizzando la distribuzione del reddito
di ogni paese per stimare quanto la media
di emissioni di gas serra sia distribuita tra i
cittadini, hanno calcolato per ogni paese un
target di riduzione del carbonio partendo da
una soglia individuale di emissioni per ciascun
cittadino. Il merito di questo quadro è che gli
obiettivi nazionali per la riduzione del carbonio
sono così legati al numero di ricchi “emettitori”
indipendentemente da dove essi vivono.
Alcuni commentatori potrebbero trovare
proposte come questa, che intendono
affrontare i cambiamenti climatici e al
contempo la redistribuzione globale e
l’eliminazione della povertà, troppo “di parte”
nei confronti delle istanze dei paesi in via di
sviluppo. È importante ricordare, però, che i
paesi ricchi rappresentano solo il 15% della
popolazione mondiale, ma emettono circa il
50% delle emissioni di anidride carbonica a
livello mondiale. Inoltre, con un mondo che sta
affrontando una crisi ecologica senza quartiere,
niente è diventato più concreto per le nazioni
ricche che aiutare i paesi in via di sviluppo
nel mettere in piedi programmi ecologici e
sradicare la povertà estrema. Da un punto di
vista occidentale, questo sarebbe un atto di
generosità e di interesse illuminato; non farlo,
sarebbe come sabotare il nostro futuro. Come
Dipesh Chakravarty una volta ha osservato,
“a differenza delle crisi del capitalismo, non
ci sono scialuppe di salvataggio per i ricchi e
privilegiati” che li risparmierà da un eventuale
disastro climatico.
Numerosi autori hanno proposto anche
una carbon tax globale come soluzione
alternativa – o complementare - per affrontare
i cambiamenti climatici, ma sono stati sollevati
diversi dubbi circa gli effetti redistributivi
potenzialmente regressivi.
Tuttavia, un recente studio condotto da
Davies e altri colleghi hanno trovato che,
sebbene una carbon tax globale rischia in sé
di avere effetti distributivi regressivi, se un
sufficiente ammontare di ricavi viene indirizzato
alla redistribuzione globale e alla riduzione
della povertà, l’impatto negativo della tassa
potrebbe essere neutralizzato. Secondo gli
stessi autori, con uno schema di redistribuzione
che reindirizza ampie quote di imposte alla
povertà estrema, questa potrebbe essere
eliminata in pochi anni al costo di appena il
33% dei ricavi dal carbonio.
Anche se le proposte per le tasse sul
carbonio sono state ferocemente attaccate
per le loro presunte conseguenze negative
sull’economia, è importante notare che alcuni
paesi hanno unilateralmente adottato l’imposta
per più di due decenni. La Finlandia è stata
la prima ad attuare un’imposta nazionale sul
carbonio nel 1990. Svezia, Norvegia e Paesi
Bassi hanno seguito l’esempio.
Anche alcuni paesi in via di sviluppo hanno
adottato una carbon tax: il Costa Rica ne ha
adottata una nel 1997. Tutti questi paesi hanno
economie prospere e standard molto elevati di
salute e benessere.
Neoliberismo globale o prosperità
sostenibile ed equa?
Anche se i nuovi sistemi globali e le soluzioni
praticabili per un futuro più equo e sostenibile
sono necessari, sarebbe ingenuo supporre che
essi siano anche sufficienti. Gli ultimi decenni,
dominati dalla globalizzazione neoliberista,
sono stati caratterizzati da un’accelerazione
delle disparità economiche e della distruzione
ambientale che ha prodotto problematiche ancora
più gravi da affrontare per la sopravvivenza della
civiltà moderna. Con la sua enfasi sulla crescita
economica infinita, la massimizzazione del
profitto sfrenato e la liberalizzazione illimitata
della finanza e del commercio, il modello
neoliberista di sviluppo sta spingendo tanto le
società sviluppate quanto quelle in via di sviluppo
di società verso una competizione sfrenata per i
mercati e i profitti di tutto il mondo.
Gli ultimi decenni, dominati dalla globalizzazione
neoliberista, sono stati caratterizzati da
un’accelerazione delle disparità economiche e
della distruzione ambientale che ha prodotto
problematiche ancora più gravi da affrontare per
la sopravvivenza della civiltà moderna.
Dato l’attuale modello di sviluppo, sembra
quindi molto improbabile che qualsiasi
progresso nella riduzione delle diseguaglianze
e nella promozione della sostenibilità possa
essere raggiunto.
