La storia costruita

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La storia costruita
La storia costruita
Storie di tabacchine grike
a Sternatia nel Dopoguerra
a cura di
Gianni De Santis • Giorgio Vincenzo Filieri • Eugenio Imbriani
Introduzione di
Patrizia Villani
Ricerca di:
Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Daniela Gemma,
Mariangela Giannuzzi, Antonella Marti, Luigina Mastrolia
Edizioni Kurumuny
Sede legale
Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)
Sede operativa
Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)
Tel. e Fax 0832.801577
www.kurumuny.it • [email protected]
ISBN 978-88-95161-32-7
In copertina foto di Centro Studi Chora-ma.
In quarta foto di Arnaldo Macchitelli.
Progetto CUIS.
“Per la documentazione della memoria orale di una comunità griko-salentina”.
© Edizioni Kurumuny – 2009
Indice
9
Introduzione
Patrizia Villani
11
Il tabacco griko.
La lavorazione del tabacco
e la condizione delle tabacchine a Sternatia
Giorgio Vincenzo Filieri
24
Combinare le storie
Premessa
Tabacchine
Un archivio per le storie
Eugenio Imbriani
31
181
La ricerca
Un sindaco Conchiglia, la Turupìnta in fiamme
e quel giorno che piovve locuste...
Gianni De Santis
186
Appendice
205
Ringraziamenti
A tutte le ex tabacchine di Sternatia
che, con il loro lavoro e con grande tenacia,
hanno scritto un pezzo di storia importante
per la nostra bella Chora.
Introduzione
Patrizia Villani*
Il presente volume è stato realizzato nell’ambito del Progetto per la
documentazione della memoria orale di una comunità griko-salentina
presentato dal Comune di Sternatia di concerto con le Edizioni Kurumuny
ed in collaborazione con il Prof. Eugenio Imbriani dell’Università del Salento, Dipartimento di Scienza dei sistemi sociali e della comunicazione
finanziato dal CUIS Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino.
La storia ricostruita attraverso il ricordo delle tabacchine del nostro
paese, dirette protagoniste che mediante tanti piccoli tasselli di vita quotidiana ci raccontano le condizioni della donna in quegli anni.
A Sternatia erano presenti diverse “fabbriche di tabacco” in cui lavoravano centinaia di giovani donne, spesso mogli e madri. Le condizioni
di lavoro erano dure “si lavorava dalla sette alle dodici ore” poi una breve
pausa “ma non riuscivi neanche a mangiare se avevi figli”. Durante le
ore di lavoro non era consentito parlare o cantare altrimenti si veniva
rimproverate aspramente dalle mesce incaricate dai padroni di distribuire
il lavoro e di controllare le operaie.
La storia delle tabacchine di Sternatia è simile alla storia delle operaie
dell’industria del tabacco dell’intero Salento. Anche a Sternatia giungono
gli echi della contestazione e della lotta sindacale per l’aumento dei salari,
la rivendicazione dei diritti, la precarietà del lavoro stagionale negli opifici
dei concessionari di tabacco.
Con questa ricerca si è voluto porre l’accento sul ruolo della donna
nel lavoro agricolo e, in particolare, delle tabacchine che hanno lottato,
a partire dagli anni Trenta, non solo per un desiderio di emancipazione
ma anche per una necessità economica.
Il canto di protesta delle tabacchine, un tempo soffocato, ritorna più
intenso che mai e si fa parola, narrazione; nel segno della storia.
Generazioni diverse di donne si ritrovano e si raccontano e si ascoltano e parlano ad altre donne perché l’emancipazione femminile, non
ancora compiuta, si nutre di memoria e utopia.
9
La memoria femminile di una comunità, si racconta e trova come interlocutrici privilegiate sei giovani donne.
Antonella, Daniela, Desiré, Luigina, Mariangela, Maria Lucia, giovani
laureate, hanno raccolto e restituito alla collettività, le testimonianze di
un passato impastato di sudore, speranze, fatica, libertà, pane e dignità
La presente pubblicazione è un ulteriore contributo che questa Amministrazione ha inteso dare, nell’ambito delle politiche di genere e delle
politiche culturali, alla costruzione di una identità della comunità che si
basa sui volti e sulle storie di ciascuno: il volto giovane di sei donne laureate che hanno messo a servizio della comunità le proprie competenze
e professionalità e il volto maturo delle donne anziane di Sternatia che
hanno accettato di dare voce al passato.
Rivolgo un caloroso e sincero ringraziamento alle donne di Sternatia
che hanno accettato di raccontarsi, alle borsiste del progetto CUIS, ai coordinatori del progetto, Luigi Chiriatti, Gianni De Santis, Giorgio Filieri,
Prof. Eugenio Imbriani e a Cristina Manco Assessore alla Cultura e alle
pari opportunità del Comune di Sternatia.
Un ringraziamento particolare a Massimo Manera, già vicesindaco di
Sternatia, che ha reso possibile la realizzazione del progetto coordinandolo in prima persona con passione e dedizione.
Sternatia, 1 maggio 2009
* Sindaco di Sternatia
10
Il tabacco griko.
La lavorazione del tabacco e la condizione
delle tabacchine a Sternatia
Giorgio Vincenzo Filieri
… Nde, e’ ssòzamo milìsi makà!
Ce nde na fame ce tìpoti.
Iche na kustì manechà o rushio atse tabbàkko…
na polemìsome.
… No, non potevamo parlare affatto!
Né mangiare, né niente.
Si doveva sentire soltanto il fruscio del tabacco…
cioè lavorare.
(Dall’intervista di Clelia Giuseppa Reale)
«Ivò polèmigga si’ ffràbbika atse tabbàkko …» (“io lavoravo nella fabbrica del tabacco …”), così esordì un’anziana tabacchina mentre si accingeva a rispondermi alle domande che, alcuni anni addietro, le feci
per raccogliere documentazione orale riguardante la situazione delle operaie impiegate nelle fabbriche del tabacco.
In realtà, il verbo polemò (polemώ) che in greco salentino significa
esclusivamente «lavorare», in greco moderno, come del resto anche in
greco classico, significa “combattere”, “fare la guerra”, “lottare”. Quindi
la frase grika e neogreca «pao na polemìso» (pάw na polemίsw) in greco
salentino ha il significato di “vado a lavorare”, mentre in greco moderno
di “vado a fare la guerra”.1
1
Cfr. AA.VV. Dizionario Greco moderno – Italiano, a cura del Comitato di redazione
dello ISSBI, p. 807, Roma 1993. In greco moderno il verbo lavorare è doulέuo (leggi dulèvo), inesistente nel greco salentino.
11
Premesso ciò, possiamo affermare che, nella difficile condizione in cui si
trovavano le tabacchine, il significato di «combattere» e «lottare» sembra rendere meglio l’idea della situazione che giornalmente queste operaie dovevano affrontare «combattendo» contro il duro lavoro, appesantito dai tanti
problemi materiali; esse «lottavano» con forza e determinazione anche per
assicurare i propri diritti e ottenere un qualche miglioramento di vita.
