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uò anche essere che alcune autorità, sia civili
che spirituali, debbano portare una grossa responsabilità. Ma, anziché renderla loro più lieve, si
vuole che esse prendano anche il nostro fardello di
colpe, che potremmo portare facilmente: in questo
modo li facciamo sprofondare completamente sotto il
peso! Davvero queste autorità hanno davanti a Dio
una responsabilità così grande, come noi crediamo, e
noi siamo incolpevoli, come talvolta ci dicono o forse
spesso ci immaginiamo? Dio ci giudicherà più per la
nostra capacità di discernimento che per il ruolo da
noi ricoperto.
(Franz Jägerstätter, 1941/42)
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXIX (2009)
n. 5
Emanuele Curzel
Piergiorgio Cattani
TUTTO
COMINCIÒ
NELL’‘81
Ariel Fernando Avila
Martìnez
IL CONFLITTO
COLOMBIANO
Michele Nicoletti
Periodico mensile - Anno XXIX, n. 5, maggio 2009 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue.
Redaz. e amministraz.: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20
www.il-margine.it
LA “PIÙ
BELLA IDEA”
Paolo Calabrò
Roberto Antolini
Francesco Ghia
VALLETTE
E OPERAI
SALVEZZA
PER TUTTI?
PREDATORI
IL MAR
MARGINE
5
MAGGIO 2009
Emanuele Curzel
Piergiorgio Cattani
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Tutto cominciò nell’‘81
Michele Nicoletti
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La “più bella idea”
Roberto Antolini
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Vallette e operai
Ariel Fernando Avila Martìnez
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Paolo Calabrò
Francesco Ghia
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30
Volete che “Il Margine” sia in vendita presso la vostra libreria di
fiducia? Scrivete a [email protected], stiamo pensando
ad offerte speciali per le librerie.
Il conflitto colombiano
Predatori.
Su L’uomo e la tecnica di Oswald Spengler
e Il capitalista egoista di Oliver James
Salvezza per tutti?
Appunti per una breve storia
del concetto di “apocatastasi”
Mentre andiamo in stampa…
Quando leggerete questo numero de “Il Margine” sarà probabilmente vicino
anche il turno referendario sulla materia elettorale. Un appuntamento importante
perché va a incidere in una fra le tante e scandalose riforme volute dal governo
Berlusconi, quella che ha affidato ad una sola persona il diritto di decidere la
composizione della metà del Parlamento, e indotto dieci altre persone a scegliere
l’altra metà. Una legge che ha causato un tracollo della qualità della nostra già
vulnerata democrazia. Sappiamo che l’eventuale vittoria dei “sì” non costituirebbe una semplice cancellazione della legge in questione, e anzi che ci sarebbe il
rischio di ottenerne una simile e sotto alcuni aspetti perfino peggiore. Però il referendum è oggi l’unica arma che i cittadini hanno per manifestare il loro dissenso
verso la “legge porcata”, la “legge delle tenebre”. A coloro che ritenessero troppo
alto il rischio, ricordo che al terzo quesito, quello che vuole impedire candidature
contemporanee in più circoscrizioni, si può dare una risposta positiva senza alcun
dubbio. (E.C.)
IL MARGINE
mensile dell’associazione
culturale Oscar A. Romero
Direttore:
Emanuele Curzel
In redazione:
Alberto Conci, Francesco Ghia,
Pierangelo Santini
Amministrazione e diffusione:
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Webmaster: Maurizio Betti
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Comitato di direzione: Celestina Antonacci, Monica Cianciullo,
Giovanni Colombo, Francesco
Comina, Marco Damilano, Fulvio De Giorgi, Marcello Farina,
Guido Formigoni, Paolo Ghezzi
(resp. a norma di legge), Giovanni Kessler, Roberto Lambertini,
Paolo Marangon, Fabrizio Mattevi, Michele Nicoletti, Vincenzo
Passerini, Grazia Villa, Silvano
Zucal.
Collaboratori: Carlo Ancona,
Anita Bertoldi, Dario Betti, Omar
Brino, Stefano Bombace, Vereno
Brugiatelli, Luca Cristellon,
Marco Dalbosco, Mirco Elena,
Cornelia Dell’Eva, Michele Dorigatti, Michele Dossi, Marco
Furieri, Eugen Galasso, Lucia
Galvagni, Luigi Giorgi, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Alberto Guasco, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani, Pierluigi
Mele, Silvio Mengotto, Walter
Nardon, Francesca Paoli, Rocco
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Pirini, Emanuele Rossi, Flavio
Santini, Pierangelo Santini, Angelo Scottini, Giorgio Tonini.
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Il Margine n. 5/2009 è stato chiuso in tipografia il l’11 maggio
2009.
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editore della rivista:
ASSOCIAZIONE
OSCAR ROMERO
Presidente: Piergiorgio Cattani
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Vicepresidente: Fabio Olivetti
Segretaria: Veronica Salvetti
Premessa
Tutto cominciò nell’‘81
EMANUELE CURZEL – PIERGIORGIO CATTANI
«Tutto cominciò nel ’78. La morte di Moro e, in un certo senso, anche quella di Paolo VI. Allora non era facile capirlo, però oggi, guardando all’indietro, anche se con
l’approssimazione e con l’incertezza di un giudizio ancora troppo vicino nel tempo
per poter essere “storico”, avvertiamo la coscienza di una svolta nella vita del nostro
paese che in quell’anno si è consumata».
è stata scritta questa frase? Se non ci fosse quell’inciso sul «giuQuando
dizio ancora troppo vicino» potremmo pensare che si tratti di una riflessione recente. Invece era il gennaio 1981: la rivista era “Il Margine” e a
pagina 10 il ventiquattrenne Michele Nicoletti scriveva un articolo dal titolo
Sotto il segno di Craxi, con lungo e impegnativo sottotitolo: Mentre cattolici
e comunisti sembrano sempre più lontani, si afferma il progetto cinicoborghese del nuovo PSI.
Perché questa citazione nostalgica (e, ammettiamolo, anche un po’ adulatoria, scritta da due persone che all’epoca frequentavano rispettivamente le
medie e l’asilo)? Perché questa volta “Il Margine” si permette di entrare direttamente in una campagna elettorale. I nostri lettori sanno che nel corso di
un trentennio non ci siamo mai tirati indietro, anche quando si trattava di
dare indicazioni di voto; e chi conosce i collaboratori sa che molti di essi si
sono cimentati e si cimentano in quella difficile “forma esigente di carità”
che è la politica vissuta nei partiti e nelle istituzioni, a tutti i livelli. Però è la
prima volta che uno dei fondatori della rivista, che ha collaborato costantemente con essa e l’ha diretta in prima persona dal 1989 al 1999, si presenta
candidato per un appuntamento elettorale (le prossime elezioni europee del
7 giugno) così importante e delicato.
Nel rispetto di coloro che faranno scelte di impegno politico e democratico rivolto in direzioni diverse, permetteteci dunque di aprire questo numero della rivista con un appello a partecipare alla prossima consultazione,
a sostenere il Partito Democratico e soprattutto – ci rivolgiamo a chi è residente nella circoscrizione Nord-Est, comprendente Emilia-Romagna, FriuliVenezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Veneto – a dare la preferenza a Michele Nicoletti. Al quale, se vorrete girare pagina, diamo ora la parola.
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Politica
La “più bella idea”
MICHELE NICOLETTI
A
lla stazione centrale di Monaco in Baviera il treno per l’Italia è
sull’ultimo binario.
È impossibile sbagliare: i treni che vanno a Berlino, Francoforte, Praga,
sono moderni treni europei, quello che va in Italia è il più brutto e il più vecchio. Nel vederlo ciò che avvilisce non è solo il confronto tra il modo in cui
i diversi Paesi trattano il trasporto pubblico, è anche il fatto che questo treno
è uno dei nostri biglietti da visita, uno dei nostri modi di presentarci
all’estero. Ogni volta con gli altri passeggeri italiani finiamo per ripetere le
stesse battute e ci chiediamo che cosa abbiamo fatto di male per meritarci
dei treni di questo genere. L’ultima volta l’abbiamo battezzato il «treno del
cucù». Noi italiani, infatti, siamo quelli del «cucù», da quando il capo del
nostro governo, Silvio Berlusconi, colui che il popolo italiano ha eletto per
curare il suo interesse nazionale all’interno e all’esterno, ha pensato bene di
fare scherzosamente «cucù» alla signora Merkel, il capo del governo tedesco,
in occasione di un incontro istituzionale tra capi di governo. Inutile chiederci perché all’estero prendono poco sul serio il nostro Paese: se questo è il
capo, chissà come saranno gli altri. Non comprendiamo perché – al di là degli schieramenti politici – si voglia caricare il peso di un’immagine negativa
sulle spalle di un intero Paese, di chi va all’estero a lavorare, a studiare, di
giovani bravissimi che non hanno nulla da invidiare quanto a preparazione
rispetto ai loro coetanei europei. Solo non hanno un Paese alle spalle. Peggio: hanno un governo incapace di trasmettere un’immagine di serietà. C’era
più dignità nei nostri emigranti trentini o nel mio bisnonno friulano che andava a piedi in Austria a lavorare con la sua carriola.
Il nostro Paese merita di più
È anche questo treno, in mezzo a molte altre cose, che mi ha spinto ad
accettare la proposta di una candidatura alle elezioni europee nelle liste del
PD, il partito di cui sono socio fondatore e membro della assemblea costi-
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tuente nazionale. Dobbiamo fare di più per il nostro Paese perché il nostro
Paese merita di più.
Ciò che tiene in piedi il mondo è il lavoro quotidiano delle persone e
l’infinito amore che le donne e gli uomini continuano a mettere nelle cose
che fanno e nella cura di sé e degli altri. E anche in questo caso penso che la
parte più grande nel costruire un Paese e la sua immagine sia quella che fanno le persone con il loro lavoro quotidiano, la loro professionalità e creatività, la loro generosità. Lavoro in università e vedo da sempre colleghe e colleghi impegnati a preparare i nostri studenti in modo da metterli in grado di
competere con i loro coetanei di altri Paesi, a mandarli all’estero a farsi onore nelle sedi più prestigiose, a coordinare progetti di ricerca internazionali
con i quali attrarre finanziamenti per borse di studio, a cercare di mostrare
quanta buona ricerca scientifica si fa nel nostro Paese. Ma se il sistema Paese funziona poco è vero che questi sforzi devono essere triplicati per produrre buoni risultati.
La politica, anche quando è buona, ha un limitato potere costruttivo,
ma quando è cattiva, il suo potere distruttivo o depressivo è vasto. Un po’ di
servizio civile nelle istituzioni da parte dei cittadini dunque è necessario.
Tanto più se si crede che anche le democrazie mature hanno bisogno di tanto
volontariato politico per rimanere democrazie di cittadini. Negli anni di impegno nell’associazionismo educativo, culturale e civile nella Fuci,
nell’Agesci, nella Rosa Bianca, ho avuto la fortuna di incontrare centinaia di
persone che non hanno mai smesso di lavorare e di sperare in un Paese migliore. Questo Paese merita qualche cosa di più anche dalla politica.