Con un tale paradigma di sviluppo,
proposte e schemi per ridurre le disuguaglianze
e promuovere la tutela dell’ambiente sono
controbilanciate dalla necessità di paesi,
aziende e singoli di massimizzare profitto
e ricchezza senza vincoli. Le misure per
affrontare la disuguaglianza e la minaccia
del cambiamento climatico dovrebbero
dunque essere ancorate ad azioni strutturali
e sistemiche volte alla promozione di un
cambiamento di paradigma per lo sviluppo
economico e l’elaborazione di un nuovo
modello di prosperità e cooperazione in cui
crescita economica, mercati e profitti siano
mezzi per l’umanità e non viceversa. ■
Wade RH. Winners and losers: The global
distribution of income is becoming more unequal:
That should be a matter of greater concern than it
is. The Economist. 2001:93-7.
Baer P, Harte J, Haya B, Herzog A, Holdren J,
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Fonti per ulteriori informazioni
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Wilkinson R, Pickett K, and De Vogli R. Equality,
Sustainability and Quality of Life. British Medical
Journal 2010 Nov 2;341:c5816
71
Maggiore uguaglianza
di genere per
il 2014 e oltre!
Zita Gurmai,
Eurodeputata,
Ungheria, Presidente
delle donne del Pse
In questo articolo, Gurmai
evidenzia il significativo
impatto delle rigide politiche di
austerità in materia di parità di
genere in tutta Europa. Gurmai
sostiene che questo approccio
alla ripresa ha portato a tagli ai
principali servizi pubblici come
i servizi sociali e l’istruzione,
tagli che hanno così ampliato
il divario nelle retribuzioni e
nelle opportunità delle donne
rispetto agli uomini. Questo
articolo lancia un appello a tutti
i progressisti affinché si dia
priorità alla parità di genere e ai
diritti delle donne nelle politiche
sociali ed economiche.
Con le elezioni europee alle porte, i
programmi elettorali e le priorità di partito in
fase di finalizzazione per le elezioni del maggio
2014, è naturale chiedersi quale posto occupi
tra queste priorità il tema dei diritti delle donne
e dell’uguaglianza di genere. La mia risposta è
“naturalmente, dovrebbero essere centrali”. Lo
dovrebbero essere in quanto, in primo luogo, i
diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere sono
questioni per le quali il Partito socialista europeo e i
Socialisti e Democratici del Parlamento europeo sono
sempre stati in prima linea. E pertanto dobbiamo
rimanere il partito per le donne e per i diritti delle
donne. In secondo luogo, perché l’attuale ambiente
politico e socioeconomico sta creando le condizioni
per una reazione conservatrice, un motivo serio per
preoccuparsi e chiedere non un minore, ma anzi
un maggiore impegno per la parità di genere e la
promozione dei diritti delle donne.
Oltre alla reazione conservatrice sui diritti
delle donne, oggi, la crisi socioeconomica europea
sta aprendo la strada ai partiti estremisti, i quali
stanno salendo alla ribalta delle scene politiche
nazionali ed europee imponendo le loro idee
tradizionali e obsolete sui ruoli e sui diritti delle
donne e portando le lancette dell’orologio indietro
sull’empowerment delle donne. Dal momento che
la crisi ha colpito negativamente l’occupazione, i
diritti e l’empowerment delle donne, questa non
può essere usata come scusa per mettere questi temi
fuori dall’agenda politica. Al contrario, le donne del
Pes reputano che l’Europa ha bisogno di più parità di
genere proprio per uscire dalla crisi.
Garantire l’empowerment
economico delle donne
Le misure di austerità che sono state
adottate si traducono in gran parte in tagli
alla spesa pubblica e nella privatizzazione dei
servizi. Questi tagli colpiscono soprattutto i
settori in cui le donne sono sovra-rappresentate
(le donne costituiscono il in media il 69,2%
dei lavoratori del settore pubblico nell’Ue), i
servizi pubblici di cui principalmente le donne
(istruzione, sanità, servizi sociali, ecc) e i
programmi e i finanziamenti che promuovono i
diritti delle donne e l’uguaglianza di genere sia
a livello nazionale ed europeo.
Le politiche di austerità messe in atto
in Europa dai governi conservatori hanno
spianato la strada alla “crisi silenziosa”,
rendendo le donne vittime invisibili della crisi
a causa del duplice carico che grava su di loro,
come confermato dallo studio della Lobby
73
europea delle donne chiamata “Il prezzo
dell’austerity – l’impatto sui diritti delle donne e
sull’uguaglianza di genere in Europa”. Gli sforzi
dell’Ue per aumentare i tassi d’occupazione
delle donne sono stati indeboliti nei 22 stati
membri, fallendo l’obiettivo principale dell’Ue
di raggiungere un tasso di occupazione del
75% per le donne e gli uomini entro il 2020.
