Le_Nuvole_files/Play it again, Jimi!

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Le_Nuvole_files/Play it again, Jimi!
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P L AY IT AGAIN, JIM I!
The moment when he played The Star-Spangled Banner,
kinda stopped everything.
(Henry Diltz, fotografo ufficiale di Woodstock)
Alla mezzanotte tra l’8 e il 9 febbraio del 1976, iniziarono ufficialmente le trasmissioni.
Il piccolo gruppo al completo — e solo il piccolo gruppo — era presente.
Nella stanza le luci erano soffuse, molte candele accese, e l’incenso fumigava nell’aria per allontanare i cattivi spiriti. Sembrava una riunione di carbonari pre-mazziniani, di parnelliti irlandesi: uomini riuniti a co/spirare,
nel senso di respirare insieme, in cerca di nuovi spazi di libertà.
C’era emozione e anche un po’ di agitazione perché c’era coscienza
dell’importanza di quanto in quel momento si stava compiendo dopo mesi
di lavoro e preparazione e con risultati che, lo si sentiva con crescente chiarezza, stavano andando oltre le migliori previsioni.
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Non si poteva sapere chi potesse essere sintonizzato a quell’ora sui
100,6 mhz delle modulazioni di frequenza dell’area di Bologna, fors’anche nessuno, ma si sapeva che l’attesa per il broadcasting aliciano era alta.
In quei giorni di prove tecniche di trasmissione, infatti, diverse persone
avevano sentito e commentato i vari nastri registrati che si susseguivano in
loop come quello in cui, sulle note di White Rabbit dei Jefferson Airplane,
la voce da basso del Muolo, accompagnata dal controcanto di Fatelargo,
megafonava attraverso l’etere l’annuncio della nascita:
Qui Radio Alice.
Finalmente Radio Alice.
Ci state ascoltando sulla frequenza di 100,6 megahertz
e continuerete a sentirci a lungo,
se non ci ammazza i crucchi…
Il nastro terminava con il caos mistico di Spirits Rejoyce di Albert Ayler
mixato con una sequela di parole — alcune delle quali sarebbero diventate
pietre angolari — tirate fuori all’impronta da GeorgeHarrison e acchiappate al volo da RAM, che enunciavano il programma e la linea della Radio:
Radio Alice è un posto dove
[…] manca il liquido e ce ne dispiace,
dove non ci sono macchine ma pensieri:
così impara!
Dove ci vuole il sudore della fronte,
dove si diventa più alti entro il duemila,
dove si aspetta l’estate e le pantere nere.
«Non ci sono macchine ma pensieri…», capito?
Chiarite quindi un po’ di cose (all’esterno come all’interno), si trattava
di iniziare la diretta, aprire i microfoni, fare cantare il giradischi, affinché
sopra la città si diffondesse quel mescolamento lavico di musica e parole.
L’appuntamento era stato fissato: dalle 22.30 in avanti si sarebbero
ritrovati nell’appartamento arrampicato sui tetti del Pratello.
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Questo, notoriamente, era il quartiere più malfamato della città, da
sempre rifugio di ladri (chiamati gratta), ex galeotti, e di donne che, quando
si trovavano con i mariti in prigione, per mantenere la famiglia si prostituivano. Il luogo — spiegava Fatelargo con puntiglio professorale a RAM lo
straniero — era stato d’ispirazione per la ben nota zirudela:
La me morosa non è Dolores, non è Carmensita,
la s’ciama Andrecca e la sta ‘ndal Pradèl,
mo l’é caliente e l’è pienna ed vita,
parch’al fomma tabac naziunel.…
Nel ’68 bolognese, inoltre, il Pratello era stato il campo di battaglia,
come l’Odéon a Parigi, degli scontri tra studenti e polizia, così come durante il fascismo era stato una sorta di porto franco per chi militava nella
Resistenza: polizia e fascisti temevano di penetrare tra quelle viuzze, angiporti, passaggi segreti dove il grado di ostilità della gente raggiungeva
il cento per cento. Questo per dire che la presenza di Radio Alice in quel
quartiere si inseriva nella grande tradizione popolare e politica della città.
