MISCELLANEA 2007 2008 - Liceo Ginnasio Statale Orazio

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MISCELLANEA 2007 2008 - Liceo Ginnasio Statale Orazio
LICEO CLASSICO “ORAZIO”
ROMA
Miscellanea
di Saggi e Ricerche
CARINI - CASTELLAN
DE NICHILO - FIERRO - GIANNÌ
PESCETELLI - ROBUSTELLI
a cura di Mario Carini
N. 5
ANNO SCOLASTICO
2007-2008
Stampa: Tipolito Istituto Salesiano Pio XI
Via Umbertide, 11 - 00181 Roma
Tel. 06.7827819 - E-mail: [email protected]
Finito di stampare: Maggio 2009
INDICE
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SEZIONE DOCENTI
MARIO CARINI, L’immagine del “diverso” in Omero e in Victor Hugo
..................
9
...........................
43
.............................
63
.....................................
68
MARIO CARINI, “I have a dream...”: l’autoeditoria scolastica
ADRIANA DE NICHILO, Appunti di un viaggio nella memoria
ANNA MARIA ROBUSTELLI, Che farò senza Euridice?
MARCO PESCETELLI, L’Errante: il giallo di un film orfano
................................
95
SEZIONE DIDATTICA
(collaborazioni degli studenti)
Licia Fierro, Introduzione ai progetti realizzati dagli alunni di II B e III B per l’anno
scolastico 2007-2008 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101
“Incanto e disincanto” dalla gnoseologia degli antichi alla politica dei moderni:
proiezione storica nel Risorgimento italiano (Progetto “Roma per vivere, Roma
per pensare”), progetto realizzato dalla classe II B, coordinato dalla Prof.ssa
Licia Fierro, con la collaborazione della Prof.ssa Alda Giannì . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105
Dal mito deluso del ’68 al disincanto della società disgregata: il caso Italia (Progetto
“Roma per vivere, Roma per pensare”), progetto realizzato dalla classe III B,
coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159
Mario Carini, Proposte di scrittura creativa su Manzoni e “I Promessi Sposi” . . . . . . . . . 269
Miscellanea di matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 332
INTRODUZIONE
Il quinto volume della Miscellanea di saggi e ricerche, relativo all’anno scolastico 2007-2008, presenta la ormai tradizionale bipartizione in “Sezione docenti” e
“Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)”, con i seguenti lavori. Nella
“Sezione docenti” appaiono due miei contributi, L’immagine del “diverso” in
Omero e in Victor Hugo (un confronto sulle figure di Tersite e di Gwynplaine, il
protagonista di L’Uomo che ride) e “I have a dream...”: l’autoeditoria scolastica
(contenente proposte di progetti editoriali da realizzarsi nella scuola); quello della
Prof.ssa Adriana de Nichilo, Appunti di un viaggio nella memoria (ricordo di una
visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau); quello della Prof.ssa
Anna Maria Robustelli, Che farò senza Euridice? (sulla fortuna del mito di Orfeo
ed Euridice nella moderna poesia angloamericana); quello del Prof. Marco Pescetelli, L’Errante: il giallo di un film orfano (sul problema dei film rimasti senza l’attribuzione dell’autore e che, abbandonati negli archivi, rischiano un irreparabile
deterioramento). La “Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)” comprende
i seguenti lavori: “Incanto e disincanto” dalla gnoseologia degli antichi alla politica dei moderni: proiezione storica nel Risorgimento italiano, progetto realizzato
dalla classe II B, coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione della
Prof.ssa Alda Giannì; Dal mito deluso del ’68 al disincanto della società disgregata: il caso Italia (Progetto “Roma per vivere, Roma per pensare”), progetto realizzato dalla classe III B, coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro; un altro mio contributo, Proposte di scrittura creativa su Manzoni e “I Promessi Sposi”; la Miscellanea di matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan.
Giunti a questo punto del nostro lavoro, dopo aver pubblicato cinque numeri
riuscendo a rispettare la scadenza annuale che ci eravamo prefissati all’inizio del
nostro progetto editoriale, vogliamo tracciare un primo bilancio di questa attività.
Iniziando nel dicembre 2004 la pubblicazione di questa raccolta di saggi di carattere culturale e didattico, intendevamo mettere a disposizione dei docenti e della
nostra scuola uno strumento, per quanto imperfetto, che permettesse non solo di
trovare spunti per ricerche, approfondimenti e aggiornamenti nelle discipline curricolari, ma anche di compiere esperienze culturali nuove. La Miscellanea si è voluta perciò configurare, per così dire, come un mosaico di tessere o una polifonia
di voci tutte funzionali alla realizzazione del progetto comune, fondato sulla difficile coniugazione di scuola e ricerca e finalizzato alla promozione della crescita integrale e della maturazione dell’alunno inteso come persona. Sta ai lettori giudicare se abbiamo raggiunto il nostro scopo.
Per quanto ci riguarda, al fine di avere utili e autorevoli riscontri sulla validità
di questa iniziativa, abbiamo pensato di inviare la Miscellanea a importanti personalità della scuola e della cultura. Copie della Miscellanea sono state mandate ai
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Proff. Bruno Luiselli, Accademico dei Lincei già ordinario di Letteratura Latina all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Francesco Paolo Casavola, storico
del diritto romano, già Presidente della Corte Costituzionale e Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Pietro Rossi, Professore Emerito di Filosofia della
Storia presso l’Università degli Studi di Torino e Accademico dei Lincei, Tullio De
Mauro, linguista di fama internazionale e direttore del Grande Dizionario Italiano
dell’Uso, Antonio Glauco Casanova, storico e saggista, già segretario particolare
del Ministro delle Finanze On. Luigi Preti e direttore del quotidiano del PSDI
«L’Umanità». Tutte le illustri personalità a cui è stata mandata la Miscellanea
hanno risposto con parole di vivo apprezzamento e incoraggiamento per l’iniziativa. Inoltre la Miscellanea è stata inviata alle seguenti biblioteche pubbliche:
Alessandrina, Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele”, Biblioteca Statale “Antonio Baldini”, Biblioteca di Villa Leopardi. Essa è stata inviata anche all’Accademia della Crusca, a Firenze. Abbiamo poi inviato la Miscellanea alle riviste
“Civiltà Cattolica” (il cui direttore, p. GianPaolo Salvini S.I., ci ha risposto con
una cortese lettera) e “Nuova Secondaria” (che ci ha onorato di una lusinghiera recensione, apparsa sul n. 3, 15 novembre 2008, p. 102).1
I giudizi decisamente positivi ottenuti ci inducono, quindi, ad auspicare che la
Miscellanea possa vedere la luce anche negli anni futuri, benché le attuali ristrettezze economiche coinvolgano anche i fondi a disposizione per le iniziative editoriali della scuola e rendano incerta la loro prosecuzione. Vogliamo pertanto concludere nella fiducia che il difficile momento si possa superare ed esprimiamo il nostro ringraziamento a tutti i collaboratori di questo e dei numeri precedenti, al Dirigente Scolastico Prof. Gregorio Franza, che ha approvato e seguito con interesse
l’iniziativa, e alle maestranze della Tipografia dell’Istituto Pio XI.
Roma, 4 marzo 2009
Mario Carini
1 Della quale ci piace riprodurre la parte conclusiva: “Il cambio di Presidenza non ha impedito
di continuare un’importante attività che vede coinvolti in obiettivi comuni i docenti e gli studenti
del Liceo in un lavoro che merita di essere sostenuto anche in futuro” (da “Nuova Secondaria”, n. 3,
15 novembre 2008, p. 102).
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Sezione docenti
MARIO CARINI
L’immagine del “diverso”
in Omero e in Victor Hugo
1. Personaggi letterari divengono miti dell’immaginario, allorché le
loro figure assumono forti valenze simboliche, e questi simboli divengono
universali, creando una tradizione letteraria che dall’antichità si perpetua
fino ai nostri giorni. Così alcuni di questi personaggi, appartenenti alle
letterature di tutti i tempi, sono divenuti emblematici caratteri, figure mitiche dell’immaginario collettivo occidentale, simboli di virtù e difetti dell’uomo o specchio del misterioso e tragico rapporto tra l’uomo e il suo
destino: pensiamo a Giobbe, a Edipo, a Circe, e, più vicini a noi, ad Amleto,
a Romeo e Giulietta, a don Chisciotte, a don Giovanni. Ognuna di queste
figure ha, talvolta inaspettatamente, trovato i suoi ritorni, le sue reincarnazioni in altri personaggi di testi successivi, che, presentando vistose analogie nell’aspetto, nel carattere e nel comportamento, ne hanno ricalcato in
qualche modo l’immagine, l’esperienza di vita e il destino.1
Scopo di questo lavoro è un’indagine sulla costituzione, sul carattere e
sulla funzione di una particolare figura letteraria, quella del “diverso”,
contestualizzata alle origini dell’antichità, in particolare nel mondo greco
che fa da sfondo ai poemi omerici, e riecheggiata, molti secoli dopo,
nell’età romantica. Premettiamo che non intendiamo trattare di un “diverso” connotato in senso sessuale (giacché è notorio che nel mondo antico, prima della rivoluzione morale operata dal Cristianesimo, la bisessualità e perfino l’omosessualità non erano oggetto di riprovazione sociale,
al contrario venivano tollerate se non ammesse, al punto che si è potuto
Nota: il presente lavoro vuole essere una prima messa a fuoco della problematica sulla figura del
“diverso” nel mondo antico, relativamente alla figura di Tersite. Non pretende pertanto di essere
esaustivo né nelle considerazioni né nelle conclusioni né nella bibliografia citata e prelude a
un successivo e più approfondito svolgimento dell’argomento qui trattato.
1 Per l’ambito didattico, l’accostamento di personaggi delle letterature antiche e moderne
in una ideale continuità di caratteri ha prodotto la suggestiva raccolta di testi di Claudia Caffi Elena Corbellini - Marzio Porro, Figure. I miti dell’immaginario collettivo occidentale, Thema
Editore, Bologna 1992.
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parlare di “cultura bisessuale” dei due popoli),2 quanto in senso fisico e
morale. La figura del “diverso”, ossia di colui che appare difforme per
l’aspetto fisico e/o per i valori etici che incarna, dalla comunità alla quale
appartiene, è un τόπος della tradizione letteraria occidentale. Il diverso,
proprio in quanto “diverso” fisicamente e poi eticamente, si pone dialetticamente al di fuori della comunità di appartenenza, verso la quale appare
come un sovversivo outsider, un elemento di disturbo, perturbante (non
solo in senso sociale, ma anche psicologico, nel senso che la sua apparizione genera sorpresa nei presenti e soprattutto nel lettore), assumendo
un ruolo di protesta verso idee, giudizi e valori che non condivide e che
gli appaiono sommamente ingiusti. È un contestatore ante litteram del
sistema vigente nel tempo in cui vive, ossia di quanto vi sia di ingiusto,
cattivo e sbagliato nella mentalità dei suoi compagni e concittadini, camuffato magari con i nobili ideali della virtù, della gloria, del coraggio.
Può essere definito un “pensatore d’urto”, perché porta con le sue parole
idee diverse e costringe gli altri, quelli che si sono conformati a una mentalità e a un sistema di valori comunemente accettati, a confrontarsi con
lui. Ma questo confronto si traduce assai spesso in scontro, soprattutto
quando il “diverso” osa attaccare alle radici i rapporti di potere che la società ha generato e mettere in discussione l’operato, se non la legittimità
stessa, di chi detiene il potere sovrano. E lo scontro è sempre devastante,
perché il “diverso” e il potere che guida la società appaiono come due
termini in opposizione irriducibile: esso può raramente risolversi in una
vittoria del “diverso” sul potere, ma più spesso termina con la sconfitta,
con il danneggiamento, con l’annientamento (la morte fisica o anche simbolica, ad esempio attraverso il ridicolo) di chi, coraggiosamente non
rinunciando alla propria “diversità” morale, di cui quella fisica è riflesso,
ha osato sfidare il potere e/o la morale dominante.
2. Per la prima volta la figura del “diverso”, del brutto nella letteratura
occidentale appare in Omero, nell’Iliade, ed è incarnata da Tersite. Rispetto agli eroi omerici, Tersite è soltanto un’ombra effimera, racchiusa
nello spazio di 67 versi su un totale di 15.693 esametri. Ma questa oscura
2 Rimandiamo per tutta la problematica dell’omosessualità nel mondo greco-romano
(costume ammesso per gli uomini, in quanto legato a una funzione pedagogica, ma riprovato
nelle donne) all’ampio saggio di Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo
antico, Editori Riuniti, Roma 1988, rist.
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parvenza lascia, a nostro avviso, un’impronta indelebile nella mente del
lettore.
Ricordiamo rapidamente l’episodio in cui appare questo personaggio,
compreso nel libro II dell’Iliade (vv. 211-277). Zeus invia ad Agamennone,
mentre dorme nella sua tenda, un sogno ingannatore, che gli appare nella
forma di Nestore e lo esorta ad armare gli Achei per il giorno successivo,
perché Troia è destinata finalmente a cadere. Agamennone, destatosi, annuncia il sogno agli anziani, ma prima di far armare l’esercito dichiara di
voler mettere alla prova l’animo dei soldati, saggiandone l’effettiva volontà
di combattere. Annuncia egli stesso agli Achei di voler tornare in patria,
perché mai più potranno conquistare Τροίην ευ! ρυάγυιαν, Troia dalle
ampie strade. A questo annuncio si scatena un tumulto e tutti i Greci corrono in massa alle navi, con l’animo bramoso di gustare la gioia del ritorno.
Ma Era, irriducibile nemica dei Troiani, esorta Atena a dissuadere gli Achei
dal partire e Atena incarica di ciò Ulisse. Fattosi dare lo scettro, simbolo del
comando, da Agamennone, Ulisse nel ricomporre le fila dell’esercito greco
mostra un duplice atteggiamento, conseguente all’ambiguità del personaggio. Verso i nobili Achei adopera parole suadenti, per convincerli a ritornare all’accampamento. Al soldato del popolo, invece, non risparmia rimproveri, bastonate e insulti, chiamandolo α! πτóλεμος e α# ναλκις, imbelle e
incapace (Il. 2,198-202). Entrambi i mezzi adoperati, e distribuiti secondo
una stretta logica di classe (parole suadenti ai nobili, botte e biasimi ingiuriosi ai plebei), riescono persuasivi e gli Achei sciamando ritornano dalle
navi all’accampamento. Ma uno solo, irriducibile, persiste nella convinzione di voler tornare in patria, ignorando le parole di Ulisse. È Tersite, il
più brutto e il più vile degli Achei, il quale nel mezzo dell’assemblea strepita contro Agamennone, che ha condotto in guerra gli Achei per sete di ricchezze e ha offeso Achille, che è di molto migliore di lui (Il. 2,224-242).
Ulisse lo guarda storto e lo rimprovera aspramente, intimandogli di non offendere più il suo comandante; poi fa seguire all’intimazione una scarica di
bastonate sulla schiena del povero soldato, che si ritira dolorante e piangente, tra la sfrenata ilarità degli Achei, i quali plaudono alla prepotenza di
Ulisse (Il. 2,243-277).
Tersite rappresenta un vero e proprio “strappo” rispetto ai personaggi
eroici di cui Omero canta le gesta belliche, la cui virtù eroica ha il riflesso
nella bellezza e nella forza fisica, secondo l’ideale della καλοκαγαθία.
Quella di Tersite è una καλοκαγαθία rovesciata. Egli è davvero brutto,
addirittura repellente d’aspetto. Le sue caratteristiche psicofisiche sono l’e– 11 –
satto contrario del paradigma omerico: egli “è l’unica caricatura veramente
maligna che si trovi in tutto Omero”, come afferma lo Jaeger.3
Citiamo il passo che contiene la sua descrizione fisica (Il. 2,211-219):
#Aλλοι μέν ρ@ * ε# ζοντο, ε* ρήτυθεν δὲ καθ* ε$ δρας.
Θερσίτης δ* έτι μου∼νος α! μετροεπὴς ε* κολώ/α,
∼
ο$ς ε# πεα φρεσὶ η/@ σιν α# κοσμά τε πολλά τε η/# δη,
μάψ, α! τὰρ ου! κατὰ κóσμον, ε* ριζέμεναι βασιλευ∼σιν,
..
α! λλ* ο$ τι οι@ ει# σαιτο γελοίι ον *Αργείοισιν
∼
ε# μμεναι. αι# σχιστος δὲ α! νὴρ, υ@ πò #Ιλιον ηj λθε.
φολκòς ε# ην, χωλòς δ* ε# τερον πóδα. τὼ δέ οι& ω
# μω
κυρτώ, ε* πὶ στη∼θος συνοχωκóτε. αυ
! τὰρ υ$περθε
φοξòς ε# ην κεφαλήν, ψεδνὴ δ’ε* πενήνοθε λάχνη.
“Tutti gli altri sedettero, si mantennero ai loro posti,
ma Tersite, lui solo, strepitava ancora, il parlatore petulante,
che molti sciagurati discorsi nutriva nella sua mente,
per disputare coi re a vuoto, fuor di proposito,
pur che qualcosa stimasse argomento di riso
per gli Argivi; il più spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia.
Aveva le gambe storte, zoppo da un piede, le spalle
ricurve, cadenti sul petto; sopra le spalle,
aveva la testa a pera, e ci crescevano radi i capelli”.4
I particolari fisici concordano tutti nel rappresentare un essere teratomorfo, un vero e proprio mostro clinico. Secondo la descrizione di Omero
Tersite ha le gambe storte (φολκóς), è zoppo da un piede (χωλóς δ* ε% τερον
πóδα), ha le spalle ricurve, cadenti sul petto (τὼ δέ οι& ω# μω / κυρτώ, ε* πὶ
στη∼θος συνοχωκóτε), la testa a pera (φοξòς ε# ην κεφαλήν), sulla quale
crescevano radi capelli (ψεdνὴ δ’ε* πενήνοθε λάχνε). Tersite è dunque
gobbo, con le gambe storte, ha il capo deforme, allungato, e quasi calvo, con
radi capelli. Inoltre non è per nulla un buon parlatore. Tale bruttezza fisica
(un unicum nel poema omerico, giacché Efesto e Dolone, gli altri due
“brutti” dell’opera, non raggiungono tale livello di repellenza e mantengono
comunque una certa nobile dignità nella loro persona) è l’involucro esterno
di un animo spregevole, del più spregevole (αι# σχιστος), come precisa
Omero, di quanti vennero all’assedio di Troia: «il parlatore petulante, / che
molti sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, / per disputare coi re a
3 Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco (Paideia. Die Formung des
griechischen Menschen, 1944), trad. di Luigi Emery, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1984, rist.,
p. 57.
4 Trad. di Giovanni Cerri, Fabbri Editori, su lic. Rizzoli, Milano 2000, p. 185.
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vuoto, fuor di proposito, / pur che qualcosa stimasse argomento di riso / per
gli Argivi» (trad. di Giovanni Cerri, Fabbri editori, Milano 2000, p. 185). E
Tersite, per la sua sfrontatezza, era assai odiato da Achille e Ulisse.
V’è da tener presente che il nome Tersite, in greco Θερσίτης, deriva da
θέρσις, forma eolica di θάρσος, “coraggio” o “impudenza”. L’autore del
canto II dell’Iliade, nota il Murray, intendeva evidentemente che il nome
richiamasse questo secondo significato.5 Dunque Tersite contestava abitualmente e apertamente, impudentemente, l’autorità dei capi, i due Atridi Agamennone e Menelao, e poi anche Achille, mettendone in ridicolo le persone.
Una sfrontatezza che stranamente, fino alla violenta reazione di Ulisse, era
rimasta impunita.
I tratti di Tersite rappresentati da Omero divengono paradigma del
brutto, del difforme, sia a livello fisico sia a livello morale e spirituale. Il
termine αι# σχιστος definisce Tersite, ed è stato notato dal Pasquali che
Il. 2,216 è il solo punto in cui Omero usi αι* σχρóς col senso di “brutto”.6
Il cranio va messo in relazione con un aspetto del carattere di Tersite. Tersite ha la testa allungata ed è petulante, sfrontato. Aspetto fisico e carattere
morale erano posti in relazione dagli antichi, che crearono un’apposita
disciplina, affiancata alla filosofia e alla medicina e precorritrice della moderna psicologia, la fisiognomica: se ne occuparono filosofi come Pitagora,
Aristotele, Giamblico, medici come Ippocrate e Galeno e scienziati come
Plinio il Vecchio.7 Un trattato anonimo, attribuito dagli antichi ad Aristotele
ma certamente proveniente dall’ambiente del Peripato, la Fisiognomica
(il primo trattato pervenutoci dall’antichità su questa materia, che consiste
nel catalogare le caratteristiche fisiche degli individui ricavandone i tratti
Gilbert Murray, Le origini dell’Epica greca (The Rise of the Greek Epic, 1960), trad. di
Giulio De Angelis, Sansoni, Firenze 1964, p. 270.
6 Giorgio Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, in Pagine stravaganti, vol. II, Sansoni,
Firenze 1968, p. 114 (lo scritto risale al 1940). Il Pasquali inferisce da questa e da altre considerazioni (come la dettagliata descrizione di Omero delle deformità di Tersite) che la categoria del
brutto per i Greci sarebbe stata solo individuale, mentre la bellezza sarebbe stata il modello
tipico. Però il Brelich osserva che anche agli eroi greci più belli sono attribuiti, a superamento
della tradizionale simmetria aspetto fisico / carattere morale, aspetti di difformità dal normale
o addirittura di mostruosità, come il gigantismo (per Achille), la bassa statura (per Aiace Oileo
e Tideo, e sorprendentemente attribuita in Pindaro, Isthm. 4,53, a Eracle), il teriomorfismo,
l’androginismo: vd. Angelo Brelich, Gli eroi greci, un problema storico-religioso, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1978, rist., pp. 232-242.
7 Sullo sviluppo della fisiognomica antica dal continuo confronto con il mondo animale e
sulla sua pretesa di aspirare a un sapere antropologico totale, vd. Maria Michela Mosci Sassi,
La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, Torino 1988, pp. 46-80.
5
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morali), nel paragrafo sulla distinzione delle varie forme di testa, attribuisce
a chi ha la testa a punta un carattere sfrontato (Ps. ARISTOT., Phgn. 812a
8-9, οι J τὰς κεφαλὰς φοξοὶ α! ναιδει∼ ς). La traduzione latina dell’opera,
il De physiognomonia liber (IV sec. d.Cr.), presenta al § 16 una casistica
molto più ampia di teste deformi, tutte associate a caratteristiche morali
fortemente negative. Scegliamo tra queste quelle che offrono le analogie
più stringenti con la testa di Tersite. Così, la testa allungata è segno di poca
accortezza (Caput prolixum imprudentiae signum est), quella enorme indica
un animo stolto, stupido e decisamente rozzo (Caput immensum stultum et
stolidum et indocilem vehementer ostendit), la testa inclinata da una parte è
segno di sfrontatezza (Caput obliquum impudentiam designat), quella prominente nella parte anteriore connota l’insolente (Caput e priori parte eminens insolentem denotat).8 Tutte caratteristiche psicologiche che convengono a Tersite, la cui testa sarebbe un po’ una summa delle varie deformità
craniche sopra elencate, come si deduce dal suo comportamento certamente
audace, sfrontato (critica fino all’insulto Agamennone e Menelao) e poco
accorto (incappa nella punizione di Ulisse) allo stesso tempo. Tale principio
si perpetua nei trattati di fisiognomica in età medievale e moderna. Senza
riandare al celebre trattato Della fisiognomica dell’uomo di Giovan Battista
della Porta (Napoli, 1610), ricordiamo, per l’epoca moderna, il Manuale di
fisiognomica di Angelo Repossi (1878), nel quale si legge che “i cranii
rozzi” sono caratterizzati da “un allungamento trasversale della testa dal
mento alla parte posteriore del capo, come ne’ scimmioni con depressione
di tutto il resto. Onde la regione del mento e tutta la parte inferiore del volto
è molto rimarcata, dura e saliente, mentre le regioni superiori della fronte
sono depresse e mal marcate, anzi la fronte quasi vi scompare, per dar luogo
al rigonfiamento della parte posteriore del capo e della nuca. E ciò equivale,
anche pei frenologi, a mancanza di cervello nelle sedi dell’intelligenza, e ad
esuberanza nelle sedi degli istinti bruti”.9 Che Tersite non sia ricco d’intelli8 Il testo e la traduzione seguita sono quelli in Pseudo Aristotele, Fisiognomica – Anonimo
Latino, Il trattato di fisiognomica, intr., trad. e note di Giampiera Raina, Rizzoli, Milano 2001³,
p. 146.
9 Angelo Repossi, Manuale di fisiognomica, Libritalia, Cerbara-Città di Castello 1997,
p. 118 (il testo risale al 1878). Un innovatore della fisiognomica è Rudof Kassner, che nei suoi
scritti volle superare il parallelismo interno-esterno che legava la fisiognomica a rigidi e tradizionali schemi deterministici, esaltando le dinamiche sfumature dell’espressione (vd. in particolare Rudolf Kassner, I fondamenti della fisiognomica, trad. di Giovanni Gurisatti, Neri Pozza
Editore, Vicenza 1997).
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genza è indicato da Omero nell’essere egli un cattivo oratore: Tersite parla
in modo disordinato e avventato, i suoi discorsi α# κοσμα non incantano gli
ascoltatori, anche se Ulisse, pur appellandolo «consigliere scriteriato»
(α! κριτóμυθε, in Il. 2,246), per mera cortesia (e probabilmente per la necessità, da parte di Omero, di utilizzare un consueto nesso formulare), ammette
che sia un «oratore eloquente» (λιγύς α! γορήτης, ibid.).
Il cattivo carattere di Tersite, il cui esteriore segno è la sua bruttezza
fisica, è confermato anche dalle notizie successive sulla sua vita, riportate
dai poeti epici come Arctino e Quinto Smirneo e dai mitografi come Apollodoro. La sua cattiveria è confermata dalle altre leggende collegate alla sua
figura. Durante la caccia al cinghiale Calidonio, ov’era assieme a Meleagro,
sarebbe fuggito per viltà: l’eroe si sarebbe talmente adirato che lo avrebbe
buttato giù da un’altura. La leggenda sulla sua fine era riportata nella perduta Etiopide di Arctino di Mileto (come si legge nella Crestomazia di
Proclo epitomata da Fozio)10 e quindi nei Posthomerica di Quinto Smirneo
(1,741 ss.).11 Figlio di Agrio (che era fratello di Eneo),12 scampato alla
strage dei suoi fratelli ad opera di Diomede,13 Tersite fu ucciso da Achille,
perché aveva deriso il suo amore per la regina delle Amazzoni Pentesilea.
Ricordiamo la mitica vicenda: Achille ferendo mortalmente Pentesilea, alleata dei Troiani, stregato dalla straordinaria bellezza della guerriera, se ne
innamorò, rimpiangendo di non averla risparmiata. Agli Achei che avrebbero voluto fare scempio della morente, gettandola nel fiume Scamandro o
abbandonandone il corpo alle fiere e agli uccelli, Achille si oppose volendo
tributarle giuste esequie, per amore di lei. Un amore necrofilo, però: l’eroe
greco, secondo la versione di Arctino, dopo aver ucciso a duello Pentesilea,
si sarebbe innamorato di lei morta. Tersite allora, con la sua solita malignità,
avrebbe deriso Achille di fronte ai Greci e poi, in segno di disprezzo,
avrebbe oltraggiato il cadavere, cavandogli un occhio con la lancia. Allora
Achille, pieno d’ira, avrebbe ucciso Tersite con un violento pugno (secondo
10 In Homeri opera recognovit brevique adnotatione critica instruxit Thomas W. Allen,
tomus V, Oxonii 1961, repr. (I ed. 1912), p. 105.
11 Vd. anche l’Epitome di Apollodoro (5). Sul mito di Tersite: Robert Graves, I miti greci
(Greek Myths, 1955), trad. di Elisa Morpurgo, CDE, su lic. Longanesi & C., Milano 1991,
p. 627.
12 Eneo, padre di Tideo, fu il nonno di Diomede. Dunque Tersite sarebbe stato cugino dell’eroe greco.
13 Diomede uccise tutti i figli di Agrio, tranne Onchesto e Tersite, che avevano tolto il
regno a Eneo, suo nonno, per darlo al proprio padre (vd. Apollodoro, Biblioteca 8).
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la versione di Quinto Smirneo)14 o un colpo di lancia (secondo quella, più
rara, attestata dal solo Licofrone nel suo poema Alessandra).15 Per vendetta
Diomede, cugino di Tersite, afferrò per i piedi il corpo di Pentesilea e lo
gettò nelle acque dello Scamandro. Al riguardo il bassorilievo noto come
Tabula Iliaca, databile al I sec. a.Cr. e conservato al Museo Capitolino,
sembrerebbe confermare, dato che vi si vede Achille col braccio destro armato di lancia e alzato in atto di colpire Tersite, la versione più recente di
Licofrone.16 L’uccisione del malvagio Tersite, che così ferocemente aveva
oltraggiato il corpo della bella Amazzone, provocò inaspettatamente lo
sdegno degli Achei e Achille dovette compiere per essa, a Lesbo, un sacrificio purificatorio ad Apollo, Artemide e Latona, come ci informa sempre
Arctino.17 Ciò che è importante notare – a parte lo sventurato destino di
Pentesilea che neppure da morta ebbe pace – è che, secondo questa versione
del mito, la nascita da Agrio avrebbe provvisto Tersite di un certo rango,
dato che Achille dovette sottostare, per il suo omicidio, a una purificazione.
Torniamo all’aspetto di Tersite. La testa allungata, “a pera” (una forma
patologica di dolicocefalia o di acrocefalia),18 era per gli antichi un partico14 Quint. Smyrn., Posthomer. 1,741-747, ove sono descritti i devastanti effetti del pugno di
Achille: per il colpo alla mascella Tersite perde tutti i denti, cade a terra riverso esalando l’ultimo
respiro, mentre il sangue gli esce dalla bocca a fiotti.
15 Lycophr., Alex. 999-1001. Qui Tersite è chiamato, in riferimento alla sua origine, “Etolo
∼ φθóρω/).
simile a una scimmia, essere rovinoso” (πιθηκομóρφω/... Α!ιτωλω/
16 Sulle versioni della morte di Tersite e sul problema della successione degli eventi morte
di Tersite – esequie di Pentesilea, rimandiamo allo studio di Giuseppe Morelli, La morte di
Tersite nella ‘Tabula Iliaca’ del Campidoglio, in “Tradizione e innovazione nella cultura greca
da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di Bruno Gentili”, a cura di Roberto Pretagostini,
vol.I, GEI, Roma 1993, pp. 143-153: secondo l’autore un grande cratere apulo rinvenuto nel
1899 a Ceglie del Campo e conservato al Museum of Fine Arts di Boston aggiungerebbe altri
inquietanti particolari alla vicenda – Achille avrebbe ucciso Tersite mentre era disarmato e stava
compiendo un rito religioso – confermando il contenuto della Tabula Iliaca capitolina. Sulla
morte di Pentesilea vd. anche Vanna de Angelis, Amazzoni, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 159-174 (ove l’autrice, forse per una erronea lettura delle fonti, afferma che
Achille avrebbe posseduto l’Amazzone dopo morta). Su Pentesilea e Camilla, l’“Amazzone”
dei Volsci: Antonia Fraser, Regine guerriere (Boadicea’s Chariot. The Warrior Queens, 1988),
trad. di Paola Mazzarelli, Rizzoli, Milano 1990, pp. 29-30. Sulle Amazzoni: Tim Newark,
Donne guerriere (Women Warlords, 1989), trad. a cura di Alterego snc, Fratelli Melita Editori,
La Spezia 1991, pp. 9-30.
17 In Homeri opera, cit., p. 105.
18 L’aspetto di Tersite non doveva essere troppo dissimile dal personaggio deforme e
gobbo, affetto probabilmente dal morbo di Pott (o spondilite tubercolare), raffigurato in
un bronzetto ellenistico conservato allo Staatliches Museum di Berlino (vd. Clotilde D’Amato,
La medicina (Vita e costumi dei Romani antichi, n. 15), Edizioni Quasar, Roma 1993, p. 67).
– 16 –
lare segno di deformità fisica, a cui si associava un carattere negativo. Ma
vi erano le eccezioni. Per quanto riguarda la testa “a pera”, un celebre
esempio era rappresentato da Pericle, il cui capo, allungato e sproporzionato
(προμήκη δὲ τη/∼ κεφαλη/∼ καὶ α! σύμμετρον), era celato con un elmo in
quasi tutte le statue poiché gli scultori non volevano offenderlo, come
informa Plutarco (PLUT., Per. 3,1,3-4). E la sua testa allungata era divenuta
un tratto fisico così distintivo che sempre Plutarco (Per. 3,1,4), ci informa
che i poeti attici chiamavano Pericle “schinocefalo” (σχινοκέφαλον), ossia
“testa di cipolla marittima (σχι∼ νον)”.19 Un altrettanto celebre esempio moderno è l’imperatore Ferdinando I d’Austria, la cui testa offrì tanta materia
ai disegnatori satirici: se ne veda il ritratto di Francesco Hayez (1840), che
impressiona per la rappresentazione della prominenza craniale e degli occhi
vitrei e acquosi del monarca austriaco.20 E un moderno ritratto di Tersite
potrebbe riscontrarsi nella repellente rappresentazione del traditore Efialte,
essere deforme e gobbo, dal cranio bitorzoluto e calvo, quale appare – il più
brutto dei Greci, proprio perché traditore dei compagni: una chiara rispondenza tra aspetto fisico e malvagità del personaggio – nel film “300” di
Zack Snyder (2007), che esalta l’epopea dei trecento Spartani di Leonida
alle Termopili.
L’episodio di Tersite, nel canto II dell’Iliade, mette in rilievo, sia pur
in una breve sequenza e per l’unica volta, un personaggio straordinario,
atipico, nella galleria di figure eccezionali, eroi e divinità, che popolano il
poema omerico. Tersite, deforme e zoppo, rappresenta un estraneo tra i
grandi e nobili Achei, anzitutto per l’aspetto fisico.21 Ma il suo discorso
contro Agamennone contiene accenti di verità, soprattutto allorché svela la
reale motivazione di quella lunga guerra, ossia la brama di bottino, ricchezze e giovani schiave, di Agamennone. Come ben osserva il Di Benedetto, nel suo discorso Tersite riutilizza contro Agamennone i motivi della
violenta polemica di Achille, del quale prende le difese, fino a presentarsi
19 Nel passo citato della Vita di Pericle Plutarco riporta tutti i versi dei commediografi, come
Cratino, Teleclide ed Eupoli, che dileggiavano questa caratteristica fisica dello statista ateniese.
20 Il quale era ritenuto notoriamente di scarse capacità intellettuali dai ministri e dalla corte:
debole e malato, dopo la rivoluzione viennese del 1848, abdicò in favore di suo nipote Francesco
Giuseppe (vd. Le grandi famiglie d’Europa, Gli Asburgo (II), Mondadori, Milano 1972, pp.75-76).
21 I quali nel loro aspetto fisico incarnavano l’ideale della bellezza e della virilità, conseguenza dell’origine divina, a partire da Achille (vd. in proposito Harvey C. Mansfield, Virilità.
Il ritorno di una virtù perduta (Manliness, 2006), trad. di Stefania Coluccia, Laura Cecilia Dapelli, Giovanni Giri, Rizzoli, Milano 2006, pp. 85-87).
– 17 –
agli Achei come “più achilleico di Achille stesso”.22 Non escludiamo però
che alla base dell’invettiva di Tersite contro Agamennone vi sia un motivo
psicologico, sulla scorta delle osservazioni del Faure, che ha tracciato un
profilo psicologico e psicanalitico degli Achei.23 Tersite forse è stato deluso
da Agamennone in due sensi: egli cercava in lui non solo il capo nobile e
disinteressato (e ha trovato soltanto un uomo avido di bottino e di schiave, e
per giunta vigliacco), ma vi cercava anche il padre. Ciò per una ragione psicologica comune agli eroi Achei, che ha peraltro ben evidenziato il Faure:
sono tutti uomini cresciuti senza padre e/o senza madre, del cui affetto manifestano un desiderio vivissimo. Mostrano perciò, dietro la maschera del
potere o dell’insofferenza al potere un generale senso di frustrazione: “personaggi ideali per il teatro, per la tragedia”.24
Tersite è però messo in ridicolo da Ulisse, che lo bastona, suscitando
l’irrefrenabile ilarità dell’assemblea. Sulle ragioni della bastonatura non ci
pare vi sia completo accordo tra gli studiosi. Tersite viene bastonato perché
ha parlato contro Agamennone, ovvero semplicemente perché ha osato
prendere la parola, fruendo di un diritto che evidentemente non gli spettava,
come afferma il Detienne?25 Il fatto che Ulisse possa impunemente bastonare Tersite ci dice che quest’ultimo doveva essere un uomo della massa del
popolo, ossia della plebe (δη∼μος). Ma egli non era un combattente, secondo
il Detienne, e non godeva dei privilegi politici riservati all’élite aristocratica
(gli α# ριστοι del λαóς).26 Del resto la bastonatura di Tersite è preannunciata
dal passo di Il. 2,198-199, ove si dice che Ulisse, se vedeva uno del popolo
e lo trovava a sbraitare contro i capi, lo picchiava con lo scettro e lo rimproverava. È evidente che Il. 2,198-199 anticipi la scena successiva, sviluppata
in Il. 2,211-277, con l’intervento di Tersite a fungere da intermezzo comico
nella successione degli scontri tra Achei e Troiani. Un intermezzo comico
accentuato dall’uso che Ulisse fa dello scettro, strumento dell’autorità e
segno del potere (opera artistica e finemente descritta come ornata di foglie
Vincenzo Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero, Einaudi, Torino 1998, p. 352 n. 3.
Paul Faure, La vita quotidiana in Grecia ai tempi della guerra di Troia (1250 a.C.)
(La vie quotidienne en Grèce au temps de la guerre de Troie, 1250 a.C., 1983), trad. di Paola
Varani, Rizzoli, Milano 19992, pp. 68-72.
24 Paul Faure, La vita quotidiana in Grecia ai tempi della guerra di Troia (1250 a.C.), cit.,
p. 72.
25 Marcel Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica (Les maîtres de vérité dans
la Grèce archaïque, 1967), trad. di Augusto Fraschetti, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 74.
26 M. Detienne, ibid.
22
23
– 18 –
d’oro in Il. 1,245-246), ridotto per l’occasione a corpo contundente col
quale punire l’isolente Tersite.
La sincerità, che giunge fino all’audacia, con cui si esprime Tersite lo
ha fatto considerare un campione della prima forma di democrazia che si è
storicamente realizzata, ossia quella greca, dal filosofo Fernando Lavater.
Tersite, uomo del popolo, contesta “dal basso” i capi aristocratici, osa prendere la parola ed esporre le sue ragioni per convincere i compagni ad abbandonare Agamennone, usa il diritto di parola (la παρρησία) nella convinzione che esso competa a tutti i Greci, senza distinzione di classe, perché
tutti gli individui devono avere lo stesso voto e lo stesso peso nelle scelte
politiche.27 La voce di Tersite, che dà espressione a una morale pericolosamente diversa da quella aristocratica (che era, com’è noto, imperniata sulla
virtù bellica), è la voce del popolo che per la prima volta osa parlare ai capi
aristocratici da pari a pari, esprimendo un malcontento e un disgusto per la
guerra che forse non dovevano essere provati soltanto da questo brutto ma
coraggioso greco. È dunque una figura che esce dagli angusti limiti di
“plebeo riottoso, che vuole in qualunque caso e a qualunque costo opporsi
ai notabili, e si serve ai suoi fini di certo spirito di bassa lega”, come lo
aveva definito il Pasquali in un suo pur pregevole saggio avente a oggetto
l’idea del brutto nella ritrattistica omerica.28
Tersite incarna, dunque, la voce del popolo. È probabile (lo diciamo da
un punto di vista modernamente “laico”) che se le parole di Tersite avessero
convinto la maggioranza dei soldati, i Greci avrebbero abbandonato la pianura di Troia. Ma la reazione di Ulisse, che rampogna sprezzantemente Tersite e lo bastona, provvede a reprimere questo primo, audace conato di portare le ragioni della plebe nell’assemblea della comunità greca, ristabilendo
con la violenza, a cui si accompagna la derisione, la superiore autorità del
ruolo politico e della morale degli aristocratici.
La figura di Tersite, questo “pacifista” ante litteram, resta dunque
quella di un “diverso”, che non assurge alla dignità solenne e tragica di profeta della sua classe, ma rimane confinato nell’angusto spazio del comico,
perché non ottiene il riconoscimento degli aristocratici e neppure la solidarietà dei suoi compagni “di classe”, viceversa guadagnando la bastonatura
da parte di Ulisse. Possiamo ripetere, seguendo il Ferrucci, che l’episodio
Fernando Lavater, Politica per un figlio, trad. di Francesca Saltarelli, Laterza, RomaBari 1993, pp. 39-41.
28 Giorgio Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, cit., p. 114.
27
– 19 –
appare come un modello di persecuzione del dissenso.29 È pur vero che la
possibilità di discutere e criticare, anche violentemente, l’operato e le scelte
dei capi lascia intuire il tramonto dell’autorità regale quale era stata concepita in età micenea, l’epoca a cui storicamente rimonterebbe la guerra di
Troia (verso il 1250 a.Cr.). Ma di fronte al potere sovrano rappresentato da
Agamennone e alla protervia degli aristocratici, Tersite rimane solo, non
tanto per la sua posizione di protesta quanto per il suo aspetto fisico, che gli
dà un marchio repellente e al contempo genera il riso.30 Gli dei non assistono Tersite nella sua prova davanti all’assembea, non gli infondono coraggio né frenano il suo impeto oratorio, come invece fa Atena, protettrice
degli Achei, con altri eroi, per esempio con Achille e Ulisse.31 E per questo
eroe solitario, la cui condizione di isolato lo accomuna a figure femminili
della commedia di Aristofane, come Lisistrata e Prassagora (l’una protagonista dell’omonima commedia l’altra delle Ecclesiazuse), possiamo ripetere
altresì le parole del Paduano a commento della solitudine iniziale delle due
eroine sopra citate, in particolare di Prassagora, l’artefice del colpo di stato
“femminista” ad Atene: il ritardo delle compagne va considerato “nella luce
del caratteristico isolamento individualistico dell’eroe comico, il quale
pensa a una modificazione creativa del reale nell’interesse della collettività,
ma attraversandone l’incomprensione”.32
Nella prospettiva della tradizione letteraria occidentale, potremmo dire
che Tersite inaugura quella ampia galleria di personaggi tratti dal popolo, o
meglio dall’infima plebe, che sono emarginati nello spazio del comico, e
rimangono soli ad affrontare le prepotenze dei tiranni o i capricci dei loro
padroni (si pensi al contadino Bertoldo e alle sue sottilissime astuzie narrate
da Giulio Cesare Croce, al Sancho Panza di Cervantes, al buffone Wamba in
Ivanohe di Walter Scott, al Triboulet del dramma Il re si diverte di Hugo,
29 Franco Ferrucci, L’assedio e il ritorno, Omero e gli archetipi della narrazione, Mondadori, Milano 1981, p. 27.
30 Ha ritenuto, invece, il Dabdab Trabulsi che Tersite desse voce a sentimenti largamente
diffusi contro i capi della spedizione achea (José Antonio Dabdab Trabulsi, Essai sur la mobilitation politique dans la Grèce ancienne, Annales Litteraires de l’Université de Besançon, Paris
1991, pp. 25-26). È un fatto, però, che nessuno accorre in aiuto del Nostro allorché da Ulisse
viene bastonato.
31 Sull’epifania della dea nei poemi omerici e sul suo “potere disarmante”, soprattutto
verso Achille, vd. il saggio di Giovanna Aquaro, Alle soglie dell’Iliade: quel fascino accecante,
in “Studi Italiani di Filologia Classica”, LXVII, 3ª S., 1984, pp. 143-155.
32 Guido Paduano, comm. ad Aristofane, Le donne al parlamento, Rizzoli, Milano 1989²,
nota 1, p. 55.
– 20 –
etc.), fino a che essi non assumono la dignità di protagonisti di romanzo,
come Renzo e Lucia del Manzoni. Non annovera l’episodio di Tersite fra le
prime esperienze di libertà in Grecia Jacqueline de Romilly nel suo saggio
La scoperta della libertà nella Grecia antica (La Gréce antique à la découverte de la liberté, 1989), che pure cita Omero, Il. 6,454-458 e 526-529, riferendosi ai colloqui di Ettore con Andromaca e con il fratello Paride, ove
è evidente l’idea della libertà quale condizione opposta all’esperienza della
sconfitta e dell’asservimento in guerra, della quale la città è collettivamente
garante.33 Tace di Tersite anche uno storico illustre come Domenico Musti,
ricostruendo l’origine della democrazia ateniese (Domenico Musti, Demokratía, origini di un’idea, Laterza, Roma-Bari 1995).
È effettivamente un uomo libero Tersite? Sì, ma egli, nella comunità
degli Achei che detiene il potere di approvare o meno le proposte, non può
esplicare pienamente la sua libertà individuale: prende la parola, com’è suo
diritto, parla in modo chiaro e irridente, al limite della provocazione, contro
Agamennone, ma paga il suo coraggio con la bastonatura inferta da Ulisse.
L’uomo del popolo, l’uomo comune non può ancora competere, almeno dialetticamente, con i potenti aristocratici simboleggiati dagli eroi. Fosse stato
anch’egli un eroe, osserva il Finey, avrebbe potuto tranquillamente esporre
la sua proposta, che certo metteva a rischio l’interesse collettivo.34
Il personaggio di Tersite ha avuto una notevole fortuna nella tradizione
letteraria occidentale, in versi e in prosa, citato e riecheggiato fino ai moderni, ed è stato interpretato nei modi più disparati. Gli antichi, in verità,
erano concordi nell’assegnare al personaggio, sulle orme di Omero, i tratti
più spregevoli del carattere umano, la ribelle tracotanza, l’impudenza, la
stolta logorrea, finendo per rappresentarlo nel segno del ridicolo. Senza
voler ripercorrere la fortuna di Tersite nella letteratura occidentale,35 scegliamo alcune tra le numerose testimonianze dei greci e dei latini su questo
Jacqueline de Romilly, La scoperta della libertà nella Grecia antica, trad. di Giulia Oliosi,
Essedue edizioni, Verona 1991, pp. 25-26.
34 Moses I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, trad. di Gianni Di Benedetto
e Francesco de Martino, Laterza, Roma-Bari 1997, rist., pp. 79-80. Per il Bonanni Agamennone,
giovandosi anche dell’aiuto di Ulisse, avrebbe attuato in quell’assemblea un colpo di mano in
direzione di un’autocrazia plebiscitaria (Massimo Bonanni, Il cerchio e la piramide, l’epica
omerica e le origini del politico, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 88-92).
35 Rimandiamo, per la fortuna del personaggio fino ai nostri giorni, allo studio di Luigi
Spina, L’oratore scriteriato. Per una storia letteraria e politica di Tersite, Loffredo Editore,
Napoli 2001, soprattutto ai capp. IV (God Save(d) Thersites), V (Tersite nel XX secolo) e VI
(Tersite nella rete).
33
– 21 –
personaggio, che peraltro avrebbe avuto il privilegio di un dramma a lui interamente dedicato, il Tersite dell’ateniese Cheremone (IV sec. a.Cr.).36 Sofocle, nel Filottete, all’eroe che interroga Neottolemo sulla sorte dei suoi
compagni a Troia, fa ricordare anche Tersite, uomo indegno, ma abile e
scaltro nel parlare, “che non si sarebbe mai contentato di parlare una volta
soltanto là dove nessuno gli consentiva di aprir bocca”37 (Ph. 442-444: Ο*υ
του∼τον ει∼j πον, α! λλὰ Θερσίτης τις η∼j ν, / ο}ς ου! κ α! νει# λετ *είσάπαξ ει* πει∼ ν
ο$που / μηδεὶς ε* ώ/η.). Platone, concludendo la Repubblica con il bellissimo
mito di Er, fa rievocare, tra le anime degli eroi in attesa di scegliersi un’altra
vita terrena, anche Tersite, il buffone (γελωτοποιóς), che assume la natura
di una scimmia (Rep. 620c). Eschine, nell’orazione Contro Ctesifonte (231),
chiama Tersite vile e sicofante (α# νανδρον... καὶ συκοφάντην), attribuendo paradigmaticamente a Omero questi epiteti.38 Luciano di Samosata
nella Storia vera rappresenta parodisticamente Tersite il quale, nell’Isola dei
Beati, tenta una causa per diffamazione contro Omero ma la perde anche
perché il poeta ha come avvocato Ulisse (Vera hist. 2,20). Invece nei Dialoghi dei morti (30) lo scrittore siro rende giustizia a Tersite, che nell’Ade è
sfidato da Nireo, il più bello degli Achei dopo Achille, in una gara di bellezza: Menippo, chiamato da Nireo a fare da giudice, non assegna la vittoria
a nessuno dei due, perché, così risponde, “nell’Ade c’è parità assoluta, e
!κ
siamo tutti uguali”.39 Anzi, il cranio di Nireo gli appare meno virile (ου
α! νδρω∼δες) di quello di Tersite.40 È evidentemente, un modo di riabilitare un
personaggio tradizionalmente giudicato in modo negativo, secondo lo stile
beffardo e spregiudicato di Luciano, che precorre gli elogi tributati più tardi
a Tersite da retori e sofisti.
Tra gli autori latini, ricordiamo che Ovidio lo cita nel discorso di
Ulisse, vantandosi di aver punito la sua tracotanza (met. 13,232-233: ausus
erat reges incessere dictis / Thersites etiam, per me haud impune protervus).
Autore anche del dramma Achille uccisore diTersite (*Αχιλλεὺς Θερσιτοκτóνος), che
avrebbe ispirato la decorazione della Tabula Iliaca del Museo Capitolino.
37 Trad. di Maria Pia Pattoni, Fabbri editori, su lic. Rizzoli, Milano 1996, rist., p. 207.
38 Eschine, Contro Ctesifonte 231: “E se uno dei poeti tragici, di quelli che mettono in
scena le tragedie dopo queste cerimonie, facesse rappresentare nel suo dramma Tersite coronato
dai Greci, nessuno di voi lo sopporterebbe, poiché Omero dice che era un vile e un sicofante”.
39 Trad. di Massimo Vilardo, Mondadori, Milano 1991, p. 231.
40 Per valutare nella sua portata l’espressione di Luciano, va tenuto presente che in Omero,
e dunque per gli antichi, l’aspetto di Tersite era assolutamente antitetico a quello dell’eroe virile
per eccellenza, il cui archetipo è Achille: sulla virilità achillea, valore esaltato in un contesto
politico, vd. le riflessioni nel saggio di Harvey C. Mansfield, Virilità, cit., pp. 85-87.
36
– 22 –
Seneca accosta a Tersite l’insolente ateniese Democare, il Parrhesiastes, alla
battuta offensiva del quale Filippo II benignamente non reagisce (de ira
3,23,3: Indignatio circumstantium ad tam inhumanum responsum exorta erat:
quos Philippus conticiscere iussit et Thersitam illum salvum incolumemque
dimettere). Giovenale lo prende a modello di ascendenza oscura e infame,
nella satira che indirizza all’amico Pontico contro il pregiudizio della nobiltà
dei natali (8,269-271: Malo pater tibi sit Thersites, dummodo tu sis / Aeacidae
similis Vulcaniaque arma capessas, / quam te Thersitae similem producat
Achilles). Quintiliano (inst. or. 11,1,37), criticando l’oratoria violenta, caotica
e irosa, dice che le ridicole parole di Tersite contro Agamennone avrebbero
ben altro effetto se a pronunciarle fosse Diomede, giacché si addicono più a
un grande animo (Verba adversus Agamemnonem a Thersite habita ridentur;
da illa Diomedi aliive cui pari: magnum animum ferre prae se videbuntur).
Aulo Gellio, condannando la futtilis inanisque loquacitas, riporta gli epiteti
– “eterno parlatore” e “impudente chiacchierone” – riservati da Omero a
Tersite (Noctes Atticae 1,15,11: Neque non merito Homerus unum ex omnibus
Thersitam α! μετροεπη∼ et α! κριτóμυθον appellat verbaque illius multa et
α# κοσμα strepentium sine modo graculorum similia esse dicit). Ma, durante
l’età imperiale, provvedono le esercitazioni retoriche, come quelle di Favorino
e di Libanio, a tentare una sia pur tardiva riabilitazione di Tersite. L’elogio di
Tersite (*Εγκώμιον Θερσίτου) di Libanio (314-393), l’unico che ci è pervenuto di questi testi,41 segna un rivolgimento nel convenzionale modo di rappresentare il personaggio. In 19 paragrafi Libanio svolge una puntigliosa e
abile difesa di Tersite, elogiandone i nobili natali e la modestia, che non gli
permise di vantarsene mai, il coraggio nell’aver preso parte alla caccia di Meleagro contro il cinghiale Calidonio e, ancor più, nell’aver voluto lui, deforme
– e, diremmo, inabile alle armi –, partecipare alla spedizione troiana, mentre
altri acclamati eroi, come Achille e Ulisse, si finsero l’uno donna e l’altro
pazzo per scampare a quella guerra. Inoltre la sua franchezza lo portava a rinfacciare le male azioni compiute dai capi, avendo ben compreso che la vera
ragione della guerra era l’avidità di Agamennone nel godere delle belle prigioniere e del bottino. Quindi Tersite, nel discorso di Libanio, si erge come un
difensore dei soldati semplici, che però non lo comprendono. Grazie a questo
41 Dell’altro elogio di Tersite, quello di Favorino, abbiamo soltanto notizia da Aulo Gellio
(Noctes Atticae 17,12), laddove parla delle infames materiae trattate da retori e sofisti. L’Elogio
di Tersite di Libanio, con testo greco, traduzione e commento, è nel saggio di Luigi Spina,
L’oratore scriteriato, cit., alle pp. 89-108.
– 23 –
testo, l’interpretazione del personaggio ha goduto di una evoluzione in senso
positivo. Molti degli argomenti che Libanio adduce a difesa di Tersite sono
stati adottati dagli scrittori moderni. Dietro l’esempio di Libanio, da individuo
deforme nel corpo e nell’anima, come era rappresentato dagli antichi, Tersite
diviene nei moderni l’antieroe che lancia una disperata e inutile protesta
contro la guerra e i falsi valori del mondo omerico, anzitutto il κλέος, che
serve a camuffare nient’altro che l’avidità dei potenti.
Se un grande poeta come Shakespeare può ancora far sostenere a Tersite un ruolo odioso, quello del deformed and scurrilous Grecian, nel
dramma Troilo e Cressida (non risparmia i suoi lazzi cinici agli eroi greci,
viene malmenato da Aiace, ed esce di scena come un vile, nell’atto V scena
settima, rifiutando di battersi contro il troiano Margarelone, nel quale riconosce la comune origine di bastardo), successivamente gli autori moderni
hanno attribuito a Tersite una nuova, più umana sensibilità.42
Nel Novecento un’atipica prova letteraria di un grande latinista, Concetto Marchesi, Il libro di Tersite (Mondadori, Milano 1950), assegna al
personaggio omerico l’inatteso ruolo della voce della coscienza del protagonista narratore. Tersite gli appare di notte, su una sedia a un angolo della
camera, nell’atto di accomodare un calzare sdrucito: “i suoi capelli erano
cortissimi e la faccia tanto bianca che pareva infarinata”.43 Racconta al
protagonista la vita nell’Ade, tra tanti eroi e personaggi dell’antichità, e,
annunciandogli la sua riabilitazione postuma, gli dice che lui solo può fargli
da guida per il mondo. Un Tersite tristemente disincantato, che vuole svelare al narratore l’ipocrisia, i pregiudizi, la falsità, le pecche della società e
della cultura dei borghesi, e che viene difeso dal grande latinista.
Le ultime e più recenti apparizioni di Tersite sono legate, in genere, a
riflessioni sull’inutilità e l’assurdità della guerra.44 Ricordiamo, per gli
ultimi riecheggiamenti del personaggio omerico nella narrativa, il Tersite
di Luciano De Crescenzo,45 che, ancor dolorante dopo la bastonatura, si
Per gli autori successivi a Shakespeare, rimandiamo a Spini, cit., pp. 54-59.
Concetto Marchesi, Il libro di Tersite, Mondadori, Milano 1950, p. 25.
44 Fino a far considerare Tersite come un pacifista ante litteram, una sorta di marinaio
Vakulinchuk della Corazzata Potemkin (in Siegmund Ginzberg, L’Iliade, la guerra senza buoni
e cattivi, in «Il Foglio», 22 giugno 2004, p. 5). Tersite non viene citato, però, fra i testimoni antichi della pace (e in antitesi con la visione iliadica che esalta l’areté bellica) nel pur pregevole
saggio di Italo Lana, L’idea della pace nell’antichità, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico
di Fiesole 1991.
45 Luciano De Crescenzo, Elena, Elena, amore mio, Mondadori, Milano 1993, pp. 66-73.
42
43
– 24 –
affanna a svelare al greco Leonte che quelli che reputa eroi, Agamennone e
Achille, sono in realtà “malfattori dai nomi famosi che invadono le terre altrui con l’unico scopo di saccheggiarle e di violentare le donne”.46 Ma sono
eroi perché sono coraggiosi, ribatte Leonte. “È forse coraggioso un guerriero che sa di essere invulnerabile quando affronta un altro guerriero che,
al contrario di lui, è vulnerabilissimo?”47 Altri Tersite da ricordare: quello di
Alessandro Baricco,48 rappresentato anch’egli come un irriducibile, coraggioso nemico della guerra, quello, per venire ad autori stranieri, di Karel
Èapek,49 che tuona contro Agamennone e lo accusa addirittura di essere
stato corrotto dall’oro dei Troiani, e quello di Colleen McCullogh, che fa
una breve comparsa, assieme all’ingannatore per eccellenza, Sinone, nel
suo romanzo Il canto di Troia.50 Da calunniatore insolente e bastonato Tersite è dunque assurto al ruolo di ribelle demistificatore della falsa virtù
guerresca esaltata dai bellicisti di ogni tempo.
Da ultimo ricordiamo che modi di dire ispirati al personaggio di Tersite
hanno invaso il lessico politico. Il filosofo Norberto Bobbio (in un suo intervento su «La Stampa»)51 ha coniato l’espressione “tersitismo culturale”
per accusare l’atteggiamento critico dei collaboratori di «Liberal» riguardo
al pensiero di Gobetti, quasi fosse stato ingiustamente sbeffeggiato.52
3. L’ombra di Tersite si proietta su altri personaggi, che possono in
qualche modo essere apparentati al Nostro per vari aspetti che in essi si possono cogliere e/o per i contesti nei quali gli autori li fanno agire. Tre, ricordiamolo, sono gli elementi peculiari caratterizzanti Tersite: la sua bruttezza,
deforme fino alla repellenza, la sua oratoria, rozza e inelegante ma beffarda,
franca e coraggiosa, la sua solitudine di fronte a una assemblea che gode dei
suoi lazzi ma gli diventa palesemente ostile (soprattutto allorché attacca i
Luciano De Crescenzo, Elena, Elena, amore mio, p. 69.
Luciano De Crescenzo, Elena, Elena, amore mio, p. 70.
48 Alessandro Baricco, Omero, Iliade, Feltrinelli, Milano 20044, pp. 19-27.
49 Karel Èapek, Tersite, in Il libro degli apocrifi (Kniha Apokriyfu°, 1945), trad. di Luisa De
Nardis, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 16-21.
50 Colleen McCullogh, Il canto di Troia (The Song of Troy, 1998), trad. di Piero Spinelli,
Edizione Mondolibri su lic. Rizzoli, Milano 1999, pp. 319-320.
51 Norberto Bobbio, Liberali senza rivoluzione, in «La Stampa», 16 febbraio 1996.
52 Ha risposto al filosofo, tra gli altri, il direttore di «Liberal», Ferdinando Adornato, con
un lunga lettera (in «Liberal», n. 13, aprile 1996, pp. 20-24), riprodotta nel suo saggio La rivoluzione delle coscienze, Rizzoli, Milano 1997, pp. 60-75. Riassunto della polemica in Luigi Spina,
L’oratore scriteriato, cit., pp. 12-15.
46
47
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detentori del potere, ossia i due Atridi). Se è lecito confrontare i personaggi
della letteratura antica con quelli immaginati dalla fantasia dei moderni, e
magari, seguendo ipotesi suggestive, apparentarli dopo aver colto negli uni
e negli altri analogie negli aspetti fisici, psicologici e comportamentali,53
allora vorremmo accostare Tersite a un personaggio letterario che ci sembra
davvero un suo epigono, e che è, a nostro avviso, uno dei più enigmatici e
inquietanti della narrativa moderna: il Gwynplaine di L’uomo che ride di
Victor Hugo. Tale confronto, che, a nostra conoscenza, non ci sembra essere
stato ancora stabilito dalla critica,54 può essere convalidato, oltre la suggestione di un immediato e superficiale accostamento, dagli elementi sopra
riscontrati per Tersite e dalle considerazioni che andremo facendo nel prosieguo del nostro lavoro. Possiamo anticipare che gli elementi che enucleeremo provvedono ad apparentare i due personaggi, in modo che, pur appartenendo a epoche, generi letterari e contesti culturali affatto lontani e diversi, sembrano essere l’uno il discendente dell’altro.
Gwynplaine, protagonista del romanzo L’uomo che ride (L’homme qui
rit, 1869), “il più nero dei romanzi neri”,55 è, a nostro giudizio, un’altra fi53 E ci sembra che lecito lo sia, se uno studioso come Massimo Vilardo accosta, nel suo
commento alla Storia Vera di Luciano, a Protesilao il personaggio di Vadinho tratto dal romanzo
di Jorge Amado Dona Flor e i suoi due mariti (vd. Luciano, Storia Vera – Dialoghi dei morti,
intr., trad. e note di Massimo Vilardo, Mondadori, Milano 1991, p. 247 n. 140). D’altronde, l’accostamento ai classici di suggestive categorie moderne è una tendenza che si sta affermando sempre più: ad esempio, Roberto Andreotti ha definito l’Achilleide di Stazio come un’“epica transgender” (Roberto Andreotti, Classici elettrici da Omero al tardoantico, Rizzoli, Milano 2006²,
p. 105), mentre Eva Cantarella ha accostato Medea a una serial killer (in L’amore è un dio, Feltrinelli, Milano 2007, p. 38). E, per l’Iliade, Siegmund Ginzberg ha evocato, a proposito dello
scudo di Achille descritto al libro X, vv. 558-720, “un’atmosfera da fantascienza alla Isaac Asimov, Philip K. Dick, Ray Bradbury, con tanto di robot e automi simili a fanciulle vive” (Siegmund Ginzberg, L’Iliade, la guerra senza buoni e cattivi, cit., p. 5). Ma già l’americano Christopher Morley nel romanzo Il cavallo di Troia (The Trojan Horse, 1938), trad. di Cesare Pavese,
Mondadori, Milano 1957, aveva parodiato burlescamente il mito omerico, ambientando la contesa tra Achei e Troiani in un’imprecisata epoca ove sono giornali, radiocronache, taxi, orologi, teatri e tutte le delizie della nostra moderna civiltà. Della opposta tendenza a cercare paradigmi dell’antico per fenomeni tipici della società moderna, un esempio ci sembra essere l’articolo di Valerio Magrelli, Dioniso tra noi, in «Corriere della Sera», 20 marzo 2007, nel quale l’autore paragona i “rave party” alle antiche feste di Dioniso.
54 Il personaggio di Hugo non appare citato, ad esempio, nel saggio dello Spina, che peraltro è ricchissimo di riferimenti alla fortuna di Tersite nella narrativa antica e moderna.
55 La definizione è di Jean Gaudon, pref. a Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata
Feroldi, Mondadori, Milano 2006, rist., p. XXVII. Sul romanzo vd. G. Rosa, «Les travailleurs de
la mer» e «L’homme qui rit», in Storia della Letteratura Francese diretta da Pierre Abraham e
Roland Desné, ed. it. a cura di Lanfranco Binni, vol. II, Garzanti, Milano 1991, rist., pp. 704-708.
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gura di “diverso” che agisce in un contesto analogo, l’assemblea, presentante
una serie di analogie strutturali con l’episodio omerico. Senza tema di dare
giudizi audaci, potremmo dire che Gwynplaine è un moderno Tersite, anche
se dobbiamo comunque fare i conti con orizzonti culturali diversissimi, saltando dalla Grecia arcaica all’età del Romanticismo europeo, e mettere da
parte una prima, vistosissima differenza, che sta nella diversa, inconfrontabile ampiezza del contesto in cui sono collocati il personaggio omerico e
quello hughiano: appena 67 versi nell’Iliade e ben 702 pagine nel romanzo
(nella traduzione di Donata Feroldi, Mondadori, Milano 2006, rist.). Ma l’analisi del personaggio e, soprattutto, di un particolare episodio del romanzo,
ci permettono di giustificare la nostra affermazione. Cominciamo, però, a delineare sommariamente la trama de L’uomo che ride, peraltro ben nota. Il romanzo, ambientato ai primi anni del Settecento, è costruito sulla straordinaria vicenda di Gwynplaine, il figlio di un nobile inglese ribelle, Lord Linneus Clancharlie. Il piccolo, rapito per ordine del re dagli zingari trafficanti
di bambini, i comprachicos, è stato da costoro orribilmente sfigurato in
modo da essere reso un mostro da baraccone (vi erano, dunque, già nel Settecento i precursori di Phineas T. Barnum, lo spregiudicato affarista americano
che nei primi decenni del secolo successivo riunì nel suo museo straordinarie
“attrazioni” umane, offrendole alla curiosa morbosità del pubblico per pochi
centesimi).56 Una crudele operazione chirurgica (che Hugo chiama, utiliz56 Hugo dice, forse con una certa esagerazione, che tali mostri, come Gwynplaine, servivano
ad allietare le corti dei re e perfino dei papi. Ma sarebbe assurdo immaginare alla corte papale la
grottesca presenza di giullari e nani, alla maniera di Rigoletto o Quasimodo, il mostruoso campanaro di Notre-Dame di Parigi. Invece il fenomeno di individui con particolari deformità esibiti
come attrazioni in spettacoli di assai dubbio gusto (il cui sfruttamento fu inaugurato nei primi decenni dell’Ottocento dal celebre impresario americano Phineas T. Barnum, il quale però sembra
che compensasse lautamente i suoi “dipendenti”), è durato praticamente fino ai primi del
Novecento, allorché le mostruosità reali mostrate nei circhi e musei itineranti sono state sostituite
dagli effetti speciali di tanti film dell’orrore o di fantascienza – nel celebre film di Tod Browning,
Freaks (1932), i mostri umani esibiti erano, però, rigorosamente autentici – e si è contestualmente
(e fortunatamente) diffusa una maggiore consapevolezza del rispetto della dignità della persona.
La vera rivoluzione nella concezione del mostro e il suo passaggio da prodigium da esibire nelle
fiere a fenomeno naturale, oggetto di analisi scientifica, da esporre negli spazi eruditi dei musei e
degli ospedali, avvenne con il Settecento illuminista: vd. in proposito Michael Hagner, Rappresentazioni multiple del mostro: dall’uomo-gallina di Lipsia a Dolly, trad. di Vito Bianco, in
Ubaldo Ladini – Antonio Negri – Charles T. Wolfe (a cura di), Desiderio del mostro, dal circo al
laboratorio della politica, manifestolibri, Roma 2001, pp. 37-57. Un campionario di immagini di
questi personaggi dalle sconcertanti anomalie fisiche (uomini altissimi e piccolissimi, donne barbute, uomini “coccodrillo”, uomini “scimmia”, donne “serpente”, ermafroditi, albini, focomelici,
individui affetti da polidattilismo, gemelli siamesi con due corpi distinti o con le due gambe in
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zando la terminologia latina dei manuali di tali operazioni, bucca fissa ad
aures)57 gli ha deformato permanentemente i lineamenti del volto in modo da
imprimergli l’impronta di una orribile smorfia ghignante. Il piccolo, sfigurato dagli zingari che lo hanno ribattezzato con lo strano nome Gwynplaine,
viene abbandonato una sera d’inverno sulla costa di Portland e raccolto da
un bizzarro misantropo, una sorta di cinico filosofo vagabondo, Ursus. Costui ha per unico compagno un lupo addomesticato, che ha chiamato Homo,
per irrisione verso la specie umana. Prima di essere raccolto da Ursus,
Gwynplaine ha trovato una neonata cieca, attaccata ancora al seno della
comune, uomini bicefali o tripedi, etc.), è stato raccolto in Freaks. La collezione Akimitsu Naruyama. Lo sfruttamento delle anomalie fisiche nei circhi e negli spettacoli itineranti, trad. di Anna Barella Sciolette, Logos Art, Modena 2000 (le fotografie ivi contenute impressionano ancora per la loro crudezza). Alcuni di questi sfortunati esseri riuscirono però ad adattarsi alla vita quotidiana, oltre le avversità e i pregiudizi, e condussero una normale esistenza, come i primi celebri gemelli siamesi Chang e Eng, che, scampati alla morte decretata loro da re del Siam, sposarono due sorelle
americane e generarono più di venti figli (vd. la loro storia in Darin Strauss, Chang ed Eng (Chang
and Eng, 2000), trad. di Idolina Landolfi, Rizzoli, Milano 2001). Pagine di famosi scrittori ci hanno poi riservato memorabili gallerie di mostruosità o curiosità in esposizione, tali che sembrano rievocare la celeberrima raccolta del medico e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605).
Basterà citare l’esposizione dei mostri a Sant’Antonio, in Messico, descritta da Graham Greene in
Le vie senza legge (The Lawless roads, 1938), trad. di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman,
Mondadori, Milano 1955, pp. 31-33 (con la descrizione dei corpi mummificati di due gangster americani), o la galleria di feti mostruosi vista nello studio di un ginecologo romano, da Curzio Malaparte in La pelle, Garzanti, Milano 1967, su lic. Vallecchi (1949), pp. 314-321, o, ancora, la collezione del museo anatomico del Dottor Spitzner (reperti anatomici e patologici riprodotti in cera fusa) in Italo Calvino, Il museo dei mostri di cera, in Collezione di sabbia, Mondadori, Milano 1994,
pp. 29-35. La perenne attrazione che esercita l’universo del difforme è esaminata nel saggio di Roberto Barbolini, Narciso e il Barnum dei mostri, in La Chimera e il Terrore, Jaca Book, Milano 1984,
pp. 212-217. Ma non va dimenticato che fervidi inventori di mostri furono i Greci, che in essi vollero razionalizzare le loro paure, popolando le remote terre d’Africa e d’Oriente di creature bizzarre
o meravigliose e creando tradizioni che resistettero fino agli albori dell’età moderna: vd. Rudolf
Wittkower, Duemila anni di mostri, trad. di Gianni Guadalupi, in «Kos», n. 21, aprile 1986, pp. 422. Su Ulisse Aldrovandi e la sua enciclopedica Monstrorum historia, ricchissima di osservazioni
empiriche sulle mostruosità vegetali, animali e umane, e apparsa postuma nel 1642, vd. Attilio Zanca, Collezioni di mostri: Ulisse Aldrovandi, in «Kos», n. 21, aprile 1986, pp. 23-46.
57 Nel capitolo II del romanzo (I comprachicos) Hugo si dilunga su questo tipo di operazioni, descritte nel manuale del Dottor Conquest, De denasatis, che lo stesso Ursus legge poi a
Gwynplaine. Tali operazioni realmente venivano praticate su esseri umani in tenera età per ridurli
a mostri da esibire nelle fiere, come avrebbe fatto l’americano Phineas Barnum nell’Ottocento.
Ma queste infamie contro esseri indifesi erano comunque opera di uomini, sia pur abominevoli.
Cosa peggiore avveniva quando le stesse madri si ingegnavano, mettendosi addosso apposite
fasciature costrittive durante la gravidanza, di far nascere figli deformi per venderli agli zingari,
che li destinavano ai baracconi delle fiere, come narra un racconto di Guy de Maupassant,
La madre dei mostri.
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madre morta, e l’ha amorevolmente raccolta. Il vagabondo accoglie i due piccoli, li tiene presso di sé e la strana compagnia, sul carrozzone ambulante di
Ursus, vive la vita dei nomadi viaggiando di villaggio in villaggio. Cresciuto,
Gwynplaine (che si è legato con grande affetto all’uomo che l’ha raccolto e
allevato come un padre e alla bambina cieca, Dea, ormai divenuta ragazza) si
esibisce nelle fiere come saltimbanco e mimo, col nome di Uomo che ride, riscotendo grande successo per lo straordinario aspetto, che suscita negli spettatori un’irrefrenabile ilarità mista a un vago senso di orrore. La strana compagnia attraversa paesi e città e vive felicemente, prosperando con i guadagni
delle esibizioni di Gwynplaine. Un giorno, però, Gwynplaine viene sottratto
alla sua compagnia da un ufficiale giudiziario della corte inglese, il Wapentake, e condotto nel carcere di Southwark, a Londra. Qui è riconosciuto dall’uomo che molti anni prima aveva compiuto su di lui l’operazione chirurgica
che lo aveva sfigurato, il fiammingo Hardquanonne, compagno dei comprachicos che avevano rapito il bambino. Hardquanonne sta morendo sotto terribili torture, nel fondo dell’oscura prigione. Prima di morire fa in tempo a riconoscere in Gwynplaine Lord Fermain Clancharlie, l’unico figlio e legittimo
erede di Lord Linneus Clancharlie, barone di Clancharlie e Hunkerville e Pari
d’Inghilterra. La confessione è confermata da un messaggio, scritto di pugno
dallo stesso Hardquanonne, che era stato tempo addietro rinvenuto entro una
bottiglia sulla spiaggia d’Inghilterra. Riconosciuto quindi ufficialmente dalle
autorità come Lord Clancharie e subito condotto nella sua nuova residenza, il
magnifico palazzo dei Clancharlie, Gwynplaine vi sperimenta la vita di lusso
e privilegi della nobiltà inglese, ma non dimentica il lungo tempo vissuto tra
la plebe più miserabile, come saltimbanco. Nel palazzo ha un’esperienza per
lui, giovane puro e inesperto del mondo, traumatica: deve resistere a un ossessivo e appassionato tentativo di seduzione da parte della bellissima e dissoluta sorella della regina, Lady Josiane. Ammesso, poi, com’è suo diritto, a
parlare nella Camera dei Pari, che quel giorno deve votare un bill, un provvedimento di aumento di centomila ghinee d’appannaggio al principe consorte
della regina Anna, Giorgio di Danimarca, Gwynplaine, venuto il momento di
esprimere il suo voto, si alza a parlare tra i nobili assisi. Finora la penombra
gli ha oscurato il volto deforme, ma quando si alza per chiedere la parola il
suo orribile ghigno è in piena luce e tutti i presenti possono vedere in faccia
l’Uomo che ride. Lo stupore per l’aspetto cede il posto alla curiosità di ascoltare le parole dell’Uomo che ride. Con un supremo sforzo di volontà
Gwynplaine è riuscito a sospendere l’espressione ghignante del suo volto e,
contraendo i muscoli facciali in una terribile concentrazione, ad assumere l’a– 29 –
spetto di una impressionante maschera. Non più “Uomo che ride”, ma cupa
maschera tragica, volto di Medusa ghignante, Gwynplaine denuncia all’assemblea le terribili condizioni a cui soggiace la plebe, la fame, l’abbrutimento e l’ignoranza che tormentano i sudditi di sua maestà, ed esorta i nobili
ad essere più consapevoli e generosi verso i più umili e miserabili individui
del genere umano, che sono i loro confratelli. Addirittura il tono delle sue
parole si fa profetico: dopo aver denunciato gli ingiusti privilegi dell’ottusa e
fiacca nobiltà, si scaglia contro il principe, inetto e parassita, e addirittura
predice il prossimo avvento di una repubblica. Ma a questo punto il terribile
sforzo a cui Gwynplaine si è sottoposto per mutare in ghigno tragico la
smorfia del suo volto, si esaurisce e il sembiante torna ad essere quello dell’Uomo che ride. I Lord, alla vista del solito aspetto deforme, si scatenano in
irrefrenabili risate, insultando il povero Gwynplaine, a cui non basta certo il
titolo riacquistato per riacquistare anche la dignità di persona. Egli ritorna,
così, ad essere soltanto un povero mostro da baraccone e il suo coraggioso
tentativo di aiutare la plebe viene annientato da terribili scoppi di urla frammiste a risate. Dopo essere stato ucciso moralmente dal ridicolo, Gwynplaine
corre a cercare le sole persone che gli siano rimaste amiche e che egli è stato
costretto ad abbandonare suo malgrado, ossia il vecchio Ursus e la sua fidanzata, Dea. Li ritrova su un battello che naviga seguendo la corrente del Tamigi, alla volta dell’Olanda. Lì hanno deciso di rifugiarsi, perché cacciati in
esilio. Ma quando Gwynplaine mette piede sul battello, è per raccogliere le
ultime parole di Dea ormai morente. Disperato, senza più la donna che
amava, decide di porre fine alla sua stessa vita e si getta nelle profondità del
mare, allorché il battello sta ormai solcando il Canale della Manica.
Gwynplaine protagonista del romanzo più “gotico”e “notturno” di Hugo,
rimane un personaggio misterioso, sfuggente: viene incontro al lettore dal
mare e dalla notte, la tempestosa notte invernale nella quale, fanciullo, è
abbandonato sulla costa inglese dai delinquenti che lo hanno sfigurato (la
prima parte del romanzo, che comprende trentatré capitoli, si intitola significativamente Il mare e la notte) e al mare e alla notte ritorna, gettandosi nelle
acque della Manica dal battello che fa rotta, con a bordo il vecchio Ursus e
Dea, ormai morta, verso l’Olanda: è realizzata così una perfetta circolarità
della narrazione e insieme del suo destino.58
La presenza del mare e la sua funzione nel romanzo è stata messa in rilievo, con peculiari osservazioni, da Bruno Nacci, pref. a Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Bruno Nacci, Garzanti, Milano 19995, p. XXV.
58
– 30 –
La prima epifania di Gwynplaine al lettore è un’atroce parodia di
Venere,59 anche se la vera e propria descrizione del suo volto mostruoso si
ha nella seconda parte del romanzo, dopo quarantacinque capitoli.
Gwynplaine, si è detto, rimane un personaggio misterioso, enigmatico, in
un romanzo dominato dalla notte e dall’ombra: di lui rimane nella mente del
lettore la maschera ghignante impressa per sempre nel suo volto, una «testa
di Medusa gioiosa», come la definisce Hugo, una maschera che è ancora
capace di ispirare una sottile sensazione di orrore ai lettori moderni.60
Gwynplaine è una maschera, fatta per ispirare orrore e subito dopo un’irrefrenabile ilarità, e nel romanzo, com’è stato detto,61 la sua vera nascita è quel
volto, sicché nulla conosce della sua origine, fino alla sconvolgente agnizione
(che avviene dopo due terzi del romanzo, alla fine del cap. VIII del libro
quarto). Citiamo l’impressionante descrizione del volto del personaggio:
Come abbiamo detto, la natura aveva colmato di doni Gwynplaine. Ma era stata
proprio la natura?
Non l’avevano per caso aiutata?
Due occhi che erano due fessure tristi, una fenditura per bocca, una protuberanza
camusa con due buchi che erano le narici, una faccia schiacciata e tutto questo col
riso come risultato, è certo che la natura non produce da sola simili capolavori.
Ma poi, il riso è sinonimo di gioia?
Se, di fronte a quel guitto – perché era un guitto –, si lasciava svanire la prima impressione di allegria e si osservava attentamente quell’uomo, si riconosceva
la traccia dell’arte. Un viso del genere non è fortuito, è voluto. Una simile perfezione non fa parte della natura. L’uomo non può nulla sulla propria bellezza, ma
può tutto sulla propria bruttezza. Di un profilo ottentotto non si farà mai un profilo
romano, ma di un naso greco si può fare un naso calmucco. Basta obliterare la
radice del naso e allargare le radici. Non per niente il latino volgare del Medioevo
ha creato il verbo denasare. Gwynplaine, da bambino, era stato tanto degno d’attenzione da spingere qualcuno a occuparsi di lui al punto di modificargli il viso?
Perché no? Foss’anche soltanto a scopo di esibizione e speculazione. Secondo
ogni apparenza, industriosi trafficanti di bambini avevano lavorato quel volto.
Pareva evidente che una scienza misteriosa, probabilmente occulta, che stava alla
chirurgia come l’alchimia sta alla chimica, aveva cesellato quelle carni, certa59 Così Riccardo Reim, L’Homme qui rit e Victor Hugo: il mostro e il titano, in Victor Hugo,
L’uomo che ride, trad. di Vittorio Mucci rivista da Riccardo Reim, Newton & Compton editori,
Roma 2005, p. 10.
60 Così Laura Pariani, ‘Masca eris, et ridebis semper’, in «L’Erasmo», n. 24, novembredicembre 2004, pp. 13-15.
61 Bruno Nacci, cit., p. XXIV. Vd. anche le osservazioni sulla fissità della maschera di
Gwynplaine, più orripilante di una maschera di teatro, in Daniel McNeill, La faccia.Storie e
segreti del volto umano (The Face, 1998), Mondadori, Milano 1999, p. 223.
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mente nella primissima infanzia, e creato con premeditazione quel viso. Quella
scienza, abile nelle dissezioni, nelle ottusioni e nelle allacciature, aveva tagliato la
bocca, sbrigliato le labbra, messo a nudo le gengive, tirato le orecchie, lacerato le
cartilagini, stravolto le sopracciglia e le guance, esteso il muscolo zigomatico, occultato suture e cicatrici, riportato la pelle sulle lesioni, lasciando la faccia in
quello stato di attonimento, e da quella scultura potente e profonda era uscita una
maschera, Gwynplaine.62
La critica ha definito Gwynplaine come uno degli archetipi della letteratura moderna, attribuendone l’origine al seme corrotto e inquietante da cui
discendono gli automi di Hoffmann o di Villiers de L’Isle Adam.63 Egli è
«non più personaggio, ma laboratorio di esplorazioni filosofiche e narrative».64 Noi possiamo nondimeno provare ad attribuire a Gwynplaine un’ascendenza letteraria, ben più risalente che i personaggi dei romanzi di
Hugo, ossia gli esseri deformi come il Quasimodo di Notre-Dame di Parigi,
o quelli della narrativa “gotica”.
Come abbiamo premesso, abbiamo buoni argomenti per accostare
Gwynplaine perfino a un personaggio tratto da un contesto letterario affatto
lontano e inaspettato, ossia dall’epica omerica, come Tersite. Due elementi
provvedono ad apparentare Gwynplaine a Tersite. Anzitutto Tersite è deforme, di una deformità ripugnante, proprio come Gwynplaine apparirebbe
oggi ai nostri occhi. Poi, Gwynplaine vive una esperienza analoga a quella
di Tersite, con i medesimi risvolti comici: l’assemblea dei Pari d’Inghilterra,
l’episodio da cui traspare più sapienza ricostruttiva (consistente, come notava Stevenson,65 nel mischiare alla voce dei Lord quella del popolo, ivi
portata dal deforme saltimbanco che si è scoperto di nobilissima prosapia).
Che a Tersite pensasse Hugo nelle sue riflessioni sul personaggio di
Gwynplaine potrebbe essere forse mostrato da un indizio, pur debole: nel
romanzo vi è una citazione di Tersite, giacché il suo ritratto è appeso, assieme a quelli di altri celebri campioni della deformità,66 nella sede del Club
Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata Feroldi, cit., pp. 297-298.
Bruno Nacci, ibid.
64 Bruno Nacci, ibid.
65 Robert Louis Stevenson, I romanzi di Victor Hugo, postf. a Victor Hugo, L’uomo che
ride, trad. di Donata Feroldi, Mondadori, Milano 2006, rist. p. 712.
66 Hugo elenca Triboulet, Duns, Hudibras, Scarron, Esopo, Orazio Coclite e Camoens
(orbi, questi ultimi, l’uno dall’occhio sinistro e l’altro dall’occhio destro). Il Club dei Brutti,
specifica Hugo, sarebbe durato fino all’inizio dell’Ottocento e avrebbe donato l’iscrizione onoraria anche al conte di Mirabeau.
62
63
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dei Brutti, una delle tante conventicole, riservate rigorosamente ai nobili
sfaccendati, di cui era disseminata la Londra settecentesca e che Hugo
elenca diligentemente per mettere alla berlina i bizzarri e dispendiosi costumi dei figli di Albione.67
A Gwynplaine è risparmiata la bastonatura di cui Tersite fa esperienza,
ma il personaggio di Hugo prova qualcosa di peggio, perché è bersagliato
alla fine del suo discorso dalle omeriche risate di scherno, dagli insulti e dalle
beffe dei suoi colleghi Pari. Beffe, insulti e urla di scherno piovono addosso a
Gwynplaine come le bastonate di Ulisse sulla schiena di Tersite, ma con effetto ben più doloroso sul morale del povero ex saltimbanco, che invano
cerca di esporre le ragioni del popolo di fronte al consesso di quei nobili
parassiti, cinici e viziosi. È la normale conseguenza delle sue apparizioni, che
tante volte Gwynplaine ha sperimentato sul palcoscenico della Green Box, il
carrozzone-teatro ove si esibiva, e che gli ha procacciato una diffusa popolarità come “Uomo che ride”, ma che ora, manifestatasi nella più alta istituzione assembleare d’Inghilterra, ha un effetto distruttivo sull’animo del povero mostro. Gwynplaine esce da quell’assemblea distrutto, annichilito nello
spirito e nella mente, e d’ora in avanti non ha che un pensiero solo, tornare
dai suoi cari amici, Ursus e Dea, che aveva abbandonato, abbacinato dalla
improvvisa rivelazione di essere un Lord e dallo straordinario cambiamento
impresso dall’agnizione improvvisa alla sua vita. Da notare, inoltre, l’oscurità, l’ombra, il nero dell’atmosfera in cui agisce Gwynplaine: infatti egli
appare nel romanzo per la prima volta in una buia notte gelida e tempestosa,
è riconosciuto come Lord nella buia prigione di Southwark, appare al convegno dei nobili con il volto coperto dall’ombra formata dalla cortina dei
folti capelli.
4. Torniamo alle analogie tra Tersite e Gwynplaine. Per quanto riguarda l’aspetto fisico, entrambi, Tersite e Gwynplaine, sono deformi,
anche se la deformità del primo è naturale, quella del secondo è invece
opera dell’uomo. Poi il contesto nel quale entrambi significativamente agiscono, è un’assemblea di uomini legati assieme dalla medesima condizione.
Entrambi, Tersite e Gwynplaine, parlano in una assemblea di loro pari: il
primo di fronte ai guerrieri Achei, il secondo di fronte ai Pari d’Inghilterra,
la più eletta nobiltà della nazione. V’è da osservare che nell’Iliade il discorso di Tersite all’assemblea e la successiva bastonatura da parte di Ulisse
67
Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata Feroldi, cit., p. 236.
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esauriscono l’azione del personaggio, giacché poi, in pratica, Tersite sparisce dal testo omerico. Nel romanzo di Hugo l’assemblea dei Pari è l’unico
luogo nel quale agisca e parli Gwynplaine (a parte le sue esibizioni di muto
saltimbanco sul palcoscenico della Green Box e l’idillico rapporto con Dea,
alla quale tenta di sostituirsi Lady Josiane, singolare figura di femminile demone perverso). Ancora, il tenore dei loro discorsi: Tersite denuncia l’inutilità della guerra, scatenata dall’avidità di Agamennone, il capo della spedizione, Gwynplaine denuncia i privilegi e il parassitismo dei nobili e del re,
ciechi di fronte alle sofferenze della plebe.
Confrontando i due personaggi sul piano morale, possiamo dire che
mentre quella di Tersite è una καλοκαγαθία rovesciata, quella di
Gwynplaine è una καλοκαγαθία nascosta. Da fanciullo, già vittima della
terribile crudeltà degli uomini che lo hanno sfigurato e poi abbandonato in
una tempestosa notte d’inverno su una spiaggia della costa inglese,
Gwynplaine lotta come un eroe omerico per non soccombere alle cieche
forze della natura e per liberare la piccola orfana cieca, la futura Dea, da
una ineluttabile fine, strappandola al seno della madre morta. E poi
Gwynplaine incarna le più nobili virtù dell’animo umano, la bontà, la generosità, la sensibilità, l’altruismo, l’amore fedele e disinteressato, celate
però da una mostruosa maschera di carne fissata per sempre sul suo volto
sfigurato.68 L’uomo che ride è un romanzo dell’eroismo, come lo ha definito
il critico Albert Thibaudet: la figura di Gwynplaine vi si staglia e risalta
come quella di un titano.69
Vi è però almeno una significativa differenza. Tersite occupa pochi
versi dell’Iliade, Gwynplaine invece un intero romanzo. Ma lo spazio del
romanzo, ricchissimo di sequenze descrittive, è utilizzato da Hugo per determinare chi sia effettivamente il piccolo trovatello dal volto sfigurato in
un ghigno perenne, che il selvatico Ursus ha adottato e allevato come un
padre putativo. Tutti gli sviluppi della trama (culminanti con l’agnizione
68 Come ha notato Élise Noetinger, L’Uomo che ride è il romanzo della mostruosità fatta
carne, della difformità esacerbata dalla perfezione con cui viene raffigurato il corps blessé: i corpi
mutilati e/o torturati dei personaggi hanno qualche cosa di fisso, avendo perduto una parte della
vita e dell’animazione (il volto di Gwynplaine, l’immagine statuaria della madre di Dea giacente
morta nella neve, lo sguardo senza vita della piccola Dea, il corpo dell’impiccato oscillante al gelido vento notturno, etc.), vd. Élise Noetinger, La sinistre beauté du masque: étude de L’Homme
qui rit de Victor Hugo, in «French Studies», LIII, 1999, p. 406.
69 Albert Thibaudet, Storia della letteratura francese dal 1789 ai giorni nostri, trad. di
Jone Graziani, vol. I, Garzanti, Milano 1974, p. 270.
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nella prigione di Southwark, che Gwynplaine percorre come una vera e propria descensio ad inferos, da parte del superstite della banda di comprachicos, quell’Hardquanonne che venti anni prima aveva personalmente
compiuto l’operazione chirurgica sul volto del fanciullo) non hanno altro
scopo che permettere a Gwynplaine l’accesso alla Camera dei Lord, tra i
Pari d’Inghilterra. Lì, come Tersite all’assemblea degli Achei, Gwynplaine
tiene il suo primo e ultimo discorso e la sua ultima pubblica apparizione.
Vuole parlare come i suoi consociati, i Pari, ma non vi riesce sia per le carenze dell’eloquio, che pur risulta rozzamente efficace, sia, soprattutto, per
il suo aspetto fisico, fatto per divertire e, però, anche inorridire. Gwynplaine
non è riconosciuto pienamente dai nobili, suoi compagni di ceto, e anche
dalla sua oratoria, rozza, concitata e grossolanamente iperbolica (le parole
gli escono fuori a fiotti, α# κοσμα, come quelle di Tersite, ma pervase da una
sorta di spirito messianico),70 appare un popolano. È lui però che si professa
come voce del popolo, della sua vera classe sociale, che vuole difendere
dall’arroganza e dall’oppressione dei nobili («Che ci faccio qui? Vengo a
essere terribile. Sono un mostro, voi dite. No, sono il popolo. Sono un’eccezione? No, sono come chiunque. L’eccezione siete voi.»).71
Atri elementi comuni e peculiari alla rappresentazione della loro difformità sono i seguenti. Tersite è un mostro che inquieta, Gwynplaine è un mostro che diverte (o dovrebbe divertire). Entrambi sono e agiscono soli,
quando si trovano in spazi estranei al loro habitat naturale, che per
Gwynplaine è la Green Box, il carrozzone-teatro su cui si sposta la compagnia di Ursus, per Tersite (come possiamo immaginare, giacché nulla ci dice
Omero in proposito) una tenda, forse un po’ più lontana dalle altre nell’accampamento acheo. Quindi la solitudine è l’elemento comune ai due personaggi, un elemento che diviene un vero e proprio motivo topico nelle rappresentazioni degli esseri mostruosi nella letteratura occidentale, e soprattutto nel genere popolare della narrativa dell’orrore.72 L’altro elemento è la
70 Potremmo trovare nel discorso di Gwynplaine certi accenti delle Parole di un credente di
Félicité Robert de Lamennais, soprattutto laddove questi, al cap. X, denuncia il terribile, antievangelico sfruttamento dei lavoratori (Félicité Robert de Lamennais, Parole di un credente, trad.
di Maria Grazia Meriggi, Rizzoli, Milano 1991, pp. 59-62).
71 Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata Feroldi, cit., p. 641.
72 Per il motivo topico della solitudine del mostro scegliamo, tra l’abbondante produzione
della narrativa popolare, due famosi racconti: L’estraneo di Howard Phillips Lovecraft (The
Outsider, 1921), in Tutti i racconti 1897-1922, a cura di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano
1989, pp. 213-221, in cui l’apparizione del mostruoso protagonista narratore mette in fuga tutti i
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funzione di denuncia che essi assumono allorché hanno l’occasione di trovarsi davanti al potere.
Potremmo tracciare in uno schema, per una maggiore evidenza, le analogie formali e sostanziali che apparentano i due personaggi.
TERSITE
GWYNPLAINE
1. È orribilmente deforme in tutto il corpo.
2. Partecipa a un’assemblea di pari (gli Achei in armi).
3. È portatore di una morale diversa da quella degli
α# ριστοι.
4. È estraneo al rango sociale degli α# ριστοι, anche
se partecipa a una assemblea in armi e tratta con i
nobili da pari a pari.
5. Si fa portavoce delle ragioni della plebe, di cui vuole
migliorare le condizioni.
6. Si contrappone all’assemblea e non trova solidarietà.
7. Nei confronti dei nobili Tersite adopera un tono
sprezzante.
8. Nell’assemblea degli Achei parla e agisce da solo,
senza l’appoggio di alcun compagno né l’aiuto di
alcun dio (mentre Ulisse è aiutato e consigliato da
Atena).
9. Le sue parole provocano la reazione di Ulisse.
10. La reazione si traduce in violenti insulti e nella bastonatura.
11. Il suo tentativo fallisce nel ridicolo.
12. La sua bastonatura è commentata ironicamente dagli
Achei.
13. L’episodio risulta un intermezzo “comico”, ma mostra la guerra vista dalla parte del popolo, smascherando l’idealità omerica: ossia una tragedia.
14. Tuttavia Tersite con le sue parole preannuncia il
sorgere di un’età nuova e il tramonto della vecchia
aristocrazia achea.
1. È fisicamente prestante ma ha il volto deformato per
una operazione chirurgica che gli ha impresso per
sempre una smorfia ghignante (la sua deformità si
concentra nell’orribile espressione del volto).
2. Partecipa a un’assemblea di pari (i Lord).
3. È portatore di una morale diversa da quella degli aristocratici (i Lord).
4. È sostanzialmente estraneo al rango sociale dei
Lord, anche se formalmente è insignito di un titolo
nobiliare e possiede una immensa fortuna.
5. Si fa portavoce delle ragioni della plebe, di cui vuole
migliorare le condizioni.
6. Si contrappone all’assemblea e non trova solidarietà.
7. Nei confronti dei nobili Gwynplaine adopera un tono sprezzante.
8. Nell’assemblea dei Pari parla e agisce da solo, senza
l’appoggio di alcun Lord e, per di più, avendo perduto la preziosa presenza del vecchio Ursus, che lo
guidava e amava come un figlio.
9. Le sue parole provocano la reazione dei Lord.
10. La reazione si traduce in violenti insulti e urla di
scherno.
11. Il suo tentativo fallisce nel ridicolo.
12. I fischi e gli insulti indirizzati a Gwynplaine sono
commentati ironicamente da alcuni Lord.
13. L’episodio risulta un intermezzo “comico”, ma permette all’autore di denunciare le drammatiche condizioni della plebe nell’Inghilterra del Settecento.
Inoltre preannuncia il tragico destino del personaggio: all’annichilimento morale di Gwynplaine, ucciso
dal ridicolo, segue il suo annichilimento fisico, il
suicidio attuato gettandosi negli abissi marini.
14. Tuttavia Gwynplaine con le sue parole preannuncia
l’avvento di una età nuova e il tramonto della vecchia aristocrazia inglese.
partecipanti alla festa del castello, e Nato d’uomo e di donna di Richard Matheson (Born of Man
and Woman), trad. di Carlo Fruttero, in Regola per sopravvivere, Mondadori, Milano 1977,
pp. 97-101, che narra di un povero essere orribilmente deforme isolato e crudelmente torturato dai
suoi stessi genitori.
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Potrebbe sembrare un’operazione illecita l’accostamento di un personaggio mitologico, tratto dall’epica classica, in specie omerica, quale Tersite, ad uno creato da un autore moderno quale Victor Hugo. Se non altro
perché ciò richiede necessariamente una decontestualizzazione dei due personaggi, che tolti dal loro ambito letterario rischiano di ridursi a pure parvenze, vuote forme della fantasia. Noi crediamo però nell’opportunità di tal
genere di operazioni, e nella loro valenza positiva in ambito didattico. Si
tratta, anzitutto, di “figure” dell’immaginario occidentale, incarnanti simbolicamente significati della nostra civiltà. Entrambe rappresentano in modo
peculiarmente affine un’unica figura, quella del “diverso”, dell’uomo che
non riesce ad ottenere il riconoscimento di “persona” dai suoi simili e
perciò vive una dolorosa condizione di umiliazione, di emarginazione, di
sofferenza, segnato nel corpo da violente e repellenti stigmate, che lo fanno
apparire un “mostro”, anche nel senso clinico del termine. Ma l’accostamento di Tersite a Gwynplaine si rivela in duplice modo utile: prospettivamente, perché ci mostra come il personaggio di Tersite prolunghi la sua fortuna fino all’epoca moderna incarnandosi in altri personaggi, almeno fino al
Romanticismo, se non oltre (confluendo poi nel mito romantico della Bella
e della Bestia, che tanta narrativa ha originato anche in epoca moderna: citiamo soltanto, come celebre esempio, il romanzo Il fantasma dell’Opera di
Gaston Leroux, 1911, sbrigativamente annoverato nella letteratura “del terrore”),73 retrospettivamente perché ci permette di individuare una delle assai
probabili fonti che hanno ispirato a Hugo l’enigmatico personaggio di
Gwynplaine. Gwynplaine è la forma letteraria della teoria anticlassicista,
esposta da Hugo nella celebre prefazione al dramma storico Cromwell, secondo la quale anche il brutto, il difforme, il mostruoso possono aspirare
alla dignità dell’arte.74
73 Non sarà ozioso ricordare che Gwynplaine ha lasciato una traccia anche nel fumetto, poiché il disegnatore Bob Kane ha dichiarato espressamente di essersi ispirato a questo personaggio
(così come interpretato sullo schermo dall’attore tedesco Conrad Veidt, nell’omonimo film L’uomo che ride di Paul Leni [1928]) per tracciare la maschera del Jocker, il più tetro e inquietante dei
supercriminali nemici di Batman: vd. l’intervista a Bob Kane realizzata nel 1992 da Vincenzo
Mollica, testo leggibile in Internet all’indirizzo www.mollica.rai.it Sul personaggio del Jocker
vd. la scheda di Stefano di Marino, Il Buono, il Brutto, il Cattivo.Dizionario degli Eroi, dei Mostri e dei Cattivi, Mondadori, Milano 1994, pp. 259-261.
74 La teoria di Hugo si fonda sulla distinzione tra classicità e Cristianesimo: l’una esaltò
l’ideale della bellezza nelle forme dell’arte, l’altro condusse la poesia alla verità. L’arte deve
dunque descrivere la creazione come essa è, accettando di rappresentare anche il brutto, il difforme, il mostruoso, che fanno parte di essa. La forma nuova dell’arte è il grottesco, che il genio
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Da ultimo ricordiamo che omaggi al personaggio hughiano provengono
dai campi più svariati della narrativa. Il personaggio di Gwynplaine ha, infatti, stimolato l’immaginazione di molti scrittori, soprattutto nella narrativa
popolare e nella paraletteratura. Un famoso scrittore di fantascienza come
Fritz Leiber lo ricorda tra i mostri più cari della sua infanzia, assieme all’altro celebre mostro hughiano, Quasimodo, il campanaro di Notre Dame,
al conte Dracula, al Fantasma dell’Opera, a Mr. Hyde, al mostro di Frankenstein, etc.75 Da Leiber proviene l’interessante riflessione che una delle
più chiare indicazioni che il mostro rappresenta l’individuo deviante, è la
frequenza con cui egli appare in guisa di capro espiatorio, prima deriso, poi
temuto, finalmente distrutto dalla folla. L’inseguimento del mostro nella
notte da parte di una turba di villici o proletari inferociti è divenuto il suggello finale di numerosi film dell’orrore, quasi a suggerire, fra l’altro, che
l’essere orribile simboleggia l’aristocratico incalzato dall’orda rivoluzionaria. Ma la beffa è l’elemento più interessante: l’Uomo che ride – prototipo del Fantasma – deve essere deriso, prima di riuscire, con un supremo
sforzo di volontà, a fissare i suoi lineamenti nella maschera terrificante che
è la sua sola alternativa all’apparire ridicolo.76
Il celebre semiologo e narratore Umberto Eco dedica un ricordo a
Gwynplaine nel suo ultimo romanzo, La misteriosa fiamma della regina
Loana, storia di un uomo che ha perso completamente la memoria e con
essa l’identità, che prova a recuperare cercando di ricordare tutto ciò che
ha visto, letto e ascoltato fin dalla più tenera infanzia. Ne viene fuori, sull’onda di un frenetico e pindarico repêchage dai meandri della memoria,
uno sterminato, eruditissimo (secondo lo stile del Maestro di Alessandria)
catalogo di romanzi di avventure e di narrativa popolare, tra cui non poteva
mancare L’uomo che ride: l’episodio della doccia delle educande contenuto in un vecchio film comico di Totò e Carlo Campanini, I due orfanelli,
può sublimare nelle forme di assoluta bellezza artistica (Victor Hugo, pref. a Cromwell, trad.
di Corrado Pavolini, in Tutto il teatro, vol.I, Rizzoli, Milano 1962, pp. 25-28). Questa teoria ha
conosciuto una singolare reviviscenza nell’opera di chi ha elogiato l’asimmetrico, il difforme, il
disarmonico, il disritmico, quale cifra propria della creazione intellettuale del nostro tempo: vd.
Gillo Dorfles, Elogio della disarmonia, Garzanti, Milano 1992 (I ed. 1986), pp. 11-12. Sull’idea
che la Bellezza possa essere evocata anche dal Brutto (come gli occhi del rospo), vd. l’articolo di
Raffaele La Capria, Ma il Brutto salverà il mondo, in «Corriere della Sera», 8 maggio 2008.
75 Fritz Leiber, I mostri e i loro amici (Monsters and Monster Lovers, 1962), in Spazio,
tempo e mistero, trad. di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano 1987, rist., pp. 23-34.
76 Fritz Leiber, I mostri e i loro amici, cit., p. 28.
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fa evocare nella mente dell’io narrante quello della tentata seduzione di
Gwynplaine da parte della bellissima e perversa lady Josiane, sorella della
regina, e spinge il narratore-protagonista a porsi la domanda su chi sia più
bella e fatale, se costei o l’attrice Isa Barzizza (che, nella parte di una maliziosa collegiale, affiancava in quel film il grande comico napoletano).77
La palma della seducente impudicizia va a Lady Josiane, che con il suo comando sfrontato al povero mostro con cui poco prima voleva ardentemente
unirsi (“Siete mio marito, uscite, questo è il posto del mio amante”) conquista il narratore per la sua sublime corruzione.78 E ancora, l’ombra di
Gwynplaine aleggia per tutto il romanzo Dalia nera dello scrittore noir
americano James Ellroy (The Black Dahlia, 1987),79 ispirato a un fatto di
cronaca realmente avvenuto nel 1947 a Los Angeles, ossia l’efferata uccisione di una prostituta 22enne, Elizabeth Short. L’assassino mutila e
sfregia la giovane vittima ispirandosi proprio al personaggio di Hugo, il cui
ritratto incombe minaccioso proprio nella stanza in cui è avvenuto lo
squartamento, in questa torbida storia di ossessioni e perversioni in una
famiglia “bene” di Los Angeles.
Anche il personaggio di Gwynplaine ha generato espressioni e modi di
dire prestati alla politica. Per citare un celebre esempio, La smorfia di
Gwynplaine, come intitolò un suo articolo Antonio Gramsci (apparso in
«L’Ordine Nuovo», 30 agosto 1921), è quella che l’uomo politico di Ales e
fondatore del partito comunista italiano vedeva, come un ghigno rabbioso,
sul volto dei questurini, mercenari e rinnegati di classe, inviati dal potere
della borghesia ad arrestare i suoi compagni di lotta.
77 Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Bompiani, Milano 2006, rist.,
pp. 390-392.
78 Lady Josiane, che Gwynplaine, divenuto lord Clancharlie, sorprende nuda nella sua
camera da letto, invita appassionatamente il povero mostro a unirsi con lei, adescandolo con
mille fantasie erotiche. Quando Gwynplaine sta per cedere, giunge però un messaggio della
regina che la avverte che l’uomo è stato riconosciuto come legittimo erede di lord Clancharlie e
le è stato destinato come marito. Allora Josiane diventa improvvisamente freddissima e caccia
via colui che pur dovrebbe sposare, decisa a negare al marito ciò che aveva promesso all’amante. Nel romanzo lady Josiane incarna una estremizzazione della belle dame sans merci,
sensuale, corrotta e depravata.
79 James Ellroy, Dalia nera, trad. di Luciano Lorenzin, Mondadori, Milano 2004, rist. Dal
romanzo il regista Brian De Palma ha ricavato una versione cinematografica (Black Dahlia,
2006), con Josh Hartnett, Aaron Eckhart, Scarlett Johansson e Hilary Swank.
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5. Gwynplaine, come abbiamo cercato di dimostrare nel nostro lavoro,
discende da Tersite. Ma Gwynplaine rappresenta anche il capo di un filo che
si dipana fino ai nostri giorni, e forse anche di più fili. Certo, dipanare tutti i
fili, ossia tutti i motivi topici che queste figure hanno generato, ci porterebbe
troppo lontano dal discorso che abbiamo intrapreso. Ma possiamo individuarne e seguirne alcuni. Vi è anzitutto la tradizione degli esseri devianti, di
cui Tersite rappresenta l’archetipo, ossia le creature teratomorfe che hanno
popolato tanta narrativa dell’orrore e condiviso l’infelice destino dei due personaggi (Tersite e Gwynplaine) loro ascendenti. La punizione del mostro, infatti, è la condanna all’annientamento decretata dalla società dei “normali”.