Inoltre, la Commissione europea spiega che
le donne non sono più il “buffer” del mercato
del lavoro. In altre parole, le donne venivano
solitamente assunte quando la domanda
era alta, ma ora sono state rimandate a casa
perché la domanda per i contratti è bassa.
L’Indagine Globale Mondiale nel 2005 ha
rilevato che quasi il 40% degli intervistati ha
convenuto che in tale situazione, gli uomini
hanno più diritto al lavoro rispetto alle donne!
Le giovani donne sono particolarmente
colpite. In generale, la Commissione europea
riconosce che le giovani donne hanno più
probabilità dei giovani uomini a restare fuori
da occupazione, istruzione o formazione
(i cosiddetti NEET), principalmente perché
hanno più probabilità di restare fuori della
forza lavoro (o restare inattive). In aggiunta al
tasso d’occupazione delle donne e alla qualità
della loro occupazione, le politiche di austerità
hanno un impatto anche sui salari. Il gap di
genere nei salari (il Gender Pay Gap, GPG)
è attualmente al 16,2% nella Ue. Poiché le
politiche di austerità causano molto spesso il
congelamento e i tagli dei salari, soprattutto
nel settore pubblico, la Commissione europea
teme un possibile ampliamento del GPG nei
prossimi mesi/anni e un ribaltamento della
tendenza attuale.
Considerando che il gap medio tra le
pensioni è del 39% in Europa - più del doppio
del divario retributivo di genere - questo è
ancora più preoccupante quando si affronta la
situazione di donne anziane.
Le donne del Pse si sono quindi impegnate in
una campagna per colmare il divario di retribuzione e
di investimento nelle donne nonostante la crisi.
A tal fine, le donne del Pse hanno avanzato tre
proposte:
1) L’introduzione di un audit sul Gender Pay
Gap per verificare se tutti gli Stati membri si
impegnano a ridurre del 2% all’anno il divario
retributivo per tutte le coorti di età e per stato
membro fino al raggiungimento della parità
dei salari.
2) In parallelo, l’Ue dovrebbe migliorare il
controllo dell’attuazione della normativa
sulla parità e sulla lotta alle discriminazioni
di genere, anche attraverso l’applicazione
di sanzioni chiare e dissuasive, sia a livello
nazionale che a livello europeo.
3) Le donne del Pse esortano l’UE a nominare
un commissario specifico per l’Uguaglianza di
genere e per i Diritti delle donne a partire dal
2014.
I tagli sopra menzionati si riferiscono anche ai
tagli nelle strutture e nei servizi per l’infanzia, tagli
che mettono in pericolo l’indipendenza economica
delle donne. A causa delle misure di austerità, la
maggior parte delle famiglie torna a un modello
tradizionale di cura, in cui viene smontato il ruolo
dello Stato. Un modello che grava sulle famiglie e in
particolare sulle donne.
La maggioranza degli Stati membri devono
ancora fare i dovuti sforzi per soddisfare i target
di Barcellona stabiliti dal Consiglio europeo nel
2002. Tali obiettivi prevedono che “gli Stati membri
dovrebbero sforzarsi a garantire entro il 2010
assistenza ad almeno il 90% dei bambini tra i 3 anni
e l’età dell’obbligo scolastico e almeno il 33% dei
bambini sotto i 3 anni di età”.
Le donne del Pse invitano pertanto le istituzioni
e i leader europeo a migliorare gli standard minimi
nell’assistenza all’infanzia e nel congedo parentale,
Le politiche di austerità messe in atto in Europa
dai governi conservatori hanno spianato la strada
alla “crisi silenziosa”, rendendo le donne vittime
invisibili della crisi a causa del duplice carico che
grava su di loro.
incluso un accesso più semplice a servizi per l’infanzia
di buona qualità, equamente accessibili e a prezzi
convenienti, permettendo alle donne di progredire
nella loro carriera e di rompere il tetto di cristallo,
nonché dando a uomini e donne le stesse opzioni
di condivisione delle responsabilità familiari. Come
sottolineato nella nostra campagna nel 2007, le
donne del Pes esigono che l’assistenza all’infanzia
sia riconosciuto come un servizio pubblico di base in
tutta Europa.
Andare al di là dell’empowerment
economico delle donne
La lotta alla violenza nei confronti delle
donne sta diventano essa stessa vittima di
drastici tagli di bilancio decisi come parte
delle soluzioni di austerità. L’indebolimento
delle organizzazioni femminili comporta
l’indebolimento della volontà e della
possibilità di promuovere leggi e azioni forti
per combattere ogni tipo di violenza contro
le donne. Come risultato delle risposte
dell’austerità alla crisi, assistiamo anche a tagli
a spese e programmi mirati sui diritti delle
donne e la parità di genere, come, per esempio,
il programma della Commissione europea
DAPHNE, che è in via di drastica riduzione. Il
programma DAPHNE finanzia progetti volti alla
lotta contro la violenza sulle donne.
