STORIA dell`ARTE Dispensa

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STORIA dell`ARTE Dispensa
CORSO di STORIA dell'ARTE
Dispensa Anno Accademico 2012-2013
Docente: dott. Davide Frezzato
UNITRE di Sesto Calende
Lezione I
LE PRIME CIVILTÀ
Arte sumera
L'arte della civiltà dei Sumeri, sviluppatasi nella Mesopotamia tra i fiumi Tigri
ed Eufrate, si può suddividere in vari periodi: Periodo Protostorico (3500 a.C.-2900
a.C.), Periodo Protodinastico (2900-2350 a.C.), Periodo Akkadico (2350-2200 a.C.), Periodo della II Dinastia di Lagash (2150-2120 a.C.), Periodo Neosumerico (2120-2004
a.C.).
Periodo Protostorico
Intorno al 3500 a.C. si sviluppano in Mesopotamia i primi veri centri abitati e
prende inizio la fase denominata "Rivoluzione Urbana". L'arte, influenzata dalle trasformazioni introdotte con la produzione agricola, privilegia temi legati ai cicli della
natura e alle divinità della fertilità, della nascita e della protezione della vita.
Architettura
L'origine della tradizione architettonica dei Sumeri nasce nel sud della Mesopotamia, ma ben presto prenderà piede anche nel Medio e Alto corso del fiume Eufrate.
L'esempio migliore dell'architettura sumera si riscontra nel complesso templare
di Uruk (oggi Warka), dedicato alla dea Inanna e al dio Anu.
Il santuario si presenta strutturato in diversi edifici accostati tra loro:
•
tempio a mosaico, con cella centrale tra due ali simmetriche e ambiente ortogonale ad L su lato breve;
•
palazzo quadrato, articolato lungo un cortile di 31 metri di lato con numerosi ingressi e facciate a sporgenze e rientranze;
•
tempio C, tripartito;
•
tempio D, con grande sala centrale affiancata da ali di ambienti minori;
•
sala dei pilastri, spazio rettangolare (osservatorio solare).
Statuaria
A causa delle innumerevoli sovrapposizioni urbanistiche dei secoli successivi le
testimonianze della statuaria protostorica sono scarse, ma lasciano intuire la preferenza verso uno stile di tipo naturalistico, per lo più privo di caratterizzazioni individuali dei soggetti rappresentati. Le figure umane vengono solitamente rappresentate in
posa ieratica, con grandi occhi privi di espressione che evocano spiritualità e trascendenza. Il significato di questi soggetti sono legati al pensiero umano e alla spiritualità;
in ciò si può intuire la volontà di rappresentare il rapporto devozionale e il rispetto
esistente tra l'uomo e le divinità.
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Rilievo
Il rilievo protostorico possiede una funzione religiosa e celebrativa, il cui significato è quasi sempre legato all'ordine sociale e divino. La figura umana diviene un
mezzo per celebrare il ruolo istituzionale del personaggio raffigurato e diviene un'espressione dell'ideologia politica e religiosa della comunità.
Nel rilievo compare la figura del capo della comunità che combatte contro alcuni
animali, soprattutto leoni e tori, che ideologicamente rappresentano la comunità che
esercita il proprio potere e dominio sul mondo naturale e che reca equilibrio nel rapporto con il mondo divino. Altri temi rappresentati sono i temi legati al mondo agricolo e pastorale.
Glittica
La glittica si sviluppa soprattutto per quanto riguarda la produzione di numerosi
sigilli cilindrici. I sigilli erano degli strumenti utilizzati nella gestione economica e dovevano garantire un controllo di tutte l'entrate e le uscite.
L'oggetto cilindrico veniva fatto rotolare su una tavoletta d'argilla che ne conservava l'impronta. Il sigillo era quasi sempre decorato con scene araldiche, mitologiche,
teorie animali e cerimonie presso santuari. Tali decori servivano come riconoscimento
immediato del proprietario del sigillo.
Con i primi anni del III millennio a.C. i decori divengono schematici con raffigurazioni di teorie animali.
Periodo Protodinastico
Tra il 2900 a.C. e il 2350 a.C. si assiste ad una progressiva omogeneità culturale,
nonostante un fortissimo policentrismo. La nascita dei centri abitati e le migliorie apportate nella vita quotidiana delle comunità, porta ad un sostanziale aumento demografico.
Le nuove forme dello stato si organizzano intorno al palazzo del sovrano, che diventa il fulcro delle città-stato. Il tempio dedicato agli dei locali mantiene il primato
ideologico. In questo periodo l'arte diviene propaganda per legittimare i sovrani e il
loro governo. Per la prima volta il diritto a regnare viene giustificato da discendenza
divina e donata dagli dei al sovrano.
A questo periodo risalgono le prime testimonianze sulle guerre avvenute tra città-stato; testimonianza di questi scontri è il famosissimo Stendardo di Ur (2500 a.C.
circa), conservato al British Museum di Londra.
Architettura
Durante il Periodo Protodinastico continua ad essere utilizzato lo schema tripartito usato nel periodo precedente, anche se arricchito da elementi innovativi come il
cortile d'ingresso e alcuni ambienti minori.
Per quanto riguarda l'edificio templare si utilizzano nuovi schemi compositivi:
•
Tempio quadrato, con corte centrale circondata da vani e corti minori che intro2
ducono, dopo un vano latitudinale, alla cella di culto posta trasversalmente
con l'ingresso sul lato lungo (Tell Asmar e Tell Agrab);
•
Tempio ovale, sorgeva su una terrazza che si stagliava nel cortile interno di un
monumentale complesso religioso racchiuso da mura ellittiche, con planimetria tripartita.
I palazzi dei sovrani, invece, non seguono schemi simmetrici, i vani si organizzano lungo un cortile centrale che permette il transito interno tra gli ambienti dell'edificio.
Statuaria
La scultura si sviluppa sulla forma geometrica del cilindro, permettendo l'eliminazione delle spigolosità e l'arrotondamento della figura.
I soggetti maggiormente raffigurati sono dei fedeli adoranti la divinità. Le figure
presentano un forte schematismo che si allontana da ogni aspetto realistico; questo
perché l'obbiettivo è la creazione di una sorta di tramite con la divinità, che permetta
alla scultura di comunicare con il dio.
Rilievo
La tecnica del rilievo si esprime nella realizzazione di placche votive, ovvero lastre in pietra delle dimensioni di 20-30 cm. Il tema trattato è il banchetto cerimoniale a
seguito di una ricorrenza religiosa. In origine le placche venivano affisse sulle pareti
dei templi tramite un chiodo che veniva inserito nel foro centrale della tavoletta in
pietra. La decorazione delle placche votive si svolge solitamente su due o tre registri
narrativi.
Verso il termine del Periodo Protodinastico si afferma il rilievo celebrativo su
stele; queste svolgono la funzione di commemorare le vittorie del sovrano sul nemico.
Glittica
Le prime testimonianze sulla glittica sono molto tarde e riguardano, anche in
questo periodo, la produzione di sigilli, quasi tutti provenienti da Fara. Le incisioni
presenti sui sigilli presentano una decorazione a fregio continuo, con intreccio tra diverse figure (scene mitologiche).
Verso la fine del Protodinastico o Protodinastico III, si assiste ad una totale rottura con lo stile precedente e l'utilizzo di un nuovo schema decorativo. I sigilli presentano un fregio composto da un uomo/eroe nudo, probabilmente Gilgamesh, in lotta
con leoni intenti ad aggredire capre o antilopi.
Toreutica
L'esempio più celebre dell'arte della toreutica sumera lo si riscontra nel Vaso di
Entemena (2400 circa a.C.)Parigi, Musèe du Louvre.
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Periodo Akkadico
Statuaria
L'esempio più importante della statuaria akkadica è la cosiddetta Testa di Sargon
proveniente da Ninive (2300 a.C. circa) e ora conservata nel Museo nazionale iracheno a Baghdad. La testa, realizzata in bronzo, rappresenta Sargon o suo nipote NaramSin. Il volto è realizzato in modo realistico: naso aquilino, zigomi pronunciati, labbra
carnose, barba e capelli molto definiti e articolati.
Rilievo
L'opera che maggiormente esprime lo stile e l'arte del rilievo nel Periodo Akkadico è la Stele di Naram-Sin (2254-2218 a.C.) conservata a Parigi nel Musèe du Louvre.
Periodo della II dinastia di Lagash
Intorno al 2150 a.C. la dinastia di Akkad crolla sotto la spinta d'invasione dei
Guti, popoli provenienti dai monti Zagros. Il vuoto politico, causato dall'invasione,
viene brevemente colmato dal sovrano della città di Lagash, Gudea, che estende il suo
dominio su tutta la Babilonia Meridionale e Centrale. Intorno al 2120 a.C. un sovrano
proveniente dalla città di Uruk, Utukhegal, scaccerà definitivamente dalla Mesopotamia i Guti e soppianterà il dominio della dinastia di Lagash, fondando la IV dinastia
di Uruk.
Statuaria
Gudea stravolge lo stile in cui viene rappresentata la regalità rispetto ai periodo
precedenti. Il sovrano si raffigura come un buon sovrano che guida rettamente il suo
popolo, un buon amministratore, un eccellente governatore e un fervente costruttore
in onore delle divinità cittadine.
Numerose sono le statue in diorite che lo raffigurano. Nella statuaria viene abbandonato lo schema troncoconico e la figura è rappresentata con una plasticità molto
realistica. Solitamente il sovrano è vestito con una toga, che lascia scoperta la spalla
destra. le pieghe della veste usualmente si concentrano sotto l'ascella destra, mentre
un lembo ricade sul braccio sinistro. le mani sono giunte sul ventre e l'anatomia muscolare è ben evidenziata. Spesso Gudea è raffigurato calvo o con un copricapo di vello di montone. Il viso ieratico presenta grandi occhi, sopracciglia unite (lisca di pesce),
palpebre in rilievo, bocca sinuosa e chiusa.
Periodo Neosumerico
Intorno al 2120 a.C. il sovrano di Uruk, Utukhegal, riunisce il regno di Sumer e
Akkad, sconfigge i Guti e fonda la IV dinastia di Uruk. La nuova dinastia verrà soppiantata sette anni dopo dalla III dinastia di Ur con il sovrano Ur-Nammu (2112 2095 a.C.), che si eleggerà “Re di Sumer e di Akkad”. Con questa dinastia la Mesopotamia conosce un periodo di prosperità economica e stabilità politica.
Nel 2004 a.C. a causa di una grave crisi economica, dalle pressioni degli Amorrei
a nord e degli Elamiti a sud, la III dinastia di Ur si estingue. Da questo momento la
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Mesopotamia torna ad essere frazionata in diversi regni regionali (Isin, Larsa, Eshnunna, Babilonia).
Architettura
Le testimonianze relative all'architettura del periodo Neosumerico si riscontrano
nelle città di Sippar, Nippur e Ur.
Soprattutto il santuario di Ur presenta numerosi edifici sacri, disposti intorno ad
uno ziqqurat di notevoli dimensioni, sulla cui sommità si ergeva il tempio dedicato
alla dea Nanna. Lo ziqqurat era composto da tre terrazze raggiungibili grazie ad ampie scalinate centrali e laterali; i prospetti dell'edificio si presentavano movimentati da
contrafforti, lesene, sporgenze e rientranze.
Gli scavi condotti nelle vicinanze dello ziqqurat hanno riportato alla luce altri
edifici, quasi tutti di pianta quadrangolare, due corti con ingressi preceduti da torrioni e mura.
Statuaria
Gli scavi archeologici hanno individuato fino ad ora scarsissime testimonianze di
scultura neosumerica. Le poche statue individuate presentano uno stile molto sobrio
e un alto livello naturalistico.
Rilievo
La tecnica del rilievo si manifesta sostanzialmente nella realizzazione di stele,
come nei periodi precedenti, composte secondo uno schema e un'ideologia ripresa dai
rilievi del periodo Protodinastico, ovvero divengono veicoli di comunicazione tra il
sovrano e le divinità cittadine.
L'ideologia arcaica viene però affiancata da nuove tendenze plastiche, in cui l'iconografia si presenta realistica, priva di schematismi, elegante e con masse volumetriche ben distinte.
Glittica
La glittica neosumerica, eseguita sui sigilli, tratta temi raffiguranti il Re divinizzato che accoglie ufficiali o fedeli condotti innanzi al sovrano da divinità minori.
Lo schema compositivo risulta ripetitivo, rigido, privo di espressione e interazione fisica tra i personaggi.
Il tema prevede il sovrano, sulla destra, seduto in trono con il braccio proteso innanzi e con una coppa nella mano opposta, in procinto di accogliere il fedele o il funzionario. La composizione è arricchita da falci lunari, dischi radiali, globi e stelle.
Arte assira
L'arte assira si diffuse in due fasi storiche determinate, quali il periodo proto-assiro (dal 1243 al 1074 a.C.) e quello dell'arte assira, propriamente detta, (dal 1074 a.C.
al 612 a.C.).
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Le opere d'arte assire giunte sino ai nostri giorni appartengono, nella maggior
parte dei casi, al periodo del Nuovo Impero, mentre dell'arte proto-assira, sviluppata
soprattutto nella città di Assur, sono sopravvissuti solo pochi frammenti e le raffigurazioni dei sigilli, tramite i quali gli studiosi hanno potuto ricostruire scenari storici e
artistici, secondo i quali, le città dell'epoca erano caratterizzate da numerosi santuari
in stile mesopotamico, spesso completati da enormi ziggurat. Le pareti interne degli
edifici erano impreziosite da decorazioni.
Scultura e raffigurazioni
L'arte assira, come tutta la sua cultura, deve un forte tributo a Babilonia, ma durante l'ultimo periodo mostra una certa originalità. Molte immagini rappresentano
scene di guerra e spesso mostrano nel dettaglio e con crudo realismo le torture subite
dai popoli sottomessi al potere assiro. Si tratta di un'arte che ha come fine la celebrazione del potere dell'imperatore e scopo di propaganda. Inoltre, nei bassorilievi, sono
spesso raffigurati i passatempi preferiti dai re, ossia le battute di caccia, rese però con
scene sanguinarie altrettanto crudeli, quindi in linea con uno dei gusti artistici preminenti per gli assiri.
La raffigurazione del re era di tipo simbolico, priva di qualsiasi espressività ed
emozioni, per avvicinare il più possibile la sua immagine a quella del dio. Molti di
questi bassorilievi raffigurano anche il re che presiede a riti religiosi, insieme a diver se divinità. Numerosi di questi bassorilievi sono stati scoperti nei palazzi reali a Nimrud (Kalhu) e Khorsabad (Dur-Sharrukin). Abitualmente le figure umane sono rappresentate con la testa di profilo e il busto di fronte, i muscoli sono evidenziati a dismisura per indicare la forza e perciò la visione delle decorazioni umane è per lo più
simbolica, mentre le figure animali sono maggiormente realistico-espressive. Lo stile
delle sculture ha subito qualche variazione nel tempo, visto che nel periodo più antico
le raffigurazioni hanno un rilievo minimo e dimensioni grandi, mentre successivamente, ai tempi di Sargon II, sporgono quasi come altorilievi e assumono una maggiore eleganza, un miglior senso della prospettiva e una dimensione ridotta.
Tra le raffigurazioni più significative vi è quella maestosa di Sargon II con uno
stambecco destinato al sacrificio, la scena marinara raffigurante le navi che trasportano il legno dalla Fenicia e la Leonessa ferita.
Una rara scoperta di piatti di metallo che appartenevano a porte di legno è stata
fatta a Balawat (Imgur-Enlil).
La scultura assira raggiunse un alto livello di raffinatezza durante il periodo del
Nuovo Impero come dimostrano chiaramente i tori alati a volto umano (detti lamas su), o gli shedu che proteggevano gli ingressi alla corte del re, secondo una usanza
proveniente da Babilonia. Questi avevano una funzione apotropaica, cioè di allontanare gli spiriti maligni. C.W. Ceram afferma in "The March of Archaeology" che i lamassi erano solitamente scolpiti con cinque zampe in modo tale che quattro zampe
erano sempre visibili mantenendo l'integrità della figura, anche se questa veniva vista
frontalmente o di profilo.
Opere di gioielleria assira sono state ritrovati in tombe reali a Nimrud.
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Architettura
Per quanto riguarda l'architettura, sono stati portati alla luce i resti di grandiosi
palazzi, il più fastoso dei quali è quello di Sargon II, nell'odierna Khorsabad. Questi
palazzi erano composti da un gran numero di stanze divise secondo regole ben precise: gli ambienti ufficiali si ergevano attorno a un cortile d'accesso, mentre le stanze
private erano erette attorno a cortili interni.
Erano inoltre caratterizzati da immensi portali, a lato dei quali sorgevano le già
citate gigantesche sculture di leoni o tori alati con testa d'uomo. La sala del re (che
raggiungeva anche gli oltre 10 metri di larghezza) era sempre collegata con un vanoscala che permetteva la discesa del sovrano dagli appartamenti privati, posti al piano
superiore.
La tecnica costruttiva dei palazzi prevedeva l'utilizzo del mattone crudo, secondo la tradizione mesopotamica, con l'aggiunta della pietra, per le fondamenta, le porte, le terrazze, i basamenti.
I templi, avendo la funzione di ospitare la divinità, da un punto di vista architettonico ripetevano la struttura delle dimore private circondanti i cortili.
Arte babilonese
L'arte del popolo babilonese, sviluppatasi in Mesopotamia tra i fiumi Tigri ed
Eufrate, succede all'arte e alla civiltà sumera, anche se per lungo tempo prosegue sullo stesso modello culturale e iconografico del periodo precedente.
L'arte babilonese si divide in tre periodi: Periodo Paleobabilonese (2004 a.C.-1595
a.C.), Periodo Cassita (1595 a.C.-1150 a.C.) e della II dinastia di Isin (1150 a.C.-1025
a.C.), Periodo Neobabilonese (625 a.C.-539 a.C.). Il periodo che parte dal 1025 a.C. ed
arriva al 625 a.C. vede la Mesopotamia sotto il dominio degli Assiri.
Arte Fenicia
Il vero scopritore dell'arte fenicia fu l'archeologo francese Ernest Renan (1860-61),
i cui studi si aggiunsero agli scavi di Biblo di Pierre Montet e Maurice Dunand. La
scarsezza del materiale proveniente dall'area fenicia viene supplita dai materiali delle
regioni circostanti, dai dati indiretti, dall'Antico Testamento e dalle raffigurazioni assire. L'arte fenicia si inquadra in quella siriana, con confluenze egiziane, mesopotamiche, egee e anatoliche; sono scarse le aspirazioni alla grande arte, trattandosi di produzione di livello artigianale. L'arte fenicia si caratterizzò per una carenza di unitarietà e di totale originalità e tranne Cartagine, quasi tutti gli altri siti fenici situati sul
mare, si rivelarono più che altro empori adibiti al commercio, quindi poco espressivi
di manifestazioni artistiche.
Se gli avori sono prevalentemente di stile egittizzante, la glittica deriva dallo stile
della Mesopotamia, mentre la ceramica mostra una produzione tipicamente egea, ed
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inoltre i metalli evidenziano una commistione dell'arte mesopotamica e dell'Anatolia:
gli influssi forti e diversi sono corrisposti da interpretazioni locali, che nell'Età del
Ferro costituiscono ancora un attardamento delle caratteristiche dell'Età del Bronzo.
L'architettura è conosciuta solamente dalle figurazioni assire: tutte le città erano comunque cinte da mura, turrite e merlate, e con case sovrapposte. Immagini della città
di Tiro sono state trasmesse dalle porte bronzee costruite da Salmanassar III e dai celebri rilievi di Sennacherib.
Tre furono i tipi di santuari diffusi: il tempio di derivazione egizia, contraddistinto dall'elemento autoctono della doppia colonna libera nel cortile d'ingresso, il recinto sacro contenente l'altare al centro della struttura, e il tophet caratterizzato da
stele e cappelle votive. I Fenici si misero in luce per la produzione di stoffe e di tessuti, nei centri di Sidone e Tiro, e nella lavorazione dei metalli. Gli oggetti ritrovati a Byblos sono decorati con la tecnica della granulazione e del tratteggio.
Arte egizia
L'arte egizia ha origini antichissime, precedenti al III millennio a.C., e si intrecciò
nei secoli con quella delle culture vicine (siro-palestinese e fenicia).
L'arte dell'Antico Egitto si può suddividere in due grandi periodi:
•
l'arte predinastica o preistorica;
•
l'arte dinastica dell'Antico, Medio e Nuovo Regno.
Arte predinastica
L'arte predinastica nacque intorno al V millennio a.C. e si manifestò con incisioni
rupestri diffuse lungo l'alto Nilo, raffiguranti prevalentemente funzioni magiche di
animali, propiziatorie per la caccia, quotidianità oppure scene di pastorizia. In questa
fase storica vennero introdotti i primi strumenti musicali, quali bacchette, tavolette e
sonagli, utilizzati in rituali totemici. Le danze erano soprattutto propiziatorie alla caccia, magiche, di fecondazione e di iniziazione.
Architettura
Un capitolo a parte, sin dal periodo preistorico, è rappresentato dall'arte per i
morti, evidenziata dal fiorire di necropoli, costituite inizialmente da semplici fosse o
santuari di fango e frasche con tombe situate sotto tumuli cintati da palizzate o mattoni e piano piano sempre più complesse, strutturate in forme geometriche e rialzate,
impreziosite da oggetti indispensabili al defunto.
Arti decorative
L'arte decorativa era completata da vasi costituiti inizialmente in terra del Nilo,
in pietra e in un secondo tempo in argilla, statuette in terracotta e in avorio raffigu ranti uomini e animali al lavoro, tavolette in scisto che col passare del tempo assunsero carattere votivo, con i temi ormai in rilievo. Tra le tavolette di questo periodo, con8
servate al Museo del Cairo, si annoverano la Tavoletta della caccia, la Tavoletta della
battaglia e la tavoletta di Narmer, che segnò, per le sue caratteristiche artistiche e culturali, il punto di passaggio fra il periodo preistorico e quello dinastico.
In tutta l'arte predinastica notevole furono gli influssi provenienti dalla Mesopotamia. Complessivamente sono giunti sino ai nostri tempi pochi reperti artistici e architettonici riguardanti il periodo predinastico.
Arte dinastica
L'arte nell'Antico Egitto fu da sempre legata a intenti celebrativi e di propaganda
del potere centrale assoluto, con complesse simbologie legate alla religione e alle tradizioni funerarie. Il termine arte non esisteva nemmeno nella lingua egizia, perché il
compito dell'artista non era certamente quello di creare, inventare, quanto piuttosto
di concretare i simboli della potenza terrena e ultraterrena. L'arte dinastica si caratterizzò sia per l'armonia rigorosa delle geometrie sia per la vastità dei temi descritti e
per la ricchezza del pantheon divino. Fondamentale fu anche l'introduzione di un sistema morale religioso che ispirò il Libro dei Morti e tutta l'arte conseguente.
L'arte dinastica dei tre grandi periodi seguì un'evoluzione non lineare, caratterizzata da alcune fasi di grande sviluppo intervallate da periodi oscuri: la prima fu scandita dalla unificazione dell'Egitto e dalla fondazione di Menfi (verso il 3000 a.C.), la
seconda dalla III-V dinastia di Menfi (ca.2778-2250), la terza dalla XI-XII dinastia di
Tebe (ca.2160-1785), la quarta dalla XVIII-XX dinastia di Tebe (1505-1085). Dalla freschezza naturalistica dell'arte della III dinastia di Gioser, il percorso evolutivo giunse
alla tappa dell'astrazione geometrica delle piramidi di Menfi, quindi all'umanizzazione accademica dei codici e delle norme menfite durante il Medio Regno e infine all'arte magnificente del Nuovo Regno impreziosita dalle influenze mesopotamiche e cretesi. Con le dominazioni straniere, dagli Hyksos agli assiri e persiani fino ai romani, la
decadenza si accentuò sempre più.
Architettura
L'espressione più nota della cultura egizia a partire dall'Antico Regno è l'architettura delle colossali piramidi: già nella III dinastia il faraone Gioser (secolo 2600
a.C.) si fece costruire la prima piramide a gradoni a Saqqara, prendendo ispirazione
dalle ziqqurat della Mesopotamia e da una sovrapposizione di mastabe, tombe tradizionali. Queste costruzioni includevano cappella funebre, sale per le statue e la cripta
sepolcrale. La tipologia naturalistica di queste strutture funerarie, caratterizzata dalle
serie di pilastri, dalle colonne con o senza capitello, nel caso di tendenze protodoriche, in seguito ebbe un'evoluzione indipendente con i lati lisci a triangolo isoscele, ed
ebbe il coronamento nelle celeberrime piramidi di Giza, tra le quali spicca la Piramide
di Cheope (IV dinastia), uno degli edifici più antichi e impressionanti al mondo. Nella
piramide a gradoni esistevano lunghi cuniculi sotto terra, dove si trovavano anche camere. Nella piramide a faccia liscia le stanze vennero invece poi costruite sia sotto terra sia dentro la piramide.
Nel Medio Regno si svilupparono nuovi percorsi architettonici alternativi, le piramidi in mattone assunsero dimensioni più ridotte, aumentarono il numero delle
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sale interne e si prospettarono i modelli del futuro, come il viale di accesso a sfingi,
obelischi all'ingresso, cappelle e chioschi per le processioni, cortile con porticato. La
tomba del re venne posta a 150 metri di profondità e non più all'interno di una scala
conducente al cielo. La terrazza costruita davanti alla parte sotterranea proponeva
un'immagine della creazione del mondo.
Per quanto riguarda i grandi complessi architettonici, quali Luxor e Karnak ristrutturati e in auge anche nel Nuovo Regno, ogni elemento fu indirizzato a infondere
un senso di sacralità e di mistero attorno al sacello divino: già in pianta si può notare
la complessa articolazione degli spazi, disposti in una lunga successione di cortili,
porticati, atrii, sale ipostile via via più piccole e buie, con l'uso di enormi lastre monolitiche sostenute da colonne che schermano la luce. Ogni elemento della struttura riprodusse una parte dell'ultraterreno mentre l'insieme della struttura simulò il tutto
cosmico; così se la copertura del portico del cortile venne decorata con un tema a stel le, il pavimento del cortile tese a imitare il colore del terreno dei fertili campi della
Valle del Nilo e gli architravi sopra i capitelli ospitarono i nomi dei re poiché indicanti
il punto di congiunzione tra terra e cielo.
Una delle novità del Medio Regno fu il proliferare di santuari in tutte le provincie del Regno esprimenti anche divinità locali.
Durante il Nuovo Regno i templi divini si estesero ulteriormente, anche se la
sede di quelli più famosi si confermò Tebe. I complessi divennero sempre più articolati, nel pieno rispetto della disposizione gerarchica imposta dal rito: il viale d'accesso
conduceva a sfingi o ad arieti, un massiccio portale esterno introduceva al cortile riservato al popolo, mentre all'interno era prevista la sala per i funzionari ed i sacerdoti, e per ultimi il vestibolo e il sacrario riservati al faraone. Gli interni vennero impre ziositi da geroglifici e decorazioni policromatiche in rilievo. Tra i templi si annoverarono quelli a terrazze arretrate e quelli ad un'unica torre d'ingresso ispirati ai migdol
palestinesi, mentre la struttura più originale fu eretta del re eretico Akhenaton, a cortili aperti culminati da quello portante l'altare del sole.
Sotto i Tolomei ed i Romani l'architettura si arricchì di elementi stranieri e di
grandi opere dedicate soprattutto a Iside e Horo.
L'Egitto non mancava di risorse naturali e se l'oro abbondava nei deserti orientali, grandi cave furono aperte per rifornire di pietra calcarea e di arenaria i costruttori.
Proficua fu anche l'importazione di avorio ed ebano dalle tribù africane del sud, e del
rame dai territori siriani.
Scultura
La grande abbondanza di materiale lapideo in Egitto determinò fin dall'Antico
Regno una notevole ricchezza di opere scultoree. Nella scultura a tutto tondo o ad altorilievo le figure, generalmente commemoranti i defunti, sono presentate in maniera
rigidamente frontale, e sebbene siano talvolta inscenati dei movimenti di braccia e
gambe, il risultato è sempre sostanzialmente statico. Grande attenzione viene di solito
posta nei volti, con una maggiore delicatezza nella resa del modellato e dei lineamenti. Con il trascorrere del tempo venne instaurato un vero e proprio canone di proporzioni per governare le varie parti della figura. Al naturalismo iniziale, ben evidenzia10
to nelle statuette di animali e di madri col bambino al collo, subentrò il realismo manifestato nei simulacri regali di Gioser, per fare spazio poi alla tendenza all'idealismo
e all'eleganza.
I materiali scelti, in questo periodo, furono dapprima l'avorio, l'osso, il legno
duro e poi anche il granito e la pietra dura con utensili di rame e martelli di pietra.
Durante il Medio Regno i laboratori di Menfi produssero statuette impregnate di
accademismo, mentre gli artisti di Tebe idearono statue esprimenti grande forza, oltre
alla innovazione della orma cubica. In questa epoca le statuette che accompagnavano
il defunto rappresentavano vere e proprie scene teatrali.
Nel Nuovo Regno si diffuse il gusto umanizzante raffinato ed elegante, in linea
con i canoni della corte di Tebe. La continua ricerca ed evoluzione plastica sfociò alla
classica figura sorridente tipica del periodo dei Ramesse.
Nelle epoche successive, come in quella tolemaica, la sintesi fra il gusto greco e
quello egizio creò compromessi tra naturalismo e geometrismo preparando lentamente l'arte copta.
Pittura
La maggior parte delle opere pittoriche, in tempera, vennero dipinte direttamente sulla pietra o su un intonaco costituito da uno strato di gesso, paglia e fango. Solitamente gli artisti lavoravano in gruppi, guidati dai maestri, ai quali spettavano le figure più importanti e le elaborazioni dei contorni e dei dettagli, mentre i pittori riempirono gli abbozzi con pennellate colorate. I colori vennero ricavati dal ferro, dall'ocra,
dal carbonio e dalla malachite, oltre che dal mescolamento con il bianco, derivato dal
gesso o dalla calce. Il verde derivò dai sali di rame mentre celeberrimo fu il blu egizio.
Nell'Antico Regno si impose nel disegno il bassorilievo cromatico prima della
diffusione del gusto pittorico vivace delle tombe di Meidum (circa all'inizio della IV
dinastia), che comprese dapprima celebri scene di caccia e in seguito scene prese dalla
vita quotidiana e dalla natura (V dinastia), nelle quali le figure assunsero un rapporto
reciproco.
Durante il Medio Regno la pittura prese il sopravvento sulle arti scultoree per la
sua maggiore facilità di realizzazione sulle rocce. Due furono le innovazioni di questo
periodo: il naturalismo delle tombe di Beni Hasan e la tendenza a dipingere il sarcofago delle mummie.
Il Nuovo Regno favorì la raffigurazione di scene di guerra e di culto ispirate al
Libro dei Morti. L'evoluzione passò attraverso l'esaltazione della linea e la gradazione
coloristica fino all'espressionismo dell'ultima fase.
Nelle epoche tolemaiche e romane si diffuse il gusto del particolare e del movimento.
Ceramica e arti minori
La produzione ceramica risalente già all'età neolitica, seppur semplice e priva di
decorazioni, si sviluppò successivamente nel centro di Deyr Tasa realizzando vasi
tombali rossastri e carbonizzati. Intorno al 4000 a.C. si introdussero coppe di argilla
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nera, vasi e giare decorati.
Nell'Antico Regno i disegni geometrici raffigurarono in modo stilizzato animali,
uomini, barche e si impose la ceramica a smalto blu, chiamata faenza egizia.
La produzione di gioielleria, ricca di monili e di collane nell'antichità, visse il suo
momento migliore durante il Medio Regno, ben esemplificata dai diademi, dai pettorali dorati con pietre preziose, dai braccialetti, dalle cinture ritrovati nelle tombe di
Dahshur. In questo periodo si diffuse l'utilizzo di canopi in terracotta per conservare
le viscere delle mummie ed una raffinata arte del mobile, dai letti funerari ai troni.
Inoltre si sviluppò la produzione di statuette raffiguranti animali e donne o prigionieri incatenati usate in riti magici.
Il Nuovo Regno si caratterizzò per la policromia ceramica e per il gusto popolare
dei manufatti.
Convenzioni espressive
Nella rappresentazione bidimensionale (bassorilievo e pittura) gli artisti egizi
manifestano nell'arco di secoli una netta aderenza a una serie di convenzioni che rendono l'arte egizia unica ed immediatamente riconoscibile, immagine di una società
conservatrice e stabile nel tempo.
L'interesse degli artisti egizi nella raffigurazione di un oggetto o di una figura
umana era quello di presentarne il più possibile la totalità fisica, senza la "scelta" di
un punto di vista unico, anzi selezionando anche più punti di vista in modo da avere
la migliore prospettiva per ogni singolo elemento che compone la figura, studiata
quindi parte per parte e non nella sua interezza. Si ottenevano così rappresentazioni
per "assemblaggio" logico, senza nessun interesse nell'illusionismo di creare figure
che dessero l'idea allo spettatore di averle realmente davanti. Per fare questo, vennero
utilizzati reticoli geometrici, che garantivano un preciso rapporto tra le parti del corpo.
Le conseguenze di questa visione sono che in una figura umana le spalle e il busto sono di solito collocati frontalmente, il bacino di tre quarti, le gambe di profilo, di
solito aperte della larghezza di una passo; il viso è di profilo, ma l'occhio è raffigurato
di fronte.
Sono tipiche le proporzioni "gerarchiche", cioè i personaggi più importanti raffigurati in scala maggiore; quindi l'uomo veniva abitualmente raffigurato più grande e
più scuro della moglie, posta alla sua sinistra, e la figlia del faraone veniva evidenziata maggiormente in quanto prima erede al trono. Gli uomini seduti appoggiavano il
palmo della mano sulla coscia, mentre quelli in piedi, se di sesso maschile, tenevano il
piede sinistro più avanzato. Tra gli animali, le lucertole e le api venivano raffigurate
dall'alto ed i coccodrilli di profilo. Tutte queste convenzioni però non erano applicate
ai sudditi e questo permise un approccio maggiormente realistico delle raffigurazioni.
Per alludere alla profondità spaziale veniva usata spesso una serie di fasce, disposte incolonnate verticalmente, dove quella più in basso rappresentava la scena sul
piano più vicino allo spettatore.
La scelta dei colori in pittura rivestiva spesso un significato simbolico, come nel
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reperto di Nebamon o in quello delle Oche di Meidum, in stretta relazione con le
iscrizioni in geroglifico che accompagnavano le scene.
Arte minoico-micenea
L'arte della civiltà egea (2000-1400 a.C.) si divide in arte minoica ed arte micenea.
L'età minoica-micenea inizia nel 1500 a.C. e si conclude nel 1199 a.C. L'arte minoica nasce in corrispondenza dell'introduzione della metallurgia del bronzo. L'architettura più nota è quella del Palazzo di Cnosso, completo di un santuario e di un teatro. A Creta svolgevano un ruolo importante i ceramisti e i decoratori.
L'arte micenea, influenzata da quella minoica, è quella corrispondente al periodo
più avanzato dell'età del bronzo ed il suo elemento caratterizzante sono le fortificazioni, le porte e l'architettura funeraria.
L’arte cretese
Grazie ad alcune impegnative campagne di scavo e ad approfonditi esami dei
tanti reperti rinvenuti alla fine del 1800 nell’isola di Creta, gli archeologi di una spedizione italiana (che effettuarono delle ricerche presso il palazzo di Festo, la villa di Haghia Triada e la grotta di Kamàres), l’archeologo inglese Arthur Evans (che si occupò
del palazzo di Cnosso) ed altri studiosi del settore, compresero con sempre maggior
chiarezza l’eccezionale importanza assunta dalla civiltà cretese; ciò fu evidente, non
solo in considerazione della grande perfezione dei reperti ceramici e della caratteristica dell’architettura palaziale, ma anche per gli elevati livelli raggiunti dall’organizzazione politica e religiosa di quel popolo.
Secondo Evans, le origini della civiltà cretese dovrebbero datare intorno al 3500
a.C., periodo in cui si affermò un’economia basata sullo sviluppo dell’attività ceramica.
Secondo gli archeologi greci Platon e Marinatos e dell’italiano Levi, tale datazione (comprensiva delle altre fasi salienti della civiltà cretese) dovrebbe far riferimento
all’epoca della costruzione e della successiva distruzione dei grandi palazzi, quindi ai
seguenti periodi:
•
“prepalaziale”, dal 2600/ 2500 al 2000 a.C.;
•
“protopalaziale”, ovvero dei primi palazzi, dal 2000 al 1700 a.C.;
•
“postpalaziale”, corrispondente al periodo miceneo, dal 1400 a.C.
Nell’area egea, tra il III e il II millennio a.C., si affermò una civiltà che ebbe la sua
massima espressione nell’isola di Creta, la più estesa delle isole di quel mare. Detta
isola, pur intrattenendo regolari e intensi rapporti commerciali con tutti i centri del
Mediterraneo, assunse fin dalle origini, caratteri autonomi e del tutto originali, influenzando notevolmente le culture di quell’area geografica, tra cui quella cicladica
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detta civiltà, le cui origini risalgono al periodo Neolitico - 6000 a.C.- e giunse fino al
2000 circa a.C., prese il nome dall’arcipelago delle isole Cicladi, comprese tra la penisola ellenica, l’isola di Creta e l’Asia Minore) la micenea e, successivamente, quella
greca.
All’inizio del II millennio a.C., i Cretesi, sfruttando appieno le favorevoli condizioni offerte dalla favorevole posizione geografica e dal clima temperato dell’isola,
dalla notevole attitudine dimostrata dai suoi abitanti per attività produttive quali l’artigianato, l’agricoltura, la pesca e gli scambi commerciali coi pesi del bacino egeo, mediterraneo e mediorientale, raggiunse una grande prosperità economica ed un’evidente supremazia politica e commerciale rispetto ad altri popoli.
Il mare che per secoli protesse l’isola dalle invasioni straniere, nella seconda parte del XV sec. a.C., nulla poté contro l’invasione degli Achei, un fiero popolo della
Grecia meridionale con cui, in passato, i cretesi ebbero frequenti rapporti culturali e
commerciali.
In seguito ad un improvviso sbarco nell’isola, rasero al suolo ogni palazzo e villaggio, determinando la definitiva scomparsa della civiltà cretese.
Altra concausa altrettanto determinante per la scomparsa della civiltà cretese fu,
quasi certamente, il disastroso terremoto conseguente all’esplosione di un vulcano
(ciò sarebbe provato da alcuni resti rinvenuti in alcune località dell’isola) situato nell’isola di Santorino.
Le testimonianze più significative della civiltà cretese, sono date dai resti dei
grandi palazzi di Cnosso, Festo, Mallia e delle ville di Haghia Triada e Tylisso.
Nelle grandi città-palazzo, si svolgeva la vita politica, amministrativa, sociale e
culturale dell’epoca; oltre al sovrano e alla sua famiglia, vi risiedevano funzionari,
amministratori, artigiani e schiavi, mentre i lavoratori agricoli vivevano in piccoli centri, per lo più localizzati nella parte centro-orientale dell’isola.
Il Palazzo reale di Cnosso
Nel Palazzo reale sono stati rinvenuti diversi porticati sorretti da colonne dipinte
con colori vivaci, formate da un fusto liscio, di forma tronco-conica, rastremato verso
il basso. I capitelli, elementi d’interposizione tra i fusti delle colonne e gli architravi,
sono costituiti da due elementi: l’abaco e l’echino.
Il primo (dal basso) ha la forma di un catino, mentre il secondo, ad esso sovrapposto, è costituito da un parallelepipedo di pietra a base quadrata, su cui gravita il
peso dell’architrave e della restante parte della costruzione.
Il Palazzo reale, oltre che sede politico-amministrativa, era anche il luogo dove
venivano prodotti i beni economici legati alla sussistenza dei suoi abitanti; per questa
ragione era anche il centro della vita sociale che gravitava intorno al monarca, tra le
cui funzioni vi erano anche quelle del controllo e della gestione del ciclo economico.
In esso, oltre alle predette attività, andavano in scena spettacoli di vario tipo, vi
si svolgevano attività ginniche e cerimonie di carattere religioso.
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I palazzi reali di Cnosso e di Festo furono costruiti tra il 2000 ed il 1700 a.C., successivamente distrutti (probabilmente a causa dei predetti eventi naturali), furono riedificati una seconda volta sulle loro rovine; alle pendici di una collina, ad una distanza di 7 o 8 Km. dal mare.
Per quanto la disorganica disposizione planimetrica dei vari ambienti (appartamenti reali, sale, corridoi, cortili, terrazze, portici, gradinate, laboratori artigianali, locali adibiti alla conservazione di provviste alimentari, magazzini, archivi palestre
ecc.) fosse perfettamente rispondente a precise esigenze funzionali, la mancanza di un
predeterminato progetto costruttivo riporta alla mente, così come al tempo dei cittadini cretesi, le mitiche vicende legate alla leggenda del labirinto.
Il nucleo centrale della città-palazzo era un grande cortile, presumibilmente adibito a piazza d’armi, attorno al quale si disponevano i diversi locali, assecondando la
conformazione (collinare) del terreno.
Le decorazioni parietali
All’interno del palazzo di Cnosso, particolarmente negli ambienti reali, sono stati
rinvenuti diversi affreschi con raffigurazioni di tipo naturalistico; i soggetti rappresentati fanno riferimento al mondo vegetale (per esempio, fiori e piante), al mondo
animale: polipi, delfini, stelle marine, molluschi, tori ecc.) ed ancora, gare atletiche, cerimonie religiose, tauromachie, danze rituali ecc.
Dal punto di vista stilistico, le figure appaiono contornate da profili sinuosi, colorate con tinte chiare e luminose, sempre chiaramente contrastanti rispetto al cromatismo degli sfondi.
La scultura
Per quanto attiene alla scultura, in assenza di realizzazioni di tipo monumentale
(tipiche delle civiltà orientali e dell’arcaismo greco), si ha una produzione d’opere di
piccole dimensioni, realizzate a tutto tondo; detti manufatti, sono perlopiù realizzati
in avorio o in terracotta smaltata.
La ceramica
Nel medesimo periodo in cui furono edificati i grandi palazzi di Cnosso, Festo e
Mallia, la produzione ceramica fu caratterizzata dallo stile detto di “Kamares”; detto
termine, si riferisce alla località di una grotta che si trova sul monte Ida, all’interno
della quale furono effettuati i principali ritrovamenti.
Le ceramiche dello stile “Kamares”, sono denominate “a guscio d’uovo” (per il
loro esile spessore) e furono eseguite con l’utilizzo del tornio girevole.
Dal punto di vista stilistico, sono caratterizzate da motivi geometrici e da sinuose
figure stilizzate, riprendenti perlopiù motivi del mondo vegetale. Tali raffigurazioni
interessano l’intera superficie dei vasi.
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Periodo neopalaziale (dal 2000 al 1700 a.C.)
In questo periodo, che coincise con la distruzione (terremoto) e la successiva riedificazione dei grandi palazzi, in campo ceramico vi fu un’intensa produzione di statuette votive realizzate in terracotta smaltata.
Tra le opere più conosciute, vi è la statuetta della cosiddetta “Dea dei serpenti”,
una delle divinità “della terra”, o del “sottosuolo”; essa è rappresentata con un tipico
abito a falde ricadenti, bloccato ai fianchi da un elemento a forma di sella che parrebbe realizzato con una stoffa più pesante. Uno stretto corpetto comprime e lascia scoperti i seni, mentre le sue mani mostrano e stringono due serpenti.
Nel medesimo periodo, la produzione ceramica assume forme più libere rispetto
al precedente.
Il “pithos”, risalente al 1700- 1400 a.C., è un grande vaso di 134 cm. d’altezza, caratterizzato da una decorazione stilizzata a motivi vegetali, con l’inserimento di alcune asce (bipenni), del tipo di quelle utilizzate per i riti sacrificali.
L’aspetto più importante e innovativo di questo periodo è dato da un nuovo stile, più realistico del precedente, quello che prende il nome e proviene dalla località di
Gurnià.
L’esempio più conosciuto e rappresentativo di questo stile, oltre che della produzione vascolare di questo periodo, è la cosiddetta “Brocchetta di Gurnià”.
La brocchetta in questione, è caratterizzata dalla figura di un grande polipo immerso nel suo ambiente naturale che, tra alghe e pezzetti di corallo sospesi nell’acqua,
sembra avvolgere coi suoi tentacoli la superficie del vaso.
Periodo postpalaziale (dal 1400 al 1100 a.C.)
La tremenda eruzione vulcanica di Cantorino e la successiva invasione dell’isola
da parte degli Achei, determinò dal punto di vista artistico un’attività sempre meno
creativa e sempre più ripetitiva dei modelli stilistici del passato.
Arte cicladica
La maggiore originalità artistica è stata attribuita al periodo antico, che va dal
2600 a.C. al 2000 a.C., mentre nelle fasi successive l'arte entrò nell'influenza minoicomicenea. Per quanto riguarda la produzione artistica cicladica, i prodotti più pregiati
sono stati realizzati in marmo. Si tratta principalmente di statuette di diversa forma e
dimensione che hanno come soggetti donne nude con le mani sul ventre, musicisti,
cacciatori e guerrieri. Le raffigurazioni femminili hanno evidenziato l'insistenza nella
raffigurazione della dea madre, simboleggiante la fertilità e la fecondità. La dea cicladica venne descritta nella posizione eretta in atteggiamento ieratico. Generalmente,
dai bassorilievi al tuttotondo i Cicladici dimostrarono una notevole sensibilità per la
forma e per la trasposizione dal reale all'immaginario. I celebri idoli cicladici, seppur
affini agli uscebti dell'antico Egitto sono di derivazione maggiormente mesopotamica
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e venivano utilizzati, per lo più ad usi funerari. La semplicità delle forme artistiche cicladiche ha influenzato la produzione di molti artisti contemporanei e, allo stesso
tempo, ha attirato l'attenzione di molti collezionisti senza scrupoli che hanno favorito
gli scavi clandestini. Le ceramiche più diffuse sono state le brocche e i pissidi aventi
decorazioni geometriche, i kernoi in steatite ed i recipienti in pietra levigata. La maggior parte dei reperti archeologici, quindi, si trova nelle collezioni private. Fortunatamente sono state ritrovate alcune statuette nelle necropoli, mentre altre, di maggiori
dimensioni, provengono molto probabilmente dalle abitazioni private. Due sono le
modalità funerarie scoperte: la prima prevedeva tombe collettive mentre la seconda
concedeva seppellimenti individuali.
La civiltà cicladica ebbe fine nel 2000 a.C. quando, a causa della nascita della potenza militare di Creta, perse il predominio nel mare Egeo.
Arte etrusca
Per arte etrusca si intende l'arte relativa agli Etruschi, popolo inizialmente stanziato nel territorio chiamato Etruria, triangolo compreso tra l'Arno a Nord, il Tevere a
Sud e il Mar Tirreno a Ovest. Gli Etruschi si formarono nel IX secolo a.C. e caddero
nel 295 a.C. sopraffatti dai popoli dei Sanniti, dei Celti e dei Romani.
L'arte e la religione
L'arte etrusca è fortemente connessa a esigenze di carattere religioso. Essi avevano una visione molto cupa della morte. Non credevano nella beatitudine nella vita ultraterrena come gli Egizi, né avevano con gli dei un rapporto confidenziale come i
Greci. Gli dei etruschi erano invece ostili e disposti a fare del male. La religione etrusca serve quindi per interpretare la volontà di questi dei e accettare e soddisfare ciecamente il loro volere. Credevano nella vita eterna dopo la morte.
La città etrusca
I primi villaggi etruschi erano costituiti da capanne a pianta quadrata, rettangolare o tonda con un tetto molto spiovente (generalmente in paglia o argilla). Le città
etrusche si differenziavano dagli altri insediamenti italici perché non erano disposte a
caso, ma seguivano una logica economica o strategica ben precisa. Ad esempio, alcune città erano poste in cima a delle alture, cosa che rendeva possibile il controllo di
vaste aree sottostanti, sia terrestri che marittime. Altre città, come Veio e Tarquinia,
sorgono in un territorio particolarmente fertile e adatto all'agricoltura.
La città etrusca veniva fondata dapprima tracciando con un aratro due assi principali fra loro perpendicolari, detti cardo (nord-sud) e decumano (est-ovest), in seguito dividendo i quattro settori così ottenuti in insulae (dal latino, isole), tramite un reticolo di strade parallele al cardo e al decumano. Questa precisa disposizione urbanisti17
ca è visibile ancora oggi in alcune città dell'antica Etruria, corrispondente grossomodo
all'attuale Toscana, Umbria e parte del Lazio. Non è, in ogni caso, una novità etrusca,
in quanto l'idea di fondare le città partendo da due strade perpendicolari era di uso
comune in Grecia e fu ripresa in epoche successive anche dai Romani per fondare accampamenti e città (come ad esempio Augusta Praetoria e Augusta Taurinorum, le
attuali Aosta e Torino).
Le città sono cinte da mura, molto spesso ciclopiche, le quali rappresentano l'unica testimonianza, assieme a tombe e basamenti di templi, di architettura etrusca in
pietra. I materiali usati erano l'argilla, il tufo e la pietra calcarea; il marmo invece era
pressoché sconosciuto. L'ingresso alla città avviene attraverso le porte, che erano solitamente sette o quattro (ma si hanno testimonianze di alcune città a cinque e sei entrate), le più importanti in corrispondenza delle estremità del cardo e del decumano.
Inizialmente erano delle semplici architravi, ma a partire dal V secolo a.C. le porte as sunsero caratteristiche imponenti a forma di arco, costruite incastrando a secco tra
loro enormi blocchi di tufo, a loro volta inseriti nelle mura. Le porte di epoca tardo-etrusca, come ad esempio la Porta all'Arco di Volterra, erano inoltre decorate con fregi
e bassorilievi nelle loro parti principali (la chiave di volta e il piano d'imposta).
Con la crescita della potenza militare di Roma, le città etrusche vennero progressivamente conquistate e assimilate dal mondo e della mentalità romana, nei confronti
dei quali erano in posizione di svantaggio (economico, sociale, militare e politico), per
cui da cuore pulsante dei commerci mediterranei si ridussero a semplici centri abitati
con una classe dirigente etrusco-romana che, di fatto, provocò la fine di qualsiasi produzione artistica e architettonica indipendente.
L'architettura etrusca
Il popolo etrusco fu ricordato non solo per le vaste necropoli, ma soprattutto per
l'invenzione degli archi a tutto sesto. Essi scoprirono il modo per tenere su una struttura che curvava sulla parte superiore, formando un semicerchio che si sovrappone
alla struttura. La brillante idea Etrusca fu quella della chiave di volta, ovvero di una
pietra più grande che scaricava la tensione sugli impalchi laterali reggendo in piedi
l'arco senza alcun sostenimento. Per la costruzione veniva adoperata spesso un'impalcatura in legno, che reggeva momentaneamente la struttura fino al momento in cui
l'arco di volta fosse stato posto al centro della struttura. Il più noto esempio è la porta
di Volterra.
I templi etruschi
Dei templi etruschi e, più in generale dell'architettura religiosa, sono giunte sino
a noi solo poche testimonianze, a causa del fatto che i templi erano costruiti con materiali deperibili. Le informazioni che abbiamo su di essi ci provengono dal trattato di
Vitruvio, che li classificava (in particolare le colonne) sotto un nuovo ordine, quello
tuscanico. Solo tramite documenti di epoca romana, quindi, si riesce a ricostruire con
buona approssimazione il modo in cui erano fatti. Il tempio era accessibile non tramite un crepidoma perimetrale, ma attraverso una scalinata frontale, essendo elevato su
un alto podio. L'area del tempio era divisa in due zone:
18
•
una antecedente o pronao con otto colonne disposte in due file da quattro;
•
una posteriore costituita da un naos ripartito in tre celle, ognuna dedicata ad
una particolare divinità.
A differenza dei templi greci ed egizi, che si evolvevano assieme alla civiltà e alla
società, i templi etruschi rimasero sostanzialmente sempre uguali nei secoli, forse a
causa del fatto che nella mentalità etrusca essi non erano la dimora terrena della divinità, bensì un luogo in cui recarsi per pregare gli dei.
Frequenti erano gli omaggi da portare nei templi, solitamente consistenti in statuette votive in terracotta o bronzo, oppure in offerte sacrificali (agnelli, capre, ecc.).
Gli unici elementi decorativi del tempio etrusco sono gli acroteri e le antefisse, solitamente in terracotta dipinta. Un esempio è l'antefissa con la testa di Gorgone nel tempio del Portonaccio a Veio, oggi conservato al Museo Nazionale di Villa Giulia a
Roma.
L'architettura funeraria (necropoli)
Molte tombe etrusche si sono conservate perfettamente, poiché costruite in pietra. Per la religione etrusca l'uomo, nell'aldilà necessita di un ambiente piccolo e familiare in cui trascorrere la vita dopo la morte, assieme agli oggetti personali che possedeva in vita: ciò spiega la cura con cui venivano costruite le necropoli e il fatto che la
pittura di questo popolo sia quasi esclusivamente funeraria. Le pareti delle necropoli
erano dipinte a colori vivaci (imitando, in taluni casi, la volta celeste, o scene di vita
vissuta) per contrastare l'oscurità, simbolo della morte volontaria.
Le necropoli generalmente erano poste al di fuori della cinta muraria delle città,
ma con orientamento parallelo al cardo o al decumano. Quindi le necropoli etrusche
sono una fonte molto significativa, storiograficamente parlando, che permette di conoscere molti aspetti della vita quotidiana, delle credenze e dei riti popolari che, analizzando esclusivamente i testi scritti, non sarebbe stato possibile conoscere. Esiste anche un metro di classificazione per l'architettura funeraria tuscanica: si distinguono
infatti sei tipi di necropoli o catacombe:
•
tombe ipogèe;
•
tombe a edicola;
•
tombe a tumulo;
•
tombe a pozzetto;
•
tombe a dado;
•
tombe a falsa cupola.
Tombe ipogèe
Esse erano scavate interamente sottoterra o erano ricavate all'interno di cavità
naturali preesistenti (grotte, caverne, ecc.). Tra esse, la più famosa è l'Ipogeo dei Volumni, rinvenuta nel 1840. Questo tipo di catacombe era formato da un ripido accesso
a gradini, che portava direttamente nell'atrio. Qui vi erano solitamente sei tombe (o
gruppi di tombe), raggiungibili mediante stretti corridoi (in alcuni casi si trattava di
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veri e propri cunicoli). Si pensa che la sepoltura in Ipogèei fosse riservata a persone di
un certo rango sociale, specialmente politici, militari e sacerdoti. Erano in poche parole le persone più importanti della vita classica sociale.
Tombe a edicola
Esse erano costruite completamente fuori terra, a forma di tempio in miniatura
nelle intenzioni, ma in pratica molto simili alle abitazioni dei primi insediamenti etruschi. Nella simbologia etrusca, era molto significativa la forma a tempietto: infatti essa
rappresentava il punto intermedio del viaggio che il defunto doveva compiere dalla
vita alla morte, una sorta di ultima tappa della vita terrena. Tra esse, ricordiamo il
Bronzetto dell'Offerente, la meglio conservata, che si trova a Populonia.
Tombe a tumulo
Esse devono il proprio nome al fatto che, una volta eseguita la sepoltura, venivano ricoperte da mucchi di terra, allo scopo di creare una specie di collinetta artificiale.
Ognuna di queste tombe si articola, come le ipogèe, in diverse camere sepolcrali di dimensioni proporzionali alla ricchezza e alla notorietà del defunto o della famiglia del
defunto. Solitamente erano a pianta circolare. Tra esse ricordiamo la Tomba dei Rilievi, all'interno della necropoli della Banditaccia, presso Cerveteri.
Pittura etrusca
La pittura etrusca è essenzialmente quella degli affreschi delle tombe. Essa ha
un'importanza notevole non tanto per il livello artistico raggiunto, quanto per il fatto
che si tratta del più importante esempio di arte figurativa preromana. La tecnica pittorica maggiormente utilizzata presso gli etruschi era l'affresco.
Questa tecnica, sconosciuta dagli egizi ma nota presso Creta e la Grecia, consiste
nel dipingere su intonaco fresco il soggetto scelto, in modo che quando l'intonaco si
asciuga il dipinto, amalgamatosi con esso, diventa parte integrante del muro e resiste
per molti anni (questo spiega perché la quasi totalità delle espressioni figurative etrusche e romane fino ad oggi ritrovate siano affreschi). Per fare i colori con i quali poter
dipingere, si utilizzavano pietre e minerali di vari colori che venivano frantumati e
miscelati fra loro.
I pennelli erano fatti con peli di animali ed erano estremamente precisi (tuttora i
pennelli migliori sono prodotti con pelo di bue); a partire dalla metà del IV secolo a.C.
si incominciò a usare il chiaroscuro per suggerire gli effetti della profondità e del vo lume. Le scene dipinte raramente rappresentano scene di vita vissuta, infatti la maggior parte sono rappresentazioni di scene mitologiche tradizionali.
Non vi era ancora il concetto di proporzione (o se c'era non è comunque rispettato negli affreschi rinvenuti) per cui è frequente imbattersi in animali o uomini con alcune parti del corpo sproporzionate rispetto ad altre. Uno tra i più famosi affreschi
etruschi è quello della Tomba delle Leonesse a Tarquinia.
Un altro esempio di pittura etrusca è la pittura vascolare.
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Scultura etrusca
La scultura etrusca, pur essendo fortemente influenzata dalla scultura greca, non
riuscì mai ad arrivare allo stesso livello di armonia e perfezione delle statue ateniesi o
tebane, benché il linearismo nei costumi e nei volti rispecchiasse grandemente la pratica scultorea ellenica. Nonostante ciò, dalla prima metà del V secolo a.C., a causa della rottura dell'unità artistica greco-italica, le forme stilistiche assunsero elementi arcaici e persino più originali che in passato, tendenti al fantastico e al veristico.
Come ogni altra espressione artistica, anche la scultura era finalizzata alla celebrazione delle divinità. Aveva in particolare tre funzioni: funerarie, rituali e votive.
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Lezione II
IL MONDO CLASSICO
Arte greca
Per arte greca si intende l'arte della Grecia antica, ovvero di quelle popolazioni
di lingua ellenica che abitarono una vasta area, comprendente la penisola ellenica, le
isole egee e ioniche e le colonie fondate in Asia Minore, sul mar Nero, nell'Italia meridionale e insulare e, nella fase più tarda, nelle regioni conquistate da Alessandro Magno, in particolare la Siria, l'Egitto e l'Anatolia.
Essa ha esercitato un'enorme influenza culturale in molte aree geografiche dal
mondo antico fino ai nostri giorni. In Occidente ebbe un forte influsso sull'arte romana imperiale e in Oriente le conquiste di Alessandro Magno avviarono un lungo periodo di scambi tra le culture della Grecia, dell'Asia centrale e dell'India (arte grecobuddhista del Gandhāra), con propaggini addirittura in Giappone. A partire dal Rinascimento, in Europa l'estetica e l'alta capacità tecnica dell'arte classica (l'arte greca e la
sua continuazione nell'arte romana) ispirarono generazioni di artisti e dominarono
l'arte occidentale fino al XIX secolo. Col Neoclassicismo, nato da una serie di fortunate scoperte archeologiche, si iniziò a distinguere i contributi greci classici da quelli romani, ricreando il mito dell'arte ellenica quale traguardo impareggiabile di perfezione
formale.
I Greci posero sempre la massima attenzione alla ricerca estetica, cercando di trovare in ogni manifestazione artistica il massimo grado di armonia e perfezione formale. Le caratteristiche che distinsero la loro produzione rispetto alle civiltà antiche ad
essa precedenti e contemporanee, furono: l'attenzione e l'aderenza al realismo, che in
scultura si tradusse in una osservazione particolare dell'anatomia umana, e in pittura
si risolse sia nella ricerca della rappresentazione prospettica dello spazio sia in quella
della resa dei volumi; in architettura la stretta corrispondenza tra forma e funzione,
diretta conseguenza di un approccio razionale alla comprensione del mondo e alla conoscenza. Tali raggiungimenti formali, che sono all'origine del classicismo europeo,
hanno influito sullo sviluppo successivo del mondo occidentale ad un livello che va
ben oltre la storia dell'arte.
Definizioni
Generalmente gli storici dell'arte definiscono l'arte greca come arte prodotta nel
mondo di lingua greca in un periodo compreso tra il 1000 a.C. e il 100 a.C. circa,
escludendo dalla trattazione l'arte minoica e micenea (o arte egea) le quali fiorirono
tra il 1500 e il 1200 a.C.: sebbene la seconda appartenesse già probabilmente ad una ci viltà di lingua ellenica (vedi Lineare B), non esiste una vera continuità tra l'arte di
queste culture e la successiva arte greca, se non quella che deriva, ad esempio, dalla
circolazione di supporti iconografici quali "cartoni" di bottega o vasellame. L'arte greca quale forma artistica dotata di significato storico autonomo nasce dopo la fine della
civiltà micenea e termina con il progressivo stabilirsi del dominio romano sul mondo
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di lingua greca intorno al 100 a.C.
In lingua greca la parola τεχνη (tekhnê), che comunemente viene tradotta con
arte, indica più propriamente l'abilità manuale e artigianale: da questo termine deriva
infatti la parola “tecnica”; gli scultori e pittori greci erano artigiani, apprendevano il
mestiere a bottega, spesso presso il proprio padre, e potevano essere schiavi di uomini facoltosi. Sebbene alcuni di essi divenissero ricchi e ammirati, non avevano la me desima posizione sociale di poeti o drammaturghi; fu solo in epoca ellenistica (dopo il
320 a.C. circa) che gli artisti divennero una categoria sociale riconosciuta, perdendo al
contempo quel legame con la comunità che ne aveva caratterizzato il lavoro in epoca
arcaica e classica. Scrive la Richter a proposito della costruzione dell'Eretteo sull'Acropoli di Atene: “Ci rimane una iscrizione riferentesi al secondo periodo di lavori, cioè
dopo il 409, con i nomi di circa centotrenta operai, tra schiavi, stranieri ivi residenti e
liberi cittadini; tutti, compreso l'architetto, ricevevano il compenso giornaliero di una
dracma.”
In Grecia gli artisti ebbero piena consapevolezza del proprio ruolo: le firme dei
ceramisti compaiono sui vasi fin dal VI secolo a.C., ancora in periodo arcaico e Plinio
racconta di come Zeusi e Parrasio amassero sfoggiare la propria ricchezza e ostentare
la propria attività come eminentemente intellettuale. Tali sforzi non riuscirono evidentemente a scardinare la convenzione per cui ogni lavoro di tipo manuale dovesse
essere considerato di livello inferiore. Nel periodo ellenistico invece l'interesse per
l'arte divenne un contrassegno per le persone colte e il disegno e il modellare vennero
considerati un passatempo non disdicevole; come conseguenza iniziarono a formarsi
le collezioni private e si diede inizio al mercato artistico. Tale svolta fu concomitante
con la nuova tendenza soggettivistica della filosofia antica che portò a ritenere poeti e
artisti soggetti ad una medesima esperienza.
Contenuti
«[...] il contenuto fondamentale dell'arte classica è il “mito” [...]. Le immagini degli dei e degli eroi greci [...]. I nuovi dei, che spesso vediamo raffigurati in lotta contro
una precedente generazione fatta di giganti e mostri (le Gorgoni, le Furie, i Giganti, i
Titani, ecc.), sono le immagini ideali di attività o virtù umane: la sapienza e la cultura
(Atena), la poesia (Febo), la bellezza (Afrodite), l'abilità nei traffici (Ermes), il valore
guerriero (Ares), l'autorità (Zeus); ed una splendente legione di semidei, ninfe ed
eroi».
Il realismo dell'arte greca a cui si è già accennato si distacca da ogni precedente
esperienza perché non ha limiti, non si mantiene a livello umano come avviene nelle
altre civiltà antiche (Egitto, Mesopotamia, ecc.), ma permea il mondo degli dei. È questo l'unico elemento che accomuna l'arte greca all'arte minoica e che deriva, per entrambe le civiltà, da una concezione dell'arte come espressione di tutta la comunità e
non di una entità superiore, umana o divina che sia. Non c'è più niente di “magico”,
apotropaico o simbolico nell'arte classica; nella civiltà ellenica il mondo degli dei e degli eroi è speculare al mondo degli uomini i quali attraverso il mito e l'arte giungono
alla comprensione di se stessi e del mondo: «Nulla è nella realtà che non si definisca o
prenda forma nella coscienza umana». Di questa funzione dell'arte - giacché in questa
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ricerca di un armonico rapporto con il mondo, con la natura e con il divino l'arte ha
avuto ruolo attivo e non rappresentativo - artista e civiltà sono consapevoli; il momento in cui la comunità greca raggiunge la massima consapevolezza dell'affermazione dell'uomo nel mondo è il regno di Pericle e il regno di Pericle coincide con l'età
classica.
La consapevolezza dell'artista si esprime nell'interesse teorico; l'artista greco nel
V secolo a.C. scrive e riflette sul proprio lavoro, sa da dove proviene, conosce il pro prio passato e lavora per giungere ad un insieme di regole, astratte dalla contingenza,
modelli, grazie ai quali poter comunicare, trasmettere conoscenza, risultando comprensibile a chiunque. L'arte ceramica non è esclusa dal progressivo perfezionamento
del “canone”, non ha minor valore della scultura monumentale, ha una funzione diversa e forse più importante, oltre a non trascurabili risvolti economici. Così come gli
sviluppi formali attraversano ogni forma d'arte, l'arte non è appannaggio di temi specifici ma affronta ogni aspetto della realtà: può essere celebrativa, storica o documentaria; smetterà di essere espressione e testimonianza della società e dei suoi valori in
modo così aderente a partire dal IV secolo a.C., quando una serie di mutamenti sociali
e politici porteranno all'affermazione della monarchia macedone, alla crisi delle poleis
stesse e all'affermazione di una élite culturale distante dai valori tradizionali e comunitari.
Arte greca come arte “classica”
Le testimonianze artistiche greche nel tempo hanno rivestito un ruolo assolutamente unico nella storia culturale dell'Occidente. Nel Rinascimento, quando non si distingueva ancora tra modelli greci e successivi sviluppi romani, si formò il termine
"classico" che intendeva quel modello antico di valenza ideale, a cui si riconosceva
cioè il merito di essere giunto a una perfezione formale. La parola "classico" deriva
dal latino “classicus”, che intendeva la prima classe dei cittadini, e già nella tarda latinità era stata usata per indicare gli scrittori "perfetti", considerati modelli di stile e impareggiabili nella forma. Il termine passò poi dal campo della letteratura a quello delle arti visive.
Il termine, inoltre, ha un significato più stretto nello specifico dell'arte greca, poiché indica la fase tra V e IV secolo quando la produzione artistica raggiunse un particolare livello ritenuto di eccellenza. A tale definizione contribuirono già in età ellenistica i perduti trattati della pittura e della scultura di Senocrate di Sicione, uno scultore della scuola di Lisippo, e di Antigono di Caristo, entrambi della metà del III secolo
a.C. Gli scrittori romani come Plinio il Vecchio, Cicerone e Quintiliano divulgarono
ulteriormente l’immagine dell’arte greca tra V e IV secolo a.C. come l’età di un apogeo estetico e culturale cui dovette seguire un periodo di progressiva decadenza. Una
serie di equivoci di tipo estetico e storico percorre la storia degli studi relativi all’arte
dell’antica Grecia, dai quali è nata, tra l’altro (si pensi all’antinomia tra forma e colore)
una concezione evoluzionistica dell'arte che continuerà ad essere applicata anche all’arte di epoche successive. Tale concezione venne ripresa ancora nel Settecento da
Winckelmann, ottimo archeologo e figura fondamentale per i successivi studi in questo ambito storico-artistico; egli fece proprie le considerazioni sull'arte dei secoli V e
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IV a.C., indicandola come modello perfetto e irripetibile da adottare come ideale senza tempo. Le idee di Winckelmann furono applicate nel movimento neoclassico e i
suoi studi furono alla base della periodizzazione convenzionale dell'arte greca in fase
arcaica, severa, classica ed ellenistica. Solo nell'Ottocento, grazie anche alle nuove scoperte archeologiche, si iniziò ad avere un approccio diverso, dedicando maggiore attenzione anche alle fasi precedenti e seguenti l'arte classica e riconoscendo in ciascuna
i rispettivi valori estetici, capaci di rendere, fin dalle origini, l'arte greca unica nel quadro del mondo antico.
Classico inoltre è oggi usato in maniera più generica, anche per espressioni artistiche moderne o contemporanee, in cui la manifestazione di emozioni e sentimenti è
contenuta in forme di controllata razionalità e dotate di armonia, in grado di essere
prese anche come modelli.
Stili e periodi
L'arte dell'antica Grecia viene suddivisa dal punto di vista dello stile in quattro
periodi principali che, sebbene siano insufficienti alla definizione e comprensione storica, vengono abitualmente e utilmente impiegati a fini didattici:
•
Periodo proto-geometrico e geometrico (XII-VIII secolo a.C.);
•
Arcaico (VII-VI secolo a.C.);
•
Classico (480 - 323 a.C.);
•
Ellenistico (323 - 31 a.C.).
Il primo periodo sorge a seguito della migrazione dorica (prima colonizzazione,
intorno al 1100 a.C.), attraversa il periodo tradizionalmente conosciuto come Medioevo ellenico e termina con le prime manifestazioni della statuaria dedalica del VII seco lo a.C. Le statuette in terracotta, pietra e metallo e la ceramica protocorinzia e protoattico sono le produzioni attraverso le quali è possibile individuare il lento formarsi di
uno stile greco autonomo capace di assorbire e reinterpretare le influenze orientalizzanti. L'espansione coloniale avvenuta tra l'VIII e il VII secolo (seconda colonizzazione) introduce nell'arte greca nuovi elementi: al luogo di culto domestico tipico dell'arte micenea si sostituisce il tempio che assume gradualmente le monumentali forme
del dorico e dello ionico; contemporaneamente si sviluppa la statuaria di grandi dimensioni (dedalica). Il passaggio dal periodo dedalico all'arcaico pieno si verifica in
concomitanza con le trasformazioni sociali e politiche di Atene (a partire all'incirca
dalla Riforma di Solone) che porteranno la città ad essere il centro dell'attività politica
e finanziaria del mondo greco.
Le Guerre persiane (500 a.C. - 448 a.C.) segnano il passaggio tra periodo arcaico e
periodo classico, e il regno di Alessandro Magno (336-323 a.C.) quello tra periodo
classico e periodo ellenistico, il quale termina ufficialmente con la conquista romana
dell'Egitto (battaglia di Azio del 31 a.C.). In realtà non ci furono transizioni nette tra
un periodo e l'altro: alcuni artisti lavorarono in modo più innovativo rispetto ai propri contemporanei determinando progressivi scarti e avanzamenti di tipo formale all'interno di una tradizione artigianale consolidata e socialmente riconosciuta. Gli av25
venimenti storici a cui si legano anche le grandi trasformazioni nel mondo dell'arte
evidenziano come queste ultime si siano verificate nell'incontro tra personalità artistiche d'eccezione e sostanziali cambiamenti di tipo sociale, politico o economico; l'accenno riguarda ad esempio quella generazione di artisti che traghettò la scultura greca dalla fase tardo-arcaica alla piena classicità (Mirone, Policleto, Fidia). D'altra parte,
al di fuori di questi cambiamenti, le forti tradizioni locali di carattere conservativo, legate alle necessità dei culti, avevano portato ad una differenziazione stilistica per aree
geografiche, riconoscibile al di là degli scambi e delle reciproche influenze: lo stile dorico coinvolge le aree della Grecia settentrionale, del Peloponneso e della Magna Grecia; lo stile ionico è proprio di Atene (come la scultura attica, facilmente distinguibile
dalla scultura dorica), delle coste dell'Asia Minore e delle Isole egee, mentre il corinzio può essere considerato come l'evoluzione dello stile ionico in tutta la Grecia a partire dalla fine del V secolo a.C.
L'architettura
Il tempio è il tema sul quale si sviluppano le strutture concettuali e formali dell'architettura greca. Originariamente semplice “baldacchino” a protezione dell'immagine della divinità e destinato alla raccolta delle offerte, il tempio manterrà anche in
seguito questa sua funzione di "casa degli dèi": per separare il naos (cella) dagli arredi
sacri e dalle offerte viene introdotta, all'interno di una struttura vicina al mègaron miceneo, la distinzione tra il prònao e l'opistodomo, rispettivamente sul davanti e sul retro della cella (inutile tentare di distinguere all'interno di queste modifiche tra origini
di tipo funzionale e origini di tipo formale), mentre a contenere e proteggere la cella
stessa e a distinguere l'edificio sacro dagli altri edifici comuni si sviluppa il colonnato
esterno (peristasi), quest'ultimo documentato alla metà dell’VIII secolo nel primo Heraion di Samo. Il rito collettivo continuerà a svolgersi al di fuori del tempio, in un re cinto sacro o santuario dove si trovava l'altare e destinato col tempo ad ospitare altri
edifici pubblici come quelli necessari allo svolgimento dei giochi panellenici e, originariamente, il teatro. Prima del 700 a.C. tuttavia gli edifici greci erano costruiti con
materiali poco durevoli come mattoni, legno e paglia e l'impulso verso l'architettura
monumentale per un certo periodo oltrepassò le reali capacità tecniche dei greci le
quali dovettero svilupparsi per tutto il VII fino all'inizio del VI secolo a.C. Dalla metà
dell’VIII alla metà del VII secolo a.C. una serie di innovazioni tecniche nella lavorazione della pietra consentiranno di aumentare le dimensioni degli edifici, mentre si
andrà sempre più precisando la distinzione fra strutture portanti e strutture di riempimento, uniche queste ultime a ricevere una decorazione ornamentale. Il primo
grande tempio con mura fatte in blocchi di calcare tenero venne costruito a Corinto
tra il 700 e il 660 a.C. Poco dopo venne costruito il tempio periptero di Poseidone ad
Isthmia e le sue mura vennero coperte con dipinti policromi. I primi templi a Corinto
e Isthmia avevano tegole di terracotta e queste erano una invenzione indigena, non ne
esistono precedenti al di fuori della Grecia. Non ci sono testimonianze dell'esistenza
del dorico prima del 660 a.C.; le prime testimonianze di un capitello dorico appaiono
su un frammento protocorinzio del 650 a.C. e il tempio a cui appartengono le metope
di Thermo (630 a.C.) è il più antico tempio dorico conosciuto. Alla fine del VII secolo
a.C. l’architettura dorica ha già forme e regole proprie: “Essa è l’espressione più pura
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e più genuina dell’architettura greca”, ma le regole e le proporzioni non possono essere dogmi e le correzioni ottiche interverranno presto ad infrangere le regole in funzione di una maggiore armonia degli edifici. Il tempio dorico apparve nuovamente (e in
più grande scala) nell'Heraion di Olimpia datato intorno al 600 a.C., dove lo scarso
uso della pietra fu dovuto probabilmente non alle capacità dei costruttori, che le porzioni di mura attestano essere state considerevoli, ma alle scarse dotazioni economiche. Il primo tempio dorico interamente in pietra fu il tempio di Artemide a Corfù
probabilmente costruito intorno al 580 a.C. dopo la morte di Periandro. In base alle testimonianze sembra che i greci abbiano avuto l'impulso di costruire templi in pietra
prima del momento di grande influenza egiziana e che le tecniche architettoniche in
pietra (Isthmia e Corinto) siano state in gran parte autodidatte. I Greci ebbero evidentemente l'opportunità di osservare costruttori egiziani estrarre, trasportare e posizionare pietre più dure del poros usato a Corinto e a Isthmia, ma la tecnica egiziana fu
importante per i Greci solo a partire dal 600 a.C. (Olimpia e Corfù) nel senso di un miglioramento di conoscenze già acquisite. L'architettura ionica, d'altra parte, deve molto poco agli egiziani e solo a partire dal terzo Heraion di Samo (570 a.C.) e sembra
piuttosto preferire le forme del Vicino Oriente. Inoltre sembra che il dorico sia stato
inventato quasi improvvisamente intorno al 650 a.C. dagli architetti che lavorarono a
Corinto sotto Cipselo per l'uso specifico nel programma costruttivo dei Cipselidi; l'esito di questo nuovo modo di costruire era visibile a tutte le città greche attraverso il
thesauros fatto costruire da Cipselo nel santuario di Delfi.
Dopo il 480 a.C. (dopo la cosiddetta colmata persiana) si apre quel periodo di intensa creatività ad Atene durante il quale si ha l’eccezionale complesso dell’Acropoli
voluto da Pericle come espressione della supremazia ateniese; ma in occidente la raggiunta classicità viene recepita passivamente (a Segesta e ad Agrigento) mentre in
oriente, ad una fase di grande crescita economica e culturale tra VII e VI secolo, testimoniata dalla ricostruzione dell'Heraion di Samo e dal nuovo Artemision di Efeso entrambi attribuiti a Rhoikos, segue un periodo di stasi fino al IV secolo a.C. Alle soglie
dell'età ellenistica la raffinatezza implicita nei grandi modelli classici si accentua e si
manifesta anche con il diffondersi del capitello corinzio (ad Iktinos, l'architetto del
Partenone, Pausania attribuisce anche il Tempio di Apollo Epicurio), oltre che con il
rinnovato interesse per la forma a thòlos e per l'ordine ionico.
Nel santuario di epoca arcaica ogni edificio era originariamente concepito in se
stesso, edificato senza tener conto di una armonizzazione con gli altri spazi. In età ellenistica questo isolamento concettuale dell’edificio verrà abbandonato a favore di un
impianto maggiormente scenografico che ha come conseguenza una maggiore importanza assegnata alla facciata, anche come punto dal quale ci si affaccia, dal quale è
possibile osservare gli spazi circostanti. In epoca romana questa concezione verrà
estesa anche alla statuaria che si allontanerà così dall'idea tipicamente ellenistica della
figura immersa nello spazio e che portò invece l’architettura greca in questo periodo a
sviluppare proprio gli edifici a pianta circolare o stellare, ma concepiti sempre a partire dallo spazio esterno. Durante l'età ellenistica l’ordine dorico venne raramente usato
per i templi, mentre venne impiegato prevalentemente per i portici cittadini. “Il suo
vero significato lo stile dorico lo aveva manifestato nell’arcaismo [...]: sono forme di
una pesantezza terrestre, primitiva, megalitica, espressione di una religiosità che sen27
te in pieno il timore del mistero”. L'architettura ellenistica esprime una civiltà ormai
completamente rinnovata in cui è l'architettura civile ad acquisire uno spazio mai
avuto in precedenza, a dare origine a nuovi temi assumendo il ruolo svolto dal tempio in epoca arcaica.
La scultura
La scultura greca ha come soggetto privilegiato la figura umana. In età arcaica e
classica non rappresentava una persona specifica, bensì uno schema o modello eseguito seguendo precise convenzioni. Scriveva Aristotele: «Ad ogni produzione nell'arte preesiste l'idea creatrice che gli è identica: per esempio l'idea creatrice dello scul tore preesiste alla statua. Non vi è in questo campo una generazione casuale. L'arte è
ragione dell'opera, ragione senza materia». È il concetto di mimesi secondo il quale la
figura è scolpita avvicinandosi all'"idea" che di essa è il modello universale e perfetto.
Partendo dalla realtà sensibile dell'uomo si arriva così a rendere la divinità che è in
lui. È l'immagine dell'eroe greco, di solito un giovane nudo, in piedi, già così rappresentato in età arcaica, con una gamba ferma e una lievemente avanzata a cui fanno ri scontro il braccio a riposo, sullo stesso lato, e quello impegnato in un gesto misurato
dall'altro, ad esempio nel sorreggere un attrezzo ginnico. È una ritmica ordinata di
azione e riposo, ma poiché inversa, è detta "chiasmo" (incrocio) dalla forma dalla lettera greca "χ" (chi).
In epoca ellenistica, la scultura, pur mantenendo la figura quale soggetto privilegiato, produrrà statue anche di bambini, vecchi e animali spesso colti con estremo
realismo e senso del divertimento impensabili per gli artisti dei periodi precedenti.
Nonostante la resistenza dei materiali, solo una piccola parte della cospicua produzione scultorea greca è giunta fino a noi. Molti dei capolavori descritti dalla letteratura antica sono ormai perduti, gravemente mutilati, o ci sono noti solo tramite copie
di epoca romana. A partire dal Rinascimento, molte sculture sono inoltre state restaurate da artisti moderni, a volte alterando l'aspetto e il significato dell'opera originale.
Infine, la visione della scultura antica assunta nei secoli passati è risultata distorta
poiché ritrovamenti e studi scientifici a partire dal XIX secolo hanno dimostrato come
la policromia di statue e architetture fosse una caratteristica imprescindibile delle
opere, benché solo in rarissimi casi essa si sia preservata fino a noi: le ricostruzioni
moderne con calchi che riproducono i colori delle sculture, ricostruiti sulla base di
analisi scientifiche, possono risultare sconcertanti.
In Italia già nel XV secolo si erano formate alcune grandi collezioni di statue antiche, ma solo con i ritrovamenti della fine del Settecento e dei primi dell'Ottocento
l'Europa occidentale aprì gli occhi sulla vera arte greca. A Monaco arrivarono le sculture di Atena Afaia a Egina, nel 1816 il British Museum acquisì i marmi di Elgin, C. R.
Cockerell a sua volta portò a Londra i rilievi scultorei del Tempio di Apollo Epicurio
a Basse.
Pittura e ceramografia
Gli scritti teorici e le opere dei grandi pittori greci sono perduti. La pittura greca
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è stata studiata attraverso i pochi reperti rimasti, attraverso la ceramografia e attraverso ciò che ci è stato riportato da fonti letterarie più tarde. Una ulteriore documentazione offrono le pitture delle tombe etrusche, a Orvieto, a Chiusi, a Vulci, a Veio e
soprattutto a Tarquinia. Sulla base di questi pochi elementi è stato possibile descrivere la pittura greca come grande pittura di cavalletto interessata ai problemi della prospettiva, dello scorcio, alla gradazione dei toni e al chiaroscuro, problematiche rimaste sconosciute alle altre civiltà del mediterraneo. Frequentemente anche la resa spaziale della figura così come veniva affrontata dalla scultura viene riportata all'influenza di una stessa problematica già posta in pittura. Alcuni autori, Ranuccio Bianchi
Bandinelli ad esempio, tendono a descrivere la pittura greca come una sorta di arteguida, riportando ad essa molte delle conquiste spaziali rintracciabili nelle altre arti.
Altri autori invece, come François Villard, preferiscono descrivere il rapporto tra la
ceramografia arcaica e la grande pittura come il procedere parallelo di un'unica arte
pittorica la quale intorno al 640-620 a.C. decora sia piccoli vasi d'argilla (Olpe Chigi)
sia grandi pannelli fissati alle pareti (metope di Thermo). La differenza funzionale e
sociale che investiva la ceramica tuttavia la metteva in rapporto a problematiche più
complesse (molteplicità delle officine, valore diseguale degli artigiani, maggiore permeabilità alle influenze esterne, ecc.) le quali attenuarono tale parallelismo, favorendo
il formarsi e il prevalere della tecnica a figure nere che è una tecnica propriamente ceramografica. In Grecia la ceramica dipinta era un lusso per il discreto numero di appartenenti alla classe benestante, così essa poteva essere non solo una proficua industria e una opportunità lavorativa, ma anche un ottimo campo di esercizio per artisti
di primo rango. Durante il periodo proto-geometrico e geometrico fu una delle poche
forme d'arte praticate; nel VII secolo a.C. nacquero la scultura e la pittura monumentali, ma a quest'epoca la pittura differiva dalla ceramografia solo nelle dimensioni e in
una più larga possibilità di scelta cromatica. La frattura tra grande pittura e ceramografia si verificò solo a partire dal V secolo a.C.
La ceramica greca è un capitolo importante dell'arte e anche dell'economia greca.
La parola ceramica deriva dal nome del quartiere di Atene specializzato nella produzione di vasi, il Ceramico, e molta produzione era destinata all'esportazione. Le forme
della ceramica greca erano disegnate per essere utili ed erano costruite con precisione
di contorno; la decorazione generalmente tendeva ad enfatizzare la struttura del vaso
mantenendosi sul piano della superficie; tra i motivi decorativi la figura umana acquisì col tempo posizione predominante. Gli esiti manifestano una logica pianificazione
dell'organizzazione spaziale e narrativa, improntata ad una stretta disciplina che lascia scarsi margini ai virtuosismi. Durante il periodo protogeometrico i vasai ateniesi
restituirono alle poche forme e decorazioni ereditate una certa precisione e dignità;
non si sa con esattezza cosa abbia causato tale rivoluzione, ma l'esito fu un forte senso
dell'ordine antitetico alla spontaneità micenea e questo nuovo spirito determinò il
corso dell'arte greca fino alla sua decadenza. All'evoluzione dello stile protogeometrico in geometrico seguì la nuova fase orientalizzante che ampliò le differenze tra le
scuole locali. Corinto diede vita alla nuova tecnica a figure nere, mentre ad Atene per
due generazioni si preferì la più spontanea tecnica a contorno. Dalla fine del VII secolo a.C. l'espansione commerciale della ceramica corinzia rese la tecnica a figure nere
praticamente ubiquitaria, ma alla metà del VI secolo a.C. Corinto e molte delle altre
scuole locali cedettero all'espansione del nuovo stile attico. Gli ambiziosi ceramografi
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attici crearono la tecnica a figure rosse che permetteva maggiori possibilità nella rappresentazione dell'espressione e dell'anatomia umana, tornando ad un più libero metodo di raffigurazione pittorica e lineare. Verso la metà del V secolo a.C., stando a ciò
che dicono le fonti, iniziò l'avventura esplorativa della grande pittura nel campo della
rappresentazione spaziale e della prospettiva mentre per la ceramografia iniziò un
periodo di progressivo declino e perdita di creatività.
La funzione del pittore in Grecia non era meno importante di quella dello scultore: grandi quadri con rappresentazioni mitologiche decoravano edifici pubblici e pinacoteche. Il più antico dei grandi pittori di cui si ricorda il nome è Polignoto di Taso,
attivo alla metà del V secolo a.C. Altri famosi pittori furono: Parrasio, Zeusi (che lavorò alla fine del V secolo) e Apelle, forse il pittore greco più noto, artista prediletto di
Alessandro Magno. Già nel IV secolo a.C. si cominciarono ad ornare alcuni ambienti
dei palazzi e delle case signorili con figurazioni a mosaico.
Arte romana
Per arte romana (senza ulteriori aggettivi) si intende l'arte della Roma antica,
dalla fondazione alla caduta dell'Impero d'Occidente, sia nella città di Roma che nel
resto d'Italia e nelle province orientali e occidentali. L'arte nella parte orientale dell'Impero, dopo la caduta dell'Occidente, sebbene sia in continuità con la Roma imperiale, viene indicata come arte bizantina.
Le forme artistiche autoctone, nella fase delle origini e della prima repubblica,
sono piuttosto elementari e poco raffinate. Con il contatto con la civiltà greca Roma
avrà un atteggiamento ambivalente nei confronti della "superiore" arte greca: progressivamente ne apprezzerà le forme, mentre proverà disprezzo per gli autori, artisti gre ci socialmente inferiori nei confronti dei conquistatori romani (lo stesso atteggiamento era tenuto verso filosofi e poeti ellenici). Con il passare dei secoli l'arte greca avrà
un sempre maggiore apprezzamento, anche se non mancheranno tendenze autoctone
"anticlassiche" che costituiranno un elemento di continuità con l'arte romanica.
Elementi di arte romana
Arte di Roma o arte dell'Impero romano?
Parlare di arte romana implica di trattare della produzione artistica nell'arco
temporale di circa un millennio, con confini geografici di volta in volta più estesi.
All'inizio di questo svolgimento il problema sul quale si sono soffermati gli studi
è quello di individuare un momento di stacco tra la produzione genericamente italica
(intesa come koinè tra l'arte campana, etrusca e laziale) e la nascita di un accento pe culiare legato all'insediamento di Roma, diverso dagli altri e dotato di una propria
specificità...
Via via che il territorio amministrato da Roma si faceva più ampio sorge un'altra
questione negli studiosi, cioè quella se comprendere o meno tutte le forme artistiche
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dei popoli assoggettati a Roma. Ciò porterebbe a comprendere sotto la stessa la civiltà
artistiche più antiche, come quelle legate all'ellenismo (Grecia, Asia Minore, Egitto), e
produzioni più incolte, messe in contatto con l'ellenismo proprio dai romani (come la
penisola iberica, la Gallia, la Bretagna, ecc.).
I due orizzonti (arte della città di Roma e arte antica in età romana) vanno entrambe tenute presenti, anche per il continuo intrecciarsi delle esperienze legate alla
produzione artistica da Roma alle province e viceversa. Tutta l'arte romana è infatti
intessuta da un continuo scambio tra il centro e la periferia: da Roma partivano le in dicazioni ideologiche e di contenuto che influenzavano la produzione, senza però
proibire una certa diversità e autonomia di espressione legata alle preesistenti tradizioni. In particolare i Romani arrivarono a influenzare anche i centri ellenistici tramite
un nuovo concetto dell'arte, intesa come celebrazione dell'individuo "nello Stato" e
dello Stato come propulsore del benessere collettivo.
Differenze con l'arte greca
« È uso greco non coprire il corpo [delle statue], mentre i Romani, in quanto sol dati, aggiungono la corazza. »
(Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 18)
La vittoria romana in Asia Minore sui Seleucidi a Magnesia nel 189 a.C. e la conquista della Grecia nel 146 a.C., con la presa di Corinto e di Cartagine, costituiscono
due date fondamentali per l'evoluzione artistica dei Romani. Fino a quest'epoca il
contatto con l'arte greca aveva avuto un carattere episodico, o più spesso mediato dall'arte etrusca e italica. Ora Roma possedeva direttamente i luoghi in cui l'arte ellenistica aveva avuto origine e sviluppo e le opere d'arte greche vennero portate come bottino a Roma. La superiorità militare dei romani cozzava con la superiorità culturale dei
greci. Questo contrasto venne espresso efficacemente da Orazio, quando scrisse che la
Grecia sconfitta aveva sottomesso il fiero vincitore (Graecia capta ferum victorem cepit). Per qualche tempo la cultura ufficiale romana disprezzò pubblicamente l'arte dei
greci vinti, ma progressivamente il fascino di questa arte raffinata conquistò, almeno
nell'ambito privato, le classi dirigenti romane favorendo una forma di fruizione artistica basata sul collezionismo e sull'eclettismo. In un certo senso i Romani si definirono in seguito i continuatori dell'arte greca in un arco che da Alessandro Magno giungeva fino agli imperatori.
Ma, come riconosciuto da numerosi studiosi, vi sono alcune differenze sostanziali tra arte greca e romana, a partire in primo luogo dal tema principale della rappresentazione artistica stessa: i Greci rappresentavano un logos immanente, i Romani la
res. In parole più semplici, i Greci trasfiguravano in mitologia anche la storia contem poranea (le vittorie sui Persiani o sui Galati diventavano quindi centauromachie o lotte fra Dei e Giganti o ancora amazzonomachie), mentre i Romani rappresentavano
l'attualità e gli avvenimenti storici nella loro realtà.
La forza morale e il senso di eticità delle rappresentazioni dei miti greci si era già
comunque logorata nei tre secoli dell'ellenismo, quando da espressione comunitaria
31
l'arte si era "soggettivata", diventando cioè espressione di volta in volta della potenza
economica e politica di un sovrano, della raffinatezza di un collezionista o dell'ingegnosità di artefice. In questo solco i Romani procedettero poi ancora più a fondo, arri vando a rappresentare l'attualità concreta di un avvenimento storico: prima di loro
solo alcuni popoli del Vicino Oriente avevano praticato tale strada, rifiutata dai Greci.
L'uso "personale" dell'arte nell'arte romana permise alla fioritura dell'arte del ritratto, che si sostituì all'astrazione formale delle teste nelle statue greche. L'aggiungere teste realistiche a corpi idealizzati (come nella statua di personaggio romano da
Delos), se avesse fatto rabbrividire un greco di età classica, era però ormai praticato
dagli artisti neoattici della fine del II secolo a.C., per committenti soprattutto romani.
L'uso dell'arte romana
La produzione artistica romana non fu mai "gratuita", cioè non era mai rivolta a
un astratto godimento estetico, tipico dell'arte greca. Dietro le opere d'arte si celava
sempre un fine politico, sociale, pratico. Anche nei casi del migliore artigianato di lusso (vasi di metalli preziosi e caramici, cammei, gemme, statuette, vetri, fregi vegetali
architettonici, ecc.) la bellezza era connessa al concetto di sfarzo, inteso come autocelebrazione del committente della propria potenza economica e sociale.
Le sculture ufficiali, per quanto valide esteticamente, avevano sempre intenti celebrativi, se non addirittura propagandistici, che in un certo senso pesavano più dell'astratto interesse formale. Ciò non toglie che l'arte romana fosse comunque un'arte
"bella" e attenta alla qualità: la celebrazione imponeva scelte estetiche curate, che si in canalavano nel solco dell'ellenismo di matrice greca.
I modelli greci tuttavia, persa la loro concezione astratta e oggettiva, subirono
una sorta di "svuotamento", e questo ha alimentato a lungo un'impostazione detta
"neoclassica", che inquadrava la produzione artistica romana nell'orbita di una decadenza dell'ellenismo. La Scuola viennese di storia dell'arte ha superato la concezione
"neoclassica" dimostrando che in realtà i modelli greci, perso un significato originario,
ne acquistarono un altro concreto e soggettivo; e questa libertà nella reinterpretazione
di schemi iconografici del passato sfocerà poi, in epoca cristiana, nel riciclo e quindi
nella continuità di questi modelli: la Nike alata che diventa angelo, il filosofo barbuto
che diventa apostolo, ecc.
Innovazione nell'arte romana
Senza considerare l'architettura e soffermandosi solo sulle arti più propriamente
figurative (pittura e scultura), appare chiaro che nell'arte romana la creazione ex
novo, a parte alcune rare eccezioni (come la Colonna Traiana), non esiste, o per lo
meno si limita al livello più superficiale del mestierante. Manca quasi sempre una cosciente ricerca dell'ideale estetico, tipica della cultura greca. Anche il momento creativo che vide la nascita di una vera e propria arte "romana", tra la metà del II secolo
a.C. e il secondo triumvirato, fu dovuto in massima parte alle ultime maestranze greche e italiote, nutrite di ellenismo.
In questo i Romani seguirono il solco degli italici, presso i quali la produzione artistica era sempre rimasta qualcosa di artigianale, istintivo, condizionato da fattori
pratici esterni.
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Ma la freschezza dell'arte romana è data comunque dalla straordinaria aderenza
alle tematiche e dalla mirabile capacità tecnica, anche in schemi ripetuti infinite volte.
Produzione di copie
Un fenomeno tipicamente romano fu la produzione in quantità di massa di copie
dell'arte greca, soprattutto del periodo classico databile tra il V e il IV secolo a.C. Questo fenomeno prese avvio nel II secolo a.C. quando crebbe a Roma una schiera di collezionisti appassionati di arte greca, per i quali ormai non bastavano più i bottini di
guerra e gli originali provenienti dalla Grecia e dall'Asia Minore. Il fenomeno delle
copie ci è giunto in massima parte per la scultura, ma dovette sicuramente riguardare
anche la pittura, gli elementi architettonici e le cosiddette arti applicate. Le copie di
statue greche di epoca romana hanno permesso la ricostruzione delle principali personalità e correnti artistiche greche, ma hanno anche perpetrato a lungo tempo negli
studiosi moderni alcune idee errate, come la convinzione che le tipologie dell'arte gre ca fossero caratterizzate dalla fredda accademicità delle copie, o che l'arte romana
stessa fosse un'arte dedita principalmente alla copiatura, falsandone la prospettiva
storica.
Per i romani non esisteva lo storicismo e in nessuna fonte antica si trovano echi
di un diverso apprezzamento tra opera originale e copia, che evidentemente erano
considerati pienamente equivalenti. Non mancarono esempi però di raffazzonature,
pasticci e modifiche arbitrarie, come nel caso di un Pothos di Skopas, del quale esistono copie simmetriche usate per fare pendant nella decorazione architettonica.
Eclettismo
Con l'afflusso a Roma di opere greche provenienti da molte epoche e aree geografiche è naturale che si formasse un gusto eclettico, cioè amante dell'accostamento
di più stili diversi, con una certa propensione al raro e al curioso, senza una vera comprensione delle forme artistiche e dei loro significati.
Ma l'eclettismo dei romani riguardava anche la presenza della tradizione italica,
che si era inserita a uno strato molto profondo della società. Per i romani non solo era
naturale accostare opere d'arte in stili diversi, ma l'eclettismo si riscontrava spesso anche nella medesima opera, assorbendo da più fonti diverse iconografie, diversi linguaggi formali e diversi temi.
L'importanza dell'eclettismo nella storia artistica romana è anche data dal fatto
che, a differenza di altre culture, non comparve, come di tendenza, al termine e al decadere culturale, ma all'inizio della stagione artistica romana. Uno dei più antichi
esempi di questa tendenza si ha nell'ara di Domizio Enobarbo, della quale è conservato parte del frontone al Louvre (presentazione di animali per un sacrificio, con uno
stile di derivazione chiaramente realistico e plebeo) e due lastre del fregio a Monaco
di Baviera (in stile ellenistico, un corteo di divinità marine). L'eclettismo si manifestò
precocemente anche in opere della massima committenza pubblica, come nell'Ara Pacis di Augusto.
Alle radici dell'arte romana: il rilievo storico
Il passo decisivo che segnò uno stacco tra arte greca e romana fu senz'altro la
comparsa del rilievo storico, inteso come narrazione di un evento di interesse pubbli33
co, a carattere civile o militare. Il rilievo storico romano non è mai un'istantanea di un
avvenimento o di una cerimonia, ma presenta sempre una selezione didascalica degli
eventi e dei personaggi, composti in maniera da ricreare una narrazione simbolica ma
facilmente leggibile.
Le prime testimonianze di questo tipo di rappresentazione pervenuteci sono l'affresco nella necropoli dell'Esquilino (inizi del III secolo a.C.) o le pitture nelle tombe
di Tarquinia della metà del II secolo a.C. (ormai sotto la dominazione romana). Ma
inizialmente la reppresentazione storica fu sempre un'esaltazione gentilizia di una famiglia impegnata in quelle imprese, come la Gens Fabia nel citato esempio dell'Esquilino.
Gradualmente il soggetto storico si cristallizzerà in alcuni temi, entro i quali l'artista aveva limitato motivo di inserire varianti, a parte quelle particolarizzazioni legate ai luoghi, ai tempi ed ai personaggi ritratti. Per esempio per celebrare una guerra
vittoriosa si seguiva lo schema fisso della:
• Profectio, partenza
• Costruzione di strade, ponti o fortificazioni
• Lustratio, sacrificio agli dei
• Adlocutio, incitamento delle truppe (allocuzione)
• Proelium, battaglia
• Obsidio, assedio
• Submissio, atto di sottomissione dei vinti
• Reditus, ritorno
• Triumphus, corteo trionfale
• Liberalitas, atto di beneficenza.
Tramite questi schemi fissi la rappresentazione diventava immediatamente esplicita e facilmente comprensibile a chiunque.
Arte aulica e arte plebea, arte provinciale
La società romana fu caratterizzata sin dalle origini da un dualismo, che si è manifestato pienamente anche nella produzione artistica: quello tra patrizi e plebei e
quindi tra arte patrizia (o "aulica") e arte plebea (o "popolare" che, dopo il I secolo
d.C., trovò sviluppi nella produzione artistica delle province occidentali). Queste due
correnti, la cui importanza storica è stata riconosciuta solo nella seconda metà del XX
secolo, coesistettero fin dagli esordi dell'arte romana e gradualmente si avvicinarono,
fino a fondersi nell'epoca tardoantica.
Sarebbe sbagliato volere imporre una gerarchia assoluta in queste due correnti,
essendo animate, a livello generico, da interessi e fini molto diversi: l'arte plebea aveva scopi di celebrazione inequivocabile del committente, di immediata chiarezza, di
semplificazione, di astrazione intuitiva, che entreranno nell'arte ufficiale dei monumenti pubblici romana solo dal III secolo-inizi del IV secolo d.C. (a seguito di profondi mutamenti ideali e sociologici), provocando quella rottura con l'ellenismo che confluirà nell'arte medievale. L'arte plebea non seguiva il solco del naturalismo ellenistico, anzi rappresentò il primo vero superamento dell'ellenismo "ormai priva di slancio
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e di possibilità di nuovi sviluppi artistici".
La corrente più aulica invece sopravvisse nella nuova capitale Costantinopoli,
per poi uscire sublimata, tramite il contatto con centri artistici di lontana ascendenza
iranica (Hatra, Palmyra, Doura), nell'arte bizantina, con una rinnovata attenzione al
linearismo.
Storia dell'arte romana
Arte delle origini e della monarchia
Secondo la leggenda, la città di Roma venne fondata il 21 aprile nell'anno 753
a.C. Alle origini della città ebbe grande importanza il guado sul Tevere, che costituì
per molto tempo il confine tra Etruschi e Latini, nei pressi dell'Isola Tiberina, e l'approdo fluviale dell'Emporium, tra Palatino e Aventino.
Nell'età protostorica e regia non si può ancora parlare di arte "romana" (cioè con
caratteristiche proprie), ma solo di produzione artistica "a Roma", dalle caratteristiche
italiche, con notevoli influssi etruschi.
Presso l'emporio vicino all'attraversamento del fiume, il Foro Boario, è stato scavato un tempio arcaico, nell'area di Sant'Omobono, risalente alla fine del VII-metà del
VI secolo a.C., con resti di età appenninica che documentano una continuità di insediamento per tutta l'epoca regia.
Sotto Tarquinio Prisco viene edificato sul Campidoglio il tempio dedicato alla
triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva, nella data tradizionale del 509 a.C., la
stessa in cui viene collocata la cacciata del re e l'inizio delle liste dei magistrati. La
data di fondazione del tempio poteva anche essere stata verificata dagli storici romani
successivi grazie ai clavi i chiodi annuali infissi nella parete interna del tempio. I resti
del podio del tempio sono ancora parzialmente visibili sotto il Palazzo dei Conservatori e nei sotterranei dei Musei Capitolini.
Le sculture in terracotta che lo adornavano, altra caratteristica dell'arte etrusca,
sono andate perdute ma non dovevano essere molto diverse dalla scultura etrusca
più famosa della stessa epoca, l'Apollo di Veio dello scultore Vulca, anch'essa parte di
una decorazione templare (il santuario di Portonaccio a Veio). Anche la tipologia architettonica del tempio sul Campidoglio è di tipo etrusco: un alto podio con doppio
colonnato sul davanti sul quale si aprono tre celle.
Tra le opere più imponenti della Roma arcaica ci furono la Cloaca Maxima, che
permise l'insediamento nella valle del Foro, e le Mura serviane, delle quali restano
vari tratti.
Bisogna attendere il periodo tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C. per trovare un'opera d'arte figurativa prodotta sicuramente a Roma: è la nota Cista Ficoroni,
contenitore in bronzo finemente cesellato col mito degli Argonauti (dall'iscrizione
"Novios Plautios med Romai fecid", "Novio Plautio mi fece a Roma"). Ma la tipologia
del contenitore è prenestina, l'artefice di origina osco-campana (a giudicare dal
nome), la decorazione a bulino di matrice greca classica, con parti a rilievo inquadrabili pienamente nella produzione medio-italica.
35
Arte repubblicana
Il primo periodo dell'arte repubblicana fu una continuazione dello stile arcaico
(come nei tempi gemelli dell'area di Sant'Omobono o quelli del largo Argentina). Una
sostanziale rivoluzione si ebbe quando i romani entrarono in contatto sempre più
stretto coi greci, che culminò nella conquista della Magna Grecia, della Grecia ellenica, della Macedonia e dell'Asia Minore. I bottini di guerra fecero arrivare in patria
un'enorme afflusso di opere d'arte, che metteva i romani nell'imbarazzante questione
di accettare come superiore una cultura da essi sconfitta. Nacquero due partiti, uno filoelleno, fine amante dell'arte greca, capeggiato dal circolo degli Scipioni, e uno tradizionalista e filoromano capeggiato da Catone il Censore e i suoi seguaci. L'enorme afflusso di opere greche non si arrestò, anzi quando la domanda da parte di collezionisti appassionati superò l'offerta di opere originali, nacque il gigantesco mercato delle
copie e delle opere ispirate ai modelli classici del V e IV secolo a.C. (neoatticismo).
Fu solo dopo un certo periodo che i romani, "digerita" l'invasione di opere greche
di tanti stili diversi (per epoca e per regione geografica) iniziarono a sviluppare un'arte peculiarmente "romana", anche se ciò fu dovuto in grande parte a maestranze greche e ellenistiche.
In particolare fu sotto il governo di Silla che si notano i primi albori dell'arte romana, che si sviluppò originalmente soprattutto in tre campi: l'architettura, il ritratto
fisiognomico e la pittura.
Architettura
Al tempo di Silla le strutture lignee con rivestimento in terracotta di matrice
etrusca, o quelle in tufo stuccato lasciarono definitivamente il passo agli edifici in travertino o in altre pietre calcaree, secondo forme desunte dall'architettura ellenistica,
ma adattate a un gusto più semplice con forme più modeste. A Roma si procedette
con grande libertà degli architetti usando gli elementi classici come figure puramente
decorative, sollevate da esigenze statiche, che erano invece sopperite dalla rivoluzionaria tecnica muraria. Pur non mancando a Roma edifici sacri del periodo repubblicano, è nelle grandi opere pubbliche "infrastrutturali" che si espresse il genio costruttivo
dei romani. Venne costruita la grande rete viaria, tuttora esistente, a cui sono da aggiungere le opere collaterali come ponti, gallerie e acquedotti. Le città di nuova fondazione vengono costruite secondo uno schema ortogonale, basato sul tracciamento
dei due assi principali del cardo e decumano.
Al tempo di Ermodoro e delle guerre macedoniche sorsero i primi edifici in marmo a Roma, che non si distinguevano certo per grandiosità. Dopo l'incendio dell'83
a.C. venne ricostruito in pietra il tempio di Giove Capitolino, con colonne marmoree
venute da Atene e con un nuovo simulacro crisoelefantino di Giove, forse opera di
Apollonio di Nestore. Risale al 78 a.C. la costruzione del Tabularium, quinta scenografica del Foro Romano che lo metteva in comunicazione col Campidoglio e fungeva
da archivio statale. Vi si usarono semicolonne addossate sui pilastri dai quali partono
gli archi, schema usato anche nel santuario di Ercole Vincitore a Tivoli.
I templi romani sillani sopravvissuti sono piuttosto modesti (tempio di San Nicola in Carcere, tempio B del Largo Argentina), mentre più importanti testimonianze si
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hanno in quelle città che subirono meno trasformazioni in seguito: Pompei, Terracina,
Fondi, Cori, Tivoli, Palestrina e Canosa di Puglia. Particolarmente significativo è il
santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, dove le strutture interne sono in opus
incertum e le coperture a volta ricavate tramite gittate di pietrisco e malta pozzolana:
queste tecniche campano-laziali definivano le strutture portanti della grande massa
architettonica, mentre le facciate erano decorate da strutture architravate in stile ellenistico, che nascondevano il resto. Solo in un secondo momento anche le tecniche costruttive romane ebbero una forma stilistica che non richiedeva più la "maschera"
esterna, permettendo uno sviluppo autonomo e grandioso dell'architettura romana.
Al tempo di Cesare si ebbe la creazione del sontuoso Foro e tempio di Venere
Genitrice, ma solo col restauro del tempio di Apollo Sosiano nel 32 a.C. Roma ebbe
per la prima volta un edificio di culto all'altezza dell'eleganza ellenistica.
Ritratto
L'altro importante traguardo raggiunto dall'arte romana a partire dall'epoca di
Silla è il cosiddetto ritratto "veristico", ispirato alla particolare concezione "catoniana"
delle virtù dell'uomo patrizio romano: carattere forgiato dalla durezza della vita e
della guerra, orgoglio di classe, inflessibilità, ecc. Il diverso contesto dei valori nella
società romana portò però divergere dai modelli ellenistici con i volti ridotti a dure
maschere, con una resa secca e minuziosa della superficie, che non risparmia i segni
del tempo e della vita dura.
Tra gli esempi più significativi del "verismo patrizio" ci sono la testa 535 del Museo Torlonia (replica tiberiana), il velato del Vaticano (replica della prima età augustea), il ritratto di ignoto di Osimo, il busto 329 dell'Albertinum di Dresda, ecc. Il crudo verismo di queste opere è mitigato in altri esempi (70-50 a.C.) dal plasticismo più
ricco e una rappresentazione più organica e meno tetra, con la rigidezza mitigata da
un'espressione più serena: è il caso la testa 1332 del museo Nuovo dei Conservatori
(databile 60-50 a.C.) o il ritratto di Pompeo alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen.
Nonostante la rilevanza solo in ambito urbano e la breve durata temporale, il ritratto romano repubblicano ebbe un riflesso e seguito notevole nel tempo, soprattutto
nei monumenti funerari delle classi inferiori che guardavano al patriziato con aspirazione, come i liberti.
Pittura
In questo periodo si colloca anche la costituzione di una tradizione pittorica romana. Essa viene detta anche "pompeiana", perché studiata nei cospicui ritrovamenti
di Pompei e delle altre città vesuviane sommerse dall'eruzione del 79, anche se il centro della produzione artistica fu sicuramente Roma.
Era tipico per una casa signorile avere ogni angolo di parete dipinta, da cui deriva una straordinaria ricchezza quantitativa di decorazioni pittoriche. Tali opere però
non erano frutto dell'inventiva romana, ma erano un ultimo prodotto, per molti versi
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banalizzato, dell'altissima civiltà pittorica greca.
Si individuano quattro "stili" per la pittura romana, anche se sarebbe più corretto
parlare di schemi decorativi. Il primo stile ebbe una documentata diffusione in tutta
l'area ellenistica (incrostazioni architettoniche dipinte) dal III-II secolo a.C. Il secondo
stile (finte architetture) non ha invece lasciato tracce fuori da Roma e le città vesuvia ne, databile dal 120 a.C. per le proposte più antiche, fino agli esempi più tardi del 50
a.C. circa; è forse un'invenzione romana. Il terzo stile (ornamentale) si sovrappose al
secondo stile ed arrivò fino alla metà del I secolo, all'epoca di Claudio (41-54). Il quarto stile (dell'illusionismo prospettico), documentato a Pompei dal 60 d.C., è molto ricco, ma non ripropone niente di nuovo che non fosse già stato sperimentato nel passato. In seguito la pittura, a giudicare da quanto ci è pervenuto, si inaridì gradualmente,
con elementi sempre più triti e con una tecnica sempre più sciatta; bisogna però anche
sottolineare che per il periodo successivo 79 non abbiamo più l'unico e straordinario
catalogo pittorico delle città vesuviane sepolte.
Arte imperiale classica
La prima fase dell'impero e il classicismo augusteo
Architettura
Con il principato di Augusto ebbe inizio una radicale trasformazione urbanistica
di Roma in senso monumentale. Nel periodo da Augusto ai Flavi si nota un irrobustirsi di tutti quegli edifici privi dell'influenza del tempio greco: archi trionfali, terme,
anfiteatri, ecc. Nell'arco partico del Foro Romano (20 a.C. circa) nacque una forma ancora embrionale dell'arco a tre fornici. Risalgono a questo periodo i più spettacolari
edifici per spettacoli: il teatro di Marcello (11 a.C.), l'anfiteatro di Pola, l'Arena di Verona, il teatro di Orange e poco dopo il Colosseo (inaugurato da Tito nell'80 e poi
completato da Domiziano).
Scultura
Anche nelle arti figurative si ebbe una grande produzione artistica, improntata
ad un classicismo finalizzato a costruire un'immagine solida e idealizzata dell'impero.
Si recuperò, in particolare, la scultura greca del V secolo a.C., Fidia e Policleto, nella
rappresentazione delle divinità e dei personaggi illustri romani, fra cui emblematici
sono alcuni ritratti di Augusto come pontefice massimo e l'Augusto loricato, quest'ultimo rielaborato dal Doriforo di Policleto. L'uso di creare opere nello stile greco classico va sotto il nome di neoatticismo, ed è improntato a un raffinato equilibrio, che però
non è esente da una certa freddezza di stampo "accademico", legata cioè alla riproduzione dell'arte greca classica idealizzata e priva di slanci vitali. Solo durante la dinastia giulio-claudia si ebbe un graduale attenuarsi dell'influenza neoattica permettendo
la ricomparsa di un certo colore e calore nella produzione scultorea.
Pittura
Tra il 30 e il 25 a.C. poteva dirsi pienamente compiuto lo sviluppo del secondo
stile pompeiano. Ascrivibile al terzo stile è la decorazione della Casa della Farnesina o
la Casa del Criptoportico a Pompei. A cavallo tra la fine del regno di Augusto e l'epo 38
ca claudia si collocano gli affreschi della grande sala della villa di Prima Porta di Livia, con la veduta di un folto giardino, culmine della La pittura di giardini illusionistici. Forse risale all'epoca di Augusto anche la famosa sala della villa dei Misteri, dove
sono mescolate copie di pitture greche e inserzioni romane.
Le ricostruzioni di Pompei dopo il terremoto del 62 videro nuove decorazioni,
per la prima volta nel cosiddetto quarto stile, forse nato durante la decorazione della
Domus Transitoria e della Domus Aurea.
Toreutica e glittica
Nel periodo di Augusto anche la toreutica e la glittica ebbero la migliore fioritura, con un notevole livello sia tecnico che artistico, con più naturalezza rispetto all'arte
in grande formato. Tra i pezzi più pregiati il tesoro di Hildesheim, la Gemma Augu stea (29 a.C.), il cammeo di Augusto e Roma e il Grande cammeo di Francia (di epoca
tiberiana).
I Flavi
Gli imperatori della dinastia flavia proseguirono nell'edificazione di opere di
grande impegno. Fra queste spicca il Colosseo, il simbolo più famoso di Roma. In
quell'epoca l'arte romana si sviluppò superando la pesante tutela dell'arte neoattica,
generando nuovi traguardi artistici. Nel campo della scultura non è ancora chiaro
quanto fu determinante l'ispirazione al mondo ellenistico per superare la parentesi
neoattica. In ogni caso nei rilievi nell'Arco di Tito (81 o 90 d.C.) si nota un maggiore
addensamento di figure e, soprattutto, una consapevole disposizione coerente dei
soggetti nello spazio, con la variazione dell'altezza dei rilievi (dalle teste dei cavalli a
tutto tondo alle teste e le lance sagomate sullo sfondo), che crea l'illusione di uno spa zio atmosferico reale.
Inoltre per la prima volta si trova portata a compimento la disposizione delle figure su una linea curva convessa (piuttosto che retta), come dimostra il rilievo della
processione dove a sinistra le figure sono viste di tre quarti e di faccia, e all'estrema
destra di dorso mentre entrano sotto il fornice della Porta Triumphalis. Lo spettatore
ha così la sensazione di essere circondato e quasi sfiorato dal corteo, secondo un tendenza che verrà ulteriormente sviluppata nel "barocco" antoniniano dal III secolo in
poi.
In architettura quest'epoca fu fondamentale per lo sviluppo di tecniche nuove,
che permisero ulteriori sviluppi delle articolazioni spaziali. Lo stesso arco di Tito è
impostato secondo uno schema più pesante e compatto dei precedenti augustei, che si
allontana sempre di più dall'eleganza di matrice ellenistica. Ma fu soprattutto con la
diffusione delle cupole emisferiche (Domus Transitoria, Domus Aurea e ninfeo di Domiziano a Albano Laziale) e la volta a crociera (Colosseo), aiutata dall'uso di archi trasversali in laterizio che creano le nervature e dall'uso di materiale leggero per le volte
(anfore). Inoltre venne perfezionata la tecnica della volta a botte, arrivando a poter coprire aree di grandi dimensioni, come la vasta sala (33 metri di diametro) del vestibo lo domizianeo del Foro Romano.
Il tempo di Traiano
Sotto Traiano (98-117 d.C.) l'impero conobbe il suo apogeo, ed anche l'arte riuscì,
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per la prima volta (stando a quanto ci è pervenuto) a staccarsi dall'influenza ellenistica, portando un proprio, nuovo prodotto artistico (il rilievo storico) ai livelli dei grandi capolavori dell'arte antica: i rilievi della Colonna Traiana. In questa opera, dove
confluisce tutta la perizia tecnica ellenistica e la scorrevole narrazione romana, si svolge per circa duecento metri continui la narrazione delle campagne in Dacia di Traiano, priva, come scrive Ranuccio Bianchi Bandinelli, "di un momento di stanchezza ripetitiva, di una ripetizione, insomma, di un vuoto nel contesto narrativo".
Vi sono molte innovazioni stilistiche, ma è straordinario come anche il contenuto, per la prima volta in un rilievo storico, riesca a superare la barriera del freddo distacco un po' compassato delle opere augustee e ancora flavie: le battaglie sono veementi, gli assalti impetuosi, i vinti ammantati di umana pietà. Scene dure, come i suicidi di massa o la deportazione di intere famiglie, sono rappresentati con drammatica
e pietosa partecipazione e la ricchezza di dettagli e accenti narrativi fu probabilmente
dovuta a un'esperienza diretta negli avvenimenti.
I rilievi della Colonna, come anche la nuova tipologia di ritratto imperiale (il "ritratto del decennale"), sono caratterizzati da un senso di umana dignità e forza morale, che non ha niente di sovrumano, di teatrale, di retorico. Traiano è l'optimus prin ceps (il "primo funzionario" dello Stato) e amministra con la disciplina e la razionalità,
senza richiami trascendenti o aloni augurali e religiosi.
In architettura Apollodoro di Damasco completò la serie dei Fori imperiali di
Roma, con il vastissimo Foro di Traiano, dalla pianta innovativa, priva di tempio all'estremità. Ancora più originale fu la sistemazione del fianco del colle Quirinale con i
cosiddetti Mercati di Traiano, un complesso amministrativo e commerciale che si
componeva di sei livelli articolati organicamente in uffici, botteghe e altro. La ricchezza ottenuta con le campagne militari vittoriose permise il rafforzarsi di una classe media, che diede origine a una nuova tipologia abitativa, con più abitazioni raggruppate
in un unico edificio, sempre più simili alle ricche case patrizie.
Un'altra novità, per ragioni ancora non chiarite, fu la massiccia ripresa dell'inumazione e quindi della produzione di sarcofagi, che tanta importanza rivestirono nella produzione artistica dei secoli successivi.
Lo sviluppo toccò anche le province, come dimostrano le cospicue pitture decorative di questo periodo ritrovate nelle zone più varie dell'impero.
Il tempo di Adriano
Il successore, l'imperatore Adriano, era appassionato di cultura ellenistica. Fece
edificare, prendendo parte alla progettazione, Villa Adriana a Tivoli, grandioso complesso architettonico e paesaggistico le cui architetture riprendono ecletticamente modelli orientali ed ellenistici. Fece inoltre ricostruire il Pantheon di Roma, con la cupola
perfettamente emisferica appoggiata ad un cilindro di altezza pari al raggio e pronao
corinzio, uno degli edifici romani meglio conservati e il suo mausoleo, ora Castel Sant'Angelo, al Vaticano. In scultura tipici della sua epoca sono i ritratti di Antinoo, suo
giovane amante morto in circostanze misteriose e da lui divinizzato con un culto ufficiale per tutto l'Impero.
Il classicismo adrianeo si discostò abbastanza da quello dell'arte augustea (neoat40
ticismo), più freddo e accademico, essendo anche ormai la società romana profondamente cambiata dai tempi del primo imperatore. Facendo un paragone con l'arte moderna si potrebbe affermare che l'arte augustea era stata una sorta di neoclassicismo,
quella adrianea di romanticismo. Sotto Adriano Roma aveva ormai consolidato una
società articolata, una cultura propria e un livello artistico notevole e indipendente,
non era più ai primi passi e non aveva quindi più bisogno del rigido sostegno degli
artisti ateniesi come era avvenuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. L'amore
verso la Grecia classica di Adriano va comunque collocato nell'ambito dell'interesse
privato del princeps, non fu un evento di largo raggio che suscitò una vera e propria
problematica artistica (un "rinascenza" o "rinascimento"), e svanì con la scomparsa del
protagonista. Questa forma artistica era però espressione anche di un preciso programma politico, legato a un avvicinamento del sovrano (e quindi di Roma) alle province di cultura ellenica, come documentano anche i suoi frequenti viaggi.
Gli Antonini
Sotto la dinastia degli Antonini, la produzione artistica ufficiale continuò nel solco del classicismo adrianea, con alcune tendenze che si svilupparono ulteriormente. Il
gusto per il contrasto tra superfici lisce e mosse (come nel ritratto di Adriano), trasposto su una composizione d'insieme produsse il rilievo estremamente originale della
decursio nella base della colonna Antonina. Conseguenza fu anche l'accentuazione
del chiaroscuro.
Sotto Commodo si assistette a una svolta artistica, legata alla scultura. Nelle opere ufficiali, dal punto di vista formale si ottenne una dimensione spaziale pienamente
compiuta, con figure ben collocate nello spazio tra le quali sembra "circolare l'atmosfera" (come negli otto rilievi riciclati poi nell'Arco di Costantino). Dal punto di vista
del contenuto si assiste alla comparsa di sfumature simbolico-religiosi nella figura del
sovrano e alla rappresentazione di fatti irrazionali. Questa tendenza è evidente nella
Colonna di Marco Aurelio che, sebbene ispirata a quella Traiana, presenta molte novi tà: scene più affollate, figure più scavate, con un chiaroscuro più netto e, soprattutto,
la comparsa di elementi irrazionali (Miracolo della pioggia, Miracolo del fulmine),
prima avvisaglia di una società ormai in cerca di evasione da una realtà difficile, che
di lì a poco, durante il successivo sfacelo economico e politico dell'impero, sarebbe
sfociata nell'irrazionalismo anti-classico.
Il Basso Impero
La tumultuosa successione di Commodo mise in luce, nel 192, tutte le debolezze
istituzionali dell'Impero, dando il via a un periodo di grave instabilità politica, economica e sociale che portò alla crisi del III secolo. L'impero Romano entrò nella sua fase
discendente, chiamata anche "Basso Impero". L'arte prese una direzione anti-ellenistica, cercando forme meno organiche, razionali e naturalistiche. Più che un momento di
crisi artistica (o "decadenza", secondo l'impostazione storica agli studi di matrice neoclassica), fu un fenomeno di più ampio raggio, che corrispondeva a nuove esigenze
sociali e culturali del mutato contesto, che non si riconosceva più nel naturismo, la razionalità e la coerenza formale dell'arte di derivazione greca: le necessità di evasione,
di isolamento, di fuga dalla realtà portarono a nuove concezioni filosofiche religiose,
dominate dall'irrazionalità e dall'astrazione metafisica, che si riflessero in maniera
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profonda nella produzione artistica.
Inoltre il confluire nella capitale un numero sempre maggiore di persone dalle
province (funzionari, mercanti, artisti, ma anche gli stessi imperatori), contrapposto
alla perdita di autorità e di importanza del Senato e dell'antica aristocrazia romana,
portò nella capitale i modi dell'arte cosiddetta provinciale e plebea che già da secoli
era orientata verso un maggiore espressionismo opposto alla rappresentazione fedele
della natura.
Il periodo dei Severi
Già nei rilievi dell'Arco di Settimio Severo (202-203), si infittisce l'uso dello scalpello che crea solchi profondi e quindi toni più chiaroscurali; inoltre si afferma una
rappresentazione della figura umana nuova, in scene di massa che annullano la rappresentazione individuale di matrice greca; anche la plasticità è diminuita. L'imperatore appare su un piedistallo circondato dai generali mentre recita l'adlocutio e sovrasta la massa dei soldati come un'apparizione divina.
Il III secolo
L'ultima fase dell'impero, a partire da Diocleziano, Costantino fino alla caduta
della parte occidentale, è caratterizzata dalla perdita delle certezze e dall'insinuarsi di
una sensibilità nuova. In architettura si affermarono costruzioni per scopi difensivi,
come le mura aureliane o il Palazzo di Diocleziano (293-305 circa) a Spalato, provvisto
di solide fortificazioni.
I ritratti imperiali in quegli anni divennero innaturali, con attenzione al dettaglio
minuto piuttosto che all'armonia dell'insieme (come nella Testa di Gordiano III), idealizzati, con sguardi laconici dai grandi occhi (come nella Statua colossale di Costantino I). Non interessava più la rappresentazione della fisionomia, ma ormai il volto imperiale doveva esprimere un concetto, quello della santità del potere, inteso come
emanazione divina.
Il IV secolo
Ancora più emblematico di questa progressiva perdita della forma classica è l'arco di Costantino (312-315), dove sono scolpiti bassorilievi con figure dalle forme tozze
e antinaturalistiche, affiancate a materiale di spoglio dalle forme ancora classiche del
II secolo. Nell'Adlocutio l'imperatore si erge seduto al centro in posizione rialzata sulla tribuna, l'unico girato frontalmente assieme alle due statue ai lati del palco imperiale, raffiguranti (piuttosto grezzamente) Adriano a destra e Marco Aurelio a sinistra.
La posizione dell'Imperatore acquista una valenza sacrale, come di una divinità che si
mostri ai fedeli isolata nella sua dimensione trascendente, sottolineata anche dalle dimensioni leggermente maggiori della sua figura. Si tratta infatti di uno dei primissimi
casi a Roma nell'arte ufficiale di proporzioni tra le figure organizzate secondo gerarchia: la grandezza delle figure non dipende più dalla loro posizione nello spazio, ma
dalla loro importanza. Un altro elemento interessante dei rilievi dell'arco di Costantino è la perdita dei rapporti spaziali: lo sfondo mostra i monumenti del Foro romano
visibili all'epoca (basilica Giulia, arco di Settimio Severo, arco di Tiberio e colonne dei
vicennalia della tetrarchia - gli ultimi due oggi scomparsi), ma la loro collocazione
non è realistica rispetto al sito sul quale si svolge la scena (i rostra), anzi sono allineati
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parallelamente alla superficie del rilievo. Ancora più inconsueta è rappresentazione
in "prospettiva ribaltata" dei due gruppi laterali di popolani, che dovrebbero stare
teoricamente davanti alla tribuna ed invece sono ruotati e schiacciati ai due lati.
Queste tendenze sono riscontrabili anche nel celebre gruppo dei tetrarchi, già a
Costantinopoli e ora murato nella basilica di San Marco a Venezia.
L'allontanamento dalle ricerche naturalistiche dell'arte greca portava d'altro canto una lettura più immediata ed una più facile interpretazione delle immagini. Per
lungo tempo questo tipo di produzione artistica venne vista come chiaro esempio di
decadenza, anche se oggi studi più ad ampio raggio hanno dimostrato come queste
tendenze non fossero delle novità, ma fossero invece già presenti da secoli nei territori delle province e che il loro emergere nell'arte ufficiale fu il rovescio di un processo
di irradiazione artistica dal centro verso la periferia, con il sempre presente (anche in
altre epoche storiche) ritorno anche in senso opposto di tendenze dalle periferie al
centro.
Con l'editto del 313 con il quale Costantino permise la libertà di culto ai cristiani
si ebbe la formazione di un'arte pubblica del Cristianesimo, che si espresse nell'edificazione delle grandiose basiliche a Roma, in Terra Santa e a Costantinopoli: nacque
l'arte paleocristiana.
Verso l'arte medievale
La forma antica di produrre arte non venne distrutta, come si sarebbe portati a
pensare, né dalle invasioni barbariche, né dal Cristianesimo. Soprattutto in campo artistico questi nuovi poteri si dimostrarono rispettosi dei modi precedenti: Courtois dimostrò bene come i barbari, pur senza comprenderla, rispettarono la maniera romana
di derivazione ellenistica, permettendo la sua sopravvivenza per almeno tutto il secolo V e, in parte, VI, anche se ormai svuotata di qualsiasi contenuto originario.
La maniera antica si estinse definitivamente solo ad opera degli imperatori bizantini, per i propri fermenti interni che irradiarono una cultura nuova, su basi completamente diverse da quelle antiche, dai centri di Costantinopoli, di Antiochia, di
Tessalonica e di Alessandria, con notevoli influenze anche dai vicini centri dell'oriente sasanide.
La scultura
Già nei periodi imperiali la scultura romana era in continuo progresso: i volti
sono rappresentati con realismo al contrario dell'arte greca basata soprattutto sul corpo. Ancora a differenza dell'arte greca classica la scultura romana non rappresenta
solo la bellezza ideale ma anche le virtù morali.
Il rilievo storico
Il rilievo storico fu la prima vera e propria forma d'arte romana. Si sviluppò nel
tardo periodo repubblicano, nel I secolo a.C. e, come per il ritratto romano, si formò
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dalla congiunzione del naturalismo ellenistico nella sua forma oggettiva, con i rilievi
dell'arte plebea, una corrente legata sia alla mentalità civile e al rito religioso dei romani, e si ha così il suo sviluppo.
Di questo stile i primi esempi che lo descrivono sono ben riassumibili nel piccolo
fregio trionfale del tempio di Apollo Sosiano, semplice ed incisivo, riferito appunto al
trionfo di Sosio del 34 a.C., ma forse di esecuzione più tarda del 20-17 a.C., simile anche a quello successivo dell'altare al centro dell'Ara Pacis. Per questo stile è buon uso
ricordare la formula ogni genere letterario per metro diverso, quindi ogni genere corrisponde ad uno stile diverso, causa la sua equità strutturale nel tempo.
Interessante è anche il fregio che doveva adornare un altare molto simile a quello
dell'Ara Pacis, trovato sotto al "Palazzo della Cancelleria" e ora Musei Vaticani, la cosiddetta base dei Vicomagistri (30-50 d.C.): vi si legge una processioni per un sacrificio, dove si vedono gli animali, gli assistenti sacerdoti e i musicanti. Qui con lo scorcio
delle trombe e la posizione dei suonatori di dorso, si ha uno dei pochi esempi di dilatazione spaziale: il fondo non esiste, è uno spazio libero, entro al quale le figure si
muovono.
Il ritratto
Il ritratto, col rilievo storico, è la forma più caratteristica dell'arte romana. Entrambi erano frutto della manifestazione di un forte legame oggettivo e pratico dei
Romani, lontano da ogni astrazione metafisica. Il rilievo storico però ha le sue radici
nell'arte plebea di tradizione medio-italica, il secondo è stato invece creato dall'ambiente patrizio a partire dal ritratto ellenistico.
Vi sono precedenti del ritratto sia nella medio-italica (testa di Giunio Bruto), e in
quella etrusca seppur non prima del IV secolo a.C.; ma il ritratto tipico romano è tutt'altra cosa, si rifà al culto familiare piuttosto che alla sfera onoraria e funerale, anche
se poi queste lo assorbiranno. Direttamente collegato alla tradizione patrizia dello ius
imaginum, la sua nascita è strettamente connessa allo sviluppo nella età Sillana del
patriziato, e si svilupperà fino al secondo triumvirato; per esempio nella statua di personaggio romano da Delos si notano le fattezze ben individualizzate della testa ritratta impostata su un corpo in posizione eroica di classica idealizzazione.
A partire da queste esperienze i mercanti romani tornati in patria, divenuti nel
frattempo "aristocrazia del denaro", impostarono le premesse per l'arte del ritratto. In
quell'epoca si definì quindi una committenza alta e aristocratica, interessata a ritratti
idealizzati e psicologici, nel ricco stile ellenistico "barocco", e una committenza "borghese", interessata a ritratti fedeli nella fisionomia, anche a scapito dell'armonia dell'insieme e della valenza psicologica, nello stile cosiddetto "verista" (come nel ritratto
di ignoto di Osimo).
Dalla prima età imperiale avrà una stasi date le nuove richieste della classe dirigente, ma rimane statico fra le classi medie ed emergenti. Il ritratto è dotato di un minuzioso realismo, che ama descrivere le accidentalità della epidermide, una attenzione non all'effetto di insieme tipico del realismo ellenistico, ma alla minuziosità e alla
estrema analisi descrittiva; tutto è celebrazione di austerità della vecchia stirpe di con44
tadini forse in realtà mai esistita. Tutto è per la fierezza della propria stirpe. Proprio
per queste caratteristiche tende ad adattarsi ad una sola classe sociale, e non è espressione di una società.
Il I secolo è stato un secolo di varie aggregazioni stilistiche, un puro momento di
formazione e quindi di incertezze e di varie convivenze prima di un completo assorbimento di ogni carattere, di ogni sfumatura di importazione, un fondo che incarna
vari elementi culturali italici e ellenistici.
Il ritratto romano quindi, come tutta l'arte romana, si esprimeva con diversi linguaggi formali.
Retaggio dell'arte romana
L'arte romana fu per la prima volta nel mondo europeo e mediterraneo, un'arte
universale, capace di unificare in un linguaggio dai tratti comuni una vastissima area
geografica, che travalica anche i meri confini dell'impero.
Ciò implicò che l'arte romana, grazie alla sua diffusione, fosse nelle generazioni
future il diretto tramite con l'arte antica. Per gli artisti europei la produzione romana
venne sempre considerata come "una seconda e più perfetta Natura dalla quale trarre
insegnamento"; e grazie proprio ai monumenti ed alle opere d'arte romane si possono
spiegare le rifiuriture "classiche" di civiltà come quella carolingia, gotica o rinascimentale.
L'arte greca rimase infatti oscura fino alla fine del XVIII secolo, quando avvenne
il suo riconoscimento teorico, mentre la sua conquista documentata si data al XIX secolo. L'arte romana invece rimase sempre nota durante i secoli successivi, influenzando profondamente le generazione successivi di artisti e committenti.