Vi è poi il motivo dell’artista-clown (si ricordi che Gwynplaine è anche
un saltimbanco) che si pone al di fuori della società e ne smaschera i mali o
si oppone al potere e ne disvela la crudele essenza, fatta di sopraffazione e
ipocrisia. Gwynplaine anticipa in sé, per la funzione finalizzata al riso e per
la singolare posizione in cui si viene a trovare, ossia quella di vivente megafono degli strati più negletti della società, quelle maschere clownesche tipiche di personaggi letterari, che smascherano il traviamento morale del potere e/o della società. Ne sono un esempio i personaggi effigiati da romanzieri come Heinrich Böll: nel racconto L’uomo che ride (un probabile
omaggio, come si evince anche dal titolo, al romanzo hughiano),80 lo scrittore tedesco rappresenta la tragica serietà del claqueur che del ridere ha fatto
una lucrosa professione, simulando ogni tipo di risata per qualsiasi contesto,
ma avendo ormai dimenticato, nella fissità dell’atto e della maschera, il suo
stesso autentico riso. E nelle Opinioni di un clown il protagonista narratore è
il clown Hans Schnier, artista dal temperamento anarchico e libertario, outsider fattosi clown per irrisione e disprezzo verso la società, che denuncia la
povertà morale della nuova Germania uscita dalla ricostruzione, l’ipocrisia
dei preti, i compromessi della coscienza dei tedeschi con il proprio passato,
una società ove convinti nazisti possono diventare illustri e rispettati notabili.
Per la personificazione nel clown del ruolo di opposizione al potere ci
viene in mente l’intellettuale romeno Norman Manea, la cui riflessione sulla
Romania uscita dal comunismo contrappone al clown artista un altro e più
terribile clown, il dittatore. Nel suo saggio Clown. Il dittatore e l’artista81,
80 Heinrich Böll, L’uomo che ride, in Racconti umoristici e satirici, trad. di Lea Ritter Santini, Bompiani, Milano 19908, pp. 17-20.
81 Norman Manea, Clown. Il dittatore e l’artista (Despre Cloni: Dictatorul sÓi Artistul,
1992), trad. di Marco Cugno, Il Saggiatore, Milano 2004.
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il clown è il poeta, l’artista che nel suo desiderio di praticare la libera creazione si trova di fronte un altro clown, più pericoloso e tenebroso, il Dittatore. Questi, nei simbolici panni di un Clown Bianco, è riuscito a estendere
l’arena del suo sinistro circo mentale a un intero paese (le analogie sono
poste tra Hitler e Ceausescu, i due più terribili clown del potere nel Novecento, il primo paragonato al suo Doppio chapliniano, il secondo rappresentato come il Clown Bianco) e organizza le manifestazioni pubbliche come
rappresentazioni di un circo infernale e assurdo (quale era, rievocata da
Manea, la vita quotidiana nella Romania di Ceausescu).
Ancora: nella galleria dei mostri della narrativa popolare il clown è assurto a personificazione del Male assoluto, come, nel fluviale romanzo It di
Stephen King (1985), il malvagio Pennywise, contro cui combatte il gruppo
dei sette ragazzini emarginati, a vario titolo, dalla società.82
Ma oggi i nuovi mostri, gli eredi di Tersite, Gwynplaine e dei loro epigoni, chi sono? Posto che ogni forma di diversità segna un interrogativo
sui confini e sui ruoli che definiscono l’esistenza umana, un rinnovato interesse per le mostruosità e le anomalie è dato oggi dagli enormi progressi
dell’ingegneria biogenetica, sopraggiunti dopo la mappatura del patrimonio
genetico umano: in un futuro quanto mai prossimo, l’uomo potrà arrivare a
prevenire o riparare i guasti operati dalla natura nell’organismo (pensiamo
agli sviluppi e alle applicazioni terapeutiche delle nanotecnologie). Inoltre
le cellule staminali e la clonazione (ricordiamo il caso della pecora Dolly)
aprono potenzialmente enormi possibilità ai ricercatori di fabbricare la vita
in laboratorio, realizzando il vecchio sogno di Frankenstein.
Tutti questi fili (e altri ancora), come abbiamo detto, sono riconducibili
in qualche modo a Tersite e Gwynplaine, considerati come archetipi (soprattutto il personaggio omerico) di una difformità reietta ed emarginata, ma
alla fine riscattata sia pur con il proprio sacrificio. Questo, ci sembra, vogliono dire i due personaggi creati da Omero e da Victor Hugo, assurti a
simboli, che abbiamo voluto idealmente accostare: non emarginare, non
perseguitare nessuno in ragione del suo dissenso, soprattutto quando il dissenso diventa più evidente perché si accompagna a un aspetto esteriore che
non viene accettato dalla collettività. Del resto, è paradossale che una società nella quale mutano tanto rapidamente costumi e mentalità, abbia paura
di un dissenso, quando esso esce da forme e canoni comunemente accettati,
82
Stephen King, It (It, 1985), trad. di Tullio Dobner, Sperling & Kupfer, Milano 1990.
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relativi al modo di presentarsi. Se si vuole costruire uno spazio realmente
condiviso e comune per tutti, occorre superare certi vecchi stereotipi. E non
è impossibile che il nuovo ordine della “città dei mostri”, nella quale volentieri avrebbero dimora Tersite e Gwynplaine, non sia poi quello in cui si rispecchi l’ordine voluto dagli dei.83
Il riferimento alla città di Perintia, la “città dei mostri”, è da Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1984, rist. (I ed. 1972), pp. 150-151.
83
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MARIO CARINI
“I have a dream...”:
l’autoeditoria scolastica
Io coltivo un sogno segreto, e lo voglio svelare in queste pagine. Il mio
sogno è che le scuole avviino una regolare attività di autoeditoria scolastica, e
che questa sia ufficialmente contemplata nel POF. Mi si obietterà che già in
molti istituti è invalsa la tradizione di pubblicare volumi a carattere periodico
(gli annuari) od occasionale, per celebrare solennemente il ricorrere di determinati anniversari (cinquantenari o centenari della fondazione). È vero che
molte scuole, forse tutte, hanno dato alla luce nel corso della loro storia almeno un volume, a carattere celebrativo o d’altro genere. Nessuna, però, a quel
che so, ha avviato una regolare attività editoriale. Cercherò, nelle pagine seguenti, di spiegare meglio questo mio progetto, che richiede un grande sforzo
economico della scuola e un notevole impegno dei docenti, e certamente oggi
appare utopistico e, forse, al di là delle nostre reali possibilità. Nondimeno
nutro fiducia che, in un futuro più o meno prossimo, esso possa venire realizzato. La scuola sarebbe così coinvolta in una esperienza affascinante, ricca,
gratificante, una esperienza che potrebbe aiutare, anch’essa, a incentivare nei
docenti il desiderio di ricerca, di studio, di aggiornamento, con una benefica
ricaduta sulla qualità del loro impegno didattico e, anche, sulla loro professionalità.1
Ma cominciamo a spiegare la nostra proposta partendo dalle pubblicazioni scolastiche. Le possibili iniziative editoriali di una scuola attengono
per lo più alla seguente tipologia, che esamineremo di seguito:
• Atti di convegni, tavole rotonde e cicli di conferenze
• Miscellanea di Saggi e Ricerche
• Annuario e Annali
• Quaderni monografici e testi di progetti ed esperienze didattiche
• Testi di narrativa, poesia e teatro
1 Che il mestiere di docente sia scarso di gratificazioni è cosa troppo nota perché debba
ricordarlo. D’altra parte, scriveva Ethel Porzio Serravalle che i professori sono “sottopagati
parafulmini, o se preferite dei cirenei, su cui il mondo intero rovescia le molte croci che non ha
voglia di portare” (Ethel Porzio Serravalle, Mal di scuola, Mondadori, Milano 1988, p. 30). Che
cosa è cambiato per gli insegnanti dal tempo in cui la Serravalle poteva definire così i docenti?
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• Pubblicazioni celebrative
• Storia dell’Istituto
• Testi scolastici.
1. Atti di convegni, tavole rotonde e cicli di conferenze. Il nostro
Liceo Orazio da alcuni anni organizza cicli di conferenze su temi di approfondimento culturale, per cura e merito della Prof.ssa Licia Fierro. È,
questa, l’iniziativa culturale di punta della scuola, che non solo offre un
apporto di grande rilevanza alla formazione intellettuale dei nostri alunni,
ma provvede a far conoscere il Liceo Orazio ben oltre i confini della nostra
città. I conferenzieri invitati ogni anno (in numero di quattro) a trattare di
un argomento specifico sono personaggi assai qualificati del mondo delle
istituzioni, della cultura e dell’informazione. Ricordiamo di seguito gli illustri relatori che si sono avvicendati, nei trascorsi anni scolastici, di fronte
alla platea dei nostri studenti per discutere sui temi proposti: nell’anno
scolastico 2001/2002 (tema: La Globalizzazione) la scuola ha ospitato
Vincenzo Visco,2 Pietro Rescigno,3 Vittorio Agnoletto,4 Pierluigi Ciocca;5
nell’anno scolastico 2002/2003 (tema: La Giustizia) Giovanni Conso,6
Maurizio De Luca,7 Antonella Patrizia Mazzei,8 Pierluigi Vigna;9 nell’anno
scolastico 2003/2004 (tema: Fedi e ateismo nella civiltà contemporanea)
Francesco Paolo Casavola,10 Carlo Di Castro,11 Bijan Zarmandily,12 Paolo
2 Professore di Scienza delle Finanze all’Università “La Sapienza” di Roma e Ministro del
Tesoro nel Governo Amato. Questa e le note seguenti vogliono fornire soltanto sommarie indicazioni sulle molteplici attività svolte da ciascuno degli invitati, senza alcuna pretesa di completezza
ed esaustività. Gli incarichi assunti si riferiscono, ovviamente, all’epoca della loro partecipazione
ai cicli di conferenze nella scuola.
3 Accademico dei Lincei, già professore di Diritto Civile all’Università “La Sapienza” di Roma.
4 Medico del lavoro, già presidente della LILA (Lega Italiana per la Lotta all’Aids) e
leader del movimento No-Gobal.
5 Vicedirettore generale della Banca d’Italia.
6 Professore di diritto processuale penale, già presidente della Corte Costituzionale e ministro della Giustizia nel Governo Amato.
7 Giornalista tra i più noti del nostro Paese, ha seguito le più importanti inchieste giudiziarie negli anni Settanta e Ottanta, tra cui il caso Sindona e il caso Calvi.
8 Magistrato e vicepresidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma.
9 Magistrato e Procuratore Nazionale Antimafia.
10 Eminente studioso di Diritto Romano, già presidente della Corte Costituzionale e presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana.
11 Professore di Meccanica Quantistica all’Università “La Sapienza” di Roma.
12 Giornalista di origine iraniana, corrispondente per l’Iran di Limes e collaboratore di numerose testate e agenzie giornalistiche internazionali.
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Flores d’Arcais;13 nell’anno scolastico 2004/2005 (tema: La Bioetica) Eugenio Lecaldano,14 Luciano Terrenato,15 Stefano Rodotà,16 Elio Sgreccia;17
nell’anno scolastico 2006/2007 (tema: Religioni e convivenza civile)
Giorgio Gomel,18 Alì Rashid,19 Federico Di Leo,20 Paolo Naso21 (moderatore della tavola rotonda conclusiva); nell’anno scolastico 2007/2008
(tema: Quale Europa?) Rosy Bindi,22 Luigi Spaventa,23 Luisa Morgantini,24 Pietro Rossi.25 Nell’attuale anno scolastico 2008/2009 il tema prescelto ha avuto per titolo Umanesimo e Scienza e il 14 gennaio 2009 il
nostro Liceo ha avuto l’onore di ospitare, come primo relatore, l’illustre
linguista Tullio De Mauro.26 Gli atti delle conferenze, assieme alle relazioni degli studenti, sono stati pubblicati annualmente in una serie di volumi, che sono a disposizione di docenti e studenti in biblioteca.
La pubblicazione degli atti delle conferenze e delle tavole rotonde è
una tipica attività di autoeditoria scolastica, la cui utilità si evidenzia soprattutto per un duplice ordine di motivi: permette la creazione di una “memoria storica” su eventi importanti della scuola, sottraendoli all’inevitabile
oblio del tempo, e offre agli studenti e anche ai docenti la possibilità di
trarre spunti e indicazioni per aggiornamenti e approfondimenti su tematiche attinenti alle materie curricolari. Talvolta avviene, infatti, che le scuole
Saggista e filosofo, direttore della rivista Micromega e collaboratore di numerosi e prestigiosi giornali italiani e stranieri.
14 Professore di Storia della Filosofia Morale all’Università “La Sapienza” di Roma.
15 Professore di Genetica delle Popolazioni all’Università “Roma Due” di Tor Vergata.
16 Professore di Diritto Civile all’Università “La Sapienza” di Roma e vicepresidente della
Camera dei Deputati.
17 Vescovo, promotore dell’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
presso il Policlinico Agostino Gemelli e presidente della Pontificia Accademia per la Vita.
18 Direttore per le Relazioni Internazionali della Banca d’Italia e cofondatore del “Gruppo
Martin Buber – Ebrei per la pace”.
19 Diplomatico palestinese e deputato di Rifondazione Comunista, eletto nel 2006.
20 Economista dell’ISTAT e responsabile della Comunità di S.Egidio.
21 Direttore della rivista Confronti e curatore del programma televisivo Protestantesimo.
22 Esponente del Partito Democratico e ministro delle Politiche per la Famiglia nel Governo
Prodi.
23 Professore di Economia all’Università “La Sapienza” di Roma, già presidente della
CONSOB e ministro del Bilancio e della Programmazione Economica nel governo Prodi.
24 Vicepresidente del Parlamento Europeo e candidata al Premio Nobel per la Pace nel 2008.
25 Filosofo e Accademico dei Lincei, professore emerito all’Università degli Studi di Torino.
26 Linguista e saggista di fama internazionale, professore di Filosofia del Linguaggio all’Università “La Sapienza” di Roma, direttore del Gradit (Grande Dizionario Italiano dell’Uso), ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Amato.
13
– 45 –
organizzino incontri e tavole rotondi con studiosi di prim’ordine, ma che di
questi incontri certamente arricchenti e coinvolgenti non resti praticamente
traccia, per la mancanza di una documentazione scritta o magnetica (nastri
registrati). Vanno così, purtroppo, perdute autentiche e rare occasioni di arricchimento culturale e di crescita intellettuale, per una trascuratezza a cui si
potrebbe ovviare con relativa facilità (naturalmente occorre avere a disposizione i fondi necessari per l’iniziativa editoriale).
Per quanto riguarda altre pubblicazioni del genere, cito un testo che ho
sottomano, ossia il vol. II degli Annali (1993-2003) del Liceo ginnasio
statale “G. D’Annunzio” di Pescara, edito a Pescara nel 2004. Il volume
contiene gli atti del Convegno su “L’istruzione classica: tradizione, innovazione e prospettive future” svolto nel Liceo “G. D’Annunzio” nei giorni 4, 5
e 6 dicembre 2000 e 23 gennaio 2001, alla presenza del Provveditore agli
Studi di Pescara dott. Sandro Santilli. Di particolare rilievo sono stati gli
interventi del giorno 5 dicembre 2000 sul tema Nodi didattico-culturali del
liceo classico, con le relazioni degli studiosi e docenti universitari Nicola
Flocchini (Rinnovamento della didattica della lingua latina), Giovanni
Cipriani (Gli enigmi del latino) e Francesco De Martino (Lirica greca
“liceale”). Il volume contiene anche una sezione dedicata ad “Altri studi”,
con saggi, anche qui, di noti studiosi dell’antichità greca e romana, come
Massimo Vetta (L’identità celata. Riflessioni sulla metis di Odisseo),
Raffaele Di Virgilio (Modernità poetica di Ovidio), Fausto Brindesi (Sesto
Properzio – Elegie).27
2. Miscellanea di Saggi e Ricerche. La Miscellanea di saggi e ricerche
del Liceo Orazio si prospetta come una raccolta di saggi e articoli di carattere scientifico e/o divulgativo su argomenti relativi alle materie curricolari
e a tematiche culturali in senso ampio. Essa ha lo scopo di mettere a disposizione dei docenti contributi di carattere culturale elaborati dai loro colleghi, intendendo così rispondere all’esigenza di una fruibilità e un autoaggiornamento dei saperi. Per il suo carattere multidisciplinare la Miscellanea
si rivolge a docenti e studenti, che potranno quindi trovarvi spunti per ricerche, approfondimenti o aggiornamenti nelle discipline curricolari. Copie
del volume pubblicato dalla nostra scuola vengono inviate agli altri istituti
scolastici e alle biblioteche pubbliche (come, ad esempio, la Biblioteca
È l’introduzione alla traduzione delle Elegie di Sesto Properzio del Brindesi (Mursia,
Milano 1992), per concessione della casa editrice Mursia.
27
– 46 –
Alessandrina dell’Università “La Sapienza” e la Biblioteca Nazionale Centrale). Rispetto ai primi due volumi della serie, vi è stata una modifica strutturale che coincide con un progressivo ampliamento degli orizzonti della
Miscellanea. Mentre, infatti, il primo numero era rivolto in via esclusiva a
raccogliere i lavori dei docenti, come segno di qualificato impegno culturale
a fianco di quello didattico, il secondo già rivelava una trasformazione nel
senso dell’apertura verso una didattica attiva, con l’istituzione di una apposita sezione didattica. Si è passati, infatti, dalla ricerca, intesa come produzione di saggi e articoli dei singoli docenti, a testimonianza dei loro interessi culturali, alla ricerca-azione, intesa come ricerca nel suo aspetto
dinamico, che procede da una sinergica collaborazione tra docente e alunni.
Espressione della ricerca-azione sono i numerosi lavori prodotti dagli allievi
stessi, sotto la guida dei docenti, alcuni dei quali sono segni di una autonoma e creativa attività individuale.
Quindi la Miscellanea si configura come uno spazio editoriale in cui
si congiungono armoniosamente i contributi prodotti esclusivamente dai
docenti, i lavori che sono frutto della collaborazione tra docenti e alunni e
gli apporti dei singoli alunni. La Miscellanea di Saggi e Ricerche è dunque
costituita da due sezioni, la “Sezione docenti”, che contiene i contributi dei
docenti, e la “Sezione didattica”, che raccoglie i lavori realizzati dagli studenti sotto la guida dei loro insegnanti. Nel quarto volume è stata aggiunta
anche una “Sezione teatro”.
3. Annuario e Annali. Gli annuari e gli annali sono volumi, in genere a
periodicità annuale, che rappresentano l’immagine della scuola in modo
esauriente. In passato gli annuari erano concepiti come corpose pubblicazioni
che univano alle informazioni e notizie riguardanti la vita della scuola (avvicendamento di presidi e docenti, composizione delle classi, eventi di ogni genere riguardanti la vita scolastica) le ricerche e i contributi più o meno impegnati dei docenti. Il livello qualitativo di queste pubblicazioni era in genere
elevato e non di rado vi scrivevano docenti universitari o insegnanti che, in
virtù della loro competenza e dei risultati delle loro ricerche, sarebbero presto
passati dalla scuola all’università (come di regola avveniva prima del Sessantotto, giacché il docente ordinario di un insegnamento aveva spesso, tra i suoi
titoli, la vittoria in un concorso a cattedre della scuola secondaria).
Citiamo, come esempio di una tradizione che dopo il Sessantotto si è un
poco affievolita, ma che ha onorato la scuola italiana, il corposo volume
(ben 358 pagine) degli Annali del liceo classico «G. Garibaldi» di Palermo,
– 47 –
nuova serie, n. 9-10, 1972-1973. Sfogliando l’indice di questa pubblicazione, si vede la quantità di argomenti che abbraccia, sicché può dirsi che è
una pubblicazione completa. È divisa in tre sezioni: Gli anni scolastici, Per
la storia dell’Istituto, La cultura e la Scuola, distinta, a sua volta, in due
sottosezioni, Saggi e ricerche e Pagine letterarie.
Annali del liceo classico «G. Garibaldi» di Palermo
Nuova serie, n. 9-10, 1972-1973
INDICE
PREMESSA (pp. V-VI)
PARTE PRIMA: GLI ANNI SCOLASTICI (pp. 1-46)
Organi dell’Istituto nel 1971-72
Personale dell’Istituto nel 1971-72
Organi dell’Istituto nel 1972-73
Personale dell’Istituto nel 1972-73
Alunni dell’Istituto nel 1972-73 (Ginnasio-Liceo)
La Cassa Scolastica (Premi di Studio - Rendiconto dell’esercizio finanziario 1971-1972
- Rendiconto dell’esercizio finanziario 1972-1973)
Esami di Maturità 1971-72
Esami di Maturità 1972-73
PARTE SECONDA: PER LA STORIA DELL’ISTITUTO (pp. 47-54)
Ai colleghi che lasciano il «Garibaldi»
Il commiato del Preside Giuseppe Cottone
Il saluto del Preside Sarino A. Costa
PARTE TERZA: LA CULTURA E LA SCUOLA
- SAGGI E RICERCHE (pp. 57-289)
SARINO A. COSTA, Foscolo, Leopardi e il problema della mitologia
G. COTTONE, La presenza «storica» di Alessandro Manzoni
G. COSTA, Appunti sulla genesi del «fatto teatrale»
A. M. RUTA, La funzione ideologica delle qualificazioni nel quinto capitolo di Una
peccatrice
G. ARICÒ28, Su alcuni aspetti del mito tebano nelle urne volterrane
28 Giuseppe Aricò era, allora, ordinario di Lettere Latine e Greche nel corso D e comandato
alla Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo per Lingua e Letteratura Latina. Studioso di
letteratura greca e latina, autore di numerosi saggi, manuali e antologie scolastiche, è attualmente
professore fuori ruolo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università degli Studi di
Milano, ove ha insegnato Letteratura Latina e Storia del teatro greco e latino.
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F. BERTINI,29 NAEV. LYCURG. 33 Ribb.³ = 35-36 Klotz = 10 Marmorale (ovvero: Un
falso problema di tradizione manoscritta)
A. DE ROSALIA, Condizione umana dell’oratore ciceroniano
G. GUTTILLA, La morte di Cremuzio Cordo nella Consolatio ad Marciam
D. ROMANO, Il significato della presenza di Nerone nella Consolatio boeziana
A. RUSSO, Per una lettura dell’elegia properziana (parte prima)
F. CANNICI, Herbert Marcuse
G. DI STEFANO, Tragicità e antinomicità nella filosofia di Kant
S. GIOÈ, Dialettica e pensiero in Fichte
M. BRAI - F. FERINA, I microrganismi entomopatogeni
- PAGINE LETTERARIE (pp. 291-354)
V. MUCIACCIA, Liriche e Immagini
D. ROMANO, Dietro la storia
C. ARICÒ JACONO, Tre liriche
E. CARTA, Poesie e Racconti
G. COSTA, Epistassi 1967
A. M. DI FRESCO, Versi
Notiamo anzitutto l’alto livello della sezione Saggi e ricerche, ove compaiono contributi di docenti universitari, come il prof. Ferruccio Bertini,
insigne latinista. Scegliamo tra le Pagine letterarie, che presenta un’ampia
raccolta di poesie e racconti, dovuti ai docenti dell’Istituto, una poesia di Antonio Maria Di Fresco, allora ex studente e giornalista collaboratore di varie
testate a livello nazionale. Pensiamo che essa meglio di altre ci possa far percepire gli umori e la mentalità del tempo, i primi anni Settanta, caratterizzati
da un forte impegno politico, a tutti i livelli, e da un immediato coinvolgimento nelle problematiche internazionali, di cui l’ambiente scolastico, e in
specie, quello siciliano, cominciava a permearsi. Gli studenti e anche i docenti, alcuni in principio, poi la larga maggioranza, seguivano con passione
le vicende politiche internazionali, quelle che allora portavano i giovani nelle
piazze a manifestare e oggi sono divenute pagine di storia (nei primi anni
Settanta ancora non si percepiva la minaccia delle Brigate Rosse, per quanto
29 Ferruccio Bertini è ordinario di Letteratura latina all’Università di Genova. In oltre trent’anni di studio e di ricerca ha pubblicato, fra l’altro, edizioni, commenti e traduzioni di Plauto
(l’Asinaria), Ovidio (gli Amores), Terenzio e Rosvita. Tra le sue opere ricordiamo la cura di
Medioevo al femminile (Bari 1989) e di alcune collane di testi (Commedie latine del XII e XIII
secolo, voll. I-VI, Genova 1976-1998; Tragedie latine del XII e XIII secolo, Genova 1994;
Favolisti latini medievali e umanistici, voll. I-VI, Genova 1984-1994); i suoi saggi plautini sono
stati raccolti in Plauto e dintorni, Laterza, Roma-Bari 1997. Dirige dal 1992 l’importante rivista
di studi latini “Maia”.
– 49 –
il nostro Paese fosse già stato colpito dai tragici attentati della cosiddetta
“strategia della tensione”, come quello di Piazza Fontana). La poesia di Antonio Maria Di Fresco si intitola Madre del Vietnam e testimonia una sincera
emozione per il dramma indocinese (che costò centinaia di migliaia di morti,
immani distruzioni e milioni di profughi in fuga dal Vietnam del Sud dopo
la caduta di Saigon), che allora scosse la coscienza civile e democratica
dei giovani di tutto il mondo. L’emozione dell’autore si traduce, sul piano
artistico, in elegiaci accenti quasimodiani, che sottolineano una suggestiva
consonanza tra due lontane, ma analoghe esperienze di dolore:
MADRE DEL VIETNAM
di Antonio Maria Di Fresco
(da Annali del liceo classico «G. Garibaldi» di Palermo,
nuova serie, n. 9-10, 1972-1973, p. 353)
Io non conosco il tuo volto terrorizzato,
non sono napalmizzato
come tuo figlio
non combatto tra le paludi
con un fucile, come il tuo uomo
ma la mia valle del sud
ripete i tuoi dolori
e il mio cuore ferito
si lacera come il tuo,
di orrore.
Madre del Vietnam, ascoltami:
quando si farà sera
e rimarrai sola
a piangere i tuoi lutti
ricordati di me nel tuo pianto
e capirò, attraverso i salici
della mia Sicilia, che m’hai
ascoltato, che sono anch’io
tuo figlio
Tutti siamo tuoi figli, ora, mentre
le meridiane della morte trafiggono
la tua gente ignuda, come Cristo
Abbiamo riportato questo testo perché, al di là del giudizio che la
poesia può meritare e che ogni lettore ha il diritto di formarsi, vogliamo
mostrare come negli annuari o annali di un tempo vi fosse spazio anche per
le scritture creative. E quanti tra noi docenti (intendo docenti del Liceo
– 50 –
Orazio) hanno scritto poesie o racconti o pagine di diario che tengono gelosamente sequestrati in fondo a un cassetto? Molte volte si è costretti a ciò o
dal pudore che distoglie dal rendere pubblici i sentimenti più esclusivi e privati o dal timore che i propri scritti, ingenuamente dati alla luce, possano
essere dilacerati da qualche critico emunctae naris, pronto a naribus uti, per
citare il grande Venosino. Eppure questa ritrosia dal “darsi” agli altri, questa
non sempre opportuna riservatezza, possono privarci di godere della lettura
di piccoli gioielli di poesia. Versi magari pregevoli, intelligenti, raffinati,
sono condannati a restare ignorati, mentre altri di minor qualità ottengono la
dignità della stampa. Sicché non facilmente noi docenti acconsentiamo a
pubblicare i nostri scritti, condannandoci al silenzio, a meno che non si
scelga di affrontare la non esaltante e comunque onerosa esperienza degli
APS.30 Invece, paradossalmente, i nostri studenti, più coraggiosi o incoscienti di noi, pubblicano i loro testi sui giornalini scolastici e diventano
così (sia detto senza alcun intento polemico) l’unica voce della scuola che
risuona all’esterno.
Per quanto riguarda le pubblicazioni di questo tipo, vorrei menzionare
gli Annali del Liceo Classico “A. di Savoia” di Tivoli. Il n. 1 uscì nel
maggio 1988 e vide la collaborazione del sottoscritto che, insieme con altri
più esperti e valorosi colleghi, riuscì a pubblicare questo scarno volumetto
(appena 77 pagine) contenenti i seguenti lavori dei docenti: I procedimenti
“cinematografici” in Dante e Tasso di Angelo Moscariello (saggista e critico cinematografico), La satira romana di Orazio Antonio Bologna (studioso
e cultore di composizione latina e poeta egli stesso in lingua latina), il mio
Ennodio e la poesia odeporica latina, Problemi di metodologia della storia
di Nando Fortunato Crocetti, Una questione di stile, un racconto giallo di
Sandro Borgia. Al n. 1 hanno fatto seguito numerosi altri volumi, in una
apprezzabile continuità che si perpetua ancor oggi.
Abbiamo sottomano anche il n. 15 dell’Annuario 2001/2002 del Liceo
Classico e Linguistico Statale “Aristofane”. Il volume ha un taglio diverso,
in quanto presenta tutte le attività svolte nell’ambito scolastico. L’indice
divide il testo nelle seguenti sezioni: Exordium, ΕΡΓΑ, ΗΜΕΡΑΙ, IN
30 APS è acronimo di Autori a Proprie Spese. Sugli APS, che spesso sono fonte di lucro per
le piccole case editrici, ha scritto graffianti pagine Umberto Eco in Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano 1988, pp. 197-201. Vd. al riguardo Roberto Di Pietro, APS: voi volete le mie rose?,
in “Fertili-linfe”, n. 1, estate 2007, p. 5; Giorgio Maremmi, L’Agenda dello Scrittore, Firenze
Athenaeum s.d. (estratto).
– 51 –
ITINERE, CERTAMINA, CORPUS ARISTOPHANEUM, DISCIPULI
INTER IPSOS. Degni di nota, nella sezione ΕΡΓΑ che comprende i lavori
prodotti dagli studenti nell’ambito delle attività laboratoriali, sono il carteggio apocrifo riguardante l’instaurazione del regime repubblicano di
Oliver Cromwell nel 1648, le lettere che si immaginano scritte da dignitari
di diverse epoche (tra cui la zarina Caterina II), aventi per tema l’espansionismo dei Turchi nell’Europa Orientale, e un originale resoconto della Passione di Gesù narrato da Filodemo, che vi assistette, a Critone (opera dell’alunno Livio Montesarchio, II D). La sezione ΗΜΕΡΑΙ presenta, ricordandoli mese per mese, gli episodi peculiari che hanno scandito l’anno scolastico, dall’inaugurazione dell’Erma di Aristofane ai convegni svolti nella
scuola (come il convegno del giorno 8 aprile, Usus et doctrina: due ali per
ascendere al mondo dei classici. Il “metodo natura” per le lingue classiche,
organizzato dal prof. Alberto Tedeschi, che ha visto la partecipazione di insigni studiosi, quali il prof. Luigi Miraglia e il prof. Hans H. Ørberg, autore,
com’è noto, di un innovativo metodo di insegnamento del latino). La sezione IN ITINERE è dedicata ai viaggi e agli scambi culturali, quella dei
CERTAMINA, come il nome suggerisce, alle gare e concorsi nazionali a
cui ha preso parte la scuola, le sezioni CORPUS ARISTOPHANEUM e
DISCIPULI INTER IPSOS contengono gli organici della scuola, corredati
da numerose fotografie del corpo insegnante e delle classi. È un volume
certamente utile perché vi si apprendono moltissime notizie sulle attività
della scuola e dà la misura del suo notevole impegno culturale e didattico.
Purtroppo mancano contributi saggistici dei docenti.
Anche il nostro Liceo Orazio ha pubblicato, nell’anno scolastico 20072008, il primo numero dell’Annuario. La pubblicazione cerca di conciliare
due opposte esigenze: quella di informare sulle attività della scuola e sulla
vita dell’istituto e quella di riservare uno spazio ai docenti per la pubblicazione dei loro contributi. È divisa perciò in tre sezioni, Vita dell’Istituto,
Le attività realizzate, Contributi dei docenti, che si spera possano essere
negli anni futuri sempre più arricchite dall’apporto di nuovi collaboratori.
4. Quaderni monografici e testi di progetti ed esperienze didattiche.
Un possibile progetto: i Quaderni del Liceo Orazio. Anche se non ha mai
pubblicato una organica collana di saggi, il Liceo Orazio ha però dato alla
luce alcune pubblicazioni che costituiscono veri e propri numeri monografici su argomenti specifici, correlati a iniziative di tipo progettuale e laboratoriale. Citiamo, per il Progetto “La Scuola adotta un monumento” (pro– 52 –
mosso a Napoli dalla Fondazione Napoli Novantanove e in seguito sviluppatosi su rete nazionale, con l’adesione, quindi, delle scuole romane), il
volumetto Villa Torlonia, il suo parco ed i suoi edifici (collana “La Scuola
Adotta un Monumento”, n. 19), Fratelli Palombi Editori, Roma 1997 (curato
dai giovani studenti protagonisti del progetto, ossia le classi I C, I D, I E del
liceo classico, II B, II C, IV A del liceo linguistico, guidati da un gruppo di
docenti con il coordinamento della prof.ssa Carla Michelli di storia dell’arte). Ad esso ha fatto seguito, per l’anno scolastico 1998-1999 e relativamente al medesimo progetto, la pubblicazione Itinerari storici, artistici,
letterari ed ambientali intorno a Villa Torlonia, frutto del lavoro di un team
di insegnanti, sempre coordinati dalla prof.ssa Carla Michelli, assieme alle
classi II C e III E (liceo classico) e IV BL e IV CL (liceo linguistico).
Ricordiamo anche la pubblicazione “Rerum Cognoscere Causas” (Virgilio - Georgiche II, 490), Dall’alba delle conoscenze astronomiche alla cosmologia contemporanea, Roma 1997, che è il catalogo della mostra progettata e realizzata presso il Liceo “Orazio” da un gruppo di lavoro coordinato dalla prof.ssa Rosanna D’Amato De Leo, con il patrocinio del MUSIS
(Museo della Scienza e dell’Informazione Scientifica a Roma), per l’anno
scolastico 1995/1996.
Un collana di saggi monografici non è però mai stata pubblicata né nella
nostra scuola né, per quel che sappiamo, in altri istituti. Potrebbe allora avviarsi nella nostra scuola la realizzazione di uno specifico progetto editoriale,
quello dei Quaderni del Liceo Orazio. Il progetto sarebbe un vero e proprio
progetto editoriale, finalizzato sia a valorizzare l’impegno culturale e professionale dei docenti dell’Istituto sia ad avviare l’autonomia dell’Istituto anche
in campo editoriale. Il progetto avrebbe le seguenti caratteristiche. Esso
consisterebbe nella pubblicazione di una collana di testi scritti dai docenti
del Liceo Orazio, i Quaderni del Liceo Orazio. La collana si articolerebbe in
quattro sezioni (ciascuna sezione sarebbe distinta da un colore diverso della
copertina del volume: si propongono quattro esempi di colori):
• Saggi e ricerche (colore della copertina: verde): la sezione Saggi
e ricerche comprenderà saggi scientifici e divulgativi a carattere
monografico, su qualsiasi argomento culturale o relativo alle materie
curricolari (letterature classiche, letteratura italiana, letterature
moderne, linguistica, storia, filosofia, diritto, economia, scienze,
storia delle religioni, storia dello spettacolo, etc.). Potranno anche
essere previsti volumi monotematici, che comprenderanno i saggi di
più docenti su un unico tema, trattato in prospettiva interdisciplinare.
– 53 –
• Testi e commenti (colore della copertina: blu): la sezione Testi e
commenti comprenderà edizioni critiche e traduzioni, commenti a
testi di autore, antologie di autori, raccolte di fonti letterarie con
traduzione e commento, raccolte di testi per esercitazioni. I volumi
di questa sezione si configurano quali testi di supporto didattico, da
affiancare ai manuali e alle antologie in uso.
• Esperienze didattiche (colore della copertina: arancione): in questa
sezione saranno pubblicati i lavori realizzati dai docenti in ambito
laboratoriale e progettuale, con la collaborazione degli studenti.
• Scritture creative (colore della copertina: rosso): la sezione accoglierà testi narrativi, raccolte di poesie, testi teatrali e ogni lavoro
frutto della creatività dei docenti e degli studenti.
Per quanto attiene alla periodicità, si potrebbe prevedere l’uscita di
quattro volumi annuali, uno per ogni sezione. I testi pubblicati avrebbero
una numerazione progressiva, sarebbero distinti per sezione e porterebbero
in copertina una dicitura, ad esempio, di questo tipo:
Quaderni del Liceo Orazio
n. 1 anno scolastico...
Sezione: Testi e commenti (o altra sezione)
Nome dell’autore
Titolo del volume
Di ogni testo pubblicato verrebbero stampate 100 copie (per un totale
massimo di 400 copie l’anno). Le copie sarebbero distribuite gratuitamente
a docenti e alunni del Liceo Orazio. Per ovviare al problema dei costi di
stampa ci si potrebbe rivolgere a quelle tipografie che stampano dispense
universitarie, vicino alla sede dell’Università “La Sapienza”. Per ottenere
un certo risparmio sui costi, i volumi potrebbero essere litografati. Inoltre si
potrebbe chiedere a istituti di credito, altri enti, ditte e imprese un contributo al sostegno delle spese di pubblicazione, in cambio della concessione
di spazi pubblicitari (seconda e terza di copertina).31
La soluzione, ancorché poco elegante, non dovrebbe scandalizzare. Risulta un’abitudine
diffusa tra le riviste culturali e scientifiche, anche di alto livello, come la “Nuova Antologia”, che
concede nei suoi numeri numerose pagine alla pubblicità.
31
– 54 –
5. Testi di narrativa, poesia e teatro. In alternativa alla serie specificamente prevista per i Quaderni del Liceo Orazio (Scritture creative) si
potrebbero pubblicare in una apposita collana di “scritture creative” racconti o romanzi o raccolte di poesie o soggetti e/o copioni per il laboratorio teatrale della scuola. Testi del genere hanno già visto la luce nella
nostra scuola, ma non in pubblicazioni specifiche. Negli anni scorsi il
Prof. Claudio Jankowski, regista teatrale di grande esperienza, ha tenuto
nel nostro Istituto un apprezzato laboratorio di teatro e i copioni degli
spettacoli messi in scena dai suoi studenti sono stati pubblicati sulla
Miscellanea, nella “Sezione didattica”: L’opera del mendicante di John
Gay sulla Miscellanea di Saggi e Ricerche n. 2, anno scolastico 20042005, pp. 266-298, e ...Siamo fatti della stessa stoffa di cui sono fatti i
sogni (antologia da Shakespeare) sulla Miscellanea n. 3, anno scolastico
2005-2006, pp. 355-378. Sulla Miscellanea n. 4, anno scolastico 20062007, nell’apposita “Sezione teatro” è stato poi pubblicato il copione dell’omonimo spettacolo teatrale tratto dai Promessi Sposi e rappresentato
agli studenti delle scuole italiane per l’adattamento di Paola Scotto di Tella
e la regia di Giovanni Nardoni.32 Sono apparsi poi anche racconti di docenti e studenti, pubblicati sempre sulla Miscellanea: Il romanzo di Enea
dello studente Fabrizio Cosmi e Made in America di Lorenzo Pani, prodotti dell’attività didattica del prof. Claudio Jankowski (pubblicati sul n. 2
della Miscellanea) e Il regno di Naturalia, Il primo figlio e Il canto di Assuntina, del prof. Giuseppe D’Avino, preside del Liceo Orazio fino all’anno scolastico 2005-2006, e L’ultimo sguardo cieco, racconto della studentessa Francesca Rubini (testi pubblicati sul n. 3 della Miscellanea).
Scritti del genere si potrebbero raccogliere in apposite pubblicazioni di
scrittura creativa, comprendenti testi narrativi, lirici e teatrali prodotti da
docenti e studenti della scuola. Segnaliamo al riguardo la pubblicazione
del Liceo Classico e Linguistico Statale “Aristofane”, Nefelai, officina di
giovani scrittori ideata e condotta da Giuseppe Elio Ligotti, biennio 20022003 e 2003-2004, Roma 2004. L’iniziativa ha avuto il patrocinio della
Provincia di Roma, Assessorato alle politiche culturali, della comunicazione e dei sistemi informativi.
32
È stato rappresentato agli studenti del Liceo Orazio al Teatro delle Muse il 6 novembre
2007.
– 55 –
6. Pubblicazioni celebrative. Sono volumi pubblicati per il cinquantenario o il centenario della fondazione degli istituti scolastici, e sono molto
importanti perché contengono la “memoria storica” della scuola, con notizie
sulla fondazione della scuola, sul corpo insegnanti che si è avvicendato
nelle aule, sui personaggi famosi che vi hanno insegnato o studiato. Ogni
scuola vede così valorizzate le proprie origini e tradizioni. Se le scuole
hanno particolare importanza nel territorio, questi volumi possono essere
patrocinati da enti e istituzioni. Citiamo, per un esempio significativo, il volume I cento anni del liceo “Duni” di Matera, studi e testimonianze, a cura
di Giuseppe Bruno, Edizioni Grafiche Schena, Fasano 1965. La pubblicazione, promossa per celebrare il centenario del prestigioso Liceo ginnasio
statale E. Duni di Matera, fu patrocinata da un prestigioso comitato d’onore,
che annoverava, quale presidente, il Ministro della Pubblica Istruzione On.
Luigi Gui, e quali componenti l’On. Emilio Colombo, Ministro del Tesoro,
il dott. Tommaso Bevivino, prefetto di Matera, mons. Giacomo Palombella,
arcivescovo di Matera, il dott. Giuseppe La Macchia, sindaco di Matera,
l’avv. Salvatore Peragine, presidente della Provincia di Matera, il dott. Teubaldo Noschese, provveditore agli studi di Matera. Una scuola prestigiosa,
dicevamo: in quelle aule vi insegnò il neolaureato Giovanni Pascoli, dal
1882 al 1884, e da esse uscirono filologi come Nicola Festa, critici come
Giuseppe De Robertis, poeti come Rocco Scotellaro. Presentiamo l’indice
del volume, contenente numerosi saggi, con collaborazioni di prestigio:
I cento anni del liceo “Duni” di Matera, studi e testimonianze
INDICE
PREMESSA
Presentazione
L’augurio del Provveditore agli studi
PROLOGO
GIUSEPPE DE ROBERTIS, Saluto a Matera
PARTE PRIMA: IL LICEO TRA LA STORIA E I RICORDI (pp. 19-71)
RAFFAELE GIURA LONGO, Le origini del Liceo «E. Duni» e la sua funzione nella Società materana
GIUSEPPE BRUNO, Il Liceo «Duni», oggi
GIUSEPPE LIPPARINI, Pascoli a Matera
LUIGI LOPERFIDO, Tipi e macchiette del «Duni»
NICOLA TORTORELLI, Dolce richiamo
GIAMBATTISTA SALINARI, Matera e il suo Liceo tra il 1919 e il 1923
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NICOLA SERRAVEZZA, Spunti e ricordi
ANTONIO DEL SALVATORE, Il Liceo «Duni» nel ricordo di un vecchio alunno
GIUSEPPE GIANNOTTA, L’aria di allora
ANDREA GUARINI, Il «Duni» tra il 1931 e il 1939
PARTE SECONDA: I MAESTRI E GLI ALLIEVI (pp. 73-141)
ROCCO MONTANO, Commemorazione di Giovanni Pascoli
[RAFFAELE SARRA], Vincenzo D’Addozio
MAURO PADULA, Arcangelo Ghisleri
FELICE GINO LO PORTO, Domenico Ridola e la paletnologia del Materano
EMANUELE PIZZILLI, Domenico Ridola nella vita politica dei primi anni del 900
MAURO PADULA, Raffaele Sarra
VINCENZO LAPICCIRELLA, Nicola Festa
EUFEMIA D’ERARIO, Giuseppe De Robertis
BENITO URAGO, Rocco Scotellaro
GIUSEPPE BRUNO, Marcello Bonacchi
PARTE TERZA: SAGGI (pp. 143-287)
E. PAOLO LAMANNA, Il mio spiritualismo
GIUSEPPE DE ROBERTIS, «Alle fonti del Clitunno» di Giosuè Carducci
GIOVANNI B. BRONZINI, Forme, aspetti e problemi della drammatica popolare italiana
BENITO URAGO, A proposito della vita di Dante scritta dal montalbanese F. Lo Monaco
DANIELE BOLLETTIERI, Alcune considerazioni sui difetti di vista del Leopardi
PIETRO LEONE, Tzetziana
EUSTACHIO TORTORELLI, L’aritmogeometria pitagorica e il «canone» di Policleto
EUFEMIA D’ERARIO, La servitù medioevale nei monasteri della Campania (secc. IX-XIII)
DOMENICO ROBERTI, Alcuni aspetti della socialità negli insetti
APPENDICI
Celebrazioni pascoliane
Maestri ed allievi nell’anno 1964-1965
Collaboratori
7. Storia dell’Istituto. Il taglio storico appare più netto in quei volumi
che si propongono di ripercorrere, attraverso la raccolta delle più diverse
fonti di documentazione, la storia di un istituto scolastico, dalle sue origini
ai nostri giorni. Ma la ricostruzione della storia di una scuola va ben al di là
della nuda cronaca, per offrire al lettore uno spaccato della vita scolastica,
con le lezioni e gli aneddoti di professori che sono rimasti nella memoria di
generazioni di studenti, le amicizie fiorite tra i banchi di scuola, le prime
emozioni e turbamenti delle esperienze sentimentali, le turbolenze della
contestazione e delle lotte politiche. Tutto ciò che è indissolubilmente
legato all’atmosfera di epoche che si succedevano rapide con il portato di
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novità destinate a cambiare la mentalità e il costume degli italiani, si coglie
riflesso nella storia di un liceo come il Tasso, alla cui storia l’associazione
“Amici del Tasso” ha dedicato un corposo e ricco volume, Un liceo per la
Capitale. Storia del liceo Tasso (1887-2000), a cura di Filippo Mazzonis,
Libreria Editrice Viella, Roma 2005, rist. Diviso in tre parti (Parte prima:
la storia, Parte seconda: le immagini, Parte terza: le testimonianze), il
volume nella scansione della storia del prestigioso liceo romano, tra i cui
banchi sono cresciute personalità di prim’ordine della cultura, della politica,
dell’informazione, dello spettacolo,33 ne ripercorre le vicende presentando
numerosissime testimonianze e aneddoti che dimostrano la fedeltà, pur
nelle vicissitudini dei tempi, a un’alta tradizione di cultura e impegno
formativo (si veda, per un significativo esempio, la gustosa rievocazione
di Vittorio Gassman, ricavata dalla sua autobiografia Un grande avvenire
dietro le spalle, Longanesi & C., Milano 1981).
Anche per il nostro Liceo Orazio si potrebbe progettare una pubblicazione analoga, ossia un volume che rievochi la storia della scuola, dalla sua
fondazione ai nostri giorni. Occorrerebbe rintracciare gli ex allievi, raccogliere da loro testimonianze e aneddoti sui loro compagni, sui professori e
sui presidi che hanno diretto la scuola. Naturalmente anche gli ex presidi e
gli ex docenti potrebbero essere invitati a fornire loro contributi sulle esperienze vissute al Liceo Orazio. Occorrerebbe poi anche un capillare lavoro
di ricerca e documentazione: molto materiale potrebbe fornirlo l’archivio
della segreteria, che dovrebbe conservare i vecchi registri di classe e i verbali delle riunioni degli organi collegiali, attraverso cui ricostruire le decisioni che hanno segnato la vita della scuola e le linee di politica scolastica
messe in atto dalle varie dirigenze. Ma una buona fonte di documentazione
potrebbe essere costituita anche dai volantini politici che venivano (e vengono) distribuiti davanti al cancello della scuola: i volantini delle più diverse tendenze politiche contengono, a saperli ben leggere e interpretare,
una straordinaria messe di informazioni con le quali ricostruire i momenti
salienti delle vicissitudini all’interno della scuola. Un’ultima – ma non
meno importante e preziosa delle altre – raccolta di notizie potrebbe prove-
33 Basti citare i nomi di Giulio Andreotti, Vittorio Gassman, Luigi Squarzina, Carlo Cassola,
Bruno Zevi, Paolo Alatri, Ruggero Zangrandi, Vittorio Bachelet, fino agli odierni uomini politici
Veltroni, Gasparri e Tajani. Mussolini scelse il Tasso per i propri figli Bruno, Vittorio e Romano,
ma, paradossalmente, il liceo divenne luogo di formazione delle coscienze di giovani che sarebbero poi stati esempio dei valori democratici e antifascisti, come Alfredo Reichlin e Luigi Pintor.
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nire dai giornalini scolastici che nel tempo si sono succeduti: numeri che,
nella continuità della loro pubblicazione frutto dell’encomiabile sforzo di
pochi valorosi studenti, sono impregnati del clima che si respirava nella
scuola e nel territorio, e testimoniano l’evoluzione delle mode e della mentalità giovanile, assai meglio di una indagine sociologica.
8. Testi scolastici. Questo è il punto, a nostro giudizio, più ambizioso e
innovativo di un progetto di autoeditoria scolastica: la elaborazione di veri e
propri testi scolastici, da utilizzare in classe con i propri studenti affiancando i testi in adozione. Quando noi docenti vogliamo fare un approfondimento, in genere ci procuriamo i brani di saggistica o le letture da presentare agli studenti e le forniamo loro in fotocopie. Perché non raccogliere e
ordinare queste pagine in pubblicazioni, corredandoli da introduzioni e note
esplicative, come vere e proprie dispense o testi di supporto da affiancare al
manuale? Il lavoro di un docente, che sempre sta a monte dietro la ricerca e
la scelta di pagine di saggi e testi oltre il manuale per approfondire un dato
argomento del programma curricolare, sarebbe reso meno precario e
avrebbe una forma editoriale tale da poter essere riutilizzabile anche in seguito da lui o da altri colleghi, interessati magari allo stesso percorso di approfondimento. Sarebbe prematuro, poi, pensare alla elaborazione di manuali delle materie curricolari? I professori, da singoli o, meglio ancora, associati (per classi parallele o per singole sezioni), potrebbero produrre manuali di letteratura italiana, latina, greca, e delle altre letterature moderne, e
ancora antologie di testi letterari. Oppure testi di grammatica ed esercizi di
lingua, per il biennio. I volumi prodotti sarebbero poi distribuiti agli studenti gratuitamente o a prezzo assai contenuto (ad esempio, 10 euro), a parziale copertura delle spese di stampa. Se questo progetto appare (come in
effetti è) alquanto utopistico, i docenti potrebbero almeno mettere in comune le loro competenze per realizzare testi complementari rispetto a quelli
in uso. In questo modo si raggiungerebbero almeno quattro risultati, a mio
giudizio, positivi:
• la scuola stessa realizzerebbe l’autoproduzione del sapere e degli
strumenti del sapere (quali sono, per eccellenza, i manuali scolastici);
• i docenti avrebbero a disposizione un manuale unico o più testi in
comune, rendendo così i programmi e le valutazioni più omogenei;
• inoltre potrebbero meglio verificare i loro saperi e realizzare una costante pratica di autoaggiornamento sulle discipline che insegnano;
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• le famiglie, a fronte di un contributo scolastico sempre oggetto di
discussione (a torto o a ragione), riceverebbero i testi di studio per i
loro figli direttamente dalla scuola e non dovrebbero più sostenere
l’onere di una spesa talvolta esorbitante.
Come realizzare un progetto di pubblicazione scolastica? Enucleiamo di
seguito le fasi del lavoro. Anzitutto, bisognerebbe stabilire se il progetto
debba essere realizzato da un singolo o da un apposito comitato di redazione. Poi occorre scandire nel tempo le fasi di lavoro, che può essere compiuto in uno o più anni scolastici successivi, secondo una tabella, come
quella che, ad esempio, riportiamo di seguito: 1) avviso ai docenti, tramite
apposita circolare, della iniziativa di pubblicazione; 2) consegna al responsabile o al comitato di redazione, entro un tempo prestabilito, dei contributi
da pubblicare; 3) uniformizzazione elettronica dei testi e preparazione dell’indice; 4) consegna dei testi al tipografo per la composizione elettronica;
5) stampa e correzione delle prime bozze; 6) eventuale correzione delle seconde bozze; 7) revisione finale delle bozze pronte per la stampa (in tipografia, ad opera del responsabile e del tipografo); 8) pubblicazione e distribuzione del volume ai docenti e agli studenti; 9) relazione finale.
Naturalmente, per realizzare un ambizioso e impegnativo progetto di
autoeditoria come quello che sopra ho cercato di delineare, occorre molta
competenza e buona volontà da parte dei docenti, e soprattutto la possibilità
di disporre di fondi adeguati.
Per quanto riguarda l’impegno e la buona volontà dei docenti, osservo
che molti colleghi, giovani e non, freschi di studi universitari, perfezionati,
specializzati, provvisti di master e/o dottorato di ricerca, hanno agio di continuare i loro studi e di pubblicare i loro articoli nelle riviste scientifiche,
quelle di più alto prestigio, che, fra l’altro, danno titolo per accedere ai concorsi universitari. Ma perché non dovrebbero generosamente concedere un
qualche contributo estratto dal loro lavoro, oltre che a riviste specialistiche
e prestigiose, anche a una pubblicazione dell’istituto, per quanto ben più
modesta? Sarebbe un modo per mettere a parte i colleghi dei loro interessi e
delle loro competenze, offrendo l’opportunità di trovare stimoli e interessi
per arricchire le proprie conoscenze e, quindi, per trarre una benefica ricaduta sulla didattica, sui contenuti delle lezioni.
Inoltre tra gli elementi del nuovo profilo dello status di insegnante nella
scuola dell’autonomia figura quello, irrinunciabile, delle conoscenze su cui
costruire la propria professionalità. L’insegnante deve o dovrebbe avere
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una padronanza competente dei contenuti della propria disciplina, acquisita
possibilmente attraverso un’attività di ricerca.34 Orbene, questa ricerca, se
non può svolgersi in un corso universitario post lauream, non potrebbe
effettuarsi nell’ambito di una pubblicazione destinata a vedere la luce nella
scuola?
Infine, se la scuola fosse sempre estranea a qualsiasi idea di autoeditoria
scolastica si avrebbe, fra l’altro, questa paradossale situazione: gli studenti
avrebbero assicurata la possibilità di far sentire la loro voce nei giornalini
scolastici, che in ogni scuola non mancano mai (da quelli ciclostilati a quelli
su carta patinata), mentre i docenti non avrebbero i mezzi per esprimere la
loro presenza, in termini di produzione culturale, nella scuola.
L’ultima riflessione è, forse, quella meno ottimistica. Le casse delle
scuole raramente sono state pingui e oggi siamo in tempi di magra: i tagli ai
fondi fanno avvertire i loro effetti un po’ in tutti i settori. D’altra parte si
tratta di scelte politiche, che non vogliamo in questa sede mettere in discussione, pur considerando che immaginare una scuola pubblica di qualità
senza provvederla di consistenti risorse finanziarie risulta alla fine improvvido e velleitario.
La voce dell’editoria dovrebbe, anzi, entrare permanentemente nel
bilancio scolastico. Ma forse i miei sono soltanto desideri utopistici, sogni
destinati magari ad avverarsi in un ipotetico futuro, più o meno lontano.
Tornando perciò alle considerazioni iniziali, a proposito del sogno che mi
affascina e che spererei veder realizzato un giorno, concludo prendendo a
prestito e parafrasando le parole che un grande Idealista (molto più grande,
ovviamente, del sottoscritto), Martin Luther King, rivolse alle migliaia di
fratelli neri, in lotta per un avvenire migliore:
Io ho un sogno, che un giorno questi progetti diventeranno realtà, che
un giorno collaboreremo insieme per realizzare le nostre pubblicazioni.
Io ho un sogno, che un giorno le difficoltà, le diffidenze, le tortuosità
che ostacolano questi progetti saranno finalmente appianate.
Con questo sogno potremo cavare dalla montagna della rassegnazione,
dell’indifferenza, del disincanto, una pietra di speranza con cui costruire
una scuola più bella, più ricca, più affascinante.
34 “L’insegnante deve avere una padronanza competente di tali contenuti e dei metodi e paradigmi scientifici ad essi collegati, possibilmente acquisita attraverso un’esperienza di ricerca”, in
Associazione TreeLLLe, Quali insegnanti per la scuola dell’autonomia?, Quaderno n. 4, luglio
20042, p. 96.
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Con questo sogno potremo trasformare le stridenti discordanze che ci
dividono in una bellissima sinfonia di fraternità.
Con questo sogno potremo lavorare insieme, sapendo che per ciò che
noi faremo i nostri studenti un giorno ci ringrazieranno.35
35 Le parole sono tratte, com’è ben chiaro, dal celebre discorso di Martin Luther King, “I have
a dream”, tenuto in occasione della marcia su Washington il 28 agosto 1963 (da Martin Luther
King, Autobiografia, a cura di Clayborne Carson, edizione speciale per Famiglia Cristiana, su
lic. Mondadori, Milano 2001, p. 229).
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ADRIANA DE NICHILO
Appunti di un viaggio
nella memoria
Camminiamo. Stretti gli uni agli altri, camminiamo. Per essere così numerosi, c’è poco rumore; solo i nostri passi pesanti sui ciottoli del sentiero
che altri hanno calpestato prima di noi. Camminiamo, silenziosi. Al centro
del grande gruppo i sopravvissuti, ai quali, quasi istintivamente, ci stringiamo, per sospingerli, sostenerli con il nostro bisogno di vedere, conoscere, costatare con mano, testimoniare. Siamo a Birkenau. È una giornata singolarmente soleggiata, serena, sebbene sia novembre. Nonostante i prati erbosi ed
il pallido sole, il campo di sterminio appare ugualmente desolato, spettrale,
posto nel nulla.
Le sorelle Andra e Tatiana Bucci ricordano che questa strada che stiamo
ora percorrendo, ai loro piccoli passi di bambine, apparve interminabile. Forse sono circa ottocento metri, ma anche alle mie gambe essi sembrano lunghi
e faticosi. Camminiamo, spalla a spalla, in folto e silenzioso gruppo, già pervasi dall’orrore di ciò che stiamo per vedere: visto mille volte, ma mai così
orribile come ora ci appare.
Abbiamo già sostato a fianco dei binari che portavano i deportati verso la
morte, abbiamo già visto i vagoni che traghettavano gli innocenti verso l’annientamento, abbiamo già pianto sulla Judenrampe che destinava alla morte
le vittime della barbarie: questa è la Shoah, ci spiega il professor Pezzetti.
Ed ora camminiamo, in cinquecento, silenziosi: ripercorriamo la strada
dei “salvati”.
Il percorso è lungo anche per noi che non usciamo da vagoni piombati,
dopo un viaggio durato interminabili giorni, senza acqua né cibo né aria, senza sapere dove si è diretti né perché. Ho le gambe pesanti e la strada è lunga
anche per chi la ripercorre senza paura, senza angoscia, senza sofferenza. La
pena è, però, nel cuore che rivive l’orrore, lo sperimenta “materialmente” e
spiritualmente.
Ecco l’ingresso al lager. Proprio come nei filmati e nelle fotografie.
Ma nel vuoto, nel nulla circostante, esso appare di gran lunga più sinistro.
Varchiamo quella tragica soglia e davanti ai nostri occhi si apre una landa
immensa e senza confini, solitaria. Eppure c’è il sole, non fa freddo, non c’è
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neve, c’è l’erba verde nei prati, non c’è fango e delle baracche restano solo
innumerevoli camini di mattoni.
Camminiamo: a destra alcune baracche di legno (la quarantena maschile),
latrine con cento fori indecenti allineati, e poi tavolacci sconnessi per letto:
ogni baracca poteva contenere fino a mille deportati.
A sinistra caseggiati in mattoni: il campo delle donne e dei bambini.
Anche qui tavolacci sovrapposti gli uni sugli altri per precario giaciglio.
In fondo le camere a gas distrutte dai nazisti prima dell’arrivo dell’armata
russa.
I sopravvissuti parlano, raccontano con voce rotta e spesso flebile: il
nostro grande gruppo si stringe a loro in commosso ascolto. Camminiamo:
questo luogo è sconfinato; il vento soffia ed il sole è ora coperto da una livida
nuvola.
Entriamo nella ZentralSauna: una ragazza sviene: sarà la stanchezza o
l’angoscia? È subito soccorsa dal medico che accompagna coloro che hanno
aderito al “Viaggio nella memoria” promosso dal Comune di Roma.
Come non svenire vedendo le misere cose esposte nelle bacheche? Pettini, scarpe, pennelli da barba, valige, guantini. Nella “Sauna” i deportati
venivano lavati, disinfettati, tatuati ed avviati alla vita del campo: loro erano i
sopravvissuti alla prima selvaggia selezione, che avveniva subito dopo la discesa dai treni per essere inviati immediatamente alle camere a gas: la Shoah.
“Son morto ch’ero bambino,
Son morto con altri cento,
Passato per un camino
Ed ora sono nel vento...
Ad Auschwitz c’era la neve
e il fumo saliva lento.
Nei campi tante persone
che ora sono nel vento”.
Queste parole di Francesco Guccini cantava con lievi varianti “L’Equipe
84” quando ero poco più che una bambina e, forse, anche quella loro canzone ha attirato la mia attenzione sul dramma dello sterminio fin da quand’ero
giovanissima.
Però, solo oggi, che sono qui con i miei alunni ed altri numerosi studenti romani, ho la sensazione di capire veramente, di rivivere per davvero la tragedia per eccellenza del ’900.
Si ha l’impressione di toccare con le proprie mani l’essenza del male.
Anch’io sento aleggiare in questi luoghi Satana, l’incarnazione del male as– 64 –
soluto, l’Anticristo. È vano fare appello alla ragione, alle conoscenze storiche, alla necessità di comprendere e interpretare: il razionalismo qui naufraga e si percepisce solo l’alito pestifero della malvagità assoluta. Prende alla
gola, assedia, riempie di contrizione, spinge a chiedersi se abbia mai provato pentimento chi non ha saputo o voluto fermare l’orrore di cui siamo, comunque, tutti corresponsabili, fosse solo perché siamo esseri “umani”.
Si compiono i riti espiatori di una colpa che non potrà mai essere cancellata: canti, preghiere, discorsi, suoni di corni, corone. Si tenta di esorcizzare il male, la cui presenza è qui tangibile a mostrare cosa possa la belva
umana. Anch’io sono profondamente assorta nei miei pensieri.
Camminiamo. Ci aspetta il nostro pullman gran turismo, assai confortevole, che ci porta ad Auschwitz.
Anche noi muti passiamo sotto la famigerata scritta: “Arbeit macht frei”.
Il luogo, un’ex-caserma polacca requisita dai nazisti e trasformata in prigione e campo di concentramento, è meno derelitto di Birkenau. Qui sono allineati ordinatamente numerosi edifici in muratura, in mattoni rosso scuro, solidi ed arcigni, cupi. Il complesso può apparire quasi un villaggio, a prima vista. Ma cala una notte fonda e senza stelle, rischiarata dalla tenue luce di pochi lampioni. Ci aggiriamo come spettri per quelle anonime strade perpendicolari senz’anima né cuore ed entriamo negli edifici.
Qui le prigioni, qui il “tribunale”; qui il muro della morte, qui la cella di
Padre Kolbe, lì la forca, e poi le celle di punizione, le camere a gas e i forni
crematori... Mille i modi per dare la morte.
Iniziamo, di blocco in blocco, il mesto pellegrinaggio tra le teche che
conservano ceneri, montagne di capelli, di scarpe, di valige, di arti artificiali, di oggetti innumerevoli, testimoni inoppugnabili di ciò che fu.
“Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo...”
I versi di Primo Levi martellano nella mia mente. Solo ora credo di capire fino in fondo Se questo è un uomo; solo grazie a quel libro amatissimo,
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letto e riletto, le baracche, il filo spinato, gli spazi senza fine si animano, si
popolano di larve umane che continuano a fissarci al di là del tempo, mentre
le nostre impeccabili guide seguitano a parlare e a spiegare.
Camminiamo, silenziosi. Siamo un gruppo folto, ma nulla in confronto
ai milioni di derelitti che allora andarono senza sosta verso il nulla, di nulla
colpevoli.
L’undici di novembre ci accoglie una città di Cracovia radiosa. L’aria
pungente è resa gradevole dal calore del sole. Oggi la Polonia celebra la
sua festa nazionale, che coincide con la fine del primo conflitto mondiale,
quando il Paese conquistò la sua indipendenza.
Per la città si aggirano gruppi di persone che indossano abiti tradizionali e divise della prima guerra mondiale. L’atmosfera è festosa e passeggiamo
compiaciuti per le piacevoli vie del centro storico, sulla collina del castello di
Wawel, nella Piazza del Mercato.
Mentre numerose carrozze trainate da cavalli attraversano tintinnando le
vie della città, sorbiamo un caffè bollente in uno dei locali all’aperto che punteggiano la grande piazza.
Entriamo nella imponente chiesa di Santa Maria per un breve incontro
con l’arcivescovo Dziwisz e per ammirare lo spettacolare altare maggiore
ligneo, opera, a fine ’400, di Veit Stoss: un vero capolavoro.
Indubbiamente la vita continua, anche per la nazione polacca che ha
pagato alla follia dello sterminio un contributo di tre milioni di ebrei. Il sole
splende sulle memorie del passato e sulle ceneri della follia omicida.
Sono le ore 18 del 23 dicembre. Siamo a Roma, al Portico d’Ottavia per
il rito dell’accensione della Channuchà: il candelabro ebraico.
Il cielo è finalmente limpido, ma soffia un penetrante vento di tramontana.
L’atmosfera è gioiosa: un coro di bambini intona un canto ed un gruppo
di graziose fanciulle intreccia una danza tipica. Gustiamo una deliziosa ciambella fritta e zuccherata, ricolma di crema.
Senza dubbio la vita continua.
In questo momento di serena partecipazione alla festività ebraica ignoriamo che di nuovo, tra poche ore, infurierà la guerra tra Israeliani e Palestinesi, col suo tremendo bilancio di morti, feriti e disperazione.
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“Ancora tuona il cannone,
Ancora non è contenta
Di sangue la belva umana
E ancora ci porta il vento,
E ancora ci porta il vento”.
Parole scritte da Francesco Guccini per un altro conflitto, ma sempre
amaramente attuali.
In questa fredda serata dicembrina viviamo un momento di gioia, quella
gioia che speriamo possa un giorno avere la meglio sul lutto, sulla morte, sul
dolore, sul male che sembrano continuamente assediare il destino del genere
umano. Al Portico d’Ottavia, antico cuore della città di Roma, sono presenti
molti giovani: è consolatorio riporre in loro le nostre speranze di un futuro
migliore.
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ANNA MARIA ROBUSTELLI
Che farò
senza Euridice? 1
a Lea
Mito
Molto dopo, Edipo, vecchio e cieco, andava per le strade. Sentì un odore
familiare. Era la Sfinge. Edipo disse: “Ti voglio fare una domanda.
Perché non ho riconosciuto mia madre?” “Hai dato la risposta
sbagliata”, disse la Sfinge. “Ma quella è stata la risposta che ha fatto
accadere tutto”, disse Edipo. “No”, lei disse. “Quando ho chiesto, Che
cosa cammina su quattro gambe di mattina, su due a mezzogiorno, e su
tre di sera, hai risposto, l’Uomo. Non hai detto niente della donna”.
“Quando dici l’Uomo”, disse Edipo, “includi anche le donne. Tutti lo
sanno”. Lei disse, “Questo è quello che pensi tu”.
Muriel Rukeyser 2
L’aria dell’opera di Gluck coglie il famoso cantore nel momento della
perdita dell’amata per la seconda volta. Incerto che lei lo stesse seguendo
fuori dagli Inferi, lui si volta per accertare la sua presenza ma, così facendo,
contraddice al patto con gli dei dell’Ade di non voltarsi mai a guardarla,
pena la perdita. L’opera, in realtà, con l’intervento di Amore, avrà un lieto
fine: la restituzione dell’amata da parte degli dei a Orfeo, ma nelle Metamorfosi di Ovidio, in cui il mito viene presentato, l’esito è diverso:
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: subito lei svanì nell’Averno;
È la famosa aria dell’opera “Orfeo e Euridice” di C.W. Gluck, con libretto di R. de Calzabigi.
Che farò senza Euridice!
Dove andrò senza il mio ben!
Euridice? Oh Dio! Rispondi:
io son pure il tuo fedel.
Euridice! Ah, non m’avanza
più soccorso, più speranza
né al mondo, né dal ciel.
Che farò senza Euridice!
Dove andrò senza il mio ben!
2 La traduzione della poesia della poetessa americana è di Anna Maria Robustelli.
1
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cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimé, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.3
La nostra attenzione si volge all’atteggiamento di Euridice nel momento
in cui è ricacciata nell’Ade: “Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole
di rimprovero (di che cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere
amata?); ...”. L’amore profuso su di lei dal cantore è sufficiente a giustificarne l’imperdonabile errore. Qui Euridice si dimostra molto generosa. Il suo
personaggio è come tutto contenuto nello sguardo del suo creatore Orfeo e
lei niente più può chiedere agli dei o al suo amante.
Un po’ più esasperata appariva una precedente Euridice, quella che dal
Libro IV delle Georgiche di Virgilio, lamentava:
... ‘Ahimé, Orfeo, chi ci ha perduti?
quale follia? Senza pietà il destino indietro mi richiama
e un sonno vela di morte i miei occhi smarriti.
E ora addio: intorno una notte fonda mi assorbe
e a te, non più tua, inerti tendo le mani’.
Disse e d’improvviso svanì nel nulla,
come fumo che si dissolve alla brezza dell’aria,
e non poté vederlo
mentre con la voglia inesausta di parlarle
abbracciava invano le ombre;
ma il nocchiero dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.4
ma, dopo tutto, proiettata già in una dimensione di rassegnazione.
Per tutti Orfeo rimane il cantore/poeta per antonomasia. Le Muse gli
hanno insegnato a suonare la lira, che ha avuto da Apollo. Con le sue parole
e la sua musica ha incantato Euridice e con la sua arte la riconquista, commuovendo i tetri dei dell’Ade. Ma solo per poco. Anche dopo averla perduta, continuerà a cantarla e, dopo essere stato fatto a pezzi dalle Menadi, la
sua testa galleggerà sulle onde dell’Ebro ripetendo “Euridice”:
E/ lungo tutto il fiume/ le rive ripetevano ‘Euridice’.5
Ovidio, Metamorfosi, Canto X. In www.fabulaorphica.com, nome del traduttore non indicato.
Virgilio, Georgiche, libro IV. Traduzione di Mario Ramous.
5 Virgilio, ibidem.
3
4
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Sostanzialmente questo mito rappresenta un’affermazione dell’eternità
dell’arte di fronte alla morte. Il cantare l’amore per Euridice resta anche
dopo che l’amata è inghiottita di nuovo dalle tenebre. Nell’antichità il personaggio di Euridice è appena sbozzato. A rendere la situazione più problematica ci penserà, secoli dopo, R.M. Rilke6 che nel suo poemetto Orfeo.
Euridice. Hermes. si sofferma più a lungo sul personaggio femminile caricandolo di nuove implicazioni. Il poeta austriaco la descrive “incerta, mite e
senza impazienza; chiusa in sé” (questa definizione è ripetuta due volte).
Connotata da una “pienezza” che si esplica nel suo essere in successione
“frutto”, “fiore” e persino “radice”, è pregna del suo stato di morta, chiusa
nella sua nuova sessualità, che gli studiosi hanno riportato al mito di
Persefone, cioè hanno fatto risalire a una antica tradizione di fertilità.
Ma ella andava alla mano di quel dio,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza;
chiusa in sé come grembo che prepari una nascita,
senza un pensiero all’uomo innanzi a lei,
né alla via che alla vita risaliva.
Chiusa era in sé. E il suo essere morta
la riempiva come una pienezza.
Come d’oscurità e dolcezza un frutto,
Era colma della sua grande morte,
così nuova che tutto le era incomprensibile.
Ella era in una verginità nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera,
e le sue mani erano così immemori
di nozze che anche il dio che la guidava
col suo tocco infinitamente lieve,
come un contatto troppo familiare l’offendeva.
E non era più lei la bionda donna
che echeggiava talvolta nei canti del poeta,
isola profumata in mezzo all’ampio letto;
né più gli apparteneva.
Come una lunga chioma era già sciolta,
come pioggia caduta era diffusa,
come un raccolto in mille era divisa.
Ormai era radice.
Rilke è famoso anche per aver scritto i Sonetti ad Orfeo, ma in questa sede ci limiteremo
solo a fare una breve disanima del poemetto citato.
6
– 70 –
E quando il dio bruscamente
fermatala con voce di dolore,
esclamò: Si è voltato –,
lei non capì e in un soffio chiese: Chi?
Euridice ha rapporto con la terra (“come pioggia caduta era diffusa,/
come un raccolto in mille era divisa./ Ormai era radice.”). Nella descrizione
del paesaggio ctonio dell’inizio del brano poetico (“Rupi c’erano,/ selve
incorporee e ponti sul vuoto/ e quell’enorme, grigio, cieco stagno,/ sospeso
sopra il suo lontano fondo/ come cielo piovoso su un paesaggio./ E in mezzo
a prati miti di pazienza,/ pallida striscia, un unico sentiero era visibile/ come
una lunga tela distesa ad imbiancare.// E per quest’unico sentiero essi venivano.”7) e nell’intensità con cui Euridice si relaziona a quel mondo, Rilke
cerca di rappresentare quello che di fatto è irrappresentabile, la dimora dei
morti, che è anche, sulle tracce del mito, il luogo dove le sementi si conservano prima di emergere in una nuova primavera. Chiusa in se stessa, Euridice si compenetra di questo momento e sembra seguire il poeta fuori dall’oscurità. Tenuta per mano da Hermes si trova in uno stato di distrazione,
tanto che quando il dio l’avverte che Orfeo “Si è voltato –” lei chiede
“Chi?”. Pur essendo passiva nei confronti di Orfeo, quindi morta per lui,
porta con sé i segni di una nuova fertilità, la promessa di una nuova nascita.
Rilke racconta la storia dal suo punto di vista, così capovolgendo i presupposti del mito antico. L’attenzione è concentrata su di lei, che non interagisce
con Orfeo, ma permette che il lettore sappia della sua interiorità, arrivando a
farci percepire l’alterità e l’inattingibilità dei morti e della morte.
All’inizio del Novecento Euridice troverà ancora una parola vibrante
nel poemetto Eurydice di H.D. (Hilda Dolittle). La narrazione in prima
persona ricalca il monologo di R. Browning che pure aveva dato voce a
un’altra Euridice nell’età vittoriana. Questa volta la protagonista femminile
del mito si dimostra arrabbiata quando Orfeo si volta a guardarla e la
ricaccia nell’Ade:
I
Così mi hai ricacciato indietro,
io che ho camminato con le anime vive
sulla terra,
io che ho dormito tra i fiori vivi
finalmente;
7
Op. cit.
– 71 –
così per la tua arroganza
e la tua crudeltà
sono ricacciata indietro
dove i licheni morti sgocciolano
polveri morte sul muschio di cenere;
così per la tua arroganza
sono distrutta alla fine,
io che avevo vissuto inconsapevole,
che ero quasi dimenticata;
se tu mi avessi lasciata aspettare
ero passata dall’indifferenza alla pace,
se tu mi avessi lasciata riposare con i morti,
avevo dimenticato te
e il passato.8
Gli studiosi hanno notato che questo personaggio incanala tutta la
rabbia di una scrittrice che viveva in un ambiente popolato di ingombranti
presenze maschili, quello degli Imagisti del primo Novecento: E. Pound,
D.H. Lawrence e il suo stesso marito infedele Richard Aldington, che era un
poeta e che era stato suo mentore. Queste figure avevano una personalità
prorompente e dettavano le loro regole, forti di una tradizione letteraria che
non aveva mai messo in dubbio la posizione egemonica dell’artista maschio
nella società. Euridice chiede a Orfeo: “Che cos’era che hai visto nel mio
viso?/ la luce del tuo stesso viso,/ il fuoco della tua stessa presenza?”,9 cioè
rimprovera a Orfeo di aver visto solo se stesso in lei. In tal modo la scrittrice mina l’egocentrismo classico dell’artista che ha sempre proposto un
rapporto da soggetto a oggetto nei confronti della donna amata e cantata nei
versi. Questo tipo di “sguardo” perde chi è guardato, perché ne annulla la
personalità, quindi è uno sguardo mortifero:
So you have swept me back,/ I who had walked with the live souls/ above the earth,/
I who have slept among the live flowers/at last;// so for your arrogance/ and your ruthlessness/
I am swept back/ where dead lichens drip/ dead cinders upon moss of ash;// so for your arrogance/ I am broken at last,/ I who had lived unconscious,/ who was almost forgot;// if you had
let me wait/ I had grown from listlessness into peace,/ if you had let me rest with the dead,/ I had
forgot you/ and the past. H. Sword, “Orpheus and Eurydice in the Twentieth Century: Lawrence,
H.D: and the Poetics of the Turn,” Twentieth Century Literature, 35:4 (Winter 1989). Trad. di
Anna Maria Robustelli, così come per tutti i brani poetici, eccetto dove è indicato un traduttore
diverso.
9 what was it you saw in my face?/ the light of your own face,/ the fire of your own presence? Ibidem.
8
– 72 –
...
tutto è perduto,
tutto è attraversato dal nero,
nero su nero
e peggio del nero,
questa luce senza colore.10
...
V
Così per la tua arroganza
e la tua crudeltà
ho perduto la terra
e i fiori della terra,
e le anime vive sopra la terra,
e tu che hai attraversato la luce
e l’hai raggiunta
crudele;
tu che hai la tua luce,
che costituisci per te stesso una presenza,
che non hai bisogno di presenza;11
...
Tutto il poema è un manifesto contro questa idea dell’arte che riduce
l’oggetto del guardare. L’artista non possiede la luce che illumina l’oggetto,
ma è lui stesso qualcosa che è illuminato dall’arte, come afferma con molta
chiarezza Margaret Bruzelius: “L’errore di Orfeo è di rendere Euridice
una cosa – la uccide – per fare la sua arte”.12 Questa visione dell’arte è
stata esemplificata anche ne The Oval Portrait di E.A. Poe in maniera
molto convincente. A tale onnipotenza dello sguardo maschile dell’artista
H.D. si oppone con caparbietà nel corso del suo poema. Più in là Euridice
afferma:
10 everything is lost,/ everything is crossed with black,/ black upon black,/ and worse than
black,/ this colourless light. Ibidem.
11 So for your arrogance/ and your ruthlessness/ I have lost the earth/ and the flowers of
the earth,/ and the live souls above the earth,/ and you who passed across the light/ and reached/
ruthless;// you who have your own light,/ who are to yourself a presence,/ who need no presence;
...Ibidem.
12 M. Bruzelius, H.D. and Eurydice – woman author Hilda Dolittle: mythologic character.
Saggio trovato su Internet.
– 73 –
tale perdita [del mondo] non è una perdita,
tale terrore, tali spirali e lidi e abissi
di oscurità
tale terrore
non è una perdita;
l’inferno non è peggio della tua terra
sopra la terra,
l’inferno non è peggio,
no, né lo sono i tuoi fiori
né le tue vene di luce
né la tua presenza,
sono una perdita;
il mio inferno non è peggio del tuo
sebbene tu passi tra i fiori e parli
con gli spiriti sopra la terra.
VI
Sullo sfondo nero
ho più passione
di te in tutto lo splendore di quel luogo,
sullo sfondo oscuro
e il grigio desolato
io ho più luce;
e i fiori,
se te lo dovessi dire,
ti volgeresti dai tuoi sentieri sani
verso l’inferno,
volgiti ancora e guarda ancora
e io sprofonderò in un posto persino più terribile di questo.
VII
Almeno io ho i fiori di me stessa,
e i miei pensieri, nessun dio
me li può prendere;
ho la passione di me stessa come presenza
e il mio spirito per luce;
e il mio spirito con la sua perdita
lo sa;
sebbene sia piccola sullo sfondo nero,
piccola sullo sfondo delle rocce senza forma,
l’inferno si deve spaccare prima che io sia perduta;
prima che io sia perduta,
l’inferno si deve aprire come una rosa rossa
perché i morti passino.13
– 74 –
Il senso di sfida con cui H.D. sceglie l’inferno alla terra, che il suo sedicente amante le ha precluso, non può non ricordarci le parole frementi del
Satana di Milton nel Paradiso Perduto. La parola “at least” è presente là
come in questi più moderni versi:
Here at least/We shall be free; ...
Anche quella di Euridice è una dichiarazione spavalda come quella di
Satana:
Better to reign in Hell, than serve in Heaven.
La sua dichiarazione potrebbe essere compendiata in queste parole:
meglio essere un soggetto vivo e parlante nell’inferno che un oggetto sulla
terra. Esistono gli stessi riferimenti alla luce e all’oscurità del brano del
poeta epico inglese del Seicento, lo stesso orgoglio riguardo al proprio
valore. Satana era fiero della propria mente, della sua capacità di pensare,
della sua libertà. Non gli è da meno Euridice quando afferma:
almeno io ho i fiori di me stessa,
e i miei pensieri, nessun dio
me li può prendere;
L’Inconsolabile Orfeo di Cesare Pavese dei Dialoghi con Leucò rivive
il mito consapevole, come Rilke che il mondo dei morti lascia le sue tracce
perenni su chi l’ha sperimentato:
Orfeo. È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già
lontani Cocito, lo Stige, la barca, e i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume
del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscio del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e
avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò
13 such loss is no loss,/ such terror, such coils and strands and pitfalls/ of blackness/ such
terror/ is no loss;// hell is no worse than your earth/ above the earth,/ hell is no worse,/ no, nor
your flowers/ nor your veins of light/ nor your presence,/ a loss;/ my hell is no worse than yours/
though you pass among the flowers and speak/ with the spirits above the earth.// Against the
black/ I have more fervour/ than you in all the splendour of that place,/ against the blackness/ and
the stark grey// I have more light;// and the flowers/ if I should tell you,/ you would turn from
your own fit paths/ toward hell,/ turn again and glance back/ and I would sink into a place even
more terrible than this.// At least I have the flowers of myself,/ and my thoughts, no god/ can take
that;/ I have the fervour of myself for a presence/ and my own spirit for light;/ and my spirit with
its loss/ knows this;/ though small against the black,/ small against the formless rocks,/ hell must
break before I am lost;// before I am lost, hell must open like a red rose/ for the dead to pass.
Ibidem.
– 75 –
che è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta
sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo
traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di
rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia
finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto
un cigolio, come d’un topo che si salva.14
Bacca, l’interlocutore di Orfeo, vuole credere che c’entri il destino, che
ciò che è accaduto sia stato “per amore”, ma l’Orfeo di Pavese replica
secco che “Non si ama chi è morto”. Bacca incalza dicendo “Euridice era
quasi rinata”, ma Orfeo ribatte che sarebbe morta un’altra volta e nel frattempo avrebbe portato “nel sangue l’orrore dell’Ade” e avrebbe tremato
con lui “giorno e notte”. Riavvicinandosi alla luce Orfeo aveva capito che
quello che cercava era là, nella vita dei vivi dove l’unico passato che lui
poteva ancora vivere era nel “primo barlume di cielo” e deliberatamente si
era voltato. Spiega che cercava solo se stesso. La conoscenza del mondo
dei morti fa capire che non si può riconquistare quello che si è avuto, la
vita va avanti nel senso che si sanno cose che prima non si sapevano e
quindi non si può più essere ingenui. Anche qui torna ad essere disegnato
il panorama del regno dei morti che, al contrario che in Rilke, non ha
nessuna connotazione positiva, non è descritto con metafore che si rifanno
alla fecondità.
Nel tempo il mito di Orfeo e Euridice è stato capace di germogliare
nuove interpretazioni, che tutte attestano della sua vitalità e persistenza. Il
poeta americano Jack Spicer (1925-1965) ci presenta questo Orfeo:
Acuto come una freccia Orfeo
dirige la sua musica verso il basso.
L’inferno è là
in fondo alla scogliera.
Non si sana
niente con questa musica.
Euridice
è un uccello che segue i battelli o una roccia
o una qualche alga marina.
Non saluta niente
l’infernale
è un’umidità scivolosa verso l’orizzonte.
14
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Arnoldo Mondatori Editore, 1966.
– 76 –
L’inferno è questo:
la mancanza di tutto tranne l’eterno a cui guardare
l’ampiezza del salato
la mancanza di un letto tranne la propria
musica in cui dormire.15
Qui l’arte di Orfeo “sharp as an arrow”, sempre determinato a trovare la
sua Euridice, si scontra con la vastità abissale del mare che è forse l’inferno
in cui si è perduta la sua donna. Il mondo dei morti è “downward/a slippery
wetness”, è qualcosa che si esprime fondamentalmente al negativo.
Il poeta mitico non “sana” o “saluta” niente con la sua musica e ha a che
vedere con un inferno sfuggente. Ricompaiono, le aspirate (Heal/hail/hell)
usate da Milton nel suo Paradiso Perduto ad evocare l’abisso profondo.
Appare tracciata in questa versione del mito una vita senza appigli, a parte
quelli della propria arte:
The lack of any bed but one’s
Music to sleep in.
La scrittrice canadese Margaret Atwood ci ha regalato una serie di
poesie su Orfeo e Euridice che, inserendosi probabilmente nel solco tracciato da H.D., ci raccontano l’evento della discesa agli Inferi di Orfeo dal
punto di vista di Euridice:
Orfeo (1),
Mi camminavi davanti,
riportandomi ancora fuori
verso la luce verde che una volta
aveva tirato fuori gli artigli e mi aveva uccisa.
Ero obbediente, ma
muta, come un braccio
addormentato; il ritorno
al tempo non fu una scelta mia.16
15 Sharp as an arrow Orpheus/ Points his music downward./ Hell is there/ At the bottom of
the seacliff./ Heal/ nothing by this music./ Eurydice/ Is a frigade bird or a rock or some seaweed./
Hail nothing/ The infernal/ Is a slippering wetness out at the horizon./ Hell is this: The lack of
anything but the eternal to look at/ The expansiveness of salt/ The lack of any bed but one’s/
Music to sleep in. The Collected Poetry of Jack Spicer, ed. by Robin Blaser. Wesleyan Press, 1975.
16 Orpheus (1),
You walked in front of me,/ pulling me back out/ to the green light that had once/ grown
fangs and killed me.// I was obedient, but/numb, like an arm/ gone to sleep; the return/ to time
was not my choice. Selected Poems II: 1976-1986.
– 77 –
Già queste parole ci allarmano e ci fanno presagire che le cose non sono
semplici come ci saremmo potuti aspettare:
Ormai ero abituata al silenzio.
Sebbene qualcosa ci tenesse uniti
come un bisbiglio, come una corda:
il mio primo nome,
tirato stretto.
Avevi il tuo vecchio guinzaglio
con te, amore potevi chiamarlo,
e la tua voce fatta di carne.
Davanti a te avevi costantemente
l’immagine di ciò che volevi
che io diventassi: ancora viva.
Fu questa speranza che mi permise di seguirti.17
Cominciano a profilarsi un’Euridice che già appartiene a un altro
mondo, quello del silenzio, l’amore possessivo di Orfeo che la vorrebbe
trascinare fuori come se la tenesse al guinzaglio e soprattutto il fatto che
Orfeo la rivuole come prima che morisse:
Era la tua allucinazione, intenta
e floreale, e tu stavi cantando me:
già nuova pelle si stava formando su di me
dentro quel sudario luminoso e nebbioso
del mio altro corpo; già
c’era sporco sulle mie mani e avevo sete.18
e lei si sente rivivere. Orfeo la sta strappando alla morte e alla decadenza:
Potevo vedere solo il profilo
della tua testa e le spalle,
nere contro la bocca della caverna,
e così non potei affatto vedere
il tuo viso, quando ti voltasti
By then I was used to silence/ Though something stretched between us/ like a whisper,
like a rope:/ my former name,/ drawn tight./ You had your old leash/with you, love you might call
it,/ and your flesh voice.// Before your eyes you held steady/ the image of what you wanted/ me
to become: living again./ It was this hope of yours that kept me following. Ibidem.
18 I was your hallucination, listening/and floral, and you were singing me:/ already new
skin was forming on me/within the luminous misty shroud/ of my other body; already/ there
was dirt on my hands and I was thirsty. Ibidem.
17
– 78 –
e mi chiamasti, perché mi avevi
già perduta. L’ultima cosa
che vidi di te fu un ovale scuro.
Sebbene sapessi quanto questo fallimento
ti avrebbe fatto male, dovetti
piegarmi come una tarma grigia e lasciarmi andare.
Non potevi credere che io fossi niente più della tua eco.19
La funzione di Euridice qui appare quella di un’attenta osservatrice del
dramma irreversibile che si sta svolgendo. Lei capisce che Orfeo si volta
perché dubita che la sua amata esista realmente.
Nella seconda poesia la voce narrante è cambiata, non è più Euridice
che parla in prima persona, ma qualcuno che parla di lei e che comunque
registra il suo punto di vista, ma un po’ distanziato, come il coro di una
tragedia greca:
Euridice
Lui è qui, è venuto a cercarti.
È il canto che ti riporta indietro,
un canto di gioia e sofferenza
allo stesso tempo: una promessa
che le cose saranno diverse lassù
rispetto all’ultima volta.
Avresti preferito continuare a non sentire niente,
vuoto e silenzio; la pace ristagnante
del mare più profondo, che è più facile
del rumore e della carne della superficie.
Sei abituata a questi vaghi corridoi sbiancati,
sei abituata al re
che ti passa accanto senza parlare.
L’altro è diverso
e quasi te lo ricorda.
Dice che canta per te
perché ti ama,
19 I could see only the outline/ of your head and shoulders,/ black against the cave mouth,/
and so could not see your face/at all, when you turned// and called to me because you had/ already
lost me. The last/ I saw of you was a dark oval./ Though I knew how this failure/ would hurt you,
I had to/ fold like a gray moth and let go.// You could not believe I was more than your echo.
Ibidem.
– 79 –
non come sei ora,
così fredda e minimale: che ti muovi e rimani ferma
tutte e due le cose, come una tenda bianca che si muove
nella corrente proveniente da una finestra mezzo aperta
accanto a una sedia sulla quale non è seduto nessuno.
Vuole che tu sia quello che lui chiama reale.
Vuole che tu ti fermi leggera.
Vuole sentire che acquista spessore
come un tronco d’albero o una coscia
e vedere sangue sulle sue palpebre
quando le chiude, e il sole che batte.
Questo suo amore non è qualcosa
che può esprimere se tu non sei lì,
ma quello che tu hai saputo improvvisamente mentre lasciavi il corpo
a raffreddarsi e sbiancare sul prato
era che tu lo ami da qualsiasi parte,
persino in questa terra senza memoria,
persino in questo regno della fame.
Tieni l’amore in mano, un seme rosso
che hai dimenticato di tenere in mano.
Lui è andato quasi troppo lontano.
Non può credere senza vedere,
e qui è scuro.
Torna indietro, bisbigli.
ma lui vuole essere nutrito ancora
da te. O manciata di garza, piccola
benda, manciata di aria
fredda, non è attraverso di lui
che otterrai la libertà.20
Eurydice.
He is here, come down to look for you./ It is the song that calls you back,/ a song of joy
and suffering/ equally: a promise/that things will be different up there/ than they were last
time.// You would rather have gone on feeling nothing,/ emptiness and silence; the stagnant
peace/ of the deepest sea, which is easier/ than the noise and flesh of the surface.// You are used
to these blanched dim corridors,/ you are used to the king/ who passes you without speaking.//
The other one is different/and you almost remember him./ He says he is singing to you/because
he loves you,// not as you are now,/ so chilled and minimal: moving and still/ both, like a white
curtain blowing/ in the draft from a half –opened window/ beside a chair on which nobody
sits.// He wants you to be what he calls real./ He wants you to stop light./ He wants to feel himself thickening/ like a treetrunk or a haunch/ and see blood on his eyelids/ when he closes them,
and the sun beating.// This love of his is not something/he can do if you aren’t there,/ but what
you knew suddenly as you left your body/ cooling and whitening on the lawn// was that you
20
– 80 –
La voce narrante dice a Euridice che Orfeo è venuto per riprovare
l’amore che ha sentito un tempo e che gli è indispensabile vederla per sentirsi completo come prima. In questa versione del mito è interessante vedere
come Euridice si lasci coinvolgere dalla venuta di Orfeo nel tetro posto
dove si trova ora e crede anche lei che sia possibile tornare alla vita. “It is
the song that calls you back,” esercita un potente richiamo sulla donna e lei
percepisce intensamente la forza del desiderio del suo antico amante (“He
wants you... He wants you... He wants to feel himself thickening”). Lei pertanto capisce che lo amerà sempre e in qualsiasi luogo (“You hold love in
your hand, a red seed you had forgotten you were holding.”). L’amore è un
seme – ancora una reminiscenza del mito di Persefone che si confonde con
quello di Euridice? O semplicemente l’amore è entità immateriale indistruttibile, in un senso romantico? Questa Euridice capisce Orfeo (“He cannot
believe without seeing,”/ “but he wants to be fed again/ by you.”), ma capisce anche che lui non la raggiungerà. La sua consapevolezza si confonde
con l’amore che ancora sente per lui. Lei assiste compassionevole al
dramma della sfiducia di Orfeo che si volta perché dubita di averla ancora
dietro di sé e prova a convincere l’appassionato amante a lasciarla lì (“Go
back, you whisper,”).
Anche nella terza poesia del ciclo su Orfeo e Euridice, Orpheus (2),
siamo di fronte a una voce narrante che ci parla di un personaggio, ma
questa volta si tratta di Orfeo. La voce si chiede se il mitico cantore continuerà a cantare “sapendo quello che sa/ dell’orrore di questo mondo”:
Ha provato a cantare l’amore
sino a farti rivivere
e ha fallito.21
ma, pur parlando di Orfeo, si rivolge a Euridice. Così, come in molte
versioni moderne di questo mito, è presente la percezione del mondo dell’al
di là come spazio della decadenza che ha una sua fisionomia dettagliata.
I due personaggi del mito restano chiusi nella loro incapacità di comunicare
e il loro parlare o cantare serve a ribadire che percorreranno le loro strade
love him anywhere,/ even in thisland of no memory,/ even in this domain of hunger./ You hold love in your hand, a red seed/ you had forgotten you were holding.// He has come almost too far./
He cannot believe without seeing, and it’s dark here./ Go back, you whisper,// but he wants to be
fed again/by you. O handful of gauze, little/ bandage, handful of cold/ air, it is not through him/
you will get your freedom. Ibidem.
21 He has been trying to sing/ love into existence again/ and he has failed. Ibidem.
– 81 –
divaricate, senza speranza di incontrarsi. La rabbia delle baccanti viene
riflessa negli ultimi versi:
Gli hanno tagliato ambedue le mani
e ben presto gli staccheranno
la testa dal corpo in un’esplosione
di rifiuto furioso.
Lui lo prevede. Pure continuerà
a cantare e a lodare.
Cantare è o lode
o sfida. La lode è sfida.22
Anche dalle parti staccate del corpo di Orfeo, conformemente al mito,
si sprigiona canto, è l’ossessione di Orfeo, la sua condanna, è la lode che
vuole esprimere o la sua sfida. Ma l’andamento drammatico del verso della
Atwood capovolge l’antitesi in una sintesi:
... Praise is defiance.
La lode è sfida. Il suo desiderio, il suo canto che ammansisce le piante,
gli animali e le rocce, che aveva ammansito anche i sovrani dell’Averno,
che aveva bisogno di Euridice ma che, di fronte all’irrealtà dell’Ade, ha
dubitato della realtà di lei, continua a nutrirsi della sua assenza avidamente
o della sua idea univoca di Euridice. Orfeo è perduto nel suo desiderio,
perché cerca un’Euridice che non c’è più e di quella che trova dubita sino a
perderla. Tuttavia, la lode dell’amore, della vita è anche sfida verso la
morte.
Il mito di Orfeo e Euridice non è solo un mito che esalta la forza dell’arte e che fatalmente trasforma la donna “guardata” in oggetto passivo, ma
è un mito che esplora i nostri modi di accostarci alla morte. È anche un mito
che si sofferma sui cambiamenti che il passare del tempo induce nei mortali
e che sono così difficili da accettare. L’Ade viene, di conseguenza, reso
visibile attraverso una ricchezza di particolari visivi che lo deve ricreare per
il nostro sguardo. Così avviene anche nella bella poesia di Maria Clelia
Cardona che fa parte della raccolta Il Vino del Congedo:23
22 They have cut off both his hands/ and soon they will tear/ his head from his body in one
burst/ of furious refusal./ He foresees this. Yet he will go on/ singing, and in praise./ To sing is
either praise/ or defiance. Praise is defiance. Ibidem.
23 I Nuovi poeti di Amadeus, Cittadella (Pd), 1994.
– 82 –
Euridice
Il mio già innamorato orecchio ascoltava
più che la musica il tuo patteggiare che a me
– francamente – sembrò sventato.
Così balzai dal letto – mi copriva una coltre
di bianchi papaveri e appena distinguevo
nello specchio il mio viso sbiadito più lieve
tra le garze dei petali. Mi amerà
ancora? pensavo, così sfarinata e
il sangue mutato in bruno terriccio in fondo
alla ferita. La coroncina di mirto dai
capelli mi scivolò sui fianchi: ero appena
una reliquia. E ad ogni movimento
il mio corpo levava sbuffi di polvere.
Dov’è Euridice? Dov’è il mio bene? cantavi
al suono della lira. Non era una festa
ma per farmi notare ballavo e ballavo:
mulinando come un soffione sul prato.
Dov’è il mio bene? Non mi vedevi o
fingevi? Lusingato da tanto silenzio
e ombre intorno al tuo canto.
Non guardarla – bisbigliavano i cinerei
sovrani – Non è che una fulina, anche
uno sguardo la può lacerare. Siamo
ormai disavvezzi ad ogni violenza.
Solo negli occhi si vive, ma noi
siamo qui per morire.
E poi allungando le già lunghe lingue:
Se la vuoi pur così sciupacchiata è tua
con ancora indosso la veste nuziale e ancora
amorosa la bocca cilestrina.
E tu che fingevi di cercare sotto i sassi
nei tronchi in qualche ghianda d’argento
in un nido di civetta per guadagnare tempo.
Ti seguivo con le mie ali di carta
appesa ai tuoi capelli.
Tutt’intorno un dormiveglia di ombre
che leccavano latte.
Notte – spiegata davanti ai miei
occhi, immenso
abbandono.
– 83 –
Tu bruciavi già per la voglia
di stenderti al sole, pensavi a me
come al frutto carnoso di cui ero
ormai solo il seme bianco e amaro.
E io con la gola chiusa da un nauseante
miele: ma parla! Almeno
dì qualcosa. Chi ti impedisce
di parlare? E tu: Dov’è Euridice
dov’è il mio bene – cantavi a gran voce
per il sentiero in salita, finché mi dissi:
ma chi cerca?
Quella lite silenziosa non ha lasciato
ricordi. Una piccola nube di api
nere ha invelenito il nostro viaggio
nuziale.
Voltandoti, non ti sei accorto neppure
che già in silenzio me ne ero andata.
Euridice è ricoperta da una “coltre di bianchi papaveri”, “il viso
sbiadito più lieve/ tra le garze dei petali”, è “sfarinata”, “il sangue mutato
in bruno terriccio in fondo/ alla ferita”, è “appena/ una reliquia”, “ad ogni
movimento”, “il ...corpo levava sbuffi di polvere”. Pur così inconsistente e
lieve conserva una decisa coscienza di sé e reagisce al canto traboccante di
Orfeo con una domanda precisa:
... Mi amerà /ancora? ...
Nei suoi tentativi di rispondere al richiamo del poeta e farsi notare si
insinua un sottile umorismo:
... Non era una festa
ma per farmi notare ballavo e ballavo:
trovai la forza per qualche piroetta in alto
mulinando come un soffione sul prato.
Il tono colloquiale delle considerazioni fra sé e sé di Euridice e i ripetuti
enjambement contribuiscono alla discorsività della poesia e a creare vivacità e aspettativa.
Ben presto la protagonista dà voce a un dubbio acerbo:
... Non mi vedevi o
fingevi? ...
– 84 –
I “cinerei sovrani” intervengono nella ricerca di Orfeo che non sta approdando a nulla. “Allungando le già lunghe lingue” – pare di vedere queste
lingue da formichiere che si allungano ancora di più nella liquidità della elle
–, dicono “Se la vuoi pur così sciupacchiata è tua...”. ma, concentrato nel
suo canto, Orfeo sembra non sentire nemmeno queste parole di cedimento.
E tu che fingevi di cercare sotto i sassi
nei tronchi in qualche ghianda d’argento
in un nido di civetta per guadagnare tempo.
E poi ancora la rappresentazione della Euridice-ombra “attiva”, sospesa
nell’ironia surreale della descrizione dell’Ade:
Ti seguivo con le mie ali di carta
appesa ai tuoi capelli.
Tutt’intorno un dormiveglia di ombre
che leccavano latte.
Un momento di intenso abbandono, che rende l’idea di quanto Euridice
sia profondamente compenetrata di quel mondo notturno:
Notte – spiegata davanti ai miei
occhi, immenso
abbandono.
Il contrasto con la visione di Orfeo che continua a non rendersi conto di
quello che gli sta intorno, ma vive sempre nel narcisismo della sua creazione poetica, irrita la sposa agognata e la porta a un’amara conclusione:
...ma parla! ...
...
ma chi cerca?
...
voltandoti, non ti sei accorto neppure
che già in silenzio me ne ero andata.
La Cardona ricostruisce una donna fisicamente cambiata, ma psicologicamente partecipe e vivace, che assiste impaziente all’atteggiamento
di un Orfeo completamento assorbito da se stesso e dal proprio canto fino
al punto di non riconoscere la persona che apparentemente era andato a
cercare.
Nella prefazione al libro Mario Luzi osserva come questa poetessa frequenti “assai spesso il mito e gli autori classici... Li frequenta come occor– 85 –
renze della sua vita interiore, li richiama come luoghi nei quali l’esperienza
dell’uomo si è instaurata ma non si è consumata...”. Aggiunge poco dopo:
“...il mito cessa di essere mitologico e la soggettività emotiva della Cardona
invoca quel paragone come presente perennemente coevo alla sofferenza
umana, e dunque alla sua”.
L’introduzione della soggettività femminile nel mito è un evento moderno. Possiamo affiancare queste parole a quelle della filosofa e teologa
statunitense Mary Daly, esponente insigne del femminismo di matrice cristiana, che osserva:
Alle donne è stato sottratto il potere di nominare... Esistere umanamente è nominare l’io, il mondo e Dio... parole che, materialmente parlando, sono identiche a
quelle vecchie, diventano nuove in un contesto semantico che emerge dall’esperienza qualitativamente nuova.24
Questa Euridice fa la sua parte nell’antica storia del mito, lo riscrive
dal punto di vista femminile, muovendosi con una leggerezza che la rende
unica, crea un personaggio che non esita a fare una scelta decisa, quella
di scomparire prima del fatidico sguardo di controllo di Orfeo (si noti la
cadenza impeccabile degli accenti negli ultimi due versi, che creano una
scala immaginaria attraverso la quale la compagna del cantore è scivolata
via).
L’Euridice di Carol Ann Duffy, poetessa scozzese contemporanea,
autrice della dissacrante raccolta di poesie La Moglie del Mondo,25 lavora
di astuzia per non essere riportata nel mondo dei vivi contro la sua volontà:
Ragazze, ero morta e sepolta
nell’Oltretomba, uno spettro,
un’ombra di quello che ero stata, fuori dal tempo.
In quel luogo il linguaggio si fermava,
un punto nero, un buco nero
dove le parole erano destinate a finire.
Altrochè se finivano,
le ultime parole,
famose o meno.
Ci stavo bene sottoterra.
24 Mary Daly, Beyond God the Father: toward a philosophy of women’s liberation. London:
Women Press, 1986.
25 La Moglie del Mondo, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le Lettere, Firenze,
2002.
– 86 –
Dunque immaginatemi laggiù,
inavvicinabile,
fuori dal mondo,
poi figuratevi la mia faccia in quel luogo
di Eterno Riposo,
nell’unico posto, direste, dove una ragazza sarebbe al sicuro
da quel tipo d’uomo
che ti segue dappertutto
scrivendo poesie,
gironzolando impaziente
mentre gliele leggi,
che ti chiama la sua Musa,
e una volta ti ha tenuto il muso per un giorno intero
perché gli hai fatto notare il suo debole per i nomi astratti.
Provate a immaginarvi la mia faccia
quando sentii,
dei del cielo!
un toc-toc familiare alla porta della Morte.
Lui.
Il grosso O.
Più grande del normale.
Con la sua lira
e i suoi versi da intonare, e io ero il premio.
Un tempo le cose erano diverse.
Per gli uomini in fatto di poesia,
Grosso O era il migliore. Leggendario.
I risvolti di copertina dei suoi libri sostenevano
che gli animali,
dall’armadillo alla zebra,
s’accalcavano al suo fianco quando cantava,
i pesci guizzavano fuori dal banco
al suono della sua voce,
persino le mute, aride pietre ai suoi piedi
piangevano minuscole lacrime d’argento.
Balle. (Non lo saprò io,
che ho battuto a macchina tutto quanto).
E se mi venisse restituito il tempo,
state tranquille che preferirei parlare per me stessa
piuttosto che essere Cara, Tesoro, Dama Bruna, Dea Bianca, ecc.
In realtà, ragazze, preferirei essere morta.
Ma gli dei sono come gli editori,
maschi, di solito,
e quello che certamente sapete della mia storia
è il patto.
– 87 –
Orfeo avanzava tronfio declamando la sua roba.
Gli spettri esangui si sciolsero in lacrime.
Sisifo si sedette sulla pietra per la prima volta in tanti anni.
A Tantalo fu concesso di farsi un paio di birre.
La sottoscritta non credeva ai suoi orecchi
volente o nolente,
lo dovevo seguire alla vita precedente –
Euridice, moglie di Orfeo –
e restare prigioniera delle sue immagini, metafore, similitudini,
ottave e sestine, quartine e distici,
elegie, limerick, villanelle,
storie e miti...
