Anno II – numero 46 del 25 febbraio 2010

Transcript

Anno II – numero 46 del 25 febbraio 2010
la voce rossa
a cura di Andrea Genovali
Anno II° - numero 46 del 25 febbraio 2010
Thomas Sankarà:
un Rivoluzionario del nostro Tempo
“Per ottenere un cambiamento radicale, bisogna avere il coraggio di
inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire. Tutto
quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per l’uomo
realizzabile. Di questo sono convinto”
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www.comunisti-italiani.org – [email protected]
Anno II – numero 46 del 25 febbraio 2010
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S O M M A R I O:
La Voce dei Protagonisti
“Intervista a Sergio Marinoni – Presidente Associazione Nazionale di
Amicizia Italia-Cuba” a cura di Andrea Genovali
La Copertina
“Thomas Sankara: la coerenza e la dignità di un Rivoluzionario. Un
esempio anche per tutti noi” di Andrea Genovali
“Sankara: vivo nella gente” di Gino Barsella
“Un ricordo di Sankara” di Campagna internazionale giustizia per Sankara
Grandangolo
“Caso Zapata. Basta con le menzogne su Cuba” di Andrea Genovali
“Afghanistan. Ultimo atto “ di Marco Zoboli
“Erdogan-Ergenekon: un serpente che si morde la coda” di Yuri Carlucci
“Via le atomiche USA dalle basi in Europa. A dirlo questa volta è il governo
belga. Si accentua la crisi della NATO?” da Redazione Contropiano
“La crisi olandese scuote l’Alleanza Nato, attenzione al due di briscola!”
di Stefano Silvestri
Haiti. E se sotto il mare ci fosse petrolio?” di Alessandro Grandi
“La presecelta” di Stella Spinelli
“L’Italia ha perso il suo “storico” ruolo in Medio Oriente” di Giuseppe
Cassini
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L’Africa Vicina (a cura di Gino Barsella)
“L’Africa parta dall’Africa” di Gino Barsella
Mondo in Crisi (a cura di Marco Zoboli)
“Lettonia. Crisi nella repubblica delle Banane di ghiaccio” di Marco Zoboli
“Stati Uniti. Ispanici sotto sfratto giudiziario” da IPI
“Da Marx a Minsky” di Alejandro Nadal
La Vignetta della settimana
“Don Chisciotte” di Mel
Le donne nel Mondo
“Storie di badanti”di Ada Donno
Dal Mondo in Lotta
“Non in nostro nome” Appello per il popolo per Gaza e il popolo
palestinese
“Pertini si commosse di fronte all’orrore
da Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila
di
Sabra
e
Chatila”
“Cuba quarta al mondo per donne parlamentari” da AIN
“E’ credibile Human Rights quando parla di Cuba?” di Tim Anderson
“Complicità europea con il terrorismo del Mossad” di Abd al-Bari Atwan
“Rifiutarsi di uccidere in Afghanistan”
Leggere per Non Dimenticare
“Faustino Perez: paradigma di un rivoluzionario” di Armando Hart Davalos
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Le responsabilità delle opinioni e delle idee espresse sono solo ed esclusivamente riconducibili
all’autore dell’articolo
3
particolarmente difficili, dal crollo del
campo socialista alla malattia di Fidel
Castro, e le ha superate tutte grazie
all’unità del suo popolo. José Martí, il
grande patriota cubano del secolo XIX,
affermava che “un popolo diviso è un
popolo sconfitto”, e senza dubbio la
forza della Rivoluzione ha le sue radici
in questo prezioso insegnamento.
La Voce dei Protagonisti
Intervista a Oltre Confine di Sergio
Marinoni (a sinistra nella foto),
Presidente Associazione Nazionale
di Amicizia Italia-Cuba
Oggi il mondo è pervaso da una grande
quantità di contraddizioni, il sistema di
libero mercato e la logica del profitto
fanno aumentare sempre di più il
divario tra ricchi e poveri, il saccheggio
delle risorse naturali sta trascinando il
mondo in un caos ecologico e sociale, si
moltiplicano i conflitti militari e le azioni
di terrorismo, i valori morali sono
calpestati da razzismo, egoismo ed
esclusione.
D)
Che
giudizio
dà
oggi
l'Associazione Nazionale di Amicizia
Italia-Cuba sulla validità della
Rivoluzione cubana?
Credo che per esprimere un’opinione –
e questo non solo riguardo a Cuba occorra innanzitutto avere ben chiaro il
contesto in cui una situazione si evolve.
Nel
caso
di
Cuba,
bisogna
fondamentalmente tenere presente due
aspetti: è un paese del Terzo Mondo ed
è un paese la cui storia ha sempre
dovuto fare i conti con l’arroganza e
con l’ingerenza degli Stati Uniti. Ed è
bene ricordare che gli Stati Uniti non
sono una nazione qualsiasi, sono la più
grande potenza economica e militare
mai esistita sulla faccia della Terra.
In questo contesto Cuba, che non vive
all’interno di una teca di cristallo, non
solo ha saputo preservare i traguardi
raggiunti dalla Rivoluzione per il proprio
popolo – lavoro, salute, educazione,
protezione sociale e ambientale – ma
nonostante le limitazioni causate dal
blocco ha intrapreso una politica di
solidarietà verso popoli meno fortunati
e ha inviato gratuitamente diverse
decine di migliaia di medici e di
insegnanti per combattere malattie e
analfabetismo che attanagliano molti
paesi del Terzo Mondo.
La Rivoluzione cubana non solo ha
resistito per oltre cinquanta anni a
qualsiasi tentativo di annientamento
ma, allo stesso tempo e senza sfruttare
nessuno, ha saputo costruire un tipo di
società che non ha paragoni tra le altre
nazioni del Terzo Mondo per i risultati
ottenuti, riconosciuti anche da varie
organizzazioni internazionali come la
FAO, la OMS, l’UNESCO e l’UNICEF, solo
per citare le più importanti.
Pertanto il nostro parere sulla validità
della Rivoluzione cubana non può
essere che positivo ed è reso concreto
dal costante impegno di tutta la nostra
Associazione nel portare avanti la
solidarietà con Cuba. Aiutare Cuba
significa per noi aiutare anche altri
popoli del mondo.
Nel corso degli ultimi vent’anni Cuba ha
dovuto affrontare diverse situazioni
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l’azienda messicana che lo produceva l’unica da cui Cuba poteva acquistarlo è diventata a capitale nordamericano e,
per le leggi del blocco, non può più
commerciare con Cuba.
E’ possibile
darci una mano nella lotta contro il
blocco sia sostenendo l’Associazione
nelle sue attività sia favorendo la
possibilità di nostri contatti – in
particolare quelli con le istituzioni – per
vedere se è possibile il finanziamento,
anche parziale, di progetti che siano
utili a Cuba.
D) Le campagne per la fine del
blocco e per la liberazione dei
Cinque eroi cubani sono sempre di
grandissima
attualità
per
la
solidarietà. Cosa possiamo fare per
sostenere Cuba in queste due
difficilissime lotte?
Queste due lotte sono completamente
diverse tra di loro, ma hanno uno
stesso
denominatore
comune:
la
politica degli Stati Uniti nei confronti di
Cuba.
Il blocco economico, commerciale e
finanziario è ufficialmente iniziato nel
1962, ma già nei primi mesi del 1959, il
Governo statunitense aveva allo studio
azioni per impedire lo sviluppo della
Rivoluzione cubana. Dal 1992, per 18
anni consecutivi il blocco è stato
condannato dall’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, l’ultima volta
nell’ottobre 2009 con 187 voti a favore
della mozione cubana, 3 contrari (Stati
Uniti, Israele e Palau) e 2 astensioni.
Per quanto riguarda i Cinque cubani che
da undici anni sono imprigionati negli
Stati Uniti per aver combattuto il
terrorismo, dopo un processo definito
illegale dal Gruppo di Lavoro dell’ONU
sulle Detenzioni Arbitrarie, occorre
rompere il muro di silenzio che gli Stati
Uniti hanno innalzato attorno a questo
caso. Questa barriera serve per non
fare emergere le connivenze, le
protezioni, i finanziamenti e altri
sostegni
di
vario
genere
che
praticamente tutti i Governi statunitensi
hanno
offerto
a
organizzazioni
terroristiche che operano contro Cuba.
Per sostenere Cuba contro questa
macroscopica
illegalità,
la
nostra
Associazione
ha
condotto
una
solidarietà
politica
e
materiale,
coinvolgendo istituzioni a vari livelli
(regionali, provinciali e comunali) nello
sviluppo di progetti nei campi più
diversi, promuovendo gemellaggi tra i
nostri Circoli di una regione italiana e
una provincia cubana, finanziando
direttamente progetti concordati con le
autorità cubane. L’ultimo di questi è la
campagna
che
abbiamo
lanciato
quest’anno per l’acquisto di un farmaco
antitumorale
ad
uso
pediatrico
(Actinomicina-D, di cui troverete la
locandina che pubblicizza la campagna
nella sezione Dal Mondo in Lotta di
questo numero di Oltre Confine, Ndr)
che Cuba non può più ottenere perché
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Per
gli
Stati
Uniti
diventerebbe
veramente imbarazzante che l’opinione
pubblica mondiale sapesse che essi, che
si erigono a portabandiera della lotta al
terrorismo, in realtà praticano gli stessi
metodi.
D) Nel 2010 ci sarà il X Congresso
dell'Associazione
Nazionale
di
Amicizia Italia-Cuba, con quali
risultati ottenuti dal precedente
Congresso e quali prospettive?
La
nostra
Associazione
è
un’organizzazione
democratica,
che
tessera i propri 4.500 soci, che
attualmente svolge la sua attività di
solidarietà attraverso 82 Circoli presenti
in 16 regioni italiane. Ogni tre anni i
Circoli eleggono i propri delegati a un
Congresso dove si dibattono le varie
proposte presentate, vengono azzerate
tutte le cariche e si elegge un nuovo
Direttivo Nazionale, che a sua volta
elegge la Segreteria Nazionale e il
presidente.
E
così
sarà
anche
quest’anno.
E’
una
lotta
nel
campo
della
comunicazione, che va combattuta
contro il tombale silenzio dei colossi
mondiali dell’informazione, che hanno a
disposizione catene televisive e carta
stampata per riversare fiumi di parole e
di inchiostro con cui diffondono le più
incredibili menzogne contro Cuba, ma
poi tacciono di fronte a un caso come
quello dei Cinque, anche se dieci Premi
Nobel e migliaia di intellettuali di tutto il
mondo hanno manifestato la loro
solidarietà nei confronti dei cinque
cubani.
In questi ultimi tre anni è stato
completato
il
lavoro
per
il
riconoscimento ufficiale di tutti i nostri
Circoli presso il Ministero del Lavoro e
della Promozione Sociale. Questo fatto
ci ha permesso di poter concorrere
all’assegnazione del Cinque per Mille (il
nostro codice fiscale è 96233920584),
le cui entrate ci hanno consentito di
aumentare la solidarietà verso Cuba.
Abbiamo avuto l’onere e l’onore di
organizzare a Terni nell’ottobre 2008
l’Incontro Europeo di Solidarietà con
Cuba, al quale hanno partecipato
organizzazioni provenienti da 28 paesi
europei, che ci hanno rivolto il loro
apprezzamento per il livello dell’evento.
E’ importante il contributo di ciascuno
di noi, per piccolo che sia, per
promuovere
in
ogni
ambito
la
conoscenza di questo caso. Come
affermava
Gramsci
“la
verità
è
rivoluzionaria”, e noi abbiamo tutto
l’interesse che la verità possa un giorno
trionfare e arrivare alla liberazione dei
Cinque.
Nell’ottobre 2009 abbiamo organizzato
a
Milano
una
riuscitissima
manifestazione per la liberazione dei
Cinque, alla quale hanno partecipato
circa 4.000 persone provenienti da
tutta Italia.
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Ma
con lo stesso spirito
della
Rivoluzione cubana, affronteremo tutte
le difficoltà che si presenteranno e
grazie
all’unità
della
nostra
Associazione sapremo superarle.
La rivista bimestrale che pubblichiamo El Moncada - è sempre più apprezzata
dai suoi lettori e da un anno è inviata
anche in oltre 700 biblioteche italiane.
A una già dettagliata informazione
sull’Associazione e su Cuba che
forniamo attraverso il nostro sito
Internet,
abbiamo
affiancato
la
pubblicazione di un bollettino digitale –
Amicuba – che viene inviato a una lista
di oltre 6.000 indirizzi di posta
elettronica. Inoltre abbiamo ripreso la
pubblicazione nel sito di articoli che si
riferiscono
anche
ad
altri
paesi
dell’America
Latina,
in particolare
riguardanti l’Honduras e, ultimamente,
Haiti.
L’Associazione Nazionale di Amicizia
Italia-Cuba
rappresenta
l’Italia
in
mediCuba-Europa, un’organizzazione a
livello
europeo
formata
da
organizzazioni di solidarietà con Cuba di
11
paesi
europei,
che
sviluppa
importanti progetti di solidarietà con
Cuba nel campo della salute. Con
questa
organizzazione
la
nostra
Associazione ha contribuito a realizzare
diversi importanti progetti.
Grazie al lavoro dei nostri Circoli e dei
Coordinamenti regionali sono state
organizzate centinaia di conferenze,
mostre, attività culturali di vario tipo,
viaggi di conoscenza e brigate di lavoro.
Tutta questa mole di lavoro viene svolta
a tutti i livelli in modo assolutamente
volontario. Le prospettive per il futuro
sono quelle di rendere questo lavoro più
organico e ancora più efficace, sia nel
campo della comunicazione sia in quello
dei progetti di solidarietà, nonostante la
disastrosa situazione della sinistra in
Italia, che continua a persistere e che di
certo non favorisce la nostra attività.
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popolo. Sofferenze e dolore che erano
le dirette conseguenze di un sistema di
sfruttamento
capitalistico
che
dissanguava e depredava il suo popolo.
Questo rivoluzionario africano, che non
era un marxista classico ma molto di
più di molti sedicenti tali che circolano
nella sinistra in Europa, affermava che
“l’imperialismo
è
un
sistema
di
sfruttamento che non si presenta solo
nella forma brutale di coloro che
vengono con dei cannoni a occupare un
territorio, ma più spesso si manifesta in
forme più sottili, un prestito, un aiuto
alimentare, un ricatto”. E in questa
analisi è condensato ancora tutto il
problema dei popoli del Sud del mondo,
e non solo.
La Copertina
Andrea Genovali*
“Thomas Sankara: la coerenza e
la dignità di un Rivoluzionario.
Una lezione anche per tutti noi”
Thomas Sankara, un nome sconosciuto,
per molti anche a sinistra, è stato il
protagonista dell’ultima Vera rivoluzione
che si è avuta. Per questo gli abbiamo
voluto dare la copertina del nostro
nuovo numero di Oltre Confine.
Thomas
Sankara
comprese
che
l’imperialismo si batte unendo la
implementazione di politiche altre
rispetto a quelle del capitalismo e lo si
sconfigge definitivamente sul piano
culturale. Il messaggio che questo
uomo trasmise al suo popolo e a tutti i
popoli della terra era, ed è, quello di
una decolonizzazione della nostra
mentalità.
Sankara negli anni Ottanta, era il 1983,
effettuò una rivoluzione nell’allora Alto
Volta, che restituì dignità, coraggio e
speranza al “Popolo degli Uomini
Integri”, appunto il Burkina Faso.
Sankara restituì dignità al popolo
burkinabè
e
ai
popoli
d’Africa
riscattandoli dal tradimento delle elites
politiche, che avevano studiato in
Europa e negli USA, e delle borghesie
africane che si erano asservite alle
multinazionali e all’imperialismo di
matrice statunitense ed europea.
Un
messaggio
rivoluzionario
dirompente. Un pensiero che ancor oggi
è attuale, anche per l’Italia se solo
pensiamo al sistema autoritario del
berlusconismo sostenuto e foraggiato
dal sistema dei media che hanno
omologato il pensiero e il senso comune
di quasi 60 milioni di persone. Egli fece
una battaglia reale per l’egemonia
culturale
e
non
chiacchiere
intellettualoidi.
Sankara si battè contro il cappio
mortale del debito estero affermandone
il carattere criminale e oppressivo per i
popoli che lo subivano e condannò,
senza il minimo tentennamento, le
organizzazioni criminali, come lui le
descriveva, del FMI e della Banca
Mondiale. Sankara assunse come suo
fondamentale compito quello di lottare
per alleviare e sconfiggere il dolore e le
sofferenze che affliggevano il suo
Dunque lotta politica contro il sistema
di
sfruttamento
capitalista
e
decolonizzazione della mentalità.
Ma egli, proseguiva nella sua analisi,
contestava anche le politiche di
cooperazione che dal Nord arrivavano al
Sud del mondo. Infatti, denunciò che la
politica degli aiuti serviva, e serve
ancora basti guardare ad Haiti, solo per
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asservire i popoli, a distruggere le loro
economie. Contro tutto ciò, egli
affermò, che la risposta non può che
essere politica di fronte allo scandalo,
che prosegue anche oggi, di funzionari
delle
agenzie
internazionali
che
all’epoca citando la FAO, asserì che con
i loro stipendi mensili si sarebbero
potute far aprire mensilmente OTTO
scuole!!
residenze per ospitare diplomatici
stranieri. Egli visse senza privilegi, li
rifiutava perché che credibilità poteva
avere un politico del Burkina se avesse
avuto privilegi che i suoi abitanti non
potevano avere? Egli girava da solo,
senza scorta, con la sua R4 scassata,
portava i diplomatici a vedere il suo
paese, a far conoscere la sua gente
perché con essa dovevano parlare e
non con funzionari ben vestiti e in uffici
con l’aria condizionata. Sembrano gesta
di tempi lontani ed eroici mentre invece
parliamo del 1987 e di uomini normali,
ma con grande dignità e coerenza fra
ciò che dicono e ciò che fanno
realmente. Merce rara anche ai nostri
giorni!
Ma Sankara andava eliminato perché
stava dimostrando che anche in Africa,
dopo Cuba e vari paesi asiatici, si
poteva
costruire
un
futuro
completamente
diverso
da
quello
prospettato dal capitalismo.
Egli
si
pose
la
questione
dell’autosufficienza alimentare e della
decolonizzazione della mente come
pilastri centrali del nuovo paese degli
“uomini integri”. Attraverso questi due
capisaldi era riuscito in pochissimi anni,
non più di 4, a sganciare il Burkina dal
cappio del debito, e riuscì a compiere il
“miracolo”, che miracolo non era ma
solo politiche adeguate ai bisogni del
suo popolo, di poter dare ad ogni
abitante del Burkina due pasti e dieci
litri di acqua al giorno.
