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Minchia, minchia, minchia. Era un’offerta che non poteva
proprio rifiutare.
Tommaso Traina deglutì.
Non poteva rifiutare perché in effetti si trattava di un’offerta allettante, e perché materialmente non era in grado di
esprimere un diniego o alcunché, avendo perso l’uso della
parola, non avendo ancora padronanza della lingua dei segni,
ed essendo analfabeta.
Minchia, minchia, minchia. Tre minchie. I tre individui
davanti a lui, ex colleghi di suo padre – sempre sia lodato –,
dipendenti della più importante multinazionale del mondo,
lo fissavano con lo sguardo aziendale d’ordinanza, quell’espressione a metà tra l’intenso e l’assorto che le persone normali assumono quando sforzano lo sfintere anale o davanti
a cose come la Settimana Enigmistica, circostanze sovente
coincidenti.
In realtà attendeva questo momento dalla morte di suo
padre. Le norme sindacali parlano chiaro: è diritto del figlio
di dipendente deceduto succedere al genitore nelle mansioni.
Figuriamoci se non le conosceva lui, figlio dell’uomo che più
di ogni altro aveva lottato per conquistare diritti e tutele.
Gabriele Traina, mica uno qualunque. Comunista. Uno
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dei pochi, in Sicilia, dopo la naturale estinzione della specie
avvenuta a colpi di mitraglia il 1° maggio 1947, per mano del
Che Guevara di Montelepre, come raccontano certi storici e
cronisti dietro un irresistibile sorriso da coglioni.
Dipendente della mafia dal giugno ’67 con la mansione
di messaggero. In parole povere, portapizzini. Un incarico
di enorme responsabilità: tutta la comunicazione dell’azienda
si regge sulla loro assoluta, fedele discrezione e sulla solidità delle loro gambe. E proprio le gambe furono l’argomento
chiave della prima grande rivendicazione del «sindacato per
dipendenti di società malavitose o parastatali», fondato da
Gabriele Traina nel 1974.
C’erano voluti quasi dieci anni di proselitismo, anni durissimi, infiniti per fatica, scanditi dal continuo carbonaro picchiettio dello scalpello contro la scorza di cinismo dell’ambiente sociale più reazionario che esista, costellati da scoramento, delusione, raggia e voglia di mandare affanculo tutto,
e da pochi sporadici e alquanto artefatti momenti gratificanti,
davanti a impercettibili scalfitture della scorza, illusori accenni di consenso.
Poi venne la notte di Pippo Schizzu, e tutto cambiò.
La notte del 12 luglio ’76 Pippo Schizzu, dipendente psicotico assegnato alle azioni violente, decise di gambizzare
tutti i messaggeri che gli tornavano alla mente. Tossico ma
pitorfo, per sballarsi e sparagnare era solito sniffare colla, e
quella notte aveva esagerato in quantità (eccessiva) e in qualità (infima). L’azienda, con ineffabile sense of humour, gli incollò la bocca e le narici, lo infilò dentro una scatola e lo spedì
in Afghanistan.
La vicenda ovviamente mise in agitazione il popolo dei
portapizzini, e Gabriele Traina sfruttò l’occasione per racimolare vero, caldo, autentico consenso. Poi, forte di quel
consenso, minacciò lo sciopero della categoria messaggeri se
la dirigenza non fosse venuta incontro alle loro richieste, ovvero: una copertura assicurativa che garantisse al dipendente
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una rendita soddisfacente anche in caso di incidenti che ne
avessero condizionato le facoltà lavorative. La totale copertura delle spese sanitarie per i dipendenti vittima di incidenti di
qualsiasi tipo. E poi un sacco di altre cose che non c’entravano niente, tra le quali, appunto, il diritto all’assunzione per i
figli dei dipendenti deceduti.
E la dirigenza accolse le richieste.
Gabriele Traina, mica uno qualunque.
La parte più difficile era stata diffondere le proprie iniziative sindacali senza nemmeno sapere a quali persone rivolgersi: un messaggero non conosce l’identità dei propri colleghi.
Non conosce quasi nessuno per la verità, soltanto il personale
strettamente indispensabile, nel caso di Gabriele i tre individui giunti dinanzi al figlio con l’offerta irrinunciabile. Non è
chiaro come abbia fatto. Tommaso ha conservato una vecchia
pubblicazione del padre, datata dicembre ’77: In difesa del
proletariato mafioso. Un manifesto sindacale con tutti i crismi.