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Lezione III
L'ALTO MEDIOEVO
L'arte medievale copre un periodo lungo approssimativamente 1.000 anni, in un
contesto spaziale estremamente vasto e vario. Per medioevo, periodo storico corrispondente, viene comunque inteso un ambito che ha il mar Mediterraneo come baricentro; la storia dell'arte di quel periodo per definizione riguarda lo sviluppo dell'arte
in Europa, nel Medio Oriente e nell'Africa del Nord.
Principali manifestazioni dell'arte medievale
La storia dell'arte medievale include, per grandi linee: gli ultimi lasciti dell'arte
romana e la loro trasformazione per i nuovi fini del culto cristiano (dalle terme alla
rotonda; dal palazzo patrizio alla basilica); in genere, tutto il patrimonio dell'arte paleocristiana, a partire dall'arte delle catacombe e dei sarcofagi; la complessa dialettica
tra i sotterranei precedenti classici ed ellenistici, da un lato, e i nuovi apporti dell'arte
barbarica, con la sua tradizione dell'ornato a motivi zoomorfi e intrecci lineari, dall'altro; il formalismo dell'arte bizantina e l'estenuante perfezionamento dei suoi canoni
figurativi; le nuove sensibilità anticlassiche ed "espressioniste", condotte in Occidente
soprattutto dal monachesimo, in particolare dalle miniature del monachesimo irlandese; la nascita di un "volgare" figurativo in Occidente (fine dell'VIII secolo); le novità
espresse dalla scuola romana di mosaicisti che operarono in Santa Maria in Domnica
e in Santa Prassede; i mutamenti tecnici delle maestranze lombarde (maestri comacini); i nuovi rapporti architettonici tra massa e luce dell'arte preromanica (come in San
Pietro a Tuscania); l'architettura islamica, soprattutto nel suo sviluppo spagnolo e siciliano; il gotico, con le sue evoluzioni nel campo della statica delle strutture.
Presupposti storico-dottrinari
L'arte medievale è normalmente intesa come una propaggine del cristianesimo,
come arte di chiesa. Per quanto ciò non sia sempre vero, resta che, fin dall'inizio, la
committenza e l'artista medievali si sono confrontati con il compito di condurre i metodi e le possibilità dell'arte nel seno di un discorso teologico: se, dapprincipio, ci si limitò a trasfigurare il naturalismo classico, in seguito si sviluppò una vera e propria
pedagogia cattolica, accompagnata dai relativi strumenti di propaganda.
Sul piano del rapporto tra raffigurazione e divino, il cristianesimo aveva alle
spalle due visioni assolutamente opposte:
•
Ellenismo: il divino è immerso nell'evidenza di forme naturalistiche e antropomorfe (iconismo);
•
Ebraismo: condanna della rappresentazione figurativa del divino in quanto idolatra (aniconismo).
Sorprendentemente, fu la stessa fede nell'incarnazione di Dio in Cristo a influenzare profondamente la sensibilità artistica dell'Occidente in rapporto alla raffigurabi46
lità del divino. La mediazione cristiana fra l'istanza ebraica e quella greco-latina non
si produrrà però all'inizio della diffusione della nuova religione: le prime comunità
cristiane sono anzi assai poco interessate all'espressione figurativa, tanto che si servono liberamente di figurazioni pagane. Al più, gli oggetti figurativi vengono allegorizzati, come accade nel caso della vite e del pesce. Ciò dipende appunto più dalla riluttanza a configurare il divino in immagine, secondo quanto prescrive la sensibilità
ebraica, che dalla necessità pratica di dissimulare la propria fede.
È dunque da queste due fondamentali impostazioni che deriva la sensibilità figurativa del cristianesimo, secondo i moduli di una figurazione indiretta a tema escatologico che conduce, da un lato, alla dissoluzione del bello classico (Orfeo-Cristo agli
Inferi che libera le anime del limbo) e che si basa, dall'altro, sull'incarnazione del divino come fondamento teorico della possibilità di raffigurare Gesù.
L'arte e la sua funzione strumentale
Quando la Chiesa assumerà un preciso atteggiamento nei confronti dell'arte, il
che, come detto, accade alquanto tardivamente, riprenderà in chiave religiosa il fine
civile dell'arte nello Stato romano: l'arte non ha un valore in sé ma è utile all'educazio ne morale e religiosa dei fedeli. Il formarsi di un'iconografia cristiana è appunto legata alla lunga esperienza del martirio (santi testimoni) e delle controversie dottrinali
(Padri e Dottori della Chiesa): questi personaggi popolano l'Olimpo cristiano come figure minori, il racconto delle cui vicende può avere fine pedagogico. «Il processo dell'arte cristiana può, nel suo insieme, considerarsi un processo dalla rappresentazione
simbolica alla rappresentazione storica con fine edificante».
Filoni principali
La restauratio di Teodosio e Ambrogio a Milano (fine del IV secolo-V secolo)
In Occidente, la divisione dall'inquieto e dogmaticamente instabile Oriente determina una crisi di idee e di cultura, tanto che il riferimento rimane la grandezza passata di Roma. Il tentativo di restauratio promosso da Teodosio e Ambrogio nella Milano
capitale dell'Impero (379-402) ha questo impulso, non già verso la Roma cristiana, ma
verso la Roma imperiale e l'imponenza dei suoi monumenti. Il recupero della tradizione imperiale romana è dovuto alla maggiore prossimità della città alla frontiera,
alla pressione delle popolazioni barbariche, sensibili a quel richiamo.
Esempio di questa intensa attività di Ambrogio è la Basilica apostolorum (386),
con schema a croce, vasto transetto con cappelle ed esedre, ma più ancora San Lorenzo (V secolo), un vasto quadrato con larghe esedre e colonnati lungo la curvatura di
queste ultime: qui la gestione dello spazio torna a ricordare le terme romane, secondo
i moduli di uno sviluppo avvolgente. C'è poi la cappella di San Vittore in Ciel d'oro
(IV secolo), in cui, per la prima volta, le raffigurazioni dei santi giungono ad una personalizzazione tale da permettere l'individuazione di essi come figure storiche.
Arte bizantina
L'arte bizantina ha mantenuto forti influssi in Italia almeno fino al periodo più si47
gnificativo dell'iconoclastia (730-843). Nel V secolo, Ravenna, che eredita da Milano
quel che resta dell'idea imperiale, è (soprattutto con i suoi mosaici) uno dei centri più
importanti di diffusione di questa arte, che resta un modello insuperato di raffinatezza e di equilibrio tecnico ed espressivo.
Il periodo che va dalla fine del predominio bizantino in Occidente a Carlo Magno è un tempo di profonda depressione politico-economica e culturale per l'Italia. Al
contrario, è un periodo di splendore per l'Oriente, dove fiorisce una cultura essenzialmente religiosa, con forte tensione escatologica. Se nella capitale Costantinopoli vige
una rigorosa gerarchia che promana all'esterno nelle forme di una capillare burocrazia, l'Impero d'Oriente è percorso da inquiete correnti spirituali: i monaci sparsi nel
territorio discutono di filosofia e di fede e i loro sermoni raggiungono il tono drammatico della profezia apocalittica. L'anacoreta finisce per essere percepito come il tipo
umano perfetto.
In periferia, più che a corte, è vivo il ricordo della tradizione ellenistica. In Siria,
si raccolgono le maggiori tendenze figurative orientali (persiane), connesse ad un forte sentimento di riscatto nazionale. Qui è più vivo il sentimento evangelico, mentre a
Costantinopoli si guarda di più al valore dialettico dell'arte. È nella periferia dell'Impero che va cercato quel portato "espressionistico" (linee assai intense, colori più accentuati, presentazione impetuosa delle immagini). Queste correnti giungono in Italia
attraverso gli ordini monastici, attraverso la figurazione miniata. A ciò si aggiunge la
tradizione barbarica dell'ornato (in assenza di una vera cultura figurativa che oltrepassi i motivi zoomorfi delle tradizioni celtiche, iraniche e scitiche).
Arte islamica
L'arte islamica si è espressa nel medioevo soprattutto in campo architettonico (le
altre arti patirono le limitazioni che l'Islam impone alla rappresentazione figurativa, a
partire da Allah). Il rapporto con l'arte medievale europea e la reciproca influenza
sono garantiti durante tutto il millennio: dai manoscritti illustrati alla ceramica, al metallo e al vetro, l'arte islamica penetra in Europa attraverso la penisola iberica (arte
mozarabica), la Sicilia, il Medio Oriente e l'Africa del Nord.
Arte romanica
Tutte queste manifestazioni d'arte, insieme ai conflitti e ai problemi teorici che
portano con sé (fondamentalmente riguardanti la raffigurazione di Cristo e del divino), assumono i connotati di quella che è stata successivamente definita arte romanica, in coincidenza dell'età feudale e di quella comunale, quando ormai pienamente
consumato è il distacco tra le due parti dell'Impero romano. Intorno all'anno 1000 si
assiste ad un rinascere della città e ad una rivalutazione del lavoro, con l'affermarsi di
un ceto borghese che orbita intorno alla chiesa.
Arte gotica
L'arte gotica rappresenta l'estremizzazione dei traguardi tecnologici (soprattutto
in campo architettonico) del romanico. La parola "gotico" è di origine rinascimentale:
con essa si intendé principalmente "barbaro" (alludendo ai Goti), che in arte è innanzitutto il distruttore della tradizione classica. Questa definizione, che è giunta fino a
noi, non ha propriamente un valore storico e, anzi, denota la volontà rinascimentale
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di identificarsi con il risorgere dell'augusta perfezione classica e del suo equilibrio.
Sul piano storico, l'arte gotica corrisponde alla nascita di arti "nazionali" e di monarchie nazionali: il dissolversi del Sacro Romano Impero portò al costituirsi di organismi statali burocraticamente più solidi dell'istituto di vassallaggio. Le vecchie nobiltà vennero estromesse dal potere, in favore della borghesia cittadina.
Sul piano stilistico, l'arte gotica si fonda, in architettura, sull'uso sistematico dell'arco a sesto acuto. Gli avanzamenti delle conoscenze nell'ambito della statica comportarono un alleggerimento delle mura, con il conseguente esplodere della tradizione delle vetrate.
È poi intima la connessione tra la nuova architettura e il rinnovato contesto urbano, che ha visto articolarsi in modo più complesso la meccanica del commercio e il
movimento di forestieri nei diversi paesi.
L'artista medievale
L'artista medievale è caratteristicamente inteso come artista anonimo, vicino alla
condizione dell'artigiano e con il relativo prestigio sociale, soprattutto considerando
l'impostazione corporativa delle arti. Questa associazione tra artista medievale e anonimato non va esasperata, sia perché esistono svariati tentativi di lasciare traccia del
proprio contributo personale, sia perché esistettero diversi artisti di spessore internazionale che, pur approfittando del lavoro di bottega, riversarono fin dall'inizio la propria coscienza storica e intellettuale nel proprio lavoro (Wiligelmo, Benedetto Antelami). Fu soprattutto a partire dal XV secolo che l'artista si impose come "coltivatore
delle belle arti", oltre che come esecutore materiale: ne conseguì un aumento nella
considerazione sociale e della stessa preparazione intellettuale e culturale degli addet ti ai lavori.
"Per noi [contemporanei] si tratta di opere d'arte e ce ne attendiamo un vivo piacere estetico [...]. Invece per i contemporanei [medievali] quei monumenti, quegli oggetti, quelle immagini erano in primo luogo funzionali: erano utili". E l'utilità consisteva innanzitutto nel sacrificio ("rendere sacro"), cioè nell'accumulazione di tutto ciò
che era più prezioso nei luoghi di culto.
Per comprendere ancor di più il ruolo dell'artista, va considerato quello della
committenza: personaggi come Bernoardo di Hildesheim (ritratto in una Vita firmata
da Tangmaro) o Sugerio di Saint-Denis (con i suoi scritti autobiografici ha evocato numerose opere da lui ispirate o direttamente commissionate) suggeriscono un'insolita
mescolanza tra i gusti del committente (che si configura come coordinatore intellettualmente impegnato dei lavori e mediatore rispetto alla committenza signorile) e
quelli dell'esecutore materiale.
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Lezione IV
IL ROMANICO
Il romanico è quella fase dell'arte medievale europea sviluppatasi a partire dalla
fine del X secolo all'affermazione dell'arte gotica, cioè fin verso la metà del XII secolo
in Francia e nel primo decennio successivo negli altri paesi europei (Italia, Inghilterra,
Germania, Spagna). Il termine art roman venne impiegato per la prima volta dall'archeologo francese Charles de Gerville in una missiva del 1818 al collega ed amico Ar cisse de Caumont, con l'intento di contrapporre l'architettura romanza dei secoli X-XII
a quella gotica, allora definita germanica. Con il termine si voleva evidenziare il contemporaneo sviluppo delle lingue romanze e richiamare un collegamento con la monumentalità dell'architettura romana antica.
Contesto storico
Dall'XI secolo alla prima metà del XII secolo l'Europa visse un periodo di grande
modernizzazione: l'affinamento delle tecniche agricole (l'invenzione del giogo, dell'aratro con parti metalliche, chiamato "carruca", della triennale, l'uso dei mulini ad acqua ed a vento, ecc.) permise di aumentare la produzione di generi alimentari, sollevando la popolazione dall'endemica scarsità di cibo e permettendo un incremento demografico; ripresero i commerci e si svilupparono i villaggi e le città quali sedi di
mercati; crebbero le zone urbane e gradualmente fu possibile l'affermazione di un
nuovo ceto sociale, quello "borghese" dedito alle attività manifatturiere e commerciali,
intermedio tra la massa dei contadini e gli aristocratici o gli ecclesiastici.
Si assistette anche ad una ripresa dell'attività edilizia, della domanda di cultura e
di investimenti artistici, soprattutto in zone più avanzate quali la pianura Padana, il
Regno di Sicilia, la Toscana e i Paesi Bassi. Il declino dell'autorità imperiale, ormai
viva solo in Germania, veniva eclissato gradualmente dal feudalesimo, soprattutto in
Francia, e dallo sviluppo delle autonomie cittadine, soprattutto in Italia. In queste
zone non è più l'Imperatore o il vescovo a commissionare nuove opere edilizie, ma i
signori locali, tramite cospicue donazioni che avevano una funzione di prestigio ma
anche "espiatoria" del senso di colpa che veniva riscattato tramite "omaggi" in denaro
o in opere d'arte verso istituzioni religiose a testimonianza della propria devozione e
pentimento religioso.
Grande importanza rivestirono alcune abbazie come quella di Cluny, che fece da
esempio anche per altre, quale baluardo della Santa Sede che non accettava nessuna
ingerenza da parte dei feudatari locali. Dalla diatriba tra i poteri si arrivò infatti alla
lotta per le investiture e al concordato di Worms (1122). Dopo la riforma e la liberazione dalle ingerenze locali i grandi monasteri trovarono una rinnovata spinta a manifestare il proprio prestigio tramite la glorificazione dell'Onnipotente in grandi edifici religiosi ed opere d'arte sacra. A Cluny per esempio nel giro di meno di un secolo si
arrivò a costruire tre chiese abbaziali, una più magnifica dell'altra (la terza e ultima
venne iniziata nel 1088 e consacrata nel 1130).
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Origini e sviluppo
Il romanico rinnovò principalmente l'architettura e la scultura monumentale,
quest'ultima applicata all'architettura stessa (come decorazione di portali, capitelli, lunette, chiostri...). Il nuovo stile in realtà non nacque in Francia come molti pensano,
ma sorse contemporaneamente in quasi tutta l'Europa, con caratteristiche comuni, che
fanno dire che si tratta della medesima arte, pur con alcune differenze specifiche per
ogni regione/nazione. In particolare, secondo lo studioso francese Henri Focillon, si
tratta di uno sviluppo dell'arte bizantina ravennate, come dimostrerebbero le più antiche pievi della campagna fra Ravenna e Forlì, nelle quali già si ritrovano, in pieno
Alto Medioevo, tutti gli elementi che saranno tipici del Romanico posteriore. Le differenze regionali sono una conseguenza della necessità di adattamento locale, mentre le
linee di fondo possono essere ricondotte all'omogeneità culturale dell'Europa, alla veloce diffusione delle idee tramite la maggiore mobilità di merci e persone, siano esse
mercanti, eserciti in marcia o pellegrini, senza dimenticare l'elemento unificatore della
religione cristiana.
In base, dunque, agli studi di Focillon, il romanico precedette ed influenzò la nascita dell'arte ottoniana, che già possedeva, soprattutto in architettura, alcuni elementi
comuni, come la spessa muratura, il trattamento delle pareti come materia plastica
sulle quali creare particolari effetti, la schematizzazione in campate tramite l'alternanza tra colonne e pilastri. In ogni caso, lo stile romanico successivo al Mille risentì, a
sua volta, dell'arte ottoniana stessa.
Ci fu uno studio e una riscoperta delle tecniche costruttive su scala monumentale
dell'architettura romana (un altro collegamento evocato dal nome "romanico"), che
permise un recupero sostanziale di modelli antichi, a differenza dei precedenti recuperi "aulici" delle scuole di corte fiorite nelle epoche precedenti. In architettura vennero ripresi dall'arte antica il senso della monumentalità e della spazialità, ed usati
estensivamente alcuni elementi particolari come l'arco a tutto sesto, il pilastro, la colonna e la volta.
Arte e pellegrinaggi
Un fenomeno di grande rilievo a partire dall'XI secolo è la pratica dei pellegrinaggi che riprese con vasta portata e su un ampio spettro di strati sociali, dai più umili ai più potenti. Tra i fattori che permisero i pellegrinaggi di massa vi furono la mag giore sicurezza delle strade e lo sviluppo dei centri urbani. Le mete principali di questi viaggi, dalla valenza altamente simbolica di purificazione, di rigenerazione e di
esperienza fondamentale, erano tre: la Terra Santa, Roma e Santiago de Compostela,
in Galizia. Sulle vie principali di questi pellegrinaggi sorgevano una serie di santuari
intermedi, di chiese, di monasteri e di altri centri di richiamo religioso, attraverso i
quali si canonizzarono le tappe di vari tragitti principali, che poi confluivano verso la
destinazione finale.
In Terrasanta si trovava il sepolcro di Cristo e i luoghi descritti dai vangeli, dove
proprio in quegli anni era stata effettuata una riconquista tramite la cosiddetta prima
crociata. Uno dei modi principali per raggiungere la Palestina era via mare, imbarcan51
dosi a Venezia o nei porti della Puglia.
A Roma si visitavano le tombe degli apostoli Pietro e Paolo e la sede del papato.
Per raggiungerla esisteva la via Romea (o Francesca o, solo più tardi, Francigena), che
passava da valichi alpini ed appenninici costellati da piccoli centri che videro una notevole fioritura artistica proprio in quegli anni.
A Santiago di Compostela, forse la meta più visitata, si raggiungeva la tomba
dell'apostolo Giacomo tramite il Cammino di Santiago, che convogliava tramite quattro tragitti principali, confluenti a Puente la Reina in Spagna, pellegrini dalla Francia,
dalla Gran Bretagna, dalle Fiandre, dalla Germania e dall'Italia.
Grande fioritura ebbero i centri toccati dall'affluenza dei pellegrini, sia in termini
economici che artistici, tanto che non mancarono alcuni casi, diremmo oggi, di "concorrenza" tra vie alternative: fu anche il periodo del commercio delle reliquie, sia
come oggetti devozionali, che come richiamo per i pellegrini.
I pellegrinaggi ebbero immediate conseguenze anche in campo artistico. Innanzitutto favorirono i contatti e gli scambi tra centri anche molto distanti, spiegando in un
certo senso la diffusione "a macchia" delle novità stilistiche e tecnologiche. Inoltre si
resero necessari alcuni adattamenti alle chiese visitate da grandi masse di persone,
imponendo particolari accorgimenti in pianta, come la maggiore ampiezza, l'allargamento dei deambulatori, dove si vennero ad aprire cappelle radiali contenenti reliquie e altari secondari per il culto, l'ampliamento del transetto e delle tribune sulle
navate laterali, la creazioni di portali di accesso laterali e nel transetto, per il deflusso
delle folle. Una prima applicazione di tale impianto viene fatta probabilmente a Sainte Foy (a sei campate nella navata) di Conques, ripresa e ingrandita a Saint-Sernin, a
Tolosa e a Compostela (a ben undici campate), poi a Saint-Martin di Tours (distrutta
durante la rivoluzione francese) ed a Saint-Martial, presso Limoges (andata anch'essa
distrutta).
Architettura romanica
Innescati più circoli virtuosi nella società dell'epoca romanica, ripercossero anche
sulla produzione architettonica, con murature più regolari, pietre dalla forma perfettamente squadrata, uso della copertura a volte anche su grandi spazi.
Elementi dell'architettura romanica si erano affermati in Germania già all'epoca
degli imperatori ottoniani, raggiungendo la Francia (soprattutto Borgogna e Normandia) e l'Italia settentrionale, centrale (Romanico lombardo e Romanico pisano) e meridionale (Romanico pugliese).
Generalmente l'epoca romanica viene suddivisa in tre periodi: un primo romanico (intorno al 1000); una fase di maturazione (circa 1080-1150) che vede perfettamente
sviluppato il repertorio formale dello stile; infine una terza fase (1150-1250), limitata
all'ambito germanico e parallela al neonato Gotico francese. I principali edifici pervenutici dell'epoca romanica sono sicuramente chiese ed altri edifici religiosi, essendo
quasi del tutto perduti o profondamente stravolti in epoche successive gli esempi di
edilizia civile monumentale, quali rocche e castelli.
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Caratteristiche strutturali
Nel XIX secolo la scuola positivista volle riconoscere come elemento qualificante
dell'architettura romanica l'uso delle coperture a volta, in particolare delle volte a crociera, una semplificazione forse un po' forzata dal voler vedere un'evoluzione lineare
tra arte alto medievale e arte gotica, che non corrisponde pienamente alla realtà. Se da
un lato infatti edifici chiave dell'architettura romanica quali il Duomo di Modena o
San Miniato al Monte di Firenze o la chiesa Abbaziale di Saint-Etienne a Caen furono
inizialmente coperti con capriate, solo in seguito sostitute da volte, dall'altro lato l'uso
delle volte a crociera, sebbene su zone più piccole, era già presente fin dall'inizio dell'XI secolo in area germanica e lombarda, come nella chiesa di Santa Maria Maggiore
a Lomello. Anche la caratteristica dell'uso di arcate cieche sulle pareti esterne è un
motivo tipico sì del romanico, ma in uso senza soluzione di continuità in certe zone
europee sin dall'epoca paleocristiana.
L'impianto planimetrico più frequente delle chiese romaniche era la croce latina;
la navata veniva scandita in campate ritmiche: alla campata quadrata della navata
centrale in genere corrispondevano nelle navate laterali due campate pur esse quadrate ma di lato dimezzato. La cripta originariamente era limitata alla zona sottostante il coro, poi venne estesa come cripta a sala, quasi a creare una seconda chiesa inferiore. Nelle coperture delle cripte si trovano i primi tentativi di volte a crociera, che
intorno all'XI secolo vennero impiegati anche nelle navate laterali. A partire dal 1080
fanno la loro comparsa nuovi tipi di copertura: volta a botte in Spagna e in Francia,
spesso a sesto acuto (Borgogna, Poitou); cupole (Aquitania), volta a costoloni in Lombardia e a Durham; volta reticolare in Germania.
Per quanto riguarda le aperture e la luce, in un primo momento le chiese romani che erano senz'altro più buie di quelle paleocristiane, per la minore presenza di finestre e la loro dimensione più piccola, retaggio dell'architettura alto medievale, che
non era in grado di costruire vetrate di grandi dimensioni.
A volte le pareti esterne erano scandite da arcate cieche; mentre come entrata si
utilizzavano portali a strombo, arricchiti con figurazioni scultoree ricavate nello
strombo stesso.
Scultura romanica
La scultura romanica nacque in stretto rapporto con l'architettura, decorando capitelli, architravi e archivolti di finestre e portali.
Ci fu una ripresa in più centri della scultura su scala monumentale (a Tolosa, a
Moissac, a Modena, in Borgogna e nella Spagna settentrionale) a partire dall'XI secolo.
Grazie a svariate influenze gli scultori crearono un repertorio del tutto nuovo, interpretando liberamente secondo sotto-scuole regionali. Si ebbero raffigurazioni del
mondo animale e vegetale, oppure figurazioni e narrazioni legate ai testi sacri.
In particolare cambiò anche il pubblico che fruiva delle rappresentazioni, non essendo più una ristretta élite ecclesiastica o imperiale, ma un ben più ampio bacino di
persone di strati sociali e culturali diversi.
I principali scultori in Italia furono Wiligelmo, attivo sicuramente al Modena,
Nonantola e forse Cremona (e alcuni membri della sua bottega anche a Piacenza), Ni53
cholaus (Sacra di San Michele, Sant'Eufemia a Piacenza, Cattedrale di Piacenza, Ferrara, Verona, forse anche a Parma) e, allo scadere del secolo XII, Benedetto Antelami,
che si firmò esplicitamente nella lastra della Deposizione del 1178, già parte di un pulpito, ora murata nella Cattedrale di Parma, più cripticamente nel Battistero, sempre a
Parma, iniziato nel 1196. Numerose sono le opere riconducibili agli allievi dell'Antelami, come i Mesi del Maestro dei Mesi, già su un portale distrutto della Cattedrale di
Ferrara.
Pittura romanica
Con il termine pittura romanica si suole definire tutte quelle forme artistiche manifestatesi nell'Europa occidentale e centrale all'incirca tra la metà dell'XI secolo e la
metà del XII secolo, con sensibili variazioni da una regione all'altra.
In Umbria gli affreschi della chiesa di San Pietro in Valle a Ferentillo con Storie
dell'Antico Testamento (fine dell'XII secolo), mostrano un plasticismo ed una espressività di influenza classicheggiante che non hanno riscontro nella coeva pittura su tavola, rappresentata dalle croci lignee sagomate, di severa ieraticità con la raffigurazione del Christus triumphans, prima della svolta iconografica di fine del XII secolo dei
drammatici Cristi morenti (Christus patiens).
La pittura romanica presenta una sensibilità tormentata che rappresenta soprattutto i temi più drammatici della religione : pene infernali, vizi, apocalissi, giudizio
universale.
La raffigurazione di Dio
Lo studioso Jacques Le Goff evidenzia che Dio è rappresentato più come Rex (re)
che come Dominus (signore). Gli vengono infatti dati attributi regali, simboli del po tere universale: il trono, il sole, la luna, l'alfa, l'omega, i vegliardi dell'Apocalisse, talvolta la corona. "Questa sovranità regale di Cristo ispira la chiesa preromanica e romanica, concepita come un palazzo reale, derivato dalla rotonda reale iraniana convergente verso la cupola, oppure l'abside, dove troneggia il Pantocratore". Accanto a
queste immagini troviamo il Cristo in croce con il fianco piagato ma in atteggiamento
di vittoria sulla morte. Con l'appoggio della Chiesa l'immagine del Dio-Re favorisce il
potere di re ed imperatori contro la feudalità: re ed imperatori sono infatti immagini
terrene di Dio. A fianco di questa iconografia appare quella del Dio Uomo, il Cristo
Pastore, Cristo Dottore , un Cristo docente con vari attributi cristologici: mulino e
frantoio mistici (il sacrificio fecondo di Gesù); Cristo cosmologico derivato dal simbolismo solare che appare al centro di una ruota (per esempio in una vetrata della cattedrale di Chartres); i simboli della vigna e del grappolo d'uva (con riferimento ai testi
evangelici); il leone e l'aquila segni di potenza; il liocorno simbolo di purezza; il pellicano segno di sacrificio; la fenice simbolo di resurrezione e di immortalità.
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Lezione V
IL GOTICO
L'architettura gotica è quella fase dell'architettura europea caratterizzata da particolari forme strutturali ed espressive, in un periodo compreso fra la metà del XII secolo e, in alcune aree europee, i primi decenni del XVI secolo.
Periodizzazioni e diffusione
L'architettura gotica continentale viene suddivisa in diverse fasi:
•
Protogotico;
•
Gotico classico;
•
Gotico radiante;
•
Tardo gotico.
Esistono inoltre diverse varietà nazionali e anche regionali dell'architettura goti-
ca:
•
Gotico francese (in particolare le grandi cattedrali);
•
Gotico brabantino;
•
Gotico inglese;
•
Gotico italiano;
•
Gotico tedesco nei territori del Sacro Romano Impero e nell'Europa centrale;
•
Gotico spagnolo e portoghese;
•
Gotico baltico (architettura in mattoni dell'Europa settentrionale);
•
Gotico degli stati crociati (in Siria, Libano, Israele, Rodi e isole della Grecia).
Ognuna di queste varietà nazionali presenta caratteristiche particolari e fasi proprie, talvolta ben distinte (come ad esempio il gotico inglese), sebbene sia possibile
identificare gli influssi reciproci delle varie componenti regionali. Fra tutte queste varietà la più importante è senza dubbio quella francese, poiché l'architettura gotica dei
diversi paesi europei può essere vista come il recepimento, spesso estremamente originale, degli stimoli provenienti dal nuovo linguaggio formatosi verso la metà del XII
secolo nell'Ile de France.
Origine e sviluppo
Diversamente da quanto avvenne per l'architettura romanica, policentrica e senza che si possa ritenere una regione europea come più rappresentativa, è invece quasi
possibile identificare una località e un "padre" dell'architettura gotica. La ricostruzione del coro dell'abbazia di Saint Denis, vicino a Parigi, nell'anno 1144 per opera dell'abate Suger, è infatti generalmente considerata come la data di inizio di questo stile,
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che da lì a poco si diffonderà prima nelle diocesi dell'Ile de France e poi nel resto della
Francia, in Inghilterra, nell'Impero e nel resto d'Europa, incontrando resistenze significative solo in Italia. Uno stile consapevolmente diverso da quella precedente, caratterizzato dall'uso intensivo di tecniche costruttive già note (come l'arco a sesto acuto e
la volta a crociera), ma in un sistema coerente e logico e con nuovi obiettivi estetici e
simbolici.
Proporzioni dell'architettura gotica: architettura e musica
L'estetica medievale, che trova nell'architettura gotica una delle sue maggiori
realizzazioni, ha nella matematica e nella geometria la sua fondazione. Le proporzioni
dell'edificio sacro non sono casuali e non sono nemmeno determinate dalla ricerca di
effetti spettacolari, ma derivano da una visione dell'arte come scienza, cioè come speculazione teorica, nella ricerca dei rapporti geometrici che stanno alla base del cosmo
e che sono ritenuti di origine divina. Si tratta degli stessi rapporti che governano il
mondo della musica, le cui regole armoniche non sono fatti meramente naturali, ma
riflessi delle armonie celesti. I primi edifici gotici sono costruiti in base a rapporti numerici analoghi agli intervalli perfetti dell'armonia musicale, cioè ottava, quinta e
quarta e unisono, come nel rapporto fra le dimensioni della campata o del transetto
rispetto alla navata. In questo modo l'edificio sacro viene ad avere gli stessi rapporti
armonici che ha il creato e la musica, poiché è Dio, il grande architetto dell'universo,
ad avere stabilito in principio queste divine proporzioni, decifrabili dal libro della natura e anche dal libro della rivelazione. Lo stesso tempio di Salomone, stando alla descrizione che ne fa la Scrittura, ha delle proporzioni numeriche perfette.
Sant'Agostino, nel trattato De Musica, enuncia questa estetica come riflesso delle
perfezioni divine che hanno nella musica (e nella armonia musicale) la sua espressione più compiuta. L'architettura, la più astratta delle arti e basata, come l'armonia musicale, dalla consonanza delle varie parti e costruita come sviluppo e fioritura di figure geometriche perfette, è la forma d'arte maggiore che permette un contatto diretto
con Dio, perché condivide le stesse regole che ha seguito il creatore quando diede forma all'universo. In un certo senso si può affermare che in occidente l'architettura ha lo
stesso ruolo di tramite che in oriente hanno le icone, ma mentre l'immagine si ferma
al sensibile e all'apparente, nell'architettura si va oltre, potendo cogliere l'essenza divina attraverso l'intelletto, poiché Dio ha creato ogni cosa come numero, peso e misura, come riportato nel libro della Sapienza di Salomone. Questo spiega anche l'avversione per le immagini sensibili in Sant'Agostino e anche nei teologi medievali, in particolare in Bernardo da Chiaravalle, il quale proibì ogni forma di arte figurativa nelle
chiese del suo ordine cistercense promuovendo, per gli edifici di questo ordine monastico, una architettura pura e silenziosa, dove le pietre - finemente squadrate e lavorate - e le stereometrie degli spazi geometricamente perfetti erano più eloquenti riguardo ai misteri divini delle ridicole difformità o delle grossolane raffigurazioni che
adornavano le chiese romaniche.
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Saint Denis
Nel 1140 l'abate Sugerio (Suger) decide di ricostruire il coro e la facciata di Saint
Denis, l'abbazia benedettina che conservava le reliquie del patrono di Parigi San Dionigi. Questo santo era il primo vescovo delle Gallie, ma era stato confuso con il monaco siriano San Dionigi pseudo areopagita, chiamato così perché era stato a sua volta
confuso con il presunto Dionigi che si sarebbe convertito dopo aver sentito Paolo di
Tarso predicare nell'areopago di Atene. Il Dionigi monaco siriano aveva scritto un
trattato sulla luce e sulle gerarchie angeliche, ispirato al neoplatonismo, nel quale la
luce era considerata come emanazione divina e, in generale, la realtà sensibile come
simbolo delle splendenti realtà soprannaturali. Si riteneva inoltre che l'abbazia fosse
stata consacrata da Gesù Cristo in persona ed era utilizzata come sacrario dei re Capetingi che qui venivano sepolti. L'abate Sugerio, lettore dei testi dello Pseudo Dionigi,
volle ricostruire la sua venerabile abbazia ispirandosi alle teorie del filosofo, progettando un nuovo coro con una serie di cappelle radiali a forma trapezoidale direttamente collegate ad un deambulatorio che permetteva ai fedeli di muoversi liberamente anche dietro il recinto del coro. Le cappelle radiali erano coperte da volte a crociera
e sulle pareti si aprivano ampie finestre che davano una grande luminosità allo spazio
interno. Le vetrate colorate alle aperture rendevano l'atmosfera interna quasi soprannaturale, riuscendo a dare una forma sensibile alle teorie dello Pseudo Dionigi.
Innovazioni tecniche
La novità più originale dell'architettura gotica è la scomparsa delle spesse masse
murarie tipiche del romanico: il peso della struttura non veniva più assorbito dalle
pareti, ma veniva distribuito su pilastri all'interno e nel perimetro, coadiuvati da
strutture secondarie come archi rampanti e contrafforti. Lo svuotamento della parete
dai carichi permise la realizzazione di pareti di luce, coperte da magnifiche vetrate,
alle quali corrispondeva fuori un complesso reticolo di elementi portanti.
A partire dai soli pilastri a fascio si dipana un sistema di contrafforti ben più ampio e diversificato di quello romanico: gli archi rampanti, i pinnacoli, i piloni esterni,
gli archi di scarico sono tutti elementi strutturali, che contengono e indirizzano al suolo le spinte laterali della copertura, con conseguente alleggerimento delle murature di
riempimento, che presentano un numero maggiore di aperture.
Ma la straordinaria capacità degli architetti gotici non si esaurisce nella nuova
struttura statica messa a punto: gli edifici, svuotati dal limite delle pareti in muratura,
poterono svilupparsi in uno slancio verticale, arrivando a toccare altezze ai limiti delle possibilità della statica. La cattedrale più alta costruita è quella di Beauvais le cui
volte raggiungono un'altezza di ben 48,5 metri (la Cattedrale di Notre-Dame di Parigi
ne misura che 33). Questa caratteristica non fu una novità assoluta e si sviluppò probabilmente da chiese con verticalità preminente già nell'epoca romanica, in Normandia e in Inghilterra (che all'epoca formavano un'unità politica comune). Strumenti essenziali per questo sviluppo "aereo" furono:
•
l'uso massiccio dell'arco a sesto acuto (di origine sasanide e islamica, in uso già
in epoca romanica, per esempio in Borgogna), che permette di scaricare il peso
57
sui piedritti generando minori spinte laterali rispetto ad un arco a tutto sesto;
•
la volta a crociera ogivale, che può creare anche campate rettangolari invece di
quadrate;
•
gli archi rampanti innestati su contrafforti esterni, che ingabbiano la costruzione disponendosi dinamicamente attorno a navate ed absidi.
In Inghilterra si ebbe in seguito un ulteriore sviluppo della volta a crociera con la
volta a sei spicchi e poi a raggiera o a ventaglio: tutte soluzioni che permettevano una
migliore distribuzione del peso a favore di una maggiore altezza.
Ciò che rende affascinante l'architettura gotica è la stretta corrispondenza fra
idee estetiche e innovazioni tecnologiche. L'obiettivo di rendere gli interni degli edifici sacri luminosi e ampi è raggiunto grazie all'utilizzo, sempre più perfezionato e rivoluzionario, dei principi costruttivi della volta a crociera e dell'arco acuto. L'integrazione di queste due tecniche permetterà la costruzione di flessibili campate rettangolari (non più soggette alla limitazione dell'impiego della forma quadrata come in età
romanica) e la costituzione di organismi architettonici puntiformi, senza cioè che il
muro abbia più funzioni portanti, svolte unicamente dai pilastri, riservando ai muri
esterni una mera funzione di tamponamento. L'assenza di carico da parte della volta
sui muri perimetrali, assorbito dai pilastri e dai contrafforti esterni, permetterà la sostituzione della pietra del muro col vetro delle finestre, che raggiungeranno dimensioni mai viste prima. Tutto il sistema di spinte e controspinte generato dalle volte a
crociera e dai contrafforti, realizzati con pinnacoli e archi rampanti spostati all'esterno, costituirà un altro capitolo dell'estetica gotica, strettamente legata ad un pragmatismo strutturale che affascinerà gli ingegneri del ferro e dei nuovi materiali del XIX secolo.
Tardo gotico
Nel Trecento e Quattrocento il gotico si sviluppa in direzioni nuove rispetto alle
forme dei due secoli precedenti. L'edificio dei secoli XII e XIII era caratterizzato da
una navata centrale di notevole altezza e dalle due navate laterali molto più basse.
Ciò comportava che la luce fosse concentrata soprattutto in alto, a livello del cleristorio. Dal punto di vista della percezione dello spazio interno, questo era caratterizzato
dalla forte assialità della navata centrale. Questi due elementi rendono lo spazio
"ascetico" e "spirituale". Gli edifici più rappresentativi della prima fase sono soprattutto le cattedrali. Nel Trecento e soprattutto nel Quattrocento la spinta a costruire grandi cattedrali si esaurisce, e le fabbriche più importanti sono soprattutto le chiese di
ricche parrocchie cittadine, le chiese degli ordini mendicanti nelle periferie delle città
e anche le abbazie di alcuni ordini tradizionali.
Nella disposizione interna si diffonde il modello della chiesa a sala, cioè con le
navate laterali di uguale altezza rispetto a quella centrale. Ciò fa sì che la luce non
provenga più dall'alto, ma dalle pareti laterali, illuminando in modo omogeneo tutto
l'ambiente. Anche la forte direzionalità tradizionale viene modificata, venendosi a
perdere quella precedente in favore di una spazialità policentrica. Questa nuova visione dello spazio è stata anche messa in relazione con la religiosità più terrena e
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mondana del XV secolo.
La geografia di questa nuova sensibilità presenta una mappa diversa da quella
del gotico classico. le regioni più innovative saranno la Germania, la Boemia, la Polonia, l'Inghilterra e la zona alpina. La penisola iberica vedrà dal Quattrocento al Cinquecento la costruzione di alcune grandi cattedrali, ispirate ai modelli francesi e tedeschi dei secoli precedenti.
Anche la decorazione subisce una evoluzione. Nell'Europa centrale e in Inghilterra la volta e i costoloni diventano un motivo ornamentale, a volte raggiungendo effetti di straordinaria complicazione e astrattezza, come nella chiesa di Sant'Anna ad
Annaberg in Sassonia.
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Lezione VI
IL QUATTROCENTO
L'arte del Rinascimento si sviluppò a Firenze a partire dai primi anni del Quattrocento, e da qui si diffuse nel resto d'Italia e poi in Europa, convenzionalmente fino
ai primi decenni del XVI secolo, periodo in cui ebbe luogo il cosiddetto "Rinascimento
maturo" con le esperienze di Leonardo da Vinci, Michelangelo e Raffaello. Il periodo
successivo è chiamato manierismo.
Il XV secolo fu un'epoca di grandi sconvolgimenti economici, politici e sociali,
che infatti viene preso come epoca di confine tra basso medioevo e evo moderno dalla
maggior parte degli storiografi, sebbene con alcune differenze di datazione e di prospettiva.
Tra gli eventi di maggior rottura in ambito politico ci furono la questione orien tale, segnata dall'espansione dell'Impero Ottomano (il quale, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 giunge a minacciare l'Ungheria e il territorio austriaco) e un'altra
occidentale, caratterizzata dalla nascita degli Stati moderni, tra cui le monarchie nazionali di Francia, Inghilterra e Spagna, così come l'impero di Carlo V - che, a differenza degli imperi medievali, presenta un progetto di accentramento del potere, tipico delle istituzioni politiche moderne. In Italia le signorie locali si svilupparono in stati regionali allargandosi a scapito dei vicini, ma non fu possibile creare un'unità nazionale per via dei particolarismi e delle reciproche diffidenze.
Con la scoperta del Nuovo Mondo e le grandi esplorazioni gli orizzonti del mondo europeo si allargarono a dismisura, ma ciò significò anche la progressiva perdita
di importanza del Mediterraneo, con un nuovo assetto politico-economico che, dal
XVII secolo, ebbe come nuovo fulcro l'Europa nord-occidentale.
Contesto sociale e culturale
In questo periodo si ebbe a Firenze un rinsaldato legame con le origini romane
della città, originatosi già nel XIV secolo con le opere di Francesco Petrarca o Coluccio
Salutati, che produsse un atteggiamento consapevole di ripresa dei modi dell'età classica greca e romana. Questa "rinascita", non nuova nel mondo medievale, ebbe però, a
differenza dei casi precedenti, una diffusione ed una continuità straordinariamente
ampia, oltre al fatto che per la prima volta venne formulato il concetto di "frattura" tra
mondo moderno e antichità dovuta all'interruzione rappresentata dai "secoli bui",
chiamati poi età di mezzo o Medioevo. Il passato antico però non era qualcosa di
astratto e mitologico, ma veniva indagato coi mezzi della filologia per trarne un'immagine più autentica e veritiera possibile, dalla quale trarre esempio per creare nuove
cose (e non da usare come modello per pedisseque imitazioni).
Ne scaturì una nuova percezione dell'uomo e del mondo, dove il singolo individuo è in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali potrà
vincere la Fortuna (nel senso latino, "sorte") e dominare la natura modificandola.
Questa valorizzazione delle potenzialità umane è alla base della dignità dell'indivi60
duo, con il rifiuto della separazione tra spirito e corpo. Importante è anche la vita associata, che acquista un valore particolarmente positivo legato alla dialettica, allo
scambio di opinioni e informazioni, al confronto.
Questa nuova concezione si diffuse con entusiasmo, ma, basandosi sulle forze
dei singoli individui, non era priva di lati duri e angoscianti, sconosciuti nel rassicurante sistema medievale. Alle certezze del mondo tolemaico, si sostituirono le incertezze dell'ignoto, alla fede nella Provvidenza si avvicendò la più volubile Fortuna e la
responsabilità dell'autodeterminazione comportava l'angoscia del dubbio, dell'errore,
del fallimento. Questo rovescio della medaglia, più sofferto e spaventoso, si ripresentò ogni volta che il fragile equilibro economico, sociale e politico veniva meno, togliendo il sostegno agli ideali.
Questi temi erano comunque patrimonio di una élite ristretta, che godeva di
un'educazione pensata per un futuro nelle cariche pubbliche. Gli ideali degli umanisti
però erano condivisi dalla maggiore fetta della società borghese mercantile e artigiana, soprattutto perché si riflettevano efficacemente nella vita di tutti i giorni, all'insegna del pragmatismo, dell'individualismo, della competitività, della legittimazione
della ricchezza e dell'esaltazione della vita attiva.
Gli artisti erano pure partecipi di questi valori, anche se non avevano un'istruzione che poteva competere con quella dei letterati; nonostante ciò, grazie anche alle opportune collaborazioni e alle grandi capacità tecniche apprese sul campo, le loro opere suscitavano un vasto interesse a tutti livelli, annullando le differenze elitarie poiché
più facilmente fruibili rispetto alla letteratura, rigorosamente ancora redatta in latino.
Caratteristiche
Anche nel campo delle arti figurative le innovazioni rinascimentali affondavano
le radici nel XIV secolo: ad esempio le ricerche intuitive sullo spazio di Giotto, di Ambrogio Lorenzetti o dei miniatori francesi vennero approfondite e portate a risultati di
estremo rigore, fino ad arrivare a produrre risultati rivoluzionari.
Furono almeno tre gli elementi essenziali del nuovo stile:
•
formulazione delle regole della prospettiva lineare centrica, che organizzava lo
spazio unitariamente;
•
attenzione all'uomo come individuo, sia nella fisionomia e nell'anatomia che
nella rappresentazione delle emozioni;
•
ripudio degli elementi decorativi e ritorno all'essenzialità.
Per parlare di un'opera pienamente rinascimentale non basta la presenza di uno
solo di questi elementi, poiché il Rinascimento fu innanzitutto un nuovo modo di
pensare e raffigurare il mondo nella sua interezza. Per esempio in alcune opere di
Paolo Uccello, come il San Giorgio e il drago (1456), lo spazio è composto secondo le
regole della prospettiva; tuttavia, i personaggi non sono disposti in profondità, ma
semplicemente accostati e privi di ombre, come l'eterea principessa; diversamente
nella Crocefissione di San Pietro (1426) di Masaccio tutti gli elementi sono commisurati alla prospettiva, che determina le dimensioni di ciascuno.
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Un altro confronto, relativo all'attenzione all'uomo come individuo, si può effettuare tra la Madonna in trono col Bambino e angeli musicanti (1405-1410 circa) di
Gentile da Fabriano e la Sant'Anna Metterza (1426) sempre di Masaccio: nel primo
caso il volume è creato sovrapponendo gli strati di colore che creano ombre e luci in
maniera del tutto convenzionale (le parti chiare sono sempre le stesse: la canna del
naso, la fronte, il mento, qualunque sia la posizione della testa nel dipinto), come anche i lineamenti e le espressioni, mentre nel caso di Masaccio la costruzione del volto
nasce dalla conoscenza della reale struttura ossea, con un disporsi delle ombre studiato e consapevole che, nel caso del Bambino, coprono gran parte del viso.
La prospettiva
Ciascun artista del Rinascimento dosò secondo una propria misura personale gli
elementi base del nuovo stile, ispirandosi, in misura diversa, alla natura ed all'antico.
Il fattore più importante del Quattrocento fiorentino e italiano in generale, assurto
quasi a simbolo della stagione, è il problema prospettico.
La prospettiva è uno dei sistemi per rappresentare su una superficie uno spazio
tridimensionale e la posizione reciproca degli oggetti in esso contenuti.
Ai primi del secolo Filippo Brunelleschi mise a punto un metodo matematicogeometrico e misurabile per comporre lo spazio illusorio secondo la prospettiva lineare centrica, partendo dalle nozioni dell'ottica medievale e immaginando un nuovo
concetto di spazio: infinito, continuo, preesistente alle figure che lo occupano. La teoria nacque da due esperimenti pratici con tavolette disegnate, oggi perdute ma ricostruibili grazie alle descrizioni di Leon Battista Alberti. Una raffigurava il Battistero di
Firenze visto dal portale centrale di Santa Maria del Fiore ed aveva un cielo ricoperto
da carta argentata, in modo che riflettesse la vera luce atmosferica. Questa tavoletta
andava guardata attraverso uno specchio, mettendo un occhio su un foro sul retro
della tavoletta stessa. Lo specchio, che aveva la stessa forma della tavoletta, doveva
essere posto in maniera da contenerla tutta: se era più piccolo andava messo più lontano. Da qui si potevano calcolare le distanze con l'edificio vero tramite un sistema di
proporzioni di triangoli simili e i successivi rimpicciolimenti degli oggetti all'allontanarsi dallo spettatore. Con questo sistema si faceva forzatamente coincidere il punto
di vista col centro della composizione, ottenendo un'intelaiatura prospettica per creare una rappresentazione dove lo spazio si componeva illusionisticamente come quello
reale. Il sistema si basava, semplificando, sul fatto che le rette parallele sembravano
convergere verso un unico punto all'orizzonte, il punto di fuga: fissando il punto di
vista e la distanza si poteva stabilire in maniera matematica e razionale, tramite schemi grafici di rapida applicazione, la riduzione delle distanze e delle dimensioni.
La facilità di applicazione, che non richiedeva conoscenze geometriche di particolare raffinatezza, fu uno dei fattori chiave del successo del metodo, che venne adottato dalle botteghe con una certa elasticità e con modi non sempre ortodossi.
La prospettiva lineare centrica è solo uno dei modi con cui rappresentare la realtà, ma il suo carattere era particolarmente consono con la mentalità dell'uomo del Rinascimento, poiché dava origine a un ordine razionale dello spazio, secondo criteri
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stabiliti dagli artisti stessi. Se da un lato la presenza di regole matematiche rendeva la
prospettiva una materia oggettiva, dall'altro le scelte che determinavano queste regole erano di carattere perfettamente soggettivo, come la posizione del punto di fuga, la
distanza dallo spettatore, l'altezza dell'orizzonte. In definitiva la prospettiva rinascimentale non è nient'altro che una convenzione rappresentativa, che oggi è ormai così
radicata da apparire naturale, anche se alcuni movimenti del XIX secolo, come il cubismo, hanno dimostrato come essa sia soltanto un'illusione.
Architettura rinascimentale
L'architettura rinascimentale si sviluppò a Firenze, dove, durante il periodo romanico, si era mantenuta una certa continuità con le forme chiare e regolari dell'architettura classica. Il punto di svolta, che segna il passaggio dall'architettura gotica e
quella rinascimentale, coincide con la realizzazione della cupola del Duomo di Firenze, eseguita da Filippo Brunelleschi tra il 1420 ed il 1436. Tuttavia, la prima opera pie namente rinascimentale è lo Spedale degli Innocenti costruito dal medesimo Brunelleschi a partire dal 1419. A questo fecero seguito le basiliche di San Lorenzo e Santo Spi rito, la Sagrestia Vecchia e la Cappella dei Pazzi, opere nelle quali lo stile brunelle schiano diede origine a decorazioni in pietra serena applicate su impianti derivati dall'unione di forme geometriche elementari (quadrato e cerchio). L'arte del Brunelleschi
fu d'ispirazione per diversi architetti del secolo, come Michelozzo, Filarete, Giuliano
da Maiano e Giuliano da Sangallo; in particolare, quest'ultimo fissò i principi dell'arte
fortificatoria detta fortificazione alla moderna, della quale è considerato il fondatore
insieme col fratello Antonio da Sangallo il Vecchio e Francesco di Giorgio Martini.
Alcuni anni dopo l'esordio di Brunelleschi si registra l'attività di Leon Battista
Alberti, che a Firenze eseguì il Palazzo Rucellai e la facciata di Santa Maria Novella.
L'Alberti, profondamente influenzato dall'architettura romana, lavorò anche a Rimini
(Tempio Malatestiano) e Mantova (San Sebastiano e Sant'Andrea). Un suo allievo,
Bernardo Rossellino, si occupò del riassetto della cittadina di Pienza, una delle prime
trasformazioni architettoniche ed urbanistiche della storia del Rinascimento.
Il pieno Rinascimento invece fu essenzialmente romano, grazie all'opera di Bramante, Raffaello Sanzio e Michelangelo Buonarroti. Al primo si deve soprattutto il
progetto per la ricostruzione della basilica di San Pietro in Vaticano, con una croce
greca derivata dagli studi di Leonardo da Vinci sugli edifici a pianta centrale, ma che,
a sua volta, condizionò Antonio da Sangallo il Vecchio nella concezione della chiesa
di San Biagio a Montepulciano. Raffaello fu attivo nella costruzione di alcuni palazzi
e nel progetto di Villa Madama. Michelangelo invece intervenne nel progetto della
basilica vaticana apportando notevoli cambiamenti, realizzò la piazza del Campidoglio e ultimò il Palazzo Farnese avviato da Antonio da Sangallo il Giovane.
Il Rinascimento del XVI secolo è chiuso da alcune opere di Andrea Palladio, che
influenzarono notevolmente l'architettura europea (Palladianesimo e Neopalladianesimo): tra queste si ricordano la Basilica Palladiana, il Palazzo Chiericati e la Villa Capra (tra le prime costruzioni profane dell'era moderna ad avere come facciata un fronte di un tempio classico), a Vicenza, nonché la basilica di San Giorgio Maggiore e la
chiesa del Redentore a Venezia.
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Diffusione nelle città e corti italiane
Il Rinascimento nelle arti figurative nacque come una variante minoritaria nella
Firenze degli anni dieci-venti, diffondendosi poi con più decisione (e con forme più
ibride) nei decenni successivi. Tramite lo spostamento degli artisti locali si diffuse
gradualmente nelle altre corti italiane, prima in maniera sporadica, occasionale e generalmente con un seguito limitato tra gli artisti locali, poi, a partire dalla metà del secolo, con un impatto più prorompente, soprattutto da quando altri centri, fecondati
dal soggiorno di eminenti personalità, iniziarono ad essere a loro volta luoghi di irra diazione culturale. Tra questi nuovi fulcri di irradiazione della prima ora spiccarono,
per intensità, originalità di contributi e raggio di influenza, Padova e Urbino.
Tra le caratteristiche più affascinanti del Rinascimento nel Quattrocento ci fu sicuramente la ricchezza di varianti e declinazioni che contraddistinsero la produzione
artistica delle principali personalità e delle varie zone geografiche. A partire dagli
strumenti messi in campo dai rinnovatori fiorentini (la prospettiva, lo studio dell'antico, ecc.) si arrivò a numerose articolazioni formali ed espressive, grazie all'apporto
fondamentale di quei mediatori, che stemperarono le novità più rigorose in un linguaggio legato alle tradizioni locali e al gusto della committenza. Ad esempio si potevano innestare regole rinascimentali su una griglia gotica, oppure porre l'accento su
una sola delle componenti del linguaggio rinascimentale in senso stretto. Un esempio
di flessibilità è dato dall'uso della prospettiva, che da strumento per conoscere e indagare il reale, divenne talvolta un modo per costruire favolose invenzioni di fantasia.
Negli anni ottanta del Quattrocento il linguaggio rinascimentale era ormai divenuto un linguaggio comune delle corti, sinonimo di erudizione, raffinatezza e cultura.
Fondamentale fu l'invio, da parte di Lorenzo il Magnifico, di grandi artisti come ambasciatori culturali di Firenze, i quali spazzarono via anche le ultime resistenze gotiche in zone come il Ducato di Milano e il Regno di Napoli. La decorazione della cap pella Sistina, in quegli anni, fu il suggello della predominanza artistica fiorentina, ma
altre scuole ormai registravano consensi fondamentali, quali Venezia e l'Umbria. Lo
straordinario fermento culturale preparò, già alla fine del secolo, il terreno per i geni
del rivoluzionario Rinascimento maturo, o "Maniera moderna": al crollo, già negli
anni novanta, degli ideali, delle certezze e degli equilibri politici che erano stati alla
base del pensiero umanistico, gli artisti risposero con modi più concitati, originali,
stravaganti, capricciosi e frivoli, in cui l'ordinata prospettiva geometrica era ormai un
dato di fatto, se non addirittura una zavorra da aggirare.
All'inizio del Cinquecento alcuni straordinari maestri seppero raccogliere le inquietudini della nuova epoca trasfigurandole in opere di grande respiro monumentale e altissimi valori formali: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello e il duetto
Giorgione-Tiziano, tutti veri maestri universali, rinnovarono il modo di rappresentare
la figura umana, il movimento e il sentimento a un livello tale da segnare un punto di
non-ritorno che divenne il modello imprescindibile di riferimento per tutta l'arte europea, spiazzando la maggior parte dei vecchi maestri allora attivi. Chi non seppe rinnovarsi fu allontanato dai grandi centri, accontentandosi forzatamente di un'attività
nei meno esigenti centri di provincia. Eventi tragici come il Sacco del 1527 portano
alla dispersione degli artisti, garantendo però una nuova fioritura periferica. Di lì a
poco un nuovo stile, nato da un'interpretazione estrema della Maniera moderna, con64
quistò l'Italia e l'Europa: il manierismo.
Firenze
Firenze, sin dall'epoca romanica, restò legata a forme di classicismo, che impedirono l'attecchire di un gusto pienamente gotico, come spopolava invece nella vicina
Siena. All'inizio del XV secolo si possono immaginare due strade che si prospettavano
agli artisti desiderosi di innovare: quella del gusto Gotico internazionale e quella del
recupero più rigoroso della classicità. Queste due tendenze si notano convivere già
nel cantiere della Porta della Mandorla (dal 1391), ma fu soprattutto con il concorso
indetto nel 1401 per scegliere l'artista a cui affidare la realizzazione della Porta Nord
del Battistero, che i due indirizzi si fecero più chiari, nelle formelle di prova realizzate
da Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi. La prima fase del Rinascimento, che arrivò fino a circa gli anni trenta del XV secolo, fu un'epoca di grande sperimentazione,
caratterizzata da un approccio tecnico e pratico dove le innovazioni e i nuovi traguardi non rimanevano isolati, ma venivano ripresi e sviluppati dai giovani artisti, in uno
straordinario crescendo che non aveva pari in nessun altro paese europeo. Tre grandi
maestri, Filippo Brunelleschi per l'architettura, Donatello per la scultura e Masaccio
per la pittura, avviarono una radicale rilettura della tradizione precedente, attualizzandola con una rigorosa applicazione razionale di strumenti matematico-geometrici:
prospettiva, studio delle proporzioni del corpo, recupero dei modi classici e un rinnovato interesse verso il reale, inteso sia come indagine psicologica che come rappresentazione della quotidianità.
L'ambiente fiorentino apprezzò in maniera non unanime le novità e per tutti gli
anni venti ebbero largo successo artisti legati alla vecchia scuola come Lorenzo Monaco e Gentile da Fabriano. I primi seguaci di Masaccio, la cosiddetta "seconda generazione", furono Filippo Lippi, Beato Angelico, Domenico Veneziano, Paolo Uccello e
Andrea del Castagno, che presto presero strade individuali nel campo artistico. Ciascuno di loro, con i rispettivi viaggi (il Veneto, Roma, l'Umbria, le Marche), esportò le
novità rinascimentali e sebbene nessuno registrò immediatamente un vasto seguito,
essi prepararono il terreno alla ricezione della successiva ondata di influenze fiorentina, quella sostanziale degli anni '50. Più successo, in termini di duratura influenza,
ebbero Donatello a Padova (che influenzò soprattutto, per assurdo, la scuola pittorica
locale) e Piero della Francesca (allievo di Domenico Veneziano) a Urbino. Accanto
questi grandi maestri operarono poi con successo una serie di figure di mediazione,
artisti di grande valore che seppero smussare le punte più estreme del nuovo linguaggio adattandole al contesto sociale in cui lavorano: nella prima ora, si registrarono Lorenzo Ghiberti in scultura, Masolino da Panicale in pittura, e Michelozzo in architettura.
Teorico del Rinascimento fu Leon Battista Alberti, i cui trattati De pictura (1436),
De re aedificatoria (1452) e De Statua (1464) furono fondamentali per la sistemazione
e la diffusione delle idee rinascimentali. A lui risalgono idee come quella dell'armonizzazione di copia e varietas, intese come la profusione e la diversità dei soggetti.
Negli anni centrali del secolo si registrò una fase più intellettualistica delle precedenti conquiste. A Firenze dopo il ritorno di Cosimo de' Medici in città nel 1434, si instaurò di fatto una signoria. Se da una parte le commissioni pubbliche si ispiravano
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alla sobrietà e all'utilità, come il palazzo Medici e il convento di San Marco di Michelozzo, per le opere di destinazione privata si andava affermando un gusto intellettualistico nutrito da ideali neoplatonici: ne è un esempio il David di Donatello. Le arti fi gurative perdevano la loro iniziale carica ideale e rivoluzionaria per tingersi di nostal gie letterarie e interessi archeologici, cioè di rievocazione dell'antico intellettualistica e
fine e sé stessa. Interpreti della misura tra idealizzazione, naturalismo e virtuosismo
furono nella scultura Benedetto da Maiano e nella pittura Domenico Ghirlandaio.
Per gli artisti della cosiddetta "terza generazione" la prospettiva era ormai un
dato acquisito e le ricerche si muovevano ormai verso altri stimoli, quali i problemi
dinamici delle masse di figure o la tensione delle linee di contorno. Le figure plastiche
e isolate, in un equilibrio perfetto con lo spazio misurabile e immobile, lasciavano ormai spazio a giochi continui di forme in movimento, con maggiore tensione e intensità espressiva. Il rapporto di Lorenzo il Magnifico con le arti fu diverso da quello del
nonno Cosimo, che aveva privilegiato la realizzazione di opere pubbliche. Da un lato
per "il Magnifico" l'arte ebbe un'altrettanto importante funzione pubblica, ma rivolta
piuttosto agli Stati esteri, quale ambasciatrice del prestigio culturale di Firenze, presentata come una "novella Atene"; dall'altro lato Lorenzo, con il suo colto e raffinato
mecenatismo, impostò un gusto per oggetti ricchi di significati filosofici, stabilendo
spesso un confronto, intenso e quotidiano, con gli artisti della sua cerchia, visti quali
sommi creatori di bellezza. Ciò determinò un linguaggio prezioso, estremamente sofisticato ed erudito, in cui i significati allegorici, mitologici, filosofici e letterari venivano legati in maniera complessa, pienamente leggibile solo dall'élite che ne possedeva
le chiavi interpretative, tanto che alcuni significati delle opere più emblematiche oggi
ci sfuggono. L'arte si distaccò dalla vita reale, pubblica e civile, focalizzandosi su ideali di evasione dall'esistenza quotidiana.
Cinquecento
Le inquietanti fratture aperte nella società dalla predicazione di Girolamo Savonarola portarono, nel 1493, alla cacciata dei Medici ed all'instaurazione di una repubblica teocratica. La condanna al rogo del frate non fece che acuire i contrasti interni e
la crisi delle coscienze, come si rileva anche nei tormenti della produzione tarda di
Sandro Botticelli o nelle opere di Filippino Lippi e Piero di Cosimo. Ma in quel periodo nuovi artisti si andarono guadagnando la ribalta delle scene, tra cui Leonardo da
Vinci, che usava più delicati trapassi chiaroscurali (lo "sfumato") e legami più complessi e sciolti tra le figure, arrivando anche a rinnovare iconografie ormai consolidate
riflettendo sulla reale portata degli eventi descritti, come l'Adorazione dei Magi.
Un altro giovane Michelangelo Buonarroti, studiò approfonditamente i fondatori
dell'arte toscana (Giotto e Masaccio) e la statuaria antica, cercando di rievocarla come
materia viva, non come fonte di repertorio. Già nelle sue prime prove appare straordinaria la sua capacità di trattare il marmo per raggiungere effetti ora di frenetico movimento (Battaglia dei centauri), ora di morbido illusionismo (Bacco). Sotto Pier Soderini, gonfaloniere a vita, la decorazione di Palazzo Vecchio divenne un cantiere di inesauribile sintesi creativa, con Leonardo (tornato appositamente da Milano), Michelangelo, Fra Bartolomeo e altri. Nel frattempo un giovane Raffaello guadagna stima nella
committenza locale. Sono gli anni di capolavori assoluti, quali la Gioconda, il David
di Michelangelo e la Madonna del cardellino, che attraggono in città numerosi artisti
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desiderosi di aggiornarsi. Velocemente però i nuovi maestri lasciarono la città, chiamati da ambiziosi governanti che in essi vedevano la chiave per celebrare il proprio
trionfo politico tramite l'arte: Leonardo tornò a Milano e poi andò in Francia, Michelangelo e Raffaello vennero assoldati da Giulio II a Roma.
Il ritorno dei Medici, nel 1512, fu sostanzialmente indolore. I nuovi artisti non
potevano sfuggire dal confronto con le opere lasciate in città dai sommi maestri della
generazione, precedente, traendone spunto e magari tentando una sintesi tra gli stili
di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Fra Bartolomeo trovò forme nelle solenni e
monumentali la propria via, Andrea del Sarto nella conciliazione degli estremi, mentre personalità più inquiete e tormentate, come Pontormo e Rosso Fiorentino, si lasciarono affascinare da un nuovo senso anticlassico del colore e del movimento, gettando
le basi per il manierismo.
Roma
Col rientro dei papi dalla cattività avignonese si rese subito evidente come a
Roma, abbandonata per decenni al suo destino e priva di un moderno complesso monumentale degno ad accogliere il pontefice, fosse necessario un programma di sviluppo artistico e architettonico, in grado di ricollegarsi al passato imperiale della città e
dare splendore, anche da un punto di vista politico, al soglio di Pietro.
Un tale ambizioso programma fu avviato da Martino V e proseguito con Eugenio
IV e Niccolò V. Gli artisti affluivano quasi sempre dalle migliori fucine forestiere, so prattutto Firenze (Donatello, Masolino, Angelico, Filarete, Alberti). L'incomparabile
retaggio antico della città forniva di per sé un motivo di attrazione per gli artisti, che
spesso vi si recavano per arricchire la propria formazione (come Brunelleschi). Gradualmente la città, da passiva fonte di ispirazione con le sue rovine, divenne un luogo
di incontro e fusione di esperienze artistiche diverse, che posero le premesse per un
linguaggio figurativo che aspirava all'universalità.
Una svolta qualitativa si ebbe sotto Sisto IV, che promosse l'edificazione di una
cappella papalina degna di rivaleggiare con quella avignonese. L'enorme Cappella Sistina venne decorata da un gruppo di artisti fiorentini inviati appositamente da Lorenzo il Magnifico, che crearono un ciclo che per vastità, ricchezza e ambizione non
aveva precedenti. In queste opere si nota un certo gusto per la decorazione sfarzosa,
con un ampio ricorso all'oro, che ebbe il suo trionfo nei successivi pontificati di Innocenzo VIII e Alessandro VI, dominati dalla figura di Pinturicchio.
Il Cinquecento si aprì con la prima di una serie di forti personalità al papato,
Giulio II. Perfettamente conscio del legame tra arte e politica, volle al lavoro i migliori
artisti attivi in Italia, che solo in lui potevano trovare quella commistione di grandiose
risorse finanziarie e smisurata ambizione in grado di far partorire opere di estremo
prestigio. Arrivarono così Michelangelo da Firenze e Bramante e Raffaello da Urbino
che, spesso in competizione l'uno con l'atro, crearono capolavori universali quali la
volta della Cappella Sistina, gli affreschi delle Stanze Vaticane e la ricostruzione della
basilica di San Pietro.
I successori di Giulio continuarono la sua opera, avvalendosi ancora di Raffaello,
di Michelangelo e di altri artisti, tra cui il veneziano Sebastiano del Piombo o il senese
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Baldassarre Peruzzi. Gradualmente l'arte si evolse verso una più raffinata rievocazione dell'antico, combinata da elementi mitologici e letterari, e verso una complessità
sempre più marcata e monumentale, suggellata dagli ultimi lavori del Sanzio (come
la Stanza dell'Incendio di Borgo) e da quelli della sua scuola, che proseguirono la sua
opera oltre la sua morte. Tra i raffaelleschi si trova un primo artista romano di primo
piano, Giulio Pippi, detto appunto Giulio Romano.
L'epoca di Clemente VII fu più che mai splendida, con la presenza in città di in quieti maestri come Cellini, Rosso Fiorentino, Parmigianino. Il disastroso Sacco di
Roma (1527) mise drammaticamente fine a queste sperimentazioni, facendo fuggire
gli artisti e dimostrando la vulnerabilità di un'istituzione considerata fino ad allora intoccabile come il papato. Sotto Paolo III le inquietudini e le incertezze nate dalla situazione contemporanea ebbero una straordinaria trasfigurazione nel Giudizio Universale di Michelangelo, dove prevale un senso di smarrimento, di caos, di instabilità e
d'angosciosa incertezza, come davanti a una catastrofe immane e soverchiante, che
provoca disagio ancora oggi e tanto più dovette provocarlo agli occhi scioccati dei
contemporanei.
Veneto
Quattrocento
Nella prima metà del Quattrocento diversi artisti fiorentini visitarono Venezia e
Padova, senza tuttavia attecchire molto nelle scuole locali, legate soprattutto al retaggio bizantino. A partire dal 1443 Donatello si stabilì però a Padova, facendone in un
certo senso la capitale del Rinascimento nell'Italia settentrionale, che con un effetto a
catena si propagò velocemente in numerosi centri limitrofi. Città della prestigiosa
Università e del culto di sant'Antonio da Padova, sviluppò un gusto "archeologico"
per l'antichità, legato cioè a una rievocazione il più possibile filologica (in realtà più
fantasiosa e idealizzata che reale), legata a tutti i tipi di fonti e reperti disponibili, soprattutto epigrammi. La cultura averroistica-aristotelica e il gusto per l'antiquariato
romano-imperiale che fin dal Duecento, col soggiorno di Petrarca, era stato prediletto
dai Da Carrara, creò un clima favorevole all'attecchire dell'arte rivoluzionaria di Donatello, esaltato da uomini di cultura come Ciriaco d'Ancona, Felice Feliciano e Giovanni Marcanova. Lo scultore fiorentino si distinse per il monumento Gattamelata e
l'Altare del Santo, opere espressive e forti, scevre da orpelli decorativi e dalla retorica
gotica.
A parte Bartolomeo Bellano, furono soprattutto i pittori a cogliere la lezione di
Donatello, con la bottega di Francesco Squarcione che divenne la fucina di numerosi
maestri della futura generazione, in maniera diretta o indiretta. Tra gli allievi diretti
Marco Zoppo, Giorgio Schiavone e Carlo Crivelli, attivi poi soprattutto in area adriatica, Michael Pacher, primo artista "rinascimentale" in area tedesca, e Andrea Mantegna, che con gli affreschi agli Eremitani creò un modo nuovo di intendere la monumentalità del mondo romano. Ai modelli padovani si rifecero poi indirettamente artisti veneziani (i Vivarini e Giovanni Bellini), ferraresi (Cosmé Tura), lombardi (Vincenzo Foppa), dalmati (Giorgio di Matteo).
Nel frattempo a Venezia si registravano lenti passi verso le novità rinascimentali,
come con l'adozione della prospettiva da parte di Jacopo Bellini. Suo figlio Giovanni,
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dopo essere stato influenzato da Mantegna (suo cognato), avviò quella rivoluzione
del colore che divenne poi l'elemento più riconoscibile della scuola veneziana. Ispirato dal passaggio di Antonello da Messina in Laguna (1475-1476), avviò ad usare una
luce dorata che creasse quell'impalpabile senso dell'atmosfera, dell'aria che circola,
procedendo dalle figure al paesaggio dello sfondo, ora trattato con sublime finezza
grazie all'adozione della prospettiva aerea inventata dai primitivi fiamminghi e da
Leonardo. All'ombra di Bellini lavorarono suo fratello Gentile e Vittore Carpaccio,
protagonisti della prima stagione dei "teleri" cioè le grandi decorazioni pittoriche su
tela delle csedi della confraternite locali.
Architettura e scultura si avvalevano soprattutto dell'iniziativa portata avanti dai
grandi cantieri di San Marco e di Palazzo Ducale, con artisti soprattutto lombardi.
Mauro Codussi, conoscitore dei modi fiorentini, portò per primo lo studio della geometria nella razionalizzazione degli edifici.
Cinquecento
Fu soprattutto nel secolo successivo, con Jacopo Sansovino, che la città si dotò di
un nuovo volto rinascimentale, creando un avveniristico (per l'epoca) progetto urbanistico nella riqualificazione di piazza San Marco.
Il nuovo secolo si era aperto col soggiorno di Leonardo da Vinci e di Albrecht
Dürer, apportatori di novità che colpirono molto l'ambiente artistico veneziano. Da
Leonardo Giorgione sviluppò un modo di colorire che non delimita puntualmente i
contorni tra figure e sfondo, prediligendo il risalto dei campi di colore e un'intonazione pacata e malinconica per le sue opere. Si tratta della rivoluzione del tonalismo, alla
quale aderì anche il giovane Tiziano, salvo poi distaccarsene favorendo immagini più
immediate e dinamiche, con colori più netti, dai risvolti quasi espressionistici. Anche
il giovane Sebastiano del Piombo si avvalse dell'esempio di Giorgione, dando un taglio più moderno alle sue opere, come la Pala di San Giovanni Crisostomo dall'impianto asimmetrico. Un altro giovane promettente fu Lorenzo Lotto, che si ispirò soprattutto a Dürer nell'uso più spregiudicato del colore e della composizione. La partenza di Sebastiano e del Lotto lasciò a Tiziano una sorta di monopolio nelle commissioni artistiche veneziane, soddisfacendo pienamente i committenti con opere capaci
di gareggiare, a distanza, con le migliori realizzazioni del Rinascimento romano, quali
l'Assunta per la basilica dei Frari. Quest'opera, col suo stile grandioso e monumentale, fatto di gesti eloquenti di un uso del colore che trasmette un'energia senza precedenti, lasciò in un primo momento tutta la città stupefatta, aprendo poi le porte all'artista delle più prestigiosi commissioni europee.
Per decenni nessun artista fu in grado di gareggiare con Tiziano sulla scena veneziana, mentre nell'entroterra si svilupparono alcune scuole che avrebbero in seguito
condotto a nuovi importanti sviluppi, come la scuola bergamasca e bresciana, che
fuse elementi veneti col tradizionale realismo quotidiano lombardo, da cui sarebbe
nato il genio rivoluzionario di Caravaggio.
Nella seconda metà del secolo i migliori artisti svilupparono spunti tizianeschi,
ora amplificando una tecnica ruvida e dalla pennellata espressiva (Tintoretto), ora ingrandendo la monumentalità delle figure in composizioni di ampio respiro (Paolo
Veronese). Sul finire del secolo l'attività di architetto di Andrea Palladio concluse
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idealmente la stagione del classicismo, arrivando a capolavori di assoluta perfezione
formale che furono modelli di imprescindibile prestigio soprattutto all'estero, col palladianesimo.
Marche
Quando si parla del Rinascimento nelle Marche è inevitabile pensare immediatamente alla città di Urbino e al suo ducato, culla di un fenomeno artistico che produsse
capolavori assoluti nella pittura e nell'architettura e luogo di nascita di due tra i massimi interpreti dell'arte italiana: Raffaello e Bramante. Ciò non deve però far scordare
altri centri ed altri artisti che diedero un importante contributo al Rinascimento italiano. Si pensi ad esempio a Carlo Crivelli e Lorenzo Lotto, due veneti che trovarono
nelle Marche una nuova patria, dove esprimere al meglio la loro visione del mondo;
si pensi anche a Loreto, il cui lungo cantiere attrasse per decenni scultori, architetti e
pittori quali Bramante, Andrea Sansovino, Melozzo da Forlì e Luca Signorelli. Inoltre
si deve ricordare che la Cittadella di Ancona e le rocche del Montefeltro sono tra le
più importanti opere di architettura militare del Rinascimento, dovute rispettivamente ad Antonio da Sangallo il giovane e a Francesco di Giorgio Martini. La meritata
fama del Ducato di Urbino non deve infine far scordare che anche i duchi di Cameri no promossero le arti; la città ospitò anzi un'importante scuola di pittura del Quattrocento.
Le Marche nel Quattrocento furono terreno fertile per il cosiddetto "Rinascimento adriatico" diffuso tra Dalmazia, Venezia e Marche; in esso la riscoperta dell'arte
classica, soprattutto filtrata attraverso la scultura, è accompagnata da una certa continuità formale con l'arte gotica. Per ciò che riguarda la pittura, questa corrente ha origine nel rinascimento padovano.
Urbino
Alla corte di Federico da Montefeltro a Urbino si sviluppò una prima alternativa
al Rinascimento fiorentino, legata soprattutto allo studio della matematica e della
geometria. La presenza in città di Leon Battista Alberti, Luciano Laurana, Francesco
di Giorgio Martini, Piero della Francesca e Luca Pacioli, coinvolti nello straordinario
progetto del Palazzo Ducale, sviluppò una predilezione per le forme nitide e di impeccabile perfezione formale, che furono un importante esempio per numerose altre
scuole. Qui Federico chiamo anche artisti stranieri (Pedro Berruguete e Giusto di
Gand) e fece sviluppare l'arte della tarsia indipendentemente dalla pittura, legandola
alla rappresentazione virtuosistica di nature morte a trompe l'oeil e paesaggi prospettici.
Raffaello nella sua città natale apprese l'amore per la purezza pierfrancescana e
per le finezze ottiche del maestro delle Città ideali. Tra gli artisti locali, fiorirono anche Fra Carnevale, Bartolomeo della Gatta e Giovanni Santi, padre di Raffaello. Alla
scuola degli architetti di palazzo si formò Donato Bramante, capace di sorprendere
Milano e Roma con le sue geniali intuizioni.
Alla corte del figlio di Federico, Guidobaldo, lavorò Raffaello. Nel Cinquecento i
Della Rovere continuarono la tradizione dei Montefeltro e tennero una corte rinomata
in Italia, celebrata come una delle più feconde da Baldassarre Castiglione e per la qua70
le lavorò Tiziano. Francesco Maria I Della Rovere preferì Pesaro a Urbino e vi fece ristrutturare il Palazzo ducale e costruire la villa Imperiale, usando artisti come Girolamo Genga, Dosso e Battista Dossi, Raffaellino del Colle, Francesco Menzocchi e Agnolo Bronzino.
Da ricordare inoltre è la straordinaria fioritura della maiolica tra Urbino, Pesaro
e Casteldurante.
Lombardia
Con la chiamata di Leon Battista Alberti e di Andrea Mantegna alla corte di Ludovico Gonzaga, Mantova cambiò volto. L'Alberti applicò ad alcuni edifici sacri il linguaggio romano imperiale, come nella chiesa di San Sebastiano e nella basilica di Sant'Andrea. Contemporaneamente con la decorazione della Camera Picta nel Castello di
San Giorgio, Andrea Mantegna diresse i suoi studi verso una prospettiva dagli esiti illusionistici. Al tempo di Isabella d'Este la corte mantovana fu una delle più raffinate
in Italia, dove Mantegna ricreava i fasti dell'impero romano (i Trionfi di Cesare) e la
marchesa collezionava opere di Leonardo da Vinci, Michelangelo, Perugino, Tiziano,
Lorenzo Costa e Correggio. L'amore per le arti venne pienamente trasmesso al figlio
Federico, che nel 1524 impresse una svolta "moderna" all'arte di corte con l'arrivo di
Giulio Romano, allievo di Raffaello, che creò Palazzo Te affrescandovi la celebre Sala
dei Giganti.
Milano invece fu interessata dalla cultura rinascimentale solo dall'epoca di Francesco Sforza, in cui l'arrivo di Filarete e la costruzione e decorazione della cappella
Portinari portò le novità fiorentine aggiornate alla cultura locale, amante dello sfarzo
e della decorazione. Numerose furono le imprese avviate in quegli anni, dal Duomo
di Milano alla Certosa di Pavia, dalla piazza di Vigevano al castello di Pavia. Fu però
soprattutto con la generazione successiva che la presenza di Bramante e Leonardo da
Vinci impresse alla corte di Ludovico il Moro una decisa svolta in senso rinascimentale. Il primo ricostruì, tra l'altro, la chiesa di Santa Maria presso San Satiro (1479-1482
circa), dove emergeva già il problema dello spazio centralizzato. L'armonia dell'insieme era messa a rischio dall'insufficiente ampiezza del capocroce che, nell'impossibilità di estenderlo, venne "allungato" illusionisticamente, costruendo una finta fuga prospettica in stucco in uno spazio profondo meno di un metro, con tanto di volta cassettonata illusoria.
Leonardo invece, dopo aver faticato a entrare nei favori del duca, fu a lungo impegnato nella realizzazione di un colosso equestre, che non vide mai la luce. Nel 1494
Ludovico il Moro gli assegnò la decorazione di una delle pareti minori del refettorio
di Santa Maria delle Grazie, dove Leonardo realizzò l'Ultima Cena, entro il 1498. L'artista indagò il significato più profondo dell'episodio evangelico, studiando le reazioni
e i "moti dell'animo" all'annuncio di Cristo del tradimento da parte di uno degli apostoli, con le emozioni che si diffondono violentemente tra gli apostoli, da un capo all'altro della scena, travolgendo il tradizionale allineamenti simmetrico delle figure e
raggruppandole a tre a tre, con Cristo isolato al centro (una solitudine sia fisica che
psicologica), grazie anche all'incorniciatura della scatola prospettica. Spazio reale e
spazio dipinto appaiono infatti legati illusionisticamente, grazie anche all'uso di una
luce analoga a quella reale della stanza, coinvolgendo straordinariamente lo spettato71
re, con un procedimento analogo a quanto sperimentava in quegli anni Bramante in
architettura.
La tumultuosa scena politica, con la cacciata degli Sforza e la dominazione prima
francese e poi spagnola, no scoraggiò gli artisti, che anzi tornarono a più riprese a Milano, compreso Leonardo. Il Cinquecento fu dominato in pittura dalla scuola dei leonardeschi, da cui si distaccarono alcune personalità come Gaudenzio Ferrari e i bresciani Romanino, Moretto e Savoldo, seguiti qualche decennio dopo da Giovan Battista Moroni. La seconda metà del secolo fu dominata dalla figura di carlo Borromeo,
che promosse un'eloquente arte controriformata, trovando come interprete principale
Pellegrino Tibaldi.
Emilia
Il più vitale centro emiliano del Quattrocento fu Ferrara, dove alla corte degli
Este si incontravano le più disparate personalità artistiche, da Pisanello a Leon Battista Alberti, da Jacopo Bellini a Piero della Francesca, dal giovane Andrea Mantegna a
stranieri di prim'ordine come Rogier van der Weyden e Jean Fouquet. Fu durante l'epoca di Borso d'Este (al potere dal 1450 al 1471) che i molteplici fermenti artistici della
corte si trasformarono in uno stile peculiare, soprattutto in pittura, caratterizzato dalla tensione lineare, dall'esasperazione espressiva, dalla preziosità estrema unita con
una forte espressività. Il nascere della scuola ferrarese si coglie nelle decorazioni dello
Studiolo di Belfiore e si sviluppò negli affreschi del Salone di Mesi di Palazzo Schifanoia, dove emersero le figure di Cosmè Tura e, in un secondo momento, Francesco
del Cossa ed Ercole de' Roberti. I ferraresi ebbero un'influenza fondamentale anche
nella vicina Bologna, dove vennero ammirati dagli artisti locali come Niccolò dell'Arca, che proprio all'esempio di essi deve l'esplosione di violento sentimento del celebre
Compianto sul Cristo morto.
A Bologna aveva già lasciato il suo capolavoro Jacopo della Quercia (la Porta
Magna della basilica di San Petronio), opera che fu recepita veramente solo da Michelangelo, che qui si trovò esule decenni dopo. Lo scultore fiorentino fu solo il primo tra
numerosi artisti che di passaggio in città vi lasciarono i proprio capolavori, ma per
avere una valida "scuola bolognese" si dovette aspettare il Cinquecento, quando attorno agli affreschi dell'oratorio di Santa Cecilia si svilupparono nuovi talenti tra cui
spiccava Amico Aspertini, autore di una personale rivisitazione di Raffaello con un'estrova vena espressiva, ai limiti del grottesco.
Anche nel Cinquecento Ferrara si confermò come centro esigente e all'avanguardia in campo artistico. Alfonso d'Este fu un fecondo committente di Raffaello e di Tiziano, mentre tra gli artisti locali fece emergere il Garofalo e soprattutto Dosso Dossi.
L'altro centro emiliano che beneficiò di un'importante scuola fu Parma. Dopo un
sonnacchioso Quattrocento, il nuovo secolo fu un crescendo di novità e grandi maestri, con Filippo Mazzola, il Correggio e Parmigianino.
Romagna
La Romagna invece ebbe un lampo sulla scena artistica con la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta a Rimini. Egli chiamò a lavorare in città Leon Battista Alberti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca, che crearono opere marcatamente
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celebrative del committente, alla cui morte nessuno raccolse però l'eredità.
L'altro centro di una certa importanza fu Forlì, dove l'esempio di Piero e degli
urbinati fu stimolo fecondo per Melozzo e le sue visioni da sott'in su, le prime in Ita lia, nonché per Marco Palmezzano.
Umbria
L'Umbria, frammentata in più entità politiche, ebbe diversi tempi di adesione al
gusto rinascimentale da centro a centro. In ogni caso si registrò spesso una prima fase
di assorbimento passivo, generante solo in un secondo momento una partecipazione
attiva alle novità. Tra i primi e più significativi esempi ci fu la Perugia dei Baglioni,
dove lavorarono numerosi artisti fiorentini, senesi e urbinati.
Poco prima della metà del secolo si registrano già alcuni pittori maturi e attivi in
regione, capaci di filtrare alcuni elementi innovativi nel proprio stile: Giovanni Boccati, Bartolomeo Caporali e Benedetto Bonfigli. A Piero della Francesca si rifaceva la prima opera inequivocabilmente rinascimentale, le otto tavolette delle Storie di san Bernardino, in cui lavorò il giovane Pietro Perugino, artista formatosi nella bottega del
Verrocchio a Firenze e interessato alle ultime novità dalle Fiandre, in particolare l'opera di Hans Memling. Fu lui il primo a sviluppare quello stile "dolce e soave" che
ebbe una notevole fortuna negli ultimi decenni del Quattrocento. I suoi dipinti religiosi, con la loro indefinita caratterizzazione di personaggi e luoghi, intonati a un
tono lirico e contemplativo, con una morbida luce soffusa, un chiaroscuro che evidenzia la rotondità delle forme, colori ricchi, assenza di drammaticità nelle azioni, paesaggi idilliaci e teatrali architetture di sfondo. Attivissimo a Firenze e a Perugia, dove
teneva bottega contemporaneamente, fu tra i protagonisti a Roma della prima fase
della decorazione della Cappella Sistina.
Suo allievo fu Pinturicchio, che sviluppò una pittura simile ma sovrabbondante
nella decorazione con motivi all'antica a dorature. Approfittando della temporanea
mancanza di maestri a Roma dopo la partenza dei frescanti della Sistina (1482), fu in
grado di organizzare un'efficiente bottega che conquistò importanti commissioni sotto Innocenzo VIII e Alessandro VI.
A Orvieto la decorazione del Duomo raggiunse un culmine con l'arrivo di Luca
Signorelli, che creò un celebre ciclo di affreschi nella Cappella di San Brizio con le Storie dell'umanità alla fine dei tempi, un tema millenaristico particolarmente appropriato all'incipiente scadere del secolo (fu avviato nel 1499).
Ai centri umbri è legata anche la prima attività di Raffaello Sanzio, originario di
Urbino e menzionato per la prima volta come "maestro" nel 1500 (a circa diciassette
anni), per una pala d'altare destinata a Città di Castello. Nella stessa città dipinse altre
tavole destinate a varie chiese, in cui traspaiono evidenti i debiti col Perugino, con
una ripresa dei suoi modelli e schemi compositivi, aggiornati però con un disegno più
attento al dato naturale di espressioni e atteggiamenti.
Toscana fuori Firenze
Per ovvie ragioni, la Toscana al di fuori di Firenze fu interessata dal continui
scambi col capoluogo, con gli artisti locali che andavano a formarsi nel centro principali e i committenti di provincia che si rivolgevano alle botteghe fiorentine per le loro
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opere. Fu così che a Pescia e a Pistoia si registrarono le prime architetture di matrice
brunelleschiana fuori da Firenze, oppure che a Prato lavorò per un decennio Filippo
Lippi compiendo una fondamentale svolta artistica, mentre Sansepolcro venne ravvivata dalla presenza di Piero della Francesca, attivo dopotutto anche a Firenze. L'unica
città fondata ex novo di tutto il Rinascimento fu Pienza, realizzata da Bernardo Rossellino, su commissione di Pio II. Qua è là nella regione vennero portate avanti le ri flessioni sugli edifici a pianta centrale. Vitalissima fu poi Cortona, terra di maestri
quali Luca Signorelli e Bartolomeo della Gatta.
Un caso a parte fu Siena, erede di una stagione artistica di altissimo livello durante il medioevo. Visitata precocemente da Donatello, già ai primi del Quattrocento
Jacopo della Quercia vi sviluppò un'originale sintesi artistica che non può più essere
definita "gotica", pur non rientrando nelle tradizionali caratteristiche del Rinascimento fiorentino. In pittura il confine fra gotico e Rinascimento scivolò sempre su una sottile linea, senza una frattura netta come a Firenze. Maestri come Giovanni di Paolo, il
Sassetta, il Maestro dell'Osservanza si mossero sicuramente nell'ambito gotico, ma i
loro risultati, con le figure eleganti e sintetiche, la luce chiarissima, la tavolozza tenue,
furono sicuramente d'esempio per maestri rinascimentali come Beato Angelico e Piero della Francesca. Altri svilupparono una precoce adesione all'impostazione prospettica già negli anni trenta/quaranta del Quattrocento, come i frescanti del Pellegrinaio
di Santa Maria della Scala, tra cui il polivalente Lorenzo Vecchietta.
Molti artisti senesi trovarono altrove la propria fortuna, come Agostino di Duccio, Francesco di Giorgio o Baldassarre Peruzzi.
Nel Cinquecento la città conobbe un notevole sviluppo sotto la signoria di Pandolfo Petrucci. Il principale cantiere artistico era ancora il Duomo, dove lavorarono
anche Michelangelo, nel 1501, e Pinturicchio, nel 1502 affrescando la Libreria Piccolomini e usando, in parte, disegni del giovane Raffaello. Grande impegno veniva inoltre
profuso nel completamento del pavimento istoriato. Importanti sviluppi si ebbero con
l'arrivo in città del pittore piemontese Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, che
portò uno stile aggiornato alle novità leonardesche che aveva visto a Milano, ma fu
soprattutto Domenico Beccafumi a creare uno stile sperimentale basato sugli effetti di
luce, di colore e di espressività. Nel 1553, la città venne sanguinosamente espugnata
da Cosimo I de' Medici, perdendo la sua secolare indipendenza e, praticamente, anche il suo ruolo di capitale artistica.
Piemonte e Liguria
All'inizio del Quattrocento zone come il Piemonte e la Liguria vennero interessate dalla cosiddetta "congiuntura Nord-Sud", una corrente in cui gli elementi fiamminghi e mediterranei si fondevano insieme, favoriti dai commerci e dalle relazioni politiche. Napoli ne fu probabilmente l'epicentro in un arco vastissimo e disomogeneo, che
comprendeva anche la Provenza, Palermo e Valencia. I principali artisti attivi nell'area furono Donato de' Bardi, Carlo Braccesco e Zanetto Bugatto.
Per sviluppi artistici di rilievo si dovette attendere in Piemonte l'epoca di Gaudenzio Ferrari e del sacro Monte di Varallo, mentre nella ricchissima Genova la scena
artistica locale decollò solo nel Cinquecento, col rinnovamento architettonico di Galeazzo Alessi, Giovan Battista Castello e Bernardino Cantone. La riqualificazione della
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Strada Nuova richiese anche un'abbondante produzione di affreschi, a cui lavorarono
l'assistente di Raffaello Perin del Vaga e Luca Cambiaso.
Napoli e il Sud
A Napoli si ebbero due stagioni principali di influenze franco-fiamminghe, legate a rotte politiche e, in parte, commerciali. La prima è legata al regno di Renato d'Angiò, dal 1438 al 1442, quando portò in città il suo gusto dagli ampi orizzonti culturali,
culminato nell'attività di Barthélemy d'Eyck e Colantonio. La seconda è legata all'insediamento in città di Alfonso I d'Aragona dal 1444, che convolse il regno nel giro de gli scambi strettissimi con gli altri territori della corona aragonese e chiamando in città artisti catalani, come Guillén Sagrera e Lluís Dalmau.
Più tardi, i legami culturali ed artistici con Firenze trasformarono Napoli in una
delle capitali del Rinascimento italiano: la Cappella Caracciolo in San Giovanni a Carbonara ne fu un primo esempio.
La particolare connessione con la penisola iberica, con la Francia e le Fiandre
portò spesso artisti stranieri a lavorare nei principali scali del regno di Napoli, come
Napoli, Palermo e Messina. In quest'ultima città in particolare si formò Antonello che
fu colui che introdusse la tecnica a olio in Italia, grazie agli stretti rapporti con pittori
d'oltralpe, come, forse, Petrus Christus.
Colore e luce nella pittura
Nella pittura rinascimentale, una particolare importanza rivestì l'uso della luce e
del colore. Un diverso grado di luminosità era, anche nell'arte medievale, uno dei metodi per indicare la posizione di un corpo o una superficie nello spazio. Ma se i pittori
del XIV secolo colorivano con toni tanto più scuri quanto l'oggetto si trovava in lontananza, nel corso del XV secolo, sull'esempio dei miniatori francesi e dei pittori fiamminghi, tale principio venne ribaltato, grazie alla cosiddetta prospettiva aerea: in profondità il colore si schiariva e diventava più luminoso secondo i naturali effetti atmosferici.
Il colore tenne a lungo, ancora fino al XVI secolo, un ruolo spesso simbolico e
funzionale, legato cioè al suo valore intrinseco: le figure in una scena religiosa andavano spesso realizzate, per contratto, con una certa quantità di rosso, di oro o di blu
lapislazzuli, materiali costosissimi che avevano la funzione di offerta alla divinità.
A partire dal XV secolo comunque i teorici iniziarono sempre più spesso ad argomentare un uso più libero del colore. Tra il 1440 e il 1465 a Firenze prese piede un
indirizzo artistico che venne poi definito "pittura di luce". I suoi esponenti (Domenico
Veneziano, Andrea del Castagno, il tardo Beato Angelico, Paolo Uccello e Piero della
Francesca), costruivano un'immagine basandosi sui valori cromatici e nella disputa
tra chi attribuiva maggiore importanza al "disegnare" o al "colorare" presero posizione soprattutto per il secondo. Oltre ad usare luce e colore per definire i soggetti, essi
iniziarono ad usare i "valori luminosi" di certi colori per illuminare il quadro.
Leon Battista Alberti nel De pictura (1435-36) chiarì i termini della questione,
specificando come il colore non fosse un valore intrinseco del soggetto, ma dipendes75
se innanzitutto dall'illuminazione. Distinse quattro colori originari, dai quali si sviluppavano tutti gli altri toni: rosso, celeste, verde e il "bigio" cioè il color cenere. Quest'ultimo colore prevalse nella prima metà del XV secolo come tono intermedio nei
trapassi tra un colore e l'altro, per poi essere soppiantato, nella seconda metà, dai toni
bruni, come nelle opere di Leonardo da Vinci, dove creavano il particolare effetto dello "sfumato" che rendeva i contorni indeterminati.
Sul finire del XV secolo l'esperienza dei colori variopinti può dirsi accantonata in
favore di una prevalenza del chiaroscuro.
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Lezione VII
L'ARTE ISLAMICA
L'arte islamica comprende le arti prodotte a partire dal VII secolo in poi da artisti
(non per forza musulmani), che hanno vissuto in territori culturalmente legati alla religione dell'Islam. Essa riguarda ambiti assai vari, dall'architettura alla calligrafia, dalla pittura all'arte ceramica, etc.
Inizialmente l'arte islamica si è ispirata a quella bizantina, a quella romana, a
quella paleocristiana, a quella persiana ed a quella cinese.
Può essere suddivisa in vari periodi storici:
•
quello iniziale detto degli Omayyadi (660-750);
•
quello medio degli Abbasidi e quello della dinastia dei turchi Selgiuchidi
(1100);
•
quello dei Safavidi (1600);
•
quello della rinascita dell'arte sotto gli Ottomani.
L'arte islamica è tipicamente focalizzata sulla riproduzione della calligrafia araba. Più di rado essa si dedica a figure umane: ciò è dovuto alla sensibilità religiosa dei
musulmani, timorosi che alla riproduzione delle forme umane possa corrispondere il
peccato di idolatria contro Allah, proibito dal Corano, e che nell'arte come imitazione
della natura si possa intravedere il tentativo di copiare l'opera dello stesso Allah. Tale
sensibilità ebbe importanti effetti anche sull'arte cristiana: in particolare, a ridosso della predicazione di Maometto, sorse l'eresia pauliciana, che più tardi avrebbe rappresentato l'antesignana dell'iconoclastia.
L'arte islamica è essenzialmente l'arte del bello, oltre ad essere un mezzo di culto.
Viene sviluppato l'arabesco come stile ornamentale universale, stilizzazione di
forme vegetali e soprattutto rappresentativo di temi geometrici e simboli presi in prestito dalla calligrafia, ma è nella costruzione delle moschee, dalla pianta simile a quella della casa del profeta Maometto, come la Grande Moschea di Cordova (785 d.C.),
che si riproducono meglio che altrove i fondamenti dell'arte islamica.
Significativi e pregevoli, oltre ai mosaici, anche le pitture architettoniche come
quella emblematica conservata nella Cappella Palatina, terminata intorno al 1140 a
Palermo, i mausolei, luoghi di culto e di potere, la produzione di ceramiche, la lavorazione del vetro e del bronzo, i tappeti con i loro temi artistici legati alla natura. A
mano a mano che le conquiste territoriali hanno aperto nuove conoscenze di arte in
Asia, in Africa e in Europa, anche il gusto estetico si è aggiornato alle tendenze locali,
come ad esempio quella persiana, sempre nel rispetto dei dogmi religiosi.
Calligrafia
Il dovere che ha ogni musulmano di imparare e scrivere il Corano, ha contribuito
a diffondere e sviluppare l'arte della calligrafia in tutto il mondo islamico.
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Architettura islamica
L'architettura islamica (arabo: ‫عمارة إسلامية‬‎) è un termine piuttosto ampio
che raggruppa gli stili artistici della cultura islamica dai tempi di Maometto fino ai
giorni nostri e che ha influenzato il disegno e la costruzione di edifici o strutture di
tutto il mondo. Nacque dall'incontro di elementi provenienti dalla tradizione araba,
siriaca, bizantina, persiana-sasanide e, in seguito, anche turca e mongola-cinese.
Le sue forme architettoniche tipiche sono le cupole sorrette da pilastri. Gli edifici
più frequenti sono: la moschea (masjid); la scuola per l'insegnamento religioso (madrasa), la tomba (maqbara), le case dei nobili (mahal), oltre a palazzi (qusur) e i giardini.
Le principali tipologie costruttive dell'architettura islamica sono la moschea, la
tomba, il palazzo e la fortificazione.
Si suole affermare che la colonna, l'arco e la cupola sono la sacra triade dell'architettura islamica poiché dalla combinazione di tali elementi essa deriva la bellezza ed
originalità che la caratterizzano.
Storia
Nel 630 l'esercito di Maometto conquista la città di Mecca, strappandola alla tribù pagana dei Quraysh da cui lui stesso proveniva. Viene dunque riconsacrato all'unico vero Dio (Allāh) il santuario della Kaʿba, precedentemente dedicato al dio Hubal. La ricostruzione del tetto, portata a termine prima della morte di Maometto (632),
viene eseguita secondo una tradizione da un carpentiere naufrago etiope, ebreo o siriaco. Questo santuario rappresenta di fatto una delle prime opere di grande respiro
dell'Islam. Le pareti sono all'epoca decorate con pitture di Gesù, di sua madre Maria
(Maryam), Abramo (Ibrāhim), di vari profeti, angelo/angeli, di una colomba e di alberi, che Maometto farà cancellare, con la sola eccezione dell'immagine della colomba
(forse lo Spirito Santo e di Gesù che, sotto il nome di ʿĪsā, è considerato un grande
profeta, precursore dello stesso Maometto).
Quanto sopravvisse non sfugge però ai danni di un devastante incendio che, nel
692, distrugge per intero la Kaʿba, in margine alla guerra civile che contrappose alḤajjāj, generale dell'omayyade ʿAbd al-Malik b. Marwān ad ʿAbd Allāh ibn al-Zubayr.
Influenze e stili tradizionali di età omayyade
Poco dopo la morte del profeta Maometto, uno stile architettonico islamico facilmente riconoscibile si sviluppa a partire dai modelli romano, egizio, persiano, sasanide e bizantino.
Il secolo VII vede l'espandersi territoriale dei musulmani che, una volta stabilitisi
nella regione vicino-orientale, identificano i luoghi atti alla costruzione di nuove moschee. In questo periodo, la semplicità stilistica, derivata dalla semplice tradizione
araba, caratterizza tanto le costruzioni ex novo di moschee od altri edifici come i ria78
dattamenti di edifici preesistenti alle mutate esigenze di culto. Il primo vero grande
committente di una nuova e rilevante opera pubblica, architettonicamente di notevole
pregio, è proprio il califfo omayyade ʿAbd al-Malik, che per evitare che i suoi sudditi
si potessero recare a Mecca, esponendosi alla propaganda a lui sfavorevole di Ibn alZubayr, dette ordine di edificare nel 691 la Cupola della Roccia (Qubbat al-Sakhrāʾ) a
Gerusalemme. Compaiono qui le coperture a volta, la cupola circolare e l'uso di fregi
decorativi stilizzati e ripetitivi (arabeschi).
Tale decisione viene imitata, su assai più vasta scala, dal figlio al-Walīd I, che
commissiona due assoluti capolavori dell'architettura araba-musulmana: la cosiddetta Moschea degli Omayyadi di Damasco e l'omonima moschea di Aleppo.
In seguito, a partire dal secolo VIII, la dottrina islamica basata sui hadith vide
con sfavore l'ornamentazione in cui fosse riprodotta la figura umana, prediligendo
un'ornamentazione fitoforme o puramente epigrafica, sfruttando abbondantemente la
grazia dell'alfabeto arabo.
Stili ornamentali
Il ricercatore scientifico Peter J. Lu, in uno studio pubblicato su Science, ha analizzato gli schemi ornamentali prodotti dall'architettura islamica del 1300 e ha scoperto un modello complesso creato partendo da tasselli a poligoni e stelle chiamati "girih". Un disegno elaborato estremamente preciso che in Occidente è stato per la prima
volta "scoperto" nel 1970 grazie all'intuizione del fisico e matematico britannico Roger
Penrose. In realtà dietro quella che sembrava fino a oggi l'abilità certosina di un'affermata scuola artigiana si nascondono sofisticate formule matematiche che l'Occidente
avrebbe compreso solo 500 anni dopo, a partire dal 1970.
La prima architettura islamica
Spagna
L'arte islamica in Spagna si esplicò soprattutto nell'architettura e nella decorazione. L'esempio più splendido è rappresentato dallo stile mudejar, sviluppato dagli arti giani musulmani che approdarono in Andalusia. I musulmani portarono con sé l'arte
di costruire castelli che, per le sofisticate strutture offensivo-difensive, risultarono invincibili sino all'uso della polvere da sparo. In particolare si ricorda l'espediente raffinato dell'ingresso a gomito, tipico di tutte le costruzioni islamiche di Spagna. I primi
castelli omayyadi seguivano lo schema bizantino a pianta quadrata o rettangolare,
con torri circolari unite da cortine.
79
Lezione VIII
L'ARTE BIZANTINA E RUSSA
L'arte bizantina si è sviluppata nell'arco di un millennio, tra il IV ed il XV secolo,
prima nell'ambito dell'Impero romano, poi di quello bizantino, che ne raccolse l'eredità e di cui Costantinopoli fu capitale. Le caratteristiche più evidenti dei canoni dell'arte bizantina sono la religiosità, l'anti-plasticità e l'anti-naturalismo, intese come appiattimento e stilizzazione delle figure, volte a rendere una maggiore monumentalità
ed un'astrazione soprannaturale. Infatti il gusto principale dell'arte bizantina è stato
quello di descrivere le aspirazioni dell'uomo verso il divino. L'arte bizantina ha comunque avuto espressioni stilistiche molto diverse fra di loro nei suoi oltre mille anni
di vita, ma nell'Impero d'Oriente l'arte rimase quasi invariata.
Cenni storici e periodi
La storia dell'arte bizantina potrebbe essere divisa in:
•
un primo periodo paleobizantino, dalla fondazione di Costantinopoli al VI secolo, nel quale inizialmente assorbe la produzione artistica di Roma, Alessandria d'Egitto, Efeso e Antiochia, ossia il linguaggio artistico dell'antichità, per
elaborarlo e trasformarlo in un genere adatto soprattutto al suo mondo spirituale ma anche a quello imperiale;
•
al primo periodo di formazione segue un secondo periodo denominato "prima
età d'oro" (VI secolo), nel quale l'espressione artistica raggiunge alti livelli di
qualità e produce capolavori;
•
la terza fase è rappresentata da un periodo di involuzione che parte dal VII secolo e prosegue durante l'intera lotta iconoclastica (726-843);
•
segue il periodo della cosiddetta Rinascenza macedone (IX-XI secolo), nel quale si recuperano modi espressivi dell'arte ellenistica oltre ad una certa vivacità
e floridezza complessiva che si protrae e si innalza ulteriormente nel seguente
periodo;
•
Comneno (XII secolo), con un'arte di tipo linearistico, di notevole fioritura artistica da imporsi, per la sua eleganza e raffinatezza, su tutta l'arte europea dando vita ad una "seconda età dell'oro", che arriva fino alla caduta di Costantinopoli sotto i Latini (1204);
•
con la ripresa bizantina della capitale (1261) si ha l'ultimo periodo di fioritura
con l'arte paleologa (detta anche Rinascenza paleologa, per il nuovo recupero
dell'arte ellenistica), fino alla definitiva caduta della capitale sotto Maometto II
nel 1453.
L'arte bizantina, con la sua ieraticità e il suo carattere a-spaziale, si richiama evidentemente al misticismo del cristianesimo nell'Impero Bizantino (Origene) ed è "coerente con il pensiero del tempo, in gran parte caratterizzato dal neoplatonismo di Plotino: la tecnica musiva è propriamente il processo del riscatto dalla condizione di opa80
cità a quella, spirituale, della trasparenza, della luce, dello spazio".
Costantinopoli
Dopo la fondazione della nuova capitale da parte di Costantino I (306-337) nel
330, iniziò un complesso programma di costruzione incentrato a legare indissolubilmente la nuova città monumentale con il nome del suo fondatore. L'unico monumento superstite dell'epoca di Costantino è l'Ippodromo, monumentale arena per i giochi
che aveva anche la funzione di permettere l'"epifania" dell'Imperatore, che si mostrava nella sua tribuna circondato dagli attributi del suo potere e veniva acclamato dal
popolo in una visione che doveva sembrare divina.
Con Teodosio II (408-450) vi fu un considerevole ampliamento della città, testimoniato da un vigoroso sviluppo urbano che indusse l'Imperatore a far costruire una
nuova cinta muraria che da lui prese il nome. Ma fu solo in epoca giustinianea (VI secolo) che Costantinopoli acquisì quelle caratteristiche monumentali che ne fecero la
più splendida città allora conosciuta, soppiantando definitivamente in ricchezza e popolazione i più ricchi e antichi centri urbani del Mediterraneo orientale (Alessandria,
Antiochia) e la stessa Roma, la cui popolazione si era ridotta, a seguito delle invasioni
barbariche e delle guerre gotiche a poche decine di migliaia di anime.
Durante il regno di Giustiniano furono infatti edificati alcuni dei monumenti più
famosi di Costantinopoli, come la magnifica Hagia Sophia, chiesa della Santa Sapienza, ricostruita in seguito a un incendio nelle forme monumentali date dalla maestosa
cupola che irradia di una luce quasi ultraterrena il vastissimo spazio dell'aula a base
centrale della basilica. Altre opere dell'epoca di Giustiniano sono la Santa Irene, la
chiesa dei Santi Sergio e Bacco, la ricostruzione della chiesa dei Santi Apostoli.
La capitale si affermò presto come centro di irradiazione artistica in tutti i campi,
grazie al convergere di artisti provenienti da tutto l'impero, che poi riportavano nelle
province le novità apprese.
A causa delle distruzioni di opere per eventi bellici e naturali nei territori dell'Impero e in particolare nella stessa Costantinopoli, alcuni dei migliori documenti di
arte bizantina si trovano in altre aree toccate dall'influenza della Seconda Roma quali
l'Italia, la Grecia, i Balcani e, forse in minor misura, in Russia ed Ucraina.
Ravenna
A Ravenna si sono conservati i migliori mosaici risalenti all'epoca di Giustiniano
I (527-565), grazie al programma celebrativo iniziato dal vescovo Massimiano a partire dal 560 circa. Specialmente nella Basilica di San Vitale, a base ottagonale con sorprendenti analogie con la chiesa dei Santi Sergio e Bacco a Costantinopoli, tanto da
aver fatto pensare alla mano dello stesso architetto, ha un interno sontuosamente decorato, con marmi policromi, stucchi, capitelli e pulvini scolpiti, ma soprattutto da celeberrimi mosaici, dove è celebrata l'epifania di Giustiniano e dell'Imperatrice Teodora, ciascuno accompagnato dai personaggi della corte, tutto lo sfarzo che richiedeva il
loro status politico e religioso.
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L'arte bizantina si staccò dalla precedente arte paleocristiana per la maggiore
monumentalità delle figure, che penalizzò però la resa dei volumi e dello spazio: i
corpi sono assolutamente bidimensionali e stereotipati, e solo nei volti regali si nota
uno sforzo verso il realismo, nonostante l'idealizzato ruolo semidivino sottolineato
dalle aureole. Non esiste prospettiva spaziale, tanto che i vari personaggi sono su un
unico piano, hanno gli orli delle vesti piatti e sembrano pestarsi i piedi l'un l'altro.
Nonostante questo si rimane abbagliati dalla ricchezza delle vesti dei personaggi e
dallo splendore dei loro attributi, immersi nel fondo oro che dà loro una consistenza
ultraterrena.
Dello stesso periodo è anche la serie di Martiri e Vergini nella chiesa di Sant'Apollinare Nuovo, dove sono ormai ben chiari gli elementi dell'arte bizantina:
•
la ripetitività dei gesti,
•
la preziosità degli abiti,
•
la mancanza di volume (con il conseguente appiattimento o bidimensionalità
delle figure),
•
l'assoluta frontalità,
•
l'isocefalia,
•
la fissità degli sguardi e la ieraticità delle espressioni;
•
la quasi monocromia degli sfondi (in abbacinante oro),
•
l'impiego degli elementi vegetali a scopo puramente riempitivo e ornamentale,
•
la mancanza di un piano d'appoggio per le figure che, pertanto, appaiono sospese come fluttuanti nello spazio.
Chiusero la stagione dell'arte ravennate i mosaici di Sant'Apollinare in Classe,
dove la rappresentazione è ormai dominata dal simbolismo più puro, ormai staccato
completamente da qualsiasi esigenza naturalistica di stampo classico.
Roma
Durante l'epoca di Teodorico, dal 493 al 526, Roma visse un periodo di pace, governata dal cancelliere Cassiodoro, mentre il Re risiedeva a Ravenna. Mentre i monumenti cittadini subivano un inesorabile e irrimediabile degrado, tanto da alimentare
un mito nostalgico dell'antica Roma (Teodorico stesso si fece mandare colonne e marmi dei palazzi imperiali). Di rilievo fu l'iniziativa di Papa Felice IV (526-530), che decise di rompere la stasi facendo edificare una chiesa nel centro del foro romano, la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, tramite il riutilizzo di parti di edifici preesistenti quali
la sala delle udienze e la biblioteca del Tempio della Pace e il vestibolo di Massenzio.
Si trattava di una rottura della stasi edilizia nel Foro durata più di due secoli e sanciva
la continuità tra tradizione classica e cristianesimo in un luogo altamente simbolico.
Il grande mosaico del catino absidale rappresenta Cristo tra i Santi Cosma e Damiano e rispetto al mosaico di Santa Pudenziana (fine del IV, inizio del V secolo) mostra il passaggio a una rappresentazione più irreale, simbolica e soprannaturale, con il
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Cristo nell'atto di scendere da una cortina di nuvole infocate disposte in scorcio, che
forma un rigido schema triangolare, come se stesse dirigendosi verso l'osservatore. La
scena rappresentata è quella della Parusia, cioè la seconda venuta di Cristo profetizzata nell'Apocalisse di Giovanni. È un tema che molta influenza ebbe nella successiva
decorazione musiva delle chiese romane specie durante la cosiddetta rinascenza carolingia dove il tema della parusia (e in generale la profezia apocalittica) fu ampiamente
ripreso: si veda in particolare il ciclo musivo di Santa Prassede. In ogni caso il mosai co di Cosma e Damiano, coerentemente al fatto che a Roma la tradizione classica offriva ancora modelli su cui confrontarsi, mostra un senso plastico ed una caratterizzazione delle figure più sviluppati dei coevi mosaici bizantini. In questo senso è da notare anche il fatto che sono rappresentate anche le ombre proiettate dalle figure, particolare che scompare nei mosaici romani posteriori, mentre lo sfondo è blu cobalto non
in oro. Dopo la conquista di Roma durante le guerre gotiche (552), la città toccò il minimo storico di abitanti (30.000), entrando nel periodo più buio della sua storia. Inizialmente i bizantini si preoccuparono di restaurare le opere pubbliche di necessità
immediata, quali mura, acquedotti, e ponti legati alle vie consolari. La cristianizzazione del centro proseguì con l'apertura di chiese in edifici pubblici o la riconversione di
templi come il Pantheon, consacrato nel 609, o il Tempio della Fortuna Virile, divenuto tra l'872 e l'882 chiesa di Santa Maria in Gradellis. Dall'aula di rappresentanza dei
palazzi imperiali venne ricavata la chiesa di Santa Maria Antiqua, coperta da una frana nell'847 e riscoperta solo nel Novecento, con importante tracce di un ciclo di affreschi databile con notevole precisione (grazie ad iscrizione ed altre fonti) a quattro interventi diversi:
Il primo è quello della Madonna col bambino tra angeli nella nicchia centrale, dipinta subito dopo la conquista bizantina, quasi a sottolineare il cambio di destinazione del palazzo, che presenta la marcata frontalità "iconica" tipicamente bizantina.
Il secondo è quello dell'Annunciazione, di mano di un artista più raffinato e più
attento agli effetti della luce, e risale al 565-578, quando l'aula venne destinata a cap pella palatina.
Il terzo risale al 650 circa, con le tracce sulla parete palinsesto (Santi Basilio e Giovanni e altri frammenti).
Il quarto coincide con il pontificato del papa greco Giovanni VII (705-707), ed è
rappresentato dall'immagine di San Gregorio Nazianzeno nell'abside ed altre scene
nel presbiterio, con uno stile così vicino all'arte bizantina da aver fatto pensare ad artisti provenienti da Costantinopoli.
Se fino alla fine del V secolo l'arte romana (soprattutto paleocristiana) seguì uno
sviluppo autonomo, costituendo semmai essa stessa un modello, per molti artisti bizantini, a partire dal VI secolo a seguito della liberazione giustinianea della città dal
giogo gotico e ancor più nei due secoli successivi, conviveranno nella Città eterna sia
influssi strettamente romano-orientali, sia stimoli verso il classicismo. Se il mosaico
del catino absidale di Sant'Agnese fuori le mura (625-638) presenta tre figure isolate,
altamente simboliche e immateriali, circondate da un abbagliante fondo oro, gli affreschi della Cappella di Teodoto (un alto funzionario) presso Santa Maria Antiqua mostrano influenze dalla Siria e dalla Palestina, con un uso semplice del colore e del di83
segno, ma altamente efficace. Nello stesso arco di tempo si colloca la decorazione della cappella di San Venanzio (databile alla metà del settimo secolo) presso il Battistero
Laterano. La cappella mostra richiami alla decorazione della Basilica di San Vitale a
Ravenna, specie nella disposizione paratattica del corteo di santi, affine alla celeberrima rappresentazione della corte di Giustiniano. Altro elemento bizantino è la rappresentazione nel catino della Vergine orante del tipo iconografico della Aghiosoritissa.
Ci restano di quel periodo anche una serie di icone sparse in varie chiese: una Madonna al Pantheon datata 609, o la Madonna Theotokòs di Santa Maria in Trastevere (datazione incerta tra il VI e l'VIII secolo) con una rigida frontalità e colori smaglianti
messi in relazione con il primo strato di affreschi di Santa Maria Antiqua.
Arte musiva
Il mosaico ricoprì un'importanza fondamentale all'interno dell'arte bizantina,
come l'aveva avuta nel mondo romano-imperiale di espressione latina, poiché l'utilizzo di tessere vitree policrome risultò essere uno strumento ideale per soddisfare le
esigenze espressive di carattere visivo con contenuti artistici. Senza nulla togliere ai
centri musivi storici, come Roma, Ravenna, Tessalonica, Napoli, e Milano, indubbiamente a Costantinopoli dal VI secolo il mosaico assurse al ruolo di arte per eccellenza
e proprio lì assunse particolari caratteristiche. Mirabile testimonianza della magnificenza dell'arte musiva bizantina del VI secolo si osserva nella Basilica di San Vitale a
Ravenna.
Uno degli elementi preminenti del mosaico bizantino fu la lirica della luce, attraverso la quale gli artisti proiettarono le loro immagini fantasiose in una dimensione
astratta e ultrasensibile, ancorandosi ad una realtà trascendente. Mentre lo spazio tese
a dilatarsi, le figure umane o spirituali invece si convertirono in immagini immateriali, povere di plasticità e dinamismo bensì ricche di colori. Se nei primi secoli di sviluppo le finalità narrative furono preminenti, dopo il IX secolo invece le figurazioni rappresentarono concetti religiosi e dogmatici, correlati alla redenzione. La distribuzione
tipica dei mosaici nei luoghi di culto consistette nella raffigurazione di Cristo Pantocratore attorniato dagli angeli nella cupola, qui vista come luogo celestiaco, mentre
agli Evangelisti spettò un posto nei pennacchi, la Madonna nell'abside, in questo caso
rappresentativo della mediazione fra la sfera celeste e quella terrena, infine nelle navate vennero elencati gli avvenimenti evangelici fondamentali.
In realtà il mosaico, arte imperiale per eccellenza, fu sostanzialmente una costante dell'arte bizantina e le (relativamente) molte testimonianze che ce ne restano ci dimostrano come questa tecnica decorativa (sia pure in modo non lineare) si dipanò
lungo i secoli. In questo senso vanno senz'altro citati i cicli muvisiari veneziani e siciliani (avviati nel XII secolo) unanimemente attribuiti (almeno per le fasi iniziali) a
maestranze direttamente chiamate da Costantinopoli. Tra gli altri mosaici sopravvissuti nel tempo si annoverano la Pietà presso Santa Sofia di Costantinopoli (XII secolo),
il San Giorgio conservato al Louvre (XII secolo), quelli conservati e del periodo iconoclastico quelli di Santa Irene a Costantinopoli oltre alle raffigurazioni della moschea
di Omar a Gerusalemme. Infine, nel XIV secolo il mosaico bizantino conobbe un ultimo periodo di rifioritura e di innovazione ed infatti le sue caratteristiche evidenziaro84
no colori più brillanti, atteggiamenti più umani e una delicata intimità. Risalgono a
quest'epoca i mosaici della chiesa di San Salvatore in Chora, a Costantinopoli.
Pittura
Nella pittura ad affresco si riscontrano gli stessi caratteri ed elementi dell'arte
musiva. La pittura bizantina trae origine dalla grande tradizione classico-ellenistica
(anche attraverso gli apporti delle province mediorientali dell'Impero che tale tradizione rielaborano peculiarmente) , ma ne rivede e ne “corregge” gli elementi di fondo
per fare fronte alle nuove esigenze religiose, spingendosi verso una intima spiritualità
che predilige la prospettiva frontale a quella verticale, in grado di dilatare l'estensione
del colore limitando le oscillazioni cromatiche; inoltre schematizza le forme e le figure
donando fissità espressiva degli sguardi e intensificando la simbolicità della narrazione.
Purtroppo nessuna opera risalente al primo periodo bizantino è sopravvissuta,
mentre del VIII secolo è rimasto qualche affresco nelle catacombe romane e nella chiesa di San Demetrio a Salonicco. Di notevole valore storico-artistico sono gli affreschi
delle chiese rupestri in Cappadocia, quelli di arte monastica del X-XI secolo in Anatolia, quelli greci (XI secolo) a Salonicco, a Kastoria e a Focide, così come le pitture nelle
chiese di Bachkovo in Bulgaria e a Santa Sofia di Kiev risalenti al XII secolo. Certamente degni di menzione poi sono gli affreschi ciprioti, tra i quali spiccano quelli della piccola chiesa della Panagia Phorbiotissa ad Asinou (XII secolo). In Italia affreschi
bizantini si trovano nelle chiese rupestri soprattutto nelle regioni meridionali (Puglia
e Basilicata) ad opera di monaci dell'Asia Minore che fuggivano dall'iconoclastia a
dalla successiva invasione dei turchi musulmani.
Per quanto riguarda i due secoli seguenti, si impongono per raffinatezza e delicatezza cromatica gli affreschi nel territorio della ex Iugoslavia, massima testimonianza
pervenutaci della cosiddetta rinascenza paleologa, probabilmente gravidi, secondo i
più recenti indirizzi di ricerca, di conseguenze sullo sviluppo dell'arte italiana della
seconda metà del XIII secolo. Si ricordano anche le opere del XIV secolo conservate
nelle chiese cretesi, rumene ad Argeş, russe a Novgorod dove operò in questo periodo il grande pittore greco Teofane, maestro di Andrej Rublëv.
Oltre alla pittura monumentale, un capitolo di fondamentale importanza nell'ambito della pittura bizantina è costituito dalle icone: rappresentazioni di Gesù, della Vergine, di santi, delle Dodici Feste della Cristianità ortodossa. Le tecniche di produzione delle icone possono essere le più varie (encausto, tempera, mosaico, su tavola
o su muro) e nel mondo bizantino ebbero (e tuttora hanno nel mondo ortodosso) un
alto e complesso significato religioso, cui, fino alla caduta dell'Impero si associava anche un significato civile: alcune icone assursero a palladio dello stato bizantino.
Dal punto di vista strettamente artistico ebbero grandi implicazioni su molte
aree soggette all'influenza politica e culturale dell'Impero di Bisanzio, e ciò anche per
la notevole facilità di spostamento di questi manufatti (si è già ricordata la significativa presenza di antiche icone a Roma). La stessa ripresa della pittura su tavola in ambito occidentale (utilizzata nel modo antico, ma che scompare nell'alto Medioevo
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d'Occidente a vantaggio della pittura murale e della miniatura), pittura su tavola che
tanta parte avrà nell'arte europea, ed italiana in specie, dal XII secolo in avanti, è debitrice al cosante esempio dell'icona. Secondo alcune prospettazioni (O. Demus) produzioni fondamentali dell'arte occidentale, quali la pala d'altare e poi il polittico, altro
non sono che adattamenti delle icone alla diversa struttura delle chiese d'Occidente
(spesso prive di iconostasi) e alla diversa liturgia. Una delle più straordinarie raccolte
di icone (molte delle quali di paternità direttamente costantinopolitana) è conservata
oggi presso il Monastero di Santa Caterina sul Sinai, nel territorio dell'attuale Egitto.
Qui si conservano icone antichissime come il celeberrimo Cristo Pantocratore, risalente al VI secolo.
Miniatura
Di pregevole qualità sono anche le miniature dei manoscritti. Le miniature più
antiche rivelano tendenze orientaleggianti ed elleniche, mentre le più recenti evidenziano una tendenza cattedratica legata agli scriptoria di Costantinopoli oltre ad una
popolare manifestata dalla ricchezza ornamentale. I manoscritti più diffusi sono i salteri, come quello Khludov di Mosca e di San Giovanni a Costantinopoli; di pregevole
fattura sono anche gli omeliari, come i Coislin 79 descriventi le omelie di San Giovanni Crisostomo, gli Ottateuchi che comprendono i primi 8 libri della Bibbia, gli Evan geliari e i Menologi che illustrano le vite dei Santi.
Le arti plastiche: scultura e arti suntuarie
Se la pittura e l'arte del mosaico ebbero un ruolo centrale nell'arte bizantina, forse lo stesso non può dirsi della scultura lapidea. In particolare, a differenza di quanto
non si osserva in occidente, la scultura non si emancipò dalla funzione decorativa architettonica, rarissime infatti sono le sculture a tutto tondo. Forse in questo fenomeno
giocò un ruolo la diffidenza della cultura religiosa orientale verso la raffigurazione
tridimensionale del sacro, associata al paganesimo a causa del grande numero di statue classiche accumulatosi a Costantinopoli. E del resto il ponderso corpus teologale
sviluppato sulla liceità e sul valore della rappresentazione sacra - elaborato dalle correnti iconodule nella disputa contro l'iconoclasmo - si occupa essenzialmente della
produzione pittorica. Ciò non di meno anche in campo scultoreo i risultati qualitativi
raggiunti furono molto elevati. Una testimonianza molto interessante di scultura lapidea bizantina osservabile in Italia si trova a Pisa. Qui infatti una "taglia" bizantina (si
ipotizza direttamente proveniente da Costantinopoli) istoriò (inizi XIII secolo) il portale maggiore del battistero. Tutto ciò non significa però che le arti plastiche nel loro
complesso fossero scarsamente coltivate. Se la scultura ebbe un ruolo minore (quanto
meno rispetto ad altri campi) risultati altissimi, invece, vennero raggiunti nelle arti
suntuarie, cioè nella lavorazione di materiali preziosi: metalli, avorio, pietre e cristalli.
Le lavorazioni in metallo (reliquiari, arredi sacri) inoltre implicavano il frequente utilizzo di decorazioni in smalto, altra tecnica in cui l'arte bizantina raggiunse livelli
qualitativi eccelsi. Celeberrime poi sono molte opere in avorio (come il cosiddetto
Avorio Barberini, tra i più noti avori bizantini). Fu proprio nella lavorazione dell'avorio che la scultura bizantina raggiunse le sue vette. Tra le più alte lavorazioni bizanti86
ne in avorio che abbiamo in Italia si annovera la cattedra vescovile di Massimiano, a
Ravenna, risalente al VI secolo.
Arte Russa
Il termine icona deriva dal russo "икона", a sua volta derivante greco bizantino
"εἰκόνα" (éikóna) e dal greco classico "εἰκών -όνος" derivanti dall'infinito perfetto "eikénai" traducibile in "essere simile", "apparire" mentre il termine "éikóna" può essere
tradotto con immagine, e indica una raffigurazione sacra dipinta su tavola, prodotta
nell'ambito della cultura bizantina e slava.
Nella lunga genesi dell'iconografia cristiana, l'icona assume la propria fisionomia
intorno al V secolo. L’occasione fu offerta dalla presenza nella Tradizione cristiana di
prototipi, i ritratti di Gesù e Maria. Si tratta del Mandylion, della Sindone e dei numerosi ritratti della Vergine attribuiti a San Luca Evangelista. Quando nel 1453 l’Impero
Romano d'Oriente crollò, i popoli balcanici contribuirono ad incrementare sia la produzione sia la diffusione di queste raffigurazioni sacre. Nella tradizione della Chiesa
bizantina, l’icona assume un significato particolare. Il simbolismo e la tradizione non
coinvolgevano solo l’aspetto pittorico, ma anche quello relativo alla preparazione e al
materiale utilizzato, oltre alla disposizione e al luogo entro il quale l'opera andava
collocata. Dalla tradizione russa, sono stati affinati tre schemi che si rifanno all'immagine originale dipinta da San Luca Evangelista: Madre di Dio Orante -senza Bambinoe i due in cui è rappresentata assieme a Gesù bambino, cosiddette "Icone dell'Incarnazione": Madre di Dio Hodighitria -colei che indica la retta via- e Madre di Dio Eleusa
-immagine della tenerezza-.
Caratteristiche generali
Le icone erano dipinte su tavole di legno, generalmente di tiglio, larice o abete.
Sul lato interno della tavoletta in genere era effettuato uno scavo che veniva chiamato
“scrigno” o "arca", in modo da lasciare una cornice in rilievo sui bordi. La cornice, oltre a proteggere la pittura, rappresenta lo stacco tra il piano terrestre e quello divino
in cui viene posta la raffigurazione. Sulla superficie veniva incollata una tela con colla
di coniglio, che serviva ad ammortizzare i movimenti del legno rispetto agli strati superiori. La tela veniva infatti ricoperta con diversi strati di colla di coniglio e gesso,
che opportunamente levigati, con pelle di pesce essiccata o carte vetrate, consentivano
di ottenere una superficie perfettamente liscia e levigata, adatta ad accogliere la doratura e la pittura. A questo punto si iniziava a tratteggiare il disegno. Si partiva con
uno schizzo della rappresentazione, il successivo processo era quello della pittura. S’i niziava colla doratura di tutti i particolari (bordi dell’icona, pieghe dei vestiti, sfondo,
aureola o nimbo). Quindi si cominciava col dipingere i vestiti, gli edifici e il paesaggio. Le ultime pennellate venivano effettuate colla pura biacca. L’effetto tridimensionale veniva reso da tratti più scuri distribuiti in modo uniforme. Particolare cura assume la lavorazione dei volti. In genere si parte da una base di colore scuro cui vengono sovrapposti strati di schiarimento con colori più chiari. Successivamente balenii
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di luce chiari, ottenuti coll’ocra mescolata alla biacca, erano posti sulle parti in rilievo
del volto: zigomi, naso, fronte e capelli. La vernice rossa era disposta in uno strato
sottile attorno alle labbra, sulle guance e sulla punta del naso. Infine con una vernice
marrone chiara si ripassa il disegno (graphìa): i bordi, gli occhi, le ciglia ed eventual mente i baffi o la barba. I colori sono ottenuti da sostanze naturali, vegetali o minerali,
oppure ottenute da piccoli processi chimici come fare ossidare i metalli. Pestati a mortaio, macinati finemente, essi sono uniti al tuorlo dell'uovo che agisce da legante.
La teologia riteneva le icone opere di Dio stesso, realizzate attraverso le mani
dell’iconografo: risultava dunque inopportuno porre sull’icona il nome della persona
di cui Dio si sarebbe servito. I volti dei santi rappresentati nelle icone sono chiamati
liki: ovvero volti che si trovano fuori dal tempo, trasfigurati, ormai lontani dalle passioni terrene. Esempio se ne trova nelle immagini di Andrej Rublëv (1360/1430).
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Lezione IX
IL RINASCIMENTO
Michelangelo Buonarroti (Caprese Michelangelo, 6 marzo 1475 – Roma, 18 febbraio 1564) è stato uno scultore, pittore, architetto e poeta italiano. Protagonista del
Rinascimento italiano, fu riconosciuto già al suo tempo come uno dei più grandi artisti di sempre.
Intese fare della sua attività un'incessante ricerca dell'ideale di bellezza. Fu nell'insieme un artista tanto geniale quanto irrequieto. Il suo nome è collegato a una serie
di opere che lo hanno consegnato alla storia dell'arte, alcune delle quali sono conosciute in tutto il mondo e considerate fra i più importanti lavori dell'arte occidentale:
il David, la Pietà o il ciclo di affreschi nella Cappella Sistina sono considerati traguardi insuperabili dell'ingegno creativo.
Lo studio delle sue opere segnò le generazioni successive, dando vita, con altri
modelli, a una scuola che fece arte "alla maniera" sua e che va sotto il nome di manierismo.
Biografia
Gioventù
Origini
Michelangelo nacque il 6 marzo 1475 a Caprese, in Valtiberina, vicino ad Arezzo,
da Ludovico di Leonardo Buonarroti Simoni, podestà al Castello di Chiusi e di Caprese, e Francesca di Neri del Miniato del Sera. La famiglia era fiorentina, ma il padre si
trovava nella cittadina per ricoprire la carica politica di podestà. Michelangelo era il
secondogenito, su un totale di cinque figli della coppia.
I Buonarroti di Firenze facevano parte del patriziato fiorentino. Nessuno in famiglia aveva fino ad allora intrapreso la carriera artistica, arti "meccaniche" poco consone al loro status, ricoprendo piuttosto incarichi nei pubblici uffici: due secoli prima un
antenato, Simone di Buonarrota, era nel Consiglio dei Cento Savi, il bisnonno di Michelangelo, Buonarrota di Simone, aveva ricoperto le maggiori cariche pubbliche.
Possedevano uno scudo d'arme e patronavano una cappella nella basilica di Santa
Croce.
All'epoca della nascita di Michelangelo la famiglia attraversava però un momento di penuria economica: il padre era talmente impoverito che stava addirittura per
perdere i suoi privilegi di cittadino fiorentino. La podesteria di Caprese, uno dei
meno significativi possedimenti fiorentini, era un incarico politico di scarsa importanza, da lui accettato per cercare di assicurare una sopravvivenza decorosa alla propria
famiglia, arrotondando le magre rendite di alcuni poderi nei dintorni di Firenze. Il
declino influenzò pesantemente le scelte famigliari, nonché il destino del giovane Michelangelo e la sua personalità: la preoccupazione per il benessere economico, suo e
dei suoi familiari, fu una costante in tutta la sua vita.