Quella rivoluzione degli “Uomini Integri”
fu stroncata nel momento giusto dal
traditore
Blaise
Compaoré,
allora
braccio destro di Sankara, che lo fece
assassinare e d’allora prese il suo posto
per conto degli Stati Uniti. Il Burkina fu
“normalizzato” dopo l’assassinio di
Sankara, il cui corpo non è mai stato
ritrovato come volerne annullare anche
la memoria. Oggi in pochi sanno, anche
a
sinistra
e
nel
mondo
della
cooperazione, che Compaoré fu il
mandante e che il Burkina è di nuovo
un
paese
poverissimo
perché
l’imperialismo lo ha di nuovo fatto
rotolare nella polvere grazie a questo
lacchè!
Costruì una infrastruttura sociosanitaria
dal niente in cui versava l’Alto Volta,
aumentò la scolarizzazione, lottò con
evidenti
successi
contro
la
desertificazione e portò le donne ad
assumere
incarichi
di
grande
responsabilità nel nuovo paese che si
stava creando. Con grande coraggio e
nettezza disse in faccia ai signori del
FMI che non avevano niente da
insegnare ai burkinabè perché loro in
pochi anni avevano creato un vero stato
dalle macerie che Lor Signori avevano
fatto del suo paese.
Ma la forza di Sankara, la sua credibilità
come uomo e come rivoluzionario, fu
quella di applicare il rigore anche a sé
stesso. Niente lussi, niente scorte,
niente auto blu, niente aerei, niente
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Sankara ha dimostrato che anche in
Africa vi è la possibilità di poter vivere
in modo degno e umano. Il capitalismo
ha dimostrato la sua barbarie e ci fa
ogni giorno capire che esso non si può
riformare perché i suoi cromosomi sono
di morte, sopraffazione, violenza e
dominio del più forte sul più debole.
Gino Barsella
“Sankara: vivo nella gente”
13 dicembre 1998 a Sapouy, 100
chilometri dalla capitale del Burkina
Faso: nella carcassa bruciata di
un’automobile ci sono quattro corpi
senza vita. La mattina dopo, nelle
strade di Ouagadougou le voci si
rincorrono: Norbert Zongo è morto…
Impossibile… Un incidente? o forse un
omicidio… Dopo dodici anni il mistero
sembra ancora irrisolto.
Sankara diceva che “per ottenere un
cambiamento radicale, bisogna avere il
coraggio di inventare l’avvenire. Noi
dobbiamo osare inventare l’avvenire.
Tutto
quello
che
viene
dall’immaginazione dell’uomo è per
l’uomo realizzabile. Di questo ne sono
convinto”. Il nostro compito è allora
quello di fare in modo, o almeno di
provarci veramente, a non far essere la
morte di Thomas Sankara una nuova,
ennesima, morte inutile. Chissà se ne
saremo capaci molto più che finora.
*Resp. Relazioni Internazionali PdCI
Giornalista per vocazione, Norbert
Zongo aveva 49 anni il giorno della
strage. Ma non solo giornalista:
fondatore e direttore del giornale
l’Indépendant, scrittore, sceneggiatore,
conferenziere, militante per i diritti
umani,
leader
di
associazioni,
fotografo… Estremamente popolare, ha
lasciato un segno per il suo spirito
d’indipendenza e la sua fede in tutte le
libertà.
Per approfondire la conoscenza di
questo grande rivoluzionario
africano vi suggeriamo la lettura di:
“L’Africa di Thomas Sankara
Le idee non si possono
uccidere”
di Carlo Batà Edizioni Achab Verona
«Era diventato in qualche maniera, e
solo lui, un potere, la speranza per tutti
– dice Abdoullahi Djallo, direttore del
Centro Zongo –. Si diceva, tutti i
martedì, leggendo l’Indépendant, che
almeno c’era qualcuno che cercava di
riflettere su come il paese doveva
progredire.
Zongo
era
divenuto
un’icona, per le virtù che incarnava, per
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adorazione,
il
suo
bisogno
di
protezione. I pesci siluro, pesci sacri
che vivono in laghetti santuario, con la
loro accettazione del cibo mediano la
benevolenza
divina
sull’offerta
presentata. Mentre nel lago di Sabou
sono i coccodrilli sacri, ai quali si
sacrificano i polli votivi, a fare da
intermediari con la divinità. Il mistero
della natura avvicina inevitabilmente al
mistero di Dio. Così la falesia di Sindou,
formazioni
rocciose
magiche
e
spettacolari,
oggi
patrimonio
dell’Unesco, sono anche il luogo sacro
dove i giovani, per due settimane,
affrontano le asperità dell’iniziazione
alla vita.
la qualità del suo lavoro giornalistico
professionale e inattaccabile».
Zongo puntava il dito contro i mali delle
società africane: corruzione, affarismo,
intolleranza, esclusione e culto della
personalità.
Si era trovato a indagare su una morte
per tortura: quella dell’autista del
fratello del presidente della Repubblica
Blaise Compaoré. E non mollava la
presa, al punto che il dossier aveva
cominciato a fare troppo rumore. «E
dato che non lo si poteva né intimidire
né corrompere – continua Djallo –, la
sola
soluzione
che
restava
era
l’eliminazione fisica. Come dice in ogni
caso il rapporto della commissione
d’inchiesta, Norbert Zongo è stato
assassinato a causa delle sue inchieste,
in particolare quella che disturbava il
sistema politico al potere».
È la profondità del mistero che da forza
ed
energia
a
chi,
nonostante
incancrenite povertà e difficoltà, sa
essere vivo e ripartire verso la vita. Lo
mostra la leggenda del saggio che,
quando muore, avrebbe ancora molte
cose da raccontare. La sua energia si
sprigiona e fa crescere il gwinni, l’albero
dal quale si costruisce il balafon. Ogni
striscia di legno è la lingua di un
saggio; e ogni volta che suona il
balafon, sono i saggi che parlano e
attraverso la musica diffondono la loro
saggezza.
La morte di Norbert Zongo provocò
un’ondata di protesta. Una marea di
gente ha accompagnato gli undici
chilometri del suo corteo funebre,
esprimendo lo sdegno contro le insegne
del partito al potere e reclamando
giustizia. Il caso è comunque tutt’altro
che risolto: infatti, colpevoli e mandanti
sono ancora sconosciuti, e il processo si
è insabbiato.
Il balafon è il simbolo di un popolo che
vive della musica tradizionale ma non
frena la sua vivacità culturale. Un
popolo che sa essere capace di
inventiva e creatività, per esempio
organizzando rassegne internazionali di
cinema e artigianato; ma che al tempo
stesso sa tenere ben salde le radici
nella propria terra, non disdegnando
l’agricoltura
come
base
per
la
sussistenza e lo sviluppo.
Ma questo omicidio ha lasciato il segno,
e da allora qualcosa ha cominciato a
muoversi. Piccolo, soprattutto perché
povero e poco conosciuto, il Burkina
Faso è innanzitutto un paese di misteri,
un paese intenso e creativo dal punto di
vista culturale e religioso.
Il fascino delle sue bellezze naturali
fanno sempre da sfondo alle ataviche
tradizioni rituali nelle quali l’umano
cerca il contatto con il divino e gli
presenta i suoi problemi, la sua
11
Il mistero, l’integrità, la capacità di
ripartire… Il Burkina Faso sembra averle
dentro da sempre. Anche la storia ne è
testimone.
Sankara rendeva concreti i suoi sogni:
«Per un cambiamento radicale – diceva
– dobbiamo osare inventare l’avvenire.
Ma per essere credibili non possiamo
essere la classe dirigente ricca di un
paese povero».
15 ottobre 1987, giovedì. È il giorno
dello sport di massa. Sankara corre con
la scorta. In un agguato sono uccisi
tutti e tredici. La mano che colpisce il
giovane capitano si affretta anche ad
assumerne il potere.
4 agosto 1983: la rivoluzione guidata
dal capitano Thomas Sankara trasforma
l’Alto Volta, vecchio nome coloniale, nel
Burkina Faso, “la terra degli uomini
integri”. L’anno seguente, di fronte
all’Assemblea
generale
dell’Onu,
Sankara dirà: «Vi porto i saluti di un
paese dove sette milioni di bambini,
donne e uomini si sono rifiutati di
morire di fame, di sete e di ignoranza».
Aveva descritto il proprio paese come
«il concentrato di tutte le disgrazie dei
popoli, una sintesi dolorosa di tutte le
sofferenze dell’umanità». Dopo quattro
anni la rivoluzione di Sankara si
interrompe
bruscamente,
ma
era
riuscita a dare due pasti e dieci litri di
acqua al giorno ad ogni burkinabè,
aveva fatto costruire dighe, scuole,
postazioni di pronto soccorso, e aveva
fatto vaccinare tutti i bambini. È il
percorso
che
porterà
anche
all’eliminazione di Norbert Zongo, ad
opera della stessa classe politica oggi al
potere.
Un
percorso
che
passa
attraverso tredici tombe nel cimitero di
Dagnoen, un vasto spazio aperto, quasi
una
discarica,
nella
periferia
di
Ouagadougou.
«Thomas Sankara – afferma Felix Koffi
Amétépé, giornalista del Journal de
Jeudi – è il simbolo, qui in Burkina,
della volontà dell’africano che vuol
prendere in mano il proprio destino. E
non solo in Burkina, ma ovunque in
Africa dove si è sentito parlare di
quest’uomo. Adesso, dato che quelli che
hanno messo fine alla sua azione in
Burkina Faso sono gli stessi ancora al
potere, è un po’ difficile fare il suo
elogio. Perché parlare oggi di Thomas
Sankara è come fare ombra al
presidente Blaise Compaoré».
Ecco di nuovo il mistero da cui sgorga
nuova vitalità… Così ogni anno, il 15
ottobre, uomini e donne, anziani e
bambini, giovani e studenti vanno in
pellegrinaggio dal capitano Sankara.
Oggi Blaise Compaoré, l’amico fidato e
numero due di Thomas Sankara,
l’orchestratore occulto della strategia
delle stragi, è ancora al potere. La sua
parola d’ordine era “rettificazione”. Le
sue scelte di riallineamento alle
politiche
del
Fondo
Monetario
Internazionale e della Banca Mondiale e
di accettazione delle condizioni imposte
Sankara è stato il precursore di un
nuovo modello di sviluppo fondato sulle
risorse africane. Sognatore e visionario,
12
i partiti politici
tangenti».
– dai programmi di aggiustamento
strutturale alle privatizzazioni selvagge
– vengono pagate dalla gente. Tornano
in
forza
corruzione,
nepotismo,
concussione, affarismo di stato… E nel
novembre 2005 Blaise Campaoré,
presidente della repubblica uscente
della “Terra degli uomini integri” ha
vinto
nuove,
ulteriori
elezioni.
«D'altronde – puntualizza Felix Koffi
Amétépé –, tra i tredici candidati che si
erano presentati, Blaise Compaoré era
l’unico che veramente aveva i mezzi per
fare una vera campagna e vincere le
elezioni».
che
ricevono
le
È un mistero di tenebra… Ma tra le
righe della storia una luce emerge
sempre più brillante. La strada, in
salita, porta verso la libertà e la
democrazia. Ed è pavimentata con le
esperienze concrete di molti. Thomas
Sankara e Norbert Zongo vivono oggi in
un ritrovato coraggio, da parte dei
giornalisti in particolare, ma anche di
tutta la società civile. «Bisogna dire che
in Burkina – riprende Felix Koffi
Amétépé – i giornalisti godono di una
relativa
libertà
di
stampa
e
d’espressione. Giusto nel 1998 siamo
arrivati al colmo, cioè per la prima volta
un
giornalista
è
stato
ucciso
nell’esercizio della propria professione.
A partire da quell’assassinio orribile
molti giornalisti hanno preso coscienza
del loro potere e, dunque, quel
momento ha permesso veramente ai
giornalisti di riorganizzarsi attorno alla
Casa della stampa, ribattezzata Centro
Norbert Zongo dopo l’assassinio del
giornalista».
«Gli altri candidati – interviene Cheriff
Sy, presidente degli editori della
stampa privata – non avevano i mezzi
per fargli concorrenza. Bisogna uscire
dagli schemi occidentali per apprezzare
le problematiche delle elezioni in Africa.
Qui c’è una popolazione di cui il 90%
sono analfabeti; c’è una miseria, un
livello di vita così miserabile che per
meno di un euro si può acquistare un
voto. Dunque, il candidato del potere
ha i mezzi dello stato… dunque è colui
che ha il potere di vincere». Usciamo
pure dal modo di pensare occidentale;
ma è la corruzione, su cui Sankara e
Zongo puntavano con chiarezza il dito,
il vero cancro universale, ieri come oggi
e, se non lo combattiamo, anche
domani. «La corruzione – dice Ali MontRose, disegnatore satirico ciadiano da
dieci anni in Burkina Faso – è un vero
problema, anche nella vita di tutti i
giorni. Come giornalisti, a volte
vengono dati dei soldi non richiesti…
quando ci sono dei reportage da fare ci
chiamano e ci danno delle buste. Non
ha un altro nome e si chiama
corruzione. E in questo momento tocca
anche la politica; e in questo caso sono
Ma non sono solo i giornalisti ad avere
un ruolo come vere e proprie sentinelle
della democrazie. «Renlac – dice
Damiba Luc, coordinatore della Rete
nazionale contro la corruzione – è una
rete di più organizzazioni della società
civile che cerca di portare il proprio
contributo
nella
lotta
contro
la
corruzione in Burkina
Faso. Noi
denunciamo,
sensibilizziamo
e
proponiamo le soluzioni per lottare
contro la piccola e grande corruzione,
ma anche per fare delle riforme
strutturali
per
rinnovare
l’amministrazione pubblica, le ong e il
settore privato. Ogni anno produciamo
un rapporto per conoscere lo stato della
corruzione nel paese e trasmettere
13
d’alternanza. Ma finché il dossier Zongo
– così come quello Sankara – non si
risolve, continuerà a tornare ogni
volta».
raccomandazioni».
La
libertà
di
espressione e stampa non è scontato in
un paese dove il 90% delle persone
sono analfabete e solo il 3% può
acquistare regolarmente un giornale.
«Questo significa – sottolinea Cheriff Sy
– che la libertà di espressione è
relativa, e bisogna lavorare per
allargarla. Per questo inviamo i giornali
in ogni villaggio in Burkina, nonostante
i costi di questa operazione a fronte dei
pochi giornali venduti. Basta che ci sia
una scuola nel villaggio, il che significa
che ci sono almeno sei insegnanti e un
infermiere, cioè almeno sette persone
che sanno leggere e che passeranno
agli altri le informazioni».
«Blaise Compaoré – conclude Cheriff Sy
– è stato rieletto e continuerà a tenere
le mani saldamente sul potere. Ma
questo, in qualche maniera, fa anche
avanzare la democrazia. Perché non si
può abusare della sovranità della
popolazione. Si può guadagnare oggi, si
può rubare voti oggi, si può dominare
oggi, ma io mi dico che ogni volta che
spingete un uomo verso un muro, a un
certo momento, arrivato spalle al muro,
questo uomo non potrà più arretrare e
dovrà per forza avanzare. A un certo
momento la popolazione reagirà. Ci
vorranno anni, ma a un certo momento
la gente avrà le spalle al muro e dovrà
avanzare per forza, e questo è il
momento che il popolo affermerà la sua
sovranità; e sarà bello vedere questo
giorno».
Così il paese degli uomini integri è più
che mai in fermento e il dossier Zongo
rimane aperto. «È sempre là – ricorda
Djallo –, e conserva la sua carica
esplosiva. I politici non hanno saputo
recuperarlo e utilizzarlo contro il potere.
Non abbiamo una buona classe politica
capace di
proporre
un
progetto
14
morte (…). Il comitato considera che il
rifiuto di portare avanti un’inchiesta
sulla morte di Sankara, il non
riconoscimento ufficiale del luogo di
sepoltura e la mancata rettifica dell’atto
di morte costituiscono un trattamento
disumano verso Mme Sankara e i suoi
figli…» e al paragrafo 12.6. «…il
Comitato considera che, contrariamente
agli argomenti del partito di Stato,
nessuna prescrizione porterebbe alla
nullità del procedimento dinanzi al
giudice
militare,
e
pertanto
la
responsabilità della mancata denuncia
del caso al Ministero della Difesa spetta
al Procuratore, il solo abilitato a
farlo...»
www.resistenze.org
22° Commemorazione della morte
di Thomas Sankara e l’iniziativa
della Campagna internazionale di
giustizia per Sankara
L’assassinio di Sankara e di una dozzina
di suoi compagni e la serie di crimini
politici che si sono succeduti, hanno
chiuso in modo sanguinoso una delle
ultime esperienze rivoluzionarie in
Africa. In questo periodo di crisi
economica,
finanziaria,
alimentare,
ambientale caratterizzata da instabilità
politica e svendita delle risorse del
continente
africano,
lo
sviluppo
autonomo e il panafricanismo di
Sankara non sono più di attualità. Il
popolo del Burkina, la popolazione
africana e la comunità internazionale
aspettano ancora di conoscere le
circostanze di questo assassinio ed il
suo o i suoi responsabili. L’impunità
eretta a sistema in Burkina è stata
intaccata da dodici anni di sforzi della
CIGS (Campagna Internazionale di
Giustizia per Sankara) e di combattività
del popolo burkinabé. Si ricorda che
dopo aver esaurito tutti i ricorsi
giudiziari in Burkina Faso, il suo
Collettivo giudiziario aveva portato il
caso davanti al Comitato dei Diritti
dell’Uomo dell’ONU. Quest’ultimo aveva
creato un precedente in Africa e in seno
all’ONU riconoscendo le violazioni del
partito di Stato: «il rifiuto di condurre
un’inchiesta sulla morte di Thomas
Sankara, il non riconoscimento ufficiale
del luogo di sepoltura e la mancata
rettifica dell’atto di morte costituiscono
un trattamento inumano verso Mme
Sankara e i suoi figli, contrario
all’articolo 7 del Patto (par. 12.2). La
famiglia di Thomas Sankara ha il diritto
di conoscere le circostanze della sua
Tuttavia il Comitato dei Diritti dell’Uomo
non chiedeva espressamente il diritto di
inchiesta,
ma
pretendeva
una
compensazione
economica
e
il
riconoscimento del luogo di sepoltura. Il
Burkina Faso dal canto suo non ha
portato nessuna prova a riguardo.
Inoltre
la
somma
offerta
come
risarcimento alla famiglia ammontava
appena a 43.445.000 Franchi CFA,
ossia 66.231,475 euro, o 65.000$, una
somma equivalente alla pensione del
defunto Sankara ai suoi aventi diritto.
