Del nomar parean tutti contenti. Studi offerti a Ruggiero Stefanelli
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Del nomar parean tutti contenti. Studi offerti a Ruggiero Stefanelli
Letterature collana diretta da Ettore Catalano Direttore scientifico: Ettore Catalano (Univ. del Salento) Comitato scientifico e di referaggio: Mercedes Arriaga Florez (Univ. di Siviglia), Giuseppe Bonifacino (Univ. di Bari), Rino Caputo (Univ. di Tor Vergata, Roma), Vicente Gonzales Martin (Univ. di Salamanca), Giuseppe Lupo (Univ. Cattolica di Milano), Tiziana Mattioli (Univ. di Urbino), Beatrice Stasi (Univ. del Salento), Vanna Zaccaro (Univ. di Bari) © 2011 Progedit Prima edizione dicembre 2011 Progedit - Progetti editoriali srl via De Cesare, 15 - 70122 Bari Tel. 0805230627 Fax 0805237648 www.progedit.com e-mail: [email protected] Questo volume è stato pubblicato con un contributo del Consiglio di Amministrazione dell’Università degli studi di Bari Aldo Moro. a cura di Pasquale Guaragnella, Maria Beatrice Pagliara, Pasquale Sabbatino, Leonardo Sebastio Del nomar parean tutti contenti Studi offerti a Ruggiero Stefanelli Progedit ISBN 978-88-6194-115-1 Proprietà letteraria Progedit – Progetti editoriali srl, Bari Finito di stampare nel dicembre 2011 presso gli stabilimenti della Martano Editrice srl Zona Industriale, Surbo (Lecce) per conto della Progedit – Progetti editoriali srl Gli autori che vogliono proporre la pubblicazione di un lavoro all’interno della collana lo devono inviare, in formato elettronico, a [email protected] e, in formato cartaceo, all’indirizzo della casa editrice. I lavori verranno sottoposti al Direttore scientifico della collana che li inoltrerà a due referee esperti sul tema oggetto dell’opera e che ne daranno una valutazione, seguendo le modalità proprie del «doppio cieco». Tale valutazione sarà inviata al Direttore scientifico e all’autore del lavoro. SALUTO A RUGGIERO STEFANELLI Nel vasto e ricco panorama dell’italianistica barese, la figura di Ruggiero Stefanelli si è distinta, nell’arco più che quarantennale della sua prestigiosa carriera accademica, per la sua spiccata attitudine a comporre, in un equilibrio esemplare per costanza e discrezione, operosità scientifica e passione didattica, e a nutrire costantemente l’una con i frutti e l’esercizio dell’altra. Di temperamento schivo e riservato, egli ha sempre preferito esprimere e caratterizzare la propria persona attraverso la forza sobria e sicura dell’impegno quotidiano, che ha profuso con rigore e umiltà nel suo lavoro di studioso e di docente, interpretandolo innanzitutto come un servizio da offrire non solo alla comunità scientifica ma anche, e non meno, a quella degli studenti. Il suo assunto primario, si potrebbe dire il suo principio-guida, è stato quello di mantenere sempre saldamente organico, e per questo tanto più fecondo, il rapporto tra la ricerca e l’insegnamento, cioè tra la conoscenza e la sua trasmissione, tra le libere astrazioni della riflessione critica e le difficili misure della loro verifica pratica, avvalendosi di una singolare disposizione pedagogica, che gli consentiva di trasmettere ai suoi allievi il patrimonio grande e complesso della nostra civiltà letteraria, il suo carico di valori e di stimoli problematici, con la semplicità e l’efficacia necessarie a conservarne lo spessore e, insieme, a comunicarne il senso profondo adeguandolo all’assetto mutevole del presente e dei suoi linguaggi, spesso eterogenei e persino remoti a quelli di una tradizione da attualizzare dovendone comunque proteggere la stratificata identità storica. Giacché, se ai colleghi Ruggiero Stefanelli ha offerto ogni giorno, nel privilegio della sincerità e dell’amicizia, una cordiale e vivace disponibilità al dialogo culturale e istituzionale, è in particolare agli studenti che egli ha guardato come ai suoi primi interlocutori, non esitando a proporre loro i frutti anche più ardui della sua esperienza di studioso, e a disegnare, così, orizzonti culturali e storici di inusitata ampiezza e novità, attraverso i quali metterli a contatto e a confronto con i momenti più alti e formativi della letteratura italiana e della sua lingua, dal medioevo all’età contemporanea. Non per caso, di questo percorso, che l’incontro con numerose generazioni di studenti ha nutrito e sollecitato nel tempo, il centro, e il fulcro primario, C. Petrocelli, Saluto a Ruggiero Stefanelli VI e vorrei dire il modello, è stato Dante: non solo il poeta sommo della Commedia o della Vita Nuova, ma pure il teorico, lo sperimentatore, il propulsore di un fondante pensiero linguistico, in un intreccio da cui hanno tratto le mosse la coscienza e le forme della modernità. La lingua e la storia, infatti, hanno costituito il binomio tematico, e le polarità metodologiche, della lunga e intensa esperienza scientifica di Ruggiero Stefanelli, che, dal Boccaccio al Foscolo, dal Petrarca al petrarchismo femminile del Rinascimento, dal Vico all’età romantica fino al Novecento, si è estesa a comprendere autori esemplari e questioni decisive della nostra civiltà letteraria, nel segno di una tenace e coerente osservanza, da lui più volte rivendicata, del primato metodologico ed ermeneutico della storicità, e della inesauribile riserva semantica delle sue molteplici forme, nelle quali la prospettiva diacronica che vi si inscrive e condensa è intersecata dall’evidenza sincronica della loro mutazione perpetua. Ma se la storicità, indivisibile dalla lingua nel loro dialogo dinamico, costituisce il paradigma a cui egli, in quanto depositario e testimone di valori da mantenere attivi interrogandoli e trasmettendoli nel tempo, ha ispirato la sua parabola intellettuale e didattica, non va dimenticato che Ruggiero Stefanelli ha dato prova di una peculiare declinazione operativa della sua sensibilità storica all’altezza dei processi di trasformazione istituzionale che hanno progressivamente investito la nostra vita accademica, nella disponibilità generosa più volte manifestata nell’assumersi e ricoprire, per vari anni, e con dedizione pari alla discrezione e allo spirito di servizio, incarichi delicati e onerosi negli organi di governo del nostro Ateneo, fra cui quelli di Presidente del corso di laurea in Materie Letterarie, e poi del corso di studi in Scienze della Comunicazione e, per nove anni, di Direttore del Dipartimento di Linguistica, Letteratura e Filologia Moderna. Anche così, nei modi sommessi quanto proficui della sua amabile concretezza, egli ha saputo fornire un importante contributo – come nella sua indimenticata attività di insegnamento e di ricerca, e nella promozione continua e diffusa di iniziative culturali rivolte al territorio – alla tutela e alla crescita della nostra istituzione, con l’appassionata lucidità e la pacatezza serena e vigile che restano i tratti distintivi della sua umanità profonda. Per tutto questo oggi va a lui il nostro saluto più affettuoso e grato. Luglio 2011 Corrado Petrocelli Rettore Università degli Studi di Bari Aldo Moro Corrado Calenda REVERENZA E COLPA: ANCORA SUL RAPPORTO FRA DANTE E BRUNETTO IN «INFERNO» XV Il celebre ‘canto di Brunetto’ condivide, con altri altrettanto celebri canti dell’Inferno dantesco, un tratto essenziale che, a guardar bene, ha determinato e giustifica l’ininterrotta, secolare riflessione che ha suscitato in tutti i suoi lettori; o, meglio, il tipo di riflessione che ad esso è stata costantemente dedicata. Mi riferisco al fatto che, come nei casi di Farinata (x) o di Ulisse (xxvi) o di Ugolino (xxxiii), il ‘peccato’ di cui i protagonisti si sono resi responsabili nella loro vita terrena, e che è all’origine della loro perpetua condanna infernale, non diviene oggetto specifico di trattazione nel corso del canto stesso. La ragione effettiva della presenza di questi personaggi nell’inferno è tutt’al più accennata, in maniera laterale o digressiva, ma il canto si svolge su tutt’altri binari, quasi ad evitare un indugio inopportuno su ciò che non si ritiene essenziale, o su ciò che pare conveniente, per varie ragioni, solo sfiorare se non omettere. L’anomalia rispetto al resto è evidente: basterà, a rendersene conto (per rimanere nell’ambito dei casi più noti della prima cantica), il confronto con il canto v di Francesca e Paolo, tutto incentrato sulla minuta descrizione dell’occasione che ha portato i due amanti alla perdizione; o con il canto xiii, che espone senza dissimulazioni le circostanze che hanno condotto al suicidio di Pier della Vigna. Aggiungerei però che Brunetto rappresenta un caso isolato, potentemente isolato, anche in rapporto a quei dannati a cui si è detto prima potersi eventualmente accostare e a proposito dei quali non manca almeno un cenno alla qualità della colpa commessa. Nel canto x infatti, prima di incontrare Farinata e Cavalcante, Dante si preoccupa di precisare, ai vv. 13-15, che «Suo cimitero da questa parte hanno / con Epicuro tutti i suoi seguaci, / che l’anima col corpo morta fanno»; nel canto xxvi, ai vv. 59-63, prima e indipendentemente dalla grandiosa descrizione del fatale viaggio verso la rovina, 2 Del nomar parean tutti contenti troviamo l’enumerazione dei peccati che hanno condotto alla condanna di Ulisse e Diomede (anche se, in questo canto straordinario, la breve premessa non è sufficiente, secondo me, a determinare davvero la natura della colpa specifica di Ulisse, ma di questo occorrerebbe parlare a lungo: lo faremo magari in un’altra occasione occupandoci dell’Ulysse’s sin); nel canto xxxiii non manca, com’è noto, un’allusione al tradimento della patria da parte di Ugolino, là dove ai vv. 85-86 Dante ci dice che «’l conte Ugolino aveva voce / d’aver tradita te [Pisa] de le castella». Niente di tutto questo nel nostro canto xv, né nel canto seguente in cui i due viandanti incontrano altri famosi personaggi coinvolti nella stessa colpa di Brunetto. Di qui, com’era prevedibile, una secolare disputa sul «peccato di Brunetto» (Brunetto’s sin). Tale peccato è possibile ricavarlo eventualmente, con uno sforzo di rammemorazione e di ricostruzione, dalle sole indicazioni del canto xi dove Virgilio ha spiegato che tra coloro che fanno «forza nella deïtade… lo minor giron suggella / del segno suo e Soddoma e Caorsa» (vv. 46-49). A meno che non si intenda senz’altro accettare la spiegazione vulgata del v. 114 «dove lasciò li mal protesi nervi» (a proposito di Andrea de’ Mozzi), di recente però messa in discussione da uno studioso come Mario Martelli; o condividere le illazioni degli antichi commentatori sulla moglie di Iacopo Rusticucci (xvi, 45), responsabile a parer loro della colpevole inclinazione del dannato verso il suo stesso sesso. Questo dato iniziale, e capitale, condiziona comprensibilmente l’intera lettura del nostro canto e soprattutto del rapporto che Dante intende suggerire con la figura di Brunetto: dunque, in qualche misura e con maggiore giustificazione rispetto ad altri casi, una lettura referenziale o, se si preferisce, contenutistica, intesa a chiarire innanzitutto il significato vero della volontà dantesca di inserire, come elemento essenziale della sua narrazione, l’incontro col suo antico ‘maestro’ fiorentino. A nessuno sfugge che in questo modo si rischia di trascurare la straordinaria resa formale e stilistica del canto, il suo valore letterario più specifico, tra i più alti dell’intero poema. Se ci soffermassimo anche soltanto sul memorabile esordio (vv. 1-12), potremmo notare, a inizio assoluto, la rara rima inclusiva proparossitona (margini : argini); l’uso genialmente metaforico di un vocabolo tecnico del linguaggio botanico (aduggia), adibito a suggerire il prodigio di una sorta di ombrello di vapore che ripara i viandanti dalle falde di fuoco; l’affollarsi, fino al v. 13, come notò Ernesto Giacomo Parodi, di rime tutte in doppia consonante (-argini, -uggia, -enta, -elli, -ossi), a prefigurare le C. Calenda «Inferno» xv 3 «rime aspre e chiocce» che dilagheranno nelle Malebolge (e si noti che la rima in -uggia anticipa quella in -eggia dei vv. 34-39, dove il rimante centrale «greggia» è uno dei due vocaboli «yrsuta propter austeritatem» sconsigliati al poeta «illustre» in De Vulg. ii vii 4); l’incredibile, ma certo non casuale semantizzazione contestuale di un verso come «Quali i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia» (v. 4) in cui elementi lessicali neutri e vincolati (un nome di popolo e due toponimi) valgono a insinuare un riferimento alle ‘fiamme che guizzano e bruciano’, di stretta pertinenza alla scena cui ci apprestiamo ad assistere; l’uso sapiente delle similitudini, ricavate sia da nozioni libresche sia dall’esperienza biografica, per rendere evidenti alla percezione del lettore i connotati di un paesaggio improbabile, per giunta arricchiti di un tocco di realismo assoluto (vv. 11-12 «tutto che né sì alti né sì grossi, / qual che si fosse, lo maestro felli») a predisporre la verosimiglianza delle azioni che di lì a poco si svolgeranno (gli «argini» del Flegetonte su cui Dante e Virgilio camminano devono essere sufficientemente bassi da consentire il dialogo ravvicinato tra Brunetto e il pellegrino). Ma tutto il canto è soprattutto un miracolo di evidenza rappresentativa, tanto più sottile e sfumata quanto più inquieta e problematica è la serie di questioni etiche, culturali, politiche e personali che in esso si agitano, comunque le si intenda affrontare. Dopo il sostenutissimo esordio di cui si è detto, a preparare il tono familiare, intimo e le posizioni ravvicinate del dialogo che sta per svolgersi, le due immagini concretissime di quelli che si guardano «uno altro sotto nova luna» (v. 19) e del «vecchio sartor» che ha difficoltà a infilare l’ago (v. 21): non astratte formulazioni descrittive, ma azioni e atteggiamenti di uomini in una situazione determinata. Si potrebbe continuare a lungo nella disamina attenta dei mezzi di cui Dante è in possesso per allestire magistralmente la sua inaudita scena oltremondana. Ma è tempo ormai di tornare a riflettere, mantenendosi quanto più stretti è possibile alla lettera del testo, sul nucleo centrale e sui motivi essenziali del nostro canto. Dunque Dante e Virgilio, dopo l’incontro con Capaneo, si allontanano ancor più dalla selva dei suicidi e approfittano della protezione offerta dalle esalazioni del Flegetonte per attraversare indenni la landa dei peccatori contro Dio, tormentati da una incessante pioggia di fuoco che, colpendoli, li ustiona sfigurandoli. Sotto l’argine, in basso, vedono venirgli incontro una schiera di anime che mostrano di scrutarli con difficoltosa attenzione. Una di queste riconosce Dante meravigliandosi e viene a sua volta riconosciuta da Dante, con la stessa, se non con superiore meraviglia, come l’anima di Bru- 4 Del nomar parean tutti contenti netto Latini (forse, più correttamente Burnetto, secondo la variante dei codici fiorentini ricordata da Francesco Mazzoni e valorizzata di recente da Luciano Rossi con una ingegnosa ipotesi etimologica). Tra i due inizia un fitto dialogo che prevede prima una serie di reciproche spiegazioni sulle rispettive situazioni attuali, poi, da parte di Brunetto, un lusinghiero riconoscimento delle doti del pellegrino e una profezia sul terribile destino che lo aspetta per le trame ignobili dei fiorentini corrotti e imbestialiti. Dante risponde innanzitutto ricambiando, ma con tono devoto di discepolo, l’attestato di stima, poi dichiarandosi pronto a rintuzzare i colpi della fortuna che Brunetto gli ha preannunciato. Dopo un rapidissimo intervento di consenso da parte di Virgilio, Brunetto, a una domanda del pellegrino, lo informa che condividono la sua sorte Prisciano, Francesco d’Occorso e Andrea de’ Mozzi; poi, preoccupato dell’arrivo di un’altra schiera di peccatori, si affretta a rincorrere e raggiungere la sua «greggia» che si era nel frattempo allontanata. Questo, a grandissime linee, il riassunto del canto, di cui ho badato volutamente a fornire l’ossatura essenziale, il puro schema diegetico; perché, ecco il punto, l’interpretazione della sua più specifica articolazione e, soprattutto, del suo capitale significato nella trama complessiva dell’Inferno, dipendono, com’è noto, da alcune decisioni preliminari, da certe precondizioni esegetiche che sono in grado di alterare profondamente il valore autentico della scena rappresentata. Siamo di fronte cioè ad un caso di potenziali ambivalenze, di cui innanzitutto sarà difficile chiarire se si tratta di ambivalenze originarie, intenzionalmente programmate e perseguite dall’autore, o dell’effetto di una stratificata tradizione esegetica che ha formulato su questo canto, come su pochi altri della Commedia, un amplissimo spettro di ipotesi interpretative, in qualche caso nettamente diversificate se non gagliardamente contrapposte. A meno che, come a me pare più probabile, le due cose non si siano nel tempo intrecciate e, alla complessità e magari sottile ambiguità o evasiva vaghezza della primitiva ispirazione dantesca, il sopravvenire delle letture storicamente determinate abbia associato una sorta di deriva ermeneutica, che ha dilatato oltre il lecito le possibilità di lettura di un canto già peculiarmente plurisemico. Se così fosse, primo compito del nuovo interprete sarebbe tentare quanto meno di ridurre o definire l’apporto delle sovrapposizioni successive, sintomatiche peraltro dell’inesauribile vitalità del testo. I due nodi che esigono di essere preliminarmente affrontati e, se possibile, sciolti riguardano il peccato di Brunetto e la qualità del rapporto che Dante C. Calenda «Inferno» xv 5 autore intende stabilire tra il protagonista (cioè lo stesso Dante agens) e il suo interlocutore. Questioni, come vedremo, connesse, ma non sino al punto, mi pare, che l’eventuale soluzione dell’una comporti di necessità il chiarimento completo dell’altra. Partiamo dunque dal peccato di Brunetto: certamente peccato ‘contro natura’ e perciò, indirettamente, contro Dio. Ma è noto che l’accezione in chiave sessuale che ha dominato, sostanzialmente indiscussa, le interpretazioni del canto (Brunetto ‘sodomita’ praticante, cioè, tanto per essere espliciti, omosessuale e pedofilo) fu messa in crisi da un importante volume di André Pézard (ma la sua ipotesi è stata recentemente riproposta, con qualche integrazione, da Selene Sarteschi) e dagli studi di Richard Kay, poi suffragati dalle indagini di Sally Mussetter. Per il primo, il peccato ‘contro natura’ sarebbe costituito dalla decisione da parte di Brunetto di adottare, per la stesura della sua opera più nota, l’enciclopedia del Trésor, non il proprio volgare nativo ma la lingua d’oil, con una prassi già fieramente contestata da Dante in molte note occasioni (nessuna particolare ostilità, ovviamente, contro il francese antico; solo, appunto, opposizione al disuso del proprio eloquio ‘naturale’; una colpa dunque di matrice linguistica ed etica, come ritengono anche, con diverse sfumature, Eugene Vance e Peter Armour). Per Kay invece «Brunetto sarebbe stato collocato tra i peccatori contro natura … perché avrebbe sovvertito l’ordine naturale ponendo la filosofia a servizio, anziché dell’impero, delle innaturali insubordinate e autonome strutture comunali» (E. Esposito). Ciò premesso, occorre aggiungere che, anche rimanendo ancorati alla lettura tradizionale (e, francamente, meno avventurosa) in termini di peccato sessuale, non mancano divaricazioni anche cospicue nelle posizioni degli interpreti. Tra i grandi lettori dell’inizio del secolo scorso (primo fra tutti Ernesto Giacomo Parodi) sembra prevalere la preoccupazione di alleggerire Dante dell’accusa di aver proditoriamente violato, per così dire, la privacy di ser Brunetto, associando per sempre il suo maestro a una colpa infamante di cui altrimenti non si sarebbe avuta notizia. Brunetto sodomita nascerebbe per ragioni pertinenti alle simmetrie del poema, in particolare per assegnare al maestro fiorentino una posizione corrispondente grosso modo a quella che l’avo Cacciaguida occuperà nella terza cantica e instaurare dunque un parallelismo intratestuale di grande spessore ideologico. 6 Del nomar parean tutti contenti Senonché nel 1979 D’Arco Silvio Avalle (seguìto poi da Giuseppe Edoardo Sansone) ha interpretato in chiave di allusivo omoerotismo uno scambio di canzoni tra Brunetto e Bondie Dietaiuti riportato nel cd. Vat. 3793, smentendo di fatto l’interpretazione precedente in chiave di pure simmetrie strutturali senza implicazioni etiche o esistenziali. Ancòra (e qui cominciamo a vedere come la questione del ‘peccato di Brunetto’ si intrecci con quella del rapporto che a Dante interessa instaurare sia con la persona storica che con il personaggio letterario di Brunetto), in una sua acutissima lettura Manlio Pastore Stocchi ha drasticamente accentuato la portata dell’infamante accusa dantesca, sovvertendo arditamente il senso sino allora vulgato dell’intero episodio. Nel quale, in sintesi, si assisterebbe ad un severo atto di accusa, ad un allusivo e ironico ridimensionamento da parte di Dante delle supposte virtù del suo maestro fiorentino. A partire (suggerisce Pastore Stocchi) dalla logica che determina, in questo caso, la legge del contrappasso, ricavata direttamente dal brano biblico in cui si parla della punizione inferta da Dio in persona agli abitanti di Sodoma: segno, questo, di un peccato valutato e punito con speciale, implacabile rigore. Ricordo, per concludere, che Luciano Rossi, da parte sua, esclude il rilievo della testimonianza messa in luce da Avalle e fa risalire la decisione di Dante alla condanna ambiguamente strumentale della sodomia che Brunetto aveva pronunciato in un noto brano del Tesoretto. Ora, mettendo insieme le ipotesi sin qui riassunte, sarà il caso di tornare al nostro testo. Non credo francamente che il peccato di sodomia possa trovare alternative verosimili, per quanto si vogliano estendere i limiti delle possibili colpe ‘contro natura’. Tutto sta, però, nell’intendersi sul rilievo che Dante vuole conferire alla qualità del peccato nella significazione generale della situazione rappresentata. Le allusioni alla qualità della colpa che alcuni lettori hanno ritenuto di individuare arricchiscono e increspano ancor più la fisionomia di un testo straordinario, ma, come si diceva, paiono talora desunte a posteriori da certe rigide pregiudiziali interpretative. La violenta censura di un Brunetto ‘sodomita’ può determinare la lettura delle due splendide similitudini dei vv. 18-21 come ponte di passaggio verso un registro stilistico ‘comico’ che culminerà nell’ultimissima scena del canto con la disordinata corsa di Brunetto all’inseguimento della sua «masnada». Tracce di una prossemica e di una gestualità ‘da omosessuali’ (!) possono ricavarsi dal malizioso «adocchiare» (v. 22) della schiera di dannati, dalla veste di Dante affer- C. Calenda «Inferno» xv 7 rata da ser Brunetto (vv. 23-24), dal protendersi della mano del pellegrino sul volto del maestro. Persino la reiterata apostrofe di Brunetto a Dante come «O figliuol mio» (v. 31) e «O figliuol» (v. 37), cui il pellegrino farà ingenuamente corrispondere l’evocazione della «cara e buona imagine paterna» (v. 83), può leggersi come blasfemo risarcimento di una paternità naturale turpemente rifiutata. In realtà, continuando di questo passo, c’è il rischio che proprio la sottile e insieme profonda ambivalenza su cui Dante ha inteso incardinare il proprio testo vada irreparabilmente perduta: e, a una chiave interpretativa dichiarata epidermica e ingenua, se ne sostituisca una opposta, ma altrettanto lineare e univoca. L’attribuzione, che di qui in poi assumeremo per certa, dell’infamante peccato di sodomia a ser Brunetto non può avere l’esito di cambiare semplicemente di segno il valore da attribuirsi alla drammatica scena del canto. Inutile, a mio parere, soffermarsi sull’eventuale ‘indiscrezione’ di Dante, sulla sua ardita intenzione (se è questo il caso) di divulgare un peccato ‘privato’ di Brunetto, magari facendo riferimento (come pure si è insinuato) a un’inconfessabile esperienza personale nel rapporto tra allievo e maestro. Ritengo infatti che facendo dire a Virgilio, nel canto xi già citato, v. 20, che la dettagliata illustrazione delle fasi successive del viaggio infernale viene fornita al pellegrino «perché poi gli basti pur la vista», Dante abbia volutamente predisposto la possibilità di dosare caso per caso il rilievo da attribuire alla descrizione della colpa, riservandosi di alludere o sorvolare quando gli paresse necessario (con buona pace del giudizio, al solito sferzante, di Castelvetro). Ciò, beninteso, non implica la sottovalutazione di alcuni peccati (si tratta sempre di peccati mortali che hanno portato alla dannazione eterna), ma la subordinazione dello stesso schema dei peccati a una strategia narrativa e ideologica. Ciò che mette conto analizzare è, come sempre, la funzionalizzazione dell’elemento-colpa alla trama e alle finalità del poema o, meglio, alla definizione delle tappe successive nell’evoluzione del protagonista: il che può avvenire in confronto diretto o mediato con il sistema dei peccati. Perché (su questo occorre a mio parere sempre insistere) il destino del protagonista della Commedia si compie progressivamente nel corso di un viaggio in cui, nonostante lo scontato approdo finale, egli si rappresenta (e tanto più nell’Inferno) come ancora fragilmente esposto alle insidie, ai tranelli e alle seduzioni del mondo terreno, incarnate nelle prosopopee dei suoi interlocutori e nella qualità delle proprie motivate reazioni. 8 Del nomar parean tutti contenti Se proviamo dunque a rileggere il canto senza precostituite intenzioni sovversive, ma anche con attenzione alle sollecitazioni contraddittorie della sua trama, potremo fissare alcuni punti non discutibili. Non discutibile è intanto l’insistenza sulla gravità estrema ma scontata del peccato di cui qui si tratta. I viandanti del terzo girone del settimo cerchio furono «d’un peccato medesmo al mondo lerci» (v. 108); di Brunetto vengono sottolineati «lo cotto aspetto» (v. 26) e «’l viso abbrusciato» (v. 27), effetto appunto di quella pena che ricorda irresistibilmente la punizione inflitta direttamente da Dio a Sodoma e Gomorra; Brunetto stesso definisce il gruppo di cui fa parte «greggia» (v. 37), «masnada» (v. 41), «tigna» (v. 111). Eppure, ciò detto, non è possibile alterare oltre il lecito il tono in cui si svolgono l’incontro e l’ampio scambio di battute tra i due protagonisti. Il pellegrino si muove, sì, in una posizione più elevata di Brunetto, ma intanto tiene «’l capo chino / … com’uom che reverente vada» (vv. 44-45) (e qui si ricordi che, nel canto successivo, sarà lo stesso Virgilio a decretare, riguardo a Iacopo Rusticucci, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi, anch’essi sodomiti, che «a costor si vuole esser cortese», v. 15). Le domande che Brunetto rivolge a Dante ai vv. 46-48 esprimono un’autentica sollecitudine, senza secondi fini, con buona pace di chi insinua maliziosamente che nella seconda («e chi è questi che mostra ’l cammino?») sia leggibile una sorta di malcelata gelosia nei riguardi della ‘nuova’ guida: gelosia su cui l’interlocutore si preoccuperebbe di sorvolare guardandosi bene dal nominare Virgilio nella risposta! La lunga, appassionata tirata di Brunetto a esaltazione di Dante e contro il popolo fiorentino (che è tra l’altro un magnifico esempio di mimetismo stilistico, esemplata com’è su moduli tipici del linguaggio brunettiano) pare poi in linea con le convinzioni di Dante-autore, e le implicazioni che, come vedremo, sarà lecito trarne escludono però qualsiasi meccanico rovesciamento: franco riconoscimento delle doti eccezionali del suo interlocutore (vv. 55-57); rimpianto per il mancato appoggio alle sue giuste aspirazioni a causa della morte precoce (vv. 58-60); tipica profezia post-eventum (perfettamente indagata da Robert Wilson) sulla sorte che lo attende in rapporto alla natura bestiale del seme fiesolano del popolo fiorentino (vv. 61-78). È nell’ultima replica del pellegrino che le cose si chiariscono, complicandosi, e si getta luce anche sulle sottili, non pacifiche implicazioni, cui si accennava, del precedente discorso di Brunetto. Reagendo con pari intensità al tono acceso della precedente invettiva di Brunetto, il personaggio che dice «io» dichiara la propria filiale devozione C. Calenda «Inferno» xv 9 all’ammiratissimo interlocutore. Come Brunetto si era rammaricato di non aver potuto «dare… conforto» all’«opera» del suo allievo a causa della morte, così Dante si rammarica a sua volta di quella morte (a meno che, come vuole Luciano Rossi, i vv. 80-81 «voi non sareste ancora / de l’umana natura posto in bando» non alludano piuttosto alla condizione di orribile ‘snaturamento’, di oltraggiosa deformità cui Brunetto è ridotto dall’implacabile pena del fuoco: Dante non lamenterebbe la morte precoce di Brunetto, ma la sua condizione attuale che lo pone ‘al bando’ di ogni umana dignità). Le gloriose aspettative da Brunetto coltivate in vita nei riguardi di Dante sono fatte risalire da quest’ultimo agli insegnamenti ricevuti da quello, descritti e valutati con iperbolico ardore. Con una delle immagini più note dell’intero poema, la fisionomia attuale, sconciamente deturpata, di Brunetto viene messa a confronto dolorosamente con «la cara e buona imagine paterna» (v. 83) dell’antico maestro fiorentino impegnato a trasmettere la sua idea di ‘eternità’. Si tratta di un’idea evidentemente condivisa (stiamo attenti a questo punto, su cui occorrerà tornare) qui ed ora dal protagonista del viaggio oltremondano (v. 86 «quant’io l’abbia», non «l’ebbi»); il quale, impegnandosi finanche a farsi testimone, vita natural durante, della fedeltà alle convinzioni del maestro, assicura che lo farà «nella sua lingua», cioè nel proprio amatissimo volgare di sì, unico possibile accenno nel canto alle scelte linguistiche disapprovate di ser Brunetto. Brunetto ha impartito il suo insegnamento «ad ora ad ora», v. 84, cioè in modo non sistematico né convenzionale, pressappoco ‘di volta in volta’, ‘quando se ne presentava l’occasione’, secondo la lettura vulgata (anche se di recente Giovannella Desideri, con buona documentazione, ha rimesso in discussione il senso della locuzione). Si tratterà senza dubbio di un insegnamento in senso propriamente culturale e letterario, in una parola libresco, ma anche e soprattutto di un insegnamento etico, civile e pragmatico, di una autorevole iniziazione all’impegno sociale e politico. Se è vero che tutta la produzione scritta di Brunetto Latini (Trésor, Tesoretto e Rettorica) risale agli anni dell’esilio francese, tra il 1260 e il 1266, un insegnamento come quello qui evocato, fondato su un rapporto personale tra allievo e maestro, andrà spostato agli ultimi due decenni del secolo, quando Brunetto viene totalmente assorbito dai suoi incarichi pubblici. Del resto sia l’impianto complessivo del precedente discorso di Brunetto, sia il seguito della replica di Dante ai vv. 91-96 (salda determinazione contro i preannunciati rovesci della fortuna, con accentuato mimetismo espressivo dei modi brunettiani soprattutto nelle 10 Del nomar parean tutti contenti metafore e nell’intonazione colloquiale della seconda terzina), descrivono senza equivoci una solidarietà che travalica i termini della pura filiazione culturale, coinvolgendo un’intera strategia dell’esistenza. Perché, come abbiamo detto, la replica del pellegrino chiarisce, complicandolo, il senso del canto e mette in luce l’unica vera ambivalenza della scena descritta? Non c’è alcun dubbio che Dante ritragga il suo personaggio come un portatore di valori e che, cosa forse ancor più rilevante, lo renda testimone di alcune incontrovertibili verità che sono patrimonio assoluto dell’autore del poema: il riconoscimento delle doti personali, intellettuali ed etiche, del pellegrino, isolato «dolce fico», unico erede della Firenze ‘romana’ nella masnada inqualificabile dei «lazzi sorbi» fiorentini, riconoscimento tanto più autorevole e lusinghiero in quanto espresso da chi, secondo la celebre testimonianza di Giovanni Villani, fu il fondatore della cultura civica fiorentina; la fiducia nell’eternità del poema stesso, cui il maestro affiderà la sopravvivenza del suo «Tesoro» (in riferimento piuttosto al Tesoretto che al Trésor, come ritiene Zygmund Baránski); e così via. La dignità di Brunetto è fuori discussione e niente potrà cancellare la volontà dantesca di esaltare una figura centrale della propria formazione giovanile culturale ed etica. Dunque, come ci insegnarono i grandi lettori romantici, da Foscolo a De Sanctis, siamo di fronte a un ‘eroe’ che annulla, neutralizza con l’imponenza della sua statura il rilievo infamante della collocazione infernale? Qui si innesta la questione capitale non solo del nostro canto, ma dell’Inferno dantesco in generale, che questo canto è in grado come pochi di esemplificare. Brunetto ha inteso insegnare a Dante «come l’uom s’etterna», come è detto nel verso chiave del nostro testo, l’85; ciò che prospetta al suo interlocutore è il «glorïoso porto» del v. 56, l’«onor» del v. 70; egli stesso, flagellato per sempre dal tremendo castigo di Dio, pretende di ‘vivere ancora’ (v. 120) nel suo Tesoro. Brunetto ha conservato interamente la sua fisionomia, le sue certezze e le sue illusioni (come ci ha insegnato Erich Auerbach), ben lontano dal comprendere la radice di ciò che l’ha perduto, cioè l’impossibilità di ogni salvezza fuori dalla Grazia, l’insufficienza radicale di ogni prospettiva puramente laica, foss’anche la più nobilmente concepita e praticata. Ecco perché ‘il peccato di Brunetto’ rimane, tutto sommato, un elemento laterale (come lo era stato, per motivi diversi, l’eresia nel caso di Farinata); ma ecco anche perché, se proprio dovessi pronunciarmi su questa questione C. Calenda «Inferno» xv 11 sopravvalutata, propenderei per lo sfruttamento, da parte di Dante, di una voce nota, magari personalmente acclarata, intorno alla sodomia del vecchio maestro, resa funzionale, senza particolare malizia, alle essenziali finalità del poema. Se il peccato di Brunetto è, a quanto pare, la sodomia, la presenza di Brunetto nell’Inferno è connessa a un’altra, ben più complessa problematica (come nei casi, già citati, di Farinata, di Ulisse, di Ugolino). È connessa cioè alla rappresentazione figurale dell’itinerario del pellegrino: è il personaggioDante, Dante agens che manifesta qui una colpevole solidarietà con la nobile ma limitata pedagogia di Brunetto: il suo atteggiamento è «reverente»; la perdurante identificazione col maestro lo spinge sino al punto di oppugnare sommessamente gli inviolabili decreti divini (vv. 79-81 «– Se fosse tutto pieno il mio dimando –, / rispuos’io lui, – voi non sareste ancora / de l’umana natura posto in bando –»); l’allineamento all’idea di ‘eternità’ sostenuta da Brunetto è integrale, con il proposito dichiarato di farsene entusiastico assertore per tutto il resto della vita (vv. 79-81). Il personaggio-Dante del canto xv è tutto esposto alla mortale insidia di una magnanimità che costeggia la vanagloria, ancora lontano da quell’umile resipiscenza che sarà contrassegno di salvezza nel canto xi del Purgatorio. E persino, appunto, il ‘magnanimo’ Virgilio resta coinvolto nella suggestione di un’eternità ‘umana, troppo umana’: qui, nel cenno di approvazione dei vv. 97-99; e nel canto successivo quando ingiungerà a Dante: « – Or aspetta –, / … – a costor si vuole esser cortese. / E se non fosse il foco che saetta / la natura del loco, i’ dicerei / che meglio stesse a te che a lor la fretta –» (vv. 14-18) a proposito degli altri magnanimi sodomiti, i quali, per parte loro, si presentano (con le parole di Iacopo Rusticucci) in termini ciecamente autogratificanti e raccomandano al pellegrino di «favellare» di loro quando tornerà a «riveder le belle stelle». Nell’ultima parte del canto Dante fa presentare a Brunetto alcuni dei suoi compagni di pena, tutti «cherci» o «litterati grandi e di gran fama»: Prisciano, Francesco d’Accorso, Andrea de’ Mozzi, enumerati senza particolari commenti, tranne l’ultimo, su cui, per così dire, stinge l’accostamento all’aborrito ‘servo de’ servi’, Bonifacio viii: e così il malcapitato vescovo fiorentino, che lasciò «in Bacchiglione», cioè a Vicenza «li mal protesi nervi», resta l’unico sodomita la cui figura è integralmente risolta nel suo peccato. Quanto all’ultima, celebre immagine del canto (l’anziano pedagogo che ricorda, nella sua rincorsa ai compagni di pena, il vincitore del drappo verde al Palio di Verona), direi che essa conclude e racchiude degnamente il senso 12 Del nomar parean tutti contenti della scena che si è appena svolta. Ambivalente e inquietante anch’essa come l’intero canto, ci parla di una ‘vittoria’ (ma che vittoria! nulla più che aver scansato un terribile aggravio di pena) ottenuta sacrificando la gravitas, la posata dignità propria del magnanimo, riducendo integralmente la fisionomia di Brunetto ai tratti sfigurati della sua condizione eterna. Il prestigio, l’autorevolezza ‘vera’ del Brunetto storico, che i versi precedenti avevano provveduto a confermare, rotolano via, travolti da quella corsa ansimante sul sabbione infuocato. Nota bibliografica Si riproduce, nella sua forma originaria, la Lectura Dantis Andreopolitana tenuta nell’ottobre 2010 presso l’Università di St. Andrews (Scozia), su invito di Robert Wilson e Claudia Rossignoli. I passi del poema sono citati dalla Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, voll. 4, Milano, Mondadori, 1966-1967. Qui di seguito si forniscono i riferimenti bibliografici relativi ai soli contributi esplicitamente citati, nell’ordine in cui compaiono nel testo: M. Martelli, Alagheriana minima adnotanda, in Sotto il segno di Dante, Scritti in onore di Francesco Mazzoni, a c. di L. Coglievina e D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 199-210 (p. 201); E.G. Parodi, Il canto di Brunetto Latini, in Poesia e storia della «Divina Commedia», a c. di G. Folena e P.V. Mengaldo, Venezia, Neri-Pozza, 1965. pp. 163-200; F. Mazzoni, Latini, Brunetto, s.v., in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1971, iii, pp. 579-588; L. Rossi, Canto XV, in Lectura Dantis Turicensis. Inferno, a c. di G. Güntert e M. Picone, Firenze, Cesati, 2000, pp. 207-220; A. Pézard, Dante sous la pluie de feu. «Enfer», chant xv, Paris, Vrin, 1950; S. Sarteschi, «Inferno» xv. L’incontro fra Dante e Brunetto, in «Rassegna Europea di Letteratura Italiana», 2007, pp. 33-60; R. Kay, The sin(s) of Brunetto Latini, in «Dante Studies», 1994, pp. 19- 31; S. Mussetter, «Ritornare a lo principio»: Dante and the sin of Brunetto Latini, in «Philological Quarterly», 1984, pp. 431-448; E. Vance, The Differing Seed: Dante’s Brunetto Latini, in Marvelous Signals: Poetics and Sign Theory in the Middle Ages, Lincoln, University of Nebraska Press, 1986, pp. 230-255; P. Armour, Dante’s Brunetto: the paternal Paterine?, in «Italian Studies», 1983, pp. 1-38; D’A.S. Avalle, Nel terzo girone del settimo cerchio, in Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del xiii secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, pp. 87106; G.E. Sansone, Il nome disseminato: Brunetto, Bondie, Dante, in «La parola del testo», 1998, pp. 9-20; M. Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto xv dell’«Inferno», in Letture Classensi, 3, Ravenna, Longo, 1970, pp. 219-254; R. Wilson, Prophecies and Prophecy in Dante’s Commedia, Firenze, Olschki, 2007; G. Desideri, « Quelli che vince, non colui che perde ». Brunetto nell’immaginario Dantesco, in A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione di Brunetto Latini dal Medioevo al Rinascimento, a c. di Irene Maffia Scariati, Firenze, Sismel, 2008, pp. 381-400; Zygmund Barański, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri, Napoli, Liguori, 2000, p. 92. Università degli Studi “Federico II” - Napoli Leonardo Sebastio ETICA FILOSOFICA ED ETICA DELLA FILOSOFIA NEL II CANTO DEL «PARADISO» (vv. 1-26) 1-9 — Apollo e le Muse erano già state invocate nel primo canto del Paradiso: già lì Dante aveva voluto sottolineare la natura poetica della sua opera. Né lì né qui la matrice poetica ha valore riduttivo: il termine di confronto è Virgilio: Dante è un Virgilio arricchito dalla Rivelazione, dotato cioè di una sapienza completata dalla verità che Cristo ha portato agli uomini con la sua incarnazione. L’assunzione del modello virgiliano trova conferma nell’invocazione alle divinità classiche, nient’affatto cristianizzate, utilizzate nell’antico valore di divinità della poesia: di quella forma cioè in cui si manifesta, ridendo, la Sapienza, o meglio, di quella forma di ragionamento-discorso in cui questa si manifesta, più che agli, tra gli uomini. Il Virgilio saggio limbico si traguarda in lontananza, ma non viene negato, né nel primo canto del Paradiso, né qui; anzi, qui Virgilio poeta e la cultura classica che egli rappresenta sono evocati con maggiore larghezza: Apollo, Minerva, le «nove», non «nuove», Muse e Giasone, in un posizione narrativa di grande rilievo. È, si badi, il canto dell’approdo al Paradiso, al primo cielo: non è ancora il vero Paradiso, quello che accoglie le anime, che è nell’Empireo, ma è già il mondo delle creature spirituali, delle intelligenze, degli angeli. Certo, se si confronta quest’approdo con quelli che la letteratura sacra e profana avevano narrato, il modo dantesco ha caratteristiche della bestemmia, ché proprio nel momento in cui si sarebbero dovute cantare le lodi di Dio, degli angeli, dei santi, in quel momento vengono evocate divinità pagane. L’incongruità resterebbe quand’anche le si leggessero allegoricamente: le si cristianizzassero facendo, ad esempio, di Minerva il simbolo della Sapienza e di Apollo quello dello Spirito Santo. Intanto perché resterebbero fuori dalla cristianizzazione le Muse e Giasone per i quali il pur possibile parallelismo sarebbe per lo meno più complesso e sottile; e poi perché l’ingresso al regno dei cieli poteva farsi senza la necessità di venir meno alla convenientia, che imporrebbe comunque il ricorso a un esordio meno paganeggiante, se non proprio giubilantemente cristiano. 14 Del nomar parean tutti contenti Le scelte dantesche non possono non avere precisi significati. Il primo significato sta nel recupero della cultura classica: la tematica pagana è qui significativamente opportuna in quanto il mondo ultraterreno che Dante si accinge a descrivere è modellato sul disegno aristotelico-tolemaico delle sfere celesti, sia pure riveduto e corretto in forme platoniche e con la trasformazione delle intelligenze motrici in angeli, con le provvisorie apparizioni delle anime beate, con gli altrettanto provvisori inni e preghiere di mai più udita bellezza; e soprattutto con l’identificazione del Motore Immobile col Dio delle Sacre Scritture, il quale dei cieli si serve per attuare il suo progetto provvidenziale. Il disegno aristotelico delle sfere celesti, pressoché nella sua integrità, viene dato sic et simpliciter come Paradiso cristiano, sconvolgendo non solo l’iconografia millenaria, ma innovandola nelle forme e più ancora nei contenuti per via della forte laicizzazione che inevitabilmente consegue alla elaborazione della ragione filosofica che giunge fino alle soglie dell’estromissione della devozione e della esegesi scritturistica e, infine, della Chiesa stessa dalla gestione del Paradiso – in vero già radicalmente posta in atto nell’allegoria della processione nel Paradiso Terrestre –. La revisione laica del Paradiso era tutt’altro che un’operazione improvvisata: a quell’opera di raccordo tra il passato precristiano (della cultura) Dante s’era dedicato, insieme con Guido Cavalcanti e la sua cerchia d’amici, sin dai tempi della Vita Nuova, quando aveva stabilito un preciso collegamento, una discendenza, tra i poeti classici e i «dicitori per rima». La continuità tra pensiero pagano e cristianesimo era diventata centro e perno dell’intero suo pensiero politico quando, nel Convivio prima e nella Monarchia dopo, aveva indicato il «radicale fondamento de l’imperiale maiestate», e la «beatitudo huius vite» che consisterebbe nel sapere elaborato dalla ragione umana – dunque prima e dopo la venuta di Cristo – e che i filosofi avrebbero tutta mostrata, «que per phylosophos tota nobis innotuit». Ricordato con Dante che la «beatitudo huius vitae» è pur sempre voluta da Dio, occorrerà prendere atto della conseguenza che gli intellettuali, i «phylosophi», assumevano un primato sino ad allora mai immaginato; e ciò proprio in un momento in cui la Chiesa dimostrava di non voler concedere né punto né poco all’aristotelismo e all’averroismo, che osavano affermare la grandezza d’animo e la naturale onestà del sapiente, del «phylosophus». Dante in quest’esordio, in quest’appello al lettore, pone sé, poeta, a guida, «dietro al mio legno che cantando varca», «perdendo me rimarreste smarriti»: non c’è quell’atto di cristiana umiltà che era ad esempio in Ala- L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 15 no di Lilla, il quale si faceva scriba Dei, semplice trascrittore di ciò che la fede (o la teologia) gli dettava. Dante, invece, riafferma il suo essere poeta: un «io» assolutamente perentorio, «l’acqua ch’io prendo», «mio legno», «perdendo me», «conducemi», «mi dimostran», «mio solco»; e poi le Muse – mai cristianizzate –, Apollo e Minerva. Non si tratta semplicemente di consapevolezza della propria statura di poeta: è – altrove s’è cercato di dimostrare – risultato del suo pensiero etico-politico, esito e, nello stesso tempo, preparazione alla visione filosofica del mondo ultraterreno. È questa prospettiva filosofica che viene affermata ‘nuova’: «l’acqua ch’io prendo già mai non si corse»; il confronto è con la letteratura colta e non dell’Anticlaudianus di Alano di Lilla, delle varie Visio Pauli, Visio Petri, Alberici, e così via, e delle altrettanto varie Apocalissi, a cominciare da quella di Giovanni, o delle versioni popolari di Giacomino da Verona. Umberto Bosco per spiegare la novità cui allude Dante fa riferimento alla materia teologica della terza cantica che sarebbe esposta con maggiore rigore rispetto alla due cantiche precedenti: quello che scriverà nella terza cantica è nuovo rispetto a quanto ha scritto fino ad ora. L’uso dell’impersonale sostitutivo della prima persona non è raro in Dante, né nella Commedia: Inf. i, 126: «non vuol che ’n sua città per me si vegna», Purg. xxii, 85: «e mentre che di là per me si stette»; tuttavia il «già mai» del ii Par. indica una situazione generale piuttosto che personale: tal che il verso si deve interpretare nel senso che nessuno mai ha tentato gli argomenti e le argomentazioni che si stanno per leggere. Ritroviamo, insomma, la medesima situazione della Monarchia nel cui esordio il poeta esplicitava la volontà d’essere utile agli altri mostrando verità mai prima tentate: «quinymo fructificare desidero, et intemptatas ab aliis ostendere veritates». Nel trattato latino la novità consisté in uno sdegnoso rifiuto dell’uso delle decretali e in un uso rigoroso della ragione eretta a fornire presupposti, metodi di indagine ed infine dirimere contraddizioni nell’interpretazione dei testi sacri. Naturalmente la ragione dantesca – nella Monarchia come nel Paradiso – non è affatto contrapposta alla fede, non è insomma atea, non è, in linea di principio, perciò, neppure contrapposta alla Chiesa; semmai la ragione è contro l’ignoranza, l’uso distorto della verità che serve all’ambizione di potere e di danaro. Anzi, l’uso della ragione e del sapere è obbedienza alla provvidente «natura superior» la quale impresse, «impressit», nell’uomo il desiderio di sapere e l’amore del vero. Dante è certo che il regno dei cieli non può non essere, anzi è esattamente quello che i filosofi hanno dedotto dall’osservazione del loro moto, ed è certo che quanto la religione cristiana con il proprio peculiare linguag- 16 Del nomar parean tutti contenti gio ha detto e scritto non può essere differente da quanto Dio ha voluto che l’uomo capisse. Quello che egli dirà sarà il risultato dell’uso rigoroso delle due fonti del sapere, i documenta, quelli phylosophica e quelli spiritualia: non in una mera giustapposizione, sebbene in una interpretazione filosofica del linguaggio figurale della Scrittura. Questa è l’acqua che adesso si corre in un itinerario volto alla ricostruzione complessiva dell’uomo che si riappropria della propria natura spirituale, fatta di razionalità e fede, di filosofia e religione, e di cultura classica e di cultura cristiana. Il poeta sa bene la difficoltà della rotta: egli stesso s’era smarrito quando s’era imbattuto nel problema della creazione della materia prima. Dalla difficoltà della risoluzione di quel problema era scaturito l’allontanamento del poeta dalla filosofia e, forse, lo smarrimento nella selva oscura. Ora non contano i termini del problema teologico che Dante si poneva (largamente trattati da G. Busnelli prima, da B. Nardi poi, e di recente da K. Forster e da M. Corti), conta la drammaticità insita in quel percorso di conciliazione di filosofia e fede, di ragione e religione della quale sono non lievi tracce nella cantica del Paradiso. E conta la coscienza che il poeta ha delle difficoltà, della sempre imminente possibilità di perdere la rotta; onde, egli che quella rotta l’ha sperimentata e trovata si propone a guida di quanti, phylosophi, quella conciliazione andavano cercando. 10-15 — Sono i versi che rendono peculiare ed unico quest’appello al lettore: ché tutti gli altri appelli coinvolgono il lettore nella ricostruzione della situazione ora psicologica ora dell’ambiente in cui Dante personaggio si trova, e solo in Inf. ix – che è l’appello solitamente accostato a questo di Par. ii – si rivolge a coloro che hanno «li ’ntelletti sani» affinché interpretino correttamente i versi dell’arrivo del messo celeste. Insomma se tutti gli appelli sin qui fatti propongono una condivisione, una collaborazione del lettore con lo scrittore, qui invece ci troviamo di fronte ad una esclusione di lettori, alla precisazione del target, infine alla volontà di circoscrivere, e fortemente, i destinatari della cantica, cosa questa che pone l’appello fuori da ogni topica retorica. Limitazione questa che è in linea con quanto ha detto sino ad ora, e che sottolinea la natura filosofico-teologica della cantica, ma che sembra porsi in contraddizione con quanto il Poeta scrive nell’Epistola xiii dove si legge: «Finis totius et partis esse posset et multiplex, scilicet propinquus et remotus. Sed omissa subtili investigatione, dicendum est breviter quod finis totius et partis est, removere viventes in hac vita de statu miserie et perdu- L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 17 cere ad statum felicitatis»[39]: dunque il fine della Comedia e del Paradiso riguarda tutta l’umanità, di conseguenza destinatari sono tutti gli uomini. Il passo dell’Epistola in vero è inserito in un contesto che riguarda i quattro sensi delle scritture e della Comedia, ed il genere di filosofia (l’etica) cui essa attiene: la complessità dei sensi allegorici e quindi dell’interpretazione e la difficoltà dei contenuti filosofici – che l’autore dell’Epistola opportunamente non richiama – non impediscono che la cerchia dei destinatari sia ampia e generalizzata. Una situazione simile all’Epistola è quella che si trova in Convivio i, i, 3: «Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca!»: anche allora il poeta, che si accingeva a trasmettere le briciole che da quell’alta mensa cadrebbero, ad un pubblico assai vasto, purché non vi facessero parte quanti fossero affetti da vizi dell’anima e da difetti del corpo. Proprio per un pubblico ampio egli andava elaborando una lingua insieme accessibile ed efficace grazie alla quale si faceva mediatore tra i pochi che sedevano alla mensa degli angeli e gli uomini che sono tutti animati dal desiderio di sapere. Il momento di più evidente distacco dal Convivio è costituito proprio dal ruolo che egli rivendica a se stesso: in questi versi del Paradiso (come pure nell’Epistola xiii) è il poeta a costituire la fonte del sapere; è per capire la sua scrittura che serve una lunga preparazione filosofica. Chiaramente v’è alla base la maturazione della coscienza di poeta e dello spessore dell’opera che è venuto scrivendo e, soprattutto, di ciò che sta per scrivere, con l’implicita rivendicazione a sé dell’invenzione narrativa figurativa e, soprattutto, dell’impianto filosofico etico e teologico. Insomma è un’orgogliosa assunzione di responsabilità quale mai prima s’era veduta nel campo della letteratura o della trattatistica. La limitazione di coloro che possono accedere alla lettura della cantica sembra non solo interrompere quei rapporti solidaristici che, teorizzati nel Convivio, Dante aveva stabilito con i lettori nei precedenti appelli, ma anche porre fine ai problemi di poetica e di lingua della poesia che, col sotteso rapporto col pubblico, avevano trovato spazio nelle precedenti opere a partire dalla Vita Nuova, dove si diceva l’uso del volgare nelle rime essere stato determinato dalla necessità di farsi comprendere dalle donne, per giungere al Convivio, il quale – mutate la prospettiva e la materia della scrittura – nasceva con il «sole nuovo» del volgare per la necessità di soddisfare il naturale desiderio di sapere insito in tutti gli uomini – buoni –; e al De vulgari eloquentia tutto teso a stabilire la convenientia tra lingua e materia, tra lingua illustre e magnalia e così via. La Comedia non è scritta in volgare illustre, né, probabilmente, in alcuno dei tipi di volgare che il trattato avrebbe analizzato; al di là 18 Del nomar parean tutti contenti della valutazione di quale tipo di volgare Dante adoperi, ciò che conta è che il problema della lingua – poetica – scompare; e scompare qui dove la esclusione di coloro che sono «in piccioletta barca» non tiene assolutamente in conto il fattore lingua, ma punta sulla preparazione culturale dei lettori. Così è che quell’appello doveva servire ad allertare i lettori non circa le difficoltà della lingua, quanto su quelle proprie della materia i cui snodi più complessi o innovativi – ad esempio (ma è il più facile) la presenza di Sigieri di Brabante nel Paradiso insieme al «buon» Tommaso – avrebbero potuto non essere accettati senza il possesso di più alte ed articolate nozioni filosofiche. Coerentemente con questa operazione Dante esclude ogni lettura emotiva della cantica, compresa la lettura in chiave devozionale: i «desiderosi d’ascoltar», infatti, sono coloro che sono incuriositi dalla vicenda letterale, ma anche quelli che sono mossi dal desiderio di partecipare, sia pure come semplici lettori, alla visio Dei, cui l’argomento della cantica avrebbe portato. «Desiderosi» sono anche coloro che sono mossi dal naturale desiderio di sapere, i quali si potrebbero accingere alla lettura del Paradiso come fosse un’enciclopedia del sapere, quale in qualche modo era, ad esempio, l’Anticlaudianus di Alano di Lilla. La devozione e la naturale inclinazione al sapere, dunque, da sole sono insufficienti alla comprensione della cantica non solo, ma potrebbero essere addirittura pericolose, a causa della debolezza di un accessus incongruo, che non avrebbe potuto dare la chiave di lettura dell’itinerario ultraterreno del poeta: è che serve una vasta preparazione sapienziale per cogliere senza equivoci le implicazioni religiose e filosofiche. A differenza di ciò che avviene in altre visiones o nelle altre descrizioni del Paradiso, le quali tendevano a proporsi come rivelazione totale delle verità di fede, in questo secondo canto Dante offre la propria opera come un testo da decodificare con il bagaglio di una maturazione filosofica e religiosa ampia, se non complessa, avvenuta prima e fuori della lettura dell’intero poema; alla quale maturazione esterna occorrerà fare riferimento quando si voglia intendere la terza cantica. E, ancora, a differenza di ciò che faranno i suoi commentatori i quali non si assumeranno la responsabilità di ciò che di diverso, se non di contrario alla dottrina della Chiesa, il loro commento conterrà, Dante qui di fatto fa derivare le sue idee dalla sapienza – filosofia e teologia insieme –, e le eventuali dissonanze dalla dottrina ufficiale, o incomprensioni, saranno da imputare allo scarso possesso, da parte del lettore, d’un bagaglio culturale adeguato, capace di individuare percorsi, rotte, che conducano alla precisa meta della convergenza, ed entro certi limiti, interscambiabilità di ragione e L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 19 fede, spostando in avanti il traguardo raggiunto dal razionalismo aristotelico con san Tommaso e col suo discepolo Remigio de’ Girolami. Sostenere la necessità di un accessus per così dire attrezzato per il Paradiso anche per coloro che l’hanno seguito sin qui implica che quella peculiare preparazione sapienziale non è ritenuta necessaria per intendere Inferno e Purgatorio. E in vero è raro che per i versi della prima e della seconda cantica il poeta chieda un significativo sforzo intellettuale. Non in Inf., ix, 61-63, dove l’appello al lettore avvertiva della necessità non di una lettura colta, ma di quella non contaminata da malizia: O voi ch’avete li ’ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani. In Inf., xx, 19-20 poi: Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa… dove Dante augura che la lettura dei suoi versi sia fruttuosa – abbia cioè un esito nella vita pratica – grazie all’aiuto del Signore, ma non che abbia bisogno di qualche supporto filosofico. Anche in Purg., viii, 19-21 il poeta richiede un piccolo sforzo d’intelligenza al lettore perché colga il significato dell’allegoria: Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, ché ’l velo è ora ben tanto sottile, certo che ’l trapassar dentro è leggero. Assai più denso di scienza, invece, era – certo non casualmente – l’impegno richiesto in due dei quattro restanti appelli al lettore del Paradiso, uno dei quali è all’esordio del canto x, 7-27 alle soglie del cielo dei sapienti: Leva dunque, lettore, a l’alte rote meco la vista, dritto a quella parte dove l’un moto e l’altro si percuote; e lì comincia a vagheggiar ne l’arte di quel maestro che dentro a sé l’ama, tanto che mai da lei l’occhio non parte. 20 Del nomar parean tutti contenti Vedi come da indi si dirama l’oblico cerchio che i pianeti porta, per sodisfare al mondo che li chiama. […] Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, dietro pensando a ciò che si preliba, s’esser vuoi lieto assai prima che stanco. Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba; ché a sé torce tutta la mia cura quella materia ond’io son fatto scriba. e l’altro, che è in parallelo, del canto xiii, 1-21 che si trova quasi in chiusura di quel cielo. Di qui si potrebbe concludere che il poeta proponga un diverso grado di complessità nell’approccio alle tre cantiche: i «voi che siete … seguiti dietro al mio legno» devono aver acquisito il «pane degli angeli» se non vogliono perdersi non riuscendo a seguirlo nelle sue argomentazioni, mentre hanno potuto farlo sinora anche senza avere gustato a lungo la divina vivanda. L’hanno seguito lungo l’Inferno che pure il poeta strutturava in maniera organica secondo precisi criteri, ma al tutto inediti; nel quale inaugurava per i peccati e per i peccatori leggi che la tradizione devozionale ed iconografica ignorava; e popolava di personaggi ereditati dalla cultura pagana, qualcuno dei quali veniva assurto al ruolo di giudice, certo infernale, comunque espressione della volontà di Dio. Quei «voi» l’avevano poi seguito nel Purgatorio che pure era regno originalissimo quanto a figurazione e strutturazione. Né nella seconda cantica erano mancate affermazioni, argomentazioni, figure di non poca complessità e difficoltà non solo nella comprensione, ma anche nella possibilità d’essere accettate dai cristiani: si pensi alle figure di Catone e di Stazio, alla risoluzione della problematica politica dei rapporti tra Papato ed Impero, alla processione del Paradiso terrestre con la violenta requisitoria contro la chiesa. Giunto alle soglie del Paradiso il pellegrino-poeta e guida sente come la narrazione conoscitiva intrapresa all’uscita della valle oscura debba essere ora più che mai congruente e necessaria se vuole che l’uomo non risulti dimidiato tra beatitudo huius vite e beatitudo vite ecterne, se vuole che essa spieghi nella sua struttura complessiva e nelle sue specificità l’universo, costituito insieme dal mondo sensibile e dallo spirituale. Insomma alle soglie del Paradiso bisogna segnare un percorso unitario che porti dalla filosofia alla teologia, dalla L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 21 cultura elaborata dagli uomini con l’ausilio della sola ragione alla sapienza cristiana: il che significa individuare all’interno dell’una e dell’altra cultura le rotte parallele, se non identiche, che portino con sicurezza alla meta, certa ed indubitabile, che è stata rivelata agli uomini con la venuta del Cristo: Dicit ergo quod ‘gloria primi Motoris’, qui Deus est, ‘in omnibus partibus universi resplendet’, sed ita ut ‘in aliqua parte magis, et in aliqua minus’. Quod autem ubique resplendeat, ratio et auctoritas manifestat. Ratio sic : Omne quod est, aut habet esse a se, aut ab alio. Sed constat quod habere esse a se non convenit nisi uni, scilicet primo, seu principio, qui Deus est; cum habere esse non arguat per se necesse esse, et per se necesse esse non competat nisi uni, scilicet primo, seu principio, quod est causa omnium; ergo omnia que sunt, preter unum ipsum, habent esse ab alio. Si ergo accipiatur ultimum in universo, non quodcumque, manifestum est quod id habet esse ab aliquo; et illud a quo habet, a se, vel ab aliquo. Si a se, sic est primum; si ab aliquo, et illud similiter vel a se, vel ab aliquo. Et esset sic procedere in infinitum in causis agentibus, ut probatur in secundo Metaphysicorum. Et sic erit devenire ad primum, qui Deus est. Et sic, mediate vel immediate, omne quod habet esse, habet esse ab eo; quia ex eo quod causa secunda recipit a prima, influit super causatum ad modum recipientis et repercutientis radium, propter quod causa prima est magis causa. Et hoc dicitur in libro De Causis, quod «omnis causa primaria plus influit super suum causatum quam causa universalis secunda» [Ep. xiii, 53-57]. La coincidenza o il parallelismo delle rotte non sono una novità né nella Comedia né nelle altre opere del poeta. Solo che qui la posta in gioco è più alta e, comunque, è qui che i nodi più difficili dovranno venire al pettine: la discrepanza, ad esempio, tra i cieli aristotelici e quelli cristiani, e quindi il locus del Paradiso; le gerarchie angeliche già nel pensiero cristiano diverse per numero e ordine, e diverse dalle intelligenze motrici della filosofia aristotelica. E di impatto immediato: il rapporto tra Impero e Chiesa ed il ruolo che il poeta assegna a se stesso in questo disegno. Nel Paradiso quelle che nelle altre cantiche erano esortazioni o condanne diverranno affermazioni di verità etiche e teologiche. I versi iniziali di questo secondo canto già danno chiara indicazione della volontà di sintesi delle due culture. Il Dio punto, motore immobile circondato dai cerchi di fuoco, è la magnifica costruzione del pensiero dell’uomo prima e senza la Rivelazione. Non, si badi, contro la Rivelazione, la quale darà modi e forme che non solo non contrastano con quelli filosofici, ma li compendiano e li rendono necessari. Alla costruzione filosofica dell’universo, che è quanto dire alla conoscenza dell’universo, soggetto ed insieme 22 Del nomar parean tutti contenti oggetto d’ogni umana felicità, d’ogni umana onesta voluptas, anzi essa stessa beatitudo huius vite, giunge l’uomo che si sia liberato della minaccia della cupidigia grazie al ristabilimento della pace nella monarchia universale, e che proprio per questo abbia potuto dedicarsi allo studio, al pane degli angeli. Tal che quando è stato detto che la complessità e diversità della terza cantica consisterebbero in un più rigoroso tecnicismo teologico e nella difficoltà di renderlo in versi volgari, si è posto l’accento sui modi espressivi e sulle difficoltà della resa del pensiero. Una tale lettura non rende appieno giustizia all’appello al lettore sprovveduto, né alla coscienza del poeta di possedere appieno le risorse contenutistiche e formali: «Minerva spira, e conducemi Appollo, E nove Muse mi dimostran l’Orse». Il verso 7 dice chiaramente che è l’«acqua», la materia cioè, a non essere stata mai corsa; in quest’«acqua» egli può fare da guida, badi il lettore a non perdere lui, Dante, di vista perché egli, il lettore, potrebbe smarrirsi. Si tratta dunque di un problema di argomenti e argomentazioni più che di strumenti linguistici; argomenti e argomentazioni tratti dall’ampio patrimonio della cultura e classica e cristiana capaci di produrre un percorso unitario di ragione e fede – almeno sin dove è possibile o, meglio, è lecito e ragionevole la ragione giunga – ancora nuovo non ostante il «buon» Tommaso, guardato con qualche diffidenza da una parte della cultura ufficiale decretalista. E nuovo rispetto al Tommaso e a Remigio per la baldanza di una ragione che non teme di confrontarsi non solo con la teologia, ma neanche con la Sacra Scrittura e soprattutto con il Vecchio Testamento. Alla «beatitudo» si giunge con il corretto uso della ragione, eliminando gli errori che essa è pur costretta a commettere a causa della sua discorsività: quello che qui Dante annuncia è dunque un percorso nel sapere umano, nel quale sono pur possibili trappole e percorsi ingannevoli, com’egli ha potuto sperimentare e come tra poco mostrerà in questo secondo canto che è, insieme, affermazione della ragione e, si badi, della ragione sperimentale non sull’ignoranza, ma su un errore – la teoria averroistica delle macchie lunari – commesso dalla ragione stessa. Certa somiglianza nei termini utilizzati ha suggerito a qualche lettore affinità tra i versi dedicati al viaggio di Ulisse e questi: andrà tuttavia sottolineata la sostanziale differenza costituita dal fatto che lì il poeta dice di un viaggio reale, o che si vuol far credere reale; qui le parole «barca… mio legno… liti… pelago…» sono traslati di facile interpretazione, e facilmente, ma non obbli- L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 23 gatoriamente, riassumibili nella metafora «viaggio»; quella è littera che può avere significati allegorici, questa è metafora che trasla una parola in un’altra (in immagine): diremmo che quella di Ulisse è una parola di prima imposizione, quella del secondo Paradiso di seconda: dunque sono temi che attengono a registri diversi che si possono confrontare solo con qualche difficoltà. Tenendo in conto questi limiti è possibile costruire parallelismi, i quali tutti però non devono prevaricare per le predette ragioni la littera: in altri termini è probo constatare che nel xxvi dell’Inferno una guida persuade con un argomento vero – ingannandoli – i suoi marinai ad intraprendere un viaggio non consentito; qui una guida, Dante-poeta, allerta chi lo segue ed ha desiderio di seguirlo di verificare la tenuta della propria barca-capacità intellettuali prima di mettersi in via. Lì Ulisse ignora dove il suo viaggio lo porterà e cosa gli farà conoscere, qui la rotta è ben segnata dalla scienza e dalla poesia. Insomma, a noi non pare probo concludere, come pure talora s’è concluso, che se il viaggio di Ulisse è «folle» perché è fatto contro la volontà degli dèi e senza la Grazia, quello di Dante è fatto con la Grazia. Non è probo primo perché il passo dell’Inferno è una narrazione che si può, ma si può anche non allegorizzare, mentre qui è un semplice traslato, «aqua», per altro chiarito nell’immediato da «cantando», e a distanza dall’incipit del Purgatorio, e dunque non bisognevole di sovrastrutture interpretative. In secondo luogo Ulisse fa parte della narrazione, qui Dante si pone fuori della narrazione: qui si presenta come autore, cioè «degno di fede e di obedienza» – secondo la definizione di Uguccione da Pisa – e, dunque, a ribadire «persona degna d’essere creduta e obedita». In fine né qui né lì si parla nella lettera di Grazia; e pertanto, se un parallelo si deve fare, sarà: che Ulisse parte temerariamente perché non sa cosa l’aspetti, spinto dal mero desiderio di sapere, o curiositas, invece il poeta (ed i lettori con lui) affronta il suo itinerario con guide fidate e strumenti intellettuali affinati. Ciò che a noi pare rilevante è che Dante si presenti appunto come autore, dichiarando innanzi tutto di essere cosciente della difficoltà del viaggio e manifestando il pieno possesso di una materia estremamente complessa; insomma, quale che sia l’origine della sua scienza, essa passa attraverso il poeta. Tale previdenza, tale conoscenza dell’itinerario da percorrere, si concretizza nella figura di Giasone, il cui viaggio giunge alla meta prefissa, benché anche per lui si trattava di affrontare un’impresa prima mai tentata. Non è un caso che Giasone apra e chiuda il Paradiso dantesco. Al possesso della materia del suo poema si perviene attraverso la lettura delle cantiche precedenti e una frequentazione diuturna del «pane degli an- 24 Del nomar parean tutti contenti geli». Questa espressione è di derivazione biblica: nel Salmo 77, 25 Davide ricorda come il Signore abbia soccorso l’affamato popolo d’Israele facendo piovere dal cielo la manna «panem angelorum», che Sant’Agostino interpretava come nutrimento spirituale. Anche Sapienza 16,20, confrontando il dio degli Ebrei con quello degli Egiziani, ricorda la pioggia di manna. Il termine «pane» ricorre poi nel Vangelo, nell’ultima cena, allorché il Cristo dice il pane essere il suo corpo. Le due interpretazioni naturalmente non sono affatto contrastanti, anzi più spesso si fondono e si arricchiscono a vicenda. I commentatori danteschi nella maggior parte insistono su un’interpretazione sapienziale: così l’Ottimo interpreta «contemplare Idio»; Pietro Alighieri: «ad Deum et ad scientiam ejus, scilicet theologiam»; Alessandro Vellutello: «il qual è solamente la vision di Dio»; Bernardino Daniello: «contemplatione del sommo bene». Passando ai più recenti, Luigi Pietrobono: «scienza delle verità divine», sulla stessa linea il Momigliano, il Porena, il Mattalia, lo stesso Chimenz, il Singleton e Hollander. Nel dotto articolo dell’Enciclopedia Dantesca Attilio Mellone, basandosi sui rinvii che nelle cantiche precedenti si fanno a Beatrice per una chiara spiegazione di alcune verità, interpretava il «pane degli angeli» come «comprensione intellettuale» delle verità di fede e, poiché la comprensione intellettuale delle verità di fede è operazione propria della teologia speculativa – di quella modalità di indagine che era propria della scolastica di S. Tommaso – Dante finirebbe per richiedere dai suoi lettori la frequenza con la Scolastica: «Vede nell’ignoranza della teologia scolastica la piccioletta barca insufficiente a trasportare i suoi seguaci per la terza cantica». Rimarrebbe da spiegare poi il verso seguente che afferma che del «pane degli angeli » si vive sulla terra, ma non si giunge mai a saziarsi: sarebbe un’esaltazione della Scolastica quale mai s’era né si vedrà per secoli, giacché Dante affermerebbe che la intera vita terrena è alimentata dalla Scolastica. Bruno Nardi ebbe a chiarire cosa debba intendersi per «pane degli angeli»: questo sarebbe la verità eterna che «raggia» nelle intelligenze angeliche. Ora, gli angeli guardano perennemente Dio per cui il loro desiderio di sapere è immediatamente soddisfatto; a differenza di quel che avviene negli uomini che hanno il medesimo desiderio di sapere e che tendono alla medesima verità, ma che acquisiscono con il procedimento razionale parte della verità e quindi né immediatamente né interamente. Con questi limiti: «verità di ragione e verità di fede hanno, per Dante, la stessa comune origine, la Sapienza divina». Il Nardi postillava l’occorrenza di «pane degli angeli» in Conv. i, i, 7: proprio quel passo è secondo noi più illuminante di quanto il dotto L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 25 studioso non stimasse e, comunque, quel passo ci pare cada in proposito ad illustrare i versi del ii del Paradiso. Lì infatti il poeta ricordava quanto siano pochi quelli che siedono alla mensa dove si mangia il «pane degli angeli»: quei pochi sono beati; gli altri, i più, si pascono del cibo delle bestie. Di fronte a tanta miseria egli sentiva il dovere di sovvenire gli uomini afflitti da tanta miseria epperciò, benché egli stesso non sedesse coi «pochi», trasmetteva loro le «briciole», che, cadute da quelli, «a poco a poco» aveva raccolto. Proprio con queste briciole del «pane degli angeli» egli aveva imbandito un banchetto, «un generale convivio» a cui chiamava gli uomini di buon animo. In quel passo, insomma, veniva stabilito un percorso sufficientemente chiaro che partendo dagli angeli, il «pane degli angeli», passa ai pochi che se ne nutrono; e passa a lui che ne raccoglie le briciole e le distribuisce, «la … vivanda col pane», dopo averla ordinata in quattordici libri, nei quali il «pane» mostrerà tutta la bellezza delle canzoni-vivanda. Quale sia la natura di questo pane, in che cosa, insomma, consista è facile verificare negli argomenti dei quattro trattati rimastici. Tirando brevemente le somme si potrà dire che se nel Convivio Dante offre le briciole del «pane degli angeli», non esiste nessuna sostanziale differenza tra la sapienza degli angeli e quella che Dante appronta nel suo banchetto. In questa prospettiva l’affermazione sulla soglia del Paradiso vale ad affermare, o riaffermare, l’unicità del sapere: nessuna soluzione di continuità tra filosofia e teologia, ma nessuna anche tra sapere terreno e sapere celeste, e nessuna, infine, tra sapere pagano e sapere cristiano. Il viaggio di Dante non è viaggio della ragione verso la trascendenza, ma verso la ricostruzione dell’unità del sapere, verso il ristabilimento dell’intera attuazione delle potenzialità della ragione. E, dunque, della «beatitudo huius vite». 12 — Il verso eredita una delle più lunghe meditazioni dantesche. E delle più travagliate vuoi perché il Poeta torna più volte sul concetto, vuoi perché i vari passi del Convivio, della Monarchia, in cui viene espresso e si affina sono stati variamente interpretati. Non è nostra intenzione qui proporre una nostra soluzione, anche perché una gran parte della problematica critica sorta attorno alla possibilità o impossibilità per l’uomo di giungere, sulla terra, alla perfezione della sapienza, e di conseguenza alla beatitudine è ruotata attorno alla dipendenza o meno del pensiero dantesco da quello di san Tommaso. Il qual problema non è irrilevante; ma qui a noi interessa cogliere l’intenzione dell’autore e fissare nei limiti del possibile dei punti fermi. 26 Del nomar parean tutti contenti Intanto a noi pare di aver chiarito che il «pane degli angeli» è il sapere, il sapere in generale, il sapere unico del quale sono in possesso, in diversa misura naturalmente e in diverso modo, gli uomini e gli angeli. Di questo sapere, di questa scientia o phylosophia, Dante nel verso in oggetto dice che si vive sulla terra. In questa affermazione ricorre il concetto espresso nel iv trattato del Convivio, cap. vii: Sì come dice Aristotile nel secondo de l’Anima, «vivere è l’essere de li viventi»; e per ciò che vivere è per molti modi (sì come ne le piante vegetare, ne li animali vegetare e sentire e muovere, ne li uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero intelligere), e le cose si deono denominare da la più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali è sentire – animali, dico, bruti –, vivere ne l’uomo è ragione usare. L’idea è connessa all’altra, altrettanto aristotelica, e altrettanto facile, per dir così, che tutti gli uomini desiderano naturalmente sapere. Il terzo trattato aveva affrontato il problema se tale desiderio può essere soddisfatto sulla terra, dopo il peccato originale (iii, xv, 6-10). Allora Dante aveva risposto che la natura fa sì che non si possa desiderare ciò che non è possibile conseguire, sì che il desiderio proporzionato può, anzi deve essere soddisfatto: il discorso riguardava la possibilità di conoscere Dio; ora nel ii canto del Paradiso il poeta afferma con determinazione che se è pur vero che sulla terra la vita dell’uomo coincide con l’uso della ragione, è altrettanto vero che non è possibile giungere alla piena soddisfazione del desiderio di sapere: «ma non sen vien satollo»: il discorso attiene alla vastità delle cose da sapere. Al riguardo occorrerà rifarsi a Monarchia i, iii, 7-8 dove il poeta aveva ricordato che la natura dell’intelletto umano richiedeva che ci fosse una gran moltitudine di uomini perché fosse possibile attuare l’intellectus possibilis, individualmente gli intelletti umani non erano continuativamente in atto: Patet igitur quod ultimum de potentia ipsius humanitatis est potentia sive virtus intellectiva. Et quia potentia ista per unum hominem seu per aliquam particularium comunitatum superius distinctarum tota simul in actu reduci non potest, necesse et multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia hec actuetur; sicut necesse est multitudinem rerum generabilium ut potentia tota materie prime semper sub actu sit: aliter esse potentiam separatam, quod est inpossibile. Le particolari comunità qui alluse sono «nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particulare pertingere L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 27 potest»(Mon., i, iii, 4). Tal che nessun individuo può giungere al possesso totale della scienza nell’arco della sua vita, benché per tutta la vita rimanga proteso all’acquisizione di nuovo sapere. Nel delineare le condizioni dell’accessus al Convivio Dante aveva sottolineato la necessità di certa purezza di spirito, ed aveva diffidato i maliziosi di spirito dall’avvicinarsi alla lettura dell’opera. Un simile divieto, per così dire etico, sarebbe stato opportuno per la terza cantica, anzi sarebbe stata non incongrua la richiesta d’una attestazione di fede e di moralità, di una vita contemplativa ed attiva tali da gustare pienamente la visione del regno dei cieli. Qui, nel verso 12, pare la vita attiva non esista, come non esiste la contemplazione mistica: naturalmente non è possibile pensare che per il Dante della Comedia la vita attiva e fede siano irrilevanti. Per converso non è senza significato che alle soglie del Paradiso il poeta riaffermi ai lettori dotti la fontalità della ragione nella definizione della vita umana, nonostante il limite connaturato all’uomo ad appropriarsi di tutto il sapere. Ricorderemo che il limite è sempre presente in Dante: dopo la caduta di Eva l’uomo ha conservato «quasi» tutta la potenza dell’intelletto. Ciò non ostante, l’intelletto è pur sempre la parte più nobile dell’uomo e, sempre, la vita speculativa è superiore alla vita attiva. Inserito nel contesto dell’appello al lettore la riaffermazione della equivalenza vita-sapere implicava alcune conseguenze di non secondario interesse: una prima l’affermazione della propria superiorità d’autore in quanto phylosophus; una seconda è il valore etico della filosofia e del sapere – intesi nella totalità che abbiamo cercato di illustrare –. Naturalmente qui non si dice che etico è solo ciò che si riduce alla scienza: si dice che l’attività intellettuale e dell’intellettuale, poiché attua il disegno di Dio per la «beatitudo huius vite», è di per sé un fatto etico e poiché il sapere non può essere patrimonio del singolo, ma dell’intera umanità, l’attività dell’intellettuale è fatto politico. Non doveva essere ancora trascorso il trentennio da quando Stefano Tempier aveva condannato tra le altre tesi aristoteliche che vi si sostenevano nell’Università di Parigi quelle che facevano coincidere la sapienza con la virtù. In particolare era stata condannata la tesi secondo la quale il «philosophus naturaliter bonus est». Il ms. Lat. Paris B.N. 14698 (fol. 130r a) recita: …viri philosophici et dantes se studio et contemplationi sint naturaliter virtuosi, utpote casti et temperati, fortes et liberales, mansueti et magnanimi, magnifici et 28 Del nomar parean tutti contenti legibus oboedientes, et delectationes non prosequentes…1 E Boezio di Dacia, averroista, nel De summo bono enunciava la doppia valenza etica della filosofia di «cognitio veri» e «operatio boni»: Est enim philosophus virtuosus moraliter loquendo propter tria: unum est, quod ipse cognoscit turpitudinem actionis, in qua consistit vitium, et nobilitatem actionis, in qua consistit virtus. Ideo felicius potest eligere unum istorum et vitare reliquum et semper agere secundum rectam rationem. Qui sic agit numquam peccat. Hoc autem non contigit ignoranti. Nam ignorantem grave est recte agere. Secundum est, quia, qui gustavit delectationem maiorem, spernit omnem delectationem mínorem. Philosophus autem delectationem intellectualem gustavit... spernit delectationes sensibiles […] Tertium est, quia in intelligendo et speculando non est peccatum. 2 Certa prevalenza dell’intelletto sulla volontà è presente anche in san Tommaso, ma il suo intelletto si connotava piuttosto come capacità di discernimento tra ciò che è bene e ciò che sembra un bene. Nel ms. Paris 14698 come in Boezio di Dacia l’intelligere si configura come scienza, come phylosophia: quale appunto si configura in Dante. Non è nelle intenzioni del nostro discorso né aprire né – e tanto più – dirimere discussioni sulle ascendenze del pensiero dantesco. Perché la dimensione razionalista, vuoi averroisticheggiante, vuoi tomistica, fu comunque assai breve e ristretta parentesi a petto di un volontarismo tutto sommato connaturato al pensiero ebraico e cristiano per il quale il comportamento individuale e collettivo era regolato dall’obbedienza alla legge, ad una legge dettata dall’alto a petto della quale ben poco valeva una ragione resa debole dal peccato originale e contrastata da una natura umana volta al male. Fattosi strada durante gli ultimi decenni del Duecento nell’agostinismo, l’aristotelismo doveva essere rapidamente sommerso dal francescanesimo di Duns Scoto per il quale la volontà non può essere dominata dalla ragione. Ciò che a noi preme di sottolineare è la riaffermazione della dimensione razionalistica e filosofica, laicamente sapienziale oseremmo dire, entro la quale Dante autore colloca la sua terza cantica alla fruizione della quale egli non 1 In R.A. Gauthier, Trois commentaires ‘averroistes’ sur l’Etbique à Nicomaque, «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 1947-48, p. 226. 2 In M. Grabmann, Mittelalterliches Geistesleben, Munchen, 1936, v. ii, pp. 213 (24-29)214 (1-8). L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 29 può non chiamare se non coloro che abbiano da tempo frequentato le scuole dei filosofanti. E preme sottolineare la valenza etica e politica della scienza che conferisce a quel «vivesi qui» non soltanto il significato di una teorica attuazione della natura razionale dell’uomo, ma quella di una quotidiana prassi comportamentale. In questa dimensione anche le parti della Comedia più strettamente dottrinali, come la questione delle macchie lunari, diventano etiche e politiche. 16-18 — Dietro il ritratto che di Giasone Dante traccia nell’Inferno (Inf., xviii, 83-96) c’è la tradizione che risale a Ovidio per il quale l’eroe greco è «mobilis Aesonide verna que incertior aura» (Her., vi, 105), «inmemor Aesonides» (Her, xii, 117), «fallax Iason» (Her, xvii, 228). Nelle Metamorfosi il generale atto d’accusa che Medea gli rivolge viene circostanziato con fatti, tal che il lamento della maga spesso si fa narrazione. Di tale narrazione a noi interessa il momento in cui Giasone, in grazia delle erbe magiche, doma i tori e li costringe ad arare il campo dove poi seminerà i denti del dragone. È a quest’episodio che i versi danteschi in questione fanno riferimento. Raccontandolo per bocca di Medea, Ovidio riporta lo stupore che manifestarono i Colchi, gli abitanti cioè della terra che custodiva il vello, e gli incoraggiamenti dei compagni quando Giasone ara e sparge i denti di vipera: …subit ille nec illos sensit anhelantes (tantum medicamina possunt) pendula que audaci mulcet palearia dextra suppositos que iugo pondus grave cogit aratri ducere et insuetum ferro proscindere campum. Mirantur Colchi, Minyae clamoribus augent adiciuntque animos. Galea tum sumit aena vipereos dentes et aratos spargit in agros. (115-122 ) Dante interviene sul racconto ovidiano: evidentemente non tiene conto del contesto generale del discorso di Medea e ignora volutamente l’inciso «tantum medicamina possunt» che avrebbe sminuito la gloria dell’impresa giasoniana. L’ammirazione per la situazione in cui si trova Giasone viene da Dante – diversamente da Ovidio – riferita agli Argonauti. Il testo ovidiano parla dei Colchi, abitanti di quella estrema regione, i quali si meravigliano, «mirantur», che, domati per la prima volta i tori dagli zoccoli di bronzo, Giasone ari e semini i denti di serpente. Insieme ad essi i compagni, 30 Del nomar parean tutti contenti «Myniae» o «Minyae», l’incoraggiano, «augent adiciuntque animos», perché a Giasone restano da affrontare altri non meno rischiosi ostacoli prima di giungere alla meta. Dell’intero atto d’accusa rivolto dalla Medea ovidiana a Giasone viene, dunque, nei versi danteschi, evidenziato e reso paradigmatico un particolare tutto sommato trascurabile: insomma è lo stupore dei compagni dell’eroe, la loro meraviglia che diviene antonomastica, sì da fare da paradigma alla meraviglia che i lettori proveranno alla lettura della cantica. In questa funzione antonomastica si rinviene usata nell’Ameto boccacciano. Qui Ameto, nel cap. 44, viene da Agapes messo in grado di guardare Venere; finalmente, pervaso da amore, volge lo sguardo alla dea: «né altrimenti, quella ineffabile bellezza mirando, ebbe ammirazione che gli achivi compagni, veduto bifolco divenuto Giasone». Di fronte alla bellezza lo stupore provato da Ameto è il medesimo di quello provato dai compagni di Giasone in una situazione opposta. Boccaccio puntualizza i «glorïosi che passaro al Colco» danteschi in «achivi». Non siamo stati in grado di reperire altre presenze della meraviglia degli Argonauti; ci pare, tuttavia, che l’Alighieri possa essere suggestionato dalle versioni volgari della storia di Troia, nelle quali viene esaltata la nobiltà dell’eroe che per desiderio di gloria accetta le condizioni postegli dallo zio; che arditamente progetta la prima impresa marina; che sin da prima della costruzione della nave è circondato dall’ammirazione e dalla fama. Si veda il Roman de Troie en prose pubblicato da L. Constans ed E. Faral. Qui Giasone è detto: «fu de mout grant beauté et de grant force et gracïeus sus toutes creatures, par quoi sa renomee corroit par tous les païs de Grece et par mains autres»(5).3 E quando lo zio lo manda nella Colchide a conquistare il vello d’oro – in realtà per allontanarlo dal potere – Giasone risponde: «Sire, …, je voi bien que mon henour amés sur toutes choses et que grant chose m’avés promise. Veez moi tout prest de l’aler a vostre servise, quar endroit de moi je n’ai cure de grant demorance faire, et, se Dieu plaist, je acheverai la besoigne» (8). L’impresa di Giasone parve subito degna di ogni più grande eroe: tant’è che «La novele fu tantost espandue par tout de la nef que Pelleüs faisoit faire, ou Jason devoit aler querre le Toison. Dont il avint que tuit les 3 Così nella traduzione del De excidio Troiae di Darete Frigio. «Iason ubi audivit, ut erat animi fortissimi et qui loca omnia nosse volebat et quod clariorem se existimabat futurum, si pellem inauratam Colchis abstulisset, dicit Peliae regi se eo velle ire, si vires socii que non deessent» ed. a c. di F. Meister, Stuggart-Lipsia, Teubner 1873, p. 2. L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 31 plus prisiez bachelierz dou païs s’en vondrent offrir a Jason, et il les mercia mout et leur devisa le terme que il fussent prest et apareilliez». Giunto nella Colchide, aiutato dalle arti di Medea, Giasone – si badi – porta a termine la conquista del vello ed è allora che si manifesta la meraviglia: «vint a la rive, et Hercullès et ses compaignons l’en menerent a grant joie et a grant compaignie dedens la ville. Tout li haut home du païs et le menu peuple estoit venus por la merveille regarder, qui leur sembloit mout grant e mout estrange». Dunque, non allo stadio intermedio dell’aggiogamento dei tori quando tutt’al più passa negli astanti un brivido di paura: «nus hons vivans ne le poroit esgarder que toute paour n’en eüst» (23).4 Nella traduzione-riscrittura fiorentina pubblicata da A. Schiaffini nei Testi fiorentini del Dugento la dimensione solidaristica è assai meno presente; l’ammirazione degli amici e degli abitanti del luogo per Giasone viene sinteticamente – ma non con minore importanza ai nostri fini – attribuita a «lla gente tutta». Nel vedere Giasone che ha già conquistato il vello e, dunque, anche qui completato la sua impresa: «Di ciò si maravigliò molto il re e lla gente tutta, e ben si pensò il re che avea dato alchuno aiuto la filgliuola».5 La meraviglia dei compagni – e non poteva essere che la loro – è determinata dal fatto che il nobile e bel Giasone ora faceva il contadino. Conta nei versi danteschi come nel passo boccacciano la grandezza della meraviglia; e nell’uno e nell’altro caso meraviglia di fronte alla bellezza straordinaria dell’oggetto che la desta. Insomma qui il parallelo è tra i «glorïosi che passaro al Colco» e i lettori della cantica; non ci pare probo istituire un parallelo tra Dante e Giasone «bifolco» che implicherebbe una contraddizione tra quanto ha sinora affermato di sé poeta e guida della sua opera nuova. Benché sia più accettabile ed in parte condivisibile il parallelo generico tra Dante e Giasone, entrambi impegnati in un’impresa inedita, a noi pare che una lettura più puntata sui lettori sia semplice e coerente. Quei lettori che per tempo si erano nutriti del «pane degli angeli», benché già ricchi di sapienza – come i compagni di Giasone erano di per sé degli eroi carichi di gloria –, 4 Champion, Paris, 1922. Nessun cenno fa Benoît de Saint-Maure nel Roman de Troie (a c. di L. Constans, Paris, Didot, 1904) che così narra l’intero episodio dei tori: «Vers les bues ala maintenant Tres par mi le grant feu ardant. Sempres fu toz sis escuz, Mais il ne fu mie esperduz: La gluz es boches espandi, Onques puis flambe n’en eissi; Lor vertu ne monta puis guaire. Quatre reies lor a fait faire, Si com li ot dit Medea; Mais onc nel vit, bien s’en guarda; Onques n’i osa esguarder: Ne voleit mie trespasser Ço que li aveit dit s’amie, Quar il feïst mout grant folie. Quant ço ot fait, delivrement Ala requerre le serpent» (vv. 1901-1916). 5 Sansoni, Firenze, 1954, p. 156. 32 Del nomar parean tutti contenti tuttavia avranno modo di restare stupiti quando avranno seguito «il solco» del poeta attraverso l’alto mare e saranno giunti in porto. Ed il loro stupore non sarà inferiore a quello degli argonauti che si trovarono di fronte ad una situazione del tutto inattesa; così come sarà inatteso il paesaggio sapienziale che si aprirà davanti ai loro occhi. 19-26 — Viene ripresa dal i canto l’idea della naturalità dell’ascesa al Paradiso: quel che a noi pare da sottolineare è che tanto nell’uno quanto nell’altro caso il poeta inserisca la vicenda del pellegrino non all’interno di un particolare individuale privilegio, ma in una legge generale ed universale che riguarda l’intero universo: Ne l’ordine ch’io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, più al principio loro e men vicine [Par., i, 109-111]. Qui in particolare Dante fa riferimento ad una «sete» insita nella natura umana e «perpetua» che porta l’uomo in alto verso Dio. La naturalità del desiderio della beatitudine è concetto largamente diffuso nella Scolastica, tanto che si discuteva se l’uomo potesse conseguire la felicità eterna per il semplice fatto che Dio ha reso connaturale all’anima umana, ha per così dire concreato all’uomo, il desiderio della beatitudine del Paradiso: Videtur quod aliquis sine gratia possit mereri vitam aeternam. Illud enim homo a Deo meretur ad quod divinitus ordinatur, sicut dictum est. Sed homo secundum suam naturam ordinatur ad beatitudinem sicut ad finem, unde etiam naturaliter appetit esse beatus. Ergo homo per sua naturalia, absque gratia, mereri potest beatitudinem, quae est vita aeterna.6 La risposta di Tommaso puntava su una norma generale: nessun atto può essere ordinato ad un fine che lo trascende: dunque sempre è necessaria la grazia all’uomo per giungere al Paradiso che lo trascende. Nel caso specifico poi distingueva due fasi della storia dell’uomo: una, antecedente al peccato originale, nella quale l’aspirazione al Paradiso, supportata dalla concessione apriori della grazia, sarebbe bastata al suo conseguimento; ed una fase successiva al peccato, nella quale solo il dono gratuito di Dio può superare il 6 Tommaso, Summa, i-ii, q. 114, a. 2. L. Sebastio Etica filosofica ed etica della filosofia nel ii canto del «Paradiso» 33 doppio ostacolo costituito da quel principio generale e dal peccato. Con ciò Tommaso correggeva quanto aveva scritto nel commento all’Etica i, i, 1094 a 19-22 nel quale sembrava ritenere sufficiente l’innata aspirazione, appunto perché voluta da Dio: …desiderium est naturale: …quod bonum est, quod naturaliter omnia desiderant. Ergo sequitur, quod naturale desiderium sit inane et vacuum. Sed hoc est impossibile. Quia naturale desiderium nihil est aliud quam inclinatio inhaerens rebus ex ordinatione primi moventis, quae non potest frustrari. I versi danteschi in questione non fanno cenno alla grazia: dicono solo della sete che è «concreata» e «perpetua». Vero è che il viaggio tutto di Dante è determinato dalle tre donne – la Vergine, santa Lucia, Beatrice – che vengono interpretate come tre forme della grazia divina: preveniente, illuminante, operante; tal che basterebbe la presenza stessa della donna a collocare il discorso dantesco nell’alveo tomistico. Una simile interpretazione sembra non rendere a pieno giustizia della lettera del testo, e ignora la disposizione su piani diversi degli elementi che possono essere chiamati in gioco. Insomma se altrove Beatrice è investita di un ruolo non è detto che quel ruolo abbia qui la pregnanza che il pensiero teologico agostiniano o tomistico disegnava. Nella vicenda della Comedia Beatrice è scala che porta a Dio; Beatrice è colei che Dante vede «in sul sinistro fianco… rivolta e riguardar nel sole» (Par., i, 46-47); ella è colei che guarda «in suso», là dove il pellegrino non può ancora guardare: fissa il suo sguardo in lei. Dunque la donna fa da mediatrice tra la verità e le capacità – ancora umane – di comprensione di Dante; ella fa da mediatrice di conoscenza: si può in sintesi affermare che Beatrice è certamente scala alla beatitudine, a patto che si tenga ben presente che la beatitudine si radica nella conoscenza: «essentia beatitudinis in actu intellectus consistit».7 L’assenza, o lo spostamento in secondo piano, della grazia qui, in questo primo approccio al regno dei cieli, vuoi come connotazione di Beatrice – in vero frutto dell’interpretazione di pur autorevoli lettori –, vuoi esplicitata in forme e immagini che la tradizione letteraria conosceva, lascia aperto il campo ad una dimensione più umanamente razionale della «sete», e di conseguenza alla possibilità di un approccio filosofico, aristotelico-tolemaico, 7 Tommaso, Summa, i-ii, q. 3, a. 4. 34 Del nomar parean tutti contenti al percorso nel Regno dei Cieli. Intanto veniva affermata, a mo’ di chiusura del Medioevo, la dignità dell’uomo la cui naturale sete di sapere diviene un mezzo, se non il mezzo, privilegiato per la salvezza. Lo ribadirà tra breve quando sottolineerà che il desiderio di vedere e di capire dovrebbe stimolare gli uomini a guadagnarsi il Paradiso (ii, 40-42). Abbiamo più su sottolineato che indubbiamente l’idea che la beatitudine consista nel sapere è di origine laica, ma i contenuti del sapere non è detto che siano laici, anzi. Quello che conta è che causa e fine della salvezza – cristiana – sia la scienza, sia l’attività razionale – dono di Dio – dell’uomo. I comportamenti improntati alle virtù cardinali stanno alla scienza nel medesimo rapporto in cui la vita pratica sta alla vita speculativa. Era certamente il frutto della sintesi dell’aristotelismo laico e scolastico; tuttavia ciò che rileva è quello che Dante, primo, fa e cioè: attribuisce al sapere (a tutto il sapere: non solo quello etico, né solo quello metafisico) un valore etico; si stabilisce – attraverso il controllo della volontà da parte della ragione – la primazia del sapere nell’agire umano, con tutto ciò che questo comportava nel ruolo della cultura e dell’intellettuale nella società. I tempi in cui sulle lapidi si incideva «vir bonus quamquam litteratus» non sono lontani: a petto della religione dell’umiltà, dell’ingenuità, Dante dignificava la scienza, ne additava la capacità salvifiche e riconciliava, o tentava di riconciliare, il sapere con la religione, riconciliava, o tentava di riconciliare, la civiltà classica con quella cristiana. Università degli Studi “Aldo Moro” - Bari Alberto Granese CORPUS GLORIOSUM: DANTE, «PARADISO» XIV Il decimoquarto del Paradiso non presenta varianti sostanziali di rilievo, tali che possano determinare significative differenze di senso; pertanto, il testo seguìto, dell’ormai discussa edizione Petrocchi, potrebbe essere – vista la quasi concordia delle lectiones (relativamente a questo canto) – non molto lontano dal perduto archetipo.1 1 Se si confronta, infatti, il testo della Petrocchi (1966-1967), «secondo l’antica vulgata», con un’edizione recente, come la Sanguineti (Dantis Alagherii, Comedia, edizione critica per cura di Federico Sanguineti, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2001, seguita da un’Appendice bibliografica 1988-2000, ivi, 2005), si può constatare che – almeno per quanto riguarda il xiv canto – le varianti sono tali da non produrre sostanziali differenze di senso. Se ne registrano, per offrire un esempio della loro ininfluenza semantica, solo alcune, tenuto conto che anche per le altre lo scarto variantistico è dello stesso tenore: v. 2: ritondo (Petrocchi), rotondo (Sanguineti); v. 3: fuori (Petrocchi), fòri (Sanguineti); v. 15: etternalmente (Petrocchi), eternalmente (Sanguineti); v. 18: porà (Petrocchi), potrà (Sanguineti); v. 21: rallegrano (Petrocchi), ralegrano (Sanguineti); v. 27: etterna ploia (Petrocchi), santa ploia (Sanguineti); v. 28: Quell’uno (Petrocchi), Qello uno (Sanguineti); v. 30: circunscritto (Petrocchi), circoscritto (Sanguineti); v. 42: quant’ha (Petrocchi), quanto à (Sanguineti); v. 42: sovra (Petrocchi), sopra (Sanguineti); v. 55: folgόr (Petrocchi), fulgόr (Sanguineti). L’unica variante sensibile è forse nel v. 40: séguita (Petrocchi), seguirà (Sanguineti); Sanguineti stesso – nell’Appendice bibliografica, cit., in particolare, nelle «Chiose a luoghi puntuali» del Capitulum xiv (pp. 380-82: a p. 380) –, all’altezza del v. 40, annota: «Petrocchi legge séguita. Ma a norma di stemma (v. app.) si ha seguirà, var. con “buona base testimoniale”, come ammette Petrocchi stesso». Nei circa venti testimoni di area settentrionale, inoltre, indagati da Paolo Trovato, successivamente all’edizione Sanguineti, per il canto xiv del Paradiso non emergono altre varianti rispetto a quelle già segnalate (cfr. Paolo Trovato, Fuori dall’antica vulgata. Nuove prospettive sulla tradizione della «Commedia», in Nuove prospettive sulla tradizione della «Commedia». Una guida filologico-linguistica del poema dantesco, Firenze, F. Cesati, 2007, pp. 669-715). L’autore, partendo da un’indicazione del Barbi [1938] («[…] importa vedere se, oltre le due famiglie di codici che si sono profilate sinora […] esista qualche tradizione indipendente da loro»), esplora testimoni non presi finora in considerazione, sostenendo che l’ipotesi di lavoro del Petrocchi «della maggiore genuinità testuale dell’antica vulgata non regge al confronto dei dati codicologici, filologici e linguistici oggi disponibili». Pertanto, secondo Trovato, l’edizione del 1966-67, allestita sulla base di un campione della più antica tradizione superstite (con apparato comunque prezioso), «è piuttosto 36 Del nomar parean tutti contenti Il xiv è un canto che conclude i precedenti, dedicati al cielo del Sole, e apre i canti del cielo di Marte; chiude, quindi, un blocco di canti, iniziato con il decimo. La divisione tra due cieli (Sole e Marte) potrebbe dare l’impressione di una sua frattura strutturale; ma, in realtà, è un canto assolutamente unitario; anzi, rivela una duplice unità: interna, tra la prima e la seconda parte; esterna, con gli altri quattro che lo precedono, a cominciare dal decimo, che segna proprio l’entrata nel cielo del Sole.2 distante dall’archetipo della Commedia che oggi è possibile intravedere»; certo, anch’esso perfettibile, ma «ricostruibile con sufficiente approssimazione grazie all’apporto decisivo dei recentiores settentrionali (tra i più antichi, R, almeno in parte anteriore al 1347»(p. 712). Segnala una copia della Commedia, da Jacopo Alighieri trascritta sette mesi dopo la morte di Dante (14 settembre 1321), perché inviata a Guido Novello da Polenta nella primavera 1322: forse la prima, tratta dall’originale del poeta, purtroppo perduto. Fatto riferimento alle conclusioni di Trovato, dalla puntuale ricerca da lui condotta non vengono alla luce varianti del canto xiv del Paradiso; così pure, dall’edizione Sanguineti, particolarmente accreditata dallo stesso Trovato, non sono emersi varianti decisive dalla Petrocchi. Di qui la scelta di ‘leggere’ il testo del canto xiv in questa edizione (rist., Torino, Einaudi, 1977, pp. 333-336), anche per la sua ormai consolidata incidenza sulla cultura letteraria, a partire dalla seconda metà del secolo scorso. 2 Su questo aspetto concordano quasi tutte le Lecturae Dantis, tra cui cfr. Carlo Steiner, Il canto xiv del Paradiso [Firenze 1912], ora in Letture dantesche, a c. di Giovanni Getto, Firenze, Sansoni, 1964, iii. Paradiso, pp. 1627-1642; Ettore Bonora, Struttura e linguaggio nel xiv del Paradiso, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 1969, pp. 1-17, poi in Interpretazioni dantesche, Modena, Mucchi, 1988, pp. 181-201; Giovanni Fallani, Il canto xiv del ‘Paradiso’, in Nuove Letture Dantesche, Roma-Firenze, Casa di Dante-Le Monnier, 1973, vi, pp. 147-162; Umberto Bosco, Domesticità del «Paradiso» (lettura del xiv canto) [1973], in Altre pagine dantesche, Caltanisetta-Roma, Sciascia, 1987, pp. 239-262; Peter Dronke, «Orizzonte che rischiari». Notes toward the Interpretation of «Paradiso» xiv, in «Romance Philology», 1975-1976, pp. 1-19; Gabriele Muresu, La «gloria della carne»: disfacimento e trasfigurazione («Par.» xiv), in «La Rassegna della letteratura italiana», 1987 [1988], pp. 253-268, poi in I ladri di Malebolge. Saggi di semantica dantesca, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 153-175; Enzo Esposito, Il canto xiv del «Paradiso», in Paradiso. Letture degli anni 1979-’81, Roma, Bonacci, 1989, pp. 381-395; Luigi Blasucci, Discorso teologico e visione sensibile nel canto xiv del ‘Paradiso’, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1991, pp. 5-19; Marco Ariani, ‘Abyssus luminis’: Dante e la veste di luce, in «Rivista di letteratura italiana», 1993, pp. 9-71; Alfredo Cottignoli, «Dal centro al cerchio» (‘Paradiso’xiv), in Il dominio della poesia. Intertestualità antiche e moderne, Ravenna, Longo, 1998, pp. 2740; Francesco D’Episcopo, Canto xiv, in Lectura Dantis Neapolitana. Paradiso, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 299-308; Carlo Sini, Canti xiii-xiv. Salomone e il cielo della luce, in Esperimenti danteschi. Paradiso 2010, a c. di Tommaso Montorfano, Genova-Milano, Marietti, 2010, pp. 157-168; Giulio Ferroni, «Forse non pur per lor, ma per le mamme»: lettura di «Paradiso» xiv, in Studi di letteratura italiana in onore di Claudio Scarpati, a c. di Eraldo Bellini, Maria Teresa Girardi, Umberto Motta, Milano, Vita e Pensiero, 2010, pp. 105-123. A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 37 Tra x e xiv i richiami sono molteplici. Anzitutto, il motivo trinitario, ripreso in una fondamentale terzina del decimoquarto, ma già presente nei tre versi incipitari del decimo: Guardando nel suo Figlio con l’Amore che l’uno e l’altro etternalmente spira, lo primo e ineffabile Valore […].3 Essendo le anime beate avvolte da un intenso fulgore, nettamente visibile sullo sfondo illuminato del cielo del Sole – in stretta relazione e analogia con la sua dimensione teologica, poiché la luminosità degli Spiriti Sapienti è manifestazione sensibile della loro beatitudine eterna – , ripreso dal decimo sarà anche il tema della luce: Quant’esser convenia da sé lucente quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi, non per color, ma per lume parvente!4 Sempre nel decimo sono già i motivi della gratitudine di Dante a Dio e dello splendore degli occhi di Beatrice, momentaneamente dimenticati: Cor di mortal non fu mai sí digesto a divozione e a rendersi a Dio con tutto ’l suo gradir cotanto presto, come a quelle parole mi fec’io; e sí tutto ’l mio amore in lui si mise, che Bëatrice eclissò ne l’oblio. 3 Par. x, 1-3. Più avanti (50-51): «de l’alto Padre, che sempre la sazia, / mostrando come spira e come figlia» (Dio appaga sempre i desideri [degli Spiriti Sapienti del cielo del Sole, il quarto], rivelando come il Padre genera il Figlio e come dall’uno e dall’altro proceda lo Spirito Santo: è il mistero della trinità). In xiv 28-30, come si vedrà: «Quell’uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno, / non circunscritto, e tutto circunscrive». Sui primi tre versi di x, cfr. Manuela Colombo, Dante, la «Commedia», la mistica, in Guida alla «Commedia», Milano, Bompiani, 1993, p. 178. 4 Par. x, 40-42. Lo splendore eterno dei sapienti è prefigurato anche nella Bibbia (Daniele xii 3); il motivo della luce, infatti, «è solo in apparenza, nel suo più intrinseco significato, un tema paesistico, ma, nella sua più riposta e autentica sostanza, esso si carica di una vasta responsabilità, di ordine schiettamente teologico»; si potrebbe, pertanto, parlare «di una vera e propria teoria teologica della luce» e, quando «si parla di luce in questo senso teologico, si istituisce un’assai intensa relazione analogica, dalla quale scaturisce tutto un nuovo senso di poesia» (G. Getto, Aspetti della poesia di Dante, Firenze, 1966, p. 206). 38 Del nomar parean tutti contenti Non le dispiacque, ma sí se ne rise, che lo splendor de li occhi suoi ridenti mia mente unita in piú cose divise 5. Alla corona formata dagli Spiriti Sapienti, ancora nel decimo, se ne aggiungeranno una seconda, nel decimosecondo, e una terza, nel decimoquarto, in relazione al tema della danza, armonicamente connesso con il motivo del canto e del suono: il tin tin dell’orologio (x, 143) diviene il tintinno della giga e dell’arpa (xiv, 119), con un ulteriore rinvio lessicale a nota e tempra.6 Il motivo unificante in assoluto di x e xiv, e di tutti e cinque i canti del Sole, è tuttavia la figura del cerchio, la circolarità dei movimenti dei Beati, in cui si riflette la cosmica armonia delle sfere celesti, simbolo della perfezione del Divino Artefice. E, con un’immagine circolare, con la figura del cerchio, si apre il xiv canto: Dal centro al cerchio, e sí dal cerchio al centro movesi l’acqua in un ritondo vaso, secondo ch’è percosso fuori o dentro: ne la mia mente fé súbito caso questo ch’io dico, sí come si tacque la glorïosa vita di Tommaso, per la similitudine che nacque del suo parlare e di quel di Beatrice, a cui sí cominciar, dopo lui, piacque (1-9). È un’esperienza familiare a Dante: il movimento dell’acqua in un vaso rotondo che, a seconda se percosso dall’esterno o dall’interno, produce delle ondulazioni concentriche dal bordo verso il centro e viceversa; esperienza che Dante ricorda per similitudine tra le parole di Tommaso, che fluivano 5 Par. x 55-63. In particolare, su 61-62, cfr. Domenico De Robertis, Per una cittadinanza dantesca. Considerazioni sulla lingua della «Commedia», Firenze, Le Lettere, 1997, p. 18. 6 «Indi, come orologio che ne chiami / ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l’ami, // che l’una parte e l’altra tira e urge, / tin tin sonando con sí dolce nota, / che ’l ben disposto spirto d’amor turge; // cosí vid’ïo la gloriosa rota / muoversi e render voce a voce in tempra / e in dolcezza ch’esser non pò nota // se non colà dove gioir s’insempra» (Par., x, 139-148). «E come giga e arpa, in tempra tesa / di molte corde, fa dolce tintinno / a tal da cui la nota non è intesa […]» (Par., xiv, 118-120). Per l’onomatopea tin tin (x, 143) e per la locuzione tintinno di xiv, 119, cfr. Virgilio, Georg., iv, 64. Nota e tempra: x, 143 e 146; xiv: tempra (118), nota (120). Quanto alla formazione delle tre corone: x, 6365; xii, 5-6; xiv, 67-75. A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 39 dalla corona dei Beati verso il centro, dove si trovava con Beatrice, e le parole di quest’ultima che, da quel centro, andavano verso la circonferenza, formata come ghirlanda degli Spiriti Sapienti. Insomma, le onde circolari dell’acqua, simili alle onde sonore delle voci dell’Aquinate e di Beatrice, si alternano nei discorsi da due posizioni diverse: un paragone che nella struttura narrativa tende a creare una pausa, dopo la vibrante oratoria del Santo sul tema della salvazione, affidata al consiglio divino, conclusiva del canto precedente.7 E, se nel xii, al momento in cui una seconda corona si aggiungeva alla prima (facendo combaciare moto a moto e canto a canto), Dante aveva immaginato per similitudine lo spettacolo naturale, grandioso e celeste, dei due archi paralleli e concolori,8 ora il paragone coinvolge una domestica realtà, semplice e familiare, quale il movimento circolare dell’acqua in un vaso. Questo contrasto tra visioni spettacolari, che pongono al centro la volta celeste, e minuziose osservazioni di vita quotidiana è un altro aspetto che non solo collega i quattro canti precedenti al xiv, ma ne costituisce anche il motivo unitario, strutturale interno, tra la prima e la seconda parte.9 7 Par., xiii, 141, su cui cfr. Richard Kay, L’astrologia di Dante, in Dante e la scienza, Ravenna, Longo, 1993, p. 130. 8 Par., xii, 6; 11 (in particolare, su concolori, cfr. Giovanni Nencioni, Struttura, parola (e poesia) nella «Commedia». Impressioni di una lettura postrema, in «Studi danteschi», 1990 [1996], pp. 1-38: pp. 16-20). 9 Nei cerchi concentrici, formati dall’acqua, non appare più lo scenario spettacolare dei due archi paralleli e concolori; «si fa invece ancora sentire quel raccoglimento che il poeta ha conosciuto nel canto x, quando, vedendosi circondato dalla prima ghirlanda degli spiriti sapienti, aveva contemplato la loro luce e ascoltato il loro canto, stupito e commosso di ritrovare la beatitudine celeste così simile alle cose che ci consolano in questa vita terrena: una danza di donne gentili; un orologio che batte le ore per invitare i fedeli al ridestarsi e a recitare le preghiere del mattino» (E. Bonora, Struttura e linguaggio nel xiv del «Paradiso», in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», cit., p. 2). Nell’immagine dell’acqua, che si muove nel vaso rotondo a cerchi concentrici, è anche possibile ravvisare un’analogia con la stessa dialettica del pensiero umano: «da un centro logico l’idea si avvia ampliando i suoi cerchi, le sue responsabilità, le sue avventure e qui si pone quale pausa del silenzio e insieme di osservazione», dopo la tensione verbale del canto xiii (G. Fallani, Il canto xiv del «Paradiso», in Nuove Letture Dantesche, cit., pp. 150-151). Nel canto è, dunque, un vero e proprio «riscatto paradisiaco dell’umano e del dimesso», che inizia proprio con la similitudine dell’acqua nel vaso: la «domesticità del Paradiso» consiste nell’intento, «che il poeta costantemente persegue, di avvicinare e fondere umano e divino, di segnare il riscatto celeste dell’umano. In stretta contiguità con passi in cui la sua poesia più s’impegna nella descrizione dell’invisibile, nella dichiarazione dell’ineffabile, si hanno costantemente altri passi in cui non solo si fa appello all’esperienza quotidiana, ma si esaltano sentimenti umilmente solo umani. […] Questo canto di alta spiritualità extra-umana comincia richiamando la modesta esperienza dell’acqua in un vaso tondo», dando l’avvio «a una serie d’immagini 40 Del nomar parean tutti contenti «A costui fa mestieri, e nol vi dice né con la voce né pensando ancora, d’un altro vero andare a la radice. Diteli se la luce onde s’infiora vostra sustannza, rimarrà con voi etternalmente sí com’ell’è ora; e se rimane, dite come, poi che sarete visibili rifatti, esser porà ch’al veder non vi nòi» Come, da piú letizia pinti e tratti, a la fïata quei che vanno a rota levan la voce e rallegrano li atti, cosí, a l’orazion pronta e divota, li santi cerchi mostrar nova gioia nel torneare e ne la mira nota (10-24). Beatrice, rivolgendosi agli Spiriti Beati, fa loro presente che per Dante è necessario comprendere a fondo un’altra verità, anche se non ha ancora parlato e anzi non ha neppure formulato compiutamente il suo pensiero, da lei stessa tempestivamente interpretato. Chiede, quindi, ai Sapienti di chiarire al poeta se la luce, di cui si adornano come un fiore le loro anime, rimarrà tale eternamente; e, in caso affermativo, di spiegare come, una volta che (dopo il giudizio finale) avranno ripreso i propri corpi, potrà avvenire che una luminosità così intensa non danneggi i loro occhi.10 Alla sollecita e reverente terrenamente concrete, così ricca da caratterizzare questo canto»: «è il sermo humilis, cioè lo stile dimesso adibito a comunicare le più alte verità della fede»; e, pertanto, «se ci mettiamo dal punto di vista di questo riscatto paradisiaco dell’umano e del dimesso, ci si paleserà più chiaro il carattere, che questo canto ha, di proemio, appunto, ai tre grandi canti seguenti, quelli di Cacciaguida» (U. Bosco, Introduzione al canto quattordicesimo, in D. Alighieri, La divina Commedia. iii. Paradiso, a c. di Id. e Giovanni Reggio, Milano, Mondadori 2002 e 2009, pp. 311-320: a pp. 317; 319; cfr. anche Id., Domesticità del «Paradiso» (lettura del xiv canto), in Altre pagine dantesche, cit.). 10Quanto all’aggettivo visibili di v. 17, osserva Anna Maria Chiavacci Leonardi nel suo commento al canto: «su questo aggettivo si fonda tutto il grande discorso: riassumere il corpo, nella resurrezione, vuol dire tornare ad essere visibili, vale a dire fisicamente visibili da occhi corporei. Ma solo gli altri beati avranno tali occhi. Di qui la domanda: se avvolti di tanta luce, come potranno quegli occhi veder, cioè vedersi tra loro? È questo il vero senso della duplice domanda, e di tutta la straordinaria risposta, come la terzina conclusiva ci rivelerà» (Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, iii. Paradiso, Milano Mondadori, 1994, p. 392: tutto il commento al xiv, compresa l’Introduzione, pp. 383-410; cfr. anche Commedia, con Cd-rom per Windows, con il commento di Chiavacci A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 41 domanda di quella guida amorevole e affettuosa che è Beatrice per Dante, espressa in forma di preghiera, le due corone di beati («li santi cerchi») dimostrano la loro rinnovata e accresciuta gioia muovendosi circolarmente con maggiore vivacità e cantando in modo mirabile, come spesso accade a quelli che, danzando in tondo, spinti e trascinati da crescente letizia, innalzano la voce nel canto e manifestano un più alto gaudio nei ritmi dei loro movimenti. Dante, quindi, per esprimere la letizia celestiale dei Beati, ricorre ancora una volta a un’esperienza di vita terrena, alla musica e alla danza del suo tempo, che assecondavano le variazioni ritmiche e metriche delle ballate: in questo senso, prefigurazioni delle anime beate danzanti, il cui movimento circolare è – secondo lo Pseudo Dionigi – simbolo della contemplazione di Dio. Nelle Sentenze di Pietro Lombardo, la lieta danza dei Santi è vista proprio in una circolarità infinita, accompagnata da un ineffabile e mirabile canto e dotata di una velocità di movimento pari alla visione di Dio, a immagine, dunque, del movimento circolare dei cieli intorno a quel Motore Immobile, che muove ogni altra cosa.11 Qual si lamenta perché qui si moia per viver colà sú, non vide quive lo refrigerio de l’etterna ploia. Quell’uno e due e tre che sempre vive e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno, non circunscritto, e tutto circunscrive, tre volte era cantato da ciascuno di quelli spirti con tal melodia, ch’ad ogne merto saria giusto muno (25-33). Come già nel canto decimo 12 – altro motivo di collegamento strutturale –, Dante interrompe la narrazione e con un’improvvisa osservazione si rivolge al lettore, per riaffermare la veridicità della sua visione: chi si lamenta perché in terra si debba morire, per poter poi vivere in cielo, non ha visto, come egli Leonardi, edizione in vol. unico, Bologna, Zanichelli, 2001, p. 253: tutto il commento al c. xiv, compresa l’Introduzione e le pagine degli «Approfondimenti», pp. 248-265. Su porà di v. 18 (nell’ediz. di F. Sanguineti, cit.: potrà, p. 452), cfr. Arrigo Castellani, Grammatica storica della lingua italiana. Introduzione, Bologna, il Mulino, 2000, I, p. 447. 11Cfr. G. Fallani, Il canto xiv del «Paradiso», in Nuove Letture Dantesche, cit., p. 156, sullo Pseudo Dionigi e sulle Sentenze di Pietro Lombardo, con riferimento al commento di un suo passo, «in un testo bonaventuriano, se non proprio del santo di Bognorea». 12Par., x, 74-75: «chi non s’impenna sí che là sú voli, / dal muto aspetti quindi le novelle». 42 Del nomar parean tutti contenti vide, il sublime appagamento riversato dall’eterno piovere sulle anime beate della grazia divina («lo refrigerio de l’etterna ploia»). Refrigerio è locuzione usata da Dante nel Convivio per ‘appagamento’, ma è anche parola biblica; ploja è, invece, una forma provenzale, di origine latina (pluvia): i due lemmi si distendono nell’endecasillabo e lo dilatano ampiamente per esprimere, attraverso l’immagine dell’acqua che ristora e rianima la terra arida, il godimento ineffabile dell’anima, inondata e appagata da un’eterna felicità.13 La «mira nota», il mirabile coro dei beati, è, infatti, un inno alla Trinità, ripreso dal canto xiii, interrotto quando le due corone si erano fermate per far parlare Tommaso.14 La lode alla Trinità (forse il Gloria Patri) è per tre volte cantata da ciascuna di quelle anime con tale melodia che il solo udirla sarebbe rimunerazione adeguata («giusto muno») a qualunque merito. Dante rappresenta la Trinità in una terzina, che riprende l’immagine del cerchio, poiché i singoli termini, scanditi e staccati, si riecheggiano poi in ordine inverso nel passaggio dal primo al secondo verso, quasi a esprimere sensibilmente una perfezione assoluta che ritorna e si esaurisce in se stessa: Dio, essendo uno (il Padre) e, consustanzialmente, due (Padre e Figlio) e tre (Padre, Figlio e Spirito Santo), eternamente vive e regna in tre e due e una persona, non contenuto in alcun luogo, perché tutto contiene. Il mistero, razionalmente inesprimibile dell’unità e trinità di Dio (per cui i tre numeri indicano la triplice persona, che costituisce una sola sostanza), è tuttavia espresso da Dante con musicale e mirabile fusione di poesia e teologia.15 13«Iustus autem, si monte preoccupatus fuerit, in refrigerio erit» (Sap., 4, 7); Manzoni, nel secondo coro dell’Adelchi (morte Ermengarda): «Discende il refrigerio / d’una parola amica». «[…] e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e di refrigerio danno e recano sete di casso febricante intollerabile» (Conv., iv, xii, 5). 14Cfr. Par., xiii, 28-30: «Compié ’l cantare e ’l volger sua misura; / e attesersi a noi quei santi lumi, / felicitando sé di cura in cura»; canto e danza si arrestano, come in xii, 25, per consentire a Tommaso di riprendere la parola. 15«Il movimento melodico di vv. 28-29, dove i vocaboli ad uno ad uno, quasi note staccate, si riecheggiano in ordine inverso, e l’analoga eco interna del v. 30, danno l’impressione, quasi si direbbe la presenza sensibile, di una pienezza di perfezione che in se stessa si esaurisce e su se stressa ritorna come in un circolo» (Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso [1955, 1968, 1985], a c. di Natalino Sapegno, Firenze, La Nuova Italia, 1997 e 2000, p. 186). «Questo inno a Dio non è uno dei soliti cantati dai beati in segno di giubilo: è l’inizio di un’ispirazione lirica che investe tutto il canto. Il quale è, con motivi sempre vari, tutto un inno a Dio, ed è perciò uno dei più unitari del Paradiso» (La Divina Commedia di Dante Alighieri commentata da Attilio Momigliano, iii. Paradiso, Firenze, Sansoni, 1956, p. 666). Nel Convivio (iv, ix, 3), Dante aveva scritto, da un punto di vista sostanzialmente razionale: «[…] Colui che da nulla è limitato, cioè la prima bontade, che è Dio, che solo con la infini- A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 43 A rispondere è l’anima più luminosa della corona interna, che – nonostante il Landino l’abbia attribuita a Pietro Lombardo, il Maestro delle Sentenze, per avere risolto quello stesso dubbio nel quarto libro della sua opera – gli studiosi moderni ritengono appartenga al re Salomone, in quanto autore del Cantico dei Cantici, in cui avrebbe preannunciato non solo le nozze di Cristo con la Chiesa, ma anche quelle di Cristo con la natura umana: dal momento che Cristo morì e risorse, proprio perché uomo, determinò la causa della futura resurrezione del genere umano.16 Salomone appare nella prima ghirlanda degli Spiriti Sapienti del x canto (ancora un altro collegamento strutturale), presentato da Tommaso come la quinta delle dodici luci dei beati e con le stesse parole a lui riferite nella Bibbia, nel libro appunto dei Re.17 ta capacitade infinito comprende»; invece, «qui è diventato poesia [«non circunscritto, e tutto circunscrive»], in virtù di quella ripetizione verbale che conclude il ritmo circolare e turbinante della terzina» (p. 667). In Purg., xi, 1-2 si ha: «O padre nostro, che ne’ cieli stai, / non circunscritto […]»; sul problema del luogo del mondo, dirà dell’Empireo che non è in nessun luogo («non è in loco»: Par., xxii, 67), ma contiene tutto l’universo e, a sua volta, risiede non in uno spazio fisico, ma nella mente divina: «non è in luogo, ma formato fu solo nella Prima Mente» (Conv., ii, iii, 11). Sui vv. 28-29, cfr. anche Franco Fortini, Dante, in Le rose dell’abisso. Dialogo sui classici italiani, a c. di Donatello Santarone, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 29-30 e 33. 16Cfr. Magistri Petri Lombardi, Sententiae in iv libris distinctae (Spicilegium Bonaventurianum iv-v), Grottaferrata, Collegii S. Bonaventurae ad Claras Aquas, 1971-1981; Comento di Christophoro Landino fiorentino sopra la Comedia di Danthe Alighieri poeta fiorentino…, Firenze, per Niccolò di Lorenzo della Magna, 1481; Venezia, Gio. Battista & Gio. Bernardo Sessa, 1596; ora, C. Landino, Comento sopra la ‘Comedia’ [1481], a c. di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno Editrice, 2001 («perché invero qui solve questo dubbio nella forma che il Maestro delle Sentenze lo solve nel quarto libro»); C. Steiner, Il canto xiv del Paradiso, in Letture dantesche, cit., p. 1630 («eppure la ragione dottrinale della scelta appare chiarissima, se io non m’inganno, e inoppugnabile. Salomone era per Dante l’autore del Cantico dei Cantici, e il Cantico dei Cantici, secondo interpretazioni che Dante ben conosceva, non preannuncia solo le nozze di Cristo con la Chiesa, ma bensì ancora quella di Cristo con la umana natura: egli è il profeta della unione ipostatica in Cristo. Ora Cristo morì e risorse solo in quanto era uomo, determinando così la causa prima della nostra futura resurrezione»). Su Salomone (971-931 a. C., re d’Israele, figlio di David e Betsabea) cfr. la voce di Gian Roberto Sarolli, in Enciclopedia dantesca, Biblioteca Treccani, Milano, Mondadori, 2005, 14 (Ris-Sol), pp. 163-168 («S. è da considerare, dunque, una delle figure fondamentali nel sistema teologico-politico di D., e non sorprenderà il trovarlo ripetutamente citato»: p. 165; «nella Commedia il nome di S. non compare direttamente, ma viene alluso per mezzo di grandi perifrasi»: p. 167). 17Cfr. Par., x, 109-114: «La quinta luce, ch’è tra noi più bella, / spira di tale amor, che tutto ’l mondo / là giú ne gola di saper novella: // entro v’è l’alta mente u’ sí profondo / saver fu messo, che, se ’l vero è vero, / a veder tanto non surse il secondo»; Bibbia, I Re iii, xi, 12: «Ecco io ti ho dato animo tanto sapiente e intelligente che nessuno fu prima di te, né sorgerà dopo di te, simile a te». 44 Del nomar parean tutti contenti Rispondendo poi, nel xiii canto, a un dubbio di Dante sulla sapienza di Salomone, Tommaso chiarisce l’importanza della perfezione non assoluta ma relativa, raggiunta dalle creature umane: questi, infatti, aveva chiesto a Dio la sola grazia di poter fare bene il suo dovere di re, di raggiungere la perfezione nel suo ufficio temporale; ed è perciò che nessun re fu più saggio di lui, e perfetto, limitatamente, pertanto, alla «regal prudenza».18 Per tale ragione Salomone, sacerdote e re, amministratore di giustizia in terra, adoratore e servo di Dio, suprema manifestazione di sapienza, appare nel cielo del Sole insieme con i teologi e i mistici più grandi della tradizione cristiana. Per divina ispirazione, aveva inoltre profetizzato l’unione della natura divina con l’umana: e questa è l’altra ragione per cui tra i beati profetizza, leggendola nella mente divina, la futura resurrezione dei corpi, che caratterizza l’asse centrale della sua risposta a Dante: E io udi’ ne la luce piú dia del minor cerchio una voce modesta, forse qual fu da l’angelo a Maria, risponder: «Quanto fia lunga la festa di paradiso, tanto il nostro amore si raggerà dintorno cotal vesta. La sua chiarezza séguita l’ardore; l’ardor la visïone, e quella è tanta, quant’ha di grazia sovra suo valore» (34-42). La sua voce è sentita dal poeta come «modesta», non tanto nel senso di ‘moderata’, quanto, invece, di ‘umile’ (humilis, come tutto ciò che attiene alla vita e alla passione di Cristo), conveniente a un re, che, proprio per essere il più sapiente di tutti i monarchi della terra, è consapevole dei limiti della sua sapienza. A Dante sembra (con il «forse» di inizio verso) che la sua voce humilis, «modesta», sia come quella dell’Arcangelo Gabriele, nunzio a Maria della nascita del Redentore: la voce di Salomone è temperata e soave come dovette essere quella di Gabriele, conscio di essere non solo un semplice messaggero, ma anche il rivelatore di un profondo mistero. Il fatto che nel racconto evangelico non è traccia di questo singolare suono della voce 18Cfr. Par., xiii, 94-96; 103-109: «Non ho parlato sí, che tu non posse / ben veder ch’el fu re, che chiese senno / acciò che re sufficïente fosse; // […] Onde, se ciò ch’io dissi e questo note, / regal prudenza è quel vedere impari / in che lo stral di mia intenzion percuote; // e se al ‘surse’ drizzi li occhi chiari, / vedrai aver solamente respetto / ai regi, che son molti, e’ buon son rari. // Con questa distinzion prendi ’l mio detto; […]». A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 45 dell’Arcangelo non solo potrebbe contribuire a spiegare il «forse» di Dante, ma chiarisce soprattutto l’accostamento, l’analogia tra due voci, annuncianti due dei più grandi doni della grazia divina: l’una, quella di Gabriele, nunzia della nascita di Cristo e dunque della redenzione dell’uomo; l’altra, di Salomone, nunzia della resurrezione dei corpi, che – secondo Bonaventura – prende esempio dalla resurrezione di Cristo e, in un certo senso, procede da quella.19 Proprio a Bonaventura è ispirata, anche sotto il profilo lessicale, la parte più sostanziosa della risposta di Salomone. Dopo avere profetizzato che l’ardore di carità dei Beati, manifesta nell’effusione luminosa, irradierà in eterno quello splendore di cui sono interamente fasciati, il re sapiente, infatti, quasi con le stesse parole del Bonaventura del Soliloquium – «tantum gaudebunt quantum amabunt; tantum amabunt quantum cognoscent» –, precisa che l’intensità della luce consegue, vale a dire è proporzionata, all’ardore della loro carità; l’ardore, a sua volta, è proporzionato alla visione, cioè alla cognizione di Dio, e questa, infine, è pari alla grazia divina, in aggiunta ai meriti individuali. Insomma, dice Salomone, tutto dipende dal gratuito dono della grazia divina: è questa che amplia la visione conoscitiva di Dio, donde deriva accendendosi l’ardore di carità, eternamente visibile come intenso splendore, la sola vesta in cui è umanamente possibile percepire le anime beate.20 19La voce di Salomone è, dunque, modesta, «quantunque partisse dallo spirito del più savio de’ re» (La Divina Commedia di Dante Alighieri, nuovamente commentata da Francesco Torraca, quinta edizione riveduta e corretta, Milano-Roma-Napoli, Società editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati e & C., 1921, p. 764; cfr., ora, a c. di Valerio Marucci, Roma, Salerno Editrice, 2008); «modesta corrisponde al latino medievale humilis, uno degli aggettivi più importanti per definire l’incarnazione, che in questo uso diventò talmente predominante che in tutta la letteratura cristiana in lingua latina esso quasi esprime l’atmosfera e il livello della vita e della passione di Cristo» (Erich Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1960 e 1979, dove, in epigrafe al suo capitale saggio sul Sermo humilis, pp. 33-79: a p. 33, sono collocati proprio i versi della voce dell’angelo). «Questa definizione della voce è tra le più straordinarie invenzioni del genio poetico di Dante, sia per l’aggettivo – che dice come umilmente e reverentemente il potente re si accinge a dire cosa così grande – sia per l’immaginato confronto, temprato dal forse (quasi il poeta non ardisca qualificare quell’arcana voce, pur tentando di farlo)» (A.M. Chiavacci Leonardi, comm. cit., ediz. Mondadori, p. 395; ediz. Zanichelli, p. 255). Cfr. Purg., x, 37-42, per l’«atto soave» con cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria l’incarnazione di Cristo. 