Camminando... - Comune di Trasaghis

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Camminando... - Comune di Trasaghis
Camminando...
verso Sant’Agnese e Ospedaletto
Il percorso
La strada sterrata che raggiunge
la sella Sant’Agnese ripete in buona parte il tracciato, che correva
a mezza costa sulla direttrice Artegna-Gemona-Venzone, battuto
fin dall’epoca preistorica da popolazioni paleovenete e, successivamente, da Celti, Carni e Romani.
Lasciato l’abitato di Gleseute all’e­
stremità nord orientale di Gemona,
e attraversato l’ampio alveo del
tor­rente Vegliato, la strada si snoda per un breve tratto nella pineta,
frutto di un ripopola­mento artificiale di pino nero (Pinus nigra),
pino silvestre (Pinus sylvestris) e
altre conifere, eseguito negli anni
1933-1955, allo scopo di consolidare i versanti sog­
getti ad erosioni, e sale quindi, per un buon
tratto con pendenza leggera, a sella Sant’Agnese. Sulla sinistra, in
Le pendici del Cjampon prima della piantumazione degli anni Trenta
5
basso, è visibile il tratto artificiale
del torrente Vegliato, otte­nuto per
deviazione del suo corso naturale, che aggira a nord il colle Dorondon. Un tempo il rio sfiorava
invece il versante ovest del colle,
scendeva verso località Tiro a Segno, per disperdersi poi nel vasto
territorio a valle, non di rado devastandone i poderi.
Epi pactis atroru ben s
L’ambiente circostante si è formato,
in gran parte, coi detriti depositati
dai torrenti che discendono i ripidi
versanti meridionali del complesso
montuoso Cjampon–Deneâl.
I pendii sono soggetti a frequenti
movimenti franosi, causati dall’azione meteorica sommata ai dissesti dovuti ai terremoti.
Anche la presenza di affioramenti
rocciosi e la limitata disponibilità
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idrica rendono la copertura vegetale piuttosto rada e discontinua,
costituita principalmente da specie
pioniere, tipiche di ambienti scarsamente fertili, aridi ed in continua
evoluzione.
La vegetazione arborea spontanea è rappresentata da carpino
nero (Ostrya carpinifolia), orniello
(Fraxinus ornus), salici (Salix ss.
pp.), e pero corvino (Amelanchier ovalis). Nel sottobosco,
accanto a tappeti rosati di erica (Erica herbacea), alternati
a folti ciuffi di sesleria (Sesleria varia), calamagrostide (Calamagrostis varia) e a
piccoli cespi sempreverdi di
poligala finto bosso (Polygala chamaebuxus), si possono
osservare alcune eleganti
specie di orchidee, tra cui la
Platanthera bifolia dai fiori
bianchi e la Epipactis atrorubens, dai fiori porpora.
Alcuni endemismi (cioè piante
esclusive di un determinato territorio) come la Knautia ressmannii
e l’Euphorbia kerneri completano
il già nutrito elenco di specie vegetali interessanti.
I vecchi prati, oggi abbandonati,
sono interessati da un naturale
processo di colonizzazione da parte di specie arbustive ed arboree,
provenienti dai boschi circostanti,
precedute da colonie di ginepri
(Juniperus communis) e noccioli (Corylus avellana).
Poco prima di raggiungere la
sella, a monte della strada si
incontra uno sperone roccioso dall’aspetto singolare, noto
come Clap da l’A­gnel ma da
denominarsi più propriamente – come ricordava spesso l’indi­
menticabile Pietro
Pl atan th era bi fo
Co­
petti Gii – Clap di Pieri
li a
Lungje. Questa rupe non è
un elemento di frana proveniente dai rilievi sovrastanti ma il
prativa della sella Sant’Agnese,
risultato dell’erosione che attraveravvolta dal bosco di carpino nero
so i secoli l’ha modellata in modo
e orniello e da un ricco strato arcosì caratteristico. L’ampia conca
bustivo di nocciolo, ginepro, pru-
Strada per Sant’Agnese e Clap di Pieri Lungje
7
nello (Rhamnus saxatilis) e ciliegio canino (Prunus mahaleb), offre
uno splendido panorama a 360°: a
sud lo sguardo si apre su Gemona e sul vasto conoide del torrente
Vegliato, a nord su quello più arido e spoglio dei Rivoli Bianchi di
Venzone.