Mentre alcuni esperti si sbagliavano
nella conversione aggiungendo uno zero
all’indennità (650.000 $ - 434.450.000
FCFA), altri consideravano che il partito
di Stato aveva fatto molti sforzi nel
depennare la parola « naturale » dai
falsi
certificati
di
morte
che
dichiaravano che il Presidente Sankara
era
deceduto
appunto
di
morte
naturale. Nonostante la rettifica della
cifra da parte degli avvocati e
l’evidenza che il pellegrinaggio dei
sostenitori di Sankara alle presunte
tombe non potesse servire da prova, il
Comitato dei Diritti dell’Uomo nell’aprile
15
ha sparato personalmente a Sankara e
che questo colpo di Stato è stato un
complotto
internazionale
che
ha
beneficiato anche dell’appoggio della
CIA. Un altro giornalista, Keith Harmon
Snow, in un’intervista con il suo collega
Norbert Zongo assassinato poi dal
regime di Compaore, aveva anche lui
confermato l’implicazione del Mossad e
della
CIA
nell’assassinio:
www.allthingspass.com/journalism.php
?jid=4
2008 si dichiarava soddisfatto «al
termine di ininterrotti accertamenti… e
senza l'intenzione di esaminare oltre
tale questione».
Ma la CIGS persiste nella sua lotta
contro l'impunità tanto più che il
Burkina
Faso
ha
continuato
ad
accumulare altre violazioni, passibili di
essere perseguite, e nuove rivelazioni di
alcuni protagonisti su questo tragico
caso avrebbero dovuto portare il Paese
ad aprire un'inchiesta o almeno a
fornire finalmente la versione ufficiale
dei fatti. In realtà alcune confessioni
inedite che rinforzano le affermazioni
del Generale Tarnue, già considerate
come prove dalla CIGS, il Senatore
liberiano
Johnson,
davanti
alla
Commissione di Riconciliazione, ha
imputato l'omicidio di Sankara al
Presidente Compare, al suo regime ed
alle connivenze con l’ex-Presidente
Taylor. Quest’ultimo, contro-interrogato
dal Tribunale Penale de L’Aia il 25
agosto 2009 (pagina 270632), ha
negato sostenendo che in quel periodo
era agli arresti in Ghana, ma si è
smentito
sulla
colpevolezza
di
Campaore, prima di ritrattare (Ero
ancora rinchiuso in prigione quando
Blaise Compaoré ha ucciso tutti durante l'assassinio di Thomas Sankara,
perché non posso dire che ha ucciso,
ma non lo ha fatto da solo. Io ero in
prigione in Ghana…)
Tutti questi testimoni dicono di temere
per la loro vita e rifiutano di fornire
maggiori dettagli su questo caso.
Quest’ultimo, più che mai, preme
affinché i paesi coinvolti aprano i loro
archivi e i testimoni diano la loro
versione per permettere che la verità
emerga e che i burkinabé possano
“voltare
la
pagina
dell’impunità”.
Il Presidente Blaise Compaore, il
presunto
responsabile
di
questo
assassinio,
è
stato
recentemente
nominato Mediatore della crisi in Guinea
dopo la sanguinosa repressione dei
manifestanti. Al microfono di RFI,
Compaore dichiara senza battere ciglio:
«non possiamo tollerare che in Guinea
ci siano ancora discussioni su persone
disperse di cui non si trovano i corpi»
Però il corpo di Thomas Sankara non è
mai stato ritrovato, ed è per questo che
è stata fatta una denuncia di sequestro
da Dieudonné Nkounkou, avvocato al
Tribunale di Montpellier che non ha
ancora ricevuto risposta dalle autorità
giudiziarie del Burkina Faso.
In un documentario della RAI «Ombre
Africane» un altro liberiano, il Generale
Momo Jiba, che è stato la guardia del
corpo di Blaise Compaore, conferma le
opinioni di Tarnue e di Johnson,
riportando
chiarimenti
inediti
sull’assassinio di Thomas Sankara.
Sostiene, davanti ad una telecamera
nascosta, di aver assistito all’omicidio e
soprattutto che il Presidente Campaore
Il Collettivo della CIGS [1], oltre che la
famiglia
Sankara,
riferendosi
alla
decisione dell’ONU, vogliono sapere se
la tomba costruita dallo Stato burkinabé
è veramente quella di Thomas Sankara.
È la ragione per cui, il 15 ottobre 2009,
16
Chavez lo ha presentato citando a lungo
Thomas Sankara e il suo discorso del
1984, per spronare i suoi ospiti africani
e promuovere l’esperienza bolivariana:
«potremmo
cercare
forme
di
organizzazione migliori, più adatte alla
nostra civiltà, rifiutando in modo chiaro
e definitivo ogni forma di imposizione
esterna, per creare condizioni degne,
all’altezza delle nostre aspirazioni. Porre
fine alla condizione di sopravvivenza,
liberarci dalle pressioni, liberare le
nostre
campagne
dall’immobilismo
medievale, democratizzare la nostra
società, innalzare gli spiriti ad un
universo di responsabilità collettiva, per
osare inventare il proprio futuro».
il Collettivo, rappresentato da Me
Djammen Nzépa, avvocato al Tribunale
di Tolosa, sta per aprire una procedura
giudiziaria per sottoporre a perizia le
tracce genetiche del corpo sepolto al
fine di compararle con quelle prelevate
ai due figli di Sankara.
In una nota di ringraziamento al GRILA
[Group for Research and Initiatives for
the Liberation of Africa] e agli avvocati,
Mariam Sankara, vedova di Thomas, ha
dichiarato: «siete i pionieri della difesa
della memoria del mio sposo. Se molti
altri hanno ripreso ad interessarsi a lui
è grazie a voi. Avete il merito e il
coraggio d’avere portato avanti la mia
richiesta di verità sull’omicidio di
Thomas Sankara…». Questa frase di
Seneca lo illustra: «Non è perché è
difficile che non si osa. È perché non si
osa che è difficile».
Questa lotta, il popolo del Burkina Faso
l’ha capita e può contare sull’appoggio
della CIGS perché come sosteneva
Sankara: là dove si sconfigge lo
scoraggiamento, si eleva la vittoria dei
perseveranti!
In un messaggio rivolto al suo popolo in
occasione della 22° commemorazione,
Mariam Sankara, riprendendo il detto
popolare: «qualunque sia la lunghezza
della notte, il giorno apparirà», ha
lanciato un appello all’unità, alla
resistenza
e
alla
determinazione
ricordando come il messaggio e
l’obiettivo di Sankara sono ancora
attuali. Recentemente, in vista del
Summit
dell’Africa
e
dell’America
Latina, il Presidente venezuelano Hugo
Note
[1] Collettivo della CIGS: (Maîtres
Nargess Tavassolian, Aïssata Tall Sall,
Jean Abessolo, Catherine Gauvreau,
Charles Roach, Dieudonné Nkounkou,
Gaston Gramajo, Ferdinand Djammen
Nzépa, John Philpot, Vincent Valai,
Neda Esmailzadeh, Patricia Harewood,
William Sloan e l’Ufficio Sankara)
17
anche riconosciuto dalla madre Reyna
Luisa Tamayo, che nel frattempo dal
2003 si è vincolata alla cosiddetta
“dissidenza” e riceve denaro da
fondazioni
controrivoluzionarie
che
hanno la loro sede negli Stati Uniti e
che hanno come scopo la caduta
dell’attuale repubblica cubana anche
attraverso attentati terroristici, tanto
per essere chiari.
Grandangolo
Andrea Genovali*
“Caso Zapata. Basta con le
menzogne contro Cuba”
Basta con le solite menzogne su Cuba.
Ieri è arrivata la notizia della morte in
carcere per sciopero della fame di un
sedicente “dissidente” tal Orlando
Zapata Tamayo e questa notizia è
bastata per alzare un polverone contro
Cuba a prescindere dalla realtà.
Il 3 di febbraio del 2010 egli ha un
attacco di febbre che scompare dopo un
giorno.
Gli
viene
accertata
una
polmonite che viene curata con
antibiotici e con tutte le terapie più
avanzate. Quando la malattia degenera
e colpisce entrambi i polmoni viene
assistito con la respirazione artificiale
fino a quando il suo cuore non regge
più.
Noi adesso cerchiamo di ristabilire un
po’ di verità.
Chi è Orlando Zapata? Egli è un
criminale comune, non uno dei “famosi”
75 dissidenti del 2003, che quando nel
2001, che dopo aver già fatto un bel po’
di carcere per reati come la detenzione
di armi, atti osceni in luogo pubblico,
lesioni
a
pubblico
ufficiale,
destabilizzazione dell’ordine pubblico
ecc. ecc, è stato contattato dai contro
rivoluzionari di Miami.
Noi non pensiamo che chi odia Cuba e
la sua rivoluzione crederà a questo ma
speriamo che questi signori credano
almeno alla madre di Zapata che ha
affermato che suo figlio è stato assistito
al meglio.
E dato che lui era un criminale ma non
uno stupido deve aver pensato che
quello era un bel modo per fare un bel
po’ di denaro. Inoltre, lui non aveva
niente da perdere.
Dopo di che a nessuno di questi signori,
politici e giornalisti che odiano Cuba,
frega niente che in Italia siano già morti
da gennaio suicidi nelle patrie carceri
almeno 10 persone. Perché questo
imporrebbe una riflessione su noi stessi
e sulla nostra democrazia che vogliamo
invece nascondere e rimuovere.
Ma la sua indole di provocatore e
violento non lo lascia e nel 2003 rientra
in carcere ed è di nuovo protagonista di
violenze contro i funzionari delle carceri
che aggredisce fisicamente.
Gli Stati Uniti poi dovrebbero solo stare
zitti e vergognarsi della loro crudeltà
contro Cuba ad iniziare dal più longevo
e ingiusto blocco economico del mondo.
Il 18 dicembre del 2009 inizia uno
sciopero della fame e rifiuta qualsiasi
tipo di assistenza medica. Ma Cuba
nonostante il suo diniego lo trasferisce
prima nel centro di soccorso del carcere
e poi in un ospedale di Camaguey e poi
all’ospedale dei detenuti dell’Avana.
Essi, inoltre, hanno ancora
aperta
l’aberrazione del lager di Guantanamo
dove hanno torturato decine e decine di
innocenti e che detengono illegalmente
da 11 anni, in violazione dei loro diritti
umani e dello stesso diritto statunitense
e internazionale, 5 cubani che agivano
per sventare attacchi terroristici contro
Cuba organizzati dai contro rivoluzionari
Egli viene sottoposto alle analisi del
caso e gli viene prestata tutta
l’assistenza medica del caso fino alla
sua scomparsa. E questo fatto viene
18
di Miami. Gli stessi che pagavano
Zapata e che pagano ancora la madre
del deceduto.
anche i motivi per cui esso può essere
sorto.
*Resp. Relazioni Internazionali PdCI
Ma come si sa per gli Stati Uniti e i
media ruffiani che li sorreggono esiste
un terrorismo buono, che difende gli
interessi Usa, che va difeso e sostenuto
e uno cattivo, che va contro gli interessi
Usa, che va perseguito e distrutto.
Noi pensiamo, come i cubani, che il
terrorismo è sempre un male che va
combattuto e sradicato, affrontando
19
congiunte
d’occupazione
sono
impossibilitate a ottenere il minimo
risultato. Inoltre il portavoce dei
talebani, Qari Youssuf Ahmadi, ha
annunciato lo spostamento di 2000
combattenti nell’area a rinforzo dei
propri capisaldi.
Marco Zoboli*
“Afghanistan: Ultimo atto”
L’offensiva statunitense e degli alleati
prende corpo nel distretto di Marjah,
nella provincia dell’Helmand, l’azione
congiunta delle forze di occupazione
assieme alle forze della corrotta
oligarchia di Karzai semina le prime
stragi di civili nel presunto tentativo di
strappare terreno alla resistenza.
Nelle truppe regolari dell’Ena (Esercito
Nazionale
Afghano)
impiegate
nell’Helmand appena i 3 – 4% dei
militari è di etnia pashtun, il 96% è
rappresentato da truppe selezionate tra
la minoranza tagika e altre etnie del
nord legate a signori della guerra oggi
alleati di Karzai e che siedono al suo
fianco in quel teatro dell’assurdo che
qualcuno chiama governo. L’operazione
Moshtarak
si
preannuncia
come
un’operazione di pulizia etnica, punta a
colpire la popolazione civile e a
eliminare le fonti di sostentamento
dell’area; nell’impossibilità di pescare i
talebani con le proprie reti la politica
genocida imperialista ancora una volta
si rivolge sulla fauna e la flora del
territorio. I corpi straziati dei bambini
afgani colpiti dai bombardamenti non
sono vittime o errori collaterali ma
obiettivi militari, come testimoniano
anche le diverse “regole d’ingaggio”
adottate per l’occasione, dove i
bombardamenti
non
rientrano
in
interventi
straordinari
regolati
da
richieste motivate sul campo di
battaglia,
ma
come
routine
a
discrezione dell’ufficiale richiedente.
Sul terreno, oltre alle tredici vittime Isaf
dichiarate, cade anche il governo
olandese. Dopo una interminabile
seduta di 16 ore il primo ministro
Balkenende annuncia le dimissioni
dall’esecutivo dei ministri laburisti per il
mancato accordo sul ritiro del proprio
contingente dal teatro di guerra. La
forza politica del primo ministro, il CDA,
faceva propria la richiesta Nato di
mantenere sul terreno afgano una forza
ridotta sino all’agosto 2011, viceversa il
partito laburista chiedeva di onorare
l’impegno
del
ritiro
del
proprio
contingente entro fine anno… ciò che è
accaduto all’Haya è un segnale dei
tempi; la guerra in Afghanistan è persa
e considerata tale in seno a molti alleati
e membri dell’Alleanza Atlantica.
L’operazione
militare
“Moshtarak”
iniziata il 13 di febbraio e voluta dal
generale in capo dell’Isaf McChrystal e
che vede la partecipazione di 15.000
effettivi è votata alla sconfitta, per sua
natura comporta un dispiegamento di
uomini e energie ingenti da un lato
quanto
inadeguate
dall’altro;
se
calcoliamo che in questi
scontri
asimmetrici il rapporto tra truppe
regolari e insorti deve essere di 15 a 1
(come insegnano gli stessi manuali
contro insorgenti redatti dalla CIA) e
che
i talebani stimati per difetto
contano sulle 3.000 unità, le forze
Il problema per gli Stati Uniti è che il
tempo corre, galoppa, le truppe
d’occupazione
non
hanno
risorse
illimitate, l’impegno bellico statunitense
esce dai confini afgani, tocca oltre
all’Iraq altre aree strategiche che
richiedono un costante impegno di
risorse e mezzi, potremmo citare il
corno d’Africa e Puntland, cosìcome le
20
nuove basi militari in Colombia in
chiave antibolivariana; nel contempo la
crisi inesorabilmente avanza, i buoni del
tesoro statunitensi non vengono più
acquisiti da paesi terzi a copertura del
debito
e
le
finanze
di
guerra
dissanguano la fragile economia con un
dollaro che sempre meno egemone non
conosce il proprio futuro più prossimo.
azioni militari contro l’Iran divenuto
partner fondamentale per i paesi
asiatici e non solo nella guerra dei
tubi… il generale Makarov in una lucida
riflessione considera la minaccia bellica
su Teheran esercitata in chiave
antirussa
e
dalle
conseguenze
catastrofiche per tutta l’area ma anche
per gli Stati Uniti stessi che ritiene
impossibilitati a sostenere un terzo
fronte senza vedere sotto i propri occhi
implodere la propria debilitata macchina
militare. Tutti i giornali hanno parlato
del tentato golpe in Turchia risalente al
2003, ma poco si è detto su
l’organizzazione interna all’esercito che
l’ha promossa e sulla sua natura:
Ergenekon
è
una
Gladio
turca,
operativa e ramificata nei centri di
potere e dell’esercito, la sua natura
eversiva rientra nella simbiosi con gli
apparati
d’intelligence
statunitensi
tuttora attivi sebbene ridimensionati nel
teatro europeo. Il golpe in Turchia era
funzionale al ripristino di un’alleanza
con un paese parafascista che per
propri interessi sotto le vesti dell’attuale
governo filo islamico AKP ha ricercato in
questi ultimi anni una politica estera
smarcata dagli interessi Usa e nella
ricerca di un equilibrio che garantisse il
proprio ruolo di potenza regionale cui
ambisce. Anche questi retroscena sono
relazionati agli eventi del gioco asiatico
e alle pieghe che prenderà nei prossimi
mesi… il movimento è totale certo è che
in Afghanistan si stanno in un modo o
nell’altro giocando i destini e gli
equilibri del pianeta.
L’Afghanistan rappresenta
oggi la
piccola grande guerra che determinerà i
tempi e le modalità dello scemare
dell’influenza geopolitica statunitense
nel continente e non solo. Nei prossimi
mesi si giocano i destini degli attuali
precari equilibri geopolitici mondiali, la
neosessantenne Nato potrebbe uscirne
a pezzi, la stessa Europa con tutte le
sue contraddizioni potrebbe aprire gli
occhi
e
la
mente
e
ricercare
(finalmente?)
una
propria
politica
estera autonoma (ma non troppo) e
infilare un piede in una staffa che si
intravede tra Mosca e Pekino… intanto
minacciosi tamburi sionisti scandiscono
minacce di guerra su Teheran, Israele
con la sua diplomazia sta cercando di
convincere Cina e Russia ad accettare
*Resp. Asia PdC
21
gole profonde pronte
a rompere il
gioco. Una classe di gerarchi politicomilitari messa nell’angolo da un’altra
classe di gerarchi più giovane oggi
influente con amici al governo? Tutto
qui? Un uomo come il premier Erdogan
che gioca d’anticipo muovendosi come
un elefante nella cristalleria, preso da
un atto isterico, temendo di essere fuori
tempo massimo, ormai politicamente
inviso in patria e fuori?
Yuri Carlucci*
“Erdogan-Ergenekon: un
serpente che si morde la coda”
Sappiamo e sapremo sempre poco di
ciò che e’ realmente accaduto in
Turchia negli ultimi trenta anni. Una
rete di servizi ben qualificati ha quasi
sicuramente utilizzato lo stato ufficiale
per comporre un altro schema non
democratico, forte, sfruttando le risorse
che giungevano da altre democrazie
purtroppo colluse e compiacenti. La
ramificazione e’ stata quella ideale, la
più utile al fine di tenere a guinzaglio
tutto e tutti, già provata in sud-america
o in Italia: dagli imprenditori, alle
banche , dai ministeri all’esercito fino ai
giornalisti e agli studenti. Destabilizzare
senza dar nell’occhio.