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Infanzia (1475-1487)
Già alla fine di marzo, terminata la carica semestrale di Ludovico Buonarroti, la
famiglia tornò presso Firenze, a Settignano, probabilmente alla poi detta Villa Michelangelo, dove il neonato venne affidato a una balia locale. Settignano era un paese di
scalpellini poiché vi si estraeva la pietra serena da secoli utilizzata a Firenze nell'edilizia di pregio. Anche la balia di Michelangelo era figlia e moglie di scalpellini. Diventato un artista famoso, Michelangelo, spiegando perché preferiva la scultura alle altre
arti, ricordava proprio questo affidamento, sostenendo di provenire da un paese di
“scultori e scalpellini”, dove dalla balia aveva bevuto «latte impastato con la polvere
di marmo».
Nel 1481 la madre di Michelangelo morì quando egli aveva solo sei anni. L'educazione scolastica del fanciullo venne affidata all'umanista Francesco Galatea da Urbino, che gli impartì lezioni di grammatica. In quegli anni conobbe l'amico Francesco
Granacci, che lo incoraggiò nel disegno. Ai figli cadetti di famiglie patrizie era di soli to riservata la carriera ecclesiastica o militare, ma Michelangelo, secondo la tradizione, aveva infatti manifestato fin da giovanissimo una forte inclinazione artistica, che
nella biografia di Ascanio Condivi, scritta in collaborazione dell'artista stesso, viene
ricordata come ostacolata a tutti i costi dal padre, che non la spuntò però sull'eroica
resistenza del figlio.
Formazione presso il Ghirlandaio (1487-1488)
Nel 1487 Michelangelo finalmente approdò alla bottega di Domenico Ghirlandaio, artista fiorentino tra i più quotati dell'epoca.
Condivi, omettendo la notizia e sottolineando la resistenza paterna, sembra voler
enfatizzare un motivo più che altro letterario e celebrativo, cioè il carattere innato ed
autodidatta dell'artista: dopotutto l'avvio consenziente di Michelangelo a una carriera
considerata "artigianale" era per il costume dell'epoca una ratifica di una retrocessione sociale della famiglia. Ecco perché, una volta divenuto famoso, egli cercò di nascondere gli inizi della sua attività in bottega parlandone non come di un normale apprendistato professionale, ma come se si fosse trattato di una chiamata inarrestabile
dello spirito, contro la quale il padre avrebbe inutilmente tentato di resistere.
In realtà sembra ormai quasi certo che Michelangelo fu mandato a bottega proprio dal padre a causa dell'indigenza familiare: la famiglia aveva bisogno dei soldi
dell'apprendistato del ragazzo, al quale così non poté essere data un'istruzione classica. La notizia è data da Vasari, che già nella prima edizione delle Vite (1550), descrisse, appunto, come fu Ludovico stesso a condurre il figlio dodicenne nella bottega del
Ghirlandaio, suo conoscente, mostrandogli alcuni fogli disegnati dal fanciullo, affinché lo tenesse con sé alleviando le spese per i numerosi figli, e convenendo assieme al
maestro un "giusto et onesto salario, che in quel tempo così si costumava". Lo stesso
storico aretino ricorda le sue basi documentarie, nei ricordi di Ludovico e nelle ricevute di bottega conservate all'epoca da Ridolfo del Ghirlandaio, figlio del celebre pittore. In particolare in un "ricordo" del padre, datato 1 aprile 1488, Vasari lesse i termi ni dell'accordo con i fratelli Ghirlandaio, prevedendo una permanenza del figlio a
bottega per tre anni, per un compenso di venticinque fiorini d'oro. Inoltre in elenco di
creditori della bottega artistica, al giugno 1487, è registrato anche Michelangelo dodi90
cenne.
In quel periodo la bottega del Ghirlandaio era attiva al ciclo affrescato della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, dove Michelangelo poté certamente apprendere una tecnica pittorica avanzata. La giovane età del fanciullo (che al termine
degli affreschi aveva quindici anni) lo relegherebbe a mestieri da garzone (preparazione dei colori, riempimento di partiture semplici e decorative), ma è altresì noto che
egli era il migliore tra gli allievi e non è da escludere che gli fossero affidati alcuni
compiti di maggior rilievo: Vasari riportò come Domenico avesse sorpreso il fanciullo
a "ritrarre di naturale il ponte con alcuni deschi, con tutte le masserizie dell'arte, et alcuni di que' giovani che lavoravano", tanto che fece esclamare al maestro "Costui ne
sa più di me". Alcuni storici hanno ipotizzato un suo intervento diretto in alcuni ignudi del Battesimo di Cristo e della Presentazione al Tempio oppure nello scultoreo San
Giovannino nel deserto, ma in realtà la mancanza di termini di paragone e riscontri
oggettivi ha sempre impossibilitato una definitiva conferma.
Sicuro è invece che il giovane manifestò un forte interesse per i maestri alla base
della scuola fiorentina, soprattutto Giotto e Masaccio, copiando direttamente i loro affreschi nelle cappelle di Santa Croce e nella Brancacci in Santa Maria del Carmine. Un
esempio è il massiccio San Pietro da Masaccio, copia dal Tributo. Condivi scrisse anche di una copia da una stampa tedesca di un Sant'Antonio tormentato da diavoli: l'opera è stata recentemente riconosciuta nel Tormento di sant'Antonio, copia da Martin
Schongauer, acquistato dal Kimbell Art Museum di Fort Worth, in Texas.
Al giardino neoplatonico (1488-1490)
Molto probabilmente Michelangelo non terminò il triennio formativo in bottega,
a giudicare dalle vaghe indicazioni della biografia del Condivi. Forse si burlò del proprio maestro, sostituendo un ritratto della mano di Domenico, che doveva rifare per
esercizio, con la sua copia, senza che il Ghirlandaio si accorgesse della differenza,
"con un suo compagno [...] ridendosene".
In ogni caso pare che su suggerimento di un altro apprendista, Francesco Granacci, Michelangelo iniziò a frequentare il giardino di San Marco, una sorta di accademia artistica sovvenzionata da Lorenzo il Magnifico in una sua proprietà nel quartiere
mediceo di Firenze. Qui si trovava una parte delle vaste collezioni di sculture antiche
dei Medici, che i giovani talenti, ansiosi di migliorare nell'arte dello scolpire, potevano copiare, sorvegliati e aiutati dal vecchio scultore Bertoldo di Giovanni, allievo diretto di Donatello. I biografi dell'epoca descrivono il giardino come un vero e proprio
centro di alta formazione, forse enfatizzando un po' la quotidiana realtà, ma è senza
dubbio che l'esperienza ebbe un impatto fondamentale sul giovane Michelangelo.
Tra i vari aneddoti legati all'attività del giardino è celebre nella letteratura michelangiolesca quello della Testa di fauno, una perduta copia in marmo di un'opera antica. Veduta dal Magnifico in visita al giardino, venne criticata bonariamente per la
perfezione della dentatura che si intravedeva dalla bocca dischiusa, inverosimile in
una figura anziana. Ma prima che il signore finisse il giro del giardino, il Buonarroti si
armò di trapano e martello per scalfire un dente e bucarne un altro, suscitando la sorpresa ammirazione di Lorenzo. Pare che in seguito all'episodio Lorenzo in persona
chiese il permesso a Ludovico Buonarroti di ospitare il ragazzo nel palazzo di via Lar91
ga, residenza della sua famiglia. Ancora le fonti parlano di una resistenza paterna, ma
le gravose necessità economiche della famiglia dovettero giocare un ruolo determinante, infatti alla fine Ludovico cedette in cambio di un posto di lavoro alla dogana,
retribuito otto scudi al mese.
Verso il 1490 quindi il giovane artista venne accolto come figlio adottivo nella
più importante famiglia in città. Ebbe così modo di conoscere direttamente le personalità del suo tempo, come Poliziano, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, che lo
resero partecipe, in qualche misura, della dottrina neoplatonica e dell'amore per la
rievocazione dell'antico. Conobbe inoltre i giovani rampolli di casa Medici, più o
meno a lui coetanei, che diventarono negli anni successivi alcuni dei suoi principali
committenti: Piero, Giuliano, poi papa Leone X, e Giulio, futuro Clemente VII.
Un altro fatto legato a quegli anni è la lite con Pietro Torrigiano, futuro scultore
di buon livello, noto soprattutto per il suo viaggio in Spagna dove esportò modi rina scimentali. Pietro era noto per la sua avvenenza e per un'ambizione pari almeno a
quella Michelangelo. Tra i due non correva buon sangue e una volta entrati in contrasto, durante un sopralluogo alla cappella Brancacci, finirono per azzuffarsi; ebbe la
peggio Michelangelo, che incassò un pugno del rivale in pieno volto, rompendosi il
naso e avendo deturpato per sempre il profilo.
Prime opere (1490-1492)
Al periodo del giardino e del soggiorno in casa Medici risalgono essenzialmente
due opere, la Madonna della Scala (1491 circa) e la Battaglia dei centauri, entrambe
conservate nel museo di Casa Buonarroti a Firenze. Si tratta di due opere molto diverse per tema (uno sacro e uno profano) e per tecnica (una in un sottile bassorilievo, l'altro in un prorompente altorilievo), che testimoniano alcune influenze fondamentali
nel giovane scultore, rispettivamente Donatello e la statuaria classica.
Nella Madonna della Scala l'artista riprese la tecnica dello stiacciato, creando
un'immagine di tale monumentalità da far pensare alle steli classiche; la figura della
Madonna, che occupa tutta l'altezza del rilievo, si staglia vigorosa, tra notazioni di vivace naturalezza, come il Bambino è assopito di spalle e i due putti, sulla scala da cui
prende il nome il rilievo, occupati nell'insolita attività di tendere un drappo.
Di poco posteriore è la Battaglia dei centauri, databile tra il 1491 e il 1492: secondo Condivi e Vasari fu eseguita per Lorenzo il Magnifico, su un soggetto proposto da
Angelo Poliziano, anche se i due biografi non concordano sull'esatta titolazione.
Per questo rilievo Michelangelo si rifece sia ai sarcofagi romani, sia alle formelle
dei pulpiti di Giovanni Pisano, e guardò anche al contemporaneo rilievo bronzeo di
Bertoldo di Giovanni con una battaglia di cavalieri, a sua volta ripreso da un sarcofago del Camposanto di Pisa. Nel rilievo michelangiolesco però viene esaltato soprattutto il dinamico groviglio dei corpi nudi in lotta e annullato ogni riferimento spaziale.
Michelangelo e Piero de' Medici (1492-1494)
Nel 1492 morì Lorenzo il Magnifico. Non è chiaro se i suoi eredi, in particolare il
primogenito Piero, mantennero l'ospitalità al giovane Buonarroti: indizi sembrano indicare che Michelangelo si ritrovò improvvisamente senza dimora, con un difficile ri92
torno alla casa paterna. Piero di Lorenzo de' Medici, succeduto al padre anche nel governo della città, è ritratto dai biografi michelangioleschi come un tiranno "insolente e
soperchievole", con un difficile rapporto con l'artista, che era di appena tre anni più
giovane di lui. Nonostante ciò, i fatti documentati non lasciano alcun indizio di una
rottura plateale tra i due, almeno fino alla crisi dell'autunno del 1494.
Nel 1493 infatti Piero, dopo essere stato nominato Operaio in Santo Spirito, dovette intercedere coi frati agostiniani in favore del giovane artista, affinché lo ospitassero e gli consentissero di studiare l'anatomia negli ambienti del convento, sezionando i cadaveri provenienti dall'ospedale del complesso, attività che giovò enormemente alla sua arte.
In questi anni Michelangelo scolpì il Crocifisso ligneo, realizzato come ringraziamento per il priore. Attribuito a questo periodo è anche il piccolo Crocifisso di legno
di tiglio recentemente acquistato dallo Stato italiano. Inoltre, probabilmente per ringraziare o per accattivarsi Piero, dovette scolpire, subito dopo la morte di Lorenzo, un
perduto Ercole.
Il 20 gennaio 1494 su Firenze si abbatté una violenta nevicata e Piero fece chiamare Michelangelo per fare una statua di neve nel cortile di palazzo Medici. L'artista
fece di nuovo un Ercole, che durò almeno otto giorni, sufficienti per fare apprezzare
l'opera a tutta la città. All'opera si ispirò forse Antonio del Pollaiolo per un bronzetto
oggi alla Frick Collection di New York.
Mentre cresceva lo scontento per il progressivo declino politico ed economico
della città, in mano a un ragazzo poco più che ventenne, la situazione esplose in occasione della calata in Italia dell'esercito francese (1494) capeggiato da Carlo VIII, nei
confronti del quale Piero adottò un'impudente politica di assecondamento, giudicato
eccessivo. Appena partito il monarca la situazione precipitò rapidamente, aizzata dal
predicatore ferrarese Girolamo Savonarola, con la cacciata dei Medici e il saccheggio
del palazzo e del giardino di San Marco.
Resosi conto dell'imminente crollo politico del suo mecenate, Michelangelo, al
pari di molti artisti dell'epoca, abbracciò i nuovi valori spirituali e sociali di Savonarola. Il frate, con le sue accalorate prediche e il suo rigorismo formale, accese in lui sia la
convinzione che la Chiesa dovesse essere riformata, sia i primi dubbi sul valore etico
da dare all'arte, orientandola su soggetti sacri.
Poco prima del precipitare della situazione, nell'ottobre 1494, Michelangelo, nella
paura di rimanere coinvolto nei disordini, quale possibile bersaglio poiché protetto
dai Medici, fuggì dalla città di nascosto, abbandonando Piero al suo destino: il 9 novembre venne infatti scacciato da Firenze, dove si instaurò un governo popolare.
Il primo viaggio a Bologna (1494-1495)
Per Michelangelo si trattava del primo viaggio fuori Firenze, con una prima tappa a Venezia, dove rimase poco, ma appena in tempo per vedere probabilmente il
monumento a Bartolomeo Colleoni del Verrocchio, dal quale trasse forse ispirazione
per i volti eroici e "terribili".
Si diresse poi a Bologna, in cui venne accolto, trovando ospitalità e protezione,
dal nobile Giovan Francesco Aldovrandini, molto vicino ai Bentivoglio che allora do93
minavano la città. Durante il soggiorno bolognese, durato circa un anno, l'artista si occupò, grazie all'intercessione del suo protettore, del completamento della prestigiosa
Arca di San Domenico, a cui avevano già lavorato Nicola Pisano e Niccolò dell'Arca.
Scolpì così un San Procolo, un Angelo reggicandelabro e terminò il San Petronio iniziato da Niccolò. Si tratta di figure che si allontanano dalla tradizione di primo Quattrocento delle altre statue di Niccolò dell'Arca, con una solidità e una compattezza innovative, nonché primo esempio di quella "terribilità" michelangiolesca nell'espressione fiera e eroica nel San Procolo.
A Bologna lo stile dell'artista era infatti velocemente maturato grazie alla scoperta di nuovi esempi, diversi dalla tradizione fiorentina, che lo influenzarono profondamente. Sicuramente ammirò i rilievi della Porta Magna di San Petronio di Jacopo della Quercia. Da essi attinse gli effetti di "forza trattenuta", data dai contrasti tra parti lisce e stondate e parti dai contorni rigidi e fratturati, nonché la scelta di soggetti umani
rustici e massicci, che esaltano le scene con gesti ampi, pose eloquenti e composizioni
dinamiche. Ma anche le stesse sculture di Niccolò dell'Arca devono essere state sottoposte ad analisi da parte del fiorentino, come il gruppo in cotto del Compianto sul
Cristo morto.
Inoltre Michelangelo rimase colpito dall'incontro con la pittura ferrarese, in particolare con le opere di Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti, come il monumentale Polittico Griffoni, gli espressivi affreschi della cappella Garganelli o la Pietà del
de' Roberti.
L'imbroglio del Cupido (1495-1496)
Rientrato a Firenze nel dicembre 1495, quando la situazione appariva ormai calmata, Michelangelo trovò un clima molto diverso. Nella città dominata dal governo
repubblicano di ispirazione savonaroliana erano nel frattempo rientrati alcuni Medici.
Si trattava di alcuni esponenti del ramo cadetto che, per l'occasione, presero il nome
di "Popolani" per accattivarsi le simpatie del popolo presentandosi come protettori e
garanti delle libertà comunali. Tra questi spiccava Lorenzo di Pierfrancesco, bis-cugino del Magnifico, che era da tempo una figura chiave della cultura cittadina, committente di Botticelli e di altri artisti. Fu lui a prendere sotto protezione Michelangelo,
commissionandogli due sculture entrambe perdute, un San Giovannino e un Cupido
dormiente.
Il Cupido in particolare fu al centro di una vicenda che portò di lì a poco Michelangelo a Roma, in quello che può dirsi l'ultimo dei suoi fondamentali viaggi formativi. Su suggerimento forse dello stesso Lorenzo e probabilmente all'insaputa di Michelangelo, si decise di sotterrare il Cupido, per patinarlo come un reperto archeologico e
rivenderlo sul fiorente mercato delle opere d'arte antiche a Roma. L'inganno riuscì,
infatti di lì a poco, con l'intermediazione del mercante Baldassarre Del Milanese, il
cardinale di San Giorgio Raffaele Riario, nipote di Sisto IV e uno dei più ricchi collezionisti del tempo, lo acquistò per la cospicua somma di duecento ducati: Michelangelo ne aveva incassati per la stessa opera appena trenta.
Poco dopo tuttavia le voci del fruttuoso inganno si sparsero fino ad arrivare alle
orecchie del cardinale, che per avere conferma e richiedere indietro i soldi, spedì a Firenze un suo intermediario Jacopo Galli, che risalì a Michelangelo e riuscì ad avere
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conferma della truffa. Il cardinale andò su tutte le furie, ma volle anche conoscere l'artefice capace di emulare gli antichi facendoselo spedire a Roma, nel luglio di quell'anno, dal Galli. Con quest'ultimo in seguito Michelangelo strinse un solido e proficuo
rapporto.
Primo soggiorno romano (1496-1501)
Arrivo a Roma e il Bacco (1496-1497)
Michelangelo accettò senza indugio l'invito a Roma del cardinale, nonostante
questi fosse nemico giurato dei Medici: di nuovo per convenienza voltava le spalle ai
suoi protettori.
Arrivò a Roma il 25 giugno 1496. Il giorno stesso il cardinale mostrò a Michelangelo la sua collezione di sculture antiche, chiedendogli se se la sentiva di fare qualcosa di simile. Neppure dieci giorni dopo, l'artista iniziò a scolpire una statua a tutto
tondo di un Bacco (oggi al Museo del Bargello), raffigurato come un adolescente in
preda all'ebbrezza, in cui è già leggibile l'impatto con la statuaria classica: l'opera infatti presenta una resa naturalistica del corpo, con effetti illusivi e tattili simili a quelli
della scultura ellenistica; inedita per l'epoca è l'espressività e l'elasticità delle forme,
unite al tempo stesso con un'essenziale semplicità dei particolari. Ai piedi di Bacco
scolpì un giovinetto che sta rubando qualche acino d'uva dalla mano del dio: questo
gesto destò molta ammirazione in tutti gli scultori del tempo poiché il giovane sembra davvero mangiare dell'uva con grande realismo. Il Bacco è una delle poche opere
perfettamente finite di Michelangelo e dal punto di vista tecnico segna il suo ingresso
nella maturità artistica.
L'opera, forse rifiutata dal cardinale Riario, rimase in casa di Jacopo Galli, dove
Michelangelo viveva. Il cardinale Riario mise a disposizione di Michelangelo la sua
cultura e la sua collezione, contribuendo con ciò in maniera determinante al migliora mento del suo stile, ma soprattutto lo introdusse nell'ambiente cardinalizio dal quale
sarebbero arrivate presto importantissime commissioni. Eppure, ancora una volta Michelangelo mostrò ingratitudine verso il mecenate di turno: a proposito del Riario
fece scrivere dal suo biografo Condivi che era un ignorante e non gli aveva commissionato nulla.
Pietà (1497-1499)
Grazie sempre all'intermediazione di Jacopo Galli, Michelangelo ricevette altre
importanti commissioni in ambito ecclesiastico, tra cui forse la Madonna di Manchester, la tavola dipinta della Deposizione per Sant'Agostino, forse il perduto dipinto
con le Stimmate di san Francesco per San Pietro in Montorio, e, soprattutto, una Pietà
in marmo per la chiesa di Santa Petronilla, oggi in San Pietro.
Quest'ultima opera, che suggellò la definitiva consacrazione di Michelangelo nell'arte scultorea - ad appena ventidue anni - era stata commissionata dal cardinale
francese Jean de Bilhères Lagranlos, ambasciatore di Carlo VIII presso papa Alessandro VI, che desiderava forse adoperarla per la propria sepoltura. Il contatto tra i due
dovette avvenire nel novembre 1497, in seguito al quale l'artista partì alla volta di
Carrara per scegliere un blocco di marmo adeguato; la firma del contratto vero e proprio si ebbe poi solo nell'agosto del 1498. Il gruppo, fortemente innovativo rispetto
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alla tradizione scultorea delle Pietà tipicamente nordica, venne sviluppato con una
composizione piramidale, con la Vergine come asse verticale e il corpo morto del Cristo come asse orizzontale, mediate dal massiccio panneggio. La finitura dei particolari
venne condotta alle estreme conseguenze, tanto da dare al marmo effetti di traslucido
e di cerea morbidezza. Entrambi i protagonisti mostrano un'età giovane, tanto che
sembra che lo scultore si sia ispirato al passo "Figlia di tuo figlio".
La Pietà fu importante nell'esperienza artistica di Michelangelo non solo perché
fu il suo primo capolavoro ma anche perché fu la prima opera da lui fatta in marmo
di Carrara, che da questo momento divenne la materia primaria per la sua creatività.
A Carrara l'artista manifestò un altro aspetto della personalità: la consapevolezza del
proprio talento. Lì infatti acquistò non solo il blocco di marmo per la Pietà, ma anche
diversi altri blocchi, nella convinzione che - considerato il suo talento - le occasioni
per utilizzarli non sarebbero mancate. Cosa ancora più insolita per un artista di quei
tempi, Michelangelo si convinse che per scolpire le proprie statue non aveva bisogno
di committenti: avrebbe potuto scolpire di propria iniziativa opere da vendere una
volta terminate. In pratica Michelangelo diventava un imprenditore di sé stesso e investiva sul proprio talento senza aspettare che altri lo facessero per lui.
Rientro a Firenze (1501-1504)
Passaggio per Siena (1501)
Nel 1501 Michelangelo decise di tornare a Firenze. Prima di partire Jacopo Galli
gli ottenne una nuova commissione, questa volta per il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, futuro papa Pio III. Si trattava di realizzare quindici statue di Santi di
grandezza leggermente inferiore al naturale, per l'altare Piccolomini nel Duomo di
Siena, composto architettonicamente una ventina di anni prima da Andrea Bregno.
Alla fine l'artista ne realizzò solo quattro (San Paolo, San Pietro, un San Pio e San Gregorio), spedendole da Firenze fino al 1504, per di più con un uso massiccio di aiuti. La
commissione delle statue senesi, destinate a nicchie anguste, iniziava infatti a essere
ormai troppo stretta per la sua fama, in luce soprattutto delle prestigiose opportunità
che si stavano profilando a Firenze.
Rientro a Firenze: il David (1501)
Nel 1501 Michelangelo era già rientrato a Firenze, spinto da necessità legate a
"domestici negozi". Il suo ritorno coincise con l'avvio di una stagione di commissioni
di grande prestigio, che testimoniano la grande reputazione che l'artista si era conquistato durante gli anni passati a Roma.
Il 16 agosto del 1501 l'Opera del Duomo di Firenze gli affidò ad esempio una co lossale statua del David da collocare in uno dei contrafforti esterni posti nella zona
absidale della cattedrale. Si trattava di un'impresa resa complicata dal fatto che il
blocco di marmo assegnato era stato precedentemente sbozzato da Agostino di Duccio nel 1464 e da Antonio Rossellino nel 1476, col rischio che fossero stati ormai asportati porzioni di marmo indispensabili alla buona conclusione del lavoro.
Nonostante la difficoltà, Michelangelo iniziò a lavorare su quello che veniva
chiamato "il Gigante" nel settembre del 1501 e completò l'opera in tre anni. L'artista
affrontò il tema dell'eroe in maniera insolita rispetto all'iconografia data dalla tradi96
zione, rappresentandolo come un uomo giovane e nudo, dall'atteggiamento pacato
ma pronto a una reazione, quasi a simboleggiare, secondo molti, il nascente ideale politico repubblicano, che vedeva nel cittadino-soldato - e non nel mercenario - l'unico
in grado di poter difendere le libertà repubblicane. I fiorentini riconobbero immediatamente la statua come un capolavoro. Così anche se era nata per l'Opera del Duomo,
la Signoria decise di farne il simbolo della città e come tale venne collocata nel luogo
col maggior valore simbolico: piazza della Signoria. A decidere di questa collocazione
della statua fu una commissione appositamente nominata e composta dai migliori artisti della città, tra i quali Davide Ghirlandaio, Simone del Pollaiolo, Filippino Lippi,
Sandro Botticelli, Antonio e Giuliano da Sangallo, Andrea Sansovino, Leonardo da
Vinci, Pietro Perugino.
Leonardo da Vinci, in particolare, votò per una posizione defilata del David, sotto una nicchia nella Loggia della Signoria, confermando le voci di rivalità e cattivi
rapporti tra i due geni.
Leonardo e Michelangelo
Ma se Leonardo dimostrò interesse nel David, copiandolo in un suo disegno
(sebbene non potesse condividere la spiccata muscolarità dell'opera), anche Michelangelo fu forse influenzato dall'arte di Leonardo. Nel 1501 il maestro di Vinci espose
nella Santissima Annunziata un cartone con la Sant'Anna con la Vergine, il Bambino e
l'agnellino (perduto), che "fece maravigliare tutti gl'artefici, ma finita ch'ella fu, nella
stanza durarono due giorni d’andare a vederla gl'uomini e le donne, i giovani et i vec chi". Lo stesso Michelangelo vide il cartone, restando forse impressionato dalle nuove
idee pittoriche di avvolgimento atmosferico e di indeterminatezza spaziale e psicologica, ed è quasi certo che l'abbia studiato, come dimostrano i disegni di quegli anni,
dai tratti più dinamici, con una maggiore animazione dei contorni e con una maggiore attenzione al problema del legame tra le figure, risolto spesso in gruppi articolati in
maniera dinamica. La questione dell'influenza leonardesca è un argomento controverso tra gli studiosi, ma una parte di essi ne legge le tracce nei due tondi scultorei da lui
eseguiti negli anni immediatamente successivi.
Nuove commissioni (1502-1504)
Il David tenne occupato Michelangelo fino al 1504, senza impedire però che si
imbarcasse in altri progetti, spesso a carattere pubblico, come il perduto David bronzeo per un maresciallo del Re di Francia (1502), una Madonna col Bambino per il mercante di panni fiammingo Alexandre Mouscron per la sua cappella familiare a Bruges
(1503) e una serie di tondi.
Nel 1503-1505 circa scolpì il Tondo Pitti, realizzato in marmo su commissione di
Bartolomeo Pitti e oggi al Museo del Bargello. In questa scultura spicca il diverso rilievo dato ai soggetti, dalla figura appena accennata di Giovanni Battista (precoce
esempio di "non-finito"), alla finitezza della Vergine, la cui testa ad altorilievo arriva
ad uscire dal confine della cornice.
Tra il 1503 e il 1504 realizzò un tondo dipinto per Agnolo Doni, rappresentante la
Sacra Famiglia con altre figure. In essa, i protagonisti sono grandiose proporzioni e
dinamicamente articolati, sullo sfondo di un gruppo di ignudi. I colori sono audace97
mente vivaci, squillanti, e i corpi trattati in maniera scultorea ebbero un effetto folgorante sugli artisti contemporanei. Evidente è qui il distacco netto e totale dalla pittura
leonardesca: per Michelangelo la migliore pittura è quella che maggiormente si avvicina alla scultura, cioè quella che possedeva il più elevato grado di plasticità possibile.
Curiosa è la vicenda legata al pagamento dell'opera: dopo la consegna il Doni, mercante molto attento alle economie, stimò l'opera una cifra "scontata" rispetto al pattuito, facendo infuriare l'artista che si riprese la tavola, esigendo semmai il doppio del
prezzo convenuto. Al mercante non restò che pagare senza esitazione pur di ottenere
il dipinto. Al di là del valore aneddotico dell'episodio, lo si può annoverare fra i primissimi esempi (se non il primo in assoluto) di ribellione dell'artista nei confronti del
committente, secondo il concetto allora assolutamente nuovo della superiorità dell'artista-creatore rispetto al pubblico (e quindi alla committenza).
Del 1504-1506 circa è infine il marmoreo Tondo Taddei, commissionato da Taddeo Taddei e ora alla Royal Academy of Arts di Londra: si tratta di un'opera dall'attri buzione più incerta, dove comunque spicca l'effetto non-finito, presente nel trattamento irregolare del fondo dal quale le figure sembrano emergere, forse un omaggio
all'indefinito spaziale e all'avvolgimento atmosferico di Leonardo.
Gli Apostoli per il Duomo (1503)
Il 24 aprile 1503, Michelangelo ricevette anche un'impegnativa con i consoli dell'Arte della Lana fiorentina per la realizzazione di dodici statue marmoree a grandezza naturale degli Apostoli, destinate a decorare le nicchie nei pilastri che reggono la
cupola della cattedrale fiorentina, da completarsi al ritmo di una all'anno.
Il contratto non poté essere onorato per varie vicissitudini e l'artista fece in tempo a sbozzare solo un San Matteo, uno dei primi, vistosi esempi di non-finito.
La Battaglia di Cascina (1504)
Tra l'agosto e il settembre 1504, gli venne commissionato un monumentale affresco per la Sala Grande del Consiglio in Palazzo Vecchio che doveva decorare una delle pareti, alta più di sette metri. L'opera doveva celebrare le vittorie fiorentine, in particolare l'episodio della Battaglia di Cascina, vinta contro i pisani nel 1364, che doveva
andare a fare pendant con la Battaglia di Anghiari dipinta da Leonardo sulla parete
vicina.
Michelangelo fece in tempo a realizzare il solo cartone, sospeso nel 1505, quando
partì per Roma, e ripreso l'anno dopo, nel 1506, prima di andare perduto; divenuto
subito uno strumento di studio obbligatorio per i contemporanei, e la sua memoria è
tramandata sia da studi autografi che da copie di altri artisti. Più che sulla battaglia in
sé, il dipinto si focalizzava sullo studio anatomico delle numerose figure di "ignudi",
colte in pose di notevole sforzo fisico.
Il ponte sul Corno d'Oro (1504 circa)
Come riporta Ascanio Condivi, tra il 1504 e il 1506 il sultano di Costantinopoli
avrebbe proposto all'artista, la cui fama iniziava già a travalicare i confini nazionali,
di occuparsi della progettazione di un ponte sul Corno d'Oro, tra Istanbul e Pera. Pare
che l'artista avesse addirittura preparato un modello per la colossale impresa e alcune
lettere confermano l'ipotesi di un viaggio nella capitale ottomana.
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Si tratterebbe del primo cenno alla volontà di imbarcarsi in un grande progetto
di architettura, molti anni prima dell'esordio ufficiale in quest'arte con la facciata per
San Lorenzo a Firenze.
Il progetto per il tamburo di Santa Maria del Fiore (1507)
Nell'estate 1507 Michelangelo fu incaricato dagli Operai di Santa Maria del Fiore
di presentare, entro la fine del mese di agosto, un disegno o un modello per il concor so relativo al completamento del tamburo della cupola del Brunelleschi. Secondo Giuseppe Marchini, Michelangelo avrebbe inviato alcuni disegni ad un legnaiolo per la
costruzione del modello, che lo stesso studioso ha riconosciuto in quello identificato
con il numero 143 nella serie conservata presso il Museo dell'Opera del Duomo. Questo presenta un'impostazione sostanzialmente filologica, tesa a mantenere una certa
continuità con la preesistenza, mediante l'inserimento di una serie di specchiature rettangolari in marmo verde di Prato allineate ai capitelli delle paraste angolari; era prevista un'alta trabeazione, chiusa da un cornicione dalle forme analoghe a quello di Palazzo Strozzi. Tuttavia questo modello non fu accolto dalla commissione giudicatrice,
che successivamente approvò il disegno di Baccio d'Agnolo; il progetto prevedeva
l'inserimento di un massiccio ballatoio alla sommità, ma i lavori furono interrotti nel
1515, sia per lo scarso favore ottenuto, sia a causa dell'opposizione di Michelangelo,
che, secondo il Vasari, definì l'opera di Baccio d'Agnolo una gabbia per grilli.
Intorno al 1516 Michelangelo eseguì alcuni disegni (conservati presso Casa Buonarroti) e fece costruire, probabilmente, un nuovo modello ligneo, identificato, seppur
con ampie riserve, col numero 144 nell'inventario del Museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore. Ancora una volta si registra l'abolizione del ballatoio, a favore di un
maggiore risalto degli elementi portanti; in particolare un disegno mostra l'inserimento di alte colonne binate libere in corrispondenza degli angoli dell'ottagono, sormontate da una serie di cornici fortemente aggettanti (un'idea che sarà successivamente
elaborata anche per la cupola della basilica di San Pietro in Vaticano). Le idee di Michelangelo non furono comunque concretizzate.
A Roma sotto Giulio II (1505-1513)
La tomba di Giulio II, primo progetto (1505)
Fu probabilmente Giuliano da Sangallo a raccontare a papa Giulio II Della Rovere, eletto nel 1503, gli strabilianti successi fiorentini di Michelangelo. Papa Giulio infatti si era dedicato a un ambizioso programma di governo che intrecciava saldamente politica e arte, circondandosi dei più grandi artisti viventi (tra cui Bramante e, in seguito, Raffaello) nell'obiettivo di restituire a Roma e alla sua autorità la grandezza del
passato imperiale.
Chiamato a Roma nel marzo 1505, Michelangelo ottenne il compito di realizzare
una sepoltura monumentale per il papa, da collocarsi nella tribuna (in via di completamento) della basilica di San Pietro. Artista e committente si accordarono in tempi
relativamente brevi (appena due mesi) sul progetto e sul compenso, permettendo a
Michelangelo, riscosso un consistente acconto, di dirigersi subito a Carrara per scegliere personalmente i blocchi di marmo da scolpire.
Il primo progetto, noto tramite le fonti, prevedeva una colossale struttura archi99
tettonica isolata nello spazio, con una quarantina di statue, dimensionate in scala superiore al naturale, su tutte e quattro le facciate dell'architettura.
Il lavoro di scelta e estrazione dei blocchi richiese otto mesi, dal maggio al dicembre del 1505.
Secondo il fedele biografo Ascanio Condivi, in quel periodo Michelangelo pensò
a un grandioso progetto, di scolpire un colosso nella montagna stessa, che potesse
guidare i naviganti: i sogni di tale irraggiungibile grandezza facevano parte dopotutto della personalità dell'artista e non sono ritenuti frutto della fantasia del biografo,
anche per l'esistenza di un'edizione del manoscritto con note appuntate su dettature
di Michelangelo stesso (in cui l'opera è definita "una pazzia", ma che l'artista avrebbe
realizzato se avesse potuto vivere di più). Nella sua fantasia Michelangelo sognava di
emulare gli antichi con progetti che avrebbero richiamato meraviglie come il colosso
di Rodi o la statua gigantesca di Alessandro Magno che Dinocrates, citato in Vitruvio,
avrebbe voluto modellare nel Monte Athos.
Rottura e riconciliazione col papa (1505-1508)
Durante la sua assenza si mise in moto a Roma una sorta di complotto ai danni
di Michelangelo, mosso dalle invidie tra gli artisti della cerchia papale. La scia di po polarità che aveva anticipato l'arrivo a Roma della scultore fiorentino doveva infatti
averlo reso subito impopolare tra gli artisti al servizio di Giulio II, minacciando il favore del pontefice e la relativa disposizione dei fondi che, per quanto immensi, non
erano infiniti. Pare che fu in particolare il Bramante, architetto di corte incaricato di
avviare - pochi mesi dopo la stipula del contratto della tomba - il grandioso progetto
di rinnovo della basilica costantiniana, a distogliere l'attenzione del papa dal progetto
della sepoltura, giudicata di cattivo auspicio per una persona ancora in vita e nel pieno di ambiziosi progetti.
Fu così che nella primavera del 1506 Michelangelo, mentre tornava a Roma carico di marmi e di aspettative dopo gli estenuanti mesi di lavoro nelle cave, fece l'amara
scoperta che il suo progetto mastodontico non era più al centro degli interessi del
papa, accantonato in favore dell'impresa della basilica e di nuovi piani bellici contro
Perugia e Bologna.
Il Buonarroti chiese invano un'udienza chiarificatrice per avere la conferma della
commissione ma, non riuscendo a farsi ricevere nonché sentendosi minacciato (scrisse
«s'i' stava a Roma penso che fussi fatta prima la sepoltura mia, che quella del papa»),
fuggì da Roma sdegnato e in tutta fretta, il 18 aprile 1506. A niente servirono i cinque
corrieri papali mandati per dissuaderlo e tornare indietro, che lo inseguirono raggiungendolo a Poggibonsi. Rintanato nell'amata e protettiva Firenze, riprese alcuni lavori interrotti, come il San Matteo e la Battaglia di Cascina. Ci vollero ben tre brevi
del papa inviate alla Signoria di Firenze e le continue insistenze del gonfaloniere Pier
Soderini («Noi non vogliamo per te far guerra col papa e metter lo Stato nostro a risico»), perché Michelangelo prendesse infine in considerazione l'ipotesi della riconciliazione. L'occasione venne data dalla presenza del papa a Bologna, dove aveva sconfitto i Bentivoglio: qui l'artista raggiunse il pontefice il 21 novembre 1506 e ottenne l'incarico di fondere un suo ritratto in bronzo, per la facciata di San Petronio.
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L'artista si fermò quindi a Bologna per il tempo necessario all'impresa, circa due
anni. A luglio 1507 avvenne la fusione e il 21 febbraio 1508 l'opera venne scoperta e
installata, ma non ebbe vita lunga. Poco amata per l'espressione del papa-conquistatore, più minacciosa che benevolente, fu abbattuta in una notte del 1511, durante il rovesciamento dalla città e il rientro dei Bentivoglio. I rottami, quasi cinque tonnellate
di metallo, vennero inviati al duca di Ferrara Alfonso d'Este, rivale del papa, che li
fuse in una bombarda, battezzata per dileggio la Giulia, mentre la testa bronzea era
conservata in un armadio.
La volta della Cappella Sistina (1508-1512)
« Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un'idea apprezzabile di cosa un uomo solo sia in grado di ottenere. »
(Johann Wolfgang von Goethe)
I rapporti con Giulio II rimasero comunque sempre tempestosi, per il forte temperamento che li accomunava, irascibile e orgoglioso, ma anche estremamente ambizioso. A marzo del 1508 l'artista si sentiva sciolto dagli obblighi col pontefice, prendendo in affitto una casa a Firenze e dedicandosi ai progetti sospesi, in particolare
quello degli Apostoli per la cattedrale. Nell'aprile Pier Soderini gli manifestò la volontà di affidargli una scultura di Ercole e Caco. Il 10 maggio però una breve papale lo
raggiunge ingiungendogli di presentarsi alla corte papale.
Subito Giulio II decise di occupare l'artista con una nuova, prestigiosa impresa,
la ridecorazione della volta della Cappella Sistina. A causa del processo di assestamento dei muri, si era infatti aperta, nel maggio del 1504, una crepa nel soffitto della
cappella rendendola inutilizzabile per molti mesi; rinforzata con catene poste nel locale sovrastante da Bramante, la volta aveva bisogno però di essere ridipinta. L'impresa si dimostrava di proporzioni colossali ed estremamente complessa, ma avrebbe
dato a Michelangelo l'occasione di dimostrare la sua capacità di superare i limiti in
un'arte quale la pittura, che tutto sommato non sentiva come sua e non gli era congeniale. L'8 maggio di quell'anno l'incarico venne dunque accettato e formalizzato.
Come nel progetto della tomba, anche l'impresa della Sistina fu caratterizzata da
intrighi e invidie ai danni di Michelangelo, che sono documentati da una lettera del
carpentiere e capomastro fiorentino Piero Rosselli spedita a Michelangelo il 10 maggio 1506. In essa il Rosselli racconta di una cena servita nelle stanze vaticane qualche
giorno prima, a cui aveva assistito. Il papa in quell'occasione aveva confidato a Bramante l'intenzione di affidare a Michelangelo la ridipintura della volta, ma l'architetto
urbinate aveva risposto sollevando dubbi sulle reali capacità del fiorentino, scarsamente esperto nell'affresco.
Nel contratto del primo progetto erano previsti dodici apostoli nei peducci, mentre nel campo centrale partimenti con decorazioni geometriche. Di questo progetto rimangono due disegni di Michelangelo, uno al British Museum e uno a Detroit.
Insoddisfatto, l'artista ottenne di poter ampliare il programma iconografico, rac101
contando la storia dell'umanità "ante legem", cioè prima che Dio inviasse le Tavole
della Legge: al posto degli Apostoli mise sette Profeti e cinque Sibille, assisi su troni
fiancheggiati da pilastrini che sorreggono la cornice; quest'ultima delimita lo spazio
centrale, diviso in nove scompartimenti attraverso la continuazione delle membrature
architettoniche ai lati di troni; in questi scomparti sono raffigurati episodi tratti della
Genesi, disposti in ordine cronologico partendo dalla parete dell'altare: Separazione
della luce dalle tenebre, Creazione degli astri e delle piante, Separazione della terra
dalle acque, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale e cacciata dal
Paradiso Terrestre, Sacrificio di Noè, Diluvio Universale, Ebbrezza di Noè; nei cinque
scomparti che sormontano i troni lo spazio si restringe lasciando posto a Ignudi che
reggono ghirlande con foglie di quercia, allusione al casato del papa cioè Della Rovere, e medaglioni bronzei con scene tratte dall'Antico Testamento; nelle lunette e nelle
vele vi sono le quaranta generazioni degli Antenati di Cristo, riprese dal Vangelo di
Matteo; infine nei pennacchi angolari si trovano quattro scene bibliche, che si riferiscono ad altrettanti eventi miracolosi a favore del popolo eletto: Giuditta e Oloferne,
David e Golia, Punizione di Aman e il Serpente di bronzo. L'insieme è organizzato in
un partito decorativo complesso, che rivela le sue indubbie capacità anche in campo
architettonico, destinate a rivelarsi pienamente negli ultimi decenni della sua attività.
Il tema generale degli affreschi della volta è il mistero della Creazione di Dio, che
raggiunge il culmine nella realizzazione dell'uomo a sua immagine e somiglianza.
Con l'incarnazione di Cristo, oltre a riscattare l'umanità dal peccato originale, si raggiunge il perfetto e ultimo compimento della creazione divina, innalzando l'uomo ancora di più verso Dio. In questo senso appare più chiara la celebrazione che fa Michelangelo della bellezza del corpo umano nudo. Inoltre la volta celebra la concordanza
fra Antico e Nuovo Testamento, dove il primo prefigura il secondo, e la previsione
della venuta di Cristo in ambito ebraico (con i profeti) e pagano (con le sibille).
Montato il ponteggio Michelangelo iniziò a dipingere le tre storie di Noè gremite
di personaggi. Il lavoro, di per sé massacrante, era aggravato dall'insoddisfazione di
sé tipica dell'artista, dai ritardi nel pagamento dei compensi e dalle continue richieste
di aiuto da parte dei familiari. Nelle scene successive la rappresentazione divenne via
via più essenziale e monumentale: il Peccato originale e cacciata dal Paradiso Terrestre e la Creazione di Eva mostrano corpi più massicci e gesti semplici ma retorici;
dopo un'interruzione dei lavori, e vista la volta dal basso nel suo complesso e senza i
ponteggi, lo stile di Michelangelo cambiò, accentuando maggiormente la grandiosità
e l'essenzialità delle immagini, fino a rendere la scena occupata da un'unica grandiosa
figura annullando ogni riferimento al paesaggio circostante, come nella Separazione
della luce dalle tenebre. Nel complesso della volta queste variazioni stilistiche non si
notano, anzi vista dal basso gli affreschi hanno un aspetto perfettamente unitario,
dato anche dall'uso di un'unica, violenta cromia, recentemente riportata alla luce dal
restauro concluso nel 1994.
In definitiva, la difficile sfida su un'impresa di dimensioni colossali e con una
tecnica a lui non congeniale, con il diretto confronto coi grandi maestri fiorentini presso i quali si era formato (a partire da Ghirlandaio), poté dirsi pienamente riuscita oltre
ogni aspettativa. Lo straordinario affresco venne inaugurato la vigilia di Ognissanti
del 1512. Qualche mese dopo Giulio II moriva.
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Il secondo e terzo progetto per la tomba di Giulio II (1513-1516)
Nel febbraio 1513, con la morte del papa, gli eredi decisero di riprendere il progetto della tomba monumentale, con un nuovo disegno e un nuovo contratto nel
maggio di quell'anno. Si può immaginare Michelangelo desideroso di riprendere lo
scalpello, dopo quattro anni di estenuante lavoro in un'arte che non era la sua prediletta. La modifica più sostanziale del nuovo monumento era l'addossamento a una
parete e l'eliminazione della camera mortuaria, caratteristiche che vennero mantenute
fino al progetto finale. L'abbandono del monumento isolato, troppo grandioso e dispendioso per gli eredi, comportò un maggiore affollamento di statue sulle facce visibili. Ad esempio le quattro figure sedute, invece che disporsi sulle due facciate, erano
adesso previste in prossimità dei due angoli sporgenti sulla fronte. La zona inferiore
aveva una partitura analoga, ma senza il portale centrale, sostituito da una fascia liscia che evidenziava l'andamento ascensionale. Lo sviluppo laterale era ancora consistente, poiché era ancora previsto il catafalco in posizione perpendicolare alla parete,
sul quale la statua del papa giacente era retta, da due figure alate. Nel registro inferiore invece, su ciascun lato, restava ancora spazio per due nicchie che riprendevano lo
schema del prospetto anteriore. Più in alto, sotto una corta volta a tutto sesto retta da
pilastri, si trovava una Madonna col Bambino entro una mandorla e altre cinque figure.
Tra le clausole contrattuali c'era anche quella che legava l'artista, almeno sulla
carta, a lavorare esclusivamente alla sepoltura papale, con un termine massimo di sette anni per il completamento.
Lo scultore si mise al lavoro di buona lena e sebbene non rispettò la clausola
esclusiva per non precludesi ulteriori guadagni extra (come scolpendo il primo Cristo
della Minerva, nel 1514), realizzò i due Prigioni oggi al Louvre (Schiavo morente e
Schiavo ribelle) e il Mosè, che poi venne riutilizzato nella versione definitiva della
tomba. I lavori vennero spesso interrotti per viaggi alle cave di Carrara.
Nel luglio 1516 si giunse a un nuovo contratto per un terzo progetto, che riduceva il numero delle statue. I lati vennero accorciati e il monumento andava assumendo
così l'aspetto di una monumentale facciata, mossa da decorazioni scultoree. Al posto
della partitura liscia al centro della facciata (dove si trovava la porta) viene forse previsto un rilievo bronzeo e, nel registro superiore, il catafalco viene sostituito da una figura del papa sorretto come in una Pietà da due figure sedute, coronate da una Madonna col Bambino sotto una nicchia. I lavori alla sepoltura vengono bruscamente interrotti dalla commissione da parte di Leone X dei lavori alla basilica di San Lorenzo.
Michelangelo e Sebastiano del Piombo
In quegli stessi anni, una competizione sempre più accesa con l'artista dominante
della corte papale, Raffaello, lo portò a stringere un sodalizio con un altro talentuoso
pittore, il veneziano Sebastiano del Piombo. Occupato da altri incarichi, Michelangelo
spesso forniva disegni e cartoni al collega, che li trasformava in pittura. Tra questi ci
fu ad esempio la Pietà di Viterbo.
Nel 1516 nacque una competizione tra Sebastiano e Raffaello, scatenata da una
doppia commissione del cardinale Giulio de' Medici per due pale destinata alla sua
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sede di Narbona, in Francia. Michelangelo offrì un cospicuo aiuto a Sebastiano, disegnando la figura del Salvatore e del miracolato nella tela della Resurrezione di Lazzaro (oggi alla National Gallery di Londra). L'opera di Raffaello invece, la Trasfigurazione non venne completata per la scomparsa dell'artista nel 1520.
A Firenze per i papi medicei (1516-1534)
La facciata di San Lorenzo (1516-1519)
Nel frattempo infatti il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni, era salito al so glio pontificio col nome di Leone X e la città di Firenze era tornata ai Medici nel 1511,
comportando la fine del governo repubblicano con alcune apprensioni in particolare
per i parenti di Michelangelo, che avevano perso incarichi d'ordine politico e i relativi
compensi. Michelangelo lavorò per il nuovo papa fin dal 1514, quando rifece la facciata della sua cappella a Castel Sant'Angelo (dal novembre, opera perduta); nel 1515 la
famiglia Buonarroti ottenne dal papa il titolo di conti palatini.
In occasione di un viaggio del papa a Firenze nel 1516, la facciata della chiesa "di
famiglia" dei Medici, San Lorenzo, era stata ricoperta di apparati effimeri realizzati da
Jacopo Sansovino e Andrea del Sarto. Il pontefice decise allora di indire un concorso
per realizzare una vera facciata, a cui parteciparono Giuliano da Sangallo, Raffaello,
Andrea e Jacopo Sansovino, nonché Michelangelo stesso, su invito del papa. La vittoria andò a quest'ultimo, all'epoca impegnato a Carrara e Pietrasanta per scegliere i
marmi per il sepolcro di Giulio II. Il contratto è datato 19 gennaio 1518.
Il progetto di Michelangelo, per il quale vennero eseguiti numerosi disegni e ben
due modelli lignei (uno è a oggi a Casa Buonarroti) prevedeva una struttura a nartece
con un prospetto rettangolare, forse ispirato a modelli di architettura classica, scandito da potenti membrature animate da statue in marmo, bronzo e da rilievi. Si sarebbe
trattato di un passo fondamentale in architettura verso una concezione nuova di facciata, non più basata sulla mera aggregazione di elementi singoli, ma articolata in
modo unitario, dinamico e fortemente plastico.
Il lavoro procedette però a rilento, a causa della scelta del papa di servirsi dei più
economici marmi di Seravezza, la cui cava era mal collegata col mare, rendendo difficile il loro trasporto per via fluviale fino a Firenze. Nel settembre 1518 Michelangelo
sfiorò anche la morte per una colonna di marmo che, durante il trasporto su un carro,
si staccò colpendo micidialmente un operaio accanto a lui, un evento che lo sconvolse
profondamente, come raccontò in una lettera a Berto da Filicaia datata 14 settembre
1518. In Versilia Michelangelo creò la strada per il trasporto dei marmi, ancora oggi
esistente (anche se ampliata nel 1567 da Cosimo I). I blocchi venivano calati dalla cava
di Trambiserra ad Azzano, davanti al Monte Altissimo, fino al Forte dei Marmi (insediamento sorto proprio in quell'occasione) e da lì imbarcate in mare e spedite a Firenze tramite l'Arno.
Nel marzo 1520 il contratto fu rescisso, per la difficoltà dell'impresa e i costi elevati. In quel periodo Michelangelo lavorò ai Prigioni per la tomba di Giulio II, in particolare ai quattro incompiuti oggi alla Galleria dell'Accademia. Scolpì probabilmente
anche la statua del Genio della Vittoria di Palazzo Vecchio e alla nuova versione del
Cristo risorto per Metello Vari (opera portata a Roma nel 1521), rifinita da suoi assi104
stenti e posta nella basilica di Santa Maria sopra Minerva. Tra le commissioni ricevute
e non portate a termine c'è una consulenza per Pier Soderini, per una cappella nella
chiesa romana di San Silvestro in Capite (1518).
La Sagrestia Nuova (1520-1534)
Il mutamento dei desideri papali venne causato dai tragici aventi familiari legati
alla morte degli ultimi eredi diretti della dinastia medicea: Giuliano Duca di Nemours
nel 1516 e, soprattutto, Lorenzo Duca d'Urbino nel 1519. Per ospitare degnamente i
resti dei due cugini, nonché quelli dei fratelli Magnifici Lorenzo e Giuliano, rispettivamente padre e zio di Leone X, il papa maturò l'idea di creare una monumentale
cappella funebre, la Sagrestia Nuova, da ospitare nel complesso di San Lorenzo. L'o pera venne affidata a Michelangelo prima ancora del definitivo annullamento della
commissione della facciata; dopotutto l'artista poco tempo prima, il 20 ottobre 1519, si
era offerto al pontefice per realizzare una sepoltura monumentale per Dante in Santa
Croce, manifestando quindi la sua disponibilità a nuovi incarichi. La morte di Leone
sospese il progetto solo per breve tempo, poiché già nel 1523 venne eletto suo cugino
Giulio, che prese il nome di Clemente VII e confermò a Michelangelo tutti gli incarichi.
Il primo progetto michelangiolesco era quello di un monumento isolato al centro
della sala ma, in seguito a discussioni con i committenti, lo cambiò prevedendo di collocare le tombe dei Capitani addossate al centro delle pareti laterali, mentre quelle dei
Magnifici, addossate entrambe alla parete di fondo davanti all'altare.
L'opera venne iniziata nel 1525 circa: la struttura in pianta si rifaceva alla Sagrestia Vecchia, sempre nella chiesa di San Lorenzo, del Brunelleschi: a pianta quadrata e
con piccolo sacello anch'esso quadrato. Grazie alle membrature, in pietra serena e a
ordine gigante, l'ambiente acquista un ritmo più serrato e unitario; inserendo un mezzanino tra le pareti e le lunette e aprendo tra queste ultime delle finestre architravate,
dà alla sala un potente senso ascensionale concluso nella volta a cassettoni di ispirazione antica.
Le tombe che sembrano far parte della parete, riprendono nella parte alta le edicole, che sono inserite sopra le otto porte dell'ambiente, quattro vere e quattro finte.
Le tombe dei due capitani si compongono di un sarcofago curvilineo sormontato da
due statue distese con le Allegorie del Tempo: in quella di Lorenzo il Crepuscolo e
l'Aurora, mentre in quella di Giuliano la Notte e il Giorno. Si tratta di figure massicce
e dalle membra poderose che sembrano gravare sui sarcofagi quasi a spezzarli e a liberare le anime dei defunti, ritratti nelle statue inserite sopra di essi. Inserite in una
nicchia della parete, le statue non sono riprese dal vero ma idealizzate mentre contemplano: Lorenzo in una posa pensierosa e Giuliano con uno scatto repentino della
testa. La statua posta sull'altare con la Madonna Medici è simbolo di vita eterna ed è
fiancheggiata dalle statue dei Santi Cosma e Damiano (protettori dei Medici) eseguite
su disegno del Buonarroti, rispettivamente da Giovanni Angelo Montorsoli e Raffaello da Montelupo.
All'opera, anche se non continuativamente, Michelangelo lavorò fino al 1534, lasciandola incompiuta: senza il monumento funebre dei Magnifici, le sculture dei Fiumi alla base delle tombe dei Capitani e, forse, di affreschi nelle lunette. Si tratta co105
munque di uno straordinario esempio di simbiosi perfetta tra scultura e architettura.
Nel frattempo Michelangelo continuava a ricevere altre commissioni che solo in
piccola parte eseguiva: nell'agosto 1521 inviò a Roma il Cristo della Minerva, nel 1522
un certo Frizzi gli commissionò una tomba a Bologna e il cardinale Fieschi gli chiese
una Madonna scolpita, entrambi progetti mai eseguiti; nel 1523 ricevette nuove sollecitazioni da parte degli eredi di Giulio II, in particolare Francesco Maria Della Rovere,
e lo stesso anno gli venne commissionata, senza successo, una statua di Andrea Doria
da parte del Senato genovese, mentre il cardinal Grimani, patriarca di Aquileia, gli
chiese un dipinto o una scultura mai eseguiti. Nel 1524 papa Clemente gli commissionò la biblioteca Medicea Laurenziana, i cui lavori avviarono a rilento, e un ciborio
(1525) per l'altare maggiore di San Lorenzo, sostituito poi dalla Tribuna delle reliquie;
nel 1526 si arrivò a una drammatica rottura coi Della Rovere per un nuovo progetto,
più semplice, per la tomba di Giulio II, che venne rifiutato. Altre richieste inevase di
progetti di tombe gli pervengono dal duca di Suessa e da Barbazzi canonico di San
Petronio a Bologna.
L'insurrezione e l'assedio (1527-1530)
Un motivo comune nella vicenda biografica di Michelangelo è l'ambiguo rapporto con i propri committenti, che più volte ha fatto parlare di ingratitudine dell'artista
verso i suoi patrocinatori. Anche con i Medici il suo rapporto fu estremamente ambiguo: nonostante siano stati loro a spingerlo verso la carriera artistica e a procurargli
commissioni di altissimo rilievo, la sua convinta fede repubblicana lo portò a covare
sentimenti di odio contro di essi, vedendoli come la principale minaccia contro la libertas fiorentina.
Fu così che nel 1527, arrivata in città la notizia del Sacco di Roma e del durissimo
smacco inferto a papa Clemente, la città di Firenze insorse contro il suo delegato, l'odiato Alessandro de' Medici, cacciandolo e instaurando un nuovo governo repubblicano. Michelangelo aderì pienamente al nuovo regime, con un appoggio ben oltre il
piano simbolico. Il 22 agosto 1528 si mise al servizio del governo repubblicano, riprendendo la vecchia commissione dell'Ercole e Caco (ferma dal 1508), che propose di
mutare in un Sansone con due filistei. Il 10 gennaio 1529 venne nominato membro dei
"Nove di milizia", occupandosi di nuovi piani difensivi, specie per il colle di San Miniato al Monte. Il 6 aprile di quell'anno riceve l'incarico di "Governatore generale sopra le fortificazioni", in previsione dell'assedio che le forze imperiali si apprestavano a
cingere. Visitò appositamente Pisa e Livorno nell'esercizio del proprio ufficio, e si
recò anche a Ferrara per studiarne le fortificazioni (qui Alfonso I d'Este gli commissionò una Leda con il cigno, poi andata perduta), rientrando a Firenze il 9 settembre.
Preoccupato per l'aggravarsi della situazione, il 21 settembre fuggì a Venezia, in previsione di trasferirsi in Francia alla corte di Francesco I, che però non gli aveva ancora
fatto offerte concrete. Qui venne però raggiunto prima dal bando del governo fiorentino che lo dichiarò ribelle, il 30 settembre. Tornò allora nella sua città il 15 novembre,
riprendendo la direzione delle fortezze.
Di questo periodo rimangono disegni di fortificazione, realizzate attraverso una
complicata dialettica di forme concave e convesse che sembrano macchine dinamiche
atte all'offesa e alla difesa. Con l'arrivo degli Imperiali a minacciare la città, a lui è at 106
tribuita l'idea di usare la platea di San Miniato al Monte come avamposto con cui cannoneggiare sul nemico, proteggendo il campanile dai pallettoni nemici con un'armatura fatta di materassi imbottiti.
Le forze in campo per gli assedianti erano però soverchianti e con la sua disperata difesa la città non poté altro che negoziare un trattato, in parte poi disatteso, che
evitasse la distruzione e il saccheggio che pochi anni prima avevano colpito Roma.
All'indomani del ritorno dei Medici in città (12 agosto 1530) Michelangelo, che sapeva
di essersi fortemente compromesso e temendo quindi una vendetta, si nasconde rocambolescamente e riuscì a fuggire dalla città (settembre 1530), riparando a Venezia.
Qui restò brevemente, assalito da dubbi sul da farsi. In questo breve periodo soggiornò all'isola della Giudecca per mantenersi lontano dalla vita sfarzosa dell'ambiente
cittadino e leggenda vuole che avesse presentato un modello per il ponte di Rialto al
doge.
La Biblioteca Medicea Laurenziana (1530-1534)
Il perdono di Clemente VII non si fece però attendere, a patto che l'artista riprendesse immediatamente i lavori a San Lorenzo dove, oltre alla Sagrestia, si era aggiunto cinque anni prima il progetto di una monumentale libreria. È chiaro come il papa
fosse mosso, più che dalla pietà verso l'uomo, dalla consapevolezza di non poter rinunciare all'unico artista capace di dare forma ai sogni di gloria della sua dinastia, nonostante la sua indole ingrata e pronta al tradimento. All'inizio degli anni trenta scolpì anche un Apollino per Baccio Valori, il feroce governatore di Firenze imposto dal
papa.
La biblioteca pubblica, annessa alla chiesa di San Lorenzo, venne interamente
progettata dal Buonarroti: nella sala di lettura si rifece al modello della biblioteca di
Michelozzo in San Marco, eliminando la divisione in navate e realizzando un ambiente con le mura scandite da finestre sormontate da mezzanini tra pilastrini, tutti con
modanature in pietra serena. Disegnò anche i banchi in legno e forse lo schema di soffitto intagliato e pavimento con decorazioni in cotto, organizzati in medesime partiture. Il capolavoro del progetto è il vestibolo, con un forte slancio verticale dato dalle
colonne binate che cingono il portale timpanato e dalle edicole sulle pareti.
Solo nel 1558 Michelangelo fornì il modello in argilla per lo scalone, da lui progettato in legno, ma realizzato per volere di Cosimo I de' Medici, in pietra serena: le
ardite forme rettilinee e ellittiche, concave e convesse, vengono indicate come una
precoce anticipazione dello stile barocco.
Il 1531 fu un anno intenso: eseguì il cartone del Noli me tangere, proseguì i lavori alla Sagrestia e alla Liberia di San Lorenzo e per la stessa chiesa progettò la Tribuna
delle reliquie; Inoltre gli vennero chiesti, senza esito, un progetto dal duca di Mantova, il disegno di una casa da Baccio Valori, e un tomba per il cardinale Cybo; le fatiche
lo condussero anche a una grave malattia.
Nell'aprile 1532 si ebbe il quarto contratto per la tomba di Giulio II, con solo sei
statue. In quello stesso anno Michelangelo conobbe a Roma l'intelligente e bellissimo
Tommaso de' Cavalieri, con il quale si legò appassionatamente, dedicandogli disegni
e composizioni poetiche. Per lui approntò, tra l'altro, i disegni col Ratto di Ganimede
107
e la Caduta di Fetonte, che sembrano precorrere, nella potente composizione e nel
tema del compiersi fatale del destino, il Giudizio Universale.
Il 22 settembre 1533 incontrò a San Miniato al Tedesco Clemente VII e, secondo
la tradizione, in quell'occasione si parlò per la prima volta della pittura di un Giudizio universale nella Sistina. Lo stesso anno morì il padre Ludovico.
Nel 1534 gli incarichi fiorentini procedevano ormai sempre più stancamente, con
un ricorso sempre maggiori di aiuti.
L'epoca di Paolo III (1534-1545)
Il Giudizio Universale (1534-1541)
L'artista non approvava il regime politico tiranneggiante del Duca Alessandro,
per cui con l'occasione di nuovi incarichi a Roma, tra cui il lavoro per gli eredi di Giulio II, lasciò Firenze dove non mise mai più piede, nonostante gli accattivanti inviti di
Cosimo I negli anni della vecchiaia.
Clemente VII gli aveva commissionato la decorazione della parete di fondo della
Cappella Sistina con il Giudizio Universale, ma non fece in tempo a vedere nemmeno
l'inizio dei lavori, perché morì pochi giorni dopo l'arrivo dell'artista a Roma. Mentre
l'artista riprendeva la Sepoltura di papa Giulio, venne eletto al soglio pontificio Paolo
III, che non solo confermò l'incarico del Giudizio, ma nominò anche Michelangelo pittore, scultore e architetto del Palazzo Vaticano.
I lavori alla Sistina poterono essere avviati alla fine del 1536, per proseguire fino
all'autunno del 1541. Per liberare l'artista dagli incarichi verso gli eredi Della Rovere
Paolo III arrivò ad emettere un motu proprio il 17 novembre 1536. Se fino ad allora i
vari interventi alla cappella papale erano stati coordinati e complementari, con il Giudizio si assistette al primo intervento distruttivo, che sacrificò la pala dell'Assunta di
Perugino, le prime due storie quattrocentesche di Gesù e di Mosè e due lunette dipinte dallo stesso Michelangelo più di vent'anni prima.
Al centro dell'affresco vi è il Cristo giudice con vicino la Madonna che rivolge lo
sguardo verso gli eletti; questi ultimi formano un'ellissi che segue i movimenti del
Cristo in un turbine di santi, patriarchi e profeti. A differenza delle rappresentazioni
tradizionale, tutto è caos e movimento, e nemmeno i santi sono esentati dal clima di
inquietudine, attesa, se non paura e sgomento che coinvolge espressivamente i partecipanti.
Le licenze iconografiche, come i santi senza aureola, gli angeli apteri e il Cristo
giovane e senza barba, possono essere allusioni al fatto che davanti al giudizio ogni
singolo uomo è uguale. Questo fatto, che poteva essere letto come un generico richiamo ai circoli della Riforma Cattolica, unitamente alla nudità e alla posa sconveniente
di alcune figure (santa Caterina d'Alessandria prona con alle spalle san Biagio), scatenarono contro l'affresco i severi giudizi di buona parte della curia. Dopo la morte dell'artista, e col mutato clima culturale dovuto anche al Concilio di Trento, si arrivò al
punto di provvedere al rivestimento dei nudi e alla modifica delle parti più sconvenienti.
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Una statua equestre
Nel 1537, verso febbraio, il duca d'Urbino Francesco Maria I Della Rovere gli
chiese un abbozzo per un cavallo destinato forse a un monumento equestre, che risulta completato il 12 ottobre. L'artista però si rifiutò di inviare il progetto al duca, poiché insoddisfatto. Dalla corrispondenza si apprende anche che entro i primi di luglio
Michelangelo gli aveva progettato anche una saliera: la precedenza del duca rispetto a
tante commissioni inevase di Michelangelo è sicuramente legata alla pendenza dei lavori alla tomba di Giulio II, di cui Francesco Maria era erede.
Quello stesso anno a Roma riceve la cittadinanza onoraria in Campidoglio.
Piazza del Campidoglio
Paolo III, al pari dei suoi predecessori, fu un entusiasta committente di Michelan gelo.
Con il trasferimento sul Campidoglio della statua equestre di Marc'Aurelio, simbolo dell'autorità imperiale e per estensione della continuità tra la Roma imperiale e
quella papale, il papa incaricò Michelangelo, nel 1538, di studiare la ristrutturazione
della piazza, centro dell'amministrazione civile romana fin dal Medioevo e in stato di
degrado.
Tenendo conto delle preesistenze vennero mantenuti e trasformati i due edifici
esistenti, già ristrutturati nel XV secolo da Rossellino, realizzando di conseguenza la
piazza a pianta trapezoidale con sullo sfondo il palazzo dei Senatori, dotato di scala a
doppia rampa, e delimitata ai lati da due palazzi: il Palazzo dei Conservatori e il cosiddetto Palazzo Nuovo costruito ex novo, entrambi convergenti verso la scalinata di
accesso al Campidoglio. Gli edifici vennero caratterizzati da un ordine gigante a pilastri corinzi in facciata, con massicce cornici e architravi. Al piano terra degli edifici laterali i pilastri dell'ordine gigante sono affiancati da colonne che formano un insolito
portico architravato, in un disegno complessivo molto innovativo che rifugge programmaticamente dall'uso dell'arco. il lato interno del portico presenta invece colonne alveolate che in seguito ebbero una gran diffusione, I lavori furono compiuti molto
dopo la morte del maestro, mentre la pavimentazione della piazza fu realizzata solo
ai primi del Novecento, utilizzando una stampa di Étienne Dupérac che riporta quello
che doveva essere il progetto complessivo previsto da Michelangelo, secondo un reticolo curvilineo inscritto in un'ellisse con al centro il basamento ad angoli smussati per
la statua del Marc'Aurelio, anch'esso disegnato da Michelangelo.
Verso il 1539 iniziò forse il Bruto per il cardinale Niccolò Ridolfi, opera dai significati politici legata ai fuorusciti fiorentini.
La Crocifissione per Vittoria Colonna (1541)
Dal 1537 circa Michelangelo aveva iniziato la vivida amicizia con la marchesa di
Pescara Vittoria Colonna: essa lo introdusse al circolo viterbese del cardinale Reginald Pole, frequentato, tra gli altri, da Vittore Soranzo, Apollonio Merenda, Pietro
Carnesecchi, Pietro Antonio Di Capua, Alvise Priuli e la contessa Giulia Gonzaga.
In quel circolo culturale si aspirava a una riforma della Chiesa Cattolica, sia interna sia nei confronti del resto della Cristianità, alla quale avrebbe dovuto riconci109
liarsi. Queste teorie influenzarono Michelangelo e altri artisti. Risale a quel periodo la
Crocifissione realizzata per Vittoria, databile al 1541 e forse dispersa, oppure mai dipinta. Di quest'opera ci restano solamente alcuni disegni preparatori di incerta attribuzione, il più famoso è senz'altro quello conservato al British Museum, mentre buone copie si trovano nella concattedrale di Santa Maria de La Redonda e alla Casa Buonarroti. Secondo i progetti raffigurava un giovane e sensuale Cristo, simboleggiante
un'allusione alle teorie riformiste cattoliche che vedevano nel sacrificio del sangue di
Cristo l'unica via di salvezza individuale.
Uno schema analogo presentava anche la Pietà per Vittoria Colonna, dello stesso
periodo, nota da un disegno a Boston e da alcune copie di allievi.
In quegli anni a Roma Michelangelo poteva quindi contare su una sua cerchia di
amici ed estimatori, tra cui oltre alla Colonna, Tommaso de' Cavalieri e artisti quali
Tiberio Calcagni e Daniele da Volterra.
Cappella Paolina (1542-1550)
Dal 1542 il papa gli commissionò quella che rappresenta la sua ultima opera pittorica, dove ormai anziano lavorò per quasi dieci anni, in contemporanea ad altri impegni. Il papa Farnese, geloso e seccato del fatto che il luogo ove la celebrazione di
Michelangelo pittore raggiungesse i suoi massimi livelli fosse dedicato ai papi Della
Rovere, gli affidò la decorazione della sua cappella privata in Vaticano che prese il
suo nome (Cappella Paolina). Michelangelo realizzò due affreschi, lavorando da solo
con faticosa pazienza, procedendo con piccole "giornate", fitte di interruzioni e pentimenti.
Il primo a essere realizzato, la Conversione di Saulo (1542-1545), presenta una
scena inserita in un paesaggio spoglio e irreale, con compatti grovigli di figure alternati a spazi vuoti e, al centro, la luce accecante che da Dio scende su Saulo a terra; il
secondo, il Martirio di San Pietro (1545-1550), ha una croce disposta in diagonale in
modo da costituire l'asse di un ipotetico spazio circolare con al centro il volto del martire.
L'opera nel suo complesso è caratterizzata da una drammatica tensione e improntata a un sentimento di mestizia, generalmente interpretata come espressione
della religiosità tormentata di Michelangelo e del sentimento di profondo pessimismo
che caratterizza l'ultimo periodo della sua vita.
La conclusione dei lavori alla tomba di Giulio II (1544-1545)
Dopo gli ultimi accordi del 1542, la tomba di Giulio II venne posta in essere nella
chiesa di San Pietro in Vincoli tra il 1544 e il 1545 con le statue del Mosè, di Lia (Vita
attiva) e di Rachele (Vita contemplativa) nel primo ordine.
Nel secondo ordine, al fianco del pontefice disteso con sopra la Vergine col Bambino si trovano una Sibilla e un Profeta. Anche questo progetto risente dell'influsso
del circolo di Viterbo; Mosè uomo illuminato e sconvolto dalla visione di Dio è affiancato da due modi di essere, ma anche da due modi di salvezza non necessariamente
in conflitto tra di loro: la vita contemplativa viene rappresentata da Rachele che prega
come se per salvarsi usasse unicamente la Fede, mentre la vita attiva, rappresentata
da Lia, trova la sua salvezza nell'operare. L'interpretazione comune dell'opera d'arte è
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che si tratti di una specie di posizione di mediazione tra Riforma e Cattolicesimo dovuta sostanzialmente alla sua intensa frequentazione con Vittoria Colonna e il suo entourage.
Nel 1544 disegnò anche la tomba di Francesco Bracci, nipote di Luigi del Riccio
nella cui casa aveva ricevuto assistenza durante una grave malattia che l'aveva colpito
in giugno. Per tale indisposizione, nel marzo aveva rifiutato a Cosimo I de' Medici l'esecuzione di un busto. Lo stesso anno avviarono i lavori al Campidoglio, progettati
nel 1538.
Vecchiaia (1546-1564)
Gli ultimi decenni di vita di Michelangelo sono caratterizzati da un progressivo
abbandono della pittura e anche della scultura, esercitata ormai solo in occasione di
opere di carattere privato. Prendono consistenza invece numerosi progetti architettonici e urbanistici, che proseguono sulla strada della rottura del canone classico, anche
se molti di essi vennero portati a termine in periodi seguenti da altri architetti, che
non sempre rispettarono il suo disegno originale.
Palazzo Farnese (1546-1550)
A gennaio 1546 Michelangelo si ammalò, venendo curato in casa di Luigi del Riccio. Il 29 aprile, ripresosi, promise una statua in bronzo, una in marmo e un dipinto a
Francesco I di Francia, che però non riuscì a fare.
Con la morte di Antonio da Sangallo il Giovane nell'ottobre 1546, a Michelangelo
vennero affidate le fabbriche di Palazzo Farnese e della basilica di San Pietro, entrambe lasciate incompiute dal primo.
Tra il 1547 e il 1550 l'artista progettò dunque il completamento della facciata e
del cortile di Palazzo Farnese: nella facciata variò, rispetto al progetto del Sangallo, alcuni elementi che danno all'insieme una forte connotazione plastica e monumentale
ma al tempo stesso dinamica ed espressiva. Per ottenere questo risultato accrebbe in
altezza il secondo piano, inserì un massiccio cornicione e sormontò il finestrone centrale con uno stemma colossale (i due ai lati sono successivi).
Basilica di San Pietro in Vaticano (1546-1564)
Per quanto riguarda la basilica vaticana, la storia del progetto michelangiolesco è
ricostruibile da una serie di documenti di cantiere, lettere, disegni, affreschi e testimonianze dei contemporanei, ma diverse informazioni sono in contrasto tra loro. Infatti,
Michelangelo non redasse mai un progetto definitivo per la basilica, preferendo procedere per parti. In ogni caso, subito dopo la morte dell'artista toscano furono pubblicate diverse stampe nel tentativo di restituire una visione complessiva del disegno
originario; le incisioni di Étienne Dupérac si imposero subito come le più diffuse e accettate.
Michelangelo pare che aspirasse al ritorno alla pianta centrale del Bramante, con
un quadrato inscritto nella croce greca, rifiutando sia la pianta a croce latina introdotta da Raffaello Sanzio, sia i disegni del Sangallo, che prevedevano la costruzione di
un edificio a pianta centrale preceduto da un imponente avancorpo.
Demolì parti realizzate dai suoi predecessori e, rispetto alla perfetta simmetria
111
del progetto bramantesco, introdusse un asse preferenziale nella costruzione, ipotizzando una facciata principale schermata da un portico composto da colonne d'ordine
gigante (non realizzato). Per la massiccia struttura muraria, che doveva correre lungo
tutto il perimetro della fabbrica, ideò un unico ordine gigante a paraste corinzie con
attico, mentre al centro della costruzione costruì un tamburo, con colonne binate (sicuramente realizzato dall'artista), sul quale fu innalzata la cupola emisferica a costoloni conclusa da lanterna (la cupola fu completata, con alcune differenze rispetto al presunto modello originario, da Giacomo Della Porta).
Tuttavia, la concezione michelangiolesca fu in gran parte stravolta da Carlo Maderno, che all'inizio del XVII secolo completò la basilica con l'aggiunta di una navata
longitudinale e di una imponente facciata sulla base delle spinte della Controriforma.
Nel 1547 morì Vittoria Colonna, poco dopo la scomparsa dell'altro amico Luigi
del Riccio: si tratta di perdite molto amare per l'artista. L'anno successivo, il 9 gennaio
1548 muore suo fratello Giovansimone Buonarroti. Il 27 agosto il Consiglio municipale di Roma propose di affidare all'artista il restauro del ponte di Santa Maria. Nel 1549
Benedetto Varchi pubblicò a Firenze "Due lezzioni", tenute su un sonetto di Michelangelo. Nel gennaio del 1551 alcuni documenti della cattedrale di Padova accennano a
un modello di Michelangelo per il coro.
La serie delle Pietà (1550-1555 circa)
Dal 1550 circa iniziò a realizzare la cosiddetta Pietà dell'Opera del Duomo (dalla
collocazione attuale nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze), opera destinata alla
sua tomba e abbandonata dopo che l'artista frantumò, in un accesso d'ira due o tre
anni più tardi, il braccio e la gamba sinistra del Cristo, spezzando anche la mano della
Vergine. Fu in seguito Tiberio Calcagni a ricostruire il braccio e rifinire la Maddalena
lasciata dal Buonarroti allo stato di non-finito: il gruppo costituito dal Cristo sorretto
dalla Vergine, dalla Maddalena e da Nicodemo è disposto in modo piramidale con al
vertice quest'ultimo; la scultura viene lasciata a diversi gradi di finitura con la figura
del Cristo allo stadio più avanzato. Nicodemo sarebbe un autoritratto del Buonarroti,
dal cui corpo sembra uscire la figura del Cristo: forse un riferimento alla sofferenza
psicologica che lui, profondamente religioso, portava dentro di sé in quegli anni.
La Pietà Rondanini venne definita, nell'inventario di tutte le opere rinvenute nel
suo studio dopo la morte, come: "Un'altra statua principiata per un Cristo et un'altra
figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite".
Michelangelo nel 1561 donò la scultura al suo servitore Antonio del Francese
continuando però ad apportarvi modifiche sino alla morte; il gruppo è costituito da
parti condotte a termine, come il braccio destro di Cristo, e da parti non finite, come il
torso del Salvatore schiacciato contro il corpo della Vergine quasi a formare un tutt'uno. Successivamente alla scomparsa di Michelangelo, in un periodo imprecisato, questa scultura fu trasferita nel palazzo Rondanini di Roma e da questi ha mutuato il
nome. Attualmente si trova nel Castello Sforzesco, acquistata nel 1952 dalla città di
Milano da una proprietà privata.
Le biografie
Nel 1550 uscì la prima edizione delle Vite de' più eccellenti pittori, scultori e ar112
chitettori di Giorgio Vasari che conteneva una biografia di Michelangelo, la prima
scritta di un artista vivente, in posizione conclusiva dell'opera che celebrava l'artista
come vertice di quella catena di grandi artefici che partiva da Cimabue e Giotto, raggiungendo nella sua persona la sintesi di perfetta padronanza delle arti (pittura, scultura e architettura) in grado non solo di rivaleggiare ma anche di superare i mitici
maestri dell'antichità.
Nonostante le premesse celebrative ed encomiastiche, Michelangelo non gradì
l'operazione, per le numerose scorrettezze e soprattutto per una versione a lui non
congeniale della tormentata vicenda della tomba di Giulio II. L'artista allora in quegli
anni lavorò con un suo fedele collaboratore, Ascanio Condivi, facendo pubblicare una
nuova biografia che riportava la sua versione dei fatti (1553). A questa attinse Vasari,
oltre che in seguito a una sua diretta frequentazione dell'artista negli ultimi anni di
vita, per la seconda edizione delle Vite, pubblicata nel 1568.
Queste opere alimentarono la leggenda dell'artista, quale genio tormentato e incompreso, spinto oltre i propri limiti dalle condizioni avverse e dalle mutevoli richieste dei committenti, ma capace di creare opere titaniche e insuperabili. Mai avvenuto
fino ad allora era poi che questa leggenda si formasse quando ancora l'interessato era
in vita. Nonostante questa invidiabile posizione raggiunta dal Buonarroti in vecchiaia, gli ultimi anni della sua esistenza sono tutt'altro che tranquilli, animati da una
grande tribolazione interiore e da riflessioni tormentate sulla fede, la morte e la salvezza, che si trovano anche nelle sue opere (come le Pietà) e nei suoi scritti.
Altri avvenimenti degli anni cinquanta
Nel 1550 Michelangelo aveva terminato gli affreschi alla Cappella Paolina e nel
1552 era stato completato il Campidoglio. In quell'anno l'artista fornì anche il disegno
per la scala nel cortile del Belvedere in Vaticano. In scultura lavorò alla Pietà e in letteratura si occupa delle proprie biografie.
Nel 1554 Ignazio di Loyola dichiarò che Michelangelo aveva accettato di progettare la nuova chiesa del Gesù a Roma, ma il proposito non ebbe seguito. Nel 1555 l'elezione al soglio pontificio di Marcello II compromise la presenza dell'artista a capo
del cantiere di San Pietro, ma subito dopo venne eletto Paolo IV, che lo confermò nell'incarico, indirizzandolo soprattutto ai lavori alla cupola. Sempre nel '55 morirono
suo fratello Gismondo e Francesco Amadori detto l'Urbino che lo aveva servito per
ventisei anni; una lettera a Vasari di quell'anno gli dà istruzioni per il compimento del
ricetto della Libreria Laurenziana.
Nel settembre 1556 l'avvicinarsi dell'esercito spagnolo indusse l'artista ad abbandonare Roma per riparare a Loreto. Mentre faceva sosta a Spoleto venne raggiunto da
un appello pontificio che lo obbligò a tornare indietro. Al 1557 risale il modello ligneo
per la cupola di San Pietro e nel 1559 fece disegni per la basilica di San Giovanni dei
Fiorentini, nonché per la cappella Sforza in Santa Maria Maggiore e per la scalinata
della Biblioteca Medicea Laurenziana. Forse quell'anno avviò anche la Pietà Rondanini.
Porta Pia a Roma (1560)
Nel 1560 fece un disegno per Caterina de' Medici con un disegno per la tomba di
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Enrico II. Inoltre lo stesso anno progetto la tomba di Giangiacomo de' Medici per il
Duomo di Milano, eseguita poi da Leone Leoni.
Verso il 1560 progettò anche la monumentale Porta Pia, vera e propria scenografia urbana con la fronte principale verso l'interno della città. La porta con frontone
curvilineo interrotto e inserito in un altro triangolare è fiancheggiata da paraste scanalate, mentre sul setto murario ai lati si aprono due finestre timpanate, con al di sopra altrettanti mezzanini ciechi. Dal punto di vista del linguaggio architettonico, Michelangelo manifestò uno spirito sperimentale ed anticonvenzionale tanto che si è
parlato di "anticlassicismo".
Santa Maria degli Angeli (1561)
Ormai vecchio, Michelangelo progettò nel 1561 una ristrutturazione della chiesa
di Santa Maria degli Angeli all'interno delle Terme di Diocleziano e dell'adiacente
convento dei padri certosini, avviati a partire dal 1562. Lo spazio della chiesa fu ottenuto con un intervento che, dal punto di vista murario, oggi si potrebbe definire minimale, con pochi setti di muro nuovi entro il grande spazio voltato del tepidarium delle terme, aggiungendo solo un profondo presbiterio e dimostrando un atteggiamento
moderno e non distruttivo nei confronti dei resti archeologici.
La chiesa ha un insolito sviluppo trasversale, sfruttando tre campate contigue coperte a crociera, a cui sono aggiunte due cappelle laterali quadrate.
Console dell'Accademia delle Arti del Disegno
Il 31 gennaio 1563 Cosimo I de' Medici fondò, su consiglio dell'architetto aretino
Giorgio Vasari, l'Accademia e Compagnia dell'Arte del Disegno di cui viene subito
eletto console proprio il Buonarroti. Mentre la Compagnia era una sorta di corporazione cui dovevano aderire tutti gli artisti operanti in Toscana, l'Accademia, costituita
solo dalle più eminenti personalità culturali della corte di Cosimo, aveva finalità di
tutela e supervisione sull'intera produzione artistica del principato mediceo. Si trattava dell'ultimo, accattivante invito rivolto a Michelangelo da parte di Cosimo per farlo
tornare a Firenze, ma ancora una volta l'artista declinò: la sua radicata fede repubblicana doveva probabilmente renderlo incompatibile col servizio al nuovo duca fiorentino.
La morte
A un solo anno dalla nomina, il 18 febbraio 1564, all'età di ottantotto anni, Michelangelo morì a Roma, nella sua residenza di piazza Macel de' Corvi (distrutta
quando venne creato il monumento a Vittorio Emanuele II), assistito da Tommaso de'
Cavalieri. Si dice che fino a tre giorni prima avesse lavorato alla Pietà Rondanini. Pochi giorni prima, il 21 gennaio, la Congregazione del Concilio di Trento aveva deciso
di far coprire le parti "oscene" del Giudizio Universale.
Nell'inventario redatto qualche giorno dopo il decesso (19 febbraio) sono registrati pochi beni, tra cui la Pietà, due piccole sculture di cui si ignorano le sorti (un
San Pietro e un piccolo Cristo portacroce), dieci cartoni, mentre i disegni e gli schizzi
pare che fossero stati bruciati poco prima di morire dal maestro stesso. In una cassa
viene poi ritrovato un cospicuo "tesoretto", degno di un principe, che nessuno si sarebbe immaginato in un'abitazione tanto povera.
114
Le solenni esequie a Firenze
La morte del maestro venne particolarmente sentita a Firenze, poiché la città non
era riuscita a onorare il suo più grande artista prima della morte, nonostante i tentativi di Cosimo. Il recupero dei suoi resti mortali e la celebrazione di esequie solenni divenne quindi un'assoluta priorità cittadina. A pochi giorni dalla morte, suo nipote
Lionardo Buonarroti, arrivò a Roma col preciso compito di recuperare la salma e organizzarne il trasporto, un'impresa forse ingigantita dal resoconto del Vasari nella seconda edizione delle Vite: secondo lo storico aretino i romani si sarebbero opposti alle
sue richieste, desiderando inumare l'artista nella basilica di San Pietro, al che Lionardo avrebbe trafugato il corpo di notte e in gran segreto prima di riprendere la strada
per Firenze.
Appena arrivata nella città toscana (11 marzo 1564), la bara venne portata in Santa Croce e ispezionata secondo un complesso cerimoniale, stabilito dal luogotenente
dell'Accademia delle Arti del Disegno, Vincenzo Borghini. Si trattò del primo atto funebre (12 marzo) che, per quanto solenne, venne presto superato da quello del 14 luglio 1564 in San Lorenzo, patrocinato dalla casata ducale e degno più di un principe
che di un artista. L'intera basilica venne addobbata riccamente con drappi neri e di tavole dipinte con episodi della sua vita; al centro venne predisposto un catafalco monumentale, ornato di pitture e sculture effimere, dalla complessa iconografia. L'orazione funebre venne scritta e letta da Benedetto Varchi, che esaltò "le lodi, i meriti, la
vita e l'opere del divino Michelangelo Buonarroti".
L'inumazione avvenne infine in Santa Croce, in un sepolcro monumentale disegnato da Giorgio Vasari, composto da tre figure piangenti che rappresentano la pittura, la scultura e l'architettura.
I funerali di stato suggellarono lo status raggiunto dall'artista e furono la consacrazione definitiva del suo mito, come artefice insuperabile, capace di raggiungere
vertici creativi in qualunque campo artistico e, più di quelli di qualunque altro, capaci
di emulare l'atto della creazione divina.
Rime
Da lui considerata come una "cosa sciocca", la sua attività poetica si viene caratterizzando, a differenza di quella usuale nel Cinquecento influenzata dal Petrarca, da
toni energici, austeri e intensamente espressivi, ripresi dalle poesie di Dante.
I più antichi componimenti poetici datano agli anni 1504-1505, ma è probabile
che ne abbia realizzati anche in precedenza, dato che sappiamo che molti suoi manoscritti giovanili andarono perduti.
La sua formazione poetica avvenne probabilmente sui testi di Petrarca e Dante,
conosciuti nella cerchia umanistica della corte di Lorenzo de' Medici. I primi sonetti
sono legati a vari temi collegati al suo lavoro artistico, a volte raggiungono il grottesco con immagini e metafore bizzarre. Successivi sono i sonetti realizzati per Vittoria
Colonna e per l'amato Tommaso de' Cavalieri; in essi Michelangelo si concentra maggiormente sul tema neoplatonico dell'amore, sia divino che umano, che viene tutto
giocato intorno al contrasto tra amore e morte, risolvendolo con soluzioni ora dram115
matiche, ora ironicamente distaccate.
Negli ultimi anni le sue rime si focalizzano maggiormente sul tema del peccato e
della salvezza individuale; qui il tono diventa amaro e a volte angoscioso, tanto da
realizzare vere e proprie visioni mistiche del divino.
Le rime di Michelangelo incontrarono una certa fortuna negli Stati Uniti, nell'Ottocento, dopo la loro traduzione da parte del grande filosofo Ralph Waldo Emerson.
La tecnica scultorea di Michelangelo
Da un punto di vista tecnico, Michelangelo scultore, come d'altronde spesso accade negli artisti geniali, non seguiva un processo creativo legato a regole fisse; ma in
linea di massima sono comunque tracciabili dei principi consueti o più frequenti.
Innanzitutto Michelangelo fu il primo scultore che, nella pietra, non tentò mai di
colorire né di dorare alcune parti delle statue; al colore preferiva infatti l'esaltazione
del "morbido fulgore" della pietra, spesso con effetti di chiaroscuro evidenti nelle statue rimaste prive dell'ultima finitura, con i colpi di scalpello che esaltano la peculiarità della materia marmorea.
Gli unici bronzi da lui eseguiti sono distrutti o perduti (il David De Rohan e il
Giulio II benedicente); l'esiguità del ricorso a tale materiale mostra con evidenza come
egli non amasse gli effetti "atmosferici" derivati dal modellare l'argilla. Egli dopotutto
si dichiarava artista "del levare", piuttosto che "del mettere", cioè per lui la figura finale nasceva da un processo di sottrazione della materia fino al nucleo del soggetto scultoreo, che era come già "imprigionato" nel blocco di marmo. In tale materiale finito
egli trovava il brillio pacato delle superfici lisce e limpide, che erano le più idonee per
valorizzare l'epidermide delle solide muscolature dei suoi personaggi.
Studi preparatori
Il procedimento tecnico con cui Michelangelo scolpiva ci è noto da alcune tracce
in studi e disegni e da qualche testimonianza. Pare che inizialmente, secondo l'uso degli scultori cinquecenteschi, predisponesse studi generali e particolari in forma di
schizzo e studio. Istruiva poi personalmente i cavatori con disegni (in parte ancora
esistenti) che fornissero un'idea precisa del blocco da tagliare, con misure in cubiti fiorentini, talora arrivando a delineare la posizione della statua entro il blocco stesso. A
volte oltre ai disegni preparatori eseguiva dei modellini in cera o argilla, cotti o no,
oggetto di alcune testimonianze, seppure indirette, e alcuni dei quali si conservano
ancora oggi, sebbene nessuno sia sicuramente documentato. Più raro è invece, pare, il
ricorso a un modello nelle dimensioni definitive, di cui resta però l'isolata testimonianza del Dio fluviale.
Col passare degli anni però dovette assottigliare gli studi preparatori in favore di
un attacco immediato alla pietra mosso da idee urgenti, suscettibili tuttavia di essere
profondamente mutate nel corso del lavoro (come nella Pietà Rondanini).
Preparazione del blocco
Il primo intervento sul blocco uscito dalla cava avveniva con la "cagnaccia", che
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smussava le superfici lisce e geometriche a seconda dell'idea da realizzare. Pare che
solo dopo questo primo appropriarsi del marmo Michelangelo tracciava sulla superficie resa irregolare un rudimentale segno col carboncino che evidenziava la veduta
principale (cioè frontale) dell'opera. La tecnica tradizionale prevedeva l'uso di quadrati o rettangoli proporzionali per riportare le misure dei modellini a quelle definitive, ma non è detto che Michelangelo facesse tale operazione a occhio. Un altro procedimento delle fasi iniziali dello scolpire era quello di trasformare la traccia a carboncino in una serie di forellini che guidassero l'affondo via via che il segno a matita scom pariva.
Sbozzatura
A questo punto aveva inizio la vera e propria scolpitura, che intaccava il marmo
a partire dalla veduta principale, lasciando intatte le parti più sporgenti ed addentrandosi man mano negli strati più profondi. Questa operazione avveniva con un
mazzuolo e con un grosso scalpello a punta, la subbia. Esiste una preziosa testimonianza di B. de Vigenère, che vide il maestro, ormai ultrasessantenne, accostarsi a un
blocco in tale fase: nonostante l'aspetto "non dei più robusti" di Michelangelo, egli è
ricordato mentre butta giù «scaglie di un durissimo marmo in un quarto d'ora», meglio di quanto avrebbero potuto fare tre giovani scalpellini in un tempo tre o quattro
volte maggiore, e si avventa «al marmo con tale impeto e furia, da farmi credere che
tutta l'opera dovesse andare in pezzi. Con un solo colpo spiccava scaglie grosse tre o
quattro dita, e con tanta esattezza al segno tracciato, che se avesse fatto saltar via un
tantin più di marmo correva il rischio di rovinar tutto».
Sul fatto che il marmo dovesse essere "attaccato" dalla veduta principale restano
le testimonianza di Vasari e Cellini, due devoti a Michelangelo, che insistono con convinzione sul fatto che l'opera dovesse essere lavorata inizialmente come se fosse un rilievo, ironizzando sul procedimento di avviare tutti i lati del blocco, trovandosi poi a
constatare come le vedute laterali e tergale non coincidano con quella frontale, richiedendo quindi "rattoppi" con pezzi di marmo, secondo un procedimento che «è arte da
certi ciabattini, i quali la fanno assai malamente». Sicuramente Michelangelo non usò
"rattoppamenti", ma non è da escludere che durante lo sviluppo della veduta frontale
egli non trascurasse le vedute secondarie, che ne erano diretta conseguenza. Tale procedimento è evidente in alcune opere non finite, come i celebri Prigioni che sembrano
liberarsi dalla pietra.
Scolpitura e livellatura
Dopo che la subbia aveva eliminato molto materiale, si passava alla ricerca in
profondità, che avveniva tramite scalpelli dentati: Vasari ne descrisse di due tipi, il
calcagnuolo, tozzo e dotato di una tacca e due denti, e la gradina, più fine e dotata di
due tacche e tre o più denti. A giudicare dalle tracce superstiti, Michelangelo doveva
preferire la seconda, con la quale lo scolpire procede «per tutto con gentilezza, gradinando la figura con la proporzione de' muscoli e delle pieghe». Si tratta di quei tratteggi ben visibili in varie opere michelangiolesche (si pensi al viso del Bambino nel
Tondo Pitti), che spesso convivono accanto a zone appena sbozzate con la subbia o
alle più semplici personalizzazioni iniziali del blocco (come nel San Matteo).
La fase successiva consisteva nella livellatura con uno scalpello piano, che elimi117
nava le tracce della gradina (una fase a metà dell'opera si vede nel Giorno), a meno
che tale operazione non venisse fatta con la gradina stessa.
Rifinitura
Appare evidente che il maestro, nell'impazienza di vedere palpitare le forme
ideate, passasse da un'operazione all'altra, attuando contemporaneamente le diverse
fasi operative. Restando sempre evidente la logica superiore che coordinava le diverse parti, la qualità dell'opera appariva sempre altissima, pur nei diversi livelli di finitezza, spiegando così come il maestro potesse interrompere il lavoro quando l'opera
era ancora "non-finita", prima ancora dell'ultima fase, spesso approntata dagli aiuti, in
cui si levigava la statua con raschietti, lime, pietra pomice e, in ultimo, batuffoli di paglia. Questa levigatura finale, presente ad esempio nella Pietà vaticana garantiva comunque quella straordinaria lucentezza, che si distaccava dalla granulosità delle opere dei maestri toscani del Quattrocento.
Il non finito di Michelangelo
Una delle questioni più difficili per la critica, nella pur complessa opera michelangiolesca, è il nodo del "non-finito". Il numero di statue lasciate incompiute dall'artista è infatti così elevato da rendere improbabile che le uniche cause siano fattori contingenti estranei al controllo dello scultore, rendendo alquanto probabile una sua volontà diretta e una certa compiacenza per l'incompletezza.
Le spiegazioni proposte dagli studiosi spaziano da fattori caratteriali (la continua
perdita di interesse dell'artista per le commissioni avviate) a fattori artistici (l'incompiuto come ulteriore fattore espressivo): ecco che le opere incompiute paiono lottare
contro il materiale inerte per venire alla luce, come nel celebre caso dei Prigioni, oppure hanno i contorni sfocati che differenziano i piani spaziali (come nel Tondo Pitti)
o ancora diventano tipi universali, senza caratteristiche somatiche ben definite, come
nel caso delle allegorie nelle tombe medicee.
Alcuni hanno collegato la maggior parte degli incompiuti a periodi di forte tormento interiore dell'artista, unito a una costante insoddisfazione, che avrebbe potuto
causare l'interruzione prematura dei lavori. Altri si sono soffermati su motivi tecnici,
legati alla particolare tecnica scultorea dell'artista basata sul "levare" e quasi sempre
affidata all'ispirazione del momento, sempre soggetta a variazioni. Così una volta arrivati all'interno del blocco, a una forma ottenuta cancellando via la pietra di troppo,
poteva capitare che un mutamento d'idea non fosse più possibile allo stadio raggiunto, facendo mancare i presupposti per poter portare avanti il lavoro (come nella Pietà
Rondanini).
La personalità
La leggenda dell'artista geniale ha spesso messo in seconda luce l'uomo nella sua
interezza, dotato anche di debolezze e lati oscuri. Queste caratteristiche sono state oggetto di studi in anni recenti, che, sfrondando l'aurea divina della sua figura, hanno
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messo a nudo un ritratto più veritiero e accurato di quello che emerge dalle fonti antiche, meno accondiscendente ma sicuramente più umano.
Tra i difetti più evidenti della sua personalità c'erano l'irascibilità (alcuni sono arrivati a ipotizzare che avesse la sindrome di Asperger), la permalosità, l'insoddisfazione continua. Numerose contraddizioni animano il suo comportamento, tra cui
spiccano, per particolare forza, l'atteggiamento verso i soldi e i rapporti con la famiglia, che sono due aspetti comunque intimamente correlati.
Sia il carteggio, sia i libri di Ricordi di Michelangelo fanno continue allusioni ai
soldi e alla loro scarsità, tanto che sembrerebbe che l'artista vivesse e fosse morto in
assoluta povertà. Gli studi di Rab Hatfield sui suoi depositi bancari e i suoi possedimenti hanno tuttavia delineato una situazione ben diversa, dimostrando come durante la sua esistenza egli riuscì ad accumulare una ricchezza immensa. Basta come
esempio l'inventario redatto nella dimora di Macel de' Corvi all'indomani della sua
morte: la parte iniziale del documento sembra confermare la sua povertà, registrando
due letti, qualche capo di vestiario, alcuni oggetti di uso quotidiano, un cavallo; ma
nella sua camera da letto viene poi rinvenuto un cofanetto chiuso a chiave che, una
volta aperto, dimostra un tesoro in contanti degno di un principe. A titolo di esempio
con quel contante l'artista avrebbe potuto benissimo comprarsi un palazzo, essendo
una cifra superiore a quella sborsata in quegli anni (nel 1549) da Eleonora di Toledo
per l'acquisto di Palazzo Pitti.
Ne emerge quindi una figura che, benché ricca, viveva nell'austerità spendendo
con grande parsimonia e trascurandosi fino a limiti impensabili: Condivi ricorda ad
esempio come fosse solito non togliersi gli stivali prima di andare a letto, come face vano gli indigenti.
Questa marcata avarizia e l'avidità, che continuamente gli fanno percepire in maniera distorta il proprio patrimonio, sono sicuramente dovute a ragioni caratteriali,
ma anche a motivazioni più complesse, legate al difficile rapporto con la famiglia. La
penosa situazione economica dei Buonarroti doveva averlo intimamente segnato e
forse aveva come desiderio quello di lasciar loro una cospicua eredità per risollevarne
le sorti. Ma ciò è contraddetto apparentemente dai suoi rifiuti di aiutare il padre e i
fratelli, giustificandosi con un'immaginaria mancanza di liquidi, e in altre occasioni
arrivava a chiedere la restituzione di somme prestate in passato, accusandoli di vivere
delle sue fatiche, se non di approfittarsi spudoratamente della sua generosità.
Le fonti su Michelangelo
Michelangelo è l'artista che, forse più di qualunque altro, incarna il mito di personalità geniale e versatile, capace di portare a termine imprese titaniche, nonostante
le complesse vicende personali, le sofferenze e il tormento dovuto al difficile momento storico, fatto di sconvolgimenti politici, religiosi e culturali. Una fama che non si è
affievolita coi secoli, restando più che mai viva anche ai giorni nostri.
Se il suo ingegno e il suo talento non sono mai stati messi in discussione, nemmeno dai più agguerriti detrattori, ciò da solo non basta a spiegarne l'aura leggendaria, né sono sufficienti la sua irrequietezza, o la sofferenza e la passione con cui parte119
cipò alle vicende della sua epoca: sono tratti che, almeno in parte, sono riscontrabili
anche in altri artisti vissuti più o meno nella sua epoca. Sicuramente il suo mito si alimentò anche di sé stesso, nel senso che Michelangelo fu il primo e più efficace dei
suoi promotori, come emerge dalle fonti fondamentali per ricostruire la sua biografia
e la sua vicenda artistica e personale: il carteggio e le tre biografie che lo riguardarono
al suo tempo.
Il carteggio
Nella sua vita Michelangelo scrisse numerose lettere che in larga parte sono state
conservate in archivi e raccolte private, tra cui spicca il nucleo collezionato dai suoi
discendenti a casa Buonarroti. Il carteggio integrale di Michelangelo è stato pubblicato nel 1965.
Nei suoi scritti l'artista descrive spesso i propri stati d'animo e si sfoga delle preoccupazioni e i tormenti che lo affliggono; inoltre nello scambio epistolare approfitta
spesso per riportare la propria versione dei fatti, soprattutto quando si trova accusato
o messo in cattiva luce, come nel caso dei numerosi progetti avviati e poi abbandonati
prima del completamento. Spesso si lamenta dei committenti che gli volgono le spalle
e lancia pesanti accuse contro chi lo ostacola o lo contraddice. Quando si trova in difficoltà, come nei momenti più oscuri della lotta con gli eredi della Rovere per il monumento sepolcrale a Giulio II, il tono delle lettere si fa più acceso, trovando sempre
una giustificazione della propria condotta, ritagliandosi la parte di vittima innocente
e incompresa. Si può arrivare a parlare di un disegno ben preciso, attraverso le numerose lettere, teso a scagionarlo da tutte le colpe e a procurarsi un'aurea eroica e di
grande resistenza ai travagli della vita.
La prima edizione delle Vite di Vasari (1550)
Nel marzo del 1550, Michelangelo, quasi settantacinquenne, si vide pubblicata
una sua biografia nel volume delle Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori
scritto dall'artista e storico aretino Giorgio Vasari e pubblicato dall'editore fiorentino
Luigi Torrentino. I due si erano conosciuti brevemente a Roma nel 1543, ma non si era
instaurato un rapporto sufficientemente consolidato da permettere all'aretino di interrogare Michelangelo. Si trattava della prima biografia di un artista composta quando
era ancora in vita, che lo indicava come il punto di arrivo di una progressione dell'arte italiana che va da Cimabue, primo in grado di rompere con la tradizione "greca",
fino a lui, insuperabile artefice in grado di rivaleggiare con i maestri antichi.
Nonostante le lodi l'artista non approvò alcuni errori, dovuti alla mancata conoscenza diretta tra i due, e soprattutto ad alcune ricostruzioni che, su temi caldi come
quello della sepoltura del papa, contraddicevano la sua versione costruita nei carteggi. Vasari dopotutto pare che non avesse cercato documenti scritti, affidandosi quasi
esclusivamente ad amicizie più o meno vicine al Buonarroti, tra cui Francesco Granacci e Giuliano Bugiardini, già suoi collaboratori, che però esaurivano i loro contatti diretti con l'artista poco dopo dell'avvio dei lavori alla Cappella Sistina, fino quindi al
1508 circa. Se la parte sulla giovinezza e sugli anni venti a Firenze appare quindi ben
documentata, più vaghi sono gli anni romani, fermandosi comunque al 1547, anno in
cui dovette essere completata la stesura.
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Tra gli errori che più ferirono Michelangelo c'erano le disinformazioni sul soggiorno presso Giulio II, con la fuga da Roma che era stata attribuita all'epoca della
volta della Cappella Sistina, dovuta ad un litigio col papa per il rifiuto a svelargli in
anticipo gli affreschi: Vasari conosceva i forti disappunti tra i due ma all'epoca ne
ignorava completamente le cause, cioè la disputa sulla penosa vicenda della tomba.
La biografia di Ascanio Condivi (1553)
Non è un caso che appena tre anni dopo, nel 1553, venne data alle stampe una
nuova biografia di Michelangelo, opera del pittore marchigiano Ascanio Condivi, suo
discepolo e collaboratore. Il Condivi è una figura di modesto rilievo nel panorama artistico e anche in campo letterario, a giudicare da scritti certamente autografi come le
sue lettere, doveva essere poco portato. L'elegante prosa della Vita di Michelagnolo
Buonarroti è infatti assegnata dalla critica ad Annibal Caro, intellettuale di spicco
molto vicino ai Farnese, che ebbe almeno un ruolo di guida e revisore.
Per quanto riguarda i contenuti, il diretto responsabile dovette essere quasi certamente Michelangelo stesso, con un disegno di autodifesa e celebrazione personale
pressoché identico a quello del carteggio. Lo scopo dell'impresa letteraria era quello
espresso nella prefazione: oltre a fare d'esempio ai giovani artisti, doveva "sopplire al
difetto di quelli, et prevenire l’ingiuria di questi altri", un chiaro riferimento agli erro ri di Vasari.
La biografia del Condivi non è quindi scevra da interventi selettivi e ricostruzioni di parte. Se si dilunga molto sugli anni giovanili, essa tace ad esempio sull'apprendistato alla bottega del Ghirlandaio, per sottolineare il carattere impellente e autodidatta del genio, avversato dal padre e dalle circostanze. Più rapida è la rassegna degli
anni della vecchiaia, mentre il cardine del racconto riguarda la "tragedia della sepol tura", ricostruita molto dettagliatamente e con una vivacità che ne fa uno dei passi più
interessanti del volume. Gli anni immediatamente precedenti all'uscita della biografia
furono infatti quelli dei rapporti più difficili con gli eredi Della Rovere, minati da duri
scontri e minacce di denuncia alle pubbliche autorità e di richiesta degli anticipi versati, per cui è facile immaginare quanto premesse all'artista fornire una sua versione
della vicenda.
Altra pecca della biografia del Condivi è che, a parte rare eccezioni come il San
Matteo e le sculture per la Sacrestia Nuova, essa tace sui numerosi progetti non-finiti,
come se con il passare degli anni il Buonarroti fosse ormai turbato dal ricordo delle
opere lasciate incompiute.
La seconda edizione delle Vite di Vasari (1568)
A quattro anni dopo la scomparsa dell'artista e a diciotto dal primo lavoro, Giorgio Vasari pubblicò una nuova edizione delle Vite per l'editore Giunti, riveduta, ampliata e aggiornata. Quella di Michelangelo in particolare era la biografia più rivisitata
e al più attesa dal pubblico, tanto da venire pubblicata anche in un libretto a parte
dallo stesso editore. Con la morte la leggenda dell'artista si era infatti ulteriormente
accresciuta e Vasari, protagonista delle esequie a Michelangelo svoltesi solennemente
a Firenze, non esita a riferirsi a lui come al "divino" artista. Rispetto all'edizione precedente appare chiaro come in quegli anni Vasari si sia maggiormente documentato e
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come abbia avuto modo di accedere ad informazioni di prima mano, grazie a un forte
legame diretto che si era stabilito tra i due.
Il nuovo racconto è quindi molto più completo e verificato anche da numerosi
documenti scritti. Le lacune vennero colmate con la sua frequentazione dell'artista negli anni del lavoro presso Giulio III (1550-1554) e con l'appropriazione di interi brani
della biografia del Condivi, un vero e proprio "saccheggio" letterario: identici sono alcuni paragrafi e la conclusione, senza alcune menzione della fonte, anzi l'unica citazione del marchigiano si ha per rinfacciargli l'omissione dell'apprendistato presso la
bottega del Ghirlandaio, fatto invece noto da documenti riportati dallo stesso Vasari.
La completezza della seconda edizione è motivo di vanto per l'aretino: "tutto
quel [...] che si scriverrà al presente è la verità, né so che nessuno l'abbi più praticato
di me e che gli sia stato più amico e servitore fedele, come n'è testimonio fino chi nol
sa; né credo che ci sia nessuno che possa mostrare maggior numero di lettere scritte
da lui proprio, né con più affetto che egli ha fatto a me".
I Dialoghi romani di Francisco de Hollanda
L'opera che da alcuni storici è stata considerata testimonianza delle idee artistiche di Michelangelo sono i Dialoghi romani scritti da Francisco de Hollanda come
completamento del suo trattato sulla natura dell'arte De Pintura Antiga, scritto verso
il 1548 e rimasto inedito fino al XIX secolo.
Durante il suo lungo soggiorno italiano, prima di tornare in Portogallo, l'autore,
allora giovanissimo, aveva frequentato, intorno al 1538, Michelangelo allora impegnato nell'esecuzione del Giudizio universale, all'interno del circolo di Vittoria Colonna.
Nei Dialoghi fa intervenire Michelangelo come personaggio ad esprimere le proprie
idee estetiche confrontandosi con lo stesso de Hollanda.
Tutto il trattato, espressione dell'estetica neoplatonica, è comunque dominato
dalla gigantesca figura Michelangelo, come figura esemplare dell'artista genio, solitario e malinconico, investito di un dono "divino", che "crea" secondo modelli metafisici, quasi ad imitazione di Dio. Michelangelo diventò così, nell'opera di De Hollanda
ed in genere nella cultura occidentale, il primo degli artisti moderni.
Raffaello Sanzio
Raffaello Sanzio (Urbino, 28 marzo o 6 aprile 1483 – Roma, 6 aprile 1520) è stato
un pittore e architetto italiano, tra i più celebri del Rinascimento italiano.
Biografia
Gioventù (1483-1504)
Origini (1483-1490)
Raffaello nacque a Urbino «l'anno 1483, in venerdì santo, alle tre di notte, d'un
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Giovanni de' Santi, "Pittore non meno eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno,
e atto a indirizzare i figli per quella buona via, che a lui, per mala fortuna sua, non era
stata mostra nella sua gioventù». La notizia del Vasari comporta che Raffaello sia nato
il 28 marzo (venerdì santo). Tuttavia esiste un'altra versione secondo la quale il giorno
di nascita del maestro urbinate dovrebbe essere il 6 aprile, e ciò sulla base della lettera
di Marcantonio Michiel ad Antonio Marsilio (confermata dal noto epitaffio di Pietro
Bembo) che sottolinea come la data del giorno e dell'ora di morte di Raffaello, apparentemente coincidente con quella di Cristo - ore 3 del 6 aprile, venerdì prima di Pasqua - corrispondano esattamente con la data della sua nascita. Naturalmente, tutto
questo ha il sapore della leggenda e se si può ritenere sufficientemente certo il giorno
della sua morte, non può essere così per quello della sua nascita.
Raffaello (ritratto bambino dal padre nella Cappella Tiranni in Cagli) fu il primo
e unico figlio di Giovanni Santi e di Magia di Battista di Nicola Ciarla. Il cognome
"Sanzio" infatti non è che una delle possibili declinazioni di "Santi", in particolare derivata dal latino "Sancti" con cui Raffaello sarà poi solito, nella maturità, firmare le sue
opere. La madre morì di lì a poco, il 7 ottobre 1491. Il padre si risposò poco dopo con
una certa Berardina di Piero di Parte, dalla quale ebbe la figlia Elisabetta. Con le due
donne la famiglia del padre ebbe liti per motivi finanziari.
Alla bottega del padre (1491-1494)
Ricevette la sua formazione nella bottega del padre, pittore alla corte ducale dei
Montefeltro, prima per Federico e poi per suo figlio Guidobaldo. Nella formazione di
Raffaello fu determinante il fatto di essere nato e di aver trascorso la giovinezza ad
Urbino, che in quel periodo era un centro artistico di primaria importanza che irradiava in Italia e in Europa gli ideali del Rinascimento. Qui Raffaello, avendo accesso con
il padre alle sale del Palazzo Ducale, ebbe modo di studiare le opere di Piero della
Francesca, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini, Pedro Berruguete, Giusto
di Gand, Antonio del Pollaiolo, Melozzo da Forlì e altri.
Raffaello apprese probabilmente i primi insegnamenti di disegno e pittura dal
padre, che almeno dagli anni ottanta del Quattrocento era a capo di una fiorente bottega, impegnata nella creazione di opere per l'aristocrazia locale e per la famiglia ducale, come la serie delle Muse per il tempietto del palazzo, nonché l'allestimento di
spettacoli teatrali. Giovanni Santi inoltre aveva una conoscenza diretta e aggiornatissima della pittura contemporanea non solo italiana, come dimostra una sua efficace
Chronaca rimata, scritta in occasione delle nozze di Guidobaldo con Elisabetta Gonzaga.
Nella bottega del padre, il giovanissimo Raffaello apprese le nozioni di base delle tecniche artistiche, tra cui probabilmente anche la tecnica dell'affresco: una delle
primissime opere a lui attribuite è infatti la Madonna di Casa Santi, delicata pittura
murale nella casa familiare.
Il 1º agosto 1494, quando Raffaello aveva undici anni, morì il padre. Tale data ha
ridimensionato in alcuni studi il contributo della bottega paterna nella formazione
dell'artista; è altresì comprovato come nel giro di pochissimi anni, in piena adolescenza, l'artista raggiunse rapidamente una maturazione artistica che non può prescindere
da un avviamento molto precoce all'attività artistica.
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Non è noto attraverso quali vie il giovanissimo pittore arrivò a far parte della
bottega del Perugino: non sembra infatti credibile la notizia del Vasari, secondo la
quale Raffaello sia stato allievo del Perugino ancora prima della morte del padre e
persino di quella della madre. Probabilmente, più che di un vero e proprio apprendistato a Perugia, il ragazzo ebbe modo di frequentare saltuariamente la bottega di Perugino, intervallando l'attività in quella paterna, almeno fino alla morte del genitore:
in quell'anno Raffaello ne ereditò l'attività, assieme ad alcuni collaboratori tra cui soprattutto Evangelista da Pian di Meleto (artista quasi sconosciuto agli studi storico-artistici) e Timoteo Viti da Urbino, già attivo anche a Bologna dove era stato a diretto
contatto con Francesco Francia.
Apprendistato dal Perugino (1494-1498)
Le prime tracce della presenza di Raffaello accanto a Perugino sono legate ad alcuni lavori della sua bottega tra il 1497 e il nuovo secolo. In particolare si è ritenuto di
vedere un intervento di Raffaello nella tavoletta della Natività della Madonna nella
predella della Pala di Fano (1497) e in alcune figure degli affreschi del Collegio del
Cambio a Perugia (dal 1498), soprattutto dove le masse di colore che assumono quasi
un valore plastico ed è accentuato il modo di delimitare le parti in luce e quelle in ombra, con un generale ispessimento dei contorni. Se comunque la sua mano è ancora
difficile da individuare, a Perugia Raffaello dovette vedere per la prima volta le grottesche, dipinte sul soffitto del Collegio, che entrarono in seguito nel suo repertorio
iconografico.
Sembra però che la sua prima opera cui possa darsi un reale credito attributivo
sia la Madonna col Bambino, affrescata nella stanza in cui si crede sia nato, in casa
Santi a Urbino, databile al 1498 (e che fino a pochi anni addietro si riteneva opera del
padre, che avrebbe raffigurato nei personaggi lo stesso Raffaello e la prima moglie
Magia Ciarla).
Città di Castello (1499-1504)
Nel 1499 Raffaello, sedicenne, si trasferì con gli aiuti della bottega paterna a Città
di Castello, dove ricevette la sua prima commissione indipendente: lo stendardo della
Santissima Trinità per una confraternita locale che voleva offrire un'opera devozionale in segno di ringraziamento per la fine di una pestilenza proprio quell'anno. L'opera, sebbene ancora ancorata agli echi di Perugino e Luca Signorelli, presenta anche
una profonda, innovativa freschezza, che gli garantì una fiorente committenza locale,
non essendo reperibili in città altri pittori di pregio dopo la partenza di Signorelli proprio nel 1499, alla volta di Orvieto.
Il 10 dicembre 1500 infatti, Raffaello ed Evangelista da Pian di Meleto ottennero
dalle suore del convento di Sant'Agostino un nuovo incarico, che è il primo documentato della carriera dell'artista, la Pala del beato Nicola da Tolentino, terminata il 13
settembre 1501 e oggi dispersa in più musei dopo che venne sezionata in seguito a un
terremoto nel 1789. Nel contratto è interessante notare come Raffaello, poco più che
esordiente, venga già menzionato come magister Rafael Johannis Santis de Urbino,
prima dell'anziano collaboratore, testimoniando ufficialmente come venisse già, a diciassette anni, ritenuto pittore autonomo dall'apprendistato concluso.
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A Città di Castello l'artista lasciò almeno altre due opere di rilievo, la Crocifissione Gavari e lo Sposalizio della Vergine. Nella prima, databile al 1502-1503, si nota una
piena assimilazione dei modi di Perugino (un "Crucifisso, la quale, se non vi fusse il
suo nome scritto, nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene di Pietro",
scrisse Vasari), anche se i notano però i primi sviluppi verso uno stile proprio, con
una migliore interazione tra figure e personaggi e con accorgimenti ottici nelle gambe
di Cristo che testimoniano la piena conoscenza degli studi di matrice urbinate, dove
l'ottica e la prospettiva erano materia di studio comune fin dai tempi di Piero della
Francesca.
Perugia e gli altri centri (1499-1504)
Nel frattempo la fama di Raffaello iniziava ad allargarsi a tutta l'Umbria, facendone uno dei più richiesti pittori attivi in regione. Nella sola Perugia, negli anni tra il
1501 e il 1505, gli vennero commissionate ben tre pale d'altare: la Pala Colonna, per la
chiesa delle monache del convento di Sant'Antonio, la Pala degli Oddi, per San Francesco al Prato e un'Assunzione della Vergine per le clarisse di Monteluce mai portata
a termine, dipinta poi da Berto di Giovanni. Si tratta di opere di impianto peruginesco, con una graduale messa a fuoco verso elementi stilistici più personali.
Nella Resurrezione di San Paolo del Brasile Roberto Longhi lesse influssi di Pinturicchio - nel paesaggio, nei particolari della decorazione del sarcofago e nella preziosità delle vesti dei personaggi - legati a una fase databile al biennio 1501-1502.
Allo stesso periodo sono riferibili alcune Madonne col Bambino che, sebbene ancora ancorate all'esempio di Perugino, preludono già all'intenso e delicato rapporto
tra madre e figlio dei più importanti capolavori successivi legati a questo tema. Tra
queste spiccano Madonna Solly, la Madonna Diotallevi, la Madonna col Bambino tra i
santi Girolamo e Francesco.
Verso il 1503 l'artista dovette intraprendere una serie di brevi viaggi che lo portarono ai primi contatti con importanti realtà artistiche. Oltre alle città umbre e alla nativa Urbino, visitò quasi sicuramente Firenze, Roma (dove assistette alla consacrazione
di Giulio II) e Siena. Si trattò di brevi viaggi, magari di qualche settimana, che non
possono essere definiti veri e propri soggiorni. A Firenze vide forse le prime opere di
Leonardo da Vinci, a Roma entrò in contatto con la cultura figurativa classica (leggibile nel dittico delle Tre Grazie e il Sogno del cavaliere), a Siena aiutò l'amico Pinturic chio, ben più anziano e in pieno declino, a preparare i cartoni per gli affreschi della
Libreria Piccolomini, di cui restano due splendidi esemplari agli Uffizi, di incomparabile grazia ed eleganza rispetto al risultato finale.
A Siena
A Siena fu invitato da Pinturicchio, con il quale intesseva una stretta amicizia. Il
pittore più anziano invitò Raffaello a collaborare agli affreschi della Libreria Piccolomini, fornendo dei cartoni che svecchiassero il suo stile ormai in una fase di declino,
come si vede nei precedenti affreschi della Cappella Baglioni a Spello.
Non è chiaro quante di queste composizioni vennero in effetti disegnate da Raffaello, ma quasi sicuramente deve essere di mano del Sanzio il cartone con la Partenza
di Enea Silvio Piccolomini per Basilea oggi al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di
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Firenze.
Raffaello dovette infatti abbandonare presto l'impresa, poiché, come riporta Vasari, venne a conoscenza, tramite alcuni pittori locali, delle lodi straordinarie a proposito del cartone della Sant'Anna di Leonardo, esposto nella basilica della Santissima
Annunziata a Firenze, nonché del disegno della Battaglia di Anghiari, sempre di Leonardo, e del cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo, che incuriosirono a tal
punto il giovane pittore da farlo decidere di partire subito per la città sull'Arno.
Lo Sposalizio della Vergine (1504)
L'opera che conclude la fase giovanile, segnando un distacco ormai incolmabile
con i modi del maestro Perugino, è lo Sposalizio della Vergine, datato 1504 e già con servato nella cappella Albizzini della chiesa di San Francesco di Città di Castello. L'opera si ispira a una pala analoga che il Perugino stava dipingendo in quegli stessi
anni per il Duomo di Perugia, ma il confronto tra le due opere mette in risalto profonde differenze. Raffaello infatti copiò il maestoso tempio sullo sfondo, ma lo alleggerì
allontanandolo dalle figure e ne fece il fulcro dell'intero spazio della pala che sembra
ruotare attorno all'elegantissimo edificio a pianta centrale. Anche le figure sono più
sciolte e naturali, con una disposizione nello spazio che evita un rigido allineamento
sul primo piano, ma si assesta a semicerchio, bilanciando e richiamando le forme concave e convesse del tempio stesso.
A Firenze Raffaello soggiornò per quattro anni, pur facendo viaggi e brevi soggiorni altrove, e senza recidere i contatti con l'Umbria, dove continuò a spedire pale
d'altare per le copiose commissioni che continuavano a giungergli.
Il periodo fiorentino (1504-1508)
Raffaello si trovava a Siena, da Pinturicchio, quando gli giunse notizia delle
straordinarie novità di Leonardo e Michelangelo impegnati rispettivamente agli affreschi della Battaglia di Anghiari e della Battaglia di Cascina. Desideroso di mettersi subito in viaggio, si fece preparare una lettera di presentazione da Giovanna Feltria, sorella del duca di Urbino e moglie del duca di Senigallia e "prefetto" di Roma. Nella
lettera, datata 1 ottobre 1504 e indirizzata al gonfaloniere a vita Pier Soderini, si raccomanda il giovane figlio di Giovanni Santi «il quale avendo buono ingegno nel suo
esercizio, ha deliberato stare qualche tempo in fiorenza per imparare. [...Perciò] lo raccomando alla Signoria Vostra».
Probabilmente la lettera voleva assicurare qualche commissione ufficiale al giovane pittore, ma il gonfaloniere era in ristrettezze economiche per il recente esborso
per acquistare il David di Michelangelo e i grandiosi progetti per la Sala del Gran
Consiglio. Nonostante ciò non passò molto tempo che l'artista riuscì a garantirsi commissioni da alcuni facoltosi cittadini, come Lorenzo Nasi, per i quale dipinse la Madonna del Cardellino, suo cognato Domenico Canigiani e i coniugi Agnolo e Maddalena Doni.
Nel clima artistico fiorentino, fervente più che mai, Raffaello strinse rapporti d'amicizia con altri artisti, tra cui Aristotile da Sangallo, Ridolfo del Ghirlandaio, Fra'
Bartolomeo, l'architetto Baccio d'Agnolo, Antonio da Sangallo, Andrea Sansovino,
Francesco Granacci. Scrisse Vasari che «nella città molto onorato e particolarmente da
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Taddeo Taddei, il quale lo volle sempre in casa sua e alla sua tavola, come quegli che
amò sempre tutti gli uomini inclinati alla virtù». Per lui Raffaello eseguì, nel 1506, la
Madonna del Prato di Vienna - che il Vasari giudica ancora della maniera del Perugino e, forse l'anno dopo, la Madonna Bridgewater di Londra, «molto migliore», perché
nel frattempo Raffaello «studiando apprese».
Il soggiorno fiorentino fu di fondamentale importanza nella formazione di Raffaello, permettendogli di approfondire lo studio dei modelli quattrocenteschi (Masaccio, Donatello...) nonché delle ultime conquiste di Leonardo e di Michelangelo. Dal
primo apprese i principi compositivi per creare gruppi di figure strutturati plasticamente nello spazio, mentre sorvolò sulle complesse allusioni e implicazioni simboliche, sostituendo anche l'"indefinito" psicologico a sentimenti più spontanei e naturali.
Da Michelangelo invece assimilò il chiaroscuro plastico, la ricchezza cromatica, il senso dinamico delle figure.
I suoi lavori a Firenze erano destinati quasi esclusivamente a committenti privati,
gradualmente sempre più conquistati dalla sua arte; creò numerose tavole di formato
medio-piccolo per la devozione privata, soprattutto Madonne e Sacre famiglie, e alcuni intensi ritratti. In queste opere variava continuamente sul tema, cercando raggruppamenti e atteggiamenti sempre nuovi, con una particolare attenzione alla naturalezza, all'armonia, al colore ricco e intenso e spesso al paesaggio limpido di derivazione
umbra.
Commissioni dall'Umbria
Ma all'inizio del soggiorno fiorentino erano soprattutto le commissioni che continuavano ad arrivare da Urbino e dall'Umbria a tenere occupato l'artista, che di tanto
in tanto si spostava in quelle zona temporaneamente. Nel 1503 aveva ricevuto l'incarico, dalle suore del convento di Sant'Antonio a Perugia, di una pala d'altare, la Pala
Colonna, che ebbe una lunga elaborazione, visibile nelle differenze di stile tra la lunetta ancora «umbra» e il gruppo «fiorentino» della tavola centrale.
Un'altra commissione ricevuta da Perugia, nel 1504, riguardò una Madonna col
Bambino e i santi Giovanni Battista e Nicola (Pala Ansidei) da collocare in una cappella della chiesa di San Fiorenzo, che fu completata, secondo quanto sembra leggersi
nel dipinto, nel 1505. Nell'opera ancora di ispirazione umbra, Raffaello apporta una
sostanziale semplificazione dell'impianto architettonico, così da dare all'insieme una
più efficace e rigorosa monumentalità, di stampo leonardesco. In tale opera, nonostante il tema convenzionale, sorprende il dominio del mezzo pittorico, ormai pienamente maturo, con le figure che acquistano consistenza in funzione del variare della
luce.
Sempre nel 1505 firmò a Perugia l'affresco con la Trinità e santi nella chiesa del
monastero di San Severo, che anni dopo Perugino completò nella fascia inferiore. In
questo lavoro le forme sono ormai più grandiose e possenti, con una monumentalità
immota che rimanda all'esempio di Fra' Bartolomeo e che preannunciano la Disputa
del Sacramento.
Commissioni dalle Marche
Nel 1505-1506 Raffaello dovette trovarsi brevemente ad Urbino, dove venne ac127
colto alla corte di Guidobaldo da Montefeltro: la fama raggiunta nella sua città natale
è testimoniata da una menzione lusinghiera nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione
e da un serie di ritratti, tra cui quello di Guidobaldo, di Elisabetta Gonzaga sua con sorte e dell'erede designato del ducato Guidobaldo della Rovere.
Per il duca inoltre dipinse una grande Madonna e tre tavolette di soggetto simile,
San Michele e il drago, un San Giorgio e il drago oggi a Parigi e uno a Washington.
Quest'ultimo venne dipinto per essere regalato a Enrico VII d'Inghilterra come ringraziamento per il conferimento dell'Ordine della giarrettiera: la giarrettiera è infatti evidente al polpaccio del cavaliere, con l'iscrizione "Honi" che è la prima parola del motto dell'ordine ("Honi soit qui mal y pense", "Sia vituperato chi ne pensa male").
La serie delle Madonne
Celebre è la serie delle Madonne col Bambino che a Firenze raggiunge nuovi vertici. Per famiglie fiorentine della borghesia medio-alta Raffaello dipinse alcuni capolavori assoluti, come alcuni gruppi di Madonne a tutta figura col Bambino e san Giovannino: la Bella giardiniera, la Madonna del Cardellino e la Madonna del Belvedere.
In queste opere la figura della Vergine si erge monumentale davanti al paesaggio, dominandolo con leggiadria ed eleganza, mentre rivolge gesti affettuosi ai bambini, in
strutture compositive piramidali di grande efficacia. Gesti familiari si riscontrano anche in opere come la Madonna d'Orleans, come quello di solleticare, o spontanei
come nella Grande Madonna Cowper (Gesù allunga una mano verso il seno
materno), o ancora sguardi intensi come nella Madonna Bridgewater.
Queste figure dimostrano inoltre l'assimilazione di vari modelli iconografici fiorentini, che dovevano ispirare positivamente la committenza. Da Donatello ad esempio prende spunto per la Madonna Tempi, con i volti di madre e figlio teneramente
accostati, mentre al Tondo Taddei rimandava la postura del Bambino della Piccola
Madonna Cowper o della Madonna Bridgewater.
Le composizioni divengono via via più complesse e articolate, senza però mai
rompere quel senso di idilliaca armonia che, unita alla perfetta padronanza dei mezzi
pittorici, fanno di ciascuna opera un autentico capolavoro. Nella Sacra Famiglia Canigiani, databile al 1507 circa, quindi quasi alla fine del soggiorno fiorentino, le espressioni e i gesti si intrecciano con sorprendente varietà, che riesce a rendere sublimi e
poetici dei momenti tratti dalla quotidianità.
I ritratti
Al periodo fiorentino appartengono infine alcuni ritratti nei quali è manifesta
l'influenza di Leonardo: la Donna gravida, Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, la
Dama col liocorno e la Muta. Ad esempio in quello di Maddalena Strozzi è evidente
l'impostazione a mezza figura nel paesaggio, con le mani conserte, derivata dalla Gioconda, ma con risultati quasi antitetici, in cui prevalgono la descrizione dei lineamenti
fisici, dell'abbigliamento, dei gioielli, e la luminosità del paesaggio, scevra dal complesso mondo di significati simbolici ed allusivi di Leonardo. In queste opere Raffaello dimostra la capacità di indagare attentamente la psiche, cogliendo i dati introspettivi degli effigiati, assieme a un'appassionata descrizione del dettaglio di matrice fiamminga, appresa probabilmente alla bottega paterna.
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La pala Baglioni
Opera cruciale di questa fase è la Pala Baglioni (1507), commissionata da Atalanta Baglioni, in commemorazione dei fatti di sangue che avevano portato alla morte di
suo figlio Grifonetto, e destinata a un altare nella chiesa di San Francesco al Prato a
Perugia, anche se dipinta interamente a Firenze. I numerosi studi pervenutici sull'opera dimostrano un graduale passaggio iconografico per la pala centrale, da un Compianto, ispirato a quello di Perugino nella chiesa di Santa Chiara a Firenze, a una più
drammatica Deposizione nel sepolcro.
In quest'opera Raffaello fuse il senso tragico della morte con il vitale slancio del
turbamento, con una composizione estremamente monumentale, drammatica e dinamica, ma bilanciata con cura, in cui si notano ormai evidenti spunti michelangioleschi, nella ricerca plastica e coloristica, e dell'antico, in particolare dalle rappresentazione della Morte di Melagro che l'artista aveva potuto vedere durante un probabile
viaggio formativo a Roma nel 1506.
La Madonna del Baldacchino
Opera conclusiva del periodo fiorentino, del 1507-1508, può considerarsi la Madonna del Baldacchino, lasciata incompiuta per la sua repentina chiamata a Roma, da
parte di Giulio II. Si tratta di una grande pala d'altare, la prima commissione del genere ricevuta a Firenze, con una sacra conversazione organizzata attorno al fulcro del
trono della Vergine, con un fondale architettonico grandioso ma tagliato ai margini,
in modo da amplificarne la monumentalità. Ogni staticità appare annullata dall'intenso movimento circolare di gesti e sguardi, esasperato poi negli angeli in volo accuratamente scorciati. Sant'Agostino ad esempio allunga un braccio verso sinistra invitando lo spettatore a percorrere con lo sguardo lo spazio semicircolare della nicchia, legando i personaggi uno per uno, caratteristica che a breve si ritroverà anche negli affreschi delle Stanze vaticane.
Tale opera fu un imprescindibile modello nel decennio seguente, per artisti quali
Andrea del Sarto e Fra' Bartolomeo.
Il periodo romano (1509-1520)
Verso la fine del 1508 per Raffaello arrivò la chiamata a Roma che cambiò la sua
vita. In quel periodo infatti papa Giulio II aveva messo in atto una straordinaria opera
di rinnovo urbanistico e artistico della città in generale e del Vaticano in particolare,
chiamando a sé i migliori artisti sulla piazza, tra cui Michelangelo e Donato Bramante. Fu proprio Bramante, secondo la testimonianza di Vasari, a suggerire al papa il
nome del conterraneo Raffaello, ma non è escluso che nella sua chiamata ebbero un
ruolo decisivo anche i Della Rovere, parenti del papa, in particolare Francesco Maria,
figlio di quella Giovanna Feltria che già aveva raccomandato l'artista a Firenze.
Fu così che il Sanzio, appena venticinquenne, si trasferì velocemente a Roma, lasciando incompiuti alcuni lavori a Firenze.