Ad ovest si innalza il rilievo arrotondato del monte Cumieli mentre
ad est incombono gli imponenti,
ripidi, dirupi delle falde del monte
Cjampon-Deneâl, i cui strati rocciosi ci mostrano una vera e propria sezione geologica della catena
montuosa Cjampon-Cuel di Lanis.
Sella Sant’Agnese e i Cres di Cengle
8
La stratigrafia delle rocce riesce
comprensibile anche ad osservatori inesperti che possono far correre
lo sguardo dagli strati più antichi,
alla base del versante meridionale
(alla destra estrema di chi guarda)
a quelli più recenti, sul lato opposto.
Poco oltre la cresta, a nord, è visibile una grande faglia, evidenziata dal canalone da cui scende un
rio dalla notevole portata solida.
Lungo tale faglia sono scivolati gli
strati posti sul lato sinistro, producendo una serie di pieghe semicircolari, la maggiore delle quali,
molto caratteristica, è denominata
“Ventaglio” (Cres di Cengle).
I delicati pendii prativi, ancora
oggi in parte coltivati, contrasta-
Pr i m u l a a
Da ph n e c n
u r i c ol a
e or u m
no con gli aspri e scoscesi
ghiaioni che raggiungono
la base dei versanti rocciosi e solo nelle aree in
cui i detriti di falda sono
più consolidati la vegetazione erbacea ed arbustiva
G en ti an a cl usii
è riuscita nella sua opera colonizzatrice. In questi
ambienti così severi le variopinte fioriture primaverili ragthyllis jacquinii) o, ancora, al gialgiungono tonalità particolarmente
lo della ginestra (Genista sericea).
vivaci ed intense: le macchie blu
Sugli speroni rocciosi non è difvioletto delle genziane (Gentiana
ficile osservare la dafne alpina
clusii) si fondono o si alternano al
(Daphne alpina), la primula orecrosso porpora della dafne odorosa
chia d’orso (Primula auricola) op(Daphne cneorum) o al rosa pallipure la spirea ricadente (Spiraea
do della vulneraria montana (Andecumbens).
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Sciurus vulgaris
Capreolus capreolus
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La fauna è assai varia e interessante: nelle zone boschive è facile
incontrare lo scoiattolo (Sciurus
vulgaris), impegnato in balzi
acrobatici da un ramo all’altro
degli alberi o trovare i segni del
passaggio di piccoli mammiferi
come la faina (Martes foina) e la
volpe (Vulpes vulpes).
Tra gli uccelli, numerosi sono gli
insettivori, come i picchi, le capinere (Sylvia atricapilla), le cince
e frequenti i rapaci diurni come la
poiana (Buteo buteo), il gheppio
(Falco tinnunculus), lo sparviero
(Accipiter nisus).
Nelle radure e nei prati, specialmente di primo mattino o all’imbrunire, con pazienza e un pizzico di fortuna, si può osservare il
capriolo (Capreolus capreolus) al
pascolo mentre sulle creste dominanti il ventaglio (Cres da Crôs,
Ors di Scriç) un occhio particolarmente attento ed allenato può
scoprire la presenza del camoscio
(Rupicapra rupicapra) intento a
Vipera ammodytes
Vulpes vulpes
Sylvia atricapilla
brucare tra le cenge e gli anfratti
rocciosi.
Sui ghiaioni si possono fare degli incontri, meno piacevoli ma
ugualmente interessanti, con abitatori temibili, come la vipera dal
corno (Vipera ammodytes) o innocui, come il biacco nero (Coluber
viridiflavus carbonarius), il ramarro (Lacerta viridis) o la lucertola
muraiola (Podarcis muralis).
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La chiesetta di Sant’Agnese 1 è
l’antica custode della sella. Distrutta dal terremoto del 1976, è stata
interamente ricostruita rispettando
la fisionomia originale.
Lasciata la sella, il percorso prosegue, in costante salita, lungo il
versante occidentale del monte
Cumieli, attraverso la strada militare che raggiunge l’abitato di
Ospedaletto. Osservando l’altura
dalla pianura, questo rilievo appare come la prosecuzione verso occidente della catena Cjampon-Cuel di Lanis, a cui è collegato proprio dall’insellatura di
Sant’Agnese.
La sua forma inconfondibile, a
“dorso di cetaceo”, è il risultato
dell’azione del ghiacciaio che,
come una lima, ne ha arrotondato
le asperità e scavato avvallamenti
chiusi, poi sede di bacini lacustri.
