Aper 12 speciale I forni 2013.indd
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Speciale novembre 2013 I segnali pericolosi che si notano, attraverso l’aumento continuo di tasse insostenibili, per continuare nello spreco, la storia insegna che hanno scatenato tante rivoluzioni sanguinose!. Oggi l’antico forno comunale non esiste più, ma a ricordarne la sua importanza, a futura memoria, rimane l’indicazione stradale: vicolo del forno. aperta Centr o Studi “Francesco d’Appignano” Pr Progetto etto grafi fico F F. Albertini - e-mail: il apertamente ta [email protected] Continuando a parlare di pane, si potrebbe ripassare la storia dell’uomo, dalle origini ai giorni nostri, la geografia dei continenti, l’agricoltura e l’economia, non solo agraria, delle nazioni, e persino le religioni, cominciando con le tante citazioni del pane nella Bibbia, continuando con l’uso anche religioso e rituale che ne facevano prima i greci poi gli ebrei (con pani azzimi, non lievitati, a Pasqua). Non dimentichiamo che uno dei miracoli di Gesù più apprezzati fu la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e che il LI FЁRNARЁ di Alberto Albertini detto Bertucce R ёtenghe fёrtёnatё daverё li fёrnarё, chё mai senza lavorё po’ rёstarё. Da quannё lu rёcordё, lu furnё d’Appёgnà stiè io lla via strétta de Cёpёcià. N°99 di Marino Stipa sacramento dell’eucarestia si basa sulla condivisione di pane e vino a memoria dell’ultima cena di Gesù 2000 anni fa. Potremmo sconfinare e parlare di carestie, tasse e rivolte popolari: E’ noto a tutti, credo, l’episodio della rivolta dei milanesi che assaltarono i forni per procurarsi pane e farina nel 1630, raccontato da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”, e non fu certo il solo in quel secolo e dopo. O ricordare quel versetto di Dante che riferiva di “come sa di sale lo pane altrui”, pensando all’amarezza e all’umiliazione di chi il pane quotidiano se lo doveva (o se lo deve tuttora) conquistare lavorando in condizioni di sfruttamento illecito o mendicando. Per finire vorrei ricordare, a tutte quelle persone che buttano ogni giorno il pane, la preghiera più importante per noi cristiani, che invoca “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Tuttё li casalinghё Tu espèrtё lёttrёcista, aviè da passà là era tёgnusё. av quannё cё aviè bёsuognё qu Achilli dё Bёccuccё, dё fà lu pà. l’ivara prёncёpali, Chё lu chёpiérchiё ngolli lu gènerё ghiё ruppё partiè purё dё nottё, li stёvali. s’aviè da pёrtà a cocё li pagnottё. Giggё de lu Pёsciarё, bravё a fa lu fuochё Però llu viecchiё furnё dё stoppie dё li velli nu dì ghiё sё sfasciò parliè puochё. ma naddё prёparatё n’appёcciò La società dei tre aviè dёlibёratё Marinё dё Tёudora dё fa lu terzё furnё, aprì lu furnё suò fu fёrmatё: fattё nuovё sull’uortё dё lu vallò. Ntёrvénnё lu chёmmunё, rёstaurò lu viécchiё, Sё vedё chё lla vodda lu rёdettё pёlitё c’è statё litё e lottё nda nu spiecchiё. compresё li dёspiettё chё li bottё. Nёppurё dёrò tantё: la ceviltà cammina, Ma li fёrnarё viecchiё mò tuttё sё rёnnova nёn ghiё la déttё vénta e sё raffina. da fassё caccià forё chё lla spenta. S’imposё lu progressё, custiè troppё quatrì Pulinё cunsёghiérё lu furnё più modernё sё messё a bruttё musё, lu fecё Pacì. Pёrsona intelligentё, che non temiè l’azzardo, quannё po’ nocё suli lu rёtardё. Nёn se sёntettё più de nottё lu fёrnarё, chiamà a ‘mpastà lu pà li vёrgarё. Pёtiè dёrmi tranquilli, lu pà sё iè a chёmprà nbottega o iò lu furnё, nёn s’aviè da fa. Quannё spёsò li figghie, rёmastё suli e afflittё, Pacì passò lu furnё a Cappёllittё. La