Prefazione di U. Bertelè

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Prefazione di U. Bertelè
«Today every business is a digital business»
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di Umberto Bertelè *
«Today every business is a digital business»: non esiste comparto
dell’economia in cui non sia presente qualche componente in formato digitale (o digitalizzabile) su cui costruire business model alternativi, con impatti spesso devastanti per le imprese incumbent.
È questo, a mio avviso, il messaggio forte di Downes e Nunes, gli
autori del libro, che hanno avuto il merito – con l’introduzione della
nozione di Big Bang Disruption – di trovare una spiegazione comune
per una serie di fenomeni recenti, apparentemente lontani fra loro,
anche perché facenti capo ai settori più diversi, accumunati dalla
velocità (quasi da teoria delle catastrofi) con cui si sono verificati e
dalla virulenza dei loro effetti.
Innovazione: nelle tecnologie ma negli anche stili di vita
Una domanda che è lecito porsi è perché di digitale si parli ancora
adesso, quasi come se si trattasse di una novità. Perché a quasi sei
decenni dall’introduzione dei primi grandi calcolatori nelle imprese
e nella PA, a quattro dall’entrata sul mercato dei PC e a circa tre dal
diffondersi di una serie di innovazioni che hanno cambiato profon*1Ordinario di Strategia e sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano,
dove è stato tra i fondatori del corso di studi di Ingegneria Gestionale. È presidente onorario del MIP. Autore di Strategia (Milano, Egea, 2013) e, con G. Azzone,
di L’impresa. Sistemi di governo, valutazione e controllo (Milano, Etas, 20115).
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damente la nostra vita: i cellulari, con le loro reti e i loro standard;
Internet, gonfiatasi sino allo scoppio della celebre «bolla» agli inizi
di questo secolo; le fibre ottiche, che hanno permesso la prima forte
crescita nella disponibilità di banda.
Perché? Perché negli ultimi anni una nuova ondata di innovazioni tecnologiche nell’ambito dell’ICT, accompagnata e resa effettiva
dalla parallela costruzione di nuove infrastrutture tecnologiche, ha
provocato un vero e proprio salto di qualità. I punti chiave di questo
salto:
• l’enorme diffusione su scala mondiale di smartphone e tablet;
• la loro possibilità di accesso a Internet in mobilità (e non solo
dai PC come in precedenza);
• la loro possibilità di offrire attraverso il meccanismo delle
app, in connessione con gli altri attori degli ecosistemi costruiti attorno a essi, una varietà elevatissima di funzionalità
negli ambiti più diversi;
• il basso investimento necessario per il lancio delle app stesse,
legato alla facilità e velocità con cui esse possono essere create: sfruttando da un lato la disponibilità in rete di una molteplicità di «spezzoni» di software utilizzabili gratuitamente e
dall’altro la possibilità di procedere con gradualità nella loro
messa a punto, testandone direttamente la validità in rete e
modificandole (data la facilità di farlo) se necessario;
• la disponibilità di un’infrastruttura sempre più consistente di
cloud computing, che permette di memorizzare dati ed eseguire elaborazioni, anche molto complesse, in remoto: attribuendo di fatto alle app un ruolo di comando, senza gravarle
della pesantezza dei processi che esse stesse attivano e controllano;
• la disponibilità crescente di banda larga (broadband), per i
suoi riflessi sulla qualità dei servizi fatti transitare attraverso
Internet;
• l’attitudine delle persone a rimanere sempre connesse e l’estensione crescente di tale attitudine alle cose (dai pneumatici
di un veicolo industriale, per controllarne da remoto il grado di usura, al sensore di pressione di chi soffre di disturbi
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cardiocircolatori, per intervenire prontamente in caso di pericolo) attraverso la cosiddetta Internet of things: con la conseguente possibilità di raccogliere masse enormi di dati (big
data) utilizzabili ai fini più diversi.
Non sono state però le innovazioni tecnologiche da sole a generare
un fenomeno così imponente di trasformazione dell’economia: un
ruolo almeno altrettanto rilevante lo ha giocato la loro rapida trasformazione in innovazioni nelle abitudini e negli stili di vita, con una
velocità di penetrazione sino a pochi anni fa impensabile e con una
proiezione geo-politica anch’essa inimmaginabile. Sono ad esempio
cresciuti dal nulla, nel giro di pochi anni, i social network: nati prima degli smartphone, ma fortemente sviluppatisi con la possibilità
di accedere in mobilità a Internet. Si sono verificati fenomeni di
diffusione virale assolutamente nuovi nella storia, come nel caso di
WhatsApp, la nota start-up che in quattro anni è passata da zero a
450 milioni di utenti in tutto il mondo.
