Gli invitati al banchetto - Facoltà Teologica dell`Italia Settentrionale

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Gli invitati al banchetto - Facoltà Teologica dell`Italia Settentrionale
Gli invitati al banchetto
(Mt 22,1-14; Lc 14,16-24)
Testo rivisto dal Relatore: Prof. Don Carlo Dezzuto
Nella prima metà del Quattrocento, la casa di Borgogna, sotto il regno di Filippo il
Buono, estende la sua autorità su tutto il territorio dei Paesi Bassi come allora intesi,
cioè comprendendo anche tutti i territori che costituiscono oggi il Belgio. Con la
disintegrazione del regno di Borgogna, ci fu la rivolta delle città libere contro Maria,
nipote di Filippo il Buono, per ottenere l’indipendenza; ma questa sposò Massimiliano
d’Austria, facendo entrare i Paesi Bassi sotto il dominio degli Asburgo. Nel 1515 gli
Stati Generali dei Paesi Bassi, radunati nella città di Malines, oggi Bruxelles,
riconobbero come loro sovrano Carlo, che sarà poi Carlo V. Egli affidò il governo dei
Paesi Bassi alla zia Margherita e poi alla propria sorella Maria d’Ungheria. Carlo V era
un fervente cattolico e quindi non esitò a perseguitare i primi aderenti al movimento
della Riforma. Infatti nel 1525 vi furono le prime vittime dell’Inquisizione, anche se il
progresso del Calvinismo non poté essere fermato in quelle terre, fra popoli che già
allora davano dimostrazione di uno spirito democratico che mal sopportava il governo
ecclesiastico oligarchico, considerato come soffocatore della libertà di coscienza.
Saranno però le misure prese da Filippo II, il successore di Carlo V, a partire dal 1559
a costituire un regime di intolleranza e di insopportabilità per i Paesi Bassi. Il fatto che
Filippo II mantenesse truppe spagnole nel territorio, il fatto che avesse affidato il
governo, a fianco della governatrice Margherita di Parma, al Cardinale Antoine
Perrenot de Granvelle, vescovo di Arras – persona molto invisa alle popolazioni locali,
tanto più quando Roma lo nominò Arcivescovo di Malines – aggravò la situazione.
Questi fattori cominciarono a suscitare la reazione della nobiltà che trovò il suo
capintesta in Guglielmo di Nassau, principe d’Orange, detto Guglielmo il Taciturno.
La repressione religiosa, intanto, continuava a diventare sempre più crudele. Filippo II
non voleva convocare gli Stati Generali e si formarono unioni di nobili, associazioni di
commercianti calvinisti, unioni di borghesi appartenenti a questa confessione cristiana,
finché nell’agosto e nel settembre del 1566 le folle, eccitate dalla fame e
dall’esaltazione di molti predicatori, invasero e saccheggiarono le chiese cattoliche dei
Paesi Bassi. Filippo II ne trasse motivo per intervenire con estrema energia.
Margherita di Parma fu allontanata e fu inviato nei Paesi Bassi, alla testa di un
fortissimo esercito, il famigerato Duca di Alba. Venne instaurato un regime di terrore,
stragi, condanne innumerevoli, impiccagioni, esecuzioni pubbliche. Ci fu anche la
condanna a morte in contumacia di Guglielmo d’Orange, che nel 1568 lanciò un
proclama per richiedere il ristabilimento dei privilegi, l’autonomia delle provincie, la
libertà di coscienza. In quell’anno fu dichiarata la guerra degli Ottant’anni, che
avrebbe devastato a lungo i Paesi Bassi e di cui alcune ramificazioni vennero a
interessare anche la Lombardia. Manzoni ambienta i Promessi Sposi proprio in questi
“addentellati”.
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Proprio nel 1568 Pieter Bruegel, che vedete qui
raffigurato, dipingeva un quadro ben conosciuto:
il cosiddetto “Banchetto nuziale”.
Quadro di dimensioni abbastanza grandi per le
abitudini di questo pittore: è lungo mt. 1,63 e
alto 1,14, conservato al Museo di Storia dell’Arte
di Vienna, insieme alla tavola “gemella” con la
“danza dei contadini”.
