Donne dimenticate - L`Osservatore Romano
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Donne dimenticate - L`Osservatore Romano
DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 51 NOVEMBRE 2016 CITTÀ DEL VATICANO Donne dimenticate numero 51 novembre 2016 BIO GRAFIA D ell’amore e del dolore L’umano e il santo visti da Ida Görres HANNA-BARBARA GERL-FALKOVITZ A PAGINA SPIRITUALITÀ FO CUS Apostola dello Spirito santo Martire dei diritti umani SILVINA PÉREZ ANTONELLA LUMINI IN A PAGINA A PAGINA 3 23 11 NOVEMILA CARATTERI La rabbina dimenticata ANNA FOA LA A PAGINA 17 SCIENZIATA Un’elica monca GIULIA GALEOTTI A PAGINA LA 22 SANTA DEL MESE Nel mondo per portare la luce divina NELL’ANTICO FERDINAND O CANCELLI A PAGINA 26 MERCEDES NAVARRO PUERTO A PAGINA 29 A PAGINA 36 A PAGINA 39 TESTAMENTO Giuditta la salvatrice ARTISTE Il coraggio di cantare il Dies irae PASQUALE CHESSA MEDITAZIONE Per chi sta sempre peggio degli altri A CURA DELLE SORELLE DI BOSE L’EDITORIALE Donne dimenticate Mnemosyne, la chiamavano i greci. Era la dea della memoria, colei che teneva attiva la memoria negli uomini, facendo loro serbare ciò che ella voleva. È esattamente alla attività opposta a quella di Mnemosyne che abbiamo voluto dedicare questo numero di «donne chiesa mondo»: alla cattiva arte del dimenticare nella sua declinazione storicamente più praticata, cioè quella di dimenticare le donne. D ONNE CHIESA MOND O Mensile dell’Osservatore Romano a cura di LUCETTA SCARAFFIA In redazione GIULIA GALEOTTI SILVINA PÉREZ Comitato di redazione CATHERINE AUBIN MARIELLA BALDUZZI ANNA FOA RITA MBOSHU KONGO MARGHERITA PELAJA Progetto grafico PIERO DI D OMENICANTONIO www.osservatoreromano.va [email protected] per abbonamenti: [email protected] D ONNE CHIESA MOND O 2 Un atteggiamento assolutamente trasversale: che si tratti di letteratura, mistica, storia, scienza, politica, religione o religioni, che si tratti di laiche o di consacrate, di ieri o di oggi, di Europa o di America, in ogni epoca e società il contributo decisivo e stimolante di tante voci femminili è stato occultato, dimenticato, perso. E questo ha impoverito tutti, donne e uomini. Come se quelle voci non avessero mai parlato, il loro contributo è stato a volte trafugato dai maschi, a volte è scivolato via senza penetrare nel nostro modo di pensare e di vivere, altre volte infine è stato scientemente sbriciolato e schiacciato per renderlo inoffensivo. Perché — specularmente a quella del ricordare — anche l’arte del dimenticare è stata ed è suscettibile di un gran numero di varianti e sfumature, come dimostrano le storie di questo numero. Non solo quelle di cui qui parliamo, ma più in generale tutte le donne dimenticate della storia sono raffigurate dalla nostra immagine di copertina. Belle statuine depositate e imbalsamate sui rami più alti: depositate e imbalsamate spesso formalmente con grande cura, ma nella sostanza abbandonate lì per calcolo, opportunismo, invidia o ignoranza. Ricordarle è un primo passo per tirarle fuori dal letargo loro forzatamente imposto; è un timido tentativo di scongelarle e richiamarle in vita perché possano iniziare a rendere fertili le nostre esistenze. E questo naturalmente è solo un piccolo campione: le donne dimenticate sono molto più numerose, e dovremo dedicare loro in futuro altri numeri del nostro giornale. (giulia galeotti) BIO GRAFIA D ell’amore e del dolore L’umano e il santo visti da Ida Görres di HANNA-BARBARA GERL-FALKOVITZ O ggi sono pochi a ricordarla ma, quando Ida Görres morì, nel maggio 1971, fu Joseph Ratzinger, allora professore a Tubinga, a pronunciare l’orazione funebre. Era diventata famosa soprattutto per i suoi splendidi ritratti di grandi personaggi — da Francesco d’Assisi a Giovanna d’Arco, da Florence Nightingale a Teilhard de Chardin — che avevano profondamente rinnovato l’agiografia del XX secolo; ma anche per testi altrettanto intensi e rivoluzionari, a partire dalla grande opera su Teresa di Lisieux. Ida Görres, contessa dell’impero Friederike Maria Anna von Coudenhove, visse una vita segnata da una profonda quanto