La passione democratica
Ho scelto di impegnarmi nel Partito Democratico, perché, lo confesso,
la democrazia continua a sembrarmi la “più bella idea” che la storia civile
dell’umanità ha partorito e quando ho visto che nasceva un partito che voleva assumere questo nome, “democratico”, senza aggettivi, ho pensato che
sarei stato fiero di poter contribuire alla sua nascita. Perché nel futuro della
democrazia ne va del futuro della nostra vita personale e collettiva, perché
oggi la questione nel mondo – come in Europa come in Italia come in ogni
città e quartiere o Paese – è la costruzione di una convivenza pacifica e giusta tra uomini e donne che si vogliono liberi e si riconoscono uguali e vogliono decidere del proprio destino, nella responsabilità verso se stessi e
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verso le generazioni future. Coloro che guardano al Partito Democratico
come a un semplice prodotto elettorale, buono per una stagione, da buttare
via non appena non funziona più, non hanno capito nulla della forza che la
“più bella idea” è capace di suscitare negli animi non appena la si voglia
coltivare, perché in essa c’è l’idea di un potere politico che si inginocchia
davanti ad ogni essere umano e gli porta rispetto, perché in essa c’è l’idea
che ogni essere umano è chiamato ad essere libero e non schiavo, sovrano e
non suddito.
Il Partito Democratico ha voluto nascere come partito dei cittadini, in
cui il potere di decisione è posto in mano agli elettori e non agli apparati di
partito. Nei suoi documenti, nei suoi atti costitutivi è finalmente delineata
una visione non paternalistica della politica, in cui il cittadino non è guardato come un essere immaturo costantemente bisognoso di essere guidato verso il suo vero bene. Purtroppo la breve storia di questo partito ha dimostrato
quanto difficile sia trasformare quest’idea in realtà. Non sono certo i vecchi
militanti a rendere difficile questa trasformazione. Al contrario: ci sono persone che da cinquant’anni non hanno mai smesso di fare volontariato politico e hanno lo stesso entusiasmo generoso di un tempo. Ma i militanti sono
persone che vivono per la politica e che non dipendono dalla politica quanto
alla loro sopravvivenza o alla loro carriera. Il problema sono invece quanti
hanno fatto della politica la loro fonte di reddito. Il mio amico Giovanni lo
scorso anno non ha votato per il PD dicendomi: «così vanno un po’ a lavorare anche loro, io sono qui in officina dalle otto di mattina alle otto di sera».
Vorrei che il PD diventasse un luogo dove chi lavora possa trovare espressione politica e non un luogo dove chi fa politica possa trovare il suo lavoro.
La centralità del lavoro
Perché quest’idea di democrazia possa farsi strada nei cuori – e di nuovo la sorte della democrazia è minacciata proprio nel cuore delle persone più
giovani – e nella storia, la politica deve tornare alla sua serietà.
Dobbiamo avere il coraggio di dire «signore e signori, lo spettacolo è
finito, torniamo al lavoro». Perché è solo il lavoro umano che sa trasformare
la materia in fonte di vita, il fango in case, la pietra in opera d’arte, la semplice speranza di giustizia in concrete leggi e istituzioni. E ciò che è semplicemente intollerabile è che, dopo secoli di lotte per il riconoscimento del
valore del lavoro umano, culminate nel nostro Paese nella proclamazione di
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una repubblica che si dice «fondata sul lavoro», il lavoro umano torni ad essere considerato poco o nulla, tornino a valere le appartenenze sociali e i
privilegi, le rendite e il parassitismo, la furbizia e l’apparenza. Non è semplicemente tollerabile che la fatica e l’opera umana non trovino riconoscimento, che il lavoro duro di una giornata non basti per mantenere se stessi e
i propri figli, non basti per essere rispettati e onorati indipendentemente dal
luogo e dalla condizione di nascita. Non è semplicemente tollerabile che il
lavoro serio e competente delle donne come degli uomini, dei giovani come
dei più vecchi non trovi riconoscimento nella vita pubblica come in quello
privata, nei mestieri più umili come nelle professioni più qualificate.
Alla crisi mondiale, alle difficoltà della politica, alle ingiustizie del
mondo, noi non sappiamo opporre che le nostre speranze e il nostro lavoro,
la nostra fatica e la nostra creatività, e non è pensabile che un partito che si
dice democratico non metta al centro il lavoro umano e la sua capacità di
rendere vivibile il mondo e di unire le persone in trame solidali.
A questa forza ha fatto appello il presidente Barack Obama quando dopo la sua elezione si è rivolto ai suoi cittadini dicendo: «vi chiedo di unirvi
nell’opera di ricostruzione della nazione nell’unico modo con il quale si è
fatto in America per duecentoventi anni, ovvero mattone dopo mattone, un
pezzo alla volta, una mano callosa nella mano callosa altrui» (Chicago, 4
novembre 2008) e nel discorso del suo insediamento a Washington, il 20
gennaio 2009:
«la grandezza [di una nazione] non è mai scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro
viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie, non ci siamo mai accontentati. Non è
mai stato un sentiero per incerti, per quelli che preferiscono il divertimento al lavoro,
o che cercano solo i piaceri dei ricchi e la fama. Sono stati invece coloro che hanno
saputo osare, che hanno agito, coloro che hanno creato cose – alcuni celebrati, ma
più spesso uomini e donne rimasti oscuri nel loro lavoro, che hanno portato avanti il
lungo accidentato cammino verso la prosperità e la libertà».
Il mio Nordest
Queste parole di Obama dovrebbero valere anche per il nostro Paese e
hanno un’aria di casa nel Nordest, il collegio in cui ho accettato di presentarmi come candidato, perché la mia vita si è svolta tra le montagne le scuole e le università di queste regioni: dal Trentino in cui sono nato e cresciuto,
all’università di Bologna in cui ho studiato, all’università di Padova in cui
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ho lavorato per dieci anni come ricercatore e docente. Questo mio Nordest
di montagne e di città non è per me solo un orizzonte di paesaggi da tutelare,
è anche il luogo dell’invenzione di forme di vita associata che hanno fatto e
fanno la democrazia. Dalle orgogliose comunità montane abbiamo appreso
il valore dell’autogoverno, il senso che la democrazia non è l’elezione di un
capo che guida l’orda alla battaglia, ma il sedere assieme in un consiglio, lo
stabilire regole comuni, il giudicare assieme dopo aver ascoltato e l’una e
l’altra parte. Una delle più belle immagini di quest’idea del decidere assieme
sulle cose comuni è il Banc de la resòn, il banco della ragione, un cerchio di
sedili in pietra che serviva per le riunioni della Magnifica Comunità di
Fiemme nel Trentino, le cui radici sono fatte risalire al 1111. Ma le libere
istituzioni delle nostre città sono altri straordinari esempi di quest’idea. Anche le più antiche università, come Bologna e Padova, custodiscono il valore
e il senso dell’autogoverno. Qui ho appreso che la ricerca della verità e
l’impegno civile possono andare assieme e che cercare di coniugare queste
due cose qualche volta può richiedere un sacrificio. Accettando questo impegno non ho potuto non pensare alla generosità di Roberto Ruffilli, mio
professore a Bologna, colpito dalle Brigate Rosse. Poco prima della sua
morte ci eravamo trovati a progettare ricerche sul tema della “responsabilità”. Qualcosa bisogna dunque fare. A Padova, dove ho lavorato per dieci
anni, ho conosciuto persone straordinarie, impegnate ad allargare il cuore
del Nordest. A forza di allargare il cuore, don Sandro è ora nel Nordest brasiliano. Ho pensato anche a lui. Anche noi dobbiamo fare qualcosa per evitare che il nostro cuore si restringa per la paura o la stanchezza. Sono tante
le paure del Nordest: venire licenziati, chiudere l’azienda, venire picchiati al
bar il sabato sera dai naziskin, venire aggrediti da criminali di ogni nazionalità. A queste paure non si risponde con le prediche di chi dice che è sciocco
farsi prendere dalla paura. Il compito di un politico non è dare lezioni di vita,
ma rispondere concretamente ai bisogni delle persone e le paure vanno ascoltate, prese sul serio, contenute, scacciate con concreti provvedimenti.
Prendere sul serio questa terra significa riconoscere il ruolo fondamentale
che il suo tessuto produttivo ha svolto sul piano economico e sociale, perché
se è vero che l’integrazione sociale – di italiani come di stranieri – passa in
primo luogo attraverso il lavoro, occorre riconoscere il ruolo sociale delle
aziende e sostenerle in questa funzione.
Il Nordest ha dato molto al processo di integrazione europea: con la sua
rete di scambi con gli altri Paesi dell’Europa centrale e orientale, con i suoi
centri di cultura e ricerca scientifica, con le sue istituzioni autonomistiche a
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protezione delle minoranze, con le sue politiche del turismo. L’abbattimento
di frontiere a Nord come a Est, che sono state in passato teatro di storici
conflitti, è stato un evento straordinario che è anche il frutto di questa cooperazione. È inevitabile perciò che il destino del Nordest si giochi oggi in
larga misura a livello europeo e per questo è necessario che questa terra sia
fortemente rappresentata.
La mia Europa
La straordinaria fortuna della mia generazione e ancor più delle generazioni più giovani è stata quella di poter vivere da subito in un’Europa senza
guerre e passare l’estate a lavorare come camerieri a Londra o a raccogliere
lamponi in Scozia o a studiare nelle meravigliose biblioteche tedesche.
Abbiamo girato in treno o in autostop e abbiamo scoperto mari, paesaggi,
storie umane di una bellezza straordinaria. L’Europa è la nostra casa
comune e abbiamo bisogno dei suoi orizzonti come dell’aria che respiriamo,
perché è in questo orizzonte largo che si è costruita la trama della nostra vita.
Vorrei che questo orizzonte europeo di ricchezze umane e naturali, di
identità e tradizioni diverse potesse diventare l’orizzonte di quante più persone possibile, per questo voglio impegnarmi per rafforzare l’Europa della
conoscenza, l’Europa della conoscenza reciproca attraverso lo studio delle
lingue e delle culture, gli scambi di studenti e professori, i progetti di ricerca
scientifica e artistica comuni rafforzando i programmi di cooperazione già
esistenti e rendendoli aperti e utilizzabili da parte di tutti.
Vorrei lavorare per una più forte Europa dei diritti in cui la libertà di
coscienza non debba più essere calpestata, ma venga rispettata dai poteri
pubblici e si realizzino ad ogni livello comunità politiche capaci di rispettare
e valorizzare le minoranze etniche, linguistiche, religiose. Come scrivevano
gli studenti antinazisti della Rosa Bianca nei loro volantini: «Libertà di parola, libertà di religione, protezione di ogni cittadino dagli arbitrii di regimi
criminali fondati sulla violenza dovranno essere le basi per la nuova Europa». Le finestre del mio studio all’università di Trento danno sul monumento ad Alcide De Gasperi. Chiunque si occupa di Europa, finisce per ricordare che sono stati uomini di frontiera come Adenauer, Schuman e De Gasperi
a dare un contributo decisivo alla sua costruzione perché avevano vissuto i
drammi dei nazionalismi laceranti e sapevano che solo un orizzonte più largo di quello degli Stati nazionali avrebbe consentito alle minoranze e alle
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Politica
identità multiculturali di recuperare piena cittadinanza. Lo si ripete come
una sorta di litania e a qualcuno potrà sembrare un po’ stucchevole. Ma è
vero. E queste realtà potranno essere meglio tutelate da un’Europa più forte.
Vorrei impegnarmi per un’Europa della vita buona che custodisca e
promuova i beni di cui una buona vita ha bisogno: la salute, il lavoro,
l’ambiente naturale, una rete di relazioni umane solidali. Un’attenzione particolare vorrei dedicarla alle regioni di montagna nei confronti delle quali
non c’è ancora una specifica politica europea ma che sono citate nel Trattato
di Lisbona come bisognose di «un’attenzione particolare» non solo per proteggerne il delicato equilibrio, ma anche per valorizzarne le risorse umane e
naturali. Sono un patrimonio inestimabile non solo per quanti vi vivono, ma
per tutta la comunità europea.
È difficile?