Funzionalità migliori, a prezzi più bassi e con maggiori possibilità
di personalizzazione
La crescita di nuovi attori economici ha un effetto devastante sugli
equilibri esistenti in un mercato se le funzionalità da essi proposte
entrano in collisione – a prezzi più bassi, qualità più elevata e spesso
con un più elevato livello di personalizzazione – con l’offerta delle
imprese incumbent. Nel caso WhatsApp – che cito perché divenuto
stranoto con l’acquisizione (avvenuta dopo l’uscita nell’ottobre 2013
dell’edizione originale di questo libro) della start-up da parte di Facebook per 19 miliardi di dollari – la Big Bang Disruption ha colpito
ad esempio un mercato ricco come quello degli SMS, nonostante
fosse un mercato giovane (sviluppatosi con il diffondersi dei cellulari)
controllato da imprese di grandi dimensioni. Il grimaldello: la possibilità nata con gli smartphone – grazie al convogliamento alternativo
in mobilità dei messaggi attraverso Internet e l’aggiramento per questa via della politica di discriminazione dei prezzi in funzione degli
utilizzi applicata dagli operatori telecom – di offrire un’alternativa
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agli SMS a costo nullo (o quasi) con funzionalità più ampie (quale
ad esempio l’inclusione nei messaggi stessi di foto e video). Con la
peculiarità (presente in diversi altri casi) che i nuovi entranti sottraggono alle imprese incumbent quote crescenti di mercato, ma non
subentrano a esse (se non in minima parte) nei ricavi e nei profitti,
perché offrono i servizi alternativi (quasi) gratuitamente: con una
strategia che potrebbe apparire suicida, ma che è giustificata dalla
possibilità di quotarsi o di vendersi al miglior offerente, portando in
dote le potenzialità di sfruttamento di un numero molto elevato di
utenti e/o contribuendo con la propria immagine a ravvivare quella
dell’acquirente (come nel caso di WhatsApp e precedentemente in
quello di Skype, pagata da Microsoft 8,5 miliardi di dollari).
Molte funzionalità con un solo device
La prima parte del libro analizza con grande attenzione i fenomeni
di disruption, guardando alle loro ragioni profonde. Io mi limiterò
in questa prefazione a citare alcuni dei casi più significativi, evidenziando le componenti digitali su cui sono stati costruiti i business
model alternativi di successo.
Una prima categoria di fenomeni di disruption è riconducibile
alle dotazioni di cui smartphone e tablet per loro natura dispongono.
È in grande crescita il numero di persone che li utilizzano per
fotografare, anche per il continuo miglioramento delle loro prestazioni in tale ambito: miglioramento dettato dalla concorrenza con
gli altri produttori di dispositivi e non certo dalla volontà di rubare
quote di mercato a Nikon o a Canon, che vedono però le loro vendite di macchine fotografiche compatte calare drammaticamente.
È in crescita il numero di persone che li utilizza come navigatori
portatili, sfruttando attraverso opportune app i GPS in essi presenti: con effetti disastrosi per le vendite di TomTom o Garmin,
ma anche in questo caso senza che i produttori di dispositivi ne
traggano profitto.
Ha raggiunto livelli ormai molto elevati il numero di persone che
li utilizza per leggere l’ora – tendenza già in atto «al tempo dei cellulari» – con la conseguenza che gli orologi sono sempre più acquistati
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per altre valenze: come gioielli o accessori di moda, per la misura
delle prestazioni sportive e (in prospettiva) come smart watches.
Il formato dei prodotti è digitale
Una seconda categoria di fenomeni di disruption è riferita ai prodotti nativamente digitali o che divengono tali, come di recente la
televisione: prodotti per cui la comune natura digitale rappresenta un
potente fattore di omologazione, con conseguenze rilevanti sull’articolazione industriale.
È in atto un significativo cambiamento nei giochi elettronici,
ove gli smartphone e i tablet – con il loro corredo di app destinate ai
giochi (18-20 miliardi di dollari di vendite nel 2013) – sono sempre
più visti non solo come un’alternativa alle console portatili ma anche come surrogato di quelle da tavolo: come dimostrato dal crollo
delle vendite delle prime e dai vani tentativi dei nuovi modelli di
Wii, PlayStation e Xbox di raggiungere in fase di lancio i volumi
del passato.