20«Il principio della risposta è tutto ardente di carità a di luce […]. Sostantivi, verbi, aggettivi si rimandano senza tregua lo stesso ardore di gaudio e di fede; e i periodi si snodano facili ed alti, di arsi in arsi, come grandi volute di fiamme, lontanissimi da quelli circospetti delle solite discussioni teologiche […]. Il tessuto di questo passo è lirico […]. Da questo canto incomincia, nei passi dottrinali, un’intonazione nuova, che contribuisce alla maggiore altezza poetica della seconda parte del Paradiso» Momigliano, comm. cit., pp. 667-68. Sulla «pe- 46 Del nomar parean tutti contenti Per esprimere questo concetto il re sapiente parte però da quello che vede il pellegrino, dalla manifestazione esterna, per giungere alla causa interna; ora, invece, con perfetta circolarità, il percorso è ricostruito in senso inverso: «Come la carne glorïosa e santa fia rivestita, la nostra persona piú grata fia per esser tutta quanta; per che s’accrescerà ciò che ne dona di gratüito lume il sommo bene, lume ch’a lui veder ne condiziona; onde la visïon crescer convene, crescer l’ardor che di quella s’accende, crescer lo raggio che da esso vene» (43-51). L’inversione circolare è prodotta, sul piano del discorso e del linguaggio, da un evento di portata straordinaria nella storia dell’umanità: la resurrezione dei corpi, perché sarà il corpus gloriosum, la «carne glorïosa e santa», a ricostruire l’integrità della persona umana, e sarà la sua unità ad accrescerne la perfezione e, di conseguenza, ad aumentare la grazia illuminante, quel dono gratuito che, permettendo di vedere e intendere meglio il Sommo Bene divino, accrescerà l’ardore di carità e, quindi, lo splendore luminoso della persona umana, ormai eternamente ricostituita nella beatitudine del Paradiso. Procedendo dalla causa all’effetto, mentre nella prima parte del ragionamento di Salomone si andava dall’effetto alla causa, le parole ritornano su se stesse, come in un andirivieni spiraliforme, di stringente, lucida e sillogistica razionalità, liricamente trasfigurato dal ritmo musicale dei versi danteschi, in cui la consequenzialità dei termini (sostantivi, aggettivi, verbi) si espande in un crescendo di intensità. Il ritmo incalzante e serrato delle immagini luminose, per cui cresce il lume della grazia e, dunque, la visione, l’ardore, lo splendore raggiante, è retto dalla mirabile variatio del verbo ‘crescere’ («s’accrescerà»; «crescer», in anafora incipitaria ai versi 50-51 e a centro endecasillabo 49), che amplia e moltiplica all’infinito un’ininterrotta catena di luci.21 E, pure, culiare dinamica conoscitiva» della «carità» e sulla «strategia raziocinativa» del poeta che «si manifesta con una straordinaria lietezza», cfr. le puntuali osservazioni di Leonardo Sebastio, Paradiso xxvi o la ragione lieta, in Id., Il poeta e la storia. Una dinamica dantesca, Firenze, Olschki, 1994, pp. 69-95: a pp. 72-73. Per Bonaventura, cfr. Soliloquium iv 5, 27; quanto a «grazia sovra suo valore», nel senso che non basta il merito personale, ma è necessaria anche la grazia divina, cfr. anche Par., xxv, 67-69; xxix, 61-63. 21Sulla prevalenza dell’area semantica della luce, della luminosità, della visività, cfr. G. Mu- A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 47 tutto questo non basta: Salomone ha risposto solo alla prima domanda di Beatrice, interprete della prima parte del dubbio di Dante; dovrà ora chiarire in che modo questa immane e abbacinante luminosità, manifestazione sensibile della grazia illuminante, possa consentire una reciproca visibilità. Ed è, a questo punto, che il poeta, pur ispirandosi a un passo di Bonaventura, quanto all’immagine del carbone ardente,22 raggiunge – attraverso la voce di Salomone – l’apice del vorticoso ragionamento, esprimendo un concetto audace, ignoto alla teologia della resurrezione: lo splendore della carne gloriosa vincerà la luce irradiata dall’anima: Ma sí come carbon che fiamma rende, e per vivo candor quella soverchia, sí che la sua parvenza si difende; cosí questo folgór che già ne cerchia fia vinto in apparenza da la carne che tutto dí la terra ricoperchia; né potrà tanta luce affaticarne: ché li organi del corpo saran forti a tutto ciò che potrà dilettarne (52-60). Come il carbone ardente – precisa Salomone – sovrasta, in quanto a luminosità («vivo candor»), la fiamma che esso stesso genera, talché il suo aspetto visibile non si lascia nascondere dal fuoco, così lo splendore, che già ora avvolge le anime, sarà vinto, in quanto a visibilità, da quei corpi che ora giacciono sotto la terra: «che tutto dì la terra ricoperchia» è il verso finale delle due terzine con l’evocazione della cupa oscurità della terra, contrapposta alla luminosità del corpo glorioso, dopo la resurrezione, totalmente esaltata dall’incandescenza semantica e ritmica dei bisillabi tronchi: «carbon», «candor», «folgor».23 Tuttavia, conclude il più sapiente dei re, questa inresu, La «gloria della carne»: disfacimento e trasfigurazione («Paradiso» xiv), cit. Sulla maggiore perfezione e, dunque, sul maggiore godimento divino dell’unità della persona umana, cfr. Tommaso, Summa Theologiae, Romae, Ed. Leonina, 1888-1906, iii, Suppl. q. 93 a. 1, in cui si sostiene che l’anima, congiunta al corpo glorioso, è più simile a Dio di quando non è separata, poiché, unita al corpo, è più perfetta nel suo essere. 22«Corpus resurgens per naturam suam habebit colorem, et claritas luminis superinduet ipsum sicut ignis carbonem» (Bonaventura, In iv Sent., d. 49, p. 2, a 2). ����������������� Sulla resurrezione, nella Commedia, cfr. Inf., vi, 94-111; Purg., i, 73-75; xxx, 13-15; Par., vii, 139-148; xxv, 91-96; 124-129. 23Sull’affermazione dello splendore del corpo nella resurrezione si sofferma – coerentemente all’impostazione del suo saggio –, con un’ampia gamma esegetica, Giulio Ferroni: dal 48 Del nomar parean tutti contenti tensa luminosità non darà molestia alla vista dei Beati, perché i loro occhi saranno capaci di sostenere tutto ciò che potrà essere cagione di beatitudine: Salomone, come aveva in terra profetizzato nel Cantico dei cantici le mistiche nozze, l’unione tra Cristo e l’umanità, così ora, in Paradiso, profetizza, con il ritmo incalzante dei verbi al futuro, che scandiscono le ultime terzine del suo discorso, la fulgida resurrezione del corpo – nell’unità con l’anima – alla vita eterna, speranza e insieme certezza della fede cristiana, promessa all’uomo di immortalità (per allontanare dalla già grama esistenza il terrore della morte), che Dante racchiude in un giro di versi, enumeranti, con lo slancio ascensionale della passione e dell’entusiasmo, tutti i diversi, particolari aspetti della felicità ultraterrena.24 Ed è a questo punto che Dante celebra con linguaggio semplice e, allo stesso tempo, sublime il più grande dei misteri cristiani, l’unione dell’umano con il divino, l’immissione nell’alta teologia degli affettuosi legami dell’amore terreno, che ad essa non sono estranei e anzi, nell’interpretazione del poeta, ne fanno parte: Tanto mi parver súbiti e accorti Paolo di Ad Corinthios (i, 15, 42-44, 50), in cui l’apostolo sembra accennare «all’emergere di corpi non direttamente coincidenti con quelli originari», prospettando l’ipotesi «di una vera e propria trasformazione» con la conseguente mancanza della carne e del sangue, all’Agostino del De civitate Dei (xiii, 20, 22; xxii, 20, 3), che «sostiene invece con nettezza la corporeità della resurrezione» e il potere divino «di richiamare in vita anche le parti distrutte o perdute dei corpi, ricostruendoli nella loro integrità», al Tommaso, infine, della Summa contra Gentiles, dove ormai si afferma chiaramente che «homines resurgentes corpora palpabilia habebunt, ex carnibus et ossis composita» (iv, 84, 3), potendo, inoltre, i corpi risorti essere «dotati di sensibilità e capaci di appropriati diletti» (iv, 86, 4), e possedere, nella loro qualità di corpi gloriosi, la claritas, come si rileva nella Quaestio lxxxv del Supplementum alla terza parte della Summa Theologiae (cfr. G. Ferroni, «Forse non pur per lor, ma per le mamme»: lettura di «Paradiso» xiv, cit., pp. 113-115). 24«Non mai più magnifica promessa fu fatta all’uomo, giacché per essa, nel presagio d’un’immortalità così assolutamente intesa, dilegua anche dalla vita presente l’ombra odiosa che la morte vi protende. […] E il discorso si chiude appunto con quest’abbagliante visione della carne glorificata. L’orrendo segreto del sepolcro è indotto nelle ultime parole: “che tutto dí la terra ricoperchia”, perché meglio appaia la sconfitta della esosa figlia del peccato. I corpi che essa costrinse dentro l’angustia del sepolcro ne usciranno a spaziare nell’infinito; le lingue, convertite in putredine, ripiglieranno le lodi del Signore; gli occhi, dai quali balenò la luce dello spirito immortale e che essa avrà potuto spegnere e svuotare, si riaccenderanno e l’anima vi si affaccerà ancora a contemplare beata l’infinità bellezza di Dio, e allora la carne, che ora il più grave degli elementi copre e nasconde, non potrà essere velata neppure dalla spirituale luce del Paradiso e apparirà gaudioso trofeo della totale vittoria di Cristo» (C. Steiner, Il canto xiv del «Paradiso», in Letture dantesche, cit., pp. 1634-1635). A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 49 e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!», che ben mostrar disio d’i corpi morti: forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari anzi che fosser sempiterne fiamme (61-66). Alle parole di Salomone, i beati delle due corone, con una tempestività che non sfugge a Dante, pronunciano, quasi a suggello e ad assenso, un «Amme» (Amen): il poeta ipotizza che tanta prontezza esprima il loro desiderio di ricongiungersi con i propri corpi, momentaneamente morti, ma non tanto per la maggiore beatitudine di cui essi stessi avrebbero goduto, quanto per il piacere di rivedere in anima e in carne i genitori e quanti altri erano stati a loro cari prima di divenire eterni splendori, di rivedere, come nella vita terrena, coloro che – chiosa acutamente Benvenuto – dilexerant in carne.25 «Forse» – suppone Dante, con lo stesso avverbio del dubbio già usato per il tono della voce dell’Arcangelo Gabriele, rinchiudendo tutto il discorso del re d’Israele tra due supposizioni: un ardito tentativo di interpretare i due grandi e impenetrabili misteri dell’incarnazione e della resurrezione, di inscrivere, quindi, l’umano nel divino, come farà, quando, «traslato» subito dopo nel cielo di Marte, vedrà lo scenario fiammeggiante della croce inscritta nella circonferenza del pianeta, a ulteriore evocazione del motivo figurativo e musicale dominante: la circolarità della luce e del canto. Ed ecco intorno, di chiarezza pari, nascere un lustro sopra quel che v’era, per guisa d’orizzonte che rischiari. E sí come al salir di prima sera comincian per lo ciel nove parvenze, sí che la vista pare e non par vera, parvemi lí novelle sussistenze 25Benvenuto da Imola, infatti, annota: «optabant videre in carne illos quos dilexerant in carne»; e, a proposito della forma popolare «Amme», osserva Vittorio Sermonti: «L’adozione della forma vernacolare in luogo della corretta dizione ebraico-latina […] mette di fatto in bocca a queste anime dottissime la voracità dei bambini piccoli (‘amm’), e provoca una brusca escursione stilistica dal maestoso al casalingo»; Dante, come poeta, fa subito tesoro di questa regressione orale degli Spiriti Sapienti, «scaricando la rima ‘amme’ su «mamme» (vocabolo puerile quant’altri, a norma De Vulgari)» (Vittorio Sermonti, Il Paradiso di Dante, revisione di Cesare Segre, Milano, Rizzoli, 2001, p. 261). Cfr. anche A.M. Chiavacci Leonardi, Il «Paradiso» di Dante: l’ardore del desiderio, in «Letture classensi», 1998, p. 108. 50 Del nomar parean tutti contenti cominciare a vedere, e fare un giro di fuor da l’altre due circunferenze. Oh vero sfavillar del Santo Spiro! come si fece súbito e candente a li occhi miei che, vinti, nol soffriro! (67-78). All’improvviso, intorno alle due corone dei beati, si manifesta una luce diffusa, di luminosità uniforme, che si va ad aggiungere al loro splendore, con un aspetto simile a quello del chiarore che appare all’orizzonte (altro richiamo alla figura del cerchio) prima del sorgere del sole; come, poi, all’inizio della sera, cominciano ad apparire nel cielo le prime stelle, ma in modo ancora confuso, cosicché si dubita se quell’apparenza corrisponda o meno a verità, così a Dante pare di scorgere nuove e non bene identificate anime («sussistenze»), che descrivono un’altra circonferenza, esterna alle due già presenti. Se prima il poeta aveva evocato gli affetti umani, che dalle anime del Paradiso non vengono dimenticati, ma celebrati come motivo di maggiore beatitudine – recuperando, quindi, le passioni periture dell’uomo nella dimensione dell’eterno –, ora evoca gli scenari terrenamente familiari del cielo – il rischiararsi dell’orizzonte allo spuntar del sole, l’apparire delle prime, indistinte stelle, appena percepibili nella crepuscolare ora vespertina – come proiezioni di un’alta dimensione teologica, per esprimere, nella triplice circolarità luminosa delle corone dei beati, il mistero della Trinità, di cui il nuovo cerchio rappresenta la terza persona: lo sfavillare dello Spirito Santo vi si riflette con tale incandescenza da vincere e sopraffare la sua vista.26 Ma Bëatrice sí bella e ridente mi si mostrò, che tra quelle vedute si vuol lasciar che non seguir la mente. Quindi ripreser li occhi miei virtute a rilevarsi; e vidimi translato sol con mia donna in piú alta salute. Ben m’accors’io ch’io era piú levato, per l’affocato riso de la stella, che mi parea piú roggio che l’usato. 26Si è vista, in questa terza corona in cui sfavilla il «Santo Spiro», un’allusione alla terza età, predetta nel Liber Figurarum da Gioacchino da Fiore, intesa come progresso nella storia e redenzione della società umana: cfr. P. Dronke, ‘Orizzonte che rischiari’. Notes towards the Interpretation of «Paradiso» xiv, cit. A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 51 Con tutto ’l core e con quella favella ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto, qual conveniesi a la grazia novella (79-90). È questo il momento della massima luminosità di tutto il canto, che, a guisa di architrave centrale, ne regge la struttura e ne contrassegna stilisticamente la profonda unità: alla luce intensa delle tre corone di beati, nel momento di lasciare il cielo del Sole, infatti, si aggiungono sia la ridente luminosità dei bellissimi occhi di Beatrice – una pausa distensiva, narrativamente opportuna per staccare una sequenza dall’altra e passare alla seconda parte del canto –, che indica al Dante viator di essere asceso in un cielo più alto, dov’è un grado maggiore di beatitudine, sia lo splendore del nuovo cielo, Marte, sede delle anime combattenti per la fede, rosseggiante come il fuoco, che gli appare più rosso del solito.27 Il poeta aveva già accennato nel Convivio al pianeta Marte «affocato di colore»; ma qui non è una semplice connotazione astronomica, perché il rosso richiama analogicamente il colore del sangue versato dagli spiriti militanti, il sangue della liturgia cristiana, ed è segno di un maggiore ardore di carità delle anime beate. L’immaginario poetico di Dante è tutto attraversato dall’archetipo del fuoco, tanto che, per esprimere idealmente – con la lingua muta dell’animo e della mente – il suo devoto ringraziamento a Dio per la grazia della nuova ascesa, usa il termine «olocausto»: ὄλος, intero/καυστὸς, bruciato, propriamente il sacrificio di una vittima interamente bruciata in onore di un dio. È, infatti, Tommaso a spiegare nella sua opera maggiore il significato figurale di questa forma di sacrificio pratica27Sul passaggio tra i diversi cieli, cfr. Francesco Tateo, Retorica, matematica, musica: da Venere a Marte (Pd xiv), in Contesti della «Commedia». Lectura Dantis Fridericiana 20022003, a c. di F. Tateo e Daniele Maria Pegorari, Bari, Palomar, 2004, pp. 255-268. Quanto al v. 81, «si vuol lasciar che non seguir la mente», la Chiavacci Leonardi, alla fine del suo commento al c. xiv, cit., annota: «La lezione a testo, portata da quasi tutta l’antica tradizione manoscritta, e da tutte le edizioni, lascia perplessi, in quanto capovolge il processo indicato da Dante a i, 7-9, per il quale è la memoria (“la mente”) a andare dietro (“seguire”) alle cose, e non viceversa […] Per questa ragione riteniamo non sia da escludere la variante seguì, presente in tre soli ma autorevoli manoscritti, e nel commento del Buti (“seguie”), variante che potrebbe anche considerarsi lectio difficilior per il più comune ordine (soggetto-verbo-oggetto) offerto dall’altra lezione. La variante fu accolta dal Chimenz, di cui si vedano le ragioni nel suo commento» (Chiavacci Leonardi, ediz. Mondadori: pp. 409-410; ediz. Zanichelli: p. 264). Nell’ediz. Sanguineti, si ha: «seguîr», con annotazioni di varianti (Comedia, cit., p. 454). Cfr. anche P. Trovato, «Paradiso», xiv, 81 [1981], in Il testo della ‘Vita nuova’ e altra filologia dantesca, Roma, Salerno, 2000, pp. 103-104; Giorgio Inglese, Per il testo della ‘Commedia’ di Dante, in «La Cultura», 2002, 3, pp. 483-505: a p. 496. 52 Del nomar parean tutti contenti to anche nell’Antico Testamento: come il vapore in cui si è dissolto l’animale sale verso l’alto, così tutto l’uomo deve essere offerto a Dio.28 E non er’anco del mio petto essausto l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi esso litare stato accetto e fausto; ché con tanto lucore e tanto robbi m’apparvero splendor dentro a due raggi, ch’io dissi: «O Elïòs che sí li addobbi!» (91-96). L’«ardor del sacrificio» non era del tutto «essausto», consumato, spento (ancora un termine dell’area semantica del fuoco), quando Dante si accorse che questa offerta era stata accettata con esito felice da Dio (il poeta usa il verbo latino, «litare», un infinito sostantivato, con il senso di sacrificare, in linea espressiva con «olocausto» ed «essausto»), poiché gli apparvero degli splendori così luminosi e rossi dentro due raggi di luce da indurlo a esclamare: «O Sole, che li adorni di così splendida veste», li ammanti di tanta luce. Un evento, dunque, segue incessantemente l’altro, come in una delirante visione: una catena ininterrotta di invenzioni, che creano stupore e rapimento. La forma greca del Sole, «Elïòs», nelle Derivationes di Uguccione da Pisa, Dante l’aveva trovata accostata al vocabolo ebraico El, Dio, mentre, per quanto riguarda la forma verbale «addobbi», adorni (propriamente adorni con drappi), non è da escludere una derivazione dal francese adober, vestire da cavaliere: significato non incongruo, dal momento che nel cielo di Marte incontra le anime dei crociati, i cavalieri insigniti della croce, con un rinvio figurale, quindi, tra tempo ed eterno.29 Il poeta precisa meglio la nuova visione, evocando due fenomeni: uno celeste e grandioso, quello della volta stellare attraversata dalla Via Lattea; l’al28Tommaso, infatti, sostiene che, come tutto l’animale, dissolto in vapore, saliva verso l’alto nei sacrifici, così tutto l’uomo, e tutto quello che è suo, deve esser offerto a Dio (cfr. Summa Theologiae, cit., ia iiae, q. 102 a. 3). Quanto al colore rossofuoco del cielo di Marte, Dante aveva scritto nel Convivio (ii, xiii, 21) che questo pianeta «dissecca e arde le cose, perché lo suo calore è simile a quello del fuoco; e questo è quello per che esso pare affocato di colore, quando più e quando meno, secondo la spessezza e raritade de li vapori che ’l seguono, li quali per lor medesimi molte volte s’accendono […]». 29Nelle Derivationes di Uguccione si legge: «ab Ely, quod est Deus, dictus est sol helios, quod pro deo olim reputabatur». Sul v. 96, cfr. D. De Robertis, Riabilitazione di una cornacchia, in Carmina semper et citharae cordi. Études de philologie et de métrique offertes à Aldo Menichetti, Genève, Slatkine, 2000, p. 289. A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 53 tro, per così dire, domestico del raggio di sole in cui si muove il pulviscolo atmosferico; così come – a sottolineare l’unità poetica del canto – nella prima parte aveva descritto il chiarore dell’orizzonte all’alba e l’apparire delle stelle sul far della sera, ma anche l’esperienza quotidiana del movimento circolare dell’acqua nel vaso rotondo. Come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra’ poli del mondo Galassia sí, che fa dubbiar ben saggi; sí costellati facean nel profondo Marte quei raggi il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo (97-102). Come, formata da tante distinte luci di diversa grandezza, si estende biancheggiando tra i due poli estremi del cielo la Via Lattea, tale da lasciare in dubbio (sulla sua natura) i più sapienti scienziati (e, infatti, nel Convivio, aveva accennato alle diverse opinioni dei filosofi, sulla base del commento di Alberto Magno alle Meteore di Aristotele),30 così, trapunti di innumerevoli stelle – si noti l’incisiva ripresa ritmica con «costellati»: ora il poeta determina meglio e in maniera più rigorosamente geometrica la sua visione –, quei due raggi luminosi, distesi e biancheggianti sulla vasta e concava profondità di Marte, formavano il segno venerabile che fanno le linee di congiunzione dei quadranti in un cerchio: una croce greca a bracci uguali. La prima delle due terzine, che rappresenta la prima parte della similitudine con l’aspetto della ben nota costellazione della volta celeste, è sorretta da due enjambement volti a creare una sospensione, tale da mettere espressivamente in risalto il bellissimo endecasillabo, «lumi biancheggia tra’ poli del mondo», in cui il verbo si distende al centro e suggerisce uno spazio illimitato e lontano, tante volte intravisto e vagheggiato dalla fantasia dell’uomo. La seconda parte del paragone è dominata dall’immagine stupenda dei due raggi della croce sull’ampio e circolare sfondo del cielo di Marte, anche qui con enjambement («profondo/Marte»), dove l’aggettivo a fine endecasillabo, così sospeso, 30Dei più grandi saggi dell’antichità, ricordati da Dante, i pitagorici, Anassagora, Democrito, Avicenna e Tolomeo, che della Galassia «hanno avute diverse oppinioni», è Aristotele, in particolare, a sostenere che questa è formata da una «moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto piccole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro apparisce quello albore lo quale noi chiamiamo Galassia» (Conv., ii, xiv, 5, 7). Cfr. anche Aristotele, Meteor. i, 8, 345 a, 16-18, 25-31; Alberto Magno, Meteor. i, ii, 6. 54 Del nomar parean tutti contenti sembra fonosimbolicamente alludere a un abissale scenario, su cui si proiettano i fasci luminosi, costellati dai rossi splendori delle anime beate e lampeggianti l’immagine di Cristo: Qui vince la memoria mia lo ’ngegno; ché quella croce lampeggiava Cristo, sí ch’io non so trovare essempro degno; ma chi prende sua croce e segue Cristo, ancor mi scuserà di quel ch’io lasso, vedendo in quell’albor balenar Cristo (103-108). La memoria può evocare questa visione, ma l’ingegno poetico non può descriverla, né può trovare termini di paragone, perché Cristo balenante nella croce si può esprimere solo con Cristo, così come il suo nome – superiore a ogni altro nome, come vuole Paolo, e archetipo eterno di perfezione – rima tre volte solo con Cristo. Se Dante aveva forse osservato, durante il suo esilio a Ravenna, visitando la chiesa di Sant’Apollinare in Classe, al centro degli ori dell’abside la croce gemmata con il volto del Redentore, e se in un passo del Convivio aveva già associato la figura della croce a Marte e ai suoi vapori, questa visione paradisiaca si colloca in una dimensione del tutto diversa, talmente ardita e vertiginosa che il poeta rinuncia a descriverla e, riecheggiando il Vangelo di Matteo, si appella, per scusarsi della sua incapacità, al vero cristiano, alla sua esperienza diretta, quando salirà in Paradiso e potrà constatare la veridicità di quell’evento soprannaturale e misterioso: la croce inscritta nel cerchio, l’umanità inserita nel divino. Ed è qui anche che la milizia cristiana di Dante si rivela analoga al consiglio di Cristo, letteralmente tradotto da Matteo.31 31«Si quis vult post me venire, abneget semet ipsum et tollat crucem suam et sequatur me» (Matth. 16, 24). Cfr. Angelo Jacomuzzi, Il «topos» dell’ineffabile nel ‘Paradiso’, in L’imago al cerchio e altri studi sulla ‘Divina Commedia’, Milano, Angeli, 1995, p. 89; Giuseppe Ledda, ‘Tópoi’ dell’indicibilità e metaforismi nella ‘Commedia’, in «Strumenti critici», 1997, p. 139. In riferimento alla croce gemmata di Sant’Apollinare in Classe, va rilevato che Dante non si limitò a vedere e a trascrivere le immagini dell’arte, perché «la croce fa parte della sua meditazione, e nel costruire la croce nel cielo di Marte inventò una sua figura, in consonanza alla cultura figurativa» (G. Fallani, Il canto xiv del «Paradiso», cit., p. 160). Quanto al collegamento della croce a Marte e ai suoi vapori, cfr. Conv., ii, xiii 22: «[…] e in Fiorenza, nel principio della sua destruzione, veduta fu ne l’aere, in figura d’una croce, grande quantità di questi vapori, seguaci de la stella di Marte». Sul v. 104, «ché quella croce lampeggiava Cristo», osserva la Chiavacci Leonardi: «Questa lezione, accolta dal Petrocchi, come ‘più rara ed elegante’, richiede senso transitivo: ‘faceva lampeggiare’. L’autorevole A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 55 Siamo giunti all’acme delle visioni luminose, che si sono susseguite nella seconda parte del canto a ritmo serrato e con inesausta profusione inventiva, come, nella prima, lo splendore del corpo risorto: è un punto di tensione molto alto, che segna la Spannung di tutte le sequenze narrative; oltre, non è agevole andare. Il poeta ne è consapevole e, come, prima, ha proceduto in crescendo, ora, nei trenta versi finali, procede gradualmente con toni smorzati, a partire dall’altra similitudine, quella domestica e tutta umana: l’immagine della stanza, costruita per proteggersi dalla violenza dei raggi solari. Di corno in corno e tra la cima e ’l basso si movien lumi, scintillando forte nel congiugnersi insieme e nel trapasso: cosí si veggion qui diritte e torte, veloci e tarde, rinovando vista, le minuzie d’i corpi, lunghe e corte, moversi per lo raggio onde si lista talvolta l’ombra che, per sua difesa, la gente con ingegno e arte acquista. E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non è intesa, cosí da’ lumi che lí m’apparinno s’accogliea per la croce una melode che mi rapiva, sanza intender l’inno. Ben m’accors’io ch’elli era d’alte lode, però ch’a me venía «Resurgi» e «Vinci» come a colui che non intende e ode (109-126). Dall’uno all’altro braccio orizzontale della croce, più attentamente osservata da Dante, ed anche tra le opposte estremità verticali, si muovevano anime di beati (che costellavano, dunque, ma non costituivano i raggi luminosi), scintillando più vivacemente, per l’accrescersi della loro carità e della loro letizia, nell’incontrarsi e nell’oltrepassarsi.32 Per dare un’idea più semplice e variante “che ’n quella croce” (accolta dal Vandelli) ci sembra tuttavia dare senso migliore: risplendeva ‘a modo di uno lampo’ (Buti). Essa concorderebbe inoltre con l’espressione usata più avanti per dire la stessa cosa (v. 108)» (Chiavacci Leonardi, comm. cit., ediz. Mondadori, p. 404; ediz. Zanichelli, p. 264). 32«Lo sfavillare non è, come vogliono alcuni, e non se ne intende né il come né il perché, al punto dove s’intersecano i due bracci della croce, ma per tutta la sua estensione; giacché a Dante è piaciuto di rappresentarli letizianti in un tripudio santamente orgiastico dentro i li- 56 Del nomar parean tutti contenti comprensibile di questa visione, il poeta – attraverso Lattanzio (preceduto, a sua volta, dal Lucrezio del De rerum natura, quando descrive il movimento degli atomi, teorizzato da Democrito e riferito nel De anima da Aristotele) – la paragona ai corpuscoli del pulviscolo atmosferico (le minuzie d’i corpi: in Lattanzio, pulveris minutias), che in forme diverse, in tutte le direzioni e con differente velocità, cambiando continuamente il loro aspetto, si muovono in una striscia di luce, da cui è attraversata spesso la zona d’ombra di una stanza, costruita con ingegno e arte dall’uomo, per difendersi dalla luce del sole.33 Un ricordo, un’esperienza visiva del mondo terreno, a cui Dante accosta, subito dopo, un’esperienza auditiva. Come la giga (uno strumento simile alla viola) e l’arpa, a causa della diversa tensione delle loro numerose corde, producono una polifonica e dolce armonia anche per chi non distingue tra loro le differenti note – e nel tintinno, usato per il concerto, ritorna il tin tin dell’orologio del canto x (141) –, così si veniva raccogliendo sulla croce, diffusa dalle anime beate (lumi), un’unica melodia, che rapiva il poeta viator, senza tuttavia poter distinguere le parole del canto, pur intendendolo come un inno di lodi per le sole espressioni giunte, in tono forse più alto, al suo orecchio, quali «Resurgi» e «Vinci» (celebranti nella liturgia la vittoria di Cristo sulla morte e sull’Inferno): lo stesso fenomeno capita spesso a chi, pur ascoltando un discorso, non riesce a comprenderlo nel suo complesso.34 Le prime cinque delle sei terzine, che descrivono le percezioni visive e acustiche di Dante dinanzi alla croce, dove si è consumato il sacrificio di Cristo e si trovano gli spiriti militanti della fede cristiana, sono strutturate a chiasmo: al centro, nella seconda, terza e quarta, il poeta ha dispomiti della figura che compongono e nella quale amano insieme di muoversi e di stare. Talché, la Croce, che fu letto di tanto dolore, rigata di sangue e di lacrime, è qui intessuta di tante gioie che ogni suo atomo è un’anima vibrante di perfetta letizia, ogni interstizio un fulgore di luce divina», C. Steiner, Il canto xiv del «Paradiso», in Letture dantesche, cit., p. 1639. 33Cfr. Arist., De anima 1 2, 404 a; Lucr., De rer. nat. ii 114-119; Latt., De ira Dei x 3 («Haec per inane irrequietis motibus volitant et huc atque illuc feruntur, sint pulveris munutias videmus in sole, cum per fenestram radios ac lumen immiserit»); Ettore Bignone, in «Rivista di filologia e d’istruzione classica», 1913, p. 248; G. Nencioni, Struttura, parola (e poesia) nella «Commedia», cit., p. 34. 34«Le parole Resurgi e Vinci sono spazieggiate da intervalli di silenzio: bastano questi intervalli a segnare il rapimento di Dante e a descrivere l’onda musicale in cui quelle si perdono. […] Qui, come nei momenti di maggiore rapimento del Paradiso, la poesia non sgorga dall’immagine precisa, ma dalla melodia e dai richiami musicali […]» (Momigliano, comm. cit., p. 673). A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 57 sto le esperienze visive e musicali del mondo terreno, nella prima e nella quinta ha collocato la visione e la melodia della sovrumana realtà paradisiaca. La forma chiastica, che incrocia i due tipi di percezioni sensoriali e le due diverse esperienze (terrena e ultraterrena), contribuisce a esprimere in maniera più intensa, proprio perché tradotta sul piano metaforico della luce e della musica, l’estasi religiosa di Dante, smarrito di fronte all’immenso spettacolo dell’inconoscibile potenza di Dio. Il rapimento estatico è espresso soprattutto dall’ultimo verso della quarta, quinta e sesta delle sei terzine («la nota non è intesa»; «sanza intender l’inno»; «come a colui che non intende e ode»), in cui il dolce concerto, prima, è accennato in modo indeterminato; poi, l’inno non è compreso nella sua interezza, pur avvolgendo la melodia tutta la croce, poiché il pellegrino è al culmine della sua estasi; infine, lo stupendo endecasillabo circolarmente conclude e riecheggia i secondi emistichi degli altri due versi. Dante intende le due parole, celebranti la vittoria di Cristo sulla morte, proprio perché pienamente armonizzate con un canto, in cui si esaltano la resurrezione dei corpi e l’assunzione dell’umano nel divino. Sintesi di tutta la duplice sequenza, visiva e auditiva, è però la musica, l’armonica polifonia del coro dei beati, manifestazione sensibile, figura della loro concordia, in perfetta sintonia con il Volere divino, come già Agostino, in un passo del De civitate Dei, aveva interpretato in senso figurale i canti di David, quali prefigurazioni della concorde armonia della futura città di Dio.35 Il canto volge ormai al termine: Io m’innamorava tanto quinci, che ’nfino a lí non fu alcuna cosa che mi legasse con sí dolci vinci. Forse la mia parola par troppo osa, posponendo il piacer de li occhi belli, ne’ quai mirando mio disio ha posa; ma chi s’avvede che i vivi suggelli d’ogne bellezza piú fanno piú suso, e ch’io non m’era lí rivolto a quelli, escusar puommi di quel ch’io m’accuso 35Cfr. Agostino, De civitate Dei, xvii, i 14. Per il coro dei beati, che è un canto polifonico, cfr. Par., x, 145-148; xxv, 130-132; ma è a xv, nei versi incipitari, che la mano divina fece tacere le corde di quei santi strumenti: silenzio puose a quella dolce lira, / e fece quïetar le sante corde / che la destra del cielo allenta e tira. Quanto a dolce, cfr. anche Purg., ix, 139-145. 58 Del nomar parean tutti contenti per escusarmi, e vedermi dir vero: ché ’l piacer santo non è qui dischiuso, perché si fa, montando, piú sincero (127-139). Negli ultimi versi, Dante, dopo avere sottolineato il suo innamoramento per quella celeste melodia, tanto che nessun’altra cosa era riuscita ad avvincerlo con sì dolci legami, si accorge di essersi spinto un po’ troppo oltre con le sue ardite parole, mettendo al secondo posto la stessa bellezza degli occhi di Beatrice, nella cui contemplazione il desiderio del suo animo trova appagamento: «ne’ quai mirando mio disio ha posa», endecasillabo che non solo, dopo la cesura del primo emistichio, pone l’accento su «disio», giudicata nel De vulgari eloquentia parola intensamente musicale, ma conferma la dimensione umana di Beatrice, pur nella sua funzione poematica di personaggio figurale.36 Tuttavia, chi considera il fatto che quegli occhi, «vivi suggelli / d’ogne bellezza» impressa dal cielo (qui «suggelli» è usato in forma passiva, nel senso di ‘impronte’),37 accrescevano nell’ascesa la loro potenza, e che Dante non si era ancora rivolto a guardarli da quando erano giunti su Marte, potrà scusarlo di ciò di cui si accusa, per poi discolparlo e rendersi conto della sua verità: infatti, la divina bellezza degli occhi di Beatrice non era stata affatto esclusa dalle sue parole, perché diventava sempre più splendente e pura salen36Cfr. De Vulg. eloq. ii, vii, 5: «disio» è «vocabulum pexum» e fa parte dei vocaboli «dolata quasi, loquentem cum quadam suavitate relinquunt»; cfr. anche Conv., iii, viii, 5-6. «Nei vv. 127-29 culmina e si risolve in un gaudio pacato ed assorto l’impressione di rapimento che investe tutte queste pagine e ne definisce il tono poetico. […] La visione della Croce, nel cielo di Marte, è la prima delle maggiori invenzioni figurative […] Nella genesi di siffatte invenzioni (la Croce, l’Aquila, la Scala) concorrono esperienze della pittura medievale ed elementi spettacolari del rituale e della liturgia. Si avverte tuttavia come Dante tende ad alleggerire e sfumare l’immagine, piuttosto che a materializzarla, a dare rilievo al sentimento più che alla figura, pur definita con geometrico rigore. Il linguaggio sottolinea il vago e l’indeterminato della visione […] Alla fine la sensazione visiva si risolve in un musicale rapimento, nel fascino di una percezione indefinita, che è come il riflesso, spiritualizzato, dello spettacolo sensibile, riportato alla sua vera natura di simbolo e di mistero (vv. 118-126)» (Sapegno, comm. cit., pp. 191-92). Quanto a «quinci» di v. 127 è da intendersi con Benvenuto:«ab hac melodia et dictis verbis»; per il v. 132, cfr. anche Purg., xviii, 31-33. 37È lo stesso senso dato dal poeta in Inf., xix, 21. Va, pertanto, esclusa l’interpretazione di alcuni commentatori antichi, quali Buti e Benvenuto, che intesero per «suggelli» i cieli, i quali imprimono forme alla materia terrestre. È da accogliere, invece, la stringente argomentazione del Torraca: «Come si può pensare che non sieno gli occhi di Beatrice, i quali “piú fanno piú suso”; il cui potere tanto più cresce quanto più ella ascende verso l’Empireo? Come non sentire il fervor dell’amore nell’immagine, nel tono stesso? Essi suggellano ogni bellezza, compiono e danno l’ultima perfezione alla bellissima tra le donne» (Torraca, comm. cit., p. 770). A. Granese Corpus gloriosum: Dante, «Paradiso» xiv 59 do di cielo in cielo.38 «Vero è che gli occhi stessi della sua donna, salendo in Marte, hanno acquistato più vivo fulgore; ma egli non li ha ancora guardati; e, solo per questo, può dire che niente più degli spiriti di Marte l’aveva sinora attirato».39 Insomma, Dante vuole salvare con questo insolito finale di canto, con accusa e scusa, recuperando ciò che prima aveva trascurato, tutte e due le bellezze: quella della melodia paradisiaca nella visione della croce e quella degli occhi di Beatrice, riportandola in primo piano e facendo in modo che senza soste l’una seguisse l’altra. Con l’appagamento negli occhi della sua donna, il poeta allenta la tensione dell’estasi e del rapimento, crea una pausa, un intervallo, per uscire gradualmente da un mondo di sole visioni e musiche paradisiache – pur con gli illuminanti confronti con le esperienze terrene – ed entrare, già dal prossimo capitulum, il decimoquinto, nel mondo della storia: dalla rievocazione dell’antica Firenze alla predizione del suo esilio, nel decimosettimo. Prepara, quindi, uno dei momenti centrali e cruciali di tutta la cantica del Paradiso: l’incontro con Cacciaguida, che rinsalderà la sua missione con un’investitura divina.40 Dal cerchio alla croce, dall’ardore di carità all’epopea cavalleresca dei crociati, dagli Spiriti del Sole, i sapienti, disposti in triplice corona e retti dalle Potestà, alle anime beate di Marte, i militanti per la fede, tripudianti nei due raggi luminosi del «venerabil segno» e retti dalle Virtù angeliche, Dante sceglie due poli unificanti, come rivelano anche le occorrenze lessicali e il registro stilistico, la luce e la musica, ruotanti intorno all’asse centrale del fuoco (lo splendore incandescente dei corpi risorti, l’«affocato riso», il «roggio» di Marte) e soprattutto intorno alla perfetta armonia, all’osmotica compenetrazione del livello sensibile e della dimensione intellettiva e, infine, intorno al grande mistero cristiano dell’umano inserito nel divino. Università degli Studi - Salerno 38 La bellezza di Beatrice è, infatti, riflesso della Rivelazione; per sincero dell’ultimo verso, cfr. anche Par., vii, 130; xxxiii, 52. 39 Michele Barbi, Problemi di critica dantesca, Firenze, Sansoni, 1975, i, p. 288. 40 «Questo è il canto dei corpi glorificati, della luce, della danza, della croce. Il poeta che sa di combattere per la giustizia sta per avvicinarsi al trisavolo Cacciaguida […]. Così i confini cielo-terra tra loro si avvicinano. La fantasia che cerca i segni arcani nella volta del cielo e nel profondo della coscienza dilata se stessa nel mondo infinito, che può accogliere lassù nel cielo di Marte gli echi dell’epopea cavalleresca di Cacciaguida, la rappresentazione di una Firenze sobria e pudica, gli emblemi araldici della vita cittadina» (G. Fallani, Il canto xiv del «Padadiso», in Nuove Letture Dantesche, cit., p. 162). Raffaele Giglio «DA LA CERCHIA ANTICA» ALL’ETERNITÀ. CACCIAGUIDA E DANTE. «PARADISO» XV La critica dantesca 1 nella sua plurisecolare storia ci avverte che qui inizia 1 Della vasta bibliografia sul canto xv mi limito ad indicare, in ordine alfabetico, le più significative e, soprattutto, quelle più vicine a noi, che mi hanno sorretto in questa lettura: Silvio Abbadessa, I cinque canti di Cacciaguida, in Id., Trame e ragioni dantesche, Bologna, Patron, 1982, pp. 137-162; Giuliana Angiolillo, Canto xv. Cacciaguida, in Ead., La nuova frontiera della tanatologia, Firenze, Olschki, 1996, iii, pp. 149-168; d’Arco Silvio Avalle, L’età dell’oro, in Id., Dal mito alla letteratura e ritorno, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 242-259; Giorgio Barberi Squarotti, La Firenze celeste, in Id., L’ombra di Argo. Studi sulla «Commedia», Torino, Genesi, 1986, pp. 215-239; W. 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Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 61 la trilogia destinata a Cacciaguida e molti commentatori nelle edizioni del poema sacro hanno preferito all’introduzione singola quella complessiva 2 relativa ai canti xv-xvii. La scelta è funzionale e risponde anche all’esigenza di presentare la trilogia come un ‘nucleo’ ben definito, che lascerebbe ipotizzare una costruzione della Commedia ‘a nuclei o a strati’,3 così come per la Vita nuova. Pur accogliendo le motivazioni che si adducono per una tale scelta,4 talsecolare commento e storia della lingua, 2008, pp. 55-92; Hans-Jost Frey, Dantes Stimme, «L’Alighieri. 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Vallone, Il canto xv del Paradiso, cit., p. 247. 4 Ibidem: «I nuclei si accentrano attorno a motivi o a fatti o a personaggi che esorbitano dalla misura di un singolo canto, in genere sufficiente alla rappresentazione, e si distendono in più canti in una progressione logica e sentimentale che gradua e arricchisce la vicenda». 62 Del nomar parean tutti contenti volta sperimentata anche in lecturae,5 credo che nella trinitaria composizione Dante, dovendo scandire necessariamente il suo pensiero nella singolarità dei canti, abbia egualmente affidato ad ognuno di essi una unità concettuale.6 Come la Trinità è composta da tre persone distinte che nel loro insieme formano l’Uno indivisibile, così in questa trilogia, con la quale il poeta vuole portare a soluzione quanto anticipato in modo particolare nel prologo, ogni singolo canto è un tassello del mosaico più grande che la trilogia rappresenta. Sono momenti distinti e cronologicamente consequenziali di una storia sospesa tra terra e cielo, che il poeta rappresenta per giustificare ancora una volta e per ricondurre al volere divino il suo viaggio oltremondano. Questo xv viene dunque a porsi come il primo atto di una passione scandita in tre momenti poetici, come l’avvio di un percorso che conduce Dante e noi lettori dall’antica cerchia di Firenze all’eternità, dall’antico mondo fiorentino al cielo di Marte dove risplende la croce dei martiri, dalla cieca società fiorentina alla luminosa vita del martire Cacciaguida. L’unità, dunque, di questo canto è la presentazione del personaggio e dell’ambiente in cui ora gode la vista di Dio e quella dei suoi tempi terreni: da qui il titolo «Da la cerchia antica» all’eternità. Prima di proseguire credo non sia fuori luogo fare qualche osservazione generale sul mondo dantesco e sulla tecnica che il poeta utilizza per comunicare ai lettori il suo sapere. La cultura di Dante ha sempre manifestato la profonda unità di cui essa è fortemente intrisa; anche se erede di varie espressioni, dalla greca alla latina, dalla laica alla religiosa, dall’orientale all’occidentale, essa è stata rielaborata dall’intelligenza e dalla passione dell’uomo Dante per ogni tipo di scienza al punto da proporsi ancora oggi come un sistema compiuto di pensiero non più medievale, ma decisamente di rinnovamento, di aspirazione verso quella nuova cultura che sarà poi quella umanistica. Pertanto questa sua unità ha permesso all’autore Dante di esprimere eguali concezioni sia in opere scientifiche che nella grande opera poetica, nella Commedia. Questa affermazione, che potrebbe apparire strana ad inizio di una lectura, specie quella del xv canto del Paradiso, trova invece una sua giustificazione in un’osservazione che credo possa avvalorare la tesi di quanti 5 Si veda ad esempio T. R. Toscano, Memoria storica e progetto politico nei canti di Cacciaguida, cit. 6 Cfr. A. Vallone, Il canto xv del Paradiso, cit., p. 249: «Questa unità del nucleo dei canti di Cacciaguida non esclude che entro ogni canto stesso l’attenzione del poeta sia stata vigile e costante a disporre e a graduare l’interna materia». R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 63 hanno sostenuto la centralità dell’episodio di Cacciaguida nell’ambito della terza cantica. Se, come è già stato fatto per commisurare la musicalità del canto al valore del cielo di Marte,7 in cui si svolge l’azione, se, dicevo, si riprende il brano del secondo trattato del Convivio dedicato alla comparazione dei cieli con le virtù e alle descrizioni delle relative proprietà, a proposito del cielo di Marte, dove incontra Cacciaguida, scrive: «E lo cielo di Marte si può comparare a la Musica per due proprietadi: l’una si è la sua più bella relazione, ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia o da l’infimo o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de li secondi, de li terzi e de li quarti»(Convivio, ii, xiii). Alla centralità astronomica di Marte qui richiamata da Dante corrisponde la centralità del contenuto del cielo di Marte all’interno della cantica del Paradiso. In tal modo si può conferire anche per questa via l’unità contenutistica alla trilogia dei canti di Cacciaguida perché l’azione poetica si svolge nel cielo centrale dell’intero sistema,8 ovvero anche il contenuto che il poeta affida alla trilogia ha una indiscussa centralità nell’ambito del messaggio generale che egli ha affidato all’opera alla quale «ha posto mano e cielo e terra». In effetti la Commedia è il frutto di un esilio, di una ingiusta accusa, di un accanimento politico contro un avversario, di una prevaricazione della giustizia e dell’ingerenza della Chiesa di Roma contro l’uomo pubblico che indicava una strada diversa per costruire la Gerusalemme terrena e rendere felici gli uomini prima di accedere alla Gerusalemme celeste. Il poeta, da cristiano, accoglie e trasforma questa ingiustizia, questo esilio in lievito, in strumento di crescita spirituale, sorretto, in questi tribolanti anni di miseria, di allontanamento dalla famiglia e da ogni personale bene, sorretto, dicevo, da quella Fede che gli ha suggerito l’arma migliore per irrobustire la propria coscienza nella certezza della via giusta intrapresa e nella sicurezza che il premio eterno non sarebbe mancato alla fine della lunga peregrinazione. Ma come attento lettore del testo fondante della fede cristiana Dante ricavava dalla Bibbia non solo i princìpi ai quali attenersi, ma anche gli strumenti che il Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento aveva utilizzato per trasmettere agli uomini il suo messaggio. L’uomo che vive in Dio sente ed agisce per suo comando; Dante ascolta Dio e narra agli altri uomini il suo messaggio, come hanno fatto gli antichi Profeti, i seguaci del Cristo e quanti 7 Cfr. T. R. Toscano, Memoria storica e progetto politico nei canti di Cacciaguida, cit., pp. 138-140. 8 Cfr. G. Costa, Il canto xv del «Paradiso», cit., pp. 3-4. 64 Del nomar parean tutti contenti hanno risposto pienamente alla sua richiesta di Fede. Il poeta è l’umile fedele che, incredulo, è stato chiamato ad un viaggio non comune per comunicare agli uomini quale sarà un giorno il castigo o il premio che sarà comminato alla loro anima in rapporto al loro comportamento in vita. Questo ruolo dantesco, che Dante più volte ha ribadito essere frutto del dono di Dio, è certamente difficile da trasmettere perché possa essere accolto dagli altri. Il fiorentino, qui personaggio, prima di poeta, deve più volte ricorrere ad artifici narrativi per comunicare ai suoi lettori che il compito che sta svolgendo gli è stato assegnato da altri e non è una sua volontaria scelta. Come gli sono stati concessi gli affanni e le privazioni dell’esilio, così, in premio, gli è stata data l’opportunità di trasmettere ai lettori la volontà divina. Nulla accade o si muove al di fuori della volontà di Colui che governa e regge il mondo. Così in terra come nei Cieli. E Dante riesce a trasferire anche nella sua poesia questa legge divina. L’inizio del canto, infatti, con i suoi primi 12 versi, costruito con un ritmo lento, che trasferisce al lettore il senso di una sorta di cesura col canto precedente, è tutto teso a dimostrare ancora una volta come la volontà divina è accolta dai beati del Paradiso. L’attacco, costruito su questo concetto di accoglienza, anticipa e sorregge quanto poi Dante tende qui a dichiarare ancora una volta sul volere divino del suo viaggio. E a ragione il Vallone ha scritto che questo inizio «vale per tutto il nucleo dei canti di Cacciaguida».9 Sono 12 versi che formano una sorta di prologo, anche se per l’intrinseca musicalità non guasterebbe il termine preludio. Il sintagma iniziale, «benigna volontade», riverbera da subito sulle due terzine seguenti il concetto della volontà a far bene opposto all’iniqua, che trae forza dall’attaccamento ai beni terreni. La «cupidità» richiama il concetto iniziale dell’opera del racconto della «cupidigia», allegoricamente rappresentata dalla voracità della lupa. All’interno del percorso mentale dantesco si ripresentano i due concetti basilari espressi all’inizio della Commedia. La volontà a perseguire il bene, già manifestata nel canto precedente con la dolcezza del canto dei beati, che cattura l’anima dantesca, ora qui si esprime nella concorde ed unanime sospensione delle «sante corde», che obbediscono al volere divino. La comunione dei beati è espressione dell’obbedienza a Dio; di qui quel «tacer … concorde» che è assenso dei beati e di Dio a che il viandante possa colloquia9A. Vallone, Il canto xv del Paradiso, cit., p. 249. R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 65 re con loro. Il poeta in tal modo attesta che quanto ora verrà a rappresentare nel prosieguo del canto (o dei canti) è voluto da Dio, che in questo modo esprime qui, come mai prima era avvenuto, il proprio pieno assenso. Continuando il paragone, quanti invece sono presi dalla cupidigia, dall’«amor di cosa che non duri», privandosi di quell’amor che è obbedienza a Dio, si privano in eterno della gioia di vivere in Dio. L’eternità della pena comporta l’esclusione eterna dall’amore, cosa ovvia ma volutamente rimarcata dal poeta, se il lettore, come qui si fa, affida l’avverbio «etternalmente» al verso in cui si trova, legandolo all’amore di cui si priva. Evitando l’enjambement tra il verso 11 e 12 si restituisce ai versi il medesimo ritmo musicale dei precedenti, che non annotano enjambements. L’armonia musicale ci aiuta così nell’interpretazione concettuale. Si osservi come ad inizio di questo canto e della trilogia cacciaguidiana il poeta abbia voluto ribadire il concetto dell’amore verso Dio, che spinge alla concordia e al bene, in opposizione alla scelta («amor») di quei beni che allontanano da Dio e, di conseguenza, anche lo spirito in eterno starà lontano da Lui. Un’altra osservazione vorrei fare per mettere a fuoco qualche argomento sulla struttura della Commedia e su quella esistenza di ‘cartoni’ suggerita da Giovanni Fallani. Al centro di ogni cantica il poeta discute del tema dell’Amore; nell’Inferno, canto xviii, nel canto destinato alle Malebolge, ci parla dell’amore venduto, ingannato, tradito; nel xviii del Purgatorio Virgilio spiega l’origine dell’amore trattato nel canto precedente; qui nel xv del Paradiso, cielo di Marte, ritorna sull’amore, quello degli spiriti beati nei confronti di Dio. Qui l’amore è elemento di concordia, è volontà unanime nell’ascolto e nell’obbedienza, ed è armonia di pensiero, che Dante trasforma in armonia poetica ad imitazione di quella cosmica; perché l’una e l’altra vivono concorde nell’amore di Dio. Ma questa volontà ad essere obbedienti all’amore di Dio giustifica, come poi dirà successivamente in questo canto con altro dettato, il dono ricevuto da Dio di conoscere da vivo il regno dell’aldilà come conseguenza delle sue scelte. Il dettato poetico in uno con la musicalità, che scandisce un ritmo lento, cadenzato, traduce la volontà dantesca di trasmettere ai lettori quell’armonia che avvolgeva i cieli e i suoi abitanti, come testimonianza di quell’armonia divina che si spande per il cosmo. In questa atmosfera del cielo di Marte, dove tutto è proporzione musicale, la poesia si accompagna alla dolcezza musicale che la lira paradisiaca emette pizzicata dalla «destra del cielo». 66 Del nomar parean tutti contenti Nel prosieguo del brano del Convivio riportato in precedenza Dante descrive un episodio accaduto in Firenze da porsi in relazione alle qualità del cielo di Marte: «[…] e in Fiorenza, nel principio de la sua distruzione, veduta fu ne l’aere, in figura d’una grande croce, grande quantità di questi vapori seguaci de la stella di Marte»(Convivio, ii, xiii). L’unità di quella cultura dianzi citata si manifesta anche con quest’immagine della croce 10 del Convivio ricostruita nel cielo di Marte, dove accoglie nelle sue braccia i beati morti combattendo per la Fede cristiana. Che l’immagine sia da ascrivere ad una tradizione orale o scritta, non conta. Qui interessa vedere come il poeta utilizzi elementi della propria conoscenza per creare immagini poetiche nuove. Dal concorde silenzio si passa al movimento luminoso dei beati attraverso una similitudine che dalla terra ci conduce al cielo: come in una notte serena la nostra vista vede all’improvviso una stella, un «foco» che «dura poco», attraversare i tersi cieli senza, però, che quel posto da cui essa ha preso movimento diminuisca in splendore, così dal lato destro 11 della croce dei beati, che lì risplende, un «astro», un beato, trascorrendo lungo il braccio, scese ai piedi di essa senza mai distaccarsi dal raggio luminoso così come una fiamma si muove dietro una lastra d’alabastro. Altri dodici versi per istituire un primo paragone tra la velocità dell’astro, della stella cadente quando attraversa il cielo, e quella dello spirito che si mosse dal luogo a lui assegnato da Dio per scendere ai piedi della croce; velocità, ma anche splendore, luminosità che qui, nel beato, traduce il bene che ha ricevuto quale premio eterno. Ma c’è anche l’obbedienza, che riprende il concetto di volontà espresso ad inizio del canto: lo spirito non si distacca dalla croce;12 la luminosità di questa non diminuisce, la «gemma» in tal modo manifesta la volontà di colloquiare; e proprio lì, ai piedi della croce, il luogo da dove Maria ascoltò le ultime parole di Gesù crocifisso e dove un esercito di fedeli si è genuflessi per portare a Lui le proprie pene e peccati,13 10Il Costa, Il canto xv del «Paradiso», cit., alla p. 5, rinvia allo Zodiaco. 11Si legga in proposito quanto riporta il Costa, Il canto xv del «Paradiso», cit., p. 9, con riferimento alla Sacra Scrittura ed al commento del Buti. 12Ernesto Travi, Lettura del canto xv del «Paradiso» cit., p. 175, appunta: «Si badi a quel muoversi dell’anima singola nella vastità silenziosa degli spazi, dal corno destro della croce ai piedi di essa senza mai staccarsene, cioè istituendo in tal modo una puntuale, continuata comunità con il Cristo ivi raffigurato, nonché con l’insieme degli altri beati…». 13Annota il Donadoni, Paradiso canto xv, cit., p. 1648:«ed è corsa sino ai piedi di quella: dove l’uomo contempla ed adora». R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 67 dai piedi della croce lo spirito beato è pronto a parlare al viandante; la velocità ed il modo sono indicatori di un rapporto particolare tra la gemma ed il viandante. La seconda parte del paragone ci avvia al compimento dell’immagine. Il poeta fiorentino non ha dimenticato il suo maestro, Virgilio, che qui è presentato come il poeta per antonomasia, quello stesso poeta che nella sua opera, dal quale il fiorentino trasse «lo stile», ci ha descritto dell’affettuoso e pressante movimento con cui Anchise si rivolse ad Enea non appena negli Elisi inaspettatamente se lo trovò davanti. Il poeta fiorentino si mostra ancora una volta debitore nei confronti dell’Eneide; come nei canti iniziali della Commedia ora anche qui Virgilio viene invocato come colui dal quale ha preso le mosse per la sua opera. Nel conferire solennità all’avvenimento che sta per narrare, Dante instaura dei ‘paragoni’ con l’opera virgiliana: Anchise richiama Cacciaguida, Enea è Dante. Virgilio e Dante, due profeti, due profezie; il primo ‘vede’ gli altri che renderanno felice un’età e il mondo che sta per venire; il secondo, Dante, attraverso Cacciaguida profetizza se stesso; e nell’uno e nell’altro caso la profezia è recitata dai loro avi. Occorre soffermarsi, seppur brevemente, sul valore di questo riferimento ad un episodio dell’opera di Virgilio, che qui non è nominato, ed in particolare alle figure di Anchise ed Enea. È stato già detto da molti che qui il poeta fiorentino intende ancora una volta, dopo l’esplicito riferimento nel ii canto dell’Inferno, collegare la sua Commedia all’Eneide del mantovano, così come Enea anticipa Dante. Il mondo pagano ed il mondo cristiano s’incontrano; lì nell’Inferno c’è anche il riferimento a san Paolo, il «Vas d’elezione», che ebbe la possibilità ancora in vita di conoscere il mondo dell’Aldilà; le due culture, la pagana e la cristiana, si fondono. Ovvero Dante esemplifica la continuazione dei due mondi, pagano e cristiano, o anche l’inveramento del mondo pagano in quello cristiano. Ma le due figure dei predecessori in questo viaggio ultraterreno rappresentano anche le due espressioni che Dante ha manifestato con il proprio impegno, quella politica (Enea) e religiosa (san Paolo). Ora vengono riproposte in questo canto per chiarire quel nodo che ad inizio dell’opera poteva apparire atto di superbia («Me degno a ciò né io né altri crede», Inf., ii, 33); qui, nel Paradiso, Dante vuole ribadire quel concetto; egli era stato scelto dalla Grazia divina a svolgere una missione privilegiata; il suo viaggio era un dono, non un’arbitraria investitura; egli era il terzo uomo al quale Dio 68 Del nomar parean tutti contenti apriva due volte le porte del cielo.14 Nello stesso tempo il poeta amplifica quanto lì aveva già dichiarato; all’aiuto offerto dalle tre donne benedette con il ricorso alla figura di Virgilio, ora qui Dante aggiunge l’opera di un beato, che vede direttamente in Dio quanto è stato stabilito per ognuno di noi. È predestinazione? Credo proprio di sì, anche se Dante concede all’uomo quella libertà di scelta, come Beatrice ci conforta a proposito della vita giovanile di Dante. Ma al di sopra di ogni personale libero percorso c’è sempre un cammino segnato da Dio. L’impegno, la missione ultraterrena di Dante è qui presentata come dono eccelso della grazia di Dio. Infatti, con la stessa rapidità di Anchise, quello spirito beato, che velocemente si era presentato ai piedi della croce, esordisce con un’espressione dalla quale si legge la gioia dell’incontro, presentato in una lingua latina adattata per l’occasione alle regole del volgare, ma anche l’eccezionalità dell’uomo che lì è giunto. «O sanguis meus, o superinfusa gratïa Deï, sicut tibi cui bis unquam celi ianüa reclusa?». (vv. 28-30) In effetti qui il poeta avvia quest’incontro rimarcando questo concetto, sul quale doveva aver più volte meditato e che gli imponeva di chiarire il perché si era autoaffidato il compito di compiere un viaggio ultraterreno; ed ecco che nelle prime festose parole dello spirito si capta anche l’esplosione dantesca, quasi una sorta di interna liberazione di un malessere, nel ribadire un concetto che possa metterlo a riparo da eventuali accuse di protagonismo e che dia al lettore un elemento di maggiore credibilità al suo racconto. Lo stesso uso di una lingua latina,15 quella che al tempo di Dante era la lingua esclusiva dei testi sacri, contribuisce a conferire una maggiore solennità a questa dichiarazione, che pure era stata anticipata ab initio dell’opera con i riferimenti a due grandi testimoni: uno del mondo classico-pagano, Enea, e l’altro tra i primi e più 14Cfr. E. Pasquini, Lettura del canto quindicesimo, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Introduzione alla cantica, commento e letture di Emilio Pasquini e Antonio Quaglio, Milano, Garzanti, 1993, p. 213:« […] egli sentiva il bisogno di un’investitura sacra che si richiamasse insieme ai nobili esemplari di Enea e di Paolo: proprio quel duplice messaggio sancisce il carattere della missione politico-religiosa affidata al terzo uomo privilegiato da una superiore grazia divina». 15A proposito di questo improvviso uso del latino si legga quanto scrive B. Martinelli, Cacciaguida oracolo di Dio, cit., pp. 265-270. R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 69 originali pagani convertiti al Cristianesimo, san Paolo. Ma ora qui l’azione si svolge in una matura epoca cristiana, e l’autore può farsi dichiarare da un beato strumento della grazia di Dio, avviando una taciuta, ma captabile comunione con quanti nella storia cristiana narrata nella Bibbia avevano espletato il ruolo di scriba Dei, di mediatori tra il tempo dell’uomo e il tempo perenne di Dio. Il lume, ancora anonimo, con l’iniziale espressione «o sanguis meus» dichiara una consanguineità che sarà chiarita più oltre, ma qui essa tradisce la gioia del beato nel ritrovarsi davanti un visitatore vivo che abbia nelle sue vene quel sangue terreno che gli diede la vita, assicurando attraverso i figli la sua perpetuazione fino ad un uomo nel quale la «gratia Dei» si è palesata in modo eccezionale («superinfusa»). Il duplice dono dell’ingresso nei Cieli da vivo e poi da morto qui dichiarato («bis unquam celi ianüa reclusa?») conforta il pellegrino-autore, che rinvia al lettore il messaggio perché possa accogliere, come frutto della Grazia di Dio, quanto egli ha scritto nella sua Commedia. Il personaggio, che è autore dell’opera, è un altro san Paolo, ma contemporaneo ai primi usufruitori della Commedia, destinata poi a percorrere il tempo del divenire umano. A fronte di tale dichiarazione affettuosa il pellegrino è preso da meraviglia; si volge dapprima verso il luogo da cui è giunta la voce, poi verso la sua Guida, Beatrice, i cui occhi belli avevano ora una luminosità ancora più splendente, tanto ch’egli crede di essere giunto al colmo della sua beatitudine. Lo stupore dantesco si congiunge qui con l’ardore della sua donna, quella che, con occhi luccicanti più della stella, s’era presentata a chiedere l’aiuto di Virgilio (Inf., ii, 55). I nodi si sciolgono; l’antefatto proemiale ora diventa più credibile; lì raccontato da Virgilio all’indeciso Dante; qui egli ha avuto contezza da uno spirito collocato nella croce luminosa del cielo di Marte. Ancora una volta, come già nella Vita nuova, Beatrice conduce Dante ai vertici della felicità; il narrato raggiunge forme espressive di alta intensità spirituale nella quale il pellegrino quasi si perde. Ed è proprio lo splendore degli occhi a dargli la tacita conferma di poter accettare il colloquio con lo spirito luminoso: ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso. (vv. 34-36) Qui tutto ha il segno del paradiso; l’immagine e gli elementi di luminosità descritti, ma anche il discorso che «lo spirto» rivolge al pellegrino. Le sue 70 Del nomar parean tutti contenti parole esprimono concetti così elevati che l’intelligenza umana non li può comprendere; e Dante fedelmente registra che l’oscurità del parlato non è da imputare alla volontà di chi parla, ma all’alto grado di grazia dello spirito, che fa riferimento ad argomenti di elevato valore spirituale. Il trascendente non è accessibile a tutti, neppure all’uomo prescelto dalla grazia di Dio per narrare questa avventura. Solo quando l’ardore iniziale, dettato dalla sorpresa improvvisa di trovarsi davanti ad un proprio discendente, diminuisce, il discorso dello spirito diventa comprensibile all’intelletto di chi veste ancora i panni terreni. Le prime parole intellegibili sono di ringraziamento al Dio, Uno e Trino, che è stato generoso con un proprio discendente. Il «sanguis meus» iniziale ora diventa «mio seme»: sia l’una che l’altra espressione, pur nella diversità della veste linguistica, confermano che lo spirito ha di fronte un proprio discendente. La cortesia di Dio è qui generosità, è grazia abbondante, dianzi espressa in lingua latina «superinfusa gratia Dei». Cambia il registro linguistico, ma non diminuisce l’intensità espressiva. Al poeta sembra opportuno frazionare il discorso dello spirito; gli è necessario per evidenziare il ringraziamento pronunciato e per riprendere un discorso ora comprensibile alle umane intelligenze. Quanto ha fin qui detto Cacciaguida non è profezia, è avveramento di una gradita e lontana attesa; in tal modo, avendo egli letto questo futuro scritto nel grande libro di Dio,16 conferisce a quanto dirà qui e nei prossimi canti un valore di certezza perché nulla cambia di quanto lì è scritto: «du’ non si muta mai bianco né bruno» (v. 51). E tanto è accaduto con l’aiuto della donna, Beatrice, che gli ha dato «le piume», il necessario per compiere «l’alto volo».17 Non poteva mancare qui il riferimento a Beatrice e alla sua presenza nella vita di Dante. È uno spirito beato ad invitare il viandante a ringraziare la donna che gli ha fornito le indicazioni giuste per raggiungere quella sapienza teologica terrena, per la quale ha potuto compiere vittoriosamente il «volo» verso l’Assoluto. Quanta distanza dal «volo» di Ulisse, che naufragò nell’oceano! Il discorso di Cacciaguida si sofferma ora, riprendendo un argomento già noto, sul modo con cui gli spiriti beati conoscono il pensiero dantesco prima che esso si tramuti in parola. Essi lo leggono nella mente di Dio, come sa bene Dante, ma perché l’ardore di carità che anima Cacciaguida possa adempiersi meglio, è opportuno ch’egli egualmente con voce «sicura, balda 16Il Consoli, Il canto xv del «Paradiso», cit., alla p. 13 scrive: «[…] l’oratio di Cacciaguida ruota interamente intorno all’asse del volere divino». 17Cfr. in proposito le annotazioni di R. Stefanelli, «Paradiso» xv, cit., pp. 29-30. R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 71 e lieta» converta in «suoni», in parole la domanda alla quale la risposta è già definita. Un artifizio poetico perché Dante possa chiedere a questo beato il nome terreno. Si nasconde in questa richiesta la volontà di presentarsi al discendente e al mondo in modo chiaro. Le parole ed il tono di Cacciaguida esprimono la gioia ed il sentimento paterno ch’egli nutre verso il viandante; non è solo l’appagamento di quel «grato e lontano digiuno», ma anche la gioia di sentirsi chiedere dalla voce di Dante le ragioni per cui egli più degli altri beati «paia/più gaudioso» a lui. Il confronto è qui tra chi già conosce il futuro (Cacciaguida) e chi è in attesa di apprenderlo; Cacciaguida legge in Dio ciò che è stato stabilito, Dante attende per farlo conoscere ai suoi lettori; ma perché possa apprenderlo deve esprimere col suono delle parole la richiesta. Nel cielo di Marte, davanti agli spiriti morti in difesa della Fede cristiana, Dante deve far sentire l’armonia della propria voce, che deve manifestare sicurezza, felicità, cancellando le angosce che lo attanagliano. E senza timore, perché la risposta alla sua «volontà» e al suo «disio» è «già decreta». L’attuazione dell’una e dell’altro è già stabilita nella mente di Dio. Ritorna il discorso sulla predestinazione? Gli antichi commentatori erano di questo avviso. Quali sono i motivi, le ragioni per le quali egli è stato scelto come terzo uomo, dopo Enea e san Paolo, per compiere un viaggio nell’Aldilà? Non sono esplicitate, ma, forse, relegate a quel «non detto», a quelle parole pronunciate da Cacciaguida che le menti rivestite ancora di carne non possono comprendere; le motivazioni sono in quel discorso, il cui «concetto/ al segno d’i mortal si sovrappose», nei versi 37-42. La domanda di Dante viene posta dopo aver avuto l’assenso luminoso di Beatrice, che accrebbe in lui la voglia della richiesta. Dante non può rispondere alle parole dello spirito beato; quel discorso trascendente ch’egli ha tenuto è frutto in egual misura di quell’amore e di quella intelligenza che a loro discende direttamente da Dio nel momento in cui egli, il Sole, li illuminò e li fece ardere d’amore, trasferendo col calore la carità e con la luce l’intelligenza; e poiché Dio è di eguale misura in ogni suo aspetto, anche i Beati l’hanno ricevuta con questa eguaglianza. Ma negli uomini, che sono ancora provvisti di carne, la volontà e l’intelligenza sono diverse tra loro per colpa di quel peccato originale che li privò dei beni della creazione; di qui, Dante, che fa ancora parte dell’umanità, è provvisto di questa diseguaglianza che gli consente solo di ringraziare col cuore la paterna accoglienza. 72 Del nomar parean tutti contenti Questa è la premessa, tutta umana ed affettuosa, alla domanda diretta, «mi facci del tuo nome sazio», ch’egli rivolge al «vivo topazio» che rende più splendente il gioiello, la croce. Lo stile e il contenuto si adeguano al discorso del beato; il viandante si mostra poco pennuto in ali; la sua sapienza teologica non può eguagliare la conoscenza di coloro che eternamente contemplano Dio dal quale ricevono tutte le sue potenzialità in egual misura. L’uomo, al quale pure è stato concesso questo viaggio straordinario, si ritrova ancora con il fardello dell’insufficienza intellettiva dell’intera umanità. A fronte di questa confessione di inferiorità s’ergono il valore ed il regalo ottenuto dalla grazia di Dio; egli è a metà strada, tra la vita dei beati e l’umanità; la parola ch’egli possiede è ancora quella degli uomini mortali, ai quali sta esemplificando un viaggio all’Assoluto. La conoscenza teologica, che è in suo possesso, è frutto esclusivo di un impegno intellettuale, seppure rafforzata da una volontà che nasce dalla Grazia; gli manca la contemplazione diretta di Dio, l’unica che rende lo spirito umano, eguale a Lui. Come talora avviene nella poesia dantesca il poeta anticipa con sintagmi, aggettivi o sostantivi argomenti che tratterà nel prosieguo del canto. L’aggettivo «paterna» anticipa l’attacco con cui lo spirito si avvia a dichiarare il proprio nome e a parlare di sé. La poesia qui vive di immagini bibliche e adopera la metafora «fronda-radice» per indicare il rapporto di discendenza che c’è tra chi ascolta, Dante, e chi parla, Cacciaguida. Il compiacimento dello spirito, ricalcato su quello espresso da Dio Padre nel momento del battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista,18 è espresso in due versi, nei quali la discendenza è posta ad inizio e il capostipite alla fine. Non credo che qui si debba ricorrere all’immagine dell’albero capovolto già altrove utilizzata da Dante; la costruzione risponde, a mio giudizio, ad una caratteristica espressiva del linguaggio di Cacciaguida che esordisce sempre citando la persona verso la quale esprime la sua gioiosa accoglienza. In nove versi Dante costruisce una sorta di albero genealogico della sua famiglia;19 il capostipite scelto è il personaggio che meglio degli altri poteva presentare Dante in un cielo del Paradiso, perché gli altri discendenti sono tutti collocati tra Inferno e Purgatorio. Questo l’albero genealogico dantesco, partendo dal prescelto capostipite: da Cacciaguida nacque Alighiero i, dal quale deriva la «cognazione» la 18Cfr. Matteo, 3, 17; Marco, 1, 11; Luca, 3, 22. 19Lo Stefanelli, Paradiso xv, cit., p. 32, annota che «Dante conosce poco del proprio albero genealogico, oltre Cacciaguida non può andare…». R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 73 famiglia di Dante; da questi nacque Bello, padre a sua volta di Geri e Bellincione; da questi nacque Alighiero, che definisco all’uso moderno ii, padre di Dante. Questi avi sono stati disseminati nei tre regni ultramondani: Geri è citato nel xxix canto dell’Inferno, ucciso a tradimento da un Sacchetti e non ancora vendicato, come era consuetudine del tempo; Alighiero i è tra i superbi del Purgatorio, dove per più di cent’anni ha girato la cornice e per il quale il padre chiede ad una sua «fronda» di abbreviargli la permanenza colà attraverso le preghiere; Cacciaguida è qui nel Paradiso. Annoto che la dinastia dantesca (almeno per quella citata) ha avuto un periodo di decadenza spirituale, che ora viene interrotta e invertita dal nostro poeta; si rifletta, infatti, che dal Paradiso, dove è collocato il capostipite prescelto, si passa al Purgatorio, dove è punito il figlio di quest’ultimo, per giungere all’Inferno dove c’è Geri del Bello. In successione tre generazioni (Cacciaguida, Alighiero i, Geri) in decrescendo sono passate dal Paradiso all’Inferno. Mi pare significativa questa decadenza se la teniamo in considerazione per valutare l’esaltazione che il poeta fa dell’antica Firenze, quella che diede i natali a Cacciaguida. Tale scelta nasce dalla volontà di creare per sé un’origine genealogica di indiscusso valore, che per le sue imprese terrene e per il premio eterno ricevuto potesse giustificare agli occhi del mondo, con l’autorità che gli deriva dal leggere tutto nella mente di Dio, la scelta dell’uomo Dante a compiere il viaggio ultraterreno. Dante parla di Cacciaguida e non del padre suo perché questi era «persona assai limitata»20 ovvero perché il padre per il mestiere di usuraio poco si sarebbe prestato a svolgere questo compito così delicato. Dante sceglie quale capostipite l’avo più lontano nel tempo, anche perché, conoscendo di questo personaggio ben poco, ha potuto costruirlo a suo piacere,21 collegando la propria stirpe non a personaggi superbi o avari, di cui pure non disconosce la discendenza, ma ad un uomo che aveva sacrificato la vita per la diffusione della Fede cristiana. Il ritratto ch’egli traccia di Cacciaguida corrisponde al valoroso uomo medievale impegnato militarmente, legato agli affetti familiari, devotamente 20G. Costa, Il canto xv del «Paradiso», cit., p. 13. 21Cfr. U. Bosco in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Paradiso, a c. di U. Bosco e G. Reggio, cit., pp. 242-243 e Guido Di Pino, Firenze nella immaginativa oltremondana di Dante, cit., p. 329, avverte che dei «personaggi storici che parlano con Dante di Firenze […] Cacciaguida è il più elevato, però anche il più ‘inventato’». 74 Del nomar parean tutti contenti religioso se ricorda di essere nato sotto la protezione di Maria e, soprattutto, martire per la difesa dei valori cristiani. Nobile, dunque, non per nascita, ma per acquisizione di meriti sul campo. Dante l’ha costruito a sua immagine e somiglianza; ha in lui disegnato l’avo più degno a cui riallacciare la propria vita. Ma ci sono altre motivazioni a base di questa scelta. Politicamente negli anni in cui compone il canto, 1317, Dante ha perduto tutto; anche i suoi figli sono stati condannati a morte. E se è vero, come è vero, che il poema è in parte anche l’autobiografia dantesca, il poeta ha voluto con Cacciaguida, resuscitato dall’oblio del tempo, dimostrare ai fiorentini l’impegno che la sua famiglia aveva pure svolto nell’ambito della storia europea e cristiana. Invocare Cacciaguida, riportare la sua figura nell’ambito della Firenze sana e pudica significa per il poeta riproporre ai suoi lettori un’immagine non di un personaggio astratto, ma di un familiare al quale viene pure affidato il compito di raccontare succintamente la storia di una famiglia della «cerchia antica»: quella di Dante, il sovversivo condannato all’esilio. In tal modo egli cala se stesso nella storia fiorentina contrapponendo all’ingiusta infamia subita la propria origine genealogica, elementi di grandezza familiare e se stesso. L’impegno civile di Cacciaguida rivive in quello del poeta; la «radice» e la «fronda» di questa microstoria fiorentina che ha impegnato quasi due secoli. Ed è, come ricorda il Vallone,22 anche una risposta precisa alla domanda altezzosa di Farinata nel x dell’Inferno: «Chi fur li maggior tui?». Quella replica concisa («non gliel celai, ma tutto gliel’apersi», v. 44), quel non detto ora trova una più ampia risposta. Qui la poesia narra di una famiglia fiorentina che alla Fede in Cristo ha dato una parte di sé: Cacciaguida ha sacrificato la propria vita in una crociata contro gli infedeli per difendere quei luoghi santi, che ora non sono difesi dal Papa; Dante, la fronde di quella famiglia, ultima in ordine di tempo, ha dedicato la sua vita di esiliato a scrivere, quale scriba Dei, l’opera che invoca il rinnovamento di quella Chiesa, che nel corso dei secoli è stata tradita dai suoi rappresentanti. Cacciaguida è la voce di Dante, che insegue un mito, un antico sogno di dolcezza, di carità, di amore familiare, qui ripresi nel ricordo poetico ed umano che traccia di Firenze antica.23 La vita da esiliato con la privazione di 22A. Vallone, Il canto xv del Paradiso, cit., p. 257. 23Cfr. W. Binni, Il canto xv del «Paradiso», in Id., Incontri con Dante, Ravenna, Longo, 1983, p. 61:«Tornano le varie e frequenti espressioni della nostalgia dell’esule per la sua città, R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 75 ogni bene lo portava a desiderare un nido amico, una famiglia legata ai valori cristiani, una città onesta, laboriosa, attenta alla vita civile e priva di quelle vessazioni politiche che rovinavano non solo Firenze, ma anche le famiglie e i suoi uomini. Legittima la sua aspirazione, anche se la realtà non lo confortava. Il rifugiarsi in questo lontano mondo gli procurava un po’ di serenità, lo spingeva a meditare sul divenire sociale, ritrovando le cause del deterioramento spirituale dei fiorentini. Il discorso su Firenze antica è di una modernità incredibile. La velocità con cui le città crescono, si modificano, mutando costumi degli abitanti, ormai consunti ed agitati dal rapido e facile guadagno, anche a noi oggi, all’animo di chi gode e vive d’onestà ed implora giustizia sociale e civile, si manifesta come lo strumento che stritola ogni avanzo di civiltà passata per imporne un’altra che spinge gli onesti a guardare al passato con affetto e rimpianto, perché in quel tempo si consumava una civiltà sociale che guardava all’uomo nel suo impegno civile ed umano. Nei versi danteschi il passato si sovrappone al presente, si manifesta alla coscienza dell’uomo onesto come il tempo di una maggiore e più ricercata parsimonia e giustizia sociale, attaccamento al mondo familiare, elogio di virtù cristiane, che ora sono diventate, appunto, solo ricordo; tutte sono cadute e sono state ampiamente sostituite dall’affannoso ricorso al guadagno, che lacera, poi, i costumi e i sentimenti più nobili dell’uomo. L’elegia di Firenze antica impegna i versi 97-148; e sono di sicuro tra i più famosi della Commedia. È una sinfonia di un crescendo sempre più rapido; dopo l’iniziale pacato attacco della prima terzina nella quale il poeta, con rapido tocco, comunica ch’egli fa riferimento alla Firenze racchiusa nell’antica cerchia di mura, di cui è testimonianza l’antica chiesa di Badia, il cui campanile segna ancora ai cittadini l’ora «terza» (nove del mattino) e la «nona» (tre del pomeriggio); la poesia esprime nel verso 99 tutta l’ansia di quiete e di pace che l’animo dell’esiliato-pellegrino desidera e che riverbera in questa malinconica rievocazione della sua Firenze, che se ne «stava in pace, sobria e pudica». Pace, sobrietà e pudore: sono i tre elementi che angustiano l’animo di Dante perché assenti ormai nella sua città; e li fa rivivere allora in questa ricostruzione storico-sociale in cui la tensione spirituale del poeta dà vita ad imle sue acerbe invettive contro il lusso e la corruzione presente, torna l’impeto dell’ardente rimpianto […] e riaffiorano i più teneri movimenti della sua poesia verso le cose semplici e schiette, verso la pace e l’intimità della vita cittadina e familiare». 76 Del nomar parean tutti contenti magini, ad avvenimenti che acquistano, nell’uso dell’anafora, la dimensione quasi del racconto epico. Non dimentichiamo, però, che questo è il racconto di Cacciaguida, la voce dantesca, che di quel mondo era stato degno rappresentante. Fiorenza dentro da la cerchia antica, ond’ ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona. Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote non fuggien quinci e quindi la misura. Non avea case di famiglia vòte; non v’era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ciò che ’n camera si puote. Non era vinto ancora Montemalo dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto nel montar sù, così sarà nel calo. (vv. 97-111) Quindi si descrive per contrasto rispetto al mondo coevo a Dante, attraverso l’uso di ben quattro anafore, il mondo morale della città antica; le prime due quartine sono destinate al mondo femminile. Le donne allora non facevano uso né di collane né di corone che adornavano il capo, né di abiti con fregi, né di cinture che attiravano gli occhi più della stessa persona; le figlie, al momento della nascita, non incutevano nei genitori l’ansia o la preoccupazione né di un matrimonio in giovanissima età né di una dote eccessiva. La sobrietà si manifestava anche nell’uso di case non troppo grandi, mentre la famiglia cresceva con la prole, perché ancora non si era diffuso l’esclusivo piacere sessuale alla maniera di Sardanapalo. Neppure la città di Firenze si era abbellita così tanta da superare le bellezze di Roma; anche se Firenze come supererà Roma in ascesa, così la supererà anche nella decadenza. Il riferimento è qui non solo alla bellezza artistica e paesaggistica, ma anche al comportamento morale degli abitanti. E si noti l’amplificazione dei riferimenti: dall’iniziale accenno ai costumi femminili passa a descrivere i comportamenti familiari per chiudere, poi, con le abitudini della città. La donna ha avuto la precedenza perché, come è stato giustamente osservato, è il costume femminile a fornire «il più visibile segno della temperie morale di R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 77 una città»,24 ma anche perché attorno ad essa si sviluppa quell’unione familiare cara al poeta.25 Bellincion Berti vid’ io andar cinto di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio la donna sua sanza ’l viso dipinto; e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio esser contenti a la pelle scoperta, e le sue donne al fuso e al pennecchio. Oh fortunate! ciascuna era certa de la sua sepultura, e ancor nulla era per Francia nel letto diserta. L’una vegghiava a studio de la culla, e, consolando, usava l’idïoma che prima i padri e le madri trastulla; l’altra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famiglia d’i Troiani, di Fiesole e di Roma. Saria tenuta allor tal maraviglia una Cianghella, un Lapo Salterello, qual or saria Cincinnato e Corniglia.(vv. 112-129) Quasi con arte prossemica ora la descrizione riporta in primo piano i protagonisti di questo mondo come sorpresi a vivere una giornata qualsiasi nel centro di Firenze; è l’esaltazione delle antiche e nobili famiglie fiorentine, qui rappresentate dai loro maggiori esponenti. Ora è un uomo ad aprire questa sorta di corteo che ci consente di valutare il modo di vestire e i comportamenti sociali. Tocca a Bellincion Berti della famiglia dei Ravignani che ha solo una cintura di cuoio con fibbia d’osso, mentre la moglie non ha «’l viso dipinto»; seguono le famiglie dei Nerli e dei Vecchietti, che indossano abiti di pelle non foderate, mentre le loro mogli erano dedite alla filatura. La sobrietà dei costumi e la parsimonia familiare consentiva a queste donne fortunate di non conoscere l’esilio, di poter trascorrere nella loro città gli ultimi giorni, assieme ai loro uomini, che ancora non abbandonavano le case per andare in Francia a commerciare. L’unione familiare si affaccia continua24 Dante Alighieri, Commedia. Paradiso, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1994, p. 430. 25Il Donadoni, Paradiso canto xv, cit., alle pp. 1659-1660, scrive:«Nella parsimonia della casa, esse erano ricche della divina ricchezza degli affetti». 78 Del nomar parean tutti contenti mente alla mente del poeta; quante volte avrà riflettuto sulla propria famiglia dispersa, priva di godere della gioia del focolare comune e della certezza di una tomba in Firenze! Si ritrovano qui le ansie e le preoccupazioni dell’uomo Dante proiettate in questo antico mondo, immaginato alla stregua dei suoi sogni.26 E nell’ora della tristezza e della solitudine gli saranno tornati alla memoria anche i momenti familiari trascorsi con la moglie presso la culla dei figli, che ora ritornano in questo altro spaccato familiare per presentare le donne della «cerchia antica». Mentre alcune vegliavano i figli nella culla, consolandoli con quel linguaggio tutto infantile che rende felice prima i genitori, le altre donne si dedicavano alla filatura, raccontando a tutta la servitù («famiglia») le antiche storie di Troia, di Firenze e di Roma. La pace, la dolcezza, l’intimità della famiglia operosa e sobria sono i cardini della vita civile nella quale l’uomo può far prosperare serenamente la città. In questa società appena descritta una donna dai costumi lascivi come la coeva Cianghella ed un uomo politico corrotto come l’altrettanto suo coetaneo Lapo Salterello sarebbero stati accettati con la stessa meraviglia con cui oggi verrebbero accolti Cincinnato e Cornelia dei Gracchi. Questi personaggi citati dal poeta per rappresentare il mondo moderno a fronte di quello antico sono posti in forma chiastica: la disonesta Cianghella, figlia di Arrigo della Tosa e sposa, poi vedova, di Alidosi da Imola, è in opposizione alla matrona romana Cornelia dei Gracchi, esempio di virtù familiare; il poeta, giurista e uomo politico Lapo Salterello, simbolo della corruzione politica dei tempi danteschi, è in opposizione al virtuoso Cincinnato, il dittatore che dopo la vittoria sui nemici, sugli Equi, rinunciò ad ogni onore. Sono esempi significativi per evidenziare la sostanziale distanza che si è venuta a creare in Firenze nell’arco di quasi due secoli; l’antica città, che a molti è apparsa come exemplum della Roma repubblicana attraverso i personaggi citati, aveva nel suo seno e nella sua vita civile le potenzialità per consentire all’uomo di vivere serenamente; come l’animo del poeta agognava da tempo. In questa felice oasi di pace, sobrietà e pace nacque Cacciaguida. La poesia ci trasmette tutta la felicità del beato, che è poi quella di Dante: 26Ed il Binni, Il canto xv del «Paradiso», cit., p. 62, annota:«[…] così in questo canto contribuisce a saldare i suoi sentimenti e i suoi temi personali e poetici, il suo dolore di esule, la sua aspirazione alla pace, la sua condanna del presente […] entro la forza di una fede umana e poetica…». R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 79 A così riposato, a così bello viver di cittadini, a così fida cittadinanza, a così dolce ostello, Maria mi diè, chiamata in alte grida; e ne l’antico vostro Batisteo insieme fui cristiano e Cacciaguida. (vv. 130-135) Qui inizia il racconto della vicenda terrena dello spirito; tre terzine per indicare la nascita e la famiglia; altre terzine per narrare l’impegno di crociato che lo condusse alla morte. Significativo l’attacco iniziale dove gli aggettivi «riposato» «bello» «fida» e «dolce» trasmettono ancora una volta quanto il poeta ricercava per sé; ed acquista maggiore evidenza, a mio parere, il sintagma «fida/cittadinanza»: vivere tra cittadini con i quali potersi fidare; è il momento più alto di questa malinconica ricostruzione di un passato immaginato sotto la pressione delle proprie aspirazioni. C’è una consonanza marcata qui tra il racconto di Cacciaguida e la vita dantesca; lo spirito beato conferma dalla nascita la devozione a Maria, invocata come tradizione al momento del parto, e richiama quel Battistero di San Giovanni nel quale col battesimo divenne cristiano col nome di Cacciaguida; è lo stesso Battistero nel quale il poeta sperava poter essere incoronato poeta ove mai ci fosse stato un suo ritorno a Firenze. Questi motivi rendono Dante degno discendente di Cacciaguida; entrambi hanno ricevuto in quel Battistero il crisma cristiano ed a quel Battistero hanno sempre guardato come simbolo della Fede cristiana che andava salvaguardata e difesa. Ebbe due fratelli Cacciaguida, Moronto ed Eliseo, e sposò una donna di «Val di Pado» da cui Dante avrebbe preso il «sopranome» Alighieri. Così Dante nella ricostruzione della parentela. Documenti e primi commentatori ci dicono che Cacciaguida era già morto all’altezza del 1189, che sposò una donna probabilmente di Ferrara, perché lì era attestata una famiglia Alighieri, e che Cacciaguida, attraverso il fratello Moronto, era imparentato con gli Elisei. Si sa che in ogni famiglia, ieri come oggi, quando si tenta di ricostruire parentele e discendenze a distanza di secoli spesso una manipolazione di avvenimenti e rapporti può facilmente avvenire. Così probabilmente per Dante, se si vuole escludere una volontà del poeta a dare più consistenza storica alla propria «radice». L’ultima parte del canto è il trionfo del martirio di Cacciaguida, è la storia terrena di un uomo che seguendo l’imperatore Corrado iii di Svevia 80 Del nomar parean tutti contenti ottenne da lui il titolo di cavaliere per il valore dimostrato e lo seguì anche in Terrasanta dove la «gente turpa» lo liberò dal fardello terreno, ed in premio ebbe la pace del Paradiso. Poco interessa quanto la ricerca storica ci propone circa la veridicità di certe affermazioni dantesche. Spesso a noi non è giunto ciò che è veramente accaduto; oppure le indicazioni del poeta sono da assumere, come faccio, in modo indicativo e non tassativo. Nessuna fonte ci dice di un Cacciaguida morto in una crociata, ma perché non credere a Dante? Quante altre volte nel poema ci ha presentato personaggi sconosciuti ad un’altezza cronologica della nostra ricerca e poi ritrovati in documenti a distanza di tempo? Al poeta tutto è concesso; una legge antica, che vale anche per Dante. Dalla «cerchia antica» Cacciaguida giunse all’eternità, dove ha atteso l’arrivo della sua «fronda», come aveva letto nella mente di Dio. Ora i due si confrontano, un ponte è stato costruito tra la terra e il cielo, tra l’umano e il divino; lo spirito beato è chiamato a dire a Dante quanto egli ha letto di lui nel magno volume. Per il cittadino di Firenze inviato in esilio con l’accusa di baratteria e per il poeta, che era sceso nell’Inferno, passando per il Purgatorio prima di giungere al Paradiso, questo incontro di Cacciaguida, cavaliere morto in una crociata ed asceso alla gioia eterna, è il mezzo per rendere veritiero il suo messaggio, per confermarsi nella posizione di scriba Dei e per conferire alla sua opera quel valore messianico al quale ha sempre tenuto, se ad essa, come poi dichiarerà, «ha posto mano e cielo e terra» (Par., xxv, 2). La speranza ch’egli lì nel xxv del Paradiso esprimerà di tornare nel «bello ovile», dove dormì «agnello», «con altra voce» e «con altro vello», ovvero come «poeta», passa anche per questo primo canto della trilogia cacciaguidiana perché da questo canto xv inizia l’azione avviata perché il lettore ed i fiorentini sappiano che l’Assoluto, e con lui tutti i Beati del Paradiso, hanno consentito a lui, terzo uomo dell’umanità, di compiere un viaggio ultraterreno perché come gli garantirà Cacciaguida, che legge in Dio tutto ciò che dice ed è scritto là dove «non si muta mai bianco né bruno», «se la voce tua sarà molesta/ nel primo gusto, vital’ nodrimento/lascerà poi, quando sarà digesta» (Par., xxvii, 130-132). E si soffermi sull’ultimo verso: «e venni dal martiro a questa pace». È un verso di chiusura, nel quale, per ora, si ferma anche il poeta. La pace, quella sua interiore ricerca, dettata dalla vita e dalle privazioni dell’esilio, ricompare qui, alla fine di un racconto, che è in parte anche la storia del poeta. L’antitesi «martiro»/«pace» racchiude la vita dell’uomo che ha scritto questi versi; R. Giglio «Da la cerchia antica» all’eternità. Cacciaguida e Dante. «Paradiso» xv 81 dal martirio dell’esilio giungerà poi alla pace promessa, perché a lui le porte del Cielo sono state aperte due volte. Vorrei chiudere con una breve osservazione. Gioacchino Paparelli definiva la Commedia come «una lunga lettera di un condannato a morte»:27 come tanti, uccisi dalla cattiveria e dall’odio umano nelle prigioni del mondo e nei campi di sterminio, che hanno affidato il loro ultimo messaggio a lettere perché i loro aguzzini e il mondo conoscessero la verità, affidando alle parole scritte il grido della loro innocenza, così anche Dante alla sua opera ha consegnato il grido della propria innocenza e l’alto incarico affidatogli da Dio. E non certo solo per il suo bene futuro, ma anche per gli uomini del suo tempo, per i suoi accusatori, se Cacciaguida ripeterà le parole scritte ad hoc nel magno volume: Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur l’anime che son di fama note, che l’animo di quel ch’ode, non posa né ferma fede per essempro ch’aia la sua radice incognita e ascosa, né per altro argomento che non paia». (Par., xvii, 136-142) L’uomo, di ieri come quello di oggi, ha bisogno di esemplificazioni concrete, vere, comprensibili per poter accogliere il messaggio che esse trasmettono; Dante lo ha fatto per gli uomini di ieri; ma da quelli, le nostre «radici», possiamo ricavare il messaggio che viene a noi, nuove «fronde» di un divenire storico legato, però, a quell’immutabile dell’eternità. Università degli Studi “Federico II” - Napoli 27Gioacchino Paparelli, Ideologia e poesia di Dante, Firenze, Olschki, 1975, p. x. Niccolò Mineo RILETTURA DI LETTURE: IL CANTO XXX DEL «PARADISO» E I «TEMPI ULTIMI»1 Sono convinto che oggi per la «lectura» del singolo canto della Commedia non possa proporsi più l’esposizione e l’interpretazione integrale del testo, poiché la messe di interventi, sia delle precedenti letture come dei commenti come delle osservazioni ritrovabili in saggi e studi complessivamente dedicati ad altri canti o ad altri temi, è tale che tener conto di tutto e discutere con ognuno su ogni singolo punto è impresa ormai impossibile. O, a tentarla, si rischia di scrivere ogni volta un grosso libro. Mi limiterò quindi a specifiche considerazioni su precisi punti del canto ora preso in esame, sui quali, a mio parere, è necessario invitare a nuove riflessioni. Ricorderò via via i risultati interpretativi sicuramente e generalmente acquisiti – ma la scelta è già legata all’ipotesi interpretativa generale seguita – e proporrò possibili integrazioni e sviluppi, enucleando eventuali ulteriori punti problematici. Il xxx del Paradiso, va detto in premessa, è uno dei canti più pieni di significato nell’impianto generale del poema: segna il passaggio dal mondo dei corpi, i cieli, a quello assolutamente spirituale. Ne deriva – ma non certo necessariamente – una complessità e ricchezza espressivi del tutto particolari, nel segno di una polisemia, dico per ora, dialettica. Fondamento dell’analisi sarà l’individuazione della paradigmaticità, della strutturazione profonda, del sistema delle funzionalità, del legame organico tra le parti. Ne discenderà il rilevamento di livelli espressivi e di significato che si possono definire presenti in trasparenza. Impegno di fondo è la definizione del modo di costituirsi del rapporto terra/cielo. Punto decisivo in ordine all’unità del canto. Procedo a fissarne l’ordine di distribuzione della materia, che chiamo «divisione», nelle varie suddivisioni, tenendo conto, ma non senza variazio- 1 Questo schema di lettura è stato presentato nel marzo 2009, per il ciclo di letture 2008-9 della Casa di Dante in Roma. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 83 ni, di quella minuziosa e attenta di Hollander:2 Divisione Pa rt i, Temp i, Situazioni, scansioni Pa rt e I – vv. 1-33, Preparazione alla visione dell’Empireo, in due tempi: Tem p o 1, vv. 1-15: Passaggio dal primo mobile all’empireo: Situazione a), vv. 1-9, Il cielo dalla terra, Situazione b), vv. 10-13, Scomparsa oggetti nel cielo, Situazione c), vv. 14-15, Sguardo in Beatrice. Tem p o 2, vv. 16-33: Lode di Beatrice: Situazione a), vv. 16-27, La bellezza di Beatrice, Situazione b), vv. 28-33, Incapacità di rappresentare. Pa rt e I I – vv. 34-138, Visione dell’Empireo e ambientazione, in cinque tempi: Tem p o 1, vv. 34-43: Spiegazione di Beatrice, con connessione a parte precedente. Tem p o 2, vv. 46-60: Illuminazione: Situazione a), vv. 46-51, evento, Situazione b), vv. 51-54, spiegazione, Situazione c), vv. 55-60, comprensione e conclusione dell’evento. Tem p o 3, vv. 61-123: Atto della visione: Situazione a), vv. 61-69, prima immagine, il fiume, Situazione b), vv. 70-81, spiegazione di Beatrice, Situazione c), vv. 82-96, seconda e definitiva immagine, la circolarità, Situazione d), vv. 97-99, invocazione a Dio in quanto fonte di grazia, Situazione e), vv. 100-123, descrizione della visione: scansione 1, vv. 100-102, spiegazione, 2 Robert Hollander, Paradiso xxx, in «Studi Danteschi», 1988, pp. 3 sgg. 84 Del nomar parean tutti contenti scansione 2, vv. 103-120, visione, scansione 3, vv. 121-123, spiegazione. Tem p o 4, vv. 124-128, Spostamento dei due personaggi. Tem p o 5, vv. 129-138, Descrizione generale di empireo da parte di Beatrice e indicazione di Arrigo. Pa rt e I I I – vv. 139-148, Beatrice condanna la società contemporanea e profetizza punizione – tempo e situazione unici -: scansione 1, 139-141 scansione 2, 142-148 Fornisco ora lo schema della C o s t r u z i o n e:3 similitudine, 1-9, diegesi, 10-15, riflessione e constatazione, 16-33, diegesi, 34-7, con commento interno di v. 36, mimesi, 38-45, similitudine, 46-48, diegesi, 49-51, mimesi, 52-4, diegesi, 55-69, mimesi, 70-74, diegesi, 75, mimesi, 76-81, similitudine, 82-84, diegesi, 85-90, similitudine, 91-93, diegesi, 94-96, presentizzazione, 97-99, diegesi, 100-108, similitudine, 109-111, diegesi, 112-114, riflessione, 115-117, diegesi, 118-120, riflessione, 121-123, diegesi, 124-28, con similitudine interna di v. 127, mimesi, 129-148. Commento, mimesi, ma con allocutore unico, e diegesi si alternano e si presentano quasi in uguale misura, con lieve prevalenza della diegesi e del commento sulla mimesi. Una condizione di equilibrio. L’organizzazione esterna sembra voglia corrispondere alla realtà del mondo contemplato, un mondo fatto di suprema armonia. Interpretazioni e rilievi generali acquisiti ed acquisibili. Canto di svolta. Organica connessione all’insieme dei momenti della narrazione. 3 Mi rifaccio alla mia proposta di distinzione delle forme narrative del poema, Il commento come forma della narrazione nella «Divina Commedia», in «Letture classensi», 1999, Costruzione narrativa e coscienza profetistica nella «Divina Commedia», a c. di N. M., Ravenna, Longo, 2000, ora in N. M., Dante: un sogno di armonia terrena, Torino, Tirrenia Stampatori, 2005, vol. i. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 85 Individuazione nel canto di tre parti in legame organico.4 Centralità del vedere in generale. Centralità dell’invocazione.5 Elevata presenza di suggestioni intertestuali, indicate già da Tommaseo:6 fonti bibliche, filosofico-teologiche,7 virgiliane. Elevata presenza di latinismi e neologismi. Dalla «fiumana» infernale a quella paradisiaca: un compimento.8 Relazione di equivalenza tra linea e cerchio e tempo/eternità.9 Si apre con sguardo verso l’alto e si chiude con sguardo verso il basso.10 Particolare d’eccezione: la visione dei beati anche in corpo.11 Problemi, integrazioni e sviluppi generali. Forte evidenziazione dell’uscita di Dante e Beatrice dalla dimensione spazio-temporale, vv. 38-42, con la reduplicatio – anadiplosi – che chiamo ascendente. Ma il tempo, in quanto eventi e storia, è proposto alla fine della prima parte e sarà presente nuovamente alla fine del canto. Che in effetti è costruito secondo il rapporto tempo-eternità, terreno-ultraterreno. L’immagine riferita al terreno è sempre rara e raffinata, come nel caso del «clivo» di verso 109. 4Walter Binni, Il canto xxx del «Paradiso», in Lectura Dantis scaligera, Paradiso, Firenze, Le Monnier, 1968, p. 1066. 5 Robert Hollander, Paradiso xxx, cit., p. 4. 6Cfr. Paolo Savij Lopez, Il canto xxx del «Paradiso», in Lectura Dantis Orsanmichele, Firenze, Sansoni, 1904, ora in Letture dantesche, a c. di G. Getto, Firenze, Sansoni, 1961. 7 Riccardo Scrivano pensa alla Reductio di Bonaventura: Poesia e dottrina nel xxx canto del «Paradiso», in «Critica Letteraria», 1989, poi in «L’Alighieri» 1993, pp. 96-7. 8 Gennaro Savarese, Canto xxx, in Lectura Dantis Neapolitana, Paradiso, Napoli, Loffredo, 2000, p. 596. 9 Christopher Kleinhenz, Paradiso xxx, in Dante’s Divine Comedy, iii. Paradiso, in Lectura Dantis Virginiana, iii. Dante’s Paradiso: Introductory readings, edited by Tibor Wlassics, Supplement to «Lectura Dantis», Charlottesville, Univ. of Virginia, 1995. 10Saverio Bellomo, Il canto xxx del «Paradiso», in «L’Alighieri», 1996, p. 42. 11 Umberto Cosmo, L’ultima ascesa, Bari, Laterza 1936, ora Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 320. 86 Del nomar parean tutti contenti Si determinerebbe una contrapposizione possibile. Ma è contestualmente e intrinsecamente superata nella sua stessa fase genetica: i due termini sono in un rapporto di reciprocità. Il che si traduce in una condizione che potremmo chiamare di bivalenza. È la realtà dell’Empireo come lo pensa Dante che collega e lega spirituale e terreno.12 Una circostanza di massima realizzazione della connessione tra corporale e spirituale è nel fatto di assoluta rilevanza che Dante personaggio possa vedere i beati nella forma corporea. In questo quadro si ripropone l’analogia con la coppia integrativa San Paolo-Enea, anche se con minor presenza del secondo. È un rapporto di differenza/integrazione, in conseguenza della duplice missione di Dante: riconfermare il ruolo dell’impero, consolidare nei viventi la speranza,13 cioè l’attesa di un mondo di assoluta verità e pace. Una duplice missione che si unifica nel compito conferitogli per divina volontà di assicurare l’umanità del divino intervento rigeneratore. Si può dire con Vallone che Dante personaggio unifica in una terza figura Enea e Paolo.14 La condizione emotiva dei personaggi e del narratore è di interiore esaltazione, che però nasconde e contiene anche una segreta angoscia. L’avvio al completamento del poema induce un sentore di fine complessiva. L’umano sublime che si allontana: le stelle, Beatrice, Arrigo, l’atto del poetare. Ma c’è anche un inizio: la trascendenza. Una situazione bivalente appunto. La malinconia possibile è controllata, perché prevale l’esaltazione del superarsi e inverarsi, eppure un senso di pena è diffuso in trasparenza. Ed anche implicata l’idea del finire della vita. Ma si ricordi come nel poema si ribadisce che il corpo sarà certamente riassunto alla fine dei tempi e l’individuo sarà ricostituito nella sua interezza. E qui se ne ha una prova. Canto del finire, dicevo, o del trasformarsi, anche di Beatrice, che parla ed è vicina a Dante per l’ultima volta,15 e questi a sua volta la può lodare per l’ultima volta. E ciò implica una rapida rievocazione del passato. Il termine «loda» di verso 17 appunto è il segnale dell’evocazione dello stilnovo e del suo tempo. 12Cfr. Bruno Nardi, La dottrina dell’Empireo, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 19672, p. 209. Al tempo stesso, osserva lo studioso, in Dante come nei neoplatonici «l’universo è completamente spiritualizzato» (p. 214). 13Niccolò Mineo, Dante, Roma- Bari, Laterza 19893, p. 260. 14 Aldo Vallone, Il canto xxx del «Paradiso» e la «luce intellettuale», in «L’Alighieri», 1986, poi in Paradiso, Casa di Dante in Roma, p. 803. 15G. Savarese, Canto xxx, cit., p. 601. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 87 La situazione di solitudine di cui diceva Momigliano 16 per i primi versi si chiarisce e rafforza. Ma sarebbe più proprio dire di sublimata eccezionalità. Passo a un’analisi più ravvicinata:17 Pa rt e I - 1-33, Preparazione alla visione dell’empireo: Tempo 1, 1-15: Passaggio dal primo mobile all’empireo, in tre situazioni: Situazione a) 1-9, Il cielo dalla terra – similitudine – Forse semilia miglia di lontano ci ferve l’ora sesta, e questo mondo china già l’ombra quasi al letto piano, quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch’alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così ’l ciel si chiude di vista in vista infino a la più bella. Situazione b) 10-13, Scomparsa oggetti nel cielo – diegesi – Non altrimenti il triunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude, a poco a poco al mio veder si stinse: Situazione c) 14-15, Sguardo in Beatrice per che tornar con li occhi a Beatrice nulla vedere e amor mi costrinse. Interpretazioni e rilievi acquisiti. Forte stacco rispetto al canto precedente. Atmosfera di solitudine.18 16Attilio Momigliano, Commento alla Divina Commedia, Firenze, Sansoni, 1947 ad l. 17Cito il testo della Commedia dall’ed. Petrocchi: Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a c. di G. Petrocchi, vol. iv, Paradiso, Milano, Mondadori, 1967. 18A. Momigliano, Commento, cit., ad l.; Anna Maria Chiavacci Leonardi, Commento alla D. C., vol. iii, Paradiso, Milano, Mondadori, 1997, ad l. 88 Del nomar parean tutti contenti Uscita dallo spazio e quindi dal tempo.19 «Poesia della vertigine».20 Sospesa aspettazione del determinarsi della nuova situazione. Integrazioni e sviluppi. Diversità rispetto al canto precedente, ma anche legame: il canto xxix si chiude col tema degli angeli. Dante personaggio non parla nel xxix e nel xxx – ma vorrebbe parlare: v. 126, «colui che tace e dicer vole» –. Nel xxxi si ha da parte sua il saluto a Beatrice, nel xxxii pone una domanda a Bernardo. Nel xxxiii non parla. Sarà il puro contemplare. Nel paragone iniziale si hanno le tre luminosità: mezzogiorno, alba e tramonto. È allusione all’essere fuori dal tempo. Il legame cielo/terra si attua per mediazione del cielo terrestre, mediazione col metafisico. Il paragone dei primi versi non deve essere inteso come cessazione. L’evento terreno non crea un’assenza, perché rimangono luce e sole. In effetti crea l’attesa di una nuova luce, perché la vera costante del paragone è la luce. La spiegazione di Beatrice si apre difatti col richiamo della luce. L’insieme della scena ha una prevalenza albare, e induce quindi un sentore di nuovo principio. Nell’empireo si ha eterna luce e il sole vincente anticipa Dio. Si entra nella dimensione dell’eternità, si attua il trascendimento. Tem p o 2, 16-33: Lode di Beatrice – riflessione –: Situazione a ) 16-27, La bellezza di Beatrice Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. La bellezza ch’io vidi si trasmoda non pur di là da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. 19A. M. Chiavacci Leonardi, Commento cit., ad l. Cfr. S. Bellomo, Il canto xxx del «Paradiso», cit., p. 44. 20 G. Savarese, Canto xxx cit., p. 590. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 89 Da questo passo vinto mi concedo più che già mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: ché, come sole in viso che più trema, così lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. Situazione b) 28-33, Incapacità di rappresentare Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m’è il seguire al mio cantar preciso; ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l’ultimo suo ciascuno artista. Interpretazioni e rilievi acquisiti. Conclusione della funzione di guida di Beatrice. Parallelismi tra xxx Purg. e xxx Par. Di massimo risalto quello tra eclisse di Virgilio e distacco di Beatrice.21 Ripresa-rievocazione di forme del passato artistico di Dante, anche con autocitazioni. Fusione di amore terreno e ultraterreno. Catena etimologico-verbale dei versi 28-29.22 Integrazioni e sviluppi: Vanno sottolineati la diversità o il rovesciamento interni degli episodi paralleli e delle corrispondenze. Ma diversità e rovesciamento non sono opposizione sostanziale. Mentre Virgilio si distacca anche fisicamente e torna indietro per l’eternità, Beatrice rimane eternamente presente e viene esaltata. 21R. Hollander, Paradiso xxx, cit., p. 32. Iannucci diceva della tecnica dell’episodio parallelo: Amilcare A. Iannucci, Autoesegesi dantesca: la tecnica dell’ ‘episodio parallelo’ («Inferno» xv-«Purgatorio» xi), ora in Forma ed evento nella «Divina Commedia», Roma, Bulzoni, 1984. 22Daniele Mattalia, Commento alla D. C., Milano, Rizzoli, 1960, ad l. 90 Del nomar parean tutti contenti Effetto espressivo delle allitterazioni della catena etimologica dei versi 289: esaltazione dell’esperienza del vedere e insieme stretto collegamento tra terreno e ultraterreno. Il richiamo del passato è omaggio a Beatrice e conferma della sua funzione salvifica. Il tema del non poter dire adeguatamente di Beatrice è in forma di commento, quindi è pensato dall’autore non certo nell’atto della visione, ma dopo la visione: è una situazione dell’autore, non del personaggio.23 Pa rt e I I - 34-138, Visione dell’Empireo e ambientazione: Tempo 1, 34-45: Spiegazione di Beatrice, con connessione a parte precedente – diegesi, commento interno di vv. 35-6, mimesi –: Cotal qual io la lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l’ardua sua matera terminando, con atto e voce di spedito duce ricominciò: «Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: luce intellettual, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. Qui vederai l’una e l’altra milizia di paradiso, e l’una in quelli aspetti che tu vedrai a l’ultima giustizia». Interpretazioni e rilievi acquisiti. Collegamento «bando» e Apocalisse. Toffanin intende: «cede il passo non a un collega terreno, ma agli angeli con i loro oricalchi e a Dio».24 Luce – lume, da intendere come lumen gloriae.25 23Quando avviene la scrittura nelle indicazioni della fictio? Un problema che prima o poi dovrà essere affrontato. 24 Giuseppe Toffanin, Sette interpretazioni dantesche, Napoli-Bari, Libr. scient. ed., 1947, p. 79. 25B. Nardi, La dottrina dell’Empireo, in Saggi di filosofia dantesca, cit., p. 208. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 91 Torna il motivo del vedere, centrale. Un vedere sensibile.26 Vedere e bere come metafore del sapere.27 Conseguente abbondanza di termini del campo del ‘vedere’. Si ha addirittura «vidi» in rima: vv. 94-9. Intreccio tra il vedere di Dante e le spiegazioni di Beatrice. Rapporto di corrispondenza tra la reduplicatio dei versi 40-2 e la Trinità.28 Integrazioni e sviluppi. Il motivo del «bando» ha molteplici connessioni. Va collegato certo all’Apocalisse, ma anche agli angeli che cantano lodi di Dio (Salmi, 103, 20) e al «novissima tuba» di Paolo (i Cor., 15, 52) e quindi va collegato al tema dei corpi al tempo della resurrezione. I termini «bando» e «tuba» vanno per un verso intesi come significanti la poesia epica, cioè la grande poesia. Ma soprattutto «bando» è voce da riferire ai testi rivelazionistici. Ricordo Par., xxvi, 43-6: «Sternilmi tu [Giovanni-carità: Vangelo come vero di Dio] ancora, incominciando / l’alto preconio che grida l’arcano / là giù sovra ogne altro bando». Accolgo l’interpretazione del Toffanin, che Dante ceda il passo agli angeli. Ma va riconosciuto altro ancora. L’autore del «bando» non può non essere messo in rapporto col contenuto finora affidato alla «tuba» di Dante, cioè la bellezza di Beatrice. Subito prima è detto: «La bellezza ch’io vidi si trasmoda / non pur di là da noi, ma certo io credo / che solo il suo fattor tutta la goda». Se solo Dio può conoscerne in pieno la bellezza e se gli angeli cantano le lodi del signore, è come dire in forma di forte e pregnante allusività che cantare Beatrice è come cantare Dio e viceversa. La simbolicità di Beatrice giunge sino al suo necessario compiersi ed esaurirsi. Ma dobbiamo ricordarci anche degli angeli dell’Apocalisse e delle loro trombe. Si pensi all’espressione «novissimo bando» di Purg., xxx, 13 – «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando» –. E, prima, in rapporto a Ciacco, in Inf., vi, 949, il primo esplicito richiamo nel poema al giudizio universale – «E ’l duca disse a me: “Più non si desta / di qua dal suon de l’angelica tromba, / quando verrà la nimica podesta: / ciascun rivederà la trista tomba, / ripiglierà sua 26 R. Scrivano, Poesia e dottrina nel xxx canto del «Paradiso», cit., p. 90. 27Ivi, p. 92. 28G. Savarese, Canto xxx, cit., p. 592. 92 Del nomar parean tutti contenti carne e sua figura, / udirà quel ch’in eterno rimbomba». L’evocazione del bando e della tuba costituiscono un riferimento pregnante alla resurrezione della carne, che è la resurrezione in senso proprio – mentre l’anima da subito è in paradiso –. E si colleghino i versi danteschi all’intero passo di Paolo, i Cor., 15, 52: «in momento, in ictu oculi, in novissima tuba, canet enim et mortui resurgent incorrupti». Il conferimento agli angeli del compito di cantare la bellezza di Beatrice, cioè di Dio, può voler alludere agli eventi del momento ultimo. Poiché qui Dante ha la visione delle anime nel loro corpo, l’evocazione del canto angelico è una forma di prefigurazione del giudizio finale in funzione del personaggio eletto. Uno sviluppo ulteriore ed estremo della visione a suo tempo offertagli nel paradiso terrestre. Il vedere i corpi dei beati, in quanto realtà del momento del giudizio universale, allude anche alla fine del mondo. Prepara quindi un tema che torna alla fine. Il richiamo della Giustizia avrà alla fine una ripresa, con forte significato, come diremo. La punizione che si abbatterà su Clemente e, implicitamente, su Bonifacio è una forma della giustizia. La memoria di quel richiamo crea un’analogia escatologica. Il riferimento al lumen gloriae va riconosciuto in una forma ancora allusiva. Tem p o 2, 46-60: Illuminazione – Diegesi, mimesi, diegesi –: Situazione a) 46-51, evento Come sùbito lampo che discetti li spiriti visivi, sì che priva da l’atto l’occhio di più forti obietti, così mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m’appariva. Situazione b) 51-54, spiegazione «Sempre l’amor che queta questo cielo accoglie in sé con sì fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo». Situazione c) 55-60, comprensione e conclusione dell’evento N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 93 Non fur più tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch’io compresi me sormontar di sopr’a mia virtute; e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce è tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; Interpretazioni e rilievi acqusiti. Motivo dell’illuminazione costruito secondo il modello di quella di San Paolo:29 «subito de caelo circumfulsit me lux copiosa» (Atti, 22, 6). Integrazioni e sviluppi. Beatrice assume nei confronti di Dante, grazie al suo sguardo, la funzione di Anania, che ridà la vista a Paolo. Viene detto da san Giovanni in Par., xxxvi, 10-13. Si riguadagna e si rafforza così la funzione paolina del personaggio Dante. Tempo 3, 61-123: Atto della visione – diegesi, mimesi, diegesi, mimesi, similitudine, diegesi, similitudine, diegesi, presentizzazione, diegesi, similitudine, diegesi, riflessione, diegesi, riflessione – Interpretazioni e rilievi complessivi acquisiti. Crescendo di intensità e frequenza delle espressioni di interiore esaltazione.30 Passaggio dal fondamento filosofico-teologico tomistico alla condizione mistica. Conseguente cessazione funzione di guida di Beatrice per la prossima successione di Bernardo. Teologia e mistica. Situazione mistica, ma chiarezza della rappresentazione per effetto di chiarificazione interiore. Mistica e unito controllo razionale: la luce. 29N. Tommaseo, Commento alla D. C., con intr. di U. Cosmo, Torino, Utet 1927, ad l.; R. Hollander, Paradiso xxx, cit., p. 14. 30Natalino Sapegno, Commento alla D. C., Firenze, La Nuova Italia, 19853 ad l.; W. Binni, Il canto xxx del «Paradiso», cit., p. 1072. 94 Del nomar parean tutti contenti «Trasfigurazione», deificatio tomistica.31 Tensione della ragione e volontà di comprendere. Integrazioni e sviluppi complessivi. La tensione estatica è rappresentata allusivamente come movimento continuo nelle anime e negli angeli. Solo alla fine dell’esperienza visiva si avrà l’appagamento e la fissità nel contemplare. Attuazione continua del momento della cogitatio e dell’elevazione alla contemplatio. Il vedere non è pura metafora: trascrive la produzione di immagini propria dell’esaltazione mistica. Situazione a) 61-69, prima immagine, il fiume e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogne parte si mettìen ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive; poi, come inebriate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge; e s’una intrava, un’altra n’uscia fori. Situazione b) 70-81, spiegazione di Beatrice «L’alto disio che mo t’infiamma e urge, d’aver notizia di ciò che tu vei, tanto mi piace più quanto più turge; ma di quest’acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si sazi»: così mi disse il sol de li occhi miei. Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe son di lor vero umbriferi prefazi. Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe». 31Marco Ariani, Abyssus luminis: Dante e la veste di luce, in «Rivista di letteratura italiana», 1993. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 95 Interpretazioni e rilievi acquisiti. L’immagine del fiume come forma della transumptio.32 Precedenti: «L’idea del fiume di luce è scritturale. Il germe della presente visione è per avventura il passo di Daniele profeta, vii, 10: “Fluvius igneus, rapidusque egrediebatur e facie eius; millia millium ministrabant ei, et decies millies centena millia assistebant ei”. Ma il fiume di fuoco di Daniele, secondo gl’interpreti del tempo, fatto per consumare i peccatori (cfr. Thom. Aq. Sum. theol. P. iii, Suppl. qu. lxxiv, art. 9), si è trasformato nel Poema sacro in una fiumana di luce che abilita l’occhio alla visione della divinità. Quindi il torrente di luce rammenta quello del Salmo xlv, 5: “Fluminis impetus laetificat civitatem Dei”, e quell’altro, Psl., xxxv, 9, 10: “Torrente voluptatis tuae potabis eos. Quoniam apud te est fons vitae: et in lumine tuo videbimus lumen”. E nell’Apocalisse, xxii, 1: “Et ostendit mihi fluvium aquae vivae splendidum tamquam crystallum, procedentem de sede Dei et Agni”».33 Altre indicazioni: «Fulgebunt justi, et tamquam scintillae in harundineto discurrent» (Sap., iii, 7); «Gemmula carbunculi in ornamento auri, et comparatio musicorum in convivio vini» (Ecclesiastico, xxxii, 7).34 Fusione nell’immagine della «rivera» di classicità – la poesia pastorale classica, Virgilio – e Bibbia.35 Intertestualità virgiliana,36 e ancora parallelo con Enea: «Qualis apes aestate nova per florea rura / exercet sub sole labor, cum gentis adultos / educunt fetus, aut cum liquentia mella / stipant et dulci distendunt nectare cellas, / aut onera accipiunt venientum, aut agmine facto / ignavum fucos pecus a praesepibus arcent: / fervet opus, redolentque thymo fragrantia mella. / ‘O fortunati, quorum iam moenia surgunt!’ / Aeneas ait, et fastigia suspicit urbis» (Aen., I, 430-8); «Interea uidet Aeneas in ualle reducta / seclusum nemus et uirgulta sonantia siluae, / Lethaeumque domos placidas qui prae32R. Hollander, Paradiso, xxx, cit., p. 17. 33Giovanni A. Scartazzini, Commento alla D. C., Leipzig, Brockhaus, 19002, ad l. 34Celestino Cavedoni, Raffronti tra gli autori biblici e sacri e la «Divina Commedia», Città di Castello, Lapi, 1896, p. 110. Cita anche per l’immagine del fiume Apoc., i, 6. 35A.M. Chiavacci Leonardi, Commento, cit., ad l. 36R. Hollander, Paradiso, xxx, cit., p. 17; J. A. Scott, Paradiso xxx, in «Dante Commentaries» 1977, p. 170-1. Ma già – e non solo – Pietro di Dante, Commento alla Divina Commedia, Firenze, Piatti, 1845, ad l. 96 Del nomar parean tutti contenti natat amnem. / hunc circum innumerae gentes populique volabant: ac velut in pratis ubi apes aestate serena / floribus insidunt variis et candida circum / lilia funduntur, strepit omnis murmure campus. / horrescit visu subito causasque requirit / inscius Aeneas, quae sint ea flumina porro, / quive viri tanto complerint agmine ripas» (Aen., vi, 703-12).37 Anticlaudianus e «lume in forma di rivera».38 Simbolismo dell’acqua. Per il verso 73 – «ma di quest’acqua convien che tu bei» – è stato richiamato Purg., xxi, 1-3: «La sete natural che mai non sazia / Se non con l’acqua onde la femminetta / Samaritana domandò la grazia». Integrazioni e sviluppi. Corrispondenze: «primavera»–paradiso terrestre nell’una e nell’altra immagine. L’immagine del clivo – che è un apax - richiama l’idillismo del Paradiso terrestre. Corrispondenze rovesciate: Beatrice nel xxx Purg. scende, qui risale. Ma qui tutto è ulteriormente sublimato e trasfigurato dalla intensità della luce. Sia consentita un’ipotesi ardita. Il termine e la figura «primavera» però può rievocare Vita nova, xxiv, 3-6, e dare alla visione umbrifera il valore di allusione al rapporto Giovanna-Beatrice nella stessa opera giovanile. Se così fosse, si avrebbe una sorta di sacralizzazione della donna di Cavalcanti e, addittura, una sorta di recupero dello stesso amico? Va approfondito il tema dell’acqua. Sappiamo che acqua e fiume simbolizzano la vita. Bisognerebbe anche riconsiderare la funzione totale dei fiumi del Paradiso terrestre. Il verso 73 è anticipazione della sinestesia di vv. 88-9 – «bevve la gronda / de le palpebre mie»39 – per cui si è già richiamato Purg., xxi, 1-3. Sinestesia che ha una ulteriore preparazione e un collegamento con «onda» di verso 86 e «gronda» di 88. Raddoppio di verità. La forma figurale del «vero» ha pure una sua realtà. È la condizione della metafora e insieme dell’allegoria. È possibile «imme37Cito da P. Vergilii Maronis, Opera, a c. di F. A. Hirtzel, Oxford, Clarendon, 1950. 38Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio evo latino, trad. ital., a c. di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 400-1. 39D’obbligo ricordare M. Ariani, «E sì come di lei bevve la gronda / de le palpebre mie» (Par., xxx, 88): Dante e lo pseudo Dionigi Areopagita, in Leggere Dante, a c. di L. Battaglia Ricci, Ravenna, Longo, 2004. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 97 gliarsi» solo se l’immagine racchiude una sua verità (v. 87). Verità anche delle prime immagini: il fiume simboleggia la purezza dell’acqua – rapporto con quelli edenici? –, e quindi la purificazione e la purezza. È il significato secondo. Ma anche il bere – vv. 73-4 – ha significato doppio: un primo dissetarsi in rapporto alla sete di verità. Significato primo su piano logico e funzionale. Raffronti possibili con Roman de la rose nella sua prima parte: il protagonista ha venti anni, quindi secondo la teoria dantesca delle età, è ancora in un tempo di formazione; analogie con Eden, anche dichiarate nel romanzo; somiglianze con Matelda e Beatrice e con processione edenica; fontana e contemplazione della sua acqua; contemplazione di rose. Ma lì si ha accostamento finale a situazione Narciso e morte, nel poema si realizza la figura dell’antinarciso. Specchiarsi ora non è un vedersi, ma un trovarsi in Dio. Indifferente per questo discorso il problema dell’attribuzione del Fiore. Ultimo, simbolico, battesimo di Dante. Prima ad opera di Virgilio in Purg., i, vv. 112-36, poi, due volte, di Matelda in Purg., xxxi, vv. 1-102, e xxxiii, vv.127-45. Situazione c) 82-96, seconda e definitiva immagine, la circolarità Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l’usanza sua, come fec’io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l’onda che si deriva perché vi s’immegli; e sì come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, così mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non sua in che disparve, così mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, sì ch’io vidi ambo le corti del ciel manifeste. Situazione d) 97-99, invocazione a Dio come grazia O isplendor di Dio, per cu’ io vidi l’alto triunfo del regno verace, 98 Del nomar parean tutti contenti dammi virtù a dir com’io il vidi! Situazione e) 100-123, descrizione della visione scansione 1, 100-102, spiegazione Lume è là sù che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. scansione 2, 103-120, visione E’ si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne’ fioretti opimo, sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là sù fatto ha ritorno. E se l’infimo grado in sé raccoglie sì grande lume, quanta è la larghezza di questa rosa ne l’estreme foglie! La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e ’l quale di quella allegrezza. scansione 3, 121-123, spiegazione Presso e lontano, lì, né pon né leva: ché dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Interpretazioni e rilievi acquisiti. Secondo vedere, quello diretto della realtà: dall’intendere per speculum a quello sostanziale. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 99 Risalto forte del ‘vedere’: «vidi» in rima vei versi 94-9. Simbolismo della rosa. Usi di massimo rilievo del termine: «Rosa» è detta la passione di Gesú Cristo; «Rosa» il sangue dei martiri; Rosa mystica la Vergine. L’ultimo è il riferimento più accreditato. «Rosa» Dante denomina Maria: «Quivi è la rosa in che il verbo divino / Carne si fece» (Par., xxiii, 7374). Si è pensato anche ai rosoni delle chiese e alla serie rosa-tempio-mandala. E addirittura si è pensato al nome di Firenze, città del fiore.40 Sinestesia luce–bere come pluralità mistica del sentire.41 Integrazioni e sviluppi. L’empireo ci si presenta come un anfiteatro. Si apre il tema della rosa, menzionata nei versi 117, 124. Difficoltà: la rosa è convessa non concava. Si può pensare a una rappresentazione stilizzata della rosa e dei petali con forme che ricordano quelle araldiche. Nel paradiso i petali non sono ostacoli al vedere. Da una percezione prima spazio-temporale a quella intellettuale intuitiva – vv. 118-20 –. Insistenza di riferimenti nel testo a questo snodo. Uso della maschera. Nel Medioevo si usava mascherarsi non solo per il carnevale. L’immagine del bambino è in funzione di uno specifico significato: l’innocenza. Il bambino è simbolo antonomastico dell’innocenza per la sua vicinanza alla natura. Lo è il «fantin» – unico uso del termine – del v. 82. Eppure c’è anche la cattiva infanzia, quella segnata dall’irrazionalità. La naturalità non è sufficiente se non è suffragata da razionalità, o, meglio, la naturalità è razionale e l’irrazionalità va contro la naturalità. Al v. 140 del canto si ha l’esempio del «fantolino» irrazionale. «Fantolino» fa pensare a un’età ancora meno avanzata rispetto al fante: il bimbo che ancora non ha acquisito una forma, sia pur elementare, di linguaggio? Infatti è sempre collegato alla madre. Forse può essere utile riflettere sulla distinzione tra puerizia e adolescenza che si trova nel Convivio (iv, 24, 5), di cui va tenuto presente l’intero 40 Guglielmo Gorni, Lettera, nome, numero. L’ordine delle cose in Dante, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 85. 41S. Bellomo, Il canto xxx del «Paradiso», cit., p. 46. 