Le caratteristiche fonetiche della frase grika introduttiva ci fanno comprendere che ci troviamo a Sternatia, anzi, per essere più precisi, ci troviamo
nella Chora Sternatia (Cώra Sternatίa),2 il centro considerato da sempre
il cuore dell’area grecofona, oggi, conosciuta come Grecìa Salentina.3
In questi ultimi decenni, Sternatia, nel contesto della Grecìa Salentina,
ha assunto il ruolo importante di paese modello e centro di riferimento,
grazie alla detenzione del primato di maggiore percentuale di parlanti
greco salentino4 e grazie anche all’impegno di istituzioni, associazioni e
singoli individui che a vari livelli hanno contribuito a portare la Chora al
centro dell’attenzione culturale.5
Sternatia è diventata terra di ricerca linguistica, antropologica ed etnomusicologica, ma, nonostante ciò, si può stranamente affermare che
pochissime sono le pubblicazioni dedicate alla storia e alla cultura di
questo paese.
Per i motivi appena esposti, questa ricerca, voluta dall’Amministrazione Comunale, ed effettuata grazie alla disponibilità delle ex tabacchine
2
Così è chiamato in alcuni vecchi atti notarili scritti in greco. I suoi abitanti la chiamano
semplicemente Chora, es. «pame si’ Chora» (“andiamo a Sternatia”).
3 Sulla denominazione dell’area grecofona del Salento vedi: G. V. Filieri, Grecìa Salentina.
Genesi di un nome improprio, in «Nuova Messapia», dicembre 2002, p. 9; vedi anche: G.
V. Filieri, Ta Chorìa Grika, ossia il vero nome dell’area greca del Salento, in «Grecìa, Ta
nea-ma», a. II, n. 03, agosto 2004, pp. 3-4.
4 Cfr. B. Spano, La grecità bizantina e i suoi riflessi geografici nell’Italia meridionale e
insulare, Pisa, 1965, pp. 162-163.
5 Sternatia, oltre ad essere stato il comune capofila dell’Unione dei Paesi della Grecìa Salentina, è sempre stato storicamente un importante paese: fu centro fortificato; divenne
quartiere generale delle truppe aragonesi che liberarono Otranto nel 1481; presso l’abbazia di san Zaccaria si copiavano codici greci; i suoi feudatari furono alcune importanti
famiglie come gli Acquaviva, i Cicala, i Granafei; nel contesto della grecità, gia nel ‘500
era citato come centro di sola lingua e rito greco.
12
di Sternatia, ci permette di scrivere un pezzo di storia importante di questo paese che, fino ad ora, è rimasto vivo solo nella memoria di tante
operaie e coltivatrici di tabacco.
Questa pubblicazione è un doveroso omaggio dedicato a tutte le ex
tabacchine e nasce dall’intento di tenere vivo il ricordo del loro grande
impegno, del loro disagio, delle loro gioie e delle loro «guerre».
Le donne di Sternatia hanno vissuto il terrore delle guerre mondiali e
con esso anche la paura di subire un bombardamento, di essere colpite
dalle schegge delle bombe; spesso hanno sentito lo spavento causato dal
suono della sirena del vicino aeroporto di Galatina.
Queste donne hanno vissuto periodi di ansia per i loro figli, mariti o
padri che erano stati chiamati a fare la guerra; alcune di loro hanno passato momenti drammatici per aver ricevuto la notizia che un loro caro
era morto combattendo per la patria.
Attraverso la lettura accurata delle interviste e dei racconti delle tabacchine, dal recupero di vecchie fotografie, documenti personali e documenti d’archivio, si vuole cercare di ricostruire una parte delle vicende
storiche locali, con l’intento di rendere noti e attuali i fatti passati.
Dai racconti si evince quanto, oggi, il mondo sia cambiato e quanto
l’impegno e la lotta delle tabacchine abbiano contribuito al miglioramento
delle condizioni di vita dell’odierna società.
Questo lavoro ha dato la possibilità alle nonne di Sternatia di assumere un ruolo diverso da quello avuto sino ad oggi nei confronti della
ricerca linguistica e antropologica. Infatti, queste signore hanno per lo
più avuto quasi sempre a che fare con ricercatori che venivano a registrare discorsi in greco salentino, canti d’amore, lamenti funebri, oppure
racconti nei quali i protagonisti erano i folletti, le streghe e gli spiriti; ora,
invece, a loro è stato chiesto di raccontare storie in cui le protagoniste
erano esse stesse, in cui era necessario parlare della loro vita, della loro
condizione di donne, dei disagi e delle lotte che hanno dovuto combattere in tempi assai duri.
Il diventare protagoniste e quindi «raccontarsi» piuttosto che «raccontare», ha rappresentato per loro una novità; dopo la titubanza del primo
impatto con l’intervistatrice, è venuta fuori la voglia di parlare, di esporre
fatti e situazioni; in certi casi si nota il timore di dire o di aver detto qualcosa di fronte a una telecamera o un registratore che potesse poi urtare
la suscettibilità di qualcuno.
13
È normale che, in tanti anni di lavoro, avendo a che fare con datori
di lavoro, mescie (maestre) e colleghe, non siano mancati i litigi e le antipatie tra le tabacchine. Il rapporto lavorativo era difficile soprattutto con
alcune mescie che, cercando di fare gli interessi del padrone, assumevano
un atteggiamento severo con le operaie.
La coltivazione del tabacco è testimoniata già nel XIX secolo.
Giacomo Arditi nella seconda metà del 1800 a proposito di Sternatia
scrive: «Gli abitanti in gran parte la fanno da agricoltori, parlano il volgare
e il greco corrotto… Nel territorio varia la qualità del sottosuolo, ma in
generale è sassoso, fertile in olio, frumento, tabacco, e altro…»6.
La coltivazione del tabacco è stata per diversi anni alla base dell’economia sternatese. Si racconta che una volta, dopo un annata andata bene,
l’anno successivo ci fu la corsa per piantare tabacco tanto che, esagerando,
si disse che qualcuno sradicò i gerani colorati che abbellivano le avlèddhe
(cortili) e i giardini e usò i vasi per piantare tabacco, oppure si diceva che
in quel anno anche il prete aveva piantato il tabacco, proprio per far capire
quanto diffusa fosse diventata la coltivazione di questa pianta.
Furono gli anni in cui diminuì la produzione di frumento e legumi e le
campagne del feudo di Sternatia sembravano un’enorme distesa verde di
piante di tabacco. L’intero paese era diventato un’enorme fabbrica in cui
tutti erano impegnati alla coltivazione e alla lavorazione di questa pianta.
Il lavoro iniziava a febbraio quando, cioè, si doveva seminare lo sporo
(la semenza) nelle arùddhe (semenzai), che dovevano essere di tanto in
tanto innaffiate e curate. A fine aprile, quando la kiantìme (le piantine
da trapiantare) era pronta, si “tiravano” gli avlàcia o surchi (solchi) con
lo nsinàri (zappa); poi venivano dapprima buttate le piantine nel solco
e in seguito piantate per mezzo di un palo (una specie di cavicchio di
legno) che serviva per fare i fori al centro del solco dove dovevano essere
messe a dimora le piantine a una distanza di 20-25 centimetri, a seconda
della varietà del tabacco.