Chi mi ha chiesto se ero disponibile a presentare la mia candidatura, mi
ha detto subito che sarebbe stata una partita difficile. Quando i miei studenti
si lamentano della difficoltà dei testi o degli esami, ripeto sempre loro con
tono un po’ canzonatorio il detto di Kierkegaard: «Solo il difficile ispira i
nobili di cuore». Così, quando qualcuno di loro ha saputo dai giornali della
mia candidatura, mi ha fatto affettuosamente un po’ il verso.
In un’elezione con le preferenze sono gli elettori a scegliere i candidati
e anche questa volta sarà così. La democrazia sta alla fine pur sempre nelle
mani delle «formiche democratiche»: di coloro che non si stancano di lavorare per la costruzione di una casa comune e di dialogare con gli altri. Io
cerco di essere una di queste e spero di incontrarne molte altre disposte a
condividere questo impegno con me in questa occasione.
Il rischio del nostro tempo è quello dell’«indurimento del cuore» e del
«rammollimento dello spirito». Per questo tornano ad essere attuali le parole
del filosofo Jacques Maritain che gli studenti della Rosa Bianca tedesca avevano scelto come proprio motto: «Bisogna avere un cuore tenero e uno
spirito duro».
Potete seguire la campagna elettorale di Michele Nicoletti
sul sito www.michelenicoletti.eu
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Vallette e operai
ROBERTO ANTOLINI
S
ul n. 3/2009 di questa testata Piergiorgio Cattani ritrae, col sano disgusto del “buon gusto”, l’immagine del Re Mida triumphans, cioè della
«incoronazione» berlusconiana sul palco della nuova fiera di Roma il 27
marzo, nel «congresso show» della fondazione del PdL, fra parlamentarivallette biancovestite e «applausi, bandiere, delirio». Viene in mente qualche parallelo con la biografia nazionale di questo Paese. A me viene in mente un passo del romanzo per antonomasia della resistenza italiana, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio.
Appena arrivato nell’accampamento dei partigiani badogliani, fra i quali combatterà la maggior parte della sua resistenza, Johnny/Beppe descrive
quello che gli si presenta come il comune denominatore di quel raggruppamento e di quell’esperienza di resistenza politico-militare al nazi-fascismo:
«quanto all’etichetta politica, i capi Badogliani erano vagamente liberali e decisamente conservatori, ma la loro professione politica, bisogna riconoscere, era nulla,
sfiorava pericolosamente il limbo agnostico, in taluni di essi si risolveva nel puro e
semplice esprit de bataille. L’antifascismo però, più che mai considerato, oltretutto,
come una armata, potente rivendicazione del gusto e della misura contro il tragico
carnevale fascista, era integrale, assoluto, indubitabile» (B. Fenoglio, Il partigiano
Johnny, Einaudi 1999, p. 158).
Ma tutto questo veniva dopo un ventennio in cui il consenso alla mimica carnevalesca del Duce non era mancato, ed anche i migliori intellettuali
poi antifascisti si formavano nelle associazioni studentesche del regime. Per
il “crollo” i vecchi antifascisti avevano dovuto aspettare che un ciclo si fosse
esaurito, e che anche agli italiani più miopi fosse chiaro che il piedistallo su
cui aveva poggiato il consenso al fascismo – la promessa di renderli tutti più
benestanti andando a prelevare le risorse necessarie rapinandole agli altri
Paesi in un improbabile, ma preso a lungo sul serio, imperialismo fascista –
si era sgretolato con la guerra persa a colpi di “milioni di baionette” mentre
gli altri preparavano bombe atomiche. Alla base di ogni “trionfo” politico
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c’è un “sogno” di natura economico-sociale, una promessa pronta a presentare il conto a fine-pasto, e credo che, al punto in cui siamo, faremmo bene a
dedicarci seriamente a qualche conto di lungo periodo e strutturale, senza
lasciarci distrarre dai luccichii che invece hanno sempre – temporaneamente
– affascinato la biografia nazionale.
Pochi giorni dopo lo show berlusconiano alla nuova fiera di Roma, il 4
aprile, le strade della capitale sono state percorse invece da ottocentomila
lavoratori della CGIL che protestavano contro la firma, da parte di governo
e Confindustria da una parte e di CISL-UIL e UGL dall’altra (senza CGIL),
di un accordo sulla modifica del modello contrattuale: un popolo preoccupato del futuro e multietnico, com’è la vera Italia di oggi. Spente le luci della
ribalta rimanevano in strada i problemi veri, quelli che riguardano la vita
quotidiana della maggior parte degli italiani e che determineranno l’esito
finale del prossimo ventennio berlusconiano (ma neanche i tempi sono più
quelli d’una volta, speriamo in uno sconto), i cui contorni sociali sono in realtà già ben definiti, basta voler leggere i dati statistici.
La crisi della quarta settimana
Durante il secondo governo Prodi si è fatto un gran parlare (solo parlare) della “crisi della quarta settimana” quella che attanaglia i lavoratori italiani nell’ultima parte del mese, in cui le disponibilità consentite dagli attuali
livelli retributivi sono già esaurite, mentre la necessità di fare la spesa, ahimè, permane.
Dopo il disastro elettorale con cui si è conclusa quell’esperienza politica, sulla rivista di Bertinotti “Alternative per il socialismo” (n. 6, lugliosettembre 2008), Marco Revelli ha scritto un articolo intitolato Il sindacato
italiano, un’istituzione tra le istituzioni, nel quale ha provato a mettere in
rapporto quella con questo (la crisi della quarta settimana con il disastro elettorale). Revelli rileva che dietro all’abbandono della sinistra da parte di
quello che si credeva un suo zoccolo duro, l’elettorato operaio, c’è stato un
lungo trasferimento di risorse dai lavoratori ai padroni, di entità tale da innescare niente meno che una autentica mutazione antropologica.
I dati presentati nell’articolo – di provenienza al di sopra di ogni sospetto, c’entra anche il Fondo Monetario Internazionale – calcolano che
nell’ultimo quarto di secolo, nel nostro Paese, la quota trasferita dai salari ai
profitti sia di circa 8 punti di PIL, all’incirca 120 miliardi di euro: «la quota
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di Pil classificata alla voce “profitti” che era del 23% nel 1983 è salita infatti
al 31% nel 2005 mentre simmetricamente la quota destinata alla remunerazione del lavoro scendeva dal 77,8% a poco più del 68%». In termini direttamente monetari significa, riferito ai 17 milioni di lavoratori dipendenti italiani, che, ai vecchi rapporti di forza, nella busta paga comparirebbero ogni
anno 7000 euro in più! Ma non è una condizione solo italiana, seppur in Italia sia più accentuata che altrove. Infatti i dati riferiti in generale alla situazione dei lavoratori europei mostrano come anche negli ultimi anni, nel
quinquennio 2001-2006, il 5,6% del Pil europeo si sia trasferito dai salari ai
profitti. «È una cifra impressionante – commenta Revelli – quasi pari alla
metà del prodotto interno lordo di un Paese come l’Italia. Equivalente ai bilanci dello stato di due Paesi come Francia e Regno Unito sommati insieme.
Misura, se così si può dire, il grado di arretramento e di marginalizzazione
del lavoro negli ultimi due decenni del Novecento e – in forma accelerata –
nel primo scorcio di questo nuovo secolo costruitosi sulle macerie del vecchio secolo del lavoro» (pp.78-79).
È questa la “struttura” che si nasconde dietro al luccichio “sovrastrutturale” del trionfo berlusconiano: un micidiale attacco di sfondamento del
neoliberismo (coronato anche dal successo egemonico sul campo avverso,
quello progressista) alle condizioni di vita dei lavoratori. Questo attacco,
partito dall’America di Reagan, trionfa ora definitivamente in Italia (un tema
sul quale non mi ripeto: si veda “Il Margine” n. 7/2008), mentre nel suo Paese d’origine già mostra la corda con l’attuale crisi ed il cambio della presidenza Obama. «Un attacco che – dice Revelli – ha colpito con le basi materiali della forza lavoro anche i suoi livelli di soggettività. Ha accompagnato
alle gambe tagliate del lavoro anche la sindrome della lingua mozzata. Della
riduzione al silenzio. E poi della “mutazione antropologica”: del farsi altro
da sé, irriconoscibili nel proprio passato». È così che sulla scena restano le
vallette, ormai elevate ad autorevoli cariche dello stato, parlamentari e ministre.
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Oltrefrontiera
Il conflitto colombiano
ARIEL FERNANDO AVILA MARTÌNEZ
Ariel Ávila è ricercatore dell’Osservatorio del Conflitto Armato
dell’Associazione “Nuevo Arco Iris”, professore dell’Università Nazionale della Colombia e specialista in tema di conflitti armati.
L
e dinamiche recenti del conflitto armato colombiano non si spiegano
sulla base delle analisi tradizionali riguardanti i gruppi armati di sinistra
o di destra. Generalmente si pensa che in un conflitto interno il sostegno della popolazione sia un dato di fatto: per esempio, si pensa che i contadini
senza terra sostengano le FARC, o che esista un sostegno di tipo etnico alle
Tigri Tamil dello Sri Lanka. Ma questa non è una costante nei conflitti interni, visto che la guerra ha dinamiche proprie che riorganizzano le preferenze e le simpatie nei confronti dei gruppi armati. D’altra parte si deve tenere in considerazione che la natura di un gruppo armato dipende dal suo
rapporto con la popolazione e con il territorio, di modo che i gruppi armati
illegali non agiscono sempre con caratteristiche simili, ma modificano il loro
comportamento a seconda delle condizioni regionali. Le cause e le motivazioni di un conflitto armato o di lotte interne possono essere dunque molte, e
raramente dipendono da un’unica causa nazionale. Analogamente, ciò che si
manifesta a livello locale ha diverse spiegazioni. E così risulta difficile capire gli atteggiamenti della popolazione di fronte ad un gruppo armato sulla
base delle spiegazioni comunemente proposte.
In base a questa premessa, si esporrà la situazione attuale del conflitto
armato colombiano e le sue dinamiche recenti, cominciando da una storia
dei suoi diversi protagonisti.
Prima delle FARC: la Violencia
Il conflitto armato in Colombia dura già da più di quarant’anni, e deriva
da conflitti sociali profondi e dall’esclusione politica di settori importanti
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della società. Il gruppo di guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie di
Colombia (FARC), auto-catalogatosi come marxista-leninista, nacque nel
1964 con una composizione principalmente contadina e con rivendicazioni
sociali riguardanti la terra. Nello stesso periodo nacque l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), con un’ideologia derivata dalla teologia della liberazione che in quel momento si diffondeva in tutta l’America Latina. Attorno agli stessi anni sorsero diversi altri gruppi paramilitari, che si sono riuniti
nel 1997 in una federazione, le Autodifese Unite di Colombia (AUC). Le
FARC, inizialmente, non avevano una strategia pianificata per creare una
guerriglia di sinistra in Colombia; anzi, diversi dei suoi fondatori venivano
dal Partito Liberale. Si può anzi dire che le FARC nascono dal conflitto, tipico del XIX secolo, tra liberali e conservatori (conflitto che però in Colombia si è sviluppato verso la metà del Novecento).
Ci sono diverse interpretazioni sulla nascita del periodo della Violencia
(1948-1953). La prima ipotesi sostiene che la Violencia sia nata dalla guerriglia liberale sviluppatasi dopo l’omicidio, il 9 aprile 1948, del capo del
Partito Liberale, Jorge Eliécer Gaitán. Altri credono che sia iniziata già verso il 1930, dopo che Olaya Herrera era diventato presidente e si era stabilita
la repubblica liberale, momento nel quale si scatenarono le vendette per la
perdita dell’egemonia conservatrice che precedentemente si era mantenuta
per 45 anni. Altro protagonista fu il Partito Comunista che nel 1947, in seguito alla repressione operata contro ogni gruppo di opposizione, diede
l’ordine ai suoi (pochi) affiliati di creare Autodifese Contadine; non si trattava di una guerriglia, ma di gruppi di difesa per proteggere le comunità, per
rispondere a ciò che veniva definita la violenza ufficiale dello Stato.
