Introduzione 1. L`evoluzione dell`industria italiana dall`Unità agli

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Introduzione 1. L`evoluzione dell`industria italiana dall`Unità agli
Indice
Introduzione
1.
L'evoluzione dell'industria italiana dall'Unità agli anni Novanta
I primi passi e il ruolo dello Stato.
Pil 1/3 della Francia, Inghilterra
2000 km ferrovia contro 9000 Francia, 17000 Inghilterra
nel 1961 Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto con 30% popolazione producevano 75%
Pil
Dicotomia tra poche grandi imprese –moltitudine piccole imprese
Lo Stato ha da subito un ruolo forte nello sviluppo dell’industria con le ferrovie, dunque
acciaierie e fonderie di Terni con la meccanica di Breda e Ansaldo alle quali assicura
domanda pubblica
Lo Stato forza l’economia per chiudere il divario con il resto d’Europa; spinge sulle
grandi imprese per catturare le economie di scala. Pertanto finanzia alla grande
l’impresa privata
Tra 1866-1913 la spesa pubblica è sempre superiore a quella degli altri paesi europei
Fino al 1911 cresce di più l’industria avanzata (più tecnologica) che è grande industria.
Soprattutto il comparto elettrico (Edison 1884). Poi la siderurgia, essenziale per produrre
acciao per l’industria meccanica (Terni, Elba, Ilva). Ci volevano capitali e provenirono
dall’estero.
Dal 1900 prende avvio l’industria meccanica (FIAT); nel 1907 si contano 61 imprese
d’auto (Isotta, Lancia, Bianchi, ...) ma la FIAT controlla già il 50% della produzione.
Importante era pure il settore elettromeccanico ma si restava per il 60% dipendenti da
forniture estere,
Con l’auto prende avvio il settore gomma (Pirelli 1872 che al 1914 era già una
multinazionale).
All’inizio del 900 si sviluppa rapidamente la chimica con la Montecatini /1888/ che fa da
perno al settore.
Nel 1911 l’industria occupa il 25% degli occcupati. Sono presenti tutte le industrie più
moderne (siderurgia, meccanica, elettricità, chimica).
La struttura industriale era già polarizzata: al nord grande industria e grandi imprese (ma
piccole rispetto ai concorrenti europei). L’industria tessile al nord (Marzotto e Rossi) era
all’avanguardia. Nel resto d’Italia tante piccole officine a conduzione familiare di quello
che poi diventerà il made in Italy. I problemi della grande industria sono legati alla
conduzione familiare che limita la crescita per carenza di capitali e l’innovazione tecnica
che viene acquisita dall’estero. Questi aspetti inducono a cercare protezione nello stato.
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- Il ruolo della finanza: le banche miste.
Nei territori di piccola impresa le banche piccole di credito cooperativo e le Casse di
Risparmio hanno il ruolo dominante.
Per il finanziamento della grandi imprese, quelle del Nord, dopo il fallimento della
banche nazionali coinvolte nella costruzione delle ferrovie, entrano banche nuove con
forti capitali stranieri, tedeschi, svizzeri. Nel 1894 nasce la Comit, nel 1895 il Credito
Italiano. Le due maggiori banche di oggi. Esse, seguendo la tradizione tedesca fanno il
credito sia a breve che a lungo termine. Con il che partecipano anche alla gestione delle
grandi aziende perché suoi funzionari partecipano ai consigli di amministrazione.
Al Sud si avvia il Banco di Roma. Più legato alla politica.
Le due grandi banche del Nord, ai primi del 900, avviano anche la borsa valori (Piazza
Affari).
All’inizio del 900 i grandi gruppi del nord appaiono strettamente intrecciati alla grande
finanza. E’ un anticipo del “salotto buono”.
Il periodo fascista e la grande crisi
Dalla guerra traggono grande vantaggio le industrie meccaniche del nord (veicoli, aerei,
naviglio, siderurgia, …). Cioè le solite grandi aziende, FIAT, ILVA, Ansaldo, …
Negli anni 20’ l’industria cresce molto (5% annuo). Consolidano il loro potere Edison e
Montecatini. Anche in termini di contrattazione politica.
Prende forma in quel periodo la struttura oligopolistica della grande industria del nord.
Anche la piccola industria tradizionale si consolida e diventa la base del futuro made in
Italy
La crisi del 29 coinvolge le due principali banche (miste italiane) Comit e Credito Italiano,
Lo stato interviene smobilizzando i titoli delle grandi aziende in cambio della proprietà
azionaria delle banche. Tutte le partecipazioni acquisite dallo stato confluiscono nell’IRI.
Nel 1937 l’IRI viene dichiarato permanente e si trova proprietario di tutte le banche miste
(le maggiori del Nord, poi chiamate le 3 Bin) e del 20% del capitale delle grandi aziende
del nord (siderurgia, elettricità, cantieristica, servizi telefonici). Lo stato già possedeva le
banche regionali già ex Istituti di emissione.