La composizione è molto fitta di personaggi; la
struttura prospettica del quadro è determinata
dalla sedia nell’angolo in basso a destra, di cui
appaiono la gamba verticale e gli appoggi in
diagonale. Queste linee vengono riprese: le
verticali, dai pilastri del granaio e dai musicisti in piedi; le diagonali, dalla linea della
tavolata, delle panche e della porta scardinata che serve da vassoio. L’orientamento
diagonale genera la profondità accompagnata dalla stabilità fissata dalla perfetta
verticalità delle varie figure; gli esperti, in questa composizione geometrica diagonale
dell’opera, vedono somiglianze con “Le nozze di Cana” del Tintoretto, altri con
“L’Ultima Cena” di Tiziano; infatti il pittore aveva viaggiato per l’Italia ed è probabile
che abbia impresse nella memoria le opere viste. La tavola fu dipinta da Bruegel
nell’ultimo anno della sua vita.
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Questo quadro riassume il contesto e il
contenuto di episodi e parabole evangelici
che parlano di banchetti.
C’è la sposa, dietro la quale sulla parete
modesta del fienile è posto un drappo con
la corona regale, per dare importanza alla
posizione. Accanto a lei le due comari. Su
un seggio più importante, a fianco, i
genitori
dello
sposo.
Lo
sposo è raffigurato in primo piano e
ricorda
le
nozze di Cana:
infatti
quest’uomo,
vestito più elegantemente di tutti gli altri convitati, sta mescendo
l’acqua (vederne la trasparenza) che sta diventando vino
nei grandi orci che verranno poi distribuiti sulla tavolata.
Ma il riferimento non è solo con le nozze di Cana. Il
parallelo che analizzeremo fra poco è quello con un altro
grande banchetto, organizzato da un padrone di casa,
nella parabola narrata da Luca, e con il pranzo regale di
cui ci parla Matteo. Stiamo facendo riferimento a questo
quadro non solo per i rimandi figurativi alle parabole di banchetti, ma perché in realtà
il pittore sta facendo esegesi biblica, teologia, come vedremo dopo aver analizzato i
testi evangelici di rimando.
Per tornare all’immagine, notiamo che ci
sono i covoni di grano, c’è il pittore, anche lui
in vesti eleganti, sotto il tavolo spunta
presenza di un cane.
Ricordate la parabola del ricco epulone, alla
cui mensa cerca di sfamarsi invano il povero
Lazzaro, mentre i cani godono degli avanzi
che cadono dalla tavola. Infine sul fondo,
affacciate alla porta abbiamo molte persone
che premono per entrare e partecipare al
banchetto. Anche questo è un richiamo al
testo evangelico di Luca (l’ordine ai servi di
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spingere le persone trovate in strada per
farle entrare). Ci sono i musicanti, necessari
per fare una festa.
C’è la figura misteriosa di questo bambino
che si sta letteralmente leccando le dita con
il piatto ormai svuotato, che curiosamente
porta una penna di pavone sul berretto.
Ci sono i serventi che usano come vassoio una porta, “(spalancate le porte perché la
gente entri e prenda posto a questo banchetto”). Infine la figura del pittore che sta
ricevendo l’assoluzione dal frate seduto accanto a lui.
Analizzeremo ora alcune parole dei testi delle due parabole sul banchetto di Matteo e
di Luca.
Capitolo 14 del Vangelo di Luca. Il testo è diviso in due parti, di cui la prima è a sua
volta divisa in tre sezioni. Nelle due parti si parla di mangiare, mangiare pane (la
parola ricorre all’inizio di entrambe le parti), e quindi si rinvia alla mensa eucaristica a
vantaggio della comunità credente che si riunisce nel banchetto, per definirne le
caratteristiche. Gesù si rivolge ai dottori della legge invitati nella casa di un capo dei
farisei: per essi compie il miracolo della guarigione di un idropico. Poi rivolge
un’esortazione agli invitati, di cui Gesù aveva osservato i movimenti per prendere i
posti migliori a tavola. «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al
primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha
invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare
l'ultimo posto. Invece quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché
venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore
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davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia
sarà esaltato».