La Stanza della Segnatura
Qui affiancò un team di pittori di tutta Italia (il Sodoma, Bramantino, Baldassarre
Peruzzi, Lorenzo Lotto e altri) per la decorazione, da poco avviata, dei nuovi apparta129
menti papali, le Stanze. Le sue prove nella volta della prima, poi detta Stanza della
Segnatura, piacquero così tanto al papa che decise di affidargli, fin dal 1509, tutta la
decorazione dell'appartamento, a costo anche di distruggere quanto già era stato fatto, sia ora che nel Quattrocento (tra cui gli affreschi di Piero della Francesca).
Alle pareti Raffaello decorò quattro grandi lunettoni, ispirandosi alle quattro facoltà delle università medioevali, ovvero teologia, filosofia, poesia e giurisprudenza,
cosa che ha fatto pensare che la stanza fosse originariamente destinata a biblioteca o
studiolo.
Opere celeberrime sono la Disputa del Sacramento, la Scuola di Atene o il Parnaso. In queste dispiegò una visione scenografica ed equilibrata, in cui le masse di figure si dispongono, con gesti naturali, in simmetrie solenni e calcolate, all'insegna di
una monumentalità e una grazia che vennero poi definite "classiche".
La Stanza di Eliodoro
Nel 1511, mentre i lavori alla Stanza della Segnatura andavano esaurendosi, il
papa tornava da una disastrosa guerra contro i francesi, che gli era costata la perdita
di Bologna e la tanto temuta presenza di eserciti stranieri in Italia, nonché un forte
spreco di risorse finanziarie. Il programma decorativo della successiva stanza, destinata a sala delle Udienze e poi detta di Eliodoro dal nome di uno degli affreschi, tenne conto della particolare situazione politica: venne deciso infatti di realizzare scene
legate al superamento delle difficoltà della Chiesa grazie all'intervento divino.
Già il primo degli affreschi, la Cacciata di Eliodoro dal Tempio, mostra un radicale sviluppo stilistico, con l'adozione di un inedito stile "drammatico", fatto di azioni
concitate, pause e asimmetrie, impensabile nei pur recentissimi affreschi della stanza
precedente. Assiste dalla sinistra dell'affresco il papa imperturbabile, come se fosse
davanti a una rappresentazione teatrale.
Nella Messa di Bolsena tornano ritmi pacati, anche se la profondità dell'architettura e gli effetti luminosi creano un'innovativa drammaticità; il colore si arricchì di
campiture dense e più corpose, forse derivate dall'esempio dei pittori veneti attivi alla
corte papale.
Di nuovo nell'Incontro di Leone Magno con Attila ricorrono asimmetrie e azione,
mentre nella Liberazione di san Pietro si raggiunge il culmine degli studi sulla luce,
con una scena in notturna ravvivata dai bagliori lunari e dell'apparizione angelica che
libera il primo pontefice dalla prigionia.
All'inizio del 1513 Giulio II morì, e il suo successore, Leone X, confermò tutti gli
incarichi a Raffaello, affidandogliene presto anche di nuovi.
Per Agostino Chigi
Mentre la fama di Raffaello si andava espandendo, nuovi committenti desideravano avvalersi dei suoi servigi, ma solo quelli più influenti alla corte papale poterono
riuscire a distoglierlo dai lavori in Vaticano. Tra questi spiccò sicuramente Agostino
Chigi, ricchissimo banchiere di origine senese, che si era fatto costruire in quegli anni
la prima e imitatissima villa urbana da Baldassarre Peruzzi, quella poi detta villa Farnesina.
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Raffaello vi fu chiamato a lavorare a più riprese, prima con l'affresco del Trionfo
di Galatea (1511), di straordinaria rievocazione classica, poi alla Loggia di Psiche
(1518-1519) e infine alla camera con le Storie di Alessandro, opera incompiuta creata
poi dal Sodoma. In questo periodo Raffaello conobbe una popolana, figlia di un fornaio di Trastevere, di nome Margherita Luti, con cui scoppiò una passione amorosa.
Pare che per fare incontrare l'artista con la sua "Fornarina" il Chigi non esitò a farla
ospitare nella sua villa, in modo da evitare dispendi di tempo prezioso per portare
avanti i lavori.
Inoltre per i Chigi Raffaello eseguì l'affresco delle Sibille e angeli (1514) in Santa
Maria della Pace e soprattutto l'ambizioso progetto della Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, dove l'artista curò anche la progettazione dell'architettura, i cartoni
per i mosaici della cupola e, probabilmente, i disegni per le sculture, eseguite dal Lorenzetto e completate, anni dopo, da Gianlorenzo Bernini.
I ritratti
Accanto all'attività di frescante, un'altra delle fondamentali occupazioni di quegli anni è legata ai ritratti, dove apportò molteplici innovazioni sul tema. Già nel Ritratto di cardinale oggi al Prado (1510-1511), l'uso di un punto di vista ribassato e il
conseguente leggero scorcio delle spalle e della testa introdusse un aristocratico distacco confermato dall'atteggiamento impassibile del personaggio. Il Ritratto di Baldassarre Castiglione (1514-1515), grazie alla rara affinità spirituale tra effigiato ed effigiante, riesce a incarnare quell'ideale di perfezione estetica e interiore della cortigianeria espressa nel celebre trattato del Cortegiano. Nel Ritratto di Fedra Inghirami
(1514-1516) anche un difetto fisico come lo strabismo viene nobilitato dalla perfezione
formale dell'opera.
Ma fu soprattutto col Ritratto di Giulio II che le innovazioni si fecero più evidenti, con un punto di vista diagonale e leggermente dall'alto, studiato come se lo spettatore si trovasse in piedi accanto al pontefice. L'atteggiamento di malinconica pensosità, così indicatore della situazione politica dell'epoca (il 1512), introduce un elemento
psicologico fino ad allora estraneo dalla ritrattistica ufficiale. In pratica lo spettatore è
come se si trovasse al cospetto del pontefice, senza alcun distacco fisico o psicologico.
Un'impostazione simile venne replicata anche nel Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi (1518-19, Uffizi), in cui il papa, di nuovo con
una prospettiva basata su linee diagonali, è rappresentato mentre, sospesa la lettura
di un prezioso codice miniato, si trova al cospetto dei due cardinali cugini, con un intreccio di sguardi e gesti che sonda lo spazio in profondità, calibrandosi su un'estrema armonia. Lo straordinario virtuosismo nella resa dei dettagli, come la resa materica della mozzetta, la campanella cesellata o il riflesso della stanza nel pomello della
sedia, aiuta a creare quell'immagine di splendore tanto cara al pontefice.
Sempre agli stessi anni (1518-19) risale il celeberrimo ritratto di donna noto come
La Fornarina, opera di dolce ed immediata sensualità unita a vivida luminosità, in cui
l'artista ritrasse seminuda la sua musa-amante Margherita Luti (o Luzi).
Il rinnovo della pala d'altare
L'altro motivo fondamentale di questa stagione quello legato alle radicali trasfor131
mazioni messe in atto sul tema della pala d'altare, all'insegna di un sempre più profondo coinvolgimento dello spettatore. Già nella Madonna di Foligno (1511-1512) lo
schema tradizionale dell'ancona è superato dai continui rimando tra parte superiore e
inferiore, con un'orchestrazione cromatica che dà unità all'insieme, compreso il vibrante paesaggio sullo sfondo, legato a un evento miracoloso che era stato all'origine
della commissione.
Il passo decisivo si compì però con la Madonna Sistina (1513-1514), dove una
tenda scostata e una balaustra fanno da cornice a un'apparizione terrena di Maria,
scalza e priva di aureola, ma resa sovrannaturale dall'area luminosa che la circonda.
Attorno ad essa due santi guardano e indicano fuori dalla pala, come a voler introdurre gli invisibili fedeli a Maria, verso i quali essa sembra incedere, miracolosamente
immota ma spinta da un vento che le agita la veste. Anche i due celeberrimi angioletti
pensosi, appoggiati in basso, hanno il ruolo di mettere in connessione la sfera terrena
e reale con quella celeste e dipinta.
Punto di arrivo è la pala con l'Estasi di santa Cecilia (1514), tutta giocata su
un'impalpabile presenza del divino, interiorizzato dallo stato estatico della santa che
rinuncia alla musica terrena, raffigurata nella straordinaria natura morta di vecchi
strumenti musicali ai suoi piedi, in favore della musica eterna e celeste dell'apparizione del coro di angeli in alto.
Le tavole
Nonostante gli impegni proseguì la produzione di tavole destinate all'uso privato. Ad esempio il tema della madonna col Bambino raggiunge il culmine sublime di
perfezione geometrica e armonizzazione spontanea e naturale dei sentimenti nella
Madonna della Seggiola (1513-1514 circa). Figure emblematiche come La Velata (1516
circa) La Fornarina (forse la stessa donna, l'amante dell'artista) mostrano un'impareggiabile qualità pittorica e un virtuosismo che non mettono mai in secondo piano la vivida descrizione delle protagoniste.
La bottega
Per far fronte alla sua crescita di popolarità e alla conseguente mole di lavoro richiesto, Raffaello mise su una grande bottega, strutturata come una vera e propria impresa capace di dedicarsi a incarichi sempre più impegnativi e nel minor tempo possi bile, garantendo comunque un alto livello qualitativo. Prese così all'apprendistato
non solo garzoni e artisti giovani, ma anche maestri già affermati e di talento.
A trent'anni circa Raffaello era il titolare della più attiva bottega di pittura a
Roma, con una schiera di aiuti che inizialmente si dedicavano essenzialmente a lavori
preparatori e di rifinitura di dipinti e affreschi. Col tempo, negli anni avanzati del periodo romano, la quasi totalità dei lavori di Raffaello vide poi un contributo sempre
maggiore della bottega nella stesura pittorica, mentre la preparazione dei disegni e
dei cartoni restava solitamente ad appannaggio del maestro. L'integrazione tra le varie figure era tale che risulta difficoltoso anche distinguere la paternità di opere e disegni, tanto più che i vari artisti della sua scuola furono individualmente incaricati di
completare le varie opere pittoriche e architettoniche lasciate incompiute. Il sistema di
lavoro della bottega, per un periodo ospitata nella stessa casa di Raffaello (Palazzo
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Caprini), era strutturato con efficienza e formò un'intera generazione di artisti.
Il suo atelier fu per certi versi opposto a quello di Michelangelo, che preferiva lavorare con appena i modesti aiuti indispensabili (preparazione dei colori, degli intonaci per gli affreschi, ecc.) mantenendo una leadership assoluta sull'esito dell'opera finale. Raffaello invece, con l'andare degli anni, delegava invece sempre più spesso parti consistenti del lavoro ai suoi assistenti, che ebbero così una crescita professionale
notevole. Ne è esempio Giovanni da Udine, che assoldato come decoratore professionale specializzato in grottesche, divenne un valido creatore di nature morte con originalità ed eleganza, anticipando le scene di genere seicentesche. Allievi fedeli e duttili
furono Tommaso Vincidor, Vincenzo Tamagni o Guillaume de Marcillat, mentre aggiungevano alla bottega un bagaglio di conoscenze polivalenti, dall'architettura alla
scultura, personalità come Lorenzo Lotti.
Giovan Francesco Penni fu un vero e proprio factotum della bottega, capace di
imitare i modelli del maestro alla perfezione, tanto che è difficile distinguere la sua
migliore produzione grafica da quella di Raffaello; la sua scarsa inventiva però lo resero una figura di secondo piano dopo la scomparsa del maestro.
L'allievo più conosciuto e quello capace poi di avere la migliore carriera artistica
indipendente fu Giulio Romano, che dopo la morte del maestro si trasferì a Mantova
diventando uno dei massimi interpreti del manierismo italiano. Un altro allievo affermato fu Perin del Vaga, fiorentino dallo stile elegante e accentuatamente disegnativo,
che dopo il Sacco di Roma si trasferì a Genova dove ebbe un ruolo fondamentale nella
diffusione locale del linguaggio raffaellesco.
Altri artisti che ebbero poi una carriera indipendente di successo furono Polidoro
da Caravaggio, Alonso Berruguete e Pedro Machuca.
Raffaello collaborò anche con numerosi incisori come Marcantonio Raimondi,
Agostino Veneziano, Marco Dente e Ugo da Carpi a cui affidò la realizzazione di
stampe tratte da propri dipinti o disegni, assicurando una grande diffusione alla propria opera figurativa.
Stanza dell'Incendio di Borgo
Nelle Stanze Leone X non fece altro che confermare a Raffaello il ruolo che aveva
sotto il suo predecessore. La terza Stanza, poi detta dell'Incendio di Borgo, fu incentrata sulla celebrazione del pontefice in carica attraverso le figure di suoi omonimi
predecessori, quali Leone III e IV. La lunetta più famosa, nonché l'unica col consistente intervento diretto del maestro, è quella dell'Incendio di Borgo (1514) in cui iniziano
ormai ad essere evidenti i debiti verso il dinamismo turbinoso degli affreschi di Michelangelo, reinterpretati però con altri influssi, fino a generare un nuovo "classicismo", scenografico e monumentale, ma dotato anche di grazia e armonia.
Gli arazzi per la Sistina
Le imprese che distolsero il Sanzio dall'esecuzione materiale degli affreschi nella
terza Stanza furono essenzialmente la nomina a sovrintendente della basilica vaticana
dopo la morte di Bramante (1 agosto 1514) e quella degli arazzi per la Cappella Sistina. Leone X desiderava infatti legare anche il proprio nome alla prestigiosa impresa
della Cappella pontificia, facendo decorare l'ultima fascia rimastra libera, il registro
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più basso dove si trovavano i finti tendaggi e dove decise di far tessere a Bruxelles
una serie di arazzi da appendere in occasione delle liturgie più solenni. La prima noti zia sulla commissione risale al 15 giugno 1515.
Raffaello, trovandosi a confronto direttamente coi grandi maestri del Quattrocento e soprattutto con Michelangelo e la sua sfolgorante volta, dovette aggiornare il
proprio stile, adattandosi anche alle difficoltà tecniche dell'impresa che prevedevano
la stesura di cartoni rovesciati rispetto al risultato finale, la limitazione della gamma
cromatica rispetto alle tinture disponibili dei filati e il dover rinunciare ai dettagli
troppo minuti, preferendo grandi campiture di colore.
Nei sette su dieci cartoni conservati oggi al Victoria and Albert Museum di Londra si nota come il Sanzio seppe superare tutte queste difficoltà, semplificando la determinazione dei piani in profondità e scandendo con maggiore forza l'azione grazie
a una netta contrapposizione tra gruppi e figure isolate e ricorrendo a gesti eloquenti,
di immediata leggibilità, all'insegna di uno stile "tragico" ed esemplare.
Commissioni inevase
Nonostante la velocità e l'efficienza della bottega, la notevole consistenza degli
aiuti e l'eccellente organizzazione lavorativa, la fama di Raffaello andava ormai ben
oltre le reali possibilità di soddisfare le richieste e molte commissioni, anche impor tanti, dovettero essere a lungo rimandate o inevase. Le clarisse di Monteluce di Perugia dovettero aspettare circa vent'anni prima di ottenere una pala con l'Incoronazione
della Vergine commissionata nel 1501-1503 circa e dipinta solo dopo la morte dell'artista da Giulio Romano su disegni appartenenti alla gioventù del maestro. Il cardinale
Gregorio Cortesi provò nel 1516 a chiedergli affreschi per il refettorio del convento di
San Polidoro a Modena, mentre l'anno successivo Lorenzo duca d'Urbino, nipote del
papa, avrebbe voluto che l'artista disegnasse il suo profilo da battere nelle monete del
ducato.
Isabella d'Este non riuscì mai ad ottenere un "quadretto" di mano di Raffaello per
il suo studiolo, né vi riuscì suo fratello Alfonso per i camerini d'alabastro: nonostante
il versamento di un acconto e le ripetute insistenze degli amabsciatori ferraresi alla
corte pontificia (ai quali Raffaello arrivò anche a fingersi impegnato pur di non riceverli), alla fine il Trionfo di Bacco dovette essere dipinto da Tiziano. Nel frattempo
però il marchese aveva ricevuto numerosi cartoni e disegni di Raffaello per non perderne le grazie.
Raffaello architetto
Quando Raffaello decise di accettare l'incarico di soprintendente ai lavori nella
basilica vaticana, il più importante cantiere romano, egli aveva già alle spalle alcune
esperienze in questo campo. Le stesse architetture dipinte, sfondo di tante celebri ope re, mostrano una bagaglio di conoscenze che va al di là del consueto apprendistato di
un pittore.
Già per Agostino Chigi aveva curato le cosiddette "Scuderie" di villa Farnesina
(distrutte, ne resta solo il basamento su via della Lungara) e la cappella funeraria in
Santa Maria del Popolo. Inoltre aveva atteso alla costruzione della piccola chiesa di
Sant'Eligio degli Orefici. In queste opere si nota un reimpiego di motivi derivati dal134
l'esempio di Bramante e di Giuliano da Sangallo, coniugati con suggestioni dell'antico, all'insegna di una notevole originalità.
La Cappella Chigi ad esempio riproduce in piccolo la pianta centrale dei quattro
piloni angolari di San Pietro, ma aggiornati a modelli antichi come il Pantheon e ten denzialmente decorati con maggiore ricchezza e vivacità, con connessioni armoniose
alle strutture architettoniche. Nel novembre 1515 dovette partecipare a Firenze alla
gara per la facciata di San Lorenzo, vinta poi da Michelangelo.
La storiografia artistica ha a lungo trascurato la portata e l'influenza di Raffaello
architetto, riscoprendolo solo dopo la grande mostra del 1984.
Basilica di San Pietro
Fu così che Raffaello si dedicò al cantiere di San Pietro con entusiasmo, ma anche
con un certo timore, come si legge dal carteggio di quegli anni, per la dimensione dei
suoi slanci che vorrebbero eguagliare la perfezione degli antichi. Non a caso si fece
fare da Fabio Calvo una traduzione del De architectura di Vitruvio, rimasta inedita,
per poter studiare direttamente il trattato e utilizzarlo nello studio sistematico dei
monumenti romani.
Sebbene i lavori procedessero con lentezza (Leone X era infatti molto meno interessato del suo predecessore al nuovo edificio), suo fu il fondamentale contributo di
ripristinare il corpo longitudinale della basilica, da innestare sulla crociera avviata da
Bramante.
Nella progettazione Raffaello utilizzò un nuovo sistema, quello della proiezione
ortogonale (dice: l'architetto non ha bisogno di saper disegnare come un pittore, ma
di avere disegni che li permettono di vedere l'edificio così com'è), abbandonando la
configurazione prospettica del Bramante. Da una pianta attribuita a Raffaello si distingue una navata di cinque campate, con navate laterali, che viene posta davanti
allo spazio cupolato bramantesco; i pilastri che presentano doppie paraste sia verso la
navata maggiore sia verso le navate laterali; vi si vede la facciata costituita da un ampio portico a due piani.
Le fondazioni dei piloni si mostrarono insufficienti; per questa ragione si decise
di posizionare le pareti (quelli più sollecitate dal carico) più vicine ai piloni della cu pola. L'ordine gigante della crociera proseguiva sui pilastri del transetto, e le colonne
tra i pilastri formavano un ordine minore.
Raffaello non aveva alcuna intenzione di modificare la cupola di Bramante: l'aspetto esterno della chiesa sarebbe stato dominato dal sistema trabeato all'antica,
composto cioè da sostegni verticali e architravi orizzontali senza l'uso di archi. Sia nei
deambulatori che sulla facciata, colonne libere o semicolonne addossate alla muratura
sostengono una trabeazione dorica.
Antonio da Sangallo il Giovane, successore di Raffaello (1520), espose però i difetti del progetto di Raffaello in un famoso memoriale.
Palazzi
Raffaello progettò (secondo Vasari) il palazzo Branconio dell'Aquila per il protonotario apostolico Giovanbattista Branconio dell'Aquila, demolito poi nel Seicento per
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fare spazio al colonnato del Bernini di fronte a San Pietro. La facciata aveva cinque
campate, ispirate a Palazzo Caprini di Bramante, ma si distaccava dal modello del
maestro. Il pianterreno ad esempio doveva essere affittato a botteghe e non era di bugnato, ma articolato da un ordine tuscanico che incorniciava arcate cieche. Al piano
superiore abbandonò gli ordini classici, rompendo così la tradizione da Palazzo Rucellai, e fu superata anche la tradizionale distinzione chiara tra elementi portanti e
parti di riempimento.
Altri palazzi quasi certamente furono progettati da Raffaello, con l'aiuto della
sua bottega, che comprendeva Giulio Romano, sono il Palazzo Jacopo da Brescia ed il
Palazzo Alberini.
Palazzo Vidoni Caffarelli, nonostante sia stato attribuito per molto tempo a Raffaello, non fu progettato personalmente dal maestro, ma sicuramente da un suo allievo, probabilmente Lorenzo Lotti, e rispecchia comunque un modello e uno stile riferibile non solo a Raffaello ma anche a Bramante. A Raffaello è attribuito, secondo anche
quanto riportato dal Vasari, anche il progetto di Palazzo Pandolfini a Firenze, avviato
dal 1516, dove però sovrintese i lavori Giovanfrancesco da Sangallo e poi Bastiano da
Sangallo, detto Aristotile. Non è chiaro se il palazzo, insolitamente a due soli piani in vece dei tre canonici, sia incompleto o no.
Villa Madama
Un altro progetto, destinato a trovare grande risonanza e sviluppi per tutto il
Cinquecento, fu quello incompiuto di Villa Madama alle pendici del Monte Mario,
iniziata nel 1518 su incarico di Leone X e del cardinale Giulio de' Medici. L'impostazione rinascimentale della villa venne rielaborata alla luce della lezione dell'antico,
con forme imponenti e una particolare attenzione all'integrazione tra edificio e ambiente naturale circostante. Attorno al cortile centrale circolare si dovevano dipartire
una serie di assi visivi o di percorso, in un susseguirsi di logge, saloni, ambienti di
servizio e locali termali, fino al giardino alle pendici del monte, con ippodromo, teatro, stalle per duecento cavalli, fontane e giochi d'acqua. Delicatamente calibrata è la
decorazione, in cui si fondono affreschi e stucchi ispirati alla Domus Aurea e ad altri
resti archeologici scoperti in quell'epoca.
L'opera venne sospesa all'epoca di Clemente VII e danneggiata durante il Sacco
di Roma.
In Villa Madama si trova la stessa insistenza sulle visuali interne, come nella
Cappella Chigi, e la medesima rinuncia a un sistema strutturale che governi tutto l'insieme, come nel palazzo Branconio dell'Aquila. Nessun edificio precedente aveva riprodotto così esattamente la funzione e le forme degli antichi modelli romani: struttura e ornamento si fondono insieme.
Lo studio dell'antico
Sotto il pontificato di Leone X, Raffaello ricevette anche l'incarico di custodia e
registrazione dei marmi antichi, che lo portò a condurre un attento studio delle vestigia, per esempio esaminando le strutture e gli elementi architettonici del Pantheon
come nessuno aveva fatto fino a quel momento.
Il progetto più coinvolgente e ambizioso in questo settore fu quello di redigere
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una pianta di Roma imperiale, che richiese la messa a punto di un procedimento sistematico di rilievo e di rappresentazione ortogonale. L'ausilio venne fornito da uno
strumento munito di bussola, descritto in una lettera al papa, che venne redatta con
Baldassarre Castiglione e in cui si trova anche una famosa, appassionata espressione
di ammirazione per la cultura classica. La volontà di misurarsi con essa non poteva
prescindere dall'esigenza di conservarne i resti, lamentandosi per le distruzioni, non
tanto quelle dei barbari, ma di quelle dovute all'incuria e alla superficialità dei precedenti pontefici, arrivando a perdere l'immagine e la memoria stessa della Roma antica.
Il tema del "paragone de li antichi" divenne centrale nelle opere degli ultimi anni
del Sanzio, sia come rivivere dei miti, sia nel raggiungimento della perduta perfezione formale. In opere come la Loggia di Psiche o le grottesche della Stufetta o della
Loggetta del cardinal Bibbiena viene elaborato un sistema di decorazione all'antica,
evocato da stucchi e affreschi nello stile della Domus Aurea (scoperta qualche anno
prima), fino alla ripresa di tecniche come l'encausto o la pittura compendiaria con tocchi rapidi ed essenziali, ravvivati da lumeggiature.
Le Logge che decorano la facciata del palazzo niccolino in Vaticano, avviate da
Bramante, vennero proseguite da Raffaello, sia nell'esecuzione che nella decorazione.
Il Sanzio arricchì l'articolazione delle pareti e coprì le campate con volte a padiglione,
che permisero alla sua bottega di disporre di piani più vasti per la decorazione pittorica. Quest'ultima, avviata nel 1518, vide l'opera di un folto numero di assistenti, e
comprendeva una sessantina di storie dell'Antico e Nuovo Testamento, tanto che venne chiamata la "Bibbia di Raffaello".
La Trasfigurazione
Nel 1516 il cardinale Giulio de' Medici mise su una sorta di competizione tra i
due più grandi pittori attivi in Roma, Raffaello e Sebastiano del Piombo (alle cui spalle stava l'amico Michelangelo), ai quali richiese una pala ciascuno da destinare alla
cattedrale di Narbonne, la sua sede vescovile. Raffaello lavorò piuttosto lentamente
all'opera, tanto che alla sua morte era ancora incompleta e vi mise sicuramente mano
Giulio Romano nella parte inferiore, anche se non si conosce in quale misura. La sua
opera riguardava la Trasfigurazione di Cristo, che era fusa per la prima volta con l'episodio evangelico distinto della Guarigione dell'ossesso.
Opera dinamica e innovativa, con uno sfolgorante uso della luce, mostra due
zone circolari sovrapposte, legate da molteplici rimandi di mimica e gesti. Forza
drammatica è sprigionata dal contrasto tra la composizione simmetrica della parte superiore e la concitata gestualità e le dissonanze di quella inferiore, raccordandosi però
sull'asse verticale fino all'epifania divina, che scioglie tutti i drammi.
La morte
Raffaello morì il 6 aprile 1520, a soli 37 anni, nel giorno di Venerdì Santo. Secondo Vasari la morte sopraggiunse dopo quindici giorni di malattia, iniziata con una
febbre "continua e acuta", causata secondo il biografo da "eccessi amorosi", e infelicemente curata con ripetuti salassi.
Uno dei testimoni del cordoglio suscitato dalla morte dell'artista è Marcantonio
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Michiel, che in alcune lettere descrisse il rammarico "d'ogn'uno et del papa" e il dolore
dei letterati per il mancato compimento della "descrittione et pittura di Roma antiqua
che'l faceva, che era cosa bellissima". Inoltre non mancò di sottolineare i segni straordinari che si avverarono come alla morte di Cristo: una crepa scosse il palazzo vaticano, forse per effetto di un piccolo terremoto, e i cieli si erano agitati. Scrisse Pandolfo
Pico della Mirandola a Isabella d'Este che il papa, per paura, "dalle sue stantie è andato a stare in quelle che feze fare papa Innocentio".
Si tratta di un leit motiv dei contemporanei del Sanzio che, all'apogeo del suo
successo, lo consideravano tanto "divino" da paragonarlo a una reincarnazione di Cristo: come lui era morto di Venerdì santo e a lungo venne distorta la sua data di nascita per farla coincidere con un altro Venerdì santo. Lo stesso aspetto con la barba e i capelli lunghi e lisci scriminati al centro, visibili ad esempio nell'Autoritratto con un
amico, ricordavano da vicino l'effige del Cristo, come scrisse Pietro Paolo Lomazzo: la
nobiltà e la bellezza di Raffaello "rassomigliava a quella che tutti gli eccellenti pittori
rappresentano nel Nostro Signore". Al coro di lodi si unì Vasari, che lo ricordò "di na tura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole vedersi in colore che più degli
altri hanno a certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d'una
graziata affabilità".
Nella camera ove egli morì era stata appesa, alcuni giorni prima della morte, la
Trasfigurazione e la visione di quel capolavoro generò ancora più sconforto per la sua
perdita. Scrisse Vasari a tal proposito: «La quale opera, nel vedere il corpo morto e
quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore a ognuno che quivi guardava».
La sua scomparsa fu salutata dal commosso cordoglio dell'intera corte pontificia.
Il suo corpo fu sepolto nel Pantheon, come egli stesso aveva richiesto. L'epigrafe della
tomba di Raffaello, un distico scritto appositamente da Pietro Bembo e situato nel
Pantheon, recita:
« Qui è quel Raffaello da cui, fin che visse, Madre Natura temette
di essere superata, e quando morì temette di morire con lui. »
Raffaello e i contemporanei
Raffaello e Leonardo
Leonardo era già più che trentenne quando Raffaello nacque, ma la sua fama di
pittore innovativo e capace di esiti straordinari era ancora ben viva quando il Sanzio
decise di recarsi a Firenze, per ammirare, tra l'altro, la sua Battaglia di Anghiari. L'influenza di Leonardo, del suo modo di legare le figure in composizioni armoniche legate a schemi geometrici, e del suo sfumato fu una delle componenti fondamentali
del linguaggio raffaellesco, anche se venne rielaborata con esiti completamente diversi. Opere come la Madonna del Belvedere mostra una composizione piramidale derivata da Leonardo, ma è del tutto assente il senso di mistero e l'inquietante carica di al lusioni e suggestioni del pittore di Vinci, sostituiti da un sentimento di calma e spontanea familiarità.
Sicuramente l'esempio di Leonardo inculcò nel giovane la volontà di superare la
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sterili repliche di modelli di repertorio (come era solito fare il Perugino), in favore di
una continua rielaborazione e studio organico di tutte le figure e del paesaggio, spesso rilevato dal vero, per favorire una rappresentazione più naturale e credibile. Lo
stesso Vasari testimoniò come al giovane Raffaello "piacendogli la maniera di Leonardo più che qualunque altra avesse veduta mai, si mise a studiarla", distaccandosene
però a poco a poco, verso uno stile pienamente proprio. resta ad esempio una copia
della Leda col cigno leonardesca di mano del Sanzio.
Leonardo fu a Roma nel 1514-1516 e qui ebbe sicuramente modo di venire in
contatto con Raffaello, il maggior pittore alla corte papale. Non c'è notizia di contatti
diretti tra i due, nè di commissioni pittoriche a Leonardo in quel periodo, però opere
di Raffaello di quegli ultimi anni mostrano un rinnovato interesse per l'arte di Leonardo, anche quella vista magari un decennio prima. Ad esempio nella Perla del Prado lo schema riprende quello della Vergine delle Rocce, mentre nella Trasfigurazione
alcune figure riprendono direttamente quelle di Leonardo nell'Adorazione dei Magi.
Raffaello e Michelangelo
Il giovane Raffaello fu molto attratto dalle novità dell'altrettanto giovane Michelangelo (tra i due correvano circa otto anni di differenza), arrivando a trasferirsi a Firenze proprio per ammirare, tra l'altro, il suo cartone per la Battaglia di Cascina. Una
volta arrivato, il Sanzio, poté studiare con attenzione il monumentale David marmoreo di piazza della Signoria, dal quale trasse alcuni disegni particolareggiati. Alcune
Madonne del periodo fiorentino risultano influenzate dalle sculture del Buonarroti,
come il Tondo Pitti o il Tondo Taddei e, cosa piuttosto strana, la Madonna di Bruges,
che non uscì dalla bottega dell'artista se non per essere spedita in gran segreto nelle
Fiandre. Forse, tramite l'intercessione del suo maestro Perugino, Raffaello era riuscito
ad accedere dove molti fiorentini non poterono.
L'ammirazione con Michelangelo si trasformò in un vero e proprio scontro artistico al tempo del soggiorno a Roma. Probabilmente non furono i due interessanti a
schierarsi volontariamente contro, ma il clima fortemente competitivo della corte papale, surriscaldato probabilmente da Bramante, che cercava di tirare l'acqua al proprio mulino screditando il fiorentino Michelangelo e promuovendo invece il suo conterraneo Raffaello. Le risorse papali, per quanto immense, non erano comunque infinite e Bramante, impegnato nella difficile impresa della ricostruzione di San Pietro
fece mettere in secondo piano il progetto della tomba di Giulio II, dando avvio a quelle vicende della "tragedia della sepoltura", che lo avrebbero tormentato per quarant'anni. Scrisse infatti Michelangelo in una tarda lettera: «Tutte le discordie che nacquono tra papa Julio e me, fu l'invidia di Bramante et di Raffaello da Urbino [...] et
avevane bene cagione Raffaello, che ciò che aveva dell'arte, l'aveva da me».
Bramante, a giudicare da lettere e testimonianza, cercò spesso di mettere Michelangelo in cattiva luce, forse preoccupato del suo straordinario talento e dall'interesse
che suscitava nel papa, trovano in Raffaello, suo malgrado, un alleato. Ad esempio a
causa della scarsa pratica del Buonarroti nella tecnica dell'affresco tentò di far affidare
la volta della Cappella Sistina al Sanzio.
La rivalità tra i due pittori portò presto al nascere di veri e propri schieramenti,
con sostenitori dell'uno e dell'altro, ai quali si aggiunse Sebastiano del Piombo, preso
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sotto la protezione del Buonarroti. Nonostante i toni anche aspri della contesa, Raffaello dimostrò di essere interessato alle novità di Michelangelo negli affreschi della
volta della Cappella Sistina; oltre a includere un suo ritratto nella Scuola d'Atene, in
opere successive allo scoprimento della volta si notano riferimenti ben eloquenti a Michelangelo, come nel Profeta Isaia, lodato dallo stesso Buonarroti, o nell'Incendio di
Borgo, dove i corpi muscolosi in tumultuoso movimento rimandano direttamente al
suo esempio.
Un nuovo momento di scontro sorse quando Giulio de' Medici decise di affidare
due grandi pale d'altare a Sebastiano del Piombo e Raffaello. Scrisse Leonardo Sellaio
al Buonarroti: «Ora mi pare che Raffaello metta sottosopra el mondo perché lui [Sebastiano] non la facia, per non venire a paraghoni» (19 gennaio 1517). Michelangelo di segnò di sua mano le figure principali della pala di Sebastiano (la Resurrezione di
Lazzaro) e i due artisti in ballo ritardarono la consegna dell'opera per non svelarsi prima al rivale. Alla fine Raffaello morì, lasciando la celebre Trasfigurazione, completata
dai suoi allievi.
In definitiva Raffaello si mosse sempre in modo da assimilare il meglio da chi
aveva a portata d'occhio, fosse la ricchezza cromatica di un veneziano, la dolcezza di
Leonardo o il dinamismo di Michelangelo. Ammirando e imitando in tempi diversi,
senza mai seguire gli esisti estremi delle poetiche altrui ma piegandole alla propria
sensibilità, Raffaello si pose come figura di mediazione, esempio per il futuro e terzo
personaggio nell'ideale triade dei grandi "geni" del Rinascimento.
Raffello e l'incisione
Raffaello ebbe una sincera e profonda ammirazione per l'arte dell'incisione, e
sono documentate alcune opere di Albrecht Dürer che egli teneva esposte nella sua
bottega. Egli arrivò a inviare un suo discepolo, Baviero de' Carrocci detto il Baviera,
per mettersi in contatto con Marcantonio Raimondi, incisore bolognese attivo a Roma,
allievo del Francia e influenzato da Dürer. A lui affidò il compito di riprodurre in serie una cospicua quantità di dipinti e disegni del Sanzio, favorendone la straordinaria
diffusione.
Vasari riportò come Raffaello fosse stato non solo consapevole ma in un certo
senso promotore di questa lucrosa attività del Raimondi, spingendolo a vendere le riproduzioni a stampa a prezzi accessibili, per una platea molto ampia, rispetto alla ristretta cerchia dei facoltosi committenti che si garantivano le opere dell'urbinate. Tale
mercato ebbe un'enorme successo, in Italia e all'estero, arrivando a rappresentare uno
dei maggiori veicoli di diffusione della Maniera moderna in Europa, rendendo noti le
iconografie e gli schemi compositivi su cui si formarono intere generazioni di artisti.
Influenza
Raffaello fu uno dei pittori più influenti della storia dell'arte occidentale. La sua
ripresa dei temi michelangioleschi, mediati dalla sua visione solenne e posata, fu uno
degli input fondamentali del manierismo. Gli allievi della sua bottega ebbero frequentemente carriere indipendenti in più corti italiane ed europee, che diffusero ovunque
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la sua maniera e i suoi traguardi.
Senza le opere monumentali della fase romana è impensabile il "classicismo" del
secolo successivo, al tempo stesso aggraziato e magniloquente, dei Carracci, di Guido
Reni, di Caravaggio, Rubens e Velázquez. Modello imprescindibile ancora nella fase
delle accademie sette-ottocentesche, fece da fonte di ispirazione a maestri anche molto
diversi come Ingres e Delacroix, che trassero da lui spunti differenti. Nel corso del
XIX secolo la sua opera ispirò ancora importanti movimenti, come quello dei Nazareni e quello dei Preraffaelliti, questi ultimi interessati alla sua estetica giovanile, legati
a un'arcadica rievocazione del Quattrocento e del primissimo Cinquecento italiano,
prima appunto del "Raffaello classicista".
Tiziano
Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1480/1485 – Venezia, 27 agosto 1576) è stato
un pittore italiano, cittadino della Repubblica di Venezia.
Artista innovatore e poliedrico, maestro con Giorgione del colore tonale, Tiziano
Vecellio fu uno dei pochi pittori italiani titolari di una vera e propria azienda, accorto
imprenditore della bottega oltre che della sua personale produzione, direttamente a
contatto con i potenti dell'epoca, suoi maggiori committenti. Il rinnovamento della
pittura di cui fu autore, si basò, in alternativa al michelangiolesco «primato del disegno», sull'uso personalissimo del colore.
Biografia
Origini
Sicuramente Tiziano nacque a Pieve di Cadore, cittadina dolomitica ai confini dei
domini della Serenissima, da una famiglia nota e agiata, dedita per generazioni al giureconsulto ed all'amministrazione locale: il capostipite Tommaso, notaio, vi si era trasferito dalla seconda metà del Duecento. Tiziano era il secondogenito del notaio Gregorio Vecellio e di sua moglie Lucia, su un totale di cinque figli, due maschi e tre femmine.
La questione della data di nascita
Nonostante la relativa ricchezza di fonti su Tiziano a disposizione, è sconosciuta
la data di nascita: non è una questione astratta, ma conoscere almeno l'anno di nascita
significa anche, evidentemente, stabilire quando Tiziano ha potuto cominciare a dipingere, e quando, verosimilmente, ha iniziato a staccarsi dallo stile dei maestri, e così
via. Una ormai solida tradizione poneva la data di nascita tra il 1473 e il 1490; l'atto di
morte, redatto nel 1576, registra un'età di 103 anni, e dunque l'anno di nascita sarebbe
il 1473, ma la preferenza dei più si coagulava intorno al 1477: questa ipotesi era basata
in particolare sulla lettera scritta da Tiziano a Filippo II il 1º agosto 1571, nella quale
l'artista afferma di avere novantacinque anni. Ma oggi si è inclini a pensare che lo
stesso Tiziano possa aver falsificato apposta la propria età, poiché, reclamando un
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proprio credito nei confronti del re per alcuni dipinti, potrebbe essersi aumentato gli
anni per impietosire l'illustre committente.
La critica moderna aveva invece assestato il dato della nascita tra il 1488 e il 1490,
sulla base del Dialogo della pittura di Ludovico Dolce, in cui si afferma che, all'epoca
dei perduti affreschi al Fondaco dei Tedeschi, eseguiti con Giorgione nel 1508, Tiziano
non arrivava a vent'anni; tale dato appare confermato, seppure contraddittoriamente,
da Vasari, il quale affermò che Tiziano era nato nel 1480 e che non aveva più di diciott'anni quando iniziò a dipingere alla maniera di Giorgione, e che tuttavia ne aveva
circa settantasei nel 1566, quindi slittando in avanti di dieci anni. Ovviamente, a parte
le contraddizioni di Vasari, che comunque prendeva le sue informazioni dal Dolce,
quest'ultimo avrebbe potuto abbassargli l'età per farlo apparire più giovane: essendogli amico e tessendone spesso l'apologia nella sua opera, voleva probabilmente farlo
apparire più precoce.
Recentemente è stata avanzata un'ipotesi intermedia secondo la quale la data di
nascita di Tiziano sarebbe compresa tra il 1480 e il 1485. La plausibilità di questa asserzione è basata sullo studio delle prime opere di Tiziano e sul fatto che non si conoscerebbero lavori possibili di Tiziano databili prima del 1506.
Un dipinto in questo senso illuminante è Jacopo Pesaro presentato a san Pietro
da papa Alessandro VI, opera votiva eseguita per celebrare la vittoria della flotta veneziana e papale di Santa Maura sui Turchi del 28 giugno 1502. Già ascritto tradizio nalmente al 1508-1512, una rilettura più approfondita ne ha anticipato la datazione al
1503-1506, facendone il primo lavoro noto dell'artista. Il committente infatti, comandante delle forze cristiane a cui il dipinto è dedicato, dovette richiedere la pala subito
dopo la battaglia e comunque prima del 1503, anno della morte del pontefice promotore dell'impresa, che subì subito dopo una sorta di damnatio memoriae. Il Pesaro comunque non fece ritorno a Venezia prima del 1506, anno probabile della consegna.
Il dipinto stesso suggerisce stilisticamente l'attività di un artista giovane, ancora
in bilico tra più maestri: la figura del papa Alessandro VI ha i modi un po' antiquati
della pittura di Gentile Bellini, prima figura di riferimento di Tiziano; il san Pietro ha
invece le caratteristiche di approfondimento psicologico proprie del secondo maestro
di Tiziano, Giovanni Bellini, all'epoca nume tutelare della pittura veneta, e quindi
probabilmente la sua fattura è posteriore di alcuni mesi. Tuttavia è il terzo ritratto,
quello del Pesaro, a colpire maggiormente, perché è inconfutabilmente Tiziano, fin
d'ora del tutto consapevole del suo stile, dando un primo assaggio della pienezza della sua arte. A poco meno di vent'anni quindi, Tiziano doveva essere in grado di accaparrarsi a Venezia una commissione prestigiosa.
Formazione (1480-1510)
Secondo la tradizione, a dieci anni Tiziano iniziò a manifestare il proprio talento,
primo nella sua famiglia a dimostrare un'inclinazione artistica:
« [...] digiuno di qualunque nozione elementare del disegno, essendo ancora fanciullo, sul muro della casa paterna effigiò l'immagine di Nostra Donna (la Madonna),
valendosi per colorirla del succo spremuto dalle erbe e dai fiori: e tale fu lo stupore,
che destò quella primizia del suo genio pittorico, che il padre stabilì di mandarlo col
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figlio maggiore Francesco a Venezia presso il fratello Antonio, affinché apprendesse
le lettere e il disegno »
(Francesco Beltrame, Cenni illustrativi sul monumento a Tiziano Vecellio, aggiuntevi la
vita dello stesso.)
Ancora bambino, quindi, lasciò il Cadore con il fratello maggiore Francesco e si
stabilì a Venezia, dove lo zio Antonio ricopriva una carica pubblica. Il mosaicista Sebastiano Zuccato insegnò ai ragazzi i primi rudimenti tecnici; mentre Francesco, però,
orientò i suoi interessi verso l'imprenditoria e la vita militare, Tiziano venne messo a
bottega da Gentile Bellini, pittore ufficiale della Serenissima. Probabilmente alla morte del maestro, avvenuta nel 1507, il giovanotto passò a collaborare con Giovanni Bellini, subentrato al fratello anche nel ruolo di pittore ufficiale.
Venezia al tempo di Tiziano
Quando, sul finire del Quattrocento, il giovane Vecellio arrivò nella città lagunare, questa si trovava in uno dei suoi periodi più prosperi. Città tra le più popolose
d'Europa, dominava i commerci del Mediterraneo, avendo annesso, nel 1489 dopo la
vicenda che coinvolse Caterina Cornaro, anche Cipro. La via delle Indie era però ormai aperta e quindi progressivamente il Mediterraneo andava perdendo d'importanza, inoltre i Turchi incalzavano sempre più minacciosi, conquistando Negroponte nel
1470 e Scutari nel 1479.
Ma proprio le prime avvisaglie di tali minacce mostravano la saldezza dell'impero. Il ricco patriziato veneziano era sempre meno legato al mare e sempre di più alla
terraferma, grazie alle campagne militari in Italia. I rischi crescenti dei traffici marini,
infatti, spingevano molti a investire nell'acquisto di terre e nella costruzione di palazzi, piuttosto che nell'armo delle navi. La vita diventava più comoda e sicura, probabilmente più raffinata. I domini di terraferma, fino a Brescia e Bergamo, vennero sviluppati e rafforzati, non senza polemiche interne, incrementando le attività agricole. Venezia fu descritta dai contemporanei come il regno dell'opulenza: «di tutto – e sia
qual si voglia – se ne trova abbondantemente».
Anche la vita culturale si rinnovava. Aldo Manuzio ne fece la capitale dell'editoria italiana e dell'umanesimo più raffinato, mentre le antichità classiche venivano ricercate, studiate, mostrate nei nobili palazzi della laguna. La tradizionale indipendenza dalla Santa Sede attirava intellettuali, artisti e vari perseguitati, desiderosi di poter
esprimere liberamente le proprie idee. Vi giunsero così, tra i molti, anche Leonardo,
nel 1500, Dürer, nel 1494-1495 e poi nel 1505-1506, e Michelangelo, una prima volta
nel 1494.
Tiziano s'imbevette di questa cultura, oltre che del neoplatonismo. Artisticamente i suoi «maestri», oltre ai citati Gentile e Giovanni Bellini, coi quali lavorò a bottega,
furono gli artisti attivi in quel momento a Venezia: Carpaccio, Cima da Conegliano, i
giovani Lorenzo Lotto e Sebastiano Luciani, che sarà poi detto del Piombo, e poi, naturalmente, Giorgio da Castelfranco.
L'incontro con Giorgione
I debiti del giovane Tiziano sono stati in gran parte ridimensionati dalla critica
recente, riconoscendo piuttosto un pluralità di influenze importanti nella formazione
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del suo stile, come evidente nella pala per Jacopo Pesaro del 1503. L'incontro con
Giorgione dovette risalire a non molto prima del 1508, quando i due collaborarono
alla decorazione esterna del nuovo Fondaco dei Tedeschi, ricostruito dopo l'incendio
del 1505.
Di solito viene ricordata, a questo proposito, la versione di Dolce: il contratto
prevedeva che venissero affrescate due facciate. Giorgione riservò per sé la principale,
sul Canal Grande, mentre quella verso le Mercerie, su uno stretto vicolo, venne assegnata al giovane pittore. Vasari invece afferma che Tiziano si mise all'opera dopo che
Giorgione aveva già completato il suo lavoro.
In ogni caso, nulla rimane di queste opere se non pochi frammenti alla Galleria
Franchetti alla Ca' d'Oro e una serie di incisioni di Anton Maria Zanetti che li ha raffi gurati due secoli dopo.
L'ipotesi di un vero e proprio alunnato di Tiziano, e con lui di Sebastiano Luciani, presso Giorgione deriva dalle notizie di Vasari, che però più di una volta, per esi genze di continuità letteraria nella sua opera, ha troppo enfatizzato (se non inventato
di sana pianta) tali rapporti tra artisti. In realtà nessuna delle fonti contemporanee veneziane parla di una bottega, una scuola o allievi di Giorgione. Una deduzione comune, legata anche a considerazioni stilistiche e iconologiche, lega il nome del giovane
Tiziano a opere di gusto giorgionesco possibilmente lasciate incomplete alla morte del
pittore, quali il Concerto campestre, il Cristo portacroce di San Rocco, il Concerto di
Palazzo Pitti, anche se non mancano tuttavia autorevoli opinioni contrarie.
Oggi si tende a considerare il rapporto tra i due pittori come un confronto alla
pari di idee creative, piuttosto che un tradizionale scambio maestro-discepolo. Agli
accordi tonali che compongono l'olimpica serenità contemplativa, a volte enigmatica,
di Giorgione, si contrappone la vivacità coloristica che anima il gesto drammatico del
giovane Tiziano. Per Giorgione infatti l'arte non narra azioni, non imita il reale: essa
sviluppa il rapporto con la natura e con le altre arti, come la musica. Pure il giovane
Tiziano è convertito a questa forma teologico-filosofica, anche se i risultati furono alla
fine molto diversi, perché evidentemente diverse erano le personalità.
Le attribuzioni contese
I ritratti di Tiziano in questo periodo (il cosiddetto Ariosto, la Schiavona, il Gentiluomo con un libro) vennero eseguiti con uno stile talmente vicino a quello di Giorgione che lo stesso Vasari ammise di essere stato tratto in inganno, rafforzando l'ipotesi di un «alunnato» del cadorino presso Giorgione. Gradualmente in queste opere si
vede come l'artista cercò di superare il diaframma tra effigiato e spettatore (spesso costituito da un parapetto), all'insegna di un contatto più diretto e di una visione più
reale, in cui i protagonisti sono animati da sentimenti tratteggiati con acutezza e vigore.
Sicuro è che comunque Tiziano portò a termine la Venere di Dresda, realizzata
da Giorgione per le nozze di Gerolamo Marcello con Morosina Pisani; probabilmente,
però, Tiziano fu chiamato a modificare il dipinto perché ritenuto troppo idealizzato,
non adatto all'occasione matrimoniale: allora Tiziano inserì particolari che – come il
morbido panneggio su cui posa il corpo nudo di Venere – accentuano l'erotismo della
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rappresentazione.
Ben presto comunque l'artista trovò una sua autonoma strada, evitando i simboli
e le allusioni del collega e rappresentando la bellezza come pienezza della forma (al
pari di Giorgione), ma anche, drammaticamente, come azione.
Primi lavori autonomi (1511-1516)
Gli scarsi resti degli affreschi del Fondaco dei Tedeschi, prima commissione pubblica affidata a Tiziano, non ci permettono di giudicare appieno il valore artistico delle opere, anche se dalle testimonianze giunte fino a noi è possibile comprenderne il significato storico e politico. Mentre la parte di Giorgione svolgeva un tema astrologico,
in quella di Tiziano (come la Giustizia/Giuditta) è facile cogliere un contenuto di
grande attualità per l'epoca: la grande figura femminile che sguaina la spada di fronte
a un soldato imperiale è una palese allegoria di Venezia minacciata dallo straniero.
Nel 1508 anche l'imperatore Massimiliano aveva aderito alla Lega di Cambrai, che vedeva uniti il Papa, la Spagna, la Francia e alcuni stati italiani contro la Repubblica e
non era quindi un caso che tale guerresco affresco si trovasse sulla facciata della residenza dei tedeschi, della stessa nazionalità, cioè, di colui che minacciava l'esistenza
stessa della Serenissima. Illuminante è anche il confronto artistico tra i frammenti superstiti degli affreschi dei due pittori: se la Nuda di Giorgione è aulicamente posta in
una nicchia, la Giustizia di Tiziano si muove dinamica nello spazio, con ampie pose e
scorci arditi.
San Marco in trono
Una delle prime pale d'altare affidate al Vecellio è il San Marco in trono per la
chiesa di Santo Spirito in Isola e ora nella chiesa di Santa Maria della Salute, databile
al 1510. Commissionata come ex voto durante una violenta epidemia di peste (quella
in cui morì anche Giorgione), mostra già una raggiunta maturità coloristica e una piena comprensione della "maniera moderna", con il volto del protagonista, san Marco in
trono, posto in ombra.
La tavola contiene anche un messaggio politico e ideologico, di virtù civiche veneziane. I santi Rocco e Sebastiano, da una parte, sono protettori contro il morbo, dall'altra Cosma e Damiano, che furono medici, rinforzano la protezione. Al centro, sul
piedistallo che ricorda la posizione delle Madonne col Bambino in trono, si vede san
Marco, protettore e simbolo di Venezia stessa. Dunque il messaggio è piuttosto chiaro: la salvezza, per Venezia, non arriverà dall'alto dei cieli, ma dalle sue insite virtù civili.
Il ciclo di Padova
In fuga dalla peste che imperversava a Venezia, quella in cui morì anche Giorgione, Tiziano si rifugiò a Padova nel 1511, dove ricevette l'incarico di compiere tre
grandi affreschi nella sala principale della Scuola del Santo, un luogo di riunione nelle
immediate vicinanze della Basilica. Si tratta della prima commissione documentata
dell'artista. Egli, poco più che ventenne, era uno dei primi a lavorare al ciclo che vide
l'impegno di numerosi artisti veneti. Il lavoro è dettagliatamente documentato, primo
nella carriera del Tiziano, e se ne conoscono i tempi e i compensi dell'esecuzione. Il
contratto, per tre affreschi, risale al dicembre 1510 e l'esecuzione venne avviata nell'a145
prile successivo, mentre il saldo finale, a opera compiuta, risale al 2 dicembre 1511.
A Tiziano vennero affidati tre episodi dei Miracoli di sant'Antonio da Padova, il
Miracolo del neonato, il Miracolo del piede risanato e il Miracolo del marito geloso,
che costituiscono il primo vero grande lavoro autonomo di Tiziano, con molteplici rimandi colti, alla statuaria antica, ai maestri veneti, a Dürer, a Mantegna, fino alle ultime conquiste fiorentine di Michelangelo e Raffaello. Anche qui elementi politici si
mescolano alla rappresentazione sacra, come il tema della riappacificazione, che rimandava a quella sorta di pax veneta fatta tra Venezia e Padova dopo che quest'ultima era stata conquistata dalla Lega Santa nel 1509, rientrando nell'orbita del suo
nume tutelare.
L'artista si cimentò in composizioni di grande respiro, con gruppi di figure immerse nel paesaggio, che dominano lo spazio grazie all'uso di masse di colore trattate
in modo tanto personale come in Veneto fino ad allora non s'era mai visto. La sua
spiccata personalità, evidente soprattutto nel concitato episodio del Miracolo del marito geloso, lo impose all'attenzione dell'intera regione come il più vero erede dell'ormai ottuagenario Bellini e fece presto il vuoto attorno a sé, acquistando preminenza a
scapito di altri artisti: Sebastiano del Piombo e Lorenzo Lotto partirono infatti per
Roma, mentre la tradizione locale, che vedeva in Carpaccio il suo punto di riferimento, sembrò improvvisamente vecchia di secoli.
Primi successi
Ormai l'artista era lanciato: la sua energia drammatica e l'uso teatrale del colore,
sconosciuti fino ad allora nella pittura veneziana, gli garantiscono la supremazia tra
gli artisti della nuova generazione, suggellata dalla partenza di Sebastiano Luciani
per Roma, proprio per sfuggire alla concorrenza diretta di Tiziano.
Per lui e per la sua bottega iniziarono anni di attività intensa, ricevendo le più disparate commissioni, soprattutto, in quel frangente iniziale, di carattere privato: dai
ritratti (Violante) ai soggetti mitologici (Nascita di Adone, Favola di Polidoro, Orfeo
ed Euridice), dai dipinti religiosi (Noli me tangere) alle composizioni allegoriche (Tre
età dell'uomo). La sua abilità nel dipingere i paesaggi lo fece apparire come il vero
erede di Giorgione e gli procurò numerose commissioni da parte dei mercanti fiamminghi e tedeschi presenti in città.
Negli stessi mesi degli affreschi padovani preparò i disegni per una perduta xilografia monumentale, il Trionfo di Cristo, opera densa di significati politici, ammirata
da Vasari. Sempre il Vasari annotò che Tiziano «mostrò fierezza, bella maniera e sapere tirare via di pratica», nella rappresentazione di una processione celebrativa della
vittoria delle fede cristiana e dell'avvenuta e rinnovata pace tra Venezia e Roma. Ancora, come si vede, un tema civico e politico per un'opera che si richiama esplicitamente allo stile romano di Michelangelo e Raffaello filtrato attraverso Fra' Bartolomeo
(a Venezia nel 1508) e le incisioni.
Negli anni immediatamente successivi il pittore e la sua bottega produssero una
serie di mezze figure femminili, molto vicine al piano dell'immagine (Salomè con la
testa del Battista, Donna allo specchio, Flora e altre), prorompenti effigi di una bellezza sicura e serena, a contatto quasi diretto con lo spettatore; questo stesso stile trovò
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applicazione nei soggetti religiosi (Sacra conversazione Balbi, Madonna delle Ciliege,
Madonna tra i santi Giorgio e Dorotea, con un autoritratto giovanile).
Pittore ufficiale della Serenissima
L'identità veneziana di Tiziano si riaffermò nel 1513 quando l'artista rifiutò l'invito di Leone X, rivoltogli per il tramite di Pietro Bembo, di trasferirsi a Roma.
In quello stesso anno inidrizzò al Consiglio dei Dieci una petizione per ottenere
l'incarico di pittore ufficiale della Serenissima sostituendo il vecchio Bellini, richiesta
che venne accordata solo dopo la morte dell'ottuagenario maestro, nel novembre del
1516. Tiziano, sempre nella stessa lettera del 1513, avanzò inoltre la proposta di ridipingere l'affresco della Battaglia di Cadore nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, al posto degli affreschi trecenteschi ormai deteriorati di Guariento.
Sottolineando le difficoltà tecniche (l'opera era in controluce) e il fatto che nessun
artista attivo al Palazzo fosse in grado di superarle, ottenne la commissione, ma il risultato non è più apprezzabile poiché andato distrutto nell'incendio del Palazzo del
1577. Spicca soprattutto la raggiunta consapevolezza dell'artista del proprio valore e
del ruolo che gli si andava prospettando di caposcuola nell'arte in Laguna.
Amor sacro e Amor profano
Negli stessi anni avvenne l'avvicinamento di Tiziano ai circoli umanistici della
città, sostenuti dal patriziato e dai ricchi mercanti, con la partecipazione di intellettuali quali Pietro Bembo, Mario Equicola e Leone Ebreo. I temi filosofici, letterari, mitologici e musicali ciroclanti in questi ambienti sono da lui tradotti in una serie di dipinti
dal carattere squisitamente elitario. Aristotelismo, pitagorismo e neoplatonismo ficiniano influenzarono lavori come il Concerto campestre e le Tre età dell'uomo.
Fu però soprattutto la celeberrima allegoria dell'Amor sacro e Amor profano in
cui più livelli di lettura celebrano l'amore e fanno da esempio alla giovane sposa di
Niccolò Aurelio, gran cancelliere di Venezia. Lasciate ormai il mondo e le atmosfere
di Giorgione, Tiziano affermò sempre più un modello monumentale e ispirato a forme classiche e serene. Il successo di questa nuova concezione fu tale da dare avvio ad
una nuova fase, caratterizzata dal "classicismo cromatico", dove i personaggi, animati
da un "gioiosa sensazione di vita" sono inseriti in un'atmosfera dominata da risalti e
penombre sapientemente dosati, con una tavolozza brillante e corposa, carica di forza
espressiva, che si allontana sempre più dai toni pulviscolari del tonalismo.
Maturità (1517-1530)
Con la nomina a pittore ufficiale della Serenissima la carriera di Tiziano era ormai assicurata: il ruolo godeva di cento ducati annui che derivavano dalle rendite delle imposte sul sale (la cosiddetta sansaria del Fondaco dei Tedeschi) e dava diritto anche all'esenzione delle tasse annuali. Tiziano, che ricoprì tale carica per ben un sessantennio, investì questi proventi nel commercio del legname del natìo Cadore, necessario all'industria navale della Repubblica; gli spostamenti sull'asse Cadore-Venezia
portano anche ai primi importanti contatti con l'area di Serravalle, che negli anni quaranta e cinquanta fu luogo della commissione di due grandi pale d'altare, nonché di
fondamentali vicende economiche e famigliari.
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Gli accorti investimenti di Tiziano fecero poi sì, insieme con il crescente successo
della sua produzione artistica, validamente suffragata dalla bottega, che egli diventasse forse il più ricco artista della storia. I signori delle corti italiane ed europee si
contendevano ormai le sue opere, naturalmente a suon di denari.
Grandi pale d'altare
Nel 1516 Venezia usciva trionfante dalla situazione politica internazionale con il
trattato di Noyon che le riassegnava tutti i territori in terraferma perduti nel 1509. In
tale contesto l'artista ricevette la commissione per una grandiosa pala destinata all'altare maggiore della basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Si tratta della celeberrima Assunta, consegnata il 18 maggio 1518.
La tumultuosa scena mostra Maria che ascende in cielo, con le mani levate in alto
e il volto in estasi, tra i concitati gesti degli apostoli stupiti e nel bel mezzo di una corona di luce abbagliante, emanazione dell'Eterno che l'attende nei cieli. L'occasione
rappresentò un vero e proprio confronto a distanza con i più avanzati traguardi del
Rinascimento romano di Michelangelo e Raffaello, che in un primo momento lasciò
scioccati i veneziani, incapaci di assimilare subito il brusco passo in avanti fatto rispetto alla tradizione veneta. Scrisse Ludovico Dolce: «i pittori goffi e lo sciocco volgo, che insino allora non avevano veduto altro che le cose morte e fredde di Giovanni
Bellini, di Gentile e del Vivarino, ec., le quali erano senza movimento e senza rilievo,
dicevano della detta tavola un gran male». Raffreddatasi poi l'invidia, si iniziò a riconoscere il capolavoro per il suo valore, in cui confluivano «la grandezza e terribilità di
Michelangelo, la piacevolezza e venustà di Raffaello e il colorito proprio della
natura». Nel dipinto si fondevano diversi strati di lettura: teologico, artistico, di celebrazione della committenza, ma anche politico. La Vergine era ormai da tempo, infatti, usata come simbolo di Venezia stessa e il suo trionfo sulla tavola era un'evidente
celebrazione dei recenti successi politici.
L'anno dopo, nel 1519, Jacopo Pesaro – lo stesso Pesaro celebrato nel dipinto giovanile Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI – acquisì nella
stessa chiesa dei Frari l'altare dell'Immacolata Concezione e commissionò a Tiziano la
pala d'altare, che l'artista consegnò solo nel 1526: si tratta della cosiddetta Pala Pesaro,
che rappresentò un ulteriore sviluppo in senso moderno del tema della pala d'altare.
La Madonna è infatti in poisizone non frontale, ma di sbieco, come se una finestra fosse aperta sulla navata sinistra e rivelasse un altare posto nella stessa direzione dell'altare maggiore. Lo spazio si dilata in tutte le direzioni, come suggeriscono le due po derose colonne, in posizione slegata da una geometrica rappresentazione dello spazio, e le immagini dei santi e dei committenti, tagliati in parte fuori dalla scena. I santi
sono rappresentati senza alcuna gerarchia, in modo molto naturale.
In questi anni, naturalmente, Tiziano esegue anche altre pale d'altare e opere di
soggetto religioso: nel 1520 la Pala Gozzi ad Ancona, di chiara ispirazione raffaellesca
(prima sua opera datata), e l'Annunciazione Malchiostro a Treviso; nel 1522, il Polittico Averoldi a Brescia, dove rinnovò il confronto con Michelangelo soprattutto nello
scultoreo San Sebastiano, dalla complessa posizione in tralice.
Ancora a Venezia, tra il 1528 e il 1530, per la chiesa dei santi Giovanni e Paolo dei
Domenicani, eseguì la grande tela del Martirio di san Pietro da Verona, lodata come
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meglio riuscita anche dell'Assunta, ma distrutta durante l'incendio del 1867. Secondo
l'Aretino infatti essa era la «più bella cosa in Italia».
Il camerino d'alabastro
La risonanza del successo dell'Assunta fece definitivamente decollare la carriera
internazionale di Tiziano. I primi a interessarsi di lui fuori i confini della Serenissima
furono i piccoli Stati del nord-Italia, in particolare Ferrara e Mantova.
Alfonso d'Este, duca di Ferrara, stava infatti in quegli anni decorando il proprio
studiolo personale, il cosiddetto Camerino d'alabastro, e dopo non essere riuscito a
coinvolgere pittori precocemente scomparsi come Fra Bartolomeo e Raffaello, si rivolse a Tiziano. Tra il 1518 e il 1524 circa, con vari rimandi, solleciti e sospensioni, l'artista eseguì ben tre tele di soggetto mitologico, i cosiddetti Baccanali: la Festa degli
amorini, il Bacco e Arianna e il Baccanale degli Andrii. Infine ritoccò il paesaggio della tela già dipinta un decennio prima da Giovanni Bellini, per renderla più uniforme
alla serie.
Si tratta di scene colme di felicità gioiosa, di un raffinato erotismo, mai volgare, e
di una molteplicità di rimandi mitologici, allegorici e letterari.
A più riprese Tiziano soggiornò a Ferrara, dipingendo anche qualche ritratto
(come quello di Vincenzo Mosti) e alcune tele di modeste dimensioni (il Cristo della
moneta e la Deposizione di Cristo), alternando periodi trascorsi a Venezia e in altri
luoghi. L'artista dilatava ampiamente i tempi di consegna, rendendo la propria opera
più difficile da conquistare e quindi preziosa; accettava più di un incarico, purché il
compenso fosse sempre più alto, avviando quel carattere "imprenditoriale" della propria attività.
La corte di Mantova
Alle commissioni degli Este si aggiunsero presto anche quelle dei Gonzaga, in
particolare del marchese Federico II. Egli si amicò l'artista promettendogli non solo
ricche proposte economiche, ma anche doni, inviti e possibilità culturali: alla corte di
Mantova esisteva infatti un vivacissimo ambiente frequentato da Baldassarre Castiglione e Giulio Romano, uno dei più stretti collaboratori di Raffaello, che lo rendevano interessante e aggiornatissimo.
Di quel periodo ci restano i ritratti dell'Uomo dal guanto e il Ritratto di Federico
II Gonzaga, e dipinti di devozione come la Madonna del Coniglio.
La renovatio urbis
Intanto la residenza di Tiziano restava sempre prevalentemente Venezia, con il
proprio atelier vicino al Canal Grande, presso San Samuele. Qui l'artista aveva messo
su una bottega efficiente, dove partecipava anche il fratello Francesco, con importanti
ruoli amministrativi. Spesso i suoi lavori erano destinati all'esportazione.
Il 20 maggio 1523, morto il vecchio doge Antonio Grimani, venne eletto Andrea
Gritti. Il nuovo doge propose subito un grande progetto di rinnovamento e di sistemazione dell'assetto urbanistico e artistico di Venezia, la cosiddetta revovatio urbis
Venetiarum. Venezia doveva «rifondarsi» come nuova Roma, capitale di un grande
impero ed erede sia della Roma d'oriente (Costantinopoli è stata presa dai Turchi nel
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1453) sia della Roma d'occidente (devastata dal Sacco di Roma del 1527).
Tiziano fu al centro di questo programma, insieme a due toscani qui riparati
dopo il Sacco: Pietro Aretino e Jacopo Sansovino. La collaborazione fra i tre fu fin dall'inizio salda e feconda, non solo sul piano artistico ma anche dal punto di vista umano. Amici fraterni, costituirono una triade che ispirava tutta la vita artistica della Sere nissima alla metà del XVI secolo. Echi delle architetture classiche sansoviniane venivano ripresi da Tiziano nella sua Presentazione di Maria al Tempio e allo stesso tempo l'artista interpretava l'imperialismo del doge, che lo volle esecutore di importanti
opere per il Palazzo Ducale, come il San Cristoforo e altri dipinti distrutti nell'incendio del 1577. Di Gritti Tiziano dipinse in seguito anche alcuni ritratti, il più famoso
dei quali è oggi a Washington, caratterizzato da forza e vigore.
Pietro Aretino come "agente"
Il rapporto più importante di quegli anni fu quello intessuto con Pietro Aretino,
che nelle sue lettere e nei suoi scritti mise una vera e propria opera di promozione a
favore del pittore cadorino, grazie anche ai suoi costanti rapporti con tutte le più importanti corti. Indubbiamente, anche il letterato trasse benefici non piccoli dal sodalizio, diventando in un certo senso l'"agente" di Tiziano, promotore encomiastico della
sua opera e aspro detrattore dei suoi rivali, il che gli garantì per lunghi anni una sorta
di monopolio artistico in tutto lo Stato.
Anche di Pietro Tiziano fece un ritratto che, come scrisse lo stesso Aretino, «respira, batte i polsi e muove lo spirito nel modo ch'io mi faccio in la vita».
Il matrimonio e il lutto
Nel 1525 Tiziano convolò a nozze con una giovane di Feltre, Cecilia Soldani, che
gli aveva già dato due figli, Pomponio e Orazio. Il 6 agosto 1530 però essa morì nel
dare alla luce la terza figlia, Lavinia. Tiziano, come scrivono le persone a lui vicine, rimase molto turbato e smise di lavorare per un certo periodo, affranto dal dolore. Solo
nell'ottobre viene dichiarato "in miglioramento". Non si risposò mai più e si dedicò in
seguito all'avvenire dei figli: Pomponio abbracciò la carriera ecclesiastica; Lavinia
sposò Cornelio Sarcinelli, ricco gentiluomo della nobiltà di Serravalle; Orazio, il prediletto, collaborò con lui alla bottega.
Conte palatino (1531-1548)
La grande pubblicità che l'Aretino faceva dell'amico e della sua arte contribuì
senz'altro ad accrescerne la popolarità e quindi la domanda di opere. Nel 1529 dopo
la pace di Cambrai tra Carlo V e Francesco I, l'imperatore fu a Bologna con papa Clemente VII per accordarsi sullo stato dell'Italia. Qui Carlo ricevette la conferma di più
potente monarca europeo con la duplice incoronazione, di re d'Italia e di imperatore
(22 e 24 febbraio 1530). In quell'occasione, tramite l'intermediazione dell'Aretino, Tiziano riuscì a entrare in contatto con l'imperatore, ponendo le basi per un rapporto
privilegiato destinato a durare ben quarantacinque anni.
Quattro anni dopo l'ambasciatore presso la Serenissima brigò per ottenere che
Tiziano raggiungesse il monarca presso la sua corte: Carlo e la moglie, Isabella del
Portogallo, volevano infatti farsi ritrarre. Probabilmente Tiziano non aveva voglia di
lasciare Venezia per una corte cosmopolita dove non si sentiva a proprio agio: il doge,
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comunque, rispose negativamente e l'imperatore si rassegnò a una relazione a distanza (Tiziano lo ritrasse comunque di lì a poco di nuovo a Bologna). Già da questo episodio che coinvolgeva non solo l'artista e il committente, ma anche doge e ambasciatori, è possibile capire che il rapporto tra Carlo V e Tiziano, da semplice relazione tra
pittore e mecenate, diventò col tempo un vero e proprio affare di stato.
L'impero moderno necessitava di un'immagine efficace che identificasse allo
stesso tempo la persona di Carlo e il suo status di imperatore. Inoltre doveva coniugare insieme classicità e modernità, in modo che i diversi popoli e nuclei culturali e linguistici che componevano l'enorme impero potessero senza difficoltà leggere l'immagine e decodificarla. Tiziano, autentico genio della comunicazione, riuscì in quest'opera delicatissima: ritrasse Carlo (Ritratto di Carlo V con il cane) e l'imperatrice (Ritratto
di Isabella del Portogallo) in pose ufficiose ma al tempo stesso domestiche. Poco dopo
creò uno dei simboli più significativi e pregnanti di tutta la storia dell'arte, il formidabile Ritratto di Carlo V a cavallo, che parlava ai sudditi e ai nemici dell'imperatore in
modo inequivocabile, mostrando nello stesso tempo la forza del guerriero, la saggezza del sovrano, la fatica dell'uomo. Un tale modello ispirò per secoli pittori come Velázquez, Rubens, Rembrandt e Goya.
Allo stesso tempo ritrasse Carlo seduto, come uomo di pace, non più guerriero
ma giusto giudice e generoso imperatore. Dal canto suo Carlo nominò Tiziano conte
del Palazzo del Laterano, del Consiglio Aulico e del Concistoro, Conte palatino e Cavaliere dello Sperone d'Oro; l'imperatore divenne il maggior committente dell'artista,
benché proprio il fatto di essere il pittore preferito della corte spagnola portasse a
nuove richieste da parte di molti stati e famiglie nobili. L'esecuzione di molti ritratti
(la perduta serie degli Undici Cesari, il Ritratto di Isabella d'Este, il Ritratto di Pietro
Bembo) affinò la ricerca stilistica insieme di realismo e di serenità, con intonazioni co loristiche sempre più dense e corpose.
Urbino
Nel 1508, estinta la dinastia dei Montefeltro, Francesco Maria Della Rovere, figlio
di Giovanna da Montefeltro, era diventato duca e signore d'Urbino. La piccola signoria marchigiana cominciò da quel momento una bella stagione d'arte e di splendore.
Proprio i Della Rovere – Francesco Maria e la moglie Eleonora Gonzaga – furono
i primi a comprendere che fasto e fama internazionali non si conquistavano più brandendo le armi e annettendo territori. Il generoso mecenatismo, la protezione accordata ad intellettuali ed artisti, lo splendore delle residenze, il dono diplomatico di opere
d'arte e di prodotti unici d'artigianato rese la piccola corte di Urbino un modello da
seguire e imitare.
Tiziano, che al momento è un artista molto in voga, non poteva non essere coinvolto in questa nuova gestione del potere: il rapporto con i duchi di Urbino produsse
il Ritratto di Francesco Maria Della Rovere, il quello di Eleonora Gonzaga e la celeberrima Venere di Urbino.
La maggior differenza con la Venere di Giorgione stava nella consapevole e fiera
bellezza e nudità della dea: essa è sveglia e guarda in modo deciso chi la osserva. Il
colore chiaro e caldo del corpo contrasta con lo sfondo e con i cuscini scuri; la fuga
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prospettica è verso destra, sottolineata dalle fantesche e dai toni sempre più freddi,
che fanno risaltare una linea obliqua. Si tratta della stessa modella della Bella e della
Giovane in pelliccia.
Il confronto col Pordenone
In quegli anni Tiziano aveva nel frattempo spostato la propria bottega nei locali
più ampi di Biri Grande, non lontano dalle attuali Fondamenta Nuove. Non vi tenne
una scuola, ma scelse collaboratori fidati e modesti per ruoli subalterni, in modo che i
loro stili personali non influenzassero le opere finite.
All'apice della popolarità, Tiziano manteneva l'incarico, lo stipendio e i favori di
pittore ufficiale della Serenissima, ma lavorava pochissimo per la sua città, suscitando
le rimostranze del Senato. Solo nel 1534 poté dedicarsi, e di buon grado, alla realizzazione di un grande telero con la Presentazione di Maria al Tempio, da destinare alla
Scuola della Carità. Consegnato nel 1538, riscosse un ampio favore presso gli intellettuali, che esaltarono il suo operare rispetto a quello di un rivale nel frattempo giunto
dal Friuli, il Pordenone.
I sostenitori di quest'ultimo, lamentandosi dei continui ritardi di Tiziano nel consegnare la Battaglia di Cadore per Palazzo Ducale (opera poi distrutta in un
incendio), ottennero la sospensione dell'emolumento nel 1537.
Nel 1539 il Pordenone morì a Ferrara in circostanze poco chiare; in seguito gli
scrittori veneziani passarono sotto il più completo silenzio la sua opera.
Una ventata di manierismo
Intorno agli anni quaranta arrivò a Venezia una «ventata di manierismo» portata
da Salviati e Vasari, e all'insegna della ricerca di una «natura artificiosa»: Tiziano si
adattò alle novità cercando un accordo tra il senso del colore e l'arte del disegno manierista. In verità già in precedenza Tiziano aveva cercato un confronto con l'opera di
Michelangelo e Raffaello vista attraverso le incisioni, con l'architettura di Giulio Romano, con le collezioni veneziane di opere classiche. Tuttavia l'arrivo di Salviati e Vasari a Venezia danno una spinta decisiva all'influenza manieristica sull'artista veneto.
Come poi Tiziano riesca a «digerire» a modo suo queste influenze, come altre
prima e dopo, è altro discorso. Come dice Panofsky, nessun altro artista fu tanto fles sibile di fronte alle «influenze» come Tiziano e nessuno rimase tanto se stesso come
Tiziano: operò una sintesi tra la ricerca accademica e il suo ricco cromatismo, cercando di fondere il disegno toscano con il colorito veneto.
Si può seguire lo sviluppo del confronto attraverso alcune opere (San Giovanni
Battista, Allocuzione di Alfonso d'Avalos, le tre Scene bibliche e soprattutto la prima
Incoronazione di spine): composizioni altamente drammatiche con evidenti rimandi
alle forme classiche e a Michelangelo, filtrati attraverso la sua personalissima tecnica
del colore.
Roma e i Farnese: il colore
Nel 1545 Tiziano decide di compiere un viaggio in Italia centrale che culmina nel
soggiorno romano, ospite del papa Paolo III Farnese e del suo potente nipote, il cardinale Alessandro Farnese. È naturale l'incontro e il confronto con l'artista che in quel
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momento domina Roma: Michelangelo ha da poco terminato il Giudizio Universale.
L'artista veneto sta lavorando sulla Danae e Michelangelo «lo comendò assai, dicendo
che molto gli piaceva il colorito suo e la maniera, ma che era un peccato che a Vinezia
non s'imparasse da principio a disegnare bene e che non avessero que' pittori miglior
modo nello studio».
Vasari, d'altra parte, non può che trasmetterci il suo stupore: visitando la bottega
di Tiziano nel 1566 riporta che «il modo di fare che tenne in queste ultime [opere], è
assai differente dal fare suo da giovane […] condotte di colpi, tirate via di grosso e
con macchie, di maniera che dapresso non si possono vedere, e di lontano appaiono
perfette». Anche la tecnica di interventi successivi, confermata dalle recenti radiografie, è già nella testimonianza di Marco Boschini che cita Palma il Giovane quale testimone: Tiziano abbozzava la tela con una gran massa di colore, lasciava il quadro anche per mesi, poi lo riprendeva e «se faceva di bisogno spolpargli qualche gonfiezza o
soprabondanza di carne, radrizzandogli un braccio, se nella forma l'ossatura non fosse così aggiustata, se un piede nella positura avesse preso attitudine disconcia, mettendolo a lungo, senza compatir al suo dolore, e cose simili. Così operando, e riformando quelle figure, le riduceva nella più perfetta simmetria che potesse rappresentare il bello della natura, e dell'arte».
Dunque il colore, che arriverà a plasmare anche con le dita, come fosse creta: in
questo forse, simile a Michelangelo, che trattò i suoi dipinti come sculture. Il maestro
del perfetto disegnare e il maestro del perfetto colorire in fondo sono, se si vuole, al di
là anche delle personali polemiche, meno distanti di quanto non abbiano essi stessi
pensato.
Roma e i Farnese: il ritratto
Oltre alla Danae Tiziano dipinse per i Farnese il Ritratto di Paolo III ed il Ritratto
di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese; il vecchio papa è seduto su di
una sedia, con il nipote Ottavio, genuflesso, e dietro Alessandro in abito cardinalizio
distratto. Il ritratto mette in evidenza anche i caratteri dei personaggi: il papa malato e
curvo rimprovera con lo sguardo Ottavio, che si inchina per dovere formale (effettivamente successivamente tenterà di uccidere il proprio padre). Lo sfondo e la tovaglia
sono scuri e l'uso di colori pastosi e di pennellate poco definite lascia un senso di oppressione e di tetraggine. Tiziano sperimenta qui una nuova tendenza espressiva che
troverà largo impiego nell'opera tarda del maestro, e che afferma in modo deciso,
proprio nel periodo di maggior contatto col manierismo romano, la supremazia del
colore sul disegno. Perfino l'Aretino non comprende la portata della rivoluzione, definendo il ritratto a lui dedicato «piuttosto abbozzato che non finito».
Tiziano è sicuramente il ritrattista principe del suo secolo. Il fondo scuro, già presente nel Quattrocento coi fiamminghi e Antonello viene portato alle sue ultime conseguenze, anzi Tiziano ne fa il suo tratto distintivo, insieme alla naturalezza delle
espressioni e alla libertà da schemi preconfezionati. Il colore denso è, come sempre, lo
strumento di cui si serve l'artista per la rappresentazione, in questo caso psicologica,
della realtà.
E la specialità di Tiziano è il ritratto di corte, con cui immortala sovrani, papi,
cardinali, principi e condottieri generalmente a figura intera o più spesso a mezza fi153
gura, di tre quarti o seduti, in pose ufficiali o qualche volta in atteggiamenti più familiari. L'attenzione del pittore è posta alla fisionomia più che ai sentimenti; l'abbigliamento è sempre ritratto con cura a volte ricercata (velluti, broccati, gioielli, armature).
Lo scopo è evidente: la rappresentazione del potere incarnato in una persona; ma siccome questa ricerca avviene attraverso un attento studio di espressioni, pose e gesti
esaltati dall'uso perfetto del colore, il risultato è spesso incredibilmente vero e reale,
l'obiettivo raggiunto in pieno.
Tra Ceneda e Cadore: la vicenda di Col di Manza
Nonostante l'impressionante numero di grandi e moderne opere commissionategli a livello internazionale, Tiziano, in questi stessi anni, riceve anche commissioni in
località della pedemontana trevigiana, sulle vie dei commerci della famiglia Vecellio,
da parte di comunità che vogliono accrescere il proprio prestigio, approfittando della
vicinanza del grande artista.
Realizza in particolare due fondamentali opere di carattere sacro, entrambe concordate nel 1543, ma, causa il complicarsi delle trattative, consegnate solo tra fine decennio e primi anni cinquanta: la grande pala d'altare Madonna con Bambino in gloria e santi Andrea e Pietro per la chiesa di santa Maria Nova di Serravalle, città nella
quale, a palazzo Sarcinelli, risiedeva la famiglia che presto avrebbe dato uno sposo all'amata figlia Lavinia; e il polittico di Castello Roganzuolo per la chiesa dei santi Pietro e Paolo.
Soprattutto alla commissione di quest'ultimo si lega un'importante quanto poco
nota vicenda: oltre al lauto quantitativo di denaro e vivande che la comunità di Castello Roganzuolo dovette versare a Tiziano, gli accordi prevedevano la costruzione
di una villa di campagna (l'attuale Villa Fabris di Colle Umberto), sul Col di Manza, la
quale diventerà sede del pittore nei viaggi Venezia-Cadore, nonché luogo di produzione vinicola, in accordo con la natura imprenditoriale dei Vecellio.
Col di Manza sarà, dunque, punto strategico in terraferma per diversi motivi: è a
metà strada tra Cadore e laguna, è importante snodo per l'imprenditoria dei Vecellio,
è vicino alla figlia Lavinia e, inoltre, è per l'artista luogo di riposo e suggestioni coloristiche.
L'ultima maniera (1549-1576)
Rientrato a Venezia sul finire del 1548, Tiziano percepisce che in patria qualcosa
è cambiato. In sua assenza il giovane Tintoretto ha ottenuto la sua prima commessa
pubblica, realizzando il Miracolo di san Marco: lo stile enfatico e visionario del giovane Robusti incontra il gusto della nuova committenza veneziana. D'altra parte Paolo
Veronese conquista in quegli anni il monopolio dei ricchi proprietari delle ville della
terraferma. Dalla metà del secolo l'impegno veneziano di Tiziano progressivamente
scema: non risponde al vero, quindi, quanto affermato dalla tradizione, che vuole il
pittore cadorino incontrastato dominatore della scena artistica veneziana fino alla
morte. Da questo punto in poi, invece, tutta l'attività di Tiziano viene assorbita dalla
committenza iberica, da Carlo V, cioè, e in seguito, soprattutto dal figlio Filippo.
Filippo II e le poesie
Dalla Danae dei Farnese previdentemente Tiziano aveva ricavato un cartone: il
154
successo del dipinto è straordinario, per cui su Tiziano e la sua bottega piovono nuove commissioni per lo stesso soggetto. In occasione delle nozze di Filippo II con Maria
Tudor, il 25 luglio 1554, Tiziano spedisce al re di Spagna una seconda versione della
Danae, leggermente diversa dalla prima. Filippo ha in mente di allestire un camerino
con opere di contenuto erotico, e la Danae si prestava senz'altro alla bisogna.
Della Danae Tiziano e la sua bottega eseguiranno nel corso degli anni ben sei diverse versioni: caratteristica questa di molte opere di questo periodo eseguite da Tiziano. I soggetti di maggior successo venivano richiesti dai ricchi committenti, che venivano accontentati con dipinti ora di maggiore ora di minore pregio, ma tutti con caratteristiche leggermente diverse l'uno dall'altro, per cui tutti alla fine possedevano
un'opera unica.
In seguito Tiziano scrisse al re che, «perché la Danae, che io mandai già a vostra
Maestà, si vedeva tutta dalla parte dinanzi, ho voluto in quest'altra poesia variare, e
farle mostrare la contraria parte, acciocché riesca il camerino, dove hanno da stare,
più grazioso alla vista.». Il dipinto che mostra «la contraria parte» è Venere e Adone,
che inaugura la serie delle cosiddette «poesie», come le chiama lo stesso Tiziano: quadri di soggetto mitologico che rappresentano una meditazione pensosa e malinconica
– che diventa sempre più cupa e drammatica – sul mito e sulle antiche favole.
Il giovane Tiziano dei Baccanali che si dilettava a raccontare di sfrenati miti orgiastici non c'è più: è meglio per l'uomo non avere a che fare con gli dei, perché solo
sciagure gliene potranno derivare. La caccia, metafora della vita, soggetta al caso e al
capriccio e alla malvagità degli dei, è la causa della morte di Adone (Venere e Adone),
ucciso dal cinghiale, di Atteone (Diana e Atteone), sbranato dai suoi stessi cani, della
ninfa Callisto (Diana e Callisto), sedotta durante la caccia e brutalmente umiliata a
causa della sua gravidanza. E poi Europa (Ratto di Europa), rapita da un dio maligno,
Andromeda (Perseo e Andromeda), sacrificata al mostro marino da un implacabile
Nettuno, di nuovo Atteone (Morte di Atteone), ferito dalla freccia della dea. Infine
Marsia (Punizione di Marsia), che finisce scuoiato per l'invidia degli dei,una delle
opere più discusse dell'artista che, per la «particolare scelta iconografica, la critica ritiene un'opera personale, quasi un testamento figurato dell'artista stesso».
Il disegno ormai non esiste più, il cromatismo è smorzato e gioca sulla gamma
dei marroni e degli ocra, le pennellate sono rapide, abbozzate, il colore è denso e pastoso. Questa tecnica così rivoluzionaria e incomprensibile per i contemporanei fa di
Tiziano, secondo molti, un antesignano di espressionisti come Kokoschka: quel che è
certo, comunque, è che l'ultimo Tiziano è notevolmente in anticipo sui tempi, punto
di riferimento di tutti i maestri che dopo di lui verranno, da Rubens a Rembrandt a
Velasquez fino all'Ottocento di Delacroix.
Opere religiose
Il 31 ottobre 1517 un monaco agostiniano professore di esegesi biblica nella locale università, affigge 95 tesi alla porta della chiesa del castello annesso all'Università
di Wittenberg. Il nome del monaco tedesco è Martin Lutero e il gesto è gravido di
conseguenze: di qui scaturirà la Riforma protestante che porterà alla rottura dell'unità
cristiana e di tutto il mondo culturale dell'epoca, che dalla visione cristiana derivava
in modo diretto e senza mediazioni. Tra il 1545 e il 1563 il concilio di Trento rappre155
senta la risposta della cattolicità alla riforma: rinnovamento pastorale, certo, ma totale
clericalizzazione della chiesa, azione moralizzatrice contro molte storture che alle tesi
di Wittenberg avevano portato, ma anche ideologia militante contro l'eresia protestante e dunque atmosfera soffocante per i molti che anche in Italia avevano condiviso alcune istanze riformatrici.
Alcuni hanno fatto notare come (attraverso l'analisi delle lettere proprie e dell'amico Aretino) si possa giungere a definire l'adesione di Tiziano e del suo circolo ad
una forma di dissenso religioso che investì vasti strati del mondo culturale italiano. È
un dissenso moderato, che sfugge alla logica degli «opposti estremismi», impaziente
verso le norme formalistiche, che prende linfa dal pacifismo di Erasmo, che anela ad
una religione comprensibile, inquieta, individualista. È ovvio che simile dissenso non
può che essere «privato», dati i tempi, e dunque inquadrabile nel cosiddetto «nicodemismo», da Nicodemo, discepolo che visse la sua adesione a Cristo nel segreto del
proprio privato fino al momento supremo della morte del maestro.
Non ci sono chiari documenti scritti che possano confortare questa ipotesi. Ci
sono tuttavia i dipinti: dall'analisi di tutta la produzione dei grandi pittori veneziani e
veneti – ma anche di tanti, più in generale, italiani – molti autorevoli critici hanno vi sto lo smarrimento e il dissenso, risolto poi in sperimentalismo e inquietudine piuttosto che rassegnazione e conformismo. In questo senso va certamente letta la Deposizione nel sepolcro, in cui Tiziano si ritrae nei panni di un Giuseppe d'Arimatea, iconologicamente confuso, in tal caso, con Nicodemo, che sorregge Cristo: ci ricorda,
questo Giuseppe-Nicodemo, un altro Nicodemo «fermato in piede» – Nicodemo nascosto dal cappuccio, perché nascosta è la sua fede – Nicodemo autoritratto del nicodemita Michelangelo.
Nel 1558 Tiziano invia ad Ancona una tragica Crocifissione realizzata con la tecnica "a macchia", dove una Maria disfatta dal dolore fa da contrappunto ad un San
Giovanni illuminato da un raggio proveniente da Cristo. Alcuni critici considerano
quest'opera emblematica dell'ultima maniera tizianesca.
Anche il Martirio di San Lorenzo, è emblematico di questo nuovo Tiziano: lo
spettrale dipinto, tavola oscura su cui lampeggiano personaggi abbozzati dalla luce,
rappresenta l'ultima e definitiva incarnazione della pala d'altare rinascimentale, non
più nitida e serena composizione ma invece convulsa scena in cui nulla conserva precisi contorni: tutto è mosso, sgranato, incerto. Così anche l'Annunciazione, Cristo e il
cireneo, la Maria Maddalena penitente, il San Girolamo, fino all'ultima Pietà, non
sono che stazioni di una lunga e sofferente via crucis, incompresa, per larga parte, dai
contemporanei.
La Pietà
Anche nelle opere meno impegnative dal punto di vista drammatico, come Venere che benda Amore o la Sapienza, lo stile è lo stesso, anche se qui giocato sui toni
chiari. Ai ritratti (Ritratto di Jacopo Strada) sempre magistrali ma del tutto diversi dai
classici, si aggiungono in questo periodo due Autoritratti.
L'artista è ormai teso alla conquista del nuovo mezzo espressivo, fatto di rapide e
larghe pennellate, o anche di colore modellato con le dita, con un effetto finale simile
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al non finito di Michelangelo. Taquinio e Lucrezia, Ninfa e pastore, San Sebastiano e
poi ancora l'Incoronazione di spine: la tortura e la morte dell'innocente si traducono
in toni di accorata sofferenza.
Al termine di questo percorso si colloca la Pietà, dipinta per la propria tomba ai
Frari e in parte modificata dopo la morte dell'artista da Palma il Giovane. Sullo sfondo di un nicchione manierista, si trova la Madonna che regge con volto amorevole ed
impassibile il Cristo, semisdraiato e sorretto da Nicodemo prostrato. Alla sinistra, in
piedi si trova la Maddalena, vertice di un ideale triangolo. Un piccolo autoritratto
orante con il figlio Orazio è posto alla base di una delle colonne che incorniciano il
nicchione. I colori sono lividi, scuri, le pennellate sono imprecise, abbozzate, l'atmosfera spettrale e drammatica. La disperazione per l'incombente aura di disfacimento
che pervade la tela culmina con l'inquietante braccio proteso ai piedi della Sibilla,
estrema richiesta dell'artista prossimo alla morte.
La peste uccide Tiziano il 27 agosto 1576. Un mese prima aveva portato via anche il figlio Orazio. Gli è stata risparmiata la fossa comune ma, dati i tempi, i funerali
si svolgono in fretta e furia. In seguito basteranno cinque anni al figlio Pomponio per
dilapidare tutto il patrimonio del pittore più ricco della storia.
Tiziano non ha lasciato allievi. Ma la sua lezione e i suoi colori hanno attraversato cinque secoli, perché anche noi possiamo rivivere quell'emozione, «quell'equilibrio
di senso e di intellettualismo umanistico, di civiltà e di natura, in cui consiste il fonda mento perenne dell'arte di Tiziano».
Fonti su Tiziano
La sua biografia e il suo itinerario creativo trovano importanti fonti documentarie negli scrittori a lui contemporanei: Pietro Aretino (Epistolario), Ludovico Dolce
(Dialogo di pittura), Paolo Pino, Giorgio Vasari (la seconda edizione delle Vite) riportano molteplici dati e spunti critici che lo riguardano, oltre, naturalmente, alle lettere
da lui stesso scritte ai vari committenti, in particolare alla corte spagnola. Nel secolo
successivo proseguono le note biografiche e gli studi critici (Anonimo del Tizianello,
Boschini, Ridolfi) che costituiscono un notevole «giacimento» di fonti contemporanee
che di rado è dato ritrovare.
Omaggi
Tiziano è citato nell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto:
« Tizian, ch'onora non men Cador,
che quei Venezia e Urbino »
(Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Canto XXXIII)
rio.
A Tiziano è stato dedicato un cratere di 121 km di diametro sul pianeta Mercu-
157
Albrecht Dürer
Albrecht Dürer (Norimberga, 21 maggio 1471 – Norimberga, 6 aprile 1528) è stato un pittore, incisore, matematico e teorico dell'arte tedesco.
Figlio di un ungherese, viene considerato il massimo esponente della pittura tedesca rinascimentale. A Venezia l'artista entrò in contatto con ambienti neoplatonici.
Si presume che tali ambienti abbiano sollevato il suo carattere verso l'aggregazione
esoterica. Classico esempio è l'opera dal titolo Melencolia I, realizzata nel 1514, in cui
sono presenti evidenti simbologie ermetiche.
Biografia
Origini
Albrecht Dürer, terzo di diciotto figli, nacque dall'omonimo orefice, detto "il Vecchio" e da sua moglie Barbara Holper. Dei fratelli e sorelle, solo altri due maschi rag giunsero l'età matura: Endres e Hans, che fu pure pittore alla corte di Sigismondo I di
Polonia a Cracovia.
Il padre era originario dell'Ungheria, da dove si era trasferito all'età di ventott'anni per completare la sua formazione attraverso la Germania e le Fiandre; la sua famiglia, a sua volta, doveva essere di origine sassone ma da tempo trasferitasi in Tran silvania, infatti il nonno di Dürer, Anton, era nato in una famiglia di contadini e alle vatori ad Ajtós e trasferitosi in giovane età a Gyula, vicino Gran Varadino (l'odierna
Oradea in Romania); Anton fu il primo artigiano della famiglia, seguito da Albrecht il
Vecchio e suo nipote Unger (cugino di Dürer).
Albrecth il Vecchio compare in una lista di archibugieri ed arcieri della città di
Norimberga già a diciassette anni; dopo alcuni viaggi di perfezionamento nei Paesi
Bassi, si stabilì definitivamente a Norimberga, dove entrò nella bottega di Hieronymus Holper, per poi, ormai a quarant'anni, sposarne la figlia appena quindicenne,
Barbara. Il matrimonio, celebrato l'8 giugno 1467, gli garantì l'accesso alla cittadinanza norimberghese e, dopo il versamento di una somma di dieci fiorini, la qualifica di
"maestro", che gli apriva le porte nel mondo chiuso e ricco di privilegi delle corporazioni. Stimato e benestante, ma non ricco, Albrecht il Vecchio morì il 20 settembre
1502: due anni dopo la vedova si trovava già in condizioni di totale indigenza e venne
presa a carico dal figlio Albrecht.
Esistono due ritratti del padre di Dürer, uno agli Uffizi e uno alla National Gallery di Londra, oltre a un disegno a punta d'argento generalmente ritenuto autografo;
della madre resta una tavola a Norimberga e un disegno a carboncino nel 1514, quando la donna aveva sessantatré anni.
Alla bottega paterna
Il giovane Dürer frequentò per alcuni anni la scuola e, rivelandosi dotato di talento fin da ragazzo, entrò come praticante nella bottega del padre, come già aveva
fatto il fratello maggiore Enders che proseguì la tradizione artigianale familiare di
orefice. In quel periodo Dürer dovette familiarizzare con le tecniche di incisione sui
metalli, che più avanti mise a frutto nei suoi celebri lavori a bulino e acquaforte. Inol158
tre il padre dovette trasmettergli il culto per i grandi maestri fiamminghi, come Jan
van Eyck e Rogier van der Weyden.
La prima testimonianza del suo eccezionale talento è l'autoritratto del 1484, un
disegno a punta d'argento conservato al museo Albertina di Vienna. Quest'opera, che
fu realizzata davanti allo specchio quando Dürer aveva solo tredici anni, non è certo
priva di errori, anche perché la difficile tecnica non permetteva ripensamenti. Eppure,
questa giovanile rappresentazione è considerata il primo autoritratto dell'arte europea che si presenti come autonomo, cioè come opera a sé stante.
Questo autoritratto, che era stato preceduto da tentativi disegnativi di cui si hanno testimonianze certe, già indica peraltro la direzione essenziale della successiva
produzione di Dürer: l'attività di ritrattista. È un fatto ancora troppo poco tenuto in
considerazione: non solo Dürer ha dipinto, disegnato e inciso numerosi ritratti fino
agli ultimi anni della sua vita, ma fin dall'inizio del secondo decennio del XVI secolo
anche i suoi quadri religiosi presentano in misura sempre crescente un carattere ritrattistico.
Alla bottega di Wolgemut
All'età di sedici anni, quando aveva appena concluso il tirocinio, dichiarò al padre che avrebbe preferito diventare pittore. Poiché non fu possibile fargli fare il praticantato nella lontana Colmar, presso Martin Schongauer conosciuto e stimato in tutta
Europa come pittore e incisore in rame, il padre lo mise a bottega a due passi da casa,
presso Michael Wolgemut, il maggiore pittore e xilografo attivo in quegli anni a Norimberga. Wolgemut era il continuatore di Hans Peydenwurff (oltre ad ereditarne la
bottega ne aveva sposato anche la vedova), il cui stile, filtrato, lasciò tracce anche nella produzione giovanile di Dürer. Altri maestri che ebbero influenza sul giovane artista furono Martin Schongauer, il misterioso Maestro del Libro di Casa, forse olandese,
autore di una famosa serie di puntesecche.
Nella bottega di Wolgemut, attiva per la ricca società locale e di altre città della
Germania, venivano copiate le stampe di maestri renani, i disegni e le incisioni di
quelli italiani, si creavano altari scolpiti e dipinti e si praticava su larga scala la xilografia, soprattutto per l'illustrazione di testi a stampa, allora già molto richiesti.
Di quel periodo Dürer serbò un buon ricordo; più di vent'anni dopo, nel 1516, di pinse un ritratto del suo maestro, a tre anni prima della sua morte, in cui traspare
l'antico rispetto e la simpatia verso la sua figura umana.
Primi spostamenti
Nella primavera del 1490, il giovane Dürer iniziò a girare il mondo per approfondire le sue conoscenze. La prima opera pittorica conservata del giovane artista
(forse è addirittura il suo saggio per l'esame finale dell'apprendistato) sono i due dipinti su tavola con i ritratti dei genitori, iniziati forse prima di partire. Il ritratto del
padre si trova oggi agli Uffizi, quello della madre venne riscoperto nel 1979 a Norimberga.
«Quando ebbi finito l'apprendistato, mio padre mi fece viaggiare. Rimasi assente
quattro anni, finché mio padre mi richiamò. Partii dopo la Pasqua del 1490 e tornai a
casa nel 1494, dopo la Pentecoste». Il lungo giro intrapreso dal giovane lo condusse
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prima al nord, oltre Colonia, probabilmente fino a Haarlem. Non poté spingersi a
Gand e a Bruges, i centri più importanti della pittura fiamminga, poiché ovunque regnavano guerre e sommosse. D'altronde il soggiorno di Dürer in questa regione si lascia individuare solo nelle opere posteriori, nelle quali si rispecchia a volte la singola rità iconografica della pittura locale, in particolare di Geertgen tot Sint Jans e Dirk
Bouts.
Durante il viaggio è scontato che il giovane artista avesse dovuto lavorare per
mantenersi, ed è probabile che fosse spinto a visitare quei centri dove era più facile
trovare impiego nei campi in cui aveva familiarità. Le prime tappe dovettero dunque
essere le città renane, dove esisteva una vivace attività di stampa di libri con illustra zioni xilografiche.
Di lì, dopo circa un anno e mezzo, si spostò verso sud, alla ricerca di Martin
Schongauer, da cui avrebbe desiderato apprendere le raffinatezze della tecnica di incisione su rame. Ma quando Dürer giunse a Colmar, nel corso dell'anno 1492, lo stimato maestro era già morto da quasi un anno. I fratelli del defunto, il pittore Ludwig
e gli orefici Kaspar e Paul Schongauer, l'accolsero amichevolmente e su loro consiglio
il giovane pittore si diresse verso Basilea, dove viveva un loro altro fratello, l'orefice
Georg Schoungauer.
Al periodo errabondo appartiene probabilmente il piccolo Cristo dolente.
A Basilea
A Basilea lavorò per un periodo come illustratore, per eruditi e stampatori del
calibro di Bergmann von Olpe e Johann Amerbach, introdotto negli ambienti editoriali probabilmente su raccomandazione del suo padrino, Anton Koberger, che gestiva a
Norimberga la stamperia e casa editrice più grande d'Europa.
Tra le molte xilografie che disegnò in quel periodo, un primo saggio di prova fu
il frontespizio per l'edizione delle Lettere di san Girolamo uscito l'8 agosto 1492 per i
tipi di Nikolaus Kessler (il blocco originale, firmato dall'artista, si trova ancora oggi a
Basilea). L'opera, di grande minuzia, ha una resa differenziata delle superfici grazie a
diversi tipi di tratteggio.
Ottenuta la fiducia degli stampatori locali, lavorò alle illustrazioni di due opere a
contenuto moraleggiante, allora molto apprezzate, La nave dei folli, dell'umanista Sebastian Brant, apparso nel 1493, e Il cavaliere di Turn. Seguì un'altra serie di incisioni
per illustrare le Commedie di Terenzio (poi non stampata, ma i cui blocchi di legno
sono pressoché integri nel Museo di Basilea), in cui l'artista dimostrò già un'originalità, un'accuratezza ed un'efficacia narrativa nelle scene che lo ponevano a un livello
decisamente superiore degli altri artisti attivi sulla piazza.
Anche l'Autoritratto con fiore d'eringio, conservato a Parigi e datato 1493, fu certo iniziato durante il soggiorno a Basilea. Nell'immagine, originariamente dipinta su
pergamena, il giovane artista si mostra in abiti alla moda di colore ardesia, con cui
creano un contrasto simulante il bordo rosso chiaro del berretto. Il simbolico fiore di
eringio, un tipo di cardo, che egli regge con la mano destra, insieme con l'iscrizione
collocata nella parte superiore del dipinto "My sach die gat als es oben schtat" ("Le
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mie cose vanno come è deciso in alto"), indicano la sua fede in Cristo.
A Strasburgo
Verso la fine del 1493 l'artista partì per Strasburgo, importante centro commerciale ed editoriale. Qui curò una xilografia per il frontespizio di un'edizione delle opere filosofiche di Jean Gerson, in cui lo scrittore è raffigurato come un pellegrino che,
aiutandosi con un bastone e accompagnato da un cagnolino, si accinge ad attraversare un paesaggio accidentato, sullo sfondo di un'ampia vallata. La ricchezza della composizione e l'armonia generale dell'opera, sebbene l'intagliatore che fece la matrice
non restituì appieno il disegno dell'artista, dimostrano la veloce maturazione dello
stile dell'artista, ormai avviato verso la realizzazione dei propri capolavori.
Forse a Strasburgo realizzò la Morte di san Domenico, per un convento femminile di Colmar.
Rientro a Norimberga (1494)
Durante la Pasqua del 1494 il padre richiamò Dürer a Norimberga, per fargli
sposare, nella festa di Pentecoste, Agnes Frey, la donna che gli aveva destinato, figlia
di un ramaio imparentato con i potenti della città. Il matrimonio fu celebrato il 7 luglio 1494 e i giovani sposi andarono a vivere in casa di Albrecht. Le forti differenze
culturali e di temperamento non resero il matrimonio felice. La donna sperava forse
di condurre una vita agiata nella propria città accanto a un artigiano, mentre Dürer
aveva altre aspirazioni, legate a viaggi e prospettive sempre nuove. A un periodo vicino al matrimonio risale il disegno che l'artista descrisse a margine "mein Agnes", la
mia Agnese, in cui si vede la giovane sposa in atteggiamento pensoso, forse un po' caparbio, che nei ritratti futuri si trasformò in un aspetto di borghese soddisfatta, dalla
sfumatura "lievemente maligna". La coppia non ebbe figli, come accadde anche ai due
fratelli di Dürer, per cui la famiglia si estinse con la loro generazione. Willibald Pirckheimer, amico dell'artista, arrivò perfino ad imputare alla freddezza della moglie la
morte prematura dell'artista.
Nei mesi estivi del 1494 egli percorse e disegnò gli immediati dintorni della sua
città natale. Risultato di queste passeggiate sono una quantità di pitture ad acquerello, fra le quali il Mulino (Trotszich Mull). L'acquerello mostra un paesaggio a ovest di
Norimberga, con il piccolo fiume Pegnitz, che scorre attraverso la città. Il disegnatore
era in piedi sull'alta riva nord e guardava verso sud oltre il Pegnitz, dove l'orizzonte è
segnato dalle cime delle montagne presso Schwabach. Gli alberi in primo piano a sinistra appartengono al parco delle Hallerwiesen. Le case con le travature a traliccio ai
due lati del fiume, disegnate con estrema precisione, costituivano il nucleo del "quartiere industriale", poiché ospitavano delle botteghe in cui si lavorava il metallo servendosi del Pegnitz come fonte di energia. Così, per esempio, nelle case in primo piano a destra si trafilava il metallo con l'aiuto dell'energia idrica, un procedimento che
era stato sviluppato a Norimberga intorno al 1450, che ne aveva fatto il centro della
lavorazione del metallo in Germania: tutto ciò che poteva essere realizzato in ferro o
in rame, dagli aghi ai ditali agli strumenti di precisione apprezzati in tutta Europa,
fino alle armature, ai cannoni e ai monumenti di bronzo, era prodotto qui.
Questo acquerello è una delle prime immagini dell'arte europea interamente de161
dicata al paesaggio, ma si colloca in una dimensione ancora medievale: infatti, le singole costruzioni e i gruppi di alberi non sono disegnati prospetticamente, ma gli uni
sopra gli altri. Delle leggi di prospettiva il giovane Dürer, a quell'epoca, non aveva
ancora sentito parlare.
Forse nello stesso periodo, Dürer intraprese le prime prove come incisore su
rame. Più tardi negli anni avrebbe coniato il motto: "Un Buon pittore, dentro, è pieno
di figure". Questa abbondanza di idee per le immagini costituì probabilmente il movente che l'avvicinò alla grafica: solo in essa, infatti, egli poteva dar forma alle proprie
fantasie senza essere ostacolato dai desideri dei committenti. E, dal momento che
questa produzione libera da vincoli rappresentò per lui anche un successo finanziario, l'utile finì per unirsi al dilettevole.
Il primo viaggio in Italia (1494-1495)
Probabilmente a Basilea, nella cerchia degli umanisti e degli editori, il giovane
Dürer, intelligente e avido d'imparare, aveva sentito parlare per la prima volta del
mondo intellettuale italiano e di quel clima culturale su cui, già da quasi un secolo, la
riscoperta del mondo dell'antichità aveva influito in modo determinante, sia nella letteratura che nell'arte. Molti anni più tardi, Dürer avrebbe tradotto col termine tedesco
"Wiedererwachung" il concetto di "Rinascimento" coniato a suo tempo da Petrarca.
Ciò conferma che egli era pienamente cosciente dell'importanza di questo processo
storico.
Nella tarda estate del 1494, scoppiò a Norimberga una di quelle epidemie tanto
comuni all'epoca, che generalmente venivano designate col nome di "peste". Il miglior
sistema di difesa contro il contagio, il più sicuro tra quelli consigliati dai medici, era
di abbandonare la regione colpita. Dürer colse l'occasione per andare a conoscere la
"nuova arte" nella sua terra d'origine, non dandosi troppo peso di lasciare da sola la
giovane moglie a casa. Partì così per Venezia, intraprendendo probabilmente il viaggio al seguito di un mercante di Norimberga.
Il cammino compiuto verso l'Italia settentrionale si può ripercorrere con una certa precisione seguendo i paesaggi ad acquerello che lo documentano. Attraversò il Tirolo e il Trentino. A Innsbruck, per esempio, realizzò un acquerello che raffigura il
cortile del castello, la residenza preferita dell'imperatore Massimiliano I. Delle due vedute oggi conservate a Vienna, la più ragguardevole è quella con il cielo colorato che
affascina per la precisa riproduzione dei dettagli delle costruzioni intorno alla corte,
ma che presenta ancora errori prospettici.
Il primo viaggio in Italia è però avvolto in larga parte dal mistero. Si pensa che
Dürer visitò anche Padova, Mantova e forse Pavia, in cui l'amico Pirckheimer frequentava l'università. All'inizio del XX secolo alcuni studiosi arrivarono anche a dubitare dell'eventualità che questo viaggio fosse mai avvenuto, un'ipotesi provocatoria
che non ha avuto seguito.
A Venezia, Dürer avrebbe dovuto apprendere i principi dei metodi di costruzione prospettica. Ma sembra che ad attrarlo molto di più furono altre cose, come per
esempio gli abiti delle donne veneziane, così insoliti per lui (mostrati dal disegno del
1495), oppure il soggetto per lui sconosciuto del Granchio di mare o l' Aragosta, ritrat162
ti in disegni oggi conservati rispettivamente a Rotterdam e a Berlino. In ambito artisti co, l'attiravano le opere dei pittori contemporanei che raffiguravano temi mitologici,
come il quadro perduto di Mantegna con la Morte di Orfeo (perduto), di cui Dürer disegnò con estrema cura una copia datata 1494 e siglata con le sue lettere "A" e "D". Copiò inoltre le stampe della Zuffa di dei marini e del Baccanale con Sileno, ricalcati fedelmente sull'originale di Mantegna sostituendo però alle linee parallele del tratteggio un andamento incrociato, derivato dall'esempio di Schongauer, e con linee curve e
sinuose che imprimono ai soggetti una vibrazione assente negli originali.
Dovette rimanere inoltre affascinato dall'abbondanza di opere d'arte, dalla vivacità e il cosmopolitismo della città lagunare e probabilmente scoprì l'alta considerazione di cui godevano in Italia gli artisti. Assai improbabile è però che il giovane e
sconosciuto Dürer, che campava vendendo stampe ai membri della comunità tedesca
cittadina, fosse potuto entrare in contatto diretto con i grandi maestri allora presenti
in città e nei territori limitrifi, come i Bellini (Jacopo, Gentile e Giovanni), Mantegna o
Carpaccio.
Un altro tema che interessò il giovane artista fu la nuova concezione del corpo
umano elaborata in Italia. Già nel 1493 l'artista aveva infatti prodotto un disegno di
Bagnante (primo nudo preso dal vivo dell'arte tedesca) e a Venezia poté approfondire, grazie all'abbondanza di modelli disponibili, i rapporti tra figure, nude o vestite,
con lo spazio in cui si muovono. Sicuramente dovette poi incuriosirlo la rappresentazione prospettica, ma un suo interesse diretto su tale argomento è documentato solo
dal secondo viaggio.
Quanto il giovane pittore del nord fosse rimasto affascinato dalla pittura veneziana, in particolare da quella di Gentile e Giovanni Bellini, appare dai disegni di que sto periodo e dai quadri dipinti dopo il ritorno in patria. Ma i primi riflessi di questo
incontro si possono riconoscere già negli acquerelli che nacquero durante il viaggio di
ritorno.
Il rientro (1495)
Questa volta Dürer viaggiò probabilmente da solo, considerando le numerose
deviazioni intraprese.
Così il suo cammino lo condusse, nella primavera del 1495, innanzitutto al lago
di Garda, e verso Arco, allora città di confine veneziana. L'acquerello che raffigura
l'imponente rocca che si innalza con le sue fortificazioni rivela un rapporto completamente nuovo con lo spazio e con il colore: dal velato grigio bluastro degli ulivi si alza
il contrastante grigio bruno delle rocce, e questa eco cromatica viene ripresa nelle
chiare zone verdi e nei tetti rossi. Si tratta di una sorprendente resa dei valori atmosferici, che manifesta l'enorme progresso artistico che Dürer aveva compiuto nei pochi mesi trascorsi a Venezia.
Presso Trento, Dürer entrò nuovamente nel territorio tedesco. Nell'acquerello
che mostra la città vescovile dal lato nord egli non si limita più al semplice rilevamento di dati topografici. La composizione suggerisce la profondità spaziale, con la città
attraversata dall'Adige che si estende per quasi tutta l'ampiezza del quadro, e con le
catene montuose che vanno a sfumare nella foschia.
163
Dopo un'escursione nella Valle di Cembra e nel paese di Segonzano, Dürer proseguì il suo cammino verso nord senza altre significative interruzioni. Documento di
questa fase del viaggio è il Mulino ad acqua in montagna di Berlino. Mentre tutti gli
altri acquerelli raffigurano complessi architettonici in lontananza, questo foglio quadrato di soli 13 centimetri di lato nasce dall'osservazione ravvicinata di un pendio
pietroso inondato dall'acqua che dai canali di legno scende sulla ruota del mulino e si
cerca una via tra le pietre, per raccogliersi infine in un bacino sabbioso in primo piano.
Anche la veduta della cittadina di Chiusa sull'Isarco, trasferita nell'incisione su
rame Nemesi (o Grande Fortuna), doveva essere un appunto di viaggio ad acquerello.
Come questo esempio fa notare, gli acquerelli di Dürer non erano ideati come opere
d'arte indipendenti: erano materiali di studio da rielaborare e inserire nei dipinti e
nelle incisioni.
Incisore a Norimberga
Nella primavera del 1495 Dürer faceva ritorno a Norimberga, dove creò una propria bottega in cui riprese la sua attività di xilografo e calcografo. Queste tecniche erano particolarmente vantaggiose anche per ragioni economiche: poco dispendiose nella fase creativa erano relativamente facili da smerciare se si conosceva il gusto del
pubblico. D'altro canto la pittura invece dava minori margini di guadagno, aveva costi considerevoli per l'acquisto dei colori ed era legata ancora strettamente ai desideri
del committente, con una libertà dell'artista molto ristretta, almeno sul soggetto. L'artista dunque si dedicò totalmente alla grafica, prima ancora che giungessero commissioni per dipinti, e in questo periodo creò una serie di incisioni che sono tra le più importanti della sua intera produzione. Inoltre si occupava quasi sempre personalmente
dell'intaglio: a Basilea e a Strasburgo erano stati soprattutto artigiani specializzati a
preparare le matrici dai suoi disegni, con l'eccezione del San Girolamo e pochi altri,
per i quali voleva dimostrare la sua superiore abilità. In seguito, all'apice del successo,
tornò ad utilizzare specialisti, ma nel frattempo era ormai sorta una generazione di
incisori così abili da poter competere col suo stile.
Tra le prime è la Sacra Famiglia con la libellula, con l'insetto raffigurato in basso
a destra, che a dispetto del nome tradizionale sembra più una farfalla. Il profondo legame tra le figure e il paesaggio sullo sfondo era l'elemento che fin dall'inizio rese famosi i lavori grafici di Dürer al di là dei confini tedeschi. D'altra parte, il gioco delle
pieghe della ricchissima veste di Maria dimostra quanto la sua arte facesse ancora riferimento alla tradizione tedesca tardogotica, mentre dell'esperienza del suo soggiorno italiano non c'è ancora traccia. Seguendo l'esempio di Schongauer, che egli aveva
scelto a suo modello, Dürer ha siglato il foglio al margine inferiore con una prima versione di quel suo monogramma divenuto poi tanto famoso, qui eseguito con lettere
che sembrano gotiche.
La sua produzione di incisore su rame si mantenne in un primo momento entro
limiti ristretti; incise in formato medio alcune rappresentazioni di santi e in formato
piccolo alcune figure del popolo. Come disegnatore per le xilografie, Dürer iniziò invece subito a percorrere nuove vie, ma il risultato non sembrò soddisfarlo dal punto
di vista della tecnica di incisione, cosicché da allora in poi si servì del più grosso for164
mato di un mezzo foglio di stampa ("ganze Bogen"), su cui stampava blocchi xilografici di 38 × 30 cm.
La serie dell'Apocalisse
Nel 1496 realizzò l'incisione del Bagno di uomini. In seguito iniziò a pensare a
progetti più ambiziosi. Non più tardi di un anno dal ritorno da Venezia, iniziò i disegni preparatori per la sua più impegnativa impresa: le quindici xilografie per l'Apocalisse di Giovanni, che apparvero nel 1498 in due edizioni, una in latino e l'altra in tedesco. Della stampa si occupò lo stesso Dürer, utilizzando dei caratteri messigli a disposizione dal suo padrino Anton Koberger. Si potrebbe anzi ipotizzare che fosse stato lo stesso Koberger a ispirargli questa iniziativa, poiché Dürer utilizzò come riferimento le illustrazioni della nona Bibbia tedesca, stampate per la prima volta a Colonia nel 1482, pubblicate poi da Koberger nel 1483.
L'opera fu innovativa sotto molti aspetti. Era il primo libro che veniva progettato
e pubblicato per iniziativa personale di un artista, che ne disegnò le illustrazioni, ne
incise le xilografie e ne fu anche l'editore. Inoltre la tipologia con le illustrazioni a pie na pagina, sul recto, seguite dal testo sul verso rappresentavano un sorta di doppia
versione, in parole e in immagini del medesimo racconto, senza che il lettore dovesse
comparare ciascuna illustrazione col passo corrispondente.
Dürer però, invece che le xilografie di formato orizzontale, scelse un grandioso
formato verticale, e si staccò dallo stile del modello biblico, che presentava numerose
figure di piccole dimensioni. Le figure delle sue composizioni sono invece poche e
grandi. In tutto realizzò quindici xilografie, di cui la prima illustra il Martirio di san
Giovanni e le altre i vari episodi dell'Apocalisse.
Mai prima d'allora le visioni di san Giovanni erano state rappresentate in modo
più drammatico che in queste xilografie, singolarmente concepite con un forte contrasto di bianco e nero. Il fatto è che egli dava corporeità alle figure con un sistema graduale di tratteggi paralleli, che era già da tempo nell'incisione su rame. Con sorprendente velocità l'Apocalisse (e con essa il nome Albrecht Dürer) si diffuse in tutti i pae si d'Europa e procurò al suo autore il primo straordinario successo.
La Grande Passione
Intorno al 1497, mentre ancora lavorava all'Apocalisse, Dürer concepì il progetto
di una seconda serie nello stesso formato. Si trattava di un tema che egli elaborava già
da tempo, al quale lavorò fino agli ultimi anni della sua vita: la Passione di Cristo.
L'opera ebbe un impatto meno sensazionale dell'Apocalisse, sia per il soggetto, privo
del lato fantastico, sia perché il completamento avvenne in ritardo, con i primi fogli
che nel frattempo giravano già come stampe isolate.
In una prima fase completò sette fogli del ciclo, tra cui il Trasporto della croce è
la composizione più matura. L'immagine del corteo che lascia la città e del Salvatore
che crolla sotto il peso della croce, unisce due motivi derivati dalle incisioni in rame
di Martin Schongauer, le cui forme tardogotiche vengono accentuate da Dürer; contemporaneamente, però, la costruzione anatomica del corpo muscoloso del lanzichenecco di destra è da ricondurre alle immagini dell'arte italiana che Dürer aveva conosciuto a Venezia. Le forme diverse di questi due mondi sono qui riprodotte in uno sti165
le personale che non lascia percepire alcuna frattura.
Dürer avrebbe completato questa Grande Passione solo nel 1510 con un frontespizio e altre quattro scene e l'avrebbe pubblicata in forma di libro con l'aggiunta del
testo latino.
Un'altra testimonianza del nuovo stile introdotto nella xilografia è la Sacra Famiglia con le tre lepri.
L'incontro con Federico il Saggio
Tra il 14 e il 18 aprile 1496 l'elettore di Sassonia Federico il Saggio visitò Norimberga, rimanendo colpito dal talento del giovane Dürer, al quale commissionò tre
opere: un ritratto, eseguito in quattro e quattr'otto con la veloce tecnica della tempera,
e due polittici per arredare la chiesa che andava costruendo nel castello di Wittenberg, sua residenza: l'Altare di Dresda e il Polittico dei Sette Dolori. Artista e commit tente avviarono un durevole rapporto che si mantenne negli anni, anche se Federico
spesso preferiva a Dürer il coetaneo Lucas Cranach, che divenne pittore di corte e ricevette anche un titolo nobiliare.
L'opera più impegnativa è il Polittico dei Sette Dolori, composto di una grande
Madonna in adorazione al centro e sette tavole coi Dolori di Maria tutto attorno. Se la
parte centrale venne dipinta personalmente da Dürer, gli scomparti laterali dovettero
essere eseguiti da un assistente su disegno del maestro. Più avanti gli commissionò
anche la tela dell'Ercole che uccide gli uccelli di Stinfalo, in cui si notano le influenze
di Antonio del Pollaiolo, conosciuto soprattutto attraverso le stampe.
Le commissioni del principe spianarono la strada alla carriera pittorica di Dürer,
che iniziò a dipingere vari ritratti per l'aristocrazia norimberghese: dipinse nel 1497 il
doppio ritratto delle sorelle Fürleger (Fürlegerin con i capelli raccolti e Fürlegerin con
i capelli sciolti), poi nel 1499 i due dittici per la famiglia Tucher (una valva su quattro
è oggi perduta) e il ritratto di Oswolt Krel. In queste opere traspare una certa indifferenza dell'artista verso il soggetto, con l'eccezione dell'ultimo, uno dei più intensi e famosi lavori dell'artista.
La fine del XV secolo
Nel 1498, stesso anno in cui fu pubblicata l'Apocalisse, Dürer realizzò il proprio
Autoritratto con guanti, ora al Prado di Madrid. Rispetto al precedente autoritratto
del Louvre, Dürer si mostra ormai come un gentiluomo raffinato, la cui eleganza nel
vestire riflette una nuova consapevolezza di appartenere a un'"aristocrazia del pensie ro", come gli artisti-umanisti che aveva visto a Venezia.
Tra le primissime opere del gruppo di acquerelli realizzati da Dürer negli anni
successivi al suo ritorno dall'Italia è l'Isolotto sullo stagno con casetta (oggi a Londra),
che mostra uno di quei piccoli padiglioni a forma di torre che venivano eretti in Germania già nel XIV secolo, quello oggetto dell'acquerello si trovava a ovest delle mura
cittadine di Norimberga, in uno stagno collegato al fiume Pegnitz. Intorno al 1497,
Dürer inserì l'immagine dell'edificio a torre sullo sfondo dell'incisione Madonna con
la scimmia. È sorprendente con quale precisione egli sia riuscito a trasportare nel
bianco e nero della grafica le sfumature cromatiche dell'acquerello. Ed è interessante
notare che, mentre Dürer per l'immagine della Madonna col Bambino prese come ri166
ferimento alcuni modelli italiani, il tratto pittoresco della piccola costruzione sullo
sfondo, insolito per occhi italiani, spinse artisti come Giulio Campagnola o Cristoforo
Robetta a copiare nelle loro incisioni la casa dello stagno: un tipico esempio di reciproca fecondazione artistica.
In quegli anni, Dürer utilizzò in altre occasioni i propri studi ad acquerello nelle
composizioni delle incisioni. Per esempio inserì nel Mostro marino, sulla sponda al di
sotto della rocca, una veduta dal lato nord del castello imperiale di Norimberga (oggi
non più esistente). Il soggetto della stampa è controverso: non si sa se rappresenti il
tema di una saga germanica o se si tratti invece della storia di Anna Perenna ripresa
dai Fasti di Ovidio.
A questo punto, i paesaggi ad acquerello non costituiscono più per Dürer esclusivamente l'accurata registrazione di una situazione topografica; l'interessano invece
sempre più il gioco dei colori e le variazioni di questi al mutare della luce. Uno dei fogli più importanti in questo senso è l'acquerello Stagno in un bosco (conservato a Londra), dove la superficie del piccolo bacino d'acqua appare nero-azzurra e presenta
una corrispondenza cromatica con le nuvole scure, tra le quali la luce del sole che tramonta risplende in toni di giallo e arancio e colora di un verde brillante le piante sul
bordo dello stagno.
Ancora più evidente è il modo in cui la luce si trasforma nei Mulini su un fiume,
un acquerello in grosso formato conservato a Parigi. Gli edifici raffigurati sono gli
stessi che si vedono sullo sfondo del Mulino di Berlino, solo che Dürer questa volta si
collocò direttamente sulla riva del Pegnitz. La luce del tramonto dopo un temporale
dà ai tetti degli edifici un colore grigio argento e bruno, e la filigrana scura del ponti cello bagnato sembra che goccioli ancora della pioggia del temporale appena cessato.
La chioma dell'enorme tiglio riluce di un verde intenso e allo stesso tempo viene modellata dal contrasto fra le zone di luce gialla tendente al bianco e le orme profonde e
quasi nere. Il gioco cromatico del sole, all'alba o al tramonto, contro le nuvole scure
aveva già affascinato i pittori, a sud e a nord delle Alpi, ma gli effetti pittorici ottenuti
da Dürer si ritroveranno solo nella pittura del XVII secolo o nell'Impressionismo del
XIX secolo.
Nel foglio Valle presso Kalchreuth del 1500 circa, della collezione di Berlino, Dürer raggiunse quasi l'"impressione" degli acquerelli di Cézanne. Un posto particolare
tra i paesaggi ad acquerello occupa il gruppo di studi che Dürer creò in una cava di
pietra nei dintorni di Norimberga. Si tratta prevalentemente di rilevamenti si singole
zone rupestri (come per esempio nel foglio dell'Ambrosiana), ma il carattere frammentario di questi fogli non lascia alcun dubbio che per l'artista non fossero altro che
materiale di studio.
L'Altare Paumgartner
Intorno al 1500 la famiglia patrizia dei Paumgartner commissionò a Dürer un altare a sportelli per la Katharinenkirche di Norimberga. È la più grande pala d'altare
dell'artista (integralmente conservata all'Alte Pinakothek di Monaco) e mostra nella
parte centrale l'Adorazione del Bambino e nelle laterali le monumentali figure di san
Giorgio e sant'Eustachio. Il suggerimento dei committenti dovette contribuire in
modo determinante a creare quel disequilibrio formale che l'altare ha quando le ali
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sono aperte, essendo le due figure di santi dipinte a grandezza quasi naturale e non
proporzionata alle figure della tavola centrale che sono in scala più ridotta. Di fronte
all'impressione positiva dell'Altare Paumgartner, le carenze nella costruzione prospettica degli edifici nella tavola centrale danno meno nell'occhio. Esse, tuttavia, indicano che, negli anni intorno al 1500, Dürer conosceva della prospettiva solo la regola
di base, secondo cui tutte le linee che corrono perpendicolari alla superficie del quadro sembrano convergere in un punto al centro del quadro stesso.
Dürer in questo caso si assunse addirittura il difficile compito delle aperture ad
arco che appaiono di scorcio ai due lati dello scenario, che acquista così l'aspetto di
una stretta strada cittadina. Con una simile arditezza, era impossibile evitare alcuni
errori, che però quasi scompaiono nell'eccellente composizione totale, nella quale
sono inserite le sette piccole figure dei donatori. Alcune linee oblique parallele scandi scono i piani: dal bastone di Giuseppe e le tre piccole figure delle donatrici, al capo di
Giuseppe e quello di Maria, fino alla tettoia in legno e le tavole.
Secondo un'antica tradizione le teste dei due santi sugli sportelli laterali ritraggono i fratelli Stephan e Lukas Paumgartner. Probabilmente anche la sproporzione delle
figure si spiega col desiderio di venir riconosciuti. Se le annotazioni tradizionali sono
esatte, i due santi in piedi si possono considerare i più antichi ritratti a figura intera.
L'Autoritratto con pelliccia
Nell'anno 1500 Dürer aveva appena oltrepassato, secondo la concezione del suo
tempo, la soglia dell'età virile. Attraverso l'attività grafica aveva già acquisito una
fama europea. Le sue incisioni su rame superarono presto, per precisione e accuratezza nell'esecuzione, quelle di Schongauer. Presumibilmente incitato dagli amici di formazione umanistica, egli aveva per primo introdotto rappresentazioni che richiamano i concetti anticheggianti della filosofia neoplatonico di Marsilio Ficino e del suo
circolo.
Inoltre, egli affrontò nelle sue incisioni su rame i due problemi artistici di cui si
occupavano gli artisti italiani da circa un secolo: le proporzioni del corpo umano e la
prospettiva. Mentre però Dürer fu presto in grado di rappresentare un corpo nudo
maschile prossimo all'ideale degli antichi, le sue conoscenze in campo prospettico restarono invece incomplete ancora a lungo.
Che Dürer fosse cosciente del proprio ruolo nel processo di evoluzione dell'arte
lo prova l'Autoritratto con pelliccia del 1500, conservato a Monaco. In esso, l'ultimo
come soggetto indipendente, adottò una posizione rigidamente frontale, secondo uno
schema di costruzione utilizzato nel Medioevo per l'immagine di Cristo. In questo
senso egli si riferisce alle parole della creazione nell'Antico Testamento, ovvero che
Dio creò l'uomo a propria somiglianza. Tale idea era stata affrontata in particolare dai
neoplatonici fiorentini vicini a Ficino, e non veniva riferita solo all'apparenza esteriore, ma anche riconosciuta nelle capacità creative dell'uomo.
Perciò Dürer pose accanto al proprio ritratto un'iscrizione, il cui testo, tradotto in
latino, indica: "Io Albrecht Dürer di Norimberga, all'età di ventotto anni, con colori
eterni ho creato me stesso a mia immagine". Con intenzione qui è stato scelto il termine "creato" piuttosto che "dipinto", come ci si sarebbe aspettati nel caso di un pittore.
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L'Autoritratto del 1500 non nasce però come un atto di presunzione, bensì indica la
considerazione che gli artisti europei di quel tempo avevano di sé stessi. Ciò che persino i grandi artisti italiani, come per esempio Leonardo da Vinci, avevano espresso
solo a parole, Albrecht Dürer l'espresse nella forma dell'autoritratto.
L'esatto opposto di questa rappresentazione di sé è un disegno a pennello (conservato a Weimar) su carta preparata con un colore verde di fondo, nel quale l'artista
si è ritratto nudo con un realismo spietato. Questo foglio, compiuto tra il 1500 e il
1505 circa, prova l'enorme grandezza dell'uomo e dell'artista Dürer. Si deve però
prendere atto del fatto che queste due testimonianze di autosservazione e di autovalutazione, finché Dürer rimase in vita, furono così poco conosciute dal vasto pubblico
quanto gli scritti letterari di Leonardo. Esso acquista però un importante significato
anche in un altro senso, quello degli studi sulla proporzione, che negli anni dopo il
1500 diedero i loro primi risultati.
La ricerca della prospettiva
Poiché Jacopo de' Barbari, che in quell'anno era andato a risiedere a Norimberga
come pittore dell'imperatore Massimiliano, né a Venezia nel 1494 né ora aveva voluto
rivelare a Dürer il principio della costruzione delle figure umane secondo un canone
di proporzione, questi provò sperimentalmente a stabilire quelle regole fondamentali
che gli si negava di conoscere, protette come segreto di bottega. L'unico suo punto di
riferimento erano le scarse indicazioni sulle proporzioni del corpo umano nell'opera
dell'antico teorico dell'architettura Vitruvio. Dürer applicò poi queste indicazioni anche nella costruzione del corpo femminile. Il risultato furono le forme spiacevoli della
dea Nemesi nell'incisione omonima. A quello stesso periodo risale il Sant'Eustachio.
Nel suo secondo viaggio a Venezia Dürer cercò spesso di conoscere le regole della costruzione prospettica, con una certa difficoltà. Arrivò a spostarsi fino a Bologna
per incontrare appositamente una persona in grado di trasmettergli l'"arte segreta della prospettiva", forse Luca Pacioli.
Il Peccato originale
L'influsso che l'arte di Jacopo de' Barbari esercitò comunque sugli studi sulla
proporzione di Dürer si può riconoscere nel disegno a penna dell'Apollo conservato a
Londra, ispirato a un'incisione su rame del maestro veneziano intitolata Apollo e Diana.
Ma il risultato artistico più completo di questa fase dei suoi studi sulla proporzione Dürer lo propose nella incisione su rame del Peccato originale, datata 1504. Per
la figura di Adamo egli fece probabilmente riferimento (come già per l'Apollo del disegno di Londra) a una riproduzione dell'Apollo del Belvedere, statua scoperta solo
pochi anni prima in uno scavo presso Roma. Tra gli animali che abitano nel Paradiso
insieme alla coppia sono lepri, gatti, un bue e un alce, che vengono interpretati come
simboli dei quattro temperamenti umani; il camoscio sulla roccia simboleggia l'occhio
di Dio che dall'alto tutto vede, e il pappagallo la lode innalzata al creatore.
Vita della Vergine
Ancor prima di completare la frammentaria Grande Passione, Dürer aveva già
iniziato a lavorare su un nuovo progetto: la serie xilografica della Vita della Vergine,
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che doveva aver iniziato già poco dopo il 1500; entro il 1504 portò a termine sedici fogli e l'intera serie fu completata solo nel 1510-1511.
La raffigurazione con la Nascita della Vergine è forse il foglio più bello di tutta la
serie. Dürer fece una descrizione realistica dell'attività in una camera per puerpere
nella Germania del tempo. La partoriente, sant'Anna, è assistita da due donne e giace
in un letto sfarzoso, posto alla profonda estremità della stanza. Intanto, la neonata
viene preparata per il bagno da un'altra ancella. Le restanti donne presenti trovano ristoro dalle fatiche compiute nel "rinfresco del battesimo", costume in uso all'epoca.