L’IRI finisce con il controllare, oltre al sistema bancario delle ex banche miste (le banche
di credito cooperativo e le Casse di Risparmio sono già di proprietà degli enti locali e
delle associazioni di categoria), l’80% della cantieristica, 45% della siderurgia, 23% della
meccanica.
Restano private la Falk, la Fiat, la Montecatini, la Edison e altre. I proprietari, per
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mantenere il controllo, si aiutano reciprocamente incrociandosi le partecipazioni
azionare, creando i sindacati di controllo, il salotto buono in cui nessuno riesce ad
entrare se quelli già dentro non lo consentono.
- Dopo la Seconda guerra mondiale.
Probeli aperti: eccesso di manodopera; relativa arretratezza tecnologica dell’industria
italiana; struttura proprietaria della grande industria privata chiusa, non contendibile,
dunque votata alla scarsa efficienza
Moltissime piccole imprese, spesso arretrate.
Si decide di non smantellare l’IRI e di usarla come strumento per promuovere la crescita
industriale e tecnologica del paese.
Il piano Marshall fornisce molto capitale per acquistare dall’estero tecnologia. Se ne
avvantaggia la Fiat e la siderurgia pubblica (Sinigaglia).
- Il miracolo economico.
Grande crescita dell’economia italiana fino al 1962 (6% annuo medio – il miracolo
economico)
Fino alla metà anni 50’ il traino è la domanda interna
Dopo il 58 (Trattato di Roma) è la domanda esterna che traina
La crescita delle esportazioni è spiegata dai prezzi bassi dovuti a una forza lavoro
abbondante in uscita dalle campagne delle zone povere del paese (sud e nord-est) che
non spinge sui salari.
Nel 1953 si crea l’Eni con Enrico Mattei con il compito di fornire al paese l’autonomia
energetica con la ricerca e con accordi diretti coi i paesi produttori. In pochi anni l’Eni
diventa una grande azienda energetica diversificata e internazionalizzata.
Da ricordare di quegli anni la grande esperienza della Olivetti di Adriano Olivetti, forse
unica grande azienda multinazionale italiana leader di settore (macchine da scrivere
27% del mercato mondiale, in competizione con IBM).
Molte piccole botteghe si trasformano in piccole aziende; nello stesso periodo è il grande
successo dell’elettrodomestico italiano (Candy, Merloni, Zoppas, Zanussi, Mivar) e
dell’industria alimentare (Buitoni, Barilla, Star, Ferrero, Motta, Alemagna, ...)
- Le sfide perdute.
Del grande sviluppo di quegli anni restano importanti buchi neri. Si afferma l’industria
meccanica leggera, il settore auto. Ma non riesce il disegno di dotare l’Italia di sicurezza
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energetica (Mattei viene ucciso); la chimica (nonostante il premio Nobel a Natta per il
moplen) si avvita su se stessa; l’elettronica con la Olivetti viene lasciata fallire, dopo la
morte di Adriano Olivetti; la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962) che crea
l’Enel non produce nelle ex-aziende elettriche rimborsate con ingenti capitali sussulti
positivi di imprenditorialità (i casi Edison e Montecatini, poi Montedison, fino ai giorni
nostri). Dopo la metà degli anni 60’ l’IRI e l’Eni finiscono sotto il controllo della politica
che le usa prima per operazioni di salvataggio industriale (nella chimica, nel tessile
(Lanerossi), in molto altro) buttando un sacco di quattrini, poi sempre più per scopi
elettoralistici senza che un disegno industriale ragionevole emerga. In quegli anni tutte le
grandi aziende in crisi finiscono per essere assorbite, attraverso IRI e Eni, dallo stato.
L’Eni è stata risanata dopo il 1995. L’IRI non esiste più e tutte le sue aziende, banche
comprese, sono state privatizzate.
- Il periodo recente: grandi e piccole imprese.
Le grandi imprese private, dopo la conflittualità degli anni 60’ culminata nell’autunno
caldo, a cui si aggiunge la prima grande crisi petrolifera, entrano in crisi. Calano i profitti,
non si investe più, crescono i debiti, le banche pesano sempre più. Si mette in azione
Mediobanca con Cuccia che cura il riassetto del’industria privata del nord e ne blinda il
controllo da attacchi esterni. Come risposta alla crisi si avvia il decentramento
produttivo. Solo negli anni 80’ si riprende a investire, la produttività si rimette a crescere,
così i profitti; la borsa si rimette in moto come fonte di finanziamento dalle aziende dopo
circa 80 anni. Ma non si assiste a un salto tecnologico di rilievo e non di riesce a entrare
in settori ad alto valore aggiunto. Si resta confinati in quelli tradizionali. La
disoccupazione per effetto delle operazioni industriali di ristrutturazione si assesta
stabilmente oltre il 10%.