Inizia ora l’ambientazione che rimanda al nostro quadro.
12 Ἔλεγεν δὲ καὶ ηῷ κεκληκόηι αὐηόν· Ὅηαν ποιῇρ ἄπιζηον ἢ
δεῖπνον, μὴ θώνει ηοὺρ θίλοςρ ζος μηδὲ ηοὺρ ἀδελθούρ ζος μηδὲ
ηοὺρ ζςγγενεῖρ ζος μηδὲ γείηοναρ πλοςζίοςρ, μήποηε καὶ αὐηοὶ
ἀνηικαλέζυζίν ζε καὶ γένηηαι ἀνηαπόδομά ζοι. 13 ἀλλ' ὅηαν
δοσὴν ποιῇρ, κάλει πηυσούρ, ἀναπείποςρ, συλούρ, ηςθλούρ· 14
καὶ μακάπιορ ἔζῃ, ὅηι οὐκ ἔσοςζιν ἀνηαποδοῦναί ζοι,
ἀνηαποδοθήζεηαι γάπ ζοι ἐν ηῇ ἀναζηάζει ηῶν δικαίυν.
15 Ἀκούζαρ δέ ηιρ ηῶν ζςνανακειμένυν ηαῦηα εἶπεν αὐηῷ·
Μακάπιορ ὅζηιρ θάγεηαι ἄπηον ἐν ηῇ βαζιλείᾳ ηοῦ θεοῦ. 16 ὁ δὲ
εἶπεν αὐηῷ· Ἄνθπυπόρ ηιρ ἐποίει δεῖπνον μέγα, καὶ ἐκάλεζεν
πολλούρ, 17 καὶ ἀπέζηειλεν ηὸν δοῦλον αὐηοῦ ηῇ ὥπᾳ ηοῦ
δείπνος εἰπεῖν ηοῖρ κεκλημένοιρ· Ἔπσεζθε, ὅηι ἤδη ἕηοιμά ἐζηιν.
18 καὶ ἤπξανηο ἀπὸ μιᾶρ πάνηερ παπαιηεῖζθαι. ὁ ππῶηορ εἶπεν
αὐηῷ· Ἀγπὸν ἠγόπαζα καὶ ἔσυ ἀνάγκην ἐξελθὼν ἰδεῖν αὐηόν·
ἐπυηῶ ζε, ἔσε με παπῃηημένον. 19 καὶ ἕηεπορ εἶπεν· Ζεύγη βοῶν
ἠγόπαζα πένηε καὶ ποπεύομαι δοκιμάζαι αὐηά· ἐπυηῶ ζε, ἔσε με
παπῃηημένον. 20 καὶ ἕηεπορ εἶπεν· Γςναῖκα ἔγημα καὶ διὰ ηοῦηο
οὐ δύναμαι ἐλθεῖν. 21 καὶ παπαγενόμενορ ὁ δοῦλορ ἀπήγγειλεν
ηῷ κςπίῳ αὐηοῦ ηαῦηα. ηόηε ὀπγιζθεὶρ ὁ οἰκοδεζπόηηρ εἶπεν ηῷ
δούλῳ αὐηοῦ· Ἔξελθε ηασέυρ εἰρ ηὰρ πλαηείαρ καὶ ῥύμαρ ηῆρ
πόλευρ, καὶ ηοὺρ πηυσοὺρ καὶ ἀναπείποςρ καὶ ηςθλοὺρ καὶ
συλοὺρ εἰζάγαγε ὧδε. 22 καὶ εἶπεν ὁ δοῦλορ· Κύπιε, γέγονεν ὃ
ἐπέηαξαρ, καὶ ἔηι ηόπορ ἐζηίν. 23 καὶ εἶπεν ὁ κύπιορ ππὸρ ηὸν
δοῦλον· Ἔξελθε εἰρ ηὰρ ὁδοὺρ καὶ θπαγμοὺρ καὶ ἀνάγκαζον
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εἰζελθεῖν, ἵνα γεμιζθῇ μος ὁ οἶκορ· 24 λέγυ γὰπ ὑμῖν ὅηι οὐδεὶρ
ηῶν ἀνδπῶν ἐκείνυν ηῶν κεκλημένυν γεύζεηαί μος ηοῦ δείπνος.