La sua configurazione ed il suo
orientamento, così come i rilievi
minori dei monti Ercole, Cjamparis e Palombâr, con l’ampia conca
centrale riparata dai venti del nord,
hanno favorito lo sviluppo di una
vegetazione ricca di molti elementi
tipici della flora mediterranea.
Al culmine della salita (quota 471
m. slm) la strada cambia versante,
e l’escursionista può volgere un ultimo sguardo alla sella sottostante,
alle imponenti pareti rocciose del
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complesso montuoso Cjampon-Deneâl che la sovrastano e all’abitato
di Gemona che si perde in lontananza. Il percorso, ora, si sviluppa in discesa, in un bosco misto,
dove alle essenze forestali precedentemente descritte si associano
Li liu m bu lbi fer um
roverelle (Quercus pubescens), tigli (Tilia cordata), aceri campestri
(Acer campestre) e castagni (Castanea sativa), talvolta di dimensioni
considerevoli.
Lasciato il percorso principale, circa 250 m. dopo il cambio di versante, si imbocca, a destra, una
mulattiera che va restringendosi e,
dopo alcuni tornanti, in breve tempo, raggiunge la cima del Cumieli.
Sul pianoro sommitale (quota 571
m. slm) i prati, ormai abbando­
nati e fortemente colonizzati da
arbusti di nocciolo, gi­nepro, corniolo (Cornus mas) e rovo (Rubus
ulmifo­lius), si alternano a boschi
termofili a prevalenza di or­niello e
carpino nero. Nelle radure la vegetazione prati­va è molto ricca di
graminacee, dalle caratteristiche
in­fiorescenze a spighette, accompagnate da macchie colorate di
polmonaria sudalpina (Pulmonaria australis) e gigli di diverse specie (Lilium bulbiferum,
L. carniolicum, L. martagon).
Proseguendo a nord per alcune
Rientrati sull’itinerario principale, si
scende per circa 350 m. e, in corrispondenza di una leggera curva
a sinistra, un secondo sito interessante induce ad un’altra deviazione.
Abbandonata la strada sterrata si
imbocca a sinistra un sentiero in
Li liu m ca rn iol ic um
Pu lm on ar ia aust
ra lis
decine di metri, e scendendo poi
per un breve tratto sul versante oc­
cidentale, al margine del bosco si
può osservare, seminascosta dalla
vegetazione, una lunga linea continua di grossi massi sbozzati di
pietra calcarea, sovrapposti a secco, che cingono il bordo del­l’altura
sui lati ovest, nord e est. Si tratta
forse di un castelliere preistorico 2 .
prossimità di un accesso privato.
Dopo un breve percorso, con qualche tratto di ripida ma non difficile salita, si raggiunge il monte Palombâr, ove si possono osservare i
resti del castello di Grossenberg 3 .
Ritornati alla strada militare, superato un tornante, si comincia a
scendere verso Ospedaletto. Il sottostante paesaggio è ondulato, con
boschi che si alternano a piatte depressioni coltivate a pra­to.
A destra, sul modesto rilievo del
monte Ercole, sorgono i resti di
una fortificazione militare, sulla
sinistra la piccola conca ospita un
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Nei pressi del lago: la cjase dal Giâgo
laghetto. Si percorre ora un tratto
interamente scavato nella roccia,
lungo il quale si possono riconoscere i diversi strati che compongono la parete: calcari grigi che si
alternano a calcari più scuri, piccole faglie e fessurazioni lungo le
quali scivolano i due lati delle lastre rocciose.
Si prosegue in costante e ripida
discesa finché, superato un breve
tratto in gal­leria, dopo circa 600
m., in corrispondenza di un’ampia
piazzola, appare sulla destra l’imponente in­gresso del forte di monte Ercole 4 .
Lasciato il forte, dopo un ultimo
tratto in discesa, il percorso si snoda in una zona amena, con bas14
si colli arrotondati intervallati da
ampie depressioni, in cui bo­schetti
di carpino nero ed orniello si alternano a radure coltivate a prato.
Questa morfologia è la traccia
evidente dell’azione erosiva del
ghiacciaio che, a più riprese, ha
ridisceso la valle del Taglia­mento
fino all’attuale anfiteatro morenico. Superato l’incrocio con via del
Lago, all’altezza dell’in­
sieme di
edifici denominati cjase dal Giâgo
e proseguendo sempre su via monte
Ercole, dopo cir­ca 200 m. si raggiunge la conca occupata dallo stagno denominato lago Minisini 5 ,
dal nome del­
l’antico proprietario
del fondo.
