Donne dimenticate - L`Osservatore Romano

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Donne dimenticate - L`Osservatore Romano
DONNE CHIESA MONDO
MENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO
NUMERO
51
NOVEMBRE
2016
CITTÀ DEL VATICANO
Donne dimenticate
numero 51
novembre 2016
BIO GRAFIA
D ell’amore e del dolore
L’umano e il santo visti da Ida Görres
HANNA-BARBARA GERL-FALKOVITZ
A PAGINA
SPIRITUALITÀ
FO CUS
Apostola
dello Spirito santo
Martire dei diritti umani
SILVINA PÉREZ
ANTONELLA LUMINI
IN
A PAGINA
A PAGINA
3
23
11
NOVEMILA CARATTERI
La rabbina dimenticata
ANNA FOA
LA
A PAGINA
17
SCIENZIATA
Un’elica monca
GIULIA GALEOTTI
A PAGINA
LA
22
SANTA DEL MESE
Nel mondo per portare la luce divina
NELL’ANTICO
FERDINAND O CANCELLI
A PAGINA
26
MERCEDES NAVARRO PUERTO
A PAGINA
29
A PAGINA
36
A PAGINA
39
TESTAMENTO
Giuditta la salvatrice
ARTISTE
Il coraggio di cantare il Dies irae
PASQUALE CHESSA
MEDITAZIONE
Per chi sta sempre peggio degli altri
A CURA DELLE SORELLE DI
BOSE
L’EDITORIALE
Donne dimenticate
Mnemosyne, la chiamavano i greci. Era la dea della memoria, colei
che teneva attiva la memoria negli uomini, facendo loro serbare ciò
che ella voleva. È esattamente alla attività opposta a quella di Mnemosyne che abbiamo voluto dedicare questo numero di «donne chiesa mondo»: alla cattiva arte del dimenticare nella sua declinazione
storicamente più praticata, cioè quella di dimenticare le donne.
D ONNE CHIESA MOND O
Mensile dell’Osservatore Romano
a cura di
LUCETTA SCARAFFIA
In redazione
GIULIA GALEOTTI
SILVINA PÉREZ
Comitato di redazione
CATHERINE AUBIN
MARIELLA BALDUZZI
ANNA FOA
RITA MBOSHU KONGO
MARGHERITA PELAJA
Progetto grafico
PIERO DI D OMENICANTONIO
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per abbonamenti:
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Un atteggiamento assolutamente trasversale: che si tratti di letteratura, mistica, storia, scienza, politica, religione o religioni, che si tratti di laiche o di consacrate, di ieri o di oggi, di Europa o di America,
in ogni epoca e società il contributo decisivo e stimolante di tante
voci femminili è stato occultato, dimenticato, perso. E questo ha impoverito tutti, donne e uomini. Come se quelle voci non avessero
mai parlato, il loro contributo è stato a volte trafugato dai maschi, a
volte è scivolato via senza penetrare nel nostro modo di pensare e di
vivere, altre volte infine è stato scientemente sbriciolato e schiacciato
per renderlo inoffensivo. Perché — specularmente a quella del ricordare — anche l’arte del dimenticare è stata ed è suscettibile di un
gran numero di varianti e sfumature, come dimostrano le storie di
questo numero.
Non solo quelle di cui qui parliamo, ma più in generale tutte le
donne dimenticate della storia sono raffigurate dalla nostra immagine
di copertina. Belle statuine depositate e imbalsamate sui rami più alti: depositate e imbalsamate spesso formalmente con grande cura, ma
nella sostanza abbandonate lì per calcolo, opportunismo, invidia o
ignoranza. Ricordarle è un primo passo per tirarle fuori dal letargo
loro forzatamente imposto; è un timido tentativo di scongelarle e richiamarle in vita perché possano iniziare a rendere fertili le nostre
esistenze. E questo naturalmente è solo un piccolo campione: le donne dimenticate sono molto più numerose, e dovremo dedicare loro in
futuro altri numeri del nostro giornale. (giulia galeotti)
BIO GRAFIA
D ell’amore
e del dolore
L’umano e il santo
visti da Ida Görres
di HANNA-BARBARA GERL-FALKOVITZ
O
ggi sono pochi a ricordarla ma, quando Ida Görres morì, nel maggio
1971, fu Joseph Ratzinger, allora professore a Tubinga, a pronunciare
l’orazione funebre. Era diventata famosa soprattutto per i suoi splendidi ritratti di grandi personaggi — da Francesco d’Assisi a Giovanna
d’Arco, da Florence Nightingale a Teilhard de Chardin — che avevano profondamente rinnovato l’agiografia del XX secolo; ma anche per
testi altrettanto intensi e rivoluzionari, a partire dalla grande opera su
Teresa di Lisieux.
Ida Görres, contessa dell’impero Friederike Maria Anna von Coudenhove, visse una vita segnata da una profonda quanto stimolante
solitudine interiore, dono ambiguo delle sue origini: era nata nel bel
mezzo della selva boema da un diplomatico austriaco e da una giapponese che le lasciò anche nell’aspetto inconfondibili tratti eurasiatici. Ma il doppio delle sue origini si trovava più di tutto nell’anima.
Lei stessa percepiva con dolore la tensione interiore tra due culture
tanto diverse: «Che la grande tristezza, lo sguardo impietoso sul
mondo, siano la mia eredità asiatica? È una cosa molto vecchia, di
antica saggezza, ma vecchia e saggia in modo irredento, quella di cui
ho parte». E sulla madre nota: «Del suo destino profondamente tragico potrebbe scrivere solo un grande romanziere della prossima ge-
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nerazione, così come la Mitchell ha scritto Gone with the Wind (Via
col vento). Lei pensa che qualcuno le abbia chiesto se voleva sposare
un europeo, del quale sapeva solo che “sono diavoli bianchi dai capelli rossi e gli occhi da pesce”? Il suo tardo e amaro commento è
stato: “Fu peggio della morte. Ma le ragazze giapponesi sapevano
obbedire” (...). Dei suoi sette figli, mia madre amava solo i due maggiori, che erano nati in Giappone, e non ci lasciò alcun dubbio in
merito (...). Quando qui sento chi si lamenta per la “mancanza di calore familiare” mi viene quasi da ridere».
Trascorse l’infanzia in scuole conventuali austriache, dove incontrò
per la prima volta la Chiesa nella sua forma più rigida, ma per alcuni
aspetti anche protettiva. Solo dopo il 1918, nel movimento giovanile
Bund Neuland del quale contribuì a modellare in modo notevole la
volontà di rinnovamento religioso, arrivò a percepire nella Chiesa
un’inaspettata vitalità.
Dal 1923 al 1925 la giovane Ida (vezzeggiativo per Friederike) rimase provvisoriamente come novizia presso le suore di Maria Ward
nell’amata St. Pölten, vicino a Vienna. Studiò scienze politiche a
Vienna dal 1925 al 1927, quindi scienze sociali a Friburgo dal 1927 al
1929, e infine storia (della Chiesa), teologia e filosofia prima all’università di Friburgo dal 1929 al 1931 e poi a Vienna, dal 1931 al 1932.
Dal maggio 1932 fino alla Pasqua del 1935 lavorò «nell’assistenza sociale per la gioventù femminile» della diocesi di Dresden-Meißen, o
meglio, come pioniera intellettuale per la gioventù cattolica. Proprio
a Dresda, il suo modo vivo, addirittura ardente di sviluppare e comunicare il proprio pensiero era già molto pronunciato; la sua guida
entusiasmava.
Su questo successo tuttavia continuava a gravare quella solitudine
che poggiava sul «crudele peso dell’infanzia», su un’educazione singolarmente priva di amore. Finché giunse ad attenuarla, non senza
conflitto interiore, il corteggiamento del berlinese Carl-Joseph Görres
(1905-1973). Si sposarono nel 1935, e alcuni ambienti cattolici furono
quasi delusi dal matrimonio, che sembrava demolire l’ideale di una
nuova “pulzella d’O rléans”. Il marito però si rivelò un degno compagno della passione intellettuale di Ida, che ebbe la possibilità di dedicarsi completamente al lavoro di scrittrice. Nacquero opere in rapida successione, insieme a numerose conferenze, che nel complesso
vertono tutte sulla Chiesa e i santi. «Poiché non ho famiglia — con
suo grosso dispiacere non poté avere figli — tutta la mia forza si è
concentrata sulla Chiesa».
A partire dal 1950 cominciò a soffrire di paralisi spastiche, che frenarono il suo lavoro ma non interruppero completamente la sua
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creatività. Tra le cause scatenanti della malattia ci furono probabilmente anche gli attacchi subiti per Brief über die Kirche (Lettera sulla
Chiesa, 1948), opera di critica sociale per la quale venne duramente
criticata.
Ida Görres
in una fotografia del 1948
Visse il concilio Vaticano II in principio con gioiosa attenzione, ma
poi piuttosto con preoccupazione per le conseguenze delle quali vedeva i pericoli e le ambiguità. Lo dimostrano le sue lettere al benedettino Paulus Gordan, pubblicate con il titolo interrogativo Wirklich
die neue Phönixgestalt? (Davvero una nuova forma della Fenice?, 2015).
Istintivamente la Görres vedeva vacillare anche cose per lei irrinunciabili. Un titolo indicativo è Abbruchkommandos in der Kirche (Commando per lo smantellamento nella Chiesa). Nel 1969 fu convocata al sinodo di Würzburg, che intendeva attuare al più presto le direttive
del concilio. Il 14 maggio 1971 Ida Görres vi pronunciò un intervento
su «Messa e sacramento» e subito dopo si accasciò per un’emorragia
cerebrale che la portò alla morte il giorno successivo nel Marienkrankenhaus di Francoforte.