Studi e disegni all'inizio del secolo
In questo periodo della prima maturità, Albrecht Dürer fu sollecitato dalla diffusa devozione per la Madonna a composizioni nuove e talvolta sorprendenti, come per
esempio quella del disegno a penna e ad acquerello del 1503, la Madonna degli animali. La figura di Maria col Bambino è un'evoluzione ulteriore della Vergine dell'incisione della Madonna con la scimmia: anch'ella siede come in trono su di un sedile erboso; intorno a lei sono disegnati piante e animali in gran numero; sullo sfondo a de stra è raffigurato l'annuncio dell'angelo ai pastori, mentre a grande distanza si avvicina da sinistra il corteo dei tre re Magi.
Cristo è dunque rappresentato come Signore non solo degli uomini, ma anche
degli animali e delle piante. La volpe legata a una corda rappresenta il male, privato
della sua libertà di agire. Probabilmente questo disegno a penna e acquerello era un
lavoro preparatorio per un dipinto o una grande incisione su rame. Ma ciò che veramente colpisce in questo foglio è l'iconografia, per la quale non esiste confronto. Una
gran quantità di studi e di incisioni su rame mettono in evidenza l'interesse che Dürer
ebbe per le immagini della flora e della fauna.
Il Leprotto è datato 1502, e la Grande zolla porta la data, appena ancora leggibile,
del 1503. I due fogli (appartenenti al fondo dell'Albertina di Vienna), che Dürer fece
ad acquerello e guazzo, sono tra le produzioni più alte dell'arte europea su tali soggetti. Mai animali e piante furono compresi nel loro essere in forme più compiute che
in questi realistici studi di natura, anche se il pittore non eccede nella riproduzione
dei dettagli. Proprio nell'immagine della lepre si nota che, accanto ai punti in cui i peli
sono accuratamente tratteggiati, ce ne sono altri in cui non se ne dà il minimo conto
nel campo di colore; e anche per la zolla di terra, il terreno dal quale spuntano fuori le
erbe è solo sommariamente accennato.
Non si sa quale significato abbiano avuto per l'artista stesso opere di questo tipo;
infatti, diversamente dai paesaggi ad acquerello, esse riaffiorano molto raramente in
altri contesti. Tuttavia, poiché Dürer fece con estrema cura alcuni studi di natura su
pergamena, si potrebbe supporre che accordasse a esse un valore intrinseco che si
fondava, in ugual misura, sia sull'apparente realismo che sulla virtuosa esecuzione
tecnica.
Un ruolo particolare fra gli studi di animali acquistano i disegni con cavalli. Essi
infatti documentano con estrema chiarezza che Dürer doveva conoscere gli studi di
Leonardo sui cavalli delle stalle di Galeazzo Sanseverino a Milano. Sanseverino visitò
più volte a Norimberga uno degli amici più intimi di Dürer, Willibald Pirckheimer,
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che avrebbe potuto fargli conoscere le incisioni dei disegni di cavalli fatti da Leonardo. Il risultato dell'incontro con gli studi di Leonardo (preparatori del monumento
Sforza) è evidente nell'incisione su rame del Piccolo cavallo del 1505, in cui l'elemento
leonardesco è riconoscibile specialmente nella testa dell'animale.
Rispetto ai più famosi studi di animali e di piante o rispetto ai paesaggi ad acquerello, molto minore attenzione hanno incontrato gli studi di costume eseguiti a
pennello. Tra questi è da annoverare il disegno del Cavaliere del 1498 (ora a Vienna),
sul cui margine superiore Dürer pose queste parole: «Questa era l'armatura dell'epoca
in Germania». Gli errori di disegno nella teste e nelle zampe anteriori del cavallo,
come anche la cromia limitati ai toni blu e di bruno, fanno ipotizzare che il foglio fosse stato concepito come uno studio di natura. Solo nel 1513 questo disegno trovò una
nuova utilizzazione, insieme con uno studio di paesaggio più vecchio, nella famosa
incisione Il cavaliere, la morte e il diavolo.
Un altro studio di costume, la Dama di Norimberga in abito da sposa (o da ballo)
del 1500, viene inserito nel 1503 da Dürer nella prima incisione su rame datata, intitolata le Insegne della morte. L'elmo che qui figura riprende invece uno studio ad acquerello che mostra un elmo da torneo ripreso da tre punti diversi. Egli fece dunque
confluire diversi lavori preparatori, in questa composizione unitaria, che è un'impressionante allegoria araldica.
Ma non sempre Dürer ha usato gli studi di costume, di animali o di piante per
creare i propri lavori grafici. La xilografia su foglio unico dei Santi eremiti Antonio e
Paolo ha assonanze con alcuni suoi studi più antichi. Così, per esempio, il bosco ricorda molto più lo Stagno in un bosco che non gli alberi dello schizzo di composizione
rimastoci, e la testa del capriolo riecheggia un disegno conservato a Kansas City.
Dipinti alla vigilia del viaggio
Negli anni del XVI secolo che precedono il secondo viaggio in Italia l'artista portò a compimento alcune opere in cui si notano sempre più evidenti legami tra suggestioni italiane e tradizione tedesca, che dovettero spingerlo a cercare un maggiore approfondimento con il nuovo viaggio. opere sicuramente completate in questo periodo
sono il Compianto Glimm, con un gruppo compatto di figure stretto attorno al corpo
adagiato di Cristo, il già citato Altare Paumgartner, l'Adorazione dei Magi e l'Altare
Jabach, in parte perduto.
Adorazione dei Magi
Nel limitato numero di dipinti che realizzò nei primi anni del XVI secolo, il più
eccezionale è l'Adorazione dei Magi del 1504, commissionato da Federico il Saggio e
conservato agli Uffizi di Firenze.
La composizione appare semplice, e il legame tra la struttura architettonica delle
rovine e il paesaggio è continuo. Dal punto di vista cromatico, il quadro è caratterizzato dalla terna di colore rosso, verde e ardesia. Probabilmente l'artista non progettò
gli archi a tutto sesto, nota architettonica dominante nel quadro, in relazione con la
costruzione e prospettiva centrale (che è rilevabile nei gradino al lato destro), ma
piuttosto li costruì a parte e solo in un secondo momento li inserì nella composizione.
Nel quadro si inseriscono poi gli studi di natura della farfalla e del cervo volante, sim171
boli della salvezza dell'uomo ottenuta per mezzo del sacrificio di Cristo.
Erano anni di epidemie frequenti (lo stesso Dürer si ammalò) e Federico di Sassonia, collezionista di reliquie e probabilmente ipocondriaco, stava ampliando il numero di santi rappresentati nella sua chiesa. Fu probabilmente in questo periodo che
richiese a Dürer di aggiungere i santi laterali per l'Altare di Dresda.
Il secondo viaggio in Italia
Nella primavera o ai primi di autunno del 1505, Dürer interruppe il lavoro e si
mise nuovamente in viaggio verso l'Italia, probabilmente con l'occasione di sfuggire
da un'epidemia che aveva colpito la sua città. Egli desiderava inoltre completare le
proprie conoscenze sulla prospettiva e ritrovare un ambiente culturale ricco e stimolante ben più di Norimberga. Se per il primo viaggio le notizie sono piuttosto scarne,
il secondo è invece ben documentato, grazie innanzitutto alle dieci lettere che indirizzò all'amico Willibald Pirckheimer, spesso ricche di gustosi particolari che descrivono
le sue aspirazioni e i suoi stati d'animo, talvolta travagliati. Avrebbe voluto portare
con sé il fratello Hans, ma la madre anziana e apprensiva non concesse il permesso.
Seguendo lo stesso tragitto dell'altra volta prese la via del sud, diretto a Venezia,
facendo una prima sosta ad Augusta, patria della famiglia Fugger, che lo avrebbe
ospitato nella città lagunare. Già in quell'occasione ricevette la proposta di dipingere
una pala per la chiesa della comunità tedesca veneziana, San Bartolomeo, da terminare per la metà del maggio 1506. Passò poi per il Tirolo, i valichi alpini, e la valle dell'Adige.
Il Dürer che arrivava in Italia questa volta non era più il giovane artista sconosciuto di dieci anni prima, ma un artista conosciuto e apprezzato in tutta Europa, soprattutto grazie alle sue incisioni, così ammirate e copiate frequentemente. Per pagarsi il viaggio e provvedere ai bisogni si era portato dietro alcuni dipinti che contava di
vendere, tra cui probabilmente la Madonna di Bagnacavallo. Inoltre contava di lavorare guadagnando con la propria arte.
Arrivato a Venezia si immerse nell'ambiente cosmopolita della città, comprò
nuovi abiti eleganti, descritti nelle lettere, e frequentò personaggi colti, estimatori
d'arte e musicisti, come un perfetto gentiluomo. Descrisse come talvolta era così ricercato dagli amici da doversi nascondere per trovare un po' di pace: sicuramente la sua
figura slanciata e dal portamento elegante non doveva passare inosservata.
Suscitava anche antipatie, soprattutto dai colleghi italiani che, come egli stesso
parlò nelle sue lettere, "imitano la mia opera nelle chiese dovunque sia loro possibile,
poi la criticano e dicono che non è eseguita secondo la maniera antica, e per questo
non andrebbe bene". Egli fa il nome di due soli artisti locali: Jacopo de' Barbari e Giovanni Bellini. Quest'ultimo, di età ormai avanzata, era ritenuto da Dürer ancora il migliore sulla piazza ed aveva ricevuto da lui benevolenza e stima, andando a trovarlo
ed esprimendo addirittura il desiderio di acquistare qualche suo lavoro, disponibile
anche a pagarlo bene; un'altra volta il Bellini aveva elogiato il tedesco pubblicamente.
Jacopo de' Barbari, detto "Meister Jakob", era il protetto del norimberghese presente a Venezia Anton Kolb; verso questo collega Dürer ebbe parole di lieve sarcasmo, quando scrisse che in Italia erano moli gli artisti più bravi di lui.
172
La Festa del Rosario e altre opere veneziane
Il secondo soggiorno nella città lagunare durò quasi un anno e mezzo. Quasi subito, ancor prima di mettersi al lavoro alla grande pala d'altare, dipinse il Ritratto di
giovane veneziana. Sebbene il quadro, che porta la data del 1505 e che oggi si trova a
Vienna, non sia stato portato a termine completamente da lui, può essere considerato
il ritratto femminile più affascinante tra quelli di sua mano. Dürer preparò questa
pala con la massima cura.
Tra i singoli studi conservati, il Ritratto di un architetto (ora a Berlino, come la
maggior parte dei fogli compiuti a Venezia) è eseguito su carta blu ad acquerello
bianco e nero, con la tecnica del disegno a pennello che aveva appreso dai pittori del
posto. Tra i lavori preparatori costituisce un'eccezione lo Studio per il mantello del
papa (conservato a Vienna), un semplice disegno a pennello su carta bianca in cui il
motivo del mantello è però accennato in un morbido colore ocra e violetto.
L'opera più importante del soggiorno veneziano è però senza dubbio la Festa del
Rosario, cioè la pala di cui aveva già discusso ad Augusta per decorare la chiesa della
comunità tedesca gravitante attorno al Fondaco dei Tedeschi. L'opera non fu realizzata così velocemente come il committente Jakob Fugger aveva sperato, ma richiese cinque mesi, venendo conclusa solo alla fine del settembre del 1506, quando l'artista comunicò la notizia a Pirckheimer. Prima che fosse terminata, il doge e il patriarca di
Venezia, con la nobiltà cittadina, si erano recati nella sua bottega per vedere la tavola.
Anni dopo, in una lettera al Senato di Norimberga del 1524, il pittore ricordò come in
quell'occasione il doge gli avesse proposto di diventare pittore della Serenissima, con
un'ottima offerta retributiva (200 ducati all'anno) che egli però declinò.
Pare che anche molti artisti locali andarono a vedere l'opera, tra cui il decano dei
pittori veneziani, Giovanni Bellini, che in più di un'occasione manifestò la sua stima
al pittore tedesco, peraltro ricambiata. Il soggetto della tavola era legato alla comunità
teutonica veneziana, attiva commercialmente nel Fondaco dei Tedeschi e che si riuniva nella Confraternita del Rosario, fondata a Strasburgo nel 1474 da Jakob Sprenger,
l'autore del Malleus Maleficarum. Essi avevano come scopo la promozione del culto
della Vergine del Rosario. Nel dipinto il maestro tedesco assorbì le suggestioni dell'arte veneta del tempo, come il rigore compositivo della composizione piramidale
con al vertice il trono di Maria, la monumentalità dell'impianto e lo splendore cromatico, mentre di gusto tipicamente nordico è l'accurata resa dei dettagli e delle fisionomie, l'intensificazione gestuale e la concatenazione dinamica tra le figure. L'opera è
infatti memore della calma monumentalità di Giovanni Bellini, con l'omaggio esplicito dell'angelo musicante già presente, ad esempio, nella Pala di San Giobbe (1487) o
nella Pala di San Zaccaria (1505).
A Venezia Dürer fece alcuni ritratti di notabili locali, sia maschili che femminili, e
realizzò altre due opere a soggetto religioso: la Madonna del Lucherino, molto simile
alla Festa del Rosario da apparire come un dettaglio di essa, e il Cristo dodicenne tra i
dottori, che, come ricorda la firma apposta sull'opera, l'artista realizzò in appena cinque giorni utilizzando un sottile strato di colore con pennellate fluide. Lo schema
compositivo di quest'opera è serrato, con una serie di personaggi a mezza figura attorno al Cristo bambino che disputano le verità della religione: si tratta di una vera e
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propria galleria di personaggi, influenzata dagli studi di Leonardo sulle fisionomie, in
cui appare anche una vera e propria caricatura.
Il rientro (1507)
Alla fine del suo soggiorno, ai primi del 1507, l'artista si recò a Bologna, dove cerco qualcuno che gli avrebbe insegnato "l'arte segreta della prospettiva". Prima di partire scrisse a Pirckheimer queste testuali parole: "O, wie wird mich nach der Sonne
frieren! Hier bin ich ein Herr, daheim ein Schmarotzer." (Traduzione: Oh, come sarà
per me freddo, dopo il sole! Qui (a Venezia) sono un signore, in patria un parassita).
Durante il viaggio di ritorno in patria, acquerellò diversi paesaggi, come il Castello alpino ora a Braunschweig - che è forse quello di Segonzano - il Castello di
Trento del British Museum, la Veduta di Arco al Louvre, e quella di Innsbruck a Oxford; nel confronto di tali paesaggi con quelli da lui composti precedentemente al
viaggio in Italia si nota la resa più sciolta e la maggiore libertà di osservazione.
Il trattato sulla proporzione
Tornato a Norimberga Dürer, mosso da gli esempi di Leon Battista Alberti e Leonardo, avrebbe voluto mettere nero su bianco, in un trattato, le conoscenze teoriche
acquisite sull'operare artistico, in particolare sulle proporzioni perfette del corpo
umano. Si dedicò così a studi che solo in parte arrivarono alla pubblicazione.
Secondo Dürer, in opposizione ad alcuni non meglio precisati trattisti italiani,
che "parlano di cose che non sono poi in grado di fare", la bellezza del corpo umano
non si basava su concetti e calcoli astratti, ma era qualcosa che si basava innanzitutto
sul calcolo empirico. Per questo si dedicò alla misurazione di un gran numero di individui, senza però riuscire ad approdare a un modello definitivo e ideale, essendo esso
mutabile in relazione ai tempi e alle mode. "Che cosa sia la bellezza io non lo so... Non
ne esiste una che sia tale da non essere suscettibile di ulteriore perfezionamento. Solo
Dio ha questa sapienza e quegli cui lui lo rivelasse, questi ancora lo saprebbe".
Questi studi culminarono, nel 1507, con la creazione delle due tavole di Adamo
ed Eva oggi al Prado, in cui la bellezza ideale dei soggetti non scaturisce dalla regola
classica delle proporzioni di Vitruvio, ma da un approccio più empirico, che lo porta
a creare figure più slanciate, aggraziate e dinamiche. La novità si vede bene confrontando l'opera con l'incisione del Peccato originale di qualche anno prima, in cui i progenitori erano irrigiditi da un geometrica solidità.
Pale d'altare
Tornato da Venezia ricevette nuove commissioni per grandi pale d'altare. Federico il Saggio gli richiese una nuova tavola, il Martirio dei Diecimila (completato nel
1508), in cui l'artista, come divenuta consuetudine in quegli anni, si ritrasse tra i personaggi vicino all'iscrizione con la sua firma e la data.
Una seconda opera fu la tavola centrale dell'Altare Heller, un trittico con sportelli mobili commissionato dal mercante di Francoforte Jakob Heller, con gli scomparti
laterali dipinti da aiuti. La tavola centrale, distrutta in un incendio nel 1729 e oggi conosciuta solo grazie a una copia del 1615, mostra una complessa fusione delle iconografie dell'Assunzione dell'Incoronazione della Vergine, che riprendeva un dipinto di
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Raffaello visto in Italia, la Pala degli Oddi.
La terza pala d'altare fu l'Adorazione della Trinità, realizzata per la cappella della "Casa dei Dodici fratelli", un'istituzione caritatevole di Norimberga. L'opera mostra
una visione celeste in cui Dio Padre, con la corona imperiale, tiene la croce del figlio
ancora vivo, mentre in alto fa la sua comparsa la colomba dello Spirito Santo in un
nimbo luminoso circondato da cherubini. Due anelli adoranti si dispongono attorno
alla Trinità: tutti i santi e, più in basso, la comunità cristiana guidata dal papa e dal l'imperatore. Più in basso, in un vastissimo paesaggio, l'artista rappresentò sé stesso,
isolato.
A parte queste grandi opere il secondo decennio del Cinquecento segnò una certa stasi nell'attività pittorica, in favore di un impegno sempre più profondo negli studi di geometria e teoria estetica.
I Meisterstiche
Questo periodo per l'artista è anche quello delle incisioni più celebri, grazia all'ormai completa padronanza del bulino, che gli permise di realizzare una serie di capolavori sia sul piano della tecnica che di quello della concentrazione fantastica.
Risalgono infatti al 1513-1514 le tre opere allegoriche del Cavaliere, la morte e il
diavolo, il San Girolamo nella cella e Melencolia I. Le tre incisioni, note come i Mei sterstiche, sebbene non legate dal punto di vista compositivo, rappresentano tre
esempi diversi di vita, legati rispettivamente alle virtù morali, intellettuali e teologiche.
Nuovi ritratti
Nel 1514 morì la madre, pochi mesi dopo che l'artista le aveva fatto un ritratto a
carboncino di drammatico realismo, quando essa era già malata e presagiva la fine.
Due anni dopo dipinse il ritratto di Michael Wolgemut, l'antico maestro, che
morì tre anni dopo. In quell'occasione Dürer riprese in mano il foglio per aggiungervi
"aveva 82 anni e ha vissuto fino al 1519, quando è morto il mattino del giorno di sant'Andrea, prima del sorgere del sole".
Al servizio di Massimiliano I
Nella primavera del 1512, Massimiliano I del Sacro Romano Impero si era fermato per più di due mesi a Norimberga, dove aveva conosciuto Dürer. Per celebrare
l'imperatore e la sua casata l'artista concepì allora un'impresa mai vista, quella di un
gigantesca xilografia, vera antesignana dei poster, composta da 193 blocchi stampati
separatamente e riuniti insieme a formare un grande Arco trionfale, con storie della
vita di Massimiliano e dei suoi antenati. Essa richiese, oltre al contributo di Dürer,
quello di eruditi, architetti e intagliatori. La straordinaria composizione venne ricompensata all'artista con un beneficio annuo di cento fiorini, che doveva essergli corrisposto dalla municipalità di Norimberga. Nel 1515 disegnò una xilografia di un rinoceronte indiano di cui aveva sentito parlare, che divenne nota come Rinoceronte di
Dürer.
Ancora nel 1518, durante la Dieta di Augusta, Dürer venne chiamato dal sovrano
per ritrarlo. Fece un disegno a matita dal vero, dal quale avrebbe poi ricavato il ritrat 175
to su tavola, a margine del quale annotò con un certo orgoglio: "È l'imperatore Massimiliano che io Albrecht Dürer ho ritratto ad Augusta, su in alto nel palazzo, dentro la
sua piccola stanzetta, lunedì 28 giugno 1518".
Il 12 gennaio 1519 la morte dell'imperatore colse l'artista di sorpresa, acuendo il
dolore in un momento di crisi personale. Il suo amico Pirckheimer scrisse infatti in
una lettera a un altro umanista "Dürer sta male", avvertendone tutto il disagio. Il Senato di Norimberga aveva infatti approfittato della morte del sovrano per interrompere il pagamento del vitalizio annuo, che costrinse l'artista a partire per un lungo
viaggio nei Paesi Bassi per incontrare il suo successore, Carlo V, e ottenere la conferma del privilegio.
Oltre i disagi di natura economica l'artista viveva inoltre in quel periodo il turbamento per la predicazione di Lutero. Nella dottrina del monaco agostiniano riuscì
però a trovare un rifugio dal suo disagio e all'inizio del 1520 scrisse una lettera al bi bliotecario di Federico di Sassonia in cui esprimeva la volontà di incontrare Lutero
per farne un ritratto, in segno di ringraziamento e stima, cosa che alla fine mai avvenne.
Nel 1519 un artista olandese, Jan van Scorel, incontrò a Norimberga Dürer, dopo
essersi appositamente recato in viaggio, ma lo trovò così preso dalle questioni religiose che preferì rinunciare alle richieste di insegnamenti e se ne ripartì.
Il viaggio nei Paesi Bassi (1520-1521)
Il 12 luglio 1520 Dürer si accinse dunque a partire per l'ultimo dei suoi grandi
viaggi, che lo tenne lontano da casa per un intero anno. A differenza degli altri viaggi
si portò dietro la moglie Agnes e una domestica e tenne un diario in cui annotò gli accadimenti, le impressioni e i tornaconti. Durante tutto il viaggio l'artista non mangiava però mai con la moglie, ma piuttosto da solo o con un ospite.
Oltre alla necessità di incontrare Carlo V, il viaggio rappresentava l'occasione di
un giro commerciale, nonché rendeva possibile incontrare artisti, amici e committenti.
Al ritorno però annotò, anche se senza rammarico, che facendo i conti tra quanto aveva guadagnato e quanto aveva speso ne era uscito in perdita.
Partito con una grande quantità di stampe e dipinti, che contava di vendere o di
regalare, l'artista fece una prima tappa via terra a Bamberga, dove il vescovo li accolse
con cordialità. Navigò poi fino a Magonza e Colonia; poi con cinque giorni di viaggio
via terra raggiunse Anversa, dove alloggiò presso un certo Blankvelt che offriva loro
anche il vitto. Il 23 ottobre assistette all'incoronazione di Carlo V e il 12 novembre,
"con grandi fatiche e sforzi", ottenne udienza dall'imperatore e la riconferma della
rendita. Nel frattempo visitò molti luogo, incontrando artisti e mercanti che lo riconobbero come grande maestro, trattandolo con magnificenza e cordialità. Tra gli altri
conobbe Luca da Leida, e Joachim Patinir, che lo invitò alla sua festa di nozze e chiese
il suo aiuto per alcuni disegni.
Poté inoltre ammirare i capolavori della pittura fiamminga e venne ricevuto da
numerose personalità di rango. Tra tutte queste solo Margherita d'Austria, la governatrice dei Paesi Bassi figlia di Massimiliano, lo trattò con freddezza. Essa rifiutò il ritratto del padre che Dürer aveva apposta portato con sé per lei e lo congedò senza
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dargli niente nonostante i numerosi e preziosi regali che il pittore le aveva lasciato. Il
San Girolamo nello studio, un vero capolavoro, lo regalò a Rodrigo Fernandez d'Almada assieme a numerose stampe, con lo scopo di farselo amico. Come annotato qua
e là, spesso la sua generosità lo faceva accontentare, in cambio dei suoi capolavori, di
cose di poco conto, come un guscio di tartaruga, una pinna di pescecane, un vasetto
di sciroppo di cedro o capperi.
Durante tutto il viaggio disegnò e dipinse spesso, annotando sempre sul diario
ciò che faceva. Creò in quell'occasione un album di disegni a punta d'argento e molti
fogli isolati.
Durante il soggiorno nei Paesi Bassi, Dürer volle recarsi personalmente in Zelanda per vedere lo scheletro di una balena ivi arenatasi. Non la trovò, poiché il mare se
l'era già portata via, inoltre durante questo viaggio l'artista fu colpito da una grave
forma di malaria che, mal curata, non l'abbandonò più.
Gli ultimi anni a Norimberga
Tornato nella sua città malato e stanco, si dedicò soprattutto alla produzione di
incisioni e alla scrittura dei trattati di geometria e scienza delle fortificazioni.
L'avvicinamento alla dottrina protestante si rifletté anche nella sua arte, abbandonando quasi completamente i temi profani e i ritratti, preferendo sempre più i soggetti evangelici, mentre il suo stile si faceva più severo ed energetico. Il progetto per
una sacra conversazione, di cui restano numerosi, stupendi studi, venne probabilmente accantonato proprio per le mutate condizioni politiche e il clima ormai ostile
verso le immagini sacre, accusate di alimentare l'idolatria.
Per difendersi forse da questa accusa, nel 1526, in piena epoca luterana, dipinse
le due tavole con i monumentali Quattro apostoli, veri campioni di virtù cristiana, che
donò al municipio della propria città. Si tratta di testimonianza della spiritualità maturata con la riforma luterana e apice della sua ricerca pittorica tesa alla ricerca della
bellezza espressiva e della precisione della rappresentazione della persona umana e
della rappresentazione prospettica dello spazio.
Lo stesso anno dipinse gli ultimi ritratti, quelli di Bernhart von Reesen, Jakob
Muffel, Hieronymus Holzschuher e Johann Kleberger.
Del 1525 è un trattato di prospettiva nell'ambito della geometria descrittiva e Nel
1527 fece pubblicare il Trattato sulle fortificazioni di città, castelli e borghi; nel 1528
uscirono poi quattro libri sulle proporzioni del corpo umano.
Morte
Dürer, malato già da tempo, morì il 6 aprile 1528 nella sua casa di Norimberga e
fu sepolto nel cimitero della chiesa di San Giovanni, ove riposa tuttora. Dürer era rimasto fedele all'insegnamento di Lutero, mentre il suo amico Pirckheimer aveva abiurato tornando al cattolicesimo. Sulla lapide dell'amico artista egli fece incidere l'epigrafe latina: "Ciò che di mortale fu di Albrecht Dürer riposa in questa tomba".
Non avendo avuto figli, lasciò in eredità alla moglie la casa e una cospicua somma in denaro: era uno dei dieci cittadini più ricchi di Norimberga.
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Le ricerche
La fama di Dürer è dovuta anche ai suoi studi e alle sue ricerche a carattere
scientifico soprattutto in campi come la geometria, la prospettiva, l'antropometria e
l'astronomia, quest'ultima testimoniata da una celebre carta celeste con polo eclittico.
Fortemente influenzato dagli studi di Leonardo da Vinci, Dürer concepì l'idea di un
trattato sulla pittura intitolato Underricht der Malerei con il quale intendeva fornire ai
giovani pittori tutte le nozioni che egli aveva potuto acquisire grazie alla sua esperienza di ricerca, ma non riuscì però nell'intento che si era inizialmente prefissato. I
suoi scritti ebbero molta importanza per la formazione del linguaggio scientifico tedesco, e alcuni trattati sulle prospettive e sulle proporzioni scientifiche del corpo umano
risultarono utili ai cadetti pittori dell'epoca.
A Dürer è stato intitolato il cratere Dürer, sulla superficie di Mercurio.
Hans Holbein il Giovane
Hans Holbein il Giovane (Augusta, 1497 o 1498 – Londra, 7 ottobre 1543) è stato
un pittore e incisore tedesco, che dipinse dapprima a Basilea e poi in Inghilterra alla
corte di Enrico VIII.
Biografia
Figlio d’arte, Hans Holbein il giovane, (Augusta, in Baviera, 1497 - Londra 1543 )
nacque da Hans Holbein Il Vecchio (1465 - 1524). Studiò alla bottega di suo padre
come il fratello maggiore Ambrosius Holbein (1493/94 - 1519). La sua vita e le sue
opere vanno collocate sullo sfondo dell'umanesimo e di un’Europa scossa dalla riforma luterana (la riforma protestante ha una data di inizio ufficiale, che coincide con la
pubblicazione delle 95 tesi da parte di Martin Lutero, affisse, secondo il resoconto di
Filippo Melantone sulla porta della Cattedrale di Wittenberg, mercoledì 31 ottobre
1517.
Nel 1515, la famiglia si stabilì a Basilea, centro dell’umanesimo, dove conobbe e
frequentò Erasmo da Rotterdam. Tra i 1516 e il 1526, lavorando per i mercanti dell’alta borghesia compose soprattutto ritratti, ma anche opere di soggetto religioso progetti per vetrate ed affreschi. Sotto l’influenza di Matthias Grünewald, il suo stile si
modificò aprendosi alle nuove concezioni dettate dal Rinascimento italiano.
Nel 1526, per sottrarsi alla Riforma Luterana riparò a Londra accompagnato da
credenziali offertegli da Erasmo e Thomas More. Eseguì il progetto per un arco di
trionfo per l’ingresso a Londra di Anna Bolena e dipinse Gli Ambasciatori nel 1533.
Nel 1536, nominato pittore personale di Enrico VIII, divenne in breve il ritrattista
ufficiale della corte inglese. Ritrattista che sapeva cogliere, dietro l'apparenza, le
espressioni più personali e significative dei suoi personaggi, cercando di coniugare la
tradizione gotica, le nuove tendenze umanistiche.
Nei suoi ultimi anni, Holbein lavorò a Londra e a Basilea. Stava lavorando ad un
altro ritratto di Enrico VIII quando morì di peste, il 7 ottobre 1543, a Londra.
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Correggio
Antonio Allegri detto il Correggio (Correggio, agosto 1489 – Correggio, 5 marzo
1534) fu un pittore italiano.
Prendendo spunto dalla cultura del Quattrocento e dai grandi maestri dell’epoca, quali Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Mantegna, inaugurò un nuovo modo di
concepire la pittura ed elaborò un proprio originale percorso artistico, che lo colloca
tra i grandi del Cinquecento.
In virtù della dolcezza espressiva dei suoi personaggi e per l’ampio uso prospettico, sia nei dipinti sacri sia in quelli profani, egli si impose in terra padana come il
portatore più moderno e ardito degli ideali del Rinascimento. Infatti, all’esplosione
del colore veneziano e al manierismo romano, contrappose uno stile fluido, luminoso,
di forte coinvolgimento emotivo. Nello sforzo di ottenere la massima espressione di
leggerezza e di grazia, Correggio fu un precursore della pittura illusionistica. Introdusse luce e colore perché facessero da contrappeso alle forme e sviluppò così nuovi
effetti di chiaroscuro, creando l’illusione della plasticità con scorci talora duri e con
audaci sovrapposizioni. L’illuminazione e la struttura compositiva in diagonale gli
permisero anche di ottenere una significativa profondità spaziale nei suoi dipinti, caratteristica quest’ultima, tipica del suo stile. Le maestose pale d’altare degli anni venti
sono di spettacolare concezione, con gesti concatenati, espressioni sorridenti, personaggi intriganti, colori suadenti.
La luce, declinata secondo un chiaroscuro morbido e delicato, ne fece uno dei
punti di non ritorno della pittura, capace di influenzare movimenti artistici tra loro
diversissimi come il barocco di Giovanni Lanfranco e Baciccio e il neoclassicismo di
Anton Raphael Mengs.
Biografia
Origini
Nacque a Correggio, cittadina da cui prese poi il soprannome, da Pellegrino e
Bernardina Piazzoli degli Ormani, presumibilmente verso il 1489. Correggio all'epoca
era uno dei piccoli feudi indipendenti che costellavano l'Emilia, retto dai conti di Correggio, di antichissima nobiltà più volte imparentatisi coi Farnese della vicina Parma.
Di tutti i grandi protagonisti della sua epoca, Correggio è l’artista meno documentato e numerose sono le leggende, affermatesi nei secoli, sulla sua biografia. Tuttavia, resta importante la testimonianza di Giorgio Vasari, primo biografo del pittore,
circa la morte dello stesso, che sarebbe avvenuta dopo un estenuante viaggio a piedi
da Parma, sotto il peso di un enorme sacco di piccole monete da un quattrino, per un
totale di 60 scudi. Una leggenda che non regge all’analisi dei fatti e delle fonti, ma che
rende alla perfezione le incertezze e le difficoltà di una ricostruzione puntuale e completa della vita dell'artista.
Formazione
Altrettanto scarse sono le notizie sulla sua formazione. Pare che l'Allegri possa
essere stato inizialmente alunno di alcuni pittori locali: lo zio Lorenzo, il cugino Qui179
rino Allegri e l'artista correggese Antonio Bartolotti. Fu poi allievo di Francesco Bianchi Ferrari a Modena, dello scultore Antonio Begarelli ed entro il 1506 fu a Mantova,
dove forse aveva fatto appena in tempo a conoscere l'anziano Mantegna: su un alunnato diretto la prima menzione risale al 1559 da parte del viaggiatore spagnolo Pablo
de Céspedes, che visitò Parma, ma non si sa se ebbe informazioni di prima mano. Un
documento del 1512 vede l'artista creditore di Francesco Mantegna, il primogenito di
Andrea e erede della sua bottega. In ogni caso a Mantova Correggio poté ammirare le
opere del maestro restando affascinato soprattutto dagli effetti illusionistici della Camera degli Sposi. Incaricato di decorare la cappella funeraria dell'artista, morto nel
1506, nella basilica di Sant'Andrea, vi creò un finto pergolato in cui si leggono già, in
nuce, gli interessi per la dilatazione illusoria dello spazio, che sviluppò poi nei suoi
capolavori maturi.
Il giovane Correggio accolse inoltre le suggestioni chiaroscurali leonardesche e
da Raffaello acquisì il gusto per le forme monumentali, unite al senso di placida contemplazione dei pittori umbri e fiorentini. Fu anche partecipe, nel segno di una grandissima apertura culturale, dell’esperienza dei veneziani (Cima da Conegliano, Giorgione, Tiziano), dei ferraresi (Costa, Dossi), di Francesco Francia, di Melozzo da Forlì
e le sue vedute "da sott'in su", e degli artisti nordici (Dürer e Altdorfer). Inoltre conob be, tramite Michelangelo Anselmi, le novità del Beccafumi. Una tale ricchezza di
spunti gli garantì un tratto autonomo, basato sulla ricerca di una fluidità narrativa,
dove lo sfumato leonardesco era unito a un colore ricco, steso morbidamente, e a un
perfetto dominio dell'illusionismo prospettivo, appreso da Mantegna.
A questo periodo sono attribuiti una serie di "esercizi di stile" in piccolo formato,
cioè una serioe di quadretti di piccole dimensioni in cui egli faceva pratica su temi e
modi di altrti maestri (soprattutto Mantegna e Leonardo), sperimentando i propri
avanzamenti nell'arte con un certa spregiudicata libertà. Queste opere, tra cui spiccano Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne o la Madonna col Bambino tra due
angeli musicanti, dovettero nascere quindi come oggetti privati, ceduti poi a una cerchia di estimatori molto vicini al pittore.
Prime opere
Le prime opere di Correggio, tra il 1510 e il 1514, sono caratterizzate da una certa
durezza nelle figure derivata dall'esempio di Mantegna. Esse si stagliano una per una,
con panneggi dalle pieghe moltiplicate in maniera spesso rigida, con una prevalenza
di colori bruni e profondi, tipici della tradizione lombarda, ravvivati da lumeggiatura
e note squillanti, con una notevole sensibilità atmosferica nei paesaggi.
Testimonianza di questa fase giovanile sono due capolavori: la Natività di Brera
e la Madonna di San Francesco, già nella chiesa di San Francesco a Correggio e oggi a
Dresda, commissionatagli nel 1514. Gli studiosi sono concordi nel datare intorno alla
fine del primo decennio del Cinquecento un suo viaggio a Roma, che fu fondamentale
per apprendere direttamente dai modelli antichi e le straordinarie novità di Raffaello
e di Michelangelo.
La perduta pala della Madonna di Albinea e il Riposo in Egitto con san Francesco chiusero idealmente il primo periodo della sua carriera. A quel tempo l’artista risiedeva ancora nella cittadina natale, centro per nulla secondario nella vita culturale
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del tempo, dove la corte di Veronica Gambara, amica di poeti quali Aretino, Ariosto,
Dolce, Bembo e lei stessa finissima poetessa, aveva assicurato alla piccola contea un
prestigio che andava ben oltre i confini locali.
La nuova fase
Il secondo periodo della vita del Correggio si concentrò a Parma, dove è attivo a
partire dal 1520 con l’esecuzione di un’opera enigmatica e di elevata raffinatezza stilistica: il "Ritratto di dama" (variamente identificata in Veronica Gambara o con tutta
probabilità in Ginevra Rangoni, moglie di Aloisio Gonzaga e marchese di Castel Goffredo) firmato con la colta latinizzazione del suo nome: Anton(ius) Laet (us).
La Camera della Badessa
A Parma, nello stesso anno, si cimentò nella sua prima grande impresa pittorica
con la decorazione della "camera della Badessa" nel Monastero di San Paolo, su commissione della badessa, appunto, Giovanna Piacenza. Nessun documento di allogazione di quest’opera è giunto fino a noi ma considerazioni di ordine stilistico unite
alla documentazione relativa alla committente dell’opera inducono a pensare a un’esecuzione intorno al 1519. Non sappiamo come il Correggio sia entrato in contatto
con la badessa ma, dato che il monastero di San Paolo era benedettino, è possibile che
abbiano giocato un ruolo i rapporti che l’artista aveva avuto con i benedettini di San
Benedetto Po (Mantova).
Non è suffragata dalle fonti la conoscenza da parte di Correggio dei recenti traguardi del Rinascimento romano, ma alcuni motivi della Camera fanno pensare a una
conoscenza abbastanza sviluppata di Raffaello e di lavori come la Stanza della Segnatura e la Loggia di Psiche (quest'ultima ancora in lavorazione). A Roma forse l'artista
vide anche la perduta cappella del Belvedere di Mantegna (1480 circa, perduta ma descritta da Chattard nel Settecento), possibile fonte di ispirazione ulteriore. Anche una
visita a Milano è stata spesso richiamata dagli studiosi per spiegare le affinità del giovane Correggio con Leonardo; del resto la capitale lombarda non era così lontana da
Parma e anche a un pittore di minor levatura rispetto al Correggio, quale Alessandro
Araldi, era stato richiesto da Cecilia Bergonzi, badessa del monastero prima di Giovanna da Piacenza, di recarsi a vedere il "Cenaculo" vinciano. Un ricordo di quest’opera fondamentale sembra celarsi in alcuni marginalia quali le “tazze, boccali et altri
vasellami” descritti con cura negli effetti che la luce si diverte a creare sulle superfici
metalliche in maniera non dissimile da quanto Leonardo aveva ostentato sulla tovaglia di fiandra leonardesca.
La decorazione dovette procedere spedita e già nel 1520 essere completata. Per
Correggio si trattò del primo capolavoro ad affresco e segnò l'avvio di un decennio
fortunatissimo, in cui si concentrarono i suoi più grandi capolavori a Parma. La Camera stessa segnò un nuovo traguardo nell'illusionismo pittorico e venne ammirata e
citata da pittori, anche se solo per un breve frangente. A base pressoché quadrata (circa 7 × 6,95 m), la camera è coperta da una volta a ombrello di gusto tardogotico, rea lizzata nel 1514 da Edoari da Herba, e originariamente presentava arazzi alle pareti.
La volta vuole imitare un pergolato aperto sul cielo, trasformando quindi l'ambiente interno in un giardino illusorio. I costoloni della volta dividono ciascun spic181
chio in quattro zone, corrispondenti a una parete. Al centro della volta si trova lo
stemma della badessa, in stucco dorato, attorno al quale l'artista ideò un sistema di fasce rosa artisticfamente annodate, a cui sono legate dei festoni vegetali, uno per settore. Lo sfondo è un finto pergolato, che ricorda e sviluppa i temi della Camera degli
Sposi di Mantegna e della Sala delle Asse di Leonardo. Ciascun festone termina in
un'apertura ovale dove, sullo sfondo di un cielo sereno, si affacciano gruppi di puttini. In basso poi, lungo le pareti, si trovano lunette che simulano nicchie contenenti
statue, realizzate con uno starordinario effetto a trompe l'oeil studiando l'illuminazioine reale della stanza. La fascia più basa infine simula peducci con arieti, ai quali
sono appesi teli di lino tesi, sostenenti vari oggetti (piatti, vasi, brocche, peltri...), altro
brano di virtuosismo. Sulla cappa del camino, infine, Correggio dipinse la dea Diana
su un cocchio tirato da cavalli.
San Giovanni
Il successo della Camera della Badessa aprì a Correggio nuove importanti commissioni, prima fra tutte la decorazione della chiesa di San Giovanni Evangelista a
Parma, appena finita di ricostruire in forme rinascimentali.
L'artista, che vi lavorò dal 1520 al 1524 circa, decorò l'abside e la cupola. Oggi resta la decorazione della cupola, con la Visione di san Giovanni, il tamburo, i pennacchi e il fregio, mentre dell'Incoronazione della Vergine, già nella calotta dell'abside, ne
rimane solo un frammento nella Galleria Nazionale di Parma.
Nella straordinaria cupola usò lo sfondato, cioè simula un cielo aperto con le monumentali figure degli apostoli a fare da corona, seguendo il perimetro della cupola,
al Cristo sospeso a mezz'aria. L'eliminazione di ogni elemento architettonico e il tono
cromatico forte e violento accrescono la suggestione della scena. A differenza della
tradizione quattrocentesca, la decorazione appare libera da partiture architettoniche e
organizzata per essere guardata da due distinti punti di vista: quello che avevano i
frati benedettini, riuniti nel coro (i soli a cui era dato di vedere la figura di San Giovanni), e quello dei fedeli nella navata. In questo, l’opera si impone come uno dei più
originali e riusciti esperimenti illusionistici della pittura del Cinquecento.
L’abilità a gestire le figure in scorcio, quella che era allora considerata una delle
più ardite difficoltà dell’arte e che il Correggio aveva già indagato negli ovati della
Camera di San Paolo, trovò nell’architettura di nuvole degli affreschi di San Giovanni
la sua prima compiuta espressione.
La Cappella Del Bono
Sulla scorta del successo in San Giovanni, Correggio iniziò a ricevere commissioni sempre più prestigiose. Tra le prime, nel 1524, ci dovette essere la decorazione parziale della Cappella Del Bono nella stessa chiesa, commissionata da Placido del Bono
che gli richiese due tele per le poareti laterali: il Compianto sul Cristo morto e il Mar tirio dei quattro santi, entrambe oggi alla Galleria nazionale di Parma.
Si trattò di opere altamente sperimentali, con scorci diagonali che si perfezionano
con una visione laterale delle tele. In esse sviluppò fortemente la ricerca dedicata alla
rappresentazione dei "moti dell’animo", cioè di quelle espressioni umane che generano un pathos legato agli eventi vissuti dai personaggi. Non a caso, sebbene lontane
182
dalla pittura coeva degli altri grandi maestri attivi in Italia, fecero scuola per i classicisti emiliani del primo Seicento (Carracci, Reni), che con tali innovazioni posero le basi
della pittura barocca.
La cupola della cattedrale
Nel 1522 stipulò il contratto per la decorazione del coro e della cupola della cattedrale di Parma, avviata a dipingere solo nel 1524 circa, dopo il termine dei lavori a
San Giovanni. Nella cupola è dipinta la scena dell'Assunzione della Vergine in cui
una moltitudine di angeli disposti in forma di vortice ascendente accompagnano l'ascesa della Madonna su un cielo nuvoloso. Qui le figure perdono l'individualità, diventando parte integrante di una grandiosa scena corale, esaltata dall'uso di tinte
chiare, leggeri e fluenti che creano un continuo armonico fino al punto di volta.
Correggio concepì la sua decorazione affidandosi, come già in San Giovanni
Evangelista, a un illusionismo libero da partiture geometriche, che va ben oltre il possibile esempio offerto da Mantegna o da Melozzo da Forlì, i quali, da artisti quattrocenteschi, collocavano i propri personaggi entro un rigoroso schema geometrico. Correggio organizzò invece lo spazio dipinto intorno a un vortice di corpi in volo, che
crea una spirale come mai visto prima, che al contrario annulla l'architettura, eliminando visivamente gli angoli e facendo scomparire la fisicità della struttura muraria: i
personaggi infatti, più che sembrare dipinti sull'intonaco, per un eccellente equilibrio
sembrano librarsi in aria.
Il tamburo è occupato da un parapetto illusorio, traforato da oculi veri, lungo il
quale stanno in equilibrio una serie di angeli e gli apostoli. Dal parapetto una spirale
di nubi si attorciglia in un crescendo di sentimenti e di luce, con l'episodio della nube
su cui sale Maria, vestita di rosso e blu e spinta da angeli, alati e apteri, verso la sua
glorificazione celeste. Al centro un abbacinante scoppio di lume dorato perfeziona la
prodigiosa apparizione divina di Gesù che ha spalancato i cieli e si fa incontro alla
madre, proprio come accadeva negli affreschi della cupola di San Giovanni Evangelista. La composizione a spirale, perfezionata da tutti gli accorgimenti prospettici sia di
riduzione della scala delle figure, sia di sfocatura nella luce per i soggetti più lontani,
guida l'occhio dello spettatore in profondità e accentua il moto ascendente delle figure. In basso stanno infine i quattro protettori di Parma nei pennacchi.
La fonte di luce rappresenta l'Empireo, sede del Paradiso celeste e dimora di Dio.
Questo cielo può anche essere assimilato al cuore di Cristo e della Vergine Maria. La
disposizione delle nubi sottolinea il movimento ascensionale della Vergine. L'andamento a spirale simboleggia il viaggio dell'anima dopo la morte.
In genere Correggio evitò di rappresentare precisi dettagli iconografici, come i
singoli attributi che avrebbero permesso di identificare le figure di ciascun apostolo o
ciascun santo, o, scelta ancor più radicale, la tomba da cui la Vergine fu assunta in cielo. Questa omissione, come è stato notato, aveva in realtà lo scopo di coinvolgere nella visione della cupola lo spazio concreto della chiesa sottostante, permettendo ai fedeli di immaginare la presenza della tomba nello spazio in cui si trovava l’altare e di
percepire quindi la continuità tra mondo terreno e reale e mondo divino illusivamente finto dalla pittura.
183
Grandi pale
Accanto al lavoro come frescante, negli anni venti del Cinquecento, Correggio si
occupò di dipingere una serie di importanti pale d'altare, per Modena (Madonna di
San Sebastiano e Madonna di San Giorgio), per Reggio Emilia (Madonna di San Girolamo detta il Giorno e Adorazione dei pastori detta la Notte), per Parma (Madonna
della Scodella) e per Correggio (Trittico dell'Umanità).
Si tratta di opere di grande eleganza, caratterizzate da una crescente morbidezza
del modellato, finezza cromatica ed effetto dinamico, ottenuto grazie alla concatenazione di gesti e sguardi. In tali collegamenti il pittore riuscì a cogliere il più autentico
legame tra le varie figure, portando all'estremo compimento la lezione di Leonardo
da Vinci. Dalla ricchezza di fonti luminose della Notte o dell'Orazione nell'orto partiranno poi le ricerche sulla luministica dei Carracci.
Accanto a tali lavori proseguono le commissioni private per opere di piccolo formato (straordinarie ad esempio l'Adorazione del Bambino agli Uffizi o l'Ecce Homo
alla National Gallery di Londra) e avvia la serie delle opere a carattere mitologico, che
furono il soggetto ricorrente nella sua ultima produzione.
Tra il 1524 e il 1527 eseguì infatti la tela con Venere e Amore spiati da un satiro,
oggi conservata al Louvre, che rappresenta l'Amore terrestre, e l'Educazione di Cupido della National Gallery di Londra, che rappresenta l'Amore celeste. Forse la coppia
di tele è stata realizzata su commissione del conte mantovano Nicola Maffei, nella cui
casa si trovavano nel 1536. Ormai affermato e stimato dalle corti padane, trascorse gli
ultimi anni di vita nel tentativo di esaudire le numerose richieste di opere che gli pro venivano da molti signori locali ed in particolare da quelle mantovane.
Lo Studiolo di Isabella e gli Amori di Giove
Isabella d'Este, marchesa di Mantova, gli commissionò due opere che avrebbero
completato la decorazione del suo studiolo nel Palazzo Ducale di Mantova, certamente l’ambiente per lei più caro ed intimo. Vengono così realizzati verso il 1531, l’Allegoria del Vizio e l’Allegoria della Virtù, due tele che rappresentano uno dei punti più
alti della sua pittura e che preludono, in un certo senso, ai quattro capolavori con i
quali si conclude la sua attività: i cosiddetti Amori di Giove (Danae, Leda e il cigno,
Ganimede e l'aquila, Giove e Io), commissionatigli dal duca Federico II Gonzaga negli
anni trenta del Cinquecento.
Si tratta di fondamentali contributi allo sviluppo della pittura a soggetto mitologico e profano, grazie al nuovo e straordinario equilibrio tra resa naturalistica e trasfigurazione poetica.
Morte
Rientrato in patria, Correggio vi muore improvvisamente il 5 marzo 1534. Il giorno seguente viene sepolto in San Francesco a Correggio vicino al suo capolavoro giovanile, la Madonna di San Francesco oggi a Dresda.
184
Lezione X
IL SECONDO CINQUECENTO
Manierismo
Il manierismo è una corrente artistica italiana del XVI secolo. La definizione di
manierismo ha subito varie oscillazioni nella storiografia artistica, arrivando, da un
lato, a comprendere tutti i fenomeni artistici dal 1520 circa fino all'avvento dell'arte
controriformata e del barocco, mentre nelle posizioni più recenti si tende a circoscriverne l'ambito, facendone un aspetto delle numerose tendenze che animarono la scena artistica europea in poco meno di un secolo.
Definizione
Il termine "maniera" è presente già nella letteratura artistica quattrocentesca ed
era sostanzialmente sinonimo di stile (stile di un artista, stile dominante in
un'epoca...). Con tale accezione venne ripreso da Vasari, nella cui monumentale opera
(Le Vite) inizia ad assumere un significato più specifico e, per certi versi, fondamentale nell'interpretazione dei fenomeni artistici. Nella terza parte della Vite lo storico aretino inizia a parlare della "Maniera moderna" o "gran maniera" dei suoi tempi, indicando in artisti come Leonardo da Vinci, Michelangelo e Raffaello i fautori di un culmine della progressione artistica, iniziata come una parabola ascendente alla fine del
Duecento, con Cimabue e Giotto. A tali artisti attribuisce infatti il merito di essere arrivati a una perfezione formale e a un ideale di bello in grado di superare gli "antichi",
cioè i mitici artefici dell'arte classica, e la natura stessa. Vasari si raccomandò dunque,
ai nuovi artisti, di riferirsi a questi modelli per acquisire la "bella maniera".
Il significato di "maniera", dunque positivo nell'opera vasariana, venne poi trasformato in "manierismo" nei secoli XVII e XVIII, assumendo una connotazione negativa: i "manieristi" erano infatti quegli artisti che avevano smesso di prendere a modello la natura, secondo l'ideale rinascimentale, ispirandosi esclusivamente alla "maniera" dei tre grandi maestri: la loro opera venne così banalizzata come una sterile ripetizione delle forme altrui, veicolata spesso da un'alterazione del dato naturale, fortemente biasimata.
Per assistere a un cambiamento di rotta sul giudizio di questa fase si dovette attendere il primo Novecento, quando si iniziò a guardare al "manierismo" (termine ormai consolidato) con un'altra luce, che evidenziava le componenti anticlassiche di tale
movimento e la loro straordinaria modernità.
Col progredire degli studi, la definizione di "manierismo" è divenuta sempre più
problematica, rendendosi ormai insufficiente a raggruppare sotto un'unica sigla fenomeni lontani nel tempo. Molti storici dell'arte preferiscono ormai definire la portata
più ampia, che abbraccia buona parte del XVI secolo, come la "crisi del Rinascimento".
185
Profilo storico
La data di inizio dell'era moderna è convenzionalmente posta al 1492, anno della
Scoperta delle Americhe, della fine della Reconquista e della morte di Lorenzo il Magnifico, ago della bilancia nello scacchiere politico italiano. Negli anni vicini, prima e
soprattutto dopo, avvennero una serie di fatti di gravità epocale che demolirono, uno
dopo l'altro il sistema di certezze che era stato alla base del mondo umanistico. La
presa di Costantinopoli (1453), la calata in Italia dell'esercito di Carlo VIII di Francia
(1494), fino alla crescita dell'insoddisfazione verso il papato culminata col Sacco di
Roma del 1527 segnano duramente la società europea, e in particolare quella italiana,
inaugurando un periodo di guerre, instabilità e smarrimento, dove anche punti di riferimento intoccabili come il papato sembrarono vacillare.
Nei fatti artistici italiani assumono una rilevanza particolare il 1498, anno dell'esecuzione di Savonarola a Firenze, e il 1520, anno della morte di Raffaello Sanzio a
Roma, nonché la diaspora del 1527 degli artisti alla corte di Clemente VII, dovuta al
sacco. Il primo avvenimento segnò l'inizio della crisi politica e religiosa della città,
mentre i secondi due testimoniano rispettivamente la formazione e la diaspora della
scuola di allievi dell'urbinate, che diffuse il nuovo stile in tutta la penisola: tra questi
Perin del Vaga a Genova e poi di nuovo a Roma, Polidoro da Caravaggio a Napoli e
poi in Sicilia, Parmigianino a Bologna e Parma, ma anche in Francia con Rosso Fiorentino e Primaticcio che lavorano nel castello di Fontainebleau. Anche prima del Sacco
si ebbero fermenti manieristici: nel 1521, con l'apertura del cantiere alla villa Imperiale a Pesaro per volontà del duca di Urbino Francesco Maria I della Rovere, sotto la direzione di Gerolamo Genga lavorò un eterogeneo gruppo di pittori, il programma decorativo seguì le direttive del cardinale e letterato Pietro Bembo. Importanti anche i
lavori intrapresi a Mantova da Giulio Romano, trasferitosi da Roma nella città dei
Gonzaga nel 1524.
Fra i manieristi maturi eccelle un gruppo di artisti che elaborano con più perso nalità e profondità i motivi classici, in particolare Andrea del Sarto, il Pontormo, Rosso Fiorentino, il Bronzino, il Vasari, Daniele da Volterra, Francesco Salviati
(Cecchino), il suo allievo Giuseppe Porta, Nicolò dell'Abate, Lattanzio Pagani, Antonio da Carpena (Carpenino) i fratelli Federico e Taddeo Zuccari.
L'età della maniera subisce dei forti contraccolpi con la fine del Concilio di Trento nel 1563, ma il gusto manierista, sempre più raffinato, autoreferenziale e decorativo, si consumerà in imprese di estremo virtuosismo commissionate dalle grandi corti
europee per una fruizione privata ed estremamente elitaria, così per lo Studiolo di
Francesco I in Palazzo Vecchio a Firenze o la collezione di Rodolfo II a Praga.
La pittura del Manierismo
Il termine maniera è presente nei trattati del XV e XVI secolo per indicare ciò che
noi definiamo stile. Giorgio Vasari definirà i gradi della "maniera", e utilizzerà questo
termine per definire i diversi stili nelle diverse epoche e in differenti aree geografiche.
Vasari vede nell'arte a lui contemporanea la perfezione data dal superamento della
natura. Se i maestri della generazione precedente (Leonardo, Raffaello, Correggio,
186
Giorgione eccetera) erano riusciti, tramite il confronto con l'arte classica (si ricordino
le più celebri statue greche e romane), a codificare le regole su cui si basa l'imitazione
della natura, gli artisti a lui contemporanei, che ben conoscevano queste regole, seppero piegarle a loro piacimento superando la natura stessa. La tensione tra regola e li cenza è la base stessa del linguaggio manieristico. Vi sono quindi una grandissima
competenza tecnica negli artisti e una notevole competenza lessicale da parte dei fruitori delle opere. Sono la facilità d'esecuzione e la rapidità le caratteristiche più apprez zate da Vasari, e trovano un parallelo nella sprezzatura che informa il Cortegiano di
Baldassarre Castiglione. L'opera manieristica deve inoltre contenere "la varietà di tante bizzarrie, la vaghezza de' colori, la università de' casamenti, e la lontananza e varietà ne' paesi", poi: "una invenzione copiosa di tutte le cose" (Giorgio Vasari, Vite).
La preparazione richiesta ad un pittore nel Cinquecento non si fermava all'abilità
artistica, ma comprendeva anche la cultura, una formazione universale, anche religiosa, nonché le norme di comportamento etico e sociale che gli consentissero di rapportarsi alle istituzioni e ai committenti. Anche questo si traduceva nella "maniera" di dipingere; e per il Vasari, l'espressione più alta della "buona maniera" di dipingere era
in Raffaello e Michelangelo.
La "maniera", o lo "stile" che dir si voglia, si tradusse negli autori successivi in affettazione, inventiva, ricercatezza, artificio preziosismo: caratteristiche queste che
sono state successivamente attribuite a questi pittori in varia misura e con valutazioni
diverse, a seconda dei tempi.
Il termine manierismo, al contrario di "maniera", comparve molto più tardi, con
l'affermarsi del neoclassicismo alla fine del Settecento, per definire quella che veniva
intesa come una deviazione dell'arte dal proprio ideale; e fu usato successivamente
dello storico d'arte Jacob Burckhardt per definire in modo sprezzante l'arte italiana fra
il Rinascimento e il Barocco. Solo negli anni dieci e venti i pittori manieristi furono
riabilitati e, sotto l'influsso dell'espressionismo e del surrealismo, si valutò positivamente la cultura sottostante al manierismo: il distacco dell'arte dalla realtà, l'abbandono dell'idea che la bellezza della natura sia impareggiabile e il superamento dell'ideale di arte come imitazione della realtà. In questa concezione l'arte diventa "fine a se
stessa".
I principali pittori della maniera furono:
•
Giorgio Vasari
•
Livio Agresti
•
Pontormo
•
Rosso Fiorentino
•
Giulio Romano
•
Gaudenzio Ferrari
•
Perin del Vaga
•
Iacopino del Conte
•
Daniele da Volterra
187
•
Francesco Salviati
•
Federico Zuccari
•
Federico Barocci
•
Agnolo Bronzino
•
Andrea del Sarto
•
Sebastiano del Piombo
•
Prospero Fontana
•
Parmigianino
•
Brescianino
•
Giovanni Paolo Lomazzo
•
Polidoro da Caravaggio
•
Andrea Schiavone
•
Pellegrino Tibaldi
•
Camillo Boccaccino
•
Giuseppe Arcimboldo
•
Bartolomeo Spranger
•
Tintoretto
•
Francesco Primaticcio
•
Domenico Beccafumi
•
Il Pordenone
•
Paris Bordone
•
Antonio Campi
•
Vincenzo Campi
•
Raffaellino del Colle
•
Cristoforo Gherardi
Caratteristiche abbastanza ricorrenti nelle opere pittoriche manieriste, più o
meno apprezzate nei tempi successivi, furono:
•
una costruzione della composizione complessa, molto studiata, fino ad essere
artificiosa, talvolta con distorsioni della prospettiva, talvolta con eccentricità
nella disposizione dei soggetti, tipica è la figura serpentinata, cioè realizzata
come la fiamma di un fuoco o una s;
•
un uso importante della luce, finalizzato a sottolineare espressioni e movimenti, a costo di essere a volte irrealistico;
•
grande varietà di sguardi ed espressioni, normalmente legate al soggetto e alla
188
situazione rappresentata: talora intense, dolorose, a volte assenti, metafisiche, a
volte maestose, soprannaturali;
•
grande varietà nelle pose, che come quelle di Buonarroti intendono suggerire
movimenti, stati d'animo, e quando richiesto la soprannaturalità del soggetto;
•
uso del drappeggio molto variegato fra i vari artisti, ma di solito importante e
caratteristico, fino a diventare innaturale;
•
anche i colori delle vesti, ma talvolta anche degli sfondi, consentono di staccarsi dalle tinte più comuni in natura e portare l'effetto di tutta l'opera su coloriture più artefatte e insolite.
I centri del Manierismo
Dopo il Sacco di Roma del 1527 la maggior parte dei pittori che si trovavano nel la capitale pontificia fuggirono. Erano gli artefici dello stile clementino (da papa Clemente VII), un linguaggio raffinatissimo che, allontanandosi progressivamente dalla
lezione di Raffaello, è alla ricerca di virtuosismi sempre nuovi in una continua sperimentazione. Il simbolo e la principale caratteristica di questo stile è la figura serpentinata, una figura in movimento che ha due o tre punti di vista diversi, che si contorce
nel modo più aggraziato possibile, senza badare alle regole prospettiche e anatomiche. L'onta del Sacco spegne per almeno un decennio il faro di Roma come guida culturale d'Europa. Altri centri si aggiornano però, grazie agli artisti in fuga, sulle novità
romane:
•
Firenze sarà animata per tutto il terzo decennio del secolo dalla presenza di
Michelangelo, qui egli realizza opere architettoniche fondamentali per lo sviluppo della maniera, dalla Sagrestia Nuova in S. Lorenzo alla Biblioteca Laurenziana. Successivamente sarà la nuova generazione di artisti, capeggiata da
Vasari e Giambologna, ad alimentare la centralità della città.
•
A Fontainebleau, alla corte di Francesco I di Valois, giungono Rosso Fiorentino
e Francesco Primaticcio che trasformeranno il castello nel centro di diffusione
dell'arte italiana a nord delle Alpi.
•
Mantova, piccola corte del nord Italia, grazie alla presenza stabile di Giulio Romano, il più dotato allievo di Raffaello, diventa tra le città più all'avanguardia
artisticamente e culturalmente. Sarà Federico II Gonzaga, figlio di Isabella d'Este a riportare la città ai fasti che conobbe al tempo di Mantegna, soprattutto
con i cantieri di Palazzo Te e del Palazzo Ducale.
•
La Repubblica di Genova nella prima metà del XVI secolo vede stravolta la sua
economia, se fino ad allora era basata sul commercio marittimo, da queste date
centrale per la crescita della città diviene l'imprenditoria finanziaria. Il legame
con l'imperatore Carlo V (il patriziato di Genova finanzierà per decenni le sue
guerre) accresce sempre di più il potere della città, che diverrà uno dei poli del
Manierismo internazionale con la presenza di Perin del Vaga, il senese Beccafumi e Il Pordenone.
•
L'Italia centrale, tra L'Emilia e le Marche, vede una sfaccettatura politica conti189
nua, lo Stato della Chiesa e le diverse signorie come quella dei Della Rovere
continuano a spartirsi un territorio ricco ma piccolissimo e si formano nuove
corti locali, come quella dei Farnese a Parma. E tra Parma e Bologna si forma e
lascia opere fondamentali il Parmigianino. Bologna inoltre vedrà crescere la
sua importanza grazie a maestri locali come Pellegrino Tibaldi e Nicolò dell'Abate.
•
Roma si rinnova con l'avvento del pontificato di papa Paolo III (1534-49) che
tenta di recuperare il prestigio temporale anche grazie alle grandi imprese artistiche pubbliche. I cantieri più importanti furono aperti quindi al Vaticano e al
Campidoglio. Paolo III dovette anche affrontare la frattura tra i cristiani dell'Europa settentrionale e l'ortodossia romana, Roma vive così una stagione di
ambivalenza, divisa tra il fasto raffinato del manierismo internazionale (nelle
ville urbane e suburbane delle più potenti famiglie) e opere più rigorose e spirituali come il Giudizio Universale nella Sistina, e i cicli di Daniele da Volterra.
•
Venezia vive una crisi economica e politica dovuta all'allargamento del impero
ottomano verso occidente: la città sarà costretta a modificare la sua economia
guardando ai territori dell'entroterra e a città come Brescia e Bergamo. Pur in
crisi, Venezia vive una ineguagliata concentrazione di artisti, in buona parte
forestieri. Tiziano e la sua scuola, Tintoretto, Paolo Veronese, Jacopo Bassano
sono tra i principali nomi di una stagione fervida e fruttuosissima.
•
In Lombardia, dopo anni di incertezze politiche dovute alla caduta di Ludovico il Moro (1499), la ricchissima Milano passa sotto il dominio di Carlo V. Ma
né a Milano né in nessun'altra città lombarda esisteva una corte che potesse richiamare gli artisti in fuga dal Sacco di Roma. Gli aggiornamenti provengono
quindi dalle terre limitrofe, dal Veneto e, soprattutto, da Mantova e Parma. Il
cantiere importantissimo del Duomo di Cremona è ormai lontano nel tempo,
ma sempre a Cremona, intorno a un'altra impresa collettiva, la decorazione
della chiesa di San Sigismondo, si crea uno snodo in cui si incontrano pittori
giovani e aggiornati come Giovanni Demìo, Antonio Campi, Camillo Boccaccino. Malgrado il cantiere cremonese, le morti di Bramantino, Gaudenzio Ferrari,
e quella prematura di Camillo Boccaccino (1546) apriranno definitivamente le
porte agli artisti veneti. Milano rimarrà comunque un importantissimo centro
per la produzione di oggetti preziosi e armature, in gran parte destinati alle
wunderkammern delle corti europee.
•
A Praga intorno alla figura dell'imperatore Rodolfo II d'Asburgo maturano gli
estremi esiti del Manierismo internazionale. La città, divenuta capitale nel
1583, diviene una gigantesca bottega in cui ogni tipo di materiale è lavorato
per soddisfare l'immensa voracità del collezionismo della corte imperiale. Invenzioni sempre più strane, intellettuali o curiose, si accumulano nelle camere
della corte. I principali artisti lì presenti furono il milanese Giuseppe Arcimboldi e l'olandese Bartholomäus Spranger.
190
Architettura manierista
L'architettura manierista è quella fase dell'architettura europea che si sviluppò
indicativamente tra il 1530 ed il 1610, cioè tra la fine del Rinascimento e l'avvento del
Barocco.
Solitamente il Manierismo è considerato dagli storici come l'ultima fase del Rinascimento, preceduta da quelle dell'Umanesimo fiorentino e del Classicismo romano;
tuttavia, se le prime due fasi sono temporalmente distinguibili, altrettanto non può
dirsi per il Classicismo ed il Manierismo, che coesistettero sin dagli inizi del XVI secolo.
Il termine "maniera", utilizzato già nel Quattrocento per indicare lo stile di ogni
artista, fu ripreso da Giorgio Vasari nel secolo successivo per descrivere uno dei quattro requisiti delle arti ("ordine, misura, disegno e maniera"), con particolare riferimento alle opere di Michelangelo Buonarroti. Eppure solo con l'affermarsi del Neoclassicismo comparve per la prima volta il termine "manierismo", impiegato per indicare una
digressione dell'arte dal proprio ideale; successivamente fu usato dello storico Jacob
Burckhardt per definire in modo sprezzante l'arte italiana fra il Rinascimento e il Barocco. Ciononostante, all'inizio del XX secolo, alla luce delle nascenti correnti surrealiste ed espressioniste, la critica rivalutò la cultura manierista.
Contesto storico
Il Manierismo si sviluppò in Italia ed influenzò l'architettura di gran parte dell'Europa. Giova pertanto delineare il contesto storico del continente.
La fine del XV secolo vide svilupparsi le grandi monarchie, in Spagna, Francia ed
Inghilterra; nel 1493 Massimiliano I d'Asburgo divenne imperatore del Sacro Romano
Impero, mentre la Russia trovò unità politica sotto Ivan III. In seguito, con l'ascesa al
trono francese di Francesco I e l'incoronazione di Carlo V del Sacro Romano Impero,
gli scenari europei subirono un radicale cambiamento, con l'annessione alla Spagna
della Germania e di altri territori, quali Milano, Napoli e il meridione d'Italia.
In Italia, nel 1527 si registra il sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi; questo
evento viene generalmente considerato la data d'inizio del Manierismo. Molti artisti
furono costretti a lasciare Roma, spostandosi a Firenze e Venezia. A Firenze, gli eventi
del 1527 favorirono la cacciata dei Medici; la ribellione fu domata solo con un lungo
assedio, tra il 1529 ed il 1530, che ristabilì il casato alla guida della città. Venezia invece era il più importante arsenale d'Italia ed un centro culturale di primo piano, grazie
all'ampia diffusione dell'attività editoriale.
Successivamente, nel 1542, papa Paolo III ripristinò il Sant'Uffizio dell'Inquisizione, che precedette di pochi anni la convocazione del Concilio di Trento. Il clima controriformistico portò alla formazione della Compagnia di Gesù ad opera di Ignazio di
Loyola (1534), che peraltro esercitò notevole influenza anche in campo artistico, indirizzando l'architettura religiosa verso lo stile barocco.
Caratteristiche dell'architettura manierista
Il manierismo rifiuta l'equilibrio e l'armonia dell'architettura classica, concentrandosi piuttosto sul contrasto tra norma e deroga, natura e artificio, segno e sottose191
gno.
In questo modo il carico perde il suo peso, mentre il sostegno non sostiene alcunché (ad esempio nel prospetto dello scomparso Palazzo Branconio dell'Aquila a
Roma, di Raffaello Sanzio, dove le semicolonne del piano terreno sono poste in corrispondenza delle nicchie del primo piano); la fuga prospettica non si conclude in un
punto focale, come nel barocco, ma termina nel nulla; le strutture verticali assumono
dimensioni eccessive e conferiscono al complesso un inquietante equilibrio "oscillante". Se nell'architettura rinascimentale le fabbriche spesso denunciano la propria conformazione interna anche all'esterno (mediante ad esempio la messa in evidenza di
marcapiani, estradossi ed intradossi), le opere manieriste generalmente si allontanano
da questa tendenza, celando la propria struttura di base.
Dal punto di vista decorativo, particolare importanza assunse il fenomeno delle
grottesche, un soggetto pittorico di età romana, riscoperto alla fine del XV secolo durante alcuni scavi archeologici. Queste pitture, incentrate su rappresentazioni fantastiche e irrazionali, tornarono in auge durante il Manierismo (ad esempio nelle decorazioni di Palazzo Te) e, seppur in maniera sporadica, influenzarono la stessa architettura; ciò è evidente nelle bizzarre aperture sul fronte di Palazzo Zuccari in Roma e nel
Giardino Orsini (noto come Parco dei Mostri) a Bomarzo. Altre influenze, soprattutto
legate ai temi zoomorfici, antropomorfici e fitomorfici, si riscontrato nei paramenti di
edifici quali la Casina di Pio IV in Vaticano di Pirro Ligorio, il Palazzo Marino e la facciata della chiesa di Santa Maria presso San Celso di Galeazzo Alessi, a Milano.
Diffusione
Lo stile manierista, concepito inizialmente a Roma e Firenze, si diffuse rapidamente nell'Italia settentrionale e quindi nel resto d'Italia e d'Europa, dove i principi
più genuini dell'arte italiana dei secoli XV e XVI non furono quasi mai compresi pie namente, e l'architettura rinascimentale si manifestò prevalentemente nella sua variante manierista.
Giulio Romano, con il suo Palazzo Te a Mantova, introdusse il Manierismo nella
Val Padana, mentre Michele Sanmicheli trasformò Verona sulla scia di questa nuova
corrente, realizzando una serie di palazzi sotto la diretta influenza del primo e del
Classicismo romano. Altre influenze si registrano pure nell'Italia meridionale, ad
esempio nella Cappella del Monte di Pietà a Napoli, di Giovan Battista Cavagna.
Sebastiano Serlio, autore di un importante trattato di architettura, contribuì alla
sua diffusione; egli lavorò anche nella cosiddetta Scuola di Fontainebleau, che divenne il principale centro manierista della Francia. I suoi Sette libri dell’architettura, pubblicati tra il 1537 ed il 1551 in ordine irregolare, ebbero una notevole diffusione e furono fonte d'ispirazione per i classicisti d'oltralpe.
Sin dai primi anni del XVI secolo lo spirito manierista si diffuse anche in Spagna
come reazione al tardo gotico nazionale. Invece, Inghilterra e Germania volsero al
Manierismo solo nel XVII secolo con artisti quali Inigo Jones e Elias Holl.
192
Opere principali
Italia
Il punto di partenza dell'architettura manierista è la Villa Farnesina di Roma, costruita da Baldassarre Peruzzi intorno al 1509. Essa presenta una pianta a "U", con
due ali che racchiudono una parte mediana in cui, al piano inferiore, si apre un portico costituito da cinque arcate a tutto sesto. L'articolazione della facciata, ornata con lesene e bugnato angolare, è ancora classica, ma il fregio riccamente decorato, che corre
alla sommità dell'edificio, evidenzia già un mutamento dei gusti. Inoltre, in una sala
posta al piano superiore, lo stesso Peruzzi dipinse alcuni colonnati e paesaggi, al fine
di dilatare lo spazio architettonico.
Tuttavia, il capolavoro del Peruzzi è da ricercare nel Palazzo Massimo alle Colonne, risalente al 1532. La struttura si inserisce in un lotto di terreno di dimensioni irregolari, a forma di "L". La facciata è curvilinea e presenta un portico architravato con
colonne liberamente spaziate, la cui profondità contrasta con il registro superiore del
fronte; insolite sono le cornici che decorano le finestre dei piani superiori, addossate
ad una parete decorata a bugnato piatto. Inedita è pure la conformazione dei portici
del cortile: essi sono formati da due logge sovrapposte, chiuse alla sommità da un terzo piano aperto da finestre rettangolari larghe quanto il sottostante colonnato. Tutte
queste soluzioni, in parte influenzate dalle asimmetrie del lotto, mostrano una prevalenza della deroga sulla norma e pongono il Palazzo Massimo tra le più interessanti
fabbriche dell'architettura manierista.
Analogo giudizio può essere espresso per il celebre Palazzo Te a Mantova, edificato da Giulio Romano nel decennio a cavallo tra il 1525 ed il 1534. Il palazzo è un
edificio a pianta quadrata, con al centro un cortile ancora quadrato; l'entrata principale è risolta con una loggia, dove si ripetono arconi a tutto sesto e serliane. Il fronte affaccia su un giardino delimitato, sul lato opposto, da una vasta esedra semicircolare.
Questi elementi si rifanno al codice classico, ma il carattere rustico dell'edificio (ordine e bugnato non sono più su due piani distinti, ma si uniscono in un solo elemento
nelle facciate laterali) avvicina l'opera ai canoni dell'architettura manierista. Inoltre
Giulio Romano applicò le serliane anche nella profondità del portico, trasformando
delle aperture bidimensionali in elementi spaziali.
Caratteri rustici hanno anche altri due edifici mantovani progettati sempre da
Giulio Romano: la casa dello stesso architetto ed il cortile della Cavallerizza nel Palazzo Ducale. Nel primo caso il bugnato si estende fino alla sommità del fabbricato, mentre l'ordine architettonico lascia il posto ad una serie di pilastri sui quali sono impostati archi a tutto sesto. I due piani dell'abitazione sono suddivisi da una linea marcapiano che, in corrispondenza dell'ingresso, forma un timpano che interrompe l'andamento orizzontale della linea medesima. Il cortile della Cavallerizza è ancora impostato su due ordini, ma le pareti rustiche vengono caratterizzate, nella parte superiore, da stravaganti semicolonne tortili.
Il rapporto tra natura (bugnato) e artificio (colonne), che in alcune opere di Giulio Romano si dissolve fino a fondere i due elementi in un'unica struttura parietale,
trova ulteriori esempi in alcuni palazzi veneti realizzati da Michele Sanmicheli, Andrea Palladio e Jacopo Sansovino. Al Sanmicheli si deve il Palazzo Pompei, costruito a
193
Verona nei primi decenni del XVI secolo. Lo schema della facciata, su due ordini, si
rifà al prospetto della Casa di Raffaello, progettata da Bramante (1508, oggi distrutta),
seppur con alcune importanti differenze tese ad accentuare, nel registro inferiore, i
pieni sui vuoti; invece, al secondo piano, in luogo delle finestre ideate da Bramante
nella Casa di Raffaello, Sanmicheli introdusse una loggia di grande forza espressiva.
Ancora del Sanmicheli è il Palazzo Canossa, innalzato sempre a Verona intorno
agli anni trenta del medesimo secolo, dove gli elementi rustici e quelli di artificio raggiungono una maggiore integrazione. Altra opera dell'architetto è il non distante Palazzo Bevilacqua, caratterizzato da un paramento rustico al piano terreno e da grandi
aperture ad arco nel registro superiore, che si alternano a finestre di dimensioni mino ri contenute nello spazio dell'intercolonnio.
Tra le opere di Palladio è opportuno ricordare i palazzi Thiene (1545 circa), Barbaran da Porto e Valmarana (1565), nel cui rapporto tra natura e artificio è possibile
cogliere la componente manieristica dello stile palladiano.
Tale componente emerge con maggior vigore nelle residenze suburbane erette
dall'architetto vicentino ed in particolare nella Villa Serego in Santa Sofia di Pedemonte e nella Villa Barbaro a Maser. La prima fu costruita intorno al 1565 e presenta
un cortile chiuso (almeno nel progetto originario) e colonne rustiche, realizzate con
blocchi di pietra calcarea appena sbozzati e sovrapposti a creare pile irregolari. Di alcuni anni più recente, la Villa Barbaro si inserisce lungo il leggero declivio di una collina. Se nella maggior parte delle ville palladiane la residenza vera e propria è spesso
preceduta dagli ambienti dedicati al lavoro agricolo, qui questo rapporto è invertito e
la casa padronale precede gli ambienti di lavoro; sul retro si apre una grande esedra,
che rimanda al ninfeo delle ville romane.
L'architettura civile offre ancora esempi importanti in alcuni palazzi veneziani, i
cui caratteri predominanti furono teorizzati da Sebastiano Serlio nei suoi Sette libri
dell’architettura. Nei disegni di Serlio, così come nelle realizzazioni di Sansovino, la
massa muraria delle facciata è alleggerita con grandi aperture, dove gli ordini architettonici non vengono utilizzati solo come oggetti decorativi, ma anche come elementi
portanti. A questa tipologia appartengono edifici come il Palazzo Corner (1532), progettato da Sansovino fondendo insieme lo schema fiorentino-romano (evidente nella
presenza del cortile interno) con quello veneziano (presenza di un salone centrale in
corrispondenza dell'atrio d'accesso, dal quale dipartono i vari ambienti interni). Inoltre, l'articolazione della facciata, in cui prevalgono i vuoti sui pieni, anticipa il disegno
della Libreria Marciana (1537), innalzata ancora dal Sansovino a delimitazione della
piazza a lato della basilica di San Marco. Infatti, il prospetto della Libreria Marciana è
disposto su due ordini: il primo si rifà al modello romano, con colonne che sostengono architravi e aperture a tutto sesto; il secondo, in cui è più evidente il gusto manierista, invece è costituito da serliane incorniciate da colonne che sostengono un fregio
riccamente ornato.
Sempre del Sansovino è il Palazzo della Zecca (1537 circa), costruito proprio in
aderenza alla suddetta libreria. Lo schema della facciata è innovativo: il portico al
pian terreno sorregge un loggiato formato da colonne inanellate, sovrastate da un
doppio architrave; l'ultimo piano, aggiunto successivamente su probabile progetto
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dello stesso architetto, riprende ancora il tema delle colonne incanalate, intervallate
da grandi finestre con timpani triangolari.
Tuttavia, le opere di artisti come Sansovino e Palladio difficilmente potrebbero
definirsi manieriste allo stesso modo di quelle realizzate dal citato Giulio Romano o
Michelangelo Buonarroti, i due principali esponenti della corrente. Nell'analisi dell'architettura di Michelangelo risultano particolarmente significative alcune fabbriche
fiorentine, come la Sagrestia Nuova (terminata nel 1534) e la Biblioteca Medicea Laurenziana (progettata nel 1523). Rispetto agli esempi precedenti, dove generalmente le
attenzioni del progettista si concentrano su pianta e superfici di facciata, la Sacrestia
Nuova di Firenze si presenta come un invaso ideato per ospitare sculture. Essa si in nalza presso la basilica di San Lorenzo ed è speculare rispetto alla Sagrestia Vecchia
progettata da Filippo Brunelleschi, della quale riprende la pianta. Michelangelo elaborò liberamente le forme adottate nella Sacrestia Vecchia, privandole però dell'armonia brunelleschiana. Ad esempio, sopra i portali d'accesso, realizzò trabeazioni rettilinee sostenute da grandi mensole, con nicchie poco profonde sovrastate da insoliti
timpani scavati nella parte inferiore.
Nella Biblioteca Laurenziana, costruita lungo il chiostro della medesima basilica,
dovette tener conto delle condizioni preesistenti. Il progetto fu risolto con la realizzazione di due ambienti adiacenti: l'atrio, di superficie ridotta e caratterizzato da un alto
soffitto, e la sala di lettura, posta su un piano più elevato. Le pareti dell'atrio sono
configurate come facciate di palazzo rivolte verso l'interno, con nicchie cieche e colonne incassate (al fine di rinforzare la parete); invece, la sala di lettura, raggiungibile per
mezzo di una scala che si espande verso il basso (eseguita da Bartolomeo Ammannati), è un ambiente più luminoso, di dimensioni verticali più contenute, ma molto più
esteso in lunghezza, così da ribaltare l'effetto spaziale.
Tornato a Roma, Michelangelo si occupò della ricostruzione della basilica di San
Pietro in Vaticano e della sistemazione di piazza del Campidoglio (1546). Per la basilica rifiutò il disegno di Antonio da Sangallo il Giovane e tornò all'originaria pianta
centralizzata, annullando però il perfetto equilibrio studiato da Bramante: per mezzo
di una facciata porticata diede una direzione principale all'intero edificio e poi, dopo
aver demolito parti già realizzate dai suoi predecessori, rafforzò ancora i pilastri a sostegno della cupola, allontanandoli dalle delicate proporzioni bramantesche.
Invece, nella piazza del Campidoglio, ancora una volta dovette tener conto degli
edifici preesistenti; pertanto, concepì uno spazio di forma trapezia, delimitato, verso il
Foro, dal Palazzo Senatorio e, lungo i lati inclinati, dal Palazzo Nuovo e da quello
speculare dei Conservatori. Una delle sue ultime opere fu la Porta Pia (1562), cui dedicò molti schizzi nei quali si rivelano forme complesse e particolari che furono d'ispirazione per diversi architetti manieristi.
Altri artisti toscani del Cinquecento produssero fabbriche di stampo manierista,
affidandosi soprattutto alla definizione delle opere di dettaglio; ne è un esempio la
scala esterna della Villa medicea di Artimino, di Bernardo Buontalenti. Invece, un
caso particolare è il Palazzo degli Uffizi, di Giorgio Vasari (1560), del quale, oltre alla
ricerca di dettagli e particolari, si segnala anche l'alta valenza urbanistica: infatti, il
complesso si inserisce tra Palazzo Vecchio e l'Arno fino a formare un corridoio chiu195
so, verso il fiume, mediante una serliana. I prospetti sono basati sulla ripetizione di
un modulo campata; ciononostante, è evidente come gli Uffizi non siano concepiti
solo come piani di facciate, ma anche in termini spaziali.
Una fusione tra temi classicisti e manieristi si avverte nell'architettura di Jacopo
Barozzi da Vignola, che nel 1550 realizzò una piccola chiesa romana lungo la via Flaminia (Sant'Andrea sulla via Flaminia), con una pianta ellittica contenuta all'interno
di un rettangolo. Nel 1551, sempre a Roma, costruì Villa Giulia, alla quale lavorarono
anche Michelangelo, Vasari e Bartolomeo Ammannati (quest'ultimo autore anche dell'ampliamento di Palazzo Pitti a Firenze); particolarità dell'edificio è il contrasto tra
l'esterno, di forme regolari, e l'interno, aperto verso il giardino, di forma semicircolare.
In seguito, nel 1558 il Vignola riprese un fortilizio iniziato da Antonio da Sangallo il Giovane alcuni decenni prima, trasformandolo in una delle più felici espressioni
della corrente manierista: il Palazzo Farnese, a Caprarola. L'esterno è a pianta pentagonale e ricalca il perimetro della fortezza originaria; all'interno invece si apre un cortile circolare, formato da due loggiati sovrapposti. Lungo il lato principale della villa
sono collocati due ambienti a pianta circolare, destinati rispettivamente ad ospitare
una scala a chiocciola ed una cappella, mentre all'esterno il complesso è preceduto da
una piazza di forma trapezia. L'ambiguità dell'edificio si gioca principalmente sul binomio fortezza-residenza; inoltre, mentre le superfici esterne appaiono piatte, perché
prive di aggetti rilevanti, il cortile interno sorprende per la sua forma e la sua profonda articolazione spaziale.
L'opera più celebre del Vignola resta comunque la chiesa del Gesù a Roma, cominciata nel 1568 e destinata ad "esercitare un'influenza forse più ampia di qualunque altra chiesa costruita negli ultimi quattrocento anni". Qui l'architetto fuse insieme
gli schemi centralizzati del Rinascimento con quelli longitudinali d'epoca medioevale.
Si tratta di uno schema non completamente nuovo alla cultura del tempo. Vignola,
nella concezione dello spazio interno si ispirò a Sant'Andrea, di Leon Battista Alberti,
ma senza conferire alle cappelle laterali l'autonomia rinascimentale della chiesa albertiana; la navata assunse maggiore importanza, mentre le cappelle furono ridotte a
semplici aperture laterali. La sfarzosa decorazione della chiesa risale all'epoca barocca
e più tarda è pure la facciata (1577), progettata da Giacomo Della Porta; la chiesa invece appartiene all'epoca manierista, cioè "manca dell'equilibrio proprio a tutto l'alto Rinascimento e dell'esplosiva energia del Barocco".
Francia
Il Manierismo italiano influenzò profondamente l'architettura dei castelli francesi, ma, inizialmente, si limitò al solo apparato decorativo. Ad esempio, tra il 1515 ed il
1524, Francesco I avviò il rinnovo e l'ampliamento del Castello di Blois, dove furono
realizzate finestre a croce (tipiche del Quattrocento italiano) e mansarde in stile manierista. La svettante copertura del castello rimanda ancora ai modelli medioevali e
alla tradizione francese, così come la struttura della scala esterna, che fu però decorata
secondo il gusto rinascimentale.
Sotto lo stesso Francesco I, a partire dal 1528, furono iniziati i lavori d'ampliamento del Castello di Fontainebleau, che portarono all'edificazione della Porte Dorée,
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dei corpi di fabbrica attorno alla Cour du Cheval Blanc e alla galleria d'unione tra un
preesistente torrione e le costruzioni della Cour du Cheval Blanc. La configurazione
della Porte Dorée, con le tre logge sovrapposte, rimanda al Palazzo Ducale d'Urbino,
ma più rinascimentale appare il fronte della Galleria di Francesco I. Qui, un portico
con pilastri rustici, formato dall'alternarsi di arcate maggiori e minori, sostiene i registri superiori, dove si aprono finestre regolari, poste in asse con le arcate maggiori, e,
più in alto, numerose finestre sormontate da timpani arcuati. Tuttavia, le coperture
fortemente inclinate si rifanno ancora alla tradizione francese.
Allo stesso modo, il Castello di Chambord presenta un netto contrasto tra corpi
di fabbrica e coperture. Esso fu realizzato tra il 1519 ed il 1547 da Domenico da Corto na, un architetto italiano formatosi sotto la guida di Giuliano da Sangallo. Il complesso, interamente circondato da un fossato, è di forma rettangolare, con quattro torrioni
circolari agli angoli, una vasta corte centrale e, lungo il lato maggiore, un dongione di
forma quadrata, ancora delimitato da quattro torri a pianta circolare. Il dongione costituisce il cuore dell'intero castello ed è servito da una scala circolare a doppia spirale, ispirata ad un'idea di Leonardo da Vinci, in modo tale che chi scende non incontra
chi sale.
Un altro italiano, il citato Sebastiano Serlio, prestò la sua opera nel Castello di
Ancy-le-Franc, dove introdusse, attorno ad un cortile a pianta quadrata, dei corpi di
fabbrica chiusi, su ogni angolo, da torri anch'esse a pianta quadrata. Questo modello,
ispirato ad un palazzo napoletano di Giuliano da Maiano (la Villa di Poggioreale,
oggi scomparsa), ebbe notevole fortuna nelle residenze suburbane; si tratta di uno
schema certamente non ideato da Serlio, ma che l'architetto contribuì ad affermare,
anche grazie all'ampia divulgazione del suo trattato. I fronti interni del cortile riprendono il tema delle nicchie e dei pilastri binati già adottati da Bramante nel Belvedere
in Vaticano.
A questo schema è riconducibile la Cour Carrée del Louvre, voluta da Francesco
I in luogo del preesistente castello medioevale. I lavori, affidati a Pierre Lescot, furono
avviati nel 1546; il progetto iniziale prevedeva la realizzazione di un edificio su due
piani, al quale fu aggiunto un attico nel corso della costruzione. Il registro inferiore è
scandito da un duplice sistema di archi e architravi; il piano superiore è articolato per
mezzo di colonne e finestre con timpani triangolari e arcuati alternati; l'attico è arricchito da decorazioni di Jean Goujon che conferiscono alla Cour Carrée un'impronta
decisamente manierista.
Spagna
La Spagna volse al manierismo con il palazzo di Carlo V nell'Alhambra di Granada (1526). Progettato da Pedro Machuca, fu portato avanti da suo figlio Luis fino al
1568, malgrado in origine fossero stati interpellati Andrea Palladio, Galeazzo Alessi,
Pellegrino Tibaldi e Vignola. La pianta è un quadrato di circa 60 metri di lato, con un
angolo smussato; al centro si inserisce un vasto cortile circolare, definito da colonnati
su due ordini, che anticipa la soluzione del Vignola per il Palazzo Farnese e, al contempo, si rifà alla corte, mai terminata, della Villa Madama di Raffaello Sanzio. Anche
l'esterno, con pilastri inseriti nel bugnato rustico, richiama lo stile italiano, in particolare la Casa di Raffaello (Palazzo Caprini) progettata da Bramante.
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Più imponente è il Monastero dell'Escorial, a Madrid, voluto da Filippo II di Spagna e costruito tra il 1563 ed il 1584 da Juan Bautista de Toledo e da Juan de Herrera.
La pianta si collega a quella eseguita da Filarete per l'Ospedale Maggiore di Milano
(oggi sede dell'Università degli Studi di Milano): è costituita da un rettangolo di circa
200 metri per 160, con alcuni grandi cortili ed una chiesa, ispirata al San Pietro di Bramante, che si innalza sul fondo della corte centrale. All'esterno, dove si levano quattro
torrioni angolari, l'architettura del monastero è piuttosto spoglia, mentre l'interno
presenta una volumetria molto più articolata, con la cupola, il corpo della chiesa, le
torri in facciata e l'incrocio delle coperture a doppia falda.
Peraltro, al modello del Filarete è riconducibile anche l'Hospital Real di Santiago
de Compostela (1501), che con la sua pianta cruciforme si ispira proprio all'Ospedale
Maggiore e al chiostro bramantesco di Sant'Ambrogio.
Inghilterra
Verso la fine del XVI secolo in Inghilterra furono innalzate diverse dimore di
campagna, in uno stile più mirante all'"ordine" che alle "licenze". Tra queste occorre
citare la Longleat House, la Wollaton Hall e la Hardwick Hall.
La prima fu innalzata tra il 1572 ed il 1580 nel Wiltshire; è caratterizzata da grandi aperture rettangolari e da avancorpi simili a bow window, mentre l'elemento più
rinascimentale è rappresentato dal portale d'accesso.
Sempre nel 1580 iniziarono i lavori della Wollaton Hall, nel Nottinghamshire. La
pianta riprende lo schema del quadrato affiancato da torri angolari; nella parte centrale della costruzione emerge un torrione con ulteriori quattro torrini circolari ai lati.
Così come nella Longleat House, ancora grandi vetrate segnano i prospetti della
Hardwick Hall, nel Derbyshire (1590-1596). La pianta è riconducibile ad un rettangolo
con torri angolari e bow window; la sommità dell'edificio, così come nelle precedenti
residenze, è delimitata da una balaustra.
L'influenza italiana, ed in particolare palladiana, è più evidente nelle opere di
Inigo Jones, dove gli elementi che si rifanno al manierismo (frontoni frastagliati, cornicioni dai profili complessi, lapidi e pannelli decorati ecc.) assumono un ruolo secondario rispetto alla ricerca di un'architettura "solida, dimensionabile secondo le regole,
virile, priva di affettazioni".
La sua prima opera importante fu la Queen's House di Greenwich. La pianta è
ad "H", forse ispirata alla Villa medicea di Poggio a Caiano, con ampie finestre regolari ed un loggiato posto al centro di un lato lungo, al quale si contrappone, sul fronte
opposto, una stanza cubica di quaranta piedi.
Strettamente collegata alla Queen's House è la Banqueting House, iniziata da Jones nel 1622. Pensata secondo il modulo di un doppio cubo, inizialmente era dotata di
un'abside, poi demolita. Il prospetto esterno, chiuso da un fregio riccamente decorato,
è costituito da due ordini sovrapposti in bugnato liscio, con colonne e lesene che inquadrano le aperture rettangolari, secondo uno stile che si rifà ai modelli palladiani.
Il principio di impostare edifici secondo spazi regolari, in cui peraltro emerge
uno stretto rapporto tra configurazione interna ed esterna, si riscontra anche in altre
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fabbriche di Inigo Jones: ad esempio, riconducibile alla modularità del doppio cubo è
la Queen's Chapel (1623), mentre la pianta della chiesa del Covent Garden (1631) è
ancora impostata su un doppio quadrato.
Altri Paesi
In Belgio una delle opere più significative è da ricercare nel Municipio di Anversa, che Cornelis Floris de Vriendt edificò tra il 1561 ed il 1566. Il palazzo si trova ai
margini di una vasta piazza dove affacciano fabbricati tardo-gotici con dettagli rinascimentali e barocchi; nonostante la presenza di un avancorpo centrale d'uso nordico,
l'edificio deriva da Bramante e Serlio. La facciata, traforata da grandi aperture, è impostata su quattro ordini delimitati da cornici marcapiano; l'avancorpo, con archi a
tutto sesto, è ornato mediante colonne binate e nicchie.
Questo modello fu importato in diverse regioni europee, a cominciare da Olanda
e Germania. Ad esempio, tra il 1615 ed il 1620, Elias Holl realizzò il Palazzo Comunale di Augusta, con avancorpo centrale chiuso da un timpano modanato; ai lati del piano di copertura si innalzano due torri a pianta quadrata, sulle quali si innestano due
volumi poligonali con cupole a bulbo.
Invece, nell'architettura religiosa tedesca, una delle prime chiese legate alla Controriforma fu la Michaelskirche di Monaco di Baviera, eretta dal 1585 su modello della
chiesa del Gesù di Roma. Caratterizzata da una facciata manierista, l'interno sorprende per l'ampia volta a botte che copre la navata centrale; come nella basilica romana,
anche qui le cappelle laterali affacciano direttamente lungo la navata mediante una
serie di arcate, ma gli ambienti che ne risultano, rispetto al modello del Vignola, mostrano una maggiore integrazione con la navata centrale.
Arte della Controriforma
Per arte della controriforma si intende quella parte di arte europea della seconda
metà del XVI secolo che è più fortemente influenzata dagli indirizzi teorici sull'arte a
seguito del Concilio di Trento.
Quadro storico
Spinte verso una riforma della Chiesa e della sua organizzazione si ebbero già tra
la fine del XV e l'inizio del XVI secolo, soprattutto con la predicazione di Gerolamo
Savonarola. A metà del XVI secolo le divisioni all'interno dell'ortodossia romana erano divenute incolmabili, il movimento che iniziò come una accesa protesta contro il
degrado morale della corte papale e di tutta la gerarchia ecclesiastica culminò nell'organizzazione di una chiesa parallela. Per controbattere ed arginare il diffondersi della
Riforma protestante nacque la volontà di ridefinire il ruolo della Chiesa. Le 95 tesi di
Lutero, lo scandalo della vendita delle indulgenze promossa da papa Giulio II e da
papa Leone X, le riflessioni di Erasmo da Rotterdam, i precari equilibri politici negli
stati ancora feudali del nord Europa, la pressione turca a oriente, tutte queste ed altre
ancora furono le cause di quello sfogo dei nervosismi internazionali che fu il Sacco di
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Roma del 1527. Il ruolo della Chiesa come mediatrice super-partes tra Dio e l'uomo
era definitivamente messo in dubbio, l'intoccabilità stessa della figura del papa era ormai un ricordo lontano. È con papa Paolo III Farnese (1534-1549) che si iniziò a pensare ad un cambiamento, egli promosse a cardinali dei prelati notoriamente riformatori,
come Gasparo Contarini e Reginald Pole. Inoltre i nuovi ordini diventano uno dei baluardi dell'ortodossia: nel 1540 il papa conferma la Compagnia di Gesù. Ad avversare
Pole e i riformatori sarà l'intransigenza del potentissimo cardinale Gian Pietro Carafa,
il campione dei conservatori romani. Quando nel 1542 viene ripristinato il Tribunale
dell'Inquisizione sarà una commissione guidata da Carafa ad esserne al vertice. Nel
1543 si ripristina la censura contro le opere considerate contrarie alla dottrina cattolica. Nel 1545 Paolo III convoca, con il beneplacito dell'imperatore Carlo V, il Concilio
di Trento. In questo clima il ruolo delle immagini viene ripensato, ed è quindi logico
che, pur non essendoci delle direttive specifiche in materia emanate dal Concilio, alla
chiusura delle sedute nel 1563 gli artisti sentirono sulle loro spalle una responsabilità
enorme, il dovere di emendare una delle cause scatenanti della Riforma protestante,
la licenziosità e il lusso delle loro opere.
La questione delle immagini sacre
Calvino e Zwingli sono intransigenti verso le immagini e qualunque orpello di
cui la Chiesa si veste, Andrea Carlostadio è, tra i predicatori tedeschi, il più duro ver so quelli che definisce idoli di pittura. Anche Erasmo da Rotterdam aveva notato, nel
suo Elogio della follia (1511) che le immagini sacre alimentavano un rito pagano della
venerazione dei Santi. In molte città tedesche, inglesi, francesi, svizzere, si passa quindi all'atto pratico della distruzione in una massiccia campagna iconoclasta, proprio
come, anni prima, Savonarola fece a Firenze. Ma il principale protagonista della Riforma protestante, Lutero, è in disaccordo con questo intransigente movimento iconoclasta e la sua posizione si avvicina a quella che assumerà la Chiesa cattolica nelle ultime sedute del Concilio nel 1563: la funzione didattica che la tradizione cattolica ha
da sempre attribuito alle immagini è essenziale per la crescita della fede tra gli incolti,
insomma, le arti figurative sono o devono essere la Biblia pauperum, la bibbia dei poveri analfabeti, già legittimata da Gregorio Magno nel VI secolo.
De invocatione, veneratione et reliquis sanctorum et sacris imaginibus
In questo decreto la Chiesa romana introduce il controllo delle opere da parte
delle autorità religiose locali. Le opere devono essere vagliate con attenzione e in esse
vi deve essere chiarezza, verità, aderenza alle scritture. La piena leggibilità, il decoro,
devono essere caratteristiche imprescindibili; le deformazioni, i lussi e i viluppi e le
disinvolture del Manierismo sono condannati senza appello. Ma il decreto non pone
delle regole ferree, non mette confini espliciti, si affida al controllo delle gerarchie locali. Nascono dei trattati che tentano di codificare queste norme: le Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae (1577) di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano,
e il Discorso intorno le immagini sacre e profane (1582) dell'arcivescovo di Bologna
Gabriele Paleotti sono i più importanti. Eppure né i decreti conciliari né i trattati ebbero un impatto significativo sulle scelte stilistiche degli artisti. Esemplare l'episodio di
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Botticelli svoltosi ai tempi del Savonarola. L'artista venne influenzato direttamente
dalle prediche del frate e decise, di sua spontanea volontà, di non dipingere più soggetti profani e licenziosi e di gettare nel fuoco le sue opere più scabrose. Anche alcuni
artisti che videro il Sacco di Roma, come Sebastiano del Piombo, che credette l'invasione dei Lanzichenecchi una punizione divina, cambiarono il loro modo di dipingere. Anche questa volta, più che le indicazioni venute da terzi, in molti casi inesperti
delle cose artistiche, è il clima stesso che influenza gli artisti.
Il Giudizio Universale di Michelangelo
Dipinto tra il 1536 e il 1541 il Giudizio Universale della Sistina rappresentava in
pieno il profondo sentimento religioso di Michelangelo e della cerchia intellettuale di
Contarini e Pole: qui 400 figure in pose diverse sono accomunate dalla nudità, l'immenso dramma universale che esprime è messo in luce dalla semplicità dell'impianto,
dalla mancanza di costruzioni retoriche, dalla nudità stessa. L'affresco, pregno di citazioni letterarie e figurative, venne poco compreso. Un documento conciliare del 21
gennaio 1564 decreta che «le pitture nella cappella apostolica vengano coperte, nelle
altre chiese vengano invece distrutte qualora mostrino qualcosa di osceno o di patentemente falso.» A nemmeno un anno dalla morte del maestro uno dei suoi seguaci,
Daniele da Volterra, viene incaricato di velare con delle braghe a secco le vergogne
dei personaggi del Giudizio e di rifare a fresco la figura scabrosa di San Biagio, accovacciato impudicamente su Santa Caterina d'Alessandria.
Anche Paolo Veronese subirà un processo per la sua Ultima cena dipinta nel
1573. Il dipinto venne accusato dall'Inquisizione di essere troppo affollato di figure
poco consone alla scena sacra, e si accusa il pittore di aver inserito questi personaggi
per svilire il senso mistico dell'episodio. Il processo scagionerà però Paolo, che sarà
comunque condannato a correggere et emandare l'opera cambiandone il titolo con La
cena in casa Levi.
Pittura
Principali pittori di questa fase sono:
•
Federico Barocci
•
Antonio Campi
•
Luca Cambiaso
•
Simone Peterzano
•
Scipione Pulzone
•
Marcello Venusti
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Bartolomeo Cesi
•
Ludovico Carracci
•
Il Cerano
201
•
Jacopo Barozzi da Vignola
•
Tanzio da Varallo
•
Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone
•
Camillo Procaccini
•
Giulio Cesare Procaccini
Architettura
Due sono le chiese che diventano modelli per tutte le nuove edificazioni: a Roma
la Chiesa del Gesù la cui pianta nacque dall'idea di Giovanni Tristano e da Jacopo Barozzi detto il Vignola mentre la progettazione della facciata fu assegnata a Giacomo
della Porta, voluta già nel 1550 da Ignazio di Loyola e dal generale dei gesuiti France sco Borgia, ma portata a termine solo grazie all'intervento e al finanziamento del potente cardinale Alessandro Farnese dal 1568 al 1584. L'altra è San Fedele a Milano,
nata sotto il vigile controllo di Carlo Borromeo, con progetto dell'architetto bolognese
Pellegrino Tibaldi, realizzata dal 1569.
Classicismo
Il Classicismo in campo artistico ed estetico è un atteggiamento culturale consistente nell'attribuire un valore esemplare ai modelli di arte dell'antichità classica. Indica la tendenza ad una concezione universale e immutevole della bellezza ideale,
espressa tramite l'ordine, l'armonia, l'equilibrio, la proporzione da alcune opere a cui
viene assegnato un ruolo normativo ed esemplare.
Da questo punto di vista il classicismo è presente praticamente in ogni tempo ed
in ogni cultura, parallelamente all'idea, anch'essa universale, di un'arte scevra da modelli, da regole e da una definizione del bello precostituiti. Talvolta è possibile che i
sostenitori di un modello artistico piuttosto che dell'altro, cerchino di far coincidere la
dicotomia fra classicismo e anticlassicismo con quella fra il "bello" ed il "brutto" artistico.
Il classicismo in senso stretto nasce nell'ambiente umanistico del XV secolo, si
impose nel Rinascimento italiano, si diffuse nel Seicento in tutta Europa e sfociò nel
movimento di contrapposizione al Romanticismo.
Cenni storici
L'origine del classicismo va posta intorno al 450 a.C., quando nella scultura gli
artisti raggiunsero un compromesso tra la simbolizzazione della figura religiosa e la
verosimiglianza del mondo della natura e del reale.
Se Cicerone già nel I secolo a.C. descrisse le statue di Fidia come esemplari di
bellezza, spettò ad Orazio sostenere nell'Ars poetica l'ideale dell'imitazione della na202
tura, che diverrà poi la base razionalistica del classicismo diffusosi dal rinascimentale
in avanti.
Durante il periodo di Adriano si costituirono alcuni elementi fondamentali del
classicismo, come il perseguimento di uno stile che comporti un equilibrio fra contenuto e forma, fra immaginazione e ragione, oltre allo scavalcamento del soggettivismo nell'atto creativo e l'imitazione delle opere modello del passato.
Se già nell'arte carolingia (cappella Palatina di Aquisgrana), in quella romanica,
gotica e duecentesca (Arnolfo nella scultura e Giotto nella pittura) si rintracceranno
elementi classici, soltanto dal XV secolo in poi il gusto dell'imitazione dell'antico apparve predominante nei lavori di alcuni artisti, i quali ricercavano lo spirito e le nor me estetiche che conducessero ai capolavori del passato. Tra gli artisti più noti che si
misero in evidenza sia con le opere sia con gli scritti, si possono citare Donatello, Masaccio, Mantegna, Bramante, mentre in Leonardo, Michelangelo e Correggio furono
presenti caratteri sia classici che anticlassici. Per quanto riguarda l'architettura Brunelleschi e Leon Battista Alberti diedero un forte impulso al classicismo nel corso del
sec XV, grazie all'invenzione della prospettiva il primo ed al rispetto delle regole vitruviane di proporzione e armonia da parte di entrambi, per arrivare nel secolo successivo al Palladio e la sua Teoria delle proporzioni architettoniche.
Il rigido opporsi alla libertà artistica imposto dalla Controriforma influenzò sia
l'ultima fase del manierismo del Cinquecento sia le tendenze seicentesche, basti pensare a Giulio Romano e ai fratelli Agostino e Annibale Carracci con il loro invito ad
ispirarsi non solo ai maestri del Cinquecento ma anche ai grandi artisti dell'ellenismo.
Le scuole del classicismo di maggiore diffusione furono, nella seconda metà del XVI
secolo, quella di Roma e di Bologna.
I pittori classicisti si ispiravano alle opere di Michelangelo e soprattutto ai grandiosi affreschi dell'ultimo periodo di Raffaello, come le Stanze Vaticane. Lo stile classicista del XVI secolo si distinse, tra gli altri elementi, per il senso del movimento e del
volume dei corpi, similmente e parallelamente al manierismo, ma con toni più solenni.
Spesso viene posto in contrapposizione al realismo caravaggesco, che rifiutava
l'imitazione proponendo invece nuovi approcci innovativi.
Nel Seicento il classicismo si propagò anche nel resto dell'Europa, in Francia grazie alle opere ed i trattati di Nicolas Poussin e Le Lorrain, a lungo soggiornanti in Italia. I due artisti innalzarono a tal punto il paesaggio arcadico da far divenire il classicismo l'arte ufficiale nel loro Paese ai tempi di Luigi XIV.
In Inghilterra gli architetti del Seicento e del Settecento, come Inigo Jones e Lord
Burlington, si ispirarono soprattutto a Palladio.
Da non confondere il classicismo con il neoclassicismo, movimento artistico cronologicamente confinabile entro la seconda metà del XVIII secolo.
203
Michelangelo Merisi da Caravaggio
Michelangelo Merisi, noto come Michelangelo Merisi da Caravaggio o più comunemente come il Caravaggio, (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio
1610), è stato un pittore italiano. Formatosi tra Milano e Venezia ed attivo a Roma,
Napoli, Malta e in Sicilia fra il 1593 e il 1610, è uno dei più celebri pittori italiani di
tutti i tempi, dalla fama universale. I suoi dipinti, che combinano un'analisi dello stato
umano, sia fisico che emotivo, con un drammatico uso della luce, hanno avuto una
forte influenza formativa sulla pittura barocca.
Di animo particolarmente irrequieto, affrontò diverse vicissitudini durante la sua
breve esistenza. Data cruciale per l'arte e la vita di Merisi fu quella del 28 maggio 1606
quando, rendendosi responsabile di un omicidio e condannato a morte per lo stesso,
dovette vivere gli anni successivi in costante fuga per scampare alla pena capitale.
Il suo stile influenzò direttamente o indirettamente la pittura dei secoli successivi
costituendo un filone di seguaci racchiusi nella corrente del caravaggismo.
Biografia
La giovinezza e la formazione (1571-1595)
Nacque a Milano probabilmente il 29 settembre 1571, dai genitori Fermo Merisi e
Lucia Aratori, originari di Caravaggio, un piccolo centro della bergamasca dove si
erano sposati nel precedente gennaio. Fu battezzato il giorno dopo nella basilica di
Santo Stefano Maggiore, nel quartiere milanese dove alloggiavano le maestranze della fabbrica del duomo delle quali faceva probabilmente parte anche il padre di Michelangelo, di mestiere mastro muratore. Suo padrino di battesimo fu il patrizio milanese
Francesco Sessa.
Nel 1577 a causa della peste, la famiglia Merisi lascia Milano e si trasferisce a Caravaggio per sfuggire all'epidemia, ma qui muoiono il padre e i nonni del pittore. Nel
1584 la vedova e i suoi quattro figli tornano nel capoluogo lombardo dove il tredicenne Michelangelo viene accolto nella bottega di Simone Peterzano, pittore di successo,
tardomanierista di scuola veneta: «il contratto di apprendistato lo firma la madre, il 6
aprile 1584: per poco più di quaranta scudi d'oro [...] Va dietro il maestro ad affrescare, nella chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore, in quella di San Barnaba».
L'apprendistato del giovane pittore si protrasse per circa quattro anni, durante i
quali apprese la lezione dei maestri della scuola lombarda e veneta. Giulio Mancini,
uno dei suoi biografi, nelle "Considerazioni sulla pittura" del 1621, racconta dell'infanzia di Caravaggio, sottolineando il forte carattere dell'artista già in quei primi anni:
«Studiò in fanciullezza per quattro o cinque anni in Milano, con diligenza ancorché di
quando in quando, facesse qualche stravaganza causata da quel calore e spirito così
grande».
Il seguito dell’apprendistato di Caravaggio e, in particolare, gli anni che vanno
dal 1588, anno di scadenza del contratto con Peterzano, al 1592, anno del trasferimento a Roma, resta piuttosto nebuloso. Da qui la difficile individuazione delle fonti che
hanno influenzato la sua pittura. Secondo taluni il giovane pittore abbandonò in que204
gli anni Milano per trasferirsi a Venezia e conoscere da vicino l'opera dei grandi maestri del colore: Giorgione, Tiziano e Tintoretto. Secondo il Longhi – in alternativa alla
tesi “veneta” – di capitale importanza per lo sviluppo del futuro stile di Caravaggio
sarebbe stata la riflessione giovanile sull’opera di alcuni maestri lombardi, soprattutto
di area bresciana, quali Foppa, Bergognone, Savoldo, Moretto e Il Romanino (che
Longhi definisce precaravaggeschi). Questi maestri avrebbero quindi posto le basi di
quelli che saranno i capisaldi dell’arte del Merisi. A questa scuola, il cui capostipite è
individuato dal Longhi in Foppa, si dovrebbero infatti l’avvio della rivoluzione luministica e la caratterizzazione naturalistica (contrapposta a certa aulicità rinascimentale) dei soggetti dipinti. Elementi centrali della pittura di Caravaggio.
Nel 1592 Caravaggio si trasferisce a Roma e ha rapporti, più o meno fugaci, con
diversi pittori locali. Prima presso la bottega di un pittore siciliano, Lorenzo Carli ,
autore di opere destinate alle fasce più modeste del mercato, poi ha un breve sodalizio con Antiveduto Gramatica e, infine, frequenta per alcuni mesi la bottega di Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino. Successivamente per una malattia viene ricoverato presso l'ospedale della Consolazione e a causa di questo evento interrompe il
rapporto con il Cesari. Durante queste esperienze probabilmente Caravaggio venne
impiegato come esecutore di nature morte e come realizzatore di parti decorative di
opere più complesse, ma in merito non si ha nessuna testimonianza certa. Un'ipotesi,
priva in ogni caso di riscontro documentale, è che Caravaggio possa aver realizzato i
festoni decorativi della cappella Olgiati, nella basilica di Santa Prassede a Roma, cappella affrescata dal cavalier d’Arpino.
I successi degli anni romani (1595-1606)
L'amicizia con il cardinal Del Monte
Grazie a Prospero Orsi (meglio noto come Prosperino delle Grottesche), pittore
con il quale strinse una forte amicizia, Merisi nel 1595 conobbe il suo primo protettore: il cardinal Francesco Maria Del Monte, grandissimo uomo di cultura ed appassionato d'arte che, incantato dalla sua pittura, acquistò alcuni dei suoi quadri; il giovane
lombardo entrò così al suo servizio rimanendovi per circa tre anni. Del Monte secondo Bellori: «ridusse in buono stato Michele e lo sollevò dandogli luogo onorato in
casa fra i gentiluomini».
La fama dell'artista grazie al suo importante committente cominciò a decollare
all'interno dei più importanti salotti dell'alta nobiltà romana. L'ambiente fu scosso
dalla sua rivoluzionaria pittura che si pose immediatamente al centro di forti discussioni ed accese polemiche. Grazie alle commissioni e ai consigli dell'influente ed illuminato prelato, Caravaggio mutò il suo stile abbandonando le tele di piccole dimensioni ed i singoli ritratti e cominciando a dedicarsi alla realizzazione di opere complesse con gruppi di più personaggi che interagiscono tra loro, descrivendo all'interno di un'ambientazione un episodio specifico. Uno dei primi lavori di questo periodo
è il Riposo durante la fuga in Egitto.
Nel giro di pochi anni la sua fama crebbe in maniera esponenziale, Caravaggio
divenne un mito vivente per un'intera generazione di pittori che ne esaltavano lo stile
e le tematiche.
205
Le prime commissioni importanti
Nel 1599 Caravaggio, grazie all'aiuto del cardinal Francesco Maria Del Monte, ricevette la prima commissione pubblica per tre grandi tele da collocare all'interno della cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. I dipinti che Caravaggio doveva realizzare riguardavano degli episodi tratti dalla vita di san Matteo:
la Vocazione ed il Martirio.
In meno di un anno il pittore concluse le due opere e tale fu il successo di questi
due dipinti che Caravaggio ebbe immediatamente un altro importante incarico per la
basilica di Santa Maria del Popolo. Per ordine del monsignor Tiberio Cerasi, che aveva acquistato una cappella della chiesa romana, gli vennero commissionati due dipinti: la Crocefissione di san Pietro e la Conversione di san Paolo. Contemporaneamente
gli fu chiesta la realizzazione di una terza tela per la chiesa di San Luigi dei Francesi:
San Matteo e l'angelo. Il pittore, nonostante conoscesse bene il gusto estetico dei suoi
committenti, scelse dei soggetti popolari, che esprimessero in una dimensione reale e
drammatica lo svolgersi degli eventi, rappresentando così i valori spirituali della corrente pauperista all'interno della chiesa cattolica.
La prima versione del San Matteo e l'angelo, distrutta in Germania durante la seconda guerra mondiale, fu però rifiutata e poi sostituita con quella ancora in loco dipinta nel 1602. La stessa sorte toccò ai due quadri per la cappella Cerasi di basilica di
Santa Maria del Popolo, che dopo esser stati rifiutati vennero comprati dal cardinal
Giacomo Sannesio.
La descrizione da parte di Bellori dell'episodio del rifiuto della pala di San Matteo e l'angelo, fa da introduzione ad un altro importante protettore di Caravaggio:
« Qui avvenne cosa, che pose in grandissimo disturbo, e quasi fece disperare Caravaggio in riguardo della riputazione; poiché avendo egli terminato il quadro di
mezzo di San Matteo e postolo sù l'altare, fu tolto via dai Preti, con dire che quella figura non aveva decoro, né aspetto di santo, stando à sedere con le gambe incavalcate,
e co' piedi rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto
nella prima opera da esso pubblicata in chiesa, quando il Marchese Vincenzo Giustiniani si mosse à favorirlo, e liberollo da questa pena; poiché interpostosi con quei Sacerdoti, si prese per sé il quadro, e glie ne fece fare un altro diverso, che è quello che si
vede ora sul'altare. »
marchese Giustiniani era un ricco banchiere genovese nell'orbita della corte pontificia (oltre che vicino di casa del cardinal Del Monte, visto che aveva sede in palazzo
Giustiniani a Roma con il fratello cardinal Benedetto Giustiniani) e fu protettore di
Caravaggio per molti anni; collezionò moltissime delle sue opere e contribuì moltissimo alla formazione culturale del pittore. In più di un'occasione, grazie alle sue ramificate influenze, riuscì a salvare l'artista dalle gravose questioni legali nelle quali era
spesso implicato per colpa della sua indole aggressiva.
I guai con la legge
Durante il suo soggiorno presso palazzo Madama, dimora del cardinal Del Monte, Merisi si rese protagonista di un episodio spiacevole il 28 novembre del 1600: malmenò e percosse con un bastone Girolamo Stampa da Montepulciano, un nobile che si
206
trovava come ospite del prelato: ne conseguì una denuncia. In seguito gli episodi di
risse, violenze e schiamazzi andarono via via aumentando; spesso il pittore venne arrestato e condotto presso le carceri di Tor di Nona.
Non sarebbe comunque stato il primo guaio con la legge per il turbolento artista.
Giovanni Pietro Bellori (uno dei suoi primi biografi) sostiene che, intorno al 15901592, Caravaggio, già distintosi per risse tra bande di giovinastri, avrebbe commesso
un omicidio a causa del quale era fuggito da Milano prima per Venezia (dove studiò
la pittura locale, in particolar modo Giorgione) e poi per Roma. Il suo trasferimento
nella città papale non sarebbe stato, dunque, una meta prefissata, ma la conseguenza
di una fuga.
Nel 1602 dipinge la Cattura di Cristo e Amor vincit omnia. Nel 1603 fu processato per la diffamazione di un altro pittore, Giovanni Baglione, che querelò sia Caravaggio sia i suoi seguaci Orazio Gentileschi e Onorio Longhi, colpevoli di aver scritto
rime offensive nei suoi confronti. Grazie all'intervento dell'ambasciatore francese, Merisi, condannato al processo, venne liberato e trasferito agli arresti domiciliari, seppur
per poco (in precedenza, aveva scontato già un mese di carcere a Tor di Nona).
Tra il maggio e l'ottobre del 1604 il pittore fu arrestato varie volte per possesso
d'armi abusivo e ingiurie alle guardie cittadine; inoltre, fu querelato da un garzone
d'osteria per avergli tirato in faccia un piatto di carciofi.
Nel 1605 fu costretto a scappare a Genova per circa tre settimane, dopo aver ferito gravemente un notaio, Mariano Pasqualone da Accumuli, a causa di una donna:
Lena, l'amante di Caravaggio. L'intervento dei protettori dell'artista riuscì ad insabbiare l'accaduto anche se, al ritorno a Roma, il pittore venne querelato da Prudenzia
Bruni, sua padrona di casa, per non aver pagato l'affitto; per ripicca, Merisi prese nottetempo a sassate la sua finestra, finendo nuovamente querelato. Nel novembre dello
stesso anno, il pittore risulta degente per una ferita, che dice di essersi procurato da
solo, cadendo sulla propria spada.
Il fatto più grave però si svolse a Campo Marzio, la sera del 28 maggio 1606: a
causa di una discussione causata da un fallo nel gioco della pallacorda (una sorta di
tennis) il pittore venne ferito e, a sua volta, ferì mortalmente il rivale, Ranuccio Tomassoni da Terni, con il quale aveva avuto già in precedenza delle discussioni spesso
sfociate in risse. Anche questa volta c'era di mezzo una donna, Fillide Melandroni, le
cui grazie erano contese da entrambi. Probabilmente dietro l'assassinio di Ranuccio
c'erano anche questioni economiche, forse qualche debito di gioco non pagato dal pittore o addirittura politiche: la famiglia Tomassoni infatti era notoriamente filo-spagnola, mentre Michelangelo Merisi era un protetto dell'ambasciatore di Francia.
Il verdetto del processo per il delitto di Campo Marzio fu severissimo: Caravaggio venne condannato alla decapitazione, che poteva esser eseguita da chiunque lo
avesse riconosciuto per la strada. In seguito alla condanna, nei dipinti dell'artista lombardo cominciarono ossessivamente a comparire personaggi giustiziati con la testa
mozzata, dove il suo macabro autoritratto prendeva spesso il posto del condannato.
La fuga da Roma
La permanenza in città non era più possibile: ad aiutare Caravaggio a fuggire da
207
Roma fu dunque il principe Filippo I Colonna che gli offrì asilo all'interno di uno dei
suoi feudi laziali di Marino, Palestrina, Zagarolo e Paliano. Il nobile romano mise in
atto una serie di depistaggi, grazie anche agli altri componenti della sua famiglia che
testimoniarono la presenza del pittore in altre città italiane, facendo così perdere le
tracce del famoso artista.
Per i Colonna Caravaggio eseguì in quel periodo diversi dipinti, su tutti la Cena
in Emmaus, nella scarna versione che oggi è a Brera.
Gli ultimi anni della sua vita (1606-1610)
Il periodo napoletano
Alla fine del 1606 Caravaggio giunse a Napoli, nei quartieri spagnoli, dove rimase per circa un anno.
La fama del pittore era ben nota a tutti nella città partenopea. I Colonna lo raccomandarono ad un ramo collaterale della famiglia: i Carafa-Colonna, importanti membri dell'aristocrazia napoletana. Qui i Merisi visse un periodo felice e prolifico per
quanto riguarda le commissioni. Furono infatti eseguiti: la Giuditta che decapita Oloferne (1607), scomparsa e pervenuta ai tempi moderni tramite copia acquistata dal
banco di Napoli; la Sacra famiglia con san Giovanni Battista (1607), appartenente alla
collezione privata Clara-Otello Silva a Caracas; una prima versione della Flagellazione di Cristo (1607), conservata presso il musée des beaux arts di Rouen; il Salomè con
la testa del Battista (1607), al National Gallery di Londra; la prima versione di Davide
con la testa di Golia (1607), al Kunsthistorisches Museum di Vienna; la Crocifissione
di sant'Andrea (1607), presso il Cleveland Museum of Art ed infine, la più importante, ad opera della famiglia Carafa-Colonna, la Madonna del Rosario (1606-1607), la cui
composizione avvenne per essere ospitata probabilmente nella cappella di famiglia
della chiesa di San Domenico Maggiore. Un anno e mezzo dopo la sua esecuzione, il
dipinto fu venduto a dei mercanti e portato in Belgio prima ed a Vienna poi, dove si
trova tuttora.
Dei molti dipinti eseguiti durante l'anno napoletano, solo due di questi però trovarono sede definitiva in città.
Uno fu il suggestivo, ed uno dei suoi lavori più importanti, Sette opere di misericordia (1606-1607). La tela si rivelerà cardine per la pittura in Italia Meridionale e per
la pittura italiana in generale, la cui composizione, rispetto alle pitture romane, è più
drammatica e concitata non vedendo più esistere un fulcro centrale dell'azione. Questo aspetto sarà di grande stimolo per la pittura barocca partenopea successiva ed il
passaggio di Merisi in città darà luogo alla nascita di molti esponenti caravaggeschi e
di pittori locali.
L'altro dipinto rimasto a Napoli fu quello eseguito tra il 1607 ed 1608, direttamente per la chiesa di San Domenico Maggiore, poi spostato al museo di Capodimonte, ovvero una seconda versione della Flagellazione di Cristo.
Il soggiorno a Malta
Nel 1607 Michelangelo Merisi parte per Malta, sempre per intercessione dei Colonna, e qui entra in contatto con il gran maestro dell'ordine dei cavalieri di san Gio208
vanni, Alof de Wignacourt, a cui il pittore fece anche un ritratto. Il suo obiettivo era
diventare cavaliere per ottenere l'immunità, in quanto su di lui pendeva ancora la
condanna alla decapitazione. In questo contesto il Caravaggio firma un documento
che metterà in discussione il suo reale luogo di nascita. Infatti il pittore dichiara che la
sua città natale è proprio Caravaggio, in provincia di Bergamo: "Carraca oppido vulgo de Caravagio in Longobardis natus". A rimettere in discussione il suo luogo d'origine vi è poi un'ulteriore attestazione presentata recentemente, proveniente dalla scoperta di un documento nuovo; in esso si legge la dichiarazione resa a Roma da un
garzone mediolanensis, Pietro Paolo Pellegrino, nel corso di un interrogatorio: «questo pittore Michelangelo... al parlare tengo sia milanese», ma poi specifica «mettete
lombardo, per che lui parla alla lombarda». Pellegrino non riconobbe nella cadenza
del pittore l'accento che gli era familiare, essendo lui stesso milanese per nascita.
Intanto l'attività di pittore del Merisi prosegue, dipingendo nel 1608 la Decollazione di san Giovanni Battista, il suo quadro più grande per dimensioni, tuttora conservato nella cattedrale di La Valletta.
Dopo un anno di noviziato, il 14 luglio 1608 Caravaggio fu investito della carica
di cavaliere di grazia, di rango inferiore rispetto ai cavalieri di giustizia di origine aristocratica. Anche qui ebbe dei problemi: fu arrestato per un duro litigio con un cavaliere del rango superiore e perché si venne a sapere che su di lui pendeva la condanna
a morte. Venne rinchiuso nel carcere di Sant'Angelo a La Valletta, il 6 ottobre: riuscì
incredibilmente ad evadere e a rifugiarsi in Sicilia a Siracusa. Il 6 dicembre i cavalieri
espulsero Caravaggio dall'ordine con disonore: «Come membro fetido e putrido».
Caravaggio in Sicilia
A Siracusa, Caravaggio fu ospite di Mario Minniti, suo amico di vecchia data, conosciuto durante gli ultimi anni romani. Nella città siciliana si interessò molto all'archeologia studiando i reperti ellenistici e romani della città siciliana: durante una visita assieme allo storico Vincenzo Mirabella coniò il nome "orecchio di Dionigi" per descrivere la Grotta delle Latomie.
Durante questo soggiorno dipinse per la Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro una
pala d'altare del Seppellimento di santa Lucia (la patrona della città siciliana) la cui
ambientazione sembra proprio quella delle vicine grotte da lui tanto ammirate.
Durante il suo tragitto, secondo molti critici e secondo lo scrittore Andrea Camilleri, si sarebbe fermato a Licata, dipingendo il San Girolamo nella fossa dei leoni, di pinto che avrebbe creato il culto della festa del venerdì santo nella località dell'agri gentino e il San Giacomo della misericordia presente nella omonima chiesa.
A Messina dipinse la Resurrezione di Lazzaro, tetra incompiuta e cimiteriale rappresentazione, la cui parte centrale è occupata dal corpo spasmodicamente teso nel
gesto del braccio verso la luce, e l'Adorazione dei pastori.
Fece a Palermo per l'oratorio della compagnia di san Lorenzo una Natività con i
santi Lorenzo e Francesco d'Assisi, ricordata da Giovanni Pietro Bellori, di lì poi trafugata da cosa nostra nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969. Secondo il collaboratore di
giustizia Gaspare Spatuzza l'opera, passata da cosca a cosca ed esposta nei summit
come simbolo di potere e di prestigio, fu bruciata negli anni Ottanta perché rosicchia209
ta dai topi nel periodo in cui i Pullarà la tenevano in una stalla.
Il ritorno a Napoli e la morte
Alla fine dell'estate del 1609 Caravaggio tornò a Napoli. Il 24 ottobre, affrontato
con violenza da alcuni uomini al soldo del suo rivale maltese, all'uscita della Locanda
del Cerriglio (nei pressi di Via Monteoliveto), rimase sfigurato e la notizia della sua
morte cominciò a circolare prematura.
La fase creativa del suo secondo periodo napoletano è ricostruita dagli storici
con molte congetture: dipinse sicuramente il San Giovanni Battista disteso (1610) appartenente a collezione privata Monaco di Bavierala, la Negazione di san Pietro, il San
Giovanni Battista e il Davide con la testa di Golia, quest'ultimo molto importante dal
punto di vista storiografico in quanto raffigurante un macabro autoritratto del Caravaggio nella figura del Golia con la testa mozzata, sorte questa dalla quale il Merisi
tentava da anni di fuggire.
Ancora del periodo di Napoli sono da attribuire i due diversi quadri con medesimo soggetto: la Salomè con la testa del Battista, che il pittore avrebbe dovuto recapitare ai Cavalieri dell'Ordine, e la Salomè con la testa del Battista a Madrid, iniziata que sta tela durante il primo periodo napoletano. Poi vi furono tre tele per la chiesa di
Sant'Anna dei Lombardi di Napoli, il San Francesco che riceve le Stimmate, il San
Francesco in meditazione e una Resurrezione (quest'ultima nota oggi attraverso una
copia di Louis Finson ad Aix en Provence), tutte però perdute durante il terremoto
del 1805 che causò il crollo di una parte dell'edificio religioso.
Infine, dipinse il Martirio di sant'Orsola (1610) per Marcantonio Doria, oggi conservato nel palazzo Zevallos di Napoli. Questo è considerato di fatto l'ultimo dipinto
di Caravaggio arrivato ai giorni nostri.
Nel frattempo da Roma gli fu inviata la notizia che papa Paolo V stava preparando una revoca del bando. Caravaggio, da Napoli, dove abitava presso la marchesa
Costanza Colonna nel palazzo Cellammare, si mise in viaggio con una feluca traghetto che settimanalmente faceva il tragitto: Napoli-Porto Ercole e ritorno; era diretto segretamente a Palo, feudo degli Orsini in territorio papale, luogo distante 40 km da
Roma. In quel feudo avrebbe atteso in tutta sicurezza il condono papale prima di ritornare, da uomo libero, a Roma.
Ma l'arrivo a Palo, disatteso perché segreto, avvenuto probabilmente di notte,
causò il fermo dalla sorveglianza della costa per l'accertamento dell'identità. La feluca
che lo aveva sbarcato, non potendo aspettare, proseguì il viaggio per Porto Ercole
dove era diretta, portandosi dietro il bagaglio dell'artista. Quelle casse, però, contenevano anche il prezzo concordato dal Merisi con il cardinale Scipione Borghese per la
sua definitiva libertà: un'opera, il "San Giovanni Battista" (della Borghese) in cambio
della revoca della pena di morte; pertanto, quel bagaglio era da recuperare perché letteralmente vitale. Quando gli Orsini lo liberarono, fornirono al Caravaggio una loro
imbarcazione con marinai per giungere a Porto Ercole, distante da Palo 40 miglia, per
recuperare le sue cose. L'artista giunse mentre la feluca-traghetto stava ripartendo riportando a Napoli i suoi averi.
In preda alla febbre per infezioni intestinali, dopo quel lungo viaggio, il Caravag210
gio fu lasciato alle cure della locale confraternita che il 18 luglio 1610 certificò la morte
avvenuta nel loro ospedale. Il giorno successivo, l'artista fu seppellito nella fossa comune del cimitero di San Sebastiano ricavata nella spiaggia e riservata agli stranieri, e
che oggi è il retroporto urbanizzato di Porto Ercole, dove nel 2002 è stato collocato il
monumento.
Il condono papale fu spedito qualche giorno dopo a Napoli, alla Marchesa Costanza.
Nell'occasione delle celebrazioni per i 400 anni dalla morte, viene data la notizia
da un professore dell'Università di Napoli, Vincenzo Pacelli, esperto del Merisi, a
conclusione di uno studio, coadiuvato da documenti dell'archivio di Stato e dell'Archivio Vaticano, che sposta nella laziale Palo, vicino Ladispoli, il luogo della morte.
Secondo Pacelli il Caravaggio fu assassinato da emissari dei cavalieri di Malta con il
tacito assenso della Curia Romana.
Il ritrovamento dei resti
Il 16 luglio 2010, a quasi 400 anni dalla morte e dopo oltre un anno di ricerche
storiografiche e analisi scheletrica, nonché di confronti col DNA dei discendenti di cognome "Merisio" nativi di Caravaggio, un'equipe di scienziati italiani ha confermato
che le ossa coperte di piombo e mercurio (usati in grande abbondanza dai pittori del
'600 per preparare i colori) trovate in quella che fu la fossa comune del cimitero di
Porto Ercole, sono all'85% quelle del grande artista.
I resti del Caravaggio erano situati nella cripta della chiesa del cimitero di Porto
Ercole. Le ricerche sono state coordinate da un pool di istituti coordinati dall'Università di Bologna, con il supporto degli atenei dell'Aquila e del Salento e del centro ricerche ambientali di Ravenna. Al risultato si è arrivati mettendo insieme gli esiti di in dagini storiografiche e di biologia scheletrica, nonché dell'uso di tecnologie per l'accertamento dei metalli pesanti nelle ossa, di analisi dei sedimenti terrosi, della datazione con il metodo del carbonio-14 e, per finire, del DNA.
Il 3 luglio 2010, dopo una settimana di permanenza nella città di Caravaggio, i
resti del Caravaggio sono stati riportati via mare a Porto Ercole (dove rimarranno), e
messi in mostra a Forte Stella, una fortificazione del paese.