Alla fine degli anni 80’ la grande industria del nord rientra in crisi (Fiat, Montedison,
Olivetti, ...).
Le piccole imprese esplodono negli anni 70-80. Cresce la produttività e il profitto. Sono
l’espressione compiutà della specializzazione flessibile. La sua prima funzione è l’esser
complementare alle grandi e di rappresentare per esse la flessibilità che non possono
conseguire al loro interno per le rigidità sindacali.
Le grandi imprese pubbliche rappresentano, all’avvio delgi anni 90’ il 35% delle imprese
industriali medio-grandi. Ma macinano perdite e la CE ne decreta lo smantellamento
(accordo Andreatta Van Myert).
Gli anni 80’ sono caratterizzati:
a) dal rientro della grande inflazione degli anni 70’
b) da un freno alla politica delle svalutazioni competitive
c) dalla eliminazione di imprese non efficienti
d) da crescita della produttività media delle imprese a seguito di una politica di
investimento rivolta ad ammodernare gli apparati industriali e con crescita della
disoccupazione
e) dalla crescita del debito pubblico
2.
Dagli anni Novanta: numeri e indicatori
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- Alcune definizioni.
Industria in senso stretto e costruzioni. Le costruzioni sono un settore ad alta intensità di
manodopera e ad alto valore aggiunto.
L’industria in senso stretto comprende le attività estrattive, le manifatturiere (88% del
valore aggiunto, 96% dell’occupazione), produzione e distribuzione di energia.
- I numeri.
Nel decennio la quota del valore aggiunto del manufatturiero passa dal 30% al 20% e la
quota di occupazione si ferma al 22%. Negli altri paesi europei è ancora più bassas
- La competitività.
La quota di esportazioni o di mercato sul commercio internazionale. E’ la misura del
gradimento delle nostre merci. Stava sul 5% a fine anni 80’. E’ scesa e poi risalita dopo
la svalutazione della lira nel 1992-3. A partire dal 1996 ha iniziato a scendere. Ed è
scesa velocemente dopo il 2000. Ora è a poco più della metà del 1990.
Perchè? La svalutazione non si può più fare. La produttività dei nostri concorrenti
(Germania, Francia) è cresciuta e la nostra no. Sono entrati nel commercio mondiali
paesi grandi come Cina e India così che il denominatore del rapporto aumenta.
Comunque le nostre E si sono ridotte e proprio nei settori per noi più significativi del
made in Italy.
Investimenti diretti all’estero, cioè trasferimento di pezzi di azienda all’estero, ci sono ma
sono comunque meno significativi di quanto fanno tedeschi, francesi, inglesi e
americani.
La competitività di prezzo noi l’abbiamo sempre raggiunta con le svalutazioni. Dopo il
1996 questa via è preclusa. La competitività di costo la si misura con il rapporto del
costo del lavoro per la quantità prodotta; cioè con il costo del lavoro per unità di
prodotto. Dipende dall’accrescimento della produttività e dall’andamento del costo del
lavoro. Da alcuni anni la nostra produttività non cresce o cresce meno rispetto ai
concorrenti. Il costo del lavoro non cresce.
La redditività (il profitto per capitale investito) è in linea con quanto accade altrove per le
imprese medie. Appare più bassa per le grandi. Ma è difficile misurare la redditività.
3.
Le dimensioni: una peculiarità italiana
- Le dimensioni contano?
Pare di sì. Le imprese di maggiori dimensioni sono anche quelle in cui la produttività
cresce di più. Anche a causa delle economie di scala. Ma pure perchè le imprese più
grandi investono nella ricerca.
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- Il confronto internazionale. L'evoluzione recente: riduzione delle dimensioni e
dell'integrazione verticale.
Le piccole imprese (0-9) sono la larga maggioranza in tutti i paesi (oltre il 90%). La
particolarità italiana è che le piccole contano per quasi la metà dell’occupazione
complessiva mentre negli altri paesi avanzati si arriva al 30%. Mancano le medie
imprese che altrove sono il perno.
E’ anche vero che a partire dagli anni 80’ in molti paesi si assiste all’espansione della
piccola impresa; in Italia il fenomeno resta più accentuato. A spiegazione si può dire che
sono venute meno alcune economia di scala, nella meccanica, per effetto del progresso
tecnico. E pure che i rapporti tra le imprese si sono modificati con accordi o altre forme
che ha consentito di stare piccoli e flessibili ma non perdendo del tutto i vantaggi delle
dimensioni maggiori.
- I gruppi industriali: un'alternativa alla crescita interna.
La prima innovazione organizzativa è la crescita dei gruppi di imprese. L’Istat stima che
più dell’80% delle imprese con più di 500 addetti faccia parte di un gruppo. Tale
fenomeno si attenua al ridursi delle dimensioni; il 54% di quelle comprese tra i 100-250;
il 39% tra 50-99; il 22% tra 20-49.