La Görres aveva espresso il desiderio di essere sepolta a Friburgo
vestita del suo kimono bianco. Il bianco, colore del lutto per i giapponesi, indica una tarda “riconciliazione” con la madre. Sulla lapide,
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accanto all’arcangelo Michele combattente, a lei tanto caro, sono
scritte le parole Cave adsum (“Attenzione, sono qui!”).
Nel 1943 era stato pubblicato il capolavoro della Görres: Das verborgene Antlitz (Il volto nascosto), sulla piccola Teresa di Lisieux. L’importanza e il successo di quest’opera risiedono nel fatto che essa —
anche prima dell’edizione integrale del diario, censurato dalle consorelle — mette in luce la qualità umana di Teresa: il mito sdolcinato
che il convento aveva costruito intorno alla “piccola”, le leziosità costruite intorno alla “storia di un’anima” svanirono dinanzi alla profonda conoscenza dell’ambiente mostrata dall’autrice, anche lei educata nel mondo dei “piccoli sacrifici”, della poesia edificante e dei
pensionati conventuali femminili. Ogni ornamento piccolo-borghese
dunque viene eliminato per svelare il volto nascosto di Teresa, compromessa da tratti nevrotici, sminuita dall’infantilizzazione operata
dalle suore del convento, talvolta vinta da una scrupolosità ossessiva,
e alla fine sprofondata in una spaventosa notte della fede. E tuttavia:
proprio nella pietà individualmente limitata e distorta dall’ambiente,
il volto di Teresa inizia a riflettere ciò che è divino.
Ancora oggi questa “archeologia” della vera Teresa toglie il respiro. Nulla viene ridotto a psicologismi più o meno superficiali: dinanzi all’umanamente limitato, l’inspiegabile appare straordinariamente
illuminante. Il fascino (e la consolazione) di quest’opera sta nel fatto
che essa mostra in tutta evidenza che il limite dell’uomo non costituisce una barriera per il divino. Anche gli aspetti del carattere più strani e spiacevoli diventano punto di partenza per la grazia. Il kitsch
non oscura davvero la bellezza di Dio. Con la passione di chi soffre
di persona per la convenzionalità ristretta di alcune posizioni della
Chiesa, la Görres mostra la differenza tra album di poesie stereotipato e canto di lode permeato di autentica religiosità. Il gioco alterno
di grazia e debolezza è commovente, diventa addirittura il marchio
della santità.
Denise Lynch
«St. Therese
the little flower»
L’altro fronte in cui emerge tutta l’umanità della Görres è la riflessione sulle questioni fondamentali della vita. Il libro Von Ehe und von
Einsamkeit (Del matrimonio e della solitudine, 1949) dà un’idea dell’acuta capacità di osservazione e della passione della grande autrice. In
esso sono elencate tutte le obiezioni al matrimonio definito come
«vincolo permanente impossibile», ma sono messe in risalto anche
tutte le tristi esperienze della solitudine “inappagata”. Così sono discusse, approfondite con delicatezza e chiarite tutte le posizioni, finché non emerge l’indicazione di fondo: che la vita va vissuta, in un
equilibrio precario, ma comunque vissuta: l’intera vita con una sola
altra persona o la vita con tante persone. Entrambe hanno i propri
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Vincent van Gogh
«Campo di grano con volo
di corvi» (1890)
oneri, che non possono essere alleggerite con le parole, ma che vanno accettati senza amarezza; entrambe hanno le loro soddisfazioni,
ma anche i loro precipizi. E tuttavia possono essere vissute. Anche i
fraintendimenti del primo amore vengono esaminati con delicatezza:
una lezione sulla capacità di dedizione umana e l’autoinganno pregno di pericoli. Ma si tratta di una lezione che non umilia. A parlare
qui è qualcosa di più del sentimento; a parlare è l’esperienza.
Si sente un linguaggio pieno di passione, che fa percepire un cuore palpitante, ma anche una mente analitica: tanto rigoroso quanto
creativo, tanto elegante quanto combattivo. Un’abilità linguistica ricca di sfumature conferisce alle argomentazioni la loro chiarezza, e ancor più la loro forza utile.
A rendere prezioso questo modo di pensare è il suo chiamare in
gioco la potenza, Dio. Non come tappabuchi e panacea per tutti i
mali, bensì come resistenza viva, alla quale si può ricorrere per tirarsi
su. «Può sostenere solo ciò che resiste». E proprio questo si dimostra
utile.
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Nel diario Zwischen den Zeiten (Tra le età, 1960) è Ida Görres stessa
a illustrare la propria personalità: «I miei problemi principali, quelli
centrali, esistenziali, in realtà non stanno nella sfera intellettuale, come si ostinano a pensare i miei conoscenti, gli estranei e perfino gli
amici. Stanno da sempre in quella morale, per quanto riesco a ricordare; e anche qui non stanno nella teoria e nei principi, bensì nella
vita. Ho fatto sempre solo appello all’intelletto come truppa di rinforzo per esplorare la giungla inestricabile del dover vivere e i principi, per aprire un cammino; la via è stata ed è ancora l’essenza delle
mie domande».
La Görres è stata capace di «gridare dell’amore e del dolore». Ha
sondato l’umano nel profondo: il profondo di una natura confusa,
contraddittoria, “irredenta”, dove la sessualità agisce come grande
motore indomito. E pur attraversando l’analisi della millenaria esperienza della Chiesa, della poesia, della letteratura, le risposte agli interrogativi più angosciosi giungono solo dal dialogo personale e dal
conflitto con Dio, dall’essere felicemente sorpresi della sua guida.
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SPIRITUALITÀ
di ANTONELLA LUMINI
Apostola
dello Spirito santo
T
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ra le mistiche cristiane dimenticate, non si può non ricordare la beata
Elena Guerra, la cui vicenda è particolarmente sorprendente. Infatti,
se pure spesso le mistiche sono state incomprese e ostacolate (se non
addirittura, come Margherita Porete, condannate al rogo), Elena
Guerra invece ha ottenuto grande riconoscimento da papa Leone
XIII, a cui si era rivolta con numerose lettere. Una figura dunque valorizzata da un punto di vista teologico, ma la cui spiritualità non è
penetrata nel tessuto della Chiesa, tanto è vero che pochi la conoscono e i suoi numerosi opuscoli e trattati spirituali hanno avuto scarsa
diffusione.
Nata a Lucca nel 1835 in una nobile famiglia e fin dalla giovinezza
condizionata da una salute cagionevole, scoprì presto la gioia per le
cose spirituali. Incompresa per la sua esperienza mistica, rimase fedele a quella missione speciale che le era stata assegnata e che costituì
il filo aureo della sua esistenza: riportare lo Spirito santo al centro
della vita cristiana. «L’adorazione dello Spirito Santo — scrive — è
sempre stata molto ardente nel mio cuore, anche se nessuno me l’aveva raccomandato, malgrado non conoscessi alcuna lettura che me
l’avrebbe potuto insegnare». Inizialmente pensò a un’associazione, le
«amiche spirituali», finalizzata a condividere un’autentica vita cristia-
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D ONNE CHIESA MOND O
DAL MOND O
In Kurdistan
Si chiama Radio
Dange Nwe, cioé
Radio Voce nuova,
l’emittente
del Kurdistan
pensata
per dare
informazione ai
rifugiati e gestita da
un gruppo di donne,
anch’esse rifugiate.
La radio
trasmette da un
appartamento
del Centro femminile
di Halabja,
provincia irachena a
maggioranza curda.
Da più di un anno
le speaker, tutte
donne, vanno
in onda
quotidianamente
dalle otto a
mezzogiorno
alternando canzoni,
poesie, programmi
di attualità politica
o trasmissioni
in cui forniscono
preziosi consigli
per accedere
all’assistenza legale
e sanitaria.
Parlando in arabo e
in kurmanji
(dialetto curdo),
le ragazze si
rivolgono alle
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na attraverso l’amicizia. Nel 1872 fondò un istituto laico dedicato a
santa Zita, patrona di Lucca, per l’educazione gratuita delle ragazze,
che in seguito si trasformò nella congregazione religiosa delle Oblate
dello Spirito Santo. Ebbe fra le allieve Gemma Galgani. In pieno
Ottocento, mentre prevaleva la spiritualità della croce e della penitenza, il rivelarsi a Elena dello Spirito santo come divino amore, assume senza dubbio una valenza profetica: «In Dio l’amore è sempre
perfetto e perciò è sussistente, eterno... e questo amore è lo Spirito
Santo, operatore di tutti i prodigi di carità». L’esperienza mistica
della beata trova connotazione su questa linea bene demarcata in cui
lo Spirito santo le si rivela come amore in atto, amore che amando
insegna ad amare: «La bell’opera di infiammare i cuori di amor di
Dio è proprio del medesimo Amore. Venne l’Amore e l’uomo amò».
Gesù accese l’amore nei cuori degli apostoli quando «mandò a essi
lo Spirito santo, cioè l’Amore sostanziale e personale di Dio stesso».
Non si fa leva sulla volontà, bensì sul cedimento che permette allo
Spirito santo di operare e trasformare: «Al mondo mancano la verità
e l’amore, perché ha [...] allontanato da sé lo Spirito di Dio. [...]
Tutti ammettono che il mondo si sta dirigendo verso la rovina totale
[...], ma che cosa facciamo per accelerare il necessario ritorno dello
Spirito di Dio nel cuore degli uomini?». Nel 1870 la presa di Roma
sancisce definitivamente la perdita del potere temporale della Chiesa.