È in atto un forte cambiamento nella diffusione di brani musicali
e film, ormai tutti in formato digitale. Il business model basato sul
download, affermatosi con Apple poco più di dieci anni fa, perde
quota rispetto a quello basato sullo streaming, lanciato da un insieme di start-up (quali Spotify per la musica e Netflix per i film) e
reso possibile dall’ampliamento delle possibilità di memorizzazione
e trasmissione derivante dai massicci investimenti in infrastrutture
cloud e broadband.
È in atto parallelamente un processo di convergenza fra cinema
e televisione, con gli operatori cosiddetti OTT-over the top (quali
Apple, Google con YouTube, Amazon e Netflix) che canalizzano
attraverso Internet la loro offerta di programmi televisivi (alcuni
dei quali addirittura autoprodotti), affiancata a quella di filmati,
diventando oggettivamente competitori – data la crescente facilità
di connessione a Internet dei televisori – dei tradizionali operatori
televisivi (quali in Italia Rai e Sky).
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Il formato digitale convive con quello tradizionale
Una terza categoria di fenomeni di disruption è riferita ai prodotti,
come i giornali e i libri, che vedono tuttora la convivenza fra il formato originario (nella fattispecie cartaceo) e quello digitale.
È entrata come ben noto in profonda crisi (con poche eccezioni
riguardanti alcune testate economico-finanziarie operanti su scala
globale) la grande maggioranza dei giornali tradizionali che vedono
contemporaneamente calare sia il numero di copie cartacee vendute
sia la pubblicità e che – non riuscendo a recuperare con i loro siti web
e con la vendita di copie online (peraltro molto cresciuta) il fatturato
e/o i margini perduti – sono costretti a violente ristrutturazioni o a
trovarsi acquirenti «ricchi» (come il Washington Post acquistato dal
capo carismatico di Amazon, Jeff Bezos). La crisi dei giornali tradizionali ha ovviamente aperto spazi alla nascita di start-up: a giornali
con redazioni estremamente leggere, che operano contemporaneamente per la carta e per la rete, o a giornali o blog solo online quali
l’Huffington Post, divenuto uno dei siti più visitati al mondo. La crisi
della carta stampata ha ovviamente colpito il terminale ultimo della
catena distributiva, le edicole: a Milano, negli anni più recenti, circa
un terzo di esse ha interrotto l’attività.
Nei libri il successo del formato digitale, testimoniato dal fatto
che negli Stati Uniti l’ebook ha sopravanzato in termini di copie
vendute il formato cartaceo tradizionale, si è accompagnato a una
crescita continua (nonostante il suo lancio da parte di Amazon risalga a ben due decenni fa) dell’e-commerce, con una conseguente
profonda crisi delle librerie, evidenziata dalle continue chiusure e
dalle difficoltà (o addirittura dal fallimento) delle grandi catene.
L’e-commerce è sempre più disruptive…
Una quarta categoria di fenomeni di disruption può essere riservata,
data la sua rilevanza e in continuità con quanto visto per i libri, all’ecommerce. L’e-commerce riguarda prodotti digitali (quali un ebook
o un film o un biglietto aereo), ma anche prodotti dotati di una loro
fisicità: come appunto i libri, i dispositivi elettronici o i capi di ve-
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stiario. È su questi ultimi che voglio focalizzare l’attenzione perché,
a differenza dei casi visti in precedenza, i business model alternativi
non vengono costruiti sul prodotto, ma sul processo di vendita e
sul rapporto con i potenziali clienti: l’uno e l’altro in ampia misura
digitalizzabili.
Negli Stati Uniti la concorrenza dell’e-commerce è sempre più
sentita anche dai grandi operatori retail multimarca, diversi dei
quali costretti ad avviare un processo di razionalizzazione dei punti
di vendita. Pesa la maggior propensione dei consumatori ad avvalersi, quando se ne verifichi la convenienza, dell’e-commerce. Pesa,
con il capillare diffondersi degli smartphone e con la crescente disponibilità di app per il confronto dei prezzi, il cosiddetto «effetto
showrooming»: l’attitudine cioè a considerare i negozi «fisici» alla
stregua di showroom ove trovare esposti i prodotti (o addirittura
provarli nel caso del vestiario), per verificare poi l’esistenza di offerte
più convenienti – tipicamente online – attraverso la «lettura» del
codice a barre o del QR dei prodotti stessi.