Riletta così la struttura dimensionale dell’industria italiana appare meno lontana dal resto
dell’Europa. Ma lontana resta perchè indagini raffinate mostrano che con il gruppo
crescerebbe solo il numero delle garndi imoprese ma non delle medie imprese che
dunque continuano di fatto a manacare.
I vantaggi del gruppo stanno nella limitazione delle responsabilità in caso di fallimento e
nel minor fabbisogno di capitale di rischio per controllare un’impresa.
Le imprese italiane in gruppo sono quelle più tecnologiche. Quelle del made in Italy sono
meno legate in gruppo.
- I distretti industriali: il superamento dell'effetto dimensionale.
Fenomeno largamente italiano, notato negli anni 70’ ed esploso dagli anni 80’. Riguarda
principalmente imprese del made in Italy. Alcune stime (Istat) indicano 200 distretti con il
40% dell’occupazione manifatturiera. Altre stime più prudenti fanno scendere il peso
degli addetti al 18%. I numeri sono sempre in evoluzione.
Dentro i distretti recentemente si sono formati gruppi. I due fenomeno coesistono. In
Emilia il 23% delle imprese (occupazione intorno al 50%) è organizzato in gruppo. Nei
distretti emiliani il 44% delle imprese è legato da relazioni di gruppo. E si tratta di
imprese dento la stessa filiera o che producono le stesse merci. Tentativi di collusione?
Di controllo dei mercati?
- In conclusione: esistono vincoli alla crescita?
Il primo vincolo è la struttura proprietaria delle imprese. Sono imprese familiari che
crescono solo se trovano all’interno della famiglia le risorse umane per crescere.
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Altrimenti stanno piccole (problema generazionale).
Il secondo, legato al primo, sono i capitali che spesso mancano per crescere. La
struttura familiare è un limite in questo. Ma pure il non buon funzionamento del mercato
dei capitali di rischio, oltre che a certe regole giuridiche, che non porta liquidità al mondo
delle imprese medie e piccole
Infine pesano anche gli aspetti giuridici sul mercato del lavoro, sulle regole per i
fallimenti troppo macchinose e onerose per un imprenditore solo sfortunato.
4.
La specializzazione produttiva: troppo poca tecnologia?
- La specializzazione: perché è importante.
Lo è perchè il livello di reddito di un paese, in un contesto economico molto aperto
(globalizzato) dipende largamente da cosa il paese produce, cioè dalla sua
specializzazione produttiva. Produrre merci ad alto valore aggiunto i cui mercati mondiali
sono in crescita garantisce alti redditi. Specializzarsi in merci facilmente imitabili nel
prodotto e nella tecnologia che si vendono in mercati internazionali in cui la
competizione è forte significa accettare livelli di reddito più bassi e doverli difendere.
La specializzazione di un paese è il risultato di lungo periodo della sua storia (risorse,
cultura, ...) e delle sue scelte, sempre di lungo periodo, di politica economica.
- L'Italia e gli altri paesi europei.
(tab. 3) L’Italia è specializzata nel made in Italy: nel sistema moda (tessile,
abbigliamento, cuoio, calzature, borse, occhiali, ....), nel sistema dei prodotti per la casa
(piastrelle, bagni, infissi, mobili, cucine, ...., prodotti alimentari), nella meccanica leggera
(elettrodomestici, macchine utensili, macchine per il sistema moda e il sistema casa, ...).
E’ despecializzata negli autoveicoli, nei motori, nella chimica, nella petrolchimica, nella
produzione di beni intermedi, nella produzione di beni di investimento, nell’elettronica e
informatica, ...
La specializzazione italiana è un fenomeno che inizia negli anni 70’. Nei primi vent’anni
erano cresciuti di peso settori ad alta intensità di capitale e ad alta tecnologia
(soprattutto controllati da imprese pubbliche) e tutti i comparti della meccanica (auto,
elettrodomestici bianchi ...); poi progressivamente abbandonati.
La Spagna è in parte simile a noi. Ma le produzioni a maggior intensità di capitale e di
tecnologia, che coinvolgono pure forza lavora qualificata (chimica, elettronica,
telecomunicazioni, biotecnologie, meccanica superiore) si collocano in Germania e in
Francia. Per non dire degli USA e del Giappone.
In definitiva la nostra specializzazione è ora sotto tiro dei paesi emergenti e i nostri
prodotti ancora si difendono per il design e la qualità.
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- La concorrenza dei Paesi in via di sviluppo.