Gli avevano detto che non doveva guardare indietro
né voltarsi,
ma camminare deciso verso l’alto,
con me alle sue calcagna,
fuori dall’Oltretomba
in quell’aria lassù che per me era il passato.
Lo avevano avvertito
uno sguardo e mi avrebbe perduta
per l’eternità.
Così camminammo, camminammo.
Non parlammo.
Ragazze, dimenticate quello che avete letto.
È andata così:
feci tutto quanto in mio potere
per farlo voltare.
cosa dovevo fare, mi dicevo,
per fargli capire che tra noi era finita?
Ero morta. Deceduta.
Riposavo in pace. Defunta. Buonanima.
Da lungo tempo scaduta ...
Allungai la mano
per toccarlo una volta
sul retro del collo.
Ti prego, fammi restare.
Ma la luce era già incupita dal porpora al grigio.
Quanta fatica quella salita
dalla morte alla vita
e ad ogni passo
cercavo di farlo voltare.
– 88 –
Pensai di fregargli la poesia
da sotto il mantello,
quando infine mi venne l’ispirazione.
Mi fermai, in fibrillazione.
Era un metro davanti a me.
La mia voce tremava quando parlai –
Orfeo, la tua poesia è un capolavoro.
Fammela sentire ancora ...
Sorrideva con modestia
quando si voltò,
Quando si voltò e mi guardò.
Che altro?
Notai che non si era fatto la barba.
Gli feci ciao con la mano e me ne andai.
Quanto talento hanno i morti.
I vivi camminano ai bordi di un vasto lago
vicino al silenzio saggio, sommerso, dei morti.26
Eurydice.
Girls, I was dead and down/ in the Underworld, a shade,/ a shadow of my former self,
nowhen./ It was a place where language stopped/ a black full stop, a black hole/ where words
had to come to an end./ And end they did there,/ last words,/ famous or not./ It suited me down
to the round.// So imagine me there,/ unavailable,/ out of this world,/then picture my face in that
place/ of Eternal Repose,/ in the one place you’d think a girl would be safe/ from the kind of a
man/ who follows her round/ writing poems,/ hovers about/while she reads them,/ calls her
His Muse,/ and once sulked for a night and a day/ because she remarked on his weakness for
abstract nouns./ Just picture my face/ when I heard –/ Ye Gods –/ a familiar knock-knock-knock
at Death’s door.// Him. Big O./ Larger than life./ With his lyre/ and a poem to pitch, with me as
prize.// Things were different back then./ For the men, verse-wise,/ Big O was the boy. Legendary./ The blurb on the back of his books claimed/ that animals,/ aardvark to zebra,/ flocked to
his side when he sang,/ fish leapt in their shoals/ at the sound of his voice,/ even the mute,
sullen stones at his feet/ wept wee, silver tears.// Bollocks. (I’d done all the typing myself,/
I should know.)/ And given my time all over again,/ rest assured that I’d rather speak for
myself/than be Dearest, Beloved, Dark Lady, White Goddess, etc., etc.// In fact, girls, I’d rather
be dead./ But the Gods are like publishers,/ usually male,/ and what you doubtless know of my
tale/ is the deal.// Orpheus strutted his stuff.// The bloodless ghosts were in tears./ Sisyphus sat
on his rock for the first time in years./ Tantalus was permitted a couple of beers.// The woman in
question could scarcely believe her ear.// Like it or not,/ I must follow him back to our life –/
Eurydice, Orpheus’wife –/ to be trapped in his images, metaphors, similes,/ octaves and sextets,
quatrains and couplets,/ elegies, limericks, villanelles,/ histories, myths ...// He’d been told that
he mustn’t look back/ or turn round,/ but walk steadily upwards,/ myself right behind him,/ out
of the Underworld/ into the upper air that for me was the past./ He’d been warned/ that one look
would lose me/ for ever and ever.// So we walked, we walked./ Nobody talked.// Girls, forget
what you’ve read./ It happened like this –/ I did everything in my power/ to make him look
back./ What did I have to do, I said,/ to make him see we were through?/ I was dead. Deceased./
26
– 89 –
Di questa intrigante e divertente poesia della Duffy notiamo il tono colloquiale, il senso di complicità con le altre donne (“Girls” ripetuto più
volte), l’ironia con cui Euridice si confronta con il celebre poeta che tutti
esaltano, ma che lei non può più sopportare, il gusto con cui si intrattiene a
descrivere l’arrivo di Orfeo nell’Oltretomba che bussa con nonchalance alla
porta della Morte!(“toc-toc”), l’irriverenza nei confronti dell’aureola che
per secoli ha circondato la figura del grande vate capace di affascinare tutti
e tre i regni della natura ”(Balle. (Non lo saprò io,/ che ho battuto a macchina tutto quanto)”, l’insofferenza nei confronti della mania del marito di
chiamarla con i nomi più scontati della tradizione poetica e della sua volontà di fare di lei la sua musa. A tutto questo Euridice oppone un “preferirei parlare per me stessa”. La mescolanza di particolari del mondo moderno con le ricorrenze del mito crea un effetto comico rafforzato dall’uso
sapiente della rima finale e interna. Alla luce della modernità e soprattutto
da un punto di vista rovesciato, com’è quello di una donna, anche figure tradizionali del mito acquistano una rilevanza caricaturale:
Sisifo si sedette sulla pietra per la prima volta in tanti anni.
A Tantalo fu concesso di farsi un paio di birre.
L’apparato poetico del bardo tradizionale viene qui deriso apertamente
(“dovevo... restare prigioniera delle sue immagini, metafore, similitudini,/
ottave...”) e quella che alla fine avrà “l’ispirazione” sarà propria la pallida
ombra che preferisce restare in un luogo dove può essere se stessa. Tutto il
poemetto è ricco di spunti ironici che sono messi in risalto dalla rima e dal
contrasto tra le parole del mito e quelle della quotidianità.
Il poeta canadese Mark Strand è autore di una pregnante poesia sul mito
in questione, Orpheus Alone, (Orfeo Solo). Il mitico cantore parla in prima
persona:
I was Resting in Peace. Passé. Late./ Past my self-by date .../ I stretched out my hand/ to touch
him once/ on the back of his neck. Please let me stay./ But already the light had saddened from
purple to grey.// It was an uphill schlep/ from death to life/ and with every step/ I willed him to
turn./ I was thinking of filching the poem/ out of his cloak,/ when inspiration finally struck./
I stopped, thrilled./ He was a yard in front./My voice shook when I spoke –/ Orpheus, your
poem’s a masterpiece./ I’d love to hear it again ...// He was smiling modestly/ when he turned,/
when he turned and he looked at me.// What else?/ I noticed he hadn’t shaved./ I waved once and
was gone.// The dead are so talented./ The living walk by the edge of a vast lake/ near the wise,
drowned silence of the dead. Op. cit.
– 90 –
Era un’avventura di cui molto si poteva pensare: un cammino
lungo le sponde del più oscuro dei fiumi conosciuti,
tra le folle che s’accalcano incappucciate, presso rocce fumanti
e file di capanne sfatte, semisepolte dal sudiciume;27
L’inferno è anche qui descritto dettagliatamente in un paesaggio quasi
dantesco. Lì giunge il poeta per
... parlare
di ciò che aveva perso, ciò che ancora possedeva del suo lutto,
e poi, senza più alcun freno, descrivere gli occhi di lei,
la fronte su cui si stendeva la luce d’oro della sera,
la curva del collo, il declivio delle spalle, ogni parte
fino giù alle cosce, ai polpacci, lasciando sgorgare le parole
come suscitate dal sonno, controcorrente, alla deriva,
contro il volere dell’acqua, ...28
È pressante la voglia di parlare di Euridice e attraverso le parole ricostruire la fisicità della donna amata. Il poeta-Orfeo si misura con la capacità
delle parole di far rivivere le persone – uno dei motivi per cui si sceglie di
scrivere:
Come tutti sanno, questa fu la prima insigne poesia,
cui seguirono giornate e giornate sfaccendate
in casa d’amici, testa rovesciata all’indietro, a occhi
chiusi, cercando di farla tornare con la forza di volontà, ma trovando
solo se stesso, sempre e soltanto, chiuso
nel gelo del suo lutto, ...29
In questa fase è come se l’amante ci dicesse che è andato verso la morte
per ritrovare la vita, ha nutrito una speranza che contiene in sé una contraddizione.
It was an adventure much could be made of: a walk/ On the shores of the darkest known
river,/ Among the hooded, shoving crowds, by steaming rocks/And rows of ruined huts halfburied in the muck. The Continuous Life (1990). Compare nella raccolta, Mark Strand, Il futuro
non è più quello di una volta, a cura di Damiano Abeni. Minimum Fax, 2006.
28 ... speak/ Of what he had lost, what he still possessed of his loss,/ And, then, pulling out
all the stops, describing her eyes,/ Her forehead, where the golden light of evening spread,/ The
curve of her neck, the slope of her shoulders, everything/ Down to her thighs and calves, letting
the words come,/ As if lifted from sleep, to drift upstream,/ Against the water’s will, ...Ibidem.
29 As everyone knows, this was the first great poem,/ Which was followed by days of
sitting around/ In the houses of friends, with his head back, his eyes/ Closed, trying to will her
return, but finding/ Only himself, again and again, trapped/ In the chill of his loss, ...Ibidem.
27
– 91 –
Dopo questo primo tentativo di riportare in vita la moglie, il poeta
riprende a
... vagare sui colli
fuori città, dove rimase fino a scrollarsi di dosso
l’immagine dell’amore e a sostituirla con il mondo
come aveva desiderato che fosse, costringendo forma e misura
in parole tanto nuove che una vertigine corse il mondo,
e alberi d’improvviso apparvero nello spazio nudo
in cui parlava e innalzarono i rami e sfiorarono
l’erba tenera con le falde della loro ombra,
e le pietre, per una volta senza peso, vennero a sistemarsi lì,
e i piccoli animali si sdraiarono nei campi miracolosi di grano
e i filari di granoturco, e s’assopirono. ...30
per cercare negli infiniti sentieri della terra una ragione di vita che compensasse la perdita di Euridice. Attraverso la full-immersion nella molteplicità
della realtà, da cui scaturirà un secondo componimento, il poeta misura
l’intensità del suo sentimento e ricrea il mondo. Qui il mito è rivisitato in
chiave moderna. L’affannoso andare in cerca di Euridice porta Orfeo a un
confronto diretto con l’esterno, a un rinvigorimento del senso della vita.
La terza fase delle sue peregrinazioni, corrispondente alla terza poesia,
non è affatto solare, è drammatica e polimorfa:
... La terza e più insigne
venne al mondo come mondo, dall’indicibile,
sorgente invisibile di ogni anelito d’essere; venne
come vengono le cose che periranno, per essere viste o udite
per un poco, come una coltre di brina o il sommuoversi
del vento, e poi non più; venne nel cuore del sonno
come una porta sull’infinito, e, cinta di fiamme,
tornò al momento del risveglio, e talvolta,
remota e minuta, venne come una visione con alberi
lungo un torrente tortuoso, che accarezzano la sponda
con la loro ombra viola, con le membra di qualcuno
disseminate tra le foglie pressate, ammuffite lì vicino,
30...
to wander the hills/ Outside of town, where he stayed until he had shaken/ The image
of love and put in its place the world/ As he wished it would be, urging its shape and measure/
Into speech of such newness that the world was swayed,/ And trees suddenly appeared in the
bare place/ Where he spoke and lifted their limbs and swept/ The tender grass with the gowns of
their shade,/ And stones, weightless for once, came and set themselves there,/ And small animals
lay in the miraculous fields of grain/ And aisles of corn, and slept. ...Ibidem.
– 92 –
e la sua testa mozzata che rotola sotto i flutti,
spezzando le mutevoli colonne di luce in un vortice
di granuli e schegge; venne in una lingua
non sfiorata dalla pietà, in versi, oscuri e fastosi,
in cui la morte è rinata e inviata nel mondo come dono,
così che il futuro, privo di voce propria e di speranza
di divenire mai più di quello che sarà, possa portare il lutto.31
È la fase in cui il poeta deve in qualche modo accettare la morte e
quindi è anche la più tragica e confusa. Deve sottostare alle “cose che periranno”, nel “cuore del sonno”, “come una porta sull’infinito”, a contatto
con una natura adesso avversa (“lungo un torrente tortuoso”) e con la sua
stessa morte (“con le membra di qualcuno”) disseminata tra “le foglie pressate” e “la sua testa mozzata”. Alla fine non è Euridice che rinasce, ma la
morte inviata nel mondo in versi “oscuri e fastosi”.
Orpheus Alone, come Eurydice di C. A. Duffy è un poema narrativo,
ma l’andamento e i toni sono molto diversi. Nel componimento del poeta
canadese il racconto è soprattutto il dispiegarsi di una serie di atteggiamenti
verso la morte: la speranza che il canto possa strappare qualcuno alla morte,
la prima sconfitta nel constatare che questo è solo un rimedio temporaneo;
il tentativo di recuperare la struggente vitalità di un rapporto d’amore intenso, buttandosi a capofitto nelle cose del mondo e vedere come le parole
trasformano le cose, le fanno vivere; infine, la consapevolezza di perdere
tutto, la donna amata e se stesso, tranne quelle parole che celebrano la
morte.
La drammaticità del discorso è sostenuta da una scrittura densa – fatta
di frasi lunghe, dal grande potere evocativo –, incalzante, culminante nella
parte finale dove
... death is reborn ...
... The third and greatest/ Came into the world, out of the unsayable,/ Invisible source of
all longing to be; it came/ As things come that will perish, to be seen or heard/ A while, like the
coating of frost or the movement/ Of wind, and then no more; it came in the middle of sleep/ Like a door to the infinite, and circled by flame,/ Came again at the moment of waking, and,
sometimes,/ Remote and small, it came as a vision with trees/ By a weaving stream, brushing the
bank/ With their violet shade, with somebody’s limbs/ Scattered among the matted, mildewed leaves nearby,/ With his severed head rolling under the waves,/ Breaking the shifting columns of
light into a swirl/ Of slivers and flecks; it came in a language/ Untouched by pity, in lines, lavish
and dark,/ Where death is reborn and sent into the world as a gift,/ So the future, with no voice of
its own, nor hope/ Of ever becoming more than it will be, might mourn. Ibidem.
31
– 93 –
Euridice manca, perché è morta, ma sappiamo molto di quello che
prova il poeta e dell’evolversi vorticoso del suo sentire. Orfeo sta sempre
dietro alla sua arte, ma non è un narciso infatuato e stupido, è un uomo che
deve affrontare una delle cose più difficili e dolorose che impone la vita.
Per questo la poesia di Mark Strand ci viene in aiuto quando ci troviamo a misurarci con il grave problema della perdita e il mito non è mai
tanto vivo come quando ci invita a interrogarci sulla nostra vita.
Molte poetesse hanno dato la parola a quella Euridice che per tanto
tempo aveva parlato solo per bocca di Orfeo, rivelando un personaggio
originale, che assume una varietà di atteggiamenti – di stizza o di ribellione
verso Orfeo, di complicità con il nuovo mondo di cui è compenetrata, di
autonomia –, ma sempre hanno teso a sviluppare la sua soggettività, a
mettersi dalla parte di una figura a cui non era stato permesso avere una
voce propria, ma che era stata investita dalla ridondanza dell’immaginario
maschile. Dal canto suo anche Orfeo ha sondato se stesso più intimamente:
nella modernità la parola non manca mai di esplorare la profondità dell’io
in rapporto con l’ignoto in cui si trova a vivere.
Il mistero dell’amore, della morte e della parola continua ad essere
messo in scena.
– 94 –
MARCO PESCETELLI
L’errante:
il giallo di un film orfano
Il film, il cui titolo francese era L’Errante, fu donato alla Cineteca
Nazionale di Roma dal Centre National de la Cinématographie (CNC - Bois
d’Arcy - Paris) nel 2000, in accordo al protocollo di scambi approvati dalla
FIAF (Federation International d’Archives du Film) nell’ambito delle cineteche aderenti con il dichiarato scopo di implementare la politica di raccolta
e preservazione delle pellicole. La copia inviata alla Cineteca Nazionale sembra essere la sola esistente di questo film. Il supporto è al nitrato, i colori generati per imbibizione e le didascalie in francese. Non ci sono più titoli di testa o di coda, ma solo quello iniziale: L’Errante – drame.
È uno dei tanti casi di film cosiddetti orfani, cioè non identificati, di cui
si è persa memoria. Le cineteche di tutto il mondo hanno fondi di questo tipo, costituiti cioè da film che attendono di ritrovare i loro autori, la loro nazionalità, un elemento che serva ad identificarli. Il loro destino è il più triste
di tutti. Infatti già gli archivi faticano a reperire i fondi per conservare l’esistente e restaurare le opere ritenute – tra quelle in pericolo – le più degne di
essere ‘restaurate’. Figuriamoci a quale destino vadano incontro queste che
invece nessuno reclama, di cui non si conosce nemmeno l’esistenza. Per sperare nella loro sopravvivenza ed impedirne il decadimento chimico-fisico, il
primo tentativo è tentare perciò di identificare i film.
La copia di questo, inviata dalla cineteca francese, era indicata come film
italiano, diretto da Baldassarre Negroni nel 1922, dal titolo La danzatrice
russa. In realtà nessuna filmografia del conte Negroni riporta quest’opera e
l’unica traccia del film si ritrova in un articolo di un giornale francese in cui
Linda Pini viene indicata come la protagonista; di seguito viene riassuna la
trama e una breve critica.1 Inoltre esiste il romanzo scritto da Pierre Desclaux, pubblicato in dieci episodi e alcune foto di scena prese dal film, nella rivista Mon Ciné, che forse può rappresentare una buona fonte per identificare il film.2
1
2
H.A., ‘L’Errante’, Hebdo-Film, 51, 10 December 1925, p. 25.
Mon Cine, nos 212-221, 11 March-13 May 1926.
– 95 –
Michelle Aubert, curatrice della cineteca francese, crede che il film sia
un adattamento di questo romanzo e fa notare che lo scrittore era registrato
come adattatore e autore cinematografico intorno agli anni Venti. Anche il
nome di Georges Petit, citato insieme a quello del romanziere, è quello di un
distributore di film stranieri in Francia; ciò confermerebbe che il film è straniero. In ogni caso c’è da notare che la pubblicazione del romanzo avvenne
dopo la distribuzione del film, riutilizzando la sceneggiatura originale e adattandola ad un’opera letteraria.
A parte questo, non ci sono altre fonti di informazione sul film. Non
esiste traccia che sia stato distribuito in Italia e nemmeno un documento che
lo citi nei registri di censura. Dunque per identificare l’opera, l’unico modo
è cercare delle prove all’interno del film. Prima tra tutte l’identificazione dell’attrice principale. Il confronto tra alcune foto e fermi immagini tratte dai
film dell’epoca e quelle della protagonista de L’Errante mi hanno portato effettivamente ad identificare l’attrice con Linda Pini, protagonista
– tra gli altri – del film diretto da Amleto Palermi nel 1924 La freccia nel
cuore. Quest’ultimo fu girato quasi nello stesso periodo e Linda Pini sembra
aver interpretato un ruolo simile.
In realtà le pubblicazioni più recenti non corroborano questa tesi. Infatti
un recente catalogo generale di attori italiani non cita questo film tra i lavori
di Linda Pini. Il film in questione risulta piuttosto menzionato nella biofilmografia dell’attrice e di Baldassarre Negroni, forse il regista di La danzatrice
russa (1922), ma non riportata da edizioni successive. Attraverso il confronto
di altri film in cui Linda Pini recitò nello stesso periodo in cui fu prodotto
L’Errante, è evidente che ci sono molte somiglianze tra il plot del film e
quello di altri in cui recitò Linda Pini: normalmente la protagonista è una povera ragazza pronta a sacrificare tutto per i suoi bambini e i suoi amanti
(Elevazione, 1920; I disonesti, 1922; La freccia nel cuore, 1924; La via del
dolore, 1924); giovani donne i cui sentimenti puri sono minacciati da persone
malvagie (Favilla, 1921); oppure giovani donne che devono lottare contro il
crimine per riconquistare la loro purezza (I dannati, 1921; La madonna
errante, 1921). Il successo di Linda Pini sembra essere collegato alle sue
performance appassionate come donna perduta nei film citati prima, il che
suggerirebbe che il ruolo de L’Errante era perfetto per lei.
È molto più difficile stabilire se Baldassarre Negroni diresse questo film
o no. La più recente attribuzione di questo film a lui è contenuta in una biofilmografia pubblicata da Roberto Chiti oltre quaranta anni fa, in cui si indica
il 1922 come l’anno di produzione del film e Linda Pini come l’attrice pro– 96 –
tagonista.3 Quel che risulta strano è che il conte Negroni, sposato per molti
anni ad un’altra attrice, Olga Mambelli, il cui nome d’arte era Hesperia, lavorò per lo più con la moglie. Quindi non è chiaro perché qui Negroni avrebbe
fatto un’eccezione. Per questo motivo anche il compianto Vittorio Martinelli,
uno dei più accreditati esperti di cinema muto italiano, escludeva categoricamente che Negroni potesse aver lavorato con Linda Pini in quel periodo.4
Purtroppo un esame di altri film con un titolo simile non ha prodotto
alcun risultato utile. È possibile che un’altra copia dello stesso film sia stata
catalogata con un altro titolo per errore. In effetti esiste un altro film intitolato La Madonna errante, diretto da Gastone Ravel, prodotto dalla Medusafilm e distribuito a Roma per la prima volta nell’ottobre del 1921; anche qui
Linda Pini è la protagonista. Purtroppo, a parte alcune somiglianze con la
trama (c’è, ad esempio una scena molto simile in cui la protagonista uccide
involontariamente un uomo e la sua vita cambia: in meglio in La Madonna
errante, in peggio in L’Errante), la sottile differenza dei titoli si riferisce a
due film differenti.
In questa ricerca di ‘autore’, un altro film il cui titolo ha attratto la mia
attenzione è stato L’Errante, diretto da Jacques Volnys e prodotto da
Bellincioni nel 1921. In questo caso il titolo, apparentemente identico (uno
francese, l’altro italiano), mi ha portato a credere che questo potesse essere
un’altra stampa dello stesso film. Purtroppo, anche in questo caso, un semplice
controllo alla Cineteca Nazionale di Roma ha rivelato che la supposizione era
errata.
L’ultimo aspetto preso in considerazione è stato quello meramente materiale del film. Prima di tutto le didascalie in francese, in tutto centosessanta. Ad una più attenta analisi, ho potuto così constatare che la lingua
usata era un cattivo francese: nelle didascalie sono infatti presenti errori di
ortografia e grammatica. Ancor più rilevanti quelli di tipo lessicale che sottolineano un uso del vocabolario spesso non accurato o del tutto inadeguato.
Alcuni degli errori più ricorrenti sono elencati qui di seguito:
• Ortografia: paure invece di pauvre, lesqueles invece di lesquelles,
detin invece di destin, sous invece di sans, acceptè, trouvè, informè,
tres e etait invece di accepté, trouvé, informé, très ed était; etre,
meme, pret, maitre, chateau invece di être, même, prêt, maître e
château; douloureux invece di douleureux.
3
4
Film Lexicon degli autori e delle opere, Roma, CSC, 1962, vol. V, p. 638
Intervista telefonica con Vittorio Martinelli registrata il 14/5/2005.
– 97 –
• Grammatica: Avez invece di aviez, avaint invece di avaient, aimes
invece di aime, ‘tu voulais jouer?’ invece di ‘voulais tu jouer?’ e ‘tu
veux l’être?’ invece di ‘veux-tu l’être’?
• Accuratezza: person(n)e invece di jeune dame, je vous en conjure (non
ha senso), A jamais (per sempre? Anche qui non ha senso in francese).
Probabilmente tutti questi errori o inaccuratezze lessicali sono imputabili
ad una cattiva traduzione da una lingua straniera (l’italiano?) al francese o alla
composizione in francese di un adattatore. Comunque, questa sembra essere
un’ulteriore prova che questo film non è francese, ma straniero, forse italiano.
L’ultima questione da affrontare rimane la determinazione dell’anno di
produzione di questa stampa positiva, la sola che a tutt’oggi sembra essere
sopravvissuta. Per identificare il film gli elementi più significativi sono i dati
riportati sui bordi della pellicola, stampati dalla casa di produzione o dall’industria manifatturiera di pellicola o dagli stessi laboratori di sviluppo e stampa.
Ad un’accurata analisi effettuata in moviola e ad un tavolo passa-film,
ho potuto riscontrare che sui bordi della pellicola ci sono dei codici stampati dalla Eastman Kodak: a volte un quadratino e un cerchietto, a volte
invece un triangolo con un cerchietto. Un controllo della carta dei codici
Kodak rivela che questa copia del film fu stampata nel 1925-26.5 Così, è
possibile confermare che L’Errante fu distribuita in Francia in quegli anni,
ma non si può affermare niente di sicuro sull’esattezza dell’anno di produzione o sulla nazionalità.
Film come questi, definiti film orfani (‘orphan films’ in inglese) 6, sono
essenzialmente opere che mancano di aventi diritto (o la cui proprietà legale
e commerciale è poco chiara). La conseguenza diretta è che nessuno è
disposto a pagare per la loro conservazione. Eppure tra di loro è probabile
che si possano individuare capolavori ritenuti perduti per sempre (come
ad esempio Sperduti nel buio, diretto da Nino Martoglio nel 1914). Così
il restauro de L’Errante avviato dalla Cineteca Nazionale di Roma nel 2001
sembra essere a prima vista un meritevole unicum. Forse però con qualche
secondo fine. Ma questa è un’altra storia...
Harold Brown, Physical Characteristics of Early Films as Aids to Identification, Bruxelles:
FIAF, 1990, p. 45.
6 L’origine esatta del termine non è chiara. Dagli anni Novanta, comunque, i funzionari
delle cineteche comunemente usavano questo termine per riferirsi a film abbandonati dai loro
proprietari. Alla fine degli anni Novanta il termine emerse come metafora della conservazione
dei film, prima negli USA poi a livello internazionale.
5
– 98 –
Sezione didattica
(collaborazioni degli studenti)
LICIA FIERRO
Introduzione ai progetti
realizzati dagli alunni di II e III B
per l’anno scolastico 2007-2008
Il dipartimento XI del Comune di Roma, nel progetto speciale “Roma
per vivere, Roma per pensare”, ha proposto per l’a.s. 2007/2008, il tema:
Roma tra incanto e disincanto. Come di consuetudine, sono state indicate
una molteplicità di riflessioni particolari, pertinenti alla traccia, ma tali da
essere inserite nell’approfondimento curricolare dei programmi propri delle
singole classi a seconda dell’indirizzo delle scuole o anche degli ambiti di
indagine che spaziavano dall’arte alla musica, dalla storia alla politica, alla
filosofia. Il Dipartimento XI ha organizzato questo lavoro in collaborazione
con la Società Filosofica e la facoltà di Storia e Filosofia dell’Università
Roma Tre. I professori coinvolti nel progetto hanno partecipato a due giornate introduttive di formazione, nel mese di ottobre, presso l’Università di
Roma Tre dove hanno avuto la possibilità di assistere ad una serie di incontri
con gli specialisti delle aree disciplinari relative ai percorsi individuabili e
alle articolazioni tra le aree dei nuclei tematici di riferimento.
È stato, poi, necessario ordinare tutto il materiale fornito per darne agli
studenti una prima rielaborazione nei contenuti al fine di individuare l’argomento preciso su cui costruire l’indagine. Il lavoro preliminare è stato indispensabile anche perché le classi, sulla base della traccia prescelta hanno
aderito ad alcune iniziative considerate importanti per lo svolgimento della
ricerca (conferenze all’Università, visione di filmati, documentazione in biblioteca, visita al Museo del Risorgimento, ecc…).
La classe II B ha costruito il suo percorso: Dalla gnoseologia degli antichi alla politica dei moderni, trasposizione storica nel Risorgimento italiano, con l’intento di dimostrare come sia difficile, in ogni tempo, tradurre
l’incanto della teoria nella prassi operativa, nella concretezza dell’azione
politica. Nella prima parte del lavoro, sotto la guida dell’insegnante di
latino e greco, professoressa Giannì, gli studenti hanno scelto una serie di
documenti da tradurre e commentare perlopiù relativi ad autori in cui risulta
evidente il rapporto e la connessione tra filosofia e politica. In modo parti– 101 –
colare sono state considerate le posizioni dello scetticismo, dalla impostazione pirroniana alle rielaborazioni successive: lo scetticismo dell’Accademia con Arcesilao, il disincanto di Carneade e Sesto Empirico, il sincretismo ciceroniano.
I ragazzi, divisi in gruppi, si sono assunti la responsabilità di scegliere,
tra le fonti, quelle ritenute idonee ad essere utilizzate per dimostrare la tesi
di partenza o per smentire l’eccesso di generalizzazione in cui spesso
incorre la storiografia. Un esercizio, questo, particolarmente fruttuoso per la
crescita dello spirito critico e l’autonomia di giudizio. L’analisi di documenti, la traduzione, i commenti e la discussione su epoche lontane e
diverse hanno reso questi giovani consapevoli dell’immutabile bisogno
umano di dare risposte, anche quando esse risultano negative ed esprimono
la crisi di ogni certezza. Un pensiero “debole” contro un pensiero “forte”?
Su questa domanda, i ragazzi si sono impegnati a rispondere, o meglio a
trovare indicazioni di risposta nella seconda parte della ricerca, guidati dalla
professoressa di Storia e Filosofia. Nell’Ottocento, secolo dominato per un
verso dai grandi sistemi filosofici e per l’altro dalla tendenza a tradurre
nella prassi politica i principi teorici elaborati, è stato davvero possibile
mantenere l’incanto e la promessa annunciata o l’incompiutezza dei risultati
ha dimostrato che lo scarto è incolmabile?
Nello studio del Risorgimento italiano, paradigma di un’idea di
nazione, intesa come l’individualità storica in cui si traduce il sentimento, la
passione, la cultura di un popolo finora soggetto e schiavo, è sembrato agli
studenti di poter rintracciare la forza di un pensiero concreto capace di
smuovere dal torpore, di indicare obiettivi comuni e condivisibili per i
quali, se necessario, si giustificava pure il sacrificio della vita. A leggere i
testi di filosofi come Rosmini che riconosce e contesta le piaghe della
Chiesa o gli accenti accorati di Mazzini sulla bellezza eroica del dovere,
pare quasi scontata la comprensione dell’entusiasmo giovane dei patrioti di
allora e, da ciò, gli studenti hanno tratto motivi di discussione e confronto
dialettico. I gruppi di lavoro, hanno pure tenuto conto della pubblicistica
risorgimentale rintracciando pagine di giornali, risultati dei congressi degli
scienziati, documenti attinenti le politiche dei vari stati italiani in materia di
economia e di istruzione. La storiografia sulle fonti, in parte costruita tutti
insieme, in parte scelta a seconda dei singoli temi, ha rispecchiato le varie
chiavi di lettura sia degli assunti teorici, sia dei risultati politici del processo
risorgimentale. Una particolare attenzione è stata riservata al ruolo di Roma
e al compimento dell’Unità. Sulla capitale, i ragazzi presentano l’attualizza– 102 –
zione del problema, ovvero il passaggio dal significato del suo ruolo, l’incanto e la specificità irripetibile del suo essere “Italia” e al tempo stesso la
sua eterna disposizione a configurarsi come città che si apre e accoglie
il mondo.
I momenti più significativi di questa esperienza sono stati quelli in cui
i ragazzi hanno saputo amalgamare il frutto delle ricerche per conferire all’insieme la dignità di una sintesi sicuramente limitata, ma comunque ricca
della tensione intellettuale ed emotiva di ognuno di loro. Al saggio scritto,
gli studenti hanno affiancato un pannello grafico in cui hanno voluto esemplificare la “caduta” delle piccole bandiere degli staterelli italiani in nome
di un unico vessillo in cui riconoscersi aldilà dei campanili.
La classe III B, ha scelto un percorso cui ha dato questo titolo: Dal mito
deluso del ’68 al disincanto della società disgregata, il caso Italia.
In occasione del quarantesimo “anniversario” del ’68, in sintonia col
tema centrale del progetto di cui sopra e con quello specifico del Festival
della Filosofia, gli studenti della terza ne hanno approfittato per inserire il
loro lavoro nell’approfondimento di natura curricolare riguardante la storia
italiana del secondo dopoguerra. Sotto la guida dell’insegnante di Storia e
Filosofia, suddivisi in gruppi di lavoro, i ragazzi hanno affrontato il ‘68 a
partire dalle origini del movimento. Ciò ha comportato uno studio, per così
dire allargato, ai grandi temi della cultura e della politica negli anni sessanta
a livello internazionale, prima ancora che italiano. La scelta delle fonti è
risultata difficile a causa della vastità dei riferimenti, ma poi, come risulta
dal testo, gli studenti hanno individuato alcuni documenti fondamentali e con
essi le opportune e variegate chiavi di lettura. Dall’America, all’Europa,
passando attraverso i nuovi frutti del pensiero filosofico e le vicende mai
concluse di conflitti non meno ideologici di quelli che sembravano passati,
gli studenti hanno ricercato le cause, le affinità e le differenze di un movimento che ha avuto come protagonisti paesi sviluppati, ma anche periferie
del mondo post-industriale. La stagione dell’incanto: pensiero alternativo,
gioco, fantasia, creatività, impegno di trasformazione, coscienza dei valori di
solidarietà. E poi la politica come lotta, lo scontro generazionale, le fratture e
i tormenti. Per entrare nel vivo, nel cuore del movimento italiano, in un proliferare di saggi e pubblicazioni dell’ultimo minuto, abbiamo, di comune accordo, vagliato con cura le proposte editoriali senza tralasciare ricostruzioni
sicuramente antitetiche per le modalità dell’indagine e le priorità attribuite
dagli autori a questo o quell’aspetto del movimento. Ne è risultato un mo– 103 –
saico difficile da riordinare, ma qui si è manifestata l’abilità dei ragazzi che
hanno saputo personalizzare le loro ricerche, pur nel vivace confronto dei
punti di vista. Si può notare come sia considerato netto il passaggio dall’elaborazione teorico-filosofica alle concrete prese di posizione politica, come se
ci fosse stata, in quegli anni, una sintonia tra pensiero ed azione, mai prima
così chiara e sperimentata. Il discorso sulla situazione contingente dell’Italia,
i problemi irrisolti relativi allo sviluppo avvenuto con altissimi profitti e
bassi salari, le promesse disattese dei governi di centro-sinistra incapaci di
realizzare riforme di struttura, fanno da sfondo al grande slancio ideale
del ’68 italiano. Sui frutti del movimento e le sue presunte degenerazioni, è
costruita la seconda parte di questo lavoro che ci porta inevitabilmente a
considerare i nodi irrisolti in cui ancora oggi ci dibattiamo e ai quali aspettiamo di dare risposte che siano coerenti con le attese stanche di chi è più
vecchio e con le speranze rinnovate di chi si affaccia a prendere su di sé la
responsabilità futura del nostro paese. Al saggio scritto, gli studenti hanno
affiancato un Cd-rom in cui hanno voluto trasferire, attraverso l’immagine e
la musica lo spirito con cui hanno affrontato il problema.
I lavori delle due classi sono stati esposti, nel corso del Festival della
filosofia, nella Serra dell’Auditorium Parco della Musica.
Licia Fierro
Coordinatrice del Progetto
– 104 –
LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA
“Incanto e disincanto”
dalla gnoseologia degli antichi
alla politica dei moderni:
proiezione storica nel Risorgimento italiano
– Progetto: Roma per vivere, Roma per pensare –
(anno scolastico 2008-2009)
CLASSE II B
Coordinatrice: Prof.ssa Licia Fierro - Collaboratrice: Prof.ssa Alda Giannì
GLI ALUNNI:
Viviana Andolfi - Federica Balzani - Rosa Calabrese - Giulia Chakkalakal
Daniele Costanzo - Flaminia Gaia Di Lorenzo - Cristiano Furnari - Arianna Giuliani
Ilaria Gravina - Cristina Roxana Manescu - Adriano Masci - Luca Messina
Davide Maria Meucci - Elisabetta Orlando Senatore - Giovanni Romano
Arianna Sorrentino - Silvia Margareta Staffa - Chiara Tondi - Aurora Volpini.
INDICE:
INTRODUZIONE.
CAPITOLO I
1.1 La gnoseologia degli antichi: il “disincanto” e le certezze perdute
negli orizzonti teorici delle scuole di età ellenistica.
1.2 Le ripercussioni a Roma dello scetticismo: Cicerone.
CAPITOLO II
2.1 La traduzione in politica degli assunti ideali e teorici: uno sguardo storico.
2.2 “Incanto” del Risorgimento nella tensione dei suoi protagonisti.
2.3 Il “disincanto”: problemi irrisolti e funzione di Roma
dall’età post-risorgimentale fino ai giorni nostri.
INTRODUZIONE
Nell’ambito del progetto relativo al tema “Incanto e disincanto” dalla
gnoseologia degli antichi alla politica dei moderni: proiezione storica nel
Risorgimento italiano, è necessario individuare gli aspetti generali del
problema per poi analizzarne le componenti particolari. In tale prospettiva
– 105 –
l’utilità di contestualizzare il problema ci pone di fronte ad una serie di
interrogativi.
Qual è l’orizzonte socio-politico e culturale in cui si colloca la nascita
di nuove scuole di pensiero, quali lo Stoicismo, l’Epicureismo e lo Scetticismo? Come influisce la nuova visione della realtà sui caratteri specifici
dello Scetticismo? Nello sviluppare tali tematiche è importante focalizzare
l’attenzione sui mutamenti avvenuti nel passaggio dall’età classica (V-IV
sec. a.C) all’età ellenistica (IV-III sec. a.C). Infatti un primo cambiamento
del modus vivendi fu determinato dalla crisi della πóλις nata come forma di
aggregazione politica, economica e sociale. Proprio il nucleo originario di
questa istituzione era rappresentato dall’α! κρóπολις centro religioso e militare di tutta la comunità, a differenza dell’agorà, simbolo della vita politica
ed economica. Una delle πóλεις di maggior importanza fu la città di Atene,
la quale, durante la cosiddetta “Età dell’oro”, assunse il ruolo di leader in
campo militare e soprattutto culturale.
Infatti un primo significativo traguardo fu raggiunto quando per vincere
i Persiani, i quali sempre più spingevano sui confini di dominio greco, fu
costretta a costruire una potente flotta navale, che le permise di dimostrare
l’abilità di un esercito di uomini, animati dal desiderio di conquistare la
propria libertà. Ciò contribuì di conseguenza all’ascesa della città, che nel
giro di pochi decenni realizzò un impero marittimo, divenendo perciò la
prima città della Grecia. Tuttavia l’apice della sua potenza si ebbe quando le
sue sorti furono rette dal grande statista Pericle. Fu infatti dal 495 a.C. al
429 a.C. che si concretizzò la vera “democrazia”. Famosa è la descrizione
∼
di Pericle tramandata dallo storico Tucidide: “Aι# τιον δ*ηj ν ο$τι ε* κει∼νος μὲν
∼ / τε α! ξιώματι καὶ τη/∼ γνώμη/ χρημάτων τε διαϕανω
∼ς
δυνατòς ω
# ν τω
∼
∼
α! δωρóτατος γενóμενος κατει χε τò πληθος ε* λευθέρως, καὶ ου! κ
∼
η# γετο μα∼ λλον υ@ π* αυ! του∼ η% αυ! τòς ηj γε, διὰ τò μὴ κτώμενος ε* ξ ου!
προσηκóντων τὴν δύναμιν πρòς η& δονήν τι λέγειν, α! λλ* ε# χων ε* π*
α! ξιώσει καὶ πρòς ο! ργήν τι α! ντειπει∼ν”.1 (“La sua grande abilità politica
consisteva nel non lasciarsi guidare dalla volontà popolare più di quanto
egli stesso non riuscisse a controllarla; rimproverare il popolo quando la
situazione lo richiedeva, ma sollevarlo dalle angosce nei momenti di crisi.
Fu per questo, – conclude lo storico – che in Atene vi era sì la democrazia,
ma di fatto la guida politica della città era nelle mani di una sola persona
amata e temuta dai cittadini”).
1
Tucidide, Le storie, Principato, 2003, libro II parr. 65.8-65.9.
– 106 –
In questo clima di prosperità si evince come le certezze, specchio di una
società consapevole delle proprie potenzialità e dei propri limiti, abbiano influito su quell’ideale di perfezione, proprio dell’arte di Fidia, esemplificata
nei monumenti dell’acropoli.Tuttavia la situazione mutò a partire dalla
morte di Alessandro Magno e si verificò un periodo di crisi in cui non fu dimenticata la lezione dei filosofi classici ovvero Socrate, Platone e Aristotele, che continuarono ad esercitare un’influenza non trascurabile sulle
scuole di pensiero che si formeranno via via nell’età ellenistica. In questo
passaggio si nota come dal punto di vista politico-amministrativo la nuova
forma di organizzazione socio-politico sia la βασιλεία, in cui gli individui
sono ormai “sudditi”.2 In tale contesto culturale, Atene perse il suo ruolo di
città egemone, poiché altre, come Alessandria d’Egitto con la sua biblioteca
e con il suo Museo, le si affiancarono; ma Atene rimase il centro della vita
filosofica: tanto il Liceo, retto da Teofrasto, quanto l’Accademia continuarono a svolgere la loro attività. In merito a ciò fu particolarmente importante l’indirizzo filosofico dello Scetticismo, che elaborando in chiave gnoseologica, etica e politica i dubbi e le incertezze del tempo, trovò una prima
diffusione con una delle personalità più originali dell’epoca: Pirrone di
Elide. Infatti l’atteggiamento scettico si presenta come una forma di indagine aperta, giungendo alla conclusione che non è possibile conoscere nulla
della realtà. Pertanto l’uomo deve porsi nella condizione di “epochè”, ovvero deve attuare la sospensione del giudizio. In questa dimensione, che
può esser definita di “DISINCANTO”, poiché i valori dell’età classica sono
ormai dissolti nel passato, in che modo si affermano gli aspetti etici dello
Scetticismo? Per rispondere al quesito è indispensabile riflettere sul valore
del dubbio scettico. Partendo dalla considerazione che il dubbio, che gli
scettici usano per distruggere ogni certezza, pervenendo a ciò che è indubitabile, è un dubbio radicale, si vede come le esigenze dell’uomo del IV sec.
siano connesse al pensiero dell’etica scettica, fondamento del pensiero politico. Di conseguenza è chiaro quanto lo Scetticismo per la portata delle sue
influenze sia divenuto conforme alle istanze sociali, dove trovano piena af∼ θι σεαυτóν”, attraverso l’infermazione l’insegnamento socratico del “γνω
cessante ricerca conoscitiva e la capacità di creare una “!ισοστένεια”
(uguale forza) di discorsi contrapposti, che però non hanno soluzione, dal
momento che non si può pervenire all’essere. Ma allora sorge un altro inDroysen, Storia dell’Ellenismo; sulla scia di Droysen, A.Lesky, Storia della letteratura
greca, Il Saggiatore, Milano, 1965, vol. III.
2
– 107 –
terrogativo: se si assiste a questa perdita di fiducia nell’assolutizzazione dei
valori, per cui si parla di un passaggio dall’incanto al disincanto, si può vedere lo stesso processo in altri periodi storici? Correndo avanti nel tempo, il
nostro percorso contempla l’esigenza di collegare l’indirizzo di pensiero
antico come un atteggiamento, una disposizione della mente, tale da farci
intendere le componenti ideali e politiche nella temperie storica del Risorgimento italiano. Infatti il Risorgimento, durante il quale la penisola italiana venne unificata politicamente, non fu solo un’operazione politica ma
anche un atto di fede nato da quell’ideale di coscienza nazionale, di carattere prettamente etico, che animò uomini di grande spirito a realizzare
l’“Unità”, dando vita ad uno Stato liberale. Il filo conduttore di quest’impresa fu proprio l’idea di libertà, nata dallo spirito risorgimentale, il quale a
sua volta affonda le radici nel secolo dei Lumi. Infatti il concetto di Liberalismo (termine di origine francese: libéral, nell’accezione di dottrina politica, il cui obiettivo è il raggiungimento della tutela della libertà individuale) s’intravede per la prima volta nelle motivazioni che scatenarono la
grande Rivoluzione francese. La libertà fu la scintilla che fece scoppiare
l’incendio. Il teorico di questo ideale fu l’inglese J. Locke,3 ma una prima
impronta teorica si riscontra nel pensiero filosofico di B. Constant che partecipò all’attività politica in Francia nell’ultima metà della Rivoluzione
francese.
Di orientamento liberale, più legato alla tradizione anglosassone che a
quella francese, guardava più all’Inghilterra che all’Antica Roma come modello pratico di libertà all’interno di una vasta società commerciale.
Egli delineò la distinzione tra la “Libertà degli antichi e dei moderni”.4
La prima era partecipatoria, basata sulla libertà repubblicana, e dava ai
cittadini il diritto di influenzare direttamente la politica tramite dibattiti e
votazioni nelle pubbliche assemblee. Allo scopo di sostenere questo grado
di partecipazione diretta, avere la cittadinanza era un obbligo morale che
richiedeva un considerevole dispendio di tempo ed energia. Generalmente
ciò richiedeva una sottoclasse di schiavi per assolvere a gran parte del lavoro produttivo, lasciando così ai liberi cittadini la possibilità di deliberare
sugli affari pubblici. La Libertà degli Antichi era anche delimitata a società
relativamente piccole ed omogenee, nelle quali la popolazione poteva radunarsi in un unico luogo per dibattere la cosa pubblica.
3
4
J. Locke, II trattato sul governo civile.
B.Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Einaudi, 2005.
– 108 –
La Libertà dei Moderni, di contro, è basata sul godimento delle libertà
civili, sul dominio della legge, e sulla libertà dall’ingerenza dello Stato. La
partecipazione diretta è così limitata: ciò si spiega come conseguenza necessaria all’interno degli stati moderni, ed è anche un risultato inevitabile dell’aver dato vita ad una società commerciale in cui non esistono schiavi ma
ognuno deve guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro. Per questo motivo
coloro che hanno diritto al voto devono eleggere dei rappresentanti che deliberano nel Parlamento in rappresentanza del popolo.
Constant era convinto che nel mondo moderno grazie al commercio la
guerra fosse superflua. Egli attaccò aspramente la sete di conquiste territoriali di Napoleone che considerava illiberali e non degne di una moderna
organizzazione sociale e commerciale. Era l’antica Libertà ad essere guerriera, mentre uno Stato organizzato sui principi della Libertà Moderna deve
essere pacifico in mezzo ad altre nazioni pacifiche.
La distinzione tra Libertà Antica e Moderna è significativa per diversi
aspetti. In primo luogo, la Francia aveva cercato di riprodurre durante la
Rivoluzione Francese la Libertà Antica, basando le sue istituzioni come il
Consolato e il tribunato sul modello della Roma Repubblicana. Ciò aveva
avuto come esito contrario il dominio personale di Napoleone. Osservando
inoltre, l’esempio dell’Inghilterra, Constant concluse che la monarchia
costituzionale fosse più adatta delle istituzioni repubblicane per mantenere
viva la Libertà Moderna. Questa sua visione contribuì alla definizione
dell’“Acte Additional” del 1815, che trasformava il restaurato potere di
Napoleone in una monarchia costituzionale.
Questa doveva durare solo cento giorni, prima che Napoleone venisse
sconfitto, ma il lavoro di Constant fu nondimeno utile a riconciliare la monarchia con la libertà. Inoltre, Constant disegnò una nuova teoria di monarchia costituzionale, nella quale il potere reale era da intendersi come un
potere neutro, protettivo, di equilibrio e di limitazione degli eccessi di altri
poteri attivi: l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario. Infatti il potere esecutivo era affidato a un Consiglio di Ministri o Gabinetto il quale, sebbene nominato dal re, era in definitiva responsabile di fronte al Parlamento. Delineando questa chiara distinzione tra i poteri del re (come Capo dello Stato)
e i ministri (cioè l’Esecutivo) Constant rispondeva alla situazione politica
inglese da più di un secolo a quella parte: cioè che sono i ministri, e non
il re, a essere responsabili, e quindi che il re “regna ma non governa”. Va
ricordato, comunque, che nello schema di Constant il re non era visto come
una entità senza poteri: ne avrebbe avuti diversi, tra cui quello di effettuare
– 109 –
nomine tra i giudici, sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, nominare
i senatori e far decadere i ministri; ma non sarebbe stato in grado di governare, determinare le linee guida o dirigere l’amministrazione, poiché questo
era compito dei rispettivi ministri. Diversamente dalla maggior parte degli
storici, che ritiene fondamentale l’evento della Rivoluzione Francese, Constant afferma che l’errore principale di essa è stata la pretesa di realizzare la
libertà degli antichi in una situazione storico-sociale dove era attuabile solo
quella dei moderni. Tuttavia, a prescindere dalle contrastanti interpretazioni
storiografiche, l’anima del Risorgimento italiano fu l’aspirazione alla libertà
politica ed economica in uno Stato unitario che fosse “L’Italia”. La parola
unità come oggi quella di libertà fu una forza contro lo scetticismo politico
nel quale caddero molti uomini e poeti, fra cui Foscolo e Leopardi. Incanto
e disincanto camminarono di pari passo! L’“INCANTO” di questo periodo si
tradusse, nella prassi politica, nella compiuta realizzazione dell’unificazione
del nostro paese, sebbene tuttavia fosse comunque presente quel “DISINCANTO”, immediatamente riscontrabile nei grandi problemi irrisolti.
Perciò se da un lato ci furono valorosi uomini come Garibaldi, considerato
“l’uomo d’azione”, Mazzini, “la vera anima del Risorgimento”, Rosmini,
Gioberti e Cattaneo, dall’altra continuarono a persistere problematiche di
carattere politico-economico che saranno particolarmente evidenti nel
Mezzogiorno. A partire da Rosmini il desiderio di un’unificazione politica
diviene oggetto di un dibattito politico-filosofico che coinvolge i più importanti intellettuali. Infatti Rosmini, federalista convinto e difensore della tradizione di fede e della cultura cattolica contro il soggettivismo del pensiero
moderno, nato sulla scia dell’etica scettica, ritiene necessario garantire
oggettività alla conoscenza, nonostante proprio nell’ambito conoscitivo
la mente umana formuli giudizi di natura soggettiva. La sua posizione filosofica fu tacciata da Gioberti di scetticismo e nullismo, poiché Rosmini assume come primum filosofico la coscienza, la quale intuisce unicamente
l’Essere ideale ma non quello reale. Nella questione subentra anche la tesi
di Gioberti, il quale, sulla base dell’anacronistico legame fra Stato e Chiesa,
crede che la verità filosofica s’identifichi con la verità religiosa, poiché la
filosofia è riflessione dell’Idea delle Idee – per dirla con Platone – ovvero
Dio, verità che si manifesta con la rivelazione. In merito a ciò, Gioberti
sul solco della tradizione agostiniana e anselmiana, invita a ritornare alla
visione filosofica degli antichi, disprezzando così di conseguenza la teoria
di Cartesio, il quale, come dichiara Gioberti, è divenuto scettico al fine di
credere, dando perciò origine al sensismo, da cui sono derivati l’idealismo e
– 110 –
lo scetticismo. Anche Cattaneo non si astiene dal criticare Rosmini ed in
accordo con Gioberti afferma che la filosofia rosminiana prescinde dalla
verità e costituisce un immediato scetticismo che si radicalizza in tutto e
non fonda nulla. Su tali complesse tematiche abbiamo concepito l’analisi in
base ad una scelta preliminare dei testi essenziali e della storiografia che ci
ha permesso di coglierne oltre al senso, anche le profonde implicazioni e le
“influenze” sulle scelte della politica. Il lavoro è suddiviso in due grandi
sezioni ed è completato da una “conclusione” che non pretende di dare
risposte definitive ma solo un contributo a successive riflessioni che ognuno
farà nel proseguimento degli studi.
CAPITOLO I:
• La gnoseologia degli antichi: il “disincanto” e le certezze perdute
negli orizzonti teorici delle scuole di età ellenistica.
• Le ripercussioni a Roma dello scetticismo: Cicerone.
CAPITOLO II:
• La traduzione in politica degli assunti ideali e teorici: uno sguardo
storico.
• “Incanto” del Risorgimento nella tensione dei suoi protagonisti.
• Il “disincanto”: problemi irrisolti e funzione di Roma dall’età postrisorgimentale fino ai giorni nostri.
Bibliografia e sitografia:
GRETA GASPARINI, Gli storici, Principato, 2003.
G. GRICCO - F.P. DI TEODORO, Itinerario nell’arte, Zanichelli,1996.
B. COSTANT, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni,
2005.
Enciclopedia multimediale “Encarta”.
Enciclopedia multimediale “Wikipedia”.
– 111 –
CAPITOLO I
1.1 LA GNOSEOLOGIA DEGLI ANTICHI:
IL “DISINCANTO” E LE CERTEZZE PERDUTE
NEGLI ORIZZONTI TEORICI
DELLE SCUOLE DI ETÀ ELLENISTICA
Il periodo che va dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) all’affermazione della supremazia di Roma (31 a.C.), chiamato “età ellenistica”, diviene il comune denominatore dei popoli che abitavano il Mediterraneo e
l’Asia Minore. Esso è caratterizzato da alcuni importanti fattori che hanno
trasformato la cultura, l’economia, la società e le istituzioni politiche
greche. Innanzitutto il sistema della polis con le sue strutture partecipative,
che è stato alla base della vita politica dell’età classica, viene sostituito da
una nuova forma di potere, la monarchia, infatti il mondo ellenistico viene
dominato da tre grandi dinastie: la dinastia dei Tolomei in Egitto, quella dei
Seleucidi in Siria, e quella degli Antigonidi in Macedonia. Il sovrano ellenistico, nonostante mostri un atteggiamento esteriore di filantropia e di benevolenza, esercita in realtà nei confronti del popolo un potere assoluto; il cittadino, dunque, non è più chiamato ad esprimere il proprio parere attraverso
le assemblee democratiche (che hanno contrassegnato l’età della polis) ma è
semplicemente un suddito che deve al re obbedienza e riconoscenza.
Inoltre, il processo di divinizzazione del sovrano, iniziato con Alessandro
Magno, diviene sempre più forte, tanto da tradursi in un complicato cerimoniale di corte comprendente la proskynesis. Anche la corte assume importanza sia come luogo di potere che di cultura. La classe dirigente, in un
primo tempo, formata da Greci, i quali costituiscono anche la maggioranza
dell’esercito e dell’amministrazione civile, in seguito diviene accessibile
anche ad esponenti locali, purché profondamente ellenizzati nei costumi e
nella lingua: si forma dunque una classe dirigente che utilizza il greco come
lingua comune e risiede quasi unicamente nelle città. Così l’urbanesimo
diventa una delle caratteristiche fondamentali dell’età ellenistica, infatti,
nascono nuovi centri di sviluppo e di attrazione culturale. Sul piano sociale,
la trasformazione dei cittadini in sudditi e la coesistenza di genti diverse
determinano altri importanti mutamenti nella coscienza della popolazione,
che ha ripercussioni nella vita culturale. Si diffonde, infatti, da un lato un
ripiegamento verso il privato, ovvia conseguenza della distanza che si è
creata tra la gente comune e la gestione degli affari pubblici; dall’altro si
– 112 –
attenua la differenza nei confronti della diversità etnica e culturale, che promuove un senso di cosmopolitismo per cui l’individuo non si riconosce più
come “cittadino” di una città ma del mondo. Conseguenza del ripiegamento
verso il privato è l’affermazione delle scuole filosofiche che abbiano al
centro il raggiungimento della sapienza e della felicità individuale piuttosto
che una riflessione politica. Tali dottrine filosofiche sono lo Stoicismo,5
l’Epicureismo,6 il Neoplatonismo7 e lo Scetticismo.
Nel panorama della filosofia in età ellenistica lo scetticismo in particolare rappresenta quel “disincanto” che opera non solo sul piano teorico ma
5 Lo stoicismo è una corrente filosofica e spirituale fondata nel 308 a.C. ad Atene da Zenone
di Cizio, con un forte orientamento etico. Questo movimento viene suddiviso in tre periodi: Antica, Media e Nuova Stoà. Gli stoici fanno dell’etica il campo fondamentale della conoscenza,
comunque sviluppando teorie di logica e di fisica. In logica il loro contributo più importante è la
scoperta del sillogismo ipotetico. In fisica, essi sostengono che tutta la realtà è materiale, ma che
la materia inerte è distinguibile dal principio attivo, il logos, concepito sia come ragione divina sia
come principio che materialmente anima la natura, identificandolo con uno spirito vivificante, il
pneuma. Anche l’anima umana è manifestazione del logos. Per quanto riguarda l’etica stoica ciò
che impedisce l’adeguamento della condotta umana alla razionalità sono le passioni. Invece, la
virtù consiste nello scegliere sempre ciò che è conveniente alla nostra natura di esseri razionali.
Elemento distintivo dello stoicismo è quell’idea di cosmopolitismo che si diffonde in quel periodo: tutti gli esseri umani, infatti, sono manifestazioni di un unico spirito universale e dovrebbero
vivere in accordo fraterno e aiutarsi reciprocamente.
6 L’Epicureismo è un sistema di filosofia fondato sugli insegnamenti del filosofo greco
Epicuro. Secondo la dottrina epicurea, che concepisce la felicità come bene supremo della vita,
la virtù consiste nella liberazione dal turbamento e dal dolore; quindi la serenità è raggiunta
liberandosi da ogni desiderio molesto, dalle opinioni irragionevoli e dalle paure. L’importanza
della filosofia sta dunque nel dare all’uomo un “quadruplice farmaco”: il timore per l’aldilà e
la paura degli dei sono vani; la paura della morte è assurda, perché la morte è nulla; il piacere
(catastematico) è possibile per tutti; il male o è breve o è sopportabile.
Secondo l’etica epicurea la felicità consiste nel piacere, in quanto esso è il criterio della
scelta e dell’avversione. Le virtù cardinali nel sistema dell’etica epicurea sono la giustizia,
l’onestà e la prudenza, infatti Epicuro insegna che solo mediante la continenza, la moderazione
e il distacco si raggiunge quello stato di serenità che è la vera felicità. Vengono distinti, inoltre,
due tipi di piacere: quello stabile, nel quale consiste la felicità, e quello in movimento.
7 Neoplatonismo è il termine che designa le dottrine filosofiche e religiose di un movimento di pensiero sorto ad Alessandria intorno alla prima metà del III secolo d.C. I neoplatonici
fondono il pensiero di Platone con l’ebraismo ellenizzante di Filone di Alessandria e con altre
dottrine filosofico-religiose di provenienza essenzialmente greca. La dottrina neoplatonica è
caratterizzata da un’opposizione tra spiritualità e carnalità, mutuata dal dualismo platonico di
idea e materia; dall’ipotesi metafisica degli agenti mediatori, il nous e l’anima del mondo, che
trasmettono la potenza divina dall’Uno ai molti; dall’avversione verso il mondo dei sensi e dalla
necessità della liberazione dalla vita sensuale attraverso una rigorosa disciplina ascetica.
Il neoplatonismo è una forma di monismo idealistico nel quale l’Uno, perfetto, inconoscibile
e infinito è ritenuto la realtà ultima dell’universo. Dall’Uno emanano, molteplici livelli di realtà,
o ipostasi, il più elevato dei quali è il nous (l’intelletto puro), da cui deriva l’anima del mondo.
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anche pratico. Esso affonda le sue radici nel mondo antico e la sua storia
attraversa il Medioevo per giungere fino al Rinascimento. Nonostante l’origine e l’evoluzione dello scetticismo nell’antica Grecia e nella Roma ai
tempi di Cicerone non siano stati argomenti facili da trovare, abbiamo
cercato di spiegare al meglio e nel modo più semplice la sua nascita e le
idee proposte dai vari filosofi.
Lo scetticismo non costituisce una scuola filosofica, quanto piuttosto
una “forma mentis”, un atteggiamento generale nei confronti della conoscenza. In senso stretto, però, non si può parlare di una filosofia, ma quasi
di un’anti-filosofia; infatti, esso afferma che la felicità e la pace dello spirito
possono essere raggiunte dall’uomo saggio nonostante il crollo dei valori
tradizionali, e senza la necessità di proporne di nuovi.
Il termine scetticismo deriva dal greco “skepsis” che significa indagine,
ricerca, dubbio. Come la filosofia post-aristotelica, anche quella scettica
mira al raggiungimento della felicità, intesa come atarassia, ossia spassionatezza e tranquillità di spirito.
Contrariamente agli Stoici e agli Epicurei, i quali collocano l’atarassia
in una dottrina determinata, gli Scettici pongono come sola condizione la
negazione di ogni dottrina determinata. L’atarassia è, infatti, un’indagine
che mette in luce l’inconsistenza di ogni soluzione teorico-pratica, ritenendole tutte fallaci. Quindi la tranquillità di spirito si raggiunge attraverso il
rifiuto di ogni dottrina.
Mentre per i filosofi classici, la prima esigenza della ricerca era quella
di trovare il proprio fondamento e la propria giustificazione, l’indagine scettica non cerca una spiegazione in se stessa ma l’unico scopo è portare
l’uomo all’atarassia.
Inoltre, gli Scettici precludono all’uomo la metafisica intesa come un
modo per raggiungere l’imperturbabilità, a causa della molteplicità di filosofie che combattono tra loro, in questo campo, la propria “metaphysikà”
come ideale rendendole così tutte inaffidabili e non veritiere.
Gli Scettici non negano la verità dei fatti, quanto piuttosto le teorie elaborate che pretendono di spiegare la natura profonda e ultima della realtà;
quindi per questi filosofi non tutto è dubbio ma solo quello che riguarda
“il come delle cose” perché il “che” è conoscibile da tutti.
È necessario, però, tenere conto dell’esistenza di due forme diverse di
“disincanto” scettico, le quali nel corso della storia, sono entrate in contrasto tra loro o, semplicemente, le idee dell’una non erano coincidenti con
quelle dell’altra: lo scetticismo accademico e quello pirroniano.
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I principali esponenti dello scetticismo classico sono: Arcesilao, Pirrone,
Carneade, Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, Sesto Empirico.
La storia dell’Accademia conosce nel terzo secolo a.C. una svolta importante. Essa è dovuta ad Arcesilao8. Seguendo l’esempio di Socrate,9 egli
non scrive nulla, ma i contenuti della sua attività filosofica ci sono in parte
noti attraverso ricostruzioni posteriori. Sulla falsariga di Socrate, Arcesilao
ritiene preferibile riconoscere l’ignoranza che pretendere di sapere. Utilizzando la tecnica dialettica dell’argomentare pro e contro una determinata
tesi, egli giunge a riconoscere l’impossibilità da parte dei sensi e dell’intelletto di pervenire a una conoscenza certa. Non è chiaro se egli trasformi
questo riconoscimento nell’affermazione che nulla è conoscibile o se si limiti a sostenere la necessità di sospendere l’assenso, operazione denominata in greco “epochè”. In ogni caso, egli esprime un orientamento scettico
dell’Accademia, che tuttavia non annulla la necessità della ricerca. L’obiettivo polemico di Arcesilao è, soprattutto, la filosofia stoica, che appare
come la filosofia dogmatica per eccellenza. Egli accetta il lato negativo
della definizione del sapiente, data dallo stoico Zenone: sapiente è chi non
sbaglia né corre il rischio di sbagliare, ma a suo avviso solo l’atteggiamento
scettico può salvaguardare questo aspetto del sapiente. Infatti, non c’è alcuna rappresentazione che non possa essere falsa, quindi se il sapiente dà il
suo assenso a una rappresentazione, opinerà; ma è proprio del sapiente non
farlo; dunque il sapiente sospenderà il suo assenso (epochè). Paradossalmente, con questa argomentazione Arcesilao giunge a sostenere che la sospensione dell’assenso del filosofo scettico è la vera realizzazione del modello del sapiente, che non è mai in errore. Ma su quali basi poggerà allora
la condotta dello scettico? Arcesilao indicherebbe il criterio della condotta
in ciò che, una volta compiuto, è eùlogon (eùlogon: eu, bene + logos, ragione), “ragionevole”, ossia può essere difeso ragionevolmente.
È indubbio che Arcesilao si possa definire «scettico». L’accesa avversione di Timone10 nei confronti di Arcesilao ne è, in un certo senso, la conferma: Timone sente infatti la nuova posizione dell’Accademia come un’autentica invasione del proprio campo. Del resto, sia pure a denti stretti, alArcesilao, nato a Pitane, si reca successivamente ad Atene, dove segue l’insegnamento di
Teofrasto, che poi abbandona per entrare nell’Accademia, di cui è scolarca dal 256 a.C. sino alla
sua morte, avvenuta fra il 244 e il 240 a.C.
9 Socrate (Atene 470 o 469 - 399 a.C.), filosofo greco.
10 Filosofo greco (325-230/235 ca. a.C.), discepolo di Pirrone divulgatore delle teorie del
maestro.
8
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meno in un’opera egli è costretto ad approvare il pensiero di Arcesilao. E, al
di là di tutte le polemiche, Sesto Empirico11 riconosce espressamente di non
vedere differenze essenziali fra Arcesilao e lo Scetticismo: “Arcesilao [...]
pare a me che partecipi proprio dei ragionamenti pirroniani, tanto da essere
unico l’indirizzo suo e il nostro. E invero, né si trova ch’egli si pronunci
intorno all’esistenza né intorno alla non esistenza delle cose, né giudica preferibile, rispetto alla credibilità o non credibilità, una cosa a un’altra, ma in
tutto sospende il suo giudizio”12.
Arcesilao si ispira alle istanze dello Scetticismo pirroniano, e le fonde
con gli elementi del Socratismo e del Platonismo, facendo perdere a essi
il loro significato originario. È assai indicativo il fatto che Arcesilao ritenga
di dover respingere addirittura l’unica certezza che Socrate vanta, cioè il
«sapere di non sapere»; infatti, Arcesilao nega perfino di «sapere di non
sapere», come scrive lo stesso Cicerone: “pertanto Arcesilao dichiarava che
non vi è nulla che si possa sapere, neppure quello che Socrate si era serbato,
il sapere di non sapere nulla: a tal punto tutte le cose gli sembravano
nascoste nel buio; e così risolutamente pensava che non vi sia nulla che si
possa scorgere o intendere”.13
Tale inversione di rotta è il prezzo che l’Accademia paga per entrare nel
vivo delle discussioni filosofiche della nuova età, ma rappresenta anche la
rinuncia alla fedeltà rispetto al proprio passato.
Il metodo confutatorio-ironico-maieutico, che Socrate e Platone14
usano per cercare il vero, è da Arcesilao largamente utilizzato nel nuovo
senso «scettico», ed è da lui diretto in modo massiccio e implacabile soprattutto contro gli Stoici, in particolare contro Zenone.
Si tratta di confutare la Stoà con le sue stesse armi, e in tal modo ridurla
al silenzio. In particolare, Arcesilao sottopone a serrata critica il criterio
stoico della verità, che i filosofi del portico identificano con la «rappresentazione catalettica».
11 Sesto Empirico (II-III secolo d.C.), filosofo e medico greco, così chiamato perché nell’esercizio dell’arte della medicina faceva ricorso soltanto all’esperienza (empeirìa), respingendo
le costruzioni teoriche. La sua opera costituisce una sistemazione dello scetticismo antico, ma
è importante anche per il suo valore dossografico, cioè come repertorio di opinioni filosofiche
precedenti.
12 Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 232.
13 Cicerone, Varro 45, tr. R. Del Re.
14 Platone (Atene 428/427-348/347 a.C.), filosofo greco. È uno degli allievi più importanti
di Socrate.
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La parte saliente della sua critica consiste in questo: “Se l’apprensione è
l’assenso della rappresentazione catalettica, è insussistente, in primo luogo,
perché l’assenso non ha luogo in relazione alla rappresentazione, bensì in
relazione alla ragione (infatti gli assensi sono giudizi), in secondo luogo
perché non si trova alcuna rappresentazione vera che sia tale da non poter
essere falsa”15.
Se così è, quando noi «assentiamo», rischiamo di assentire a qualcosa
che può essere anche falso. Quello che nasce dall’«assenso» non può
dunque mai essere certezza e verità, ma solo «opinione». E, allora, delle
due l’una: o il saggio stoico dovrà accontentarsi di opinioni, o, se ciò è per
il saggio inaccettabile – dato che saggio è solo chi possiede la verità –, il
saggio dovrà essere «acatalettico», ossia dovrà «sospendere l’assenso»:
“Poiché tutte le cose non sono apprensibili, per il motivo che non esiste il
criterio stoico, allora, se il saggio darà il suo assenso, avrà mera opinione:
infatti, poiché non c’è nulla di apprensibile, se il saggio darà l’assenso a
qualcosa, lo darà a ciò che è inapprensibile, e l’assenso a ciò che è inapprensibile è appunto l’opinione. Di conseguenza, se il saggio è uno di coloro che danno l’assenso, il saggio è uno di coloro che hanno semplice opinione. Ma il saggio non è uno che ha semplici opinioni (infatti per gli Stoici
l’opinione è insipienza e causa di errori); dunque il saggio non è uno di coloro che danno l’assenso. Ma se è così, il saggio dovrà astenersi dal dare
l’assenso su tutte le cose. Ma astenersi dal dare l’assenso non è altro che sospendere il giudizio: dunque il saggio sospenderà il giudizio su tutte le
cose”.16
La «sospensione del giudizio», che lo Stoico raccomanda solo nei casi
di mancanza di evidenza, viene così generalizzata da Arcesilao, una volta
stabilito che non c’è mai assoluta evidenza.
Sull’“epochè” Arcesilao deve effettivamente insistere in modo del tutto
particolare, come Sesto Empirico afferma: “Arcesilao dice che il fine è la
sospensione del giudizio [...]; e, inoltre, che beni sono le singolari sospensioni del giudizio, mali le singolari affermazioni”.17
Naturalmente gli stoici reagiscono vivacemente e obbiettano che la sospensione radicale dell’assenso implica l’impossibilità di risolvere il problema della vita, e inoltre che rende impossibile qualsiasi azione.
Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 134.
Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 156.
17 Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 232.
15
16
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A tale obiezione Arcesilao deve rispondere con l’argomento dell’«eùlogon» o del «ragionevole»: “Ma poiché dopo ciò bisogna anche occuparsi
di ciò che concerne la condotta della vita, la quale non si può dare senza
un criterio di verità, dal quale anche la felicità, ossia il fine della vita, trae
la propria credibilità, Arcesilao afferma che chi sospende il suo assenso su
tutto regolerà le sue scelte e i suoi rifiuti e in generale le sue azioni col criterio del ragionevole o plausibile; e procedendo secondo questo criterio
compirà azioni rette: infatti la felicità si raggiunge mediante saggezza, e la
saggezza sta nelle azioni rette, e l’azione retta è quella che, una volta compiuta, ha una giustificazione ragionevole o plausibile. Dunque, chi si attiene
al plausibile agirà rettamente e sarà felice”.18
Il suo senso sembra essere il seguente: non è vero che, sospendendo il
giudizio, l’azione morale è impossibile. Gli stessi Stoici, infatti, per spiegare le comuni azioni morali, hanno introdotto i kathékonta, o «doveri»,
considerandoli azioni che hanno una loro plausibile e ragionevole giustificazione. E mentre solo il saggio sarebbe capace di azioni morali perfette,
tutti sarebbero invece capaci di compiere i kathékonta.
Ma, allora, ecco dimostrato che l’azione morale è possibile, dato che i
kathékonta sono possibili anche senza la verità e la certezza assoluta. Anzi il
«ragionevole» o «plausibile» basta addirittura per compiere «azioni rette».
Con le armi stesse degli Stoici, è possibile dimostrare che è sufficiente
il ragionevole, e che di conseguenza sono assurde le pretese del saggio e
della sua morale superiore.
Lo scetticismo di Arcesilao differisce notevolmente da quello pirroniano: mentre quest’ultimo nasce per risolvere il problema della vita e della
felicità, partendo da un sentimento della vita che vede nella rinuncia, nell’imperturbabilità e nell’impassibilità il segreto della felicità; lo scetticismo
accademico, inaugurato da Arcesilao, risulta svuotato di quella carica originaria e si impoverisce in senso «dialettico», in quanto tende a diventare
puro elenchos, mera «confutazione» dell’avversario stoico.
In sostanza, lo scetticismo di Arcesilao finisce per ridursi ad un tentativo di rovesciamento dei dogmi della Stoà, senza alcuna capacità di proporre positive alternative di alcun genere.
Tale forma di scetticismo è di vita limitata: vive solo nella misura in
cui distrugge l’avversario, e poi, ucciso l’avversario, con lui cade esanime
18
Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 158.
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sul campo deserto. Invece, la figura di Pirrone19 domina il IV secolo a.C.,
caratterizzato dalla presenza di Alessandro Magno e dai suoi tentativi di
conquista del mondo allora conosciuto. Tra coloro che seguono la spedizione in Asia c’è anche questo filosofo il quale, insieme con Anassarco, studia
in India dove può conoscere il modo di vita dei cosiddetti “gimnosofisti”
(cioè “sapienti nudi”): non è da escludere che questo modello possa aver inciso sul suo modo di concepire la vita filosofica. Dalla filosofia orientale apprende il valore e la prassi di una vita ascetica e solitaria, libera dalle passioni. Il principio essenziale del suo pensiero è espresso nella parola acatalepsìa, che implica l’impossibilità della conoscenza delle cose nella loro intima natura. Contro ogni affermazione, un principio contraddittorio può essere espresso con egual ragione. Secondariamente, è necessario per questo
fatto mantenere un atteggiamento di sospensione dell’intelletto. Le sensazioni e le opinioni non sono né vere né false, cosicché non bisogna prestare
loro credito, occorre piuttosto non avere né opinioni né inclinazioni. Chi
raggiunge questa condizione si troverà in uno stato di afasia, ovvero di silenzio. Ciò vuol dire che il filosofo non farà né affermazioni né negazioni
sulle cose del mondo e, per tale via, egli potrà pervenire all’atarassia, l’imperturbabilità di fronte alle cose e agli accadimenti. In terzo luogo, questi risultati sono applicati alla vita in generale. Pirrone conclude che, poiché nulla può essere conosciuto, l’unico atteggiamento adatto alla vita è l’atarassia,
“libertà dalle preoccupazioni”.
L’impossibilità della conoscenza dovrebbe indurre l’uomo saggio a ritirarsi in sé stesso, evitando qualsiasi eccessiva propensione o partecipazione per una attività particolare, e praticando il controllo sulle emozioni,
che non hanno fondamento nella realtà e appartengono al mondo delle
vane fantasie. La via propria del saggio, dice Pirrone, è di farsi tre domande. In prima istanza ci si deve chiedere cosa sono le cose e come esse
sono costituite. Secondariamente, ci si chiede come noi siamo legati a tali
questioni e, in terzo luogo, come dovrebbe essere il nostro atteggiamento
nei loro confronti. Riguardo a cosa siano le cose, si può solo rispondere
Pirrone (ca. 360 a.C - ca. 270 a.C.), filosofo greco di Elide, è normalmente considerato
come il primo filosofo scettico. Diogene Laerzio, citando Apollodoro, dice che inizialmente è
un pittore, e che sue pitture sono visibili nel ginnasio di Elide. In seguito si indirizza alla filosofia entrando in contatto con l’opera di Democrito, e familiarizza con la dialettica megarica tramite
Brisone, allievo di Stilpone. Ritornato a Elide, dopo aver trascorso un periodo in Asia, vive in modo semplice, ma viene molto stimato dagli abitanti della sua città natale e anche dagli ateniesi,
che gli concedono i diritti di cittadinanza.
19
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che non sappiamo nulla. Noi sappiamo solo come esse ci appaiono, ma
sulla loro essenza intrinseca siamo ignoranti. La stessa cosa appare differentemente a persone diverse, e di conseguenza è impossibile sapere quale
opinione sia corretta. La diversità di opinioni fra i saggi come fra gli ignoranti, dimostra che noi possiamo avere opinioni, ma la certezza e la conoscenza sono impossibili. Di conseguenza il nostro atteggiamento verso le
cose (la terza domanda) deve essere la completa sospensione del giudizio:
non possiamo essere certi di nulla, neanche delle affermazioni più banali.
Di qui il rifiuto di accettazione di tutto ciò che ci viene offerto dai sensi
che contribuisce a dare il nome di scetticismo alla scuola di pensiero. Non
a caso si dice che Pirrone si facesse investire dai carri e mordere dai cani di
sua spontanea volontà, ragionando in questo modo: “Chi mi dice che sia un
male? I sensi, ma essi così come mi ingannano con il remo immerso in
acqua possono ingannarmi sempre”. Si racconta, tra l’altro, che gli amici
chiedessero a Pirrone, dal momento che si faceva mettere sotto dai carri,
mordere dai cani e quant’altro: “Perché non ti uccidi?” e che lui rispondesse: “Perché non so se è un bene o no”. Per Pirrone, siccome non si può
sapere nulla (neppure ciò che accade) non è possibile neanche conoscere le
conseguenze di ciò che succede: chi mi dice, allora, che farmi mordere da
un cane sia un male? Pirrone non lascia nulla di scritto, ma il suo discepolo
Timone di Fliunte scrive varie opere in versi e in prosa, nelle quali alla
folla rissosa degli altri filosofi contrappone Pirrone come modello di sapiente imperturbabile. Alla base di tale imperturbabilità sta la convinzione
che le cose per natura sono senza differenze, senza stabilità, indiscriminate. Ne segue che come Socrate, Pirrone sceglie di non scrivere nulla,
poiché convinto di non avere nulla da affidare allo scritto e che altri potessero apprendere: ed è per questo che egli non fonda alcuna scuola e getta le
basi dello Scetticismo.
I membri dell’Accademia media (sviluppatasi nel III secolo a.C. dall’Accademia platonica) e dell’Accademia nuova (II secolo a.C.), capeggiata
da Carneade20, elaborano uno Scetticismo più sistematico ma meno radicale
dei pirroniani.
20 Carneade è un altro grande esponente dello scetticismo. Egli nasce a Cirene e frequenta
l’Accademia, della quale divenne scolarca nel 167/166 a.C. Nel 155 a.C. fa parte della celebre
ambasceria inviata a Roma dagli Ateniesi multati per aver saccheggiato Oropo; qui riscuote successo argomentando, in due giorni successivi, a favore e contro l’esistenza di una legge naturale
universalmente valida. La sua morte avviene nel 129/128 a.C.
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Anche Carneade non scrive nulla, ma Clitomaco21 ne espone le argomentazioni nei suoi scritti, che sono però andati perduti. L’obiettivo polemico di Carneade é soprattutto la filosofia stoica, in particolare Crisippo.
Egli muove una critica serrata alla teologia stoica, alla sua concezione della
provvidenza e della divinazione. Secondo Carneade, tra i filosofi dogmatici
c’è disaccordo sull’esistenza della provvidenza, come su qualsiasi altra dottrina. Così il fatto che una predizione si dimostri vera non è argomento a favore del determinismo: un evento futuro non è l’effetto prodotto dalle proposizioni vere che lo riguardano. Per esempio, la proposizione “Socrate sarà
condannato”, enunciata prima della condanna, è vera, ma ciò non significa
che essa sia la causa del prodursi della condanna: la necessità che riguarda
queste proposizioni è una necessità logica, non casuale o fisica. In generale,
riguardo al criterio di verità, Carneade afferma che nessuna rappresentazione sensibile può garantire di essere in accordo con i fatti. Che essa sia
vera è possibile, ma non è possibile accertare che essa sia tale, come provano le rappresentazioni che si hanno in stato di sogno o di allucinazione o
l’impossibilità di distinguere tra due uova o due gemelli identici. Alcune
rappresentazioni, tuttavia, possono essere apparentemente vere e persuasive: in ciò consiste il criterio del pithanòn, che significa propriamente
“persuasivo”. Il carattere di persuasività della rappresentazione riguarda la
relazione della rappresentazione non con l’oggetto, bensì con il soggetto
della percezione. Infatti, l’unico tipo di rapporto possibile con l’oggetto è
dato dalla rappresentazione. Carneade è il fondatore del cosiddetto probabilismo, per il quale è vero che non si può conoscere la realtà, ma si possono
comunque tracciare gradi di conoscibilità, ossia ci saranno cose più vere e
cose meno vere, delle probabilità. Tuttavia allo scetticismo (soprattutto a
quello carneadeo) si possono muovere due critiche: 1) se non posso sapere
niente, allora non posso sapere neanche di non sapere niente: lo scetticismo
è autocontraddittorio nella misura in cui nega che si possa conoscere la verità e, al contempo, propone ciò come verità. 2) Il concetto di probabilismo
di Carneade non lo si può accettare: esso è correlato a quello di certezza, infatti, per poter dire che una cosa è più probabile rispetto ad un’altra, devo
per forza avere una pietra di paragone; se conosco con certezza alcune cose,
allora sì che posso parlare di probabilità. Ma se non conosco nulla con certezza allora non posso neanche parlare di probabilità.
21
Discepolo di Carneade e originario di Cartagine.
– 121 –
Oltre alle correnti filosofiche dell’età ellenistica, in Grecia e a Roma a
partire dal II sec. a.C. si sviluppa la tendenza a uscire dai confini di un insegnamento filosofico limitato alla dottrina di una sola scuola: l’eclettismo.
Tra gli eclettici è da ricordare Filone di Larissa22 il quale precedentemente è
esponente della filosofia scettica.
Ispirandosi allo Stoicismo Filone si muove nella differenza fra evidenza
e percezione: le cose sono evidenti quando sono presenti alla mente, anche
se ciò non significa che esse siano di per sé percepite; non essendovi un
segno distintivo della percezione, il vero ed il falso si presentano nella sfera
della probabilità. L’uomo può raggiungere un certo grado di certezza attraverso l’opinione e la ricerca di ipotesi più probabili di altre.
Il suo discepolo Antioco23 si stacca dallo scetticismo di Carneade prima
che il maestro parta per Roma e che egli stesso muti con i due libri ivi scritti
le posizioni scettiche dell’Accademia.
Sono anzi essenziali le stesse critiche di Antioco al fine di smuovere
l’originario Scetticismo di Filone. Ma, mentre Filone si limita ad affermare
l’esistenza del vero oggettivo senza avere il coraggio di dichiararlo senz’altro anche conoscibile dall’uomo, Antioco fa il gran passo con cui si
chiude definitivamente la storia dell’Accademia scettica, dichiarando la verità non solo «esistente» ma anche «conoscibile» e sostituendo alla probabilità la certezza.
Sulla base di tali affermazioni, egli può ben presentarsi come il restauratore del vero spirito dell’Accademia: uno spirito che è in antitesi con
quello che ispira le tendenze inaugurate da Arcesilao e da Carneade, e che,
contro il parere di Filone, egli non ritiene in alcun modo con esso conciliabile né mediabile. Gli Scettici nascono come eredi del messaggio platonico,
ma di quest’ultimo, rifiutando il discorso sulle Idee, mantengono soltanto
quello sulla natura, che Platone definisce come ambito dell’opinione e dell’incertezza, non raggiungibile dalla ragione. Di qui il dubbio universale
degli Scettici.
22 Filosofo greco e discepolo di Clitomaco. Egli si trasferisce a Roma nell’88 e tra i suoi
allievi ha Antioco di Ascalona e Cicerone.
23 Antioco nasce ad Ascalona fra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni venti del II secolo a.C. È a lungo discepolo di Filone di Larissa, con il quale, abbandonata Atene, si reca ad
Alessandria, ove soggiorna fra l’87 e l’84 a.C. Fa in seguito ritorno ad Atene e diviene capo degli
Accademici. Nel 79 a.C., durante la dittatura di Silla, le sue lezioni vengono seguite per alcuni
mesi da Cicerone, trasferitosi, in quel periodo, ad Atene. In seguito, dopo aver assistito alla battaglia di Tigranocenta muore, e nonostante abbia composto delle opere, non ci è pervenuto nulla.
– 122 –
Tuttavia, alle aspirazioni di Antioco non corrispondono effettivi risultati:
nell’Accademia non rinasce Platone, bensì un misto di dottrine; convinto che
Platonismo e Aristotelismo siano un’identica filosofia e che esprimano semplicemente gli stessi concetti con nomi e con linguaggio differenti, Antioco
giunge addirittura a dichiarare la stessa filosofia degli Stoici sostanzialmente
identica a quella platonico-aristotelica e differente solamente nella forma.
Pretende, così, di portare a compimento l’opera di restaurazione della
vecchia Accademia, recuperando Crisippo e non Platone, tant’è che non
esita a respingere la gnoseologia platonica, e dunque anche la dottrina delle
Idee sulla quale essa si fonda.
Antioco, che, per un certo tempo, alla scuola del primo Filone ascolta le
idee scettiche dell’Accademia, si trova nelle migliori condizioni per criticarle, conoscendole bene dall’interno, nelle loro motivazioni.
Egli afferma che “il criterio di verità” e “la dottrina del sommo bene”,
la cui possibilità di raggiungimento tutti gli Scettici contestano, siano irrinunciabili per chiunque intenda presentarsi come filosofo, e pretenda di
avere qualcosa da dire agli uomini. Lo Scettico, col suo dubbio sulle nostre
rappresentazioni (cioè sul criterio della verità), rovescia ciò su cui l’esistenza umana si basa. Da un lato, negato il valore della rappresentazione, rimane compromesso anche il valore della memoria e dell’esperienza, e
quindi conseguentemente la possibilità stessa delle diverse arti (che nascono
dalla memoria e dall’esperienza).
Dall’altro lato, negato il valore del criterio, cade qualsiasi possibilità di
determinare che cosa sia il bene, inoltre cade la possibilità di stabilire che
cosa sia la virtù, e quindi di fondare un’autentica scienza morale.
Senza una salda certezza e una salda convinzione circa il fine della vita
umana e circa i compiti essenziali da assolvere, l’impegno morale si vanifica. Inoltre, secondo Antioco, non ci si può accontentare del solo «probabile», perché, senza il criterio distintivo del vero, sarà impossibile ritrovare
anche quello del probabile. Infatti, se fra rappresentazioni vere e false non
è possibile operare una distinzione, mancando esse di una differenza specifica, non sarà nemmeno possibile stabilire quale rappresentazione sia vicina o prossima al vero o meno lontana da esso. Pertanto, per salvare il
probabile, si dovrà reintrodurre il vero, perché, per stabilire se una cosa sia
più o meno vicina o lontana dal vero, occorre sapere che cosa sia il vero:
proprio in ciò sta la rottura col probabilismo di Carneade.
E neanche sarà possibile sospendere in qualsiasi caso l’assenso. Infatti
l’evidenza di certe percezioni naturalmente comporta l’assenso, e in ogni
– 123 –
caso, senza l’assenso noi non potremmo avere né memoria né esperienza e,
in generale, noi non potremmo compiere alcuna azione e per conseguenza
tutta la vita si bloccherebbe.
Inoltre, non si potrà dare colpa ai sensi di ingannarci. Quando gli organi
sensoriali non siano guasti e le condizioni esterne siano adeguate (come già
Aristotele24 aveva sottolineato), i sensi non ci ingannano e quindi non ci ingannano le rappresentazioni. E non vale richiamare, come argomenti in contrario, i sogni, le allucinazioni e simili: queste rappresentazioni, infatti, non
sono fornite della medesima evidenza rispetto alle normali rappresentazioni
sensoriali. Anche la validità dei concetti, delle definizioni e delle dimostrazioni è innegabile. Lo attesta l’esistenza stessa delle arti, inconcepibili
senza di essi. Infine Antioco mette in crisi Filone, costringendolo ad abbandonare Carneade con tale dilemma: non si può ammettere, nello stesso
tempo, a) che alcune rappresentazioni siano false e b) che fra rappresentazioni vere e rappresentazioni false non esista una differenza specifica che le
contraddistingua.
Se si ammette la prima affermazione, cade la seconda; se si sostiene la
seconda, cade la prima. Insomma, secondo Antioco, messo alle strette, lo
Scetticismo deve a poco a poco riconoscere inesorabilmente le verità negate.
Purtroppo, se Antioco si mostra acuto nella critica allo Scetticismo, si
mostra invece quanto mai deludente nella proposta dell’alternativa positiva
che dovrebbe riempire il vuoto aperto dallo Scetticismo.
In logica egli non si scosta dagli Stoici, e in particolare da Crisippo.
Anche in fisica Antioco ripropone idee stoiche. Però l’elemento che stupisce di più è la fusione che lui fa tra Stoicismo, Platonismo e Aristotelismo. Né le cose migliorano quando si passa all’etica: l’uomo deve vivere
seguendo la natura, anzi conformemente alla sua natura, che consiste nella
ragione. In ciò sta la virtù, che è il sommo bene.
Hanno però torto gli stoici nel sottovalutare il corpo e quanto è connesso al corpo. Infatti, basta, sì, la virtù alla felicità, ma non alla «perfetta
felicità». Hanno dunque in parte ragione anche i Peripatetici25 nel ritenere
Aristotele (Stagira, Macedonia 384 - Calcide, Eubea 322 a.C.), filosofo greco. All’età di
diciotto anni Aristotele si trasferisce ad Atene per studiare presso l’Accademia platonica, dapprima come allievo di Platone e poi come maestro.
25 I Peripatetici sono i discepoli di Aristotele. L’origine del termine "peripatetici" può essere ricondotta all’abitudine di Aristotele e dei suoi allievi di passeggiare (peripatéin) nel giardino del Liceo durante le lezioni.
24
– 124 –
che per la perfetta felicità siano necessari anche i beni materiali. Inoltre, Antioco attenua i paradossi dell’etica stoica e la pretesa che il saggio sia impassibile.
È, questo, un tipico esempio di «eclettismo26 dogmatico», che accosta
idee di estrazione diversa, senza saperle unificare.
Come si è potuto notare, la fonte principale delle notizie dello scetticismo antico è Sesto Empirico27 il quale oltre ad essere un filosofo è anche
uno degli ultimi filosofi scettici.
Sesto Empirico è l’ultima grande figura dello scetticismo classico; infatti egli si propone di sistemare e quasi “codificare” le dottrine scettiche,
nel momento in cui esse avevano conosciuto ormai una lunga storia e si
erano espresse anche al di fuori dell’ambito delle scuole filosofiche. Caratteristica della tematica scettica, non soltanto nella cultura greca, ma anche
in quella romana, è quella di assumere sempre più toni di polemica contro
le forme tradizionali della cultura ufficiale, insegnata nelle scuole o sostenuta comunque dalle istituzioni. Combinandosi con le tematiche del rifiuto
proprie della tradizione dei Cinici, lo scetticismo diviene a poco a poco una
sorta di “filosofia popolare” fondata sul buon senso e sulla misura e rivolta
contro le “astruserie” dei filosofi togati che insegnano nelle scuole; in
questa veste esso influenza anche la produzione letteraria di vasti settori
culturali, ed anche molto eterogenei tra di loro, ispirando per esempio generi letterari come la diatriba di Luciano di Samosata, o la satira del poeta
latino Orazio. Per ridare una caratterizzazione più fortemente culturale allo
scetticismo, Sesto Empirico si impegna ad una ridefinizione rigorosa delle
dottrine scettiche, riprendendo e sviluppando i motivi più tipici del pirronismo. Mentre sono andate perdute tutte le opere mediche di Sesto, ci sono
pervenuti i suoi Schizzi pirroniani, l’opera Contro i dogmatici e quella
Contro i matematici. Il valore dello scetticismo consiste nel contrapporre i
Eclettismo è un atteggiamento tipico della filosofia greca dell’età ellenistica e del pensiero romano, che consiste nello scegliere (in greco eklégein) dai diversi sistemi filosofici quelle tesi che sembrano più accettabili, fondendole in una nuova dottrina.
27 Dalle fonti antiche non ci è pervenuta nessuna notizia riguardo alla sua vita: la datazione
più verosimile lo vede attivo fra il 180 e il 220 d.C. La tradizione antica gli associa l’aggettivo
Empirico per segnalare la sua appartenenza alla scuola medica empirica, nonostante lo stesso
Sesto affermi che fra le correnti mediche, quella più vicina allo scetticismo è quella metodica.
Nonostante le scarse fonti sulla sua vita, è arrivata fino a noi gran parte delle sue opere, preziosissime in quanto non solo forniscono una dettagliata esposizione dello scetticismo “sestano”
ma anche di molte altre correnti scettiche precedenti, a cui Sesto spesso si appoggia.
26
– 125 –
fenomeni e le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito
alla uguale forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, si arriva alla sospensione del giudizio e quindi all’imperturbabilità.
Accettando quindi l’analisi e la critica della sensibilità proprie del pirronismo, e integrandole con la critica della razionalità di Enesidemo e specie
di Agrippa, Sesto Empirico porta a perfezione il metodo di contrapporre
dati dei sensi a percezioni intellettive, nonché dati sensibili tra loro e percezioni intellettive tra loro, giudicando dogmatiche perfino le posizioni
moderate di un Arcesilao e di un Carneade. Contro costoro, che parlano
di “probabile” ma quando “stanno nascosti in casa dicono la verità”, Sesto
riafferma che non bisogna credere a quello che ci sembra probabile, ma si
deve condurre una vita seguendo “le leggi, i costumi e le naturali affezioni,
vivendo senza formulare alcuna opinione”.
Ma la polemica di Sesto si sviluppa anche contro le forme del ragionamento razionale e scientifico, aristoteliche o stoiche che siano: in particolare,
egli sostiene che tutte le premesse di qualsiasi ragionamento possono essere
invalidate, perché o hanno bisogno di altre premesse in un regresso all’infinito, o sono ipotetiche, cioè poste arbitrariamente, o si dimostrano scambievolmente le une con le altre. Il valore della filosofia di Sesto è stato variamente valutato; c’è chi ha sostenuto che le sue minuziose argomentazioni e
le sue infinite polemiche nascondono una scarsa statura speculativa e teorica;
c’è invece chi ha sostenuto che quella di Sesto è l’ultima voce scientifica
della Grecia, col suo richiamo ad una ricerca sempre aperta e ad una verità
mai definitiva e conclusa, legata com’è al cambiare delle esperienze ed al
tentativo di stabilire le mutevoli condizioni entro le quali è possibile capire e
valutare i fenomeni. Sta di fatto che, da un lato, col suo richiamo ad un’esperienza, lo scetticismo, anche nella formulazione di Sesto, si chiude la via alla
teorizzazione ed all’astrazione proprie del discorso scientifico; e che, dall’altro lato, sempre grazie al suo richiamo all’esperienza delle leggi e dei costumi della vita ordinaria, esso, predicando l’epochè e l’atarassia, finisce per
diventare una filosofia del disimpegno e dell’evasione.
1.2 LE RIPERCUSSIONI A ROMA DELLO SCETTICISMO:
CICERONE
Il I e II secolo a.C. sono molto turbolenti e ricchi di avvenimenti, da un
punto di vista storico-politico nonché sociale. In seguito alla guerra sociale,
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scatenata dal desiderio degli alleati del riconoscimento della cittadinanza
romana, Silla instaura una dittatura sconfiggendo i “populares” con a capo
Mario in una guerra civile. Dopo Silla e Mario emergono nuovi protagonisti
sulla scena politica di Roma tra cui Pompeo Magno. Egli riceve dal Senato
l’incarico di sedare le rivolte in Spagna mentre ne scoppiano alcune anche
all’interno dello stesso impero. In seguito Pompeo escogita un’alleanza con
Cesare e Crasso al fine di ottenere ciò che il Senato non voleva concedere
loro singolarmente. Mentre Crasso muore nel 53 a.C., Cesare estende il dominio romano su tutta la Gallia, mentre a causa del potere accumulato da
Cesare il Senato e Pompeo si coalizzano contro di lui. Di fronte a questa
minaccia Cesare varca il Rubicone per poi sconfiggere Pompeo nella battaglia di Farsalo. Pompeo fugge in Egitto ma viene assassinato da Tolomeo.
Nel 48 a.C. Cesare instaura una dittatura ma muore quattro anni dopo a
causa di una congiura di senatori. Il problema della successione causa l’ultima guerra civile tra Marco Antonio e Ottaviano, vinta da quest’ultimo. Ottaviano inoltre si presenta come il paladino delle istituzioni e delle tradizioni romane conquistando così la fiducia di Cicerone.
A tutti questi cambiamenti si affianca una profonda crisi culturale e spirituale. Di fronte allo sfacelo delle istituzioni repubblicane e al trionfo della
corruzione, ideali come l’abnegazione di sé per la grandezza di Roma e la
subordinazione del singolo alla collettività non sono più proponibili. In particolare, l’emergere di grandi personalità che impongono la propria volontà
con ogni mezzo spinge chi non è in lizza per il potere a rifugiarsi in uno spazio personale. D’altra parte la religione sopravvive ormai solo a livello ufficiale, quando nessuna persona colta prende sul serio le divinità dell’Olimpo.
Questa crisi dei valori favorisce il diffondersi, nella prima metà del I sec.
a.C., delle dottrine filosofiche greche, a cui i Romani si rivolgono chiedendo
strumenti razionali per interpretare la realtà. I viaggi di istruzione in Grecia
diventano frequenti, così come le lezioni a Roma di filosofi greci, ospitati
dagli aristocratici per lunghi periodi o addirittura per tutta la vita.
La filosofia che riscuote maggior successo è quella epicurea sia per la
sua semplicità sia per la facile attrattiva del piacere come scopo della vita
umana. In realtà l’adesione a questa scuola è indizio anche della stanchezza
e della delusione che portano a rinchiudersi nel privato. Anche lo stoicismo
ha un forte seguito, con la sua visione meno individualistica e utilitaristica
rispetto a quella epicurea, ma non meno razionalistica. Al caso, che per Epicuro domina tutte le vicende umane, gli stoici contrappongono il fato,
preordinato a fini che sono imperscrutabili per l’uomo.
– 127 –
Infatti ad uno tra i più importanti filosofi e uomini politici dell’Antica
Roma, Cicerone28, la posizione stoica appare preferibile rispetto a quella
“epicurea” perché più facilmente conciliabile con la tradizione. Dunque,
sono presenti alcune convergenze tra l’etica stoica e il “mos maiorum”:
l’austerità, la temperanza, la sobrietà e la semplicità della vita, l’intransigenza sulle questioni di principio. Per questo, l’adesione allo stoicismo può
essere interpretata come un modo di riscoprire i “mores” e le virtù romane
originarie.
Nonostante lo scetticismo abbia riscosso molto successo a Roma, i Romani considerano la filosofia come “otium litterarum”. Il gusto per le speculazioni filosofiche è infatti totalmente estraneo alla società romana per
cui il “vir” è un uomo d’azione. Il senato arriva addirittura ad espellere dall’Urbe i filosofi ateniesi Carneade, Diogene e Critolao, che vi erano giunti
in visita.
La nobilitas senatoriale non vuole che i giovani si interessino alla filosofia temendo che li allontani dalla vita reale, ma deve ammettere che
nessun uomo degno di tale nome può restarne estraneo. In seguito i senatori
decidono di richiamare a Roma i filosofi cacciati per prendere da loro lezioni di filosofia, vietando, comunque, ad essi di insegnarla pubblicamente.
Persino Catone, fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica, studia la filosofia greca. Essa viene coltivata anche dall’ultimo
grande scettico del periodo antico: Cicerone.
L’originalità di questo personaggio in ambito filosofico non si riscontra
nella creazione di nuove teorie, ma nel ricorrere alla filosofia per rispondere
alle esigenze specifiche romane, conciliando tra loro aristotelismo, platonismo e stoicismo.
28 Cicerone nasce nel 106 a.C. ad Arpino da una famiglia agiata di ordine equestre ed è il
primo ad accedere alle magistrature come “homo novus” grazie al proprio talento. In giovinezza
studia retorica e filosofia venendo in contatto con l’aristocrazia intellettuale romana del circolo
degli Scipioni e con scrittori, poeti, filosofi e grammatici provenienti dalla Grecia. Sposa Terenzia
che gli dà una figlia, Tullia, mentre il figlio Marco nascerà nel 65 a.C. Percorre tutte le tappe della
carriera politica di quel periodo fino alla nomina di console del 63. In questo stesso anno ha la
responsabilità di difendersi dalla pericolosa congiura ordita da Catilina per impadronirsi del potere
con un’azione di forza. Dopo essere tornato dall’esilio, sua figlia muore e in uno stato di profonda
angoscia in cui alle delusioni politiche si aggiungono quelle familiari, Cicerone si ritira nella villa
di Tusculum cominciando la sua produzione filosofica. Inoltre, morto Cesare, si schiera dalla parte
di Ottaviano mentre attacca M. Antonio nelle “Filippiche”. Ma Ottaviano stringe il secondo triumvirato proprio con l’avversario e non esita a scrivere il nome di Cicerone nelle liste di proscrizione.
Nel 43 il grande oratore viene raggiunto dai sicari di M. Antonio e ucciso.
– 128 –
Nonostante il grande interesse per la filosofia, Cicerone si dedica ad
essa solo negli ultimi anni della sua vita durante l’otium forzato nella villa
di Tuscolo. Qui elabora tutte le sue opere filosofiche, tra cui la più strettamente filosofica è quella degli “Academica”. In quest’opera Cicerone affronta per la prima volta il problema gnoseologico, preliminare a qualsiasi
altra questione filosofica. La trattazione si divide in due libri dialogici: il
“Catulus” (oggi perduto) e il “Lucullus” (superstite) dal nome di uno degli
interlocutori, Lucullo appunto, che espone la dottrina della percezione: i
sensi possono giudicare con certezza delle cose percettibili e queste rappresentazioni portano alla formazione di nozioni generali, quindi negare una
percezione ed una comprensione delle cose significa sopprimere la virtù
stessa e con essa la filosofia. Cicerone invece difende l’accademismo probabilistico, sostenendo che i filosofi del passato hanno escluso la possibilità
di qualsiasi certezza perché la ragione non possiede un criterio sicuro per la
percezione del vero. In conclusione egli deve riconoscere che il vero non è
mai accessibile all’uomo e ciò che pare vero è piuttosto verosimile. In realtà
Cicerone rimaneggia ben presto quest’opera dividendola in quattro libri di
cui l’unico superstite è il “Varro” dal nome del Varrone a cui dedica l’opera.
Egli, che è anche uno degli interlocutori, delinea una sorta di storia della filosofia, accennando a Socrate e a Platone, per poi concludere con la distinzione fra tre specie di beni: spirituali, corporali ed esterni.
Cicerone è tuttavia molto più interessato ai problemi di filosofia pratica
che a quelli teoretici, infatti ben presto volge le sue indagini all’individuazione del bene assoluto in grado di realizzare la felicità nella vita, quello
che lui definisce “il termine, l’estremo, l’ultimo punto a cui bisogna riferire
tutte le norme per una vita buona ed una retta condotta, che cosa la natura
persegua come sommo tra ciò che è desiderabile, che cosa eviti come supremo tra i mali”. Questa indagine avviene nel “De finibus bonorum et malorum” in cui nel primo dialogo viene discussa la dottrina epicurea che
identifica il sommo bene con il piacere. Cicerone, che come avviene anche
negli “Academica” è uno degli interlocutori, esalta invece come sommo
bene la virtù ricordando esempi di grandi uomini del passato. Nel secondo
dialogo viene esposta da Catone l’Uticense l’etica stoica secondo la quale
ogni essere animato deve seguire gli istinti che lo conducono a placare le
sue voglie, quindi sommo bene per l’uomo è vivere secondo natura. Cicerone risponde affermando che il sommo bene è invece il vivere secondo natura soltanto se per natura si intende la capacità dell’anima di dominare e
non distruggere i beni corporali. Il terzo dialogo è ambientato nell’Acca– 129 –
demia di Atene, antica sede della scuola platonica, in cui viene esposta la
dottrina accademica: la felicità consiste nella virtù ma è completa solo con i
beni del corpo oltre a quelli dell’anima.
Nel “De finibus” la demolizione delle pretese dei sistemi filosofici contrapposti permette tuttavia di stabilire tra essi una gerarchia. L’epicureismo
viene ripudiato con decisione, per il suo edonismo materialistico e perché si
fa promotore di un atteggiamento di astensione dall’impegno nella vita pubblica; dello stoicismo vengono criticati il dogmatismo, l’esasperato rigorismo morale, la pretesa della radicale indifferenza del saggio rispetto a
tutte le contingenze esterne (come la malattia o la salute, la libertà o l’asservimento della patria); ma viene anche sottolineata la nobiltà con la quale la
dottrina stoica identifica il bene supremo con la virtù. Non sembrano soddisfare totalmente Cicerone nemmeno altre correnti di pensiero, che tentano
di conciliare l’intransigenza morale degli stoici con la maggiore apertura
umana della filosofia accademica e peripatetica. L’esposizione di Cicerone
non è organica ma la sua notevole cultura filosofica rivela solide basi,
benché manchi una metodica e approfondita indagine dei problemi.
Subito dopo Cicerone compone le “Tusculanae disputationes”, la raccolta di una serie di conferenze, che si immaginano avvenute proprio nella
villa di Tuscolo.
I temi trattati nei primi quattro libri sono: “la morte è un male?”; “il dolore è il più grande dei mali?”; “il sapiente è soggetto all’afflizione e agli
altri turbamenti dell’anima?”. Si parla dunque di ciò che impedisce all’uomo di essere felice concludendo che la morte in realtà è un bene (che
l’anima sia mortale o no) perché dà eterna beatitudine, che il dolore si sconfigge con la sopportazione e con il buon senso, che la ragione può rimuovere i turbamenti dello spirito, fondati su passioni e false opinioni. Il V libro
mostra, invece, come la virtù sola basti alla vita felice affrancando l’uomo
da timori, dolore e sofferenza: chi la possiede è forte, magnanimo, impassibile, addirittura invincibile. Cicerone è dunque convinto che sia necessario
l’assoluto dominio sulle passioni da parte della ragione, e che la virtù da
sola basti a dare la felicità.
Altre importanti opere filosofiche di Cicerone sono il “De natura
deorum” che consiste in una discussione tra uno stoico, un epicureo ed un
accademico riguardo le opinioni dei vecchi filosofi sulla provvidenza, presentando infine opinioni prese in prestito da Platone sul tema dell’immortalità dell’anima, poi il “De officiis” in cui Cicerone tratta “l’onesto e l’utile”,
cercando un modello di comportamento per i membri della futura classe di– 130 –
rigente, poi ancora la “Consolatio” scritta in occasione della morte della figlia Tullia, il “De legibus” e il “De republica” entrambi libri teorici, pratici
e tecnici riguardo la costituzione romana. “Laelius de amicitia” tratta invece
dell’amicizia, il bene più grande per l’uomo, mentre nel “De fato” Cicerone
si chiede se la vita umana sia determinata dal destino o dalla libera volontà
dell’uomo.