La madre gliel’ha raccontato mille volte, che quella pubblicazione e il suo autore erano conosciuti da tutti alcuni anni
addietro, «quando quella gran buttana di Patti Pravo cantava
in tv che gli piaceva fottere in tre». In effetti la scelta di pubblicare un testo divulgativo è alquanto insolita, soprattutto
se si considera che tutti i portapizzini sono obbligati all’analfabetismo. L’unica eccezione storica è costituita appunto da
Gabriele Traina – privilegio acquisito in seguito a circostanze
eccezionali.
Forse voleva essere un modo di lasciare una testimonianza. O forse una provocazione dadaista, vai a sapere. Comunque poco importa.
E dunque, ecco i tre uomini offrire a Tommaso il ruolo
che era di suo padre. È stato scelto per esclusione: suo fratello più piccolo e assai più sveglio ha cominciato a lavorare
per l’azienda fin da ragazzino, e a diciassette anni è già uno
spacciatore coi controcazzi. Non pillolette per bambini, sia
chiaro: cocaina. Soprattutto cocaina. Cocaina rosa, cocaina
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bianca colombiana, eroina ogni tanto, MDMA, erba di quella
giusta, coltivata ad Alcamo – ne ho fumata tanta, negli anni spensierati della mia giovinezza –, oppio, speed. Ma soprattutto cocaina, il porto sicuro di ogni spacciatore che si
rispetti. Grazie all’intervento disinteressato del legislatore la
cocaina porta gli utili maggiori col minimo rischio, tanto più
se si agganciano i giri giusti: ricchi frustrati, figli di papà diffusamente poco allegri, governanti delle sfere più alte, insomma
tutta quella brava gente che necessita di un aiuto esogeno per
muovere la minchia, e che in questi insoliti cagionevoli giorni
detiene il potere. In realtà lo detiene abbastanza spesso, dalla
cagionevole notte dei cagionevoli tempi.
Ciccio – Francesco – Traina, sei anni meno di Tommaso,
non è analfabeta come suo fratello. Il padre, arricchitosi all’improvviso e inaspettatamente, lo ha iscritto in una scuola della
Palermo bene, un istituto privato gestito dai gesuiti, che come
è noto hanno fatto voto di educare i mafiosi alla cristianità.
Una volta lì dentro, Ciccio si è intrufolato nei giri giusti di
cui sopra: figli di notai e magistrati, figli dei politici locali, figli
di tutti quelli che contano davvero, degli imprenditori ammanicati e dei piccoli negozianti di quartiere pieni di soldi, che
dietro il calore rassicurante delle loro botteghe a conduzione
familiare, del quartiere sanno e decidono tutto.
Poi li ha inondati di cocaina tutti quanti. Loro e le loro
case, i locali, gli amici, i colleghi e i loro uffici. Tutto ricoperto
da una nube bianca spessa, come un sacchetto del pandoro
dopo l’annacata per spargere lo zucchero.
Un fenomeno: Ciccio Traina – grasso e tarchiato, arduo da
spostare come un vecchio cassettone – doveva restare dov’era. Il posto del padre toccava a Tommaso anche se per tutti
era tonto, e ora che non riusciva più a parlare – dopo avere
trovato suo padre in casa, morto – era ancora più tonto. In
fondo – pensavano – bastava portare un pezzo di carta da un
posto a un altro. Ce la poteva fare agevolmente anche se era
tonto e muto, anzi: il mutismo era un vantaggio.
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Tommaso Traina li guardò, e fece cenno di sì con la testa.
Nell’istante successivo si rese conto che adesso aveva un lavoro e, finalmente, l’occasione di riscattarsi dopo anni di umiliazioni infinite. Tonto, tonto, tonto. Non è bello sentirsi dire
che sei tonto, anche se lo sei e lo sai. Soprattutto se a dirtelo
è tuo fratello più piccolo ma anche più sveglio, più istruito e
di successo di te.
Tommaso tornò a casa. Ciccio era spaparanzato sul divano
del salotto. Come sempre.
Il divano, un costosissimo sofà a tre posti in acciaio e pelle
nera con poggiapiedi azionabile a bottone, è l’ombelico del
reame di Ciccio. Il resto del salotto è espressione della sua
opulenza e del suo stile discreto e minimalista: televisore a
45 pollici full HD + 3D appeso alla parete, collegato con
qualsiasi cosa offra la tecnologia di questi tempi: satellite con
decoder full optional e abbonamenti svariati – che in soldoni
annoverano la totalità dei canali trasmessi nel mondo libero
e non –, lettore Blue Ray, impianto dolby staminchia e pure
un leggerissimo pc portatile dal design accattivante e logo di
mela in rilievo sul dorso, munito di collegamento a banda
larga. Poi ci sono le console: tutte quante. Con la PlayStation
in evidenza.