Gesù si rivolge a colui che lo aveva invitato e gli dice: «Quando offri un pranzo o una
cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini,
perché anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario,
quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non
hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Osserviamo la presenza del riferimento a quattro categorie di chi non si deve invitare
ed altrettante di chi invece invitare. Il quattro, nella Bibbia, è il fondamento
dell’Universo, della stabilità. Quindi Gesù fa notare all’uomo che il fondamento su cui
ha stabilito il suo universo, la sua stabilità, è quello dei suoi abituali rapporti, dai quali
avrà il contraccambio: la famiglia, le amicizie, il buon vicinato, i cui legami si pensano
fondati sulla gratuità, il che però non sempre è vero. Infatti, come Gesù denuncia, vi
è nella famiglia un sistema di obblighi reciproci, giusti e doverosi, ma che talvolta
portano ai conflitti: ”Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità”.
Il nuovo universo del discepolo è invece libero da queste convenzioni, da questi
legami, da questa tessitura di relazioni forti che tolgono alla fine la libertà. Non che
Gesù sostenga che in famiglia non si è liberi, ma ricordiamoci anche che ha detto:
“Chi è mio, padre, mia, madre, mio fratello? … coloro che fanno la volontà del Padre”.
Per il discepolo la famiglia – senza peraltro sovvertire i legami naturali e sociali – è
costituita da coloro da cui non posso ricevere contraccambio. “Sarai beato in questo
nuovo universo”, fondato sulla vera gratuità.
Entriamo ora col versetto 15 nella parabola vera e propria del grande banchetto. Luca,
che proviene dalla cultura ellenistica ha ben presente il significato del banchetto in
quella tradizione culturale (pensiamo alle scene platoniche del banchetto). Ma a
differenza di quello greco, che si caratterizzava per essere l’occasione del dialogo fra
gli intervenuti, qui il banchetto è l’occasione perché Gesù si presenti ad ammaestrare
con autorevolezza.
Veniamo dunque al testo. Traduco letteralmente dal greco: Avendo sentito queste
cose, uno dei commensali gli disse: Beato chiunque mangia il pane nel regno di Dio.
L’interlocutore è cambiato. Non abbiamo più i farisei, non più gli invitati, non il
padrone di casa, ma “uno” dei convitati, che prende spunto dalla affermazione appena
fatta da Gesù per dichiarare la propria idea di beatitudine: Beato chiunque mangia il
pane nel regno di Dio. Come si notava, la presenza della parola “pane” richiama
l’impronta eucaristica che distingue l’intero testo. Ecco la risposta di Gesù: Un uomo
faceva una grande cena. “Faceva”: l’uso dei tempi e dei modi verbali non è senza
importanza, ma attribuisce all’azione significati precisi. Qui c’è l’imperfetto, che indica
un’azione che continua; quindi contiene la sfumatura del preparare un banchetto che
continua da parte dell’“uomo”, anche oggi. “Chiamò molti”: è un aoristo, tempo che
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indica invece un’azione che è avvenuta e non si presenterà più. Quindi la cena
continua ad essere allestita, ma gli invitati ricevono l’invito una volta per tutte. “All'ora
della cena, mandò il suo servo” (anche qui l’aoristo: il servo è mandato una volta sola)
“… a dire ai chiamati: Venite, perché già sono pronte le cose” Il participio “chiamati” è
al perfetto, tempo che indica un’azione aperta, per quanto nel passato. Vi è dunque
differenza fral’azione di chi ha chiamato, chiusa definitivamente, e la sua ricaduta sul
versante di chi è stato chiamato, per cui c’è possibilità di risposta. “E cominciarono, ad
uno ad uno, a scusarsi tutti. Il primo gli disse: Comprai un campo e ho necessità di
andare a vederlo”: l’uomo si attacca al suo passato: “comprai”; poi c’è il presente
“ho”, ma le azioni di cui ha necessità (“andare” e “vedere”) sono espresse con
l’aoristo: il passato remoto chiude con una risposta negativa all’invito presente.