Attività artistica
Giulio Carlo Argan rileva che la pittura caravaggesca si distingue per un "realismo drammatico". Argan evidenzia anche che «il motivo religioso è anche sociale: il
divino si rivela negli umili». Quanto alla morte: «il pensiero della morte è dominante
nel Caravaggio, come già in Michelangelo Buonarroti. Ma per Michelangelo la morte
era liberazione e sublimazione, per il Caravaggio è soltanto la fine, l'enigma della
tomba». La religiosità di Caravaggio trova riscontro nell'impulso dato da alcuni settori della Controriforma cattolica (San Filippo Neri, Sant'Ignazio di Loyola San Carlo
Borromeo) alla pratica di culto rivolta a più ampi strati popolari.
211
Stile pittorico
La particolare tecnica pittorica e realizzativa di Caravaggio fu il suo successo.
Fino al suo inizio nella pittura, lo stile che avevano molti artisti era estremamente legato ad un metodo che si basava prevalentemente sullo studio dell'arte classica, con
forti influssi derivati dai grandi protagonisti del periodo d'oro del rinascimento italiano. Su tutti le figure di Michelangelo e Raffaello, nel centro Italia, mentre per quanto
riguarda il settentrione, la pittura si rifaceva soprattutto a Tiziano, Correggio e Leonardo.
La rivoluzione di Caravaggio sta nel naturalismo della sua opera, espresso nei
soggetti dei suoi dipinti e nelle atmosfere in cui la capacità di dare a un corpo una for ma tridimensionale viene evidenziata dalla particolare illuminazione che teatralmente sottolinea i volumi dei corpi che escono improvvisamente dal buio della scena.
Sono pochi i quadri in cui il pittore lombardo dipinge lo sfondo, che passa nettamente
in secondo piano rispetto ai soggetti, i veri e soli protagonisti della sua opera. Per la
realizzazione dei suoi dipinti, Caravaggio nel suo studio posizionava delle lanterne in
posti specifici per far sì che i modelli venissero illuminati solo in parte, mediante la
"luce radente". Attraverso questo artificio, Caravaggio evidenzia le parti della scena
che più ritiene interessanti lasciando il resto del corpo nel buio dell'ambiente.
Nell'opera del pittore sono evidenti dunque forti contrasti di luci ed ombre. La
luce plasma le figure, determina ambienti e situazioni ed è concepita o come apparizione simbolica (essa è "Grazia" nella Vocazione di San Matteo in San Luigi dei Francesi) o come fatto drammatico nell'intensità dei gesti dei personaggi (Martirio di San
Matteo nella medesima chiesa romana).
I soggetti
I soggetti efebici e la presunta omosessualità
Tra le opere giovanili del Caravaggio ci sono molti ragazzi seducenti solitamente
intenti a suonare uno strumento (tradizionale accompagnamento all'amore) o mangiare un frutto (simbolo dell'appagamento dei sensi); sono giovani colti dalla strada,
dai luoghi che lui amava frequentare come osterie, bische, bordelli e luoghi di malaffare della città. La continua proposta di questi personaggi ha fatto formulare a molti
critici supposizioni riguardo alla presunta omosessualità dell'artista e dei suoi due
più importanti committenti, il cardinale Del Monte ed il marchese Giustiniani, che
conservavano molte di queste opere all'interno dei loro gabinetti privati; la più famosa tra queste è l'Amor vincit omnia, dipinto dai forti toni sensuali che l'artista dovette
replicare per entrambi i committenti.
È documentata la frequentazione del Caravaggio, specie nei suoi anni romani,
sia di diverse prostitute, alcune delle quali, come è noto, ritratte nei suoi dipinti, sia di
ragazzi con cui pare intrattenesse rapporti sentimentali, tra cui Mario Minniti, modello per il Fanciullo con canestro di frutta, la Buona ventura, I bari, il Concerto, il Suonatore di liuto, il Bacco, il Ragazzo morso da un ramarro, la Vocazione e il Martirio di
san Matteo.
Sulla questione, i critici d'arte e gli storici hanno espresso pareri contrastanti.
Maurizio Calvesi sostiene:
212
« In realtà, la presunta omosessualità del Caravaggio, utile ad aggiungere un tocco al quadro del suo "maledettismo", è probabilmente solo un abbaglio; e questo discende da una discutibile esegesi di alcuni dipinti del primo periodo romano, che pre sentano figure effeminate o ritenute provocanti. A lungo, del resto, ci si è rifiutati (e
molti ancora si rifiutano) di applicare al Caravaggio quella lettura secondo i codici
"iconologici" dell'epoca, che consente di apprezzare le bellissime e rivelatrici simbologie di cui la sua pittura è intessuta, pur nell'approccio realistico. Senza intendere il
contesto dei simboli ogni scelta di figure o di oggetti appare come il frutto di un impulso immediato, orientando verso interpretazioni soggettive e modernizzanti. »
Vittorio Sgarbi sostiene invece:
« Non m’importa conoscere la vita privata di Caravaggio (...) però mi colpisce la
sua ambiguità. Mi colpiscono quei giovani modelli, i suoi Bacco e i suoi Giovanni Battista, allusivi e lascivi come i ragazzi fotografati da von Gloeden. Una omosessualità
intinta di cattolicesimo, come quella di Pasolini e di Testori e di altri maledetti nostri
contemporanei quali Fassbinder e Genet. »
Margaret Walters ha scritto:
« Caravaggio si rivolgeva a Roma ad una subcultura apertamente omosessuale;
sofisticata, sicura di sé e ricca al punto da poter indulgere nelle sue fantasie e da sviluppare propri codici e ironie. Il tono del lavoro del Caravaggio per questo gruppo è
caratteristico. È, per la prima volta, "camp" in modo riconoscibile, nella sua sovversione ironica e teatrale degli stereotipi sessuali »
Gli altri soggetti
Non solo soggetti efebici caratterizzarono le pitture di Caravaggio, spesso la rappresentazione, anche nelle opere ufficiali per committenze pubbliche, di personaggi
vecchi e deformi nei panni di venerati santi e di prostitute e umili donne nelle vesti di
importanti figure femminili della storia della chiesa. L'utilizzo di questi modelli fu
motivo di molte critiche che accusavano l'artista di esaltare la goffaggine e la sporcizia di certi personaggi, lasciando da parte l'idealizzazione della bellezza e la ricerca di
una perfezione compositiva, particolarità da sempre ricercate dagli artisti precedenti,
specie nella rappresentazione di soggetti appartenenti alla storia della religione.
La natura morta
Nelle prime opere del Caravaggio si trovano spesso splendidi particolari di nature morte, ma una sola è la composizione completa che ci sia pervenuta, la Canestra di
frutta della pinacoteca Ambrosiana. Ciò è riferibile soprattutto al periodo di apprendistato nella bottega dal Cavalier d'Arpino. La frutta rappresentata da Merisi è in perfetta sintonia con i personaggi. Le foglie appassite, con il loro stato di maturazione
avanzata, danno l'idea di una particolare atmosfera di decadenza autunnale. Tradizionalmente, alle nature morte venivano associati significati allegorici, e l'appassire di
frutta e verdura in questo caso sembra parlare del rapporto di convivenza tra vita e
morte.
I ritratti
Il pittore non dipinse molti ritratti e di quei pochi restano soltanto quattro o cin213
que (l'unico ritratto femminile, quello di una cortigiana, probabilmente Fillide Melandroni, modella per dipinti dell'artista, andò distrutto a Berlino, nel Kaiser Friedrich
Museum durante la Seconda guerra mondiale). Sopravvivono inoltre il ritratto del
cardinale Maffeo Barberini (che poi sarà papa col nome di Urbano VIII), quello del
Gran Maestro dei cavalieri di Malta Alof de Wignacourt con un paggio, il ritratto di
un altro cavaliere di Malta, Antonio Martelli, quello di un gentiluomo sconosciuto e
quello del papa Paolo V (di incerta attribuzione).
Importanti committenze
Tra il 1600 ed il 1606 Caravaggio dipinse per alcune chiese romane quattro importanti tele laterali e cinque pale d'altare (compresa la Deposizione nel sepolcro, ora
alla pinacoteca Vaticana, ma dipinta per la seconda cappella a destra in Santa Maria
in Vallicella, la chiesa Nuova di Roma), di cui tre (San Matteo e l'angelo, Morte della
Vergine e Madonna dei Palafrenieri) furono rifiutate o rimosse perché ritenute rappresentazioni disdicevoli e poco decorose del soggetto sacro.
Molti quadri di Caravaggio raffigurano santi, i tre più rappresentati sono san
Francesco, san Girolamo e san Giovanni Battista. San Francesco appare di solito come
una figura ascetica in preghiera, San Girolamo come un vecchio intento a scrivere e
San Giovanni come un giovane, praticamente nudo, nel deserto.
Il periodo d'oblio e la moderna riscoperta
Famoso ed ammirato in vita, Caravaggio fu quasi completamente dimenticato
nei secoli successivi alla sua morte. Infatti, dopo la sua scomparsa, il duro giudizio sul
suo modo così crudo di rappresentare la realtà fu presto utilizzato dai suoi detrattori
per denigrare il suo valore e la sua memoria. Basti pensare alle parole di un altro celebre pittore del Seicento, Nicolas Poussin, giunto a Roma poco dopo la morte di Caravaggio, che lo apostrofò con parole lapidarie: "Era venuto per distruggere la pittura".
Questo lungo periodo di oblio fu interrotto solo a metà del XX secolo e la validità
della sua opera fu universalmente riconosciuta solo grazie al contributo di alcuni dei
più importanti storici dell'arte del tempo, tra cui spicca il fondamentale apporto critico di Roberto Longhi, che mise in luce la sua importanza nello sviluppo dell'arte pittorica moderna e le sue profonde influenze sull'arte europea dei due secoli successivi,
dimostrando la profonda influenza di Caravaggio soprattutto sulla successiva pittura
barocca (lo stile pittorico che emerse dalle rovine del manierismo).
« Ribera, Vermeer, La Tour e Rembrandt non avrebbero mai potuto esistere senza di lui e l'arte di Delacroix, Courbet e Manet sarebbe stata completamente diversa. »
André Berne-Joffroy, autore di Le Dossier Caravage, disse di lui: «ciò che inizia
con l'opera di Caravaggio è molto semplicemente la pittura moderna.»
Il Caravaggismo
Con questo termine si indica lo stile degli artisti che si ispirano al Caravaggio.
Nei dipinti caravaggeschi troviamo grande realismo nel riprodurre le figure, rap214
presentate generalmente su uno sfondo monocromo, e illuminate da una luce violenta. I principali pittori caravaggisti sono Bartolomeo Manfredi, Carlo Saraceni, Orazio
e Artemisia Gentileschi, Giovanni Antonio Galli (detto lo Spadarino), Francesco Boneri (più noto come Cecco del Caravaggio), Gerrit van Honthorst, Hendrick ter Brugghen, Giovanni Serodine, Carlo Sellitto, Battistello Caracciolo e José de Ribera; in questi ultimi due, operanti a Napoli, ritroviamo riproposto lo stile degli ultimi anni del
Caravaggio, caratterizzato da atmosfere molto cupe.
La monumentale opera del Caravaggio influenza anche una fitta schiera di grandi artisti d'Oltralpe, tra i quali: Louis Le Nain, Georges de La Tour, Valentin de Boulogne, Simon Vouet, Francisco de Zurbarán, Diego Velázquez, Bartolomé Esteban Murillo, Matthias Stomer, Pieter Paul Rubens, Antoon van Dyck, Rembrandt, Jan Vermeer, Adam Elsheimer.
Inoltre, influenze caravaggesce pervadono persino le opere di artisti ottocenteschi quali: David, Goya, Gericault, Delacroix, Courbet.
Film su Caravaggio
Sono stati girati due lungometraggi sulla vita del pittore: il primo, Caravaggio, il
pittore maledetto, diretto da Goffredo Alessandrini, è del 1941. È del 1986 la seconda
opera cinematografica dedicatagli, Caravaggio, diretto da Derek Jarman. Il mediometraggio Caravaggio. L'ultimo tempo (1606-1610), opera del regista napoletano Mario
Martone, è invece del 2004.
Nel 1967 la Rai trasmise lo sceneggiato televisivo Caravaggio con la regia di Silverio Blasi e Gian Maria Volonté nella parte dell'artista.
Nel 2002 il cortometraggio "Vernissage! 1607 Caravaggio" di Stella Leonetti racconta la presentazione di uno dei dipinti dell'artista, le Sette opere di misericordia.
Nel 2006 è stato prodotto un nuovo sceneggiato televisivo di due puntate Caravaggio, regia di Angelo Longoni, con Alessio Boni, Claire Keim, Jordi Mollà, Paolo
Briguglia, Elena Sofia Ricci, Francesco Siciliano, Sarah Felberbaum, Benjamin Sadler,
fotografia di Vittorio Storaro e musiche di Luis Bacalov. È stato messo in onda su RaiUno il 17 e il 18 febbraio del 2008.
Il 2 febbraio è stato trasmesso su National Geographic il documentario "Caravaggio. Il corpo ritrovato". In questo doc viene raccontata l’unica ricerca compiuta su
quelli che con ogni probabilità sono i resti mortali di uno dei più grandi artisti di tutti
i tempi. Prodotto da Doclab (regia Marco Visalberghi, autore Patrizia Marani) per National Geographic Channel e girato in alta definizione, il documentario segue, passo
dopo passo, lo svolgersi di una grande ricerca scientifica che si è prefissa di trovare lo
scheletro di Caravaggio e interrogare le sue ossa, per rispondere alle domande che gli
storici dell’arte si pongono da allora.
215
Lezione XI
IL BAROCCO
Barocco è il termine utilizzato dagli storici dell'arte per indicare lo stile dominante del XVII secolo. Il suo significato originario di "irregolare, contorto, grottesco e bizzarro", è stato ora ampiamente riveduto. Lo stile barocco ha fondamenti negli ultimi
anni del XVI secolo, ma nasce a Roma intorno al terzo decennio del Seicento.
Non è stato, come spesso erroneamente si dice, lo stile della Controriforma e soprattutto vanno evitate valutazioni unidirezionali, dato che l'arte barocca contiene al
suo interno tendenze molto variegate e talvolta contrastanti. Il barocco diviene in brevissimo tempo, grazie alla sua esuberanza, alla sua teatralità, ai suoi grandiosi effetti
e alla magniloquenza profusa su ogni superficie e con ogni materiale, lo stile tanto
della Chiesa cattolica che delle monarchie europee, tese verso un assolutismo che ha
bisogno di esprimere il proprio potere con tutto il fasto possibile.
Come era già successo nell'epoca del Gotico internazionale, uno stile solo informa quasi tutta l'Europa ed esso diviene la lingua con cui la classe dirigente riscrive la
propria storia passata (come nel caso delle grandi famiglie genovesi), e traccia le linee
per le future, possibili, vittorie. A Roma il rinnovamento del centro urbano fu per il
papato di Urbano VIII prima, di Alessandro VII poi, un'espressione di prestigio:
Roma diviene così la prima città che nella sua struttura urbanistica rispecchia il proprio ruolo politico di principale capitale europea. La piazza, un elemento architettonico che già era stato ripensato in chiave monumentale nel XVI secolo da Michelangelo
Buonarroti (con la formidabile risistemazione della piazza del Campidoglio), diviene
ora la chiave di ogni rinnovamento. San Pietro in Vaticano con i completamenti berniniani della piazza, piazza Navona con la chiesa di Borromini e la fontana del Bernini,
piazza del Popolo con le sue tre vie (Ripetta, Lata, del Babbuino) e il suo obelisco, diventano i prototipi della nuova idea di città che si irradierà da qui a tutte le grandi capitali europee.
L'architettura barocca
In architettura, dove le necessità costruttive sono prioritarie rispetto a quelle
espressive, il gusto barocco si manifesta con la monumentalità delle costruzioni.
Gli artisti, sensibili alle nuove epoche, non erano più soddisfatti dalla perfezione
dei modelli classici. Da qui il superamento delle figure lineari e perfette e la predile zione per forme più complesse ed elaborate. Il barocco viene definito da Heinrich
Wölfflin (1888) come quel periodo in cui il cerchio lascia il posto all'ovale, modificando l'equilibrio compositivo e generando più vividi effetti pittorici.
L'architettura barocca sviluppa alcune tendenze già evidenti nel Manierismo del
XVI secolo, il quale a sua volta aveva infranto il rigore formale del Rinascimento. Se
gli architetti manieristi alterano l'impaginazione rigorosa delle facciate rinascimentali
aggiungendovi temi e decorazioni caratterizzati da un raffinato e oscuro intellettualismo, senza modificare la logica planimetrica e strutturale delle facciate negli edifici,
216
gli architetti barocchi modificano quell'architettura sia nelle piante, sia nelle partiture
di facciata, in funzione di una concezione spaziale nuova. Le facciate delle chiese non
costituiscono più la terminazione logica della sezione interna, ma divengono un organismo plastico che segna il passaggio dallo spazio interno alla scena urbana.
La forma usata principalmente è la linea curva; tutto doveva prendere andamenti sinuosi, persino le gambe di una sedia o di un tavolo. Le curve non dovevano essere
semplici ma complesse come ellissi, spirali o curve a costruzione policentrica. È il forte senso della teatralità di quel periodo che spinge l'artista all'esuberanza decorativa,
all'effetto sorpresa e al dramma espressivo. Le statue diventano dramma, rappresentazione, messa in scena che coinvolge il pubblico. Tra i principali architetti di questo
periodo si ricordano il geniale Gian Lorenzo Bernini e la sua controparte lombardamilanese Francesco Borromini, Pietro da Cortona, Carlo Maderno con la sua discussa
sistemazione della facciata della Basilica vaticana, Carlo Rainaldi, Baldassare Longhena a Venezia, Guarino Guarini, Bartolomeo Bianco a Genova, Cosimo Fanzago a Napoli, il protagonista del barocco milanese Francesco Maria Richini, Rosario Gagliardi
e Vincenzo Sinatra in Sicilia.
Fuori dall'Italia il Barocco fu ripreso attraverso forme derivanti dal Rinascimento
e dall'architettura antica. In Francia sono da segnalare le opere di Salomon de Brosse,
François Mansart, Jules Hardouin Mansart, Jacques Lemercier e Louis Le Vau; in Inghilterra, dove nel Seicento ebbe intensa fortuna l'architettura di Andrea Palladio, il
principale esponente del Classicismo barocco fu Christopher Wren, mentre nell'Europa Centrale numerosi architetti italiani e svizzeri gettarono le premesse per l'affermazione dell'architettura tardobarocca.
Rembrandt Harmenszoon van Rijn
Rembrandt Harmenszoon van Rijn (Leida, 15 luglio 1606 – Amsterdam, 4 ottobre
1669) è stato un pittore e incisore olandese.
Viene generalmente considerato uno dei più grandi pittori della storia dell'arte
europea e il più importante di quella olandese. Il suo periodo di attività coincide con
quello che gli storici definiscono l'età dell'oro olandese.
Dopo aver ottenuto un grande successo fin da giovane come pittore ritrattista, i
suoi ultimi anni furono segnati da tragedie personali e difficoltà economiche. I suoi
disegni e dipinti furono popolari già durante la sua vita, la sua reputazione rimase
alta e per vent'anni fu maestro di quasi tutti i più importanti pittori olandesi. I più
grandi trionfi creativi di Rembrandt sono evidenti specialmente nei ritratti dei suoi
contemporanei, nei suoi autoritratti e nelle illustrazioni di scene tratte dalla Bibbia.
Sia nella pittura che nella stampa egli esibì una completa conoscenza dell'iconografia
classica che modellò per adattarla alle proprie esigenze. Così, la rappresentazione di
scene bibliche era costituita dalla sua conoscenza dei relativi testi, dall'influenza delle
tematiche classiche e dall'osservazione della popolazione ebrea di Amsterdam. Per la
sua comprensione della condizione umana, inoltre, fu definito "uno dei grandi profeti
della civiltà".
217
La vita
Rembrandt Harmenszoon van Rijn nacque il 15 luglio 1606 a Leida nei Paesi Bassi. Era il quarto di sei figli sopravvissuti all'infanzia su dieci complessivi avuti dalla
madre (il nono in ordine di nascita). La sua era una famiglia benestante nonostante il
padre fosse un mugnaio e la madre la figlia di un fornaio (è dimostrato dai testamenti
dei genitori deceduti rispettivamente nel 1630 e nel 1640). Da ragazzo frequentò la
scuola di latino e si iscrisse quindi all'Università di Leida, anche se secondo un contemporaneo mostrava già un grande talento per la pittura: ben presto venne messo a
bottega da uno dei pittori storici di Leida, Jacob van Swanenburgh. Dopo un breve
ma importante periodo di apprendistato ad Amsterdam con il celebre pittore Pieter
Lastman, Rembrandt aprì uno studio a Leida, che condivise con l'amico e collega Jan
Lievens. Nel 1627 Rembrandt iniziò ad accettare a sua volta degli apprendisti, tra i
quali Gerrit Dou.
Nel 1629 Rembrandt fu scoperto dallo statista e poeta Constantijn Huygens, il
padre di Christiaan Huygens (un celebre matematico e fisico olandese), che gli procurò importanti commissioni da parte della corte reale dell'Aja. Grazie a questo contatto, il principe Frederik Hendrik continuò ad acquistare dipinti di Rembrandt fino al
1646.
Entro il 1631 Rembrandt si era creato una così buona reputazione da ricevere numerosi incarichi ad Amsterdam per la realizzazione di ritratti. Di conseguenza si trasferì in quella città andando ad abitare nella casa del mercante d'arte Hendrick van
Uylenburgh. Questo trasferimento fu alla fine causa del suo matrimonio con la cugina
di Hendrick, Saskia van Uylenburgh. Si trattò probabilmente di un matrimonio contratto sia per amore che per un avveduto calcolo economico: Saskia proveniva infatti
da un'ottima famiglia e suo padre era stato avvocato e burgemeester (sindaco) di
Leeuwarden. Quando Saskia, che era la sorella minore, era rimasta orfana era andata
a vivere con la sorella maggiore a Het Bildt. Si sposarono nella chiesa locale, senza
che i parenti fossero presenti.
Nel 1639 Rembrandt e Saskia si trasferirono in una bella casa in Jodenbreestraat,
nel quartiere ebraico, che è stata poi trasformata nel museo Rembrandthuis. Fu lì che
Rembrandt spesso fece posare i suoi vicini ebrei per usarli come modelli per i quadri
che rappresentavano scene dell'Antico Testamento. Anche se le cose andavano bene
sotto il profilo economico, la coppia dovette affrontare diverse difficoltà personali:
loro figlio Rumbartus morì nel 1635 solo due mesi dopo la nascita e nel 1638 morì invece a solo tre settimane la figlia Cornelia. Nel 1640 anche una seconda figlia, anch'essa chiamata Cornelia, morì a neppure un mese di vita. Solo il loro quarto figlio, Titus
nato nel 1641, riuscì a sopravvivere ed a raggiungere l'età adulta. Saskia morì nel 1642
poco dopo la nascita di Titus, probabilmente di tubercolosi. I disegni dell'artista che la
ritraggono malata sul letto di morte sono senz'altro tra le sue opere più commoventi.
Durante la malattia di Saskia venne assunta una certa Geertje Dircx come balia di
Titus ed infermiera, ed è possibile che sia diventata anche l'amante di Rembrandt. In
seguito accusò il pittore di non aver mantenuto una promessa di matrimonio e Rembrandt la fece rinchiudere in un manicomio di Gouda dopo che la donna aveva tentato di vendere i gioielli appartenuti a Saskia che il pittore le aveva affidato.
218
Verso la fine del decennio del 1640 Rembrandt iniziò una relazione con Hendrickje Stoffels, molto più giovane di lui, che all'inizio era stata la sua domestica. Nel 1654
ebbero una figlia, Cornelia, fatto che attirò sulla testa di Hendrickje un rimprovero ufficiale della Chiesa riformata olandese perché "viveva nel peccato". La coppia veniva
considerata legalmente sposata dalla legge civile, ma in effetti Rembrandt non sposò
Henrickje, per non perdere il controllo di un fondo istituito in favore di Titus per volontà della madre. Rembrandt, a differenza della compagna, non fu però convocato
ad apparire davanti al consiglio della Chiesa riformata perché non ne faceva parte.
Tuttavia Rembrandt era indebitato con alcuni degli anziani della chiesa e quindi ne
subì comunque le indirette pressioni. Va ad onore di Henrickje che nonostante tutto si
rifiutò di lasciare l'artista.
Rembrandt viveva al di sopra dei propri mezzi, comprando opere d'arte (talvolta
riacquistando ad un prezzo superiore i suoi stessi lavori), stampe (spesso usate nei
suoi dipinti) ed oggetti rari, abitudine che probabilmente lo condusse alla bancarotta
nel 1656. Il suo stato di insolvenza fece sì che la maggior parte dei suoi dipinti e dei
suoi oggetti di antiquariato finirono per essere messi all'asta. Fu costretto anche a
vendere la propria casa e il suo torchio da stampa, trasferendosi in un'abitazione più
modesta nella zona di Rozengracht. Lì Hendrickje e Titus fondarono una società, dando a Rembrandt un impiego e proteggendolo dai creditori. Nel 1661 fu ingaggiato per
completare le decorazioni del palazzo comunale di nuova costruzione, ma morì prima di completare il lavoro.
Rembrandt sopravvisse sia a Hendrickje, morta probabilmente di peste nel 1663,
che a Titus: questi si era sposato da un anno con Magdalena Van Loo, da cui aveva
avuto una bambina, Titia; la stessa Magdalena morirà poco prima del pittore che morì
un anno dopo il figlio, il 4 ottobre 1669 ad Amsterdam a 63 anni, e fu sepolto in una
tomba anonima nella Westerkerk.
Le opere
In una lettera ad un committente, Rembrandt fornisce l'unica spiegazione giunta
fino a noi di quale obiettivo si proponesse di raggiungere attraverso la sua arte: "Il
movimento più grande e naturale", traduzione di "die meeste ende di naetuereelste
beweechgelickheijt". La parola beweechgelickheijt potrebbe anche significare "emozione" o "causa prima". Se Rembrandt con questa affermazione si riferisse ad un
obiettivo materiale o ad obiettivi altri e superiori è una questione ancora aperta alle
interpretazioni. In ogni caso Rembrandt è riuscito a fondere gli aspetti terreni e quelli
spirituali come nessun altro pittore nella cultura occidentale è riuscito a fare.
Gli esperti dell'inizio del XX secolo sostennero che Rembrandt avesse realizzato
più di 600 dipinti, quasi 400 incisioni e circa 2.000 disegni. Studiosi di epoca successiva, dagli anni sessanta ad oggi (guidati dal Rembrandt Research Project), non senza
discussioni, hanno ridotto il numero delle opere sicuramente a lui attribuibili a 300 dipinti. È probabile che nel corso della sua vita abbia in effetti realizzato più di 2.000 disegni, ma quelli sopravvissuti sono meno di quanto un tempo si fosse ritenuto. Eseguì
molti autoritratti, quasi un centinaio tra cui 20 incisioni. Esaminati nell'insieme ci forniscono una visione eccezionalmente chiara dell'artista, del suo aspetto fisico e - più
219
importante - della sua evoluzione psicologica, come ci rivela il volto segnato dagli
anni delle ultime opere.
Tra le più importanti caratteristiche della sua arte ci sono l'uso del chiaroscuro e
il sapiente e scenografico sfruttamento della luce e delle ombre derivato da Caravaggio, ma adattato per i suoi scopi personali, l'abilità di presentare i soggetti in modo
teatrale e realistico senza il rigido formalismo spesso presente negli artisti suoi contemporanei ed un'evidente e profonda compassione per l'uomo, senza preoccuparsi
della sua ricchezza o età.
Inserì spesso i suoi parenti più stretti - la moglie Saskia, il figlio Titus e la seconda compagna Hendrickje - nei suoi dipinti, molti dei quali a soggetto mitologico, biblico o storico, dando le loro sembianze ai personaggi principali.
Periodi, temi, e stili
Durante il periodo che Rembrandt trascorse a Leida (1625-1631) l'influenza di
Lastman su di lui fu molto evidente. I suoi dipinti sono di dimensioni piuttosto ridotte ma presentano una grande ricchezza di dettagli (ad esempio nella cura delle vesti e
dei gioielli dei soggetti). Affronta principalmente temi religiosi ed allegorici. Nei suoi
primi anni ad Amsterdam (1632-1636) iniziò a dipingere scene drammatiche tratte
dalla Bibbia o dalla mitologia di grande formato e dai colori molto contrastati. Cominciò anche ad accettare di eseguire ritratti su commissione.
Verso la fine del decennio 1630 eseguì alcuni quadri e diverse stampe di argomento paesaggistico. Questi paesaggi spesso accentuavano la forza drammatica della
natura, rappresentando alberi sradicati e cieli tetri e minacciosi. Dal 1640 il suo stile
diventò meno esuberante ed adottò toni più sobri, come riflesso delle tragedie personali che stava vivendo. Le scene bibliche furono più frequentemente tratte dal Nuovo
Testamento piuttosto che dall'Antico come invece aveva fatto fino a quel momento.
Un'eccezione è rappresentata dall'enorme La ronda di notte, la sua opera di maggiori
dimensioni, nonché la più vigorosa e d'impatto. I paesaggi furono sempre più spesso
realizzati a stampa anziché dipinti: le oscure forze della natura cedettero il posto a
tranquille scene rurali tratte dalla campagna olandese.
Nel decennio successivo lo stile di Rembrandt cambiò nuovamente: i suoi dipinti
divennero di maggiori dimensioni, il colore si fece più ricco ed intenso ed i colpi di
pennello più evidenti e pronunciati. Con questi cambiamenti Rembrandt prese le distanze dai suoi primi lavori e dalla moda del tempo che al contrario tendeva verso
opere formalmente più curate e ricche di dettagli. Nel corso degli anni, pur continuando ad eseguire quadri ispirati a temi biblici, spostò la sua attenzione dalla scene
di gruppo ad alta intensità drammatica a singole figure più delicate e simili a ritratti.
Nei suoi ultimi anni Rembrandt dipinse i suoi autoritratti più riflessivi e introspettivi.
Il nome e la firma
"Rembrandt" è una modifica fatta a posteriori del nome dell'artista che adottò a
partire dal 1633. Le prime firme sui suoi lavori (1625 circa) consistevano nella sola ini220
ziale "R", oppure nel monogramma "RH" (che stava per Rembrant Harmenszoon, ovvero "figlio di Harmen") e, a partire dal 1629, "RHL" (dove la "L" significava probabilmente Leida). Nel 1632 iniziò a firmare i quadri in questo modo, ma poi vi aggiunse il
suo cognome ottenendo "RHL-van Rijn": sostituì però questo tipo di firma nello stesso
anno ed iniziò ad usare il suo nome scritto nella forma originaria, "Rembrant". Nel
1633 aggiunse una "d", e da allora mantenne questa forma, dimostrando così che quel
piccolo cambiamento aveva per lui un significato importante (di qualsiasi cosa si trattasse). Il cambiamento è di tipo puramente visivo; il modo in cui il nome viene pronunciato resta inalterato. Curiosamente, nonostante il gran numero di dipinti e stampe siglati con questa modifica, la maggior parte dei documenti che parlano di lui re datti nel corso della sua vita mantengono la forma originaria, "Rembrant".
La teoria del difetto di vista
In un articolo pubblicato il 16 settembre 2004 sul New England Journal of Medicine, Margaret S. Livingstone, docente di neurobiologia della facoltà di medicina dell'Università di Harvard, suggerisce che Rembrandt, i cui occhi sembrano avere avuto
un difetto nell'allineamento della vista, soffrisse di "perdita di stereopsi", una condizione in cui risulta difficile o impossibile percepire correttamente la profondità. È
giunta a questa conclusione dopo aver studiato 36 autoritratti dell'artista. Dato che
non possedeva una normale visione binoculare, il suo cervello automaticamente sceglieva di utilizzare un solo occhio per l'osservazione. Questa particolare disabilità potrebbe avergli fatto percepire come fossero piatte molte delle immagini che vedeva,
agevolandolo poi nel trasferirle sulle bidimensionali tele. Secondo la Livingstone questo potrebbe essere stato un vantaggio per un grande pittore come lui perché "Gli insegnanti d'arte spesso dicono agli studenti di chiudere un occhio per percepire come
piatto ciò che osservano. Perciò, la "perdita di stereopsi" potrebbe non essere un handicap - ma anzi rivelarsi un vantaggio - per alcuni artisti."
Questa teoria presenta però degli aspetti criticabili perché tra le più grandi qualità di Rembrandt c'è l'abilità di riprodurre l'illusione del volume, la percezione del
quale richiede una normale capacità di visione.
Le discussione sull'attribuzione delle opere
Nel 1968, grazie al sostegno dell'Organizzazione olandese per il progresso della
ricerca scientifica (NWO), è stato fondato il Rembrandt Research Project (RRP). Storici
dell'arte e esperti di altri campi sono stati riuniti per riaccertare l'autenticità delle opere attribuite a Rembrandt servendosi di tutti i metodi disponibili e per redigere un catalogo critico definitivo dei suoi dipinti. Sulla base delle loro scoperte, molti dipinti in
precedenza attribuiti all'artista olandese sono stati ora rimossi dall'elenco. La maggior
parte di questi ultimi sono ora considerati opera dei suoi allievi.
Un esempio di questo tipo di lavoro è rappresentato dal caso de Il cavaliere polacco, che fa parte della Collezione Frick di New York. La sua autenticità è stata posta
in dubbio da anni da vari studiosi, tra i quali Julius Held. Molti, tra cui il dottor Josua
Bruyn della Fondazione Rembrandt Research Project, attribuivano il dipinto ad uno
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dei più talentuosi allievi di Rembrandt, Willem Drost, del quale però si sa molto poco.
Il Museo Frick invece, nonostante tutto, non aveva mai accettato di cambiarne l'attribuzione, e la targhetta descrittiva continuava a recitare "Rembrandt" e non "attribuito
a" o "della bottega di". Pareri più recenti hanno sostenuto le posizioni del museo,
come quelli di Simon Schama nel libro Rembrandt's Eyes del 1999 e dell'esperto del
Rembrandt Project Ernst van de Wetering (Conferenza di Melbourne, 1997), che sostengono entrambi l'attribuzione al grande maestro. Altri esperti ancora osservano
che l'esecuzione del quadro presenta delle differenze, e preferiscono attribuire a diverse mani diverse parti del quadro.
Un altro dipinto Pilato che si lava le mani è considerato di dubbia attribuzione. I
pareri hanno preso vie considerevolmente diverse a partire dal 1905, quando Wilhelm
von Bode lo descrisse come "un lavoro piuttosto anomalo" da parte di Rembrandt. La
maggior parte degli studiosi a partire dagli anni '40 lo hanno datato al decennio del
1660, attribuendolo ad un anonimo allievo. La composizione presenta dei tratti in comune con le opere della maturità di Rembrandt, ma l'effetto rembrandtesco resta superficiale e non riesce a trasmettere nulla che somigli alla capacità di dosare la luce e
l'abilità nella composizione del maestro. A puro livello di ipotesi è stato proposto il
nome del suo unico allievo conosciuto di quel periodo, Arent de Gelder.
L'opera di attribuzione e ri-attribuzione è tuttora in corso. Nel 2005 quattro dipinti ad olio precedentemente attribuiti ai suoi allievi sono stati riclassificati come
opera di Rembrandt stesso. Si tratta di: Studio di un vecchio di profilo" e Studio di un
vecchio con la barba appartenenti ad una collezione privata statunitense, e Studio di
una donna che piange del Detroit Institute of Arts e Ritratto di un'anziana con la cuffia bianca, dipinto nel 1640.
Il metodo di lavoro che Rembrandt adottava nella propria bottega è uno dei fattori che maggiormente acuiscono le difficoltà nell'attribuzione dal momento che,
come molti altri artisti prima di lui, incoraggiava i suoi studenti ad imitare i suoi di pinti , talvolta riservandosi la rifinitura o gli ultimi ritocchi, per poi venderli come originali o come copie autorizzate. Inoltre il suo stile si rivelò tutto sommato di facile
imitazione per gli allievi più dotati. Altre complicazioni derivano dall'ineguale qualità di alcuni degli stessi lavori di Rembrandt e dalle sue frequenti evoluzioni stilistiche. È molto probabile che non si riuscirà mai a raggiungere un generale consenso su
cosa sia e cosa non sia da considerarsi come genuina opera di Rembrandt.
Jan Vermeer
Biografia
Della vita di Vermeer si conosce molto poco: le uniche fonti sono alcuni registri,
pochi documenti ufficiali e commenti di altri artisti. La data di nascita non si conosce
con precisione, si sa solamente che venne battezzato il 31 ottobre 1632, nella chiesa
protestante di Delft. Il padre Reynier era un tessitore di seta della classe media, che si
occupava anche di commercio di opere d'arte. La madre Digna era di Anversa: sposò
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Reynier Vermeer nel 1615. Nel 1641 la famiglia acquistò una locanda, la Mechelen, dal
nome di una famosa torre del Belgio, che si trovava nei pressi della piazza del mercato. Reynier affiancò al mestiere di mercante d'arte quello di locandiere. Dopo la morte
del padre, nel 1652, Joannes ereditò sia la locanda che gli affari commerciali del padre.
Nonostante fosse di famiglia protestante, sposò una giovane cattolica, Catherina
Bolnes, nell'aprile del 1653. Fu un matrimonio sfortunato: oltre alle differenze religiose, la famiglia della donna era più ricca di quella di Vermeer. Sembra che egli stesso si
fosse convertito prima del matrimonio, poiché i figli ebbero nomi di santi cattolici
piuttosto che dei suoi genitori: inoltre, uno dei suoi dipinti, l'Allegoria della fede, rispecchia la fede nell'Eucaristia, ma non si sa se si riferisca a quella dell'artista o del
committente.
Qualche tempo dopo le nozze, la coppia si trasferì dalla madre di Catherina, Maria Thins, una vedova benestante, che viveva nel quartiere cattolico della città: qui
Vermeer avrebbe vissuto con la famiglia per tutta la vita. Maria ebbe un ruolo fondamentale nella vita del pittore: non solo la prima nipote venne chiamata con il suo stesso nome, ma anche usò la propria rendita per sostenere il genero che cercava di imporsi nel mondo dell'arte. Johannes e la moglie ebbero in tutto quattordici figli, tre dei
quali morirono prima del padre.
La carriera
Il suo apprendistato cominciò nel 1647, forse presso Carel Fabritius. Il 29 dicembre 1653, Vermeer divenne membro della Gilda di San Luca, un'associazione di pittori. Dai registri della gilda si sa che inizialmente l'artista non era in grado di pagare la
quota di ammissione, il che sembrerebbe indicare difficoltà finanziarie. Successivamente la situazione migliorò: Pieter Van Ruijven, uno dei più ricchi cittadini, divenne
il suo mecenate e acquistò numerosi dipinti.
Nel 1662 Vermeer venne eletto capo della gilda e confermato anche negli anni
successivi, segno che era considerato un rispettabile cittadino. Tuttavia, nel 1672 una
pesante crisi finanziaria, provocata dall'invasione francese della Repubblica Olandese, provocò un crollo delle richieste di beni di lusso come i dipinti e di conseguenza
gli affari di Vermeer come artista e mercante ne risentirono, costringendolo a chiedere
dei prestiti.
Alla sua morte nel 1675, Vermeer lasciò alla moglie e ai figli poco denaro e numerosi debiti. In un documento, la moglie attribuisce la morte del marito allo stress
dovuto ai problemi economici. Catherina chiese al consiglio cittadino di prendere la
casa e i dipinti del marito come pagamento dei debiti: diciannove opere rimasero a
Catherina e Maria, e di queste, alcune furono vendute per pagare i creditori.
Tecnica
Vermeer era in grado di ottenere colori trasparenti applicando sulle tele il colore
a punti piccoli e ravvicinati, tecnica nota come pointillé, da non confondere con il
pointillisme. La sua tecnica punta ad una resa il più vivida possibile, con effetti, soprattutto di colore, che egli ricerca con un interesse quasi scientifico, considerando il
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soggetto una sorta di espediente: "le pitture di Vermeer sono vere nature morte con
esseri umani".
Non ci sono disegni attribuibili con certezza all'artista e i suoi quadri presentano
pochi indizi dei suoi metodi preparatori.
Nel libro Il segreto svelato, il noto pittore inglese David Hockney, rifacendosi ai
numerosi studi sull'utilizzo di strumenti ottici nella Pittura fiamminga, sostiene che
Vermeer, come molti altri pittori della sua epoca, facesse largo uso della camera oscura per definire l'esatta fisionomia dei personaggi raffigurati e la precisa posizione degli oggetti nella composizione dei dipinti. Secondo la "tesi Hockney-Falco" (dal nome
del pittore inglese e del fisico americano Charles M. Falco, che l'hanno resa celebre),
l'utilizzo di questo strumento ottico giustificherebbe ampiamente la mancanza di disegni preparatori precedenti ai dipinti di straordinaria precisione "fotografica" e fisiognomica di molti artisti fiamminghi, come Van Eyck, e successivamente di epoca barocca, come Caravaggio o Velasquez, ed appunto dello stesso artista olandese. Ma soprattutto, secondo tale tesi, l'uso della "camera oscura" spiegherebbe anche alcuni dei
sorprendenti effetti di luce dei quadri di Vermeer, in particolare i curiosi effetti "fuori
fuoco" che si riscontrano in taluni dei sui capolavori, dove alcuni particolari sono perfettamente a fuoco ed altri no, con un tipico effetto riscontrabile nella moderna tecnica
fotografica.
L'estrema vividezza e qualità dei colori nei dipinti di Vermeer, tutt'ora riscontrabile, è dovuta alla grande cura posta dall'artista nella preparazione dei colori ad olio e
nell'estrema ricercatezza dei migliori pigmenti rintracciabili all'epoca. Esempio di tale
qualità è il largo uso che Vermeer fece del costosissimo blu oltremare, ottenuto dal lapislazzuli, utilizzato in tutti i suoi dipinti non solo in purezza, ma anche per ottenere
sfumature di colore intermedie. Non rinunciò ad usare questo pigmento dal costo
proibitivo anche negli anni in cui versava in pessime condizioni economiche.
Nelle sue opere è dunque presente una eccezionale unità atmosferica. "La vita silenziosa delle cose appare riflessa entro uno specchio terso; dal diffondersi della luce
negli interni attraverso finestre socchiuse, dal gioco dei riflessi, dagli effetti di trasparenze, di penombre, di controluce..."
Oblio critico e i falsi Vermeer
Nota e controversa è la proliferazione sui mercati d’arte di inizio '900 di falsi dipinti di Vermeer, dovuti ad uno dei più noti falsari del secolo scorso, l'olandese Han
van Meegeren. Questo abilissimo falsario, utilizzando le stesse tecniche pittoriche dell'artista, creò numerosi dipinti con composizioni del tutto originali riuscendo a spacciarli come opere autentiche di Vermeer, tanto che molti famosi collezionisti ed alcuni
dei più importanti musei d'Europa acquisirono questi falsi dipinti nelle proprie collezioni.
Questo eclatante fenomeno fu certamente facilitato dalla curiosa mancanza di
fonti documentali e di studi approfonditi dell’opera e della figura dell’artista olandese, che fino a metà Ottocento versava in un anomalo oblio, che aveva fatto perdere
quasi traccia della vicenda artistica del pittore. Infatti la moderna fortuna critica di
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Vermeer ha inizio solo con l’attenzione postagli quasi a fine Ottocento dello studioso
francese Théophile Thoré-Bürger. Da questo punto in poi, la sua figura sarà sottoposta a costanti e crescenti attenzioni critiche e pubbliche, fino ad acquisire l’attuale
fama internazionale.
Pieter Paul Rubens
Sir Pieter Paul Rubens (Siegen, 28 giugno 1577 – Anversa, 30 maggio 1640) è stato un pittore fiammingo. La sua opera, secondo Giuliano Briganti, «può considerarsi
l’archetipo del "barocco"»; per Luigi Mallè, ha aperto la via al tumultuante barocco
europeo, nordico e francese in particolar modo.
Biografia
Infanzia
Rubens nacque a Siegen, in Westfalia, Germania, il 28 Giugno 1577 da Jan Rubens, avvocato fiammingo Calvinista, e da Maria Pypelynckx. Trascorse l'infanzia a
Colonia dove il padre si rifugiò con la famiglia per sfuggire alla persecuzione spagnola contro i protestanti. In seguito, nel 1589, si trasferì ad Anversa dove ricevette una
educazione umanista, grazie allo studio del latino e della letteratura classica e si convertirà al cattolicesimo.
Alla età di quattordici anni, incominciò il suo apprendistato artistico con Tobias
Verhaeght (1561-1631).
Formazione
Sappiamo che nel 1596 Rubens eseguì alcuni dipinti, tra cui un perduto Parnaso
insieme al maestro Otto van Veen (1558-1629) e Jan Brueghel il Vecchio. Di questo primo periodo sono sia il Peccato originale, conservato al Rubenshuis di Anversa, in cui i
personaggi sono resi con proporzioni classicheggianti, che la Battaglia delle amazzoni, della Bildergalerie di Potsdam, ove le piccole figure sono inserite in un paesaggio
realizzato da Jan Brueghel, secondo la tradizione anversana della divisione dei compiti nei paesaggi con figure. Nel 1598 venne iscritto come maestro alla corporazione
dei pittori della gilda cittadina.
Rubens in Italia
Nel maggio del 1600 partì per l'Italia dove rimase per i successivi otto anni, facendo tappa prima a Venezia dove studiò Tiziano, Veronese e Tintoretto, poi, entrato
in contatto con Vincenzo I Gonzaga duca di Mantova il giovane pittore accettò l'incarico di pittore di corte, conservando tale carica fino alla fine del suo soggiorno italiano, arricchendo ulteriormente la sua cultura figurativa studiando le opere della ricca
collezione dei Gonzaga e copiando dipinti famosi.
Nel 1601 venne inviato dal duca a Roma per copiare alcuni quadri, in questo soggiorno romano, ha modo di ampliare ulteriormente i suoi orizzonti figurativi, grazie
alla copia di modelli di Michelangelo e Raffaello, allo studio dell'antico, ma guardan225
do anche alla coeva produzione artistica del Carracci, di Caravaggio e di Federico Barocci. Entro il 1602, realizzò per la cappella di Sant’Elena nella Basilica di Santa Croce
in Gerusalemme il Trionfo di sant’Elena, l’Incoronazione di spine e l’Innalzamento
della croce. Di questo stesso periodo, in cui entra in contatto con la cerchia del cardinal Scipione Borghese, sono anche il Compianto sul corpo di Cristo, ora conservato
alla Galleria Borghese e il Martirio di san Sebastiano di Palazzo Corsini.
Nel 1603, fu in missione per il duca di Mantova presso il re di Spagna. Tornato a
Mantova all'inizio del 1604, vi rimase fino al 1605, quando, l'anno successivo, tornò a
Roma presso suo fratello Philipp, dopo un breve soggiorno genovese ove dipinse il
Ritratto di Brigida Spinola Doria, ora conservato alla National Gallery of Art di Washington, ricevette la commissione per la decorazione dell'abside di Santa Maria in
Vallicella, terminando l'opera, ora al Museo di Grenoble, alla fine del 1607, con riuniti
in un unico dipinto la Madonna e cinque santi. Quando Rubens si accorse che la posizione del dipinto sull'altare attirava una luce eccessiva che rendeva l'opera poco leggibile, decise di ritirarlo e di sostituirlo nel 1608 con tre dipinti su ardesia, materiale
più adatto alla luce della chiesa: la Madonna della Vallicella, i Santi Gregorio, Papia e
Mauro e i Santi Domitilla, Nereo e Achilleo. La tavola centrale, dall'intenso dinamismo con una composizione che sembra dilatarsi verso lo spazio circostante, anticipa
soluzioni che saranno adottate dalla successiva pittura barocca, infatti come scrisse
Giuliano Briganti: «...lo spazio sembra vibrare e dilatarsi per accogliere le gigantesche
figure che lo occupano in tutti i sensi con l'eloquenza solenne del loro gestire e sfogarsi poi liberamente nella fuga prospettica della gloria angelica centrale ove i raggi della
luce divina, che partono da un punto focale così alto e lontano da suggerire una profondità infinita, irrompono per i fessi delle nubi e tra i corpi degli angeli in controluce, disposti in una vorticosa continuità.».
Ad Anversa
Fin dal ritorno in patria Rubens ebbe il sostegno di due potenti protettori: lo sca bino e borgomastro Nicolas Rockox e l’arciduca Alberto, governatore dei Paesi Bassi
meridionali. In questo periodo il suo stile evolve verso composizioni caratterizzate da
contrasti luministici molto accentuati, di parziale ascendenza caravaggesca, con figure michelangiolesche disposte in gruppi poco simmetrici e in atteggiamenti vari e
come compressi sul quadro, come per esempio avviene nel Sansone e Dalila del 160910 circa, ora conservato alla National Gallery di Londra e nel trittico con l'Erezione
della croce, realizzato tra il 1610 e il 1611 per la Cattedrale di Anversa, dalle forme
possenti ma dinamiche.
Lo stile eroico
A partire dal 1612 circa lo stile dell'artista cambia, probabilmente anche in rapporto con le coeve istanze della Controriforma Cattolica; ora le sue composizioni sono
più chiare e vicine a toni cromatici più freddi, con un equilibrio più marcato e una
scansione maggiormente simmetrica dei personaggi, distribuiti in modo più armonioso e dotati di un forte risalto plastico sull'esempio delle statue ellenistiche che Rubens
aveva copiato a Roma. Il cambiamento si può vedere nella classicheggiante Discesa
dalla croce, realizzata da Rubens per la Cattedrale anversate tra il 1612 e il 1614, ispirandosi per il corpo del Cristo al Laocoonte.
226
Tra il 1613 e il 1614 realizza l'Incredulità di san Tommaso, ora al Koninklijk Museum di Anversa, prendendo a modello per il Cristo un Giove antico. Di questo periodo è anche il Martirio di san Sebastiano della Gemäldegalerie di Berlino, con figure
modellate su prototipi antichi.
Grandi commissioni
In questo periodo di intensa attività organizza una bottega, applicando al lavoro
artistico quelli che erano i metodi dell'industria e impiegando i suoi collaboratori con
criteri razionali, scegliendoli in base alle singole specializzazioni. Il Rubens, per far
fronte alle numerose e imponenti commissioni, preparava un cartone e lasciava alla
bottega la trasposizione dell’idea figurativa nella sua forma ultima, in definitiva divide nettamente l'idea prima dall'esecuzione, riallacciandosi alla coeva teoria artistica
classicheggiante italiana, questo metodo andò progressivamente scomparendo nel
corso della sua ultima attività.
Tra il 1617 e il 1618, lavora ai progetti per una serie di sette arazzi rappresentanti
la Storia di Decio Mure su commissione di nobili genovesi, i bozzetti oggi sono conservati nella Galleria dei principi del Liechtenstein a Vaduz, una sorta di ciclo apologetico dello stoicismo romano. Del 1620 è la decorazione dei soffitti della chiesa di
San Carlo Borromeo ad Anversa, andati distrutti nell’incendio del 1718, rimangono
gli schizzi, ora dividi tra vari musei e collezioni europee. La decorazione delle volte
era composta da circa quaranta grandi dipinti con scene tratte dall’Antico, dal Nuovo
Testamento e dalle vite dei santi, disposte l’una di fronte all’altra in due file su due re gistri.
Il ciclo di Maria de' Medici
Alla fine del 1621, il Rubens riceve, da Maria de' Medici, madre del re francese
Luigi XIII, l'incarico di dipingere una serie di quadri monumentali per ornare la galleria del Palazzo del Luxembourg con un ciclo allegorico-encomiastico che illustrava la
vita e la concezione politica della committente.
Il ciclo, completato nel 1625 e realizzato nei modi tipici della pittura secentesca
(unendo allegorie e ritratti), rappresenta non un avvenimento storico lontano nel tempo, ma un capitolo recente della politica francese: Maria de' Medici nei suoi sette anni
di reggenza tra il 1610 e il 1617, aveva cercato di assicurare la pace con l'impero
asburgico, e, attraverso i matrimoni dei figli (Elisabetta col re spagnolo Filippo IV e
Luigi XIII con Anna d'Austria, sorella del re spagnolo), aveva cercato di porre le basi
per una pace duratura con la potenza spagnola.
All'interno la sua politica volta alla pacificazione, venne sostenuta da concessioni
politiche e finanziarie ai suoi rivali, affidando gli affari al suo favorito italiano Concino Concini. Nel 1617, con l'assassinio di quest'ultimo, il diciassettenne Luigi XIII assunse la reggenza, Maria fu allontanata da Parigi e costretta dal re a risiedere nel ca stello di Blois; nel 1619 fuggì da quest'ultimo per rifugiarsi presso il duca di Empernon, guida dei ribelli, schierandosi con questi. Dopo vari negoziati, nel 1620 si riconciliò definitivamente col figlio e con la pace di Angers ottenne di essere prosciolta da
ogni accusa.
Probabilmente Maria decise allora di giustificare il suo operato attraverso un
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grande ciclo pittorico: tornata a Parigi, prese un primo accordo col pittore che prevedeva quattordici quadri raffiguranti scene della gioventù di Maria e della sua vita
come moglie di Enrico IV:
•
La nascita della regina, a Firenze il 26 aprile 1573;
•
L'educazione della regina;
•
Enrico IV riceve il ritratto di Maria de' Medici e si lascia disarmare dall'Amore;
•
Il matrimonio per procura di Maria de' Medici e Enrico IV, a Firenze il 5 ottobre 1600;
•
L'arrivo della regina a Marsiglia, il 3 novembre 1600;
•
L'arrivo della regina a Lione, il 9 dicembre 1600;
•
La nascita del Delfino, futuro Luigi XIII, a Fontainebleau, il 27 settembre 1601;
•
L'incoronazione della regina all'abbazia di Saint-Denis, il 13 maggio 1610;
•
Apoteosi di Enrico IV e la proclamazione della reggenza, il 14 maggio 1610;
•
La presa di Jülich, il primo settembre 1610;
•
La pace della reggenza
•
Il consiglio degli dei per il matrimonio della Francia e della Spagna.
Vennero anche progettati tre o quattro dipinti con ritratti allegorici sul tema del
doppio matrimonio tra la Francia e la Spagna, ovvero sui matrimoni fra Luigi XIII e
Anna d'Austria e Filippo IV e Isabella di Francia, infine La maggiore età di Luigi XIII,
il 20 ottobre 1614.
Realizzate le prime nove scene, si decise di limitare ad una sola tela le Le Nozze
spagnole, realizzando la scena con Lo scambio delle due principesse di Francia e Spagna sulla Bidassoa a Hendaye, il 9 novembre 1615. Per iniziativa di Nicolas de Peiresc, prima dell'Incoronazione, venne dedicato un quadro alla consegna della reggenza
da parte di Enrico IV a Maria prima della partenza del primo per la guerra contro Jü lich, il Rubens realizzò la tela con i Preparativi del re per la guerra, o La regina riceve
la reggenza, il 20 marzo 1610.
Apportate queste variazioni rimasero libere cinque zone, il 26 agosto fu il Peiresc
stesso a comunicare i restanti temi, invitandolo a trattarli «con figure mistiche e con
ogni rispetto al figlio»: La partenza di Maria da Parigi, successivamente rimosso, e sostituito per volontà del re Luigi XIII, con la tela con La felicità della Reggenza, La regina fugge dal castello di Blois nella notte tra il 21 e il 22 febbraio 1619, Il trattato d'Angoulême, il 30 aprile 1619, Il rinnovato inizio delle ostilità presso Pont de Cé, soggetto
abbandonato, ma ancora menzionato nella corrispondenza dell'artista dell'agosto
1622, e La conclusione della pace ad Angers, il 10 agosto 1620, con questo il ciclo do veva concludersi facendo retrocedere la Maggiore età di Luigi XIII al quattordicesimo
posto.
Questi temi, ad una prima lettura, possono apparire problematici, per i delicati
equilibri politici, tra la regina e il figlio: il primo narra la precipitosa fuga di Maria
dalla capitale francese a seguito di una sollevazione provocata dal pessimo governo
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del suo favorito e il suo confinamento nel castello di Blois ad opera del re, nel secondo
la fuga da Blois significava l'aperta ribellione al re, nel terzo è l'accordo di Angoulême, che se non aveva fatto finire la guerra civile, aveva almeno gettato un ponte per
un primo accordo, nel quarto, mai realizzato, le truppe di Maria erano sonoramente
battute.
La scelta di questi temi ad una lettura più attenta e tenendo conto dell'influsso
allora esercitato dal cardinale Richelieu, allineato durante la ribellione dalla parte delle regina, successivamente relegato da Luigi XIII ad Avignone, dove accolse positivamente la notizia della riconciliazione fra madre e figlio, adoperandosi prima nelle
trattative di Angoulême poi di Angers, tendono a presentare Maria de' Medici come
incolpevole, la sua temporanea inimicizia col figlio come opera dei nemici della Francia e a sottolineare la loro nuova intesa come opera del Richelieu. Secondo le Memorie
del cardinale fu il favorito del re il Conestabile Luynes il vero responsabile dell'inimicizia tra la madre e il figlio, infatti nella Galleria, l'ultimo quadro eseguito successivamente dal Rubens, venne intitolato Riconciliazione della regina col figlio dopo la morte del Conestabile di Luynes, il 15 dicembre 1621.
Anche se la Partenza da Parigi, venne successivamente rimossa, nelle Memorie
del Richelieu la fuga da Parigi viene spiegata come necessità in seguito alla morte di
Concino Concini, la fuga da Blois, venne lasciata in quanto la regina voleva conservare almeno in un quadro il ricordo delle sofferenze subite, La Pace di Angoulême, narrava le trattative svolte a Angoulême tra la regina e il plenipotenziario del re, queste
rimaste senza risultati videro l'attiva partecipazione del Richelieu che ottenne per
questo l'abito cardinalizio. Tra il 1621 e il 1622, preparò i cartoni per dodici arazzi con
la Storia dell’imperatore Costantino, su commissione di Luigi XIII.
Ultimi anni
Tra il 1625 e il 1628, preparò i bozzetti di quindici grandi arazzi col Trionfo del l'eucaristia, su commissione dell’arciduchessa Isabella e destinati al convento madrileno delle Carmelitane scalze. Tra il 1627 e il 1631, su commissione di Maria de' Medici, iniziò la decorazione della Galleria di Enrico IV, del progetto abbandonato rimangono due grandi composizioni, ampiamente abbozzate, alla Galleria degli Uffizi e alcuni schizzi al Museo di Bayonne e alla Wallace Collection di Londra.
Nel 1627 acquistò una casa di campagna ad Ekeren. L'anno successivo Rubens è
in missione diplomatica alla corte del re spagnolo Filippo IV e tra il 1629 il 1630 fu alla
corte di Carlo I d'Inghilterra. Tra il 1629 e il 1634 lavorò, su commissione di Carlo I
d'Inghilterra, alla decorazione della Banqueting House di Whitehall a Londra realizzando nove dipinti con la Glorificazione di Giacomo I.
Tra il 1630 e il 1632 realizzò la serie di otto arazzi con la Storia di Achille. Nel
1635, comperò la tenuta dello Steen a Elewyt, nello stesso anno realizzò gli apparati
per l'entrata trionfale ad Anversa del nuovo governatore generale dei Paesi Bassi, l'arciduca Ferdinando d'Austria. Tra il 1637 e il 1638, venne chiamato a realizzare la decorazione della Torre de la Parada, o meglio venticinque stanze del padiglione di caccia del re spagnolo Filippo IV, realizzando una serie di schizzi per 112 dipinti con scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio.
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La vena artistica di Rubens mescolò linee classicheggianti con quelle barocche di
dilatazione delle forme, di ritmo infinito, di fastosità e di bellezze decorative, e uno
sfondo di realismo che fa da scenario alla trasfigurazione dei sensi.
Antoon van Dyck
Antoon van Dyck (Anversa, 22 marzo 1599 – Londra, 9 dicembre 1641) è stato un
pittore fiammingo, principalmente ritrattista, che divenne il primo pittore di corte in
Inghilterra, dopo un lungo soggiorno in Italia. È universalmente noto per i ritratti della nobiltà genovese e di Carlo I re d'Inghilterra, dei membri della sua famiglia e della
sua corte. Con il suo metodo di pittura di rilassata eleganza, influenzò i ritrattisti inglesi, come Peter Lely, per i successivi anni. Oltre ai ritratti, per i quali fu molto apprezzato, si occupò anche di soggetti biblici e mitologici, introducendo alcune notevoli innovazioni pittoriche.
Fu allievo e amico del pittore Pieter Paul Rubens, del quale assimilò la tecnica e,
in parte, lo stile.
Dopo aver trascorso la giovinezza ad Anversa, si spostò in Italia, dove compì il
rituale viaggio di formazione, caratteristico di tutti i grandi pittori fiamminghi. Qui
ebbe l'opportunità di vedere e copiare alcune grandi opere rinascimentali, specialmente del suo pittore favorito, Tiziano. Di ritorno dall'Italia, passò in Inghilterra, alla
corte di Carlo I Stuart, dove si occupò quasi esclusivamente di ritratti.
Biografia
Primi anni e formazione
Van Dyck nacque ad Anversa il 22 marzo 1599 in una casa chiamata "Den Berendans", nel centro della città. Il nonno Antoon (1529-1581), dopo essere stato pittore,
aveva aperto un'attività da commerciante di seta; alla sua morte, sua moglie Cornelia
Pruystinck continuò l'attività del marito, affiancata dai figli Francesco e Ferdinando.
L'attività rendeva parecchio, visto che la famiglia aveva clienti persino a Parigi e Londra, oltre che in gran parte delle città fiamminghe.
Il padre di Antoon, Franchois, sposò in seconde nozze, nel 1590, Maria Cuypers.
Dal matrimonio con questa donna, ebbe dodici figli, di cui Antoon fu il settimo. Visto
l'allargarsi della famiglia, i Van Dyck decisero di acquistare una nuova casa, spaziosa
e lussuosamente arredata, "De Stadt van Ghendt", comprendente persino un bagno.
Antoon si dimostrò subito ricco di talento e fu inviato, nel 1609, presso la bottega di
uno dei migliori pittori della città, Hendrick van Balen, decano della Gilda di San
Luca, perché imparasse i rudimenti della pittura e facesse esperienza. Il primo dipinto
datato di Van Dyck è proprio di questi anni ed è il Ritratto di uomo settantenne del
1613, in cui sono evidenti i recenti insegnamenti di Van Balen. Ben presto però, aprì
una bottega personale, assieme al giovane amico Jan Brueghel il Giovane, con il quale
iniziò ad abbandonare la scuola del maestro. In questi anni, come tramanda lo stesso
Jan Brueghel, Antoon ricevette l'incarico di eseguire una serie di dipinti raffiguranti i
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dodici apostoli ed un Sileno ebbro. Di questo periodo è senza dubbio anche l'Autoritratto del 1613-14.
A partire dal 1617, Van Dyck lavorò a stretto contatto con Pieter Paul Rubens, di
cui divenne allievo, abbandonando la sua bottega autonoma. Seguirono mesi di grande collaborazione tra i due: Rubens parla di Van Dyck come del suo migliore allievo.
Anche dopo l'11 febbraio 1618, giorno in cui venne ammesso nella Gilda di San Luca
come maestro, Van Dyck lavorò con Rubens alla realizzazione di tele come Decio
Mure congeda i littori o Achille tra le figlie di Licomede. Nella bottega di Rubens, ormai pittore affermato in tutta Europa, Van Dyck fece conoscere il suo nome negli ambienti dell'aristocrazia e della ricca borghesia e venne a contatto con la cultura classica
e l'etichetta di corte. Il giovane Antoon imparò ad imitare i modelli del maestro, adottandone molte caratteristiche, come è facile constatare nel dipinto L'imperatore Teodosio e sant'Ambrogio. Nel 1620 Rubens aveva firmato un contratto con i Gesuiti di
Anversa per la decorazione della loro chiesa, basata su disegni di Rubens, ma eseguita da Van Dyck; oltre a questa importante commessa, Antoon ricevette anche numerose richieste da privati per la realizzazione di ritratti. Risalgono a questi anni dipinti
come il Ritratto di Cornelius van der Geest o Maria van de Wouwer-Clarisse.
Primo periodo inglese
Nell'ottobre del 1620, quando aveva ventuno anni, Van Dyck si trasferì a Londra,
presso la corte del re d'Inghilterra Giacomo I. A convincerlo a spostarsi in Inghilterra
erano stati l'insistenza del duca di Buckingham e di Thomas Howard, XXI conte di
Arundel, quest'ultimo grande appassionato d'arte, amico di Rubens e protettore di
Inigo Jones. Durante il soggiorno a Londra, ottenne da Giacomo I una pensione an nuale di cento sterline; tuttavia ben presto il conte di Arundel gli concesse un permesso di viaggio all'estero per otto mesi: non sarebbe tornato per undici anni. Le opere
eseguite da Van Dyck durante il primo soggiorno inglese sono profondamente diverse da quelle realizzate sino ad allora nelle Fiandre. Ad Anversa, da poco ritornata al
cattolicesimo, Antoon aveva la possibilità di eseguire solamente tele a carattere religioso o ritratti. A Londra invece godette di maggiore libertà, sia nell'esecuzione dei
dipinti, sia nelle scelta del tema da rappresentare. Nel quadro Sir George Villiers, fu turo duca di Buckingham e la moglie Lady Katherine, come Venere e Adone, per
esempio, Van Dyck rappresenta i novelli sposi come non aveva mai fatto: la tela ha
carattere allegorico, con un gusto tipicamente pastorale, ispirato a Tiziano, e i due
soggetti sono rappresentati a grandezza naturale. Altri dipinti conosciuti del periodo
sono La continenza di Scipione ed un ritratto del conte di Arundel.
Tornato ad Anversa, vi rimase per circa otto mesi; in questo lasso di tempo, in
cui Rubens si trovava lontano, dipinse alcuni dei suoi ritratti più brillanti ed innovativi, come il Ritratto di Isabella Brant, prima moglie di Rubens, ed il Ritratto di Frans
Snyders e di sua moglie Margareta de Vos. Quando comunicò la sua decisione di partire per l'Italia, Rubens gli fece dono di un cavallo per il viaggio e di numerose lettere
di presentazione a pittori e a committenti.
Italia
Nel 1621 decise di partire per l'Italia, tradizionale viaggio dei pittori fiamminghi,
dove rimase per sei anni, studiando ed analizzando i lavori dei grandi artisti del
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Quattrocento e del Cinquecento e dove si affermò la sua fama di ritrattista. Il 3 ottobre
1621 partì dalla città natale alla volta della prima tappa italiana: Genova. Arrivò nella
città marittima, in quel tempo retta da un governo dogale, il 20 novembre 1621 e prese alloggio nella dimora dei pittori e collezionisti d'arte fiamminghi Lucas e Cornelis
de Wael. Al suo arrivo a Genova, Antoon aveva già realizzato circa trecento dipinti,
situazione opposta a quella del suo maestro Rubens o di Nicolas Poussin, che al loro
arrivo in Italia non avevano ancora avuto occasione di lavorare così intensamente.
Presentato alla migliore aristocrazia cittadina, ebbe modo di ritrarre alcuni esponenti
delle più facoltose famiglie del patriziato locale (Spinola, Durazzo, Lomellini, Doria,
Brignole etc.); il suo immediato successo è dovuto in modo particolare alla fama di
Rubens, che era vissuto ed aveva lavorato molto a Genova, e di cui Van Dyck era vi sto come il nuovo rappresentante e continuatore.
In seguito alla fortunata esperienza genovese, Van Dyck partì, nel febbraio 1622,
alla volta di Roma, dove soggiornò sino all'agosto di quell'anno e per gran parte del
1623. Accolto con favore nella Roma pontificia, venne introdotto nei migliori ambienti
della società; durante il suo secondo soggiorno ricevette dal cardinale Guido Bentivoglio due importanti commissioni, che consistevano nella realizzazione di una Crocifissione e di un ritratto a figura intera dello stesso cardinale, il Ritratto del cardinale
Guido Bentivoglio. Bentivoglio era divenuto cardinale l'anno prima ed era il protettore della folta comunità fiamminga romana, essendo stato nunzio pontificio a Bruxelles dal 1607 al 1615. Oltre al ritratto del cardinale Bentivoglio, uno dei più famosi di
tutta la produzione di Van Dyck, il giovane pittore ritrasse anche il cardinale Maffeo
Barberini, che sarebbe divenuto di lì a poco papa, con il nome di Urbano VIII. Di questo periodo sono anche numerosi ritratti come quelli dei coniugi Shirley (Ritratto di
Lady Theresa Shirley e Ritratto di Sir Robert Shirley). A differenza del maestro Rubens, Van Dyck non amò mai il mondo classico. Ne è testimonianza il suo Taccuino
italiano, diario di schizzi e disegni realizzati sulla base di grandi opere studiate durante il soggiorno italiano. A Roma ebbe comunque l'opportunità di osservare e copiare i capolavori dei grandi del Rinascimento, contenuti principalmente a Palazzo
Ludovisi e a Villa Borghese.
Dalla città papale si trasferì a Firenze, dove conobbe don Lorenzo de' Medici, figlio del granduca Ferdinando I, grande appassionato d'arte e generoso mecenate. Probabilmente dipinse un ritratto del nobiluomo, che è andato perduto. Lungo la strada
per raggiungere il Veneto, sostò a Bologna e a Parma, dove ammirò gli affreschi di
Correggio. Giunse infine a Venezia, dove trascorse l'inverno 1622. Nella città lagunare, patria di uno dei suoi artisti favoriti, Tiziano, fu guidato alla visita dei grandi capolavori veneziani proprio dal nipote di Tiziano, Cesare Vecellio. Antoon poté finalmente coronare il suo sogno, vedere ed analizzare le opere di Tiziano e di Paolo Vero nese: nel suo Taccuino italiano sono presenti disegni di opere di Giorgione, Raffaello,
Guercino, Carracci, Bellini, Tintoretto, Leonardo, ma a prevalere sono quelle di Tiziano, cui sono dedicate duecento pagine.
Da Mantova a Palermo
Da Venezia passò a Mantova, dove fu introdotto alla corte dei Gonzaga. Qui conobbe Ferdinando e Vincenzo II Gonzaga, che era stato protettore di Rubens. Con il
soggiorno a Mantova, Van Dyck ebbe la possibilità di vedere la collezione dei duchi
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prima che venisse dispersa. Nel 1623 fu nuovamente a Roma, città nella quale si era
rifiutato di venire in contatto con la locale associazione di pittori fiamminghi, lontani
dallo stile accademico, che conducevano una vita semplice e non ostentata come la
sua. Gian Pietro Bellori, nella sua opera Le Vite de' pittori scultori e architetti moderni
così scrive del periodo romano di Van Dyck:
« Erano le sue maniere signorili più tosto che di uomo privato, e risplendeva in
ricco portamento di abito e divise, perché assuefatto nella scuola del Rubens con uomini nobili, ed essendo egli natura elevato e desideroso di farsi illustre, perciò oltre li
drappi si adornava il capo con penne e cintigli, portava collane d'oro attraversate al
petto, con seguito di servitori. Siché imitando egli la pompa di Zeusi, tirava a sé gli
occhi di ciascuno: la qual cosa, che doveva riputarsi ad onore da' pittori fiamminghi
che dimoravano in Roma, gli concitò contro un astio ed odio grandissimo: poiché essi,
avvezzi in quel tempo a vivere giocondamente insieme, erano soliti, venendo uno di
loro nuovamente a Roma, convitarsi ad una cena all'osteria ed imporgli un soprannome, col quale dopo da loro veniva chiamato. Ricusò Antonio queste baccanali; ed essi,
recandosi a dispregio la sua ritiratezza, lo condannavano come ambizioso, biasimando insieme la superbia e l'arte. »
Da Roma passò a Genova, fermandosi prima a Milano e a Torino, dove fu ricevuto dai Savoia.
Nell'aprile 1624 Emanuele Filiberto di Savoia, viceré di Sicilia per conto del re di
Spagna Filippo IV, invitò Van Dyck a Palermo, perché gli facesse un ritratto. Antoon
accolse l'invito e si trasferì in Sicilia, dove ritrasse il viceré; poco tempo dopo la città
di Palermo fu colpita da una terribile epidemia di peste che uccise lo stesso Emanuele
Filiberto. Malgrado l'infuriare della pestilenza, Van Dyck rimase in città all'incirca
fino al settembre 1624. Qui conobbe l'anziana pittrice Sofonisba Anguissola, ormai novantenne, che sarebbe morta l'anno seguente e di cui Antoon fece un ritratto. Durante
l'incontro, che Van Dyck descrisse come "cortesissimo", l'anziana donna, quasi completamente cieca, diede preziosi consigli ed avvertimenti al giovane pittore, oltre a
raccontargli episodi della sua vita. Il ritratto di Sofonisba Anguissola è conservato nel
Taccuino italiano. Poco dopo il ritrovamento delle reliquie di santa Rosalia (15 luglio),
che fu fatta patrona della città, a Van Dyck furono commissionate alcune tele che
avrebbero dovuto raffigurare la santa. Visto il continuo infuriare della peste, Antoon
tornò a Genova, dove completò la realizzazione della pala Madonna del rosario, poi
inviata a Palermo, considerata come il maggior capolavoro religioso dell'artista. Negli
anni che seguirono, sino al 1627, Van Dyck risiedette quasi sempre a Genova, eccetto
un breve periodo nel 1625 in cui fu ospite in Provenza dell'umanista Nicolas-Claude
Fabri de Peiresc.
Durante il periodo di permanenza a Genova, Antoon van Dyck fu soprattutto ritrattista. Pur non abbandonando temi religiosi e mitologici, l'artista si concentrò sul
genere del ritratto: le sue tele erano solitamente di grandi dimensioni e raffiguravano
personaggi della migliore nobiltà spesso a figura intera. I ritratti spiccano per la loro
maestosità e per la grande resa psicologica delle persone, che emerge senza il bisogno
di un simbolismo particolare. I ritratti doppi sono rari e sempre divisi in due tele differenti, come il Ritratto equestre di Anton Giulio Brignole-Sale, creato assieme al Ritratto di Paolina Adorno, marchesa di Brignole-Sale. Attenzione particolare è rivolta
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da Van Dyck ai ritratti di gruppo, come La famiglia Lomellini, e ai ritratti di bambini.
Pur essendo ancora una volta Rubens il suo costante riferimento, Van Dyck riesce a
far irradiare dai suoi personaggi un maggiore distacco ed il senso di grandeur che i
grandi nomi della ricca aristocrazia cittadina desideravano mostrare. I bambini sono
colti con grande maestria, singolarmente, come nel caso del Ritratto di Filippo Cattaneo ed il Ritratto di Maddalena Cattaneo (già nota come Clelia Cattaneo) o accompagnati dai loro genitori, come il Ritratto di nobildonna genovese con il figlio.
Il ritorno nelle Fiandre
Nel settembre 1627 tornò nella natia Anversa, richiamato dalla morte della sorella Cornelia. I primi mesi furono caratterizzati da una grande produzione religiosa:
Antoon, fervente cattolico, si unì alla Confraternita dei Celibi, creata dai gesuiti di
Anversa, che gli commissionarono anche due pale d'altare, eseguite tra il 1629 ed il
1630. In questo periodo i ritratti di carattere mitologico (Sansone e Dalila) sono rari,
mentre abbondano quelli a carattere biblico-religioso, tra i quali spiccano il dipinto
Estasi di sant'Agostino, posto accanto ad una tela di Rubens e ad una di Jordaens e
l'Adorazione dei pastori. Oltre a ciò, Van Dyck eseguì anche sei Crocifissioni, un
Compianto sul Cristo morto e una Incoronazione di spine. Tutti questi lavori sono intrisi di un fervore e di una profondità intensi e mistici, ma soprattutto nell'ultimo, appaiono note preromantiche oltre alla linea barocca predominante.
La fama di grande ritrattista con la quale era tornato dal soggiorno in Italia, gli
permise di entrare al servizio dell'arciduchessa Isabella d'Asburgo, reggente dei Paesi
Bassi per conto del re di Spagna, di cui divenne pittore di corte. Dipinse un ritratto
dell'arciduchessa, per il quale ricevette in cambio una collana d'oro, e di numerosi
membri della sua corte. Con l'ingresso a corte crebbe maggiormente la sua fama di ritrattista. I committenti erano molto numerosi ed appartenevano alle grandi famiglie
della nobiltà di Fiandra e del Brabante. Uno dei maggiori lavori dell'epoca è il Ritratto
di Maria Luisa de Tassis, appartenente ad una delle più ricche famiglie del nord Europa. La nobildonna appare fiduciosa, consapevole della propria bellezza, con un abito prezioso ed elaborato. Nel settembre 1631 Van Dyck ricevette nel suo atelier la regina di Francia Maria de' Medici assieme al figlio minore Gastone d'Orléans, in esilio,
che si fecero ritrarre. La regina ha lasciato un resoconto della sua visita a Van Dyck,
ammettendo di aver visto nella sua collezione diverse opere di Tiziano. Antoon era
infatti riuscito ad accumulare un numero consistente di opere di pittori italiani: diciassette di Tiziano, due di Tintoretto, tre di Anthonis Mor, tre di Jacopo da Bassano e
altre. Oltre ai ritratti di personaggi aristocratici, Van Dyck ritrasse anche amici artisti,
come l'incisore Karel de Mallery, il musicista Henricus Liberti ed il pittore Marin Rijckaert. E malgrado le Fiandre e l'Olanda fossero in guerra, Van Dyck riuscì a giungere
alla corte de L'Aja, dove ritrasse Federico Enrico d'Orange con la moglie ed il figlio
Guglielmo. Per il principe eseguì anche due tele con soggetti ripresi dalla letteratura
italiana, Amarilli e Mirtillo (da Guarini) e Rinaldo e Armida (da Tasso). Presso la città
di Haarlem, conobbe Frans Hals. E durante un secondo soggiorno in Olanda, tra il
1631 ed il 1632 conobbe anche Federico V, ex re di Boemia in esilio, che gli commissio nò i ritratti dei due figli, Carlo Luigi e Rupert. Dal 1629 iniziarono i rapporti tra Van
Dyck ed il re inglese Carlo I. Tramite il suo intermediario Sir Endymion Porter, il re
acquistò la tela a carattere mitologico Rinaldo e Armida.
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Londra
Carlo I fu, tra i sovrani inglesi del passato e quelli europei suoi contemporanei,
quello che più apprezzò l'arte pittorica e che si dimostrò sempre un munifico mecenate e protettore degli artisti. Il pittore preferito dal re era Tiziano ed in Van Dyck vedeva il suo erede: prima dell'arrivo di Van Dyck a Londra, alla corte di Carlo lavoravano già numerosi pittori, come l'anziano Marcus Gheeraerts il Giovane, ritrattista di
Elisabetta I, Daniel Mytens e Cornelis Janssens van Ceulen. Con l'arrivo di Van Dyck,
tutti questi pittori sparirono. Carlo aveva trovato finalmente il pittore di corte che desiderava da anni.
Qualche anno prima, nel 1628 Carlo aveva acquistato dal duca di Mantova la
grande collezione di dipinti accumulati negli anni dai Gonzaga, anch'essi noti protettori di artisti di fama internazionale. Inoltre, fin dalla sua ascesa al trono, Carlo I aveva cercato di introdurre alla sua corte artisti di diverse nazionalità, in particolare italiani e fiamminghi. Nel 1626 era riuscito a convincere a trasferirsi a Londra il pittore
italiano Orazio Gentileschi, che fu nominato pittore di corte e che si dedicò, tra le altre
cose, alla decorazione della Casa delle Delizie, residenza della regina Enrichetta Maria presso la città di Greenwich. Pochi anni dopo, nel 1638 riuscì a far approdare in Inghilterra anche la figlia di Orazio, Artemisia Gentileschi di cui conservò un celebre dipinto, l'Autoritratto in veste di Pittura.
Entro l'aprile 1632, Van Dyck era giunto per la seconda volta in Inghilterra. Accolto con tutti gli onori, fu presentato al re, che aveva conosciuto anni prima come
principe di Galles, e prese alloggio a Londra, presso la dimora di Edward Norgate,
scrittore d'arte, a spese della Corona. In seguito cambiò residenza per stabilirsi a
Blackfriars, lontano dall'influenza della Worshipful Company of Painter-Stainers, importante organizzazione di pittori londinese. In questa grande casa, dono del re, con
un giardino sul Tamigi, riceveva ospiti e spesso eseguiva i suoi dipinti. Pochi mesi
dopo, il 5 luglio 1632 Carlo I gli conferì il titolo nobiliare di baronetto, nominandolo
membro dell'Ordine del Bagno e gli garantì una rendita annua di duecento sterline,
oltre a rendere ufficiale la sua nomina a primo pittore di Corte. Bellori si espresse in
questo modo sul periodo inglese di Van Dyck:
« Contrastava egli con la magnificenza di Parrasio, tenendo servi, carrozze, cavalli, suonatori, musici e buffoni, e con questi trattenimenti dava luogo a tutti li maggiori personaggi, cavalieri e dame, che venivano giornalmente a farsi ritrarre in casa
sua. Di più trattenendosi questi, apprestava loro lautissime vivande alla sua tavola,
con ispesa di trenta scudi il giorno. »
Tuttavia, nel 1634, per circa un anno, Van Dyck decise di trasferirsi ad Anversa e
a Bruxelles, per far visita alla famiglia. Dopo aver acquistato una tenuta ad Anversa,
in aprile fu chiamato a Bruxelles. Qui assistette all'entrata in città del Cardinale-Infante Ferdinando d'Asburgo, fratello del re Filippo IV di Spagna, nuovo reggente dei
Paesi Bassi spagnoli. Van Dyck ritrasse numerose volte il nuovo reggente e numerosi
esponenti del clero e dell'aristocrazia. Uno dei più ambiziosi ritratti di gruppo di questi anni è il Ritratto del conte Johannes di Nassau Siegen e la sua famiglia. Nel corso
del suo soggiorno a Bruxelles incontrò anche Tommaso Francesco di Savoia, primo
principe di Carignano e comandante generale delle forze spagnole nei Paesi Bassi, di
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cui eseguì un grande ritratto equestre, in cui il principe appare in tutta la sua maestà,
tenendo con fermezza uno splendido cavallo bianco mentre si impenna. Questo ritratto fu anche modello per il Ritratto del conte-duca di Olivares a cavallo di Diego Velázquez. Poco prima del suo ritorno in Inghilterra, Van Dyck fu chiamato ad eseguire
un grande ritratto di gruppo raffigurante tutti i membri del Consiglio cittadino e del
borgomastro, coloro che avevano il compito di governare la città. Il quadro era destinato alla sala del tribunale del Municipio di Bruxelles. Durante il bombardamento
francese su Bruxelles ordinato dal maresciallo de Villeroi nel 1695, il dipinto andò distrutto.
Tornato a Londra, Van Dyck entrò a far parte del folto gruppo di cortigiani cattolici fedeli alla regina Enrichetta Maria, tra cui Kenelm Digby ed Endymion Porter. Il
re si fece ritrarre innumerevoli volte, in ritratti singoli, accompagnato dalla regina o
dai figli. La tela più famosa di Carlo assieme alla sua famiglia è il Greate Peece, di
grande formato e raffigurante il re e la regina seduti: accanto al sovrano sta in piedi il
piccolo Carlo, principe del Galles, mentre fra le braccia della regina siede Giacomo,
duca di York. La regina fu altrettanto esigente con Van Dyck, che la ritrasse in molte
tele, tra cui il più celebre è La regina Enrichetta Maria con il nano Jeffrey Hudson, in
cui Enrichetta, con abiti da caccia è raffigurata in compagnia del suo nano Jeffrey
Hudson. Alla regina, piuttosto bassa, Van Dyck addolcì la forma del naso e la mascella, enfatizzando il candore della carnagione. Carlo commissionò anche dipinti raffiguranti i suoi figli, come I tre figli maggiori di Carlo I, un ritratto di nobiltà tra i più riusciti, suggestivo quanto sontuoso, poi inviato dalla regina a sua sorella la duchessa di
Savoia e I cinque figli maggiori di Carlo I.
Oltre a dipingere, Antoon apriva la sua casa alla migliore nobiltà e si intratteneva con musici e buffoni; offriva banchetti, possedeva servi, carrozze e cavalli. Uno dei
più assidui frequentatori della casa di Van Dyck era proprio Carlo I, che fece addirittura fare delle modifiche al giardino della casa del suo pittore perché potesse raggiun gerlo facilmente via fiume. Nella casa di Van Dyck visse anche la sua amante, Margaret Lemon, ritratta più volte in vesti allegoriche e mitologiche. Si dice che la donna
fosse talmente gelosa di Antoon che una volta tentò di mordergli un dito della mano
per impedirgli di ritrarre delle signore. Nel 1640 Antoon decise di prendere moglie e,
ormai quarantenne, sposò una nobildonna scozzese, Mary Ruthven, dama di compagnia della regina. Ma l'unica sua attività a Londra era quella di ritrattista, mentre egli
sognava un progetto più grande, un ciclo pittorico di carattere di storico. Aveva iniziato la realizzazione di una serie di arazzi volti all'esaltazione dell'antico Ordine della Giarrettiera, che però non ebbe seguito. Quando nel maggio 1640 morì Rubens, gli
venne offerto di andare ad Anversa a dirigere la sua bottega. Mentre stava per partire, gli venne riferito che il re di Francia Luigi XIII era alla ricerca di un artista che decorasse le sale principali della reggia del Louvre. Era ciò che stava aspettando da
anni; nel gennaio 1641 si recò a Parigi, rientrando a Londra in maggio. In questa occasione dipinse il doppio ritratto Ritratto di Guglielmo II di Nassau-Orange e la principessa Maria, per celebrare le nozze tra i due principi. In ottobre si recò ad Anversa e
poi di nuovo a Parigi, dove ricevette la notizia che la decorazione del Louvre era stata
affidata a Nicolas Poussin e a Simon Vouet e dove fu costretto a rifiutare l'esecuzione
del ritratto di un cardinale (non si sa se Richelieu o Mazzarino). Per motivi di salute
236
dovette fare precipitosamente ritorno a Londra. Il re inviò presso la dimora di Van
Dyck il suo medico personale, offrendogli trecento sterline se fosse riuscito a salvare
la vita del suo pittore. Il 1º dicembre 1641 lady Van Dyck diede alla luce la loro prima
figlia, Justiniana. Qualche giorno dopo Antoon fece testamento, a favore della figlia,
della moglie, delle sorelle e di una figlia naturale che aveva avuto ad Anversa. Il 9 dicembre Antoon van Dyck morì nella sua casa di Blackfriars e venne sepolto alla presenza della corte nella Cattedrale di San Paolo. La tomba andò distrutta pochi anni
dopo, insieme alla Cattedrale stessa, nel Grande incendio di Londra nel 1666.
L'artista e le opere
La vicenda di Van Dyck è per molti versi assimilabile a quella di Raffaello: entrambi morirono giovani, entrambi morirono prima di vedere l'uno le atrocità del Sacco di Roma, l'altro i disordini della guerra civile. Van Dyck morì prima di vedere il
suo re processato e decapitato dinnanzi al suo palazzo di Whitehall. All'esecuzione
del re, seguì la dispersione della sua collezione artistica, che contava 1570 dipinti, tra
cui i molti eseguiti da Van Dyck; tra i maggiori compratori Filippo IV di Spagna ed il
cardinale Giulio Mazzarino.
Van Dyck fu soprattutto ritrattista; ma non vanno dimenticati i suoi lavori di carattere religioso e mitologico.
Rubens e Van Dyck
I primi contatti fra Rubens ed il giovane Van Dyck risalgono al 1615, quando Antoon aveva aperto una bottega personale. Molti importanti pittori di Anversa, come
Frans Snyders, facevano visita alla bottega, per dare consigli o anche semplicemente
per osservare il lavoro del giovane talento. Qualche anno dopo Antoon entrò effettivamente nella bottega di Rubens, di cui aveva potuto ammirare le grandi pale conservate nelle chiese cittadine. Durante il loro periodo di collaborazione erano soliti agire
in questo modo: Rubens cercava i committenti, preparava i bozzi ed i disegni preparatori, ma poi era Van Dyck ed eseguire il dipinto. Testimoni di ciò sono le numerose
opere del periodo, come le Storie di Decio, di carattere profano, e la decorazione del
soffitto della chiesa del Gesù di Anversa, di carattere sacro. Secondo alcune fonti, Van
Dyck fu dunque ammiratore ed allievo di Rubens, ma anche un assistente ed un amico, come testimonierebbe il Ritratto di Isabella Brant, raffigurante la prima moglie di
Rubens, regalato al grande pittore da Antoon ed i ritratti di Van Dyck eseguiti da Rubens, che lo aveva definito come il migliore dei suoi allievi. Altre fonti invece fanno
apparire Van Dyck come un ammiratore sincero di Rubens in gioventù, che identificava come un modello per i suoi dipinti, ma che col passare del tempo era divenuto
una presenza troppo ingombrante nella piccola realtà delle Fiandre, tanto da costringere il giovane Antoon a cercare fortuna prima in Inghilterra, poi in Italia. Ed anche
Rubens, quando si accorse delle capacità del giovane allievo, che avrebbe potuto mettere in ombra il suo nome, fece di tutto per allontanarlo da Anversa, procurandogli
lettere di raccomandazione e garantendogli l'aiuto di ricchi gentiluomini, sia inglesi,
come il conte di Arundel, sia italiani.
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Dipinti religiosi
All'inizio della sua formazione, nella bottega di Van Balen, il giovane Antoon si
cimentò principalmente nella realizzazione di opere a carattere religioso. Nell'Anversa appena riconquistata dal cattolicesimo romano, il genere pittorico più richiesto era
proprio quello religioso e biblico. La prima grande commissione che ricevette Van
Dyck fu proprio l'incarico di realizzare dipinti raffiguranti i dodici apostoli. Con l'avvicinarsi alla bottega di Rubens gli incarichi religiosi crebbero notevolmente. Rappresentativa dei dipinti pittorici a carattere sacro della produzione di Van Dyck è la tela
L'imperatore Teodosio e sant'Ambrogio del 1619-20.
Questa grande tela rappresenta l'incontro tra il peccatore Teodosio I e l'arcivescovo di Milano Ambrogio. Per la realizzazione della tela, Van Dyck fece riferimento a
L'imperatore Teodosio e sant'Ambrogio, che aveva eseguito qualche anno prima assieme a Rubens. Tuttavia le differenze appaiono chiare: nel dipinto di Van Dyck, conservato a Londra ed attualmente esposto a Roma a Palazzo Venezia, l'imperatore è
senza barba, lo sfondo architettonico è maggiormente evidenziato, e oltre al pastorale,
si stagliano nel cielo diverse armi, portate dal seguito di Teodosio. E mentre nella tela
conservata a Vienna di Rubens sul mantello del vescovo si possono vedere ritratti Cristo e san Pietro, che sottolineano l'autorità di Ambrogio, in quella di Van Dyck il
mantello si presenta come un esempio di grande bravura nella realizzazione pittorica
di stoffe e ricami. Altra aggiunta di Van Dyck è il cane, posto ai piedi dell'imperatore.
Le pennellate sono, nel dipinto di Londra, date con energia e vigore, mentre in quella
di Vienna appaiono più morbide e leggere.
Dipinti storici e mitologici
Non presenti costantemente come i dipinti religiosi o i ritratti, i dipinti a carattere mitologico e storico accompagnano comunque tutta la produzione di Van Dyck.
Durante il periodo di collaborazione con Rubens, a Van Dyck fu, per esempio, affidato un ciclo di dipinti che raccontassero ed esaltassero la vita e le imprese del romano
Decio Mure. Tra i suoi dipinti più celebri La continenza di Scipione e Sansone e Dalila. Dopo essere rientrato dall'Italia ed aver visto numerose opere di Tiziano, l'esecuzione dei soggetti acquistò una nuova diversa componente dovuta dall'influenza del
maestro italiano. Il dipinto più famoso di carattere mitologico è senza dubbio l'Amore
e Pische realizzato per il re Carlo I ed ora proprietà della regina Elisabetta II.
Sono fin troppo evidenti in questo dipinto, come in gran parte di quelli a carattere mitologico, i riferimenti alla pittura italiana rinascimentale di Tiziano e Dosso Dossi. Un confronto con il Bacco e Arianna di Tiziano è fondamentale. I soggetti sono rappresentati con una delicatezza ricercata, le pennellate rotonde ed i lineamenti perfettamente definiti. Forte è anche la componente allegorica: Amore sta giungendo a salvare Psiche, dopo che questa, come racconta Apuleio nell'Asino d'oro, è caduta in un
sonno mortale. Dietro al corpo di Psiche, abbandonato su una roccia con morbidezza,
si stagliano due grandi alberi, l'uno rigoglioso, a simboleggiare la vita, l'altro arso e
spoglio, a simboleggiare lo spirito aleggiante della morte. Questa tela è caratterizzata
da un forte sentimento di partecipazione, inserito in una delicata e lirica atmosfera
idilliaca.
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Ritratti del periodo italiano
La principale attività di Van Dyck in Italia, e a Genova in particolare, fu quella di
ritrattista. La nobiltà genovese, che aveva conosciuto l'abilità di Rubens qualche anno
prima, non volle lasciarsi sfuggire l'opportunità di farsi ritrarre dal migliore allievo
del maestro fiammingo. Del resto i rapporti di Van Dyck con l'aristocrazia genovese
precedettero il suo stesso arrivo presso la Superba. È documenatato, infatti, che il primo ritratto di un nobile genovese, quello di Gio. Agostino Balbi (ritratto non ancora
identificato o perduto), sia stato eseguito ad Anversa, prima dell'arrivo di Van Dyck
in Italia. Giunto a Genova fu proprio la casata Balbi ad assegnarli le prime commesse,
imitata poi da gran parte del ceto gentilizio locale. Ecco così che a Van Dyck furono
commissionati numerosissimi ritratti, singoli o di gruppo. Fu in questa occasione che
Van Dyck dimostrò di essere molto abile anche nel ritrarre bambini, gruppi familiari e
uomini a cavallo. Fra i ritratti di gruppo del periodo genovese il più conosciuto è La
famiglia Lomellini.
Come la maggior parte dei ritratti del periodo genovese, non si conoscono con
certezza i nomi dei personaggi ritratti: si suppone comunque che siano la seconda
moglie, i due figli maggiori ed i due figli minori di Giacomo Lomellini, allora Doge
della Repubblica di Genova; Giacomo, che nei due anni di dogado non poteva essere
ritratto, avrebbe commissionato questo ritratto, che si presenta come il più complesso
fra quelli del periodo italiano, a Van Dyck: il figlio maggiore, Nicolò, inserito sotto un
arco trionfale, è rappresentato vestito con l'armatura mentre regge in mano una lancia
spezzata, simbolo della difesa cittadina mente la donna ed i bambini sono rappresentati sotto ad una statua di Venus pudica, a rappresentare la difesa della sfera familiare.
Non solo a Genova, comunque, Van Dyck ebbe occasione di dimostrare il suo talento di ritrattista. Anche in alcune altre tappe del suo soggiorno italiano il mastero di
Anversa eseguì celebri e bellissimi ritratti. A Roma, infatti, ritrasse nel 1623 il cardinale Bentivoglio, mentre a Palermo, nel 1624, realizzò quello del viceré Emanuele Filiberto di Savoia.
Ritratti del periodo inglese
Durante la sua permanenza a Londra, Van Dyck ritrasse numerosi personaggi
della corte e della piccola nobiltà, ma anche membri della famiglia reale. I committenti sono spesso ritratti a figura intera, come nel caso del Ritratto di Lord John e Lord
Bernard Stuart oppure del Ritratto di Thomas Wentworth, I conte di Strafford, ma di
frequente sono rappresentati seduti o a mezzo busto, come il ritratto Dorothy Savage,
viscontessa Andover e sua sorella Elizabeth, Lady Thimbleby. Uno dei migliori e più
interessanti lavori del periodo inglese è il ritratto Carlo Ludovico e Rupert, principi
palatini.
Il dipinto rappresenta i due figli del re d'Inverno Federico V, giunti alla corte del lo zio Carlo I alla ricerca di aiuti finanziari e militari per il padre, in esilio a L'Aia.
Carlo Luigi, sulla destra, è il maggiore dei fratelli, mentre Rupert, sulla destra, è il minore. Carlo Luigi, più motivato nel recupero del trono perduto, è rappresentato con il
bastone del comando militare in mano mentre fissa direttamente l'osservatore con
uno sguardo a metà tra la rassegnazione e la combattività. Rupert invece, più slancia239
to del fratello, guarda l'orizzonte con occhi stanchi e non poggia la mano sulla spada
come il fratello, ma l'avvicina al busto con noncuranza. Il primo farà di tutto per recuperare la dignità paterna, combattendo anche contro lo zio Carlo I, che aveva rifiutato
aiuti militari, mentre il secondo rimarrà alla corte inglese e combatterà durante la
guerra civile divenendo uno dei simboli della fedeltà realista.
Ritratti di Carlo I
Il personaggio che più volte appare nei ritratti eseguiti da Van Dyck è senza dub bio Carlo I Stuart, re d'Inghilterra e suo protettore munifico. Van Dyck lo rappresentò
circondato dalla famiglia, con la sola moglie Enrichetta, ma soprattutto singolarmente. I dipinti sono di vario formato ed il sovrano raffigurato in pose differenti: a cavallo, come nel caso del Carlo I a cavallo, a figura intera, come nel Le Roi à la chasse, a
mezzo busto come nel Re Carlo I e la regina Enrichetta Maria ed infine in più posizio ni, come nel Triplo ritratto di Carlo I, poi inviato a Roma presso la bottega di Bernini.
Il più ambizioso dei ritratti di Carlo è il ritratto equestre in cui il sovrano appare in
compagnia del suo insegnante di equitazione.
Nel Ritratto di Carlo I con M. de Saint-Antonie suo maestro di equitazione, Van
Dyck realizza il più solenne dei ritratti equestri del sovrano: Carlo sta attraversando
un arco di trionfo, dal quale ricadono pesanti drappi verdi, veste l'armatura e tiene in
mano il bastone del comando mentre cavalca uno splendido cavallo bianco. Se la descrizione si fermasse a questo punto sembrerebbe un dipinto di qualche generale vittorioso: ma a sottolineare che è addirittura il re il personaggio ritratto, Van Dyck inserisce alla sinistra del sovrano il suo maestro di equitazione, che guarda verso questi,
dal basso, con uno sguardo di sottomissione e venerazione; alla sinistra invece un
grande stemma che reca i simboli della dinastia reale Stuart ed una imponente corona. Oltre all'amore, sconfinato, del sovrano per l'arte, Carlo la vedeva anche come un
potente mezzo di propaganda politica, specialmente in anni difficili come quelli appena precedenti la guerra civile.
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Lezione XI
IL PRIMO SETTECENTO
Rococò
Il rococò è uno stile ornamentale sviluppatosi in Francia nella prima metà del
Settecento come evoluzione del tardo-barocco. Si distingue per la grande eleganza e
la sfarzosità delle forme, caratterizzate da ondulazioni ramificate in riccioli e lievi arabeschi floreali. Sono espresse soprattutto nelle decorazioni, nell'arredamento, nella
moda e nella produzione di oggetti.
Il termine "rococò" deriva dal francese rocaille, parola usata per indicare un tipo
di decorazione eseguita con pietre, rocce e conchiglie, utilizzate come abbellimento di
padiglioni da giardino e grotte. Il rococò nasce in Francia nel secondo ventennio del
XVIII secolo, sotto il regno di Luigi XV.
Caratterizzato da delicatezza, grazia, eleganza, gioiosità e luminosità si poneva
in netto contrasto con la pesantezza e i colori più forti adottati dal precedente periodo
barocco. I motivi Rococò cercano di riprodurre il sentimento tipico della vita aristocratica libera da preoccupazioni o del romanzo leggero piuttosto che le battaglie eroiche o le figure religiose. Verso la fine del XVIII secolo il rococò verrà a sua volta rimpiazzato dallo stile neoclassico.
Rococò sembra essere una combinazione della parola francese rocaille (conchiglia, guscio) e della parola italiana barocco. Siccome questo stile ama le curve naturali
come quelle presenti nelle conchiglie e si specializza nelle arti decorative, alcuni critici
tendevano erroneamente a ritenerlo frivolo e legato alla moda. Il termine rococò fu
accettato anche dagli storici dell'arte dalla metà del XIX secolo e sebbene ci siano ancora pretestuose discussioni riguardo al significato storico di questo stile, il rococò è
ora largamente considerato come un importante periodo di sviluppo per l'arte e la
cultura europea.
Dal barocco al rococò
Dopo l'opulenza del barocco, che aveva prosperato per tutto il XVII secolo annoverando grandi artisti come Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Pietro da
Cortona, all'inizio del XVIII secolo, nasce in Francia lo stile rococò. Esso si sviluppa
come una elaborazione estrema di motivi già presenti nel barocco, soprattutto nella
decorazione d'interni e nell'arredamento oltre che nei piccoli oggetti di ceramica.
Storia del rococò
Lo stile rococò francese fu inizialmente utilizzato nelle arti decorative e per il design degli interni. La successione di Luigi XV di Francia portò un cambiamento tra gli
artisti di corte e in generale nella moda del tempo. Verso la fine del precedente regno,
i ricchi motivi tipici del barocco stavano dando già spazio ad elementi più leggeri, con
più curve e motivi più naturali. Questi elementi erano già evidenti e riscontrabili, ad
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esempio, nei progetti architettonici di Nicolas Pineau. Durante il regno di Luigi XV la
vita di corte si allontanò dal palazzo di Versailles portando il cambiamento artistico
nel palazzo reale e poi permettendo il suo diffondersi in tutta l'alta società francese.
La delicatezza e la gioia dei motivi rococò sono stati spesso visti come reazione agli
eccessi presenti nel regime di Luigi XIV.
Il 1730 rappresentò il periodo di maggior vitalità e sviluppo del Rococò in Francia. Lo stile si sviluppò bene oltre l'architettura e investì anche l'arredamento, la scultura e la pittura (tra i lavori più esemplificativi vi sono quelli degli artisti Jean-Antoine Watteau e François Boucher).
Il rococò mantenne ancora il sapore tutto barocco delle forme complesse e intricate ma da quel momento iniziò ad integrare diverse e originali caratteristiche quali
l'inclusione di temi orientali o composizioni asimmetriche.
Lo stile rococò si diffuse soprattutto grazie agli artisti francesi e alle pubblicazioni del tempo. Fu prontamente accolto nelle zone cattoliche della Germania, Boemia e
Austria dove venne "fuso" con il barocco tedesco. In particolare nel sud, il rococò tedesco fu applicato con entusiasmo nella costruzione di chiese e palazzi; gli architetti
spesso addobbavano i loro interni con "nuvole" di stucco bianco. In Italia lo stile tardo
Barocco di Francesco Borromini e Guarino Guarini si è evoluto nel Rococò a Torino,
Venezia, Napoli ed in Sicilia, mentre in Toscana ed a Roma l'arte rimase ancora fortemente legata al barocco.
In Inghilterra il nuovo stile fu considerato come "il gusto francese per l'arte", gli
architetti inglesi non seguirono l'esempio dei loro colleghi continentali, ciò nonostante
l'argenteria, la porcellana e le sete furono fortemente influenzate dal rococò. Thomas
Chippendale trasformò il design dell'arredamento inglese attraverso lo studio e l'adattamento del nuovo stile. William Hogarth contribuì a creare una teoria sulla bellezza del rococò; senza riferirsi intenzionalmente al nuovo stile, egli affermò nella sua
Analisi della bellezza (1753) che le curve a S presenti nel rococò erano la base della
bellezza e della grazia presenti in arte e in natura.
La fine del rococò inizia intorno al 1760 quando personaggi del calibro di Voltaire e Jacques-François Blondel muovono delle critiche sulla superficialità e la degenerazione dell'arte. Blondel, in particolare, si lamentò dell'incredibile miscuglio di conchiglie, dragoni, canne, palme e piante nell'arte contemporanea. Nel 1780 il rococò
smette di essere di moda in Francia e viene rimpiazzato dall'ordine e dalla serietà dello stile Neoclassico il cui portabandiera è Jacques-Louis David.
Il rococò rimane popolare in provincia ed in Italia fino alla seconda fase del Neoclassicismo, il cosiddetto "stile Impero", quando grazie al governo napoleonico viene
definitivamente spazzato via.
Un rinnovato interesse per il rococò si ha tra il 1820 e il 1870. L'Inghilterra è la
prima a rivalutare lo "stile Luigi XIV", così come venne erroneamente chiamato all'inizio, e a pagare grosse cifre per comperare gli oggetti rococò di seconda mano che si
potevano trovare a Parigi. Ma anche artisti importanti come Delacroix e mecenati
quali l'imperatrice francese Eugénie riscoprono il valore della grazia e della leggerezza applicata all'arte e al design.
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Il rococò applicato alle arti
Arredamenti e oggetti decorativi durante il periodo rococò
I temi leggeri ma intricati del design rococò si addicono meglio agli oggetti di
scala ridotta piuttosto che imporsi (così come invece nel barocco) nell'architettura e
nella scultura. Non sorprende quindi che il rococò francese fosse usato soprattutto all'interno delle case. Figure di porcellana, argenteria e soprattutto l'arredamento, iniziarono ad applicare il rococò quando l'alta società francese cercava di arredare le
proprie abitazioni nel nuovo stile.
Il rococò ama il carattere esotico dell'arte cinese ed in Francia si sbizzarrisce nella
produzione di porcellane e vasellame per la tavola, boiserie, paraventi. In Germania si
creano grandiosi padiglioni e pagode nei giardini, come per esempio la bellissima
Teehaus del Castello di Potsdam.
Una dinastia di ebanisti parigini, alcuni dei quali nati in Germania, sviluppa uno
stile di linee curve e sinuose in tre dimensioni, dove le superfici impiallacciate sono
completate da intarsi in materiali preziosi come il bronzo, legni pregiati, tartaruga,
marmo, avorio, madreperla. I maggiori autori di questi lavori rispondono ai nomi di
Antoine Gaudreau, Charles Cressent, Jean-Pierre Latz, Françoise Oeben, Jean-Henri
Riesener e Bernard II van Risenbergh.
Disegnatori francesi come François Cuvilliérs e Nicholas Pineau, esportano lo stile a Monaco di Baviera ed a San Pietroburgo, mentre il tedesco Juste-Aurèle Meissonier, si trasferisce a Parigi. Il capostipite e precursore del rococò a Parigi è stato però
Simon-Philippe Poirier. In Francia lo stile rimase abbastanza sobrio e caratterizzata da
un'estrema eleganza e raffinatezza, dato che gli ornamenti, principalmente in legno,
furono meno massicci e apparivano come un misto di motivi floreali, scene, maschere
grottesche, dipinti e intarsi di pietre dure. In Baviera e in generale nella Germania me ridionale, invece, lo stile si fece veramente ricco e ridondante tanto da creare a vere
meraviglie.
Il rococò inglese tende ad essere più moderato, un po' per motivi puritanisti e un
po' per quelli economici. Il disegnatore di mobili Thomas Chippendale mantiene le linee curve ma taglia corto con i costosissimi orpelli alla francese. Il maggior esponente
del rococò inglese fu, probabilmente, Thomas Johnson, uno scultore e progettista di
mobili attivo a Londra alla metà del 1700.
Architettura
Il Castello Solitude a Stoccarda, la chiesa bavarese di Wies, ed il Castello di Sanssouci a Potsdam sono alcuni esempi dell'architettura rococò in Europa. In questo contesto continentale, dove il rococò è completamente sotto controllo, le sculture sono
espresse sotto forma di ornamenti floreali, linee interrotte e scene fantastiche.
Nelle decorazioni d'interni, il rococò sopprime le divisioni architettoniche di architrave, fregi e cornice, per il pittoresco, il curioso e il capriccioso, realizzato in materiali plastici come il legno scolpito e lo stucco. Pareti, soffitti, mobili e oggetti di metallo e porcellana si fondono in un insieme omogeneo. Le tinte del rococò sono di color
pastello molto più leggere dei colori sgargianti del barocco.
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L'intonaco rococò degli artisti italiani e svizzeri come Bagutti e Artari, è una caratteristica delle costruzioni di James Gibbs e dei 'fratelli Franchini, operanti in Irlanda, che riproducevano qualsiasi cosa venisse realizzata in Inghilterra. Utilizzato per la
prima volta in alcuni ambienti di Versailles, fu riproposto in alcuni palazzi parigini
come l'Hótel Soubise.
In Germania, artisti francesi e tedeschi come Cuvilliés, Johann Balthasar Neumann e Georg Wenzeslaus von Knobelsdorff, realizzarono l'allestimento del Padiglione di Amalienburg, nel Parco del castello di Nynphenburg a Monaco di Baviera, ed i
castelli di Würzburg, Sans-Souci a Potsdam, Charlottenburg a Berlino, Brühl in Westfalia, Bruchsal, Castello Solitude a Stoccarda e Schönbrunn a Vienna.
In Inghilterra uno dei quadri di William Hogarth Marriage à la Mode, dipinto
nel 1745, mostra un insieme di stanze di un palazzo di Londra, dove lo stile rococò si
trova solo sugli intonaci e sul soffitto. Viene poi prodotta una pletora di vasi cinesi in
cui i Mandarini (dignitari imperiali cinesi) sono effigiati in modo satirico e rappresentati come piccole mostruosità.
Pittura
Sebbene il rococò ebbe origine puramente nelle arti decorative, lo stile stesso mostrò la sua influenza anche nella pittura. I pittori usarono colori delicati e forme curvilinee, decorando le loro tele con cherubini e miti d'amore. Anche il ritratto fu popolare fra i pittori rococò. I loro panorami erano pastorali e spesso dipinsero i pranzi sull'erba di coppie aristocratiche. Con notevole successo in ambito aristocratico si affermò anche la scena galante, variante aristocratica della scena di genere, rappresentante
donne impegnate nella toletta, in boudoirs, o in riti edonistici che si fanno simbolo di
una visione più smaliziata e mondana dell'arte.
Il grande interesse verso un'indagine razionale della realtà trovò espressione nella pittura di vedute (vedutismo). Caratterizzata dalla fedele rappresentazione di luoghi e panorami, la vedutistica presenta finalità documetaristiche, nel rispetto degli indizi ottici ricavati da una diretta visione del reale. Tale genere si afferma soprattutto
con il turismo culturale del Grand tour. Grande successo, nell'ambito vedutistico,
ebbe il cosiddetto capriccio. Legato alla dimensione del fantastico, il capriccio ha
come oggetto paesaggi di pura invenzione disseminati di rovine classiche in realtà
poste in siti differenti.
Jean-Antoine Watteau (1684-1721) è considerato il più importante pittore rococò.
Egli ebbe una grande influenza sui suoi successori, incluso François Boucher (1703 1770) e Jean-Honoré Fragonard (1732-1806), due maestri del tardo periodo. Anche il
tocco delicato e la sensibilità di Thomas Gainsborough (1727-1788), riflettono lo spirito rococò.
Scultura
La scultura è un'altra area nella quale gli artisti rococò hanno operato. ÉtienneMaurice Falconet (1716-1791) è considerato uno dei migliori rappresentanti del rococò
francese. In generale, questo stile fu espresso meglio attraverso la scultura di porcellana delicata piuttosto che statue marmoree ed imponenti. Falconet stesso era direttore
di una famosa fabbrica di porcellana a Sèvres. I temi dell'amore e della gioia furono
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rappresentati nella scultura, così come la natura e le linee curve e asimmetriche.
Lo scultore Edme-Edmond Bouchardon (1698-1762 o 1689-1762) rappresentò Cupido occupato nell'intagliare i suoi dardi d'amore dalla clava di Ercole; questo rappresenta un simbolo eccellente dello stile rococò. Il semidio è trasformato nel bambino te nero, la clava che fracassa le ossa si trasforma in frecce che colpiscono il cuore, nel
momento in cui il marmo è sostituito così liberamente dallo stucco. In questo collegamento si possono menzionare gli scultori francesi, Robert le Lorrain, Michel Clodion e
Pigalle.
Musica
Lo stile galante fu l'equivalente del rococò nella storia della musica, così come tra
musica barocca e musica classica, e non è facile definire questo concetto con le parole.
La musica rococò si sviluppò al di fuori della musica barocca, particolarmente in
Francia. Può essere considerata come una musica molto intimistica resa in forme
estremamente raffinate. Fra i massimi esponenti di questa corrente si possono citare
Jean Philippe Rameau e Carl Philipp Emanuel Bach.
Il Rococò in Italia
Anche in Italia il Rococò, sull'esempio francese, creò un notevole rinnovamento
nel settore delle decorazioni d'interni e nella pittura. Questo avvenne soprattutto nelle regioni del nord (Liguria, Piemonte, Lombardia e Veneto), mentre nell'Italia centrale, forse per l'influenza della Chiesa, lo stile non si sviluppò in maniera sensibile. Fa
eccezione la cittadina marchigiana di Jesi che risentì di un certo influsso austriaco gra zie alle prese eroiche della famiglia dei marchesi Pianetti al servizio degli Asburgo
nell'Assedio di Vienna contro i Turchi. Altro discorso ancora va fatto per la Sicilia; qui
si sviluppò una evoluzione del barocco ma di gusto più spagnoleggiante e molto simile al plateresco.
Architettura
I massimi interpreti del rococò nell'architettura sono Filippo Juvarra, che lavorò
molto a Torino come architetto di Casa Savoia e Luigi Vanvitelli, che lavoro' per i Borbone di Napoli.
Le opere più importanti di Guarino Guarini si possono elencare: la chiesa di San
Filippo a Messina, la chiesa dei Padri Somaschi a Messina, la Casa dei padri Teatini a
Messina, il Palazzo Carignano a Torino.
Tra le più importanti realizzazioni di Filippo Juvarra si ricordano: la cupola della
Basilica di Sant'Andrea a Mantova, la cupola del Duomo di Como, il campanile della
cattedrale di Belluno, la basilica di Superga vicino Torino, la Palazzina di caccia a Stupinigi, la Reggia di Venaria Reale e il Palazzo Madama a Torino.
Pittura
Nel campo della pittura i maggiori interpreti del rococò si possono considerare
gli artisti che operano a Venezia; tra di essi le figure più importanti si possono considerare: Giambattista Tiepolo di cui si ricordano Ritratto di Antonio Riccobono, San
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Rocco e Ercole soffoca Anteo; Canaletto che realizzò opere tra cui: Piazza San Marco,
San Cristoforo San Michele e Murano, I cavalli di San Marco sulla piazzetta, Il campo
di Rialto a Venezia e Paesaggio fluviale con colonna ed arco di trionfo; Francesco
Guardi che dipinse circa ottocentosessanta opere fra le quali si ricordano Miracolo di
un santo domenicano, Concerto di dame al Casino dei Filarmonici e La Carità.
Scultura
Nel settore della scultura, per la verità assai povero in questo periodo, si distingue Giacomo Serpotta che, soprattutto a Palermo, realizzò opere per diverse chiese
della città fra le quali si possono citare gli Oratori di Santa Cita, di San Lorenzo e del
Rosario a San Domenico e la Chiesa di San Francesco d'Assisi. Anche alcuni scultori
che realizzarono fontane a Roma e nella Reggia di Caserta possono essere considerati
ispirati allo stile rococò.
Il Rococò e la Chiesa cattolica
Una visione critica del rococò in contesti ecclesiastici fu sostenuta dall'Enciclopedia cattolica. Per la chiesa, si diceva, lo stile rococò può essere assimilato alla musica
profana, contrapposta alla musica sacra. La sua mancanza di semplicità, la sua esteriorità e la frivolezza hanno un effetto che distrae dal raccoglimento e dalla preghiera.
La sua mollezza e la grazia non si addicono alla casa di Dio. A questa affermazione si
contrappone oggi, quella di molti critici e quella ufficiosa della Chiesa, che vede nella
raffinata espressione rococò lo stile più vicino alla grazia e alla bellezza del paradiso.
Nello sviluppo del rococò, sarà trovata una decorazione compatibile con l'aspetto sacro delle chiese. In ogni caso è molto diverso se lo stile è usato in forma moderata
come dai maestri francesi o estremizzato dall'opulenza delle forme degli artisti tedeschi.
Gli artisti francesi sembra non abbiano mai considerato la bellezza della composizione l'oggetto principale, mentre i tedeschi fecero dell'imponenza delle linee il loro
scopo più importante.
Nel caso di grandi oggetti, la scultura rococò è bella (tra le sculture rococò il soggetto forse più diffuso è San Giovanni Nepomuceno), ma qualora questa graziosità
venga elusa si riscontra una somiglianza con il barocco. Gli elementi fantasiosi di questo stile mal si confanno con le grandi pareti delle chiese. In ogni caso tutto deve essere uniformato alle situazioni locali ed alle circostanze. Ci sono alcuni calici rococò veramente belli da vedere, mentre ce ne sono altri che non rispondono a dei canoni tali
da farli assimilare a degli oggetti sacri. Fra i materiali usati nello stile rococò figurano
il legno intagliato, il ferro e il bronzo usati nella costruzione di balaustre e cancellate.
Elemento distintivo è la doratura che rende i freddi materiali metallici più accettabili
per l'inserimento in un ambiente non profano.
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Canaletto
Giovanni Antonio Canal, meglio conosciuto come il Canaletto (Venezia, 7 ottobre 1697 – Venezia, 19 aprile 1768), è stato un pittore e incisore italiano, noto soprattutto come vedutista.
I suoi quadri, oltre a unire nella rappresentazione topografica architettura e natura, risultavano dall'attenta resa atmosferica, dalla scelta di precise condizioni di
luce per ogni particolare momento della giornata e da un'indagine condotta con criteri di scientifica oggettività, in concomitanza col maggiore momento di diffusione delle idee razionalistiche dell'Illuminismo. Insistendo sul valore matematico della prospettiva, l'artista, per dipingere le sue opere si avvaleva talvolta della camera ottica.
La vita
Nascita e formazione
Nacque a Venezia da Bernardo quondam Cesare Canal e Artemisia Barbieri. Esisteva una famiglia Canal ascritta al patriziato, ma quasi certamente non aveva legami
con quella di Giovanni Antonio che, comunque, era di estrazione benestante.
Il soprannome "Canaletto" gli venne dato per distinguerlo dal padre, che era
pure pittore (di scenografie teatrali), o forse per la bassa statura. Sarà proprio attraverso il padre che il giovane Giovanni Antonio viene avviato alla pittura. Così come il
padre, anche il fratello maggiore, Cristoforo, si occupa della pittura di fondali per il
teatro. Antonio comincia così a collaborare con il padre e il fratello e le prime commissioni, nel 1716, riguardano la realizzazione dei fondali per alcune opere di Antonio
Vivaldi.
Tra il 1718 e il 1720 il giovane si trasferisce, insieme a Bernardo e a Cristoforo, a
Roma per realizzare le scene di due drammi teatrali di Alessandro Scarlatti. Il viaggio
a Roma è decisivo per Giovanni Antonio Canal in quanto proprio a Roma ha i primi
contatti con i pittori vedutisti. In particolare, i suoi modelli di riferimento sono tre importanti artisti che si cimentarono con il genere della veduta: il primo è Viviano Codazzi, che Antonio non può conoscere da vivo in quanto scomparso nel 1670, il secondo è Giovanni Paolo Pannini, famoso per le sue vedute fantastiche, molte delle quali
ispirate alle antichità romane, e il terzo è Gaspar van Wittel, olandese, considerato tra
i padri del vedutismo. Non è però possibile attribuire un peso più o meno importante
a ognuno dei tre: certo è che il giovane Canal prende notevoli spunti e suggestioni
dalle opere dei succitati artisti e nel frattempo continua a perfezionare la sua tecnica.
Agli anni del soggiorno a Roma risalgono le prime opere a lui attribuite (benché non
ci sia grande certezza): la Santa Maria d'Aracoeli e il Campidoglio e il Tempio di Antonino e Faustina, opere in cui Giovanni Antonio Canal comincia a prendere confidenza con il genere della veduta, come si vede dalla non impeccabile resa prospettica.
Le prime importanti committenze a Venezia
Tornato nella città natale, il Canaletto stringe contatti con i vedutisti veneziani,
tra i quali spiccavano i nomi di Luca Carlevarijs e di Marco Ricci e comincia a dedicarsi a tempo pieno alla pittura di vedute: ai primi anni venti del Settecento risalgono
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quattro importanti opere che entrarono poi a far parte delle collezioni dei reali del
Liechtenstein: il Canal Grande verso il ponte di Rialto, dipinto giocato sui contrasti tra
luce e ombra, il Bacino di San Marco dalla Giudecca, una Piazza San Marco che rappresenta una delle prime realizzazioni della piazza che sarà poi uno dei soggetti preferiti del Canaletto, e il Rio dei Mendicanti, interessante in quanto opera raffigurante
un rione popolare. Al 1723 risalgono le prime due opere firmate e la cui data è certa:
sono due Capricci, ossia raffigurazioni di elementi tratti dalla realtà insieme a elementi di fantasia, ambedue attualmente conservati in collezioni private.
Grazie alla sua notevole abilità e alla sua tecnica che nel giro di pochi anni aveva
fatto grandi progressi, il Canaletto riesce in breve tempo a diventare uno dei pittori
più affermati di Venezia, e, nel corso della seconda metà degli anni venti, per lui le
committenze cominciano ad aumentare. Uno dei primi importanti committenti è il
mercante lucchese Stefano Conti, che attraverso la mediazione del pittore Alessandro
Marchesini, fa realizzare al Canaletto quattro opere, tra le quali una veduta di Campo
Santi Giovanni e Paolo. Al 1727 risale invece la prima composizione a carattere celebrativo dell'artista, il Ricevimento dell'ambasciatore francese a Palazzo Ducale, conservata al Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo: è la prima di una lunga serie di
opere che, descrivendo le feste della Repubblica di Venezia, riescono a dare un'immagine del lusso e dello splendore delle celebrazioni della Serenissima.
Un altro importante cliente del Canaletto in questi anni è il feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, che prestò anche servizio per la Repubblica di
Venezia e ne riformò l'esercito. Appassionato di arte, nella sua residenza di Ca' Loredan sulle rive del Canal Grande raccolse un'importante collezione nella quale figuravano opere di artisti come Raffaello, Correggio, Giorgione, Giulio Romano e altri ancora. Schulenburg commissiona a Giovanni Antonio Canal alcune opere tra le quali
una veduta di Corfù, per celebrare la vittoria ottenuta dal tedesco nell'isola greca contro gli Ottomani, e una Riva degli Schiavoni oggi conservata al Sir John Soane's Museum di Londra.
Molte opere realizzate dal Canaletto durante la prima fase della sua carriera, al
contrario delle abitudini del tempo, sono state dipinte "dal vero" (piuttosto che da abbozzi e da studi presi sul luogo per poi essere rielaborati nello studio dell'artista). Alcuni dei suoi lavori tardi tornano a questa abitudine, suggerita dalla tendenza per le
figure distanti a essere dipinte come macchie di colore - un effetto prodotto dall'uso
della camera oscura, che confonde gli oggetti distanti. I dipinti del Canaletto comunque si distinguono sempre per la loro grande accuratezza.
L'incontro con Joseph Smith
Acquisita una notevole fama, il Canaletto comincia a essere notato dai committenti inglesi: durante il Settecento Venezia era molto frequentata dai giovani dell'aristocrazia britannica che svolgevano il loro Grand Tour, del quale la città lagunare era
una delle tappe preferite. Il Canaletto ebbe i primi contatti con i committenti inglesi
tramite l'appoggio di Owen McSwiny, impresario teatrale e mercante d'arte irlandese.
Oltre alle vedute, sul finire degli anni venti il Canaletto comincia a cimentarsi con il
genere delle rappresentazioni celebrative, tra le quali spicca in questo periodo uno dei
capolavori più famosi dell'artista, il Bucintoro al Molo il giorno dell'Ascensione, data248
to 1729 e oggi conservato a Barnard Castle, in Inghilterra. L'opera raffigura quella che
era forse la festa maggiormente sentita da parte dei veneziani, e cioè lo sposalizio del
mare, che si teneva ogni anno il giorno dell'Ascensione. Nel dipinto, l'artista raffigura
il ritorno del Bucintoro verso Palazzo Ducale, con la grande nave da parata attorniata
dalle imbarcazioni del corteo. I dipinti celebrativi del Canaletto sono molto spettacolari e offrono una tangibile testimonianza dello splendore delle celebrazioni della Serenissima, che continuava a cullarsi sui suoi fasti nonostante stesse conoscendo un declino irreversibile, che si sarebbe poi concluso, nel 1797, con la fine della millenaria indipendenza della Repubblica.
Nel frattempo Giovanni Antonio Canal entra in contatto con Joseph Smith, personaggio che si rivelò poi decisivo per la carriera dell'artista. Smith, ricchissimo collezionista d'arte e poi console britannico a Venezia tra il 1744 e il 1760, diventa il principale intermediario tra il Canaletto e i collezionisti inglesi. Inizialmente Smith fu un
cliente del pittore, uno tra i più facoltosi, e quindi durante i primi anni del loro rap porto, il Canaletto realizzò anche per lui alcune opere d'arte, come la Regata sul Canal
Grande e un suggestivo Interno di San Marco di notte (uno dei pochi dipinti notturni
della produzione dell'artista): sono due opere celebrative, risalenti ai primi anni trenta e oggi conservate nelle collezioni dei reali d'Inghilterra.
Quindi Smith, dopo essere stato cliente dell'artista, svolge per lui un ruolo di
"mecenate" e di intermediario con la ricca clientela inglese: questo anche per facilitare
i rapporti, visto che, secondo le fonti dell'epoca, il Canaletto non aveva un carattere
particolarmente accogliente. L'attività di Joseph Smith raggiunge il suo culmine durante la seconda metà degli anni trenta: importanti nobili come il Conte di Fitzwilliam, il Duca di Bedford, il Duca di Leeds e il Conte di Carlisle iniziano a richiedere i
quadri del Canaletto. A questo periodo risalgono importanti opere come Il doge alla
festa di San Rocco, altra opera dal carattere celebrativo, conservata alla National Gallery di Londra, e un'altra veduta di Piazza San Marco, conservata a Cambridge negli
Stati Uniti, interessante perché permette un confronto diretto con la veduta che apparteneva ai reali del Liechtenstein e consente così di scoprire i progressi fatti dal Canaletto in circa dieci anni. Altre opere, realizzate per i committenti inglesi, sono la
Riva degli Schiavoni verso est, risalente al 1738-40 circa e conservata nei musei del
Castello Sforzesco di Milano, una veduta di Piazza San Marco verso sud-est conservata a Washington e una veduta dell'angolo nord-est della principale piazza di Venezia,
conservata a Ottawa.
Il trasferimento in Inghilterra
Verso il 1740 il mercato del Canaletto si riduce drasticamente quando la Guerra
di successione austriaca (1741-1748) portò a un forte decremento dei visitatori britannici a Venezia. Smith non riusciva più a garantire l'elevato numero dei clienti di un
tempo, anche perché ormai tutti i più importanti committenti inglesi che frequentavano Venezia avevano acquistato un elevato numero di opere di Giovanni Antonio Canal. Joseph Smith non era quindi più in grado di garantirgli committenze e nel 1746 il
Canaletto decide di trasferirsi a Londra: l'artista scrive una lettera al suo primo "agente", Owen McSwiny pregandolo di introdurlo presso il Duca di Richmond, che tra l'altro era già stato cliente del Canaletto durante gli anni venti.
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Il Canaletto comincia quindi a creare i rapporti con i suoi nuovi clienti, tra i quali
figuravano il principe boemo Johann Georg Christian von Lobkowitz e il nobile inglese Hugh Percy, futuro Duca di Northumberland. Accolto con iniziale diffidenza, riesce a ricevere comunque diverse commissioni da parte dell'aristocrazia inglese: tra le
opere di questi anni si segnala Il Parco di Badminton da Badminton House, del 1748,
realizzato per Charles Somerset, quarto duca di Beaufort. Si tratta di un dipinto interessante perché mostra un Canaletto diverso: se infatti l'artista era abituato a dipingere gli scorci urbani di una Venezia ricca di edifici e piena di persone indaffarate, in In ghilterra il Canaletto comincia a raffigurare i tipici paesaggi calmi e privi di architet ture complesse della brughiera inglese. Esemplificativi in tal senso sono anche alcuni
dipinti come Il castello di Warwick, realizzato per Francis Greville Brooke, futuro
duca di Warwick, e alcune vedute del Tamigi, nelle quali il pittore poteva utilizzare
gli artifici di cui si serviva per raffigurare i canali e i bacini di Venezia. Interessante è
anche un dipinto conservato presso l'Abbazia di Westminster che raffigura l'abbazia
stessa con la processione dei cavalieri dell'Ordine del Bagno: si tratta di un dipinto a
scopo celebrativo nel quale Giovanni Antonio Canal poteva servirsi della sua esperienza maturata nel dipingere le lussuose feste della Repubblica di Venezia.
Dopo aver interrotto il soggiorno inglese una prima volta nel 1750 e una seconda
volta nel 1753, il Canaletto torna a Londra e stringe rapporti con Thomas Hollis, uno
dei più importanti committenti del periodo inglese: per lui l'artista dipinge il Ponte di
Walton e L'interno della Rotonda di Ranelagh, quest'ultimo uno dei rari interni realizzati dal pittore.
Il ritorno a Venezia e gli ultimi anni
Il Canaletto torna nella città natale tra il 1755 e il 1756 per non spostarsi più. Le
ultime committenze prestigiose sono quelle del mercante tedesco Sigismund Streit e
quelle per le "Solennità dogali". Per il primo, un committente molto esigente, l'artista
realizza alcuni dipinti tra i quali due suggestivi notturni, la Veglia notturna a San Pietro di Castello e la Veglia notturna all'arzere di Santa Marta, entrambi conservati alla
Gemäldegalerie di Berlino ed entrambi risalenti a un periodo collocabile tra il 1758 e il
1763. Sono tra i pochi notturni prodotti da Giovanni Antonio Canal e raffigurano i
momenti salienti di due importanti celebrazioni: la gente festosa sulle imbarcazioni e
sulle rive è illuminata soltanto dalla luce soffusa della luna. Per le Solennità dogali invece l'artista realizza un ciclo di disegni completati nel 1766.
Durante l'ultima fase della sua carriera, il Canaletto approfondisce il tema del capriccio, già affrontato in gioventù: importante in questo senso è il celeberrimo Capriccio palladiano, conservato presso la Galleria nazionale di Parma e risalente a un periodo compreso tra il 1756 e il 1759: si tratta di una veduta del quartiere di Rialto con
il Ponte raffigurato secondo il progetto di Andrea Palladio e con la Basilica Palladiana
di Vicenza. L'opera coniuga elementi reali (il quartiere di Rialto) a elementi altrettanto
reali ma collocati altrove (la Basilica di Vicenza) e a elementi di fantasia (il Ponte di
Rialto secondo il progetto palladiano), e in più è interessante perché permette di vedere come sarebbe stato il quartiere di Rialto se fosse stato scelto il progetto di Andrea Palladio piuttosto che quello di Antonio da Ponte.
Nel 1763 Giovanni Antonio Canal viene nominato socio dell'Accademia Venezia250
na di Pittura e Scultura, e da questo momento in avanti non si hanno più notizie sicure sulla sua attività: è probabile che abbia continuato a dipingere fino alla sua scomparsa, avvenuta il 19 aprile del 1768, dopo “lungo compassionevole male” – annota il
Gradenigo nei Notatori – nella sua casa di Corte della Perina, tuttora esistente, circondato dall'affetto dei famigliari, e venne sepolto nella chiesa di San Lio; a Venezia, la
tradizione vuole che la sua tomba si trovi sotto il pavimento della quattrocentesca
Cappella Gussoni, nella Chiesa di San Lio (Pelusi, 2007).
Nel frattempo, in questi anni, Joseph Smith vende gran parte della sua collezione
al re Giorgio III, che ha così modo di creare la base per la grande collezione di dipinti
di Canaletto di proprietà della Royal Collection. Ci sono molti quadri dell'artista in altre collezioni britanniche tra cui la Wallace Collection di Londra, e in più c'è un insieme di una ventina di opere nella Sala da Pranzo della Woburn Abbey, nel Bedfordshire.
Critica
La fortuna critica del Canaletto ha conosciuto fasi alterne: ci sono stati e ci sono
critici che lo apprezzano in modo incondizionato, mentre ci sono altri critici che si
sono espressi in modo poco tenero nei suoi confronti. Questo perché secondo alcuni,
il Canaletto non sarebbe altro che un "pittore-fotografo", un meccanico riproduttore
della realtà circostante (Cottino, 1991).
Il primo a dare un giudizio su di lui è Anton Maria Zanetti, erudito veneziano: in
una sua opera del 1733, intitolata Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città
di Venezia e isole circonvicine, Zanetti definisce il Canaletto come pittor di vedute, al
quale e nella intelligenza e nel gusto e nella verità, pochi tra gli scorsi e nessuno tra i
presenti si può trovar che si accostino. Un altro contemporaneo, Charles de Brosses,
dice nelle sue Lettere familiari del 1739 che la specialità di Giovanni Antonio Canal è
di dipingere le vedute di Venezia; in questo genere supera tutto ciò che è mai esistito.
La sua maniera è luminosa, gaia, viva, trasparente e mirabilmente minuziosa.
Luigi Lanzi nella sua famosa Storia pittorica dell'Italia del 1831, dice che l'artista
usa qualche libertà pittoresca, sobriamente però e in modo che il comune degli spettatori vi trova natura e gl'intendenti vi notan arte, arte che secondo Lanzi il Canaletto
possedé in grado eminente. L'Ottocento si dimostra il secolo in cui la fortuna critica
dell'artista scende ai "minimi storici": l'arte del Canaletto in particolare viene letteralmente stroncata da John Ruskin nella sua opera Modern painters, uscita in quattro
edizioni (la prima è del 1843. Ruskin dice: il manierismo del Canaletto è il più degradato che io conosca in tutto il mondo dell'arte. Esercitando la più servile e sciocca imitazione, esso non imita nulla se non la vacuità delle ombre, e ne offre singoli ornamenti architettonici, per quanto esatti e prossimi [...]: si tratta di un piccolo, cattivo
pittore.