Il richiamo di Elena verso lo Spirito santo si intensifica, vedendo in
tale evento un ritorno all’inizio della predicazione degli apostoli. Ma
nonostante la propria determinazione e l’instancabile tentativo di
coinvolgere altre persone, non si sentiva compresa. Nel 1895 scrisse a
Leone XIII la sua prima lettera: «Santo Padre, solo voi potete far sì
che i cristiani ritornino allo Spirito Santo, affinché lo Spirito santo
ritorni da noi [...] Vorrei chiedervi, per l’amore di Dio, di non indugiare a raccomandare questa preghiera comune». C’è un’urgenza che
preme. Le sorti del mondo sono ormai lette solo in questa chiave salvifica: «Tutti i benefici della redenzione sono di infinita eccellenza,
ma quello che di tutto è compimento e corona è l’infusione dello
Spirito di Dio nelle creature». Poco dopo il papa risponde con il
breve Provida matris charitate con il quale introduce un periodo festivo di preghiera allo Spirito santo fra l’Ascensione e Pentecoste. Elena
incoraggiata, tra il 1895 e il 1903, scrive ben tredici lettere al papa.
Nel 1897, a seguito della quinta lettera, Leone XIII risponde con l’enciclica Divinum illud munus, rilevante trattato sullo Spirito santo, in
cui viene viene messa in luce l’azione con cui opera negli apostoli e
nell’umanità e come effonde i suoi doni. L’ultimo atto ufficiale del
papa alle costanti sollecitazioni di Elena sarà, nel 1902, la lettera Ad
fovendum in Christiano populo diretta ai vescovi di tutto il mondo con
cui li incoraggia a rinnovare la fede affidandosi allo Spirito santo.
A pagina 10
fratel Eric, «La Pentecoste»
(vetrata della chiesa
della Riconciliazione, Taizé)
A pagina 12, una statuetta
raffigurante Elena Guerra
La sinergia creatasi fra Elena e Leone XIII di fatto porta luce sul
passaggio epocale che stava investendo la Chiesa e l’umanità, ma certamente i tempi non erano maturi per una pronta risposta. La preghiera di invocazione allo Spirito santo, si diffuse invece, a partire
dalla fine dell’Ottocento, in comunità protestanti nordamericane,
lontano dalla gerarchia ecclesiale, attraverso il cosiddetto movimento
pentecostale chiamato poi, dal 1963, Rinnovamento carismatico e solo dal 1967 riconosciuto dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa.
Come scrive Elena al papa: «Da tanti anni desidero ardentemente
che i fedeli si riuniscano unanimi per ritornare allo Spirito Santo e
13
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comunità di migranti
fuggite dalla guerra,
molto spesso la
medesima guerra da
dove sono esse stesse
fuggite.
per realizzare con la preghiera incessante un rinnovamento benefico
della faccia della Terra». Alla fine della sua vita conobbe un periodo
di grande amarezza e solitudine: «La povera serva dello Spirito Santo ha portato avanti il suo lavoro anche in mezzo a tanti tradimenti
[...] lasciarsi legare le mani senza ribellarsi e, a mani conserte, dedicarsi alla forma più alta dell’adorazione e dell’accettazione della Volontà di Dio [...] questa è la trasformazione dell’umile inattività
nell’azione perfetta». Nel 1959, a distanza di pochi decenni dalla
morte, avvenuta l’11 aprile 1914, fu beatificata da papa Giovanni XXIII
come «Apostola dello Spirito Santo».
L’ispirazione profetica di Elena, accolta e divulgata attraverso l’autorità del papa, sicuramente prepara un avvento: l’era dello Spirito
santo. Mette in luce l’opera che la terza persona trinitaria muove nella storia e che, attraverso l’umanità del Figlio, si riversa sul genere
umano con potenza fino alla sua massima espansione. Di questo tratta lo stesso Leone XIII nell’enciclica Divinum illud munus: «Lo Spirito
Santo è di tutto la causa finale, perché come nel suo fine la volontà e
ogni cosa trovano quiete, così egli che è la bontà e l’amore del Padre
e del Figlio, dà impulso forte e soave e quasi l’ultima mano all’altissimo lavoro dell’eterna nostra predestinazione». Se l’era del Padre è il
tempo della Legge e l’era del Figlio è il tempo dell’Amore, l’era dello
Spirito santo è il tempo dell’espansione dell’amore in cui tutti saran-
L’ispirazione del cenacolo universale guarda alla Chiesa
come realtà di comunione fondata su un solo spirito
e che proprio per questo può trasformarsi in Chiesa in uscita
A oltre un secolo dalle parole di Elena non si può più aspettare
no chiamati, attraverso misericordia e perdono, a una visione di Dio
consolatrice e materna. Quello di Gesù è un battesimo in «Spirito
Santo e fuoco», i discepoli sono inviati a battezzare «in nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Lo Spirito di Dio discende
nel Figlio per effondersi nell’umanità. Il Consolatore libera dallo spirito del mondo attraendo a sé, provvedendo a ogni bisogno con cura
e tenerezza. Al centro della spiritualità di Elena Guerra è posta la rinascita nello Spirito santo che si origina con il battesimo: «Appena
uscita dal grembo di mia madre, Tu, Signore, mi hai abbracciata e lavata con l’acqua del battesimo rendendomi tua figlia. [...] Rinati at-
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traverso l’acqua, dobbiamo rinascere [...] nello Spirito Santo. Solo
Tu, Signore, mi puoi far comprendere e mettere in pratica questa
beata rinascita. [...] Affinché la mia vita sia una continua comunione,
un’ininterrotta rinascita e una crescita nello Spirito Santo». Rinascere
nello Spirito, rinvia alla «rinascita dall’alto» a cui accenna il testo giovanneo (cfr. Giovanni 3, 3-8), fa pensare allo Spirito santo come a un
abbraccio luminoso che si effonde per accogliere e rigenerare l’intera
umanità.
Elena si fa portavoce di un tempo nuovo che preme sulle soglie
del mondo: «Inaugurare concretamente nella Chiesa la vera casa
dell’adorazione, un cenacolo universale mondiale. In questo modo i
fedeli saranno uniti con la Madre di Dio che con gli apostoli pregò
ardentemente nel cenacolo di Gerusalemme e potranno supplicare e
chiedere allo Spirito Santo, attraverso un incessante vieni, l’anelato
rinnovamento della faccia della Terra».
Il fulcro profetico è dunque la visione di questo «cenacolo universale» che rinvia a una nuova Pentecoste. Come Maria e gli apostoli
dopo l’effusione dello Spirito santo, escono dal cenacolo per andare
verso le genti, così la Chiesa è chiamata ad aprirsi universalmente al
mondo per effondere il fuoco dell’amore. Dalla realtà comunitaria
che crea appartenenza, si apre la prospettiva di una comunione universale. Il termine Chiesa allude alla comunità (ebraico: qahal; greco:
ekklesìa), ma l’aggettivo cattolica apporta la giusta visione. Gli apostoli possono disperdersi fra le genti perché uniti nello Spirito. Lo
Spirito di Dio attraverso l’umanità del Figlio investe il genere umano, fa crollare i muri chiusi delle appartenenze. C’è comunione solo
dove uno è lo spirito: «Siamo stati battezzati in un solo Spirito per
formare un solo corpo» (1 Corinzi 12, 13).
L’ispirazione del cenacolo universale guarda alla Chiesa come realtà
di comunione fondata su un solo spirito e che, proprio per questo,
come non si stanca di ripetere papa Francesco, può trasformarsi in
Chiesa in uscita, andare verso le periferie. Non sono le istituzioni e
le organizzazioni a garantire l’unità, ma la forza dello Spirito Santo.
A distanza di oltre un secolo dalle parole di Elena non si può più
aspettare. I tempi lo richiedono. La globalizzazione, i conflitti, le
contraddizioni, sono tali da rendere evidente che non rimane altra
via se non quella dello Spirito: le parole, i buoni ragionamenti, non
servono più. Serve il silenzio che faccia tacere ogni voce e permetta
di ascoltare la voce dello Spirito santo. Elena ancora ci illumina:
«Ricordati (dice lo Spirito Santo all’anima) che Io amo intrattenermi
tra amici e nel mio vivo tempio bramo silenzio».
Burkini
e dintorni
Più lo si proibisce,
più si vende: la legge
del mercato vale
anche per l’ormai
celebre burkini,
bandito dalla Francia
in questa estate 2016.
Inventato
da Aheda Zanetti,
musulmana
australiana di origini
libanesi che
non voleva
rinunciare a praticare
il nuoto a livello
agonistico, il burkini
ha visto le sue
vendite aumentare
su scala globale
del duecento
per cento,
diventando un
vessillo identitario.
Intanto, una nuova
Barbie sta facendo la
sua comparsa: la
ventiquattrenne
nigeriana Haneefah
Adam ha infatti
creato Hijarbie, per
la quale ha
disegnato, tagliato e
cucito abiti
rendendola una
musulmana a tutti
gli effetti.
Haneefah Adam ha
dichiarato di voler
aiutare le ragazze di
fede islamica, dando
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IN NOVEMILA CARATTERI
di Anna Foa
Regina Jonas
la rabbina
dimenticata
Q
uando a Cincinnati, nel 1972, l’ebrea riformata Sally Priesand fu ordinata rabbino dall’Hebrew Union College, fu considerata la prima donna rabbino della storia. Così la presentarono i media e tale
lei stessa si riteneva. In realtà era soltanto la seconda, ce ne era già stata una ma
era stata dimenticata, nessuno ricordava il
suo nome né il suo percorso. Eppure
era stato un cammino interessante, anomalo, quello che
l’aveva portata a ottenere l’ordinazione rabbinica nella Germania
hitleriana nel 1935, e poi a morire ad Auschwitz nel 1944. Si chiamava
Regina Jonas, ed era nata a Berlino nel 1902. All’epoca la sua vicenda aveva fatto un certo rumore e se ne era anche parlato nella stampa tedesca. Ma poi Regina Jonas era stata completamente dimenticata. La sua figura riemerse dall’oblio solo dopo la caduta del muro di
Berlino, all’inizio degli anni Novanta, quando una studiosa, Katharina von Kellenbach, trovò in un archivio della Germania orientale
una busta con alcuni suoi documenti, tra cui il certificato dell’ordina-
D ONNE CHIESA MOND O
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D ONNE CHIESA MOND O
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zione rabbinica. Da allora la sua figura ha attratto sempre più l’attenzione, non solo in Germania ma anche negli Stati Uniti, dove a
partire dall’inizio degli anni settanta era emerso un movimento femminista ebraico molto attivo che aveva dato vita, fra l’altro, a un vivace dibattito sulle donne rabbino.