Attraverso le nostre riflessioni ci sembra di aver raggiunto alcuni risultati teorici. Innanzitutto Cicerone appare come l’emblema del pragmatismo
e della razionalità che hanno caratterizzato l’intera civiltà romana, ma anche
della crisi che essa stava attraversando nel I secolo a.C. Una crisi che, investendo il sistema politico, aveva inevitabilmente portato al crollo dei valori
tradizionali e con essi di quelli morali. Cicerone cerca di ristabilirli: il suo
passaggio da uno schieramento politico all’altro, da un pensiero filosofico
all’altro, non sono forse il sintomo del turbamento che affligge l’animo di
un uomo alla continua ricerca di certezze laddove non esistono più? Noi
non sappiamo se sia riuscito nel suo intento, ma possiamo senza dubbio riconoscerlo come una delle personalità più grandiose e allo stesso tempo
controverse di tutto il mondo classico.
Bibliografia e sitografia:
EMANUELE NARDUCCI, Introduzione a Cicerone.
GIOVANNA GARBARINO, Opera: letteratura, testi e cultura latina.
www.wikipedia.it
www.riflessioni.it
www.filosofico.net
– 131 –
CAPITOLO II
2.1 LA TRADUZIONE IN POLITICA
DEGLI ASSUNTI IDEALI E TEORICI:
UNO SGUARDO STORICO
Presentiamo ora, in un ideale viaggio libero da vincoli temporali e cronologici, il pensiero di tre grandi filosofi che hanno elaborato sistemi filosofici lontani tra loro ma che tuttavia sono ricchi di spunti per aprire la riflessione su tematiche comuni a tutto il pensiero umano. Partendo da Agostino
e toccando alcuni punti di Ockham e Bacone abbiamo potuto constatare
che, pur apparentemente lontani, questi autori hanno tracciato le linee evolutive di un pensiero politico che contiene elementi pregnanti d’attualità.
L’analisi della società civile, i modelli di convivenza, la necessità dell’organizzazione giuridica ci sembrano universalizzabili al di là dei contesti temporali in cui furono concepiti. Quindi la filosofia non è più quella costruzione astratta, lontana dal quotidiano che spesso è invisa ai più, ma invece
si avvicina al vissuto e si innesta in quello che è il flusso della storia e
quindi, se trova la sua origine nella vita, è proprio a questa che ritorna. Il
nostro tentativo è proprio quello di trasferire nella dimensione culturale che
ci appartiene il frutto di questo lungo cammino.
Agostino e il “Contra Academicos”
Il “Contra Academicos” insieme al “De Beata Vita” e al “De Ordine” è
uno dei tre “dialoghi di Cassiciaco”, che descrivono le discussioni tra
Agostino, gli allievi Licenzio e Trigezio e l’amico Alipio, nell’autunno del
386 d.C.
L’opera è suddivisa in tre libri: il primo, riporta il resoconto dei dialoghi
delle prime tre giornate che trattano della disputa fra Licenzio e Trigenzio riguardo la questione se sia possibile vivere felicemente cercando il vero senza
trovarlo. Il secondo libro riporta i dialoghi della quarta e quinta giornata fra
Licenzio e Agostino e fra quest’ultimo e Alipio, in cui il Padre della Chiesa
inizia a smontare le teorie accademiche. L’opera si conclude con il monologo
di Agostino, nella sesta ed ultima giornata, che in risposta agli inviti degli
altri partecipanti, smaschera completamente le tesi degli accademici.
La prima stesura fu redatta da uno scrivano testimone diretto dei
dialoghi, in seguito Agostino ebbe modo di rivedere il testo, mantenendosi
– 132 –
però molto aderente alla trascrizione dei dialoghi fatta dallo scrivano.29 Lo
stesso Agostino nel prologo chiarisce che nel testo solo le parti riguardanti
se stesso e Alipio sono fedeli trascrizioni dei dialoghi, poiché i loro interventi erano stati brevi e poco numerosi.
L’opera é dedicata a Romaniano, che nei due prologhi è invitato da
Agostino ad intraprendere la via della filosofia, nella convinzione che tale
strada avrebbe distratto l’amico dalle questioni terrene a cui l’altro dedicava
molto del suo tempo. L’esortazione di dedicarsi alla filosofia e di conoscere
la verità è comunque rivolta a tutti i lettori, soprattutto a quelli che sono
portati alla ricerca del vero.
Nel testo Agostino attacca la filosofia dell’Accademia nuova o scettica,
che a suo dire induce l’uomo ad allontanarsi dalla filosofia, perché insistendo
sull’impossibilità di trovare la verità, impedisce al saggio di dare l’assenso a
ciò che è vero. In questo modo lo scetticismo contribuisce a lasciare l’uomo
in uno stato di ignoranza, impedendogli di pervenire alla vera sapienza.
Il dialogo, nel secondo e terzo libro, mostra come Agostino non sia
avverso agli accademici, ma solo alle teorie scettiche, per cui il titolo
“Contra Academicos” non appare il titolo più adatto, sarebbe forse più
opportuno chiamarlo “De Academicis” o “Academicorum”30, come avviene
in alcune edizioni più recenti.
Il dialogo inizia ponendo la questione “se si possa vivere felicemente
anche senza trovare il vero, pur cercandolo”, intendendo il “vivere felicemente” come “vivere secondo ragione”.31 Alla questione Trigenzio risponderà negativamente, sostenendo che il sapiente è felice perché, conoscendo
la verità, non deve ricercarla, in contrapposizione a chi cerca, che mancando
della verità non è perfetto e per questo motivo non può essere felice, perché
solo il possesso della verità rende perfetti e felici.32
Licenzio controbatte richiamandosi a Cicerone e affermando che il sapiente è colui che cerca, in quanto non esiste una verità a cui l’uomo possa
aderire con certezza, perché l’uomo non può conoscere la verità, se non
Cfr. T. Fuhrer, Augustinus, Darmstadt, 2004, pag. 19.
Cfr. Agostino, Contro gli Accademici, a cura di Giovanni Catapano, Bompiani Editore,
Milano, 2005, pag. 15.
31 Cfr. Agostino, Contro gli Accademici, a cura di Giovanni Catapano, cit., pag. 93, in cui
Agostino pone la domanda “Pensate che possiamo essere felici anche senza aver trovato la
verità?”.
32 Idem, pag. 97, in cui Trigenzio afferma: “Perché noi vogliamo che sia felice il sapiente,
il quale é perfetto in ogni cosa. Chi invece cerca ancora non é perfetto”.
29
30
– 133 –
dopo la morte, essendo la conoscenza una prerogativa solo di Dio33. Per
questo motivo, secondo Licenzio, la perfezione umana sta nel ricercare la
verità e non nel conoscerla34.
Nella seconda giornata il dibattito ruota attorno alla definizione di errore
data da Trigenzio che afferma: “errare difatti è soprattutto cercare sempre e
non trovare mai”35. Questa definizione di errore viene smontata nel corso
della giornata quando Licenzio definisce l’errore come la possibilità che
l’uomo consideri vero ciò che è falso, demolendo in questo modo la definizione data da Trigenzio.36
La terza giornata vede Agostino intervenire nel dibattito introducendo
il concetto tradizionale di sapienza come “scienza delle cose umane e
divine”37. La tesi trova Trigenzio d’accordo, mentre Licenzio sosterrà la tesi
che è conoscenza solo ciò che riguarda la divinità, mentre la sapienza
umana è solo ricerca del vero38. A conclusione della giornata Agostino ricapitola i temi affrontati e considera concluso il dibattito perché i due giovani
hanno dimostrato di preferire la filosofia a qualsiasi altra attività.
Nella quarta giornata Agostino riassume le tesi di fondo dell’Accademia: la sapienza consiste nel trattenere l’assenso in quanto, come dice
Zenone, il vero é conoscibile solo se non può essere confuso con il falso, di
conseguenza nulla può essere conosciuto come certo, in quanto nessuna
rappresentazione ha questa caratteristica39.
Il filosofo prosegue attaccando la definizione degli scettici di “verosimile” e domandandosi come sia possibile distinguere il verosimile se si
ignora il vero stesso.40
Il dialogo prosegue nel quarto giorno con la difesa delle teorie degli
Accademici da parte di Alipio che, chiamato dai due giovani a controbattere
Idem, pag. 101.
Idem, pag. 101: “il fine dell’uomo é invece cercare perfettamente la verità; noi infatti
cerchiamo sì uno perfetto, ma pur sempre un uomo”.
35 Idem, pag. 105.
36 Idem, pag. 105 e segg.
37 Idem, pag. 117.
38 Idem, pag. 129, in cui Licenzio afferma: “E se vuoi spartire questa determinazione, la
prima parte, che possiede la scienza, spetta a Dio, mentre la seconda, che si accontenta della
ricerca, all’uomo”.
39 Idem, pag. 159: “il quale (Zenone, nda) dice che può essere conosciuto con certezza quel
vero che sia stato impresso nell’animo in modo talmente conforme a ciò da cui proviene, da non
poter essere conforme a ciò da cui non proviene”.
40 Idem, pag. 167: Agostino per illustrare il concetto di verosimile paragona il fratello di
Licenzio al padre Romaniano, affermando che sono simili.
33
34
– 134 –
le affermazioni del filosofo, considera la questione sollevata da Agostino
una controversia insignificante.
Nella quinta giornata Agostino ritratta la sua critica al verosimile,
perché con questo termine gli accademici volevano indicare il probabile,
ovvero ciò che può indurre l’uomo ad agire senza obbligarlo a dare il proprio assenso. Rimangono quindi due questioni da risolvere, che vengono
affrontate nella sesta giornata: l’impossibilità di conoscere il vero in modo
certo e la necessità di negare l’assenso a qualsiasi rappresentazione41.
Il dibattito si concentra sulla richiesta di Agostino ad Alipio di illustrare
la differenza fra il filosofo ed il sapiente. Alipio crede “che il sapiente non
differisca in nulla dall’amante della sapienza, tranne il fatto che, di quelle
cose di cui nel sapiente è insito un certo possesso abituale, nell’amante della
sapienza esiste soltanto un ardente desiderio.”42 In sostanza, secondo Alipio,
la differenza fra il sapiente e il filosofo si sostanzia nel possesso della
sapienza, mentre il primo la possiede, il secondo la ricerca costantemente.
Agostino controbatte la definizione di Alipio sostenendo che la sapienza è una disciplina che l’uomo impara a possedere attraverso lo studio
del vero, e che egli per essere sapiente deve conoscere, per cui anche la
conoscenza del probabile appare come una conoscenza sapienziale. In realtà
secondo Agostino non è in discussione il contenuto della sapienza, ma la
definizione di chi sia il sapiente.43
In questa maniera il filosofo confuta la teoria accademica secondo cui
l’uomo non può conoscere il vero, in quanto il sapiente non può non conoscere, altrimenti non potrebbe essere definito “sapiente”.
Agostino, quindi, procede alla confutazione delle due tesi accademiche
secondo le quali nulla si può conoscere con certezza e a nulla si deve assentire. Il filosofo si avvale di esempi: il primo riguarda la fisica, campo in cui
l’unica certezza è l’esistenza di un mondo o di una molteplicità di mondi,
nel qual caso il numero sarebbe finito o infinito. Si tratta di proposizioni
che non presentano elementi di falsità in quanto si tratta di proposizioni
disgiuntive, ovvero risulterebbero vere anche se i nostri sensi nel percepirle
si stessero ingannando.44
Idem, pag. 187 e segg.
Idem, pag. 205.
43 Idem, pag. 209 e segg.
44 Le tesi presentate da Agostino per confutare le tesi accademiche, occupano il decimo
capitolo nel terzo libro, pag. 243 e segg.
41
42
– 135 –
Per quanto attiene la veridicità dei sensi, Agostino afferma che ad ogni
singolo uomo le percezioni che gli derivano dai sensi sono vere per il soggetto che le sta provando, a prescindere se altri che stanno vivendo la stessa
esperienza sensoriale provino o non provino le medesime sensazioni.45
Vista la relativa facilità con cui aveva confutato le tesi accademiche,
Agostino avanza l’ipotesi che gli scettici non siano i responsabili di queste
teorie erronee ma, visto che a quei tempi fra le scuole filosofiche era molto
in voga l’esoterismo, avanza l’ipotesi che le tesi discusse nel dialogo siano
state tesi divulgate per i neofiti della setta, mentre la vera dottrina sia
rimasta segreta e sia stata rivelata solo agli iniziati alla filosofia scettica.46
Il percorso compiuto da Agostino e dai suoi compagni si conclude con
l’esaltazione dell’autorità di Cristo su tutti i filosofi47, infatti se nei testi
platonici Agostino pensa di poter trovare una sapienza utile a comprendere
ciò che é vero, questo sarà possibile solo se essi non contrasteranno con i
testi sacri.
In sostanza il filosofo sostiene che la ricerca del vero, che l’uomo
compie durante la sua vita, non è valida in sé, ma solo se conforme alla
volontà del Cristo ovvero se si tratta di una ricerca illuminata dalle Sacre
Scritture e perciò non solo opera umana, ma frutto maturo dell’opera di
ricerca della ragione umana illuminata dallo Spirito Santo. In quanto non
sarà l’atteggiamento assolutamente scettico degli accademici a consentire
all’uomo di scoprire la verità, ma la volontà dell’uomo di ricercare il vero
nel suo tentativo di andare verso Dio.
Il dibattito, partito dalla domanda “se si possa vivere felicemente anche
senza trovare il vero pur cercandolo”, sembra concludersi con l’idea che secondo Agostino l’uomo possa essere felice ricercando il vero, sempre che il
vero sia il Cristo. Egli per sua natura non può essere posseduto da alcuno
ma è presente nella storia e nella Chiesa grazie all’opera dello Spirito Santo.
La felicità, quindi per Agostino, è la tensione continua dell’uomo verso
45 Nell’undicesimo capitolo del terzo libro, Agostino affronta il problema della veridicità
dei sensi, pag. 249 e segg.
46 Idem, pag. 283, Agostino afferma che: “Arcesilao… abbia nascosto in profondità la
dottrina dell’Accademia e l’abbia sotterrata, come oro lasciato alla scoperta dei posteri prima
o poi”; a pag. 291 richiama gli scritti di Cicerone, che dice “essi ebbero l’abitudine di nascondere la loro dottrina e furono soliti non rivelarla ad alcuno, se non a chi fosse vissuto con loro
fino alla vecchiaia”.
47 Agostino afferma: “Io ho dunque deciso di non separarmi proprio in nessun caso dall’autorità di Cristo, non ne trovo infatti una di più valida”, idem, pag. 293.
– 136 –
Cristo, che su questa terra non potrà mai essere piena conoscenza del Figlio
di Dio, perché Dio potrà essere conosciuto solo quando l’uomo tornerà alla
casa del Padre e potrà vedere in tutto il suo splendore la grandezza divina.
Per Agostino quindi l’uomo può vivere felicemente su questa terra purché
sia alla ricerca del Cristo.
Una tale concezione nega la possibilità all’uomo di allontanarsi dall’insegnamento divino non solo nel suo agire privato ma anche nelle sue scelte
pubbliche. Le azioni nella sfera politica dovranno essere sempre compiute
seguendo le Sacre Scritture. L’agire politico per Agostino dovrà essere rispettoso dell’altro, incurante dei propri interessi ma soprattutto sottomesso
alla volontà Divina e pertanto anche delle gerarchie ecclesiastiche che, per
loro natura, detengono la verità, poiché eredi dirette dei primi apostoli che
in Palestina incontrarono il Cristo e capaci di guidare l’uomo nel suo cammino verso di Lui: compimento di un cammino spirituale traducibile nella
“vita felice”.
Ockham
Per comprendere con successo quello che è il pensiero politico di
Ockham occorre rendersi conto del contesto storico all’interno del quale
visse e operò il “Francescano di Oxford”.
Siamo infatti nell’ultimo periodo della lotta per le investiture, sul finire
della seconda metà del ‘300, e Ockham è protagonista di quelle che sono le
dispute tra potere imperiale e potere papale.
Come francescano minore decise di schierarsi con la fazione filo-imperiale dopo che fu emanata la bolla papale “Cum inter nonnullos” che
avrebbe dovuto dirimere le dispute sulla presunta povertà di Cristo e dei
discepoli, ma che in realtà non era stata altro che un ennesimo tentativo del
Papa Giovanni XXII di indebolire Ludovico il Bavaro e i suoi sostenitori.
Se da un lato si arriva spesso alla messa in campo di eserciti da opporre
alla fazione opposta, dal punto di vista dello scontro intellettuale e teorico
la lotta è tra la tesi monista e ierocratica, dei sostenitori del potere papale
su quello imperiale, e quella dei difensori dell’indipendenza dei due poteri.
I più grandi esponenti della prima linea di pensiero sono personaggi come
Egidio Romano o Agostino Trionfo che, seppure con sfumature diverse, teorizzano l’assoluta dipendenza e subordinazione dell’Imperatore al Papa che,
in possesso dell’autorità concessagli da Dio, è la guida spirituale di tutti gli
uomini, compreso l’imperatore che proprio al Papa deve il suo riconosci– 137 –
mento in carica e al giudizio del quale è quindi sottoposto inevitabilmente.
Dall’altro lato del “campo di battaglia” vi è una schiera varia e variegata di
intellettuali e pensatori tra i quali anche Dante Alighieri, che nel suo “De
Monarchia” esprime una posizione moderata di conciliazione dei due poteri
e Marsilio da Padova, radicalmente avverso al Papato, che nel suo “Defensor
Pacis” arriva ad additare il Papa stesso come il vero nemico della pace e
della tranquillità della comunità cristiana; sopra tutti, per lo spessore della
sua critica, Ockham. Il “Francescano di Oxford” sviluppa la dottrina secondo
la quale i due poteri sono strettamente dipendenti l’uno dall’altro, e devono
rendere entrambi conto non solo alla legge divina, ma devono anche operare
per il bene comune e, cosa fondamentale, nel rispetto delle libertà personali:
è la prima volta che tale principio viene affermato con tale chiarezza e vigore. Nelle sue opere principali, il “Dialogus inter magistrum et discipulum
de imperatorum et pontificum potestate”e le “Octo quaestiones de potestate
papae”, Ockham divide in maniera netta la giurisdizione dei due poteri.
L’uno, quello papale, scaturisce da Cristo in persona che affida le chiavi della
sua Chiesa a Pietro e ai suoi successori stabilendo una gerarchia di tipo monarchico all’interno della Chiesa, il secondo discende in linea diretta dall’esperienza dell’Impero Romano: ne consegue che, essendo diverse le origini,
nessuno dei due poteri, e in particolare il Papato, può entrare nell’ambito dell’altro. Se da un lato quindi riesce a confutare tutte le tesi ierocratiche, dall’altro non rinuncia ad affermare che in campo dottrinale la Chiesa non abbia
possibilità di essere contestata e riafferma fortemente il dogma della rivelazione; ma la Chiesa di cui parla Ockham non è quella di Roma, guidata da
uomini e quindi soggetta all’errore, ma piuttosto essa è la comunità intera
dei fedeli, guidata dallo Spirito Santo e quindi infallibile.
Bacone e “La Nuova Atlantide”
Bacone, nato a Londra nel 1561 da sir Nicola Bacone, lord guardasigilli
della regina Elisabetta, può essere definito come colui che concepì la
scienza come fondamento della politica. Questo è quanto si evidenzia ne
“La Nuova Atlantide”, opera pubblicata nel 1626, un anno dopo la morte
dell’autore.
Egli fu un personaggio molto coinvolto nella politica del proprio paese,
e ricoprì anche cariche importanti durante il regno di Giacomo I Stuart.
Egli, inoltre, era convinto che dalla politica si dovesse separare l’etica, in
quanto ogni azione umana può essere politicamente buona ma moralmente
– 138 –
scorretta, e viceversa. Per cui necessità politica ed etica vanno distinte, nonostante la loro apparente coincidenza teorica. Egli attuò per primo questa sua
teoria, infatti le sue vicende politiche lo dimostrano; non a caso fu accusato
di corruzione più volte, ma comunque le sue idee politiche risultano teoricamente accettabili. Bacone è considerato il “profeta della tecnica”; non a caso
dalle sue teorie politiche presenti nella “Nuova Atlantide” la politica appare
ridotta e minimizzata alla semplice efficienza della tecnica e della scienza.
È dunque il caso di soffermarsi più da vicino sull’analisi dell’opera.
“La Nuova Atlantide”
“La Nuova Atlantide” contiene gli assunti politici impliciti nella filosofia
di Francesco Bacone. È un testo tipicamente rinascimentale e va considerato
come utopico (dal greco ou tòpos = luogo che non c’è). Esso tratta di un’isola, di nome Bensalem, sulla quale un gruppo di marinai naufragano. La
netta rottura col passato da parte di quest’opera utopica si mette in risalto fin
dall’inizio, col concetto di naufragio, che, in questo caso, non è considerato
come dovuto all’hybris umana (un eccesso da parte dell’uomo), ma, anzi, è
visto come qualcosa di positivo; lo stesso discorso si può fare per il mare,
l’antica immagine della minaccia; esso è visto come un elemento positivo
che separa la pura isola di Bensalem dal resto corrotto del mondo.
Bacone con quest’opera riprende a grandi linee altre opere utopistiche
come “Utopia” di Tommaso Moro e “La città del sole” di Campanella, e,
ancor più, si rifà all’“Atlantide” di Platone. Infatti, come Platone a capo del
suo stato ideale aveva posto i filosofi e Campanella i sacerdoti, Bacone
identifica negli scienziati la classe dirigente e governante del proprio stato
ideale. Si tratta, quindi, di un’utopia tecnocratica, nella quale il potere risiede nelle mani dei sapienti similmente a come avviene in Platone; tuttavia
la differenza tra i due in questo caso sta proprio nella diversa concezione di
sapiente, che infatti per Bacone non è il filosofo ma lo scienziato, in quanto
dotato di un sapere pratico, e da questo deriva anche il concetto baconiano
secondo cui la scienza per avere il giusto valore deve essere orientata e finalizzata all’azione, e apportare innovazioni utili all’uomo. Tuttavia, per ottenere ciò non basta che ci sia il semplice lavoro degli scienziati, ma bisogna
che questi governino letteralmente la società. “La Nuova Atlantide” di Bacone si distingue anche dalle opere di Tommaso Moro e di Campanella in
quanto il tema principale di essa è il potere che possiede l’uomo grazie alla
scienza, indipendente, quindi, da motivazione morali o sociali.
– 139 –
Dunque l’utopia di questo viaggio non è fine a se stessa, ma rappresenta
l’abbandono di qualcosa per andare verso il nuovo, quasi come a voler simbolizzare una sorta di rinascita. Analizzando le caratteristiche dell’isola in
questione, la possiamo identificare come un luogo perfetto, aconflittuale,
dove gli uomini vivono in armonia tra loro e possiedono, grazie al governo
degli scienziati, tecniche di lavoro avanzatissime ed una conoscenza scientifica altrettanto sviluppata, praticano la religione ma non in modo ossessivo,
vivono nella purezza dei loro costumi, e considerano la famiglia come
perno della società, cosicché la sua prosperità diviene un affare di stato,
come se questo progetto utopico debba partire dal privato per estendersi
all’universale. Descrivendo questa società perfetta, Bacone raggiunge un
duplice scopo: attirare l’attenzione su una qualche società perfetta e criticare quella in cui vive. Ma questa bilateralità rende difficile distinguere
dove finisce la realtà e dove comincia l’utopia.
Aspetto culminante dell’opera è quello dello sviluppo scientifico e tecnico visto sotto l’aspetto di uno strumento per migliorare le condizioni e le
aspettative di vita: così, ad esempio, vengono descritti strumenti per depurare l’acqua salata rendendola dolce, si sperimentano sugli animali varie
forme di medicinali e veleni per provvedere alla salute del corpo umano, si
prolunga la vita dell’uomo.
Tuttavia è possibile muovere alcune critiche alla costruzione statale di
Bacone: innanzitutto non è una democrazia il regime che vige sull’isola, e
in secondo luogo il filosofo riconduce la politica a semplici scelte tecniche,
cosa che è assolutamente errata in quanto non si può ridurre la politica di
uno stato solo a tali condizioni.
Ciò che, comunque, riveste una grande importanza è il ruolo che Bacone ebbe rispetto al suo tempo e soprattutto il fatto che egli rappresenta
l’indice e la direzione della tendenza evolutiva del progresso umano in quel
tempo.
È infatti la direzione della fede a cambiare: con Copernico e Galileo,
egli sostiene il principio “geocentrico”, cioè pone l’uomo e le sue capacità
intellettive al centro della storia umana. La fede che precedentemente era
posta sulla conoscenza come risultato della rivelazione divina trasmessa
dalle sacre scritture, è ora invece posta nell’uomo in quanto intelletto razionale, in grado di trovare in se stesso una chiave scientifica di lettura del
mondo. Bacone precorre quindi l’illuminismo e il successivo sviluppo tecnologico della società. Le sue macchine non sono altro che una prefigurazione della futura rivoluzione industriale.
– 140 –
In conclusione, quindi, si può affermare che sarà proprio ispirandosi a
queste utopie che la Royal Society di Londra, le Accademie delle Scienze
di Parigi, Berlino e Pietroburgo, l’Accademia del Cimento di Firenze, dirigeranno i propri sforzi per la costruzione e lo sviluppo della società futura.
Bibliografia e sitografia:
Ockham:
FORTUNATO BOZZELLI (www.francescodappignano.it)
NICOLA ABBAGNANO & NICOLA FORNERO
Bacone:
O. BELLINI, La Nuova Atlantide
DIEGO FUSARO, Francesco Bacone
DIEGO FUSARO (www.filosofico.net)
2.2 “INCANTO” DEL RISORGIMENTO
NELLA TENSIONE DEI SUOI PROTAGONISTI
Con l’acuirsi dei movimenti patriottico nazionali e la fondazione di alcune sette segrete nel Nord Italia (soprattutto in Piemonte, unico tra gli stati
italiani in grado di garantire un movimento di ricostituzione nazionale), il
cosiddetto “periodo pre-risorgimentale” fu caratterizzato da una notevole
fioritura di idee politiche e filosofiche.
Esse si svilupparono anche grazie alla presenza di alcune personalità di
grande rilievo: basti pensare a Rosmini (con il suo cattolicesimo liberale)48,
Gioberti (liberale moderato)49, Cattaneo (federalismo democratico)50, Balbo
(neoguelfo)51 e Mazzini, ai quali va attribuito il merito di aver rafforzato le
già grandi aspettative riguardanti il processo di unificazione nazionale.
Chiaramente, le varie ideologie avevano bisogno di un qualcosa che
potesse favorire la loro diffusione, un mezzo tramite il quale essere traAntonio Rosmini Serbati, Saggio sul comunismo e socialismo, Milano, 1858.
Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, Losanna, 1843.
50 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, 1849.
51 Cesare Balbo, Le speranze d’Italia, Ed. Utet, 1844.
48
49
– 141 –
smesse facilmente, ovvero la cultura. Difatti, fu proprio in ambito culturale
che il pensiero dei singoli ebbe la possibilità di essere condiviso soprattutto
in ambiente borghese.
Entrando nello specifico, si possono distinguere nettamente due tipologie di “informazione culturale”: la letteratura e il giornalismo.
Per quanto riguarda la prima, è importante dire che fu essenziale per
aver tentato di risvegliare negli italiani il sentimento nazionale: a questo
proposito, è impossibile non citare l’immenso lavoro dei romantici italiani.
Infatti, essi furono quasi tutti patrioti e affidarono alla letteratura i loro
ideali; inoltre, furono reputati come i creatori di diversi generi letterari (uno
fra tutti il romanzo, che in questo periodo fu prevalentemente storico o autobiografico).
Tornando alla diffusione degli orientamenti di pensiero delle varie personalità italiane, bisogna dire che ebbe un notevole successo anche la letteratura politica. In particolare, in questo ambito è incessante l’attività del già
citato Mazzini (“Dell’amor patrio di Dante”)52 e di Carlo Pisacane53, autore
di diversi saggi storici e politici.
Di notevole rilievo fu anche la storiografia filosofica, che però nel
primo periodo dell’ottocento si presentò sotto il segno della dipendenza
dalle correnti straniere (soprattutto francesi e tedesche).
Passando invece alla seconda tipologia di diffusione, ovvero quella
giornalistica, va detto che il periodico con la maggiore diffusione e con la
più ricca varietà di contenuti fu certamente il “Politecnico”, fondato da
Carlo Cattaneo a Milano nel 1839. Lo scopo della rivista, secondo il suo
fondatore, era quello di trattare gli argomenti più disparati facendone
un’approfondita recensione, così da poter favorire il progresso tecnicoscientifico degli stati italiani. I contenuti si articolavano nelle seguenti
categorie: 1. applicazioni fisiche e matematiche, agraria, tecnologia, storia
naturale, medicina; 2. arte sociale, studi economici, amministrativi, legali,
storici; 3. studi mentali, metodi d’istruzione, nuovi istituti; 4. belle arti e
belle lettere.
Un altro valido giornale fu certamente il “Risorgimento” che, sotto la
direzione di Camillo Benso conte di Cavour, operò soprattutto in campo politico.
52
53
Anno di pubblicazione 1837.
Carlo Pisacane, Saggi storici-politici-militari sull’Italia, Roma, 1854.
– 142 –
Le Personalità Rilevanti
ROSMINI
Antonio Rosmini-Serbati nasce il 24 marzo 1797 a Rovereto, compie
gli studi di teologia e di giurisprudenza all’università di Padova e nel 1821
riceve l’ordinazione sacerdotale. Dal 1822 al 1827 approfondisce gli studi
giuridici e filosofici (sono di questo periodo i suoi primi scritti in cui il Rosmini si pronuncia sulle principali questioni del suo tempo). Nel 1826
stringe una profonda amicizia con Alessandro Manzoni. Intorno al 1830 risale l’incontro con l’abate bretone Lamennais dal quale viene a conoscenza
delle tendenze innovativo-riformiste nel mondo cattolico ma anche delle
polemiche e dei contrasti legati a tali tendenze; Rosmini riordina così le sue
idee sulla Chiesa e nasce l’opera più importante di tutto il corpus rosminiano: “Le cinque piaghe della Santa Romana Chiesa”.54 Negli anni precedenti la prima guerra d’indipendenza diventa un esponente del movimento
neoguelfo e dopo la sconfitta nella guerra svolge un delicato lavoro diplomatico al fine di convincere il Papato ad allearsi con lo Stato sabaudo; purtroppo, invano, poiché il precipitare degli eventi (il cambiamento della politica sabauda in una molto anticlericale e tesa a combinare un’alleanza ad
esclusivo vantaggio del Regno sardo) lo indurrà a presentare le dimissioni.
Si ritira a Stresa sul lago Maggiore dove scrive e pubblica le ultime opere.
Muore, assistito tra gli altri dal Manzoni, a Stresa l’1 luglio 1855.
Il pensiero politico rosminiano si sforzò di conciliare esigenze di conservazione e di progresso nel tentativo di aggiornare una visione teocentrica
della vita. Egli infatti portò avanti tesi filosofiche tendenti a contrastare sia
l’illuminismo che il sensismo. In una delle sue opere politiche di maggior
rilievo, “Il comunismo ed il socialismo”55 (di fondamentale importanza per
ricostruire la storia dell’anti-socialismo ottocentesco) il Rosmini sottolinea
l’inalienabilità dei diritti naturali della persona, fra cui quello della proprietà
privata, e, attraverso un’analisi del pensiero dei principali esponenti del
socialismo del primo ottocento (Saint-Simon, Fourier e Owen) rivolge il
suo interesse non verso i propositi teorici, ma verso il programma politico e
i risultati di tali pensatori, trovando da dissentire non sul fine, ma sul modo
Antonio Rosmini Serbati, Le cinque piaghe della Santa Romana Chiesa, Edizioni rosminiane, 1848.
55 Antonio Rosmini Serbati, Saggio sul comunismo e sul socialismo, Milano, 1858.
54
– 143 –
in cui realizzare tali fini. Contro gli utopici socialisti Rosmini assume i
connotati del “difensore del progresso e del vero liberalismo” e confuta i
principi socialisti ricorrendo proprio ai principi del liberalismo (infatti era
fervido sostenitore del cattolicesimo liberale) che pone appunto in primo
piano quello della libertà, ossia la “facoltà di operare ciò che si vuole senza
coazione e necessità”.56
Tuttavia la più importante opera del filosofo roveretano di ambito politico-religioso è senza dubbio “Le cinque piaghe della Santa Romana
Chiesa”, in cui l’autore addirittura, per il coraggio e la lungimiranza di alcune sue idee sulla riforma della Chiesa, sembrò precorrere il Concilio Vaticano II. Tale modernità si riscontra proprio nel fatto che il trattato fu messo
all’indice sin dal 1849 (un anno dopo la pubblicazione) e ne scaturì una
polemica nota come “questione rosminiana” (il lavoro fu rivalutato solo in
tempi recenti e fu tolto dall’Indice da Paolo VI), tuttavia è un documento di
grande amore per la Chiesa e per la sua missione nel mondo.
L’opera è suddivisa in cinque capitoli, e ciascuna parla di una piaga
(cinque come quelle di Cristo); la struttura è sempre la stessa per ogni capitolo: elogio della Chiesa antica, nascita di un fatto che cambia la situazione
precedente (nascita di una setta cristiana, invasioni barbariche, entrata dei
vescovi in politica), la conseguente piaga e, infine, i possibili rimedi.
Prima piaga: Consiste nella divisione del popolo dal clero nel culto
pubblico; nell’antichità il culto era un mezzo di catechesi oltre che di formazione e il popolo partecipava al culto. Purtroppo vari eventi, identificabili con le invasioni barbariche, con la scomparsa del latino e con la tendenza del clero a formare una casta chiusa, hanno contribuito al formarsi di
un “muro” tra il popolo e i prelati addetti al culto.
Rosmini dunque, al fine di tornare a tale unità, auspica come rimedi
(nei quali si può intravedere anche una certa prudenza) il ritorno all’insegnamento del latino, una più profonda e accurata spiegazione delle cerimonie liturgiche e l’uso di messalini in lingua volgare a vantaggio del popolo meno acculturato.
Seconda piaga: Consiste in un’inadeguata ed insufficiente educazione
del clero; un tempo infatti i preti erano educati dai vescovi in persona che
potevano trasmettere tutto il loro sapere direttamente agli alunni del seminario, successivamente i vescovi hanno abdicato a tale importante mansione
56
Antonio Rosmini Serbati, Saggio sul comunismo e socialismo, Milano, 1858, pag. 478.
– 144 –
comportando così il formarsi di seminari di minor valore didattico con “piccoli libri” e “piccoli maestri”. Rosmini, dunque, conduce una forte critica
alla Scolastica e ai catechismi. Il rimedio avanzato è quello di riunire
scienza e pietà per trovare maggior verità nel clero.
Terza piaga: Viene individuata nella disunione tra gli stessi vescovi;
Rosmini attacca duramente i vescovi del cosiddetto ancien régime quando
deve pronunciarsi sulle cause di tale disunione: in primis un abnorme attaccamento al proprio potere personale, poi occupazioni non inerenti all’ufficio
sacerdotale, servilismo verso il governo, troppa ambizione e ansia di difendere ad ogni costo i beni ecclesiastici; arriva addirittura a definirli schiavi di
uomini anziché liberi apostoli di Cristo. Il rimedio proposto è di avanzare
riserve sulla difesa del patrimonio ecclesiastico e un ritorno agli uffici meramente pastorali e di carità.
Quarta piaga: Consiste nella nomina dei vescovi lasciata al potere laicale, comportando così il formarsi di vescovi burocrati. Qui il filosofo roveretano esegue una profonda e sapiente analisi sull’evoluzione dei fatti nella
storia e sul come alla fine la Santa Sede abbia ceduto la nomina dei vescovi
al potere statale (con un prudente accenno al vantaggio economico di tale
cessione).
Il rimedio presentato non è molto chiaro ma sembra sia stato definitivamente individuato nella richiesta di una riunione del collegio episcopale alla
presenza del Papa stesso, al fine di ripristinare le nomine episcopali ad
appannaggio della Santa Sede senza alcuna intrusione di sorta.
Quinta piaga: L’ultima piaga è dovuta alla servitù dei beni ecclesiastici
causata dal feudalesimo: qui il Rosmini rileva i danni del sistema attuale
beneficiale e auspica un ritorno alla povertà iniziale propria della Chiesa
tramite un sistema di offerte libere (non imposte d’autorità con l’appoggio
dello stato), oltre che con la rinuncia ai privilegi ecclesiastici e la pubblicazione dei bilanci.
La figura di Antonio Rosmini è stata per svariato tempo al centro di
dibattiti, ma è stata rivalutata a partire dalla metà del secolo XX, a partire
da Giovanni XXIII passando poi per i successivi pontefici fino ad arrivare
all’attuale Benedetto XVI che ne ha autorizzato in tempi recentissimi la
beatificazione (sulla base del miracolo della guarigione di Suor Ludovica
Noè attribuito all’intercessione di Rosmini). Il filosofo roveretano è stato
beatificato il 18 novembre 2007 nella città di Novara.
– 145 –
VINCENZO GIOBERTI
Vincenzo Gioberti nacque a Torino il 5 aprile 1801. Compì i suoi studi
letterari e filosofici presso i Padri Oratoriali e poi frequentò la Facoltà
Teologica di Torino. Divenuto cappellano di corte si accostò alle idee mazziniane e perse la sua carica a seguito della repressione scatenata nel 1831
che lo costrinse all’esilio. Durante l’esilio di Bruxelles, ove insegnò presso
la scuola italiana, condusse intensi studi filosofici che espose nella “Teorica
del sovrannaturale” (1838) cui alternò, sul finire degli anni trenta, studi metafisici sfociati nell’“Introduzione allo studio della filosofia” (1840), opera
però non completata. All’inizio degli anni quaranta, Gioberti, superando la
sua originaria visione di stampo mazziniano, matura definitivamente la convinzione che vede il destino del popolo italiano associato allo sviluppo della
cattolicità e formula le sue proposte nell’opera “Del primato morale e civile
degli italiani” (1843). Il successo delle sue tesi lo spinse ad assumere una
posizione critica nei confronti della Compagnia di Gesù, ritenuta il principale ostacolo all’unificazione italiana, che attaccò nel suo scritto “Il gesuita
moderno” (1846-1847).
Il progetto elaborato dal Gioberti, denominato “neoguelfo” perché incentrato sull’idea di uno sviluppo federalista dell’Italia all’interno di un’unità
costituzionale basata su di una forte impronta cattolica, trovò però una smentita nel fallimento dei moti del biennio 1848-1849 duranti i quali, per breve
tempo, egli assunse la guida del governo piemontese. Il fallimento determinò
per Gioberti la scelta di un nuovo esilio, stavolta in Francia, proprio mentre
le autorità cattoliche sottoposero al vaglio del Santo Uffizio tutta la sua produzione letteraria che venne condannata il 14 gennaio 1852. Gioberti morì a
Parigi il 26 ottobre 1852 dopo aver riesposto i temi principali della sua opera
nel “Rinnovamento civile d’Italia” (1851), in cui rivede i programmi politici
possibili per lo spirito pubblico italiano.
La restaurazione della religione, intesa come religione cattolica, è vista
da Gioberti come fulcro per avviare la realizzazione di un obiettivo civile e
filosofico che porti a compimento la missione del popolo italiano. Infatti,
come Mazzini, egli assegna una missione all’Italia ma, diversamente dalle
convinzioni mazziniane, Gioberti ritiene che l’unità d’Italia debba compiersi attraverso una confederazione di stati soggetti all’autorità papale.
L’origine del suo pensiero politico affonda nei suoi studi che lo portano a
vedere la filosofia come esplicazione dei contenuti rivelati dalla religione. Il
pensiero umano poggia su di una rivelazione primitiva, data nel linguaggio,
– 146 –
che ha origine divina ed infonde nella mente umana i principi che le consentono di conoscere la realtà. Gioberti chiama “Idea” l’oggetto di questa rivelazione e lo identifica, in un’accezione platonica del termine, con “ciò che realmente è”. L’Idea quindi è l’essere assoluto, Dio stesso, che Gioberti chiama
anche Ente. La posizione filosofica di Gioberti è quindi anche detta ontologismo e si contrappone a tutte le forme di psicologismo che riducono l’idea
ad una rappresentazione mentale frapposta fra l’uomo e la realtà. A giudizio
di Gioberti, lo stesso Rosmini compie un errore tipico dello psicologismo, assumendo come punto di partenza non un dato reale ma un dato della mente
umana, l’idea dell’essere. Alla riflessione umana spetta esplicitare ed articolare l’Idea mediante l’elemento della parola che l’uomo trova già data nella
rivelazione originaria. La filosofia fa emergere i contenuti dell’Idea e la teologia quelli soprannaturali. La formula ideale che l’uomo deve esprimere tramite la filosofia è il giudizio che esprime l’Idea in modo chiaro e preciso. In
questa formula il primo termine non può che essere l’Ente, cioè Dio, che “è
necessariamente”. Dio è quindi il principio della formula ideale che però, essendo anche un giudizio, deve contenere un altro termine: l’esistente che è
una sostanza derivante dall’Ente che ad esso ritorna attraverso il processo naturale. La formula ideale di Gioberti si articola quindi nella proposizione:
“l’Ente crea l’esistente” che esprime così l’intero processo ontologico.
Tradotto in termini morali e politici, ciò significa che il genere umano
deve assumere il linguaggio, che contiene la rivelazione divina, come base
della sua unità. La religione, quindi, crea la moralità e la civiltà del genere
umano ed il cristianesimo, grazie alla sua organizzazione in forma di
Chiesa, unica depositaria, interprete e propagatrice della tradizione, conserva integro il contenuto dell’Idea, che, a sua volta, rende possibile il recupero dell’unità.
Il fatto che il centro propulsore del cristianesimo abbia sede in Italia,
ove risiede il Papa, assegna alla nostra nazione un primato: spetta ad essa,
grazie al papato, la missione universale di eliminare i mali del mondo moderno e ripristinare la vera civiltà fondata sulla tradizione cattolica. Da
questa posizione, inizialmente, Gioberti fece derivare una tesi sulla origine
teocratica della sovranità; successivamente si avvicinò maggiormente alle
posizioni del cattolicesimo liberale. Applicando la formula ideale alla società politica, Gioberti sostenne che “il sovrano fa il popolo e il popolo diventa sovrano”, differenziandosi così sia da una teoria della sovranità popolare (che capovolge la formula ideale) sia da ogni forma di dispotismo (per
il quale l’esistente non ritorna mai all’ente).
– 147 –
Il vero sovrano è Dio e l’unica forma adeguata di governo appare ai
suoi occhi una monarchia ereditaria che allarghi progressivamente la rappresentanza alla gran parte del popolo.
CARLO CATTANEO
Carlo Cattaneo nasce a Milano il 15 giugno 1801. Studia inizialmente
presso i seminari di Lecco e Monza, poi presso il Liceo Sant’Alessandro a
Milano. Nel 1824 consegue la laurea in giurisprudenza all’università di
Pavia. In questo periodo è assiduo frequentatore della scuola di Gian Domenico Romagnosi, e questo insegnamento risulterà fondamentale per lo
sviluppo del suo pensiero; infatti, nel 1833 inizia una solida collaborazione
con gli “Annali universali di statistica” diretti dallo stesso Romagnosi. Nel
1835 sposa l’inglese Anne Woodcock, di agiata condizione, e può finalmente dedicarsi interamente agli studi. Nel 1839 fonda il “Politecnico”,
mensile che si occupa di cultura nei più disparati argomenti, egli lo dirige
fino al 1845. Rimasto ai margini della politica per scelta e temperamento,
entra a farne parte attivamente a partire dalle celeberrime Cinque Giornate
di Milano (1848), quando, essendo stato nominato membro del consiglio di
guerra (l’organo direttivo dell’insurrezione), per dieci giorni ha il compito
di comandare le operazioni militari, di coordinare la propaganda e il servizio di informazioni. Finita l’avventura ritorna a vita privata a causa di
divergenti idee con il governo provvisorio di Milano (che auspicava una
fusione con il Piemonte a cui era contrario il Cattaneo), e si trasferisce in
Svizzera. Acceso federalista, nel 1860 è a Napoli con Garibaldi, ma se ne
allontana quando nota l’impossibilità di attuare il suo progetto; nel frattempo ridà vita al “Politecnico” (1860) e alle elezioni politiche dello stesso
anno e in quelle del 1867 viene eletto deputato, anche se non si recò mai
in Parlamento per non prestare giuramento al Re. Morì a Castagnola il
7 febbraio 1869.
Il pensiero politico di Cattaneo è nettamente orientato verso una posizione federalista e democratica con una spiccata tendenza anticlericale e antiaristocratica, influenzato principalmente dalla corrente romantica. Pur
mantenendo legami con la cultura illuministica egli, infatti, non riteneva
utile all’Italia il programma di uno stato centralistico unitario, avversava il
regime dispotico auspicato dal Metternich e guardava agli U.S.A. e alla
Svizzera come modelli politici da seguire. Il Cattaneo considerava la monarchia savoiarda arretrata addirittura di più del modello asburgico nelle re– 148 –
gioni italiane, e al contempo riteneva inadatta la propaganda insurrezionale
di Mazzini, a cui contrappose un metodo di graduale evoluzione tramite un
programma di riforme. Il pensiero di Cattaneo si differenzia quindi sia dall’estremismo mazziniano sia dal liberalismo cattolico di personaggi come
Rosmini.
Il federalismo di Cattaneo dunque appare come l’unico modo per evitare i pericoli dello stato accentratore e salvaguardare la libertà, vista come
“valore primario senza il quale tutti gli altri perdono la propria ragion d’essere”.57
La figura di Cattaneo è stata molto ammirata ma poco seguita nella dinamica politica italiana: stimato dai suoi contemporanei, viene dimenticato
dagli studiosi di fine ’800 per venire definitivamente accantonato sotto l’era
fascista. Solo recentemente la figura del filosofo-politico milanese ha ridestato interesse.
Cattaneo fu il fondatore e il direttore del “Politecnico”, un mensile di
cultura e scienza che diventerà uno dei manifesti più famosi e in qualche
modo “storici” del pensiero scientifico-culturale dell’età risorgimentale.
Fondato nel 1839 grazie all’accordo stipulato tra il farmacista e cultore di
chimica Ottavio Ferrario, il professore Giovan Battista Menini, e Cattaneo
stesso, subito il giornale prende la forma del pensiero di quest’ultimo, che
infatti, desideroso di trovare un ambito in cui realizzare i suoi programmi,
aveva ottenuto la responsabilità completa del giornale, nonché l’onere dell’amministrazione, degli utili e delle perdite in cambio di un annuale pagamento agli altri due fondatori.
Nella prefazione al vol. I, corrispondente al primo semestre, Cattaneo
enuncia il suo programma di un giornalismo moderno, civilmente impegnato, ed indica come intenzione fondamentale del periodico quella di fornire ai lettori “la più pronta cognizione di quella parte di vero che dalle
ardue regioni della scienza può facilmente condursi a fecondare il campo
della pratica, e crescere sussidio e conforto alla prosperità comune ed alla
convivenza civile.”58 Vige, infatti, la convinzione che “ogni scienza speculativa deve tosto o tardi anche da’ suoi più aridi rami produrre qualche inaspettato frutto all’umana società”; il compito del giornale è dunque quello
di interpretare e rendere accessibile il mondo degli intellettuali e degli specialisti al piano del pubblico.
57
58
Luciano Russi, Nascita di una nazione, C.L.U.A Ed., 1984, pag. 168.
Carlo Cattaneo, “Il Politecnico”, Vol. I, Prefazione, 1839.
– 149 –
Lo sfondo entro il quale la vicenda si svolge è la situazione lombarda,
nella quale l’agricoltura aveva raggiunto un alto grado di sviluppo, al contrario vi era necessità di trasformazioni nel settore manifatturiero. Cattaneo
pone il suo periodico proprio al servizio dell’avanzante spirito industriale
che si occupa della diffusione e dell’uso dei combustibili fossili, dei nuovi
metodi di illuminazione e dei primi progetti di costruzione di ferrovie senza
le quali “l’addensata provincia di queste regioni non potrebbe conservare
l’invidiata sua prosperità”.59
Considerando il concetto d’arte nel suo senso più ampio, ossia come applicazione del sapere umano per gli usi più alti, il mensile offre contributi di
mediazione tra ricerca e vita sociale che, in relazione alla loro estensione e
natura, sono divisi in vari fascicoli: “Memorie originali”, “Rivista” (recensioni) e “Notizie”.
Negli argomenti esaminati, invece, viene sottolineata la predilezione
per i lati pratici del sapere e il duplice interesse per le arti “figlie della matematica e della fisica” e “per l’arte sociale, sul quale le nazioni fioriscono talora senza sapere come”; altri importanti settori di interesse del giornale
sono le “Arti mentali” e le “Arti belle”.60
Nelle successive prefazioni Cattaneo precisa i contenuti del suo programma, tramite il riconoscimento del suo debito nei confronti dell’insegnamento di Romagnosi, e ribadisce la volontà di rendere accessibile e
comprensibile il più possibile il contenuto del suo periodico, cercando, in
particolare negli argomenti di stampo prettamente scientifico, la forma “più
agevole, semplice e meno tediosa” con l’intento di conquistare popolarità
“con la leggerezza della forma, quella popolarità che altri giornali cercano
di conquistare con la leggerezza della materia”.61
In questi brevi “spezzoni” proposti emerge quanto Cattaneo sia consapevole dell’originalità del suo progetto in cui viene lasciato poco spazio agli
argomenti di cui parlano gli altri giornali, buttandosi invece nel trattare
argomenti di carattere più specificatamente pratico riguardanti il progresso
industriale ma anche questioni bancarie, assistenziali e monetarie, senza trascurare le “alte ragioni della morale”, e ancora problemi di lingua, di storia,
d’arte, proponendosi come una delle prime riviste specialistiche nella storia
del giornalismo italiano ed europeo.
Carlo Cattaneo, “Il Politecnico”, Vol. I, Prefazione, 1839.
Carlo Cattaneo, “Il Politecnico”, Vol. I, Prefazione, 1839.
61 Carlo Cattaneo, “Il Politecnico”, Vol. I, Prefazione, 1839.
59
60
– 150 –
Per Cattaneo la quantità di lavoro è assai ingente (basti pensare che più
tardi avrebbe ammesso la paternità di tre quarti degli articoli, in particolare
di quelli anonimi) e, oltre a questi, anche il conseguente ritardo con cui
escono sistematicamente i singoli numeri e problemi di ambito finanziario,
sono alla base di alcuni cambiamenti strutturali del periodico: la mensilità
viene faticosamente mantenuta solo il primo anno, successivamente gli anni
1840-41, comprendendo sei volumi per anno, vengono considerati come il
secondo anno di pubblicazione, mantenendo così, tramite una finzione editoriale, invariata la scadenza mensile: tuttavia, a partire dal 1842 viene soppresso l’aggettivo “mensile” nel sottotitolo.
Avendo preso come spunto di base una filosofia dell’utile, proiettata
verso il progresso e le riforme, Cattaneo fa del suo giornale uno strumento
di propaganda di un discorso mirato a dar voce in primis ai settori più efficienti ed avanzati della regione lombarda; ponendosi come modello la civiltà moderna europea, il giornalista milanese cerca nuovi obiettivi da raggiungere e nuovi modi per farlo.
Mano a mano che il “Politecnico” aumenta di fama, aumenta anche il
numero dei suoi collaboratori, che arrivano ad essere un’ottantina alla chiusura della prima serie.
Mentre il quadro teorico acquista contorni sempre più chiari e definiti,
tuttavia si segnalano i primi elementi di crisi: innanzitutto una diatriba con
il vecchio editore Pirola (che si rifiuta di restituire le copie in deposito e di
presentare i conti), ma anche i sempre più pressanti impegni politici dello
stesso Cattaneo alla fine indurranno il direttore a interrompere le pubblicazioni della sua rivista agli inizi del 1845, tenendolo in uno stato di sospensione temporanea, pronto a riprenderlo in qualunque momento in mano.
Tuttavia la ripresa delle pubblicazioni avviene solo nel 1860 e Cattaneo
continua la direzione del periodico fino al 1863, quando abbandona (stavolta definitivamente) la sua posizione a causa di controversie sulla proprietà della testata. Al termine del 1865 avviene la cessione al finanziere
Andrea Ponti, che segna una svolta radicale della rivista rispetto all’esperienza cattanea.
Il “Politecnico” portò una ventata nuova di posizioni, prospettive, idee e
ideologie all’interno della situazione politico-culturale lombarda ma anche
italiana (in particolare nella fase finale della sua esistenza), riuscendo cosi
ad influenzare il dibattito politico-ideologico risorgimentale e anche ad importare nuove tesi grazie a numerose collaborazioni estere come il medico
greco Giovanni Kouros, il naturalista svizzero Lorenz Oken, il geografo
– 151 –
svedese Jacob Graberg o l’ingegnere francese Jules-Achille Guillard, solo
per citare i più eminenti. Tutte queste personalità hanno contribuito a portare in Lombardia e successivamente in Italia conoscenze di tutti gli ambiti
sviluppatesi negli altri paesi europei, sicuramente più progrediti da un punto
di vista tecnico-economico.
Un altro contributo importante all’ideologia italiana dell’era risorgimentale fu dato dall’ampio spazio lasciato alle recensioni dello stesso Cattaneo di saggi contemporanei atti a far conoscere e riesumare “eroi” italiani
del passato (“Vita di Dante di Cesare Balbo”), opere sull’Italia (“Vico e l’Italia di G. Ferrari”; “Di varie opere sulla Sardegna”), oppure a diffondere
lavori di carattere più europeo (“Del vario grado d’importanza degli stati
europei del dottor Cristoforo Negri”; “Atlante linguistico d’Europa di
B.Biondelli”).Tale sforzo riuscì a garantire una più ampia circolazione delle
idee e a favorire un maggior confronto sui vari ideali riguardo vari argomenti. Questo fu il merito principale del “Politecnico” di Cattaneo.
2.3 IL DISINCANTO:
PROBLEMI IRRISOLTI E FUNZIONE DI ROMA
DALL’ETÀ POST-RISORGIMENTALE AI GIORNI NOSTRI
Nel corso del Risorgimento, sino alla fase conclusiva del processo dell’unificazione (1859-1861), il termine “questione romana” indicò il problema
posto al movimento nazionale italiano dal potere temporale dei papi, vale a
dire il problema dell’esistenza, nel cuore della penisola, di uno stato (con
Roma capitale) avente come sovrano temporale il pontefice. La questione del
potere temporale del papa ha radici molto antiche (già Dante, e più tardi Machiavelli62, faceva risalire la crisi dello Stato italiano ad un’eccessiva ed inopportuna ingerenza della Chiesa nelle questioni politiche) e non ha mai smesso
di rappresentare un tema delicato anche per noi oggi, come dimostrano gli ultimi fatti di cronaca. Il problema assunse particolare rilevanza nel dibattito
politico negli anni che precedettero la rivoluzione del 1848, e fu discusso soprattutto dall’opinione pubblica moderata nell’ambito di soluzioni che miravano a fare salva l’esistenza di uno Stato Pontificio63. Il problema delle relaNiccolò Machiavelli, “Principe”, 1513.
Gioberti nel “Primato morale e civile degli italiani”, 1843 ; Balbo nelle “Speranze
d’Italia”, 1844.
62
63
– 152 –
zioni con la Chiesa fu affrontato da Cavour negli ultimi mesi della sua vita:
lo statista piemontese si proponeva di aprire trattative dirette con la Santa
Sede, che si sarebbero dovute concludere con la cessione da parte di Pio IX
al nuovo Stato dei territori di cui era ancora in possesso (Roma e Lazio); in
cambio il pontefice avrebbe ottenuto la garanzia della piena indipendenza
nell’esercizio delle sue funzioni di capo della Chiesa cattolica e la rinuncia
dello Stato unitario alla legislazione giurisdizionalista. Morto Cavour anche il
suo successore B. Ricasoli si impegnò nel tentativo di avviare a sollecita soluzione la questione romana, sulla base di un progetto che non si scostava sostanzialmente da quello di Cavour, anche se la particolare formazione religiosa dell’uomo politico toscano, venata di giansenismo, lo induceva ad insistere, più di quanto l’opportunità politica non consigliasse, sul tema riforma
interna della Chiesa, nella quale avrebbe dovuto intervenire a suo giudizio
anche lo Stato. Dopo il fallimento della spedizione garibaldina vi fu un ulteriore tentativo di avviare a soluzione il problema con la convenzione di settembre tra Italia e Francia (15 settembre 1864). Un momento di svolta nella
storia della questione romana lo si ebbe con l’occupazione di Roma da parte
delle truppe italiane, avvenuta il 20 settembre 1870 e resa possibile dalla caduta dell’impero di Napoleone III. Sanzionata l’annessione di Roma e del
Lazio al regno d’Italia col plebiscito del 2 ottobre 1870, lo Stato italiano,
vista l’impossibilità di condurre trattative bilaterali a causa dell’atteggiamento di Pio IX, fermamente deciso a non riconoscere la perdita del dominio
temporale64, dovette provvedere a stabilire con una legge interna le garanzie
per l’indipendenza della Santa Sede. Si arrivò, allora, alla cosiddetta legge
delle Guarentigie65 approvata alla Camera il 9 maggio 1871, firmata dal re il
13 e pubblicata il 15: la legge fissava le prerogative del pontefice e le relazioni tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Anche il successore di Pio IX,
Leone XIII, 1878-1903, nonostante una maggiore moderazione formale e alcuni tentativi conciliatoristi, come quello di Luigi Tosti, che sembrarono
poter essere coronati da successo, mantenne un atteggiamento sostanzial-
Nell’enciclica “Respicientes” del 1° novembre 1870 il Papa dichiarava “ingiusta, violenta,
nulla e invalida” l’occupazione dei suoi territori e lanciava la scomunica contro gli “usurpatori”.
65 “Legge delle Guarentigie”: approvata il 13 maggio 1871, prevedeva l’impegno italiano a
garantire il libero svolgimento del magistero papale ed ecclesiastico, l’attribuzione al Papa di
una protezione giuridica simile a quella accordata al re, il diritto di mantenere un corpo di
guardia armano, il privilegio dell’extraterritorialità per i palazzi del Vaticano e del Laterano
nonché per la residenza di Castel Gandolfo.
64
– 153 –
mente intransigente nei confronti dello Stato italiano e la diplomazia vaticana
si prefissò di mantenere viva la questione romana tra le potenze europee, così
da evitare la possibilità che l’unione di Roma all’Italia venisse gradatamente
accettata. La distensione delle relazioni tra Stato e Chiesa si andò accentuando durante il pontificato di Pio X (1903-1914), che si rassegnò ad accettare il fatto compiuto. Sul terreno politico questo mutamento di clima portò a
rilevanti conseguenze: si moltiplicavano, infatti, le alleanze tra cattolici e
conservatori sul terreno comunale, e nelle elezioni politiche del 1909 si ebbe
un’ulteriore attenuazione del “non expedit” in funzione antisocialista (con
l’ingresso di 16 deputati cattolici nella nuova Camera, e con numerosi deputati eletti con il concorso dei voti cattolici), fino ad arrivare nel 1913 al patto
Gentiloni, che segnò l’ingresso dei cattolici italiani nelle lotte elettorali politiche. I sondaggi per una soluzione definitiva del problema, avviati dal
maggio 1919 da Benedetto XV e dal cardinal Gasparri con V. E. Orlando e
con F. S. Nitti si concreteranno alcuni anni più tardi con le trattative tra Pio
IX (assistito sempre dal cardinale Gasparri) e il governo fascista di B. Mussolini, iniziatesi nell’agosto 1926. A coronamento di una lunga e complicata
controversia come quella che abbiamo sinteticamente rappresentato si arrivò
ai Patti Lateranensi ovvero al concordato del 1929 in cui si riconosceva il cattolicesimo religione di stato in Italia, si definiva una nuova disciplina del matrimonio e dell’insegnamento della religione, mentre un’intesa di natura finanziaria accordava alla Santa Sede un compenso monetario di 750 milioni
di lire in contanti ed un miliardo in consolidato come risarcimento della perdita del potere temporale avvenuta nel 1870. Nel secondo dopoguerra, alla
nascita della Repubblica Italiana i Patti Lateranensi furono inclusi nella Costituzione (articolo 7) sebbene non mancassero voci di dissenso.
Fin dalla proclamazione del Regno d’Italia personaggi quali Cavour e
il piemontese Quintino Sella, noto politico e statista italiano, sottolinearono
le motivazioni profonde per cui proprio Roma dovesse assumere il ruolo di
capitale; la scelta della capitale del nuovo Stato era una questione spinosa,
tutt’altro che semplice, poiché ognuna delle nostre città riteneva di avere
titoli sufficienti per diventarlo, prima tra tutte Torino, già capitale in precedenza.
Secondo il pensiero di Cavour, non semplicemente la collocazione geografica concorreva alla scelta della capitale, e nemmeno le sue caratteristiche climatiche o topografiche. Se così fosse stato, aggiungeva Cavour
non senza un pizzico di ironia, per un motivo o per un altro né Londra né
Parigi sarebbero mai divenute capitali.
– 154 –
Non queste considerazioni dovevano dunque stare alla base della scelta,
bensì grandi ragioni morali: in Roma concorrevano tutte le circostanze storiche e intellettuali che dovevano determinare le condizioni della capitale di
un grande stato. Roma era la sola città d’Italia che non avesse avuto una
storia esclusivamente municipale; tutto il suo passato, infatti, fin dal tempo
dei Cesari, era stato quello di una città la cui importanza si estendeva infinitamente al di là dei suoi confini.
Forse proprio questa sua naturale propensione verso l’esterno avrebbe
costituito uno stimolo vincente nel processo di superamento dei vari regionalismi e provincialismi che da sempre caratterizzano la nostra bella penisola.
Tuttavia il mito di “Roma caput mundi”, sempre presente nell’immaginario collettivo, proprio nei tempi più recenti sembra stia venendo meno: e
c’è da chiedersi se quelle motivazioni che fecero la capitale e l’orgoglio di
molti italiani siano ancora valide, e soprattutto sentite, al giorno d’oggi.
Non è il trascorso storico di una città sempre in primo piano che viene
messo in discussione. Al contrario, è l’attuale centralità di un polo testimone del progressivo spaccarsi a metà di un’Italia divisa tra l’ascesa di un
Nord economicamente ricco, moderno e produttivo, sempre più competitivo
anche a livello europeo, e un Sud ancora complessivamente arretrato. La
questione meridionale risulta in fondo ancora un nodo irrisolto, una problematica che dall’unificazione d’Italia ci siamo trascinati dietro fino ai giorni
nostri.
Il divario fra Nord e Sud, che non si è mai ridotto, ha portato in tempi
relativamente recenti alla nascita di piccoli partiti autonomisti per lo più nel
settentrione, confluiti poi nel ben più noto partito della Lega Nord.
La Lega avanza da sempre il progetto di uno Stato federale Italiano,
attuabile attraverso un progressivo federalismo fiscale e la devoluzione alle
regioni di alcune funzioni esercitate dallo Stato; in questo modo crescerebbe
il peso politico delle regioni del Nord Italia, ritenuto non adeguato al peso
demografico ed economico delle stesse.
La Lega ha un peso politico notevole nel Nord Italia, dove ha trovato e
trova molto seguito anche tra i giovani; qui l’ideale della “Padania” come
entità territoriale avente diritto alla propria indipendenza in qualità di Repubblica Federale ha sostituito quello che ai tempi del nostro Risorgimento
era l’ideale di un’Italia libera, indipendente e soprattutto unita.
Diceva Massimo d’Azeglio: “Fatta l’Italia dobbiamo fare gli Italiani”.
Parole sante, ma forse gli Italiani non si sono mai fatti.
– 155 –
È impossibile riconoscere, in quei patrioti che lottarono per l’indipendenza e l’unità d’Italia, questi Leghisti che disprezzano il nostro tricolore,
che propongono il vessillo leghista come alternativa alla bandiera italiana,
sostenendo che essa sia ben più edificante per altri volgari usi personali; che
si rifiutano di cantare un inno nazionale in cui “bisogna sentirsi fieri di essere schiavi di Roma”, come se l’Inno di Mameli non andasse cantato con
l’orgoglio e l’amore dell’appartenenza alla propria nazione.
In quest’Italia divisa, in cui non si riescono a superare i particolarismi,
in cui la capitale viene sfregiata al Nord con gli appellativi di “Roma ladrona”, “la piovra romana”, al grido di “Milano capitale d’Italia”, bisognerebbe interrogarsi sul ruolo che Roma attualmente riveste, sulla differenza
tra l’apparenza e la realtà effettuale della nostra città, sulla sua vivibilità e
centralità.
Roma è bellezza, Roma è grandezza, Roma è una capitale europea visitata ogni anno da milioni di turisti. Per dirla con le parole di Orazio66:
“Possis nihil Urbe Roma visere maius”, possa tu vedere nulla di più grande
della città di Roma.
Forse agli occhi di un turista appassionato, Roma potrebbe apparire
così, ma noi, che a Roma siamo nati e cresciuti e che questa città la amiamo
e la conosciamo, sappiamo che purtroppo non è soltanto questo.
Roma, la città eterna che è stata sin dalla sua nascita il centro culturale,
politico e sociale di molti popoli, la città caput mundi che estendeva il suo
dominio su territori sconfinati, il mito dei secoli passati e forse per alcuni
ancora attuale... ma cosa rappresenta ai giorni nostri questa splendida città?
Se ormai è stato sfatato quel mito che la dipingeva quasi come l’ombelico
del mondo, oggi Roma riveste un ruolo estremamente importante, in primo
luogo come capitale d’Italia e anche come città di rilievo nel panorama internazionale, tanto che può essere considerata come una sorta di capitale europea. Sebbene Roma si sia presentata sempre come una città aperta alle diversità che l’hanno resa meta di molte ondate migratorie, essa presenta al
suo interno profonde contraddizioni che derivano non solo dall’enorme
gamma di componenti etniche e quindi dalla multiculturalità, ma soprattutto
dalla questione su quanto questi gruppi si debbano omologare alla cittadinanza propriamente romana e italiana, e quanto invece debbano essere salvaguardate le diversità e le peculiarità proprie di ogni cultura.
66
Orazio, “Carmen Saeculare”, XVII, vv. 11-12.
– 156 –
Se prima dunque Roma era la “testa” di tutte le genti, oggi dovremmo
dire “mundus intra Romam”, proprio perché non è più la città ad ergersi al
di sopra del mondo ma è il mondo a stare dentro la città. Roma, microcosmo se rapportata alla totalità del pianeta, è divenuta un macrocosmo, una
megalopoli, come un grande meccanismo composto di tante componenti
differenti ed il problema principale è proprio quale debba essere il giusto
rapporto tra tutte queste realtà differenti affinché il grande organismo possa
funzionare correttamente. Lo strumento principale di integrazione è in
primo luogo la comunicazione tra le diversi parti, per trovare un punto d’incontro tra le varie istanze ma soprattutto per far emergere quali particolarità
vadano salvaguardate e quali vadano modificate perché troppo in disaccordo con la nostra società. Roma ospita moltissimi gruppi differenti e non
mancano i disagi dovuti ad abitudini e mentalità spesso troppo distanti tra
loro, tanto che la città deve trovare una risposta alla questione dell’integrazione degli immigrati all’interno della comunità, a partire dagli scuolabus
fino ad arrivare ai posti di lavoro. Ogni giorno la sfida si rinnova perché
visto il grande numero di stranieri presenti, appaiono sempre problemi i più
disparati ed in primo luogo quello di una degna sistemazione per tutti gli
abitanti, stranieri e non.
Se Roma offre di sé un’immagine di patria dei più grandi ed immortali
monumenti, bisogna però ricordare che su questi segni eterni di perfezione
e profonda civiltà si profila l’ombra delle bidonvilles, delle case (se così si
possono chiamare) fatte di ferraglie e di cartoni che si ergono nascoste tra le
boscaglie dei parchi naturali, quasi a non voler contaminare il candore marmoreo dei monumenti storici.
Roma è una città vasta, abitata da quasi 3 milioni di abitanti, suddivisa
in ben 35 quartieri. Stride fortemente, all’interno della struttura della città, il
contrasto tra centro e periferie, più o meno degradate, a livello sociale ed
urbanistico; basti pensare, in merito a questo, alle condizioni del Residence
Bravetta, sgomberato nel settembre 2006, e, se si può dire, l’altra faccia
della Roma delle notti bianche, delle feste al cinema, dell’Auditorium, degli
aperitivi nei wine bar, delle estati romane, della Roma degli eventi, della
Roma città aperta e tollerante.
Il Residence Bravetta è solo uno tra i casi dei numerosi quartieri in cui
si trovano situazioni molto difficili per quanto riguarda il problema di una
dimora vivibile. La prima conseguenza che si riscontra in queste zone è
un’elevata criminalità, soprattutto tra i giovani che non riescono a vedere
una speranza nel futuro e che, soffocati da quello che hanno intorno, intra– 157 –
prendono vie sbagliate fatte di violenza, droga e crimini. È proprio questo
il disincanto: disincanto di una generazione nuova che è inesorabilmente
legata alle scelte sbagliate nel passato, che non crede più nei politici che ci
rappresentano e negli ideali, che si chiede chi potrà dare e quale potrà essere
una soluzione a questi problemi.
Roma è polo di molte grandi manifestazioni che uniscono questi giovani, danno loro possibilità di esprimersi, di divertirsi, di avvicinarsi alla cultura antica... ma dunque perché poi recandosi a visitare il Vittoriano ci si accorge di come la pioggia penetri dal soffitto creando crepe nei muri e rovinando le opere in esso contenute? Perché le mura del Colosseo, uno dei simboli storici di questa città a cui i romani sono affezionatissimi e che sentono
parte della loro storia, cadono letteralmente a pezzi?
Come è chiaro, sono molte le contraddizioni insite alla città, e, in un
clima del genere, a livello politico questa sorta di crisi si traduce in demagogia e facili promesse che ovviamente non vengono mantenute.
Non possiamo e non dobbiamo credere soltanto a quella Roma “incantata” la cui fierezza e importanza rifulge nei monumenti del centro storico,
perché anche essa, al pari di tante altre grandi città, nasconde al suo interno
profondi e molteplici problemi cui non si riesce e forse non si vuole trovare
una soluzione.
È proprio allora che noi cittadini di Roma dobbiamo assumere la consapevolezza dei limiti della nostra città e unirci per combattere, contro l’ignoranza, il pregiudizio, l’inciviltà, il degrado, per creare con le nostre mani una
città migliore, una città diversa, una Roma città aperta per davvero. Bisogna
ricercare l’incanto nel disincanto, perché seppure vediamo quante difficoltà
la città debba affrontare, è fondamentale impegnare tutte le forze per far sì
che essa torni al suo splendore originario.
Ognuno nel suo piccolo può fare qualcosa, soprattutto se la posta in
gioco è l’Urbe... una tra le città più belle al mondo, unica nel suo genere, imbevuta di memoria e atmosfera, tra passato e presente, tra antico e moderno
nel suo intramontabile fascino.
– 158 –
LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA
Dal mito deluso del ’68
al disincanto della società disgregata:
il caso Italia
– Progetto: Roma per vivere, Roma per pensare –
(anno scolastico 2007-2008)
CLASSE III B
Coordinatrice: Prof.ssa Licia Fierro
GLI ALUNNI:
Giacomo Baldinelli - Francesca Caloccia - Arianna Carobene
Giulio Alberto Caselli - Massimo Colagiovanni - Michelangelo Iuliano
Giuseppe Lucchetta - Flavia Mazzulli - Martina Mincinesi - Sabina Pieroni
Carlo Rengo - Valentina Riggio - Angelo Rollo - Alessandra Sbarra - Giulia Stanco
Claudia Tagliaferri - Luca Tabaro - Stefano Lorenzo Vitale.
INDICE:
INTRODUZIONE.
CAPITOLO I
La dimensione internazionale della protesta
CAPITOLO II
La cultura filosofica della contestazione globale: miti e utopie
CAPITOLO III
Anni di piombo: responsabilità presenti e passate
INTRODUZIONE
Talora una data storica dà il nome non solo al fatto di cui è l’indicatore
cronologico, ma anche ai fermenti politici, ideologici, sociali di cui diventa
inevitabilmente simbolo. Con questo lavoro ci proponiamo di trattare in
modo approfondito, nonostante l’oggettiva complessità, le cause storiche,
politiche, economiche e sociali, di quanto accaduto in Italia e in tutto il
mondo nel 1968, ma soprattutto di analizzare, a quarant’anni di distanza
dall’evento, le ripercussioni culturali e sociali che tutt’oggi alimentano gran
parte del dibattito filosofico-politico. È innegabile, infatti, che “lo spirito
– 159 –
del ’68 viva non solo nella memoria storica ma anche nella contemporaneità politica”.1 Senz’altro gli eventi di quel momento straordinario hanno
inciso un solco profondo nella società, ma il problema più spinoso consiste
proprio nel classificare in modo definitivo una serie di fatti che, per la loro
stessa natura, rimangono ambigui e suscettibili di interpretazioni diverse.
Mario Capanna2 nel suo “Formidabili quegli anni”, ci fornisce alcuni tra gli
interrogativi che maggiormente fanno riflettere: “Quest’anno ha visto fiorire straordinarie invenzioni o ha dato inizio a un degrado irreparabile? È
stata la necessaria svolta che ha liberato il costume e la politica dalle
gabbie della vecchia società oppure una pestilenziale epidemia di egualitarismo, un’ubriacatura demagogica di cui paghiamo ancora le conseguenze? È stata l’alba della nuova società o l’ultimo soprassalto del nuovo
mondo?”.3 Dunque, incanto o disincanto? È fondamentale tuttavia, come ci
suggerisce lo scrittore, prima di formulare giudizi, comprendere quello che
è veramente accaduto in quei mesi, e quali sono state le autentiche speranze
e visioni di chi ha partecipato ad un movimento giovanile che può essere
considerato come uno dei più grandiosi della storia. Dopo una breve introduzione allo sfondo politico italiano, abbiamo spostato l’analisi dei fatti di
quegli anni a una dimensione internazionale, trovando, dove possibile, il
minimo comune denominatore tra le diverse manifestazioni di un pur comune spirito di rinnovamento: dai moti degli studenti statunitensi a Berkeley al maggio francese, dalle barricate nel quartiere latino alla primavera
di Praga. L’oggetto della nostra analisi consiste, tuttavia, nello studio del
“caso Italia”, e più approfonditamente del tentativo, senza precedenti, di
unione tra studenti e operai, tra il mondo delle università e quello delle fabbriche, tra i figli di un’agiata borghesia e i lavoratori proletari. Inoltre, abbiamo analizzato i cambiamenti che avvennero nell’ambito del costume, del
pensiero e della società stessa nell’arco di quegli anni, coinvolgendo filosofie contemporanee e beat generation, dibattiti intellettuali e musica beat,
Mario Capanna, “Formidabili quegli anni”, Garzanti 2007 (collana Saggi).
Mario Capanna (Città di Castello, 10 gennaio 1945), laureato in filosofia, è un politico e
scrittore italiano. È stato fra i principali leader del movimento giovanile del Sessantotto. Dopo
un’intensa vita politica, che lo ha visto sempre militante coerentemente con le sue idee, attualmente è presidente del Consiglio dei Diritti Genetici, un organismo di ricerca e comunicazione
sulle biotecnologie che opera dal 2002 come associazione scientifica e culturale indipendente,
impegnata in attività di studio, informazione, progettazione sulle applicazioni e le diverse forme
di impatto delle innovazioni tecnologiche.
3 Vedi nota 1.
1
2
– 160 –
proponendone, infine, un’analisi il più possibile approfondita su ogni livello, politico, sociale e filosofico.
Le proteste studentesche e proletarie del 1968 trovarono, senza dubbio,
una delle condizioni di esistenza nella profonda ansia di rinnovamento concretizzatasi nella svolta formidabile che fu il boom economico, in virtù del
quale l’“Italietta”, agricola e arretrata, fu trasformata in una nazione industrializzata. Il profondo cambiamento che aveva contraddistinto la situazione politica alle soglie dell’immediato dopoguerra trovò espressione
anche e soprattutto nella sfera economica e sociale. Infatti, alla fine degli
anni ’50 si avviò in Italia un “circolo virtuoso” che portò ad una rapida trasformazione dell’intera struttura economica. A partire dalla fine degli anni
’50, si innescò una fase di rapida trasformazione delle strutture economiche
e sociali. Fu un processo che in dieci anni trasformò la penisola da paese
agricolo-industriale – sostanzialmente sottosviluppato – in un moderno
paese industriale-agricolo. L’apice dello sviluppo di questo trend positivo fu
raggiunto nei tre anni che intercorsero tra il 1959 ed il 1962, quando i tassi
di incremento del reddito raggiunsero valori record: il 6,4%, il 5,8%, il
6,8% e il 6,1%, rispettivamente negli anni 1959, 1960, 1961, 1962. Questa
grande espansione economica fu determinata da una serie di fattori simultanei, da ricercare in ambiti diversi. In primo luogo, fu dovuta allo sfruttamento delle opportunità che venivano dalla favorevole congiuntura internazionale. Più che l’intraprendenza e la lungimirante abilità degli imprenditori
italiani, ebbero effetto, infatti l’incremento vertiginoso del commercio internazionale e il conseguente scambio di merci che lo accompagnò. Anche la
fine del tradizionale protezionismo dell’Italia giocò un grande ruolo in
quella congiuntura. In conseguenza di quell’apertura, il sistema produttivo
italiano ne risultò rivitalizzato, lo costrinse ad ammodernarsi e ricompensò
quei settori che si presentavano già dinamici e in espansione. La disponibilità di nuove fonti di energia e la trasformazione dell’industria dell’acciaio
furono gli altri fattori decisivi. La scoperta del metano e degli idrocarburi in
Val Padana, la realizzazione di una moderna industria siderurgica sotto l’egida dell’IRI, permise di fornire alla rinata industria italiana acciaio a prezzi
sempre più bassi. Il maggior impulso a questa espansione venne proprio da
quei settori che avevano raggiunto un sufficiente livello di sviluppo tecnologico e una diversificazione produttiva tale da consentir loro di reggere l’ingresso dell’Italia nel Mercato Comune. Il settore industriale, nel solo
triennio 1957-1960, registrò un incremento medio della produzione del
31,4%. Assai rilevante fu l’aumento produttivo nei settori in cui prevale– 161 –
vano i grandi gruppi: autovetture 89%; meccanica di precisione 83%; fibre
tessili artificiali 66,8%. È tuttavia importante sottolineare che il “miracolo
economico” non avrebbe avuto luogo senza il basso costo del lavoro. Gli
alti livelli di disoccupazione negli anni ’50 furono la condizione perché la
domanda di lavoro eccedesse abbondantemente l’offerta, con le prevedibili
conseguenze in termini di andamento dei salari. Il potere dei sindacati fu effettivamente fiaccato nel dopoguerra e ciò aprì la strada verso un ulteriore
aumento della produttività. A partire dalla fine degli anni ’50, infatti, la situazione occupazionale mutò drasticamente: la crescita divenne notevole
soprattutto nei settori dell’industria e del terziario. Il tutto avvenne, però, a
scapito del settore agricolo. Del resto, anche la politica agricola comunitaria
assecondò questa tendenza, prevedendo essa stessa benefici e incentivi destinati prevalentemente ai prodotti agricoli del Nord Europa. Il risultato di
questo processo fu l’imponente movimento migratorio avutosi negli anni
’60 e ’70. Gli anni ’60 furono, dunque, teatro di un rimescolamento formidabile della popolazione italiana. I motivi strutturali che indussero prevalentemente la popolazione rurale ad abbandonare il loro luogo d’origine furono molteplici ma tutti avevano a che fare con l’assetto fondiario del Sud,
con la scarsa fertilità delle terre e con la polverizzazione della proprietà fondiaria. Ai fattori strutturali si accompagnarono quei fattori tipici di attrazione che derivano dai modelli di vita dell’ambiente urbano, con la conseguenza che a decidere di emigrare furono prevalentemente i giovani del
Mezzogiorno. Il flusso migratorio fu intercettato soprattutto dal Nord del
paese, in quanto, per la prima volta in quegli anni del “miracolo economico”, la domanda di lavoro superò l’offerta nelle Regioni del triangolo industriale. Attorno al 1954, il ministro dell’economia Vanoni predispose un
piano per lo sviluppo economico controllato che, negli intenti del governo,
avrebbe dovuto programmare il superamento dei maggiori squilibri sociali e
geografici (il crollo dell’agricoltura, la profonda differenza di sviluppo tra
Nord e Sud); ma questo piano non portò ad alcun risultato. Le indicazioni
che vi erano contenute in materia di sviluppo e di incremento del reddito e
dell’occupazione, si basavano su una previsione fortemente sottostimata del
ruolo che avrebbe dovuto giocare il progresso tecnologico e l’incremento
della produttività del lavoro che ne sarebbe derivato. Quelle previsioni furono, quindi, travolte da un processo d’espansione, ben al di là dal ristagno
che il piano Vanoni inopinatamente metteva nel conto delle previsioni. Proprio perché non previsto, e per mancanza di un incanalamento regolato
della crescita, il processo di espansione portò con sé gravi squilibri sul
– 162 –
piano sociale. Il risultato finale fu quello di portare il “boom economico” a
realizzarsi secondo una logica tutta sua, a rispondere direttamente al libero
gioco delle forze del mercato e a dar luogo a profondi scompensi. Il primo
di questi fu la cosiddetta “distorsione dei consumi”. Una crescita orientata
all’esportazione determinò una spinta produttiva orientata sul beni di consumo privati, spesso su quelli di lusso, senza un corrispettivo sviluppo dei
consumi pubblici. Scuole, ospedali, case, trasporti, tutti beni di prima necessità restarono infatti parecchio indietro rispetto alla rapida crescita della
produzione di beni di consumo privati. Il modello di sviluppo sottinteso al
«boom» implicò dunque una corsa al benessere tutta incentrata su scelte e
strategie individuali e familiari, ignorando invece le necessarie risposte
pubbliche ai bisogni collettivi quotidiani. Un altro dei mutamenti più rilevanti degli anni del “miracolo economico” fu la profonda trasformazione
della struttura di classe della società italiana. Uno degli indicatori che mostravano come l’Italia fosse entrata ormai nel novero dei paesi sviluppati, fu
il rapido incremento del numero di impiegati, sia nel settore privato, che nel
settore pubblico. La categoria dei tecnici crebbe in maniera altrettanto rilevante in quegli anni. Al vertice del settore si collocavano i manager del
comparto industriale, che furono i veri soggetti (e divulgatori) delle idee
sulla nuova organizzazione industriale, le cui teorie avevano da tempo fatto
scuola nelle Università americane. Il numero di dirigenti d’azienda che non
vantavano titoli di proprietà delle realtà produttive che dirigevano aumentò
sensibilmente negli anni del “miracolo” e, parimenti, aumentò il loro potere
di condizionamento del ceto politico, soprattutto di quello che controllava
direttamente o indirettamente l’industria pubblica. Ma gli anni della grande
espansione furono anche teatro di straordinarie trasformazioni degli stili di
vita, del linguaggio e dei costumi degli italiani. Nessuno strumento ebbe un
ruolo così rilevante nel mutamento molecolare della società quanto la televisione. Progressivamente essa impose un uso passivo e familiare del tempo
libero, a scapito delle relazioni di carattere collettivo e socializzante, che,
alla lunga, avrebbe modificato profondamente i ruoli personali e gli stili di
vita oltre che i modelli di comportamento. A questo si accompagnò anche un
deciso aumento del tenore di vita delle famiglie italiane. Nelle case facevano
la loro comparsa le prime lavatrici e frigoriferi (la cui produzione era dovuta
soprattutto ad imprese italiane di piccole e medie dimensioni). Anche le
automobili cominciavano a diffondersi sulle strade italiane con le Fiat 500
e 600 che diedero grande impulso alla produzione della casa torinese. Si costruirono anche le prime autostrade a partire dalla Milano-Napoli, l’Auto– 163 –
strada del Sole. Anche la letteratura e il cinema si occuparono ampiamente
del boom economico che fu ripreso e trattato in molti libri e film. Significativi di questo periodo sono, ad esempio, lo scrittore Luciano Bianciardi ed
i film “La dolce vita”4 ed “II sorpasso”.5 Tutte le premesse in ambito economico e culturale sembravano costituire la base di una svolta che avrebbe
catapultato l’Italia in una dimensione ormai internazionale.
Per quanto riguarda la dialettica politica italiana, nel decennio tra 1958 e
il 1968 si verificò un’importante svolta che avrebbe portato alla formazione
dei nuovi governi di Centro Sinistra. Nelle elezioni del 1958 che avevano
dimostrato la fondamentale stabilità politica dell’Italia, Fanfani leader della
Democrazia Cristiana, sosteneva che DC6 e PSI7 avrebbero potuto costruire
una solida base per una programmazione sociale, per un riformismo moderato e per ulteriori interventi pubblici nell’economia. Il primo intervento di
apertura verso la sinistra, tuttavia, fallì a causa delle riserve di alcuni settori
della DC e la conseguente sfiducia verso il loro leader il cui governo cadde
nel 1959. In quest’anno all’interno del partito democristiano nacque una
nuova corrente destinata ad avere grande eco negli anni successivi: i dorotei.
Grazie all’appoggio di personalità importanti come Giulio Andreotti8 e Aldo
Moro,9 che successivamente divenne segretario della DC, questa corrente
uscì vincitrice dal congresso di Firenze tenuto nel 1959; la prudenza di
Moro, comunque, suggerì che questa volontà di una apertura a sinistra fosse
sottoposta ad uno strategico rinvio. In questo frangente l’incapacità da parte
della DC di mettere in piedi una maggioranza di governo affidabile portò
4 “La dolce vita” è un film del 1960 diretto da Federico Fellini (con Marcello Mastroianni
e Anita Ekberg). È sicuramente uno dei film più famosi della storia del cinema. Viene solitamente indicato come il punto di passaggio dai primi film neorealisti di Fellini ai film artistici successivi.
5 “Il sorpasso” è un film di Dino Risi del 1962 (con Vittorio Gassman, Catherine Spaak e
Jean Louis Trintignant); la pellicola costituisce uno degli affreschi cinematografici più rappresentativi dell’Italia del benessere e del miracolo economico di quegli anni.
6 DC: Democrazia Cristiana, partito politico italiano, di ispirazione democratico cristiano e
moderato, fondato nel 1942 a opera di Alcide De Gasperi
7 PSI: Partito Socialista Italiano, fu un partito politico fondato nel 1892 e operante fino al
1994 a opera di Filippo Turati, Claudio Treves, Leonida Bissolati.
8 Giulio Andreotti (Roma, 14 gennaio 1919) è uno statista, politico, scrittore e giornalista
italiano, uno dei principali esponenti della Democrazia Cristiana.
9 Aldo Moro (Maglie, 3 settembre 1916 - Roma, 9 maggio 1978) è stato un politico italiano, cinque volte Presidente del Consiglio dei ministri e presidente della Democrazia Cristiana.
Venne rapito il 16 marzo 1978 ed ucciso il 9 maggio successivo da appartenenti al gruppo delle
Brigate Rosse.
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agli orribili fatti del breve governo Tambroni.10 Nel 1960, infatti, l’MSI11 affiancato da una schiera di neofascisti organizzò un congresso a Genova (città
insignita della medaglia d’oro per la Resistenza) che fu immediatamente
contestato dalle manifestazioni di migliaia di persone. La successiva decisione di rimandare il congresso dell’MSI fu festeggiata nella città come una
grande vittoria, ma Tambroni, deciso a non arrendersi, ordinò alla polizia di
sparare in caso di “emergenza”. La polizia cominciò così a sparare sui manifestanti, la CGIL12 proclamò lo sciopero generale. La direzione democristiana decise di sostituire Tambroni. La vicenda chiarì alcune costanti nella
storia politica della repubblica: l’antifascismo era diventato una parte integrante dell’ideologia egemone e ogni tentativo di svolta autoritaria veniva
contrastato dall’azione unitaria delle forze repubblicane; la democrazia cristiana non poteva contare l’estrema destra tra i suoi alleati. Queste considerazioni chiusero le porte verso i partiti di destra e aprirono a possibili alleanze
con i partiti di sinistra. I primi esperimenti di governo di centro sinistra furono attuati a livello locale nelle maggiori città italiane e nei piccoli comuni.
Un importante contributo a questa apertura fu determinato dalla svolta della
politica della Chiesa cattolica negli anni ’60. Il nuovo Papa Giovanni
XXIII13 stabilì infatti un rapporto tra Chiesa e Stato totalmente diverso rispetto al suo predecessore, egli infatti non solo vedeva di buon occhio l’apertura verso sinistra ma era favorevole alla “non intromissione” della Chiesa
nella vita politica della Repubblica. Attraverso la pubblicazione di varie encicliche in cui rivendicava una maggiore giustizia sociale, l’integrazione
degli emarginati, un invito alla conciliazione internazionale (con il rifiuto di
accettare le barriere della Guerra Fredda), la cooperazione tra le persone,
l’ingresso delle donne nella vita pubblica e le lotte anticoloniali nel Terzo
Mondo, Papa Giovanni XXIII riconciliò la Chiesa con il suo ruolo pastorale
e spirituale che si era completamente perso durante il precedente papato.
Fernando Tambroni (Ascoli Piceno, 25 novembre 1901 - Roma, 18 febbraio 1963) è stato
un politico italiano appartenente fin da giovanissimo alla DC (vedi nota 6).
11 MSI: Movimento Sociale Italiano: partito politico fondato nel dicembre 1946 da reduci
della Repubblica Sociale Italiana (come Giorgio Almirante e Pino Romualdi) ed ex esponenti
del regime fascista (come Arturo Michelini). Il partito si sciolse il 27 gennaio 1995.
12 CGIL: Confederazione Generale Italiana del Lavoro, maggiore sindacato italiano costituito con il Patto di Roma nel 1944.
13 Papa Giovanni XXIII: nato Angelo Giuseppe Roncalli a Sotto il Monte il 25 novembre
1881. Morì il 3 giugno 1963. Fu il 263° vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica, eletto il
4 novembre 1958.
10
– 165 –
D’altro canto se da una parte alcuni settori del ceto imprenditoriale si affiancarono al centro-sinistra, la Confindustria, che controllava migliaia di piccoli
imprenditori e i monopoli dell’industria elettrica, si chiuse a qualsiasi apertura voltando le spalle a una politica progressista e ad una più equa cooperazione con le classi socialmente più deboli.
Durante il governo, La Malfa14 e Fanfani15 proposero una serie di riforme correttive per affrontare quei problemi propri del caso italiano. In
ambito sociale fu varata dal governo una riforma cui la sinistra teneva fin
dalla fine della guerra: la creazione della scuola media unificata e l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 14 anni. Nei primi anni della Repubblica, la scuola dell’obbligo finiva a 11 anni e i ragazzi che intendevano
accedere alla scuola secondaria venivano divisi tra coloro che proseguivano gli studi in vista del liceo e quelli che sceglievano l’avviamento professionale. Nonostante l’avversione della destra e di parte degli insegnanti,
che ritenevano che questa avrebbe distrutto la vecchia élite delle scuole
medie, la riforma fu approvata. Il numero dei ragazzi che completavano la
scuola dell’obbligo aumentò man mano nel corso del decennio successivo
alla riforma. Per la prima volta, anche un gran numero di ragazze ricevette
una consistente forma di istruzione superiore. Tuttavia, la riforma non intaccò i contenuti della didattica che rimasero ancorati a schemi ormai superati; inoltre, i profili organizzativi della scuola superiore e dell’università
non furono per nulla modificati. Nel 1962 venne inoltre definito un nuovo
programma economico. In particolare, fu sottolineata la necessità di una
pianificazione economica concertata sia con i sindacati che con gli industriali. L’elevato tasso di sviluppo ipotizzato nel piano doveva fornire la
base per la realizzazione di servizi sociali efficienti. Il Piano avrebbe
creato il necessario equilibrio tra agricoltura e industria, tra le diverse
classi sociali, tra i consumi pubblici e quelli privati. Il primo passo fu la
nazionalizzazione dell’industria elettrica. Il controllo statale di tale industria doveva permettere al governo di stabilire i prezzi, programmare su
scala nazionale le risorse energetiche, fare investimenti dove erano più necessari, come nel Mezzogiorno. Non meno importanti erano le ragioni di
ordine politico: si sperava che la nazionalizzazione dei monopoli avrebbe
14 Ugo La Malfa: nato a Palermo il 16 maggio 1903, morto a Roma il 26 marzo 1979. Antifascista, fu tra i fondatori del Partito d’Azione, poi capo del Partito Repubblicano.
15 Amintore Fanfani: nato a Pieve Santo Stefano (AR) il 6 febbraio 1908, morto a Roma il
20 novembre 1999. Fu una figura storica della Democrazia Cristiana nel dopoguerra.
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intaccato il potere del capitalismo italiano. Con la costituzione dell’ENEL,
però, un delicato problema fu la determinazione dell’indennizzo da versare
alle vecchie aziende ormai passate sotto il controllo di un ente pubblico. Il
governatore della Banca d’Italia, Carli,16 voleva che si pagasse direttamente a tali aziende, le quali avrebbero così continuato ad esistere come
società finanziarie. Si opponeva a tale linea la sinistra socialista che auspicava invece il pagamento di indennizzi dilazionati nel tempo, così da evitare la costituzione di trust economici nel paese. Alla fine vinse tuttavia la
linea di Carli, dopo che questi minacciò le dimissioni. L’influenza dei baroni dell’energia rimase perciò rilevante e, di fatto, l’obiettivo politico di
contrasto ai monopoli, perseguito con la nazionalizzazione dell’industria
elettrica, fu vanificato. Questa vicenda alimentò il malcontento nei confronti della politica del centro-sinistra, accentuando il risentimento di
quanti avevano confidato nella nuova svolta politica per il raggiungimento
di obiettivi di maggiore equità.
In quegli anni inoltre, vi fu una forte spinta registrata dalla domanda di
lavoro e dalle sollecitazioni al rialzo subite dall’inflazione. A partire dall’autunno del 1962, a causa del maggiore benessere diffusosi grazie al boom
economico, nel Nord, in particolare, si registrò un eccesso della domanda di
forza lavoro; i salari tendevano a oltrepassare i tetti fissati dai contratti nazionali di categoria e mantenevano un ritmo di crescita che cominciava a
superare la produttività. La richiesta di alcuni beni di consumo superò l’offerta e l’inflazione divenne un problema significativo, poiché gli imprenditori scaricarono sui prezzi gli aumenti salariali. I piccoli e medi imprenditori reagirono a tale situazione bloccando gli investimenti, sostenendo che
questi sarebbero stati scarsamente produttivi a causa dei salari che corrodevano sempre di più i profitti. Fu inoltre introdotta una tassa sui dividendi
azionari. Come risposta a tale intervento fiscale, si registrò una rilevante
fuga di capitali verso l’estero. La borsa crollò e la fiducia negli affari fu
scossa. Il governatore Carli, davanti alla fuga dei capitali e al crescere dell’inflazione, decise un aumento dei tassi di interesse con conseguente diminuzione dei flussi di credito concessi dalle banche all’economia. Ne deriva-
16 Guido Carli (Brescia, 28 marzo 1914 - Spoleto, 23 aprile 1993). Ricoprì cariche dirigenziali in vari istituti di credito, fu ministro del Commercio con l’estero e del Tesoro. Venne nominato nel 1960 direttore generale della Banca d’Italia e ne divenne poco dopo governatore fino all’agosto 1975. Fu presidente di Confindustria dal 1976 al 1980. Venne eletto senatore come indipendente della Democrazia Cristiana nel 1983.
– 167 –
rono ripercussioni sulla crescita dell’economia. Tale politica deflazionistica
generò disoccupazione – le donne furono le prime a perdere il lavoro –
chiusura di fabbriche di minor dimensione e conseguente assorbimento in
aziende maggiori, calo del potere contrattuale dei lavoratori, compressione
dei consumi.
La situazione di difficoltà economica portò a un nuovo rinvio delle riforme promesse. I governi che si succedettero furono caratterizzati da un
notevole immobilismo, a causa anche delle tensioni tra i diversi partiti. La
politica del rinvio risultò predominate. Nel 1963 il presidente della Repubblica Segni17 incaricò Moro di formare il primo dei suoi tre governi che
durò meno di un anno. Divenuto presidente del Consiglio egli portò di
fronte al parlamento un programma che si proponeva alcuni compiti prioritari: l’istituzione delle regioni, la riforma della scuola, quella dell’edilizia,
l’agricoltura, il riequilibrio fra Nord e Sud, la riforma del fisco e delle pensioni, la legge urbanistica e quella antimonopolio. In questo frangente i socialisti rifiutarono la fiducia al governo e nel gennaio 1964 la corrente di sinistra del PSI abbandonò il partito formando il PSIUP.18 Questa scissione
mise a dura prova l’autorità di Nenni19 come vicepresidente del partito. Nascondendosi dietro la pretesa di risolvere la grande crisi economica prima di
affrontare qualsiasi tipo di riforma, Moro non si attenne alle promesse che
egli stesso aveva definito prioritarie nel suo programma. In questo clima di
sfiducia da parte dei suoi stessi collaboratori Moro si dimise nel giugno
1964 concludendo il suo primo mandato.
17 Antonio Segni (Sassari, 2 febbraio 1891 - Roma, 1° dicembre 1972) è stato un politico italiano, quarto presidente della Repubblica. Fu eletto Presidente della Repubblica Italiana il 6 maggio 1962 (al nono scrutinio con 443 voti su 842), con i voti decisivi del MSI e dei monarchici.
18 Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (1964-1972). Il 12 gennaio 1964, dalla scissione dal PSI della corrente di sinistra, si costituisce il nuovo Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria (PSIUP), guidato da Tullio Vecchietti (che ne diviene il segretario) e i cui maggiori
esponenti sono Lelio Basso, Vittorio Foa, Lucio Libertini, Emilio Lussu, Alcide Malagugini,
Francesco Cacciatore detto Cecchino e Dario Valori, oltre ai toscani Silvano Miniati, Guido
Biondi, Mario Brunetti, Aristeo Biancolini, Pino Ferraris, Daniele Protti, Dante Rossi e i sindacalisti Elio Giovannini, Antonio Lettieri e Gastone Sclavi. Aderirono allo PSIUP tutti quei militanti socialisti contrari alla formazione di un governo di centro-sinistra formato da PSI e DC,
preferendo invece un accordo per una alleanza di sinistra con il Partito Comunista Italiano.
19 Pietro Nenni (Faenza, 9 febbraio 1891 - Roma, 1° gennaio 1980) è stato un politico e
giornalista italiano. Fondò, con Aldo Moro, Ugo La Malfa e Giuseppe Saragat, una nuova coalizione politica, chiamata centrosinistra. Tuttavia in tale occasione si ebbe la scissione della corrente dei “carristi” che, dopo il congresso al palazzo delle Esposizioni dell’EUR, all’inizio del
1964 diedero vita al nuovo PSIUP, guidato da Tullio Vecchietti e Dario Valori.
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Il secondo governo Moro nacque in un clima completamente diverso e
in un certo senso il suo intento fu piuttosto quello di evitare un colpo di
Stato. Infatti per ristabilire ordine nel governo il Presidente della Repubblica Segni, che si era dichiarato sfavorevole ad un partito di centrosinistra,
convocò al Quirinale il comandante dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo.20
L’intento di De Lorenzo era quello di attuare il piano “Solo” cioè una serie
di norme e leggi contro coloro che erano considerati “pericolosi per la sicurezza pubblica”, tra i quali erano naturalmente inclusi comunisti e socialisti;
in altre parole un vero e proprio colpo di stato, nonostante fosse difficilmente attuabile in un paese come l’Italia, ancora ben attrezzato dalla recente
Resistenza. Questa insolita svolta politica non rispecchiava gli interessi di
Segni che pensava di utilizzare De Lorenzo solo per aumentare la capacità
di risposta dello Stato ai problemi di ordine pubblico. Pur di evitare una
crisi della Repubblica, Nenni e i socialisti si mostrarono favorevoli a un
reingresso nel governo presieduto da Moro. Il secondo mandato fu di gran
lunga più moderato e privo di quelle promesse che avevano caratterizzato il
primo; per la prima volta anche la Confindustria diede un prudente benvenuto a un governo di centro sinistra. Tuttavia la strategia di Moro in merito
al raggiungimento della stabilità prima di qualsiasi riforma continuò, il governo puntava maggiormente alla stabilità politica e questo attenuò le differenze con il PSDI21. Il secondo governo Moro cadde nel 1966.
Il terzo governo durò oltre due anni, ma restò sostanzialmente in quella
situazione di immobilismo ormai impossibile da ignorare. A partire da alcune “calamità” naturali come il crollo di edifici e alluvioni si focalizzò
l’attenzione sull’incapacità del governo di attuare riforme edilizie necessarie al paese, a cui rispose con la “legge ponte” che si rivelò un provvedimento-tampone in attesa di una riforma organica. Il 1966 vide, con l’unificazione del PSI con il PSDI nel Partito socialista unificato (PSU), la nascita
Giovanni De Lorenzo (Vizzini, 1907-1973) è stato un generale e politico italiano. Fu capo del SIFAR (1955-1962), Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri (15 ottobre 1962 31 gennaio 1966) e capo di Stato Maggiore dell’esercito. Divenne noto per il ruolo avuto nello
sviluppo del cosiddetto “Piano Solo”.
21 Il Partito Socialista Democratico Italiano è un partito ispirato ai valori della politica
socialdemocratica e riformista fondato l’11 gennaio 1947, in seguito alla cosiddetta “Scissione
di Palazzo Barberini”. La denominazione iniziale del nascente partito socialdemocratico, in
rievocazione degli storici fasti, fu Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI). Dalla storpiatura della sigla utilizzata a quel tempo, gli avversari politici solevano canzonarne i militanti con
l’appellativo di “pisellini”.
20
– 169 –
delle prime forme di clientelismo e le accuse di abuso di potere al Partito
socialista.
Sotto il profilo politico, furono congelate due riforme da tempo proposte:
l’istituzione delle regioni e la pianificazione urbanistica. La prima infatti
avrebbe rischiato di concedere maggiore potere ai comunisti nelle regioni
centrali; la seconda naufragò per l’opposizione dei proprietari terrieri e della
speculazione edilizia, che vedevano inficiato il proprio ruolo a causa di una
riforma che avrebbe assegnato maggiori poteri decisionali agli enti locali.
In quegli anni proseguì immutata la paralisi dell’amministrazione pubblica, atavica difficoltà dello Stato italiano. La burocrazia si mostrò arroccata su posizioni estremamente conservatrici. Il sospetto verso ogni innovazione era endemico. Ogni processo decisionale risultava molto frammentato, a causa di una rigida applicazione delle competenze e dei ruoli. Si rafforzò il clientelismo nel Meridione. Il boom edilizio fu il classico esempio
che testimoniò l’ingerenza e il trionfo degli interessi privati sulle necessità
pubbliche, a cui si aggiunse anche la collusione con la mafia. Nel 1966,
quando ormai l’economia si era ripresa con vigore, di fronte a una serie di
calamità naturali (l’alluvione di Firenze, la frana della valle dei Templi di
Agrigento), il governo rispose con una nuova legge ponte, l’ennesimo provvedimento tampone in attesa di una riforma organica in campo urbanistico
che non avrebbe mai visto la luce. Il 1968 vide un incremento patologico
delle richieste edilizie e l’arrembaggio degli speculatori. Il periodo in esame
evidenziò, dunque, l’inequivocabile distacco tra ideologia e azione che
aveva sempre rappresentato un problema della politica italiana. Anche al di
fuori del Parlamento, le forze contrarie alle riforme si dimostrarono particolarmente attive; in seno al mondo imprenditoriale, risultarono vincenti
quanti preferivano lo status quo, gli speculatori edilizi, gli ex monopoli elettrici. Diversamente da quanto prefigurato, gli anni ’60 comportarono, anzi,
un chiaro deterioramento delle principali aree dell’apparato statale. Lo sviluppo effettivo dello Stato prese, infatti, una direzione ben diversa da quella
prospettata. Conseguenza di ciò fu il declino dell’impresa pubblica caratterizzato da un forte intreccio tra potere politico e direzione industriale. Nelle
industrie pubbliche il posto veniva assegnato non per merito, ma in base a
lealtà di partito o di corrente. Ai livelli più alti delle gerarchie si insediarono
nuove generazioni di imprenditori, legati assai strettamente ai partiti politici
dominanti.
Prevalse, dunque, una modalità minimalista di attuazione delle riforme.
Poche erano quelle realizzate e quasi sempre in modo parziale. Riepilo– 170 –
gando: l’industria elettrica era stata privatizzata ma in maniera tale da favorire per gli ex monopoli il mantenimento di un enorme potere finanziario; la
scuola media dell’obbligo fino a 14 anni era un fatto compiuto, ma i contenuti arcaici e l’organizzazione della scuola superiore e dell’università non
erano stati toccati; non c’era stata né riforma fiscale né burocratica; non era
stato introdotto il sistema sanitario nazionale, né la riforma dei patti agrari.
Anche l’istituzione delle regioni non era stata portata a termine.
In conclusione, nel periodo tra il 1962 e il 1968, i governi di centrosinistra avevano fallito nel rispondere alle molteplici esigenze di un’Italia in
rapido cambiamento. Avevano parlato ininterrottamente di riforme ma lasciando poi deluse quasi tutte le aspettative. Dal 1968 in avanti l’inerzia dei
vertici fu sostituita dall’attività della base. Iniziò così una stagione di straordinario fermento sociale, destinata a mettere in discussione l’organizzazione
della società italiana quasi a tutti i livelli.
Bibliografia:
MARIO CAPANNA, Formidabili quegli anni, Garzanti, 2007, Roma.
PAUL GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi.
ANTONIO DESIDERI - MARIO THEMELLY, Storia e storiografia, G. D’Anna,
1997, Firenze.
MASSIMO SALVATORI - FRANCESCO TUCCARI, L’Europa e il mondo nella
storia, Loescher, 2004, Roma.
– 171 –
CAPITOLO I
LA DIMENSIONE INTERNAZIONALE DELLA PROTESTA
Le origini del movimento negli Stati Uniti
Il fenomeno “Sessantotto” prende il nome dall’anno stesso in cui assume carattere internazionale: nel ’68 grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (operai, studenti, gruppi etnici minoritari), toccando quasi
tutti i paesi del mondo (paesi con culture e regimi politici alquanto differenti tra loro), con valenza diversa da luogo a luogo costituiscono una mobilitazione planetaria, in nome di una trasformazione radicale dei sistemi politici sociali e culturali.