L’Autodifesa crebbe dove le circostanze lo permettevano: in alcune città e
territori ha giocato un ruolo di grande importanza nella lotta contro i Pájaros, un’organizzazione quasi paramilitare. Il caso più noto è stato
l’Autodifesa di Irico.
La Violencia è durata fino al colpo di Stato con il quale Rojas Pinilla è
divenuto presidente, nel 1953. Nel momento in cui si prospettò la possibilità
di un’amnistia, la maggior parte delle formazioni guerrigliere liberali abbandonò le armi rispondendo alla richiesta di farlo da parte della direzione
del Partito. Ma altre formazioni (le poche comuniste, le Autodifese, ma anche alcune di origine liberale) non smobilitarono. In seguito la maggior parte dei loro capi, cominciando da Guadalupe Salcedo, furono assassinati dagli
stessi che avevano goduto dell’amnistia, da vecchi Pájaros, dalla Polizia e
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dall’esercito; le guerriglie del sud del Tolima furono anzi riarmate dal Governo e dai comandi militari per la guerra contro le guerriglie rivoluzionarie.
In quel momento iniziò il contrasto tra i Limpios (i “puliti”, ossia i liberali che avevano consegnato le armi e avevano iniziato a combattere le Autodifese Contadine) e i Comunes (i “semplici”, guerriglieri liberali che avevano disobbedito agli ordini della direzione del partito ed erano vicini ad
alcune posizioni delle Autodifese Comuniste). La divisione tra Limpios e
Comunes si rese evidente nel 1958 nella Conferencia de Horizonte, una riunione tra le diverse fazioni armate dei liberali. Nel corso di una riunione preliminare dello stato maggiore della guerriglia liberale Gerardo Loaiza, che
allora ne era il capo, espose gli obiettivi dell’assemblea, dicendo:
«Gli obiettivi di questa riunione sono quelli di studiare la possibilità di sviluppare
ancora di più la lotta contro i comunisti, perché il comunismo comincia ad essere
una minaccia per il Paese ed in Colombia non si può permettere il comunismo.
Quello può andare bene
per la Russia, ma qui
non c’è un terreno appropriato per queste dottrine straniere e atee».
Non si giunse ad alcun accordo: dei circa
1200 guerriglieri che parteciparono all’assemblea,
seicento rimasero con Loaiza e seicento andarono
con Manuel Marulanda,
che in seguito si avvicinò
alle colonne comuniste; si
creò allora un comando
maggiore unificato tra i
guerriglieri liberali (quelli
che non si consideravano
anticomunisti) e quelli
comunisti, due gruppi che
poco alla volta unificarono la loro ideologia.
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La nascita delle FARC
Nel settembre 1964 si tenne a Riochiquito, nel Dipartimento del Cauca,
la conferenza costitutiva delle FARC, che allora presero il nome di Bloque
Sur (blocco sud), dato che tutte le formazioni guerrigliere si trovavano nel
sud della Colombia. In quella sede fu approvato un piano di azioni militari e
politiche, di educazione e propaganda. Forse fu la prima volta in cui questi
gruppi guerriglieri adottarono un programma strategico di azione militare:
prima di allora non era stato chiaro il loro modo di agire ed essi si muovevano, in maggioranza, con le loro famiglie, il che limitava le loro azioni.
Nell’adozione del nome Bloque Sur si accettava implicitamente l’unione di
tutti i gruppi militari irregolari; si considerava finita la fase dell’Autodifesa e
si cominciava a formare un esercito, visto che gli spostamenti della popolazione erano molto pericolosi tanto per i civili quanto per gli uomini armati.
Prima di allora, di fronte all’aggressione da parte del governo conservatore,
le popolazioni liberali e comuniste che formarono le Autodifese si spostavano da una regione ad un’altra evitando gli attacchi, portandosi dietro tutta la
popolazione civile disposta a seguirli. Questo tipo di migrazione ha ricevuto
il nome di Columnas en Marcha: abitualmente si dirigevano verso le zone
selvagge, colonizzando così le regioni sud-orientali (molti municipi o corregimientos – villaggi che non raggiungono il numero di abitanti richiesto per
essere considerati municipi – sono nati in seguito a questi spostamenti e
hanno ricevuti nomi come Retorno o La Paz). Questa originaria “base familiare” dell’organizzazione guerrigliera probabilmente spiega il motivo per
cui le FARC sono riuscite a sostenersi con tanta forza in alcune regioni del
Paese, e precisamente in quelle dove si sono spostati i gruppi più consistenti
di popolazione a motivo della Violencia.
Dopo la Prima Conferenza Guerrigliera si è cercato di strutturare un
gruppo guerrigliero unico e unito, distinto dalla popolazione, che potesse
agire come esercito, senza le difficoltà che potevano creare gli spostamenti
con la popolazione civile. Alla fine del 1966 ci fu quindi una seconda conferenza, nel Sumapaz (regione montuosa del dipartimento di Cundinamarca,
nel centro geografico del Paese, molto vicina alla capitale).
«Lì ci siamo dati per la prima volta un regolamento interno che includeva aspetti
statutari, di regime disciplinare e norme di comando. Ci siamo assegnati un nuova
pianificazione militare nazionale, un programma più ambizioso di organizzazione
politica e di organizzazione delle masse, di educazione, propaganda e finanze. Abbiamo affermato per la prima volta che il Movimento Guerrigliero FARC partiva in
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una gara per la presa del potere in unione con la classe operaia e tutto il popolo lavoratore. Lì si è sottolineata l’importanza vitale dell’organizzazione politica come
fattore di consapevolezza e fondamento del processo rivoluzionario colombiano;
che in tale senso le FARC metterebbero tutto quello che potesse dipendere da loro
per compiere quella importantissima missione» (Jacobo Arenas, Cese al Fuego. Da
www. Redresistencia.info).
Da quel momento in poi le FARC hanno iniziato una fase di crescita
costante fino a raggiungere il livello massimo di potere alla fine degli anni
novanta.
la possibilità di costruire un nuovo mondo: la presenza del sacerdote colombiano Camillo Torres nelle file guerrigliere permise all’ELN di dare un’eco
politica al proprio movimento in diversi settori della società colombiana,
non solo per la figura che lui rappresentava politicamente, ma anche per il
fatto di essere un sacerdote. Nel febbraio 1966 Camillo Torres fu ucciso nel
primo confronto armato del quale fu coinvolto: la sua presenza nell’ELN fu
dunque molto breve, ma la sua morte lo trasformò in un simbolo della guerriglia. Influenzati dall’esperienza di Camillo Torres tre preti spagnoli (Manuel Pérez, Domingo Laín e Jose Antonio Jiménez) si unirono all’ELN; il
primo divenne il loro capo per più di quindici anni fino alla sua morte, alla
fine degli anni novanta.
L’Esercito di Liberazione Nazionale
La guerriglia dell’ELN nacque in modo un po’ diverso: fu creata in
modo pianificato verso la metà degli anni sessanta. In quel momento molti
giovani speravano di ripetere gli eventi della rivoluzione cubana (1959); le
condizioni per la creazione di un nuovo gruppo armato in Colombia furono
l’esistenza di un movimento studentesco e sociale strutturato, che era andato
a Cuba e aveva lì ricevuto una formazione militare.
L’ELN nacque nel dipartimento di Santander (regione del nord, dove
c’è stato e c’è ancora un forte controllo paramilitare), più specificamente nel
municipio di San Vicente di Chucuri, dove si stabilì un gruppo di studenti
appena tornato da Cuba, e da dove sperava di potersi espandere in tutto il
territorio. A differenza delle FARC, che prevedevano un partito e un esercito
separati, l’ELN si basava sulla concezione foquista della Rivoluzione Cubana: partendo da piccoli gruppi militari, si doveva generare una mobilitazione
politica e militare di ampia scala.
Inizialmente l’ELN ebbe buoni risultati, non tanto a livello militare (visto che durante i primi anni evitava i confronti con la forza pubblica, che tra
l’altro era praticamente inesistente nelle zone dove agivano), ma sul fronte
politico, riuscendo a mobilitare una grande quantità di contadini. La mobilitazione contadina del 1964 è stata considerata il suo primo atto politico,
mentre il primo atto militare su grande scala fu, nel gennaio 1965, la presa
del municipio di Simacota.
Anche a livello ideologico c’era una grossa differenza tra l’ELN e le
FARC: mentre quest’ultimi adottavano un’ideologia marxista-leninista, i
primi erano influenzati dalla teologia della liberazione, che in quel momento
predominava in tutta l’America latina. Il Concilio Vaticano II aveva aperto
18
La formazione dei gruppi paramilitari
Negli stessi anni sessanta si svolse la prima fase, di quattro, che definì
la formazione dei gruppi paramilitari in Colombia; questa si prolungò fino
alla metà degli anni ottanta. In quest’epoca furono create organizzazioni armate per combattere la guerriglia, finanziate da gruppi di proprietari terrieri
e grandi allevatori di bovini. Questi gruppi furono avallati dallo Stato colombiano nell’Estatuto Orgánico para la Defensa Nacional del 1965, il quale tra l’altro ha dato la possibilità di creare gruppi di Autodifesa per combattere la guerriglia ed è stato vigente fino alla fine degli anni ottanta.
Nonostante ciò, durante gli anni ottanta e i primi anni novanta si sono
prodotti tre fenomeni. In primo luogo si sono allargate le coltivazioni illegali, come quelle di coca e di papavero, che, nello stesso modo in cui la marijuana aveva finanziato il conflitto anni prima, finanziavano ora la nascita di
una nuova classe di proprietari o latifondisti. Questi erano principalmente
narcotrafficanti che, approfittando della forte crisi dell’agricoltura, acquistavano grosse estensioni di terra ad un prezzo molto basso. Il secondo fenomeno è stato la crescita spettacolare dei gruppi guerriglieri: verso la fine degli anni settanta il totale dei combattenti non superava i 1.500, nel 1989 erano più di 9.000. Questa crescita è stata finanziata in grande misura dai sequestri a scopo di estorsione: dapprima i sequestrati furono i vecchi latifondisti e gli allevatori bovini, quindi la nuova classe economica sorta grazie al
narcotraffico. Ciò ha spinto i narcotrafficanti alla creazione di una serie di
gruppi privati di sicurezza, con il beneplacito delle forze militari e in grande
misura dello Stato, che hanno iniziato una serie di azioni militari per com-
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battere le guerriglie. MORENA (Muerte a Secuestradores) è stato il primo
gruppo di paramilitari di questa generazione.
Durante gli anni ottanta e i primi anni novanta l’affare del narcotraffico
era nelle mani dei Carteles, gruppi costituiti da un capo, dai comandi medi e
da tutta una rete di corruzione e di controllo del territorio. I due gruppi più
forti erano il Cartel di Medellín, diretto da Pablo Escobar, ed il Cartel di
Cali, diretto dai fratelli Rodríguez Orejuela. Questi hanno creato grosse reti
di corruzione all’interno dello Stato, che includevano la burocrazia locale, la
forza pubblica ed in una misura inferiore la classe politica nazionale. In seguito questi eserciti privati di sicurezza sono serviti a costringere la popolazione civile a spostarsi e ad acquisire in modo illegale grosse estensioni di
terra attraverso l’intimidazione dei piccoli proprietari e dei contadini. La situazione è stata tollerata dalle forze militari colombiane, che hanno visto
questi gruppi come alleati per combattere la guerriglia e come una fonte in
più di introiti economici attraverso la corruzione. L’appoggio della forza
pubblica a questi gruppi armati si è fatto esplicito in diverse regioni della
Colombia. Molti militari in congedo passavano a in questi gruppi di paramilitari e di narcotrafficanti come capi della sicurezza e per addestrare le truppe.