Alcuni del piccolo gruppo si erano anche assunti il compito di verificare
che le stelle e i pianeti garantissero che le condizioni celesti di quel giorno
fossero favorevoli alla nascita di Alice: il sole era nel segno dell’Acquario,
ovvero nell’età astrologica verso cui il pianeta Terra si andava evolvendo,
e Nettuno in Sagittario faceva intendere un tempo di grande slancio ideale… ancorché di imprescindibile fatica. Alla richiesta dei compagni di
spiegare meglio, Laborynthus non si fece pregare:
— Eh, Nettuno… stupendo pianeta! Quando trova domicilio nella
casa del Sagittario, si esalta e, a cavallo di alti marosi, spinge ad andare
lontano… più lontano… ai confini dell’Oceano… oltre… fisicamente e
mentalmente… In Nettuno dimora la fantasia, l’arte, che nel lavacro oceanico trova purificazione e si fa compassione.
I compagni ascoltavano in silenzio, cercando di capire, terra terra, se
il messaggio era positivo o negativo.
Laborynthus, con l’aria del mago che scruta la sfera di cristallo e non
si meraviglia che gli altri non capiscano gli arcani del Cielo, concluse:
— C’è un forte senso di fiducia e di ottimismo. Ripeto: l’aspirazione
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dei nati in questo giorno è tutta al servizio dell’ideale. Poi c’è Marte nei
Gemelli, ma questo poco importa…
Sembrava potesse trattarsi di segni benauguranti e comunque non sarevvero stati gli unici. Infatti, di fianco al portone d’ingresso del palazzo
di Alice, c’era una maestà della Madonna. Era così scura, segregata in un
angolo, che nessuno mai la vedeva, ma c’era: buia Madonna del Pratello,
ora pro nobis.
Le trasmissioni sarebbero iniziate a mezzanotte, in punto: l’ora del
lupo, del tempo senza ritorno.
Verso le 11, si sedeterro tutti insieme attorno al tavolo della redazione
per consultare, guidati da Mutt e dal Muolo, l’I Ching, il Libro dei Mutamenti,
il grande oracolo cinese per capire quale fosse il passaggio, ovvero il senso
della trasformazione in atto.
RAM non sapeva nulla di quel libro. I suoi nuovi compagni, invece —
in un altamente dialettico rapporto con la storica militanza in Potere Operaio —, conoscevano già le meraviglie dell’antichissimo testo sapienziale.
A RAM veniva in mente una frase che Con Franchezza gli aveva fatto
leggere su Operai e capitale di Mario Tronti in cui il metodo, il modo di procedere di quei ricercatori veniva rassomigliato
[a] la vicenda di chi cerca un’altra via delle Indie
e proprio per questo scopre altri continenti.
RAM prendeva atto: stante quella realtà, da qualche parte doveva pure
esistere un filo rosso che legava l’universo taoista con l’utopia operaista.
Le monetine dello yin e dello yang cominciarono a rotolare sulla superficie di legno del grande tavolo e, in silenzio, tutti guardavano il comporsi
del responso: linea intera, linea intera mutante, linea intera, e poi spezzata
mutante, spezzata mutante, spezzata. Mutt, che di fatto era l’officiante di
quel rito d’individuazione, annunciò:
— La Terra sopra il Cielo: T’tai, la Pace che, con queste mutazioni,
porta al Lago sopra il Fuoco: Ko, il Sovvertimento, (la Muda).
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Nell’attenzione generale, Il Muolo e Laborynthus iniziarono a leggere
i commenti alla sentenza, all’immagine e alle singole linee.
Il libro parlava chiaro, diceva che il momento era speciale: quando l’energia della Terra sale e quella del Cielo scende, gli opposti s’incontrano
e allora si apre un tempo di armonia, fioritura e prosperità che nella ruota
del pianeta Terra è correlato al mese di febbraio (il mese in cui sincronicamente si trovavano), quando si prepara la nuova primavera.
Era una conferma importante: il fatto che quel tempo fosse speciale,
lo percepivano, anzi, lo avevano inteso con chiarezza proprio nel trascorrere di quei mesi, in quello stare insieme in cui si sentiva fluire la vita, ma
che portasse con sé un tale, profondo senso di armonia, questo faceva
bene sentirselo dire dal saggio maestro del Tao.
La straordinaria sentenza del primo esagramma oscurò leggermente la
lettura del secondo che ne indicava una evoluzione: nessuno volle soffermarsi a riflettere su parole che tra l’altro dicevano:
I sovvertimenti politici sono fatti estremamente gravi.