Il ’68 fu un fenomeno prima di tutto giovanile, ed in modo particolare
studentesco. Caratteristica peculiare che fa delle rivolte di quegli anni una
rarità storica, fu la simultaneità e la vastità geografica delle “rivolte”, senza
che vi fosse stata alcuna forma di preparazione o di coordinamento.
È sufficiente ricordare alcuni eventi di quegli anni per rendersi conto delle dimensioni del fenomeno: il “Maggio francese” (divenuto quasi il ’68 per
antonomasia); la primavera di Praga; l’esplodere dei movimenti studenteschi
in Italia e Germania; l’opposizione negli Stati Uniti alla guerra in Vietnam;
l’assassinio a Memphis del leader nero della non-violenza Martin Luther
King, e le sanguinose rivolte dei ghetti neri; la terribile strage di Piazza delle
Tre culture a Città del Messico, in prossimità delle Olimpiadi (con un numero di vittime che non fu mai accertato, ma sicuramente superiore alle duecento persone); il famoso gesto di protesta degli atleti afro-americani alla premiazione olimpica dei 200 metri piani, con Tommy Smith e John Carlos sul
podio a pugno chiuso, a segnare l’adesione al movimento del Black Power.22
La guerra nel Vietnam, evento chiave della politica internazionale degli
anni Sessanta, fu uno dei motivi più forti di aggregazione dei movimenti di
protesta in tutto il mondo. I giovani e gli studenti che scendevano in piazza
per il Vietnam non intendevano certo schierarsi in favore dell’Unione Sovietica, ma vedevano nella crisi dell’egemonia militare americana l’elemento
decisivo per una ridefinizione complessiva degli equilibri internazionali.23
22 Il filone più intransigente del movimento americano per i diritti civili degli afroamericani che si svilupperà intorno al 1965.
23 Peppino Ortoleva, “I Movimenti del ’68 in Europa e America”, Roma, Editori Riuniti,
1988, pp. 50-53.
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Un filo conduttore nei movimenti sociali del ’68, un loro carattere storico comune, può essere individuato nell’essere stati i primi movimenti di
contestazione radicale del modello sociale ‘neocapitalistico’ e dell’equilibrio mondiale fondato sull’egemonia statunitense, condotta in forme di
massa, ma culturalmente non ascrivibile alla tradizione comunista. Non si
battevano più (e qui stava la novità rispetto ad esempio alla tradizione italiana di sinistra) per lo sviluppo e la modernizzazione, ma contro le caratteristiche autoritarie e di classe di quello sviluppo e di quella modernizzazione. La loro era dunque la prima critica della modernità, fatta non in
nome delle nostalgie passate della destra, ma in nome di una modernità più
libera e più giusta.24
L’antiautoritarismo è uno dei principali fili conduttori che attraversa tutti
i movimenti di protesta sorti nei primi anni Sessanta. Viene contestata ogni
istituzione che si fondi sul principio di autorità, come la famiglia e la scuola,
che trasmettono modelli di disciplina e che stigmatizzano ogni comportamento deviante, fino a tutte quelle istituzioni per loro natura finalizzate alla
repressione o fondate su un forte principio gerarchico: l’esercito, la magistratura, la polizia, la Chiesa, la burocrazia degli stati e dei partiti tradizionali.25
Nascono tentativi di dar vita a luoghi dove l’autorità sia bandita: la comune al posto della famiglia, l’assemblea e la democrazia diretta in luogo
delle deleghe e della democrazia rappresentativa, con lo scopo di voler simboleggiare il rovesciamento del potere costituito e quello di creare un proprio spazio autonomo (con queste intenzioni i movimenti studenteschi adotteranno la tattica dell’occupazione). Tutte forme che finirono per mettere
definitivamente in crisi le figure sociali in cui l’autorità si esprimeva: dal
padre al poliziotto, dal giudice al militare.26
Oggetto della contestazione non è solo il potere statale, ma anche e soprattutto i singoli poteri quotidiani: dalla famiglia autoritaria al professore
in aula al caporeparto nella fabbrica. Questi movimenti combattono qualunque forma di burocrazia, da quella statale a quella delle tradizionali organizzazioni dei partiti. All’apparato organizzativo della politica tradizionale
Guido Viale, “Il ’68 tra rivoluzione e restaurazione” Milano, Mazzotta Editore, 1978,
pp. 8-24.
25 Guido Viale, “Il ’68 tra rivoluzione e restaurazione” Milano, Mazzotta Editore, 1978,
pp. 27-30.
26 Peppino Ortoleva, “I Movimenti del ’68 in Europa e America”, Roma, Editori Riuniti,
1988, p. 65.
24
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contrappongono le reti informali dei comitati, le assemblee, la democrazia
diretta. Importante, per capire i motivi che hanno portato a questa simultaneità del fenomeno Sessantotto, è analizzare il contesto in cui si è formata
la generazione protagonista delle mobilitazioni.
La generazione nata tra gli anni ’40 e ’50 si forma nella consapevolezza
della minaccia mondiale di una catastrofe nucleare, di un rischio di totale
distruzione tecnologica che appariva essere del tutto indipendente dal luogo
di nascita e dalla volontà del singolo individuo.
La percezione del mondo da parte di questa generazione è così del tutto
diversa rispetto a quella delle generazioni precedenti: la terra risulta essere
un globo dove gli antichi riferimenti locali, le precedenti divisioni per confini appaiono superate da una realtà tecnologica unificante. Lo sviluppo di
un nuovo sistema di telecomunicazioni mondiali, ha permesso una circolazione delle informazioni e delle immagini più veloce e immediata (in quello
che viene definito “villaggio globale”). La tecnologia ha creato gli strumenti per “rimpicciolire” il mondo, consentendo di concepire l’uomo non
più come fortemente legato alla realtà locale, ma come membro della specie
umana.27
La diffusione del benessere nelle società ha spostato l’attenzione sulle
questioni connesse alla qualità della vita. Si è passati da rivendicazioni di
tipo materialistico a quelle di tipo post-materialistico, e questo è uno dei
tratti che differenzia i nuovi movimenti sociali da quelli precedenti. I movimenti del ’68 si collocano in una logica di assoluta estraneità rispetto allo
Stato. A differenza dei precedenti movimenti di rivolta che si ponevano l’obiettivo finale della conquista del potere, dello Stato, i movimenti del Sessantotto negano ogni possibile uso positivo dello stesso.
Il primo dei movimenti di contestazione giovanile, e di quelli che sono
stati definiti nuovi movimenti sociali, sorge in America sul finire del 1964.
La lotta degli studenti universitari americani è, sin dall’inizio, collegata al
movimento pacifista ed a quello per i diritti civili.
Il 1964 è l’anno chiave nella vicenda del movimento americano: il coinvolgimento nel conflitto tra Vietnam del Sud e del Nord si trasformò proprio allora in una vera e propria guerra. Nell’estate dello stesso anno la rivolta di Harlem inaugurò il ciclo delle sanguinose rivolte nei ghetti, e il movimento studentesco bianco condivise gran parte delle rivendicazioni del
Peppino Ortoleva, “I Movimenti del ’68 in Europa e America”, Roma, Editori Riuniti,
1988, pp. 46-48.
27
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“Black Power”, tutti i leader del quale provenivano da università americane.
Gli studenti occuparono l’università di Berkeley, in California, per manifestare il loro rifiuto nei confronti del Ministero della Difesa che aveva commissionato alle università la ricerca per produrre nuove armi per la guerra
nel Vietnam.28 Il movimento studentesco americano, sebbene sostanzialmente apolitico nei suoi sviluppi, fu alle sue origini profondamente influenzato dal pensiero socialista e comunista, ma con grandi differenze rispetto a
ciò che sarebbe accaduto successivamente in Europa.
Nel Vecchio Continente i movimenti si rifacevano all’ortodossia comunista, al marxismo appunto, ispirandosi a figure diverse, da Lenin a Mao, da
Trotskj al Che. Negli Stati Uniti, dopo il maccartismo, un appello così
aperto al marxismo non era più possibile. Per di più, la classe tradizionalmente vicina alle idee comuniste, cioè gli operai, negli Stati Uniti era non
soltanto poco propensa a cambiamenti, ma addirittura sosteneva apertamente il governo. Il tipo di socialismo a cui si rifaceva quella che sarebbe
divenuta la “Nuova Sinistra Americana”, perseguiva valori come l’eguaglianza sociale, la giustizia e l’eliminazione delle disparità razziali, influenzato dalla rivolta castrista. In quegli anni si crearono negli Stati Uniti numerosi movimenti che si rifacevano agli ideali della rivolta castrista, come ad
esempio la Student Peace Union (SPU), la Young People Socialist League,
gli Students for Democratic Society (SDS) o il W.E.B. Du Bois, che prendeva il nome da uno studioso afroamericano curiosamente divenuto comunista all’età di novant’anni. Tutti questi gruppi, pur essendo molto attivi, rimasero sempre di scarso peso numerico. Le ragioni furono essenzialmente
due: lo stretto controllo dell’FBI a cui erano sottoposti tutti i soggetti che si
professavano comunisti, ed il fatto che mancava un vero progetto e una dirigenza che dettasse le direttive da seguire. Per questo motivo l’interesse per
ogni nuova lotta svaniva velocemente col passare della furia del momento.29
Con l’escalation del conflitto nel Vietnam, e il crescente invio di truppe
regolari a partire dal 1965, ci fu anche un mutamento nelle finalità, sempre
molto confuse, dei movimenti studenteschi. Dalla lotta sociale si passò ad
una contestazione politica. I movimenti attaccavano il governo per il presunto imperialismo dimostrato nell’intervenire in una guerra così distante
28 Peppino Ortoleva, “I Movimenti del ’68 in Europa e America”, Roma, Editore Riuniti,
1988, pp. 49-50
29 Guido Viale, “Il ’68 tra rivoluzione e restaurazione”, Milano, Mazzotta Editore, 1978,
pp. 92-93.
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che non era sentita come “giusta” (l’opinione pubblica era influenzata dalle
immagini che la rete televisiva nazionale americana trasmetteva sui comportamenti dei soldati americani). Vennero organizzati sit-in, marce simboliche della pace che mobiliteranno le città di S. Francisco, New York e Washington. Molti giovani si rifiutarono di rispondere alla leva militare per protestare contro il sistema politico. Il movimento degli studenti rivendicava un
mondo libero e pacifico e rifiutava i modelli tradizionali di vita imposti da
politica, religione e scuola. Perseguiva valori egalitari, anti-borghesi, antiautoritari e anti-militaristi, sotto l’influenza degli ideali espressi dal filosofo
americano di origine tedesca Herbert Marcuse.30
Altro movimento che si è sviluppato in contemporanea a quello degli
studenti è il movimento hippy. Nel 1965 a New York e S. Francisco furono
fondate le prime vere comunità, che crebbero a ritmo vertiginoso fino alla
metà degli anni Settanta. L’uso che facevano gli aderenti al movimento di
sostanze stupefacenti non rispondeva solo a una necessità di rottura con la
cultura dominante, ma arrivò a diventare una vera e propria religione. Ad
esempio la “Lega per la Ricerca Spirituale”, fondata da un professore di
Harvard espulso dall’università perché sospettato di distribuire agli studenti
durante le lezioni pasticche di LSD: attraverso l’uso di droghe voleva raggiungere un nuovo stadio dello sviluppo umano.
Elemento caratteristico delle “comuni” hippy era il concetto di amore
libero in tutte le sue forme, ed una maggiore libertà sessuale. Il radicale
cambiamento delle abitudini sessuali portò a conseguenze importanti nei
rapporti interpersonali. L’amore omosessuale non fu più considerato un tabù
assoluto e le prime organizzazioni gay fecero la loro comparsa.
Negli stessi anni si sviluppò anche il movimento femminista, come conseguenza dell’insoddisfazione che le donne avevano nei confronti della società americana (ad esempio, a parità di mansioni e di orario di lavoro
svolto le donne erano retribuite meno degli uomini). L’insoddisfazione femminile inizialmente si concentrò negli stessi gruppi studenteschi e sugli
stessi ideali condivisi da questi ultimi: libertà di pensiero e diritti civili. Ben
presto le leader del movimento femminista si resero conto che la componente maschile dei movimenti studenteschi tendeva a mettere in minoranza
30 Herbert Marcuse (1898-1979) filosofo tedesco, esponente della scuola di Francoforte.
Critico della tesi freudiane dell’indispensabilità della repressione nella costruzione della civilità
(cfr: “Eros e Civiltà”, 1955), e dell’ideologia alienante della società industriale avanzata (cfr:
“L’uomo a una dimensione: l’ideologia di una società industriale”, 1964).
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l’altro sesso. Nel 1966 con la nascita di movimenti come la “Women’s Intenational League for Peace”, il “Women Strike for Peace” e la “National Organization for Women”, le rivendicazioni femminili assunsero una portata
autonoma e indirizzata al conseguimento della piena uguaglianza tra i sessi.
Ogni aspetto personale dell’universo femminista costituiva argomento di
lotta, non solo il mondo del lavoro, ma anche quello della famiglia e soprattutto della salute. Le donne pretesero la legalizzazione dell’aborto, lotta che
si concluse solo nel 1973 con una sentenza che lo avrebbe permesso almeno
nei primi mesi della gravidanza.
Le donne di colore ebbero un ruolo di grande importanza nel movimento per i diritti civili, nel Black Power e persino nelle Pantere Nere. Ciò
fu dovuto al fatto che negli anni ’40 e ’50, esse erano le uniche in famiglia
ad avere un lavoro ben retribuito, spesso come cameriere o governanti
presso famiglie bianche. Con il progressivo inasprimento della rivolta razziale e la conseguente detenzione di uomini di colore, le donne raggiunsero
più facilmente posizioni di potere.
Un ultimo cenno deve essere fatto ai movimenti per l’uguaglianza razziale che si attivarono per tutto il 1961 per ottenere la scomparsa della segregazione nei servizi pubblici, in una società dove vigeva una segregazione di carattere razziale-istituzionale nella vita di tutti i giorni (bagni pubblici, posti sull’autobus, scuole, ospedali, istituzioni religiose e chiese erano
distinti per razza). Movimenti come lo “Student Nonviolent Coordinating
Committee” (SNCC) e il “Congress of Radical Equality” (CORE) organizzarono “Freedom Marches”, azioni di protesta non violenta che andavano
dal sit-in alla disobbedienza, sotto l’influenza di Martin Luther King,31 che
aveva elogiato la tattica non-violenta per il raggiungimento dei fini di parità
sociale.
Nel 1965 vi fu una profonda revisione degli obbiettivi del movimento
degli afro-americani. L’eguaglianza formale sancita dal “Civil Right Act”
non era più sufficiente per uomini come Malcom X,32 che predicavano con
fervore l’orgoglio nero. Egli fu il padre spirituale del Black Power, l’ala più
radicale del movimento per i diritti civili, secondo cui se gli afro-americani
31 Martin Luther King (1929-1968) pastore battista statunitense; promosse un vastissimo
movimento per la difesa non violenta dei diritti della popolazione nera. Nobel per la pace (1964),
fu assassinato a Memphis.
32 Pseudonimo di Malcom Little (1925-1965), politico statunitense; sostenne il diritto all’autodifesa dei popoli di colore.
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volevano migliorare le proprie condizioni non potevano ricercare un’integrazione, ma creare una società a se stante. Nel 1966 fu fondato il “Black
Panther Party” (le Pantere Nere) che si dimostrò fin dall’inizio l’ala più
radicale del movimento.
Questi movimenti si rivelarono incapaci di trasformare le ideologie in
concrete azioni di lotta. Martin Luther King fu l’unico in grado di rappresentare la minoranza nera a livello nazionale. L’attentato che lo uccise il
4 aprile 1968 coincise con il definitivo declino delle rivendicazioni del
Black Power, in quanto nessuno fu capace di raccogliere la sua eredità, né
di fornire alla gente una nuova via da seguire.
La Rivoluzione Culturale in Cina
Tra le comete che attraversarono il cielo del ’68, la più lucente e più ambigua veniva dalla Cina. La Cina è stata soggetta a guerre civili per quasi 40
anni. Nel 1956, durante la campagna dei “Cento Fiori” emergono i primi seri
contasti tra i radicali vicini a Mao Zedong e i moderati facenti capo a Fiu
Shaai e Ping Denai: la campagna contro la destra che ne segue allontana i tenaci e gli intellettuali. Sono le cosiddette due linee che infiammarono lo
scontro politico successivo nella “Rivoluzione Culturale”. L’impostazione
della linea maoista porta al grande “balzo in avanti” del 1958 grazie ad una
nuova strategia varata dalla dirigenza comunista nel maggio dello stesso
anno, per promuovere in tempi brevi un rilancio della produzione agricola,
che si sarebbe dovuto realizzare con una maggiore razionalizzazione produttiva, ma soprattutto grazie ad un immane sforzo collettivo. Il regime comunista aveva, dapprima, ridistribuito le terre tra i contadini, con la riforma
agraria del 1950, creando così molte aziende agricole di piccole dimensioni;
aveva anche incoraggiato, e solo in seguito obbligato, le famiglie di estrazione contadina a riunirsi in cooperative, controllate strettamente dall’autorità
statale. Le cooperative, a loro volta, furono riunite forzatamente in unità più
grandi, le “Comuni Popolari”, ciascuna delle quali doveva tendere all’autosufficienza economica, producendo in proprio quanto era necessario alla
sussistenza della medesima. L’esperimento, però, si risolse in un clamoroso
fallimento: la produzione agricola crollò, con l’esito immediato di una tragica
carestia, costringendo la Cina a ricorrere ad importazioni di cereali estere.
Un’altra conseguenza gravissima fu il precipitare dei rapporti con l’URSS.
La situazione peggiorò ulteriormente nel 1960, con la sospensione dell’assistenza economica e tecnica dell’Unione Sovietica: erano infatti emersi
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tra le due potenze comuniste contrasti di natura ideologica; i cinesi erano divenuti particolarmente critici verso il leader sovietico Nikita Khruscev, accusato di revisionismo e tradimento degli ideali marxisti-leninisti. Il fallimento
del grande balzo in avanti ebbe alcuni contraccolpi anche sul piano interno,
dando spazio alle componenti più moderate e meno antisovietiche del
gruppo dirigente comunista. Le divergenze tra Mao e il partito dei moderati
pragmatisti si intensificarono: questo divario si trasformò in aperto contrasto
nel 1966 quando Mao, sua moglie Lang Quing e altri suoi collaboratori, lanciarono lo slogan della Grande Rivoluzione Proletaria, intesa a recuperare lo
zelo rivoluzionario del primo comunismo cinese, per contrapporlo all’imborghesimento dei quadri di governo e dell’apparato burocratico del partito.
La Rivoluzione Culturale interessò prima gli intellettuali, i burocrati, i
funzionari di partito, per estendersi in seguito al mondo del lavoro. Nelle
scuole e nei luoghi di lavoro gruppi di giovani Guardie Rosse,33 in maggioranza studenti, mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e artisti. L’intento era quello di provocare, in virtù dell’iniziativa di
massa, un radicale mutamento nella cultura e nella mentalità collettiva e di
superare in questo modo tutti gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del comunismo. Mao riconosce ufficialmente le Guardie Rosse e, il
5 agosto, scrive il suo primo Dazibao, “fuoco sul quartier generale”, che
invita gli studenti ad attaccare la fazione avversa del partito.
I movimenti studenteschi sono inizialmente istigati dal partito, infatti, si
manifestano nelle scuole privilegiate, frequentate soprattutto dai figli dei
quadri. Le Guardie Rosse della scuola numero 26 di Pechino creano una
sorta di modello di comportamento, emulato dagli altri gruppi: citazioni e
immagini di Mao devono essere presenti nelle strade, nei luoghi pubblici e
nelle case. Anche in paesi molto lontani dalla Cina, soprattutto in Europa
Occidentale, si formarono gruppi e movimenti giovanili ispirati all’esempio
delle Guardie Rosse e al pensiero di Mao. Nel 1967, Mao considera finito
il compito delle Guardie Rosse, che hanno ormai rovesciato il potere nelle
istituzioni e tenta di limitarne le azioni. Gli studenti si dividono in distinte
fazioni antagoniste: “terra e cielo”, “bandiera rossa” e “vento dell’est”. Gli
studenti entrano in contatto con gli operai delle fabbriche che manifestano
gli stessi disagi. Anche nelle fabbriche si osservò un acceso scontro generaOriginarie dalla scuola media connessa al politecnico di Pechino si ispirano alle omonime milizie degli anni trenta; protettrici di Mao, le guardie Rosse che impugnavano i libretti rossi sono l’icona più nota della rivoluzione culturale e della Cina di Mao.
33
– 179 –
zionale esteso anche ai lavoratori provvisori e a quelli permanenti; tali contrasti sono inquadrati nel contesto ideologico e politico della Rivoluzione,
che dovrebbe eliminare le vecchie tendenze circa la gestione del potere.
Le Guardie Rosse occupano il Ministero degli esteri nel 1967, paralizzando le relazioni diplomatiche per alcuni mesi, e inducendo le ambasciate
cinesi all’estero ad agire come centri di propaganda ed istigazione dei partiti
comunisti locali. Nell’agosto del 1967, il paese sprofonda nella guerra civile, combattuta tra le fazioni degli studenti e l’esercito. Nel 1968 le Guardie
Rosse vengono allontanate dalla città. I leader più radicali vengono emarginati, mentre riacquistano peso tecnici ed esperti. Un ruolo importante in questa fase fu svolto da Chou En Lai, il più autorevole dopo Mao fra i capi comunisti cinesi, che ricoprì ininterrottamente dal 1949 la carica di primo ministro e che rappresentò la continuità del potere istituzionale. Le grandi violenze di cui è stata costellata la “rivoluzione ininterrotta cinese” sono state taciute. Paradossalmente, mentre si esaltava la linea di massa, la società cinese è stata la grande assente negli scritti e documenti di allora. Eppure quella
Cina un po’ mitica e un po’ misconosciuta, patria di una grande rivoluzione
egalitaria, basata sulla spontaneità delle masse, baluardo del terzo mondo
contro la “Tigre di Carta” imperialista, quella Cina è stata vicina a tutto il ’68.
La Primavera di Praga
Già a partire dalla metà degli anni sessanta in Cecoslovacchia si respirava un’aria di forte tensione, evidente sintomo del crescente malcontento
verso il regime.34
Il movimento della Primavera di Praga (1967-1968), maturò all’interno
di una Cecoslovacchia provata dagli abusi commessi in passato dal regime
comunista e si propose al contempo come movimento politico e culturale.
Il regime comunista in Cecoslovacchia, trovò la sua massima espressione nel partito
comunista di Cecoslovacchia (“Komunistickà strana Ceskoslovenskà”, KSC) fondato nel 1921.
Di lì, sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, tuttavia, non prese mai parte al governo.
Nel 1948, il KSC prese il potere con l’ausilio delle forze belliche sovietiche e soppresse tutte le
libertà democratiche. Negli anni ’60, Dubcek prese le redini del partito cercando di dar vita al
C.D. (Comunismo dal volto umano) le cui liberalizzazioni provocarono la reazione bellica dell’URSS tesa a fermare la Primavera di Praga. Espulso Dubcek, il partito fu posto alla guida di
Gustàv Husàk (1913-1991), neo-stalinista pragmatico. Con il crollo del muro di Berlino nel 1989,
anche in Cecoslovacchia crollò il regime comunista grazie alla rivoluzione di velluto. Il KSC, a
tal punto, decise di non sciogliersi ma di dividersi organizzativamente nei due rami, quello ceco
e quello slovacco.
34
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Le istanze dei riformisti, capeggiati da Alexander Dubcek (1921-1992),
avevano trovato uno sbocco in alcuni ambienti dello stesso Partito Comunista Cecoslovacco.
In occasione del sesto congresso degli scrittori tenuto a Praga il 29
giugno del 1967, emerse con vigore la richiesta di libertà di stampa ed i numerosi partecipanti espressero il proprio malcontento nei confronti del regime comunista vigente.
In seguito a tale risonante avvenimento, A. Dubcek prese il posto di Novotny alla carica di primo segretario del Partito comunista cecoslovacco nel
gennaio del 1968. Il 5 marzo dello stesso anno, Dubcek annunciò l’abolizione della censura. Ben presto, il 21 marzo, le dimissioni di Novotny da
capo dello stato suscitarono unanime sollievo nell’opinione pubblica, operai
compresi. Di seguito alle elezioni del nuovo presidente L. Svoboda, nel governo fecero ingresso esponenti moderati di grande prestigio tra cui Oldrich
Cernik, Jiri Hajek, Ota Sik. Non tardò a farsi strada, dunque, la volontà di
riformare radicalmente l’economia del paese, abbandonando il centralismo
e l’industrializzazione pesante per allargare le libertà ed i consensi, fino a
creare le condizioni propedeutiche ad un’articolazione pluralista del sistema
politico. Le riforme politiche di Dubcek,35 che egli stesso definì “socialismo
dal volto umano”, si proponevano come il tentativo di riformare il “socialismo reale”; esse vennero confermate durante la riunione del comitato centrale del 4 e 5 aprile. Tali riforme in realtà non erano mirate al completo rovesciamento del vecchio regine e al distacco dall’Unione Sovietica: il progetto infatti, consisteva nel mantenere il sistema economico collettivista,
unendovi però una maggiore libertà politica (con l’eventualità di dar vita a
partiti non alleati al partito comunista), ma anche di stampa e di espressione. La dirigenza Sovietica, tuttavia, viveva questo nuovo orientamento
politico sia come una grave interferenza nei confronti dell’egemonia dell’URSS sui paesi del blocco orientale, sia come un pericolo per la sicurezza
35 Il “nuovo corso” di A. Dubcek, non proponeva unicamente una serie di riforme economicopolitiche per far fronte ai vani tentativi di rimediare alle gravi carenze dell’apparato produttivo
condotti dal PCC, guidato dal 1953 da A. Novotny, ma un intero “programma d’azione” mirato a
rinnovare l’autoritaria gestione del potere da parte del PCC che ancora conservava una rigida osservanza stalinista. Con l’abolizione della censura, Dubcek invitò la popolazione ad esercitare il diritto di opinione e affidò la direzione della radio, della televisione e di importanti giornali ad intellettuali riformisti. I primi provvedimenti del piano riformatore compresero il riconoscimento del diritto di sciopero e la riabilitazione delle vittime delle purghe staliniane. Nello stesso tempo, alcuni
dirigenti del PCC, tra cui Novotny, venivano espulsi dal partito e privati di ogni carica istituzionale.
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stessa dell’Unione Sovietica dal momento che la Cecoslovacchia vantava
una strategica collocazione geografica, esattamente al centro dello schieramento difensivo del Patto di Varsavia: anche una sua sola defezione non sarebbe stata tollerata in periodo di Guerra Fredda.
L’atto da parte degli intellettuali di firmare il cosiddetto Manifesto delle
duemila parole, che sollecitava Dubcek ad accelerare il piano di riforme e
denunciava le intromissioni del patto di Varsavia negli affari interni del
paese, se da un lato accelerò il processo di liberalizzazione, dall’altro allarmò i dirigenti sovietici, che scorsero nella primavera di Praga una concreta minaccia per il regime comunista e per il patto di Varsavia,36 temendo
un possibile “contagio” nel campo socialista.
La Primavera, il nuovo corso del Partito comunista cecoslovacco che,
accolto e sostenuto dall’opinione pubblica ed in particolare dai giovani, da
quasi un anno si accingeva ad una svolta determinante per democratizzare il
paese sotto la direzione di Alexander Dubcek, era destinata a tramontare.
Durante i mesi di giugno e luglio la tensione tra governo cecoslovacco e
paesi alleati continuò a salire irrefrenabilmente e Dubcek e gli altri membri
del PCC disertarono due vertici convocati dal PCUS a Varsavia. Nel corso
di alcuni colloqui a Karlovy Vary (17 maggio), a Cierna-nad-Tisu (19 luglio
e 1° agosto) e a Bratislava (3 agosto), Dubcek spese invano parole che potessero in qualche modo rassicurare i sovietici.
Il secondo vertice fu proprio l’occasione propizia per la presentazione
della cosiddetta “dottrina Breznev”,37 che anteponeva gli interessi del
Blocco alla sovranità di ciascun paese membro. L’invasione della Cecoslovacchia era annunciata.
Il Patto di Varsavia o Trattato di Varsavia fu un accordo militare tra i paesi del Blocco Sovietico stipulato per organizzarsi contro l’avversaria Alleanza Atlantica NATO, fondata nel 1949.
Il Patto fu elaborato da Nikita Khruscev nel 1955 e sottoscritto a Varsavia il 14 maggio dello stesso anno. I membri dell’alleanza promettevano di difendersi reciprocamente in caso di aggressione. Il Patto volse al suo termine il 31 marzo 1991 e fu ufficialmente sciolto durante un incontro
che ebbe luogo a Praga il 1° luglio successivo.
37 La “dottrina Breznev” o dottrina della sovranità limitata, fu una linea della politica
estera sovietica introdotta da Leonid Breznev (da cui prese il nome) durante un discorso tenuto
davanti al quinto congresso del Partito Operaio Unificato Polacco, il 13 novembre 1968. Secondo tale dottrina, la leadership dell’Unione Sovietica si riservava il diritto di definire cosa
fossero socialismo e capitalismo. In pratica, a nessuna nazione era concesso di lasciare il Patto
di Varsavia o interferire con il monopolio del potere da parte del partito comunista, della nazione stessa e del Blocco orientale. La “dottrina Breznev” venne usata per giustificare l’invasione della Cecoslovacchia che pose fine alla Primavera di Praga nel 1968 ed in seguito venne
sostituita nel 1988 da quella che venne scherzosamente denominata “dottrina Sinatra”.
36
– 182 –
Tuttavia, già agli inizi di agosto vennero riaperte le trattative. Contemporaneamente a Praga giungevano importanti leader del mondo comunista,
tra cui Tito e Nicolae Ceausescu, per testimoniare il loro sostegno.
Il destino della Primavera di Praga era ormai segnato. La stagione delle
riforme ebbe bruscamente termine in quella notte tra il 20 e il 21 agosto
1968, quando le truppe del patto di Varsavia, che furono schierate alla frontiera con l’allora Germania Ovest, per agevolare l’invasione ed impedire
l’arrivo di aiuti dall’Occidente, tra cui si stimavano fra i 200.000 e i
600.000 soldati e fra 5.000 e 7.000 veicoli corazzati, invasero ed occuparono la Cecoslovacchia impedendo così ai riformisti qualsiasi tentativo di
reazione. Dubcek e altri leader del governo vennero ricevuti a Mosca, dove,
il 24 agosto, furono costretti a dare il loro assenso alla presenza delle truppe
straniere e a bloccare il programma di riforme.
Nei mesi a seguire venne avviata la “normalizzazione”. Tutti i protagonisti della Primavera furono epurati e la vecchia nomenclatura fu ripristinata; dal PCC furono espulsi centinaia di migliaia di iscritti; centinaia di
migliaia di persone persero il lavoro; migliaia furono le condanne e durissime le pene inflitte.
Il movimento della Primavera, sebbene stroncato dalla repressione dei
normalizzatori sostenuti dalle truppe sovietiche e dal PCUS di Breznev, sarebbe effettivamente durato ancora pochi mesi, anche se i consigli operai
che erano nati a centinaia avrebbero resistito quasi fino alla fine del 1969.
Si trattò dunque, per quello che allora si chiamava “Movimento Operaio Internazionale”, di subire un colpo durissimo, così come fu avvertito con dolore da molti giovani impegnati attivamente nel movimento del ’68, che
contava tra i suoi motivi ispiratori la lotta contro l’aggressione militare
degli Stati Uniti al piccolo Vietnam. Le proteste operaie contro l’occupazione militare e a favore del rilancio del programma riformista continuavano a svolgersi ancora in molte fabbriche, ma la Primavera di Praga era
ormai finita. Ancora una volta una nuova generazione si trovava costretta a
fare i conti con il peso del mondo così come era: diviso tra due potenze politiche e militari che in quella fase, anche di fronte alla gigantesca diversità
dei comportamenti internazionali della Cina, specularmente contenevano,
quando non reprimevano con la violenza, le spinte al cambiamento in tutto
il mondo, spesso in aperta connivenza.
Il 10 gennaio 1969 le speranze della gioventù cecoslovacca e dei dirigenti del nuovo corso svanivano tra le fiamme del rogo di Jan Palach (1948-1969),
giovane studente di filosofia, appena ventunenne, che dopo essersi cosparso di
– 183 –
benzina si diede fuoco in piazza San Venceslao a Praga; la lettera che Jan Palach temeva bruciasse con i suoi abiti e la sua carne, fu letta subito dopo la sua
morte. Era, insieme ai documenti, nel sacco che Jan aveva lasciato cadere
qualche metro più in là, prima di accendere il fiammifero. Era scritta su un
quaderno a righe da scolaro: “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo.38 Il nostro gruppo è costituito da
volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di
estrarre il n. 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia
umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il
giornale delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo
non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà”. La lettera manifesto era firmata “la torcia n. 1”. Le calunnie postume non intaccarono il ricordo di Jan Palach. Il suo gesto disperato venne seguito come esempio da una ventina di giovani in tutto il paese che decisero di estrarsi a sorte uno alla volta e di morire
come torce umane. I funerali del giovane si tennero il 25 gennaio. La vicenda
di Jan Palach divenne icona di una Cecoslovacchia silenziosa e angosciata.
Ad aprile, Dubcek venne destituito e sostituito da Gustav Husàk. La situazione non poteva che suscitare vasta eco nonostante le scarse notizie trapelate per via della censura. I paesi democratici non poterono che limitarsi a
proteste “verbali”, poiché evidentemente il pericolo di confronto nucleare al
tempo della Guerra Fredda non consentiva ai paesi occidentali di misurarsi
con la potenza militare sovietica schierata in Europa centrale ed in quanto, secondo gli accordi sottoscritti dalle potenze alleate a Yalta, la Cecoslovacchia
ricadeva nell’area di influenza sovietica. Conseguenza immediata dell’occupazione, fu un’ondata di emigrazione, stimata di 300.000 persone in totale,
che interessò in particolar modo cittadini di elevata qualifica professionale.
La fine della Primavera di Praga accentuò la delusione di molti militanti di
sinistra occidentali nei riguardi delle teorie leniniste, e fu una delle ragioni dell’affermazione delle idee eurocomuniste in seno ai partiti comunisti d’occidente. L’esito finale di questa evoluzione determinò la dissoluzione di molti di
questi partiti. Dunque, perché quell’invasione nell’agosto del ’68? E soprattutto
Dichiarazione tratta da uno dei quaderni conservati in uno zaino (insieme ad appunti ed
articoli) lontano dalle fiamme del rogo del giovane Jan Palach (1948-1968), studente cecoslovacco divenuto simbolo della resistenza anti-sovietica del suo paese.
38
– 184 –
in che cosa consistevano la ambizioni di quel paese satellite, così brutalmente
calpestate dall’URSS e dai carri armati degli altri paesi del Patto? Ai quesiti posti da Paolo Tomaselli39 in un suo articolo sui funerali di Jan Palach e sulla
stroncata Primavera di Praga, riportiamo la sintetica quanto efficace risposta di
Francesco Leoncini,40 docente di Storia dei Paesi Slavi all’università Cà Foscari di Venezia in un suo intervento sulle pagine del mensile “Storia e Dossier”, in cui spiega quale strada avesse imboccato la Cecoslovacchia nel 1968:
“Non erano la Cina di Mao né la Cuba di Castro i modelli ed i simboli che mobilitavano le masse cecoslovacche, quel vago terzomondismo sempre in agguato nella sinistra, soprattutto italiana, ma il maturo convincimento che era
necessario andare avanti nell’umanizzazione della società: questo era stato
l’anelito bruscamente interrotto dopo il 1968; combattevano per mettere l’uomo al centro della società e non certo gli interessi del capitale o del Partito”.41
Bibliografia e sitografia:
PEPPINO ORTOLEVA, “I Movimenti del ’68 in Europa e America”, Roma,
Editori Riuniti, 1988
GUIDO VIALE, “Il ’68 tra rivoluzione e restaurazione”, Milano, Mazzotta
Editore, 1978
Enciclopedia Universale Garzanti, 1997
TIZIANO TERZANI, “La porta proibita”, Milano, Longanesi, 1984
MARIE CLAIRE BERGERE, “La Cina dal 1949 ai giorni nostri”, Bologna,
Il Mulino, 1989
http://it.encarta.msn.com/encyclopedia_981525108/Primavera_di_Praga.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Primavera_di_Praga
http://cronologia.leonardo.it/storia/a1969g.htm
http://www.guetti.tn.it/e-school/progetti-e-attivita/laboratorio-storico/costruire
storia2004-2005/gruppi/politica_societa/sessantotto/documenti/folder.200506-06-06.2814041935/document.2005-06-06.0610577395
Paolo Tommaselli, studente di storia dell’università Cà Foscari di Venezia, ha redatto un
articolo sull’entrata dei carri armati sovietici a Praga (brano tratto da “Storia in Network”).
40 Francesco Leoncini è un ricercatore universitario al dipartimento di studi storici dell’Università Cà Foscari di Venezia.
41 Intervento di Francesco Leoncini sulle pagine del numero 126 dell’aprile 1999 del mensile
“Storia e Dossier”.
39
– 185 –
CAPITOLO II
LA CULTURA FILOSOFICA DELLA CONTESTAZIONE GLOBALE:
MITI E UTOPIE
“Un’esperienza nuova per il nostro tempo è entrata nel gioco politico: ci si
è accorti che agire è divertente. Questa generazione ha scoperto quella che il
diciottesimo secolo aveva chiamato la felicità pubblica, il che vuol dire che quando
l’uomo partecipa alla vita pubblica apre a se stesso una dimensione di esperienza
umana che altrimenti gli rimane preclusa, e che in qualche modo rappresenta
parte di una felicità completa”.
Hannah Arendt
È veramente difficile, per noi “nipoti” del ’68, spogliare quest’anno di
tutte le connotazioni mitiche e fantastiche, attribuitegli nel corso degli anni.
La comprensione di un movimento così ricco e fecondo, procede di pari
passo con l’eliminazione di tutte quelle ricostruzioni reducistiche, che tendono a ricercare il ’68 nei suoi fenomeni di superficie. Non sono, infatti, le
manifestazioni studentesche o le occupazioni universitarie ad esprimere il
carattere sostanzialmente unitario della Contestazione. Ma il fatto che fu
una Rivoluzione culturale, nella quale dominante era quell’atmosfera di fermenti ideologici e sentimentali che permeavano tutto il mondo giovanile.
Ed è questa stessa Rivoluzione (nella quale larga parte ebbe tra gli studenti
la lettura e l’interpretazione del “Che fare?” di Lenin del 1902), a produrre
due tendenze di fondo. Scrive Enzo Peserico: “la prima tendenza, quella
che si manifesta nella rivoluzione politica, e il cui tipo antropologico è incarnato dal rivoluzionario di professione (La mia vita per la Rivoluzione),
mostra il volto del ’68 a livello macrosociale. La seconda invece, rappresentata dal rivoluzionario d’elezione (La mia vita come Rivoluzione) e che
può essere definita rivoluzione in interiore homine, mostra il volto del ’68 a
livello dei comportamenti individuali e collettivi”.42
È facile capire quale delle due tendenze abbia finito per essere dominante. L’Italia degli anni ’60 era, infatti, un Paese che facilmente si prestava
ad una diffusa situazione di insoddisfazione, soprattutto giovanile, nella
quale un ruolo principale ricopriva la disgregazione dei valori socialmente
costituiti (oltre che del corpo sociale in sé).
E. Peserico, “Gli anni del desiderio e del piombo”, Quaderni di Cristianità, anno II, n° 5,
Piacenza 1986.
42
– 186 –
Ed ecco così che da tale “humus sociale”, gravido sì di frustrazioni e
speranze deluse, ma proprio per questo ancor più ricco e fecondo di desideri
di riconquista, comincia a diffondersi (anche grazie allo spregiudicato e paziente influsso di molti “cattivi maestri”) l’utopia della Rivoluzione comunista. Si scorgono infatti nella teoria rivoluzionaria di Karl Marx e di Vladimir Ilijè Uljanov detto Lenin (1870-1924), le risposte a quelle ansie e a
quei desideri di un mondo nuovo e perfetto tanto ricercate (ossia l’aspetto
utopico della contestazione). Il principale retroterra ideologico e culturale di
quest’anno così sconvolgente, è quello comunemente definito “terzomondismo”. Una particolare attenzione e solidarietà verso le lotte rivoluzionarie
dei popoli più poveri, lontani dalla realtà occidentale, anima i giovani. La
formula di Mao Tse-Tung (1893-1976) “fuoco sul quartier generale” ha
un’eco enorme: è tempo di intraprendere un cammino che sia davvero rivoluzionario, svincolato dalla tutela dei partiti comunisti filosovietici troppo
moderati. È necessario tornare al messaggio originario delle organizzazioni
comuniste: “fare la rivoluzione”. Le lotte dei Vietcong contro gli americani
entusiasmano le piazze di tutto il mondo. L’icona di Ernesto Che Guevara
(1928-1967), morto nel ’67 cercando di organizzare la rivoluzione in Bolivia, e il suo slogan “Uno, due, tre, molti Vietnam”, si impongono con
forza. Sono tutti miti che rafforzano l’ideologia, e che, se efficacemente
propagandati, arricchiscono la”fede” nella vittoria della Rivoluzione.
Ecco allora che un tale clima culturale ha l’effetto di rendere, quello dei
rivoluzionari di professione, un fenomeno dilagante: scuole e fabbriche accolgono sempre più gruppi rivoluzionari. L’ideologia giustifica ogni comportamento e lo eleva ad atto morale. I problemi di coscienza trovano la
loro immediata risposta ne “I compiti delle associazioni giovanili”. Scrive
Lenin: “Ma esiste una morale comunista? Esiste un’etica comunista?
Certo, esiste. [...] La nostra etica scaturisce dagli interessi della lotta di
classe del proletariato”.43
Molti dei giovani leader della contestazione originano tra il ’68 e il ’69,
gruppi extraparlamentari, caratterizzati da un netto rifiuto dello stato borghese e delle sue istituzioni. Alcuni di essi nascono dalla fortunata esperienza di assemblee ed occupazioni, altri sono gli eredi della sinistra radicale degli anni ’60, quella dei primi gruppi maoisti, dei “Quaderni rossi” e
dei “Quaderni piacentini”. Iniziano ad emergere diverse componenti nel
Lenin, “I compiti delle associazioni giovanili”, Opere complete, Roma, Editori Riuniti,
1967, vol. 31, pp. 278-280.
43
– 187 –
movimento, che pur conservando ognuna la propria identità ideologica,
sono tutte caratterizzate da intenti rivoluzionari. Molti, seppur formalmente,
si ispirano a Mao Tse-Tung, sebbene di stretta osservanza maoista siano
solo il Partito Comunista d’Italia Marxista-Leninista e quello riunito da
Aldo Brandirali intorno al giornale “Servire il Popolo”. Quest’ultimo, che
raccoglie diecimila aderenti, presenta un programma di governo scritto nei
dettagli e celebra tra i suoi componenti matrimoni rossi. Il Movimento Studentesco, i cui maggiori leader sono Mario Capanna e Luca Cafiero (registi
del lancio delle uova alla “prima” della Scala il 7 dicembre contro la borghesia milanese), si attesta invece su posizioni staliniste. È un movimento
caratterizzato da una rigida struttura organizzativa, dotato di un servizio
d’ordine, i Catanga, molto violento (anche nei confronti degli altri gruppi di
sinistra). Ma sono i gruppi che si richiamano all’operaismo dei “Quaderni
rossi” la vera novità, sia per il loro spessore teorico che per forza di aggregazione. Toni Negri, Oreste Scalzone, Franco Piperno fondano nel 1969 il
“Potere Operaio”, riappropriandosi del concetto di centralità operaia, nella
quale la forza propulsiva della rivoluzione risiede nello spontaneismo dei
lavoratori di fabbrica. Pur mantenendo sempre il carattere operaista, ma più
spiccatamente libertaria e più attenta ai movimenti di piazza, “Lotta Continua”, fondata da Adriano Sofri, Luigi Manconi e Guido Viale, è l’unica organizzazione ad ottenere maggior seguito e a praticare la “controinformazione” (ovvero la raccolta di notizie sul sistema di potere politico ed economico). Lotta Continua, sensibile e vicina ai problemi sociali, cercherà
sempre un difficile equilibrio tra uso difensivo della violenza e rifiuto del
terrorismo.
Per i giovani di questa Rivoluzione, il mondo era tutto un fermento di
protesta e di lotta, che sembrava rendere concreta la speranza di una trasformazione radicale.
In realtà, per lo meno inizialmente, il movimento di protesta italiano
manifesta il punto debole nella propria base sociale, costituita non tanto da
proletari, quanto piuttosto da studenti e piccolo borghesi. A rendersene
subito conto è l’intellettuale Pier Paolo Pasolini. Scrive all’indomani della
battaglia di Valle Giulia (1° marzo 1968) nella celebre poesia intitolata “Il
PCI ai giovani”:
“[...] Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
– 188 –
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo-borghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli dei poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene,
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità [...]”
Quello del ’68 è comunque un movimento che ha inciso più sul
costume e sui comportamenti sociali, che sulla politica. La connotazione
classista del sistema scolastico (denunciata anche da una parte del mondo
cattolico a partire da Don Lorenzo Milani,44 il priore della chiesa, insegnante della scuola di Barbiana, che attraverso il racconto delle sue esperienze di insegnamento, denunciava i vizi, le ipoteche classiste che ancora
segnavano la scuola italiana) e l’autoritarismo accademico (espressione
della recettività passiva da parte dello studente) sono gli aspetti fondamentali della contestazione. Il sistema capitalistico e le organizzazioni della sinistra, a causa della loro “non-volontà” (noluntas), della loro rinuncia nella
trasformazione radicale del presente, sono nel mirino della critica del movimento studentesco. I diversi aspetti del pensiero critico e di protesta sociale
che avevano caratterizzato gli anni ’60 (e che in parte risalivano indietro
alle rivoluzioni novecentesche), confluirono nella cultura del movimento rivoluzionario: dai fermenti terzomondisti, alla filosofia della Scuola di Francoforte e di Herbert Marcuse nel suo celebre “Uomo a una dimensione”,45
dal movimento libertario giovanile sviluppatosi negli anni del “beat italiano”, all’“antipsichiatria” praticata da Franco Basaglia46 nell’ospedale di
Gorizia (il rifiuto di ogni forma di oppressione e segregazione, avevano
reso la psichiatria e l’ospedale psichiatrico una questione culturale e poliL. Milani, “Lettera a una professoressa”, Libreria Ed. Fiorentina, 1967.
H. Marcuse, “L’uomo a una dimensione”, Einaudi, 1967.
46 F. Basaglia, “L’istituzione negata”, Einaudi, 1968.
44
45
– 189 –
tica, tanto che Basaglia sarà l’ispiratore della famosa legge n. 180 che nel
1978, dopo un iter parlamentare sofferto, abolirà tutti i manicomi), fino al
femminismo (il quale però, nel ’68 restava ancora allo stato di latenza,
pronto poi a esplodere negli anni Settanta). La predominanza dell’intensità
culturale di questo movimento non fu solo il frutto della massiccia partecipazione di studenti ed élite, ma il risultato dei suoi obiettivi polemici. Diversamente dai movimenti sociali e politici del dopoguerra europeo, bersaglio polemico del ’68 era tanto la società capitalistica nella forma che andava assumendo (società dell’opulenza, dei consumi e della tolleranza repressiva, come ricordava Marcuse), quanto le forme e le istituzioni depositarie della sinistra europea figlia della rivoluzione d’ottobre. Un vento di filosofica follia, un’ondata di provocatoria giovinezza, la volontà di riappropriarsi ed essere interpreti privilegiati del proprio destino e dell’azione rivoluzionaria: ecco i motivi tipici del ’68.
“Un comune denominatore sociale del movimento sembra fuori discussione, ma è anche vero che psicologicamente questa generazione sembra
dappertutto caratterizzata dal semplice coraggio, da una sorprendente volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di
cambiamento. Ma queste qualità non sono cause, e se ci si domanda che
cosa ha effettivamente provocato questa evoluzione del tutto inaspettata
nelle Università di tutto il mondo, sembra assurdo ignorare il più ovvio e
forse il più potente dei fattori, per il quale, per giunta, non esistono precedenti né analogie: il semplice fatto che il ‘progresso’ tecnologico porta in
molti casi direttamente al disastro, cioè che le scienze, insegnate e apprese
da questa generazione, sembrano non soltanto incapaci di modificare le
disastrose conseguenze della propria tecnologia ma hanno anche raggiunto
un livello tale di sviluppo per cui non è rimasta neanche una maledetta
cosa che uno possa fare e che non possa venire trasformata in guerra”.
“Siamo contro le leggi che regolano l’insegnamento universitario, contro
l’autoritarismo del corpo accademico”, “Siate realisti, chiedete l’impossibile”, “Vogliamo tutto”, “L’immaginazione al potere”, “Sapere è potere”:47
ecco le richieste di piazza. Cadono tutti i limiti che separano l’uomo dall’ebbrezza del vivere la propria vita “fino all’ultimo respiro”. Si respinge
tutto perché si manca del poco. E paradossalmente, i principi cardine attorno cui ruota la vita odierna, famiglia, patria e Dio, sono proprio i bersagli
47
H. Arendt, “Politica e menzogna”, Milano, 1985.
– 190 –
polemici di quegli anni. Persino l’ossessione del pensiero politico di allora,
il Potere, oggi non è più sinonimo di prevaricazione, ma di protezione per i
cittadini.
“[...] Venite madri e padri attraverso i paesi e non criticate quello che
non potete capire i vostri figli e le vostre figlie sono al di fuori del vostro
comando la vostra vecchia via è invecchiata rapidamente. Per favore lasciate spazio alle novità e non potete dare una mano perché i tempi stanno
cambiando. [...]”. Siamo nel 1964 e Bob Dylan, con la sua “The Times
They Are Changin’ ”, si annuncia già portavoce di quella generazione sognatrice e sovversiva, che aveva anticipatamente percepito quale valore rivoluzionario l’immaginazione (intesa come senso di responsabilità) potesse
avere sotto forma di politica.
Per la prima volta, un senso di liberazione e comunione allo stesso
tempo, pervade le anime di tutti i giovani del mondo. Il concetto di rivoluzione è infatti permeato di una valenza universale: la possibilità di appropriarsi della propria vita e di divenirne gli effettivi soggetti esecutori.
Questa grande rivolta studentesca, per la sua prospettiva globale, fu l’ultima
risonanza della vecchia rivoluzione mondiale.
La sua universalità non è solo legata all’ideologia della tradizione rivoluzionaria (che dal 1789 al 1917 era universale ed internazionalista), ma
soprattutto al fatto che il mondo era effettivamente globale. Il tentativo rivoluzionario che caratterizza la rivolta non fu solo nel tradizionale senso
utopistico del rovesciamento permanente dei valori e dell’instaurazione di
una società perfetta, ma nel senso pratico che lo distingue. La sua importanza viene riscoperta anche e soprattutto attraverso le parole di un grande
filosofo: Immanuel Kant (1724-1804). Il mezzo rivoluzionario rivela infatti all’uomo la chiave di trasformazione dell’esistente, della società e
della storia. La sua rilevanza, come ben precisa Kant, non risiede tanto
nell’effettivo successo e riscontro pratico, quanto piuttosto nella capacità
che la rivoluzione ha di porre l’uomo faccia a faccia col proprio destino.
“Ora io” scrive Kant, “pur senza le doti del veggente, affermo di poter predire al genere umano, in base alle figure e ai segni dei nostri giorni, il raggiungimento di questo fine e con ciò anche, di qui in poi, un suo progresso
verso il meglio che non si trasformi più in un suo totale regresso. Infatti un
tale fenomeno, nella storia degli uomini non si dimentica più, poiché ha rivelato una disposizione e una facoltà al miglioramento della natura
umana, quali nessun politico avrebbe potuto arguire nel corso delle cose
sino a quel momento e che soltanto natura e libertà riunite nel genere
– 191 –
umano secondo princìpi interni al diritto, ma solo in modo indeterminato
riguardo al tempo e come evento contingente, potevano promettere. Anche
quando il fine che questo avvenimento permette di scorgere non fosse ora
raggiunto, anche quando la rivoluzione o riforma della costituzione di un
popolo, alla fine, fallisse; oppure, se anche dopo questa costituzione fosse
stata realizzata per qualche tempo, tutto venisse ricondotto all’antico
corso [...] quella profezia filosofica non perderebbe tuttavia nulla della
sua forza. Infatti quell’avvenimento è troppo grande, troppo legato all’interesse dell’umanità e troppo esteso nel suo influsso sul mondo in tutte le
sue parti, perché non debba essere riportato alla memoria dei popoli e a
ogni riproporsi di condizioni favorevoli, e risvegliato al fine di ripetere
nuovi tentativi della stessa specie: poiché, infine, in una questione così importante per il genere umano, in un qualche momento la costituzione che si
ha di mira deve necessariamente raggiungere quella saldezza che l’apprendimento da una o più frequente esperienza non mancherà di produrre
nell’anima di ognuno”.48
Si può ben affermare che l’ideologia di cui si nutrì il ‘68 deve molto
allo sviluppo e al programma della Scuola di Francoforte, di cui fecero
parte alcuni dei più grandi teorici del suddetto movimento (Adorno,
Fromm, Marcuse, ecc.). Essa presenta un’impostazione “socialista” e “materialista”, o per meglio dire una concezione dialettica del marxismo, criticando aspramente il metodo delle scienze sociali o “positive”; a queste ultime si rimproverava un approccio meccanicistico alla realtà, il limitarsi ad
una registrazione dei fenomeni, insomma di non vedere che la realtà è lacerata da contraddizioni; per gli appartenenti alla Scuola la realtà non è
sempre quel che deve essere (la concezione hegeliana del “Tutto ciò che è
reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale” viene completamente
annullata), in cui le contraddizioni vengono superate in nome di una superiore armonia, ma essa è un continuo divenire, in cui stasi equivale alla
morte del sistema.
L’accento si pone sulla totalità e sulla dialettica: la ricerca non si risolve
in indagini specializzate e settoriali, ma tende ad esaminare le relazioni che
reciprocamente legano gli ambiti storico-economici con quelli socio-culturali, per una visione globale e critica della società contemporanea.
48
I. Kant, citato in “Archivio Foucault”, cit., p. 259.
– 192 –
Interessante è quanto Horkheimer scrive nei primi anni della Scuola:
“Al metodo orientato sull’essere e non sul divenire, corrispondeva il modo
di considerare la forma di società esistente come un meccanismo di processi che si ripetono sempre uguali, che può essere bensì disturbato per un
tempo più o meno lungo, ma che comunque non richiede un comportamento
scientifico diverso dalla spiegazione di una macchina complicata”.49
La teoria critica fa emergere le contraddizioni di cui la società capitalistica è intrisa; il teorico critico è quel teorico la cui unica preoccupazione
consiste in uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento. La
teoria critica vuole essere comprensione totalizzante e dialettica della società umana nel suo complesso, dei meccanismi della società industriale
avanzata, al fine di promuoverne una trasformazione razionale che tenga
conto dell’uomo, della sua libertà, della sua creatività in una collaborazione
aperta con gli altri, piuttosto che di un sistema opprimente e autoritario.
Per venir correttamente intese, le teorie della Scuola di Francoforte debbono essere adeguatamente inquadrate nel periodo storico in cui furono elaborate. Questa è l’età in cui gli uomini del dopoguerra portano i segni dell’esperienza totalitaria, sia essa il fascismo, il nazismo, lo stalinismo; dopo aver
attraversato l’uragano della seconda guerra mondiale, hanno assistito poi allo
sviluppo irrefrenabile della società tecnologica avanzata, così che al centro
delle riflessioni dei Francofortesi troviamo sia le più importanti questioni politiche, come anche quei problemi teorici sui quali aveva indugiato il Marxismo occidentale in contrasto con i Neokantiani, contrasto che i Francofortesi allargheranno anche all’Esistenzialismo e al Neopositivismo. Il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, la guerra fredda, la società opulenta, la rivoluzione mancata, da una parte; e, dall’altra, il rapporto tra Hegel e il Marxismo e tra questo e le correnti filosofiche contemporanee, come anche l’arte
d’avanguardia, la tecnologia, l’industria culturale, la psicoanalisi e il problema dell’individuo nella società odierna, sono tutti temi che s’intersecano
all’interno della riflessione degli esponenti della Scuola di Francoforte.
In particolare Erich Fromm in “Fuga dalla libertà”50 ha messo in evidenza come l’uomo nasca, quando “viene strappato all’originaria unione
con la natura che caratterizza l’esistenza animale”. Ma fino a questo momento l’uomo rimane fondamentalmente solo.
49
50
www.geocities.com/Athens/Delphi/Francoforte.html
Fromm E., “Fuga dalla Libertà”, Mondadori, Milano, 1994 (I ediz. 1941).
– 193 –
La realtà è che l’uomo che si distacca dal mondo fisico e sociale,
l’uomo cioè che diventa libero, prendendo coscienza dei propri atti, della
propria scelta e dei propri pensieri, non sempre riesce ad accettare il peso
della libertà, e cede allora al “conformismo gregario” ubbidendo passivamente a norme stabilite, aggregandosi ad un gruppo di cui pensa e sente di
essere parte ma in realtà ne è solo un ingranaggio. In questo modo, l’uomo,
che va alla ricerca della sua vera identità e della sua vera essenza, trova solo
false libertà e false identità, perdendo la sua salute mentale (il lavoro nella
moderna società industriale, come ben evidenzierà Marcuse, abbandona
l’iniziale carattere creativo per assumere una veste autoritaria).
E ancora, in “La disobbedienza come problema psicologico e morale”51
il filosofo riporta come nella tradizione si sia sempre ritenuto l’obbedienza
una virtù e la disobbedienza un vizio. Ma a questo atteggiamento Fromm
contrappone la prospettiva secondo cui “la storia dell’uomo è cominciata
con un atto di disobbedienza, ed è tutt’altro che improbabile che si concluda con un atto di obbedienza”. Adamo ed Eva “stavano dentro la natura
così come il feto sta dentro l’utero della madre”. Ma il loro atto di disobbedienza ha scisso il legame originario con la natura e li ha resi individui: “il
peccato originale, piuttosto che corrompere l’uomo, lo ha reso consapevole
della sua libertà permettendo l’inizio della sua storia. L’uomo ha dovuto
abbandonare il paradiso terrestre per imparare a dipendere dalle proprie
forze e diventare pienamente umano”. E come ci insegna il “delitto” di Prometeo (che ruba il fuoco agli dei e “pone le fondamenta dell’evoluzione
umana”), sono successivi atti di disubbidienza che rendono possibile l’evoluzione e il progresso. Anche lo sviluppo intellettuale dell’uomo ha la sua
ragion d’essere nella capacità di disobbedire: disobbedire a qualsiasi forma
di autorità e di antica credenza che tentasse di reprimere nuove idee, considerando ogni rinnovamento di per sé vuoto e inutile al fine di aiutare
l’uomo nel raggiungimento della felicità.
Una persona diventa libera e cresce mediante atti di disobbedienza. La
capacità di disobbedire è, pertanto presupposto della libertà. E la libertà rappresenta la capacità di disobbedire: “Se ho paura della libertà non posso
osare di dire no, non posso avere il coraggio di essere disobbediente. In effetti, la libertà e la capacità di disobbedire sono inseparabili”. E sono esse
che stanno alla base della nascita e della crescita dell’uomo in quanto tale.
51
www.geocities.com/Athens/Delphi/Francoforte.html
– 194 –
Ebbene, dice Fromm: “nell’attuale fase storica, la capacità di dubitare, di
criticare e di disobbedire può essere tutto ciò che si interpone tra un futuro
per l’umanità e la fine della civiltà”.
Il più grande dei filosofi del Gran Rifiuto nei confronti della società tecnologica ed in generale uno dei più grandi nemici della moderna e stereotipata società fu Herbert Marcuse.
Carattere fondamentale della sua impostazione è la negazione sistematicamente attuata nei confronti di tutto ciò che è “realtà”, perché la realtà
è menzogna, ipocrisia, illusione. Si è precedentemente affermato che uno
dei presupposti epistemologici dei Francofortesi si realizza attraverso una
coscienza critica fortemente connotata in senso negativo: ossia attraverso
“la negazione di ciò che appare evidente, il non soddisfarsi di quel che è
dato”.52 Una coscienza critica che, a differenza di quanto accade ad Adorno
e Horkheimer, in Marcuse diventa assoluta permeando di sé tutta la sua
produzione. Si potrebbe definire così il modo di confrontarsi con il reale “di
sinistra”; non è scorretto definirlo tale a patto che si riconosca a tale definizione un carattere progressista e rivoluzionario. La forza di tali pensatori è
nel pensiero critico, nella volontà di modificare il reale, rendendo, secondo
il movimento dialettico, la realtà armonica con i principi della ragione.
“La filosofia diventa negativa nel momento in cui cerca di demistificare
la realtà sociale, giungendo alla conclusione che la verità, lungi dall’identificarsi con la realtà, resta ancora da scoprire”.53
Marx e Freud, insieme a Hegel, rappresentano i suoi punti di riferimento: da Marx assume il concetto di alienazione, grazie ad Hegel si impadronisce del concetto di dialettica come dinamica negativa, da Freud – per il
quale il principio del piacere è alternativo al principio di realtà – concepisce
che la civiltà deriva dalla continua repressione degli istinti: istinti che dovrebbero necessariamente essere “liberati” affinché l’uomo possa essere
realmente felice.
Il punto di partenza è dal negativo, da esso prende avvio lo sviluppo: le
libertà che le democrazie occidentali consentono sono, in realtà, forme di
costrizione mentale e materiale molto raffinate. Il benessere stesso, creato
dal mercato, altro non è che un sistema subdolo, finalizzato alla strumentalizzazione delle coscienze.
52
53
F. Agostini, “Analitici e Continentali”, Raffaello Cortina editore, Milano, 2000, pag. 63.
Porto M., “Introduzione a Marcuse”, Lacaita Editore, Manduria, 1998, pag. 13.
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La prima fase dell’attività filosofica di Marcuse è caratterizzata dall’influenza congiunta di Heidegger e Marx, infatti egli si pone il problema dell’autenticità del reale in termini di prassi. Il progetto fallì perché non aveva
identificato la decisione con la rivoluzione, quindi non aveva riconosciuto
nel proletariato il vero protagonista. Diventa necessario per il filosofo rifarsi
al marxismo: materiale per la costruzione di una nuova umanità era fornito
dai Manoscritti del 1844, nei quali il lavoro non alienato era presentato
come il mezzo con cui l’uomo realizza se stesso; esso era per Marcuse il
modo di essere dell’esistenza umana nel mondo. Nel saggio “Sul carattere
affermativo della cultura”,54 egli sosteneva che il carattere specifico dell’ideologia borghese consiste nel rendere lo spirito del mondo autonomo, superiore e separato dai bisogni materiali. In tal modo, la felicità (ed anche la
sessualità) è tenuta lontano dalla realtà quotidiana, in un misterioso ascetismo al fine di disciplinare e tenere a freno le masse insoddisfatte ed eversive. La mancanza di felicità è risultato di una società irrazionale, quindi
nella condizione storica attuale la felicità è irraggiungibile.
Nell’opera “Ragione e Rivoluzione”55 mette in rilievo il carattere rivoluzionario della ragione hegeliana, che contiene sempre una spinta critica e
negativa. Per essa, appunto, i fenomeni storici possono esser compresi solo
considerandoli come parte di una totalità. Si riscontra, però, una mentalità
pessimistica riguardo le connessioni tra progresso tecnologico ed emancipazione umana, quindi sulla considerazione del socialismo come sviluppo e
dissoluzione del capitalismo. Il miglioramento della produzione è corrisposto al venir meno della coscienza rivoluzionaria e l’instaurarsi di una
morale repressiva. Dunque, il socialismo reale non è altro che un’espressione, insieme con il capitalismo, dei caratteri repressivi della società industriale avanzata.
Per comprendere tali caratteri in “Eros e Civiltà”,56 interpretando in
chiave progressista il pensiero freudiano, rivede il modo di costituirsi della
civiltà. La civiltà, secondo Freud, inizia quando l’umanità per sopravvivere,
rinuncia al soddisfacimento immediato delle proprie pulsioni e sostituisce al
principio del piacere il principio di realtà. Ciò comporta la repressione degli
istinti, implicando una modificazione degli stessi: l’unico modo è imporre
54
Marcuse H., “Sul carattere affermativo della cultura”, Cultura e società, 1963 (I ediz.
1937).
55
56
Marcuse H., “Ragione e Rivoluzione”, Il Mulino, Bologna, 1997 (I ediz. 1941).
Marcuse H., “Eros e Civiltà”, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2001 (I ediz. 1955).
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ai membri della società il lavoro, sublimando le loro energie dell’attività
sessuale in attività utili. Le regole della convivenza sociale sono la base
della repressione, che risulta quindi necessaria.
La modificazione repressiva degli istinti, secondo Freud, ha la sua ragion d’essere nella lotta primordiale per l’esistenza. Tuttavia Marcuse all’inventore della psicoanalisi contesta il carattere di eternità della lotta,
ossia il considerare eterno il contrasto tra principio del piacere e principio
della realtà. Bisogna accantonare l’idea secondo cui una società diversa,
quindi non repressiva, non sia possibile. Ed è proprio la speranza di rinnovamento che rappresenta la correzione di Freud attraverso Marx. Non si
tratta di un conflitto eterno, esso è solo l’espressione di una determinata organizzazione storico-sociale. Una civiltà non repressiva è il risultato di uno
scontro epocale che sembra contenere in sé le caratteristiche di una rivoluzione politica. Pertanto una volta che sia stato modificato l’assetto sociale
esistente, sarà anche possibile costruire le premesse della “liberazione”. Di
fatto anche Freud ha finito col difendere gli istinti e le aspirazioni dell’umanità, pur confinandoli nell’inconscio. Lì nella memoria recondita gli uomini
conservano l’impulso verso la soddisfazione integrale che è assenza di bisogno e di repressione. Secondo Marcuse la memoria in Freud ha una funzione terapeutica, essa conserva promesse e potenzialità tradite, dichiarate
addirittura fuorilegge dall’uomo, un uomo che per diventare civile ha dovuto rinunciare a pulsioni che in un lontanissimo passato ha quasi certamente appagato. Di qui l’importanza dell’immaginazione: un’esplorazione
dell’inconscio, un recupero della memoria. Il recuperare il passato: questo è
l’unico modo per preparare la futura liberazione. “Eros e civiltà” è sotto
questo aspetto un testo chiave per realizzare quel progetto rivoluzionario di
sostituzione della felicità al regno terribile della necessità, in cui domina la
prestazione e il tempo è assorbito dall’obbligo del lavoro per rincorrere un
progresso tecnologico in cui ogni fantasia si dissolve.
La scarsità di beni necessari a soddisfare i bisogni umani non è un fatto
naturale, ma dipende da una iniqua distribuzione di essi. Freud ha considerato il modello ideale di società quello che invece era un determinato assetto sociale. Accanto alla repressione connessa all’instaurarsi del principio
di realtà, fondamento della convivenza, si aggiunge una repressione addizionale, fondata sul principio di prestazione. Nel momento in cui si raggiunge un elevato livello di sviluppo produttivo le risorse per un mutamento
dei bisogni risultano disponibili, ma di fatto la società crea falsi bisogni per
impedire la liberazione degli individui dal dominio. “Una confortevole,
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levigata, ragionevole, democratica non libertà – egli afferma – prevale
nella civiltà industriale avanzata segno di progresso tecnico”; la tolleranza
di cui si vanta tale società è repressiva perché è valida soltanto riguardo a
ciò che non mette in discussione il sistema stesso. Tuttavia la società tecnologica non riesce a risolvere tutti i problemi e soprattutto la contraddizione
di fondo che la costituisce, quella tra il potenziale possesso dei mezzi atti a
soddisfare i bisogni umani e una politica che nega l’appagamento dei bisogni primari e stordisce con la creazione di bisogni fittizi.
Ma grazie all’automazione l’uomo si libera dal lavoro ripetitivo e ha la
possibilità di riscoprire l’eros, inteso come amore del mondo e della vita
senza alcuna implicazione sessuale. Il lavoro si trasforma in gioco, l’uomo
torna a sentirlo come parte di sé, che permette la crescita delle facoltà
umane.
Diversa è la considerazione dell’avanzare della tecnologia in “L’uomo a
una dimensione”:57 per un verso essa è funzionale a costruire una società migliore, innalzando il livello di vita delle varie classi sociali, ma per l’altro può
esser responsabile di un peggioramento dell’esistente, diventando parte della
logica del potere per perpetuare lo sfruttamento e reprimere il carattere rivoluzionario della tecnica. Infatti i progressi tecnici generano il bisogno ossessivo
di produrre e consumare e ottundono la capacità di opporsi al sistema. Ed è
proprio la concessione di libertà apparenti che permette al sistema di continuare il controllo. La società, nel momento in cui soggetto delle scelte individuali diviene la collettività produce un generale conformismo.
Il pensiero diventa unidimensionale, incapace di opposizione. Nel ’900
la verità di una teoria è nella verifica empirica della sua validità, nel vantaggio che essa può garantire.
La filosofia, ritiene Marcuse, ha il compito di preservare i concetti di
bellezza e libertà, opponendosi alla pragmatica società. Fondamentale è la
funzione dell’immaginazione, capace di andare al di là di una realtà che si
cerca di misurare e inquadrare. Dal momento che la classe operaia è sempre
più integrata nel sistema, Marcuse considera come potenziali soggetti rivoluzionari gli studenti, gli emarginati. il sottoproletariato.
“Il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati
di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico, la loro presenza prova quanto
Marcuse H., “L’uomo a una dimensione”, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1999
(I ediz. 1964).
57
– 198 –
sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la
loro coscienza. Perciò la loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e
quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola la regola
del gioco e così facendo mostra che è un gioco truccato”.58
Tutte le dimensioni”altre” da quella della tecnologia sono conquistate
dal dominio apparentemente democratico: l’uomo, la società, la cultura
sono ridotti ad una unica dimensione tecnologico-consumistica, che condiziona i bisogni. “Una confortevole levigata, ragionevole, democratica non
libertà prevale nella civiltà industriale avanzata”.
“È solo per merito dei disperati che ci è data la speranza”.
Il vero paradosso è che proprio quest’opera, che preclude ogni possibilità di cambiamento, divenne il vademecum dei rivoluzionari del ’68. “È
ancora il caso di ripetere che la scienza e la tecnologia sono grandi veicoli
di liberazione, e che è soltanto il loro uso e il loro condizionamento nella
società repressiva che fa di esse il veicolo della dominazione?”. Frase significativa, su cui vertono le principali accuse che gli sono state rivolte,
esprime un nuovo modo di concepire la società tecnologica. Distrugge in tal
modo sia capitalismo che comunismo, individuando in entrambi la stessa
struttura tecnologica avanzata, che scatena una reazione spontanea ad un sistema soffocante e oltremodo autoritario.
Contestazione studentesca e lotte sindacali in Italia
L’ondata di cambiamenti radicali da cui viene travolto l’intero mondo
sociale nel ’68, l’anno della contestazione globale sentita con partecipazione dal mondo giovanile, non investe solamente la morale comune, le abitudini, i monotoni ritmi di vita, abolendo dunque le forme in nome della
vera sostanza, ma incide in maniera innovativa sui modi e sugli strumenti
della comunicazione tra pubblico e privato, tra la nuova e la vecchia generazione dei padri. Tale spinta, poi, nel suo intento di rigenerazione nei molteplici ambiti della società e della cultura, aspira ad un coinvolgimento totale
della classe dei lavoratori.
Per molti degli stessi protagonisti il movimento del ’68 rappresenta
prima di tutto il momento dell’“incontro” tra gli studenti e i lavoratori delle
Marcuse H., “L’uomo a una dimensione”, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1999
(I ediz. 1964).
58
– 199 –
fabbriche, il tempo della nuova consapevolezza dell’esistenza delle fabbriche stesse e della classe operaia.
Nell’atmosfera di contestazione, agitazione intellettuale, partecipazione
critica alla politica e originale espressività artistica nasce il semplice piacere
di uno straordinario contatto tra due mondi considerati separati ma tenuti
lontani a forza dalle barriere e dalla rigida compartimentazione della società.
L’identica esigenza di una trasformazione urgente, immediata e vissuta
dunque nell’istante, permette il superamento di gran parte della segmentazione fisica e sociale; il “mondo chiuso” delle fabbriche si apre agli studenti
mostrando all’intero sistema il proprio reale potere: paralizzare il paese
smettendo di lavorare. Così i militanti si mescolano ai lavoratori, partecipano alle riunioni degli operai, si presentano ai picchetti di scioperanti delle
fabbriche ed entrano nelle officine.
Allo stesso modo, in questo clima di caldo dialogo e ricco confronto tra
i due rispettivi percorsi, gli operai si “intellettualizzano”.
Questo nuovo e così aperto clima in cui le idee e la fantasia possono
circolare senza più intermediari, limiti o pregiudizi, in cui ogni tipo di divisione o barriera sociale sembrano ormai essere state semplicemente spazzate via grazie al valore universale (ed anche “operaio e popolare”, per dir
più propriamente) della cultura e della politica, rappresenta per molti degli
storici e attenti narratori del ’68 l’aspetto centrale e realmente rivoluzionario della contestazione del grande anno.
Tra questi infatti si pone la studiosa di New York Kristin Ross, la quale,
in un suo lavoro del 200559 pubblicato da Le Monde Diplomatique e da
Complete, sottolinea come la rivolta del ‘68 sia stata in primo luogo “l’occasione di uno straordinario incontro tra operai e studenti per rimettere in
discussione, dopo tanto tempo, l’ordine sociale”.
La convinzione della reale esistenza di tale nuova “combinazione”
sociale, politica e culturale tra le università e le fabbriche viene supportata e
fortemente sostenuta dalla studiosa americana attraverso un’ampia e diretta
raccolta di testimonianze nell’ambito dell’attivismo dei sessantottini francesi; proprio in questo ambiente in fermento, secondo Kristin Ross, si realizza pienamente e forse unicamente quell’identità di percorsi, quell’unione
globale di due realtà prima così distanti e chiuse, che per molti degli attivisti stessi si identifica con l’anima e la molla propulsiva della loro azione.
59
Kristin Ross, “May ‘68 and its afterlives”, New York, 2005.
– 200 –
Se infatti in Francia, a metà maggio del ’68, agli inizi dello sciopero
generale, si viene a definire sempre di più una stretta collaborazione tra il
comitato d’azione degli studenti e quello degli operai tale da portare appunto
alla creazione di un canale diretto di collegamento tra i centri di studio e
i centri del lavoro, diversamente nel caso dell’Italia risulta essere più complessa e graduale l’evoluzione e l’affermazione di questo stesso rapporto.
La maggiore difficoltà nella realizzazione dell’“incontro” sessantottino
nell’ambito italiano è dovuta principalmente alla notevole influenza dei
partiti politici italiani, alla loro frequente opposizione con il sindacato e il
movimento studentesco, ed infine al continuo ed esasperato tentativo del
partito di inglobare l’MS, e quindi i lavoratori uniti a quest’ultimo. Da un
lato, infatti, la pressione esercitata dai partiti, tanto quelli borghesi al fine di
frenare la contestazione, quanto quelli di sinistra al fine invece di raccogliere al proprio interno le forze del movimento, provoca un rallentamento
nel percorso di ampliamento e sviluppo delle idee e delle azioni del ’68 italiano; dall’altro invece l’influenza positiva e il supporto di un partito specifico, il PCI, incentiva l’idea di “un’organica e reale composizione delle
lotte giovanili con quelle del movimento operaio”.
Uno dei problemi in relazione alla politica che i sessantottini italiani si
trovano ad affrontare è il ruolo di forza-guida dell’MS nei confronti del movimento operaio e il rapporto con questo stesso.
Questa “vocazione teorica generale”, come la definisce lo storico del
’68 G.C. Marino, a fare dell’MS “l’avanguardia del proletariato” è già consolidata tra le fila del cosiddetto Potere studentesco, al cui interno viene
chiaramente definita come il compito degli studenti affidato loro dalla storia
ormai giunta in tempi maturi. La totale immersione e adesione all’idea di
detenere un ruolo guida nella lotta operaia (che ottiene contemporaneamente, grazie alla Triplice sindacale, importanti conquiste in relazione ai salari e ad una migliore legge rappresentativa: lo Statuto dei lavoratori) viene
inoltre percepita con maggior sentimento e diffusa con più forza dal numeroso gruppo di studenti-operai, studenti-lavoratori e figli di operai, che, nel
vivo della loro esperienza personale e familiare, condividono l’esigenza di
trasformare radicalmente il sistema dall’interno e attraverso un intervento
attivo. Gli studenti universitari del fronte sessantottino rifiutano di essere in
alcun modo complici di quello stesso sistema borghese e capitalistico contro
cui combattono; perciò criticano prima di tutto l’insegnamento dei vecchi
professori o “baroni”, l’uso capitalistico delle macchine, l’alienazione e
l’oppressione imposta dal sistema per non caderne vittima nella loro vita
– 201 –
futura dopo il conseguimento della laurea. Essi esaltano il valore della professione e del lavoro secondo una visione pura, libera e disinteressata,
quindi in netta opposizione alla concezione borghese del profitto sfrenato e
dello sfruttamento della “merce” pregiata del lavoratore (il lavoro stesso), e
al contrario in sintonia con l’ideale operaio del valore morale e sociale della
propria attività. Dunque la medesima percezione del lavoro umano rende
consapevoli, prima di tutti gli studenti, dell’esistenza di un “legame organico e profondo con la condizione operaia”.
Così la coscienza studentesca riguardo l’oppressione esercitata dal sistema viene arricchita da più alti mezzi culturali, diviene poi lo strumento
considerato idoneo per scoprire le motivazioni di tale situazione alienata ed
alienante e soprattutto l’antidoto ai veleni della realtà borghese; in sincronia
a ciò, inoltre, il lavoro manuale ritrova la sua struttura ed il suo perenne sostegno nell’attività intellettuale e creativa.
Sebbene il PCI, il partito per eccellenza della classe studenti-operai del
’68, svolga un’importante ruolo organizzativo e pedagogico promuovendo
nelle sue diverse sedi (sezioni, Camere del lavoro, sedi della CGIL, Atenei e
fabbriche) dibattiti e confronti tra le due parti, questo avvicinamento avviene all’interno del vasto gruppo del movimento studentesco in maniera
più lenta, autonoma e di conseguenza perviene ad una più profonda consapevolezza del legame esistente.
Determinante è infatti la volontà dell’organizzazione degli studenti di
muoversi in modo completamente autonomo, di stabilire un canale di comunicazione e cooperazione con le sedi delle fabbriche. Questi gli obiettivi
dell’MS nel realizzare “un aggancio tra il mondo studentesco e quello operaio”: “costruire e organizzare l’unità della classe operaia per farne una
grande forza contro il potere dei padroni”, come constata il prefetto di Milano Libero Mazza, e “conquistare le masse operaie meno politicizzate, allo
scopo di convogliarle su una piattaforma di lotta funzionale ai temi rivoluzionari della contestazione”, come invece affermavano gli studenti dell’MS
sempre nell’Ateneo milanese.60
Nell’attivismo dei giovani italiani e nel loro impegno per consolidare
l’“incontro” con i nuovi compagni si vengono a definire però due distinte
linee: una radicale e in netta opposizione al capitalismo e alla società dei
padri, l’altra improntata ad un riformismo moderato.
60
G.C. Marino, “Biografia del sessantotto”, Bompiani, Milano 2004.
– 202 –
Le diverse proporzioni tra queste due tendenze definiscono infatti la variabile dinamica dei rapporti tra le due parti in avvicinamento. Le due realtà
si incontrano e dibattono tra loro, ma se da un lato i figli militanti mostrano
le loro idee rivoluzionarie, dall’altro i padri sentono forte oramai la delusione
o minata la loro posizione dalle azioni della contestazione. Alcuni operai
percepiscono l’impegno degli studenti come un’invasione nel loro campo,
come una pressione esercitata su di loro di fronte ai cancelli delle fabbriche
per incitarli ad atti radicali, ad intraprendere progetti utopici fuori dalle concrete rivendicazioni; diviene comunemente sentito nelle fabbriche il pericolo
di essere trasformati in “merce ideologica” del movimento studentesco.
Nonostante i frequenti contrasti e le diffidenze è di notevole importanza
sottolineare la comune base ideologica e sociale (comune era l’esperienza
personale, la condizione degli operai e dei giovani, comune inoltre l’adesione al sindacato e alle sue rivendicazioni in campo sociale), la quale segna
il medesimo sentimento di opposizione al fronte dei padroni, del capitalismo, delle forze neofasciste, dell’imperialismo e del consumismo.
È dunque possibile rendersi conto come da un terreno giovane, innovativo e culturalmente indipendente si sviluppi un movimento sinergico e di
protesta antiborghese e anticonsumistico in grado di unire due modi di vivere, pensare ed esprimersi estremamente differenti tra loro.
Ma parallelamente tale divaricazione, intesa nell’accezione negativa del
termine, viene radicalizzata nel quadro più largamente mondiale della contestazione da Max Horkheimer: “Oggi gli studenti che si ribellano e che vogliono rovesciare il sistema sono separati dal proletariato, giacché vogliono cambiare radicalmente la società, mentre il proletariato, mi sembra.
non ha alcun interesse a farlo; al contrario, gli preme di prendere maggiore
tempo libero, migliori salari per riuscire ad accedere al benessere e quindi
ha paura del sovvertimento”.61
Questo è infatti il pericolo in atto, denunciato in maniera ossessiva dalla
stessa leadership giovanile sessantottina, di un processo di imborghesimento della classe operaia, da collegare al coincidente neocapitalismo. Da
ciò nasce, dunque, il totale interessamento del Movimento Studentesco ai
problemi della classe degli operai e all’operazione di salvataggio della medesima, nella salvaguardia dell’autonomia dell’MS contro ogni tipo di strumentalizzazione dei partiti.
61
Intervista ad Horkheimer di Enzo Bettiza, dicembre 1968.
– 203 –
In nome dell’autonomia d’azione e di pensiero, negli atenei si diffonde
un rifiuto ad ogni tipo di partecipazione degli studenti alla gestione delle
strutture universitarie, al fine di resistere alla corruzione della linea politica
revisionista e riformista, attribuita anche allo stesso PCI.
Accanto al PCI, il sindacato viene identificato nello strumento di controllo, pianificazione e legalizzazione della lotta operaia da parte del potere
capitalistico, quando invece per sua natura la lotta di classe non può che essere illegale.
D’altra parte nella primavera del ’68, nascono in alcune grandi fabbriche i primi Comitati unitari di base (CUB), gruppi misti di operai e studenti, con l’obbiettivo di sviluppare e gestire nuove forme di lotta nelle
aziende e di giungere all’autogestione delle stesse da parte dei lavoratori.
I CUB diventano così espressione non solo del rifiuto totale della società
consumistica, ma anche della rivolta contro i gruppi sindacali, accusati di
verticismo, di burocraticismo autoritario e paternalistico; essi inoltre manifestano la volontà della classe operaia più matura di porsi come antagonista
al sistema, di creare un rapporto nuovo tra la base e i vertici sindacali, di assumersi il ruolo di protagonista nello sviluppo economico del paese e di elaborare autonomamente le scelte e le soluzioni dei grandi problemi in discussione.
In questa nuova prospettiva delle lotte aziendali del ’68 vengono eletti i
primi delegati di reparto, di linea e di squadra con il compito di controllare i
tempi e l’ambiente di lavoro; questi rappresentano la voce diretta delle assemblee dei lavoratori e la realizzazione concreta dell’unità della classe
operaia.
Questo primo e fondamentale compimento dell’unione tra giovani studenti e lavoratori delle fabbriche si affianca al vivo impegno dei primi nella
lotta ostinata conto i corruttori riformisti, fino ad ottenere la sollevazione e
l’intervento rivoluzionario delle masse operaie.
Però per realizzare tale proposito è ancora necessario risolvere il principale problema dell’MS riguardante “la definizione delle forme e degli strumenti organizzativi per la lotta al revisionismo e al riformismo”.62
Su tale punto ancora irrisolto, motivo di dibattito e contrapposizione all’interno delle forze della contestazione, esprimono la propria opinione alcune grandi voci protagoniste: mentre, a Milano, Mario Capanna con una
62
Vedi nota 2.
– 204 –
profonda coscienza politica marxista-leninista è impegnato a difendere l’autonomia dell’MS, all’interno del quale è convinto che il proletariato italiano
abbia raggiunto un suo ben definito status di soggetto politico, e che sia
dunque pronto ad ingaggiare una lotta politica rivoluzionaria e non più unicamente di carattere difensivo e sindacale, altri leader del movimento quali
per esempio Sofri, Viale, Piperno e Scalzone, sono attivi nella creazione di
un’organizzazione rivoluzionaria nella quale gli intellettuali, sempre fedeli
al loro impegno di elaborazione teorico-critica, abbiano la possibilità di integrare le loro iniziative in ambito politico a quelle della classe operaia, accelerando in tal modo il processo rivoluzionario nel Paese.
Su questa strada si muove fin dai suoi primi passi, come nota G.C. Marino nella sua attenta e chiara “Biografia del Sessantotto”,63 Potere Operaio
di Pisa; tra le fila del movimento pisano infatti la questione è tanto dibattuta
e così a lungo, perché non venga risolta sbrigativamente dando forma ad un
altro partito sterile, da far esplodere un violento contrasto ideologico all’interno, e tale da determinare una separazione marcata tra due strade: quella
di Potere Operaio e quella di Lotta Continua. La scissione avviene, a Torino, tra il gruppo che fa capo a Franco Piperno, che ha come ideale quello
di un’organizzazione strutturata sul modello marxista-leninista, e quello
guidato da Guido Viale e Adriano Sofri, favorevoli invece alla costituzione
di un’organizzazione di coordinamento nazionale delle varie “avanguardie”.
Sulle premesse bolscevico-leniniste già esposte, una parte dell’MS di
Roma capeggiata da Piperno e un gruppo di militanti torinesi danno vita
alla nuova struttura di Potere Operaio, alimentata più avanti anche dalle
forze intellettuali provenienti dalle redazioni di “Quaderni rossi” e “Classe
operaia”.
I membri di questa formazione politica ritengono che “dentro qualsiasi
livello organizzativo di Potere Operaio deve essere interamente presente la
proposta politica” che essi rappresentano, il programma politico che essi
portano avanti: “Dovremmo dire che siamo o meglio che rappresentiamo
lo sviluppo e la crisi dell’autonomia operaia, delle lotte di fabbrica, delle
lotte sociali come le abbiamo conosciute in questi anni in Italia. [...] Ci
siamo definiti Potere Operaio per il partito, per l’insurrezione, per il comunismo”.64 Affermando l’attualità di queste “parole d’ordine”, i compagni
63
64
Vedi nota 2.
“Potere Operaio”, anno 3, numero 45, dicembre 1971.
– 205 –
di Potere Operaio dichiarano che il partito è all’ordine del giorno, che l’insurrezione è all’ordine del giorno e che il comunismo è all’ordine del
giorno.
Il discorso politico di Potere Operaio parte dagli inizi del secondo dopoguerra sino ad arrivare all’inizio degli anni sessanta: in questo lungo
corso di tempo “gli operai hanno pagato il costo di tutto. [...] La repubblica
fondata sul lavoro si è costruita alle spalle degli operai, sulla pelle di milioni di disoccupati, sullo sforzo produttivo intenso e massacrante della
classe operaia”.
E proprio in questo contesto storico-politico-sociale della fase riformista e durante l’inarrestabile corso dello sviluppo capitalistico nel Paese, si
sviluppa l’ideologia politica di Potere Operaio, che si serve, contro lo Stato
“pianificato”, della tradizionale tematica leninista della Terza Internazionale, secondo cui l’organizzazione di stampo comunista sarebbe l’unica in
grado di esporre fieramente e in maniera combattiva la bandiera della lotta
politica e della lotta alla proprietà privata.
Al problema del “che fare di fronte a questo quadro di apparente forza
del capitale, a questo apparente trionfo del riformismo”, il gruppo di Potere
Operaio risponde riaprendo la possibilità di una strategia rivoluzionaria e di
un programma comunista seppur in un paese di capitalismo avanzato;
dunque gli strumenti del marxismo vengono riscoperti come gli strumenti
che possono riaprire tale possibilità.
“Siamo operai, compagni, braccianti e gente dei quartieri, siamo studenti, pastori sardi divisi fino a ieri.
E allora lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà.
L’unica cosa che ci rimane è questa nostra vita, allora compagni usiamola insieme prima che sia finita.
E allora lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà.
Una lotta dura ma senza paura per la rivoluzione, non può esistere la
vera pace finché vivrà un padrone.
E allora lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà”.65
65
Inno di Lotta Continua.
– 206 –
L’altra linea, costituitasi all’interno del Potere Operaio pisano e guidata
dai leader Adriano Sofri, Guido Viale e Mauro Rostagno, formalizza e consolida definitivamente la scissione ideologica e organizzativa ormai in atto
fondando il periodico “Lotta Continua”, strumento di divulgazione politica
e critica, e pubblicazione dell’omonimo movimento nato a Torino dall’incontro tra i seguaci della vecchia organizzazione pisana, gli studenti rivoluzionari dell’Università di Trento, della Cattolica di Milano, della Normale
di Pisa e gli operai delle carrozzerie di Mirafiori.
Lotta Continua diviene l’organizzazione per eccellenza della “sinistra
rivoluzionaria” e quella avente nell’ambito dei molteplici gruppi politici il
maggior seguito, grazie soprattutto all’adesione ad essa di gran parte dell’area dei “Quaderni piacentini”.
I presupposti fondamentali del movimento sono l’antiautoritarismo,
l’attenzione alla classe operaia, agli strati più deboli e alle interpretazioni
critiche e libertarie del marxismo-leninismo; le iniziative sono orientate
verso gli oppressi e gli emarginati in quanto “potenzialmente rivoluzionari”
e verso un’esaltazione mitica della violenza politica e della rivoluzione.
Quasi a voler richiamare la concezione tipicamente soreliana del mito e
del valore morale della violenza proletaria, Lotta Continua vede l’azione
violenta delle masse come la risposta naturale alla violenza interna e alla
“forza” ontologica della borghesia, prendendo però sempre le distanze da
ogni tipo di episodio di terrorismo.
Per la sua struttura aperta e versatile Lotta Continua rappresenta la principale novità nel quadro settario e l’unica organizzazione che raccoglie in sé
numerosi elementi del Movimento studentesco e diverse interpretazioni
della ribellione sessantottina; perciò, come nota il prefetto Libero Mazza:
“Lotta Continua, che raccoglie alcuni elementi dell’antiautoritarismo studentesco, avanguardie operaie e giovani scissionisti di Potere Operaio, ha
il compito di dare a tutti i proletari un quadro generale della lotta di classe
onde consentire loro di partecipare in prima persona alla discussione, alla
critica ed all’impostazione della linea politica che la stessa lotta di classe
di volta in volta impone o suggerisce”.66
La divisione avvenuta tra Potere Operaio e Lotta Continua si basa su
più elementi: sulle profonde differenze di giudizio sulla storia e sulla politica contemporanea dell’Unione sovietica, sulla Cina e sul Terzo mondo;
66
“Informativa di Libero Mazza al ministro Restivo”, ACS, 13 aprile 1970, Milano.
– 207 –
sulle diversità intercorrenti tra una cultura di sinistra più libertaria e dagli
umori anarchici ed un’altra invece maggiormente improntata al marxismoleninismo; su di una divergente interpretazione del modello organizzativo
da dare alla contestazione.
Per quanto riguarda quest’ultimo importante punto infatti, mentre nel
gruppo di Sofri e Viale prevale “la fiducia nello spontaneismo dell’iniziativa popolare e nelle creative capacità rivoluzionarie delle masse, insieme a
un antistalinismo radicale e a un generico maoismo”, d’altro canto nell’area di Potere Operaio di Piperno e Scalzone si consolida una predilezione
per le avanguardie che interpretano le istanze delle masse ma che allo stesso
tempo le disciplinano e le controllano dall’alto tramite una ferrea organizzazione centralizzata delle lotte.
Se inoltre i seguaci di PO urlano lo slogan: “Gli operai sono i più forti;
il potere deve essere operaio”, quelli di LC combattono per l’eliminazione
di ogni possibile “potere”.
Parallelamente l’ufficiale Movimento Studentesco diviene un dinamico
e variabile centro di convergenza per i giovani della sinistra radicale e oggetto di attenzione, integrazione e alleanza da parte del gruppo eretico del
PCI, il Manifesto.
Da parte sua invece il movimento operaio nel complesso rimane legato
ai sindacati, con grande soddisfazione delle pubbliche autorità, e sviluppa al
contempo un sempre maggiore sentimento di indifferenza e astio nei confronti di questi giovani che giocano al gioco della rivoluzione nel ruolo
degli eroici condottieri.
In un quadro di tal genere, in continua evoluzione, le divergenze e le
opposte scelte non impediscono la formazione di un circuito di scambi e
dialoghi di carattere politico e culturale.
Però, nonostante si venga a delineare un clima favorevole caratterizzato
da un profondo fermento politico e da una “nuova” e genuina comunicazione sociale e culturale, le divisioni e i contrasti ormai evidenti mettono in
luce quanto sia difficile per la cultura politica del ’68 condurre il processo
rivoluzionario e far scaturire da questo una ferma e comune identità politica.
La nuova espressività dell’arte
Gli storici hanno pareri contrastanti riguardo all’origine, allo sviluppo,
alle caratteristiche di un movimento come quello del sessantotto italiano
– 208 –
che, come scrive Moni Ovadia,67 è diventato un topos su cui spandere fiumi
di parole, nel bene e nel male. Si può parlare invece con chiarezza delle
numerose manifestazioni artistiche che investono il nostro paese, profondamente rinnovate dalle nuove esigenze che pervadono gli artisti a partire
dagli ultimi anni sessanta fino alla prima metà degli anni settanta. Il minimo
comune denominatore delle nuove esperienze artistiche di questi anni è
la contestazione della società capitalista, della creazione di una civiltà
di massa, dell’omogeneizzazione del gusto collettivo. È proprio questo tipo
di società che ha ridotto l’opera d’arte a bene di consumo costringendo l’artista a seguire le leggi del mercato e quindi ad adeguarsi al gusto collettivo.
L’arte del sessantotto vuole denunciare quanto questa omologazione sia
distruttiva per gli uomini stessi, per il libero pensiero, per la bellezza della
“diversità” tra le persone (intesa nel senso più alto del termine: diversità di
costume, di lingua, di cultura e più spesso anche solo di idee) che fanno
parte della stessa società, valore quest’ultimo, che si consolida negli animi
di molti giovani e adulti. È una contestazione su larga scala, che vuole rivoluzionare il modo di pensare senza fermarsi ad un qualche aspetto particolare del sociale. Per quanto riguarda le arti figurative si assiste al pullulare
di neo-avanguardie che esprimono le tendenze più marcatamente eversive:
ecco la chiara reazione a quell’“industria culturale” che aveva asservito gli
artisti alle esigenze economiche del sistema; si pensi alla pop-art, che raffigurava senza alcuna volontà ironica o critica i beni di consumo di massa,
divenuti simboli di una società feticista, schiava dei suoi stessi prodotti.
Andy Warhol è il massimo esponente di un’arte che spesso è stata definita
“di consumo”: attraverso la tecnica dello straniamento e della ripetizione,
l’artista riproduce moltissime volte la stessa immagine, alterandone esclusivamente le sfumature dei colori. Le opere più famose sono quelle che rappresentano personaggi dello spettacolo o della politica come Marilyn
Monroe, Mao Tse Tung e Che Guevara, o quelle che riprendono immagini
pubblicitarie di grandi marchi commerciali come le celeberrime Campbell’s
soup e Coca Cola. Warhol sostiene che i prodotti di massa sono il simbolo
della democrazia sociale perché rappresentano tutti, e proprio questo è il significato della Pop-art: rappresentare con un simbolo un’intera società (popular-art): anche l’uomo più povero può bere la Coca Cola o mangiare la
Campbell’s soup proprio come Marilyn Monroe o il presidente degli Stati
67
Moni Ovadia, intervista di Micromega, n. 1/2008.
– 209 –
Uniti. È proprio in risposta a un tale genere di arte che nel sessantotto si sviluppa una nuova concezione di opera artistica, che lasci libero sfogo all’immaginazione quanto alla denuncia della famigerata “società di massa” della
Pop-art. L’artista lascia sempre maggiore spazio ad un’impronta politica e
ideologica di carattere profondamente anti-accademico e informale che costituisce la base della nuova sensibilità artistica comune. Alla rappresentazione di oggetti comuni destinata a una fruizione puramente estetica, si sostituisce la rappresentazione del concetto, dell’idea. L’americano Joseph
Kosuth è il primo grande esponente di questa nuova “arte concettuale”
mossa da una profonda volontà di “rinnegare il manufatto”, di allontanarsi
dall’idolatria dell’oggetto, dal trionfo del consumismo. Il soggetto d’arte
può essere una qualsiasi cosa che sia generata dal pensiero. Non solo: elemento fondamentale della nuova pittura è il rifiuto dell’opera finita. L’interesse è focalizzato sul processo ideativo alla base dell’opera e sulla riflessione che vuole suscitare nell’osservatore, non sull’opera in sé.
Nel teatro saltano le strutture delle compagnie, viene rivoluzionato il
modo di concepire la rappresentazione, si inseriscono temi nuovi e imprevedibili, si diffondono gli spettacoli satirici. Gli studenti invitano attori e musicisti nei licei e nelle università, dove si registrano i grandissimi successi di
questa arte rinnovata, mossa da un interesse nuovo al sapere, che pone nel
confronto e nel dialogo i suoi strumenti fondamentali. Si fa strada nelle
menti dei giovani una concezione nuova e rivoluzionaria del sapere, molto
diversa da quella tradizionale e accademica: filosofi, ma soprattutto letterati, vengono letti direttamente ai giovani senza mediazioni e il dibattito diventa il fondamentale momento di arricchimento comune. I ragazzi sono
spronati a pensare criticamente e problematicamente con la propria testa, ad
emancipare i propri cervelli senza il timore di dire qualcosa di sbagliato. A
questo proposito è significativa l’esperienza di alcuni celebri autori italiani
come Dario Fo, che in un’intervista della rivista Micromega racconta:68
“[...] Ricordo che all’inizio delle manifestazioni in cui si occupavano le
scuole, proprio nel ’68 sono stato invitato dagli studenti che autogestivano
le lezioni alla facoltà di Letteratura dell’università statale di Milano. Erano
presenti non meno di tremila persone, sedute dappertutto, l’una sull’altra, e
in quell’occasione recitai per la prima volta Mistero Buffo, nella sua prima
stesura piuttosto abborracciata. Quell’esibizione si rivelò un inaspettato
68
Dario Fo; intervista di Micromega n. 1/2008.
– 210 –
successo, un fatto davvero rivoluzionario, soprattutto in seguito al dibattito
molto acceso che seguì la rappresentazione. [...] Si dibatteva su come realizzare una diversa forma di espressione, capace di coinvolgere anche
quella enorme quantità di popolazione che normalmente non ha la possibilità di accedere alla cultura, al teatro. Si era coscienti del fatto che lo studente ormai non si poteva più considerare un privilegiato. [...] Avevamo inventato un nuovo teatro itinerante, dove i gestori non erano gli imprenditori
ma la popolazione attiva. Si trattava di un fenomeno talmente importante
che ci portò a contare, soltanto a Milano, su circa 80mila associati. Oggi
quando un teatro riesce ad avere 10mila abbonati è un trionfo. [...] Il nostro impegno era quello di evitare assolutamente discorsi astratti. Cercavamo di essere sempre presenti nei luoghi di conflitto e di contestazione:
alla Fiat durante le occupazioni, a Seveso al tempo della contaminazione
da diossina, là dove c’erano problemi di fame o di povera gente cacciata di
casa e buttata in strada. Questo clima effervescente contaminò anche alcuni grandi del teatro. Strehler, per esempio, decise di lasciare il Piccolo
Teatro e di fondare una compagnia autonoma come la nostra: voleva liberarsi dall’angoscia di essere finanziato da uno stato che in quel momento
non poteva accettare”.
I letterati americani della cosiddetta beat generation69 assurgono in
questi anni ad un grosso successo di pubblico perché sembrano incarnare
proprio quegli ideali di libertà individuale, di anticonformismo e critica
della società, propri dei movimenti studenteschi. Si pensi a Jack Kerouac,
uno dei massimi interpreti di tale movimento di pensiero che nel suo libro
On the road narra di un’America in cui i nuovi valori critici si contrappongono a quelli ufficiali della società americana. Il romanzo è imperniato sul
mito del viaggio inteso come ricerca di nuovi orizzonti, come necessità di
nuovi spazi aperti: i due protagonisti percorrono le strade degli Stati Uniti
vivendo alla giornata, senza avere una meta precisa, mossi esclusivamente
da un forte desiderio di libertà e di provare nuove esperienze, nuove emozioni. Il loro viaggio è in realtà una fuga dal presente, una ribellione contro
il mondo consumistico dove tutto è già deciso, confezionato e debitamente
propinato a ciascuno, in nome della libertà individuale e nella continua ri69 Beat generation è l’appellativo che è stato attribuito alla generazione dei giovani americani ed europei degli anni ’50 e ’60. Sono i giovani che si entusiasmano leggendo Kerouac, che
ascoltano il rock e il be-bop, che sono pervasi da una grande voglia di conquistare il proprio spazio, la propria libertà, e per questo contestano la società che li opprime nei suoi confini angusti.
– 211 –
cerca di nuovi valori in cui credere, di qualcosa che possa dare un senso alla
vita. Ma è il viaggio stesso che nel contempo appare come quel senso che i
protagonisti ricercano poiché è solo in viaggio che essi si sentono realmente
vivi, non riuscendo in alcun modo ad adattarsi alla vita già “pronta” tipica
della società consumista e non trovando la piena realizzazione di sé negli
eccessi, nella droga, nell’alcol e in tutti quegli espedienti utilizzati per cercare di essere diversi dall’“omologato” e riacquistare la propria identità. Se
lo scopo della musica nel sessantotto doveva essere quello di rompere gli
schemi, l’ingresso del rock’n’roll è la svolta radicale degli orizzonti musicali fino ad allora esplorati. Il rock si allontana sempre più dalla ricerca
della melodia “bella” per dare invece un forte impatto emotivo al pubblico;
si semplificano le armonie, ridotte all’essenziale per essere più incisive, fa il
suo primo ingresso sui palchi la distorsione, la stessa concezione dello strumento va modificandosi verso l’esaltazione di tutte le sue capacità. Niente
di tanto rivoluzionario si era mai ascoltato prima da un palco. Il concerto
rock è accompagnato da una partecipazione attiva e nuova da parte del pubblico, che si sente emotivamente coinvolto: si diffonde un nuovo tipo di
ballo, disinibito, scandaloso, che ricerca la libertà più assoluta di espressione di ognuno. Questo genere di musica ha un successo enorme in tutto il
mondo e contribuisce in maniera determinante a diffondere le nuove idee e i
nuovi costumi già prima del sessantotto. È questa l’epoca del “beat”: il termine significa letteralmente “sconfitto”, “battuto”, ma, letto come abbreviazione di “beatus” significherebbe (come suggerito da Jack Kerouac)
“santo”, in riferimento alla identificazione della santità con la sconfitta che
è tipica di questa epoca. La “beat generation” è formata da quei giovani che
hanno compreso di essere imprigionati e indifesi tra le fitte trame del
mondo consumistico: “Ognuno da solo e tutti invasi dagli stessi discorsi e
dagli stessi doveri, da sogni pensati da altri e infilati subdolamente nel nostro cervello: tutti uguali e tutti insieme nella solitudine. Una folla solitaria
(per usare la felice espressione di David Riesman, famoso sociologo americano) che è soggetta a messaggi che vengono da fuori, un insieme non
amalgamato di uomini orientati però a ricercare in rapporto agli altri, anziché in sé stessi, la propria identificazione”.70 Dal punto di vista musicale
il termine “beat” è sinonimo di musica ritmata, con accenti forti: si parla
70
Gianni Borgna, “Storia della canzone italiana”, Mondadori, Bestsellers Saggi, Milano,
1992.
– 212 –
spesso di “beat rock”, ma il beat già prima del sessantotto era stato l’essenza degli standard jazz di Charlie Parker, che aveva rivoluzionato il modo
di concepire e di improvvisare jazz, traducendo gli ideali di libertà in melodie che non hanno una ritmica precisa, ogni volta diverse e rinnovate dalla
sensazione di un momento. Il fenomeno del “beat” si fa sentire anche in
Italia, dando origine dal punto di vista musicale a canzoni che hanno fatto la
storia della musica italiana; una per tutte, “Dio è morto”, che Francesco
Guccini scrisse nel 1965, sembra quasi un manifesto delle idee progressiste
dei giovani degli anni sessanta ed esprime benissimo la profonda coscienza
(di un artista che si fa interprete di una generazione) della possibilità di
cambiare, di poter agire in concreto per opporsi con forza alle storture della
società. Guccini ha una profonda fiducia nella capacità dei giovani di informarsi e di unirsi per la contestazione aperta che lui stesso canta e proclama
nelle sue canzoni. Credo che un testo possa parlare da solo meglio di ogni
commento.
DIO È MORTO
Ho visto
La gente della mia età andare via
Lungo le strade che non portano mai a niente
Cercare il sogno che conduce alla pazzia
Nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo che hanno già
Lungo le notti che dal vino son bagnate
Dentro le stanze da pastiglie trasformate
Lungo le nuvole di fumo, nel mondo fatto di città,
Essere contro od ingoiare la nostra stanca civiltà
E un Dio che è morto
Ai bordi delle strade Dio è morto
Nelle auto prese a rate Dio è morto
Nei miti dell’estate Dio è morto.
Mi han detto
che questa mia generazione ormai non crede
In ciò che spesso han mascherato con la fede
Nei miti eterni della patria o dell’eroe
Perché è venuto il momento di negare tutto ciò che è falsità
Le fedi fatte di abitudini e paura
Una politica che è solo far carriera
Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto
L’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto
E un Dio che è morto
Nei campi di sterminio Dio è morto
Coi miti della razza Dio è morto
– 213 –
Con gli odi di partito Dio è morto.