Il terzo fenomeno è stata la riforma politica che permetteva l’elezione
diretta di sindaci e governatori in tutta la Colombia, riforma ratificata dalla
nuova costituzione politica del 1991. L’affermazione della democrazia ha
permesso la nascita di nuovi partiti politici e movimenti sociali, e con essi il
sorgere di una nuova classe politica. Così, durante gli anni ottanta, le FARC
e il governo hanno portato a termine un processo di pace, e da questo accordo è nato un partito politico che ha raggiunto il potere in diversi municipi
con un numero significativo di voti. Ciò nonostante, circa 5.000 dei suoi militanti sono morti in meno di cinque anni per via di un piano di sterminio
portato a termine dai gruppi paramilitari in complicità con una parte delle
forze pubbliche in ciò che è stato nominato el baile Rojo (“il ballo rosso”).
Di fronte al sorgere di questa classe politica ed il suo avanzare in alcune regioni del Paese, parte della vecchia classe politica regionale o locale e
parte della classe politica nazionale hanno chiesto ai questi gruppi armati
illegali di eliminare l’opposizione, offrendo come scambio via libera alla
loro presenza nei territori controllati. Così i gruppi dei narcotrafficanti si sono trasformati in gruppi paramilitari, appoggiati da una nuova classe economica, dalle forze militari e dalla classe politica tradizionale, facendosi
strada per l’espansione ed il controllo territoriale. Da quel momento i gruppi
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paramilitari si sono trasformati da eserciti privati all’ordine dei narcotrafficanti in gruppi indipendenti, che hanno sottomesso i gruppi del narcotraffico
dopo la morte dei grandi capi. Inoltre contavano sul favore di una parte importante dello Stato colombiano, prima le forze militari ma poi anche altri
settori del sistema statale.
L’estensione del conflitto
Durante tutti gli anni novanta i gruppi paramilitari si sono accresciuti,
così come i gruppi guerriglieri (FARC e ELN). Questi ultimi sono presenti
in tutto il territorio e si sono consolidati specialmente nel sud e nel centro
del Paese, mentre i paramilitari hanno acquisito più forza nel nord, dove si
trovavano i grandi allevatori di bovini ed i latifondisti.
È importante ricordare che nel 1997 sono state create le Autodefensas
Unidas de Colombia (AUC), un’organizzazione paramilitare che cerca di
radunare in una struttura unica ma federata tutti i gruppi paramilitari. La
creazione di questa organizzazione aveva tre obiettivi: nascondere il rapporto diretto che molti avevano con il narcotraffico, dare un’immagine di indipendenza e creare un progetto politico per evitare l’estradizione; coordinare
la penetrazione nel sud del Paese, dove non avevano un forte supporto popolare e dove, invece, avevano il controllo le FARC; portare avanti un progetto
politico basato sullo sterminio dell’opposizione, l’estensione delle grandi
proprietà e naturalmente l’impunità per i loro delitti.
Durante gli anni novanta la grande espansione delle FARC e dell’ELN
contrastava con ciò che si viveva nel resto del mondo dopo la caduta del
muro di Berlino. Mentre nell’America Centrale le guerriglie firmavano trattati di pace e si scioglievano i gruppi armati di sinistra, in Colombia la situazione era ben diversa. Da una parte le FARC erano riuscite a trovarsi una
buona fonte di risorse economiche nel narcotraffico; dall’altra i diversi tentativi di negoziazione, della fine degli anni ottanta, tra il governo e questo
gruppo guerrigliero erano falliti in modo disastroso, anche se aveva avuto
successo con altri come l’M19 e l’EPL, con i quali si era firmato un trattato
di pace.
L’espansione di tutti i gruppi armati è stata accompagnata da una violenza indiscriminata in tutto il territorio, anche se i diversi gruppi la esercitavano in modi diversi. Le FARC si erano consolidate nelle zone marginali e
più povere del Paese, nelle periferie, dove non agivano in modo indiscrimi-
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nato ma cercavano di somigliare uno Stato, un para-Stato. Verso il 1982
hanno iniziato la loro penetrazione in territori centrali, per trasferirsi dopo
verso nord dove c’erano i grandi latifondi; mentre avanzavano verso i nuovi
territori i livelli di violenza aumentavano; i sequestri e l’estorsione erano le
loro armi preferite.
I gruppi paramilitari, invece, dal nord si sono allargati a tutto il territorio. Dapprima, nelle zone in cui sono sorti, hanno usato la violenza generalizzata, con massacri e spostamenti forzati di migliaia di persone; poi sono
entrati nei territori guerriglieri, dove nei combattimenti aumentavano ogni
volta di più i livelli di violenza, e questa acquistava ogni volta, in ogni gruppo, caratteri di degradazione più profonda. Solo ora cominciano ad essere
noti i metodi di guerra usati dai paramilitari, grazie a ricerche fatte dalla Fiscalía colombiana (che si dedica alle indagini sui delitti e ad accusare di
fronte ai giudici chi infrange la legge). L’uso della violenza sessuale e i
massacri sono state le loro azioni preferite. Tra il 1997 ed il 2001 i paramilitari si sono espansi nel Paese e tra il 2002 ed il 2005 si sono consolidati nei
territori in cui erano riusciti ad entrare. Le FARC, nello stesso modo, erano
riuscite a fare la stessa cosa nei territori storicamente controllati, a sud-est.
Il governo colombiano e le forze militari si trovavano in svantaggio di
fronte alle mosse dei gruppi armati considerati di sinistra, cioè le FARC e
l’ELN. Infatti le FARC avevano portato a termine diverse azioni di grande
portata in tutto il Paese. Contemporaneamente la tolleranza nei confronti dei
gruppi paramilitari cresceva: la classe politica e le forze militari avevano
raggiunto un tale livello di compenetrazione che nelle elezioni parlamentari
del 2002 il 35% del Parlamento colombiano era controllato dai gruppi paramilitari, dando origine al fenomeno della “chiamata para-politica”, la quale
consisteva, di fatto, nell’attribuire ai gruppi paramilitari un ruolo nella nomina del personale nelle cariche pubbliche e nell’amministrazione delle risorse pubbliche.
Il livello di soggezione dello Stato nei confronti dei gruppi paramilitari
è giunto al punto che questi controllavano di più di 200 comuni (il 20% del
totale), il 30% del parlamento e l’amministrazione di vari municipi. Analogamente è stata significativa la penetrazione nelle forze militari e nella giustizia.
Però nel 2000 le forze militari si sono modernizzate e c’è stato un cambiamento nella strategia: il raddoppio degli uomini, l’acquisizione di equipaggiamenti da combattimento e la formulazione di politiche di coinvolgi-
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mento della popolazione civile nel conflitto colombiano, con la formazione
di una rete di informatori e di programmi assistenziali.
Verso il 2005 il governo colombiano ha iniziato un processo di
smobilitazione dei gruppi paramilitari: circa 36.000 uomini di 32 gruppi
diversi hanno lasciato le armi. Dopo la smobilitazione c’è stato però un
riarmo e la nascita di nuovi gruppi, che oggi contano già 10.000 uomini.
La Colombia oggi
Attualmente il governo è in grado di controllare i grandi centri produttivi e commerciali della Colombia, e così anche il 70% della popolazione,
mentre il conflitto si è spostato in zone periferiche, dove abita il 30% rimanente. Ancor oggi esiste un alto livello di confronto armato e di violenza nel
Paese; la coltivazione delle foglie di coca non è diminuita, anzi, secondo il
censimento fatto dal SIMSI sono in totale più di 96 ettari seminati, e neanche i livelli di reclutamento sono diminuiti in modo significativo.
I dati ufficiali parlano di 4 militari feriti ogni giorno nel conflitto armato; ogni giorno in media 2,8 persone vengono colpite da mine antipersona, il
livello più alto al mondo; e di un totale di 25.000 uomini e donne appartenenti ai gruppo illegali armati, mentre circa il 25% dei municipi è controllato da gruppi paramilitari.
23
Società
Predatori
Su L’uomo e la tecnica di Oswald Spengler
e Il capitalista egoista di Oliver James
PAOLO CALABRÒ
S
ono tante le cose che colpiscono nel leggere il breve saggio di O. Spengler L’uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine
(ed. Piano B, Prato 2008, 112 pp., € 11). Colpisce il fatalismo con il quale
l’uomo va incontro senza freno, anzi trionfalmente, a un destino che sa essere tragico (perché è il destino di colui che sega l’albero sul quale sta seduto,
quello di un uomo la cui essenza lo porta a essere ostile alla stessa natura di
cui fa parte e che è più forte di lui); colpisce la sua critica a un tempo del
liberalismo e del socialismo, ritenute parimenti «teorie plebee» (p. 87); colpisce l’anticipo con il quale ha introdotto la categoria della “controproduttività sociale” (espressione resa celebre da Ivan Illich nel dopoguerra, riferita
al fatto che – oltre una certa soglia quantitativa – un dispositivo utile degenera in uno strumento non solo inutile, ma che contraddice le sue stesse
finalità di partenza: è il caso delle automobili che, nei grandi centri urbani,
generano il traffico; l’esempio, ripreso da Illich in Elogio della bicicletta del
1976, è riportato da Spengler a p. 99). Colpisce la sintesi che l’autore fa della distorsione introdotta dalla tecnica nello stesso modo di vedere il mondo
da parte dell’uomo, la patina di bruttezza che, come velo, ricopre tutte le cose e così imprime già loro una prima trasformazione, ancora precedente a
quella tecnica propriamente detta: «un mondo artificiale pervade e avvelena
il mondo naturale. La stessa civilizzazione è diventata una macchina che fa
o vuole ogni cosa per mezzo di macchine. Non si pensa che in termini di cavalli-vapore. Non si vede più una cascata d’acqua senza trasformarla, con il
pensiero, in energia elettrica» (p. 99).
Ma la cosa che più colpisce è l’immagine che Spengler offre
dell’uomo: un predatore (p. 43), immensamente solo (p. 45), la cui preda è il
mondo (p. 48), nemico di tutti (p. 49), dei suoi simili, degli altri animali,
dell’intera natura (p. 57), la cui vera anima «uccide e odia, risoluta a vincere
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o morire» (p. 60), che «conosce l’ebbrezza che avverte quando il coltello
taglia il corpo del nemico, quando l’odore del sangue e i gemiti penetrano
nei sensi trionfanti» (p. 61).
Per Spengler non si tratta di immagini metaforiche: egli concepisce tutta la vita come una lotta per la sopravvivenza e il dominio, che presuppone
una ben precisa tattica finalizzata alla vittoria, dove non ci sono amici ma
solo nemici e strumenti. La sua è una descrizione che fa impallidire quella
dello stato di natura di Hobbes, dove pur vige tra gli uomini la regola homo
homini lupus, ma in cui è ancora intatta, appunto, una sorta di “naturalità”,
di incoscienza delle bestie-uomo che si scannano a vicenda. In Spengler, invece, ogni ingenuità viene dissolta dall’autocoscienza dell’essere predatore e
ogni residuo della natura viene soffocato dalla tecnica. Viene quasi da pensare che egli se ne compiaccia, che sia affascinato dalla violenza senza confini di questa belva che impiega la sua vita ad estendere e consolidare il suo
dominio su ciò che lo circonda, così, senza un motivo, perché è nella sua
natura di belva (cioè di uomo). Torna alla mente l’immagine cinematografica del robot medico di Alien che – di fronte all’accusa di ammirare la
pericolosa forma di vita aliena che ha appena imbarcato, mettendo così a
repentaglio l’incolumità dell’intero equipaggio – confessa: «io ammiro la
sua purezza: un’esistenza non offuscata da coscienza, rimorso, o illusioni di
moralità». Agghiacciante, benché attenuata dal fatto che a parlare è una
macchina, che sta eseguendo un preciso programma ed è al di là di ogni
possibile considerazione, appunto, morale.