Fatto ciò, bisognava aspettare che le piante raggiungessero la maturazione industriale, che non coincideva con quella fisiologica, per evitare
6
Cfr. G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce
1879 – 1885, pp. 573-574.
14
che una maturazione troppo avanzata producesse delle foglie più fragili
e di scarsa qualità.
Intanto oltre al lavoro di sarchiatura, non rimaneva che pregare e sperare che la siccità, la grandine o il maltempo in genere non mandassero
in fumo (e parlando di tabacco e proprio il caso di dirlo) tutto il lavoro.
Il senso del timore di perdere tutta la fatica fatta lo troviamo in qualche
strofa del canto tradizionale Fimmene, fimmene in cui si dice: «ci vu la
dice cu chiantati lu tabaccu? Lu sule è forte e ve lu sicca tuttu».
La speranza e la preghiera diventavano gli unici mezzi per avere la
forza di andare avanti, tanto che di questa situazione ne approfittavano
i cantori de lu santu Lazzaru 7 che per toccare la sensibilità dei coltivatori
di tabacco, durante le loro esibizioni canore nel periodo della settimana
santa, a un certo punto intonavano questa strofa: «nui pregàmu santu
Marcu cu vascia bonu lu tabbaccu»; lo stesso facevano a capodanno i
cantori della strina 8 che, con il loro canto, benedivano i campi e auguravano buoni raccolti, ma nel momento in cui i massai e i contadini non
offrivano una buona offerta, i cantori trasformavano le benedizioni in invettive e maledizioni.
Quando le foglie del tabacco arrivavano a maturazione iniziava la raccolta. Si facevano in tutto quattro ccote (raccolte) dette: fronzùna, terza
ccota, seconda ccota e prima ccota.
Le foglie appena raccolte erano trasportate per essere infilate per
mezzo delle akucèddhe (grossi aghi di circa trenta centimetri) nei resistenti fili di spago, formando così le nserte (filze); queste ultime erano
appese ai tiraletti (telai di forma rettangolare) per l’essiccazione al sole.
Ogni tiraletto poteva contenere venti nserte.
Le nserte sistemate nei tiraletti il primo giorno dovevano stare al sole, il
secondo all’ombra e poi sempre al sole, per ottenere una buona colorazione.
Sternatia diventava un tappeto di tiraletti pieni di tabacco sistemati
sui marciapiedi, nelle strade più larghe e persino in piazza. Sicuramente
anche i più giovani possono ancora ricordare quando Piazza Castello
sino a una trentina di anni addietro era piena di tiraletti che, a una certa
7
Tradizionale canto salentino del periodo pasquale.
Canto augurale di capodanno molto simile ai kàlanda che si cantano in Grecia e alle
colìnde in Romanìa e in molti altri paesi dei Balcani e del Mediterraneo.
8
15
ora della giornata, con il calare dell’ombra, dovevano essere spostati sul
lato opposto della piazza per rimanere quanto più tempo possibile al
sole; durante qualche acquazzone estivo, si vedeva il fuggi fuggi dei proprietari che si affrettavano a ritirare al coperto i tiraletti.
Il tabacco, con la sua costante presenza, entrava a far parte della vita
quotidiana della gente. Vittorio Bodini, nella poesia Cocumola, descrive
esattamente questa realtà: «… Il tabacco è a seccare, / e la vita cocumola
fra le pentole / dove donne pennute assaggiano il brodo…».
Il Bodini ci fa riflettere sul valore politico del tabacco, dai suoi versi
emerge la volontà di rifiutare l’imposizione di un potere oppressivo e ingiusto: «…Al tempo dell’altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie di Xanti-Yaca / sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le
febbri artificiali, la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i
denti, / erano il loro giudizio / sui governi e la storia…».9
Il colmo era che, pur vivendo in mezzo al tabacco, la gente non lo
poteva utilizzare per fumare, era proibito a causa del monopolio di stato.
I finanzieri giravano nei paesi e nelle campagne cercando di acciuffare
qualche trasgressore che furbescamente avesse nascosto in casa o nei
muretti a secco delle campagne un po’ del proprio tabacco. Ancora oggi
è facile trovare tra le pietre dei muri di campagna qualche buatta (barattolo di rame) piena di tabacco, dimenticata dal proprio nonno.
Sono interessanti i tanti racconti conosciuti dagli anziani come quello
di un certo Jorgi (Giorgio) che pur di non accompagnare i finanzieri
presso la sua abitazione dove c’era il tabacco nascosto, mentendo, disse
loro che abitava a Martignano con la speranza di incontrare sulla strada
qualche compare sternatese e dirgli in griko, lingua estranea a quei finanzieri, di correre a Sternatia e avvertire la moglie affinché facesse sparire il tabacco da casa. Purtroppo Jorgi non avendo incontrato nessuno,
dopo aver girato inutilmente tutte le strade di Martignano, si vide costretto a dire la verità, meritandosi una salatissima multa.
Il fratello di Jorgi, invece, Pantaleo, un omaccione forte e con la testa
calda, avvertì i finanzieri, mentre perquisivano la sua casa, che, se avessero frugato sotto la legna sistemata in una stanzetta che stava sul terrazzo
senza trovarvi il tabacco, avrebbero poi dovuto risistemare per bene tutti
9
Versi tratti dalla poesia Xanti-Yaca.
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quei grossi taccari (pezzi di legno) che lui con tanta fatica aveva aggiustato. I finanzieri insospettiti che proprio lì potesse esservi nascosto il tabacco, spostarono fino all’ultimo pezzo di legno e non trovando niente
fecero per scendere senza risistemare i pesanti taccari. Il maresciallo,
però, quando vide che Pantaleo, andando su tutte le furie, voleva buttare
i finanzieri dalla finestra, cercò di calmare le acque facendo risistemare
per bene tutta la legna.10
Spesso i fumatori passando davanti ai tiraletti allungavano una mano
per arraffare un po’ di tabacco che veniva all’istante sbriciolato e sistemato nell’apposita cartina per essere fumato.
Una volta che il tabacco era essiccato, si staccavano le nserte dai tiraletti e con dieci di queste si facevano i pùpuli o kiùppi che venivano appesi per la stagionatura non solo nei soffitti delle stalle o delle vecchie
stanze, ma persino nelle volte della cucina e della camera da letto, cosa
questa che può essere testimoniata sia dalla memoria della gente, che
dai tanti ganci di ferro rimasti ancora oggi sulle volte di alcune case del
centro storico di Sternatia.
Nel mese di novembre, finita la stagionatura i pupuli erano sistemati
negli sporti o casce (casse di legno) e trasportati nelle fabbriche dove venivano sistemate in attesa di essere lavorate.
A questo punto iniziava il lavoro delle tabacchine che durava circa
quattro mesi.
La maggior parte delle nostre intervistate ha iniziato a lavorare all’età
di quattordici anni, ma non sono mancate quelle che hanno affermato di
aver iniziato addirittura prima.
Diversi erano i ruoli che si potevano avere nella fabbrica, c’era la mescia (maestra) che aveva il ruolo di controllore, poi potevano esserci una
o più sottomescie e infine le operaie con il ruolo di imballatrice, cernitrice o spianatrice.