La sfida proviene dai paesi di nuova industrializzazione NIC che hanno specializzazione
simile alla nostra. La nostra quota del made in Italy sui mercati internazionali è in effetti
calata ma non come si temeva fino a pochi anni fa. Negli utimissimi anni inveca il calo
appare marcato. L’Italia su muove anche su segmenti di mercato più ricchi in cui ha
peso il design del prodotto e la qualità con cui è realizzato e tale fatto tende a porre un
limite inferiore alla caduta delle quote.
- Le sfide dell'Unione monetaria.
Nell’ambito Europeo l’Italia continua a muoversi bene in settori a intensità di capitale
umano di livello medio. Altri paesi, Germania ma pure la Spagna, tendono a muoversi
verso produzioni che richiedono livelli di competenze scientifiche crescenti.
La nostra specializzazione nei settori tradizionali implica un basso tasso di innovazione
tecnologica e una impossibilità di ricaduta dell’innovazione a monte.
Viceversa altri paesi che sono specializzati nelle merci di base a maggior tasso di
progresso tecnico hanno il vantaggio di poter diffondere il progresso anche nelle
produzioni a valle.
- L'insufficiente attività innovativa. - Una valutazione complessiva.
In generale l’Italia spende poco per spese di ricerca e sviluppo (1% contro 1,5% della
media europea ma vi sono paesi come Finlandia e Svezia che spendono circa il 3%); ha
una bilancia tecnologica passiva; anche l’Europa ce l’ha, eccetto i paesi nord europei, il
Belgio, L’Olanda, il Regno Unito.
L’esser caratterizzati da una struttura di piccole imprese implica che una fetta delle
spese per l’innovazione non venga rilevata. Ma implica pure che la capacità di
innovazione forte, radicale, appannaggio solo delle grandi aziende, non c’è.
L’accumulazione di conoscenze scientiche-tecniche dei primi vent’anni del nostro
sviluppo (grandi imprese pubbliche di basa, Olivetti, Montecatini, ...) è stata del tutto
persa.
Il sostegno pubblico alla ricerca delle imprese è bassissimo (10% della spesa contro il
25% di USA e Francia); non c’è interazione nella ricerca tra il sistema delle piccole
imprese e la ricerca pubblica delle università. Restano mondi separati. L’innovazione
nelle piccole aziende avviene attraverso i venditori di macchinari (spesso stranieri) e i
venditori di semilavorati e di componenti (ancora spesso stranieri).
La quota dei nostri prodotti sui mercati internazionali è drasticamente calata per
l’abbigliamento (dal 12 all’8%), nelle calzature ( dal 26% al 17%) e nei macchinari
industriali. Parte del fenomeno è spiegata da decentramento della produzione in altri
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paesi e quindi dal cambiamento formale dell’origine del prodotto (pare che nel comparto
dell’abbigliamento e della calzatura il decentramento coinvolga 1/3 degli occupati). Ma è
un fenomeno difficile a misurarsi.
La motivazione del decentramento è la riduzione del costo del lavoro. Il che è un
indicatore che la nostra specializzazione stenta a spostarsi su produzioni in cui il costo
del lavoro è meno importante nello stabilire i vantaggi di competitività.
5.
La new economy nell'industria italiana
- Cos'è la new economy.
L’economia americana è cresciuta a tassi elevati per un quindicennio senza tensioni
inflazionistiche, senza mai toccare un limite di capacità produttiva. La radice di questo
fenomeno sta nella crescita costante della produttività che ha investito tutte le
componenti dell’economia americana. E la causa della crescita della produttività è la
invenzione e la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (ICT).
- Quali opportunità per le imprese.
Gli strumenti che incorporano quelle tecnologie sono ormai definitivamente in mano
USA. La nostra quota di produzione sul totale della produzione manifatturiera interna è
dell’1%. Per l’Italia conta dunque l’adozione e la diffusione di queste nuove tecnologie
nei settori di nostra specializazione.
Va ricordato che le ICT si diffondono più facilmente nelle grandi imprese in cui una sola
decisione impone un modello di comunicazione, uno standard. Nelle piccole imprese la
diffusione è più difficile perchè l’informazione viaggia su canali più informali. Con
l’avvento di internet ICT si può diffondere fuori dalle reti proprietarie. Dunque anche le
piccole imprese potrebbero trarne vantaggio. Che consisterebbe in un maggior
coordinamento di decisioni tra le imprese dentro un distretto o tra imprese che
decentrano fasi all’estero.
- L'adozione di nuove tecnologie.
L’investimento in ICT sta crescendo. In Italia raggiunge il 17% circa degli investimenti
fissi lordi. L’Italia, come l’Europa, è in ritardo rispetto agli USA. La parte dinamica, quella
del software appare ancora bassa, intorno al 5%. Negli USA nel 2000 questa parte era il
14% del totale investimenti fissi. Dal 2000 tutte le imprese, almeno quelle con più di 50
addetti sono collegate a internet; possiedono una pagina web che poche usano in
maniera intelligente. Solo il settore bancario ha fatto della rete la base tecnica del
proprio lavoro. Oltre il 70% delle imprese lo utilizza nei rapporti con le banche. Il
commercio elettronico non è ancora molto diffuso.