stimolante solitudine interiore, dono ambiguo delle sue origini: era nata nel bel mezzo della selva boema da un diplomatico austriaco e da una giapponese che le lasciò anche nell’aspetto inconfondibili tratti eurasiatici. Ma il doppio delle sue origini si trovava più di tutto nell’anima. Lei stessa percepiva con dolore la tensione interiore tra due culture tanto diverse: «Che la grande tristezza, lo sguardo impietoso sul mondo, siano la mia eredità asiatica? È una cosa molto vecchia, di antica saggezza, ma vecchia e saggia in modo irredento, quella di cui ho parte». E sulla madre nota: «Del suo destino profondamente tragico potrebbe scrivere solo un grande romanziere della prossima ge- 3 D ONNE CHIESA MOND O nerazione, così come la Mitchell ha scritto Gone with the Wind (Via col vento). Lei pensa che qualcuno le abbia chiesto se voleva sposare un europeo, del quale sapeva solo che “sono diavoli bianchi dai capelli rossi e gli occhi da pesce”? Il suo tardo e amaro commento è stato: “Fu peggio della morte. Ma le ragazze giapponesi sapevano obbedire” (...). Dei suoi sette figli, mia madre amava solo i due maggiori, che erano nati in Giappone, e non ci lasciò alcun dubbio in merito (...). Quando qui sento chi si lamenta per la “mancanza di calore familiare” mi viene quasi da ridere». Trascorse l’infanzia in scuole conventuali austriache, dove incontrò per la prima volta la Chiesa nella sua forma più rigida, ma per alcuni aspetti anche protettiva. Solo dopo il 1918, nel movimento giovanile Bund Neuland del quale contribuì a modellare in modo notevole la volontà di rinnovamento religioso, arrivò a percepire nella Chiesa un’inaspettata vitalità. Dal 1923 al 1925 la giovane Ida (vezzeggiativo per Friederike) rimase provvisoriamente come novizia presso le suore di Maria Ward nell’amata St. Pölten, vicino a Vienna. Studiò scienze politiche a Vienna dal 1925 al 1927, quindi scienze sociali a Friburgo dal 1927 al 1929, e infine storia (della Chiesa), teologia e filosofia prima all’università di Friburgo dal 1929 al 1931 e poi a Vienna, dal 1931 al 1932. Dal maggio 1932 fino alla Pasqua del 1935 lavorò «nell’assistenza sociale per la gioventù femminile» della diocesi di Dresden-Meißen, o meglio, come pioniera intellettuale per la gioventù cattolica. Proprio a Dresda, il suo modo vivo, addirittura ardente di sviluppare e comunicare il proprio pensiero era già molto pronunciato; la sua guida entusiasmava. Su questo successo tuttavia continuava a gravare quella solitudine che poggiava sul «crudele peso dell’infanzia», su un’educazione singolarmente priva di amore. Finché giunse ad attenuarla, non senza conflitto interiore, il corteggiamento del berlinese Carl-Joseph Görres (1905-1973). Si sposarono nel 1935, e alcuni ambienti cattolici furono quasi delusi dal matrimonio, che sembrava demolire l’ideale di una nuova “pulzella d’O rléans”. Il marito però si rivelò un degno compagno della passione intellettuale di Ida, che ebbe la possibilità di dedicarsi completamente al lavoro di scrittrice. Nacquero opere in rapida successione, insieme a numerose conferenze, che nel complesso vertono tutte sulla Chiesa e i santi. «Poiché non ho famiglia — con suo grosso dispiacere non poté avere figli — tutta la mia forza si è concentrata sulla Chiesa». A partire dal 1950 cominciò a soffrire di paralisi spastiche, che frenarono il suo lavoro ma non interruppero completamente la sua D ONNE CHIESA MOND O 4 creatività. Tra le cause scatenanti della malattia ci furono probabilmente anche gli attacchi subiti per Brief über die Kirche (Lettera sulla Chiesa, 1948), opera di critica sociale per la quale venne duramente criticata. Ida Görres in una fotografia del 1948 Visse il concilio Vaticano II in principio con gioiosa attenzione, ma poi piuttosto con preoccupazione per le conseguenze delle quali vedeva i pericoli e le ambiguità. Lo dimostrano le sue lettere al benedettino Paulus Gordan, pubblicate con il titolo interrogativo Wirklich die neue Phönixgestalt? (Davvero una nuova forma della Fenice?, 2015). Istintivamente la Görres vedeva vacillare anche