La mescia era scelta, per amicizia, parentela o simpatia, direttamente dal
datore di lavoro, per cui era portata a fare gli interessi del proprietario.
A Sternatia non mancavano gli scioperi: “si scioperava per il lavoro
duro e faticoso, per le marche che non venivano versate. Il lavoro di tabacchina era pericoloso, si andava con le mascherine in fabbrica per
10
Questi racconti sono tratti da una registrazione privata del 1997.
17
l’odore del tabacco e con un camice comune”.11
Gli scioperi erano più sentiti specialmente quando, con l’arrivo delle
macchine e della tecnologia, il lavoro diventava sempre più scarso e i
concessionari iniziavano a licenziare le operaie.
Il problema dei licenziamenti diventava sempre più complesso perché,
con il passare degli anni, la coltivazione del tabacco diminuiva drasticamente di anno in anno con la conseguente chiusura delle fabbriche.
Intorno alla coltivazione del tabacco e al lavoro delle tabacchine sono
nati tanti racconti, soprattutto ad opera di quelle donne, per così dire,
più adatte a raccontare storie vere, a inventare delle nuove e molto
spesso a fondere i fatti reali con la fantasia.
Si racconta, per esempio, che durante il periodo estivo, quando i coltivatori del tabacco dormivano in campagna erano soliti fare degli scherzi.
Si prendeva una zucca con una candela accesa all’interno, simile a quella
che si prepara per la notte di Halloween, e veniva appoggiata su un muretto a secco con il fine di spaventare un amico o qualcuno che dormiva
nelle campagne vicine. La paura dell’oscurità e i lugubri versi delle civette
diventavano complici di coloro che si divertivano a organizzare gli
scherzi. Era così che nascevano i racconti degli spiriti e dei fantasmi che
comparivano nottetempo tra i lunghi filari del tabacco.
Il tema del tabacco è presente in qualche componimento tradizionale
in lingua grika già nel XIX secolo quando, sembra, che tra i greci del Salento ci fosse il vizio di tabaccare, cioè di fiutare la polvere di tabacco
per “tenersi sempre all’erta”. Queste poesie pubblicate per la prima volta
nel 1978 e in seguito nel 1999, facevano parte di una copiosa raccolta di
componimenti e canti in griko trascritti su un “quaderno” a Corigliano
d’Otranto. Il “quaderno”, che apparteneva a un certo signor Fiorentino
di Corigliano nel 1866 fu dato da N. Marti a Vito Domenico Palumbo di
Calimera che ricopiò tutti i canti sui suoi quaderni sotto il titolo di Raccolta di poesie greche di Corigliano d’Otranto.
11
Da un’intervista.
Cfr. S. Sicuro, Itela na su pò… Canti popolari della Grecìa Salentina, Calimèra 1999,
p. 283. Crf. anche V. D. Palumbo, Canti grecanici di Corigliano D’Otranto, a cura di S.
Sicuro, Galatina, 1978, p. 122.
12
18
La poesia è riportata con il titolo Ringraziamento del Tabacco:12
Arte ivò inghìzi na se rengraziètso
jatì sìmmeri isciàletsa ton dabbàkko
ka motte chàtiza na refiskètso,
itabbàkketsa ce anoìamo strakko.
Kumandètsò-mme, a’ tteli na se dulètso,
jatì isa’ kkalò, ce ipa ti è’ ffiàkko,
Imèna fani chlorò ambrò so’ llinno,
tuo ti è’ bbrao pu su fei ton inno.
Massimamènte an ise matimèno,
ka tuo se kratènni panta i’ rresvìjio
ce ikànni filìa puru m’o jeno
motte ifènete ciso mea ijo.
Arte ancignò ce to klinno is bisbìjo.
Kumandètsò-mme, t’ivò isèna meno,
ce a teli na se dulètso finka ime io,
da-mmu addhi’ mmia pijàta t’ ìsane alìo.
Adesso mi tocca ringraziarti
perché oggi ho scialato il tabacco
e mentre sedevo per riposarmi,
ho tabaccato e mi sentivo stanco.
Comandami, se vuoi che io ti serva
perché era buono e dissi che era cattivo.
Mi sembrò verde davanti alla lucerna,
codesto è buono che ti toglie il sonno.
Massimamente se ci sei abituato,
che codesto ti tiene sempre all’erta
e fai perfino amicizia con la gente
quando appare quel grande sole.
Adesso comincio a concludere in bisbiglio.
Comandami, ché io attendo te,
E se vuoi che ti serva finché vivo,
dammene un’altra presa, ché era poco.
19
Dalla stessa fonte proviene quest’altra poesia dedicata alle caratteristiche di alcune persone e, al primo posto, spicca quella del tabaccoso
che cerca sempre di scroccare a tutti un po’ di tabacco. Il titolo è Caratteristiche varie di taluni:13
O Tabbakkùso na su piài tabbàkko,
o mèsciu Ginu na su pi to krasì,
o Kurciulùna na fortòsi to’ ssakko,
pane ja nnominàta oli ce tri.
...
Il Tabaccoso a scroccarti il tabacco,
mastro Gino a berti il vino,
Curciolone a caricare il sacco,
sono rinomati tutti e tre.
…
Il tabacco da fiuto e anche quello da fumo veniva conservato nella
tabacchiera, piccola scatoletta di metallo (ma poteva essere anche di altro
materiale), che ritroviamo in questa breve filastrocca in dialetto leccese:14
piri piri Mari Dunata,
cazza cazza la tabacchiera
e me dai na pizzicata,
piri piri Maria Dunata.
Infine, un’altra curiosità: le tabacchine di Sternatia per paura di contrarre la tubercolosi, alla quale potevano essere soggette per l’aria che si
respirava nelle fabbriche di tabacco, nominarono come loro santo patrono san Luigi Conzaga, protettore della gioventù, morto a Roma nel
1591 curando gli ammalati. Ogni due settimane, nel giorno di paga, tutte
13
14
Cfr. S. Sicuro, Itela nasu po’…, cit, p. 283.
La filastrocca è tratta da archivio privato.
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le tabacchine versavano un obolo volontario che serviva per la festa che,
secondo il calendario liturgico cattolico, si tiene il 21 di giugno. La festa
consisteva in una celebrazione eucaristica con panegirico, la processione
che seguiva il tradizionale tragitto intra ed extra moenia; era poi assicurata la musica della banda e ovviamente non potevano mancare i fuochi
pirotecnici fabbricati dai famosi fochisti di Sternatia.
Dai racconti di alcuni anziani si evince che la stessa statua di san Luigi,
oggi sistemata in una nicchia della chiesa madre, fu fatta costruire nel
1955 dai maestri cartapestai leccesi su iniziativa di tutte le tabacchine di
Sternatia. Sempre gli anziani, dicono che, secondo la tradizione, la statua,
quando fu trasportata dalle botteghe di Lecce a Sternatia, doveva sostare
presso la prima casa che si incontrava arrivando all’ingresso del paese
per essere benedetta. Qui sorse una disputa tra il proprietario della prima
casa da una parte e il prete e il sindaco dall’altra. Questi ultimi non volevano che la statua si fermasse in quella casa perché il proprietario era
comunista e, di conseguenza, il suo colore politico non era indicato per
accogliere santi e benedizioni. Alla fine però sindaco e prete dovettero
cedere alle insistenze del proprietario di quella casa il quale, sentendo
venir meno un suo diritto proveniente dalle antiche tradizioni degli antenati e sostenendo che il partito politico nulla aveva a che fare con la
religione e la devozione ai santi, si impuntò talmente tanto da riuscire
ad averla vinta e ospitò la bellissima statua di san Luigi per la cerimonia
civile di accoglienza e religiosa di benedizione.