Franco Di Bernardo
1 La
chiesa e il convento di Sant’Agnese
Nella sella tra il monte Cjampon e
il Cumieli, a 427 metri sul livello del mare, si trova la ricostruita
chiesa di Sant’Agnese, inaugurata
dal vescovo di Udine monsignor
Pizzoni il 7 ottobre del 1984.
Le origini del luogo di culto, che fu
un monastero femminile, sono ancor oggi in gran parte oscure. Nel
corso dei secoli gli studiosi hanno avanzato proposte e congetture
sulla sua fondazione e sull’ordine
al quale avrebbero aderito le suo-
re, ma senza raggiungere risultati
certi.
Le donne, che avevano scelto di
dedicarsi a Dio, sono indifferentemente definite nelle fonti come
converse, romite o eremite e non
vi sono prove certe di un’iniziale
adesione ad un preciso ordine religioso.
Il primo documento su Sant’Agnese risale al 21 novembre del 1249,
quando le suore furono investite
del possesso di un terreno adiacen-
Chiesa e convento di Sant’Agnese prima del 1976
15
Sant’Agnese
Sant’Agnese nell'iconografia sacra è
rappresentata come una giovane donna con un agnello in braccio. La sua
vita è accennata in vari testi, non sempre concordanti, del IV e il V secolo e
narrata per esteso nella Passio latina
(V secolo).
Fanciulla romana del III secolo, diventò
martire per non aver voluto abiurare la
propria fede. Il magistrato per forzarla all’apostasia e umiliarla l’obbligò ad
esporsi nuda alla folla.
Uno dei presenti, avvicinatosi con l’intenzione di toccarla, morì all'istante (o,
secondo altre fonti, restò cieco) prima
ancora di poterla sfiorare. Agnese lo
resuscitò con le sue preghiere, ma ciò
nonostante venne sgozzata come gli
agnelli.
Secondo la tradizione apparì otto giorni dopo, con un agnello in braccio, a
lato dei parenti che vegliavano sulla
sua tomba. L’agnello, che allude all'Agnus Dei, era simbolo del martirio e
della resurrezione delle vergini.
25
«Faceva molto freddo e i lupi ululavano...»
La leggenda del convento
di Sant’Agnese
Valentino Ostermann, folklorista
nativo di Gemona, nelle «Pagine
Friulane» del 1888 pubblicò in lingua friulana questa leggenda, legata al convento di Sant’Agnese, da
sempre nel cuore dei gemonesi.
«Sulla sella di Sant’Agnese nel
1249 esisteva un convento di suore
e su quella cima del Cumieli a forma di pan di zucchero, che si vede
verso ovest, il conte Mainardo del
Tirolo aveva fatto costruire un castello dal quale si scorgono ancora
alcuni resti di fondamenta e una
prigione scavata nella roccia.
Questo luogo era chiamato il castello di Palombâr.
In quel brutto castello abitava una
volta un conte cattivissimo che
tormentava la gente e rapiva le ragazze più belle che, dopo averne
abusato, faceva murare vive.
Il conte aveva una figlia bellissima. Dove oggi si trova il fortino
di Venzone esisteva allora un al29
tro castello abitato da un conte
sempre in guerra con quello del
Palombâr.
Una domenica la famiglia dei
conti del maniero sul Cumieli si
recò a messa a Venzone dove la
figlia fu vista dal figlio del conte
rivale.
Costui si innamorò e, attraverso
suo padre, la fece chiedere in sposa sostenendo che in tal modo le
contese tra le due casate sarebbero cessate.
Il padre della ragazza si oppose
e accortosi che i due giovani
se la intendevano, costrinse la figlia a prendere il velo diventando una monaca del convento di
Sant’Agnese.
Un proverbio friulano sostiene che
la tosse e l’amore non si possono
nascondere (ne la tos ne l’amôr no
stan mai scuindûs) e così con facilità il giovane innamorato riuscì a
scoprire dov’era l’amata che convinse ben presto dell’opportunità
di fuggire insieme in Germania.
Ordito segretamente l’inganno,
una notte d’inverno in cui nevicava molto e il vento sibilava nel bosco, il conte arrivò a Sant’Agnese
con due servitori fedeli per aspettare che l’amata, divenuta suora,
fuggisse poco dopo la compieta di
mezzanotte.
Faceva molto freddo e i lupi ulula30
vano per la fame arrivando a scendere dall’Ambrusêt fino a giungere
nei pressi del convento.