A pagina 16
Marlis E. Glaser, ritratto
di Regina Jonas
Di Regina possediamo una sola fotografia: è vestita di scuro, con i
capelli coperti, un bel viso e occhi intensi. Sembra più una donna
ortodossa che la prima rabbina della storia ebraica. Era di famiglia
modesta e tradizionalista, tanto suo padre che sua madre erano nati
in Germania, suo padre era un piccolo commerciante morto precocemente. Dopo la sua morte la famiglia aveva preso a frequentare la sinagoga di Rykerstrasse, inaugurata nel 1904, una sinagoga mista in
cui il culto era prevalentemente tradizionalista ma con aperture al
cambiamento. Vi officiava negli anni della prima guerra mondiale anche il rabbino Max Weil, che divenne il maestro di Regina, seguendola nei suoi studi. Era un rabbino legato alla tradizione, ma particolarmente attento alla questione delle donne, tanto che fu tra i primi a
introdurre il bat mizvah, la maggiorità religiosa per le ragazze. Insomma, un mondo complesso di intrecci tra richiami alla tradizione e innovazione che Regina modulerà a suo modo ma che, in altre forme,
ritroviamo già nel suo percorso di studi. Un percorso che raggiunge
una prima tappa nel 1924, quando Regina si diploma e viene assunta
alla scuola religiosa di Annenstrasse diretta dal rabbino Bleichrode,
anch’egli piuttosto vicino ai tradizionalisti ma non senza aperture soprattutto in campo educativo. L’anno successivo, Regina si iscrive alla Hochschule für die Wissenschaft des Judentums. Era il seminario
di studi rabbinici fondato a Berlino nel 1872 da Abraham Geiger, una
scuola nata nell’onda del movimento di riforma ma ufficialmente priva di una formale aderenza a un qualsiasi movimento religioso, ortodosso, liberale o riformato che fosse. Il professore di Regina alla Hochschule, Eduard Baneth, le assegnò una tesi di laurea significativamente intitolata «Possono le donne officiare come rabbini?».
È questo il contesto in cui Regina si forma, in cui porta a termine
il suo complesso progetto di diventare rabbina. È un contesto che
non è certo ininfluente, una mescolanza fra attaccamento alla tradizione religiosa e apertura al nuovo che si sedimenta nella mente della
giovane studiosa, che la segna e la muove. Regina non è affatto una
stravagante, come all’epoca si cercò di farla passare. Studia in scuole
aperte, come sono tutte quelle che non sono esclusivamente ortodosse (e gli ortodossi sono allora una minoranza fra gli ebrei tedeschi), e
accede a un istituto di studi rabbinici che nasce direttamente
dall’Haskalah e dal movimento di riforma. Un istituto, sottolineiamolo, in cui erano ammesse donne fin dalla sua creazione (nell’istitu-
D ONNE CHIESA MOND O
18
to rabbinico ortodosso, Hildesheimer, le donne invece non erano ammesse): nel 1872 ce ne erano infatti ben 4 su 12 studenti e più tardi la
proporzione cresce ulteriormente. Nessuna di loro, invero, aspirava
all’ordinazione rabbinica, ma a diplomi di insegnamento e al rapporto con la società ebraica. Solo Regina voleva con tutte le sue forze
diventare non un’insegnante ma una rabbina. Fra i suoi maestri
all’Hochschule c’era anche Leo Baeck, che aveva una grande stima di
lei ma al momento di appoggiarla cercò invece di dissuaderla. Nel
1935, infine, Regina ottenne il titolo agognato e diventò la prima rabbina della storia. A darle l’ordinazione fu il rabbino liberale Max
Dienemann, in una forma quasi privata.
Il periodo fra il 1935 e il 1942, in cui Regina esercitò a Berlino la
funzione rabbinica, la vide emergere per il carisma e le capacità. Pur
tenuta inizialmente ai margini, divenne ben presto una figura conosciuta e apprezzata. Viveva con sua madre e aveva rinunciato, assai
poco in accordo con la tradizione ebraica, a farsi una famiglia. Ebbe
però una relazione amorosa con un rabbino di Berlino, Joseph Norden, molto più vecchio di lei, anch’egli deportato a Theresienstadt e
là morto nel 1943. Ed è proprio Norden, nel 1942, a interessarsi per
farla emigrare negli Stati Uniti, lontano dal pericolo. Ma Regina rifiuta di lasciare Berlino, sua madre, la sua congregazione. Il 6 novembre, con la madre, viene deportata a Theresienstadt.
Cominciano per Regina due anni intensi, chiusa nel ghetto, tutti
volti a lavorare per alleviare le sofferenze degli ebrei, dei bambini e
dei vecchi in particolare. Assolve insomma totalmente, nella deportazione, il ruolo di “protettore” che aveva sempre sottolineato come
compito dei rabbini quando, anni prima, aveva sostenuto l’importanza del rabbinato femminile. Fra i dirigenti del Consiglio ebraico era
Leo Baeck, il suo antico maestro, colui che dieci anni prima le aveva
rifiutato l’ordinazione. Accanto a lui Regina opera, facendo anche
conferenze, mettendo la sua straordinaria capacità oratoria al servizio
degli ebrei in attesa di essere deportati ad Auschwitz. Lavora anche
con Viktor Frankl, lo psichiatra austriaco inventore della logoterapia.
La lista dei deportati ad Auschwitz del 12 ottobre 1944 riporta il
suo nome accanto a quello della madre, e indica anche la sua professione: Rabbinerin.
Né Baeck né Frankl, entrambi sopravvissuti, la nomineranno mai
nei loro scritti. Baeck, morto nel 1956, non ne fece mai parola.
Frankl, morto nel 1997, ne parlò solo dopo che la sua storia fu riscoperta, negli anni novanta. Ma perché?
loro una bambola
che rappresenti il
loro bagaglio
culturale e religioso.
In quest’ottica,
Haneefah
ha realizzato
una Hijarbie
specifica in onore
della musulmana
Ibtihaj Muhammad,
che ha partecipato
e vinto una medaglia
di bronzo nella
sciabola a squadre
alle Olimpiadi
di Rio 2016.
In Argentina
Lucía Pérez,
una studentessa di
appena sedici anni,
è morta per le
orribili ferite interne
dopo esser stata
drogata, violentata
e poi impalata con
un pezzo di legno
da tre uomini.
Il terribile delitto
è avvenuto
a Mar del Plata,
in Argentina.
«In tutta la mia
carriera non ho mai
visto una cosa del
genere», ha detto il
pubblico ministero
María Sánchez.
«Sono mamma di
una bambina, e non
riesco a dormirci la
notte».
Ogni trenta ore nel
paese sudamericano
una donna viene
uccisa da un uomo.
Tra gli effetti del
brutale omicidio
vi è stato anche
Eppure, Regina Jonas era stata un personaggio noto, la prima rabbina della storia. La sua attività come rabbina negli anni Trenta a
>> 21
19
D ONNE CHIESA MOND O
>> 19
Berlino era stata importante. Dopo la sua riscoperta, erano emerse
voci e testimonianze che raccontavano del suo carisma, dei suoi sermoni. Persone che l’avevano vista, conosciuta, e che infine la ricordavano. E allora, perché non Baeck, perché non Frankl, uomini di
scrittura? Perché questa cancellazione, che ci impedisce anche di sapere quale era stato il suo ruolo nel lavorare accanto a Frankl, nel fare conferenze organizzate da Baeck? In assenza di testimonianze,
possiamo anche ipotizzare che il suo ruolo sia stato importante, più
di quanto non si pensi. E quindi che il gas di Auschwitz abbia impedito che capacità fondamentali le venissero riconosciute.
Una delle ipotesi che possiamo fare per spiegare il silenzio è che
ricordarla fosse diventato difficile dopo la Shoah. Che nel gran mare
dei caduti, degli annientati, dei dimenticati, la prima rabbina sia andata perduta. Se fosse sopravvissuta, le cose sarebbero andate diversamente. Possiamo immaginarcela riprendere le sue funzioni rabbiniche nella Berlino del dopoguerra, restando in Germania come aveva
scelto di fare quando le avevano offerto la possibilità di andarsene.
L’altra ipotesi è che a condannarla al silenzio sia stato proprio il suo
ruolo di rabbina. Che chi l’aveva conosciuta abbia pensato che la
Shoah si era portata con sé anche questa strana donna, che aveva voluto assumere un ruolo solo maschile, e dimostrare che le donne erano adatte forse più degli uomini a esercitare questo compito. A con-
Di Regina possediamo una sola fotografia
È vestita di scuro, con i capelli coperti, un bel viso e occhi intensi
Sembra più una donna ortodossa che la prima rabbina della storia
dannarla all’oblio sarebbe stato allora proprio quello che avrebbe dovuto invece darle fama e memoria.