La violenza sulle donne resta un problema
di “proporzioni epidemiche “ che colpisce
le donne di tutti i gruppi socioeconomici.
La violenza maschile basata sul genere è
considerata la principale causa di morte e di
invalidità delle donne tra i 16 e i 44 anni. Le
statistiche hanno mostrato che una donna
su tre è vittima di violenza nel corso della sua
vita e che il 10% è vittima di stupro o tentato
stupro.
Recentemente, la Convenzione di Instanbul
del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e
sulla lotta alla violenza contro le donne e alle
violenze domestiche nel 2011 ha stabilito che
non vi può essere vera parità tra donne e uomini
se le donne subiscono violenze di genere su
larga scala mentre le agenzie e le istituzioni
statali volgono lo sguardo altrove. La violenza
domestica ha un traumatico effetto su donne,
uomini, bambini e anziani. Armonizzare le
norme giuridiche, assicurando protezione e fondi
comuni per le vittime in tutta Europa è quindi
essenziale. Eppure la crisi attuale non è solo un
fertile terreno per i reazionari dell’economia. I
diritti umani fondamentali come il diritto alla
riproduzione e alla salute sessuale (SRHR) sono
oggi a rischio, come ad esempio in Spagna,
a causa della crescita dei partiti dell’estrema
destra che stanno imponendo visioni tradizionali
conservatrici del ruolo e dei diritti delle donne.
75
La tendenza generale è una grave battuta
d’arresto con una spettacolare reazione
conservatrice, che si traducono in un attacco
diretto contro le donne. Negare a una
donna il diritto di fare la propria decisione
per il proprio corpo significa negare il suo
diritto fondamentale -si tratta di una forma
di violenza sistematica. Il messaggio della
campagna PES Women ‘Il mio corpo, i miei
diritti’ è quindi molto necessario; ‘Il mio corpo,
i miei diritti’ “invita alla protezione dei diritti
delle donne, alla salute sessuale e riproduttiva
e a fornire a donne e uomini adeguati servizi
di assistenza sanitaria e di libera scelta per
tutte le donne promuovendo l’educazione
sessuale, l’assistenza medica e il sostegno, la
prevenzione, la contraccezione, la pillola del
giorno dopo e l’aborto e chiede che questi
siano sostenibili e accessibili per tutte le donne
e gli uomini, indipendentemente dalla loro
ubicazione geografica, la loro origine o il loro
status sociale. Garantire i diritti sessuali e
riproduttivi non è solo un problema di salute,
ma contribuisce anche all’empowerment delle
donne e all’indipendenza economica.
Non si può accettare il fatto che ad alcune
donne europee, a causa della loro posizione
geografica e/o status sociale, sarà - nell’Europa
del ventunesimo secolo- ben presto negata
la libera scelta e l’accesso ai SRHR, compreso
l’aborto.
Le precedenti e le attuali priorità non
sembrano di fatto così diverse, e perciò il
Partito Socialista Europeo continuerà le sue
campagne e a dare priorità alla parità di
genere e dei diritti delle donne. Non lasceremo
all’Europa usare la scusa della crisi, perché non
vogliamo che le nostre figlie, partner, sorelle
tornino indietro con l’orologio di trent’anni. ■
La lotta alla violenza nei confronti
delle donne sta diventano essa stessa
vittima di drastici tagli di bilancio decisi
come parte delle soluzioni di austerità.
L’indebolimento delle organizzazioni
femminili comporta l’indebolimento della
volontà e della possibilità di promuovere
leggi e azioni forti per combattere ogni
tipo di violenza contro le donne.
Combattere le disuguaglianze
attraverso un efficace mix di politiche
nazionali ed europee
Nicolas Schmit,
Ministro del Lavoro,
dell’Occupazione e
dell’Immigrazione,
Lussemburgo, e
Coordinatore del
network dei ministri
del Lavoro e degli
Affari sociali per il
Partito socialista
europeo
Questo articolo riconosce
l’impatto positivo che la
globalizzazione ha avuto sulla
creazione di nuove opportunità
per molte persone di sfuggire
alla povertà. Tuttavia, nel caso
dell’Europa e dell’America, la
disuguaglianza è scoppiata e
ha aumentato la precarietà e la
disoccupazione dei lavoratori
più giovani e più anziani,
indebolendo la coesione sociale
in diversi paesi europei.
L’autore si riferisce alla
“Troika”, che ha offuscato la
visione europea, danneggiato
l’originale modello sociale
europeo e penalizzato le giovani
generazioni.