gёstiò d’Allevi ngranò la marcia forte, nё l’è fёrmatё più manchё la morte. È na locomotiva che sbuffa scì, ma tira e tuttё procedё bbè, finchè cё stà Palmira. la cottura e il suo consumo nella tradizione appignanese E’ notte: le vie e le rue di Appignano illuminate debolmente da luce pubblica, con fili elettrici tessuti a spina-pesce e legati alle pareti, dove sporgono bracci di ferro alle cui estremità sono visibili dei grossi bicchieri bianchi di porcellana. Ad ogni centro di questo ordito, sono appesi piatti con lampade di poche candele, tanto da generare una luce fioca e rossastra, che si spande evanescente sulla strada, fatta di pietre tonde e bianche, sconnesse e concave buche prodotte da cedimenti; qualche grossa cacca lasciata dal passaggio di carretti trainati da mucche o da asini. Le facciate delle case sono manufatti fatiscenti, realizzate con mattoni o da altri materiali di realizzo, ti fermi ad osservarle e noti che trasudano fatica, sacrifici e povertà!. In molte case trovano ospitalità animali, come galline o maiali: quali indicibili afrori! Intorno al paese è buio pesto e osservato da lontano non fatichi molto ad accostarlo al paesino che si realizza nei presepi. Sono le ore tre, un uomo cammina per le rue rincorso ed avanzato dalla sua ombra, tanto da fargli compagnia per tutto il tragitto, chiamando sommessamente dei nomi: “Marììì..!” e Maria risponde con un “oooh!” addormentato e stanco e l’uomo di rimando con un imperativo “mpastaaa!”. “Anitaaa..!” “oooh!” “mpastaaa!”, questo rituale si ripete molte volte e nessuna trascende, anzi ringrazia, nonostante l’ora!. Quest’uomo poteva essere la quantità corrispondente di farina. Il grano, in definitiva, si macinava “alla bisogna”, perché si conservava meglio della farina. i gestori del forno comunale (in passato esistevano anche lu furnё da capё e quillё da piè) che avvisano le massaie di preparare la massa per il pane. Il pane era, nell’economia della casa, una delle occupazioni centrali della donna: forse la più importante. Lo si faceva in casa. Normalmente, a seconda dei componenti della famiglia, si faceva il pane per dieci, quindici giorni. Si impastava la farina con l’acqua e con il lievito “madre”, un pezzo di massa lievitata che veniva lasciata nella mattra dalla volta precedente, ma se un vicina o una conoscente ne avesse fatto richiesta si poteva prestarlo: “ i tenghё nu brёnilli, Giggё u pёsciarё, Pulinё o Bёccuccё Era l’alimento principe per quei periodi. Di volta in volta si portava un sacco o due di grano al mulino ed il mugnaio ti restituiva va brёnennё quistё e quilli e quannё è fattё l’affarё suò a rёvà a casa suò” era l’indovinello che divertita mi recitava mia madre. L’impasto veniva poi tagliato in tanti pezzi, ognuno dei quali era una futura pagnotta di circa un chilo. Si appallottolava la massa e la si lavorava fino a formarne un filone. Era uso incidere una croce sul lato superiore di questo, ma soprattutto cosa importantissima, ogni famiglia possedeva un griffe personale, un timbro con le iniziali del nome e cognome che permetteva di riconoscere il proprio pane, chi fosse sprovvisto di timbro si affidava alla fantasia del momento con buchi o graffi particolari. Poi l’impasto si lasciava riposare su di una tavola di legno chiamata spianatora, interna alla mattra e rimuovibile, coprendo il tutto con un classico mantilli dё lana (telo), ma se la temperatura per la lievitazione non fosse stata sufficiente si introduceva nu scallì o nu scallaliettё, nella parte sottostante ad essa. D’inverno il freddo rigido