Solo le imprese di grandi dimensioni usano le ICT in modo assai rilevante. Le piccole
imprese e le imprese nei distretti ne fanno poco uso perchè temono di perdere pezzi di
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autonomia gestionale o di perdere informazioni sensibili. Anche le imprese neo nostri
settori tradizionali, che sono infatti piccole, non fanno un uso vero dell’ICT:
- I fattori essenziali per la loro diffusione.
A parere di alcuni la scarsa concorrenzialità, che ha tenuto alti i costi di accesso, dei
mercati delle infrastrutture in Europa ha rallentato la diffusione della ICT:
essenzialmente della banda larga che consente la trasmissione veloce delle
informazioni.
Anche fattori legali come lo scarso riconoscimento giuridico delle informazioni passate
sulla rete ha rallentato la diffusione di ICT.
Infine, l’aspetto più rilevante di freno alle ICT è la scarsa preparazione informatica delle
persone che dovrebbero operare con le nuove tecnologie. La formazione serve a
superare la strozzatura.
6.
Il controllo delle imprese
- Proprietà e controllo.
Sono due concetti collegati ma diversi. Non sempre il proprietario controlla, gestisce
l’azienda. Negli USA si hanno spesso situazioni in cui la proprietà è diffusa tra tanti e il
controllo si concentra nelle mani dei managers (public company).
Il fatto che la proprietà sia scissa dal controllo ha dei vantaggi per il finanziamento,
anche con capitale di rischio, dell’impresa. Quando un’impresa cresce si trova nella
situazione di dotarsi di mezzi finanziari in eccesso al suo autofinanziamento. Se
l’impresa ha una proprietà familiare si può manifestare un blocco alla crescita quando la
gestione corrente e la famiglia non possiedono capitali sufficienti per la crescita.
Chiederli al sistema finanziario o alla borsa è un rischio per la famiglia perchè può
diluirsi la quota di comando sul capitale (caso Fiat 2005). In un contesto di proprietà
diffusa questo rischio non esiste e pertanto il capitale a disposizione per gli investimenti
può crescere per fonti esterne.
Ci sono due modelli di governance: quello anglosassone e quello tedesco-giapponese.
Nel secondo la proprietà può essere diffusa ma è stabile nel tempo. L’afflusso di risorse
finanziarie viene assicurato dal sistema delle banche (banca mista) i cui rappresentanti
siedono nei consigli di amministrazione e svolgono così un controllo nell’operato dei
managers. Le banche gestiscono i passaggi di proprietà tra azionisti, nei momenti di
crisi. La presenza delle banche neo consigli di amministrazione fa si che esse siano più
sensibili ai problemi di sviluppo di lungo periodo delle imprese rispetto a situazioni in cui
siano escluse.
Il modello anglosassone si appoggia sulla borsa. Come quello tedesco è banco centrico
quello Usa è borsa centrico. Le imprese a proprietà frazionata sono sempre scalabili sul
mercato di borsa. Pertanto la proprietà è di per se meno stabile rispetto ai modelli
continentali. Il che garantisce che quando l’impresa non è gestita in modo efficiente altri
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possano scalarla, cambiare i managers, orientamenti, politiche. Un ruolo importante lo
giocano i fondi di investimento che possono farsi sentire in assemblea e in qualche
modo rapprsentano la voce del mercato. Il rischio di questo modello è che le imprese
siano gestite in un’ottica di aumento dei valori di borsa delle azioni allo scopo di
massimizzare il guadagno in conto capitale di chi le azioni le possiede (casi Enron,
World.com,..). Piuttosto che seguire un’ottica di lungo periodo in cui si punta a far
crescere i profitti attraverso la creazione di buoni prodotti, ...
- La struttura proprietaria delle imprese italiane e la loro struttura finanziaria. Cause ed effetti.
In Italia, mondo di piccole imprese e di imprese non piccole ma di base familiare, la
proprietà controlla in larga misura le aziende. I dati italiani (tab. 4) sono emblematici. Tra
le società non quotate (la larghissima maggioranza) il primo proprietario copre più del
60% del capitale. I primi tre arrivano a percentuali oltre il 90%. Per le poche società
quotate la situazione è simile perchè gli azionisti di controllo coprono intorno al 55% del
capitale.
Tra gli azionisti di controllo più della metà sono persone fisiche. Sul 30% sono altre
imprese (holding); il resto o sono imprese straniere o imprese finanziarie (fondi, ...)
Lo stato controlla ancora il 18% del capitale delle grandi imprese industriali quotate. Un
ulteriore 10% da altre imprese industriali. Un altro 10% è in mano a singole famiglie.