Verso l’una venne dato il segnale e
la monaca si stese a terra per scappare attraverso un cunicolo mentre
il giovane innamorato le porgeva
una mano per aiutarla.
In quel momento si sentì un grande rumore.
Credendosi scoperto dalle suore il
conte cercò di sollevare di colpo il
corpo della fidanzata che improvvisamente urlò; il giovane nell’estrarre velocemente la donna le
aveva, infatti, spezzato la spina
dorsale.
Il fragore era stato prodotto da una
grande frana che cadeva rombando dai Cres di Crôs.
Il giovane conte, disperato per
l’accaduto, depose l’amata sotto il
portico della chiesa e fuggì come
pellegrino alla volta di Gerusalemme; nessuno da quel momento
ebbe più sue notizie.
Il conte del Palombâr, venuto a
conoscenza dell’accaduto, mosse
guerra con i suoi fedeli al conte
del fortino di Venzone ma la famiglia di quest’ultimo, con l’aiuto
degli abitanti di Venzone, lo vinse e inseguitolo, entrò nel castello
e lo bruciò, gettando nel torrente Drendesima donne, bambini e
soldati».
2 Il
castelliere del monte Cumieli
Imboccata la strada militare che
da Sant’Agnese conduce a monte
Ercole, giunti al culmine della salita e percorsi altri 250 metri circa, si diparte dalla carrareccia un
ampio sentiero che conduce alla
sommità del monte Cumieli, in
larga parte prativa, sicché nessun
ostacolo si frappone all’amplissima vista del Tagliamento e della
pianura friulana.
Il paesaggio da solo vale lo sforzo della salita ma, poche decine di
metri più a nord, è anche possibile
vedere i resti, tanto estesi e massicci da stupire, di un complesso
di muri a secco diroccati, nei quali la voce popolare ha creduto di
riconoscere una fortificazione napoleonica. Attribuzione che lascia
alquanto perplessi e che qualche
decennio fa Tito Miotti ha messo
radicalmente in discussione, sostenendo trattarsi di un castelliere
risalente all’età dei metalli, cioè a
più di un millennio avanti Cristo.
Egli per primo, a dire il vero, ha
ammesso di non poter sostenere
Sulla cima del Cumieli
31
tale attribuzione con reperti archeologici. La forma e la tipologia
di questa recinzione muraria sembrano, d’altra parte, alquanto diverse dai castellieri tipici dell’area
istriana e carsica.
L’attribuzione è, comunque, sug-
Resti del castelliere
gestiva e ci sembra giusto perciò
lasciare la parola allo studioso:
«La muraglia, simile a quella dei
castellieri carsici, alta ancora in
certi punti oltre m. 1,50 e con
spessore che varia da m. 1,50 a m.
2, segue quasi ininterrotta­
mente
il bordo del monte poco sotto
la cima (quota 571) sui versanti
ovest, nord, ed est.
Man­ca il fianco verso mezzogiorno, dove la pendenza ha favorito
il frana­re della maceria, che poi si
è in parte sgranata o è caduta in
bas­so. Il muro a secco è formato
da grosse pietre sommariamente
32
squadrate, ricavate evidentemen­
te sul posto; il percorso della re­
cinzione superstite misura circa
550 m.; con la parte mancante doveva superare i 700 m.
Il rilievo eseguito ha permesso di
individuare la forma poligonale
mistili­nea della difesa, con lunghi
tratti diritti intervallati da curve,
rientranze ed emergenze che non
sem­pre seguo­no il substrato orografico.
Sul lato nord-ovest è evidente una
porta, larga 2 m. Enorme la maceria franata lungo il pendio su
tutto il perimetro della muraglia,
che doveva elevarsi più metri. Non
abbiamo notato traccia di abitazioni né, tra l’erba alta, reperti atti
a qualificare l’epoca dell’insediamento. Anche la circostanza che
molte pietre siano squadrate induce a pensare che l’insediamento
vada ascritto latamente all’età dei
metalli.
Ma non è affatto escluso che nel
luogo si possano trovare elementi
per una retrodatazione dello stanziamento, in analogia a quanto si è
visto durante le campagne di scavo nel Carso triestino […].
Il castelliere del Cumieli si rivela,
oltretutto, una novità assoluta per
la topografia e la morfologia dei
più antichi insediamenti montani
del Friuli».
3 Resti
della torre di Grossenberg
Scesi dalla vetta del Cumieli e imboccata di nuovo la carrareccia
principale, si percorre per un certo
tratto un leggero pendio.