In Cina, secondo paese al mondo per consistenza del PIL ma
di crescita recente, il successo dell’e-commerce – testimoniato dalla
forte crescita di imprese come Alibaba – è invece largamente legato alla debolezza delle strutture retail: un fenomeno interessante,
presumibilmente destinato a ripetersi in molti altri paesi che hanno
intrapreso la strada dello sviluppo.
... e la sharing economy continua a crescere
Una quinta categoria di fenomeni di disruption riguarda il contributo che i dispositivi mobile danno all’affermarsi dei business model
che privilegiano la disponibilità o la condivisione rispetto al possesso,
che si collocano cioè nel filone della cosiddetta sharing economy.
La crescita vista in precedenza dello streaming ai danni del
download nella musica e nel cinema, della possibilità cioè di accesso all’ascolto o alla visione in contrapposizione alla necessità di
acquisto, rappresenta un primo esempio importante. Ma ve ne sono
numerosi altri.
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Ha avuto una recente valutazione implicita di 10 miliardi di dollari, superando la capitalizzazione di grandi catene come Hyatt e
InterContinental, Airbnb, nata nel 2008 come sito per offrire case
private e stanze in tutto il mondo: una start-up citata una dozzina
di volte nel testo, che con un business model basato sullo sharing
si pone in concorrenza, soprattutto nella fascia media e bassa, con
quello classico alberghiero.
Recentissimo è il successo anche nel nostro paese di iniziative di
car sharing quali Car2Go (Daimler) e Enjoy (Eni), che sarebbero
state impossibili senza gli smartphone e senza le app per l’attivazione del servizio e l’accesso all’utilizzo del veicolo: iniziative che in
prospettiva – insieme con la crescente congestione urbana e i maggiori oneri per i parcheggi – potrebbero portare a una parziale sostituzione del possesso privato di auto con una maggiore disponibilità
di flotte a uso collettivo.
Contestato in Italia, ma in notevole espansione in altri paesi, è il
business model di Uber (società anch’essa citata ben dodici volte nel
libro) e di altre start-up consimili, che allarga – sfruttando l’esistenza degli smartphone e delle app – la disponibilità di servizi auto con
conducente: con riflessi vissuti come disruptive dai tassisti.
Talora cambiano solamente le regole del gioco della competizione
Accanto ai comparti colpiti dalla Big Bang Disruption ve ne sono
altri dove la nuova ondata tecnologica ha un impatto meno devastante sulle imprese incumbent, ma – aprendo nuove potenzialità di
innovazione nei business model – va a modificare le regole del gioco
della competizione.
È quanto è accaduto ad esempio negli Stati Uniti nel business
della consegna a domicilio delle pizze, dove le grandi catene stanno
guadagnando progressivamente quote rispetto alle pizzerie singole
attraverso la sostituzione della tradizionale procedura di ordinazione (via telefono) e di pagamento (via carta credito o contante)
con una molto più semplice e veloce, basata su app che accettano
contemporaneamente ordini e pagamenti e che attivano l’apparato
logistico.
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È quanto sta accadendo nei ristoranti, ove la tecnologia non solo
ha un peso crescente nell’organizzazione interna, ma influenza anche – attraverso siti come TripAdvisor o attraverso i social network
– le scelte dei potenziali clienti, obbligando i ristoratori a logiche
di marketing molto diverse dal passato. E lo stesso si può dire per
strutture consimili, come i saloni di bellezza e le palestre.
Verrà toccato anche il sistema bancario-finanziario?
L’avvento dell’informatica e di Internet ha avuto un impatto progressivo e di notevole rilevanza sul sistema bancario-finanziario: più
modificando però le regole del gioco della competizione e aprendo
la strada all’ingresso di qualche nuovo operatore virtuale che non
creando disruption negli assetti esistenti.
Continuerà a essere così? Qualcosa si sta muovendo nei paesi
avanzati: tipicamente nei pagamenti per gli acquisti nei negozi e
nelle grandi catene, che potrebbero essere effettuati sempre di più
con gli smartphone. In gara ci sono business model contrapposti,
che vedono fronteggiarsi – per la conquista della leadership di filiera – gli operatori telecom e quelli OTT (quali Google e eBay
con PayPal). Qualcosa si sta muovendo anche nei paesi di recente
emersione. In un paese come la Cina ad esempio, caratterizzato da
una scarsa efficienza del sistema bancario nella gestione del risparmio, stanno entrando con successo nel settore i grandi OTT locali:
Alibaba, Tencent e Baidu.