Ma torna anche alla mente la frase «mi piacciono i predatori»: stavolta
non è un robot a formularla, bensì Albert J. Dunlap, uno dei più (tristemente) noti “tagliatori di teste” americani (ovvero, esperti in licenziamenti di
massa, le cosiddette “ristrutturazioni aziendali”: cfr. «Le Monde diplomatique-Il Manifesto», 20 marzo 2009, p. 20). E qui la cosa si fa d’un tratto più
sinistra, perché l’immagine ferina di Spengler piomba all’improvviso nel
cuore dei nostri giorni e ne incrina la superficie lucida di pubblicità:
quell’immagine non è più per noi il bassorilievo della condizione umana nei
passati anni trenta, ma il ritratto della nostra società contemporanea,
dell’ingegnere della finanza creativa salvato dalla mano visibile dello Stato,
dell’imprenditore sciagurato che risparmia sulla sicurezza dei suoi
dipendenti e la fa franca (o almeno ci prova), del trafficante d’armi che –
come canta Battiato – passa coi ministri accanto alle frontiere. Il predatore
spengleriano non è il vichingo con la bava alla bocca, ma colui che fa della
sconfitta di tutti gli altri il proprio “essere un vincente”.
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A prima vista l’accostamento fra la belva spengleriana e lo speculatore
finanziario del terzo millennio potrebbe sembrare estraneo alla sensibilità
dell’odierno cittadino dello stato di diritto, benpensante pasciuto al tempo
del pensiero-TV, che ritiene – dopo aver condannato in nome della par condicio sia i lager hitleriani sia i gulag stalinisti – di aver messo fine alla storia
e a tutte le sue atrocità, di destra come di sinistra, grazie ai sacri valori della
democrazia e del mercato globale (cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e
l’ultimo uomo, RCS, Milano 1992-2003). Eppure è lo stesso Spengler a porre in parallelo l’attività predatoria e quella economica, quando dice che il
predatore «non tollera suoi pari nel territorio che forma il suo dominio: qui
ha radice il regale concetto della proprietà. Proprietà è il territorio in cui si
esercita una illimitata potenza, una potenza conquistata combattendo, difesa
contro gli eguali, mantenuta con la vittoria. Non è il diritto su un semplice
avere, è il diritto di disporre come si vuole di quanto si ha» (p. 49). L’uomo
è il sovrano assoluto di tutto quanto gli appartiene (compresa la sua stessa
vita, e quella di coloro che dipendono da lui per sopravvivere): può bruciare
banconote per accendersi i sigari, può decidere di non produrre un farmaco
salvavita di cui detiene il brevetto, può scegliere di chiudere una sua azienda
per “delocalizzare” altrove la produzione. Profetico e attuale, Spengler ha
parlato di noi quasi ottant’anni prima di noi (L’uomo e la tecnica è del
1931).
Un capitalismo per l’infelicità
Il ritratto appena abbozzato, sullo sfondo dell’economia globale, combacia in maniera impressionante con quello del “materialista” offerto da Oliver James nel recentissimo Il capitalista egoista (ed. Codice, Torino 2009,
161 pp., € 18). James, citando lo psicologo americano Tim Kasser, descrive
il soggetto materialista come uno che tratta gli altri alla stregua di pedine,
incline allo sfruttamento piuttosto che alla cooperazione, cinico, diffidente,
egoista, manipolatore, ipercompetitivo, ansioso di primeggiare, ma soprattutto disposto «a far molto male agli altri o a sé laddove questo serva per
vincere: una disumanizzazione» (pp. 35-36).
Chi è il materialista? James distingue tra materialismo relativo e materialismo assoluto, pur evidenziando che «il confine oltre il quale il materialismo diviene relativo non è tracciabile con precisione. Sostanzialmente dipende dalla misura in cui l’importanza data al denaro, alle proprietà, alle ap-
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parenze e alla fama serve ad appagare un’esigenza psicologica fondamentale
piuttosto che a competere con i vicini di casa» (p. 22). Dunque, la differenza
risiede nelle intenzioni più che nelle azioni: un soggetto che dia importanza
al possesso di beni perché proveniente da lunghi anni di povertà e di incertezza, non è materialista (ovvero, è un materialista relativo), mentre lo è (assoluto) chi persegue l’accumulo di ricchezza allo scopo di permettersi quello
status symbol che lo elevi al di sopra di coloro che è solito frequentare.
Ora, al di là di ogni giudizio di valore, il problema del materialista non
è l’avidità, ma l’infelicità che ne consegue: «restano ormai pochi dubbi sul
fatto che il materialismo sia strettamente correlato con la depressione,
l’ansia, l’abuso di sostanze, la personalità narcisistica e la vitalità ridotta ... i
materialisti hanno una volta e mezza più probabilità di soffrire di disturbi
della personalità rispetto ai non materialisti, e non se la cavano bene con le
relazioni personali» (pp. 31-34). Il materialismo, nato con l’intento di donare agli uomini la felicità tramite il possesso e il consumo di beni e servizi, si
mostra così, alla resa dei conti, controproduttivo (nel senso spiegato
all’inizio). Ma non è tutto qui, perché il capitalismo non solo tollera, bensì
incentiva e produce questa umana infelicità in quanto necessaria al suo stesso funzionamento: altrimenti il ciclo produzione-consumo della macchina
economica si incepperebbe e tutto il sistema collasserebbe (p. 84). Ed ecco
la tesi più innovativa dell’autore: se questo è valido in generale per ogni
forma di capitalismo, tanto più lo è per quello che James chiama “capitalismo egoista”, forma particolare di capitalismo, il cui motto è «badare a se
stessi e mandare al diavolo tutti gli altri» (p. 69) e caratterizzato da quattro
tratti distintivi (che differenziano quello “egoista”, o anglosassone, da quello
“non egoista”, ad esempio quello svedese o mediterraneo): 1. l’importanza
di un’azienda è giudicata più sulla base della quotazione in borsa che su
quella della forza intrinseca e dell’utilità per la società e per l’economia; 2.
c’è una forte spinta a privatizzare anche i beni e servizi collettivi come
l’acqua e l’elettricità; 3. la regolamentazione della finanza e del lavoro è minima e tende a sfavorire i lavoratori e i sindacati, rendendo più semplici assunzioni e licenziamenti; 4. la convinzione fondamentale è che il mercato
possa soddisfare qualsiasi tipo di esigenza umana (p. 67).
Con la sua spinta ossessiva in direzione di un materialismo sempre più
intenso, il capitalismo egoista genera dunque – poiché, come si è visto, materialismo e stress sono collegati – una quantità e una diffusione di stress
emotivo senza precedenti (che si presta alla banale osservazione del fiorire,
soprattutto negli Stati Uniti, della professione dello psicoterapeuta, ma che
27
James suffraga con l’esame di una notevole quantità di studi psicologici e
sociologici, tra cui quelli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità). In
questo senso, al di là delle intenzioni di partenza, il capitalismo egoista opera per produrre l’infelicità dell’uomo. In particolare, se ne deduce che il tipo umano del “predatore” (ovvero, del “materialista”) non è un modello geneticamente predeterminato, bensì il prodotto di un certo tipo di organizzazione sociale: da uno studio dell’OMS sulla prevalenza dello stress emotivo
(depressione, ansia, disordini impulsivi – come l’irascibilità – e abuso di sostanze) è emerso che «oltre un quarto degli americani è stato angosciato nei
dodici mesi precedenti il test, un livello circa 6 volte superiore a quello di
Shanghai e della Nigeria. Esaminando le cause di queste grandi differenze,
si trovano prove schiaccianti del fatto che i geni possono essere esclusi» (pp.
14-15).
Per James, che ha intitolato il suo libro in polemica (bonaria) con il
bestseller Il gene egoista di Richard Dawkins, questa delle cause genetiche è
una questione di fondamentale importanza, poiché ai fautori del capitalismo
egoista (cioè quell’elite che costituisce l’1% circa della popolazione di ogni
società “egoista” e che trae giovamento da tale sistema economico, p. 83) fa
gioco utilizzare l’argomento della genetica (così come un tempo faceva gioco alle classi abbienti chiamare in causa l’evoluzionismo di Spencer per giustificare l’abbandono dei poveri alla loro condizione) per distrarre
l’attenzione dalle cause sociali (la genetica è infatti un argomento sempre
abbastanza alla moda da catturare l’attenzione di tutti, e sempre abbastanza
specialistico da tenere i più fuori da ogni serio approfondimento). Bisogna
fare molta attenzione, conclude James, a utilizzare concetti e paradigmi della genetica e della psicologia evoluzionistica nell’ambito della sociologia: è
infatti un errore «presumere che la nostra specie abbia molto da imparare
dalle altre. Gli esseri umani sono instabili, irrazionali e perversi. La padronanza del linguaggio genera la coscienza di sé e il dominio sul nostro ambiente, e nessuna delle due cose è presente nelle altre specie, per quanto avanzate o contigue alla nostra possano essere» (p. 135).
e della sua pretesa insostituibilità – sull’onda di affermazioni come “al comunismo la parola l’ha tolta la storia”, o “indietro non si torna!”. (Per inciso, il filosofo francese Maurice Bellet ha definito la funzione fondamentale
in senso tecnico come «quell’insieme di certezze che ci danno una stabilità
ed un orientamento per vivere. Il posto che occupavano prima i miti tradizionali, le saggezze, le ideologie, dopo la loro caduta è stato occupato
dall’economia» (L’economia in un vicolo cieco, in Il delirio dell’economia,
l’Altrapagina, Città di Castello 1995, pp. 1-97, citazione da p. 5).
Nei due libri qui presentati, tuttavia, non si parla di PIL né di “accumulazione della ricchezza” (tanto cara ai manuali di economia), ma di quello
che dovrebbe situarsi sempre al centro di ogni discorso, sociologico, filosofico, economico: cioè, del tipo di vita che l’uomo attualmente vive e di
quanto esso sia adeguato alla natura e alle aspirazioni umane. Perché la domanda che ognuno di noi – imprenditore o disoccupato, casalinga o professionista – dovrebbe porsi al mattino non è “come fare per aumentare la produzione abbattendo i costi?”, ma “che tipo di vita voglio vivere oggi, che
abbia il senso preciso dell’esser uomo che pretendo da me e auspico per gli
altri?” Rispondere a questa domanda, o almeno porsela, credo sia un irrinunciabile compito culturale e umano. Sempre che riusciamo a trovarne il
tempo, durante il coffee break.
Che tipo di vita voglio vivere oggi?
Oggi, nell’era della “crisi dei valori”, in cui l’economia ricopre il ruolo
di “funzione fondamentale” di senso, di riferimento fisso e quasi “naturale”,
si parla molto di capitalismo, dei suoi pregi e dei suoi difetti, dei suoi limiti
28
29
Gli ultimi giorni del Margine
Salvezza per tutti?
Appunti per una breve storia
del concetto di “apocatastasi”*
FRANCESCO GHIA
«Ogni cosa che passa è solo figura.