Sono tante ancora le storie che le nostre tabacchine potrebbero raccontare; si auspica che questo primo lavoro possa stimolare nuove ricerche che arricchiscano l’aneddotica e approfondiscano il contesto
socio-economico e le tensioni politiche e sindacali che hanno caratterizzato quel periodo.
21
Polemònta si’ ffràbbika a’tse tabbàkko
Giorgio Vincenzo Filieri
I ghinèke askònnatto so pornò
ipìane i’ ttotsu na nòsone alè,
ce prakalònta panta to’ Tteò
jurèane afitìa ja tikanè.
Poddhà pensèria vastùane so mialò,
ti si’ ffrabbika ìnghize na pane,
ce en ìchane makà poddhì’ ccero
manku tos pedàcio na dòkone na fane.
Proti ppiri na simàni i ora ittà,
ìnghize na statùne ambrò so’ pportùna,
an ‘de e tes kànnano n’àmbone makà,
me to’ llicenziamènto a’tto’ ppatrùna.
Poddhì’ llavoro iche i tabbakkìna,
polemònta ton dabbàkko me ti’ chèra,
to Santujàka ce ti’ Zagovìna,
ti Perustìtsa, j’oli tin imèra.
En ìsoze kantètsi, nde milìsi,
en ìsoze fai na’ spri tsomì,
en ìsoze pai na katùrisi,
a’tto’ llavòro en ìsoze sistì.
Na refiatètsi en iche to’ ccerò,
jatì ‘o polemìsi isa’ ppoddhì
ce manèchà to’ rrushio, to’ pprikò,
a’tton dabbàkko, iche na kustì.
Ta pedàcia pu tèlane to gala,
vizànnane si’ mmana fretta e fùria,
ce itu cina jèttisa poi mala,
me sakrifìciu a’tse ola ta kulùria.
Tuse ghinèke pu isa’ ttabbakkìne,
poddhì ipolemìsan’ si’ zoì,
ja tuo arrikordàte panta ine,
me oli ti’ kkardìa ce ti’ tsichì.
22
Lavorando nella fabbrica del tabacco
Le donne si alzavano di buon mattino,
andavano in campagna a raccogliere olive,
e pregando sempre il Buon Dio,
a lui chiedevano aiuto per ogni cosa.
Nella loro mente avevano molti pensieri,
perché poi dovevano andare in fabbrica,
e non avevano per niente molto tempo
neanche per dar da mangiare ai figli piccoli.
Ancora prima che suonassero le sette,
dovevano trovarsi davanti al portone,
altrimenti non sarebbero più potute entrare
e le avrebbe licenziate anche il padrone.
Molto lavoro faceva la tabacchina,
lavorando il tabacco con le mani:
lo Xanti-Jaca, la Zagovina
e la Peristizza, per tutto il giorno.
Non si poteva cantare, né parlare,
non si poteva mangiare un po’ di pane,
non si poteva andare in bagno,
e dal lavoro non ci si poteva spostare.
Non c’era tempo neanche per respirare,
perché il lavoro era tanto duro,
ma si doveva sentire soltanto
l’amaro fruscio del tabacco.
I bambini che avevano bisogno del latte
ciucciavano alla mamma in fretta e furia,
e così questi sono cresciuti,
tra i sacrifici di diversa entità.
Tutte queste donne, ex tabacchine,
hanno lavorato tanto nella loro vita,
per questo saranno sempre ricordate
con tutto il nostro cuore e con tutta l’anima.
23
Combinare le storie
Eugenio Imbriani
1. Premessa
Per mesi aleggiava nell’aria l’odore del tabacco, che diventava tenue
nei luoghi più lontani dagli opifici, “le fabbriche”, ma si avvertiva forte
se le operaie tabacchine, in pratica tutte le donne abili del paese, ad eccezione di sarte, ricamatrici, filatrici, ti passavano accanto, specialmente
al ritorno dal lavoro. Non dico che fosse un profumo, ma non era il più
sgradevole tra gli odori che si diffondevano e si mescolavano nei mesi
invernali: fumo, carbonella, i forni la mattina, zaffate di sentina dai frantoi
sul permanente e più soffuso sentore della sansa, il letame, gli animali
domestici allevati nei piccoli cortili e nelle stalle, nel bel mezzo dell’abitato. D’estate la coltivazione, la raccolta, l’essiccazione del tabacco si svolgono all’aperto, la sua lavorazione iniziale non costringono foglie, balle
e persone, a tonnellate e a centinaia in un durevole abbraccio in ambienti
chiusi, sebbene ampi.
Mi riferisco a un periodo che copre l’ultima parte degli anni ’60 e il
decennio successivo e a un’esperienza comune a quanti vivevano in un
minuscolo paese della provincia di Lecce; mi fa una qualche impressione
riscoprirmi testimone. Posso anche aggiungere che indispensabile elemento della mia formazione è stato l’essermi trovato, nei primissimi anni
’80, tra novembre e gennaio, subito dopo la laurea (in filosofia) a lavorare
in Abruzzo per conto di una ditta che acquistava tabacco dai coltivatori;
facevo l’aiuto ragioniere, figurarsi. Stavamo tutto il giorno, in un capannone tra le colline, da quando albeggiava, a valutare (c’era il perito agrario, ovviamente), pesare, pagare il tabacco e caricarlo sui camion, ma
l’impresa più ardua era far quadrare i conti la sera; imparai solo allora a
conoscere le varietà del tabacco levantino, distinguibili per le dimensioni
delle foglie e per altre caratteristiche che mi sono restate misteriose, e a
conoscerne i rispettivi nomi (perustitza, erzegovina, xanthi, soluk) non
alterati dalle innumerevoli forme verbali con cui sono indicate dai con24
tadini, di cui, tra l’altro, le interviste che seguono forniscono numerosi
esempi.
2. Tabacchine
L’intera produzione del tabacco orientale nella Puglia meridionale assume la sua massima espansione negli anni del fascismo, durante i quali
si moltiplica il numero delle concessioni; si trasforma, in qualche misura,
il paesaggio agrario locale, e tuttavia permangono aree poco o mal coltivate, zone macchiose e acquitrinose.