cose per lei irrinunciabili. Un titolo indicativo è Abbruchkommandos in der Kirche (Commando per lo smantellamento nella Chiesa). Nel 1969 fu convocata al sinodo di Würzburg, che intendeva attuare al più presto le direttive del concilio. Il 14 maggio 1971 Ida Görres vi pronunciò un intervento su «Messa e sacramento» e subito dopo si accasciò per un’emorragia cerebrale che la portò alla morte il giorno successivo nel Marienkrankenhaus di Francoforte. La Görres aveva espresso il desiderio di essere sepolta a Friburgo vestita del suo kimono bianco. Il bianco, colore del lutto per i giapponesi, indica una tarda “riconciliazione” con la madre. Sulla lapide, 5 D ONNE CHIESA MOND O accanto all’arcangelo Michele combattente, a lei tanto caro, sono scritte le parole Cave adsum (“Attenzione, sono qui!”). Nel 1943 era stato pubblicato il capolavoro della Görres: Das verborgene Antlitz (Il volto nascosto), sulla piccola Teresa di Lisieux. L’importanza e il successo di quest’opera risiedono nel fatto che essa — anche prima dell’edizione integrale del diario, censurato dalle consorelle — mette in luce la qualità umana di Teresa: il mito sdolcinato che il convento aveva costruito intorno alla “piccola”, le leziosità costruite intorno alla “storia di un’anima” svanirono dinanzi alla profonda conoscenza dell’ambiente mostrata dall’autrice, anche lei educata nel mondo dei “piccoli sacrifici”, della poesia edificante e dei pensionati conventuali femminili. Ogni ornamento piccolo-borghese dunque viene eliminato per svelare il volto nascosto di Teresa, compromessa da tratti nevrotici, sminuita dall’infantilizzazione operata dalle suore del convento, talvolta vinta da una scrupolosità ossessiva, e alla fine sprofondata in una spaventosa notte della fede. E tuttavia: proprio nella pietà individualmente limitata e distorta dall’ambiente, il volto di Teresa inizia a riflettere ciò che è divino. Ancora oggi questa “archeologia” della vera Teresa toglie il respiro. Nulla viene ridotto a psicologismi più o meno superficiali: dinanzi all’umanamente limitato, l’inspiegabile appare straordinariamente illuminante. Il fascino (e la consolazione) di quest’opera sta nel fatto che essa mostra in tutta evidenza che il limite dell’uomo non costituisce una barriera per il divino. Anche gli aspetti del carattere più strani e spiacevoli diventano punto di partenza per la grazia. Il kitsch non oscura davvero la bellezza di Dio. Con la passione di chi soffre di persona per la convenzionalità ristretta di alcune posizioni della Chiesa, la Görres mostra la differenza tra album di poesie stereotipato e canto di lode permeato di autentica religiosità. Il gioco alterno di grazia e debolezza è commovente, diventa addirittura il marchio della santità. Denise Lynch «St. Therese the little flower» L’altro fronte in cui emerge tutta l’umanità della Görres è la riflessione sulle questioni fondamentali della vita. Il libro Von Ehe und von Einsamkeit (Del matrimonio e della solitudine, 1949) dà un’idea dell’acuta capacità di osservazione e della passione della grande autrice. In esso sono elencate tutte le obiezioni al matrimonio definito come «vincolo permanente impossibile», ma sono messe in risalto anche tutte le tristi esperienze della solitudine “inappagata”. Così sono discusse, approfondite con delicatezza e chiarite tutte le posizioni, finché non emerge l’indicazione di fondo: che la vita va vissuta, in un equilibrio precario, ma comunque vissuta: l’intera vita con una sola altra persona o la vita con tante persone. Entrambe hanno i propri D ONNE CHIESA MOND O 6 7 D ONNE CHIESA MOND O Vincent van Gogh «Campo di grano con volo di corvi» (1890) oneri, che non possono essere alleggerite con le parole, ma che vanno accettati senza amarezza; entrambe hanno le loro soddisfazioni, ma anche i loro precipizi. E tuttavia possono essere vissute. Anche i fraintendimenti del primo amore vengono esaminati con delicatezza: una lezione sulla capacità di dedizione umana e l’autoinganno pregno di pericoli. Ma si tratta di una lezione che non umilia. A parlare qui è qualcosa di