Alla destra del divano, ad altezza d’uomo, sostenute da
una struttura in rovere sbiancato, due botti importanti munite di rubinetti, acquistate a peso d’oro da una azienda enologica del Marsalese. Una è piena di birra e una di Coca-Cola.
Al centro della stanza, sopra un tappeto indiano – indiani d’America – sono ammucchiati una montagna di joypad,
volanti, memory card, dvd e in disparte, avvolto nel cellophane, il pad da competizione. Perfettamente calibrato per le
sue mani, dipinto a fuoco di rosa e nero e ornato dall’effigie
di un’aquila dorata che invade il sistema di comando, opera
dell’amico Turi û Dutturi, decoratore rinomato per i suoi interventi sui caschi e i serbatoi delle moto, che nell’occasione
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ha dato prova dei suoi estri da miniaturista firmandosi per
esteso giusto sotto il pulsante dello START.
Ciccio lucida e lubrifica il suo pad da competizione ogni
sera. Tra le cose a lui più care, è secondo soltanto al suo cazzo. E talvolta prevale.
Insieme a Ciccio, come sempre, c’è l’amico-maggiordomoguardaspalle-portaborse Cristiano o Carmelo o come cavolo
si chiama, qualcosa con la C e la R comunque. Cretino.
Come sempre, stanno giocando a Pro Evolution Soccer.
Sempre PES o qualche mega picchiaduro, a tutte le ore.
Ciccio si allena, Cristiano o Carmelo o Cretino fa da sparring partner. Si sta allenando per il prossimo torneo, che frutterà al vincitore un campionario non insignificante di godurie
tecnologiche all’ultimo grido, e un pacco di soldi, vale a dire
ventimila cucuzze. Il merito di una cifra così spropositata e
fuori dall’ordinario è dello sponsor dell’evento, un negozio
di elettronica che tra la vendita di una lavatrice e quella di un
frigorifero non perde occasione per riciclare soldi all’azienda.
Una delle tipiche circostanze che rendono Palermo un posto
fuori dal mondo.
Ciccio partecipa a tutti i tornei, soprattutto a quelli di Pro
Evolution Soccer. E li vince sempre.
Alla sinistra del divano, vicino alla postazione di Ciccio,
un tavolinetto in vetro dove sono posati i cinque cellulari da
lavoro, uno per ogni sostanza trattata.
Cellulare bianco per le cocaine.
Cellulare verde per erba e fumo.
Cellulare grigio scuro per l’eroina.
Cellulare arcobaleno per le «chimiche».
Cellulare giallo per le robe strane.
In questo modo, è in grado di riconoscere e gestire le richieste. Sta parlando al cellulare bianco, reggendolo tra la
spalla e l’orecchio, mentre con le mani tiene il pad: «Sì, domani mi interroga in matematica, seconda ora. È cinque giorni che mi preparo».
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(Trad. «Per quei 5 grammi di cocaina ci incontriamo domani, verso le nove del mattino, davanti al Cannizzaro», il
liceo scientifico di Palermo per eccellenza).
«Ora ti saluto.»
«Ti ho detto che ti saluto. Sto giocando a PES. Non voglio
rotti i coglioni quando gioco a PES. Ciao.» Poi si volta verso
Tommaso. «E tu che vuoi? Perché mi guardi con quella faccia
da cazzo?»
«Che faccia da cazzo, cumpa’, una gran faccia da cazzo,
cumpa’... tuo fratello è proprio un cazzone!»
«Ou! Come ti permetti, lingua di merda!»
«Scusa», dice Cristiano o Carmelo o Cretino.
«Non a me. Scusati con lui», e gli indica il fratello.
Cristiano o Carmelo o Cretino tentenna. Gli pesa troppo,
scusarsi con quel tonto.
«Avanti, arruso! Mi stai sempre attaccato come una siccia... che minchia... vuoi ficcare?» dice il signorino Ciccio.
«Scusa, Tommaso», dice finalmente Cristiano o Carmelo
o Cretino.
«Ecco, bravo! Ora zitto e gioca! Oppure vaffanculo. Vattene a casa... tanto a te ti batte pure il computer.»
«Scusa France’, scusa. Mi è spiaciuto...»