Il clima e la qualità del terreno consentivano l’introduzione e la coltivazione con successo delle varietà di tabacco diffuse sull’altra sponda
dell’Adriatico, che conservavano nei nomi la testimonianza della loro provenienza. Il massiccio impiego di manodopera stagionale femminile consentirà la costituzione di un corpo di lavoratrici molto solidale e coeso;
subito dopo la guerra, anzi, già nel 1944 il movimento contadino comincia a organizzarsi introno ad alcuni temi e a rivendicazioni che negli anni
successivi esploderanno nell’occupazione delle terre e nella lotta per i
diritti dei lavoratori salariati. Il loro malcontento è già maturo e rilevabile
successivamente all’armistizio; la povertà e il disagio sociale diffusi, particolarmente, nell’Italia meridionale, richiedono risposte concrete e efficaci, la tensione sociale tende a crescere, e le tabacchine in questi
frangenti assumono un ruolo di avanguardia e riescono a fornire una formidabile prova di forza in occasione dello sciopero iniziato il 12 novembre 1947 e proseguito per giorni tra scontri molto duri, che hanno
prodotto feriti e arresti. Le conseguenze delle agitazioni ricadono all’interno degli stesi opifici, perché le tabacchine sindacalizzate e più attive
si ritrovano a dover subire le ritorsioni dei padroni, spesso con il soccorse
delle famigerate “mesce”, tra cui, però, non mancavano le persone perbene. Comunque, complessivamente, si registrano dei risultati confortanti: «La storia sociale del Salento», scrive Remigio Morelli, «tra il ’45 e la
fine degli anni ’50 è contrassegnata dal protagonismo di questa categoria
che, grazie alla sua determinazione e alle dure lotte, riesce ad ottenere,
nell’arco di pochi anni, risultati considerevoli: ripetuti adeguamenti dei
salari al costo della vita, concessione del sussidio di disoccupazione e
copertura previdenziale per tutti i sei mesi non lavorativi, assegni fami-
25
liari. Inoltre, contratti collettivi, in verità mai completamente applicati in
provincia di Lecce, che garantiscono condizioni di lavoro e di tutela sociale sostanzialmente dignitose: mense, pause per l’allattamento, migliori
condizioni igieniche».1 Non sarà casuale, quindi, che proprio a Lecce si
svolga il primo congresso nazionale delle tabacchine. Sono anni gravidi
di vicende politiche e di lotte sindacali, la questione meridionale è tema
centrale nelle strategie del governo nato nel 1948 e delle opposizioni,
sono periodi di grande aggregazione e partecipazione popolare, nel 1949
si riuniscono le Assise per il Mezzogiorno, alla fine dell’anno ha luogo il
massiccio movimento di occupazione delle terre, che proseguirà nei mesi
successivi, nel 1950 viene istituita la Cassa per il Mezzogiorno.
Ma non andiamo molto oltre. In fabbrica la vita era dura, anche se
progressivamente si noteranno dei cambiamenti positivi; quando ancora
il rispetto dei diritti era di là da venire poteva capitare un caso come il
seguente, «raccontatomi da una oggi vecchia tabacchina: una donna partorì su un letto di tele di tabacco che essa stessa sin dalla mattina si era
preparato in un angolo della fabbrica. Sapeva di essere al nono mese,
ma si recò lo stesso al lavoro. Dopo che aveva partorito, assistita dalle
compagne più esperte, mandò a chiamare il suo uomo con il quale viveva senza essere sposata, il quale venne con un carrettino da lui stesso
trainato. Caricò puerpera e bambino sul carrettino e se li portò via. Erano
gli anni Trenta e il caso non era da considerarsi eccezionale».2 Non proprio così cruda, ma certamente consonante è la voce di Carmela De Santis nell’intervista che troverete più oltre: si lavorava dalle sette alle dodici,
poi una breve pausa, ma «non riuscivi neanche a mangiare, se avevi bam-
1
R. Morelli, Il movimento delle tabacchine in provincia di Lecce nel secondo dopoguerra
(1944-1952), in Politica e conflitti sociali nel Salento post-fascista, a cura di Mario Spedicato, Lecce, Conte, 1988, pp. 67-83: 74; su questo stesso tema cfr. anche il film documentario di Luigi Del Prete Le tabacchine. Salento 1944-1954, 2003, 52 min. Per una
ricostruzione delle vicende legate alla coltivazione del tabacco nel Salento cfr. in part.
Rossella Barletta, Tabacchi, tabaccari e tabacchine nel Salento: vicende storiche, economiche e sociali, Fasano, Schena, 1994. Per il XIX secolo, vedi, inoltre, Franco A. Mastrolia,
Agricoltura, innovazione e imprenditorialità in Terra d’Otranto nell’Ottocento, Napoli,
ESI, 1996.
2
Giovanni De Blasi, Vita tradizionale a San Donato nel Salento, Lecce, Edizioni del
Grifo, 1996, pp. 36-37.
26
bini, la famiglia. Perché allora quando avevamo bambini, non è che ti
davano i mesi di maternità. No, tu andavi incinta quando sentivi che
avevi dolori, andavi a casa, compravi il bambino, quando ti stabilivi, che
passavano quei 7, 8, 10 giorni cominciavi a lavorare, avevamo pure le
mamme che ci tenevano i bambini, le sorelle più grandi, dipendeva poi
dalle famiglie, no. E così all’una dovevi rientrare di nuovo, preciso l’una
e si usciva poi alle tre e mezzo alla sera». Non si può generalizzare, ovviamente, perché nel paese c’erano tre opifici e, come abbiamo visto,
nel tempo qualcosa poteva cambiare sia nella gestione di essi che nella
legislazione;3 «C’era l’allattamento nelle fabbriche», racconta Iolanda Mastrolia, «oppure si usciva per mezz’ora/un’ora per andare a casa ad allattare i bambini. Uscivano, oltre alla mezz’ora di pausa, e andavano a casa
per un’ora». Le “mesce” erano rigide, distribuivano le mansioni – spianatrici, cernitrici, imballatrici – secondo il loro capriccio, volavano rimproveri e minacce, per niente si poteva perdere una giornata di lavoro,
«facevano gli interessi del principale», si faceva l’appello all’entrata, trovare il portone ormai chiuso significava una decurtazione della paga; un
usciere faceva l’appello, e poi poche chiacchiere, «non scherzavamo, si
lavorava e basta. Se cantavi, erano storie». È un elemento, questo, ricorrente; lo notava anche Alessandro Portelli, presentando la ricerca sulle
tabacchine di Tricase: «C’è una indicazione molto chiara nei racconti: in
campagna si canta, si raccontano storie, si parla; in fabbrica si può essere
punite per una parola o anche solo per aver morso le labbra».4 Un’anziana
signora, Santa, ora ottantaquattrenne, che vive in una frazione all’estrema
periferia di Lecce, possiede un repertorio molto ampio di fiabe e di storie
di santi, e mi racconta di averle apprese dalla madre che gliele raccontava
per tenerla sveglia quando andavano prestissimo a raccogliere il tabacco
e mentre sedevano a infilare le foglie nelle corde che poi avrebbero legato sui telai. La pervasiva presenza del canto, come è noto, spinse de
Martino a invitare il musicologo Diego Carpitella nelle sue spedizioni
3
Un esempio è il seguente, nell’efficacissima sintesi di Pantalea (cfr. infra): «Poi vessiu
la legge e quandu stavi alli sei mesi potivi lassare e te diane lu stessu li sordi».
4
Alessandro Portelli, Storia orale per un Salento storico, in Tabacco e tabacchine
nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento, a cura
di S. Torsello e V. Santoro, Lecce, Manni, 2002, pp. 9-18: 15.