La montagna di arresti messo in piazza
oggi dice per ora che alcuni magistrati
turchi e la polizia politica prendono per
buona l’ipotesi di un colpo di stato di
lungo respiro, già preparato da tempo,
da militari addestrati ed organizzati,
sia
metodologicamente
che
praticamente con attentati e omicidi
mirati. La qualità degli arresti e’ forse la
notizia vera. Sono alti generali o ex
generali di esercito e marina. Costoro
ordivano da una decina d’anni o forse
anche di più al fine di rovesciare
governi legittimi operando in campo
aperto con attentati, simulazioni e
coercizioni. Un piano “Balyoz” a
“martello”, martellare dunque colpo su
colpo, poco chiasso ma continuo.
Erdogan
potrebbe
essere
un
doppiogiochista: parla, mentre e’ in
visita all’estero, di un vecchio colpo di
stato e dice che arresteranno 40
generali e alti ufficiali, poi avvisa che il
pericolo non e’ finito, che ci si deve
attendere qualcosa d’altro, che bisogna
accelerare sulle riforme, che il cancro
non e’ estirpato con gli arresti e che
anche lui e’ in pericolo di vita, tanto da
girare
con
una
divisa
a
pelle
antiproiettile.
Le manifeste infiltrazioni che vengono
alla luce oggi, che viene arrestato
mezzo paese che conta,
dopo che
alcuni piani ben precisi erano stati
pubblicati in gennaio senza destare in
Europa tutto lo sgomento possibile, non
possono raccontare esattamente ciò
che e’ avvenuto in passato, ciò che lor
signori, e i loro amici di mezzo mondo
hanno creato. Sono verità parziali per
ora, inesatti sono i giudizi che corrono
nelle agenzie, ammesso che vi siano
Edogan governa un partito filo-islamico
in un Paese che e’ stato consegnato da
22
presidente, che significa il popolo turco
si era ribellato ai “padroni dello stato”
attraverso il voto.
Ataturk
ai
militari
affinché
lo
proteggessero
dalle
derive
confessionali, e che é al 99%
musulmano. Mentre parla dalla Spagna
in visita a Zapatero presidente UE di
turno, per perorare la causa europea
della Turchia, aggiunge che la “riforma”
più urgente e’ togliere all’esercito il
compito costituzionale della difesa dello
Stato laico, per cui si farà presto un bel
referendum. Contro-golpe?
Dopo questa sfilza di attacchi al
Governo, alcuni controproducenti,
si
volevano chiudere i conti. I militari
decisero di
appoggiare la
Corte
Costituzionale contro il partito AK al
governo. Erdogan si vide spacciato nel
2008 ma l’accusa si rivelò inconsistente
e il verdetto fu positivo per l’AKP.
Golpe, parola che si estende dal sudamerica fino all’Africa e alla Turchia.
Normalmente
sono
azioni
militari
preparate per rovesciare, una tantum o
quando serve, un governo in un tale
paese, eletto legittimamente, che
intende occupare tutte le posizioni di
scelta compresa il controllo del potere
militare. In Turchia la storia ci racconta
del golpe del 1960 con l’impiccagione
l’anno seguente sull’isola di Imrali del
premier Adnan Menenderes fondatore
del Partito Democratico messo sotto
processo anche per i pogrom di Istanbul
contro i greci ma inviso ai militari; poi il
colpo di stato del 1980 che ebbe larga
eco in tutto il mondo sfruttato dai
militari turchi per cementare il loro
primato
formulando
una
nuova
Costituzione tuttora in vigore. Nel 1997
i generali
si servirono della classe
imprenditoriale e dei giornali per
opporsi al governo in carica per paura
di che questi introducesse una forma di
sharia alla turca. Poi nel 2007 cambiò la
forma del golpe
si tramutò in
telematico:
un
avvertimento,
un
“avviso ai naviganti”, da parte dei
militari scosse la rete: la minaccia fu
chiarissima, “No a Gul presidente della
Repubblica” per via di una moglie
velata… Errore che i militari pagarono
perché il governo in carica ricevette un
mandato più forte e Gul divenne
Ergenekon viene fuori proprio a partire
dall’audizione del generale di Corte di
Cassazione Abdurrahman Yalcinkaya
nell’ambito del processo all’AKP. Se ne
parlava già da alcuni mesi ma proprio
nel luglio del 2008 i fermi di sospetti si
tramutano
in
arresti
eccellenti.
Ergenekon e’ il racconto di uno stato
nello stato, un sottobosco mafioso e
d’apparato,
massone,
che
trama,
interviene e si rende inossidabile nel
tempo (tanto e’ vero che nessun
processo e’ passato in giudicato ad
oggi). La polizia continua per tutto il
2009 ad arrestare grandi industriali e
persone della intellighenzia turca.
Sempre
con
lo
stesso
timbro:
appartenenza ad Ergenekon.
Oggi arriviamo gli arresti ai generali in
pensione e non. Il capo di Stato
maggiore Ilker Başbuğ non se la sente
23
amico dei servizi segreti di mezzo mondo,
italiano compreso: e’ l'ex comandante
della Prima Armata turca, tenente
generale Engin Alan, che ha curato le
operazioni
che hanno
portato alla
cattura di Abdullah Ocalan, il leader del
popolo kurdo che nel 1998 risedette in
Italia in attesa del riconoscimento dello
status di rifugiato, poi costretto a partire
con meta ignota sino al momento in cui
nel febbraio 1999 fu tratto in arresto
granché ti fare una tirata su ciò che
pensa di questa storiaccia: sono agli
arresti dei suoi colleghi e lui, intransigente
militare (e politico) da mesi urla che chi
sporca poi deve pulire bene, con la
carriere. Oggi non sbraita e questo fa
pensare che in qualche modo stia
proteggendo l’azione di Erdogan (e se
stesso). Una curiosità non da poco. A
guardar bene tra i nomi dei gendarmi
arrestati con varie accuse tra cui aver
diffuso dossier protetti o segreti c’e’ un
*Associazione Nazionale Azad
24
premier Jean Luc Dehaene, cristianodemocratico,
e
Guy
Verhofstadt,
liberale, insieme agli ex ministri degli
Esteri Luis Michel, liberale, e Willy
Claes, socialista e anche ex segretario
generale della Nato. ''E' impossibile
rifiutare agli altri Stati di acquisire armi
nucleari
se
ne
abbiamo
noi'',
argomentano i quattro esponenti politici
belgi secondo i quali ''le armi nucleari
tattiche americane in Europa hanno
perduto tutta la loro importanza
militare''. Il riferimento alla crisi con
l'Iran sulla questione nucleare appare
piuttosto
evidente.
Ad
essere
favorevole allo smantellamento da
tempo è anche il cancelliere tedesco
Angela Merkel che già nell’ottobre
scorso, dopo la sua rielezione, pose
come uno dei primi obbiettivi lo
stoccaggio delle armi nucleari ancora
presenti sul territorio tedesco. Proprio
l’impegno della Germania potrebbe
avere un peso importante, dato che
ospita un gran numero di quelle armi.
La richiesta prevede la rimozione delle
armi nucleari dal territorio europeo
“appartenenti ad altri Stati membri
della NATO" cioè gli USA.
a cura della redazione di
www.contropiano.org
“Via le atomiche USA dalle basi
in Europa. A dirlo questa volta è
il governo belga. Si accentua la
crisi della NATO?”
Si accentua la crisi della NATO? Prima
l'impasse in Afghanistan, poi la crisi di
governo in Olanda proprio sulla
missione in Afghanistan. Adesso si sta
aprendo un altro capitolo rilevante nelle
relazioni tra Europa e USA nell'ambito
dell'Alleanza Atlantica. Il governo belga
di Yves Leterme, con una lettera aperta
si è fatto portavoce di altri 4 paesi
aderenti al Patto Atlantico: Olanda,
Germania, Norvegia e Lussemburgo ed
ha
posto
il
problema
dello
smantellamento di circa 200 bombe
atomiche della USA presenti nelle basi
militari NATO sparse in Germania,
Belgio, Italia, Turchia.
L’obbiettivo principale del documento è
quello di aprire un dibattito sulla
denuclearizzazione
in
vista
della
conferenza di revisione del Trattato di
non proliferazione nucleare che si terrà
a maggio a New York. L’iniziativa del
Belgio è molto importante per fare un
passo in direzione del disarmo nucleare.
A doversi pronunciare su questo è
anche il governo italiano che ospita
alcuni ordigni nucleari nelle basi militari
NATO di Ghedi ed Aviano. Sono
preoccupate infatti le reazioni dei circoli
atlantici italiani. "Queste armi sono
troppo obsolete ed inadatte allo scopo,
e potrebbero quindi essere ritirate, Ma
non propongono di sostituirle con altri
sistemi offensivi, bensì con maggiori
sistemi difensivi antimissili ed antiaerei"
commenta
piuttosto
preoccupato
La richiesta resa pubblica dal governo
del Belgio, ha preso le mosse da una
lettera aperta pubblicata sui giornali
belgi e nella quale due ex premier e
due ex ministri degli esteri di
schieramenti diversi sollecitano la
necessita' di adattare la politica
nucleare alle nuove circostanze, vista la
fine della guerra fredda. Paesi come
l'India, il Pakistan e la Corea del nord si
sono gia' affacciati sullo scenario degli
armamenti nucleari e altri come l'Iran
potrebbero unirsi, affermano gli ex
25
Stefano Silvestri il presidente di un
organismo filo-NATO l'Istituto Affari
Internazionali. "In una situazione in cui
le divergenze politiche tra europei ed
americani si allargano, a cominciare
proprio da quell’Afghanistan dove la
Nato si sta giocando la propria
credibilità e forse il proprio futuro,
siamo sicuri di poter tranquillamente
rinunciare anche solo ad un due di
briscola?". Il "due di briscola" in
questione sarebbero proprio le armi
nucleari presenti nelle basi disseminate
in Europa e il ritiro del contingente
olandese. L'allarme di Silvestri è
emblematico della crisi che si va
accentuando dentro la NATO anche alla
luce della crisi di governo in Olanda
avvenuta proprio sul mantenimento del
contingente
militare
nell'operazione
militare della NATO in Afghanistan.
da www.affarinternazionali.it
Stefano Silvestri*
“La crisi olandese scuote
l’Alleanza Nato, attenzione al
due di briscola!”
Due notizie gettano una nuova luce sul
dibattito in corso sul nuovo concetto
strategico della Nato. La prima: il
governo olandese del democristiano Peter
Balkenende è caduto per l’uscita dalla
coalizione dei laburisti, contrari ad
estendere oltre il prossimo agosto la
presenza del contingente olandese in
Afghanistan (circa 2000 soldati). Ciò
porterà a nuove elezioni politiche,
probabilmente in autunno, e potrebbe di
fatto rendere inevitabile il ritiro di quelle
forze dal teatro afgano, malgrado le
esortazioni
contrarie
del
Segretario
generale della Nato, Anders Fogh
Rasmussen. La seconda, il premier belga
Yves Leterme ha annunciato che il Belgio,
assieme al Lussemburgo, all’Olanda e alla
Germania,
prenderà
l’iniziativa
di
chiedere al Consiglio Atlantico il ritiro
definitivo delle ultimi testate nucleari
americane presenti sul territorio europeo.
Se l’Aja vacilla Si tratta di questioni
molto diverse tra loro, che però
confermano un clima di grande incertezza
sul futuro dell’Alleanza e sulle sue scelte
strategiche. Per molto tempo, per la
stragrande maggioranza delle opinioni
pubbliche
europee,
la
guerra
in
Afghanistan era stata considerata come
giusta e necessaria, in contrapposizione
con quella incompresa, dannosa e forse
persino illegale, condotta contro l’Iraq.
Ora però, dopo otto anni di impegno
militare crescente, molte centinaia di
caduti tra i soldati occidentali (e molte
migliaia di morti afgani, combattenti e
non), nonché molti miliardi di euro di
spese affrontate dai paesi impegnati nel
conflitto, anche quella convinzione vacilla,
26
paesi che vogliano dotarsi di armamento
nucleare.
Tuttavia,
una
rinuncia
unilaterale ad una determinata classe di
armamenti, come le armi nucleari
montate su vettori aerei a medio raggio,
non equivale ad un disarmo bilanciato:
proprio l’altro giorno il ministro russo
della difesa sosteneva la possibilità per
Mosca di installare missili nucleari a breve
o medio raggio a Kaliningrad, come
eventuale risposta ad un rafforzamento
unilaterale
della
difesa
anti-missile
dell’Alleanza. Se si pensa ad una
trattativa di controllo e riduzione degli
armamenti sarebbe più logico proporre
una rinuncia bilanciata da ambedue le
parti. Nello stesso tempo, non si capisce
bene quale segnale si intenderebbe dare
contro la proliferazione nucleare se si
aggiunge come giustificazione che si
vuole così rinunciare semplicemente ad
armi obsolete, inutili e forse pericolose
per noi più ancora che per eventuali
avversari. Questo non sarebbe certo un
messaggio di alto valore morale e
politico, ma solo di buon senso e di difesa
dei propri interessi.
specialmente perché non si capisce bene
quale guerra staremmo combattendo e in
vista di quali risultati. Il probabile ritiro
dell’Olanda dal conflitto non è un segnale
indifferente se si pensa che quel paese è
considerato da sempre uno dei più fedeli
e
saldi
baluardi
dell’alleanza
transatlantica. Se vacillano all’Aja in altre
capitali può scatenarsi un fuggi fuggi
generale. Altrettanto interessante è il
segnale sulle cosiddette armi atomiche
“tattiche”
dell’Alleanza.
Innanzitutto
perché a inviarlo è anche in questo caso
un gruppo di paesi estremamente
rappresentativi
del
sentire
europeo
“medio”
e
centrali
per
il
futuro
dell’Alleanza
stessa.
Chi
potrebbe
immaginare una Nato senza il Benelux o
la Germania? E poi perché tocca uno dei
più delicati argomenti “tabù” della
strategia alleata, quello della dissuasione
nucleare
e
delle
garanzie
ultime
americane per la difesa del vecchio
continente.
Disarmo unilaterale o bilanciato? Le
argomentazioni
avanzate
dal
primo
ministro belga e dal governo tedesco non
sono peregrine. È ad esempio ormai
chiaro a tutti che la validità operativa di
quel paio di centinaia di testate nucleari
americane ancora presenti in Europa e
montate su bombe da aereo, è molto
bassa. Anzi, in caso di conflitto con un
avversario tecnologicamente avanzato
(come era la vecchia Urss e come
potrebbe essere oggi la Russia) esse
presenterebbero
gravi
problemi
di
credibilità
(per la loro bassissima
prontezza operativa, e per la loro
altissima vulnerabilità ad attacchi di
sorpresa) e potrebbero costituire più una
debolezza che un punto di forza. Inoltre si
comprendono bene le argomentazioni di
coloro che ritengono che dovrebbero
essere sacrificate per favorire il processo
di disarmo nucleare e per accrescere le
pressioni politiche nei confronti di altri
Il problema della dissuasione Ma la
questione centrale resta quella sulla
natura e credibilità della strategia alleata.
Per anni, la presenza di queste armi
nucleari sul territorio europeo è stata
considerata come l’ultimo anello che
garantiva la credibilità della dottrina
americana della dissuasione allargata in
base alla quale gli Usa assicuravano la
difesa dell’Europa sino al limite della
guerra nucleare, ed oltre. Oggi, - molti
sostengono con buoni argomenti - che
queste armi sono troppo obsolete ed
inadatte allo scopo, e potrebbero quindi
essere ritirate, Ma non propongono di
sostituirle con altri sistemi offensivi, bensì
con maggiori sistemi difensivi antimissili
ed antiaerei. Ma non è la stessa cosa.
Certo, sullo sfondo rimarrebbe anche la
possibilità che gli Usa utilizzino qualcuna
27
delle loro armi nucleari strategiche per
continuare a garantire la sicurezza
europea, ma gli alleati non avrebbero più
neanche la parvenza di un controllo sul
loro impiego, né un sostanziale diritto di
parola sulla strategia e sulla dottrina
operativa, né infine la possibilità di
discutere delle caratteristiche tecniche e
del dispiegamento di quei sistemi. E poi,
se i nuovi sistemi difensivi non dovessero
funzionare al cento per cento (e qui i
dubbi dei tecnici sono altissimi) o se
l’arma nucleare dovesse arrivare sul
nostro territorio per altre strade meno
“convenzionali”, quale sarebbe la capacità
di risposta del paese attaccato (e quindi
la sua forza di dissuasione)? Dovrebbe
forse
affrontare
con
armamenti
convenzionali un avversario nucleare? O
potrebbe contare su una pressoché
automatica
risposta
del
governo
americano?
cominciare proprio da quell’Afghanistan
dove la Nato si sta giocando la propria
credibilità e forse il proprio futuro, siamo
sicuri di poter tranquillamente rinunciare
anche solo ad un due di briscola?
Si alimentano grandi aspettative sul
futuro concetto strategico dell’Alleanza.
Alcuni dicono che dovrà avere il peso di
quello che fu, nel 1967, il “rapporto
Harmel”, che riuscì a rafforzare la
solidarietà transatlantica e allo stesso
tempo ad aiutare il processo di
distensione tra Est ed Ovest. Ma il clima
politico è mutato profondamente, e oggi
sarebbe bene che questo documento
dicesse
con
chiarezza
quale
sarà
realmente il ruolo degli Usa nel futuro
della sicurezza e della difesa europea.
Senza abbandonarsi a sin troppo facili
scappatoie di comodo.
*Presidente dello Iai
AffarInternazionali.
Ripensamento
strategico
In
una
situazione in cui le divergenze politiche
tra europei ed americani si allargano, a
28
e
direttore
di
americani, militari e non, a Haiti. Non
solo. L'articolo mette in evidenza come
nel biennio 2004/2005, ovvero quando
esercito Usa e francese deposero il
presidente Jean Bertrande Aristide
(democraticamente
eletto
dalla
popolazione), sull'isola arrivò una
delegazione
dell'Institute
for
Geophysics dell'Università del Texas
che iniziò un progetto di mappatura
geologica del Bacino dei Caraibi. Un
progetto ambizioso e per nulla semplice
da portare a termine che ha visto fra i
maggiori
finanziatori
compagnie
petrolifere
multinazionali
come
Chevron, ExxonMobil e Shell.
Alessandro Grandi
“Haiti, e se sotto il mare ci fosse
petrolio? “
Un'importante
articolo
di
Global
Research mette in discussione la
presenza di greggio nei mari caraibici e
soprattutto a HaitiSulla terra ferma a
Haiti non è più possibile sfruttare nulla.