La disuguaglianza tra i paesi sta iniziando
a diminuire. La globalizzazione ha permesso a
centinaia di milioni di persone di sfuggire alla
povertà, di vivere con dignità e di diventare
non solo ‘produttori’ ma anche ‘consumatori’.
Al contrario, nei paesi europei e negli Stati
Uniti la disuguaglianza e la povertà sono
veramente esplose. Questa problematica è
stata certamente amplificata dalla crisi, ma
risale ad un passato non solo recente.
Disuguaglianza e povertà sono state
considerate come ‘inevitabili’, causate dalla
nuova redistribuzione tra le nazioni che la
globalizzazione ha portato con sé. In “La
mondialisation de l’inégalité “ (Globalizzazione
e disuguaglianza, Ediz. Du Seuil, 2012),
François Bourguignon analizza come
“l’aumento della disuguaglianza nazionale
tenda a eclissare il declino della disuguaglianza
globale, che è nondimeno incontestabile“.
A lungo trascurata, la questione delle
disuguaglianze è tornata nel dibattito
pubblico e nella riflessione economica. Il
Fondo Monetario Internazionale non la sta
ignorando, e propone anche una revisione
del sistema della tassazione con l’obiettivo
di tassare maggiori ricavi, in particolare
l’ereditarietà (FMI Taxing Times, ottobre
2013). Il Direttore generale dell’FMI sostiene
che la disuguaglianza “sta creando un circolo
vizioso ovvero: più disuguaglianza c’è meno
crescita apparentemente solida c’è e si avra’
dunque una sempre minore crescita generale
insieme alla riduzione della creazione di posti
di lavoro”. Nella sua relazione per la riunione
di Davos nel 2014, il World Economic Forum
classificato la disuguaglianza come il secondo
più importante rischio allo sviluppo economico,
sociale ed in particolare alla stabilità politica.
L’aumento della disuguaglianza negli ultimi
due o tre decenni ha avuto un effetto notevole.
Nell’Unione europea, la disuguaglianza
sta principalmente interessando quei paesi
impantanati nella crisi del debito pubblico, ma
comunque non risparmia neanche gli altri. La
forbice salariale infatti aumenta, e allo stesso
tempo la quota dei salari nella distribuzione del
valore aggiunto è in declino. Secondo l’OCSE,
citato sul Financial Times il 24 dicembre 2013,
il Coefficiente Gini che misura il maggior
incremento di disparità di reddito tra il 2007 e
il 2011 in Irlanda è stato del +6,6 %, in Spagna
77
+6 %, in Grecia +2,5 %, in Francia del +2,2%,
in Italia +1,5%; la media OCSE è stata del
+1,2%.
La precarietà del lavoro, che ha tra gli
effetti un numero crescente di lavoratori poveri,
sta fortemente aumentando anche in paesi
altamente competitivi come la Germania.
La disoccupazione, che colpisce i giovani ei
lavoratori anziani in particolare, sta diventando
una delle principali fonti di disuguaglianza e
povertà. In breve, l’indebolirsi della coesione
sociale in un certo numero di paesi europei
sta incoraggiando l’emergere di movimenti
popolari estremisti.
E’ quindi urgente esaminare le ragioni
fondamentali di questa crescente ineguaglianza
che non possono essere staccate dalle politiche
economiche seguite negli ultimi anni. Nelle sue
“note conclusive sulla filosofia sociale verso la
quale la Teoria Generale potrebbe portare”,
John M. Keynes ha tratto due conclusioni che si
applicano in vasta misura alla realtà economica
di oggi, a quasi 80 anni dopo la pubblicazione
del volume:
“I due difetti principali dell’economia
globale in cui viviamo sono, in primo luogo, il
fatto che la piena occupazione non è garantita
e in secondo luogo che la distribuzione
della ricchezza e delle entrate è arbitraria e
priva di uguaglianza.” (J.M. Keynes, Teoria
generale, Payot, 2005 p. 366). Come nel
1930, la disuguaglianza sta al cuore della
crisi. È necessario mettere la questione della
distribuzione della ricchezza e dell’eredità
nuovamente al centro dell’analisi economica e
dell’azione pubblica.
Questo è ciò che dovrebbe inizialmente
essere fatto a livello nazionale. Le politiche
salariali, sociali, la redistribuzione e le politiche
fiscali sono in primo luogo una responsabilità
dello Stato, ma, ci si chiede, i margini di
azione che lo Stato possiede permettono
realmente di prendere questa responsabilità?
Le politiche sono sempre condotte nel quadro
dei vincoli imposti dai trattati e le discipline
dell’Unione economica e monetaria. In questo
senso, l’appartenenza alla zona euro limita la
possibilità di uno Stato membro, anche se, in
teoria, le politiche sociali e fiscali rimangono
comunque principalmente di competenza
nazionale.