Al momento della sua ordinazione rabbinica, Regina aveva risposto per iscritto a una giornalista che le chiedeva i motivi della sua
scelta. «Ma se proprio devo rivelare cosa mi ha guidato come donna
a diventare rabbino, mi vengono in mente due punti: la mia fede nella chiamata di Dio e il mio amore per la gente. Dio ha posto abilità
e chiamate nei nostri cuori, senza distinzioni di genere. Così ciascuno
di noi ha il dovere, uomo o donna, di realizzare e operare secondo i
doni che Dio ha dato. Guardando la questione in questa prospettiva,
si prendono maschio e femmina per quel che sono: esseri umani».
D ONNE CHIESA MOND O
20
quello di coalizzare
le argentine
in una reazione
unanime
nel tentativo di
reagire all’ondata di
violenza contro le
donne.
Così, per un’ora,
negli uffici, a scuola,
nei negozi, nei
tribunali e nelle
fabbriche, le donne
si sono fermate il 19
ottobre per dire
basta alla violenza
maschilista con uno
sciopero lanciato
dall’associazione
Ni Una Menos
(“Nemmeno Una
Meno”).
In Sudan
Cattive notizie: le
spese per divise,
cartelle, libri,
quaderni e penne
continuano ad
aumentare e le
famiglie non sono
in grado di
sostenerle,
soprattutto quelle
con più figli in età
scolare. Così in
Sudan è diventato
difficile studiare.
Impossibile, poi,
se si è femmine:
l’impennata dei
prezzi costringe
infatti i genitori a
tenerle a casa.
A El Geneina,
capitale del West
Darfur, si aggiunge
il problema degli
edifici scolastici
andati distrutti nei
mesi passati a causa
delle forti piogge.
21
D ONNE CHIESA MOND O
LA SCIENZIATA
on si udì mezza parola su di lei
quando, nel 1962, Watson, Crick
e Wilkins ricevettero il premio
Nobel per la medicina grazie alla scoperta della struttura del
dna. Se il comitato non la incluse, fu perché i
tre moschettieri della doppia elica si guardarono
bene dal ricordare il fondamentale apporto che
le ricerche della scienziata avevano dato alla individuazione della struttura tridimensionale degli acidi nucleici costituiti da lunghe catene molecolari avvolte a elica. Lei, del resto, non poté
N
Un’elica monca
di GIULIA GALEOTTI
lamentarsi di quel silenzio: cristallografa professionista, Rosalind Franklin era morta qualche
tempo prima di tumore a 37 anni, il 16 aprile
1958, forse anche a causa delle radiazioni a cui i
suoi studi l’avevano lungamente esposta.
Nata nel 1920 in una famiglia inglese di origine ebraica, Franklin studiò a Cambridge, iniziando la sua carriera di ricercatrice a Parigi e
continuandola poi al Kings College di Londra.
Fu qui che le sue foto del dna (viste all’insaputa
della donna) folgorarono Watson, che in esse riconobbe la raffigurazione della doppia elica.
Nel 1952 infatti, utilizzando una macchina da lei
modificata, Franklin aveva ottenuto la foto del
dna nella sua forma b. Ciò, unito all’analisi del
suo epistolario e alle interviste ai protagonisti
minori della vicenda, ha indotto molti a ritenere
D ONNE CHIESA MOND O
22
che sia stata proprio lei la vera scopritrice della
morfologia a elica del dna.
Nel tempo, però, quasi sottovoce, il suo apporto cominciò a emergere. E così quando, dopo la vincita del Nobel, Watson scrisse The
Double Helix (bestseller tradotto in 17 lingue)
non poté non citarla. Ma lo fece minimizzandone il più possibile l’apporto, denigrandola come
donna e come scienziata. Nel libro, infatti,
Franklin viene presentata come femmina lunatica, irascibile, inaffidabile («la ragazza stava
dando più fastidi che mai») e trascurata («Di
proposito non faceva nulla per mettere in rilievo
la sua femminilità»).
Tanta misoginia, del resto, determinò un
cambio di editore: se inizialmente Watson era
stato messo sotto contratto dalla Harvard University Press, dopo che ne era circolata una prima bozza, la casa editrice lo rescisse: non era
un problema di merito del resoconto, quanto
del fatto che il testo offendeva molti, tra cui colei che non era più in grado di difendersi. Sebbene Watson avesse poi eliminato o attenuato
alcuni dei passaggi sotto accusa, ugualmente il
libro fu pubblicato da un editore commerciale.
Dagli anni Cinquanta a oggi la carriera del
dna è stata folgorante: nel giro di sole due generazioni, è passato dall’essere dominio di nicchia ad avere un posto centrale nel linguaggio
quotidiano. Fonte d’ispirazione per artisti e
pubblicitari, protagonista al cinema, nei romanzi o nelle pubblicità, il dna è ormai il simbolo
della scienza che spiega il mondo, vera icona
della modernità. La storia della sua scoperta,
però, è anche l’ennesima testimonianza di come
l’apporto femminile venga minimizzato: il dna e
Watson sono ormai arcinoti, di Rosalind Franklin, invece, pochi conoscono nome e vicenda.
FO CUS
di SILVINA PÉREZ
Martire
dei diritti umani
T
ace da trentatré anni, ormai, la voce di Marianella García Villas, l’avvocata dei poveri e dei contadini, figlia privilegiata della ricca borghesia del Salvador ma eletta in parlamento dalle donne del popolo.
È stata dimenticata da quel giorno del marzo 1983 in cui la giunta
militare al potere nel suo paese decise di torturarla brutalmente e assassinarla. Le sue denunce e le sue prese di posizione in difesa dei
diritti umani erano divenute inaccettabili per il potere. Pertanto, come accaduto tre anni prima per Óscar Romero, con il quale aveva a
lungo collaborato, anche la sua voce viene messa a tacere per sempre. Ucciso il 24 marzo 1980, mentre stava celebrando la messa, Romero aveva denunciato per anni le ingiustizie del suo paese e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli. Aveva visto cadere, sotto i colpi dei paramilitari uno dei suoi più stretti collaboratori, il sacerdote gesuita padre Rutilio Grande. L’omicidio colpì profondamente Romero, che tempo dopo disse: «Quando guardai Rutilio che giaceva morto davanti a me pensai: “Se lo hanno ucciso per
23
D ONNE CHIESA MOND O
ciò che faceva, allora io devo seguire il suo stesso sentiero”». Quel
sentiero ha una data precisa, il 24 novembre 1977, data in cui si intreccia il percorso di monsignor Romero a quello della giovane Marianella García Villas. È il momento in cui l’assemblea legislativa del
paese approva la Legge di difesa e garanzia dell’ordine pubblico che
di fatto dà mano libera al governo nell’attività di repressione. Accanto agli arresti cominciano a esserci anche le sparizioni: così quello dei
desaparecidos diviene un fenomeno anche salvadoregno. In tale situazione di diffusa violenza, l’arcivescovo di San Salvador promuove,
Particolare del monumento
alla Memoria e alla verità
(San Salvador)
insieme a sei giovani avvocati, la creazione di un gruppo di «soccorso giuridico», organismo che fornisce assistenza agli imputati e contemporaneamente prepara per l’arcivescovo notizie precise e circostanziate da denunciare durante le omelie. Ogni fine settimana Marianella fa avere a Romero un rapporto dettagliato su quanto avvenuto nel paese: uccisioni, torture, massacri, sparizioni. Così Romero
può preparare l’omelia domenicale.
Le omelie di Romero sono molto lunghe, durano anche un paio
d’ore e sono seguite per radio in tutto il Salvador e paesi confinanti,
diffondendo la conoscenza della situazione di degrado in cui la guerra civile stava gettando il paese. La radio cattolica Y.s.s.x. «La voce
Panamericana», attraverso cui l’arcivescovo Romero trasmetteva le
sue omelie, era rapidamente diventata un punto di riferimento. Ogni
omelia era divisa in tre parti: una prima dedicata ai testi della liturgia
della Parola con applicazioni al tempo liturgico e alla vita cristiana
dei fedeli che lo ascoltano; una seconda parte più pastorale e diocesana; infine una terza parte con l’analisi della situazione del paese e
con la denuncia precisa e circostanziata degli episodi di violenza e
dei sequestri. Per la preparazione di quest’ultima parte delle omelie,
Romero si consultava quotidianamente con il gruppo del Soccorso
giuridico coordinato da Marianella e con i vari organismi diocesani
D ONNE CHIESA MOND O
24
creati per la difesa dei diritti umani. Per questo motivo la radio subì
due attentati dinamitardi. Il 23 marzo 1980 l’arcivescovo invitò
apertamente gli ufficiali e tutte le forze armate a non eseguire gli ordini, se questi erano contrari alla morale umana. Il giorno dopo
Óscar Arnulfo Romero fu trucidato mentre celebrava la messa. Durante le esequie l’esercito aprì il fuoco sui fedeli, compiendo un nuovo massacro.
Ci sono voluti trentacinque anni per riconoscere che l’arcivescovo
di San Salvador fu martirizzato in odium fidei e quindi degno d’essere
proclamato beato, mentre la figura di Marianella è stata pressoché
dimenticata. Nel primo anniversario dell’assassinio di monsignor Romero, Marianella ricordò l’arcivescovo sul bollettino della commissione per i diritti umani, chiedendo a gran voce di «non lasciare seppellire insieme con il profeta anche le sue parole». Più volte minacciata
di morte, visitò vari paesi europei tra il 1981 e il 1982. Durante un
suo viaggio in Italia, nel 1981, partecipando a una manifestazione
nella città di Padova, testimoniò il dramma vissuto dal suo popolo,
sottolineando l’insufficiente e inadeguato impegno a livello internazionale nella difesa dei diritti umani. L’impegno nei confronti degli
emarginati la ricondusse nel suo paese. Rientrata clandestinamente in
Salvador, fu brutalmente assassinata il 13 marzo 1983. Il battaglione
Atlacatl dell’esercito salvadoregno la torturò fino alla morte per im-
Tace da trentatré anni la voce di Marianella García Villas
l’avvocata dei poveri e dei contadini
È stata dimenticata da quel giorno del 1983 in cui la giunta militare
decise di torturarla brutalmente e assassinarla
pedirle di denunciare il ricorso alle armi chimiche, tra le quali il napalm e il fosforo bianco, usate nelle stragi dei contadini salvadoregni.
