che brutto, guadagno più di mio marito

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che brutto, guadagno più di mio marito
inchiesta
Cheche
bello
brutto,
guadagno più di
mio
marito
Nel 16,1 per cento delle coppie italiane lei ha
un reddito più alto del partner. Negli Usa il
fenomeno è in crescita e socialmente
condiviso. Ma da noi siamo ancora in
pieno tabù. E anche per le “donne
alfa” è difficile resistere alla
tentazione di passargli il
bancomat prima di
entrare al ristorante
di
Alessandra Di Pietro
masterfile
C
i sono donne che, al
ristorante, prelevano
dalla borsetta il bancomat e lo consegnano al marito. Tra loro
è stato detto che lei lo
mantiene, ma in pubblico sarà lui a pagare
i conti. Sembra una soluzione pavida e
poco progressista, scarsamente rispettosa
di una ragazza che con la laurea in economia, il master americano e sedici ore di
lavoro quotidiano, guadagna meno di un
pari grado maschio (la differenza di salario esiste anche tra i manager). Ma dentro
casa lei è la female breadwinner, “colei
che guadagna il pane”. Dunque, la capofamiglia. E forse la soluzione è realmente
involuta e offensiva dell’emancipazione
femminile, però è pure vero che i role model (modelli di comportamento) per le
donne economicamente dominanti sono
(quasi) inesistenti. Dunque, serve sperimentare, per decidere qual è il comportamento più adeguato per la coppia. Vivere
con una donna alfa (capobranco), in Italia in media non produce nel maschio un
senso di liberazione dal vecchio cliché patriarcale, semmai crea un tabù tenuto in
vita da uomini e donne.
«Non volevo farlo sentire inferiore così
niente teatro o ristorante, solo viaggi low
cost e lunghe passeggiate», racconta Marida, 38 anni, segretaria di alta gamma,
che non ha mai avuto il coraggio di rendere esplicito dentro la coppia il proprio
potere economico e dunque, in preda a
un senso di colpa, abbassava il livello della qualità della vita. Il fidanzato era un
ingegnere edile, disoccupato cronico:
«Dopo un anno, la posizione di vittima
indigente gli ha tolto fascino e virilità, è
finita in modo brusco, lui iniziava a odiarmi e a invidiarmi». In altri casi, invece, le
donne provano gusto a usare il denaro
nella coppia, ma non ne ricavano un vantaggio. Barbara, 44 anni, la metà spesi nel
mondo della comunicazione, oggi titolare di un’azienda, dice: «Mantengo spesso
i miei uomini e non giova all’amore. Fanno presto ad abituarsi e ogni mia gentilezza diventa un dovere. Quando è finita,
mi pento il doppio, avendo accumulato
risentimento per lo squilibrio nel dare e
nell’avere. Per me, è una fantasia vincente poter comprare/pagare un uomo, mi
sento autorevole e indipendente anche se
poi mi piace immaginarmi come una
donna dolce ed affettuosa». Forse, l’età
più giovane aiuta a trovare un modus vivendi e a sganciarsi da modelli femminili
ancestrali. Secondo le sociologhe Carla
Facchini e Laura Zanatta, quando lei guadagna di più aumentano sia la cura dei
figli da parte del padre (il 13,2 per cento
rispetto a una media del 4,8), sia la collaborazione paritaria nei lavori domestici (il
63,2 contro il 56,3), specie tra le coppie
più giovani. Angela, 26 anni, interprete
da due, bolognese, instancabile viaggiatrice per passione e per lavoro, una convivenza appena iniziata, scrive da Shanghai: «Preferisco mantenere il mio partner perché non voglio che qualcuno
eserciti un potere su di me. L’ho visto
succedere nella mia famiglia e per nessuna
ragione lo ripeterò. Anzi, già da adolescente rifiutavo i soldi dei miei genitori e lavoravo nel week end per comprarmi i
vestiti. Non voglio vivere con un uomo
che mi paghi i conti, ma che sia pronto a
cucinare per me la cena quando ho fame.