E negli altri comparti?
Non esiste comparto dell’economia, si è detto all’inizio, che non sia
esposto a possibili fenomeni di disruption o di cambiamento delle regole del gioco della competizione. Senza entrare nel dettaglio,
farò cenno ad alcuni casi.
Nella sanità, a fronte di costi che crescono continuamente con
l’invecchiamento della popolazione, emergono ad esempio nuovi
business model – basati sul controllo a distanza dell’emergere di
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situazioni critiche (attraverso smartphone e cloud e con l’ausilio di
sensori in grado di monitorare i parametri rilevanti) – che vanno a
sostituire quelli tradizionali basati sul (solo) ricovero ospedaliero.
Nell’ambito delle università e delle business school, ove storicamente minore è stata la crescita della produttività per la difficoltà
di conciliare l’industrializzazione dei processi di formazione con il
mantenimento di un loro buon livello qualitativo, possibili fenomeni
di disruption potrebbero nascere dall’entrata in campo dei MOOCMassive Open Online Courses, corsi online aperti pensati (da alcuni
dei più famosi atenei mondiali) per una formazione a distanza di un
numero elevato di utenti.
Ma anche nel comparto industriale per eccellenza, quello dell’auto (che si avvia a essere sempre più connessa), il fatto nuovo è l’interesse crescente di imprese apparentemente lontane come Apple e
Google: che per il momento promuovono accordi di collaborazione
volti a facilitare lo sfruttamento dei servizi offerti dagli smartphone
durante la guida, ma che presumibilmente guardano alla nascita –
in un futuro nemmeno lontano – di servizi innovativi atti a rendere
più sicura la guida. Ed è significativo che sistemi sperimentali in
grado di far funzionare l’auto senza guidatore siano stati sviluppati
parallelamente da BMW e da Google.
Possono le imprese incumbent sfuggire al rischio mortale
della Big Bang Disruption?
È nella seconda parte del libro, notevolmente ampia e ricca di osservazioni e spunti originali, che Downes e Nunes si pongono l’obiettivo molto ambizioso di fornire alle imprese incumbent una serie di
suggerimenti – sotto forma di dodecalogo – su come cercare di vedere
i pericoli in anticipo, su come reagire al rischio di disruption o almeno su come tentare di limitare i danni.
È un obiettivo ambizioso proprio per le peculiarità della Big
Bang Disruption che gli autori hanno così ben descritto nella prima
parte:
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• per la sua non facile prevedibilità;
• per la velocità con cui, una volta attivata, devasta gli equilibri
esistenti;
• per il radicale cambiamento delle regole del gioco della competizione che essa comunque comporta.
È un obiettivo ancora più ambizioso quando le imprese che devono
fronteggiare una potenziale disruption godono di differenziali competitivi, e conseguentemente di livelli di profittabilità, molto elevati.
Non basta infatti che esse siano in grado di adeguarsi alle nuove
tecnologie e ai nuovi business model: occorre – perché non perdano
valore – che siano in grado nella nuova situazione di fruire di differenziali competitivi altrettanto rilevanti.
Anche gli equilibri socio-politici rischiano la disruption?
Chiudo con un tema più macro, oggetto recentemente (dopo l’uscita
dell’edizione originale del libro) di forte dibattito: le preoccupazioni
sulla tenuta dell’occupazione, a fronte dell’immissione massiccia di
nuove tecnologie, e il rischio che le posizioni messe più a rischio
dalle nuove tecnologie intelligenti siano proprio quelle tipiche della
classe media. Si teme una fase di transizione lunga, prima che emergano nuove attività capaci di creare occupazione. Si teme una radicalizzazione della distanza fra le componenti più ricche e quelle più
povere della popolazione, già accentuatasi con la globalizzazione,
che metta a rischio la stessa democrazia (che ha nella classe media
un pilastro fondamentale). Si teme che provvedimenti redistributivi
assunti dai singoli paesi, del tipo di quelli che hanno permesso di
superare le crisi passate, siano completamente inefficaci in un contesto di economia aperta.
È il bicchiere mezzo vuoto. Dovremmo guardare a quello mezzo
pieno: non solo e non tanto alla disruption dell’esistente, ma alle
grandi opportunità che si aprono a chi abbia la voglia, la capacità e
la determinazione per coglierle.
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