più del sentimento; a parlare è l’esperienza. Si sente un linguaggio pieno di passione, che fa percepire un cuore palpitante, ma anche una mente analitica: tanto rigoroso quanto creativo, tanto elegante quanto combattivo. Un’abilità linguistica ricca di sfumature conferisce alle argomentazioni la loro chiarezza, e ancor più la loro forza utile. A rendere prezioso questo modo di pensare è il suo chiamare in gioco la potenza, Dio. Non come tappabuchi e panacea per tutti i mali, bensì come resistenza viva, alla quale si può ricorrere per tirarsi su. «Può sostenere solo ciò che resiste». E proprio questo si dimostra utile. D ONNE CHIESA MOND O 8 Nel diario Zwischen den Zeiten (Tra le età, 1960) è Ida Görres stessa a illustrare la propria personalità: «I miei problemi principali, quelli centrali, esistenziali, in realtà non stanno nella sfera intellettuale, come si ostinano a pensare i miei conoscenti, gli estranei e perfino gli amici. Stanno da sempre in quella morale, per quanto riesco a ricordare; e anche qui non stanno nella teoria e nei principi, bensì nella vita. Ho fatto sempre solo appello all’intelletto come truppa di rinforzo per esplorare la giungla inestricabile del dover vivere e i principi, per aprire un cammino; la via è stata ed è ancora l’essenza delle mie domande». La Görres è stata capace di «gridare dell’amore e del dolore». Ha sondato l’umano nel profondo: il profondo di una natura confusa, contraddittoria, “irredenta”, dove la sessualità agisce come grande motore indomito. E pur attraversando l’analisi della millenaria esperienza della Chiesa, della poesia, della letteratura, le risposte agli interrogativi più angosciosi giungono solo dal dialogo personale e dal conflitto con Dio, dall’essere felicemente sorpresi della sua guida. 9 D ONNE CHIESA MOND O SPIRITUALITÀ di ANTONELLA LUMINI Apostola dello Spirito santo T D ONNE CHIESA MOND O 10 ra le mistiche cristiane dimenticate, non si può non ricordare la beata Elena Guerra, la cui vicenda è particolarmente sorprendente. Infatti, se pure spesso le mistiche sono state incomprese e ostacolate (se non addirittura, come Margherita Porete, condannate al rogo), Elena Guerra invece ha ottenuto grande riconoscimento da papa Leone XIII, a cui si era rivolta con numerose lettere. Una figura dunque valorizzata da un punto di vista teologico, ma la cui spiritualità non è penetrata nel tessuto della Chiesa, tanto è vero che pochi la conoscono e i suoi numerosi opuscoli e trattati spirituali hanno avuto scarsa diffusione. Nata a Lucca nel 1835 in una nobile famiglia e fin dalla giovinezza condizionata da una salute cagionevole, scoprì presto la gioia per le cose spirituali. Incompresa per la sua esperienza mistica, rimase fedele a quella missione speciale che le era stata assegnata e che costituì il filo aureo della sua esistenza: riportare lo Spirito santo al centro della vita cristiana. «L’adorazione dello Spirito Santo — scrive — è sempre stata molto ardente nel mio cuore, anche se nessuno me l’aveva raccomandato, malgrado non conoscessi alcuna lettura che me l’avrebbe potuto insegnare». Inizialmente pensò a un’associazione, le «amiche spirituali», finalizzata a condividere un’autentica vita cristia- 11 D ONNE CHIESA MOND O DAL MOND O In Kurdistan Si chiama Radio Dange Nwe, cioé Radio Voce nuova, l’emittente del Kurdistan pensata per dare informazione ai rifugiati e gestita da un gruppo di donne, anch’esse rifugiate. La radio trasmette da un appartamento del Centro femminile di Halabja, provincia irachena a maggioranza curda. Da più di un anno le speaker, tutte donne, vanno in onda quotidianamente dalle otto a mezzogiorno alternando canzoni, poesie, programmi di attualità politica o trasmissioni in cui forniscono preziosi consigli per accedere all’assistenza legale e sanitaria. Parlando in arabo e in kurmanji (dialetto curdo), le ragazze si rivolgono alle >> 15 D ONNE CHIESA MOND O 12 na attraverso l’amicizia. Nel 1872 fondò un istituto laico dedicato a santa Zita, patrona di Lucca, per l’educazione gratuita delle ragazze, che in seguito si trasformò nella