Ma penso
Che questa mia generazione è preparata
A un mondo nuovo e a una speranza appena nata
Ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi
Perché noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni
E poi risorge
In ciò che noi crediamo Dio è risorto
In ciò che noi vogliamo Dio è risorto
Nel mondo che faremo
Dio è risorto,
Dio è risorto.
A quasi dieci anni dalla pubblicazione di “Dio è morto”, un altro cantautore italiano, Fabrizio de André, registra il suo sesto album Storia di un impiegato. È l’opera in cui de André dà la sua lettura degli eventi del sessantotto, delle lotte operaie, del conformismo borghese, in una chiave particolarmente interessante e originale. L’intero disco è un discorso unico, del quale
ogni canzone è un periodo strettamente connesso con gli altri nella narrazione di una storia, quella di un impiegato appunto, che approfondisce la
contrapposizione tra due diverse realtà: “quella della classe borghese media
che, in cambio del rispetto delle regole imposte da chi ha in mano le leve del
comando, gode dei suoi stessi privilegi e la realtà del carcere, diventata qui
il simbolo dell’oppressione e della disuguaglianza. La scelta del carcere (da
parte di De André) è ovviamente formale, ai fini del racconto, e viene usata
come pretesto per indicare una situazione di collettività. Queste due situazioni hanno un punto in comune: sono due condizioni esistenziali di costrizione ma la prima necessita, per la liberazione, della legge della jungla,
l’individualismo, la lotta personale, la necessità di imparare delle regole
non scritte, dei codici di comportamento che sono appannaggio di coloro
che si dividono la torta del potere. Ed il risultato, questa liberazione, può essere soltanto una posizione personale più prestigiosa, un salto di piano, una
crescita obbligata all’interno di quelle regole: perciò da oppresso a oppressore.[...] In carcere la realtà concede invece due alternative. Ovvero, in condizioni di sfruttamento sopra una intera collettività ci sono due modi di liberarsi: uno individuale, ma bisogna abbandonare la classe alla quale si appartiene per entrare nell’altra, quella già descritta, l’altra possibilità è
quella di farlo collettivamente. Ed è proprio in una realtà collettiva che si
impara un altro modo di agire, di pensare, di gestire la propria persona tenendo conto della presenza degli altri, facendosi un tutto con gli altri fino a
– 214 –
cambiare l’io col noi, ripetendo la stessa posizione di lotta ma questa volta
con la coscienza di appartenere alla stessa classe di sfruttati”.71
La destra, il ’68 e la figura di Pier Paolo Pasolini
Per un’analisi accurata del ’68 italiano, non bisogna tralasciare di considerare l’apporto della destra alle ideologie, e ai movimenti studenteschi di
quegli anni. Si può parlare di una destra di lotta contrapposta a una destra di
ordine e di governo, quasi un “conto” da regolare in casa tra padri e figli riscaldati dalla stessa fiamma. La prima dicotomia a livello politico e ideologico, era quella tra l’establishment conservatore che guidava il MSI dell’epoca (il segretario era Arturo Michelini) e una nuova generazione di ventenni, nati dopo la guerra, che del fascismo non aveva vissuto nulla se non
quello che era stato loro raccontato dai genitori e dagli zii, ma che aveva
scelto di militare a destra in un modo nuovo rispetto ai propri predecessori.
Di fatto movimenti come “Lotta di popolo” o “Avanguardia nazionale”
prenderanno le mosse proprio dalla delusione maturata il 16 marzo 1968
con i celebri fatti di Valle Giulia e il tentativo di riportare il tricolore all’università La Sapienza. Consumata ormai la frattura con la dirigenza del MSI,
molti giovani trovarono nel periodico “L’Orologio” quello spazio negato
loro dai vertici, in sintonia con quei gruppi universitari di destra che in “Primula Goliardica” prima e nella “Nuova Caravella” poi, diedero una “spallata” all’ambiente conservatore cercando di far ascoltare non più solo ai
partiti ma alla società intera il grido di disagio che animava la contestazione
studentesca. La risposta degli ambienti missini fu l’intervento, anche fisico,
per porre fine a una situazione di rivolta che giudicarono manovrata dal
PCI. Gli scontri che infiammarono il panorama politico e studentesco del
’68 erano appena iniziati e Valle Giulia fu lo spartiacque. Gli studenti tentavano di creare schieramenti nuovi che passavano attraverso le vecchie associazioni e le spaccavano, generando, in questo modo, nei due partiti che più
avevano influenzato negativamente la politica universitaria, due atteggiamenti indecorosi, “quello del PCI” scrisse Giano Accame,72 uno degli intellettuali storici della destra italiana, “che ogni giorno si asciuga la faccia
dagli sputi dei ragazzi per correre dietro ai ragazzi stessi, e quello del MSI
71
72
Roberto Danè, Note a “Storia di un impiegato”, 1973.
Giano Accame (Stoccarda, 30 luglio 1928).
– 215 –
che ogni giorno si asciuga la faccia dagli sputi del governo, per corrergli
dietro offrendogli i propri servizi’’.
Scrive perciò Gasparetti: “Coniugando l’aspetto nazionale, di cui gli
universitari fascisti erano i maggiori sostenitori, e quello sociale, portato
avanti con maggior vigore dalla sinistra rivoluzionaria, si sarebbe potuto
creare un movimento generazionale su posizioni nazionali e sociali che,
travalicando i partiti, si sarebbe potuto collocare contro il sistema nel suo
insieme”. Fu questo “sogno sognato male”, come lo ha definito Stefano
Delle Chiaie, noto esponente della destra eversiva e della destra spiritualista, a creare occupazioni parallele e la fine del dialogo tra giovani che indossavano diverse camicie ma avevano lo stesso desiderio di celebrare la
propria avversione per una società e una politica che non era grande quanto
la loro attesa.
Un’altra voce che nel ’68 fece molto parlare di sé, assumendo una posizione equidistante sia dalla destra conservatrice che dalla sinistra progressista fu quella di Pier Paolo Pasolini, artista poliedrico che nella varietà delle
sue esperienze ha vissuto intensamente i problemi della crisi del neorealismo
in poi. Fece allora molto scalpore un testo da lui pubblicato, “Il PCI ai giovani”, dopo gli scontri di Valle Giulia, in cui sosteneva che quei giovani rivoluzionari che avevano pronunciato una condanna radicale contro i loro
padri, alzando contro di essi una barriera insormontabile, si erano perciò isolati, chiudendosi in un ghetto che impediva loro un confronto dialettico. Si
erano chiusi nel ghetto della gioventù, il loro rifiuto puro era arido e malvagio. Erano borghesi come i loro padri, non solo perché figli di borghesi,
ma perché tali nella loro visione del mondo. Anche per gli studenti, allora
minoritari, provenienti dalle classi popolari, la partecipazione alla contestazione fu il lasciapassare per approdare in seno alla borghesia trionfante:
“Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti
(che erano dalla parte del torto) erano i poveri”.
– 216 –
I giovani studenti non sono, come essi immaginavano, la luce dell’avvenire comunista; essi erano certo la luce dell’avvenire, ma di quello neocapitalista. Con essi si apriva una lotta intestina alla borghesia: questo era l’equivoco che Pasolini pensava di avere smascherato, attirandosi le critiche di
tutta la sinistra.
In polemica con Marcuse, secondo il quale gli studenti sono gli “eroi
del nostro tempo”, Pasolini intende fare una distinzione tra studenti americani e della Germania Occidentale da una parte, e studenti di Italia e Francia
dall’altra. La discriminante è data dalla presenza o meno di una cultura marxista. La qualifica di “eroi” vale solo per i paesi in cui non esiste questa cultura, mentre là dove esiste, gli studenti, secondo Pasolini, giustamente criticano un marxismo vecchio, ma da una posizione non marxista e dunque la
loro è una guerra civile e non una rivoluzione. Costoro assomigliano ai loro
padri borghesi per l’odio contro la cultura, la “coscienza dei loro diritti” e
l’aspirazione al potere:
“Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
e bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere”.
Per Pasolini gli studenti sono anticomunisti, anche se verbalmente adoperano il linguaggio marxista. Nella “Apologia” a “Il PCI ai giovani!”, Pasolini spiega come i suoi versi siano stati una provocazione. Il pezzo sui poliziotti sarebbe un pezzo di ars rethorica, una captatio malevolentiae,
dunque appunto una provocazione. “Trasumanar e organizzar”, un libro di
poesie scritto tra il 1968 e il ’71, è in gran parte dedicato alla critica della rivolta studentesca. Gli studenti formano ormai la nuova opinione pubblica,
ma ogni opinione pubblica è sede di Terrore: “il grido estremistico / li salva
come una medicina che fa tacere la realtà”. Pasolini aveva criticato e criticava il PCI per il suo stalinismo e il suo conformismo, e tuttavia egli si sentiva sempre legato ad esso per un patto di lealtà verso gli operai e dunque
verso il loro partito, anche se ormai era diventato una istituzione. Anche gli
studenti contestatori criticarono aspramente il PCI, ma con una opposizione
netta e quindi non dialettica. Anche in questo Pasolini sospetta la natura
borghese di questa rivolta. La novità eretica dei contestatori è in realtà una
nuova ortodossia con le sue alleanze cameratesche, il disprezzo esaltato
contro gli infedeli, la stereotipia, il tono predicatorio, il moralismo, il ricatto
nel nome della lotta dei giusti: il tutto perfettamente codificato e prevedi– 217 –
bile. Mirano alla purezza originaria del pensiero con le loro rivolte “dirette
da una segreta ansia di ordine”. E per ortodossia Pasolini intende il fanatismo, la voglia di uniformità e l’odio per i diversi, tutte cose che il poeta
assimila allo spirito borghese. Gli studenti vogliono instaurare una nuova
Chiesa coi suoi riti e i suoi anatemi.
La rivolta del ’68 è stata una falsa rivoluzione, che si è presentata come
marxista, ma in realtà non era altro che una forma di autocritica della borghesia, che si è servita dei giovani per distruggere i suoi vecchi miti divenuti obsoleti. La rivoluzione neocapitalistica era già avvenuta nella struttura; ora bisognava che fosse perfezionata la rivoluzione a livello sovrastrutturale-culturale: questa è la più feroce critica di Pasolini al ’68. Per rivoluzione neocapitalistica si intende il passaggio all’omologazione consumistica: non più le vecchie culture (contadina, borghese, proletaria ecc...),
bensì un’unica cultura, quella del consumo ed anzi di identici consumi per
tutti, così da produrre il livellamento e la fine della critica.
Ogni gioventù ha diritto alla ribellione. Ma questi giovani contestatori
hanno avuto solo l’illusione della ribellione, hanno già trovato la strada
spianata da coloro (la vecchia borghesia che si stava riorganizzando per approdare al neocapitalismo) che volevano contestare la tradizione. Quindi la
rivolta non fu provocata da questi giovani, ma fu instillata in loro dai padri,
o meglio dalla nuova cultura neocapitalistica. Erano i padri che volevano
farla finita col loro passato, con la loro storia. Il capitalismo aveva bisogno
di mutare radicalmente, e strumentalizzò i suoi figli per raggiungere l’obiettivo. Fu una ribellione voluta dall’alto e i ribelli ingenui vi si buttarono furiosamente pensando di esserne i veri promotori. Queste critiche alla contestazione studentesca non impedirono a Pasolini di scorgervi anche gli elementi di positiva novità. Egli volle sempre un confronto-scontro con gli studenti. Addirittura nel 1971 fu per tre mesi direttore responsabile di Lotta
Continua, quando questo giornale ne fu momentaneamente sprovvisto, a
causa di condanne per reati d’opinione dei precedenti direttori. Nel 1972
Pasolini girò anche un film-documentario assieme a Lotta Continua: “12 dicembre”, un excursus sull’Italia di quel momento. Sulla questione di Piazza
Fontana, Pasolini si schiera coi gruppi extraparlamentari contro la tesi governativa degli “opposti estremismi” tendente a equiparare i gruppi di
estrema destra e di estrema sinistra come responsabili di quell’attentato terroristico e di tanti altri. È anche dell’avviso che gli studenti hanno svegliato
dal sonno i sindacati ed hanno aiutato le lotte operaie, pur con le limitazioni
sopra osservate. Il Movimento Studentesco ha anche riattualizzato la lotta di
– 218 –
classe, riprendendone temi che andavano scolorendo. Insomma, se soggettivamente gli studenti potevano anche essere convinti di essere dei rivoltosi,
oggettivamente erano incanalati nella trasformazione neocapitalistica
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“Informativa di Libero Mazza al ministro Restivo”, ACS, 13 aprile 1970,
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– 219 –
CAPITOLO III
ANNI DI PIOMBO:
RESPONSABILITÀ PRESENTI E PASSATE
In questo capitolo intendiamo trattare la degenerazione del Sessantotto
in quegli anni bui in cui lo Stato si presentava particolarmente fragile e soggetto a molteplici attacchi.
Non fu affatto scontato il volgersi degli eventi che portarono alle stragi
ed al terrorismo; se è vero che il governo Rumor era del tutto impreparato
ad affrontare l’ondata di agitazioni, è vero ancor più che il MSI e le forze
più conservatrici (anche una parte della DC) chiedevano un governo
“forte”, denunciavano l’apertura a sinistra della DC e l’incipiente pericolo
rivoluzionario. Forze eversive di destra iniziarono a tessere le “trame nere”
decise a provocare il collasso della democrazia con l’appoggio mascherato
di ambienti conservatori di vario tipo, e probabilmente con la connivenza
dei servizi segreti. Quello che fu definito terrorismo “nero” o più ampiamente “strategia della tensione”, aveva opposta matrice ideologica rispetto
a quello di sinistra, “rosso”, e diverso aveva il modo di operare: è bene distinguere. Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati
dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, con
lo scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria.
Dopo la strage di piazza Fontana del 1969 fu la volta delle bombe in Piazza
della Loggia a Brescia nel maggio del ’74, quelle sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno e l’attentato alla stazione di Bologna con oltre ottanta morti nell’agosto ’80. La ragionevole convinzione che si poteva trarre
riguardo alle responsabilità delle stragi attribuibili ad esponenti della destra
eversiva, pur confortata da riscontri investigativi, non ha ancora trovato
nella maggior parte dei casi una conferma della magistratura giudicante. Al
potere politico spetta a nostro parere la responsabilità di non aver saputo indirizzare l’azione dei servizi di sicurezza e di non aver posto alcun rimedio
alla loro inefficienza e alle loro specifiche deviazioni. Ma noi abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione sul terrorismo di sinistra, protagonista indiscusso di quegli anni, sulle Brigate Rosse, cui si affiancarono, fra
il ’75 ed il ’76, i Nuclei Armati Proletari e Prima linea.
L’immagine di uno stato debole minato da corruzione politica, la presenza di un terrorismo di destra e la psicosi di un colpo di stato, nonché il
mancato riscontro sul piano governativo di molte delle richieste e delle
– 220 –
aspirazioni che avevano caratterizzato il movimento del ’68 alimentavano
in alcuni settori la giustificazione di una risposta violenta e furono tra i
primi fattori che contribuirono alla nascita del terrorismo dì sinistra. In
realtà ci sembra che il principio della lotta armata fosse da tempo un elemento portante di tutte le ideologie estremiste rivoluzionarie che il ’68
aveva contribuito a divulgare e a mitizzare. Ma allora per la prima volta,
anche per la suggestione dei modelli della guerriglia latino-americana (la
diffusione del mito del puro capo rivoluzionario Che Guevara) e del terrorismo palestinese, si formarono nuclei organizzati pronti a mettere in pratica
quella che fino ad allora era rimasta solo prospettiva teorica. La lotta armata
e la clandestinità apparvero a molti come una scelta di vita totale, un’esperienza eccezionale. Se è vero che in quegli anni si attuò un progressivo distacco dei gruppi estremisti dalle esigenze concrete del resto del paese (in
particolare ci riferiamo alla mancanza di comunicazione con il movimento
operaio da parte di questi ultimi), tuttavia i brigatisti si chiusero progressivamente in progetti difficilmente attuabili preferendo la via del sangue, la
via dell’azione immediata al gradualismo di un progetto politico riformista
da sinistra. Per i terroristi, giovani e giovanissimi provenienti dalla militanza nelle file dell’ex Movimento Studentesco, dei gruppi extraparlamentari, degli stessi partiti della sinistra storica, l’azione armata si presentava
come un atto esemplare, destinato, loro pensavano, essenzialmente alla
classe operaia al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema capitalistico e dello stato borghese. Ai primi isolati attentati incendiari seguirono
tra il ’72 il ’75 sequestri di dirigenti industriali e di magistrati (il più clamoroso fu quello del giudice Mario Sossi nell’aprile del ’74). Nel 1976, con
l’uccisione del procuratore generale di Genova, Francesco Coco, si giunse
all’assassinio programmato che mirava a colpire personalità eminenti, simboli veri e propri della realtà politica contemporanea.
Ecco che un fenomeno che nelle sue prime manifestazioni fu giudicato
un fatto episodico e sostanzialmente estraneo al tessuto civile del paese, doveva restare per tanti anni un elemento permanente e disgregante della vita
politica italiana. Ci proponiamo di sostanziare il nostro approfondimento
con articoli e interviste reperite dai giornali di quegli anni e dalla celebrazione decennale a questi eventi attribuita dai quotidiani. Tra l’altro l’argomento è quanto mai attuale se consideriamo la pubblicazione del libro del
figlio del commissario Calabresi “Spingendo la notte più in là” che ci ha
fatto porre interrogativi e spinto alla riflessione sull’“altro modo possibile”
di vedere quegli anni: dalla parte delle vittime.
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Gli anni di piombo
Con “anni di piombo” si intende in Italia quel periodo, coincidente
grosso modo con gli anni settanta, in cui l’insoddisfazione per la situazione
politico-istituzionale, caotica, si tradusse in violenza di piazza prima e, successivamente, in lotta armata, perpetrata da gruppi organizzati che usarono
l’arma del terrorismo nell’obiettivo di creare le condizioni per influenzare o
sovvertire gli assetti istituzionali e politici del Paese. Gli storici sono concordi nel considerare la nascita di tale fenomeno, in Italia, con la strage di
Piazza Fontana; l’ultimo caso è recente e riguarda una colonna delle Brigate
Rosse attiva ancora negli anni 2000.
Nell’immaginario collettivo molti associano questo periodo alle imprese di alcune organizzazioni extraparlamentari di sinistra, come Lotta
Continua o il Movimento Studentesco o altre attive negli anni ’70, o terroristiche come Prima Linea e le Brigate Rosse o altre, ma in quel periodo agirono anche molti gruppi di estrema destra, come i NAR e Ordine Nero, che
contrapponendosi a quelli di estrema sinistra, scrissero una pagina particolarmente cruenta del Terrorismo nero.73 Il termine anni di piombo è posteriore (deriva probabilmente dal titolo di un film di Margarethe Von Trotta).
A quei tempi era usato dagli organi di informazione il termine di “opposti
estremismi”.74 I violenti scontri di piazza, la lotta armata, e i tragici eventi
di questi anni avevano certamente un minimo comune denominatore: la
lotta contro la forma politica pro-tempore della società. Prevalenti in questi
anni furono le spinte in direzione di un modello marxista-leninista che prevede l’azione di una avanguardia rivoluzionaria per dare inizio ad un cambiamento della società in senso comunista. Per alcuni si è trattato di anni di
“terrorismo di sinistra”, per altri di “stragismo di destra”, per altri ancora di
“stragismo di stato”. Altre posizioni ritengono che al riguardo “esista solo
una verità giudiziaria parziale, confusa e spesso contraddittoria”.75
L’economia italiana era cresciuta rapidamente ed il miglioramento del
tenore di vita era percettibile. La mortalità infantile si era fortemente ridotta.
La popolazione cresceva. L’analfabetismo era praticamente scomparso. La
73 Leonard Weinberg, “Italian Neo-Fascist Terrorism: A comparative Perspective”, in
“Terror form extreme right”, Tore Bjǿrgo, 1995.
74 Annate del stampate nel periodo.
75 Sandro Provvisionato, “Anni di piombo: parte male il dibattito sul superamento”, in
Misteri d’Italia, 97, 2005.
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continua crescita del Partito Comunista Italiano sicuramente non era vista di
buon occhio negli USA, che valutarono il passaggio a forme d’intervento più
incisive, rispetto al precedente finanziamento della sinistra non comunista.76
Il 1969 fu un anno ancora denso di contestazioni. Dopo le proteste studentesche arrivarono le lotte dei lavoratori per i rinnovi contrattuali, con forti contrasti nei posti di lavoro e nelle fabbriche. Era il cosiddetto “autunno caldo”.
Il 25 aprile avvengono due attentati a Milano che provocano 20 feriti e il 9
agosto avvengono otto attentati in Italia con 12 feriti. Il 19 novembre, durante una manifestazione a Milano dell’Unione Comunisti Italiani (marxistileninisti) muore l’agente di polizia Antonio Annarumma, colpito da un tubo
d’acciaio lanciato dai manifestanti, mentre guida un mezzo. Il 12 dicembre
avvengono in Italia nell’arco di 53 minuti 5 attentati.
Il 1969
Tutte le vocazioni del movimento sessantottino italiano sembrarono
esplodere assieme a quella bomba il 12 dicembre 1969 a Milano in piazza
Fontana. La serie di attentati terroristici che quella deflagrazione portò con
sé lasciava intendere un piano organizzato per destabilizzare l’assetto democratico del paese sotto la costante minaccia del panico. Da quel momento in poi “non sarebbe più stato tempo di sogni”,77 umbratili poteri
erano all’opera, e tramavano per attribuire alla sinistra la responsabilità
della tragedia. Ma la colpa dell’accaduto ricadde su di un capro espiatorio:
la frangia anarchica, in particolare Pietro Valpreda. La sinistra rispose quasi
immediatamente mobilitando cortei e stampa, additando in tutta risposta i
gruppi fascisti eversivi desiderosi di fermare il movimento operaio e la democrazia ricorrendo alla violenza e al crimine.
Come risposta a tali affermazioni il MSI ribadì violentemente le accuse
alla sinistra. L’Italia si trovava nel pieno dello scenario caratteristico della
guerra fredda: quello in cui uno stato invisibile si sovrapponeva a quello già
esistente gettando la sua “longa manus” per soddisfare i propri interessi:
bloccare l’avanzata del comunismo nel Paese. Tutti gli attentati del periodo
immediatamente successivo al ‘68 avevano come modello la strage di
piazza Fontana; la stagione comportò la deformazione irreversibile dei caFrances Stonor Saunders, “La Guerra Fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e
delle arti”, Fazi, Roma, 2004.
77 Giuseppe Carlo Marino, “Biografia del Sessantotto”, Bompiani, Milano, 2004.
76
– 223 –
ratteri del movimento sessantottino. Infatti la dinamica di polarizzazione
delle forze politiche stava facendo in modo che gli studenti fossero espropriati dell’ideologia che avevano faticosamente costruito, per andare a fomentare qualcosa di ben lontano dagli obiettivi del movimento studentesco
stesso. Dopo piazza Fontana il Sessantotto, per quanto gli studenti avessero
continuato a ritenersi i protagonisti, non sarebbe più appartenuto a loro, in
quanto il loro ruolo sarebbe stato ben diverso da quello rivestito in passato.
Il clima di tensione stava fermentando: a giudicare dai documenti delle
autorità statali erano aumentati a dismisura fenomeni quali aggressioni
contro nemici (veri o presunti) da parte di giovani, professori, operai, e femministe radicali; dalla parte opposta (la destra) giunse presto la delusione per
il fallimento del golpe del principe Borghese alimentato dalla voglia di
scontro da parte dei più fanatici esponenti della destra stessa. Senza dubbio,
dunque, l’epoca che seguì il Sessantotto, fu caratterizzata da scontri insanabili innescati da numerose micce da una parte o dall’altra. La destra avrebbe
sfruttato il terrore instauratosi, additando i comunisti come i responsabili, per
sovvertire l’ordine costituito dando più potere alle forze dell’ordine seriamente provate dagli scontri con le folle “rosse”; la sinistra invece avrebbe
continuato ad indicare come unica a soffiare sul fuoco del terrorismo la destra, fomentatrice di violenze e di disordini. La democrazia sembrava minacciata, e la sinistra tutta si spinse a controffensive ad eventi quali la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli vittima, forse, di un interrogatorio inumano. E
sempre di più alle proteste si aggiungevano iniziative aggressive di diverso
genere, che con tutti quei fatti avevano poco a che spartire. Inoltre la sinistra
lamentava una condizione di repressione reazionaria, di involuzione del sistema in senso fascista, comportamento adottato effettivamente dal governo
e dalle pubbliche autorità verso coloro i quali partecipavano agli scioperi e
alle manifestazioni. “È testé iniziata in Italia, da parte del governo, della
magistratura, e della polizia, un’attività feroce di repressione che tende a
colpire ingiustamente i lavoratori e gli studenti che nell’autunno caldo si
sono battuti per tirare avanti una dura battuta d’arresto nell’intento di risolvere i numerosi problemi di carattere economico e sociale che interessavano
una larga schiera di cittadini”: tali cose diceva Alessandro Galante Garrone
riguardo al fenomeno della repressione attuata dal governo.78
A. Galante Garrone (Vercelli, 2 dicembre 1910 - Torino, 1997), magistrato (a partire dal
1935), avvocato (dal 1953), prefetto della sua città natale e senatore (eletto nel ’68 come indipendente di sinistra in una lista unitaria), nonché autore, sotto lo pseudonimo di Isidoro Pagnotta,
78
– 224 –
Tra le agitazioni e le occupazioni, le scuole non fecero altro che rimpolpare le fila dei giovani nei cortei sindacali e nelle varie manifestazioni di
piazza. La contestazione procedeva “a singhiozzo” mossa ora da richieste
utilitaristiche, ora da istanze politiche contro la repressione, che sfociavano
spesso in iniziative rischiosamente violente di stampo anti-capitalista come
nel caso del febbraio ’69, quando da un corteo nato per protestare contro il
quotidiano “Il Tempo” lanciarono una bottiglia molotov contro la sede del
giornale. Tuttavia i “nemici” del movimento giovanile erano diventati
sempre di più: alla destra si erano aggiunti i riformisti moderati della sinistra stessa. L’esplosione di alcuni ordigni alla base del monumento ai caduti
di tutte le guerre spinse i fascisti a imbrattare la lapide commemorativa
delle “Quattro giornate” a Capodimonte, e a lanciare bottiglie incendiarie
nel cortile del Liceo Percalli di Napoli nel 1969; con il pretesto di aiutare le
forze dell’ordine si muovevano, armati e violenti, contro i residui di contestazione studentesca. Ma è importante sottolineare che la violenza era usata
in parti uguali da ciascuna delle due fazioni, se pensiamo che i rapporti
della polizia riferiscono che gli anarchici utilizzavano sbarre metalliche invece dei vecchi bastoni, forse troppo fragili, o troppo poco all’avanguardia,
poi adottate da tutti indifferentemente. A muovere le fila del movimento non
era più la frattura generatasi tra studenti e autorità accademiche, ma teppismo politico. Inoltre diversi professori furono bersagli di violenze per le
loro idee politiche, ma questo tipo di atti violenti, perlopiù “pugni e
schiaffi”, si andava diffondendo dalle scuole al terreno politico. Le forze
politiche di destra miravano a sostenere l’ordine per ricevere appoggio dal
governo, mentre la polizia era quasi connivente con i gruppi di provocatori.
La dinamica del conflitto sociale fu resa tumultuosa non solo dalle
ideologie sessantottine ma anche da questioni di natura pratica come le questioni del lavoro e i diritti civili. Nel frattempo, l’influenza della sinistra si
espanse fino a comprendere la magistratura, con diversi magistrati giovani
che inaugurarono la storia di Magistratura Democratica formando diversi
comitati per la difesa delle libertà costituzionali per contrastare la repressione. Il Movimento Studentesco, invece, continuava a far presente la necessità di distinguere tra violenza liberatrice e lotta di classe, dichiarando di
voler preparare tutto il necessario perché i militanti potessero legittimadi una divertente raccolta delle contraddittorie affermazioni di Mussolini durante il ventennio
fascista dal titolo: “Viva il capomastro”. Le parole sono così riportate in un rapporto del prefetto
di Ferrara al ministro risalente al 9 febbraio 1970.
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mente difendersi dalle provocazioni dei fascisti e della polizia connivente,
legittimando così l’uso della forza. Il Movimento Studentesco promosse
uno sciopero per l’abolizione delle norme penali contrastanti con le libertà
sindacali in un’ottica tuttavia decisamente riformista e con una partecipazione del 70%, in base ai rapporti ufficiali delle prefetture, rivelando una
grande sensibilità ai grandi temi politici da parte del movimento operaio, ed
inaugurando una tendenza che tenterà di volgere a vantaggio dei riformisti
lo sciopero generale. Ma le manifestazioni diventarono violente in poco
tempo a causa della frequente infiltrazione di fomentatori e provocatori all’interno delle fila dei diversi cortei, mentre anche gli estremisti di sinistra
iniziavano a volgersi alla violenza gridando slogan agghiaccianti come:
“uccidere un fascista non è un reato” insieme all’altro più frequente: “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”.
Le Erinni,79 dunque, stavano dettando il loro linguaggio, traducendo in
foschi messaggi d’odio le passioni politiche dei due fronti, e accentuando
negli estremisti la tendenza a considerare lo sciopero, ben al di là della piattaforma rivendicativa degli operai, come un’occasione di intrepida e dura
testimonianza ideologica.
Mentre si moltiplicavano in tutta Italia i Comitati di base contro la repressione e i Centri unitari di cultura democratica, organizzazioni legate ai
partiti istituzionali, gli extraparlamentari di sinistra erano soliti considerare
proprio quest’intera gamma di iniziative, proteste, manifestazioni pubbliche
e scioperi organizzati dalla Triplice sindacale o dai partiti della sinistra ufficiale come subdoli tentativi dei riformisti, dal PSI al PCI, di strumentalizzare un’azione di massa che si sarebbe dovuta attribuire soltanto all’iniziativa e alla capacità di pressione delle avanguardie rivoluzionarie, in sostanza un tentativo di svilire le istanze rivoluzionarie del ’68. Su questo
tema, i vari gruppi di extraparlamentari impiantarono un recitativo ininterrotto che era il loro specifico modulo di propaganda per tentare di fare proseliti nelle fabbriche e fuori: i militanti di Lotta Continua incitavano gli
scioperanti a “isolare i burocrati dei partiti e dei movimenti politici (soprattutto i “falsi marxisti” del PCI e del PSIUP), accusandoli di essere i primi a
scappare durante gli scontri con la polizia”. Loro, invece, quegli scontri li
propiziavano”per far saltare la pace sociale” invocata dai ceti imprenditoÈ Giuseppe Carlo Marino a fornirci questa efficace metafora, mutuata dall’antichità classica, per definire i fomentatori delle violenze dei primi anni di piombo: le Erinni, esseri mitologici, personificazioni dell’odio da cui scaturisce il male fisico e morale.
79
– 226 –
riali e sostanzialmente avallata dal sindacato e dalla sinistra istituzionale
con “manifestazioni pilotate”.
Il clima era normalmente quello di una società invelenita e in affanno,
nella quale la voglia di testimoniare una presenza civile e politica era costantemente insidiata dal tentativo delle avanguardie di strumentalizzarla ai fini
di violenza, in nome di deliranti propositi rivoluzionari. Infatti la tendenza a
considerare le manifestazioni di piazza come un allenamento alla guerriglia
urbana era ormai dominante tra gli estremisti di sinistra e di destra.
Per loro, quasi per un processo di autoinduzione delle lotte, si stava
aprendo la terribile e angosciante stagione dell’odio e del terrore.
Le stragi
Il 12 dicembre 1969 si scrisse una delle pagine più tragiche e drammatiche della storia della Repubblica: la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura presso piazza Fontana a Milano fu sconvolta dalla deflagrazione
di un ordigno che provocò la morte di numerosi innocenti. L’articolo
scritto da Fernando Strambaci, giornalista de “L’Unità”, in un suo articolo,
pubblicato in data 13 dicembre 1969, rappresenta una fonte interessante
per comprendere i tragici eventi: “Tredici morti e un centinaio di feriti per
un criminoso attentato fascista alla Banca Nazionale dell’Agricoltura
nella centralissima piazza Fontana. Tra le 16,15 e le 16,30 un boato violentissimo ha squassato l’aria. Dalla porta della Banca dell’Agricoltura si
è visto gente uscire di corsa e cadere a terra, mentre un fumo acre si diffondeva nella piazza. Alle prime persone accorse nella banca si è presentato uno spettacolo allucinante: decine di corpi sanguinanti, alcuni ridotti
letteralmente a brandelli, sedie e tavoli rovesciati, documenti sparpagliati
dappertutto”.
Altre drammatiche stragi furono compiute in questi anni:
• 28 maggio 1974: Strage di Piazza della Loggia a Brescia;
• 4 agosto 1974: Strage sull’espresso Roma-Brennero (Italicus);
• 2 agosto 1980: Strage della stazione di Bologna.
Stragi che apparvero insensate e talvolta senza colpevoli: riguardo ad alcune di esse non vi è tuttora certezza sugli esecutori, e in nessun caso risultano noti i nomi di eventuali mandanti. Emblematico il processo per la strage
di piazza Fontana a Milano, al termine del quale (maggio 2005) ai parenti
delle vittime sono state addebitate le spese processuali.
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Pier Paolo Pasolini, quasi certamente in chiave provocatoria, dichiarò di
conoscere i mandanti delle stragi, pur non avendo prove:80 “Io so i nomi dei
responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie
di golpe istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei
responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei
responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974”.
Gli opposti estremismi
Nascono organizzazioni come i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), i
Nuclei Armati Proletari (NAP), Prima Linea (PL), i Comitati Comunisti
Rivoluzionari (Co.Co.Ri.), i Proletari Armati per il Comunismo (PAC), le
Brigate Rosse (BR), a sinistra, ed i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Ordine Nuovo, Ordine Nero, Terza Posizione, Avanguardia Nazionale a destra.
Il livello dello scontro si alza nel quadro di quella che verrà poi definita la
strategia della tensione. Si genera un clima di insicurezza e pericolo. Non
solo attentati clamorosi, ma uno stillicidio continuo di attentati contro obiettivi minimi: singoli cittadini, agenti delle forze dell’ordine, fattorini di
banca, vengono assassinati, in esecuzione di condanne a morte decise da
menti misteriose. Nelle manifestazioni di piazza molti manifestanti si presentano mascherati, spesso armati di spranghe, chiavi inglesi, talvolta di
bombe incendiarie, talvolta di pistole, le famose P38. In questa logica una
fetta crescente dei cittadini, non solo appartenente all’elettorato tradizionalmente “conservatore”, si prepara, rassegnata, ad accettare una risposta di
tipo “militare” da parte dello Stato, e a giustificare l’emanazione di leggi
sempre più “speciali”. La democrazia italiana, ancora fragile e immatura, fa
un passo indietro ed il paese si trova ad un passaggio cruciale della sua
storia, tuttavia necessario per la salvezza della democrazia in pericolo.
Si affaccia la teoria degli “opposti estremismi” (che in Italia avrà una
grande fortuna per tutti gli anni ’70), secondo cui di fronte al rischio che sia
la destra, sia la sinistra contengano dentro di sé degli aspetti estremistici e
pericolosi per la democrazia, i partiti democristiani (che si autoproclamano
di centro, quindi equidistanti dalle posizioni estreme e indisponibili a collaborare con queste) sono quasi gli unici partiti realmente in grado di gover-
80
Pier Paolo Pasolini, Io so, articolo pubblicato sul Corriere della Sera, 1975.
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nare in maniera democratica e senza essere potenzialmente pericolosi per il
mantenimento della democrazia stessa.
Le leggi speciali
I partiti di governo – la Democrazia Cristiana, il Partito Socialdemocratico, il Partito Repubblicano, il Partito Liberale e il Partito Socialista – rafforzati dal sostegno del Partito Comunista, trovarono l’intesa politica per
elaborare una serie di leggi per far fronte alla situazione di crisi che il paese
stava vivendo. La cosiddetta “emergenza terrorismo” provoca una involuzione poliziesca dello Stato italiano, con una diminuzione delle libertà costituzionali ed un ampliamento della discrezionalità delle forze di polizia. Il
Parlamento nel 1975 approvò un disegno di legge che autorizzava la polizia
a sparare nei casi in cui ne ravvisasse necessità operativa. Nel 1978 seguirà
l’istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri ed il NOCS (Nucleo Operativo Centrale
di Sicurezza) della Polizia. Nel 1980 viene emanata la cosiddetta “legge
Cossiga” (Legge n. 15 del 6 febbraio 1980) la quale prevede condanne sostanziali per chi venga giudicato colpevole di “terrorismo” ed estende ulteriormente i poteri della polizia.
Il 1972
Il 14 marzo 1972 venne ritrovato il corpo dell’editore Gian Giacomo
Feltrinelli dilaniato da un’esplosione mentre stava realizzando un sabotaggio
ai danni di un traliccio dell’alta tensione a Segrate nei pressi di Milano. Per
la ricostruzione della scena della tragedia sfruttiamo un articolo tratto da
“L’Unità” del 17 marzo 1972 di Ilbio Paolucci: “L’uomo trovato dilaniato
da una esplosione sotto un traliccio dell’alta tensione nelle campagne di
Segrate presso Milano, è l’editore e industriale Gian Giacomo Feltrinelli. Il
riconoscimento della salma è stato fatto stasera all’obitorio di Milano, alle
ore 23,30, dalla ex moglie Inge Schoental, alla presenza del sostituto procuratore Pomarici, del capo dell’ufficio politico della questura Allegra e del
maggiore dei carabinieri Rossi. Il riconoscimento, come abbiamo detto, è
avvenuto a conclusione di una giornata convulsa, in cui le notizie e le smentite si sono intrecciate in un ritmo frenetico. Già però due elementi avevano
praticamente resa sicura la notizia che si trattasse di Feltrinelli: le fotografie dell’ultima donna, Sibilla Melega, con la quale Feltrinelli conviveva e
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del figlio Carlo in una tasca del cadavere; il riscontro, peraltro dubbio, delle
impronte digitali. La notizia esplosa verso le 10 del mattino e accolta, in un
primo momento, con profondo scetticismo da tutti, è risultata sempre più attendibile man mano che passavano le ore. Assieme all’intrecciarsi frenetico
delle telefonate cominciavano a sorgere anche i primi inquietanti interrogativi: perché mai un uomo ricco, un miliardario, come Feltrinelli si sarebbe
recato da solo a piazzare dinamite sotto un traliccio? La fotografia pubblicata dai giornali, ripresa da quella della carta di identità con il falso nome
di Vincenzo Maggioni, 46 anni, veniva girata da tutte le parti, e c’era naturalmente chi giurava che essa fosse somigliantissima a quella dell’editore e
chi invece sosteneva a spada tratta il contrario. Ma, intanto, nell’ufficio del
procuratore capo della Repubblica De Peppo si trattenevano, per un’ora almeno, il comandante del gruppo carabinieri colonnello Petrini col maggiore
Rossi, presenti anche il capo dell’ufficio politico della questura Allegra e
il commissario. Uno dei magistrati pressato dai giornalisti che facevano
esplicitamente il nome di Feltrinelli, ha detto ufficialmente «Non possiamo
ancora dire nulla su una vicenda che non si può ritenere ufficialmente ancora
conclusa. Mi rendo conto che ciò è ridicolo, perché si tratta di una circostanza che ormai sembra che tutta l’Italia conosca. Ma per il momento, ripeto, non si può ancora dire nulla». È una dichiarazione che riferiamo
perché può servire a dare il clima creatosi attorno alla sensazionale notizia.
Fra le prime reazioni alla clamorosa notizia vi è stato un comunicato firmato oltre che dalla casa editrice e dalle librerie Feltrinelli da alcune personalità milanesi e dal Movimento studentesco. In esso si afferma che Feltrinelli è stato assassinato.
Tale comunicato è stato distribuito nel pomeriggio di oggi all’Università statale dal Movimento studentesco nel corso di una assemblea. Ecco
il testo: «Gian Giacomo Feltrinelli è stato assassinato. Dalle bombe del
25 aprile si è cercato di accusare l’editore di essere il finanziatore e l’ispiratore di diversi attentati attribuiti agli anarchici. Il potere politico, il governo,
il capitalismo internazionale avevano bisogno di un mandante. Non era possibile che un gruppo di anarchici potesse essere considerato organizzatore
ed esecutore esclusivo di un disegno criminoso che ha portato alla strage di
stato. Feltrinelli era il mandante ideale: amico di Fidel Castro, legato idealmente al movimento di liberazione dell’America Latina, uomo coerentemente di sinistra. Per di più la sua ricchezza e la sua posizione sociale ne
facevano il personaggio ideale con cui chiudere in pace la coscienza dei
benpensanti italiani».
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L’accusa, come si vede, è esplicita. Di essa si è parlato anche nel corso
di un incontro col sostituto procuratore Antonio Bevere, il quale si è stretto
nelle spalle. Questo scambio di battute con i giornalisti – una specie di
conferenza stampa – c’è stato alle 19 di oggi, nella sede del Comando dei
carabinieri, dove si è svolto il «vertice» di cui abbiamo detto.
È stato anche chiesto al magistrato se poteva precisare l’ora esatta
della morte: ha detto di non saperlo con precisione, ma di ritenere che
l’uomo sia morto mentre, a cavallo di un traliccio, sistemava un tubo di dinamite. Il cadavere era molto rigido; una gamba era lontana venti metri dal
corpo. A questo proposito era circolata la voce, poi smentita, ma raccolta
dal quotidiano torinese «La Stampa» che i carabinieri avrebbero rimosso il
corpo prima dell’intervento – prescritto dalla legge – del magistrato.
Questa, al momento in cui scriviamo, la cronaca convulsa del fatto sensazionale, in cui molti sono gli elementi tali da suscitare gravi interrogativi.
L’ipotesi che viene avanzata è che Feltrinelli sia stato ucciso e poi portato
sotto il traliccio. Mancano finora elementi di fatto a sostegno di tale gravissima ipotesi. Anche l’immediata presenza sul posto di elementi del servizio
segreto di controspionaggio (SID) resa nota da diversi quotidiani non può
da sola assumere un significato tanto grave”.
Il personaggio Feltrinelli è legato a storie complesse e non sempre
chiare. Su taluni suoi atteggiamenti pseudo-rivoluzionari, improntati ad una
logica inaccettabile, abbiamo avuto modo, nel passato, di esprimere il nostro giudizio severo. Ma ora si dice che sarebbe andato a piazzare dinamite
sotto un traliccio allo scopo ovvio di alimentare il clima di tensione tanto
caro e tanto utile alle forze della destra. Per questo - ripetiamo - la nostra richiesta è che al più presto si faccia luce su questo episodio che, in ogni
caso, si inserisce nel clima torbido voluto dalle forze politiche interessate
specialmente in periodo elettorale a provocare un’atmosfera di disordine e
di confusione nel Paese. Nel corso delle indagini seguite all’attentato di
Piazza Fontana del 1969, un esponente dei movimenti anarchici milanesi, il
ferroviere Giuseppe Pinelli, fu convocato in questura per accertamenti. Pinelli vi fu trattenuto per tre giorni consecutivi e venne sottoposto ad estenuanti interrogatori, in violazione del limite legale del tempo, per verificare
il suo alibi, inizialmente impreciso. Il 15 dicembre 1969, Pinelli precipitò
dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, uno degli incaricati delle indagini sul caso, giacendo morto sul selciato. Nella stanza non
era presente in quel momento il commissario, chiamato a rapporto dal suo
superiore, ma vi erano 5 addetti alle forze dell’ordine, che continuavano
– 231 –
l’interrogatorio. Nei confronti del commissario l’estrema sinistra, valendosi
di una notevole forza nei media, mise in atto una lunga campagna di isolamento, con calunnie e minacce. Furono inventati di sana pianta rapporti con
servizi stranieri ed altri elementi chiaramente falsi, tendenti a isolarlo. Il settimanale “L’Espresso”, in tre successivi numeri apparsi in edicola a partire
dal 13 giugno 1971, pubblicò un documento cui diedero la propria adesione
800 intellettuali. Tale documento, tra l’altro, definiva il commissario Luigi
Calabresi «un torturatore», lo accusava quale «responsabile della morte di
Pinelli» e chiedeva di ricusare i «commissari torturatori, i magistrati persecutori, i giudici indegni».
Tali accuse erano infondate, ma pochi ebbero il coraggio di ritirare la
loro adesione, sia pure a distanza di anni. Tra i firmatari c’erano artisti, registi, editori, giornalisti, politici, accademici, filosofi, scienziati, sindacalisti
e, in generale, molti tra i più noti esponenti della società e della cultura italiana del tempo. Questi sono solo alcuni dei firmatari del manifesto: Giorgio
Bocca, Umberto Eco, Norberto Bobbio, Furio Colombo, Natalino Sapegno,
Eugenio Scalfari, Giulio Carlo Argan, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Alberto Bevilacqua, Paolo Mieli.
Sulla dinamica degli eventi interessante è l’articolo tratto da”L’Unità”
del 18 maggio 1972 di Ennio Elena.
“Ancora una criminale provocazione, ancora Milano: ieri alle 9,15
Luigi Calabresi commissario capo, funzionario dell’ufficio politico della
questura, personaggio-chiave dell’“affare” – è stato ucciso a rivoltellate
sotto casa, in via Cherubini 6, nella zona di Porta Magenta. Ecco, nella
ricostruzione fatta dalla polizia, l’attentato, compiuto con la spietata efficienza dei “killers” di mestiere. Poco dopo le 9 una “125” blu con l’antenna radio alzata imbocca via Cherubini proveniente da corso Vercelli.
L’auto procede lentamente, passa davanti allo stabile numero 6, di fronte
al quale è parcheggiata “a pettine” contro lo spartitraffico la “500” blu
di Calabresi, targata MI A69411. Sulla “125” ci sono due persone: l’autista e l’uomo che gli siede al fianco danno un’occhiata in giro e la macchina prosegue in direzione di via Mario Pagano. Giunta al termine dello
spartitraffico l’auto svolta a sinistra e torna a percorrere via Cherubini
dalla parte opposta. All’altezza di via Giotto la “125” urta di striscio,
sorpassandola, una “Simca” appena immessasi in via Cherubini. Il conducente dell’auto investita si ferma, sorpreso (secondo un’altra versione
lo scontro sarebbe avvenuto dopo il delitto): la “125” prosegue, accelerando leggermente, giunge in fondo alla strada, piega a sinistra, ritorna
– 232 –
sul lato dove si trova l’abitazione del commissario Calabresi. Luigi Calabresi attraversa il portone e saluta l’uomo delle pulizie, Benedetto Vasi di
60 anni, poi esce in strada. Intanto la “125” si è fermata una decina di
metri oltre la casa di Calabresi, in seconda fila, davanti ad un negozio di
frutta e verdura.
Un uomo descritto come alto e biondo, dall’aspetto distinto, scende
dall’auto e si dirige verso il commissario. Questi sta per infilare le chiavi
nella portiera dell’auto: l’attentatore gli arriva alle spalle e lo colpisce con
tre rivoltellate. Il commissario cade a terra, nello spazio fra la sua “500” e
una “Kadett” azzurra parcheggiata di fianco, in una pozza di sangue.
L’assassino, sempre con la pistola in pugno, ritorna di corsa alla
“125” che parte con il motore imballato, i pneumatici che stridono per il
violento attrito sull’asfalto. L’auto si dirige verso via Mario Pagano, poi,
invece, svolta a destra, percorre via Rasori e si ferma all’angolo con via
Alberto da Giussano, dove viene abbandonata, con il motore acceso, davanti all’agenzia della Banca Popolare di Novara. Intanto un vigile urbano chiama un’ambulanza della Croce Bianca di Via Alba: sono le 9,18.
L’ambulanza arriva in via Cherubini dieci minuti dopo e trasporta il commissario all’ospedale San Carlo dove viene portato al reparto di rianimazione. Viene tentata la rianimazione cardiaca e respiratoria ed eseguito un
elettrocardiogramma che dà un tragico responso: Luigi Calabresi è
morto. Sono le 10,30. Due rivoltellate lo hanno raggiunto alla testa (alla
nuca e alla regione temporale destra), una alla schiena. Uno dei tre
proiettili viene estratto: è stato sparato con una pistola calibro 38. Davanti allo stabile di via Cherubini 6 si formano assembramenti, ad alcuni
poliziotti saltano i nervi, viene malmenato un fotografo. Fra i testi ascoltati c’è Luciano Gnappi, di 26 anni, impiegato, abitante in via Cherubini
al numero 4 che ha avuto modo di seguire più da vicino le tragiche sequenze dell’attentato. «Erano le nove e un quarto» ha detto il giovane «ed
ero appena uscito di casa per recarmi al lavoro. Stavo per raggiungere la
mia “Giulia” quando la mia attenzione è stata attirata da un uomo che indossava una giacca uguale alla mia. L’uomo ha attraversato la strada e si
è insinuato in un varco fra una “500” e una “Kadett”. È stato a questo
punto che gli si è avvicinato un uomo sui 30-32 anni, con aria esagitata;
indossava un abito sportivo. Subito dopo ho sentito degli spari, mi sembra
due. Il commissario Calabresi si è abbattuto a terra, nello spazio fra le
due automobili. L’uomo che aveva sparato è corso in avanti, con la pistola in pugno, lungo via Cherubini”.
– 233 –
Il 1977
L’anno della svolta violenta, quello che caratterizza il periodo, è probabilmente il 1977, così riassunto da Moroni e Balestrini: “Nel ’77, divampò
la generalizzazione quotidiana di un conflitto politico e culturale che si
ramificò in tutti i luoghi del sociale, esemplificando lo scontro che percorse
tutti gli anni Settanta, uno scontro duro, forse il più duro, tra le classi e
dentro la classe, che si sia mai verificato dall’unità d’Italia. Quarantamila
denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia di
anni di galera, e poi morti e feriti, a centinaia, da entrambe le parti”.81
L’11 marzo 1977, durante scontri a Bologna lo studente Pier Francesco
Lorusso, simpatizzante di Lotta Continua, cade colpito a morte da un proiettile. Alle successive proteste degli studenti il ministro degli interni Francesco Cossiga risponde inviando mezzi cingolati nel centro di Bologna. Nel
successivo settembre viene arrestato il carabiniere Massimo Tramontani,
accusato di aver esploso il colpo mortale; sarà successivamente prosciolto.
Il 22 marzo a Roma muore, ucciso dai NAP, tentando di arrestare una ricercata, l’agente di P.S. Claudio Graziosi. Il 21 aprile 1977 a Roma, nel corso
degli eventi che conseguirono allo sgombero dell’università a Roma, militanti dell’area dell’autonomia sparano contro le forze dell’ordine, l’allievo
sottufficiale di P.S. Settimio Passamonti raggiunto da due colpi cade ucciso.
L’agente Antonio Merenda, altri due agenti e un carabiniere furono feriti,
ma si salvano. Il 14 maggio 1977 a Milano, nel corso di una manifestazione
alcuni manifestanti dell’area dell’autonomia aprono il fuoco contro la
polizia, uccidendo l’agente di P.S. Antonio Custra. L’anno con più vittime e
il 1980 in cui periscono 125 persone, di cui 85 nella strage della stazione
centrale di Bologna.
Il sequestro Moro
Uno degli episodi più drammatici di quegli anni fu il sequestro, lo
sterminio della scorta e il successivo assassinio di Aldo Moro, consumato
il 9 maggio 1978 dalle Brigate Rosse.
A questo proposito inseriamo, a conclusione di questa sezione del nostro
lavoro, due interessanti articoli apparsi su “La Repubblica” il 14 marzo 1998,
81
Primo Moroni e Nanni Balestrini, “L’orda d’oro”, SugarCo Edizioni, Milano 1988.
– 234 –
proprio a proposito del drammatico evento. Il primo è di Eugenio Scalari,
allora direttore della testata: si tratta di un appassionato ricordo personale di
quei drammatici giorni di trent’anni fa. Il secondo invece contiene un’intervista di Giorgio Bocca a Franco Bonisoli.
Articolo di Eugenio Scalfari
“Fu terribile quel 16 marzo di venti anni fa! Il governo Andreotti, proprio quel giorno, si presentava in Parlamento per ottenere la fiducia e per
la prima volta avrebbe anche avuto l’appoggio del Partito comunista. Moro
si era molto battuto per arrivare a questo risultato, aveva dovuto superare
resistenze fortissime nei gruppi parlamentari della DC inimicandosi potenti
“lobbies” politiche ed economiche, interne e internazionali.
Di prima mattina, mentre cominciavamo appena a passare le agenzie di
stampa e a preparare le macchine da scrivere per il lavoro che stava per
cominciare, arrivò la folgorante notizia: Aldo Moro era stato rapito, la sua
scorta sterminata, i rapitori scomparsi.
Calò sulla città una cappa di stupore e di paura mentre un’imponente
quanto inutile caccia all’uomo si scatenava; le strade del centro e della periferia del nord-ovest della città erano percorse da un carosello di auto e
motociclette delle forze di polizia a sirene spiegate, gli elicotteri dei carabinieri volteggiavano nel cielo; c’era, lo ricordo benissimo, un’atmosfera di
dramma che incombeva dovunque, uno smarrimento collettivo.
Sapemmo che non solo i membri del nuovo governo, ma i dirigenti di
tutti i partiti erano affluiti nelle sale del governo a Palazzo Chigi. I giornali
radio e i telegiornali trasmettevano in continuazione. Anche noi preparammo in gran fretta un’edizione straordinaria che a mezzogiorno era già
nelle edicole.
Intanto le Brigate Rosse avevano rivendicato l’operazione. Col passar
delle ore si allontanava sempre di più la speranza di intercettare i rapitori e
liberare il prigioniero. Poi cominciarono i giorni dell’attesa, delle polemiche, dei sospetti.
Fu ben presto chiaro quale fosse l’obiettivo delle Br: non un riscatto in
denaro e neppure, come in apparenza sembrava, la liberazione di alcuni
“prigionieri”, come essi definivano con termine militaresco i brigatisti incarcerati per precedenti operazioni. Le BR volevano un riconoscimento politico da parte del governo e dello Stato; volevano essere riconosciuti come
controparte, come partito armato, come forza combattente. Solo a queste
– 235 –
condizioni avrebbero rilasciato l’ostaggio, fidando nel fatto che nel frattempo egli avrebbe provocato spaccature traumatiche dentro il suo partito e
nell’intera coalizione governativa.
E le lettere di Moro cominciarono ad arrivare, implacabilmente, dirette
a tutti i principali attori di quel dramma collettivo: Andreotti, Cossiga,
Zaccagnini, Fanfani, Leone e molti altri.
Che valore bisognava dare a quelle lettere? Erano estorte da chi aveva
su di lui “pieno dominio”? Riflettevano, pur scritte in stato di orribile
costrizione, sentimenti e convinzioni autentici?
Attorno a questo problema cominciò la polemica e nacquero quei due
partiti trasversali che furono definiti e si autodefinirono il partito della
fermezza e quello della trattativa.
Del primo facevano parte la direzione della DC, pur composta in
gran parte da amici intimi di Moro; il governo (in particolare Andreotti e
Cossiga); il PCI di Berlinguer; il movimento sindacale al completo; il
partito repubblicano, con La Malfa in testa; Sandro Pertini. Del secondo,
Craxi e quasi tutta la dirigenza del partito socialista, i radicali di Pannella, gli extraparlamentari dell’Autonomia e degli altri gruppuscoli di
estrema sinistra.
I rapporti tra queste due posizioni si inasprirono rapidamente. I maggiori organi di informazione furono abbastanza compatti in favore della
fermezza, pur subendo pressioni e anche minacce di vario tipo. Gli intellettuali si divisero; molti di loro, a cominciare da Sciascia, lanciarono lo
slogan pericolosissimo “né con le Br né con lo Stato”.
Furono giorni tragici durante i quali la macchina dello Stato rivelò
tutta la sua inefficienza e lasciò intravedere anche alcuni aspetti oscuri che
non sono mai stati interamente chiariti.
Poi, dopo quasi due mesi di tormento che debbono essere stati orribili
per il prigioniero e per i suoi familiari, gli ultimatum finali dei brigatisti e
infine l’omicidio.
L’obiettivo – ormai è chiarissimo e gli stessi uomini delle Br l’hanno
reso esplicito – era quello di impedire che il PCI compisse il suo cammino
e diventasse quella forza riformista di cui il paese aveva bisogno perché
ci fosse anche in Italia una democrazia compiuta. Quel processo per fortuna non si è arrestato, ma tardò di altri dieci anni a compiersi. L’uccisione di Moro fu il tragico e orrendo prezzo con il quale fu bloccata per
altri dieci anni un’evoluzione che avrebbe potuto verificarsi molto tempo
prima”.
– 236 –
Intervista di Giorgio Bocca a Franco Bonisoli
Giorgio Bocca: “Nei giorni del sequestro di Aldo Moro Franco Bonisoli
faceva parte della direzione delle Brigate Rosse e del comando esecutivo
con Mario Moretti e Lauro Azzolini. Oggi lavora durante il giorno a Milano
e la sera deve rientrare nel carcere di Monza. Fra qualche mese dovrebbe
tornare in piena libertà.
Bonisoli, quando avete pensato per la prima volta al sequestro di Aldo
Moro?
Nel 1976, durante il processo di Torino ai capi storici delle BR. Doveva
essere il nostro processo, la rivoluzione che processava lo Stato. E la
Democrazia Cristiana per noi era lo Stato e alcuni suoi dirigenti, come
Andreotti e Moro, la rappresentavano. Fu allora che le Brigate Rosse
assunsero una dimensione nazionale. Dovevamo uscire dalle nostre roccaforti nordiste di Milano, Torino, Genova e formare una colonna a Roma,
nella capitale.
Furono necessari degli anni per costituire la colonna e per progettare
una serie di campagne che ci avrebbero portato ad attaccare il cuore dello
Stato. Il sequestro Moro doveva essere seguito da quello di Leopoldo Pirelli
e di altri protagonisti.
Dai memoriali anche recenti di alcuni brigatisti sembra di capire che
l’operazione di via Fani fu in notevole parte aiutata dal caso e dalla
fortuna.
Fu lo scontro frontale di due forme di mitizzazione. Noi pensavamo ai
carabinieri e alla polizia politica come a dei corpi monolitici, addestratissimi. Loro pensavano a noi come alla “potenza geometrica” di cui si disse.
La realtà stava a mezza strada. La nostra preparazione militare era modesta, qualche esercitazione nei ‘covi’ o in montagna, ma la coesione del
gruppo e la determinazione era superiore a quella di un normale commando. È vero, molti dei mitra impiegati nell’attacco si incepparono, ma la
rapidità della esecuzione, la complessità della operazione furono notevoli.
Non è vero che la scorta fosse imbelle e impreparata. Il fatto che uno dei
poliziotti riuscì a uscire dall’auto di scorta e a sparare nonostante la
sorpresa lo dimostra.
– 237 –
Quel 16 di marzo doveva formarsi il governo di solidarietà nazionale,
premessa del compromesso storico di cui Aldo Moro era fra gli ideatori.
C’è chi vede nella coincidenza la vostra decisione di prevenire una svolta
politica che avrebbe allontanato il Partito comunista da ogni prospettiva
rivoluzionaria.
Forse gli interpreti politici e intellettuali del caso Moro sono stati fuorviati dai nostri documenti, dalle nostre risoluzioni strategiche in cui, per ragioni di propaganda, entravamo nei dettagli della politica italiana, sembravamo interessati a tutti i suoi risvolti. In realtà eravamo molto più schematici.
Per noi la Democrazia Cristiana era lo Stato che faceva parte del Sim, Stato
imperialista delle multinazionali, e il Partito Comunista, il compromesso storico non erano che una delle forme, delle manovre di questo superpotere.
Allora e adesso c’è chi si chiede: ma che cosa poteva contare il sequestro
di Aldo Moro nella lotta contro il capitalismo mondiale?
Torniamo sul discorso delle reciproche mitizzazioni, su come noi pensavamo lo Stato e su come voi pensavate le Brigate Rosse. Nei nostri documenti ideologici e propagandistici noi fingevamo di avere delle visioni globali. Non a caso la nostra direzione si chiamava strategica. In realtà seguivamo la logica del passo dopo passo seguita nel crescere delle Brigate
Rosse. Per noi qualsiasi azione destabilizzante dello Stato era un passo
avanti, un passo che doveva essere fatto.
Senta Bonisoli, ancora oggi, dopo avere sentito voi e seguito i vostri
processi non si è capito bene che cosa doveva essere il “riconoscimento
politico” chiesto per la liberazione di Moro.
Anche qui si contrappongono le due ottiche, quella di chi stava fuori
della organizzazione e di chi era dentro. Per chi stava fuori il riconoscimento politico consistente nella liberazione di un prigioniero era un simbolismo quasi incomprensibile. Ma per noi dare la prova alla base rivoluzionaria che lo Stato aveva dovuto trattare con noi era importantissimo, ci
legittimava come guida della rivoluzione.
Ma c’era davvero questa base?
Siamo sempre lì, alle interpretazioni diverse. Nei giorni del sequestro
ricevevamo dai nostri informatori terminali le notizie di cosa si diceva e
– 238 –
faceva nelle fabbriche. A noi sembravano notizie esaltanti, come si fosse
messa in moto una ondata rivoluzionaria: lì avevano brindato, là gli operai
avevano partecipato alla distribuzione dei nostri manifestini o collaborato
al soccorso rosso, nella tal sezione del Partito Comunista si era pubblicamente parlato di solidarietà ai ‘compagni combattenti’. Poi abbiamo capito
quali sono gli umori mutevoli delle masse, la propensione a stare dalla
parte di chi sembra vincente. Non è accaduto qualcosa di simile in questi
anni con gli entusiasmi effimeri per Mani pulite?
Sono anni, lei lo sa bene, che si parla del caso Moro come di un grande
irrisolvibile complotto. Dopo avere deriso per anni la vostra invenzione
del Sim, Stato imperialista delle multinazionali, l’informazione, i processi, i politici hanno fantasticato e ipotizzato sul complotto internazionale per non scoprire la prigione di Moro, per far sparire i suoi memoriali. Lei fu uno che ebbe il compito di portare a Milano il memoriale
dattiloscritto e i brogliacci che furono successivamente trovati nel
“covo” di via Montenevoso. Che cosa c’è di vero in questa misteriosa vicenda in cui la fanno da protagonisti Andreotti, il generale Dalla Chiesa,
i servizi segreti nostri e americani?
Spesso nelle ricostruzioni dei fatti dalle cose minime si passa alle massime. In quei giorni erano state scoperte casualmente alcune delle nostre
basi. Non dalla polizia, ma da un vigile del fuoco chiamato per un incendio
nel caseggiato o da un vigile urbano che doveva compiere un controllo. E
capitò che così venisse trovato del materiale lasciato su un tavolo, su un
letto. Decidemmo che le carte dovevano sempre essere tenute al chiuso, in
una valigia, in un cassetto. Fui io a portare in valigia da Roma a Milano le
carte del sequestro Moro. Il dattiloscritto lo usammo per fare un opuscolo,
le carte degli interrogatori le chiudemmo nel vano sotto una delle finestre.
Era un buon nascondiglio, stucco e pittura del muro erano stati fatti con
attenzione.
Lei vide, studiò quei documenti. Pensa che in essi fossero contenute
delle rivelazioni tali da poter diventare strumento di ricatto politico da
parte del generale Dalla Chiesa o di altri?
Direi di no. C’è stato rimproverato anche da compagni come Curcio di
non aver saputo usare quel materiale, ma non mi pare che ci fossero documenti esplosivi. Ricordo che cercai invano qualcosa che si riferisse ai mi– 239 –
steri della strage di piazza Fontana. Può darsi, anzi certamente, non eravamo dei buoni propagandisti politici, vivevamo nella nostra scatola
chiusa, dei brani degli interrogatori, che a noi sembravano insignificanti o
risaputi, avrebbero avuto una eco nella opinione pubblica. Ma siamo
sempre lì, nella vita le interpretazioni hanno un grande ruolo. Ho notato,
per dire, che di quei documenti sono state date in questi anni da voi professionisti dell’informazione e da storici, da intellettuali, delle interpretazioni
diverse, magari condizionate dall’evolversi della politica. Vista oggi e dall’esterno quella nostra storia può anche sembrare una pazza storia, può
sembrare che abbiamo compiuto degli errori incredibili. Penso anche io
che abbiamo commesso degli errori, soprattutto dei gravi errori umani,
penso che neanche la nostra mitica rivoluzione valesse il sacrificio di vite
umane. Ma sono cose che si pensano dopo.
A conclusione della nostra ricerca sugli anni di piombo, abbiamo deciso
di inserire un approfondimento, da noi giudicato molto pertinente, a proposito dell’organizzazione terroristica protagonista di quegli anni, le Brigate
Rosse. Nel contesto più ampio di un lavoro dedicato al sessantotto in Italia,
crediamo che trattare in maniera più analitica la storia di un movimento
come questo, il quale affonda le sue radici proprio nella contestazione studentesca di quegli anni, possa costituire un interessante spunto per diverse
riflessioni.
Al di là, infatti, dell’enorme mole di documenti e dell’ancora più lunga
lista di articoli e saggi dedicati all’argomento, ciò che più ha colpito la nostra attenzione è stata la lista degli attentati e degli omicidi compiuti dall’organizzazione nel corso della sua storia.
Noi viviamo in un periodo strano (perlomeno dei semplici diciottenni
del 2008 lo percepiscono così): siamo bombardati ogni giorno da dozzine di
notizie contenenti lunghissimi elenchi di morti ammazzati in attentati, massacri, bombardamenti, e ogni altro genere di atrocità commesse dagli uomini sui propri simili. L’overdose di informazione in questo senso rende
spesso le nostre coscienze e i nostri cuori sempre più (purtroppo) insensibili: interviene il filtro della lontananza. Paradossalmente nell’epoca del villaggio globale il fatto che un massacro avvenga in Darfour o in Bosnia costituisce già un motivo di distacco emotivo dall’evento. Le immagini,
spesso anche brutali, che le televisioni o internet ci propongono, vanno a
sommarsi, nei nostri ricordi, ad altre situazioni, altre visioni: tutto si mescola, l’orrore da concreto si frantuma e si abbatte sull’impenetrabilità delle
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nostre coscienze stanche. Vediamo un mondo brutto, e la parola”speranza”,
nel senso “ecumenico”, collettivo del termine, sparisce sempre di più dal
nostro vocabolario quotidiano, così come la vera “compassione” non è più
contemplata nei nostri sentimenti, uccisa da una contemplazione del dolore
umano sempre più affidata al potentissimo filtro di un tubo catodico e meno
ad una profonda condivisione della nostra vita con gli altri.
Per questo la storia delle Brigate Rosse, il suo scorrere attraverso una
lunga lista di morti e di dolore, ci colpisce: giovani come noi, figli del nostro stesso paese, in grado non solo, in linea teorica, di immaginare un futuro migliore per la società, ma anche di agire per la sua costruzione rovesciando gli stessi principi sulla base dei quali una società migliore dovrebbe
basarsi, ossia uccidendo e terrorizzando.
Ci viene detto e sottolineato da più parti quanto la nostra generazione
sia priva di quegli ideali di unione e di lotta collettiva per un cambiamento
del mondo e della società in meglio, che invece caratterizzavano i nostri
coetanei di quarant’anni fa. Si può essere molto d’accordo su questa analisi,
tanto è vero che noi, confrontandoci anche attraverso questo lavoro con
quella generazione, spesso non siamo riusciti nemmeno a percepire o ad immaginare l’atmosfera che si respirava in quegli anni. E ci siamo ritrovati ancora più estraniati dinanzi all’esperienza delle BR, in qualche modo figlie
malate, ma pur sempre figlie, della contestazione studentesca di quegli anni.
Sarà la nostra insensibilità, o il mondo così diverso, o il fatto che la politica
ricopra un ruolo sempre più marginale nelle nostre vite, ma il solo concepire la possibilità di organizzarsi, di sacrificare l’intera propria esistenza, e
infine di attuare azioni come l’omicidio in nome di un ideale politico, ci
risulta come un qualcosa di totalmente estraneo. Per questo è difficile collegare quella lunga lista di stragi in un contesto, come quello italiano, a noi
invece abbastanza familiare. Per questo ci lasciano a bocca aperta omicidi
recenti come quello D’Antona o Biagi. Non li riusciamo a capire, non riusciamo a cogliere nemmeno un po’ la forza delle motivazioni che possono
aver spinto certa gente a compierli. Più che l’orrore, l’incredulità.
Ecco dunque il nostro approfondimento, corredato nell’ultima sua sezione da un’intervista a Giovanni Moro, il figlio dello statista Aldo Moro
ucciso proprio dalle Br: per vedere come alla fine certe azioni, per quanto
possano essere nobili gli ideali che le sostengono (e quelli delle Brigate
Rosse non ci appaiono tali), non lasciano altro che rammarico e dolore.
La”fredda” ricostruzione che segue ci è sembrato l’unico modo per
affrontare un argomento così delicato. Molti degli avvenimenti riferiti sono
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ancora oggi oggetto di indagini da parte della magistratura, mentre il dibattito
storiografico sulla natura stessa del fenomeno delle Brigate Rosse è ben lungi
dal raggiungere una sua almeno parziale conclusione. Ci auguriamo che la
descrizione in maniera asettica degli avvenimenti che hanno caratterizzato la
storia delle Br (e dunque in un certo senso anche dell’Italia durante gli anni
di piombo) non appaia come una forma di mancanza di rispetto nei confronti
delle numerose vittime della strategia terroristica di quegli anni.
Le Brigate Rosse (spesso abbreviato in BR) è dunque il nome di un’organizzazione terroristica di matrice marxista-leninista fondata da Alberto
Franceschini e da Renato Curcio nel 1970.
Da un certo punto di vista, è considerata il maggiore gruppo di avanguardia rivoluzionaria del secondo dopoguerra in Italia e nell’Europa Occidentale.
Ha operato in Italia a partire dall’inizio degli anni settanta, attraverso
una struttura politico-militare organizzata per “cellule”, compiendo atti di
guerriglia urbana e terrorismo contro persone ritenute rappresentanti del
potere politico, economico e sociale (uccisione, ferimento o sequestro di
numerosi uomini politici, magistrati e giornalisti).
Lo scopo dichiarato del piano brigatista era l’abbattimento di un fantomatico “Stato Imperialista delle Multinazionali” (S.I.M.) e la sua sostituzione
con una democrazia popolare espressione della dittatura del proletariato.
L’organizzazione fu smantellata principalmente grazie alla promulgazione di una legge che concedeva cospicui sconti di pena ai membri che
avessero rivelato l’identità di altri compagni. Questo processo di delazione
fu massiccio, al punto che la maggior parte dei membri delle Brigate Rosse,
anche tra coloro che si macchiarono dei delitti più gravi, non scontarono
che pochi anni di carcere. Oggi, in questo modo, molti di costoro vivono
con stipendi o sussidi statali o di altri enti pubblici.
Secondo fondatori e dirigenti, le Brigate Rosse dovevano indicare il
cammino per il raggiungimento del potere, l’instaurazione della dittatura
del proletariato e la costruzione di uno stato comunista anche in Italia. Tale
obiettivo doveva realizzarsi attraverso azioni politico-militari e documenti
di analisi politica detti “risoluzioni strategiche”, i quali designavano gli
obiettivi principali e il modo per raggiungerli.
È da tenere presente che le Brigate Rosse hanno sempre rifiutato la definizione di “organizzazione terroristica”, attribuendosi invece quella di
“guerrigliera”, sicuramente più suggestiva (basti pensare alle guerrillas dei
paesi latino-americani come Cuba o la Bolivia) ed evocatrice di modalità di
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lotta armata teorizzate da personaggi-miti come Ernesto “Che” Guevara
(autore, tra l’altro, nel 1960, di un’opera intitolata “La guerra di guerriglia”). La tattica della guerriglia (condotta quando vi è una sproporzione
notevole tra le due forze in campo), consiste infatti in una lotta episodica
composta di numerose azioni volte ad indebolire gradualmente e a fiaccare
l’umore dell’avversario (Mao Tse Tung, grande esperto di questa modalità
di combattimento, definisce la guerriglia come “l’arte di fiaccare il nemico
con mille piccole punture di spillo”).
I brigatisti ritenevano infatti non conclusa la fase della Resistenza all’occupazione nazifascista dell’Italia (non a caso la guerra di resistenza partigiana fu essenzialmente una guerra di guerriglia). Per la precisione, giudicavano che all’occupazione nazifascista si fosse sostituita la più subdola dominazione economico-imperialista del già citato SIM (Stato Imperialista
delle Multinazionali), al quale era necessario reagire con un processo di
lotta armata al fine di sviluppare un’insurrezione popolare.
Analizzando il termine a posteriori, il sostantivo “Partito” non può essere applicato alla realtà brigatista, in quanto il movimento eversivo non
aveva la struttura dei partiti come li conosciamo, mentre l’aggettivo “Armato” possiede invece una sua logica nel mito rivoluzionario della “Guerra
di liberazione tradita a causa della spartizione del potere tra le diverse
anime politiche del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN)”, com’ebbe a
scrivere lo stesso Franceschini in un suo noto pamphlet.
Per continuare la liberazione del paese, sospesa, secondo il loro parere,
nel 1945, una parte degli aderenti al movimento eversivo recuperò le armi
mai consegnate alle autorità da parte di alcuni partigiani. Nel contempo,
l’altra parte del movimento, quella d’ispirazione “cattolica” e sindacalista,
stava muovendo i primi passi nell’ambito della contestazione giovanile.
La preparazione e l’avvio vero e proprio della lotta al sistema comincia
con l’occupazione di alcune università italiane nel 1967, ed in particolare
presso la facoltà di sociologia dell’Università di Trento, istituita nel 1962
(lo stesso anno in cui s’iscrive lo studente Renato Curcio). In questa situazione nasce e si sviluppa quella che diventerà successivamente la sintesi tra
cristianesimo e rivoluzione di quegli anni e cioè la consapevolezza che il
Regno di Dio sia da ricondurre al regno dell’uguaglianza teorizzato dal
marxismo rivoluzionario. Non è un caso che alcune tra le più importanti
personalità del movimento delle future Br appartengano al mondo cattolico,
laddove il Vangelo veniva sentito come lettera tradita: tra questi Renato
Curcio e Marco Boato.
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Da Trento questi studenti si trasferiscono poi a Milano dove, nel 1969,
danno vita al Collettivo Politico Metropolitano. La contestazione studentesca venne presto incanalata in un contesto politico di lotta generazionale.
In Italia il movimento studentesco venne assorbito per la maggior parte dal
mondo della sinistra extraparlamentare o, in parte minoritaria, dall’estrema
destra.
Gli albori - Periodo 1970-1974: la propaganda armata.
Viste dal loro interno, le Br non costituirono mai quel fronte unitario
che la propaganda descrisse, e che gli stessi terroristi volevano fosse loro
attribuito.
Il retroterra culturale in cui nascono le future Brigate Rosse è quello
dello scontro sociale che contraddistingue il biennio 1968-1969, un periodo
violento di lotte operaie e studentesche. Il movimento politico e culturale
sessantottino cercava l’unione tra l’università e la fabbrica, ovvero il coordinamento stretto tra le lotte operaie e le occupazioni studentesche delle
università. Nell’area milanese, al fianco di quelli che saranno i “gruppi storici” della nuova sinistra, si formano molti Comitati Unitari e Collettivi Autonomi. Il contesto storico in cui le Br cominciano la loro attività è quello di
un’Italia di stragi di Stato e tentativi di golpe.
Il coordinamento di un certo numero di collettivi autonomi, nell’autunno del 1969 a Milano, prese il nome di Collettivo Politico Metropolitano
(CPM), un movimento che raccoglieva tutte le idee in fermento della nuova
sinistra di quel periodo. Il CPM raccolse decine di collettivi eterogenei
composti da operai, cantanti, grafici, insegnanti, tecnici, attori e musicisti e
lavorò sotto forma di centro politico-ricreativo-culturale fino al dicembre
del ’69, quando, a causa delle mutate condizioni politiche (la tensione generale dovuta alla strage di piazza Fontana) cessò l’attività e diede vita all’organizzazione extraparlamentare Sinistra Proletaria.
Tale organizzazione esprimeva alcune delle posizioni teoriche che saranno alla base dell’ideologia brigatista: l’occupazione statunitense dell’Italia tramite le multinazionali si esprimeva con la collocazione al potere di
una classe dirigente immutabile e non eliminabile in maniera pacifica con le
votazioni. Nel contempo, la messa all’opposizione dei partiti della sinistra
s’inquadrava nella strategia tipica delle multinazionali capitaliste, le quali
sfruttavano il lavoro malpagato della classe operaia solo per incrementare i
propri profitti.
“Sinistra Proletaria” sarà dunque un’organizzazione di riferimento per
operai e tecnici di due stabilimenti produttivi milanesi: Sit-Siemens e Pirelli.
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I personaggi che diedero vita a questo progetto provenivano dalla
Libera Università di Trento (Renato Curcio, Margherita Cagol, Giorgio
Semeria), dalle federazioni giovanili comuniste di Reggio Emilia (Alberto
Franceschini, Prospero Gallinari, giovani usciti dalla FGCI, l’organizzazione giovanile del PCI) e dal movimento delle fabbriche (Mario Moretti,
tecnico della Sit-Siemens). Nel primo periodo di attività la lotta politica
delle Br si esprimeva con attentati incendiari contro le macchine dei capi
delle fabbriche, operazioni di volantinaggio e “rapimenti lampo”.
Con tali gesti eclatanti, ma non sanguinari, il gruppo armato intendeva
scuotere le coscienze e creare adepti. Le posizioni delle Br erano esposte,
oltre che dai volantini che accompagnavano gli interventi, da brevi documenti o da auto-interviste dei membri. Curiosamente, questa prima fase del
movimento, che, in seguito,verrà ripudiata, sortiva un notevole effetto in
termini di consensi. Essa frutterà, a posteriori, molto più della campagna di
sangue negli anni successivi al 1975.
Tra il 1970 e il 1974 le Br agivano prevalentemente in ambito operaio,
con piccoli gruppi che operavano all’interno delle fabbriche in modo spesso
clandestino. Inizialmente agivano solo nel milanese. Successivamente estesero il loro raggio d’azione in Piemonte, Liguria, Veneto ed Emilia Romagna. Vennero organizzati gruppi parasindacali, ognuno dei quali, detto
“Brigata”, faceva propaganda nelle fabbriche.
Il primo comizio politico delle neonate Brigate Rosse avvenne nel quartiere milanese di Lorenteggio, nell’aprile 1970. Secondo molti esperti del
settore, la denominazione “Brigate Rosse” fu assunta in contrapposizione a
quella di uno dei più famigerati corpi di repressione antipartigiana della Repubblica Sociale Italiana, le Brigate Nere. Uno dei suoi fondatori (Renato
Curcio) racconta invece di un riferimento all’organizzazione armata legata
alla Resistenza partigiana milanese, la Volante Rossa, da cui l’aggettivo
“Rossa” legato a”Brigata”, tipica denominazione militare. Le prime azioni
dell’organizzazione infatti furono firmate “Brigata Rossa” al singolare.
Nel settembre del 1970 Sinistra Proletaria entrava in crisi durante un convegno a Pecorile (un piccolo paese in provincia di Reggio-Emilia), dove alcuni componenti dell’organizzazione decisero di dare vita ad una nuova esperienza organizzativa che adottasse come pratica politica la lotta armata, sull’esempio della guerriglia metropolitana dei Tupamaros (attivi in Uruguay tra
gli anni ’60 e gli anni ’70), delle azioni dei Black Panthers negli Usa e della
Bolivia di Che Guevara, e seguendo l’onda della nascita dei primi gruppi
armati italiani (il Gruppo XXII Ottobre e i GAP di Giangiacomo Feltrinelli).
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Il primo periodo di attività si svolse tutto all’interno del mondo delle
fabbriche e le azioni avevano come obiettivi i nemici politici del movimento
operaio e delle attività delle organizzazioni di sinistra attive all’interno degli
stabilimenti: da qui i primi sequestri lampo di personalità legate alla dirigenza
delle aziende e i vari attentati incendiari contro le automobili dei “capi”.
Questo fu il periodo della cosiddetta “propaganda armata”. Successivamente le Br uscirono dalla logica dello scontro all’interno delle fabbriche
per dare vita ad un progetto politico di più ampio respiro: incidere direttamente sul processo politico nazionale per modificare i rapporti di forza politici all’interno del paese.
Questa scelta, dettata dalla necessità di cercare uno sbocco politico che
potesse portare a dei risultati politici concreti, portò a quello che venne definito “l’attacco al cuore dello Stato”.
Non esiste un atto ufficiale di fondazione delle Brigate Rosse. Molti ritengono che la nascita dell’organizzazione sia avvenuta nel corso del convegno organizzato dal Collettivo Metropolitano Milanese del 28 Novembre
1969, nell’albergo Stella Maris di Chiavari (di proprietà ecclesiastica, la cui
sala convegni fu affittata da Curcio).
Secondo Alberto Franceschini, nel suo libro dal titolo “Mara, Renato ed
io”, in quell’occasione non si accennò alla lotta armata e alla clandestinità,
che divennero in seguito tratti distintivi dei militanti delle BR. Di diversa
opinione è Giorgio Galli nel suo libro “Storia del Partito Armato” (1986),
in cui afferma che – nel contesto della suddetta riunione – fu trattato il tema
“Il fiore violento della lotta armata”.
Dopo la strage di Piazza Fontana, che diede l’avvio alla cosiddetta
“Strategia della tensione”, con un crescendo di attentati che per venticinque
anni insanguinarono il paese, e che fu interpretata da gran parte dei movimenti del tempo come strage di stato intesa a dissuadere, con metodi terroristici, il cammino delle lotte operaie e studentesche, il dibattito già in corso
sull’uso della violenza, trovò in molte formazioni extraparlamentari sollecitazione ed impulso per la creazione di un gruppo armato di autodifesa. In
Sinistra Proletaria esso si traduce nella scelta da un lato di dare vita ad
un giornale (Nuova Resistenza), mentre dall’altro si forma, alla Pirelli di
Milano, la prima Brigata Rossa (20 ottobre 1970).
La prima azione delle Brigate Rosse che abbia un certo peso avvenne
però nella notte del 25 gennaio 1971: otto bombe incendiarie vennero collocate sotto altrettanti autotreni sulla pista prova pneumatici di Lainate dello
stabilimento Pirelli. Tre autotreni vennero distrutti dalle fiamme.
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La prima azione Br che invece ebbe come obiettivo una persona
avvenne a Milano il 3 marzo 1972, quando l’ing. Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, venne prelevato di fronte allo stabilimento, fotografato con un cartello al collo e sottoposto ad un interrogatorio di alcune
ore sui processi di ristrutturazione in corso nella fabbrica.
Il 2 maggio 1972, a Milano, scattò la prima rilevante operazione di
polizia contro le BR. La maggior parte dei militanti ricercati, tuttavia, riuscì
a sottrarsi all’arresto. Da questo momento la semiclandestinità si trasformò
per la nascente organizzazione in vera e propria scelta clandestina.
Nell’agosto-settembre 1972 le Br costituirono a Milano e a Torino due
colonne, ognuna delle quali composta da più brigate operanti all’interno
delle fabbriche e dei quartieri. Inoltre con la distinzione tra forze regolari
(militanti di maggior esperienza politica totalmente clandestini) e forze irregolari (militanti di tutte le istanze che fanno parte a tutti gli effetti dell’organizzazione senza essere totalmente clandestini), venne precisata la definizione dei livelli di militanza.
Intanto si consolidarono accordi organizzativi con collettivi del lodigiano e dell’Emilia-Romagna.
Nell’autunno 1973, in un incontro tra esponenti della colonna di Milano
e di Torino venne deciso di articolare il lavoro delle colonne in tre settori: il
settore delle grandi fabbriche; il settore della lotta alla controrivoluzione; il
settore logistico.
A Milano la brigata di fabbrica della Sit-Siemens incoraggiò la formazione dei Nuclei Operai di Resistenza Armata (NORA) con una propria autonomia operativa.
I NORA, la cui prima azione è del 2 maggio 1973 e l’ultima del 28 gennaio 1974, compirono alcuni attentati incendiari contro beni di fascisti della
fabbrica (in genere automobili) e contro alcune sedi della polizia.
A Torino, in breve tempo, le Br trovarono adesioni in tutti gli stabilimenti della Fiat ed in molte altre grandi fabbriche (Pininfarina, Bertone,
Singer).
Con il contratto aziendale integrativo dell’autunno-inverno maturò il
sequestro del capo del personale della Fiat Ettore Amerio (10-18 dicembre
1973).
Nel febbraio-marzo 1974 avvenne il primo salto di qualità: una riflessione congiunta delle due colonne sull’esito delle lotte operaie alla Fiat,
portò alla decisione di dare respiro strategico all’organizzazione, proiettando la sua forza contro le istituzioni politiche e contro lo stato. La fase
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della propaganda armata era finita. Cominciava l’attacco al cuore dello
Stato.
Dalla necessità di coordinare a livello nazionale i Settori nascono due
Fronti: il Fronte delle grandi fabbriche ed il Fronte della lotta alla controrivoluzione.
Il 18 aprile 1974, a Genova, venne sequestrato il magistrato Mario
Sossi, già inquisitore del gruppo XXII Ottobre. Questa azione fu la prima
operazione nazionale progettata dal Fronte della lotta alla controrivoluzione. Nel corso del sequestro le Br chiesero la liberazione di alcuni detenuti della formazione armata genovese, ma liberarono l’ostaggio senza contropartite.
Oltre ai volantini, durante il sequestro, viene diffuso l’opuscolo:
“Contro il neo-gollismo portare l’attacco al cuore dello Stato”.
Tra il 1973 ed il 1974, le Br allargarono i loro rapporti organizzativi in
varie regioni: consolidando i contatti con operai dei Cantieri Navali Breda e
del Petrolchimico venne inaugurata la terza colonna, la colonna veneta; in
Liguria, con alcuni operai dell’Italsider, dopo la Campagna Sossi, venne
creata la prima istanza della nuova colonna genovese; nelle Marche si strinsero relazioni con esponenti dei Proletari Armati in Lotta, alcuni dei quali
daranno vita al comitato marchigiano delle BR.
Il 17 giugno 1974, a Padova, nel corso di un’incursione nella sede
missina di via Zabarella, restarono uccise due persone, Graziano Giralucci e
Giuseppe Mazzola. Per le Br si trattò della prima azione mortale, anche se
– con ogni probabilità – non programmata.
Il nucleo veneto gestì l’evento, rivendicandolo all’interno della pratica
dell’antifascismo militante. Le Brigate Rosse, a livello nazionale, pur assumendone la responsabilità, ribadirono che la questione centrale dell’intervento armato era l’attacco allo Stato e non l’antifascismo militante.
Nell’estate 1974 l’espansione delle BR, seguita alla campagna Sossi,
portò alla decisione di creare un terzo Fronte – il Fronte logistico – al fine di
affrontare, in modo più adeguato, oltre al coordinamento dei settori logistici
di ciascuna colonna, anche i problemi della scuola quadri e del finanziamento.
L’8 settembre 1974 ci fu un primo duro colpo per le BR: grazie ad un
infiltrato, il falso Frate Mitra, Silvano Girotto, i carabinieri del gen. Carlo
Alberto Dalla Chiesa arrestarono due capi dell’organizzazione, Renato
Curcio ed Alberto Franceschini.
Il 13 ottobre 1974, alla cascina Spiotta di Arzello, Acqui (AL), si riunì
la prima Direzione strategica delle BR. L’ordine del giorno riguardava la
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ridefinizione delle strutture e dell’intervento alla luce degli arresti dei due
dirigenti dell’organizzazione.
Nell’inverno 1974 si riunì, nel Veneto, la seconda Direzione strategica.
All’ordine del giorno vi era la liberazione dei prigionieri. Venne deciso
l’assalto al carcere di Casale Monferrato, che fu effettuato il 18 febbraio
1975 e portò alla liberazione di Renato Curcio.
Nel marzo 1975 furono riallacciati i contatti presi negli anni precedenti
con alcuni militanti di Roma, provenienti da varie aree ed esperienze politiche (Potere Operaio, marxisti-leninisti), e venne dato avvio alla costruzione della colonna romana.
Nell’aprile 1975 venne diffusa la prima Risoluzione della Direzione
strategica.
Il 15 maggio 1975, nel quadro della campagna contro il neo-gollismo, fu
“gambizzato” il consigliere comunale della DC milanese, Massimo De Carolis.
Il 4 giugno 1975, avvenne il primo sequestro per autofinanziamento ai
danni dell’industriale Vallarino Gancia. Nel corso di questa operazione, il
5 giugno, in un conflitto a fuoco fu ferito mortalmente l’appuntato dei carabinieri Giovanni d’Alfonso, mentre restò uccisa Margherita Cagol Curcio,
detta “Mara”, la storica compagna di Renato Curcio. La colonna di Torino
assunse il suo nome.
Sempre nel corso del 1975, il confronto politico con i Nuclei Armati
Proletari (NAP) portò ad una campagna congiunta, la quale si concretizzò
in due momenti offensivi: uno contro le strutture dell’Arma dei carabinieri
con azioni in varie città italiane (1° marzo 1976); un altro con l’incursione
nella sede dell’ispettorato distrettuale degli Istituti di Prevenzione e Pena di
Milano (22 aprile 1976).
Nei volantini di rivendicazione le due organizzazioni rendevano noto
che “BR e NAP, nel rispetto della propria autonomia politica ed organizzativa, possono praticare comuni scadenze di lotta e d’azione in un unico
fronte di combattimento”.
Tra il 1974 ed il 1976, in conflitti a fuoco tra militanti e forze dell’ordine
persero la vita tre militari: Felice Maritano, Antonio Niedda e Francesco
Cusano.
L’8 giugno, a Genova, le Br colpirono mortalmente il procuratore
generale Francesco Coco e i due militari della sua scorta (Antioco Dejana e
Giovanni Saponara). Nei giorni del sequestro Sossi, Coco si era infatti rifiutato di firmare la liberazione dei detenuti che le Br chiedevano in cambio
della liberazione dell’ostaggio.
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Le Br definirono questa azione come una “disarticolazione politica e
militare delle strutture dello stato”. Questo evento concluse la campagna
iniziata con il rapimento del giudice Mario Sossi e commemorò, ad un anno
dalla sua uccisione, Margherita Cagol Curcio “Mara”.
Il 15 dicembre 1976, intercettato da forze di polizia durante una visita
alla famiglia, Walter Alasia, militante clandestino della colonna di Milano,
ingaggiò un conflitto a fuoco con la polizia. Morirono, oltre ad Alasia, due
sottufficiali, Sergio Bazzega e Vittorio Padovani.
La colonna di Milano delle Br prese il suo nome: Walter Alasia “Luca”.
Nel corso del 1976, dopo il nuovo arresto di Curcio, catturato assieme
ad altri militanti, l’impianto organizzativo sancito nelle Risoluzioni
del 1974 e del 1975 subì una trasformazione radicale che non restò senza
conseguenze nel dibattito interno. Più precisamente: il Fronte delle grandi
fabbriche fu assorbito all’interno del Fronte della lotta alla controrivoluzione.
Questa trasformazione costituì una vera e propria “seconda fondazione
delle BR”: tutti i comparti e tutte le attività dell’organizzazione vennero ripensati per mettere meglio a punto “l’attacco al cuore dello Stato”. Il capo
delle Brigate Rose ora era Mario Moretti.
Il 12 febbraio 1977, con il ferimento intenzionale di Valerio Traversi,
dirigente del ministero della Giustizia, la Colonna di Roma compì la sua
prima azione.
Il sequestro dell’armatore Costa a Genova (12 gennaio - 3 aprile 1977)
mirò ancora una volta all’autofinanziamento. Fino ad allora, e ad esclusione
del sequestro dell’industriale Vallarino Gancia, le Br avevano compiuto solo
rapine in banche.
Il 28 aprile 1977, le Br uccisero Fulvio Croce, presidente del consiglio
dell’Ordine degli avvocati di Torino. La Corte d’Assise, in seguito a questa
azione, sospese nuovamente il processo in atto contro il primo gruppo di inquisiti per le BR.
Il l° giugno 1977 prende avvio la campagna contro i giornalisti intesa a
“disarticolare la funzione controrivoluzionaria svolta dai grandi media”.
Vengono feriti, nei giorni tra il 1° e il 3 Giugno 1977, rispettivamente a
Genova, Milano e Roma, Valerio Bruno, Indro Montanelli, ed Emilio Rossi.
Il 16 novembre, a Torino, venne colpito mortalmente Carlo Casalegno, giornalista del quotidiano “La Stampa”.
L’iniziativa contro il trattamento carcerario dei prigionieri politici, duramente irrigidito nel luglio del 1977 con l’apertura del circuito delle carceri
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di massima sicurezza sotto il controllo del generale Carlo Alberto Daella
Chiesa, si sviluppò con attentati mortali contro il magistrato Riccardo
Palma e gli agenti Lorenzo Cotugno e Francesco Di Cataldo.
Il 10 marzo 1978 le Br colpiscono mortalmente Rosario Berardi, maresciallo della Polizia della sezione antiterrorismo, in relazione alla riapertura
del processo a Torino.
Il 16 marzo 1978, le Br sequestrano, a Roma, l’onorevole Aldo Moro,
presidente della DC e candidato alla formazione del nuovo governo”aperto
al PCI”. Cinque militari della scorta restarono uccisi: Oreste Leonardi, Raffaele lozzino, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.
Con questa azione le Br si propongono di intervenire negli equilibri
politici generali del Paese.
Nel corso dei 55 giorni del sequestro, l’onorevole Moro scrisse varie
lettere, e le Br chiesero la liberazione di 13 prigionieri politici e distribuirono
9 comunicati ed una Risoluzione della Direzione strategica.
Il sequestro si concluse il 9 maggio 1978, con il ritrovamento del corpo
dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, a Roma.
Il 21 giugno 1978, a Genova, le Br colpirono mortalmente Antonio
Esposito, funzionario dell’Antiterrorismo. Questa azione coincise con l’entrata in camera di consiglio dei giudici del processo di Torino, che si concluse il 23 giugno.
Tra ottobre e dicembre del 1978, le Br continuarono la campagna
contro il trattamento carcerario dei prigionieri. Vennero colpiti mortalmente: Girolamo Tartaglione, direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu, agenti di polizia addetti alla sorveglianza esterna del carcere Le Nuove a Torino.
Per tutto il 1978 la presenza delle Br nelle grandi fabbriche di Torino,
Milano, Genova e del Veneto fu scandita da diverse azioni contro le gerarchie ed i dirigenti industriali. Nel corso di questa campagna venne ucciso
Pietro Coggiola, capofficina Fiat (Torino 28 settembre 1978). L’azione
contro di lui, nelle intenzioni dell’organizzazione, doveva essere solo un ferimento. Fu invece intenzionale l’attentato mortale contro Sergio Gori, a
Mestre, il 19 gennaio 1980, che di fatto costituì l’ultima azione delle Br inserita in questo contesto.
Il 24 gennaio 1979, a Genova, il sindacalista della CGIL, Guido Rossa,
ritenuto responsabile dell’arresto dell’operaio dell’Italsider Francesco Berardi
(24 ottobre 1978), venne colpito mortalmente. Nella rivendicazione, le Br resero noto che questa azione era stata concepita come ferimento intenzionale.
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Nel gennaio 1979 uscirono dalle Br sette militanti, tra cui Valerio Morucci ed Adriana Faranda, della colonna romana. Le loro posizioni furono
esposte nel documento: “Fase: passato, presente e futuro”, Roma, febbraio
1979. Essi confluirono successivamente nel Movimento Comunista Rivoluzionario.
Nei primi mesi del 1979, a Roma, vennero effettuati due interventi
contro la Democrazia Cristiana: fu colpito mortalmente il consigliere
provinciale Italo Schettini, il 29 marzo 1979 e venne attaccata la sede della
DC di Piazza Nicosia, nella quale persero la vita, intervenendo di pattuglia,
gli agenti Antonio Mea e Pietro Ollanu, il 3 maggio 1979.
Nel corso dell’estate dello stesso anno, le Brigate Rosse allacciarono
relazioni in Sardegna anche al fine di sostenere un’eventuale evasione dall’Asinara dei suoi militanti lì incarcerati, e di costruire una nuova colonna.
Nel luglio 1979, i detenuti Br del carcere speciale dell’Asinara fecero
pervenire all’Esecutivo dell’organizzazione un documento di 130 pagine in
cui erano esposte le tesi politiche che, secondo la loro opinione, dovevano
indirizzare l’attività dopo la campagna Moro.
È il primo segnale di una crisi che in breve tempo travolgerà le Brigate
rosse. L’Esecutivo non condivise queste tesi e rese noto ai prigionieri il suo
disaccordo. A ottobre, i prigionieri risposero chiedendo le dimissioni dell’Esecutivo.
Tra il giugno del 1978 e la primavera del 1980 fu condotta una campagna contro gli apparati dell’antiterrorismo. In complesso, tra carabinieri e
polizia, vennero colpiti mortalmente 12 militari di vario grado: Antonio
Esposito, Vittorio Battaglini, Mario Tosa, Antonino Casu, Emanuele Tuttobene (tutti a Genova), Antonio Varisco, Michele Granato, Domenico Taverna
e Mariano Romiti (a Roma), Antonio Cestari, Rocco Santoro e Michele
Tatulli (a Milano).
Il 2 ottobre 1979 i brigatisti detenuti all’Asinara annunciarono la loro
intenzione di smantellare il carcere speciale. Dopo una notte di battaglia,
con esplosivo, scontri a fuoco e lotte corpo a corpo, la struttura del carcere
venne resa inagibile.
Il 24 ottobre 1979, nel carcere speciale di Cuneo, si suicidò Francesco
Berardi, militante Br denunciato da Guido Rossa. La colonna di Genova fu
dedicata al suo nome: Francesco Berardi “Cesare”.
Si concluse a Torino, nel mese di dicembre, l’appello del cosiddetto
“processone”. I detenuti riassunsero le loro tesi, già esposte nel documento
di luglio, nel Comunicato n. 19.
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Il 21 febbraio 1980 venne arrestato, a Torino, Patrizio Peci. Le modalità
del suo arresto sono ancora oggi avvolte nel più fitto mistero.
In seguito alla sua collaborazione con le forze dell’ordine, nei mesi successivi si susseguirono in tutta Italia centinaia di arresti e il 28 marzo, a Genova, anche in risposta alla campagna contro gli apparati dell’antiterrorismo, vennero uccisi dai carabinieri Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa, Riccardo Dura e Piero Panciarelli.
In ricordo di questi quattro compagni la colonna di Roma prese il nome
“Colonna XXVIII Marzo” e la colonna veneta quello di Colonna “Annamaria Ludmann ‘Cecilia’”.
Nei primi mesi 1980 venne colpita la magistratura con due attentati
mortali, a Roma: il 12 febbraio 1980 Vittorio Bachelet, vicepresidente del
Consiglio superiore della magistratura ed il 18 marzo 1980 Girolamo Minervini, in procinto di essere nominato direttore generale degli istituti di
prevenzione e pena.
Il 12 maggio 1980, a Mestre, in relazione alla riunione dei capi di stato
dei paesi più industrializzati, in programma per il mese di giugno, le Br intervennero colpendo mortalmente il dirigente della Digos Alfredo Albanese.
Il 19 maggio 1980, con l’attentato mortale all’assessore regionale al Bilancio e alla Programmazione, Pino Amato, della DC, nacque ufficialmente
la Colonna di Napoli.
Il 5 agosto 1980, in provincia di Roma, si riunì la Direzione strategica,
la quale elaborò una propria Risoluzione strategica (ottobre 1980).
Alle prese con le loro contraddizioni interne, le Br non riuscirono a manifestare alcuna presenza nella reazione che tra ottobre e dicembre, la Fiat,
sostenuta anche dai suoi quadri intermedi (manifestazione dei quarantamila), sviluppò contro le vertenze operaie, mettendo in cassa integrazione
migliaia di operai e effettuando un centinaio di licenziamenti.
Il 12 novembre del 1980 la Colonna Walter Alasia gestì autonomamente
una propria azione (un attentato mortale al dirigente industriale Renato
Briano) e con ciò, di fatto, si pose al di fuori del controllo politico dell’Esecutivo.
Tentativi successivi di mediazione e composizione delle divergenze non
ebbero alcun esito.
Nel mese di dicembre, con l’Opuscolo n. 10, l’Esecutivo delle Br decretò
ufficialmente la separazione organizzativa della Colonna Walter Alasia.
Il 12 dicembre 1980, a Roma, con il rapimento del giudice Giovanni
D’Urso, direttore dell’Ufficio III della direzione generale degli istituti di
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prevenzione e pena del ministero della Giustizia, le Brigate Rosse chiesero
la chiusura immediata dell’Asinara, che era stata tenuta aperta con pochissimi detenuti brigatisti, dopo lo smantellamento della rivolta del 2 novembre 1979.
La campagna si sviluppò con l’attentato mortale al generale dei carabinieri Enrico Galvaligi (Roma, 31 dicembre 1980), responsabile del coordinamento delle misure di sicurezza nelle carceri speciali e ritenuto responsabile dell’assalto compiuto il 29 dicembre 1980 dal Gruppo d’Intervento
Speciale (GIS) per riprendere il controllo del carcere di Trani in rivolta da
due giorni.
Il sequestro di Giovanni D’Urso si concluse il 15 gennaio 1981 con la
liberazione del magistrato e la chiusura del carcere speciale dell’Asinara.
Con la campagna D’Urso e la sua gestione (Opuscolo n. 11, gennaio
1981) di fatto si concluse il percorso unitario delle Brigate Rosse.
Gli opuscoli n. 12 e 13, tuttavia, espressero ancora posizioni unitarie
(ad eccezione delle BR-Walter Alasia) ed in particolare il secondo tentò di
fissare le basi per una ripresa d’iniziativa sul terreno delle lotte operaie.
Nell’aprile 1981, i già precari equilibri tra le varie istanze e le diverse
posizioni politiche all’interno delle Br precipitarono. A Milano viene arrestato colui che era stato fino a quel momento il capo incontrastato delle BR,
Mario Moretti.
All’autonomizzazione delle BR-WA, che gestì per proprio conto il sequestro dell’ingegnere dell’Alfa Romeo Sandrucci, fece seguito quella della
Colonna di Napoli e del Fronte Carceri, che, insieme, gestirono le campagne Cirillo e Peci, dando vita alle Brigate Rosse – Partito della Guerriglia, che saranno guidate da Giovanni Senzani.
Solo il sequestro dell’ingegnere Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Mestre (20 maggio - 5 luglio 1981), fu ancora rivendicato con la
sigla BR. Ma anche nel Veneto, in seguito a divergenze sorte nella gestione
dell’operazione, tra l’ottobre e il novembre del 1981, alcuni militanti della
colonna veneta uscirono dall’organizzazione e diedero vita alla colonna
“2 Agosto”.
Nell’agosto del 1981, per iniziativa della colonna di Roma, venne fatto
un tentativo di ricomposizione delle contraddizioni esplose tra i vari spezzoni. Ma esso fallì.
Ad ottobre, si tenne a Milano una riunione della Direzione strategica. In
essa venne impostata la campagna contro il generale USA James Lee Dozier e venne deciso, onde evitare conflitti sui diritti di primogenitura, di mo– 254 –
dificare anche la sigla. Al vertice di quello che rimase delle Brigate Rosse
ora era una donna: Barbara Balzerani.
Da questo momento le Brigate Rosse, intese come un’unica formazione
armata, cessarono formalmente di esistere.
Accanto alle BR-Walter Alasia e alle BR-Partito Guerriglia si formarono le BR-Per la Costruzione del Partito Comunista Combattente (BRPCC) che continueranno la strada della lotta armata.
Negli anni successivi alcuni detenuti delle BR, dopo aver esaurito in
tempi più o meno brevi la loro esperienza in uno o nell’altro di questi raggruppamenti e non ritenendo di doversi dissociare, rimasero, pur senza una
precisa definizione organizzativa, nell’area di dibattito generale delle BR.
L’inizio del processo Moro, nel 1986, consentì loro di incontrarsi e confrontarsi.
Nel gennaio del 1987 una serie di “lettere aperte” firmate da diversi militanti, sancirono la chiusura unitaria dell’esperienza storica delle Br e l’inizio di una battaglia di libertà finalizzata alla soluzione politica del conflitto degli anni ’70, alla liberazione di tutti i prigionieri e al rientro degli
esuli.
Qui termina la nostra lunga parentesi dedicata alle Brigate Rosse. Ma
prima di concludere definitivamente, inseriamo, come preannunciato,
un’intervista datata 14 marzo 1998 e pubblicata su “Repubblica”, di
Silvana Mazzocchi al figlio dello statista ucciso, Giovanni Moro. La voce
di una delle persone maggiormente sconvolte, in quanto colpite negli
affetti più cari, dalla brutalità terrorista del movimento, ci è sembrata
più eloquente di qualsiasi analisi effettuata a posteriori sull’organizzazione. Di fronte al dolore di chi ha perso un padre in nome di un disegno
la cui brutalità è molto mal celata da una patina di idealismo, ogni disegno
di società migliore fallisce. Sembra banale, ma spesso le conclusioni più
semplici sono quelle più difficili da accettare. Dinanzi alla morte, all’omicidio, crolla qualsiasi pretesa o speranza di un futuro migliore, perché si è
spezzato irrimediabilmente l’unico grande e vero bene che ogni singolo,
ogni società che voglia ritenersi giusta, dovrebbe rispettare e preservare: la
vita.
Fa impressione riflettere che spesso per noi il drammatico bilancio delle
vittime di quegli anni, che potremmo definire di “guerra”, si riduca ad un
freddo elenco di nomi (come spesso appaiono i bilanci delle guerre), o ad
una sbiadita immagine di un cadavere nel bagagliaio di un’automobile. Ci
sono vite spezzate, famiglie disperate dietro ognuno dei nomi elencati nel
– 255 –
resoconto degli omicidi descritto nelle pagine precedenti. Forse ascoltare
il racconto di una delle vittime “indirette” della violenza di quel periodo
può essere d’aiuto a comprendere meglio il reale impatto di questa “guerra”
tanto violenta e folle nel cuore delle persone. Gli anni di piombo, le Brigate
Rosse, le stragi, gli omicidi, sono una ferita aperta nella pelle del nostro
paese, che forse anche a causa di un confronto irrisolto del nostro presente
con questo passato, non riesce a trovare una via d’uscita ad una frattura che
appare proprio per questo insanabile. Frattura politica (spesso avvertiamo
come i diversi partiti addirittura non riconoscano legittimità a chi la pensa
diversamente), ma soprattutto frattura sociale.