100 Del nomar parean tutti contenti capitolo 24 del quarto trattato. Potrebbe corrispondere a quella tra fantino e fantolino. D’altra parte, l’idea della razionalità, se rimaniamo nello stesso campo semantico, è implicata nel termine altrove usato «fante», come in Purg., xxv, 61: «come d’animal divegna fante». In verità penso che si debba stabilire una precisa differenza tra il fantin/fantolino e il fante. I primi sono di un’età prelinguistica. Ben pertinente è tener conto del tema del peccato originale e della colpevolezza dei bambini. Bambini si trovano nel limbo e bambini nell’Empireo – xxxii, 40-84 –, e di loro si dice a lungo. Si può pensare a una naturalità che può essere deviata dal peccato originale. È certamente funzionale che Dante personaggio qui sia paragonato al «fantin». Ma prima è anche paragonato al «fantolin». Leggiamo in Purg., xxx, 43-6: «Volsimi a la sinistra col rispitto / col quale il fantolin corre alla mamma / Quando ha paura o quando elli è afflitto». Della funzione materna di Virgilio sappiamo – si pensi a Inf., xxiii, vv. 37-45 –. Ma Dante è anche «parvol». Già in Par., xxii, vv. 1-6, egli è «come parvol» e Beatrice è «come madre». Interessante in questo quadro il collegamento coi versi che precedono quelli già citati di Purg., xx: «l’alta virtù che già m’avea trafitto / prima ch’io fuor di puerizia fosse» (41-2). È come se Dante, alla vista di Beatrice, tornando al pensiero dell’infanzia, riconoscesse a lei un’antica funzione materna per analogia con quella a cui, sostitutivamente, vorrebbe ora chiamare Virgilio. Dante dunque è buon fantolino, buon parvol, buon fantin. Si trova cioè in una condizione di buona naturalità. Ma non possiamo non riferirci, per meglio comprendere, ancora al testo biblico. Leggiamo in Pietro, i Epist., ii, 2: «sicut modo geniti infantes rationale sine dolo lac concupiscite ut in eo crescatis in salutem»; in Matteo, xviii, 3 sgg.: «et dixit amen dico vobis nisi conversi fueritis et efficiamini sicut parvuli non intrabitis in regnum caelorum quicumque ergo humiliaverit se sicut parvulus iste hic est maior in regno caelorum et qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo me suscipit». Il cerchio si chiude: bisogna essere come parvuli per ottenere la salvezza, e come gli infantes bisogna aver assunto «rationale sine dolo lac». Questa è la condizione di Dante. Tem p o 4 , 124-128, spostamento dei due personaggi – diegesi – Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 101 odor di lode al sol che sempre verna, qual è colui che tace e dicer vole, mi trasse Beatrice, e disse: […] Tem p o 5, 128-138, descrizione generale di empireo da parte di Beatrice e indicazione di Arrigo – diegesi, con similitudine interna di v. 127, mimesi – […] «Mira quanto è ’l convento de le bianche stole! Vedi nostra città quant’ella gira; vedi li nostri scanni sì ripieni, che poca gente più ci si disira. E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v’è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni, sederà l’alma, che fia giù agosta, de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia verrà in prima ch’ella sia disposta. Pa rt e III – Beatrice condanna la società contemporanea e profetizza punizione, 139-148 – mimesi – Scansione 1 La cieca cupidigia che v’ammalia simili fatti v’ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. Scansione 2 E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non anderà con lui per un cammino. Ma poco poi sarà da Dio sofferto nel santo officio; ch’el sarà detruso là dove Simon mago è per suo merto. e farà quel d’Alagna intrar più giuso». 102 Del nomar parean tutti contenti Interpretazioni e rilievi acquisiti Convinzione che l’indicazione relativa a pochi scanni riveli la vicinanza della fine del mondo. Accostamento della Città paradisiaca e della città dell’Apocalisse:42 «Et sustulit me in spiritu in montem magnum et altum, et ostendit mihi civitatem sanctam Jerusalem, descendentem de caelo a deo» (xxi, 9-10). Appena si è menzionata la città, si accampa il tema politico.43 Il divino da restaurare nell’umano. Rapporto tra le due felicità, celeste e terrena, per presenza di Arrigo e suo compito in senso ideale. Motivo delle «nozze» e accostamento Dante-imperatore in riferimento a Epist. v – Enrico sposo dell’Italia –.44 Attualità per Dante del sogno imperiale dimostrata dalla straordinaria evocazione di Arrigo.45 Conferma dell’ideale politico. Pessimismo storico, ma valore assoluto delle istituzioni. Raffronto con Marcello di Virgilio in relazione al risultato, doloroso, dell’impresa 46 «heu, miserande puer, si qua fata aspera rumpas, / tu Marcellus eris. manibus date lilia plenis / purpureos spargam flores animamque nepotis / his saltem accumulem donis, et fungar inani / munere» (Aen., vi, vv. 882-86).47 Il fatto che quelle su Arrigo e sulla cupidigia nel mondo siano le ultime parole pronunciate da Beatrice nel poema rafforza il valore etico-politico dell’episodio. Sono anche gli ultimi interventi a tema politico dello stesso Dante. Distacco finale di Dante anche da Arrigo.48 42 N. Sapegno, Commento alla D. C., cit., ad l.; J. A. Scott, Paradiso xxx, cit., p. 171. 43 John A. Scott, Paradiso xxx, cit., p. 172. 44 A. Rossi, «A l’ultimo suo»: Paradiso xxx and Its Virgilian Context, in «Studies in Medieval and Renaissance History», 1981, p. 50. 45 R. Hollander, Paradiso xxx, cit., p. 29. 46 Ivi, p. 30. 47 Ed. cit. 48 A. M. Chiavacci Leonardi, Commento alla D. C., cit., ad l. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» ni. 103 Somiglianza tra la conclusione del canto e le lettere di Dante ai fiorenti- 49 Interessante che la prima parola di Beatrice nel poema sia il nome di Dante – Purg., xxx, 55 - e l’ultima menzione per perifrasi sia quella di Bonifazio.50 Rilievo della condizione di «pace».51 Integrazioni e sviluppi. Il tema politico era già stato introdotto indirettamente, ma con forte pregnanza, dall’esclamazione dei versi 97-9, con la menzione del «regno verace». Esplicitamente si celebra l’impresa di Arrigo come valore in sé, indipendentemente dal risultato. Il ruolo dell’impero – la sua funzione correttiva, punitiva, protettiva, pacificatrice e moralizzatrice – è affermato sistematicamente sin dal vi canto della cantica (di cui vanno tenuti presenti in particolare i versi 103-111). In riferimento alla citazione di Aen., vi, vv. 882-6, va ricordato soprattutto Purg., xxx, 21-3: «Tutti dicean: “Benedictus qui venis!”, / e fior gittando e di sopra e dintorno, “Manibus, oh, date lilïa plenis!”». Se qui si allude a Cristo e nel nostro canto si collegano Marcello e Arrigo, l’imperatore potrebbe avere una connotazione cristologica. Il riferimento alle «nozze» può voler collegare l’imperatore a Dante che lo celebra. Un rapporto di correlazione e di integrazione nelle funzioni. Il collegamento, per opposizione, Dante-Bonifazio, di cui si è detto, si colloca nel quadro della corrispondenza tra xxx Purgatorio e xxx Paradiso. La questione escatologica. Le ultime parole che Beatrice rivolge a Dante nel poema sono, in forma di profezia,52 una suprema lezione sulla storia degli uomini, sul grandissimo significato che assegna all’impresa di Arrigo vii – non certo da sottovalutare in sé in quanto evento storico di ordine simbolico, come troppo superficialmente più volte si è fatto –. Ma accenna anche a una condizione di paradiso 49 R. Hollander, Paradiso xxx, cit., p. 32. 50 Ivi, p. 33. 51W. Binni, Il canto xxx del «Paradiso», cit., p. 1083. 52Sulle profezie del poema cfr. ora Robert Wilson, Prophecies and prophecy in Dante’s «Commedia», Firenze, Olschki, 2008. 104 Del nomar parean tutti contenti da cui si potrebbe evincere come sia ormai vicina la fine del mondo: «Vedi nostra città quant’ella gira: / Vedi li nostri scanni sì ripieni, / Che poca gente più ci si disira». Bisogna ulteriormente riflettere sia sul giudizio espresso a proposito dell’impresa di Arrigo sia sulla notazione relativa ai seggi ancora vuoti. Difficoltà e contraddizioni: 1) si deve escludere la possibilità di ulteriore intervento salvifico e quindi di un successivo tempo di pacificazione? 2) quando avverrà l’intervento punitore? 3) che durata avrà l’ultimo tempo, se si attendono ancora pochi salvati. Se breve o brevissima, andrebbe in crisi tutto l’impianto ideologico del poema, che si fonda su un’attesa di un tempo di pacificazione e armonia terrena. I – C ’è anc ora un’attesa ? L e profe z ie d i Pa ra diso e il c omp ito imp eria le Il compito imperiale di intervento apocalittico è implicitamente e allusivamente affermato proprio da san Pietro nel canto xxvii – canto tutto di condanna del papato deviante –. Un canto che contiene due predizioni sostanzialmente analoghe, messe in bocca a san Pietro e a Beatrice: «Ma l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto, sì com’io concipio» (vv. 61-3); «E vero frutto verrà dopo ’l fiore» (v. 148). Nel nostro canto la constatazione, ormai esplicita, relativa ad Arrigo non implica rinuncia al sogno imperiale. Altrimenti si annullerebbe il valore delle predizioni del canto xxvii. A distanza di tre canti poteva Dante scrivere in maniera da negare l’attesa e nel tempo intercorso della composizione poteva non credere più alla maturazione del «frutto»? E proprio quando contemplava nuovamente un altro «frutto», quello ottenuto grazie ai moti celesti (Par., xxiii, vv. 21-2)? I due piani, sappiamo bene, sono intimamente correlati. Se l’Italia non era «disposta» negli anni di Arrigo, non vuol dire che non sarebbe stata matura per il «frutto» qualche tempo dopo. Da notare che siamo nello stesso ordine concettuale: la maturazione. E si ricordi Francesco, che trovava «acerbi» gli Arabi, cioè non disposti a una conversione (Par., xi, vv. 103-4). Perciò la predizione della punizione del papa traditore, con l’evocazione di quell’altro papa che aveva tradito la chiesa stessa, non poteva essere una promessa di intervento divino di tipo finale, con cui si chiudesse ogni ulterio- N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 105 re attesa. La promessa di intervento del resto era già presente, nel Paradiso, nel canto ix, vv. 139-42, e veniva ripresa due volte in termini molto più completi e articolati nello stesso xxvii, vv. 55-63, in cui è denunciato anche l’operato di Giovanni xxii – già accusato di simonia in xviii, vv. 130-6 –: «In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua su per tutti i paschi: / o difesa di Dio, perché pur giaci? / Del sangue nostro Caorsini e Guaschi / s’apparecchian di bere: / o buon principio, a che vil fine convien che tu caschi! / Ma l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto, sì com’io concipio». I contesti non possono non avere il significato di ulteriore, e ultima, rassicurazione, se pure implicita, quanto ad eventi che vadano oltre la semplice punizione, come si conviene al nuovo sguardo di Dante personaggio sul mondo, lo sguardo dall’eterno. Insomma la punizione non è un atto conclusivo, ma un atto iniziale. Mentre si può ritenere che Dante fosse rassicurato quanto alla predizione purgatoriale del dxv, del canto xxxiii. Chi avesse letto il canto dopo la fine di Arrigo poteva anche pensare a una profezia di un cxv successivo ad Arrigo. Ma non è certo il caso di ripensare ora l’intera questione delle attese e delle profezie. I I – Il temp o del l’ inter vento Dobbiamo chiederci se possiamo ipotizzare un quando di tale intervento punitivo. Sui tempi è istruttiva la notazione che segue alla profezia – vv. 1315 – del canto xxii del Paradiso: «La spada di qua su non taglia in fretta / né tardo, ma’ ch’al parer di colui / che disïando o temendo l’aspetta» (vv.16-8). Non lontana, o certamente non lontanissima, sembra essere la punizione cui alludono i versi 1-6 del canto ix del Paradiso: «Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, / m’ebbe chiarito, / mi narrò li ’nganni / che ricever dovea la sua semenza; / ma disse: «Taci e lascia muover li anni»; / sì ch’io non posso dir se non che pianto / giusto verrà di retro ai vostri danni». Nei canti di Cacciaguida si accenna a una prossima punizione dei malvagi: «[…] la vendetta / fia testimonio al ver che la dispensa» (Par., xvii, vv. 53-4). Sembra, in base al contesto, che si accenni a eventi di prossima realizzazione a partire dal 1300, e, in tal caso, si alluderebbe allo schiaffo di Anagni o, meno probabilmente, alla vicina tragica morte di Corso Donati. Ma si deve anche tener conto della profezia che segue poco dopo nei versi 13-5 del canto xxii: «[…] se inteso avessi i preghi suoi, / già ti sarebbe nota la vendetta / 106 Del nomar parean tutti contenti che tu vedrai innanzi che tu muoi».53 Nel 1300 Dante, stando al Convivio, è a metà del tempo medio della vita umana, di settanta anni a non considerare il «senio», che costituisce un’eccezione genetica. Ne discende che la vendetta di cui parlano i versi avverrà entro trentacinque anni, quarantacinque anni al massimo, se si vogliono calcolare anche i dieci anni di «senio», cioè entro il 1335 o il 1345. È chiaramente un lasso di tempo che potrebbe contemplare eventi di varia natura. Il riferimento storico può essere duplice, poiché la profezia può essere riferibile sia ad eventi vicini al tempo della visione, e quindi potrebbe ancora alludere allo schiaffo di Anagni – non proponibile la fine di Corso, evento di modesta rilevanza in rapporto alla solennità del momento in cui si ha l’annuncio –, come, più probabilmente, ad attese del tempo della composizione, e quindi voler annunciare effetti di un altro vicino intervento divino. La prima lettura pone qualche difficoltà, perché Dante, come si sa,54 attribuiva sì a Filippo il Bello una funzione escatologica, ma in figura dell’Anticristo e non certo di punitore inviato da Dio. Anche se è vero che la vendetta di Dio si può avvalere delle forze del male. Nel secondo caso si rafforzerebbe la tesi che Dante avesse ancora – dopo Arrigo – guardato con speranza alla funzione imperiale. E avremmo possibili indicazioni in direzione dei due imperatori contemporaneamente eletti, Ludovico e Federico.55 A cui può far pensare anche la predizione relativa a Cangrande (xvii, vv. 76-93) – di analogia ‘veltrica’ (Inf., i, vv. 103-5) –, se si tien conto del suo rapporto con l’imperatore Federico. Nei confronti di questo è pure vero che Dante non poteva avere idee precise.56 In ogni caso, se è possibile vedere in queste profezie una prospettiva rife53Non conviene avvalersi ai fini della presente indagine dei versi 97-9 dello stesso canto xvii, perché «infutura» può intendersi come riferito alla fama di poeta-profeta. 54Mi sia consentito rimandare a N. Mineo, Gli Spirituali francescani e l’«Apocalisse» di Dante, in «La Rass. della Letter. Italiana», 1998, già in Pour Dante. Dante et l’Apocalipse, Lectures humanistes de Dante, dir. de B. Pinchard, avec la collaboration de Ch. Trottmann, Paris, H. Champion, 1997, ora in Dante: un sogno di armonia terrena, Torino, Tirrenia, ii, 2005, p. 230. A questo saggio rimando anche per la letteratura generale sull’argomento. 55Nell’ottobre del 1314 in Germania furono eletti due re, Federico d’Asburgo (il giorno 19) e Ludovico di Baviera (il giorno 20), per il quale si erano schierati gli antichi seguaci di Arrigo vii, e la loro lotta per il potere si concluse solo nel 1322. In questi otto anni essi intrecciarono intricate e mutevoli, spesso trasversali, linee di alleanza con i potentati italiani. 56Cfr. al riguardo le osservazioni di N. Mineo, Il canto xi del Paradiso (La ‘vita’ di San Francesco nella «festa di paradiso»), in Lectura Dantis Metelliana, I primi undici canti del Paradiso, a c. di A. Mellone, Roma, Bulzoni, 1992, ora in Dante: un sogno di armonia terrena, Torino, Tirrena, 2005, ii, pp. 113-4. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 107 ribile alla grande storia del conflitto tra male e bene, più difficile è cogliervi indicazioni di ordine escatologico, in rapporto cioè ai tempi ultimi, proprio per la prossimità dell’atteso e previsto evento punitore, fosse questo di immediata realizzazione o dilazionato verso gli anni della composizione. E su ciò torneremo. I I I – La durata del la rig enera z ione L’idea del tempo Partiamo da una riflessione sulle concezioni relative ai tempi del mondo. Le età, secondo la distribuzione fissata da Eusebio, poi con l’adattamento latino di Gerolamo, e da Orosio e resa definitiva da Agostino (In Ioan., tr. 2, 10-12), accolta anche da Tommaso, sono sei, e la sesta va dalla venuta di Cristo alla fine del mondo (Agostino). È quindi quella in corso. La settima è la vita eterna. Tralascio altre ripartizioni. Il «millennio» di cui parlano i libri testamentari è il tempo che si svolge dall’avvento di Cristo e della ligatio Satanae e coincide con la sesta età. Poi, secondo questi, si ha lo scatenamento di Satana – tre anni e mezzo – e poi l’ultimo giudizio (Agostino). La riflessione di teologia della storia dei secoli del basso Medioevo, coi teologi francescani – specie Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale – immetterà all’interno del millennio, o sesta età della storia del mondo, decise scansioni, i sette «stati» della storia della chiesa, che alla fine del quinto e del sesto saranno soprattutto segnati dall’emergere della figura dell’Anticristo in tutte le sue varianti e dalla vittoria di Dio su di questo. Con l’ultima parte del millennio coincidono fine quinto e inizio sesto stato della storia della Chiesa, più o meno lunghi secondo le varie teorizzazioni e particolarmente drammatici. Dante sembrerebbe accedere in buona parte a queste rappresentazioni.57 Per il nostro tema è fondamentale avere un’idea della durata presumibile della sesta età nella prospettiva di Dante e fissare in complesso la sua idea della durata del mondo. Per Agostino (Contra Manichaeos, 37) la sua durata non è nota come non è nota quella della senectus dell’uomo, e non deve essere nota. Anche Tommaso sostiene che non può e non deve essere nota. Ma Tommaso pensa anche che l’ultima età della storia umana, così come quella dell’uomo, possa durare quanto tutte le altre insieme (Super Sent., lib. 4 d. 40 q. 1 a. 4 expos.; Questiones disputatae, q. 5, articulus 6, De potentia). 57N. Mineo, Gli Spirituali francescani e l’«Apocalisse» di Dante, cit. 108 Del nomar parean tutti contenti Comunque bisogna che prima si completi il numero degli eletti. Una ipotesi, questa di Tommaso, che credo sia stata elaborata solo per spiegare la lunga durata di quella in corso, che ormai nei suoi anni aveva superato la media delle cinque precedenti. E tuttavia, se la sua durata massima può essere uguale a quella di tutte le altre, si ha il paradosso che una data ultima possibile proprio per questo sia prevedibile. Il punto essenziale della teoria è che per tutto il periodo intermedio quell’evento potrebbe verificarsi in qualunque scansione. Si erano fatti vari calcoli sui tempi del mondo dopo la creazione. Secondo quelli che a suo tempo confluiranno nel Martyrologium Romanum – fissati da Eusebio (Chronicon)58 e Orosio (i, 1, 6-6), sicuramente noti a Dante –, dal «cominciamento del mondo» alla nascita di Cristo erano trascorsi 5199 anni. Se si aggiungono i 1300 anni dalla nascita di Cristo all’anno della visione di Dante, si ottiene che il mondo era giunto a circa 6500 anni. Agostino (De civitate Dei, xii, 10) pensava a una durata della storia degli uomini sino al suo tempo di 6000 anni, quindi per lui la sesta età era in corso da circa 400 anni. In base a un tale calcolo, all’anno della visione di Dante, il tempo della sua durata sarebbe già di 1300 anni, mentre il tempo complessivo delle prime cinque età sarebbe di 5600 anni. L’anno della visione sarebbe a 6900 anni dalla creazione. I dati, è evidente, non coincidono. Si imposero nell’opinione medievale i calcoli del Chronicon di Eusebio. Se si seguisse il suggerimento di Tommaso, tenendo conto della cronologia di Eusebio, potremmo calcolare, sottraendo ai 6500 anni trascorsi complessivamente i 1300 già trascorsi della sesta età, una durata ulteriore possibile di questa di altri 4200 anni. Tenendo conto di quella di Agostino e ancora seguendo Tommaso, avremmo una possibile attesa di tempo futuro di circa 4300 anni. I tempi ipotizzabili da questo punto di vista in sostanza coincidono. Un calcolo del genere, vedremo, è improponibile per quanto riguarda le convinzioni di Dante. Soprattutto in base al dato fornito da Beatrice nel nostro canto, da tener presente qualunque sia il suo senso: che ormai nell’empireo si attendono ancora pochi eletti. E poi Dante non accenna mai a un calcolo di questo tipo e, per altro verso, non segue Agostino nell’analogia tra età dell’uomo ed età del mondo. Per lui le età dell’uomo sono quattro (Conv., iv, xxiii-xxviii), e le sue fonti sono da riconoscere in una tradizione che va da Aristotele ad Alberto Magno.59 E la scelta poteva anche essere dettata dalla 58Patrologia Graeca, 19, col. 530. 59Cfr. B. Nardi, L’arco della vita, in Saggi di filosofia… cit. e Cesare Vasoli, comm. ad l. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 109 volontà di fondarsi su Virgilio e il personaggio di Enea per definire, sempre nel Convivio, le qualità morali, sapienziali, comportamentali, dell’uomo nei quattro tempi della sua vita. Al tempo della visione Al tempo della visione di Dante si era dunque al milletrecentesimo anno della sesta età, e al seimila e cinquecentesimo anno dell’intera storia del mondo. Nel Convivio, dicendo del Cielo stellato, Dante afferma, appoggiandosi sulla cronologia di Eusebio-Orosio: «[...] dal cominciamento del mondo poco più de la sesta parte è volto; e noi siamo già ne l’ultima etade del secolo, e attendemo veracemente la consummazione del celestiale movimento» (ii, xix, 12-13).60 Certo stupisce che, se la sesta parte trascorsa – posto che l’intero giro del cielo stellato si svolgerebbe in 36000 anni – è di 6000 anni, egli possa ritenere che sia una piccola parte – il «poco più» – la differenza di 500 anni rispetto ai 6500 trascorsi dell’intero tempo del mondo secondo i calcoli di cui abbiamo detto. Torneremo su questo punto, forse risolutivo. Indicazioni cronologiche determinanti si hanno a proposito di Adamo, nei versi 61-3 del xxxiii del Purgatorio e 118-23 del xxvi del Paradiso. Ma sono indicazioni non coincidenti. Ecco i versi della seconda cantica: «Per morder quella, in pena e in disio / cinquemilia anni e più l’anima prima / bramò colui che ’l morso in sé punìo». Ed ecco quelli della terza: «Quindi onde mosse tua donna Virgilio, / quattromilia trecento e due volumi / di sol desiderai questo concilio; / e vidi lui tornare a tutt’i lumi / de la sua strada novecento trenta / fiate, mentre ch’io in terra fu’mi». Adamo dunque fu assunto al paradiso, secondo il Purgatorio, 5034 anni dopo la sua creazione – il «più» si dovrebbe pensare che sia un riferimento agli anni della vita di Cristo sino alla passione –, secondo il Paradiso, 5232 anni dopo. La differenza relativa ai 32 o 34 anni si riferisce alle diverse convinzioni relativamente al tempo della passione di Cristo, su cui non mi soffermo. È fuor di dubbio che Dante fosse convinto che quel tempo fosse il trentaquattresimo della vita di Cristo, come è attestato da Convivio, iv, xxiii, 10-1, e da Inferno, xxi, 112-4. La differenza maggiore, i duecento in più, non può dipendere da diversità di teorie sul tempo del mondo, data la coincidenza tra le teorie più accreditate, 60 Cito da Opere, vol. iv, Il Convivio, ridotto a miglior lezione e commentato da Giovanni Busnelli e Giuseppe Vandelli, con introd. di Michele Barbi, 2ª ediz. con appendice di ag giornamento a c. di Antonio Enzo Quaglio, Firenze 1968, p. i, pp. 222-3. 110 Del nomar parean tutti contenti che convergono verso i 6500 anni. Ne consegue che il tempo della visione, stando alla prima indicazione, si debba pensare a 6334 dalla creazione di Adamo, stando alla seconda, a 6532 anni. Non è di poco peso che questa seconda coincida con la cronologia di Eusebio e Orosio, non certo con quella di Agostino. Ma come spiegare l’indicazione data per Adamo nel Purgatorio? Si deve pensare a una svista? Oppure il «più» vuol riferirsi non solo al tempo in terra di Cristo ma a tutti i duecento e più anni.61 Ancora un’indicazione indifferentemente generica, come il «poco» del Convivio? Oppure ancora, se si pensa che l’ultimo canto del Purgatorio è anche quello che contiene la profezia del dxv, si può supporre che l’idea di una datazione più alta possa avere un qualche rapporto con la profezia stessa. Oppure è effetto di nuove riflessioni o di utilizzo di altre fonti? Anche su ciò bisognerà tornare in altro momento. Dante, dobbiamo dunque pensare in base a questi dati, si basava sulla cronologia di Eusebio e di Orosio. Ma anche su Isidoro (Etym., v, xxix) e Brunetto (Tresor, i, xx-xliii), che coincidono con i primi. L’accoglimento da parte sua della distribuzione canonica delle età potrebbe essere ulteriormente dimostrata dalla successione con cui sono ricordati in Inferno, iv, 52-60 gli Ebrei giusti del limbo liberati da Cristo. Il ricordo della discesa di Cristo nel limbo potrebbe essere un’indicazione ulteriore, poiché vi si potrebbe leggere una allusione proprio alla ligatio Satanae. La durata Del tempo ultimo successivo al millennio non mi pare sia cenno negli scritti danteschi. Nel luogo del Paradiso in cui si parla più a lungo del giudi61Può essere utile aver presente la spiegazione di Enrico Mestica, La Commedia di Dante Alighieri, esposta e commentata, Firenze, Bemporad, 1921-22, ad l.: «Quindi onde mosse ecc.: Nel Canto xxxiii del Purgatorio Dante dice che per morder la malvietata Pianta, “in pena ed in disio / cinquemilia anni e più l’anima prima / bramò colui che ’l morso in sè punio” (v. 61-63); e qui si ripete in altre parole la medesima cosa, naturalmente con piú precisione, perché è lo stesso Adamo che parla, distinguendo il tempo da lui vissuto su la Terra da quello passato nel Limbo: – Dimorai nel Limbo (onde mosse ecc.) quattromila e trecentodue giri (volumi) di Sole, e mentre fui su la Terra lo vidi volgersi (tornare) per le Costellazioni dello Zodiaco con novecentotrenta giri – (Vedi Genesi, v, 5). Dovettero quindi passare cinquemiladuecentotrentadue anni innanzi che “l’ombra del primo parente” fosse tratta dal Limbo insieme con altre, e fatta beata (Inf., iv, 55-61), cosicché per colpa di lui “l’umana specie inferma giacque / giù per secoli molti in grande errore, / fin ch’al Verbo di Dio di scender piacque ec.” (Par., vii, 28-30)». N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 111 zio universale (xix, vv. 103-48) non si accenna assolutamente al tempo della sua attuazione. Ma certo è nello spirito e nello statuto delle prospettazioni di riscatti e risarcimenti futuri che l’annuncio non si riferisca ad eventi troppo lontani rispetto al tempo di chi attende. Sembra d’altra parte che la notazione di Inferno, i, 110 – «fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno» – possa autorizzare l’ipotesi che egli pensasse a un che di ultimativo, che appunto escludesse lo scatenamento ultimo. È facile osservare appunto che la profezia del Veltro e quella del cxv non accennano alla durata del tempo della rigenerazione, ma sembrano presentare questa come definitiva. Nessun cenno, ripeto, al tema dello scatenamento finale. Nello stesso canto xxvii del Paradiso l’intero contesto della profezia di cui ho citato solo l’ultimo verso pone qualche difficoltà: «Ma prima che gennaio tutto si sverni / per la centesma ch’è là giù negletta, / raggeran sì questi cerchi superni, / che la fortuna, che tanto s’aspetta, / le poppe volgerà u’ son le prore, / sì che la classe correrà diretta; / e vero frutto verrà dopo ’l fiore» (vv. 142-48). Il primo verso allude a un tempo di 7300 anni. Alla lettera dunque l’intervento divino punitore e di rinnovamento avrebbe luogo entro un tempo più volte millenario. Non si può leggere l’indicazione se non come litote, perché altrimenti avremmo una promessa ben poco confortante. Non si tratta dunque di un evento estremamente lontano, probabilmente assai vicino. Ma quanto vicino? La promessa qui è volutamente indefinita – ha una coloritura e pregnanza marcatamene apocalittica –, e tuttavia non ha nulla che possa contraddire le indicazioni dei canti precedenti relativamente alla sua vicinanza. Importa assai più sottolineare che la profezia qui assicuri soprattutto della rigenerazione e dell’assestamento. È la palingenesi. L’ultimo verso apre un commosso orizzonte di pace e di armonia. Sembra proprio la rigenerazione dell’uscita dal quinto stato e dell’instaurarsi del sesto, secondo l’ottica dei francescani rigoristi, ma anche con influenza della prospettiva gioachimitica.62 In ogni caso fin qui nessuna indicazione sulla sua idea quanto all’ulteriore durata del mondo. Per l’indicazione certa di un dato cronologico si deve far capo a Paradiso, ix, 40, un canto – si è accennato – tutto attraversato da motivi e sentori profetistici. Ecco il verso: «questo centesimo anno ancor 62N. Mineo, Gli Spirituali francescani e l’«Apocalisse» di Dante, cit. Cfr. per l’influenza gioachimitica Antonio Crocco, Il superamento del dualismo agostiniano nella concezione della storia di Gioacchino da Fiore, in «Atti del ii° Congresso Internazionale di studi Gioachimiti», S. Giovanni in Fiore, 1986. 112 Del nomar parean tutti contenti s’incinqua». L’interpretazione corrente è che si assicurino cinquecento anni alla durata nel mondo della fama di Folchetto. Potrebbe trattarsi certo di una indicazione retoricamente generica e iperbolica, a indicare semplicemente una lunga durata, oppure potrebbe riferirsi solo all’arco di tempo prevedibile per la fama di Folchetto, oppure potrebbe trattarsi di un’indicazione precisa, volutamente, direi tecnicamente, significativa.63 Interessante l’interpretazione del Vellutello, che pensò a una durata di duecento anni.64 Attenendoci all’interpretazione corrente del verso e pensando che si riferisca anche al tempo della storia terrena, potremmo pensare, per l’idea di Dante quanto ai tempi ultimi, che la fine, se nel 1300 siamo a 6500 anni dalla creazione, si collochi secondo lui intorno ai 7000 anni dalla creazione. Potremmo dunque ritenere che per Dante il tempo della rigenerazione avrebbe avuto una durata di cinquecento anni. Si osserva 65 che in Purgatorio, xi, 106, si dica «pria che passin mill’anni» a proposito della fama e del tempo della sua durata, e si deduce che i cinquecento anni del ix del Paradiso non siano un’indicazione determinata. Ma i 63 L’ipotesi accolta e sostenuta dalla Chiavacci Leonardi (Commento alla D. C., cit., ad l.) è del tutto esterna alla logica delle concezioni fin qui esposte. Elementi di riflessione al riguardo in J. Hein, Enigmaticité et Messianisme dans la «Divine Comédie», cit., pp. 391 sgg. Cfr., per un’altra interpretazione, Andrè Pézard, in Dante, Oeuvres complétes, trad. e commento di A. P., Parigi, Gallimard, 1965, ad l. 64 Alessandro Vellutello, Commento alla Divina Commedia, Roma, Salerno, 2006, ad l.: «quel centesimo anno de l’incarnazione di Cristo, che correva allora, ch’era il terzo centesimo sopra mille, come vedemmo nel xxi de l’Inf., ove in persona di Malacoda disse, Ier più oltre cinqu’hore che quest’otta Mille dugento con sessantasei anni compier, che qui la vita fu rotta, si farebbe il quinto centesimo, che tanto vien a dire, che durerebbe ancora dugento anni oltre a quelli che da la sua morte fin allora era durata, e non che durerebbe ancora cinquecento, come altri hanno inteso». Equilibrate e accorte le spiegazioni di Isidoro Del Lungo, Commento alla D.C., Firenze, Le Monnier, 1926, ad l.: «Questo centesimo anno: di secolo, il 1300, si ripeterà altre cinque volte, passeranno altri cinque secoli; con che si giungerà all’anno 7000 dalla Creazione, anno che fu, nelle apprensioni medievali, una delle date intraviste per la fine del mondo […]. La fama, dunque, di questo Folco, alla pari di quella di Virgilio (Inf. ii, 59-60) avrà durata quanto il mondo lontana»; e di Manfredi Porena, Commento alla D.C., Bologna, Zanichelli, 1946-7, ad l.: «La spiegazione più naturale di questo verso è «il centesimo anno d’un secolo (siamo nel 1300, e perciò questo) ritornerà ancora cinque volte»: la fama di Folchetto durerà più di cinque secoli. Intendere che il 1300 s’incinquerà quando al 3 si sostituirà il 5, cioè nel 1500, è mettere un termine troppo breve a una fama annunziata come grande, e uno sforzare l’espressione; e poi lo ancora ci sarebbe di troppo. Intendere che il 1300 si moltiplicherà per 5 è, viceversa, stabilire un termine troppo lontano, l’anno 6500, che eccederebbe la vita che si riteneva probabile dovesse ancora avere il mondo». 65F. Torraca, Commento alla D.C., Milano-Roma-Napoli, Albrighi e Segati, 19204, ad l. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 113 due luoghi non hanno identità formale, e la perifrasi adoperata per dire della fama di Folchetto sembra funzionale proprio a un’indicazione determinata. Cinquecento anni, per un’indicazione indeterminata, non sarebbero poi una grande attestazione. Indicazioni indeterminate si possono considerare l’affermazione del xvii del Paradiso, vv. 118-20, ancora i canti di Cacciaguida, in cui leggiamo: «e s’io al vero son timido amico, / temo di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico», e l’assicurazione delle parole di Beatrice a Virgilio: «quanto ’l mondo lontana» (Inf., ii, 59-60). Ed eccoci al problema posto dalla indicazione di Beatrice relativa ai pochi seggi ancora vuoti. Se un’attesa e una speranza, come dicevo, si intendono ribadite, l’indicazione pone un’altra domanda, strettamente collegata del resto. Se la punizione avverrà presto, cosa dobbiamo pensare del tempo e della durata della rigenerazione conseguente alla maturazione del frutto, e al tempo di cinquecento anni di cui si è detto? La risposta sembra facilmente deducibile. Se i seggi vuoti sono pochi, la fine del mondo e il giudizio universale sono prossimi. Il che contraddirebbe a tutto quel che finora si è argomentato. È stato supposto che Dante pensasse alla difficoltà di guadagnarsi il paradiso in tempi di generale corruzione e che perciò il giorno ultimo gli potesse apparire ancora relativamente lontano; ma questa è solo una conseguenza possibile, non necessaria. E poi è una spiegazione sostanzialmente inadeguata, perché, se il poeta pensava a un tempo relativamente lungo, questo non poteva non comprendere l’epoca della restaurazione del bene, un’epoca quindi in cui i salvati potevano essere ancora molti. Ma la vera difficoltà non è relativa alla maggiore o minore durata del tempo futuro, bensì investe l’idea stessa di una rigenerazione del mondo. Come si conciliano l’attesa di una restaurazione della condizione storica ideale e la convinzione che si sia giunti alla fine dei tempi? A questo punto bisogna analizzare più da vicino che cosa intendesse veramente Beatrice nel dire dell’attesa di ancora pochi eletti. Iacopo della Lana commentava: «E così in proposito avemo che le sedie de’ predestinati sono determinate, ma ènne ignoto lo numero, e però l’autore non determina nominatamente lo manco».66 Ancor più significativamente Benvenuto spiega: «vide quantum habet de ambitu nostra coelestis Jerusalem […]. Et hic nota quod autor dicit, quod pauca gens amplius expectatur ibi respectu multitudinis quae ibi est; et dat intelligi quod tempus venit ad suum finem. Debet 66 Comedia di Dante degli Allaghieri col Commento di Jacopo della Lana bolognese, a c. di L. Scarabelli, Bologna, Tipografia Regia, 1866-67, ad l. 114 Del nomar parean tutti contenti enim gens humana beata esse determinata in numero certo, scilicet quod tot sint salvi, quot angeli mali qui ceciderunt secundum aliquos; alii tamen dicunt quod adhuc sint tot quot sunt boni angeli, ita quod sint duo ordines, unus totus animarum, alter angelorum aequalium in numero: vel melius secundum Thomam, Deus scit numerum electorum, ideo autor non nominat determinate deficientiam; sed caute dicit: poca gente, quia sumus in ultima aetate, in qua finiturus est mundus. » Due canti dopo, a proposito della distribuzione dei beati nell’Empireo leggiamo della metà di questo assegnata agli eletti dopo la venuta di Cristo: «Da l’altra parte onde sono intercisi / Di vòti i semicircoli, si stanno / […]» (vv. 25-6). Non emerge alcun preciso dato numerico, ma certo non è implicata alcuna indicazione di scarsità. È decisivo a questo punto riflettere, e proprio sulla base dell’osservazione di Benvenuto, sugli ordini di grandezza cui poteva pensare Dante. Possono essere utili le considerazioni e i calcoli del Porena quanto allo strabocchevole numero di anime salvate, se si tiene conto delle dimensioni immaginate da Dante per l’empireo.67 Lo studioso calcolava intorno ai due67M. Porena, Commento, cit., pp. 317-9. «Nella costruzione della Rosa dei beati domina, come in quella dell’Inferno e del Purgatorio, un criterio rigorosamente matematico: più ancora, anzi, e per la perfetta regolarità delle scalinate tutte uguali, e per la duplice divisione, orizzontale e verticale, che implica anche una regolarità aritmetica. È manifestazione divina anche questa, chè Iddio è prima di tutto supremo intelletto e ben dell’intelletto. Contuttociò si direbbe che Dante stesso abbia sentito che quella rigidezza matematica lascia un po’ fredda la fantasia; e per questo abbia aggiunto a quel geometrico anfiteatro quella meravigliosa plenitudine volante [xxxi, 20] di angeli che continuamente sciamano fra Dio e i beati: elemento che nella sua libertà indefinita e nel suo movimento vario, alla fantasia parla invece assai efficacemente. Si noti peraltro che tale fervido sciame angelico non s’accorda punto con quei nove giri di angeli rotanti attorno a Dio che egli ha visto nel Primo Mobile, e con l’affermazione che essi non hanno mai smesso e non smetteranno mai quel girare (xxix, 52-54): tale discordia non si può spiegare se non pensando che la visione del Primo Mobile abbia un valore puramente simbolico, come del resto ebbi già ad accennare nella nota al v. 39 del canto xxviii. E con altri due elementi Dante ha cercato di parlare alla fantasia del lettore: con l’immensità della Rosa, e con quella stessa insistente denominazione di Rosa e di Fiore, che si direbbe destinata ad ammollire ed ingentilire la rigidezza geometrica della costruzione, sovrapponendovi una più poetica immagine. Sennonché l’immensità della Rosa è in stridente contradizione con la verosimiglianza storica e morale. Il suo giallo [xxx, 124] (o, con diversa ma più precisa immagine, l’arena di quel colossale anfiteatro) ha detto Dante che sarebbe al Sol troppo larga cintura [xxx, 105]. Orbene, anche assegnando al Sole le dimensioni che la scienza di Dante gli attribuiva, ciò implicherebbe che il giro più basso dei seggi darebbe posto, comodamente, a duecento milioni di spiriti; e che quindi nelle più di mille soglie [xxx, 113] di tutto l’anfiteatro ci sarebbe posto per ben duecento miliardi! dei quali una metà dovrebbe provenire soltanto dal piccolo popolo ebraico vissuto tra Adamo e Cristo! E più ancora che per questo, quella folla immensa di beati urta intuiti- N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 115 cento miliardi di salvati. Non sappiamo se Dante potesse pensare a un tal vamente col concetto cristiano della difficoltà estrema di potersi salvare. Secondo questo concetto il Paradiso dovrebbe essere assai più piccolo dell’Inferno ed accogliere l’esiguo drappello d’una scelta aristocrazia della virtù; e in Dante, invece, l’Inferno non è, in confronto del Paradiso, che una piccola fossa spopolata! Io credo, del resto, che si possa scorgere nella visione dantesca del Paradiso qualche cosa di simile a quello che ebbi a notare a proposito delle dimensioni dell’Inferno e di Lucifero (vedi le note finali a Inf., xxx e a xxxiv, n. 1). Dante dà del Paradiso dimensioni enormi per impressionare la fantasia del lettore, e come carattere di trascendenza; ma di fatto poi egli stesso non vede secondo le sue stesse indicazioni numeriche. Si pensi che, in base al cenno di xxxi, 73-75 largamente calcolato, l’altezza complessiva delle scalinate del Paradiso, in confronto di un’arena più grande del Sole, sarebbe come intorno a un cerchio di dodici metri di diametro un orlo rialzato di appena un millimetro. Sicché stando egli nel giallo della Rosa (ed evidentemente nel centro per avere una visione completa) per guardare Beatrice seduta nella terzultima fila di seggi, dovrebbe non già sollevare lo sguardo, ma spingerlo orizzontalmente. E una visione del Paradiso fedele ai dati metrici forniti da Dante renderebbe assurda l’immagine della rosa e di qualunque fiore in genere. Quale mai fiore ha dei giri di petali che contornino un centro nelle proporzioni con cui un orlo di un millimetro contornerebbe un cerchio di dodici metri di diametro? Ma a questo proposito va anche notato che, pur pensando a un Paradiso quale di fatto lo vede la fantasia di Dante e quella dei lettori, e cioè alle proporzioni d’un normale anfiteatro, l’immagine della rosa è ben poco conveniente. Le rose non hanno né punto né poco un ampio tondo nel mezzo (come lo hanno invece le margherite); e le varie file dei loro petali, quando sono aperte, sono disposte così che il giro più piccolo è il più alto e il più grande il più basso; e le loro gradinate, se è possibile chiamarle così, guardano quindi verso il di fuori, non verso il di dentro del fiore. L’immagine della rosa appare insomma voluta con un certo artificioso sforzo per poetizzare, come dicevo, quella concezione rigidamente geometrica. E un’altra ragione più profonda potrebbe essere il desiderio del poeta di contrapporre questa santa rosa a una ben diversa rosa, simbolo di amor sensuale e meta anch’essa d’un arduo cammino, nel poema allegorico Il Fiore, che secondo autorevoli critici, ai quali pienamente mi accordo, sarebbe opera giovanile di Dante, scritta nel periodo del traviamento morale. Un altro modo con cui il poeta ha cercato di associare alla città dei beati immagini che parlassero vivamente alla fantasia è quella prima visione del Paradiso, ombrifero prefazio del vero [xxx, 78], ch’egli ha appena entrato nell’Empireo: un fiume di luce tra due rive smaltate di fiori d’oro, e un andirivieni di gemme fra questi e il gorgo luminoso. La ragione che Dante adduce di questo ombrifero prefazio, persuade tanto quanto. Non bastava il lampo con cui Dio lo aveva salutato all’arrivo nell’Empireo per disporlo alla vera visione del Paradiso? Ma il poeta ha voluto quella sua prima visione per una ragione d’arte e di poesia: perché, pur nella sua irrealtà, essa resta vivissima nell’anima del lettore e riflette la sua bellezza sulla visione vera. Potremmo anzi dire che essa è quasi un ponte tra concezioni popolari del Paradiso come luogo traboccante d’ogni splendore e d’ogni mondana ricchezza, e l’austera concezione d’un Paradiso tutto spirituale. Né manca qualche altro cenno di visioni paradisiache balenanti alla fantasia del poeta, un po’ diverse da quella che poi egli accolse e consacrò negli ultimi canti del poema. Quando nel cielo di Venere scendono incontro a Dante gli spiriti che hanno subìto gl’influssi di quel pianeta, Dante dice che essi avevan lasciato il giro pria cominciato in gli alti Serafini (viii, 26-27); e Carlo Martello dirà che per far piacere a Dante non gli sarà men dolce di riposarsi un poco dal volgersi attorno a Dio coi Principi celesti (viii, 34-39). Qui abbiamo l’immagine d’un Paradiso di beati volanti e cantanti attor- 116 Del nomar parean tutti contenti numero, probabilmente voleva solo assicurare di una gran quantità di salvati. Che pensasse a un elevato numero può essere confermato, se si tien conto delle indicazioni bibliche relative al grande popolamento procurato dagli Ebrei. E gli Ebrei nel paradiso dantesco sono in numero pari rispetto ai salvati dopo l’avvento di Cristo. Dante poi poteva trarre indicazioni di ordine demografico dalla probabile conoscenza relativa al grande popolamento delle maggiori città del suo tempo. D’altra parte poteva anche pensare alla eccezionale estensione dell’impero romano. La sua prospettiva poteva anche essere influenzata dalla sensazione e percezione di un generale grande popolamento nel mondo, che potevano derivargli dal dato reale del raddoppio della popolazione mondiale nei secoli del basso Medioevo, della triplicazione in Europa tra 600 e 1340 (per varie cause, tra queste l’imporsi nel costume del modello cristiano), andamento culminato nei primi del xiv.68 Per di più riteneva che potessero salvarsi anche dei non cristiani (Par., xix, vv. 103 sgg.). Si aggiunga che la «nascita del purgatorio» poteva convincere di un crescente numero di salvati,69 in connessione, tra l’altro, con la pratica della confessione, largamente diffusa no a Dio insieme con gli angeli. Potrebbe domandarsi che collocazione abbiano nella Rosa dei beati i gruppi di anime che si sono già mostrati a Dante nei vari cieli. Certo, poiché lo scopo di quella mostra parziale era di dare a Dante un segno evidente del loro maggiore o minor grado di beatitudine (Par., iv, 37-39); e poiché, pur senza esser detto espressamente, è però chiaro che nella Rosa a gradi più alti corrisponde beatitudine maggiore; ne concluderemo che gli spiriti del cielo della Luna occuperanno nella Rosa posti più bassi di quelli del cielo di Mercurio, questi posti più bassi di quelli del cielo di Venere, e così via. E che sia proprio così, Dante sembra averne voluto dare indizio con quei quattro fra gli spiriti che vede nella Rosa i quali già gli sono apparsi nei cieli: San Pietro, San Giovanni Evangelista, Adamo e San Benedetto. I primi tre, già visti nel cielo delle stelle fisse, seggono nella fila più alta; San Benedetto, visto già nel cielo di Saturno, siede, altissimo anch’egli ma più basso di quei tre, nella terzultima fila. Ma più di questa corrispondenza a grandi linee non possiamo affermare, ed è vano assottigliarsi a cercar d’indovinare quel che Dante non ha rappresentato. E così pure sarebbe inopportuno voler troppo ragionare e dedurre circa la scelta che Dante fa dei pochi spiriti che nominatamente mostra nella Rosa, e il significato del non aver nominato certi altri. Certamente quelli che mostra sono di altissimo grado: ma chi potrebbe affermare che p. es. San Paolo fosse reputato da Dante da meno dei nominati? o che Rachele e Lucia sarebbero state scelte se non fosse pel loro significato simbolico?». 68 J. Dupâquier, I cicli demografici, in Storia dell’economia mondiale, a c. di V. Castronovo, vol. ii, Dall’antichità al Medioevo. L’Occidente dei signori feudali e i commerci con l’Oriente, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 485-92, che aggiorna il trattato di M. Reinhard, A. Armengaud, J. Dupâquier, Storia della popolazione mondiale, trad. ital., Bari, Laterza, 1971. 69 Cfr. J. Le Goff, Aldilà, in Dizionario dell’Occidente medievale, trad. ital., Torino, Einaudi, 2003, p. 14. N. Mineo Rilettura di letture: il canto xxx del «Paradiso» e i «tempi ultimi» 117 dal xii secolo per opera della Chiesa.70 Del resto, se non fosse stata salvata una gran quantità di anime, l’effetto dell’avvento di Cristo sarebbe stato limitato. Sarebbe limitato il «trionfo» di Cristo. Ma per capire il senso vero della indicazione quanto ai pochi seggi vuoti si deve avere nel giusto conto un altro dato. Che dovevano ancora ascendere all’Empireo le anime in atto nel Purgatorio. Il «poca gente» non può ovviamente prescindere da questa attesa. Si può concludere dunque affermando che non sia precluso un nuovo tempo di rigenerazione, che il «poca gente» è solo relativo al gran numero dei già salvati, che il tempo della rigenerazione potesse avere una sua durata sino a un massimo di cinquecento anni e che in questo tempo si potesse salvare ancora un numero congruo di anime. E finalmente si rifletta sul fatto che il «poco» di Dante è spesso generico e vago quando si tratta del tempo: richiamo il passo del Convivio e i calcoli relativi ad Adamo. Ma va fatto anche un altro tipo di riflessione. È possibile, tenendo conto del carattere piuttosto generico di tutte le profezie di un prossimo intervento divino punitore e salvifico della terza cantica, che Dante nei suoi ultimi anni avesse ormai maturato un’idea ancora apocalittico-escatologica, ma certo non più rigorosamente gioachimita e francescano-spirituale – implicante l’attesa di un tempo lungo di rigenerazione spirituale –, dei tempi ultimi. E forse ormai l’opera dell’Anticristo gli sembrava più compiuta di quanto non avesse ritenuto al tempo degli ultimi canti del Purgatorio. È probabile che abbia modificato la sua idea dall’una all’altra cantica, da un’idea di durata più lunga ad una sempre più breve del tempo dell’attesa. Il che coinciderebbe con un progressivo allontanamento da Gioacchino verso un ritorno, attraverso Olivi e soprattutto Ubertino, ad Agostino. Anche se l’attesa di un prossimo cambiamento non è certo meno fervida e convinta. In terra dunque il divino intervento dovrebbe produrre quel ripristino dell’ordine e dell’armonia che deve concludere la storia degli uomini. E questa potrebbe avere una durata sino a un massimo di cinquecento anni, ma probabilmente inferiore. Ma non minima. Il tutto può esser visto anche da un altro punto di vista, autorizzato dalla polisemia dei testi poetici. Dante maturava ormai ancora un nuovo atteg70 A questa pratica si potrebbe connettere il rimprovero contro i cattivi predicatori del canto xxix. 118 Del nomar parean tutti contenti giamento. Non vorrei commettere l’errore di non tener conto del fatto che la materia ormai imponesse una nuova forma di rappresentazione. Giunto al punto ultimo dell’ascesa, lo stesso personaggio Dante e il mondo a cui è assunto debbono esprimere una condizione di distacco dal mondo e di sublimazione spirituale. E l’autore deve costituirsi una condizione di rappresentazione pertinente alla situazione. Non escludo però che si trattasse anche di una reale condizione interiore dell’uomo-autore, esistenziale e mentale. Se ‘ in trasparenza’ si può rilevare, come dicevamo all’inizio, un sentore di malinconia per il finire, è anche vero che non riesco a leggere questi versi senza sentirvi non la laica angoscia della fine, ma un cristiano desiderio di cessazione nella pace e nella beatitudine assolute ed eterne. È la forma più alta e complessa della rappresentazione del passaggio radicale da una all’altra condizione dell’essere, dalla mortalità all’immortalità. La polisemia dialettica di cui dicevo all’inizio. Università degli Studi - Catania Bortolo Martinelli DANTE: LA «COMMEDIA». LA RESURREZIONE E IL GIUDIZIO Et adiecit dominus loqui ad Achaz dicens: «Pete tibi signum a Domino Deo in profundum infernum sive in excelsum supra». Et dixit Achaz: «Non petam et non tentabo Dominum». Et dixit: «Audite ergo, domus David: nunquid parum vobis est molestos esse hominibus, quia moletsi estis et Deo meo? Propter hoc dabit Dominus ipse vobis signum: Ecce virgo concipiet et pariet filium, et vocabitur nomen eius Emmanuel». Is. 7, 10-12 1. Ricomporre il ‘paso’ L’argomento che proponiamo, la resurrezione e il giudizio,1 è centrale in ordine alle strategie dottrinarie e narrative del «poema sacro». Esso è al centro della sezione iniziale della Commedia, vale a dire di Inferno i-x, che insiste a più riprese sulla tematica della discesa di Cristo agli inferi, della resurrezione e del giudizio finale. La Commedia si fonda, infatti, preliminarmente sulla realtà dei novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso, senza la quale la storia dell’uomo e la storia della salvezza, richiamata da Dante fin dall’inizio, non avrebbe senso. Eppure esso non ha avuto che limitata e sporadica attenzione nel complesso secolare della critica e lettura della Commedia. Ciò è dovuto al fatto che si è equivocato fin dall’inizio sulla figura e la natura del veltro, vista come una sorta di enigma o come una sorta di rebus, mentre le cose stanno diversamente, perché la figura del veltro è in sé abbastanza trasparente, ove si fosse prestata attenzione ai segnali vistosi del testo: il veltro è presentato, in metafora, come un animale cacciatore, ma se si considerano i particolari: «non ciberà terra», ma «sapïenza, amore e virtute» e catturerà la «lupa» 1 Sigle adottate. CCL: Corpus Christianorum. Series latina, Turnhout, Brepols, 1954 e ss.; CCM: Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, Turnhout, Brepols, 1966 e ss.; PL: Jacques Paul Migne, Patrologiae cursus completus. Series latina, Paris 1844-1868; CSEL: Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Vienna, apud Geroldi bibliopolam Academiae, 1866; MGH: Monumenta Germaniae Historica, 1819 e ss.. 120 Del nomar parean tutti contenti e la rimetterà «ne lo ’nferno», si scopre che la sua figura è di tipo numinoso, con poteri assoluti, e la sua azione è di tipo militare, con un’azione da fine dei tempi, che si conclude con la definitiva vittoria contro la «lupa», che viene riportata all’inferno, da cui era uscita.2 Si tratta di indicatori non equivoci, di matrice apocalittica, che danno il la alla narrazione, richiamando l’attenzione sulla fine della storia e del tempo, con la venuta e vittoria definitiva del veltro, che, in figura, non può essere altro che Cristo. E invero, come potesse un qualunque personaggio mortale, pur di rango elevato, rimettere all’inferno la creatura uscita proprio dall’inferno, satana, e si possa essere incorsi in un simile insulto alla ragione e alla cultura, in contrasto con tutte le attestazioni del testo sacro, dalla Genesi al Nuovo Testamento, all’Apocalisse di san Giovanni, è questione che attende ancora di essere spiegata. Ma, proprio l’ignoranza della problematica di ordine escatologico, connessa alla figura del veltro, ha finora impedito di far avviare la Commedia sul suo primo e basilare fondamento, che è quello della nuova venuta di Cristo e della sua definitiva vittoria su satana, per concludere la storia e dar luogo al giudizio. Limitarsi perciò al solo tema della resurrezione, come finora si è fatto, non ha portato a grandi risultati, perché si è ignorato l’intero del disegno a cui il poeta aveva voluto fare riferimento.3 2. Dante in scena La Commedia si apre con una grande scena archetipica, organizzata in tre moduli, o scene, o tempi: Dante si ritrova smarrito in una grande selva e, nel tentativo di uscirne, si muove nella direzione di un colle illuminato, auspicio e segno di salvezza; tuttavia, allorché si accinge a salire il colle, il cammino gli viene impedito da tre animali minacciosi e pericolosi; Dante accenna allora a retrocedere e riceve a questo punto un inaspettato aiuto da parte di un senex, che si dichiara tosto come Virgilio. 2 Si veda Bortolo Martinelli, Genesi della «Commedia»: la selva e il veltro, «Studi Danteschi», 2009, pp. 79-126. 3 Gli aspetti implicati dalla figura e dall’azione del veltro, sulla scorta dell’Antico Testamento, in primo luogo la Genesi, e del Nuovo Testamento, concluso dall’Apocalisse di san Giovanni, sono i seguenti: condanna di satana, in forma di serpente, a cibarsi solo di terra; inimicizia con la donna che gli schiaccerà il capo e con tutta la sua discendenza; morte di Cristo, sua discesa agli inferi e sua resurrezione; ritorno di Cristo alla fine dei tempi, combattimento vittorioso di Cristo, che fa incatenare e retrocedere definitivamente all’inferno satana, effigiato in forma di serpente nelle miniature che illustrano il testo dell’Apocalisse; resurrezione dei morti, giudizio finale. B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 121 La sequenza narrativa è topica e si articola a sua volta in tre motivi: il protagonista si trova smarrito in un intricato labirinto; il suo cammino è impedito da una serie di minacce e di ostacoli; a trarlo da tutte le difficoltà, e dall’imminente pericolo, fa la sua apparizione un personaggio non prima visto. Quello che però è meno noto, anzi fin qui sempre trascurato, è il dispositivo interno dei tre moduli sotto l’aspetto genetico e sotto l’aspetto del loro portato e significato, che apre un diverso quadro di approccio e di lettura del poema dantesco. Non desidero entrare qui in particolari che ho già chiarito altrove,4 sulla complessità ideativa del primo modulo, sulla molteplicità dei ‘modelli’ narrativi correlati al secondo modulo e, infine, sulla scena finale di natura escatologica da cui muove la Commedia, incentrata sulla profezia del veltro, ma desidero richiamare ulteriormente qui l’attenzione sul disallineamento dei primi due canti: Dante si accinge a partire due volte, dopo un ripensamento che rimette in discussione la prima decisione già assunta. La ragione è che il secondo canto in origine non c’era e la narrazione passava direttamente dal canto primo al canto terzo, in cui troviamo il poeta già immesso sulla scena infernale. Virgilio alla fine del canto i dichiara a Dante che deve mutare il suo itinerario e lo invita perciò a seguirlo; ma il poeta latino, unico caso che si conosca, in tutte le narrazioni di viaggi nell’aldilà, non ha lo status di personaggio guida, perché non è affatto un personaggio numinoso, e, anche quanto il poeta latino afferma alla fine del canto sembra essere in verità il frutto di una revisione e aggiustamento del canto, allorché verrà introdotta la figura di Beatrice nel canto ii, in qualità di promotrice del viaggio dantesco, su sollecitazione diretta di Lucia e di Maria, e quest’ultima è propriamente il vero e primo adiuvante sacro, anzi il motore della storia. Il paradosso della scena in cui si viene a trovare Dante sul finale del canto i dell’Inferno non è comunque senza una ragione intrinseca, se si considera la serie narrativa del primo modulo, dal verso 1 al verso 30. Questa la sequenza: Dante si ritrova perduto nella selva (vv. 1-3); al momento della scrittura egli prova ancora paura e sgomento al ricordo di quella così dura esperienza (vv. 4-6) e la selva continua ad essere per lui un segnale di morte (v. 7); egli si accinge intanto a trattare del bene che vi ha trovato, ma prima dirà invece delle altre cose che vi ha «scorte» (vv. 8-9); il poeta non sa ora ridire il motivo per il quale si era perduto e aveva abbandonato la «verace via», perché era «pien di sonno» (vv. 10-12); nel suo movimento egli si ritrova frattanto ai piedi di un colle, dove terminava la valle che aveva intrapreso a percorrere e 4 Si veda B. Martinelli, Genesi della «Commedia»: la selva e il veltro, cit. 122 Del nomar parean tutti contenti che lo aveva nondimeno lasciato pieno di paura (vv. 13-15); Dante, giunto ai piedi del colle, guarda ora in alto e vede la cima illuminata dal sole, ragione che gli dà motivo di sperare e di cercare di vincere la paura che lo aveva fino ad ora attanagliato; alla stregua di un naufrago, che ha potuto toccare salvo la riva, e si volge indietro a guardare il pericolo a cui era scampato, così il poeta, che era ancora fuggitivo, si volge a sua volta indietro a «rimirar lo passo» che non aveva mai lasciato sopravvivere alcuno (vv. 22-27); alfine il poeta si accinge a proseguire per la «piaggia diserta» e ad intraprendere la salita al colle (vv. 28-30). Ora gli enunciati dei vv. 22-27 si pongono subito come problematici, perché il poeta si ritrae qui sì nelle vesti di una persona che ha fatto naufragio e si volge indietro ormai salvo, sulla «piaggia», a contemplare l’acqua perigliosa che aveva cercato di sommergerlo, tuttavia, se ben si riflette, le cose non stanno propriamente così, perché egli ha già fatto ritorno dalla visione finale del paradiso, alla quale ha potuto infine pervenire solo con l’ausilio della grazia di Dio. Alla tematica del naufragio e del concorso della grazia ai fini della salvezza fa chiaramente allusione san Pier Damiani nella sua epistola 160; il passo fa riferimento all’allontanamento del popolo ebreo dal Mar Rosso, dopo aver lasciato l’Egitto, e alla sua sosta presso Elim, per giungere subito dopo nel deserto di Sin: Sed egressi de Elim iuxta mare Rubrum fixere tentoria. Nota quia non mare rursus ingrediuntur, sed iuxta mare tabernaculum figunt, ut mare tantum et procellarum cumulos procul aspiciant, nequaquam tamen motus eius et impetus pertimescant. Nos etiam post temptationum fluctus, post undissoni maris formidolosa naufragia eadem saepe mala quae pertulimus, ante oculos ponimus, ut iam velut in litore constituti dignas ereptori nostro Deo gratias referamus. Profecti quoque de mari Rubro applicuerunt in desertum Sin. Sin interpretatur rubus sive temptatio. Incipit ergo Christi militi iam prosperitatis spes arridere, et allocutionis divinae verba promittere (corsivo nostro).5 Pier Damiani commenta qui il libro dei Numeri e verifica le varie mansiones del popolo ebreo, dopo aver lasciato l’Egitto, nel percorso verso la terra promessa: il passo che qui abbiamo riportato registra il cammino da Elim, 5Pier Damiani, Epistulae clxxx, ep. 160, MGH, Epistolae (Briefe), iv/4, p. 112; Collectanea in Vetus Testamentum, cap. 19, In Epistula ad Hildebrandum, PL 145, col. 1055C, con varianti; Il viaggio dell’anima, a c. di Manlio Simonetti, Giuseppe Bonfrate e Piero Boitani, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 2007, pp. 334-336. B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 123 presso il Mare Rosso, dove il popolo ebreo sosta, al deserto di Sin, dal quale si muove quindi nella direzione del monte Sinai. Si tratta di una triplicità di soste: mare, deserto, monte, che ripropone da vicino la sequenza con cui si conclude, vv. 13-30, il primo modulo del canto, sia pure, per ragioni narrative, in ordine inverso: colle, mare, piaggia deserta, sequenza che richiama esplicitamente la vicenda dell’esodo del popolo ebreo, dopo l’uscita dall’Egitto. La Commedia, in sede di avvio, rivela qui, in forma quasi esplicita, il suo sottotesto, che è costituito dalla vicenda del popolo ebreo, quale è narrata nel libro dell’Esodo e nel libro dei Numeri, e questo fatto getta una nuova luce sull’elaborazione iniziale del poema. L’analogia tra il testo dei Numeri, secondo l’esegesi proposta da Pier Damiani, e questo passo della Commedia è perfetta, e, infatti, troviamo alluso perfino il motivo dell’improvvisa felicità che sorprende il novello viaggiatore dell’aldilà, ma a differenza del popolo ebreo, che procede e giunge ai piedi del monte Sinai, dove sosta e riceve da Dio, per mezzo di Mosè, i precetti della legge, Dante può giungere solo ai piedi del colle, ma non proseguire, perché egli, proprio a differenza di Mosè, non è ancora stato chiamato. E Dante, invero, segue solo per tre tappe il cammino di Mosè nel deserto, il quale è invece di quarantadue tappe, e, perciò non è ancora sorretto da un desiderio stabile come quello di Mosè, che lo ha portato a porsi alla sequela di Dio, come leggiamo nella Vita di Mosè di Gregorio di Nissa.6 Perciò l’invito a seguirlo, che Virgilio gli proporrà alla fine del canto i dell’Inferno, era destinato a rimanere, almeno temporaneamente, vacuo e vano, perché né Dante sapeva dove andare, né Virgilio sapeva come condurlo. Nel sermone 19 Pier Damiani proclama felice colui che si trae fuori dalle difficoltà, anche marine, grazie all’aiuto divino, ma Dante, per contro, ci appare invece salvo per un mero disegno del caso o della fortuna e non grazie ad una virtù superiore. Nondimeno la scena del naufragio e del salvataggio del poeta si rivela di grande significato, perché il segmento di cui fa parte precede a breve distanza la scena archetipica della minaccia delle tre fiere, generalmente interpretata come manifestazione di una triplice disposizione peccaminosa e del vizio. La connessione tra l’evento del naufragio e la triplicità del vizio è ben espressa ed esplicata ancora da Pier Damiani, nell’epistola 96, che così scrive: 6 Cfr. Gregorio di Nissa, Vita di Mosè, ii, §§ 249-252, in Il viaggio dell’anima, a c. di Manlio Simonetti, cit., pp.163-164. 124 Del nomar parean tutti contenti Enim vero cum furentibus ventis tempestas oboritur et procellarum turbo fluctivagus in cumulos elevatur, tunc mare in ipsa sui pelagi profunditate mitius estuat, circa litus autem tanto se ferventius erigit, ut naves quoque, si appulerint, frangat. Unde fit, ut remiges tunc litoribus loca contigua tanquam Sircium discrimen aufugiant, et quietioris tunc pelagi profunda conscendant, sic nimirum, cum iam huius saeculi terminus appropinquat, quasi circa litus suum mundanus fervor ebullit, sese que in perturbationis atque superbiae cumulos erigit, et qui in praeteritis saeculis velut in pelagi profunditate quodammodo tranquillus extiterat, nunc circa finis sui litus pestilenter exestuat, ut applicantes quique discrimen naufragii vix evadant. Et haec quassatio ac perturbatio de luxuria nascitur, et quod naturae contrarium est, de voluptate afflictio generatur (corsivo nostro).7 Non solo poi le affermazioni di Dante non fanno riferimento ad alcun ausilio superiore, ma risulta anche ben chiaro che egli, stante l’attuale contesto, non l’ha neppure invocato. Il fatto è sconcertante e senza un plausibile motivo per un viaggiatore nell’aldilà cristiano. E al modo del personaggio del re Achaz, indicato nel passo di Isaia da noi posto in esergo, il poeta non avverte il bisogno dell’aiuto divino e neppure lo richiede. Il riferimento dantesco dei vv. 22-27 doveva appartenere in origine al ‘proto Inferno’ 8 e la saldatura, entro il contesto del canto rielaborato ex novo, non sembra essere stata senza una qualche traccia di ambiguità, tuttavia, sulla scorta del commento di san Girolamo al passo di Isaia, si può cercare comunque di intravederne la portata, alla luce di quanto più avanti si dirà in relazione al tema della profezia finale del canto e del manifestarsi nei canti successivi del tema della resurrezione e del giudizio. Scrive, dunque, il grande traduttore e commentatore della Bibbia: Et adiecit dominus loqui ad Achaz dicens: «Pete tibi signum a domino deo tuo in profundum inferni, sive in excelsum supra». Qui prius per prophetam locutus fuerat ad Achaz: «Vide ut sileas, noli timere, et cetera»: illo non credente, et ideo non intellegente, ipse loquitur ad Achaz, ut saltem auctoritate domini territus suscipiat quae dicuntur. Quia tibi, inquit, videtur esse difficile, quod regna potentissima brevi tempore finienda sint et tu cum populo tuo de magno periculo libereris; pete tibi signum, nequaquam ab idolis, quorum errore retineris, sed a domino deo tuo 7Pier Damiani, Epistulae clxxx, epistola 96, MGH, iv/3, p. 53. 8 Per la distinzione tra ‘proto Inferno’, ‘vetus Infernus’, ‘novus Infernus’, si veda Bortolo Martinelli, Dante. Dal ‘vetus Infernus’ al ‘novus Infernus’, in Leggere Dante oggi, interpretare, commentare, tradurre alle soglie del settecentesimo anniversario. Convegno internazionale 24-26 giugno 2010, Accademia d’Ungheria in Roma, in corso di stampa. B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 125 qui tibi auxilium pollicetur, et ipsum signum optionis tuae est unde postules, sive de profundo sive de excelso. Quod cum soli septuaginta dixerint, ceteri iuxta hebraicum significantius transtulerunt: «de profundo inferni». Ergo sicut profundum infernum significat, ita excelsum supra caelos intellegere debemus, ut cum de inferno sive de excelso signum acceperis, credas futura quae dixi.9 Il passo di Isaia, posto in esergo, rinvia al segno che viene dato alla casa di David, relativo al parto della Vergine da cui discenderà l’Emmanuele, il «Dio con noi». Il commento di san Girolamo fa riferimento tuttavia anche ad un altro motivo, quello della morte e resurrezione di Cristo, dopo essere disceso agli inferi. 3. Il veltro in figura La sequenza dei versi 94-111 del canto i si struttura in due segmenti: dapprima il poeta ci propone l’effigie della lupa, vv. 94-101; quindi ci presenta l’effigie del veltro, il cane cacciatore, vv. 101-111. Il ritratto della lupa è archetipico e presenta i tratti dell’animale minaccioso e mortifero, segno di una funzione ctonia: la lupa è un animale in assoluto impediente e la sua minaccia è seguita dalla morte; la sua natura è malvagia e, come animale, si ciba di tutto quello che trova, perché non è mai sazia, secondo i tratti propri dell’avaritia. Essa si accoppia con molti animali di diversa specie e continuerà a farlo, moltiplicandosi e ingigantendo il pericolo, fino a che non verrà il veltro, che la farà morire con «doglia». L’azione della lupa, che all’inizio era quella di impedire e minacciare il poeta (vv. 4960), diviene ora quella di un pericolo mortale senza limitazioni (vv. 94-101). L’animale «sanza pace» (v. 58) diviene ora l’animale che «uccide» (v. 96). La simbologia della lupa risponde all’immagine della concupiscenza, ma nel passaggio dalla prima lupa, di cui parla Dante, alla seconda, di cui parla Virgilio, è avvenuto uno spostamento di campo semantico e figurale. La bestia di cui parla Virgilio risulta meglio qualificata secondo più precisi indici, ma la novità rispetto alla prima lupa è che non solo è mortifera e si moltiplica accoppiandosi di continuo, ma è anche a sua volta minacciata dal veltro cacciatore, che la farà morire con «doglia». 9San Girolamo, Commentarii in Esaiam, iii, cap. 7, § 10, CCL 73, p. 100. 126 Del nomar parean tutti contenti I tratti della lupa sono perciò duplici: da una parte, come animale vorace e che non è mai sazio, risponde alla fenomenologia dell’avaritia; dall’altra, risponde alla fenomenologia della cupiditas, fonte di ogni peccato, mentre la superbia è stato il primo peccato, quello di Lucifero e degli angeli ribelli, come mette in luce Ambrogio Autperto nel suo Sermo de cupiditate. «Doglia»: designa i dolori del parto; è già avvenuto lo spostamento di campo semantico. Il primo riferimento è al libro della Genesi, dove Dio parla ad Eva dopo il peccato: «Mulieri quoque dixit: ‘Multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos: in dolore paries filios’», Gen. 3, 16. La lupa, con riferimento biblico, morirà dunque con «doglia», perché è un animale di terra, degli inferi, e si ciba di terra, mentre il veltro, che è un animale celeste, non si ciberà affatto di «terra», bensì di «sapïenza, amore e virtute». Lo scontro è mortale e solo il veltro alla fine riporterà la vittoria; lo scontro è apocalittico e dall’Apocalisse di san Giovanni Dante l’ha derivato. La profezia del veltro designa lo scontro finale tra Cristo e l’anticristo, come è chiaro dall’asserto dantesco secondo il quale il veltro caccerà definitivamente la lupa «ne lo ’nferno», dal quale era uscita. Il ritratto del veltro che Dante ci dà è complesso e l’inventio è degna della più grande tematica profetica e apocalittica. Le movenze sono quelle tipicamente profetiche, aperte sulla certezza del futuro: «’l veltro / verrà» e la sua azione vittoriosa causerà la morte «con doglia» della lupa. Dopo l’accenno alla venuta e all’azione vittoriosa del veltro, il poeta ce ne dà un ritratto non più operativo, ma sapienziale, con due indicazioni: «non ciberà terra né peltro», ma «sapïenza, amore e virtute», la prima, proposta via negationis, la seconda, proposta via affirmationis. A questo tratto segue una sorta di collocazione spaziale: «sua nazïon sarà tra feltro e feltro», con precisazioni in apparenza di storia dinastica: «Di quella umile Italia fia salute / per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute». Segue infine la precisazione sulle modalità dell’azione del veltro: quale animale cacciatore darà la caccia alla lupa «per ogni villa» e non desisterà fino a che non l’avrà riportata «ne lo ’nferno», dal quale era fuoruscita. Le indicazioni centrali della sequenza, che forniscono l’azione e il ritratto del veltro: il veltro alla fine verrà e farà morire la lupa; non si ciberà di terra, ma di sapienza, amore e virtù; rimetterà la lupa all’inferno, avrebbero dovuto indirizzare gli interpreti oltre, quanto meno, ogni grossolano equivoco. Nella decifrazione della figura del veltro sono stati invece ritenuti elementi guida singole espressioni, a prescindere da quello che Dante asseriva nel complesso B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 127 e quindi si è cercato di dar peso a questo o a quell’elemento, come il non cibarsi del peltro, come la localizzazione tra feltro e feltro, come il riferimento anche ad una sorta di protostoria italica. Ma si tratta di indicatori secondari, neppure troppo pertinenti. 4. Cristo agli inferi La discesa di Cristo agli inferi, nel limbo, per liberare gli antichi patriarchi e i bambini innocenti, morti senza battesimo, è attestata, o più semplicemente allusa, in molti passi del Nuovo Testamento, e nelle narrazioni dei Vangeli apocrifi, in particolare del Vangelo di Nicodemo,10 ben noto a Dante e a tutti i medioevali, e del Vangelo di Bartolomeo.11 La discesa di Cristo agli inferi è presentata da Dante in due tempi, dapprima nel canto iv e poi nel canto ix, qui con una più esplicita ripresa, in forma scenografica, del Vangelo di Nicodemo. Nel canto iv, Dante perviene nel limbo, dove è situato anche il castello degli spiriti magni; prima di incontrare la schiera dei quattro poeti classici, guidata da Omero «poeta sovrano», che è in compagnia di Orazio, Ovidio, Lucano, e prima di incontrare i personaggi famosi dell’antichità e la «filosofica famiglia», guidata da Aristotele, «maestro di color che sanno», Dante pone a Virgilio una questione rilevante della teologia neotestamentaria, relativa alla discesa di Cristo agli inferi. Virgilio, da storico surrogato dell’Antico e del Nuovo Testamento, oltre che di testimone oculare, si accinge a rispondere anche in qualità di conoscitore di questo evento misterioso. Dapprima Virgilio chiarisce lo status delle anime raccolte nel limbo, dove trovano ricetto bambini, uomini e donne, e anticipa, per così dire, la domanda inespressa di Dante (vv. 31-42). Le anime sono state relegate qui per due «difetti»: non hanno ricevuto il battesimo, che è la «porta» della fede, e, se nate prima del cristianesimo, non hanno adorato debitamente Dio; ora tra queste figura anche il poeta latino. La loro condizione è quella di vivere in una costante forma di desiderio, senza alcuna speranza di cambiamento. La soluzione dantesca non è tuttavia priva di equivoci, perché la loro condizione se, da una parte, è quella di essere nel 10Vangelo di Nicodemo, in I vangeli apocrifi, ii, 1-11 (xvii-xxvii): Discesa all’inferno, testo greco, a c. di Marcello Craveri, Prefazione di Dario Fo, con un saggio di Geno Pampaloni, Torino, Einaudi, 2006, pp. 351-358; testo latino A e testo latino B, pp. 360-377. 11 Vangelo di Bartolomeo, i, 1-28, ivi, pp. 425-427. 128 Del nomar parean tutti contenti desiderio di ricongiungersi con il corpo, come sosteneva per tutti i trapassati sant’Agostino, dall’altra, esse non sembrano avere alcun destino, perché per esse non si parla della resurrezione finale, la quale implica di necessità il giudizio e la separazione dei salvati e dei dannati. Il limbo, all’atto della resurrezione e del giudizio finale, è infatti destinato a scomparire, e la sorte di queste anime è destinata ad essere sospesa nel vuoto. La questione è cruciale e Dante nel canto xix del Paradiso tornerà ad occuparsi sì del problema della salvezza, ponendo l’attenzione non solo sulla necessità della fede, ma anche sul problema della chiamata universale alla salvezza, tramite la grazia,12 ma dei limbicoli, e di Virgilio in particolare, s’è ormai persa la traccia. Dante è preso, dopo la spiegazione di Virgilio, da un «grande duol», si sente cioè afflitto perché la gente, che si trova «sospesa» nel limbo, è gente di «molto valore», dove il termine «valore» designa, in termini etici, la loro «virtus», non quale semplice disposizione, bensì quale abito al ben fare. E perciò il poeta, al riguardo, incalza subito Virgilio (vv. 46-50), e la risposta del poeta latino non si fa attendere e suona inequivoca, perché egli è stato testimone oculare, e dichiara: «Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato. Trasseci l’ombra del primo parente, d’Abèl suo figlio e quella di Noè, di Moïsè legista e ubidente; Abraàm patrïarca e Davìd re, Israèl con lo padre e co’ suoi nati e con Rachele, per cui tanto fé, e altri molti, e feceli beati. E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati». [Inf. iv, 52-63] L’avvio di Virgilio richiama qui il «rex gloriae» che spalanca tutte le porte, perché «fortis et potens», di cui si parla nel Salmo 23, 7-10, indicazione ripresa anche dal Vangelo di Nicodemo, § 20, 1, in cui il segno di vittoria è non 12La trattazione della condizione dei limbicoli, in riferimento soprattutto alla figura di Virgilio, verrà ripresa successivamente nel canto vii del Purgatorio, senza comunque portare alcuna determinazione in rapporto al problema da noi sollevato; si veda in proposito B. Martinelli, Il gesto e la scena. Dante nel «seno di Abramo» (Purgatorio, vii), in Id., Dante. L’«altro viaggio», Pisa, Giardini, 2007, pp. 161-212. B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 129 solo un tratto dottrinario, ma altresì un tratto figurativo, che accompagna la resurrezione di Cristo nelle miniaure e nei dipinti anteriori e coevi all’età di Dante: Cristo risorge, innalzandosi dal sepolcro, impugnando con la destra un vessillo bianco, a due bande svolazzanti, con al centro la croce di colore rosso; nella discesa agli inferi egli è rappresentato vittorioso, avvolto da una gran luce e con in mano il vessillo bianco-crociato. La descrizione di Virgilio va però ben oltre la scena archetipica del «possente», che penetra negli inferi e libera le anime, perché tosto precisa, rivolto a Dante: «sappi» che nessuno è mai stato salvato prima della venuta e discesa di Cristo. Siamo in piena conformità con l’insegnamento del Nuovo Testamento e dell’insegnamento dogmatico della Chiesa anche ai tempi di Dante. La resurrezione e discesa di Cristo agli inferi diventa così uno dei precipui motivi fondatori dell’impianto dottrinario e narrativo della Commedia, che si orienta, anche e in virtù della precedente profezia di Cristo-veltro, come un grande disegno escatologico e di storia della salvezza. Nel canto vii, quarto cerchio, posto sotto la custodia di Pluto, il poeta, proseguendo il suo viaggio, incontra due nuove schiere di peccatori che si scontrano e cozzano tra di loro; sono gli avari e i prodighi, la cui sorte si proietta anche verso il futuro, al tempo della resurrezione e del giudizio: essi continueranno infatti la loro zuffa, ma risorgeranno con distinti segni, gli uni, gli avari, con il pugno chiuso, gli altri, i prodighi, con i «crin mozzi». Nei canti viii-ix Dante si accinge poi ad attraversare la palude Stigia; il nuovo nocchiero è Flegias, che fende con il remo le melmose e turbolente acque, in cui si trovano puniti gli iracondi; tra questi Dante incontra lo spirito ribelle («bizzarro») del fiorentino Filippo Argenti, che tenta di aggrapparsi alla barca e di rovesciarla. Ma i poeti stanno oramai giungendo in vista e in prossimità della città di Dite, in cui è punita un nuova schiera di peccatori, quella degli eretici. La città di Dite si presenta come una città fortificata e alle porte e sulle mura i demoni si agitano e si muovono per sbarrare la strada a Dante; di conseguenza solo Virgilio potrà proseguire, ma, al suo diniego, le porte vengono serrate; sugli spalti, frattanto, anche le tristi figure delle tre furie cercano di terrorizzare Dante: sono le feroci Erinni, Medusa, Aletto, Megera e il poeta deve coprirsi il viso e volgere indietro lo sguardo per sottrarsi alla minaccia della Gorgone. La scena è alquanto spettrale, da vicenda dell’orrore, ma alla fine i due viatori vincono la «pugna», perché un angelo del cielo viene tosto in soccorso: egli passa la palude Stigia con passo leggero e quasi radente; raggiunge così la 130 Del nomar parean tutti contenti porta e con una piccola verga la spalanca senza sforzo. I demoni, più di mille, sono già fuggiti, e i due viatori varcano l’orribile soglia «sanz’alcuna guerra». Il richiamo, salvo il particolare della minaccia delle tre Furie e dell’angelo che solca leggero la superficie delle acque e apre senza sforzo la porta, è del tutto analogo a quanto viene proposto nella seconda parte del Vangelo di Nicodemo, che ha come oggetto proprio la discesa di Cristo agli inferi. 5. La «Commedia», ovvero «De resurrectione» Nei primi canti dell’Inferno, nella sezione che riguarda il ‘vetus Infernus’ e l’avvio del ‘novus Infernus’, il tema de resurrectione si struttura chiaramente in tre diversi momenti: definitivo ritorno di Cristo; discesa di Cristo agli inferi, per trarre in salvo gli antichi patriarchi; scenografia del giudizio. Il primo elemento è in forma di profezia e perciò è posto all’inizio; il secondo riguarda il tema centrale della missione di Cristo, la cui vicenda culmina con la morte, la resurrezione, la discesa agli inferi e l’ascesa al cielo; il terzo considera la realtà e i modi della resurrezione, in connessione al giudizio. Dei primi due momenti già ci siamo già occupati; ora vogliamo occuparci del terzo momento, che si presenta distribuito in quattro sequenze o riferimenti, tutti attinenti al tema della resurrezione finale e del giudizio: a. realtà e modalità della resurrezione: b. luogo del giudizio; c. il giudizio finale: questione dell’incremento della pena e del merito; d. prova della resurrezione. a. Realtà e modalità della resurrezione.13 La realtà della resurrezione non è mai trattata in modo esplicito da Dante, perché essa è semplicemente un dato di fede, da postulare anche ai fini del giudizio, da cui muove le sue stesse orme la Commedia, in cui è presentato già all’inizio il tema della seconda venuta di Cristo. Il tema era però materia corrente di trattazione nelle Summae e nelle quaestiones dei teologi anche ai suoi giorni. Nell’Inferno gli avari e i prodighi risorgeranno in forma analoga alla loro vicenda peccaminosa: gli avari, con il pugno chiuso; i prodighi con i crini mozzi (invenzione di grande efficacia, ma di dubbio gusto). I suicidi invece, avendo rifiutato in vita la loro veste terrena, il corpo, all’atto della resurrezione riprenderanno sì la loro veste terrena, ma per tornare ad appenderla definitivamente ai loro alberi. 13Sulla realtà, modalità e sequenza del tema della resurrezione e del giudizio, si veda Giacomo da Benevento († 1260/70 ca.), De preambulis ad judicium, posto in appendice alle opere di san Tommaso (San Tommaso, Opera omnia, edizione Roberto Busa, Stuttgart-Bd Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1980, vii, pp. 300a-306b). B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 131 b. Luogo del giudizio. Il luogo del giudizio è fissato da Dante, conformemente alla tradizione testamentaria e patristica,14 nella valle di Giosafat: il particolare è menzionato a proposito degli eresiarchi ed epicurei, i cui sepolcri saranno per sempre serrati quando essi faranno ritorno da questa valle, dopo il giudizio. Per tutti questi, eresiarchi ed epicurei, si pone un ulteriore problema, perché, in quanto empi, essi non saranno chiamati in giudizio, in quanto già di per se stessi giudicati, come estranei alla retta fede, che hanno combattuto e falsificato; si legge infatti nel primo salmo: ideo non resurgent impii in iudicio neque peccatores in consilio iustorum, quoniam novit Deus viam iustorum et iter impiorum peribit (Ps. 1, 5-6). Il termine empio, empietà, si applica nei Padri della Chiesa e nei medioevali soprattutto ad indicare i fautori d’eresia, in particolare l’eresia ariana e manichea; empio propriamente è chi è separato dalla religione e dalla chiesa; quanto alla situazione in cui si verranno a trovare gli empi al tempo del giudizio, basti quanto scrive, in forma di glossa, san Girolamo: Salvator ait: «qui diligit me, mandata mea custodit» [Iob 14, 21]. Ipse est quippe iustitia. Nec vero putandum secundum septuaginta interpretes quod contrarium aliquid nunc dicatur, Dominus interrogat iustum et impium, illi quod in primo psalmo scribitur «ideo non resurgent impii in iudicio»: quia quomodo inter iustos sic et inter impios diversitas est, et sicut iusti differentes possident mansiones, sic et impii perfecti in malitia et iniquitate et tota adversus Dominum mente pugnantes in iudicio non resurgent; alii vero impii, qui pro peccatoribus nonnumquam intelleguntur, quia minoris malitiae sunt, Dei iudicio reserventur.15 La ragione del riferimento alla valle di Giosafat come luogo del giudizio è spiegata, in genere, dai padri e dai medioevali, anche con il motivo della sua vicinanza al monte Golgota (monte Calvario) su cui Gesù era stato innalzato sulla croce, aveva patito ed era morto. La valle di Giosafat è poi intermedia tra il monte Sion, dove Gesù, secondo la tradizione, ha consumato l’ultima cena, e il monte degli Ulivi, dove Gesù si era ritirato a meditare e a pregare. Topograficamente la valle di Giosafat si identifica con la valle situata nel settore orientale di Gerusalemme, tra il villaggio di Getsemani, il monte degli Ulivi, il villaggio di Silvan e il torrente Cedron; la valle, si ricorda, era stata anche attraversata da Gesù nel salire al Calvario. 14Il riferimento precipuo è a Ioel. 3, 2 e 3, 12. 15San Girolamo, Tractatus in Psalmos quattuordecim novissime reperti, De psalmo x, § 6, CCL 78, p. 362. 132 Del nomar parean tutti contenti Un altro motivo di congruità, relativo alla collocazione del giudizio nella valle di Giosafat, è dovuto al fatto che su uno dei fianchi della valle risultava posto il sepolcro di Maria, dal quale essa era poi ascesa al cielo, come leggiamo in Pascasio Radberto, che cita anche l’apocrifo De transitu Virginis. c. Il giudizio finale. Il giudizio finale si compone di due atti: il giudizio dei dannati e dei salvati; il loro invio nel rispettivo luogo di destinazione eterna, l’inferno e il paradiso. Dante affronta qui una questione dibattuta ai suoi giorni: nella situazione anteriore alla resurrezione, il loro status era quello di mere anime separate dal corpo e la loro sofferenza riguardava solo l’anima; ma, all’atto del ricongiungimento con il corpo, per effetto della resurrezione della carne, i dannati e i beati si troveranno in uno status diverso e la questione, che, perciò, viene posta, non riguarda la natura stessa delle pene e dei premi, bensì la loro quantità: le pene rimarranno invariate, oppure saranno incrementate? Dapprima egli considera la questione dapprima in relazione alla situazione delle pene, quindi la applica, nella terza cantica, anche alla situazione dei premi. La determinazione dantesca risulta formulata sulla scorta di un principio di ragione o logico e sono diretti interlocutori i due poeti, Dante, in qualità di chi pone il problema, e Virgilio, in qualità di chi presenta la soluzione, cioè di magister. La scena si svolge nel girone dei golosi, dopo che Dante ha cessato di interloquire con Ciacco e il dannato, chinata la testa, «cadde con essa al par de li altri ciechi» (Inf. vi, 94-111). Approdando al paradiso, nel canto xiv, la risposta che Dante propone, ora sotto il magistero di Beatrice, è ancora la stessa e non c’è perciò bisogno qui di una replica o di una nuova determinazione ora da parte di Beatrice. Per Dante, dopo il giudizio finale, per effetto del ricongiungimento di ogni anima con il proprio corpo, le pene e i meriti saranno incrementati o, più semplicemente, maggiorati. La posizione è conforme al pensiero agostiniano, alquanto attestato, ma fortemente avversato dalla nuova teologia speculativa improntata soprattutto alla scuola domenicana, la cui risposta suona inequivoca e del tutto contraria alla precedente e a quella dantesca. Scrive in proposito l’Aquinate: Ad quintum dicendum quod desiderium animae separatae totaliter quiescit ex parte appetibilis, quia scilicet habet id quod suo appetitui sufficit. Sed non totaliter requiescit ex parte appetentis, quia illud bonum non possidet secundum omnem modum quo possidere vellet. Et ideo, corpore resumpto, beatitudo crescit non intensive, sed extensive.16 16San Tommaso, Summa Theologiae, i-ii, q. 4, a. 5, ad 5. B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 133 d. La prova della resurrezione. Nel canto vii del Paradiso Beatrice si ingegna a sciogliere un dubbio nato nella mente di Dante, allorché nel canto precedente, magnificando il volo dell’aquila imperiale, lei stessa aveva sostenuto che l’aquila, dopo varie vicissitudini, alla fine «con Tito a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico» (vv. 92-93). La sua risposta prosegue quindi in forma di dura rampogna contro i guelfi, seguaci dei gigli di Francia e contro i ghibellini, fautori dell’impero, i quali, pur seguendo l’idea imperiale, scindono la giustizia dal segno dell’aquila, a differenza di molti personaggi che proprio quel segno avevano fatto motivo della loro vita. Nel canto vii del Paradiso Beatrice pronuncia una grande lectio magistralis, partendo da un dubbio di Dante, e argomenta in due riprese: dapprima spiega l’idea della giusta vendetta esercitata da Tito, per vendicare l’ingiusta morte di Cristo; quindi fa riferimento al mistero dell’incarnazione, partendo dalla storia del peccato di Adamo, mistero in cui la natura umana era unita al suo «fattore» nella forma originaria in cui era stata creata, «sincera e buona»; e, rivolta a Dante, così conclude: Non ti dee oramai parer più forte, quando si dice che giusta vendetta poscia vengiata fu da giusta corte. [Par. vii, 49-51] Ma nella mente di Dante sorge tosto un altro dubbio e Beatrice, che l’ha intuito, si appresta a proseguire la lezione, non più sul piano storico e con exempla, ma sul piano squisitamente teoretico e dottrinario, more philosophico. Dapprima introduce l’idea-immagine della divina bontà, che da sé «sperne ogni livore», quindi prosegue argomentando per via razionale (vv. 64-78). Il nucleo portante dell’argomentazione, dato dal concetto di creazione, espresso da Dante anche nel xxix del Paradiso, è il seguente: ciò che Dio crea direttamente («sanza mezzo») dura per sempre ed è soggetto di libertà, ma il peccato può far decadere questa natura e renderla «dissimile» dal sommo bene e perciò la natura umana, che ha peccato tutta in Adamo, il suo «seme», è decaduta e fatta estranea al suo originario destino ultimo, che era il paradiso. A questo punto Beatrice incalza più direttamente Dante e lo sollecita a fissare più addentro l’occhio nell’«eterno consiglio» della divina mente e passa quindi a teorizzare la necessità dell’incarnazione del Figlio. E tosto prosegue così argomentando: l’uomo, con i suoi soli mezzi, non avrebbe mai potuto porre riparo al danno provocato dalla disobbedienza del 134 Del nomar parean tutti contenti primo uomo, non certo, comunque, semplicemente «con umiltate obedïendo» (vv. 85-102); era dunque necessario che, per restaurare la natura umana e restituirla alla sua «intera vita», Dio facesse ricorso, congiuntamente, ai due dei principali attributi della sua natura, la misericordia e la giustizia (vv. 103105) e questa sua disposizione fu la più larga possibile, al punto che l’uomo mai avrebbe potuto provvedere da se stesso; e, invero, qualunque altro modo sarebbe stato inefficace se la divina giustizia non avesse offerto in pegno il proprio figlio, mediante l’incarnazione (vv. 106-120).17 A questo punto, affinché Dante possa meglio comprendere e più a fondo il suo discorso, Beatrice ritorna ad argomentare (vv. 121-123), riprendendo il discorso dal punto in cui l’aveva lasciato all’inizio e facendo specifico riferimento all’atto creativo divino; quindi prosegue, rispondendo ad una possibile obiezione del poeta e ribadendo l’idea riguardo a ciò che Dio crea direttamente (vv. 124-148). Dio, incalza Beatrice, crea direttamente tre res o sostanze: gli angeli, i cieli, la materia di tutti gli elementi; crea in pari tempo anche la vis o virtus dei cieli, da cui dipende la generazione di tutte le cose sottostanti; crea direttamente «sanza mezzo» l’anima intellettiva, che la somma bontà «spira» nell’uomo al termine del suo processo di formazione, come sappiamo anche dalla riflessione proposta da Dante nel canto xxv del Purgatorio. Dio però non è solo il creatore, il principio e il punto di avvio di tutte le realtà, ma è anche il punto finale, verso cui esse tendono e si muovono. Ora, questo principio finalistico è posto anche nell’anima dell’uomo, in forma di tensione o desiderio, in modo tale che l’uomo sempre desidera di ricongiungersi alla «somma beninanza», e soltanto il peccato è ciò che la «disfranca», può cioè allontanarla dal creatore, come era già stato anticipato ai vv. 79-80. Da qui, per via di argomentazione, si può giungere a provare anche la necessità della resurrezione, che consegue alla creazione diretta dell’anima dell’uomo da parte di Dio, così come essa era stata insufflata ai «primi parenti». La tesi della necessità della resurrezione resta così provata, in forma di 17Approdato in paradiso Dante si accinge ad affrontare ora una delle massime questioni della cristologia e della riflessione teologica medievale ed egli non poteva affatto tralasciarla, in tema della salvezza e della missione di Cristo, quale giudice poi alla fine dei tempi. La riflessione che Dante qui propone rinvia direttamente al celebre trattato Cur Deus Homo? di Anselmo d’Aosta, che aveva fatto della misericordia e della giustizia divina i due capisaldi fondamentali riguardo al problema della necessità dell’incarnazione del Figlio per restaurare la natura dell’uomo, decaduta dopo il peccato dei progenitori. L’enunciato relativo alla misericordia divina, presentata come la più larga e copiosa possibile per salvare l’uomo, discende direttamente dal trattato anselmiano. B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 135 stretta argomentazione, a partire dalla considerazione della natura divina e degli effetti dell’atto creatore; riguardo all’uomo, considerato in sé, vengono proposti due ordini di considerazioni: il primo, relativo all’essenza dell’anima, in quanto immateriale ed immortale; il secondo, relativo all’essenza dell’anima, in quanto creata direttamente da Dio, da cui discende la sua tensione a sempre desiderare di rapportarsi e di unirsi al suo creatore. Il termine «argomentare» serve, alla fine, ad attestare la complessa modalità del ragionamento dantesco, che incrocia qui, alla maniera della filosofia scolastica, due tipi di prove: la prima, che fa capo all’auctoritas, la Bibbia, la seconda, che fa capo alla ratio, da cui deriva poi la serie degli argomenti. Il complesso ragionamento di Dante si fonda in partenza sulla concezione della natura divina e sulla natura dell’atto creatore, così come è detto nel libro della Genesi, e quindi si sviluppa coerentemente in un’ordinata serie e concatenazione di argomenti. Il ragionamento non è condotto qui in forma sillogistica, come potrebbe sembrare, perché il ragionamento sillogistico è inefficace e inattendibile allorché si deve argomentare circa la natura delle essenze. E Dante conosce, al pari di tutti i medioevali, in particolare san Tommaso, riferimento, i quattro modi della prova: probatio per rationem, probatio per auctoritatem, probatio per testes, probatio per signum e la applica correttamente qui nella Commedia, come nella Monarchia. La materia della Commedia, non solo come matrice inventiva, ma anche come matrice espositiva e argomentativa, trova qui uno dei suoi vertici più alti, perché tutta la sua costruzione ed escogitazione non avrebbe senso se non si potesse giungere a provare non solo che l’anima è immortale, per effetto della sua creazione, ma anche che essa desidera ricongiungersi con Dio; l’uomo deve così poter risorgere e l’anima ricongiungersi con il proprio corpo, per essere sottoposta al giudizio, sulla scorta delle sue azioni, alle quali consegue l’eternità o della pena o del gaudio. 6. «‘Resurgi’ e ‘vinci’» Nel canto x dell’Inferno Dante aveva cercato di affrontare il problema dell’accrescimento delle pene dei dannati all’atto della resurrezione, vale a dire al momento del ricongiungimento dell’anima con il proprio corpo, sulla scorta di argomenti esclusivamente filosofici e speculativi; giunto infine nel terzo regno, nel canto xiv, l’argomento viene ripreso, come già si era accen- 136 Del nomar parean tutti contenti nato, ma il problema da filosofico e speculativo si fa ora decisamente teologico, dando luogo ad una nuova serie di considerazioni, in un diverso contesto scenografico, rappresentativo, figurativo e figurale, che si pone tra le maggiori sintesi dottrinarie e creazioni della terza cantica. L’avvio, degno del grande Leonardo,18 muove da un fenomeno di osservazione fisica: l’acqua, contenuta in un vaso rotondo, si muove dal centro al cerchio e dal cerchio al centro a seconda che il vaso venga colpito dall’interno o dall’esterno; il moto continua, ma si fa progressivamente meno intenso e alla fine cessa, come si legge anche sul quaderno degli appunti di Leonardo, codice Leicester, poi codice Hammer, dal nome del nuovo proprietario, e ora di proprietà di Bill Gates. L’immagine del doppio movimento dell’acqua nel vaso serve ad introdurre, in forma di similitudine, il passaggio dalla conclusione del discorso di san Tommaso a quello di Beatrice, che esorta l’accolta dei beati ad andare alla «radice» di un altro «vero», che viene proposto in forma di domanda: Diteli se la luce onde s’infiora vostra sustanza, rimarrà con voi etternalmente sì com’ ell’ è ora; e, se rimane, dite come, poi che sarete visibili rifatti, esser porà ch’al veder non vi nòi. [Par. xiv, 13-18] Beatrice viene in soccorso di Dante e pone due questioni: la prima riguarda il quesito se la luminosità della figura dei beati, per effetto della grazia, rimarrà tale «etternamente»; la seconda riguarda il quesito se dopo la resurrezione, una volta divenuti visibili anche con il corpo, i beati saranno in grado di sopportare con gli occhi il fulgore della luce divina. Le due questioni sono di origine agostiniana e le troviamo formulate pressoché negli stessi termini nei capitoli conclusivi del De civitate Dei del vescovo di Ippona, il quale così argomenta: i corpi risorti saranno tutti resi perfetti, senza il minimo difetto, rifatti integralmente, e il loro colore di giusti risplenderà come il sole nel regno del Padre (De civitate Dei xxii, cap. 19); i corpi, anche se mutilati e straziati, risorgeranno tutti integri (xxii, cap. 20); ogni corpo risorgerà mutato nella novità di corpo spirituale, rivestito d’incorruttibilità e d’immortalità, e la carne rimarrà pur sempre carne, ma luminosa (xxii, cap. 21); i risorti 18Cfr. Bortolo Martinelli, Poesia e scienza in Dante, «Critica letteraria», 1981, 4, pp. 627-667, pp. 660-661, n. 143, per il riferimento specifico. B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 137 vedranno con i loro stessi occhi del corpo, e sempre li terranno aperti, ma per vedere Dio vi sarà bisogno dell’ausilio di una virtù superiore (xxii, cap. 29). L’affermazione dantesca, «sarete visibili rifatti», si deve perciò intendere proprio alla lettera, sarete cioè presentati rifatti in forma visibile, e non rifatti visibili, il che è una banalizzazione. Dante ricorre qui all’immagine, a lui cara, del Dio artista, sulla falsariga di sant’Agostino, il quale per chiarire la modalità dell’azione divina si vale dapprima della figura del vasaio, che si accinge a rifare un vaso di terra: Velut si de limo vas fieret, quod rursus in eundem limum redactum totum de toto iterum fieret, non esset necesse ut illa pars limi, quae in ansa fuerat, ad ansam rediret, aut quae fundum fecerat, ipsa rursus faceret fundum, dum tamen totum reverteretur in totum, id est, totus ille limus in totum vas nulla sui perdita parte remearet. Quapropter si capilli totiens tonsi ungue sue desecti ad sua loca deformiter redeunt, non redibunt; nec tamen cuique resurgenti peribunt, quia in eandem carnem, ut quemcumque ibi locum corporis teneant, servata partium congruentia materiae mutabilitate uertentur;19 E, subito dopo, si chiede: se un artista può fare questo, non si potrà forse dire altrettanto dell’azione del divino artefice? Invero, si enim statuam potest artifex homo, quam propter aliquam causam deformem fecerat, conflare et pulcherrimam reddere, ita ut nihil inde substantiae, sed sola deformitas pereat, ac si quid in illa figura priore indecenter extabat nec parilitate partium congruebat, non de toto, unde fecerat, amputare atque separare, sed ita conspergere universo atque miscere, ut nec foeditatem faciat nec minuat quantitatem: quid de omnipotenti artifice sentiendum est?20 Alla maniera dunque di un vasaio, Dio artefice rimescolerà la materia del corpo di ogni beato, per farne un corpo nuovo, di carne, ma per sempre luminoso. I capitoli finali del De civitate Dei costituiscono così il punto di riferimento obbligato per comprendere la formulazione della tesi dantesca riguardo ai due quesiti proposti. Il poeta affronta la risoluzione della questione articolando dapprima una laus Trinitatis, in forma di movimento retorico figurato, di tipo circolare, con inizio e fine dall’unità e con l’unità, sulla scorta di un 19 Sant’Agostino, De civitate Dei, xxii, 19, CCL 48, pp. 837-838. 20 Ivi, p. 838. 138 Del nomar parean tutti contenti richiamo all’essenza di Dio intesa come sfera intelligibile. Le sante corone dei beati, «tre volte cantando», in lode della Trinità, danno vita ad una straordinaria «melodia», superiore a qualunque elogio. La parola passa ora alla luce più luminosa, quella di Salomone, già indicata come la quinta luce, la «più bella», nella prima corona di beati del cielo del sole (Par. x, 109-114) e la sua risposta sembra modularsi sulla mistica del Cantico dei Cantici, che tratta dell’amore della sposa e dello sposo, che qui si ripropone nei termini di una sempiterna unione tra l’anima e il corpo. La risposta è una sublimazione, anche in forma retorica, del ricongiungimento finale dell’anima gloriosa con il proprio corpo glorioso; e Dante può udire così la voce di Salomone la «luce più dia» e più splendente, rispondere. La trattazione è condotta nondimeno in forma di argomentazione logica e razionale, che è bene conoscere nei suoi elementi; essi sono: la durata sempiterna della vita del paradiso e della luce del corpo-veste dei beati, che è oggetto stesso dell’amore, come proiezione dell’amore divino (vv. 37-39); la luminosità del corpo, che verrà accresciuta in virtù dell’acume del desiderio e della carità («ardore»), e il desiderio e la carità renderanno più intensa la visione, secondo quanto per ciascuno sarà reso possibile dalla grazia divina (vv. 40-42); l’anima si rivestirà della sua carne gloriosa e l’intera nostra persona diverrà di conseguenza più gradita (vv. 43-45); si accresceranno così anche gli effetti della grazia, che è «gratuito lume», cioè ‘gratis data’, perché solo per mezzo di essa si potrà vedere il divino volto, che è il fine e l’oggetto stesso della visione (vv. 46-48); nel contempo crescerà e si intensificherà la capacità visiva e di fruizione del bene sommo, facendo così accrescere anche il desiderio di permanere sempre nella visione e aumenterà di conseguenza lo stesso potere irraggiante del corpo, per effetto dell’azione del «sommo bene» (vv. 49-51); e al modo di come un carbone produce la fiamma e la rende progressivamente più intensa, così anche lo splendore del corpo terreno sarà fatto maggiore e più intenso, in quanto divenuto la nuova carne risorta (vv. 52-57); l’accrescimento della luce della gloria non affaticherà affatto gli occhi, perché essi verranno resi più idonei («forti») a contemplare così il bene sovrano (vv. 58-60). Dante ha scritto qui non solo un grande capitolo dell’antropologia paradisiaca, in quanto per il corpo, come nell’arte del vasaio, si dà luogo ad una nuova formazione, ad una nuova creazione, per intervento della grazia, ma ha proposto qui anche un grande capitolo della fenomenologia della visione e della fruizione di Dio nel terzo regno. Il nodo di tutta l’argomentazione è B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 139 però costituito dall’asserto secondo cui la grazia ci è data per vedere «lui», il «sommo bene», nella persona del Figlio e nell’essenza della Trinità. 7. Il giudizio finale Ai suoi giorni Dante aveva potuto sicuramente assistere a due grandi eventi: la realizzazione del giudizio universale ad opera di Coppo di Marcovaldo e sua scuola (1260-1270 ca.), sulla volta della cupola del battistero di Firenze, e la realizzazione del giudizio universale ad opera di Giotto (1303-1305), sulla parete soprastante il portale d’entrata, e sotto una grande finestra a forma di trifora, della Cappella degli Scrovegni a Padova. Il modulo compositivo, al di là della grandiosità dell’impianto, è del tutto affine e spicca soprattutto per il particolare di satana tricefalo, che divora tre dannati, ripreso anche da Dante nel canto xxxiv dell’Inferno. Nel mosaico di Coppo la scena, nella parte bassa della cupola, si dispone in tre spicchi, a loro volta suddivisi in tre registri, con al centro, in un circolo, la figura di Cristo, posto su un sedile e con le braccia aperte: il primo registro, ai piedi di Cristo, presenta la resurrezione dei morti, e ai lati, sulla sinistra di Cristo, la figura di Lucifero tricefalo, attorniato da demoni e dai dannati, e sulla destra la serie dei beati. Nel secondo registro, da ambo i lati, troviamo la serie dei dodici patriarchi che accolgono in cielo i beati; nel terzo registro, da ambo i lati, vediamo una serie di angeli musicanti e osannanti i patriarchi biblici. Nell’affresco di Giotto, disposto su tre livelli, troviamo al centro la croce come insegna di Cristo e strumento del giudizio; sopra la croce, nel secondo registro, troviamo Cristo giudice posto in un ovale. Nel primo registro, sezione di sinistra, troviamo la rappresentazione dell’inferno, con al centro Satana tricefalo; tutt’intorno schiere di demoni, che tormentano i dannati, i quali sono presentati con i segni della loro attività in terra (ad esempio, gli avari recano al collo una borsa); nella sezione di destra, distribuita su due livelli, troviamo: al livello inferiore, la schiera delle anime salvate, guidate da angeli e, al livello superiore, la schiera dei santi. Sul secondo registro, a destra e a sinistra di Cristo, ci vengono presentati i dodici patriarchi; sul terzo registro, a sinistra e a destra della finestra in forma di trifora, sono rappresentati i beati seduti su diversi ordini di scranni e, più in basso, schiere di angeli trionfanti. Nel xii secolo il modulo a tre registri non è molto attestato e, in genere, viene impiegato il modulo a due registri, come si riscontra, ad esempio, 140 Del nomar parean tutti contenti nel timpano del portale occidentale, detto del Redentore, del battistero di Parma, databile tra il 1196 e il 1220 ed eseguito da Benedetto Antelami e sua scuola. La scena del giudizio è disposta su due registri: nell’architrave, troviamo la scena della resurrezione dei morti; nella lunetta, troviamo la scena del ritorno definitivo di Cristo, in atto di trionfo e di giudizio, con i segni della passione retti da angeli. Nelle grandi abbazie e cattedrali romaniche d’oltralpe, in Francia, l’impostazione è analoga e nel xii secolo prevale nel timpano, per la scena del giudizio, il modulo a due registri: il primo presenta la resurrezione; il secondo presenta il giudizio, con al centro la figura di Cristo giudice. Manca però la rappresentazione della separazione dei risorti, secondo il doppio registro di chi viene assegnato al paradiso e di chi viene assegnato all’inferno. Così a Cluny, a Conques, a Vezelay, a Autun, a Beaulieu-sur-Dordogne, a SaintDenis, costruzioni tutte collocabili tra il 1110 e il 1150. Nel xiii secolo il modulo compositivo dei portali, come precipuo luogo non solo di accesso, ma anche di riflessione e di osservazione, si arricchisce e si dispone oramai a tre livelli o registri: il primo, in basso, con l’assegnazione dei risorti ai due regni separati; al centro viene proposto il tema della resurrezione; in alto, nella lunetta, la figura di Cristo risorto e giudice, quasi sempre accompagnato dagli strumenti della passione. I temi del primo e del secondo modulo sono però intercambiabili, quasi a voler sottolineare che essi sono motivi di uno stesso sistema simbolico e comunicativo. Il modulo a tre registri si presenta subito a Notre-Dame di Parigi, tra il 1210 e il 1220, sul portale del giudizio, facciata occidentale, dove l’ordine degli elementi è ormai del tutto definito, secondo il seguente ordine: primo livello, la resurrezione dei morti; secondo livello, la separazione dei salvati dai dannati; terzo livello, figura di Cristo giudice, con ai lati la croce e la lancia. Così a Notre-Dame di Amiens, nel decennio successivo. Così anche a Notre-Dame di Strasburgo, nel timpano del portale di destra della facciata principale, poco dopo la metà del secolo. Ma siamo ormai già all’altezza della cronologia di Dante fanciullo, che poteva ben vedere al lavoro Coppo di Marcovaldo e suoi collaboratori, intenti a realizzare il grande mosaico del Giudizio Universale sotto la volta della cupola del battistero di San Giovanni. Nel xii e xiii secolo i due sistemi, a due e a tre registri, comunque si alternano nel tempo anche per quanto riguarda l’apparato delle miniature, applicate al testo sacro e ad altre tipologie di testi religiosi. B. Martinelli Dante: la «Commedia». La resurrezione e il giudizio 141 Dante, comunque, non tratta espressamente e in forma organica, il tema finale della resurrezione e del giudizio, ma ne allude a più riprese, e, alla luce del sistema figurativo relativo al xii e xiii secolo, che abbiamo delineato, non è difficile cercare di rileggere ora l’intero della Commedia sulla scorta dei richiami che abbiamo riproposto. Se il fedele o il visitatore, che aveva avuto modo di accedere, ai primi del Trecento, alla cappella degli Scrovegni, a Padova, era subito indotto, all’atto dell’uscita, ad alzare lo sguardo e ad ammirare, anche in forma di monito, il grande affresco del Giudizio Universale, sui portali delle cattedrali, italiane ed europee, il tema del giudizio, effigiato in pietra, costituiva invece il monito iniziale: l’accesso al luogo sacro era per così dire preceduto dalla visione dei novissimi, a cui l’uomo non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi Con questi stessi temi sant’Agostino aveva concluso la trattazione del De civitate Dei, la sua opera maggiore e più nota, prendendo lo spunto, nei libri xx-xxii, dal finale dell’Apocalisse dell’apostolo Giovanni Avviando la Commedia, sulla falsariga proprio dell’Apocalisse e del De civitate Dei, Dante mette in scena la figurazione dello scontro finale tra le milizie di Cristo-veltro e le milizie di satana, che viene poi retrocesso definitivamente all’inferno (Inf. i). La scena è in forma di preludio e serve ad inquadrare gli eventi che seguiranno: la discesa di Cristo risorto agli inferi (Inf. iv) e la sua definitiva venuta per giudicare, nella valle di Giosafat, i vivi e i morti (Inf. x). Alla stregua di una grande cattedrale gotica la Commedia si apre presentando, nel timpano del portale della sua facciata, il motivo della venuta finale di Cristo, introdotta dalle immagini del combattimento del veltro, contro le milizie di satana, e di satana che, definitivamente vinto, viene tratto in catene all’inferno, immagini che fanno da preludio alla scena della fine della storia, al cui termine hanno luogo la resurrezione e il giudizio. In sintesi, era la delineazione di un percorso narrativo, figurativo e figurale, al quale erano chiamati a porre mano «e cielo e terra». Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Raffaele Ruggiero UNA DEFINIZIONE DEL DIRITTO 1. Quod quid est iuris Nel ii libro della Monarchia,1 dedicato a stabilire «an Romanus populus de iure Monarche officium sibi asciverit», Dante offre una definizione di ius che ha riscosso successo presso una nutrita serie di storici del diritto ed è stata più volte ripresa anche da Eugenio Garin. Il trattatista scrive: Quicunque preterea bonum rei publicae intendit, finem iuris intendit. Quodque ita sequatur sic ostenditur: ius est realis et personalis hominis ad hominem proportio, que servata hominum servat societatem, et corrupta corrumpit – nam illa Digestorum descriptio non dicit quod quid est iuris, sed describit illud per notitiam utendi illo –; si ergo definitio ista bene ‘quid est’ et ‘quare’ comprehendit, et cuiuslibet societatis finis est comune sociorum bonum, necesse est finem cuiusque iuris bonum comune esse; et impossibile est ius esse, bonum comune non intendens. [ii, 5, 1-2].2 1 Per il testo della Monarchia si è fatto riferimento a: Monarchia, a c. di Pier Giorgio Ricci, Milano, Mondadori (per Società Dantesca Italiana), 1965; Monarchia, a c. di Prue Shaw, Firenze, Le Lettere, 2009; Monarchia, con il commentario di Cola di Rienzo e il volgarizzamento di Marsilio Ficino, Milano, Mondadori, 2004 (trad. italiana della Monarchia a c. di Nicoletta Marcelli e Mario Martelli; del Commentarium di Cola a c. di Paolo D’Alessandro e Francesco Furlan, introduzione generale e cura di F. Furlan). Si consulta utilmente Anthony K. Cassell, The Monarchia Controversy, Washington, Catholic Univ. of America Press, 2004, che contiene, oltre alla versione inglese del trattato dantesco, anche le versioni della Refutatio di Guido Vernani e della bolla Si fratrum di Giovanni xxii. 2 Cassell, op. cit., rinvia per il «comune bonum» a Remigio de’ Girolami, De bono communi, ed. Maria Consiglia De Matteis in «Annali Fac. Lettere», Univ. di Lecce, 3, 196567, pp. 13-86 (testo alle pp. 53-86 si vedano in specie pp. 33, 61, 64). De’ Girolami fu un domenicano fiorentino discepolo a Parigi di Tommaso d’Aquino. Vedi su questi temi, Andrea Zorzi, Pluralismo giudiziario e documentazione. Il caso di Firenze in età comunale, in Jacques Chiffoleau, Claude Gauvard e Andrea Zorzi (éd. par.), Pratiques sociales et politiques judiciaires dans les villes de l’Occident à la fin du Moyen Âge, École Française de Rome, 2007, pp. 125-187. Cfr. inoltre Emilio Panella, Dal bene comune al bene del comune. I trattati politici di Remigio dei Girolami nella Firenze dei bianchi-neri, «Memorie Domenicane» 1985, pp. 1-198. Sul priorato a santa Maria Novella attorno al 1301 di Bartolomeo R. Ruggiero Una definizione del diritto 143 [Chiunque, inoltre, tenda al bene dello stato, tende al fine del diritto. E che così consegua, si dimostra in questo modo: il diritto è il reale e personale rapporto proporzionale di un uomo con un altro uomo, la cui salvaguardia salvaguarda la società degli uomini e la cui corruzione la corrompe (infatti, la descrizione del Digesto non dice quale sia l’essenza del diritto, ma lo descrive dando notizia del suo uso); se, dunque, questa definizione coglie bene ‘che cosa sia’ e ‘per quale motivo’, e il fine di qualsiasi società è il bene comune dei suoi componenti, è necessario che il fine di ogni diritto sia il bene comune; ed è impossibile che esista un diritto che non tenda al bene comune (trad. N. Marcelli)]. Significativamente la definizione offerta da Dante ricorre pressoché in polemica con le non poche definizioni di ius che aprono le Institutiones e il Digesto giustinianei.3 Il trattatista osserva che le proposizioni giustinianee hanno tutte carattere operativo, indicano cioè come funziona il diritto, quali ne sono le fonti, quali operazioni politico-sociali permette di compiere, ma non ne definiscono l’intima natura, «non dicit quod quid est iuris».4 L’obiettivo polemico principale è naturalmente il frammento d’apertura del Digesto, quello dove Ulpiano riprende la definizione celsina «ars boni et aequi», una definizione che Dante stesso aveva tradotto nel Convivio iv, 9, 8: «È scritto nel principio del Vecchio Digesto: – la Ragione scritta è arte di bene e d’equitade».5 E naturalmente sul ruolo dell’aequitas nella definizione dantesca torneremo ancora. Fiadoni (Tolomeo da Lucca), continuatore della trattatistica politica di Tommaso, cfr. Cassell, op. cit., pp. 73-74 e note relative. 3Iustiniani Institutiones: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuere. Iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia» (I, 1,1); D. 1.1.1.1 (Ulpianus), 1.1.1.3 (ius naturale Ulp.), 1.1.1.4 (ius gentium Ulp.), 1.1.6pr. (ius civile Ulp.), 1.1.7pr. (ius civile Papinianus), 1.1.9 (Gaius), 1.1.10 (Ulp.). Sull’esordio del Digesto si legga quanto oggi scrive Mario Bretone, Ius controversum nella giurisprudenza classica, «Memorie dell’Accademia nazionale dei Lincei», serie ix, vol. xxiii, Roma, Bardi, 2008, pp. 759-762. 4 Che Dante comprendesse a fondo e discutesse dall’interno la definizione ulpianea di iustitia (D. 1.1.10) è provato da Monarchia i, 11, 7: «nam cum iustitia sit virtus ad alterum, sine potentia tribuendi cuique quod suum est quomodo quis operabitur secundum illam?». Su cui vedi Richard Kay, Roman Law in Dante’s Monarchia (1990), in Id., Councils and Clerical Culture in the Medieval West, Aldershot, Ashgate (Variorum), 1997, pp. 259-268, in specie p. 265 n. 30. 5 Su cui vedi Piero Fiorelli, Sul senso del diritto nella Monarchia, in «Letture classensi», 16, 1987, pp. 79-97, in specie, p. 83 e pp. 84-86 sull’aggettivo realis. Con riferimento al bonum et aequum di Celso rinvio al saggio di Mario Bretone citato alla n. 25 e discusso infra in tema di aequitas e natura. 144 Del nomar parean tutti contenti Occorre sottolineare a questo punto che né i giuristi antichi né i loro primi glossatori si soffermarono ad affrontare il rapporto fra ius e iustitia sotto il profilo teoretico, piuttosto studiarono i vari aspetti di tale relazione in ambito giuridico ed i suoi effetti nei vari istituti ricoperti dalla normativa vigente. I commentatori cominciarono invece a porsi il problema di una definizione di carattere ontologico del nesso intercorrente fra il diritto (ius) e le sue premesse extranormative (iustitia).6 Il giudizio dantesco ha dunque una mira più ambiziosa perché si muove fin dall’inizio in un orizzonte assoluto: l’identificazione tra riconoscimento del bene comune e conformità del diritto implica la divaricazione tra perseguimento dei fini e violazione della norma; in questa prospettiva non si dà eterogenesi dei fini.7 Del resto la pagina giuridica collocata nel cuore del ii libro della Monarchia offre uno sviluppo empirico a quanto Dante prospettava in chiave filosofica nel iv trattato del Convivio: Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice.8 Anche in questa chiave si perverrà a giustificare più che l’autonomia, diremmo quasi il primato, della potestas imperiale quale fondamento della legge. Come è stato ampiamente osservato la definizione dantesca di ius è mutuata da un classico della letteratura giuridica medievale, le Quaestiones de juris subtilitatibus, sulle quali gioverà soffermarsi attentamente.9 6 Sul tema si legge utilmente Walter Ullmann, The Medieval Idea of Law as represented by Lucas de Penna. A Study in Fourteenth-Century Legal Scholarship, with and Introduction by Harold Dexter Hazeltine, London, Methuen, 1946, pp. 35-41, con riferimenti alle definizioni di Irnerio, Piacentino e Azzone. 7Così Ruedi Imbach, Quattro idee sul pensiero politico di Dante, in «L’Alighieri», 2006, pp. 41-54, in specie p. 51. 8 Convivio iv, 4, 1, su cui vedi Cesare Vasoli, La pace nel pensiero di Dante, di Marsilio da Padova e di Guglielmo d’Ockham (1974), in Id., Otto saggi per Dante, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 41-63, in specie pp. 45 e 49. 9 Quaestiones de juris subtilitatibus, a c. di Ginevra Zanetti, Firenze, La Nuova Italia, 1958. L’edizione si fonda su tre manoscritti: Trecensis 1317, Lugdunensis (ms. 1 del fondo d’Ablaing contenente l’Infortiatum: ma la prima parte del ms. con le Quaestiones non ha alcun rapporto con la seconda contenente l’Infortiatum), Londiniensis (Royal 11 b xiv della British Library, scoperto da Kantorowicz). R. Ruggiero Una definizione del diritto 145 2. Le Quaestiones de juris subtilitatibus Le Quaestiones rappresentano un singolare incrocio fra letteratura problematica e dialettica tomista: eredi della prospera tradizione classica dei libri quaestionum – originati quelli direttamente dalla prassi responsiva degli antichi maestri e maturati nel clima delle grandi scuole giuridiche classiche – le Quaestiones incontrano la filosofia scolastica, con il suo impianto pedagogico singolarmente e significativamente convergente sul medesimo modello responsivo e pragmatico. Si noti che lo schema dialogico costituisce una novità per i giuristi attivi nella prima metà del xii secolo e sarà ripreso a Bologna solo più tardi (a partire dagli scritti minori di Rogerio); altresì la forma-dialogo godette di ampia fortuna nell’ambito dell’insegnamento retorico. Le Quaestiones sono costituite da un exordium, seguito da una serie di quaestiones legitimae ordinate in 42 capitoli (l’ultimo dei quali incompleto), che vedono in dialogo un auditor interrogante ed un interpres rispondente. Seguono tre capitoli di raccordo e due di summulae relative alle azioni ed alle prove. Editori e commentatori segnalarono fin dall’Ottocento l’estrema eleganza stilistica e linguistica del latino delle Quaestiones e il primo editore, Hermann Fitting, nel 1894, ne assegnò la paternità a Irnerio e datò la composizione attorno al 1082 in ambiente romano. Nel 1938 Hermann Kantorowicz, negli Studies in the Glossators of the Roman Law, contesterà con veemente ironia l’attribuzione del Fitting, proponendo di attribuire le Quaestiones a Piacentino, ed in particolare al giovane Piacentino attivo attorno al 1160 a Mantova prima di trasferirsi a Montpellier. Ginevra Zanetti, che nel 1958 curava una nuova edizione critica con ampia introduzione per la fortunata ed autorevole serie dei classici presso La Nuova Italia, mostrò di propendere per una composizione in area italiana, tra Bologna e Ravenna, nella prima metà del xii secolo. Solo Bruno Paradisi segnalava una parentela fra le Quaestiones e scritti di area francese, in merito all’importante tema della funzione accordata all’equità (Paradisi propendeva per un autore italiano attivo in Francia, p. es. lo stesso Piacentino, ma nel suo periodo a Montpellier). L’identificazione di alcuni maestri dell’epoca, e soprattutto quella di Géraud, autore della Summa Trecensis, insieme con la quale le Quaestiones sono conservate dalla tradizione manoscritta, nonché di Gui Francesc (magister Guido), giurista di Montpellier, estensore e primo possessore del manoscritto oggi londinese che conserva nella sua prima sezione le Quaestiones, la 146 Del nomar parean tutti contenti Summa (e altri trentasei scritti fondamentali per la storia del diritto medievale), ha indotto di recente André Gouron a riprendere le fila del problema.10 In primo luogo Gouron mostra che l’autore delle Quaestiones ha in primo luogo una specifica cultura retorica, prima ancora che giuridica, e che per quanto attiene la sua formazione giuridica egli mostra competenze sia in ambito romanistico che canonico. E specialmente la dottrina canonistica traspare da certe espressioni (servato ordine judiciario, cessante ea [causa], cessabit prohibitio legis) che denotano una conoscenza del Decreto di Graziano e collegano le Quaestiones alla prima diffusione di tale testo. Inoltre le competenze tecniche dell’autore si rivelano inferiori alla sua educazione retorica, e così pure la disponibilità di fonti romanistiche che egli mostra di conoscere in via del tutto indiretta, senza disporre direttamente dei testi della Compilazione (il che divarica nettamente le Quaestiones dalla scuola bolognese e dai pionieri della rinascenza giuridica). Peraltro il ricorso al supporto dottrinale offerto dal diritto canonico è abbastanza comune in area francese e inglese negli anni sessanta del xii secolo. Ad un attento esame, l’autore delle Quaestiones mostra di non aver avuto accesso né agli scritti di Irnerio né a quelli dei quattro dottori, ma di aver invece tratto materiale dalla Summa Trecensis e dalla Summa Vindobonensis. Inoltre il prezioso latino delle Quaestiones si colora di lemmi rari come enodare/enodatio che – forse risalente alla Rhetorica ad Herennium – ebbe fortuna in area francese o presso giuristi che soggiornarono in Francia. L’autore delle Quaestiones ama l’allegoria, le clausolae eleganti e cadenzate, ama rifarsi alle regulae, si fonda su auctoritates giuridiche e classiche (Cicerone – dal quale mutua l’elenco delle figlie delle Giustizia –, la Rhetorica ad Herennium, Boezio), si accosta ai canonisti ed ai teologi. Nell’avviare l’exordium l’autore fa riferimento a ludi theatrales svoltisi alibi rispetto al luogo dove egli scrive: e il luogo dove egli scrive, diverso dunque da quello ove i ludi ebbero luogo, è una sede dove le quaestiones legitimae sono un genere ignoto. Dunque l’autore si è recato a studiare in un luogo che può connotarsi come templum Justitiae, ma si è poi trasferito in una sede dove le quaestiones legitimae non sono praticate. E ancora in ii, 11 l’autore descrive così la città in cui egli vive: «in reliquia enim philosophiae partibus singulorum istius urbis civium auctoritates adeo sequimur, ut artium cunctarum disciplinarum aut ab ipsis aut per ipsos in omnes regiones emanare 10André Gouron, Les Quaestiones de juris subtilitatibus: une oeuvre du maître parisien Albéric, in «Revue historique», 2001, pp. 343-362. R. Ruggiero Una definizione del diritto 147 videamus aperte». Dunque una sede universitaria prestigiosa, ma non all’avanguardia nell’ambito delle quaestiones legitimae. L’insieme di questi dati ha fatto propendere Gouron per una redazione parigina delle Quaestiones. Inoltre, dal Metalogicon di Giovanni di Salisbury, lo studioso ritiene di poter identificare l’autore delle Quaestiones in Alberico, uno dei maestri parigini di Giovanni, da lui così descritto: «ad omnia scupolosus, locum quaestionis inveniebat ubique, ut quamvis polita planities offendiculo non careret et, ut aiunt, ei scirpus non esset enodis: nam et ibi monstrabat quid oporteat enodari». E ancor più chiaramente: «ille [Albericus] ergo in quaestionibus subtilis et multus». Dunque un fanatico delle quaestiones, che si era recato a Bologna per studiare e «dedidicit quod docuerat, siquidem et reversus dedocuit. An melius, judicent qui eum ante et postea audierunt». Un retore dunque e non un giurista puro, un letterato nutrito di stilemi ciceroniani. Che Dante possa aver tratto profitto da una tale opera colloca ora gli interessi giuridici del poeta italiano entro un ben più confacente quadro di simpatia per le artes dictamini e per la dialettica. Ecco intanto i tre luoghi delle Quaestiones che sono assunti a modello nella Monarchia: Exordium, 4: Iustitia vero una cum prole generosa solis his que illic aderant invigilare contenta erat. Causas enim et Dei et hominum crebris advertebat suspiriis easque lance prorsus equabili per manus Equitatis trutinebat, ut salvo singulis suo merito servetur incorrupta societas hominum cunctorumque perseveret illibata communitas. Quedam tamen et alia extra id quod Equitate socia curabat expedire nitebatur, cupiens et ea libre iam dicte ponderibus exequare. [La Giustizia, insieme con una generosa prole era contenta di sorvegliare quei soli che lì si accostavano. Rivolgeva attenzione alle cause di Dio e degli uomini con frequenti sospiri e quelle soppesava con bilancia equilibrata direttamente dalla mano dell’Equità, cosicché per intero suo merito a vantaggio di ciascuno si conserva l’incorrotta società degli uomini e permane l’intatta comunità di tutti. Queste e altre cose faceva risplendere oltre ciò che curava di risolvere con l’aiuto dell’Equità, desiderando anche equilibrare quelle cose coi pesi di tale bilancia]. ii, 4 (De iure naturali, gentium et civili): Set etiam fit interdum, ut sola deprehendatur auctoritas cum prorsus desit equitas, velut cum pretor inique decernit: set tamen et hoc solet ius appellari. Licet enim non sit equum, ab eo tamen statutum est quem oportet equitatem statuere. Ergo et hoc dicitur ius respectu equitatis, non quia insit, set quia pro officio statuentis inesse debuit. Nec dici potest aliam esse nominis eiusdem significantiam; set magis eandem, set inproprie acceptam. 148 Del nomar parean tutti contenti [Ma inoltre accade talora che la mera autorità resti in imbarazzo, quando manchi immediatamente l’equità, come quando il pretore decida iniquamente: ma allora anche questo suole chiamarsi diritto. Sebbene tuttavia non sia equo, da esso però è statuita quell’equità che occorre decretare. Perciò anche questo è detto diritto in confronto all’equità, non perché vi sia contenuta, ma perché deve essere inerente all’ufficio di colui che sentenzia. Né può esser detto altro significato di questa medesima parola; ma la medesima, ancorché impropriamente può essere accolta]. vi, 3 (De iure personarum): Prima est equitas qua continetur equabilis et pro dignitate cuiusque congrua rerum quas ad usum hominum natura prodidit inter omnes distributio et eorum que licita vel illicita sunt prefinitio. Sequens et diversa equitatis portio consistit in eo, ut ab invitis id quod nobis debetur interventu iudicis exigamus. Superior enim solam legis auctoritatem, hec autem magistratus etiam vim desiderat atque sollertiam. Et prior equitas commodatur ad res ipsas, ideoque ius quo continetur talis equitas intitulatur ex rebus. Huic autem priori iuri accomodatur ius actionum: dominii enim nomine in rem actio prodita est, item ex obligatione quesita personalis nascitur actio. Hoc ergo ius, id est actionum, et seorsum et non ex rerum appellatione intitulatur.11 [Prima è l’equità nella quale è contenuta la congrua distribuzione fra tutti secondo uguaglianza e secondo la dignità di ciascuno delle cose che per l’uso degli uomini la natura produce, e la predeterminazione di quelle che sono lecite o illecite. Seguente e diversa sezione dell’equità consiste in questo, che per intervento del giudice noi si possa esigere ciò che ci è dovuto da chi non vuol darcelo. È superiore infatti la sola autorità della legge, ma essa richiede anche la forza e la solerzia del magistrato. E in primo luogo l’equità si conforma alle cose stesse, e perciò il diritto nel quale è contenuto tale principio d’equità prende nome dalle cose. Inoltre a questo primo diritto si conforma l’esercizio dell’azione giudiziaria: infatti a tutela del dominio è prevista l’actio in rem, allo stesso modo richiesta dall’obbligazione nasce l’actio personalis. Pertanto tale diritto, cioè quello delle azioni giudiziarie, e di per se stesso e non dal nome delle cose prende nome]. 