Quello che è inattingibile qui diviene evidenza.
Quello che è indicibile qui si è adempiuto».
(Goethe, Faust: “Chorus mysticus”)
P
uò l’uomo, un essere finito, rendersi artefice di un peccato infinito, meritevole, in quanto tale, di una pena infinita? Sono cioè conciliabili – e
se sì, come? – l’idea di una eternità della pena e la condizione di finitudine
dell’uomo?
Si tratta di domande per così dire collaterali a ogni escatologia, sia essa
teologica o filosofica, e che sempre e di nuovo ritornano nella metafisica
delle cose ultime, vuoi per essere confutate con la dimostrazione della inde*
Conformemente al carattere non sistematico e ad appunti di queste riflessioni, il testo
non sarà corredato da un apparato di note. Comunque, per chi sia interessato ad
approfondire le questioni qui evocate, segnalo, in ordine sparso e senza alcuna pretesa
di esaustività, alcuni riferimenti a mio avviso utili: A. Oepke, voce apokatastasis in G.
Kittel (ed.), Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart 1933, I, coll.
388-392; H.U. v. Balthasar, Parola e mistero in Origene, tr. it. di M. Martini, Milano
1991; Id., Breve discorso sull’inferno, tr. it. di C. Danna, Brescia 19933; S. Zucal, La
teologia della morte in Karl Rahner, Bologna 1982; L. Pareyson, La sofferenza inutile
in Dostoevskij, in “Giornale di Metafisica”, n.s. 4 (1982), pp. 123-170; A. Caracciolo,
Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e di poetica, Genova 1990; P.
Piovani, La teodicea sociale di Rosmini, Brescia 19972; G. Moretto, Il principio
uguaglianza nella filosofia, Napoli 1999; R. Celada Ballanti, Erudizione e teodicea.
Saggio sulla concezione della storia di G.W. Leibniz, Napoli 2004; F.W. Graf,
Augenblick divino, kairos e altri tempi assoluti. Alcune considerazioni in merito ai
discorsi teologici sul tempo nella Repubblica di Weimar, in Etica, Religione e Storia.
Studi in memoria di Giovanni Moretto, a cura di D. Venturelli – R. Celada Ballanti –
G. Cunico, Genova 2007, pp. 115-153.
30
rogabilità morale dell’idea delle pene eterne, vuoi per essere suffragate con
la asserzione della imperatività etica di elevare a principio filosofico – dunque universalizzabile – l’uguaglianza sostanziale e qualitativa (almeno in
spe) degli uomini e della loro destinazione.
In ogni caso, quale che sia la risposta a queste domande, in esse si trovano a imbattersi le teologie e filosofie morali e della storia, quando, da
considerazioni in astratto sulla giustizia del mondo, esse si volgano alla analisi concreta delle situazioni in cui quella evocata giustizia possa esplicarsi e
si interroghino – per dirla in termini filosofico-giuridici – sul soggetto di
imputabilità della violazione di quel principio di giustizia. Se un peccato,
ovvero la violazione di quel principio di giustizia, è meritevole di una pena
infinita, è chiaro che il male che quel peccato incarna debba essere a sua
volta infinito: ne consegue che, al cospetto di questo male infinito, che
inside strutturalmente il mondo nelle sue radici più profonde (non a caso
Kant lo chiama il male radicale), quel peccato può essere imputato all’uomo
agente solo a condizione di tradurre ed estendere l’idea teologica di un peccato di origine nel concetto filosofico di una corresponsabilità cosmica di
ogni uomo. L’uomo cioè, come ha affermato il filosofo Alberto Caracciolo,
«è fatto corresponsabile, si sente corresponsabile della realtà. L’aver mangiato del
frutto proibito, dell’albero del bene e del male, l’aver raggiunto la coscienza del bene e del male vuol dire aver raggiunto, prima di tutto, la responsabilità, una specie
di responsabilità divina. … L’uomo non può operare se non assumendo questa responsabilità cosmica. Ecco perciò come la prima originaria scelta, il primo originario orizzonte della sua peccabilità, del suo poter peccare, del suo non poter non peccare, è proprio questo della corresponsabilità cosmica. E allora in che cosa consiste
il primo peccato dell’uomo? Il primo fondamentale peccato dell’uomo, la prima
possibilità del peccato è l’omissione del prendere coscienza e del prendere posizione di fronte a questo problema della responsabilità cosmica» (A. Caracciolo, La virtù e il corso del mondo. Lezioni dell’anno accademico 1975/76, a cura di G. Moretto, Alessandria 2002, p. 250).
Sulla medesima linea di una estensione universalistica del principio di
corresponsabilità in ordine al rapporto tra il male del mondo e la redenzione
si muovono anche le seguenti considerazioni del filosofo esistenzialista russo Nicolaj Berdjaev:
«Il problema che si pone alla nostra coscienza non è dogmatico, bensì di ordine etico-spirituale. Il problema non sta nel fatto che, da parte nostra, si desideri nuova-
31
mente edificare una teoria dell’apocastasi, come fecero Origene e san Gregorio di
Nissa. Dalla sfera teologico-metafisica, in cui si risolvono i misteri ultimi del destino umano ricorrendo a categorie razionali (e quello di Origene fu appunto il tentativo di una escatologia razionale), tutto viene trasferito nella sfera del nostro orientamento spirituale e della nostra volontà morale. Noi dobbiamo aspirare non soltanto
alla nostra salvezza personale, ma anche alla salvezza e alla trasfigurazione
dell’universo. L’ultimo mistero, razionalmente irrisolvibile, è se tutti saranno salvati
e in che modo si realizzerà il Regno di Dio. Da parte nostra, tuttavia, va compiuto
ogni sforzo spirituale affinché tutti gli uomini raggiungano la salvezza. Dobbiamo
salvarci insieme, con tutto l’universo, ecumenicamente, e non in solitudine» (N.
Berdjaev, Filosofia dello spirito libero, a cura di G. Riconda, Cinisello Balsamo
1997, p. 397).
Antecedenti storici dell’idea di “apocatastasi”:
dallo stoicismo a Origene
Come si è visto, all’inizio della citazione appena riportata Berdjaev fa
riferimento all’idea di apocatastasi. Si tratta di un termine, che si potrebbe
tradurre con espressioni come “restituzione” o “reintegrazione”, che compare originariamente nel contesto della filosofia stoica: esso è spesso correlato
a quello, affine, di palinghenesìa (“rigenerazione”) e rinvia alla idea di una
ricostituzione del mondo dopo la sua distruzione avvenuta per mezzo della
ekpyrosis (“deflagrazione”) universale. Di probabile ascendenza orientale,
segnatamente orfico-pitagorica, esso è connesso a una concezione ciclica del
tempo e della storia.
Va notato che i termini apokatastasis e palinghenesìa ricorrono però
anche in alcuni passi del Nuovo Testamento, p. es. in Mt 19, 28 [hymeis oi
apoloythesantes moi, en te(i) palinghenesìa(i), «voi che avete seguito me
nella rigenerazione»] e in At 3, 21 [achri chronon apokastáseos panton, «fino ai tempi della restituzione di tutte le cose»]: alla fine dei tempi, le creature verranno rigenerate e restituite all’ordine perfetto di Dio, voluto all’inizio
della creazione e turbato dal disordine del male e del peccato; in questo modo Dio sarà ta panta en pasin, «tutto in tutti» (1Cor 15, 28).
È comunque a partire dal terzo secolo dell’era cristiana che il concetto
assume, grazie a Origene, le fattezze del richiamo di tutte le creature, alla
fine del mondo, a un’unica destinazione e quindi della messa in discussione
dell’eternità delle pene dell’inferno:
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«La fine del mondo avverrà quando ognuno sarà assoggettato alle pene secondo i
propri peccati (Mt 24,36); e Dio solo conosce il tempo in cui ognuno riceverà ciò
che merita. Riteniamo comunque che la bontà di Dio per opera di Cristo richiamerà
tutte le creature ad unica fine, dopo aver vinto e sottomesso anche gli avversari» (Origene, I Principi, a cura di M. Simonetti, Torino 1968, p. 200).
Origene si era accostato a questa idea «con grande timore e cautela»,
consapevole dell’effetto dirompente che esso avrebbe potuto sortire in campo dogmatico. E in effetti, nel Concilio di Costantinopoli del 543, questa
dottrina è stata condannata come eretica nel nono dei Canones adversus Origenem1. Nondimeno la dottrina origeniana ha, nonostante l’anatema, continuato a vivere nella teologia: se ne trovano tracce in Clemente
d’Alessandria, Gregorio di Nissa, Didimo il Cieco, Gregorio Nazianzeno e
Massimo il Confessore; nel Novecento essa è rinvenibile per esempio in
Karl Barth, dal versante riformato e, dal versante cattolico, in Hans Urs von
Balthasar che nelle sue tesi sull’inferno la fa sua sostenendo, se pur solo a
livello di speranza, la finitezza del male, senza dimenticare, benché con
sfumature diverse, la teoria dei “cristiani anonimi” di Karl Rahner e la “teologia del corpo mistico” di Henri de Lubac.
Apocatastasi e riabilitazione degli eretici:
tra illuminismo e età di Goethe
La dottrina origeniana della apocatastasi, dopo essere stata praticamente accantonata per oltre dieci secoli, conosce una rinnovata giovinezza agli
albori dell’illuminismo e dell’età di Goethe. Non a caso il diciottesimo secolo si apre, idealmente, con l’opera (1699-1700) del grande storico del pietismo Gottfried Arnold Storia imparziale delle chiese e degli eretici, nella
quale, secondo le parole di Friedrich Meinecke, egli, presentando tutta «una
schiera di solitari ricercatori di Dio che erano entrati in conflitto con la teologia scolastica dominante», si è guadagnato un posto di rango come «precursore» dello storicismo etico, ossia dell’idea di una progressione morale
1
Così recita la condanna: «Si quis dicit aut sentit, ad tempus esse daemonum et impiorum
hominum supplicium, eiusque finem aliquando futurum, sive restitutionem et
redintegrationem fore daemonum aut impiorum hominum, anathema sit» (cfr. H.
Denzinger, Enchiridion symbolorum, Barcinone – Friburgi Brisg. – Romae 196031, n.
211).
33
dell’umanità nel suo complesso che, per realizzarsi, si giova non solo delle
esecuzioni ordinate, ma anche di quelle che esorbitano dalla linea retta.
E in effetti lo scritto di Arnold è per così dire dominato da quella che
diventerà una vera e propria parola d’ordine dei secoli XVIII e XIX: Rettung
o Rehabilitierung, ossia “riabilitazione” degli spiriti dannati come motivo
ispiratore di un individualismo universalistico (si noti l’intenzionale ossimoro!) e come palese antitesi ai principi, dal versante cattolico,
dell’esclusivismo della salvezza (extra catholicam ecclesiam nulla salus) e,
dal versante riformato, segnatamente calvinista, della praedestinatio gemina
(la “predestinazione gemella” ovvero congenita, alla vita e alla morte eterne). Il teologo ad aver individuato con maggior chiarezza nel concetto apocatastatico una tale antitesi all’idea dell’esclusivismo della salvezza e del
particolarismo della grazia è stato sicuramente Friedrich Schleiermacher,
nella cui Dottrina della fede del 1821-22 così leggiamo:
«Suscita enormi difficoltà immaginare che il risultato finale della redenzione sia tale
che alcuni diventino sì partecipi per mezzo di essa della suprema beatitutine, ma altri, e invero la massima parte del genere umano secondo la concezione più corrente,
vadano perduti in una infelicità irrimediabile. Sicché noi non dovremmo avvalorare
una simile concezione senza testimonianze assolutamente certe (di cui invero non
disponiamo) del fatto che è stato Cristo stesso a prevedere la cosa in questo modo.