Legni pregiati, argento, oro e rame,
sono stati saccheggiati nei decenni
passati. Ora non resta che rivangare nel
passato e ricordare quante risorse
erano presenti nell'isola prima che il
liberismo e le sue regole arrivassero a
spazzare
via
tutto.
Poi ci si è messa la lunga lista di
dittatori, su tutti la famigerata famiglia
Duvalier, spietati e sanguinari, che
hanno portato all'estero decine di
milioni di dollari di proprietà della
nazione e quindi degli haitiani stessi.
E c'è voluto un terremoto di una forza
devastante per far ricordare al mondo
che nei fantastici Caraibi esiste una
nazione fra le più povere del pianeta.
Ma c'è una novità che se confermata e
supportata da analisi tecniche potrebbe
far riscattare l'intera nazione. Haiti
infatti, si trova appoggiata su una delle
zone geologiche maggiormente attive
dove si incontrano le piattaforme
tettoniche del Nord America, del Sud
America
e
quella
dei
Caraibi.
Esattamente come avviene per la
regione del Golfo persico, ricchissima di
greggio, dove si incontrano altrettante
piattaforme. Insomma se uno più uno
fa sempre due allora è possibile che nel
sottosuolo haitiano si possa concentrare
una quantità tale di greggio da far
invidia
alle
riserve
venezuelane.
Sì, perchè secondo gli studiosi è proprio
nelle aree dove convergono piattaforme
tettoniche che si concentrerebbero
enormi masse di gas e petrolio. E per la
possibile presenza di greggio che Global
Reseach spiega l'ampia presenza di
Ma la domanda inquietante che si pone
l'autore dell'articolo lascia sgomenti: e se
gli Usa e le grandi aziende multinazionali
del settore fossero a conoscenza della
possibile esistenza di questi enormi
giacimenti?
O,
ancora
peggio,
se
avessero saputo in anticipo del possibile
arrivo
del
terremoto?
Sta di fatto che in modo molto serio e
competente l'articolo mette in fila una
serie di eventi che potrebbero aver a che
fare con l'ipotesi che esista petrolio, tanto
petrolio, sotto i mari haitiani. E dunque si
potrebbero guardare con diverso punto di
vista le visite dei capi di Stato occidentali
che negli ultimi mesi si sono verificate
nell'area. Come quella di Medvedev a
Cuba, non distante da Haiti. E pare che
proprio in questi mari la multinazionale
spagnola Repsol abbia trovato uno dei
dodici maggiori bacini petroliferi più
grandi
scoperti
finora.
Insomma,
nonostante il mondo si stia dirigendo
29
sempre più verso frontiere ecologiche, il
petrolio fa sempre gola a molti.
ponderate e razionali, che mettano in
secondo
piano
quell'istinto
così
caratteristico di un popolo tanto
passionale.
*******************************
da Peacereporter.it
Ma Dilma Rousseff è anche altro.
Innazitutto non è mai stata eletta ai
pubblici uffici, entrando sempre al
Plenalto dietro invito del presidente.
Altro elemento che fa titubare i suoi
detrattori: come potrà assurgere a capo
di un paese con oltre 190 milioni di
persone senza aver scalato la gavetta
elettorale? Eppure Lula non ha dubbi:
ha scelto lei e su di lei si è fermato.
Perché è lei la madrina del fiore
all'occhiello della politica economica del
governo: il Pac, il programma di
accelerazione economica che traina il
Brasile verso le vette. E su di lei è
pronto
a
scommettere
tutto.
"E' stata la scelta di Lula, non la scelta
del Pt - ha commentato alla Bbc Joao
Pedro Ribeiro, critico ed esperto - E'
stata la sua scelta in uno scenario dove
non c'erano molte altre opzioni. Lula
doveva costruire un candidato, un
politico dal nulla. Ed è quello che ha
fatto con Rousseff, l'ha esposta e fatta
entrare in tutti i mass media. E questo
non significa che lei sia la sua scelta per
qualche specifica forza politica. Non
c'erano altre opzioni possibili nel Partito
dei lavoratori".
Stella Spinelli
“La prescelta”
Il Partito dei lavoratori ha scelto: Dilma
Rousseff, la prescelta di Lula, sarà la
candidata per le presidenziali di ottobre.
È ormai ufficiale.
Le voci circolavano già da tempo. Il
presidente uscente non aveva mai
nascosto la sua preferenza per quella
che da sempre è il suo braccio destro:
ex ministro, capo dello staff della
presidenza,
Rousseff
ha
sempre
affiancato Lula in ogni passo, in ogni
decisione, in questi otto anni al potere.
Ma, nonostante sia considerata tecnico
esperto e arguto, sono in tanti a
pensare che non abbia il carisma
necessario a raccogliere l'eredità di un
personaggio tanto amato dalle folle. E
in un paese dove il fascino e l'appeal
giocano un ruolo predominante nelle
scelte di voto, si tratta di una mancanza
pesante e pericolosa. Al di là di tutto
quello che ha fatto o non ha fatto Lula
in questi anni.
Quindi una donna, un tecnico capace,
un compagno leale e fedele, attraverso
il quale continuare a governare, dietro
le quinte. Questo il succo della mossa di
Lula. Assicurare alla guida del paese,
visto che la Costituzione brasiliana gli
impedisce di candidarsi per la terza
volta, una fedelissima che porti avanti
la strategia iniziata otto anni fa. Il tutto
con un Serra che tenterà in ogni modo
di dimostrare di essere un manager
molto più capace. Perché in fin dei conti
la partita si gioca sull'economia. Che
negli ultimi anni sta crescendo a buon
ritmo
in
Brasile.
Il
gigante
sudamericano è stato uno degli ultimi a
entrare nella crisi globale e uno dei
primi a rialzare la testa. Quest'anno si
Unica consolazione per il Pt, il nome del
rivale
più
temibile,
Jose
Serra,
governatore dello stato di San Paolo,
sconfitto da Lula al ballottaggio nel
2002, e certamente privo di qualsiasi
savoir faire che incanti l'elettorato. Sarà
dunque una campagna tutta all'insegna
dei programmi, durante la quale i
brasiliani saranno chiamati a scelte
30
calcola
una
crescita
del
cinque
percento. E sarà questo il tema che più
peserà.
Lula
come
suo
primo
ministro
dell'energia e poi quale capo del suo
staff. È lei la figura che è riuscita a
Ma chi è Dilma Rousseff. Sessantadue
anni, è nata a Belo Horizonte da madre
brasiliana e padre bulgaro. Cresciuta
nell'agiata classe media, grazie al padre
avvocato, ha decisamente un'estrazione
differente da Lula, figlio della povertà e
dello sfruttamento dei lavoratori. Da
studentessa venne coinvolta dalla
politica di sinistra e prese parte attiva
alla resistenza contro la dittatura
militare che piegò il Brasile dal 1964 al
1985. Nel 1970 venne catturata e
torturata per 22 giorni, perfino con
l'elettro-shock. Restò in carcere tre
anni. "Dopo le percosse venivo gettata
nuda in un bagno pieno di urine e feci e
restavo lì, tremante, fino a che non
tornavano a prendermi per torturarmi
nuovamente",
ha
raccontato
al
magazine
Marie
Claire.
Economista qualificata, è stata scelta da
tener saldo l'establishment nonostante
gli scandali che hanno travolto il Pt,
senza lasciarla fuori. Nel 2008 venne
infatti accusata di essere una sorta di
infiltrata dell'ex presidente Cardoso, per
il quale avrebbe stilato dei dossier
finanziari. Accusa che ha sempre
respinto. Poi è arrivata la malattia, il
cancro, e la sua battaglia per
sopravvivere. Che ancora non è finita e
che la forte combattente ha deciso di
unire alla lotta per entrare nei cuori di
quel popolo solare e istintivo che dovrà
vedere in lei la madrina di un Brasile
dalle tante carte vincenti e straripante
di speranze, proiettato verso il futuro.
Che sia lei la donna del destino.
31
da Contropiano.org
Nessun arabo, infatti, neppure chi
detesta gli «scismatici» al potere a
Tehran, giustifica la bomba atomica in
mano israeliana. Di più: l'intero mondo
arabo si aspetta che Obama - dopo
aver fatto del disarmo nucleare il suo
cavallo di battaglia - non si limiti a
negoziarlo con la Russia ma lo estenda
al Medio Oriente allargato. Perché è lì
che si annidano i veri pericoli.
Giuseppe
Cassini
*
L'Italia ha perso il suo «storico»
ruolo in Medio Oriente
La speranza di molti italiani è che la
missione effettuata da Berlusconi in
Israele ai primi di febbraio sia presto
dimenticata. Noi temiamo invece che un
tale episodio d'ipocrisia diplomatica,
contrabbandato per audace iniziativa di
politica estera, avrà pesanti strascichi a
lungo. Quella visita, infatti, ha giovato
enormemente agli interessi dell'attuale
governo israeliano, molto meno agli
interessi europei e italiani.
L'Iran non è l'unico dossier goffamente
gestito dal Premier durante la sua
visita. Nella prima notte trascorsa al
King David, lui ha fatto un sogno:
quello di «annoverare Israele tra i paesi
dell'Unione Europea». Ma a differenza
del sogno di Martin Luther King, che era
destinato ad avverarsi, quello del
Nostro no. Per il semplice motivo che
Israele non ha alcun interesse a entrare
nell'UE: vi lo immaginate costretto ad
adeguarsi alla normativa comunitaria,
incluso il diritto di ogni cittadino
europeo - ebreo o non - a insediarsi
liberamente nel suo territorio? Il sogno
berlusconiano rivela piuttosto un altro
desiderio,
inconfessato:
spalmare
l'Unione in un'area di libero scambio, in
modo da slegare l'Italia da certi vincoli
che i trattati impongono a ogni paese
membro.
La spina del nucleare iraniano? Tutti,
inclusi russi e cinesi, vorrebbero
sfilarsela dal piede. Però, a differenza di
europei e americani, russi e cinesi
giudicano irrealistico sperare che le
sanzioni arrechino seri danni a una
nazione grande e orgogliosa come
l'Iran; reputano anzi che rafforzeranno
il regime, e chissà che non abbiano
ragione. Che fare allora? Va premesso
che solo gli iraniani possono scrollarsi di
dosso il regime che li opprime; non si
aiuta l'opposizione interna finanziando i
nostalgici dello Scià o inserendo i
Guardiani della Rivoluzione nella lista
dei gruppi terroristici - come ha
proposto Berlusconi. Ma per sventare
alla radice la minaccia di proliferazione
nucleare in Medio Oriente c'è un solo
rimedio: costringere Israele a sedersi a
un tavolo per il disarmo nucleare del
Medio Oriente.
Maggior entusiasmo il Nostro ha infuso
nei suoi anfitrioni quando ne ha esaltato
la democrazia e li ha assolti dalle
accuse dell'Onu di aver condotto contro
Gaza «attacchi sproporzionati» (parole
della Commissione Goldstone). Secondo
Berlusconi, l'aver fatto 1387 vittime per
vendicare la morte di 3 israeliani
costituisce una «giusta reazione».
Soltanto la scarsa voce dei palestinesi
sui media internazionali ci ha impedito
32
di ascoltare gli improperi con cui gli
abitanti di Gaza, prigionieri in casa
propria,
hanno
accolto
quest'affermazione.
Gerusalemme e Ramallah in minor
tempo
di
quanto
ho
impiegato
ultimamente
in
auto
con
targa
diplomatica. Negli anni '60 - un altro
ricordo - visitai Dachau: il lager dista
solo 15 chilometri da Monaco e un tiro
di schioppo dal suggestivo villaggio da
cui prende il nome. Ingenuamente
chiesi a un locale che cosa aveva
provato a convivere accanto a quel
lager durante tutta la guerra; la sua
risposta fu: «Ma noi del villaggio non ce
ne accorgevamo».
Per dare loro un contentino, il capo del
governo italiano ha rispolverato la sua
proposta di un Piano Marshall per la
Palestina, con parecchi miliardi di
dollari. L'Onu dovrebbe prenderlo in
parola
e
chiedergli,
in
quanto
proponente, di mettere sul piatto il
primo
cospicuo
contributo:
pari
all'ammontare dei tagli di bilancio che
dal 2001 a oggi Giulio Tremonti ha
operato sulla Cooperazione, che hanno
precipitato l'Italia all'ultimo posto tra i
fornitori di aiuti ai paesi in via di
sviluppo. Solo così Berlusconi si
laverebbe dalle infamanti accuse di
«rubare ai poveri» lanciategli da Bill
Gates, Bono e Bob Geldof prima e dopo
il G8 dell'Aquila.
Quali conseguenze avrà per l'Italia
questa «storica» visita all'insegna
dell'opportunismo
più
marcato?
Probabilmente quella di abdicare trent'anni dopo la Dichiarazione (questa
sì, storica) del Consiglio Europeo di
Venezia del 1980 - al ruolo italiano di
honest broker in Medio Oriente, avviato
da Fanfani e proseguito da Craxi con
grande energia negli anni '80. A
conclusione di questa missione in
Israele il ministro degli esteri Franco
Frattini ha reagito alle critiche piovute
da Tehran affermando: «Noi siamo al
servizio dei nostri ideali e dei nostri
valori». Pochi giorni prima, però, si era
recato in pellegrinaggio a Hammamet a
raccogliersi sulla tomba di Craxi e non
si era accorto che per servire i nuovi
«ideali» e i nuovi «valori» stava
tradendo quelli del suo mentore
defunto.
Requiescat
In
Pace.
In effetti, neppure l'Autorità Palestinese
- schierata a Ramallah per ricevere il
Premier italiano - sperava in elargizioni
finanziarie. Non si aspettava però di
essere ferita platealmente, quando
Berlusconi ha risposto a un giornalista
di «non essersi accorto del muro»
eretto dagli israeliani: quel muro alto
otto metri che soffoca i Territori
Occupati, separa i contadini dai loro
campi, i villaggi dalle prese d'acqua, e
incombe in modo spettrale su chi
viaggia verso Ramallah. Di quel muro
condannato dalla Corte Internazionale
di Giustizia lui non si era accorto. Nel
1965 - un ricordo personale - percorsi a
piedi quelle colline tra Betlemme,
*ex
ambasciatore
italiano
Da Il Manifesto del 21 febbraio
33
in
Libano
sia finanziarie – banche, istituti di
credito – che produttive e politiche.
Soprattutto i governi devono fare scelte
che vanno nella direzione di uno
sviluppo vero – industriale, tecnologico
e agricolo –, ma che sappia partire dalle
esigenze e dalle potenzialità delle
diverse realtà locali e sdoganarsi dalla
dipendenza dall’esportazioni di materie
prime. «I paesi africani – conclude
perciò l’economista – devono poi
gestire in maniera trasparente le risorse
naturali e investire i soldi che vengono
dal sottosuolo sul suolo. D’altra parte,
un’uscita rapida della crisi in Africa
implica più che mai la riabilitazione del
ruolo dello Stato come propulsore e
promotore dell’economia».
L’Africa Vicina
Gino Barsella
“L’Africa parta dall’Africa”
«Contrariamente a quello che vuol far
credere
il
Fondo
monetario
internazionale (Fmi) l’aggiustamento
strutturale
voluto
dagli
organismi
finanziari internazionali ha contribuito
alla deindustrializzazione dell’Africa.
Il contributo dell’industria al Prodotto
interno lordo (Pil) del continente,
infatti, è passato dal 15,9% del 1965 al
14,9% del 2006». Lo ha detto – come
riporta l’agenzia Misna in un lancio
dell’11 febbraio – il Premio Nobel per
l’economia nel 2001 e presidente della
Commissione d’esperti per la riforma
del sistema finanziario internazionale,
Joseph Stiglitz, in una lunga intervista
realizzata dal settimanale “Les Afriques”
e intitolata “L’Africa deve contare solo
su se stessa”.
Il cantiere Africa, nonostante tutto, è
incamminato su questo percorso, e la
sfida di uscire dalla crisi con un
generale progetto di sviluppo endogeno
è reale. Anche perché i paesi emergenti
asiatici – certamente liberi da pesanti
retaggi coloniali e relativi complessi di
superiorità – sembrano i più in grado di
assicurare una controparte credibile e
accettabile. Cosa che l’Europa, e
l’Occidente in generale, non sembrano
capaci di fare.
È quindi l’ora che l’Africa cominci a fare
di testa sua, approfittando della nuova
situazione geopolitica economica che si
è venuta a creare con la crisi globale
attuale. Infatti, spiega Stiglitz, «L’Africa
è una vittima innocente della crisi e
deve
orientarsi
verso
i
mercati
emergenti asiatici (e non solo la Cina,
ndr), dove la crescita resta forte. Il
rafforzamento del partenariato con
questi paesi emergenti può permettere
al continente di massimizzare le rendite
delle sue risorse naturali, sfruttando la
concorrenza mondiale e attirando
investimenti importanti».
D’altronde si sapeva come i «mercati
finanziari
non
abbiano
certo
la
vocazione di promuovere lo sviluppo», il
quale può venire solo da un maggiore e
più chiaro impegno delle realtà locali,
34
anacronistico nonostante le dolorose
misure adottate dalla Banca Centrale
Lettone per salvare il valore della
propria divisa e che hanno tolto
ossigeno all’economia del paese.
“Il Mondo in Crisi”
Marco Zoboli
“Lettonia: Crisi nella Repubblica
delle Banane di ghiaccio.”
In Lettonia, così come avvenuto nelle
altre repubbliche baltiche con il plauso
del FMI e di Bruxells, la strategia
perpetuata dagli sciacalli della finanza è
sempre stata la medesima: smantellare
il pubblico e influire con l’instaurazione
di nuovi rapporti di forza all’interno dei
processi decisionali politici nel paese.
Come accaduto in Argentina con
Menem, le imprese pubbliche sono
state vendute velocemente a investitori
occidentali dalla nascente oligarchia
locale che ha provveduto a trasferire i
propri bottini nei paradisi fiscali
anglofoni. Va inoltre ricordato che
l’Europa ha promosso l’installazione di
propri
istituti
di credito anziché
stimolare i paesi baltici a dotarsi di una
propria rete finanziaria autonoma: la
contraddizione è chiara, venivano
contratti debiti in valuta forte e onorati
ratealmente in divisa debole arrivando
così a un saldo da strozzinaggio.