Rimane solo il volume Marianella e i suoi fratelli, pubblicato nel 1983,
scaturito dalle alcune conversazioni avute con Marianella tra il 1981 e
1982, durante il suo soggiorno in Europa. Gli autori pensavano inizialmente d’intitolarlo Antigone e i suoi fratelli, considerando le affinità
con la figura mitologica. Ma Marianella non aveva bisogno di essere
assimilata a un mito, era un mito lei stessa, per il suo coraggio, per
la sua morte.
25
D ONNE CHIESA MOND O
Santa Elisabetta di
Ungheria in un ritratto
del pittore fiammingo
Jan Provoost
e, a pagina 26,
in un dipinto
di Pietro Nelli (1365)
LA SANTA DEL MESE
Nel mondo
per portare
la luce divina
di FERDINAND O CANCELLI
n parlatorio di un monastero
benedettino in una mattina di
un giorno feriale. La luce tagliente del sole di montagna si
posa su alcuni fogli che la madre priora mi ha appena messo nelle mani per
accompagnarmi in un viaggio particolare. Non
resisto e inizio a leggere facendo subito una
scoperta: il 28 gennaio 1932 a Zurigo una donna
di quarantuno anni, Edith Stein, si appresta a
parlare di un’altra donna, Elisabetta d’Ungheria, morta sette secoli prima appena ventiseienne e lo fa con un’intelligenza e una profondità
che trascinano il lettore di oggi in un altro
mondo, nella dimensione senza tempo della
grazia di Dio all’opera. «Più una persona è assorbita profondamente in Dio — scrive nel 1928
a suor Callista Kopf la giovane filosofa tedesca
ormai battezzata da qualche anno — più deve in
un certo senso “uscire da sé” per penetrare il
mondo e portarvi la luce divina». È forse per
questo “uscire” da sé che le due sante, separate
dai secoli, si ritrovano una vicina all’altra a ope-
U
D ONNE CHIESA MOND O
26
rare nelle tenebre del mondo. La polvere e il
vento di Westerbork, aspettando la morte come
figlia del popolo ebraico, per Teresa Benedetta
della Croce strappata al Carmelo di Echt, la povertà e le malattie senza rimedio per la giovanissima Elisabetta, figlia del re Andrea II d’Ungheria.
Discendente di Carlo Magno per parte materna, la principessa pare avviata a una vita di
corte. Nata nel 1207, trasferita dall’Ungheria a
Eisenach nel castello di Wartburg, la giovane
ungherese è destinata a sposare Luigi IV di Turingia, discendente di nobilissima famiglia.
«Tutti i fatti che sono riportati su sant’Elisabetta, tutte le parole che di lei ci sono pervenute —
scrive Edith Stein — ci rivelano di lei una cosa
sola: un cuore ardente che stringe tutto ciò che
la circonda con un amore profondo, tenero e fedele.» Lo Spirito santo ha infatti altri progetti
su questa ragazza. Insofferente verso le ingiustizie che vede perpetrate a danno dei più poveri,
incapace di conformarsi a una vita nobiliare di
falsa etichetta ma soprattutto completamente infiammata di amore per l’eucaristia, Elisabetta,
ormai madre di tre figli e giovanissima vedova,
abbandona il castello di Wartburg e nel venerdì
santo del 1228, a ventuno anni, «pone le sue
mani sullo spoglio altare della chiesa francescana di Marburg» e inizia a vivere pienamente
l’ideale di san Francesco. L’amore «ardente e
misericordioso che si apre a tutti gli infelici e a
tutti gli afflitti», contagiando chiunque la avvicina, e una gioia spontanea e quasi infantile, sono questi i due tratti che mai l’abbandoneranno
nel suo percorso terreno: era solita offrire ai
27
D ONNE CHIESA MOND O
NELL’ANTICO TESTAMENTO
bambini più poveri, ci racconta Edith Stein, alcuni semplici giocattoli per poi fermarsi a giocare con loro. In breve tempo tutti la chiamavano “mamma” e lei era solita ripetere: «Ve l’ho
sempre detto, occorre solamente fare felici i
poveri!».
In Elisabetta, fondatrice di un ospedale per
gli ultimi tra i miseri, sembrano convivere, secondo la Stein, una naturale «spontaneità» e
Ferdinando Cancelli
Nato a Torino nel 1969, dopo gli studi
classici ha esitato tra lettere, storia e
medicina. Diventato medico, ha ottenuto
il diploma post-laurea in medicina
palliativa all’università Claude Bernard di
Lione (Francia) e il perfezionamento in
bioetica all’Università Cattolica del Sacro
Cuore. Dopo aver trascorso un periodo di
lavoro come Chef de clinique all’Hôpital
de Bellerive (Ginevra), esercita la
professione di medico palliativista a
Torino per la Fondazione F.A.R.O. onlus.
Sposato con Clara dal 1997, ha condiviso
con lei il cammino per divenire oblato
secolare dell’abbazia Mater Ecclesiae
sull’isola di San Giulio e deve moltissimo
alla sua famiglia monastica. Per «donne
chiesa mondo» ha scritto la storia di
Giuliana di Norwich (novembre 2015).
D ONNE CHIESA MOND O
28
«una lotta impietosa contro il proprio temperamento»: in altre parole «l’amabile santa della
felicità più fresca, così seducente per sua propria natura, è nello stesso tempo un’asceta austera». Sotto la direzione spirituale di Corrado
di Marburg, al quale resterà obbediente fino alla morte, a poco a poco Elisabetta impara a dominare la propria natura e a temperare, almeno
in parte, la volontà. Negli ultimi tre anni della
vita resterà nel suo ospedale accanto ai malati e
ai poveri occupandosi dei compiti più umili e
fermandosi fino a tarda notte anche con quelli
«troppo deboli e stanchi per poter tornare a casa». Difficile non fare un balzo in avanti nei secoli per rileggere la preziosa testimonianza di
un certo signor Marcan imprigionato nel 1942 a
Westerbork con Edith Stein: «Suor Benedetta
passava tra le donne come un angelo di consolazione, sollevandone alcune, curandone altre.
Molte madri — continua il testimone oculare —
sembravano cadute in uno stato di prostrazione
che sfiorava la follia: restavano là a gemere, come inebetite, abbandonando i loro bambini.
Suor Benedetta si occupava subito dei bambini
più piccoli, li lavava, li pettinava, procurava loro il cibo e le cure necessarie».
Sull’obbedienza che la giovane principessa
ungherese doveva al suo direttore spirituale è la
stessa Edith Stein a rivelarci un particolare impressionante: «Su un solo punto non cedette
mai completamente: tenere con sé, in più rispetto al servizio in ospedale, un bambino affetto
da una malattia particolarmente orribile ed essere la sola a occuparsene». Corrado di Marburg
riferirà personalmente a papa Gregorio IX che
alla morte di Elisabetta un bambino malato di
scabbia «era ancora là, seduto al suo capezzale». Elisabetta d’Ungheria, «elevata fino a quest’umanità compiuta — conclude Edith Stein —
pura espressione della natura liberata e trasfigurata dalla forza della grazia» diventerà santa nel
1235, a soli due anni dalla morte.
Giuditta
la salvatrice
di MERCEDES NAVARRO PUERTO
29
D ONNE CHIESA MOND O
iuditta è un’eroina, una guerriera: il suo profilo riecheggia il mito e l’archetipo dell’eroe, ma al femminile. Non è un fatto nuovo nella Bibbia né altrove, nel
mondo attuale, dove sta crescendo il numero delle
eroine nei fumetti, nel cinema, nelle serie televisive e
nei romanzi. La Giuditta biblica dà il nome al libro che racconta la
sua storia, come avviene con alcuni uomini, profeti (Isaia, Ezechiele,
Giona) o personaggi del mondo sapienziale (Giobbe), e con altre
donne (Rut ed Ester).
G
Giuditta è presentata come figlia di Merari e vedova di Manasse.
Il narratore aggiunge una genealogia di sedici generazioni, una delle
più lunghe della Bibbia ebraica. La genealogia o elenco degli antenati, serve a sottolineare l’importanza di un personaggio. I grandi eroi
biblici, come Abramo, i re e numerosi capi, hanno una loro genealogia, ma è abbastanza raro che venga attribuita a una donna. La genealogia fa di Giuditta un personaggio che può misurarsi con i grandi eroi biblici.
Il nome Giuditta deriva dal femminile ebraico yehûdit, che vuole
dire giudea. Non è un nome biblico comune, ma neppure insolito. Si
chiama Giuditta anche la moglie di Esaù, figlia di un ittita chiamato
Beeri. La possibilità che Giuditta sia un nome simbolico o una metafora del popolo è confermata da altri nomi nel libro, come quello
della città, Betulia, ignota agli studiosi sebbene il testo la collochi a
nord di Gerusalemme. Betulia potrebbe essere uno pseudonimo di
Betel o una rappresentazione metaforica del popolo ebraico. È probabile che il toponimo Betulia derivi da betulah, termine ebraico che
significa vergine o donzella.