Ecco perché abbiamo ritenuto che il modo migliore per chiudere una
ricerca sulla storia di quegli anni fosse quello di adottare uno sguardo retrospettivo che si interrogasse sulle radici di un male alla luce delle sue conseguenze più dolorose, ponendosi, una volta tanto, dalla parte delle vittime.
“Da allora, ci ho pensato tante volte, e con rammarico: quel mattino
avrei potuto salutarlo meglio, parlare un po’ con lui... invece – saranno
state le otto, le otto meno un quarto – passai dinanzi al bagno distrattamente, lo vidi che si stava facendo la barba, con sapone e pennello, come
sempre. Dissi appena un ciao e uscii”. Un’ora dopo, Aldo Moro sarebbe
stato rapito e gli uomini della scorta massacrati. Era il 16 marzo 1978. Giovanni Moro, suo figlio, aveva vent’anni. Adesso ne ha quaranta e s’immerge
nei ricordi con qualche riluttanza: “Era un giovedì, mia madre era andata a
tenere la sua lezione di catechismo nella parrocchia lì vicino... in famiglia
solo mio padre si alzava tardi, del resto a casa non tornava mai prima di
mezzanotte e dunque...”.
Dalla strage sono ormai trascorsi due decenni e sono arrivati i giorni
delle memorie e dei bilanci. Giovanni Moro accusa: “Non c’è ancora verità,
né quella storica, né quella giudiziaria, e tantomeno quella politica. Moro
non fu colpito perché era un simbolo, come si disse, ma per fare un’operazione chirurgica sulla politica italiana, per fermare il suo progetto. Anche i
brigatisti non hanno detto la verità: perché non hanno reso pubblico tutto
ciò che ha raccontato mio padre? E perché lo uccisero proprio quando
nella DC si era aperto uno spiraglio? E, infine, perché lo Stato non fece
nulla per salvarlo?... Andreotti era il capo del governo, il responsabile politico... E Cossiga? In qualsiasi paese, un ministro dell’Interno a cui fosse
capitata una disgrazia del genere, sarebbe finito a coltivare rose... lui invece divenne due volte presidente del Consiglio e una volta capo dello
Stato”.
– 256 –
Intervista a Giovanni Moro di Silvana Mazzocchi
(in “La Repubblica”, 14 marzo 1998)
Come venne a sapere, quel 16 marzo, che suo padre era stato rapito?
Ero arrivato da poco nella sede del Movimento Febbraio ’74, in via
Gregorio VII, avevamo appena traslocato e non c’era ancora il telefono.
Verso le 9 e 30 qualcuno me lo venne a dire di persona. Ma le notizie erano
incerte, confuse. Non si sapeva che cosa gli fosse successo, né dove fosse,
né si sapeva dei morti. No, non ricordo chi fu ad avvertirmi, forse un uomo
della mia scorta. Tutti noi della famiglia eravamo scortati.
Perché?
Noi... ce l’aspettavamo prima o poi.
Riprenda il filo del suo ricordo.
Mi avviai verso casa, con la mia macchina. Quando arrivai all’angolo
di via Fani, vidi tutto bloccato, la polizia, le volanti... compresi che era successo qualcosa di veramente grave. A casa trovai mia madre. L’aveva saputo subito, in parrocchia. E di lì a piedi si era precipitata in via Fani.
Aveva visto la scena, il sedile di dietro che non era sporco di sangue... capì
che lo avevano rapito. Ma solo ad un certo punto della mattinata se ne ebbe
la certezza... venimmo a sapere che gli uomini della scorta erano stati uccisi. Fu un grande dolore, eravamo tutti molto legati. Loro, le loro famiglie,
stavano spesso con noi, la domenica, in vacanza...
La prima rivendicazione delle Br delle 10.10...
Non ricordo cosa disse mia madre... in casa c’erano anche le mie sorelle. La nostra impressione fu comune: tutti insieme sentimmo che non si
era voluto colpire un simbolo, come poi si disse. Ma che si stava facendo
un’operazione chirurgica sulla politica italiana. Moro era l’artefice dell’incontro con i comunisti, era un soggetto a rischio. E del resto basta guardare agli anni delle bombe... e fare una considerazione. Che quando Moro
si marginalizza, anche le bombe si marginalizzano. La sua politica è strettamente collegata a questo pezzo di storia italiana.
– 257 –
Quella mattina, il progetto di suo padre doveva andare in porto con il
governo di solidarietà nazionale, temevate qualcosa?
Non si era mai parlato esplicitamente dei rischi. Ma lui, già qualche
mese prima, aveva insistito moltissimo perché tutti noi fossimo scortati.
Aveva cominciato a preoccuparsi soprattutto dopo il rapimento del figlio di
De Martino, l’anno precedente... lui non diceva mai niente di concreto, ma
in quel periodo in famiglia c’era una grande tensione, un clima che si tagliava con il coltello. Infine, accadde.
Che cosa ricorda di quelle prime ore?
Eravamo tutti un po’ sbandati, soprattutto non riuscivamo a capire
fino in fondo che cosa fosse davvero successo. Ci sentivamo nell’occhio
del ciclone, ma separati. Intorno a noi succedevano le cose più incredibili.
E noi lì, insieme, in calma apparente a leggere i giornali, a vedere i telegiornali.
Dalle lettere di Moro traspare un forte legame con la moglie...
Sì, ma era un rapporto molto... insomma, nella vita famigliare, Moro
non era granché presente. Lui usciva la mattina, e magari tornava alle due
di notte. Non c’era la domenica, né le feste... Non ricordo che fossimo andati, neanche una volta a mangiare fuori. Se si voleva chiacchierare con
lui, lo si faceva da mezzanotte in poi, e per cena lo si doveva aspettare. Non
esisteva la dimensione quotidiana.
In una lettera a Zaccagnini, suo padre accennò a gravi problemi famigliari...
In famiglia c’erano i normali conflitti. Ma, al di la di questo, lui era
molto preoccupato per tutti noi e probabilmente aveva le sue ragioni... mia
sorella Anna stava aspettando un bambino, insomma un insieme di preoccupazioni, anche per la nostra sicurezza.
A lei, suo padre scrisse mai dalla prigione?
Due lettere per me vennero ritrovate a Milano, solo nel ’90, in via Montenevoso. In una mi avvertiva sul che cosa fosse la politica... forse voleva
dire che dentro la politica c’era anche quello che gli stava capitando.
– 258 –
Che cosa ricorda dei giorni precedenti all’agguato?
In quel periodo sembrava molto stanco, provato. Aveva 62 anni, pensava
di aver avuto già tutto dalla politica. Io non so se lui pensasse alla presidenza della Repubblica. Credo che lui non lo desiderasse. Ma ritengo anche
che sarebbe stato pronto a farlo... ed era nell’ordine delle cose. E forse
anche questa è stata una delle cause scatenanti di questa vicenda. Insomma
in quei giorni era scocciato, irritato dalle difficoltà... dalle risse tra quelli
che volevano entrare nel governo. E poi convincere la Dc a quell’operazione, convincere il Pci, era stato davvero duro. Durante la conduzione di
quella crisi c’era stato uno scambio di battute molto pesanti con Andreotti.
Moro prendeva molte medicine? È vero che le teneva in una borsa, tra
quelle che si portava dietro? A proposito, quante erano veramente le
borse? I brigatisti dissero di averne prese due.
Un po’ lui aveva la tendenza a preoccuparsi per le malattie, un po’
aveva anche dei reali problemi di ansia e di stress. Sì, aveva una borsa
piena di medicine, ma quante borse si portasse dietro, non lo so. Ce ne era
una con i materiali dell’Università, e poi aveva altre carte. Che riguardavano, per esempio, lo status dei servizi segreti. Faccio notare che quelli
erano i giorni caldi dello scandalo Lockeed. Proprio quella mattina”Repubblica” era uscita con un titolone: Moro Antelope Cobbler. Si cercava di buttare addosso a Moro lo scandalo... Lui non c’entrava niente, ma il punto
era che la vicenda veniva usata per ostacolare il processo politico che
aveva avviato.
Moro era un democristiano, ma anche un uomo nuovo, di frontiera...
Per questo, forse, al di là della sua appartenenza, era considerato pericoloso. Mi sono spesso chiesto perché non sono mai stati ritrovati gli
elenchi completi del piano Solo, dello scandalo Sifar del ’64. E mi rispondo
che, probabilmente, la ragione è che non c’erano solo i comunisti, i sindacalisti e i socialisti, ma perché era pieno di democristiani amici di Moro
che dovevano essere presi. Lui aveva intuito che la guerra fredda era destinata a diventare marginale, era stato per anni ministro degli esteri... Dall’interpretazione di quello che accade nel ’68 da noi e nel mondo, lui capisce che le società civili tendenzialmente diventano autonome dai poteri
politici... E forse capisce troppo.
– 259 –
Suo padre aveva un buon rapporto con Berlinguer?
Sì, stima e rispetto, anche se Moro aveva un disegno politico diverso.
Berlinguer guardava al confronto tra due grandi potenze che si dovevano in
qualche modo impegnare per salvare la democrazia. Moro credeva che si
dovessero creare le condizioni sociali, culturali e politiche della democrazia dell’alternanza. Lo voglio ripetere: mio padre era l’uomo del superamento della guerra fredda. E c’era un sacco di gente, in Italia e fuori di
Italia, che lo considerava un pericolo. Questa è una spiegazione che rende
conto di tanti possibili coinvolgimenti.
Nel ’78, il terrorismo già era molto diffuso, Moro ne parlava?
Era preoccupato. Anzi, credo sia stato il primo a coniare l’espressione
“partito armato” per definirne la complessità. Per lui significava una forza
politica, con una intenzionalità e con delle strategie. Non solo un agire politico. Ricordo che rimase molto colpito dall’omicidio di Casalegno. Disse
di avere la percezione che costituiva il salto di qualità del terrorismo.
Torniamo ai 55 giorni, Cossiga era il ministro dell’Interno, guidava le
ricerche di suo padre. Venne mai in casa vostra?
Due volte, mi pare. Sicuramente il 17 marzo e poi il giorno in cui fu
scoperta la base brigatista di via Gradoli, il 18 aprile. Ne ricavammo la
sensazione che non sapessero dove sbattere la testa. Anzi, sin dall’inizio, si
ebbe l’impressione che fosse in atto una strategia della rappresentazione,
un conflitto simbolico. Che usava le forze dell’ordine per mettere in scena
una lotta simbolica alle Br. E cinque processi non sono riusciti a chiarire
questo aspetto della vicenda.
Il 18 aprile, poco dopo la scoperta della base di via Gradoli, arrivò il
falso comunicato di Lago della Duchessa che annunciava la morte di
Moro. Vi sembrò attendibile?
Ci venne detto che si era tardato ad andare in via Gradoli, dopo la segnalazione, perché la strada non era sulle pagine gialle. Si era andati al
paese Gradoli... soltanto in seguito si apprese che in quella via c’erano
stati, ma che, avendo bussato alla porta e non avendo trovato nessuno, se
ne erano andati. Quanto al falso comunicato, no... non ci credemmo, si
ebbe l’immediata impressione che non fosse autentico. Non lo interpre– 260 –
tammo come una prova generale, come poi si disse, ma genericamente
come un’interferenza, come un tentativo di qualcuno di forzare la situazione.
La Dc (ma non solo la Dc), sostenne che le lettere che venivano dalla
prigione non potevano essere state scritte da Moro, lei riconosceva suo
padre?
Sì, completamente. E senza alcuna ombra di dubbio. Addirittura dal
punto di vista linguistico... e poi la continuità del pensiero, dell’espressione. Era lui, non c’è discussione.
In quei giorni, lei, voi credeste davvero che Moro poteva tornare libero?
Pensammo fino alla fine che potesse essere salvato, lo abbiamo sempre
creduto, e ci siamo battuti con tutti i mezzi e fino all’ultimo. Certo non era
una speranza fondata su chissà cosa. Ma abbiamo sempre agito in questa
direzione, fino alla fine. Ed eravamo uniti. Capivamo che la situazione era
grave. La lettera del Papa era stata terribile, quel “liberatelo senza condizioni”...
Il 30 aprile le Br al telefono sollecitano l’intervento di Zaccagnini.
È vero che lei lo chiamò e fu lei a darsi da fare?
Sì, lo chiamai dalla casa del portiere, perché il nostro telefono si era
bloccato. Gli riferii l’ultimatum dei brigatisti, fu una conversazione piuttosto tumultuosa... noi avevamo una sensazione di impotenza. Altro che canali privilegiati... Di recente Cossiga ha dichiarato alla commissione stragi
che la famiglia Moro, all’epoca, ebbe informazioni che non ha messo a disposizione... ma quando mai... la storia che noi avevamo un canale di ritorno privilegiato, è una sciocchezza. E in ogni caso di noi si sa tutto,
perché eravamo microfonati.
Qualche giorno dopo il rapimento fu diffusa la foto di suo padre nella
prigione, in camicia, con la stella a cinque punte alle spalle. Che impressione le fece?
La guardai a lungo. Mio padre lo rivedevo lì, vestito come Aldo Moro
non si sarebbe mai mostrato in pubblico, la camicia aperta, la canottiera.
Sul suo volto lessi una sottile smorfia di ironia, ma soprattutto rabbia.
– 261 –
Forse per la natura della vicenda, un po’ da commedia tragica, tragicissima. Gli è stato rimproverato di non essersi comportato come un eroe
della Resistenza. Ma lo si capiva anche dalle lettere: lui era consapevole
che quella non era la resistenza, che si trattava di una faccenda molto meno
seria. E le Br non erano l’esercito di Hitler.
In quei giorni in casa vostra venne spesso Tina Anselmi, in seguito andò
a presiedere la commissione P2. Che cosa vi diceva, che cosa vi disse in
seguito?
Lei si convinse molto della correlazione tra i due eventi: il caso Moro e
la Loggia di Gelli. Del resto, a parte le dietrologie, leggendo certi storici,
come Franco De Felice, viene fuori che la realtà del doppio Stato ha attraversato decenni di storia repubblicana del nostro paese.
Suo padre aveva delle verità democristiane che avrebbe potuto rivelare
ai brigatisti?
Certamente nella prigione Br Moro non dice tutto quello che sa. Dice
quello che gli interessa dire. E porta avanti anche una riflessione politica.
Ma di Gladio parla per la prima volta e racconta molte altre cose. Perché
non sono state rese pubbliche? I brigatisti hanno diffuso episodi ben meno
pregnanti: quelli che pure avrebbero potuto creare imbarazzo alla Dc, li
tennero segreti. Guardando le carte ritrovate nel ’90 in via Montenevoso,
viene spontaneo chiedersi il perché. Con la rivelazione di Gladio, le Br
avrebbero distrutto l’immagine dello Stato che si voleva saldo e integro.
Sono sicuro che su questo punto i brigatisti mentono ancora oggi.
Lei ha mai avuto interesse a incontrarli?
Per carità... Non ci tengo. Mi sono arrivate varie richieste, negli anni.
L’ultimo è stato Maccari, ma non mi interessa.
Lei continua a chiedere verità. Vent’anni dopo, qual è il pezzo di verità
che ancora lei cerca?
La verità è un fenomeno complesso. È a strati. C’è una verità storica e
riguarda il perché Moro. Abbiamo detto che si volle sventare un progetto
politico, ma non basta essere d’accordo in tre o quattro, deve diventare la
verità di tutti. Molti dicono che Moro era un simbolo. No, era il catalizza– 262 –
tore, per non dire il demiurgo di un’operazione politica. E l’hanno fermato
per questo, altro che simbolo... Poi c’è una verità politica. Che riguarda il
comportamento dei partiti. In particolare della Dc e del Pci, d’accordo
nella decisione di darlo morto fin dal primo giorno. Ed è la questione principale, ancora tutta aperta. Se non si riconosce questo, se non si riflette su
questo, non arriveremo mai veramente alla seconda Repubblica. Non c’è
stata alcuna autocritica all’interno della Dc sui comportamenti di allora,
né c’è stata riflessione all’interno del mondo che all’epoca era il Pci.
Ormai i comunisti chiedono scusa di tutto, perfino di aver starnutito nel
1921, ma di questo... non se ne parla. Non hanno ceduto neanche di un millimetro.
Lei parla di verità politiche. C’è chi sostiene che le Br non fornirono il
bandolo che avrebbe potuto salvare Moro, è così?
Non è vero. Alla fine sarebbe bastata una semplice presa di posizione,
un comunicato chiaro. Invece, si è voluto dare per morto Moro dal primo
momento.
Si rende conto che è un’accusa gravissima?
Per interesse, per cinismo, qualcuno per calcolo. O perché si pensò che
non ci fosse più nulla da fare. E anche per paura, per viltà. Credo che, finalmente, sarebbe giusto distinguere fra quelli che credettero veramente
nella linea della fermezza con disperazione e tormento e fecero appunto
una scelta disperata. E quelli che invece cominciarono da subito a calcolare quanto avrebbero potuto guadagnare alle prossime elezioni sul cadavere di Moro. In fondo poteva essere un buon affare, togliere di mezzo un
personaggio tanto fantasioso... Insomma la verità è ancora lontana. Se non
fosse così, il caso Moro sarebbe chiuso. Invece Moro è un fantasma che
continua a inseguirci. E non ci lascia in pace.
Lei ha fatto queste distinzioni? I capi dell’interpartito della fermezza
erano Berlinguer, Zaccagnini, uomini interessati alla politica di Moro.
Dunque?
Chi contava a quei tempi erano Zaccagnini, Donat Cattin, Piccoli, Andreotti. Quanto al Pci, penso che dal primo minuto, i comunisti abbiano
dato per persa la partita. E abbiano valutato che, se si fossero spostati di
– 263 –
un solo centimetro, si sarebbe detto che c’era connessione tra loro e l’area
dei combattenti. Vede, io mi sono detto tante volte che la storia del Novecento è piena di omicidi politici che hanno reso la vittima ancor più ingombrante che da viva. Basti pensare a Martin Luther King o a Kennedy, due
casi in cui l’immagine rimase ancor più importante... Allora, ecco, forse
c’era bisogno anche di distruggere l’immagine di Moro, evitare che potesse
essere utilizzata come un simbolo positivo: per questo la sua demolizione
attraverso le lettere.
Dal suo elenco di misteri e di verità lacunose, manca quella giudiziaria...
Cinque processi, due commissioni parlamentari non sono serviti a dare
risposta ad alcune domande fondamentali: perché le Br non pubblicizzarono tutto il memoriale di Moro? E perché lo uccisero proprio mentre si
apriva uno spiraglio all’interno della Dc? Infine, perché agirono proprio
quel giorno che mio padre passò in via Fani? Come facevano a saperlo?
Lui cambiava spesso itinerario... invece loro erano sicuri che quel giorno
Moro sarebbe passato proprio di lì. E poi: la metà dei colpi esplosi in via
Fani vengono da un’unica arma che non è mai stata trovata. E restano i misteri della Honda e del camioncino presenti sul luogo dell’agguato. Fin qui
ciò che manca dal versante dei terroristi. E per quel che riguarda le forze
di polizia: perché tante omissioni, tante superficialità?
Lei ha detto che non vuole incontrare i terroristi, ma i leader Dc di allora li incontrerebbe?
In questi giorni ho rifiutato di partecipare ad una trasmissione televisiva su mio padre, insieme con Cossiga, Andreotti e altri. Io non accetto un
piano di parità con i responsabili politici del caso Moro. O con i responsabili delle forze di polizia. Piuttosto sarebbe necessario sottolineare la
disparità. Si deve ricordare che qualcuno è morto e qualcun altro no. Che
qualcuno ci ha rimesso, mentre qualcun altro ha costruito carriere. Per
amore della memoria.
E il partito della trattativa? Suo padre ringraziò Craxi...
Craxi si era dato da fare, e dunque... Anche se bisogna dire che per
Craxi quello era un passo positivo, comunque fosse andata a finire. Si met– 264 –
teva in questione l’egemonia Pci-Dc. Era in ogni caso, una questione che
valeva la pena affrontare.
Cerchi di spersonalizzare. Lei non ritiene che, se all’epoca si fosse trattato con le Br, le istituzioni ne sarebbero state danneggiate?
Faccio un ragionamento generale e brutale. Quando c’è un rapimento,
lo Stato – che ha il dovere di tutelare la sicurezza e la vita dei cittadini – ha
due possibilità: o libera il prigioniero o tratta. Se non fa né l’una né l’altra
cosa, è corresponsabile di quel che accade dopo. È una valutazione eccessiva? Può darsi. Resta il fatto che dal sequestro Sossi a Soffiantini, passando per Dozier e Cirillo, lo Stato o ha liberato il prigioniero o ha trattato. L’unico caso in cui non ha né trovato il prigioniero, né ha trattato, è
stato Moro. Non farei nessun’altra considerazione. E poi, durante i 55
giorni, nel nostro Paese dove si litiga continuamente, si ebbe la sensazione
che ci fosse una straordinaria, inedita, inspiegabile unità tra le forze politiche. Le voci di dissenso erano pochissime e ci si sentiva veramente impotenti.
In una delle sue lettere, Moro si era rivolto a Zaccagnini, lo aveva indicato come il responsabile morale...
Quando Zaccagnini venne eletto segretario della Dc, costrinsero mio
padre ad assumere la carica di presidente del partito. Mia madre si oppose,
aveva con Moro un enorme contrasto sul fatto che lui continuasse a fare
politica. Del resto l’ostilità nei confronti di papà era evidente... come le minacce.
Dalle lettere, specie dalle ultime, sparisce il Moro paludato. Va giù duro
con Cossiga, Piccoli, Zaccagnini...
Mio padre non era un muro di gomma. Era un uomo forte, deciso,
quando doveva esserlo. Ma le lettere devono essere lette anche sotto il genere letterario della profezia.
Che vuol dire? Che lui sa di scrivere profezie, di scrivere per il domani?
In una parola sa che l’uccideranno?
Lui lotta fino alla fine. Certo, man mano, in successione, diminuisce la
capacità di resistenza. Arrivano botte. Basti pensare alla lettera del Papa.
– 265 –
A quel “liberatelo senza condizioni”. Il Papa fece la sua parte. Ma quello
che produsse... diciamo che sarebbe stato meglio che non l’avesse prodotto.
Anche se quell’espressione “senza condizioni”, dicono che gliel’abbiano
imposta.
Andreotti?
Era il capo del governo, il responsabile politico della gestione di
questa vicenda. Credo che ci si possa limitare a questo.
Siamo alla fine, il comunicato numero 9 del 5 maggio, annuncia:
“Concludiamo la battaglia, eseguendo...”
No, non pensai che lo stessero uccidendo. Interpretammo quel gerundio
come l’inizio dell’ultima fase. Capimmo che c’era un messaggio, uno spiraglio per agire. La mattina del 9 maggio ci sarebbe stata la direzione della
Dc e il dissenso di Fanfani e dei suoi sarebbe stato rappresentato, manifestato. In quel momento non abbiamo cognizione diretta che le cose stiano
proprio così, ma lo intuiamo. La telefonata delle Br, in cui si chiedeva l’intervento di Zaccagnini, l’avevamo letta in questo senso. Avevamo sentito i
compagni di corrente, i colleghi della Dc, avevamo fatto pressioni. Senza
grandi risultati. Ma neanche i suoi pochi compagni di corrente furono in
grado di fare di più. Certo, alcuni si attivarono per chiedere tramite Misasi
la convocazione del Consiglio nazionale. Ma insomma non è che si siano
dati fuoco nelle piazze... E tuttavia qualcosa nella Dc si stava muovendo.
Il 9 maggio, invece lo uccisero.
Io rimasi... non me l’aspettavo. Per due mesi, certo sapevo che sarebbe
potuto succedere in qualsiasi momento. Invece accadde proprio quando le
Br stavano ottenendo qualcosa...
Dove si trovava quel giorno?
A casa. Non ci chiamò nessuno di quelli che avrebbero dovuto farlo, né
dal ministero dell’Interno, né da qualsiasi altra parte. Ci telefonarono
amici, forse Gianfranco Quaranta, il capo del nostro Movimento. Ma è pazzesco che nessuno si volle prendere la responsabilità ufficiale di comunicarcelo. Appena saputo, andammo all’obitorio, mia madre, le mie sorelle ed
io, per l’autopsia. No, non voglio parlare di quello che provai.
– 266 –
Moro era l’espressione della grande tragedia italiana, lei quel giorno
vide anche questo o solo suo padre?
Non è facile rispondere. Tutto insieme. Mi colpì qualche tempo fa un
signore anziano che mi disse: “Quel 9 maggio per me fu come l’8 settembre”. Mi ha fatto pensare: interpretava bene l’idea del tutto che crolla,
lo sbandamento.
Alla fine, la famiglia ha chiesto il silenzio, non è andata ai funerali di
Stato.
Sì, e non solo perché erano le ultime volontà di mio padre. Eravamo in
perfetta consonanza con lui.
Vent’anni dopo ha ancora la speranza che si possa arrivare alla verità?
Mi conforta che, pur tra tentativi di trovare scorciatoie o versioni di
comodo, ritorni sempre fuori la voglia di raggiungere la verità. È nell’interesse del Paese liberarsi di questo fantasma. Vede, io ho due figli, di dieci
e otto anni. Mi hanno chiesto tante volte del nonno. Ho tentato di rispondere e ho spiegato che non è un problema nostro privato, è un problema
della democrazia, un problema insoluto che riguarda il nostro paese.
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“Le date del terrore. La genesi del terrorismo italiano e il microclima
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– 267 –
MARIO CALABRESI, “Spingendo la notte più in là”, Mondadori, Milano,
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BUR, Milano, 2004.
ALBERTO FRANCESCHINI - PIER VITTORIO BUFFA - FRANCO GIUSTOLISI,
“Mara, Renato e io - Storia dei fondatori delle BR”, Oscar Mondadori,
Milano, 1988.
LORENZO RUGGIERO, “Dossier Brigate Rosse 1969-1975”, Kaos edizioni,
Milano, 2007.
LORENZO RUGGIERO, “Dossier Brigate Rosse 1976-1978”, Kaos edizioni,
Milano, 2007.
– 268 –
MARIO CARINI
Proposte di scrittura creativa
su Manzoni e “I Promessi Sposi”
1. SPUNTI BIOGRAFICI PER UN LAVORO IN CLASSE
È un appuntamento ineludibile per il docente che insegna nella seconda
classe del biennio delle superiori affrontare, con i propri allievi, la lettura
dei Promessi Sposi: una lettura che talvolta riesce ostica e tormentosa,
nonostante la presenza di ottimi commenti scolastici a disposizione del
docente, sia per la lontananza sempre più ampia tra il capolavoro manzoniano e i gusti e la mentalità dei giovani discenti sia per il sostanziale disimpegno con cui il testo viene affrontato da buona parte degli studenti, i quali
si accostano al Manzoni più per obbligo prescrittivo che per interesse o
almeno curiosità verso quello che resta, a dispetto del trascorrere del tempo
e delle generazioni, il più grande romanzo italiano dell’Ottocento. Chi di
noi docenti non ha colto almeno un suo studente distratto o palesemente
annoiato durante una spiegazione del testo manzoniano?
Questo nostro contributo non vuole affatto avere la pretesa di risolvere
il problema, che si presenta invariabilmente a tutti i docenti, di come riuscire a motivare gli studenti a una lettura impegnata e criticamente consapevole del testo manzoniano. Piuttosto, molto più modestamente, vuole essere un contributo che nasce dall’esperienza svolta in una classe di quinta
ginnasiale (la V A) nel corso dell’anno scolastico 2007-2008: lo presentiamo pertanto come una semplice ipotesi di lavoro, che nel nostro caso ci è
servita per stimolare la curiosità e accendere la fantasia sull’autore Alessandro Manzoni e sul suo capolavoro.
Presentando ai nostri studenti il Manzoni siamo, anzitutto, partiti dal
dato biografico, e in particolare dai primi anni della vita del Milanese, che
videro, com’è noto, il divorzio dei suoi genitori, Giulia Beccaria e il conte
don Pietro Manzoni, e l’entrata del fanciullo nel collegio dei Padri Somaschi a Merate e poi in quello di Lugano. Abbiamo evidenziato, dunque,
come all’origine dell’itinerario umano e spirituale dello scrittore vi sia l’evento traumatico della separazione dei suoi genitori e del temporaneamente
perduto rapporto con la madre Giulia, poi incontrata di nuovo e “riscoperta”
– 269 –
nella sua grande capacità di affetto materno, a Parigi. Su questi fatti, presentando la vita del Manzoni, abbiamo cercato di attirare l’attenzione degli studenti, come elementi fondanti di una straordinaria biografia umana e intellettuale.
È noto quanto il difficile (ma sarebbe meglio dire enigmatico) rapporto
col padre abbia condizionato la personalità di Alessandro, nel segno dell’assenza della figura genitoriale. È stato notato, in proposito, dal critico Geno
Pampaloni, il cui commento ai Promessi Sposi ha il pregio di dare particolare risalto ai valori religiosi del romanzo, come Alessandro non parli mai
del padre e nel testo sia pressoché assente la figura paterna, se non in senso
spirituale.1 È consuetudine dei biografi del Manzoni rimarcare, tra le cause
che portarono al divorzio dei suoi genitori, la disarmonia dell’età e del carattere dei due coniugi. All’epoca del matrimonio, celebrato nel 1781,
Giulia, la bella e spregiudicata (per quel tempo) figlia di uno dei più grandi
intellettuali d’Europa, l’illuminista Cesare Beccaria (autore del trattatello
Dei delitti e delle pene, che segna un fondamentale passo in avanti nel cammino della civiltà giuridica europea), aveva ventitré anni e ventisei di più il
futuro marito, quel conte Pietro Manzoni proveniente da una famiglia di
piccoli feudatari della Valsassina, boriosi e prepotenti (tanto che pretendevano l’omaggio da parte dei loro contadini perfino al cane legato all’ingresso del palazzo: e questi dovevano levarsi il cappello e pronunciare il rituale “Riverissi sciur can”).2 Il matrimonio era stato concluso come un vero
e proprio affare dal padre di Giulia, che nei rapporti familiari ci appare
molto meno illuminista e illuminato di quanto la fama del suo ingegno lasci
prevedere, e dal conte Pietro, con l’intermediazione dell’amico comune
Pietro Verri, altro grande intellettuale del tempo. Dato il dissesto in cui versavano le finanze di Cesare Beccaria, peraltro ben felice di accasare quella
figlia così esuberante, alle spese di nozze dovette provvedere lo sposo, che
versò anche buona parte della dote di lei. Ma la triste condizione di Giulia
fu quella di una sposa senza mezzi, come scrive Marta Boneschi in Quel
che il cuore sapeva (Mondadori, Milano 2004):
Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, introduzione, commento critico e note di Geno
Pampaloni, De Agostini, Novara 1996, n. ed., p. 784. Tra le figure di “padri” elencate dal Pampaloni, quella del sarto, quella di Renzo alla fine del romanzo, quella, odiosa, del padre di Gertrude, manca stranamente fra Cristoforo, il padre spirituale di Lucia (e, poi, soprattutto nel bellissimo episodio del perdono a don Rodrigo morente, anche di Renzo).
2 “La riverisco, signor cane”.
1
– 270 –
Le condizioni della svendita di Giulia sono pesanti: il padre si impegna a versare
30 mila lire (24 mila per la dote e 6 mila per la scherpa, cioè il corredo), alle
quali si aggiungono 4 mila lire offerte dallo zio Michele de Blasco. Lo sposo accresce la dote di 9 mila lire, si impegna a mantenere la moglie e a pagare le spese
delle nozze. «Per ciò che riguarda apparati nuziali, vestiario e trattamento della
detta dama sposa, la stessa e il signor marchese consigliere di lei padre, si rimettono pienamente alla notoria politezza, e generosità di detto signor don Pietro
sposo, e del detto monsignor canonico ordinario di questa Metropolitana don
Paolo, di lui fratello, sicuri che questo sarà corrispondente alla qualità delle famiglie contraenti.» In pratica Giulia non possiede nulla di suo, salvo il corredo, e rimane in balia degli umori del padre (che non verserà neppure la dote, se non in
parte) e affidata all’ipotetica generosità del marito. Se questi sono i patti – e sono
già abbastanza svantaggiosi per la sposa – la realtà è ancora peggiore. Cesare
versa effettivamente soltanto 6 mila lire delle 30 mila che ha promesso, e per il
resto cede a Manzoni un credito di 23.900 lire da lui vantato nei confronti della
contessa Giuseppa Aliprandi Calderari. Lo zio Michele da parte sua versa solo la
metà di quanto pattuito.3
Dopo il matrimonio, continua la Boneschi, la coppia va a vivere in una
casa d’affitto sul naviglio di San Damiano, «forse non troppo angusta per
una coppia di sposi, ma di sicuro troppo piccola per la schiera di sorelle e
fratelli che accompagnano don Pietro»:4 le nubili Teresa, Paola (ex monaca), Benedetta, Carolina e Silvia, e i maschi Antonio e Paolo, entrambi
preti. La convivenza non doveva certamente essere facile tra i Manzoni, bigotti e conservatori, e la figlia di un celebre pensatore illuminista, ancorché
piuttosto spregiudicata per quel tempo e già sentimentalmente legata a Giovanni Verri, fratello di Pietro. Giulia amava la vita di società e le serate
mondane, don Pietro era d’indole piuttosto selvatica, data anche l’età avanzata: i due non erano certo fatti per intendersi e sicuramente, e presto, si
manifestarono i primi screzi. Al riguardo Antonio Stoppani, biografo della
giovinezza del Manzoni,5 nulla dice dei rapporti tra i genitori del Manzoni,
ma dà numerose informazioni, prevalentemente aneddotiche, sulla vita del
Manzoni in collegio: da ricordare, quale significativo tra i primi eventi traumatici che turbarono prematuramente la vita del grande Milanese, l’episodio del ceffone che gli diede un precettore laico per farlo smettere di
piangere, quando fu allontanato dalla madre all’ingresso del collegio.
Marta Boneschi, Quel che il cuore sapeva, Mondadori, Milano 2004, pp. 166-167.
Ibid., p. 169.
5 Antonio Stoppani, I primi anni di Alessandro Manzoni, Edizioni Paoline, Milano 1959²,
p. 36.
3
4
– 271 –
Don Pietro Manzoni morì il 18 marzo 1807 senza rivedere il figlio, il
quale neppure volle partecipare ai funerali, come afferma egli stesso nella
lettera del 30 marzo 1807 a Claude Fauriel: secondo il Bezzola, «le ragioni
che il Manzoni dà qui circa la sua assenza suonano male e sanno di pretesto».6
I biografi hanno provato a ricostruire dialoghi e scene di famiglia in
casa Manzoni, per mettere in rilievo la penosa infelicità di quel difficile legame, intessuto di disarmonie, meschinità, incomprensioni, silenzi, e una
fitta sequela di guerricciole quotidiane tra Giulia e gli invadenti parenti
di lui. Vediamo come Natalia Ginzburg, in La famiglia Manzoni (Einaudi,
Torino 19834), ha ricostruito questo piccolo inferno domestico:
Don Pietro Manzoni viveva con sette sorelle nubili, una delle quali ex monaca, e
aveva un fratello Monsignore, canonico al Duomo.7 Giulia fu subito molto infelice. Litigava col marito e le cognate le si mostravano ostili. La casa sui Navigli
era brutta, piccola, umida e buia. Il marito le sembrava una misera persona, senza
ingegno, senza grandi ricchezze e senza prestigio. Era conservatore e clericale e
lei aveva respirato, sia nella casa paterna sia nella famiglia Verri, idee nuove e libere. S’annoiava perdutamente. Non smise di frequentare Giovanni Verri e la
bella casa dei Verri, festosa e sempre piena di ospiti. Condusse una vita brillante
suscitando nei cognati un’avversione sempre più palese, e nel marito l’impulso a
spiarla.8
Il rinvenimento dietro la cornice di un quadro di una carta con un sonetto amoroso indirizzato a una certa Dafni, opera probabilmente di un giovane amico di famiglia, l’architetto Pietro Taglioretti (un futuro cavalier servente di Giulia), avevano persuaso Pietro Manzoni che la poesia fosse indirizzata alla moglie. E perciò, ingelosito e sospettoso, dedicava ogni giorno
un po’ di tempo ai suoi “scandagli da sbirro”: passava una bacchetta di
legno lungo le cornici, nel retro, alla ricerca di fogli di carta contenenti
poesie e messaggi per la moglie. Maria Luisa Astaldi ha ricostruito, partendo da questa maniacale fisima del padre di Alessandro, un emblematico
dialogo tra i due coniugi, nella sua biografia Manzoni ieri e oggi (Rizzoli,
Milano 19722). Giulia, rientrando di sera da una gita a Seregno, per vedere
uno spettacolo di cavalli ammaestrati assieme al fratello di una sua amica,
6 In Alessandro Manzoni nelle sue lettere, scelta e commento di Guido Bezzola, Federico
Motta Editore, Milano 1985, p. 31.
7 In realtà, le nubili erano le cinque sopra nominate, le sposate Emilia e Rosa, che vivevano a casa dei mariti. Vi era poi anche un altro fratello prete, Antonio.
8 Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni, Einaudi, Torino 19834, p. 8.
– 272 –
sorprende nel salotto di casa il marito Pietro intento alle sue quotidiane
esplorazioni:
Vide (scil. Giulia) che i polpacci maritali si stavano dirigendo verso la porta di
fondo, e chiamò con voce allegra: «Pietro!».
Pietro Manzoni si sentì scoperto ed ebbe un po’ di vergogna. Tuttavia spianò il
volto, e atteggiandolo a sorriso si diresse verso il triangolo di luce in cui s’inquadrava la figura della moglie colle mani alzate per ravviarsi i capelli.
«Siete tornata? avete passato una bella giornata, m’immagino. Avete la faccia
accesa».
«È l’aria calda», rispose Giulia appoggiando una mano sulla guancia «e voi, che
facevate qui al buio?»
Il marito esitò un istante.
«Volevo raddrizzare i quadri che sono sempre sbilenchi per i colpi di spazzola
delle fantesche. M’era parso di vedere qualcosa, come una strisciolina che pendesse da dietro una cornice».
Giulia sbottò a ridere dell’ingenuità di quel brav’uomo, che non aveva ritegno a
dichiarare i meschini compiti in cui s’impegnava.
«E che carta o bigliettino o sonetto avete scoperto stavolta?»
«Nessuno, m’ero ingannato».
«Vi vorrei pregare ancora una volta, Pietro, di non abbandonarvi a queste perquisizioni. Vi rendete ridicolo agli occhi dei domestici. V’assicuro che nessuno pone
per me bigliettini segreti dietro le cornici. E se si trattasse di ammiratori delle vostre sorelle, dovreste essere il primo a incoraggiare il maneggio. Sarebbe una
gran bella cosa se una o due di loro passasse a nozze. Le volete tener qui a muffire?»
«Non è alle nozze che mi oppongo, lo sapete benissimo, ma agli amorazzi
scervellati e disonesti. Se vi va di scendere a cena, è l’ora», e aggiunse dopo un
istante «son tutti giù, ed è venuto anche monsignore».9
Ma non è escluso che al fondo dei difficili rapporti tra Pietro e Giulia
vi fosse una grave anomalia fisica da parte di lui, tale che lo avrebbe reso
inabile al matrimonio, secondo la testimonianza di Pietro Custodi: l’anorchidia.10
Dopo la nascita del bambino i due coniugi non dormirono più assieme:
col pretesto di certi malesseri della moglie, Pietro era stato confinato in
una sua cameretta ove passava le notti. Inoltre Giulia commissionò al pittore Andrea Appiani un ritratto di lei e del piccolo Alessandro e lo inviò a
Giovanni Verri (qualcuno ha letto nell’episodio un indizio che rivelerebbe
Maria Luisa Astaldi, Manzoni ieri e oggi, Rizzoli, Milano 1972², pp. 8-9.
La testimonianza del Custodi è riportata in Marta Boneschi, Quel che il cuore sapeva,
cit., p. 174.
9
10
– 273 –
la reale paternità del piccolo Alessandro, quella che lo scrittore chiama
l’“operosa calunnia”), fatto che non mancò di irritare don Pietro.
Sia la biografia manzoniana sia la trama del capolavoro del grande
Milanese, ossia I Promessi Sposi, hanno offerto molteplici spunti per elaborare ulteriori trame narrative. Mario Pomilio, con il romanzo Il Natale
del 1833 (Rusconi, Milano 19849, I ed. 1983), rappresenta, attraverso una
lettera della madre Giulia, il tormento interiore di Alessandro per un Dio
che, di fronte alle più atroci sofferenze dell’uomo, non lascia intravedere
neppure il mistero della Sua giustizia. La dolorosa scomparsa dell’amata
moglie Enrichetta, avvenuta appunto nel giorno di Natale del 1833, poteva
essere forse il momento di fare i conti con Dio, di chiamare in giudizio
Colui che col Suo terribile, inappellabile giudizio, confina nel dolore il destino umano: ma lo scrittore non volle mettere alla prova la sua fede e si
arrestò mentre andava componendo l’ultimo suo inno sacro e, probabilmente, una riscrittura in forma di romanzo del saggio Storia della colonna
infame. Ferruccio Ulivi ha tracciato nel romanzo La straniera (Mondadori,
Milano 1991) il delicato ritratto dell’amatissima moglie di Manzoni, Enrichetta Blondel, forse l’ispiratrice della sua conversione e, in qualche
modo, il modello a cui rimanda Lucia, idealizzato specchio delle virtù
cristiane.
Prove narrative recenti vanno, invece, in direzione della rivalutazione
del personaggio negativo per eccellenza, don Rodrigo. Ferruccio Ulivi, critico letterario e studioso del Manzoni, nel romanzo Tempesta di marzo (Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1993) ha voluto narrare in forma diaristica la passione del signorotto per Lucia: il personaggio, tormentato da una
inappagata ma sincera passione per la contadina di Olate, ne esce in certo
senso rivalutato (del resto, nel romanzo, il vero vilain, come hanno notato
alcuni critici, è il conte Attilio, cugino di Rodrigo). Ma, prima ancora, Giovanni Arpino nel racconto Diario di Rodrigo (1973)11 aveva presentato un
don Rodrigo che badava a difendersi, in una disperata confessione postuma,
dalle calunnie ingiustamente appioppategli riferendo addirittura di un biglietto segreto con l’invito a incontrare Lucia “alla tal ora, dietro la tal
chiesa”, che lei stessa o sua madre Agnese gli avrebbero mandato. Quasi
che la trama immaginata da Manzoni celasse un’altra, inaspettata e ben più
inquietante, vicenda.
Giovanni Arpino, Diario di Rodrigo, in Raccontami una storia, Tutti i racconti II, Rizzoli, Milano 1982, pp. 219-222.
11
– 274 –
2. DIALOGHETTI DI CASA MANZONI
Un lavoro che abbiamo svolto in classe, traendo spunto dalle biografie
manzoniane, è stato aver invitato gli alunni a scrivere un breve dialogo tra i
due coniugi, Pietro Manzoni e Giulia Beccaria, collocandolo nel contesto dei
loro difficili rapporti. Ci è sembrato utile far svolgere questo esercizio di
“scrittura creativa” per varie finalità: anzitutto, rendere consapevoli gli studenti della difficile situazione familiare all’interno di casa Manzoni, una situazione che il piccolo Alessandro doveva percepire, pur non vivendola con
piena consapevolezza. Sono state distribuite alcune pagine fotocopiate dal
testo di Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni (le pp. 8-11). Grazie alla lettura di questo testo, gli studenti hanno potuto rendersi conto dell’ambiente
familiare in cui il piccolo Alessandro venne al mondo, e isolare alcuni punti
fermi del rapporto tra Pietro Manzoni e Giulia Beccaria: la scontrosa misantropia di lui, la sua mentalità arretrata e chiusa, la voglia di vivere di lei, il
suo perenne desiderio di evadere dal chiuso e opprimente ambiente domestico tuffandosi nella vita di società, rappresentata dagli incontri e dalle feste
a casa dei Verri. Quindi, assodati questi pochi elementi basilari, gli studenti
hanno provato a elaborare dei “minidialoghi”, ossia dei dialoghi costituiti da
poche battute, tra marito e moglie. In questi “dialoghetti” gli studenti hanno
provato a ricostruire i dissapori, le disarmonie familiari, prodromi della futura separazione: sono nate così queste brevi sequenze dialogiche, che possono configurasi anche come nuclei narrativi, potenzialmente sviluppabili –
quelle migliori – in sequenze narrative o dialogiche, di più ampio respiro.
Come giudicare questi piccoli lavori? Intanto bisogna giustificare con
l’età e l’ovvia inesperienza sentimentale l’inevitabile affiorare di ingenuità, e
anche banalità. Tuttavia nei migliori tra essi sembra già affiorare un intreccio
in miniatura, una sorta di microsceneggiatura, sia pur con scarse indicazioni
spaziotemporali. Il nostro lavoro, è bene precisarlo, non riguarda l’elaborazione delle sceneggiature, finalità che necessita di ulteriori attività e competenze,12 ciononostante, lo diciamo senza vanteria, alcuni di questi dialoghi
potrebbero essere utilizzati per ideare vere e proprie sceneggiature. E poi, se
è vero che la sceneggiatura deve caratterizzare i personaggi, che i dialoghi
devono rivelare emozioni e conflitti, va detto che, a nostro giudizio, alcune
Rimandiamo in proposito al testo di Massimo Moscati, Manuale di sceneggiatura, Mondadori, Milano 1989, soprattutto alle pp. 107-109, per quanto riguarda la funzione dei dialoghi
nella sceneggiatura.
12
– 275 –
fulminanti battute lasciano pensare che gli studenti abbiano saputo cogliere
in qualche modo il cupo dramma familiare all’interno di casa Manzoni. In
alcuni di questi dialoghi vi è, dunque, un’indubbiamente efficace caratterizzazione dei personaggi, quasi agissero sulla scena di un dramma, o meglio
nel contesto di una situazione familiare già drammaticamente compromessa,
al limite dell’incomunicabilità o certamente di una grande, diremmo abissale, incomprensione tra due figure che nel quotidiano scontrarsi rappresentavano, in fondo, due mondi e due culture inconciliabili: il mondo nuovo,
con le sue idee di luminoso progresso e di libertà, e quello vecchio, l’epoca
dell’autorità assoluta e dell’oscurantismo.
I brevi dialoghi tra Giulia e la cognata ex monaca, sorella di Pietro, di
nome Paola, pur nella loro ingenuità, con brevi battute fulminanti dipingono
bene rapporti di diffidenza, odio e crudeltà. La povera Giulia era osservata
perennemente dalle cognate, che certamente dovevano correre a riferire al
fratello monsignore e al marito di lei. Le uscite di Giulia, il suo desiderio,
inevitabilmente frustrato dall’atteggiamento misantropico del marito, di
partecipare alla vita sociale, il suo temperamento per natura brioso e vivace,
non dovevano riuscire graditi ai parenti del conte Pietro, in particolare alla
sorella Paola, ex monaca, forse rosa da un complesso di gelosia possessiva
verso il fratello. Il che è quanto gli studenti hanno tentato di rappresentare
dal loro punto di vista.
Gli obiettivi didattici che il docente può proporsi attraverso questo tipo
di esercizio, ossia la costruzione di dialoghi attinti a momenti biografici di
un personaggio famoso della letteratura, in questo caso Alessandro Manzoni, possono essere i seguenti:
• interessare gli studenti agli aspetti del vissuto di un autore letterario,
quali momenti importanti del suo itinerario di formazione umana e
artistica;
• abituare gli studenti a caratterizzare i personaggi dialoganti sotto il
profilo psicologico, rendendone evidenti gli stati d’animo, le emozioni, i sentimenti, i conflitti interiori;
• acquisire il senso del ritmo del dialogo, nelle parti parlate e nelle
pause (non è necessario che il personaggio dica tutto, molto può essere fatto intuire al lettore);
• attraverso l’elaborazione di dialoghi brevi e concentrati costruire
degli abbozzi di sceneggiature (ovviamente, senza l’indicazione
delle inquadrature, campi e piani di ripresa, che potrebbero essere
aggiunti eventualmente in una fase successiva);
– 276 –
• provare a immaginare, attraverso la costruzione di dialoghi, delle
vere e proprie storie, da sviluppare come testi narrativi o soggetti per
il cinema.
2.1. Dialoghi tra Pietro Manzoni e Giulia Beccaria
Pietro M.: Giulia, ti sembra questa l’ora di tornare? Dove sei stata per tutto
questo tempo?
Giulia: Pietro, sempre la stessa storia... Sono stata a sbrigare delle faccende e...
sono andata a trovare Maria... Sai, quell’amica che purtroppo è ammalata, povera
donna!
Pietro M.: Finiscila! Non fai altro che raccontarmi sciocchezze! Quali faccende
avresti dovuto sbrigare, scusa? Non so più cosa fare, con te... Esci sempre...
A casa non ci sei mai...
Giulia: Pietro, lasciami stare...
Pietro M.: No, Giulia! Non ti lascio stare! Sei mia moglie, diamine! Dovresti
avere più rispetto nei miei confronti...
Giulia: Non ce la faccio più... In questa casa non fate altro che impormi ciò che
devo fare, cosa devo pensare o dire... Sai cosa ti dico? Esco, non ho intenzione
di continuare questa conversazione...
(Giorgia Baglio)
* * *
Pietro e Giulia si trovavano nella loro dimora sui Navigli e questo era l’ennesimo
litigio fra i due. «Il nostro rapporto non può andare avanti così, Pietro! Siamo
completamente diversi! Io amo vivere, divertirmi, frequentare gente, mentre voi?
Siete solo un misero uomo senza prestigio, chiuso in voi stesso, che non fa altro
che criticare il mio modo di essere! Non è possibile vivere in una famiglia
animata tutta contro di me. Per non parlare poi delle vostre sorelle! Non fanno
altro che essere ostili nei miei confronti».
Pietro allora si alzò di scatto dalla poltrona e rispose puntandole il dito contro:
«Voi fate solo la vittima! Fate sempre come vi pare in questa casa! Credete che
non sappia della storia tra voi e il vostro amante, Giovanni?!» «Almeno lui sì che
è un gentiluomo! Elegante, sicuro di sé, intelligente, pieno di vita. Quando sono
con lui mi sento un’altra persona. Libera e felice. E non giudicata!! Per questo lo
amo». Sentendo queste ultime parole Pietro la guardò attonito e, adirato, se ne
andò sbattendo la porta.
(Marta Cappelloni)
* * *
Una sera a casa Manzoni, Giulia Beccaria, intenta a uscire, viene fermata dal
marito, il conte Pietro.
Pietro: Giulia, dove vai? È tardi, non vedi?
– 277 –
Giulia: Lo so, ma devo andare a casa della contessa Enrica di Merate. Pietro,
davvero non ricordi? Te l’avevo accennato ieri sera a cena – e guardando l’orologio – ora scusami, caro, ma il tempo passa ed ho fretta di andare.
Giulia prendendo il soprabito, si avvicina alla porta, dove viene bloccata dal
marito.
Pietro: Giulia, cosa penserà la gente nel vederti uscire da sola e così tardi?
Giulia ignorando il marito apre la porta ed esce senza degnare di uno sguardo
Pietro, dicendo: Pietro, non cercare di ostacolarmi, sono giovane e con te mi
sento in prigione, lasciami andare, fammi vivere la mia vita.
E con parole fredde sale su una carrozza e si allontana.
(Rebecca Casini)
* * *
Pietro Manzoni: Giulia, anche questa sera vi state vestendo elegante, per quale
ragione?
Giulia Beccaria: Io... veramente stavo per dirvelo: ho intenzione di andare ad un
ricevimento, la carrozza dovrebbe arrivare a momenti.
Pietro M.: Ma, moglie cara, uscite ogni giorno! Non c’è volta che vi si riesca a
intravedere fra queste mura... Perché non rimanete qui a casa e preparate una
buona cenetta come ogni moglie dovrebbe fare, ogni tanto? Vi sembra un comportamento responsabile il vostro? È questo forse il modo di amare lo sposo? Se
di me non vi importa nulla, pensate almeno a nostro figlio, a vostro figlio! Se
solo ogni tanto vi degnaste di essere presente! Voi avete dei doveri morali in
quanto moglie e madre, non potete vivere solo di piaceri e frivolezze, e non mi
sembra questa la prima volta che ve lo faccio presente... E a che ora tornerete,
poi? La gente chiacchiera, Giulia, e io stesso ho il sospetto che voi vi incontriate
con qualcuno... o forse mi sbaglio?!
Giulia B.: Pietro, scusatemi, ma ora non ho tempo per le vostre scenate e i vostri
rimproveri, vostri e di vostra sorella; questa casa mi opprime ogni giorno di più
e le sue pareti sembrano volermi intrappolare. Non starò dunque a sentire voi
che mi accusate e mi incolpate di non essere una brava moglie, perché se questo
matrimonio sta cadendo in pezzi, la colpa è anche vostra. Ma ecco che arriva la
mia carrozza, buonasera Pietro, non sentitevi in dovere di aspettarmi alzato, arrivederci.
(Claudia Castellani)
* * *
Giulia: Sono stata invitata ad un ricevimento in casa del conte Verri.
Pietro: Sono stanco, voi pensate sempre a soddisfare i vostri futili piaceri.
Giulia: E voi siete un uomo misero, senza grandi ricchezze e senza prestigio.
Ogni giorno mi chiedo perché mai vi ho sposato, cosa potevo aver visto nel
vostro animo.
Pietro: Nel mio animo c’è qualcosa che voi non conoscete, la dignità e l’onore.
Il conte Verri è un uomo di malaffare e io non voglio compromettermi con quella
gente.
– 278 –
Giulia: Via, per amor di Dio, smettetela, ormai ho promesso. Andrò anche senza
il vostro consenso.
Pietro: E va bene, se è così che la pensate andate, ma non tornate più in questa
casa.
Giulia: Il nostro amore è ormai finito, passerò il resto della mia vita accanto ad
un uomo che soddisferà i miei desideri.
Pietro: Ebbene andate, chiederò al mio avvocato di occuparsi del divorzio.
(Ludovica Celletti)
* * *
Pietro ferma Giulia intenta ad uscire di casa, durante una serata d’autunno.
Pietro: Giulia, dove vai? Stai uscendo? Fuori fa freddo questa sera...
Giulia: Sì, tranquillo. Sto andando a casa della contessa Isaura di Merate, mia
carissima amica. Non ricordi? Ti avevo detto che stasera mi sarei recata a casa sua...
Pietro: Già... Cosa penserà la gente nel vederti uscire tutta sola al calar del sole?
Giulia, sono stanco di questo tuo atteggiamento... Parliamone con franchezza...
Chi è lui?
Giulia: Lui? Pietro, per favore, basta! Non ascoltare ciò che dice la gente... E
ricorda che nonostante mi sia sposata ed abbia un figlio, io resto pur sempre una
donna! Ho diritto di comportarmi come tale! Ho diritto di vivere la mia età e di
godermi la mia vita!
Pietro: Sempre con questa storia! Giulia, pensa a comportarti come una moglie e
come una madre! Non ti privo di nulla, ti rispetto... Dimmi, dove sbaglio? Non
capisco questo tuo smoderato desiderio di uscire! Stai a casa!
Giulia: Pietro, non voglio mancarti di rispetto... E tu lo sai bene... Tornerò presto,
te lo prometto! La mia amica mi sta aspettando, ora devo andare!
(Sara Composto)
* * *
I due coniugi sono seduti ai due lati opposti di una lunga tavola da pranzo e
mangiano silenziosamente, serviti dai servitori. Improvvisamente Pietro parla.
Pietro: Tra due settimane vorrei recarmi alla villa di Caleotto per controllarne lo
stato. Ho sentito di alcune voci che raccontano di strani individui che si sono
aggirati lì nei dintorni. Dovremo organizzare dunque per la nostra partenza.
Giulia: No, caro marito, ho il dispiacere di dirvi che non potrò aiutarvi. Si dà il
caso che esattamente tra due settimane sia organizzata una splendida festa a casa
Verri.
Pietro: Ma suvvia, non credo che sia opportuno recarvisi. Non vi sembra di
trascurare sempre più questa famiglia? Una breve gita potrebbe farci star meglio,
e anche il piccolo Alessandro...
Giulia: Mi sono stufata di sentirvi sempre tirar fuori questa scusa della famiglia!
La realtà è che voi volete tenermi prigioniera di una vita che non ho mai voluto!
Pietro: Non capisco perché voi amiate tanto uscire per frequentare certi ambienti
affollati. Il vostro compito sarebbe quello di stare accanto a vostro marito, ma
ahimé, non ne avete la minima intenzione!
– 279 –
Giulia: Ma come fate ad essere così ottuso! Solo perché la vostra educazione è
stata tremendamente bigotta ed insufficiente per apprezzare le gioie della vita,
non vuol dire che io debba far parte di questa vostra visione delle cose! Io non mi
sottometterò agli ordini di un marito che non ho scelto e che non amo.
Pietro: Bisogna che la prossima volta voi mi rispondiate con un tono più adeguato.
E per ora vorrei smettere di rovinarmi la serata.
Giulia: Non ci sarà neanche una prossima volta. Mi rifiuto di parlarvi ancora. Ed
ora con il vostro permesso, mi allontano.
Giulia esce dalla sala da pranzo sbattendo i tacchi.
(Giulia D’Alia)
* * *
Giulia: Oggi alla casa dei Verri c’è un ballo dove parteciperanno tutte le famiglie
più nobili. Vogliamo andare? Mi piacerebbe molto.
Pietro: Grazie, ma preferisco davvero rimanere qui. Sono molto stanco e gradirei
che tu mi facessi compagnia.
Giulia: Veramente, come ti ho detto prima, ci tengo moltissimo ad andare. Visto
che tu vuoi rimanere a casa, andrò io. Ti dispiace?
Pietro: Te l’ho detto, preferirei rimanessi qui in casa. Non mi piace la vita che
conduci: sei sempre in giro, vuoi andare sempre a queste feste. Non credi che
dovresti rimanere qui con tuo marito?
Giulia: Lo sappiamo benissimo tutti e due che questo matrimonio è una farsa,
non posso continuare così, il mio unico sfogo per non pensare a ciò che mi ha
costretto a fare mio padre è uscire. Non mi piace l’aria che si respira in questa
casa e le persone che la frequentano, al contrario adoro uscire e divertirmi per
scappare dalla monotonia di questa vita e credo che dovresti farlo anche tu.
Detto questo Giulia sparì nella sua stanza mentre Pietro era rimasto impassibile
a quelle parole così amare. Dopo un’oretta Giulia uscì da quella stanza con i
capelli legati e raccolti con alcune mollettine ed un vestito molto elegante.
Giulia: Allora, io andrei. Sei proprio sicuro di non voler venire?
Pietro non rispose.
Giulia: Rientrerò tardi, non mi aspettare.
(Francesca De Luca)
* * *
«Sei davvero un misero uomo». Pietro Manzoni a quella affermazione alzò lo
sguardo dal suo libro e guardò di sottecchi la giovane moglie. «Come, scusa?»,
chiese con aria scettica. «Sei davvero un misero uomo», ripeté Giulia, stavolta
con maggiore decisione. Pietro ignorò la moglie e tornò al suo libro. «Non hai ingegno, non hai ideali...», Giulia continuava, mossa dal suo cuore carico di rabbia
verso quella famiglia che le aveva violentemente tarpato le ali. «Non partecipi
mai alle feste della società. Non apri mai la tua mente verso la cultura o verso
pensieri aperti e liberi!» Pietro non degnava la moglie di uno sguardo, apparentemente catturato dalla lettura del suo libro. «Non apprezzi le nuove idee, il progredire della nostra società... Rimani chiuso nel tuo ormai vecchio mondo!» Il ma– 280 –
rito voltò una pagina. «Sei ancora una bambina. Cresci», disse gelido l’uomo,
sistemandosi gli occhiali a mezzaluna. A quelle parole Giulia si fece rigida e il
suo sguardo divenne pieno d’odio. «Sei tu che devi crescere», disse aspramente
la fanciulla, dirigendosi con passo agitato verso la camera da letto, per poi sbattere rumorosamente la porta.
(Giulia Di Stefano)
* * *
Pietro: Ciao, Giulia! Da dove torni? Cos’hai? Perché quello sguardo stravolto
domina il tuo viso?
Giulia: Pietro, devo parlarti! Sono stata dal medico poiché non sono stata bene e...
Pietro: E...?
Giulia: E ho scoperto di essere in attesa di un bambino, tuo figlio!
Pietro: Ah! Non era quello che mi aspettavo e sinceramente nemmeno quello che
desideravo! Il nostro non è un matrimonio sereno, ma travagliato da forti incomprensioni... e un figlio non ci voleva proprio!
Giulia: Hai proprio ragione, sai?! Maledico mio padre, che insieme a quell’altro
sciagurato di Verri, mi hanno portata qui a marcire, tormentata dalle stupide
chiacchiere delle tue sorelle e dai tuoi strani modi di fare. Ma io qua non ci sto
più, me ne vado via!
Esce così sbattendo violentemente la porta, Pietro non la ferma.
(Salvatore Gallo)
* * *
Don Pietro: Giulia, dove vai?
Giulia: Sto uscendo.
Don Pietro: Ma dove vai e con chi?
Giulia: Sono stata invitata ad una festa a casa Verri e ci vado in carrozza.
Don Pietro: Esci tutte le sere, perché oggi non resti a casa?
Giulia: Te l’ho già detto che vado ad una festa. Ho da fare, E ora tolgo il disturbo,
sennò faccio tardi.
Don Pietro: Ma torni presto, vero? Ieri sei tornata di mattina.
Giulia: Perché la festa è durata tanto. Comunque la cosa non ti riguarda affatto.
Don Pietro: Sì che mi riguarda! Sono tuo marito! Una moglie deve stare in casa
con il suo coniuge, non uscire a divertirsi.
Giulia: Scusami, ma adesso devo proprio andare.
Don Pietro: Con chi ci vai, con Giovanni Verri?
Giulia: Ci vado da sola. Ora ti saluto altrimenti la carrozza se ne va.
(Caterina Jekot)
* * *
È sera e i coniugi Manzoni si trovano davanti ad uno scoppiettante camino.
Pietro Manzoni: Giulia, perché siete così triste quando state in mia compagnia?
Avete sempre questo volto infelice e sembrate quasi assente.
Giulia: Beh, questa casa per me è come una prigione, mi annoio continuamente.
– 281 –
Pietro: Come fate a dire questo? Ogni giorno e ad ogni ora della sera uscite, fate
tardi e mi mentite su cosa abbiate fatto. Perché non volete stare con me?
Giulia: Vi premetto, mio caro Pietro, che è in arrivo un bambino, ma comunque
ora non ho voglia di ascoltare le vostre prediche, è per questo che non voglio
stare con voi, siete noioso e polemico. Comunque ora me ne vado, arrivederci.
Pietro: Ma... Giulia... perché fate così?
Giulia: Vi ho già detto che non ho voglia di parlare!
E così sbatte la porta di casa uscendo di fretta, mentre Pietro si accende la sua
pipa.
(Elisa Iezzi)
* * *
Giulia era davanti alla porta di casa, si stava guardando per l’ultima volta allo specchio prima di uscire quando Pietro, vedendola, si fermò a parlarle. «Giulia, cosa
state facendo?» «Esco», rispose lei gelida. «E dove andate?» Lei, irritata: «Vado
dalla contessa Bianchi, mi ha invitata a cena». E ironica aggiunse: «Adesso posso
andare?» «No. Quella donna ha una pessima reputazione. Non voglio che andiate!»
«No?! Chi siete voi per impedirmelo?! Io non sono vostra né di nessun altro. Sono
libera e lo sarò sempre!» Stava per uscire quando lui l’afferrò per il braccio: «Vi ho
detto che non potete uscire.» «E io ho detto che non voglio obbedirvi! Sono stufa di
questa casa, di voi e dei vostri parenti! Siete più pesanti dell’aria viziata che si respira qui! E ora lasciatemi!» Lui invece di lasciarla strinse ancora di più la presa facendole male. Allora lei urlò: «Lasciatemi!», e con uno strattone riuscì a liberarsi e
a uscire. Lui rimase un secondo a guardare prima la porta e poi la propria mano,
dopo si girò e andò nella sala da pranzo dai suoi parenti.
(Maria Vittoria Manzoni)
* * *
Giulia scese le scale gioiosa e raggiante come non mai, indossava uno splendido
abito color lavanda e aveva i capelli accuratamente raccolti in uno chignon. Si
fermò solo per un attimo a rimirare la sua immagine nella specchiera dell’ingresso, prima di indossare il soprabito, quando Pietro la chiamò: «Giulia?!»
«Sì!», rispose lei. «Dove ti stai recando?» «Sono stata invitata per cena dalla
contessa De Gregorio», disse Giulia mentendo: in realtà si sarebbe recata a casa
di Verri. Pietro si oppose: «Non voglio che tu ci vada, lo sai, le sue cene sono fin
troppo fastose e festose per i miei gusti». «Non c’è da preoccuparsi», lo tranquillizzò Giulia, «questa sera saremo solo io e lei, una tranquilla cena tra vecchie
amiche. La contessa mi ha invitata per tenerle compagnia poiché suo marito si è
recato fuori città per affari». Ma Pietro non volle saperne, obbligò Giulia a non
andare e a trascorrere la serata in casa.
(Giulia Nonni)
* * *
Era sera e Giulia era appena tornata a casa da una festa di una sua amica.
Appena tornata in casa incrociò lo sguardo del marito.
– 282 –
Giulia: Ciao, Pietro.
Pietro: Dove sei stata?
Giulia: Da Maria, ha fatto una festa.
Pietro: C’era anche Verri, giusto?
Giulia abbassò lo sguardo e quella fu una risposta più che soddisfacente per
Pietro. Giulia si avviò alle scale, ma presa da un attimo di rabbia urlò.
Giulia: Cosa vuoi? Io sto con chi mi pare, sei una persona orribile, sei freddo, totalmente incapace di trasmettere amore, sei veramente insopportabile. Già, non ti
sopporto più!
Pietro: Rassegnati, sono tuo marito!! Passeremo la vita insieme!
Giulia a sentire quelle parole aveva voglia di piangere, urlare, scappare. L’idea di
passare la vita (come aveva detto lui) insieme a quell’insopportabile uomo le
sembrò insostenibile. Scoppiò a piangere e corse verso la porta. Pietro la fermò
afferrandola per un braccio.
Pietro: Dove vai?
Giulia: Via di qui.
Pietro: Non puoi.
Giulia: Scommettiamo.
Pietro le lasciò il braccio ma continuò a fissarla.
Pietro: Rientra in casa.
Giulia non sapeva che fare, rimase qualche secondo immobile, poi rientrò in
casa.
(Benedetta Prignano)
* * *
Don Pietro: Giulia, dove pensi di andare a quest’ora di notte?
Giulia: La cosa non ti riguarda, smettila di ficcare il naso nella mia vita privata!
Don Pietro: Come osi parlarmi in questo modo? Io sono sempre tuo marito, che
ti piaccia o no!
Giulia: Sai benissimo che questa situazione non mi piace affatto, sono stata costretta a sposarti! Lo capisci? Ora lasciami andare, che mi stanno aspettando.
Don Pietro: Di nuovo a casa dei Verri?
Giulia: E se anche fosse? Sappi che io ho il diritto di evadere da questa vita
noiosa che condivido con te, le feste dei Verri mi risollevano il morale dopo una
giornata chiusa qui dentro!
Don Pietro: Dato che disprezzi tanto la vita che hai scelto, a questo punto puoi
anche andartene.
Giulia: Ti ripeto che non è questa la vita che ho sempre desiderato, ma mi è stata
imposta!! E se tanto lo vuoi sapere ho deciso di lasciarti!
Don Pietro: Benissimo, fai pure, tanto di donne come te se ne trovano a bizzeffe!
Giulia: Addio, Pietro, sappi che non ti ho mai amato (sbatte la porta alle sue
spalle e abbandona per sempre casa Manzoni).
(Martina Proietti)
* * *
– 283 –
Pietro è seduto nella sua stanza, quando arriva Giulia.
Giulia: Ho da darvi una notizia.
Pietro: Dimmi pure.
Giulia: Avremo un figlio.
Pietro: Oh, che notizia meravigliosa, non trovi?
Giulia: Mah, per me sarà solo un peso.
Pietro: Ma Giulia, cosa vorresti dire con questo?
Giulia: Le mie parole sono state molto chiare, mi pare (risponde acidamente).
Pietro: Ma avere un figlio è una cosa splendida! In che modo potrebbe essere un peso?
Giulia: Dovrò restare a casa per accudirlo. Io non ho voglia di starmene qui tutto
il giorno.
Pietro: Non mi pare che dover rimanere qualche volta a casa sia una tragedia così
grande! È tuo figlio dopotutto. E poi passi più tempo fuori!
Giulia: La pensiamo diversamente, comunque adesso esco. Non so quando sarò
di ritorno (dicendo ciò esce velocemente).
Pietro: Come stavo dicendo (commenta tra sé).
(Benedetta Straini)
2.2. Dialoghi tra Giulia Beccaria e la cognata ex monaca13
Lucia: Buon giorno, Giulia... state bene?
Giulia: Buongiorno a lei... certo, benissimo.
Lucia: Credevo che qualcosa non andasse... dal litigio che avete avuto ieri sera
con vostro marito sono certa che abbiate bisogno di parlare con qualcuno...
dunque, se volete...
Giulia: La ringrazio per il suo interesse, ma non si deve preoccupare...
Lucia: Come volete... Pietro però è stato molto in pensiero... non riuscirà neppure
a star seduto!
Giulia: Ho semplicemente avuto un imprevisto e sono dovuta uscire per questo
motivo... niente di più.
Lucia: Ma quale imprevisto! Io credo proprio che voi nascondiate qualcosa... la gente parla di voi, mia cara Giulia, e le voci che girano non piaceranno a vostro marito...
Giulia: Ma come vi permettete! Non credo che questo vi riguardi... non siete
forse voi che ogni giorno intralciate me e mio marito?
Lucia: Giulia, io lo faccio per voi, cosa credete...
Giulia: Sono in gabbia! Cosa dovrei fare? Restare chiusa in questa casa fino alla
fine dei miei giorni?
Lucia: Voi non avete rispetto né per vostro marito né per me né per questa casa!
Bene, non mi lasciate altra scelta... parlerò con Pietro!
(Giorgia Baglio)
* * *
La cognata di Giulia Beccaria e sorella di Pietro Manzoni, il cui vero nome era Paola, è
stata variamente ridenominata dagli alunni.
13
– 284 –
Nel frattempo la sorella di Pietro, Concetta, scese piano piano le scale interne per
sentire cosa dicevano: vide il fratello uscire di casa brontolando qualcosa fra sé,
mentre Giulia era rimasta nella stanza. Subito l’ex monaca vi fece irruzione e
parlando con tono aspro e duro, disse a Giulia: «Come vi permettete di parlare in
quel modo a mio fratello! Vi ha sempre voluta bene trattandovi come una regina.
Non si merita tutto questo! Pensate solo a voi stessa non facendo altro che i
vostri comodi! Uscite tutte le volte senza dire dove andate. La gente mormora...
siete una vergogna!»
Giulia non potendo sottostare alle critiche della cognata le rispose gridando:
«Basta! Non sopporto più le vostre offese! Non fate altro che umiliarmi insieme
alle vostre sorelle! La crisi di questo maledetto matrimonio dipende anche da voi
che non fate altro che intromettervi nella nostra vita coniugale dimostrandovi,
non so per quale motivo, ostile nei miei confronti!» Così Giulia proferendo
queste ultime parole se ne andò lasciando la cognata in forte collera.
(Marta Cappelloni)
* * *
Un pomeriggio Elide, sorella del conte Pietro, ex monaca, dopo aver ascoltato l’ennesima conversazione tra il fratello e Giulia Beccaria, scende le scale e parla a Giulia.
Elide: Giulia, cos’è successo? Ti vedo un po’ strana, cara.
Giulia: Signora Elide, non faccia finta di non aver ascoltato, non sono così ingenua come lei pensa e riesco a capire chi mente, come lei, Elide!
Elide: Non osare quel tono saputo nei miei confronti, sciocca ragazzina! Sei la
rovina del mio povero fratello, succube di tutti i tuoi capricci!
Giulia: Capricci? Voglio solo un po’ di libertà. Con Pietro mi sento in prigione,
non riesce proprio a capirlo?
Elide: L’unica cosa che capisco, Giulia, è che stai infangando il nome della nostra famiglia. Esigo rispetto!
Giulia: Io vi rispetto, non è questo che manca nella mia famiglia, ma l’amore e la
libertà. Forse lei non può capire, come del resto Pietro. Ora, se non le dispiace,
mi ritiro nella mia camera.
E chiudendosi nella sua stanza, Giulia inizia a piangere.
(Rebecca Casini)
* * *
Teresa: Giulia, dove siete stata ieri per tutto il giorno? Vostro marito vi attendeva
per la passeggiata che avevate programmato, e anche questa volta lo avete deluso. Passate così poco tempo con lui!
Giulia: Scusate, ho avuto un imprevisto, mi dispiace.
Teresa: Imprevisto? Oh, bella davvero questa! E sentiamo, coraggio, che genere
di imprevisto? Non è la prima volta, mi pare.
Giulia: Con tutto il rispetto, non credo che questo sia affar vostro. La mia vita
privata riguarda me soltanto.
Teresa: Siete molto impertinente e sfacciata, cara mia! Povero il mio buon fratello! Ebbene, se la mettete così, vedete bene che non ho altra scelta: riferirò a
– 285 –
Pietro – pover’uomo – con chi avete trascorso la giornata ieri, poiché si dà il caso
che io vi abbia vista con questi occhi che passeggiavate a braccetto con un bel
giovane bruno... è questo che voi chiamate imprevisto, dunque? Siete una donna
irresponsabile e piena di fantasie, e questo vostro atteggiamento non può restare
impunito. È tempo di cambiamenti, signorina, oh, vedrete voi...!
(Claudia Castellani)
* * *
Giulia: Nora, ho qualcosa di importante da dirvi.
Nora: Ditemi, cosa mai è accaduto?
Giulia: Ho deciso di divorziare da Pietro.
Nora: Come mai? Non lo amate più?
Giulia: No, purtroppo lo ritengo un uomo così misero, non sono più felice con
lui, mi sento rinchiusa.
Nora: Non potete fargli questo, lui vi ama più di qualunque altra cosa, morirebbe
per voi.
Giulia: Questo lo so, ma non posso andare avanti così.
Nora: La cosa più giusta da fare è parlare e discutere con Pietro di questi problemi.
Giulia: Va bene, lo farò.
(Ludovica Celletti)
* * *
Naide, ex monaca e sorella di Pietro Manzoni, dopo aver origliato una conversazione fra Giulia Beccaria e Pietro, si reca dalla cognata per parlarle.
Naide: Giulia, non puoi continuare a infliggere queste umiliazioni a mio fratello!
Giulia: Non è mio intento mancargli di rispetto... ma io sono giovane! Voglio vivere la mia vita! Voglio assaporare il mondo! Voglio scoprire cosa c’è all’infuori
di queste mura!
Naide: Non meriti Pietro... pover’uomo! Costretto a sopportare i capricci di una
ragazzina! Vergognati! Pensa a comportarti come una brava moglie e soprattutto
come una brava madre!
Giulia: Ah, sì! Ma... non deve andare a riferire tutto al degno Prelato?
Naide: Ragazzina, non osare rivolgermi queste parole sarcastiche! Porta rispetto!
A me e a tuo marito!
Giulia: Non è il rispetto che manca in questa famiglia... manca l’amore! Non c’è
amore! Non posso amare chi non ama la vita e la bellezza! Mi sento in gabbia!
A quanto pare, per quanto mi sforzi di parlare, nessuno comprende ciò che
provo! L’atteggiamento che mio marito ha nei miei confronti è un fardello che mi
grava sul cuore. Io vi rispetto! Ma voi dovete rispettare le mie esigenze!
(Sara Composto)
* * *
Dialogo fra Giulia Beccaria e la sorella del conte Pietro, Giuseppina, ex monaca.
Giuseppina: Giulia, avvicinatevi, debbo parlarvi in privato.
Giulia: Sì, vi ascolto.
– 286 –
Giuseppina: Ho sentito dire che vi frequentate con un certo Taglioretti.
Giulia: Non credo che siano cose che vi riguardino.
Giuseppina: Invece mi riguardano eccome! Riguardano mio fratello, quel poveretto.
Dite un po’, vi divertite a prendervi gioco della nostra intera famiglia? Credete che
non si sappia dei vostri ripetuti tradimenti a quella santa anima che è mio fratello?
Giulia: Ripeto che non sono cose che vi riguardano. E poi pensate a voi stessa;
più vi conosco, più inorridisco al pensiero di come siete stati cresciuti male, voi
Manzoni. Signora mia, voi non capite? Voi mi soffocate! Voi opprimete il mio
spirito! Ma io vi ho capiti bene. Ed è per questo che non darò nessuna importanza
alle vostre prediche. Con voi io vivo la mia vita come se fossi un’aquila rinchiusa
in una gabbia!
Giuseppina: Ah, parole futili! Tutti sciocchi ideali romantici! La verità è che mio
fratello avrebbe fatto meglio a non sposarvi. Ingrata! Noi vi abbiamo offerto una
vita da principessa! Non ricordate quanto fosse scarsa la vostra dote? Siete solo
una irriconoscente donzelletta frivola e senza prospettive.
Giulia: Non un solo attimo di più le mie orecchie riusciranno a sentire questo
baccano che fate. Sarà meglio per me allontanarmi.
(Giulia D’Alia)
* * *
Dialogo tra Giulia Beccaria e l’ex monaca Clara, sorella di Pietro.
Giulia era rientrata da una delle solite feste.
Clara: Dove sei stata?
Giulia: Credo che ciò non ti riguardi.
Clara: Lo credi davvero? Sappi invece che ti sbagli, mia cara, mi riguarda perché
sei la moglie di mio fratello e mi sento in dovere di dirti di smetterla di uscire
così spesso.
Giulia: Io non faccio quello che mi suggerite voi, perché sono adulta e solo
perché sono stata costretta a sposare Pietro non sono altrettanto costretta ad essere come una moglie per lui, visto che non lo considero un marito.
Clara: Ma non pensi a Pietro?
Giulia: Lui pensa a me? La verità è che nessuno dei due voleva questo matrimonio ed è stupido fingere di essere felici e di considerarci come marito e moglie
quando noi per primi non ne siamo convinti.
Clara: Ti stai sbagliando.
Giulia: Cosa ne puoi sapere? Nessuno lo sa, tanto meno tu che sei un’ex monaca.
Clara: Non ti permetto di parlarmi in questo modo.
Giulia: E allora se non vuoi sentirti dire certe cose, smettila di impicciarti e
darmi ordini.
(Francesca De Luca)
* * *
Giulia era immersa nei suoi pensieri, quando fu interrotta dal ruvido tono di voce
della sua cognata ex monaca. «Dovresti portare più rispetto nei confronti di tuo
marito, sciagurata!» «Il rapporto che ho con mio marito non è affare che la
– 287 –
riguarda, Elisabetta», disse Giulia con tono indifferente. «Non rispondermi in
questo modo, insolente! Sei solo una ragazzina!», disse acida Elisabetta. «Me lo
dice sempre anche suo fratello...» fece la giovane Beccaria con aria annoiata.
«Mi chiedo come Pietro abbia potuto sposare una maleducata e impertinente
come te! Oltretutto avevi una poverissima dote...». Pronunciò quest’ultima frase
con un perfido sorriso sulle labbra. «Sa? Me lo sono sempre chiesto anche io»,
disse Giulia sorridendo ironicamente, e aggiunse: «Mi creda, avrei preferito rimanere nubile per il resto della mia esistenza, piuttosto che essere stata data in
moglie ad un essere come il suo adorato fratello». A queste sincere ed irriverenti
parole, Elisabetta se ne andò con aria indignata, lasciando Giulia da sola.
(Giulia Di Stefano)
* * *
Maria: Giulia, sono stanca di vedere mio fratello e la sua vita bruciati dai vizietti
di una ragazzina sciocca come te! Spero che uscirai presto dalla sua e dalla nostra
vita!
Giulia: Ah, bene! Quindi non lo sai! Non sai che io e Pietro aspettiamo un figlio!
Ma sappi che entrambi non lo desideriamo! Ricordalo!
Maria: E tu ricorda che un tuo figlio qua non sarà mai ben accetto!
Giulia: Io nella vostra vita non ci sarei mai voluta entrare, se non fosse stato per
mio padre! Dio, quanto lo odio e quanto odio voi e la vostra vita da falsi signorotti!
Maria: Ah, è così?! Esci di corsa da qua, ingrata!
Giulia: Con molto piacere, carogna!
Giulia esce di corsa sbattendo la porta.
(Salvatore Gallo)
* * *
Eufrasia: Giulia, sei tu, vero?
Giulia: Sì, sono io!
Eufrasia: Ti sembra questa l’ora di tornare? Sono le tre del mattino.
Giulia: Ero ad una festa a casa dei Verri. E tu, che ci fai in piedi a quest’ora? Stai
facendo una veglia notturna o mi stai spiando?
Eufrasia: Non sono affari tuoi. Con chi sei stata? Scommetto che eri ancora con
quel cascamorto di Giovanni Verri. Hai tradito tuo marito?
Giulia: Macché! E poi questa volta sono io che lo dico: fatti gli affari tuoi, Eufrasia! Già non sopporto mio padre che mi piega al suo volere, ora me la devo
prendere pure con te! Non esiste!
Eufrasia: Sei maleducata e impertinente.
Giulia: Perché nonostante tutto voglio vivere la mia vita. Buonanotte.
(Caterina Jekot)
* * *
Giulia si ritira nella sua stanza, assorta nelle sue letture, mentre entra Clelia, sorella di Pietro.
– 288 –
Clelia: Giulia, dovete avere un comportamento più rispettoso e dignitoso verso
vostro marito, che è anche mio fratello.
Giulia: Le ricordo, ancora una volta, che questo non è affar vostro. Questo è il
mio matrimonio e non sarete di certo voi a dirmi come devo comportarmi.
Clelia: Io voglio solo aiutare mio fratello a farsi rispettare da voi, che lo umiliate
continuamente facendo la bella vita con i vostri “amici”!
Giulia: Lasciate che sia vostro fratello ad avere il controllo della propria vita... ed
ora, se volete scusarmi, avete interrotto le mie letture.
Clelia: Come volete...
E così la sorella di Pietro, ancora una volta delusa dall’esito della discussione
avuta con Giulia, ritorna alle sue faccende.
(Elisa Iezzi)
* * *
Dialogo fra Giulia e Aurora, sorella di Pietro.
Era mattina. «Giulia! Giulia! Giulia! Svegliatevi!» Giulia aprì gli occhi e vedendo Aurora, si spaventò. «Cosa ci fate nella mia stanza?!», disse lei eccitata.
«Che domande! Sono venuta a svegliarvi, oggi è domenica. C’è la messa.» «Ah
sì?», disse Giulia con una voce che esprimeva tutto il suo menefreghismo. «Sapevo», continuò Aurora, «che non vi sareste svegliata in tempo, siete tornata alle
quattro di mattina. Comunque mentre eravate via ho pensato di sistemarvi la
stanza.» E con voce sarcastica, «Ho trovato cose molto interessanti.» «Come vi
siete permessa?! Questa è la mia stanza! Voi non avete il diritto di entrare!»
«Cara, ma questa è casa mia, comunque... ho sentito molto su di voi e sulla
vostra amica contessa», disse, «aspetta, come vi hanno chiamate?... Ah sì, hanno
detto che siete delle donnine allegre! Ah ah ah!» Giulia sentendo di essere attaccata e accorgendosi che era stata violata la sua intimità, rispose ad Aurora con altrettanta cattiveria: «È vero, ci divertiamo... ma anche voi quando eravate giovane dovete esservi divertita. Rinfrescatemi la memoria: perché vi hanno cacciata dall’ordine?» Aurora umiliata provò a rispondere: «Ma come vi permettete?!» Ma Giulia era pronta a rispondere: «Io come mi permetto?! Parlate voi
che entrate nella mia stanza privata senza permesso, frugate fra le mie cose e poi
gettate infamia sulla mia persona! Adesso uscite! Subito!» Aurora guardò con
occhi pieni di rancore e disprezzo la cognata ma non replicò e uscì dalla stanza.
Giulia assicuratasi che Aurora non fosse nei paraggi tornò a letto e si rimise a
dormire.
(Maria Vittoria Manzoni)
* * *
Dialogo tra Giulia Beccaria e la sorella di Pietro Manzoni ex monaca.
Giulia era nella sua camera, si stava vestendo per andare alla prima di teatro
quando la sorella di Pietro, ex monaca, Margherita, entrò nella sua stanza. «Dovresti vergognarti!», le disse con impeto. «Ti rechi a teatro nonostante tuo marito
sia qui in casa solo e ammalato.» «È vero», rispose Giulia, «forse non dovrei ma
ho bisogno di dilettare il mio animo, non posso vivere la mia vita dentro queste
– 289 –
mura.» «Non mi importa di quanto tu abbia bisogno di uscire e svagarti, non permetterò che tu esca umiliando mio fratello, e per di più vestita in quel modo.»
«Perché, cos’ha che non va il mio vestito?», domandò Giulia impertinente. Margherita la guardò da cima a fondo, si voltò bruscamente e uscì dicendo: «Tu
questa sera rimarrai in casa ad assistere tuo marito.» E chiuse con impeto la porta
della camera di Giulia.
(Giulia Nonni)
* * *
Giulia dopo il litigio con Pietro si era rifugiata nel balcone della propria
camera. Vedeva tutte quelle stelle e sorridendo pensava alla festa alla quale
aveva preso parte poco più di due ore prima. Improvvisamente sentì un botto e
vide entrare nella sua camera Giovanna, l’ex monaca sorella di Pietro.
Giulia: Che succede?
Giovanna: Succede che devi smettere di fare soffrire Pietro.
Giulia abbassò lo sguardo. Per la prima volta non si vide più come una vittima,
ma come la colpevole. Davvero era colpa sua? No, era Pietro che era troppo
introverso.
Giovanna: Perché non inizi a comportarti come una vera moglie?
Giulia: Perché non lo amo.
Giovanna: Non lo ami?
Scoppiò in una risata.
Giovanna: Ma l’amore non esiste!
Giulia: Non è vero! Se veramente non esiste spiegami che cosa è questo batticuore appena lo vedo, come mai mi viene un insolito sorriso quando penso a lui e
perché, nei momenti in cui mi sfiora, io sarei capace di abbandonare tutto per
stare con lui?
Giovanna: Pensa che faresti adesso se fossi sposata con Verri.
Giulia: Sarei felice.
Giovanna: Hai detto qualche cosa?
Giulia: Tu non lo sai che cosa vuole dire innamorarsi, vero? Non lo sai e non lo
saprai mai.
Giulia aveva ragione, capì che aveva centrato la questione. Per una volta non
vedeva quella donna come una specie di mastino, ma come una persona che non
aveva mai amato.
Giovanna: Già, può darsi che non amerò mai qualcuno, ma può darsi anche che
tu e Verri vi lasciate e così ti dovrai accontentare di Pietro!
Giulia questa volta la guardò con pietà e sussurrò: Già, può darsi.
(Benedetta Prignano)
* * *
Rachele: Giulia, a quest’ora si torna a casa? Sono quasi le sette del mattino, lo sai?
Giulia: Io torno a casa quando voglio!
Rachele: Abbassa il tono con me, non ti permetto di parlarmi in questo modo!
Giulia: Tu, piuttosto, cosa ci fai in casa mia alle sette di mattina?
– 290 –
Rachele: Ieri sera sono venuta a trovare mio fratello e la sua consorte ma sfortunatamente lei non era in casa... oh, ma che sbadata che sono stata! Ho dimenticato che la signora Manzoni, ogni sabato, si reca a casa dei Verri a far festa fino a
tarda notte...
Giulia: Ma cosa vuoi da me? Si può sapere?
Rachele: Voglio che impari a fare la moglie e a prenderti cura di tuo figlio e della
casa. Invece di andarti a divertire fa’ il tuo dovere di donna, una volta tanto!
Giulia: Ti ripeto che io faccio quello che voglio e non mi importa un bel niente
delle tue teorie!
Rachele: Sei solo una poco di buono, mio fratello non ti merita.
Giulia: E io non merito di avere una cognata così irritante come te (dice furiosa
uscendo dalla stanza).
(Martina Proietti)
* * *
Teresa: Buongiorno, Giulia, come vanno le cose con Pietro?
Giulia: Come al solito, è talmente cupo che mi toglie la voglia di parlargli.
Teresa: Questo mi dispiace, ma perché tu non provi a chiedergli i motivi per i
quali è sempre così triste?
Giulia: No, non me ne sono mai curata.
Teresa: Questo è sbagliato, Giulia, magari potreste scoprire di avere delle cose in
comune parlando un po’, non trovi?
Giulia: Potrei provare.
Teresa: Sono contenta che proverai, Giulia. Ora devo andare, speriamo di vederci
presto.
Giulia: Sarò più contenta io se riuscirò a trovare qualcosa in comune con lui.
Arrivederci, Teresa.
(Benedetta Straini)
– 291 –
3. RISCRITTURE, PARODIE E TRAME ALTERNATIVE
DEI PROMESSI SPOSI
I capolavori dell’arte e della letteratura si prestano per loro natura alle
dissacrazioni: si pensi alle decine di versioni che ha generato La Gioconda
di Leonardo, tra cui quelle celeberrime di Duchamp, di Dalì, di Botero, di
Warhol, per citarne solo alcune.14 Com’è stato ben osservato, mentre la satira si dà come discorso contro le Forme di Potere, la parodia è un lavoro
che il linguaggio compie contro il Potere delle Forme.15 Un’opera di alto livello estetico che, per i valori etici e spirituali in essa contenuti, sia paradigmatica e assurga a grande notorietà nella sua epoca, sempre si presterà alla
dissacrante contraffazione, quale giocosa e anarcoide trasgressione contro
l’autorità ottenuta dalla perfezione formale e dal consenso sui valori rappresentati in quell’opera: ma tale atto di trasgressione si risolve, a ben vedere,
in un omaggio all’autore e all’opera stessa. La parodia, dunque, attesta indirettamente la fortuna di un’opera, che sia stata capace di improntare di sé il
patrimonio culturale di un’epoca, come hanno fatto I Promessi Sposi rispetto al Romanticismo e alla cultura dell’Ottocento in Italia. Sulle ragioni
e le operazioni della parodia, quale tipica pratica intertestuale, citiamo dalla
prefazione al saggio di Gino Tellini, Rifare il verso.La parodia nella lettera14 Sulla “iconoclastia” della Gioconda rimandiamo a Mario Alinei, Il sorriso della Gioconda, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 31-47: l’autore ne vede la causa nella particolare ‘ambivalenza
psicologica’ del ritratto, in quel misto di bellezza e artificio, attrazione e repulsione, che esso non
ha mai mancato di suscitare in ogni spettatore. Ciò dall’Alinei viene spiegato col fatto che Leonardo avrebbe dipinto, nella Gioconda, una giovane donna morta attribuendole le fattezze da viva. Per una storia del capolavoro leonardesco vd. Donald Sassoon, La Gioconda, trad. di Dora
Bertucci e Andrea Palladino, Carocci editore, Roma 2002. Decisamente più maliziosa, e in chiave parodistica, è la Gioconda rappresentata nel racconto dello scrittore di fantascienza Bob Shaw,
Una vergogna per l’Italia (The Gioconda Caper, 1976), ove si immagina la scoperta dell’ultima,
straordinaria invenzione leonardesca, precorritrice di quella dei fratelli Lumière: una gigantesca
macchina cinematografica. Occultata in una grotta, una complessa struttura in legno, concepita
come un grande meccanismo girevole a ruota, contiene sessanta dipinti della Gioconda, che ruotando vorticosamente creano l’effetto del movimento, come una ottocentesca “lanterna magica”:
ma il meccanismo serve a rappresentare... lo striptease di Monna Lisa. Forse Leonardo creò la
complessa macchina per il privato divertimento di Ludovico il Moro, lascia intendere l’autore.
Per fortuna la macchina viene distrutta da uno dei personaggi del racconto, un italiano un po’ truffaldino, che però vuole giustamente tutelare la reputazione del nostro più grande artista e scienziato. Il racconto di Bob Shaw si legge in: Bob Shaw, Una vergogna per l’Italia, trad. di Vittorio
Curtoni («Urania», n.864), Mondadori, Milano 1980, pp. 4-26.
15 Piero Ricci, Parodia, in Riscritture, Atti del convegno del CRS Roma, 8-10 marzo 1991,
a cura di Pina Gorgoni, Eurelle Edizioni, Torino 1993, p. 235.
– 292 –
tura italiana (Mondadori, Milano 2008):
Fin dall’antichità, gli scrittori si sono divertiti a contraffare lo stile di opere illustri, familiari alla memoria collettiva dei lettori. La notorietà del modello è condizione preliminare perché la parodia abbia effetto. Il parodista modifica e trasforma ma lascia intravedere le fattezze dell’originale, introduce mutamenti di
lessico, di tonalità, di struttura, di significato, con intenti per lo più (non sempre)
dilettevoli: comici, faceti, burleschi, senza – almeno intenzionalmente – il sottofondo puntuto e moralistico che è proprio della satira. Rifà il verso a opere e autori di grido, li prende in giro più o meno bonariamente, li riecheggia, ne propaga
il ricordo: è una riscrittura come sconvenienza, come trasgressione dal canone
convenuto, come alterazione programmatica delle norme vigenti. E in essa si mescolano insieme, in una sorta di statuto binario, il linguaggio del parodiato e il
linguaggio del parodista. Non è un passatempo meccanico e autoreferenziale, ma
un rilancio sedizioso, che comporta la necessità di reinterpretare e rinnovare. Il
referente può essere un’opera, un autore, oppure, più generalmente, una consuetudine letteraria, un tipo di espressione, uno stile. Né mancano le autoparodie,
volontarie o involontarie, quando uno scrittore ritorna, con scarti o variazioni, sui
propri passi (notevoli, sempre volontarie, s’incontrano in Boccaccio, come in
Gozzano o in Montale). Nelle multiple e seducenti modalità di questa proteiforme scrittura, di questo sofisticato gioco di specchi, si beano oggi i moderni
teorici delle pratiche intertestuali.16
Un’opera d’arte o letteraria, quanto più si avvicina a modelli di perfezione, produce quindi sempre un altro testo, frutto di una lettura deformante
dell’opera originaria ed elaborato in forma di caricatura, quasi che il bello e
l’elegante celassero in sé il loro contrario. Bersaglio tipico delle parodie
sono sempre stati, ad esempio, i poeti canonizzati dai manuali di letteratura.
La riscrittura di testi poetici è, peraltro, un esercizio praticato dagli autori
di “scrittura creativa”, come quelli riuniti nel celebre gruppo dell’OuLiPo,17
i quali ne hanno oltrepassato i limiti per giungere fino alle sperimentazioni
linguistiche, vere e proprie acrobazie formali.
Tra gi esercizi letterari di questo genere possiamo annoverare la riscrittura a contrario di famose poesie dell’Ottocento e del Novecento: i testi
sono stati riscritti a contrario, ossia conservando la struttura e il ritmo dei
versi, ma rovesciandone il contenuto. Ad esempio La signorina Felicita
16 Gino Tellini, pref. a Rifare il verso.La parodia nella letteratura italiana, Mondadori,
Milano 2008, pp. 5-6.
17 Formatosi in Francia nel 1960, l’OuLiPo (Ouvrier de Littérature Potentielle) annovera
tra i suoi esponenti Raymond Queneau e Italo Calvino: una ricca antologia di testi è Oulipiana,
a cura di Ruggero Campagnoli, Guida editori, Napoli 1995.
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ovvero la felicità di Guido Gozzano è stata riconvertita in Il signor Tristano
ovvero la tristezza (da Corrado Vanni): per citare soltanto l’inizio, i versi
Signorina Felicita, a quest’ora/ scende la sera nel giardino antico/ della
tua casa. Nel mio cuore amico/ scende il ricordo... sono diventati: Signor
Tristano, in qualche altro momento/ sorge l’aurora nel cortil novello/ della
tua strada. Nel mio ostil cervello/ sale l’oblio...18
La riscrittura di un testo letterario può implicare il rifacimento di un’opera famosa non necessariamente in senso parodistico. La riscrittura di un
romanzo, come esercizio di scrittura creativa, è più consueta di quanto possa
apparire, soprattutto nella odierna pratica letteraria.19 Sono state riscritte, in
chiave di mistery o di surreale pastiche (anche non parodistico), opere appartenenti alla letteratura maggiore e minore. Philippe Doumenc ha riscritto
Madame Bovary di Flaubert (1856) in chiave d’indagine poliziesca sull’apparente suicidio della protagonista, Lo strano caso di Emma Bovary.20 Mirella Salvaggio ha tratto da Il fu Mattia Pascal di Pirandello (1904) un voluminoso romanzo, Il fu Mattia Pascal romanzo del fu Luigi Pirandello.21 Per
la letteratura minore ricordiamo, tra i numerosi rifacimenti delle Avventure
di Pinocchio di Collodi,22 quattro testi, due dovuti ad autori italiani e altri
due a stranieri: Ugolini, Compagnone, Tolstoj e Charyn. Luigi Ugolini,
Il testo si legge, assieme ad altri esempi di riscritture “rovesciate” di celebri poesie dell’Ottocento e del Novecento, in Giampaolo Dossena, T’odio empia vacca.Dileggio e descolarizzazione, Rizzoli, Milano 1994, pp. 32-33; vd. anche al riguardo Ersilia Zamponi, I Draghi locopei, Edizione CDE, su lic. Einaudi, Milano 1991, pp. 71-73. La riscrittura come parodia letteraria ha goduto di una pratica risalente: una celebre antologia di letteratura apocrifa è quella di
Paolo Vita-Finzi, Antologia apocrifa, Bompiani, Milano 1977, che raccoglie testi dal 1927 (prima serie) al 1976 (quarta serie). Un’altra famosa antologia di testi celebri (di Balzac, Gide, Montale, Vittorini, etc.) “riscritti” è quella di Guido Almansi - Guido Fink, Quasi come, Bompiani,
Milano 1991 (I ed. 1976).
19 Modalità ed esempi di riscritture in Stefano Brugnolo – Giulio Mozzi, Ricettario di
scrittura creativa, Zanichelli, Bologna 2003, rist., pp. 152-186, con molti esercizi ispirati dai
personaggi e dalle situazioni dei Promessi Sposi.
20 Philippe Doumenc, Lo strano caso di Emma Bovary, trad. di Guya Parenzan, Castelvecchi editore, Roma 2008.
21 Mirella Salvaggio, Il fu Mattia Pascal romanzo del fu Luigi Pirandello, Luigi Pellegrini
editore, Cosenza 2008.
22 Vd. l’elenco delle imitazioni di Pinocchio in Antonio Lugli, Storia della letteratura per
la gioventù, Sansoni, Firenze 19662, p. 236. Su questa varia produzione (v’è anche Il figlio di
Pinocchio), ripetiamo il giudizio del Lugli: «In una squallida imitazione priva di poesia, anche
se ricca di inventiva (ma è un’inventiva senza equilibrio, fine a se stessa) e scarsa di insegnamenti, i vari Pinocchi non ci restituiscono del magico burattino neppure un autentico truciolo
del suo corpicciolo di legno» (p. 236).
18
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scrittore e giornalista fiorentino (1891-1980), famoso per aver romanzato la
vita di molti personaggi storici, artisti, poeti e condottieri,23 ci ha lasciato
Il seguito di Pinocchio (I ed. 1946):24 il celebre burattino di legno, già diventato ragazzino in carne e ossa, mal si adatta alla nuova esistenza e nostalgicamente rievoca le sue avventure con il padre Geppetto. È in crisi di identità: non riesce più a parlare con gli animali (come faceva quand’era burattino) e comincia a provare il dolore fisico. Ma soprattutto, vuole sapere chi
era sua madre. Geppetto non sa rispondere e il ragazzino, fatta amicizia con
un compagno di scuola di nome Stoppino (che gli ricorda Lucignolo, ma è
ben più assennato), decide di ripercorrere i sentieri di Pinocchio, per ritrovare la Fata Turchina, che ritiene essere sua madre. A bordo del carro del
grasso Pallino (l’Omino di Burro), Pinocchio ritorna al Paese dei Balocchi,
soggiorna all’osteria del Granchio Verde e viene ancora una volta derubato
delle sue monete d’oro da due musici ambulanti, il professor Fox e il commendator Catone, che ricordano il Gatto e la Volpe; quindi ritorna al Paese
delle Api industriose, s’incontra con la Regina delle api (che ha i capelli
turchini), approda alle Isole della Fortuna, dei Granchi, delle Capre, della
Sete, dei Serpenti, dei Topi, è inghiottito di nuovo dal Pescecane e rigettato
sull’isola di Antilia, nell’impero dei Pappagalli. Rinchiuso assieme all’inseparabile Stoppino in una gabbia, salva il re dei pappagalli da una congiura,
ma riceve come premio il dubbio privilegio di servire da pasto, in salsa
verde, al re pennuto: allora fugge dall’isola con l’aiuto del Pescecane ed è
salvato da un bastimento, ove viene curato da una dolce infermiera dai
capelli turchini. La nave riporta Pinocchio sul molo del suo paese, ove trova
Geppetto che, lungi dall’essere in ansia, gli rivela che il viaggio glielo aveva
organizzato proprio lui, d’accordo con Stoppino e con l’Omino di Burro. Era
una esperienza necessaria per la crescita del fanciullo, ancora perso dietro le
favole della sua infanzia burattinesca, spiega sorridendo Geppetto a Pinocchio che lo ascolta sbalordito. E la mamma? Era davvero la Fata Turchina?
O la Regina delle Api? O la buona infermiera del piroscafo? Affannarsi a
trovare una mamma a Pinocchio è fatica inutile, risponde l’autore nella morale conclusiva: «Pinocchio, che è figlio della fantasia, non può avere una
mamma di carne come tutte le altre; Pinocchio è un simbolo, e anche diven23 Un elenco della copiosa produzione dell’Ugolini, destinata prevalentemente ai ragazzi, è
in Antonio Lugli, Storia della letteratura per la gioventù, cit., p. 317.
24 Esiste una edizione scolastica del testo dell’Ugolini: Luigi Ugolini, Il seguito di Pinocchio, Schede didattiche a cura di Concetta Greco Lanza, Edizioni Greco, Catania 2002.
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tato di carne è sempre l’incarnazione di un burattino. Geppetto è stato il suo
padre adottivo, quegli che dal pezzo di legno sbozzò la meravigliosa figura
della marionetta parlante, ma Geppetto non ha creato Pinocchio, perché
Pinocchio esisteva anche prima, nell’interno del pezzo di legno. Perciò l’anima di Pinocchio non l’ha creata nessuno. Essa è antica come il mondo».25
L’atmosfera fiabesca del testo originale si stempera in una temporanea fuga
e in un progressivo ritorno alla normalità del quotidiano: i personaggi e i
luoghi fantastici che Pinocchio incontra ancora risultano scialbe imitazioni
di quelli del testo collodiano, mentre motivi sostanzialmente nuovi, in
questo romanzo destinato a un pubblico adolescente, sono la crisi di identità
in cui cade l’ex burattino, che non sa accettare la sua nuova vita di fanciullo
in carne e ossa, e la palese, a tratti angosciata, ricerca della figura materna.
Lo scrittore napoletano Luigi Compagnone (1915-1998) ha indirizzato, invece, a un pubblico ben più adulto e smaliziato la sua versione collodiana,
ossia La vita nova di Pinocchio (I ed. 1971).26 Il burattino incontra eventi
e miti di tutti i tempi, personaggi letterari e storici (da Giona a Medea, da
Marx a Freud, da Amleto ai “ragazzi di vita” pasoliniani), che si succedono
in una sfrenata, fantasmagorica sarabanda. Per averne un’idea, basti ricordare sommariamente i primi capitoli: il burattino Pinocchio, appena viene
a sapere dal falegname Geppetto che egli è suo padre, corre via da casa a
Luigi Ugolini, Il seguito di Pinocchio, cit., p. 216.
Luigi Compagnone, La vita nova di Pinocchio, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004. Lo
scrittore ne ha ricavato anche una versione poetica per ragazzi (più aderente al testo collodiano),
in settenari e ottonari, quasi una sorta di “opera buffa” dalla travolgente comicità. Citiamo dall’episodio di Pinocchio e il Pescatore Verde (il Pescatore Brutto nella versione di Compagnone),
che avendo trovato nella rete il burattino, lo vuol friggere in padella assieme agli altri pesci (da
Luigi Compagnone, La ballata di Pinocchio, illustrazioni di Vittoria Facchini, Mondadori,
Milano 2002, pp. 53-54):
“Pinocchio (fra sé)
Mi rincresce per lui, sì mi rincresce,
ma che fortuna che non sono un pesce.
Pescatore
Ottime queste triglie.
Belle, queste fragaglie.
Buoni, ’sti gamberetti,
gustosi, ’sti rognotti.
(afferra Pinocchio)
E questo pesce, cos’è?
E il nome suo, qual è?
Non mi vorrei sbagliare,
questo è un granchio di mare.
25
26
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perdifiato e si imbatte in uno sgangherato autoveicolo che trasporta la Sacra
Famiglia (con i sei Evangelisti: i quattro canonici più Ernest Renan e Giovanni Papini),27 la quale è in fuga dai Killer del Führer di Giudea e Germania
che vuole uccidere il Bambino. Il veicolo incrocia un torpedone che trasporta
gli angeli della Nazionale di calcio (tra i quali si distingue Rivera), acclamati
Pinocchio
Ma che granchio di mare.
Ma non faccia il cretino.
Ma non lo vede, lei,
che sono un burattino?
Pescatore
Ochei. Sarà una specie
di bei pesci stranieri.
Meglio così: ti mangio
assai più volentieri.
Pinocchio
Ma lei non lo capisce
che mica sono un pesce?
Pescatore
Verissimo. Perfetto.
Perciò ti voglio usare
il massimo rispetto.
Pinocchio
La prego di spiegare.
Pescatore
In segno di sincera
stima particolare
scegli liberamente
come ti devo friggere
e come cucinare.
Ti piace la padella
o vuoi, caro tesoro,
esser cotto in tegame
con olio e pomodoro?