Senza nulla togliere alla gravità della
crisi economica ellenica che ha rapito
l’attenzione dei mezzi di comunicazione
europei, poco si parla di altre situazioni
altrettanto preoccupanti e ben più
importanti per il loro peso economico
quali Spagna, Irlanda e Portogallo;
inoltre nulla si dice della devastante
crisi che sta spazzando via le economie
dei paesi baltici, paesi ex sovietici che
avevano avviato il loro percorso di
avvicinamento all’eurozona e che oggi
sono sull’orlo del fallimento economico
e istituzionale, e che mette a nudo la
distruzione selvaggia del neoliberismo,
calato dall’alto come strumento di
conquista, con risultati di impatto
sociale molto simili a quelli ottenuti in
America Latina negli anni novanta…
Per compensare tutti quegli “oscuri
anni” trascorsi sotto l’ombrello sovietico
di giustizia sociale, la tassazione lettone
è stata formulata non progressiva in
base al reddito, come negli altri paesi
capitalisti occidentali, ma fissa al 50%
per tutti i cittadini, siano essi salariati,
dipendenti pubblici, piccoli o grandi
imprenditori,
oligarchi…
indipendentemente
dal
patrimonio
accumulato.. un vero sogno americano,
che si infrange con la realtà e le
contraddizioni
del
capitalismo
in
versione
neoliberale,
neocoloniale…
della Repubblica delle Banane di
Ghiaccio.… Il tasso di disoccupazione
ha toccato il 22% della popolazione, e
La Lettonia è sull’orlo del fallimento
come
stato,
come
organizzazione
sociale ed economica. Alla diminuizione
del PIL del 25% in due anni (alcune
fonti più severe di quelle ottimiste del
FMI parlano del 29%) si aggiunge una
stima di caduta di un’ulteriore 9% nel
2010… il debito pubblico in crescita
esponenziale dal 7,9% del 2007
raggiungerà il 74% del PIL nell’anno in
corso… inutile dire che i parametri di
Maastricht si allontanano assieme
all’Europa, all’euro divenuto oramai
35
sta emigrando in massa verso paesi
europei
nonché
in
Russia…
che
inevitabilmente
non
può
che
sogghignare al procedere degli eventi.
Le Repubbliche baltiche dovevano
essere
il
cordone
sanitario
per
eccellenza verso Mosca, paesi membri
Nato che dovevano rappresentare la
minaccia geopolitica più significativa
alla rinascita delle ambizioni multipolari
russe. Con l’implodere delle economie
baltiche e delle loro strutture sociali in
una fase dove ben pochi paesi possono
accollarsi l’onere di sostenere ciò che
non è sostenibile, anche la geopolitica
sul Mar Baltico muta… La Lettonia
scivola lontano dall’euro, assieme alle
sue sorelle di sventura, e Mosca a
pensarci bene, con il suo gas, non è poi
così.
Stati Uniti: Ispanici sotto sfratto giudiziario.
Approssimatamente 1,3 milioni di ispanici perderanno la proprietà delle proprie
abitazioni da quà al 2012 a causa della crisi esplosa dalla bolla immobiliaria negli Stati
Uniti, ha rivelato questo martedì uno studio della principale organizzazione latina, La
Raza. La crisi rappresenterà per i 45 milioni di ispanici del paese una perdita
nell’ordine dei 98 mila milioni di dollari, secondo lo studio. In totale circa 8 milioni di
famiglie statunitensi corrono il rischio di perdere la propria abitazione, e per ogni
famiglia ispanica, la perdita media si valuta in circa 90 mila dollari, secondo lo studio,
che cita informative ufficiali e di analisti del mercato. Gli ispanici, la minoranza più
importante negli Stati Uniti e quella con la maggior crescita demografica da qui al
2050, si vedono particolarmente colpiti dall’ondata di sfratti di ordine giudiziario, dopo
l’eccessivo indebitamento dell’ultima decade. “Gli ispanici e la minoranza di colore
avevano due volte la possibilità di ricevere un prestito ad alto rischio”, in questi anni,
che il restante della popolazione statunitense.
36
dell’economia reale sono alla radice di
questa crisi e, mentre non sono
rincarati,
l’economia
mondiale
continuerà a soffrire e un giorno
giungerà a una vera ecatombe. Nel
1992, mentre gli economisti ufficiali
cantavano lodi al neoliberismo, Hyman
Minsky
elaborava
la
sua
teoria
sull’instabilità
finanziaria
del
capitalismo. Secondo questo autore, in
epoche di abbondanza l’ottimismo
contamina imprese e famiglie a
sovrastimare il valore delle proprie
azioni, a considerare che i buoni periodi
perdureranno e quindi ad assumersi
maggiori rischi.
Alejandro Nadal*
“Da Marx a Minsky…”
Quando l’economia capitalista entra in
crisi non è perché una forza esterna la
colpisce. E’ perché qualcosa non va
bene al suo interno, Quale può essere
questo suo malessere endogeno?
La domanda non è banale: la diagnosi è
la chiave per determinare le misure per
uscire dall’emergenza. Oggi predomina
l’interpretazione che viviamo una crisi
causata dalla mancata regolazione del
settore finanziario, bancario e non.
Questo debilitamento delle regole
avrebbe generato incentivi perversi
verso le speculazioni e l’accettazione di
rischi smisurati.
Questo accade in ogni ciclo di imprese,
ma il processo culmina in un ciclo più
lungo che finisce per trasformare il
regime
regolatorio
del
settore
finanziario, suoi mercati e sue pratiche
contabili. L’erosione delle istituzioni che
dovrebbero controllare la speculazione
e dare stabilità termina generando la
proliferazione di schemi finanziari di
alto rischio, scarse garanzie e grandi
livelli di non protetti.
Quando si è manifestata la bolla
speculativa i settori non finanziari si
sono visti colpiti dal collasso della
domanda aggiunta. Per questo sono
stati
applicati
stimoli
fiscali
per
riattivarla. Ma la narrativa ufficiale è
che
i
settori
non
finanziari
dell’economia (agricoltura, industria e
servizi) andavano bene sino a che non
è avvenuto il colpo di coda di una crisi
che nasce nel settore finanziario.
Questo
è
sbagliato.
I
problemi
Il modello Minsky rimane incompleto.
Non ci sono le analisi che dal settore
reale conducono alla crisi. E’ certo che i
cicli
di
impresa
dell’economia
statunitense a partire dal 1980 i
debitori e creditori hanno assunto
37
Di fronte alla discesa delle rendite, il
capitale si è rifugiato nelle finanze.
L’offensiva contro i salari e l’espansione
del settore finanziario sono due facce
della stessa moneta: la caduta del tasso
d’interesse, un problema con radici
profonde
nell’evoluzione
del
capitalismo.
sempre maggiori rischi e che durante
questo periodo si è eroso il regime
regolatore. Secondo questo assioma la
crisi si deve a fenomeni psicologici e
agli incentivi che perseverano la
speculazione incontrollata. I fattori
strutturali nelle sfere (non finanziarie)
della produzione rimangono al di fuori
di
questa
spiegazione.
In contrasto, altre ricerche rivelano che
tra il 1973 – 1984 sono avvenuti cambi
importanti nell’economia reale degli
Stati Uniti e di altre economie
capitaliste. Il più importante è che il
tasso di crescita è iniziato a ridursi.
Sebbene ci sia differenza tra i settori,
gli indici elaborati con differenti
metodologie non si sbagliano: il tasso
d’interesse si riduce negli Stati Uniti,
Germania, Giappone e altri paesi.
Qui si ascoltano gli echi delle analisi di
Marx che sono state sulla difensiva da
molto tempo. Il dogmatismo e varie
difficoltà
teoriche,
specialmente
il
cosiddetto problema della trasformazione
di valori in prezzi di produzione (espresso
da Marx nel tomo III del Capitale), hanno
frenato per anni lo sviluppo critico del
pensiero marxista. Oggi prende forza la
riflessione del taglio marxista sulla crisi,
quantunque
continui
pendente
la
soluzione
di
vari
problemi
teorici
importanti.
Questa caduta del tasso d’interesse ha
scatenato un’offensiva contro i salari
dalla decade degli anni settanta.
Sindacati e regole lavorative che
avevano
mantenuto
un’evoluzione
favorevole nei salari e prestiti sono stati
attaccati
su
tutti
i
fronti.
La
globalizzazione neoliberale è parte di
questo attacco, generando forze per
comprimere più i salari. Il risultato è
stato che i salari sono stagnanti e il
potere
d’acquisto
della
classe
lavoratrice negli Stati Uniti si è
debilitata. Il sovraindebitamento è stato
l’unico mezzo per mantenere il livello di
vita cui aspiravano le classi lavoratrici.
Le bolle speculative hanno mantenuto
un livello della domanda aggiunta che
richiedeva
l’economia
statunitense.
In queste analisi si articola l’evoluzione
del mutamento tecnico, la concorrenza
intercapitalista e il conflitto per lo
sfruttamento e la distribuzione delle
entrate in un impianto analitico coerente.
I contributi di Minsky, della teoria di
Keynes, si fondono bene con queste
interpretazioni marxiste. Il punto centrale
è che le radici della crisi sono
nell’economia reale e non solo nella sfera
delle
transazioni
finanziarie.
La
conclusione è chiara: l’economia della
globalizzazione
neoliberale
è
mortalmente
malata
e
le
sue
fondamenta
devono
modificarsi
radicalmente.
*La Jornada
38
La Vignetta della Settimana
“Guardi vostra merced che ultimamente leggete troppo, dovete guardare di più la televisione”
39
per
cercare
una
possibilità
di
sopravvivenza. Ma la migrazione dall’est
ha caratteristiche proprie e differenze
notevoli, per esempio, rispetto agli esodi
dal Sud del mondo. Per la repentinità del
cambiamento, per l’unicità della vicenda
storica che ha investito l’Europa, finché
essa stessa ed il mondo erano divisi in
blocchi
politico-economici
e
militari
contrapposti. Il crollo del sistema
economico sovietico ha portato con sé lo
sbriciolamento di strutture sociali e
culturali. Per tante donne e tanti uomini
ha significato lo smarrimento di ogni
prospettiva di vita. Le migranti dell’est
portano con sé verità più complicate di
quelle strillate e sparpagliate ai quattro
venti da ovest ad est in questi venti anni
senza il muro, quelle verità “facili” della
cortina di ferro sfondata, dell’uscita dalla
“notte del comunismo”, della democrazia
o dei diritti o delle libertà guadagnate. Le
migranti dell’est portano con sé racconti e
domande sullo sconquasso della loro vita
seguito alla demolizione dell’ossatura del
sistema produttivo socialista, voluta in
nome della cosiddetta libertà economica,
ma in realtà per fare il vuoto conveniente
ai
nuovi
impianti
“delocalizzati”
dall’occidente
vincente.
Quale
democrazia? Le nuove élites dei paesi ex
socialisti si sono mostrate più interessate
alla gigantesca contesa per la spartizione
della proprietà sociale messa in vendita.
Quali diritti? La restaurazione legittimista
nell’Est europeo si è fatta in una
commistione di mafie, affari e poteri
antichi riabilitati, sotto lo sguardo
compiaciuto
dei
Talleyrand
e
dei
Metternich del ventesimo secolo. E chi
non aveva possibilità di partecipare al
bottino?
Poteva
emigrare.
Che
democrazia è questa che costringe ad
espatriare, ad andare per le strade del
mondo ad elemosinare, a piegarsi alla
nuova schiavitù del mercato della carne
umana, della clandestinità, del lavoro
nero e della prostituzione coatta?
Donne nel Mondo
Ada Donno
“Storie di badanti“ (prima parte)
Venute dall’est.
Curioso, come si somigliano le storie delle
donne migranti che vengono dall’est!
Sono arrivate portandosi dietro verità
complicate, che raccontano con voce
sommessa nella lingua stentata di chi ha
dovuto imparare in fretta le parole
necessarie
alla
sopravvivenza.
Raccontano che nel loro paese, “prima”,
avevano una professione, una buona
formazione, a volte perfino la laurea. Che
non guadagnavano molto, ma almeno
avevano la sicurezza. Di un lavoro, una
casa, l’asilo nido, l’ambulatorio medico, la
tranquillità del domani. Poi, d’un tratto, la
crisi, il crollo, il lavoro perduto,
l’incertezza del domani. Molte raccontano
di
mariti
disoccupati
sopraffatti
dall’inerzia, di voglia di separazione da un
uomo diventato violento e alcolista, della
necessità di pagarsi un avvocato, di
mantenere i figli agli studi. Da qui, il
coraggio preso a due mani e la decisione
di
partire per venire a lavorare
nell’occidente ricco e luccicante. Per pochi
mesi, per qualche anno. Fanno grandi
debiti per pagarsi il viaggio, in pullman
per lo più, dall’entroterra di Bucarest, di
Cracovia, di Chisinau, di Tirana. Dai
villaggi di montagna o dalle vallate della
Transilvania. Sbarchi silenziosi, spesso
clandestini, col cuore stretto per la casa e
i figli lasciati laggiù. In genere la
migrazione
dall’Europa
dell’est
nell’Europa comunitaria, e in Italia in
particolare, è considerata fenomeno “a
parte”
rispetto alle altre di diversa
provenienza geografica. E’, sì, inserita
nell’epocale flusso migratorio dalle aree
povere verso quelle più produttive e
ricche del pianeta. Lo stesso carico
umano di sacrificio e speranza, la stessa
necessità di vincere la paura dell’ignoto
40
Dal Mondo in Lotta
ADERITE ALL’APPELLO:
Non in nostro nome
Il governo italiano, con la recente visita del premier Berlusconi in Israele, ha reso il
nostro paese complice dell’oppressione del popolo palestinese e delle possibili
escalation di guerra israeliana in Medio Oriente.
L’Italia sta fornendo ufficialmente armamenti, investimenti economici, collaborazioni
scientifiche al governo israeliano condannato dalle istituzioni internazionali per la
costruzione del Muro di segregazione, per i crimini di guerra a Gaza e l’occupazione
coloniale dei Territori Palestinesi
Noi, in quanto cittadini italiani, non accettiamo di essere considerati complici di questa
politica di oppressione e di guerra
Per questi motivi: Chiediamo la revoca degli accordi militari, commerciali, scientifici,
culturali tra le istituzioni italiane e quelle israeliane
Chiediamo la revoca della partecipazione italiana ed europea al vergognoso embargo
contro la popolazione palestinese di Gaza ormai da quattro anni sotto assedio
Non c’è pace duratura senza giustizia
Nelle centinaia di adesioni all’appello che ci sono già giunte figurano sia
intellettuali e personalità conosciute della politica che semplici cittadini o
attivisti impegnati a vario titolo nelle attività di solidarietà con il popolo
palestinese.
Si notano le firme di docenti universitari come Angelo D’Orsi, Domenico
Losurdo, o Sancia Gaetani, Nella Ginatempo, Ornella Terracini , attive nei
movimenti pacifisti e quelle di dirigenti politici del PRC e del PdCI come
Maurizio Musolino, Andrea Genovali, Francesco Francescaglia, Manuela
Palermi, Fosco Giannini, Fausto Sorini, Bruno Steri, Roberto Antonaz, c'è il
musicista Daniele Sepe ma non mancano gli attivisti del Forum Palestina
come Sergio Cararo e Germano Monti o quelli come Paola Canarutto, Marco
Ramazzotti, Miryam Marino della Rete Ebrei contro l’Occupazione, c’è
l’intellettuale bolognese Alberto Masala e l’operaia Maria Luisa Bisetti, ci
sono giornalisti come Michele Giorgio e ricercatori scientifici come Edoardo
Magnone o Sara Pozzi.
Per le adesioni all’appello “Non in nostro nome” scrivete a:
[email protected]
41
Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila
“Pertini si commosse di fronte all'orrore di Sabra e Chatila”
Roma, 24 feb - "Sandro Pertini fu il Presidente che si commosse di fronte agli
orrori di Sabra e Chatila: quando migliaia di palestinesi e libanesi nei miseri
campi profughi intorno a Beirut, nel 1982, furono aggrediti e massacrati dagli
eserciti israeliani e falangisti, Pertini non esitò ad esprimere la sua condanna e
a manifestare il suo sdegno, come mostra un bellissimo filmato disponibile sul
http://sabraechatila.wordpress.com.
La sua onestà intellettuale ed il suo coraggio da Capo delle Resistenza sono
sicuramente ricordati oggi dunque non sono in Italia dove mancano figure in
grado di competere con quella dell'ex Presidente Repubblica".
42
www.ain.cu
Cuba, quarta al mondo per numero di donne parlamentari
La Habana (AIN - Agencia Cubana de Noticias)
Cuba occupa il quarto posto mondiale e il primo in America come numero di donne
rappresentate nel proprio Parlamento, secondo uno studio diffuso dall'Unione
Interparlamentare (UIP). L'Isola appare nell'elenco in quanto sono donne il 43,2% dei
membri dell'Assemblea Nazionale del Poder Popular. Esse occupano, infatti, 265 dei
614 seggi. A Cuba, che prepara i comizi per eleggere nel prossimo aprile i delegati di
circoscrizione che formeranno le Assemblee Municipali del Poder Popular, la
Federazione delle Donne Cubane ha lanciato un appello affinché si prendano in
considerazione le capacità dimostrate dalle cittadine nello svolgimento di questa
funzione, in accordo con un documento pubblicato dalla stampa locale. L'UIP, creata
nel 1889, è l'organizzazione internazionale che rappresenta il ramo legislativo dei
governi su scala mondiale e principale interlocutore parlamentare delle Nazioni Unite
e, presentando regolarmente le sue risoluzioni all'Assemblea Generale, porta la voce
dei parlamenti nei processi decisionali delle Nazioni Unite.
Questo Ente segnala che è ancora bassa la partecipazione delle donne nei poteri
legislativi del mondo, in quanto raggiunge appena il 18,7% dei posti, secondo dati
rilevati fino al 31 dicembre dello scorso anno, indica Efe. Il documento aggiunge che
dei 44.214 legislatori registrati a quella data nei parlamenti presi in esame, solo 8.267
sono donne.L'UIP indica che se si tiene conto solo dei parlamenti unicamerali e le camere
basse dei bicamerali, la media sale al 18,9% e nel caso delle camere alte o al Senato
scende al 17,6%. Le statistiche dell'UIP confermano che il grado di rappresentanza della
donna negli organi legislativi di un paese non è direttamente proporzionale allo sviluppo
sociale o economico e rivela che il machismo che si attribuisce a molti paesi latini non si
riflette nella composizione dei loro parlamenti. Secondo la graduatoria di 187 paesi fatta
dall'UIP, se si prendendo in considerazione le regioni, sono i paesi nordici quelli che hanno
una maggiore percentuale di donne nei loro parlamenti (42%), tuttavia è il Ruanda il
paese leader nel mondo sotto questo aspetto, poiché ha il 56,3% di donne nella camera
bassa (Deputati) e il 34,6% nella camera alta (Senato).In America la media è del 22%; in
Europa del 21,4%; in Asia del 18,5%; nell’Africa Subsahariana del 18%; nel Pacifico del
15,3% e negli Stati Arabi del 9,6%.