L’uomo si sta ripiegando sul proprio passato, chiudendosi al presente dell’invito. Poi
aggiunge: “Ti prego, abbimi per scusato”. Anche qui un participio perfetto, “scusato”.
Luca fa intendere chiaramente con la struttura grammaticale che all’invito bisogna
rispondere subito positivamente, perché se inframmettiamo una scusa, se ci
aggrappiamo al nostro passato, quella scusa continueremo a ripetercela e non verrà
mai l’ora di cessare di presentare le nostre scuse a colui che ci chiama.
Stessa struttura e stessi tempi (aoristo, presente, perfetto) per il secondo invitato: “E
un altro disse: Cinque gioghi di buoi comprai e vado a provarli; ti prego, abbimi per
scusato”. Per la terza volta poi si ripete l’episodio: non è un caso isolato quello
dell’invitato che trova scuse per non andare al banchetto. In realtà è un male diffuso!
“E un altro disse: Una donna sposai e perciò non posso venire”. Questi non chiede
neppure scusa! I vincoli famigliari mandano in subordine la chiamata del Regno. “E
ritornato il servo annunciò al suo signore queste cose. Allora adiratosi il padrone di
casa” (Luca differenzia l’appellativo dell’uomo che organizza una cena, e anche qui vi
sarebbe di che riflettere!) “disse al suo servo: Va’ (è un imperativo aoristo, usato per
le azioni che si svolgono una volta sola e che non sono ancora iniziate, mentre
l’imperativo presente viene usato per i comandi relativi ad azioni abituali)
velocemente nelle piazze e nei vicoli della città e poveri, storpi, ciechi e zoppi conduci
qui”. Come evidenziato dal colore giallo nel testo, si tratta di quei fondamenti del
nuovo universo (tranne un’inversione testuale delle ultime due categorie) che è la
comunità eucaristica di cui Gesù aveva parlato poco sopra a colui che l’aveva invitato
“E disse il servo: Signore, è accaduto [perfetto] ciò che ordinasti [aoristo], e ancora
c'è posto. E disse il signore al servo: Va’ [aoristo] nelle strade e nelle fratte e
costringili a entrare [due aoristi], perché si riempia la mia casa”. Non si sa com’è
andata a finire: l’evangelista non racconta l’effetto di quest’ultimo comando, perché è
aperto sul tempo del discepolo; solo conclude con una sentenza gnomica: “Vi dico
infatti che nessuno di quegli uomini che erano stati invitati gusterà la mia cena”.
Veniamo adesso alla pagina matteana che abitualmente viene definita il parallelo di
quella appena commentata. Di fatto, il parallelismo è ridotto solo ad alcune parentele
verbali, che sono evidenziate in rosso nei due testi.