Bisogna intraprenderli soltanto in caso di assoluta necessità,
quando non rimane altra via…
I sovvertimenti politici… in realtà erano parte sostanziale delle prospettive di quella congrega di giovanotti. A volerle ascoltare, quelle parole erano
un avvertimento… che però in quel momento nessuno era in grado di accogliere e il cui senso si sarebbe reso chiaro dopo, neppure troppo tempo
dopo, quando il tempo della Pace aveva compiuto il suo corso e di Alice
rimaneva ormai solo la dolce memoria.
Con Franchezza era l’unico del gruppo che non apprezzava questi
rituali da apprendisti stregoni, e anche il fumo dell’hashish, che circolava
liberamente attorno alla tavola, non gli piaceva affatto: anzi, gli dava fastidio, non solo per coerenza con una sua ipotesi politica e culturale, ma ancora di più per qualcosa che c’entrava con il piano estetico. Eppure la sua
presenza nel gruppo in quel momento si faceva sentire in maniera molto
forte. A tutti i costi, infatti, voleva che il primo vagito della radio, la prima
parola, canto o messaggio, fosse uno e uno solo.
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Con Franchezza era fatto così: su certe cose — non troppo spesso,
per la verità e per fortuna — era inamovibile, pura roccia di San Donato:
su alcuni punti non era disposto a mediazioni. Così quella notte, nonostante non si occupasse molto di musica, e certamente meno di tutti gli altri,
era intuitivamente certo che Radio Alice dovesse iniziare le trasmissioni
con le note dell’inno americano reinterpretato da Jimi Hendrix a conclusione del Festival di Woodstock, la mattina del 18 agosto del 1969. Questo
era quanto.
Tutti, nel gruppo, erano d’accordo sulla massima importanza della musica, e quindi delle scelte musicali, nella comunicazione della Radio: ritenevano infatti che la musica, certa musica, come certa arte, sapesse esprimere
molto di più e molto meglio di tante parole e discorsi la complessità di quel
momento storico che si stava attraversando e il sentire dell’animo con cui
loro, poco più che ventenni, guardavano al mondo e alla realtà.
La scelta di quell’inno voleva significare una miriade di cose che si stratificavano una sull’altra nel tentativo di esprimere lo spessore e l’intensità
che il progetto di Alice cercava, voleva raggiungere e proponeva.
Innanzi tutto, in particolare per Con Franchezza, c’era la bravura suprema: — Jimi era il più bravo! Con questo si portava in primo piano la
genialità dell’essere umano — capacità d’invenzione, originalità, creatività
— e quindi il coraggio, non tanto di stravolgere un inno nazionale — quel
canto di chitarra non era certo parodia! —, quanto di rigenerarne il senso,
ricrearne il significato, perché di questo c’era bisogno e c’è sempre bisogno.
Per chi non l’avesse capito, era un canto d’amore quello che veniva
strappato alle corde della Stratocaster bianca e urlava all’alba da muraglioni e bastioni di amplificatori, e nello stesso tempo era la voce dello
strazio dell’anima, del mistero della realtà e del dolore dell’uomo: in esso
c’era l’imprescindibile affermazione di libertà e l’ineluttabile durezza della
gabbia.
Jimi Hendrix in quei quasi quattro minuti di grida, fischi, rumori e
caos con cui reinterpretava Star Spangled Banner, aveva creato una sintesi
artistica che come il lampo di una folgore illuminava il presente e la coscienza del presente: la cultura americana, la sua vitalità e la mortiferità,
l’egemonia, il sogno e la violenza, la tragedia, la guerra americana: ancora
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un’altra, l’ultima guerra che l’Occidente aveva portato avanti per vent’anni
contro ogni buon senso, utile solo a generare la paura necessaria per comandare la Terra.
Nella lacerazione di quei suoni, era evidente l’idea di ricreare — con
una sola chitarra amplificata — le esplosioni delle bombe, il cupo tuono
delle fortezze volanti, il fuoco del napalm che avvelena e fa strage di uomini, terra, acqua, foreste. Vent’anni: milioni di grida di morte nei villaggi
viet cong, centinaia di migliaia di grida di morte di ragazzi americani, ferite,
lacerazioni della carne, con corollari di angoscia, follia, impazzimento…
Nello stesso tempo — quelle stesse note — dicevano ancora l’amore, per
la vita, per la terra, la propria e l’altrui terra. Solo un nero-americano, che
conosceva sulla propria pelle la storia dei secoli della sua schiavitù, il costo
odioso della strada dell’emancipazione dal razzismo dei bianchi, solo un
afro-americano poteva concepire una simile sintesi di distruzione e creazione, cosciente di non potere emettere alcun giudizio, ma certamente con
il cuore rivolto alla sua gente, dalla parte degli sfruttati, perseguitati che
popolavano gli Stati Uniti tanto quanto tutti i quadranti del Mondo. Quel
blues diventava il canto globale e trasversale del popolo che resiste: il blues
era dei piccoli viet cong che andavano a combattere consapevoli che, nella
loro morte, la Vita si sarebbe rigenerata e che proprio per questo sarebbero stati in grado di sconfiggere la più grande potenza del pianeta e, parimenti, era dei ragazzi americani che andavano a morire senza conoscere,
capire il perché di quel sacrificio: ignari, instupiditi dalle droghe e stupiti
da quell’odio e dalla morte che li aveva catturati e se li stava divorando, a
vent’anni: era un canto che ovunque risuonava, in ogni angolo della Terra,
per dire l’inesauribile ricerca di libertà, giustizia, fratellanza.