27
nell’Italia meridionale: non so com’è, ma quando sono lì va finire sempre
che si canta… Uccio Aloisi aveva chiesto a una certa signora Uccia De
Donatis di andare a raccogliere il tabacco con le sue sorelle; così fecero,
quindi «pijara le cusceddhe e zicca quista Uccia, no? [presero gli aghi per
infilare le foglie di tabacco e questa Uccia comincia a cantare]:
È arrivata la barca di Roma
accompagnata con due barchette
mi sento dire da tutta la gente
il primo amore è partito per mar».5
Uccio Bandello, in un’intervista rilasciata a Luigi Chiriatti nel giugno
1997, e più volte riproposta, spiegava: «quandu, andavane alla campagna,
per dire, faciane lu tabaccu, no? […] Sciane fore, se mentiane la sera cu
chiantane lu tabaccu e allora cantavane, de sdegnu, unu cu l’addhu, se
rispundiane uno co un altro, tutti due, due, a due; poi se sedevanu, per
dire, al fresco, all’estate, quandu… e cantavane ntorna, a coru, no?»6.
Naturalmente, poi, la percezione di questi avvenimenti, della stessa
dicotomia dei comportamenti tenuti in fabbrica e in campagna, può essere completamente ribaltata; i punti di vista condizionano i ricordi. Così
Maria Teresa Migliore, figlia dei titolari dell’opificio Rossi, riferisce di
un’atmosfera molto rilassata tra le lavoratrici: «nei miei ricordi ci sono
queste donne che giravano in queste camere, nella zona di lavoro del
Castello. Addirittura ricordo che a Sternatia, c’era una zona, qui di fronte
il castello, dove c’era la Kalìzoi, una stanza adibita alle mamme operaie,
voluta dal Dottore Specchia, dove le donne con bambine piccole si rifugiavano per allattare i bambini. Grande rispetto per l’essere donna e lavoratrice, anche con neonati a carico. Le fabbriche erano ambienti
abbastanza festosi, perché vedevi queste donne lavorare sempre can-
5
Uccio Aloisi, I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare, a
cura di Roberto Raheli, Vincenzo Santoro, Sergio Torsello, Lecce, Aramirè, 2004,
pp. 22-23.
6
Intervista a Uccio Bandello, in Antonio Aloisi, Antonio Bandello, Bonasera a
quista casa. Pizziche, stornelli, canti salentini, Lecce, Aramirè, 1999, pp. 33-37:
33.
28
tando, con il sorriso sulla bocca. Il ricordo si è poi perpetrato negli anni
e ogni volta che le incontravamo a lavorare il tabacco, vedevamo donne
con aria di festa, non fatica»; Annamaria: «cantavane certe vote, quando
era in fine lu lavoru cantavane»; invece Annunziata: «Se potia cantare?
No…gnenti»; nemmeno parlare, aggiunge Vita. Angiulina ricorda che si
recitava il rosario.
E il lavoro nei campi non era così allegro, anche se poteva esser sollevato dal ritmo dei canti, dalle conversazioni, dalle preghiere; le parole
di Angiulina sono molto chiare e dirette: «cu li genitori mei faciame centu
are de tabaccu, ca prima lu sarchiava lu nonnu, lu sire miu, cu la zappa,
lu sarchiava cu la zappa, ca moi tutti cu lu trattore, cu li mezzi svierti,
ma tandu eri buttare lu velenu».
3. Un archivio per le storie
La ricostruzione memoriale del passato dipende dal momento in cui
avviene, dai motivi che la sostengono, e quindi dal vissuto dei testimoni.
Più che la adesione a una fedeltà storica, pure onestamente perseguita,
essa riflette una condizione attuale della persona chiamata a recuperare
informazioni, il più delle volte frantumate e vaghe, e a organizzarle in
un racconto che abbia un suo sviluppo. Questa prassi ha luogo più facilmente se gli stimoli vengono attivati con il ricorso alla conversazione,
al dialogo, al reciproco confronto: non casualmente, molte delle interviste
registrate in vista della preparazione di questo volume sono festosamente
sonore, polifoniche, le voci si sovrappongono, talvolta, corrono in soccorso le une alle altre. Chi cerca storie o documenti di tradizione orale
sa bene quanto sia efficace la presenza di più informatori che si sostengono e correggono a vicenda, o di parenti e amici che li hanno già sentiti
narrare; quante volte le notizie risultano confuse e quante la loro esattezza è il risultato di un accordo. A me è capitato, per esempio, di assistere, presso un gruppo di anziani cantori, alla fissazione del testo di un
vecchio canto, composto grazie a numerosi interventi e negoziazioni,
sulla base di un faticoso compromesso; i più sottili filologi, mutatis mutandis, agiscono molto diversamente?
Esiste, poi, una ampia serie di materiali memoriali messi per iscritto
da autori che hanno una limitata dimestichezza con la scrittura; in casi
29
del genere, lo strumento favorisce la riflessione sull’accaduto, il trasferimento sulla carta dei pensieri e dei ricordi ne provoca la messa in un ordine, che sia tematico o narrativo, e il foglio si converte in una sorta di
finestra che si apre su uno scenario in cui i personaggi recitano le loro
azioni e gli oggetti trovano collocazione. La presente ricerca non ha recuperato testi autobiografici o etnografici manoscritti o lettere, perché
orientata al reperimento di narrazioni orali; suppliscono le fotografie, in
qualche misura, che solleticano il nostro abituale voyeurismo e costituiscono a loro volta stimoli per ripensare e rimembrare. Ma secondo me è
possibile continuare a pensare il presente lavoro così come era nei voti
che lo hanno promosso, e cioè l’avvio di un progetto più ampio che preveda la costituzione di un archivio in cui trovino posto i documenti che
riguardano la storia sociale della comunità: scritti, orali, filmati, registrati,
cioè quanto gli abitanti del luogo hanno prodotto nello svolgersi delle
loro vite e i tentativi di interpretarle.
Le vite sono storie spesso non raccontate, le vite sono storie da raccontare. Ogni atto, ogni gesto, ogni situazione gode di uno stato di prenarratività; poi li si può raccontare o meno, farne cenni o una
ricostruzione sistematica, o lasciar galleggiare nel bagaglio di esperienze,
o, meno impegnativamente, dimenticarsene. L’oblio è il destino della
maggior parte di quel che facciamo, subiamo, diciamo, pensiamo; è il
motivo per cui bisogna intendere la memoria come uno strumento selettivo, che produce, costruisce delle configurazioni di eventi trascorsi e ne
elabora i significati: sono operazioni che si svolgono nel presente, e i ricordi non stanno indietro nel tempo, ma appartengono all’attuale esperienza del ricordare; le storie di vita ci mettono in contatto con la varietà
delle vicende e delle sensibilità, aiutano a riflettere sulla collocazione dei
“nostri” modelli culturali in panorami più vasti, a vigilare sull’uso strumentale che del passato fanno le politiche (per demonizzare l’avversario,
per rivendicare primati e linee di continuità con avvenimenti ritenuti particolarmente significativi, per costruire identità locali definite da proporre
all’attenzione di un vasto pubblico).