La realtà è completamente diversa da
cio’, il che è del tutto normale in una unione
monetaria, nonostante questo fosse stato
inizialmente volontariamente ignorato. Certo,
i trattati europei non fanno da soli la battaglia
contro la disuguaglianza di competenza
dell’Unione. Ma secondo il Trattato, “l’Unione
deve lavorare[...] per un’economia sociale di
mercato altamente competitiva che miri alla
piena occupazione e al progresso sociale”.
La riduzione della disuguaglianza non
figura, anche se la battaglia contro l’esclusione
sociale è considerata uno dei settori in cui
l’Unione sostiene e completa le attività degli
Stati membri. In questo contesto, la strategia
UE2020 promuove una riduzione del livello di
povertà, mirando ad una riduzione del numero
di persone colpite o minacciate da povertà ed
esclusione sociale di 20 milioni entro il 2020.
Questo obiettivo è lungi dall’essere raggiunto,
e sta diventando sempre più inarrivabile. Nel
2012, 124.500 mila persone erano a rischio
di povertà, pari al 24,8% della UE rispetto
al 23,7% del 2008. Con un tasso del 35%,
la Grecia ha registrato un aumento del
3,6% in un solo anno. I giovani esposti alla
disoccupazione e alla precarietà del lavoro ne
sono particolarmente minacciati.
La politica europea ha bisogno di una nuova
visione che ritorni al modello sociale originale
per rispondere alle speranze del popolo d’Europa,
ancora una volta
Come si può costruire un futuro in cui il
40% dei giovani lavoratori di età compresa tra i
15 ei 24 anni non saranno in grado di ottenere
un contratto a tempo indeterminato? Vi è una
maggiore flessibilità nel mercato del lavoro
che aumenta direttamente la disuguaglianza.
Neppure il destino dei lavoratori più
anziani è migliore. Secondo la relazione
della Commissione sull’occupazione e sulla
situazione sociale nel giugno 2013, il 25,7%
delle persone di età compresa tra 55 e 64
anni -i più esposti alla disoccupazione di lungo
termine- è stato classificato come persone che
vivono sotto la soglia di povertà e che soffrono
di esclusione sociale. Il numero di bambini,
inoltre, che vivono in povertà è aumentato in
maniera significativa, in particolare in paesi
come la Grecia e la Spagna.
La situazione sociale è quindi peggiorata
nell’Unione europea negli ultimi anni. Le
politiche promosse dalla Commissione e in
particolare dalla “Troika“ hanno portato
a un aumento della disoccupazione, una
riduzione dei salari, in particolare del salario
minimo, e una brutale riduzione dei servizi
sociali. Secondo il Report del Parlamento
europeo sul ruolo e sulle attività della Troika,
“la disuguaglianza nella distribuzione della
ricchezza è cresciuta al di là della media nei
quattro paesi in questione e la riduzione dei
servizi sociali e l’aumento della disoccupazione
hanno portato a un aumento della povertà”.
La ripresa della competitività esterna è
stato l’obiettivo principale raggiunto dalle
politiche di svalutazione interna che l’Unione
ha abbracciato, in particolare nell’Eurozona
durante la stagnazione, e per alcuni paesi
durante una lunga recessione economica. Il
rischio di un periodo di deflazione non può
essere minimizzato. Le politiche di austerità non
hanno fatto altro che distruggere il potenziale
per la crescita e di far precipitare milioni di
europei nella povertà e nell’incertezza. Non
è sorprendente che la disuguaglianza sia
progredita rapidamente. Nel suo libro “Il
Prezzo della Disuguaglianza”, Joseph E. Stiglitz
descrive questo circolo vizioso creato da
politiche che favoriscono un aumento esplosivo
nella disuguaglianza. “La disuguaglianza ci
costa cara. Il prezzo della disuguaglianza è il
deterioramento dell’economia, che diventa
meno stabile e meno efficace, con meno
crescita e la sovversione della democrazia”.
Non è immaginabile che il calo del reddito
reale da salari, un fenomeno che si è verificato
negli Stati Uniti per 30 anni, possa essere
controbilanciato in parte dall’aumento
dell’indebitamento privato. Questo fenomeno
è stato all’origine della crisi dei “subprime” e
quindi della crisi finanziaria.
Allo stesso tempo, la liquidità delle aziende
è esplosa, come hanno fatto i rendimenti
finanziari. La classe media ha subito questo
shock, in particolare pagando il prezzo della
crisi finanziaria negli Stati Uniti ma anche in
Europa. In Germania, c’è stata una contrazione
classe media: dal 1999 al 2009, è scesa dal
64% al 59% della popolazione, corrispondente
a 4,5 milioni di persone. Tendenze simili si
possono riscontrare in altri paesi. La scala
sociale è stato rotta, un problema che
continua a incidere su sempre più persone.