Francisco Goya
«Giuditta e Oloferne»
(1819-1823)
Oloferne, un generale dell’esercito di Nabucodonosor, cerca di
conquistare Israele. Ha già invaso altri paesi con notevole successo,
ma nella sua offensiva militare si scontra con la resistenza di una piccola città ebraica chiamata Betulia. Pronto a distruggerla, la sottopone a un duro assedio. Betulia è in grave difficoltà e comincia a disperare. Quando i suoi abitanti, d’accordo con i loro capi, sono pronti
ad arrendersi, appare una giovane vedova, Giuditta, che sfida tutti in
nome del Signore e traccia un piano per sconfiggere il nemico. Servendosi della sua bellezza e della sua astuzia, Giuditta s’infiltra
nell’accampamento di Oloferne e, una volta conquistata la sua fiducia, lo uccide mozzandogli il capo. In questo modo Giuditta provoca
la fuga dell’esercito nemico e ottiene la vittoria di Betulia, che l’acclama come grande eroina e rende grazie a Dio.
Il libro, come pure l’argomento e il personaggio, non è storico, se
ci atteniamo al nostro concetto attuale di storia. Viene definito piut-
D ONNE CHIESA MOND O
30
31
D ONNE CHIESA MOND O
con il resto degli uomini è anch’esso profondamente ironico, ironia
che raggiunge l’apice nel rapporto con Oloferne, soprattutto quando
l’autore utilizza termini erotici per descrivere il brutale assassinio.
Anche i personaggi minori sono presentati in una luce ironica:
Achior, guerriero di professione, sviene di fronte al capo mozzato di
Oloferne; uomo di azione, si rivela un saggio; pagano ammonita,
mostra più fede nel Dio d’Israele degli stessi israeliti, dei maestri
ebrei a Betulia. Ozia, conforme allo stereotipo femminile, si nasconde dietro le mura della città, mentre Giuditta, conforme allo stereotipo maschile, esce per affrontare apertamente il nemico. L’intero libro
appare dunque pervaso da un ironico rovesciamento, il suo asse ermeneutico.
Giovanni Francesco
Romanelli
«Giuditta e Oloferne»
D ONNE CHIESA MOND O
32
tosto come una storiella, un romanzo breve (folktale) in cui si narrano
le gesta esemplari di una vedova pia che prende la coraggiosa decisione di sconfiggere il nemico, sostenuta dalla sua fede religiosa. C’è
chi crede che sia una specie di racconto folcloristico ed epico, che
combina la storia della moglie fedele con quella della donna guerriera. Ma Giuditta vuole essere un libro storico, visto che include alcuni
dati ben noti, insieme ad altri assolutamente sconosciuti, sebbene
non improbabili, riguardanti l’etnia, le persone, i luoghi e i nomi.
D’altro canto, il suo argomento è perfettamente credibile e verosimile. Nel racconto è assente qualsiasi intervento miracoloso di Dio.
Non sono neppure i riti, le frequenti preghiere e il digiuno i fattori
che influiscono maggiormente sulla vittoria, ma piuttosto il coraggio
dell’eroina e della sua gente a sconfiggere il nemico. Si ritiene quindi
che la narrazione possa contenere un nucleo storico, una storia di assedio e vittoria sul nemico per mano di una donna, avvenuta in epoca persiana, al tempo di Artaserse III, periodo in cui si collocano
temporalmente i fatti. Però il libro contiene una gran numero di “errori”, probabilmente deliberati, ma molti di essi carichi di ironia. In
realtà, l’ironia pervade tutta l’opera, il suo tema, i discorsi e i personaggi. Oloferne, per esempio, è un personaggio presentato in modo
ironico perché, dopo aver conquistato tutto l’ovest, non riesce a sottomettere una piccola città come Betulia, e nemmeno a dominare una
donna, che lo uccide con la sua stessa spada.
La storia di come il libro e il personaggio di Giuditta sono stati
recepiti è complessa. Gli ebrei hanno avuto difficoltà ad accettarlo
come libro ispirato e non è stato facile inserirlo neppure nel canone
cristiano. Alcune difficoltà sono legate al personaggio di Giuditta,
considerata come moralmente discutibile, perché esercita la violenza, e pericolosa perché donna libera e autonoma. Il dubbio morale attorno alla violenza è radicato nella sua condizione di donna, visto che molti
personaggi biblici maschi violenti non sono stati messi
in discussione dal punto di vista morale.
Giuditta viene concepita e trattata come un personaggio paradossale: vedova senza figli, è lei a dare vita fisica al suo popolo sconfiggendo il nemico, e vita spirituale restituendogli la fede e la speranza
in Dio. Bella e desiderabile, vive come nubile. Donna ricca, trascorre
la maggior parte della sua vita nel digiuno. Dall’apparenza fragile e
molto femminile, è capace di uccidere brutalmente con le sue stesse
mani il capo di un esercito molto potente. Il rapporto di Giuditta
Giuditta è una vedova senza figli, come lo erano Noemi, Rut, Abigail e Betsabea. Come loro dimostra una particolare abilità nell’aprire
un cammino per sé e per tutto il popolo. A differenziarla da queste
donne è la maternità, poiché, mentre Betsabea e Rut — e attraverso
di lei Noemi — presto o tardi hanno figli biologici, Giuditta, più vicina alla figura di Debora (cfr. Giudici 5-7) è madre del popolo.
Il libro di Giuditta presenta una ricca intertestualità
biblica, una sorta di condensazione di allusioni, evocazioni, tematiche, modelli, personaggi e situazioni.
Qui menzioniamo solo l’intertestualità femminile, che
fa pensare a Giuditta come a una specie di antologia
di testi biblici che si occupano di donne. Così, sullo
sfondo del personaggio e delle sue azioni, ritroviamo
Miriam, Debora, Giaele, Sara, Rebecca, Rachele, Tamar, Noemi,
Rut, Abigail, Betsabea e altre. Ad esempio, Giuditta ricorda l’astuzia
di Sara, Rebecca, Tamar e Dalila nel raggiungere il proprio fine con
l’inganno intelligente. E come loro, finisce coll’avere un enorme influenza sulla storia del popolo, sul futuro di Betulia e d’Israele.
L’autrice
Ha insegnato Antico
Testamento e
Psicologia della
religione nella
Pontificia università di
Salamanca ed è
professoressa onoraria
del Dipartimento di
studi ebraici e aramaici
dell’università
Complutense di
Madrid. Attualmente è
direttore per la lingua
spagnola della raccolta
internazionale e
multilingue «La Biblia
y las mujeres». La sua
pubblicazione più
recente è Violencia,
sexismo, silencio. Inconclusiones en el libro
de los Jueces (Evd,
2013).
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Ci sono analogie anche tra Giuditta e Rut, l’altra vedova senza figli, in passi che sembrano un’eco del libro di Rut: Oloferne dice a
Giuditta «il tuo Dio sarà mio Dio», le stesse parole che Rut dice a
Noemi e si legge che «si radunarono tutte le donne d’Israele per vederla e la colmavano di elogi e composero tra loro una danza in suo
onore», eco di quanto avviene alla fine del libro di Rut. Se poi ricordiamo che il nome di Giuditta evoca quello della moglie ittita di
Esaù, l’analogia con Rut appare ancora più evidente, visto che quest’ultima era moabita. Giuditta è ebrea, ma ironicamente ricorda ed
evoca due donne straniere che contribuirono a costruire o edificare la
casa di Israele. Giuditta inoltre, come fece Rut con Booz, si adagia ai
piedi di Oloferne e non dimentichiamo che, alla fine del cantico che
le donne dedicano a Giuditta, vengono menzionati i sandali che evocano la ratifica del rito di Booz come go’el.
Degne di menzione sono anche le analogie con la storia di Debora
e Barak e di Gioele e Sisara. Giuditta finisce con l’eclissare Achior,
come fa Debora con Barak. Ma il parallelismo più interessante sta
nella funzione profetica di entrambe le donne rispetto ai capi del popolo. Giuditta, come fa Debora con Barak, rimprovera i capi del popolo per la loro scarsa fede. E, leggendo le imprese di Giuditta, è
impossibile non ricordare Giaele (e anche Dalila). Giaele, come lei,
conquista la fiducia di un generale nemico, lo seduce e lo inganna
È un’eroina, una guerriera, un personaggio che può misurarsi
con i grandi eroi biblici
Vedova senza figli è lei a dare vita al popolo sconfiggendo il nemico
per sconfiggerlo più facilmente. Come Giuditta, anche Giaele era stata lodata dalle donne e, se Giuditta dà una pace duratura a Israele,
di Giaele si diceva che aveva offerto quarant’anni di tranquillità al
popolo.
Concludiamo menzionando un altro aspetto di Giuditta riguardo
ai ruoli di genere. Achior, uomo atipico, evolve come personaggio
verso una progressiva femminilizzazione, mentre Giuditta, donna atipica, in determinati momenti si adegua al prototipo femminile utilizzandolo come strumento d’azione. Tutti e due mostrano un certo
grado di trasgressione. Entrambi si collocano al confine del genere
culturalmente assegnato loro e superano i limiti socialmente stabiliti.
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ARTISTE
Il coraggio
di cantare
il Dies irae
di PASQUALE CHESSA
draiato sul crinale di una collina del
Mejlogu c’è Siligo. Siligo è attraversato da una sola strada maestra,
s’istradone, distesa al sole come una
biscia lucente. Una main street su cui
affacciava, ancora fino a qualche tempo fa, una
teoria contrapposta di case a un piano. Con tre
eccezioni: la casa della famiglia di Francesco
Cossiga, costruita a due piani fin dall’origine, la
casa di Gavino Ledda, lo scrittore di Padre e padrone e infine la casa natale di Maria Carta.