Poco prima di intraprendere la discesa per monte Ercole, si apre sulla sinistra un agevole sentiero che
porta alla cima del monte Palombâr, a strapiombo sul sottostante
letto del Vegliato.
Il nome Palombâr o Colombâr deriva dal friulano colombâr, di cui
palombâr è sinonimo (colomba =
palomba). Il termine già di per sé
attesterebbe l’esistenza di una costruzione. In effetti fin dal 1771
Gian Giuseppe Liruti riferiva che
verso il 1180 il conte Alberto del
Tirolo, al quale allora era assoggettata Venzone, nell’intento di
Versante sud-est del Cumieli. Al centro il Palombâr
33
ampliarne i confini verso Sant’Agnese, aveva occupato il bosco
del Cumieli e, per proteggere militarmente l’usurpazione, aveva
eretto su quella cima un castello
chiamato di Grozumberg, «di cui
ancora le vestigia si veggono».
Ben presto però i gemonesi, racconta sempre Liruti, lo assediarono
e lo distrussero dalle fondamenta.
Racconto suggestivo ma non del
tutto veritiero. Fondatore del castello fu il conte Enrico (e non Alberto) del Tirolo, non in qualità di
signore di Venzo­ne ma di avvocato della Chie­sa di Aquileia.
Nel 1184, infat­ti, l’imperatore Federico I atte­stò che, per volontà del
patriar­ca Gotofredo, Enrico aveva
ri­cevuto in beneficio la metà del
telonio, ossia delle gabelle, di Gemona, nel mentre a que­sta si concedeva l’esclusiva del mercato a
partire da Pontafel e monte Croce
fino al centro pedemontano.
Al fine di controllare che non venisse eluso il buon diritto di Gemona, e con esso il proprio, Enrico aveva eretto su questo ri­lievo,
che si adattava perfettamente alla
bisogna, una specola o torre di
osservazione, chiamata poi, con
qualche esagerazione, castello.
Perché mai questa torre, in un breve giro di anni, venne distrutta?
Certo i gemonesi non gioivano
34
per il consistente salasso al quale
erano assoggettati, ma forse erano
ancor più insofferenti dell’arbitrario impossessamento, da parte di
Enrico, dei boschi circostanti, denominati «la gran selva» e si presume quindi notevolmente fitti ed
estesi.
Perciò essi – in un tempo databile da ventiquattro a quaranta anni
prima del 1252, secondo testimonianze non concordi rese in un
documento coevo – distrussero la
specola, o fortificazione che fosse,
e rientrarono nel possesso dei loro
fondi. È possibile dunque che lo
smantellamento del castello, durato un quarto di secolo appena,
sia avvenuto già sotto il patriarca
Volchero (1204-1217).
Lo sguardo di chi giunge in cima
al Palombâr spazia facilmente
dal conoide del Cjampon al centro di Gemona, allargandosi alla
pianura e correndo dalle colline
moreniche fino al Tagliamento e
a Ospedaletto.
Un po’ più laborioso è lo sforzo di
riconoscere i resti del castello, che
l’antica distruzione e le manomissioni ben più recenti di militari e
di privati irrispettosi della storia,
hanno ridotto a ben poco.
Bisogna scrutare attentamente il
terreno infatti per scorgervi segni
di costruzioni. Il primo indizio è
Dal monte Palombâr
una cavità naturale, una sorta di
dolina, di forma quadrangolare, di
circa sette metri di lato e di profondità variabile tra i cinque e i
sette metri.
Se ci giriamo attorno e vi scendiamo, prudentemente beninteso,
notiamo che si tratta di un anfratto naturale solo in apparenza. Infatti due pareti sono rocciose, ma
le altre due recano tracce di una
cortina muraria, sia pure limitate
a ciottoli e pietrisco di riempimento. Una vecchia fotografia mostra
però un tratto murario integro, poi
demolito da incaute mani private.
Nel fondo della fossa è stata sca-
vata una caverna, destinata probabilmente a deposito di munizioni.
L’intervento militare - plausibile
dal momento che già durante la
prima guerra mondiale sulla sommità del Palombâr stazionavano
pezzi di artiglieria - non deve avere giovato all’integrità del rudere.
Sorgeva qui la torre di vedetta?
Taluni studiosi l’hanno creduto.
Riesce però difficile pensare che
questa buca informe potesse prestarsi alla fondazione di una torre,
tenuto conto oltretutto che, non
essendo questo il punto più elevato del Palombâr, per dominare
la pianura sottostante l’edificio
35
Muratura scomparsa
La fossa
avrebbe dovuto ergersi per svariati
metri.