3. Aequitas La prima immagine è tratta dall’esordio che offre una rappresentazione allegorica della Giustizia sovrana, affiancata dall’Equità ‘pargoletta’ (e l’E11Già additati da Luigi Chiappelli, Dante in rapporto alle fonti del diritto e alla letteratura giuridica del suo tempo, «Archivio storico italiano», 1908, pp. 3-44, e poi ripresi da Arrigo Solmi, Il pensiero politico di Dante. Studi storici, Firenze, La Voce, 1922, pp. 24041, questi luoghi sono alla base di un annoso e mai sopito dibattito sulla cultura giuridica di Dante. Cfr. anche Filippo Cancelli, Diritto romano in Dante, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto Enciclopedia Italiana, 1970, ii, pp. 472-479. R. Ruggiero Una definizione del diritto 149 quità e la Giustizia sono insieme illuminate dalla Ragione), e circondata da sei figlie virtuose: Pietas, Religio, Gratia, Veritas, Observantia e Vindicatio.12 L’Equità è raffigurata in un aspetto statico: anima benigna e fanciullesca intenta a temperare i rigori della legge (in questo senso il rinvio alla dantesca «realis ac personalis hominis ad hominem proportio»); ma pure in un aspetto dinamico: nell’aggiungere o cassare norme, al fine di ‘aiutare, correggere o supplire’ il diritto vigente.13 Si noti che è appunto il temperamento equitativo dei rigori della giustizia a consentire il conservarsi della società umana, concepita come universitas. Intanto è da notarsi che le mutuazioni dantesche derivano tutte non già dal iii capitolo delle Quaestiones (De iustitia et iure), ma da luoghi in cui è centrale il rapporto fra diritto e equità. E il ruolo dell’equità nelle Quaestiones, sottolineato da Ginevra Zanetti, basterebbe di per sé a denunciarne la dipendenza dalla cultura canonistica coeva.14 E non è casuale che la definizione dantesca sia contestuale al richiamo in ii, 5, 15 a Catone «severissimus libertatis tutor», ché ancora in Purgatorio xvi e in Paradiso i e v il tema giuridico è indissolubilmente connesso con la riflessione dantesca sul tema della libertà.15 Dunque equità e libertà sono i punti di riferimento, le coordinate assiologiche attraverso cui è possibile tentare una definizione non meramen- 12La rappresentazione dominante della Giustizia fino alla prima età moderna è quella che le conferisce attributi regali. Cfr. Adriano Prosperi, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Torino, Einaudi, 2008, pp. 3-33. 13Cfr. Ginevra Zanetti, Echi delle Quaestiones de juris subtilitatibus nella Monarchia di Dante e nella Divina Commedia, in «Rendiconti dell’Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti», 1950, pp. 452-467, specie pp. 454-455. La studiosa ritiene che i precetti giuspubblicistici delle Quaestiones (titoli i e iv) siano alla base dell’ordinamento triadico degli aspetti problematici discussi da Dante nella Monarchia (i, 2, 3). 14Cfr. Ginevra Zanetti, Riflessi di alcune teorie della Glossa nelle opere di Dante, in «Rendiconti dell’Istituto lombardo di scienze, lettere ed, arti», 1956, pp. 163-194, in specie pp. 169-178 per il primato dell’aequitas. Si badi che, sia per le Quaestiones che per Dante, la dipendenza dall’idea canonistica di aequitas è una dipendenza culturale non ideologica. 15 Vi fa riferimento Leonardo Sebastio, Il poeta tra Chiesa ed Impero. Una storia del pensiero dantesco, Firenze, Olschki, 2007, pp. 100 e 146-153 (ma si badi che il tema della libertà in senso politico va tenuto distinto da quello della libertà dal peccato: per quanto certi lettori cerchino di appiattire i due concetti, Dante li distingue). Cfr. anche p. 142 per la centralità del rapporto chiesa-impero nell’architettura poetica del Purgatorio e pp. 144-45 per Dante e Remigio de’ Girolami. 150 Del nomar parean tutti contenti te funzionale ed operativa del diritto.16 E l’equità (l’aristotelica ἐπιείκεια)17 costituisce per un verso un epifenomeno della giustizia intesa come valore morale astrattamente fondante, e per altro verso la fonte-causa della normativa positiva.18 Si tratta dei medesimi parametri (libero arbitrio ed equità) entro cui opererà la concezione della legge formulata da Baldo, anche se il punto di partenza di Baldo sarà proprio il commento al titolo De iustitia et iure nel Digesto.19 Il diritto è per Dante «ragione scritta» e la funzione della «ragione scritta», che è poi la fonte di cognizione della norma, è di garantire la riconoscibilità dell’aequitas e dunque la stabilità dell’ordinamento giuridico nel suo complesso.20 La visibilità dell’ordinamento è carattere fondante del suo essere autoritativo ed implica il suo manifestarsi; lo aveva scritto Quintiliano: «verum et virtus quid sit adversa ei malitia detegit, et aequitas fit ex iniqui contemplatione manifestior, et plurima contrariis probantur».21 Torna ancora utile rileggere il passo già richiamato dal iv trattato del Convivio: E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (la quale equitade per due cagioni si può perdere, o per non sapere quale essa si sia o per non volere quella seguitare), trovata fu la ragione scritta per mostrarla e comandarla. Onde dice Augustino: «Se questa – cioè equitade – li uomini la conoscessero, e conosciuta servassero, la ragione scritta non 16Sul ruolo coordinato di libertà, giustizia ed equità, si sofferma ora Italo Sciuto, «La moralitade è bellezza de la filosofia». Dante e l’etica medievale, «Studi danteschi», 2009, pp. 39-70, in specie pp. 54-64. Il tema della libertà è centrale nel discorso di Marco Lombardo in Purgatorio xvi, di cui mi occupo in altra sede. 17Su aequitas-ἐπιείκεια in Aristotele si veda Mario Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari, Laterza, 200817, pp. 333-35; in riferimento alla natura, pp. 336-51. 18Si veda ancora Walter Ullmann, The Medieval Idea of Law, pp. 41-44. L’idea di equità come forma intermedia tra le ‘due giustizie’ (distributiva e commutativa) teorizzate da Aristotele, fu posta da Bodin in rapporto diretto con l’autorità del sovrano assoluto: si veda in merito Simone Goyard-Fabre, Jean Bodin et les troia justices, in Danièle Letocha, Aequitas, Aequalitas, Auctoritas, Paris, Vrin, 1992, pp. 3-15. 19Walter Ullmann, Baldus’s Conception of Law (1942), in Id., Law and Jurisdiction in the Middle Ages, ed. by George Garnett, London, Variorum, 1988, pp. 386-399, in specie pp. 387-392 con riferimenti a Baldi Commentarius ad Digestum vetus, Rubrica ad legem primam. 20 Paolo Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, il Mulino, 2000, p. 114. 21Institutio oratoria xii, 1, 35. R. Ruggiero Una definizione del diritto 151 sarebbe mestiere»; e però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: «La ragione scritta è arte di bene e d’equitade».22 Non è casuale l’insistenza di Dante sulla «ragione scritta», ove si pensi all’accentuazione medievale del polo della ratio, rispetto a quello della voluntas, nel costituirsi della lex. L’ordinamento giuridico appare qui qualcosa che pre-esiste ai comportamenti degli uomini, qualcosa che dunque va ricercato e trovato (da parte del legislatore, del giudice, dell’accademico): il corpus giustinianeo, la ratio scripta appunto, costituisce la direttrice di orientamento di una tale ricerca razionale.23 La centralità dell’aequitas assume (o piuttosto vorrebbe assumere, secondo la cauta e condivisibile analisi di Paolo Prodi) un rilievo sistematico centrale, essere il punto di contatto fra due ordinamenti, romano (rectius giustinianeo) e canonico, non mai pacificati e unificati. E naturalmente è proprio l’aequitas che diviene dunque il terreno del conflitto giuridico e politico: giuridico perché giuridico è in primo luogo il fondamento istituzionale del potere politico, imperiale o papale, che i fautori dei due schieramenti intendono avallare.24 Un supplemento di attenzione richiede il concetto di aequitas nel pensiero giuridico classico: esso rinvia alla ricerca di equilibrio, di corrispondenza fra le parti, fino a sfiorare l’ambito della similitudine e dell’uguaglianza vera e propria.25 Seguo una recente analisi di Mario Bretone che affronta in primo luogo la congruenza fra un caso specifico ed il giudizio equitativo che lo risolve. Il testo analizzato deriva dai Digesta di Giuvenazio Celso, e varrà la pena di riferirlo per intero, perché costituisce una sorta di vocabolarietto dell’aequitas classica. 22Convivio, a c. di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere (per la Società Dantesca Italiana), 1995, iii, p. 316. Su «ragione scritta» cfr. ancora P. Fiorelli, p. 88. 23Cfr. Italo Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 8-9. 24 Paolo Prodi, Una storia della giustizia… cit., p. 131 sottolinea quanto scabroso sia il problema storiografico per gli studiosi delle controversie tra Chiesa e Stato, soprattutto alla luce della coesistenza, in particolare in ambito procedurale, di una molteplicità di ordinamenti e di una molteplicità di fori, rispetto ai quali quello civile e canonico sono soltanto i due principali. 25Un’analisi in Mario Bretone, Aequitas. Prolegomeni per una tipologia, in «Belfagor», 2006, pp. 338-343, da cui dipendo per le osservazioni seguenti. 152 Del nomar parean tutti contenti In fundo alieno, quem imprudens emeras, aedificasti aut conseruisti, deinde evincitur: bonus iudex varie ex personis causisque constituet. finge et dominum eadem facturum fuisse: reddat impensam, ut fundum recipiat, usque eo dumtaxat, quo pretiosior factus est, et si plus pretio fundi accessit, solum quod impensum est. finge pauperem, qui, si reddere id cogatur, laribus sepulchris avitis carendum habeat: sufficit tibi permitti tollere ex his rebus quae possis, dum ita ne deterior sit fundus, quam si initio non foret aedificatum. constituimus vero, ut, si paratus est dominus tantum dare, quantum habiturus est possessor his rebus ablatis, fiat ei potestas: neque malitiis indulgendum est, si tectorium puta, quod induxeris, picturasque corradere velis, nihil laturus nisi ut officias. finge eam personam esse domini, quae receptum fundum mox venditura sit: nisi reddit, quantum prima parte reddi oportere diximus, eo deducto tu condemnandus es.26 Quando si sceneggia la composizione equitativa degli interessi in giuoco la giurisprudenza romana offre vere e proprie pagine di romanzo: l’acquirente incauto subisce l’evizione del fondo dopo che vi ha costruito o aggiunto qualcosa: quid iuris? Più che la risposta di Celso ci interessa in questa sede il suo lessico, i suoi stilemi: bonus iudex varie ex personis causisque constituet (il buon giudice regolerà i rapporti fra le parti «non sempre allo stesso modo, ma secondo la qualità delle persone e le circostanze»); si noti poi il reiterato invito del maestro adrianeo al lettore-scolaro: «finge… finge», cioè «prova a ipotizzare, immagina che»; e infine una precisazione che mira a sottolineare come il valore predominante sia qui la bona fides (da entrambe le parti): «neque malitiis indulgendum est», cioè «non bisogna indulgere a intenzioni maligne». Come sottolinea Bretone ci troviamo di fronte a un «gioco retorico» che nel nodo fra generalità della regola e varietà eterogenea dell’agire umano innesca l’ἐπιείκεια non per esautorare, ma per correggere, adattare, migliorare, completare la giustizia legale. Lo studioso insiste – anche sulla scia di Alf Ross – sulla ripulsa per ogni forma di irrazionalismo: l’aequitas classica appare in prima istanza come ratio, come ragione regolatrice; in questo senso essa è in nesso con il verum (se ne sarebbe accorto e vi insisteva opportunamente Vico), ma una verità che ha coscienza piena del carattere instabile della definizione giuridica di fronte alla eterogeneità dell’esperienza umana. Ed è in questo senso che la ratio aequitatis ci appare operare in virtù del procedimento analogico: essa scopre identità percepite come essenziali, che dunque consentono di estendere l’applicazione di una norma a situazioni non espressamente previste, ma può 26 D. 6, 1, 38, Lenel 22. R. Ruggiero Una definizione del diritto 153 agire anche secondo una dinamica più radicale. Ed è precisamente questo orizzonte più vasto che è presente nella scrittura dantesca. Il termine di confronto per l’equità regolatrice può essere costituito dalla natura, intesa come ordine razionale metagiuridico: il mondo del diritto accetterà oppure no la nuova norma così determinatasi, la convaliderà (oppure no) conferendole il carattere del certum (e dunque comprovandone l’efficacia). 4. «Soleva Roma … due soli aver» Impegnarsi a chiarire essenza e funzione del diritto costituisce per Dante un passaggio fondante, necessario a gettare le basi della trattazione anticurialista da svilupparsi nel iii libro del trattato: il potere imperiale è costituito in base al diritto e persegue come proprio fine il diritto, meta naturale posta nell’ordinamento del creato.27 Le procedure operative antagonistiche messe in atto da Dante nel iii libro della Monarchia si sviluppano attraverso due ambiti tematici diversi ma reciprocamente influenzati: l’ambito linguistico e quello giuridico. Dante risponde a quella che era stata un’affermazione di primazia sviluppatasi durante il papato di Leone i, nella prima metà del v secolo, un pontificato caratterizzato da manifestazioni linguistiche di imperio come fino ad allora non erano state consuete (coercitio, corrigere inobedientiam iusta correctione, canonum praecepta ecc.), nonché caratterizzato dalla ricerca di fondamenti giuridici precisi, all’interno dell’armamentario giusromanistico, per il primato pontificio e per il suo legame diretto con Pietro e il mandato di Cristo.28 Come è stato osservato il papato di Gregorio vii (1073-1085) costituisce l’avvio di una vera e propria rivoluzione politica tesa ad assicurare al 27Così Vittorio Russo, Impero e stato di diritto. Studio su Monarchia e Epistole politiche di Dante, Napoli, Bibliopolis, 1987, pp. 30-31, dove lo studioso pone in relazione al libro ii della Monarchia anche la canzone Tre donne intorno al cor e l’Epistola vi. La connessione istituita da Dante fra Impero romano, inteso nella sua legittima continuità, e Romani d’occidente, quali legittimi eredi di quell’Impero, si sviluppa parallelamente nella vi Epistola e nel ii libro della Monarchia: anche in questo caso sono stati indicati significativi riecheggiamenti tra le Quaestiones de iuris subtilitatibus, ii, 15-16 e la vi Epistola dantesca 2, 5-8. Su questo vedi già Fulvio Crosara, Dante e Bartolo da Sassoferrato: politica e diritto nell’Italia del Trecento, in Bartolo da Sassoferrato: studi e documenti per il vi centenario, Milano, Giuffré (per l’Univ. di Perugia), 1962, vol. ii, pp. 105-198, in specie p. 123 n. 26. Tuttavia il tema è di così ampio riferimento nella trattatistica etico-politica medievale che, da solo e di per sé, non implicherebbe una conoscenza dantesca delle Quaestiones: certo esso costituisce però un elemento ulteriore, insieme con gli altri loci communes segnalati nel testo. 28Cfr. W. Ullmann, Leo I and the Theme of Papal Primacy (1960), in Id., The Church and the Law in the Earlier Middle Ages, London, Variorum, 1975, pp. 25-51, in specie pp. 25 e 41. 154 Del nomar parean tutti contenti papa un quadro operativo istituzionale autonomo e profondamente innovativo, sostanzialmente (ed ante litteram) il primo assetto statale centralizzato nella storia dell’Europa occidentale.29 La costruzione di questo potere passa attraverso la ricerca del suo fondamento giuridico, anzi attraverso la materializzazione in fonti normative della lex Dei e coincide con la grande stagione delle raccolte canoniche culminata nel Gratiani Decretum (Bologna, 1140): l’armamentario del diritto romano veniva impiegato per assicurare coerenza ed autorevolezza ad un corpus normativo che si autorappresentava come legge fondamentale della cristianità.30 Si trattava di una rivoluzione resa possibile dalla eccezionale coesistenza di tre distinti elementi: il pluralismo medievale tra diversi ordinamenti giuridici concorrenti fra loro, a fronte di una mentalità giuridica di fondo che privilegiava il dato realistico, l’autorevolezza del riscoperto diritto giustinianeo come cornice entro cui le operazioni di interpretazione giuridica trovavano legittimazione e la sua aspirazione universalistica concorrente, ma non antagonistica rispetto a quella della chiesa stessa.31 Nel iii libro della Monarchia, Dante mostra di conoscere (e contesta efficacemente) l’insieme delle argomentazioni giuridiche curialiste, difende con forza – in Purgatorio xvi, Paradiso v e vi e nel ii e iii libro della Monarchia – l’autonomia imperiale e l’umana libertà di agire. In questa fase matura del pensiero di Dante, la prospettiva trascendente è naturalmente presente ma non condiziona in alcun modo la riflessione e la poesia dell’autore.32 Si tratta 29Così Paolo Prodi, Una storia della giustizia…, cit., pp. 59-60 collato Harold J. Berman, Law and Revolution. The Formation of Western Legal Tradition, Cambridge (Mass.), 1983 (in parte in it.: Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna, il Mulino, 1998). 30Ivi, pp. 62 e 65. Per il profilo costituzionale del problema si veda Brian Tierney, Religion Law and the Growth of Constitutional Thought, Cambridge U. P., 1982, capitoli ii e iii. 31Ivi, p. 115: «la Chiesa assorbe il diritto romano al proprio interno come strumento per il proprio consolidamento istituzionale ma rifiuta di riconoscere ad esso una vita autonoma». La tesi di fondo di Prodi – condivisa da chi qui scrive – è che l’espressione utrumque ius in utroque foro dia luogo a un fraintendimento storico: non si è mai realizzata, nei fatti, una unificazione sistematica dei due ordinamenti, tale da poter essere considerata un sistema unitario romano-canonico. I giuristi ebbero sempre la piena consapevolezza di dover operare in ambiti distinti. Sulla res publica Christiana si vedano le pagine d’avvio di Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des jus publicum Europaeum, Berlin, Duncker & Humblot, 1988, cap. i. 32Lo osservava già Giovanni Andrea Scartazzini, Il De Monarchia (1890), in Id., Scritti danteschi, a c. di Michelangelo Picone e Johannes Bartuschat, Locarno, Dadò, 1997, pp. 55-72, in specie p. 61: «Ciò che anzi tutto gli stava a cuore, si era la materia del libro terzo, l’esame delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, ossia il dimostrare, in opposizione diretta alle R. Ruggiero Una definizione del diritto 155 di una vaga prospettiva che non influenza il necessario sviluppo dell’uomo verso il raggiungimento della sua felicità terrena. La beatitudine eterna è un fine ultimo e quasi una garanzia che l’ordinato vivere terrestre possa essere perseguito e raggiunto, ma non ne condiziona lo sviluppo.33 In questo senso il paragrafo finale del iii libro della Monarchia, laddove – dopo una disamina quasi feroce delle inconseguenze logiche derivanti dalle pretese curialiste – Dante sostiene che «quae quidem veritas ultimae questionis non sic stricte recipienda est, ut Romanus princeps in aliquo Romano pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur» (iii, 15, 17-18),34 a parte che suona tanto come una excusatio non petita, è come se volesse tenere la trascendenza fuori dal campo di gioco. Insomma il fine trascendente c’è – lo sappiamo bene – ma ora ci siamo occupati d’altro, ci siamo occupati di questa nostra vita terrena.35 Osserva Italo Sciuto che l’impiego dantesco della medesima parola felicitas, a indicare sia la mortalis che la immortalis felicitas, non implica affatto un criterio averroistico di ‘doppia verità’ quanto piuttosto «una visione che possiamo chiamare concezione ‘laica’ del fine ultimo cui deve tendere la vita umana».36 pretese papali, che l’autorità dell’imperio dipende non già dal pontefice romano, ma immediatamente da Dio». 33Si veda Ovidio Capitani, Spigolature minime sul iii della Monarchia (1978), in Id., Chiose minime dantesche, Bologna, Patron, 1983, pp. 57-82, in specie pp. 58-59: «La Monarchia non solo non è un trattato nel senso caratteristico che una tradizione vastissima già alla fine del sec. xiii annoverava […], ma è deliberatamente un contro/trattato, non solo perché anticurialista, come si usa dire, ma perché soprattutto teso a scomporre gli elementi semantici strutturali della trattatistica politico/ecclesiologica contemporanea», e p. 65 n. 16. 34 Su cui ancora Capitani, pp. 77-82, e Gabriele Muresu, Religione e politica in Dante (1979), in Id., I ladri di Malebolge. Saggi di semantica dantesca, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 153-232, in specie pp. 211-214. 35Una posizione diametralmente opposta a quella qui rielaborata è assunta da Claudia Di Fonzo, La legittimazione dell’impero e del popolo romano presso Dante, in «Dante», 2009, pp. 39-64. Della stessa studiosa si veda anche Dante tra diritto, letteratura e politica, in «Forum Italicum», 2007, pp. 5-22 (dove il concetto di iura propria in rapporto allo ius commune è piuttosto fantasioso). 36Italo Sciuto, «La moralitade è bellezza de la filosofia», cit., pp. 59-60, che pone il subicere dell’imperatore al pontefice sul piano della «libera soggiacenza» di Purgatorio xvi, 80 e individua la linea di continuità fra Convivio iv, 17, 2, Purgatorio xvi e Monarchia nel rifiuto del determinismo psicologico e nella rivendicazione dell’umana libertà. Su questa linea si muove anche Martha Craven Nussbaum, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge Univ. Press, 2001, pp. 557-590 (ed. ital.: Bologna, il Mulino, 2004). 156 Del nomar parean tutti contenti Il citato studio di Sciuto si chiude ricordando la posizione di Martha Craven Nussbaum su questi temi: tuttavia la studiosa manifesta una singolare e talora stridente oscillazione interpretativa. Nel capitolo dedicato a Dante in Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, la Nussbaum si sofferma su Purgatorio ii e in particolare sul rimprovero mosso da Catone a Dante, soffermatosi con Casella in luogo di procedere nel cammino di libertà dal peccato (scilicet dalle passioni che pervertono la volontà).37 Si noti pertanto che la libertà psichica non appare naturaliter coartata dalle passioni, ma è un difetto della libera volontà umana, un suo traviamento mondano, a produrre l’incompiutezza del bene e per conseguenza il disordine terreno e la corruzione sociale (l’autrice, poco dopo, non intende poi il senso di Paradiso xiii, 115-23, dove ritiene che le parole di Tommaso contro chi «sanza distinzione afferma e nega» siano una critica della tradizione agostiniana, e non – ciò che esse sono – il semplice emergere di un principio di logica deduttiva aposteriori). La Nussbaum coniuga infine questi assunti con una fuorviante interpretazione dello stilema dantesco «intelligenza d’amore» come consapevolezza dell’incapacità di comprendere in modo pienamente razionale – e dunque possibilità di cogliere solo emotivamente – un determinato contesto, e dunque formula la correlativa idea che l’empito emotivo possa impedire un pieno giudizio razionale.38 Anche ammesso che questo fosse, almeno in parte, il quadro entro cui Dante si muoveva, allora bisogna pur aggiungere che tale situazione era dal poeta medievale avvertita come patologia dell’essere. Che infine la prospettiva politica contingente fosse la chiave di lettura del trattato dantesco, con la conseguente condanna da parte di gerarchie e lettori ecclesiastici,39 è ben testimoniato dall’apologo relativo al 1329 e contenuto 37Nussbaum, Upheavals of Thought, pp. 566-67. 38Così in M. C. Nussbaum, Love’s Knowledge. Essays on Philosophy and Literature, Oxford Univ. Press, 1990, p. 41, ma ancora – con singolare stridente contraddittorietà – in Upheavals of Thought, p. 571, dove nella stessa pagina si riconosce che l’amore fra Dante e Beatrice – a livello della Commedia, aggiungiamo noi – rispetta «subjecthood and freedom» (liberi soggiacete), ma si sostiene anche che l’«intelligenza d’amore» sia, nel senso aberrante sopra detto, compresente con la capacità di giudizio razionale («philosophical intellect»). 39Una condanna sulla quale è tornato con nutrito corredo documentario e bibliografico Anthony K. Cassell, A Post-mortem dialogue between Dante and Guido Vernani, «L’Alighieri», 2004, pp. 5-24; cfr. anche Emiliano Bertin, Primi appunti su Ubaldo da Gubbio lettore e censore della Monarchia, «L’Alighieri», 2007, pp. 103-119. Sulla fortuna di Dante nella letteratura giuridica a lui successiva si veda il saggio panoramico di Aldo Vallone, Le citazioni-presenze dantesche negli scrittori legali, «Letture classensi», 1987, pp. 9-27. R. Ruggiero Una definizione del diritto 157 nella prima redazione del Trattatello boccacciano (non a caso un apologo poi abilmente scorciato dall’accorto autore nella redazione successiva).40 Resta da chiedersi: se Dante riconosceva, come pur doveva riconoscere, nella dottrina dell’equità contenuta nelle Quaesiones de juris subtilitatibus, un portato culturale di impronta canonistica, se egli non abbia avuto una volta di più il gusto di contestare i suoi avversari con le loro stesse armi, o piuttosto se non si fosse reso conto che in quelle dottrine, al di là degli interessi in gioco nelle specifiche dispute fra papi e imperatori di turno, non vi fosse il modello per un superamento dottrinale, le fonti di una dogmatica nuova quale quella che dal trattato sulla Monarchia comincia a intravvedersi.41 5. Tre donne intorno al cor L’esperienza dell’esilio è, anche per la concezione del diritto, il momento cardine nel vissuto dantesco come pure nel suo percorso intellettuale. In questo senso la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute non è solo la 40 Così Giorgio Padoan, «Alia utilia reipublicae». La composizione della Monarchia di Dante (1999), in Id., Ultimi studi di filologia dantesca e boccacciana, a c. di Aldo Maria Costantini, Ravenna, Longo, 2002, pp. 41-57, dove lo studioso contesta la definizione ‘utopica’ della teoresi politica dantesca e pone efficacemente la questione della cronologia della Monarchia (sulla quale vedi anche Anthony K. Cassell, The Monarchia Controversy, cit., pp. 203-204). Bruno Nardi collegava strettamente lo scritto politico al quarto trattato del Convivio: ma Dante in realtà dice soltanto che in un tempo passato (cioè al momento del Convivio) egli fu illuminato dall’idea della necessità e romanità dell’impero universale; ma poi i contenuti della Monarchia costituiscono uno sviluppo (e – ribadiamo – uno sviluppo terreno e non escatologico) di quell’intuizione. Lo studioso mostra poi che anche la datazione boccacciana della Monarchia, in coincidenza con la venuta in Italia di Arrigo vii, non è sostenibile, e che anzi la riflessione dantesca muove piuttosto dalla disillusione per quell’esperienza politica passata ed archiviata. Padoan propende infatti per una datazione tarda della Monarchia, coeva all’invio del Paradiso a Cangrande. Vedi inoltre Maurizio Palma di Cesnola, Monarchia. La datazione intrinseca. Questioni dantesche. Fiore, Monarchia, Commedia, Ravenna, Longo, 2003, pp. 43-62, dove lo studioso vede nell’accenno conclusivo all’elezione imperiale (iii, 15, 12-15) un riferimento alla Dieta di Francoforte sul Meno dell’ottobre 1314, e ritiene la Monarchia una risposta alle due decretali emanate da Clemente v, nel marzo 1314 (Romani Princpes e Pastoralia cura). Si veda da ultimo Alberto Casadei in un volume dantesco di prossima pubblicazione presso il Mulino (Bologna) sul problema della datazione con specifico riferimento alla interpolata e non genuina presunta autocitazione del Paradiso presente nella Monarchia vulgata. 41In materia di ‘santità dell’officium imperiale’ è ancora utile tornare a leggere John Neville Figgis, The Divine Right of Kings, introduction by G. R. Elton, Cambridge U. P., 1965 (1896, 1914), pp. 17-18 e 38-65. 158 Del nomar parean tutti contenti grande canzone dell’esilio, ma anche la canzone della Giustizia (Drittura) e delle sue ipostasi (ius e lex).42 Contini ne sottolineava a ragione «la semplicità ed evidenza nuove della sintassi, lo spogliamento dello stile, fatto ignudo nelle più vive articolazioni»,43 perché davvero qui Dante non concede nulla alla retorica e mira nel modo più diretto ad un obbiettivo sostanziale: legare l’idea dell’esilio proprio a quello dell’esilio dal mondo della Rectitudo. Le tre protagoniste sono – secondo la glossa di Pietro di Dante a Inferno vi, 73 – allegoria del ius divinum et naturale, del ius gentium sive humanum e della lex; poiché Dante annuncia due volte nel Convivio di voler dedicare il quattordicesimo trattato alla Giustizia,44 è «estremamente probabile» (Contini) che questa ne sarebbe stata la canzone d’avvio. A proposito di questa triplice rappresentazione ha osservato Claudio Giunta, nella recente edizione delle Rime dantesche nei «Meridiani» mondadoriani: «Insomma tutto, in Tre donne, richiama le tecniche di rappresentazione della Commedia. Tutto, salvo il fatto fondamentale che qui Dante non mette in scena dei personaggi reali ma due astrazioni, l’Amore e la Giustizia. Per questo aspetto, anziché alla Commedia, bisogna 42 Cfr. Michelangelo Picone, Dante e la poesia dell’esilio, in Le Rime di Dante, atti della giornata di studi 16 novembre 2007, a c. di Paolo Grossi, Paris, Ist. italiano di cultura, 2008, pp. 53-73, in specie pp. 61-68 con rinvio alla fonte trobadorica segnalata da De Lollis (Giraut de Bornelh). 43 Rime, a c. di Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1946, p. 172 nel cappello introduttivo alla canzone (104 Barbi = 13 De Robertis). Contini ritenendo il riferimento all’esilio del poeta nel v. 76 frutto di una ferita ancora aperta e recente datava la canzone al 1302, ritenendo altresì seriore il secondo congedo, metricamente discordante ed assente da alcuni mss. Kenelm Foster, Dante’s Canzone Tre Donne, «Italian Studies», 1954, pp. 56-68 sposta la composizione al 1304-1305 e sottolinea i legami fra la canzone e il xvi del Purgatorio. Per l’edizione De Robertis 2002: Rime, edizione nazionale della Società Dantesca Italiana, a c. di Domenico De Robertis, Firenze, Le Lettere, 2002, tre volumi in cinque tomi; per l’edizione commentata del medesimo De Robertis 2005: Rime, edizione commentata a c. di D. De Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2005. Una cronologia 1305-1308 propone in modo convincente Claudio Giunta nell’edizione commentata delle Rime contenuta in Dante, Opere, edizione diretta da Marco Santagata, Milano, Mondadori «Meridiani», 2011. Da ultimo si è soffermato sul valore di Tre donne Marco Santagata nella relazione introduttiva al congresso nazionale adi, Torino 16 settembre; del medesimo studioso si veda ora L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 293-299 e 31-322. 44 «Di questa vertù [la giustizia] inanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo trattato» (Convivio I, 12, 12 = iii, p. 54 Brambilla Ageno); «Ma però che di giustizia nel penultimo trattato di questo volume si tratterà» (iv, 27, 11 = iii, p. 438 Brambilla Ageno). R. Ruggiero Una definizione del diritto 159 pensare a quella licenza all’allegoria rivendicata nella Vita nova, là dove Dante sostiene che è lecito ai poeti trattare gli accidenti come sostanze».45 Tre donne «belle e di tanta vertute» (v. 5) si presentano al cuore di Dante, ove siede e signoreggia Amore. Amore trova appena il coraggio di intrattenersi con loro: le leggiadre figure appaiono stanche e dolenti, scacciate e prive d’ogni sostegno; a loro «vertute né beltà non vale» (v. 11, in chiasmo rispetto al v. 5). Il poeta riferisce dunque un dialogo svoltosi fra Amore e le tre dame: vi fu un tempo («Tempo fu già», v. 12, ricalca il noto Tempus erat virgiliano di Eneide ii, 268, come poco dopo la «succisa rosa» del v. 22 ricalca Eneide ix, 435), secondo quanto esse affermano, nel quale essere «furono dilette; or sono a tutti in ira ed in non cale» (vv. 13-14).46 Le tre donne giungono al cuore di Dante come «a casa d’amico», perché sanno che lì abita Amore: una di loro prende la parola e manifesta la propria sofferenza nell’eloquio e nella postura del braccio «di dolor colonna», essa appare «lagrimosa, discinta e scalza»47 e solo in virtù del suo sembiante, non già per l’abito, mostra la propria signorilità («par donna»). La dolente dama si presenterà come «povera […] a panni ed a cintura»,48 cioè priva di decoro e di illibatezza (cintura verginale), ed in effetti a causa della «rotta gonna», Amore può vederla perfino «in parte che il tacere è bello» (v. 28), in ragione dello strazio e stupro che nel mondo è fatto della Giustizia. Per queste ragioni Amore appare mosso a pietà e corrucciato («fello»),49 e chiede alle donne ragione del loro dolore: il v. 31 «di pochi vivanda» è riferito da Contini ad 45 C. Giunta, op.cit., p. 57. 46 Il mondo «tutto diserto / d’ogne virtute» sarà in Purgatorio xvi, 58-59 privato della giustizia e in diretta assonanza con le tre donne «così solette» della canzone. 47 La postura della prima donna non è agevolmente distinguibile nella descrizione poetica: il restauro eseguito dal De Robertis della lezione «treccia» al v. 25, in luogo del «faccia» vulgato dalla Giuntina («l’altra man tiene ascosa / la treccia, lagrimosa / discinta e scalza, sol di sé par donna»), può ben accompagnarsi con la proposta di interpunzione suggerita da Mario Martelli, che separando la treccia dall’aggettivo lagrimosa lega invece i tre epiteti, come tutti riferiti a colei che, sebbene lagrimosa, discinta e scalza, «sol di sé par donna». Cfr. Mario Martelli, Proposte per le Rime di Dante, «Studi danteschi», 2004, pp. 247288 (ora in Ragione e talento. Studi su Dante e Petrarca, a c. di Amelia Ciadamidaro, Cosenza, Falco, 2009, pp. 145-197). Ma vedi ora C. Giunta, op.cit., pp. 528-529, per il v. 20 e la raffigurazione di Giustizia addolorata (sulla scia di Kantorowicz). 48 «panni» del v. 36 è mutato in «fama» da De Robertis, sulla scia di una divaricazione della tradizione testuale. Ma vedi infra a proposito del v. 91 e del primo congedo. 49 «fello» = ‘sfrontato (per non aver abbassato gli occhi)’ presso De Robertis, op. cit., 2005: come si concili l’essere sfrontato con l’essere pietoso resterebbe da chiarire. Cfr. Giunta, op.cit., p. 530: «a un tempo pietoso e crudele». 160 Del nomar parean tutti contenti Amore, come vocativo, ma potrebbe essere anche autoreferenziale: la nostra natura, che è di essere vivanda riservata a pochi (perché il senso di giustizia è ormai in declino nel mondo), ci manda a te. L’interlocutrice si presenta simbolicamente come Dike-Drittura, sorella di Afrodite madre di Amore. Si tratta con tutta evidenza del fondamentale concetto di Rectitudo descritto in Convivio iv, 17, 6, la giustizia «ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte le cose»: un concetto astratto e assoluto, che è stato avvicinato alle definizioni di rectitudo e iustitia offerte da Anselmo d’Aosta nel De veritate (2 e 12: «non est ista iustitia rectitudo scientiae aut rectitudo actionis sed rectitudo uoluntatis») e perfettamente assimilabile alla definizione di giustizia considerata in se stessa in Monarchia i, 11, 3: «sciendum quod iustitia, de se et in propria natura considerata, est quedam rectitudo sive regula obliquum hinc inde abiciens: et sic non recipit magis et minus, quemadmodum albedo in suo abstracto considerata».50 Amore chiede dunque chi siano le altre due donne: risponde sempre Drittura «ch’era sì di pianger pronta» (v. 41) e avvia il proprio intervento quasi rimproverando Amore: «A te non duol de gli occhi miei?» (v. 44). La prima, che asciuga il pianto «con la treccia bionda» (v. 51) fu generata da lei nel paradiso terrestre, ossia è il diritto naturale dell’umanità incorrotta; ella stessa poi, «mirando sé ne la chiara fonte» (v. 53), quasi per speculare identificazione generativa, generò la terza, «questa che m’è più lontana» (v. 54), ossia il diritto positivo. Riconosciute le tre germane, Amore si volge a salutarle e consolarle. Egli mostra le proprie frecce arrugginite «per non usar» (v. 62), e proclama che «Larghezza e Temperanza» e le altre virtù «mendicando vanno» (vv. 6364). Ma questa latitanza delle virtù dal mondo cade a disdoro degli uomini «che sono a’ raggi di cotal ciel giunti» (v. 68), perché torneranno generazioni future che avranno invece le virtù in giusto pregio. La stanza conclusiva, che precede il duplice congedo, è centrata sull’ego lirico e sulla sua condizione di iustus esiliato: Dante, che ha ascoltato il dialogo divino, può ritenersi dunque onorato dall’aver subito un ingiusto esilio, dal momento che «cader co’ buoni è pur di lode degno» (v. 80). Egli si sarebbe anche consolato se la lontananza dalla patria non comportasse anche l’allontanamento dalla donna amata. Il fuoco della sofferenza ha già consumato il poeta: 50Cfr. Italo Sciuto, «La moralitade è bellezza de la filosofia», cit., pp. 61-62. R. Ruggiero Una definizione del diritto 161 Onde, s’io ebbi colpa, più lune ha volto il sol poi che fu spenta, se colpa muore perché l’uom si penta. [vv. 87-90] Con questi tre versi si chiude la stanza, l’ultima della canzone prima del(i) congedo(i) e la più significativa perché, dopo la presentazione del dialogo allegorico fra Amore e le tre figurazioni della giustizia, è in questa stanza che Dante passa dalla storia universale a quella personale. Il Barbi pensava che la colpa fosse qui la culpa vetus, ossia il peccato originale da cui nessun uomo può dirsi esente, insomma la condizione di peccatore propria di ciascuno e dell’umanità intera. Umberto Cosmo riteneva altresì che Dante ammettesse implicitamente una colpa verso Firenze (l’aver partecipato alle congiure dei fuoriusciti) e Contini ritenne «seducente» l’ipotesi del Cosmo.51 In realtà l’interpretazione del Barbi è troppo generica per funzionare in una canzone così stringata, tutta quanta diretta all’efficacia espressiva ed all’immediatezza etico-politica. Sarei propenso a credere che la colpa di Dante non è nell’adesione ai tentativi di sedizione della patria, ma è da ricercarsi nel complesso della sua attività di statista prima dell’esilio. L’esilio è stato ingiusto, ma la stessa partecipazione di Dante alla vita politica della città, in tempi così calamitosi, rappresenta una colpa.52 Il primo congedo avverte la canzone che «a’ panni tuoi non ponga uom mano» se non «amico di virtù»; il secondo congedo sembra invece alludere davvero al conflitto fra Bianchi e Neri e ad una possibile riammissione in Firenze. Concepiti evidentemente in tempi diversi i due congedi sono chiaramente alternativi. Per quanto riguarda il primo sembra da condividersi l’ipotesi formulata da De Robertis nel commento: l’invito «Canzone, a’ 51Michele Barbi, Per l’interpretazione della canzone Tre donne (1933 e 1937), in Id., Problemi di critica dantesca, serie seconda, Firenze, Sansoni, 1941, pp. 267-276. Una sintesi sulle interpretazioni ‘storiche’ della canzone, con particolare riferimento a Zinagarelli, Barbi e Cosmo, in Guglielmo Gorni, Filologia e nazionalismo. Tre donne e tre dantisti, in Dante prima della Commedia, Firenze, Cadmo, 2001, pp. 217-238. Cfr. C. Giunta, op. cit., p. 538, n. al v. 89. 52Su questa linea Mario Casella, Interpretazioni: Tre donne intorno al cor mi son venute, «Studi danteschi», 1951, pp. 5-22, in specie p. 19: «se io ebbi colpa – se in questo appassionato amor di patria sono andato al di là dei limiti della diritta ragione […]. La colpa di cui Dante si dichiara pentito […] è quella di aver collaborato a distruggere, senza averne chiara coscienza, il bene umano e morale, che nella sua Firenze era stato l’espressione di una vita sociale di ragione e di virtù, di concordia e di pace». Diversamente De Robertis, op. cit., 2005: «Credo voglia dire piuttosto di atti compiuti in seguito all’esilio». 162 Del nomar parean tutti contenti panni tuoi non ponga uom mano» (v. 91) non sarà tanto un riferimento ai significati allegorici e reconditi, quanto piuttosto riprenda il tema dei panni laceri di Giustizia dei vv. 27 e 36 (e sarebbe per altro un buon motivo per conservare il vulgato «panni» per il derobertisiano «fama»). Per quanto attiene poi al secondo congedo – tramandato da un numero assai inferiore di testimoni rispetto a quelli che recano la canzone – l’irenico invito conclusivo a «perdonare» che «è bel vincer di guerra», se fosse inteso come un invito ai Neri vittoriosi a perdonare Dante e a riammetterlo a Firenze, sarebbe una dichiarazione tanto eccezionale da essere incredibile: va dunque inteso come forma di autoparenesi, invito rivolto dal poeta a se stesso, invito evangelico a perdonare i suoi carnefici, che non sanno quello che fanno. Ha osservato persuasivamente Giunta come, laddove sul piano della struttura retorica, Dante sembra dirci che è giusto patire l’esilio, se a patirlo sono addirittura tre alte creature come le ipostasi della Giustizia, «non va persa di vista la circostanza che il processo di pensiero è, nei fatti, inverso, e cioè che è il Dante esule a convocare come testimoni della sua virtù nientemeno che l’Amore e la Giustizia. Il torto subìto è segno non del destino che si accanisce su di lui innocente ma di un metafisico stravolgimento del retto ordine delle cose: ed è la stessa sublime arroganza dell’eletto che, di lì a qualche anno, dialogherà in cielo con gli spiriti magni, gli angeli e i santi».53 È dunque in questo secondo congedo che si incarna concretamente l’idea di giustizia di Dante, si incarna appunto nel modello cristologico e nel precetto evangelico del perdono, impone il superamento della giustizia distributiva (suum cuique tribuere) in nome di un valore più alto. Potremmo conclusivamente osservare che se l’allegoria delle «tre donne», cioè delle tre forme di giustizia, ricalca la posizione dantesca all’altezza del Purgatorio, ossia il tentativo di rimettere ordine nel mondo dei valori umani, secondo un’etica ancora immersa nella temporalità (sarà questo l’obiettivo empirico e politico della Monarchia), il secondo congedo proietta su tutta la canzone, e sulla singolare esperienza civile di Dante, il senso dell’eterno. Università degli Studi “Aldo Moro” - Bari 53C. Giunta, op.cit., introduzione a Tre donne. Vincenzo Caputo DANTE AL DI LÀ DELLE ALPI: JEAN PAPIRE MASSON E LA «VITA DANTIS ALIGHERII» (1587) 1. Jean Papire Masson biografo Porre l’attenzione sul breve profilo dantesco elaborato da Jean Papire Masson (1544-1611)1 significa sicuramente ricostruire un episodio minore della fortuna dell’Alighieri. Non si tratta, in questo caso, di effettuare esercizi, che si rivelerebbero sostanzialmente sterili, sulla presenza o meno in tale profilo di notizie biografiche da verificare o confutare. Si tratta, invece, di comprendere motivazioni e modalità di scrittura di un autore che contribuisce certamente all’esportazione del mito dantesco in terra d’Oltralpe. Se si prendono in considerazione le vite dantesche della seconda metà del Cinquecento, si può facilmente notare come il trittico Dante-PetrarcaBoccaccio del francese Masson rappresenti uno dei rari casi di vite di letterati edite indipendentemente dall’edizione dei testi dei rispettivi autori biografati. Certamente utile, in tal senso, il confronto ad esempio con la biografia elaborata da Lodovico Dolce, premessa all’edizione giolitina della Commedia del 1555 e pubblicata con la xilografia ritraente il poeta fiorentino. In essa il Veneziano dà vita a quello che potrebbe definirsi un compendio. La biografia diviene, in questo caso, un necessario completamento alla pubblicazione 1 Sul letterato francese si veda P. Ronzy, Un humaniste italianisant: Papire Masson (15441611), Paris, Champion, 1924. Cfr., inoltre, i più recenti D. Cecchetti, All’ombra di Svetonio. Papire Masson biografo e storico antiquario dell’Umanesimo italiano, in Scrivere le vite. Consonanze critiche sulla biografia, a c. di V. Gianolio, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996, pp. 19-47: p. 48, n. 8 per i riferimenti bibliografici (alle pp. 35-47 è riedita la Vita Dantis Aligherii) e P. Cherchi, Diffusori della cultura italiana in Europa, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Malato, xii, La letteratura italiana fuori d’Italia, coordinato da L. Formisano, p. i, Dalle origini all’età Barocca, Roma, Salerno Editrice, 1999, in part. pp. 310-311 (per l’intero saggio si vedano le pp. 299-342). Si sofferma brevemente su Masson e sulla sua biografia di Giovanni Calvino I. Dorota Backus, Life writing in Reformation Europe. Lives of Reformers by Friends, Disciples and Foes, Aldershot, Ashgate, 2008, pp. 169-186. 164 Del nomar parean tutti contenti dei testi danteschi.2 Con Dolce, nello specifico, più che di modelli letterari bisognerebbe parlare di ‘metabolizzazione’ di diverse letture, dal momento che sul suo scrittoio ritroviamo la recente elaborazione di Alessandro Vellutello 3 (siamo nel 1544) con ai margini gli altri scritti, relativi all’Alighieri, rispetto ai quali egli preferisce fornire una sequenza schematica di avvenimenti, piuttosto che un suo rimpolpamento aneddotico-informativo (si accenna appena a Beatrice e del tutto assente è il famoso sogno premonitore della madre di Dante sulla futura grandezza poetica del figlio).4 Più che alla minuziosa ricostruzione bibliografica delle vicende dell’esule, l’interesse è completamente rivolto alla creazione di uno scritto caratterizzato dai tratti della ‘brevità’ e dell’‘essenzialità’. Nel momento dell’esilio si preferisce non interrompere il racconto con lunghe citazioni. Le parole dirette di Dante sono sostituite da un laconico «come egli stesso scrive».5 A questi elementi se ne aggiunge inoltre un terzo, che potremmo definire di ‘attualizzazione biografica’. Come appunto scrive il Villani, Dante morì a Ravenna nel luglio del 1321, dove fu onorevolmente sepolto. Cinquecentesca è però la lapide di questa sepoltura e il Dolce si sente in dovere di segnalarla, come aveva fatto Paolo Giovio nei suoi Elogia e come farà appunto, all’altezza del 1587, Jean Papire Masson: La quale [sepoltura] alla nostra età il nobilissimo dottore e cavaliere m. Bernardo Bembo […] trovando guasta e rovinata dal tempo, fece con bellissima architettura 2 Per tale vita in merito al rapporto tra genere biografico e stamperia giolitina cfr. V. Caputo, Le vite in tipografia: Dolce, Porcacchi, Varchi e Nannini nella stamperia di Gabriele Giolito, «Studi Rinascimentali», 5, 2007, pp. 87-102. 3 Sul Dante di Vellutello si veda D. Pirovano, Alessandro Vellutello e la biografia di Dante Alighieri, in La letteratura italiana a Congresso. Bilanci e prospettive del decennale (19962006). Atti del X Congresso annuale dell’Associazione degli Italianisti italiani (Capitolo [Monopoli], 13-16 settembre 2006), a c. di R. Cavalluzzi, W. De Nunzio, G. Distaso, P. Guaragnella, t. iii, Lecce, Pensa, 2008, pp. 287-298. Per le riflessione dantesche di Vellutello si veda, inoltre, A. Vellutello, La Comedia di Dante Aligieri con la nova esposizione, a c. di D. Pirovano, Roma, Salerno, 2006. 4 Il Bruni è espressamente citato nel momento della descrizione delle qualità fisiche e caratteriali del biografato: «Fu, secondo che Leonardo Aretino afferma aver trovato di sua mano, di statura commune, di aspetto grato e pieno di gravità. Parlava di rado e tardo, ma nelle sue risposte era sottilissimo: e, come s’è detto, fu buon musico, bel disegnatore e perfetto scrittore» (Dolce, Vita di Dante, in Le vite, cit., p. 211). Questa attitudine al disegno dell’Alighieri è segnalata soltanto in Bruni, nel bruniano Vellutello e in Dolce. Per la data di morte si cita, invece, il Villani (ivi, p. 211). 5 Ivi, p. 210. V. Caputo Dante al di là delle Alpi: Jean Papire Masson e la «Vita Dantis Aligherii» 165 rinnovare; et a perpetua memoria di questo singolarissimo Poeta, vi fece intagliar sopra questo dotto e leggiadro epigramma, o da lui o dal figlio […] settato […].6 Al lavoro dolciano di sintesi bibliografica, indispensabile per uno scritto che si propone come completamento dell’edizione delle opere dantesche, è possibile dunque affiancare una biografia, quella di Masson, che si propone invece come costruzione finita e differente rispetto agli scritti del Poeta. È questo un primo dato, seppur minimo, sul quale vale la pena riflettere. Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, ab origine, non si configurano come preventive e indispensabili chiavi d’accesso alla comprensione delle opere dei rispettivi autori, ma come scritti autonomi da essi. Quando nel 1587 Masson pubblica a Parigi le Vitae trium Hetruriae procerum Dantis, Petrarchae, Boccacii (ex typographia Dionysii a Prato, via Amygdalina),7 è chiaro che implicitamente egli vuole, al di là delle loro opere, ‘esportare’ la fama di tre esemplari letterati italiani attraverso una lingua – il latino – di facile divulgazione europea.8 Il biografo francese (scriverà in seguito anche profili di uomini d’arme e di stato transalpini) in realtà sostò a lungo, per arricchire il proprio curriculum studiorum, a Napoli e soprattutto a Roma, dove intrattenne rapporti con Aldo Manuzio il Giovane, Piero Vettori, Onofrio Panvinio e Carlo Sigonio.9 Ci troviamo, dunque, di fronte a un profondo conoscitore della cultura italiana, cultura che ad esempio non esitò a difendere di fronte agli attacchi da essa subita da parte di Franciscus Hotomanus nel suo Francogallia del 1573.10 Appaiono sicuramente nel loro carattere di eccezionalità, alla luce di quanto affermato, alcune affermazioni del Masson, presenti nella biografia 6������������������������������������������������������������������������������������������ Ivi, p. 211. Ecco l’epigramma riportato: «Esigua tumuli Dantes hic sorte iacebas, / Squallenti nulli cognite pene situ / At nunc marmoreo subnixus conderis arcu, / Omnibus et cultu splendidiore nites. / Nimirum Bembus Musis incensus Hetruscis / Hoc tibi, avem imprimis hae coluere, dedit». Per l’elogium gioviano cfr. P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, a c. di F. Minonzio, trad. di A. Guasparri e F. Minonzio, pref. di M. Mari, Torino, Einaudi, 2006, pp. 29-30, mentre per la vita di Masson cfr. P. Masson, Vita Dantis Aligherii, in Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, cit., p. 221. 7 Le vite dei tre illustri toscani furono riedite nella raccolta postuma del 1638 (pp. 15-222). 8 Cherchi definisce le vite di Masson «molto dotte e certo affatto nuove in Francia» (P. Cherchi, Diffusori della cultura italiana in Europa, cit., p. 311). Cecchetti sottolinea, invece, come la vita di Dante, in particolare, si allinei all’elogium e alla definizione che del genere dell’encomio aveva dato Quintiliano (Laus hominis, iii, 7, 10-15). 9Cfr. D. Cecchetti, All’ombra di Svetonio…, cit., pp. 21-24. 10Genevae, ex officina Iacobi Stoerij, 1573. 166 Del nomar parean tutti contenti dantesca, le quali finiscono per ‘francesizzare’ la figura di Dante Alighieri.11 Mi riferisco, nello specifico, alla sezione Quos poetas Dantes magni fecerit, dove – si badi bene – non assistiamo a un’esaltazione della ‘letteratura francese’ rispetto a quella ‘italiana’, ma a una breve e maliziosa dichiarazione di dipendenza dell’altra rispetto all’una. Quali furono i poeti che Dante stimò? L’elenco è ovviamente ‘di parte’. Si ricorda Arnaut Daniel («cuis rythmos inserit canticu Purgatorii vicesimo sexto Provinciali sermone scriptos»), per citare, prima di Cino da Pistoia e Sordello da Goito, Gerardo di Brunello e il re di Navarra «ob poeticam laudem insignis» e giungere all’affermazione: Ambo [Dante e Petrarca] vero Gallice sciebant: nam eorum versus id ostendunt Gallicis plerumque exornati vocibus.12 Sia Dante che Petrarca, dunque, si sono rifatti a modelli gallici. Nella vita di Petrarca, pubblicata insieme a quella citata di Dante e a quella del Boccaccio, Masson ribadisce il concetto, sottolineando ancora la figura di Arnaut Daniel. Siamo nel paragrafo intitolato Quos poetas Petrarcha magni fecerit: Externos quidem poetas habuit, ut Arnaldum Danielem magistrum amoris, ut ipse vocat, et alios quosdam nostrates poetas, id est cisalpinos. quorum versus etsi vernaculos multum probabat.13 Si profila in tale affermazione, solo apparentemente neutra, il riflesso contraddittorio di quella disputa tra italiani e stranieri che accompagnerà per secoli la cultura europea. A evidenziarla timidamente è, all’altezza del 1587, un letterato formatosi in Italia e amante degli studi filologici peninsulari. 2. Dante e/o Petrarca Un altro aspetto è, inoltre, da prendere in considerazione, il quale può essere compreso pienamente soltanto esaminando nella sua globalità il trittico biografico. Se si confrontano, infatti, i tre profili, si comprende facilmente che, a voler guardare il mero dato quantitativo (non fondamentale, ma certamente significativo), l’attenzione di Masson, come nel caso di un altro biografo cinquecentesco Marcantonio Nicoletti, è concentrata, più che su Dan11Cfr. P. Cherchi, Diffusori della cultura italiana in Europa, cit., p. 311. 12Questa e la precedente citazione sono tratte da J. P. Masson, Vita Dantis Aligherii, cit., p. 220. 13Ivi, p. 517. V. Caputo Dante al di là delle Alpi: Jean Papire Masson e la «Vita Dantis Aligherii» 167 te o Boccaccio, principalmente su Francesco Petrarca.14 Se messa a confronto con la vita del collega aretino Petrarca, la biografia dantesca di Masson finisce infatti per apparire in tutta la sua esiguità e povertà contenutistica. Anche per il profilo petrarchesco Masson predilige estese citazioni dirette, soprattutto dall’epistolario latino, per informare il lettore su nascita e predecessori illustri e anche in tal caso egli finisce per evidenziare le tappe ‘galliche’ del girovagare petrarchesco secondo quel processo che abbiamo avuto modo di sottolineare precedentemente.15 Le modalità lavorative risultano, insomma, quelle già evidenziate, ma esse raggiungono tendenze ipertrofiche. La vita del Petrarca, per il quale i punti di riferimento sono rappresentati da Cicerone e Virgilio,16 diviene infatti il risultato di una somma di parafrasi e citazioni dirette da diverse sue opere, tra le quali spiccano sicuramente le epistole. Un ultimo aspetto è da prendere in considerazione e ruota attorno alla banale domanda: dov’è nella biografia dantesca di Masson la Divina Commedia o meglio quale ruolo svolge nella costruzione biografica l’opera maggiore del biografato? La risposta può apparire nella sua sconcertante esiguità del tutto banale. La Divina Commedia di Dante è infatti presente in maniera marginale nell’opera su Dante. Il profilo biografico elaborato dal francese Masson finisce per costruirsi soprattutto attraverso la somma di testimonianze altrui che lasciano poco spazio ai riferimenti auto (e pseudo) biografici disseminati nelle tre cantiche. Basterebbe, in tal senso, prendere in considerazione alcuni dei tituli che compongono l’opera. Si va appunto dal Petrarchæ testimonium al più breve Boccatii testimonium, dove ci si limita a segnalare la presenza dantesca nel De casibus virorum illustrium,17 con riferimenti ad altri scrittori antichi come Giovanni Villani. 14Sulla vita dantesca di M. Nicoletti sia consentito il rinvio al mio Dante «messer Asso». Marcantonio Nicoletti tra biografia e novellistica cinquecentesca, «Rivista di studi danteschi», in corso di stampa. 15Si insiste appunto sulle tappe francesi nel lungo girovagare del poeta. 16Lo sottolinea Cecchetti, evidenziando che alcuni episodi della biografia hanno precedenti proprio nella vita di Cicerone o in quella di Virgilio. È il caso del desiderio petrarchesco di dare alle fiamme il Canzoniere da accostare a quello virgiliano di bruciare l’Eneide (D. Cecchetti, All’ombra di Svetonio. Papire Masson biografo e storico antiquario dell’Umanesimo italiano, in Scrivere le vite, cit., pp. 19-34). 17Siamo di fronte a una raccolta molto fortunata in ambito cinquecentesco, sia italiano che europeo. Cfr. L. Nadin Bassani, Il poligrafo veneto G. Betussi, Padova, Antenore, 1992 e, per l’analisi dell’altro fortunato femminile libro biografico boccacciano si veda anche V. Caputo, Una galleria di donne illustri: il «De mulieribus Claris» da Giovanni Boccaccio a Giuseppe Betussi, «Cahiers d’études italiennes. Filigrana», Boccace à la Renaissance. Lectures, traductions, influences en Italie et en France, 8, 2008, pp. 115-147. 168 Del nomar parean tutti contenti Nel pubblicare, all’altezza del 1587, il proprio breve profilo dantesco, Jean Papire Masson decide di affidare un ruolo di primo piano alle parole di Boccaccio e soprattutto a quelle di Petrarca. Si delinea così per il lettore un Alighieri visto attraverso gli occhi del collega aretino. La testimonianza, che lo scrittore francese preferisce semplicemente virgolettare, è ovviamente da far risalire ai Rerum memorandarum libri. Petrarca inserisce il poeta nella categoria De mordacibus iocis (libro iv, cap. 83), raccontando alcuni aneddoti relativi all’Alighieri.18 Siamo di fronte a episodi fortunati in ambito cinquecentesco, i quali circolarono nelle raccolte maggiormente lette di detti e motti arguti del xvi secolo e che ad esempio entrarono in misura massiccia nella biografia dantesca del citato notaio friulano Marcantonio Nicoletti.19 Dante è soprattutto, secondo le parole di Petrarca riportate e dunque condivise da Masson, «vulgari eloquio clarissimus […], sed moribus parum per contumaciam».20 A testimonianza di ciò, si citano nello specifico i due episodi segnalati dal Petrarca. Il primo vede Dante rispondere in maniera mordace alla provocazione di Cangrande Della Scala, il quale sottolinea come un buffone ignorante abbia più ricchezze di lui, che invece è un sapiente, mentre il secondo vede uno scambio di battute tra Dante e un bugiardo. Per quanto riguarda la prima vicenda, essa fu ripresa successivamente da Poggio Bracciolini nelle sue Facetiae, da Michele Savonarola, Ludovico Carbone e Vespasiano Bisticci.21 Per quanto riguarda, invece, il secondo aneddoto, esso vede l’Alighieri a cena in compagnia di un molestatore pronto a giurare che tutto quello che dice corrisponde a verità. Di fronte all’affermazione di tale interlocutore («[…] qui verum dicit non laborat […]»), Dante risponde eloquentemente: «Mirabar […] unde hic sudor tantus tibi».22 Tale episodio è presente, oltre che nei citati Rerum memorandarum libri petrarcheschi, ne 18F. Petrarca, Rerum memorandarum libri, V, t. I, cit., p. 99. Su questo aspetto cfr. J. Bartuschat, Les «vies» de Dante, Pétrarque et Boccace, cit., pp. 100-102 19Cfr. V. Caputo, Dante «messer Asso», cit. 20 J. P. Masson, Vita Dantis Aligherii, in Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, cit., p. 219. 21Per la segnalazione di tali episodi rinviamo ai testi di Papanti del 1911 (La leggenda di Dante. Motti, facezie e tradizioni dei secoli xiv-xix) e di Papini del 1873 (Dante, secondo la tradizione e i novellatori. Ricerche di G. Papanti). 22 J. P. Masson, Vita Dantis Aligherii, in Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, cit., p. 219. L’episodio è riportato anche nella citata biografia di Nicoletti: «Egli essendo una volta a desinare con uno, che riscaldato dal vino et dal favellare in certo proposito diceva: “Chi dice il vero non s’affatica”; gli rispose: “Io mi meravigliava ben del tuo sudore”» (c. 79v). V. Caputo Dante al di là delle Alpi: Jean Papire Masson e la «Vita Dantis Aligherii» 169 La zucca di Anton Francesco Doni,23 nel Diporto de’ viandanti, nel quale si leggono facetie, motti, & burle di Cristoforo Zabata, pubblicato più volte nel corso della seconda metà del Cinquecento e poi fino al 162324 e nei Detti, et fatti di diversi signori et persone private, i quali communemente si chiamano facetie, motti, & burle di Lodovico Domenichi.25 Con il profilo biografico di Dante, Masson mostra dunque le prime crepe nell’edificio che cementifica opere e immagini dell’Alighieri. Pur citando gli scritti di Dante, l’autore francese declina la scrittura biografica in casi che prevedono la frattura tra opere e figura dell’Alighieri e che, soprattutto, spezzano il sintagma epesegetico del ‘Dante della Divina Commedia’. Egli si allontana così, seppur timidamente, dalla comune modalità lavorativa cinquecentesca che tende a ritagliare brandelli autobiografici nelle opere del protagonista biografato per costruire un nuovo tessuto biografico (basti, in tal senso, il caso delle vite di Ariosto elaborate da Giambattista Pigna, Simone Fornari, Girolamo Garofalo).26 Ne viene fuori, quindi, un’idea di Dante che si delinea sostanzialmente attraverso un doppio aneddoto petrarchesco. Ci troviamo, a voler semplificare e quindi banalizzare, di fronte a un ‘Dante petrarchesco’ e allo stesso tempo ‘francesizzato’, per il cui profilo a poco serve lo scavo archeologico all’interno della sua opera maggiore.27 Università degli Studi “Federico II” - Napoli 23Cfr. A. F. Doni, La zucca, in Vinegia, per F. Marcolini, 1551, ii, pp. 144-145. Papanti ricorda, inoltre, alcune versioni anonime della vicenda (cfr. Dante, secondo la tradizione e i novellatori, cit., p. 89). 24 Cfr. C. Zabata, Diporto de’ viandanti, Venetia, appresso Lucio Spineda, p. 214. 25«Dante essendo una volta a desinare con uno, il quale era riscaldato dal vino, & dal favellare in modo, che tutto sudava, dicendo egli a certo proposito; chi dice il vero non s’affatica: rispose; Io mi maravigliava ben del tuo sudore» (L. Domenichi, Detti, et fatti, cit., p. 63). 26Cfr. B. Mori, Le vite ariostesche del Fornari, Pigna e Garofano, «Schifanoia», 1997, 17-18, pp. 135-144. 27Alla fortuna di Dante nel Cinquecento (e non solo) è stata dedicata una vasta bibliografia. Ci limitiamo a segnalare, nello specifico, A. Vallone, L’interpretazione di Dante nel Cinquecento. Studi e ricerche, Firenze, Olschki, 1969 e la recente raccolta postuma di saggi danteschi di G. Mazzacurati, L’albero dell’Eden. Dante tra mito e storia, a c. di S. Jossa, Roma, Salerno, 2007. Cfr., infine, S. Bellomo, La critica dantesca nel Cinquecento, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Malato, xi, La critica letteraria dal Due al Novecento, coordinatore P. Orvieto, Roma, Salerno, 2003, pp. 311-323. Franco Vitelli DANTE IN TRE SCRITTI DISPERSI DI SINISGALLI Non ricordo studi organici dedicati al rapporto Sinisgalli-Dante; del resto, difficilmente la produzione poetica sinisgalliana potrebbe entrare con forza e a largo spettro nell’intrigante capitolo del dantismo novecentesco. Questo non vuol dire che spigolando qua e là nell’Opera non si possano trovare riferimenti a Dante anche di rilievo. Giuseppe Langella nel saggio Il canto ‘fioco’: Ungaretti, Sinisgalli, Gatto,1 prendendo spunto dal verso dantesco che si riferiva all’ombra di Virgilio («chi per lungo silenzio parea fioco»), trasforma quella ‘nozione’ in categoria critica capace di fornire una lettura originale della triade e specie dei due poeti meridionali. Per quel che riguarda Sinisgalli, l’indagine evidenzia la tematica del «descensus ad inferos», ove rientra il fondamentale topos dei «Campi Elisi», mentre l’occorrenza di «fioco» tracima nella celeberrima Via Velasca contagiandone un po’ la complessiva atmosfera. L’analisi è convincente, ed anche fine; forse, però, per il viaggio oltremondano guarderei ‘prioritariamente’ alla tradizione orfico-pitagorica. Giuseppe Lupo,2 credo anche sulla scia dello studio predetto, recupera opportunamente il valore della citazione dantesca che Sinisgalli fa in uno scritto su Cantatore, sviluppandone a suo modo il senso. Il critico sottolinea che «le tanto insospettabili, quanto straordinarie suggestioni provenienti dalla Commedia dantesca [...] vanno a incunearsi proprio dentro le tracce leonardesche». Il richiamo da Purgatorio v, «tra tutti forse il più inquietante» (Sinisgalli), «riguarda le questioni legate alla corporeità o all’incorporeità delle figure di Cantatore, cioè alla percezione della materia in relazione alla luce». Insomma, Dante alimenta il giudizio di Sinisgalli in un fertile incrocio tra 1 «Otto/Novecento», gennaio-febbraio 2005, pp. 81-113. 2 Sinisgalli e «Il Milione», in Il guscio della chiocciola. Studi su Leonardo Sinisgalli, vol. i, a c. di Sebastiano Martelli e Franco Vitelli con la collaborazione di Giulia Dell’Aquila e Laura Pesola, Salerno-Stony Brook, Edisud- Forum Italicum Publishing, 2012. F. Vitelli Dante in tre scritti dispersi di Sinisgalli 171 letteratura arte e scienza e trasmette un’«incredulità» che è la stessa per il poeta di Montemurro e le anime pigre o con fine violenta. Ho dato voce a indicazioni per me significative e non mi pare ce ne siano altre. In una specie di meccanismo analogico, attivato dalla specializzazione del committente, sono riuscito a comporre addirittura una trilogia (una scheda biografica, un articolo sulla Vita Nuova, una presentazione all’incunabolo folignino della Commedia) che conferisce certo maggiore spessore al rapporto e potrebbe indicare nuovi sentieri di ricerca. 1. Il profilo biografico inedito, intitolato Curriculum vitae, mi è stato donato da Sinisgalli con l’invito a riflettere sul significato di un tale interesse. Si tratta di un testo autografo scritto su un quadernetto di scuola elementare datato «Ottobre-novembre 1944»: l’immagine di copertina con disegno del pittore Chiletto è una scena di guerra con carro armato in azione e si riferisce sicuramente all’impresa dell’ufficiale Ettore Crippa celebrato dallo scritto stampato nell’interno, perché fece strage di «orde innumerevoli di abissini». Rientrava perfettamente nella pedagogia fascista inculcare sentimenti guerreschi sin dalla prima infanzia, in prima e seconda elementare! Le notizie sulla vita di Dante contenute nel profilo non presentano novità, sono, per così dire, canoniche e scontate. Una lieve nota personale ritroviamo solo nella chiusa, là dove Sinisgalli spiega il definitivo soggiorno a Ravenna con la congenialità tra ambiente esterno e soggettive finalità artistiche e ideologiche: Quella città piena dei ricordi di Giustiniano e degli ultimi imperatori, ove nelle antiche chiese bizantine i santi trionfano nei mo- Ritratto di Dante (Raffaello) scelto per il volume Italiani, a c. di Giovanni Ponti, Leonardo Sinisgalli, Milano, Editoriale Domus, 1937. 172 Del nomar parean tutti contenti saici d’oro, era il rifugio più proprio del cantore dell’Impero e del Paradiso. Viene da chiedersi, allora, come mai uno spirito così originale si sia piegato a fare una mera trascrizione di dati già acquisiti. La risposta non può che poggiare, al momento, su ipotesi. Forse, la scheda biografica doveva essere utilizzata per un qualche progetto editoriale che prevedeva la pubblicazione di un’opera dantesca; ovvero, rappresentava il modo per introdurre se stesso a ventilati studi su Dante, una finalità quindi strettamente privata. Resta comunque il fatto altamente significativo che in quel tempo cruciale di fine 1944 Sinisgalli pensasse a Dante, anche solo per trarre motivo di riflessione e conforto; e resta il messaggio che ha voluto trasmettere con la raccomandazione che accompagnò il suo dono. 2. Il saggetto sulla Vita Nuova, con titolo Dante e il libro della memoria, è apparso in «La Fiera Letteraria», 15 maggio 1949. La voce risulta regolarmente schedata da Aldo Vallone nel volume Gli studi danteschi dal 1940 al 19493 con il seguente estratto dell’articolo: «La scrittura ha creato questo miracolo: rendere la storia vera di Beatrice, inverosimile, addirittura incredibile». La presenza già suona sintomatica, se si considera che Vallone nell’introduzione aveva dichiarato, sulla scia del Barbi, un criterio selettivo in favore di quegli studi che ha creduto «essere utili od originali». Vallone riscontrava, inoltre, un certa diminuita intensità degli studi danteschi tra il 1940 e il 1949 non solo per i noti tragici avvenimenti, ma per un maggiore rigore che governava la critica: siffatto indirizzo Dio solo sa quanto sarebbe più urgente ai nostri giorni! Tra gli studiosi e commentatori recenti mi pare che il solo Marcello Ciccuto abbia segnalato lo scritto di Sinisgalli in un suo prezioso e puntuale lavoro.4 Della formazione letteraria del poeta-ingegnere, delle sue letture e predilezioni ci parla in un acuto e partecipato profilo il suo carissimo amico dei tempi della giovinezza, Arnaldo Beccaria.5 Conviene riportare più lunga citazione per capire il clima e l’orientamento che vi domina: nella fattispecie, per un verso gli studi professionali di base che sono di natura scientifica e, 3 Firenze, Olschki, 1950, p. 121. 4 Si veda Dante Alighieri, Vita Nuova, Introduzione di Giorgio Petrocchi, commento di Marcello Ciccuto, Milano, Bur, 1994. 5 Leonardo Sinisgalli, in «Il Tesoretto. Almanacco delle Lettere e delle Arti», marzo 1940, pp. 37-40. F. Vitelli Dante in tre scritti dispersi di Sinisgalli 173 174 Del nomar parean tutti contenti per l’altro, la sensibilità artistico-letteraria verso il contemporaneo che non escludeva, anzi piacevolmente imponeva, la lettura dei grandi autori del passato, e tra questi Dante Petrarca e il più vicino Leopardi con Commedia e Vita Nova e Canzoniere: Quel mio compagno, un giovane alto, dalla capigliatura corvina e l’occhio nero e vivace delle rondini, è Leonardo Sinisgalli. E a quel giorno risale la nostra antica amicizia. Frequentavamo tutti e due l’Università: lui ingegneria, io chimica pura, e abitavamo in un pensionato di studenti due camerette, la sua sopra la mia, sì che il rumore dei suoi passi piovendo dal soffitto teneva talvolta compagnia ai miei studi. In quegli anni s’andava formando il clima poetico di Sinisgalli: dalla inevitabile nostalgia del suo paese; e le assidue letture che alla sera, ritrovandoci in numeratissimo stuolo d’amici, ci venivamo via via comunicando; e il sentimento della pittura come allucinata rivelazione che fra noi portavano Scipione e Mafai. Leggevamo, è vero, Ungaretti, nel quale intendevamo il consumarsi delle esperienze ultimissime, ma ci tenevamo ben radicati ai classici: a Petrarca e a Leopardi, soprattutto; e al Dante della Vita Nova e del Canzoniere, oltre che della Commedia. In esergo alla famosa Lettera a Gianfranco Contini (Milano, Via Rugabella, 6 novembre 1941)6 Sinisgalli appone: Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes; tu autem non sic. [La Vita Nuova, xii] «Io sono come il centro del cerchio, rispetto al quale tutti i punti della circonferenza stanno nell’identico rapporto; non così tu». Sono, com’è noto, le parole che Dante mette in bocca ad Amore; per dirla con Domenico De Robertis «parole “oscure” e che hanno difatti affaticato fino ad oggi gli interpreti; ma consegnate nelle lucide formule del linguaggio scientifico (la definizione del circolo rispecchia quella classica euclidea».7 La spiegazione del perché Sinisgalli abbia scelto in epigrafe quell’espressione si trova, a mio avviso, proprio nel binomio ambiguità del responso-chiarezza scientifica suggerito da De Robertis. L’identificazione della poesia con i numeri complessi teorizzata nella lettera a Contini (a+bj) codifica icasticamente l’ambivalenza 6 Leonardo Sinisgalli, Furor mathematicus, Milano, Mondadori, 1950, p. 185. 7 Domenico De Robertis, in Dante Alighieri, Opere minori, v. i, t. i, Vita Nuova. Rime, a c. di D. De Robertis e G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1995, p. 73. F. Vitelli Dante in tre scritti dispersi di Sinisgalli 175 o piuttosto la strenua dialettica: l’operatore immaginario rappresentato dalla funzione ‘j’ tende a violare proprio l’oggettiva certezza della geometria euclidea con ciò predisponendo una proiezione nei mondi ‘possibili’ delle nuove geometrie che più si confanno alla natura della poesia. C’è, inoltre, una testimonianza di Sinisgalli disseminata in uno dei tanti elzeviri pubblicati su «Il Mattino» di Napoli che torna utile al nostro discorso: Passeggiavamo per via Veneto: è l’una di una domenica di aprile o di maggio del 1942. Siamo insieme, De Libero e io, che scendiamo a braccetto; con noi, un po’ indietro, c’è Rafaele Contu che chiacchiera con Renato Mucci e Arnaldo Beccaria. Contu sta preparando per Tumminelli una collana in piccolo formato di leccornie letterarie: De Libero deve tradurre À rebours di Huysmans, Beccaria Le promeneur solitaire di Rousseau, Mucci la famosa conferenza letta in Belgio da Mallarmé su Villiers de l’Isle-Adam, io devo scrivere una prefazione alla Vita Nova di Dante.8 Per quanto abbia esperito ricerche non ho trovato traccia di questa edizione della Vita Nova curata, o almeno prefata, da Sinisgalli. È assai probabile che, considerati i tempi, essa sia rimasta nel limbo di un semplice progetto; tuttavia, la notizia pone il problema di come eventualmente i materiali in mio possesso (biografia e analisi dell’operetta dantesca) possano rapportarsi con l’iniziativa Contu-Tumminelli. Le rispettive date, 1944 e 1949, creano alcune difficoltà, non insormontabili in vero, giacché la diluizione temporale del progetto era imposta dalla gravità della situazione storica, che poi portò forse alla definitiva rinuncia. L’attento studio di Sinisgalli sulla Vita Nuova non andò disperso e confluì nel contributo pubblicato su «La Fiera Letteraria», che è arrivato il momento di esaminare nel dettaglio. Esso può ben definirsi una lettura articolata della Vita Nuova secondo una prospettiva attualizzante in cui converge, com’è naturale, il bagaglio culturale dell’autore oltre che la sensibilità del suo tempo; ciò nonostante, nessuna forzatura si avverte giacché l’individuata caratteristica favorisce piuttosto un intenso coinvolgimento del lettore che si lascia piacevolmente guidare nell’operetta giovanile come per un percorso in cui la segnaletica è fatta di riferimenti noti e direttamente vissuti. L’accortezza del critico-poeta consiste nella scelta, ai fini interpretativi, di quei parametri e di quelle tendenze che pur rientrando 8 Leonardo Sinisgalli, Il grande romanziere, «Il Mattino», 11 luglio 1976. 176 Del nomar parean tutti contenti nell’orizzonte contemporaneo trovano tuttavia riscontro nel testo dantesco per somiglianza o per contrasto. Un’operazione perfettamente lecita e proficua, anche sul versante teorico, perché con semplice mutamento del punto di vista riesce a far parlare l’opera, rivelando l’intrinseca molteplicità dei significati e la ricchezza di senso rispetto alla varietà di domande che il mutare delle circostanze storiche propone. Proprio perché l’intento è quello di verificare «quale significato ha per noi la Vita Nuova», Sinisgalli fa interloquire Dante con scrittori fondativi della cultura della modernità e importanti nel suo percorso formativo: i suoi auctores. Anzitutto Edgar Allan Poe. Ricollega con forte suggestione l’atmosfera della Vita Nuova con quella del racconto Berenice: nel comune processo di rarefazione ci troviamo di fronte «non un essere terrestre fatto di carne, ma l’astrazione di tale essere». Dante un po’ si ritrova nella stessa famiglia di Egaeus, appartenente «alla razza dei visionari» con tratti di psicopatologia che esalta le facoltà dell’attenzione; solo così si spiega «l’idiota pensiero» che i denti di Berenice fossero delle idee. Sinisgalli era rimasto molto colpito dall’immagine di Poe e cita altre volte i denti di Berenice: in un caso ci troviamo di fronte a un semplice riporto: «F r a s e . – “io li sospendevo ad ogni luce” dice Egaeus dei denti di Berenice: “Tous ses dents étaient des idées”»;9 nell’altro, invece, i denti vengono liberati dal valore astratto, ‘filosofico’ e inseriti nel più concreto contesto dell’amore con la donna amata: Ce ne fu una, più maliziosa, che voleva prendermi in castagna citando i denti di Berenice vantati da Poe. Una bocca sana, si legge, è la spinta più persuasiva all’amore. Più degli occhi e dei capezzoli, sostiene Mantegazza.10 Ma, per tornare al ‘delirio’, che discende ugualmente dall’automatismo, Sinisgalli ne evidenzia la diversa natura: frutto della ripetitività delle orazioni in Dante, del meccanismo logico in Poe. Per suo conto, il poeta di Montemurro serbò manifesto consenso per la tesi espressa nella Filosofia della composizione circa il procedere dell’opera secondo «la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico». Un ulteriore incontro di Dante con l’autore di Eureka sta nell’«ardore cosmogonico» che si manifesta nello «spaventoso potere delle pupille», al punto che «molta poesia del9 Leonardo Sinisgalli, Horror vacui, a c. e con un saggio di Renato Aymone, Cava dei Tirreni, Avagliano, 1995, p. 74 10 Leonardo Sinisgalli, Diario senza date, in «L’albero», n. 58, 1977, p. 175. F. Vitelli Dante in tre scritti dispersi di Sinisgalli 177 la Vita Nuova va letta e guardata ut pictura». «Sostanza luminosa» della poesia che non si sa se discenda «dai cieli della Toscana» o «dalla dorata pittura del tempo». In verità, Sinisgalli a modo suo si lasciava suggestionare più da Eliot, che per Dante aveva parlato di «visual imagination», seppure «in a different sense from that of a modern painter of still life», e chiarito il significato di mistica come entità unica di corpo e di spirito. Sinisgalli non ha dubbi che ci troviamo di fronte a una «febbre mistica», progressivo «appressamento alla grazia» «fino alla rinuncia totale dolce per una voglia irrefrenabile d’immortalità»; e qui lo soccorreva il suo amato Pascal. Così annotava nell’Horror vacui: M é m o r i a l . Stasera, 9 ottobre 1943, mezz’ora dopo la mezza notte, leggevo uno studio su Pascal. Quando ho cominciato a leggere il mémorial la luce si è accesa al massimo splendore ed è durata così netta fino alla renonciation totale et douce.11 E sempre nell’Horror vacui, con utilizzo di parole identiche, troviamo come un intreccio e fusione della componente visiva e di quella mistica. L’inebriante avventura rappresentata da Dante nella Commedia svela l’insufficienza della parola scritta per definire la condizione; la parola chiede il soccorso dell’immagine almeno nelle suggestioni che provoca e nell’efficace splendore della rappresentazione. Senza dir poi dell’autenticità dell’effettivamente vissuto che la vista-visione garantisce, «io vidi e so per certo», anche il lettore vi partecipa intensamente attraverso i moti del cuore e non solo dello spirito-intelletto; anima e corpo, per l’appunto, insieme fusi; la poesia si può prendere a morsi. Ecco il brano: Mi piacerebbe commentare questa scena con la lettura del primo canto del Purgatorio, che più di ogni altro documenta lo spaventoso potere delle pupille di Dante, e che si avvia con quella superba e festosa e trionfale apertura: Per correr miglior acque alza le vele..., e si chiude con un vero miracolo inventato dagli occhi: cotal si rinacque subitamente là, onde l’avelse..., attraverso un succedersi di visioni di cui il poeta stesso si sorprende estatico (agli occhi miei ricominciò diletto), uno spiegamento di luci e di colori ineffabili (L’alba vinceva l’ora mattutina...) e il brivido di quei versi: La vesta che al gran dì sarà sì chiara. Vorremmo, insomma, che una volta tanto, anima e corpo, il lettore si buttasse a mordere il seno della Poesia, senza il timore di bere così forte da arrestare i battiti del cuore. (Si fort vous m’avez mordue que mon coeur...)12 11 Leonardo Sinisgalli, Horror vacui, cit., p. 14. 12 Ivi, pp. 21-22. 178 Del nomar parean tutti contenti Una preziosa indicazione che coinvolge pittura del Trecento e poesia stilnovistica troviamo in un pezzo del 1934 dove, sulla scorta di un’intuizione vichiana circa la possibilità di creare con la mente, viene evidenziata la prevalenza della figura-immagine sulla narrazione: [...] sono partiti, cioè, a creare con la mente; la qual cosa per noi non costituisce meraviglia, se Giambattista Vico nel capitolo dell’«oscurità delle favole» ne fece già l’illuminazione più suggestiva. Si pensi a Giotto e al dolce stil novo. Nessuna preoccupazione di fare del racconto: essi si esprimono per immagini puntuali.13 Per Sinisgalli la modernità di scrittura della Vita Nuova sta nella valorizzazione dell’elemento interiore, nell’insistenza sulla soggettività dell’esperienza; e quel continuo far ricorso al ‘mi’ e all’‘io’ che ad alcuni potrebbe dare fastidio viene invece a incrociarsi con una sensibilità fortemente avvertita alla luce di Freud e Proust. Quel Proust che poteva essere evocato non solo per lo scandaglio delle pieghe della coscienza, ma per l’uso ‘liquido’ della memoria: non è mancato chi ha fatto notare la segreta corrispondenza tra l’esordio della Vita Nuova e quello della Recherche. Sin dal lontano 1936, anche se nella veste di critico ovvero cronista d’arte, il poeta aveva evidenziato la specificità del moderno, con tutti i possibili rischi, nel dare centralità all’io: La nostra curiosità di moderni, se pure è la disposizione più pericolosa e la più incline al peccato, si è ristretta sempre più a guardare noi stessi, a spopolare la nostra abitazione segreta, ad allargare i confini del deserto che è intorno alla mente degli uomini. 14 È significativo che Sinisgalli – pur amando il ‘divino Corazzini’ e certo riscontrando «penombre [che] possono evocare gli interni delle chiese e delle cattedrali, cari ai poeti di Bruges» – faccia propria la resistenza, e addirittura ripugnanza, dei «lettori eretici» a fronte di tali rappresentazioni. Una lettura della Vita Nuova orientata a privilegiare la morbidezza sentimentale e il linfatismo del personaggio giovanile sarebbe poco corrispondente ai bisogni 13 Leonardo Sinisgalli, I ragazzi della Scuola di Cantù, in Id., Pagine milanesi, a c. di Giuseppe Lupo, Matelica, Hacca, 2010, p. 87. 14 Leonardo Sinisgalli, Scultura di Tallone, ivi, p. 101. F. Vitelli Dante in tre scritti dispersi di Sinisgalli 179 del tempo di Sinisgalli e darebbe ugualmente una visione parziale del tempo di Dante. Il poeta-ingegnere prediligeva le fisionomie e i quadri completi e perciò faceva rilevare che accanto a Simone Martini c’è Giotto; inoltre, difficilmente si potevano far passare per spiriti malati, e Dante tra questi, poeti che erano «giuristi, cospiratori, uomini d’amore e di parte». Invocava idee forti e valori attivi, e la teologia, se pure scienza fresca, vi rientrava; aggiunge con coerenza altrove Sinisgalli che a fecondare un poema «non basta l’attualità, la notizia del giorno, l’umore del momento; ci vuole l’allegoria e, come in Dante e Giotto, la fede».15 Ancora come una reazione alla debolezza propositiva, e per conseguenza al giudizio che Dante viva nel guado della crisi, bisogna leggere il richiamo rovesciato di Rainer Maria Rilke. Per Sinisgalli nella Vita Nuova c’è il racconto di una fortunata esperienza e chi la vive è «una creatura prediletta». Se nella parte finale dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, che poi esprime il sugo della storia nella parabola del Figliol Prodigo, il fanciullo non voleva essere amato, il personaggio Dante ama ed è oggetto d’amore; una situazione di pienezza appagante. Da un punto di vista metrico Sinisgalli rileva che l’endecasillabo dell’opera giovanile non ha – né poteva averla – «la somma di forza e di mistero che fa così rigoroso l’intrigo della Commedia»; e si serve di un’immagine-citazione dai Calligrammes di Apollinaire («verso lucente e cadaverico») per rendere più fascinoso il concetto. In verità, questi ‘elementi’ di critica dantesca erano già entrati nel libretto dell’Indovino, scritto nell’agosto-dicembre del 1944 e pubblicato nel 1946. Nei dialoghi fra Il Re e L’Indovino (il poeta stesso sdoppiato per comodità dialettica) si registra il seguente scambio di battute: L’Indovino: Sulla conchiglia fossile, c’è chi scrive una poesia, chi un trattato di estetica. Il Re: Tu consideri pensieri e parole come cadaveri. L’Indovino: Da qualche tempo vado alla ricerca di immagini nate morte, scariche di senso, di parole che siano come il gesso e la pomice. Il Re: Apollinaire deve averle trovate perfino in Dante.16 Non deve stupire quest’inserimento, perché nell’opera dialogica di stam15 Leonardo Sinisgalli, Diario senza date, cit., p. 173. 16 Leonardo Sinisgalli, L’Indovino. Dieci dialoghetti, introduzione e note di Renato Aymone, Cava dei Tirreni, Avagliano, 1994, p. 24. F. Vitelli Dante in tre scritti dispersi di Sinisgalli 181 po leopardiano vi entrano i connotati e gli orizzonti della vasta e peregrina cultura di Sinisgalli; casomai, occorre sottolineare che vi è un diverso riuso dell’indicazione di Apollinaire. Nell’Indovino filtra un che di natura morta e scarsamente reattivo cui l’indovino-poeta si piega e che troverebbe un’anticipazione in Dante secondo la scoperta di Apollinaire; nell’articolo sulla Vita Nuova, invece, viene restituito il potente ossimoro della fonte recuperando l’aspetto ‘lucente’ dell’endecasillabo; «il verso lucente e cadaverico» sarebbe una conquista della produzione matura. La montre et la cravatte, da cui è tratto «et le vers dantesque luisant et cadavérique», è un calligramme, cioè una poesia visiva in cui le parole sono disposte in maniera da prendere la forma dell’oggetto indicato. L’annuncio di Apollinaire di essere diventato pittore anche lui torna giustificato, perché le parole sono diventate immagine; Sinisgalli voleva leggere l’operetta dantesca sotto forma di ut pictura, il collegamento con il poeta francese torna congruente. Inoltre, l’interferenza nell’inconscio tra Apollinaire e Valéry, tra le Les mammelles de Tirésias e Charmes si scopre in quel «Si fort vous m’avez mordue que mon coeur...» peraltro citato a mente con leggera variante, da mettere in correlazione con «mordere il seno della Poesia». La peculiarità della prosa, a volte declamatoria per quel timbro che vi ha impresso il latino di curia e del diritto, viene prospettata nel solco della tradizione-evoluzione in Toscana anche alla luce della particolare ‘aura’ che la regione vi ha impresso: dal Medioevo al Rinascimento e sino ai giorni nostri. L’attenta analisi della Vita Nuova è un atto d’amore di Sinisgalli verso un’opera che considerava un modello, una segreta aspirazione di ogni scrittore, in pendant con i «divini versi di La sera del dì di festa»; ciò si evince anche, e contrario, dalla prosa xxvii dei Fiori pari fiori dispari là dove si stigmatizza come un’incredibile stranezza la sua preferenza, in un particolare frangente, verso la magia di una piccola stampa capitata sott’occhio in una cartoleria.17 3. Con titolo Il Dante di Foligno Sinisgalli fece la presentazione alla copia anastatica, in ricorrenza dei cinquecento anni, dell’incunabolo stampato a Foligno nel 1472 da Johann Neumeister e conservato presso la biblioteca Angelica di Roma: Dante Alighieri, La divina commedia, a cura della Cassa di Risparmio di Foligno e Terni, Foligno, Campi Grafica, 1972, pp. i-vi. È 17 Leonardo Sinisgalli, Belliboschi. Fiori pari fiori dsipari, Milano, Mondadori, 1979, p. 232 182 Del nomar parean tutti contenti da precisare che lo scritto, pur con la ristretta circolazione dell’opera presso clienti e amici, non è sfuggito alla schedatura di Eugenio Ragni, tuttavia per l’anno 1973, allestita per L’Enciplopedia Dantesca.18 Non so se si tratta di semplice errore materiale o di un’ulteriore tiratura, a inizio dell’anno successivo, di un volume stampato nel dicembre 1972 come strenna natalizia. Sarebbe interessante conoscere, attraverso documenti, le ragioni per le quali Sinisgalli, che non era uno specialista studioso di Dante ma poeta e intellettuale assai noto, sia stato chiamato a introdurre la riproposta anastatica del famoso incunabolo umbro. Certo, meglio avrebbero giovato qualità e competenze in campo paleografico e filologico, ma tant’è. È probabile che nella scelta abbia pesato la lunga militanza al servizio di grandi aziende proprio nel ruolo delle pubbliche relazioni e quale direttore di riviste ormai entrate nella leggenda, si pensi a «Civiltà delle Macchine» e a «Pirelli». Per di più, Sinisgalli s’era fatto cantore delle Acciaierie di Terni, che risultano promotrici, insieme all’istituzione bancaria, dell’iniziativa e manteneva un rapporto affettivo privilegiato con l’Umbria sin da quando in gioventù (1937) aveva visitato la fabbrica del Linoleum, scrivendo un efficace resoconto e Narni Amelia Scalo, poesia tra le più note e belle. Questo legame, quasi aspirazione di appartenenza a una regione che vantava primato di natura e storia, filtra nella chiusa: Una visita in Umbria ci ha dato la possibilità nello stesso giorno di salutare Terni, Narni, Spoleto, Trevi, Foligno, Spello, Assisi, Perugia, di specchiarci alle fonti del Clitunno, di scavalcare Nera e Velino, di accostarci ai boschi di Visso. Ci siamo riconciliati con la natura e con la storia, con gli uomini e le loro opere, immortali ed effimere. Non è senza ragione, quindi, che l’esordio dello scritto riguardi il ruolo sociale che le imprese possono avere nella diffusione della cultura e di quella merce particolare che è il libro. Nel caso di specie il libro può diventare strumento per creare simpatia e fedeltà, una catena di solidarietà culturale. Una volta, con discorso più generale, Sinisgalli disse che «quando un libro si mette in giro per il mondo è incredibile il numero di compagni che raccoglie». Trattandosi poi del libro dei libri, la Commedia di Dante riproposta ‘fotomeccanica’ e ‘multipla’ nell’edizione di Foligno del 1472, l’effetto si molti18 Si veda Biografia Opere Bibliografia, 4, Edizione speciale per la Biblioteca Treccani, Milano, Mondadori, 2005, p. 473. F. Vitelli Dante in tre scritti dispersi di Sinisgalli Riproduzione del frontespizio dell’edizione folignina 183 184 Del nomar parean tutti contenti plica. L’operazione «giova intrinsecamente ai dotti oltre che ai profani», allarga il pubblico dei fruitori realizzando un’effettiva partecipazione democratica al sapere e consente la conservazione di un alto patrimonio culturale che nell’uso della consultazione verrebbe inevitabilmente a deteriorarsi; peraltro, l’originale conservato all’Angelica di Roma già si mostrava bisognoso dell’intervento dei patologi del libro. È chiaro che la presentazione non può che essere dalla parte dell’autore che investiga, Sinisgalli vi riversa i suoi tic, le sue manie, le sue preferenze culturali, le sue amicizie. Così non manca di intrecciare una sorta di dialogointervista col suo amico Giorgio Petrocchi, editore della Commedia secondo l’antica vulgata nell’Edizione Nazionale, per far emergere l’ignoranza persino del cognome preciso di Dante e porre freno alla sua curiosità circa i modi e i luoghi di scrittura del poema sacro. Quella citazione in diretto libero («Conténtati dei fiori, non ti curare delle radici; un eccesso di identificazione non giova al poeta, che ci guadagna sempre a rimanere un fantasma»), che lascia persino il dubbio che possa attribuirsi all’insigne filologo e non al poeta stesso, svincola in qualche modo dalla storicità per piegarsi verso un’estetica della ricezione in cui fa aggio il valore del bello. Buona parte dell’intervento di Sinisgalli è un estratto di storia della stampa che si attarda nella elencazione meticolosa dei primi libri con le relative date; ovviamente, un ruolo importante assume la ricostruzione in Umbria non solo per doveroso omaggio alla committenza, ma perché così ne viene fortemente illuminata l’edizione folignina del 1472. Sinisgalli non è paleografo, non è filologo. Vero. Ma quello che non si può in alcun modo negare è la sua assoluta competenza nell’arte della stampa, quella contemporanea, s’intende. Il sapiente gusto grafico e anche l’originale ideazione di caratteri, l’intensa frequentazione di tipografi artisti – si pensi almeno a Edoardo Persico e Guido Modiano – nella Milano degli anni Trenta del Novecento, la raffinatezza di designer ed esperto pubblicitario fanno di Sinisgalli un rappresentante di rilievo nella storia delle arti applicate. In virtù di questo background si spiega l’agilità con cui si muove tra quaderni e quinterni, la voracità quasi sensuale, di possesso dell’oggetto, con la quale descrive l’opera: La pagina ha dimensioni medie, è divisa in tre colonne verticali, di cui la composizione di 30 righe (dieci terzine) occupa circa la terza parte. La spaziatura e le interlinee strette danno alla gabbia delle minuscole una decisiva solennità e irremovibilità, come di un muro di pietre ben connesse, bene incastrate. F. Vitelli Dante in tre scritti dispersi di Sinisgalli 185 Minuzie tecniche, qualcuno dirà. Può darsi, ma nella struttura organizzativa della pagina si riflette una precisa concezione della vita e del mondo e trapela un gusto architettonico in cui l’organicità degli elementi produce un ordito solenne e solido. Sinisgalli aveva tutti i requisiti per soffermarsi sul pregio dei caratteri disegnati da Emiliano Orfini e per pronunciarsi nel merito della fattura del libro: Per quanto riguarda la correttezza e la regolarità della composizione questa edizione della Commedia non è pari alla qualità dell’architettura della pagina e del disegno dei caratteri. Numerosi sono i refusi, gli errori di lettura, le trasposizioni dei versi, le ripetizioni, i salti, specie nell’ultima parte del volume. Il nostro Amico non tollerava la superficialità dei comportamenti; sviste e refusi li considerava sintomi di una sciatteria della coscienza! Non sfuggiva a Sinisgalli che la diffusione in anastatica comportava difficoltà di lettura non solo per la mancanza dei segni di interpunzione; era soprattutto una questione di ordine visivo, perché alla stampa degli esordi faceva difetto la chiarezza allo sguardo; e anzi, l’evoluzione nella storia è consistita nella «riduzione al minimo dell’ambiguità». In tema risponde a integrazione Bodoniana, 19 dove la grandezza di Bodoni risplende nei termini scientifici del «momento di inerzia di ogni singola lettera» che determina «l’indice della chiarezza, della leggibilità»; ma al di là di qualsiasi cifra e computo agisce «una virtù morale», «un’abitudine stilistica che implica tutto un modo di ragionare, di giudicare, di vedere». La Weltanschauung di cui sopra si parlava. Il rinvio a un’edizione corrente è dunque consigliato per un riposo degli occhi, magari attraverso una scelta casuale dei passi, «senza andare a distinguere, come fece Croce infelicemente, la poesia dalla non-poesia, la commozione dalla persuasione, il recitativo dall’estasi. La Commedia è come una macchina; nessuna parte è trascurabile e tantomeno superflua». Viene confermata qui la polemica nei confronti dell’estetica crociana che data almeno agli anni Quaranta. Sinisgalli per la sua formazione polivalente s’era fatto paladino di un’arte contaminata («Il capolavoro del mio secolo ibrido, l’opus mixtum, il contrario della poesia pura, una continua contaminazione di arte e tecnica, di poesia e non poesia»;20 l’impurità, nelle dosi necessarie, 19 Leonardo Sinisgalli, Furor mathematicus, cit., p. 164. 20 Leonardo Sinisgalli, Diario senza date, cit., p. 149. 186 Del nomar parean tutti contenti rendeva più resistente e valida l’opera. La distinzione tra poesia e struttura applicata alla Commedia non si confaceva alla mentalità scientifica di Sinisgalli, che giudicava tutti gli elementi indispensabili al buon funzionamento della macchina. Università degli Studi “Aldo Moro” - Bari Domenico Cofano MICHELANGELO PICONE E L’INTERTESTUALITÀ: DANTE, PETRARCA, BOCCACCIO 1 A Michelangelo, l’amico e il collega più caro Il metodo dell’intertestualità, uno dei più fecondi della critica contemporanea, è stato senza dubbio quello che ha prevalentemente guidato l’analisi critica di Michelangelo Picone, immaturamente scomparso il 24 aprile 2009, a solo sessantasei anni; uno studioso straordinario, che all’altissimo rigore scientifico e alle grandi capacità didattiche affiancava una generosa e cordiale umanità. E, a non tener conto di una breve nota che si configura nei termini di una franca e vivace polemica con Mario Marti,2 proprio nel segno dell’intertestualità si chiude la sua ricca bibliografia,3 nel 2008, con due splendide letture dantesche, tenute nell’ateneo pugliese di Foggia, che costituiscono un saggio esemplare di una lettura volta, appunto, all’individuazione delle fonti della memoria testuale dantesca e allo studio dei meccanismi di riuso degli ipotesti in funzione della messa a fuoco della risemantizzazione operata da Dante. Mi riferisco, in particolare, a «L’amato alloro»: Dante fra Petrarca e Boccaccio 4 e a Canti controversi. «Purgatorio» xxxii e xxxiii.5 1 Per ‘celebrare’ Ruggiero Stefanelli pubblico qui, corredato di opportune note, il testo inedito della commemorazione tenuta a Zurigo l’8 ottobre 2009 ‘in memoria’ di Michelangelo Picone, al quale Stefanelli è idealmente vicino nel culto di Dante e Boccaccio. 2 Michelangelo Picone, Nota su Dante e i ‘Guidi’ della Commedia, «L’Alighieri», 32, luglio-dicembre 2008, pp. 113-118. 3Una Bibliografia degli scritti di M. Picone è stata curata da Tatiana Crivelli e Rosa Pittorino a corredo di una pubblicazione (Per Michelangelo Picone, Pisa-Roma, 2009) che raccoglie gli interventi tenuti, per ricordare lo studioso, in margine al convegno sul Revival cavalleresco dal Don Chisciotte all’Ivanhoe (e oltre), organizzato dal «Centro europeo di studi sulla civiltà cavalleresca». 4In Dante nei secoli. Momenti e esempi di ricezione, a c. di D. Cofano, Foggia, 2006, pp. 1-37; ma, con un diverso titolo, Il tema dell’incoronazione poetica in Dante, Petrarca e Boccaccio, il saggio viene ripreso in«L’Alighieri», 37, 2002, pp. 5-26. Se ne ha una sostanziale replica in M. Picone, Le tre Corone. Modelli e antimodelli della «Commedia», a c. di M. Picone, «Letture classensi», 2008, pp. 9-30. 5In Versi controversi. Letture dantesche, a c. di D. Cofano, S. Valerio, Foggia, 2008, 188 Del nomar parean tutti contenti Nel primo caso si argomenta che il privilegio del viaggio oltremondano di Dante dipende dal fatto che egli è «il poeta di Beatrice»,6 e, dunque, ha radici letterarie, si fonda sul magistero virgiliano e prevede una translatio studii che, particolarmente evidente nell’incontro purgatoriale con Stazio, mediatore fra Virgilio e Dante, comporta il reclamo di una corona di alloro ai fini di un «riconoscimento […] non solo terreno, ma soprattutto celeste», della gloria poetica. Intorno al tema dell’alloro poetico, negato a Dante, concesso al Petrarca latino e agognato dal Boccaccio, si svolge, dunque, un lucido riesame dei rapporti culturali fra le ‘tre corone’ fiorentine e una felice disamina della tradizione letteraria trecentesca, segnata, in gran parte, dalla ricezione dell’Alighieri. Anzi, proprio il riconoscimento e l’interpretazione di una significativa serie di evocazioni intertestuali (come quelle fra il settimo sonetto del Canzoniere e i versi 28-33 di Paradiso i; quelle fra un sonetto di Boccaccio, Tanto ciascun ad acquistar tesoro e alcuni testi di Dante e Petrarca; quelle, infine, presenti in quel centone dantesco che è la ballata cantata da Lauretta alla fine della terza giornata del Decamerone) giovano alla comprensione del modo diverso con cui, da parte del poeta della Commedia e del cantore di Laura, si guarda alle due ‘polarità ideologiche’, che Boccaccio tenta di conciliare, dell’«aspirazione alla gloria mondana» e della «ricerca della salvezza spirituale»;7 una salvezza che in Dante si configura come compimento, in senso cristiano, dell’epica classica, e soprattutto virgiliana. Di questa confluenza di ‘classicità’ e ‘cristianità’ si occupa anche in un’altra lettura ‘pugliese’, «Inferno» i e ii: l’uno e l’altro viaggio,8 in cui «l’uno e l’altro viaggio» allude chiaramente al passaggio, nei canti iniziali della Commedia, dalla ricchissima tradizione allegorico-didattica mediolatina e romanza al modello epico delle Metamorfosi ovidiane e, soprattutto, di Virgilio, che irrompe a trasformare poematicamente la narrazione dantesca e del quale, attraverso l’integrazione del modello biblico, il poema sacro viene a costituire una riscrittura atta a rivelare pienamente la verità ‘cristiana’ che vi era adombrata. pp. 291-318. Picone, temendo il ritardo della pubblicazione del volume, replicò sostanzialmente la lettura, con leggere variazioni di testo e di intitolazione (L’«enigma forte»: una lettura di Purg. xxxii e xxxiii), «L’Alighieri», 31, 2008, pp. 77-92. 6 Ivi, p. 1. 7 Ivi, p. 28. 8 «Inferno» i e ii: l’uno e l’altro viaggio, in Versi controversi citt., pp. 7-38. D. Cofano Michelangelo Picone e l’intertestualità: Dante, Petrarca, Boccaccio 189 Il descensus ad Inferos di Virgilio e l’ascensus di Paolo sono, dunque, i due modelli che Dante fonde in un discorso tipologico, in cui ovviamente si riserva il compito di riempire di senso la ‘lettera’ del racconto virgiliano, come si evince chiaramente persino da un piccolo indizio, quello dato dalla profezia metastorica dei vv. 22-27 di Inf. II, che si comprende e giustifica solo alla luce della glossa cristiana.9 La ricostruzione del processo attraverso cui Dante consegue la dignità di auctor non può prescindere, secondo Picone, da un’adeguata individuazione dei rapporti che legano la Commedia agli intertesti classici e romanzi e alle sue opere giovanili. Sulla scorta dei precedenti studi sui poeti stilnovisti, proprio sulla Vita Nuova, sul finire degli anni Settanta, si concentra la sua ricerca,10 che, giovandosi anche di una eccezionale conoscenza della filologia romanza, da un layo delinea il percorso medievale della metafora della «peregrinatio»,11 dall’altro coglie, in riferimento al tema centrale dell’amore, inediti legami fra la lirica dantesca e quella provenzale,12 per concludere, in sostanza, che Dante, già all’altezza del libello giovanile aveva la consapevolezza piena di rappresentare, sul piano teorico, il punto d’arrivo di un lungo itinerario; ma un punto di arrivo provvisorio, destinato a trovare il suo compimento nel poema.13 Se, infatti, sul piano, per così dire, ideologico, è il modello biblico a inverare e completare l’intertesto virgiliano, sul piano propriamente poetico, per Picone, la riscrittura dantesca è tutta nella prospettiva del giovanile pro9 Cfr. ivi, p. 24. 10 È scontato il riferimento a M. Picone, «Vita Nuova» e tradizione romanza, Padova, 1979. 11 Si confronti l’ultimo capitolo («Peregrinus amoris»: la metafora finale) di «Vita Nuova» e tradizione romanza cit. 12Tra i tanti contributi rivolti al rapporto della poesia dantesca con quella provenzale è il caso di ricordare almeno I trovatori di Dante: Bertran de Born, «Studi e problemi di critica testuale», 19, 1979, pp. 71-94; Girault de Bornelh nella prospettiva di Dante, «Vox Romanica», 39, 1980, pp. 22-43; La poesia romanza della ‘salus’: Bertran de Born nella «Vita Nuova», «Forum italicum», xv, 1, 1981, pp. 3-10; «Paradiso» ix: Dante, Falchetto e la diaspora trobadorica, «Medioevo romanzo», viii, 1, 1981-1983, pp. 47-89; e, più in là nel tempo, All’ombra di Sordello: una lettura di «Purgatorio» vii, «Rassegna europea di letteratura italiana», 12, 1998, pp. 61-78. 13Cfr. La «Vita Nova» nella prospettiva della «Commedia», in Le opere minori di Dante nella prospettiva della «Commedia», «Letture classensi», 38, 2009, pp. 7-15. Si tratta, in realtà, di un contributo apparso dopo la morte di Picone, che, dunque, non ha potuto provvedere alla revisione del testo. 190 Del nomar parean tutti contenti simetro. Nei Percorsi della lirica duecentesca, Fiesole, 2003 (un volume che raccoglie tredici saggi della sua docenza zurighese), la Vita Nuova è posta al culmine della tradizione romanza, rivisitata, ancora una volta, secondo una prospettiva intertestuale; una prospettiva intertestuale che, come sempre, si misura non solo e non tanto sul piano delle riprese linguistiche e metriche, ma anche sul piano dei temi e motivi lirici (in particolare quelli dell’‘addio’ e della ‘nave magica’),14 e delle strutture compositive, quando coglie, per esempio, a livello macrotestuale, nella bipartizione del canzoniere guittoniano l’archetipo della bipartizione del canzoniere petrarchesco.15 Spesso l’approccio intertestuale giova persino a scorgere più sottili ascendenze – come nell’episodio di Malebranche, in cui, secondo Picone, sono presenti «al livello della littera», ma trascesi «al livello dell’allegoria», «moduli stilistici e narrativi di provenienza giullaresca» –16 e a sciogliere alcuni nodi problematici, come nel caso del saggio sui ‘due Guidi’,17 che, attraverso il confronto fra quattro testi cavalcantiani, fa emergere la tenzone virtuale, la dialogicità elettiva ed evolutiva 18 che il Guido fiorentino attiva con il Guido bolognese; o, addirittura, si costituisce a cartina di tornasole utile a valutare a pieno la diffrazione dell’io della Commedia nei tre ruoli di agente, autore e narratore. In effetti, come dimostra Picone, non solo il canto ii dell’Inferno,19 o i canti xxxii e xxxiii del Purgatorio,20 con il richiamo, la ripresa e la correzione dei miti ovidiani di Fetonte e di Argo, ma un po’ tutti i canti della Commedia diventano spesso i loci di una «intensa citazione stilnovistica»,21 sicché i coinvolgimenti del giovanile libello sono a tal punto significativi, che 14Si vedano il cap. vi, Addii e assenza amorosa, pp. 125-143, e il cap. vii, La nave magica, pp. 145-165. 15Cfr. il cap. v, Guittone e i due tempi del «Canzoniere», pp. 106-122. 16M. Picone, Canto xxi, in Lectura Dantis Turicensis, i (Inferno), a c. di G. Güntert, M. Picone, Firenze, 2000, pp. 291-304: 297. A lui si deve anche, a parte il saggio introduttivo (Leggere la «Commedia» di Dante), la lettura dei cc. ii, v, viii, xvi, xxvi. Nel volume relativo al Purgatorio (2001) ‘legge’ i cc. ii, v, vii, ix, xv, xix, xxii, xxvi, xxix, mentre in quello relativo al Paradiso (2002) ‘legge’ i cc. ii, v, viii, xiv, xviii, xx, xxviii, xxxii. 17I due Guidi: una tenzone virtuale, in Percorsi della lirica duecentesca, Fiesole, 2003, pp. 185203. 18Cfr. ivi, p. 186. 19Si rinvia alla sua lettura di Inferno ii nella già citata Lectura Turicensis. 20Canti controversi. «Purgatorio» xxxii e xxxiii, in Versi controversi citt. 21«Inferno» i e ii: l’uno e l’altro viaggio, in Versi controversi citt., p. 26. D. Cofano Michelangelo Picone e l’intertestualità: Dante, Petrarca, Boccaccio 191 il descensus di Beatrice diventa il «modello integrativo» di quello di Enea, ma anche il modello correttivo dell’archetipo romanzo del Roman de la Rose, rispetto al quale, come appare da alcuni confronti, a partire da una semplicissima citazione – quella dei versi in cui l’autore della seconda parte del romanzo viene invitato da Dio a soccorrere il poeta-amante protagonista della prima Rose – Dante opera una profonda trasformazione semantica e ideologica, in direzione del ‘realismo gnoseologico’ della Commedia, che «mira ad attingere la verità definitiva dell’uomo e dell’universo, a realizzare la quête che porterà l’io a identificarsi con Dio».22 Ma, come egli dice, «quella verità cristiana che il poeta pellegrino vuole scoprire e manifestare ai suoi lettori era già stata fatta oggetto della quête 23 del romanzo oitanico, nelle due diramazioni, spesso fuse e contaminate, del romanzo cortese e del romanzo allegorico».24 «I mezzi linguistici e i modi retorici che vediamo però impiegati da Dante autore sono quelli della lirica, della tradizione poetica romanza che culmina nello Stilnuovo e nella Vita Nova»,25 alla cui costituzione, come dimostrò nella Lectura Dantis Fridericiana, tenuta a Bari nell’anno accademico 2002-2003,26 non è indifferente la presenza, nascosta e sotterranea, di Cino da Pistoia, e che, sulla scia della tradizione cortese dell’itinerarium mentis ad veritatem, viene a correggere e a superare, in proiezione divina, le concezioni guittoniane e cavalcantiane.27 Allo stesso modo in cui la corda della passione irragionevole diviene, nella lettura di Par. xxviii,28 il «simbolo del vero amore che lega l’uomo a Dio»,29 22 Ivi, p. 38. 23Ivi, p. 11. 24 Cfr. il già citato saggio introduttivo alla Lectura Dantis Turicensis, Leggere la «Commedia» di Dante, p. 18. 25M. Picone, Guinizzelli nel «Paradiso», in Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento, a c. di F. Brugnolo, Gianfelice Peron, Padova, 2004, pp. 341-354: 342. 26Cino nella «Vita Nova», in Contesti della «Commedia», Lectura Dantis Fridericiana, a c. di F. Tateo, D. M. Pegorari, Bari, 2004, pp.131-153. Anche in questo caso Picone, con il consenso dei promotori della Lectura, duplicò la pubblicazione del saggio, leggermente modificato (Dante e Cino: una lunga amicizia. I tempi della «Vita Nova»), «Dante», i, 2004, pp. 39-53. 27La «Vita Nuova» e la tradizione poetica, «Dante studies», cxv, 1977, pp. 53-65. 28M. Picone, Guinizzelli nel «Paradiso» cit. 29Ivi, p. 343. 192 Del nomar parean tutti contenti il poema, come si rileva dalla lettura di Inf. v «si afferma come il ‘nuovo’ libro dell’amore correttamente orientato, della fin’amor cristiana contrapposta alla fol’amor cortese: il libro secondo il quale la colpa di Francesca può essere rivelata e la sua punizione spiegata»;30 insomma, la tradizionale immagine del «foco d’amore» che in «gentil cor s’aprende» trova il suo «inveramento poetico e gnoseologico nell’immagine epica del poema sacro»,31 così come l’amore della tradizione lirica precedente trova non solo il suo «raffinamento stilistico-retorico», ma anche la sua «sublimazione ideologica» nell’amore del Paradiso dantesco;32 ne è eloquente indizio il «foco d’amore» che «in gentil cor s’aprende», una metafora che il poeta strategicamente recupera nelle tre cantiche, quasi a «segnare una progressione ideologica nella teoria d’amore sviluppata nel poema sacro».33 Insomma, come argomenta a più riprese, la civiltà cavalleresca è nelle opere di Dante elemento ricorrente e non certo di poco conto.34 Se la cultura che sta alle spalle della Vita Nuova e nella quale prende rilievo la storia d’amore è quella cavalleresca, e se alla ‘langue d’oil’ viene assegnato l’ambito della prosa narrativa relativa alle vicende di Lancillotto e Tristano, lirica italiana e romanzo francese si intrecciano nella Commedia, in cui Dante da un lato rappresenta l’eroe che muove verso il santo Graal, dall’altro il cavaliere proteso verso la ‘conquista’ della sua amata.35 Ad un analogo processo di risemantizzazione, a dare il senso di questo continuo superamento, ma anche a fornire giustificazioni di tipo poetologico e macrostrutturale, sono convocati anche gli intertesti ovidiani (ma il discorso vale per tutti gli intertesti danteschi), ai quali Dante attinge come ad un repertorio di materiali da rinnovare in una sfida che non è solo poetica, ma anche ideologica, e che, mentre invoca i suoi lontani modelli, al tempo stesso li corregge o, addirittura, li respinge e decostruisce, fino, addirittura, al «rovesciamento della reminiscenza».36 Picone ci aiuta non poco a comprendere questa prospettiva attraverso l’emblematica analisi della riscrittura e cor30M. Picone, Canto v, in Lectura Dantis Turicensis, i (Inferno), cit., pp. 75-88: 88. 31M. Picone, Guinizzelli nel «Paradiso» cit., p. 344. 32Ibidem. 33Ivi, p. 345. 34 Basti qui fare riferimento a ‘Le donne e’ cavalier’: la civiltà cavalleresca nella «Commedia», «Rassegna europea della letteratura italiana», 29-30, 2007, pp. 11-52. 35Ivi, passim. 36Daniela Baroncini, Citazione e memoria classica in Dante, «Leitmotiv», 2/2002, p. 161. D. Cofano Michelangelo Picone e l’intertestualità: Dante, Petrarca, Boccaccio 193 rezione, in Inf. xxvi, delle varie versioni (classiche, mediolatine e volgari) del mito di Ulisse;37 soprattutto della riscrittura della versione delle Metamorfosi ovidiane, in virtù della quale il viaggio di Ulisse, «il cui ardore conoscitivo non si è potuto accompagnare alle necessarie virtù cristiane»,38 si conclude, come quello di Icaro, e come quello di Fetonte, che Dante smembra e riutilizza in tre luoghi diversi della Commedia,39 con un tragico fallimento, offrendo così un’esemplare testimonianza dei più complessivi modi di adattamento del concetto di ‘metamorfosi’ al contesto ideologico cristiano.40 La stessa disposizione intertestuale caratterizza la lettura del Decameron,41 un’opera che porta a compimento la codificazione di un genere, la novella, che rappresenta la trasformazione ultima di un percorso che lo studioso aveva già delineato quando, nell’introduzione a un volume sul racconto (Bologna 1985), aveva configurato tutta la costellazione tipologica della lunga tradizione mediolatina e medievale, dall’exemplum alle legendae, dalle vidas e razos provenzali ai fabliaux oitanici, dai lais alle novas, fino ai racconti brevi. Nella coerente fedeltà alla sua fondamentale opzione metodologica, Picone, avvalendosi di una straordinaria conoscenza dei testi letterari della più varia provenienza, e di una impareggiabile competenza linguistica e filologica, negli studi boccacciani si muove, ben consapevole della distinzione, eviden- 37Cfr. M. Picone, Il contesto classico del canto di Ulisse, «Strumenti critici», xv, 2, 2000, pp. 171-191. 38Ivi, p. 191. 39Cfr. M. Picone, L’Ovidio di Dante, in Dante e la ‘bella scola’ della poesia, a c. di Amilcare A. Iannucci, Ravenna, 1993, pp. 107-144, e Intertestualità dantesca: la riscrittura di Ovidio, «Nuova secondaria», xi, 1994, pp. 22-26. 40 Si vedano anche, a tal riguardo, di M. Picone, La ‘lectio Ovidii’ nella «Commedia». La ricezione dantesca delle «Metamorfosi», «Le forme e la storia», iii, 1, 1991, pp. 35-52; Dante riscrive Ovidio: la metamorfosi purgatoriale, «Rassegna europea di letteratura italiana», 21, 2003, pp. 9-24; Dante argonauta. La ricezione dei miti ovidiani nella «Commedia», in Ovidius redivivus. Von Ovid zu Dante, hrsg. Von M. Picone, Bernhard Zimmermann, Stuttgart, 1994, pp. 173-202. 41Del suo lavoro intorno al Boccaccio va qui segnalata con particolare rilievo la Lectura Boccaccii Turicensis. Introduzione al «Decameron», a c. di M. Picone, M. Mesirca, Firenze, 2004; al volume Picone contribuisce con alcune letture (Il principio del novellare: la prima giornata; L’«amoroso sangue»: la quarta giornata; Leggiadri motti e pronte risposte: la sesta giornata; L’arte della beffa: l’ottava giornata) che verranno poi escluse, come pure il saggio introduttivo (Il «Decamerone» come macrotesto: il problema della cornice), dalla raccolta di tutti i suoi lavori ‘decameroniani’ (Boccaccio e la codificazione della novella. Letture del «Decameron», Ravenna, 2008). 194 Del nomar parean tutti contenti ziata da Segre, fra intertestualità e interdiscorsività,42 su un duplice piano: quello della ricognizione degli elementi interdiscorsivi, ovvero delle riprese indirette dei tòpoi della narrativa romanza, come nel caso della novella di Ghismonda, che coinvolge i lais di Marie de France,43 e quello del confronto parallelo fra i testi; e su questa strada giunge non solo a connotare felicemente, dal punto di vista culturale e ideologico, il novelliere trecentesco, ma anche a cogliere le ragioni più complesse e sottili del suo rapporto con Dante, arrivando a proposte di distinzione che vanno al di là di quella canonica tra ‘commedia divina’ e ‘commedia umana’: «se Dante rappresenta il momento di incontro tra epica virgiliana e quête romanza, Boccaccio realizza la summa di tutti i generi narrativi tradizionali; mentre Dante si affida ad una visione allegorica, Boccaccio assume una prospettiva ironica e parodica; ciò che in Dante è ricerca della verità trascendente, in Boccaccio si commuta in attenzione alla verità immanente e dunque alle modalità di comportamento; alle categorie assolute del primo, imperniate sulla distinzione tra bene e male, paradiso e inferno […] si contrappongono le categorie relative del secondo, che divide gli uomini tra fortunati e sfortunati, furbi e sciocchi, e così via».44 Boccaccio viene così studiato non solo nella sua struttura narrativa, ma anche nei suoi rapporti con la tradizione medievale; una tradizione che viene recuperata nelle fonti già individuate, ma viene anche arricchita di molti insospettati ipotesti, che, rovistati attraverso il sapiente scandaglio dei parallelismi e delle corrispondenze, ma anche delle divergenze e delle dissonanze,45 svelano una serie di indizi che, per quanto minimi, sono spie rivelatrici di più profondi segreti e si caricano di una ‘radiosità’ che illumina i più nascosti meccanismi della riscrittura boccacciana, volta alla ricerca di una verità che non è «quella storica o morale, in factis, ma quella retorica e artistica, in verbis»,46 e talvolta tanto innovativa da produrre un capovolgimento, fino ai limiti, come si è detto, dell’ironia e della parodia, dei temi e dei motivi più 42 Si veda, per questo, Cesare Segre, Intertestuale-interdiscorsivo. Appunti per una fenomenologia delle fonti, nel volume miscellaneo La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, a c. di C. Di Girolamo, I. Paccagnella, Palermo, 1982. 43Cfr. M. Picone, Dal ‘lai’ alla novella: il caso di Ghismonda («Decameron» iv, 1), «Filologia e critica», xvi, 3, 1991, pp. 325-343. 44 Luigi Surdich, recensione a M. Picone, Boccaccio e la codificazione cit., «Rassegna europea di letteratura italiana», 33, 2009, pp. 113-122. 45 Cfr. ivi, p. 116. 46 Cfr. l’Introduzione a Boccaccio e la codificazione cit., pp. 40-41. D. Cofano Michelangelo Picone e l’intertestualità: Dante, Petrarca, Boccaccio 195 consueti.47 Viene così a galla uno straordinario e vario repertorio di fonti: si va dal Novellino ai lais di Maria di Francia, dalle legendae ai romanzi greci, dalle agiografie ai testi sacri, dai fabliaux ai modelli orientali, senza nemmeno trascurare, come ha recentemente ricordato Andrea Battistini, certe affinità con il più lontano romanzo ellenistico.48 A dare un’idea della produttività di questa ricerca basti qui fare riferimento al confronto esemplare che Picone istituisce tra la novella di Ghino, della decima giornata, e le Laudes de Virgine Maria di Bonvesin da la Riva, con la trascrizione del genere del miracle in un altro genere narrativo;49 o alla lettura della novella della marchesana di Monferrato, che instaura, a parere di Picone, a livello tematico e retorico, un fitto dialogo con il racconto iniziale del libro di Sindbad o dei sette savi, con un eloquente trasferimento del tema dell’«amore senza vista» dal piano della «quête esistenziale e conoscitiva» dell’avventura cortese a quello della «quête sessuale e capricciosa» dell’avventura borghese di Filippo il bornio;50 o, infine, alla lettura dell’exemplum sublime di Griselda (x. 10), nel quale Picone vede convergere fonti di ascendenza oitanica e fonti di ascendenza orientale.51 Da queste fonti non si può prescindere, perché esse puntellano tutta l’intertestualità boccacciana, e, come Picone ha dimostrato in un contributo per il Convegno sugli Zibaldoni di Boccaccio, focalizzato in particolare sulla riscrittura della Lidia di Arnolfo di Orléans,52 sono essenziali non solo alla comprensione del percorso che dallo scriptor dello Zibaldone conduce all’auctor del Decameron, ma anche alla predisposizione di un adeguato commento, che venga a colmare un vuoto e a rimediare alle disattenzioni, per dir così, di Vittore Branca, poco disposto ad «approfondire la questione delle fonti», con gravi conseguenze sul piano delle acquisizioni critiche, dal momento che la scarsa 47 Cfr. ivi, p. 117. Si fa riferimento, in particolare, a Il rendez-vous sotto il pino (vii. 7), in Boccaccio e la codificazione cit., pp. 286-295. 48 Cfr. Andrea Battistini, Ricordo di Michelangelo Picone, «L’Alighieri», 2009, 33, gennaio-giugno, pp. 5-8.. 49 Il ‘miracolo’ di Ghino (x. 2), in M. Picone, Boccaccio e la codificazione cit., pp. 311-319. 50Lettura intertestuale della novella della marchesina di Monferrato (Dec. i, 5), «Chroniques italiennes», 63-64, 2000, pp. 71-79. 51In M. Picone, Boccaccio e la codificazione cit., pp. 335-360. 52M. Picone, La «Comedia Lidie» dallo Zibaldone al «Decameron», in Gli Zibaldoni di Boccaccio. Memoria, scrittura, riscrittura, a c. di Michelangelo Picone, Claude Cazalé Bérard, Firenze, 1998 pp. 401-414. 196 Del nomar parean tutti contenti considerazione degli ipotesti non solo induce a ritenere che «il più grande capolavoro della narrativa occidentale» sia, in sostanza, «una collezione di storie o di storielle realmente accadute»53 ma produce anche una sostanziale incomprensione dell’impegno narrativo dell’auctor e conduce, per il Decameron, alla formula riduttiva dell’epopea dei mercatanti, del tutto indifferente alla forte condivisione dell’ideale cavalleresco che caratterizza la visione dell’opera del Boccaccio 54, che, come dimostra la ricezione del tema della morta viva, rappresenta sì il capolinea della tradizione narrativa precedente (da Senofonte a Chrétien de Troyes), ma anche l’avvio della tradizione narrativa successiva (da Masuccio Salernitano a Bandello, fino a Giulietta e Romeo di Shakespeare).55 Gli Zibaldoni stessi, del resto, illuminano i procedimenti narrativi di Boccaccio e avvalorano la metodologia intertestuale di cui stiamo parlando, se è vero, come Picone sostiene, che «essi assumono il valore di quaderni segreti dello scrittore» e «non costituiscono dei semplici depositi memoriali, ma offrono dei materiali magmatici che si sono poi solidificati in opere successive»,56 venendo a comunicare «l’idea di una biblioteca attiva, costruita con lo scopo precipuo di puntellare il lavoro dell’intertestualità boccacciana».57 Non a caso, peraltro, all’ampliamento delle fonti e all’offerta della biblioteca del Boccaccio, oltre che ad altri obiettivi, ha prevalentemente mirato il progetto di ricerca da lui elaborato al fine di approntare un’edizione informatica del Decameron.58 Al genere della novella peraltro si riferiscono anche altri interventi, che dagli epigoni quattrocenteschi del Boccaccio 59 e dalla Favola 53Il ‘miracolo’ di Ghino (x. 2), cit., p. 311. 54Cfr. L. Surdich, op. cit., pp. 119-120. 55La morta viva: madonna Catalina e Gentile de’ Carisendi (X.4), in M. Picone, Boccaccio e la codificazione cit.; il capitolo proviene da La morta viva: il viaggio di un tema novellistico, in Autori e lettori di Boccaccio, a c. di M. Picone, Firenze, 2002, pp. 11-25. 56M. Picone, La «Comedia Lidie» cit., pp. 401-402. 57Ivi, p. 402. 58Segnalo, al riguardo, Per un «Decameron» ipertestuale: nuove tecnologie per un classico del medioevo, in I nuovi orizzonti della filologia: ecdotica, critica testuale, editoria scientifica e nuovi mezzi informatici elettronici, Roma, 1999, pp. 201-208. 59Cfr., in particolare, Il racconto, nel Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a c. di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino 1993, 2 voll., i: Dalle origini alla fine del Quattrocento, pp. 587-696, e La cornice degli epigoni (Ser Giovanni, Sercambi; Sacchetti, in Forma e parola. Studi in memoria di Fredi Chiappelli, a c. di Dennis J. Dutschke [et al.], Roma, 1992, pp. 175-185). D. Cofano Michelangelo Picone e l’intertestualità: Dante, Petrarca, Boccaccio 197 machiavelliana,60 di cui si individuano i modelli e di cui si coglie la contaminazione fra genere drammatico e genere narrativo, risalgono a Giambattista Basile.61 Né va trascurato il contributo che egli ha portato, attraverso l’analisi del riuso ariostesco, allo studio della ‘fortuna’ del motivo della fanciulla perseguitata.62 Anche i contributi petrarcheschi, culminati, nell’ambito della «Lectura Petrarcae Turicensis», nella monumentale Lettura micro e macrotestuale del Canzoniere 63, non perdono mai di vista la precedente tradizione lirica e i suoi tòpoi, dei quali i rerum vulgarium fragmenta finiscono spesso per essere un ribaltamento. Per esempio, in un bel saggio, del 2008, apparso nella sua «Rassegna europea di letteratura italiana» («Ecco quei che le carte empion di sogni»: Petrarca e la civiltà cavalleresca), Picone, prendendo le mosse dai versi 79-84 del terzo capitolo del Triumphus Cupidinis di Petrarca, contesta l’erronea convinzione di chi ritiene che il poeta non abbia subito l’influenza della tradizione cavalleresca, e, anzi, ritiene che proprio a quella tradizione abbia attinto una serie di modelli per il suo Canzoniere.64 Il complesso dei debiti contratti da Petrarca, grazie a Picone, viene diffusamente illuminato, sicché, accanto alla tradizione cavalleresca, stilnovistica e dantesca, vengono collocati i testi sacri, dalla Bibbia a Sant’Agostino, e i 60 Si veda La «Favola» di Machiavelli: una lettura intertestuale, in Dal primato allo scacco. I modelli narrativi italiani fra Trecento e Seicento. a c. di G. M. Anselmi, introduzione di F. Rico, Roma, 1998, pp. 181-190. 61Cfr. La cornice novellistica dal «Decameron» al «Pentamerone», in Giovan Battista Basile e l’invenzione della fiaba, a c. di M. Picone, A. Messerli, Ravenna, 2004, pp. 105-122. 62Cfr. Il motivo della fanciulla perseguitata nell’«Orlando Furioso». Angelica vs Olimpia, in Romanzesche avventure di donne perseguitate nei drammi fra ’4 e ’500, a c. di M. Chiabáo, F. Doglio, Roma, 2005, p. 79. 63Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, a c. di M. Picone, Ravenna, 2007. Si segnala, a tal riguardo, un acuto contributo di Francesco Tateo (Performance lirica nel «Canzoniere» di Petrarca, «La parola del testo», xii, 2008), che recensisce e discute il prezioso libro di ‘letture’. Di Picone, nel volume, a parte il saggio introduttivo (Petrarca e il libro non finito, pp. 9-23), è la lettura di ben sei decadi dei Rerum vulgarium fragmenta: L’inizio della storia (1-10), pp. 25-51; Petrarca fra patimento amoroso e pentimento religioso (61-69), pp. 161-182; ‘Amor’ e ‘gloria’ nella composizione di «Rvf» (110-119), pp. 279-294; I paradossi e i prodigi dell’amore passione (130-140), pp. 313-333; La forza di Amore e il potere della poesia (230-240), pp. 501-518; Morte e temporanea rinascita dei miti dell’eros (321-330), pp. 701-723. 64 Cfr. M. Picone, «Ecco quei che le carte empion di sogni»: Petrarca e la civiltà cavalleresca, «Rassegna europea di letteratura italiana», 31, 2008, pp. 11-27. 198 Del nomar parean tutti contenti grandi autori classici, da Ovidio a Virgilio: se il mito classico serve ad ‘affabulare’ il campo dell’amore erotico, la verità cristiana è a fondamento del campo dell’amore spirituale, della caritas. Se ne ha una riprova nel trattamento della metafora del poggio, nel sonetto 2, propria di quell’intertesto biblico che nel sonetto successivo viene recuperato per segnalare ancora una volta, al di là delle assimilazioni e correlazioni, il rinnovato contrasto fra l’amore sensuale per Laura e l’amore cristiano per Dio;65 un contrasto richiamato anche, nel sonetto 4, dal rapporto intertestuale con Par. x, con l’assimilazione della nascita di Laura al giorno natale di Cristo.66 Questo contrasto viene ulteriormente arricchito dal movimento circolare della sesta decade, di cui Picone esamina in particolare Padre del ciel, individuandone non solo i modelli più ovvii (i testi sacri e la parafrasi dantesca del Pater noster), ma anche quelli dell’ambito lirico e romanzesco, dal cap. xxxiv della Vita Nuova – che ne costituisce anzi l’antimodello, giacché l’anniversario, a differenza di quanto avviene nel Petrarca, assume una chiara valenza sociale e liturgica – al Roman de Tristan di Béroul, esempio emblematico, invece, agli antipodi della Vita Nuova, di una narrazione che sviluppa l’ideologia dell’amore passione come una passione negativa e distruttiva.67 Anche nel caso di Petrarca, come in quello di Boccaccio, l’individuazione dei modelli più nascosti e insospettabili è frequente: se il racconto di Buonconte da Montefeltro anima la sestina 66,68 Pomponio Mela è, imprevedibilmente, alla base dell’ispirazione dei mirabilia della canzone 135.69 Non è il caso di continuare con gli esempi, che sarebbero innumerevoli, dal momento che nella lettura di alcune decadi del Canzoniere Picone esercita al massimo grado la sua vena intertestuale, ma non si può fare a meno di segnalare la particolare attenzione che egli riserva al rapporto di Petrarca con Dante, affrontando «argomenti decisivi» ai fini della «differenziazione»70 del poeta aretino dal modello dantesco, e della Vita Nuova e della Commedia. Se in riferimento all’opera giovanile si segnala la mancanza della diver65Cfr. il paragrafo L’innamoramento fra mito classico e verità cristiana (Rvf 2-3) nella già citata lettura della prima decade. 66 Si veda, sempre all’interno della lettura della prima decade, La nascita e il nome dell’amata (Rvf 4-5). 67 Cfr., nell’ambito della lettura della sesta decade, La conversione desiderata (Rvf 62). 68 Sempre in riferimento alla sesta decade, si veda La sestina 66, pp. 173-181. 69 La canzone dei ‘prodigi’ (Rvf 135), in I paradossi e i prodigi cit., pp. 319-326. 