L’idea neoliberista per cui la concentrazione
della ricchezza è nelle mani di una piccola
minoranza, il famoso 1% di cui parla Stiglitz,
e chi investe genera crescita e creare i posti
di lavoro di domani, non è in alcun modo
supportata dai fatti.
Abbiamo quindi urgente bisogno di
cambiare corso, di reindirizzare le politiche
79
europee su crescita, occupazione e innovazione
attraverso più solidarietà e giustizia. Abbiamo
bisogno di promuovere il modello sociale
europeo ancora una volta, non come una
debolezza dell’Europa, ma come uno dei suoi
punti di forza. Questo modello ha un fascino
indiscutibile per le persone provenienti da altri
continenti.
I cinesi, i brasiliani e anche gli americani
sono sempre più interessati a questo modello,
che è in grado di connettere efficacia
economica e solidarietà sociale in un modo che
ha ben descritto Jacques Delors, dando forma
a “equilibrio tra società e stato da un lato e
l’individuo dall’altro”.
Le politiche europee devono sostenere gli
stati membri in questo ri-orientamento in una
serie di settori.
1. L a politica sociale non può più essere
una semplice variabile di aggiustamento.
Ha bisogno di avere un posto nelle
politiche europee e nella governance.
Un riequilibrio all’interno del Consiglio
è necessario. La logica finanziaria
difesa dall’Ecofin e spesso ripetuta dal
Consiglio europeo è troppo dominante.
Una valutazione dell’impatto sulle
politiche sociali è essenziale. È il ruolo
del Consiglio EPSCO in particolare che
deve essere rivalutato. Come stabilito
dall’Articolo 9 del Trattato, è necessario
chiedersi se le politiche sono nell’interesse
dell’occupazione e dei diritti sociali
della grande maggioranza dei cittadini.
È pertanto necessario prendere in
considerazione la questione dell’impatto
della disuguaglianza sull’economia.
Sempre più spesso, stiamo scivolando
in questa “Darwin Economy”, come
descritto dall’economista americano
Robert Frank, il quale giunge alla
conclusione che la diffusa concorrenza
va contro il bene comune, distruggendo
così ogni potenziale per la creazione.
(Frank R. The Darwin Economy. Liberty,
Competition and the Common Good,
Princeton University Press 2011).
Tuttavia, negli ultimi anni l’Unione
europea è progredita poco in termini di
rafforzamento della dimensione sociale
dell’UEM. L’unico tangibile risultato della
riflessione è il quadro di valutazione
composto da cinque indicatori che
comprendono il tasso di disoccupazione,
il reddito lordo disponibile delle famiglie, il
tasso di rischio povertà tra la popolazione
in età lavorativa e la disuguaglianza.
Ci sono progressi senza dubbio scarsi
per quanto questi indicatori sociali
facciano parte del processo del Semestre
europeo. Ma gli indicatori non devono
avere la precedenza sulle politiche. Quali
conclusioni operative si possono trarre a
livello di altre politiche, se si scopre che,
per esempio, le politiche di austerità
stanno generando disoccupazione e
crescente disuguaglianza? Il documento
sul quadro di valutazione degli indicatori
degli affari sociali e dell’occupazione
sviluppata dalla commissione per
l’Occupazione e le protezioni sociali
evidenzia chiaramente il fatto che la
disuguaglianza si crea all’interno degli
stati come conseguenza dell’aumento
della disoccupazione, della riduzione del
livello di ridistribuzione e, in taluni casi,
dell’allocazione delle risorse di bilancio.
Questa è un’osservazione irrilevante sulle
politiche promosse dalla “Troika”. Quale
posto dovrebbero avere gli indicatori in un
dialogo sociale a livello europeo che deve
Come negli anni ’30, la diseguaglianza è
al centro della crisi. E’ necessario porre
la questione della distribuzione della
ricchezza e del patrimonio nel cuore
dell’analisi economica e dell’azione
pubblica.
ripartire? Al momento, la misurazione
della disuguaglianza è un indicatore
statistico, niente di più. Questo non è
sufficiente. Servono politiche di alto livello
per definire ciò che il Presidente degli Stati
Uniti Obama ha chiamato la “definizione
dei nostri tempi”.
2. La competizione sociale e la riduzione
della spesa pubblica e sociale non devono
più essere gli strumenti privilegiati delle
politiche per politiche sulla competitività.