Sono molto diffusi i patti di sindacato tra azionisti il cuo obiettivo è di impedire la
scalabilità delle imprese quotate (vedi il caso RCS del 2005). Pesano pochissimo, a
differenza del mondo anglosassone, le società finanziarie. Questo fatto dovuto alla
carenza dei fondi pensione, ancora in fase di avvio, e della separazione attuata negli
anni 30’ con la riforma bancaria tra il credito a lungo e quello commerciale, attenuta solo
da una decina d’anni. Tutto questo rende gli assetti proprietari delle nostre grandi
imprese industriali molto stabili, quasi immobili. La legislazione da una buona mano in
questa direzione. E’ facile affermare che le nostre imprese grandi sono difficilmente
scalabili. Che hanno difficoltà ad attrarre nuovi capitali perchè chi investe non avrebbe
voce nella gestione di imprese di fatto già chiuse.
Dall’avvio della politica di privatizzazione lo scenario sta cambiando. In primo luogo il
mercato del credito è stato aperto con nuovi soggetti (fondi pensione, fondi chiusi, ...) e
la separatezza del credito a lungo e a breve nello stesso soggetto finanziario è stata
attenuata. Si sono scritte norme più garantiste per i risparmiatori che investono in borsa,
per la tutela degli interessi delle minoranze per le società quotate. Ma gli esiti auspicati
tardono a manifestarsi.
Per le piccole imprese tale assetto di compenetrazione tra proprietà e controllo è
normale e forse il migliore. Perchè le finalità della proprietà coincidono sempre con
quelle dell’impresa, profitti e sviluppo. Almeno finchè la crescita dimensionale non
chiama nuovi capitali che il proprietario non è in grado di fornire.
La struttura del debito delle grandi aziende non è molto dissimile da quelli di imprese
analoghe di altri paesi. Si differenzia per il peso piccolo del debito obbligazionario e per il
peso grande dei debiti infragruppo.
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Le piccole imprese sono invece molto legate al credito bancario e di breve periodo e ai
debiti commerciali, cioè i debiti verso i fornitori, una delle principali poste di
finanziamento.
7.
Quale politica industriale oggi?
Varia nelle diverse fasi storiche. Nelle prime fasi della industrializzazione era protettiva
delle nuove industrie. Dunque tariffe all’ingresso di merci straniere, sovvenzioni all’avvio
di nuove iniziative, crediti a tassi agevolati, sostegno alle esportazioni. Tutte politiche per
far crescere l’industria proteggendola dalla concorrenza di imprese di altri paesi.
Negli anni più recenti hanno preso piede le politiche per assicurare il buon
funzionamento dei mercati, cioè le politiche per promuovere la concorrenza.
- Le politiche industriali tradizionali.
Sono provvedimenti a sostegno dell’industria del paese. Si individuano i settori strategici
su essi si spendono risorse per farli crescere (energia, siderurgia, trasporti,
infrastrutture, ...). In Italia lo stato, attraverso l’IRI, ha avuto un ruolo diretto di gestione.
Ha creato cultura industriale e manageriale; ha svolto un ruolo nell’accumulo di
competenze tecnologiche; ha fornito semilavorati e componenti a prezzi più bassi
rispetto a concorrenti stranieri alla industria leggera privata.
Più tardi le politiche industriali hanno gestito le crisi di alcuni settori, largamente privati,
attraverso la gestione dell’occupazione, l’assunzione nella sfera pubblica di imprese che
altrimenti sarebbero fallite, condotto a fallimenti controllati altre, ...
Fino a metà degli anni 80’.
- Le nuove politiche per l'industria.
Vi è un mutamento di paradigma. Prevale un’ottica mercatista. E’ il mercato il valutatore
migliore dell’attività delle imprese. Faciamolo funzionare.
L’intervento diretto tradizionale si restringe solo nei casi dove il mercato per sua natura
fallisce. Cioè la dove i privati non troverebbero convenienza investire. Si è nell’ambito
della produzione di “beni pubblici”: infrastrutture in senso lato, istruzione, ricerca,
amministrazione della giustizia e produzione di norme di legge.
L’intervento nuovo è la regolamentazione de mercati per ridurre i costi esterni alle
imprese, i costi di transazione, creando un contesto più trasparente, di maggiore tutela
nei contratti, di limitazione di posizioni di monopolio che si creano. In parole dirette
“facciamo funzionare i mercati”.
- La fornitura di beni pubblici.
L’innovazione tecnologica ha ridotto l’area dei fallimenti del mercato. Nelle
telecomunicazioni, nei trasporti aerei sono spariti i monopoli pubblici sostituiti da imprese
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private in competizione.