70 F. Tateo, op. cit., p. 271. D. Cofano Michelangelo Picone e l’intertestualità: Dante, Petrarca, Boccaccio 199 sificazione del soggetto e del motivo della trasformazione dell’homo vetus nell’homo novus,71 in riferimento al poema viene ripreso, arricchendolo del confronto con il mito di Ulisse e del riferimento al duplice motivo cavalleresco della peregrinatio e della quête,72 il tema del viaggio: «la nave di Dante, allegoria di una poesia che solca vittoriosamente il pelago della più ardua materia narrativa per raggiungere la sua meta gloriosa, cede il posto alla nave di Petrarca, emblema di una personalità contrastata e di una poesia priva di punti di riferimento sicuri»,73 di un libro non finito, di una fabula inexpleta, di un racconto che, se riprende, a livello retorico, il principio delle tre parti, si manifesta poi, in realtà, come ‘storia’,74 come una tela destinata a non essere mai finita. Ed è qui evidente il rinvio al sotteso mito ovidiano di Aracne,75 che è una prova evidente di come le immagini intertestuali, che talvolta concorrono, addirittura, a risolvere alcune cruces interpretative (come nel caso degli echi danteschi dei sonetti antiavignonesi),76 servono comunque a chiarire i caratteri della macrotestualità; una macrotestualità che Petrarca fa ruotare intorno al mito centrale di Apollo e Dafne.77 Del resto il confronto con Dante, a cominciare dall’importante rilievo della mancanza, nell’autore del Canzoniere, della metafora del libro,78 è un aspetto illuminante della frammentazione della poesia petrarchesca rispetto alla totalità, alla plenitudo che caratterizza la poesia dantesca: «la verità che veniva rivelata a Dante alla fine del suo iter amoris, o nel corso del suo attraversamento delle dimore eterne, non viene mai pienamente manifestata al poeta dei Fragmenta».79 Non a caso, già nella lettura iniziale della prima decade, Picone osserva come l’‘errore’ del sonetto iniziale, che ha il valore semantico della tradizione patristica e che indica la lontananza da Dio, «corrisponde anche alla quête dei poeti lirici romanzi e alla quête avventurosa dei cavalieri 71Si veda, nella citata lettura della prima decade, Unità macrotestuale della prima decade, pp. 30-31. 72Cfr. ibidem. 73Petrarca e il libro non finito cit., p. 15. 74Cfr. ivi, passim: in particolare le pp.16-17. 75Ivi, pp. 22-23. 76 Cfr. I sonetti antiavignonesi (Rvf 136-38), in I paradossi e i prodigi citt., pp. 326-331. S rinvia, inoltre, a M. Picone, Avignone come tema letterario: Dante e Petrarca, «L’Alighieri», 20, luglio-dicembre 2002, pp, 5-22. 77 Ivi, p. 32. 78 Cfr. ivi, p. 19. 79 Ivi, p. 15. 200 Del nomar parean tutti contenti arturiani»;80 significa, cioè, l’aggirarsi nella selva amorosa senza possibilità di uscirne. «La salvezza finale, che veniva assicurata all’io dantesco all’inizio stesso della sua avventura, diventa per l’io petrarchesco un fatto del tutto imprevedibile; essa è possibile, sempre invocata e desiderata, ma mai certa».81 E, dunque, concludendo, a dare il senso dello straordinario lavoro di Picone e dell’incolmabile vuoto che lascia nel mondo degli studi di italianistica, è proprio il caso di ricorrere, come fa Luigi Surdich, ad un’espressione di Boccaccio, una breve frase che si ricava dalla parte finale delle Conclusioni dell’Autore: «Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna ma sempre essere in mutamento». Delle cose di questo mondo fanno parte anche «le istituzioni letterarie» e gli «statuti narratologici» e lirici; dei loro frequenti «bradisismi» e dei loro «meno frequenti terremoti» Picone è stato «sismografo» insuperabile e sensibilissimo.82 Università degli Studi - Foggia 80 Il sonetto introduttivo (Rvf 1), all’interno della lettura della prima decade, L’inizio della storia (1-10) cit. 81M. Picone, Petrarca e il libro non finito cit., p. 15. 82L. Surdich, p. 122. Ferdinando Schirosi SU ALCUNE TRADUZIONI DELLA «DIVINA COMMEDIA» Nous te saluons, Poète, homme de terre latine, celui à qui il fut donné d’éduquer une langue, et par la langue, créatrice, de forger l’âme d’un peuple.1 L’aprile 1472 nasceva a Foligno la prima edizione stampata della Commedia (Divina fu aggiunto, com’è noto, successivamente, precisamente nel 1555 con l’edizione veneziana del Giolito), precedendo di pochi mesi le altre due che se ne fecero a Mantova e a Jesi,2 sembra, o a Venezia. Da allora sono state innumerevoli le edizioni della Divina Commedia in tutto il mondo. È ovvio che nel numero occorre aggiungere le traduzioni nelle varie lingue, ivi compresi i dialetti, qui interessano quelle in lingua francese. In Francia il poema di Dante non sempre ha trovato buona accoglienza, Voltaire affermava nel Dictionnaire Philosophique: Les italiens l’appellent divin; mais c’est une divinité cachée: peu de gens entendent ses oracles; il y a des commentateurs, c’est peut-être encore une raison de plus pour n’être pas compris. Sa réputation s’affermira toujours, parce qu’on ne le lit guère. Il y a de lui une vingtaine de traits qu’on sait par cœur: cela suffit pour s’épargner la peine d’examiner le reste. François-Xavier de Feller nel suo Dictionnaire Historique riporta l’opinione di un «savant moderne» a proposito dell’Inferno: L’Enfer c’est un salmigondis consistant dans un mélange de diables et de damnés anciens et modernes, d’où il résulte une espèce d’avilissement des dogmes sacrés du christianisme: aussi, jamais écrivain, même ex professo antichrétien, n’a contribué 1 Saint-John Perse, Pour Dante, Paris, Gallimard, 1965. Discours pour l’inauguration du Congrès International réuni à Florence à l’occasion du 7e Centenaire de Dante (20 Avril 1965). 2 È nel colophon della edizione di Jesi che appare per la prima volta il nome di Dante non accompagnato dal cognome: Explicit liber Dantis impressus a magistro Federico Veronensi m.cccc.lxxii. Quintodecimo. Kalendas Augusti. 202 Del nomar parean tutti contenti plus que Dante, par cet abus, à jeter du ridicule sur la religion; loin que cet auteur ait mis dans son ouvrage la dignité, la gravité et le jugement nécessaires, il n’y a mis que le bavardage plus grossier, le plus digne des esprits de la basse populace. 3 Il Feller chiosa questa critica impietosa ricordando la favola 16 del libro v di La Fontaine: Le serpent et la lime, la cui chiusura così recita: Ceci s’adresse à vous, esprits du dernier ordre, Qui, n’étant bons à rien, cherchez sur tout à mordre, Vous vous tourmentez vainement, Croyez-vous que vos dents impriment leurs outrages Sur tant de beaux ouvrages? Ils sont pour vous d’airain, d’acier, de diamant. Ora, a nove secoli di distanza dalla sua prima edizione a stampa, la Divina Commedia può essere considerata il libro più stampato e più letto nel mondo, dopo la Bibbia. Quello di Voltaire resta un giudizio certamente avventato, anche se la polemica e il paradosso furono le sue punte di diamante. È un fatto che i Francesi hanno conosciuto o forse ancora conoscono poco Dante o ne hanno avuto un’idea insufficiente, sicché a volte si sono fermati al pittoresco o ad una emozione di superficie, quando, com’è accaduto, col pretesto di approfondire l’opera l’hanno trasformata in un testo cabalistico. Ma sappiamo bene che la meraviglia è invece, in Dante, nell’unione e la fecondazione reciproca di tendenze che sembrano escludersi: lirismo e speculazione, poesia e teologia, politica e mistica. Come tutti i grandi visionari, l’autore della Commedia è un grande realista. Sono queste alcune delle ragioni che hanno spinto spiriti intelligenti e d’animo sensibile a studiare Dante intus et in cute e tradurre in Francese in modo totale o parziale, in versi o in prosa il capolavoro dantesco.4 Alcuni studiosi francesi (fra tutti Maurice Barrès) ritengono che gli studi francesi su 3 F.-X. De Feller, Biographie universelle ou Dictionnaire historique, edition revue et continuée jusqu’à 1848, sous la Direction de M.Ch. Weiss, Paris, J. Leroux, Jouby et C. libraires, 1849, t. iii. 4 Dopo Rivarol, Chateaubriand, Brizeux, Lammennais, Morèas, Pierre de Nolhac, Anatole France, Paul Bourget, Maurice Barrès, Rodin, Pierre Gauthiez, Ricciotto Canudo e tanti altri hanno tradotto, commentato e degnamente onorato Dante. Ricordo che già Christine de Pisan preferiva la Divine Comédie al Roman de la rose; Marguerite de Navarre, lodava il divino poeta e lo traduceva nei suoi versi. Suo fratello, Francesco i, si corrucciava molto quando leggeva i versi del Paradis in cui Ugo Capeto si proclama «fils d’un boucher de Paris». F. Schirosi Su alcune traduzioni della «Divina Commedia» 203 Dante e la sua opera hanno avuto un ammirevole impulso a partire dalla tesi decisiva di Antoine Frédéric Ozanam5 su: Dante et la philosophie catholique au treizième siècle (1839), senza dimenticare che lo stesso, nel 1862, pubblica una traduzione e commento con testo a fronte del poema dantesco. A confermare il grande interesse di Dante in Francia ricordo che nel 1865 Victor Hugo, in occasione del sesto centenario della nascita di Dante, fu invitato a Firenze. Si sa che il grande poeta non abbandonò mai la sua residenza parigina (a parte il periodo dell’esilio) e indirizzò il suo scritto a «Monsieur le Gonfalonier de Florence». Il testo, che ha piuttosto un taglio politico, fu anche un pretesto per festeggiare la recente unificazione dell’Italia.6 Un secolo dopo toccò a uno dei più grandi poeti francesi, Saint-John Perse, inaugurare a Firenze il «Congresso Internazionale». Ho già detto che non tutte le traduzioni sono in versi. Ritorna qui il problema sempre dibattuto del tradurre poesia in poesia, della difficoltà ch’esso comporta e dell’impossibilità di trovare una soluzione integrale. Non mi sembra qui il caso d’indagare a fondo tutti i problemi teorici e non, coinvolti nella traduzione poetica. Mi limito solo ad alcune considerazioni. Occorre intanto dire che il problema lo vide e lo disse chiaramente, sin dai suoi tempi lontani, Dante quando nel Convivio afferma: E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta la sua dolcezza e armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di Greco in latino come l’altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia: ché essi furono trasmutati d’ebreo in Greco e di Greco in Latino, e ne la prima trasmutazione tutta quella dolcezza venne meno.7 5 Antoine Frédéric Ozanam, dopo la laurea in legge, nel 1839 consegue quella in Lettere con uno studio sulla filosofia di Dante. Nel 1840 entra alla Sorbona e cinque anni dopo assume la cattedra di Letterature straniere, succedendo a Fauriel. Impegnato nel campo sociale, fonda nel 1833 la Società di S. Vincenzo de’ Paoli. Nel 1997 Giovanni Paolo ii lo proclama beato. Œuvres complètes de A.F. Ozanam, avec une préface par M. Ampère, Paris, J. Legoffre et C.ie, 1862. 6 Ecco alcune frasi della lunga lettera: «Votre honorable lettre me touche vivement. Vous me conviez à une noble fête. Aujourd’dhui l’Italie à la face du monde, s’affirme deux fois, en constatant son unité et en glorifiant son poète. L’unité c’est la vie d’un peuple; l’Italie une, c’est l’Italie. L’Italie et Dante se confondent dans une sorte de pénétration réciproque qui les identifie… L’Italie a vécu en Alighieri, homme lumière». 7 Convivio, i, vii, in Dante, Opere minori, vol. ii, sezione a c. di Angelo Jacomuzzi, Torino, Utet, 1986, secondo l’edizione curata da E. Pistelli, testo critico della Società Dantesca Italiana, Firenze, 1921. 204 Del nomar parean tutti contenti S. Girolamo, considerato il principe dei traduttori, nell’Epistola 57– De optimo genere interpretandi – indirizzata all’amico e protettore romano Pemmacchio, difendendosi dall’accusa di avere tradotto in maniera inesatta la lettera di Epifanio di Salamina al vescovo Giovanni di Gerusalemme, afferma che non può essere accettabile una traduzione meccanica, sciatta o anonima. La traduzione dev’essere una interpretazione fedele del pensiero, «non verbum e verbo, sed sensu exprimere de sensu». A sostegno di questa sua affermazione egli cita vari autori classici che prima di lui si erano trovati ad affrontare il problema della traduzione: da Ennio a Orazio, da Terenzio a Quintiliano, ma soprattutto Cicerone. Croce, a parte la polemica con Gentile, affermava l’impossibilità di tradurre un’opera di poesia anche se poi si lasciò tentare da alcune liriche goethiane. Le discussioni sul tema continuano ancora oggi. Mario Fubini nel breve saggio Sulla Traduzione 8 ricorda quello che il De Sanctis ebbe a scrivere a proposito della traduzione della Phèdre: «Racine non si traduce». Franz Rosenzweig afferma che tradurre significa servire due padroni: «l’étranger dans son œuvre, le lecteur dans son désir d’appropriation»; è una forma di paradosso che Friederich Schleiermacher, scompone in due frasi: «amener le lecteur à l’auteur», «amener l’auteur au lecteur». Paul Ricœur 9 scrive: Le dilemme fidélité/trahison se pose comme dilemme pratique parce qu’il n’existe pas de critère absolu de ce qui serait la bonne traduction. Ce critère absolu serait le même sens, écrit quelque part, au-dessus et entre le texte d’origine et le texte d’arrivée. Ce troisième texte serait porteur du sens identique suppose circuler du premier au second. D’où le paradoxe, dissimulé sous le problème pratique entre fidélité et trahison: une bonne traduction ne peut viser qu’à une équivalence présumée, non fondée dans une identité de sens démontrable, une équivalence sans identité. On peut alors rattacher à cette présomption d’une équivalence sans identité le travail de la traduction, qui se manifeste le plus clairement dans le fait de la re-traduction que l’on observe niveau des grands textes de l’humanité. Non posso qui scrivere delle molteplici e varie traduzioni. Prima di prendere in esame le ultime traduzioni della Divina Commedia, accenno a quella che è considerata la prima se non per il suo merito, forse, certo la prima per 8 Mario Fubini, Sulla traduzione, in Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963, pp. 788-810. 9 Paul Ricœur, Sur la traduction, Paris, Bayard, 2004, p. 60. F. Schirosi Su alcune traduzioni della «Divina Commedia» 205 data, e questo è certamente importante, mi riferisco a La Comédie de Dante, de l’Enfer, du Purgatoire et du Paradis di M.B. Grangier.10 Inizio del Canto iii dell’Inferno: Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Ecco com’è tradotto da Grangier: Par mon moyen l’on va dans la cité dolente, par mon moyen l’on va dans l’éternel desdain, par mon moyen l’on va parmy la gent meschante. Una traduzione ben più antica e di cui non si conosce l’autore 11 ci dà: Par moy se va dedans la cite douloureuse, par moy se va au fons de l’éternel supplice, entre la gent perdue à jamais malheureuse. È certamente evidente la durezza del vecchio linguaggio, ma c’è da parte dell’autore uno sforzo di fedeltà, di esattezza troppo letterale nel riprodurre non solo i pensieri, il movimento dei versi, ma anche le stesse rime, le parole del poeta. Le traduzioni Cos’è in fondo questo tradurre o tradire se non ricreare ripercorrendo sulle stesse orme i segni della scrittura e gli intenti della ispirazione dopo esserne invasati e compresi? Certo con una ineliminabile approssimazione, che è forse maggiore, ma non diversa nella sua natura, dall’esercizio stesso della 10 La Divine Comédie de Dante, mise en ryme française et commentée par M.B. Grangier, conseiller et aulmonier du roy et abbé de Saint-Barthélemy de Noyon; Paris, 1597, chez Jehan Gesselin, rue Saint-Jacques. Nella dedica a Enrico iv, scrive: «Sire, je ne craindrai point d’affirmer que ce poème sublime ne doit aucunement être au nombre de plusieurs compositions que le divin Platon comparoit avec les parterres et jardins du bel Adonis, qui tout-à-coup et en un jour venus en lumière, se sèchent et meurent incontinent». Luigi xvi, rinchiuso nel Tempio, trovò consolazione leggendo il Paradis nella traduzione dell’abate. 11 Il manoscritto conservato nella biblioteca dell’Università di Torino indicato con n° l. v. 33, certamente del xv secolo, contiene la traduzione dell’Inferno con testo a fronte e manca dell’ultmo canto. 206 Del nomar parean tutti contenti lettura e della interpretazione, dico nello stesso codice linguistico. Se in assoluto le cose sono al limite dell’impossibile, talvolta del vietato, la spinta dei bisogni induce alle approssimazioni e ai tradimenti. In fondo le traduzioni servono anche a fare proseliti, ad estendere la cerchia degli ammessi. Nulla può essere più utile di alcuni esempi, anche se non bisogna certo concludere nulla di definitivo. Scelgo l’inizio del xii canto dell’Inferno e quattro diverse traduzioni; si tratta del viaggio di Dante, guidato da Virgilio e che giunge al settimo cerchio infernale, quello del Minotauro. Era lo loco ov’a scender la riva venimmo, alpestre e, per quel ch’iv’ er’anco, tal, ch’ogni vista ne sarebbe schiva. La prima versione è quella di Alexandre Masseron12 (1947): Le lieu où nous arrivâmes pour descendre la falaise était alpêstre, et tel, à cause de la présence de celui qui s’y tenait, que tous les regards s’en seraient détournés. Vediamo quindi la traduzione di André Pézard (1965): Âpre est ce bord où l’on peut démonter ains tant hideux, par celui qui là règne que toute vue en serait rebutée. Ecco poi la versione, con traduzione a fronte, di Jacqueline Risset (1985): Le lieu où nous parvînmes, pour descendre la berge, Était abrupt, et un tel monstre s’y tenait Que tout regard s’en serait détourné. Infine la versione di Lucienne Portier (1987): Escarpé était le lieu où pour descendre arrivâmes et tel, par celui qui y était, que tout regard s’en serait détourné. 12 Alexandre Masseron, nato a Lesneven e conseguita la laurea in Diritto, si trasferisce a Brest dove, nel 1944, viene eletto sindaco. I lavori su Dante sono considerati una referenza non solo in Francia. Nel 1923 pubblica: Les énigmes de la Divine Comédie; nel 1940: Pour comprendre la Divine Comédie, opere premiate dall’Académie Française. È autore di numerosi saggi su S. Francesco d’Assisi, San Bernardo, Santa Caterina da Siena, S. Antonio di Padova, ecc. F. Schirosi Su alcune traduzioni della «Divina Commedia» 207 Nella prefazione all’Inferno, Alexandre Masseron scrive: «La manière dont la traduction est conduite, les sommaires, les introductions à chaque chant, les notes, les plans, les tableaux synoptiques, tout tend, à faciliter la lecture de la Divine Comédie briser l’écorce qui enveloppe les fruits savoureux».13 La traduzione è fatta terzina dopo terzina, e non verso per verso, e all’interno di ogni terzina vi sono spesso delle inversioni che l’autore ha creduto opportune per rendere «la phrase française plus claire, plus facilement intelligible». Non mancano gli arcaismi, alcuni neologismi, e anche delle forme dialettali. L’arcaismo rinvia al Medioevo francese dei fabliaux, all’immagine di un tempo nostalgico, che non è certamente quello del grande laboratorio della Commedia. Dante, come padre della lingua, è rivolto al futuro. Per quanto riguarda i nomi propri, Masseron ha conservato l’italiano, salvo i casi in cui esisteva già una traduzione francese, per esempio: Firenze, Florence, anche se questo non sempre è accaduto, troviamo ad esempio Francesca da Rimini accanto a François d’Assise. Sapendo di andare incontro a critiche talora anche forti, Masseron dichiara d’essere «absolument certain d’avoir trahi la pensée de Dante» ma d’altronde era «rigoureusement impossible de faire autrement». Ricorda, a sua scusante, che i più illustri dantisti italiani sono costantemente in completo disaccordo, in flagrante contraddizione, sul vero significato che conviene dare ai versi di Dante. «Lorsqu’ils les traduisent en prose, ou lorsqu’ils remplacent des mots obscurs par des équivalents clairs, ils aboutissent, avec une régularité bien divertissante, à des positions irréductibles». Due sono le edizioni critiche alle quali Masseron si riferisce: l’edizione della Società dantesca italiana, curata da G. Vandelli (Firenze 1921), e la quarta edizione di Moore, rivista da Paget Toynbee (Oxford 1924). Nel 1920 Francesco Torraca aveva pubblicato: La divina Commedia di Dante Alighieri, nuovamente commentata. Masseron spiega perché non ha scelto questa edizione per la sua traduzione. Torraca, egli scrive, sait qu’il sait ce que Dante a voulu dire, et il sait que les autres ne le savent pas. Ceci lui donne une assurance paisible et prodigeusement amusante. Mais il reste que son commentaire est excellent, et que si l’auteur eût seulement été capable d’avoir un léger doute sur les intentions qu’il prête à Dante , il eût écrit un chef-d’œuvre. 13 Dante, La divine Comédie. Enfer, traduction, introduction et notes d’Alexandre Masseron, Paris, Albin Michel, 1947. Tutte le citazioni sono tratte dalla Préface. 208 Del nomar parean tutti contenti Dopo dodici anni d’un lavoro enorme, André Pézard14 pubblica, nel 1965, nella collezione della «Pléiade», una traduzione completa delle opere di Dante. Era, ed è ancora oggi, la prima traduzione integrale in francese di tutto ciò che ci è pervenuto di Dante e la sola al mondo uscita da una stessa penna. All’interno di questo insieme la traduzione della Divine Comédie fece sensazione, all’epoca quasi tutta la critica la qualificò di «prodigeuse» e lo stesso Pézard confessò ch’era stata «une folie». Egli è riuscito a rendere tutta la Commedia in decasillabi rispondendo al testo verso per verso: «au total 142300 syllabes sans qu’il y en ait une de plus dans la version que dans l’original, sans qu’aucune déborde d’un vers sur l’autre» (Paul Renucci). Inoltre, come afferma lo stesso Pézard, voleva «communiquer au public français plongé dans la Comédie la même impression que peut éveiller chez les Italiens d’aujourd’hui le contact soudain avec leur vieux chef d’œuvre». È anche questa la ragione del frequente uso di termini francesi, sia dell’uso comune, sia utilizzati con un significato non attuale: accoiser per «calmer», chétif per «malheureux», avaler nel significato antico di envoyer au fond d’un val, perché più pittoresco e forte rispetto a faire descendre. En mille occasions – scrive Pézard nell’Avertissement – la vieille langue fournit au traducteur le moyen de rendre exactement l’intention significative du poète, et de la rendre clairement en peu d’espace, ce qui est précieux dans un hémistiche de six ou de quatre syllables: veuil est plus vif que volonté ou vouloir; et, plutôt sentimental que trenchant, il convient mieux là où Dante rêve plus qu’il n’agit.15 A proposito del verso dantesco di dieci sillabe, Pézard afferma ch’esso si presta sia in italiano come in francese a tutti gli effetti che si possono deside14 André Pézard, professore d’italiano per diciassette anni nei licei, prosegue la sua carriera nella Facoltà di Lettere dell’Università di Lione. Considerato in Francia e all’estero come il migliore italianista della sua generazione, nel 1951 entra al Collège de France dove tiene la cattedra di Littérature et tradition italiennes sino al 1963. La reputazione di grande italianista gli frutta l’elezione all’Accademia dei Lincei. Nel 1970, entra all’Académie des Inscriptions et Belles Lettres. Oltre una Grammaire italienne e più di 160 articoli su Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Alfieri, Leopardi, D’Annunzio, la sua fama di specialista di Dante inizia con la sua tesi di laurea: Dante sous la pluie de feu, nella quale egli dà una reinterpretazione completamente nuova del canto xv dell’Inferno. Egli cerca di dimostrare che il «peccato» per cui furono puniti Brunetto Latini e i suoi compagni non fu sodomia vera e propria, ma «sodomie spirituelle». Si sa che il gran numero di sodomiti tanto nell’Inferno che nel Purgatorio ha dato origine nel corso dei secoli a infinite polemiche. 15Dante, Œuvres complètes, traduction et commentaire par André Pézard, Paris, Gallimard, 1965, p. xvi. F. Schirosi Su alcune traduzioni della «Divina Commedia» 209 rare, mediante il gioco degli emistichi di quattro e sei sillabe, per cui è rimasto fedele alla pratica di Dante. Non altrettanto è successo per quanto riguarda le cesure. Poiché la Commedia non può essere detta né epica né lirica, egli ha utilizzato le due forme di cesura libera. Ecco un esempio di cesura lirica che secondo Pézard tende in particolare a esprimere la «liberté retrouvée de Dante au sortir de l’Egypte infernale»: La belle étoile qui d’aimer nous convie doux-riante faisait l’orient rire… La cesura epica è usata, molto spesso, sospendendo l’emistichio su una e muta appoggiato direttamente sulla vocale accentata (participi passati femminili per esempio, o parole come vie, joie, rue…). Pézard ha scelto dunque per la sua traduzione una lingua in parte arcaica e una forma metrica dalle regole superate. Se queste scelte l’hanno «engagé dans une voie difficile et sans retour» si è poi trovato di fronte a un’altra scelta, il cui problema può sembrare secondario agli occhi di molti ma dalla cui soluzione dipendeva, secondo l’autore, «en bien de cas les deux effets poursuivis: soit l’unité de la forme linguistique, à savoir l’harmonie des noms propres parmi tant de noms communs et verbes de figure ancienne; soit l’unité de la forme poètique, à savoir l’arrangement de ces noms étrangers dans le rythme serré des vers français». Il compito non è stato certo facile, considerato che tutta l’opera di Dante conta più di duemila nomi propri, nomi di persone o di luoghi, e quasi tutti nella Commedia; alcuni ripetuti anche venti volte. Pézard ci ha dato certamente una traduzione non comune, una traduzione che è nel contempo «interprétation et restauration». Il volume contiene, oltre il lungo e interessantissimo Avertissement (ben quarantacinque pagine), un Index des rimes e un Glossaire in cui si trovano parole non più in uso, forme ancora vive ma usate in maniera speciale nella traduzione. Jacqueline Risset,16 che si è cimentata con ottimo risultato nella tradu16Jacqueline Risset insegna letteratura francese alla Sorbonne e all’Università La Sapienza di Roma. Poeta, traduttrice dall’italiano e in italiano, è particolarmente nota per la sua traduzione della Divina Commedia. Dante ècrivain ou l’Intelletto d’amore, Paris, Seuil, 1982; Dante scrittore, Milano, Mondatori, 1984; Dante, une vie, Paris, Flammarion, 1995; Traduction et mémoire poétique- Dante, Scève, Rimbaud, Proust, Paris, Hermann, 2006. Collabora a diverse riviste francesi, italiane e americane: «Le Monde», «Les Temps modernes», «Critique», «Lire», «Micromègas», «Poesia», ecc. 210 Del nomar parean tutti contenti zione del poema, afferma che «nel caso della Commedia il ‘legame musaico’ è tessuto in modo così differenziato e così intenso, che la rottura armonica della trasmutazione di idioma diventa irreparabile. Nella traduzione della Commedia quindi non potrà trattarsi che della scelta di uno o di alcuni elementi da trasmettere a tutti i costi, lasciando gli altri a una diversa e successiva impresa».17 Come tradurre la terza rima, il ritmo dei versi dispari? Ecco la risposta della Risset: D’abord, être littéral, le plus littéral possible, et dans tous les sens-mais ceci tout en décidant de ne pas renoncer à être absolument moderne. Si chaque traduction équivaut, en définitive, à une nouvelle mise en scène, il va de soi que les éléments de l’interprétation scènique doivent être contemporains – non du texte, mais du metteur en scène (l’archaïsme, par exemple, ne lui appartient pas, sauf s’il est intimement coloré, et désiré, par le présent). Per quanto poi riguarda il metro e il ritmo, la Risset mette in guardia dal confondere uno con l’altro, poiché nella traduzione bisogna partire dalla prosodia moderna, quella che ha dato la nascita al verso libero, e di cui Remy de Gourmont ha dato una bella definizione: «Le vers est un, il ne comporte pas de césure fixe; le rythme doit tendre à faire coïncider ses temps forts avec les temps forts de la pensée»; «Le vers est un seul mot, et s’il n’était pas un seul mot, il ne serait pas un vers!».18 È proprio qui che sta la maggiore difficoltà nel tradurre Dante, poiché la compattezza del suo verso è tale che tradurre senza tentare di «s’en approcher équivaut à le trahir». È certo che quasi tutti i traduttori di Dante sono rimasti attratti dalla prima cantica forse perché questo insieme di parole che descrive, giudica, interroga e questo canto che si leva, mescola audacemente la bellezza all’orrore, c’insegna sia pure a suo modo la verità su uno dei misteri della vita, la morte, e poi il tormento e il caos. Anche Jacqueline Risset ha subito il fascino dell’Inferno «une fascination qui s’exerce même à distance, sur des lecteurs habitant désormais un tout autre univers». L’edizione della Divina Commedia alla quale Jacqueline Risset si rifà nella traduzione a fronte è quella curata da Giorgio Petrocchi nel 1965. Il testo è 17Jacqueline Risset, Traducendo Dante, in Il Pomerio, In Forma di Parole, a c. di G. Scalia, Libro vii, Reggio Emilia, Elitropia, 1983. 18Remy de Gourmont, Esthétique de la langue française, Paris, Mercure de France, 1899. F. Schirosi Su alcune traduzioni della «Divina Commedia» 211 basato sulla collazione e classificazione di 27 manoscritti anteriori al 1355, e pubblicato a Milano, Mondadori, nel 1966-1967. Franck Venaille, nella recensione al volume apparsa su «Le Monde», scrive: Avec beaucoup de talent, de courage, d’obstination, Jacqueline Risset nous aide à redécouvrir l’auteur et l’œuvre, dont elle donne une lecture nouvelle. D’emblée, elle situe Dante dans nos préoccupations les plus quotidiennes, faisant de lui quelqu’un qui pourrait être l’un de nos contemporains les plus visionnaires.19 La modernità della traduzione della Risset sta anche nel significato che l’eccellente italianista dà all’impresa di Dante che considera «comme modèle absolu pour un grand nombre d’œuvres modernes: L’Enfer aujourd’hui, plutôt que le catalogue effrayant des péchés et des châtiments possibles, plutôt que l’archétype du roman noir, est pour nous la première étape du grand roman initiatique d’une civilisation qui est racine de la nôtre».20 Nel 1987 appare in Francia la traduzione della Divina Commedia a cura di Lucienne Portier.21 La traduttrice senza indugio e mostrando un certo rigore, fa penetrare direttamente il lettore nel testo sopprimendo la tradizione canonica dei cappelli esplicativi all’inizio dei canti che compongono le tre celebri cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Le note poi sono d’una esemplare parsimonia; Lucienne Portier confessa che avrebbe voluto non premettere alcuna prefazione all’opera. Bella fiducia in un testo dell’inizio del xiv secolo che in Francia ogni italianista sogna di tradurre una volta nella vita. Après la traduction de mon ami André Pézard, confessa la Portier, qui enchante les médiévistes, il a semblé que serait bienvenue une traduction qui permette à un plus vaste public de lecteurs la connaissance du ‘sacrato poema’ tout en lui conservant, autant que faire se peut, une saveur dantesque».22 19 Franck Venaille, , Dante vivant!, in «Le Monde des livres», vendredi, 24 janvier, 1986, p. 14. 20Dante, La Divine Comédie, L’Enfer/L’inferno, Présentation et traduction par Jacqueline Risset, Paris, Flammarion, 2004, p. 12. 21 Lucienne Portier, docente di Lettere italiane alla Sorbona, ha pubblicato diverse opere dedicate a: Fogazzaro, Boivin, 1937; Alessandro Manzoni, Puf, 1956; Rosmini, Caterina da Siena, Jacopone da Todi e soprattutto Dante. Un tableau synoptique de la vie et des œuvres de Dante et des événements artistiques, littéraires et historiques de son époque, 1965; Dante devant Dieu, Paris, Desclée de Brower, 1971; La Divine Comédie, Paris, Editions du Cerf, 1987. 22Dante Alighieri, La Divine Comédie, traduction ������������������������������������������������ par Lucienne Portier, Paris, Les editions du Cerf, 1987, p. 28. 212 Del nomar parean tutti contenti Il volume è dedicato al nostro conterraneo e insigne dantista: Aldo Vallone. ����������������������������������������������������������������������� «A Aldo Vallone premier lecteur de cette traduction, en profonde gratitude pour ses paroles». Vallone le aveva scritto: «La sua traduzione non solo è nuova, profondamente vissuta dall’interno e rigeneratrice della parola di Dante, ma è anche necessaria perché Dante resta e trova sempre intelligenza e sentimento per accoglierlo». Se si compara questa ultima traduzione con gli estratti pubblicati nel 1965,23 ci si accorge che Lucienne Portier raffila, taglia, condensa sempre più. In quell’occasione la Portier aveva già espresso i suoi criteri nella traduzione, criteri che ribadisce nell’introduzione al volume. Le traducteur ne peut éviter une sorte de désespoir, surtout quand’il s’agit de poésie, de cette poésie qui réside dans l’expression irremplaçable où rien, absolument rien ne saurait être modifié, et dont la traduction se propose de changer les mots, la syntaxe, le rythme, les sonorités. Il reste le sens, mais les nuances du sens sont si étroitement liées aux formes suggestives qu’on est ramené là encore à une difficulté souvent insurmontable. Il faut pourtant choisir. Lucienne Portier scarta subito l’ipotesi di riprodurre in prosa il poema poiché questo avrebbe significato l’annientamento del verso dantesco, rifiuta altresì «la traduction en vers» poiché se è vero che può accontentare l’orecchio porta fatalmente a inesattezze e anche a controsensi. Sceglie «la strophe dont le rythme est cherché dans une harmonie aussi proche que possible de l’original, sans toutefois lui sacrifier des nuances de sens toujours importantes». La lingua è il francese d’oggi, anche se molto spesso «brisé dans sa syntaxe quand le rythme le demande» ma non mancano certamente termini dell’antico francese usati per meglio corrispondere all’intenzione del poeta, e anche alcuni termini creati senza alcun complesso. Anche per Lucienne Portier i nomi propri restano in italiano, salvo i casi in cui s’imponeva la forma francese corrente; nell’inferno sono conservati i nomi dei demoni in quanto il loro significato è così un tutt’uno con la forma che non si può rischiare un equivalente. Nella propria lingua restano i nomi stranieri. La traduzione di Lucienne Portier non è dunque né una spiegazione, né una ri-creazione, fosse anche geniale, in una lingua francese del quattordice23Lucienne Portier, Dante (Coll. «Les écrivains devant Dieu»), Paris, Desclée de Brower, 1965. F. Schirosi Su alcune traduzioni della «Divina Commedia» 213 simo secolo, né una modernizzazione, ma un tentativo di fedeltà alla lettera che racchiude lo spirito dell’opera. Si tratta di un atteggiamento stranamente moderno che crea talvolta un testo forzato, ellittico, duro come l’acciaio, ma anche carezzevole come l’acqua, dove la pulsione dantesca che anima la scrittura è sempre percepita dal lettore. Perché questo continuo ritorno a Dante si manifesta al tempo del postmodernismo in Francia? La situazione culturale italiana chiarisce questo complesso di Dante di cui i Francesi non potranno mai liberarsi. Dante è certamente riconosciuto come il padre della lingua italiana; una figura di padre né castigamatti né provocatore di un complesso di castrazione. Imponendo il toscano, col suo genio, come lingua letteraria e più tardi nazionale, teorizzando questa scelta nel suo De Vulgari Eloquentia, Dante compie «une opération d’engendrement biologique qui se porsuit jusqu’à nous». Pensando ad alcuni nostri poeti, si capisce che ricorrono sistematicamente a questo padre in quanto modello dall’apertura contro le sistematizzazioni, l’elitismo, il conservatorismo dei guardiani del linguaggio. Dante, sappiamo, fa penetrare nel suo toscano tutti i dialetti che attraversano l’Italia della sua epoca, accetta i latinismi, forgia neologismi poiché egli è fedele alla vita fisica della lingua. A dispetto delle accademie, della sua tradizione letteraria bizantina (il petrarchismo), l’Italia è rimasta sempre legata a questa fonte viva. Si continua a leggere Dante nelle scuole e vi si ritrovano i vocaboli di questo antenato; ma si sa anche ch’egli che l’ha creata, non impedisce la costante germinazione della lingua. Per completare le notizie sulle traduzioni della Divina Commedia mi corre l’obbligo di accennare all’ultima traduzione quella di Jean Charles Vegliante.24 24Nato a Roma, da oltre trent’anni vive a Parigi dove insegna ed è direttore di ricerca alla “Sorbonne Nouvelle iii”. Oltre la sua attività di docente di Langue-culture et traductologie, importanti e numerosi sono gli scritti sulla traduzione e la poetica: di rilievo le traduzioni di Pascoli, D’Annunzio, Fortini, Sereni, Montale, Vassalli, Raboni e altri. Nelle «Chroniques italiennes» ha pubblicato: Le rythme de Pavese, 2001; Levi et la traduction radicale, 2002. Traversando Dante: poesia, traduzione, trasmissione, in A. Prete e altri, Stare tra le lingue. Migrazione, poesia, traduzione, Lecce, Manni, 2003; Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, Roma, Bulzoni, 2004. Da poeta e traduttore di versi, non poteva resistere all’attrattiva del poema dantesco e così nel 1996 pubblica la traduzione della prima cantica della Comédie, nel 1999 la seconda e nel 2007 la terza. 214 Del nomar parean tutti contenti Diversamente da quanto hanno fatto gli altri autori, Jean Charles Vegliante riprende il titolo originale di Comédie. Egli vuole rifarsi al Medioevo che aveva definito le regole strutturali e stilistiche della commedia in quanto genere letterario: servirsi d’uno «style vulgaire» e porre «au début les difficultés d’un événement que sa suite porte vers une fin heureuse». Vegliante si è proposto come obbiettivo nella traduzione quello di «faire parler Dante dans un français dantesque», riprendendo quanto affermava Leopardi a proposito della traduzione del secondo libro dell’Eneide. La traduzione di Vegliante cerca di preservare «la voce dantesca»: cadenze e timbri del verso e della terzina, scale di sonorità, movimenti che vanno dal largo all’adagio e al fortissimo, cromatismi di tono, silenzi. Antonio Prete nella recensione apparsa in «Notes de lecture» scrive che la traduzione di Vegliante «est une aventure précieuse dans l’odyssée dantesque et, comme toute traduction réussie, une exégèse». Giovanni Raboni nella recensione al primo volume, scrive fra l’altro: «Vegliante sa che una poesia o non si traduce affatto o si traduce con un’altra poesia, che non esistono soluzioni intermedie; e la sua scommessa – la via stretta nella quale ha visto, giustamente, l’unica via percorribile – sta nell’avere affrontato il poema per quello che a dispetto dei crociani di ieri e di sempre, intenti a disarticolare in polpa lirica e ossame o cartilagine intellettuale, esso in effetti è un – immenso eternamente irriducibile e, proprio per questo, eternamente fruibile – ‘individuo’ poetico.(…) a sorreggere, a ispirare il poeta-traduttore è stata, in ogni scelta di metodo e in ogni scelta concreta, la musa della densità».25 Non mancano le differenze con le traduzioni che abbiamo visto, solo un esempio: nel canto v dell’Inferno, i nomi dei diavoli vengono tradotti: Hellequin, Foulegrive, Canaillas, Barbébouriffe, ecc. Quanto al testo italiano di riferimento, Vegliante ha tenuto presente: La Commedia secondo l’antica vulgata di Dante Alighieri, a cura di G. Petrocchi, 3 volumi, Mondadori Milano, 1966-67. Università degli Studi “Aldo Moro” - Bari 25Giovanni Raboni, Frammento di recensione in «Corriere della Sera», 13 ott. 1996. Cfr. anche il saggio di Vegliante Ridire la «Commedia» in francese oggi, in «Dante», n. 2, 2005, pp. 59-79. Luigi Scorrano DISTRARRE LA MORTE. UNA POSSIBILE LETTURA DEL «DECAMERON» Nel film di Ingmar Bergman Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1956) la linea fondamentale del racconto è quella di una sfida tra un Cavaliere, reduce dalla crociata e tormentato nella sua coscienza che interroga un Dio lontano o inesistente, e la Morte. Questa vuol cogliere, nella sua indifferenza parificatrice, colpevoli di qualcosa o innocenti, scettici o creduli, esseri che hanno risposto al dovere ed esseri che i doveri hanno dimenticato o calpestato. Tra le potenziali vittime della Morte c’è anche una famigliola di giovani attorisaltimbanchi (marito, moglie e figlio): Jof e Mia e il loro bambino Mikael. Il Cavaliere, per salvarli, impegna la Morte in una partita a scacchi. La Morte intuisce il disegno del Cavaliere e pensa di avere in pugno la situazione. Perciò il Cavaliere deve escogitare un modo per vanificarne il disegno. Lo fa ricorrendo ad un gesto banale: tende il braccio sulla scacchiera e con un lembo del mantello fa cadere tutti i pezzi. Occorre risistemare il gioco, ed è la Morte che s’impegna nel difficile compito, anche perché ricorda benissimo a che punto e in quale situazione fosse il gioco. Assorbita nel compito di riordinare, la Morte non si accorge della fuga di Jof e Mia con il piccolo Mikael; la strategia del Cavaliere, consistente nel distrarre la Morte, efficacemente funziona e consente alla giovane coppia e al suo figlioletto di uscire dalla notturna foresta (simbolo di smarrimento e di orrore) alla luce dell’alba, ad una perdurante promessa di vita.1 Quella di Ingmar Bergman è forse la rappresentazione più evidente di una qualche possibilità che l’uomo ha di distrarre la morte. Distrarla soltanto, perché eluderla non potrà. Il gioco è attraente poiché induce a misurarsi con un avversario di formidabile potenza. Sottrarsi, anche per poco, al dominio della morte è riconoscere all’uomo ed alla vita la capacità di elaborare modi 1 I. Bergman, Il settimo sigillo, in Quattro film, Einaudi, Torino, 1961, pp. 146-154. 216 Del nomar parean tutti contenti e circostanze di trionfo della vita stessa, di potere dell’uomo sulla morte. Una sfida? Per quanto ne sia aleatorio il risultato, quello che conta è l’affermazione d’una forza della vita che la morte non sgomenta. L’incontro con la morte, quello cercato, impone un confronto. Sull’esito di quel confronto si misurano gli esiti dell’intelligenza, del coraggio, della umana dignità. Di un cercato incontro con la morte narra una ‘favola’ de Le piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola, la quinta della Notte quarta. In essa si racconta, come recita la rubrica-titolo, che «Flamminio Veraldo si parte da Ostia, e va cercando la morte; e non la trovando, nella vita s’incontra, la qual gli fa vedere la paura e provare la morte».2 Perché Flamminio cerca la morte? Per una divagante curiosità (lo Straparola dice del suo personaggio che era «piuttosto semplice e vagabondo che stabile ed accorto») il protagonista della novella si lascia sedurre dalla voglia di vedere la morte, attirato anche da ciò che di lei si racconta, dalla fama di terribilità che la circonda: Costui [Flamminio] più e più volte aveva inteso che nel mondo non era cosa alcuna più terribile e più spaventosa dell’oscura ed inevitabile morte; per ciò che ella, non avendo rispetto ad alcuno, o povero o ricco che egli si sia, a niuno perdona. Laonde, pieno di maraviglia, tra se stesso determinò al tutto di trovare e vedere che cosa è quello che da’ mortali morte s’addimanda.3 Nel lungo cammino che intraprende alla ricerca della morte, Flamminio incontra varie persone, alle quali chiede di indicargli, se lo sanno, dove si trova la morte. Riceve risposte diverse ed un’indicazione itinerale comune: vada avanti e forse la incontrerà. Sarà un eremita a chiarire in modo esplicito il senso di quel cammino, e del ‘più in là’ in cui dovrebbe trovarsi la morte: Ma se voi desiderate, figliuolo mio, […] di trovarla, andatevene più oltre, ché voi la troverete; perciò che l’uomo, quanto più in questo mondo cammina, tanto più s’avvicina a lei.4 Quando Flamminio, giunto ad una città, s’imbatté in una vecchia «disdentata e brutta, immaginosse che ella fosse la morte», ma, sorprendendolo, 2 Ibidem. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 200. L. Scorrano Distrarre la morte. Una possibile lettura del «Decameron» 217 la vecchia gli si presentò come la vita, impegnata anch’essa, con i suoi rimedi, a distrarre la morte facendo guarire le gravi ferite, dando lenimento ai dolori. Flamminio insiste nel desiderio che lo domina: vedere la morte, accertarsi se essa è pari, de visu, alla fama di terribilità che la circonda. La vecchia, «udendo la sciocchezza del giovane», lo fa spogliare e inginocchiare; preparati certi empiastri e spalmatiglieli addosso gli ordina di chiudere gli occhi e con un affilatissimo coltello gli stacca la testa dal busto. Immediatamente, applicando i suoi prodotti, lo risana, ma gli riattacca la testa all’inverso, sì che la faccia, come negli indovini danteschi, guarda «le spalle, le reni e le grosse natiche». Poi, cedendo alle suppliche del giovane, che ha provato la paura e la terribilità della morte, lo restituisce alla primitiva situazione. Da quel giorno Flamminio cercherà la vita e si dedicherà a ben altre conoscenze rispetto a quella che tanto lo aveva assillato. Distrarre la morte, come fa la vita non consentendole di raggiungere sempre, e piuttosto facilmente, il proprio fine, è realizzabile per le vie più impensate: la scacchiera del Cavaliere e gli empiastri della vita. C’è, però, un modo più sottile e sofisticato per distrarre, o comunque allontanare, la morte. Lo si applica ricorrendo all’arte del narrare, alla curiosità (elemento vitale) che nasce dalle peripezie intrecciate in un racconto. Raccontare è un più sottile espediente per distrarre (certo, non per ingannare) la morte. Si potrebbe indicare questa modalità come ‘il filo di Shahrazàd’. Nella cornice delle Mille e una notte Shahrazàd distrae la morte con l’astuzia d’una narrazione che rimane interrotta, ma che lascia, proprio a causa di quell’interruzione, il desiderio di conoscere il seguito della vicenda raccontata dalla donna. Il ricorso alla narrazione determina il differimento della sentenza di morte decretata anche per lei come per la moglie infedele del re Shahriyàr e delle giovani donne con le quali il re si intrattiene per una sola notte, quella che precede l’uccisione della prescelta di turno. Il racconto di Shahrazàd s’interrompe per gli impegni che chiamano il re alle sue funzioni di governo, ma l’astuta narratrice ha misurato il tempo, ha calcolato esattamente la necessità dell’interruzione. Una volta ripreso, il racconto rimasto interrotto si concluderà ben presto. Resta dunque il tempo per incominciarne un altro, a sua volta destinato a rimanere interrotto e ad essere portato a termine all’inizio del giorno seguente. Tanto abilmente Shahrazàd conduce il proprio disegno da dare, nell’arco di tempo di mille e una notte (cioè, indeterminatamente, ‘di molte notti’), tre eredi al re cui Shahrazàd sarà cara per la fedeltà dimostrata. Il trionfo della donna è un trionfo della vita (i figli nati dai suoi rapporti con il re) e anche una trasparente metafora della 218 Del nomar parean tutti contenti forza dell’arte narrativa. Anche il racconto, la letteratura, è una strategia che può essere messa in atto per distrarre la morte, per eluderla provvisoriamente e per celebrare il trionfo della vita. Distrae la morte anche la cantilena d’una fiaba narrata ai bambini dalle nonne, dicitrici sapienti nel modulare visioni di semplici incantesimi: esse possiedono la parola magica che fantasiosamente apre davanti agli occhi dei bambini territori sconosciuti, quelli in cui un giovane principe cerca la bella il cui bacio irrinunciabile vuol dire vita o morte. Dice questo, raccolta e rielaborata dalla tradizione popolare, La canzone della nonna di Costantino Nigra: (In mezzo al mare un’isola c’è E vi comanda la figlia del re). Canta filando l’avola Giù nella stalla. Le tremule note I bimbi intenti ascoltano. Sonnecchia in culla l’ultimo nipote.5 Il sonno, che a poco a poco fa chiudere gli occhi ai bambini ed infine alla nonna, non è, qui, metafora della morte ma certezza di vita e promessa d’un felice avvenire. La favola ha un ambiguo compimento: il giovane principe è prigioniero della bella: gli hanno dato un letto di porpora e d’oro; le sue catene di prigioniero sono fatte di fiori, ma la damigella non ha trovato ancora la sua pace, poiché non canta e sorride lieta ma sospira: (In mezzo al mare un’isola c’è, E vi sospira la figlia del re).6 L’ambiente, fuori dai protettivi muri della casa, è buio e tempestoso; anche in esso si configura una situazione di pericolo: Cala di fuori in gelide Falde la neve nella buia notte, 5 Poeti minori dell’Ottocento. ii. Poesia della patria ed eredità del Risorgimento, a c. di E. Janni, Rizzoli (Bur), Milano, 1965, p. 379. 6 Ivi, p. 380. L. Scorrano Distrarre la morte. Una possibile lettura del «Decameron» 219 Picchia il rovajo e fischia Nell’uscio fesso e per le lastre rotte.7 A questo paesaggio inameno s’oppone la lunga favola della nonna, «il canto monotono» che dura tutta la notte, finché il sonno vince i fanciulli che furono intenti all’inizio della storia. Il lume della lucerna «muore» in uno sfrigolio, mentre anche la narratrice cede al dominio del sonno: E anch’essa alfin la vecchia Dorme, seduta colla testa china, E sogna che nel cofano C’è ancor del pane e un poco di farina.8 Al tempestoso di fuori s’oppone il paesaggio quieto e rassicurante dell’interno domestico. Contro il buio e la paura giunge il sonno protettore: i bambini, addormentati, non vedono la luce della lucerna morire. Anche la nonna, che con la sua favola ha assicurato il sonno dei bambini, trova protezione contro la notte/morte in un sogno bene augurante pane, e farina per impastarne dell’altro. Al finale ambiguo della favola si sostituisce quello, di chiara lettura, della speranza/certezza che riposa sulle risorse di cui sembra godere l’abitazione (nonostante l’uscio fesso e le lastre rotte). Centrale, in ogni modo, è la funzione del racconto, il quale serve, sì, a propiziare il sonno dei bambini ma a far sì che quel sonno sia visitato da immagini liete e dolcezze immaginarie: «E van sognando l’isola, / L’isola verde…». L’immagine della vecchia è quella di una Parca operosa nel suo doppio compito: filare e dire («Canta filando l’avola»); e la Parca che fila, che presiede al dipanarsi della vita, si prende la rivincita sulla Parca che taglia il filo, sulla morte. Ogni scrittore crede alla capacità della propria opera di vincere il silenzio, di affermare la forza della vita contro quella della morte. La letteratura assolve a questa funzione: a dirottare la morte, a distrarne i fatali disegni, offrendo così all’uomo una possibilità nuova. Lo sapeva Giovanni Boccaccio che possedeva la scienza di un simile dirottamento, che non avrebbe esitato – gli fosse stata nota – ad accogliere nel novero delle novellatrici del Decameron almeno Shahrazàd (non la nonna della poesia del Nigra per raggiunti limiti 7 Ivi, p. 379. 8 Ivi, p. 380. 220 Del nomar parean tutti contenti di età e, perciò, per incompatibilità anagrafica con la splendente gioventù della brigata decameroniana). L’affermazione della forza esercitata in chi è in angustie dal piacere e dal potere della letteratura prepotentemente occupa il primo piano del proemio del «libro chiamato Decameron»: Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesta li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro e già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli.9 Il sentimento ispiratore è in quell’aver compassione degli afflitti caratterizzato come tratto specifico di una umanità pronta a correre in soccorso dell’altro per lenire una umana sofferenza. Un concetto in cui confluiscono sentimento cristiano della caritas e senso di civile solidarietà. Già Dante, nel primo libro del Convivio, aveva addotto, in più complessa trama e in più ricche motivazioni, il tema della misericordia dell’uomo che più ha, in fatto di scienza e conoscenza, verso colui che indige, che manca di qualcosa dalla quale possa ricevere conforto. La motivazione del Boccaccio appare, per così dire, più povera rispetto a quella dantesca, ma questo perché i punti di vista e la materia in discussione sono diversi: Boccaccio è dalla parte di chi ha bisogno di qualcosa e si aspetta di riceverla; Dante è dalla parte, più fortunata, di chi ha qualcosa da donare e, dunque, è in condizione di vantaggio. Di che cosa ha bisogno lo scrittore del Decameron? Di contrapporre qualcosa di vitale ad una noia, cioè a un dolore affliggente: Nella quale noia tanto refrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto.10 Anche per l’autore del Decameron la distrazione della morte si ottiene per mezzo del racconto, dei «piacevoli ragionamenti». E la gratitudine dell’autore si esprime in una forma di restituzione narrativa: il dono offerto in segno di riconoscenza è il libro detto Decameron: Ma quantunque cessata sia la pena, non perciò è la memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benevolenza da loro a me portata erano 9 G. Boccaccio, Decameron, a c. di Vittore Branca, Mondadori (“I Meridiani”), Milano 1985, p. 5. 10Ibidem. L. Scorrano Distrarre la morte. Una possibile lettura del «Decameron» 221 gravi le mie fatiche; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. […] Adunque […] intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità…11 L’accenno al «pistelenzioso tempo» e alla «passata mortalità» colloca la narrazione a difesa contro la morte; propriamente, si può dire, con l’intento di distrarre la morte. Di fatto la morte non sfiorerà il luogo eletto in cui i narratori delle novelle si collocano. La giovinezza stessa dei narratori (delle donne «niuna il venti e ottesimo anno passato avea né era minor di diciotto»; e dei giovani si stima «che meno di venticinque anni fosse l’età di colui che più giovane era di loro») costituisce una forma di sbarramento all’aggressione della peste. Sotto il fiato letale dell’epidemia, Firenze è in stato d’assedio. Occorre opporre, con decisione com’è chiaro dal discorso che Pampinea tiene alle sue compagne, una situazione che sia fuori di quelle che la donna ha prima registrato: una soluzione che induca a rifuggire da ogni eccesso e ad adottare un comportamento sereno: […] a’ nostri luoghi in contado, ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo […]. E perciò, quando vi paia, […] oggi in questo luogo e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopragiunti, che fine il cielo riserbi a queste cose.12 Non si esclude del tutto la possibilità per la morte di penetrare nel locus amoenus, ma l’importante è creare le condizioni per impedirle l’accesso. In un ambiente descritto in un vivo trionfo di natura, in un armonioso edificio di serena architettura, di perfetta rispondenza tra luogo naturale e opera dell’uomo, ogni riferimento a eventi dolorosi o funesti va tenuto lontano; Pampinea, regina della prima giornata, mette in guardia i suoi compagni: E ciascun generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove egli vada, onde che egli torni, che egli oda o vegga, niuna novella altra che lieta ci rechi di fuori.13 11 Ivi, pp. 6-7. 12Ivi, p. 24. 13Ivi, p. 29. 222 Del nomar parean tutti contenti L’interdizione di ogni cattiva nuova è perentoria. E si potrà osservare che tra le cento novelle narrate ce ne sono di quelle che riferiscono casi tristi e potrebbero turbare la serenità della brigata giovanile. Questo non accade; ciò che si narra non ha alcuna corrispondenza con la situazione del momento. La morte, presente in alcune narrazioni, non è la morte reale imperversante nella città; è una rappresentazione della morte inerente alla materia del racconto. È una morte raccontata, dotata del distacco che ogni narrazione ha rispetto alla realtà. A sottolineare questo distacco provvederà il primo narratore, Panfilo, nel cui racconto la morte è una presenza beffarda. Cepparello da Prato, ser Ciappelletto alla francese e per un equivoco sul nome, peccatore incallito, ingannando un frate con una falsa confessione, consegue, morto, un’inattesa patente di santità. La pestilenza che flagella Firenze e lo stato lacrimevole della città non affiorano nello svolgimento delle novelle: è un fatto lontano, tagliato fuori dal mondo dei novellatori: un luogo protetto dalla sua intrinseca bellezza e dalla funzione alla quale è adibito, ma protetto ancor più dal sereno e gioioso incantesimo del racconto. Nulla interrompe le dieci unità narrative che costituiscono ciascuna delle dieci giornate. Tutti i narratori si mostrano desiderosi d’ascoltare quello che narrano i loro compagni di volta in volta impegnati nel ruolo di voce narrante. Se l’interesse è stimolato dai temi assegnati, ancor più esso è vivo per la curiosità di cogliere affinità ed imprevisti risvolti che su quei temi unici si innestano. L’unità della giornata non è mai interrotta; è solo all’interno della narrazione che si avverte, e si valuta, il sorprendente numero delle variazioni; la loro qualità soprattutto. Quando una novella è finita si desidera ascoltare la seguente. Il racconto stimola il desiderio di altro racconto, o il desiderio è attizzato da qualcuno dei narratori.14 La curiosità di conoscere la fine dell’attraente racconto di Shahrazàd spinge il re a risparmiarle la vita. Non aveva ancora terminato il racconto quando spuntò il giorno. Shaharazàd tacque. Il re palesemente molto imbarazzato, si chiedeva come doveva fare per conoscere la fine della storia. […]. 14Filomena, ad es., che narra la prima novella della ix giornata: «Madonna, assai m’aggrada, poi che vi piace, che per questo campo aperto e libero, nel quale la vostra magnificenzia n’ha messi, del novellare, d’esser colei che corra il primo aringo: il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso verranno non facciano bene e meglio» (G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 745). L. Scorrano Distrarre la morte. Una possibile lettura del «Decameron» 223 Allora il re pensò: «Per Dio! Non la ucciderò finché non avrò sentito la continuazione. Eccomi davvero obbligato a rinviare la sua condanna a domani!…».15 La letteratura celebra la sua vittoria sulla morte, distrae la morte. Poco importa che si tratti di una vittoria non durevole. Importa la lezione che viene da questo convincimento. Anche l’attività fabulatrice è, per l’uomo, strumento per affrontare la morte, per giocare d’intelligenza e d’astuzia con essa. Jof e Mia, con il loro piccolo Mikael, sono accolti, all’uscita dalla foresta, dalla vitale luce del giorno. Il tempo del timore è archiviato; la luce conforta ed assicura. Allo stesso modo – per intima affinità – si restituiscono alla normalità della vita i dieci narratori del Decameron: E come il nuovo giorno apparve, levati, […] dietro alla guida del discreto re verso Firenze si ritornarono; e i tre giovani, lasciate le sette donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti s’erano, da esse accomiatatosi, a’ loro altri piaceri attesero, e esse, quando tempo loro parve, se ne tornarono alle lor case.16 Il luogo del ritorno è esattamente quello della partenza, la chiesa fiorentina di Santa Maria Novella. Così le cento novelle sono chiuse nel cerchio che ha in quel luogo il suo punto di partenza e quello di arrivo. Circolarità del tempo e dei luoghi che allude alla circolarità della narrazione; l’intervallo salvifico è costituito dai quindici giorni della sosta in villa. E il tempo che basta a distrarre la morte, a farle abbandonare il campo dove infierì. I narratori restano incolumi e l’arte del narrare si pone come potente strumento di salvezza. Non è avventuroso leggere in questa chiave il capolavoro del Boccaccio. 15Le mille e una notte, Testo stabilito sui manoscritti originali da René R. Khawam, Prefazione di Giovanni Mariotti [“Corriere della Sera – I grandi romanzi”], Rcs Editori, Milano 2002, I, p. 51 (trad. di Gioia Angiolillo Zannino e Basilio Luoni). 16G. Boccaccio, Decameron cit., p. 907 s. Su similarità e differenze tra Le mille e una notte e il Decameron si è soffermato M. Picone nel saggio Dalle «Mille e una notte» al «Decameron», in Id., Boccaccio e la codificazione della novella: Letture del Decameron, Longo, Ravenna 2008, pp. 67-80. Francesco Paolo Botti L’AMORE NEL TEMPO: LA NOVELLA DI GIROLAMO E SALVESTRA (DECAMERON, IV 8) Introducendo la novella di Simona e Pasquino, settima della quarta giornata del Decameron, la cui sostanza tragica – impropriamente tragica, del resto – non deriva da un conflitto di volontà o di valori ma, come si addice in fondo a due poveri filatori di lana, soltanto da una disgraziata casualità, da un ‘accidente’ che funesta la miseria dei loro ‘sollazzi’ proletari, Emilia osserva: …con la qual [novella] mi piace nella nostra città rientrare, della quale questo dì, diverse cose diversamente parlando, per diverse parti del mondo avvolgendoci cotanto allontanati ci siamo (iv 7, 5).1 E se, proprio all’inizio della settima novella della giornata precedente, la stessa Emilia aveva già fatto, nella chiave metaforica del viaggio narrativo, un’affermazione analoga («A me piace nella nostra città ritornare, donde alla due passate piacque di dipartirsi» [iii 7, 3]) – quasi una sigla del personaggio, quindi, la piccola traccia, magari, di una fisionomia psicologica nel segno di un particolare fervore municipalistico –, ora, nel contesto della «fiera materia» degli amori infelici, la sottolineatura si carica di una significatività più decisa. La lontananza da Firenze appare qui, nel risalto del suo eccezionale protrarsi («cotanto allontanati…»), una scelta pressoché obbligata. Nell’orbita rivoluzionaria del ‘realismo’ boccacciano, un metodo di costruzione narrativa che modella e articola i contenuti della rappresentazione secondo un criterio di verosimiglianza spazio-temporale,2 l’eclissi della scena fiorentina, e anzi toscana, nella giornata tragica ha, infatti, una sua evidente necessità: i luoghi della (per così dire) modernità borghese non 1 Le novelle del Decameron sono qui citate con la semplice indicazione del numero d’ordine e del paragrafo, secondo l’edizione a c. di V. Branca, Torino, Einaudi, 1987. 2 Basti per questo il rinvio a Giancarlo Mazzacurati, Lo spazio e il tempo: codici fissi e forme mobili del personaggio boccacciano, in All’ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 1-36. F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 225 sono plausibilmente conciliabili con le contese estreme della passione e del potere, con le oltranze anarchiche, le sfrenatezze antiche o feudali dell’orgoglio, della crudeltà, della violenza. «Firenze inibisce il tragico».3 La società dei mercanti e dei banchieri, presa nell’orizzonte economico dei commerci e dei guadagni e insieme, s’intende, progressivamente segnata dall’apertura laica del proprio empirismo, non sa ospitare le vertigini della tragedia, la sua intrinseca sacralità; o, altrimenti, l’assolutezza micidiale del volere, la dismisura violenta dei gesti, che il genere nella sua classica purezza, soprattutto senechiana, contempla, e che la storia di Tancredi e Ghismonda con esemplarità inaugurale adatta alla struttura novellistica, ripugnerebbe alle consuetudini, agli ordini civili, alle garanzie legislative del vivere cittadino. Se, insomma, il tempo borghese della città rifiuta le collisioni irreparabili della tragedia, il ritorno a Firenze, promosso da Emilia e poi ribadito da Neifile, che narra dell’amore di Girolamo e Salvestra, non può che trasgredire l’essenza autentica del tragico: L’incidenza dei rapporti tra luoghi e tempi è visibile ovunque, nel Decameron, non solo come rito di introduzione, ma come principio d’organizzazione delle forme e della maniera narrativa; e più sottilmente, forse anche più sorprendentemente che altrove, in quella iv giornata che rappresenta, per molti aspetti, la sfida teorica e retorica più alta, la scommessa del tragico e dei suoi possibili linguaggi ‘volgari’, del tutto nuovi negli orizzonti della prima narrativa in prosa. Consideriamo, da questa angolazione specifica, le dieci novelle della giornata, partendo dalle gradazioni interne dell’«infelice fine» (come recita la rubrica generale): dal conflitto tra volontà assolute alla dimessa sventura degli umili, dagli universi intransigenti del potere signorile al misterioso fait divers della cronaca fiorentina. A guardare bene, la definizione del tragico che si preciserà con la diffusione cinquecentesca della Poetica aristotelica, ma che già allora proveniva come un’eco dalla Grecia e come diretta esperienza da Seneca, si adatta solo alla prima, alla quarta e alla nona, non solo per la funzione sociale dei protagonisti, re, principi o eroi di un ormai lontano Medioevo barbarico o feudale, ma ancor più per l’evidenza che qui hanno i tabù, coi conseguenti nessi fatali tra divieto e infrazione. […] La seconda (frate Alberto), la sesta (Andreuola e Gabriotto), la settima (Simona e Pasquino) e l’ottava (Girolamo e Salvestra) orbitano in una costellazione che racchiude i drammi d’amore, i casi imprevedibili del destino, i riti funebri di moderne eroidi, le punizioni esemplari dei malvagi, assai più che i residui del tragico teatrale antico.4 3 Ivi, p. 21. 4 Ivi, pp. 20-1. 226 Del nomar parean tutti contenti È un tragico degradato, spurio, declinato in chiave, appunto, di fait divers, di drammatico caso di cronaca o di lacrimevole leggenda sentimentale, quello che aureola gli amanti sventurati nella sequenza delle due novelle fiorentine della giornata. Niente di paragonabile, qui, al conflitto di visioni del mondo, ad esempio, che tinge di una dignità intellettuale, ideologica, in battute di elaborata intensità retorica, il dialogo fra il principe di Salerno e la figlia. Per la verità, le due novelle nella stessa assunzione attutita o falsificata del modo tragico divergono, tuttavia, notevolmente. Mentre in quella di Simona e Pasquino, «cronaca impassibile di un amore plebeo», «storia di una popolana partie de campagne»,5 la catastrofe, come già accennavamo, si produce casualmente, al di fuori di ogni conflittualità che non sia la malevolenza volgare dell’ambiente che assedia l’esile protagonismo dei due giovani – la cui viva voce poi, sintomaticamente, nemmeno affiora alla pagina nella sua presumibile modestia –, l’ottava rappresenta un’ulteriore variazione del contrasto fra autorità e desiderio, norme sociali e ragioni del cuore, instaurato come motivo fondamentale della tragedia proprio dalla prima novella.6 Salvestra è di origini umili, figlia di un sarto; Girolamo è un rampollo, diremmo oggi, dell’alta borghesia, erede di «un grandissimo mercatante e ricco» (iv 8, 5): la loro vicenda ripropone, dunque, un divario di condizioni sociali che il pregiudizio di classe sospinge all’esito più funesto. Dopo il dittico della tyche, delle storie dolorose suggellate da una fatalità che trascende le responsabilità umane – ma rispetto alle morti accidentali di Simona e Pasquino, condannate all’opacità di una contingenza cronachistica, quella di Gabriotto nella novella precedente, la sesta, sembra trarre dall’aura superstiziosa, intrisa di premonizione che l’avvolge una specie di metafisica necessità – Boccaccio riprende il tema del potere repressivo che un’autorità familiare esercita sulla libertà dell’eros. Nella novella d’esordio questa autorità era feudalmente, dispoticamente incarnata dalla figura paterna: detentore, il principe Tancredi, di un dominio assoluto, addirittura, oltre l’ambito della famiglia, di ordine politico. La stessa, tradizionale autorità maschile determinava la sorte di Lisabetta di Messina, diramandosi, però, nell’iniziativa triplice dei fratelli, tanto prepotenti e brutali, peraltro, all’interno del microcosmo do5 Mario Baratto, Realtà e stile nel «Decameron», Roma, Ed. Riuniti, 1984, pp. 372 e 375. 6 Si ricordi che nel congegno calibratissimo dell’inventio boccacciana c’è posto anche per una sorta di grado zero del motivo: nella iv 6 esso si profila all’inizio (gli innamorati sono di condizione diversa e si incontrano furtivamente) ma rimane poi una semplice potenzialità, non attivata, della trama. F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 227 mestico, quanto allarmati dallo sguardo della comunità cittadina e timorosi della giustizia, semplici mercanti quali sono, che, diversamente dal signore di Salerno, non possono certo contare sull’impunità. Ora, nella novella di Girolamo e Salvestra, l’autorità maschile, una o trina, del padre o dei fratelli, cede il posto a quella femminile di una madre che avversa la passione amorosa del figlio: la variatio viene ad opporre quindi, specularmente, con un’inversione dei ruoli dell’antagonismo familiare, un tiranno femminile a una vittima maschile. Si sa che una delle modulazioni compositive più riconoscibili nel Decameron è il prodursi delle sue articolazioni testuali attraverso un movimento di ripetizione e differenza, un disegno di costanti e varianti; ovvero, lo scrittore tende a sperimentare le diverse soluzioni di uno stesso nucleo narrativo, a declinare e proiettare una situazione base in un ventaglio di alternative, a costruire, insomma, una trama di corrispondenze e asimmetrie, di riprese e deviazioni, secondo un vero e proprio gioco combinatorio, talora, la cui valenza conoscitiva consiste nell’immagine incontenibilmente plurale del mondo, nella considerazione relativistica delle scelte e dei destini umani, divergenti pur nell’esperienza comune delle pulsioni e dei gesti fondamentali della vita. Anche nella nostra giornata, come sempre, questo gioco di variazioni dello schema non si sviluppa nei modi di un puro, irrelato capriccio inventivo, ma obbedisce alla logica della rappresentazione realistica, che conforma di volta in volta fisionomie, comportamenti e decisioni dei personaggi alla specificità della latitudine storico-sociale in cui sono collocati. La raggiera di possibilità in cui si rifrange il motivo della coercizione familiare degli affetti è orientata da coerenti implicazioni di senso. Così la figura femminile che subentra alle precedenti maschili nel ruolo dell’autorità repressiva già ne annuncia un esercizio più blando, meno frontale, e comunque non cruento, compatibile, cioè, con le istanze dell’ethos fiorentino, con le misure istituzionali e la coscienza civile della ‘democrazia’ comunale. Certo, anche a Firenze la barriera tra le classi si delinea in tutta la sua rigidità e discriminazioni, pregiudizi, divieti solcano inflessibilmente la società; anzi, come ha sottolineato Baratto, «la novella è un documento eloquente di una distinzione tra popolo grasso e popolo minuto che è più forte, nella Firenze a metà del secolo, di quella tra ricca borghesia e aristocrazia».7 Vi si riverbera, insomma, l’«atteggiamento politico difensivo, rispetto ai ceti inferiori, della ricca borghesia finanziaria e mercantile, che si era ormai in buona parte assimilata alla vecchia aristocra7 M. Baratto, op. cit., p. 133. 228 Del nomar parean tutti contenti zia di origine feudale»,8 affidando al recupero dei «miti cortesi»9 (emblematicamente celebrati nel fastigio dell’intera architettura decameroniana, la decima giornata) la propria nobilitazione o legittimazione culturale. E un’eco precisa di quest’esigenza di promozione e raffinamento sociale mediante l’educazione a un costume signorile risuona nelle motivazioni che i tutori adducono per invogliare Girolamo al soggiorno parigino: «Noi ci contenteremmo molto che tu andassi a stare a Parigi alquanto, dove gran parte della tua ricchezza vedrai come si traffica, senza che tu diventerai molto migliore e più costumato e più da bene là che qui non faresti, veggendo quei signori e quei baroni e quei gentili uomini che vi sono assai e de’ lor costumi apprendendo» (iv 8, 11). Anche a Firenze, dunque, la logica delle convenzioni e degli interessi non può non contrastare spietatamente l’unione tra il figlio di «un grandissimo mercatante e ricco» (con l’epifrasi, tanto cara a Boccaccio, che isola in un suo bruto rilievo il dato della ricchezza) e la figlia di un piccolo artigiano. Ma qui l’intransigenza della chiusura classista non porta al sangue. Qui, nel cuore della civiltà comunale, la soppressione fisica dell’antagonista per una convenienza matrimoniale appare un’opzione completamente fuori dell’orizzonte delle possibilità; è una strada non solo impercorribile ma neanche immaginabile. E anzi la madre di Girolamo pensa senz’altro ad un espediente psicologico, ad una strategia indiretta, evitando, almeno inizialmente, qualunque forma di scontro aperto o di sia pur moderata costrizione. Ispirandosi a una saggezza comune, radicata nella quotidianità dell’esperienza, fa affidamento sugli effetti della lontananza (lontano dagli occhi lontano dal cuore), nella proverbiale previsione, appunto, che la passione del figlio, non più alimentata dalla vista della fanciulla («dilungandosi da veder costei» [iv 8, 9]),10 finisca per esaurirsi. Strategia indiretta, si notava; anche nel senso che la donna, dopo la morte del marito affiancata dai tutori nella gestione del patrimonio («I tutori del fanciullo insieme con la madre di lui bene e lealmente le sue cose guidarono» [iv 8, 5]), demanda loro l’attuazione del suo piano, incaricandoli di indurre il pupillo a stabilirsi a Parigi. Vale a dire che in questa versione fiorentina dell’amore ostacolato da un ‘interdetto sociale’ (come lo definiva Edoardo Sanguineti) si incrina l’assolutezza del microcosmo fami8 Ivi, p. 26. 9 Ivi, p. 27. 10E già poco prima: «…se noi dinanzi non gliele leviamo…» (iv 8, 8). F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 229 liare, che, con la presenza attiva dei tutori, si apre a figure estranee, dotate di ufficialità, e così il conflitto non resta chiuso tutto entro il cerchio rovente della consanguineità, ma conosce una sorta di mediazione legale, istituzionale; una mediazione debole, limitata alle prime battute, e tuttavia indicativa in qualche modo del sistema di rapporti, controlli, vincoli giuridici che regola la vita cittadina arginando l’anarchia di ogni spazio separato. Ma, fallito il tentativo di persuasione ad opera dei tutori, la madre riprende in mano l’iniziativa e affronta direttamente il figlio: La quale fieramente di ciò adirata, non del non volere egli andare a Parigi ma del suo innamoramento, gli disse una gran villania; e poi, con dolci parole raumiliandolo, lo incominciò a lusingare e a pregar dolcemente che gli dovesse piacere di far quello che volevano i suoi tutori; e tanto gli seppe dire, che egli acconsentì di dovervi andare a stare uno anno e non più: e così fu fatto (iv 8, 13). Prima, nella spontaneità dello sfogo, gli rovescia addosso la sua ira. Inveisce, lo investe con «una gran villania». Subito dopo, però, per piegarne la resistenza, il «non volere» (un’indocilità, d’altronde, che ben si attaglia a questo che è l’unico personaggio maschile della giornata a doversi difendere da un’imposizione, per quanto, nella fattispecie, velata), ricorre allo strumento, squisitamente femminile, delle blandizie e delle preghiere. La dolcezza suadente, il ricatto sentimentale, quindi, in luogo della manifestazione esplicita dell’autorità (del resto attribuita per intero, subdolamente, ai tutori: «quello che volevano i suoi tutori»), per non dire di una soluzione ferocemente estrema come l’omicidio. Questa figurazione al femminile della potestà repressiva – la madre non uccide e nemmeno costringe, ma tende, e vi riesce, a convincere con le «parole», anche se insidiosamente «dolci», intessute di amorevole doppiezza – allude, come abbiamo già rilevato, a una misura più libera delle relazioni umane, a un ideale di maturità civile, di amministrazione del vivere sociale all’insegna del dialogo, della discussione, o, se si vuole, di quell’etica fiorentina della parola, appunto, che è uno dei cardini della mitografia del Decameron.11 11Raffaello Ramat, in quello che resta uno dei pochissimi saggi dedicati alla nostra novella (Girolamo e la Salvestra, in Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963, pp. 343-4), ricordava come dello stesso accorgimento psicologico della lontananza già si avvalessero, nel Filocolo, i genitori di Florio per cercare di distogliere il figlio dall’amore per Biancifiore, creduta di «piccola condizione» (ii 8, 2); e anche lì su suggerimento della madre, anticipatrice, pertanto, della ‘mercantessa’ decameroniana (con la differenza, però, che questa «è un personaggio, mentre la reina era appena un tipo»): «Noi 230 Del nomar parean tutti contenti Irretito, dunque, dalla lusinga sapiente delle parole, Girolamo ubbidisce all’invito materno, stemperando nel consenso a malincuore la frontalità del contrasto. «Ai mercanti può accadere una vicenda prossima al sentimento tragico ‘classico’, ma a Messina o a Marsiglia, uno o due secoli prima».12 Sullo sfondo eccentrico, remoto di Messina 13 lo spazio privato di una famiglia mercantile può essere insanguinato da una sopraffazione, crudelmente incurante di ogni diritto o desiderio, che pare sovrapporre alla prosa borghese dei fondachi e del calcolo economico le atrocità di una scena arcaica. Non a Firenze, nel passato prossimo 14 di una cronaca cittadina ancora viva nella memoria della vecchia generazione («Fu adunque nella nostra città, secondo che gli antichi raccontano, un grandissimo mercatante e ricco, il cui nome fu Leonardo Sighieri…» [iv 8, 5]): Dove governi un ordine collettivo, nell’equilibrio tra poteri domestici e poteri pubblici, sembra non vi sia albergo per l’evento passionale di sapore barbarico, per gli accecamenti delle volontà fuorilegge, che preparano la catastrofe. Al massimo, c’è un possiamo sotto spezie di studio mandar Florio là a lui [cioè a Montoro, presso il duca Ferramonte], e quivi faccendolo per alcuno spazio dimorare, gli potrà agevolmente della memoria uscir questa giovane, non vedendola egli. E come noi vedremo che egli alquanto dimenticata l’aggia, allora noi gli potremo dare sposa di real sangue…» (ii 8, 5-6). Ma si consideri, in rapporto a quanto andiamo argomentando, che nel romanzo, intanto, Biancifiore subisce una sequenza di autentiche persecuzioni, fino a un tentativo di assassinio, e che, d’altra parte, «il consiglio della reina» (ii 9, 1), se viene agiatamente dibattuto in un prolisso dialogo, nello stile di letteraria esuberanza che è proprio dell’opera, tra il re e Florio, si carica tuttavia di un’inflessione autoritaria ignota alla novella: «– Bello figliuolo, […] ascoltino le tue orecchi pazientemente le mie parole; e i miei comandamenti, i quali da te debitamente deono essere osservati, per te siano messi ad effetto» (ii 10, 2). Il potere elude le ragioni: «Non rispose più il re a Florio, però che sì gli vedeva gli argomenti presti, che volendo parlare con lui avrebbe di gran lunga perduto, ma lasciandolo solo, si partì da esso e comandò che s’acconciasse l’arnese, acciò che Florio la seguente mattina n’andasse a Montoro» (ii 16, 1). Sull’assenso del figlio, alla fine, resta impresso il sigillo del «comandamento» paterno: «Florio, che malvolentieri a’ piaceri del padre avea consentito, ricevuto il comandamento del doversi partire la seguente mattina…» (ii 18, 1). 12G. Mazzacurati, op. cit., p. 21. 13Non a caso menzionata in quella rievocazione di un lontano clima feudale (cfr. M. Baratto, op. cit., pp. 324-7) che è la novella di Gerbino, la iv 4, a cui, con artificio consueto, la quinta si raccorda proprio sulla base del dato toponomastico («…a ricordarmi di quella [la storia di Lisabetta] mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove l’accidente avvenne» [iv 5, 3]), ricevendone, forse, un qualche riverbero in chiave di distanza politico-culturale dall’epicentro toscano del nuovo mondo dei mercanti. 14Si ricordi: «Firenze inibisce il tragico; ma anche il passato prossimo ne attenua l’oltranza» (G. Mazzacurati, op. cit., p. 21). F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 231 teatro per gli enigmatici strumenti del caso, che colpisce senza nessuna origine di colpa; o per l’altrettanto enigmatica biologia del trasporto d’amore, degli spiriti vitali.15 Eppure, come sappiamo, in questa seconda novella fiorentina della giornata, la catastrofe si origina comunque, al di là del mistero dell’interiorità, da una colpa, da una precisa iniziativa umana; discende dalla violenza, sia pure soltanto morale, consapevolmente perpetrata da una madre. Anzi, nell’agire di questa moglie di mercatante si prolunga addirittura l’eco di un paradigma antico della tragedia, quello imperniato sulla miseria degli intenti dei mortali, sulla cecità dell’uomo e del suo volere di fronte al destino. La madre ‘presume’ con il proprio «senno» di dominare il futuro della famiglia e l’esistenza del figlio, e non si avvede di sfidare stoltamente il destino lottando, proprio, contro la predestinazione di un amore decretato dalle «stelle». Pretende di progettare la vita a venire, di calcolare, quasi da buona mercantessa, i rischi che si profilano all’orizzonte e di sventarli, di correggere la direzione degli eventi.16 Crede di essere «savia», ma la sua saggezza non tarda a rivelarsi insensatezza, follia, poiché pensa di riuscire a imbrigliare la più oscura e ingovernabile delle forze naturali, quell’eros che nell’universo boccacciano funge da figura privilegiata del destino. Una tale «presunzione» di opporsi alla «natura delle cose» è, tecnicamente, hybris; e, come nella tragedia greca, su chi ha violato la legge si abbatte fatale la sciagura. Inquadrando la vicenda dal punto di vista della madre, del resto «personaggio principale dell’antefatto»,17 il preambolo della narratrice, mentre viene a ribadire le argomentazioni polemiche dell’Introduzione alla giornata, illumina, esattamente, la parabola di trasgressione e punizione di un autentico protagonismo tragico, più autentico, in ogni caso, di quanto lasciasse supporre il paesaggio di angustie municipali e convenzioni borghesi in cui è calato: Alcuni, al mio giudicio, valorose donne, sono li quali più che l’altre genti si credon sapere e sanno meno; e per questo non solamente a’ consigli degli uomini ma ancora contra la natura delle cose presummono d’opporre il senno loro; della 15Ibidem. 16La crucialità, in questa novella, del fattore temporale emerge fin dalla qualità particolare che vi assume il Leitmotiv dell’amore soffocato, relativo qui, unico caso della giornata, a un sentimento ancora in erba, adolescenziale, di cui si anticipa nel pensiero l’evoluzione e si tenta di scongiurare l’esito con un’azione preventiva, giacché, come diceva nello stesso frangente la regina del Filocolo, «quando le piaghe sono recenti e fresche, allora si sanano con più agevolezza che le vecchie già putrefatte non fanno» (ii 8, 2). 17R. Ramat, op. cit., p. 345. 232 Del nomar parean tutti contenti quale presunzione già grandissimi mali sono avvenuti e alcun bene non se ne vide giammai.18 E per ciò che tra l’altre naturali cose quella che meno riceve consiglio o operazione in contrario è amore, la cui natura è tale che più tosto per se medesimo consumar si può che per avvedimento alcun torre via, m’è venuto nell’animo di narrarvi una novella d’una donna la quale, mentre che ella cercò d’esser più savia che a lei non s’apparteneva e che non era e ancor che non sostenea la cosa in che studiava mostrare il senno suo, credendo dello innamorato cuor trarre amore, il qual forse v’avevano messo le stelle, pervenne a cacciare a un’ora amore e l’anima del corpo al figliuolo (iv 8, 3-4). La tragedia degli amanti infelici è piuttosto, dunque, o racchiude, in una dimensione più classica, la tragedia dell’impotenza del «sapere» umano, la tragedia di una donna improvvida per troppa previdenza, che nella sua sollecitudine materna osa oltrepassare il limite sacro delle «naturali cose» e perciò incorre in «grandissimi mali». Proprio adoperandosi per salvaguardare la serenità futura del figlio e insieme il proprio orgoglio di classe 19 prepara la rovina totale della famiglia: «…credendo dello innamorato cuor trarre amore, il qual forse v’avevano messo le stelle, pervenne a cacciare a un’ora amore e l’anima del corpo al figliuolo». Cieca, come Edipo, nella sua lungimiranza, nella sua pretesa di precorrere gli accadimenti. Un’ombra dell’ironia tragica che attraversa la drammaturgia sofoclea culminando nell’Edipo re, assurto nella tradizione occidentale a «simbolo del modo con cui il destino si prende gioco dell’uomo», lambisce, infatti, la storia della mercantessa. Anche per lei, in fondo, si può affermare che «è lo sforzo dell’uomo per sfuggire alla rovina che invece ve lo precipita»; anche del suo esempio sarebbe lecito servirsi «per dimostrare come ogni azione umana possa ritorcersi contro colui che ne è l’autore».20 Per quanto sembri paradossale, fra tutte le novelle della 18E si rilegga questo passaggio alla fine dell’Introduzione alla iv giornata (41): «…gli altri e io, che v’amiamo, naturalmente operiamo; alle cui leggi, cioè della natura, voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano». 19« Questo nostro fanciullo, il quale appena ancora non ha quattordici anni, è sì innamorato d’una figliuola d’un sarto nostra vicina, che ha nome Salvestra, che, se noi dinanzi non gliele leviamo, per avventura egli la si prenderà un giorno, senza che alcuno il sappia, per moglie, e io non sarò mai poscia lieta, o egli si consumerà per lei se a altrui la vedrà maritare; e per ciò mi parrebbe che, per fuggir questo, voi il doveste in alcuna parte mandare lontano di qui ne’ servigi del fondaco, per ciò che, dilungandosi da veder costei, ella gli uscirà dell’animo e potrengli poscia dare alcuna giovane ben nata per moglie» (iv 8, 8-9). 20Le citazioni precedenti sono tratte da Jacqueline de Romilly, La tragedia greca, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 91 e 95. F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 233 quarta giornata la nostra è quella che meglio, o certo con minore forzatura, è possibile ricondurre – almeno se si valorizza, sulla scorta del prologo, la prospettiva della madre – all’impronta primordiale, archetipica del tragico, alla modalità essenziale del suo meccanismo che Szondi ha definito «la dialettica tragica di salvezza e annientamento»:21 Più d’ogni altra opera, l’Edipo re appare intessuto di tragicità nella trama della sua azione. Ovunque lo sguardo si fissi nella vicenda dell’eroe, esso incontra quell’unità di salvezza e annientamento che costituisce un tratto fondamentale di ogni tragico. Giacché a essere tragico non è l’annientamento in sé, ma il fatto che la salvezza si trasformi in annientamento; la tragicità non si compie nel declino dell’eroe, ma nel fatto che l’uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi.22 Nel clima di «normalità cittadina, anzi […] rionale»,23 o, se si preferisce, di borghese opacità, della Firenze di un mezzo secolo, pressappoco, prima della grande peste, una madre finisce per annientare la vita del figlio, e la sua stessa, proprio imboccando la strada che dovrebbe preservarlo dai danni di un amore inopportuno e garantirgli l’auspicata ascesa sociale («…si credeva per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un melrancio» [iv 8, 7]). Se l’amorevolezza trascolora in cattiveria, prepotenza, la ricerca del bene e della prosperità si capovolge in causa di lutto, la salvezza in annientamento. La donna, dicevamo, gioca con il tempo: valutandone i movimenti e gli effetti, lo contrae nel pronostico dell’avvenire e lo distende quando frappone tra gli innamorati lo spazio di una protratta lontananza. Ma la sua accorta regìa non arriva a comprendere la fatalità dell’amore di Girolamo, né, in generale, la potenza capricciosa di «amore, la cui natura è tale che più tosto per se medesimo consumar si può che per avvedimento alcun torre via». Sulla passione assoluta di Girolamo il trascorrere del tempo nella separazione dall’amata non lascia il minimo segno. Per questo eroe della fissità interiore, «vittima chiusa e solitaria» di un «silenzioso eroismo dell’amore»,24 i mutamenti dello scenario esteriore sembrano privi di consistenza. Per lui il tempo non ha spessore, si direbbe irreale, come, 21Peter Szondi, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi, 1999, p. 81. 22Ivi, p. 79. 23R. Ramat, op. cit., p. 343. 24 M. Baratto, op. cit., p. 134. D’altra parte, «la storia di Girolamo è uno studio d’anima, nel senso che le vicende valgono solo nella prospettiva della sua personalità, contrapponendo la mutabilità degli eventi e delle azioni degli uomini (di tutti gli altri) alla chiusa staticità della sua passione, che il volgere degli anni non vale a intiepidire» (ivi, p. 133). 234 Del nomar parean tutti contenti quasi iconicamente, attesta la sintassi, che condensa in un unico, breve giro di frasi l’esilio dei due anni parigini e il ritorno a casa: Andato dunque Girolamo a Parigi fieramente innamorato, d’oggi in doman ne verrai, vi fu due anni tenuto; donde più innamorato che mai tornatosene, trovò la sua Salvestra maritata a un buon giovane che faceva le trabacche, di che egli fu oltre misura dolente (iv 8, 14). All’interno dello stesso periodo l’assenza si salda impercettibilmente alla nuova condizione della presenza, all’amara scoperta che per gli altri il tempo non è passato invano, ha introdotto un cambiamento irreversibile nella realtà. A questo punto l’ostacolo al compimento dell’amore cessa di essere l’autorità materna, che ha ormai prodotto il suo frutto avvelenato. L’antagonismo coinvolge adesso, fendendola, la coppia stessa degli amanti, dal momento che la distanza fisica è divenuta distanza morale, psicologica, incomunicabilità dei sentimenti. Al dissidio tra figlio e madre, che è contrapposizione ideale di valori e di visioni della vita – benché implicita, tutta affidata alla dinamica dell’intreccio, all’attrito sordo degli atti, senza che la mediocrità borghese dell’ambientazione consenta al «silenzioso eroismo dell’amore» di tradursi nella consapevolezza della rivendicazione, quale si confaceva alla principesca altezza intellettuale di Ghismonda –, subentra quello, motivato dalle congiunture dell’affettività, tra chi ricorda e chi ha dimenticato (o vuole dimenticare), tra costanza e volubilità del cuore: Secondo l’usanza de’ giovani innamorati incominciò a passare davanti a lei, credendo che ella non avesse lui dimenticato se non come egli aveva lei: ma l’opera stava in altra guisa. Ella non si ricordava di lui se non come se mai non l’avesse veduto, e se pure alcuna cosa se ne ricordava sì mostrava il contrario (iv 8, 15). Fasciato dal patetico della nostalgia, fermo illusoriamente alla stagione ormai passata dei «giovani innamorati», Girolamo trova proprio in Salvestra l’antagonista che impedisce la sua felicità. Anche questo, dopo l’autorità familiare in vesti femminili e la disparità di rango a vantaggio del personaggio maschile, è un unicum nella giornata, una configurazione inedita dello schema dell’amore stroncato:25 la funzione repressiva tocca in successione a 25Diversa, naturalmente, non paragonabile alla nostra la situazione di rottura causata nella terza novella dal sopraggiunto disamore di Restagnone che scatena la gelosia funesta di Ninetta. F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 235 due attori appartenenti a campi differenti, e l’amata viene a ricoprire inusitatamente il duplice ruolo di vittima, prima, e poi di responsabile o complice del divieto. Ma ora che, eclissatasi la madre,26 della scena si impossessano i due giovani, condannati a non incontrarsi in quanto irriducibilmente rinchiusi ciascuno in un diverso tempo interiore,27 quella filigrana di tragicità fondamentalmente greca che abbiamo intravisto nel racconto sbiadisce, e insomma la sacralità della tragedia declina, come giustamente scrive Mazzacurati, verso il ‘dramma d’amore’, sfuma in elegia dell’amore perduto.28 Sembra che l’intuizione boccacciana di un tragico esemplare, di timbro classico, ma pure perfettamente aggiornato alle coordinate ideologiche del naturalismo del Decameron (l’inviolabilità delle «naturali cose»…), si appanni nello spostamento, tra prima e seconda parte della novella, del fuoco narrativo e, dopo aver improntato, con la lucidità della tematizzazione, la premessa di Neifile, disperda gradualmente la sua carica, riducendosi a una traccia sempre meno nitida. Con l’esaurirsi del protagonismo della madre l’esperienza tragica della hybris punita rimane un diagramma incompleto, soltanto accennato, a cui si sovrappone, con le sue tonalità assai più nette, il ‘mistero’ sentimentale degli amanti che si perdono nel tempo per ritrovarsi infine nella morte. Un’altra e senza dubbio la maggiore delle particolarità che caratterizzano questa ottava fra le novelle di «coloro li cui amori ebbero infelice fine» è, infatti, la profondità diacronica della narrazione. Qui l’amore non sfocia più o meno rapidamente nella morte ma si dispiega nel tempo; ed ha, perciò, anche il tempo di estinguersi.29 È come se Boccaccio volesse ora mostrare il 26«Della madre, personaggio principale dell’antefatto, non si fa più cenno fino alla conclusione, dove riappare appena rilevata fra le altre donne del coro lagrimoso» (R. Ramat, op. cit., p. 345). Il riferimento è all’apparizione, quasi ritualmente obbligata, del par. 29: «Fu adunque questo corpo portato in una chiesa, e quivi venne la dolorosa madre con molte altre donne parenti e vicine, e sopra lui cominciaron dirottamente, secondo l’usanza nostra, a piagnere e a dolersi». 27«Il disegno originale della madre, lo scambio di spazio con tempo, è fallito perché Girolamo torna “più innamorato che mai”, ma la parziale abiura di Girolamo, che ha accettato una sospensione del flusso, una parentesi aperta sulla serie temporale, tornando poi a Firenze con propositi da heri dicebamus, si rivela fatale perché Salvestra ha invece vissuto integralmente e fedelmente il compito del tempo, senza intermittenze e perciò mutando in esso e con esso. La sconnessione delle sequenze di vita è così consumata, la Salvestra finge di non riconoscere Girolamo rientrato in città, egli appartiene a un ‘altro’ tempo» (Valter Puccetti, Girolamo, Salvestra e l’inferno degli amori nel «Decameron», in «Studi sul Boccaccio», 1991-92, pp. 92-3). 28Di «novella del tempo perduto» parla Puccetti (ivi, p. 93). 29Qualcosa di – parzialmente – simile incontriamo solo nella già citata novella terza, in cui 236 Del nomar parean tutti contenti rovescio di quella vertigine di amore e morte che travolge e insieme sublima gli eroi della quarta giornata; mostrare, cioè, quel che può accadere all’amore quando non si coniuga subito, sacralmente, con la morte. E scioglie, pertanto, nella prospettiva accidentata e mutevole di una ‘storia’ quell’alone di assolutezza atemporale che la morte proietta sull’amore precocemente troncato. La storia, appunto, di Girolamo e Salvestra. Dagli albori della consuetudine infantile pian piano fino alla rivelazione imperiosa del reciproco amore: Il fanciullo, crescendo co’ fanciulli degli altri suoi vicini, più che con alcuno altro della contrada con una fanciulla del tempo suo, figliuola d’un sarto, si dimesticò; e venendo più crescendo l’età, l’usanza si convertì in amore tanto e sì fiero, che Girolamo non sentiva ben se non tanto quanto costei vedeva: e certo ella non amava men lui che da lui amata fosse (iv 8, 6). Se la felicità degli innamorati è a questo punto minacciata, canonicamente, dalla ragion di famiglia, la forma peculiare che nella novella assume l’intervento dell’autorità fa sì che la storia prosegua e l’assoluto del microcosmo amoroso nel suo cerchio esclusivo, nella sua chiusura incantata al mondo («non sentiva ben se non…») venga esposto alla prova degli anni che passano. E allora la pienezza del vincolo d’amore, che pure sembrava consacrato in un’aura di necessità dal preludio fatale della fanciullezza, cede all’insidia del tempo, il cui peso si concretizza nell’evoluzione del personaggio di Salvestra, il solo dotato di dinamismo, capace di ricevere lo stimolo delle contingenze e di mutare – e lo farà una seconda volta, alla fine – il proprio atteggiamento. Quell’intervallo di due anni consegnato, secondo l’ottica di Girolamo, alle poche righe del paragrafo 14 che, come si constatava, stringono insieme in l’assai più superficiale raffigurazione dei caratteri si raggruma nel topos psicologico (cfr. la n. 2 di V. Branca a p. 511 dell’edizione del Decameron da lui curata) della sazietà che si finisce immancabilmente col provare per ciò che ormai si possiede: «Avvenne, sì come noi veggiamo tutto il giorno avvenire che quantunque le cose molto piacciano avendone soperchia copia rincrescono, che a Restagnone, il quale molto amata avea la Ninetta, potendola egli senza alcun sospetto a ogni suo piacere avere, gl’incominciò a rincrescere e per conseguente a mancar verso lei l’amore» (iv 3, 20). Ma, dopo avere rinviato in proposito alle notazioni di V. Puccetti (op. cit., pp. 116-8), occorrerà osservare come la sostanza umana della temporalità, ridotta a quell’astrattezza proverbiale che si diceva, risulti inoltre schiacciata dalla meccanicità vorticosa di un racconto che, con il suo «ritmo inarrestabile di casi e di delitti» (M. Baratto, op. cit., p. 100), diverge parecchio dalla scansione interiorizzata della novella di Girolamo e Salvestra, dove, tra l’altro, non si tratta della sazietà del desiderio soddisfatto ma semmai di quel carico di inavvertita, quotidiana infedeltà che lo scorrere del tempo può depositare sugli affetti e sui sogni degli uomini. F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 237 un’unica, efficacissima sequenza sintattica il distacco, la permanenza impaziente a Parigi, il ritorno e la cognizione del nuovo stato di cose, trasforma invece l’esistenza di Salvestra. Dobbiamo rappresentarci la sua solitudine incisa dalla lunga, infida sequela dei giorni e delle circostanze, il suo sentimento logorato a poco a poco, impolverato dal tocco smemorante del tempo. Fino a che l’animo, attratto insensibilmente in un’altra orbita di gesti e di pensieri, arriva a tradire la corrispondenza amorosa del passato («e certo ella non amava men lui che da lui amata fosse»). Se riempiamo così l’ellissi dei due anni di Salvestra rimasta a Firenze – che pone Girolamo, e il lettore, di fronte alla sorpresa di una condizione sconcertante: «la sua Salvestra maritata…» –, potremo cogliere nella sua vicenda l’immagine, tanto atipica in questa giornata quanto umanissima, crudamente verosimile, di un amore che si affievolisce lungo le occasioni opache della quotidianità, che non resiste alla pressione delle evenienze concrete della vita. Alla tenerezza appassionata della domanda di Girolamo («O anima mia, dormi tu ancora?» [iv 8, 17]), che sembra varcare vertiginosamente il tempo 30 come ricollegandosi di colpo alla consuetudine di un discorso amoroso appena interrotto, la donna reagisce con l’apprensione meschina e le parole disamorate di chi non vuole a nessun costo mettere a repentaglio la «tranquillità» del suo piccolo cabotaggio domestico: Tutta tremante disse: «Deh, per Dio, Girolamo, vattene: egli è passato quel tempo che alla nostra fanciullezza non si disdisse l’essere innamorati. Io sono, come tu vedi, maritata; per la qual cosa più non sta bene a me d’attendere a altro uomo che al mio marito. Per che io ti priego per solo Idio che tu te ne vada, ché se mio marito ti sentisse, pogniamo che altro male non ne seguisse, sì ne seguirebbe che mai in pace né in riposo con lui viver potrei, dove ora amata da lui in bene e in tranquillità con lui mi dimoro» (iv 8, 19-20). La sua è la voce del buon senso, della realistica accettazione del tempo: «è passato quel tempo…». Per lei l’apparizione notturna di Girolamo è soltanto un agguato alla «pace» coniugale. Gli argomenti usati per respingere i «molti prieghi e promesse grandissime» (iv 8, 21) che il giovane le fa in 30Del quale, dunque, una volta di più il protagonista dichiara, per quel che lo riguarda, l’inesistenza. Ma sulla battuta conviene leggere il finissimo commento di Ramat: «Già dormi, e puoi dormire? Doloroso stupore per quella pace confrontata con la propria pena; e se l’interrogazione ha il tono familiarmente dimesso dell’abitudine, il vocativo che la precede vi immette una vibrazione ineffabilmente appassionata e malinconica; già vi senti suono di parole estreme» (op. cit., p. 346). 238 Del nomar parean tutti contenti nome di un passato solo per lui tuttora vivo nell’immutata intensità del sentimento («ricordatole il passato tempo e ’l suo amore mai per distanzia non menomato» [ibid.]) – e cioè all’insegna della negazione del tempo – non si ispirano tanto a preoccupazioni di carattere affettivo o morale quanto al timore di vedere compromessi i privilegi, le piccole sicurezze di uno status soddisfacente. ‘Pace’, ‘riposo’, ‘tranquillità’: la nomenclatura del quieto vivere familiare, di una scialba contentezza matrimoniale. Il respiro modesto del personaggio nell’angustia delle sue prospettive (della sua idea di felicità, si potrebbe dire) è rispecchiato puntualmente dalla fisionomia lessicale che il narratore gli assegna. Salvestra parla, e agisce, da antieroina di una fredda e pratica saggezza, quasi in qualche modo ricalcasse, in chiave piccoloborghese e certo con più innocente semplicità, la logica positiva ed egoistica della madre, ora che la sostituisce nella funzione di oppositrice di Girolamo e col suo stesso comportamento ne rende operante l’interdetto. Quando, dopo il ‘sommario’ dell’idillio adolescenziale, entra pienamente in scena, la fanciulla amata 31 sembra avvicinarsi – con una singolare infrazione al canone ‘romantico’ della giornata – alla latitudine mentale della sua antagonista, obbedendo, nell’assennata indifferenza con cui accoglie Girolamo, a una regola di convenienza e d’interesse che replica, in definitiva, l’insensibilità della mercantessa alla verità, o ai diritti, dell’amore. Eppure, a questa aridità, alla misura realistica, grettamente ragionevole della nostra antieroina è sotteso il segno di un’altra verità dell’amore, e delle cose umane, che forse carica il suo ristretto buonsenso di uno spessore e di una dignità, diremmo, conoscitiva. Ramat scrive che Salvestra «vuole vivere nella tranquilla legalità del matrimonio senza complicazioni che ne turbino la mediocrità; ripudia la eccezionalità nella quale per un momento aveva respirato, e ne ha paura».32 Non solo la paura, banale, di perdere i vantaggi della sua posizione di moglie rispettata, ma, più sottilmente, paura dell’‘eccezionalità’ di una dimensione sentimentale per lei insostenibile. Paura, e rifiuto, dell’estremismo della passione, dell’assolutizzazione dell’amore che ignora le contingenze e il movimento della vita. Nella Firenze borghese e moderna, refrattaria allo spirito della tragedia, si inscena ino31Amata, appunto, più che amante, a differenza (ulteriore) delle più celebri eroine delle storie tragiche, che sono esse, di solito, l’elemento attivo dell’innamoramento, il soggetto, come eloquentemente anche sul piano sintattico mostra, talora, la mise en relief delle rubriche: «L’Andriuola ama Gabriotto…», «La Simona ama Pasquino…»; e invece: «Girolamo ama la Salvestra…». 32R. Ramat, op. cit., p. 345. F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 239 pinatamente il tragico in un certo senso più acuto e radicale della quarta giornata, quello che, al di là della violenza oggettiva, esterna dei pregiudizi e dell’autorità, contrappone nel profondo gli stessi amanti: il tragico dell’incomprensione, della distanza tra gli individui, dell’impossibilità di conciliarsi con l’altro. E il dramma psicologico adombra anch’esso, al pari del conflitto tra madre e figlio, una specie di antitesi ideologica, una divergenza nel modo di interpretare la realtà. Si fronteggiano, come è risultato evidente dalla lettura della novella, due figure, se non due idee, dell’amore: l’amore immerso nella concretezza aleatoria dell’esperienza esistenziale, acceso dalle sollecitazioni del presente, condizionato, pertanto, dal passare del tempo e dal mutare delle situazioni; e l’amore che, chiuso in una sublime irriducibilità, non riconosce, invece, il passare del tempo e si cristallizza nella memoria, nella nostalgia, nel vagheggiamento interiore, capace di alimentarsi anche dell’assenza («donde più innamorato che mai tornatosene…») proprio perché non lo tocca l’empirica variazione delle circostanze. Quello di Salvestra è l’amore – umano, troppo umano – nella sua fisiologica parabola di pienezza e declino, l’amore che (sebbene, certo, la forzata separazione sia determinante) «per se medesimo consumar si può», come ha avvertito introduttivamente Neifile. Sul ‘romanticismo’ della giornata tragica incombe l’obiezione di un realistico disincanto. Se la passione non è spenta con la forza nel momento dell’incandescenza, il tempo può arrivare pian piano a raffreddarla, a fiaccarla. Spesso il tempo finisce per ottundere nel giro impuro della quotidianità il più intenso dei sentimenti. Nella mediocrità della protagonista, dunque, si annida un richiamo alla verità della vita. E del resto quanto succede a Salvestra, «la donna della normalità»,33 coincide con quel che lo stesso Boccaccio afferma nel Proemio di avere sperimentato nel proprio vissuto personale: …Ma sì come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn’altro fervente e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per se medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso (5). 33Ivi, p. 347. 240 Del nomar parean tutti contenti «In processo di tempo» anche il suo amore, «oltre a ogn’altro fervente», si è illanguidito (e «per se medesimo», come ripeterà poi Neifile, quindi per il solo effetto del tempo che fluisce), la furia di quella che era stata la dolorosa fiamma ridotta a null’altro che un piacevole tepore. Con la persuasiva immediatezza della testimonianza (pseudo)autobiografica Boccaccio mette in forte risalto fin dalla soglia del testo la natura transitoria di «tutte le cose mondane», la legge del divenire a cui sono soggette, che, enunciata qui secondo la più tradizionale coloritura religiosa, ma anche senza alcuna nota di afflizione o di malinconia (il tramonto della passione non ha forse sottratto lo scrittore alla morsa degli ‘affanni’?), è rimodulata all’altro capo dell’opera, nell’ultima pagina della Conclusione dell’autore, come la sigla stessa della ‘filosofia’ boccacciana: «Confesso […] le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna ma sempre essere in mutamento» (27). Su questa consapevolezza così decisa dell’instabilità di tutto ciò che è umano, accentuata in un orizzonte di sostanziale immanenza mentre vanno annebbiandosi le linee dell’architettura teologica del cosmo, si incentra la nuova, postmedievale Weltanschauung che, garantita dalla crescente egemonia socio-ideologica del ceto mercantile, governa il Decameron. Ad onta della sua matrice cristiana l’immagine dell’instabilità delle «cose di questo mondo» diviene, paradossalmente, l’emblema di una rappresentazione moderna, laica del reale,34 improntata da un’apertura problematica alle dinamiche fortunose, all’incostanza e mobilità, appunto, dell’esistenza, che è sempre meno possibile ancorare all’eternità di un ordine divino e altrettanto impossibile, perciò, interpretare e trascrivere se non evitando ogni semplificazione dogmatica o rigidità figurativa, reinventando radicalmente il modo del narrare. Instabilità e «mutamento» sono gli attributi, di incisiva evidenza simbolica, di una realtà che sta perdendo la secolare saldezza dei suoi fondamenti metafisici e si sottrae ai modelli conoscitivi e morali che l’hanno fin qui fissata; ed è nel loro segno che nasce il realismo, identificabile, prima ancora che in specifici procedimenti formali, nella «tendenza ad accogliere il mondo (e a lasciare che si esprima) fuori degli schemi»35 in cui era stato in precedenza costretto. La tessitura duttile della novella, infatti, lascia che il mondo si esprima, che 34Nel Decameron, scrive Baratto (op. cit., p. 15), «vengono rilevate l’instabilità, la fluidità, l’insidia di un mondo non più provvidenziale agli occhi dell’uomo, colto in un ambito terrestre e quotidiano; un mondo aperto e imprevedibile». E sulla novella come «il genere letterario fondato sulla coscienza che “le cose di questo mondo non hanno stabilità, ma sono sempre in mutamento”» cfr. Luigi Surdich, Boccaccio, Bologna, il Mulino, 2008, p. 118. 35M. Baratto, op. cit., p. 15. F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 241 si mostri liberamente il gioco empirico degli eventi, degli atti, dei desideri, senza sistemarne, immobilizzarne la traiettoria e il significato all’interno di un paradigma interpretativo predeterminato. Si può forse dire che il problema maggiore affrontato da Boccaccio nel Decameron sia stato quello di dare forma, organicità, senso nella costruzione narrativa alla varietà e mutevolezza della vita e insieme di riuscire a conservarne l’urto irriducibile (irriducibile a qualsiasi principio unificante, a qualsiasi regola universalmente valida), a non trasgredire la fenomenologia aperta delle cose. Ma naturalmente il Decameron, come ogni grande espressione d’arte, è un campo di contraddizioni; e ad esempio, dal nostro punto di vista, non è difficile notare come l’aderenza ironica, relativistica, allo spettacolo mobile e multiforme dell’agire umano, la s-pregiudicatezza dello sguardo, insomma, che largamente caratterizza l’opera venga contraddetta o quantomeno velata, soprattutto, dalla tentazione dell’esemplarità, dall’enfasi della virtù perfetta e monumentale che irrigidiscono l’ultima giornata, ma strida pure, per certi versi, con l’atmosfera di sublimità, di eroica integrità del volere che avvolge talune vicende della quarta. Salvestra, con la sua normalità psicologica, non sa mantenersi a queste altezze, non è capace di respirare a lungo, come osservava Ramat, questo clima di eccezionalità. La sua infedeltà, tanto umanamente credibile, alla fatalità assoluta della passione incrina la letteraria, tristaniana 36 celebrazione di amore e morte della giornata tragica, gettandovi quasi il riflesso di una luce ironica e smitizzante: la luce della vita, in fondo, secondo la rinnovata percezione che ne propone Boccaccio, nella realistica considerazione della relatività delle prospettive e dei valori, dell’instabilità di «tutte le cose mondane», a cominciare dagli affetti, come preliminarmente attesta lo squarcio autobiografico del Proemio. Il contrasto tra follia d’amore e ragionevolezza che divide i due protagonisti della iv 8 sottintende, quindi, una dialettica sottile tra mitologia e verosimiglianza, letteratura e vita, se possiamo così schematizzare, che in ultima istanza chiama in causa la stessa poetica del realismo. Lo sviluppo in diacronia del racconto, consegnando il nodo della tragedia ai percorsi scivolosi della temporalità che sono propri del romanzo 37 (e che già ben conosceva l’autore del Filostrato e della Fiammetta), viene a illuminare l’effettiva precarietà dei sentimenti umani nell’attrito con le congiunture 36Cfr. Vittore Branca, n. 6 a p. 486 dell’ed. cit. del Decameron. 37In un’ottica diversa Baratto ascrive la iv 8 al tipo della ‘novella-romanzo’, il sottogenere decameroniano in cui «si manifesta un rapporto intenso, di interazione decisiva, tra realtà e personaggio, tra gli eventi e l’individuo che li assume e li vive» (op. cit., p. 135). 242 Del nomar parean tutti contenti dell’esistenza, insinuando tra le righe l’inattendibilità di ogni idealizzazione, la pura letterarietà dell’Amore che la morte consacra in eterno. È una piccola spia, senza dubbio, l’amore dimenticato, la freddezza di Salvestra; che tuttavia rimane indiscutibilmente, come già sottolineava Getto, «una situazione nuova nella serie di queste storie d’amore»,38 un’anomalia nel contesto della giornata che abbiamo qui cercato di valorizzare addirittura in chiave metanarrativa, autocritica. Un’anomalia che il rientro finale nella norma non dovrebbe comunque far trascurare, anche perché la suddetta dialettica di letteratura e vita attraversa tutto l’arco della novella, che mescola, infatti, l’abissalità del tragico (abbiamo perfino accennato a Edipo…) e i colori feriali di un «quadro di ravvicinata quotidianità»39 urbana (fino ai «teli di trabacche»40 [iv 8, 17] dietro cui si nasconde Girolamo, in una camera da letto che torna ad essere il luogo centrale del dramma come nella iv 1 ma – ripetizione e differenza, come al solito – con un flagrante immiserimento della scenografia e delle sue vibrazioni simboliche). Anzi, la stessa solennità del notturno funebre è contaminata dall’«atmosfera pratica» in cui, come sappiamo, resta ostinatamente immersa Salvestra, dalla sua sordità al sublime della morte di Girolamo: una sorta di suicidio mentale («…diliberò di più non vivere; e ristretti in sé gli spiriti, senza alcun motto fare, chiuse le pugna allato a lei si morì» [iv 8, 23]), che lascia a lei e al marito soltanto «un cadavere ingombrante e pericoloso, nonché un assurdo nella logica della loro vita, da eliminare per sempre».41 La commistione di alto e basso, di straordinario e giornaliero, di pathos e prosaicità sancisce l’importanza cruciale di questa novella nella ricerca boccacciana di un tragico borghese; un tragico minore, spogliato dell’iperbole crudele e sanguinolenta dei gesti propria di altre novelle 42 e plausibilmente 38Giovanni Getto, Vita di forme e forme di vita nel «Decameron», Torino, Petrini, 1958, p. 137. 39Emma Grimaldi, Il privilegio di Dioneo. L’eccezione e la regola nel sistema «Decameron», Napoli, E.s.i., 1987, p. 133. 40 «Simbolo del tempo attivo e laborioso dell’uomo che gli ha tolto Salvestra» (V. Puccetti, op. cit., p. 93). 41 R. Ramat, op. cit., p. 348; che continua: «Dopo l’intensità di linguaggio della eccezionale morte di Girolamo, questa parte, nonostante la materia macabra, si svolge sul registro, completamente diverso, della normalità, con forte contrasto stilistico: sono due mondi incomunicabili». 42 Come certifica, autoriflessivamente, l’introduzione alla successiva: «Èmmisi parata dinanzi, pietose donne, una novella alla qual […] vi converrà non meno di compassione avere F.P. Botti L’amore nel tempo: la novella di Girolamo e Salvestra (Decameron, iv 8) 243 accordato con le dimensioni sociali e culturali della contemporaneità mercantile. Firenze, abbiamo letto all’inizio, inibisce il tragico; ma, alla luce della storia di Girolamo e Salvestra, si potrebbe anche sostenere che lo modernizza, e in qualche maniera lo problematizza, smorzandone le risonanze più enfatiche, rendendolo riconoscibile nella realtà delle abitudini, dei rapporti, delle gerarchie della vita cittadina, riconducendo la veemenza incondizionata delle passioni e delle volontà all’usura segreta del tempo. Perfino Girolamo, d’altronde, l’eroe della fedeltà inalterabile all’assoluto di un amore scritto nelle stelle, di fronte al matrimonio di Salvestra, «veggendo che altro essere non poteva, s’ingegnò di darsene pace» (iv 8, 15); abdica, cioè, a quell’assoluto e, arrendendosi ai limiti oggettivi della situazione, si rassegna a degradarlo, in definitiva, al livello della banalità adulterina (che pare appunto l’esito, per il peso che ha nel costume e nell’assetto della società protoborghese di Firenze l’istituzione matrimoniale, a cui è condannata qui l’extraconiugalità dell’amore cortese). Ma «la scommessa del tragico e dei suoi possibili linguaggi “volgari”» di cui parla Mazzacurati va portata fino in fondo, in un’opera come il Decameron che mira alla sublimazione letteraria, sotto l’antica protezione delle Muse e del Parnaso, del nuovo mondo e della nuova coscienza dell’umano generati dall’espansione della civiltà mercantile. Anche questo tragico impuro reclama la sua catarsi, che si compie con la «redenzione»43 di Salvestra, redenzione, insieme, morale ed estetica, di un tradimento sentimentale e di una piccolo-borghese insufficienza alla tragedia. Le ragioni della letteratura (l’‘eccezionalità’ della letteratura) riprendono il sopravvento sulla ‘normalità’ dell’esistenza. E la conversione repentina della donna – pur abilmente preannunciata, come in un crescendo emotivo, dalla motivazione autentica che il narratore legge nell’intimità del suo animo quando obbedisce all’invito del marito a recarsi in chiesa per ascoltare i commenti della folla («Alla giovane, che tardi era divenuta pietosa, piacque, sì come a colei che morto disiderava di veder colui a cui vivo non avea voluto d’un sol bascio piacere» [iv 8, 31]) – non può evitare il salto del meraviglioso e dell’incomprensibile: Maravigliosa cosa è a pensare quanto sieno difficili a investigare le forze d’amore! Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la miseche alla passata, per ciò che da più furono coloro a’ quali ciò che io dirò avvenne e con più fiero accidente che quegli de’ quali è parlato» (iv 9, 3). 43 M. Baratto, op. cit., p. 134. 244 Del nomar parean tutti contenti ra l’aperse, e l’antiche fiamme risuscitatevi tutte subitamente mutò in tanta pietà, come ella il viso morto vide, che […] non ristette prima che al corpo fu pervenuta; e quivi, mandato fuori uno altissimo strido, sopra il morto giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò che prima nol toccò che, come al giovane il dolore la vita aveva tolta, così a costei tolse (iv 8, 32). L’intonazione esclamativa della meraviglia scandisce il risveglio paradossale del cuore («morto disiderava di veder colui a cui vivo non avea voluto d’un sol bascio piacere»; «quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la misera l’aperse»), bruciando il passaggio misterioso dal disamore al dolore mortale, dalla volgarità insistita del tatto nell’allarme della scena notturna 44 alla folgorazione pietosa della vista, in cui sembra quasi rinnovarsi, lancinante, l’epifania originaria d’amore 45 («come ella il viso morto vide»); mentre il contatto del corpo appena sfiorato («prima nol toccò…») non è adesso se non l’attimo sacro che riconcilia gli amanti nella sorte comune – dichiarata, sintatticamente, dalla stretta comparativa della frase, con la ripetizione della clausola lessicale – e così finalmente ricuce gli strappi del tempo: «come al giovane il dolore la vita aveva tolta, così a costei tolse». E al di là del tempo e della precarietà e infedeltà dei suoi tragitti, nella splendida irrealtà della letteratura (che sola ha il potere di rendere stabile l’instabile), i due giovani fiorentini sono simbolicamente uniti per sempre, come Tristano e Isotta, o Piramo e Tisbe: «In una medesima sepoltura furono sepelliti amenduni: e loro, li quali amor vivi non aveva potuti congiugnere, la morte congiunse con inseparabile compagnia» (iv 8, 35). Università degli Studi “Federico II” - Napoli 44 «…acciò che si svegliasse il cominciò a tentare, e toccandolo il trovò come ghiaccio freddo, di che ella si maravigliò forte; e toccatolo con più forza e sentendo che egli non si movea, dopo più ritoccarlo cognobbe che egli era morto» (iv 8, 25). Se la discordanza fra gli amanti «procede da un ostacolo alla visione, lo spazio-tempo di due anni stesi tra Firenze e Parigi che sembra cancellare persino il passato («ella non si ricordava di lui se non come se mai non l’avesse veduto», iv 8, 15)», rileva suggestivamente Puccetti, «l’acme di fallimento dello scambio amoroso si produce, nella visita notturna di Girolamo, in condizioni di occultamento di sguardo, nella tenebra: il tatto […] scredita la corresponsione visiva, insedia il primato dell’egoismo d’accertamento, separa e distanzia le identità» (op. cit., p. 107). 45 Di «epifania di morte di Salvestra», come «contrappasso fatale al rifiuto di visione che ha condotto alla catastrofe», parla Puccetti (op. cit., pp. 107-8). Vincenzo Dolla PAROLE IN GIOCO NELLA POESIA DI FERRANTE CARAFA A cavallo tra il 1572 ed il 1573 uscì a Napoli, per i tipi dei fratelli Cacchi, un’opera poetica molto attesa dai letterati del tempo, non solo napoletani e non solo meridionali: L’Austria dell’Illustriss. S. Ferrante Carrafa Marchese di S. Lucido …1 Il suo autore, un importante esponente della nobiltà napoletana, era già noto per la sua intensa attività poetica che si era esplicata nella ricca partecipazione alla famosa raccolta del Dolce, Rime di diversi illustri signori napoletani e d’altri... (1552)2 e nella pubblicazione delle Rime spirituali nel 1559.3 Ora, in risposta alle richieste insistenti di molti illustri amici, tra i quali, in prima linea, Paolo Regio, vescovo di Vico Equense, aveva consegnato ai torchi dei Cacchi l’opera allestita per celebrare la vittoria della Lega a Lepanto, il 7 ottobre 1571. La vicenda della composizione e della pubblicazione dell’Austria fu piuttosto complessa e la sua documentazione, affidata quasi esclusivamente all’unico testimone a stampa, consente solo una ricostruzione lacunosa e problematica. Nel frontespizio di alcuni esemplari datati 1572 compare, infatti, il titolo, Terzo libro/dell’Austria…, titolo che diventa poi, in altre stampe, L’Austria/dell’Illustriss. S. Ferrante/Carrafa… 1 Ferrante Carafa, L’Austria, Napoli, Cacchi, 1572-73. La presenza nella tradizione della princeps di copie identiche, ma con frontespizi diversi, datati 1572 e 1573, ha consentito alla dott.ssa Leonilde Sorrentino, in una sua pregevole tesi, discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi ‘Federico ii’ di Napoli, nell’aa. 1989/90, di individuare per l’Austria, edita a cavallo tra il ’72 e il ’73, un’unica edizione, uscita sul mercato con due diverse emissioni. La tesi della dott.ssa Sorrentino, che desidero vivamente ringraziare, fornisce anche alcune utili informazioni biografiche, di cui ci siamo serviti. 2 Rime di diuersi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. ingegni. Nuouamente raccolte, et con nuoua additione ristampate. Libro quinto… Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari et fratelli, 1552. 3 De l’illustre signor Ferrante Carafa Le rime spirituali della vera gloria humana in libri quattro, et in altrettanti della diuina, Genova, Antonio Belloni, 1559. 246 Del nomar parean tutti contenti Nella sua prima pubblicazione, dunque, l’Austria compariva come «terzo libro» d’un’opera di più ampie dimensioni, opera di cui null’altro è stato conservato, di là dal testo edito, che appare, ad eccezione di minime, sia pur significative varianti, sostanzialmente identico nelle tre emissioni del libro.4 Occorrerebbe dunque collocare, nell’inventario della scrittura poetica carafiana, altri due libri dell’Austria, mai pubblicati e poi perduti? Nessuna reale traccia di essi rimane nella sopravvissuta scarsissima produzione manoscritta del Carafa che annovera, accanto a testi di minor importanza (un sonetto in una silloge di componimenti poetici per il cardinale Sirleto, due relazioni relative all’attività del Seggio di Nido, una lettera a Girolamo Seripando)5 solo il Breve compendio … e l’Orazione terza …alla santità di papa Gregorio xiii, scritta «all’ultimo di Novembre 1573»: ben poca cosa rispetto al corpus di inediti che nel testamento del 1586 Ferrante aveva affidato, per la stampa, alle cure di alcuni amici e alla competenza di Sertorio Quattromani. Ma l’esistenza, almeno in fase progettuale, di altri due libri dell’Austria non può essere messa in dubbio, anche sulla base di attestazioni che lasciano intravedere dell’opera, nata per la celebrazione di Lepanto, fantasmi di composizioni non confluite nel testo andato a stampa. Innanzitutto va registrata una specifica testimonianza di Paolo Regio che, nella nota Ai Lettori, dopo aver esposto le vicende della pubblicazione dell’Austria (dal recupero dei materiali alle licenze di stampa), testualmente dichiara: … et per lo parere di questi, et per l’occasione del tempo; s’è dato prima fuore questo Terzo libro per trattarsi in esso le cose passate, le presenti, et quelle che farsi devono per nostro riparo, et aiuto in questi nostri bisogni; come negli altri libri ancora largamente si dice 6. Il Regio poi, ancora nella nota, trattando della novità delle forme metriche impiegate, dà notizia di componimenti (ballate, sospirini, rime sciolte) 4 La vicenda editoriale dell’Austria è stata puntualmente ricostruita dalla dott.ssa Sorrentino nel capitolo L’Austria in tipografia, della sua citata tesi di laurea. 5 Rispettivamente: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Vat. Lat. 6212 c. 38r; Napoli, Biblioteca Nazionale ‘Vittorio Emanuele iii’, ms. Branc. ii.e.2 cc. 126r-129v: Conclusione del Seggio di Nido dei 14 Aprile 1584 circa l’aggregazione dei Cavalieri di esso Seggio e ivi, ms. Branc. v. d.15 , cc. 88r-95v: Relatione della Piazza di Nido della Città di Napoli; e ivi, ms. xiii. Aa. 51, cc, 77r-78v. 6 F. Carafa, L’Austria, cit., c. 164r. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 247 che, non comparendo nel volume andato a stampa, dovevano evidentemente far parte dei libri rimasti inediti. Ma l’attestazione più probante dei libri perduti la offre il Carafa stesso nella lettera a Giovanni d’Austria (31 ottobre 1572), laddove menziona «due altri libri che io vò rivedendo; si come […] questo pur dedicato alla Maestà del Re suo degnissimo fratello, et mio Signore…».7 Nella forma pubblicata, l’unica, quindi, a noi pervenuta, l’Austria dette vita alla celebrazione poetica dell’evento bellico e dei suoi fautori, innanzitutto nei cinquecentotredici componimenti poetici del Carafa, in massima parte sonetti (503), ai quali si affiancarono quarantadue rime di altri verseggiatori e ventitré lettere dello stesso Ferrante. Questa la struttura dell’opera che faceva seguire alle pagine dedicatorie cinque distinte sezioni poetiche: 1) Della vittoria della santissima lega alle Echinadi (127 sonetti, una sestina lirica e una ottava); 2) Prieghi per l’unione, gioie per quella fatta, e grazie per la vittoria (137 sonetti, 4 elegie e 14 sonetti di altri autori); 3) Gioie fatte per l’unione, et gratie per la vittoria (144 sonetti e 18 di altri poeti); 4) L’istessa vittoria havvuta all’Echinadi, scritta in terza rima (62 sonetti, un capitolo ternario, un’ottava e un componimento in ottave); 5) Lode della santissima Vergine Madre della vittoria et reina del cielo (31 sonetti). Il volume è poi completato dalle lettere e da un’orazione Alla santità di papa Gregorio decimo terzo. Non saranno certamente i contenuti, sui quali i titoli perspicui delle varie sezioni forniscono sufficienti informazioni, a segnalare il particolare significato che l’Austria ha avuto nel contesto della celebrazione letteraria della battaglia di Lepanto. Saranno invece le modalità espressive, evidenti già nella struttura dell’opera, a segnalare l’originalità del dettato carafiano che si affida ad un’impalcatura assolutamente nuova, distante mille miglia dal tradizionale tipo di composizione volta a glorificare eventi storici, il poema epico-encomiastico. Non tradizionale poema, ma nemmeno rituale raccolta di liriche, ove l’intento celebrativo rischiasse di travalicare le istanze del racconto, l’Austria offre il risultato d’una ricerca sperimentale che proprio nella determinazione 7 Ivi, c.4r. 248 Del nomar parean tutti contenti di talune forme metriche trovò uno dei suoi aspetti più risolutamente innovativi; e, tra esse, l’uso strofico del sonetto, impiegato per l’esaltazione d’un evento storico nel suo sviluppo narrativo. E la novità di tale scelta espressiva è stata segnalata, programmaticamente, dallo stesso Ferrante in uno dei sonetti d’apertura, ove dichiarò di aver voluto associare alla straordinaria ‘novità’ dell’impresa, l’altrettanto straordinaria ‘novità’ dell’impiego, a fini narrativi, del «lirico stil»: Come con nove et inaudite imprese Vinceste voi, con novo ardir, nov’arte; Così con novo stil, con voglie accese, Vengo à segnar tanta vittoria in carte. Sono questi i versi che emblematicamente contrassegnano l’atto di nascita di quel sonetto ‘epico’ che Amedeo Quondam ha così sagacemente investigato in pagine divenute ormai classiche;8 sonetto ‘epico’ destinato a proporsi anche come principale referente del sonetto ‘odeporico’ d’un altro sperimentatore del manierismo meridionale, amico del Carafa, il salentino Scipione de’ Monti.9 Con l’invenzione del sonetto ‘epico’, Ferrante, nostalgico sostenitore degli ideali aristocratici del passato, nell’impegno civile, ma bramoso del ‘nuovo’ nella sua attività di verseggiatore, segnò un punto d’arrivo assai importante nella sua ricerca espressiva, ricerca che, pur senza provocare violente fratture con la tradizione, incentrata in primis sul modello petrarchesco, in taluni esperimenti poetici, si collocò decisamente di là dai limiti imposti dai paradigmi bembiani. A. Quondam ha individuato i connotati di questa operazione – che ha visto protagonista, negli anni 60-70, accanto a Ferrante, almeno Ludovico Paterno, autore delle Nuove fiamme (1560) e del Nuovo Petrarca (1561) – quando ha evidenziato, con l’abbandono del precetto bembiano dell’abstinendum verbis e con la progressiva corrosione dell’equilibrato rapporto tra res e verba, l’enorme rilievo che, presso questi verseggiatori, acquisì l’im8 A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari, Laterza, 1975, pp. 75-82. 9 Sul sonetto odeporico cfr. V. Dolla, La sperimentazione odeporica, in Scipione de’ Monti, Rime odeporiche, a c. di Vincenzo Dolla, Galatina, Congedo Editore, 2004, pp. xxxiii-xlvi. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 249 piego insistito e privilegiato di certe figure retoriche, in particolare quelle in verbis coniunctis. Così la sperimentazione del ‘nuovo’ nei poeti manieristi si orientò verso il gioco verbale, con quella esaltazione dell’elocutio, anche separata dalla sententia, che caratterizzerà la teoria della ‘locuzione artificiosa’, teorizzata più tardi da Camillo Pellegrino nel celebre dialogo Il Carrafa ovvero della epica poesia (1584). Nell’Austria l’allontanamento dal modello petrarchesco-bembiano si registrò proprio in certi particolari tratti che il sonetto ‘epico’ assunse per l’insistito utilizzo delle figure della ripetizione quali l’epanalessi, l’anadiplosi, la climax, l’anafora, il poliptoto, etc. che determinarono sorprendenti esiti anche sul piano metrico. Esemplare, al riguardo, un testo, Al Reverendo Padre Don Gabriel Fiamma, un «sonetto continuo, incatenato, su rime identiche»: Di Fiamma io fiamma – son, voi sete un ghiaccio; Bench’io nome hò di ghiaccio – e voi di Fiamma. Dal disio d’una Fiamma – hor volta in ghiaccio; Ch’anzi ’l ghiaccio – facea tutto di fiamma. Fiamma – io son, se ben fui <d’>alpestre ghiaccio; Voi ghiaccio, – s’alcun dì foste di fiamma: E sì cresce la fiamma – entro il mio ghiaccio; Che di ghiaccio – hà rivolto un vetro in fiamma. Che fa l’oblio? tornato hà il Fiamma – ghiaccio verso il Cristallo mio ghiaccio – di fiamma, per la Fiamma – pregiar conversa in ghiaccio. Siate pur ghiaccio – voi, ch’io sarò fiamma: che se l’oblio fà tanta Fiamma – un ghiaccio; Amor fatt’ ha ’l mio ghiaccio – eterna fiamma.10 L’inedita struttura del sonetto, caratterizzata dall’ossessiva iterazione dei lessemi fiamma e ghiaccio, senhals, rispettivamente del celebratore e del celebrato (io nome hò di ghiaccio e voi di Fiamma), si fonda innanzitutto sulla assunzione, quali rimanti, di queste due parole-chiave che danno vita, quindi, a rime identiche. 10F. Carafa, L’ Austria, cit. .- Prieghi per l’unione …, c. 31r . I testi del Carafa sono dati in trascrizione diplomatica-interpretativa: nostri sono i corsivi e la segnalazione diacritica delle rime interne. 250 Del nomar parean tutti contenti Com’è noto l’impiego della rima identica, nella più illustre tradizione poetica italiana, era, di norma, stato riservato, quasi esclusivamente, 11 alla sestina lirica, metro di marca squisitamente petrarchesca. Eppure la sua utilizzazione nella composizione di sonetti non era del tutto estranea alla pratica poetica più antica ove si potevano rinvenire, fuori dall’alveo petrarchesco, rari (e pertanto preziosi) campioni trecenteschi, come, ad esempio, questo sonetto di Boccaccio in cui i rimanti (tra i quali, forse del tutto casualmente, compare anche il carafiano fiamma), in ossequio alla tecnica della sestina, appaiono collegati, in un medesimo campo semantico, da rapporto di causa-effetto (foco → fiamma → arde; morte → pianto): Quando s’accese quella prima fiamma dentro da me, che ’l cor mi munge e arde, io solia dir talor: «Questa non arde come suol arder ciascun’altra fiamma; anzi conforta, sospigne e infiamma a valor seguitar chiunque ella arde: per che de esser contento, in cui ella arde, di più fin divenir in cotal fiamma». Ma il cor, già carbon fatto in questo foco, senza pace sperar, in tristo pianto, ha mutata sentenzia e chiede morte. E non trovando lei in cotal foco, ora rovente e or bagnato in pianto, si sta in vita assai peggior che morte.12 collegamento che connota anche i rimanti di questo altro esemplare di Cino Rinuccini (signore [Amore] → amante → donna; oro → perle): Io porto scritto con lettere d’oro nella mia mente de le donne donna: il perché d’esser servo a cotal donna assai m’è caro più che tutto l’oro. Quando i biondi capelli in lucente oro 11 I manuali registrano altre rare forme di componimenti in rime identiche, quali la canzone ciclica dantesca Amor tu vedi ben che questa donna (cfr. G. B. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, il Mulino, 20024, p. 267) o la quattrocentesca terzina lirica (ivi, p. 268). 12G. Boccaccio, Rime, a c. di V. Branca in Tutte le opere di G. Boccaccio, v, t.1, Milano, Mondadori, 1992, p. 45-46. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 251 veggio annodati da man di tal donna lieto ardo tutto per biltà di donna e più m’affino che nel foco l’oro. Ond’io ringrazio te, caro signore, che di tal donna m’hai or fatto amante, che vince di color balasci e perle. E sempre te chiamar vo’ per signore e lei per donna e star palido amante a l’ombra de le sue guance di perle.13 Ovviamente, se poi l’opzione per la rima identica, con i suoi vincoli semantici, cede il passo alla più generale categoria della rima univoca (che comprende anche le rime equivoche, inclusive, frante, etc.) con una più scoperta predilezione per il puro gioco verbale, le referenze nella tradizione si fanno più numerose, a partire da Guittone che, in questo sonetto, volle utilizzare una ricca famiglia di rimanti univoci, incentrati sulla radice morfologica par (pare, paro, parasse, para, paresse): Ahi, como ben del meo stato mi pare, merzede mia, che no nd’è folle a paro! Ch’eo mostro amore in parte, che me spare e là dov’amo quasi odioso paro. Ed emmi greve ciò; ma pur campare vòi dai noiosi e da lor nòi mi paro, ad onore de lei, che ’n beltà pare no li fo Elena che amao Paro. Or non so perch’eo mai cosa apparasse, s’eo non apparo a covrir, sì non para, ciò che m’aucideria quando paresse. Ma ’l cavaler, che ad armi s’apparasse, com’eo faccio en ciò, sempre campara senza cosa che nente li sparesse.14 Fu, però, probabilmente Bonaggiunta Orbicciani, ad orientare la rima univoca guittoniana verso l’equivocatio in questo sonetto Però che sete paragon di sagio 13Rimatori del Trecento, a c. di G. Corsi, Torino, Utet, 1969, p. 565. 14Guittone d’Arezzo, Le Rime, a c. di F. Egidi, Bari, Laterza, 1940, p. 171. 252 Del nomar parean tutti contenti e d’ogni caonoscenza fina giunta, a voi mi racomando, non per sagio né per maestro, ma per Bonagiunta. E prego Dio che ’l mio frutto agia sagio, che v’intalenti nella prima giunta: lo vostro detto nobile non sagio, ch’eo non vidi unque cosa sì ben giunta. E non mi si conven tanto savere ch’io consigli lo vostro gran savere di cose, che cotanto sono amare. Ma dicovi ch’i’ agio audito dire ca fino amante non vince per dire, ma serve e tace, e quindi cresce amare.15 che può esser considerato come l’antefatto d’un altro notissimo esperimento, il petrarchesco Quand’io son tutto vòlto in quella parte, tutto costruito su rime equivoche (parte, luce, morte, desio, sole): Quand’io son tutto vòlto in quella parte ove ’l bel viso di madonna luce, et m’è rimasa nel pensier la luce che m’arde et strugge dentro a parte a parte, i’ che temo del cor che mi si parte, et veggio presso il fin de la mia luce, vommene in guisa d’orbo, senza luce, che non sa ove si vada et pur si parte. Così davanti ai colpi de la morte fuggo: ma non sì ratto che ’l desio meco non venga come venir sòle. Tacito vo, ché le parole morte farian pianger la gente; et i’ desio che le lagrime mie si spargan sole.16 Quindi non inedita la struttura del sonetto a rime identiche, come altrettanto non inedita quella del sonetto «continuo», un sonetto fondato su due sole rime (A, B) che dalle quartine ‘continuano’ nelle terzine. 15Rimatori siculo-toscani del Dugento, a c. di G. Zaccagnini e A. Parducci, Bari, Laterza, 1915, p. 86. 16F. Petrarca, Canzoniere, a c. di M. Santagata, Milano, Mondadori, p. 76. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 253 Teorizzato da Antonio da Tempo 17 e, dunque, noto ai trattatisti rinascimentali, il «continuo» era struttura, dunque, non sconosciuta ai rimatori cinquecenteschi. Apparso già negli albori della poesia d’arte, in un campione di Giacomo da Lentini, su rime univoche, con gioco paranomastico (viso : visare): [E]o viso - e son diviso – da lo viso, e per aviso – credo ben visare; però diviso – ‘viso’ – da lo ‘viso’, c’altr’è lo viso – che lo divisare. E per aviso – viso – in tale viso de l[o] qual me non posso divisare: viso a vedere quell’è peraviso, che no è altro se non Deo divisare. ’Ntra viso – e peraviso – no è diviso, che non è altro che visare in viso: però mi sforzo tuttora visare. [E] credo per aviso – che da ‘viso’ giamai me’ non pos’essere diviso, che l’uomo vi ‘nde possa divisare.18 e riproposto, nella medesima tipologia, da Guittone con rimanti salma : sommo /salmo : somma: Non già me greve fa d’amor la salma, messer Bandin, sì fu ’norato sommo; ma tuttavia m’agrata e bel m’è, s’alma e cor n’ho dislogato e franc’om son mo. Tutto se dica ch’omo d’amor s’alma, ogni contrado ven, dal pede al sommo. Ragion’è, se n’è dire pro, en salma, onde sì ’l sento ben e tutto somm’ho; ch’agiatamente in me scend’e sal mo vera gioia, che di vero ben di somma; ond’io mi pago assai, se paga a salm’ho. 17«… sonetus vero continuus continuat rithimos pedum cum rithimis voltarum», Antonio da Tempo, Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis, ed. critica a c. di Richard Andrews, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1977, p. 25. 18Giacomo da Lentini, Poesie, a c. di R. Antonelli, Roma, Bulzoni, 1979, p. 481. 254 Del nomar parean tutti contenti Ben diritto è ’n ciò seguire somma, voi, che non credo piaccia or esto salmo. Seguita amare, onque il mal no v’asomma.19 il «continuo» fu praticato poi da Panuccio del Bagno: Raprezentando a chanoscensa vostra meo dolorozo mal, grave, diverso, son mosso faccendo voi alcun verso, responsion volendo vi dia giostra, acciò che la vertù che ’n voi enchiostra mi dia consigl[i]o in che dir vogl[i]’or verso: che chonnobbi per vero bianco il perso, per inghannevil fatta mi fu mostra: ciò fu, [a] senbiansa ria la qual vi mostra, il meo dir da diritto fu isperso: unde diletto inmaginai, e postra de la ‘maginassion ebbi i·rrio verso: ch’eo mi legai di sua potensa in chiostra, somettendo mi’ albìtro, ann’è ben terso.20 e, soprattutto, da Onesto da Bologna che, nella sua silloge di soli venti sonetti,21 ne inserì ben tre: Bernardo, quel dell’arco del Diamasco potrebbe ben aver miglior discenti che quei che sogna e fa spirti dolenti, ché non si può trar buon vin di reo fiasco. So che·mm’intendi ben, perch’io no masco né aggio cura di novi accidenti, sì aggio messo in un miei pensamenti; tegnamene chi vuol, savio o pur vasco. Ver è che di tormenti sol mi pasco perché Mercé no intende i mie’ lamenti; anzi, com’ più la prego, più m’infrasco 19Guittone d’Arezzo, op. cit., p. 257. 20Panuccio del Bagno, Rime, a c. di F. Brambilla Ageno, Firenze, Accademia della Crusca, 1977. 21Le rime di Onesto da Bologna, a c. di S. Orlando, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 48, 55, 68, rispettivamente. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 255 e ciascun giorno de la vita casco, e di ciò porria dar molti guarenti quella c’ha per me ben senno in guasco. Sì m’è fatta nemica la Mercede, che sol per me di crudeltà si vanta; e s’io ne piango, ella ne ride e canta, e ’l doloroso mio mal non mi crede; e che mai non fallai conosce e vede inver’ di quella disdegnosa e santa a cui guisa si mena e sì l’encanta, e quando vòl, la prende in la sua rede. Se per me la Virtù se stessa lede, Amor, che sòle aver potenza tanta, come a sì grave offesa non provede? Se mai cogliesti frutto di tal pianta, mandatilomi a dir, ch’i’ n’ho tal sede ch’esto disio tutto lo cor mi schianta. Poi non mi ponge più d’Amor l’ortica ch’assembr’a dolce ogni tormento amaro, ’nanti ne son lontan più che dal Caro, suo vil poder non prezo una molica; né quella sconoscente mia nemica, c’ha d’ogni scortesia ben colmo staro, a cui non piace lo fallir di raro, con tanto senno sua vita notrica! E già ne l’operar non s’afatica, così par bello dilettoso e caro ciò ch’ela disonesta, quel’antica. Amico, i’ t’aggio letta la robrica, provedi al negro, ché ciascun tu’ paro a·llei e ad Amor fatt’ha la fica. Di questi i primi due erano stati indirizzati a Cino da Pistoia e, probabilmente, furono essi a suggerire a quest’ultimo la tessitura rimica di questo plazer che si offre come l’esemplare più bello e noto del «continuo» antico: Una ricca rocca e forte manto volesse Dio che monte ricco avesse, che di gente nemica non temesse, 256 Del nomar parean tutti contenti avendo un’alta torre ad ogni canto; e fosse d’ogni ben compita, quanto core pensare e lingua dir potesse, e quine poi lo dio d’amore stesse con li amorosi cori in gioia e canto. E poi vorrei che nel mezzo surgesse un’acqua vertudiosa d’amor tanto, che lor bagnando dolce vita desse; e perché più fedele ’l meo cor vanto, vorrei che ’l gonfalon fra quei tenesse che portan di soffrir pietoso manto.22 Ma a concludere il panorama del continuo trecentesco è da segnalare la sua presenza nel territorio della poesia giocosa, luogo privilegiato di lusus artificioso, con questo prezioso campione, attribuito a Dante Alighieri, ma collocato da Barbi-Contini nella sezione delle rime dubbie, in cui nella disposizione continua si collocano rime consonanzate (-uzza : -uzzo): Sennuccio, la tua poca personuzza, onde di’ che deriva il desïuzzo il qual ti fa portare il cappucciuzzo così polito in su l’assettatuzza, quando tu ti vestisti d’una uzza ch’era vergata d’uno scaccatuzzo, e che n’andavi sul tuo ronzinuzzo, spesso ambiando con la pochettuzza, io mi pensava di darti copïuzza di quella donna che miri fisuzzo, credendo avessi alcuna bontaduzza; e t’ho trovato memoria scioccuzza, sì ch’io non ti vo’ più per fedeluzzo, così sa’ far di me mala scusuzza.23 Altro elemento caratterizzante dell’esperimento carafiano, è, poi, l’incatenatura in ripetizione, prodotta dalle rime identiche interne, che creano una intelaiatura di tipo chiastico: fiamma – ghiaccio / ghiaccio – fiamma. 22Poeti del Dolce stil nuovo, a c. di M. Marti, Firenze, Le Monnier, 1969, p. 461. 23D. Alighieri, Rime, a c. di G. Contini, Torino, Einaudi, 1965, pp. 264-65; nostri i capoversi e i segni diacritrici della dialefe al v. 5 e della dieresi al v. 9. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 257 Anche questa risorsa tecnica però non si presentava come novità assoluta. Tra i primi ad utilizzarla, in un sonetto a rime univoche, fu il solito maestro di dettato artificioso, Guittone d’Arezzo, in questo componimento ove il rimante punto si ripropone all’interno dei versi pari delle quartine e i rimanti face e parte riecheggiano nelle terzine: Già lungiamente sono stato punto; sì punto – m’ave la noiosa gente, dicendo de savere uv’e’ mi punto, sì tal punto – mi fa quasi piangente. Poi se ’n mi miro non credone punto, sì punto – so, ve ’n stando, onor v’è gente. Poi lo mio voler de gioi apunto, ch’è punto, – e verso si face a piagente. Ferò como lo beno arcero face: face – fa di fedire in tale parte, sparte – di ciò, u’ non par badi, fede. A tutti amanti sì de far se face; sface – ciò de penser l’avversa parte, parte – che vive in error de su’ fede.24 Di questo artificio si ricordò altresì Cecco Angiolieri in quest’altro sonetto che vede i rimanti (qui identici) impiegati in tutti i versi, ma solo quali rime interne: Eo ho sì tristo il cor di cose cento che cento – volte el dì penso morire, avvegna che ’l morir – mi fora abento, ch’eo non ho abento – se non di dormire; e nel dormir – ho tanto di tormento che di tormento – non posso guarire: ma ben guarir – poria en un momento, se un momento – avesse quella, che ire mi fa tanto dolente, en fede mia, che mia – non par che sia alcuna cosa, altro che cosa – corrucciosa e ria. Ed è sì ria – la mia vita dogliosa 24 Guittone D’Arezzo, op. cit., p. 178. 258 Del nomar parean tutti contenti ch’eo so’ doglios’a – chi mi scontra en via, e via – non veggio che mai aggia posa.25 Una tecnica, questa, che trovò un puntuale teorizzatore in Antonio da Tempo, che formalizzò la ripresa anadiplosica delle rime in versi contigui (non già in rima interna, ma ad inizio-verso) nella tipologia del sonetus incatenatus nel quale «unus versus cum alio miscetur et incatenatur, quoad rithimos et consonantias, in principio versuum et in fine»: Offerse – povertate l’avaricia divicia – desiderando tutto perse. Aperse – sta miseria ogni malicia: nequicia – che per sacia mai non s’erse. Perverse – cose per la massaricia duricia – di l’avaro gli converse. Submerse – nel dolore per stulticia tristizia – di l’amar cose diverse. Prelato – de’ tegnir tal cameriero mainiero – ch’è , del tema per suo stato, provato – di la vita in buon pensiero. Altiero – abondantemente vien laudato. Beato – quello che va per sentiero intiero – in buon fama dimostrato.26 e dei rimanti identici in quella del sonetus repetitus in cui «ultima dictio rithimi consonanter repetitur in principio sequentis versus, et sic de caeteris sequentibus»: Laudabile è quel can che furibondo; furibondo esser a l’uomo è sozzo erore. Erore è sempre nel superbo core; core ch’ umilitate è di facondo. Facondo nel iudicio trova il fondo; fondo di l’ira è l’uom mitigatore. Mitigatore è chi parte rimore; Rimore chiama zascun iracondo. Iracondo si iace come stolto, 25Cecco Angiolieri, Le rime, a c. di A. Lanza, Roma, Archivio G. Izzi, 1990, p. 5. 26A. da Tempo, op. cit., p. 27. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 259 stolto de l’ira da possa l’ucide: ucide ancor el pravo invidia molto. Molto per ira l’animo si elide; elidesi perché ’l si trova tolto; tolto è che ’l vero da prima non vide.27 Assi portanti nella ricerca metrica carafiana, dunque, le rime identiche, continue, interne, artifici che, se pur non del tutto inediti, perché puntualmente attestati nella tradizione più antica, produssero tuttavia un sonetto dalla fisionomia assolutamente originale, allorché vennero amalgamati in una compagine metrica atipica, perfettamente adeguata al nuovo dettato artificioso di cui si rendevano espressione. Il sonetto tradizionale, comunque, non fu del tutto ripudiato: anzi nell’economia dell’Austria continuò a proporsi come il metro di maggior impiego; circostanza, però, che non escluse, parziale, ma non occasionale, la significativa presenza di questo eccentrico ‘epico’ che trovò un utilizzo privilegiato nella tipologia dei ‘fratelli per le rime’.28 Dopo il citato Al Reverendo Padre Don Gabriel Fiamma, questo particolarissimo sonetto si riprodusse, infatti (sia pur con diversa disposizione rimica, di tipo incrociato, nelle quartine), all’interno della sezione Gioie fatte per l’unione, e gratie per la vittoria, in un gemello composto per il medesimo destinatario: Al Pa dre D on Ga bri el Fiamma Qual fiamma – liquefà, distrugge ’l ghiaccio, Sì del ghiaccio – infedel fè fida fiamma Sù ’l mar lento, ghiaccio – anzi, et hor fiamma Del ciel, vincendo con sua fiamma – il ghiaccio. E de l’Egeo di fiamma, – farà il ghiaccio. E ’l nero mar di ghiaccio, – fatt’ hà fiamma: E d’Oriente e il ghiaccio – fia di fiamma: 27Antonio da Tempo, op. cit, pp. 31-32. 28Ferrante, per questa tipologia metrica, trovò un preciso referente proprio in Gabriele Fiamma che nelle sue Rime spirituali aveva pubblicato, alle pp. 109-16, tre fratelli per le rime. Il Fiamma che rapportava la sua scelta metrica agli esempi del Petrarca e del Caro, sottolineava, tuttavia, la ‘modernità’ dell’esperimento: «Chiamano i moderni i sonetti fatti in questa maniera, fratelli: come anco le canzoni chiamano sorelle», G. Fiamma, Rime spirituali, Venezia, Francesco de Franceschi Senese, 1570, p. 109. 260 Del nomar parean tutti contenti E de dli Hebrei tornerà fiamma – al ghiaccio. Com’io ch’anzi ghiaccio – era, hor son di fiamma. E tu Fiamma di fiamma – sembri un ghiaccio. Fatto m’havendo Amor di ghiaccio – fiamma. Et non amando tu Fiamma, – sei ghiaccio; Onde se vuoi ch’l ghiaccio – torni in fiamma; Ama qual me, che ’n fiamma – ho volto il ghiaccio.29 Un ‘fratello per le rime’ che, replicando con minima variazione la struttura metrica del primo, ne ripropose al verso 10 (E tu Fiamma di fiamma – sembri un ghiaccio) l’epanalessi d’apertura (Di Fiamma io fiamma – son, voi sete un ghiaccio) e al verso 11 (Fatto m’havendo Amor di ghiaccio – fiamma) una riscrittura «tranformata» del verso finale (Amor fatt’ ha ’l mio ghiaccio – eterna fiamma). Ma il sonetto «continuo, incatenato, con rime identiche» non si limitò all’encomio del P. Gabriel Fiamma: altri due ‘fratelli per le rime’ comparvero, e per più alta magnificazione, nella sezione Lode della santissima Vergine Madre della vittoria e Reina del Cielo: Chi lontan da Maria – vedrà mai Cristo, S’ab eterno in ciel fù Cristo, – e Maria? In terra s’incarnò Cristo – in Maria: E nascer da Maria – si scorge Cristo: Nel Presepe Maria – ripose Cristo: E con Cristo – i pastor veggion Maria. Cristo – i Maggi adorar, pregiar Maria E Maria – prende il don dato al suo Cristo. Nel Tempio offerse a Dio Cristo – Maria. Et in Egitto và Maria – con Cristo; E con Cristo – unita è sempre Maria. More, et è con Maria. – Poggia al ciel Cristo, E con Cristo – s’inalza al ciel Maria: Con Maria - dunque ogniun s’aggiunga à Cristo.30 Se trà Cristo, – e Maria vivo, chi sia Chi da Maria – mi tolga, e dal suo Cristo? E s’à Maria – m’inchino, adoro Cristo, 29F. Carafa, L’Austria, cit., Gioie fatte per l’unione …, c. 76r. 30Ivi, Lode della Santissima Vergine madre della vittoria …, c. 116v . V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 261 Con Cristo – aita mi darà Maria. Io, che scolpito hò al cor Cristo, – e Maria Meco porto Maria – sempre con Cristo, E frà quest’antro, ov’è Maria – con Cristo, Ecco Cristo – rimbomba, hora Maria. Onde se Maria – vien meco con Cristo, Sendo mio solo ben Cristo, – e Maria, Di Maria – l’hoste spregio empio, e di Cristo. Cristo – scovre il tesor c’hà in sé Maria. E Maria – di mirar sol gode Cristo. Et io seguo ogni hor Cristo, – e Maria.31 Non più Ferrante e il famoso predicatore i protagonisti, bensì Cristo e la vergine Maria, celebrati come indissolubile nodo che collega l’umano al divino, nella storia e all’interno della vita dell’anima. Il primo sonetto ove il sacro vincolo è colto nelle fondamentali tappe della vita di Gesù, dalla sua incarnazione alla morte ed ascesa al cielo, si giova della iterazione chiastica delle parole-chiave (Cristo - Maria / Maria - Cristo) per dar vita ad un discorso che intensifica il parallelismo richiesto dal metro, mediante l’esibizione, in contrappunto, di vistose antitesi: S’ab eterno in ciel fù Cristo, – e Maria? In terra s’incarnò Cristo – in Maria: E con Cristo – i p a stor ve g g ion Mari a. Cristo – i Maggi adorar, pregiar Maria Nel Presepe Maria – ripose Cristo: […] Nel Temp io offerse a Dio Cristo – Maria. E Maria – prende i l d on dato al suo Cristo. Nel Tempio offerse a Dio Cristo – Maria. More, et è con Maria. – Poggia al ciel Cristo, E con Cristo – s’ ina l za a l ciel Maria. destinate a produrre un sottilissimo effetto di climax che dal verso d’apertura, 31Ivi, c. 119r. 262 Del nomar parean tutti contenti Chi lontan da Maria – vedrà mai Cristo, pervade il sonetto sino all’epigrafica clausola del verso conclusivo Con Maria – dunque ogniun s’aggiunga à Cristo. annodato all’iniziale, sul motivo dell’indissolubilità del legame, nella comune divinità, tra la madre terrena e il figlio divino. Nel secondo sonetto il vincolo è colto all’interno del sentimento di fede a testimonianza del particolarissimo rapporto che Ferrante vive con la divinità. La coppia Cristo-Maria diviene così cifra della coscienza religiosa del poeta, colta nell’assoluta interiorità individuale e trova un privilegiato mezzo espressivo nell’ossessivo, iterato impiego del pronome e dell’aggettivo di prima persona. Io, che scolpito hò al cor Cristo, – e Maria Et io seguo ogni hor Cristo, – e Maria Che da Maria – mi tolga, e dal suo Cristo? E s’à Maria – m’inchino, adoro Cristo, Con Cristo – aita m i darà Maria. Meco porto Maria – sempre con Cristo Onde se Maria – vien meco con Cristo Sendo m io solo ben Cristo, – e Maria, Queste, dunque, nell’Austria, le prove più artificiose del sonetto ‘epico’, una struttura in cui l’impiego eccentrico di tecniche tradizionali, in dosaggi e combinazioni atipici, ha dato vita ad un dettato stravagante, caratterizzato da un preziosismo verbale che sfiora l’oltranza. Sembrerebbe che la ricerca d’un nuovo maquillage col quale rinnovare le fattezze del sonetto abbia raggiunto il culmine in questi ‘fratelli’ dell’Austria; eppure Ferrante riuscì ancora a sorprendere... Nella successiva raccolta lirica del 1580, la Carafé, comparve questo altro campione: Ottavio – in terra ebbe l’età de l’oro , e Carlo – al mondo ebbe l’età del c i e l o ; V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 263 Ottavio – il tutto fe’ con forza e oro , Carlo – fe’ il tutto con la fé del c i e l o. Ottavio – nulla fe’ senza aver oro , Carlo – fe’ il tutto con unirsi al c i e l o ; Ottavio – statue fe’ d’argento e d’oro , Carlo – inalzò la mente sempre al c i e l o. Ottavio – gemme sol pregiava e oro , Carlo – fe’ sacrifizi sempre al c i e l o ; Ottavio – sol per idolo avea l’oro , Carlo – le gemme e l’or sacrava al c i e l o ; Ottavio – alfin s’immerse entro de l’oro , e Carlo – in vita andò volando al c i e l o.32 È un «sonetto continuo, con rime identiche» in cui, rispetto ai precedenti, si registra la rinuncia alla rima interna, compensata però dall’inserimento di un secondo intreccio rimico, che si dispone ad inizio di ciascun verso: i due rimanti dei ‘fratelli’ dell’Austria (ghiaccio:fiamma; Cristo:Maria) diventano quattro (Ottavio:Carlo / oro:Cielo) e collegati semanticamente da un duplice rapporto. Un rapporto verticale, di tipo antitetico: → → Ottavio oro Carlo Cielo ed uno orizzontale, di pieno parallelismo: Ottavio→oro Carlo→Cielo. ad esprimere questo basilare motivo: Ottavio (l’imperatore pagano) puntò ai beni terreni (oro), laddove Carlo (l’imperatore cristiano) ricercò i beni dello spirito (Cielo). Per questo duplice gioco di affinità e di antitesi F. Carafa inventò, dunque, una sorprendente impalcatura che affiancava alle consuete rime epiforiche (di 32F. Carafa, I sei libri della Carafé, sopra varij, e diversi soggetti, ad imitazione di Poeti Lirici, Greci, e Latini, L’Aquila, G. Cacchi, 1580, p. 166. 264 Del nomar parean tutti contenti fine verso) uno speculare intreccio di rime anaforiche (di inizio verso) e tutto sulla base di rimanti identici. Invenzione assolutamente singolare che si giovava, però, di espedienti tecnici non ignoti alla tradizione più antica, se è vero che la rima anaforica aveva trovato impiego in talune forme di sonetto già teorizzate da A. da Tempo, quali il già su menzionato sonetus repetitus e il sonetus incatenatus. Un sottile fil rouge appare, allora, collegare le invenzioni di F. Carafa a certi momenti della tradizione poetica, a quel fiume sotterraneo di poesia artificiosa che, sgorgato dallo sperimentalismo retorico-metrico guittoniano e rinvigorito in alcuni prodotti duecenteschi, ha sempre tenuto corso sotto il territorio espressivo del classicismo, salvo a riaffiorare in taluni momenti in cui la tenuta del discorso fondato sul decoro e sull’armonia tese a venir meno, sotto le spinte di istanze alternative rispetto a quelle della cultura ufficiale. La vicenda storica della locuzione artificiosa, che pur così modernamente connotò la teoria e la prassi del manierismo meridionale, vide, allora, affondare le sue radici nella prima stagione della nostra produzione poetica, quando la ricerca espressiva produsse forme, che, in casi estremi, si erano risolte anche nel puro gioco verbale, forme che erano state relegate ai margini della pratica lirica dai fondatori del classicismo, da Petrarca e, prima di lui, da quei rimatori di fine Duecento, gli stilnovisti, che si fecero sostenitori della poetica della dulcedo e nemici di qualsiasi dettato in cui la veste retorica risultasse fine a se stessa. Emblematiche, al riguardo, le parole profferte da Dante già al tempo del giovanile libello della Vita nuova: …grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente (V.N., xxv, 76-81).33 L’impiego spericolato dell’artificio retorico, utilizzato quale assoluto elemento connotativo del dettato poetico e tipico per altro di quei rimatori che risultarono incapaci di elevarsi alle più alte mete del volgare illustre, Guittone e i suoi seguaci «quorum dicta… non curialia sed municipalia invenien- 33D. Alighieri, Vita Nuova, a c. di D. De Robertis, in D. Alighieri, Opere minori, vol. i, parte i, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984, pp. 177-178. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 265 tur» (D.V.E., i. 13)34 era stato avvertito dai nuovi poeti di fine secolo come un pesante fardello di cui liberarsi, per proseguire nell’ambizioso cammino verso una poesia in cui l’elocutio si rendesse limpida espressione della sententia. La battaglia di questi poeti che mostrarono, a detta di Dante, di aver conosciuto la più eccelsa espressione della poesia volgare,35 fu facilmente vinta, ma Guittone e il gusto per il gioco retorico non persero totalmente la guerra, se è vero che la pratica trecentesca e dei secoli successivi offrì, sia pur sporadicamente ed occasionalmente, in alternativa (o anche in compromissione) col modello stilnovistico e petrarchesco, numerosi campioni di scrittura artificiosa: dai poeti perugini, ai rimatori d’occasione e di corte trecenteschi,36 ai lirici della poesia cortigiana e popolareggiante tardo-quattrocentesca.37 Anche la lirica rinascimentale, pur così fortemente impregnata di classicismo, espresso dalla linea petrarchesca-bembesca, non ignorò il suggestivo richiamo del lusus retorico: un vistoso esempio fu esibito da uno dei più emblematici testi della produzione anticlassica e antipetrarchistica, il sarcastico encomio che Francesco Berni scrisse a vituperio del segretario pontificio, Francesco Benci, nel celebre Sonetto di ser Cecco: Ser Cecco – non può star senza la corte e la corte – non può senza ser Cecco; e ser Cecco – ha bisogno della corte e la corte – ha bisogno de ser Cecco. Chi vol saper che cosa sia ser Cecco pensi e contempli che cosa è la corte: questo ser Cecco – somiglia la corte e questa corte – somiglia ser Cecco. E tanto tempo viverà la corte quanto sarà la vita di ser Cecco, 34D. Alighieri, De vulgari eloquentia, i, 13, ivi, vol. ii, parte i, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, p. 108. 35« … nonnullos vulgaris excellentiam cognovisse sentimus, scilicet Guidonem, Lapum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoriensem», ivi, p. 110. 36Un esaustivo panorama di questa produzione, con acute osservazioni sullo sperimentalismo metrico-retorico, è offerto da C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte, allegorica e didattica in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. ii, parte i, Il Trecento, Roma, Salerno, 1995, pp. 327-454. 37 Su questa produzione: G. Villani, L’umanesimo napoletano, ivi, vol. iii, parte ii, Il Quattrocento, 1996, pp. 709-803 ed E. Pasquini, Letteratura popolareggiante, comica e giocosa, lirica minore e narrativa volgare del Quattrocento, ivi, pp. 921-990. 266 Del nomar parean tutti contenti perché è tutt’uno ser Cecco – e la corte. Quando un riscontra per la via ser Cecco pensi di riscontrar anco la corte, perché ambi dui son la corte – e ser Cecco. Dio ci guardi ser Cecco, che se mor per disgrazia della corte, è ruvinato ser Cecco – e la corte. Ma da poi la sua morte, arassi almen questa consolazione, che nel suo loco rimarrà Trifone.38 Ecco ricomparire, a più di due secoli di distanza, il vecchio «sonetto continuo» di Cino da Pistoia ed Antonio da Tempo e ricomparire, in chiave nettamente antipetrarchesca, per la sua forma caudata, estranea alle scelte aristocratiche del poeta di Laura e per l’impiego insolito della rima identica,39 adottata dal Petrarca solo per la raffinata testura della sestina lirica. Difficile comunque (se non addirittura improponibile) affermare la derivazione diretta dei sonetti carafiani dal Sonetto di ser Cecco perché completamente diverso, se non addirittura antitetico, fu l’atteggiamento dei due poeti nei confronti del nume del classicismo, da cui presero le distanze. Berni oppose al sonetto petrarchesco (e petrarchistico), fondato sull’armonico equilibrio dei suoi elementi costitutivi (bilanciamento delle ripartizioni metriche, dosaggio delle rime, regolata varietà del tessuto lessicale, raffinato ed equilibrato impiego del colorito retorico, etc.) un caudato, in cui il doppio ritornello (settenario + distico baciato, con cambio rimico) metteva in crisi l’euritmia della struttura del sonetto istituzionale, mentre la rima continua ed identica (Cecco : corte) andava a produrre, insieme al martellamento fonico, amplificato anche dai riecheggiamenti interni, uno squilibrio nella compagine lessicale, con le due parole-chiave che sovrastavano un ordito, tutto orchestrato sulla retorica delle ripetizione: Ser Cecco – non può star senza la corte e la corte – non può star senza ser Cecco; e ser Cecco – ha bisogno della corte e la corte – ha bisogno de ser Cecco. 38F. Berni, Rime, a c. di G. Bàrberi-Squarotti, Torino, Einaudi, 1969, p. 53 (nostri i corsivi e la segnalazione delle rime interne). 39Diverso è l’impiego, di gusto comunque arcaizzante e guittoniano, della rima equivoca nel sonetto 18 del Canzoniere («Quand’io son tutto volta in quella parte»). V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 267 Chi vol saper che c os a sia ser Cecco pensi e contempli che c os a è la corte: questo ser Cecco – somiglia la corte e questa corte – somiglia ser Cecco. E tanto tempo viverà la corte quanto sa rà la vi ta di ser Cecco, perché è tutt’uno ser Cecco – e la corte. Quando un risc ontra per la via ser Cecco pensi di risc ontrar anco la corte, p erché a mb i dui son la corte - e ser Cecco. L’impiego simultaneo della rima continua ed identica, nonché le riprese sintagmatiche in parallelo, produssero altresì un autentico terremoto nell’impalcatura del sonetto classico, disponendosi il discorso poetico in una strutturazione imperniata su sette distici (gli ultimi due arricchiti di una coda formata da versi «transformati») anziché sulle consuete due quartine e due terzine. Un’autentica destrutturazione, dunque, del sonetto tradizionale, destrutturazione che si completò nella duplice coda sbilenca Dio ci guardi ser Cecco, che se mor per disgrazia della corte, è ruvinato ser Cecco – e la corte. Ma da poi la sua mor te , arassi almen questa c ons o la z i on e , che nel suo loco rimarrà Tri f on e con le terzine, collegate dalla ‘figura etimologica’ (mor - morte), a chiudere il componimento mediante un inopinato scarto rimico (consolazione : Trifone) che andò così a dissolvere quella rima identica e continua che aveva caratterizzato l’85% del componimento. Tecnica metrica ed esercizio retorico appaiono, dunque, decisamente anticlassici ed antipetrarcheschi, ma non finalizzati alla costruzione d’un dettato ‘artificioso’: l’estrosa ricercatezza dell’elocutio non ha prevaricato sui diritti della sententia, giacché si è resa efficace espressione d’un dettato che ha trovato la sua più esatta misura nel capovolgimento del vero nel falso, nell’encomio che si fa vituperio, nel dissimile che si rende simile, nella morte che si risolve nella vita. 268 Del nomar parean tutti contenti Il lusus letterario non fu nel Berni fine a se stesso, non fu il «vestito di fini drappi» che ricopriva il concetto poetico, ma il concetto stesso che si realizzava totalmente nell’abito di cui faceva sfoggio. Agli antipodi del sonetto berniano, pregevole esemplare d’una scrittura poetica fondata sulla dissacrazione degli statuti petrarcheschi, si posero, invece, i sonetti ‘epici’ dell’Austria che pur presentano fortissime analogie tecniche col Sonetto di ser Cecco. Ferrante Carafa non intese, con la ricerca di approdi artistici originali, demitizzare la referenzialità del modello petrarchesco; non sulla dissacrazione, ma sull’emulazione costruì il personale rapporto col poeta del Canzoniere. Allora è chiaro che i suoi sonetti ‘artificiosi’ non abbiano ostentato una effigie antipetrarchesca: l’accentuato impiego delle figure retoriche e il ripristino risemantizzato di taluni espedienti tecnici arcaici condussero Ferrante a soluzioni d’un preziosismo stilistico che varcò decisamente i confini del decoro e della misura bembiana, in un territorio espressivo di marca transpetrarchesca, in cui l’elocutio avesse potuto affermare i diritti d’una totale autonomia dai vincoli imposti dalla sententia... I verba che, sganciati dalle res, potevano ormai vivere anche di luce propria, si disposero quindi talvolta in un gioco assolutamente spericolato, fino a raggiungere livelli di preziosismo veramente oltranzistico, come in questo componimento in ottave, O Gregorio del ciel, che reggi il mondo, un unicum straordinario, che l’Austria volle esibire nella sezione L’istessa vittoria havvuta all’Echinadi, alle cc. 99r-102r. In questa lirica anepigrafa Ferrante volle impiegare, ponendole al servizio dell’ottava rima, le risorse tecniche a lui più care, le rime identiche e la loro disposizione continua. Ma sicuramente esorbitanti risultarono le difficoltà dell’impegno compositivo: rispetto alla ridotta misura del sonetto ‘epico’, ben diciannove ottave furono impiegate per questo singolare encomio dei protagonisti di Lepanto, diciannove ottave per 152 endecasillabi, tutti su rimanti obbligati, mondo (A) : cielo (B), distribuiti secondo queste due strutture strofiche : ABABABAA / BABABABB. Le ottave continue (senza cioè il cambio delle rime nel distico finale) si disposero, quindi, a coppia, con scorrimento ciclico dei rimanti dall’una all’altra, secondo una tecnica di incatenamento che ricordava l’antico col- V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 269 legamento della canzone a coblas retrogradatas, blasonata dall’impiego da parte del Petrarca in S’il dissi mai ch’i vegna in odio a quella (Canz. ccvi).40 Questa artificiosa costruzione che vide la coppia di ottave replicarsi nove volte e completarsi in una fisionomia circolare, mediante l’aggiunta d’una strofa finale che riproponeva la struttura rimica dell’ottava iniziale, presentò i rimanti mondo e cielo, in posizione epiforica, rispettivamente, settantasette e settantacinque volte; ma poiché, riprendendo un procedimento già sperimentato nel sonetto epico, Ferrante aggiunse l’autentica camicia di forza dell’incatenatura (ciascun verso con rimante mondo doveva contenere al suo interno la parola cielo, e viceversa), la presenza di queste parole-chiavi si raddoppiò e ben 152 furono le loro occorrenze su 152 endecasillabi. L’incatenatura produsse altresì una sorta di aggiuntivo gioco di rime interne, con effetti di anadiplosi all’interno di ciascuna strofa e generò tra le ottave un ulteriore collegamento a coblas capfinidas, giacché il rimante conclusivo di ciascuna strofa venne riecheggiato all’interno del verso iniziale della strofa susseguente. La presenza di cielo e mondo nell’ordito lessicale divenne, dunque, veramente maniacale e il discorso poetico assunse le fattezze d’un autentico lusus verbale in cui due parole s’inseguivano in una sorta di saltellante balletto, con minime variazioni sul piano semantico. Si giunse così all’apoteosi della retorica della ripetizione che non si realizzò solo nel gioco dell’iterazione incrociata della rima identica, ma si riverberò nella intera facies stilistica del bizzarro encomio, in cui sovente fece sfoggio di sé dall’impiego congiunto dell’anafora, come nell’ottava xvii, Di diamanti del ciel, d’acciar del mondo Nodi al mondo à la Lega fate, e ’n cielo: Che se la Lega al ciel dura, e nel mondo, Il mondo tutto si farà del cielo: E il ciel porgerà sempre gratie al mondo; E ’l mondo harà l’età sempre del cielo, 40 Sulla struttura metrica di Canz. ccvi e l’identificazione della disposizione a coblas retrogradatas: F. Bausi-M. Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 20045, pp. 94-95; M. Perugi (L’ ‘escondit’ del Petrarca [Rime ccvi] in «Lectura Petrarce», 1990, p.203) vi riscontra la tecnica, rarissima anche in ambito provenzale, del collegamento a coblas doblas e M. Santagata (F. Petrarca, Canzoniere, ed. commentata a c. di M. Santagata, Milano, Mondadori, 20015, p. 871) vi individua anche la strutturazione a coblas capdenals. 270 Del nomar parean tutti contenti E d’or del ciel, di gemme alte del mondo; E ’l piacer da lo ciel tornerà al mondo. Qui l’anafora della copulativa E produsse un effetto di contrappunto nei vv. 5-6, in cui i rimanti si sono collocati in disposizione chiastica (ciel-mondo / mondo-cielo), mentre nel distico di chiusura venne a rafforzare l’effetto del parallelismo isocolico delle parole-chiave (E-ciel-mondo / E-ciel-mondo). Ma il gioco dell’iterazione lessicale trovò il suo acme al centro del componimento, nella strofa ix, dedicata a Maria Vergine, ove, accanto alla consueta replicazione dei rimanti, in una trama di isocoli e chiasmi, nel giro di otto endecasillabi venne replicato, per cinque volte, il lessema gratia: E ’l ciel diè tante grazie, e doni al mondo, Quando al mondo le gratie eran del cielo: Dico Maria del ciel, gratia del mondo, Splendor del mondo, e carità del cielo. Sol de lo cielo Aurora, Alba del mondo, Del mondo honor, reina alta del cielo: Questo di gratie dì, diè il cielo al mondo: Tal gratia è un ciel Filippo appresso il mondo. Ferrante, come ben si vede, giunse, così, davvero ai confini estremi dell’artificio verbale, nel dar vita ad una testura di tale eccesso, da lasciare impallidire le più audaci sperimentazioni degli altri verseggiatori della ‘locuzione artificiosa’.41 Ma, rispetto al sonetto ‘epico’, O Gregorio del ciel, che reggi il mondo segnò un altro esclusivo punto di arrivo: in esso l’autore dell’Austria operò una sperimentazione non su un genere metrico, quale il sonetto, che fin dal secondo Duecento aveva visto i poeti rimaneggiare la sua struttura istituzionale, ma su un metro, l’ottava rima che, pur aperto, nella pratica poetica rinascimentale, a «sporadici esperimenti, rimasti senza seguito»,42 tuttavia non aveva, quasi mai, presentato sostanziali modifiche costitutive. L’unico possibile referente dell’esperimento carafiano è da identificarsi in una delle strofe iniziali delle Metamorfosi di Ovidio, ridotte in ottava rima da 41Su questi cfr. il fondamentale contributo di Giulio Ferroni e Amedeo Quondam, La ‘locuzione artificiosa’. Teoria ed esperienza della lirica Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973. 42 F. Bausi-M. Martelli, op. cit., p. 167. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 271 Giovanni Andrea dell’Anguillara, in cui i sedici esametri del Sulmonese sul Caos: Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum unus erat toto naturae vultus in orbe, quem dixere chaos: rudis indigestaque moles nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem non bene iunctarum discordia semina rerum. nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan, nec nova crescendo reparabat cornua Phoebe, nec circumfuso pendebat in aere tellus ponderibus librata suis, nec bracchia longo margine terrarum porrexerat Amphitrite; utque erat et tellus illic et pontus et aer sic erat instabilis tellus, innabilis unda lucis egens aer; nulli sua forma manebat, obstabatque aliis aliud, quia corpore in uno frigida pugnabant calidis, umentia siccis mollia cum duris, sine pondere, habentia pondus. [i, 5-20] vennero resi in questa singolarissima ottava: Pria che ’l Ciel fosse, il mar, la terra, e il foco; Era il fuoco, la terra, il ciel , e ’l mare: Ma ’l mar rendeva il ciel, la terra , e ’l foco, Deforme il foco, il ciel, la terra , e ’l mare. Che ivi era e terra, e cielo, e mare, e foco; Dove era e cielo, e terra, e foco e mare: La terra, e ’l foco, e il mar era nel cielo: Nel mar, nel foco, e ne la terra il cielo.43 L’Anguillara, dunque, trasferì, con grande efficacia espressiva, in solo otto endecasillabi, la descrizione ovidiana, più decorativa, ma certamente meno icastica, del Caos, un insieme informe dei quattro elementi primordiali, Aria (cielo), Acqua (mare), Terra, Fuoco. L’ottava, la cui trama linguistica era data unicamente da quattro lessemi (cielo, mare, terra, foco) collegati da essenziali legami sintagmatici, non poteva 43 Le Metamorfosi di Ovidio, ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, Venezia, 1575. 272 Del nomar parean tutti contenti utilizzare, quali rimanti, che tre di essi (foco, mare, cielo), quanti il metro ne richiedeva e non poteva disporre, cioè, di rime, se non identiche. L’Anguillara in questa stanza, pur segnalata e lodata da G. Ruscelli 44, contravvenne però ad una norma che il Ruscelli stesso aveva prescritto, allorquando aveva affermato che «sarebbe fallo ed error gravissimo… replicare una stessa parola due volte in una stessa stanza».45 Il Ruscelli applicava all’ottava rima una ‘legge universale’ riferibile «ad ogni sorta di componimento nostro leggiadro, cioè al Sonetto, alla Canzone, a’ Madrigali e alle Terze Rime»;46 ‘legge’, però, non vincolante per il dettato giocoso che, per il raggiungimento della ‘piacevolezza’, doveva poter godere di più ampia libertà espressiva: fuor solamente le Bernesche che in esse non si mira così alla sottile, attenendosi più che ad altro alla piacevolezza, la quale in molte occasioni perderebbe molto del suo, se avesse a soggiacere a tale strettezza.47 E una esemplare deroga bernesca al divieto della rima identica, come s’è visto, era stata offerta, appunto, dal Sonetto di ser Cecco. Ma per ciò che riguarda l’ottava, la legge universale del Ruscelli aveva, in un recente passato, veduto altre clamorose infrazioni: A. Poliziano aveva, con elegante efficacia stilistica, utilizzato la rima identica almeno due volte, nelle Stanze per la giostra, nei primi sei versi della strofa introduttiva alla descrizione del Regno di Venere: Or canta meco un po’ del dolce regno, Erato bella, che ’l nome hai d’amore; tu sola, benché casta, puoi nel regno secura entrar di Venere e d’Amore; tu de’ versi amorosi hai sola il regno, 44 «E bellissima, quanto dir si possa, è quella di M. Gio. Andrea dell’Anguillara nel suo primo libro delle Trasformazioni d’Ovidio, ove volendo descrivere il Caos, che contenendo il tutto, non era se non una cosa sola, fece con infinita lode la stanza che oltre al modo di dir con tanta bellezza quel pensiero, accompagna poi maravigliosamente la confusion del Caos con la testura della stanza» (G. Ruscelli, Il Rimario nel quale con fondata, e facile maniera si prescrive il Modo di Comporre perfettamente Versi nella lingua italiana, Venezia, Barazzi, 1650 [ma Venezia, Sessa, 15591 ], p. 69). 45Ivi, p. 68. 46 Ibidem. 47 Ivi, pp. 68-69. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 273 teco sovente a cantar viensi Amore; e, posta giù dagli omer la faretra, tenta le corde di tua bella cetra. [i, 69] e, totalmente, in una delle ottave encomiastiche, ad apertura del libro ii: Di questo e della nobile Lucrezia nacquene Iulio, e pria ne nacque Lauro: Lauro che ancor della bella Lucrezia arde, e lei dura ancor si mostra a Lauro, rigida più che a Roma già Lucrezia o in Tessaglia colei che è fatta un lauro; né mai degnò mostrar di Lauro agli occhi se non tutta superba e suo’ begli occhi. [ii, 4] Ma la più compiuta sperimentazione in chiave artificiosa dell’ottava è da ricercarsi nel ricco serbatoio della produzione cortigiana di fine Quattrocento e, soprattutto, nell’opera del suo più acclamato interprete, Serafino Aquilano. Nei suoi strambotti l’Aquilano utilizzò sovente quelle figure della ripetizione che saranno predilette dal Carafa, come, ad esempio, in questo campione ove, in posizione anaforica (Se ’l tempo) e ed epiforica (tempo + verbo) dilaga per sette versi il lessema tempo, sino all’epigrafica conclusione del verso 8 (Il tempo in summa ogni opera correge.): Se ’l tempo dona molto, il tempo toglie, Se ’l tempo dà piacer, il tempo attrista, Se ’l tempo liga stretto, il tempo scioglie, Se ’l tempo molto perde, il tempo acquista, Se ’l tempo dà allegrezza, il tempo doglie, Se ’l tempo inforza, il tempo il sangue pista, Se ’l tempo t’alza, il tempo te summerge, Il tempo in summa ogni opera correge.48 In questa ottava costruita mediante la giustapposizione in parallelo di sette endecasillabi correlativi, in preparazione dell’explicit, la funzione iterativa 48 Serafino (de’ Ciminelli) Aquilano, Opere, nuovamente ricorrette, et con diligentia impresse, Venezia, s.e. (ma Francesco De’ Franceschi), 1548, c. 1172. 274 Del nomar parean tutti contenti di tempo assunse, però, una valenza di forte intensità: la tessitura dei verba si rese efficace espressione della res. In qualche altro caso, invece, Serafino raggiunse quasi le soglie della locuzione artificiosa, allorquando qualche tropo di più ardita e difficile esecuzione, quale, ad esempio, la pallilogia, andò a costituire l’asse portante del dettato poetico: Gridan vosti occhi al mio cor fora fora, Che le difese sue son corte corte, Sù sù, à sacco à sacco, mora mora Arda arda, al freddo freddo, forte forte. Io pian pian, dico dico, a l’hora a l’hora, Vien vieni, accorri accorri, ò morte morte, Hor grido grido, alto alto, hor muto muto, Acqua acqua, al foco al foco, aiuto aiuto.49 Comunque le spinte culturali che alimentarono queste bizzarre sperimentazioni quattrocentesche sono di ordine assai diverso da quelle che animarono le ricerche dei manieristi meridionali del secondo Cinquecento: alla base dei più arditi tecnicismi della lirica cortigiana spesso si rinvenne più che l’aspirazione a dirigere la scrittura poetica verso le mete d’una aristocratica raffinata resa formale, l’influenza vivificante degli stilemi del dettato popolare, in cui grande spazio ha sempre occupato la costruzione iterativa. Esemplare al riguardo questo strambotto doppio (ABABABAB(C) – C(B)ACACACACA) di Francesco Galeota, giocato sull’anafora (Lassame / Non voglio), quale elemento fondante di ciascuna strofa, nonché sull’incatenamento anadiplosico, in forma chiastica, tra le due ottave (A chi non m’ama – più non voglio amare./ Non voglio amare – a·fforza chi non m’ama): Lassame, Amore, poi che m’hai lassato; lassame amore un poco repusare; lassame, falso traditore ingrato; lassame solo senza de te stare; lassame andare, ch’io so’ desperato lassa la vita mia, non la adastare, poi quella ch’amo assai me have amato. A chi non m’ama – più non voglio amare. 49 Ivi, 119v. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 275 Non voglio amare – a·fforza chi non m’ama, né voglio più servir chi no· m’ha a grato, né voglio stare con tuoi inganni in trama; non voglio esser più servo a chi so’ stato, non voglio che respunde a chi non chiama, non voglio che succurri al tempo andato: ma voglio che de me reste la fama, ché merito per merito t’ ho dato.50 Se, tutto sommato, negli esempi dell’Aquilano assolutamente latitante era risultata la ricaduta metrica della iterazione lessicale, nei versi del Galeota il ricorso ai tropi della ripetizione andò a rimodellare completamente l’impalcatura delle due rispetti accoppiati, giacché nel secondo ‘continuavano’ le rime del primo (la rima a e la rimalmezzo c), creando così un effetto ‘ciclico’ che, a prima vista, potrebbe sembrare quasi un’anticipazione della struttura delle ottave carafiane. Invero, se un modello si dovesse reperire per la gestazione della compagine metrica di O Gregorio del ciel, che reggi il mondo, sarebbe sicuramente più proficuo, anziché nelle pagine del Galeota, investigare nel Canzoniere petrarchesco, ove si possono rinvenire gli espedienti tecnici fondamentali dell’apax metrico carafiano, l’incatenamento a coblas retrogradatas della canzone ccvi e la rima identica delle sestine liriche. Ciò non elimina però l’ideale congiungimento delle ottave sperimentali dell’Austria e della loro veste ‘artificiosa’ ad una tradizione di scrittura poetica fondata sul preziosismo stilistico di cui proprio la lirica napoletana, a partire dalla stagione aragonese, aveva offerto impareggiabili esempi. Il binomio lessicale delle ottave dell’Austria, mondo – cielo (correlativo dell’altro oro – cielo, già rilevato in un sonetto ‘artificioso’ della Carafè) fu particolarmente prediletto da Ferrante che lo utilizzò, in questa seconda raccolta, ancora in un altro componimento, allestito ad encomio di Roma, il cuore della cristianità: O Sol, come tu sol dai luce al Cielo, Così fa solo il gran Tarpeo nel mondo; O Cinthia, che sei sola al primo Cielo, Così fa sempre il Palatino al mondo. O Mercurio, che sol regni al tuo Cielo, 50La lirica napoletana del Quattrocento, a c. di A. Altamura, Napoli, s.e.n., 1978, p. 109. 276 Del nomar parean tutti contenti Fa che sol regni il Viminale al mondo; O Venere, che sei nel terzo Cielo, Fa ch’Esquilin sia sempre amato al mondo. O Marte, che risplendi al quinto Cielo, Fa splender sempre il Quirinale al mondo: O Giove, che sol reggi il sesto Cielo, Fa c’habbia l’Aventino freno al mondo; O Saturno che sovra gli altri hai il Cielo, Fa che Celio sorvoli ogn’altro al mondo.51 Ancora un «sonetto continuo, incatenato, su rime identiche», ancora una lirica costruita in laboratorio con una perizia tecnica davvero singolare. Il discorso poetico qui si dispose in una intelaiatura fondata sul valore simbolico del numero sette, il numero dei vizi capitali (mondo), ma anche delle virtù cristiane (Cielo), il numero degli astri del sistema tolemaico (Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno), ma anche dei sette colli romani (Campidoglio, Palatino, Viminale, Esquilino, Quirinale, Aventino, Celio). Questi quattro elementi (mondo, cielo, astri, colli) si disposero simmetricamente in distici di endecasillabi con apertura anaforica, data dall’invocazione all’astro (O Sol) seguita dalla rievocazione della funzione celeste (come tu sol dai luce al Cielo) e poi dalla celebrazione di Roma attraverso uno dei suoi colli (Così fa solo il gran Tarpeo nel mondo). La disposizione simmetrica dei distici favorì la ripresa parallela di interi versi: O Sol, come tu sol dai luce al Cielo, O Marte, che risplendi al quinto Cielo O Cinthia, che sei sola al primo Cielo O Venere, che sei nel terzo Cielo O Saturno che sovra gli altri hai il Cielo O Mercurio, che sol regni al tuo Cielo, O Giove, che sol reggi il sesto Cielo 51F. Carafa, I sei libri della Carafé, sopra varij, e diversi soggetti, ad imitazione di Poeti Lirici, Greci, e Latini, L’Aquila, G. Cacchi, 1580, p. 165. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 277 e dette vita ad una struttura in cui le tradizionali ripartizioni del sonetto appaiono completamente trasformate: il componimento non si giovava più, per l’organizzazione stilistica e logico-sintattica del discorso, della presenza di due quartine accompagnate da due terzine, bensì da una serie omogenea di sette distici; il 14 che governa l’impalcatura del sonetto non fu più dato dalla somma di 4+4+3+3, ma da 2 × 7: O Sol, come tu sol dai luce al Cielo, Così fa solo il gran Tarpeo nel mondo; O Cinthia, che sei sola al primo Cielo, Così fa sempre il Palatino al mondo. O Mercurio, che sol regni al tuo Cielo, Fa che sol regni il Viminale al mondo; O Venere, che si nel terzo Cielo, Fa ch’Esquilin sia sempre amato al mondo. O Marte, che risplendi al quinto Cielo, Fa splender sempre il Quirinale al mondo: O Giove, che sol reggi il sesto Cielo, Fa c’habbia l’Aventino freno al mondo; O Saturno che sovra gli altri hai il Cielo, Fa che Celio sorvoli ogn’altro al mondo. Anche la disposizione seriale dei distici non costituì, altresì, per l’esperimento carafiano, una novità assoluta: a non voler scomodare gli arcaici couplets transalpini e le loro derivazioni nostrane,52 basterà ricordare la studiatissima strutturazione distica dell’ottava canterina 53 o dello strambotto,54 per attestare nella tradizione pre-manieristica italiana il ricorso a tale soluzione formale. Evento non altrettanto nuovo apparve, altresì, la serializzazione del distico come elemento fondante della costruzione del sonetto; basterà questo esempio petrarchesco, focalizzato sull’anafora Ov’è / Ove son, a testimoniarne la presenza nella scrittura poetica più illustre: 52P.G. Beltrami, op. cit., pp. 303-05. 53Sulla disposizione binaria dell’ottava canterina cfr. il classico contributo di G. Mariani, La fattura dell’ottava in Il Morgante e i cantari trecenteschi, Firenze, Le Monnier, 1953, pp.68102. 54Cfr. E. Bigi, Ballate e strambotti del Poliziano in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 1989, pp. 481-99. 278 Del nomar parean tutti contenti Ov’è la fronte, che con picciol cenno volgea il mio core in questa parte e ’n quella? Ov’è ’l bel ciglio, et l’una et l’altra stella ch’al corso del mio viver lume denno? Ov’è ’l valor, la conoscenza e ’l senno? L’accorta, honesta, humil, dolce favella? Ove son le bellezze accolte in ella, che gran tempo di me lor voglia fenno? Ov’è l’ombra gentil del viso humano ch’òra et riposo dava a l’alma stanca, et là ‘ve i miei pensier’ scritti eran tutti? Ov’è colei che mia vita ebbe in mano? Quanto al misero mondo, et quanto manca agli occhi miei che mai non fien asciutti! [Canz. cc i x i x]55 Come è facile notare, però, l’impiego dell’anafora nella costruzione dell’andamento distico, in questo campione, non incise sulla struttura portante del sonetto; anzi la sua presenza, ad apertura delle due terzine conclusive, contrapponendo un modulo ternario al precedente andamento binario, esaltò il tratto fisionomico più specifico del metro. Assolutamente diverso risultò, invece, l’uso dell’anafora e della strutturazione distica in O Sol, come tu sol dai luce al Cielo: qui la protrazione dell’andamento binario per l’intero componimento colpì il sonetto nella sua reale entità e lo destrutturò completamente nella vanificazione della configurazione ternaria della sua parte finale. In questo esperimento carafiano, dunque, non rimase del metro che l’immagine esteriore, quella che la mise en page ostentava, mediante la disposizione dei capoversi: il sonetto era divenuto così una sorta di involucro esterno, una crisalide ormai defunta che solo in trasparenza lasciava intravedere la nascita d’un nuovo essere. Più degli altri componimenti artificiosi in cui il preziosismo stilistico faceva mostra di sé, forse, in modo più vistoso e appariscente, proprio O Sol, come tu sol dai luce al Cielo rappresenta, a nostro avviso, il vertice estremo dello sperimentalismo metrico carafiano, l’ipogeo del suo rapporto con gli statuti del classicismo petrarchistico, quando a conclusione d’una serie di tentativi di rimodellamento del sonetto, Ferrante dette vita ad un unicum 55Nostri capoversi. V. Dolla Parole in gioco nella poesia di Ferrante Carafa 279 poetico, una struttura assolutamente nuova che del metro più caro al Petrarca e ai suoi seguaci conservava solo la maschera epidermica. Viatico per questi nuovi approdi formali fu dunque la ‘locuzione artificiosa’, che allentando i legami tra verba e res, fornì i mezzi necessari per una straordinaria avventura di ricerca espressiva, ricerca che aprì varchi che pochi rimatori furono in grado di attraversare. Fu la geniale tempra del poeta-filosofo Giordano Bruno a proseguire lungo la strada inaugurata da Ferrante Carafa e a levarsi ad ancor più arditi voli nelle liriche degli Eroici furori, rivitalizzando però l’astratto sperimentalismo del poeta dell’Austria, col ricongiungimento dei verba alle res. Università degli Studi “Federico II” - Napoli Mauro de Nichilo PER UNA STORIA DELLA FORTUNA DEL POLIZIANO VOLGARE NEL CINQUECENTO Ho intenzionalmente scelto di scrivere nel titolo ‘fortuna’ e non ‘ricezione’, non avendo questo mio saggio l’obiettivo di ricostruire la problematica ‘ricezione’ cinquecentesca dell’opera poetica in volgare del Poliziano al fine di elaborarne un’interpretazione storicamente più adeguata, ma più semplicemente – di qui la decisione di escludere tutte le testimonianze, in senso lato, di critica letteraria –1 di censire alcuni specimina della sua ricezione ‘creativa’ da parte degli autori del secolo xvi, da intendere come produzione di nuovi testi che con il modello polizianeo intrattengono relazioni intertestuali. ‘Fortuna’ allora – termine non certo più neutro, ma meno impegnativo sul piano teorico –, come ‘influsso’, categoria centrale nell’estetica della ‘produzione’ più che in quella della ‘ricezione’. Senza escludere ovviamente che la produzione di un nuovo testo per influsso o imitazione di uno o più testi antecedenti possa essere una forma di ricezione di quei testi, ovvero di interpretazione.2 1 Come, ad es., quella di Vincenzo Calmeta che nella Vita di Serafino Aquilano (1504), occasione per un discorso critico sulla letteratura volgare contemporanea, alla domanda, quale stile fosse da imitare tra i poeti volgari, consigliava per le composizioni in ottava rima un canone tutto fiorentino: «Hanno di poi le stanze incominciato ad essere in pregio. Onde, chi in quelle vuol essercitarsi, i Fiorentini ottengono il principato: imiti Lorenzo Medice, il Poliziano, Girolamo Benivieni, Luigi Pulci e alcuni altri, che in queste sommi artefici sono stati» (in Vincenzo Calmeta, Prose e lettere edite e inedite [con due appendici di altri inediti], a c. di Cecil Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959, p. 24). Gli stessi autori che si incontrano anche nella dedica «Al candido lettore» che Palladio Bellon Decio premise alla stampa della Cerva bianca di Antonio Fileremo Fregoso (1510) e nel catalogo esibito da Girolamo Claricio nell’Apologia contro detrattori della poesia di messer Giovanni Boccaccio (1521). Per questa letteratura ‘critica’ e relativa bibliografia rimando da ultimo a Floriana Calitti, Fra lirica e narrativa. Storia dell’ottava rima nel Rinascimento, Firenze, Le Càriti, 2004. 2 Su questa complessa problematica, applicata alle molteplici e discrepanti modalità di ricezione del Furioso dell’Ariosto nel Cinquecento, cfr. Klaus W. Hempfer, Diskrepante M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 281 All’inizio della storia sia della ricezione che della fortuna del Poliziano c’è indubbiamente il Poliziano stesso con la netta distinzione da lui operata tra la propria opera di filologo e di poeta in latino e in greco, della quale si mostrò sempre orgoglioso – e non è un caso che ne fece o ne lasciò stampare in vita la maggior parte –, e quella di poeta in volgare, nei confronti della quale ostentò invece indifferenza o persino un certo disprezzo.3 Ma subito dopo la sua morte, se i suoi scritti in latino continuarono ad essere letti e apprezzati, pur con qualche riserva sul loro eclettismo linguistico e stilistico, le sue poesie italiane, fin dagli ultimi anni del Quattrocento e poi per tutto il Cinquecento, vennero considerate, nonostante Bembo, tra le prime e più valide prove del nuovo volgare letterario toscano. Già nell’ambito della poesia cortigiana quattro-cinquecentesca si deve precocemente registrare qualche interessante apporto, insieme ad altri all’interno della più vasta tradizione toscana, del Poliziano volgare. Se alla fine della sua carriera di poeta improvvisatore Serafino Aquilano riterrà conclusa la stagione poetica mediceo-laurenziana, molto viva è tuttavia nei suoi strambotti la presenza del modello polizianeo, al punto che il Colocci si sentì in dovere di difenderlo dalle accuse di ‘furto’ che per questo motivo da più parti gli erano state mosse.4 A gara con Poliziano si era cimentato in tre rifacimenti del rispetto dell’eco Che fa’ tu, Ecco, mentre io ti chiamo? Amo, xxxvi delle Rime, in cui l’Ambrogini aveva trasposto in volgare un epigramma greco dell’Antologia Planudea, rispetto da subito famoso e ben presto imitato 5 ed anche musicato, l’unico peraltro delle Rime ricordato con un certo compiacimento dallo stesso Lektüren: Die Orlando-Furioso-Rezeption im Cinquecento. Historische Rezeptionsforschung als Heuristik der Interpretation, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 1987, trad. it. Letture discrepanti. La ricezione dell’Orlando Furioso nel Cinquecento. Lo studio della ricezione storica come euristica dell’interpretazione, Modena, Franco Panini, 2004. 3 Nella dedica al pronotaro apostolico Galeazzo Bentivoglio premessa alla princeps bolognese del 1494 delle Cose vulgare del Poliziano, Alessandro Sarti è certo che «alquanto al Politiano dispiacerà che queste sue stanze da lui già disprezzate si stampino»: in Angelo Poliziano, Stanze cominciate per la giostra di Giuliano de’ Medici, edizione critica a c. di Vincenzo Pernicone, Torino, Loescher, 1954, p. xxvi, ed anche in Antonia Tissoni Benvenuti, L’Orfeo del Poliziano con il testo critico dell’originale e delle successive forme teatrali, Padova, Antenore, 20002, pp. 58-59. 4 Si veda l’Apologia di Angelo Colotio nell’opere de Seraphino, in Serafino Aquilano, Rime, Roma, Besicken, 1503, ora in Id., Strambotti, a c. di Antonio Rossi, Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 2002, pp. 290-297. 5 Daniela Delcorno Branca, Sulla tradizione delle Rime del Poliziano, Firenze, Olschki, 1979, p. 15 ricorda il rifacimento di Pier Adamo da Mantova databile al 1489. 282 Del nomar parean tutti contenti autore nel cap. xxii della prima centuria dei Miscellanea 6 e uscito a stampa in coda alla princeps bolognese del 1494 delle Stanze e dell’Orfeo.7 Nelle tre riscritture dell’Aquilano tuttavia, fatto salvo il riferimento al genere ecoico che indubbiamente Poliziano aveva rinnovato nel suo rispetto, mancano tracce concrete di questo a livello stilistico e lessicale, di cui si coglie invece qualche spia, comprese due parole rima, nel rifacimento del rispetto lii Contento in foco sto come Fenice, di quasi certa attribuzione polizianea, ennesima variazione sul tema dell’ossimoro d’amore espresso dai topici emblemi della fenice e del cigno, che Serafino Aquilano varia affiancando alla fenice la salamandra.8 Ciò che mi sembra interessante in questo collegamento fra Poliziano e Serafino è la prospettiva letteraria affermatasi nell’ambiente umanistico romano di fine secolo – si pensi ad Angelo Colocci, a Paolo Cortesi, al Calmeta – che assegnava alla poesia mediceo-laurenziana una funzione guida per la moderna poesia cortigiana e sovraregionale;9 un’idea di corto respiro destinata presto a soccombere di fronte alla censura che il Bembo riservò proprio agli scrittori toscani di secondo Quattrocento e in particolare a Poliziano.10 6 «Quales etiam vernaculos ipsi quospiam fecimus, qui nunc a musicis celebrantur, Henrici modulaminibus commendati, quosque etiam abhinc annos ferme decem Petro Contareno veneto patricio, non inelegantis ingenii viro, mire tum desideranti nonnullisque aliis litterarum studiosis dedimus»: Angeli Politiani Miscellaneorum centuria prima, in Opera, Basileae, apud Nicolaum Episcopium iuniorem, 1553 (ed. anastatica, Chiusi, Edizioni Luì, 1994), p. 244. 7 Per il testo del rispetto e il suo commento rinvio a Angelo Poliziano, Rime, a c. di Daniela Delcorno Branca, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 70, 167-168, ma per il commento aggiungerei anche Angelo Poliziano, Stanze Orfeo Rime, introduzione, note e indici di Davide Puccini, Milano, Garzanti, 1992, pp. 223-224, e Angelo Poliziano, Poesie volgari, a c. di Francesco Bausi, Manziana, Vecchiarelli, 1997, ii, pp. 219-220. Su di esso e la sua fortuna cfr. Giovanni Pozzi, Poesia per gioco, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 94-102; Daniela Delcorno Branca, Da Poliziano a Serafino, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, iii. Umanesimo e Rinascimento a Firenze e Venezia, Firenze, Olschki, 1983, pp. 423-450: 426-428. I tre rispetti dell’Aquilano (Ahimè! Che arrò del mal ch’io porto? Porto; Deh, fusse qui chi mi to’ el somno! Somno; Cogli passion come io, dur scoglio? Coglio), i nn. 183, 184, 185 nell’edizione a c. di Barbara Bauer-Formiconi, Die Strambotti des Serafino dall’Aquila, München, W. Fink, 1967, si possono leggere ora in S. Aquilano, Strambotti cit., pp. 165-169. 8 Il rispetto lii del Poliziano è in Rime cit., pp. 75, 173-174; quello dell’Aquilano, il n. 74 nell’ed. Bauer-Formiconi cit., p. 215. Su entrambi cfr. di D. Delcorno Branca, Da Poliziano a Serafino cit., pp. 429-430, e Il laboratorio del Poliziano. Per una lettura delle «Rime», «Lettere italiane», 1987, pp. 153-201: 174-176. 9 Non è affatto un caso che a Roma negli ultimi anni del Quattrocento si confezionasse uno dei testimoni più importanti delle Stanze del Poliziano (cod. Magl. ii. x. 54), contenente anche strambotti dell’Aquilano, di Baccio Ugolini, del Cortesi e del Calmeta. 10 È il senso del saggio di D. Delcorno Branca, Da Poliziano a Serafino cit., pp. 430-50. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 283 In realtà Poliziano, che nella fenomenologia dell’intellettuale italiano ed europeo del Rinascimento rappresenta una assoluta rarità per la vastità e la qualità davvero sorprendenti della sua cultura, per questa sua eccezionale singolarità, che in ambito strettamente letterario si traduceva in una scrittura coltissima e preziosa, straordinaria virtuosistica contaminazione di poesia volgare e di poesia dei classici, è stato poi, se non proprio impopolare, sicuramente poco replicabile ed imitabile.11 Non bisogna poi trascurare la posizione di debolezza in cui venne a trovarsi la letteratura fiorentina dopo la morte di Lorenzo e di Poliziano. La loro scrittura in volgare aveva lasciato esempio della compromissione, anche nella poesia più colta, con l’uso parlato, il quale si era differenziato dal fiorentino trecentesco a causa dell’inurbamento di molti toscani dell’ovest e del sud-est conseguente agli ampliamenti territoriali intervenuti nel corso del secolo. La lingua in cui Poliziano scriveva non era in fondo molto diversa, sul piano della fonetica e della morfologia, da quella della letteratura rusticale laurenziana, una letteratura cioè intenzionalmente dialettale. La situazione letteraria dell’ultimo Quattrocento conosce inoltre un vasto e rapido processo di appropriazione del patrimonio toscano da parte dei non toscani con una crescente iniziativa di questi e corrispondente relativa emarginazione di Firenze. Era il trionfo della letteratura ‘cortigiana’. È risaputo che dietro le Prose della volgar lingua del Bembo ci sia proprio questa situazione, donde la necessità di sancire, sul piano politico e retorico, la separatezza della letteratura, troppo compromessa con l’angusta vita sociale e mondana delle corti e ridotta ad un consumo effimero, e di rispondere, sul piano grammaticale, alla domanda di normatività che veniva dai letterati non toscani alla ricerca di una lingua unica immune dalle oscillazioni legate alla pratica e alla teoria cortigiana, in un momento peraltro di forte slancio della stampa e delle sue dinamiche di allargamento geografico e sociale dei mercati della scritturalettura. Da qui nelle Prose il giudizio negativo sulla lingua e la letteratura fiorentine del Quattrocento, così poco codificabili per essere state troppo libere e aperte alla sperimentazione indiscriminata dei linguaggi e delle forme; ne fu penalizzato in particolare il Poliziano e la sua estetica della docta varietas che lo aveva portato a prediligere tessuti linguistici vari e diseguali punteggiati di vocabili rari e preziosi tratti dagli autori più diversi. Si trattava rispetto alla concezione del Bembo, che da buon ciceroniano era orientato verso un 11 Sulla fortuna europea di Poliziano: Francisco Rico, Luci e ombre del Poliziano intorno al 1525, in Agnolo Poliziano poeta scrittore filologo. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Montepulciano 3-6 novembre 1994, a c. di Vincenzo Fera e Mario Martelli, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 389-402. 284 Del nomar parean tutti contenti dettato omogeneo e armoniosamente scorrevole, di un motivo non estrinseco di divergenza, di cui dovette essere profondamente consapevole lo stesso autore delle Prose, allorché aveva evitato in esse qualsiasi riferimento al Poliziano, il quale pure insieme con Lorenzo, Boiardo e Sannazaro aveva contribuito mezzo secolo prima alla rinascita della letteratura volgare impegnandosi nella costruzione di una lingua che attraverso innesti classici e trecenteschi superasse i confini del municipalismo per imporsi nel più vasto spazio intellettuale ‘italiano’. E infatti alla rimozione del nome prestigioso del Poliziano il Bembo era stato indotto non solo da quelle che potevano essere divergenze di stile ma fondamentalmente dal proposito di vantare diritti esclusivi di primogenitura nel rilancio del volgare nella lingua letteraria. Ma più che le Stanze, fu l’Orfeo del Poliziano ad esercitare un influsso maggiore, anche se si tratta di un influsso piuttosto genericamente postulabile che puntualmente verificabile sullo sviluppo tragico e su quello pastorale della produzione drammatica successiva. La prova tuttavia più evidente della grande e immediata fortuna della fabula polizianea sta nella sua onnipresenza nei testi del teatro di corte degli ultimi decenni del Quattrocento, per lo più opere di genere mitologico-pastorale a lieto fine, e dunque tutte a loro modo fabulae satyricae, come il loro illustre modello, un geniale e avanguardistico adattamento in volgare del dramma satiresco greco, di cui la Fabula di Orpheo del Poliziano presenta tutti i caratteri peculiari, come da tempo ha sapientemente dimostrato Antonia Tissoni Benvenuti.12 A partire dal suo più illustre rifacimento, l’anonima Orphei Tragoedia, non per nulla attribuita dal suo scopritore settecentesco, padre Ireneo Affò, allo stesso Poliziano, e quindi al Tebaldeo, a Niccolò da Correggio e persino al Boiardo, in realtà «un fraintendimento totale della fabula», trasformata in tragedia e sottoposta a regolarizzazione strutturale con la canonica suddivisione in cinque atti in adeguamento al nuovo gusto teatrale, alle ‘diverse’ richieste di spettacolo che venivano dal pubblico delle corti settentrionali;13 attraverso 12 A. Tissoni Benvenuti, L’Orfeo del Poliziano … cit., pp. 89-103. Ne ha fornito conferme Paolo Orvieto, Angelo Poliziano, in Storia della letteratura italiana, iii. Il Quattrocento, Roma, Salerno, 1996, pp. 497-499, e quindi nel volume dal titolo Poliziano e l’ambiente mediceo, Roma, Salerno, 2009, pp. 315-323. 13 Su di essa: Maria Pia Mussini Sacchi, La «Orphei Tragoedia» e il suo autore, in In ricordo di Cesare Angelini, Milano, Il Saggiatore, 1979, pp. 132-145 e A. Tissoni Benvenuti, L’Orfeo … cit., pp. 116-126 (il testo a pp. 185-209) e quindi in Matteo Maria Boiardo, Timone Orphei Tragoedia, a c. di Mariantonietta Acocella e Antonia Tissoni Benvenuti, Novara, Interlinea, 2009, pp. 231-281. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 285 la Fabula di Cefalo del Correggio rappresentata a Ferrara nel 1487, debitrice piuttosto nei confronti dell’Orphei Tragoedia che della Fabula di Orpheo,14 sino alle cinquecentesche e anonime Historia de Orpheo e Fabula di Orfeo e Aristeo. Se la seconda 15 è una lunga e farraginosa favola pastoral-mitologica di un autore forse toscano che ricuce brani di opere altrui saccheggiando in particolare il Cefalo e aggiungendo episodi che nulla hanno a che fare col Poliziano – ma non si può far a meno qui di registrare che la descrizione di Euridice da parte di Tirsi nel secondo atto è atteggiata a quella di Simonetta in Stanze i 43 –, l’Historia de Orpheo tradisce invece un interessante slittamento di genere con la trascrizione del testo polizianeo in cantare, da mettere senza dubbio in relazione con l’accresciuto interesse che si registra nel genere sotto l’influsso dell’Umanesimo per i miti classici, entrati già nel corso del Trecento nel repertorio dei cantastorie.16 L’Orfeo struttura il nuovo cantare ed è ripreso alla lettera o con leggere modifiche, quando il metro è diverso, per oltre due quinti dei suoi 350 versi e Poliziano, per quanto non nominato, è l’auctor cui l’anonimo canterino rinvia più volte nel corso della narrazione per garantire la veridicità del racconto, anche se poi a prestargli i principali elementi della trama non è tanto la fabula polizianea, che oltretutto non offriva una storia continua e in quanto testo drammatico non conteneva nessuna parte narrativa, e nemmeno direttamente i libri x e xi delle Metamorfosi di Ovidio, quanto l’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni di Bonsignori che aveva volgarizzato a fine Quattrocento la trecentesca parafrasi latina di Giovanni del Virgilio rivestendola di una patina cristiana e morale.17 E infatti l’anonima Historia de Orpheo, che pure in ossequio alle convenzioni strutturali del genere canterino amplifica a dismisura rispetto al mito antico e all’Orfeo 14 La Fabula de Cefalo si può leggere in Teatro del Quattrocento. Le corti padane, a c. di Antonia Tissoni Benvenuti e Maria Pia Mussini Sacchi, Torino, Utet, 1983, pp. 201-255. 15 In Guido Mazzoni, La favola di Orfeo e Aristeo, festa drammatica del xv secolo, Firenze, Alfani e Venturi, 1906. 16 Il testo in appendice a Bodo Guthmüller, «La historia de Orpheo»: modelli e tecniche narrative, in Il cantare italiano fra folklore e letteratura. Atti del Convegno internazionale di Zurigo, 23-25 giugno 2005, a c. di Michelangelo Picone e Luisa Rubini, Firenze, Olschki, 2007, pp. 301-337, poi in Bodo Guthmüller, Mito e metamorfosi nella letteratura italiana. Da Dante al Rinascimento, Roma, Carocci, 2009, pp. 157-191: 171-191. 17 Il testo è disponibile nell’ed. crit. a c. di Emilia Ardissino, Bologna, Commissione dei testi di lingua, 2001. Cfr. Bodo Guthmüller, Ovidio Metamorphoseos Vulgare. Formen und Funktionen der volksprachlichen Wiedergabe klassischer Dichtung in der italienischen Renaissance, Boppard am Rhein, Boldt, 1981 (trad. ital., Fiesole, Cadmo, 2008). 286 Del nomar parean tutti contenti di Poliziano il tema dell’amore e quello della discesa agli Inferi sviluppando il primo in chiave patetica e del secondo marcando gli elementi avventurosi e meravigliosi, della vicenda di Orfeo finisce per fornire nella chiusa una interpretazione moraleggiante con la decisa condanna della omosessualità del protagonista. Se in Poliziano, dove in realtà era appena suggerito, il motivo era subordinato a quello del disprezzo dell’amore coniugale, nel rifacitore cinquecentesco assume rilievo primario come ammonimento per gli ascoltatori a rivolgere il loro amore esclusivamente alle donne. Orfeo diventa exemplum: ravvedutosi dopo la morte del «suo errore [...] ritrova la donna e ’l primo amore» (ott. 88). La fortuna cinquecentesca dell’Orfeo di Poliziano,18 cui volutamente ho fatto solo un fugace cenno, fu merito anche delle numerose edizioni che delle opere volgari dell’umanista fiorentino si susseguirono, dopo la princeps bolognese del 1494, per tutto il secolo successivo, ma su questa divulgazione – che ovviamente riguarda anche le Stanze per la giostra – pesò notevolmente la censura pregiudiziale del bembismo. Perché se da giovane il Bembo aveva celebrato il Poliziano come «arbiter ausoniae lyrae» e durante il tirocinio come poeta volgare, in fase di sperimentazione, ancora aperta a tutti i registri, non aveva disdegnato di ispirarsi alla sua musa fiorentina,19 di cui si può cogliere qualche traccia a livello sia lessicale che stilistico nelle Stanze del 1507,20 aveva poi coinvolto – come si è già detto – nella drastica rimozione operata 18 Cfr. anche Nino Pirrotta, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, Einaudi, 1975. 19 Nei Carmina del Bembo (Torino, Ed. Res, 1990, riproduzione del testo dell’editio princeps, Venetiis, apud Gualterum Scottum, 1552) non mancano interferenze con la poesia del Poliziano, al quale rende esplicito omaggio nel Politiani tumulus, «un esercizio di impeccabile rigore e assoluta esattezza nel misurarsi con il proprio oggetto sul terreno che più gli era proprio, e cioè quello di una metaletterarietà protesa a riprodurre e assimilare le sue fonti con superiore capacità mimetica, mescolando e incrociandone gli apporti in aggregati di inedita formulazione e mobile vivacità espressiva»: Attilio Bettinzoli, Poliziano tra Bernardo e Pietro Bembo, in Id., Daedaleum iter. Studi sulla poesia e la poetica di Angelo Poliziano, Firenze, Olschki, 1995, pp. 353-374: 364. Sull’attenzione del Bembo per il magistero polizianeo cfr. anche Carlo Vecce, Bembo e Poliziano, in Agnolo Poliziano … cit., pp. 477-503. 20 Il testo è riprodotto per intero e annotato in Poeti del Cinquecento, i. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a c. di Guglielmo Gorni, Massimo Danzi e Silvia Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, pp. 191-211; si dispone anche dell’ed. critica a c. di Alessandro Gnocchi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003. Sulle Stanze: Guglielmo Gorni, Il mito di Urbino dal Castiglione al Bembo, in La Corte e il «Cortegiano», i. La scena del testo, a c. di Carlo Ossola, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 175-190; Floriana Calitti, Letteratura e svaghi di corte: le «Stanze» di Pietro Bembo, in Passare il tempo. La letteratura del gioco e dell’intrattenimento dal xii al xvi secolo. Atti del Convegno di Pienza, 10-14 settembre 1991, Roma, Salerno, 1993, ii, pp. 619-631; Ead., Fra lirica e narrativa … cit., pp. 120-133. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 287 nei confronti della civiltà cortigiana di secondo Quattrocento e della sua letteratura anche la poesia volgare del Poliziano. Eloquente diveniva allora nelle Prose il silenzio su di lui a fronte dell’esplicita menzione degli altri rimatori fiorentini coevi che, compromessosi con la lingua dell’uso vivo, troppo si erano allontanati dalla dignità raggiunta dal volgare fiorentino nel Trecento con Petrarca e Boccaccio. La proposta del Bembo di un canone letterario e linguistico cristallizzato, segnando il punto di non ritorno di un processo in atto nella letteratura di primo Cinquecento di semplificazione normativa delle forme e della lingua, toccò retroattivamente anche il Poliziano e le sue Stanze, quando queste furono ristampate a Venezia nel 1526 nel testo sottoposto a profonda revisione linguistica e formale secondo i dettami bembiani da parte di Tizzone Gaetano da Pofi.21 In questo testo raffazzonato che ne alterava e stravolgeva la lezione autentica, accolto anche dall’edizione veneziana del 1541 e dalla cominiana del 1728, le Stanze furono poi lette per secoli sino all’edizione carducciana del 1863 che recuperava la princeps bolognese del 1494. Nella cerchia veneta del Bembo, ma in posizione a lui antagonista, anche se il conflitto scaturito da sue presunte deviazioni dal codice petrarchista e dunque dall’ortodossia del divino maestro pare fosse alimentato ad arte da Pietro Aretino, che avrebbe forzato tempi e voci del dissenso al fine di sbarazzarsi di lui e presentarsi come braccio secolare del bembismo, Antonio Brocardo mostra la sua curiosità linguistica, la sua vena bizzarra aperta allo sperimentalismo, più vicine all’esperienza poetica quattrocentesca, praticando nella sua esigua produzione poetica un ventaglio di modelli più ampio e variegato di quello imposto dal Bembo.22 Come nel caso della canzone xiii Perché, perché il vigore delle sue Rime,23 ispirata alla celebre elegia In violas 21 Cfr. Giosuè Carducci, Delle poesie toscane di Angelo Poliziano, in Angelo Poliziano, Le Stanze, l’Orfeo e le Rime rivedute su i codici e su le antiche stampe e illustrate con annotazioni di varii e nuove da Giosuè Carducci, Firenze, Sansoni, 1863, pp. xc sgg.; Vincenzo Pernicone, L’edizione Tizzoniana delle ‘Stanze’ del Poliziano, «Giornale storico della letteratura italiana», 1956, pp. 226-236; Ghino Ghinassi, Correzioni editoriali di un grammatico cinquecentesco, «Studi di filologia italiana», 1961, pp. 33-93. Fondamentale sull’argomento Paolo Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, il Mulino, 1991 (rist. anast., Ferrara, Unife P., 2009). 22 Su di lui: Claudio Mutini, Brocardo, Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, xiv, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1972, pp. 383-384; Giuseppe Frasso, Francesco Petrarca, Trifon Gabriele, Antonio Brocardo, «Studi petrarcheschi», 1987, pp. 159-190. 23 A stampa in Rime del Brocardo et d’altri authori, Venezia, Amadi, 1538, pp. 23-24, si può leggere con ampio commento in Poeti del Cinquecento cit., pp. 261-264. Su di essa: Cateri- 288 Del nomar parean tutti contenti del Poliziano, chiaro atto di omaggio ad un autore non ortodosso secondo il canone bembiano e ad una poesia tra le più alte, sul versante sia latino che volgare, della recente tradizione poetica italiana che poteva ancora offrire spunti tematici e un modello di lingua e di stile ad una lirica non arresasi, nel primo trentennio del Cinquecento, ad orientare tutte le sue scelte al paradigma imposto dal Bembo. La canzone del Brocardo, nonostante si apra con l’immagine della morte delle viole, assente nel Poliziano («Perché, perché il vigore / a le mie care erbette / manca? Perché riflette / ciascuna il capo come l’uom che more? / Perché, perché il colore, / perché ciascuna perde / de le belle viole? / Ov’è ’l bel perso e ’l verde, / e quell’odore che suole / far in me, più che ’n or raggio di sole?»), e forse suggerita dal sonetto cli Io ti veggio mancar, languido fiore di Antonio Tebaldeo,24 e anticipi nella strofa iii la promessa di eternità dei fiori che chiude invece l’elegia In violas (vv. 37 sgg.),25 è da questa che trae indubbiamente la sua materia. Le strofe iii-vii ne parafrasano e a tratti traducono il testo ricalcando l’impianto strutturale con il movimento interrogativo d’esordio e quello esortativo finale, come pure alcune scelte stilistiche e formali, quali il gioco retorico delle anafore e delle repetitiones di cui il Brocardo abusa per assecondare il ritmo madrigalesco della rara struttura metrica (ben otto settenari per stanza) della canzone. Ma l’interesse per l’elegia In violas di Poliziano continuerà per tutto il Cinquecento e conterà accanto alle più tarde riscritture dei veneziani Giorna Saletti, Una fonte quattrocentesca di Antonio Brocardo: il Poliziano, in Studi offerti ad Anna Maria Quartiroli e Domenico Magnino, Pavia-Como, New Press, 1987, pp. 157-163. 24«Io ti veggio mancar languido fiore, / già persa hai bellezza e ogni tua forza, / secche le foglie son, secca la scorza / né più si sente in te l’usato odore. / De renderte mi sforzo il tuo vigore» (in Antonio Tebaldeo, Rime della vulgata, a c. di Tania Basile, Modena, Panini, 1992, ii 1, pp. 282-283; ii 2, pp. 168-169). 25 In Prose volgari edite e inedite, poesie latine e greche edite e inedite di A. Ambrogini Poliziano raccolte e illustrate da Isidoro Del Lungo, Firenze, Barbera, 1867, ii, pp. 233-236, e con traduzione italiana a fronte in Poeti latini del Quattrocento, a c. di Francesco Arnaldi, Lucia Gualdo Rosa e Liliana Monti Sabia, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, pp. 1020-23. Fondamentale per il testo e il commento G. Ferraù, L’elegia «In violas» di Angelo Poliziano, in I classici nel Medioevo e nell’Umanesimo. Miscellanea filologica, Genova, Istituto di Filologia classica e medievale, 1975, pp. 127-143. E inoltre: Domenico De Robertis, Le violette sul seno della fanciulla, in Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi, a c. di Ottavio Besomi et alii, Padova, Antenore, 1975, pp. 75-79; Perrine Galand, L’élégie «In violas» de Politien: création poetique et réflexion métatextuelle, «Réforme Humanisme Renaissance», 1986, pp. 15-33. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 289 gio Gradenigo e Giacomo Zane 26 la traduzione di Agnolo Firenzuola, il letterato fiorentino impegnato a recuperare la più gloriosa tradizione cittadina anche quattrocentesca in linea con le sue più profonde convinzioni teoriche che lo vedevano, oltre che al Bembo, in posizione antagonista al Trissino, il quale nel suo slancio antimunicipale aveva negato il fondamento toscano del linguaggio letterario, dal momento che a suo parere anche i grandi trecentisti si erano serviti di una lingua ‘nazionale’ elevandosi al di sopra degli idiomi particolari in direzione di un volgare illustre, aulico e curiale. Si trattava di riportare a Firenze i suoi scrittori, che Trissino voleva attribuire a tutta l’Italia. Nell’Elegia sopra certe viole 27 Firenzuola, che già nell’Eros fugitivus aveva rielaborato la traduzione latina di Poliziano dell’idillio di Mosco,28 traduce e rilegge l’elegia In violas (i 44 versi dell’originale diventano 74) cogliendo la potenzialità sentimentale del tema (quello d’origine volgare e popolare – che Poliziano nella sua riscrittura in latino aveva nobilitato e rivestito di sensibilità tutta umanistica tramite una dotta miscela intertestuale – dei fiori donati al poeta dalla donna amata e resi divini e immortali dal miracoloso effetto vivificante della sua mano)29 che carica di pathos erotico, di languida sensualità affidandolo alla rallentata cantabilità degli endecasillabi sciolti,30 ai quali 26 Il primo autore dei madrigali Amorose viole che spargete e Vermiglie rose che col novo giorno (a stampa nel Libro terzo delle rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori nuovamente raccolte, Venezia, Al segno del Pozzo, 1550, cc. 97v-98r, e quindi in Lirici del ‘500, a c. di Daniele Ponchiroli, Torino, Utet, 19682, pp. 145-146), il secondo dei sonetti Vaghe, amorose e pallide vïole e Vaghe vïole, de’ miei dolci amori (in Giacomo Zane, Rime, Venezia, per Domenico e Giovan Battista Guerra, 1562, p. 25, e quindi nell’edizione critica a c. di Giovanna Rabitti, Padova, Antenore, 1997, pp. 113-114). 27 In Agnolo Firenzuola, Opere, a c. di Adriano Seroni, Firenze, Sansoni, 1958, pp. 919921, e a c. di Danilo Maestri, Torino, Utet, 1977, pp. 839-842. Già segnalata e riprodotta da Del Lungo (Prose volgari inedite … cit., pp. 233-235) a testimonianza della fortuna dell’In violas di Poliziano, la traduzione del Firenzuola è stata oggetto di analisi particolare da parte di Danilo Maestri, Le rime di Agnolo Firenzuola: proposta di ordinamento del testo e valutazione critica, «Italianistica», 1974, pp. 78-84, e di Paola Andrioli Nemola, Le viole del Poliziano sullo scrittoio del Firenzuola, in Il Poliziano latino. Atti del Seminario di Lecce, 28 aprile 1994, a c. di Paolo Viti, Galatina, Congedo, 1996, pp. 119-137. 28 In Firenzuola, Opere, ed. Maestri, pp. 1035-1036. La traduzione di Poliziano fu volgarizzata anche da Girolamo Benivieni (Opere di Girolamo Benivieni fiorentino …, Venezia, Nicolò Zopino e Vincenzo Compagno, 1522, cc. 126v-127v) e da Luigi Alemanni (cfr. Andrioli Nemola, Le viole del Poliziano … cit., pp. 126-127). 29 Sul tema e sulla fortuna dell’elegia del Poliziano: Giovanni Pozzi, La rosa in mano al professore, Friburgo, Edizioni Universitarie, 1974; D. De Robertis, Le violette sul seno della fanciulla, cit., pp. 75-99. 30 Scelta che Firenzuola giustifica come imposta dal pianto incontenibile cui lo ha condan- 290 Del nomar parean tutti contenti prestano parole e stilemi Petrarca, già in Poliziano presente con numerosi prelievi a controbilanciare gli innesti dai classici, e tutta la tradizione lirica quattro-cinquecentesca precedente. La traduzione dell’elegia è da ricondurre al periodo pratese dell’attività del Firenzuola, agli anni 1538-1542, quando anche il Poliziano volgare lascia numerose tracce nella sua scrittura poetica, in particolare nelle liriche d’amore per Selvaggia, tutte segnate del resto da quel gusto di marca prettamente polizianea per la contaminazione e l’allusione che infrangendo vistosamente la norma del Bembo dà spazio anche ad autori non canonici. Specificamente sono le Stanze in lode di madonna Selvaggia bellissima e nobile gentildonna pratese intitolate ‘Selva d’amore’,31 dove Poliziano è evocato sin dal titolo e l’ottava 50 si chiude con l’esplicita citazione di una delle sue più famose canzoni a ballo, Ben venga maggio (Rime cxxii),32 ad esibire nell’intricata orditura intertestuale prelievi significativi dall’intero corpus volgare polizianeo. Mi limito a un solo esempio. Nelle stanze 40-41, per implorare l’aiuto delle donne di Prato «a fare onore» alla bella Selvaggia, Firenzuola si appropria di alcune tessere dell’invocazione di Poliziano ad Amore in Stanze i 2 e 3: «porgi or la mano al mio basso intelletto. // Sostien tu el fascio ch’a me tanto pesa, / reggi la lingua, Amor, reggi la mano» (i 2, 8; i 3, 1-2) viene liberamente riplasmata in «grate porgete a gli occhi miei la mano, / a trarne, se vi fosse, o pruno o stecca, / onde ’l corso al veder fusse men piano; / […] // Deh sostenete meco insieme il fascio, / troppo grieve a’ miei omeri, e ’l gran peso, / che, la mercé d’Amor, poner mi lascio / da quella speme a cui soverchio ho creso» (40, 3-5; 41, 1-4). E non escludo che a 40, 1-2 «Laonde tutte per nato l’amore infelice per la bella e insensibile Selvaggia, per cantare la quale il poeta innamorato ha in fondo scomodato l’autorità del Poliziano. Se questi aveva concluso: «Vivite perpetuum, miseri solamen amoris, / o violae, o nostri grata quies animi. / Vos eritis mecum semper, vos semper amabo, / torquebor pulchra dum miser a domina, / dumque cupidineae carpent mea pectora flammae, / dum mecum stabunt et lachrymae et gemitus» (vv. 39-44), Firenzuola traduce parafrasando e aggiunge: «Vivete sempre, viole, in soccorso / de l’aspre offese de’ miei amori, e ’n dolce / e sicur porto a l’animo ondeggiante / sempre meco sarete; in onor sempre / v’arò, viole dolci, in mentre ch’io / di questa bella e rozza sarò gioco; / mentre che l’amorose ardenti fiamme / consumeran l’amante core, e mentre / sarà compagno al gran dolore il pianto, / che sendo sciolto, ha sciolto ancor lo stile» (vv. 65-74). 31 Ed. Seroni, pp. 799-827; ed. Maestri, pp. 852-881. 32 «Ridono i campi, scorgendo le biade / tratte dal verno ormai felicemente; / godon l’acque, che più sicure strade / danno a chi solca il Levante o ’l Ponente; / l’aere gioisce, che per sua bontade / il nostro orecchio la dolcezza sente / degli augelletti, che in vario linguaggio / cantan forse anche loro: ‘Ben venga Maggio’» (ed. Seroni, p. 815). La segnalazione è di Andrioli Nemola, Le viole del Poliziano … cit., p. 127. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 291 fuggir la pecca / che di gentil può uno spirto far villano» faccia il verso a Stanze i 2, 5-6 «gentil fai divenir ciò che tu miri, / né può star cosa vil drento al tuo seno», detto ovviamente di Amore (il «bello idio» al v. 1 dell’ottava, epiteto che Firenzuola trasferisce ad Apollo in 59, 4). Pressoché negli stessi anni Poliziano registra l’attenzione di altri autori disponibili ad esperienze ibride, all’interno di quell’aria linguistica certo già orientata verso il codice e la regola di Bembo ma ancora aperta a mescidazioni e variazioni. Francesco Maria Molza, autore già nel 1532 di 50 stanze celebrative per il ritratto di Giulia Gonzaga dipinto da Sebastiano del Piombo,33 in cui aveva guardato insieme, sul versante stilistico, ai due precedenti delle Stanze di Poliziano e delle Stanze di Bembo (che aveva peraltro canonizzato la lunghezza del poemetto in 50 ottave) contaminando le modalità dell’uno improntate ad un marcato plurilinguismo e descrittivismo con quelle dell’altro di tono più omogeneo e discorsivo,34 nel poemetto pastorale La ninfa tiberina scritto nel 1537 per la gentildonna romana Faustina Mancini Attavanti,35 per quanto si cimentasse piuttosto con le Stanze/Selve d’amore di Lorenzo svolgendo il tema del contrasto tra l’amore disperato del poeta e il vagheggiamento di una nuova età dell’oro da vivere entro una natura intatta e pacificatrice, continuò a condividere con Poliziano l’inclinazione almeno per le descrizioni diffuse, come nelle comparazioni che tendono ad occupare un’intera stanza. Esemplari le ottave xii-xvii che descrivono la tazza d’ulivo su cui è effigiato il mito di Fetonte, uno dei doni che il poeta intende fare alla sua bella ninfa. Evocando il primo idillio di Teocrito, qui in realtà il Molza indulge a frequenti parafrasi o vere e proprie citazioni in particolare dalle Bucoliche di Virgilio, ma anche dalle Metamorfosi di Ovidio, mostrando una sintomatica attitudine, cui non è estraneo l’esempio del Poliziano, a scavalcare le più recenti espe33 Le Stanze sopra il ritratto della Signora Giulia Gonzaga uscirono a stampa nelle Rime del Brocardo cit., cc. Or-R3v. 34 Si veda quanto scriveva a questo proposito Carlo Dionisotti: «riducendo al minimo gli elementi descrittivi e narrativi e concentrando lo sforzo sul discorso lirico con una sobrietà e scioltezza di parola che faceva difetto, non solo nella prosa, ma per lo più anche nelle rime degli Asolani, il Bembo per primo seppe offrire nelle Stanze l’esempio di una poesia volgare modernamente discorsiva e intimamente classica, al di là della esuberanza descrittiva e narrativa del Poliziano e del Boiardo» (Introduzione a Pietro Bembo, Prose e rime, Torino, Utet, 19662, p. 32). 35 Un’edizione annotata ha procurato Stefano Bianchi, Milano, Mursia, 1991; le prime 50 ottave in Poeti del Cinquecento cit., pp. 485-504. Sul Molza cfr. Antonio Cospito, La vita e le opere di Francesco Maria Molza, Roma, Studio Technigraph, 1972. 292 Del nomar parean tutti contenti rienze di poesia pastorale (qui in particolare Arcadia iv e xi), e non solo, per attingere direttamente, senza mediazioni o frapposizioni, ai classici. La poesia del Poliziano era stata il primo grande esempio nella cultura volgare italiana di riscrittura programmatica dei modelli classici, nell’ambito di un progetto classicista di autorizzazione e nobilitazione della lingua poetica volgare, per cui il tassello, l’intarsio o la rima rara avevano una funzione di prestigio e dovevano essere immediatamente riconoscibili. Quando Poliziano in Stanze i 80, 7-8 «Con sì pura, tranquilla e chiara vena / che gli occhi non offesi al fondo mena» trascrive Claudiano, De raptu Proserpinae ii 114-116 «admittit in altum / cernentes oculos et late pervius umor / ducit inoffensos liquido sub flumine visus», ne conserva una tessera esplicita ed evidente, immediatamente riconoscibile: non offesi = inoffensos. Anche il Molza, quando scrive a 13, 7 «cadde il misero [Fetonte] in Po, nel fumo avolto», tiene presente sicuramente Rvf cv 20 «Fetonte odo che ’n Po cadde, et moriò», ma è risalito anche direttamente ad Ovidio, Met. ii 324 «excipit Eridanus fumantiaque abluit ora», cui allude scopertamente riproducendo come inequivocabile segno di riconoscimento l’immagine del fumo: nel fumo avolto = fumantia… ora. Equilibrato e raffinato impasto di temi e spunti della tradizione classica e volgare, non soltanto bucolica (sul versante volgare echi e ricordi di Dante e soprattutto di Petrarca, attivamente operante in ogni stanza a livello sia lessicale che di immagini, si intrecciano perfettamente rifusi a quelli delle Stanze di Poliziano, delle Selve e dell’Ambra di Lorenzo, dell’Arcadia di Sannazaro, del Tirsi di Castiglione, delle Rime e delle Stanze di Bembo),36 la Ninfa tiberina propone un bell’esempio di docta varietas di polizianea memoria, poetica della metamorfosi che non rinuncia neppure alla sperimentazione di generi inediti per dare nuovo impulso alle forme e agli stili della poesia volgare. Basta leggere la parte finale del poemetto (ott. 52-81), dove il Molza rinarra sulla scorta del quarto libro delle Georgiche il mito 36 La prima ottava del poemetto, muovendo da un attacco di gusto petrarchesco (1, 1 «La bella ninfa mia, ch’al Tebro infiora» = Rvf xci 1 «La bella donna che cotanto amavi» + civ 1 «L’aspectata vertù che ’n voi fioriva»), svolge nei primi quattro versi («La bella ninfa mia, ch’al Tebro infiora / col pie’ le sponde, e co’ begli occhi affrena / rapido corso, alor che discolora / le piaggie il ghiaccio […]») il motivo convenzionale della presenza della donna che con la sua bellezza riesce a trasformare l’aspetto della natura, per il quale si possono chiamare in causa, avvalorati da puntuali riscontri testuali, numerosi loci similes di Petrarca (Rvf clxv 1-4; cccxxv 81-88), Poliziano (Stanze i 55), Bembo (Asolani iii 8, canz. Perché ’l piacer a ragionar m’invoglia 37-45; Rime c 1-4), Castiglione (Tirsi 36, 7-8), tutti segnalati e riprodotti nel commento ad locum nell’ed. Bianchi cit., p. 29. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 293 tragico di Orfeo e Euridice come monito per la ‘ninfa’ protagonista a considerare le possibili conseguenze della sua eccessiva ritrosia verso l’amante. L’epilogo luttuoso sovverte tutti i canoni del genere pastorale amplificando proprio l’episodio, quello della morte di Euridice (ott. 79-81), che Poliziano per opportunità di genere – la reinvenzione in stile moderno e lingua volgare della fabula satirica greca, stilisticamente intermedia fra tragedia e commedia – aveva sottoposto a contrazione narrativa e liquidato nell’Orfeo in soli otto versi (141-148). L’idillio pastorale della Ninfa tiberina si concludeva così con il pianto di Orfeo e opponeva alla quiete rassicurante del quadretto campestre uno sconsolato sentimento della precarietà dell’esistenza. Sul solco di indicazioni che provenivano dall’ambiente padovano di Bernardo Tasso, ma con originali intuizioni stilistiche e tematiche, il Molza tentava di rivitalizzare il genere bucolico e soprattutto di arricchire il linguaggio lirico petrarchesco per sfuggire al rischio di cristallizzazione potenzialmente insito nel bembismo. E a tal fine la lezione polizianea poteva essere ancora attuale. In tale direzione si era già mosso all’inizio del Cinquecento Baldassar Castiglione, il quale mostrò un interesse precoce per l’opera del Poliziano, sia latina che volgare, come è vero sul primo versante per l’Alcon, l’egloga latina funebre per l’amico poeta mantovano Domizio Falcone, morto prematuramente nel 1505, che si apre con una citazione dal Rusticus, «quasi a ricapitolare nel magistero di Poliziano la tradizione più illustre della poesia umanistica».37 Ritornato ad Urbino dopo la campagna di Romagna a fianco del duca Guidubaldo, Castiglione in una lettera alla madre del 9 settembre 1504 chiedeva al fratello Girolamo di procurargli «le Stancie Volgari del Politiano».38 Già Vittorio Cian metteva in relazione la richiesta verosimilmente di una copia della princeps bolognese del 1494 delle Cose vulgare del Poliziano o di una delle sue ristampe – volume che però non è stato trovato tra i libri del Castiglione – con la composizione dell’egloga Tirsi, che fu poi rappresentata davanti alla corte a Fossombrone durante il carnevale del 1508, come ha dimostrato qualche anno fa Claudio Vela, piuttosto che a Urbino durante il carnevale del 1506 secondo la datazione tradizionale.39 Scritto a 37 Giovanni Parenti, Per Castigliane latino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a c. di Simone Albonico et alii, Milano, Mondadori, 1996, pp. 185-218: 207. 38 In Baldassar Castiglione, Le lettere, a c. di Guido La Rocca, i (1497-marzo 1521), Milano, Mondadori, 1978, lett. 22, p. 27. 39 Vittorio Cian, Un illustre nunzio pontificio del Rinascimento. Baldassar Castiglione, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1951, p. 37. L’egloga Tirsi, uscita a stam- 294 Del nomar parean tutti contenti quattro mani con il cugino Cesare Gonzaga, anche lui promettente letterato, il Tirsi, che sul piano linguistico l’esempio del Poliziano rinviava naturalmente alla lingua quattrocentesca nel recupero del toscano letterario, fa riferimento quanto al genere alla tradizione dell’egloga classica spesso mediata dall’esperienza recente, non tanto della bucolica volgare senese, quanto dell’Orfeo e delle Stanze di Poliziano e delle Stanze che Bembo aveva composto anche lui a Urbino per il carnevale del 1507 offrendo subito il modello di una più moderna poesia volgare, di stile umile ma poeticamente nitido e perfetto. Ed è con questo modello in realtà, nonostante la diversità del genere, che i due autori sembrano più fittamente dialogare specie nella seconda parte dell’egloga, più celebrativa ed encomiastica 40 rispetto alla parte iniziale più propriamente bucolica (il lamento d’amore del pastore Iola non corrisposto da Galatea alle ott. 1-17), che è tramata invece con perizia tutta umanistica con un intreccio autosufficiente di fonti bucoliche classiche sia latine che greche.41 Certo è che l’egloga Tirsi deve comunque molto al Poliziano sia delle Stanze che dell’Orfeo. La stessa scelta inconsueta dell’ottava (con l’unica inserzione della ballata Queste lacrime mie, questi sospiri) in luogo della terza rima o della polimetria predominanti nella copiosa produzione coeva di egloghe volgari, se è vero che può essere stata indotta per emulazione dalle Stanze del Bembo, rinvia tuttavia più direttamente al modello delle Stanze polizianee nonché dell’Orfeo, che proponeva peraltro nell’antefatto una ambientazione pastorale. Se il Tirsi produsse il rinnovamento della poesia pastorale, ciò fu merito anche della scelta da parte dei suoi due autori dell’ottava lirica del Poliziano, che opportunamente filtrata attraverso la misura del Bembo pa a Venezia soltanto nel 1553, edita secondo il testo fissato da Pierantonio Serassi (Lettere del conte Baldessar Castiglione ora per la prima volta date in luce …, ii, Padova, Comino, 1771, pp. 206-217) in Baldesar Castiglione, Il Libro del Cortigiano con una scelta delle Opere minori, a c. di Bruno Maier, Torino, Utet, 1969, pp. 547-571, si può leggere ora nell’edizione critica a c. di Claudio Vela, fondata sul cod. Vat. lat. 8203 di mano di Cesare Gonzaga, coautore dell’operetta (Il «Tirsi» di Baldassar Castiglione e Cesare Gonzaga, in La poesia pastorale nel Rinascimento, a c. di Stefano Carrai, Padova, Antenore, 1998, pp. 245-292: 271-292). Su di essa: José Guidi, «Thirsis» ou la cour transfigurée, in Ville et campagne dans la littérature italienne, ii. Le courtisan travesti, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1977, pp. 141-186. 40 Per il rapporto tra i due testi cfr. C. Vela, Il Tirsi … cit., pp. 266-269, e F. Calitti, Letteratura e svaghi di corte … cit., pp. 623-625, 628-628, che però accettando la datazione del Tirsi al 1506 ne capovolge la relazione di dipendenza-emulazione con le Stanze del Bembo. 41 Numerosi riscontri nel commento di Bruno Maier nell’edizione cit. nella n. 39. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 295 si mostrò strumento felicemente idoneo ad esprimere tale nuova poesia. Ma oltre a ciò è nella trama intertestuale che i prelievi dal Poliziano assumono il giusto rilievo, perché nella selezione degli autori volgari è Poliziano insieme con Bembo, accanto a qualche prestito mirato dall’Arcadia di Sannazaro e dal Corinto di Lorenzo, a contenere e orientare il predominio del Petrarca. Il lamento di Iola nella prima ottava esplode con un distico (vv. 1-2: «Quando fia mai che questa roca cetra / meco del mio dolor non si lamenti?») che evoca l’ott. 5 del l. i delle Stanze (vv. 1 e 8: «Deh, sarà mai che con più alte note, / […] / di roco augel diventi un bianco cigno?»), dove Poliziano si augurava che all’ombra di Lorenzo/alloro (v. 7: «e posto il nido in tuo felice ligno») avrebbe potuto trasformarsi da ‘oca’ in ‘cigno’, ovvero da mediocre verseggiatore starnazzante come un’oca in poeta capace di cantare a voce spiegata come un canoro cigno. Castiglione-Gonzaga recuperano l’aggettivo roco, che nelle Stanze qualificava augel per ‘oca’ (traduzione con variatio del ravum anserem di Sidonio Apollinare, Carm. xxii intr.), per attribuirlo a cetra come metafora dell’umile poesia pastorale: e cetra era pure in Stanze i 7, 7 «e tempra tu [Achille] la cetra a’ nuovi carmi» a indicare una poesia di intonazione più bassa, quella del poemetto che il Poliziano si accingeva a scrivere su «l’amor e l’armi» (v. 8) di Giuliano de’ Medici, per il quale era costretto a interrompere la traduzione dell’Iliade e a far tacere la voce di Omero, la «maggior tromba» (v. 5), dove tromba è a sua volta simbolo della grande poesia epica. Anche all’apparizione di Galatea all’ott. 4 («Ben mi racorda quando longo el rio / ti vidi prima andar cogliendo i fiori, / che mi dicesti: “O caro Iola mio, / tu sei più bello tra tutti i pastori, / e sol, come tu fai, cantar disio, / che i sassi col cantar par che inamori”. / Poi mi ponesti una girlanda in testa, / che di ligustri e rose era contesta»), per la quale si devono invocare in primo luogo i due precedenti classici, entrambi di genere bucolico, di Teocrito, Id. xi 25-27 e di Virgilio, Ecl. viii 37-38, Poliziano ha prestato la sua personale impronta. Perché, se è innegabile che in filigrana vi si colgono tratti della Lia e della Matelda di Dante,42 la Galatea del Tirsi somiglia piuttosto, se non altro nell’adeguamento ad un livello linguistico e stilistico più basso, all’Euridice 42 Purg. xxvii 97-102: «giovane e bella in sogno mi parea / donna vedere andar per una landa / cogliendo fiori; e cantando dicea: / “Sappia qualunque il mio nome dimanda / ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno / le belle mani a farmi una ghirlanda”»; Purg. xxviii 3741: «e là [dal fiumicello] m’apparve […] / […] / una donna soletta che si gìa / e cantando e scegliendo fior da fiore». 296 Del nomar parean tutti contenti della Fabula di Orpheo, vv. 104-111: «Ma io ho vista una gentil donzella / che va cogliendo fiori intorno al monte. / I’ non credo che Vener sia più bella, / più dolce in acto o più superba in fronte: / e parla e canta in sì dolce favella / che i fiumi isvolgerebbe inverso il fonte; di neve e rose ha ’l volto e d’or la testa, / tutta soletta e sotto bianca vesta», dove si noti l’attribuzione ad Euridice degli stessi effetti del canto che il mito proponeva come prerogativa di Orfeo, e che Castiglione-Gonzaga attribuiscono ora invece al canto di Iola. Ma la descrizione di Euridice in bocca al pastore Tirsi nell’Orfeo del Poliziano era in fondo un concentrato di quella di Simonetta quando appare a Iulio in Stanze i 43-50 (prezioso assemblaggio a sua volta di celebri descriptiones femminili sia classiche che romanze, tra le quali ultime assumono particolare risalto, accanto alle numerose reminiscenze della Laura di Petrarca e quindi dell’Emilia e della Fiammetta di Boccaccio, proprio quelle della Lia e della Matelda dantesche), e ne sono consapevoli anche i due autori del Tirsi, che nel distico finale dell’ott. 4, scomponendo e ricomponendo elementi di diversa provenienza, sull’esempio dell’irraggiungibile modello polizianeo, intrecciano allusivamente i 47, 1-4 «Ell’era assisa sovra la verdura, / allegra, e ghirlandetta aveva contesta / di quanti fiori creassi mai natura, / de’ quai tutta dipinta era sua vesta» con i 44, 5-6 «Di celeste letizia il volto ha pieno, / dolce dipinto di ligustri e rose». Il modello messo in atto dal Poliziano aveva costituito uno dei tramiti più significativi anche per la proteiforme riscrittura dell’Ariosto in più luoghi del Furioso. Nell’avventuroso viaggio attraverso la letteratura il secondo non poteva non incontrare il primo e restare affascinato dal suo personalissimo metodo combinatorio consistente nel selezionare e riutilizzare in un libero e nuovo sistema immagini e tessere delle più disparate tradizioni letterarie per saggiarle poi sui più diversi registri stilistici. Ma al di là del metodo – Ariosto adeguerà in effetti quel vario materiale ad un tono medio generale di stampo petrarchesco fondendo l’opzione lirica dell’ottava di Poliziano e quella narrativa dell’ottava di Boiardo –,43 Poliziano sarà parte integrante e costitutiva del linguaggio poetico ariostesco anche come immaginario e fonte linguistica e come tale concorrerà alla formazione del repertorio di formule, lessico e stilemi nella traduzione di motivi classici. In questo modo anche l’Ariosto riesce ad evitare, di contro alla rigorosa selezione operata dal Bembo, «la cancellazione del patrimonio quattrocentesco, realizzando un modello 43 Ne ha ben scritto Gianfranco Contini, Come lavorava l’Ariosto, in Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1974, pp. 232-241. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 297 di linguaggio poetico che, all’interno di un’“armonia” tematica, strutturale e linguistica e stilistica di fondo, sia disponibile ad ogni forma di prestiti e riprese».44 Il lavoro compiuto da Stefano Jossa sull’intertestualità del Furioso e in relazione ad essa sull’importanza specifica del Poliziano, presenza molto più diffusa e più sottile di quanto si potrebbe pensare, mi esime dall’entrare nel dettaglio dei raffronti testuali,45 ma non senza aver ribadito non tanto la funzione primaria di ‘antimodello’ che Poliziano ebbe – come dicevo – nel processo di diversificazione e di autonomia della riscrittura ariostesca nei confronti della norma codificata dal Bembo, quanto la carica di novità insita proprio nell’operazione di recupero del Poliziano, che da un lato garantiva un percorso di pluralità all’interno della tradizione petrarchesca a metà tra conservazione e innovazione,46 dall’altro veniva a configurarsi come termine dialettico di confronto indispensabile nella riscrittura dei modelli classici.47 Rispetto al mosaico polizianeo, in cui ogni tessera classica conserva la sua autonomia e soprattutto la sua riconoscibilità, se deve servire a nobilitare la lingua poetica volgare, l’Ariosto smembrando e riassemblando i materiali della 44 Stefano Jossa, La fantasia e la memoria. Intertestualità ariostesche, Napoli, Liguori, 1996, p. 124. 45 Rinvio pertanto a Stefano Jossa, Tra forma e norma: Poliziano nella ‘riscrittura’ ariostesca, «Schifanoia», 1991, pp. 81-100, poi in La fantasia e la memoria … cit., pp. 90-124. Sull’intertestualità ariostesca si veda anche Anna Maria Cabrini, Nei giardini dell’Eden (tra Poliziano e Ariosto), in Studi vari di lingua e letteratura italiana in onore di Giuseppe Velli, Milano, Cisalpino, 2000, i, pp. 311-335; Cristina Zampese, Presenze intertestuali nelle «Rime» dell’Ariosto, in Fra Satire e Rime ariostesche. Atti del Convegno di Gargnano del Garda, 14-16 ottobre 1999, a c. di Claudia Berra, Milano, Cisalpino, 2000, pp. 457-477. 46 «Poliziano è ricondotto a Petrarca, modello guida e misura della norma, Petrarca è rinnovato attraverso Poliziano, esempio di un’esperienza di molteplicità e combinazione. La presenza polizianesca nell’Orlando Furioso non si può però ridurre ad un rapporto dialettico col modello petrarchesco: se è vero, infatti, che Poliziano rappresenta l’altro, il moderno e l’eclettico, rispetto alla norma del Bembo, […], è d’altra parte evidente che la lingua poetica polizianesca non manca affatto di una forte componente classica e petrarchesca. Al Poliziano in combinazione con Petrarca, in funzione complementare, si aggiunge e si intreccia, dunque, nel Furioso, un Poliziano petrarchesco, in sovrapposizione o conferma rispetto a Petrarca»: S. Jossa, La fantasia e la memoria … cit., p. 106. A questo riguardo Jossa propone, tra gli altri, l’esempio di Fur. xxiii 39, 8 «ebbe pietà del caso acerbo e reo», dove Ariosto traduce Virgilio, Aen. v 700 «casu concussus acerbo» facendo ricorso ad una dittologia petrarchesca (Rvf clxxii 9 «atti acerbi e rei»; cccxxv 111 «Morte acerba e rea»), ma attraverso Poliziano, Orfeo 6 «fu cagion del suo caso acerbo e reo», che già si era servito della dittologia petrarchesca per riscrivere lo stesso luogo virgiliano. 47 Sul ruolo nodale svolto da Poliziano quale intermediario fra i classici e i poeti del Rinascimento, cfr. in particolare D. Delcorno Branca, Il laboratorio del Poliziano…, pp. 153-206. 298 Del nomar parean tutti contenti tradizione antica a sua disposizione li reinventa e li trasforma realizzando un impasto tematico e linguistico nuovo, in cui però spesso fondamentale è la mediazione moderna del Poliziano. Quando in Fur. xvi 68, 3-6 Ariosto per rappresentare l’esito incerto della battaglia scrive «Vedeasi or l’uno or l’altro ire e tornare, / come le biade al ventolin di maggio, / o come sopra ’l lito un mobil mare / or viene or va, né mai tiene un viaggio», si sta sicuramente ricordando di Virgilio, Aen. xi 624-628, che era ricorso alla stessa comparazione in riferimento a movimenti di truppe, ma lo fa con ogni evidenza utilizzando e rifunzionalizzando a livello linguistico tessere di Poliziano, Stanze i 110, 4-5 «di paura tremando, come suole / per picciol ventolin palustre canna», i 18, 8 «e le biade ondeggiar come fa il mare», i 14, 8 «e vanne e vien, come alle rive l’onde», che tutte autorizzate dal contesto virgiliano entrano in tal modo in un nuovo disegno divenendo parte integrante del linguaggio ariostesco. Nel solco dell’Ariosto, nell’ultimo quarto del secolo, Poliziano non poteva lasciare indifferente un autore che rappresenta forse uno dei casi più complessi e ricchi di sfaccettature delle molteplici possibilità di ‘riuso’ della tradizione classica e moderna, il Tasso, il quale in particolare nella Liberata esibisce una straordinaria capacità di dialogo con gli auctores, dai più scontati e celebri ai più peregrini e periferici.48 Accanto al modello virgiliano, che funziona da vero e proprio archetipo narrativo, anche se spesso riletto attraverso tutta la tradizione dell’epica latina d’età imperiale, quasi a saggiarne le immediate possibilità di variazione e imitazione, e ovviamente accanto al modello omerico, referente autoritario sul piano sia della materia poetica che della tecnica compositiva, gioca un ruolo molto importante nel «ricco edificio» della Liberata la tradizione cavalleresca moderna, dall’Ariosto, nei confronti del quale Tasso mostra però una tendenza decisamente elusiva,49 al Trissino, all’Alamanni, a Bernardo Tasso, ma anche alle loro spalle a Boiardo, Pulci e Poliziano. Quanto a quest’ultimo, dal Tasso particolarmente valorizzato 48 Alle modalità che presiedono ai meccanismi allusivi messi in atto dal Tasso nella Liberata ha dedicato un importante lavoro Raffaele Ruggiero, «Il ricco edificio». Arte allusiva nella «Gerusalemme Liberata», Firenze, Olschki, 2005. Fondamentali anche Claudio Scarpati, Tasso, i classici e i moderni, Padova, Antenore, 1995; Stefano Jossa, Proposte per una lettura dell’intertestualità tassiana, «Filologia e critica», 1997, pp. 105-123; Francesco Bausi, Echi del Poliziano nella «Gerusalemme Liberata», in Torquato Tasso quattrocento anni dopo. Atti del Convegno di Rende, 24-25 maggio 1996, a c. di Antonio Daniele e F. Walter Lupi, Cosenza, Rubbettino, 1997, pp. 33-46. 49 Cfr. Maria Cristina Cabani, L’ariostismo ‘mediato’ della Gerusalemme liberata, «Stilistica e metrica», 2003, pp. 19-90. M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 299 nella sua scrittura come modello di metodo poetico sia sul versante teorico quale precedente illustre di ars combinatoria, sia su quello della concreta presenza testuale, basta leggere il passo alla fine del l. vi dei Discorsi del poema eroico, dove sono elencati tutti gli autori che da Boccaccio al Cinquecento hanno poetato in ottava rima, per rendersi conto di quanto valga per il Tasso l’autorità del Poliziano, l’unico ad essere ricordato oltre che per la sua opera su «l’amore e le giostre di Giuliano de’ Medici», per la «gran dottrina» e il «gran giudizio».50 Ma nel l. v, trattando delle «grazie» che in particolare si addicono alla poesia lirica e che da questa sono prestate alla poesia eroica, nel dettaglio «gl’imenei, e gli amori, e le liete selve, e i giardini, e l’altre cose somiglianti», Tasso dopo aver ricordato le canzoni cxxv, cxxvi e cxxvii dei Rerum vulgarium fragmenta si era soffermato specificamente sul quarto capitolo del Triumphus Cupidinis di Petrarca citando i vv. 121-126 e sulle Stanze di Poliziano che così elogiava: «Né si dipartì da questa imitazione il Poliziano, il quale ne la descrizione de la casa d’Amore [il regno di Venere alle ott. 70 sgg. del l. i] versò quasi tutti i fiori e tutte le grazie de la poesia».51 Dove tra l’altro è degno di interesse la rivendicazione del legame tra epica e lirica, tra discorso ‘eroico’ e linguaggio ‘sentimentale’, della possibilità di trattare insieme nel metro epico dell’ottava «d’amore e d’armi», quanto si era ripromesso di fare Poliziano nelle Stanze quando alla fine della protasi aveva dichiarato di voler cantare «l’amor di Iulio e l’armi» (i 7, 8). Rivendicazione presente già nella difesa del poema cavalleresco in ottava rima sostenuta intorno alla metà del secolo dal Giraldi Cinzio, il quale soffermandosi sul valore lirico oltre che narrativo delle ‘descrizioni’ («E quivi è da por mente che in queste digressioni che contengono giostre, tornei, amori, bellezze, passioni dell’animo, campo, edifici e simili altre cose, è molto più largo lo scrittore dei 50 «Scelgasi dunque la stanza, o l’ottava che vogliam dirla, per attissima al poema eroico oltre tutti gli altri modi di rimare che son propri e naturali della favella toscana, e seguasi non solo la ragione, ma l’autorità di coloro che l’hanno adoperata in materia d’amore e d’arme: perché, dopo il Boccaccio, in questo verso Luigi Pulci scrisse il Morgante, e ’l fratello il Ciriffo Calvaneo; e Angelo Poliziano (uomo di gran dottrina e di gran giudizio in que’ tempi) l’amore e le giostre di Giuliano de’Medici; e ’l Boiardo Orlando innamorato; e l’Ariosto Orlando furioso; Pietro Aretino Angelica innamorata; e Luigi Alemanni Giron cortese e l’Avarchide; e ’l Tasso l’Amadigi e ’l Floridante, oltre il Guidon selvaggio che fu da lui prima cominciato; e ’l Dolce il Sacripante, Achille e gli altri poemi; e ’l Giraldo cantò d’Ercole in questo medesimo modo; e ’l Danese di Marfisa; e ’l Bolognetto del Costante; e ’l Pigna scrisse col medesimo gli Eroici»: Discorsi del poema eroico, in Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a c. di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964, pp. 255-256. 51 Ivi, pp. 221-222. 300 Del nomar parean tutti contenti romanzi che non è stato né Virgilio, né Omero») aveva elogiato accanto ad Ariosto, «riuscito grande e magnifico», Poliziano, colui che per primo si era avvicinato di più ad Ovidio e a Claudiano in quel genere di poesia: «E credo che il primo che ciò facesse in questa lingua in stanze con grandezza e con dignità fosse il Poliziano, il quale con mirabile vaghezza imitando Claudiano descrisse la casa di Venere».52 Numerose da qui le letture in chiave intertestuale della descrizione del giardino di Armida alle ott. 1-16 del canto xvi della Gerusalemme Liberata,53 in modo manifesto esemplata su quella polizianea del regno di Venere, il cui ricordo agisce a livello narrativo, strutturale e pure microtestuale attraverso puntuali riprese o persino ‘citazioni’ e altre reminiscenze più o meno scoperte. Discorso che vale anche per altri luoghi delle Stanze e che investe l’atteggiamento tenuto dal Tasso nei confronti del modello polizianeo, dal quale era sollecitato piuttosto ad una «emulazione con maggior laude», come con chiara consapevolezza teorica scriveva nell’autocommento al sonetto Io mi credea sotto un leggiadro velo, dove a proposito delle due terzine 54 rinviava espressamente alle Stanze di Poliziano: «leggi le Stanze del Poliziano, ne le quali Simonetta spogliata di quelle armi rimase in treccia e ’n gonna. A l’incontro la nostra valorosa donna se ne veste. Imitazione dal contrario o emulazione piuttosto con maggior laude».55 La descrizione del giardino di Armida 52 Giovan Battista Giraldi Cinzio, Discorso intorno al comporre dei romanzi, in Scritti critici, a c. di C. Guerrieri Crocetti, Milano, Marzorati, 1973, p. 79. Lo aveva preceduto Ludovico Dolce che nelle Osservazioni della volgar lingua (Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1550, c. 111) aveva tra i primi difeso e elogiato Poliziano, il quale «altamente cantando primo adornò così fatta maniera di versi di dottrina, di vaghezza e di leggiadria, e aperse la strada per la quale camminando l’Ariosto pervenne a tanta altezza». Ma già nell’Apologia contro detrattori della poesia di messere Giovanni Boccaccio del 1521 Girolamo Claricio aveva collocato al primo posto, nel catalogo di coloro che dopo Boccaccio avevano usato l’ottava rima, «la suonora et altissima tromba del Policiano» (in Giovanni Boccaccio, Amorosa visione, Milano, Zanotto da Castiglione, 1521, c. 98r). Cfr. anche nota 1. 53 Mi limito a segnalare le più recenti: F. Bausi, Echi del Poliziano … cit., pp. 37-46; S. Jossa, Proposte per una lettura … cit., pp. 107-113; R. Ruggiero, «Il ricco edificio»… cit., pp. 51-71. 54 «E lei, d’un bel diaspro avvolta, io vidi / di Medusa mostrar l’aspetto e l’arme, / tal ch’i’ divenni pur gelato e roco; / e dir voleva, e non volea ritrarme, / mentre era fuori un sasso e dentro un foco: / ‘Spetrami, o donna, in prima, e poi m’ancidi’»: Rime 6, vv. 9-14, in Torquato Tasso, Opere, a c. di Bruno Maier, i, Milano, Rizzoli, 1963, p. 218. 55 Rime del Sig. Torquato Tasso di nuovo date in luce con gli Argomenti e Esposizioni dell’istesso Autore, s.l. [ma Brescia], P.M. Marchetti, 1593, p. 8. Bruno Basile, Poeta melancholicus. Tradizione classica e follia nell’ultimo Tasso, Pisa, Pacini, 1984, pp. 152-153 rinviava però a M. de Nichilo Per una storia della fortuna del Poliziano volgare nel Cinquecento 301 è tutta intessuta di reminiscenze polizianee che mediano altri modelli antichi e moderni ricomponendo un prezioso mosaico intertestuale in cui interagiscono tessere di provenienza diversa. Prendendo lo spunto da Stanze i 91, 8, dove nel giardino di Venere il pappagallo «squittisce e favella», Tasso gli mette in bocca le due ottave della rosa e del carpe diem (xvi 14-15): i modelli più vicini sono senza dubbio Poliziano (Stanze i 78) e Ariosto (Furioso i 4243), che sulla traccia di Catullo lxii 39-47 aveva già riscritto l’ottava polizianea ma ricontestualizzando e rifunzionalizzando completamente tutti i suoi elementi. Con l’esplicito rinvio a Poliziano e ad Ariosto, al loro immaginario e al loro linguaggio, Tasso procede ad una operazione combinatoria che connotata da un più complesso sistema di variazioni, rovesciamenti e contaminazioni modifica e trasforma profondamente il senso poetico ma anche il linguaggio dei due illustri modelli e di tutta la tradizione volgare precedente. Il tono delle due ottave è completamente mutato, improntato com’è ad una languida sensualità venata di malinconia; il linguaggio è diventato da denotativo evocativo, ‘sentimentale’.56 «Alla ‘vitalità’ delle immagini delle Stanze e del Furioso subentra un senso di fugacità e di morte che si propone anche come coscienza della fine di un’esperienza letteraria umanistica, che guardava alla vita con gioia e alla parola con fiducia nelle sue possibilità di rappresentazione, a favore di una poesia della brevità e della dissimulazione».57 È il tramonto di una stagione culturale, di un’età, ma la «stella» del Poliziano continuerà ad affascinare «con il suo remoto splendore»58 anche gli intellettuali dei secoli successivi. Università degli Studi “Aldo Moro” - Bari Stanze i 46 piuttosto che a ii 30 e 32, 5-8, come ha giustamente visto F. Bausi, Echi del Poliziano … cit., pp. 34-35. 56 Si vedano anche le note di commento alle due ottave in Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, a c. di Franco Tomasi, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 968-970. 57 S. Jossa, Proposte per una lettura … cit., p. 111. 58 F. Rico, Luci e ombre … cit., p. 389. Sulla ‘fortuna’ del Poliziano cfr. ora il volume Angelo Poliziano e dintorni. Percorsi di marcia, a c. di Claudia Corfiati e Mauro de Nichilo, Bari, Cacucci, 2001. Pasquale Sabbatino L’ARTISTA SCRITTORE GIORGIO VASARI E IL RACCONTO DELL’ARTE NELLE «VITE» (1550) 1. Giotto e l’imitazione del vero di natura Nelle singole biografie della raccolta Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (Firenze, Torrentino, 1550), articolata in tre parti o stagioni, l’artista scrittore Giorgio Vasari descrive con le parole le immagini dipinte o scolpite.1 L’esposizione vasariana per la sua forza espressiva tenta di volta in volta di uguagliare l’opera originale dello scalpello o del pennello, utilizzando tutte le risorse della figura retorica dell’ecfrasi (ékphrasis), che ha illustri precedenti in Omero e Filostrato.2 In tal modo l’immagine verbale dell’artista scrittore entra in competizione con l’immagine dipinta o scolpita, puntando sull’obiettivo di tradurla con la 1Cfr. C. Bec, Artisti scriventi e artisti scrittori in Italia (secondo Trecento - primo Novecento), in Letteratura italiana e arti figurative, a c. di A. Franceschetti, Firenze, Olschki, 1988, pp. 81-99. 2 H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, il Mulino, 1995 (la trad. it. è del 1969), p. 196; L. Grassi, Retorica, in L. Grassi - M. Pepe, Dizionario di arte, Torino, Utet, 19952, pp. 690-91: per l’ekphrasis «l’esempio più arcaico si può ravvisare, presso Omero, nella descrizione dello scudo di Achille. Ma il prototipo sistematico di tutta la tradizione è costituito principalmente da quelle descrizioni di una serie di dipinti, che si attribuiscono, nella tarda antichità, ad un Filostrato, l’autore delle Imagines. Le descrizioni di Filostrato sono prevalentemente la narrazione di un tema e dei relativi contenuti particolari. Al contrario, le descrizioni vasariane procedono e si snodano congiuntamente alla dimostrazione critica del temperamento dell’artista, della sua abilità nell’imitare, cioè ritrarre con una maniera che si nutre e si qualifica mediante quei riferimenti di valutazione, quelle categorie estetiche (disegno, grazia, componimento, invenzione, ecc.), in cui si qualificano le ‘virtù’, l’ingegno, cioè la personalità del pittore, scultore o architetto». Sulle ragioni dell’ecfrasi e sulla oscillante e talvolta sfuggente definizione della sua peculiarità cfr. G. Patrizi, Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Roma, Donzelli, 2000; Ecfrasi. Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, a c. di G. Venturi e M. Farnetti, to. 2, Roma, Bulzoni, 2004 (in particolare G. Venturi, Introduzione. Le ragioni dell’ecfrasi letteraria, to. 1, pp. 9-13; M. Farnetti, Teoria e forme dell’ecfrasi nella letteratura italiana dalle origini al Seicento. Saggio bibliografico, to. 2, pp. 573-600). P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 303 scrittura e cogliendo di volta in volta la specificità dell’opera e l’altezza raggiunta entro lo schema storiografico delle tre stagioni della rinascita.3 La possibilità di essere raccontate come immagini naturali costituisce per le immagini dipinte e scolpite un chiaro segnale della loro appartenenza all’arte moderna, fondata sull’imitazione della natura nella prima e seconda stagione e sull’imitazione del più bello della natura nella terza stagione. L’impossibilità di essere raccontate, invece, relega, secondo Vasari, le opere nell’ambito dell’arte vecchia, quella greca o bizantina, diffusa lungo il Medioevo4 da quel «residuo» di artisti provenienti dalla Grecia, i quali «facevano imagini di terra e di pietra, e dipignevano altre figure mostruose e col primo lineamento e col campo di colore».5 Influenzato dalla tradizione umanistico-rinascimentale – si pensi, ad es., ai Commentarii di Lorenzo Ghiberti – Vasari definisce l’arte bizantina rozza, goffa e vecchia. Per l’incapacità di imitare la natura, l’arte bizantina è destinata inevitabilmente a non poter essere raccontata come immagine naturale: [le cose vecchie] furono poste in opera da un certo residuo de’ Greci, i quali più tosto tignere che dipignere sapevano. Perché [...] al rimanente di que’ Greci, vecchi e non antichi, altro non era rimaso che le prime linee in un campo di colore; come di ciò fanno fede oggidì infiniti musaici, che per tutta Italia lavorati da essi Greci si 3 Cfr. S. L. Alpers, Ekphrasis and aesthetic attitudes in Vasari’s «Lives», «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1960, 3-4, pp. 190-215; L. Riccò, Vasari scrittore. La prima edizione del libro delle «Vite», Roma, Bulzoni, 1979, pp. 18-22; M. Winner, Ekphrasis bei Vasari, in Beschreibungskunt, Kunstbeschreibrung, Ekphrasis von der Antike bis zur Gegenwart, a c. di G. Boehm e H. Pfotenhauer, Munich, 1995, pp. 259-73; G. Patrizi, Narrare l’immagine cit.; Id., Le ragioni dell’ecfrasi. Origini e significato delle narrazioni vasariane, in Ecfrasi. Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, a c. di G. Venturi e M. Farnetti, t. 2, cit., pp. 421-31; G. Stimato, L’‘ekphrasis’ da Vasari a Pontormo: tra narrazione letteraria e rinuncia alla letteratura, «Schifanoia», 2004, pp. 245-52; M. Pozzi - E. Mattioda, Giorgio Vasari storico e critico, Firenze, Olschki, 2006; D. Cast, The delight of art. Giorgio Vasari and the traditions of humanist discourse, Pennsylvania State University Press, 2009. 4Cfr. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, a c. di L. Bellosi e A. Rossi, presentazione di G. Previtali, Torino, Einaudi, 1986, p. 100, dove si distingue tra arte antica, che va fino all’imperatore Costantino (306-337 d.C.), e arte vecchia, che va da papa Silvestro (314-325) al 1250: «Ma perché più agevolmente si intenda quello che io chiami vecchio et antico, antiche furono le cose inanzi Costantino, di Corinto, d’Atene e di Roma, e d’altre famosissime città, fatte fino a sotto Nerone, a i Vespasiani, Traiano, Adriano et Antonino; percioché l’altre si chiamano vecchie, che da San Silvestro in qua furono poste in opera da un certo residuo de’ Greci». 5 Ivi, p. 99. 304 Del nomar parean tutti contenti veggono [...]; e così molte pitture, continovando, fecero di quella maniera con occhi spiritati e mani aperte, in punta di piedi, come si vede ancora [...] et in Roma in San Pietro, nel vecchio, storie intorno intorno fra le finestre, cose ch’hanno più del mostro nel lineamento, che effigie di quel che si sia. Di scultura ne fecero similmente infinite [...] cose sì goffe e sì ree, e tanto malfatte di grossezza e di maniera, che pare impossibile che imaginare peggio si potesse.6 E si vede in questa [maniera di Giotto] levato via il proffilo che ricigneva per tutto le figure, e quegli occhi spiritati e piedi ritti in punta e le mani aguzze et il non avere ombre et altre mostruosità di que’ Greci [...].7 Da questa manciata di citazioni si possono ricavare gli elementi che, secondo Vasari, caratterizzano l’arte bizantina: a) gli artisti sapevano «tignere» più che «dipignere» e ritraevano la linea di contorno di una figura (un «primo lineamento») in un «campo di colore»; b) il profilo o «primo lineamento» delimitava («ricigneva») le singole figure; c) gli occhi delle figure appaiono sbarrati («spiritati») in una fissità vacua, i piedi «ritti in punta» e le mani «aguzze»; e) l’immagine è piena di «ombre» e di «mostruosità». Cimabue, che «fra tante tenebre fu prima luce della pittura»,8 pur formandosi alla scuola di quei pittori «venuti di Grecia [...] in Fiorenza»,9 grazie all’osservazione e imitazione della «natura» superò «la maniera ordinaria» dei maestri, ferma alla linea di contorno della figura in una parete di colore, e diede inizio «al nuovo modo» dell’arte, avendo cura del disegno e intervenendo proprio sul «lineamento» e sul «colorito» delle figure.10 Il tratto che qualifica il profilo vasariano di Cimabue è l’impegno a levare «da la pittura gran parte della maniera greca nelle figure dipinte»11 e a dare il nuovo, riconoscibile «per l’aria delle teste e per le pieghe de’ panni».12 Così le immagini dipinte si allontanano dal goffo e mostruoso nella misura in cui tendono ad avvicinarsi alla natura e si avviano a diventare raccontabili come immagini naturali.13 6 Ivi, p. 100. 7 Ivi, p. 211. 8 Ivi, p. 107. 9 Ivi, p. 103. 10 Ivi, p. 107. 11 Ivi, p. 104. 12 Ivi, p. 105. 13 Cfr. M. Palumbo, Valore e disvalore nelle Vite di Vasari del 1550: l’esempio di Cimabue, «Filologia e critica», xxx, 2005, 2-3, pp. 394-408. P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 305 Con Giotto, il quale fu «tanto imitatore della natura che ne’ tempi suoi sbandì affatto quella greca goffa maniera»,14 il vecchio viene superato del tutto grazie all’introduzione del «ritrar di naturale le persone vive». Vasari indica, a questo proposito, il ritratto di Dante Alighieri, «coetaneo et amico» di Giotto, nell’affresco del Giudizio universale (Firenze, cappella della Maddalena nel palazzo del Bargello), identificandolo, secondo «una tradizione assai dubbia»,15 nel personaggio in basso a destra. Come già Cimabue, Giotto fa rinascere il disegno in un tempo ancora segnato sul piano dell’arte dalla grossolanità e dall’inettitudine: E miracolo fu certamente grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d’operare in Giotto sì dottamente, che ‘l disegno, del quale poca o nessuna cognizione avevano gli uomini di que’ tempi, mediante sì buono artefice, ritornasse del tutto in vita.16 Per ottenere questo risultato, Giotto lavora sulla «bellezza de’ panni» e sulla «grazia» e «vivezza delle teste» maschili e femminili, che finalmente si presentano «vivissime e miracolose».17 La vita della natura, dunque, passa progressivamente dalle immagini reali alle immagini rappresentate, le quali possono essere raccontate finalmente come immagini vive e vere. Anche nella «tavoletta a tempera» della Dormitio Virginis di Giotto (Berlino, Staatliche Museen) «la proprietà della storia» dipinta è «molto simile al vero», per l’attenzione nel disegno, la «vivacità» della rappresentazione e le «attitudini» delle figure: una tavolina a tempera, dipinta di mano di Giotto con infinita diligenza e con disegno e vivacità dentrovi la Morte di Nostra Donna, con gli Apostoli che fanno l’essequie, e Cristo che l’anima in braccio tiene; da gl’artefici pittori molto lodata, e particolarmente da Michel Agnolo Buonaroti, attribuendole la proprietà della storia essere simile al vero. Oltra che le attitudini nelle figure con grandissima grazia dello artefice sono espresse.18 14 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550 cit., p. 118. 15 Cfr. Commento di L. Bellosi e A. Rossi, ivi, p. 118, n. 4. L’identificazione di questo personaggio con il poeta fiorentino «ha una tradizione assai dubbia». 16 Ivi, p. 117. 17 Ivi, p. 124. 18 Ivi, p. 126. 306 Del nomar parean tutti contenti Più avanti, nel Proemio della seconda parte, sintetizzando gli aspetti innovativi della prima età, Vasari sottolinea che la maniera di Giotto è un decisivo superamento dei singoli elementi costitutivi della maniera greca, elencati ad uno ad uno e coordinati polisindeticamente, creando sintatticamente una figura geometrica piramidale, dal vertice («E si vede») alla regione media sui tre lati («levato via […] et il non avere […], e dato») alla base triangolare («il proffilo […] e quegli occhi spiritati e piedi ritti in punta e le mani aguzze», «ombre et altre mostruosità», «una buona grazia nelle teste e morbidezza nel colorito»): E si vede in questa [maniera di Giotto] levato via il proffilo che ricigneva per tutto le figure, e quegli occhi spiritati e piedi ritti in punta e le mani aguzze et il non avere ombre et altre mostruosità di que’ Greci, e dato una buona grazia nelle teste e morbidezza nel colorito.19 Anche la nuova maniera di Giotto, grazie alla moltiplicazione del polisendeto lungo l’asse verticale della scrittura, viene descritta nei singoli elementi costitutivi, come gli atteggiamenti delle figure, la vivezza delle teste, il movimento dei panni, la sistemazione in prospettiva delle figure, gli affetti (timore, speranza, ira, amore) dei personaggi, la morbidezza dello stile che è il risultato del superamento dello stile ruvido e scabroso dell’arte greca: E Giotto in particulare fece migliori attitudini alle sue figure, e mostrò qualche principio di dare una vivezza alle teste, e piegò i panni che traevano più alla natura che non quegli innanzi, e scoperse in parte qualcosa de lo sfuggire e scortare le figure. Oltre a questo egli diede principio agli affetti, che si conoscesse in parte il timore, la speranza, l’ira e lo amore; e ridusse a una morbidezza la sua maniera, che prima era e ruvida e scabrosa [...].20 19 Ivi, p. 211. 20 Ibidem. P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 307 Tuttavia la maniera di Giotto non è ancora riuscita a rappresentare pienamente il vivo e il vero negli occhi, nei capelli, nelle barbe, nelle mani, nei nudi: e se non fece gli occhi con quel bel girare che fa il vivo, e con la fine de’ suoi lagrimatoi, et i capegli morbidi, e le barbe piumose, e le mani con quelle sue nodature e muscoli, e gli ignudi come il vero, scusilo la difficultà della arte et il non aver visto pittori migliori di lui. E pigli ognuno in quella povertà dell’arte e de’ tempi, la bontà del giudizio nelle sue istorie, l’osservanza dell’arie e l’obedienza di un naturale molto facile, perché pur si vede che le figure obbedivano a quel che elle avevano a fare; e perciò si mostra che egli ebbe un giudizio molto buono, se non perfetto.21 La gigantografia di Giotto nell’economia delle Vite viene sancita da Vasari con il rimando a Dante e a Boccaccio. Il primo esprime la sua ammirazione per l’artista e «per le rare doti che la natura aveva nella bontà del gran pittore impresse» nel c. xi del Purg., vv. 94-99: Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura. Così ha tolto l’uno a l’altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido.22 A parlare è Oderisi da Gubbio, un miniatore allora rinomato, esponente nell’oltretomba dantesco della superbia dell’artista. La sua ammissione, nei vv. 82-84, di essere stato superato nell’arte del miniare da Franco Bolognese: «Frate», diss’elli, «più ridon le carte 21 Ivi, pp. 211-12. 22 D. Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, testo critico stabilito da G. Petrocchi per l’edizione nazionale della Società Dantesca Italiana, Torino, Einaudi, 1975, p. 187. 308 Del nomar parean tutti contenti che pennelleggia Franco Bolognese; l’onore è tutto or suo, e mio in parte. è solo l’avvio per delineare quella grande svolta culturale, di cui Dante ha piena consapevolezza, non solo nell’ambito della miniatura, ma anche nella pittura, dove Cimabue ha inaugurato una nuova pittura ma è stato superato da Giotto, e nella letteratura, dove la gloria del bolognese Guido Guinizzelli, padre del dolce stil novo, è stata ridimensionata dalla gloria del fiorentino Guido Cavalcanti e dove si profila il superamento da parte dello stesso Dante sia di Guinizzelli sia di Cavalcanti. Anche Boccaccio, che durante il suo soggiorno napoletano conobbe con ogni probabilità di persona Giotto impegnato tra il 1328 e il 1333 ad affrescare la chiesa di Santa Chiara (costruita fra il 1310 e il 1328),23 tesse la lode dell’artista nel Decameron, VI, 5. Il grande merito che gli viene oramai riconosciuto da più parti è di aver riportato «in luce» la pittura, dopo i «molti secoli» del Medioevo, quando era stata nel buio sepolcrale a causa degli artigiani che avevano puntato «più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ’ntelletto de’ savi».24 Muovendosi in direzione opposta alla pittura bizantina, il Giotto del Boccaccio si ingegna ad imitare la natura a tal punto che l’immagine rappresentata sembra all’occhio fisico non solo simile a quella naturale, anzi vera più che dipinta: [Giotto] ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto.25 23 G. Vasari, op. cit., pp. 122-23: «Fu chiamato a Napoli dal Re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata da lui, alcune cappelle, nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si veggono. Dove ancora, in una cappella, sono molte storie dell’Apocalisse, ordinategli (per quanto si dice) da Dante, fuor uscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch’egli per le parti. Nel Castello de l’Uovo fece ancora molte opere, e particolarmente la cappella di detto Castello». Solo pochi frammenti del Lamento sul Cristo morto, nel coro delle monache della chiesa di Santa Chiara, sono pervenuti sino a noi. Per quanto riguarda le storie dell’Apocalisse ordinate da Dante, Vasari riferisce quanto si dice, senza entrare nel merito. Fatto è che Dante morì nel 1321, sette anni prima dell’avvio dei lavori di Giotto in Santa Chiara. Inoltre Giotto affrescò la cappella di Santa Barbara, che è in Castel Nuovo, non nel Castel dell’Uovo. 24 G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992, p. 738. 25 Ivi, p. 737. P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 309 Nel rilevare l’inganno dell’occhio, che percepisce come vero ciò che è solo dipinto, Boccaccio ricorre a un preciso aneddoto, quello della gara tra Zeusi che dipinge l’uva, ingannando gli uccelli, e Parrasio che dipinge la tenda, ingannando Zeusi,26 così come si legge in Plinio, Naturalis historia, xxxv, 65: Descendisse hic in certamen cum Zeuxide traditur et, cum ille detulisset uvas pictas tanto successu, ut in scaenam aves advolarent, ipse detulisse linteum pictum ita veritate repraesentata, ut Zeuxis alitum iudicio tumens flagitaret tandem remoto linteo ostendi picturam atque intellecto errore concederet palmam ingenuo pudore, quoniam ipse volucres fefellisset, Parrhasius autem se artificem.27 L’estetica giottesca dell’imitazione della natura, fissata da Boccaccio nella quinta novella della VI giornata del Decameron, viene assunta da Vasari come paradigma della prima e seconda stagione dell’arte moderna. Inoltre ci sono altri luoghi in cui Boccaccio esalta Giotto, anzi sono continui gli attestati di ammirazione dello scrittore per l’artista (Amorosa Visione, iv, 16 sgg.; Zibaldone Magliabechiano, c. 232; Genealogia, xiv, 6). Il riconoscimento del primato di Giotto è un dato largamente acquisito nel corso del Trecento – e si pensi oltre a Dante e Boccaccio anche a Petrarca e Sacchetti – e poi nel Quattrocento – si pensi all’epigramma del Poliziano sul sepolcro di Giotto in Santa Maria del Fiore.28 26 Cfr. P. Sabbatino, Imitazione e illusione. Leonardo da Vinci, Varchi, Marino, Milizia, «Studi Rinascimentali», 3, 2005, pp. 11-27; Inganni ad arte. Meraviglie del trompe-l’oeil dall’antichità al contemporaneo. Catalogo della mostra (Firenze, 16 ottobre 2009-24 gennaio 2010), a c. di A. Giusti, Firenze, Mandragora, 2009. Utili riflessioni sull’illusione sono in G. Didi-Huberman, La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente, Milano, il Saggiatore, 2008. Sull’eredità di Plinio in Vasari cfr. M. Spagnolo, Vasari e le ‘difficoltà dell’arte’, in Percorsi vasariani tra le arti e le lettere. Atti del Convegno di Studi (Arezzo, 7-8 maggio 2003), a c. di M. Spagnolo e P. Torriti, Arezzo, Le Balze, 2004, pp. 89-108; É. Pommier, L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento, Torino, Einaudi, 2007, pp. 260-69. 27 Plinio, Storia naturale, v. Minerologia e storia dell’arte. Libri 33-37, introduzione di I. Calvino, traduzioni e note di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, Torino, Einaudi, 1988, pp. 360-62 («Si racconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, quello espose una tenda dipinta con tanto verismo che Zeusi, pieno di orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese che, tolta la tenda, finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell’errore, gli concesse la vittoria con nobile modestia: se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui stesso, un pittore»). Cfr. M. Baxandall, Giotto e gli umanisti, Milano, Jaca book, 1994. 28 G. Vasari, op. cit., p. 129: «Restò nelle penne di chi scrisse a suo tempo, e poi, tanta maraviglia del nome suo, per esser stato primo a ritrovare il modo di dipignere, perduto inanzi lui 310 Del nomar parean tutti contenti Nella biografia di Giotto, Vasari raccoglie il testimone di questa tradizione, che gli consente di creare strategicamente nella dinamica storiografica della rinascita dell’arte un inizio forte, con un solo grande eroe tra tanti artefici inetti: essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono, quella ch’era per mala via, resuscitò, e redusse ad una forma da chiamar buona.29 Attorno all’eroe si formano numerosi discepoli e cresce la scuola: Taddeo Gaddi, Puccio Capanna, Ottaviano da Faenza, Guglielmo da Forlì (detto anche Guglielmo degli Organi), Simone Martini, Stefano Fiorentino, Pietro Cavallini «et altri infiniti, i quali molto alla maniera et alla imitazione di lui s’accostarono».30 2. Masaccio e la «nuova maniera di colorito, di scorci, d’attitudini naturali» Nella seconda età, che abbraccia l’intero Quattrocento, l’arte moderna si consolida e vive la stagione della «gioventù», come racconta Vasari nel Proemio della seconda parte delle Vite.31 Gli artisti rappresentano solo «quel che vedevono nel naturale e non più», liberandosi definitivamente degli ultimi residui dell’arte bizantina (come ad esempio le figure in punta di piedi). Nelle opere d’arte finalmente trionfa la «nuova maniera di colorito, di scorci, d’attitudini naturali», sono più accuratamente espressi sia «i gesti del corpo», grazie al disegno, sia i «moti dello animo», «le arie del viso» diventano «interamente» somiglianti agli uomini, le luci e le ombre sono molti anni, che dal Magnifico Lorenzo Vecchio de’ Medici, facendosi egli di questo maestro ogni giorno più maraviglia, meritò d’avere in Santa Maria del Fiore la effigie sua scolpita di marmo; e dal divino uomo Messer Angelo Poliziano lo infrascritto epitaffio in sua lode, acciò che quegli che verranno eccellenti e rari in qual si voglia professione, debbino valorosamente esercitarsi per avere di sì fatte memorie, meritandole, in lode loro dopo la morte, come fe’ Giotto: Ille ego sum per quem pictura extincta revixit / cui quam recta manus tam fuit et facilis. / Naturae deerat nostrae quod defuit arti / plus licuit nulli pingere nec melius / miraris turrim egregiam sacro aere sonantem? / Haec quoque de modulo crevit ad astra meo / denique sum iottus. Quid opus fuit illa referre? / Hoc nomen longi carminis instar erit». 29 Ivi, p. 117. 30 Ivi, p. 129. 31 Ivi, p. 215. P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 311 più attentamente osservate, le rappresentazioni di storie acquistano «più propria similitudine» e il paesaggio (scorci, alberi, erbe, fiori, nuvole, ecc.) è più simile al vero di natura. Con Masaccio, l’erede della «maniera moderna» di Giotto e il maestro della seconda età, l’imitazione della natura progredisce a tal punto che le immagini dipinte appaiono sempre più immagini vive e vere della natura. Persino l’ultimo tratto dell’arte bizantina come i piedi ritti delle figure, che ancora resisteva e dava goffezza, viene finalmente eliminato, facendo «scortare i piedi nel piano».32 Il contributo di Masaccio alla maniera moderna dell’arte è stato determinante, per cui «e’ merita certamente non esserne manco riconosciuto che se e’ fusse stato inventore della arte».33 Le immagini dipinte da Masaccio, in particolare quelle che raccontano storie, sono del tutto raccontabili con le parole come naturali. È il caso degli affreschi della cappella Brancacci nella chiesa del Carmine di Firenze. Tra le «istorie di San Piero» – il ciclo fu iniziato da Masolino e poi interrotto –, Masaccio dipinge alcune scene, come «la istoria della cattedra» (San Pietro in cattedra), «il liberare gli infermi, suscitare i morti» – scena identificata da Procacci 34 con la Distribuzione delle elemosine – «et il sanare gli attratti con l’ombra nello andare a ’l tempio con San Giovanni» (San Pietro che risana con la propria ombra), il Tributo, la Resurrezione del figlio di Teofilo.35 La lettura vasariana del Tributo è un primo esempio di ékphrasis di una 32 Ivi, p. 266. A tale proposito, nella biografia di Masaccio, Vasari cita l’affresco di San Paolo nella cappella Brancacci (Firenze), distrutto poi nel 1675. Cfr. ivi, pp. 286-87 («Et allora fece Masaccio per pruova il San Paulo presso alle corde delle campane, solamente per mostrare il miglioramento che egli aveva fatto nella arte. E dimostrò veramente infinita bontà in questa pittura, conoscendosi nella testa di quel Santo – il quale è Bartolo di Angiolino Angiolini ritratto di naturale – una terribilità tanto grande che e’ pare che la sola parola manchi a questa figura: e chi non conobbe San Paulo, guardando questo vedrà quel dabbene della civilità romana, insieme con la invitta fortezza di quell’animo divinissimo tutto intento alle cure della fede. Mostrò ancora in questa pittura medesima l’intelligenza di scortare le vedute di sotto in su, che fu veramente maravigliosa, come apparisce ancor oggi ne’ piedi stessi di detto Apostolo, per una difficultà facilitata in tutto da lui, rispetto a quella goffa maniera vecchia che faceva (come io dissi poco di sopra) tutte le figure in punta di piedi; la qual maniera durò fino a lui senza che altri la correggesse, et egli solo e prima di ogni altro la ridusse al buono del dì d’oggi»). 33 Ivi, p. 266. 34 Cfr. U. Procacci, Tutta la pittura di Masaccio, Milano, Rizzoli, 1951; Id., Masaccio, Firenze, Olschki, 1980. 35 G. Vasari, op. cit., pp. 270-71. 312 Del nomar parean tutti contenti pittura di storie (l’episodio evangelico del tributo),36 con vari personaggi (San Pietro, Gesù, gli apostoli, l’esattore), ciascuno dei quali compie un gesto, assume un atteggiamento, partecipa con un ruolo: Ma tra l’altre [scene] notabilissima apparisce quella dove San Piero per pagare il tributo, cava per commissione di Cristo i danari de ’l ventre del pesce; perché, oltra il vedersi quivi in uno Apostolo che è nello ultimo il ritratto stesso di Masaccio, fatto da lui medesimo a lo specchio, che par vivo, e’ vi si conosce lo ardire di San Piero nella dimanda e la attenzione de gli Apostoli nelle varie attitudini intorno a Cristo, aspettando la resoluzione con gesti sì pronti che veramente appariscon vivi. Et il San Piero massimamente, il quale nello affaticarsi a cavare i danari del ventre del pesce ha la testa focosa per lo stare chinato. E molto più quando e’ paga il tributo, dove si vede lo affetto del contare e la sete di colui che riscuote, che si guarda i danari in mano con grandissimo piacere.37 Nella pittura della storia del tributo, San Pietro è colto nell’atto di stare chinato con la testa, che risulta «focosa», e di prelevare con affaticamento i soldi dal ventre del pesce. Nell’atto poi di pagare il tributo San Pietro mostra «lo affetto del contare». Chi riceve, invece, manifesta «la sete», l’avidità nel riscuotere, e il «grandissimo piacere» nel vedere quei danari nella mano. Nel rappresentare i singoli personaggi della storia così come sono nella natura, Masaccio crea con il pennello una pittura viva e incarnata: il ritratto di Masaccio, che dà il volto a un apostolo, «par vivo» e gli apostoli, in particolare San Pietro, nei loro atteggiamenti e gesti sembrano «vivi» allo stesso modo di chi riscuote il tributo. Nell’«istoria» del Battesimo dei neofiti di Masaccio, il Vasari ferma l’attenzione del lettore delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri su un particolare già allora molto apprezzato, un uomo «ignudo che triema tra gli altri battezzati as36 Cfr. Matteo, xvii, 24-27 (si cita da La Sacra Bibbia, Roma, Edizioni Paoline, 1969, p. 1101: «Giunti a Cafarnao, si accostarono a Pietro quelli che riscuotevano le due dramme e gli dissero: “Il vostro maestro non paga le due dramme?” Egli rispose: “Sì, certamente”. Ma entrato in casa, Gesù lo prevenne dicendo: “Che te ne pare, Simone? I re della terra da chi ricevono il tributo o le imposte? Dai propri figli o dagli estranei?”. “Dagli estranei”, rispose. E Gesù a lui: “Dunque, i figli ne sono esenti. Tuttavia, per non scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su; aprigli la bocca e vi troverai uno statere, prendilo e paga per me e per te”»). Ciascun ebreo pagava al Tempio due dramme all’anno, ma solo dopo i venti anni. Lo statere valeva quattro dramme. 37 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550. cit., p. 271. P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 313 siderando di freddo».38 Il personaggio affrescato da Masaccio è talmente vero e vivo che il suo corpo non è statico, ma sembra scosso da movimenti oscillatori rapidi e involontari. Anche attorno al Masaccio, come nella prima età attorno a Giotto, si formano numerosi artisti, i quali si recano nella cappella Brancacci per studiare ed esercitarsi. In questa grande scuola, vero e proprio Studio dell’arte moderna, passano numerosi artisti, tutti «divenuti eccellenti e chiari»: fra Giovanni da Fiesole detto l’Angelico, Alesso Baldovinetti, Andrea del Castagno, Andrea Verrocchio, Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci, Pietro Vannucci detto il Perugino, Mariotto Albertinelli, Michelangelo Buonarroti, Raffaello Sanzio, Francesco Granacci, Lorenzo di Credi, Ridolfo del Ghirlandaio, Andrea del Sarto, Giovanbattista di Jacopo di Gasparre detto il Rosso, Francesco di Cristofano detto il Franciabigio, Baccio Bandinelli, Alonso Berruguete, Jacopo Carrucci detto il Pontormo, Perino del Vaga, Nunziato Antonio d’Antonio detto Toto del Nunziata. L’inventario degli artisti, formatisi nello Studio della cappella Brancacci, non è completo, anzi comprende solo i singoli «capi della arte», per cui a ogni capo occorre aggiungere gli altri artisti che formano «le membra», come a dire che dalla scuola del Masaccio – il maestro «più moderno» fra «tutti i vecchi maestri» da Giotto in poi – provengono tutte le altre scuole, le quali cronologicamente vanno distribuite lungo la seconda e la terza età. 3. L’imitazione del «più bello della natura» e il ghigno della Gioconda Nella terza età dell’arte moderna si registra un salto di qualità sul piano della concezione estetica, con il passaggio dall’imitazione del vero di natura all’imitazione del «più bello della natura», dalla maniera buona alla bella maniera:39 38 Ibidem. 39 Cfr. A. Pinelli, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino, Einaudi, 1994, pp. 94-116. Per il dibattito sull’imitazione si veda P. Sabbatino, La bellezza di Elena. L’imitazione nella letteratura e nelle arti figurative del Rinascimento, Firenze, Olschki, 1997; F. Tateo, Il problema dell’imitazione, in Italia e Boemia nella cornice del Rinascimento europeo, a c. di S. Graciotti, Firenze, Olschki, 1999; P. Sabbatino, Il «Trionfo della Galatea» di Raffaello e il «Libro del Cortegiano» di Castiglione. Il dibattito sull’imitazione nel primo Cinquecento,«Studi Rinascimentali», 2004, pp. 23-48; Id., Imparare sotto la bella maniera di Michelagnolo. L’imitazione nelle opere di Benvenuto Cellini, «Chronique italennes» (édition web), 2009, n. 16 [In punta di piè ’l Granchio ardito. 314 Del nomar parean tutti contenti Il disegno fu lo imitare il più bello della natura in tutte le figure, così scolpite come dipinte, la qual parte viene da lo avere la mano e l’ingegno che rapporti tutto quello che vede l’occhio in sul piano, o disegni o in su fogli o tavola o altro piano, giustissimo et a punto; e così di rilievo nella scultura; la maniera venne poi la più bella, da l’avere messo in uso il frequente ritrarre le cose più belle, e da quel più bello, o mani o teste o corpi o gambe, agiugnerle insieme a fare una figura di tutte quelle bellezze che più si poteva; e metterla in uso in ogni opera per tutte le figure, che per questo se dice ella essere bella maniera.40 Nella filigrana dello stralcio si intravede chiaramente l’aneddoto del giovane Zeusi di Eraclea (v-iv sec. a. C.), il quale, invitato dagli abitanti di Crotone nel periodo del loro massimo splendore ad arricchire con dipinti il tempio di Giunone, dipinse la bellezza piena e straordinaria di Elena, selezionando le cinque vergini più avvenenti e imitando solo le parti più perfette dei loro corpi. La vicenda, raccontata da Cicerone a inizio del secondo libro di Rhetorici libri qui vocantur De inventione e ripresa con qualche variante da Plinio, Naturalis historia, xxxv, 64, ebbe larga circolazione tra Quattrocento e Cinquecento, in particolare negli scritti e interventi sulla questione capitale dell’imitazione,41 e fu affrescata da Vasari a Firenze (Casa Vasari, Sala Benvenuto Cellini a tutto tondo. Actes de la Journée d’Etude sur B. Cellini organisée par le Cirri / Lecemo de l’Université de la Sorbonne Nouvelle-Paris 3, l’Elci (ea 1496) de l’Université Paris-Sorbonne-Paris 4 l’Ens (Paris), Etudes réunies et présentées par C. Lucas Fiorato et F. Dubard de Gaillarbois], pp. 18. 40 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti…, cit., p. 539. Il credo vasariano dell’imitazione del più bello della natura, qui professato in modo fermo e solenne, appare già ad apertura della vita di Giotto, non tanto per esporre la linea del maestro, che invero si prodiga per l’imitazione della natura, quanto per ribadire che bisogna essere grati a Giotto, l’iniziatore dell’arte moderna, così come gli artefici devono essere grati alla natura, libro di immagini e di esempi da cui scegliere le parti più belle: «Quello obligo istesso che hanno gli artefici pittori alla natura, la quale continuamente per essempio serve a quegli che, cavando il buono da le parti di lei più mirabili e belle, di contrafarla sempre s’ingegnano, il medesimo si deve avere a Giotto. Perché, essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono, quella ch’era per mala via, resuscitò, e redusse ad una forma da chiamare buona» (ivi, p. 117). 41 Cfr. P. Sabbatino, La bellezza di Elena…, cit., pp. 13-59; L. Barkan, The heritage of Zeusxis. Painting, Rhetoric and History, in Antiquity and its interpreters, a c. di A. Payne, A. Kuttner, R. Smick, Cambridge University Press, 2000, pp. 99-104; É. Pommier, Il ritratto. Storia e teorie dal Rinascimento all’Età dei Lumi, Torino, Einaudi, 2003, pp. 39-41 (Zeusi a Crotone). P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 315 delle Arti e degli Artisti)42 e ad Arezzo (Casa Vasari, Sala del Trionfo della Virtù).43 L’allusione all’aneddoto della perfetta bellezza di Elena dipinta da Zeusi è funzionale, nell’economia delle Vite, alla messa a fuoco della concezione dell’imitazione come processo selettivo del «buono» tra le parti «più mirabili e belle» della natura. Rispetto al libro delle immagini offerte dalla natura, l’artista si impegna innanzitutto a osservarle direttamente con l’occhio fisico e in secondo luogo a selezionare con l’occhio mentale le parti più belle. L’opera d’arte, dunque, è il frutto dell’ingegno dell’artista, il quale dipinge o scolpisce con la mano le parti più mirabili della natura, viste con gli occhi e selezionate dall’intelletto, ottenendo con una formidabile sintesi la perfetta bellezza. Il primo Cinquecento, dunque, è il secolo glorioso dei moderni Zeusi, aperto da Leonardo da Vinci, il quale mostrò «gagliardezza e bravezza del disegno», fu abile nel «contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così appunto come elle sono, con buona regola, migliore ordine, retta misura, disegno perfetto», infine diede «veramente alle sue figure il moto e il fiato»,44 come dimostra la moderna Elena ovvero la Gioconda (Parigi, Louvre). Nel descrivere la pittura incarnata della Gioconda – identificata dall’artista scrittore con Monna Lisa, moglie di Francesco del Giocondo – Vasari elenca «numerosi dettagli che articolano il discorso analitico».45 Innanzitutto ferma l’attenzione sulla «testa», nella quale «chi voleva vedere quanto l’arte potesse imitar la natura, agevolmente si poteva comprendere, perché quivi erano contrafatte tutte le minuzie che si possono con sottigliezza dipignere».46 E passa in rassegna i singoli elementi, gli occhi («Avvenga 42 U. Baldini, Giorgio Vasari pittore, Firenze, Edizioni d’arte Il Fiorino, 1994, pp. 248 e 253; M. W. Gahtan, Vasari’s Allegorical Imagination, in Vasari’s Florence. Artists and Litterati at the Medicean Court, Yale University Art Gallery, catalogue prepared by M. W. Gahtan and Ph. J. Jacks, 1994, pp. 9-20. 43 A. Cecchi, La casa del Vasari in Arezzo, nel catalogo Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari. Casa Vasari. Pittura vasariana dal 1532 al 1554 (Arezzo, 26 settembre-29 novembre 1981), Firenze, Edam, 1981, p. 28; P. Sabbatino, La bellezza di Elena, cit., p. 27-28. 44 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, cit., pp. 541-42. 45 G. Patrizi, «Lettura» e «interpretazione» dell’arte italiana, in Storia dell’arte italiana, coord. G. Bollati e P. Fossati, Parte terza a c. di F. Zeri, vol. iii, Conservazione, falso, restauro, Torino, Einaudi, 1981, p. 227. 46 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, cit., p. 552. 316 Del nomar parean tutti contenti che gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine che di continuo si veggono nel vivo, et intorno a essi erano tutti que’ rossigni lividi et i peli, che non senza grandissima sottigliezza si posson fare»), le ciglia («Le ciglia, per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali»), il naso («Il naso, con tutte quelle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo»), la bocca («La bocca, con quella sua sfenditura con le sue fini unite dal rosso della bocca con la incarnazione del viso, che non colori ma carne pareva veramente») e la gola («Nella fontanella della gola chi intentissimamente la guardava, vedeva battere i polsi»).47 Per alcuni elementi, osserva Patrizi,48 «si indicano dei piccoli movimenti, di attività biologica», come per le ciglia e per la «fontanella della gola», per cui nell’insieme l’immagine dipinta inganna fino a sembrare un’immagine viva, con il respiro e il cuore che pulsa. E il risultato è tale «da far tremare e temere ogni gagliardo artefice». In secondo luogo, in questa «apoteosi della rappresentazione del volto»,49 Vasari coglie il moto interiore della Gioconda, nella quale non si insinua la malinconia, come «spesso» a quel tempo avveniva nell’ambito della ritrattistica. Per evitare di cedere alla moda, secondo la testimonianza raccolta da Vasari, Leonardo esperto di fisiognomica dipinse la Gioconda in uno studio dove «teneva […] chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra».50 Questa testimonianza, raccolta da Vasari, ci riporta alla mente uno stralcio del Libro di Pittura, cap. 36 (c. 1500), dove Leonardo mostra l’interno dello studio del pittore, il quale dipinge con l’accompagnamento di musici o di lettori.51 A questi, per l’occasione della Gioconda, Leonardo aggiunse i buffoni. 47 Ibidem. 48 G. Patrizi, «Lettura» e «interpretazione» dell’arte italiana, cit., pp. 222-31; Id., «Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti» di Giorgio Vasari, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, Le Opere, vol. ii, Dal Cinquecento al Settecento, Torino, Einaudi, 1993, p. 600: Vasari «è un interprete magistrale della ‘lettura’ ecfrastica [...]. Quasi virtuosistica la descrizione della Monna Lisa leonardesca, dove uno schema micronarrativo si attesta in una prospettiva anatomica». 49 M. Pozzi, Il volto e le passioni nelle «Vite» di Giorgio Vasari, in Il volto e gli affetti. Fisiognomica ed espressione nelle arti del Rinascimento. Atti del Convegno di studi (Torino, 28-29 novembre 2001), a c. di A. Pontremoli, Firenze, Olschki, 2003, p. 131. 50 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti…, cit., p. 552. 51 Leonardo Da Vinci, Libro di Pittura. Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a c. di C. Pedretti, trascrizione critica di C. Vecce, i, Firenze, Giunti, 1995, p. 159. Cfr. P. Sabbatino, Scrittura e scultura nell’umanista napoletano Pomponio Gaurico, in P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 317 La spia lessicale per interpretare il moto interiore della Gioconda è il «ghigno»: Et in questo [ritratto] di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.52 Nell’edizione torrentiniana delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, la voce ghigno ricorre solo due volte ed entrambe le occorrenze sono nella biografia di Leonardo. La prima nella descrizione del cartone raffigurante Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e San Giovanni (databile tra il 1498 e il 1504; Londra, Royal Academy): si vedeva nel viso di quella Nostra Donna tutto quello che di semplice e di bello può con semplicità e bellezza dare grazia a una madre di Cristo; volendo mostrare quella modestia e quella umiltà che in una vergine contentissima di allegrezza del vedere la bellezza del suo figliuolo, che con tenerezza sosteneva in grembo; e mentre che ella con onestissima guardatura a basso scorgeva un santo Giovanni piccol fanciullo che si andava trastullando con un pecorino, non senza un ghigno d’una Santa Anna che, colma di letizia, vedeva la sua progenie terrena esser divenuta celeste. Considerazioni veramente dallo intelletto et ingegno di Lionardo.53 Il ghigno di sant’Anna è senza alcun dubbio il sorriso che nasce dal cuore e dalla mente colmi di letizia nell’atto di vedere e constatare che il nipotino Gesù è l’uomo divenuto dio. La seconda occorrenza di ghigno è nella descrizione della Gioconda, dipinta mentre i musici suonano e cantano e i buffoni tengono allegra Monna Lisa, esorcizzando la malinconia. Allo stesso modo del ghigno di sant’Anna, allora, il ghigno della Gioconda è il sorriso che apre una finestra sul cuore e sulla mente della Gioconda, colmi di letizia. 4. L’«intera perfezzione» di Raffaello e la pittura di storie scritte La bella maniera, affermatasi durante la terza età dell’arte moderna grazie a Leonardo, avanza ulteriormente con Raffaello Sanzio, il quale raggiunge P. Gaurico, De Sculptura, a c. di P. Cutolo con saggi di F. Divenuto, F. Negri Arnoldi, P. Sabbatino, Napoli, Esi, 1999, p. 32. 52 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti…, cit., p. 552. 53 Ivi, p. 551. 318 Del nomar parean tutti contenti nella pittura l’«intera perfezzione»,54 così come Apelle e Zeusi nell’antichità, al punto da superare la natura, sempre parzialmente perfetta e parzialmente bella. Così con Raffaello la natura è oramai «vinta» dai colori. La vittoria della pittura sulla natura, precisa Vasari, è legata alla metodologia di lavoro di Raffaello. L’artista, altro moderno Zeusi, innanzitutto studia le opere dei maestri dell’arte antica e moderna, poi da tutti seleziona e raccoglie in modo organico il meglio fino a raggiungere l’intera perfezione della pittura. Allo stesso modo Cicerone, nell’opera giovanile Rhetorici libri qui vocantur De inventione, scelse e raccolse quello che era più utile e più esatto fra i maggiori trattatisti greci e latini che allora componevano la biblioteca della retorica, arricchendo la retorica dell’intera perfezione. Il percorso metodologico di Raffaello, dunque, viene disegnato su quello parallelo di Zeusi e di Cicerone, segnando finalmente un doppio pareggio, tra la pittura moderna e la pittura antica da un canto, tra l’arte della pittura e l’arte della retorica dall’altro. Il Raffaello di Vasari è soprattutto il pittore di storie scritte. Le invenzioni dell’artista attingono dalle scritture di storie e il suo impegno è di rimanere nella pittura fedele alla scrittura: l’invenzione era in lui sì facile e propria quanto può giudicare chi vede le storie sue, le quali sono simili alli scritti, mostrandoci in quelle i siti simili e gli edificii, così come nelle genti nostrali e strane, le cere e gli abiti, secondo che egli ha voluto: oltra il dono della grazia delle teste, giovani, vecchi e femmine, riservando alle modeste la modestia, alle lascive la lascivia et a i putti ora i vizii ne gli occhi et ora i giuochi nelle attitudini. E così i suoi panni piegati, né troppo semplici, né intrigati, ma con una guisa che paion veri.55 Tra le pitture di storie scritte, raccontate da Vasari con dovizia di particolari, c’è quella della storia della poesia, nella Stanza della Segnatura affrescata da Raffaello nel 1509-1511 e utilizzata dal committente, papa Giulio II, come biblioteca, per cui i soggetti rappresentati sulle quattro pareti (Scuola di Atene, Parnaso, Disputa del Sacramento, Gregorio ix che approva le Decretali e Giustiniano con le Pandette) indicano gli ambiti scientifici (filosofia, poesia, teologia, diritto civile e diritto canonico) dei libri custoditi negli armadi sottostanti. 54 Ivi, p. 542. 55 Ibidem. P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 319 La descrizione della Stanza della Segnatura procede in modo singolare. Il punto di osservazione è al centro della Stanza della Segnatura. Vasari dapprima ferma l’attenzione sulla parete dove è affrescata la Scuola di Atene, interpretata come la «storia» planetaria della convergenza tra filosofia, astrologia e teologia, con i «ritratti» di «tutti i savi del mondo».56 In secondo luogo Vasari alza lo sguardo verso la volta, che è «il cielo di quella stanza»,57 ed elenca i quattro «tondi» o medaglioni che sono stati affrescati sulla volta, ciascuno in rapporto tematico con le storie che sono sulle pareti. Il movimento degli occhi di Vasari, allora, segue una direzione verticale, dalla Scuola di Atene al medaglione soprastante della Filosofia («una femmina fatta per la cognizione delle cose, la quale sedeva in una sedia che aveva per reggimento da ogni banda una dea Cibele, con quelle tante poppe che da gli antichi era figurata Diana Polimaste; e la veste sua era di quattro colori, figurati per li elementi, da la testa in giù v’era il color del fuoco e sotto la cintura era quel dell’aria, da la natura a ‘l ginocchio era il color della terra e dal resto perfino a’ piedi era il colore dell’acqua e così la accompagnavano alcuni putti bellissimi quanto si può imaginare bellezza»), poi, girando su se stesso verso destra, dal tondo della Filosofia a quello della Poesia («è finto la Poesia, la quale è in persona di Polinnia coronata di lauro e tiene un suono antico in una mano et un libro nell’altra e sopra poste le gambe con una aria di viso immortale per le bellezze sta elevata con esso al cielo, accompagnandola due putti che son vivaci e pronti, che insieme con essa fanno vari componimenti con le altre»), della Teologia («una Teologia con libri et altre cose attorno, co’ medesimi putti, non men bella che le altre») e infine della Giustizia accanto alla finestra che guarda al cortile («una Giustizia con le sue bilance e la spada inalberata, con i medesimi putti che a l’altre di somma bellezza»).58 Nell’ecfrasi vasariana a questo movimento circolare segue un movimento a croce. L’artista scrittore osserva e descrive le singole immagini che sono agli angoli nei quattro scomparti rettangolari, ciascuna in stretto rapporto tematico con il motivo rappresentato nel tondo e nella parete sottostante. Così al tondo della Teologia segue il rettangolo con il peccato di Adamo («il mangiare del pomo») e insieme stanno sulla Disputa del Sacramento, dalla parte opposta al medaglione della Teologia c’è quello della Filosofia cui segue 56 Ivi, p. 616. Cfr. G. W. Most, Leggere Raffaello. La Scuola di Atene e il suo pre-testo, Torino, Einaudi, 2001 (Bibliografia scelta, pp. 93-95). 57 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti…, p. 618. 58 Ivi, pp. 617-18. 320 Del nomar parean tutti contenti il rettangolo con l’Astrologia nell’atto di porre «le stelle fisse e l’erranti a’ luoghi loro» e insieme stanno sulla Scuola di Atene; al medaglione della Poesia segue il rettangolo con «Marsia fatto scorticare a un albero da Apollo» e insieme stanno sopra il Parnaso, dalla parte opposta al medaglione della Poesia c’è quello della Giustizia cui segue il rettangolo con «il giudizio di Salamone quando egli vuol far dividere il fanciullo»59 e insieme stanno sulle Virtù (le altre tre virtù cardinali: Temperanza, Fortezza, Prudenza) e sui due riquadri con Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano e San Gregorio ix (con il volto di Giulio ii) che approva le Decretali. Dal cielo della stanza si ritorna poi sui grandi affreschi delle pareti, con un movimento verticale verso il basso, portando l’attenzione sul Parnaso e poi, ancora con movimento circolare, sulla Disputa del Sacramento e sui due riquadri, sotto le Virtù, con Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano e San Gregorio ix che approva le Decretali. Nell’affresco del Parnaso Raffaello racconta con i colori la storia della poesia antica e moderna e lo fa «con molta grazia e infinita diligenzia».60 Al centro, sulla parte più alta del monte che domina Delfi, la figura di Apollo attorniato dalle nove muse (a sinistra Calliope che presiede al coro di Talia, Clio, Euterpe, e a destra Erato, Polimnia, Melpomene, Tersicore, Urania). Ai piedi di Apollo la fonte Castalia 61 e intorno «una selva ombrosissima di lauri», accarezzati da una lieve brezza («aure dolcissime») percepibile all’occhio per il «tremolare delle foglie» reso pittoricamente dalla «loro verdezza».62 Per creare dinamismo, Raffaello – annota Vasari – dipinge «una infinità di amori ignudi con bellissime arie di viso». Tra questi amori ignudi alcuni «colgono rami di lauro e ne fanno ghirlande», altri «quelle spargono e gettano per il monte».63 I poeti, «ritratti di naturale», sono «sparsi per il monte», sulla sommità: alcuni «ritti», altri seduti, altri nell’atto di scrivere, taluni ragionano, talaltri cantano o favoleggiano, tutti a gruppi di «quattro» 59Ivi, p. 618. 60 Ivi, p. 619. 61 Vasari erroneamente la chiama «fonte di Elicona» (ivi, p. 618), sorgente fatta sgorgare da Pegaso sul monte Elicona, anche questo sacro alle Muse. 62 Ibidem. 63 Questo particolare è un chiaro indicatore del fatto che Vasari descrive l’affresco del Parnaso, tenendo davanti l’incisione di Marcantonio Raimondi, Il Parnaso (1510, Firenze, Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe). P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 321 o di «sei».64 Le immagini dei poeti antichi sono tratte da statue, medaglie e pitture, precisa Vasari, e le immagini dei poeti conosciuti personalmente sono state disegnate dal naturale. Nell’elencare i poeti, Vasari non segue un percorso di lettura (utile per identificare i poeti),65 anzi sembra più interessato a indicare la continuità storica della poesia tra due grandi età, quella antica, greca e latina assieme (Ovidio, Virgilio, Ennio, Tibullo, Catullo, Properzio, Omero, Saffo), e quella moderna, che va dal Duecento al Cinquecento e comprende Dante, Petrarca, Boccaccio, il Tebaldeo e «infiniti altri moderni» (invero solo Ariosto e Sannazaro): E per cominciarmi da un capo, qui vi è Ovidio, Virgilio, Ennio, Tibullo, Catullo, Properzio et Omero, e tutte in un groppo le nove Muse et Apollo con tanta bellezza d’arie e divinità nelle figure, che grazia e vita spirano ne’ fiati loro. Èvvi la dotta Safo et il divinissimo Dante, il leggiadro Petrarca e lo amoroso Boccaccio, che vivi vivi sono; et il Tebaldeo et infiniti altri moderni.66 Ma soprattutto Vasari vuole trasmettere l’impressione di trovarsi non tanto di fronte a una pittura della storia della poesia con i ritratti dei poeti, bensì di fronte a un angolo reale del Parnaso e all’incontro dal vivo e sincronico dei poeti di tutte le età. Vanno in questa direzione la sottolineatura del fatto che Apollo e le nove Muse hanno «tanta bellezza d’arie e divinità nelle figure, che grazia e vita spirano ne’ fiati loro». E ancora di Dante, Petrarca e Boccaccio sembra di percepire persino il loro respiro («vivi vivi sono»).67 Al Parnaso di Raffaello si richiama inevitabilmente il Parnaso di Vasari, af64 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, cit., p. 618. 65 Sui problemi relativi all’identificazione dei poeti cfr. G. Reale, Raffaello, Il «Parnaso», Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 1999 (al quale si rimanda per la ricca bibliografia esaminata e discussa). 66 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, cit., p. 619. 67 Anche Bellori, nel Seicento, con apprezzamenti da parte di Poussin, si cimentò nella descrizione degli affreschi di Raffaello nella Stanza della Segnatura, come documenta la stampa della Descrizzione delle imagini dipinte da Rafaelle d’Urbino nelle Camere del Palazzo Apostolico Vaticano […] alla Santità di Nostro Signore Papa Innocenzo duodecimo, in Roma, nella Stamparia di Gio. Giacomo Komarek Boëmo alla Fontana di Trevi, 1695 (ma apparso postumo nel 1696). Cfr. E. Borea, Giovan Pietro Bellori e la «commodità delle stampe», in Documentary culture: Florence and Rome from Grandduke Ferdinand i to pope Alexander vii, ed. by E. Cropper, G. Perini, F. Solinas, Bologna, 1992, pp. 263-85; P. Sabbatino, «La guerra e la pace tra ’l celeste e ’l vulgare Amore». Il poema pittorico di A. Carracci e l’ecfrasi di Bellori (1657, 1672), in Ecfrasi. Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, a c. di G. Venturi e M. Farnetti, cit., t. 2, pp. 477-78. 322 Del nomar parean tutti contenti frescato tra il 1548 e il 1554 nella sala dedicata ad Apollo della casa di Arezzo, Con questa opera, che bene si inserisce nel programma della celebrazione, raffigurata nella casa di Arezzo, delle arti e dei più grandi artisti, Vasari «si autoinvita al Parnaso modesto e appena abbozzato».68 Tra le pitture di Raffaello con storie bibliche, Vasari si sofferma sulla tavola della Trasfigurazione di Cristo (Pinacoteca Vaticana), commissionata dal card. Giulio de’ Medici nel 1517. In quest’opera, realizzata tra il 1518 e il 1520, Raffaello sintetizza due sequenze del Vangelo (la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor e l’incapacità degli apostoli di liberare il fanciullo dal demonio a causa della loro poca fede), legate tra loro in Matteo, 17, 1-21: Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E si trasfigurò davanti a loro: il suo volto risplendente come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia a parlare con lui. Allora Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi stare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli parlava ancora, quando una nube luminosa li avvolse, e dalla nube una voce disse: «Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo». Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra ed ebbero gran paura. […] Mentre discendevano dal monte, Gesù dette loro quest’ordine: «Non parlate a nessuno della visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risuscitato dai morti!». […] Quando furono giunti presso la folla, si presentò un uomo che gli si prostrò dinanzi, e disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio, che è lunatico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e spesso nell’acqua. L’ho presentato ai tuoi discepoli, ma non l’hanno potuto guarire». Gesù rispose: «O generazione incredula e perversa, fino a quando starò con voi? Fino a quando vi sopporterò? Portatemelo qua». Poi Gesù minacciò il demonio, il quale uscì dal fanciullo che, in quel medesimo istante, fu risanato. Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù in disparte e gli domandarono: «Perché noi non l’abbiamo potuto scacciare?». Gesù rispose: «Per la vostra poca fede. In verità, infatti, vi dico: se avrete fede quanto un granello di senapam direte a questo monte: Spostati di qua a là, esso si sposterà; e niente vi sarà impossibile».69 Il racconto vasariano, nel descrivere ad uno ad uno tutti i personaggi della pittura di Raffaello,70 in parte prelevati dal citato passo evangelico e in parte 68 É. Pommier, L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento, cit., pp. 459-60. 69 La Sacra Bibbia cit., pp. 1100-01. E in Marco, 9, 2-29, Luca, 9, 28-43 70 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti…, cit., pp. 637-38. P. Sabbatino L’artista scrittore Giorgio Vasari e il racconto dell’arte nelle «Vite» (1550) 323 aggiunti (come il vecchio e la donna), mostra l’entusiasmo di chi si trova di fronte all’opera più alta e più perfetta di Raffaello. Nel registro basso, ai piedi del monte Tabor, Raffaello rappresenta undici apostoli in attesa del ritorno di Gesù e l’arrivo di «un giovanetto spiritato», sostenuto da un vecchio. Il giovane indemoniato, «che con attitudine scontorta si prostende gridando e stralunando gli occhi, mostra il suo patire dentro nella carne, nelle vene e ne’ polsi contaminati dalla malignità dello spirito e con pallida incarnazione fa quel gesto forzato e pauroso». Il vecchio abbraccia l’indemoniato, si fa coraggio, arrotonda gli occhi, alza le ciglia e increspa la fronte, mostrando nel contempo « e forza e paura», inoltre mira fissamente gli undici apostoli e « pare che sperando in loro, faccia animo a se stesso». Una donna, inginocchiata davanti agli apostoli, volta «la testa loro et il tutto delle braccia verso lo spiritato» e ne mostra la miseria. Alcuni apostoli sono ritti, altri seduti, altri in ginocchio e «mostrano avere grandissima compassione di tanta disgrazia». Nel registro alto, sopra il monte Tabor, Cristo trasfigurato, con un «vestito di color di neve», le braccia aperte, la testa alzata verso il Padre, mostra «la essenzia della deità di tutte tre le Persone». In quell’«aria lucida» vi sono Mosè ed Elia, i quali «alluminati da una chiarezza di splendore si fanno vivi nel lume» di Cristo. Infine i tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono «prostrati in terra» e hanno diverse attitudini, «chi atterra col capo e chi con fare ombra a gli occhi con le mani si difendono da’ raggi del sole e da la immensa luce dello splendore di Cristo». Nel rappresentare il patire dell’indemoniato nella carne, il darsi forza e l’avere paura del vecchio, la compassione degli apostoli, la disperazione della donna nel registro basso, e nel registro superiore l’immensa luce di Cristo uomo trasfigurato in divino, la luminosità di Mosè ed Elia che traggono vita da quello splendore e l’umana difesa dei tre apostoli dai raggi del sole divino, Raffaello raggiunge l’«ultima perfezzione» della pittura e la tavola della Trasfigurazione diviene «la più celebrata, la più bella e la più divina». Siamo di fronte alla pittura che con Raffaello si cimenta nella sua impresa più ardua, l’imitazione di Dio, e siamo di fronte alla scrittura ecfrastica che con Vasari si cimenta nella più difficile e nella più ambita impresa, il raccontare con le parole l’immagine dipinta della divinità. Università degli Studi “Federico II” - Napoli Pasquale Guaragnella INFERNO E CIELO NEL «TEATRO POETICO» DI GUIDO CASONI Il Teatro poetico è costituito da una raccolta di exempla in ottave precedute da argomenti in prosa, ed è pubblicato per la prima volta nel 1615.1 L’edizione veneziana del 1626 per i tipi di Tomaso Baglioni, aumentata rispetto a quella di poco più di dieci anni prima, e compresa ne L’opere del Sig. Cavalier Guido Casoni e occupa le pagine 171-227. Il titolo di Teatro poetico richiederebbe qualche dilucidazione. È stato giustamente osservato che, a partire dalla metà del Cinquecento, il significante ‘teatro’ è sottoposto «a un sovraccarico linguistico, in cui il suo proprio continua pur sempre ad agire in quanto segnalazione di un ‘luogo’ originario, come traccia costantemente riscontrabile»;2 senonché «questo ‘luogo’ ora non è più territorializzato fisicamente, architettonicamente, non ha più identità fisica: questo ‘teatro’ […] è un teatro ovunque, l’ovunque […] della rappresentazione, della scena. Dal proprio alla sua rimozione, alla sua cancellazione per sovraccarico: è questa la parabola linguistica del termine ‘teatro’». Una parabola che «risulta però funzionale alla messa in rilievo di una parola-segno decisiva, essenziale, forse, per la descrizione analitica delle trasformazioni profonde dei codici culturali cinquecenteschi, per coglierne il processo».3 È presumibile che alla base del Teatro poetico di Casoni sia un’operetta di Giulio Camillo, l’Idea del theatro, del 1 II Teatro poetico passa dai tredici componimenti contenuti nella prima edizione (Trevigi, appresso Angelo Reghettini, 1615) ai venti dell’ultima edizione (Belluno, Vieceri 1639). Faccio riferimento all’edizione del 1626, in quanto inserita nelle Opere di Guido Casoni secondo un progetto che tendeva a presentare la sua figura di letterato ormai affermato. In altra sede analizzerò il processo delle varianti a partire dall’edizione del 1615 sino a quella del 1639. Si vedano le pagine, assai informate, su Guido Casoni di Aldo Toffoli, Letteratura vittoriese. Autori e testi di Ceneda, Serravalle, Vittorio Veneto dal vi al xx secolo, Vittorio Veneto, Dario De Bastiani, 2005, t. 1, pp. 510 e sgg. 2 A. Quondam, Dal teatro della corte al teatro del mondo, in Il teatro italiano del Rinascimento, a c. di M. de Panizza Lorch, Milano, Edizioni di Comunità, 1980, p. 140. 3 Ibidem. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 325 1550: è qui che, in forma antonomastica, il teatro «si propone come lo spazio del lavoro mentale dell’immaginario, luogo totale – antropologico – della sua rappresentazione, luogo da strutturare e ordinare con la memoria».4 Giulio Camillo ordina un teatro di memoria ove è possibile seguire, perché disposta prospetticamente, la rappresentazione di un discorso, la messa in scena di un sapere. È un teatro degli occhi che esploderà con la cultura del Barocco. Intanto, la tipologia che si riconosce anche nell’operetta di Casoni è quella di una teatralità come pratica diffusa, particolarmente adatta a utilizzare le risorse della retorica. L’incipit del Teatro poetico è costituito da una breve rubrica il cui titolo è Amorosi avvenimenti. La presentazione fa leva sul gioco dei contrasti. Infatti, Amore si rivela «stabile solo nell’instabilità dell’opere sue». Amore con il volo «dell’ali sue porporine» sparge «vari influssi di contenti e di pene», per cui da Amore derivano «hora lieti, hora dogliosi avvenimenti», poiché egli non si trova mai sazio «né di lagrime, né di piaceri». Non andrebbe dimenticato che Guido Casoni è autore di un trattatello denominato Della magia d’amore, in cui si dispiega un complesso sistema metaforico di antitesi e ossimori. Si tratta di un trattatello che costituisce una sorta di prova giovanile, ma importante, nella definizione di un linguaggio letterario che prelude alla dimensione a un tempo seria e ludica della cultura del Barocco.5 Ad esemplificazione della sentenza sul potere di Amore, la prima scena del Teatro poetico si concentra sulla figura di Erminia, il personaggio della Gerusalemme liberata, e sulle sue lagrime. Il rapporto tra Casoni e Tasso al tempo del Teatro poetico e da ritenersi un rapporto di lunga fedeltà. Autorevoli studiosi hanno posto con decisione la questione del rapporto Casoni-Tasso,6 dilucidando un 4 Ibidem. Su Giulio Camillo, si rinvia a L. Bolzoni, Introduzione e note a G. Camillo, L’idea del theatro, Palermo, Sellerio, 1991. 5 Sia permesso rinviare alla mia Introduzione a G. Casoni, Della magia d’amore, Torino, Res, 2002 e al denso apparato di note a c. di E. Selmi. La studiosa ritorna con peculiare impegno critico sull’operetta di Casoni in Giochi di riscrittura: «La Magia d’Amore» di Guido Casoni, in Guido Casoni: un letterato veneto tra ’500 e ’600. (Atti del Convegno di studio, Vittorio Veneto, 26-27 febbraio 2005) a c. di Aldo Toffoli e Giampaolo Zagonel, Treviso, Teatri Spa, 2008. 6 Si veda G. Baldassarri, ‘Acutezza’ e ‘ingegno’: teoria e pratica del gusto barocco, in Storia della cultura barocca. Dalla Controriforma alla fine della Repubblica, vol. iv a c. di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1983, pp. 227 e ss. Più recentemente, ha posto il problema del rapporto tra Casoni e Tasso M.L. Doglio in un saggio importante, dal titolo Tasso o l’‘intelletto sempre luminoso che vince le tenebre della malinconia’ nella «Vita» di Guido Casoni, in Ead, Origini e icone del mito di Torquato Tasso, Roma, Bulzoni, 2002, 326 Del nomar parean tutti contenti processo inverso rispetto al rapporto Casoni-Marino, che sia padre Giovanni Pozzi sia Ottavio Besomi, in anni passati, avevano illuminato con sicura originalità interpretativa.7 Nel 1595 Guido Casoni legava il suo nome a quello del Tasso in un’ode il cui incipit recita Fu canora magia, un componimento che si svolge sul tema della magia della scrittura poetica di Tasso: Quasi in superba scena mostro l’inferno al mondo e ’l ciel, ch’e d’ogni ben padre fecondo: di quel l’odio e la pena, e di questo scoprio l’amor ch’amato ei trasforma in Dio. Tasso «mostrò l’inferno, e il cielo», scrive Casoni. Si vedrà più avanti che questa antitesi tra inferno e cielo che si dispiega in «superba scena» è una tipologia pure del Teatro poetico, il quale trapassa dalle scene infernali delle pene d’amore e dei comportamenti tirannici alla scena celeste dell’amor divino:8 prima importa segnalare che Maria Luisa Doglio ha osservato che – nella interpretazione di Casoni – il potere del Tasso di «soggiogare la materia» coi suoi versi viene associato a una peculiarità senza uguali della poesia tassiana-narrativa, rappresentativa e figurativa insieme, individuata sul filo dell’ut pictura poësis:9 Fu poeta e pittore, ma non cantò, dipinse; pp. 87 e segg. In una con il saggio della Doglio su Casoni, risultano importanti i rilievi e le osservazioni di Elisabetta Selmi intorno al rapporto Casoni-Tasso; infine, nell’ambito del convegno casoniano di Vittorio Veneto, puntuale ed elegante risulta la relazione di M.T. Girardi su Guido Casoni lettore di Tasso, in Guido Casoni: un letterato veneto…, cit., pp. 113-135. Su questo tema vedasi pure M. Corradini, La tradizione e l’ingegno. Ariosto, Tasso, Marino e dintorni, Novara, Interlinea, 2004, pp. 95-112. 7 Cfr. G. Pozzi, Introduzione a G.B. Marino, Dicerie sacre; e La strage de gl’innocenti, Torino, Einaudi, 1960 e O. Besomi, Ricerche intorno alla «Lira» di G.B. Marino, Padova, Antenore, 1969, pp. 131-154. 8 Si dovrà tener conto che quella di cielo e terra costituisce una coppia antinomica che attraversa la Gerusalemme liberata, come ha ben dimostrato G. Baldassarri in Inferno e cielo. Tipologia e funzione del ‘meraviglioso’ nella «Liberata», Roma, Bulzoni, 1977. 9M.L. Doglio, Tasso o l’‘intelletto sempre luminoso…, cit., p. 91. Per il rapporto tra letteratura e pittura si vedano almeno R.W. Lee, Ut pictura poesis: la teoria umanistica della pittura, Firenze, Sansoni, 1974 e D. De Robertis, Ut pictura poesis: uno spiraglio sul mondo figurativo albertiano, Roma, Salerno, 1978. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 327 non coloro, ma il ver fingendo, vinse. Diede voce al colore e linee al canto e sito, e dié luce a l’orecchie, agli occhi udito. Nello spazio teatralizzato delle antitesi e anche delle sinestesie («luce a l’orecchie, agli occhi udito»), la morbida sensualità della poesia tassiana assumerebbe, nel giudizio di Guido Casoni, un valore formativo, di alto, vivido insegnamento alla virtù. Recita l’ode in morte di Tasso: Ei dolci insidie tese al senso; ma ingannando altamente insegnò; così facendo, involator cortese, le stupefatte menti, donò virtù di ricchi pregi ardenti. V’è di più. Nelle Ode troviamo pure un componimento sulle lagrime di Erminia, In solitario piano. Questa la didascalia dell’Ode: Erminia, figliuola del re d’Antiochia divenuta per lagrimosi accidenti di Reina serva, e di prigioniera amante, bramosa di medicare le ferite dell’amato Tancredi, per dare qualche rimedio alla sua piaga amorosa, veste l’armi di Clorinda, le quali le muovono contra l’armi nemiche, fugge ella, e si ricovera appresso un pastore, e di spoglie pastorali vestita, piange lungo il Giordano l’infelice suo stato: il qual pietoso successo è rappresentato dal Tasso nel suo poema Heroica, e ammirato dal signor Nicolò Sagredo Senatore Illustrissimo chiamato dalla sua virtù a’ i più eminenti gradi della sua Republica, il quale non sdegna tal’hora di raddolcire cure sì gravi con la soavità de’ frutti più eccellenti delle Muse, il cui desiderio (caro imperio all’Autore) fece che le lagrime di Erminia fossero espresse in questi versi.10 Oltre che nelle Ode, Casoni affronta questa temo in un’altra scrittura. Infatti «al travestimento di Erminia con le armi di Clorinda, alla sua fuga dagli inseguitori del campo cristiano, al soggiorno presso il pastore, segnato dalla sofferenza amorosa e dal pianto», Casoni dedica il distico finale dell’argo10G. Casoni, Ode, 1623, p. 40. Lo stesso componimento è a p. 64 della edizione del 1601 (1602). Su tale edizione si veda M. Corradini in Guido Casoni: un letterato veneto…, cit., pp. 201-229 e G. Zagonel, Le prime edizioni delle «Ode» di Guido Casoni, in «Il Flaminio. Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi», 1990, pp. 86-93. 328 Del nomar parean tutti contenti mento vi a commento della Gerusalemme liberata e tutta la prima metà del successivo argomento vii, «per un totale di sei versi consecutivi».11 Leggiamo gli argomenti di Casoni: S’arma, e da l’arrni per timor s’invola Nottuma Erminia innamorata e sola.12 Fugge la mesta Erminia; il caso è guida AI suo timor; poi da un pastore accolta Piange i suoi casi; indi la greggia guida Dogliosa ai paschi in rozze spoglie avvolta.13 Ha osservato persuasivamente Maria Teresa Girardi che nei due versi conclusivi dell’argomento di Casoni «oltre al notevole effetto ottenuto dalla protratta allitterazione e dal repentino movimento antitetico formato sul giuoco etimologico «s’arma e da l’armi… s’invola» – che sfrutta abilmente il sintagma tassiano «l’armi involate» riferito all’armatura di Clorinda sottratta da Erminia (Liberata, vi, 89) – è da segnalare l’autocitazione del verso «notturna, errante, innamorata e sola», proveniente con una piccola variante dall’ode In solitario piano che abbiamo già richiamato, dedicata al dolore di Erminia rifugiata presso il pastore, che piange il suo amore per Tancredi lungo le rive del Giordano».14 D’altra parte, questa ode «amplifica gli spunti offerti dal vii canto della Liberata, sia nell’introduttiva interpretazione pastorale che nel pianto di Erminia, accentuando il registro lirico elegiaco già presente nel modello e affidando a un andamento sostanzialmente antitetico l’espressione del conflitto tra desiderio e realtà che caratterizza più d’ogni altro il personaggio tassiano».15 Ora, è stato rilevato che la stessa idea della forma-ode rivela una precisa relazione intertestuale con la raccolta delle Ode di Bernardo Tasso del 1560, in cui Casoni, al pari di Bernardo Tasso, si pone come uno dei più autorevoli eredi della tradizione tassiana. Ma Corradini dimostra altresì che in più di un componimento della raccolta di Casoni agisce pure l’influenza di Torquato 11 Cfr. M.T. Girardi, Guido Casoni lettore di Tasso, in Guido Casoni: un letterato veneto…, cit., p. 129. 12G. Casoni, Canto vi, vv. 7-8. 13G. Casoni, Canto vii, vv. 1-4. 14M.T. Girardi, Guido Casoni lettore di Tasso, cit., p. 130. 15Ibidem. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 329 Tasso.16 Senonché, nelle Ode di Casoni «era la trasposizione lirica […] di un repertorio di situazioni sociali ben definite e […] annunciate dall’artista con una breve introduzione in prosa ai singoli componimenti che aveva la funzione di ribadire il nesso tra componimento e situazione […]. La dimensione semiotica della singola composizione […] non era però definita tanto dalla situazione che l’aveva provocata ma piuttosto dall’insistenza sul rapporto tra letterato e committenti […]. Era in questo rapporto che si giocava l’essenza della composizione stessa. […] il discorso lirico intendeva appartenere non all’autore né forse neanche al suo committente quanto al rapporto tra essi stabilito che era appunto il ‘bel’ rapporto di una comunità di nobili ingegni».17 Anche per queste ragioni è da riconoscere un rapporto importante tra le Ode e il Teatro poetico. Infatti, se il significato dell’Ode non era solo nel tema che essa esponeva, ma nel dare parola ad un pensiero che non apparteneva all’‘autore’ ma alla più o meno nobile ‘ragunanza’ nella quale questi intendeva identificarsi, bisogna dire che la tecnica del pensiero della comunità ma anche le arti di una cultura della memoria sono messe in atto da Casoni in modo ancora più esplicito ne Il teatro poetico. Il quale è costituito da una sequenza di brevi scritti, secondo uno schema che prevedeva un soggetto predicabile (Amorosi avvenimenti, Del fine infelice dei tiranni, Della ingratitudine, Dei padri che uccisero i figli, Dello amor maritale, Della fortezza, Celeste aiuto, Clemenza divina), una narrazione e poi una lirica sul tema: dunque una triplice versione che risentiva delle tecniche espositive adottate pure nelle dicerie sacre.18 Ritorniamo al componimento relativo alla vicenda di Erminia nel Teatro poetico: esso è costituito da una parte in prosa e una parte in versi. Il testo in prosa si incentra sulle terrene pene d’amore patite da Erminia in ragione del suo amore per Tancredi e sui dogliosi avvenimenti. 16Si veda in Guido Casoni: un letterato veneto…, cit., l’assai puntuale relazione di Corradini sulla raccolta delle Ode di Casoni. 17M. Rak, La maschera della fortuna. Lettura del Basile ‘toscano’, Napoli, Liguori, 1975, pp. 153-154. 18Ivi, p. 158. Si veda in proposito G. Pozzi, Introduzione a G.B. Marino, Dicerie sacre; e La strage de gl’innocenti, cit. 330 Del nomar parean tutti contenti Avendo dunque – questo il breve racconto – la misera Erminia perduto il padre, il suo Regno ricorse al vincitore Tancredi, il quale, magnanimo, con dono della libertà e delle spoglie reali del padre, le rubò con ignoto furto l’anima amante. Dunque un dono si risolve nel suo contrario: l’aver dato a piene mani da parte di Tancredi si risolve in una azione di spossessamento delle facoltà dell’anima di Erminia.19 Ne seguono alcuni paradossi: libera, Erminia piange il suo libero stato e si scopre bramosa «della primiera sua servitù» presso Tancredi. Quindi, nel solco della storia narrata nel poema tassiano, Erminia è rappresentata nella scena in cui cinge le armi di Clorinda, di notte, per correre a medicare le ferite di Tancredi, ed è messa in fuga dai nemici e si rifugia presso un pastore, divenendo custode delle sue greggi. In questo stato, Erminia accompagna il mormorio delle acque del Giordano con la lacrimosa espressione delle sue sciagure. È il ritratto della malinconia lacrimosa che si specchia nelle acque: un topos che si ritrova in Giambattista Basile, sodale di Casoni. Ne Lo cunto de li cunti, infatti, Zoza, dopo aver a lungo cercato il Principe di Camporotondo, che era sepolto in un sepolcro di marmo, finalmente scorse il sepolcro «a pie’ di una fontana, la quale, a causa di vedersi rinserrata in un carcere di porfido, piangeva lacrime di cristallo», e allora Zoza tolse l’anfora che era appesa a quel sepolcro e «recatasela fra le gambe, cominciò a rappresentare la commedia dei due simili, lei di sotto e la fontana di sopra, non levando mai il capo dalla bocca dell’anfora; sicché in men di due giorni era giunta a due dita sul collo dell’orlo, mancavano altre due dita e l’anfora sarebbe stata colma delle sue lacrime».20 Sul tema delle fontane, la lirica seicentesca ritorna con insistenza: ed è significativo che Casoni si rivolge, in una sua Ode, «al corso d’acqua e lo segue dall’istante in cui sgorga dal seno della montagna, attraverso il suo corso tortuoso, fino a quando viene imprigionato nelle tubazioni 19Cfr. J. Starobinski, A piene mani. Dono fastoso e dono perverso, trad. it. a cura di A. Perazzoli Tadini, Torino, Einaudi, 1994. 20 G.B. Basile, Il Pentamerone, trad. e introduzione di B. Croce, prefazione di I. Calvino, Bari, Laterza, 1974, vol. i, p. 7. Del rapporto tra Guido Casoni e Giambattista Basile si trova un cenno in B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1962 (ma 1911), p. 7; si vedano anche M. Rak, La maschera della fortuna …, cit., spec. le pp. 94-102, 146-147, 153-161, P. Guaragnella, Gli occhi della mente. Stili nel Seicento italiano, Bari, Palomar, 1998, e Tra antichi e moderni. Morale e retorica nel Seicento italiano, Lecce, Argo, 2003, pp. 206-207, 236-237, 245. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 331 per poi zampillare nella vasca».21 Come si può rilevare, analoga figura è riconoscibile ne Lo cunto de li cunti di Basile.22 Senonché nel Teatro poetico il giuoco delle antitesi prevede che l’insegnamento alla virtù – di matrice tassiana – possa trasformarsi nella rappresentazione del vizio abominevole. Una seconda scena del Teatro casoniano è infatti costituita dallo spettacolo Del fine infelice di tiranni. I lemmi e i sintagmi sono i seguenti: il tiranno rivela I. timore in se stesso II. odio in altrui III. e privo di consiglio IV. eccita gli animi alla vendetta V. l’infamia della vita del tiranno prepara la gloria di chi libera il mondo dalla tirannide VI. tragico è sempre il fine di colui che temendo è temuto. La scena tragica fa pensare al teatro gesuitico.23 Lo spettacolo è quello del male prodotto dalla tirannide di Ezzelino e Alberico di Romano. Nella parte finale della rubrica illustrativa è rappresentato il giuoco della fortuna, ovvero il passaggio dall’acme della potenza tirannica dei due fratelli alla improvvisa rovina e alla tragica fine. Questo il racconto: Erano [da questi due tiranni, Ezzelino e Alberico], gettati a terra gli edifici più ricchi e più superbi, e le torri emminenti adeguate al suolo, onde le misere città diformate, sotto mani sì spietate cadendo. Nel Teatro casoniano dall’immagine degli animi infernali dei tiranni in questo teatro dei vizi e delle crudeltà si passa poi alla rappresentazione della ingratitudine umana. Essa è una infezione della volontà, un’ombra dell’intel21Cfr. Marco Corradini, Le Ode di Guido Casoni, cit., p. 223. 22Cfr J. Rousset, La letteratura dell’età barocca in Francia: Circe e il pavone, trad. di L. Xella, Bologna, il Mulino, 1985, specie il capitolo L’acqua in movimento, oltre che il suo saggio Les eaux miroitantes, in «Cahiers du Centre International de synthese du Baroque», 1969, pp. 7-14. 23Cfr. il capitolo L. Strappini, Esercizi dello spirito. Qualche nota sul teatro dei Gesuiti tra fine Cinquecento e metà Seicento, in Ead., La tragedia del buffone. Percorsi del teatro comico e del tragico nel teatro del xvii secolo, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 97 e ss. 332 Del nomar parean tutti contenti letto, un velo della memoria, un veleno dei cuori. Ed è vero che «all’ingrato la grazia è malefica, la liberalità di colui che dona è tormento, e il dono stesso gli arreca col piacere la pena». Questa volta la tipologia del dono è simmetricamente rovesciata rispetto a quella che avevamo riconosciuto nel rapporto tra Tancredi ed Erminia. La conclusione ‘sentenziosa’ involge la terra, in quanto essa produce le fiere, le serpi e le erbe velenose e «non ha nel suo seno cosa peggiore dell’huomo ingrato». Vittima emblematica dell’ingratitudine è, nel Teatro poetico, un personaggio delle Vite di Plutarco, Focione. Si consideri il racconto di Plutarco: Ma i nemici di Focione, come se la loro vittoria mancasse ancora di qualche cosa, fecero decretare che anche il suo corpo fosse gettato fuori dei confini dell’Attica e che nessun Ateniese portasse fuoco sui suoi resti. E perciò non vi fu alcuno dei suoi amici che osasse toccarlo. Un certo Canopione, salito a compiere per denaro tale ufficio, trasportò fuori il cadavere, oltre Ellusina, e preso il fuoco in territorio megarese, lo bruciò. Una donna megarese, presente con le sue fantesche, formò un tumulo vuoto e vi versò le libagioni; poi messesi le ossa sotto le vesti, le portò a casa sua e le seppellì accanto al focolare, dicendo: «Caro amico, vicino a te seppellisco queste ossa di un uomo dabbene. Restituiscile tu ai sepolcri dei tuoi antenati, quando gli Ateniesi abbiano ritrovato la ragione».24 Della virtù di Focione pure Manso si ricorderà nella Vita di Tasso 25 e scriverà che l’animo «ben regolato» del poeta lo rese immune all’invidia e lo indusse a rifiutare «quasi altro Focione» i denari offertigli da Carlo ix durante il viaggio in Francia al seguito del cardinale d’Este.26 È da rilevare che nel Teatro poetico l’episodio di Focione deriva quasi letteralmente da Plutarco, ma la rappresentazione che Casoni dà dell’ingratitudine «sembra riprodurre il linguaggio del tragico cristiano nella versione gesuitica».27 24 Plutarco, Le vite parallele, trad. A. Ribera, Sansoni, Firenze 1974, vol. II, t. 1, p. 159. 25Si rinvia all’edizione a cura di B. Basile di G.B. Manso, Vita di Torquato Tasso, Roma, Salerno, 1995. 26M.L. Doglio, Origini e icone del mito di Torquato Tasso, cit., p. 101. 27Sulla fortuna di Plutarco nel Cinquecento si rinvia a L’eredità culturale di Plutarco dall’antichità al Rinascimento. Atti del vii Convegno plutarcheo (Milano-Gargnano, 28-30 maggio 1997), a c. di I. Gallo, Napoli, M. D’Auria, 1998 e P. Volpe Cacciatore, Fortuna e virtù in Plutarco e Tasso, in «Rinascimento», 2001, pp. 303-313. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 333 In questo senso tragico, proseguendo la rappresentazione dei vizi e delle crudeltà offerte dal Teatro poetico, il nostro occhio di spettatori ha modo di soffermarsi sui padri che uccisero i loro figliuoli. Qui è l’episodio di Virginia. Anch’esso dovrà essere collegato, secondo un giuoco di rapporti segreti, con il tema denominato Del fine infelice dei tiranni. Infatti, secondo la leggenda, durante la tirannia dei decemviri (v secolo a.C.), uno di questi, Appio Claudio, non essendo riuscito a sedurre Virginia, la fece dichiarare dal tribunale schiava di un suo cliente. Il padre di Virginia preferì uccidere la figlia anziché vederla disonorata: e il suo gesto disperato sollevò il furore del popolo, che rovesciò il governo decemvirale ricostituendo la repubblica. La leggenda, che risale agli annalisti romani e si può avvicinare a quella simile di Lucrezia, il cui affronto – vedremo più avanti – segnerà la fine della monarchia, sarà ripresa da Alfieri (1777) nella tragedia che porta il nome di Virginia. Seguiamo la narrazione che Tito Livio svolge della vicenda di Virginia e della sua acme: Il decemviro [Appio Claudio], accecato dalla libidine, disse che non soltanto dalle invettive scagliate il giorno innanzi da Icilio e dalla violenza di Virginio, di cui gli era testimonio il popolo romano, ma da altri sicuri indizi egli sapeva con certezza che per tutta la notte si erano tenuti nella città dei conciliaboli al fine di suscitare una sommossa; perciò, prevedendo quel conflitto, egli era sceso al Foro con degli uomini armati, non già per far violenza ai pacifici cittadini, ma per frenare i perturbatori della quiete pubblica, conforme all’autorità che la sua carica gli conferiva. […] Allora Virginio, quando vide che da nessuna parte gli veniva un aiuto: «Di grazia, Appio» disse «compatisci innanzi tutto il dolore d’un padre, se ho in qualche modo troppo duramente inveito contro di te; consenti poi che qui, in presenza della fanciulla, io chieda alla sua nutrice come stanno le cose, di modo che, se a torto mi considera suo padre, io me ne vada di qui più rassegnato.» Avutone il permesso, conduce la figlia e la nutrice verso il tempio della dea Cloacina […] e là, strappato un coltello a un macellaio: «Figlia mia» grida «con l’unico mezzo che mi è consentito io ti restituisco la libertà!». Indi trafigge il petto della fanciulla e, volto verso il tribunale: «Con questo sangue» esclama «io consacro te, Appio, e il tuo capo agli dei infernali!».28 Anche Machiavelli si era soffermato sulla sorte di Virginia nei Discorsi su Livio, ponendo l’accento maggiormente sul dato politico dell’episodio – 28T. Livio, Ab urbe condita, libro iii, 44 sgg., trad. it. M. Scandola, Milano, Mondadori, 2000, pp. 114-115. 334 Del nomar parean tutti contenti «una moltitudine sanza capo è inutile: e come e’ non si debbe minacciare prima, e poi chiedere l’autorità» –:29 Deliberossi dunque la guerra uscissi fuori con dua eserciti guidati da parte di detti Dieci, Appio rimase a governare la città. Donde nacque che si innamorò di Virginia, e che, volendola torre per forza, il padre Virginio, per liberarla, l’ammazzò: donde seguirono i tumulti di Roma e degli eserciti: i quali riduttisi insieme con il rimanente della plebe romana, se ne andarono nel Monte Sacro, dove stettero tanto che i Dieci deposono il magistrato, e che furono creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta Roma nella forma della sua antica libertà.30 Recita, intanto, la rubrica del Teatro poetico: il padre [Virginio, valoroso soldato] su gli occhi libidinosi del tiranno, consacrando all’onore il sangue innocente della figliuola, con un coltello le trafisse il petto, cadendo ella morta per mano di chi le diede la vita, nel feretro delle braccia paterne, che già gli furono culla dolce, e soave.31 La teatralità della operetta di Casoni comporta, come si sarà intuito, che agiscano nel testo passaggi ad effetto: dalla rappresentazione della virtù a quella antitetica del vizio e della crudeltà, affinché, quando si raggiunga il livello basso e degradato della cattiva condizione umana, si possa risalire e rivedere la luce della virtù. Dopo la scena cruenta dei padri che uccisero i figli, è dato seguire quella più edificante dell’amore per il proprio coniuge. Il primo personaggio che incontriamo è quello di Artemisia. Casoni vi aveva dedicato qualche attenzione ne La magia d’amore. Recitava il signor Giovanni Minucci ne La magia d’amore, facendo riferimento agli amanti divini e amanti umani: Amante umana fu […]Artemisia, che fece di se stessa glorioso sepolcro alle ceneri del men diletto che sospirato marito.32 29Del rapporto controverso di Casoni con il pensiero di Machiavelli sono testimonianza gli Emblemi politici, Venezia, Baglioni, 1632. 30Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, lib. i, cap. 40. Cfr. F. Fedi, Personaggi e paradossi nei discorsi machiavelliani: il caso di Virginia e Appio Claudio, in «Lettere italiane», 1998, pp. 495-505. 31G. Casoni, Teatro poetico, 1626, p. 201. 32G. Casoni, La magia d’amore, cit., p. 31. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 335 Artemisia è un personaggio che frequentemente ricorre nelle opere della letteratura cinquecentesca. Si ponga mente all’ammirazione, espressa ancora da Tasso in una delle sue lettere, per l’amore coniugale di cui Artemisia è un caso esemplare: «Artemisia fece sepolcro del petto, assai più maraviglioso che ’l mausoleo che fu una de le maraviglie del mondo». Anche Tomaso Garzoni fa riferimento al mito di Artemisia: Con sì fatte menzogne van meschiando gli edifici terribili e maravigliosi che nel lor peregrinaggio han discoperti, come l’obelisco di Ramise, re di Egitto, fabricato da vinti mila uomini; il laberinto di Dedalo in Creta, tenuto per inestricabile; il circo di Giulio Cesare, lungo tre stadi grossi; l’anfiteatro pompeiano, che capiva quaranta mila uomini; le muraglie di Troia, che furono nel circuito quaranta mila passi; il colosso di Rodi, posto fra’ primi miracoli del mondo; il mausoleo d’Artemisia, regina de’ Cari, opera superbissima fra tutte l’altre […].33 Ora, il secondo esempio emblematico dell’amore coniugale è offerto dalle vicende di Dario, il re dei Persiani sconfitto da Alessandro Magno. Casoni dapprima riprende qui puntualmente il racconto della fine di Dario. Questo il racconto di Plutarco nella Vita di Alessandro Magno: [Dario] fu rinvenuto [da Alessandro e dai suoi] dopo faticose ricerche, col corpo tutto trafitto da ferite, giacente su un carro e in punto di morte. In tale stato chiese di bere e quando ebbe bevuto dell’acqua fresca disse a Polistrato che gliel’avrebbe porta: «Il colmo di ogni mia sventura, Polistrato, è quello di non poter ricompensare la cortesia che mi hai fatta. Te la ricompensi Alessandro: ed egli stesso poi sia ricompensato dagli dei di quella umanità che usa verso mia madre, mia moglie e i figli miei. A questo Alessandro, per mezzo tuo, io stringo la destra». Dette queste parole e stretta la mano di Polistrato, spirò.34 Morte eroica, dunque, quella di Dario. Ma il suo valore non gli aveva impedito, precedentemente, di piangere l’unica volta nella sua vita, alla notizia della morte della moglie, prigioniera di Alessandro. Scrive, infatti, Casoni: e pure animo così grande, e cuore sì costante non potè negare nella piena del doloroso suo affetto le lagrime e gli occhi mentre [intese] dallo schiavo Tireo la morte della moglie Statira. 33T. Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, a c. di P. Cerchi e B. Collina, Torino, Einaudi, 1996, p. 1048. 34Plutarco, Vita di Alessandro Magno, in Le vite parallele, cit., vol. ii, t. i, p. 44. 336 Del nomar parean tutti contenti Verrebbe fatto di pensare a una consolatio contenuta in una lettera di Tasso tutta incentrata sulle lacrime: «Ma forse egli [il pianto] è come il dolore: perché fatto per onesta cagione e per affetto umano è lodevole ne la sua mediocrità. Ma vogliamo noi annoverare gli eroi e i re e i capitani grandissimi, che hanno accresciuta quasi dignità e riputazione al pianto ed a le lagrime?».35 Seguiamo, di contro, la narrazione plutarchea a proposito di Dario: Uno degli eunuchi adibito al servizio di camera, fatto prigioniero insieme alle donne e chiamato Tireo, fuggito dal campo si portò di gran carriera da Dario e gli annunciò la morte della moglie. Dario, percuotendosi e piangendo dirottamente, diceva: «Triste destino dei Persiani, se colei che era sorella e moglie del re non solo è stata prigioniera da viva, ma anche dopo morta deve essere privata di funerali regali». L’eunuco allora disse: «Per ciò che riguarda le esequie, o re, non puoi lagnarti del destino dei Persiani, perché ella fu trattata con decoro e con onore. Né alla padrona Statira, finché visse, né a tua madre, né ad alcuno dei tuoi figli è mancata una sola delle cose che erano abituati ad avere, tranne la facoltà di vedere la tua luce […]» Quando Dario udì tali cose, per la gelosia dalla quale era accecato, cominciò a formulare sospetti inopportuni e sconvenienti, e portatosi l’eunuco in un angolo nascosto della tenda, gli disse: «[…] dimmi con rispetto al gran dio Mitra e a questa mia mano regale: debbo io piangere la morte di Statira come il minore dei mali accadutimi? […]» Mentre Dario parlava, Tireo gli si prostrò ai piedi e lo pregò di cambiare linguaggio per non fare ingiuria ad Alessandro e non infamare sua moglie e sua sorella, né privare se stesso di una grandissima consolazione tra tante sventure, consistente nel credere di essere stato vinto da un personaggio molto superiore alla natura umana. […] Dario, tornato in mezzo ai suoi amici e con le braccia in alto, pregò in questo modo: «O dei, vincendo io posso compensare Alessandro dei favori largiti dopo le sconfitte a me e ai miei cari […]».36 Si noti che in Plutarco c’è una successione di stati d’animo: il pianto di Daria, la replica di Tireo, l’ira di Daria, la nuova replica di Tireo, l’ammirazione di Daria per Alessandro. Nella narrazione di Casoni queste successioni scompaiono. 35T. Tasso, Lettera a Dorotea Geremia negli Albizi, 1587, in Lettere, cit., tomo ii, pp. 288-289. 36Plutarco, Alessandro, vol. ii, t. i, pp. 30-31. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 337 D’animo grande e di cuore costante, scrive Casoni a proposito di Dario. Nella scala meditationis del Teatro poetico si risale lentamente alla contemplazione della virtù, – e qui abbiamo modo di assistere agli effetti della fortezza. Recita la lunga – com’è abituale nei componimenti del Casoni – didascalia del Teatro poetico: La fortezza, virtù dell’animo nostro, modera il timore, e abbellisce la morte, e per alto, e onorato oggetto ci mostra, che se la privazione dei beni, secondo il Peripatetico, rende odiosa la vita, e l’accrescimento de’ mali con l’opinione degli Stoici, ci fa core la morte: E se la vita mortale ha quella relazione all’eternità, ch’ha il punto alla linea [il senso del limite], e ’l termine all’infinito, deve l’uomo più forte amare più l’onesto, che temere il pericolo, e abbandonare più tosto la vita, che la virtù, stimando felice quel fine, che rende infinita la felicità, e vivace [che dà vita] quella morte, che da vita alla gloria.37 Il personaggio emblematico della virtù della fortezza è Lucrezia, eroina romana che provocò la caduta dei Tarquini e della monarchia. Leggiamo intanto nel Teatro poetico: Tarquinio da Lucrezia cortesemente ospitato penetrò nel silenzio della notte al suo letto, e tentò, ma invano, di refrigerare le sue fiamme amorose: ma vide neglette le sue lusinghe e sprezzato da lei il timore della morte. Poi, quella castissima Donna, con animo non meno innocente, che forte, spiegate le sue sventure al padre, allo sposo e a’ parenti, co ’l ferro, che nascosto teneva, macchiando le vive nevi del pudico suo petto, l’addolorato cuore trafisse. Onde da sì lacrimoso accidente commossi e da Bruto eccitati li Romani, scacciato il tiranno di Roma, assignarono alla virtù di Lucrezia la prima cagione di tanto bene.38 Casoni dipende qui dal racconto della storico Tito Livio 39 e teatralizza con pochi, rapidi tratti il suicidio di Lucrezia, la quale estrae il pugnale che tiene nascosto tra le vesti. Recita Lucrezia nel Teatro poetico: Errai ma senza colpa, apersi in tanto Non con la lingua, ma co ’l ferro il core, 37G. Casoni, Teatro poetico, cit., p. 209. 38G. Casoni, Teatro poetico, cit., p. 212 (nostri i corsivi). 39G. Billanovich, M. Ferraris, P. Sambin, Per la fortuna di Tito Livio nel Rinascimento italiano, «Italia medievale e umanistica», 1958, pp. 245-281. 338 Del nomar parean tutti contenti E l’innocenza mia su ’l petto esangue Descriva i falli altrui co ’l proprio sangue. Con la lingua di ghiaccio il mio gran duolo Narri la morte; e emula infelice De la fama sen’ voli, e nel suo volo Spieghi l’ardor de la tua furia ultrice, Scelerato amatore, ardesti solo Tra gl’incendi inonesti empia fenice T’accolsi lieta e ti scacciai tremante, Ospite amico, e odiato amante.40 Anche in questo caso il modello è costituito da Livio. Si legga la narrazione di Tito Livio: Mentre la donna [Lucrezia], svegliatasi di soprassalto, non vedeva alcuna possibilità d’aiuto e sentiva pendere sul suo capo la morte, Tarquinio le confessava il suo amore, la supplicava, alle preghiere univa le minacce, tentava in mille modi l’animo di lei. Quando vide ch’era irremovibile e che non si lasciava piegare nemmeno dalla paura della morte, aggiunse a questa paura anche quella del disonore: […] Dopo che la libidine ebbe con questo terrore riportato quasi a forza una trionfale vittoria sull’indomabile pudicizia, e dopo che Tarquinio se ne fu andato, tutto fiero d’aver espugnato l’onore della donna, Lucrezia, afflitta da sì grande sventura, mandò aRoma dal padre e ad Ardea dal marito uno stesso messaggero […] All’arrivo dei suoi scoppiò in lacrime, e al marito che le chiedeva «Stai bene?» «Per niente» rispose «che cosa vi può essere di bene per una donna quando abbia perduto l’onore? […] Ma stringetevi le destre e promettete che l’adultero non rimarrà impunito; è Sesto Tarquinio, che la scorsa notte, nemico in sembianze d’ospite, con la forza e con le armi s’è preso un piacere funesto a me e a lui, se voi siete uomini. […] Vedrete voi» ella disse «quale pena egli meriti; quanto a me, benché io mi assolva dalla colpa, non mi sottraggo al castigo; d’ora in poi nessuna donna, prendendo esempio da Lucrezia, vivrà impudica». Ciò detto s’immerse nel cuore un coltello che teneva nascosto sotto la veste, e cade morente piegandosi sulla ferita. Il marito e il padre prorompono in alte grida.41 Lucrezia sceglie, nella narrazione liviana, che Casoni segue fedelmente, non già l’impiccagione, la quale, «se pure annoverava molteplici esempi riferiti alla tipologia delle ‘morti femminili’, richiamava in particolare la sfera 40 G. Casoni, Teatro poetico, cit., p. 213. 41T. Livio, Ab urbe condita, cit., pp. 362-363. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 339 del disonore», ma anzi «il mezzo più eroico e che connota più ‘virilmente’ l’atto di rinuncia alla vita: un’arma che le apra una ferita mortale nel corpo così che ne veda scorrere – vittima sacrificale – copioso il sangue», con un «rito insieme catartico e propiziatorio» per il giuramento, fatto dai presenti, «che determinerà le sorti future di Roma».42 Inoltre, questa soluzione, «che nobilita e purifica», si realizza «secondo una gestualità precisa e densa di significati: Lucrezia non ‘si getta sulla spada’, ma il suo braccio che cerca fra le pieghe della veste l’arma nascosta e poi vibra il colpo sul proprio corpo, riproduce, simbolo mimetico, il canone classico dell’attentato al tiranno, e mentre la donna toglie a sé la vita, infligge al regime di Tarquinio una ferita altrettanto mortale».43 In Livio, dunque, si sommuovono tipologie teatrali che Casoni riprende con sapienza. Altro aspetto da rilevare, nella vicenda di Lucrezia, è il bisogno della donna di rivelare al nucleo familiare lo svolgimento dell’aggressione subita, «per testimoniare la verità e strappare una promessa di vendetta, richiamando i congiunti al proprio dovere». Con questo gesto, che è insieme «Una confessione» e «Un appello», alla donna, «che pure è vittima principe e protagonista dell’intera vicenda» viene ‘consentito’ di intervenire, dato rilevante in una cultura in cui «l’eloquio femminile era ritenuto un’inutile manifestazione di vacuità». Si ponga mente, ad esempio, alla frase di Aiace nell’omonima tragedia sofoclea, quando il protagonista sostiene che «alla donna il silenzio arreca decoro», o ancora alla considerazione di Aristotele, secondo cui «sembrerebbe sconvenientemente ciarliera una donna che ‘pure fosse riservata nel suo parlare’».44 In Casoni è da riconoscere un rapporto sapiente con l’archetipo antico: e agisce una idea complessa e ambigua della femminilità, in cui si sommuove l’eros e il rimorso. Non per nulla, nel Teatro si ripete uno schema già presente nella Magia d’amore, che prende le mosse dalla dimensione del profano per arrivare al sacro. In questo senso, nel Teatro la rappresentazione delle virtù o dei vizi umani volge all’epilogo secondo uno schema in cui il memorabile della storia, della leggenda e delle favole è stato riconosciuto rappresentabile nella forma 42 Sul ruolo del pugnale e della spada si rinvia a G. Benzoni, I ‘frutti dell’armi’: volti e risvolti della guerra del ’600 in Italia, Ventimiglia, Philobiblon, 2004. 43 C. Petrocelli, La stola e il silenzio. Sulla condizione femminile nel mondo romano, Palermo, Sellerio, 1989, pp. 40-41. 44 Ivi, pp. 44-45. 340 Del nomar parean tutti contenti ‘scenica’. Ma l’ultimo passaggio è costituito dalla rappresentazione dell’amore sacro, ovvero del pianto dell’anima devota davanti alla Croce. Questo l’incipit de La Croce: Piango o legno mortifero in te morto Chi mi dà vita, o pianta al pianto nata, Che ne’ tormenti altrui porgi conforto Croce di cruccio, e or Croce adorata. In questo componimento è da riconoscere la procedura degli Esercizi ignaziani, ove una esasperata disciplina del vedere si concentra sulle scene del dolore, della sofferenza e del sangue di Cristo, inducendo per questa via l’ascesi. Si tratta di un metodo – etimologicamente, via – che, quanto più teatralizza il dolore e la sofferenza, tanto più aiuta l’esercitante a internarsi nei recessi della propria anima: a immaginare, con gli occhi della mente, i luoghi e le forme del patire di Cristo. Agisce qui il metodo ignaziano della «costituzione dell’oggetto», la Croce, e della «composizione del luogo», la visione del Golgota.45 Non si dimentichi che Casoni è autore di un’operetta intitolata Ragionamenti interni, fondata sulla procedura ignaziana.46 «Piango, o legno mortifero». Le forme di questo discorso sono da individuare in analoghe prove di Tansillo (Le lagrime di San Pietro), di Tasso (Le lagrime della Beata Vergine e Le lagrime di Cristo), «modelli scoperti e certamente non sconosciuti a Casoni in quanto anch’essi legati […] a quella tematica che vedeva nel pianto il luogo privilegiato ed ideale della predicazione affettiva a carattere spirituale».47 Da un lato, dunque, il pianto, le lacrime, dall’altro i modelli che, a partire dalle Rime spirituali del Fiamma,48 attraverso i Pietosi affetti del Grillo 49 e gli stessi apparati del Casoni, «offrivano 45 Cfr. I. di Loyola, Esercizi spirituali, con un saggio di R. Barthes, traduzione di M. J. Severi, note a c. di G. De Gennaro, Milano, Tea, 1988. 46 Rinvio a P. Guaragnella, Gli occhi della mente. Guido Casoni e la cultura della memoria, in Gli occhi della mente. Stili nel Seicento italiano, cit., pp. 123-182. 47 M. Rak, La maschera della fortuna, cit., pp. 131. 48 Si vedano C. Ossola, Il queto travaglio di Gabriele Fiamma, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, a cura di W. Binni, Roma, Bulzoni, 1979, iii, pp. 239-286 e C. Leri, Esercizi metrici sui «Salmi»: la poesia di Gabriele Fiamma, in Scrittura religiosa. Forme letterarie dal Trecento al Cinquecento, a c. di M.L. Doglio e C. Delcorno, il Mulino, Bologna, 2003, pp. 127- 159, e, degli stessi curatori, Rime sacre dal Petrarca al Tasso, il Mulino, Bologna, 2005. 49 Su Angelo Grillo si vedano E. Durante, A. Martellotti, Don Angelo Grillo O. S. B. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 341 quell’insieme mistico e figurale che aveva individuato nei vari momenti della vita di Cristo e negli strumenti della passione alcuni dei luoghi più alti della predicabilità spirituale».50 Leggiamo, non per caso, ne La passione di Cristo, carme figurato di Casoni: Alma pietosa lagrimando mira L’alta Pieta dal Ciel discesa Da empietà terrena offesa…51 Pieta dal Cielo discesa offesa da empietà terrena. Il discorso del Teatro poetico si apre con una scena di amore terreno in cui al centro sono le pene e le lacrime di Erminia innamorata di Tancredi. Si svolge nel segno della empietà, ovvero della passione che fa contrasto con amore, l’odio, vizio pestifero e ‘infernale’, peculiare dei tiranni. Investe il tema dell’ingratitudine nella vicenda di Focione, personaggio di virtù plutarchea. Investe poi il tema dell’odio dei padri per i figli, con l’esito tragico dell’uccisione dei figli. Risale alle virtù di Virginia, e di Artemisia, e poi di Dario che piange la morte della moglie e muore con grande dignità. Trascorre all’argomento de La fortezza, con la rappresentazione di Lucrezia romana. Risale – e questa volta definitivamente – ai soggetti del ‘celeste aiuto’, della ‘croce’, della ‘clemenza divina’. A ben considerare, il ‘teatro’ è costituito dal contrasto tra la terra – con un corredo di ‘luoghi’ infernali – e il cielo. Un discorso sul cielo. Ha osservato Zanette sul Divin Verbo che «il nec plus ultra del genere, sempre in soggetto religioso» è da ricercarsi, fuori dalle Ode, proprio nel Teatro poetico, in cui «l’ultimo componimento è una lezione di dogmatica sul Divin Verbo impartita al poeta dalla stessa Maria Vergine». Si tratta di sette ottave «tutte rimate con le due sole parole ‘terra’ e ‘cielo’, e interamente imperniate sull’antitesi dei due relativi concetti», che procede in forma di dialogo.52 Seguiamo il passo casoniano che potrebbe esemplificare quanto rilevato da Zanette: alias Livio Celiano. Poeta per musica del secolo decimosesto, Firenze, Studio per edizioni scelte, 1989 e M. Corradini, Genova e il barocco: studi su Angelo Grillo, Ansaldo Ceba, Anton Giulio Brignole Sale, Milano, Vita e Pensiero, 1994. 50S. Ussia, Il sacro Parnaso. Il Lauro e la Croce, Catanzaro, Pullano, 1993, p. 141 e, dello stesso autore, Le Muse sacre: poesia religiosa dei secoli 16 e 17, Borgomanero, Fondazione Achille Marazza, 1999. 51Nostri i corsivi. 52E. Zanette, Una figura del secentismo veneto: Guido Casoni, Bologna, Zanichelli, 1933. 342 Del nomar parean tutti contenti No, chi è nel fieno? Egli è la terra in Cielo. Quel pargoletto adunque è Cielo, e terra? È pargoletto in terra, immenso in cielo, E nel mio sen, ch’è quasi un Ciel di terra, Amor congiunse in lui col Ciel la Terra. Ha scritto padre Pozzi che l’opposizione «fra unità e sdoppiamento, fra identificazione e opposizione, che costituisce il nodo teorico del tema trattato, e incarnato negli accorgimenti» quali la rima costituita dalla stessa parola, che tuttavia acquisisce di volta in volta significati opposti, l’eco «che ancora offre sotto apparenze foniche uguali sensi diversi», o ancora «l’accoppiamento a fine di verso di ambedue le parole-rima».53 Pozzi continua rilevando che «gli ossimori crescono col procedere del componimento trovando sempre nuovi agganci nei termini del mistero, in un inesauribile gioco di rifrazioni, degno dell’eloquenza patristica e dell’innografia bizantina»: Ei non partì giamai dal padre in Cielo, E pur discese a la sua man in terra, Dal padre suo, ch’ha senza madre in Cielo, Com’ ha la madre senza padre in terra; Il padre è incorrottibile nel Cielo, Vergine intatta è la sua madre in terra. Io madre, ei sposo; io sposa, ei padre è in Cielo Di me, che terra ho partorito ho il Cielo Si noterà che la compresenza «platonica» del bene e del male «all’interno del microcosmo del Teatro poetico è intesa coerentemente dal Casoni (in nome di una comune dignità poetica, di una comune ‘dicibilità’) nel senso di uno scavo di uguale profondità nelle ‘storie’ che si sviluppano, nello spessore globale del racconto, entro i due settori antitetici del bene e del male; l’unico punto di incontro fra questi due poli «giace totalmente sul piano dell’arte poetica e della poesia». La fiducia «umanistica» di Casoni «nelle ragioni della poesia e nella capacità di questa di ‘dire’ totalmente il reale, o almeno il reale umano» non implica, «sul piano della rappresentazione, nessuna confusione tra le due facce dell’umanità chiamate in causa, e proprio per la presenza, fra le due dimensioni, di una discriminante di ordine metafisico e religioso». Opportunamente padre Pozzi ha osservato che «pochi sono i poeti 53G. Pozzi, La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981, p. 210. P. Guaragnella Inferno e cielo nel «Teatro poetico» di Guido Casoni 343 italiani che sappiano, come sa il Casoni, esprimere l’esperienza religiosa sul registro dell’espressione negativa», sebbene egli «stemperi l’ardimento con le vaghezze e i vezzi d’un linguaggio che accomuna ai languori pietistici d’un Grillo le sirene patetiche e oscure di Tasso».54 Resterebbe a questo punto da ridimensionare definitivamente l’osservazione di Zanette, secondo cui il secentismo di Casoni, «come stato d’animo antipoetico», risulta prevalente nei componimenti di carattere sacro: «egli, cattolico fervente, non sentiva nei suoi versi quei soggetti, non vi trovava alcuno stimolo a immagini e ad emozioni liriche, sicché si rivela assai più sensibile, e dovrebbe giudicarsi più sincero credente e più divoto di lui lo scapestrato Marino che disse in belle strofe le lodi di Maria».55 Studiando il primo dei Ragionamenti interni di Casoni, ho avuto modo di rilevare il senso della teatralità e di una religiosità, a un tempo, assai intensa. Per questa ragione, a conclusione di una disamina pure veloce del Teatro poetico, si potrebbero richiamare le parole che un attento osservatore usava per spiegare le procedure del più importante cultore di arte della memoria del Cinquecento, Giulio Camillo, autore – abbiamo visto – di un’operetta intitolata Idea del teatro. Scriveva quell’osservatore: «Pretende che tutte le cose che la mente umana può concepire», l’ingratitudine, la fortezza, la clemenza divina, «e che noi non possiamo concepire con l’occhio corporeo, possono tuttavia, dopo essere state raccolte con attenta meditazione, essere espresse mediante certi simboli corporei in modo tale che l’osservatore può percepire […] tutto ciò che altrimenti è celato nelle profondità della mente umana». Noi potremmo aggiungere e concludere: «E appunto a causa di questa percezione corporea» dell’ingratitudine, della fortezza e della clemenza divina, Guido Casoni – al pari di Giulio Camillo –56 denominava tutto questo Teatro poetico. Università degli Studi “Aldo Moro” - Bari 54G. Pozzi, La parola dipinta, cit., p. 208. 55E. Zanette, Una figura del secentismo veneto, cit., pp. 142-143. 56Cfr. il saggio di C. Bologna, Esercizi di memoria Dal «teatro della sapientia» di Giulio Camillo agli «Esercizi spirituali» di Ignazio di Loyola, in La cultura della memoria, a c. di L. Bolzoni e P. Corsi, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 169-222. Domenico Giorgio LE «CONFESSIONI DI ELEUTERIO DULARETE» DI CARLO DE’ DOTTORI 1. Il celebrato autore dell’Aristodemo componeva, verso la fine degli anni Settanta del Seicento, un’operetta singolare di ambito confessionale e devozionale, riutilizzando lo pseudonimo di Eleuterio Dularete, già apparso nel 1671 nella tragedia in prosa, Bianca de’ Rossi, rappresentata in casa del Capitano di Padova, Girolamo Gradenigo, e in seguito vietata dalla curia vescovile; nel dramma a sfondo storico locale, il bieco e cupo personaggio del feroce tiranno rappresentato da Ezzelino da Romano gridava imperiosamente «io posso ciò ch’io voglio!», per ben testimoniare la propria inesauribile volontà di potenza come pure la inesorabile perdita di qualsiasi forma di pietà, disprezzando ogni possibilità di riscatto o di perdono. Un personaggio secondario nel teatro del letterato padovano – forse mutuato dalla tradizionale immagine dal gusto senechiano che in passato un altro padovano, Albertino Mussato, aveva affidato al tempo, svelando le mostruosità di un tiranno che aveva osato cancellare ogni regola divina e umana – ma, accanto allo stesso Aristodemo, altro monstrum del potere, pervaso di inconciliabili passioni, sembrava essere il modello da contrapporre palesemente a quello che il Dottori ha voluto dare di sé nelle sue Confessioni, verso al fine della sua vita, là dove gli sembrava necessario imprimere una doverosa «conversione» non solo alla propria esistenza, ma a una collettività nella quale forse non poteva né doveva più riconoscersi. Una confessione, insomma, in apparenza del tutto privata, in realtà fortemente polemica nei confronti della civiltà del presente, colpevole nell’aver smarrito gli antichi e profondi valori della cristianità e dunque votata necessariamente al disfacimento e alla perdita della salvezza. Che il parlare di sé abbia assunto nell’Italia del Seicento forme le più disparate e dissimulatorie, lontane quindi dalla esuberante esibizione della propria individualità, come era accaduto nel secolo precedente, è cosa nota; la pur notevole presenza di lettere, memorie, diari, biografie intellettuali o encomiastiche esclude spesso l’intimo e il privato e la stessa celebre Vita di Chiabrera scarseggia di dati personali, preoccupandosi solo di porre se stessa D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 345 come esemplare modello atta celebrare il brillante operato di un letterato ammirato e innovatore, tanto che l’autore non può trattenersi dal definirsi un nuovo Colombo delle patrie lettere o di trascrivere, alla fine della sua breve autobiografia, una epigrafe in versi latini fatta comporre da un suo illustre mecenate, Pier Giuseppe Giustiniani, sopra la porta della camera dove egli stesso alloggiava come ospite, e che recitava:«Intus agit Gabriel, sacram ne rumpe quietem,/dum strepis, ah periit, nil minus Iliade».1 Tralasciando ovviamente l’autobiografia che Campanella dettò in carcere a Gabriel Naudé andata sfortunatamente perduta, e le famose e intense liriche dal doloroso tema carcerario che tanta fortuna avrà nei memoriali posteriori, il filosofo calabrese si limitò, nel suo De libris propriis et recta ratione studendi syntagma (pubblicato postumo nel ’42), a elencare nella prima parte letture e libri da lui composti e a presentare una sorta di discorso sul suo metodo di indagine speculativa nella seconda, come un tópos ben collaudato aveva già dimostrato – e M. Bachtin lo ha messo in risalto –2 che una elencazione ragionata sui propri scritti rivela comunque «una sorta di autocoscienza pubblica dinanzi alla cerchia dei lettori, utile a intendere la cronologia di un’esistenza laboriosa»,3 nonché il proprio percorso intellettuale proteso alla verità filosofica. Pur originali e bizzarre come il suo autore, le due autobiografie 4 del frate perugino dell’ordine degli Olivetani, Secondo Lancellotti, una in prosa e l’altra in ottave e scritte in terza persona intorno al 1640, non sono convincenti per l’eccesso di stereotipi atti a gratificare esclusivamente la propria esistenza di errabondo e di perseguitato. Le cospicue raccolte di lettere di scrittori, poeti e trattatisti contribuiscono a tracciare rilevanti profili autobiografici dei loro autori: si pensi allo 1 Gabriello Chiabrera, Vita di Gabriello Chiabrera scritta da lui medesimo, Introduzione di F. Croce, «Quaderni di cultura scolastica», a c. del liceo classico «G. Chiabrera» Savona, 1988, p. 26. L’epigrafe ricorda il verso properziano, Nescio quid maius nascitur Iliade (Elegie, ii, xxxiv, 66), in cui si annuncia la nascita dell’Eneide di Virgilio. 2Cfr. Michail Batchin, Estetica e romanzo [1975], a c. di C. Strada Janovi�������������� č,������������ Torino, Einaudi, 1978, pp. 286-287. 3 Andrea Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, il Mulino, 1990, p. 32. 4Cfr. Secondo Lancellotti, Vita in prosa e in versi, a c. di M. Savini, Roma, Silva, 1971 (La vita in prosa ha come titolo Della vita del Lancellotti a niun fra’ suoi d’avversità Secondo; quella in versi è di 84 ottave; cfr. Marta Savini, A proposito di alcuni inediti di Secondo Lancellotti, «Lettere italiane», 1971, pp. 85-111). 346 Del nomar parean tutti contenti stesso Dottori, di cui si parlerà in seguito, e alle più note lettere del Cavalier Marino, in cui aspetti della vita personale, dipinti ora con amarezza ora con gusto tendente al burlesco, sono comunque vincolati a sapienti orditure retoriche abilmente costruite in funzione dell’illustre destinatario, che spesso risulta essere il vero, seppur indiretto, ‘artefice’ della lettera, per il potere o la fama di cui è provvisto e dal quale dipende lo stesso mittente nel momento in cui la lettera viene composta.5 Sono comunque le Memorie che dominano, per schemi già collaudati, il panorama della scrittura autoreferenziale, ma sempre proiettate verso il pubblico, in un contesto sociale che vede accrescere la invadente importanza dei comportamenti all’interno del vivere sociale e la loro conseguente e doverosa approvazione, in modo che l’onore della persona possa conservarsi o difendersi, di fronte alle continue minacce che proprio dalla vita pubblica, ancor più se di corte o militare, provengono. La difesa dell’onore può anche arrivare al duello – argomento questo che, come si vedrà, sarà molto a cuore allo stesso Dottori – o alla sua pericolosa partecipazione, oppure a forme di vendetta o di risse, di cui il Cavalier Marino era un noto conoscitore. Già Cardano, nella sua autobiografia e ancor più nel Prosseneta, aveva fatto intendere, anticipando i tempi, come la nuova visione della tematica dell’onore si fosse allontanata dai rigorosi schemi precedenti, per cui i rischi di perdere la propria onorabilità, per invidia o gelosie provenienti non solo dalla corte ma dai rapporti familiari, persino dalla servitù o dai vicini di casa, erano fortemente aumentati; dunque, godere della stima altrui risultava essere indispensabile nel vorticoso gioco relazionale tra identità personale e ruolo sociale.6 Quando si scrivono delle memorie ci si sottopone comunque a un giudizio pubblico, che poi spesso si concreta in un destinatario magari privilegiato e circoscritto, e la doverosa cautela va a coniugarsi con le codificate regole del genere memorialistico. Emblematico in questo caso le Memorie militari del condottiero Raimondo Montecuccoli che, pur non avendo un destinatario visibile, si rivolgono comunque all’Imperatore Ferdinando d’Asburgo, per dimostrare la lealtà del loro autore nei confronti dell’Impero e soprattutto per reclamare «al tribu5Cfr. Jeannine Basso, L’epistolario stampato e l’autobiografia nel Cinquecento e Seicento, «Quaderni di retorica e poetica», n. monografico L’autobiografia. Il vissuto e il narrato, 1986, pp. 67-72; in particolare su Marino, Marziano Guglielminetti, L’autoritratto del Marino, in Tecnica e invenzione nell’opera di Giovan Battista Marino, Messina-Firenze, D’Anna, 1964, pp. 9-49. 6 Rimando al mio «Confusio ergo omnia». Osservazioni su alcuni temi del «Proxeneta» di Gerolamo Cardano, «Studi rinascimentali», 2008, pp. 77-85. D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 347 nale del tempo»7 quanto è a lui dovuto in termini di onore e di gloria (se non di danaro); solo marginalmente possono riscontrarsi elementi legati alla sfera personale e il drammatico quadro politico e militare europeo flagellato da guerre micidiali o da intrighi di corte e di ambienti militari che ne emerge diviene un utile documento da presentare al proprio imperatore. Ma se le memorie si contaminano volutamente con il diario, allora si avrà la volontà da parte del suo autore di salvare dall’oblio non solo le vicende della propria esistenza pubblica, ma la propria individualità, oramai isolata dal trambusto degli avvenimenti passati e già posta dinanzi a una forma di tribunale della coscienza, la cui sentenza sembra essere sempre di assoluzione. Esemplare, in questo senso, la prefazione alle Memorie o Diario (composte nel 1640 e pubblicate postume nel 1648) del cardinale Guido Bentivoglio, diplomatico e storico ferrarese: Dopo aver’io scritto a gli altri con l’opere mie pubbliche di già più volte uscite alla stampa, ho deliberato ora di scrivere solo a me stesso, con raccogliere in forma privata diverse particolari memorie del tempo mio, e sopra cose mie proprie, che possono di nuovo render viva, e presente, per così dire, la morta mia vita passata.8 Ma saranno le nuove strategie della politica ecclesiale, in particolar modo quella gesuitica, che tenderanno radicalmente a persuadere i fedeli, attraverso una capillare «estetica della seduzione»,9 ad accostarsi a un dialogo con la propria coscienza, e perché questo possa risultare il più compiuto e completo possibile, la pratica della scrittura viene, almeno per le classi colte, fortemente sollecitata. Nascono così confessioni e diari intimi di natura devozionale che segnano una svolta fondamentale nel lungo percorso autoreferenziale. Gli stessi Esercizi spirituali di S. Ignazio vengono assunti come modello esemplare del ricorso, spesso ossessivo, alla scrittura dell’esame di coscienza.10 7 Denise Aricò, Appunti per l’imperatore: le «Memorie militari» di Raimondo Montecuccoli, in Memorie Diari Confessioni, a c. di A. Fassò, Bologna, il Mulino, 2007, p. 114. Le Memorie sono pubblicate in Raimondo Montecuccoli, Le opere. Diari di viaggio e memorie, iii, a c. di A. Testa, Roma, Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito, 2000. 8 Guido Bentivoglio, Memorie o Diario del Cardinal Guido Bentivoglio, in Memorie e lettere, a c. di C. Panigada, Bari, Laterza, 1934, p. 3. 9 Anne-Laure Angoulvent, Il barocco, trad. it. di G. Nesi, Bologna, il Mulino, 1996, p. 9 (l’espressione è ripresa da A. Battistini nel suo volume omonimo, Il Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma, Salerno, 2000, p. 37). 10Cfr. Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 2009², pp. 485-519. 348 Del nomar parean tutti contenti In tal senso, la Vita (o Memorie autobiografiche) del 1613 del gesuita, teologo, dottore della Chiesa e santo come Roberto Bellarmino sarebbe potuta essere un confortante esempio inseribile in tale metodo, ma inaspettatamente il libretto di Bellarmino si presenta come un superficiale esame di coscienza, proposto più da storici della Compagnia per meglio legittimare l’esemplarità della storia dei suoi membri più rilevanti che da una esigenza personale e privata dell’autore. Colpiscono i riferimenti atti a glorificare le tappe della propria carriera, fino alla nomina cardinalizia e alla possibilità di salire sul soglio pontificio, che il candidato avrebbe fermamente rifiutato. Con intuibili omissioni sul suo operato di consigliere dell’inquisizione e sul coinvolgimento nei celeberrimi processi a Bruno, Campanella e a Galileo, Bellarmino si limita nel finale del suo libretto ‘autobiografico’ scritto in terza persona con la misteriosa sigla N. che «nulla ha riferito delle sue virtù perché non sa se veramente ne abbia. Ha taciuto i vizi perché non sono degni che se ne scriva e volesse il cielo che nel giorno del giudizio risultino cancellati dal libro di Dio. Amen».11 Singolare quanto estremo, e proprio per tal motivo particolarmente significativo, il poco noto Diario spirituale dello storico dell’arte e biografo fiorentino Filippo Baldinucci, che copre il periodo della maturità e della vecchiaia, dal 1669 al 1696, anno della morte dell’autore, redatto in modo discontinuo su più quaderni dal diverso formato, con stile spesso approssimativo e a uso strettamente privato.12 Sebbene sia cosciente che l’origine di scrupoli ossessivi sia motivata dalla propria «natura malinconica e timorosa»,13 il diarista non può tuttavia fare a meno di ricadere nell’atroce turbinio di diaboliche tentazioni che lo attanagliano e di riferirle con apprensione al direttore spirituale, un gesuita, che inutilmente lo rassicura, rincuorandolo in nome della pietà divina ed esortandolo a meditare e riflettere sul suo scritto dal potere consolatorio. Baldinucci affida al suo scritto privato il proprio esame di coscienza che a sua volta sarà affidato a un lettore non virtuale ma al proprio confessore 11 Roberto Bellarmino, Autobiografia (1613), a c. di G. Galeota, Brescia, Morcelliana, 1999, p. 74. Nonostante siano scarse le notizie che l’autore riferisce sulla sua vita privata, le memorie furono da ostacolo al processo di beatificazione per la vanità e il senso mondano che sarebbero emersi dallo scritto. 12Cfr. Filippo Baldinucci, Diario spirituale, a c. di G. Parigino, introd. di E. Stumpo, Firenze, Le Lettere, 1995; Domenico Giorgio, Scrivere dell’altro, scrivere di sé: Filippo Baldinucci, in Percorsi autobiografici. Da Boccaccio a Peppino De Filippo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, pp. 139-154. 13Ivi, p. 209. D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 349 che potrà giudicarlo e ricomporlo; dunque, lo sdoppiamento del sé è in tal caso più evidente, perché l’autore deve scovare l’altro che è in sé attraverso lo sguardo vigile di una terza persona. Il diario sotto tale forma assume la funzione di «veicolare difese contro angosce profonde che creano nel diario uno strumento ossessivo di controllo».14 Chiunque sia il mediatore religioso, la risoluzione del problema è rimandata al mittente, in quanto la direzione spirituale svolge la funzione di «far camminare l’anima da sola, e tanto migliore si mostrerà, quanto più l’anima, grazie ad essa, diverrà capace di camminare da sola».15 Il rapporto personale che si instaura tra figlio e padre spirituale, apparentemente confidenziale, sottende una rigida guida alla autodisciplina che il penitente deve recepire, ascoltando il foro della coscienza, tante volte ricordato e invocato dal diarista, dal quale fuoriescono personali dubbi e inconfessabili tentazioni. Senza dubbio la letteratura gesuitica del tempo rimane il riferimento più prossimo e, in particolare, quel tipo di opuscoli che i gesuiti diffondevano a un pubblico vasto e non necessariamente acculturato, come trattatelli sul come affrontare �������������������������������������� «������������������������������������� una buona morte���������������������� »��������������������� , come vivere gli ultimi istanti di una vita devota, come superare lo scrupolo della coscienza che nasce dal dubbio di aver comunque peccato o, peggio, dalla tentazione che il nemico (il demonio) insinua nel penitente fino a procurargli gemiti e pianti, sospiri, lamenti e rossori.16 2. Le Confessioni di Carlo de’ Dottori sono lontane da enunciazioni di ossessivi scrupoli o di inconfessabili tentazioni, eppure sono permeate dello stesso clima religioso dell’età postridentina, periodo in cui vengono codificati i rapporti tra penitente e confessore e gli elaborati enunciati della morale casistica. Le pratiche confessionali gestite dalla Compagnia di Gesù erano sempre incentrate nella considerazione che il peccato in quanto tale era da 14Carlo Vittorio Todesco, Memorie, diari, confessioni: riflessioni di uno psicoanalista, in Memorie Diari Confessioni, cit., p. 25. 15Cfr. Direzione spirituale, in Enciclopedia cattolica, Città del Vaticano, Ente per l’Enciclopedia cattolica e il libro cattolico, 1950, p. 1690; il più recente Storia della direzione spirituale, iii, L’età moderna, a c. di G. Zarri, Brescia, Morcelliana, 2008. 16Cfr. D. Giorgio, Scrivere dell’altro, scrivere di sé: Filippo Baldinucci, cit., pp. 149-151. Un altro diario, ben più voluminoso, composto dal 1693 al 1727 e sotto la guida dei suoi confessori, in cui sono descritti patimenti, sofferenze, avvilimenti e penitenze ma in funzione di una vibrante ascesa mistica è il Diario della santa Veronica Giuliani, cappuccina del monastero di Città di Castello (cfr. Veronica Giuliani, Il diario, Siena, Cantagalli, 1989; Mario Rosa, La religiosa, in L’uomo barocco, a c. di R. Villari, Roma-Bari, Laterza, 2005³, pp. 256-258). 350 Del nomar parean tutti contenti intendersi come una malattia da curare e dalla quale si poteva guarire, con la pretesa della sincera conversione del penitente: «��������������������������� ���������������������������� La confessione era, per comune convinzione, la porta della conversione, cioè il passaggio essenziale per la costruzione dell’identità».17 La confessione scritta, prossima all’autobiografia, assume una valenza liberatoria in un’epoca in cui si è ancora refrattari a parlare liberamente di sé e della propria intimità, ed essendo un racconto simile a un romanzo, ma con le debite differenze – secondo la Zambrano – in quanto «chi si racconta, chi fa un romanzo autobiografico, rivela un certo compiacimento di se stesso, per lo meno un’accettazione del proprio essere, del proprio fallimento, magari; cosa che chi porge una confessione non fa in alcun modo».18 Se le moderne autobiografie non sono che la laicizzazione delle antiche confessioni, la filosofa spagnola aggiunge che la confessione può essere un genere letterario a parte, quando in un momento di crisi esso si presenta necessariamente come drammatico punto di riavvicinamento tra la vita e la verità laddove il soggetto, tra il caos e l’angoscia che lo circondano, esprime tutto se stesso nella ricerca di formare un altro io rinnovato e trasformato. Non è un caso che i due grandi momenti di svolta nella letteratura occidentale siano dovuti a due confessioni (di S. Agostino e di Rousseau), che si presentano come esemplari modelli, seppur in epoche e con urgenze diverse, di rottura con il proprio passato e con la cosciente imposizione di fondare, in nome della verità, una nuova epoca basata sulla interiorità. La reformatio interioris hominis, che veniva proclamata all’indomani del Concilio tridentino, intendeva, in un periodo delicatissimo e di sgomento per la coscienza religiosa di tutti i fedeli, proclamare un nuovo inizio, partendo proprio dalla riconsiderazione degli errori passati, attraverso la purificazione confessionale dei propri peccati: iniziando dal microcosmo individuale si sarebbe potuti in tal modo arrivare alla riappacificazione della intera comunità cristiana con Dio. Comunque, e quel che più interessa, è la confessione in quanto linguaggio assoluto del sé che rivela «un rituale discorsivo in cui il soggetto che parla coincide con il soggetto dell’enunciato»,19 per cui sembra essere il privilegiato veicolo di conoscenza in possesso del letterato che, verso la fine della sua vita, intende affidare a tale linguaggio la possibilità di una riconciliazione del 17A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., p. 491. 18María Zambrano, La confessione come genere letterario [1943], Introduzione di C. Ferrucci, Milano, Bruno Mondadori, 1997, pp. 43-44. 19Michel Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 57. D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 351 sé con il trascendente, oltremodo sollecitata dalle condizioni culturali e ‘politiche’ che l’hanno potuta produrre. Carlo de’ Dottori affida a questo linguaggio il resoconto del proprio vissuto, come uomo in particolare e come noto poeta e drammaturgo, prendendo a modello il fondatore del discorso confessionale, S. Agostino. Le sue Confessioni, iniziate tra il ’76 e il ’77, e dedicate alla consorte del Doge di Venezia, Elisabetta Valièr, furono pubblicate postume, a dieci anni dalla morte, prima a Padova nel 1696, e poi a Venezia da Girolamo Albrizzi nello stesso anno; la prima edizione è ora accessibile in ristampa anastatica, con una breve introduzione curata da Antonio Daniele,20 di cui mi sono avvalso. Non è del tutto semplice precisare le singolari motivazioni che hanno spinto il poeta padovano a scrivere questo libretto devozionale, sostanzialmente inconsueto per un accreditato letterato e accademico come il Dottori dal percorso non certo lineare e dalla personalità caratterizzata da elementi contrastanti e contraddittori: la satirica vena che pervade gran parte della sua opera, fino all’eccesso, non lo mette al riparo da accuse di diffamazione o di essere stato padrino di duelli e persino dalla prigione – esperienza che lo spinge a scrivere un poemetto di otto canti in 62 ottave, La Prigione –,21 tanto meno da contrasti con potenti locali, con la curia romana e con la corte asburgica di Vienna, contrasti tuttavia ‘compensati’ da comportamenti, istanze e richieste ai margini di smaccato servilismo cortigiano; elemento di rilievo, fin dai tempi giovanili, della cosiddetta «Fraglia dei Padrani», il circolo di sodali «scapigliati» dal tradizionale rituale burlesco e goliardico padovano, Dottori è anche il rigoroso membro della prestigiosa accademia dei Ricovrati, dove arriva a diventare anche principe, non senza polemiche e 20Per un approfondimento su questi argomenti, cfr. Antonio Daniele, Nota introduttiva a C. de’ Dottori, Confessioni di Eleuterio Dularete, Padova, Sebastiano Spera in Dio, 1696 [copia anast.], Padova, s.e. ma Centro stampa di Palazzo Maldura, 1987, pp. i-xv; Id., Dottori, Carlo de’, in Dizionario biografico degli Italiani, xli, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana Treccani, 1992. 