«Zitto e gioca! Avanti che adesso ti spacco il culo!»
Poi il signorino Ciccio si rivolge a Tommaso: «Com’è andato il colloquio?»
(Linguaggio dei segni traducibile in «E tu come lo sai che
avevo un colloquio?»)
«Che ha detto?» dice Cristiano o Carmelo o Cretino.
«Vuole sapere come sapevo del colloquio. Che domanda
del cazzo. ’Ste cose le vengono a sapere tutti. L’ho sentito
dire, in giro nel quartiere.»
«Pure io», dice Cristiano o Carmelo o Cretino.
(Linguaggio dei segni traducibile in «Mi hanno preso».)
«Che ha detto?» dice Cristiano o Carmelo o Cretino.
«Ha detto che lo hanno preso. Non ci posso credere. Che
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teste di minchia! Ecco la prima lezione, Tomma’: quelli che
comandano sono tutti delle minchie. Stanno lì, taliano, prendono le decisioni e sbagliano. Sempre. E sai perché? Perché
stanno troppo in alto, e non ciarano l’aria che ciariamo noi.
Ma come si fa ad assumerti? È uno spreco assurdo e... minchia talia come ce la posai sull’angolino sinistro basso PAM!
Tiro secco e gol! Cumpa’, sei troppo zero, come sparring
partner sei uno sgracchio di suora...»
«France’, sei tu che sei troppo forte» dice il mellifluo Cristiano o Carmelo o Cretino.
«Comunque, Tommaso, per concludere il discorso... ha
ragione il Berlusca quando dice che i sindacati e tutte ’ste
regolette arruse frenano l’efficienza... SUUCA! Pure col pallonettino!»
«Spettacolare, France’.»
«Spettacolare, France’... sei una sega pure a leccare il culo.
E tu, fratello... Ou! Guardami negli occhi!... Vedi di non fare
troppe minchiate che poi se la prendono pure con me e a te
come minimo t’ammazzano e poi la mamma rompe i coglioni
a me. E poi un’altra cosa: parla più lentamente. L’azienda è
piena di coglioni come ’sto frocio qui accanto, mica sono tutti
quanti esperti di lingua dei segni E CHE CAZZO!» Squilla
il cellulare verde.
«Porco ***! Lo sanno che per l’erba non devono chiamare a quest’ora! Mi devo interrompere puru pi quattro picciriciddi fusi. Pronto?»
Tommaso ascolta la conversazione professionale via via affievolirsi, mentre si allontana verso la sua stanza: «Sì, domani.
Vado a correre trenta minuti sul prato, al parco d’Orleans.
Si, ci sono questi prati bellissimi. Al tramonto, se no spompo
subito, verso le sei. E vedi che c’ho i muscoli pieni di acido
lattico, sarà più faticoso dell’altra volta».
(Trad. «Per quella partita di 30 grammi di erba ci vediamo
domani alle sei del pomeriggio al parco d’Orleans. Siccome è
una partita d’erba buonissima e – non lo dice ma lo pensa –
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siccome avete avuto la mala pensata di chiamarmi a quest’ora
vi costerà più del solito».)
Tommaso chiude la porta.
La sua stanza è piccola e deserta: un letto a muro sotto la
finestra e dall’altra parte una bellissima fatiscente scrivania in
legno appartenuta al padre che lui ha voluto disperatamente per sé, dopo la tragedia, senza peraltro trovare particolari
ostilità dal signorino Ciccio, per indole e senso del gusto attratto da ben altri stili.
Tra la scrivania e il letto, di fronte la porta, un armadio di
plastica bianco e arancione risalente agli anni Sessanta che non
ci impica niente con tutto il resto. Il regno di Tommaso il tonto
è tutto qui, nel letto bianco con vista su catapecchie e cielo stellato, nell’armadio intruso, nelle asperità del legno scuro della
scrivania di suo padre. E dentro i suoi cassetti, dove conserva
– e nasconde – i frutti della sua più grande passione: disegnare.
Ha iniziato cinque anni prima scarabocchiando fogli di
carta, fazzolettini, perfino rotoli di carta igienica, con una
penna blu. A un certo punto in mezzo agli scarabocchi sono
cominciati a spuntare corpi, e poi facce, i ritratti delle persone che vedeva al bar, in sala biliardo, perfino i semplici passanti che incrociava per strada. Il suo talento sarebbe parso
evidente a tutti, se solo qualcuno si fosse preso la briga di
dare una sbirciata. Ma non è mai successo. Tommaso ha avuto modo di sviluppare le proprie doti senza disturbo alcuno,
nell’ignoranza del piccolo mondo che lo circondava e con cui
interagiva il meno possibile.