Si racconta che quando la chitarra di Jimi intonò l’inno americano, il
poco pubblico rimasto ad ascoltare (circa 30 mila spettatori, rispetto ai 400
mila del momento di massima partecipazione al festival) fosse rimasto pietrificato, senza espressione, come preso e sorpreso in un incantesimo che
il musicista shamano, proprio in quell’istante (e poi mai più) stava evocando. In quell’attimo, in quel suono, si era enucleato e cristallizzato un punto
di non ritorno che sarebbe poi riverberato, con tempi e modi diversi, attraverso i dischi, i film, i racconti, lungo i fili comunicativi di tutto il pianeta.
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Nella luce livida dell’alba, il festival di Woodstock — che si annunciava come tre giorni di pace, amore e musica — finiva, e con esso, contro
ogni intenzione celebrativa, si concludeva definitivamente l’epoca delle illusioni del dopoguerra: illusioni di pace, libertà, giustizia, di costruzione di
un’alternativa che poteva anche chiamarsi comunismo o come le pareva, del
fiorire di una nuova umanità animata dal desiderio di un mondo che fosse
guidato da una rigenerata coscienza d’amore: this is the end, my friend.
La crudezza di questa realtà veniva evidenziata dalla visione di fronte a
cui quella mattina Jimi Hendrix si trovava a suonare: per kilometri, tutt’attorno, c’era solo desolazione di fango mescolato a ogni genere di spazzatura il cui acre puzzo si diffondeva per vasto raggio, cosparso di decine di
migliaia di sacchi a pelo fradici, abbandonati per terra, che sembravano
fantocci di cadaveri sul campo dopo la battaglia, un campo che parlava
dell’immensa discarica del mondo, disposable, il mondo usa e getta da cui
non c’era scampo. In quella visione, in quel suono di chitarra, ogni buona
intenzione, ogni ideologia di trasformazione del mondo, veniva rivoltata e
sepolta dall’avanzare delle ruspe del consumismo.
— Non c’è illusione, fratello — diceva Jimi in quel momento, con
quelle note —, ti amo, ci amiamo, ma ti prego: niente illusioni.
Era agosto. Nel settembre dell’anno dopo, Jimi sarebbe morto, soffocato dalla droga.
In questo modo nasceva Radio Alice, e la scelta di quel messaggio,
di quel tipo di comunicazione sonora — accolta all’unanimità dal piccolo
gruppo — stava a significare che proprio da lì, da quella coscienza della
fine di qualcosa, con coraggio, si intendeva ripartire, andare avanti, contro
il senso di morte e di angoscia che da tante parti si sentiva già avanzare:
tentare un nuovo inizio, cercare nuovi inizi: andare, anche se non si sapeva
dove, andare.
Con tutto questo ci si trovava a fare i conti.
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IL FAT T O È CH E C’ ERA M ART E IN GEM EL L I .
Like looking in a mirror and seeing a police car
But I’m not giving in an inch to fear…
(David Crosby)
Prima giornata di trasmissione: un grande spazio bianco, vuoto, da
riempire, ogni giorno, tutti i giorni.
Dopo l’alba, Fatelargo, come una sentinella, prese posto nella garitta
e si offrì di continuare per qualche ora, da solo, a trasmettere, mentre gli
altri lasciavano la sede.
Fatelargo, carico di ironia, nonché di vivide punte di sarcasmo, si scatenò a presentare, commentare, strapazzare Quelli che… di Jannacci, l’intero L.P. che a Bologna era ancora pressocché sconosciuto.
Il tono irridente del suo modo di trasmettere infastidì qualche compa651