S
«Per quella strada cantavo sempre... allora
cantavo a voce delirante»: Maria si ricorda
bambina. Aveva otto anni quando cominciò a
far sentire la sua voce nella chiesa di Siligo. Un
passaggio esistenziale, rivissuto per sempre come una scena primaria: capitò per il funerale di
un suo compagno morto a dieci anni, che intonasse con tutta la forza che aveva nell’anima un
terribile Dies irae. Ne rimase tanto provata,
sconvolta nel profondo del cuore, che la madre
le impose di non cantarlo più. Vissuto come un
tabù, il divieto fu infranto e il trauma rivissuto
quando decise di intitolare proprio Dies irae il
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Mural dedicato a Maria Carta
nella piazza di Siligo
suo album del 1975 dedicato al canto gregoriano, in latino come Adoro te devote, l’inno eucaristico attribuito a san Tommaso d’Aquino, ma
soprattutto in logudorese, come Ave mama ’e
deu, cioè l’Ave maris stella ritenuta di Paolo Diacono che visse nel secolo VIII.
«Die tràgicu su die / morit su mundu in fiama / comente est profetizadu» (“Giorno tragico
quel giorno / muore il mondo in fiamme /
com’è stato profetizzato”): forse non è inutile
qui ricordare che la parlata del Logudoro, che si
parla ancora nel Mejlogu, regione storica della
Sardegna, non è un dialetto ma una vera e propria lingua romanza... La più vicina al latino fra
tutte le varianti del sardo, e forse per questo
particolarmente adatta a trovare sottili e sublimi
corrispondenze con la cultura musicale in cui si
afferma lungo i secoli il canto gregoriano. Come
ha scritto in quell’occasione Severino Gazzelloni, «Maria Carta è la sola nella cui arte possa
fondersi la modalità gregoriana con le astuzie di
una moderna orchestrazione»
Nella doviziosa biografia, Maria Carta, che le
ha dedicato nel 1999 Emanuele Garau per le
Edizioni Della Torre, si cita parola per parola
una confessione in pubblico, rivelatrice di una
personale filosofia di vita, durante un concerto
a Bologna nel 1988, in occasione del nono centenario dell’università che proprio quell’anno le
aveva affidato la docenza in Antropologia culturale: «Io purtroppo non ho avuto la possibilità
di trascorrere la mia giovinezza china sui libri,
ma affaticando la schiena sul lavoro, ed essere
qui oggi è molto importante per me, perché mi
rendo conto che nella vita ciò che conta non è
la fortuna che si ha in gioventù, ma quanto si
riesce a costruire da soli».
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Una strada difficile quella che Maria sceglie
spinta dalla sua voce... Già ragazza si fa conoscere come cantante popolare. La sua bellezza,
che più sarda non si può e che le frutta il titolo
di Miss Sardegna nel 1957, in un primo momento non sembra favorire il disegno del destino.
La musica sarda infatti è sempre stato un affare
di uomini...
Nel 1958 Maria Carta attraversa il mare e approda in continente. È la sua prima vittoria. La
più importante. Deve vincere l’incubo di non
essere capita, cioè che la lingua sarda non sia
adatta a comunicare fuori dall’isola. Il resto è
già tutto scritto nel suo carattere. Studia, come
non ha mai fatto, seguendo l’insegnamento di
Diego Carpitella, direttore del Centro studi di
musica popolare. Nel 1971, dopo due album in
collaborazione con il grande musicologo sardo
Gavino Gabriel, la Rai manda in onda un sofisticato documentario guidato dalla famosa voce
di Riccardo Cucciolla intitolato semplicemente
Incontro con Maria Carta. La partecipazione a
Canzonissima nel 1974 dove impone la sua
straordinaria presenza va insieme all’uscita
dell’album Delirio in cui può vantare una introduzione di Giuseppe Dessì, famoso scrittore
sardo che ha vinto qualche anno prima il Premio Strega con Paese d’ombre: «Il suo bel viso,
la fierezza e insieme la grazia del suo portamento, più che un simbolo, sono una personificazione di quella Sardegna intangibile e indomita
che ho sempre amato. Quando la sua voce calda e potente si alza e riempie lo spazio, si aprono infiniti orizzonti che scendono nella storia.
Dopo aver conosciuto Maria Carta, ancora una
volta affermo che i soli grandi uomini della Sardegna sono le nostre donne».
Alfa e omega.
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a cura delle sorelle di Bose
Per chi sta
sempre peggio
degli altri
Maria sa bene come sono fatte le donne sarde: proprio in quegli anni rifiuta l’offerta dei
Taviani di fare la parte della madre nella versione cinematografica di Padre padrone, perché nel
copione non ha ritrovato il carattere di una «vera madre sarda». Un’interpretazione che non
andrà perduta quando decide di prestare il suo
volto alla signora Antolini, madre di Vito Corleone nel Padrino II di Francis Ford Coppola.
In teatro aveva debuttato nella Medea di Franco
Enriquez. Nel cinema il suo volto arcaico si impone in molti film fra cui il Gesù di Zeffirelli e
Cadaveri eccellenti di Rosi.
Si arriva così al passaggio cruciale quando le
difficoltà della vita, travagliata da morti e separazioni, la colpiscono nel profondo del suo corpo. Perde l’amore e contemporaneamente la voce. Arriva il cancro senza speranza a completare
l’opera. Ma riesce a ritrovare se stessa arrivando
al punto di partenza, quando rimase straziata a
otto anni dopo aver cantato il Dies irae. Nel suo
ultimo album del 1993, un anno prima della
morte, torna il canto gregoriano e primo fra tutti proprio il Dies irae.
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MEDITAZIONE
LUCA 21, 20-28
e parole di Gesù sono suscitate da
ciò che lui vede e ode nel tempio.
Gesù vede la cosa più normale del
mondo, cioè l’ingiustizia spudorata
dei ricchi che mettono briciole del
loro superfluo nel tesoro del tempio, e ode lo
sguardo insipiente di chi si crede garantito dalla
magnificenza del tempio. Ma vede anche l’amore per Dio e per i poveri di una poverissima vedova. Questo ci fa intuire che il discorso di Gesù non riguarda un tempo speciale, unico, il
tempo della consumazione finale del mondo,
ma il tempo della storia, quella in cui viviamo e
che è colpita di continuo da guerre e catastrofi.
L
Francesco Hayez, «La distruzione
del tempio di Gerusalemme» (1867, particolare)
A pagina 40, mosaico dell’obolo della vedova
in Sant’Apollinare Nuovo (Ravenna)
Gesù vede e ode che gli uomini nel benessere
non capiscono, e che sempre rischiano di sparire, inconsapevoli di tutto: del male che hanno
fatto, del bene che hanno tralasciato di fare.
Proprio come ai tempi di Noè, e di Lot, e come
ai suoi e ai nostri giorni. Gesù guardava la realtà con la sapienza delle Scritture sante d’Israele,
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e ascoltava queste guardando a ciò che aveva
davanti agli occhi, alle persone che incontrava.
Gesù ci insegna che non occorre essere indovini per conoscere lo scatenamento dei poteri
ingiusti. Che basta vedere una donna vedova
che possiede solo due spiccioli, una persona affamata, od oppressa — quei poveri che, con tristezza, disse che avremmo avuto sempre con noi
— per comprendere l’esistenza di quei poteri ingiusti che li hanno derubati e schiacciati così,
per comprendere la guerra più ingiusta e perenne, quella dei ricchi contro i poveri. Gesù insegna che basta vedere una persona nata cieca, un
paralitico, lo strazio di un padre per la sua piccola figlia moribonda, per comprendere la fragilità, la precarietà di ogni vita. E usando parole e
immagini profetiche, Gesù evoca i terrori e i dolori che le guerre e le catastrofi suscitano sempre negli esseri umani. Gesù insegna ai discepoli a vedere la pena, la fatica e la paura degli altri, tutti e tutte. Ad avere uno sguardo intelligente e compassionevole, che sa che tutti e tutto
morirà, che sa la pena di questa perenne minaccia.
Parla di una Shoah («tempesta») per Gerusalemme, per Israele, che ben sappiamo non essere né la prima, né l’ultima. Ed esorta: non tentate di salvare la vostra roba, non ci sarà tempo
neppure di congedarvi dai cari. Gesù parla come Geremia al capitolo 45: il solo bottino che il
Signore possa aiutarvi, eventualmente, a salvare
è la vostra nuda vita.
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E parla di quelle persone che, nel disastro generale, stanno, comunque e sempre, peggio degli altri: le donne incinte e quelle che allattano,
memore del gemito profetico: «Beate le sterili
che non hanno partorito...». È meraviglioso che
Gesù nei suoi pensieri veda queste povere donne, le più povere tra le povere, nell’angoscia
della fuga. Non solo perché volge il suo sguardo realistico e compassionevole e del tutto inusuale verso le donne, ma anche perché vede,
forse, in esse una situazione evangelicamente
paradossale: le donne incinte e quelle che allattano — che vivono con tutto corpo a favore
dell’altra creatura umana che allevano in sé o
tra le braccia — non possono dar loro la vita che
vivendo, e non morendo: incombe su di loro il
dovere di salvare anche se stesse.
E poi Gesù esorta i suoi a non avere paura,
come dirà l’angelo alle donne, alla sua tomba, il
mattino di Pasqua. Rialzate la testa e guardate:
all’orizzonte c’è la venuta del Figlio dell’uomo.
Non conformatevi alla paura che fa tremare il
mondo. Non siate come quelli che non sanno la
promessa del Signore, non tremate come quelli
che non lo attendono. Non abbiate paura, poiché solo la paura per la vostra vita vi può impedire la libertà e l’attenzione indispensabili a vivere nell’amore. Come la poverissima vedova,
non datevi pensiero per la vostra vita. Non abbiate paura perché la fine sarà un ritorno, un
incontro, occhio contro occhio.