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1 Καὶ ἀποκπιθεὶρ ὁ Ἰηζοῦρ πάλιν εἶπεν ἐν παπαβολαῖρ αὐηοῖρ
λέγυν· 2 Ὡμοιώθη ἡ βαζιλεία ηῶν οὐπανῶν ἀνθπώπῳ βαζιλεῖ,
ὅζηιρ ἐποίηζεν γάμοςρ ηῷ ςἱῷ αὐηοῦ. 3 καὶ ἀπέζηειλεν ηοὺρ
δούλοςρ αὐηοῦ καλέζαι ηοὺρ κεκλημένοςρ εἰρ ηοὺρ γάμοςρ, καὶ
οὐκ ἤθελον ἐλθεῖν. 4 πάλιν ἀπέζηειλεν ἄλλοςρ δούλοςρ λέγυν·
Εἴπαηε ηοῖρ κεκλημένοιρ· Ἰδοὺ ηὸ ἄπιζηόν μος ἡηοίμακα, οἱ
ηαῦποί μος καὶ ηὰ ζιηιζηὰ ηεθςμένα, καὶ πάνηα ἕηοιμα· δεῦηε εἰρ
ηοὺρ γάμοςρ. 5 οἱ δὲ ἀμελήζανηερ ἀπῆλθον, ὃρ μὲν εἰρ ηὸν ἴδιον
ἀγπόν, ὃρ δὲ ἐπὶ ηὴν ἐμποπίαν αὐηοῦ· 6 οἱ δὲ λοιποὶ κπαηήζανηερ
ηοὺρ δούλοςρ αὐηοῦ ὕβπιζαν καὶ ἀπέκηειναν. 7 ὁ δὲ βαζιλεὺρ
ὠπγίζθη, καὶ πέμταρ ηὰ ζηπαηεύμαηα αὐηοῦ ἀπώλεζεν ηοὺρ
θονεῖρ ἐκείνοςρ καὶ ηὴν πόλιν αὐηῶν ἐνέππηζεν. 8 ηόηε λέγει ηοῖρ
δούλοιρ αὐηοῦ· Ὁ μὲν γάμορ ἕηοιμόρ ἐζηιν, οἱ δὲ κεκλημένοι οὐκ
ἦζαν ἄξιοι· 9 ποπεύεζθε οὖν ἐπὶ ηὰρ διεξόδοςρ ηῶν ὁδῶν, καὶ
ὅζοςρ ἐὰν εὕπηηε καλέζαηε εἰρ ηοὺρ γάμοςρ. 10 καὶ ἐξελθόνηερ οἱ
δοῦλοι ἐκεῖνοι εἰρ ηὰρ ὁδοὺρ ζςνήγαγον πάνηαρ οὓρ εὗπον,
πονηπούρ ηε καὶ ἀγαθούρ· καὶ ἐπλήζθη ὁ γάμορ ἀνακειμένυν. 11
εἰζελθὼν δὲ ὁ βαζιλεὺρ θεάζαζθαι ηοὺρ ἀνακειμένοςρ εἶδεν ἐκεῖ
ἄνθπυπον οὐκ ἐνδεδςμένον ἔνδςμα γάμος· 12 καὶ λέγει αὐηῷ·
Ἑηαῖπε, πῶρ εἰζῆλθερ ὧδε μὴ ἔσυν ἔνδςμα γάμος; ὁ δὲ ἐθιμώθη.
13 ηόηε ὁ βαζιλεὺρ εἶπεν ηοῖρ διακόνοιρ· Δήζανηερ αὐηοῦ πόδαρ
καὶ σεῖπαρ ἐκβάλεηε αὐηὸν εἰρ ηὸ ζκόηορ ηὸ ἐξώηεπον· ἐκεῖ ἔζηαι
ὁ κλαςθμὸρ καὶ ὁ βπςγμὸρ ηῶν ὀδόνηυν. 14 πολλοὶ γάπ εἰζιν
κληηοὶ ὀλίγοι δὲ ἐκλεκηοί.
Matteo cambia scena: parla di nozze, mentre in Luca non erano nozze; questa
parabola segue due altre parabole di rottura: quella dei due figli invitati ad andare al
campo - uno che dice di andare, ma poi non ci va, ed uno che dice che non ci andrà,
ma poi ci va – e quella dei vignaioli omicidi. Anche questa terza parabola è terribile.
Scritta dopo il 70, dopo che c’erano stati la distruzione del Tempio di Gerusalemme e
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l’abbandono del popolo eletto, in un tempo in cui esplode la grande conflittualità tra la
Chiesa e la Sinagoga: problemi diversi per Matteo, rispetto a quelli dei destinatari del
racconto di Luca. Non si parla del tema eucaristico ad una comunità che celebra
regolarmente l’eucaristia, ma dei problemi della comunità stessa preoccupata della
propria sorte.