Tuttavia in molti servizi a rete l’innovazione nn ha fatto venir meno la necessità della
gestione pubblica o semi publica del servizio. In primo luogo internet che è rete pubblica
e troppo grande per esser gestita privatamente; e la sua apertura porta a un beneficio s
tutti i partecipanti. E ugualmente la rete distributiva elettrica (cosa diversa è la
produzione), la rete idrica, ecc., ... Negli ultimi 40 anni si pochissimo investito (lo stato)
nella rete infrastrutturale accumulando un ritardo elevato rispetto allo standard europeo.
Altra area in cui difficilmente lo stato può stare alla finestra è la formazione. Le nostre
spese sono più basse della media europea e degli Usa. La preparazione dei nostri
giovani nella fascia 14-18 anni appare (indagini OCSE) largamente inferiore alla media
europea nella matematica e nelle materie scientifiche e non brilla nemmeno in quella
della comunicazione orale e scritta. Giovani non formati secondo gli standard attuali
significano forza lavoro non in grado di apprendere tecnologie complesse e in
cambiamento. Si è tentato di trasferire il problema alle università con i diplomi e le lauree
triennali con l’effetto, pare, di peggiorare la qualità non cattiva del laureato tradizionale
nelle discipline scientifiche.
La spesa pubblica per la ricerca è bassa e soprattutto mal gestita. A finanziare tante
iniziative troppo piccole per risultare significative. Con troppa enfasi sulla ricerca
applicata a scapito di finanziamenti alla ricerca di base.
Infine va ricercata l’efficienza della pubblicazione amministrazione nei tempi esecuzione
dei suoi compiti, nella semplificazione delle norme, nell’efficienza del sistema giudiziario
(tempo dei processi nel civile) e nella chiarezza delle norme.
- La regolamentazione dei mercati e dell'attività economica.
Molte indagini indicano che i paesi a maggior crescita sono quelli che possiedono una
legislazione semplice di facile intelleggibilità, di norme facilmente applicabili e da autorità
efficienti che le facciano applicare.
Contano tutti i mercato in cui operano le imprese; essi devono esser regolati nel modo
più efficiente per favorire la crescita delle imprese a prezzi bassi.
a) Il mercato del controllo societario: in esso si devono proteggere le minoranze
azionarie, favorire il passaggio di proprietà attraverso OPA, facilitare l’afflusso di capitali
esterni, semplificare il funzionamento legale interno delle società, ecc., senza tuttavia
ledere gli interessi dei finanziatori esterni (obbligazioni), ...
b) Il mercato del lavoro le imprese lo vogliono più flessibile con possibilità di flessibilità in
uscita assai più marcate delle attuali. L’ideale per alcuni è un mercato del lavoro in cui il
rapporto di lavoro a tempo indeterminato non esista più.
c) Le regole di uscita delle imprese. Cioè i fallimenti. In Italia sono troppo onerosi per
l’imprenditore e troppo lunghi nei tempi. Si è prodotta una nuova legislazione che ha
ridotto gli oneri per l’imprenditore ma ha accresciuto quelli per i creditori. Con esiti dubbi,
dunque, sulla capacità di approvvigionamente di capitale di debito.
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- Concorrenza e regolamentazione.
Negli ultimi anni il progresso tecnico ha indotto all’apertura di molti settori protetti da
monopoli legali (legali a situazioni di monopolio naturale) come nelle telecomunicazioni,
nel comparto assicurazioni, nei trasporti. Sono diventati mercati in cui possono
coesistere più operatori in concorrenza con l’effetto potenziale di un avvicinamento dei
prezzi ai costi marginali. Ma perchè gli effetti siano quelli desiderati è necessaria una
legislazione antitrust che impedisca che agli ex monopolisti di esercitare il loro vecchio
potere di mercato. L’idea a guida di queste scelte è che la posizione di monopolio è un
incentivo a non ridurre i costi e a innovare meno di quanto si potrebbe attuare.
Una seconda area di intervento è la riduzione di particolari regolamentazioni nel
funzionamento di alcuni mercati. Ad esempio nel mercato della distribuzione
commerciale, in quello del trasporto urbano privato, nell’offerta di prestazioni
professionali agli iscritti in un albo, e così via. Alcuni sostengono che la crescita senza
inflazione negli Usa degli anni 90’ dipese anche dal fatto che in precedenza ci fu una
deregolamentazione in molti settori che creò condizioni quelle condizioni di concorrenza
che consentirono ai prezzi di non crescere.
L’Italia possiede una legislazione antitrust rodata ma con non molti effetti pratici.
Qualche multa e molti ricorsi ai tribunali amministrativi. L’antitrust può suggerire
modifiche legislative di reglamentazione o semplificazione di alcuni settori ma alla fine è
sempre il parlamento, camera di compensazione di molti interessi, che decide.
L’Italia resta un paese in cui i carichi amministrativi e i vincoli regolamentari all’avvio di
imprese rappresentano una significativa barriera all’entrata che consente a chi già opera
di godere di margini elevati.
Una spinta molto forte a liberalizzare proviene dalla Commissione Europea
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