Le politiche di austerità di bilancio che
riducono la spesa per l’istruzione, la
ricerca, la formazione professionale,
l’innovazione ecc., non favoriscono
il rafforzamento di competitività. Si
tratta semmai di politiche miopi che
riducono il potenziale per la crescita
e che penalizzano soprattutto le
giovani generazioni. Servono politiche
di consolidamento di bilancio che
siano intelligenti e che non soffochino
la crescita riducendo drasticamente
la domanda interna e limitando gli
investimenti necessari. Le politiche di
austerity, invece, hanno portato alla
scomparsa di decine di migliaia di piccole
e medie imprese, e con loro di un certo
numero di posti di lavoro. Secondo uno
studio effettuato da un economista
della Commissione, Jan In’t Veld, le
perdite in termine di crescita e quindi di
occupazione causate da queste politiche
sono state notevoli. Inoltre, le protezioni
sociali sono anche uno stabilizzatore
automatico, senza il quale le conseguenza
della crisi sarebbe state molto più
dannose. L’Unione europea in generale
e l’Eurozona in particolare necessitano di
un livello minimo di previdenza sociale. Il
dumping sociale crea tensioni pericolose
per la coesione in Europa. Qualsiasi
lavoro merita un salario che consenta al
lavoratore di vivere con dignità e, dove
necessario, il salario minimo garantito
deve essere preso in considerazione
in maniera sistemica. L’allargarsi delle
disuguaglianze nei salari di cui beneficia
solo una piccola minoranza deve essere
ridotta. Una semplice riduzione dei salari
non solo aggrava le disuguaglianze,
ma si traduce anche in una depressione
della domanda interna e, in ultima
istanza, di aumento della disoccupazione.
L’economia finanziaria guidata dalla
speculazione sfrenata ha creato rendite
reali che favoriscono la crescita vertiginosa
della disuguaglianza salariale. Vi è una
grande differenza tra l’economia reale
e l’economia finanziaria: pertanto
è necessario regolare quest’ultima.
Abbiamo bisogno di rilanciare l’Europa
Sociale in stretta associazione con
un adattamento delle politiche
macroeconomiche volte a una maggiore
convergenza verso l’alto. In questo
contesto, le esigenze occupazionali
devono diventare un obiettivo concreto
ed equivalente, anche in politica
monetaria, come lo sono negli Stati Uniti
e in Gran Bretagna.
3. La concorrenza fiscale favorisce lo
sviluppo delle disuguaglianze e pesa sul
finanziamento del sistema di protezione
sociale. L’Unione europea dovrebbe
quindi svolgere un ruolo nella rimozione
di questa costosa concorrenza fiscale,
sia a livello europeo che a livello globale.
La “best-offer taxation”, utilizzata
per attrarre capitali e investitori, non
81
può essere un modello economico. È
pertanto preferibile cooperare all’interno
dell’Unione, anche su un’organizzazione
di livello internazionale. A questo
proposito, la tassazione non può essere
considerata una zona dove dovrebbe
prevalere il principio della sussidiarietà, in
quanto i vincoli di bilancio sono sempre
più rigidi, in particolare nell’Eurozona. In
questa logica, i paesi europei dovrebbero
sviluppare una base comune del principio
di tassazione di tassazione che non limiti
soltanto l’IVA e la tassazione dei redditi
da capitale. La contraddizione tra i
mercati dei capitali, i mercati del lavoro e i
mercati dei beni (che si stanno integrando
sempre di più) e i sistemi di tassazione
(che rimangono essenzialmente nazionali)
impoverisce gli stati e favorisce sempre più
la disuguaglianza. A vincere sono coloro
che hanno ricchezze cospicue e alta
mobilità. La riduzione delle disuguaglianze
comprende anche un impegno verso una
maggiore giustizia fiscale.
Per molti anni, il progetto europeo è stato
correttamente collegato al tema della pace. Tale
progetto ha beneficiato di un notevole sostegno
dell’opinione pubblica, “convinto che un’Europa
riunificata intendesse continuare sulla strada
della civiltà, del progresso e della prosperità per il
bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli
e i più poveri”. Poiché questo modello sociale è
stato eroso dall’aumento delle disuguaglianze
tra gli stati membri, allora l’adesione al progetto
europeo è particolarmente essenziale per il
futuro del nostro Stati. Al fine di evitare ogni
rischio, la politica europea ha bisogno di una
nuova visione che ritorni al modello sociale
originale per rispondere alle speranze del
popolo d’Europa, ancora una volta. ■
PROGRESSIVE ECONOMY FORUM 2014
INEQUALITY
CONSEQUENCES FOR
SOCIETY, POLITICS AND PEOPLE
5-6 MARCH 2014
EUROPEAN PARLIAMENT
BRUSSELS
WITH JOSEPH STIGLITZ
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