della casa imponeva un altro metodo di lievitazione: si stendeva sopra il letto lu culaturё, (un telo di frammezzo che sosteneva la cenere durante il bucato e da questo nasce quel divertente equivoco: “chё culi chёmmà!?” “ no!, rёschiarё!”), si disponeva, vicino alle sponde dei letti, dò prieddё e dò monachё con brace, nel mezzo, la spianatora con le forme di massa da lievitare, poi si copriva l’architettura con altro telo e una coperta, che trattenesse il calore che si sarebbe generato all’interno. Dopo qualche ora il pane era pronto per essere infornato. Intanto, Giggё u pёsciarё, Pulinё o Bёccuccё alternativamente, completando il giro, aveva sapientemente stabilito quale fosse il quantitativo necessario per un’infornata, anche perché la sera prima c’erano stati degli intenti e naturalmente ogni massaia accordava preferenze alla maestria del “ suo “ fornaio. Ritornato nel forno si procedeva all’accensione: all’interno del forno si bruciavano delle fascine o rovi secchi, che sprigionavano una caloria altissima. La legna bisognava andare a raccoglierla lungo il corso del Chifenti, scarpate stradali, su li Velli, in ogni posto che serviva all’uopo, ma era una fatica bestiale, una lotta continua, poiché essa era un carburante primario non solo per il forno vorace, ma anche per le attività domestiche: alimentare lu lapì nel camino, i fornelli, un manufatto parallelepipido in mattoni, di solito a ridosso del camino, sul piano buchi equidistanti, su cui erano alloggiati dei cerchi concentrici in ferro e sopra ad essi tegami o recipienti smaltati di terracotta per cucinare; due buchi quadrati sul davanti, tramite i quali con la vёntarola (un ventaglio di piume con manico) si ravviva la brace, ma scaturiva, quasi sempre, un fumo accecante che si diffondeva per la cucina e “profumava” gli indumenti indossati. Qualche spiritoso avvicinandoti per strada commentava: “ma chё ie statё a rёpёlì lu cammì?”. bia. La legna era esistenziale per scaldare delle case fredde e ricacciare qualche spiffero gelido. Il lavoro manuale con sega ed ascia e le spalle come mezzo di trasporto, per l’artigiano era anche merce di scambio, si incontravano spesso delle persone curve sotto il peso delle fascine od altro, sudore e fatica, e a volte raccolte anche da acquisizione dub- ta veniva fatta cuocere una pizza, chiamata caccia annanz , letteralmente cacciata fuori avanti. Qualche volta la pizza era condita con del pomodoro, oppure con un pezzetto di strutto con rosmarino e aglio e alcuni grani di sale grosso. In questa maniera veniva saggiato il forno. Nella praticità, poiché non esistevano termometri incorporati ci si regolava così: quando tutta la volta del forno era diventata di colore bianco, la temperatura era giusta e allora venivano inserite (con una lunga pala di legno) le pagnotte. La bocca del forno veniva chiusa con un usciolo, mentre in campagna intorno ad esso della terra bagnata per avere una tenuta stagna. Dopo poco più di un’oretta si verificava la cottura e il pane era fatto. Le pagnotte tirate fuori dal forno venivano spazzolate dalla cenere residua, ma qualche pezzettino di carbone rimaneva incorporato, poi dalle ceste venivano restituite ai clienti, senza possibilità di errore, poiché erano tutte firmate. In campagna solo l’esperienza delle donne sapeva quando era ora di riapri- Si racconta che un personaggio chiamato Mbò,Mbò, proveniente dalla campagna, trasportava sulle spalle una grossa capanna (un albero di oppio) e incontrando i carabinieri che gli chiedevano: “dovё la puortё sà capanna?” rispondeva “Ijo casaaa!”