A livello mondiale, la Svezia ha il 46,4% di donne nella sua unica camera legislativa; il
Sudafrica il 44,5% nella Camera dei Deputati e il 29,6% nel Senato, e le segue Cuba al
quarto posto con il 43,2% donne membri dell'Assemblea Nazionale del Poder Popular. Tra
altre cifre conosciute, il Costa Rica occupa il 12° posto, la Spagna il 13°, Andorra il 14°,
l’Ecuador il 19°, Messico il 27°, il Perù il 30°, seguito dal Portogallo con il 31°.
Gli Stati Uniti condividono con il Turkmenistán il 74° posto della tabella, in quanto hanno il
16,8% di persone di sesso femminile nella camera dei rappresentanti e 15,3% in quella
dei senatori, mentre la Francia è al 63° posto con il 18,9% e il 21,9%, rispettivamente.
43
proveniente dagli Stati Uniti, un paese
con migliaia di prigionieri detenuti in
una rete internazionale di carceri
segrete, molti di loro sottoposti a
torture.
Tim Anderson*
“E' credibile Human Rights Watch
quando
parla
di
Cuba?
“
Alla fine del 2009, l’organizzazione
Human Rights Watch (HRW), con
ragione sociale a New York, ha
pubblicato un rapporto dal titolo Un
nuovo Castro, la stessa Cuba. Sulla
base della testimonianza di ex detenuti,
il rapporto condannava in maniera
sistematica
il
governo
cubano,
qualificandolo
come
tirannico
e
accusandolo di usare "il suo apparato
repressivo, leggi draconiane e giudizi
arbitrari per incarcerare decine di
persone che hanno osato esercitare le
loro
libertà
fondamentali".
Il gruppo afferma di aver intervistato
40 prigionieri politici e analizzato le
leggi straordinarie che permettono che i
cubani possano essere incarcerati solo
per aver espresso opinioni critiche del
loro sistema socialista.
E' credibile questa relazione critica
su Cuba? Chi rappresenta Human
Rights Watch?
La risposta all'ultima domanda è un po’
più difficile che nel caso di altre
organizzazioni
come
il
National
Endowment for Democracy (NED),
istituita dal governo degli Stati Uniti, o
di Reporter Senza Frontiere (RSF), con
sede
in
Francia
e
finanziata
direttamente dal Dipartimento di Stato
USA in alcune delle sue campagne
contro
Cuba.
Alla
maniera
dei
"giornalisti embedded" che viaggiano
con le truppe USA, in tutto il mondo, la
NED e RSF possono essere considerati
"vigilanti embedded" che contribuiscono
a
legittimare
o
delegittimare
determinati governi in funzione della
politica
degli
Stati
Uniti.
Human Rights Watch, tuttavia, non è
finanziata dal governo degli Stati Uniti,
anche se ottiene la maggior parte dei
suoi fondi da una serie di fondazioni
statunitensi a loro volta sostenute da
molte delle grandi corporazioni di
questo
paese.
Queste
fondazioni,
private e ricche, sono solite vincolare i
loro contributi a progetti specifici. Così,
ad esempio, le relazioni di HRW sul
Medio Oriente spesso sono basate su
relazioni di fondazioni pro-israeliane e
riceve finanziamenti dalle stesse. Altri
gruppi chiedono un focus sui diritti delle
donne o HIV/AIDS. Più del 90% dei 100
milioni di $ del bilancio di HRW per il
2009 era "limitato" in questo modo. In
A prima vista, si potrebbe pensare che
Cuba è uno dei peggiori violatori dei
diritti umani nelle Americhe. Ma una più
attenta riflessione potrebbe indurci a
mettere in discussione tali dichiarazioni
44
paese in Iraq, ciò non è avvenuto in
America Latina, dove il gruppo ha
seguito alla lettera la linea di
Washington. Di tutti i rapporti di Human
Rights Watch sull'America Latina, negli
ultimi anni, gli unici governi a cui sono
state fatte queste critiche sistematiche
sono quelli di Venezuela e Cuba. Altre
relazioni sul Brasile, Honduras e
Messico, hanno trattato di questioni
molto più concrete come la violenza
della polizia, i diritti dei transessuali o la
giustizia militare. Quando si tratta della
Colombia, HRW ha pubblicato relazioni
su l'uso delle mine terrestri e le “mafie
paramilitari". L'ultima relazione riflette
il fatto che la Colombia ha il più alto
livello di violenza "che quasi nessun
altro paese nell'emisfero occidentale."
In realtà, la Colombia è prima di
qualsiasi altro paese dell'America Latina
per numero di assassini di sindacalisti,
giornalisti, avvocati e persone comuni. I
militari colombiani e i loro alleati delle
milizie di estrema destra sono stati
responsabili della maggior parte di
questi massacri ma ciò nonostante HRW
accusa la guerriglia di sinistra e le
milizie di destra senza coinvolgere il
regime di Álvaro Uribe, il più grande
recettore di aiuti USA in America Latina.
altre parole, HRW offre una selezione di
temi privatizzati e realizzati negli USA
che servono agli interessi dei ricchi.
Il coordinamento di tutti questi interessi
è illustrato in modo chiaro dal nuovo
presidente di HRW, James F. Hoge, Jr.,
editore e giornalista, redattore capo
della pubblicazione Foreign Affairs, dal
1992 al 2009, e membro di spicco dello
sponsor della stessa, il Council on
Foreign Relations (CFR), che si trova a
New York. Il CFR, considerato come il
più influente Think Tank della politica
estera degli Stati Uniti, include gran
parte dell’elite imprenditoriale USA (tra
altri le banche e i media), così come
leader di ieri e di oggi dei due maggiori
partiti. Ex segretari di Stato, come
Henry Kissinger e Condoleezza Rice, e
l’attuale segretario alla Difesa Robert
Gates, sono membri del CFR. La sua
lista di iscritti è realmente un Who's
who
dell’elite
USA.
Il consiglio direttivo di HRW è anch’esso
dominato dall'elite corporativa degli
Stati Uniti, come banche e grandi mezzi
di
comunicazione
e
di
alcuni
accademici, anche se non da funzionari
del governo. Il consiglio direttivo
comprende l'ex ministro degli Esteri
messicano
Jorge
Castaneda
(accademico che una volta era marxista
convertito in politico di destra), mentre
l’avvocato di origine cilena José Miguel
Vivanco è direttore della Divisione
Americhe di HRW. Vivanco è stato
oggetto di una grande controversia in
America Latina a causa dei suoi attacchi
contro il Venezuela e Cuba. Se HRW a
volte sembrava agire con una certa
indipendenza dalla politica estera degli
Stati Uniti, per esempio, quando ha
sostenuto la "guerra al terrorismo" ma
ha criticato le operazioni di questo
Parzialità nelle relazioni
Inoltre, la relazione del gruppo di
dicembre del 2008 sul Venezuela, dal
titolo Una decade di Chávez aveva una
chiara motivazione politica. Secondo
Vivanco, è stata scritta "perché
abbiamo voluto dimostrare al mondo
che il Venezuela no è un modello per
nessuno". Tale rapporto è stato
duramente criticato da più di un
centinaio di accademici per non
soddisfare "neanche gli standard minimi
45
in materia di qualità accademica,
imparzialità, esattezza o credibilità."
Piuttosto che una relazione dettagliata
sui diritti umani era un tentativo di
screditare un governo, soprattutto sulla
base di accuse di "discriminazione
politica" in materia di occupazione ed il
potere giudiziale. Le prove erano scarse
e l’approccio in assoluto sistematico.
HRW ha respinto queste critiche.
Altre leggi sono state utilizzate, dice, a:
"... tipificare come delitto l'esercizio
delle libertà fondamentali, in particolare
le
leggi
che
criminalizzano
la
disubbidienza, l’insubordinazione e le
azioni contro l'indipendenza dello Stato.
Infatti, l'articolo 62 della Costituzione
cubana proibisce l'esercizio di qualsiasi
diritto fondamentale che sia contrario
"ai
fini
dello
Stato
socialista".
Il recente rapporto su Cuba (Un nuovo
Castro, la stessa Cuba) é un tentativo
di porre alla gogna un intero sistema
sociale basandosi su alcuni aneddoti.
Come negli ultimi anni gli Stati Uniti
hanno focalizzato la loro strategia sui
diritti umani a Cuba sulle poche decine
di persone arrestate e imprigionate per
ciò che HRW considera si tratti
semplicemente di difendere i loro diritti
fondamentali. Il governo cubano dice
che la maggior parte di queste persone
avrebbero accettato denaro proveniente
dai programmi degli Stati Uniti per
rovesciare il sistema sociale cubano.
HRW ignora il diritto di Cuba a
proteggersi dai programmi interventisti
di
Washington.
HRW afferma anche che nel gennaio
2009 alcuni giovani, nella parte
orientale di Cuba, sono stati accusati di
"pericolosità",
semplicemente
per
essere disoccupati. Si è detto che uno
di loro era stato imprigionato per due
anni, solo per essere disoccupato. HRW
ha segnalato che Cuba collegata alcune
detenzioni ad "una politica USA volta a
rovesciare il governo di Castro ... Ma
nelle decine di casi che Human Rights
Watch ha esaminato per l’elaborazione
di
questa
relazione,
questa
affermazione
non
regge.
Per quanto riguarda i 40 ex detenuti
che afferma di aver intervistato a Cuba,
HRW ha richiamato l'attenzione a ciò
che egli chiama una legge: "... che
consente allo Stato di incarcerare le
persone prima che abbiano commesso
un reato, sotto il sospetto che
potrebbero commettere un delitto in
futuro ... Questa disposizione di
"pericolosità" [si riferisce] a qualsiasi
condotta che contraddica le norme
socialiste. E‘ la più orwelliana delle leggi
di Cuba e riflette l'essenza della
mentalità
repressiva
del
governo
cubano."
In primo luogo, l'articolo 62 della
Costituzione cubana dice testualmente
che "Nessuna delle libertà riconosciute
ai cittadini può essere esercitata contro
quanto stabilito nella Costituzione e le
leggi, né contro l'esistenza e i fini dello
stato socialista, né contro la decisione
del popolo cubano di costruire il
socialismo e il comunismo. L’infrazione
di questo principio è punibile. "(1)
Questo non è lo stesso" che proibire
l’esercizio
di
qualsiasi
diritto
fondamentale che va contro 'i fini dello
Stato socialista'. La dissidenza non è lo
stesso
che
attaccare
l'ordine
costituzionale.
Esame di alcuni degli
giuridici
e
pratici
di
affermazioni
46
aspetti
queste
recentemente da un gruppo legato agli
Stati Uniti. Allo stesso modo, Raul
Rivero,
Hector
Palacios,
Osvaldo
Alfonso Valdes e altri sono stati
accusati, perché vi erano prove
(comprese le ricevute) che avevano
ricevuto il denaro dai programmi USA
destinati a rovesciare la Costituzione
cubana. Il rapporto di HRW ignora
queste
prove.
Legalmente, vi è certamente il principio
della
"pericolosità
sociale"
nella
legislazione cubana, ma è un concetto
che tipifica i reati penali e di altro tipo.
Ad esempio, la pericolosità sociale può
aggravare un "atto" che sia un delitto ai
sensi della legislazione del lavoro (legge
176). Al contrario, nel Codice Penale
(art. 14) l'assenza di "pericolosità
sociale" può attenuare la pena per un
delitto. Lo "stato pericoloso" definito dal
Codice Penale (art. 72) tipifica anche
una serie di comportamenti antisociali,
come l'ubriachezza. In altre parole,
l'attenzione di Human Rights Watch
sulla
"pericolosità"
è
solo
una
montatura.
Non
c’è
un
crimine
sostantivato di "pericolosità". E’ un
qualificativo al comportamento reale.
Allo stesso modo, il fatto di essere
disoccupato a Cuba non costituisce
alcun tipo di reato, è semplicemente
assurdo.
Gli stessi gruppi di Miami che hanno
mandato i soldi a questi cubani (anche
se la maggior parte del denaro del
governo degli Stati Uniti rimane a
Miami, provocando conflitti all'interno di
questi gruppi) erano quelli che avevano
organizzato gli attentati negli alberghi
turistici a Cuba nella decade ’90. Non è
sorprendentemente che le autorità
cubane siano intolleranti davanti a
questo terrorismo. Gli arresti del marzo
2003 furono provocati dai timori di
Cuba che il regime di Bush potesse
organizzare una invasione stile Iraq
facendo uso di questi agenti pagati.
Dopo la relazione sul Nuovo Castro,
HRW ha proseguito la sua campagna in
favore dei "dissidenti" finanziati dagli
Stati
Uniti.
Nel gennaio 2010, ha chiesto che il
governo cubano "cessi immediatamente
le vessazioni contro il non vedente e
difensore dei diritti umani Juan Carlos
González Leiva, leader del Consiglio dei
Relatori dei Diritti Umani". Gonzalez
Leiva capeggia la sezione di Camagüey
della Fondazione Cubana dei Diritti
Umani, un organismo che è stato
finanziato da Washington, attraverso
Miami,
da
almeno
dieci
anni.
I “dissidenti”
Tuttavia,
nel
caso
dei
famosi
"dissidenti" - tra i quali si comprendono
molti
dei
qualificati
giornalisti
indipendenti e difensori dei diritti
umani, finanziati dal Dipartimento di
Stato USA e dai programmi USAID per
promuovere una "transizione" a Cuba il possesso di grandi quantità di denaro,
in una situazione di disoccupazione, può
costituire
una
prova
di
reato.
Ad esempio, il "dissidente” Oscar
Espinosa Chepe era disoccupato da
dieci anni al momento del suo arresto,
nel marzo 2003, però aveva più di 7000
dollari nascosti nella fodera del suo
vestito. Questo denaro avrebbe potuto
stare nella banca insieme con i suoi altri
risparmi,
ma
lo
aveva
ottenuto
Una parte degli aiuti USA agli agenti
cubani passa sopra ai cubani di Miami.
Il governo degli Stati Uniti supporta
direttamente i “giornalisti indipendenti",
47
su cui tanto Reporter Senza Frontiere
(RSF)
e
Human
Rights
Watch
manifestano la loro santa indignazione.
La Sezione di Interesse USA a L'Avana
(di fatto l’ambasciata USA) stampa
direttamente la Revista de Cuba della
Marquez Sterling Journalist Society,
mentre la rivista El Disidente è
pubblicata in Porto Rico, ma è
distribuita attraverso la citata Sezione
di Interessi.
dissidenti ancora in carcere dall’ondata
repressiva del 2003."
Se queste richieste non raggiungono il
loro scopo, allora, questi paesi,
compresi gli Stati Uniti, "devono essere
in grado di scegliere individualmente se
procedere o non imporre le loro
restrizioni su Cuba". In realtà, gli USA
sono l'unico paese ad imporre tali
sanzioni
contro
Cuba.
Questa informazione si pubblica con un
certo dettaglio a Cuba, ma è appena
menzionata da HRW o in qualsiasi altro
rapporto USA. Dal momento che il
"consenso USA" ha squalificato in modo
efficace il sistema cubano nel suo
complesso, non è preciso prendere in
considerazione questo piccolo dettaglio.
Tuttavia, non vi può essere alcun
dubbio che i paesi indipendenti hanno il
diritto
all'autodifesa
davanti
alla
sovversione
e
al
terrorismo
nordamericani.
Questo tipo di intervento con il pretesto
dei diritti umani è coerente con la
politica estera degli Stati Uniti in
America Latina. L'eliminazione dei
regimi indipendenti molesti è stata una
pratica ad nauseam per tutto il secolo
americano ed è stato sempre sostenuta
da
parte
delle
elite
corporativa
statunitensi.
Le
campagne
di
delegittimazione
sempre
hanno
preceduto il "cambio di regime", per
esempio, in Guatemala e Cile. Human
Rights Watch, a quanto pare, non vede
un abuso dei diritti umani in questi
interventi.
HRW non condanna il blocco a Cuba
Condividendo il
agenti della Cia
HRW afferma che i 50 anni di blocco
economico degli Stati Uniti contro Cuba
sono stati un fallimento, tuttavia, a
differenza dei 187 paesi che, nel 2009,
hanno votato all’ONU contro il blocco
questo gruppo, con sede a New York,
non lo condanna come una violazione
dei Diritti Umani. Al contrario, HRW
sostiene che Cuba utilizza il blocco
come pretesto per la repressione.
Propone un nuovo programma contro
Cuba in cui Europa e America Latina si
uniscano a Washington per esigere "la
liberazione incondizionata di tutti i
prigionieri
politici"
inclusi
"i
53
tavolo
con
gli
Jose Miguel Vivanco ha fatto parte dello
staff, con Caleb McCarry, designato dal
governo Bush come "amministratore
della transizione verso una Cuba libera"
senza dire una sola parola circa il
terribile abuso dei diritti umani implicito
nel fatto che un paese pretenda
organizzare la “transizione politica" di
un altro. In questo aspetto, HRW deve
fare il suo dovere in relazione
all'articolo 1 del Patto Internazionale
dei Diritti Civili e Politici (2), che recita:
"Tutti i popoli hanno il diritto di libera
48
Per questi prigionieri - detenuti dai
militari USA nella parte occupata di
Cuba, in Guantanamo - HRW ha scritto
(nel gennaio 2010) che il presidente
Barack Obama deve "rinnovare il suo
impegno” a chiudere la prigione. Non vi
è alcuna condanna dell’ "abusivo"
regime di Washington per questa
macchina
repressiva.
Ma
perché
dovremmo aspettarci tale sincerità ed
autocritica dell’elite degli Stati Uniti?
La lezione che c’insegna la relazione sui
diritti umani di Human Rights Watch su
Cuba è che nulla ha da insegnarci, sulla
piccola isola dei Carabi - sia sui punti
deboli o di forza -, una sedicente
organizzazione di diritti umani che
rappresenta l'elite corporativa e la
politica
estera
nordamericana.
autodeterminazione".
Vivanco ha anche parlato in gruppi di
cui facevano parte di ex agenti della
CIA come Frank Calzon e Carlos
Montaner,
soggetti
che
hanno
personalmente organizzato attentati
terroristici
contro
Cuba.
In nessun momento si sedette per
condannarli per questi attacchi, ma
piuttosto era d'accordo con loro sul
sostegno ai dissidenti spalleggiati dagli
USA. Così flessibili sono le sue
posizioni.