21Il testo è in Carlo L. Golino, «La Prigione» di Carlo de’ Dottori, ��������������� «�������������� Studi Secenteschi», 1961, pp. 147-253. Definito dallo stesso autore nella Dedica «un capriccio uscito di suo cervello senza un travaglio al mondo, e senza doglie di parto» (p. 156), fu composto in parte in carcere (1641) e terminato dopo la riacquistata libertà e pubblicato nel 1643. Dottori veste i panni di Tirreno e si scaglia contro l’ingiustizia delle leggi e l’invidia altrui, inserendo alcune novelle sapide e a volte oscene. Golino lo definisce un «punto di partenza nella formazione morale del giovane autore» (p. 151), per arrivare ai grandi personaggi come Merope, indice, questo, di un giudizio morale presente fin dalla giovinezza e ricordato nelle stesse Confessioni, quasi a sua discolpa. 352 Del nomar parean tutti contenti contrasti; audace autore di un romanzo, l’Alfenore, e di poemi eroicomici alla Tassoni, come L’Asino, dalla schietta comicità, è anche il sublime tragediografo nell’Aristodemo come l’ardito autore di versi pregni di accesa sensualità o intrisi di cupo senso dell’orrido. Già questo breve ‘ritratto’ basterebbe a inserire il Dottori nel tipico e colorito affresco dei letterati della civiltà barocca sempre in bilico (già l’ossimorico pseudonimo, Eleuterio Dularete, potrebbe esserne la conferma), spesso ancorati alla lezione classica ma proiettati verso audaci imprese dal gusto barocco, come se volessero dare di sé spettacolo ma subito pronti a rintanarsi tra gli amati ed esclusivi studi, magari, seppur in forme dissimulate, attenti a esibire il proprio brillante operato artistico con strumenti sofisticati ma non per questo poco persuasivi. Sarebbero bastati, quindi, come per tanti altri più o meno insigni poeti accreditati a prestigiose accademie, gli innumerevoli elementi autobiografici e autoritratti rivelatori presenti nell’intero corpus dell’opera del padovano, che vanno dal romanzo giovanile 22 alle Ode o alla stessa tragedia, e in modo assai rilevante nelle Lettere famigliari, in cui l’autore, tutto proteso verso un modello classico ideale offerto da Plinio il Giovane, si mostra – come ben ha visto la Doglio –23 in bilico tra la aristocratica immagine di austero letterato chiuso nel suo studiolo, infastidito dei rumori, del degrado civile e della corruttela provenienti dall’esterno della ‘città’ e quella dell’acuto testimone, severo e intransigente, della propria vita passata come dell’epoca che lo circonda, oggetto di perplessità e di speranze di rinnovamento. Di altro tenore le Lettere a Domenico Federici,24 dove emerge il letterato cortigiano in atteggiamenti spesso di «perpetuo postulante»25 presso la corte viennese in continue e non di rado disattese speranze di ottenere privilegi o incarichi remunerativi e prestigiosi, tanto che scrive:«Ma chi non diventerebbe poeta per Cesare?»; e di contralto viene fuori il poeta irascibile e insofferente, ambizioso e orgoglioso:«E che credevano questi signori 22Cfr. Giovanni Pellizzari, Umori libertini, autobiografismo e fenomenologia dell’amore nell’Alfenore di Carlo de’ Dottori, in Carlo de’ Dottori e la cultura padovana del Seicento, Atti del Convegno di studi, Padova, 26-27 novembre 1987, a c. di A. Daniele, Padova, Accademia Patavina di scienze, lettere ed arti, 1990, pp. 39-55. L’autore indica nei racconti autobiografici dei due personaggi, Alfenore e Parmineo, elementi prossimi alla biografia del Dottori. 23Cfr. Maria Luisa Doglio, Le «Lettere famigliari» nell’Epistolario di Carlo de’ Dottori. «Idea» e pratica della scrittura epistolare, ivi, pp. 71-88. 24Cfr. C. de’ Dottori, Lettere a Domenico Federici, a c. di G. Cerboni Baiardi, Urbino, Argalìa, 1971. 25A. Daniele, Carlo de’ Dottori. Lingua, cultura, aneddoti, Padova, Antenore, 1986, p. 163. D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 353 ministri, ch’io volessi altro ch’essere servidore cesareo?»;26 né si risparmia di mostrarsi appassionato amante di teatro, musica, disegno e di frequentazioni esclusive e mondane. È fuori di dubbio, comunque, che in età avanzata il Dottori sembra aver attuato una svolta tematica nella sua produzione poetica e teatrale, spinta dai lutti privati, dalle delusioni patite a Vienna, dalle polemiche nell’ambito accademico che lo avevano spinto a una forma di triste isolamento,27 accompagnato da disturbi fisici e psicologici, non lontani seppure non così estremizzati dai sintomi manifestati nel diario di Baldinucci, e testimoniati nelle stesse Confessioni. La morte del secondogenito, assoldato nell’esercito imperiale e verso il quale il padre riponeva ambizioni e speranze di carriera, lo inducono a scrivere l’accorata ode l’Ambizione punita, dove il dolore della perdita del figlio si accompagnava già a una forma confessionale mista al senso di colpa per aver sacrificato il figlio alla propria ambizione. Verso la fine degli anni Settanta, quindi contemporaneamente alla stesura delle Confessioni, compone un oratorio sacro, il David pentito, su istanza dell’imperatrice Eleonora Gonzaga, sua benefattrice, e pubblicato postumo. Come già osservato da Antonio Daniele, questo dramma devozionale può ben testimoniare una «parabola umana prima che letteraria»,28 per la presenza del sentimento religioso (non del tutto esente da contaminazioni profane) pervaso di accorati sentimenti penitenziali, là dove il personaggio biblico diventa «emblema di una condizione di vita��������������������������������������������������� »�������������������������������������������������� , delineando «������������������������������������ ������������������������������������� una vittoria (tutta barocca) sul li29 bertinismo del secolo». Sentimento cristiano evidente in questa ultima fase artistica del Dottori, che comunque già trapelava ai tempi dell’Aristodemo, dove nella coprotagonista, Merope, Franco Croce individuava un effetto speculare con il suo autore, pervaso di accenti di sincera e partecipe religiosità, accompagnata da aneliti mistico-ascetici.30 26Cfr. A. Daniele, Dottori, Carlo de’, Dizionario biografico degli Italiani, cit. 27Cfr. Lino Lazzarini, Carlo de’ Dottori fra i «Ricovrati» di Padova. Cronaca accademica, in Carlo de’ Dottori e la cultura padovana del Seicento, cit., pp. 293-374. 28A. Daniele, Carlo de’ Dottori. Lingua, cultura, aneddoti, cit., p. 217. 29Ibidem. 30Sulla religiosità dell’Arisodemo, cfr. Benedetto Croce, Introduzione all’Aristodemo, Firenze, Le Monnier, 1948; Franco Croce, Carlo de’ Dottori, Firenze, la Nuova Italia, 1957; G. Getto, Il Barocco letterario in Italia. Barocco in prosa e in poesia [1969], premessa di M. Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 200-247; A. Daniele, Note sull’Arisodemo di Carlo de’ Dottori, in Studi di filologia romanza e italiana offerti a Gianfranco Folena dagli allievi padovani, Modena, Mucchi, 1980, pp. 377-380; M.L. Doglio, Dottori, 354 Del nomar parean tutti contenti Quel che conta è che in età senile è a un tipo di scrittura ‘segreta’ e assolutamente intima che Dottori intende affidare il metodo più diretto per esibire le contraddizioni e i paradossi della vita passata al fine di liberarsene, in un momento decisivo della propria esistenza, in cui avverte la profonda cesura esistente tra sé, malato e isolato, e il mondo circostante, anch’esso in preda a una crisi spirituale senza precedenti e il ricorso alla devozione ne segna il sicuro metodo veicolare a tal fine. Insomma, «la confessione non è altro che un metodo attraverso cui la vita si libera dai suoi paradossi e giunge a coincidere con se stessa»,31 secondo la Zambrano, sebbene ammetta che non sia l’unico, ma forse il più immediato e diretto. 3. Il modello agostiniano con cui si presentano le Confessioni di Eleuterio Dularete sembra essere, più che una scelta programmata, un riecheggiamento letterario, peraltro suggerito, come è confermato dallo stesso autore, da «un buon amico»32 e praticato solo nella seconda parte del libretto, dunque a stesura iniziata; e lo stesso titolo nasce solo «dopo aver in parte letto» le Confessiones, di fronte alle quali il Dottori si sente umilissimo e indegno imitatore nel redigere il suo «racconto delle colpe», ma proprio in quel libro «divino» ha trovato un «metodo». Pur rivolgendosi, come Agostino, a Dio e citando salmi e passi biblici,33 il ‘penitente’ Dottori è un aristocratico laico del ’600 che compone il resoconto di una vita a qualche anno dalla fine terrena e non come il vescovo di Ippona quarantenne che intende con la sua opera mettere in atto un programma di vita futura, che diventi esemplare per tutta l’umanità dei cristiani, improntando la personale storia della conversione non su fatti esteriori narrati in diacronia, ma sul loro contenuto spirituale. La narrazione testuale del fedele ‘moderno’ ha invece bisogno della successione ordinata degli eventi, per salvarsi dall’ineludibile caos che lo circonda 34 (sebbene Dottori cerchi il più possibile di scostarsi da questa Carlo de’, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, ii, Torino, Utet, 1986, pp. 180-183. 31M. Zambrano, La confessione come genere letterario, cit., p. 51. 32Il «���������������������������������������������������������������������������������� ����������������������������������������������������������������������������������� buon amico������������������������������������������������������������������������ »����������������������������������������������������������������������� non menzionato potrebbe essere Ciro di Pers, il prezioso corrispondente epistolare del Dottori e anche membro dell’Accademia degli Incogniti, autore, peraltro, di un Trattato dell’anima, andato perduto. 33Tra le numerose citazioni bibliche risalta quella in epigrafe dedicata all’Angelo custode, di chiara devozione gesuitica: [Quoniam] Ange, suis mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis (Sal, 90, 11); non poche le citazioni con riferimenti a vicende personali: Es 18, 12 (p. 43); Gdt 8, 11 (p. 87); Gs 5, 9-10 (p. 91); Is 57, 5 (ibid.); 2 Cr 33, 18 (p. 102); 1 Re (p. 103). 34Cfr. Novella Bellucci, Alle origini dell’autobiografia: riflessioni sulle «Confessiones» D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 355 linea), esibendo il protagonista prostrato di fronte al «������������������� �������������������� Tribunale della coscienza» e con la conseguente devalorizzazione della propria individualità sottomessa, ma proprio in virtù di tale subordinazione assoluta è auspicabile la costruzione di una nuova individualità. D’altronde, lo stesso Dottori è assolutamente cosciente dell’abisso temporale e culturale che lo divide dal grande modello, vivendo una scissione alla quale sa di non poter porre rimedio, se non accettando la lezione agostiniana della Confessio laudis e fidei, ma soprattutto e in modo reiterato quella del peccato, interpretato come aversio a Deo, e dunque l’unica via non è che il pentimento, percorrendo il cammino inverso. La lezione agostiniana non può che essere accolta nella urgenza di aver (ri)scoperto una disciplina, un «metodo», appunto, da adottare dinanzi al pericolo della confusione circostante; si legga l’incipit: «Mio Dio: ecco à vostri piedi una miserabile creatura; piena di vergogna e di confusione […]».35 In verità, il modello passa attraverso il secolare filtro giunto fino ai teologi tridentini e ai neoscolastici del Cinque e Seicento, unicamente interpretabile come meditazione sul peccato, che sottopone il penitente, fin dalla infanzia, alle passioni e alla concupiscenza emendabili con l’aiuto della grazia misericordiosa di Dio. Spesso, nella lettura del testo del Dottori, come d’altronde di altri autori del periodo, sembra che le Confessioni di S. Agostino siano percepite e filtrate da tradizionali e fortunati testi medievali, come l’Imitatio Christi, di Tommaso da Kempis o dalla immagine, anch’essa risalente al medioevo, di Agostino «come cuore ardente – come dirà Ditlhey – che trova pace solo in Dio».36 Quel che più conta non è forse la rivendicazione della propria individualità ma la ferma testimonianza di una sincera conversione, raggiungibile solo con l’ammissione di colpe davanti a Dio-giudice. In un testo devozionale-penitenziale come questo è������������������������ poco ���������������������� rilevante la constatazione della fortuna di quel modello ma il suo ‘superamento’, o meglio, come quel lontano modello sia diversamente percepito; tale mutamento di prospettiva sembra concretarsi da subito nella dedica alla «Serenissima», Elisabetta Valièr, in cui il letterato padovano scrive che per recuperare l’indi Agostino, «Quaderni di retorica e poetica», n. monografico L’autobiografia. Il vissuto e il narrato, cit., pp. 25-35. 35C. de’ Dottori, Confessioni di Eleuterio Dularete, cit., p. 11. 36Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito. Ricerca di una fondazione per lo studio della società e della storia [1883], trad. di G.A. De Toni, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 342. 356 Del nomar parean tutti contenti nocenza perduta «conviene che ricorra à cercar se stesso fuori di se stesso».37 Il �������������������������������������������������������������������������� «������������������������������������������������������������������������� fuori�������������������������������������������������������������������� »������������������������������������������������������������������� dell’uomo del Seicento, cosciente della propria inderogabile scissione e paradossale contraddizione si oppone al «Tibi ergo, Domine, manifestus sum, quicumque sim» dell’autore delle Confessiones (x, 2), e connota la inaccettabilità di come si è, scorgendo nell’«altro» il nemico da emendare se non da espellere. Mortificazione ed espiazione sono il proponibile veicolo della metānoia, intesa nel duplice senso di «mutamento d’opinione» e di conversione penitenziale e come sintomo di un sistema interattivo che unifica fortemente vissuti e comportamenti fra loro precedentemente separati; questo necessario passaggio funge da occasionale, se non fondamentale, motivo di un liberatorio discorso del sé. La meccanica della narrazione confessionale scatta in Dottori al momento di una insopportabile malattia, la cui natura trae origine dalle passioni e dalle pene dello spirito:«Allora fu che l’animo corrotto infettò anche il corpo»38 (concetto, questo, peraltro ben diffuso nel secolo, dagli studi di fisiognomica di Della Porta alle considerazioni di Cartesio e de La Rochefoucauld): Io mi ricordo d’una notte pericolosa, per quanto mi parve, alla mia vita, che mi pose in tale stato; onde l’apprensione aggiunta al male, portò un gagliardo assalto al cuore […]; e dissimulando le punture con l’ordinario pretesto, che un’affetto ipocondriaco si guarirebbe con sollevar l’animo con le conversazioni allegre, e medicamenti benigni. E quali conversazioni mi proponevano il Mondo, il Demonio, e la Carne? Mi vergogno di quello, che mi son vergognato di fare. Io mi lordava nelle brutture di senso in faccia vostra, Purità inestimabile […], conoscendo molto bene, che non poteano restarsene lungamente quelle membra, per le quali scorresse una vena di sangue infetto, ma il medico celeste avea già messo à suo conto le mie folli conseguenze, & andava con soave e intensa maniera operando per cavar balsamo dal veleno dell’inimico.39 L’���������������������������������������������������������������������� «��������������������������������������������������������������������� affetto ipocondriaco������������������������������������������������� »������������������������������������������������ che lo ha costretto a letto non è che una manifestazione della misericordia divina che invece di averlo scaraventato in una «������������������������������������������������������������������������������� cloaca, com’era accaduto à tant’altri������������������������������������������ »����������������������������������������� , gli ha concesso la possibilità di aprire finalmente gli occhi «interni» a «quel mostro, ch’era divenuto in effetto il mio essere, e che non era punto veduto dagl’occhi esterni».40 La «������ ������� melan37C. de’ Dottori, Confessioni di Eleuterio Dularete, cit., p. 4. 38Ivi, p. 27. 39Ivi, pp. 16-17. 40 Ivi, p. 23. D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 357 conia», patologia già ampiamente affrontata tra Cinque e Seicento, colpiva quei «nati sotto Saturno» che proprio nel mondo artistico ne avvertivano, per spiccata sensibilità, i maggiori disturbi, sopportati spesso con sofferenza fino alla morte. Da «������������������������������������������������������� �������������������������������������������������������� atteggiamento eroico����������������������������������� »���������������������������������� per Aristotele, la malinconia diventa per i Padri cristiani uno dei peggiori nemici dell’anima, la cui salvezza, per S. Tommaso, è messa ad alto rischio; tanto meno può essere confortante la coeva lezione cartesiana che la ritiene una emozione eccessiva eliminabile solo con uno sforzo della razionalità, nel momento in cui si avverte la sua pericolosità o inutilità. Infatti, se il soggetto si sente colpito da un ossessivo turbamento religioso che nasce, secondo le parole di un Baldinucci, «nel profondo dell’interno»,41 la malinconia si manifesta come una «��������� ���������� voce����� »���� interiore ������������������������������������������������������������������� «������������������������������������������������������������������ che suona, che risuona�������������������������������������������� »������������������������������������������� dal di dentro. Il lessico usato dal Dottori focalizza, invece, lo sguardo, quello interiore, che percepisce il penitente come un frammento, «un pezzo incompleto, che uscendo da sé vuole aprire i propri limiti, spostarli e trovare la sua compiuta unità più in là di essi».42 Tale disperazione e fuga da se stesso fungono da speranza per raggiungere l’unità perduta, riacquisibile attraverso lo sguardo misericordioso di Dio, al quale l’autore si rivolge:«E voi stavate con l’occhio al mio cuore; anzi, poiché siete più interno del mio stesso interno».43 E appunto l’occhio divino obbliga il penitente a «esporsi alla vista»44 e dunque a confessare la verità, percependo in tale sguardo la naturale via all’ineludibile esame di se stesso, come se fosse non una costrizione ma sembra che è la «verità – a dirla con Michel Foucault –, nel più segreto di noi stessi, non ‘chieda’ che di farsi luce».45 D’altronde, il tema della immagine della «finestra sul cuore» già da tempo circolava sia in letteratura che nelle arti figurative, tanto da essere recepito come modello di obbedienza e di umiltà anche nei comportamenti privati.46 Probabile esperto conoscitore della abbondante manualistica confessionale di ambito gesuitico, almeno in età senile, l’autore si affida allo sguardo interiore, al «������������������������������������������������������������ ������������������������������������������������������������� forum interno����������������������������������������������� »���������������������������������������������� o «������������������������������������������ ������������������������������������������� foro conscientiae������������������������� »������������������������ , che la normativa casisitica aveva da tempo imposto come obbligo non vincolante all’ordine civile 41F. Baldinucci, Diario spirituale, cit., p. 21. 42 M. Zambrano, La confessione come genere letterario, cit., p. 50. 43C. de’ Dottori, Confessioni di Eleuterio Dularete, cit., p. 73. 44 M. Zambrano, La confessione come genere letterario, cit., p. 57. 45M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 55. 46 Cfr. Lina Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, Einaudi, 1995, pp. 135 sgg.; A. Prosperi, Tribunali…, cit., pp. 543-549. 358 Del nomar parean tutti contenti o politico ma a quello prettamente spirituale,47 ponendosi così al riparo da eventuali censure relative a pratiche effimere quanto diffuse, ai margini del narcisismo, che nella propria immagine riflessa nello specchio, sottomessa solo allo sguardo esterno, accentuavano l’aborrito senso di Vanità. Sotto i veli della fede, sincera o autoimposta, e dei reboanti barocchismi, il libretto confessionale del letterato padovano si schiude a una insospettata modernità nella urgente esigenza di ammettere la potenza divina operante solo dall’interno e di reclamarne la presenza dentro di sé, vista come unica via possibile alla riconciliazione di un bene precedentemente perduto; citando a memoria Agostino, Dottori si rivolge a Dio:«Tardi vi hò amato, ò bellezza così antica, tardi v’hò amato. Voi dentro di me, io fuori di Voi».48 In realtà, e non a torto, le Confessioni hanno suscitato interesse nei pochi studiosi che le hanno prese in considerazione per alcune preziose notizie biografiche dello stesso autore e per la vivida rappresentazione della corrotta e insicura vita cittadina nella Padova secentesca ai tempi della giovinezza dello scrittore,49 sebbene Dottori ci tenga a presentare il suo libretto solo come «confessione di colpe, non istoria d’azioni»:50 l’aristocratico letterato e celebre tragediografo intende rinnegare gran parte della vita passata, trascorsa in goliardiche avventure e in duelli, in inaspettate fughe verso Roma o Vienna fatte solo per ambizione sfrenata, e disconoscere opere letterarie pregne di versi «lascivi», senza tuttavia dimenticare per «la troppa dolcezza all’orecchio le forme di Livio, di Plinio, di Tacito, e degl’altri più lodati dal comune consenso»,51 perché sia legittimato in 47 Su questa complessa problematica teologico-giurisprudenziale, cfr. Miriam Turrini, «Culpa theologica» e «culpa iuridica»: il foro interno all’inizio dell’età moderna, ������ «����� Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 1986, pp. 147-168; Elena Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia dal medioevo al xvi secolo, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 469-493. 48 C. de’ Dottori, Confessioni di Eleuterio Dularete, cit., p. 75. 49 A. Daniele, Carlo de’ Dottori, cit., pp. 7-8. Si legga in proposito il passo delle Confessioni: «Qual causa m’inducea ad uscir armato con gli amici di notte in una Città, che hà le sue tenebre molto funeste; & à privarci del lume per non privarci del pericolo d’incontrare de simili scapigliati, e contendere della strada à furia di Carabine? Che utilità si traeva à caminar di giorno per le strade, come per paese nemico con la Corazza sotto la veste, e la pistola in mano? Qual profitto dal nutrir uomini facinorosi, e scorrer per le Ville con intollerabil arroganza, esercitando frà i men potenti una tirannica potenza? Eccone il frutto. Danni nella salute, dispendj, prigioni, diffidenze, rancori, contrasti, ed’incontri sanguinosi» (pp. 30-31). 50C. de’ Dottori, Confessioni di Eleuterio Dularete, cit., p. 33. 51Ivi, pp. 53-54. D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 359 forma solenne e verso la fine della sua parabola intellettuale il suo pur complesso ma riverente atteggiamento nei confronti della cultura classica e per marcare il deterioramento letterario di fine secolo da cui intende oramai distaccarsi del tutto. Il tardivo avvicinamento alla letteratura devozionale suggella ulteriormente la conversione intellettuale. Le notizie prettamente private – la perdita dei figli, della moglie e della adorata nuora, la malattia – per mezzo delle quali è stato possibile ricostruire la datazione della stesura delle Confessioni stesse si alternano spesso a sapide e rapide pennellate acide sui modi altezzosi e spocchiosi del ceto nobiliare di appartenenza o su ‘barbarici’ modelli comportamentali del secolo, comunque dovuti alla «malizia» degli uomini e non dell’epoca, e aggiunge l’autore: «Tutta via dalla perversità dell’ingegno nostro si trasferisce il vocabolo dall’Uomo al Tempo, e si chiama uso del Secolo quello, ch’è nostra elezione».52 E proprio tale «elezione» umana ha provocato ingiustizia, confusione e perdita dell’onore. Al di là di elementi contingenti, biografici e pubblici, il lamento del penitente si alza sulla condizione di isolamento e di incomprensione da parte della comunità circostante ed è strettamente vincolato al dolore, se non allo smacco della solitudine, il cui conforto è il dialogo con Dio dal tono necessariamente espiatorio, rivendicando per se stesso e per tutti «la pienezza della responsabilità e della colpa».53 Al di là della pur fondamentale componente religiosa che sembra reggere il fine e la narrazione, l’atto confessionale non può non collegarsi a una dimensione sociale imprescindibile, cioè a quella relativa alla conservazione della propria rispettabilità e alla vergogna di perderla nel momento stesso in cui ci si espone al giudizio del mondo nell’enunciazione delle proprie colpe. Tale preoccupazione emerge tra le pieghe del racconto ma si fa visibile, donde la sua malcelata importanza, già nella dedica, in cui il Dottori si rivolge al «discreto lettore», volendo giustificare la necessaria segretezza dello scritto e l’uso dello pseudonimo: Il rossore d’esser caduto hà fatto tener occulto il proprio nome all’autore, mà dopo, che il lume della verità gl’hà scosse le tenebre, non è giusto, che restino celati gli atti d’una così rara virtù sotto la maschera d’un finto nome, il cui chiarore scoprirai, affidandoti nella purità dello stile, e nel nervo della dottrina, della quale, se ti compiacerai, resterà onorata la fama, e’l religioso carattere d’un Cavaliere, che 52Ivi, pp. 24-25. 53L. Lazzarini, Carlo de’ Dottori fra i «Ricovrati» di Padova, cit., p. 370. 360 Del nomar parean tutti contenti mette tutti li beni di fortuna, e dell’umana grandezza in sospetto. Dal tribunale del tuo sapere spererò l’onore del tuo compatimento, e quello d’esser riconosciuto solo zelante del bene del prossimo. Vivi felice.54 Nasce una contraddizione che il penitente è costretto in qualche modo a superare nel dichiarare in primis il possibile rischio di perdere la propria onorabilità e rispettabilità messa in moto dalla confessione esplicitante una serie di abiezioni e colpe vergognose, come ad esempio la stessa malattia in cui è precipitato, intesa come «una Commedia ridicola à tanti spettatori»,55 ma proprio questo atto di coraggio viene a marcare l’autorevolezza di un «Cavaliere» nel recuperare l’onore smarrito di fronte alla comunità civile e religiosa. La confessione per un alto esponente della classe colta può dunque rappresentare un atto di umiliazione e di pentimento grazie al quale funge tuttavia da riscatto onorevole e da esempio per l’ipotetico lettore.56 Il concetto di onore, tante volte posto come polo magnetico intorno al quale si muovono molte memorie tra Cinque e Seicento, è in questo caso rivisitato e inteso solo come frutto di vanagloria e di sciocca arroganza ed è rifiutato del tutto in nome di un ‘nuovo’ concetto di onore, inteso come spia di una vita passata indegna e di una società cieca e incancrenita non pronta alla giusta conversione, al contrario del penitente che scrive:«Io vi ringrazio, Signore, e vi prego à scordarvi i delitti della mia gioventù, e le mie ignoranze, come io le confesso, & abbominio al presente; sapendo, e confessando, che voi solo siete il Fonte dell’Onore».57 Un atto dovuto che l’autore rivolge ai dettami ecclesiali in forma conciliatoria e messo a frutto dalla stessa tecnica rituale confessionale che porta a termine felicemente il percorso introspettivo con il fine di una ricostruzione del proprio buon nome e di una rinnovata coscienza etica. Nella quarta e ultima parte del libretto si alzano quasi strazianti l’appello alla misericordia divina e l’implorazione di aiuto e del perdono, e l’identificazione con il personaggio biblico Manasse, Re di Gerusalemme, che si umiliò in catene a Dio dopo aver commesso terribili «abomini» ottenendone il perdono (2 Cr 1-20), funge da supporto alla conclusione dello scritto suggel54C. de’ Dottori, Confessioni di Eleuterio Dularete, cit., pp. 8-9. 55Ivi, p. 28. 56Cfr. Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 241-248. 57C. de’ Dottori, Confessioni di Eleuterio Dularete, cit., p. 70. D. Giorgio Le «Confessioni di Eleuterio Dularete» di Carlo de’ Dottori 361 lata dalla promessa di lodare il Signore e dalla conversione avvenuta; con tale atto di sottomissione, Dottori conclude: «Io mi sottoscrivo all’orazione di questo Rè convertito, e prego la Misericordia vostra, ò Signore, d’esser così restituito alla Grazia, com’egli fù restituito nel Regno».58 La disperazione della solitudine si compensa con la speranza di ritrovarsi e, soprattutto, di ritrovare la dimensione trascendente che è stata se non una costante, di certo un elemento sotterraneo nell’opera del padovano fin dai tempi delle liriche giovanili al Davide pentito, quasi in una non del tutto consapevole conquista morale e religiosa, spesso ardua e frammentaria. Basti pensare all’Aristodemo, in cui la divinità comunque inseguita è imperscrutabile, incomprensibile se non ostile, tanto da rendere legittimo il sospetto di assenza della bontà e misericordia divine;59 il dialogo afasico con Dio si è tramutato ora in una logorroica conversazione d’amore. Università degli Studi “Federico II” - Napoli 58Ivi, p. 104. 59Cfr. Carla Bella, «Le Dieu caché»: l’«Aristodemo» di Carlo de’ Dottori, �������� «������� Paragone», 1978, 340, pp. 23-53; cfr. F. Croce, Carlo de’ Dottori, «Italica», 1959, pp. 142-144. Pietro Sisto «FESTINA LENTE». STORIA E FORTUNA DI UN MOTTO TRA RINASCIMENTO E MODERNITÀ Il motto «festina lente», spesso accompagnato non solo dall’immagine dell’ancora e del delfino ma anche da quelle di altri animali, è uno dei più noti e fortunati della nostra storia letteraria ed editoriale, tanto da assumere i contorni di un vero e proprio topos. Una fortuna che si manifesta con parole e icone diverse nella trattatistica delle imprese e degli emblemi e nelle arti figurative soprattutto tra Umanesimo e Rinascimento, ma che prosegue ben oltre quella straordinaria stagione culturale, fino alle soglie della contemporaneità. Già ampiamente presente nelle antiche medaglie e monete romane,1 la massima Festina lente, attribuita tra gli altri a Ottaviano Augusto e a Tito Vespasiano, diventò ben presto la più diffusa e conosciuta nel Rinascimento grazie soprattutto ad Aldo Manuzio che, su suggerimento di Pietro Bembo, decise di utilizzarla come ‘anima’ della sua marca tipografica. In uno degli Adagia Erasmo da Rotterdam, riferendosi proprio a quella scelta, così scrisse: Iam vero dictum idem Tito Vespasiano placuisse ex antiquissimis illius nomismatis facile colligitur, quorum unum Aldus Manutius mihi spectandum exhibuit argenteum, veteris planeque Romanae scalpturae, quod sibi dono missum aiebat a Petro Bembo patrizio Veneto, iuvene cum inter primos erudito, tum omnis literariae antiquitatis diligentissimo pervestigatore. Nomismatis character erat huiusmodi: altera parte faciem Titi Vespasiani cum inscriptione praefert, ex altera ancoram, cuius medium ceu temonem delphin obvolutus complectitur. Id autem symboli nihil aliud sibi velle quam illud Augusti Caesaris dictum σπευ�δε βραδέως indicio sunt monimenta literarum hieroglyphicarum.2 1 Paolo Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma, Bulzoni, 1978, p. 35. Per un esame puntuale e dettagliato del dibattito ancora in corso tra gli studiosi circa il rapporto tra il ‘rovescio’ di monete e medaglie antiche e la letteratura degli emblemi e delle imprese con particolare riferimento al motto Festina lente cfr. Bruno Basile, Emanuele Tesauro e l’impresa di Augusto, «Filologia e critica», 2005, pp. 146-152. 2 Opera omnia Desiderii Erasmi Roterodami recognita et adnotatione critica instructa notis- P. Sisto «Festina lente». Storia e fortuna di un motto tra Rinascimento e modernità 363 E prim’ancora di diventare marca editoriale di Aldo, Paolo e Aldo Manuzio il giovane, l’ancora e il delfino erano apparsi forse per la prima volta nei libri a stampa in una pagina dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna dove si descrive il fregio di un ponte raffigurante una «ancora, sopra la stangula dilla quale se rovolvea uno delphino».3 E da allora il mammifero ritornerà più volte e con significati diversi non solo nei principali testi della letteratura delle immagini tra Cinque e Seicento 4, ma anche nell’architetque illustrata. Ordinis secundi, Tomus tertius, Amsterdam, Elsevier, 2005, Adagia 1001, pp. 10-11. Il motto, riferito più in generale alla cura e alla diligenza del tipografo e dell’editore, compare anche nel testo di un noto bibliofilo del Settecento, Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili, e necessarie agli amatori de’ buoni libri, disposte per via d’alfabeto (1756), ora in Del furore d’aver libri. Con una nota di Gianfranco Dioguardi, Palermo, Sellerio, 1989, pp. 79-80: «Chi la esercita, o assiste con gran diligenza, benché non divenga per lo più molto ricco (avverandosi anche in ciò il proverbio tritissimo, che presto, e bene non si conviene, e il festina lente, del celebre Aldo Manuzio) ad ogni modo acquista appresso gl’intendenti un nome immortale, che, al dire della Scrittura, è migliore di molte ricchezze, melius est nomen bonum, quam divitiae multae; e a costui si possono adattare alcuni altri detti di essa, benché espressi ad altro proposito: Diligens typographus in benedictione erit; ab auditione mala (a cui sono del continuo soggetti i negligenti) non timebit: & melius est modicum illi, super divitias negligentium multas». Sulla fortuna del motto nella trattatistica delle imprese e degli emblemi cfr. Jacopo Gelli, Divise, motti e imprese di famiglie e personaggi italiani, Milano, Hoepli, 1928 (rist. anast. Milano 1976), pp. 211-212. 3 Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, in La prosa dell’Umanesimo. Introduzione e cura di Francesco Tateo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2004, pp. 721-1351: 836: «Da l’altra parte tale elegante scalptura mirai: uno circolo, una ancora, sopra la stangula dilla quale se rovolvea uno delphino. Et questi optimamenti cusì io li interpretai: Aei speude bradeos Semper festina tarde»; ivi, p. 845: «‘Affrettati sempre lentamente’. Il ponte rappresenta il diaframma dei due luoghi simbolici dei diversi stati d’animo di Polifilo, che, superandolo, passa dall’oscurità labirintica dell’errore alla luminosità della solare sede di ninfe e divinità che prelude all’avanzamento del suo percorso iniziatico, segnato dalla lettura dei geroglifici, i quali inducono l’anima alla pratica delle virtù della pazienza e della prudenza, dopo aver vinto il primitivo stato di mortale terrore provocato dal drago, terapeutico per ritrovare la condizione che le è propria». Secondo Edgar Wind, La maturità è tutto, in Id., Misteri pagani nel Rinascimento, Milano, Adelphi, 1986, nelle xilografie della Hypnerotomachia Poliphili sono raffigurate «più di ottanta varianti di festina lente, e ciascuna di esse aggiunge al tema una nuova sfumatura […] L’unione dei contrari è qui espressa sotto forma di un messaggio cifrato che utilizza una stravagante contrapposizione, e la sua stessa assurdità rende memorabile l’immagine. Da questi messaggi cifrati che istruiscono divertendo, l’eroe della Hypnerotomachia è guidato con prudenti allettamenti verso i più riposti arcani, imparando lungo il cammino a unire la prudenza all’audacia […] Il cammino viene percorso con un procedere dolce-amaro, in cui già i primi passi adombrano il mistero finale di Adonia, cioè il matrimonio sacro tra il Piacere e la Pena» (pp. 128-129). 4 Si veda, tra gli altri, Scipione Bargagli, La prima parte dell’imprese, Venezia, appresso Francesco de’ Franceschi senese, 1589, p. 120, dove il trattatista esprime non poche riserve su un’impresa che abbina «opere naturali» (il delfino) e «artificiali» (ancora). 364 Del nomar parean tutti contenti tura rinascimentale. Basti pensare, per es., da un lato all’Iconologia di Cesare Ripa, nella quale, cavalcato da un bambino nudo, illustra il tema dell’animo grato,5 dall’altro a un bassorilievo come quello della cattedrale di Gravina di Puglia raffigurante un putto retrogrado su un «delfino inequivocabilmente moralisé»;6 non meno significativa, inoltre, la presenza del pesce insieme ad Arione in alcune marche tipografiche del Cinque e Seicento come quelle di Nicolaus Brylinger e Johann Oporin, dove il celebre musico e poeta greco viene raffigurato in piedi o a cavalcioni sul delfino mentre suona l’arpa per 5 Cesare Ripa, Iconologia, a cura di Piero Buscaroli, pref. di Mario Praz, Milano, Tea, 1992, pp. 23-24: «Animo piacevole, trattabile amorevole. Un Delfino che porti a cavallo un fanciullo. Se bene Pierio Valeriano, per autorità di Pausania attribuisce al Delfino il simbolo d’animo grato perché in Proselene Città de la Ionia, essendo chiamato un Delfino per nome Simone da un fanciullo, soleva accostarsi al lito verso quello, accomodarsegli sotto per portarlo a suo piacere, perché fu da quel fanciullo tolto dalle man de Pescatori, medicato d’una ferita che gli fecero, non dimeno noi l’attribuiremo ad animo piacevole, trattabile, perché il Delfino è piacevole verso l’huomo non per interesse alcuno de benefitii ricevuti, o da riceversi, ma di sua propria natura». Nell’Iconologia del Ripa, inoltre, l’immagine del delfino unitamente a quelle della folgore e dello sparviero è simbolo di ‘Celerità’: «Donna che nella destra mano tiene un folgore, come narra Pierio Valeriano nel lib. 43 de suoi Ieroglifichi, a canto haverà un delfino, e per l’aria uno sparviero ancor’egli posto dal sopradetto Pierio nel lib. 22 per la celerità, ciascuno di questi è velocissimo nel suo moto dalla cognizione del quale in essa si sa facilmente, che cosa sia celerità» (ivi, p. 52). Nella stessa Iconologia il pesce è anche simbolo di astuzia e scaltrezza e in particolar modo dello stratagemma militare: «Stratagemma militare del sig. Giovanni Zarattino Castellini. Pingasi un uomo armato, che porti in testa in cima dell’Elmo questo motto Greco […] in cima del Cimiero pongasi un Delfino […] Il Delfino sopra l’elmo, fu impresa di Ulisse autore degli stratagemmi, e se bene lo portava nello scudo per grata memoria, ch’un Delfino liberò Telemaco suo figliuolo dall’onde nelle quali era caduto, nondimeno, sta bene ad Ulisse il Delfino animale astuto, scaltro, come simbolo dello stratagemma, astutia conveniente ad un Capitano. Ha l’astuto Delfino molto conoscimento, e considera quando è per combattere con il Crocodillo feroce, e pestifera bestia, a cui egli è inferiore di forza, ferirlo nella parte più debile senza suo periglio; esso ha sul dosso penne taglienti come coltelli, e perché la natura ha dato ad ogni animale, che non solo conosca le cose a lui giovevoli, ma anco le nocive al suo nemico, sa il Delfino quanto vaglia il taglio delle sue penne, e quanto sia tenera la panza del Cocodrillo; informato del tutto, non va il Delfino incontro al Crocodillo, né l’assalta di sopra perché ha la schiena, e la pelle dura, che resiste ad ogni colpo, ma come accorto e lesto e fingendo d’haver paura fugge veloce sotto acqua, e va con le sue acute penne a ferirlo sotto il ventre, perché comprende che in tal parte tenera, e molle, è facile ad esser trapassato» (pp. 428-429). 6 Stefano Borsi, Problematiche dell’architettura rinascimentale in Puglia: echi albertiani e temi romani, in Cultura e società a Bitonto e in Puglia nell’età del Rinascimento. Atti del vi Convegno Nazionale, a cura di Stefano Milillo, t. ii, Galatina, Congedo, 2009, pp. 347-82, indica tra le varie, diverse fonti del bassorilievo di Gravina proprio l’Hypnerotomachia di F. Colonna. P. Sisto «Festina lente». Storia e fortuna di un motto tra Rinascimento e modernità 365 ricordare la leggenda di Arione salvato proprio dai delfini accorsi da lui per ascoltare la musica.7 Ma il motto festina lente può essere accompagnato anche da altri animali che sono simboli non tanto della velocità quanto della lentezza: si pensi per es. alla remora con la freccia di Andrea Alciato 8 e alla testuggine con la vela, ovvero all’impresa del duca di Toscana Cosimo I de’ Medici, che compare in numerose sale di Palazzo Vecchio a Firenze e in particolar modo negli angoli della cornice dorata che racchiude l’immagine Cosimo studia la presa di Siena di Giorgio Vasari e Giovanni Stradano (1563-1565, Salone dei Cinquecento) e nell’affresco dello stesso Vasari e di Cristofano Gherardi, Le primizie della terra offerte a Saturno (1555-1557, Sala degli Elementi), dove è raffigurata una donna che tiene con la sinistra una vela e con la destra una tartaruga. Si tratta, in realtà, come spiega lo stesso Vasari nei Ragionamenti (i, i), di un’immagine che intende evidenziare come le «felici» imprese del duca 7 Hans Tuzzi, Bestiario bibliofilo. Imprese di animali nelle marche tipografiche dal XV al XVIII secolo (e altro), Milano, Silvestre Bonnard, 2009, pp. 33-34, 115-117. Tra Cinque e Seicento il delfino nelle marche tipografiche di alcuni editori sostiene la fortuna che regge con le mani una vela gonfiata dal vento. Alla fine dell’Ottocento il delfino insieme a un leone figura nella marca tipografica della Chiswick Press e più recentemente in coppia in quelle di Riccardo Ricciardi e di Thames & Hudson. La leggenda e l’immagine di Arione salvato dai delfini vengono richiamate anche negli Emblemata dell’Alciato: «Contro gli avari / o per quelli che ricevono miglior trattamento / dagli estranei. / Solca le acque cerulee Arione in groppa al delfino / e con il canto accarezza le orecchie e avvince gli sguardi. / Quanto è crudele l’avaro non tanto lo sono le fiere: / noi che siamo preda d’umani siam tratti a salvezza dai pesci» (Andrea Alciato, Emblemata, premessa di Emilio Gabba, introduzione di Ferdinando Bona, traduzione di Domenico Magnino, Pavia, Torchio de’ Ricci, 1986, p. 35). 8A. Alciato, Emblemata cit., p. 76: «Affrettasi: Maturandum. / Ti raccomandano tutti di correre e temporeggiare: / che non ci sia troppa fretta, né sia troppo lungo l’indugio. / Questo ti dica la freccia a cui una remora è avvinta: / tarda è questa, ed impaccia, ma guizzano i dardi che scagli». L’immagine della remora e della freccia è presente anche nell’Iconologia di C. Ripa nella raffigurazione della Prudenza: «Donna con l’elmo dorato in capo, circondata da una ghirlanda delle foglie del moro; haverà due faccie, come s’è detto di sopra, nella destra mano terrà una frezza, intorno alla quale vi sarà rivolto un pesce detto Ecneide, ovvero Remora, che così è chiamato da Latini, il quale scrive Plinio, che attaccandosi alla Nave, ha forza di fermarla, perciò è posto per la tardanza; nella sinistra terrà lo specchio, nel quale mirando, contempla se stessa, a’ piedi vi sarà un cervo di lunghe corna» (ed. cit. pp. 368-69). In realtà anche il cervo, secondo il Ripa, era simbolo ossimorico di velocità e lentezza: «Il Cervo, nel modo detto, il medesimo dimostra, perché quanto le lunghe disposte gambe l’incitano al corso, tanto lo ritarda il grave peso delle corna, il pericolo d’impedirsi con esse fra le selve, gli sterpi» (ivi, p. 369). 366 Del nomar parean tutti contenti siano state possibili grazie all’incontro della sua «matura considerazione» con il «prospero corso» degli eventi: «È la fortuna di Sua Eccellenza, quale, per obbedire a Saturno, pianeta suo, gli presenta le vele e la testuggine, impresa di Sua Eccellenza, dimostrando che il duca, nostro Signore, con la matura considerazione, e felice e prospero corso, è arrivato a riva del mare de’ travagli, ed avventurosamente ha conseguito felice fine alle sue imprese».9 Del resto è forse opportuno ricordare che l’ancora e il delfino, oltre a raffigurare ossimoricamente il tema della prudenza e della ponderatezza, si prestavano molto bene a riflessioni di carattere più propriamente politico perché il pesce era quanto mai adatto ad evocare doti e virtù di principi, signori e sovrani e in particolar modo la loro attenzione ai bisogni e alle aspettative dei sudditi. Come infatti Andrea Alciato fece ricorso a quell’immagine per raffigurare l’idea del «Principe che garantisce la sicurezza dei sudditi»,10 così G.C. Capaccio nel secondo libro Delle imprese, insistendo sul carattere ‘amichevole’ del delfino di pliniana memoria, affermò che «…l’Ancora col Delfino significava anco il Principe che procura la salute de i subditi, dalla natura di quel pesce dipinta da Plinio nel libro 18 il quale dice che ‘l Delfino prevedendo la tempesta, amico dell’huomo, se ritrovarà la nave agitata da venti, acciò più sicuramente si fermi, egli drizza l’Ancora».11 Inoltre, nello stesso trattato il Capaccio, insieme alle più note immagini della testuggine con la vela, del delfino con l’ancora, del granchio e della farfalla, del termine con la folgore, della remora e della freccia e del tritone disteso sullo scoglio, compaiono anche quelle meno note del bue alato, delle lumache, del bue di Renato re di Sicilia, del camaleonte e del delfino di papa Paolo iii: A Pietro Giacomo di Gennaro, honoratissimo Cavaliero, alle cui ceneri devo per molti beneficij, quanto sodisfar non posso; per che molto savio nel conseglio, 9 G. Vasari, Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte, a c. di Carlo L. Rogghianti, Milano, Rizzoli, 1949, pp. 34-35. L’immagine della tartaruga e della vela, accompagnata dallo stesso motto e dal giglio, diventerà tra l’altro marca editoriale dei tipografi Michelangelo e Bartolomeo Sermartelli: cfr. Giuseppina Zappella, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento. Repertorio di figure, simboli e soggetti e dei relativi motti, Milano, Bibliografica, 1986, i, p. 369 e ii, figg. 1151-1155. 10A. Alciato, Emblemata, ed. cit., p. 45: «Tutte le volte che i venti sconvolgon le onde del mare / l’ancora reca sollievo ai naviganti in affanno. / Pio verso i mortali attorno si avvolge il delfino / perché più salda si infigga in basso, giù, nei fondali. / È giusto che questo sia il segno dei reggitori che sanno / d’essere per la lor gente come l’ancora per i marinai». 11Giulio Cesare Capaccio, Delle imprese, Napoli, G.G. Carlino e A. Pace, 1592, l. ii, p. 38. P. Sisto «Festina lente». Storia e fortuna di un motto tra Rinascimento e modernità 367 in ogni negotio, ancor che pronto da consultare dicea, Datemi tempo da pensare, parola di giudicioso, e di huomo maturo e di esperienza, feci per impresa il Bue alato, per non dar di petto alla Testudine con la vela, né al Delfino e a l’Ancora, o al Granchio alla Farfalla di Tito che fu prima d’Augusto e dicea il motto, Celeri ratione fatescit. Benché per quest’atto di prudenza pinsero anco il Termine col folgore a piedi. Et in una Gioia si sono vedute le lumache scolpite la cui guscia serviva per Carro, una figurina tenendo la briglia, dicea, Festinate, oltre ad un’altra Gioia, ove un Cervo saltava fuor dalla scorza della Lumaca, con un serpente sotto, che tutte alludono al detto d’Augusto, Festina lente. E Renato re di Sicilia sperando di farsi più gran re ch’egli era, fece il bue con le sue arme al collo col motto Pas a Pas, che se bene il bue lentamente camina, pur col tempo si ritrova ben lunge. Et alcuni Antichi per l’istesso significato pinsero un Tritone sopra uno scoglio. Paolo iii Pontefice hebbe il Camaleonte e ’l Delfino, col motto, Mature. E l’Alciato pinse l’Ecneide pesce avvolto ad un dardo, con l’inscrittione, Maturandum, essendo il dardo indizio di velocità, e simbolo d’impedimento l’Ecneide o Remora.12 E per rimanere nell’ambito della civiltà rinascimentale e delle doti del buon principe non va tralasciato il fatto che Pisanello realizzò per Lionello d’Este ben due monete con un simile tema: nella prima pensò all’immagine della lince bendata seduta su un cuscino, nella seconda fece ricorso ad un altro famoso ossimoro dell’antichità ovvero quello del puer/senex. Per raffigurare, infatti, l’idea di un principe capace di dimostrare saggezza e prudenza, doti tipiche dell’età adulta, e nello stesso tempo di dimostrare il coraggio e la prontezza dei giovani nei momenti di pericolo e difficoltà, delineò l’immagine della vela legata alla colonna davanti alla quale sono seduti un anziano e un giovane: 12Ivi, pp. 37-38. L’impresa di papa Paolo iii con il delfino e il camaleonte compare negli stucchi del soffitto della Sala Paolina di Castel Sant’Angelo. Si veda a questo proposito Richard Harprath, La formazione umanistica di papa Paolo iii e le sue conseguenze nell’arte romana della metà del Cinquecento, in Roma e l’antico nell’arte e nella cultura del Cinquecento, a cura di Marcello Fagiolo, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1985, pp. 63-85: 69: «Il primo emblema formato dal delfino e dal camaleonte si lega al motto: festina lente. L’impresa è spiegata giustamente da Annibal Caro nel seguente modo: “È cavata d’una che fece Augusto Imperatore, il quale poneva un delfino avvolto a un’ancora, volendo inferire d’esser sollecito ad eseguire e tardo a deliberare, come fanno i savi. Il sollecitare si significa con la velocità del delfino, la tardanza con la stabilità dell’ancora. Il Papa prese il camaleonte, animale tardissimo, in iscambio de l’ancora, ma non mise il motto. Ma s’intende che fosse il medesimo che quello d’Augusto, il quale era in Greco: speude bradeos e in latino. Festina lente, che voglion dire: Sollecita a bell’agio”». 368 Del nomar parean tutti contenti Sul rovescio […] si vedono due personaggi, uno anziano e uno giovane, che stanno seduti ai lati di una colonna cui è legata una vela spiegata al vento. Non è presente alcun motto, ma compare solo […] la firma: opus pisani pictoris. Com’è stato notato, dal lato in cui la vela s’innalza sta seduto l’anziano, la cui curva della schiena richiama quella stessa della vela, mentre, dall’altro lato, la schiena diritta e vigorosa del giovane corrisponde all’andamento verticale della colonna. Ciò a significare che la velocità e l’impeto espressi dalla vela sono controbilanciati dalla prudenza senile, mentre la stabilità, la fermezza della colonna sono vivificati dall’irruenza del giovane. Pisanello crea un’immagine innovativa, in cui il significato di ponderatezza e prontezza, già esplicito nella coppia colonna/vela, è ribadito dalla presenza del vecchio e del giovane, a esprimere una matura elasticità, secondo l’ideale della prudenza unita alla vitalità espressa dalla figura del paedogeron, un’espressione mutuata dal greco che sta a indicare colui che è al contempo puer e senex, giovane e vecchio.13 E tra Cinque e Seicento accade anche che un medesimo autore con lo stesso motto affronti temi e problemi molto diversi: uno dei più noti trattatisti olandesi di emblemi, Otto Vaenius, nel volume Q. Horatii Flacci emblemata (1612), ricorre all’immagine del cavallo frenato, ovvero a un «feroce destrier» che può essere lentamente e gradatamente ammaestrato, per ricordare che l’uomo a poco a poco può combattere i vizi e domare il «traviato senso» («Di feroce destrier può debol destra / Snudar la coda a pelo a pelo strutta, / Ne la robusta può con la sinestra / Quella estirpar da viva forza indutta. / Così può l’huom per la ragion maestra / I vitij sradicar con gentil lutta; / A poco a poco, e non a forza estenso. / Si doma, e monda il traviato senso»), mentre sia negli Emblemata aliquot selectiora amatoria (1618) sia negli Amorum emblemata (1608) utilizza l’immagine di Cupido tra la lepre e la testuggine 14 per sottolineare l’importanza che la costanza, persino la len13Laura Squillaro, Dalle imprese rinascimentali al logo commerciale. Le imprese rinascimentali: un sistema polisemico, in L’originale assente. Introduzione allo studio della tradizione classica, a cura di Monica Centanni, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 277-307: 291. 14La testuggine con la vela compare in un altro trattato olandese di fine Seicento, Devises et emblemes (1691) di Daniel de la Feuille con il motto «Festina lente, con il tempo e la patienza si viene al fin di tutto». Frequente nel tardo Rinascimento anche l’abbinamento della tartaruga con le ali, già presente nel Poliphilo e poi, tra gli altri, negli Emblemata di Junius (Anversa 1565) con lo stesso significato: «Celeritatem mora, et haec illam vicissim temperet». Cfr. anche Scipione Ammirato, Il Rota, overo delle imprese, Napoli, presso G.M. Scotto, 1562, p. 146: «Cambi. Verissimo, io un tempo servì una signora di gran valore e di molta autorità e però feci la testuggine, animal pigro e tardo, ma con l’aiuto del bellissimo ingegno di messer Annibal Caro l’aggiunsi l’ale col motto amor addidit, per denotare P. Sisto «Festina lente». Storia e fortuna di un motto tra Rinascimento e modernità 369 tezza, può avere nelle questioni amorose: «Ch i la dura , la vinc e. La testudine vinse una scommessa, / Nel corso al lepro, giunse vigilante / Al segno, e’l lepro ritardò le piante. / Tal un gode d’Amor che mai non cessa».15 Il motto viene anche ricordato nel Conte overo de l’imprese di Torquato Tasso, a proposito del pianeta Saturno, «velocissimo nel movimento, come stimava Platone, benché sia detto tardo», unitamente ai motti tardissime velox e velocissima tarditas quanto mai adatti a esprimere la riflessione degli ‘studiosi’ e più in generale la prudenza: Di Saturno non so chi abbia fatta impresa: ma essendo egli il primo fra i pianeti e nobilissimo fra gli altri e velocissimo nel movimento, come stimava Platone, benché sia detto tardo, e significando la contemplazione, ch’è nobilissima operazione de l’intelletto, mi parve che potesse aver luogo ne l’imprese; ma la difficoltà è nel far che la stella sia conosciuta per quella di Saturno: e quantunque ciò possa conoscersi dal colore, perché ciascun pianeta ha il proprio colore, come scrive Olimpiodoro ne la Meteora, nondimeno, perché l’impresa non dovrebbe aver bisogno di colore, meglio mi parve di collocarlo ne la sua propria casa, la quale, come scrivono gli astrologi, e Macrobio particolarmente nel Sogno di Scipione, è l’Aquario o il Capricorno, e vi aggiunsi per maggior notizia il motto tardissime velox o velocissima tarditas, come dovrebbe esser quella non solamente de gli studiosi ma de’ prudenti, benché a questa impresa si potrebbe applicare il motto d’Augusto lente festina.16 che, se ben io da me per seguirla avea il piè troppo grave e pesato, Amor, ch’ a’ suoi le piante e i cori impenna, avea nondimeno a questa mia tardità giunto le piume e datomi animo ed ardire di non ritrarmi dal mio pensiero». 15Sulla presenza della lepre e della tartaruga, animali sacri a Venere, nella favolistica e nella letteratura si veda Maria Rosa Panté, Lepri e tartarughe, in Animali della letteratura italiana, a cura di Gian Mario Anselmi, Gino Ruozzi, Roma, Carocci, 2009, pp. 141-152: 151: «Pareva che poche tracce di sé potessero lasciare lepre e tartaruga, invece le loro vicende hanno molto da insegnare: l’imprevedibilità dell’esistenza per cui non sempre la velocità ha la meglio sulla lentezza; la bellezza di un mondo senza violenza e senza spargimento di sangue; la fortuna di avere un rifugio, ma di saperne, con coraggio, uscire a rimirare tutto quello che è fuori […] I due animali attraversano divisi la letteratura italiana, ma sono accomunati dall’essere presenti soprattutto nel mondo della fantasia. […] In comune hanno anche l’essere animali sacri a Venere, forse perché in amore tra velocità e lentezza bisogna sapere sempre trovare il giusto ritmo». 16Torquato Tasso, Il conte overo de l’imprese, a cura di Bruno Basile, Roma, Salerno, 1993, pp. 126-27. L’impresa tassiana di Saturno con i motti «lentissimamente veloce» e «velocissima lentezza» è ricordata tra gli altri da Filippo Picinelli, Mondo simbolico…, Milano, Per lo Stampatore Archiepiscopale, 1653, p. 30: «La stella Saturno nella sua casa d’Acquario hebbe dal Tasso Tardissime velox o veramente Lente festina, che ammaestra i Prencipi a non essere precipitosi nel definire, né tardi nell’operare, essendo e la lentezza e la troppa celerità anche diffettose, ma a dovere contemperare l’una con l’altra, procedendo discreta e 370 Del nomar parean tutti contenti Sembra invece distaccarsi notevolmente dalle più consuete e accreditate interpretazioni secentesche Traiano Boccalini il quale nei Ragguagli di Parnaso immagina che i «signori deputati della dieta» discutano tra l’altro del significato e soprattutto della ‘verità’ del motto che viene ironicamente spiegata in tutt’altro modo ovvero come una sorta di invito dell’imperatore Vespasiano, ritenuto da alcuni inventore del motto stesso, rivolto ai romani a non «festinare» eccessivamente ovvero a non ricorrere all’«uso troppo frequente dei festini» perché questo significava «far professione di andar a caccia di corna ed empir di esse il carniere»: Dopo questa sentenza, da’ signori deputati della dieta grandemente fu dubitato della verità del proverbio: «festina lente»; e fu detto che non essendo possibile in un tempo medesimo correre e andar adagio, che la sentenza in sé conteneva due cose contrarie e però impossibili ad esser praticate; mercé che la lentezza in modo alcuno non poteva stare con la celerità, e che non era possibile che in quel negozio altri usasse maturità di consiglio, nel quale somma prudenza era precipitare: e in questo particolare grandemente fu lodato il parer di Tacito, il quale liberamente disse, che «nullus cunctationi locus est in eo consilio, quod non potest laudari nisi peractum»: mercé che «non cunctatione opus, ubi perniciosior sit quies, quam temeritas». In questa diversità di pareri, la dieta, per maturamente terminar il negozio di sentenza tanto importante, fece chiamar l’imperadore Flavio Vespasiano, al quale quei signori domandarono con qual senso primo di tutti egli avea pubblicato il proverbio: «f e stina l ente »; e se era vero che con tai parole egli altrui avesse voluto insegnar una matura celerità. A questa domanda rispose Vespasiano, ch’egli non con il senso che poi gli avea dato il volgo, alzò l’impresa dell’àncora e del delfino col motto ch’era noto ad ognuno, poiché benissimo conosceva che infiniti casi accadevano, ne’ quali nelle sue risoluzioni somma prudenza era precipitare, e alla francese prima operare e poi discorrere e deliberare: ma che con la sentenza: «f e stina l ente », con saluberrimo precetto aveva voluto ammonire i suoi romani a lentamente festinare, cioè a far di rado festini: perché in Roma, dove viveva copia grande di bracchi, che per trovar le fiere, ancorché molto appiattate, aveano perfetto odorato, e numero infinito di levrieri nel corso velocissimi, e copia immensa di quegli animali a due gambe che per aver la natura fiera «fiunt occupantis», l’uso troppo frequente dei festini altro non era che far professione di andar a caccia di corna ed empir di esse il carniere.17 giudiciosamente. Ovidio brama nel Principe la tardità al punire, ma la velocità al premiare dicendo nel i de Pont. Eleg.». 17Traiano Boccalini, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, n. ed. a c. di L. Firpo, Roma, Laterza, 1948, vol. i, pp. 185-86. P. Sisto «Festina lente». Storia e fortuna di un motto tra Rinascimento e modernità 371 E non mancano per illustrare in maniera persuasiva il senso del motto immagini tratte dal mondo vegetale: si pensi, per es., a Cesare Ripa che nella stessa Iconologia descrivendo la figura della diligenza ricorre agli alberi del mandorlo e del gelso «moro» – simboli rispettivamente di una precoce e tardiva fioritura – proprio per sottolineare come può ritenersi saggio chi riesce a «unire la prestezza con la tardanza»: Il tronco d’amandola è unito con uno di moro gelso perché l’amandola è il primo a fiorire. Plinio Floret prima omnium amigdala mense ianuario, però bisogna unire la sollecita diligenza con la tardanza, della quale n’è simbolo il moro, perché più tardi de gl’altri fiorisce, e per questo è riputato il moro più savio degli altri arbori. Plinio lib. 16 cap. 25. Così sapientissimo sarà riputato colui che unirà la prestezza con la tardanza tra le quali consiste la diligenza.18 Infine, il motto, utilizzato ancora tra Sei e Settecento in ambito rosacrociano e in particolar modo in una tavola dell’Amphiteatrum Sapientiae Aeternae (1609) di Heinrich Khunrath,19 sembra conoscere un significativo rilancio nel Novecento grazie alla riflessione di Italo Calvino il quale in un noto passo delle Lezioni americane osservò come sin da giovane avesse pensato a quell’ossimoro perché adatto alla sua persona e al suo impegno di scrittore e di intellettuale. Precisò, tuttavia, che all’immagine ‘classica’ del delfino e dell’ancora preferiva quella del granchio e della farfalla ovvero due ‘soggetti’ ancora più incongrui ed enigmatici – perché riferibili a due diverse realtà (la terra e il cielo) piuttosto che «a un mondo omogeneo d’immagini marine» –, e perciò capaci di esprimere meglio le contraddizioni e le inquietu18C. Ripa, Iconologia, ed. cit., p. 100. Sul gelso come simbolo di ‘maturità’ e soprattutto di una ideale arte di governo riferita a un duca come Ludovico il Moro cfr. E. Wind, «La maturità è tutto» cit., pp. 139-140: «La divisa con la pianta di gelso di Lodovico il Moro poteva essere considerata semplicemente un’allusione verbale alla sua persona, perché il nome latino del gelso è appunto morus. Ma in Plinio questo tipo di gelso era considerato ‘il più saggio tra gli alberi’ (morus… sapientissima arborum), perché i suoi fiori crescono lentamente, ma poi maturano con tanta rapidità da esplodere con grandissimo rigoglio […] Un’ideale arte di governo collegata a un nome (Morus) veniva così illustrata dalla saggezza naturale di una pianta - simbolo, nel suo lungo indugio e nel suo subitaneo sbocciare in fiori e frutti contemporaneamente, di una saggezza che economizza tutte le forze per un’occasione opportuna di improvviso e sicuro effetto». 19Si tratta in realtà dell’xi tavola (Laboratorium Oratorium) dell’Amphiteatrum sapientiae aeternae di Khunrath dove la scritta festina lente compare su uno degli alambicchi utilizzati per la produzione dell’oro filosofale. Cfr. a questo proposito Marco Berberi, Bomarzo: un giardino alchemico del Cinquecento, Milano, Nuovi Orizzonti, 1989 e Umberto Eco, Lo strano caso della Hanau 1609, Milano, Bompiani, 1989. 372 Del nomar parean tutti contenti dini di un’intera epoca e, nello stesso tempo, il senso più profondo della sua poetica. L’antico motto, insomma, dopo aver conosciuto una straordinaria fortuna soprattutto in coincidenza con l’origine e lo sviluppo dell’arte della stampa grazie all’intuizione di Erasmo da Rotterdam e Aldo Manuzio, rinasceva nel segno di un rinnovato, fecondo incontro tra parola ed emblema, tra fiaba e realtà, tra immagini degli antichi e icone dei moderni, nel «movimento della mente» di un uomo come Italo Calvino, per il quale la scrittura e la finzione letteraria non furono mai disgiunte dall’impegno in una delle realtà editoriali e culturali più importanti del secolo xx significativamente contraddistinta, tra l’altro, dalla marca tipografica dello struzzo tratta dal più noto trattato rinascimentale sulle imprese «militari e amorose»:20 Già dalla mia giovinezza ho scelto come mio motto l’antica massima latina Festina lente, affrettati lentamente. Forse più che le parole e il concetto è stata la suggestione degli emblemi ad attrarmi. Ricorderete quello del grande editore umanista veneziano, Aldo Manuzio, che su ogni frontespizio simboleggiava il motto Festina lente in un delfino che guizza sinuoso attorno a un’àncora. L’intensità e la costanza del lavoro intellettuale sono rappresentate in quell’elegante marchio tipografico che Erasmo da Rotterdam commentò in pagine memorabili. Ma delfino e ancora appartengono a un mondo omogeneo d’immagini marine; e io ho sempre preferito gli emblemi che mettono insieme figure incongrue ed enigmatiche come rebus. 20 In realtà, la marca tipografica dell’Einaudi, uno struzzo con un chiodo in bocca e il motto Spiritus durissima coquit, fu ideata e disegnata da Paolo Giovio per un cavaliere rinascimentale. Cfr. P. Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, ed.cit., pp. 96-98: «Ricordomi d’una ch’io feci a Girolamo Mattei romano, capitano de’ cavalli della guardia di papa Clemente, che fu uomo di risoluto e alto pensiero e animo deliberato, avendo con gran pazienza, perseveranza e dissimulazione aspettato il tempo per ammazzare (come fece) Gieronimo, nipote del Cardinal della Valle, ad effetto di vendicar la morte di Paluzzio, suo fratello, che dal detto Gieronimo fu crudelmente ammazzato per cagione d’un litigio civile. Avendomi dunque egli (per tornar a l’impresa) pregato ch’io gliene trovassi una significante che un valoroso cuore ha forza di smaltire ogni grave ingiuria col tempo, volendol’egli porre sulla bandiera gli figurai uno struzzo che inghiottiva un chiodo di ferro col motto Spiritus durissima coquit. Fu sì lodata quella sua notabil vendetta che i nemici della Valle accettarono la pace per cancellar la briga tra le due casate e papa Clemente gli perdonò l’omicidio e lo fece capitano». Interessante osservare come nel Novecento sia il motto festina lente sia l’immagine della tartaruga e della lentezza abbiano avuto una non trascurabile fortuna proprio nel mondo editoriale. Basti pensare, per es., all’Editrice Festina lente di Firenze e alla prima casa editrice femminista italiana. Cfr. M.R. Panté, Lepri e tartarughe cit., p. 146: «Perché scegliere questo animale come simbolo? Lo spiega una delle fondatrici, Laura Lepetit: “La tartaruga è affettuosa, mangia qualche fogliuzza d’insalata, va lontano… Anzi, per la leggenda conosce un unico tragitto: andare avanti. Già, ha i paraocchi. I lati della strada per lei rimangono avvolti nel mistero. I greci la dicevano potente per questo”». P. Sisto «Festina lente». Storia e fortuna di un motto tra Rinascimento e modernità 373 Come la farfalla e il granchio che illustrano il Festina lente nella raccolta di emblemi cinquecenteschi di Paolo Giovio, due forme animali entrambe bizzarre ed entrambe simmetriche, che stabiliscono tra loro un’inattesa armonia. Il mio lavoro è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo. Nella mia predilezione per l’avventura e la fiaba cercavo sempre l’equivalente d’un’energia interiore, d’un movimento della mente. Ho puntato sull’immagine, e sul movimento che dall’immagine scaturisce naturalmente, pur sempre sapendo che non si può parlare d’un risultato letterario finché questa corrente dell’immaginazione non è diventata parola.21 Università degli Studi “A. Moro” - Bari 21Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1991, p. 47. Giovanni Dotoli LA TRADIZIONE DEL VIAGGIO IN ITALIA. MONTAIGNE E GLI ALTRI 1. Senso del viaggio in Italia «L’Italie pour moi n’est pas un pays, c’est un mirage !», affermerà Alphonse de Lamartine 1 nei primi decenni dell’Ottocento, dopo averla attraversata fino a Napoli. Potrebbe essere questa la chiave di lettura del viaggio dall’Europa verso Italia, dal Medio Evo fino ai giorni nostri. Il Bel Paese è per tutti una terra di sogno, di sole e di luce. È un paesegiardino, con tutte le metafore del giardino. Alla fine del Seicento, Albert Jouvin de Rochefort scrive: «L’Italie est le jardin et le verger de l’Europe qui produisent les plus belles fleurs, et les fruits les plus excellents du Monde, où la vue et les autres sens ne trouvent rien à souhaiter de tout ce qui est le plus délicieux à la vie».2 Jean Cocteau annoterà nel 1956, in apertura della sua prefazione alla guida Nagel Italie: «Chaque fois que je passe la frontière si proche de ce Cap où je séjourne, il m’apparaît que la Beauté déchue a décidé de vivre entre Ventimille et Naples. Elle y règne incognito, avec ses malles pleines de haillons superbes, de robes d’or, d’objets qui parlent et obéissent à la règle des Nombres». Il viaggio in Italia è un atto d’amore, una sorta di verifica personale di erotismo, attraverso la lettura e la scrittura di miti che popolano la Penisola, dalla Sicilia a Venezia, dalla Calabria alla Liguria. Flussi ininterrotti di viaggiatori l’attraversano in ogni epoca. I personaggi più illustri e quelli meno noti superano le Alpi, al punto che si inventa l’espressione passer les monts, per dire andare in Italia, in terra di mirabilia. 1 A. de Lamartine, Cours familier de littérature, Paris, 1856-69, in Y. Hersant, Italies. Anthologie des voyageurs français aux xviiie et xixe siècles, préface, chronologie, notices biographiques, bibliographie établies par Y. H., Paris, R. Laffont, 1988, p. 724 («Bouquins»). 2 A. Jouvin de Rochefort, Le Voyageur d’Europe, où sont les voyages de France, d’Italie et de Malte, d’Espagne et de Portugal, des Pays-Bas, d’Allemagne et de Pologne, d’Angleterre, de Danemark et de Suède, Paris, D. Thierry, 1672-76, 7 vol, i, Introduction. G. Dotoli La tradizione del Viaggio in Italia. Montaigne e gli altri 375 Il viaggiatore straniero in Italia è affascinato dalla realtà e dal sogno, dai drammi della quotidianità e dai personaggi della storia. Egli comprende a pieno il nostro Paese, con le sue contraddizioni evidenti o segrete, non cade quasi mai nelle trappole tese dalla storia e dalla realtà, presta la massima attenzione allo scorrere dei fatti di ieri e di oggi, anche quando sembra che il suo sguardo sia condotto soltanto dal sogno. L’Italia del viaggiatore straniero non è un paese morto, ma sempre vivo, brillante, un eden misterioso di cui egli cerca di analizzare gli enigmi. Questa Italia-giardino si para davanti ai suoi occhi, aperta, a portata di mano, certamente tra immagini di Petrarca, Boccaccio, Tasso, Ariosto, Casanova, Stendhal, Michelangelo, Leonardo da Vinci, Dante, ma anche del popolo che anima città e borghi, e di contadini e operai disseminati per le campagne. Dilettanti, intellettuali, geni e praticanti dell’arte della vita, gli Italiani offrono al viaggiatore straniero le loro memorie, le loro città, i loro monumenti, e soprattutto le quinte del proprio teatro quotidiano, le quali li aiutano a mascherare e addolcire dolori e tragedie. Il viaggiatore scopre un’Italia sempre cangiante, inedita, multiforme, e questa diversità lo incanta, soprattutto se trattasi di un Francese, abituato alla centralità del potere della capitale del suo paese. Stendhal lo dirà meglio di chichessia. Il 10 novembre 1827, nelle Promenades dans Rome, egli scrive da par suo: «L’Italie a sept ou huit centres de civilisation. L’action la plus simple se fait d’une manière tout à fait différente à Turin et à Venise, à Milan et à Gênes, à Rome et à Naples. […] Je crois qu’au deux bouts de l’Univers on ne trouverait pas deux êtres aussi opposés, et se comprenant si peu, que le Napolitain et l’habitant de Florence».3 La conclusione di questo scrittore, che ha tanto amato l’Italia da farsi scrivere sulla tomba di essere «Italien», è semplicemente straordinaria:4 On a plus de gaieté à Sienne, qui n’est qu’à six lieues de Florence: on trouve la passion à Arezzo. Tout change en Italie toutes les dix lieues. D’abord les races d’hommes sont différentes. Supposez deux îles de la mer du Sud que le hasard d’un naufrage a peuplé de chiens lévriers et de barbets; une troisième est remplie d’épagneuls; une quatrième, de petits chiens anglais mopses. Les mœurs sont différentes. 3 Stendhal, Promenades dans Rome, in Voyages en Italie, textes établis, présentés et annotés par V. Del Litto, Paris, Gallimard (Pléiade), 1973, pp. 667-668. 4 Ivi, p. 668. 376 Del nomar parean tutti contenti Grâce au saugrenu de la comparaison, vous saisirez toute l’étendue de la différence que l’expérience établit entre le flegmatique Hollandais, le Bergamasque à demi fou tant ses passions sont vives, et le Napolitain à demi fou tant il suit avec impétuosité la sensation du moment. Dal Medio Evo alle soglie del xxi secolo, il viaggiatore straniero osserva che in Italia tutto si modifica, ogni dieci leghe, che tutto vi è eccezione. Questa diversità è all’origine di un amore e di un dialogo appassionanti. L’Italia e il popolo italiano lo affascinano. È una vera e propria enciclopedia dell’Italia vista dall’Altro che si rivela ai nostri occhi, in ogni tipo di testo, saggi, memorie, vademecum, carte, sempre risultato del visto e del letto, e soprattutto di esperienze personali, se non intime. È una visione d’insieme della Penisola, delle sue pratiche, dei suoi paesaggi e dei suoi spazi più attraenti. In ogni tempo, l’Europa colta guarda l’Italia per guardarsi dentro, per farsi e per sognare. È quasi un’Italia in tasca: una serie di cartoline postali, di riprese dai campanili, dalle coste, dai vetri di una carrozza, da un balcone, dalla cima di una montagna o di una collina, dal finestrino di un treno o di una macchina, da un barca o da un battello, a cavallo o a piedi, lentamente oppure più o meno a grande velocità, secondo l’epoca. Il Bel Paese si rivela ancora una volta una terra dai mille volti, con le sue strade, i suoi borghi, i suoi villaggi, le sue città grandi e piccole, i suoi trasporti, i suoi luoghi per dormire, alberghi, locande e pensioni, i suoi conventi, i suoi monasteri, le sue chiese, il suo incalcolabile patrimonio culturale, e dunque con le sue gioie, le sue follie, le sue passioni, i suoi briganti, la sua gastronomia, la sua religione, i suoi spazi interni ed esterni, lungo itinerari noti e perduti, sull’asse di un Grand Tour, il più celebre, ma anche di un Petit Tour, meno noto, ma più umano e più affascinante. Dappertutto, lo straniero ama una terra a misura d’uomo, che viaggia tra mondo antico e mondo moderno, Mediterraneo ed Europa, Oriente e Occidente, tradizione consolidata e innovazione che si annuncia sempre in ritardo: l’Italia gli si rivela un ponte tra passato e futuro. Il viaggiatore straniero vede forse il giardino d’Italia come la rappresentazione della vita umana? Le ricchezze del Nord e le bellezze del Centro, la Toscana, l’Umbria e le Marche, incarnerebbero la gioventù? Roma e il Lazio con la loro storia millenaria sempre attuale sarebbero l’età adulta? Napoli e il Sud, con i suoi superbi templi greci, l’immenso museo nascosto sotto i mari e G. Dotoli La tradizione del Viaggio in Italia. Montaigne e gli altri 377 i milioni di lapidi e pietre scritte che popolano terre e acque sarebbero i segni della vecchiaia e della morte? Di villaggio in villaggio, è sempre un’altra Italia che si mostra allo sguardo attento ed estasiato del viaggiatore straniero. Il popolo italiano gli appare nello stesso tempo laborioso e dedito all’ozio, cattolico e pagano, praticante e peccatore. Il viaggio procede di sorpresa in sorpresa. Il popolo italiano ama l’arte, la musica, la letteratura, la danza, che coesistono, come per magia, unitamente ai mille problemi quotidiani. Abbiamo la sensazione che la questione meridionale, la questione del Nord-Est, i mille problemi dei trasporti e della casa esistano dalla fine della Magna Grecia e dell’Impero Romano, sull’asse della storia. Immaginazione e realtà si confondono ad ogni sguardo lanciato su e nelle cose della Penisola. In fondo, il viaggiatore straniero cerca se stesso, attraverso le terre del giardino d’Italia. La luce di un paese mitico li acceca e li incanta, in un confronto costante con altre civiltà, in un incrocio di razze e migrazioni. Il viaggiatore straniero fugge da se stesso e si ritrova in un mondo che gli svela la sua propria anima. Direi che ciò si verifica in ogni periodo. Ma per il nostro assunto, vediamo cosa accade nel Medio Evo e nel Cinquecento, prima di accennare al viaggio del grande Michel de Montaigne, anche in questa splendida città, in cui soggiorna per curare i suoi calcoli renali dal 7 maggio al 21 giugno e dal 14 agosto al 12 settembre del 1581. 2. Viaggiare in Italia nel Medio Evo e nel xvi secolo Nel Medio Evo, i viaggi sono più frequenti di quanto non si creda oggi. Una sorta di unità sopranazionale annulla il senso attuale delle frontiere. Pellegrini e soldati affluiscono senza ostacolo alcuno verso i centri religiosi e i teatri di guerra. La religione è il motore numero uno del viaggio, con la letteratura che ne consegue, di missioni, evangelizzazione e sondaggi sul campo: «Le voyage est avant tout au Moyen Age une façon d’éprouver sa foi ou son savoir», nota Frank Lestringant. Le Crociate costituiscono una formidabile occasione per scrivere meraviglie del viaggio in Italia e dell’Oriente, e suscitare la curiosità del lettore e dello spettatore potenziali, al limite della favola e della storia. Le Devisament dou monde di Marco Polo è il prototipo di questi testi. Non si tratta di vere e proprie descrizioni geografiche, ma di prese di vista 378 Del nomar parean tutti contenti tra geografia, storia e memoria, per raccontare le terre d’Italia, la politica dei vari stati, la situazione di tante città. La conoscenza dell’Italia e dell’Oriente si diffonde progressivamente, con una fortissima influenza sulla letteratura odeporica. Scopriamo che «le monde cloisonné du Moyen âge n’est pas un monde clos», osserva giustamente Jean Richard.5 Il Mediterraneo, e dunque l’Italia, che ne è l’ombelico, è visto come «le centre du monde habité».6 Mercanti, avventurieri e missionari attraversano l’Italia, verso le favolose terre d’Oriente o verso la Terra Santa, creando le condizioni di quelle che saranno le grandi scoperte. I generi multiformi dei testi di viaggio si impregnano di questa varietà e di questa curiosità per le terre lontane, con numerose informazioni geografiche e storiche, oggettive e soggettive. La letteratura diventa un viaticum, da via, per migrazioni e conquiste, si tratti di viaggi diplomatici o religiosi. Il testo di viaggio in Italia appare stabile per lunghi decenni. Il quadro generale non muta, ma, di tanto in tanto, intravediamo i segni dell’invenzione e della letteratura che cambia. Il testoesplorazione del Bel Paese, pieno di ricordi e di squarci storici, fa l’inventario dell’avventura, perfezionandosi via via. Le grandi Università di Padova e Bologna già attirano un gran numero di Europei. Il pellegrinaggio ai Luoghi santi, a Roma, a Bari – per San Nicola –, e Montesantangelo – per San Michele –, sono occasione di un’incessante peregrinazione, di saperi e di civiltà. Il modello dei viaggi di Erodoto è sempre presente, ma sono le guide di pellegrinaggio quelle più diffuse, anche perché esse narrano di fatti indispensabili, racconti essenziali, combattimenti, assedi, negoziazioni, carestie, prove difficili da affrontare, tappe del viaggio, visto sempre come «les marques de la faveur divine».7 Le informazioni sono essenziali. Illustrazioni e carte sono rarissime, ma le poche esistenti favoriscono la nascita del mito d’Oriente. I nomi di luoghi e persone sono sovente trascritti alla buona, ma gli aspetti geografici, etnografici e linguistici risultano di primaria importanza oggi, con la nomenclatura di uomini e luoghi. L’interesse storico di questi testi è immenso, per conoscere l’Italia di quel tempo. 5 Jean Richard, Les récits de voyages et de pèlerinages, Turnhout, Brepols, 1981, p. 7. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 25. G. Dotoli La tradizione del Viaggio in Italia. Montaigne e gli altri 379 Sono opere di censura, di itinerari, economia, storia, religione, con elementi preziosi sul modo di vivere, gli alloggi, le spese, le tracce di un dialogo tra cristiani e musulmani, tra penitenza, azione e conoscenza. Leggiamo per esempio in un testo anonimo del 1517: «Venise est une belle cité, grande comme la moitié de Paris; […] et dit-on qu’il y a plus de bateaux à Venise que de chevaux ni mulets à Paris».8 Lo straniero che viene in Italia nel Medio Evo è in fondo un «routier de Dieu». È il simbolo di un movimento, di una transumanza ideale o politica, che costituisce un incontro capitale, all’origine della Grande Europa che già lontanamente comincia ad annunciarsi. Nel xvi secolo, che maggiormente ci interessa in questa sede, viaggio significa in particolare spedizione di guerra. Per esempio, Blaise de Monluc precisa: «il me prit envie d’aller en Italie, sur le bruit qui courait de beaux faits d’armes qu’on y faisait ordinairement. […] Je passai les monts et m’en allai à Milan, étant lors âgé de dix-sept ans».9 Ma la parola viaggio già significa anche senso di spostamento da un luogo all’altro, e da un paese all’altro. In effetti, nel corso dei secoli, gli Europei viaggiano molto, all’interno del proprio paese e all’estero. L’Italia è il paese che visitano più spesso, soprattutto gli Occidentali, naturalmente. Il clima, le opere d’arte, le università, la grande civiltà di questo periodo, il Rinascimento, li attira da ogni luogo. Per una ragione o per l’altra, quasi tutti i grandi scrittori francesi scendono in Italia, da Lazare de Baïf a Jean Lemaire de Belges, da Mellin de SaintGelais a Etienne Dolet, da Guillaume Budé a Michel de Montaigne. François Rabelais soggiorna ben quattro volte nel nostro paese. Joachim du Bellay narra le sue impressioni d’Italia nei Regrets, Olivier de Magny lo fa nei Soupirs, altri lasciano tracce del loro passaggio qui e là nelle loro opere, se non in un vero e proprio giornale di viaggio. Jean d’Auton scrive nelle sue Chroniques: Durant les triomphes et entrées du Roi en ses villes de Lombardie […], je, lors suivant la cour partout, avec mes tablettes, pour enregistrer les faits de ce temps, en tout lieux ou pour voir, trouver étrangers, me retirais pour savoir nouvelles, et tout m’en enquis aux Genevois, aux Romipètes, aux Allemands et Vénitiens.10 8 Anonimo, Voyage de la sainte cité de Jérusalem, Paris, J. de la Garde, 1517. 9 Blaise de Monluc, Commentaires, Bordeaux, Impr. de S. Millanges, 1592, 2 vol. in 1, p. 30. 10J. d’Auton, Chroniques de Jean d’Auton, publiées […] par P. L. Jacob, Paris, Silvestre, 1834-1835, 4 vol., iv, p. 368. 380 Del nomar parean tutti contenti Le rotte principali sono sempre quelle di Roma e della Terra Santa. Politica e religione si confondono, per il viaggiatore straniero in Italia. Anche l’apertura francese verso la Turchia passa dall’Italia – si pensi al ruolo di Venezia per questo –. Religiosi e laici cercano la via del Bel Paese, per la propria salvezza spirituale e morale. Abbiamo così numerose opere che fanno l’elogio di itinerari di pellegrinaggio, e che ci segnalano la rotta d’Italia e d’Oriente. Le più celebri, per la Francia, sono quelle di Denise Possot, Charles Estienne, Antoine Regnaut, Nicolas de Hault, Henry Castela, Jacques Gassot. Il viaggiatore europeo in Italia diventa un homo viator,11 che dà la stura alla nascita di un vero e proprio genere letterario, quello del viaggio, a partire proprio dal viaggio in Italia. Storia e scrittura s’incrociano, con un effetto benefico evidente su questa nuova letteratura. Il xvi secolo è il secolo degli sconvolgimenti religiosi, con la Riforma e il Concilio di Trento, nel cuore dell’Europa, fino all’Inghilterra. Tutto ciò ritroviamo puntualmente nel testo di viaggio in Italia, terra le cui tradizioni sono sconvolte da quanto allora si scatena in Europa continentale. La curiosità per l’Oriente e l’amore per l’Italia si uniscono e, sull’asse del «voir pour écrire», per dirla con Marie-Christine Gomez-Géraud,12 il viaggiatore racconta i problemi quotidiani o storici e soprattutto le bellezze e gli incanti della Penisola: Venise donc, me semble être l’une des merveilles du monde, tant pour ses grandes richesses, [...] cent soixante et six Eglises, [...], d’hôpitaux pour soulager et entretenir toutes les sortes de pauvres, [...] sept collèges pour faire instruire et enseigner la jeunesse [...] et bonnes mœurs [...] (Henry Castela),13 e ancora: Or, est à savoir que la dite ville de Gênes, entre les autres villes du monde, est excellente, estimée, tant en état de noblesse qu’en fait de marchandise; en laquelle sont grandes et anciennes maisons, desquelles sont les principales, comme je l’ai su étant sur le lieu […]: et premièrement la maison noble de Flisco… ( Jean d’Auton).14 11 M.-C. Gomez-Géraud, Ecrire le voyage au xvie siècle en France, Paris, Presses Universitaires de France, 2000, p. 7. 12Ivi, pp. 15 e sgg. 13H. Castela, Le Saint voyage de Jérusalem et Mont Sinaï, fait en l’an du grand Jubilé, 1600, Bordeaux-Paris, L. Sonnius-A. Du Brel, 1603, p. 35. 14J. d’Auton, Chroniques, cit., iv, p. 88. G. Dotoli La tradizione del Viaggio in Italia. Montaigne e gli altri 381 Il viaggiatore europeo in Italia si vede come Ulisse: il mondo è un sistema di peregrinazioni, al centro del quale si trovano il Bel Paese e l’Oriente, e poi via via il Nuovo Mondo. Nel secolo del Rinascimento, che nasce appunto in Italia, tutto è esperienza e fiducia nell’uomo. L’Italia appare come un piccolo specchio del mondo, di cui occorre fare il racconto. Più che di ricerca dell’alterità, si tratta di desiderio di conoscere, di completarsi, di confrontarsi, anche a rischio di andare per stereotipi. Il viaggiatore europeo percepisce profondamente che nel xvi secolo l’Italia realizza la sintesi delle arti e della vita. Leonardo da Vinci, Raffaello, Michelangelo, i capolavori del Tiziano, la sistemazione della piazza San Marco a Venezia, la cappella Sistina, il ruolo immenso di Firenze, Roma e Venezia, sono la prova del genio italiano, che conosce l’arte di utilizzare la luce, in un culto edonista, nel trionfo della bellezza femminile e nell’esplosione del colore. Il testo diventa guida, autobiografia, serie di consigli per andare a Roma e Venezia, e poi, eventualmente, in Terra Santa. ������������������������ Annota il Castela: «Monsieur, Dieu m’ayant inspiré de faire le saint voyage de Jérusalem, de retour que j’ai été, me suis hasardé de le coucher par écrit, y ayant resserré comme en un tableau, ce que j’ai pu remarquer de mes yeux [...]».15 I pericoli di questo viaggio sono evidenti, ma il viaggiatore li affronta in maniera quasi mistica. Poco importano le ripetizioni. A poco a poco, il testo del viaggio in Italia comincia a codificarsi, per luoghi di memoria, città simboliche e piccoli borghi, cose viste e cose e fatti letti, colore locale e libertà di scrittura. Elogi e deplorazioni si incrociano, con iperboli e grida, parodie e poesia, in uno stile rispettoso delle grandi regole dell’eloquenza. Il genere letterario del viaggio «est en train de prendre forme», scrive Yvonne Bellenger.16 La curiosità comincia a trovare sbocco nella scrittura. E così comprendiamo perché nel corso del xvi secolo nasca e si affermi la nozione di italianismo, come dimostra Jean Balsamo.17 15H. Castela, Le Saint voyage de Jérusalem et Mont Sinaï, cit., dédicace. 16Y. Bellenger, Quelques relations de voyage vers l’Italie et vers l’Orient au xvie siècle, in Voyager à la Renaissance, Actes du colloque de Tours, 30 juin - 13 juillet 1983, sous la direction de J. Céard et J.-C. Margolin, Paris, Maisonneuve et Larose, 1987, p. 462. 17Si veda il bilancio che ne fa in La France et sa relation à l’Italie au xvie siècle, «Nouvelle Revue du Seizième siècle», 1995, n. 13, 2, pp. 267-89, contenente un’importante bibliografia sull’argomento. 382 Del nomar parean tutti contenti Possiamo senz’altro affermare che è qui l’origine di quello che si chiamerà il Grand Tour: è l’inizio di una vera e propria rivoluzione culturale dell’Europa occidentale, i cui effetti continuano ancora ai giorni nostri. L’umanesimo penetra la letteratura di viaggio, tra scrittura, sguardo, senso della prospettiva, lettura della storia e dei suoi segni. Il romanzo vero del Bel Paese comincia a trovare i suoi punti essenziali. Il suo autore è nello stesso tempo scriptor e auctor, per esprimere il mondo che lo circonda e che egli desidera vedere e raccontare, senza dimenticare i segreti del proprio io, come si vedrà nel corso dell’intera letteratura odeporica sul viaggio in Italia, fino al xx secolo. Nascono così nuovi modelli. Questo percorso termina brillantemente con il Journal de voyage en Italie di Michel de Montaigne, che è in Italia dal mese di giugno 1580 al mese di novembre 1581. Con lui, si assiste finalmente alla narrazione dell’io, al rapporto profondo tra antico e attualità, alla scrittura della memoria e della vita, alla storia e al racconto della quotidianità. 3. Michel de Montaigne e il viaggio in Italia Michel de Montaigne si pone una serie infinita di domande, dall’erudizione alla medicina, dalle cerimonie religiose alla cucina, dalle curiosità etnologiche alla teologia, dagli ex-voto alle informazioni più banali, profondamente impregnandosi di italianità, fino a scrivere in lingua italiana e a sentirsi quasi italiano. Con il grande autore degli immortali Essais, il testo del viaggio in Italia diventa un vero e proprio diario, un journal, in cui il lettore troverà l’amore per la parola unito alla gioia di vedere e di inventare. Lo scrittore mette da parte qualsiasi problema di tipo didattico, per raccontare e per raccontarsi, per affermare il proprio io e quello della letteratura.18 Con Montaigne il dado decisivo è tratto. Il viaggiatore europeo in Italia comincia a saper guardare gli uomini, a creare un legame unitario tra i diversi momenti della storia. Le rovine da segni del passato si trasformano in segni di memoria viva. Partito per affari di diplomazia, per «prendre les eaux», com’è noto anche qui a Bagni di Lucca, e per curarsi, Michel de Montai18Si vedano ivi, pp. 27-29, e i due libri di Concetta Cavallini, L’Italianisme de Michel de Montaigne, Fasano-Paris, Schena-Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 2003 et «Cette belle besogne»: Etude sur le «Journal de Voyage» de Montaigne, Fasano-Paris, Schena-Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 2005 («Biblioteca della Ricerca»). G. Dotoli La tradizione del Viaggio in Italia. Montaigne e gli altri 383 gne cura soprattutto il proprio io. La conoscenza dell’Italia si trasforma in conoscenza della propria anima. L’autenticità della Penisola è il sigillo della verità e di una nuova scrittura, il testo del viaggio in Italia, prossimo modello europeo per eccellenza. All’ingresso dell’Italia, Michel de Montaigne già fa conoscenza con una nuova forma di luce, contemplando le montagne tra Briga e Bolzano:19 Le mardi nous partîmes au matin et reprîmes notre chemin, traversant cette plaine et suivant le sentier des montagnes. A une lieue du logis [nous] montâmes une petite montagne d’une heure de hauteur, par un chemin aisé. A main gauche nous avions la vue de plusieurs autres montagnes, qui, pour avoir l’inclination plus étendue et plus molle, sont remplies de villages, d’églises, et la plupart cultivées jusqu’à la cime, très plaisantes à voir pour la diversité et variété des sites. Les noms de main droite étaient un peu plus sauvages et n’y avait qu’en des endroits rares où il y eût habitation. Nous passâmes plusieurs ruisseaux ou torrents, ayant les cours divers; et sur notre chemin, tant au haut qu’au pied de nos montagnes, trouvâmes force gros bourgs et villages et plusieurs belles hôtelleries, et entre autres chose deux châteaux et maisons de gentilshommes sur notre main gauche. Sa plaine n’est guère large; mais les montagnes d’autour, même sur notre main gauche, s’étendent si mollement qu’elles se laissent tâtonner et peigner jusques aux oreilles. Tout se voit rempli de clochers et de villages bien haut dans la montagne, et près de la ville, plusieurs belles maisons très plaisamment bâties et assises. Soprattutto a partire da Michel de Montaigne, il Bel Paese è e sarà sempre il libro del sogno e dell’incrocio del mondo. Esso si fa traccia e rovina del tempo, iscrizione all’aria aperta del proprio io. Emozione e finzione s’incrociano con il ricordo, su un modo simbolico della realtà, per parallelismi e analogie. L’Italia diventa un gigantesco libro di viaggio. Il viaggiatore europeo non chiuderà mai più questo libro. Frequentandolo, egli frequenterà il mondo, seguendo gli schemi dell’ars peregrinandi, come lascia appunto intuire Michel de Montaigne, fin dagli anni ’80 del xvi secolo. La sensibilità al presente e la rimemorizzazione del passato si uniscono, e annunciano il destino futuro. Con Montaigne, il viaggio in Italia diventa qualcosa di redditizio. Esso è vera «fréquentation di monde», come egli afferma in i, 26 degli Essais,20 e 19M. de Montaigne, Journal de voyage, édition présentée, établie et annotée par F. Garavini, Paris, Gallimard, 1983, pp. 142 e 144. 20M. de Montaigne, Les Essais. Edition conforme au texte de l’exemplaire de Bordeaux, 384 Del nomar parean tutti contenti quindi prova di erranza e «investissement social, culturel et symbolique», come osserva Jean Balsamo.21 4. L’Italia o del genius loci Non è forse già il messaggio che sarà di François-René de Chateaubriand e di Stendhal, di Marcel Proust e di Marguerite Yourcenar, di Albert Camus e di Yves Bonnefoy? È il corso del tempo che è dentro di noi, un tempo «intemporel», tra immagine del mondo e segreti dell’io. Il Bel Paese si rivela essere il luogo dell’era più vasta del tempo, per periodi, stili, rovine, resti, tracce, simboli del reale e della mente, con il suo inesorabile corso e quindi la desolazione del cuore. Irreparabile tempus fugit, aveva detto Orazio, uno dei più grandi poeti del canto d’Italia, Orazio, autore di un viaggio da Roma a Brindisi, e soprattutto del celebre motto: carpe diem. Per una serie ininterrotta di viaggiatori europei, l’Italia è e sarà una festa della vita e dell’effimero, il laboratorio del museo e della storia che avanza, la conferma della grandezza incomparabile dell’uomo creatore e faber, il lieu del transitorio e del permanente della terra, il segno dell’infinito e dell’eterno del fuggitivo. Nella Penisola, viaggiatore all’antica e viaggiatore moderno si uniscono, fino a confondersi. Le città d’Italia annullano il tempo, per annotazioni quotidiane, elementi pittoreschi e grida di poesia. Da Michel de Montaigne a Dominique Fernandez a Yves Bonnefoy, ogni città e ogni luogo riassumono la città e il luogo seguente. Il viaggiatore europeo, questo promeneur amoureux, per utilizzare il titolo di un libro di Dominique Fernandez,22 rende l’omaggio più bello al Bel Paese, centro del Mediterraneo, mare e madre, come ricorda proprio questo scrittore nel suo volume Mère Méditerranée,23 in una ininterrotta iniziazione, da un punto all’altro dell’Italia. È come se la lunga durata di Fernand Braudel esistesse da sempre. Michel […] par P. Villey […], Paris, Quadrige / P.u.f., 2004, i, 26, De l’institution des enfants, p. 157. 21J. Balsamo, Voyage(s), voce in Ph. Desan, dir., Dictionnaire de Michel de Montaigne, publié sous la direction de P. D., Paris, Champion, 2004, p. 1041. 22Dominique Fernandez, Le Promeneur amoureux. De Venise à Syracuse, Paris, Plon, 1980. 23Dominique Fernandez, Mère Méditerranée, Paris, Grasset, 1965; poi Livre de Poche, 1965 e 2000. G. Dotoli La tradizione del Viaggio in Italia. Montaigne e gli altri 385 Butor parla giustamente di génie du lieu. La sua Modification24 ne è una prova inconfutabile. Dalla terra dell’antichità alla cultura diffusa, dai tesori d’arte alla storia, dalla vita quotidiana al clima, dai briganti ai castrati, dai quadri dei grandi pittori alle curiosità più insolite, dalle donne alle opere musicali, dai papi agli amori, dai lazzaroni ai ruffiani, dai fannulloni ai geni della storia, all’energia che tanto ammirerà Stendhal, alla vitalità, alla gioia, il Bel Paese offre al viaggiatore straniero la leggenda personificata di un mondo unico, da decifrare, amare e trascrivere. L’occhio del viaggiatore sarà sempre in agguato, come quello di un artista. Nel corso dei secoli, la visione muta, ma la materia è sempre la stessa, quella di un’Italia che è un modello vivente, un giardino che fiorisce in un tempo perenne, di esperienza e di conoscenza. Con Michel de Montaigne, potremmo affermare: «Or, à cet apprentissage, tout ce qui se présente à nos yeux sert de livre suffisant». Il libro del viaggio in Italia fa propria la realtà. Sul piano sincronico e diacronico, il nostro paese diventa il gran mondo, da leggere e ammirare, per frammenti e per unità, in una favola di viaggio reale e immaginario. Nel 1810, Alphonse de Lamartine potrà gridare senza paura: «Si mon âme est universelle, si mon berceau est français, mes sens sont italiens».25 Preso da un irresistibile stupore, il viaggiatore europeo, come Yves Bonnefoy, potrà confessare: «Je finis par aller en Italie, et là, je découvris, en une heure, que ce que j’avais pris… pour un monde imaginaire et qui plus est, impossible, en fait existait sur cette terre, sauf qu’il était renoué ici, recentré, rendu réel, habitable».26 Questo omaggio dal profondo del cuore inizia soprattutto con Michel de Montaigne, anche grazie alla sua presenza qui, nella vostra bella città. Dobbiamo essergli grati all’infinito. Forse senza il suo Voyage en Italie il viaggio nel Bel Paese avrebbe preso un altro corso nel xix e nel xx secolo, ed anche oggi e nel futuro prossimo e lontano. Università degli Studi “Aldo Moro” - Bari 24 Michel Butor, La modification, Paris, Editions de Minuit, 1990. 25A. de Lamartine, Cours familier de littérature, cit. in Yves Hersant, Italies. Anthologie des voyageurs français aux xviiie et xixe siècles, pp. 724-725. 26Y. Bonnefoy, cit. in Jacqueline Risset, L’Italie d’Yves Bonnefoy, in Yves Bonnefoy, cahier onze, sous la direction de J. Ravaud, «Le Temps qu’il fait», 1998, p. 71. Giulia Dell’Aquila ANTICHI E MODERNI NEL GIUDIZIO DI PAOLO BENI Nella mappa delle rotte, dei confini e dei passaggi percorsi dalla letteratura italiana, alcuni giudizi su autori e testi classici della nostra tradizione hanno avuto a volte – per gli esiti estremi del discorso – il senso di deriva, nell’avvicendarsi di parametri di valutazione e confronto e nell’incalzare della modernità.1 In riferimento al contributo italiano nell’avvio della querelle secentesca su antichi e moderni, si vuole qui richiamare la posizione assunta in merito da Paolo Beni, che – per la significatività degli autori e delle opere attraverso i quali prende parte alle discussioni letterarie del suo tempo 2 – si attesta in misura pregnante non solo nel panorama critico italiano di primo Seicento bensì in un orizzonte più ampio.3 A conferma, la risonanza europea – come osservato da più studiosi già nel primo Novecento 4 – del suo 1 Tra vari, cfr. Marc Fumaroli, Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, Milano, Adelphi, 2005; Pasquale Guaragnella, Tra antichi e moderni. Morale e retorica nel seicento italiano, Lecce, Argo, 2003; Giacinto Margiotta, Le origini italiane de ‘la querelle des anciens et des modernes’, Roma, Studium, 1953; José Antonio Maravall, Antiguos y Modernos. Vision e idea de progreso hasta en Renacimiento, Madrid, Alianza, 1986. 2 Gubbio, 1552-53 – Padova, 1625. Della ormai cospicua bibliografia sul Beni, ricordo qui soltanto: Giancarlo Mazzacurati, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1966, vol. viii, pp. 494-501; Enciclopedia Dantesca, voce Beni, Paolo, a c. di Aurelia Accame Bobbio, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1970, vol. i, pp. 586-87; Michele Dell’Aquila, La polemica anticruscante di Paolo Beni, Bari, Adriatica, 1970; Id., Il Cavalcanti di Paolo Beni, «Italianistica», 1994, pp. 33359; Maria Luisa Doglio, ad vocem, in Dizionario critico della letteratura italiana, a c. di Vittore Branca, Torino, Utet, 1973, vol. i, pp. 273-78; Paul B. Diffley, A note on a Paolo Beni’s Birthplace, «Studi Secenteschi», 1983, pp. 51-55; Id., Paolo Beni. A Biographical and Critical Study, Oxford, Clarendon, 1988. 3 Francesco Sberlati nel volume La ragione barocca. Politica e letteratura nell’Italia del Seicento (Milano, B. Mondadori, 2006, p. 133) ricorda che il gesuita francese René Rapin nella sua Comparaison entre Virgile et Homere del 1668 «saccheggerà» la Comparazione del Beni. 4 Il riferimento è a Joel Elias Spingarn, La critica letteraria nel Rinascimento, Bari, Laterza, 1905, p. 31 e segg., ma anche a Giuseppe Toffanin, La fine dell’Umanesimo, Milano- G. Dell’Aquila Antichi e moderni nel giudizio di Paolo Beni 387 impegno esegetico nella lettura della Poetica e Retorica di Aristotele,5 peraltro non immune da travisamenti),6 e dello sforzo nel conciliare le enunciazioni teoriche con la concreta analisi dei testi, sempre visti nel confronto con altri. Peculiare e archetipico del genere dei trattati di poetica, il modulo della comparazione, come osservato da Maria Luisa Doglio, è proprio dello stile riflessivo ed espositivo del Beni,7 fino a tradursi nell’icona retorica di un’età particolarmente esposta alle turbolenze del confronto tra antichi e moderni. Rinviando alle pagine di quanti hanno accuratamente accertato e approfondito circostanze biografiche e contesti culturali e relazionali, è necessario richiamare almeno alcune delle vicende più significative nella vita del Beni: 1) la conoscenza e frequentazione del Tasso presso l’Accademia degli Animosi di Padova nella metà degli anni Settanta del Cinquecento, quando il Beni era studente di teologia e filosofia presso lo Studio padovano;8 2) l’ingresso nel 1581 nella Compagnia di Gesù e la permanenza in essa fino al ’96,9 cioè il rapporto con l’ordine che per il Beni aveva avuto un ruolo importante già negli anni giovanili della formazione e che imprimerà in lui un più duraturo ordine mentale, come alcuni successivi sviluppi della sua tensione riflessiva Torino, Bocca, 1920, pp. 135-139, e a Carmine Jannaco, Critici del primo Seicento, in La critica stilistica e il barocco letterario, Firenze, Le Monnier, 1958, pp. 222-231. 5 Paolo Beni, Commentarii in Arist. Poeticam, Padova 1613 e Venezia 1622-23. Nel 1624 il Beni pubblicherà in Venezia i Commentarii in Arist. Libros Rethoricorum duobus tomis explicatis. 6Cfr. Claudio Scarpati, Eraldo Bellini, Il vero e il falso dei poeti. Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Milano, Vita e Pensiero, 1990, pp. 41 e segg. 7M.L. Doglio, Tasso «Principe della moderna poesia» nei discorsi accademici di Paolo Beni, in Formazione e fortuna del Tasso nella cultura della Serenissima, Atti del Convegno di studi nel iv centenario della morte di Torquato Tasso (1595 – 1995), Padova-Venezia, 10-11 novembre 1995, a c. di Luciana Borsetto, Bianca Maria Da Rif, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1997, pp. 79-95, 8 La circostanza, com’è noto, è stata messa più volte in discussione, poiché il Tasso risultava a quell’epoca (1574) aver già lasciato Padova da circa dieci anni, risiedendo ormai a Ferrara: tuttavia, sulla base di alcune testimonianze e data la distanza non impossibile da percorrere tra Padova e Ferrara, è molto probabile che le parole del Beni corrispondano al vero (cfr. G. Mazzacurati, Dbi, cit., p. 494). 9 Le ragioni dell’uscita del Beni nel ’96 dalla Compagnia di Gesù non sono mai state accertate: Mazzacurati nel Dbi fornisce alcune ipotesi poi assunte per attendibili dagli studiosi successivi, fino al Diffley che lega l’uscita del Beni dalla Compagnia anche ad intrighi patrimoniali, determinati da una inestinguibile avidità che evidentemente spiacque alle autorità gesuite (cfr. B. Diffley, Paolo Beni. A Biographical and Critical Study, cit., p. 38). Il Beni rimase in seguito nel clero secolare. 388 Del nomar parean tutti contenti ed ermeneutica starebbero a dimostrare;10 3) la docenza universitaria presso lo Studio di Padova iniziata alla fine del ’99, per ricoprire la cattedra di umanità che era stata di Antonio Riccoboni. Come professore a Padova – città dal volto tanto anticuriale da far pensare che la presenza del Beni,11 vicino all’ambiente papale, sia da intendere come una opportunità di «misurazione e di calibratura dei rapporti […] con Roma»12 – il Beni rimarrà fino al 1623, dispiegando le sue energie filologiche e pedagogiche anche nei riguardi delle finalità dei corsi dello studio e della vita accademica. Per il miglioramento degli stessi egli giungerà a proporre nel 1619 un piano di riforma,13 in cui si leggerebbe ancora una dissimulata influenza gesuitica, nonostante l’uscita ormai datata dalla Compagnia.14 Anche in questo testo e quasi a conferma di quanto contemporaneamente il Beni veniva dichiarando in sede critica, è stata individuata un’ampia apertura modernista nella proposta di svecchiare i programmi didattici anche attraverso l’introduzione di autori più recenti.15 Il confronto tra antichi e moderni attraversa, infatti, tutta l’attività del Beni, critica e didattica, e si svolge in linea con la generale ripresa – nel sorgere della coscienza vertiginosa della modernità – del tema cruciale del ‘paragone’ tra il mondo antico e quello contemporaneo, fondendosi presto con lo spirito di rivolta tipicamente padovano. La sua attività di studioso, come risulta dalle interpretazioni che si sono susseguite nel secondo Novecento,16 è vivacemente animata dal continuo ricorso a parametri vecchi e nuovi: le 10F. Sberlati, Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2001, p. 415. 11Il Beni nel 1594 era stato chiamato da Clemente viii ad insegnare filosofia presso la ‘Sapienza’ di Roma: vi rimase sino al trasferimento presso lo studio di Padova, alla fine del 1599. 12Stefano Tomassini, L’ ‘Heroico’, ad esempio. Tasso e Beni, Torino, Genesi, 1994, p. 13. 13P. Beni, Discorso intorno alla riforma dello Studio di Padova, 1619 (il manoscritto è conservato presso l’Archivio Segreto Vaticano). 14Il passato gesuita del Beni e il ricordo della «vocazione ministeriale che alimentava la Compagnia di Gesù» sarebbero visibili, secondo Sangalli, «nella lucida percezione della centralità del settore educativo per la salvaguardia e la continuità dell’ortodossia cattolica; nella consapevolezza della rilevanza della formazione delle classi dirigenti per il futuro della cattolicità; nella convinzione che le modalità di educazione del governante si riflettono direttamente sui comportamenti del governato, in una sorta di applicazione a questo settore del principio del cuius regio eius et religio» (Maurizio Sangalli, Di Paolo Beni e di una riforma dello Studio di Padova, «Studi veneziani», 2001, p. 63). 15S. Tomassini, L’ ‘Heroico’, ad esempio. Tasso e Beni, cit., p. 13. 16In particolare G. Mazzacurati cit. e M.L. Doglio cit., che lo orientano in direzione barocca; B. Diffley cit., che lo vincola più strettamente alla stagione tassiana. G. Dell’Aquila Antichi e moderni nel giudizio di Paolo Beni 389 categorie aristoteliche, ossia dell’estetica classica, e la preferenza accordata all’invenzione ingegnosa, nel perseguimento del ‘verosimile’ «meraviglioso» e cristiano. «Portavoce del sussulto modernista»,17 Beni rivendica in tal modo l’inviolabile libertà d’invenzione secentista e mostra tutta l’insofferenza per le regole che è, ha ricordato Maravall, un tratto distintivo del Barocco.18 La ricerca dell’artificio espressivo e della consistenza retoricamente alta della pagina guida come un faro tutta l’attività del Beni, in particolare la sua militanza critico-letteraria che, nell’attualità dei casi discussi, rivela il rapido acclimatarsi nella vivacità accademica padovana. È, infatti, già nel primo anno del suo insegnamento, il 1600, che egli rinnova la vivacità dei confronti giovanili con gli Accademici Animosi e scende in campo, inanellando da quel momento una lunga serie di discussioni letterarie. Su sollecitazione del Guarini difende il Pastor fido,19 con due discorsi a sostegno delle tesi dell’autore ferrarese. Le ragioni di questo intervento, piuttosto che in un’improbabile vicinanza poetica tra i due, sono state trovate plausibilmente nel desiderio di «minare la credibilità»20 di Giovanni Pietro Malacreta, autore di alcune severe Considerazioni intorno al Pastorfido e temibile interlocutore su questioni metriche nella commedia e nella tragedia, sulle quali il Beni si era pronunciato in quello stesso anno.21 Ma forse il Beni aveva colto nel poema del Guarini una certa tensione sempre viva a tenere desta l’attenzione dei lettori anche con un linguaggio sostenuto e grave, nonostante il lieto fine in cui si risolve la storia narrata. L’interesse per questo elemento nelle opere di volta in volta prese in esame come un filo rosso attraverserà l’intera attività critica beniana: sia nella difesa dell’opera guariniana,22 sia nella lode degli He17G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, 1967, p. 286. 18Cfr. J.A. Maravall, La cultura del Barocco, Bologna, il Mulino, 1985. 19P. Beni, Risposta alle considerazioni e ai dubbi del Malacreta sopra il «Pastor fido», Venezia, 1600; Id., Discorso nel quale si dichiarano e stabiliscono molte cose pertinenti alla Risposta data a’ dubbi e alle considerazioni del Malacreta sopra il «Pastor fido», Venezia, 1600. 20Lo ricorda Pierantonio Frare nel suo La ‘nuova critica’ della meravigliosa acutezza, in Storia della critica letteraria in Italia, a c. di Giorgio Baroni, Torino, Utet, 1997, p. 225. 21P. Beni, Disputatio in qua ostenditur praestare comoediam atque tragoediam metrorum vinculis solvere, Padova, Francesco Bolzetta, 1600. 22Il Diffley giustifica quell’intervento, sulla base di quanto si legge nella nota ai lettori inclusa nell’edizione secentesca, non tanto con una reale vicinanza beniana nei confronti del poema guariniano, quanto con il desiderio «to parry a possible attack which he had heard that Malacreta was preparing against his recently published Disputatio» (Paolo Beni. A ������ Biographical and Critical Study, cit., p. 71), rivelando, in tal modo, «a fear of being shouted down by a young upstart and of cutting a poor figure in Padua» (ivi, p. 73). 390 Del nomar parean tutti contenti catommithi di Giovambattista Giraldi Cinzio – a suo parere meritevole tra i moderni anche per la suspense da cui il lettore sarebbe suggestionato –, sia nel «gusto dello spettacolo»23 tassiano, sembra di poter ravvisare la presenza di una chiave di lettura più moderna, attenta non solo al decoro della pagina, nelle sue componenti stilistiche e formali, ma pure alle esigenze del lettore moderno. È una spia anche questa dell’interesse per le finalità pedagogiche della cultura umanistica che il Beni terrà sempre presenti nel rilanciare gli studia humanitatis, messi in crisi dai successi delle scienze.24 L’attenzione alla dimensione educativa si rivela altresì nello svolgimento di un discorso di carattere istituzionale – parallelo a quello culturale – che nell’opuscolo inedito sul Modo di riformare lo Studio di Padova lo confermerà ancora (venti anni dopo rispetto a questo esordio critico) ambizioso organizzatore di un sistema educativo su larga scala, in linea con il nuovo umanesimo di cui si faceva portavoce, e non estraneo all’insegnamento gesuita di cui aveva avuto esperienza diretta.25 Ma dai discorsi in difesa del Pastor fido si coglie anche il ricorso frequente alla comparazione 26 (con la Grecia fisica di Pausania o con quella poetica del Sannazaro), modalità argomentativa che – insieme alla tensione didattica, alla prontezza polemica, al sostegno del moderno e al distanziamento da certe forme di naturalismo letterario o linguistico – connoterà per sempre lo stile critico del Beni. Se ne ha altra prova nel primo intervento, del 1607, sul poema del Tasso, confrontato con quelli di Omero e di Virgilio,27 23Dalle suggestive atmosfere dell’Aminta tassesca, vera e propria «macchina teatrale», ottenute con l’alternanza di motivi idillico-elegiaci ad altri più tragici, e con l’uso di registri dialogati, narrativi o deittici (cfr. Francesco Tateo, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, vol. v, La fine del Cinquecento e il Seicento, cap. iii, La letteratura della Controriforma, Roma, Salerno, 1997, pp. 163-64) dovette rimanere fortemente impressionato il Guarini che volle emulare quell’esempio sfruttando accorgimenti simili. Anche da un punto di vista linguistico la ‘tragicommedia’ guariniana utilizza uno stile che, pur non essendo lontano da quello della quotidianità, rimane distante da quello più popolare, e si tinge di toni melodrammatici accentuando il quoziente di pathos. 24 B. Diffley, Paolo Beni. A Biographical and Critical Study, cit., p. 60. 25Ivi, pp. 60-61: in ciò lo studioso si distacca da quanto sostenuto precedentemente da altri critici, circa l’appartenenza prima del Riccoboni e poi del Beni ad una «dying humanistic tradition» (ibidem), e si dichiara più incline a rintracciare nel Beni i segni di «a new humanism, more rigorous and self-contained than its earlier incarnation» (ivi, p. 61). 26M.L. Doglio, Tasso «principe della moderna poesia»…, cit., p. 81. 27P. Beni, Comparatione di Homero, Virgilio e Torquato. Et a chi di loro si debba la Palma nell’Heroico Poema. Del quale si vanno anco riconoscendo i precetti: con dar largo conto de’ Poeti Heroici, tanto Greci, quanto Latini et Italiani. Et in particolare si fa giuditio dell’Ariosto. Del Sig. Paolo Beni, Padova, Lorenzo Pasquati, 1607 (il testo era organizzato in sette discor- G. Dell’Aquila Antichi e moderni nel giudizio di Paolo Beni 391 un intervento che oltre a salutare l’inizio del secolo partecipando allo spirito antitradizionalista che lo attraverserà per intero, costituisce la prima tappa di un lavoro impegnativo e duraturo sul poeta di Sorrento. Beni, in tal modo, si inserisce in una già solida tradizione d’uso della comparazione tra l’epicità di Omero e Virgilio con l’epicità moderna, e si colloca significativamente, ha ricordato la Doglio, in un solco cha va dal Castelvetro al Tasso, per giungere sino al Tesauro.28 Impiegata in direzione filotassiana, la comparazione torna utile anche per pronunciarsi negli stessi anni in materia storiografica: è del 1611 un saggio sulla storiografia classica e sul metodo della storia,29 nelle cui pagine il Beni definisce Livio scrittore «horridus, tortuosus, inaequabilis», e come ricorda il Tiraboschi 30 gli antepone contestualmente il più moderno Quinto Curzio Rufo, teorizzando anche in sede storiografica l’ideale ‘patetico’, ‘favoloso’, e romanzesco, sostenuto da intenti didattici, che gli sembra di riscontrare nella Historia Alexandri Magni. L’antiarcaismo del Beni sarà compiutamente ribadito di lì a poco in un’opera dal titolo L’Anticrusca overo il Paragone dell’italiana lingua,31 immediasi). Nel 1612 il Beni pubblicò una seconda edizione, costituita dalla ristampa anastatica della prima, con l’aggiunta di altri tre Discorsi, a numerazione autonoma, e di due Tavole delle cose più notabili, senza numerazione, relative alle due edizioni: Comparazione di Torquato Tasso con Homero e Virgilio insieme con la difesa dell’Ariosto paragonato ad Homero. Opera sommamente necessaria a chi brama Poetar regolatamente e con lode. Di Paolo Beni. All’Illustriss. et Eccellentiss. Sig. Don Giovanni iii, Conte di Vintimiglia, Marchese di Hierace, e Prencipe di Castelbuono, in Sicilia. Con Indice copiosissimo nel fine. In Padova, con licenza de’ Superiori. In casa et a spese dell’Autore. Per Battista Martini, 1612. 28M.L. Doglio, Tasso «principe della moderna poesia»…, cit., p. 79. 29P. Beni, De historia libri quatuor [sic], Venezia, 1611, ristampato tre anni più tardi ancora a Venezia e poi nell’edizione delle Opere, Venezia, Guerigli, 1622, con l’aggiunta dei commentari all’Eneide e alla Congiura di Catilina di Sallustio. 30«I quattro libri De istoria scribenda di Paolo Beni contengono riflessioni e precetti assai opportuni, ma frammischiati a opinioni che non si possono sostenere da chi sia del tutto privo di buon senso e di saggio discernimento, qual è quella fra le altre, che Livio sia inferiore di molto a Quinto Curzio»: Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Società Tipografica, 1787-1794, libro vii, p. 1542. 31P. Beni, L’Anticrusca overo il Paragone dell’Italiana lingua, nel qual si mostra chiaramente che l’antica sia inculta e rozza e la moderna regolata e gentile, In casa et a spese dell’Autore, Padova, Giovanni Battista Martini 1612: si tratta della prima parte di un’opera, che secondo il piano complessivo ne prevedeva quattro: tale prima parte si legge in edizione anastatica a c. di Gino Casagrande per l’Accademia della Crusca (Firenze, Le Lettere, 1983). Le tre parti finali dell’Anticrusca, inedite fino a qualche decennio fa, sono state rinvenute dal Casagrande all’interno di un manoscritto del fondo petrarchesco conservato presso la Biblioteca della Cornell University di Ithaca (N.Y.) e dallo stesso edite (Firenze, Le Lettere, 1982). 392 Del nomar parean tutti contenti tamente correlata con la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, pubblicato in Venezia appunto nel febbraio del 1612, in cui Dante e Boccaccio primeggiano, insieme ad altri autori di area fiorentino-toscana, a vantaggio di un canone trecentesco da assumere come modello cui conformare la lingua moderna e nazionale. Una soluzione rifiutata in toto dal Beni, pur convinto della necessità di avere a disposizione dei modelli per un uso ‘regolato’ della lingua, ma di provenienza panitaliana e anche più attuali. Si ha traccia di tale premura anche in un opuscolo contenente alcuni Avertimenti per la Lingua Italiana nella Prosa e nel Verso, in cui il lettore è spesso rinviato ad autori modernissimi, come il Marino, inaspettatamente citato dal Beni per il modo di comporre versi e rime. Un riconoscimento dovuto, forse, se si pensa che Traiano Boccalini nei suoi Ragguagli di Parnaso, pubblicati ugualmente nel 1612, a «condividere le corone di alloro con gli antichi greci e latini chiama numerosi scrittori italiani del ’400 e ’500 e un poeta italiano ancora giovane ma già molto celebre»,32 appunto il Marino. Con L’Anticrusca nel discorso critico del Beni più visibilmente si incrociano argomenti linguistici e passioni poetiche, dunque la polemica anticruscante e la difesa della Liberata, con una serie di argomenti e temi connessi agli uni e alle altre, ripresi anche successivamente, nell’operetta del 1614 intitolata Il Cavalcanti,33 fino al conclusivo commento del poema tassiano del 1616.34 Assimilato ulteriormente il senso delle scelte accademiche, e muovendo dalla disattenzione che Bastiano de’ Rossi e gli altri compilatori hanno mostrato per i letterati veneti 35 o gravitanti in area veneta,36 nel Cavalcanti il Beni, ol32M. Fumaroli, Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, cit., p. 39. 33P. Beni, Il Cavalcanti overo la difesa dell’Anticrusca di Michelangelo Fonte. Al sereniss. e generosiss. Granduca di Toscana Cosmo ii. Opera piacevolissima, et a Studiosi di purgato e vago Italiano stile utilissima. In Padova, Per Francesco Bolzetta 1614. Per il testo di quest’opera mi permetto di rimandare al volume Paolo Beni, Il Cavalcanti overo la difesa dell’Anticrusca di Michelangelo Fonte, di cui ho curato la trascrizione (Bari, Cacucci, 2000). Il titolo dato dal Beni dichiarava esplicitamente il suo intento difensivo nei confronti dell’Anticrusca overo il Paragone dell’Italiana lingua, nel qual si mostra chiaramente che l’antica sia inculta e rozza e la moderna regolata e gentile. Tra l’Anticrusca e il Cavalcanti c’era stata la Risposta di Orlando Pescetti all’Anticrusca, Verona, 1613. 34P. Beni, Il Goffredo, overo la Gierusalemme liberata, del Tasso, col commento del Beni. Dove non solamente si dichiara questo nobil poema, e si risolvono vari dubbi e molte opposizioni, con spiegarsi le sue vaghe imitazioni, et insomma l’artificio tutto di parte in parte; ma ancora si paragona con Homero e Virgilio, mostrando che giunga al sommo: e perciò possa e debba riceversi per essempio et idea dell’heroico poema, Padova, Francesco Bolzetta, 1616. 35B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani, 2002, p. 411. 36Oltre al Tasso, Annibale Caro [Civitanova Marche 1507 - Frascati 1566], Sperone Speroni G. Dell’Aquila Antichi e moderni nel giudizio di Paolo Beni 393 tre a sostenere la superiorità dei cinquecentisti sui trecentisti, contrappone al catalogo di autori allestito dai compilatori accademici lunghe enumerazioni di nomi che attingono a svariate aree linguistiche e letterarie, e concentra la sua attenzione critica innanzitutto contro Dante e Boccaccio. Raccogliendo gli esiti di un processo di distanziamento dalla Commedia che ha tempi ormai lunghi, egli intende risarcire il Tasso dall’esclusione nel Vocabolario del ’12, e nel riferimento alle regole aristoteliche, cui tutta la sua attività ermeneutica tende a essere informata, si sofferma su due aspetti del poema dantesco. Sul fronte poetico, la nozione di ‘appartenenza’ a un genere letterario preciso, questione che aveva già sollecitato l’interesse di altri letterati, come Benedetto Fioretti che aveva proposto per la Commedia la definizione di «teoepopea»37 e Alessandro Tassoni che aveva definito il poema «eroisatira», a conferma di una interpretazione satirica perdurante per tutto il secolo. Sul fronte specificamente linguistico, in riferimento diretto alle accuse degli Accademici della Crusca contro il Tasso, Beni condanna nella Commedia la varietà di inserti attinti da altre lingue, innanzitutto i latinismi, lodati invece come preziosismi nella Liberata. Beni rifiuta l’ipotesi dell’appartenenza della Commedia al genere del ‘poema eroico’, non riscontrando in essa alcuni dei requisiti che ritiene essenziali. L’affidamento, ad esempio, dell’impresa ad un solo personaggio non garantisce lo stesso effetto finale che si ha nella Liberata, in cui l’azione è pure affidata ad un solo personaggio, ma che agisce per mezzo di molti; come pure, nemmeno è possibile individuare nella Commedia finalità e potenzialità educative, a differenza della Liberata, in cui già l’intento moralizzante dell’impresa crociata garantisce la proficuità della lettura. Fedele allo stile espositivo ‘didattico’, anche per Dante, come sarà per altri autori, il critico esplicita le sue argomentazioni attraverso la disamina dei versi di un canto, il xxv del Paradiso, particolarmente vessato nella storia della critica dantesca per la densità teologica del discorso poetico. Nelle parole del Beni il poeta diviene «aspro, rozzo, laido, sconcio e senza [Padova 1500 - 1588], Giovanni Guidiccioni [Lucca 1500 - Macerata 1541], Lodovico Domenichi [Piacenza 1515 - Pisa 1564], Erasmo di Valvassone [Valvassone 1523 - Mantova]. Il Beni, dunque, al fronte tosco-fiorentino oppone la tradizione ferrarese dell’Ariosto, Giraldi Cinzio, Guarini e Tasso, opportunamente ricordata da Guido Baldassarri (‘Acutezza’ e ‘ingegno’: teoria e pratica del gusto barocco, in Storia della cultura veneta, Il Seicento, 4/i, diretta da Girolamo Arnaldi e Manlio Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1983, p. 226), e quella veneta. 37Benedetto Fioretti, Progymnasmi Poetici, cit., vol. iii, p. 79 e vol. iv, p. 7. 394 Del nomar parean tutti contenti giuditio»,38 venendogli negato finanche il titolo di filosofo, che in determinati ambienti, quali l’Accademia degli Infiammati di Padova (cioè la sede più prestigiosa dell’antidantismo italiano) gli era stato assegnato nella ormai radicata tendenza a distinguere tra poesia e filosofia.39 Anche nel caso del Petrarca la pronuncia del Beni è da leggere in riferimento al primato dantesco nella Tavola degli Autori, che appare al critico una grave mancanza verso un autore di cui già i contemporanei, non solo in Italia ma anche in Europa, riconobbero la grandezza e che dal giudizio bembiano nelle Prose diviene un’autorità indiscussa. Anche in un secolo volubile e inquieto come il Seicento che segnerà il punto più basso della sua fortuna, Petrarca è imitato o emulato nella tensione innovativa, rifiutato attraverso forme parodiche o reinventato attraverso soluzioni sperimentali che comunque fanno salvo «il fondo ‘materico’» di quei versi.40 Del poeta di Laura al Beni piace innanzitutto quell’intendere anche la lingua dei Rerum vulgarium fragmenta come un’occasione per raggiungere la perfezione formale, per realizzare un linguaggio raffinatissimo: lo stesso che il Beni aveva cercato maldestramente di realizzare in veste di poeta, contraendo un debito oneroso e pervenendo tuttavia ad un personale petrarchismo assai rigido.41 Del Petrarca, peraltro, il Beni coglie e apprezza anche un certo distanziamento da Dante che invece non ritrova nel certaldese, primo filologo del poeta fiorentino e perciò primo emendatore di quella «empirica, inesperta e ametodica filologia»42 che aveva accompagnato il testo della Commedia fin dal suo primo apparire, e a cui il Boccaccio cominciò a porre rimedio con la raccolta di materiali e con gli abbozzi esegetici poi confluiti nei pochi mesi della lectura a Santo Stefano e nelle Esposizioni sopra la Commedia.43 Il lascito dantesco all’autore del Decameron è del resto evidente nella «tendenza all’ibridizzazione e alla contaminazione di modelli eterogenei»44 propria del novelliere, e ripresa direttamente dal poeta della Commedia, maestro di 38Paolo Beni, Il Cavalcanti..., cit., p. [16]. 39Lo ricorda Emanuella Scarano, in La critica rinascimentale, in Storia della critica letteraria in Italia, cit., p. 195. 40 Marco Ariani, Petrarca, Roma, Salerno, 1999, p. 361. 41B. Diffley, Paolo Beni. A Biographical and Critical Study, cit., p. 25. 42 Enrico Malato, Dante, Roma, Salerno, 1999, pp. 244-245. 43Cfr. Corrado Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani. Dalle origini al Tasso, Torino, Einaudi, 1993, p. 181. 44 Lucia Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno, 2000, p. 205. G. Dell’Aquila Antichi e moderni nel giudizio di Paolo Beni 395 espressivismo linguistico.45 L’antiboccaccismo del Beni si spiega, tuttavia, anche con la straordinaria popolarità che ancora arride alla centuria e al suo volgare, di cui il Bembo nelle Prose, unitamente ai Rerum vulgarium fragmenta, aveva individuato il carattere metastorico, sull’esempio del latino.46 Tra devozione e feticismo, il Decameron sarà imitato da generazioni di narratori nel Cinquecento, riuscendo a superare finanche le censure controriformiste ma non quelle del Beni, la cui attenzione verso l’opera si traduce in una nuova revisione del testo. Una revisione non tuttavia determinata dall’incrocio delle premure della Curia romana con la devozione degli accademici fiorentini ‘Deputati alla correzione’ del novelliere, bensì mossa dal riscontro di ambiguità espressive (assolutamente illecite nella prosa) e inconsistenza narrativa. Va detto peraltro che il suddetto incrocio aveva reso da un punto di vista filologico un grande favore al Decameron, nell’attenzione specifica ai numerosi errori di trasmissione, causati da una tradizione pluritestimoniata,47 e che aveva portato ad una prima edizione ‘rassettata’ del 1573 48 e ad una seconda edizione ‘emendata’ del 1582.49 Ad inficiare la validità della centuria innanzitutto nella sua ambizione documentaria, che poggiava sulla veritas «intesa […] come ‘storicizzazione’ dei personaggi e degli eventi narrati»,50 45Cfr. Vittore Branca, Espressivismo linguistico come contemporaneizzazione e straniamento, in Id., Boccaccio medievale, Firenze, Sansoni, 1956, pp. 358-377. 46 Cfr. G. Mazzacurati, Pietro Bembo e la questione del volgare, Napoli, Liguori, 1964, pp. 185-191. 47 Cfr. Peter M. Brown, Leonardo Salviati. A Critical Biography, Oxford, University press, 1974, pp. 160-182. 48 Il Decameron di Messer Giovanni Boccacci, Cittadino fiorentino. Ricorretto in Roma, et emendato secondo l’ordine del sacro Concilio di trenato, et riscontrato in Firenze con testi antichi et alla sua vera lezione ridotto da’ Deputati di loro Alt. Ser., Nuovamente stampato, Con Privilegij del Sommo Pontefice, delle Maestadi dei Re Christianissimo et Re Cattolico, delli Serenissimi Gran Duca et Prencipe di Toscana, dell’Ill. et Ecc. S. Duca di Ferrara, et d’altri Sign. Et Rep., in Fiorenza, Stamperia dei Giunti, 1573. 49 Cfr. P.M. Brown, Leonardo Salviati. A Critical Biography, cit., pp. 160-176. L’edizione messa a punto dal Salviati così recitava nel frontespizio: Il Decameron del Boccaccio emendato dal Cavalier Leonardo Salviati Fiorentino, In Firenze, nella Stamperia de’ Giunti, 1582. A proposito delle modifiche apportate su alcune novelle, soprattutto nei passi più ricchi di riferimento alla vita monastica ed al clero, si veda Nicola Longo, La letteratura proibita, cit., pp. 985-986, in cui vi sono, a titolo di esempio, chiari riferimenti alle cesure operate sulla novella di Alibech (Dec., iii, 10), prima dal Borghini e poi dal Salviati. Per una diversa interpretazione delle vicende legate alla revisione del 1582 cfr. Tim Carter, Another promoter of the 1582 ‘Rassettatura’ of the «Decameron», «The Modern Language Review», 1986, pp. 893-899. 50E. Malato, La nascita della novella italiana, in La novella italiana, Atti del Convegno di studi (Caprarola, 19-24 settembre 1988), Roma, Salerno, 1989, tomo i, p. 24. 396 Del nomar parean tutti contenti il Beni recupera i suoi interessi storiografici e opera un iniquo quanto incongruente paragone tra Sallustio, Livio, Boccaccio e Guicciardini, ponendo sul banco di prova il ritratto morale di un personaggio fatto da ciascuno di essi.51 Compiendo un’operazione speculare e opposta a quella del Petrarca che aveva tradotto in latino la novella della virtuosa Griselda, Beni esamina quella di ser Ciappelletto, che incarna ogni scelleratezza. Sul fronte propriamente linguistico l’attenzione del Beni si concentra nella riscrittura della breve novella della donna di Guascogna, «in un italiano libero dal marchio di Firenze e svincolato dall’eredità della tradizione».52 Si tratta, non casualmente, della stessa novella che il Salviati aveva fatto tradurre in dodici diversi volgari d’Italia negli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone (bergamasco, veneziano, friulano, istriano, padovano, genovese, mantovano, milanese, napoletano, bolognese, perugino, e infine in lingua fiorentina di Mercato Vecchio, il fiorentino popolare dei tempi del Salviati), e di cui