“E rispondendo Gesù di nuovo parlò loro in parabole dicendo: Il regno dei cieli (in Luca
si parlava del regno di Dio, qui del regno dei cieli) è stato reso simile a un re, che fece
le nozze di suo figlio”. Siamo di fronte ad un re, e la sua azione è all’aoristo (in Luca
abbiamo trovato l’imperfetto); non è un amico, non è il suo un agire come tutti
potrebbero comportarsi; qui è un agire unico, nel soggetto (un re) e nel tempo
(aoristo: azione definitivamente chiusa nel passato), per indicare la irripetibilità
dell’azione e la impossibilità di ricambiare da parte dell’invitato; inoltre siamo in un
banchetto di nozze, non ad una cena come se ne possono organizzare tante. “E
mandò i suoi servi a chiamare i chiamati alle nozze, e non volevano andare”. Qui c’è
un imperfetto, che indica un po’ pessimisticamente come il nostro rifiuto all’invito di
Dio è una costante, non un fatto occasionale. “Di nuovo mandò altri servi, dicendo:
Dite [imperativo aoristo: azione fatta una volta per tutte] ai chiamati: Ecco, ho
preparato [perfetto: il re dà inizio ad un’azione, che aspetta di essere conclusa con la
risposta positiva dei chiamati] la mia cena; i miei tori e gli animali grassi sono stati
sacrificati”. È notevole che il linguaggio qui usato richiami quello profetico del
banchetto sacrificale di comunione con Dio, così come si svolgeva nella liturgia del
tempio; al tempo stesso, ci dice che per il re partecipare al suo banchetto è un atto
religioso, nel quale egli si impegna a costo del sacrificio. Un sacrificio che, di lì a poche
righe, verrà davvero realizzato, ma a danno del re! “… e tutto è pronto; venite alle
nozze! Ma quelli non essendosene curati se ne andarono, quale al proprio campo,
quale al suo commercio; i restanti, essendosi impadroniti dei suoi servi, fecero loro
violenza e li uccisero. Il re si adirò e avendo mandato i suoi eserciti, rovinò quegli
assassini e la loro città diede a fuoco”. Quest’ultimo, se non erro, è un verbo raro in
greco, usato nell’Iliade ma non successivamente. L’Iliade contiene i comportamenti
bestiali degli uomini, che si riducono a condotte disumane. Così sarà di quell’uomo
che, tra poche righe, vedremo senza vestiti adatti: altra condotta non umana.
“Allora dice [presente: azione abituale de re] ai suoi servi: La festa di nozze è pronta,
ma i chiamati non erano degni [un imperfetto: continuano a non essere degni; si può
scorgere una polemica antigiudaica]; andate [questa volta è un imperativo presente,
che esprime il comando di un’azione che viene compiuta abitualmente, non
occasionalmente] dunque alle uscite delle strade e quanti troviate, chiamateli [aoristo]
alle nozze. E usciti quei servi per le strade, radunarono tutti quelli che trovarono,
malvagi e buoni”: non ci sono più le quattro categorie del nuovo mondo di Luca, ma ci
sono le due categorie matteane del discorso della montagna: buoni e cattivi, sui quali
il Signore fa sorgere lo stesso sole e cadere la stessa pioggia. “E la sala delle nozze fu
piena di convitati”.
La chiusa ci lascia sempre un po’ perplessi. Siamo abituati da una predicazione un po’
avventata a un Dio – che non è quello di Gesù! – che realizza amnistie generali, che
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non condanna e non giudica, per cui sentire ciò che sta per succedere genera un certo
disagio. Ma dobbiamo prestare adeguata attenzione, ancora una volta, ai tempi
verbali. “Venuto il re per vedere i convitati, vide là un uomo che non ha indossato
l’indumento di nozze”. “Non ha indossato”: è un perfetto. Non è l’azione occasionale
(che sarebbe in aoristo), ma un’azione abituale. È un uomo che ce l’ha per abitudine
di partecipare al banchetto nuziale senza l’indumento debito. La prima reazione del
lettore, di fronte a quanto succede, è di prendersela con il re e di proporsi come
avvocato dell’invitato: “Ma come? Lo hai obbligato a entrare, non ha avuto tempo di
andare a casa a cambiarsi, e ora come puoi prendertela con lui perché non è vestito
come si deve?”. Ma i tempi sono studiati: non si tratta, qui, di un incidente
occasionale, che susciterebbe giustamente il nostro sdegno e il nostro rimprovero, ma
di un atteggiamento abituale in quel convitato. “E gli dice: Compagno, come venisti
qua non avendo l’indumento di nozze?” Il seguito fa ulteriormente cadere le nostre
difese del falso malcapitato: “Quello si ammutolì”. Il verbo greco è più forte, nella sua
etimologia, e richiama quell’accenno alla bestialità dell’uomo: infatti letteralmente
significa “si mise la museruola”. Quell’uomo è di un silenzio colpevole, che lo abbassa
al livello di un animale muto; infatti, pur avendo avuto la possibilità di farlo, non è
neppure capace di trovare una scusa (poteva ben dire al re: Dovresti capirlo da solo
che non ho il vestito perché non mi hai dato il tempo di andare a casa a cambiarmi!),
è talmente abituato a non indossare quel vestito che non trova neanche una
giustificazione per la mancanza del vestito. Per questo verrà punito: per il suo silenzio
e per il suo atteggiamento colpevole.