30
La ricerca
31
- La trascrizione rispecchia fedelmente i dialoghi; pertanto i testi risultano talvolta poco logici o contraddittori o anche sgrammaticati.
- I puntini di sospensione sono puramente evocativi, cioè non stanno
ad indicare omissioni di parole.
32
Elenco intervistati
LUCIA CALDARARO;
NICOLETTA CENTONZE;
MARIA IOLANDA CHIRIACÒ;
PANTALEA CHIRIACÒ;
ELEONORA CONTE;
CARMELA DE SANTIS;
ROSARIA FRANTELLI;
ANGELA GRASSO;
COSTANTINA GRASSO;
MARIA ITALIA GRASSO;
MARIANGELA LINCIANO;
LORETA LEO;
CONCETTA MAGGIORE;
LUCIA MARTI;
MARGHERITA MARTI;
COSTANTINA MATTEO;
IOLANDA MASTROLIA;
VITA MASTROLIA;
MARIA TERESA MIGLIORE;
LEONARDA GIUSEPPA PELLEGRINO;
CLELIA GIUSEPPA REALE;
ANNAMARIA SCARPA;
MARIA SCORDARI;
ANGELA SIMEONE;
GRAZIA SIMEONE;
CLEONICE SPAGNA;
GIUSEPPE SPAGNA;
GRAZIA SPAGNA;
ORAZIO TARANTINO;
RAFFAELLA TARANTINO;
ADDOLORATA VERGINE;
VINCENZA ANTONIA VILLANI.
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Intervista a Maria Italia Grasso
Luogo e data: Sternatia, 23 Ottobre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Maria Italia Grasso;
Luogo e data di nascita: Sternatia il 01/05/1922;
Residenza: Sternatia;
Professione: ex tabacchina;
Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi.
D.: Sei emigrata all’estero?
R.: No
D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Nel 1935, quando avevo tredici anni.
D.: Per quanto tempo?
R.: Fino al 1966, quindi per trentuno anni.
D.: A che ora iniziavi e a che ora finivi di lavorare?
R.: Si iniziava alle sette e si usciva alle dodici per mangiare qualcosa;
poi si rientrava in fabbrica dall’una fino alle quattro.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Allora… una su lu cumentu, una dove adesso c’è il supermercato
Dì per Dì, una alla stazione, una allu castieddhu e una alla chiazza.
D.: Chi erano i proprietari?
R.: Quiddha de la chiazza, ddu nc’ete la farmacia, era de lu Mastrolia;
quiddha de lu castieddhu e de la stazione erane de tre soci: lu Grecu, lu Rossi
e lu don Angiulinu Ancora; quiddha de lu cumentu era de don Antoni.
D.: In quale fabbrica hai lavorato?
R.: Aggiu faticatu pe tutti, tranne ca pe don Antoni.
D.: Quante donne lavoravano in fabbrica?
R.: Una cinquantina circa.
D.: Facevi delle pause per mangiare qualcosa?
R.: no no... mangiavame na friseddha scuse sutta llu bancu mentre faticavame.
34
D.: Tu cosa facevi nella fabbrica?
R.: La “imballatrice”, la cernitrice e la spianatrice.
D.: C’era qualcuno che ti dava gli ordini?
R.: Le mesce.
D.: Chi erano la tue “mesce”?
R.: Allu Mastrolia l’Angiulina de lu Inzi, allu Specchia l’Assunta Marti,
poi nc’era la Peppina de lu Cazzeddha e poi n’cera la Ndata de lu Carlinu
ca facìa la “sottomescia”.
D.: Com’era il rapporto con le “mesce”?
R.: Certe fiate erane bone, certe fiate no....comu li nchianava.
D.: Vi trattavano male?
R.: Nc’è quiddhe ca te trattavane male percè no spicciavi le ‘nserte...
erane severe.
D.: Ma vi picchiavano pure?
R.: No no... sulu parole cu ci sbrigamu cu faticamu.
D.: In quali mesi si lavorava in fabbrica?
R.: Dicembre, gennaio.
D.: Chi era la donna lavoratrice un tempo?
R.: Na fiata vessiame de la fabbrica e sciame a casa cu facimu de mangiare... e poi non c’era la televisione; nui faciame lu puntu giornu, lu ricamu... Li tempi su cangiati!
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano prima?
R.: Quattro scelte... da quella più verde a quella più marrone; lu fronzone è la prima scelta. A seconda della qualità de quandu chianti lu tabaccu nc’era la santujaca (quiddha ca resta vascia vascia), lu pidistizza
(cu le fojazze lisce) e la zaguina (cu le fojazze grosse).
D.: C’era gente di fuori paese che veniva a lavorare a Sternatia?
R.: Sine, de Martignanu.
D.: È vero che c’erano le sbarre alle finestre?
R.: Sine, cu no’ rrubbane lu tabbaccu... ca era a contrabbandu...
D.: Quanti soldi ti davano al giorno?
R.: Centocinquanta lire.
D.: Ogni quanto ti pagavano?
R.: Ogni quindici giorni.
D.: Ti mettevano i contributi?
R.: Si si… ma nc’era ci te dicìa sì e poi no te mintìa nienti.
D.: Ma a tie l’hannu misi tutti sti anni ca faticasti?
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R.: None fija mia... era bonu... Se me l’erane misi tutti, moi tenìa na
paga chiù alta.
D.: Facevate li scioperi?
R.: Si, faciame tanti... e poi ni ridussera li orari: trasìame alle sette e
menza, vessiame a menzatia, tornavame all’una e vessiame alle tre e menza.
D.: Ti ricordi qualche sciopero? Alla chiazza?
R.: None, no me ricordu.
D.: Quanti giorni durava uno sciopero?
R.: Uno o massimo due giorni.
D.: Le mesce... Come si faceva a diventare “mesce”?
R.: Sapianu la qualità de lu tabaccu.
D.: Ah, sulu pe quiddhu? No percè teniane canuscenze?
R.: No no, quali amicizie! La prima mescia era zziama Assunta
(Grasso).
D.: Indossavate una divisa?
R.: Allu Specchia mintiame nu camisu marroncinu. Però prima cu ni
pijavane, ni faciane fare na visita medica, cu no tenimu la bronchite, la
tubercolosi, lu custipu...
D.: C’erano anche uomini in fabbrica?
R.: No no... c’era solo un maschio che apriva la porta...
D.: Appena arrivavate in fabbrica qualcuno faceva l’appello?
R.: Sine, ogni giurnu.
D.: Chi lo faceva l’appello?
R.: Lu Dunatu Chiriacò, lu stessu ca stia alla porta. Certe fiate lu facìa
puru don Cici Specchia.
D.: Potevate cantare in fabbrica?
R.: None... sulu l’urtimu giurnu…
D.: Come paralavate tra voi, in griko o dialetto?
R.: Sempre in griko.
D.: E quindi alla fine le fabbriche sono state chiuse. Ti sai spiegare il
motivo?
R.: Percé no facìane chiùi tabbaccu... no se vindìa...
D.: Ti ricordi qualche tabacchina di Sternatia ancora in vita?
R.: La Loigia de lu Nardu, la Rita e la Lucia de le Tomene ecc.
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