. In campagna, ogni casa colonica, possedeva un forno, solitamente, era ubicato sul pianerottolo, in cima alla rampa delle scale che portava al primo piano della casa. Di fronte, in basso a sinistra, il posto per la legna. Per attizzare il fuoco veniva usato un attrezzo chiamato lu stizz’cafurn, poi tutta la brace e la cenere venivano tolte con lu retrabbije, ma la cenere veniva conservata, perché sarebbe servita per fare un bucato profumato; il piano del forno veniva pulito con un palo alla cui sommità era legato uno straccio bagnato (lu mёnn’àcc). Per valutare se il forno aveva raggiunto la temperatura adat- re il forno; se lo si apriva troppo presto il pane poteva risultare crudo o poco cotto, quasi immangiabile. D’altro canto, se rimaneva in forno per troppo, poteva essere bruciato (brusc’àtё). Le pagnotte riposte nelle ceste o collocate sopra la spianatora, posta sulle teste delle donne, tramite una ciammella (una sparra arrotolata a forma di ciambella) tornavano a casa e subito si spandeva un profumo di pane fresco. Le pagnotte venivano riposte nel mobile principe della casa: la madia, oggi sfrattata e dimenticata!. Il brare le quantità per soddisfare le esigenze di tutta la famiglia. La vёrgara poteva essere talvolta impegnata in lavori più urgenti, e quando si tardava qualche giorno a preparare il pane fresco, oppure se ne era fatto troppo la volta precedente, poteva capitare che le pagnotte facessero un po’ di muffa o indurissero a tal punto da rendere difficile l’utilizzo immediato. La Mattra (Madia) pane era buono subito, ma il meglio veniva dopo un paio di giorni: diventava croccante all’esterno, e la mollica all’interno consistente e non più molliccia. Quante ricche colazioni con una fetta di pane unta d’olio di oliva o con una fetta di prosciutto con tre dita di lardo tagliato g rossolanamente con il coltello! Ricordo anche che il pane non doveva mai essere riposto alla rovescia perché diventava “ il pane del diavolo” (lu pà dё lu diavёli) e se per caso una fetta fosse caduta per terra, una volta raccolta, doveva essere baciata e consumata!. Quanto rispetto e devozione (un dono di Dio) per quella ricchezza sopra la tavola!. Non sempre il pane era fatto di sola farina di grano; spesso veniva impastato con la farina di granoturco oppure con le farine mischiate. Il pane era buono per dieci-quindici giorni e la padrona di casa sapeva cali- Siccome non era concepibile buttare niente, le soluzioni erano due, a seconda delle stagioni. In inverno veniva preparato il pancotto (lu pà n’’cuòttё), una minestra fatta con il pane, oppure, in estate, la panzanella, ottenuta mettendo a bagno il pane raffermo o duro nell’acqua e aceto con il condimento di un filo d’olio, pomodoro e aglio a pezzettini. Tutta la sacralità e il rispetto, con preghiere di ringraziamento, per il pane quotidiano, sono confluiti nello spreco scellerato di quintali, che centri commerciali, ristoratori, mense, famiglie fanno dell’invenduto e non consumato. Una riflessione e una doverosa chiosa: tanti sacrifici usuranti, rinunce amare, umiliazioni cocenti, vessazioni prepotenti, la fatica infinita sopra evidenziate, tendevano ad un fine nobilissimo, creare un futuro migliore per i propri figli. L’obbiettivo è stato raggiunto, tanto vero che la mia generazione ha potuto spendere nel benessere e nell’abbondanza, il frutto di tanti risparmi e i sacrifici di tante vite!. Ma siamo giunti ad un punto che lo spreco allarmante che consumiamo ed il debito pesante che accantoniamo, ci portano a rubare il futuro alle prossime generazioni!