Pinocchio
Se devo scegliere,
in verità
io scelgo subito
la libertà.
Pescatore
Sai che faccio? Ti friggo a fuoco lento
con gli altri pesci e rimarrai contento:
ché l’esser fritto in buona compagnia
ti dà buon appetito ed allegria.”
27 Autori, com’è noto, di celebri e discusse vite di Cristo.
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dalla folla esultante: dietro la folla, però, appaiono i carri armati degli scherani del Führer alla caccia della Sacra Famiglia. I Killer chiedono agli spettatori se hanno visto passare di lì un falegname e quelli indicano Geppetto, che
viene subito afferrato e spinto entro un carro che riparte alla volta di un
Lager. Separato così da suo padre, Pinocchio si imbatte nel Grillo Parlante,
che abita in un vecchio volume della pedagogista Maria Montessori, ed entra
poi nel Teatro dei Burattini, dove si sta recitando lo psicodramma di Edipo e
Giocasta, per la regia del dottor Freud. Il medico viennese lo ascolta paziente, analizza una sua fantasia (ovviamente ostile verso il padre) e lo fa
prodigiosamente incontrare con la madre, la Ma’, che ha le fattezze della
Gioconda leonardesca. Non proseguiamo oltre nella trama escogitata di
questo pastiche romanzesco,28 ove il desiderio di dissacrazione si accompagna a una denuncia dei mali e delle ipocrisie del nostro tempo (ossia del
tempo dell’autore, quegli anni Settanta che videro, a livello internazionale, il
fallimento di una possibile “distensione” tra i due blocchi e, in Italia, una
grave crisi politica culminata con il terrorismo). Il compagno Pinocchio di
Aleksej Tolstoj (1936)29 è una rivisitazione del capolavoro di Collodi ambientata nell’incantevole paesaggio russo (con qualche variante rispetto all’originale e soprattutto con qualche intrusione ideologica dal marxismo-leninismo). In chiave decisamente più surreale che fiabesca si sviluppa la
trama de Il naso di Pinocchio (1983) dell’americano Jerome Charyn, in cui il
protagonista alter ego dell’autore, lo scrittore Jerome Copernicus Charyn, riscrive la storia del burattino di Collodi. Ma è un Pinocchio assolutamente sui
generis quello narrato dalla penna di Charyn: nasce in un cestino nella panetteria di mastro Geppetto (che fa il fornaio ed, essendo socialista, è perseguitato dalle Camicie Nere), viene educato dalla demi-mondaine Brunilde (che
funge da Fata Turchina), si azzuffa con i fascisti, è catturato e portato davanti
a Mussolini, che lo adotta volendosene servire per la sua propaganda e soprattutto per suscitare l’invidia di Hitler. Quindi è il protagonista Copernicus
che si trasforma nel personaggio collodiano, entrando nelle pagine del ro-
Nel quale la fantasia dell’autore si sbizzarrisce in straordinarie etimologie: il nome Pinocchio viene scomposto in Πύνδαξ, “fondo di vaso”, e oculus, “occhio”, a significare Fondo di
Occhio, per indicare uno che guarda il mondo con sguardo meditativo, profondo, dal fondo dell’occhio (p. 15).
29 Aleksej Tolstoj, Il compagno Pinocchio, trad. di Luigi Garzone, Edizioni Stampa Alternativa, Roma 19923. Sulla versione di Tolstoj vd. l’analisi in Piero Zanotto, Pinocchio nel
mondo, Edizioni Paoline, Torino 1990, pp. 68-78.
28
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manzo che sta scrivendo, e vive le folli avventure del suo Pinocchio, saltando prodigiosamente in epoche diverse, tra la Roma degli anni Trenta e la
Parigi e la New York contemporanee: Copernicus-Pinocchio, iniziato da un
falso prete alla dottrina marxista, diventa quindi una spia dei socialisti, si introduce nella corte del re Vittorio Emanuele (detto Spadetta) ed entra nelle
sue grazie, partecipa a un complotto contro Mussolini ma si rifiuta all’ultimo
momento di ucciderlo riconoscendo in lui un padre putativo, segue il Duce a
Salò e scampa alla fucilazione dei gerarchi, e poi, dopo una ulteriore serie di
peripezie, finisce la sua carriera in America, premiato dalla fortuna con l’elezione a senatore del Texas. Come si vede, un pastiche letterario dallo scoperto gioco dissacratorio, certamente stravagante ma anche alquanto pretestuoso e presuntuoso (per le numerose citazioni colte) nella trama e negli
episodi: il divertente è che, pur catapultato nelle situazioni più improbabili, il
burattino, tutt’altro che ingenuo, conserva un’allegra faccia tosta (incarnando, potremmo dire, lo spirito di Lucignolo assieme a quello di Franti) che
si coniuga a una attivissima, vitalistica joie de vivre. Da ultimo, ricordiamo il
“divertimento” di Beniamino Placido, Le disavventure di Pinocchio, scritto
in occasione del centenario collodiano:30 Pinocchio è deciso a restare burattino e inoltra un’istanza al Tribunale per i Minorenni di Roma affinché sia
espunto da tutte le copie del romanzo di Collodi il capitolo 36°, quello della
sua trasformazione in ragazzino perbene. In risposta il Tribunale dispone una
perizia psichiatrica e una controperizia sul burattino, richiede un parere al
Pontificio Istituto Biblico sulle implicazioni cristologiche delle Avventure di
Pinocchio e commissiona un rapporto al CENSIS sul significato sociale del
fenomeno Pinocchio. Il caso provoca tale clamore nella pubblica opinione
che viene istituita ad hoc una Commissione Parlamentare d’Inchiesta,
mentre Pinocchio finisce intervistato in una trasmissione RAI, “Alla ricerca
dell’Arca”, dal giornalista Mino Damato, il quale gli propone di accettare
come Fata Turchina una serie di note giornaliste e da ultimo l’attrice Sandra
Milo. È evidente anche in questo testo l’intento satirico dell’autore, noto anglista e critico televisivo, su famosi personaggi del mondo dello spettacolo.
Ancora nella letteratura minore, frequenti sono i casi di romanzi che,
quando il loro autore è assurto a pubblica notorietà, hanno prima o poi generato una serie di continuazioni, quale consapevole sfida al modello lanciata
Beniamino Placido, Le disavventure di Pinocchio, in Tre divertimenti, Il Mulino, Bologna
1990, pp. 45-81.
30
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dagli epigoni: al lettore giudicare della validità dei testi epigonici rispetto al
capostipite. Per fare un primo esempio, Le avventure di Gordon Pym di
Edgar Allan Poe (1838) hanno avuto una continuazione con La sfinge dei
ghiacci di Jules Verne (1897), in chiave razionale e positivistica, e con Le
montagne della follia di Howard Phillips Lovecraft (1931), in chiave orrorifica ed esoterica.31 Da Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1844)
sono state tratte almeno tre ulteriori versioni: quella di Jules Verne in Mathias Sandorf (1885),32 che rielabora la vicenda dumasiana ambientandola tra
i patrioti ungheresi in lotta contro il dominio austriaco, quella decisamente
fantascientifica di Destinazione stelle, scritto da Alfred Bester (il cui protagonista, Gulliver Foyle, ossessionato dalla vendetta contro gli uomini che lo
hanno abbandonato dentro un relitto spaziale, ricalca il carattere di Edmond
Dantès),33 quella in chiave di intrigo giallo-erotico-politico de Il caso Montecristo di Enzo Russo (Mondadori, Milano 1976). Robinson Crusoe di Daniel
Defoe (1719), con il suo ottimistico messaggio del dominio della Tecnica
sulla Natura, ha generato, nell’Ottocento e dopo, numerose imitazioni, delle
quali la prima, a quanto ricordiamo, è La famiglia Robinson del pastore protestante Johann David Wyss (1812), storia di una famiglia di svizzeri, gli
Zermatt, approdati su una terra deserta, che essi battezzano Nuova Svizzera.34 Jules Verne ha rifatto il verso a Defoe in almeno due romanzi: La
scuola dei Robinson (1882),35 nel quale un eccentrico miliardario fa rivivere
l’esperienza di Robinson Crusoe al proprio sfaccendato nipote, che ha mandato capricciosamente all’aria il matrimonio per fare il giro del mondo, e Seconda patria (1900),36 una brillante continuazione delle avventure della famiglia Zermatt, a cui si aggiungono i coniugi inglesi Wolston, nella terra
della Nuova Svizzera. Anche il nostro Emilio Salgari ha voluto omaggiare
31 Per le continuazioni di Verne e Lovecraft, vd. il mio articolo Fantastica Antartide, in
«Abstracta», n. 48, 1990, pp. 70-77. Sul romanzo di Verne vd. Luca Guelfi, Jules Verne e le Terre
Polari, testo disponibile sul sito del Centro studi storici sul territorio e il paesaggio Alexander
von Humboldt all’indirizzo www.storicipaesaggi.blogspot.com
32 Jules Verne, Mathias Sandorf, trad. di Franca Gambino, Mursia, Milano 1990.
33 Alfred Bester, Destinazione stelle, trad. di Luciano Torri, Editrice Nord, Milano 1976.
34 Sulle operazioni di riscrittura del Robinson Crusoe vd. Roberto De Romanis, Di alcune
“robinsonate” dei nostri tempi, in Riscritture, cit., pp. 81-103.
35 Jules Verne, La scuola dei Robinson – Il Raggio Verde, trad. di Giuseppe Mina, Mursia,
Milano 1986.
36 Jules Verne, Seconda patria, trad. di Vincenzo Brinzi, Mursia, Milano 1981. Anche
L’isola misteriosa risente non poco del modello di Defoe: su questo romanzo vd. Beril Becker,
Jules Verne il viaggiatore della fantasia, trad. di Elsa Ducci, Mursia, Milano 1974, pp. 157-174.
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Defoe con I Robinson italiani (1897):37 qui un gruppo “transnazionale” di novelli Robinson (un veneziano, un genovese, un napoletano e un maltese),
dopo l’affondamento della loro nave, approda su un’isola del Pacifico e rivive le avventure di Alexander Selkirk, nel segno dell’esotismo salgariano.
E poi non mancano i Robinson della fantascienza, ossia gli astronauti che approdano su pianeti sconosciuti e/o inospitali, come in Prigioniero del silenzio
di Rex Gordon (1957), ove il protagonista, naufragato su Marte, rivive esplicitamente l’esperienza di Selkirk (“Quella fu la prima volta in cui pensai alla
mia situazione come a quella di Robinson Crusoè”, narra l’astronauta),38 e in
Un’odissea marziana (1934) di Stanley G. Weinbaum, in cui l’astronauta che
esplora il deserto marziano incontra un indigeno alieno, dalla forma di
struzzo.39 E, ancora, la vicenda di Robinson è stata rielaborata nel Novecento
anche in chiave di utopia negativa da William Golding con Il signore delle
mosche (1954):40 qui un gruppo di bambini inglesi fa naufragio, dopo un incidente aereo, su un’isola deserta del Pacifico e, privo di una guida adulta, degenera fino a diventare un’orda di piccoli selvaggi sanguinari.41
37 Emilio Salgari, I Robinson italiani, Edizioni Paoline, Roma 1974. Sulle affinità e le differenze tra Salgari e Verne vd. Bruno Traversetti, Introduzione a Salgari, Laterza, Roma-Bari
1989, pp. 34-37.
38 Rex Gordon, Prigioniero del silenzio (“Classici Fantascienza”, n. 27), trad. di Beata
della Frattina, Il titolo originale, No Man Friday, è un esplicito omaggio a Defoe.
39 Stanley G. Weinbaum, Un’odissea marziana, in Un’odissea marziana e altre storie, trad.
di Viviana Viviani, Editrice Nord, Milano 2001.
40 William Golding, Il signore delle mosche, trad. di Filippo Donini, Mondadori, Milano
1980.
41 Ulteriori esempi di celebri personaggi della letteratura minore ripresi, dopo la morte dei
loro autori, da scrittori che ne hanno continuato le avventure possono agevolmente rinvenirsi
nei generi del giallo e delle spy-stories: citiamo per tutti i mitici Sherlock Holmes e James
Bond, l’agente 007. Il detective creato da sir Arthur Conan Doyle è tornato a rivivere in decine
di romanzi e racconti di autori “sherlockiani”, che hanno inteso così omaggiare il grande scrittore scozzese. Tra i numerosissimi testi ricordiamo l’antologia di casi “fantascientifici” di
Holmes: Sherlock Holmes nello spazio e nel tempo, a cura di Isaac Asimov, Martin Harry
Greenberg e Charles Waugh, Mondadori, Milano 1990. Una serie di parodie in forma “teatrale”
sul personaggio di Conan Doyle si deve all’umorista francese Cami (Pierre Louis Adrien Cami,
1884-1958), Le avventure di Lufock Holmes (a cura di Roberto Pirani, Sellerio editore, Palermo
19892). Per quanto riguarda il celebre agente segreto 007, le avventure di James Bond sono state
continuate, dopo la morte del suo creatore, lo scrittore inglese Ian Fleming (1908-1964), da
Kingsley Amis, John Gardner e Raymond Benson. Una parodia di James Bond è James Bond:
Missione Tacchi a spillo di Cyril Connelly (Bond strikes Camp, 1963), trad. di Amedeo Poggi,
Rosellina Archinto, Milano 1993: questa volta l’agente segreto, per esigenze di servizio, deve
sedurre en travesti un generale sovietico. Sui molteplici aspetti del personaggio creato da Fleming rimandiamo alla fondamentale raccolta di saggi Il caso Bond, a cura di Oreste del Buono e
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Venendo ai Promessi Sposi e alle sue continuazioni, un maestro della
moderna satira di costume come Ennio Flaiano, ad indicare la scarsa preparazione culturale dei produttori cinematografici e la loro attitudine a realizzare prodotti seriali sfruttando un’idea fino all’esaurimento, presenta uno di
questi, tale Massaciuccoli, che, dopo aver letto entusiasticamente I Promessi Sposi durante un riposo forzato, si stupisce di non trovare all’edicola
il seguito del romanzo.42 In realtà anche I Promessi Sposi hanno avuto nell’Ottocento i loro continuatori, modesti artigiani della penna che si sono cimentati a narrare le vicende della famiglia di Renzo e Lucia, come Antonio
Balbiani.43
A noi però interessa più da vicino la riscrittura, fenomeno a cui un romanzo come I Promessi Sposi non poteva non essere estraneo: la straordinaria fortuna del romanzo è attestata anche dai rifacimenti apparsi successivamente, quasi tutti in chiave ironico-parodistica.44 Pensiamo, anzitutto, a
una celebre e assai discussa parodia (ma oggi caduta pressoché nell’oblio, e
ristampata soltanto per iniziativa di piccole case editrici), dovuta a Guido da
Verona, che, scritta nel 1929 e uscita l’anno successivo, tanto scandalo
suscitò in quei tempi, cadendo sotto le maglie dell’occhiuta censura fascista
per le audaci descrizioni nonché per certe spregiudicate e temerarie allusioni al regime e alla Chiesa cattolica, e valse all’autore, negli anni Dieci e
Venti popolarissimo, l’ostracismo da parte dell’editoria italiana, praticamente fino alla morte.45 I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni e Guido
da Verona (l‘autore volle mettere provocatoriamente, accanto al suo, il
nome del grande Lombardo, sulla copertina del volume nella prima edi-
Umberto Eco (presente con il famoso saggio Le strutture narrative in Fleming, pp. 73-122), Bompiani, Milano 1965. Altri testi: Antonello Sarno, Il mio nome è Bond.Viaggio nel mondo di 007,
Editrice Il Castoro, Milano 1996; Guida completa a James Bond, 007 da Licenza di uccidere a
Il mondo non basta, a cura di Fabio Giovannini, l’Unità Iniziative Editoriali, Roma 2000.
42 Ennio Flaiano, Un convegno (1957), in La solitudine del satiro, in Opere. Scritti postumi, a cura di Maria Corti e Anna Longoni, Bompiani, Milano 2001, pp. 563-565.
43 Sui riecheggiamenti, le continuazioni e le imitazioni del romanzo manzoniano rimandiamo a Angelo Stella, Alessandro Manzoni, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da Enrico Malato, vol. VII (14) Il primo Ottocento, parte II Da Manzoni a De Sanctis, edizione speciale per Il Sole 24 ORE, su lic. Salerno editrice, Milano 2005, pp. 714-719.
44 Sulle parodie dei Promessi Sposi vd. Gino Tellini, Rifare il verso, cit., pp. 111-122.
45 Su Guido da Verona: Antonio D’Orrico, A lui l’hanno rovinato I Promessi Sposi, in
«Magazine» n.50, suppl. «Corriere della Sera», 15 dicembre 2005, pp. 147-151; Paolo Albani,
Delle correzioni che non finiscono mai e di alcune bizzarre riscritture, in “GriseldaOnline”,
numero VII, 2007-2008 (testo accessibile all’indirizzo: www.storicipaesaggi.blogspot.com).
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zione, stampata dalla Società Editrice Unitas di Milano nel 1930) era in effetti un testo troppo all’avanguardia per quei tempi, anche in un genere
come quello satirico, che godeva di una pur limitata tolleranza da parte del
regime (come mostra la pubblicazione in quegli anni del periodico Marc’Aurelio): sebbene l’intenzione fosse stata soltanto quella di “rifare la
storia d’amore del Manzoni con lo stile del cantore di Bluette”, come precisa Guido da Verona nell’introduzione,46 più che un romanzo umoristico il
libro alla fine risultò una vera e propria dissacrazione, in stile hard core dell’epoca, di uno dei “testi sacri” della scuola e della nazione italiana.47 In effetti Guido da Verona non ha la mano leggera nelle descrizioni, ad esempio,
degli slanci amorosi di Lucia (trasformata da “piagnucolosa bifolcherella”48 a seduttrice appassionata e sensuale), vivacizzandoli con arditi (per
quei tempi) dettagli, che non dovevano mancare di divertire e, soprattutto,
scandalizzare i lettori benpensanti; si veda il brano seguente, in cui lo scrittore dà la sua versione del cap. III dei Promessi Sposi, quello in cui Lucia
rivela alla madre Agnese e a Renzo le ragioni della minacciosa intimazione
di don Rodrigo al curato:
Lucia entrò nella stanza terrena mentre Renzo stava angosciosamente informando
Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava.
– Ehm! Ehm! – diceva la scaltra Agnese, scuotendo il capo a tutte le buone
ragioni che le andava snocciolando il fidanzato; – qui gatta ci cova!
Renzo trasse fuori l’astuccio delle sigarette; accese una Macedonia, poi, distrattamente, ne offerse una alla devota Agnese.
– Grazie, non fumo, – rispose costei, con un tono che non ammetteva repliche.
– Se non vi spiace di offrirne una anche a me, – disse Lucia, – la fumerei più che
volentieri.
Il fidanzato non sapeva rifiutarle nulla; tosto le passò la propria, che Lucia si
mise tra le labbra con l’elegante garbo di una provetta fumatrice. Frattanto canticchiava l’aria di Ramona, e ne accennava con la punta dei piedi il ritmo irresistibile.
46 Guido da Verona, intr. a I Promessi Sposi, Otto/Novecento, Milano 2008, p. 30. Il testo è
stato precedentemente ristampato dalla Editrice La Vela, Modena 1976, e da La Vita Felice, Milano 1998.
47 Ha ben notato Max Bruschi, a proposito dei procedimenti parodizzanti usati da Guido da
Verona, l’attualizzazione del contesto temporale e la satira, a tratti anche feroce, del fascismo,
vd. Max Bruschi, intr. a Guido da Verona, I Promessi Sposi, cit., pp. 14-16.
48 Così la definisce Guido da Verona, intr., p. 26, riservando lodi entusiaste, com’è ovvio, a
Gertrude (“Questa Signora, per mio conto, vale una dozzina di Lucie; ne vale tante, quante
volte è di lei più donna, più signora, più monaca e più amante”, ibid.).
– 303 –
Agnese, benché zotica, benché incolta, era tutta in ammirazione di questa sua elegante e galante figliuola, che mostrava le migliori disposizioni per divenire un
numero eccezionale da caffè-concerto. Volle far la burbera, ma si vedeva che il
suo sdegno non era troppo sincero.
– Fatto sta, – disse Agnese, – che né io né il tuo fidanzato, sappiamo ancora come
si siano svolte le cose.
– Ora vi dirò tutto, – rispose Lucia, fingendo di rasciugarsi una lacrima col rovescio della mano. – L’origine di tutto questo risale a qualche tempo fa, quando ancora lavoravo alla filanda. Poiché non mi riusciva, con quegli orribili zoccoli, di
camminar spedita come le mie compagne, spesso, al ritorno dall’opificio, mi accadeva di rimanere un pezzo indietro, e poiché la strada era lunga, non di rado mi
toccava compierla da sola. Come andò, come non andò, a un certo punto dal cammino vedevo sempre un’automobile ferma – credo fosse una Chrysler modello 70
– guidata da un signore non più di primissimo pelo, però vestito con eleganza e di
modi assai compiti. Egli, per risparmiarmi quel lungo tratto di strada, molto cortesemente, non appena mi vedeva giungere, balzava giù dal volante e m’invitava a
salire nella sua macchina. In principio, vi giuro mamma, ho resistito con tutte le
mie forze. Ma se sapeste che differenza corre tra il fare quattro o cinque chilometri a piedi, e farli invece in una comoda automobile che tiene magnificamente
la strada, non dà scosse, e fa tutte le salite in quarta, credo che anche voi, mamma,
ne’ miei panni, avreste finito con profittare della buona occasione.
– E dove ti conduceva poi quel signore di così elevati sentimenti? – volle sapere
Agnese.
– Mi conduceva sino alle prime case del nostro paesello, dove, galantemente,
togliendosi il berretto dal capo, mi baciava la punta delle dita e mi diceva, con
una squisita galanteria da uomo di mondo: A domani, se permette, signorina.
– E tu? – insistette Agnese.
– E io, che volete, mamma... gli lasciavo comprendere con un mezzo sorriso che
una ragazza, se non è una stupida, non può aver la passione di andare a piedi.
Frattanto, ogni giorno, mi portava qualche regaluccio, e mi parlava del suo amore
per me, con termini talmente rispettosi, che io, qualche volta, ero lì lì per dirgli:
«Ma si faccia coraggio! non abbia tanti peli sulla lingua! si spieghi con un
esempio...»
– Nespole! – brontolò Agnese; – a tua madre non dir niente d’una cosa simile!
Ma non lo sai, figliuola, che al giorno d’oggi, di signori così ben educati, se ne
trovano pochini? E francamente – scusate veh, Renzo! – se avessi mai creduto
che una fortuna simile potesse capitare a mia figlia, vi avrei pregato di ritirarvi in
buon ordine, e di sposare una ragazza del vostro rango. Noi, come vedete bene,
siamo donne venute al mondo per andare in auto con la nobiltà.
Renzo si arricciò i mostacci, sputò via furiosamente la sigaretta, poi disse con un
cipiglio truce: – Questa è l’ultima che mi fa quell’assassino!
Lucia, che non sapeva per qual verso prenderlo, gli mise un braccio intorno al
collo, gli appiccicò le labbra su le labbra, gli fece passare nell’interstizio della
bocca la puntina umida della sua dolcissima lingua, poi gli mormorò in un sospirone: – Lo sai bene, cocotino mio, che per me al mondo non ci sei che tu!...
– 304 –
Renzo divenne tosto mansueto come un pulcino, mentre su la bocca gli rimaneva
impresso il cerchio purpureo delle labbra di Lucia. E questa, con un sospiro
ancor più profondo, non tralasciò di aggiungere:
– Vero è, mamma, che un tal segreto mi pesava notte e giorno sul cuore. Se con
voi non ebbi coraggio di aprirmene, un bel dì, con l’auto del signor don Rodrigo,
mi feci condurre a Pescarenico, e mi liberai del mio segreto, raccontando subito...
– A chi hai raccontato? – domandò Agnese, in grande angustia, certo per il timore
che le cattive lingue dei dintorni trovassero il mezzo di mandare in fumo la
grande fortuna che stava per toccare a sua figlia.49
Ammettiamolo: Lucia, in quella posa da maliarda fumatrice, sembra
uscita da un quadro di Tamara de Lempicka. Ritratta da da Verona in modo
sfacciatamente procace come le eroine dei suoi romanzi popolari, anticipa
nella mentalità e nell’atteggiamento il personaggio boccaccesco in cui la
trasforma la successiva parodia di Piero Chiara: il suo destino, nella versione daveroniana, è quello, dopo aver risvegliato i sopiti sensi di un ultracentenario Innominato, di finire in una casa d’appuntamenti di via Tadino,
gestita da donna Prassede. La madre Agnese, dal canto suo, veste i panni di
un’astuta ruffiana in pro della figlia, mentre Renzo vi fa la figura del povero
allocco. La Chrysler di don Rodrigo, ritratto peraltro come un galante
viveur, una sorta di Porfirio Rubirosa degli anni Venti, contribuisce a creare
un contesto di gusto tra il surreale e il goliardico, tipico della riscrittura di
da Verona, che volle adattare un testo nato ai tempi delle diligenze a un
mondo dove corrono le automobili.50
Ma vi è anche il gusto per il gioco di parole, per l’attorcigliamento
verbale, per l’iperbole anche linguistica. Si veda il modo deliziosamente
surreale con cui Guido da Verona riscrive la storia del giovane Lodovico, il
futuro fra Cristoforo, e del tragico incontro con il nobile prepotente (cap. IV
dei Promessi Sposi), facendo recitare le battute del dialogo ai cani che i
due portano a passeggio. Qui la causa che provoca il fatale duello è una
questione di precedenza... canina:
Egli (scil. Lodovico) era figlio di mercanti arricchiti, che gli avevan trasmesso,
con un buon sacco di quattrini, la voglia di far parte della nobiltà. Ma la nobiltà
faceva orecchio da mercante, a costui che aveva l’ambizione di potersi ricamar
sui fazzoletti un leone rampante, una biscia contorta, tre anelli fissati insieme con
la saldatura autogena, o qualche altra armeria del tenor di queste, che la plebe
ammira nei blasoni della nobiltà.
49
50
Guido da Verona, I Promessi Sposi, cit., pp. 55-57.
Così Antonio D’Orrico, A lui l’hanno rovinato I Promessi Sposi, cit., p. 150.
– 305 –
Bocciato per ben due volte al club dei nobili, e tenuto da costoro in conto d’un
personaggio di bassa estrazione, Lodovico se l’era legata al dito, e non bramava
che di rintuzzar l’orgoglio d’alcuno di que’ nobiluomini, tanto più ch’egli aveva
un carattere cachettico.
Andava or egli un giorno per una strada della sua città, seguito dal suo fedel
cane, che si chiamava Cristoforo, ed era un bel bassotto, di quelli da scavare i tartufi, lungo e sgangherato come un trenino a vapore. Vide Lodovico spuntar da
lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, il quale s’avanzava diritto, con passo superbo, con la fronte alta, seguìto egli pure da un cagnozzo che certo era un bastardo, se pur non lo era il suo stesso padrone. Tutt’e
due, cioè tutt’e quattro, cani e padroni, camminavan rasente il muro, Lodovico
tenendo la sua destra, l’altro la mancina. Accostati l’un l’altro che si furono, il
bassotto non intendeva punto di cedere al bastardo la destra, né quest’ultimo di
scansarsi nel mezzo della strada per far passare il can d’un plebeo; ed ambi e
quattro ringhiavano furiosamente.
– Fate luogo al mio bull-dog inglese, che ha tanto di certificato del Kennel Club,
– disse con cipiglio imperioso il signor tale, e con un tono corrispondente di voce.
– Faccia luogo il vostro bastardo! – rispose Lodovico. – La diritta è del mio bassotto.
– Co’ vostri pari è sempre mia.
– Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei.
Frattanto il bassotto ed il bull-dog, con il vello irto e co’ denti digrignati, si scambiavano feroci contumelie, facendo di tempo in tempo, su lo zoccolo del muro,
qualche gocciolino di pipì. La gente che arrivava di qua e di là si teneva a distanza
ad osservare il fatto.
– Nel mezzo vile meccanico! – disse il bull-dog al bassotto, raspando furiosamente la terra; – o ch’io t’insegni una volta come si tratta co’ gentiluomini.
– Voi mentite ch’io sia vile! – rispose il bassotto al bull-dog.
– Tu menti ch’io abbia mentito!
– La tua menzogna è di andar mentendo ch’io menta nel non smentire che tu
abbia mentito!
– Se io mentissi nell’affermare che tu menti, allorché dici menzogna nel dire
ch’io vada mentendo, non io mentirei, ma tu mentiresti, nel non smentire ch’io
abbia mentito.
Questo frasario era di prammatica, tra persone che avessero letto il manuale del
Gelli.
Così andarono avanti per una buona mezz’ora finché sul posto si furono radunate
non meno di undicimila persone, compreso il Podestà, gli Assessori del Broletto,
il Comandante dei Civici Pompieri e il Corpo di ballo della Scala.51
Ricordiamo, poi, i Promessi Sposi di Piero Chiara, riscritti in forma di
sceneggiatura per un film che non si fece, tra il 1970 e il 1971: il piccolo
51
Guido da Verona, I Promessi Sposi, cit., pp. 62-63.
– 306 –
mondo lombardo è descritto a tinte forti, all’insegna di una vitalistica e
spregiudicata carnalità (tanto per rendere l’idea, Lucia, prosperosa contadinotta nella versione bassaniana, non appare affatto insensibile alle lusinghe
di don Rodrigo né al maturo fascino dell’Innominato, mentre Renzo, ribattezzato Renzo Brambilla, all’osteria della Luna Piena si consola con la
Schiscianûs, “la più bella barbisa di Milano”).52 Avverte nell’introduzione
Ferruccio Parazzoli che Chiara non voleva che il suo lavoro potesse essere
scambiato per una parodia: nelle intenzioni dello scrittore il suo testo doveva essere il romanzo che avrebbe scritto Manzoni, se fosse vissuto ai nostri giorni.53 Soltanto che il riuso di citazioni manzoniane in contesti che alterano spregiudicatamente l’originale, rende la sceneggiatura di Chiara assai
simile a una vera e propria parodia, che molto concede al boccaccesco. Si
veda come viene rielaborata la disputa tra il podestà e il conte Attilio, assisi
al banchetto di don Rodrigo, sulla questione se fosse lecito o no percuotere
l’ambasciatore dell’avversario (cap. V dei Promessi Sposi):
CONTE ATTILIO (riprendendo un discorso interrotto all’arrivo del frate e
rivolgendosi al Podestà che ha di fronte) - Il Tasso, signor Podestà riverito, era
un uomo che di donne non se ne intendeva: era un poeta, un chiacchierone...
PODESTÀ - Ah, non se ne intendeva, non se ne intendeva uno che scriveva di
questi versi? Mi stia a sentire signor Conte. Statemi a sentire tutti, che li so a
memoria:
Una intanto drizzassi e le mammelle,
e tutto ciò che più la vista alletti,
mostrò dal seno in suso aperto al cielo,
e ’l lago a l’altre membra era un bel velo.
Il Conte Attilio prorompe in una gran risata e si rovescia sullo schienale.
PODESTÀ - Sentite, sentite:
E dolce campo di battaglia il letto
siavi, e l’erbetta morbida de’ prati.
CONTE ATTILIO - Ma tutto questo non vuol dir niente! È solo poesia. Come
uomo, come uomo di carne e ossa – non so se mi spiego – il Tasso era un inconcludente, un mollaccione, uno che si contentava di star a guardare. Infatti non sa
che descrivere, che vedere a distanza: ma le mani sulla polpa, non le mette mai,
perdio!
52
53
I Promessi Sposi di Piero Chiara, Mondadori, Milano 1996.
Ferruccio Parazzoli, intr. a I Promessi Sposi di Piero Chiara, cit., pp. X-XI.
– 307 –
PODESTÀ - Eppure io le dico che se ne intendeva! E come!
CONTE ATTILIO - A parole! Voi sapete benissimo, Podestà riverito, che queste
cose, chi le dice non le fa, e chi le fa... non le dice (sbircia prima il cugino poi il
frate).
DON RODRIGO - Ho un’idea: rimettiamo la questione al Padre Cristoforo, e
stiamo alla sua sentenza.
CONTE ATTILIO - Bene, benissimo!54
Anche la conclusione della storia, come si ricava dalle annotazioni di
Chiara che lasciò incompiuto il suo lavoro, è in linea con la sua scoperta
(anche se negata dall’autore) dimensione parodistica: dopo che donna Prassede è morta di peste, Lucia va in sposa al vecchio, ma ancora aitante, don
Ferrante e diventa contessa di Linares, mentre il povero Renzo, sempre perdutamente innamorato della poco fedele già promessa sposa, praticando una
sorta di “autocastrazione”, si adatta a impiegarsi come suo cocchiere.55
Ma, prima ancora dell’uscita della sceneggiatura di Chiara, un altro
grande scrittore, Giorgio Bassani, nel 1956 aveva pensato a trattare il romanzo manzoniano come soggetto per il cinema, su incarico della casa di
produzione Lux Film.56 Il critico televisivo Beniamino Placido, in uno dei
suoi “divertimenti” dal significativo titolo I compromessi sposi, ha provato a
far interpretare i personaggi manzoniani a celebri uomini politici della cosiddetta Prima Repubblica: così, per il ruolo di don Abbondio ha pensato allo
storico e uomo politico repubblicano Giovanni Spadolini, per Lucia al democristiano Mino Martinazzoli, per Renzo al comunista Achille Occhetto, per
don Rodrigo al socialista Bettino Craxi, per l’Azzeccagarbugli al democristiano Ciriaco De Mita, per padre Cristoforo al radicale Marco Pannella, per
la Monaca di Monza alla comunista Rossana Rossanda, per il Cardinal Federigo al filosofo Norberto Bobbio, per il Conte Zio, alternativamente, ai democristiani Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, per donna Prassede alla giorI Promessi Sposi di Piero Chiara, cit., pp. 66-67.
Nel finale della versione di Chiara troviamo una singolare coincidenza con un celebre film
degli anni Cinquanta, la commedia noir Viale del Tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy
Wilder, in cui l’ex marito e regista della vecchia e semifolle attrice Norma Desmond (Gloria
Swanson), ossia Eric von Stroheim, ancora innamorato di lei, si adatta a farle da autista e maggiordomo, accompagnando per le loro uscite la donna e il giovane suo amante William Holden.
56 Il testo ricavato dal romanzo si può leggere in Giorgio Bassani, I Promessi Sposi.Un
esperimento, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio editore, Palermo 2007.
54
55
– 308 –
nalista Camilla Cederna, per don Ferrante all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.57 L’autore si è dunque servito dei personaggi manzoniani per fare una satira bonaria sui difetti, soprattutto caratteriali, dei più
noti politici italiani di allora, riducendone alcuni a grottesche macchiette
(nello stile, peraltro, del tradizionale giornalismo politico italiano, in cui eccelle, per citare un maestro del genere, Guido Quaranta), ma senza troppa
cattiveria e sempre conservando il rispetto per la figura istituzionale. Vedasi
il ritratto caricaturale di don Abbondio, interpretato dall’uomo politico repubblicano e allora Presidente del Senato Giovanni Spadolini:
Cominciamo da don Abbondio. E da chi altri si potrebbe cominciare? È nell’ouverture del romanzo. Che la nostra sceneggiatura segue scrupolosamente, salvo
qualche lieve spostamento, che ci faremo scrupolo di indicare.
Per la parte di don Abbondio abbiamo pensato a Giovanni Spadolini. Per la faccia
innanzitutto: come dicevamo. E poi, per quella blanda soddisfatta pinguedine,
quella stupefatta lentezza che il lettore dei Promessi Sposi sempre attribuisce al
celebre curato, sin dal momento in cui lo incontra per la prima volta, che «tornava
bel bello dalla passeggiata verso casa: per una di quelle stradicciole», eccetera.
C’è poi la rigorosa, religiosa solitudine, in cui Spadolini vive, al pari di don
Abbondio. Anzi, non sappiamo nemmeno se abbia una Perpetua (vedi appresso).
C’è poi il breviario. Giovanni Spadolini ce lo immaginiamo sempre con un breviario in mano. Un bel breviario di tela nera con fregi in oro. Nel quale egli non
legge, ma scrive. Perché il Presidente del Senato forse non legge quanto don
Abbondio, ma certamente scrive più di lui. E tutto quello che scrive – in bella
calligrafia – è prima o poi coronato da un premio giornalistico-letterario.
C’è infine l’alta carica. Il Presidente del Senato è la seconda autorità dello Stato.
Sostituisce, quando occorre, il Presidente della Repubblica. Conduce – anche
quando non occorre – missioni esplorative che dovrebbero agevolare la soluzione
delle crisi di governo.
Deve tenersi istituzionalmente al di sopra delle parti. Non è che «il coraggio non
se lo può», non se lo «deve» dare. Deve ricordarsi anzi che «noi poveri curati
siamo fra l’incudine e il martello». Deve sempre ripetere, come don Abbondio all’arrivo dei lanzichenecchi: «In una battaglia non mi ci colgono, oh! in una battaglia non mi ci colgono».
Difficilissimo pertanto cogliere il senatore Spadolini in una battaglia. È il nostro
don Abbondio.58
E come non ricordare, nel campo del fumetto, anche le parodie del
capolavoro manzoniano interpretate dai personaggi di Walt Disney? Dovute
Beniamino Placido, I compromessi sposi, in Tre divertimenti, cit., pp. 21-43. Lo scritto era
già apparso su «Mercurio», suppl. «La Repubblica», 11 novembre 1989.
58 Beniamino Placido, I compromessi sposi, cit., pp. 25-26.
57
– 309 –
alla penna di sceneggiatori e disegnatori italiani (così come buona parte della
produzione Disney oggi nel mondo), di parodie “fumettistiche” ne sono state
pubblicate ben due: I Promessi Paperi, storia sceneggiata da Eddy Segantini
e disegnata da Giulio Chierchini (1976),59 e I Promessi Topi, sceneggiatura di
Bruno Sarda e disegni di Franco Valussi (1989).60 Caratteristica di queste parodie (o “paperodie”),61 come si afferma nell’introduzione a I Promessi Paperi,62 è quella di aver collocato le storie nel medesimo ambiente spaziotemporale del romanzo manzoniano: le conseguenze sono aver rafforzato
l’idea che si tratti di una storia made in Italy e aver fatto assumere a Paperino
& C. identità “parallele”, staccandoli dalla quotidianità dell’abituale contesto
di Paperopoli. Sicché gli autori della parodia hanno calato i personaggi disneyani nei panni di quelli manzoniani, non per riprodurli pedissequamente
ma per adattarvi le peculiarità caratteriali, i tic e le idiosincrasie della Banda
dei Paperi. La storia dei Promesi Paperi s’impernia sul rovesciamento della
celebre scena del matrimonio che apre il romanzo: qui il perfido e ricchissimo don Paperigo (zio Paperone) intende far sposare l’assidua e ossessionante corteggiatrice Gertrude da Monz (alias Brigitta), accompagnata nella
versione “paperesca” dal voracissimo e insaziabile servitore don Cicciondio
(Ciccio, il guardiano factotum di nonna Papera), al povero e sfortunato menestrello Paperenzo Strafalcino (Paperino), per liberarsi finalmente di lei, e
invia i Bravotti (la Banda Bassotti) per costringere Paperenzo al matrimonio
col minaccioso comando che fa il verso, al contrario, a quello subito da don
Abbondio (“Questo matrimonio s’ha da fare! E al più presto!”). Ma Paperenzo è già promesso sposo di Lucilla Paperella (Paperina): disperato, il menestrello, dopo aver contenuto a stento l’ansia di nozze di Lucilla Paperella,
si rivolge all’alchimista Mescolaintrugli (Archimede Pitagorico), che gli fornisce una ampolla piena di “elisir dello sciopero” (un potentissimo effluvio
che toglie le forze a chiunque), onde sventare la minaccia dei Bravotti. Sfor-
I Promessi Paperi (“Le grandi parodie Disney”, n. 16), The Walt Disney Company Italia,
Milano 1993. La storia è apparsa, in prima edizione, su due numeri di «Topolino»: n. 1086, 19
settembre 1976, e n. 1087, 26 settembre 1976.
60 I Promessi Topi (“Le grandi parodie Disney”, n. 32), The Walt Disney Company Italia,
Milano 1995. La storia è apparsa, in prima edizione, su tre numeri di «Topolino»: n. 1769, 22
ottobre 1989, n. 1770, 29 ottobre 1989, e n. 1771, 5 novembre 1989.
61 Così le chiama Gino Frezza, nel saggio Il fumetto, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, vol. 12 L’età contemporanea – Letteratura di massa, La Biblioteca di Repubblica – L’Espresso, su lic. Einaudi, Torino 2007, p. 390.
62 I Promessi Paperi, cit., p. 10.
59
– 310 –
tunatamente Paperenzo rompe l‘ampolla e l’effluvio invade, come una pestilenza, la città di Milano, diffondendo un particolare contagio: a tutti i milanesi passa la voglia di lavorare e l’ufficio delle poste, per l’inerzia degli impiegati, “scoppia” letteralmente, seppellendo la città sotto tonnellate di lettere, missive e carte non consegnate. Dalla città “impostata” Paperenzo
fugge per rifugiarsi da suo cugino Gastolo (il fortunatissimo Gastone), che,
per liberarsi dell’ingombrante ospite, gli trova un impiego presso il potente
signore Mainomato (l’Innominato, ossia Rockerduck, il rivale di zio Paperone), che appunto sta cercando un menestrello da assumere per curare col
canto la sua malinconia. Ma il Mainomato è in combutta con don Paperigo,
che vuole la consegna del menestrello per costringerlo allo sgradito matrimonio con Gertrude. Paperenzo si ritrova così prigioniero nel castello del
Mainomato. Il progetto di don Paperigo va però in fumo: il Mainomato si
pente del suo gesto e libera (sia pur con un calcio nel posteriore) Paperenzo,
che svela l’intrigo a Gertrude. Questa, d’accordo con Lucilla Paperella, si
vendica di don Paperigo denunciandolo all’ufficio dei Gabellotti (gli esattori
fiscali): Paperenzo può così convolare a nozze con la sua Lucilla e don Paperigo alla fine sconta sulla pubblica gogna la condanna per una colossale evasione fiscale. Come si vede, dietro le maschere manzoniane agiscono i personaggi disneyani, impegnati a interpretare quello che è il perenne canovaccio
delle loro vicende: zio Paperone ordisce un sotterfugio per liberarsi da un pericolo (in questo caso Brigitta) e/o ottenere disonestamente un vantaggio, ai
danni dello sfortunato nipote Paperino, ma alla fine viene scornato. Il testo di
partenza è dunque utilizzato dagli autori della parodia come un “testo
vuoto”, da riempire con l‘universo dei paperi, al fine di ridere non tanto del
testo manzoniano quanto della lettura che la tradizione scolastica ha fatto di
esso.63 La parodia è ottenuta anche attraverso gli artifici linguistici che
creano paradossali, surreali situazioni: un semplice cambio vocalico trasforma la “peste” manzoniana in un disastro della “posta” di Milano. Se una
critica si può fare a questa divertente parodia è l’aver delimitato a una parte
marginale don Cicciondio (ossia Ciccio), che forse sarebbe riuscito un’eccellente caricatura del don Abbondio manzoniano.
63 Vd. sulla parodia disneyana le considerazioni nel saggio di Gino Frezza, Il fumetto, in
Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, vol. 12 L’età contemporanea – Letteratura di
massa, cit., pp. 391-392; ha espresso il suo apprezzamento alla parodia anche il filosofo Giulio
Giorello, vd. l’intervista di M. Gian. a Giulio Giorello, «L’Innominato? Il solito ateo devoto. Perciò preferisco I Promessi Paperi», in «Corriere della Sera», 8 maggio 2006.
– 311 –
La seconda e più recente parodia, I Promessi Topi, vede ovviamente
impegnati Topolino e i suoi amici: il locandiere don Pietrigo (Gambadilegno) vuole impedire non il matrimonio, ma il contratto di acquisto del grande albergo Continental, che farebbe diventare i due promessi sposi, Renzo
Topoglino (Topolino) e Lucia Minnella (Minnie), i primi ristoratori del paese. Per evitare ciò don Pietrigo manda i suoi bravi a spaventare il notaio don
Pippondio (Pippo), che non è certo un cuor di leone. Vistosi rimandare il
giorno del contratto dal tremebondo notaio, Renzo-Topolino e Lucia-Minnie
riescono a sapere la verità dalla governante di don Pippondio, Clarabella, e
chiedono aiuto alla Fattucchiera di Monza (la strega Nocciola, di cui un gustoso flashback mostra la tormentata educazione familiare: i genitori ne volevano fare a forza una strega, lei voleva invece recitare a teatro) per inoculare a don Pippondio il filtro del coraggio. Intanto, non contento delle minacce al notaio, don Pietrigo fa rapire Lucia, verso la quale prova una certa
simpatia (anche se è “accasato” con la gelosissima Trudy), dai bravi del suo
amico Innominabile, il conte Macchia Nera (il cui nome non deve pronunciarsi perché porta una terribile jella). Poi manda i bravi a casa del notaio per
rapire anche Renzo, ma don Pippondio, diventato coraggiosissimo, li fa prigionieri e va lui stesso al castello dell’Innominabile deciso a liberare LuciaMinnie: purtroppo svanisce l’effetto del filtro di Nocciola e don Pippondio si
ritrova anch’esso prigioniero del terribile conte. Nel frattempo, Renzo-Topolino, fuggito a Milano, trova la città in baia della “peste”: non il morbo, ma
la marchesina Esmeralda de Gomez, una viziatissima ragazzina, nipote del
governatore spagnolo, che ha imposto a tutti i forni di vendere soltanto dolciumi. I milanesi non ne possono più e assaltano i forni alla ricerca del pane.
Renzo-Topolino con un sotterfugio riesce ad allontanare dalla città la marchesina e la penuria di pane ha fine: per ricompensa ottiene di far convocare
don Pietrigo dal questore della città, Acchiappagarbugli (il commissario Basettoni), per chiedergli conto del rapimento di Lucia. Ma mancherebbero le
prove per inchiodare don Pietrigo-Gambadilegno, se proprio l’Innominabile,
provvidenzialmente convertitosi al bene e liberato dalla jella, non si presentasse assieme a Lucia-Minnie e a don Pippondio, da lui liberati. La conclusione è che Renzo Topoglino e Lucia Minnella possono coronare il sogno
d’amore e quello imprenditoriale, acquistando il grande albergo, mentre don
Pietrigo (già malmenato dalla fidanzata Trudy per un accesso di furiosa gelosia verso Lucia-Minnie) è condannato per le sue malefatte a servire ai tavoli del ristorante nell’albergo, assieme ai suoi complici. Anche questa parodia a fumetti ripropone, dietro le maschere manzoniane, il motivo dell’eter– 312 –
na rivalità della coppia Topolino-Gambadilegno, mentre il personaggio di
don Abbondio è sfruttato dal ruolo di Pippo in modo più comicamente incisivo che nella precedente parodia recitata dai paperi. Ricordiamo da ultimo
che una versione a fumetti dei Promessi Sposi, non parodistica ma rispettosa
dell’originale manzoniano, è stata sceneggiata da Claudio Nizzi e disegnata
da Paolo Piffarerio per la Periodici San Paolo.64
Singoli episodi del romanzo hanno poi ispirato altri racconti, ironici
omaggi al grande scrittore lombardo: La peste motoria di Dino Buzzati è un
fedele riadattamento del capitolo XXXIII dei Promessi Sposi, quello in cui
don Rodrigo scopre di essere contagiato dalla peste e viene venduto dal suo
servo, il Griso, ai monatti. Buzzati ha operato una trasposizione del testo
manzoniano, cambiandone l’epoca e l’oggetto: la “peste” in questo caso
non è il morbo bubbonico, ma uno strano disturbo che colpisce i motori
delle automobili e che si manifesta dapprima con un insopportabile stridio
per esplodere poi in un vero e proprio disfacimento della struttura meccanica del veicolo. La descrizione del morbo rimanda chiaramente all’orribile
disfacimento organico degli appestati manzoniani, come attesta il particolare delle gibbosità che richiama i “lividi bubboni” sui corpi infetti:
Sui prodromi e manifestazioni del misterioso male se ne sentì di ogni colore.
Dicevano che l’infezione si rivelasse con una cavernosa risonanza del motore,
come per un intoppo di catarro. Poi i giunti si gonfiavano in gibbosità mostruose,
le superfici si ricoprivano di incrostazioni gialle e fetide, infine il blocco motore
si disfaceva in un intrico sconvolto di assi, bielle ed ingranaggi infranti.65
Di fronte all’epidemia che contagia tutte le auto, le autorità decidono di
attuare il “ricovero conservativo” delle automobili “appestate” in un apposito “lazzaretto”, dove vengono bruciate come i cadaveri degli appestati. Le
auto contagiate sono sequestrate e inviate al “lazzaretto” da appositi incaricati che girano per le case, come i monatti. Il narratore, conducente della
Rolls-Royce di una vecchia nobildonna, preoccupato per le avvisaglie della
“peste motoria”, chiama in aiuto il meccanico Celada, che crede suo amico.
Il dialogo telefonico tra il narratore e il meccanico Celada, nel racconto
buzzatiano, rimanda esplicitamente a quello, drammatico, tra don Rodrigo e
64 Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi a fumetti, realizzazione di Claudio Nizzi e Paolo
Piffarerio, suppl. a «Il Giornalino», n. 31, 3 ottobre 1994, Periodici San Paolo, Roma 1994.
65 Dino Buzzati, La peste motoria, in Sessanta racconti, CDE, su lic. Mondadori, Milano
1969, p. 477.
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l’infedele Griso che sta per consegnarlo ai monatti:
«Celada» gli dissi «tu sei sempre stato mio amico.»
«Eh, spero bene?»
«Siamo sempre andati d’accordo.»
«Per grazia di Dio.»
«Di te mi posso fidare...?»
«Diavolo!»
«Vieni, allora. Vorrei che tu vedessi la Rolls-Royce.»
«Vengo subito.» E mi parve, prima che quello mettesse giù la cornetta, di udire
un lieve risolino.
Restai, seduto su una panca, ad aspettare, mentre dalle profondità del motore
uscivano sempre più frequenti rantoli. Con l’immaginazione contavo i passi del
Celada, calcolavo il tempo; fra poco sarebbe stato lì. E, standomene in orecchi,
per sentire se il meccanico arrivava, tutt’a un tratto udii nel cortile uno stropiccìo
di piedi, ma non di un uomo solo. Un orrendo sospetto mi passò per la mente.
Ed ecco aprirsi l’uscio del garage, presentarsi e venire avanti due sudice tute
marrone, due facce scomunicate, due monatti, in una parola: vidi mezza la faccia
del Celada che, nascosto dietro un battente, rimaneva lì a spiare.
«Ah, lurida carogna... Via maledetti!» E cercavo affannosamente un’arma, una
chiave inglese, una barra metallica, un bastone. Ma quelli mi erano addosso, fra
quelle braccia forzute fui ben presto prigioniero.
«Tu, mascalzone» gridavano, con versacci di rabbia insieme e di scherno «rivoltarsi contro i controllori del Comune, contro i pubblici funzionari! contro quelli
che lavorano per il bene della città!» E mi legarono alla panca, dopo avermi infilato in una tasca, suprema irrisione, il modulo regolamentare per il ricovero “conservativo”. Infine misero in moto la Rolls-Royce che si allontanò con un mugolìo
doloroso ma pieno di sovrana dignità. Sembrava volesse dirmi addio.66
L’umanizzazione dell’automobile “appestata” è in funzione dell’intento
parodistico ma le battute del dialogo, che ricalcano fedelmente quelle manzoniane, conferiscono al testo di Buzzati una “sottile e tragica ironia”.67 I
capitoli della peste nei Promessi Sposi hanno ispirato, peraltro, due racconti
di un maestro della narrativa del terrore, come Edgar Allan Poe (18091849), in chiave orrorifica l’uno (La maschera della Morte Rossa) in chiave
ironico-surreale l’altro (Re Peste).
Dalla parodia dei Promessi Sposi alla satira sui Promessi Sposi: eccelle
in questo campo Umberto Eco, che negli anni Sessanta ha dedicato alcune
pagine dissacratorie al romanzo nel suo Diario minimo. Il brano My exag-
66
67
Dino Buzzati, La peste motoria, cit., pp. 480-481.
Così Stefano Brugnolo – Giulio Mozzi, Ricettario di scrittura creativa, cit., p. 164.
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mination round his factification for incamination to reduplication with
ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni (1962), compreso nella
raccolta Diario minimo, è una lunga recensione sui Promessi Sposi, esaminati come se fossero stati scritti da Joyce:68 l’autore, con la consueta,
straordinaria abilità per le citazioni, riesce a trovare nel testo le più improbabili e apparenti analogie, riecheggiamenti, somiglianze con l’Ulisse e il
Finnegans Wake di Joyce, nonché richiami alla tradizione ermetica, all’antropologia strutturale e al Mutterrecht di Bachofen. Si veda lo schema
seguente in cui, a somiglianza dell’Ulisse joyciano, condensa la trama dei
Promessi Sposi nello spazio di una giornata e ne sviscera la simbologia:
Sezione prima. Dall’alba al primo pomeriggio. Ore 6-14. Renzo Tramaglino sta
per sposare la propria fidanzata Lucia Mondella quando il curato del paese, Don
Abbondio, gli fa sapere che un signorotto locale, Don Rodrigo, concupisce Lucia
e si oppone al matrimonio. Renzo chiede consiglio a un leguleio, ma visto vano
ogni tentativo fugge con Lucia aiutato da un cappuccino, Padre Cristoforo. Lucia
si rifugia in un convento di Monza, Renzo va a Milano. Simbolo della sezione:
il Curato. Tecnica: la tessitura. Animale: il cappone, emblema di impotenza e
castrazione.
Sezione seconda. Il Meriggio. Ore 14-17. Renzo a Milano si fa coinvolgere in
una sommossa e deve riparare a Bergamo. Lucia viene rapita da un potente
signorotto, l’Innominato, grazie alla complicità della monaca Gertrude. Il Cardinale di Milano libera Lucia e la fa custodire da un erudito, Don Ferrante, e
da Donna Prassede. Simbolo: la Monaca. Tecnica: la biblioteconomia. Animale:
la mula, emblema di ostinazione (dei malvagi).
Sezione terza. Tramonto e sera. Ore 17-24. Scoppia a Milano la Peste, e Don
Rodrigo, don Abbondio e Padre Cristoforo muoiono, Renzo torna a Milano da
Bergamo e ritrova Lucia sana e salva. Finalmente riuniti si sposano. Simbolo: il
Monatto. Tecnica: ospedaliera. Animale: non esiste, perché il male è sconfitto; in
luogo dell’animale c’è la pioggia purificatrice, che richiama il motivo iniziale
dell’acqua, nonché quello delle lavandaie del Finnegans (episodio di Anna Livia
Plurabelle).69
68 Umberto Eco, My exagmination round his factification for incamination to reduplication
with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni (1962), in Diario minimo, Mondadori,
Milano 1988, rist. (I ed. 1963), pp. 54-65. Eco ha anche riscritto in parodia La Pentecoste manzoniana come una grottesca celebrazione della sapienza gnostica (Alessandro Manzoni,
La Gnosi, in Umberto Eco, Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano 1992, pp. 257-261).
69 Umberto Eco, My exagmination round his factification, cit., pp. 57-58. Per un confronto
con la disposizione strutturale dell’Ulisse di Joyce, quale risulta anche dallo schema Linati, rimandiamo all’intr. di Giorgio Melchiori in James Joyce, Ulisse, unica trad. integrale autorizzata
di Giulio de Angelis, vol.II, Mondadori, Milano 1978, rist., pp. 38-45.
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Com’è evidente, molteplici sono i bersagli della parodia di Eco: non
solo Manzoni, ma anche un certo tipo di analisi strutturale sconfinante nella
ermetica complessità, e, forse, la stessa pratica della recensione come genere
di scrittura. Un’altra occasione di satira sui Promessi Sposi è in Dolenti
declinare, un rapporto di lettura a un editore sull’opera manzoniana, che
viene clamorosamente bocciata,70 mentre una citazione ironica appare nel
romanzo L’isola del giorno prima,71 al cap.XXI, p.230: la biblioteca di don
Ferrante è acquistata da padre Caspar, che ne porta alcuni libri con sé
durante il viaggio.72
Un particolare tipo di parodia è l’“intervista impossibile” o immaginaria,
come quelle fatte a celebri personaggi storici e raccolte nel libro di Roberto
Gervaso, A tu per tu con il passato (1994). Una di esse è dedicata alla
Monaca di Monza, la Gertrude manzoniana che nella realtà, com’è ben noto,
si chiamava suor Virginia, al secolo Marianna de Leyva, discendente da una
nobilissima famiglia spagnola.73 Buona parte dell’intervista rievoca la storia
della passione di suor Virginia per Gian Paolo Osio, lo sciagurato Egidio del
Manzoni. È evidente dalle risposte del personaggio il tentativo dell’autore di
“modernizzare” la figura della Monaca di Monza, prestandole una disinvolta,
spregiudicata passionalità, quale movente di una storia da “cronaca nera” dei
nostri giorni:
D. Dove lo incontrò?
R.. Il monastero confinava con la casa e il giardino di una famiglia nobile, facoltosa e influente: gli Osio, appunto. Il padre era morto, lasciando la moglie con
due figli, Teodoro e Gian Paolo; giovani riottosi, prepotenti, maneschi, scansafatiche. Il secondo, uno sciagurato giorno, mi notò dall’alto di una finestra della
sua abitazione, dove avendo ucciso un uomo, se ne stava rintanato per timore di
rappresaglie e sanzioni.
D. Chi aveva ucciso?
R. Un certo Giuseppe Molteni, di professione fiscale. Fra l’altro, mio agente.
D. Le parlò?
R. No, ma di lì a poco ricevetti una sua lettera.
D. Come gliela fece pervenire?
R. La buttò nel cortiletto dove si trovava il pollaio del monastero.
Umberto Eco, Dolenti declinare, in Diario minimo, cit., pp. 154-155.
Bompiani, Milano 1994.
72 Ricordiamo, da ultimo, che è ricchissimo di aneddoti e curiosità sulle celebrazioni per il
primo centenario della morte di Manzoni (1973) il volumetto Dossier Manzoni di Paola Alberti,
Giovanna Franci e Rosella Mangaroni, Cappelli editore, Bologna 1977.
73 Roberto Gervaso, A tu per tu con il passato, Bompiani, Milano 1994, pp. 7-20.
70
71
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D. Il contenuto?
R. Espressioni galanti, che non mi lusingarono affatto. L’Osio aveva assassinato
un uomo che conoscevo e stimavo. Più tardi ricevetti un altro messaggio, in cui
mi richiedeva un appuntamento.
D. Un appuntamento?
R. Sì: per “ragionare” con me.
D. Dove?
R. In parlatorio.
D. E lei?
R. Acconsentii.
D. Chiese il permesso alla superiora?
R. Me ne guardai bene.
D. E in che modo introdusse l’Osio nel parlatorio?
R. Suor Ottavia gli lanciò le chiavi di là dal muro.
D. Come andò?
R. Divisi dalla doppia grata, ragionammo di cose di creanza; mi domandò perdono dell’omicidio del Molteni, e mi esibì di farmi ogni servizio in suo scambio;
insomma, mostrò la maggior modestia che si potesse immaginare.
D. Non fece avances?
R. No. E le confesso che la cosa un po’ mi dispiacque. Non avevo mai visto un
giovane così affascinante: bruno, snello, atletico, sicuro di sé, dalla battuta pronta
e dal piglio ribaldo. Non era facile resistergli.
D. Insomma, la conquistò.
R. E io conquistai lui. Ero una di quelle bellezze mediterranee che tolgono il
fiato: alta, appariscente, con magnifici capelli color pece, occhi e sopracciglia
dello stesso colore; i lineamenti del viso, stranamente pallido, perfetti ma non banali. E poi lo sguardo, l’espressione: da vera “Signora”, da feudataria abituata più
a comandare che a ubbidire, e non solo nello spazio ristretto di un convento.
D. Un colpo di fulmine?
R. Dapprincipio, un’irresistibile attrazione fisica. L’incontro di due nature più
passionali che appassionate, un terremoto dei sensi, un’esplosione ormonale. Capimmo subito che a quel convegno altri sarebbero seguiti.
D. Dove?
R. Sempre in parlatorio, ma senza più la grata che, fra l’altro, ci avrebbe impedito
quelle effusioni che saranno la causa del nostro dramma, della nostra rovina.74
È toccato al Manzoni di essere coinvolto anche in un ulteriore, tipico
divertimento letterario quale il “falso d’autore”: un testo apocrifo scritto da
un autore moderno nello stile e con evidenti richiami allusivi ai testi di un
altro autore, antico o moderno. La storia dell’Intelligenza infame di Giampaolo Rugarli (Guida, Napoli 2008) è la riscrittura parodistica della celebre
74
Roberto Gervaso, A tu per tu con il passato, cit., pp. 11-13.
– 317 –
Storia della colonna infame, adattata all’anno 2030: in un’Italia futuribile,
stordita dai massmedia e ottusamente prona di fronte alle molteplici nequizie dei politici, un onesto benpensante, tale Gian Paolo Garruli,75 decide
di pubblicare un notiziario realmente indipendente, l’unico (giacché tutta la
stampa disponibile è nelle mani di un celebre politico-imprenditore), con il
lodevole scopo di far sentire finalmente alla gente la voce dell’autentica verità. Mal gliene incoglie: un cardinale (simbolo della Chiesa), un deputato
conservatore e uno progressista (chiamati significativamente Oliosanto, Rimanendo e La Riscossa) fanno lega contro di lui e lo perseguitano in ogni
modo, come fosse un untore. Le vicende del misero protagonista, letteralmente schiacciato dai “poteri forti” riecheggiano quelle del disgraziato Gian
Giacomo Mora, che nel 1630 fu torturato e indotto a confessare di essere un
untore (allusivamente il giornale del Garruli si chiama L’estrema unzione).
Vediamo l’incipit della storia di Rugarli:
Fra i molteplici casi, che nel 2030 e al di là, toccarono persone accusate di aver
propagato intelligenza e dissenso con scritti e discorsi peggio di unzioni, uno
parve così degno di memoria che fu decretato a mantenergliela un pubblico
monumento. E fu eretto un so che di circolare, di rotondo,76 talché l’ignaro viandante, non comprendendo la cagione dell’opera singolarissima, si empiva di
bistento, ma poi, letta l’iscrizione, si rincuorava, e ben si apponeva, sapendosi
estraneo a ogni velleità di sommovimento e soqquadro.
Avvenne che tale Garruli Gian Paolo, il quale avendo bottega di speziale a Milano, nel quartiere della Vetra, ereditò da un lontano parente un discreto peculio.
In luogo di volgere a crapule, dissipazioni e voluttuosi congressi l’insperata ricchezza, il Garruli ebbe il tristo ghiribizzo di investirla per intero nel confezionamento, nella stampa e nello smercio di un giornalucolo che volle intitolare
L’estrema unzione, con riferimento non alla santa pratica della nostra fede, sibbene al crimine scellerato, ai tempi della peste, di infettare con empiastri i muri
delle case al fine di accrescere la carneficina. Il Garruli maldestramente celiava,
essendo suo intendimento spandere intelligenza e dissenso, per sconfiggere la
cretineria imperante, e, presi accordi con uno stampatore, sparò il numero uno de
la sua gazzetta, con la quale colmava di redarguizioni quante se ne vuole radio,
televisione, giornali, riviste e magazines.77
Purtroppo la battaglia per far trionfare l’intelligenza e il dissenso costeranno al coraggioso giornalista-stampatore fratture multiple in varie parti
Il trasparente anagramma svela l’alter ego dell’autore.
È il particolare monumento che viene descritto alla fine della storia.
77 Giampaolo Rugarli, Storia dell’Intelligenza infame.Storie quasi eterne di potenti, di violenti e di perdenti, Guida, Napoli 2008, pp. 13-14.
75
76
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del corpo, a seguito di non casuali “incidenti”, e abbrevieranno notevolmente il suo soggiorno tra i mortali. A ricordo comunque della sua coraggiosa iniziativa e ad ammonimento dei cittadini sempre più istupiditi, il governo decide di erigere un monumento a Milano, ossia due sfere di marmo
del diametro di un metro ciascuno (senza la colonna manzoniana, che sarebbe sembrata troppo irriverente), che i milanesi chiameranno I ball de la
patria nostra. E il dissenso e l’intelligenza, conclude l’autore, non si videro
e non si sentirono mai più.78 Aggiungiamo anche che Ferdinando Camon ne
Il santo assassino fa enunciare al critico Geno Pampaloni (con il supporto
di una mimica macchiettistica) una paradossale lezione sui Promessi Sposi
di tono notevolmente critico sull’ideologia del romanzo e con richiami a
Gramsci e Moravia.79 Concludiamo questa breve rassegna delle riscritture e
parodie dei Promessi Sposi con una curiosità. Avendo la critica esaminato
minuziosamente tutti i possibili aspetti del romanzo, non poteva mancare
anche un’indagine sui sapori dei Promessi Sposi, il che è quanto ha fatto
Domenico Crosso ne I promessi sapori, il sugo della storia di Alessandro
Manzoni (Edizioni Il leone verde, Torino 2007): nel saggio sono raccolti e
illustrati tutti i piatti descritti dal Manzoni, ossia la polenta in casa di Tonio,
lo stufato all’osteria della Luna Piena, i raveggioli, le polpette alla Lucia,
etc.80
I Promessi Sposi hanno dunque originato una produzione parodistica
ben risalente nel tempo, che ha toccato anche la produzione di carattere più
popolare e commerciale, come i fumetti.81 Scrivere la parodia di un testo è
un’esperienza che, ovviamente, richiede una riflessione sulla scrittura oltre
Ibid., p. 47.
Che, com’è ben noto, esprimono posizioni antitetiche a quelle del Pampaloni, soprattutto
nel giudizio sul ruolo della religione e degli “umili”: si veda il paragrafo Attualità del Manzoni
in Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, intr., commento critico e note di Geno Pampaloni, De
Agostini, Novara 1996, pp. 790-796.
80 La ricetta delle polpette manzoniane è anche in Pinuccia Ferrari, Letteratura a tavola,
Rizzoli, Milano 1983, p. 105.
81 E perfino i fotoromanzi, come quello prodotto e pubblicato dalla Mondadori, su cui vd.
Alberto Abruzzese, Fotoromanzo, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, vol. 12
L’età contemporanea – Letteratura di massa, cit., pp. 406-409. Per quanto riguarda le parodie
apparse in TV, come quella del Trio Tullio Solenghi-Anna Marchesini-Massimo Lopez o del
Quartetto Cetra (del 1985, su cui rimandiamo al saggio di Aldo Grasso, Una lacrima sul
Griso.Appunti in margine a una parodia televisiva, in AA.VV., Leggere i “Promessi sposi”, a
cura di Giovanni Manetti, Bompiani, Milano 1989, pp. 293-297), non ne abbiamo trattato di
proposito, appartenendo esse alla storia dello spettacolo televisivo.
78
79
– 319 –
che una specifica competenza delle tecniche narrative, ed è uno degli oggetti dei corsi di scrittura creativa che da qualche anno sono stati introdotti,
sull’esempio delle scuole di scrittura angloamericane, nel nostro Paese.82
Ma anche la riscrittura delle trame romanzesche è un collaudato esercizio di
scrittura creativa, in particolare per quanto riguarda la rielaborazione dei finali.83 Abbiamo voluto pertanto assegnare ai nostri studenti un analogo esercizio: provare a riscrivere parzialmente la trama dei Promessi Sposi accettando la variazione di un fatto della trama e modificando la successione
degli avvenimenti. Non appaia ciò una scelta gratuita. Immaginare variazioni alle trame letterarie è un tipico esercizio di scrittura creativa, così
come molti narratori e saggisti hanno immaginato varianti negli eventi storici accaduti e su quelle hanno costruito ingegnose trame narrative e saggi
di “storia alternativa”, dando origine a un vero e proprio filone letterario,
quello dell’ucronia (o “fantastoria”, “allostoria”, “storia controfattuale”, che
ha per oggetto la rappresentazione di epoche storiche in cui Napoleone
avrebbe ipoteticamente vinto a Waterloo o Antonio e Cleopatra ad Azio).
Va tenuto presente che le trame possono essere riscritte, anche inconsapevolmente. È, peraltro, una vera e propria trama con variazione nel finale
lo sgrammaticato ma divertentissimo tema di uno dei bambini napoletani
del maestro Marcello D’Orta, raccolto assieme ad altri cinquantanove nel
celebre Io speriamo che me la cavo:
A Lucia uno l’aveva rapinata, ma no perché se la voleva baciare, perché celaveva
detto Tonrodrico. Lucia tornò, Renzo non la trovava, domandava a tutti i bravi se
vedevano Lucia, ma erano tutti morti, il fumo usciva dalle case. Non c’era un’anima viva. Tutti i pani stavano a terra. Poi incontra un prete, vivo, che celo dice.
Sulle parodie e riscritture vd. Stefano Brugnolo – Giulio Mozzi, Ricettario di scrittura
creativa, cit., pp. 152-186. Una approfondita riflessione sulla scrittura è costituita dalla raccolta
di saggi compresi in Teoria e pratica della scrittura creativa, a cura di Tullio De Mauro, Pietro
Pedace, Annio Gioacchino Stasi, Omero Ricerche n. 1, Controluce, Roma 1996.
83 Segnaliamo al riguardo che il concorso internazionale «Scrivi con me», organizzato dal
Ministero degli Affari Esteri in collaborazione con l’Accademia della Crusca nell’ambito delle
manifestazioni per la Settimana della lingua italiana nel mondo, propone annualmente agli studenti delle scuole italiane un racconto di uno scrittore italiano, del quale essi devono scrivere il
finale. I dodici migliori scritti vengono poi pubblicati, assieme al racconto nella sua versione
completa (ossia con il finale scritto dall’autore), in una apposita collana di volumetti, per cura
dell’editore Gremese. Ricordiamo, fra i testi usciti nella serie “Un racconto con dodici finali”:
Dacia Maraini, Berah di Kibawa, Gremese Editore, Roma 2003; Alberto Bevilacqua, Il segreto
della moglie scomparsa, Gremese Editore, Roma 2004; Carlo Sgorlon, La fuga a Verona, Gremese Editore, Roma 2005.
82
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Dice: «Fai presto, senò muore pure Lucia e rimani tu solo, io fra sei o sette minuti muoro purio». E andò, e l’incontrava, e si sposavano, e cambiarono città.
Sene andarono in SPAGNA!84
Aggiungiamo, come caricaturale pendant, quest’altro lavoro di uno studente ginnasiale, apparso nella raccolta di John Beer, Maledetti Promessi
Sposi, era meglio se vi sposavate (Rizzoli, Milano 20083, pp.17-18):
La più vera delle storie di Manzoni è quella che parla dei promessi sposi. Si
orienta su un braccio del lago di Como dove viveva l’avvocato Garbugli. Ci sono
due ragazzi che si chiamano Renzo il Tramaccino e Lucia Monella che cercano in
tutti i modi di sposarsi ma Don abbondio (minuscolo nel testo) non vuole perché
ha paura di Don Rodrigo e si nasconde fra i vasi di coccio. Allora Renzo per sposare sua moglie decide di andare con fra Cristoforo dalla Monaca di Monza per
celebrare il matrimonio in gran segreto. Nel frattempo arriva la peste che fa moltissime vittime e quando muoiono tutti compreso don Rodrigo e Don Abbondio
che non era fatto più vivo i due innamorati possono finalmente sposarsi.
I testi sopra citati costituiscono involontarie parodie del testo manzoniano. Di tutt’altro tenore, invece, sono i lavori degli studenti della nostra
classe (la V A dell’anno scolastico 2007-2008), i quali hanno provato a
immaginare una trama alternativa a quella dei Promessi Sposi, ricreando le
vicende del romanzo, a partire da un fatto non contemplato dal Manzoni:
il rapimento di Lucia da parte dei bravi di don Rodrigo, nel cap. VIII. Cosa
sarebbe accaduto, infatti, se per ipotesi Lucia fosse stata rapita e portata al
palazzotto di don Rodrigo? Ovviamente non può rispondere il Manzoni, che
ha scartato questa possibilità, né ci azzardiamo a immaginare quale seguito
avrebbe concepito il grande Milanese alle vicende di una Lucia, se, per ipotesi, fosse stata rapita dai bravi (il lettore sa bene che questa ipotesi non si
verifica: Lucia non viene rapita dai bravi di don Rodrigo e, allorché viene
rapita da quelli dell’Innominato – e il suo destino sembra segnato –, questi
provvidenzialmente si converte mandando a vuoto le attese del prepotente
signorotto e mandante dell’atto criminoso). Però abbiamo voluto stuzzicare
la fantasia degli studenti assegnando loro il compito, a nostro giudizio
quanto mai stimolante, di immaginare le peripezie che avrebbero potuto affrontare i due giovani fidanzati, qualora il progettato rapimento di Lucia
fosse andato a buon fine. Gli studenti hanno pertanto elaborato una trama
Io speriamo che me la cavo.Sessanta temi di bambini napoletani, a cura di Marcello
D’Orta, Mondadori, Milano 2008, rist., p. 168. Abbiamo riprodotto il testo con i suoi propri errori linguistici.
84
– 321 –
alternativa, condensando in alcuni capitoli (quattro o cinque) il prosieguo
degli avvenimenti dopo il capitolo VIII del romanzo, quale sarebbe potuto
essere se Lucia fosse stata rapita.
Siamo consapevoli che le trame alternative escogitate dagli alunni appariranno inevitabilmente piene di errori, ingenuità, contraddizioni, inverosimiglianze, anche perché nessuno può immaginare cosa avrebbe potuto
scrivere Manzoni se avesse deciso di far rapire Lucia dai bravi di don Rodrigo (forse il romanzo – ci permettiamo di supporre – avrebbe attinto maggiormente ai motivi tipici della narrativa “gotica”, ben oltre i riecheggiamenti del Fermo e Lucia). Ma va considerato che si tratta di alunni di quindici anni, alle prime armi con lo studio dei grandi testi letterari e con la
composizione di scrittura creativa. Una difficoltà ulteriore è poi data dal
fatto che sono stati conservati i ruoli e le funzioni dei personaggi, quali
sono stati prestabiliti nella notissima trama, essendo quella alternativa la
prosecuzione del cap. VIII, nel quale è innestata la variante del riuscito rapimento di Lucia ad opera dei bravi: quindi don Abbondio continua a impersonare il prete pavido, don Rodrigo il malvagio tirannello, Renzo l’innamorato fedele, fra Cristoforo l’ardente e coraggioso cappuccino. Lucia, invece,
mostra qualche imprevisto cambiamento nel carattere e, per conseguenza,
nelle sue scelte (è il personaggio che è variato di più). Giocare sì con i personaggi (cosa che peraltro pensava di fare anche il Manzoni),85 ma rispettando i limiti della coerenza narrativa e dei ruoli prestabiliti.
Diamo di seguito le trame alternative, che iniziano con una variante nel
contenuto del cap. VIII e comprendono i capitoli dal IX al XIII (ossia dal I
al V delle trame alternative), riscritte da alcuni alunni della classe V A, nell’ambito del nostro piccolo laboratorio di scrittura creativa svolto in classe
nell’anno scolastico 2007-2008.
I PROMESSI SPOSI
(riscritti da Claudia Castellani)
Capitolo VIII (con variante nel contenuto)
Don Abbondio e Perpetua, scoperto l’inganno, si barricano in casa; Lucia, Renzo e
Agnese, scoraggiati e allarmati dal suono delle campane, tornano velocemente
nella casetta di Lucia, dove però li attendono i bravi, che legano e imbavagliano
Agnese, picchiano Renzo e rapiscono Lucia, portandola al castello di don Rodrigo.
Si pensi alla bellissima similitudine del fanciullo che gioca con i porcellini d’India al cap.
XI del romanzo.
85
– 322 –
Nel frattempo i paesani accorsi da don Abbondio vengono rimandati alle loro
abitazioni dal prete, che si scusa dicendo di essersi sbagliato e che non c’è nessuno
in casa sua; tutti tornano a dormire.
Capitolo IX (I della trama alternativa)
L’indomani di buonora fra Cristoforo, allarmato poiché né Menico né i due promessi sono andati da lui al convento come era stato convenuto, si reca alla casa di
Agnese per accertarsi che non sia accaduto nulla, e così scopre Menico, Agnese e
Renzo legati e imbavagliati. Il frate li libera e cura le ferite di Renzo, poi essi gli riferiscono l’accaduto spaventati, raccontando del rapimento di Lucia. Menico viene
rimandato a casa con la raccomandazione di non dire niente a nessuno di ciò che è
successo, con qualche moneta per ricompensa del disturbo. I tre adulti, rimasti soli,
cercano di trovare una soluzione e di ideare un piano per salvare la ragazza.
Capitolo X (II della trama alternativa)
Cambio di scena: palazzotto di don Rodrigo. I bravi, secondo gli ordini di don
Rodrigo, conducono Lucia (che nel frattempo è stata bendata) in una recondita e
buia cantina del palazzo, della cui esistenza neppure i servi e i domestici sono a
conoscenza. Don Rodrigo si prepara e scende a farle visita, intimandole di essere
più gentile e ben disposta nei suoi confronti, della volta precedente; poi le dice
che se ci tiene a vivere dovrà assecondare i suoi desideri e sposarlo. La ragazza si
getta piangente sull’improvvisato letto di paglia, e don Rodrigo la avverte che le
sono concessi solamente due giorni per prendere una decisione, poi se ne va,
chiudendo la porta con il chiavistello.
Capitolo XI (III della trama alternativa)
Nel frattempo Agnese, Renzo e fra Cristoforo hanno deciso di provare a convincere don Abbondio a celebrare le nozze dei due promessi nel castello di don Rodrigo, di nascosto, e poi di fuggire al paese, in modo che se anche la fuga fosse impedita i due giovani sarebbero ormai maritati ufficialmente e il nobilotto non potrebbe pretendere più nulla. I tre così vanno da don Abbondio, che però sentendo le
loro richieste si rifiuta decisamente, ma Renzo, che aveva già messo in conto
questa reazione del prete, apre un coltello e lo costringe a seguirli minacciandolo:
don Abbondio, terrorizzato, obbedisce dopo vane suppliche. Durante il tragitto
verso il palazzo del signorotto fra Cristoforo rimprovera a Renzo il fatto di aver
usato la violenza, ma deve riconoscere che quello era l’unico modo rimasto per
cercare di salvare Lucia. Nel cammino il gruppetto fa una sosta alla casa di Tonio e
Gervaso che, informati di tutto, seppur con reticenza rispettano la promessa fatta a
Renzo all’osteria di fare da testimoni al matrimonio, e si aggiungono ai quattro.
Verso sera finalmente giungono a destinazione e passano la notte nascosti in una
stalla lì vicino, ripassando il piano per l’indomani e cercando di riposare.
Capitolo XII (IV della trama alternativa)
Il giorno dopo don Rodrigo fa visita a Lucia, ricordandole che entro il tramonto
dovrà dargli la risposta; intanto il gruppetto riesce a entrare nel castello di na– 323 –
scosto grazie all’aiuto del vecchio e buon servitore di don Rodrigo, che abbiamo
già avuto occasione di conoscere. Il servo osservava da qualche giorno gli spostamenti del suo padrone, e aveva scoperto il luogo dove Lucia era tenuta prigioniera; vi ci porta quindi gli amici, ma proprio quando riescono ad arrivarvi e a
slegare Lucia, nella cantina piombano il Griso e i suoi compari, che li avevano
seguiti, e gli impediscono di celebrare le nozze, mandando a chiamare don Rodrigo. Egli arriva immediatamente e decide di sfruttare la situazione a suo favore:
obbliga Lucia a sposarlo, altrimenti oltre lei farà uccidere anche Agnese e Renzo.
La ragazza, disperata, accetta, e don Abbondio li unisce in matrimonio, nonostante le suppliche di Agnese e le grida di Renzo. Don Rodrigo, allegro e soddisfatto, fa subito preparare un sontuoso banchetto nuziale, lasciando liberi Agnese,
Renzo, Tonio, Gervaso, padre Cristoforo e don Abbondio. Nel frattempo il Griso
scopre con orrore di aver contratto la peste, che ormai si sta diffondendo in tutta
la regione, e don Rodrigo lo allontana dal suo castello, abbandonandolo al suo
triste destino.
Capitolo XIII (V della trama alternativa)
Mentre don Abbondio, Tonio e Gervaso tornano alle loro abitazioni, fra Cristoforo, Renzo e Agnese riescono a parlare con Lucia tramite il buon servitore,
ma tutte le uscite sono controllate dai bravi e non c’è modo di poter salvare
la fanciulla. Il matrimonio è fatto, ormai tutto è perduto; l’aiuto giunge però
inaspettato: il Griso, ferito nell’orgoglio e deciso a vendicarsi del trattamento
ricevuto dopo anni e anni di fedeltà, coglie don Rodrigo alla sprovvista e lo
pugnala, proprio durante il banchetto (i bravi, che ancora lo considerano un
capo, non avevano avuto il coraggio di rifiutargli un favore, e non sapendo le
sue intenzioni, lo avevano lasciato entrare nuovamente nel castello). I pochi
invitati si sparpagliano disordinatamente, urlando e correndo via, e Lucia
approfitta della confusione per raggiungere gli altri. Fra Cristoforo si avvicina
al corpo di don Rodrigo per soccorrerlo, ma l’uomo è già spirato, così dopo
aver detto una preghiera per quell’anima meschina torna dai tre e insieme corrono al convento. Da qui Renzo e Lucia, divenuta da moglie immediatamente
vedova, fuggono diretti a Milano, dove arrivano sani e salvi e dove un sacerdote
amico di Cristoforo, avvisato con una lettera delle loro sciagure dal cappuccino,
accetta di sposarli. I due giovani iniziano felici una nuova vita lì, dove ben
presto vengono raggiunti da Agnese, che si era nel frattempo ammalata di peste
ma – come dice fra Cristoforo – la Provvidenza aveva voluto che risanasse.
Il Griso fugge evitando il carcere, ma ben presto le sue condizioni peggiorano e
muore di peste. In quanto a don Abbondio, invece, spaventato a morte da tutti
quegli avvenimenti e terrorizzato al pensiero di essere rimproverato dal cardinale Borromeo, una notte fa fagotto e fugge di nascosto, e da quel momento
nessuno lo rivedrà mai più. L’unica a versare qualche lacrima per lui è la povera
Perpetua.
* * *
– 324 –
I PROMESSI SPOSI
(riscritti da Sara Composto)
Capitolo IX (I della trama alternativa)
Menico narra l’agguato che gli è stato teso dai bravi ed invita Lucia, Renzo ed
Agnese a non recarsi a casa per nessun motivo.
Lucia con parole supplichevoli riesce ad ottenere ospitalità presso don Abbondio.
La ragazza trascorre una notte a casa del curato, ed il giorno seguente offre a Perpetua, come segno di riconoscenza, la sua disponibilità ed il suo aiuto riguardo lo
svolgimento delle faccende domestiche.
Perpetua accetta senza indugiare e chiede a Lucia di recarsi alla fonte per attingere dell’acqua. Presso la fonte, il Griso e i bravi rapiscono la fanciulla e, dopo
averla bendata, la conducono al palazzotto di don Rodrigo.
Capitolo X (II della trama alternativa)
A sua insaputa Lucia viene condotta da don Rodrigo. La ragazza si trova così al
cospetto del signorotto, e dinanzi alle assillanti attenzioni di questo, lo prega di
ridarle la libertà negatale per un così futile capriccio.
Don Rodrigo pare non curarsi dei sentimenti di Lucia piangente e implorante, ma
in seguito comprende lo stato d’animo della fanciulla ed ordina al Griso di chiamare Renzo.
Capitolo XI (III della trama alternativa)
Renzo si reca immediatamente da don Rodrigo. Non sapendo però che le intenzioni di colui che l’ha mandato a chiamare sono prive d’inganno, pensa che ad
attenderlo, lì al palazzotto, ci sia un duello. In realtà, giunto al cospetto di don
Rodrigo, trova l’amata Lucia che lo accoglie a braccia aperte. In seguito ad una
serie di chiarimenti, Renzo comprende che in realtà Lucia, con le sue suppliche e
le sue preghiere, è riuscita a far breccia nel cuore di don Rodrigo, che permette il
ricongiungimento dei due innamorati.
Capitolo XII (IV della trama alternativa)
Renzo si reca con Lucia presso il convento dove Agnese ha trovato appoggio e
riparo. In questo modo Lucia ha l’occasione di intraprendere un intenso percorso
spirituale, che presto la conduce ad una decisione ben precisa.
Così mentre Renzo ed Agnese stabiliscono il da farsi riguardo il matrimonio e
scelgono la data delle tanto attese nozze, Lucia trascorre le sue giornate nel convento dedicandosi alla preghiera e alla meditazione. Pondera a lungo le numerose peripezie affrontate, e l’amore che pare legarla a Renzo. Perciò giunge ad
un’inattesa conclusione.
Capitolo XIII (V della trama alternativa)
Lucia decide di dedicarsi alla vita monacale. La scelta della ragazza inizialmente
non viene accettata né da Agnese né da Renzo, poiché ritengono che questa decisione sia dettata da un ragionamento frutto di un momento di tensione.
– 325 –
Lucia è invece più che decisa a prendere i voti e spiega le sue motivazioni, chiedendo alla madre ed a colui che sarebbe dovuto essere il suo promesso sposo,
di accettare la sua scelta.
Agnese asseconda la figlia, pur provando una triste rassegnazione, ma Renzo,
che arde d’amore per Lucia, si oppone e ritiene la decisione di prendere i voti
avventata e folle. In seguito ad un colloquio fra i due, Renzo si trova costretto a
piegare la sua passione di fronte all’immenso amore che Lucia prova per Dio.
* * *
I PROMESSI SPOSI
(riscritti da Salvatore Gallo)
Capitolo IX (I della trama alternativa)
Il gruppo di bravi appostati al casolare per il rapimento di Lucia penetra nella casa
trovando la ragazza in compagnia di Menico, rientrato da poco dal convento.
Questi non badano alla presenza di Menico, pensano soltanto a prendere la ragazza
e a portarla alla svelta all’osteria in cui attendevano il loro arrivo don Rodrigo e gli
altri suoi bravi, per poi portare la ragazza nel suo sfarzoso appartamento.
Arrivati, don Rodrigo si alza in piedi e si toglie il cappello come segno di accoglienza nei confronti della giovane fanciulla ammutolita e tremante dalla paura
che le possano fare del male.
– Desidera qualcosa da bere o da mangiare, mia cara e dolce fanciulla? Posso
avere il piacere di offrire qualcosa a lei gradito? – , dice don Rodrigo, con aria da
uomo fiero e soddisfatto del riuscito rapimento della bella Lucia, che risponde: –
Sì, mio signore, desidero la serenità che non riesco ad avere ultimamente, quella
serenità che mi permetterebbe di vivere una vita migliore di quella attuale, se si
può chiamare vita, quella serenità che hanno in molti, o forse non l’ha nessuno,
quella che riuscirebbe a regalare il sorriso a tutti, quella letizia che credo di meritare, ma la stessa che voi e i vostri compari non volete concedermi!
Don Rodrigo, sbalordito dalle parole di Lucia e dalla responsabilità che gli addebita, risponde: – Non posso concedervela, mia giovane, sarebbe causa del mio
dolore pensarla senza fare nulla per averla, e questo è quanto! –, conclude, ordinando ai bravi di portare Lucia a casa: – Voi portate la fanciulla nella mia casa e
badate di non farvi vedere, io arriverò il prima possibile!
Si chiude così il capitolo.
Capitolo X (II della trama alternativa)
Lucia viene così portata nella casa del malvagio signorotto e rinchiusa in una
stanza buia e fredda. Intanto Renzo, avvertito del rapimento, corre a casa di
Lucia, dove sono riuniti fra Cristoforo, Menico, travolto dalla rabbia e in preda
alla disperazione, la madre della fanciulla, Tonio e Gervaso. Qui il giovane viene
colto dalla rabbia, afferra un coltello da cucina ed esce da casa alla ricerca di
don Rodrigo, aiutato da Tonio e Gervaso. Le parole di fra Cristoforo sono vane, il
desiderio di Lucia regna su tutti e tutto. Dopo vari giri e tentativi vani di ricerca,
– 326 –
i tre si trovano davanti all’osteria, dove vedono don Rodrigo e quattro dei suoi
bravi scherzare e ridere a volontà.
Senz’altri pensieri Renzo gli si scaglia contro violentemente puntandogli il coltello
affilato. Inizia qui una discussione molto viva tra i due che finirà con una rissa violenta.
Capitolo XI (III della trama alternativa)
– Con quale coraggio ti presenti qua, con aria minacciosa e animo impietrito da
una rabbia che non conosce confini, o Lorenzo Tramaglino? Sei per caso spinto
dall’amore? Non sarà facile convincermi, il mio cuore è più forte del ferro! Stermino, come fa la peste, tutti quelli che intralciano il mio cammino! E tu sarai il
prossimo! – dice il signorotto.
Allora Renzo ribadisce: – Oh cane, non basterebbe la tua morte per cancellare
ogni tuo danno, ogni dispiacere che hai dato a noi come a tanti altri, ma potesse
passarti attraverso il cuore questa lama affilata, solo per farti provare tanto dolore
quanto tu ne vendi senza prezzo, verme!
– Stimo il tuo coraggio, Renzo, ma non ti permetterò di offendermi, di offendere un
uomo d’onore come me, quindi modera termini e toni se desideri riuscire a pensare
ancora alla tua amata, altrimenti sappi che non vedrai più neanche la luce del sole. –
dice don Rodrigo, e Renzo controbatte: – Allora non apprezzare il mio coraggio! Perché continuerò fino alla morte, l’amore di Lucia Mondella vale la vita, se non di più!
Don Rodrigo, spinto dalla folle rabbia, si scaglia contro Renzo, passando dalle
pesanti parole alle mani. Inizia una rissa che vede Renzo vincitore, dopo aver
conficcato un coltello in gola al signorotto e dopo che Tonio e Gervaso, nonostante siano rimasti feriti, sono riusciti a stendere i bravi.
Impauriti dalla presenza di altre persone dentro la locanda, Renzo, Tonio e
Gervaso fuggono sporchi di sangue. Corrono alla prima fontana per lavarsi e
poi verso casa, per l’ultimo ristoro veloce prima della fuga a Milano.
Capitolo XII (IV della trama alternativa)
Arrivati a casa trovano solo la madre di Lucia e Menico. Dicono immediatamente alla donna di preparare la cena e fare un breve riposo, cosicché all’alba
possano partire per Milano. Così è. Alla prima luce del mattino Renzo e i suoi
due amici liberano Lucia a casa di don Rodrigo, mentre i bravi dormono, e
insieme intraprendono il viaggio che avrebbe cambiato tutto.
Capitolo XIII (V della trama alternativa)
Renzo, Lucia, Agnese, Tonio e Gervaso prendono il battello e senza farsi notare
affrontano il viaggio in una mattinata in cui regnano fulmini e tempesta. Ma
fortunatamente arrivano a Milano senza problemi, si sistemano presso un convento che gli dà grande ospitalità e pochi giorni dopo Renzo e Lucia si sposano.
In seguito si sistemano in una propria casa e vivono la loro vita felicemente senza
più quei pensieri che li tormentavano.
* * *
– 327 –
I PROMESSI SPOSI
(riscritti da Elisa Iezzi)
Capitolo VIII (con variante nel contenuto)
Don Abbondio, assorto nelle sue letture, autorizza Perpetua a far salire Tonio e
Gervaso. Perpetua, scesa in strada, incontra Agnese che finge di passare lì per caso
e la coinvolge in una conversazione. Tonio e Gervaso entrano nello studio del curato, mentre Renzo e Lucia raggiungono, di nascosto, il pianerottolo della canonica. Tonio intanto salda il suo debito e mentre il curato esamina le monete, al segnale convenuto, Renzo e Lucia entrano nella stanza: improvvisamente Renzo
balza davanti alla scrivania del curato e con Lucia pronuncia l’intera frase che li
avrebbe resi marito e moglie. Così i due finalmente sono sposi. “Certo”, pensa
Lucia, “non è il matrimonio che ho sempre sognato, ma in fondo l’importante è che
tutto sia andato per il meglio.” Don Abbondio caccia infuriato i due sposi e i loro
testimoni dalla sua casa e si rinchiude in una stanza attigua gridando. Dopo essere
usciti dalla dimora del curato incontrano Agnese intenta a parlare con Perpetua:
madre e figlia si scambiano uno sguardo e Agnese capisce che è andato tutto bene.
Così tutti tornano a casa: Tonio ha saldato il suo debito, Agnese è felice per la figlia e
per il genero e i due sposi, più innamorati che mai, tornano a casa mano nella mano.
Capitolo IX (I della trama alternativa)
Intanto i bravi di don Rodrigo si trovano al di fuori dell’abitazione di Agnese e
aspettano impazienti. È buio e quando Renzo, Lucia e Agnese si trovano vicino
alla porta di casa non si accorgono della loro presenza: improvvisamente Lucia
si sente quasi soffocare, viene bendata e portata via, Renzo, ribellandosi, viene
picchiato e lasciato a terra, Agnese, invece, riesce a nascondersi.
Lucia si sente smarrita, nel buio di quella carrozza che va troppo veloce. Agnese
grida aiuto, svegliando tutti i vicini e facendoli scendere in strada. Renzo viene
soccorso e accolto nel monastero di padre Cristoforo, dove passa la notte pieno di
dolore, come Lucia che, quando viene fatta scendere dalla carrozza, è condotta in
una stanza illuminata solo da una candela. In quel momento entra don Rodrigo
che l’afferra bruscamente e la minaccia, dicendole che se non lo avesse sposato
la sua famiglia e i suoi cari sarebbero stati in grave pericolo. Lucia con le lacrime
agli occhi lo prega di lasciarla in pace e di andarsene: don Rodrigo l’accontenta
con un sogghigno sul volto.
Capitolo X (II della trama alternativa)
Il giorno dopo il rapimento, Agnese chiede aiuto a padre Cristoforo, il quale dice
che andrà a parlare con don Rodrigo. Quindi si mette in cammino verso il suo palazzo e quando arriva davanti all’entrata, ov’erano due bravi di guardia, viene
fermato e interrogato. Intanto don Rodrigo, affacciatosi alla finestra e vedendo
il frate, fa un cenno ai bravi che, inaspettatamente, uccidono padre Cristoforo
pugnalandolo al cuore. Lucia, vedendo la scena dalla stanza, cade in un pianto
disperato, ma è proprio in quel momento che capisce cosa fare: decide che quella
sera stessa sarebbe scappata.
– 328 –
Nel frattempo Agnese prega e Renzo cammina su e giù per la stanza: entrambi
aspettano preoccupati il ritorno di padre Cristoforo. Giunge la sera e nella dimora
di don Rodrigo si cena: il padrone in compagnia dei suoi bravi è seduto a una
tavola che trabocca di cibo. Lucia si è rifiutata di mangiare, come a pranzo, e si
trova nella sua stanza a pregare e ad aspettare la notte fonda.
Quando giunge la notte tutti dormono nella casa di don Rodrigo, tranne Lucia, impaziente di fuggire; finalmente, prende coraggio spinta dall’amore per Renzo, con
un candelabro d’argento rompe il vetro della finestra e, accertandosi che nessuno
in casa abbia sentito, fugge. Corre come non ha mai fatto nella sua vita, con lacrime di gioia che scendono sul suo volto infreddolito. Sa che nel convento troverà la sua famiglia: infatti, quando arriva e chiede di Renzo e Agnese un frate
l’accompagna alla loro cella. Renzo sente dunque dei passi avvicinarsi alla porta,
quando questa si apre vede Lucia, che con il suo sorriso angelico lo guarda e gli
salta con le braccia al collo. Agnese ringrazia la Provvidenza e abbraccia la figlia.
Lucia racconta la sua fuga e inoltre annuncia la triste notizia della morte di padre
Cristoforo. I tre, allora, si riuniscono in preghiera per ricordarlo.
Capitolo XI (III della trama alternativa)
Ormai giunta la mattina, Renzo e Lucia chiedono consiglio ad Agnese su cosa
fare. La donna rimane un po’ in silenzio, poi dice: “Ragazzi, in questa situazione la migliore via d’uscita è proprio la fuga. Sicuramente don Rodrigo si
sarà accorto che tu, Lucia, sei fuggita, e starà mandando i suoi bravi a cercarti
qui al paese. Dunque fuggite: attraversate il lago e trasferitevi a Bergamo dove
c’è tuo cugino, Renzo. Cambiatevi i nomi e cominciate a vivere il vostro matrimonio”. I due sposi così fanno: uscendo dal convento con il volto coperto si dirigono al lago dove un barcaiolo li conduce all’altra riva. Da quel momento un
senso di speranza, ma soprattutto di libertà, inizia a pervadere la mente e il
corpo dei novelli sposi. Quel giorno segna per loro l’inizio di una vita tranquilla
e serena.
Intanto, però, nella piccola cittadina dove Agnese trascorre la sua vecchiaia in
solitudine, giunge la peste che si diffonde sempre più velocemente.
Capitolo XII (IV della trama alternativa)
Dopo un mese di viaggio i due sposi arrivano a Bergamo, ove vengono ospitati
dal cugino di Renzo. Renzo ora ha cambiato nome, è diventato Antonio Romaglino, mentre Lucia si chiama Agnese Nodella, in ricordo della madre, che è
morta di peste. Anche don Abbondio, rimasto nascosto in casa fino alla fine, è
morto di peste, così come Perpetua e don Rodrigo. Quest’ultimo prima di morire
fa la sua ultima richiesta: che il suo pentimento e la domanda di perdono arrivino
fino a Renzo e Lucia. Una lieta notizia giunge infine da Bergamo: Antonio e
Agnese, ossia Renzo e Lucia, hanno avuto due gemelli, Giovanni e Stefania, e
l’amore dei loro genitori è più duraturo che mai.
* * *
– 329 –
I PROMESSI SPOSI
(riscritti da Caterina Jekot)
Capitolo IX (I della trama alternativa)
Lucia viene rapita dai bravi e condotta al cospetto di don Rodrigo. Intanto
Agnese, Renzo e Menico, disperati, si recano da fra Cristoforo per essere aiutati.
La povera Lucia, ormai in casa del signorotto, viene condotta in una stanza elegante e i bravi le comunicano che il giorno seguente don Rodrigo desidera incontrarla di persona e parlarle.
Capitolo X (II della trama alternativa)
Fra Cristoforo, nel frattempo, cerca di tranquillizzare Renzo e Agnese, pensando
ad un piano, ad una risoluzione al loro problema. Agnese propone di riprendere
Lucia in qualche modo di nascosto e di fuggire tutti e tre insieme (lei, Lucia e
Renzo) lontano dalle insidie di don Rodrigo. Padre Cristoforo propone di recarsi
lui stesso dal nobiluomo e di cercare di riscattare Lucia. Un’altra idea che viene
in mente al frate è quella di chiedere aiuto ad un uomo potente e ricco. Renzo,
dal canto suo, decide di andare al palazzo di don Rodrigo e di convincerlo a restituirgli la sua Lucia, anche con un duello.
Capitolo XI (III della trama alternativa)
Allarmati da questa notizia, sia Agnese che Padre Cristoforo cercano di impedire
a Renzo di fare qualche sciocchezza. Il frate in particolare, gli rammenta che
essendo molto giovane e impulsivo, spesso compie azioni che lo danneggiano e
gli dice che per aiutare Lucia è necessario aiutarsi a vicenda.
Capitolo XII (IV della trama alternativa)
Mentre Renzo si calma un po’ e insieme pensano ad una soluzione, passa la notte e
la mattina seguente Lucia incontra don Rodrigo. I due si parlano, anche se all’inizio
la ragazza è un po’ intimorita, poi chiede a don Rodrigo cosa ha intenzione di farle.
Il nobiluomo le confessa di essersi innamorato a prima vista e che intende sposarla.
Lucia risponde di non volerne sapere e don Rodrigo ordina ai bravi di scortarla
nella sua stanza e di chiuderla a chiave. L’uomo, temendo che il gelosissimo Renzo
tenti in qualche modo di portargliela via, decide di trasferire la ragazza a Milano, di
farla sorvegliare dai bravi, mentre lui nel loro paesino natale svolge delle faccende.
In seguito decide che, risolte le sue faccende, si sarebbe recato da lei a Milano.
Capitolo XIII (V della trama alternativa)
Renzo, che non ne può più di aspettare, decide di recarsi da don Rodrigo per
riprendersi Lucia, che nel frattempo, scortata dai bravi, sale in una carrozza diretta
a Milano. Renzo per strada intravede Lucia nella carrozza e le corre dietro ma,
sfortunatamente, incontra un gruppo di bravi sempre al servizio di don Rodrigo,
che lo fermano e gli impediscono il passaggio. Il giovane, infuriato, in un primo
momento ha intenzione di combattere con loro, ma alla fine, ricordando il consiglio di fra Cristoforo, mantiene la calma e si allontana prudentemente.
– 330 –
Capitolo XIV (VI della trama alternativa)
Menico, vedendo passare i bravi di don Rodrigo, li sente dire che Lucia è stata
portata in carrozza a Milano a casa di un amico di don Rodrigo. Così corre ad
avvisare Renzo, che parte immediatamente per Milano. Contemporaneamente,
anche don Rodrigo, svolte le sue faccende, si reca a Milano. Intanto la povera
Lucia prega Dio che la aiuti a ritornare dal suo Renzo.
– 331 –
MAURIZIO CASTELLAN
Miscellanea di matematica
INTRODUZIONE
All’interno di questa sezione della miscellanea vengono illustrati due
risultati di geometria sintetica nell’ambito della teoria dell’equiestensionalità.
Il primo contributo ha come argomento il teorema di equiestensionalità
trapezio-triangolo, da cui scaturisce la ben nota formula dell’area del trapezio:
(base maggiore + base minore) × altezza
Area = ––––––––––––––––––––––––––––––––––
2
Viene qui presentata una dimostrazione “alternativa” a quella che si
trova normalmente sui manuali scolastici.
La seconda attività di ricerca aveva come obiettivo l’individuazione
di una costruzione semplice che permettesse di determinare il lato di un
quadrato avente la stessa estensione di un triangolo dato.
Gli allievi, dopo aver studiato il problema, hanno trovato una soluzione
soddisfacente, mostrando come la costruzione finale sia la sintesi di diversi
passaggi, la cui correttezza è giustificata da opportuni teoremi di equiestensionalità.
ATTIVITÀ DI RICERCA N° 1
Definizioni e Annotazioni
F
F
F
F
=
~
=
.
=
+
G
G
G
G
:
:
:
:
figure uguali (sono un’unica figura)
figure congruenti (sovrapposte coincidono)
figure equiestese (hanno la stessa estensione)
somma di figure (ottenuta unendo le due figure)
(i) A = B c A
.
(ii) A = B e B
.
(iii) A = B e C
~
=
.
=
.
=
Assiomi
~ B c A =. B
B e A =
.
C cA = C
.
D cA + C = B + D
– 332 –
Lemma
Due triangoli che hanno basi e altezze congruenti sono equiestesi.
Teorema
Un trapezio ha la stessa estensione di ogni triangolo che ha la base congruente alla somma delle basi del trapezio e altezza congruente all’altezza
del trapezio.
~ AB + CD, e DH1 =
~ GH2
Ipotesi: EF =
.
Tesi: ABCD = EFG
Dimostrazione
Consideriamo il trapezio ABCD e prolunghiamo la sua base AB di un
~ CD.
segmento BL =
Il triangolo ACL è dunque un triangolo che ha per base la somma delle
basi del trapezio e la stessa altezza.
.
ACD = BCL per il lemma
perché:
~ BL per costruzione
CD =
e
~ CH3 per costruzione.
DH1 =
Notiamo ora che
ABCD = ABC + ACD
– 333 –
ACL = ABC +BCL
Quindi
.
ACL = ABCD per l’assioma (iii).
.
Notiamo ora che, per il lemma, ACL = EFG,
infatti:
~ AL per costruzione
EF =
~ CH3 per costruzione.
GH2 =
Si conclude, per l’assioma (ii), che:
.
ABCD = EFG.
QED
Silvia FEDI
Classe I H (P.N.I.), a.s. 2007-2008
ATTIVITÀ DI RICERCA N° 2
Premettiamo gli enunciati di alcuni teoremi che saranno usati nella
trattazione.
Teorema 1
Un rettangolo e un triangolo con altezze congruenti, e con la base del
primo congruente alla metà della base del secondo, sono equiestesi.
Teorema 2
Un triangolo avente come base il diametro di una circonferenza e come
vertice un suo punto P, è rettangolo in P.
Teorema 3
(2° teorema di Euclide). Un rettangolo avente i lati congruenti alle
proiezioni dei cateti di un triangolo rettangolo, ha la stessa estensione del
quadrato costruito sull’altezza relativa all’ipotenusa.
– 334 –
Problema
Dato un triangolo ABC determinare il lato di un quadrato avente la
stessa estensione del triangolo.
Il lato del quadrato può essere determinato attraverso la seguente costruzione (fig. 1):
• si tracciano la retta a passante per A e C e la retta b passante per B e
parallela al lato AC;
• si traccia M, punto medio del lato AC e si traccia la retta t passante per
M e perpendicolare al lato AC;
• si traccia H, punto di intersezione tra la retta t e la retta b;
• si traccia K, punto di intersezione tra la circonferenza di centro M e
raggio HM e la retta a;
• si traccia O, punto medio del segmento AK;
• si traccia L, pundo di intersezione tra la circonferenza di centro O e
raggio AO e la retta t,
il lato del quadrato è il segmento ML.
Fig. 1
– 335 –
La correttezza della costruzione poggia sulla seguente argomentazione
(fig. 2)
Per il Teorema 1, il rettangolo AMHD e il triangolo ABC sono equiestesi.
Per il Teorema 2, il triangolo AKL è rettangolo, notiamo inoltre che le
proiezioni dei cateti sono congruenti ai lati del rettangolo AMHD; ne segue,
per il Teorema 3, che il rettangolo AMHD e il quadrato costruito sul segmento ML sono equiestesi.
Per l’assioma (ii) (pag. 332) il triangolo e il quadrato sono equiestesi.
Fig. 2
Andrea DI LORENZO, Valerio STINCO, Riccardo VIGNOLI
Classe I D (P.N.I.), a.s. 2007-2008
– FINE –
– 336 –