Pertanto, siamo autorizzati ad accordare perlomeno il medesimo diritto a quella visione più benevola, della quale si trovano comunque rimandi anche nella Scrittura
(1Cor 15,26.55), secondo cui, grazie alla potenza della redenzione, si verificherà nei
tempi ultimi una restaurazione generale [allgemeine Wiederherstellung, apokatastasis panton] di tutte le anime umane» (F. Schleiermacher, La dottrina della fede, a
cura di S. Sorrentino, Brescia 1985, II, p. 586).
Perfezionamento morale ed educazione del genere umano
tra evoluzione e apocalisse
Un esempio di applicazione della nozione di “apocatastasi” all’idea di
una valorizzazione anche delle esecuzioni che esorbitano dalla linea retta è
rappresentato invece dal filosofo forse più affine alla temperie del barocco
che la storia della filosofia conosca: Gottfried Wilhelm Leibniz. Un anno
prima della morte, Leibniz redige, nel 1715, un Frammento
sull’apocatastasi. Si tratta di un “torso”, di un piccolo frammento di “filosofia della storia” (come è noto, il termine vero e proprio verrà però coniato
34
solo cinquant’anni più tardi da Voltaire), letta alla luce della lex continui
(natura non facit saltus). Alla luce di tale legge del continuum, fondata
sull’idea cara a Linneo di una «catena degli esseri» capace di porre un argine all’emersione dello horror vacui, in Leibniz, come ha osservato Hans
Blumenberg, «evoluzione e apocalisse coincidono»: l’apocatastasi diventa
cioè il vertice di una teoria della crescita e del perfezionamento infinito del
genere umano che implica, come presupposto per la sua realizzazione, una
reintegrazione o, appunto, una “restituzione” progressiva della pienezza conoscitiva.
Un procedimento non dissimile viene posto in essere anche da Immanuel Kant per postulare, come conseguenza della sua teoria del sommo bene,
l’immortalità dell’anima – senonché Kant è un fiero avversario di tutte le
teorie apocatastatiche, così come di quelle, in fondo a esse connesse, che si
rifanno a una qualunque forma di “espiazione vicaria”, perché per lui, anche
se non è lecito far dipendere l’esecuzione del comportamento virtuoso dalla
promessa di un premio, tuttavia, da un punto di vista pragmatico, rappresenta pur sempre un grave pericolo derogare dal principio morale di una retribuzione degli atti individuali.
Il nesso tra escatologia apocatastatica, educazione del genere umano e
conoscenza della salvezza raggiunge poi piena formulazione, nella seconda
metà del Settecento, con Herder e Lessing. È in particolare quest’ultimo a
porsi sulla scia di Origene. Infatti, come ha scritto Jacob Taubes nel suo poderoso affresco sulla Escatologia occidentale,
«i temi principali della teologia origeniana, la prónoia e la paidéusis, sono presenti
anche nell’escatologia di Lessing. Nell’economia della salvezza di Origene esiste
solo la via dell’educazione. Se la provvidenza di Dio deve ricondurre a sé le anime,
tutelando, però, anche la libertà dell’uomo, l’unica via possibile allora è quella
dell’educazione. Solo attraverso questa strada la meta della compiutezza di tutte le
cose può essere raggiunta, senza che la libertà sia limitata. In questo senso per Origene, come anche per Lessing, la provvidenza, la prónoia, e l’educazione, la paidéusis, sono la stessa cosa. L’educazione degli esseri liberi e raziocinanti attraverso
la provvidenza “costituisce il nucleo centrale della cristianità” che “trova espressione in ogni singola parte della sua teologia”. Origene pensa che l’educazione si realizzi “attraverso la creazione del mondo visibile, la filosofia, l’ebraismo, il Logos, la
vita all’interno della chiesa e lo sviluppo futuro”. L’idea dello sviluppo dà una risposta a tutti i problemi della teodicea. L’opera peculiare di Origene è quella di aver
trasformato il cristianesimo in idealismo pedagogico» (J. Taubes, Escatologia occidentale, Milano 1997, pp. 172-173).
35
Il peccato del mondo e la teodicea della storia: Hegel
Si comprende in tal modo come la dottrina della apocatastasi, inserita
nel contesto di un idealismo pedagogico tipico di una filosofia razionalistica
della storia, si presenti come il compimento finale di una “teodicea della storia”, ovvero della storia come giustificazione di Dio al cospetto del male e
del peccato del mondo. Questa almeno la conclusione cui si perviene attraverso la ri-lettura dell’apocatastasi fornita da colui che ha definito la sua
complessiva filosofia della storia «una teodicea, una giustificazione di Dio»
[eine Theodizee, eine Rechfertigung Gottes]: Hegel.
Tutto il male del mondo, incluso il male morale, deve venire accolto,
per il filosofo di Stoccarda, nel Begriff, nel concetto; lo spirito pensante deve essere conciliato con la sua negazione. A questo riguardo, opportunamente Hans Urs von Balthasar ha individuato l’analogo dellla dottrina origeniana della apokatastasis nella teoria hegeliana della Aufhebung, ossia nel terzo
momento, quello risolutivo, della dialettica.
Si tratta, a me pare, di un parallelo di grande rilievo. Infatti, si potrebbe
con buon diritto vedere, nel termine tedesco aufheben, una sorta di evocazione del verbo cristologico per eccellenza: tollere. Come si sa, il primo traduttore italiano della hegeliana Scienza della logica, Arturo Moni, ha reso il
verbo tedesco proprio con «togliere». Sembrerebbe trattarsi, in tutto e per
tutto, di una reminiscenza appunto del plesso di significazioni contenute nel
verbo latino che, al pari del tedesco aufheben, è ben più ampio di quello
dell’italiano “togliere”: tollere esprime infatti l’atto del prendere qualcosa su
di sé, di caricarsene il peso sollevandolo da terra e quindi sì del “togliere”,
ma solo come effetto mediato, ossia come dislocazione, come spostare un
oggetto dal suo luogo originario per collocarlo altrove. È sintomatico, però,
che se volessimo trovare un termine greco che renda altrettanto bene la medesima valenza semantica dovremmo probabilmente ricorrere al verbo bastazein che, nei vangeli, ricorre, per esempio, in Gv 16,12, nelle parole del
commiato di Gesù prima della crocifissione («Molte cose ho ancora da dirvi,
ma per il momento non siete capaci di portarne il peso») e che, in Gv 19,17
e Lc 14,27, indica l’atto del caricarsi la croce sulle spalle, del prenderla su
di sé, in un senso tanto reale (nel cammino verso il Golgota), quanto metaforico. Così, l’espressione liturgica che vede in Gesù l’agnello di Dio qui tollit
peccata mundi andrebbe propriamente tradotta non, secondo l’uso abituale,
con il verbo “togliere”, ma con i verbi “portare”, “prendere su di sé”…
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È allora in questo senso che, assecondando la felice intuizione balthasariana, l’Aufhebung hegeliana potrebbe essere suggestivamente letta in chiave
apocatastatica: il momento finale, l’atto che riconcilia tutte le dis-teleologie
dialettiche, è l’atto con cui quelle dis-teleologie non vengono eliminate, ma
dislocate, portate in un altro luogo (in chiave escatologica ovviamente
nell’al di là della storia) e da qui restituite alla loro finalità originaria.
L’annichilimento della storia: circolarità tra inizio e fine
Ora, la circolarità tra l’inizio e la fine è un topos della rilettura romantica della dottrina della apocatastasi. Paradigma di tale circolarità è il Faust di
Goethe, che inizia con un “prologo in cielo” che ricalca praticamente alla
lettera il modulo narrativo del “prologo in cielo” del Libro di Giobbe e termina con una Himmelfahrt, una “ascensione” di Faust nel cielo della visione
beatifica. Questa “ascensione” è cagionata, per un verso, dalla inesauribilità
dello Streben, del tendere e dell’anelare dell’anima ricercante di Faust e per
altro verso dall’intervento soccorrevole e misericordoso dell’amore divino.
Non è un caso dunque che la dottrina della apocatastasi si riaffermi con
forza nell’ambito delle riflessioni teologiche, di filosofia della storia e di filosofia della religione dei primi del Novecento (in specie nel periodo della
prima guerra mondiale e della Repubblica di Weimar) proprio in una temperie che vede il concomitante imporsi, da un lato, nelle scienze della natura,
del paradigma evolutivo e, nelle scienze storico-sociali, del paradigma storicistico e, dall’altro lato, il riemergere, nell’estetica e nella filosofia della religione, di correnti neo-romantiche.
In questo contesto, la dottrina apocatastatica diventa la cifra escatologica di una annihilatio historiae (per usare la formulazione di F.W. Graf), di
un annichilimento del concetto evolutivo di storia e dello smascheramento
della caducità di ciò che per gli storicisti era das Historische, “lo storico”,
sostituito con il concetto del Regno di Dio come unico telos della storia. Così per esempio scrive Karl Barth nel 1919 (Il cristiano nella società): Il Regno di Dio
«è lo scopo della storia, il telos di cui parla Paolo in 1Cor 15,23-28, non un evento
storico accanto agli altri, ma la summa della storia di Dio nella storia, nella Gloria a
noi nascosta, ma rivelata ai nostri occhi illuminati da e per lui» (K. Barth, Der
Christ in der Gesellschaft, in J. Moltmann [ed.], Anfänge der dialektischen Theologie, München 1962, I, pp. 3-37, qui p. 34).
37
In questo contesto, la ripresa della dottrina apocatastatica si accompagna anche alla riscoperta, soprattutto da parte della teologia liberale protestante, della teologia di Dante e in particolare della seconda Cantica. Questo
il caso per esempio di Ernst Troeltsch, affascinato dal Berg der Läuterung, il
“monte della purificazione”, ovvero lo monte che salendo altrui dismala
[Purg. XIII, 3]: nella dottrina cattolica del Purgatorio viene cioè visto il
pendant adeguato della teoria apocatastatica proprio nella misura in cui essa
riprende, universalizzandola, l’idea della espiazione vicaria.
Sebbene più cauto, anche Dietrich Bonhoeffer si accosta in Akt und
Sein (“Atto ed essere”), la sua opera più filosofica, alla dottrina apocatastatica, definendo il “discorso dell’apocatastasi” come «il sospiro della teologia
[der Seufzer der Theologie], quando essa deve parlare di fede e non-fede, di
elezione e riprovazione» (D. Bonhoeffer, Atto ed essere, tr. it. di A. Gallas e
C. Danna, Brescia 1993, p. 14).
«Colligite quae superaverunt fragmenta, ne pereant»…
In conclusione, si noti ancora come il sospiro o sussurro della teologia
nell’affrontare, con “timore e tremore”, il mistero dell’apocatastasi potrebbero forse trovare motivo di incoraggiamento in un brano del Vangelo di
Giovanni. Si tratta delle parole dette da Gesù ai suoi discepoli al termine
della moltiplicazione dei pani e dei pesci: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (Gv 6,12).
Perché nulla vada perduto… La chiara allusività del contesto del brano
all’istituzione dell’eucaristia, con il connesso concetto dell’inesauribilità
della grazia, induce a intravedere in questa espressione un fondamento per
tutte le speranze apocatastatiche, quale che sia il modo della loro formulazione. Non a caso, lo stesso verbo che indica l’atto del perdere, del corrompere e quindi del perire ritorna, con accenti che lasciano poco spazio per equivocare, alcuni versetti dopo con un rimando chiaramente escatologico:
«E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di
quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6, 39). 38