La ricerca perciò non è finita. Se
saliamo di qualche metro, in direzione nord, più promettenti appaiono le tracce dei muri perime-
Resti di fondazione della torre
36
trali di una costruzione a pianta
quadrata, di circa quattro metri di
lato, che parrebbe coeva del semi-manufatto sopra descritto.
Sembrerebbero proprio questi i resti della torre di vedetta, mentre
la fossa potrebbe essere stata utilizzata come locale ausiliario: un
deposito, un magazzino.
Anche Valentino Baldissera del resto aveva scritto: «[...] la torre si
sprofonda per un paio di metri sotterra; dell’altra fabbrichetta [succursale], egualmente sino a fior di
terra, due lati sono in muratura,
per gli altri si trasse partito della
roccia, che è tagliata ad angolo».
Giuseppe Marini
3 Il
forte di monte Ercole
Lasciati i rude­
ri del castello di
Gros­senberg e rientrati sulla strada militare, inizia la discesa a
valle.
Giunti circa a quota 300 m., prima di imbocca­re l’ultimo tornante
che conduce al laghetto Mi­nisini si
scorge sulla de­stra un complesso di
edifici in rovina, affac­ciati su una
stradella che porta alla sommità
di un colle, il monte Ercole, dove
i recenti lavori hanno meglio evi-
denziato, districandoli dalla fitta
vegetazione che li aveva ricoperti,
i resti di una fortificazione.
Si tratta di un’opera realizzata tra
il 1904 e il 1913, nel contesto di
un complesso sistema difensivo
denominato dell’Alto Tagliamento,
le cui origini e significato storico
valgono la pena di essere brevemente raccontate.
Nel 1866, dopo l’unione all’Italia
del Veneto e del Friuli, si poneva il
Il forte di monte Ercole negli anni successivi al suo smantellamento
37
problema della difesa del confine
nord-orientale, che fino ad allora,
se si fa eccezione per il glorioso
forte di Osoppo, era rimasto del
tutto sguarnito.
Per varie ragioni, non ultime le
difficoltà finanziarie del nuovo
Stato, soltanto nei primi anni Ottanta una commissione, presieduta del generale Pianell, propose
di fortificare le valli del Fella e
del Tagliamento, realizzandovi le
fortezze di Chiusaforte e Ospedaletto e ammodernando il forte di
Osoppo.
Stipulata nel 1882, tra Italia, Germania ed Austria-Ungheria, la Triplice Alleanza, di quel progetto per
il momento non se ne fece nulla.
Bisognò aspettare il 1896 e la caduta di Crispi, perché si riprendesse in seria considerazione – pur restando in vigore quel trattato – la
difesa del fronte orientale, resa più
urgente dall’intensa attività fortificatoria condotta dagli austriaci nel
goriziano e lungo la valle isontina.
L’aprirsi del nuovo secolo vide
l’Italia condurre una politica estera
di precario equilibrio e mediazione
tra Francia e Imperi centrali, che
non sempre procedette di concerto
con lo stato maggiore dell’esercito,
al punto che, paradossalmente, la
cosiddetta «svolta» nella politica
estera italiana – nel senso di un
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sempre più marcato allontanamento dall’Austria-Ungheria e di
un deciso avvicinamento a Francia
e Inghilterra – parve più riconoscibile nelle decisioni militari che in
quelle governative.
Il sistema
dell’Alto Tagliamento
Al 1904-05 risale il piano del ministro Paolo Spingardi e del Comandante di Stato Maggiore gen.
Alberto Pollio, inteso a realizzare,
nelle vallate del Fella e del Tagliamento, nelle teste di ponte di Ragogna e di Pinzano e lungo l’arco
delle colline moreniche che da Tricesimo conducono a Rive d’Arcano, un sistema difensivo complesso che traesse profitto dal progresso delle tecnologie militari e dal
nuovo pensiero fortificatorio che
si era venuto affermando a partire
dagli anni Ottanta.
Punti avanzati di tale sistema sarebbero stati il forte di Chiusaforte
nella valle del Fella e, lungo il Tagliamento, le opere di monte Festa,
di monte Ercole e di Osoppo.
A sud di questa una seconda linea
era prevista tra Buja e i monti Bernadia, Campeon e Faeit.
Per assicurare il passaggio del
Tagliamento, si prevedeva una
doppia testa di ponte: sulla riva
sinistra a Susans e
a monte di Ragogna, e sulla riva
destra a Col Colat.