Niccolò Tommaseo, nella sua opera Bellezza e civiltà del 1857, propone un ritratto singolare del pittore veneziano, cercando di non sbilanciarsi troppo: negar lode a
tale artista, vissuto in tempi sì miseri, che quando l'arte periva per ogni dove, aggiunse all'Italia una novella corona, sarebbe ingiustizia; ma soprabbondar nelle lodi, e
251
quello ch'egli toccò, dire il sommo dell'arte, sarebbe stoltezza. Tommaseo conclude
dicendo che il Canaletto artista valente, non è che una porzione d'artista: questo perché secondo Tommaseo l'arte è nata non già per essere imitatrice dell'arte [...] ma per
illustrare la natura e rinnovarla d'affetto generoso. Tommaseo cerca di riconoscere al
Canaletto il merito di essere stato un artista sincero in tempi corrotti, ma comunque
sottolinea tutti i limiti della pittura vedutista, in particolar modo delle vedute di architetture (Pelusi, 2007).
Gino Damerini, nella monografia del 1912 dedicata a Francesco Guardi, riconosce la superiorità di quest'ultimo nei confronti del Canaletto: Guardi, infatti, si impadronisce del nostro spirito quando già il nostro spirito trova Canaletto antiquato o soverchiamente rigido.
Più positiva è l'interpretazione di Gino Fogolari, che nell'opera Il Settecento italiano del 1932 dice che nel dar significato alle vedute e nel taglio del quadro e nella
prospettiva, è un costruttore, come è un poeta della luce nel rattenerne nelle lontanan ze tutta la chiarità solare.
A partire dalla seconda metà del Novecento i giudizi sull'arte del Canaletto cominciano a diventare sempre più positivi, a cominciare da quello di Roberto Longhi
che nel 1946 lo chiama il grande Antonio Canal. Nel 1967 Pietro Zampetti, nell'opera
Vedutisti veneziani del Settecento, descrive il Canaletto come il primo vero vedutista,
per via della sua nuova forza e del suo nuovo senso della natura: finalmente nasce la
veduta pura, la realtà schietta e sincera, il senso delle cose scrutate nella loro essenza
più vera e profonda. Inoltre di recente molti storici dell'arte hanno cominciato a prendere le distanze dalla critica che vede il Canaletto come un "pittore-fotografo": per
esempio, nel 1974 André Corboz dice che la supervalutazione del valore "oggettivo"
di Canaletto è stata la conseguenza di una mentalità positivista della quale la critica
ha da molto tempo sottolineato le insufficienze. La linea che valuta il rigorismo prospettico del Canaletto in chiave positiva ha trovato riscontro anche negli sviluppi più
recenti della critica: il rigore di un preciso telaio prospettico, uno spazio liberamente
inteso, preciso nei particolari ma non fedele al vero, una pittura sciolta in un soffio di
poesia personalissima sono le caratteristiche dell'arte del Canaletto secondo Alessandro Bettagno (Canaletto prima maniera, 2001).
Gérard Genette (The Stonemason's Yard, 2005), individua in Canaletto due livelli: un “primo livello”, quello dei motivi di ammirazione più ovvi e immediati – per
esempio, la seduzione principale dell'oggetto dipinto: “bel” paesaggio, modello affascinante – e un secondo, quello che riguarda un oggetto che nulla segnalerebbe all'ammirazione estetica, a priori e indipendentemente dal fatto che il pittore lo riproduce per mezzo del proprio trattamento pittorico. La “secondarietà” specifica, per
Genette, che predilige il "Laboratorio dei marmi a San Vidal" al "Ritorno del Bucintoro", dipende dalla secondarietà generale che consiste nel preferire, in ogni caso, agli
oggetti immediatamente seducenti ciò che Arthur Danto ha, in una prospettiva diversa, chiamato la “trasfigurazione del banale”, cioè il modo in cui l'arte del pittore si
esercita e si manifesta su di un oggetto che l'osservatore profano avrebbe forse giudicato meno degno della sua attenzione e del suo interesse (Pelusi, 2007).
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Curiosità
Il Canaletto è lo zio di Bernardo Bellotto, altro importante pittore vedutista veneziano, anch'egli talvolta noto come "Canaletto".
Il prezzo record pagato a un'asta per un Canaletto sono 18,6 milioni di sterline
per una Vista di Canal Grande da Palazzo Balbi a Rialto, venduta da Sotheby's a Londra nel luglio del 2005. Il nome del collezionista non è noto.
Giambattista Tiepolo
Giambattista (o Giovanni Battista o Zuan Batista) Tiepolo (Venezia, 5 marzo 1696
– Madrid, 27 marzo 1770) è stato un pittore e incisore italiano della Repubblica di Venezia. È uno dei maggiori pittori del Settecento veneziano.
Tra i suoi figli vi furono i pittori Giandomenico e Lorenzo Tiepolo.
Biografia
Gli anni giovanili
Giambattista nasce a Venezia il 5 marzo del 1696, in corte San Domenico nel sestiere di Castello, da Domenico Tiepolo, "mercante di negozi da nave", e Orsetta Marangon. Il 16 aprile dello stesso anno riceve il battesimo nella chiesa di San Pietro di
Castello. Il 10 marzo dell'anno successivo muore il padre, lasciando la famiglia in perduranti difficoltà economiche.
La sua prima formazione artistica si svolge, dal 1710 circa, nella bottega di Gregorio Lazzarini, pittore eclettico, capace di unire i differenti insegnamenti della tradizione veneziana, da cui apprende, oltre che i primi rudimenti, il gusto per il grandioso e teatrale nelle composizioni. Ben presto si dirige verso la cosiddetta pittura “tenebrosa” di Federico Bencovich e di Giovanni Battista Piazzetta, oltreché ai contemporanei il suo studio si rivolge ai grandi del cinquecento Veneto, Tintoretto e Paolo Vero nese, ma anche all'opera di Jacopo Bassano
Nel 1715 inizia a dipingere i cinque soprarchi della chiesa veneziana di Santa
Maria dei Derelitti (Ospedaletto), con figure accoppiate di apostoli, dal violento chiaroscuro e dai toni cupi. In questi anni il Tiepolo lavora anche per il doge in carica,
Giovanni II Cornaro, eseguendo nel suo palazzo soprapporte, quadri e ritratti tra cui
quello del doge Marco Cornaro (1716 circa) e quello dello stesso Giovanni, entrambi
dai toni caldi e chiari, che si rifanno ai modi di Sebastiano Ricci. Nello stesso anno lavora all'affresco con l'Assunta nella chiesa parrocchiale di Biadene. Il 16 agosto dello
stesso anno espone alla festa di San Rocco il bozzetto con la Sommersione del Faraone.
Al 1717 risale la prima menzione dell'artista nella Fraglia dei pittori veneziani.
Nello stesso anno quattro incisioni del libro il Gran teatro delle pitture e prospettive
di Venezia sono riprese da suoi disegni. Del 1719 è il Ripudio di Vasti, ora in collezione privata a Milano. Il 21 novembre dello stesso anno sposa con rito segreto Maria
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Cecilia Guardi (1702-1779), sorella dei pittori Francesco Guardi e Giovanni Antonio
Guardi e da cui avrà dieci figli, tra cui Giandomenico e Lorenzo Baldissera che lavo reranno come suoi assistenti. La coppia risiederà fino al 1734 a San Francesco della Vigna, nei pressi di Palazzo Contarini.
Tra il 1719 e il 1720 esegue la decorazione ad affresco del salone del primo piano
della villa Baglioni a Massanzago, in questa la sala viene completamente rivestita dagli affreschi, che sfondando illusionisticamente le pareti, creando così uno spazio infinito, nelle pareti è il Mito di Fetonte mentre nella volta è il Trionfo d'Aurora. Con
questo ciclo ha inizio la collaborazione con il pittore di quadrature Gerolamo Mengozzi detto il Colonna, che dipingerà per Tiepolo negli anni successivi la maggior
parte delle decorazioni a finte architetture che inquadrano i suoi affreschi.
Del 1721 è la commissione della Madonna del Carmine per la chiesa di Sant'Aponal, realizzata dal 1722, consegnata nel 1727 e ora conservata alla Pinacoteca di Brera,
del 1722 è il Martirio di san Bartolomeo, per la chiesa veneziana di San Stae, di potente forza espressiva data dal violento chiaroscuro e dalla nettezza del contorno grafico.
Del 1722 è la Gloria di santa Lucia nella chiesa parrocchiale di Vascon, presso
Treviso. Nel 1722 partecipa al concorso per la decorazione della cappella di San Domenico della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, vinto poi dal Piazzetta. Nel 1724, a seguito di alcune modifiche apportate nella chiesa dell'Ospedaletto da Domenico Rossi,
dipinge il soprarco con il Sacrifico di Isacco, ultimo esempio dei suoi iniziali modi tenebrosi, da questo momento in poi il suo stile si assesta definitivamente verso colori
brillanti dai toni chiari immersi in una luminosità solare.
Tra il 1724 e il 1725 lavora alla decorazione di Palazzo Sandi, con sul soffitto del
salone il Trionfo dell'eloquenza, tema iconografico probabilmente dovuto alla professione del committente l'avvocato Tommaso Sandi; al centro contro il cielo azzurro
percorso da nubi sono le figure di Minerva e Mercurio mentre sul cornicione quattro
episodi mitologici: Orfeo che conduce Euridice fuori dall'Ade, Bellerofonte su Pegaso
uccide la Chimera, Anfione col potere della musica costruisce le mura di Tebe e Ercole incatena Cercope con la sua lingua. Lo schema compositivo è simile a quello utilizzato da Luca Giordano in Palazzo Medici comunque questo schema con poche figure
al centro e molte accalcate ai lati sarà tipico di tutta la sua successiva produzione. Ma
è lo schiarimento del colore che diventerà suo tratto stilistico inconfondibile, questo
derivato dalla riscoperta dell'opera di Paolo Veronese. Per lo stesso palazzo realizza
anche tre tele tra cui Ulisse scopre Achille tra le figlie di Licomede, ora tutte in collezione privata a Vicenza.
Tra il 1725 e il 1726 realizza Alessandro e Campaspe nello studio di Apelle, ora al
Museum of Fine Arts di Montreal, dove Apelle ha le sembianze del pittore e Campaspe quelle di sua moglie Cecilia, sorella di Francesco Guardi.
La maturità
Nel 1726 è a Udine dove esegue gli affreschi per la volta della cappella del Santissimo Sacramento nel Duomo cittadino; lavora al Castello e al Palazzo Patriarcale su
commissione di Dioniso Dolfin, patriarca di Aquileia, la decorazione comprende Scene e personaggi dell’Antico Testamento nella volta dello scalone la Caduta degli an254
geli ribelli con attorno otto scene a monocromo con episodi tratti dalla Genesi; nella
galleria lunga decorò le pareti con tre episodi: l'Apparizione dei tre angeli ad Abramo, Rachele nasconde gli idoli e l'Apparizione dell'angelo a Sara posti tra figure di
profetesse a monocromo, mentre nel soffitto affresca il Sacrificio di Isacco; nella Sala
Rossa realizza il Giudizio di Salomone tra figure di profeti, infine nella sala del Trono
esegue ritratti di antichi patriarchi, ora in cattive condizioni.
Per i fratelli del patriarca, Daniele III e Daniele IV, esegue, durante l'inverno, le
dieci tele con storie romane, per il loro palazzo veneziano, completate nel 1729 e oggi
divise tra il Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo, il Metropolitan Museum di New
York e il Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Nel 1727 nasce il figlio Giandomenico, suo futuro collaboratore; mentre nel 1730
viene chiamato a Milano, forse con la mediazione di Scipione Maffei, dove realizza gli
affreschi di cinque soffitti a Palazzo Archinto, col Trionfo delle arti, distrutti dai bombardamenti nel 1943 e nel 1731 a Palazzo Dugnani (già Casati) dipingendo il soffitto
del salone con l'Allegoria della magnanimità e sulle pareti tre scene con le Storie di
Scipione.
Tornato a Venezia nel 1731 esegue l'Educazione della Vergine per la chiesa di
Santa Maria della Fava e la Natività per quella di San Zulian. Del 1732 è l'Adorazione
del Bambino nella Sagrestia Canonica della Basilica di S. Marco, nello stesso anno è a
Bergamo dove inizia i lavori al Duomo e gli affreschi della Cappella Colleoni con tre
lunette rappresentati Scene della vita di san Giovanni Battista. Nel 1733 scrive di lui
Antonio Maria Zanetti il Giovane:
...suo distinto pregio è il pronto carattere d’inventare e inventando di distinguere
e risolvere ad uno stesso tempo quantità di figure con novità di ritrovati, con molteplicità e ottima disposizione di attrecci e altro; unendo a ciò una esatta intelligenza di
chiaroscuro ed una lucidissima vaghezza.
Nel 1734 lavora alla Villa Loschi-Zilieri, nei dintorni di Vicenza affrescando nello
scalone e nel salone figure allegoriche derivate dal trattato Iconologia di Cesare Ripa.
Nello stesso anno consegna la pala Rovetta e cambia casa e trasferendosi alla Pasina,
vicino San Silvestro.
Del 1735 è la Madonna del Rosario, opera firmata e datata e ora in collezione privata di New York e la Madonna col Bambino e i santi Giacinto e Domenico, ora a Chicago. Nel 1736 nasce il figlio Lorenzo. Nello stesso anno rifiuta l'offerta di decorare il
palazzo reale di Svezia, dichiarando che la somma di denaro offerta è inadeguata, ed
esegue la tela con Giove e Danae, ora a Stoccolma.
Nel gennaio 1737 consegna il Martirio di sant'Agata realizzato per la Basilica di
Sant'Antonio a Padova. Nello stesso anno torna a Milano, chiamato dal cardinal Erba
Odescalchi per realizzare tre affreschi nella Basilica di Sant'Ambrogio. Invia tre pale
d'altare a Udine per il patriarca e realizza la perduta pala per l'altare Cornaro in San
Salvador a Venezia, sempre nello stesso anno inizia il grandioso ciclo di affreschi per
la navata, il presbitero e il coro, con Gloria di san Domenico, in Santa Maria dei Gesuati a Venezia, concluso nel 1739. Nell'affresco centrale della navata è l'Istituzione
del Rosario, di cui il Tiepolo realizzò tre bozzetti, nell'affresco sopra quindici gradini,
255
simbolo dei rispettivi misteri del rosario, è san Domenico che porge ai fedeli, tra cui il
doge in carica Alvise Pisani e il patriarca Francesco Antonio Correr, il rosario che la
Vergine gli aveva consegnato in una visione, in basso le figure che precipitano dalla
scalinata son un'allusione al ruolo svolto dal santo contro l'eresia.
Nel 1739 dipinge per la chiesa conventuale di Diessen il Martirio di san Sebastiano. In questi anni realizza le tre grandi tele con Scene della Passione di Cristo per la
chiesa veneziana di Sant'Alvise, in queste per il tono drammatico è più forte l'influenza di Tintoretto e del Tiziano degli ultimi anni, ma anche delle incisione di Rembrandt, soprattutto nei tipi barbuti che compaiono, nella Salita al Calvario; queste tele
iniziate nel 1737 circa furono poste in loco nel 1740.
Palazzo Clerici; le opere per Francesco Algarotti
Nel 1740 torna a Milano dove in Palazzo Clerici affresca la volta della galleria
con la scenografica Corsa del carro del sole, al centro il carro di Apollo trainato da
quattro cavalli, mentre sul cornicione si assiepano una moltitudine di gruppi e figure
di divinità; l'affresco venne realizzato probabilmente in occasione del matrimonio tra
il committente Giorgio Antonio Clerici e Fulvia Orsini, previsto per il 1741. Nel 1740
invia a Camerino la pala con l'Apparizione della Vergine a San Filippo Neri.
Tornato a Venezia nel 1740 nella Parrocchiale di Verolanuova esegue le grandi
tele con la Caduta della manna e Sacrificio di Melchidesec; le tre scene della Passione
in Sant'Alvise a Venezia e il Ritratto di Antonio Riccobono per l'Accademia dei Concordi di Rovigo. In Palazzo Pisani esegue l'Apoteosi di Vettor Pisani, qui il condottiero, vincitore della battaglia di Chioggia contro i genovesi, viene accompagnato sull'Olimpo da Venere per essere presentato a Giove e Marte; alla scena assiste Nettuno.
Nel 1743 giunge nella città lagunare Francesco Algarotti per comprare dipinti,
per conto del re di Sassonia Augusto III, e portarli a Dresda; il Tiepolo, divenuto suo
amico, lo consiglierà, con altri pittori veneziani, nell'acquisto delle opere dei maestri
antichi e su commissione di questo esegue tele per nordica, tra queste il Banchetto di
Antonio e Cleopatra, ora a Melbourne descritto dall'Algarotti come «un bel campo di
architettura, l’arioso del sito, la bizzarria né vestiti, i bei contrasti nella collocazione
dei colori locali, una franchezza e leggiadria indicibile di pennello lo rendono cosa veramente paolesca»; il Trionfo di Flora e Mecenate presenta ad Augusto le Arti, queste
ultime due inviate al conte Brül nel 1744.
Risalgono al 1743 le otto tele della Scuola grande del Carmine a Venezia, commissionate nel 1739 e imperniate sulla scena con l'Apparizione della Madonna del
Carmine al beato Simone Stock: in questa tela, in cui è raffigurata l'offerta da parte
della Vergine di uno scapolare sacro, fonte di indulgenze, l'immagine della Vergine
col Bambino sorretta da un turbinio di angeli, sembra abbagliare il beato, prostrato
verso la rappresentazione del Purgatorio.
Sempre dello stesso anno è la prima pubblicazione dei Vari Capricci, una cartella
con dieci incisioni. Probabilmente dello stesso periodo è anche la seconda cartella con
ventiquattro incisioni, pubblicata postuma dal figlio Giandomenico nel 1775 o 1778, è
lo stesso Giandomenico a darle il titolo: Scherzi di Fantasia.
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Tra il 1743 e il 1744 lavora alla decorazione della villa Cordellina a Montecchio
Maggiore. Nel salone sulla volta esegue, tra sei figure allegoriche a monocromo, il
Trionfo della Virtù e della Nobiltà sull'Ignoranza, mentre alle pareti la Famiglia di
Dario dinanzi ad Alessandro e la Continenza di Scipione.
Tra il 1744 e il 1745 per il Palazzo Barbarigo a Venezia, in collaborazione col
Mengozzi Colonna, realizza affreschi e tele, tra questi il soffitto con La Virtù e la Nobiltà vincono l'Ignoranza. Di questo periodo sono sia le otto tele, destinate ad un palazzo veneziano non meglio precisato, con scene tratte dalla Gerusalemme Liberata e
ora quattro alla National Gallery di Londra e le restanti a Chicago, sia, probabilmente,
le tre soprapporta con satiri, due ora a Pasadena alla Norton Simon Foundation e uno
alla Galleria nazionale d'arte antica di Roma. Tra l'aprile e il novembre affresca la volta della navata alla chiesa degli Scalzi a Venezia con il Trasporto della Santa Casa di
Loreto, distrutta nel 1915, durante la prima guerra mondiale, di cui restano i due bozzetti preparatori. Nel settembre dello stesso anno consegna al Duomo di Bergamo la
pala col Martirio di san Giovanni.
Palazzo Labia; Würzburg
Tra il 1746 e il 1747 esegue il complesso decorativo di Palazzo Labia a Venezia
nel salone da ballo affresca le Storie di Antonio e Cleopatra, con la quadratura di Gerolamo Mengozzi Colonna, che si integra perfettamente con gli episodi narrativi,
dove personaggi sontuosamente vestiti assumono pose teatralmente eloquenti. Nella
volta entro un oculo centrale è Bellerofonte su Pegaso va verso la Gloria e l'Eternità,
nelle pareti tra figure allegoriche e mitologiche sono presenti le due scene principale
l'Incontro tra Antonio e Cleopatra e Banchetto di Antonio e Cleopatra; nella Sala degli
Specchi nel soffitto realizza il Trionfo di Zefiro e Flora. Nel 1747 Tiepolo si trasferisce
nella parrocchia di Santa Fosca, vicino al Ponte di Noal.
Nel 1748 dipinge due soffitti per palazzo Manin a Venezia, in occasione delle
nozze di Ludovico Manin e Elisabetta Grimani. Dello stesso anno è la pala con Tre
sante domenicane, cioè le sante Caterina, Rosa da Lima e Agnese da Montepulciano,
per la chiesa dei Gesuati.
Nel 1749 invia a Ricardo Wal, ambasciatore spagnolo a Londra la pala con San
Giacomo maggiore, ora conservato al Szèpmüvèszeti Mùzeum di Budapest. Nello
stesso anno è la consegna del comparto centrale del soffitto alla Scuola grande dei
Carmini. Tra il 1750-51 Charles-Nicolas Cochin scrive di lui: «un talento particolare
nell’affresco delle volte, nelle quali osa gli scorci i più audaci; la sua maniera è lieve mente trascurata e secca, particolarmente a causa del suo amore di una luce eccessiva.
Ne consegue che le sue ombre sono nette, per quanto non nere».
Il 12 dicembre 1750, chiamato dal principe vescovo Karl Philipp von Greiffenklau, si reca a Würzburg, insieme ai figli Giandomenico e Lorenzo, per decorarne la
Residenza del principe vescovo; qui esegue la decorazione della Kaisersaal, allora la
sala da pranzo, con le Storie di Federico Barbarossa, dove il programma iconografico
deriva dal fatto che fu proprio il Barbarossa a investire il primo principe vescovo di
Würzburg: Aroldo. Nella volta è affrescato Apollo che conduce al genio della nazione
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germanica Beatrice di Burgundia, futura sposa del Barbarossa, con figure che si sovrappongono illusionisticamente alla cornice in stucco, opera di Antonio Bossi; sulle
pareti le scene, incorniciate da uno scenografico sipario lavorato in stucco colorato,
con le Nozze del Barbarossa e l'Investitura del vescovo Aroldo a duca di Franconia,
firmato e datato GIO.BTTA TIEPOLO 1752; completati questi nel 1752 inizia la decorazione della volta dello scalone monumentale con l'Olimpo attorniato dalle quattro
parti del mondo, lavori conclusi entro il novembre 1753: lo spazio della visione è concepito come inesorabilmente lontano e il mondo delle rappresentazione risulta così
fittizio, illusorio, al contrario di quello che avveniva nell'estetica Barocca, dove lo spazio, anche se infinito, manteneva un certo grado di realtà.
Di nuovo Venezia; la villa Valmarana
Lasciata Würzburg l'8 novembre 1753 torna a Venezia dove l'8 maggio consegna
alla chiesa di San Polo la tela con l' Apparizione della Madonna a san Giovanni Nepocumeno e inizia nel 1754 la decorazione della chiesa della Pietà a Venezia con nella
volta della navata l'affresco Incoronazione di Maria immacolata
Nel 1757 acquista una villa a Zianigo e realizza la decorazione di Villa Valmarana presso Vicenza decorando nel corpo principale la sala centrale detta di Ifigenia e i
quattro ambienti attigui detti Sala dell'Iliade, della Gerusalemme liberata, dell'Eneide
e dell'Orlando Furioso. Il programma iconografico probabilmente deriva dalla passione per l'epica classica e l'epopea cavalleresca del committente Giustino Valmarana,
morto proprio nel 1757. Nel Sacrificio d'Ifigenia, la fonte è identificabile con l'Omero
nella versione di Valerio Massimo, riscontrabile dal fatto che Agamennone è l'unico a
non accorgersi dell'arrivo del cervo mandato da Diana, poiché si sta coprendo il volto
col mantello. In questa sala la partizione architettonica, del Mengozzi Colonna funge
da sostegno della cornice reale creando l'illusione della continuità tra spazio dipinto e
reale, nel soffitto è la scena con Diana che interviene a fermare il sacrifico e i venti che
soffiano nuovamente. Nella Sala dell'Iliade, l'affresco con Minerva trattiene Achille
dall'uccidere Agamennone è strutturato in modo che i tre personaggi principale siano
come su un proscenio mentre la folla dei guerrieri nel fondo è posta come si si trattasse del coro teatrale. Nelle Sale dell'Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata, la
narrazione si fa più episodica in quanto gli affreschi sono racchiusi in incorniciature
di gusto rocaille e trattano per lo più temi di tono più intimo e sentimentale, forse do vuto all'influenza del figlio Giandomenico. nella Foresteria esegue la volta della Sala
dell'Olimpo. Per la stessa famiglia esegue la decorazione del Palazzo Trento Valmarana a Vicenza.
"Ai quattro lati della villa altrettante stanze rievocano l'epopea antica e moderna
attraverso bellissime scene eroico-amorose: come in un percorso iniziatico i protagonisti dei quattro sommi poemi della storia d'Europa riflettono sulla necessità di superare le delizie e le pene d'amore per raggiungere la maturità e la solitudine eroiche.
Tiepolo, oltre al pennello, ha fra le mani i libri che hanno segnato il pensiero occidentale, la storia che lega l'antico al moderno, la Grecia e Roma al grande Rinascimento
italiano, in un gioco di specchi e di imitazioni. La villa diviene così un palazzo della
memoria, schema dell'universo imperniato sui quattro angoli-pilastro (Nord, Sud,
258
Est, Ovest) in cui i personaggi-chiave dell'epica, la storia immaginaria che unifica i
tempi (Antico, Moderno) attraverso le gesta degli eroi celebrati per il coraggio adamantino e le virtù straordinarie, si raccolgono dialogando su un teatro virtuale". Nello
stesso anno dipinge la pala commissionata dalla famiglia Thiene, l'opera rappresenta
L'apoteosi di san Gaetano Thiene, la pala si trova nella chiesa di Rampazzo frazione
di Camisano Vicentino.
Tornato a Venezia realizza in Ca' Rezzonico. Due soffitti con un'Allegria nuziale
e La Nobiltà e la Virtù accompagnano il Merito verso il tempio della Gloria in occasione del matrimonio tra Ludovico Rezzonico e Faustina Savorgnan.
Il 30 settembre 1759 consegna la pala per la chiesa di San Silvestro a Folzano,
mentre il 24 dicembre quella per il Duomo di Este con Santa Tecla che libera Este dalla peste. Sempre nello stesso anno esegue con Giandomenico gli affreschi dell'oratorio
della Purità e del Palazzo Patriarcale a Udine.
Nel 1760 esegue il Trionfo di Ercole per il Palazzo Canossa a Verona, gravemente
danneggiato durante la seconda guerra mondiale, dello stesso anno è la commissione
per l'affresco del salone di Villa Pisani a Stra con l'Apoteosi della famiglia Pisani, l'ultimo grande lavoro eseguito in Italia, in questo affresco eccezionalmente a essere esaltati non sono i fondatori o i personaggi illustri del casato, ma gli stessi membri viven ti.
Nello stesso periodo (1760 circa) esegue anche la pala d'altare di notevoli dimensioni (270x180 cm) Miracolo di Sant'Antonio del Duomo di Mirano.
Non è certo, invece, l'anno di realizzazione del telero Apoteosi di Angelo della
Vecchia nel segno delle virtù prima noto come Apoteosi del Doge Morosini, ora pla fond della Sala Giunta di Palazzo Isimbardi a Milano, sede istituzionale della Provincia di Milano. L'opera risultava provenire da palazzo Morosini Gatterburg di Santo
Stefano a Venezia, mentre pare che il vero luogo di provenienza fosse il palazzo costruito nel 1750 a Vicenza dall'avvocato Angelo della Vecchia. Il dipinto venne acquistato nel 1954 dalla Provincia di Milano e subì un restauro nei primi anni ottanta sotto
la direzione dalla Sopraintendenza per i Beni Artistici e Storici di Milano. Giulio Carlo Argan evidenzia che Tiepolo fu un "ottimo tecnico della prospettiva", ma andò oltre il limite che essa può offrire usando mirabilmente i rapporti cromatici e luminosi.
Le sue rappresentazioni sono mitologiche e storico-religiose, ricche di figure e di colori in continuo movimento per cui con "l'andar su di giri" il moto dei colori dà un effetto generale di luce assoluta e radiante, come quei dischi con i colori dello spettro solare che, girando, danno il bianco". Argan rileva pure che "il Tiepolo dà alle sue composizioni un effetto drammatico di tipo teatrale" ed in effetti l'atteggiamento di molti
personaggi e la composizione delle scene di molti suoi affreschi richiamano il sentimentalismo rappresentato nel melodramma settecentesco (Pietro Metastasio).
L'epilogo: Madrid
Nel 1761 Carlo III di Spagna chiama Tiepolo a Madrid per decorare con affreschi
le sale del nuovo Palazzo Reale. Il pittore, partito il 31 marzo 1762, giunge a Madrid il
4 giugno, accompagnato dai figli Lorenzo e Giandomenico, vivendo in Plaza de San
259
Martín e lavora ai soffitti di tre sale: l'Apoteosi della Spagna nella vasta Sala del Trono, opera a cui contribuirono in larga parte i figli conclusa nel 1764, l'Apoteosi di
Enea nella sala degli Alabardieri e la Grandezza della monarchia spagnola nell'Anticamera della regina, concluse nel 1766.
Tra il 1767 e il 1769 dipinge sette pale per la chiesa reale di Aranjuez, oggi divisi
tra il Museo del Prado di Madrid e il Palazzo Reale di Madrid, con solitarie figure di
santi collocati in paesaggi vuoti e realistici. Di questo periodo sono anche le quattro
telette sul tema della fuga in Egitto ora divise tra lo Staatsgalerie di Stoccarda e il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona.
Nel 1769 inizia la decorazione della volta della collegiata di Sant'Idelfonso a La
Granja, di cui realizza solo il bozzetto preparatorio con l'Immacolata concezione, ora
alla National Gallery di Dublino. Di questi anni si ricorda l'ingiusta eclissi della sua
fortuna, sorpassata, poco dopo la sua morte, dalla fama di Anton Raphael Mengs, l'astro nascente del neoclassico, anche lui attivo nel palazzo reale di Madrid.
Giovan Battista Tiepolo muore improvvisamente il 27 marzo 1770 a Madrid e
viene sepolto nella chiesa di San Martin; a causa della successiva distruzione della
chiesa, i resti del grande artista sono andati perduti.
260
Lezione XIII
L'ETÀ DELLE RIVOLUZIONI
Il 1700
Il 1700 è, principalmente, il secolo dell'illuminismo, cioè di quel vasto movimento culturale-filosofico, sorto in Inghilterra e diffusosi con particolare forza in Francia,
che cerca di interpretare la realtà attraverso il ragionamento, la cui forma perfetta è la
scienza. In arte ciò significa l'opposizione al barocco, con i suoi eccessi artificiosi, l'opposizione ai forti contrasti chiaroscurali, il recupero della leggerezza delle forme e
della luminosità. Nel 1700 è dunque la ragione che domina e nella ragione l'illuminismo ha illimitata fiducia, perché essa sola appare lo strumento comune a tutti gli uomini, capace di liberarli dall'ignoranza, nella quale sono stati volutamente tenuti dagli
istituti ecclesiastici e nobiliari. Pertanto, nella seconda metà del 1700 la borghesia si
afferma con prepotenza e attraverso la rivoluzione, si ribella all'incapace e immensamente privilegiata aristocrazia, pretendendo radicali riforme sociali al grido di "liberté, égalité, fraternité".
L'Illuminismo che vede nella ragione l'elemento di uguaglianza fra gli uomini,
determina una profonda modificazione nel modo di concepire l'arte ed il significato
dell'immagine. Nei confronti della scienza, che ormai ha avviato, con il metodo sperimentale, un processo rivoluzionario di indagine della natura, l'arte si trova a dover
qualificare il proprio campo, differenziandosi nettamente dalla scienza stessa o rendendo «scientifiche» le proprie ricerche. Questa progressiva ricerca di chiarezza conduce, dal Barocco al Neoclassicismo, passando attraverso un periodo intermedio detto (i due termini sono stati coniati in età posteriore) 'Rococò o Barocchetto'. Ad un'arte
che evita di affrontare i grandi problemi umani e sociali, per esprimersi attraverso
«generi» tradizionali (ritratto, natura morta, paesaggio, arte decorativa), si contrappone, con il Neoclassicismo, un'arte che valuta criticamente il tardo Barocco, perché
espressione della corte assolutista e formula teorie sull'arte come scienza del bello. In
questo secolo, il compito dell'arte non è più quello di imitare la natura o di visualizzare le verità religiose per renderle accessibili alle masse, nel 1700 per la prima volta, si
svincola l'arte da ogni fine, riconoscendola autonoma.
L'artista dunque agisce nella sfera dell'estetica (dal greco aisthetikos=sensibilità)
che diventa la scienza che studia il problema dell'opera d'arte, del suo valore e del
suo significato. Quindi, una volta affermata l'indipendenza dell'arte, finalmente nel
1700 se ne sostiene anche la libertà creativa, ponendo così e con chiarezza i termini fra
'ragione' e 'sentimento', fra 'oggettivo' e 'soggettivo', fra 'norma' e 'libertà', ovvero i
termini di quel dibattito sul problema dell'arte che è giunto fino ai nostri giorni. Queste che seguono sono le parole di Dubos, riprese e sostenute anche dal Vico e da Goethe, il quale sosteneva nel 1719 che "scopo primo della pittura é commuoverci" e che
"un'opera può essere brutta senza che vi siano errori contro le regole, come n'opera
piena di errori può essere eccellente". Un pensiero che oggi è condiviso dai più, ma
che nel 1700 era più rivoluzionario della rivoluzione francese. In Italia tra i maggiori
artisti dell'epoca troviamo Giovan Battista Piazzetta, Giovan Battista Tiepolo, il Canaletto, Giuseppe Maria Crespi e Francesco Guardi; mentre in Francia sono noti Bou261
cher, Fragonard, Chardin e Liotard.
Neoclassicismo
Neoclassicismo è il nome dato ad un movimento culturale sviluppatosi in Europa e in America tra il XVIII ed il XIX secolo. Il neoclassicismo fu variamente caratterizzato ma ben riconoscibile nelle varie arti, nella letteratura, in campo teatrale, musicale e nell'architettura e arti visive.
Il neoclassicismo nacque come reazione al tardo barocco e al Rococò; come dice il
termine esso fu caratterizzato da uno sviluppato interesse per l'arte antica, in particolar modo verso quella greco-romana, con il desiderio di ritornare alla magnificenza di
quello stile alimentato dal pensiero illuminista. Fondamentale fu il contributo dell'archeologo, storico dell'arte Johann Joachim Winckelmann e del pittore e storico dell'arte Anton Raphael Mengs. Inoltre, grande influenza nello sviluppo dello stile Neoclassico ebbero gli scavi di Pompei, avviati intorno al 1740 da Carlo di Borbone, re di Na poli, che ispirarono tra gli altri Luigi Vanvitelli.
Architettura e arti visive
Nell'architettura e le arti visive, il primo movimento in cui si individua un'aspirazione neoclassica è quello dello stile Neo-attico che fu distinto dall'archeologo e storico dell'arte Friedrich Hauser nel 1889 nella sua pubblicazione "La scultura Neoattica" ("Die Neuattische reliefs"). Hauser conia il termine "Neo-attico" per identificare
una reazione contro le stravaganze barocche dell'arte ellenistica.
Un'importanza sempre maggiore in questi anni viene assunta dal problema urbanistico, in relazione alla crescita delle città. Anche l'architettura degli edifici di Napoli rifletté ampiamente l'influenza esercitata dalle scoperte archeologiche. L'esempio
più conosciuto a tal proposito è la Basilica di San Francesco di Paola, considerata l'esempio italiano più importante di chiesa neoclassica. Ogni "neo-classicismo" seleziona
determinati modelli all'interno di una gamma di possibili "classici" e ignora tutti gli
altri. Tra i Neoclassici del 1765-1830, in particolare gli scultori si rivolgevano a un
ideale fidiaco, anche se in realtà le opere prodotte si avvicinano di più alle copie romane della scultura ellenistica, ignorando la scultura greca arcaica.
Anche le antiche pitture greche erano perdute, ma l'immaginazione dei neoclassicisti settecenteschi la riportò in vita sia attraverso l'esempio della generazione di
Raffaello ispiratasi alle grottesche affrescate nella Domus Aurea di Nerone, sia con la
riscoperta di Nicolas Poussin ed i contemporanei scavi di Pompei.
Il Neoclassicismo si diffuse in Francia grazie alla generazione di artisti che si recavano in Italia (a Napoli per esempio c'erano gli scavi di Pompei, molto apprezzata
fu anche Ercolano) per studiare dal vero i reperti antichi, ma soprattutto fu influenzato dagli scritti di Johann Joachim Winckelmann.
Una seconda ondata neoclassica, più severa e contenuta, è associata all'apice del262
l'impero di Napoleone, che in particolare in Francia si manifestò con lo stile "Luigi
XVI", prima, e con lo stile "Impero", poi.
L'apice della pittura neoclassica è rappresentato da Jacques-Louis David e Jean
Auguste Dominique Ingres; Joseph-Marie Vien, maestro di Jacques-Louis David, è
considerato dai suoi contemporanei come il «padre del neoclassicismo francese», ancora quello del Vien è un neoclassicismo timido; nell'ambito della scultura si ricordano invece Antonio Canova, Luigi Acquisti e Bertel Thorvaldsen.
Copia e imitazione
Avvicinare l'arte alla natura per l'artista neoclassico non significa riprodurre la
realtà in modo naturalistico (fedele nei particolari), ma estrarne l'essenza, l'atteggiamento psicologico e mentale tipico dell'artista dell'età classica.
Ci riferiamo quindi al periodo classico in cui si rappresenta l'ideale; il Neoclassicismo riproduce quindi l'età classica. La ricerca della natura ideale è dunque il motivo
determinante dell'interesse degli artisti neoclassici per le opere antiche. Da questa
concezione idealizzata dell'arte classica discende la netta distinzione tra copia e imitazione: la prima riproduce l'aspetto esteriore dell'arte antica; la seconda ne estrae al
contrario l'essenza, lo spirito, ed è quindi un'interpretazione, pertanto, originale.
Gli esponenti principali
Giovan Battista Piranesi e Johann Joachim Winckelmann sono i maggiori esponenti in arte del Neoclassicismo, due importanti teorici, rispettivamente sostenitori
dell’arte romana e greca. Entrambi privilegiano l’imitazione dell’arte alla sterile copia.
Nelle vedute romane di Piranesi si nota maggiormente lo spirito della Roma antica.
I tesori scoperti ad Ercolano mostrarono che anche i più classici interni barocchi
o le stanze romane di William Kent erano basati sulla struttura architettonica esterna
del tempio e della basilica. Questo lo si può notare dalle dorature negli specchi dei
frontoni delle finestre. In Italia, fra i più noti esponenti del Neoclassicismo figurativo
compaiono anche: Antonio Canova, Luigi Acquisti e Cosimo Morelli per l'arte, per la
poesia Ugo Foscolo.
Gli interni
Per quanto riguarda gli interni, il neoclassicismo scoprì il gusto per l'autentico
arredamento classico, sulla scia delle scoperte effettuate a Pompei ed Ercolano, scavi
iniziati verso la fine del decennio del 1740 ma la cui eco aveva raggiunto il grande
pubblico solo nei decenni successivi, grazie anche alla pubblicazione dei primi lussuosi volumi (dal 1757 al 1792) della monumentale opera Le Antichità di Ercolano del
Bayard. Le illustrazioni mostravano come anche gli interni più classicheggianti di
epoca barocca, o le più romane tra le stanze realizzate da William Kent fossero basate
sullo stile architettonico degli esterni di basiliche e templi, il che si traduceva in: cor nici delle finestre munite di frontone, specchi dalle cornici dorate e caminetti sormontati da simil-frontali come quelli dei templi, tutte cose che ora sembrano eccessivamente pompose e piuttosto assurde. Il nuovo stile cercò di ricreare invece un vocabolario architettonico autenticamente romano, servendosi di motivi decorativi più piatti
263
e meno pesanti, come fregi scolpiti a bassorilievo o dipinti in monocromia come dei
piccoli quadretti, che rappresentavano medaglioni, vasi, busti, bucrani o altri motivi
appesi a nastri o rami d'alloro, con snelli arabeschi come sfondo, realizzati in rosso
pompeiano o altre tinte pastello, oppure con colori che imitavano quello delle pietre
naturali.
Questa moda in Francia, chiamata "goût Grèc", fu inizialmente appannaggio dei
cittadini di Parigi, ma non fu accettata a corte; solo quando il paffuto giovane Re salì
al trono nel 1774 permise a sua moglie Maria Antonietta, seguace delle mode, di introdurre lo stile Luigi XVI nei palazzi reali, ma soprattutto nel suo Petit Trianon.
A partire dal 1800 l'apprezzamento per i modelli architettonici greci, diffusi per
mezzo di stampe e incisioni, diede un nuovo impulso al movimento neoclassico, chiamato Revival greco. Il neoclassicismo continuò ad essere uno dei principali movimenti artistici per tutto il XIX secolo ed oltre — in costante contrapposizione con il Ro manticismo e il movimento neogotico — anche se a partire dalla fine del XIX secolo è
stato spesso considerato uno stile antimoderno o addirittura reazionario da importanti circoli di critici d'arte. Dalla metà del XIX secolo in avanti diverse città europee - in
particolare San Pietroburgo e Monaco - furono sostanzialmente trasformate in veri
musei dell'architettura neoclassica.
Nell'architettura statunitense, il neoclassicismo fu una delle espressioni del movimento dell'American Renaissance (1890-1917 circa); la sua ultima manifestazione si
ebbe nell'Architettura Beaux-Arts, i cui ultimi grandi progetti pubblici furono il Lincoln Memorial (molto criticato all'epoca della costruzione), la National Gallery of Art
di Washington e il Roosevelt memorial presso l'American museum of natural history
di New York. Con queste opere lo stile si era già avviato verso il declino e il progetto
di città monumentale ideato per Nuova Delhi da Sir Edwin Lutyens rappresentò il
glorioso viale del tramonto del neoclassicismo: ben presto la seconda guerra mondiale distrusse tutte le illusioni.
Il Neoclassicismo velato negli stili architettonici moderni
Nel frattempo, architetti modernisti moderati come Auguste Perret in Francia,
mantennero i ritmi e le proporzioni dell'architettura colonnare persino nella costruzione di edifici industriali. Lì dove un colonnato sarebbe stato additato come reazionario, una serie di pannelli scanalati simili a pilastri sotto ad una fascia ornamentale
ripetitiva apparivano come progressisti. Pablo Picasso fece alcuni esperimenti con
motivi classicheggianti negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale e lo stile Art Deco, che ebbe il suo picco con l'Exposition des Arts Décoratifs di
Parigi nel 1925, spesso si ispirò a motivi neoclassici senza però mostrarlo in maniera
evidente. Vari ne sono gli esempi: i severi e robusti cassettoni di Émile-Jacques Ruhlmann o di Sue et Mare, i vestiti alla moda drappeggiati a ricordare le linee greche, la
danza artistica di Isadora Duncan, gli uffici postali e i tribunali statunitensi costruiti
in stile Streamline Moderno non più tardi degli anni cinquanta. Temi di tipo neoclassico si possono trovare anche nella Smith Tower di Seattle.
264
Neoclassicismo letterario
Le arti non vanno sempre al passo e il "neoclassicismo" in letteratura inglese è associato con gli scrittori augustani del primo XVIII secolo, tutte eredità di John Dryden
di Milton.
Il maggiore dei poeti greco-latini da cui si ispirarono era Publio Virgilio Marone.
I maggiori scrittori del periodo sono Daniel Defoe, Jonathan Swift, Alexander Pope.
In Francia, il neoclassicismo è tipico del teatro di Jean Racine, con i suoi versi bilanciati, limitatezza nelle emozioni, rifinimento nell'espressione, senza eccessi, la sua
consistenza artistica, così che il tono tragico non era compensato da momenti di realismo o humor (come in Shakespeare), e la sua aderenza formale alle "unità classiche"
riprese dalla Poetica di Aristotele.
In Italia i più importanti esponenti della letteratura neoclassica furono Ludovico
Savioli, Giuseppe Parini, Vincenzo Monti e Ugo Foscolo.
Nel 1786, lo scrittore tedesco Goethe finì il suo periodo di Sturm und Drang con
il suo Viaggio in Italia, le cui esperienze raccolse in volume nel 1817. In seguito, egli,
come il suo collega Friedrich Schiller, emulò i temi e la sensibilità della tragedia greca
in opere come Ifigenia in Tauride, le Elegie romane, e il Faust.
Tuttavia per quanto riguarda Goethe, e tutto il movimento dello Sturm und
Drang, è necessario precisare che le caratteristiche principali e fondanti - la sregolatezza, il genio, la furia compositiva e l'apparente mancanza di freni - sono propri del
Romanticismo europeo. Temi neoclassici che dominano le opere del poeta tedesco
Hölderlin.
Alla metà del XVIII secolo gli scavi archeologici ad Ercolano e Pompei e gli studi
archeologici di Winckelmann determinarono la diffusione di stampe riproducenti
monumenti, sculture e pitture ritrovate in quella occasione. Grazie all'opera di Winckelmann si affermò un gusto per l'antichità vista come modello di armonia di proporzioni e perfezione (Winckelmann definì l'arte greca come sublime esempio di "nobile
semplicità e serena grandezza"). Il modello neoclassico passò dalle arti figurative alla
letteratura dove il gusto classicheggiante aveva imperato nella prima metà del secolo
(basti pensare all'Accademia dell'Arcadia). Il poeta francese André Chénier scrisse
che "sopra pensieri nuovi facciamo versi antichi". Viene affermato così il valore assoluto della Bellezza come supremo ideale dell'esistenza, e identificata nell'armonia mista alla grazia, espressa attraverso la serenità che nasce dal superamento delle passioni, l'equilibrio dei sentimenti, il rapporto preciso delle proporzioni. La patria ideale
diventò la Grecia classica, sede di un comune patrimonio spirituale, terra sognata
dove giungere per evadere da una realtà che spesso appariva deludente.
Novecento: neoclassicismo tra le guerre
Vi è stato nel XX secolo un intero movimento artistico denominato neoclassicismo. Esso includeva almeno la musica, la filosofia e la letteratura e si è sviluppato fra
la fine della prima guerra mondiale e la fine della seconda. Vi è stato anche in questo
periodo un "neoclassicimo semplificato" in architettura, che si è opposto al razionali265
smo. In Italia ciò è stato espresso dalle architetture di Marcello Piacentini.
Francisco Goya
Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 30 marzo 1746 – Bordeaux, 16
aprile 1828) è stato un pittore e incisore spagnolo.
Biografia
Gli inizi
Nasce in un piccolo territorio dell'Aragona nei pressi di Saragozza da una famiglia della piccola borghesia. Il padre José Goya, figlio di un notaio di provincia, era un
maestro doratore di origini basche mentre la madre, Gracia Lucientes, era una hidalga, cioè apparteneva al più basso ordine della nobiltà spagnola. Francisco era il quarto di sei fratelli: Rita battezzata nel 1737, Tomás battezzato nel 1739, Jacinta battezzata
nel 1743, quindi il pittore nato nel 1746 seguito da Mariano 1750 e Camilo 1753. Francisco frequenta a Saragozza un istituto religioso, le Escuelas Pías de San Antón, dove
ha come compagno di scuola Martín Zapater, che rimarrà suo intimo amico di tutta
una vita e di cui rimane una cospicua corrispondenza di 131 lettere scritte dall'artista
fra il 1755 e il 1801. Probabilmente l'istruzione offerta dalle Escuelas era poco più che
sufficiente (Goya manterrà lacune tali da causargli spesso difficoltà di scrittura e ortografia) ma era comunque superiore a quella offerta dalla maggioranza degli istituti di
provincia dell'epoca. Nel 1759 la famiglia Goya y Lucientes si trasferisce nella vicina
Saragozza, dove qualche anno prima aveva comprato una casa, per permettere al padre di cercare un impiego migliore.
Nel capoluogo aragonese, dall'età di quattordici anni, Goya frequenta come apprendista lo studio del pittore José Luzán y Martínez, dove conosce Francisco Bayeu,
anch'egli allievo di Luzan, e dove studia la tecnica del disegno.
Trasferitosi nel 1763 a Madrid, partecipa senza successo al concorso indetto dall'Accademia di Belle Arti di San Fernando di Madrid per l'assegnazione di una borsa
di studio. Presso Francisco Bayeu, divenuto pittore di corte, lavora come apprendista.
Al bando successivo del 1766, Goya ritenta, sempre senza risultato, l'ammissione all'Accademia di Madrid.
Alla ricerca di una qualificazione professionale maggiore, nel 1770 intraprende
un viaggio in Italia a proprie spese per studiare i maestri dell'antichità classica e rina scimentale. Visita Venezia, Siena, Napoli e Roma dove ha contatti con molti giovani
artisti europei. A Parma, nel 1771, partecipa a un concorso di pittura indetto dall'Accademia di Belle Arti, ottenendo però solo il secondo posto alle spalle di Paolo Borro ni (1749-1819). L'opera presentata da Goya ha il titolo Annibale vincitore, che rimira
per la prima volta dalle Alpi l’Italia.
Forte del nuovo status di artista derivato dall'esperienza italiana, il 21 ottobre
1771 fa ritorno in Spagna dove vince la sua prima commissione ufficiale per le decora266
zioni della cappella di Nuestra Señora del Pilar a Saragozza.
Il 25 luglio 1773, Goya sposa Josefa Bayeu (1747-1812), sorella del suo amico
Francisco Bayeu, pittore già affermato a corte.
In quegli anni il pittore dipinge numerose opere religiose a Saragozza, tra le più
importanti ci sono certamente le pitture realizzate nel 1774 per la cartuja, o monastero
certosino, l'Aula Dei a circa 25 chilometri dalla città.
Real Fábrica de Tapices de Santa Bárbara
Il 3 gennaio 1775 Goya e la moglie lasciano Saragozza per recarsi a Madrid. Qui,
grazie all'interessamento del cognato Francisco Bayeu, Goya entra a lavorare presso la
Real Fábrica de Tapices de Santa Bárbara. Come primo incarico gli è richiesto di realizzare insieme a Ramón Bayeu (fratello minore di Francisco) nove cartoni per gli
arazzi destinati alla tenuta di caccia El Pardo del re Carlo III. I cartoni hanno come
tema la caccia, attività molto amata da re Carlo III e dai suoi predecessori, tanto che
già Diego Velázquez aveva realizzato nel secolo precedente (1632-1637) una grande
tela su questo tema, raffigurante Filippo IV in una caccia al cinghiale.
Dopo questa prima serie di cartoni a Goya fu commissionata una serie di cartoni
per decorare la sala da pranzo del principe delle Asturie (futuro Carlo IV) ancora
presso El Pardo. Gli arazzi dovevano rappresentare scene campestri, soggetti popolari e di divertimento. Infatti i cartoni raffigurano persone che danzano, lottano, bevono, fanno dei picnic, giocano a carte o con degli aquiloni. Il Parasole introduce le figu re di majo e maja. Questi due personaggi, chiaramente identificabili dai loro abiti e atteggiamenti, rivestono un significato particolare per le classi popolari di Madrid dell'epoca. Sebbene questi soggetti contengano il tradizionale simbolismo delle fugaci
qualità della giovinezza e della felicità umana, Goya dimostra una osservazione dei
comportamenti umani particolarmente attenta ed acuta, tanto che nel presentare il
proprio conto per i dipinti, ci tiene a precisare che essi sono stati dipinti secondo la
"sua propria inventiva".
Nel 1778 Goya realizza il suo più grande ed originale cartone per arazzi dal titolo
Il chitarrista cieco. L'opera è talmente complessa e ricca di personaggi che in un primo
momento viene rifiutata dai tessitori che dovevano usarla come modello. Il dipinto
rappresenta un mendicante cieco che, accompagnato dal suono della sua chitarra,
canta davanti ad un pubblico di curiosi. Con questa opera Goya esprime per la prima
volta il suo interesse per gli emarginati, i mendicanti e gli infermi, temi che spesso ri prenderà in futuro. Da questo momento l'arte di Goya comincia a divergere drasticamente da quella dei suoi contemporanei. I tratti ironici e grotteschi del musicista cieco, rendono infatti l'opera del tutto originale rispetto al panorama dell'epoca.
Nel 1779 la Real Fábrica viene temporaneamente chiusa a causa di ristrettezze
economiche dovute allo scoppio della guerra con l'Inghilterra.
Le prime incisioni
In quegli anni comunque i cartoni per gli arazzi non furono i soli lavori a cui si
dedicò. Nel luglio 1778 Goya pubblica una raccolta di nove incisioni, nove acqueforti
in cui riproduce celebri opere di Diego Velázquez, il pittore che aveva dominato l'arte
della corte spagnola del diciassettesimo secolo.
267
In quegli anni non esistevano in Spagna musei pubblici, ed i palazzi reali erano
chiusi al pubblico. Per apprezzare le opere dei grandi maestri ci si doveva accontentare delle copie eseguite dagli incisori. Grandi incisori del passato erano stati l'italiano
Marcantonio Raimondi, che nel sedicesimo secolo si era dedicato a riprodurre Raffaello, o Dürer che invece si era dedicato alle antichità, ma in Spagna non esisteva
nessuna tradizione nell'incisione. Per questo motivo molti capolavori spagnoli rimanevano del tutto sconosciuti a chi non appartenesse alla ristretta cerchia dei privilegiati che frequentava la corte. Grandi maestri del passato non potevano essere studiati dai pittori dell'epoca e rimanevano del tutto sconosciuti al di fuori della Spagna.
Mengs nel 1777 aveva espresso pubblicamente il suo rammarico per questa situazione e per la scarsa notorietà dell'opera di Velázquez che ne derivava, nascosta
com'era tra le pareti delle collezioni reali. Fu forse grazie al suo intervento che Goya
ebbe accesso a palazzo per riprodurre in incisione alcuni dei Velázquez conservati
alla corte di Madrid.
Nel 1779 circa Goya realizza l'acquaforte Agarrotado, raffigurante un condannato a morte strangolato tramite la garrota. Di quest'opera non fu mai tirata un'edizione
e, data anche la crudezza del soggetto, si suppone che sia stata incisa solo per sé stesso. Goya con quest'opera comincia a mostrare il suo interesse quasi morboso per i cri minali, scene violente, ingiustizie sociali. Comincia così ad emergere il lato oscuro di
Goya, in antitesi con quello solare dei cartoni idilliaci realizzati per l'arazzeria. Un
lato oscuro che si manifesterà pienamente venti anni più tardi nella serie di incisioni
Capricci dove spiccano numerose scene di stregoneria, un tema affrontato anche in
grandi opere pittoriche, sia precedenti sia posteriori. Ma l'interesse di Goya per il
mondo magico e stregonesco, come ha dimostrato lo storico dell'esoterismo Giordano
Berti, nasce da un forte spirito critico sia verso le superstizioni popolari sia verso l'ipocrisia dell'aristocrazia e del clero di quell'epoca tormentata: cosa che emerge chiara mente dalla lettura dei manoscritti dello stesso Goya.
Goya esce dall'ombra
La chiusura dell'Arazzeria Reale fu per Goya un duro colpo, se non altro dal
punto di vista economico. Nel luglio 1779 spera di prendere il posto di Mengs quale
pittore di corte, quando il vecchio maestro si ritirò a Roma dove morì poco dopo ma
non vi riesce.
Nel maggio 1780, forse per ottenere maggiori sbocchi lavorativi, chiede di far
parte all'Accademia Reale di San Fernando. Per essere ammesso presenta l'opera dal
titolo Cristo Crucificado che riscuote l'apprezzamento degli accademici. L'opera risulta alquanto estranea allo stile ed alle tematiche del pittore, tanto da far pensare che sia
stata realizzata appositamente per compiacere i gusti della giuria.
Quello è anche l'anno in cui Goya iniziò la sua controversa collaborazione con il
cognato Francisco Bayeu per la decorazione della cattedrale di El Pilar a Saragozza.
Goya aveva cercato di ottenere per sé l'incarico di decorare la cappella della vergine
di El Pilar, ma la commissione della cattedrale gli preferì il più famoso Bayeu. Questi
alla fine accettò l'incarico, ma a patto che venissero assunti anche il fratello Ramón ed
il cognato Goya. A quanto pare Francisco non era entusiasta del lavoro ottenuto, in
quanto pagato troppo poco, ma era comunque una buona occasione per i parenti
268
meno noti di mettersi in mostra. Ben presto però ci fu una grave rottura nei rapporti
con Bayeu. Goya, la cui carriera era iniziata e cresciuta grazie all'appoggio del cognato, sembra sentirsi stanco del ruolo di "protetto" di Bayeu e reclama più indipendenza
nel realizzare le opere nella cappella di El Pilar. Ma né Bayeu, né la commissione della
cattedrale sembrano appoggiarlo. Ne nasce quindi una aspra disputa che si protrae
dal dicembre 1780 fino al maggio 1781. La faccenda ebbe grande eco presso l'Accademia Reale ed è forse per pacificare gli animi che fu commissionato ad entrambi di collaborare nuovamente per l'importante chiesa di San Francesco il Grande a Madrid.
L'episodio di Saragozza finì per passare per una reazione emotiva spropositata
di Goya e fu presto dimenticato. Da allora però i suoi rapporti con Francisco Bayeu
furono definitivamente incrinati. Il clamore della vicenda, però, provocò al suo ritorno a Madrid un grande interesse intorno al nome di Goya. Grazie alla pubblicità che
ne ottenne, la sua posizione come pittore di corte ne ebbe grande beneficio.
Come detto, prima conseguenza dell'affaire El Pilar fu una nuova commissione
per la chiesa madrilena di San Francesco il Grande, che impegnò Goya dal 1781 al
1783. La chiesa era sotto il patrocinio della famiglia reale e quando la corte commissionò a Goya una delle sette grandi pale d'altare, il pittore fu entusiasta dell'opportunità ottenuta di mettersi in mostra. L'importanza della commissione è sottolineata dai
grandi nomi a cui furono commissionate le altre pale d'altare: la pala d'altare maggiore fu realizzata dal grande Francisco Bayeu. Con questa commissione Goya viene così
messo quasi allo stesso piano del famoso cognato, alla cui ombra era sempre stato relegato.
Il soggetto realizzato da Goya fu San Bernardino de Siena predicando ante el rey
Alonso V de Aragón, ma nonostante le aspettative del pittore, l'opera ebbe solo una
tiepida accoglienza di pittori ed intenditori.
È forse in seguito a questo lavoro che nel 1783 ottiene l'opportunità di ritrarre
José Moñino conte di Floridablanca. Il conte era infatti il supervisore della commissione di San Francesco il Grande. Floridablanca era un personaggio eminentissimo della
corte e della scena politica e Goya fece di tutto per impressionare il committente. Il ri tratto a figura intera è ricco di riferimenti e fa di tutto per ossequiare l'illustre personaggio. Tanto impegno non dette i risultati attesi, tanto che il conte commentò il dipinto con un laconico "Goya, ci vedremo con più calma".
Nonostante ciò, o grazie a ciò, la fama di Goya cresce. Nello stesso anno realizza
un grande ritratto della famiglia di Don Luis de Borbón, fratello minore del re Carlo
III. Don Luis, avviato sin dall'infanzia alla carriera ecclesiastica, fu coinvolto nel 1775
in un grave scandalo a sfondo sessuale, pare che avesse storie con molte donne procurategli dal pittore Paret. Ciò costò il titolo di Cardinale di Siviglia e Toledo a don Luis
che fu anche allontanato dalla corte reale, e l'esilio nell'isola di Puerto Rico al pittore.
Nel 1776, all'età di 49 anni, il fratello minore del re prende in sposa María Teresa de
Vallabriga, di 31 anni più giovane, e negli anni diviene noto come grande mecenate
per il gran numero di artisti e musicisti che accoglie nei suoi possedimenti ad Arenas
de San Pedro vicino ad Avila. Nell'opera La familia del infante Don Luis de Borbón è
ritratta anche la giovane figlia María Teresa de Borbón y Vallabriga, colei che nel
1800, come contessa di Chinchón, diverrà la moglie di Godoy.
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Goya ritrattista
Nel 1785 Goya ottiene l'incarico di dipingere i direttori del Banco San Carlos. Di
questi il conte di Altamira Vincente Osorio de Moscoso, rimase molto impressionato
dal lavoro dell'artista, tanto da ordinargli subito altri tre ritratti dei suoi familiari. Il
famoso ritratto del piccolo Manuel Osorio Manrique de Zuñiga, figlio del conte, è appunto uno di questi.
La famiglia Altamira aiuta l'ascesa sociale di Goya, ma ad esercitare la maggiore
influenza sul pittore furono certamente i duchi di Osuna. Goya li conobbe intorno al
1785, e sembra sia stata la passione per la caccia ad avvicinare il pittore a Pedro de Alcántara, marchese di Peñafiel, futuro duca di Osuna e sua moglie María Josefa Pimental. Gli Osuna erano ricchi, colti e appassionati di tutto ciò che riguardava le arti e le
scienze. Il conte, ex militare ed ex diplomatico, possedeva una delle più grandi biblioteche private di Spagna, circa 25.000 volumi, ricca di opere letterarie inglesi, avrebbe
voluto farne dono alla nazione, ma il governo lo impedì, poiché conteneva libri proibiti dall'Inquisizione.
La duchessa di Osuna non era da meno del marito e viene descritta da Lady Holland, la moglie dell'ambasciatore inglese presso Carlo IV, come "la donna più insigne
per talenti, virtù e gusto di tutta Madrid". La duchessa infatti era un personaggio
pubblico, che si occupava dei problemi delle carceri femminili, dell'educazione dei
giovani, promuoveva la vaccinazione contro le malattie e aveva fatto della sua casa
uno dei grandi salotti culturali e mondani d'Europa. La collaborazione con gli Osuna
inizia con un ritratto di famiglia ed uno della duchessa, poi i rapporti con Goya si rinsaldano e viene chiamato a decorare le stanze della loro stupenda villa, il palazzo Alameda noto come El Capricho. Curioso è notare come una scena scelta per decorare
queste stanze sia quella di assalto alla diligenza, in cui sono raffigurati dei banditi che
aggrediscono, rapinano e poi uccidono dei viaggiatori. Alla fine gli Osuna acquistano
da Goya oltre venti dipinti, tra cui anche alcuni a tema religioso, per commemorare
personaggi del loro casato. Di questo genere è San Francesco Borgia assiste un moribondo impenitente realizzato nel 1788, dipinto alquanto particolare, che raffigura il
santo che con il suo crocifisso asperge di sangue un moribondo circondato da tre demoni in attesa della sua anima dannata.
Nel 1792 compì un viaggio in Andalusia, durante il quale si ammalò e perse del
tutto l'udito. La sordità e l'isolamento dal mondo portarono alla luce il quel senso di
disperazione e angoscia a lungo repressi: nelle opere si affacciarono elementi fantastici e mostri partoriti dal travaglio della sua mente.
Las Pinturas Negras (Le Pitture Nere)
Nel 1819 con il restaurarsi del regime borbonico in Spagna, Goya desolato si trasferisce in periferia di Madrid sulle rive del Manzanarre. Qui dal 1820 al 1823 si dedica alle cosiddette Pitture nere realizzate ad olio su muro all'interno della sua casa.
La "Quinta del sordo" era il modo informale con cui il pittore si rivolgeva alla
propria abitazione che offriva ampio spazio ai suoi dipinti ormai dediti alla raffigurazione dei suoi "fantasmi"; scene di stregoneria, esorcismi attraverso il simbolismo e la
deformazione espressiva prendono vita angosciante sotto le rapide pennellate infor270
mali e deformanti del pittore; costui preda della sua sordità dipingeva di notte con la
tavolozza ridotta a bianchi sporchi, neri e ocre con qualche traccia di gialli e rossi,
rendendo sempre più claustrofobica e angusta la sua casa (ai confini della follia). Si
può ricordare di questo ciclo "Saturno che divora i suoi figli" la cui mostruosità "infanticida" è collocata al pian terreno. Dal punto di vista prettamente estetico ricorda la
famosa fucilazione, ma da un punto di vista esecutivo-formale, che si staglia su uno
sfondo nero pece, questo dipinto capitale apre la strada all'Espressionismo ottocentesco per sintesi ed efficacia.
Jacques-Louis David
Jacques-Louis David (Parigi, 30 agosto 1748 – Bruxelles, 29 dicembre 1825) è stato un pittore francese.
Dopo una formazione compiuta in ambito tradizionale, ancora seguendo il gusto
rococò, ottenne l'ambitissimo Prix de Rome che, nel 1775, gli permise di raggiungere
l'Italia. Il quinquennale soggiorno romano fu per lui un periodo tormentato e difficile,
poco soddisfacente dal punto di vista della produzione eppure ricco di esperienze
fondamentali, come la scoperta dell'arte italiana (non solo l'antico, ma anche Michelangelo, Raffaello e Caravaggio) e, verosimilmente, la conoscenza degli scritti di
Winckelmann, Mengs e altri teorici del Neoclassicismo.
Biografia
La formazione: 1757-1774
Jacques-Louis David nasce a Parigi il 30 agosto 1748, in una casa del quai de la
Mégisserie, da una famiglia piccolo-borghese: il padre, Louis-Maurice David, è un
commerciante di ferro che, per elevarsi socialmente, aveva acquistato - come allora
era possibile - una carica di «commis aux aydes», divenendo così fornitore dello Stato
e appaltatore a Beaumont-en-Auge, nel Calvados. La madre, Marie-Geneviève Buron,
lontana parente del famoso pittore François Boucher appartiene a una famiglia di muratori, nella quale il fratello François Buron è architetto delle acque e foreste e, dei
suoi due cognati, uno è architetto e l'altro carpentiere. Jacques-Louis viene battezzato
nella chiesa di Saint-Germain l'Auxerrois il giorno stesso della nascita e suoi padrini
sono Jacques Prévost e Jeanne-Marguerite Lemesle.
Quando il padre muore, a soli trentacinque anni, nel 1757, sembra per le conseguenze di una ferita riportata in un duello alla spada - Jacques-Louis ha nove anni e
viene messo a pensione nel convento del Picpus. Della sua istruzione si occupa, dopo
che la madre si è ritirata in campagna a Évreux, lo zio materno François Buron, il quale prima lo fa seguire da un precettore privato e poi lo iscrive nella classe di retorica
del Collège des Quatre-Nations. Notate le sue disposizioni per il disegno, lo zio decide di fargli intraprendere la carriera di architetto, ma nel 1764, dopo aver frequentato
il corso di disegno dell'Académie Saint-Luc, David manifesta la sua intenzione di dedicarsi alla pittura, e allora la famiglia lo raccomanda a François Boucher, primo pit 271
tore del re, il quale però, ormai anziano e malato, consiglia di affidarlo al pittore Joseph-Marie Vien.
Allievo di Joseph-Marie Vien
Joseph-Marie Vien non ha il prestigio e il talento dell'anziano maestro François
Boucher, ma è un pittore di successo: l'anno precedente ha presentato al Salon parigino la Venditrice di amorini, che è diventato il manifesto della nuova pittura che ora si
chiama di goût antique o anche à la grecque e un giorno sarà chiamata neoclassica.
Quello del Vien è un neoclassicismo ancora timido, legato alla tradizione barocca, una
pittura di transizione, dunque, ma è la pittura più moderna. Quella di Boucher - pitto re glorioso ma esponente della corrente rococò ormai avviata al tramonto - si rivela
pertanto una scelta di generosa intelligenza e sarà gravida di conseguenze per David
e per tutta la pittura francese.
Dal 1766, oltre a fargli frequentare il proprio atelier, il Vien lo fa studiare nell'
Académie royale dove, sotto la direzione di Jean Bardin, David apprende composizione, anatomia e prospettiva, e ha per compagni di studi, fra gli altri, Jean-Baptiste Regnault, François-André Vincent e François-Guillaume Ménageot. Michel-Jean Sedaine, amico di famiglia, segretario dell' Académie d’architecture e autore teatrale, diviene il suo protettore e si preoccupa di dargli una più compiuta formazione intellettuale, mettendolo in contatto con personalità della cultura dell'epoca. È forse in questo
periodo che una ferita alla guancia, procuratasi in un duello alla spada contro un
compagno di bottega gli lascia una cicatrice che egli si preoccuperà di nascondere nei
suoi autoritratti.
Il terzo premio ottenuto nel 1769 al «Prix de quartier» gli consente di partecipare
al Prix de Rome: vincere quel premio consente di ottenere una borsa di studio triennale che permette di conoscere e studiare a Roma la pittura italiana e le memorie dell'antichità. Egli vi ottiene, nel concorso del 1771, vinto da Joseph-Benoît Suvée, solo il
secondo posto con il Combattimento di Marte e Minerva, dipinto in uno stile rococò e
strutturato con una composizione che la giuria giudica di debole fattura.
L'anno dopo fallisce ancora il primo premio con Diana e Apollo saettano i figli di
Niobe e, ritenendo di essere stato vittima di un'ingiustizia, per un momento arriva al
punto di pensare al suicidio. Anche il tentativo fatto nel 1773 con La morte di Seneca
si rivela un insuccesso: vince Pierre Peyron, il quale, benché rétro nello stile, viene
premiato per la novità della composizione, mentre il dipinto di David è giustamente
giudicato troppo teatrale; egli riceve tuttavia un premio di consolazione per un suo
pastello, Il dolore.
Tutti questi insuccessi pongono David in urto con l'istituzione accademica e si è
poi sostenuto che egli in questi anni abbia maturato quel rancore che nel 1793 lo porterà a far adottare dalla Convenzione il decreto di soppressione delle Accademie. In
verità, le sue critiche si rivolgeranno soprattutto alla cattiva organizzazione dell'insegnamento accademico, che prevedeva allora la rotazione mensile dei professori, con
evidenti danni nel profitto degli studenti.
Alla fine del 1773, Marie-Madeleine Guimard, prima ballerina dell'Opéra, lo incarica della decorazione del suo hôtel privato, trasformato in teatro, che Fragonard
272
aveva lasciata incompiuta. e finalmente, nel 1774, vince il Prix de Rome: l’opera presentata, Antioco e Stratonice, per quanto non manchi di teatralità, ha una composizione semplificata e più rigorosa e pertanto conforme ai nuovi canoni dell'espressione
drammatica.
In Italia: 1775-1780
Il 2 ottobre 1775 David parte per Roma con il suo maestro Vien, che è stato appena nominato direttore dell'Accademia di Francia - che allora aveva sede in Palazzo
Mancini - e con gli altri due giovani premiati, gli scultori Pierre Labussière e Jean
Bonvoisin. Durante il viaggio, che dura un mese e fa tappa a Lione, a Torino, a Parma
e a Bologna, può ammirare le opere del Correggio, di Guido Reni e dei Carracci. Il
primo anno, a Roma, segue il consiglio del suo maestro di consacrarsi essenzialmente
nella pratica del disegno e studiare attentamente gli antichi, facendo centinaia di
schizzi di monumenti, di statue e di bassorilievi: il complesso di questi studi finiscono
per costituire cinque voluminose raccolte in-folio.
I miglioramenti sono lenti e difficili: la novità dell'ambiente romano, con la viva
presenza delle antichità classiche che si contrappongono a quel gusto dell'antico prima soltanto coltivato da David attraverso suggestioni puramente letterarie, ha inizialmente sul giovane pittore un effetto straniante e paralizzante, tanto da portarlo a dubitare di poter mai migliorare nella sua arte. Tuttavia il tratto del suo disegno si trasforma, si fa più incisivo e scabro, si depura della vaporosità del rococò. Le copie delle tele del Cinquecento e del Seicento romano gli sono utili soprattutto allo scopo di
impadronirsi del segreto del metodo compositivo dei grandi maestri del passato.
Nel 1776 realizza un disegno di grandi dimensioni, I duelli di Diomede, una delle sue prime prove del genere storico, concretizzata due anni dopo nei Funerali di Patroclo, ampio studio a olio destinato alla commissione dell'Académie des Beaux-Arts
di Parigi, incaricata di valutare i progressi dei pensionnaires del Prix de Rome. Il giudizio dei commissari è sostanzialmente positivo: la tela «annuncia un genio fecondo.
Noi pensiamo che egli avrebbe bisogno di moderarlo e di controllarlo in modo da
dargli più energia».
Se la prova incoraggia il talento di David, ne sottolinea però anche le carenze
nella resa dello spazio, l'oscurità della scena e l'incertezza del trattamento prospettico.
Dipinge anche molte tele in uno stile desunto dal Caravaggio: due studi virili, Ettore
(1778) e Patroclo (1780), ispirate dalla statua del Galata morente, un San Gerolamo,
una Testa di filosofo e, destinata alle collezioni reali di Versailles, una copia della Ultima cena del Valentin.
Nel luglio del 1779, David comincia a manifestare i primi segni di una crisi depressiva che si prolungherà per alcuni mesi: per svagarsi, viaggia a Napoli in compagnia dello scultore François Marie Suzanne e insieme visitano le rovine di Ercolano e
di Pompei. In questa occasione David dichiara apertamente la sua conversione al
nuovo stile ispirato all'antico: dirà che era come «aver fatto un'operazione di cataratta: compresi che non potevo migliorare la mia maniera, il cui principio era falso, e che
dovevo separarmi da tutto ciò che in precedenza avevo creduto essere il bello e il
vero. È possibile che l'influsso dell'antiquario Quatremère de Quincy, seguace di
Winckelmann e di Lessing, sia stata importante per la risoluzione di David, anche se
273
nessuna fonte dell'epoca attesta che vi sia mai stata una conoscenza fra i due uomini.
È difficile stabilire la causa della sua depressione, che David superò comunque
prima della fine dell'anno: secondo la corrispondenza del pittore, potrebbe essere stata legata a una relazione con la cameriera di madame Vien e ai suoi dubbi sulla nuova
strada artistica da percorrere. Per aiutarlo a superare la crisi, Vien aveva cercato di sti molarlo al lavoro, ottenendogli la commissione di un quadro a soggetto religioso, che
commemorasse le vittime dell'epidemia di peste propagatasi a Marsiglia nel 1720, il
San Rocco intercede presso la Vergine per gli appestati, destinato al lazzaretto di Mar siglia. L'opera ha tracce di caravaggismo, ma si ispira più direttamente all' Apparizione della Vergine a san Giacomo di Poussin. Terminato nel 1780 e presentato a palazzo
Mancini, il quadro produce una forte impressione; Diderot, che lo vide l'anno dopo,
quando fu esposto a Parigi, fu in particolare impressionato dall'espressione dell'appestato ai piedi di san Rocco, una figura che tornerà dieci anni dopo in una tela di David, a rappresentare l'espressione del console Bruto durante i funerali del figlio.
Nella Francia dell'Ancien régime: 1780-1788
A David, giudicato pittore molto promettente, fu concesso dall'Accademia di
prolungare il soggiorno a Roma per un altro anno allo scadere del quale Pompeo Batoni, influente pittore italiano e precursore del Neoclassicismo, tentò invano di convincere David a rimanere a Roma. Il 17 luglio 1780, con il San Rocco e due tele ancora
incompiute, Belisario chiede l'elemosina e il Ritratto del conte Stanislas Potocki - gentiluomo polacco, questi, appassionato d'arte e traduttore di Winckelmann - David
parte per Parigi dove giunge alla fine dell'anno.
Termina il Belisario, con l'intenzione di presentarlo per l'approvazione all’Accademia di pittura in modo da ottenere il permesso di esporre al Salon, secondo la norma istituita dal conte d’Angiviller, direttore generale dei Bâtiments du Roi, sorta di
ministero delle imprese pubbliche del Regno. Ispirato a un popolare romanzo di Marmontel, l'opera testimonia il nuovo orientamento davidiano, indirizzato al neoclassicismo. Il dipinto viene accolto con favore dall'Accademia e, presentato al Salon, riceve
anche gli elogi di Diderot: «Tutti i giorni lo vedo e credo sempre di vederlo per la prima volta». Il generale bizantino è rappresentato ormai vecchio e cieco, in compagnia
di un bambino, mentre protende l'antico elmo per ricevere l'elemosina da una passante: il soggetto aneddotico, reso da David con «il gusto del dramma a tinte forti» di
moda in quegli anni, è il pretesto per un insegnamento morale sulla caducità della
gloria umana e sulla desolazione della vecchiaia. Il dipinto è strutturato con semplicità e chiarezza e all'astrazione classicista di Poussin unisce un realismo espressivo che
dà saldezza e incisività alle forme.
Nel 1782 David sposa Marguerite Charlotte Pécoul, più giovane di 17 anni; il
suocero, Charles-Pierre Pécoul, è un appaltatore dello Stato e dota la figlia della bella
somma di 50.000 lire, consentendo a David i mezzi finanziari per allestirsi un atelier
al Louvre dove dispone anche di un alloggio. Avranno quattro figli: il primo, CharlesLouis Jules, nasce l'anno seguente. Nell' atelier accoglie i primi allievi, Fabre, Wicar,
Girodet, Drouais, Debret.
Allo scopo di essere accettato come membro dell'Accademia, nel 1783 presenta Il
compianto di Andromaca sul corpo di Ettore: il dipinto è accolto con favore il 23 ago274
sto 1783 e il 6 settembre successivo David presta giuramento nelle mani di Jean-Baptiste Marie Pierre.
Era dal 1781 che David pensava di fare, per rispondere ai desideri dei Bâtiments
du Roi, una grande pittura di storia, ispirata al duello degli Orazi e dei Curiazi e perciò anche alla tragedia di Corneille, Horace, molto popolare in Francia. Solo tre anni
dopo David conduce in porto il progetto scegliendo però un episodio assente nella
pièce corneilliana, Il giuramento degli Orazi, ripreso forse dalla Histoire romaine di
Charles Rollin, o ispirato dalla tela Il giuramento di Bruto del pittore britannico Gavin
Hamilton. Grazie all'aiuto finanziario del suocero, David parte per Roma nell'ottobre
del 1784, accompagnato dalla moglie e dal recente vincitore del Prix de Rome, suo allievo e assistente Jean Germain Drouais. Alloggiato a Palazzo Costanzi, prosegue a
dipingere la tela, già iniziata a Parigi.
La tela non doveva superare i tre metri per tre, secondo la commissione reale, ma
David finisce per ingrandirla di alcuni metri - le sue dimensioni sono di 3,30 x 4,25
metri - e questa sua noncuranza delle istruzioni ufficiali gli varranno la nomea di artista indipendente, se non ribelle. Oltre tutto, prende l'iniziativa di esporre l'opera già
nel suo studio romano, prima della presentazione ufficiale al Salon, dove produce
una profonda impressione negli ambienti artistici.
Anche se fu definito dal direttore dell'Accademia «un attacco al buon gusto»,
esso fu acclamato dai più come «il più bel quadro del secolo». Il dipinto rappresenta il
momento in cui i tre fratelli Orazi giurano di sacrificare la propria vita per la patria.
La scena è inserita davanti a un semplice portico con archi a tutto sesto, ognuno dei
quali racchiude uno dei gruppi dei personaggi, allineate su uno stesso piano-scena: i
tre fratelli, il padre che unisce le tre spade e le donne, madre e sorelle, piangenti, quest'ultimo gruppo facendo da contrappeso emozionale ai due precedenti. Nella sua
semplicità e gravità, la tela può essere accostata sia ai bassorilievi antichi, che alle
opere del primo Rinascimento, allora al centro di una nuova riscoperta e assunse
grande importanza anche perché riuscì a rappresentare lo stato d'animo di molti francesi di quel delicato periodo. Vi si lesse l'esaltazione dei valori di rigore morale e
spartana semplicità dell'antica Repubblica romana, secondo il dettato di una lunga e
fortunata tradizione retorica, ma non sembra che si percepissero messaggi rivoluzionari. Del resto, lo stesso David, in una lettera del 1789, descrivendo il dipinto non accenna a significati rivoluzionari, ma la Rivoluzione si «impossessò» dell'opera, traendovi l'esaltazione della fede repubblicana.
Secondo gli storici dell'arte Jacques Brengues, Luc de Nanteuil e Philippe Bordes,
David sarebbe stato massone e avrebbe trasmesso nell'opera rituali tipici delle associazioni massoniche. Nel 1989 Albert Boime ha effettivamente dimostrato attraverso
un documento del 1787 l'appartenenza dell'artista alla loggia massonica della Modération.
Il giuramento degli Orazi consacra David come capofila della moderna scuola di
pittura, che si chiama Vrai style, vero stile: il termine Neoclassicismo non è ancora in
uso, e apparirà solo alla metà dell'Ottocento, quando la scuola sarà ormai al tramonto.
Egli è così anche soggetto alle gelosia di molti colleghi d'Accademia, tanto che il Prix
de Rome del 1786 è annullato, perché i candidati sono tutti suoi allievi e la sua candi275
datura alla direzione dell'Accademia è respinta.
Nel 1787 David dipinge per Charles Michel Trudaine de la Sablière, un aristocratico liberale, consigliere del parlamento di Parigi, La morte di Socrate. Si dice che il
gesto della mano diretto alla coppa del veleno gli fu suggerita dal poeta André Chénier, per esprimere più pienamente la stoica accettazione dell'ingiusta pena. Esposta
al Salon del 1787, l'opera si trova in concorrenza con la tela, di pari soggetto, del Peyron, commissionata dai Bâtiments du Roi e il confronto si risolve a tutto vantaggio di
David.
Nel 1788 è la volta de Gli amori di Paride ed Elena, dipinti per conte d’Artois, futuro Carlo X, iniziata due anni prima. È l'unica commissione che vi perviene da un
membro della famiglia reale: quella di un ritratto di Luigi XVI, richiesta nel 1792, che
doveva rappresentare il re mentre mostra la costituzione di Francia al delfino, non
sarà mai realizzata. Il 1788 è anche l'anno della morte precoce, per vaiolo, del suo al lievo favorito, Jean Germain Drouais.
La Rivoluzione: 1789-1797
Nel 1788 David fa il Ritratto di Lavoisier e della moglie. Il chimico Antoine Lavoisier è anche fermier général - esattore delle imposte - ed è anche responsabile dell'amministrazione delle Poudres et salpêtres, le munizioni e gli esplosivi dell'esercito.
Nell'agosto del 1789 Lavoisier fa depositare nell'Arsenale di Parigi una gran quantità
di munizionamenti per cannoni, iniziativa che viene sospettata avere intenti contro-rivoluzionari: per questo motivo, l’Académie Royale ritiene prudente non esporre la
tela al Salon.
Anche il dipinto I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli provoca timori
nelle autorità, poiché si teme un paragone tra l'intransigenza del console Lucio Giunio
Bruto, che non esitò a sacrificare i figli che cospiravano contro la Repubblica, e la debolezza di Luigi XVI rispetto al fratello conte d’Artois, favorevole alla repressione dei
rappresentanti del Terzo Stato. Così, il dipinto non venne esposto al Salon, benché si
trattasse di una commissione dei Bâtiments du Roi, ma i giornali non mancarono di
sottolineare la censura esercitata dal governo, costringendo l'Accadémie a esporre il
dipinto, che David dovette però modificare, eliminando le immagini delle teste decapitate dei figli di Bruto issate sulle picche, che figuravano nella versione primitiva
della tela.
Il grande successo del Bruto si ripercosse sulla moda: si adottarono le pettinature
«alla Bruto», le donne abbandonarono le parrucche incipriate e l'ebanista Georges Jacob realizzò mobili in stile presunto «romano» disegnati da David.
David aveva frequentato dal 1786 gli ambienti dell'aristocrazia progressista conoscendo, tra gli altri, oltre Chénier, Charles de Bailly e Condorcet e, nel salotto di
Madame de Genlis, Bertrand Barère, Barnave e Alexandre de Lameth, prossimi protagonisti della Rivoluzione. Due vecchi condiscepoli di Nantes, incontrati durante il periodo romano, l'architetto Mathurin Crucy e lo scultore Jacques Lamarie, gli proposero un'allegoria che celebrasse gli avvenimenti pre-rivoluzionari che si erano verificati
a Nantes alla fine del 1788 e, seppure il progetto non andò in porto, l'episodio confer ma la simpatia di David per la causa rivoluzionaria. Nel settembre del 1789 David è
276
alla testa, con Jean-Bernard Restout, degli Accademici dissidenti, gruppo fondato per
riformare l'istituzione delle Belle Arti, i quali chiedono la fine dei privilegi accordati
all'Académie royale, in particolare quello di negare il diritto agli artisti non accademici di poter esporre le loro opere al Salon.
Nel 1790 comincia a dipingere il Giuramento del Jeu de paume, iniziativa suggeritagli da Dubois-Crancé e Barère, la più ambiziosa delle realizzazioni del pittore fino
a quel momento, dal momento che, una volta terminata, avrebbe misurato 10 metri x
7 rappresentando i 630 deputati dell'Assemblea costituente. Il progetto ha l'appoggio
della Société des amis de la constitution, il primo nome del Club dei Giacobini, alla
quale David ha appena aderito. Malgrado il lancio di una sottoscrizione, i fondi necessari non vengono però raccolti: una successiva proposta di Barère all'Assemblea
costituente di finanziare il dipinto non è accolta e David abbandona definitivamente il
progetto, per il quale aveva presentato il disegno preparatorio.
David prosegue il suo impegno politico, mettendosi alla testa, nel 1790, della
Commune des arts, emanazione degli Académiciens dissidents, ottenendo la fine del
controllo del Salon da parte dell'Académie, e partecipando in qualità di commissario
aggiunto al primo Salon de la liberté, inaugurato il 21 agosto 1791. Nel settembre 1790
aveva già presentato all'Assemblea la proposta di soppressione di tutte le Accademie,
che verrà accolta formalmente l'8 agosto 1793, intanto che aveva fatto abrogare il posto di direttore dell'Académie de France a Roma.
Pittore e deputato della Convenzione: 1790-1794
Nell'agosto del 1790 Charlotte David, monarchica e perciò in disaccordo con le
opinioni del marito, si separa da David. Il 17 luglio 1791 David è tra i firmatari, riuniti
al Campo di Marte, della petizione che chiede la decadenza di Luigi XVI: conosce, in
questa occasione, il futuro ministro dell'Interno, Roland. A settembre tenta senza successo di farsi eleggere deputato dell'Assemblea legislativa; la sua attività artistica rallenta e se trova il tempo per il suo Autoritratto, ora agli Uffizi, lascia incompiuti nu merosi ritratti, come quelli di Madame Pastoret e di Madame Trudaine.
Nel 1792 le sue posizioni politiche si radicalizzano: il 15 aprile organizza la sua
prima festa rivoluzionaria in onore delle guardie svizzere di Châteauvieux che si erano ammutinate a Nancy. Il suo sostegno a questa iniziativa provoca la rottura con elementi liberali moderati, come André Chénier e Madame de Genlis. Il 17 settembre
1792 è eletto deputato di Parigi alla Convenzione nazionale: è rappresentante del popolo nella sezione del museo e siede fra i deputati della Montagna, ottenendo l'appoggio di Jean-Paul Marat che lo definisce «eccellente patriota».
Nominato il 13 ottobre al Comitato d'istruzione pubblica, ha l'incarico di organizzare le feste civiche e rivoluzionarie, oltre che la propaganda; dal 1792 al 1794 si
occupa anche dell'amministrazione delle arti e, come membro della Commissione ai
monumenti, propone di inventariare tutti i tesori nazionali e ha un ruolo di primo
piano nella riorganizzazione del Louvre. Concepisce, ai primi del 1794, un programma di abbellimento di Parigi e fa installare i Cavalli di Marly di Guillaume Coustou
all'ingresso degli Champs Élysées.
Dal 16 al 19 gennaio 1793 - secondo il nuovo calendario, dal 27 al 30 nevoso del277
l'anno I - vota per la morte di Luigi XVI, cosa che provoca la richiesta di divorzio della moglie. Il 20 gennaio il convenzionale Louis-Michel Lepeletier de Saint-Fargeau è
assassinato dai monarchici per aver votato la condanna del re. David è incaricato da
Barère di organizzare le cerimonie funebri ed egli fa esporre il corpo in place des Piques. Dipinge poi una tela, esposta alla Convenzione, che rappresenta il deputato nel
suo letto di morte: sembra che quest'opera sia stata distrutta nel 1826 dalla figlia del
convenzionale assassinato e resta nota solo da un disegno dell'allievo di David, Anatole Desvoge, e da un'incisione di Pierre-Alexandre Tardieu.
All'annuncio dell'assassinio di Marat, il 13 luglio 1793, la Convenzione incarica
David di fare per Marat quel che aveva fatto per Lepeletier. Amico di Marat, David
era stato tra gli ultimi ad averlo visto ancora vivo. Egli si occupa anche dei funerali
che si svolgono il 16 luglio nella chiesa dei Cordeliers. In ottobre, la tela è terminata e
viene esposta, insieme con quella di Lepetelier, nella sala delle sedute della Convenzione dal novembre del 1793 fino al febbraio del 1795.
La tela presenta in una luce caravaggesca la figura di Marat abbandonata alla
morte. Il corpo emerge dalla vasca come da un sarcofago, con il capo avvolto in un
panno che evoca l'infula di un antico sacerdote. L'uomo ha in mano la lettera con cui
la Corday gli chiedeva udienza, per introdursi in casa sua, ed ha accanto una cassa di
legno che funge da scrittoio, con penna e calamaio, sulla quale il pittore incide la pro pria dedica: À MARAT - DAVID.
Nel dipinto David non ricorre a tradizionali repertori retorici per commentare
l'omicidio, ma si limita a descrivere il fatto, dal quale tuttavia emerge la virtù di Marat e, di conseguenza, la condanna del delitto.
Il tribuno era sofferente da tempo, e tuttavia continuava a lavorare; era povero,
come dimostra la rozza cassa che gli fa da tavolino, e perciò onesto; era generoso, perché benché povero egli stesso, mandava un assegnato a una donna il cui marito difendeva la patria in pericolo; il delitto è tanto più infame, perché perpetrato contro un
uomo virtuoso ricorrendo al tradimento della falsa supplica.
La composizione, di accentuata essenzialità, è costruita su un ritmo orizzontale
spezzato dal braccio del morto che cade verticalmente, ed evoca in alcuni tratti - la solennità, la ferita al costato, l'espressione mansueta della vittima - quasi un Cristo morto, come ricorda il reclinare del capo sulla spalla e il braccio che evoca quello analogo
della giovanile Pietà michelangiolesca e della Sepoltura di Caravaggio. Più della metà
del dipinto è vuota e buia, a evocare la morte e il lutto.
« Nel quadro c'è un deciso contrapposto di ombra e di luce, ma non c'è una sorgente luminosa, che lo giustifichi come naturale. Luce sta per vita, ombra per morte:
non si può pensare la vita senza pensar la morte e inversamente. Anche questo è nella
logica della filosofia di David. La fermezza e la freddezza del contrapposto luce-ombra dà al dipinto un'intonazione uniforme, livida e spenta, i cui estremi sono il lenzuolo bianco e il drappo scuro. In questa intonazione bassa spiccano, agghiaccianti, le
poche stille di sangue: segnano l'acme di questa tragedia senza voci e senza gesti »
(G. C. Argan, L'arte moderna. 1770-1970, Firenze, 1970, p. 41)
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Con La morte del giovane Barra David fa il suo terzo e ultimo quadro sul tema
dei martiri della Rivoluzione: l'esempio è dato, questa volta, dal caso di un giovanissimo tamburino di 13 anni, Joseph Barra, ucciso dai vandeani per essersi rifiutato di
gridare «viva il re». David avrebbe anche dovuto occuparsi delle cerimonie funebri
del ragazzo e di quelle di Viala, ma gli avvenimenti del 9 termidoro, data della caduta
di Robespierre, non permettono la realizzazione del progetto.
David aveva anche pensato di celebrare un altro eroe della Rivoluzione, il generale de Dampierre, del quale fece qualche schizzo preparatorio per una tela che però
noNel giugno del 1793 David è nominato presidente del club giacobino e il mese
dopo è segretario della Convenzione. Prende parte attiva nella politica del Terrore divenendo il 14 settembre 1793 membro del Comitato di sicurezza generale e presidente
della sezione interrogatori. A questo titolo, firma circa 300 mandati d'arresto e una
cinquantina di arresti, traducendo i sospetti davanti al tribunale rivoluzionario. Fa
presidiare il Comitato durante la messa in stato d'accusa di Fabre d'Églantine, controfirma l'arresto del generale Alessandro di Beauharnais, nel processo contro Maria Antonietta partecipa come testimone all'interrogatorio del piccolo Capeto , della quale
farà un celebre disegno mentre l'ex-regina viene condotta alla ghigliottina sulla carretta dei condannati.
Non si oppone all'esecuzione di vecchi amici o clienti, come i fratelli Trudaines,
Lavoisier, la duchessa de Noaille, per la quale aveva dipinto un Crocifisso, o André
Chénier. Carle Vernet lo accusa di responsabilità nella esecuzione della sorella Marguerite Émilie Vernet, moglie dell'architetto Jean-François-Thérèse Chalgrin. Ma David protegge Dominique Vivant Denon, facendone cancellare il nome dalla lista degli
emigrati e procurandogli un lavoro di incisore, appoggia la nomina di Jean-Honoré
Fragonard al Conservatorio del Louvre e aiuta Antoine-Jean Gros, noto realista, dandogli i mezzi per consentirgli di partire per l'Italia.
Nel 1794 David viene nominato presidente della Convenzione, una funzione che
egli occupa dal 5 al 21 gennaio. Come organizzatore di feste e cerimonie rivoluzionarie, insieme con l'architetto Hubert, del falegname Duplay - il padrone di casa di Ro bespierre - del poeta Marie-Joseph Chénier, fratello di André, e del compositore Méhul, la festa della Réunion del 10 agosto, la traslazione di Marat al Panthéon, la festa
per la riconquista di Tolone e la cerimonia del culto della Ragione e dell'Essere supremo, disegnando i carri del corteo e gli elementi della cerimonia. Fa anche delle caricature di propaganda per il Comitato di salute pubblica, e disegna i costumi per i rappresentanti del popolo.
Il Direttorio: 1794-1798
L'8 termidoro dell'anno II - il 26 luglio 1794 - Robespierre, fino ad allora capo incontrastato della Repubblica, in un discorso alla Convenzione denuncia cospirazioni
in atto senza fare i nomi dei deputati responsabili. Tutti si sentono minacciati e Robespierre, privo dell'appoggio della Comune parigina, è perduto: «se bisogna soccombere» - dichiara - «ebbene, amici miei, mi vedrete bere la cicuta con calma». David lo
sostiene: «io la berrò con te». Il giorno dopo Robespierre è arrestato e si ferisce gravemente nel tentativo di suicidarsi; David è assente dalla Convenzione perché malato,
dirà, ma Barère nelle sue memorie afferma di averlo dissuaso di andare all'Assem279
blea. Sfugge così alla prima ondata di arresti che colpiscono i sostenitori dell'Incorruttibile.
Il 31 luglio, alla Convenzione, David è richiesto di dare spiegazioni circa il suo
appoggio a Robespierre: si difende maldestramente, secondo Delécluze e nega il suo
passato robespierrista. Subito escluso dal Comitato di sicurezza generale, il 2 agosto è
arrestato e rinchiuso nel vecchio Hôtel des Fermes générales e poi viene trasferito al
palazzo del Luxembourg, dove gli viene concesso di disegnare e dipingere. Il 30 novembre i suoi allievi, con il sostegno di Boissy d'Anglas, chiedono la sua scarcerazione, mentre anche l'ex-moglie Charlotte Pécoul, si riconcilia con lui - e si risposeranno
il 10 novembre 1796. Il 28 dicembre, prosciolto da ogni accusa, David è rimesso in libertà.
Ritiratosi a Saint-Ouen, nella casa del cognato Charles Sériziat, è nuovamente arrestato il 29 maggio 1795 e rinchiuso nel Collège des Quatre-Nations, la sua vecchia
scuola di pittura trasformata in carcere ma poi, su richiesta di Charlotte, può tornare a
risiedere, sotto sorveglianza, a Saint-Ouen e finalmente, il 26 ottobre 1795, gode del
decreto di amnistia generale.
Durante la prigionia, David aveva dipinto il suo Autoritratto, ora al Louvre, e
aveva progettato un Omero che recita ai greci i suoi versi, del quale resta solo un disegno, aveva forse dipinto i giardini del Luxembourg e ritratto Jeanbon Saint-André, un
convenzionale imprigionato con lui.
Il Direttorio ripristina l'Institut de France e invita David a far parte della sezione
di pittura della Classe de littérature et Beaux-arts. Nell'ottobre del 1795 torna al Salon
con due ritratti della famiglia Sériziat realizzati nella loro casa di Saint-Ouen e dipinge i ritratti dei due diplomatici Gaspar Mayer e Jacobus Blauw.
Ma la sua occupazione principale è la realizzazione delle Sabine, dipinte dal 1795
al 1798, nelle quali sono simboleggiate le rivalità fratricide delle fazioni rivoluzionarie
e le virtù della riconciliazione e della concordia. Rivendicando il ritorno al «puro greco», la tela rappresenta l'evoluzione del suo stile nella scelta di rappresentare, audacemente secondo la sensibilità dell'epoca, la nudità degli eroi, giustificata da David nel
breve scritto Note sulla nudità dei miei eroi. Il suo esempio è seguito da una parte dei
suoi allievi, costituiti intorno a Pierre-Maurice Quays sotto il nome di Barbus, o Gruppo dei primitivi, che auspicano un ritorno radicale al modello greco, fino a entrare in
dissidio con il loro maestro, rimproverandogli il carattere non abbastanza arcaico della rappresentazione dell'antico episodio della leggenda romana. David finisce per licenziare i suoi allievi Pierre-Maurice Quays e Jean-Pierre Franque rimpiazzandoli con
Jérôme-Martin Langlois e con Jean Auguste Dominique Ingres, destinato a un grande
avvenire.
Le Sabines non vengono esposte al Salon: seguendo l'esempio dei pittori americani Benjamin West e John Singleton Copley, David organizza un'esposizione a pagamento nella vecchia sala dell'Académie d’architettura e installa davanti al dipinto uno
specchio, in modo che gli spettatori si vedano parte integrante dell'opera. L'esposizione si protrasse fino al 1805, con grande successo: grazie agli incassi, David acquistò
nel 1801 una proprietà di 140 ettari, la fattoria dei Marcoussis, a Ozouer-le-Voulgis.
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Pittore di Napoleone: 1799-1815
L'ammirazione di David per Bonaparte nasce all'annuncio della vittoria nella
battaglia di Lodi, il 10 maggio 1796. L'artista, che progetta un dipinto sulla battaglia,
scrive al generale chiedendogli un disegno del sito. Un anno dopo, al tempo del tenta tivo di colpo di Stato monarchico di fruttidoro, conosciuti gli attacchi di cui David è
fatto oggetto dai realisti, Bonaparte manda il suo aiutante di campo a proporgli di venire a Milano per mettersi sotto la sua protezione, ma David declina l'invito. Alla fine
del 1797, con il ritorno trionfale di Bonaparte dopo la stipula del trattato di Campoformio, i due si incontrano durante un ricevimento dato dal Direttorio e David propone a Bonaparte un ritratto, che tuttavia resta incompiuto. Dopo quell'unica seduta di
posa, il pittore manifesta agli allievi il suo entusiasmo per colui che chiama eroe: «È
un uomo al quale si sarebbero innalzati altari nell'antichità, sì, amici miei, Bonaparte è
il mio eroe». Non accetta però l'invito a seguirlo, nel 1798, nella Campagna d'Egitto,
mandando al suo posto l'allievo Gros.
Dopo il colpo di Stato del 18 brumaio, accolto con rassegnazione («Avevo sempre pensato che noi non eravamo abbastanza virtuosi per essere repubblicani») David
inizia nel 1800 un nuovo soggetto storico, la resistenza degli spartani di Leonida alle
Termopili, che terminerà solo 14 anni dopo; anche il Ritratto di madame Récamier è
lasciato incompiuto.
Nell'agosto del 1800, il re di Spagna Carlo IV, nel contesto dei buoni rapporti stabiliti tra i due paesi, chiede al regicida David un ritratto del Primo Console da mettere
nel suo palazzo reale. Nasce così Il Primo Console supera le Alpi al Gran San Bernardo, seguito da tre repliche a richiesta di Napoleone, così che questo è il primo ritratto
ufficiale del nuovo padrone della Francia. David presenta le due prime versioni dell'opera nell'esposizione a pagamento che accoglie già Le Sabine, attirandosi le critiche
della stampa per la mancata, libera esposizione al Salon, con accuse di affarismo, aggravate dall'affare delle incisioni del Giuramento della Pallacorda, eseguite dietro
pubblica sottoscrizione, della quale si chiede ora il rimborso.
Durante il Consolato David, richiesto come consigliere artistico, disegna la divisa
dei membri del governo - un modello che viene però rifiutato - partecipa alla decorazione delle Tuileries e si occupa del progetto delle Colonnes départementales, colonne da innalzare in ciascuno dei 108 dipartimenti in cui la Francia era divisa ammini strativamente, in onore dei caduti. Presenta anche un progetto di riforma delle istituzioni artistiche, con l'intenzione, forse, di divenirne amministratore, ma la proposta è
bocciata da Lucien Bonaparte che gli propone di diventare «Pittore del governo», ma
l'artista rifiuta, forse per ripicca, come rifiuta anche di essere membro della Société libre des arts du dessin, creata dal ministro Chaptal.
Viene indirettamente coinvolto nella Cospirazione dei pugnali, un tentativo di
assassinio di Bonaparte che avrebbe dovuto aver luogo il 10 ottobre 1800 all'Opéra,
solo perché nel suo atelier si distribuivano biglietti per la rappresentazione degli Horaces, di Bernardo Porta, ispirata al suo Giuramento degli Orazi, che si sarebbe tenuta
all'Opéra la sera dell'attentato. Fra i congiurati vi erano anche il suo vecchio allievo
François Topino-Lebrun, simpatizzante babouvista e lo scultore romano Giuseppe
Ceracchi. I due sono giustiziati, malgrado la deposizione a loro favore resa da David,
281
e la polizia di Fouché, conoscendo il passato giacobino di David, gli sorveglia per
qualche tempo l'atelier.
Con la Pace d'Amiens, nel 1802, tornano in Francia i turisti britannici: David è
contattato dall'industriale irlandese Cooper Penrose, che gli chiede un ritratto, eseguito per ben 200 luigi d'oro.
Il 18 dicembre 1803 David è nominato cavaliere della Legion d'onore e l'anno
dopo, il 16 luglio, è decorato. Nell'ottobre del 1804 riceve da Bonaparte, ora l'imperatore Napoleone I, la commissione di quattro quadri di cerimonia: L'incoronazione di
Napoleone I, La distribuzione delle aquile, L’intronizzazione e L’arrivo all’Hôtel de
Ville. È anche nominato ufficialmente «primo pittore», mentre l'amministrazione delle attività artistiche restano affidate a Dominique Vivant Denon.
Sistemato a Notre-Dame, da dove può seguire tutti i particolari della cerimonia
dell' Incoronazione e ha lo spazio necessario per dipingere poi l'enorme tela di 9,80 x
6,21 metri, portata a termine in tre anni di lavoro. Egli stesso descrisse le circostanze
dell'impresa:
« Disegnai la scena dal vivo e fissai separatamente tutti i gruppi principali. Annotai quello che non potevo fare in tempo a disegnare […] Ciascuno occupa il posto
secondo l'etichetta, vestito degli abiti propri alla sua dignità. Dovetti affrettarmi a riprenderli in questo quadro, che contiene più di duecento figure »
Se David ha concepito da solo la composizione dell'opera, che originariamente
doveva mostrare l'imperatore mentre s'incorona da solo, ma la scena principale fu poi
sostituita dall'incoronazione di Giuseppina per mano dello stesso Napoleone - cambiamento suggeritogli da François Gérard - Napoleone gli ordinò altre modifiche, facendogli aggiungere la madre Letizia che in realtà non era presente, e di far dare al
papa Pio VII un gesto di benedizione, mentre David lo aveva rappresentato in atteggiamento passivo.
David approfitta della venuta del Papa per fargli il ritratto ora al Louvre. L'imperatore rifiutò poi un ritratto di David, destinato a Genova, scontento del risultato:
«così brutto, talmente pieno di difetti, che non l'accetto e non voglio mandarlo in nessuna parte, specie in Italia, dove si farebbero una ben cattiva opinione della nostra
scuola». L'incoronazione è l'avvenimento del Salon del 1808 e Napoleone dimostra
tutta la soddisfazione per l'opera facendo David ufficiale della Legion d'onore.
Alla Distribuzione delle aquile David deve apportare su ordine di Napoleone
due importanti modifiche: la cancellazione degli allori che cadevano dal cielo sopra le
bandiere dei reggimenti e poi, nel 1809, la figura di Giuseppina, dalla quale aveva divorziato. La prima modifica rende incongruo il movimento delle teste dei marescialli,
volte in alto a guardare un cielo vuoto.
A partire dal 1810 le relazioni tra l'artista e il potere si raffreddano, principalmente a causa delle difficoltà di pagamento dei quadri dell' Incoronazione e della Distribuzione delle aquile, che fu l'ultimo impegno di David per Napoleone. L'amministrazione contesta il compenso richiesto dal pittore, giudicato esorbitante, e David è
escluso dalla commissione istituita per la riorganizzazione dell’École des Beaux-Arts.
L'ultimo ritratto dell'imperatore - il Napoleone nel suo gabinetto di lavoro - è in realtà
282
il risultato di una commissione richiesta dal collezionista scozzese Alexander Hamilton.
Lo stesso anno l’Institut de France organizza il concorso per il premio decennale
che onora le opere particolarmente significative degli ultimi dieci anni e L’incoronazione è premiata come miglior dipinto ma David considerò un affronto vedere Le Sabine classificarsi decima davanti alla Scena di diluvio di Girodet, premiato come mi glior dipinto di storia del decennio.
David riprende così a lavorare su commissioni private: il dipinto mitologico Saffo, Phaos e Amore è destinato al principe russo Nicolai Yussupov, una ripresa in chiave galante de Gli amori di Paride ed Elena, mentre il Leonida alle Termopili, terminato nel 1814, gli era stato commissionato quattordici anni prima, come mostra del resto
lo stile «puro greco» al quale David si era allora indirizzato con Le Sabine, del quale il
Leonida costituisce il pendant.
Durante i Cento Giorni David riprende il suo posto di «primo pittore», dal quale
era stato esonerato durante la breve prima Restaurazione, e ottiene anche l'onorificenza di commendatore della Legion d'onore. Egli sottoscrive, nel maggio 1815, l’Atto
addizionale alle costituzioni dell’Impero, la modifica costituzionale di ispirazione liberale con la quale Napoleone si illudeva di poter riguadagnare un prestigio e un
consenso ormai compromesso.
L'esilio e la morte: 1815-1825
Mentre i suoi vecchi allievi Antoine-Jean Gros, François Gérard e Girodet rendono omaggio alla restaurata monarchia, David non si attende comprensione dal nuovo
potere a causa del suo passato rivoluzionario e bonapartista e, dopo Waterloo, affidato il suo atelier a Gros, messe al sicuro le sue Sabine, l’Incoronazione, la Distribuzione
delle aquile e il Leonida, si rifugia in Svizzera e poi, cercata invano accoglienza a
Roma, il 27 gennaio è a Bruxelles, dove ritrova vecchi convenzionali come Barrère, Alquier e Sieyès, oltre a precedenti allievi belgi, Navez, Odevaere, Paelinck e Stapleaux,
il quale diventa suo collaboratore.
Rifiutato l'invito in Prussia di Federico Guglielmo III, si interessa alle opere dei
maestri olandesi e fiamminghi che può vedere a Bruxelles, e dipinge diversi ritratti di
esiliati e di notabili belgi, oltre a dipinti di soggetto mitologico. Ritrae le figlie di Giuseppe Bonaparte, di passaggio a Bruxelles, e dà lezioni di disegno a Charlotte Bonaparte, dipinge Amore e Psiche nel 1817 per il conte Sommariva - il cui trattamento di
Cupido è giudicato scandaloso per il troppo verismo - L'ira di Achille nel 1819, Gli
addii di Telemaco e di Eucaride e una copia dell' Incoronazione nel 1822 per committenti americani.
A 75 anni esegue Marte disarmato da Venere e le Grazie, l'ultimo dipinto mitologico: lo espone a Bruxelles, nell'aprile del 1824, e il ricavato va in beneficenza; anche a
Parigi, dove viene esposto in maggio, il dipinto ottiene grande successo, attirando
6.000 visitatori. In quel Marte che si lascia disarmare da Venere e dalle Grazie è facile
vedere la fine della lunga, esaltante ma anche tragica epopea vissuta dalla Francia e
dall'Europa: «gli eroi erano stanchi, e anche il vecchio maestro, reduce da tante battaglie, era pronto a deporre le armi».
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Appare, anonima, la sua prima biografia, Notice sur la vie et les ouvrages de M.
J.-L. David. Dal 1820 la sua salute peggiora: nel 1824 è investito da una carrozza, nel
novembre 1825 ha le mani paralizzate e muore nel suo letto 29 dicembre. Il governo
francese rifiuta anche la sua salma e David è sepolto nel cimitero Saint-Josse-ten Noode di Bruxelles: solo il cuore è interrato a Parigi, al Père Lachaise, accanto alla moglie
Charlotte, deceduta pochi mesi dopo.
Nel 1819, rispondendo agli inviti di chi voleva che egli tornasse in Francia rendendo un inevitabile omaggio ai nuovi potenti, David aveva scritto al figlio Jules:
«Tutti i miei colleghi rientrano in Francia; io sarei certamente del numero se avessi la
debolezza di chiedere per iscritto che mi si faccia tornare. Ma tu conosci tuo padre e la
fierezza del suo carattere. Può egli fare un simile passo? Sapevo quel che facevo. Ero
adulto, avevo l'età per sapere quel che facevo».
L'arte di David
Generi e temi
Nella sua formazione e nel percorso artistico David è innanzi tutto un pittore di
storia, il «genere grande» della pittura, secondo la classificazione elaborata da Félibien nel XVII secolo:
« colui che dipinge paesaggi alla perfezione sta in un grado più alto di chi dipinge solo frutta, fiori e conchiglie. Colui che dipinge animali vivi merita maggior considerazione di chi dipinge cose morte e prive di movimento [...] colui il quale imita Iddio dipingendo figure umane , è assai più eccellente di tutti gli altri [...] il pittore che
fa solo ritratti non ha ancora raggiunto la perfezione nell'arte [...] per questo è necessario passare dalla rappresentazione di una sola figura a quella di più figure insieme,
trattare la storia e la mitologia, rappresentare, come gli storici, figure grandi [...] bisogna saper adombrare sotto il velo delle allusioni mitologiche le virtù dei grandi uomini e i misteri più elevati »
(A. Félibien, Conferences de l'Académie royale de peinture et de sculpture, Paris, 1669)
E David, fino all'esilio, attribuisce la maggiore importanza alle composizioni storiche ispirate a soggetti tratti dalla mitologia - Andromaca, Marte disarmato da Venere - o dalla storia romana e greca - Bruto, Le Sabine, Leonida. Con la Rivoluzione, cer ca di adattare la sua ispirazione fondata sull'antico a soggetti del proprio tempo, dipingendo anche opere con soggetti contemporanei: Il giuramento della Pallacorda, La
morte di Marat, L'incoronazione.
Il secondo genere prediletto, ancora sull'esempio di Félibien, è il ritratto. All'inizio della carriera e fino alla Rivoluzione, ritrae suoi famigliari e notabili della sua cer chia, poi Napoleone, il papa e qualche esponente del regime; in questo genere, il suo
stile prefigura la ritrattistica di Ingres. Il suo catalogo comprende anche tre autoritratti. Solo tre sono i soggetti religiosi: un San Girolamo, il San Rocco che intercede presso
la Vergine, e un Cristo in croce. Gli si attribuisce un solo paesaggio e nessuna natura
morta.
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I disegni
L'opera grafica di David si divide in due gruppi: nel primo, disegni originali, fregi classici, caricature, il celebre schizzo di Maria Antonietta condotta al patibolo e progetti di medaglie e di costumi; nel secondo, schizzi e abbozzi preparatori alle tele, dalla semplice idea fino all'elaborazione ricca di dettagli, ai disegni di monumenti e di
paesaggi romani raccolti nei suoi album che utilizza da modelli per le future composizioni. Le tecniche impiegate vanno dal carboncino alla matita, dall'acquerello all'inchiostro.
Lo stile
L' evoluzione al Neoclassicismo
David, nato in pieno periodo rococò, non poté che esserne un rappresentante. Il
soggiorno in Italia fu fondamentale per lo sviluppo della sua personalità artistica, potendo conoscere e apprezzare due maestri del Rinascimento come Raffaello e Correggio, un classicista come Guido Reni fino alla scoperta di Caravaggio e della sua scuola. Al suo ritorno da Napoli, maturato l'abbandono della formazione barocca, la sua
conversione al Neoclassicismo passa innanzittutto attraverso gli insegnamenti del
proprio maestro Joseph-Marie Vien, dalla meditazione dell'opera di Poussin, di Gavin
Hamilton, di Pompeo Batoni, di Raffaello Mengs e dei suoi studi dell'antichità, favoriti dall'opera di Winckelmann.
La novità di David consiste nell'aver combinato una ispirazione sia estetica che
morale, unendo ragione e passione, piuttosto che l'imitazione della natura e dell'antico. Con il Belisario e Il giuramento degli Orazi David trova il suo stile che varierà appena con Le Sabine. Nel ritratto, la sua maniera è più libera, vicina al naturalismo di
Chardin, e rappresenta un'evoluzione al ritratto psicologico iniziato da Quentin de la
Tour.
La tecnica
La tecnica utilizzata da David è visibile negli abbozzi incompiuti che ci sono rimasti e che permettono di osservare la sua maniera di dipingere e di conoscere i processi di realizzazione. Così, l'incompiuto Ritratto di Bonaparte lascia apparire lo strato di preparazione di pigmenti bianchi a base di piombo sul quale dipinge, ma egli di pingeva anche su una preparazione collose.
La tavolozza di David era costituita nell'ordine dai colori
« bianco piombo, giallo Napoli, ocra gialla, ocra rossa, ocra Italia, bruno rosso,
terra di Siena bruciata, lacca carminio, terra di Cassel, nero avorio, nero pesca o vigna.
Indistintamente blu di Prussia, blu oltremare, blu minerale, poi poneva sotto questi
colori cinabro e vermiglione. Verso la fine della carriera aggiunse il giallo cromo e il
cromo rosso per dipingere i soli arredamenti »
Nella composizione, abbandona la struttura piramidale in voga nel XVII secolo
preferendo quella a fregio ispirata ai bassorilievi antichi, generalizzandola a partire
da Il giuramento degli Orazi, una composizione di struttura rettangolare. Probabilmente David utilizzava uno schema ortogonale basato sul ribaltamento dei lati minori del rettangolo, ma nessun disegno di David mostra tracciati che permettano di veri285
ficare il suo modo di comporre, anche se forse il disegno preparatorio dell'Ippocrate
rifiuta i doni di Artaserse di Girodet è anche un esempio di come David costruisse i
propri dipinti.
Lo scrupolo di David può essere dimostrato, per esempio, dai ripetuti rifacimenti
– venti volte - del solo piede sinistro di Orazio nel Giuramento.
Le false attribuzioni
Alla morte del pittore apparve un certo numero di nuove tele che gli furono erroneamente attribuite. Il successo di David e il costo elevato dei suoi dipinti favorirono
naturalmente l'attività dei falsari, come avvenne per il Barère alla tribuna, ora restituito a Laneuville (Kunsthalle, Bremen), quello di Saint-Just, o quello del flautista François Devienne ai Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles, considerata autografa
fino agli anni Trenta del Novecento.
Nel 1883 Jacques-Louis Jules David, nipote del pittore e autore di una sua monografia, notò in occasione di un'esposizione che su diciannove tele presentate come autentiche, solo quattro potevano essere considerate autografe, segnalando in particolare che nessuno dei quattro presunti autoritratti esposti era autentico.
L'errore è propagato dalle autenticazioni degli «esperti», come avvenne per il ritratto del convenzionale Milhaud, la cui attribuzione si basò anche sulla falsa firma
presente nella tela e si poté depennare il ritratto dal catalogo di David solo grazie all'apparizione di una replica dell'allievo Garneray. Il tribunale dovette poi stabilire la
falsa attribuzione di una replica del Marat assassinato conservata nel Castello di Versailles.
Le esposizioni retrospettive hanno permesso di fare il punto sul catalogo davidiano: quella del 1948 ha escluso Il convenzionale Gérard e la sua famiglia e il ritratto
di Devienne, mentre nel 1989 fu esclusa l'attribuzione di un ritratto, restituito a Quatremère de Quincy, e delle Tre dame di Gand, conservata al Louvre, e pone dei dubbi
sul Ritratto del Geôlier del museo di Rouen.
La Scuola di David
L'influenza di David può essere valutata dal numero di allievi che frequentarono
il suo atelier dal 1780 al 1821: se ne sono calcolati circa 470.
David aveva fondato una scuola al suo ritorno a Roma nel 1780 e tra i primi allievi vi furono Wicar, Drouais, Girodet. L'espressione «École de David» fu coniata ai primi del XIX secolo e comprende sia l' atelier che l'influsso esercitato dalla sua pittura.
Qualificato di dogmatico, David favorì però l'espressione di talenti originali e anche
lontani dal suo stile, come Antoine Gros, pittore che annuncia il romanticismo di Géricault e Delacroix, pur restandogli fedele e prendendo in mano, su invito del maestro, l'atelier al momento dell'esilio di David.
Una dissidenza fu pure espressa da un gruppo di suoi allievi, i Barbus, intenzionati a radicalizzare il neoclassicismo esprimendo un'antichità più primitiva, ispirata
direttamente allo stile greco arcaico, anziché classico. David si oppose a Girodet e a
Ingres. dei quali non comprese gli orientamenti artistici: dopo aver visto il dipinto di
Girodet L'apoteosi degli Eroi francesi morti per la patria, reagì esclamando: «È pazzo,
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Girodet! Lui è pazzo o io non capisco più niente di pittura. Sono personaggi di cristallo quelli che ci ha fatto! Che peccato! Col suo talento, ques'uomo non farà che follie!
Non ha senso comune». E sul Giove e Teti di Ingres, avrebbe detto che «è delirante».
Molti suoi allievi furono anche suoi collaboratori: Drouais l'aiutò nella realizzazione del Giuramento degli Orazi, Jean-Baptiste Isabey lavorò su Gli amori di paride
ed Elena, François Gérard su Gli ultimi momenti di Lepelletier de Saint-Fargeau, tre
allievi collaborarono a Le Sabine, Jean-Pierre Franque, Jérôme-Martin Langlois e, occasionalmente, Ingres, che collaborò anche al Ritratto di madame Récamier. Georges
Rouget è considerato l'assistente preferito di David, e lavorò alle repliche del Bonaparte al Gran San Bernardo e della Incoronazione, dove è rappresentato accanto al
maestro, e al Leonida alle Termopili.
Antonio Canova
Antonio Canova (Possagno, 1º novembre 1757 – Venezia, 13 ottobre 1822) è stato
uno scultore e pittore italiano, ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo e soprannominato per questo il nuovo Fidia.
Fu soprattutto il cantore della bellezza ideale femminile, priva di affettazioni: basti a tale proposito ricordare le opere ispirate alle tre Grazie e a Ebe, oppure alcuni
suoi capolavori come Venere uscente dal bagno, la Venere italica e la statua dedicata
a Paolina Borghese. La sua arte e il suo genio ebbero una grande e decisiva influenza
nella scultura dell'epoca.
Iniziò giovanissimo il proprio apprendistato e lo svolse esclusivamente nella città di Venezia, distante circa 80 km dal suo paese natale, Possagno. Nella città lagunare iniziò a scolpire le sue prime opere. L'ambiente veneziano fu per il giovane Canova
quello della sua formazione. Egli subì, specialmente nel primo periodo di produzione
artistica, l'influenza e il fascino dello scultore del Seicento Gian Lorenzo Bernini, indiscusso maestro dello stile barocco.
Ventiduenne, si trasferì a Roma dove ebbe modo di incontrare e conoscere i mag giori protagonisti dell'arte neoclassica, inserendosi anch'egli in quel clima di capitale
della cultura che era la città capitolina del Settecento. Dopo la sua scomparsa, per tutto l'arco dell'Ottocento, per quanto riguarda l'arte della scultura, i critici sono concordi nel sostenere come l'Italia non abbia svolto un ruolo di primo piano nel panorama
europeo.
Gli è stato dedicato un asteroide, 6256 Canova.
Infanzia e adolescenza
Canova rimase orfano del padre all'età di appena quattro anni. La madre, Angela
Zardo, dopo non molto tempo contrasse un nuovo matrimonio con Francesco Sartori
e si trasferì nel suo paese natale, Crespano.
La sensibilità di Antonio Canova assorbì questi eventi molto profondamente,
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tanto da restarne segnato per tutta la vita.
Antonio restò a Possagno con il nonno, Pasino Canova (1711-1794), tagliapietre e
anche scultore locale di discreta fama. Questi, avendone intuito la vocazione all'arte
della scultura, si procurò di avviarlo e guidarlo nei suoi primi passi. Già da ragazzi no, infatti, il Canova dimostrò di possedere una predisposizione per la scultura modellando, con l'argilla di Possagno, opere piccole, ma già bellissime.
È famoso l'episodio che narra di un giovane artista che, verso i sei o sette anni di
età, durante una raffinata cena di nobili personalità veneziane nella villa di Asolo del
senatore Giovanni Falier, suscitò enorme meraviglia fra gli invitati, incidendo nel burro in breve tempo, ma già con grande maestria e bravura, la figura di un leone. Il pa drone di casa, intuendo le grandi potenzialità artistiche e il grande talento del giovane, si interessò personalmente del suo futuro, avviandolo allo studio e a un'idonea
formazione professionale.
All'età di undici anni Canova iniziò a lavorare a Pagnano d'Asolo, nello studio di
scultura di Giuseppe Bernardi-Torretti, non molto lontano da Possagno. Furono certamente quelli l'ambiente e la scuola d'arte che fecero crescere artisticamente il piccolo
Tonin. Tramite i suoi maestri, i Torretti, Canova ebbe modo di essere introdotto nel
prestigioso mondo veneziano, già ricco di molti fermenti artistici e culturali, ma ancora di influenza Rococò.
Nella città di Venezia egli approfondì e studiò il disegno, frequentando la scuola
di nudo dell'Accademia dove si esercitava, facendosi ispirare dai calchi in gesso della
Galleria di Filippo Farsetti.
La bottega d'arte
Nel 1775, diciottenne e in cerca di nuovi stimoli e nuove esperienze, lasciò lo studio dei Torretti e si mise in proprio, aprendo una sua bottega d'arte da dove incominciò l'ascesa artistica che lo doveva rendere famoso nel Veneto e in Lombardia, e poi,
piano piano, nel resto d'Europa. Le prime opere da lui prodotte furono: Orfeo ed Euridice (1776) e Dedalo e Icaro (1779), eseguito per il procuratore Pietro Vittor Pisani.
Lasciata da parte l'influenza della scultura settecentesca, s'ispirò alla classicità
greca, senza però mai cadere nell'imitazione.
Il trasferimento a Roma
Nel 1779, dopo aver esposto il Dedalo e Icaro alla fiera della Sensa in piazza San
Marco a Venezia e averne ottenuto lusinghieri e ampi riconoscimenti, decise di partire per Roma e lo fece il 9 ottobre dello stesso anno. Lì, studiò la statuaria antica e frequentò la scuola di nudo dell'Accademia di Francia e dei Musei capitolini, inoltre
ebbe modo di incontrare e conoscere i maggiori protagonisti dell'arte neoclassica e far
proprie le teorie artistiche, di "nobile semplicità" e "quieta grandezza" del Winckelmann. Fu facile per lui inserirsi in quel clima da capitale della cultura che fu Roma nel
Settecento riuscendo anche a crescere come artista, esercitando per lunghissimo tempo la sua attività e influenzando altri artisti, quali il forlivese Luigi Acquisti. Proprio
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da Roma iniziò quel riconoscimento al suo genio e al suo talento che gli procurò in seguito un successo e una fama mondiale.
A Roma dimorò a Palazzo Venezia e fu ospite dell'ambasciatore veneto Girolamo
Zulian appassionato d'arte e grande mecenate di artisti, particolarmente di quelli veneti, dall'architetto Giannantonio Selva, a Francesco Piranesi, al pittore Pier Antonio
Novelli, a Giacomo Quarenghi, agli incisori Raffaello Morghen e Giovanni Volpato.
L'amico Zulian gli fece avere le prime commissioni e, personalmente, gli ordinò
le statue di Teseo sul Minotauro (1781) e quella di Psiche (1793), che mostrano come
l'artista si impegni a creare forme in cui si incarni l'ideale neoclassico della bellezza,
eliminando torsioni, panneggi e tutti quegli elementi eccessivi tipici dell'arte barocca,
ottenendo una forma pura, in grado di trasmettere sentimento e azione, però in "quieta grandezza".
Durante il soggiorno romano conobbe la figlia dell'incisore Giovanni Volpato,
Domenica Volpato, iniziando un'amicizia e un rapporto faticoso e molto travagliato.
A Roma il Canova eseguirà le sue opere più belle: Amore e Psiche, Le tre Grazie e numerose altre, tra cui la Maddalena penitente, compiuta nel 1796 e divenuta presto celebre in tutta Europa (la versione originale è a Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco; la replica all'Ermitage di San Pietroburgo).
Nel 1803 acquistò un palazzo nel cuore del centro storico di Roma. In questo storico edificio (Palazzo Canova), tuttora esistente e sito in Via delle Colonnette 26A-27,
molte le personalità importanti che fecero visita allo sculture.
Pittura
Antonio Canova svolse anche l'attività di pittore, ma in questo campo artistico
non eccelse, producendo opere che non potevano essere confrontate con lo splendore
e la magnificenza delle sue sculture; pertanto, come pittore, fu sempre considerato un
artista non di primo piano.
Durante l'occupazione di Roma da parte dei francesi, egli abbandonò la città, per
fare ritorno al suo paese natale, Possagno. Nei due anni che vi soggiornò, si dedicò
quasi esclusivamente alla pittura.
Lo stesso Canova nutriva dubbi sulla sua produzione artistica su tela. In essa
però si possono leggere, in trasparenza, la forte emotività dell'artista, le passioni e i
dubbi che egli andava rimuovendo nella sua produzione statuaria ufficiale.
A qualche suo fedele amico il Canova confidava che dipingeva solo per sé e questo ci fa comprendere meglio la sua ritrosia nel mostrare al pubblico queste opere che,
a volte, quasi nascondeva. Non è un caso infatti che l'opera pittorica del Canova sia in
buona parte, o quasi tutta, sempre rimasta di proprietà dell'artista: oggi è possibile
vedere la raccolta nel Museo Gipsoteca Canoviana di Possagno, in quella che fu la sua
casa natale. In essa si trovano circa 300 opere dell'artista, in buona parte provenienti
dallo studio romano del Canova.
Tra le sue tele si ricordano un autoritratto, un ritratto di T. Lawrence e Le Grazie,
olio su tela del 1799, il Compianto di Cristo, Tempio, Possagno, 1800.
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Influenza dell'arte greca
Canova ebbe il grande merito artistico, più di qualsiasi altro scultore, di far rivivere, nelle sue opere, l'antica bellezza delle statue greche, ma soprattutto la grazia,
non più intesa come epidermica sensualità Rococò, ma come una qualità, che solo attraverso il controllo della ragione può trasformare gli aspetti leggiadri, e sottilmente
sensuali, in un'idealità che solo l'artista può rappresentare evitando le violente passioni e i gesti esasperati.
Egli, nella sua arte, aveva studiato come ricalcare le tecniche degli antichi scultori greci; dal disegno (schizzo), idea iniziale di un lavoro, passava al bozzetto in terracotta o, cruda, o in cera, materializzando subito la forma reale dell'opera.
La seconda fase era quella dedicata alla statua in argilla sopra la quale veniva colato il gesso. Su questo modello venivano fissati i chiodini (repère) che, attraverso l'u tilizzo di uno speciale compasso (pantografo), servivano a trasferire nel marmo le
esatte proporzioni dell'opera in gesso.
Alcune di queste opere in gesso, complete di repère, sono oggi pezzi unici al
mondo e considerati loro stessi capolavori perché non esistono più gli originali in
marmo, andati perduti o distrutti. Tra gli altri il monumento a George Washington,
distrutto in un incendio negli Stati Uniti, i busti di Gioacchino Murat e di Carolina Bonaparte, regnanti di Napoli.
Una grande influenza ebbero su di lui i temi e le letture dei classici della mitologia greca, che era solito farsi leggere mentre lavorava; più di tutte, le opere di Omero.
Canova era anche un grande lavoratore, capace di restare all'opera anche 12-14 ore al
giorno senza sosta alcuna. Questi particolari sono confermati dalle lettere al suo amico Melchior Cesarotti.
Lo stile inconfondibile
Antonio Canova lavorò per papi, sovrani, imperatori e principi di tutto il mondo.
Nelle sue sculture era solito adoperare il marmo bianco che riusciva a rendere armonioso, come modellato con tale plasticità e grazia, finezza e leggerezza che le sue figure sembrano quasi avere un proprio movimento, vivere nella loro immobilità.
Un'altra caratteristica particolare del suo talento era la levigatura delle opere,
sempre raffinata al massimo, grazie alla quale i suoi lavori avevano uno speciale effetto di lucentezza che ne accentuava la naturale e splendida bellezza; una bellezza radiosa di purezza, secondo i canoni del classicismo più ortodosso, la rappresentazione
della bellezza idealizzata, eterna e universale.
Rari, e per questo molto ricercati dai collezionisti, i disegni, che rivelano un artista totale, dotato di una visione assolutamente personale che anticipava molte delle
intuizioni artistiche degli anni a venire.
Classificazione delle opere
La classificazione delle opere del Canova può essere effettuata ripartendo la sua
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produzione in due categorie principali; i monumenti funebri e i miti greci.
Monumenti funebri
Fanno parte del primo gruppo i monumenti funebri realizzati tra il 1782 e il 1819,
a:
•
Clemente XIII, (Roma, basilica di San Pietro in Vaticano, 1787 - 1792, marmo).
•
Clemente XIV, (Roma, basilica dei Santi Apostoli, 1787, marmo).
•
Stuardi, (Roma, Basilica di S. Pietro, 1817 - 1819, marmo),
•
Vittorio Alfieri, (Firenze, basilica di Santa Croce), 1806 - 1810, marmo.
•
Francesco Pesaro, (Venezia, Museo Correr, 1799, marmo).
•
Maria Cristina d'Austria, (Vienna, Augustinerkirche, 1798-1805, marmo).
Nella rappresentazione dei monumenti funebri, Canova era solito adoperare lo
schema classico, a tre piani in sovrapposizione.
Nei monumenti che ideò per i due Papi, Clemente XIII e Clemente XIV, al primo
livello sono situate le statue che rappresentano le immagini allegoriche, che stanno a
indicare il senso della morte. Al secondo livello è situata la centralità del monumento
stesso; il sarcofago. Al terzo livello, a dominare l'intera struttura dall'alto, la statua
che raffigura il Papa. Era questo uno schema consolidato che aveva particolarmente
caratterizzato quasi tutta la produzione relativa ai monumenti funebri del Trecento.
Nel monumento a Maria Cristina d'Austria invece il Canova, uscendo dalla tradizione, apporta una variazione; in esso egli dà una rappresentazione dell'oltretomba,
idealizzata nella rappresentazione di una piramide, verso la quale un piccolo corteo
funebre si avvicina nell'intento di varcare la soglia che divide la vita dalla morte.
L'immagine della defunta appare in un medaglione (che viene portato dalla Felicità
Celeste, la quale prende la forma di una fanciulla). Quest'opera del Canova è piena di
simboli di virtù: il leone accovacciato indica la fortezza, una giovane donna che conduce un vecchio cieco simboleggia la Beneficenza e lo sposo (sotto la forma di Genio
Alato) rappresenta la Pietà. Quest'opera viene spesso messa in relazione con la poesia
di Ugo Foscolo "Dei sepolcri".
Anche nei monumenti a stele, il Canova si richiama, e ne risulta evidente il riflesso, alle innumerevoli stele funerarie che ci sono state tramandate dall'antica Roma.
Il tema della morte
La rappresentazione della morte nei monumenti funebri fu un tema specifico e
caratteristico di tutto il periodo del neoclassicismo; furono molti gli artisti che lo sentirono particolarmente.
Non è infatti un caso se, nello stesso periodo, anche il poeta Ugo Foscolo riaffermava l'importanza dei sepolcri, come memoria del passato e del ricordo dei grandi
personaggi che avevano segnato la storia, meritevoli dunque di esaltazione del valore
e del riconoscimento delle proprie virtù.
A differenza del periodo barocco nel quale la morte era intesa come un qualcosa
che dava raccapriccio, funesta e macabra, nell'arte neoclassica era idealmente come il
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momento culminante della vita stessa.
Soggetti mitologici
Nella rappresentazione di soggetti mitologici si evidenzia, in tutta la sua immediatezza e più ancora che in altre opere, il riferimento palese alla scultura greca ed ellenistica.
Le forme anatomiche sono di una perfezione unica, il movimento dei gesti sem pre contenuto e misurato, le interferenze psicologiche ed emotive sono quasi sempre
assenti o trasformate ed elaborate in una pacata silenziosità. Tutto l'insieme delle
composizioni risulta pervaso di un magico equilibrio e staticità.