Il mio fidanzato è d’accordo». Carlotta,
invece, ha 33 anni, da dieci gestisce un
redditizio lavoro nell’editoria ma, soprattutto, ha robuste eredità familiari. Per lei
affondare le mani nel portafogli provvedendo al partner è la regola: «Ho visto mia
madre mantenere un giovane e stupido
amante, mio padre far diventare principesse le sue donne, è un comportamento familiare su cui non ho un giudizio
negativo». Su di sé dice: «Ho pagato case,
viaggi e lussi per me e fidanzati aspiranti
scrittori e falliti attori, mi è piaciuto e non
sono pentita. Per mezzo del denaro, però,
chiedevo obbedienza e, se non arrivava,
sgridavo il fidanzato di turno, mettendomi in una scomoda posizione materna che
ha segnato la fine del desiderio sessuale e
delle relazioni». Oggi Carlotta aspetta un
figlio da un uomo che «lavora e contribuisce al bilancio familiare, e questo suo
darsi da fare lo innalza ai miei occhi».
In Europa, la quota più alta di donne in
vantaggio economico sui mariti è in Slovenia, Ungheria, Polonia e Lettonia, l’Italia è a metà classifica, seguita dalla Gran
Bretagna. Alina Verashchagina e Francesca Bettio ne parlano sul sito inGenere.it:
nel 16,1 per cento delle coppie italiane le
donne guadagnano più del partner. In
più, negli ultimi cinque anni, il 4 per cento delle divorziate ha versato l’assegno di
mantenimento all’ex. Sono numeri piccoli ma significativi di un cambiamento
epocale, ancora lontano dalle percentuali
degli Stati Uniti, dove il fenomeno delle
capofamiglia è in crescita da dieci anni, e
una donna su quattro guadagna più del
marito (dati del Pew Research Center).
Negli Usa esistono studi, libri e, soprat-
tutto, una condivisione di esperienze: sui
forum e sulle riviste, in rete e in televisione, le donne di successo raccontano sacrifici, cambiamenti, gioie e regole di una
casa dove sono loro i pilastri economici.
«Nascondersi vuol dire solo rimandare
la spiegazione e ingigantire la crisi», sostiene Martina, 40 anni, dirigente, educata da una madre femminista
che le ha inculcato la fede nell’emancipazione.
Il suo primo marito voleva essere
un pittore e lei
gli mantenne
ogni lusso necessario all’agio
creativo, ma in
cambio «ottenevo denigrazione:
lui era l’arte, io il
potere da offendere». Dopo il divorzio, Martina ha incontrato l’uomo con cui ha avuto il primo
figlio. Anche lui non era all’altezza del suo
conto in banca ma, innamorato e concreto, ha chiarito le posizioni: «Tu hai denaro e un buon lavoro, io un piccolo reddito, molto tempo libero, grande passione
per i bambini e so risolvere i problemi
materiali. Ognuno mette quel che possiede e prende quel che gli serve». L’accordo
funziona e la divisione dei ruoli è ammorbidita dalla presenza di una tata a tempo
pieno: «Noto che lui è inorgoglito e anche
sessualmente eccitato dalla mia capacità
di guadagnare», chiosa Martina. Tra i
maschi intervistati per questa inchiesta,
dai 30 ai 50 anni, l’orientamento prevalente è l’imbarazzo, la vergogna, il disagio
di vivere a carico della propria donna. Ma
altri cominciano a riflettere sul cambiamento. Davide, ricercatore universitario
a Bruxelles, 42 anni, scrive: «Non sono
mai stato mantenuto, ma aiutato, introdotto, sostenuto, sì, e più di una volta. In
alcuni periodi ho avuto bisogno di un
sostegno, e la mia donna si è scoperta a
suo agio in una funzione materna e accogliente. È vero, ho sentito dentro di me
l’esigenza di riprendere le redini, appena
superata l’emergenza, ma ho osservato
questa tendenza per quel che è, un retaggio culturale. Mi sembra più utile e contemporaneo un atteggiamento aperto: chi
sta bene aiuta l’altro/a in difficoltà. Poiché
la difficoltà va superata subito, come dice
la dura legge della sopravvivenza nel mondo della competitività». n
“Tramite
il denaro,
chiedevo
obbedienza.
Se non
arrivava,
sgridavo
il fidanzato
di turno”
Gioia 2010 | 77