L’area collinare del
medio Friuli sarebbe stata presidiata dalle opere
corazzate di Tricesimo, Col Roncone, Santa Margherita di Gruagno,
Fagagna e Modoletto. Si trattava
in massima parte Il sistema dell’alto e medio Tagliamento. In neretto i forti
di opere da realiztezione più sfuggente, anziché
zare ex-novo e con nuovi materiali,
rincorrere il progresso delle artidal momento che la rapida evoluglierie adottando co­
r azze semzione dell’arti­glieria aveva invecpre più spesse. Sembrava infatti
chiato le fortificazioni tra­dizionali.
più conveniente che le batterie
La maggior precisione del tiro cur­
corazzate esponessero al tiro la
vo, l’allungamento dei proietti e
minore superficie p o s s i b i l e , u t i l’aumento della loro capacità di
lizzando cupole girevoli di spespenetrazione delle opere murarie,
sore relativo, ma con un raggio di
grazie anche all’impiego di esplocurvatura tale da deflettere verso
sivi dirompenti, avevano reso del
l’alto i proiettili.
tutto inefficaci le ordinarie muraPerciò si progettarono sistemi di
ture di sbarramento di pietra e di
singole fortezze di dimensioni moterra. Erano ora necessari nuovi
deste, adattate alle caratteristiche
materiali come il calcestruzzo cedel terreno, che si appoggiassero
mentizio, un conglomerato di piel’una all’altra per coprire l’intera
trisco, sabbia e cemento impastato
area da difendere.
con ac­qua, capace di resistere meIl loro nucleo forte sarebbe consiglio all’impatto dei proietti.
stito in un banco di calcestruzzo,
Bisognava poi garantire alle boclargo più di 10 metri, incassato nel
che da fuoco un profilo di pro39
terreno, con da quattro a sei pozzi
di pianta circolare, protetti da cupole metalliche ciascuna con una
feritoia dalla quale far uscire una
bocca da fuoco di medio calibro. La
difesa vicina sarebbe stata affidata
alle fucilerie ed alle mitragliatrici,
disposte dietro tratti di trincee dissimulate nel terreno.
Batterie e cupole corazzate
Sicché, a partire dal 1904, l’anno
stesso in cui prese avvio la costruzione del forte di monte Ercole,
sorsero lungo il confine orientale i
primi cantieri delle batterie corazzate Rocchi, dal nome del generale
del genio Enrico Rocchi.
Si calcola che fino al 1913, su tutta
l’estensione del confine con l’Austria, se ne siano realizzate ben 44,
a fronte di sole quattro costruite
nello stesso periodo sulle Alpi occidentali.
Quanto alle cupole girevoli, nel
corso di una decina d’anni ne
vennero progettate e realizzate
ben otto di tipo diverso, le prime
delle quali, le Grillo, concepite nel
1903, vennero ben presto soppiantate dalle Armstrong, costruite a
Pozzuoli a partire dal 1905 e, dal
1909 in avanti, dalle installazioni Schneider, complete di cupola,
affusto e cannone. Le Armstrong
erano cupole d’acciaio al nichel
dello spessore di circa 14 cm. e
del diametro di 4,75 m. I pozzi
sottostanti erano di sezione circo-
Cupola di tipo Armstrong e cannone di calibro 149A
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Due delle quattro cupole corazzate di monte Ercole
lare, dal diametro di 4,10 m. circa,
e comunicavano con l’esterno soltanto tramite un cunicolo trasversale e una breve rampa di scale
che portava al corridoio di servizio
comune.
Quest’ultimo era attrezzato con rotaie per montacarichi che permettevano di farvi giungere, dai locali
sottostanti, i proietti carichi.
I locali di alloggio, le cucine, le infermerie ed i servizi igienici potevano essere ubicati nella stessa area
della batteria, in locali sotterranei,
ma nelle opere più recenti si era
preferito separare le caserme per
il presidio e gli edifici di servizio
dal blocco della batteria, situandoli in posizioni defilate rispetto al
tiro nemico, e che non necessitavano perciò di coperture protette.
La fortuna delle cupole corazzate
terminò quando dalle officine tedesche Krupp uscirono proietti di
420 mm. di calibro e del peso intorno alla tonnellata, capaci di colpire con grande precisione bersagli
fino a dieci km., di sbriciolare il
calcestruzzo e di fare letteralmente
a pezzi corazze, cupole e cannoni.
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