“Allora il re disse ai diaconi:” (sopra parlava di servi; Matteo dunque si rivolge ad una
comunità strutturata, in cui ci sono servi e diaconi) “Avendo legato i suoi piedi e mani
gettatelo [aoristo: una volta per tutte!] nell’oscurità esteriore; là sarà pianto e
digrignare di denti”. Ancora una volta, la riduzione allo stato brado: le belve vivono
nella tenebra e digrignano i denti.
Anche qui una chiusa gnomica, un proverbio popolare, che bisognerebbe leggere
direttamente in greco per coglierne la musicalità in vista della memorizzazione: “Molti
infatti sono chiamati, ma pochi eletti" (pollòi kletòi, olìgoi eklektòi).
Torniamo ora sul quadro di Bruegel, perché vi troviamo la sintesi di quanto narrato
nelle parabole appena commentate. Ognuno può facilmente riconoscervi il banchetto
di nozze; la sposa è la Chiesa; ci sono i diaconi che servono, ma sembra anche che
stiano girando per vedere se qualcuno non è vestito adeguatamente; ci sono i
musicanti per la festa; ci sono alla porta quelli che vogliono entrare; c’è uno che
indossa l’indumento da festa: è il pittore, che (siamo nel 1568!) sta vivendo giorni
terribili (il Duca d’Alba sta usando un’efferata violenza, sulle piazze si susseguono le
esecuzioni, le chiese cattoliche sono depredate; sembrano i tempi della distruzione di
Gerusalemme; Bruegel ha visto tutto ciò e, secondo gli studiosi, lo ha anche dipinto in
alcuni dei suoi quadri più fantasmagorici). Non è una situazione simile a quella della
città dei chiamati della parabola, che non vanno al banchetto e la cui città è data alle
fiamme?
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Di fronte a questo tempo di fine imminente, in cui gli uomini si riducono a bestie
(fuoco, tenebra, digrignare di denti), Bruegel riconosce che per poter partecipare alla
festa bisogna esserne degni, bisogna indossare l’indumento giusto. Probabilmente,
oltre ai tempi infausti, il pittore sente la propria morte avvicinarsi (mancherà di lì a
pochi mesi): ed ecco che si confessa e sta ricevendo l’assoluzione. È tempo di
giudizio: anche i covoni accumulati nel granaio dove si svolge la festa non sono solo
segno di prosperità della famiglia dello sposo, ma indicano che il grano e la zizzania
sono già stati separati. Il giudizio è in corso.
Il suonatore non sta suonando, perché sta cercando di capire se dovrà suonare motivi
di gioia e di festa. Ma soprattutto c’è un segno di speranza: quel bambino, del quale
non si vede il volto, che ha vuotato il suo piatto e che ha sulla testa una piuma di
pavone. Questo bimbo ha raggiunto la felicità, si è saziato; non si vede il suo volto,
perché (come nelle parabole, che sono sempre a finale aperta) è il volto di ogni
discepolo tornato bambino per il Regno. La coda di pavone, fin dai tempi dei Greci,
con il suo occhio, l’occhio di Dio, simboleggia l’immortalità. Quel bambino sazio e
soddisfatto ci ricorda che non si raggiunge l’immortalità se non si diventa come
bambini.
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