Come ricompensa per i suoi servizi, nel
giugno 2009, Vivanco ha ricevuto un
premio dal National Endowment for
Democracy per il suo lavoro dal titolo
"La democrazia a Cuba" con cui divenne
chiaro il suo vincolo con il governo degli
Stati Uniti. Le campagne di propaganda
USA contro Cuba non sono diminuite in
mezzo secolo e HRW è solo uno dei
collaboratori più recenti. Rispondendo
alle lamentele, da parte degli Stati
Uniti, sui "diritti umani e la libertà", un
disgustato diplomatico cubano ha
dichiarato: "Naturalmente gli USA
hanno una lunga storia in questa
materia, con Batista, Somoza, Trujillo,
Duvalier, Pinochet, Videla" riferendosi al
sostegno degli Stati Uniti ai dittatori di
Cuba,
Nicaragua,
Repubblica
Dominicana, Haiti, Cile ed Argentina.
NB. Alcuni dettagli delle accuse contro i
“dissidenti", arrestati nel marzo 2003
sono stati pubblicati a suo tempo dal
Ministero degli Esteri di Cuba (MINREX)
e sono ancora online. Per maggiori
dettagli si veda il libro, pubblicato nel
2003, Los disidentes dei giornalisti Luis
Baez e Rosa Miriam Elizalde. Il
giornalista franco-canadese Jean-Guy
Allard, lo studioso francese Salim
Lamrani e la giornalista statunitense
Diana
Barahona,
hanno
scritto
numerosi articoli sul finanziamento
degli Stati Uniti a queste organizzazioni
(in maggioranza con sede a Miami, ma
anche con sede a Parigi: Reporter
Senza Frontiere), che collaborano con il
governo degli Stati Uniti contro Cuba. I
finanziatori di HRW appaiono nelle
relazioni
annuali
di
questa
organizzazione, e il finanziamento
collegato figura spesso nelle sue
relazioni del paese.
Tutti i detenuti con i quali Human
Rights Watch ha parlato erano stati
liberati. Uno si chiede che avrebbe
detto, nel suo rapporto HRW, se avesse
scoperto una prigione segreta cubana,
dove centinaia di persone fossero state
detenute senza accuse, fossero state
torturate e messe al di là della portata
di
qualsiasi
sistema
giuridico.
*Monthly Review
49
avevano informato i loro colleghi
britannici del fatto che i loro agenti
avrebbero utilizzato passaporti del
Regno Unito – cosa che conferma che i
servizi britannici erano a conoscenza di
quanto stava
accadendo,
e che
incoraggiano il terrorismo israeliano
contro gli arabi.
da Contropiano.org
Abd
al-Bari
Atwan
”Complicità
europea
con
terrorismo del Mossad”
*
il
L’operazione del Mossad che ha portato
all’assassinio di Mahmoud al-Mabhouh –
uno dei fondatori delle brigate Ezzeddin
al-Qassam, braccio armato di Hamas –
non solo ha tradito le complicità di
alcuni servizi di sicurezza dell’Autorità
Palestinese e la collaborazione di alcuni
suoi leader con i servizi segreti
israeliani (Hamas, pur attribuendo al
Mossad la paternità dell’operazione che
ha portato all’assassinio di Mabhouh, ha
accusato Mohammed Dahlan – membro
di Fatah ed ex “uomo forte” dell’ANP a
Gaza, prima che Hamas prendesse il
potere nella Striscia – di essere
coinvolto
nell’operazione;
i
due
palestinesi arrestati in Giordania e
consegnati alle autorità di Dubai con
l’accusa di aver fornito supporto
logistico alla squadra che ha commesso
l’omicidio, avevano lavorato in passato
nei servizi di sicurezza dell’ANP, e
secondo
Hamas,
lavoravano
attualmente
per
una
società
immobiliare di proprietà di Dahlan a
Dubai (N.d.T.) ), ma ha compromesso
anche la reputazione di alcuni stati
europei, e messo in luce la loro
complicità con il terrorismo israeliano,
soprattutto nel momento in cui questo
terrorismo è rivolto contro gli arabi e i
musulmani.
E’ vero che il governo britannico si è
affrettato a smentire queste notizie, ma
il fatto che Londra non ha preso alcun
provvedimento contro gli israeliani
conferma che la collera ufficiale del
governo britannico non è nient’altro che
una messinscena malriuscita.
La signora Margaret Thatcher espulse
13 diplomatici israeliani e sospese la
collaborazione di sicurezza con Israele
nel 1987, dopo che il Mossad aveva
utilizzato passaporti britannici per
compiere
analoghe
operazioni
terroristiche. Ma nutriamo seri dubbi sul
fatto che Gordon Brown, attuale primo
ministro ed uno dei maggiori sostenitori
di Israele, oltre che ex membro di
un’associazione di amici di Israele
(Labour Friends of Israel (N.d.T.) ),
compirà un passo di questo genere.
Siamo rimasti sorpresi dal silenzio di
alcuni governi europei, che hanno
lasciato che il Mossad utilizzasse
impunemente i passaporti di alcuni loro
cittadini per assassinare Mabhouh a
Dubai, e siamo rimasti sorpresi ancor di
più dalle inchieste pubblicate da alcuni
giornali britannici venerdì scorso, le
quali affermano che gli israeliani
Queste posizioni vergognose e queste
complicità da parte della Gran Bretagna
e di altri paesi europei ci confermano
che i responsabili israeliani avevano
50
sovranità alla luce del sole, compie i
propri crimini confidando nel sostegno
degli Stati Uniti e dell’Europa – anche
laddove utilizza i passaporti di questi
paesi a loro insaputa. I paesi occidentali
spendono centinaia di miliardi con il
pretesto di combattere il terrorismo
arabo-islamico, ma perdono la loro
credibilità ed i loro amici – senza i quali
non possono raggiungere gli obiettivi
sperati – allorché non muovono un dito
di fronte al terrorismo israeliano. Ciò fa
sì che i soldi che essi spendono siano
gettati al vento.
ragione quando hanno detto che tutto il
polverone mediatico di questi giorni era
“una tempesta in un bicchier d’acqua”,
che presto le cose si sarebbero calmate,
e che tutto avrebbe ripreso il proprio
corso naturale entro una settimana al
massimo. Per chiudere definitivamente
la questione basterà tutt’al più qualche
scusa da parte di Israele.
Con il Canada e la Nuova Zelanda, Tel
Aviv usò lo stesso sistema del “porgere
le scuse”, quando utilizzò passaporti di
questi
due
paesi
per
compiere
operazioni analoghe (il fallito attentato
a Khaled Meshaal nel 1997 ad Amman).
Malgrado queste operazioni, i rapporti
fra Israele e il Canada non subirono
alcuna
conseguenza,
anzi
si
rafforzarono ulteriormente negli anni
successivi.
Chiediamo ai paesi arabi di punire gli
stati che si sono dimostrati complici di
questo terrorismo israeliano – con il
loro silenzio di fronte alla violazione
israeliana della loro sovranità e di
fronte all’utilizzo da parte di Israele di
passaporti appartenenti a loro cittadini
per compiere un’azione terroristica in
un emirato pacifico e moderato –
minacciandoli di sospendere ogni forma
di collaborazione di sicurezza con questi
stati se non si affretteranno ad
esercitare pressioni su Israele affinché
consegni i killer alla giustizia il prima
possibile. Tuttavia sappiamo bene che
la maggior parte dei governi arabi non
possiedono una reale sovranità, sono
privi di orgoglio, e si piegano
completamente ai diktat ed agli ordini
impartiti dall’Occidente.
Questo terrorismo israeliano equivale a
qualunque altra forma di terrorismo,
compreso quello di al-Qaeda. Anzi,
forse è ancora peggiore, per un motivo
molto semplice: al-Qaeda non è uno
stato membro della Nazioni Unite, né
pretende di essere l’unica democrazia
del Medio Oriente, o un modello di
civiltà occidentale nel mondo arabo. Il
terrorismo israeliano praticato con la
complicità dell’Occidente è quello che
fornisce ad al-Qaeda e a tutti gli altri
gruppi estremisti la giustificazione per
reclutare giovani musulmani oppressi e
umiliati allo scopo di portare a termine
attentati a bordo degli aerei o
all’interno delle stazioni ferroviarie.
Diciamo ciò, senza voler per questo
approvare alcuna forma di terrorismo.
Ci rimane da dire che l’Autorità
Palestinese (due suoi ex funzionari sono
coinvolti
in
questo
attentato
terroristico) avrà perso quel poco che le
restava in termini di reputazione e
credibilità,
e
non
meriterà
di
rappresentare
neanche
un
solo
palestinese, se non si mobiliterà
immediatamente per punire i suoi
leader coinvolti e fare pulizia nei suoi
Il Mossad israeliano si comporta come
se fosse al di sopra della legge, invia
sicari nelle capitali di paesi moderati e
alleati dell’Occidente, viola la loro
51
*Abd al-Bari Atwan è un giornalista
palestinese residente in Gran Bretagna; è
direttore del quotidiano “al-Quds al-Arabi”
ranghi allontanando tutti coloro che
collaborano con il Mossad il prima
possibile. Due scandali in meno di una
settimana – uno nel quale sono
coinvolti i servizi di sicurezza che si
presuppone debbano lavorare contro
Israele e a difesa del cittadino
palestinese, e che si sono trasformati
invece in strumenti di spionaggio a
scopo di ricatto a danno dei palestinesi
e degli stessi responsabili dell’ANP, e
l’altro nel quale è emersa una
complicità con il Mossad per liquidare
uno dei combattenti che hanno posto la
loro vita al servizio della questione
palestinese
e
della
lotta
contro
l’occupazione – sono troppi.
tradotto
e
pubblicato
www.medarabnews.com
52
dal
sito
RIFIUTARSI DI UCCIDERE IN AFGANISTAN
PARLA LA MADRE DI UN SOLDATO
“Ci sono state manifestazioni in Nuova Zelanda, a
Mosca e a San Pietroburgo contro l’incarcerazione di
Joe e il suo ingiusto trattamento da parte del Ministero
della Difesa e del governo britannico. Noi rimaniamo
forti, sapendo che Joe è nel giusto.”
Sue Glenton alla manifestazione di York Against The
War (Regno Unito)
Joe Glenton è il primo soldato in Europa a rifiutarsi pubblicamente
di combattere in Afganistan. Vi era stato mandato con l’esercito
britannico nel 2006: mentre i politici dichiarano che le truppe
britanniche erano lì “per aiutarli”, Joe vide che gli Afgani erano
contro di loro. Nel 2007 si assentò senza permesso (AWOL),
costituendosi nel 2009. Lo scorso novembre Joe fu incarcerato per
un mese, venendo poi rilasciato a patto che non parlasse in
pubblico. Sua madre Sue e sua moglie Clare hanno continuato a
parlare per lui e contro l’occupazione. Il 29 gennaio, come risultato
dell’appoggio internazionale dentro e fuori delle forze armate, la
corte marziale ha lasciato cadere la maggior parte dei capi
d’accusa più seri, che prevedevano un condanna a più di 10 anni.
Ma nonostante sia stato diagnosticato come affetto da Disturbo da
Stress Postraumatico (PTSD), il 5 marzo Joe verrà processato per
AWOL, che prevede una pena massima di due anni. Questo
equivale a una tortura psicologica.
Joe Glenton è uno delle migliaia di uomini e donne che nel mondo si rifiutano di fare il militare - una
parte cruciale del movimento internazionale contro la guerra. Per difendere gli interessi
dell’Occidente, le truppe NATO hanno devastato l’Afganistan, uno dei paesi più poveri del mondo.
La maggioranza delle vittime della guerra sono donne. Nel 2004, l’ONU ha stimato che del milione
e mezzo di persone uccise in vent’anni di conflitti, 300.000 erano bambini. Questo bagno di sangue
deve finire. Sono i criminali di guerra che si devono processare, non chi rifiuta di uccidere.
RIFIUTARSI DI UCCIDERE NON È REATO!
53
“Leggere per Non Dimenticare”
da Ass. Naz. Amicizia Italia-Cuba
Armando Hart Dávalos
Faustino Pérez: paradigma di rivoluzionario
In una modesta casa a Zaza del Medio, nell'antica provincia di Las Villas, che oggi fa
parte della provincia di Sancti Spíritus, il 15 di febbraio 1920 nacque Faustino Pérez.
Quelli di noi che lo hanno conosciuto e che hanno condiviso con lui una profonda
amicizia conservano ricordi incancellabili della sua personalità e sentono la necessità
di trasmettere alle generazioni più giovani alcuni fatti salienti della sua vita, dedicata
interamento al trionfo della causa rivoluzionaria e progresso del socialismo a Cuba.
Come ho segnalato nel ritratto che gli dedico nei mio libro Profili fu un uomo fatto d’un
pezzo, rivoluzionario e patriottico. Pulito, autentico, sagace. Era pacato nel parlare e
sapeva ascoltare gli altri. Conservava il fuoco di un temperamento ribelle e
intransigente di fronte a tutte le ingiustizie.
Sviluppammo nel combattimento contro la tirannia un'amicizia profonda; insieme
eravamo stati nel Movimento Nazionale Rivoluzionario, e con identica concezione
politica avevamo preso parte a diversi eventi. Entrambi dalla metà 1955 ci
incorporammo nell'organizzazione del Movimento 26 Luglio.
Dopo la partenza di Fidel, di Raúl e di altri compagni verso il Messico rimase a Cuba
per organizzare il Movimento e raccogliere fondi per la spedizione che si stava
preparando. Viaggiò in Messico in varie occasioni portando a termine le istruzioni di
Fidel, e nell’ottobre 1956 assunse la direzione politico-amministrativa di un
accampamento dove si preparavano i combattenti e venne a Cuba come spedizionario
del Granma. Dopo il combattimento di Alegría de Pío, fu uno dei due spedizionari che
restarono insieme al Comandante in Capo fino a quando si ritrovarono con il gruppo di
Raúl a Cinco Palmas. Il 23 dicembre 1956 fu inviato a compiere missioni in
clandestinità, nelle quali fu protagonista di rischiose azioni, tra queste il trasferimento
54
del giornalista Herbert Matthews nella Sierra Maestra, e il sequestro di Juan Manuel
Fangio. Arrivò ad essere Capo del Movimento 26 Luglio di La Habana.
Nel tempo Faustino si trasformò nel leader naturale della lotta clandestina a La
Habana; era rispettato dai gruppi d’azione e aveva una grande capacità di relazione
con tutti i mezzi sociali e politici. Frank in Oriente e Faustino a La Habana sono,
secondo me, i simboli più alti della clandestinità in appoggio al combattimento nella
Sierra Maestra. Aveva la fibra umana necessaria per mettersi in relazione con le altre
persone e avere influenza su di loro. Quest’ultimo era il centro della sua vocazione
rivoluzionaria. Era un genuino politico martiano. Anche se manteneva opinioni diverse
era capace di discutere, agire e capire gli altri. Niente è più estraneo a qualsiasi
settarismo che il suo comportamento e la sua vita come rivoluzionario.
Dopo il fallimento dello sciopero dell’aprile 1958, partecipa sulla Sierra Maestra alla
riunione con Fidel per analizzare le cause di quel fallimento e Faustino dimostrò
ancora una volta la sua onestà e la sua fermezza rivoluzionaria. Ritornò a La Habana
per affidare la direzione ad altri compagni e il 28 di giugno 1958 ritornò sulla Sierra
Maestra, agli ordini di Fidel, dove termina la guerra.
Ecco alcuni punti salienti del suo straordinario percorso rivoluzionario dopo il Primo
Gennaio 1959. Quando si costituì il Governo Rivoluzionario esercitò la carica di
Ministro per il Recupero di Beni Illegalmente Acquisiti e alla fine di quell'anno era
riuscito a recuperare beni per un valore di 400 milioni di pesos.
Agli inizi dell'anno 1960 lo si incaricò di organizzare e dirigere il Servizio Medico Rurale
sulla Sierra Maestra e rimase al fronte di una zona di operazioni nella lotta contro
banditi nell'Escambray. Ricordiamo che Faustino portò a termine i suoi studi di dottore
in Medicina durante la dittatura, esercitando senza titolo perché si rifiutava di riceverlo
con la firma di un ministro di Batista. Come ministro dell’Educazione ho avuto l'onore
di consegnargli nel 1959 il suo titolo di Dottore. Fu fondatore e capo della Sanità
Militare dell'Esercito del Centro e in tale ruolo partecipò ai combattimenti contro
l'invasione mercenaria a Playa Girón.
Nell’agosto del 1962 Fidel gli affidò il compito di organizzare l'Istituto Nazionale di
Risorse Idrauliche e sotto la sua direzione si costruirono decine di dighe e altre opere
di questo tipo.
Tra il 1969 e il 1973 svolse anche la funzione di Segretario del Comitato Regionale del
Partito a Sancti Spíritus e quello di Ambasciatore di Cuba in Bulgaria dal 1973 al 1976.
Dalla sua costituzione nell’ottobre 1965 è stato membro del Comitato Centrale del PCC
e dal 1976 deputato all'Assemblea Nazionale del Potere Popolare. Nel 1977 fu
nominato Capo dell'Ufficio di Attenzione agli Organi Locali del Potere Popolare, ascritta
al Comitato Esecutivo del Consiglio dei Ministri, carica che occupò fino al 1989. Con la
sua salute indebolita e 70 anni compiuti, richiese e assunse la direzione di un
programma di sviluppo agro-zootecnito e sociale nella Palude di Zapata.
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Morì nel dicembre del 1992 con una storia irreprensibile come rivoluzionario. Con una
frase eloquente, Pedro Miret lo descrisse davanti alla sua tomba come “umile e
sfidante”. Com’è difficile unire in una sola anima queste due virtù! Se alla sfida non si
unisce l'umiltà sparisce ogni possibile virtù. Quello che completa questi valori è il
senso umano della vita che egli possedeva con tenerezza e fermezza.
Uomo retto nel senso più stretto del termine, la sua passione per il lavoro con il
popolo era una delle sue principali qualità. È difficile a volte trovare congiunti il
carattere combattente e la capacità di comprendere le persone nelle sue varie
sfumature. Riescono ad averlo solo coloro che hanno un senso concreto dell’essere
umano come la cosa principale e più importante che noi rivoluzionari dobbiamo
difendere.
Nel novantesimo anniversario della sua nascita rinnoviamo il nostro impegno con la
causa che difendemmo insieme, e confermiamo, una volta di più, la massima
dell'Apostolo (Josè Martí): “La morte non è vera quando si è realizzata bene l'opera
della vita". E Faustino l’ha realizzata più che bene! Per questo il suo esempio rimarrà
vivo e darà frutti nella memoria delle attuali generazioni di cubani e in quelle future.
Fonte http://www.juventudrebelde.cu
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