Ha comprato i colori, a spirito prima, poi a tempera, e
negli ultimi mesi perfino a olio – li tiene nascosti sopra l’armadio. E poi ha studiato. Ha comprato due libri di tecnica
– un testo base sul disegno con gli esercizi per migliorare il
tratto, lo studio della prospettiva, i suggerimenti per la tecnica del chiaroscuro e il metodo della retina per i fumetti; e
uno specifico sulla pittura a olio –, e se li è letti, dall’inizio
alla fine, perché – ecco un’altra cosa che non sa nessuno – nel
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frattempo Tommaso ha smesso di essere un analfabeta. Ha
fatto tutto da solo. Ha cominciato il giorno dopo la morte di
suo padre, sfruttando tutto il tempo che aveva a disposizione,
mettendoci tutto l’impegno che può metterci un orfano che
vuole onorare il padre ammazzato. E ora, dopo poco più di
un anno, legge agevolmente qualunque cosa. Le disgrazie a
volte sono il migliore incentivo possibile.
Ha imparato pure a scrivere ma non gli piace più di tanto,
e in tutti i fumetti che disegna la parte testuale ha un ruolo
irrilevante.
Una volta ha fatto pure la trasposizione a fumetti di un
racconto del commissario Montalbano per un concorso. Non
era un grande racconto: la storia di un barbiere, un brav’uomo costretto dalle circostanze a frodare la legge, sgamato e
perdonato dal commissario. Tommaso era rimasto colpito
piuttosto dal retrocopertina, un breve testo promozionale
che presentava il commissario Montalbano ai lettori:
Trenta crimini da risolvere. Delitti d’amore, d’interesse, di
mafia, frutto di ambizione, di esaltazione, di esplosivo furore
o di logorante quotidianità. Trenta indagini alla ricerca di una
giustizia possibile. Quella giustizia che il commissario Montalbano si sforza di perseguire nel cuore della Sicilia. Un uomo
con un’esistenza ordinaria, da funzionario integerrimo, con
un’eterna fidanzata lontana, in Liguria, e tre grandi passioni:
il mangiare, il bere e la letteratura. Brusco, talvolta scorbutico,
ma dotato di un’irresistibile carica di umanità e di ironia, Salvo
Montalbano applica la propria intelligenza a uno straordinario
campionario di delitti, premeditati o solo simulati. Un mondo
feroce e violento, che egli affronta con le armi della logica, ma
anche della pietà e dell’umorismo.
Uao... pareva proprio la descrizione di un supereroe. Così
aveva disegnato questo siciliano tozzo, con il naso e la pancetta da avvinazzato, vestito di una calzamaglia gialla con man20
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tellina rossa – i colori della Sicilia – e una coppola azzurra in
testa per somigliare in qualche modo al suo supereroe preferito, Paperinik. Avrebbe vinto, probabilmente, se solo non
si fosse scantato di partecipare. E gli scantulini non vincono
mai.
La mamma fa la casalinga. Mantiene la famiglia grazie a
un vitalizio assegnatole dall’azienda in seguito al decesso del
marito e ai risparmi accumulati nel corso degli anni. È molto
protettiva con Tommaso. Per questo lui si sente un tonto: sa
che lei la pensa così. Non è bello dipendere dalla madre, dal
fratello minore, da un uomo morto. Questo lavoro è la svolta
della sua vita. Deve solo stare attento a non fare fesserie, come gli ha detto Ciccio... evitare di lasciarsi prendere dall’ansia, eccola che arriva come un treno che accelera e gli schianta
il petto... l’ansia, così fisica e incorporea...
...però se i grandi capi lassù gliel’hanno proposto vuol
dire che lo ritengono all’altezza. Ciccio si sbaglia. La mafia
è un’azienda grandissima e di enorme successo: i capi non
possono mica essere una manica di deficienti. Hanno fiducia
nella volontà delle persone, a volte troppa, forse. Ma è forse
un male? Non è questo il modo migliore per lasciare entrare
l’aria nuova e ciararla, e restare al passo coi tempi?
Questo pensiero lo rilassa... gli hanno dato un’occasione,
toccherà a lui dimostrare di meritarsela.
E come vedremo, qualcosa dimostrerà. Dimostrerà che
almeno in questo caso, l’azienda ha preso una decisione di
minchia.
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