Nella rappresentazione delle opere il Canova sceglie sempre l'attimo scenico essenziale, classico, quello del momento del pàthos; ne è un esempio straordinario il Teseo sul Minotauro.
L'artista, anche su suggerimento di Gavin Hamilton, decise di abbandonare la
prima idea di rappresentare le due figure in combattimento. A Canova non interessa
rappresentare la dinamica della lotta tra Teseo e quella orrenda figura di essere metà
toro e metà uomo che è il Minotauro. Egli sceglie un momento diverso, meno dinamico ma più ricco di fascino, d'interiorità; il momento al termine della faticosissima lotta
per sconfiggere il Minotauro; vuoto ormai di ogni energia, Teseo, si appoggia sul corpo di quest'ultimo, in un gesto di estrema serenità e prossimo alla pietà. Ed è proprio
in quel momento che il racconto esce dalla storia, splende di luce propria e si avvia a
diventare mito eterno e universale. Non è certamente un caso se, proprio con quest'opera, arrivano per Canova la fama e il prestigio internazionale.
Nel 1795, l'artista su commissione di don Onorato Gaetani dei conti di Aragoni,
realizzò il gruppo con Ercole e Lica, in quest'opera Canova affronta la rappresentazione dell'azione nel suo pieno svolgimento, rappresentando Ercole mentre scaglia lontano Lica, inarcandosi come un lanciatore di Disco antico, la scena così è contenuta in
uno schema circolare che chiude l'azione e la rendono priva di ogni drammaticità.
Napoleone
Nel periodo napoleonico il Canova venne scelto e designato dall'imperatore Napoleone Bonaparte quale suo ritrattista ufficiale. Di lui l'artista eseguì molti ritratti, tra
i tanti anche il Monumento a Napoleone I in bronzo che attualmente si trova all'Acca demia di Brera (copia delle statua di Napoleone da Apsley House a Londra). A proposito di questa opera è da ricordare l'aneddoto che riferisce di un Napoleone irritato
per l'audacia dell'artista, al punto da rifiutare la statua perché si vergognava di essere
stato ritratto nudo, nella personificazione di "Marte il Pacificatore".
Il periodo napoleonico fu per Canova un periodo molto fecondo artisticamente,
anche se non volle mai diventare l'artista della corte dell'imperatore francese. Uno dei
ritratti che il Canova produsse per la famiglia imperiale di Napoleone, e anche uno
dei più famosi e belli, è quello che rappresenta Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, seminuda, semisdraiata su un triclinio romano, con una mela in mano, nell'allegoria di "Venere vincitrice".
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In questa rappresentazione si sente l'influsso di un'iconografia cara a Tiziano,
pur se, nell'intenzionalità del Canova, vi era il desiderio di rappresentare la tentazione della bellezza femminile come origine del peccato.
Intanto la sua fama cresceva sempre di più, in Italia e all'estero e aumentavano
considerevolmente le commesse da tutta Europa.
Cariche istituzionali
Oltre che esercitare l'attività di scultore, Canova ebbe anche l'incarico della tutela
e valorizzazione del patrimonio artistico che lo impegnò per parecchio tempo, compito che gli venne assegnato in quanto capo dell'Accademia di San Luca. Nel 1802 fu
inoltre nominato "Ispettore Generale delle Antichità e delle Arti dello Stato della
Chiesa".
Nel 1815 lo scultore fu incaricato dal governo inglese di dare un parere sull'autenticità dei marmi provenienti dal Partenone, che Lord Elgin, diplomatico inglese e
ambasciatore a Costantinopoli, aveva proposto di vendere. La visione di queste statue
fidiache destò grande impressione in Canova. In una lettera all'amico Quatremère de
Quincy egli così scriveva: "Ho veduto i marmi provenienti dalla Grecia; dei bassorilievi di già voi e anche io ne avevamo un' idea dalle stampe, da qualche gesso, da qualche pezzo di marmo ancora; ma delle figure in grande, nelle quali l'artista può far mostra del suo vero sapere, non ne sapevamo nulla. Se è vero che queste sieno opere di
Fidia, o dirette da lui, o che egli vi abbia posto la mano per ultimarle, queste insomma
mostrano chiaramente che i grandi maestri erano veri imitatori della bella natura.
Niente avevano di affettato, niente di esagerato, niente di duro, cioè di quelle parti
che chiamerebbero di convenzione o geometriche. Le opere di Fidia sono vera carne,
cioè bella natura" (Lettera di Antonio Canova ad A. Chr. Quatremère de Quincy, pubblicata da [Palagi] Tre Lettere Artistiche inedite, Firenze, 1875, pagg. 9-11).
Nel 1815, dopo la disfatta di Waterloo e la caduta di Napoleone, Canova, che si
trovava in quel periodo a Parigi in compagnia del fratellastro, Giovanni Battista Sartori, figlio della stessa madre, uno dei suoi più validi collaboratori, che lo seguiva
dappertutto e che gli fece da segretario e amico fedele per tutta la vita, si impegnò per
ottenere, con Vivant Denon e attraverso un'abile azione diplomatica, la restituzione e
il rimpatrio delle numerose e preziose opere d'arte che, dietro ordine dell'imperatore,
erano state trafugate e trasportate illegalmente in Francia dall'armata di Napoleone.
Papa Pio VII, quale segno tangibile di riconoscenza e di ringraziamento per questo suo grande impegno nella difesa dell'arte italiana, gli conferì il titolo nobiliare di
Marchese d'Ischia.
Morte
Canova mori a Venezia la mattina del 13 ottobre 1822, mentre si trovava ospite a
casa del suo amico Francesconi, in una tappa intermedia del suo viaggio di ritorno a
Roma.
Lasciò suo erede universale il fratellastro, il vescovo Giovanni Battista Sartori.
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Il sepolcro che custodisce le sue spoglie è a Possagno, suo paese natale, in provincia di Treviso, dove egli stesso, tre anni prima di morire, nel luglio 1819, si recò
personalmente, progettò e fece edificare a sue spese Il Tempio, posandone personalmente la prima pietra.
Questo edificio maestoso, dedicato alla SS. Trinità, era una chiesa parrocchiale
che sarà portata a termine però solo a dieci anni dalla sua morte.
Proprio nel Tempio, sempre nel 1832 e per volere del fratellastro, vennero traslate, come definitiva sede, le spoglie terrene del grande artista dalla vecchia chiesa parrocchiale dove erano conservate dal 1830. In questo Tempio, ideato e voluto dal Canova e che egli volle donare ai suoi concittadini, si trovano tuttora le sue spoglie mortali.
Il suo cuore è conservato all'interno del cenotafio che i suoi allievi gli vollero dedicare a Venezia, in Santa Maria Gloriosa dei Frari, navata sinistra.
La sua mano destra si trovava presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia, ora si
è ricongiunta al corpo dell'artista nella chiesa parrocchiale di Possagno.
La più celebre biografia di Canova dovuta a un suo contemporaneo è stata scritta
dall'abate forlivese, suo amico e segretario, Melchiorre Missirini: Della Vita di Antonio Canova. Libri quattro.
Museo "Gipsoteca canoviana" di Possagno
La casa natale di Antonio Canova in Possagno è oggi diventata un museo che
raccoglie la pinacoteca dell'artista (oli su tela e tempere), alcuni disegni, le incisioni
delle opere e numerosi cimeli. Accanto alla casa, sorge la Gipsoteca canoviana, un
enorme edificio a forma basilicale, voluto dal fratellastro dell'Artista, Giovanni Battista Sartori (1775-1858), e progettato (1836) dall'architetto veneziano Francesco Lazzari
(1791-1871) per raccogliere i modelli in gesso (gipsoteca infatti significa letteralmente
"raccolta dei gessi"), i bozzetti in terracotta, alcuni marmi che si trovavano nello studio dell'artista a Roma al momento della sua morte.
Nel 1826 lo studio romano fu chiuso da Sartori, le opere arrivarono a Possagno
dopo settimane di trasporto per terra (con carri trainati da buoi) e per mare. Nel 1853,
tutti gli edifici e le collezioni della gipsoteca e della casa furono ceduti da Sartori al
comune di Possagno. La Gipsoteca canoviana fu ampliata nel 1957, nell'occasione delle celebrazioni del 200º anniversario della nascita dell'Artista, con una nuova Ala pro gettata dall'architetto veneziano Carlo Scarpa (1906-1978).
A Possagno, nella casa natale, Canova trovò spesso l'ambiente adatto per riposarsi dall'enorme mole di lavoro che gli veniva continuamente commissionata a
Roma; si ritemprava all'aria fresca e dolce della sua terra natia. Nei suoi "ritiri" di Possagno, mancandogli il marmo, l'artista si dedicava alla pittura per risollevarsi lo spirito (definiva le tempere, che dipingeva nella "torretta" della Casa, i suoi "ozii"), mentre
i Possagnesi erano soliti riservargli feste e "luminarie" quando ritornava a Possagno
dai suoi viaggi a Vienna, Parigi e Roma.
La raccolta delle centinaia di gessi conservati nella Gipsoteca di Possagno sono la
testimonianza di un lavoro continuo e gravoso che Canova profondeva nelle sue ope294
re: le statue canoviane infatti non nascevano quasi mai dalla lavorazione diretta e intuitiva del marmo, ma dopo un metodico e precisissimo studio, dal disegno all'argilla,
dal gesso al marmo. Il modello in gesso, in particolare, veniva realizzato con una colata su un "negativo" ricavato dalla precedente opera in argilla; nel gesso venivano applicati i "repère", chiodini di bronzo tuttora visibili nelle statue di Possagno, che consentivano - con un apposito pantografo - di trasferire le misure e le proporzioni del
gesso nel marmo.
Inoltre Canova lavorava con i suoi 12 collaboratori che inizialmente sbozzavano
la scultura, poi esso la rifiniva con gli ultimi ritocchi, levigando e dando la forma con
le ombreggiature adatte. Le sculture sembrano vere perché impregnava la spugna
nell'acqua del secchio con i suoi strumenti sporchi la passava sul marmo poroso e infine ci metteva la cera dando così il colore della pelle. Molte sculture durante dei re stauri sono state rovinate perché si pensava fossero sporche.
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Lezione XIV
IL ROMANTICISMO
Il Romanticismo è stato un movimento artistico, musicale, culturale e letterario
sviluppatosi in Germania (Romantik) preannunciato in alcuni dei suoi temi dal movimento preromantico dello Sturm und Drang, al termine del XVIII secolo e poi diffuso si in tutta Europa nel secolo seguente.
Il termine "Romanticismo" viene dall’inglese romantic che nella metà del XVII secolo usava questo termine riferendolo a ciò che rappresentava non la realtà ma quello
che veniva descritto in termini "romanzeschi" in certa letteratura come quella dei romanzi cavallereschi. Accanto a questo primo significato si sviluppò e alla fine prevalse nel XVIII secolo quello di "pittoresco" riferito non solo a ciò che veniva artistica mente raffigurato ma soprattutto al sentimento che ne veniva suscitato.
Definizioni e interpretazioni
Non è possibile definire il Romanticismo in senso univoco poiché si tratta di un
fenomeno complesso che assume connotazioni diverse a seconda delle nazioni in cui
si sviluppa. Nel movimento romantico non c'è un riferimento preciso a un sistema
chiuso di idee che possa compiutamente definirlo ma esso fa piuttosto riferimento a
un "modo di sentire" a cui gli artisti del tempo adeguarono il loro modo di esprimersi
artisticamente, pensare e vivere.
Per quanto il Romanticismo sia un movimento culturale di origini tedesche, esso
si sviluppa anche in Inghilterra, a seguito del declino dell’Illuminismo. Pittori come
Géricault, Delacroix e Caspar David Friedrich emergono come importanti artisti romantici mentre in Inghilterra Turner dà una impronta personale al sentire visivo romantico.
Come reazione all’Illuminismo e al Neoclassicismo, cioè alla razionalità e al culto
della bellezza classica, il Romanticismo contrappone la spiritualità, l’emotività, la fantasia, l’immaginazione, e soprattutto l’affermazione dei caratteri individuali d’ogni
artista. Il termine "Romanticismo" venne applicato per primo da Friedrich von Schlegel (1772) alla letteratura da lui considerata "moderna" e contrapposta a quella "classica". August Wilhelm von Schlegel scrive (nell’opera Corso di letteratura drammatica)
che era un termine più che adeguato per definire il movimento che si era venuto a
creare verso il 1790, perché alludeva alla lingua romanza, originata dalla mescolanza
dei dialetti tedeschi con il latino. E proprio la diversità e l’eterogeneità erano rappre sentative, secondo lui, dell’era romantica, in cui l’uomo non era più integro, unico e
sufficiente a se stesso come nell’antichità classica, quando veniva predicato il concetto
latino dell’autarchia (cfr. Orazio). Infatti, secondo i filosofi come Schopenhauer che si
rifanno in parte a Johann Gottlieb Fichte, l’uomo, essere finito, tende all’infinito, cioè
è alla costante ricerca di un bene o di un piacere infinito, mentre nel mondo finito a
sua disposizione non trova che risorse limitate.
Questo fa sì che l’uomo senta un vuoto, una mancanza, che lo relega in una ine296
vitabile situazione di infelicità. Tale posizione era già presente in Pascal, che però usava l'argomento a sostegno della ragionevolezza del Cristianesimo; è invece un elemento originalmente romantico l’aver confrontato tale condizione dell’uomo moderno con la condizione dell’uomo nel mondo classico. Come dice August Schlegel:
« … presso i greci, la natura umana bastava a sé stessa, non presentava alcun
vuoto […] la religione sensuale de’ Greci non prometteva che beni esteriori e temporali. »
Tornando al termine "Romanticismo" che, utilizzato in modo sempre più ampio
ed esteso, venne applicato già nell'Ottocento, dapprima ad una nuova tendenza della
sensibilità basata sull'immaginazione e in seguito a un orientamento più diffuso del
pensiero filosofico, parlando, via via, non solamente più di arte romantica, ma anche
di scienza o filosofia romantiche.
Gli atteggiamenti interpretativi degli studiosi riguardo al termine romantico
sono stati molto vari, e ciò crea problemi a chi voglia definire con maggior precisione
questo termine. Il Wellek restringe il Romanticismo solamente a quei movimenti letterari europei che nella prima metà dell'Ottocento si rifecero a questo nome. Il Praz collega il Romanticismo ad un cambiamento della sensibilità avvenuto nel Settecento e
vivo ancora oggi. Filosofi come Schlegel e Nietzsche considerano il Romanticismo
come uno dei due cardini sul quale ruota continuamente la spiritualità dell'uomo, distinguendo il primo fra classico e romantico, il secondo tra apollineo e dionisiaco.
Le opinioni divergono non solo sul termine, ma anche sull'omogeneità europea
del fenomeno: alcuni, come il Wellek, evidenziano una sostanziale omogeneità, altri,
come il Lovejoy, una maggiore diversità delle sue manifestazioni nazionali. Ancor
oggi nel linguaggio comune le differenze sono molteplici: infatti, mentre in tedesco
romantisch evoca immagini letterarie di paesaggi e di ricordi medievali, in inglese romantic si collega a concezioni sentimentali e all'amore.
Volendo assumere come riferimento temporale alcuni precisi fenomeni letterari,
bisogna in ogni caso tener presente che essi si svilupparono in periodi differenti (tra il
1800 e il 1830) a seconda dei diversi paesi europei. Il Romanticismo nacque infatti
dapprima in Germania con la fondazione della rivista Athenaeum, creata nel 1798
dallo stesso Schlegel insieme al fratello Wilhelm ed al poeta Novalis, riuniti nel grup po usualmente chiamato gruppo di Jena; nello stesso anno 1798 esso nasceva in Inghilterra con la pubblicazione delle Lyrical Ballads di Coleridge e di Wordsworth; in
Francia iniziò invece nel 1813 con la pubblicazione, a Londra ma in lingua francese,
dell'opera De l’Allemagne di Madame de Staël, e infine in Italia nel 1816, previa auto rizzazione del governo austriaco, grazie alla Biblioteca Italiana, il periodico letterario
voluto e finanziato dai primi governanti austriaci della Lombardia, Bellegarde e Saurau, allo scopo di diffondere il consenso verso il nuovo governo succeduto ai francesi.
Temi tipici del Romanticismo
Temi caratteristici di quasi tutti i campi toccati dal movimento romantico sono:
•
Negazione della ragione illuminista: gli autori romantici rifiutano l’idea illuministica della ragione, poiché questa non si è rivelata in grado di spiegare la to297
talità del mondo e di tutto ciò che è. Nell’era romantica si verifica pertanto un
notevole progresso nell'esplorazione dell'irrazionale: i sentimenti, la follia, il
sogno, le visioni assumono un ruolo di primaria importanza.
•
Esotismo: è una fuga dalla realtà, che può essere sia temporale che spaziale
("Locus amoenus") e perciò rivolge il proprio interesse verso mete esotiche o
comunque lontane dai luoghi di appartenenza, oppure ad un’epoca diversa da
quella attuale, come il Medioevo o l’età classica antica.
•
Soggettivismo e individualismo: con l'abbandono della ragione illuministica,
tutto ciò che circonda l'uomo, la natura, non ha più una sola e razionale chiave
di lettura, ed è così che si arriva al concetto per cui ogni uomo riflette i propri
problemi, o comunque il proprio io, nella natura, che ne diventa così il prodotto soggettivo.
•
Concetto di popolo e nazione: una fonte di ispirazione dei poeti romantici è l’opera di Omero, che si prefigura come il risultato della tradizione orale e folcloristica dell'intero popolo greco antico; in questo periodo l’individualismo assume tra l'altro, su grandi dimensioni (quindi a livello di stato e/o nazione), l'aspetto del nazionalismo, sviluppando grande interesse per il popolare e le
espressioni folcloristiche, spesso unito al desiderio di ricerca delle antiche origini da cui sono sorte le nazioni moderne: da qui il profondo interesse per il
Medioevo, così disprezzato dall'Illuminismo, che viene considerato come periodo di nascita delle nazioni moderne e che perciò viene molto rivalutato.
•
Ritorno alla religiosità ed alla spiritualità: oltrepassando i limiti della ragione
stabiliti dagli illuministi, l’uomo romantico cerca stabili supporti nella fede e
nella conseguente tensione verso l’infinito. Si determina così un ritorno all'utilizzo di pratiche magiche e occulte, a volte accidentale motivo di importanti
scoperte scientifiche.
•
Studio della Storia: mentre nel Settecento illuminista l’uomo veniva considerato quale essere razionale sempre dotato di dignità a prescindere dal suo particolare contesto storico, in età romantica si recupera una visione dell’uomo in
fieri, cioè in costante cambiamento. Si sviluppano così nuove discipline come
la numismatica, l’epigrafia, l’archeologia, la glottologia. Due importanti teorizzatori della lettura più scientifica e oggettiva della storia sono Mommsen e
Niebhur.
Parallelamente si sviluppa una forte critica allo spregiudicato uso del lume della
ragione, che nel Settecento aveva condotto molti pensatori illuministi a stigmatizzare
il popolo del Medioevo, ritenuto oppresso dal peso di una religione oscurantista: i romantici, predicando un ritorno alla religiosità e invitando al tuffo nella fede (oggetto
d’indagine peraltro già affrontato da Pascal e successivamente da Kierkegaard), riabilitano i tempi "bui" del Medioevo, apprezzando quei caratteri che l’Illuminismo criticava (lo stesso Hegel finirà per rivalutare le religioni "positive", condannate in età giovanile).
298
Punti chiave del Romanticismo
Il Romanticismo si rifà in linea di massima alla necessità di attingere all'infinito.
Di conseguenza sono spesso ricorrenti alcuni essenziali punti cardine come:
Assoluto e titanismo: caratteristica inequivocabile del Romanticismo è la teorizzazione dell'assoluto, l'infinito immanente alla realtà (spesso coincidente con la natura) che provoca nell'uomo una perenne e struggente tensione verso l'immenso, l'illimitato. Questa sensibilità nei confronti dell'assoluto si identifica nel titanismo: viene
paragonata dunque allo sforzo dei titani che perseverano nel tentativo di liberarsi dalla prigione imposta loro da Zeus, pur consapevoli di essere stati condannati a restarci
per sempre.
Sublime: secondo i romantici, l'infinito genera nell'uomo un senso di terrore e
impotenza, definito sublime, che non sono tuttavia recepiti in modo violento, tali da
deprimere il soggetto, ma al contrario l'incapacità e la paralisi nei confronti dell'assoluto si traduce nell'uomo in un piacere indistinto, dove ciò che è orrido, spaventevole
e incontrollabile diventa bello.
Sehnsucht: dal tedesco traducibile come desiderio del desiderio o male del desiderio. È la diretta conseguenza di quanto sperimenta l'uomo nei confronti dell'assoluto, un senso di continua inquietudine e struggente tensione, un sentimento che affligge il soggetto e lo spinge ad oltrepassare i limiti della realtà terrena, opprimente e soffocante, per rifugiarsi nell'interiorità o in una dimensione che supera lo spazio-tempo.
Ironia: la consapevolezza della finzione delle cose che circondano l'uomo e che
egli stesso crea si traduce nell'ironia, per cui l'uomo prende coscienza della sua stessa
limitatezza. L'ironia, che Socrate medesimo usava per autosminuirsi quando si confrontava con i suoi interlocutori (ironia socratica), si identifica quindi in un atteggiamento dissimulatore.
Il Romanticismo nell'arte
Nel 1819 viene definita romantica la scuola che mira alla rappresentazione fedele
di profonde e toccanti emozioni, mentre nel 1829 l'attributo romantico viene esteso a
molti fenomeni collaterali delle arti visive, entrando nel gergo delle sarte, delle modiste e persino dei pasticcieri, romantico è tutto ciò che ha un'aria di inverosimile, irreale e fantastico, tutto quello che si contrappone all'arte accademica definita forzata, artificiale dogmatica e priva di fantasia. Charles Baudelaire a commento del Salon del
1846 scrisse il saggio Che cos'è il Romanticismo?, in questo definisce romantico chi
"conosce gli aspetti della natura e le situazioni degli uomini che gli artisti del passato
hanno sdegnato o misconosciuto". Lo scrittore inoltre fa coincidere Romanticismo e
modernità affermando: "Chi dice romantico dice arte moderna, cioè intimità, spiritualità, colore, aspirazione verso l'infinito espresse con tutti i mezzi che le arti offrono".
Un dipinto romantico è facilmente riconoscibile perché fa largo uso di panorami
naturali sterminati e violenti, definiti sublimi come nel caso del viandante sul mare di
nebbia, di Friedrich, dove un uomo è ritratto di spalle (questo rappresenta la parte inconscia e nascosta del suo animo) ed è affacciato su di un mare di nebbia che invade
un paesaggio montagnoso. È importante il fatto che l'uomo viene identificato come
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viandante, che lo ricollega al tema romantico dell'esule. Questo quadro non è bello
nel senso di equilibrato e piacevole, al contrario manca di punti di riferimento e suscita inquietudine, paura. Allo stesso tempo, un altro quadro, paesaggio invernale, presenta altri tòpoi, come quello dell'inverno e della neve, che rappresenta la vecchiaia,
oppure gli alberi spogli che rappresentano la morte. L'uomo nel dipinto si regge ad
un bastone: quelle sono le illusioni che l'uomo coltiva per vivere. Così si va delineando un tipo di arte che riflette la filosofia e le tendenze artistiche di quegli anni, dove
l'artista era in conflitto con la società borghese ed i suoi valori, che vedevano l'arte
come qualcosa di commercialmente non produttivo e quindi inutile.
Inoltre, dipinti come L'onda, di Gustave Courbet, riflettono quel senso di vuoto e
di mancanza di punti di riferimento dell'uomo romantico. Autori tipici del Romanticismo sono anche Goya, Delacroix, Gericault, Turner.
La nuova sensibilità
La nuova poetica romantica alla fine del Settecento non va ricercata nelle novità
formali, ma nell’invenzione di numerosi temi e motivi che verranno più ampiamente
sfruttati tra il 1820 e il 1840. Il principale mutamento nella scelta del soggetto concerne sia l’aspetto letterario che storico. Da una parte ormai si preferiva Shakespeare,
Jean Froissart e Ossian agli autori classici; dall'altra è la storia nazionale e non più
quella antica a diventare protagonista delle tele. Com'è naturale, la riscoperta di Shakespeare avviene in Inghilterra, dove venne promossa la creazione di una Shakespeare Gallery a Boydell, composta di opere commissionate a una trentina di artisti a partire dal 1786, su temi tratti dalle tragedie del drammaturgo. Tra queste il quadro di
John Runciman con Re Lear nella tempesta (1767, Edimburgo, National Gallery).
In Francia, per iniziativa del conte d'Angiviller, furono commissionate pitture e
statue dedicate agli eroi della storia francese, tra queste nel 1781 Robert Ménageot
realizzò la tela con La morte di Leonardo, un quadro di forte assonanza con la pittura
romantica, anche nei colori e negli effetti teatrali tesi a drammatizzare l'avvenimento.
Con la Deposizione di Atala, del 1799, Anne-Louis Girodet-Trioson allievo di David,
inserì le figure in un mondo primitivo, fonte di turbamenti e sentimenti non più controllati dalla ragione. Nel Salon del 1808 Antoine-Jean Gros presenta la tela con Napoleone sul campo di battaglia di Eylau il 9 febbraio 1807, un tela storica di carattere en comiastico, che presenta, nei morti e feriti in primo piano, forti accenti di carattere
realistico. Nel 1831 il periodico romantico «L'Artiste» scriverà: Non abbiamo dubbi:
"Napoleone sul campo di battaglia di Eylau" segna la nascita della scuola romantica.
Il Romanticismo nella letteratura
Il movimento romantico europeo ebbe origine nell’opera di alcuni letterati e
ideologi tedeschi della fine del Settecento. Si faceva una netta distinzione tra la poesia
naturale, "Naturpoesie", quella che esprime subito, con il sentimento, le caratteristiche
di una nazione, e la poesia riflessa o d'arte che è quella che non nasce spontanea, ma
nasce dalla imitazione dei modelli stranieri.
Il diverso atteggiamento che gli scrittori e i poeti assumono nella vita fa sì che
nella produzione letteraria si sviluppino due correnti:
300
•
la corrente soggettiva, che concepisce la poesia come una delle più alte espressioni di spirito, di fantasia, di sentimento dell'uomo, espressione spontanea degli ideali dell'artista. Costui dà voce all'inquietudine e all'insoddisfazione dello
spirito umano, al contrasto tra reale e ideale, tra finito e infinito che dilaniano il
suo cuore. La poesia è fonte di introspezione, scavo interiore, analisi degli stati
d'animo dell'autore che sono universali e accomunano tutti gli uomini;
•
la corrente oggettiva, che concepisce la letteratura come rappresentazione di
una realtà lirico-sociale; vuole rappresentare il vero esteriore, la vita e gli ideali
degli uomini di un preciso tempo e luogo. Lo strumento principale di cui si
serve è il romanzo.
Si sostenne che ogni nazione avesse la sua poesia, diversa per forma e lingua dalle altre, pertanto era assurdo che la poesia tedesca si rifacesse a quella dei greci o dei
romani. Essa doveva trovare una poesia nuova e spontanea che fosse conforme alla
sua storia e alla sua natura.
Le caratteristiche degli scrittori di questo gruppo furono il disprezzo per tutte le
forme dell'arte classica, l'idea di una poesia intesa come immediata adesione alla natura, l'ammirazione verso le fonti primitive dell'arte germanica, l'esaltazione di un
tipo di eroe appassionato e ribelle ad ogni legge.
Per quanto riguarda gli artisti romantici tedeschi, bisogna dire che in Germania
si sviluppò tra il 1770 e il 1785 il movimento dello Sturm und Drang (trad. lett. "tempesta ed impeto"), che vantava artisti come Goethe e Schiller; nel 1798 invece nacque
ufficialmente il Romanticismo, con la pubblicazione del primo numero del giornale
"Athenaeum". Da allora si distinsero due diverse scuole: quella di Jena e quella di
Heidelberg. Della prima facevano parte i due fratelli Schlegel, fondatori della sopracitata rivista, e altri artisti come Novalis, Tieck e Schelling; della scuola di Heidelberg
(che aveva tendenze campanilistiche) facevano parte autori come Von Chamisso e
Brentano.
Il Romanticismo letterario inglese
Contemporaneamente, in Inghilterra, si manifestò un analogo movimento letterario e poetico di cui i primi esponenti furono Wordsworth e Coleridge.
Gli autori romantici inglesi vengono generalmente divisi in due diverse generazioni: una che concerne la fine del 1700, e un’altra che è vissuta nella prima metà del
1800. Della prima fanno parte Wordsworth, legato al concetto di epifania (intesa come
riflessione profonda stimolata inaspettatamente da un fatto prosaico e quotidiano),
Coleridge, poeta generalmente definito onirico a causa dell'atmosfera suscitata dalle
sue opere, nelle quali sembra di essere in un sogno, e Blake, poeta visionario, che vedeva nella natura dei simboli che si qualificavano come chiavi di lettura di una realtà
oltre quella fenotipica. Della seconda generazione si possono definire poeti come John
Keats, un nostalgico dell’era classica, Byron, il prototipo del poeta ribelle ed esule, e
Shelley, che aveva molto caro il tema della libertà (basti pensare al titolo di una sua
opera: Prometeo liberato).
Un posto a se stante merita, nel panorama romantico inglese dei primi decenni
dell’ottocento, il narratore e saggista Thomas de Quincey, dalla fantasia accesa e vi301
sionaria, anticipatore di correnti estetiche inquadrabili nel decadentismo europeo della seconda metà del secolo.
Esponenti molto importanti del Romanticismo inglese furono i pittori John Constable e William Turner, appartenenti alla corrente naturalista, nonché il già citato
William Blake, con la sua particolare pittura onirica.
Il Romanticismo letterario francese
Il Romanticismo francese si è distinto tra gli altri per il profondo rinnovamento
di temi, forme ed estetica della letteratura. Capofila dei romantici francesi sono stati
in parte Madame de Staël, ma soprattutto autori come Alphonse de Lamartine con le
Meditations, François-René de Chateaubriand, e Victor Hugo con le Odes e le sue due
opere più importanti: Notre-Dame de Paris e Les Miserables.
Il Romanticismo letterario statunitense
Negli Stati Uniti il movimento letterario romantico assunse caratteri peculiari
nella vocazione filosofico-profetica del Trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson e
Henry David Thoreau, confluito poi nelle poetiche di Walt Whitman ed Emily Dickinson, con influssi sul romanzo di Herman Melville.
Il Romanticismo letterario italiano
In Italia, alcuni elementi tipici della nuova sensibilità romantica si possono già
trovare in Ugo Foscolo, dove però risultano in parte legati alla corrente del neoclassicismo. Un'altra estensione dell'ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita
dell'Italia si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), che diede inizio a quel filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni del XIX secolo.
La data d'inizio vera e propria del Romanticismo italiano è il 1816: nel gennaio di
tale anno, infatti, Madame de Staël pubblicò nella Biblioteca Italiana un articolo (Sulla
maniera e utilità delle traduzioni) nel quale invitava gli italiani a conoscere e tradurre
le letterature straniere come mezzo per rinnovare la propria cultura. Inoltre, sempre
nello stesso anno, Giovanni Berchet scrisse quello che poi divenne il manifesto del Romanticismo letterario italiano: la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, nella
quale si esalta la nuova corrente letteraria e si deridono i canoni del Classicismo (per
questo l'opera è definita "semiseria").
Successivamente alcuni letterati si staccarono dalla Biblioteca Italiana, rivista a
carattere conservatore, e fondarono nel 1818 il Conciliatore, rivista diretta da Silvio
Pellico con Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet e Ermes Visconti. Il
Conciliatore si proponeva di "conciliare" ricerca tecnico-scientifica con letteratura, sia
illuminista che romantica, con pensiero laico e con il cattolicesimo. La rivista fu però
chiusa nel 1819 per ordine degli austriaci.
Ma intanto stavano già diffondendosi nella penisola le prime istanze risorgimentali, alle quali risulterà strettamente legata la produzione romantica italiana. Esemplare fu in proposito la figura di Alessandro Manzoni, che diede un impulso fondamentale alla diffusione del genere letterario del romanzo storico, nell'ambito della corrente oggettivo-realistica. Dedito alla lirica poetica soggettiva fu invece Giacomo Leopardi, sebbene la sua definizione come romantico sia discussa dalla critica letteraria, es302
sendo stata da lui stesso negata vista la presenza nella sua poetica di elementi riconducibili anche all'Illuminismo e al Classicismo.
Il Romanticismo nella musica
Il Romanticismo coinvolse in maniera sostanziale e consistente soprattutto la
musica classica, trascinato dagli ideali ispiratori che furono accolti con entusiasmo dai
compositori di mezza Europa. A seguito della disillusione sperimentata con l'instaurazione delle tirannidi in età napoleonica, gli artisti romantici rivendicarono l'evasione dalla realtà.
Un grande autore preromantico fu indubbiamente Ludwig van Beethoven, che
iniziò a scrivere musica secondo la linea sentimentale del Romanticismo già durante
la fine del '700. Con l'Inno alla gioia di Schiller, nella Nona Sinfonia, la sua concezione
superò le forme allora in uso del linguaggio sinfonico e proiettò il musicista in una dimensione inesplorata: da semplice artigiano egli diventò poeta e ideologo, creatore di
miti e profeta di una speranza nuova.
Furono diversi i rappresentanti della corrente romantica celeberrimi per le loro
composizioni, ognuno distintosi per aver portato novità alla musica classica: per
esempio Hector Berlioz, Robert Schumann, Vincenzo Bellini, Gioachino Rossini e Giuseppe Verdi. Ma fu soprattutto Richard Wagner che partendo dall'esperienza di Beethoven condusse melodia e armonia verso i princìpi del tonalismo romantico più evoluto, elaborando un nuovo linguaggio musicale che in seguito avrebbe portato alla
dissoluzione della tonalità. In Wagner, più che in altri musicisti, vi fu anche uno stretto legame con la poetica, la filosofia e la politica dell'epoca romantica, in cui l'aspirazione al titanismo o l'ideale della notte e della morte come strumento di salvazione
pone i suoi drammi tra gli esempi più alti del romanticismo e del decadentismo.
Con l'avvento del Romanticismo i compositori superarono l'epoca del classicismo avuto con Haydn e Mozart per approdare ad un'espressione concreta e diretta
del sentimento. Furono apportate numerose novità: l'orchestra conobbe l'aumento dei
fiati e delle percussioni e l'introduzione definitiva come componenti stabili degli ottoni gravi, fra cui il trombone e il bassotuba. Nacque così la figura del direttore d'orche stra, impegnato a dirigere un numero di strumenti sempre più elevato.
Il Romanticismo nella filosofia
La filosofia in età romantica si riflette nel pensiero dei massimi esponenti dell'idealismo, in particolare di quello tedesco, rappresentato da Fichte, Schelling ed Hegel; esso fu però anticipato da Kant, che nella Critica del Giudizio aveva aperto la
strada alla concezione della natura come inesauribile e spontanea forza vitale dove si
esprime la divinità.
È importante inoltre evidenziare che l'idealismo non si identifica come la filosofia del Romanticismo, pur risultando a pieno titolo la sintesi meglio riuscita della corrente: colui che riuscì maggiormente a interpretare la sensibilità romantica fu Schelling, soprattutto per l'importanza attribuita al momento estetico dell'arte, e al mito;
303
sarà invece l'idealismo di Hegel a dare adito a pesanti critiche al Romanticismo, pur
eccependone i princìpi cardine, contestandone la svalutazione delle facoltà non solo
intellettuali ma anche razionali dell'individuo.
La filosofia romantica proponeva infatti un superamento della filosofia illuminista, il cui massimo esponente, Immanuel Kant, pur tracciando le fondamenta del sapere umano con l'attribuzione all'intelletto (facoltà del finito) della possibilità di costruire scienza, aveva relegato però la ragione unicamente all'ingrato compito di rendere conto dei limiti della conoscenza umana e conseguentemente dell'impossibilità
di fondare la metafisica. La posizione di Kant era stata in parte ripresa da Fichte, il
quale rivalutò l'intuizione e accentuò l'impossibiltà di cogliere l'Assoluto con la sola
ragione. Mentre il Romanticismo predicava così una sostanziale incapacità della ragione nel cogliere la più intima essenza della realtà, contrapponendo ad essa il sentimento, l'ironia e l'istinto, l'idealismo hegeliano intendeva invece attingere all'assoluto
proprio mediante l'uso della razionalità (intesa in Hegel quale espressione dello spirito immanente alla realtà).
Un altro movimento filosofico che rientra appieno nell'ambito romantico, pur essendo posteriore agli anni d'oro del Romanticismo tedesco, è il Trascendentalismo di
Ralph Waldo Emerson ed Henry David Thoreau.
La concezione romantica della storia
Nell'età del Romanticismo si ebbe un superamento della concezione illuminista
della storia, a cui fu rimproverato di basarsi su un'idea della ragione astratta e livellatrice, che in nome dei suoi principi generici era giunta a produrre le stragi del Terrore
della Rivoluzione Francese. A quella i romantici sostituirono una «ragione storica»,
che tenesse conto anche delle peculiarità e dello spirito dei diversi popoli, a volte assimilati a degli organismi viventi, con una loro anima e una loro storia e una nuova
concezione della storia che mettesse in discussione la convinzione illuminista della
capacità degli uomini di costruire e guidare la storia con la ragione.
Le vicende della Rivoluzione francese e il periodo napoleonico avevano dimostrato che gli uomini si propongono di perseguire alti e nobili fini che s’infrangono dinanzi alla realtà storica. Il secolo dei lumi era infatti tramontato nelle stragi del Terrore e il sogno di libertà nella tirannide napoleonica. Dunque la storia non è guidata da gli uomini ma è Dio che agisce nella storia. Esiste una Provvidenza divina che s’inca rica di perseguire fini al di là di quelli che gli uomini ingenuamente si propongono di
conseguire con la loro meschina ragione.
«La storia umana appariva perciò guidata non dalla mente e dal volere dell'uomo, fosse pure il più alto genio, non dal caso, ma da una provvidenza che supera gli
accorgimenti politici e che drizza a ignote mete la nave dell'umanità.»
Nel complesso, la polemica contro l'ugualitarismo e il cosmopolitismo illuministi
assunse aspetti e caratteri diversi a seconda dei contesti, aspetti che tuttavia restarono
intrecciati e difficilmente separabili in maniera netta. Vi fu da un lato una tendenza
restauratrice, rivolta però non tanto al ripristino anacronista dell'Ancien régime,
quanto al recupero di quelle tradizioni, religiose in particolare, ritenute patrimonio
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della coscienza collettiva. Significativa fu l'opera di De Maistre e altri autori, per i
quali «la storia umana è diretta da una provvidenza che supera gli accorgimenti politici e che drizza a ignote mete la nave dell’umanità.»
In generale «s’identificò la storia della civiltà con la storia della religione, e si
scorse una forza provvidenziale non solo nelle monarchie, ma sin nel carnefice, che
non potrebbe sorgere e operare nella sua sinistra funzione se non lo suscitasse, a tutela della giustizia, Iddio: tanto è lungi dall’essere operatore e costruttore di storia l’arbitrio individuale e il raziocino logico».
D'altro lato, la stessa concezione provvidenziale della storia diede luogo ad altre
tendenze che potremo definire liberali, per le quali i principi proclamati nel 1789 restavano validi, pur essendo da condannare gli esiti giacobini della Rivoluzione Francese. François-René de Chateaubriand in una sintesi esprimeva ad esempio l'esigenza
di «conservare l'opera politica che è scaturita dalla rivoluzione» e «costruire il governo rappresentativo sulla religione». La libertà di religione fu ritenuta in particolare un
antidoto basilare sia al dispotismo assolutistico, che all'anarchia rivoluzionaria.
305
Lezione XV
L'ETÀ DELL'IMPRESSIONISMO
Le premesse
Fondamentali per la nascita dell'Impressionismo, nato intorno al 1860 a Parigi,
furono le esperienze del Romanticismo e del Realismo, che avevano rotto con la tradizione, introducendo importanti novità: la negazione dell'importanza del soggetto, che
portava sullo stesso piano il genere storico, quello religioso e quello profano; la riscoperta della pittura di paesaggio; il mito dell'artista ribelle alle convenzioni; l'interesse
rivolto al colore piuttosto che al disegno; la prevalenza della soggettività dell'artista,
delle sue emozioni che non vanno nascoste e camuffate, rapidi colpi di spatola, creando un alternarsi di superfici uniformi e irregolari, divenne il punto di partenza per le
ricerche successive degli impressionisti.
Un altro importante riferimento, difficilmente inquadrabile, fu Camille Corot,
chiamato, affettuosamente, dai suoi discepoli père Corot (papà Corot), con i suoi paesaggi freschi e semplici, lontani dalle convenzioni.
Nuovi stimoli vennero anche dall'Esposizione universale di Parigi del 1867, dove
trovò sfogo l'interesse per l'arte esotica, in particolare quella giapponese. Hokusai e la
scuola Ukiyo-e rappresentavano scene di vita quotidiana molto vicine al realismo che
andava diffondendosi in Francia e in Europa. Già Baudelaire, alcuni anni prima, aveva distribuito agli amici delle stampe giapponesi, che presto divennero una moda e
furono apprezzate e acquistate anche dai pittori impressionisti.
Si deve però ricordare che, nonostante l'allontanamento dalla tradizione, restava
il punto fermo della copia delle opere dei grandi del passato, custodite al Louvre.
Infine, importanti novità vennero dalle scoperte delle scienze, come la macchina
fotografica e le Leggi sull'accostamento dei colori di Eugène Chevreul: queste furono
alla base della teoria impressionista sul colore, che suggeriva di accostare i colori senza mescolarli, in modo tale da ottenere non superfici uniformi ma "vibranti" e vive.
Gli artisti
Gli impressionisti dipingevano "en plein air" con il cavalletto portatile, con una
tecnica rapida che permetteva di completare l'opera in poche ore. Essi volevano riprodurre sulla tela le sensazioni e le percezioni visive che il paesaggio comunicava loro
nelle varie ore del giorno e in particolari condizioni di luce, lo studio dal vero del cielo, dell'atmosfera, delle acque, eliminò il lavoro al chiuso, in atelier, lo studio nel quale venivano completati i quadri più grandi o eseguiti i ritratti; molti ritratti erano però
anche realizzati all'aperto. Lo sfondo, il paesaggio, non è qualcosa di aggiunto, ma avvolge le figure. Oggetti e persone sono trattati con la stessa pennellata ampia e decisa.
306
Gli inizi
La storia dell'impressionismo nasce ancora prima che si possa parlare di un vero
e proprio movimento: nel 1863 Napoleone III inaugurò il Salon des Refusés, per ospitare quelle opere escluse dal Salon ufficiale. Vi partecipò, tra gli altri, Édouard Manet
con Le Déjeuner sur l'herbe, che provocò un notevole scandalo e che venne definito
immorale. Due anni più tardi, lo stesso Manet scandalizzò nuovamente l'opinione
pubblica con Olympia.
La prima manifestazione ufficiale della nuova pittura si tenne il 15 aprile 1874,
presso lo studio del fotografo Felix Nadar, alla quale parteciparono Claude Monet,
Edgar Degas, Alfred Sisley, Pierre-Auguste Renoir, Paul Cézanne, Camille Pissarro,
Felix Bracquemond, Jean-Baptiste Guillaumin, Berthe Morisot e Mary Cassatt. La mostra del '74 fu di per sé un'azione eversiva in quanto, al di là dell'estrema modernità
delle singole opere che sconvolse la critica, venne compiuta in risposta e contro il Salon, che le aveva rifiutate, e gli studi accademici in generale.
Il nome di battesimo del nuovo movimento si deve al critico d'arte Louis Le Roy,
che definì la mostra Exposition Impressioniste, prendendo spunto dal titolo di un
quadro di Monet, Impression, soleil levant. Inizialmente questa definizione aveva
un'accezione negativa, che indicava l'apparente incompletezza delle opere, ma poi divenne una vera bandiera del movimento.
Caratteristiche della pittura impressionista erano i contrasti di luci e ombre, i colori forti, vividi, che avrebbero fissato sulla tela le sensazioni del pittore di fronte alla
natura. Il colore stesso era usato in modo rivoluzionario: i toni chiari contrastano con
le ombre complementari, gli alberi prendono tinte insolite, come l'azzurro, il nero viene quasi escluso, preferendo le sfumature del blu più scuro o del marrone. Fondamentale era dipingere en plein air, ovvero al di fuori delle pareti di uno studio, a contatto con il mondo. Questo portò a scegliere un formato delle tele più facile da trasportare; si ricorda che risale a questo periodo anche l'invenzione dei tubetti per i colori a olio e al cavalletto da campagna, facile da trasportare.
Il pittore cerca di fissare sulla tela anche lo scorrere del tempo, dato dal cambiamento della luce e dal passare delle stagioni. Si ricordano a questo proposito le numerose versioni della Cattedrale di Rouen, riprodotta nelle diverse ore del giorno e in diverse condizioni climatiche, di Claude Monet verso la fine del 1890.
Nonostante un filo rosso molto evidente colleghi tutti gli artisti impressionisti,
sarebbe un errore considerare questo movimento come monolitico. Ogni artista, infatti, secondo la sua sensibilità lo rappresenta in modo diverso. Per esempio Monet non
si interessò principalmente alla rappresentazione di paesaggi urbani, ma soprattutto
naturali, arrivando, negli ultimi anni della sua vita, a ritrarre moltissime volte lo stesso soggetto (le Ninfee) in momenti diversi, per studiarne i cambiamenti nel tempo.
Altri, come Renoir o Degas, si interessarono invece alla figura umana in movimento.
Molti sono gli artisti che non si possono definire del tutto impressionisti, ma che dell'Impressionismo sono evidenti precursori, molti quelli che, nati in seno all'Impressionismo, se ne distaccheranno per intraprendere nuove strade. L'unico artista che sempre, per tutta la sua vita, rimase impressionista fu Monet. In sintesi, si può affermare
che l'Impressionismo sia ai suoi inizi con Manet, culmini con Monet e si chiuda con
307
Cezanne, che poi ne uscirà.
La diffusione
L'Impressionismo si diffuse in Europa (grazie alla facilità con cui un'opera poteva essere eseguita, a molti impressionisti non occorrevano più di 15 minuti per realizzare un dipinto, era facile trovare nelle case borghesi dell'epoca diversi quadri): in Italia ebbe uno sviluppo poco particolare, grazie alle esperienze di Federico Zandomeneghi e Giuseppe De Nittis e dei Macchiaioli, più vicine, tuttavia, alla tradizione quattrocentesca.
L'eredità
La teoria del colore impressionista viene esasperata nel pointillisme di GeorgesPierre Seurat: i colori non vengono mescolati, ma semplicemente accostati in punti
minuti, in modo che sia l'occhio a creare le tinte intermedie.
Paul Cézanne, pur contemporaneo del movimento, sviluppò in modo indipendente la propria ricerca, che da alcuni viene considerata premessa del Cubismo.
Vincent Van Gogh compì una svolta proprio grazie agli impressionisti, ma da
loro si discostò, precorrendo l'Espressionismo.
L'Impressionismo nella letteratura
Non si può precisamente parlare di Impressionismo in letteratura, piuttosto di
incontro tra due modi di sentire e di vedere la realtà, e di critica alla tradizione, da
una parte in pittura, dall'altra in letteratura. Tuttavia il romanziere e critico d'arte Octave Mirbeau, amico di Claude Monet, può essere qualificato come impressionista.
Comunque, sono molti i punti in comune con la corrente letterario del naturalismo, in
particolare con uno dei suoi esponenti, Emile Zola, che affermava che il vero compito
dell'artista fosse quello di riprodurre la vita, e sostenne gli impressionisti nei suoi numerosi scritti.
L'Impressionismo nella musica
Anche nella musica si verificò un abbandono dei modi tradizionali come la sonata e la sinfonia. Si ricordano: Claude Debussy, Erik Satie, Maurice Ravel, Paul Dukas,
Alexander Scriabin, Frederick Delius. Per quanto riguarda l'Italia, si accostò alle novità europee quando già queste si erano pressoché esaurite e trasformate in nuove tendenze: è opportuno, tuttavia, ricordare Ottorino Respighi.
Come i pittori impressionisti escono all’aperto per dipingere, fuori dagli studi e
dagli atelier, i musicisti rappresentano la natura e comunicano all’ascoltatore le loro
"impressioni". A differenza dei sentimenti forti del Romanticismo, queste impressioni
sono evanescenti, oniriche, irreali. Allo stesso modo dei contorni pittorici sfumati, i
contorni musicali sono sfuggenti e comunicano un’atmosfera immaginaria.
308
Le prime avvisaglie presero spunto dal Parsifal wagneriano ma l’Impressionismo nacque in Francia e il suo maggiore rappresentante fu Debussy, considerato
dopo Wagner il “padre” della musica moderna. Egli cercò di polemizzare contro i
dogmi della musica tradizionale, per affermare un nuovo metodo compositivo. L’impressionismo è antiromantico, nel senso dell’affermazione dell’impressione subitanea
e momentanea. I colori pittorici impressionisti corrispondono ai colori timbrici strumentali.
L'impressionismo nel cinema
L’estetica del cinema risentì del movimento impressionista soprattutto tramite il
regista Jean Renoir, figlio del grande pittore, elemento di spicco del cosiddetto Realismo poetico.
L'impressionismo italiano
La situazione italiana è in questo periodo post-unitario difficile e lenta nello sviluppo della nuova corrente artistica francese. Per questo motivo molti pittori italiani
furono affascinati dal nuovo stile e dall'apertura del pensiero parigino, in cui riscontrano una modernità introvabile nella loro patria.
Nondimeno il lavoro di macchiaioli come Sernesi, Cabianca, Borrani e poi Fattori
degli anni '60 e '70 dell'Ottocento, in contemporanea agli albori dell'impressionismo è
paragonabile nei metodi, nelle tematiche d'attualità e nello stile che persegue la luminosità naturale attraverso l'uso della macchia, e ne costituisce il movimento parallelo,
con le dovute differenze di contesto sociale e di territorio.
I macchiaioli Italiani conoscono Delacroix, Corot, Courbet e i Barbizonniers, e,
come gli impressionisti, partono dalle ricerche di questi pittori. Dopo la stagione dei
Boldini, degli Zandomeneghi e dei De Nittis, che potremmo chiamare impressionisti
franco-italiani viste le loro lunghe permanenze parigine, permane in Italia una tradizione tardo impressionista che si protrae nei primi tre-quattro decenni del Novecento,
legata ora a Monet, ora a Renoir ora a Cezanne,espressa nell'opera di pittori come
Emilio Gola, Arturo Tosi, Armando Spadini.
Claude Monet
Claude Oscar Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 6 dicembre 1926) è
stato un pittore francese, padre dell'Impressionismo.
Biografia
La formazione artistica
Claude Monet nacque a Parigi in rue Laffitte 45-47, secondogenito di Claude Auguste e di Louise Justine Aubrée, una giovane vedova al suo secondo matrimonio.
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Nel 1845 i Monet si trasferirono a Sainte-Adresse, un sobborgo di Le Havre, dove il
padre iniziò a gestire un negozio di drogheria e di forniture marittime insieme con il
cognato Jacques Lecadre. A quindici anni l'adolescente Claude cominciò a disegnare a
matita e a carboncino, e a vendere bonarie caricature di personaggi della città alla
buona somma di una diecina di franchi l'una, acquistando così una certa fama nella
città insieme ad un modesto gruzzolo.
Dal 1856, nella scuola di Le Havre in cui era iscritto, Claude studiò disegno con
un vecchio allievo di David, Jacques François Ochard, e conobbe il pittore Eugène
Boudin, il suo vero, primo maestro, che gli insegnò «come ogni cosa dipinta sul posto
abbia sempre una forza, un potere, una vivacità di tocco che non si ritrovano più all'interno dello studio», indirizzandolo così alla pittura del paesaggio en plein air ; con
lui, quell'anno Monet espose a Rouen per la prima volta una sua tela, la Veduta di
Rouelles.
Monet dirà poi che Boudin «con instancabile gentilezza, intraprese la sua opera
di insegnamento. I miei occhi finalmente si aprirono e compresi veramente la natura;
imparai al tempo stesso ad amarla. L'analizzai con una matita nelle sue forme, la studiai nelle sue colorazioni. Sei mesi dopo [...] annunciai a mio padre che desideravo diventare un pittore e che mi sarei stabilito a Parigi per imparare».
Nel gennaio 1857 morì sua madre. Nel marzo del 1859 il padre di Monet fece richiesta al Municipio di Le Havre di una borsa di studio che permettesse a Claude di
studiare pittura a Parigi. Non la ottenne ma, grazie ai propri risparmi, Claude in maggio partì ugualmente per la capitale a studiare con poca spesa all'Académie Suisse fondata al Quai des Orfèvres da Charles Suisse, un vecchio modello di David - perché
agli allievi non si mettevano a disposizione insegnanti, ma solo modelli. Qui ebbe
modo di conoscere Delacroix, Courbet e Pissarro, col quale andava spesso a mangiare
alla Brasserie des Martyrs, frequentata dai pittori realisti, oltre che da Baudelaire e dal
critico Duranty, futuro sostenitore degli impressionisti sulle colonne della «Gazette
des Beaux-Arts».
Frequentando anche il Café Guerbois, vide Manet e nei Salons conobbe Constant
Troyon, pittore della Scuola di Barbizon che, evidentemente scettico della sua tecnica,
gli consigliò di approfondire lo studio del disegno all'atelier di Couture, pittore rinomato e di notevoli capacità tecniche, ma autore di tele enfatiche di soggetti storici.
Monet non ascoltò quel consiglio, ma preferì seguire in particolare le opere di Daubigny, che amava dipingere paesaggi dal vero.
Il 24 maggio 1860 Monet pubblicò nella rivista «Diogène» la sua ultima caricatura, quella di Lafenière, un noto attore dell'epoca, e in ottobre venne chiamato a prestare il servizio militare, che sarebbe dovuto durare sette anni, a meno che, secondo la le gislazione francese del tempo, non si trovasse un sostituto che intendesse svolgerlo al
suo posto. Arruolato nel Reggimento dei Cacciatori d'Africa, di stanza ad Algeri, rimase affascinato dalla luce e dai colori di quei luoghi.
Ammalato, nel 1862 tornò in licenza di convalescenza nella sua casa di Le Havre
e qui riprese a dipingere insieme con il suo maestro Boudin e con Johan Barthold Jongkind, appena conosciuto casualmente. Per Monet fu importante l'esempio di questo
pittore olandese che, all'aperto, si limitava a riprodurre il paesaggio in schizzi e ac310
querelli, per poi definirli sulla tela nel suo studio, conservando tuttavia la freschezza
della prima osservazione.
Intanto il padre trovò un giovane che, in cambio di una somma di denaro, fece il
servizio militare al posto di Claude che così, consapevole di aver bisogno di migliora re i propri mezzi tecnici, poté tornare a Parigi per studiare nell'atelier di Charles Gley re, un pittore neoclassico frequentato anche dai giovani Renoir, Alfred Sisley e Bazille. È di quest'anno il suo primo dipinto importante, i Trofei di caccia, al d'Orsay di Pa rigi, una natura morta che guarda alla classica pittura olandese; anche nella Fattoria
normanna, del 1863, è rilevante l'influsso della pittura olandese, oltre all'esempio di
Boudin e Jongkind.
Insieme con Bazille, dalla finestra della casa di un amico comune in rue Fürstenberg, guarda lavorare nello studio di fronte Delacroix, il suo attuale maestro spirituale. Nell'estate del 1864 si stabilisce a Honfleur con Bazille, col quale e con Boudin e
Jongkind, dipinge paesaggi e marine.
Un violento litigio con il padre ha per conseguenza la perdita di ogni aiuto economico: torna così a Parigi alla fine dell'anno. Qui, l'anno dopo, per la prima volta è
ammesso al Salon con due sue marine, Il molo a Honfleur e La foce della Senna a
Honfleur; di quest'ultima, il critico Paul Mantz scrive nella Gazette des Beaux-Arts
che "non la dimenticheremo più. Eccoci interessati a seguire nei suoi tentativi futuri
questo sincero autore di marine", lodando la sua maniera ardita di vedere le cose. È
ispirato da un'analoga composizione di Jongkind, dipinta dall'artista olandese nello
stesso luogo e nello stesso anno: se il colore è quello di Courbet, peculiari di Monet
sono i tocchi fitti e rapidi sull'acqua e le pennellate spesse nella rappresentazione delle nuvole.
Trasferitosi in una pensione di Chailly, nei pressi del bosco di Fontainebleau, comincia a lavorare alla Colazione sull'erba, ispirata all'analogo, famoso dipinto di Manet. L'intenzione è di dipingere una grande tela di sei metri per cinque; posano per lui
la sua intima amica Camille Doncieux e Bazille, l'uomo sdraiato a destra, mentre il
personaggio seduto in primo piano potrebbe essere il pittore Lambron o Courbet.
Il dipinto non piace a Courbet e Monet lo lascia, incompiuto, come pegno per il
pagamento della pensione. Lo riprenderà nel 1884 in cattive condizioni: tagliato in
due parti, è conservato al Musée d'Orsay; ne esiste una replica, di piccole dimensioni
e con varianti rispetto alla prima versione, eseguita nel 1866 e ora al Museo Puškin di
Mosca. Anche qui mantiene il colorito di Courbet, ma l'effetto del dipinto è di una
scioltezza che manca in Courbet ed è più immediata che in Manet.
Verso una nuova visione
Monet non amava e non s'interessava ai classici esempi della pittura, tanto da
non entrare quasi mai al Louvre: la sua cultura artistica era e rimase limitata, ma egli
compensava quell'apparente difetto nel vantaggio di poter guardare alla natura - l'unica fonte della sua ispirazione - senza precostituite impalcature mentali, abbandonandosi all'istinto della visione che, quando è immediata, ignora il rilievo e il chiaroscuro degli oggetti, che sono invece il risultato dell'applicazione al disegno di scuola.
Pur ammirando i realisti come Corot e Courbet, non li imitava; eliminando la plastici311
tà delle cose, Monet si sforzava di rappresentarle nell'immediatezza del fissarsi della
loro immagine nella rètina dell'occhio, nel loro primo apparire alla coscienza: e l'apparenza della cosa non è la realtà della cosa.
Nel 1866 presenta al Salon di Parigi due tele, il ritratto di Camille in abito verde,
un interno che ottiene l'approvazione di Émile Zola e di Édouard Manet, e Saint Germain l'Auxerrois, dipinto da una terrazza del Louvre, dove protagonista è il brillare
della luce nelle foglie degli alberi.
Inizia a dipingere all'aperto Donne in giardino, dove Camille è l'unica modella
delle tre donne rappresentate nel dipinto; rifiutato l'anno dopo dal Salon, gli viene
comprato da Bazille per 2.500 franchi; tornato molti anni dopo in possesso di Monet,
lo venderà nel 1921 allo Stato francese per 200.000 franchi. Una ripresa fotografica del
giardino gli ha suggerito la profondità dello spazio ma Monet è interessato soltanto ai
piani e ai colori: eliminato anche il rilievo, il risultato dà nel mosaico, perché ai colori
mancano gli effetti di tono e la luce non vibra nella penombra e non penetra le figure
e gli oggetti.
Nel giugno 1867 lascia momentaneamente Camille, che da lui aspetta un figlio,
per andare ad abitare a Sainte-Adresse con la zia; l'8 agosto nasce il figlio Jean e Monet va a Parigi, abitando con Renoir e Bazille. Nel 1868 espone al Salon la Nave che la scia il porto di Le Havre; si trasferisce con Camille e il figlio prima a Fécamp e poi a
Étretat per sfuggire ai creditori; arriva a tentare il suicidio nel giugno: è aiutato da Renoir e dal mercante Gaudibert, che gli compra delle tele, gli commissiona il ritratto
della moglie e gli procura una casa a Saint-Michel, presso Bougival, sulla Senna, dove
abita insieme con Renoir. Qui, in riva alla Senna, dipingono entrambi gli effetti della
riflessione della luce sull'acqua; ne La Grenouillère - lo stagno delle rane, uno stabilimento balneare di Bougival, le rapide e decise pennellate che accostano le differenze
tonali e cromatiche realizzano una superficie liquida dinamica ed evidenziano i contrasti di luce e di ombra ma l'eccesso di nero utilizzato da Monet impedisce ancora di
ottenere trasparenza dalle ombre; lo sfondo, malgrado l'intensa colorazione verde-oro
del fogliame, manca di vibrazioni luminose e non riesce ad raccordarsi in una visione
unitaria con la centralità del dipinto.
Il 26 giugno 1870 sposa Camille e la famiglia si trasferisce a Trouville, in Normandia; scoppiata la guerra con la Prussia, per evitare il richiamo alle armi, va a Londra, dove ritrova Charles-François Daubigny e Camille Pissarro, con i quale dipinge,
visita i musei londinesi, interessandosi alle opere di Turner e Constable, e conosce
l'importante mercante d'arte francese Paul Durand-Ruel, che ha una galleria d'arte in
New Bond street. Il 17 gennaio 1871 muore suo padre.
Finita la guerra, torna in Francia passando per l'Olanda, dove resta affascinato
dal paesaggio e dove compera molte stampe giapponesi di Suzuki Harunobu, Hokusai e Hiroshige. A Parigi è informato della morte in guerra di Bazille e va a trovare in
carcere Gustave Courbet, accusato di simpatie comunarde. Nel 1871, si stabilisce ad
Argenteuil, vicino Parigi, in una casa con giardino davanti alla Senna, presa in affitto
grazie ad una raccomandazione di Manet, in una casa con giardino di proprietà della
vedova del notaio Aubry. Poco tempo dopo allestirà, su una barca cabinata, uno studio galleggiante, che rappresenterà nel 1874 nel Battello, ora al Rijksmuseum di Otter312
loo. Conosce il pittore dilettante e collezionista d'arte Gustave Caillebotte; grazie anche all'eredità paterna, può permettersi di vivere in modo confortevole.
La nascita dell'Impressionismo
Il 15 aprile 1874 s'inaugura, nello studio del fotografo Nadar, al secondo piano
del 35 di boulevard des Capucines, la mostra del gruppo Societé anonyme des peintres, sculpteurs et graveurs, composto, fra gli altri, da Monet, Cézanne, Degas, Morisot, Renoir, Pissarro e Sisley, polemici nei confronti della pittura, allora di successo,
accettata regolarmente nei Salons. Monet vi presenta la tela, dipinta due anni prima,
Impressione, levar del Sole; il critico Louis Leroy prende spunto dal titolo del quadro
per coniare ironicamente il termine impressionismo.
Scrive Leroy che fu una giornata tremenda quella in cui osai recarmi alla prima
sul boulevard des Capucines insieme con Joseph Vincent, paesaggista, allievo di Bertin, premiato sotto diversi governi. L'imprudente era andato lì senza pensarci, credeva di vedere della pittura come se ne vede ovunque, buona e cattiva, più cattiva che
buona, ma che non attentasse ai buoni costumi artistici, al culto della forma, al rispetto dei maestri. Ah, la forma! Ah, i maestri! Non ne abbiamo più bisogno, mio povero
amico! Tutto questo è cambiato.
In compenso, un altro critico contemporaneo, Jules Castagnary, accettando il
neologismo di impressionisti, scrive che questi pittori "sono impressionisti nella misura in cui non rappresentano tanto il paesaggio quanto la sensazione in loro evocata
dal paesaggio stesso. E proprio questo termine è entrato a far parte del loro linguaggio [...]. Da questo punto di vista hanno lasciato alle loro spalle la realtà per entrare
nel regno del puro idealismo. Quindi la differenza essenziale tra gli impressionisti e i
loro predecessori è una questione di qualcosa in più e qualcosa in meno dell'opera finita. L'oggetto da rappresentare è lo stesso ma i mezzi per tradurlo in immagine sono
modificati [...]".
È certamente Turner ad avergli suggerito come dissolvere la forma mediante il
colore: fondendo il mare e il cielo così da annullare l'orizzonte, rese ombre grigie le
navi dello sfondo, il paesaggio, divenuto, nell'immediata impressione visiva del pittore, un insieme di forme vaghe, dà all'osservatore di quella impressione riportata sulla
tela un'emozione suggestiva e indefinita.
Sono questi gli anni in cui Monet dà il meglio di sé: nella Vela sulla Senna ad Ar genteuil scompaiono i contrasti di tono, che si mutano in passaggi tonali ottenuti non
fondendo ma accostando le tinte, fra le quali non è utilizzato il nero, ma le ombre
vengono ricavate accentuando l'intensità del tono.
"La rappresentazione dello spazio, non articolata, senza piani precisi, unisce il vicino e il lontano. Viola e gialli sono nell'azzurro dell'acqua come del cielo, eppure il
loro tono diverso distingue la sostanza liquida dall'eterea, in modo da costruire lo
specchio del fiume come base del cielo. La prospettiva geometrica è abbandonata per
rivelare il fluire infinito della vita atmosferica. Ciascun colore è attenuato, ma il loro
insieme è intenso, per rivelare la contemplazione del giorno che muore infocato all'orizzonte, mentre la gran vela si raffredda in penombra grigia. È la contemplazione del
visionario che partecipa alla vita della luce, al suo lento morire al tramonto, al suo dif313
fondere su tutta la natura un velo di malinconia" (Venturi).
Il Ponte di Argenteuil, del 1874, un tema dipinto da molti impressionisti, è una
composizione equilibrata, classicamente ritmata: gli alberi delle barche richiamano i
piloni del ponte e la vela arrotolata, la sponda; l'azzurro dell'acqua in primo piano richiama l'azzurro del cielo mentre i verdi e i gialli vibrano nell'acqua come nella riva e
negli alberi del fondo.
Il 24 marzo 1875 il gruppo degli impressionisti organizza una vendita collettiva
di dipinti che, malgrado il basso prezzo dell'offerta, non ha successo; Monet è nuovamente in difficoltà economiche, malgrado gli aiuti di Caillebotte e di Manet. Anche
una seconda mostra, tenuta l'anno seguente, dove Monet presenta 18 tele, si rivela un
fallimento. Nell'estate conosce il ricco finanziere e collezionista Hoschedé, del quale
diviene amico e allaccia una relazione con la moglie di questi, Alice.
È il periodo in cui i critici d'arte si pongono con serietà il problema di una corret ta comprensione del fenomeno impressionista: per Paul Mantz l'impressionista è "l'artista sincero e libero che, rompendo con i procedimenti di scuola, con i raffinamenti
alla moda, subisce, nell'ingenuità del suo cuore, il fascino assoluto che promana dalla
natura e traduce, con semplicità e con la maggiore franchezza possibile, l'intensità
dell'impressione subìta"; per Duranty, "la scoperta degli impressionisti consiste propriamente nell'aver riconosciuto che la grande luce scolora i toni, che il sole riflesso
dagli oggetti tende, per forza di chiarezza, a ricondurli a quella unità luminosa che
fonde i setti raggi prismatici in un unico sfavillio incolore, che è la luce. D'intuizione
in intuizione, a poco a poco sono arrivati a decomporre la luce solare nei suoi raggi,
nei suoi elementi, e a ricomporre la sua unità attraverso l'armonia generale delle iridescenze che essi spandono nelle tele".
Nel 1877 il gruppo fonda il giornale L'impressioniste, rivendicando il rifiuto di
dedicarsi a temi pittorici allora maggiormente in voga, come quelli storici e di genere
e affermando che ciò che distingue dagli altri pittori gli impressionisti è che essi trattano un soggetto per i valori tonali e non per il soggetto in se stesso.
È anche l'anno in cui Monet dipinge una serie di vedute, in ore e luci diverse, e in
differenti angolature, della stazione parigina di Saint-Lazare, moderna costruzione in
ferro e vetro, uno dei maggiori simboli della modernità. Scrive Zola che "vi si sente lo
sferragliare dei treni che arrivano veloci, si vedono le zaffate di fumo che roteano sotto i vasti hangar. Oggi la pittura è là, in quegli ambienti moderni con la loro bella
grandezza. I nostri artisti devono scoprire la poesia delle stazioni come i loro padri
scoprirono quella delle foreste e dei fiumi".
Qui, oltre a riferimenti al Turner, scoperto a Londra, della Pioggia, vapore e velocità, appare anche l'interesse di Monet per soggetti fumosi, nebbiosi, di consistenza
incerta - a dispetto della poderosa struttura metallica della stazione e della minacciosa
solidità delle locomotive - e di difficile resa, come se volesse ribadire che la realtà stes sa è di dubbia interpretazione e non esiste un modello definito per sempre per la sua
decifrazione.
Il metodo di lavoro di Monet, nel riprodurre lo stesso soggetto in diverse ore della giornata, è stato descritto da Maupassant, che lo vide dipingere a Étretat "cinque o
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sei tele raffiguranti lo stesso motivo in diverse ore del giorno e con diversi effetti di
luce. Egli le riprendeva e le riponeva a turno, secondo i mutamenti del cielo. L'artista,
davanti al suo tema, restava in attesa del sole e delle ombre, fissando con poche pennellate il raggio che appariva o la nube che passava [...] Io l'ho visto cogliere così un
barbaglio di luce su una roccia bianca e registrarlo con un fiotto di pennellate gialle
che stranamente rendevano l'effetto improvviso e fuggevole di quel rapido e inafferrabile bagliore. Un'altra volta vide uno scroscio d'acqua sul mare e lo gettò rapidamente sulla tela: ed era proprio la pioggia che riuscì a dipingere".
Monet si trasferisce nel 1878 a Parigi, in rue d'Edimbourg, dove nasce nel marzo
il secondo figlio Michel. Nel giugno, il finanziere Hoschedé dichiara fallimento e la
sua famiglia, composta di 5 figli, insieme con quella di Monet, si trasferisce a Vétheuil
ma Hoschedé lascia l'anno dopo la famiglia per tornare a Parigi.
Il 5 settembre 1879 Camille, a soli 32 anni, muore di cancro: Monet la riprenderà
in un drammatico dipinto, Camille Monet sul letto di morte, ora al museo d'Orsay,
confidando di essersi "trovato al capezzale del letto di una persona che mi era molto
cara e che tale rimarrà sempre. I miei occhi erano rigidamente fissi sulle tragiche tempie e mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del colorito che essa depone sul volto
con sfumature graduali. Toni blu, gialli, grigi, che so. A tal punto ero arrivato. Naturalmente si era fatto strada in me il desiderio di fissare l’immagine di colei che ci ha
lasciati per sempre". (C. Monet).
Nel 1880 manda due tele al Salon - una sola sarà accettata - e questo suo gesto indispone Degas, che lo accusa di sfrenata réclame; Monet risponderà indirettamente
riaffermando di continuare a essere un impressionista ma di vedere solo raramente i
miei confratelli, uomini e donne. La chiesetta è divenuta una scuola banale che apre le
sue porte al primo imbrattatele: sembra che volesse riferirsi a Gauguin. Monet non
partecipò più alle mostre collettive degli altri impressionisti che continueranno a essere organizzate fino al 1886.
Zola arriva a pensare che l'impressionismo sia finito:"la grande disgrazia è che
nessun artista ha realizzato, potentemente e definitivamente, la nuova formula che
tutti loro apportano, sparsa nelle loro opere. La formula vi è divisa all'infinito, ma
nessuna parte, in ciascuno di loro, la si trova applicata da un maestro". Lo scrittore
sembra non comprendere che un autentico impressionista non può evidentemente
avere un maestro pittore da imitare, ma in compenso percepisce che la crisi dell'impressionismo è iniziata.
Nelle sale della rivista La vie moderne, il 7 giugno 1880 Monet espone con successo 18 tele. Dipinge soprattutto sulle coste della Normandia, a Fécamp, Dieppe,
Pourville, Le Havre, Étretat. Il 15 febbraio 1881 offre dei quadri al mercante Paul Durand-Ruel, e si lega commercialmente con lui che paga bene e accetta da Monet qualunque tela.
Proseguendo nel programma che si era dato dipingendo la stazione Saint-Lazare,
Monet progetta una serie di tele con il medesimo soggetto ripreso in diverse stagioni
e in ore diverse del giorno, quasi a voler realizzare quel che lo scrittore Ernest Chesneau, nel suo romanzo La chimera, aveva immaginato nel 1879: "Otterrò la varietà
dalla stagione, dall'ora del giorno, dalla temperatura, dal vento, dalla pioggia, dal cal315
do, dal freddo, dal mattino, dal pomeriggio... tutte queste sfumature dell'anno dovranno precisarsi con un'esattezza così viva, nella luce del quadro, che un qualunque
passante dovrà esclamare ammirato: toh, è mezzogiorno!".
Nel marzo 1883, dopo aver tenuto un'importante mostra, si trasferisce con Alice
e la famiglia a Giverny, in Normandia, affittando un casolare alla confluenza del fiume Epte con la Senna: organizza un giardino e costruisce un hangar per le sue barche
che utilizza per dipingere sull'acqua; in quei giorni, il 30 aprile, muore Manet.
Oltre l'impressionismo
A dicembre va con Renoir per un breve soggiorno a Bordighera; rientrato a Giverny, a gennaio riparte ancora per Bordighera da solo perché, come scrive a DurandRuel, come mi è stato piacevole fare il viaggio da turista con Renoir, così sarebbe per
me imbarazzante farlo in due per lavorare; ho sempre lavorato meglio in solitudine e
secondo le mie sole impressioni; vi si trattiene fino all'aprile del 1884.
È in ammirazione di una natura che gli appare esotica, con la luce del Mar Mediterraneo, con le sue palme e la sua acqua blu; scrive ancora a Durand-Ruel, l'11 mar zo, che forse farò gridare un po' i nemici del blu e del rosa, per via di questo splendore, di questa luce fantastica che mi applico a rendere; e quelli che non hanno visto
questo paese o che l'hanno visto male, grideranno, son sicuro, all'inverosimiglianza,
sebbene io sia molto al di sotto del tono: tutto è colore cangiante e fiammeggiante, è
ammirevole, e ogni giorno la campagna è più bella e io sono incantato del paese.
Esaspera il colore utilizzando toni puri, rende sommarie le forme ma ne mantiene il volume: scrive ad Alice di fare molta fatica perché non riesco ancora a cogliere il
tono del paese; a volte sono spaventato dai colori che devo adoperare, ho paura di essere troppo terribile". In effetti il suo stile è ormai fuori dall'impressionismo e anticipa
i Fauves di venti anni.
Torna a Giverny e a Parigi espone 10 tele nella III Esposizione internazionale organizzata dal mercante d'arte Georges Petit, in modo da sottrarsi alla tutela di Durand-Ruel e farsi conoscere da un più ampio circuito di collezionisti; anche negli anni
successivi parteciperà alle Esposizioni organizzate da Petit. Dalla fine di 1884, Monet
è diventato l'amico del critico di arte e romanziere Octave Mirbeau, che ha contribuito
alla sua riconoscenza pubblica ed alla vendita delle sue opere.
Dal 15 maggio al 15 giugno 1886 si tiene a Parigi, organizzata da Petit, quella che
è stata definita l'ottava e ultima mostra degli impressionisti; in realtà vi partecipano
anche i neoimpressionisti Seurat e Signac, Camille Pissarro, che ora aderisce alle teorie dei pointillistes e Gauguin, che allora si definisce ma non è un impressionista.
Nel maggio 1887 Durand-Ruel - col quale Monet è ora in rapporti freddi - organizza una mostra di impressionisti a New York; l'anno dopo Monet è a Londra; tornato in Francia, gli viene offerta la Legion d'onore che tuttavia rifiuta. Nel giugno 1889
espone nella Galleria di Petit 145 tele in una mostra antologica della sua pittura dal
1864 al 1889; nell'ottobre organizza una sottoscrizione pubblica per acquistare dalla
vedova di Manet l'Olimpia da donare allo Stato.
Inizia a dipingere, dal 1889 al 1891, la serie dei Covoni, scanditi nel mutare delle
stagioni e delle ore; scrive a Gustave Geffroy, nell'ottobre del 1890: "Sgobbo molto, mi
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ostino su una serie di diversi effetti, ma in questo periodo il sole declina così rapidamente che non mi è possibile seguirlo [...] vedo che bisogna lavorare molto per riuscire a rendere quello che cerco: l'istantaneità, soprattutto l'involucro, la stessa luce diffusa ovunque, e più che mai le cose facili, venute di getto, mi disgustano".
Sempre più indifferente al soggetto, Monet non si preoccupa che le forme siano
anche elementari purché gli diano occasione di manifestare il suo interesse per l'irra diazione della luce; non a caso Kandinskij, avendone visto un esemplare a Mosca, ricorderà nel 1913 che, solo abituato alla pittura naturalistica, "per la prima volta mi
trovavo di fronte a un dipinto rappresentante un pagliaio, come diceva il catalogo,
ma che io non riconoscevo come tale. Questa incomprensione mi turbava, m'indispettiva; trovavo che il pittore non aveva il diritto di dipingere in modo così impreciso;
sentivo sordamente che in quell'opera mancava l'oggetto (il soggetto), ma con stupore
e sgomento constatavo che non solo mi sorprendeva ma s'imprimeva indelebilmente
nella mia memoria e si riformava davanti agli occhi nei minimi particolari [...] La pittura mi apparve dotata di una favolosa potenza e inconsciamente l'oggetto trattato
nell'opera perdette, per me, parte della sua importanza come elemento indispensabile".
Esposti presso Durand-Ruel nel maggio 1891, la serie dei suoi Covoni ha successo e le tele vengono anche vendute da Monet direttamente ai collezionisti; la stessa
cosa avverrà per la serie dei suoi Pioppi, che vengono presentati il 29 febbraio 1892
ancora presso la Casa Durand-Ruel.
Ormai ricco, acquista la casa di Giverny e la ristruttura creando il famoso stagno
dove coltiverà le ninfee. Morto nel marzo 1891 Ernest Hoschedé, Monet può sposare
Alice il 16 luglio 1892; inizia a dipingere la serie delle Cattedrali di Rouen. Con la
morte di Caillebotte, il 2 marzo 1894, per testamento la sua collezione di dipinti impressionisti viene donata ai Musei francesi.
Venti delle cinquanta Cattedrali dipinte da Monet a Rouen negli inverni del 1892
e del 1893, e poi completate a Giverny, sono esposte in una mostra nel 1895; il pittore
le riprese dal secondo piano di un negozio situato di fronte alla facciata occidentale,
col consueto metodo di lavorare a ogni tela nel momento del cambiamento della luce
del giorno. L'amico Georges Clemenceau le elogia, scrivendo che Monet "ci ha dato la
sensazione che le tele avrebbero potuto essere cinquanta, cento, mille, tante quante i
minuti della sua vita; Pissarro scrive che "è l'opera di un volitivo, ponderata, che insegue le minime sfumature degli effetti che non vedo realizzati da nessun altro artista";
per Signac sono "pareti meravigliosamente eseguite"; per Proust, guardando per la
prima volte quelle tele nelle quali "si svela la vita di quella cosa fatta dagli uomini, ma
che la natura ha ripreso immergendola in sé [...] voi sentite davanti a questa facciata
un'impressione confusa ma profonda".
Ma non mancano anche le critiche negative: per Lionello Venturi lo studio della
luce nelle serie dei Covoni, come nelle Cattedrali, nelle successive vedute londinesi e
infine nelle Ninfee, "è un programma scientifico, ma la realizzazione pittorica rivela
tendenze sentimentali. L'espressione dell'inesprimibile, del mistero, di sentimenti così
generali che perdono il loro carattere concreto e la loro evidenza artistica, rivela in
Monet quel medesimo gusto donde nacque il simbolismo. Qui Monet appare un vel317
leitario, perché quel che rimane in lui di impressionistico gli impedisce di realizzare
appieno il nuovo ideale.
La cathédrale de Rouen, façade occidentale, 1894, è una delle più chiare della serie. Blanche parla di «dramma atmosferico». Ma l'opinione più diffusa tra i critici è
che le Cattedrali siano il segno più evidente della decadenza creativa di Monet: nelle
«Meules» [Covoni] la natura non ha ottenuto una forma, ma la Cattedrale di Rouen
ha essa stessa una forma che la pittura di Monet cerca di conservare senza riuscirvi".
Dal gennaio all'aprile 1895 è in Norvegia, a Sandviken, dipingendo fiordi e paesaggi invernali; scrive il 26 febbraio a Geffroy: "sono stupito di tutto quel che vedo in
questo meraviglioso paese [...] sono come in un incantesimo, malgrado la perfida alimentazione; e che sangue cattivo mi son fatto per non poter dipingere tutto ciò che
volevo!".
Dal gennaio al marzo 1897 è a Pourville-sur-Mer, dipingendo una serie di marine, mentre a Stoccolma si organizza una mostra di sue opere; nell'estate, alla II Biennale di Venezia vengono esposte venti sue opere. Nel giugno 1898 viene allestita nella
Galleria Petit di Parigi un'esposizione di 61 tele di Monet.
Il 6 febbraio 1899 muore Suzanne Hoschedé, la figliastra che aveva sposato il pittore, allievo di Monet, Théodore Butler; poco dopo, muore Alfred Sisley. In estate,
Monet è a Londra, e vi tornerà ancora per tre anni: dal balcone della sua stanza al Savoy Hotel riprende vedute del panorama londinese e del Tamigi; nell'autunno, a Giverny, si dedica a dipingere le ninfee del suo giardino.
Trentasette tele con vedute del Tamigi sono esposte nella Galleria Durand-Ruel
nel 1904; Monet scrisse di amare la Londra invernale, quando la città diviene una
massa, un tutto unico ed è così semplice. Ma più di ogni altra cosa, di Londra mi piace la nebbia.
Più di tante altre opere, le 41 tele complessive del ciclo testimoniano ancora una
volta l'uscita di Monet dall'impressionismo verso approdi di visionarietà simbolistica:
se il Ponte di Waterloo, del 1902, conservato in una collezione privata, è un grumo di
pennellate nere con uno sfondo inquietante di fabbriche fumose avvolte nella nebbia,
l'analogo tema ripreso nella tela dell'Ermitage di San Pietroburgo è pressoché illeggibile nella rappresentazione di una nebbia assoluta - un manto misterioso - che avvolge tutta la città conferendole, secondo il pittore, una meravigliosa grandiosità. È evidente come, da questo suo programma di resa del mistero e del grandioso, l'impressionismo non abbia nulla a che vedere: così è del Parlamento di Londra, del 1904, al
d'Orsay di Parigi, che scioglie le forme per approdare all'espressione di una deliberata visionarietà.
Dal settembre al novembre 1908 è a Venezia; dice di Palazzo Ducale che l'artista
che concepì questo palazzo fu il primo degli impressionisti. Lo lasciò galleggiare sull'acqua, sorgere dall'acqua e risplendere nell'aria di Venezia come il pittore impressionista lascia risplendere le sue pennellate sulla tela per comunicare la sensazione dell'atmosfera. Quando ho dipinto questo quadro, è l'atmosfera di Venezia che ho voluto
dipingere. Il palazzo che appare nella mia composizione è stato solo un pretesto per
rappresentare l'atmosfera. Tutta Venezia è immersa in quest'atmosfera. Nuota in que318
st'atmosfera. Venezia è l'impressionismo in pietra. Ritorna a Venezia anche l'anno
dopo e continuerà a dipingere a memoria vedute veneziane.
Le Ninfee
Il 19 maggio 1911 muore la moglie Alice; il 1º febbraio 1914 perde anche il figlio
Jean - l'altro figlio, Michel, morirà in un incidente d'auto nel 1966 - e la figliastra Blanche si stabilisce con Monet; nella casa di Giverny dispone un nuovo, più grande stu dio, adatto a contenere i grandi pannelli con la rappresentazione delle ninfee del suo
giardino.
"Lavoro tutto il giorno a queste tele, me le passano una dopo l'altra. Nell'atmosfera riappare un colore che avevo scoperto ieri e abbozzato su una delle tele. Immediatamente il dipinto mi viene dato e cerco il più rapidamente possibile di fissare in
modo definitivo la visione, ma di solito essa scompare rapidamente per lasciare al suo
posto a un altro colore già registrato qualche giorno prima in un altro studio, che mi
viene subito posto innanzi; e si continua così tutto il giorno".
Nel 1920 Monet offre allo Stato francese dodici grandi tele di Ninfee, lunga ciascuna circa quattro metri, che verranno sistemate nel 1927 in due sali ovali dell'Orangerie delle Tuileries; altre tele di analogo soggetto saranno raccolte nel Musée Marmottan. "Non dormo più per colpa loro" - scrive nel 1925 - "di notte sono continuamente ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare. Mi alzo la mattina rotto di
fatica [...] dipingere è così difficile e torturante. L'autunno scorso ho bruciato sei tele
insieme con le foglie morte del giardino. Ce n'è abbastanza per disperarsi. Ma non
vorrei morire prima di aver detto tutto quel che avevo da dire; o almeno aver tentato.
E i miei giorni sono contati".
Condannate come un grave errore artistico dal Venturi, sono esaltate da Cesare
Brandi, che vede in esse "il quadro da mostrare a chi ricerca il soggetto, il messaggio,
la comunicazione: il quadro che fa capire cos'è la pittura o, se non si capisce, la fa
ignorare per sempre [...] si assiste come a una continua partenza, quasi le ninfee salissero vorticosamente al cielo sboccando in pioggia di stelle come i bengala. Ed esse
sono là, nel languore esaltato di quell'acqua torbida e purissima, in cui nascono di
volta in volta i colori più squillanti della tavolozza più ricca che sia mai esistita".
Il ponte giapponese, nelle versioni del 1924 al Musée Marmottan, o La casa dell'artista, dello stesso anno, sono opere ormai astratte, che vengono giustificate non
solo da uno specifico programma artistico ma dalla stessa malattia agli occhi che gli
impediva di riconoscere l'effettiva tonalità dei colori: scriveva lo stesso Monet: "i colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti di luce con
la stessa precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più
profondi [...] Cominciai pian piano a mettermi alla prova con innumerevoli schizzi
che mi portarono alla convinzione che lo studio della luce naturale non mi era più
possibile ma d'altra parte mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colore non rientravano più nelle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza quando si trattava di colori vivaci, isolati all'interno di una massa di tonalità scure".
319
Nel giugno del 1926 gli viene diagnosticato un carcinoma del polmone e il 6 dicembre muore: ai funerali partecipa tutta la popolazione di Giverny.
Quello stesso anno aveva scritto di aver avuto "il solo merito di aver dipinto direttamente di fronte alla natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli
effetti più fuggevoli, e sono desolato di essere stato la causa del nome dato a un gruppo, la maggior parte del quale non aveva nulla di impressionista".
Pierre-Auguste Renoir
Biografia
Nato a Limoges (Alta Vienne), sesto dei sette figli di Léonard e Marguerite Merlet, un sarto e un'operaia tessile, visse dall'età di tre anni a Parigi: nonostante l'interesse per la musica, il padre lo indirizzò alla decorazione della porcellana, campo nel
quale egli diede buona prova delle sue abilità. Il padre, nella speranza che diventasse
un buon artigiano, gli permise di seguire dei corsi serali di disegno.
Grazie all'aiuto del maestro Charles Gleyre, fu ammesso nel 1862 all'Ecole des
Beaux-Artes: qui conobbe Alfred Sisley, Frédéric Bazille e Claude Monet, con i quali
iniziò presto a recarsi a Fontainebleau per dipingere en plein air.
Grazie a Esmeralda che danza, un'opera poi perduta (forse distrutta dall'artista
stesso), nel 1864 fu ammesso al Salon: nonostante le successive commissioni ricevute,
non era però in grado di mantenersi autonomamente.
Nel 1870 partecipò al conflitto franco–prussiano. Nel 1873 insieme ad altri pittori
creò la Società anonima cooperativa di artisti, pittori, scultori, incisori, etc. che nel
1874 organizzò la prima esposizione degli impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar.
Tra il 1874 ed il 1877, pur in difficoltà economiche, si dedicò assiduamente alla
pittura: risalgono a questi anni alcuni tra i suoi capolavori, come Bal au moulin de la
Galette e Nudo al sole.
Risollevate le sue finanze, grazie alla vendita delle sue opere, nel 1881 viaggiò in
Algeria e in Italia: qui rimase colpito dai dipinti di Raffaello e dagli affreschi di Pompei.
Nel 1890 si sposò con Aline Charigot, dalla quale ebbe 3 figli: Pierre (1885), Jean
(1894) e Claude (1901). Nel 1900 venne insignito del titolo di Cavaliere della Legion
d'Onore.
A causa dei frequenti attacchi di reumatismi, si trasferì nel sud della Francia, per
trovare un clima più mite: la sua ultima residenza, a Cagnes-sur-Mer, è ora un museo.
Per l'aggravarsi delle sue condizioni (era stato colpito da artrite reumatoide alle mani
e ai piedi), fu costretto alla sedia a rotelle: continuò tuttavia a dipingere, facendosi legare un pennello alla mano più ferma.
320
Morì il 3 dicembre 1919, a 78 anni, in seguito a una polmonite: aveva appena terminato Le bagnanti.
Attività artistica
I dipinti di Renoir sono notevoli per la loro luce vibrante e il colore saturo, che
spesso mettono a fuoco persone riprese in situazioni intimistiche. Il nudo femminile è
uno dei soggetti primari.
Nel caratteristico stile impressionista, Renoir ha suggerito i particolari di una
scena con liberi e veloci tocchi di colore, di modo che le sue figure si fondono morbidamente tra di loro e con lo sfondo.
I suoi lavori giovanili mostrano l'influenza del colorismo di Eugène Delacroix e
la luminosità di Camille Corot. Renoir ammirava anche il realismo di Gustave Courbet e di Édouard Manet: il suo lavoro infatti riprende da loro l'uso del nero come colore. Un altro pittore notevolmente stimato da Renoir era François Boucher.
Un bell'esempio delle prime opere di Renoir, nonché prova dell'influenza esercitata del realismo di Courbet, è Diana, del 1867. Il soggetto è chiaramente mitologico; il
lavoro è eseguito in studio, la figura attentamente osservata, modellata solidamente e
posta artificiosamente in un paesaggio inventato. Nonostante l'opera sia un lavoro
"studentesco", si può già notare l'intensa risposta personale dell'artista alla sensualità
femminile. La modella era Lise Tréhot, allora compagna dell'artista e ispiratrice di un
certo numero di sue opere.
Verso la fine del 1860, tramite la pratica dell'en plein air (all'aria aperta), assieme
al suo amico Claude Monet, Renoir scoprì che il colore delle ombre non è marrone o
nero, bensì corrisponde al colore riflesso dagli oggetti che le circondano. Avendo lavorato insieme, parecchie opere dei due artisti si possono analizzare in parallelo
come, per esempio, La Grenouillère (1869).
Uno dei più noti dipinti impressionisti di Renoir è il Ballo al Moulin de la Galette, (Le Bal au Moulin de la Galette), del 1876. Viene rappresentata una scena all'aperto, affollata di gente in un ballo popolare nel giardino di Butte Montmartre, vicino all'abitazione dell'artista.
Le opere della sua prima maturità sono come istantanee di vita reale di genere
impressionista, piene di colore e scintillanti di luce.
Dalla metà del 1880, tuttavia, Renoir ruppe con il movimento, per applicare ai ritratti e alle figure una tecnica più disciplinata e più convenzionale, specialmente per
quanto riguardava le donne, ad esempio nelle Bagnanti, dipinte tra il 1884 e il 1887.
Durante il viaggio in Italia del 1881, la visione dei dipinti di Raffaello e degli altri
maestri del Rinascimento, lo convinse che era sulla strada sbagliata e per diversi anni,
in seguito, dipinse in uno stile più severo, nel tentativo di ritornare al classicismo.
Questo a volte viene denominato il suo "periodo di Ingres", per il modo in cui si è
concentrato sulla linea e ha dato risalto ai contorni delle figure.
Dopo il 1890, tuttavia, Renoir cambiò nuovamente direzione, rinviando all'uso di
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un colore sottilmente tratteggiato che dissolveva i profili, come nei suoi lavori giovanili. Da questo periodo in avanti si concentrò particolarmente sui nudi monumentali
e, influenzato dalle opere di Alfred Dehodencq, sulle scene domestiche, di cui esempi
sono Ragazze al piano (1892) e Grandes Baigneuses (1918-1919).
Gli ultimi nudi dipinti sono i più tipici e riusciti del Renoir maturo, noto per la
sua preferenza di corpi femminili ben in carne.
Artista prolifico, Renoir ha eseguito in tutto oltre mille dipinti. Il suo stile, caldo
e sensuale, ha permesso alle sue opere di essere tra quelle più note e frequentemente
riprodotte nella storia dell'arte. Era nota la sua avversione per Van Gogh e per Gauguin, mentre è noto che, negli ultimi anni, si fosse affezionato particolarmente a Mo digliani, che riceveva spesso in visita nel suo studio e che lo seguì nella tomba dopo
neanche due mesi. Renoir morì il 3 dicembre del 1919, ucciso da un'infezione polmonare. Aveva lavorato fino all'ultimo alle sue Bagnanti, con i pennelli legati alle dita ormai rattrappite. Venne sepolto a Essoyes, paese natale dell'adorata moglie Aline, morta qualche anno prima.
L'uomo
A Jean, il secondogenito di Renoir divenuto uno dei maestri della cinematografia
mondiale (Nanà, La grande illusione, Il fiume, ecc.) si devono non solo i ricordi "gastronomici" della madre Aline, ma molti aneddoti raccontatigli dal padre in persona
che hanno contribuito ad aumentare la fama del pittore (raccontati nel libro Renoir,
mio padre).
A partire dagli anni di studio all'atelier di Gleyre (a quest'ultimo che, con accento
tedesco da operetta, gli rimproverò di dipingere per divertimento, Renoir avrebbe risposto: "Per forza! Se non mi divertissi, non dipingerei!"), per poi proseguire all'incontro con Aline e alle sedute di posa con lei, quando Renoir gettava il pennello e rimaneva a guardarla esclamando: "Perché stancarsi, quando ciò che vorrei realizzare esiste già?", per poi passare a frasi che parafrasavano il suo modo di dipingere ("La vita
è un mazzo di fiori rossi") o a "frecciate" contro pittori che non stimava (a proposito
della partenza dell'odiato Gauguin per i tropici, avrebbe esclamato, scuotendo il capo:
"Si può dipingere anche a Batignolles"). Infine, non mancano frasi sull'educazione
sentimentale ("Le sciocchezze si fanno solo da giovani"), al giovane Modigliani a proposito di un nudo dipinto ("Le vedi quelle natiche? Le ho toccate ed accarezzate per
giorni..."), o le "ultime parole famose" pronunciate la sera prima di morire: "Forse
adesso incomincio a capire qualcosa".
Édouard Manet
Édouard Manet (Parigi, 23 gennaio 1832 – Parigi, 30 aprile 1883) è stato un pittore francese.
Egli stesso non ha mai voluto essere identificato col gruppo degli impressionisti,
né partecipò mai alle loro esposizioni. Questo perché, per tutta la vita, preferì avere
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un riconoscimento ufficiale davanti allo Stato mediante l'ammissione al Salon, e non
attraverso sotterfugi, come lui stesso affermò. Egli infatti manifestò una decisa posizione in difesa del principio della libertà espressiva dell'artista, con opere che suscitarono scandalo presso i suoi contemporanei, come Colazione sull'erba e Olympia. A
partire dal 1869 si dedicò alla pittura en plein air ("all'aperto") e le sue uscite ai giardi ni delle Tuileries, sul retro del Louvre, divennero quasi degli appuntamenti mondani.
La sua attività di pittura continuò fino al 1883, l'anno della sua morte. Il pittore ottenne una grandissima fama e tutt'oggi rimane il più grande interprete della pittura pre-impressionista.
Biografia
Édouard Manet nacque a Parigi nel 1832 in una famiglia ricca e influente. Il padre, Auguste Manet, era un giudice che avrebbe voluto che Édouard intraprendesse
la sua stessa carriera. Il giovane presto espresse il desiderio di entrare alla prestigiosa
École des Beaux-Arts, ma come risposta, il genitore lo fece imbarcare su una nave. Il
viaggio, che durò più di un anno, fortificò ancor di più le aspirazioni di Manet, che al
ritorno ottenne finalmente il permesso di studiare arte presso il celebre pittore Thomas Couture. Lo stile accademico e banalissimo di Couture, però, mal si sarebbe adattato all'indole del giovane Manet, che lasciò il suo maestro polemicamente, dopo sei
anni. Passato all'Accademie, ebbe modo di seguire le lezioni del celebre Léon Bonnat,
e di lì a poco conobbe i suoi futuri compagni impressionisti (Monet, Sisley, Cézanne,
Pissarro) e dei letterati.
Viaggiò in Germania, Italia, Spagna e Olanda dove conobbe le opere di Frans
Hals, Diego Velázquez e Francisco Goya.
Divenne amico degli impressionisti Edgar Degas, Claude Monet, Pierre-Auguste
Renoir, Alfred Sisley, Paul Cézanne e Camille Pissarro, attraverso la pittrice Berthe
Morisot, che introdusse l'artista nel gruppo. La Morisot convinse Manet a dedicarsi
alla pittura en-plein-air, conosciuta grazie a Jean-Baptiste Camille Corot: fu anche
fonte di ispirazione per alcuni spunti tecnici che l'artista introdusse nelle proprie opere. Nel 1863 Édouard sposò Suzanne Leenhoff. Nel 1881, su suggerimento di Antonin
Proust, amico dell'artista, il governo francese insignì Manet della Legion d'onore.
Manet morì per sifilide e reumatismi non curati, contratti a quarant'anni (o, secondo alcuni, addirittura in gioventù, quando era imbarcato sulla nave). La malattia
gli causò forti dolori e una parziale paralisi negli ultimi anni di vita. Il 6 aprile 1883,
dopo un estenuante tira-e-molla, gli venne amputato il piede sinistro, ma l'operazione
non servì a risparmiarlo dalla morte, che sopraggiunse quasi un mese dopo, il 30 aprile 1883, dopo un'interminabile agonia sfociata nel coma.
Le sue ultime parole prima di perdere conoscenza e sprofondare nel coma, furono di rimpianto per l'ostilità del suo avversario Alexandre Cabanel: "Sta bene,
quello!". Venne sepolto nel Cimitero di Passy, ed accanto a lui, anni dopo, saranno se polti sia il fratello Eugène che Berthe Morisot.
323
Attività artistica
Nel 1856 aprì il suo studio: in questo periodo, il suo stile era caratterizzato da
pennellate libere, dettagli stilizzati e assenza di sfumature. Adottò lo stile realista di
Gustave Courbet, in particolare nel dipinto Il bevitore di assenzio (1858-1859) e in altri soggetti come accattoni, cantanti, zingari, persone nei caffè, e combattimenti di
tori. Raramente dipinse scene religiose o mitologiche o storiche: un raro esempio è il
Cristo morto con gli angeli (1864), conservato al Metropolitan Museum of Art di New
York.
Le déjeuner sur l'herbe
L'opera, realizzata nel 1863, venne presentata al Salon di Parigi, da cui venne respinta: entro lo stesso anno, il dipinto venne esposto al Salon des Refusés, voluto dall'imperatore Napoleone III dopo che il Salon ufficiale rifiutò oltre quattromila opere
solo nel 1863.
La giustapposizione di due uomini ben vestiti e due donne quasi nude fu contestata, non tanto perché conferisce un senso di erotismo ma piuttosto perché rappresentano persone di quell'epoca: le donne rappresentate sono due modelle e i due uomini sono giovani studenti (lo si può notare dal modo di vestire). L'opera venne contrastata anche per la mancanza di prospettiva (il senso di profondità è dato soltanto
dalla presenza degli alberi) e dal fatto che non si distinguono bene le varie parti del
quadro (non si capisce dove finisca l'erba e dove inizi l'acqua); ciò fa sì che i personaggi sembrino sollevati da terra. Il dipinto si distingue anche per il trattamento rapido,
quasi da abbozzo, che lo distingueva dai lavori del maestro Gustave Courbet. Allo
stesso tempo, la composizione rivela gli studi dai grandi maestri, come la disposizione delle figure che riprende le incisioni di Marcantonio Raimondi, ispirate da Raffaello Sanzio, o La tempesta di Giorgione, che raffigura un uomo in uniforme e una donna nuda che allatta un bambino.
Diversamente dal gruppo Impressionista, Manet riteneva che gli artisti moderni
dovessero esporre al Salon, piuttosto che abbandonarlo per le mostre indipendenti.
Tuttavia, quando Manet venne escluso dall'esposizione internazionale del 1867, organizzò una propria mostra personale.
Sebbene i suoi lavori influenzarono e anticiparono lo stile impressionista, non
volle essere coinvolto nelle mostre del gruppo, da una parte perché non voleva essere
considerato come rappresentante del gruppo, dall'altra perché avrebbe preferito
esporre al Salon.
Manet realizzò diversi dipinti raffiguranti scene di bar, fresche osservazioni della
vita sociale del XIX secolo a Parigi: persone che bevono, ascoltano musica, si corteggiano, leggono, aspettano. Molti di questi dipinti sono basati su rapidi studi dal vivo:
spesso l'artista si recava alla Brasserie Reichshoffen, sul boulevard de Rochechouart,
oppure al ristorante lungo la Avenue de Clichy, Pere Lathuille, dove si poteva pranzare all'aperto.
Un altro soggetto trattato erano le attività della borghesia, come i balli in maschera o le corse campestri, oppure le strade o le stazioni di Parigi.
Nel 1882, Manet realizzò Il bar delle Folies-Bergère e lo espose al Salon dello
324
stesso anno.
Curiosità
Nonostante l'amico dottor Gachet gli avesse sconsigliato di farlo, Manet si fece
amputare la gamba in casa, sul grande tavolo del salotto, dopo esser stato cloroformizzato. I medici, andandosene, lasciarono l'arto amputato dietro il paravento del caminetto, Leon Koella, volendo accendere il fuoco, lo trovò.
Nonostante la reciproca complicità, era celebre l'antipatia personale che Manet
provava per Cézanne, il quale, a sua volta, lo ricambiava con altrettanta scortesia. È
divenuta celebre la frase con cui quest'ultimo una volta lo salutò: "Non le stringo la
mano, monsieur Manet, perché è una settimana che non la lavo".
Manet ebbe fama di donnaiolo, e tra le sue conquiste va annoverata Marie-Pauline Laurent (che fu poi musa di Stéphane Mallarmé). La stessa Berthe Morisot si era
invano innamorata di lui, al punto tale di sposarne il fratello Eugéne pur di stargli vicino, e dando luogo a furibonde scene di gelosia, in particolar modo quando Manet
prese come allieva l'avvenente Eva Gonzalez.
Arrivò addirittura al punto, nel 1877, di sedurre la giovane moglie di un suo allievo e carissimo amico, Jules Armand Hanriot che, per il dolore, sparì dalla scena artistica e da Parigi. Molte biografie riportano la sua morte nella stessa data, a 24 anni,
anche se Henriot sarebbe morto solo nel 1921. Altri sostengono che sia stato Hanriot a
sedurre madame Manet, e la furia di Edouard lo avrebbe costretto alla "fuga".
Pur se legato a Monet da reciproca amicizia, provava inizialmente molto disturbo per la sua quasi omonimia che fu motivo di equivoci per il pubblico.
325
Lezione XVI
L'ARTE AMERICANA
Stile coloniale
Il termine generico stile coloniale sta ad indicare gli stili adottati dai popoli europei che avevano colonizzato terre straniere, in genere situate in altri continenti; trova
la sua essenziale espressione nell'architettura.
Origine
A partire dal Seicento, il fenomeno riguarda i fenomeni storici del colonialimo e
dell'imperialismo. Per citare solo alcuni degli esempi più diffusi, si ricordano la dominazione inglese e francese nel continente nordamericano e in Africa, quella olandese
in Indonesia e Africa del Sud, la colonizzazione portoghese in Brasile e quella spagnola nel resto del Sudamerica.
A volte i popoli colonizzatori hanno conservato inalterati, emigrando, gli stili
della madrepatria; più spesso, però, essi hanno assimilato degli elementi tipici della
nuova terra o addirittura di terzi paesi (è questo il caso, per esempio, dello stile sudafricano detto Cape Dutch). Quindi, le costruzioni coloniali hanno frequentemente introdotto degli elementi autonomi, ideando soluzioni originali e strettamente legate
alla speciale situazione sociale e geografica del posto. Forme e materiali possono variare, rispetto al paese di origine dei coloni, a causa della reperibilità di materie prime
e del clima.
Alcuni esempi
Il continente americano è famoso per i suoi numerosi esempi di architettura coloniale. Per quanto riguarda la colonizzazione degli Stati Uniti, l'edilizia di questo tipo
ebbe la maggiore espansione tra il diciassettesimo ed il diciannovesimo secolo, ricorrendo ad esempio agli schemi dell'architettura rurale delle Isole Britanniche (esempio:
Corvin House, vedi immagine) oppure a quelli del neoclassicismo, fermo restando
che anche altri popoli emigrati come gli olandesi e i francesi svilupparono dei propri
stili nel territorio nordamericano; in America Latina, il colonialismo degli spagnoli e
dei portoghesi esportò dall'Europa lo stile barocco, il quale avrebbe lasciato tracce
nell'architettura locale fino all'Ottocento (esempio: Cattedrale di Città del Messico).
Per quanto riguarda l'epoca storica dell'imperialismo ottocentesco, si ricorda per
esempio che l'architettura britannica in India risente di forti influenze della madrepatria; ne è un noto esempio la stazione ferroviaria Chhatrapati Shivaji di Bombay, ricca
di elementi inglesi di fattura prevalentemente neogotica.
Tramonto degli stili coloniali
Al più tardi nel ventesimo secolo, finita l'epoca dell'imperialismo, tramonta l'e326
poca degli stili coloniali, sia per gli sviluppi politici delle ex-colonie, che seguono percorsi autonomi, sia per ragioni artistiche: con il declino dei tradizionali neostili (in genere fondamentali per l'architettura coloniale) e con i nuovi impulsi di standardizzazione internazionale introdotti dal movimento moderno, le architetture dei vari continenti iniziano infatti a somigliarsi: in questo modo, le varie particolarità etniche, storiche e geografiche che avevano influenzato i diversi stili coloniali perdono in fretta
gran parte della loro importanza.
L`arte americana prima dell`Avanguardia (1930-1950)
Il mito dell’America degli anni Venti, in cui al sogno americano è sottesa l’ambizione di esportare in tutto il mondo il proprio stile di vita, incarnando un modello di
libertà, emancipazione e benessere, dopo il crollo di Wall Street nel 1929, diventa solo
un ricordo. Gli anni trenta sono il momento delle contraddizioni e dei pentimenti, dei
dibattiti, del conflitto nell’arte e nella vita, tra tradizione e modernità. L’esodo degli
artisti dal vecchio continente aveva creato i presupposti per la nascita dell’avanguardia. Ma la grande depressione e la successiva ricostruzione dell’economia americana,
ottennero l’effetto contrario: un ripiegamento dell’arte su temi e stili regionali, un ri torno, insomma, alle radici intimiste dell’arte americana. Ci si sofferma sulle esigenze
della popolazione, sui modi e gli scenari della vita americana. Si raccontano la povertà, la crisi economica, le difficoltà, la città come un luogo da incubo. Le opere dei re gionalisti, dei precisionisti, della Scuola di New York riflettono una dialettica articolata e complessa tra tradizione e avanguardia, tra realismo ed espressionismo astratto.
Emerge Georgia O’Keeffe , con le sue forme voluttuose. Hopper, considerato il massimo interprete del mondo americano, sostiene un’arte fortemente radicata nella realtà
locale, nei temi e nello stile. I temi pessimistici, le figure sopraffatte dalla società moderna, bloccate in uno spazio silenzioso, la solitudine, sono il ritratto sconfortante e
malinconico dell’America che stenta a uscire dalla Grande depressione. Al clima pessimista e sconfortato della pittura realista, fa da contraltare quel felice connubio tra
arte americana e avanguardia europea che prende corpo nelle opere di Gorky e Pollock. L’esplosione delle avanguardie è prossima a venire.
Il Movimento Moderno in America
Negli Stati Uniti d'America il Movimento Moderno nasce con la Scuola di Chicago dove si formano per la ricostruzione della città distrutta dall'incendio del 1871 due
generazioni d'ingegneri e tecnici, che realizzano per primi un nuovo tipo di costruzione il "grattacielo" (nel 1885), la cui espressione più significativa l'abbiamo nella "Reliance Building" (Burnaham & root, 1890-1895). Alla scuola appartiene Louis Sullivan
(1856-1924), che è la figura più rappresentativa e che manifesta le sue teorie progettuali con scritti e non solo con le opere, (tra le maggiori è L'Auditorium di Chicago,
1887). Nel suo studio si forma Frank Lloyd Wright, che sarà l'architetto più significativo del Movimento Moderno in America. Questi rappresenterà l'avanguardia e supe327
rerà l'architettura dei suoi contemporanei guardando all'Europa anche se con la volontà sempre di distinguersi e creare uno stile "americano". La carriera di Wright sarà
lunghissima, costruirà più di trecento edifici e la sua architettura organica influenzerà
tre generazioni di architetti al di là ed al di qua dell'Oceano. Di questi influssi americani sull'Europa ne avremo un primo esempio al concorso del 1922 del "Chicago Tribune", dove l'architetto finlandese Eliel Saarinen vincerà il secondo premio con una
torre a gradoni, che ricorda in qualche modo la Scuola di Chicago.
L'international Style
Nel 1932 viene organizzata da Philip Johnson al Museum of Modern Art di New
York un'esposizione di una certa produzione architettonica negli USA. Il catalogo della mostra, il cui titolo è International Style, è scritto dallo stesso organizzatore assieme
ad Henry Russell Hitchcock e raccoglie edifici realizzati in USA dal 1922 al 1932.
Johnson nomina, codifica, promuove, sottotitola e ridefinisce l'intero movimento e gli
architetti che ne fanno parte, definendone i motivi ed i valori. Da questo lavoro nasce
uno Style che trascende le identità regionali, nazionali, continentali e che diviene appunto internazionale. Attualmente con questo termine si definisce l'intero movimento
moderno e spesso sono ricompresi anche edifici realizzati nei decenni successivi agli
anni '30.
Rapporti con l'Europa
Un altro architetto europeo che arriva negli Stati Uniti nel 1923 è Richard Neutra.
Questi riuscirà ad inserirsi nella realtà americana con grande successo proponendo i
canoni del Movimento Moderno. Neutra è nato a Vienna, allievo di Adolf Loos, ed ha
lavorato nello studio di Erich Mendelson. La sua produzione è varia e combina un
semplice rigore tecnico di chiare strutture di metallo e di fine intonaco a effetti di luce
estendendo nelle sue case lo spazio architettonico dentro il paesaggio. L'ambiente costruito di Neutra si inserisce drammaticamente in mezzo a sensazionali ambienti naturali con il chiaro intento di accostare e paragonare l'opera dell'uomo senza alterazioni alla natura.
Con l'avvento in Germania del Nazionalsocialismo negli anni trenta, avviene un
rigetto da parte del governo tedesco dell'architettura moderna che si pensa sia degenerata e bolscevica. Questo significa che intere generazioni di architetti sono forzate a
lasciare l'Europa. Accanto ai più famosi Walter Gropius e Marcel Breuer, che si stabiliscono alla Harvard Graduate School of Design e Ludwig Mies van der Rohe che va a
Chicago, arrivano negli Stati Uniti anche altri insegnanti del Bauhaus ed altri architetti Europei. Così l'influenza della scuola tedesca si estende negli Stati Uniti e Gropius
tenta di adattarla ed integrarla alle caratteristiche del mondo nuovo, come negli studi
assieme a Konrad Wachsman sulla prefabbricazione delle case unifamiliari.
Ludwig Mies van der Rohe è chiamato nel 1938 a dirigere la sezione di architettura dell'Illinois Istitute of Technology e nel suo programma di insegnamento si rileva
immediatamente quella che sarà la filosofia della sua attività americana. Mies è alla ricerca di un rigore architettonico che il repertorio moderno sembra avere perduto in
alcune delle sue superficiali realizzazioni. Da un lato ricerca nella osservazione ed applicazione dei materiali da costruzione elementari valori, dall'altro è alla ricerca simbolicamente della sezione aurea tra gli elementi e le strutture nei suoi edifici. Così pri328
ma del Campus dell'università Chicago del 1939, e poi nei grattacieli di cui il Seagram
Building a New York del 1956 ne è l'apoteosi, usa l'acciaio e il vetro e studia l'unicità
di espressione tra particolare costruttivo e particolare architettonico, tra ritmo e proporzione, texture e giunto degli elementi; il tutto teso alla ricerca di un'armonia come
in un antico tempio greco.
Jackson Pollock
Paul Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 – Long Island, 11 agosto 1956) è stato un pittore statunitense, considerato uno dei maggiori rappresentanti dell'Espressionismo astratto o Action painting.
Infanzia e giovinezza
Pollock nacque nel 1912 a Cody, Wyoming, ed era il più giovane di cinque fratelli. Suo padre faceva l'agricoltore ed in seguito diventò un agrimensore alle dipendenze dello stato. Jackson trascorse la sua gioventù tra l'Arizona e la California e studiò
alla High School di Reverside e poi alla Manual Arts High School di Los Angeles, dal le quali venne espulso per indisciplina.
Ebbe modo di entrare in contatto con la cultura dei nativi americani mentre accompagnava il padre ad effettuare i rilevamenti. Nel 1929, raggiungendo il fratello
Charles, si trasferì a New York, dove entrambi diventarono allievi del pittore Thomas
Hart Benton alla Art Students League. La predilezione di Benton per i soggetti ispirati
alla campagna americana non fece una grande presa su Pollock, ma il suo ritmico uso
del colore e il suo fiero senso di indipendenza ebbero invece su di lui un'influenza
duratura.
Il periodo trascorso a Springs e la sua singolare tecnica di pittura
Nell'ottobre del 1945 Pollock sposò una nota pittrice statunitense, Lee Krasner, e
il mese successivo si trasferirono in quello che è ora conosciuto come il Pollock-Krasner House di Springs, Long Island. Peggy Guggenheim prestò loro la somma necessaria per pagare l'anticipo di una casa in legno con annesso un fienile, che Pollock trasformò in un laboratorio. Fu lì che perfezionò la sua celebre tecnica di pittura spontanea con cui faceva colare il colore direttamente sulla tela.
Pollock era stato introdotto all'uso del colore puro nel 1936, durante un seminario sperimentale tenuto a New York dall'artista messicano specializzato in murales
David Alfaro Siqueiros. Aveva quindi usato la tecnica di versare il colore sulla tela,
una tra le diverse tecniche impiegate in quel periodo, per realizzare all'inizio degli
anni quaranta quadri come Male and Female e Composition with Pouring I. Dopo essersi trasferito a Springs iniziò a dipingere stendendo le tele sul pavimento del suo
studio e sviluppando quella che venne in seguito definita la tecnica del dripping (in
italiano sgocciolatura). Per applicare il colore si serviva di pennelli induriti, bastoncini
329
o anche siringhe da cucina. La tecnica inventata da Pollock di versare e far colare il
colore è considerata come una delle basi del movimento dell'action painting.
Operando in questo modo si distaccò completamente dall'arte figurativa ed andò
contro la tradizione di usare pennello e cavalletto, decidendo inoltre di non servirsi
per il gesto artistico della sola mano; per dipingere usava tutto il suo corpo. Nel 1956
la rivista Time soprannominò Pollock "Jack the Dripper" per il suo singolare stile di
pittura.
Negli anni quaranta Pollock aveva assistito a delle dimostrazioni di sand painting ("pittura con la sabbia") da parte di nativi americani. Anche i muralisti messicani
e la pittura automatica dei surrealisti ebbero una certa influenza sulla sua arte. Pollock negava l'esistenza del "caso"; generalmente aveva un'idea precisa dell'aspetto che
una particolare opera avrebbe dovuto avere e per ottenerlo si serviva del suo corpo,
su cui aveva il controllo, unito al viscoso scorrere del colore, alla forza di gravità e al
modo in cui la tela assorbiva il colore. Si trattava dell'unione del controllabile e dell'incontrollabile. Si muoveva energicamente attorno alle tele spruzzando, spatolando,
facendo colare e sgocciolare quasi in una danza e non si fermava finché non vedeva
ciò che voleva in origine vedere.
Gli studi di Taylor, Micolich e Jonas hanno analizzato la natura della tecnica di
Pollock, scoprendo che alcune opere presentano le stesse caratteristiche dei frattali e
che assomigliano sempre più a frattali con il passare del tempo e con il progredire
della sua carriera. Si spingono ad ipotizzare che in qualche modo Pollock potesse essere consapevole delle caratteristiche del moto caotico e stesse tentando di ricreare
quanto percepiva come una perfetta rappresentazione del caos matematico più di dieci anni prima che la stessa Teoria del caos fosse formulata.
Nel 1950 Hans Namuth, un giovane fotografo, si propose di realizzare un servizio che ritraeva Pollock mentre era all'opera. Il pittore gli promise che avrebbe iniziato un nuovo dipinto appositamente per il servizio, ma quando Namuth arrivò al laboratorio Pollock gli andò incontro scusandosi e dicendogli che il quadro era già finito.
Questa la descrizione di Namuth del momento in cui entrò nel laboratorio:
« Una tela coperta di colore ancora fresco occupava tutto il pavimento... Il silen zio era assoluto... Pollock guardò il quadro, quindi, all'improvviso, prese un barattolo
di colore e un pennello e iniziò a muoversi attorno al quadro stesso. Fu come se avesse capito di colpo che il lavoro non era ancora finito. I suoi movimenti, lenti all'inizio,
diventarono via via più veloci e sempre più simili ad una danza mentre gettava sulla
tela i colori. Si dimenticò completamente che Lee ed io eravamo lì; sembrava non sentire minimamente gli scatti della macchina fotografica... Il mio servizio fotografico
continuò per tutto il tempo in cui lui dipinse, forse una mezz'ora. In tutto quel tempo
Pollock non si fermò mai. Come può una persona mantenere un ritmo così frenetico?
Alla fine disse semplicemente: «E' finito». »
(Hans Namuth)
Gli anni cinquanta ed il periodo successivo
I quadri più famosi di Pollock sono quelli realizzati nel periodo del "dripping"
330
tra il 1947 e il 1950. Diventò molto noto in seguito alla pubblicazione di un servizio di
quattro pagine della rivista Life dell'8 agosto 1949 che si chiedeva: «È il più grande
pittore vivente degli Stati Uniti?». Giunto al vertice della fama Pollock decise improvvisamente di abbandonare lo stile che l'aveva reso famoso.
I suoi lavori successivi al 1951 si presentano con un colore più scuro, spesso usa
soltanto il nero, ed iniziano a reintrodurre elementi di tipo figurativo. Pollock diventò
molto apprezzato sul mercato dell'arte e i collezionisti chiedevano con insistenza delle nuove opere.
La morte
All'età di 44 anni, dopo aver lottato con l'alcool per tutta la vita, la carriera di
Pollock fu improvvisamente e tragicamente interrotta l'11 agosto 1956, quando perse
la vita in un incidente stradale, causato dal suo stato di ebbrezza, avvenuto a meno di
un miglio di distanza dalla sua casa di Springs. Con lui viaggiavano due donne: la
sua amante Ruth Kligman, sopravvissuta, e la di lei amica Edith Metzger, deceduta. Il
riconoscimento della salma di Pollock venne effettuato, su incarico della Polizia, dall'amico artista Conrad Marca-Relli, suo vicino di casa a East Hampton.
Dopo la sua morte, la moglie Lee Krasner amministrò il suo lascito artistico, facendo in modo che la sua fama e la sua reputazione rimanessero intatte, a dispetto del
rapido succedersi delle mode e dei movimenti nel mondo dell'arte contemporanea.
Sono entrambi sepolti al Green River Cemetery di Springs.
L'eredità
Attualmente la Pollock-Krasner House è di proprietà della Stony Brook Foundation, una filiale no-profit della Stony Brook University. Da maggio ad ottobre la casa e
lo studio sono aperti alle visite del pubblico.
Nel 2000 è stato girato un film biografico sulla vita dell'artista intitolato Pollock.
La realizzazione del film è stata ideata da Ed Harris, che ha interpretato il ruolo di
Pollock ed ha diretto la pellicola. Grazie alla sua interpretazione di Lee Krasner, Marcia Gay Harden ha vinto il Premio Oscar alla miglior attrice non protagonista. Anche
Ed Harris ha ricevuto nell'occasione una nomination all'Oscar al miglior attore. Nella
pellicola è anche presente l'attrice, premio Oscar, Jennifer Connelly, nel ruolo dell'amante di Pollock, Ruth Kligman.
Nel novembre 2006, l'opera di Pollock No. 5, 1948 è divenuto il quadro più costoso della storia quando è stato venduto all'asta ad un compratore anonimo per centoquaranta milioni di dollari. Il precedente proprietario era il produttore cinematografico e musicale David Geffen. Voci non confermate dicono che l'attuale proprietario sia
un uomo d'affari e collezionista d'arte tedesco. Tale primato è stato comunque superato nel 2012 dalla vendita del quadro "I giocatori di carte" di Paul Cézanne per 250
milioni di dollari alla famiglia reale Al Thani del Qatar.
È in corso un dibattito per stabilire se ventiquattro tra dipinti e disegni ritrovati
nel 2003 in un armadio a Wainscott, New York, siano effettivamente opera di Pollock.
331
Alcuni fisici si sono chiesti se l'analisi dei frattali sia utilizzabile per autenticare le
opere. L'analisi dei colori usati evidenzia che alcuni di essi non erano ancora stati brevettati all'epoca della morte di Pollock, anche se potrebbe esserseli procurati ugualmente da qualche commerciante. La discussione non ha ancora prodotto risultati.
Nel 2006, è stato realizzato un documentario intitolato Who the Fuck Is Jackson
Pollock? in cui si parla del caso di una camionista, di nome Teri Horton, che ha acquistato per cinque dollari, ad un mercatino delle pulci, quello che potrebbe essere in
realtà un dipinto di Pollock del valore di svariati milioni.
Tecniche
Il modo di dipingere di Pollock è il Drip painting, uno stile che si diffuse tra gli
anni ’40 e ’60 del Novecento, letteralmente significa pittura d'azione e a volte chiamata anche espressionismo astratto. E’ un modo di dipingere in cui il colore viene fatto
sgocciolare spontaneamente, lanciato o macchiato sulle tele. L'opera che ne risulta enfatizza l'atto fisico della pittura stessa Pollock compie l’opera con procedimenti automatici, gesti incondizionati e spontanei, come i surrealisti. I suoi lavori non nascono
come “arte studiata” ma si affidano in parte anche a il caso, dipinge in modo impulsivo e istintivo. Utilizzava degli smalti industriali molto economici la cui marca “Duco”
divenne poi anche famosa ed usatissima.
Il rapporto con l'arte dei Nativi Americani
Nell'opera di Jackson Pollock è molto evidente l'influenza dell'arte dei Nativi
americani. Pollock e gli artisti nativi operano con modalità molto simili; Pollock trae
le proprie immagini direttamente dall'inconscio, così come i nativi le traggono dal
"mondo degli spiriti"; si serve di un'estetica primitivista, diventa "parte" del dipinto,
similmente ai pittori con la sabbia nativi e mostra di tendere verso temi pittorici universali. Essenzialmente, paragonare l'arte di Pollock con quella dei nativi significa
esplorare lo stesso modello di linguaggio visuale e senza tempo.
Pollock iniziò ad essere influenzato dalla cultura nativa sin dalla giovinezza trascorsa in Arizona, dove entrò in contatto con la loro tradizione culturale orale, le loro
cerimonie e i loro miti. Tutto questo lo spinse, nel 1941, a visitare la mostra Indian Art
and the United States al Museo di Arte moderna. Qui vide la loro tecnica della "pittura con la sabbia" e tornò varie volte per assistere alle dimostrazioni pratiche che lì si
tenevano. Questa forma d'arte, praticata da stregoni in uno stato di estrema concentrazione o simile a quello di trance, ebbe una grande influenza su Pollock che, grazie
ad essa, sviluppò la propria celebre tecnica chiamata pouring; gli stregoni infatti erano usi versare sabbie colorate su di una superficie piatta che potevano avvicinare da
ogni lato.
Questo modo di procedere era anche paragonabile al surrealismo automatico,
una tecnica con cui i dipinti vengono creati "automaticamente". Un esempio di questa
tecnica è rappresentato da Meditation on an Oak Leaf, un'opera di Andre Masson che
Pollock ammirava moltissimo.
332
Pollock conosceva bene anche altre discipline molto "alla moda", come la psicanalisi e il primitivismo che rappresentò un altro punto di contatto con l'arte nativo-americana. Durante il periodo in cui era in cura da uno psicanalista junghiano come terapia contro l'alcolismo creò molti "disegni psicanalitici". Utilizzava poi questi disegni
per discutere con i medici del proprio stato mentale. Si potrebbe dire che anche l'origine dei disegni - l'inconscio/subconscio - fosse in effetti simile a quella degli artisti
nativi, che operavano in uno stato di allucinazione causato dall'uso di droghe come il
cactus di San Pedro che favoriva il loro viaggio nel "mondo degli spiriti". Si tratta di
uno stato mentale in cui le vivide allucinazioni si combinano tra loro per comporre
immagini sia di tipo astratto che figurativo. Le rappresentazioni che ne derivano del
mondo degli spiriti presentano un'estetica simile a quella dei disegni psicanalitici di
Pollock perché entrambi combinano appunto elementi astratti e geometrici che si originano dai recessi più profondi della mente.
Le opinioni della critica
Il lavoro di Pollock è sempre stato al centro delle attenzioni della critica ed ha suscitato importanti discussioni.
Harold Rosenberg ha detto del modo in cui Pollock ha cambiato il modo di dipingere:
« Quello che finiva sulla tela non era un quadro, ma un evento. Il punto di svolta
c'è stato quando ha deciso di dipingere "solo per dipingere". I gesti che si riflettevano
sulla tela erano gesti di liberazione dai valori - politici, estetici e morali »
(Harold Rosemberg)
Clement Greenberg apprezzò l'opera di Pollock sul piano formale, in quanto si
adattava bene alla sua visione della storia dell'arte interpretata come una progressiva
purificazione delle forme unita all'eliminazione del contenuto storico. Vide quindi il
lavoro di Pollock come la migliore forma di pittura della sua epoca ed il punto più
alto della tradizione artistica occidentale che era giunta a lui passando per Monet, Cézanne e il cubismo.
Esposizioni delle opere di Pollock dopo la morte dell'artista furono patrocinate
dal Congress for Cultural Freedom, un'organizzazione che promuoveva la cultura e i
valori statunitensi appoggiata dalla CIA. Alcuni studiosi di posizioni liberali, tra cui
Eva Cockcroft, hanno sostenuto che il governo e la classe dominante hanno adottato
Pollock e l'espressionismo astratto con il preciso intento di porre gli Stati Uniti in prima fila nel mondo globale dell'arte e sminuire in questo modo il movimento del realismo socialista. Secondo le parole della Cockcroft, Pollock diventò una delle "armi per
combattere la Guerra fredda".
L'opera Connoisseur del pittore Norman Rockwell sembra un commento allo stile di Pollock. Il dipinto rappresenta un uomo elegantemente vestito in piedi di fronte
ad uno dei quadri di Pollock composti da spruzzi di colore. Il contrasto tra l'uomo e la
pittura di Pollock, insieme alla costruzione della scena, sembra enfatizzare la differenza tra il relativamente incomprensibile stile di Pollock ed una figura tradizionale e gli
stili artistici figurativi, così come simboleggia gli incredibili mutamenti nel senso este333
tico introdotti dai moderni movimenti artistici.
Il movimento femminista ha criticato il maschilismo che sembra caratterizzare
l'espressionismo astratto, vedendo nell'opera di Pollock la realizzazione delle fantasie
fallocentriche del maschio su delle tele simbolicamente poste in posizione supina.
Altri, come l'artista, critico e autore satirico Craig Brown, si sono dichiarati stupefatti che «dei poster decorativi fatti senza un minimo di cervello abbiano potuto
conquistare un posto nella storia dell'arte al fianco di Giotto, Tiziano e Velázquez».
Il Reynolds News in un titolo del 1959 ha scritto : «Questa non è arte, è uno
scherzo di cattivo gusto.»
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Lezione XVII
LE AVANGUARDIE
Avanguardia
Avanguardia è la denominazione attribuita ai fenomeni del comportamento o
dell'opinione intellettuale, soprattutto artistici e letterari, più estremisti, audaci, innovativi, in anticipo sui gusti e sulle conoscenze, sviluppatisi nel Novecento ma derivanti da tendenze politico-culturali ottocentesche, e connotatisi come un gruppo di
artisti riuniti sotto un preciso manifesto da loro firmato.
La nozione di "avanguardia" può essere utilizzata da due diversi punti di vista:
uno sul piano storico-critico, l’altro su quello teorico.
Le avanguardie
Dal francese avant-garde (trad. "prima della guardia"), il termine, tratto dal linguaggio militare (l'avanguardia è il reparto che precede il blocco forte dell'esercito per
aprirgli il varco), è impiegato anche per indicare i diversi movimenti artistici del pri mo Novecento, caratterizzati da una sensibilità più "avanzata" rispetto a quella dominante: l'Espressionismo, l'Astrattismo, il Futurismo, il Cubismo, il Dadaismo e il Surrealismo. In tale prospettiva il termine passò dal linguaggio militare a quello politico
intorno al 1830 per indicare il nuovo compito assegnato agli intellettuali, per lo più di
sinistra, che consisteva nella guida morale e orientativa delle battaglie politiche del liberalismo dell'epoca. A partire dalla fine del XIX secolo, la nozione di avanguardia è
stata usata metaforicamente per caratterizzare i movimenti letterari ed artistici che
volevano essere più "avanti" rispetto ai contemporanei. In particolare ritenevano "moderno" rompere con la tradizione e criticare chi imitava i "classici".
Il primo ventennio del XX secolo ha visto il susseguirsi di fenomeni artistici di
avanguardia, che attraverso i loro manifesti proponevano nuove forme pittoriche e
plastiche in sintonia con il mutare dei tempi. I movimenti di avanguardia erano formati da gruppi spesso in polemica tra loro, ma dalla critica e dal contrasto scaturiva
una grande spinta creativa. Che si chiamassero cubisti, futuristi, espressionisti, metafisici, surrealisti, dadaisti, gli artisti di questa generazione volevano cambiare tutto. Le
loro battaglie artistiche diedero una nuova impronta a tutta l'arte del Novecento.
Gli elementi fondamentali delle avanguardie secondo vari studiosi sono stati: attivismo esasperato, entusiastico senso dell'avventura, gusto di opposizione e antagonismo, tendenza alla negazione e al nichilismo, agonismo. Un altro elemento importante per inquadrare i movimenti di avanguardia è stata la relazione fra oggettività e
soggettività che i gruppi hanno attuato: per alcuni di essi è esistita solo la sfera sog gettiva estremizzata formata da stati onirici e inconsci, istinti e energia vitale, mentre
per altri movimenti è esistito solo l'ambito oggettivo assoluto ricavabile dalle discipline scientifiche oppure l'insieme dei due mondi in alternanza e sovrapposti.
I movimenti d'avanguardia, spesso risultano intrecciati alla scienza e alle sue applicazioni tecnologiche, basti pensare alle leggi ottiche enfatizzate dagli Impressioni335
sti, le passioni per l'aviazione e per l'elettricità evidenziate dai Futuristi, la psicanalisi
sviscerata dai Surrealisti, la fisica nucleare ispiratrice della pittura informale.
Uno degli scopi dei movimenti di avanguardia è la "morte dell'arte" tradizionale
e canonica realizzabile attraverso l'annullamento del momento comunicativo o con l'identificazione dell'espressione artistica con un'altra azione del fare umano, come ad
esempio l'urlo degli Espressionisti, l'impiego improprio di alcuni oggetti, il ribaltamento di ogni scale di valori. I gruppi di avanguardia attuano una opposizione alla
cultura dominante o appartandosi aristocraticamente o partecipando rumorosamente
al dibattito pubblico.
Analisi storico-critica
Dal punto di vista storico-critico, indica i movimenti e i gruppi costituitisi nel
corso del Novecento, che hanno avuto ciascuno il proprio arco evolutivo e i propri
conflitti interni ed esterni. In questo caso saranno considerati di avanguardia gli autori che hanno aderito ai manifesti, oppure partecipato alle attività di gruppo (tenendo
conto di adesioni, espulsioni e quant’altro). Su questo piano, l’avanguardia è oggettivamente riscontrabile nei dati, che spesso vanno ricostruiti attraverso una ricerca paziente delle tracce di azioni e operazioni alquanto effimere (infatti si tratta sovente di
editoria alla macchia, oppure di performance di cui sono rimaste poche e sparse testimonianze).
Dal punto di vista storico, l’avanguardia ha attraversato tre fasi:
•
le prime avanguardie o avanguardie storiche, nella prima metà del Novecento,
caratterizzate da movimenti e manifesti, con tendenza a riversarsi nella attività
politica tout court;
•
le seconde avanguardie, o neoavanguardie, negli anni Cinquanta-Sessanta, caratterizzate dal dibattito critico e dalla guerriglia semiologica con i linguaggi
della società di massa;
•
e le terze avanguardie, ancora da mettere compiutamente in luce, apparse alla
fine del secolo sotto la formula della terza ondata, caratterizzate dallo scontro
con il postmoderno e dall’uso dei linguaggi del passato come strumenti eversivi.
Analisi teorica
Dal punto di vista teorico, la nozione di avanguardia si può sintetizzare nei seguenti punti:
•
L'avanguardia si costituisce come risposta dell'arte alla società borghese e al
predominio della mentalità utilitaria e mercantile, nel momento in cui diventa
chiaro che il mercato assorbe anche l'arte stessa. Nello sforzo di evitare la vendibilità, l'antagonismo dell'avanguardia si sviluppa su diversi livelli: a livello
politico, con un atteggiamento sostan