congregazione religiosa delle Oblate dello Spirito Santo. Ebbe fra le allieve Gemma Galgani. In pieno Ottocento, mentre prevaleva la spiritualità della croce e della penitenza, il rivelarsi a Elena dello Spirito santo come divino amore, assume senza dubbio una valenza profetica: «In Dio l’amore è sempre perfetto e perciò è sussistente, eterno... e questo amore è lo Spirito Santo, operatore di tutti i prodigi di carità». L’esperienza mistica della beata trova connotazione su questa linea bene demarcata in cui lo Spirito santo le si rivela come amore in atto, amore che amando insegna ad amare: «La bell’opera di infiammare i cuori di amor di Dio è proprio del medesimo Amore. Venne l’Amore e l’uomo amò». Gesù accese l’amore nei cuori degli apostoli quando «mandò a essi lo Spirito santo, cioè l’Amore sostanziale e personale di Dio stesso». Non si fa leva sulla volontà, bensì sul cedimento che permette allo Spirito santo di operare e trasformare: «Al mondo mancano la verità e l’amore, perché ha [...] allontanato da sé lo Spirito di Dio. [...] Tutti ammettono che il mondo si sta dirigendo verso la rovina totale [...], ma che cosa facciamo per accelerare il necessario ritorno dello Spirito di Dio nel cuore degli uomini?». Nel 1870 la presa di Roma sancisce definitivamente la perdita del potere temporale della Chiesa. Il richiamo di Elena verso lo Spirito santo si intensifica, vedendo in tale evento un ritorno all’inizio della predicazione degli apostoli. Ma nonostante la propria determinazione e l’instancabile tentativo di coinvolgere altre persone, non si sentiva compresa. Nel 1895 scrisse a Leone XIII la sua prima lettera: «Santo Padre, solo voi potete far sì che i cristiani ritornino allo Spirito Santo, affinché lo Spirito santo ritorni da noi [...] Vorrei chiedervi, per l’amore di Dio, di non indugiare a raccomandare questa preghiera comune». C’è un’urgenza che preme. Le sorti del mondo sono ormai lette solo in questa chiave salvifica: «Tutti i benefici della redenzione sono di infinita eccellenza, ma quello che di tutto è compimento e corona è l’infusione dello Spirito di Dio nelle creature». Poco dopo il papa risponde con il breve Provida matris charitate con il quale introduce un periodo festivo di preghiera allo Spirito santo fra l’Ascensione e Pentecoste. Elena incoraggiata, tra il 1895 e il 1903, scrive ben tredici lettere al papa. Nel 1897, a seguito della quinta lettera, Leone XIII risponde con l’enciclica Divinum illud munus, rilevante trattato sullo Spirito santo, in cui viene viene messa in luce l’azione con cui opera negli apostoli e nell’umanità e come effonde i suoi doni. L’ultimo atto ufficiale del papa alle costanti sollecitazioni di Elena sarà, nel 1902, la lettera Ad fovendum in Christiano populo diretta ai vescovi di tutto il mondo con cui li incoraggia a rinnovare la fede affidandosi allo Spirito santo. A pagina 10 fratel Eric, «La Pentecoste» (vetrata della chiesa della Riconciliazione, Taizé) A pagina 12, una statuetta raffigurante Elena Guerra La sinergia creatasi fra Elena e Leone XIII di fatto porta luce sul passaggio epocale che stava investendo la Chiesa e l’umanità, ma certamente i tempi non erano maturi per una pronta risposta. La preghiera di invocazione allo Spirito santo, si diffuse invece, a partire dalla fine dell’Ottocento, in comunità protestanti nordamericane, lontano dalla gerarchia ecclesiale, attraverso il cosiddetto movimento pentecostale chiamato poi, dal 1963, Rinnovamento carismatico e solo dal 1967 riconosciuto dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa. Come scrive Elena al papa: «Da tanti anni desidero ardentemente che i fedeli si riuniscano unanimi per ritornare allo Spirito Santo e 13 D ONNE CHIESA MOND O >> 12 comunità di migranti fuggite dalla guerra, molto spesso la medesima guerra da dove sono esse stesse fuggite. per realizzare con la preghiera incessante un rinnovamento benefico della faccia della Terra». Alla fine della sua vita conobbe un periodo di grande amarezza e solitudine: «La povera serva dello Spirito Santo ha portato avanti il suo lavoro anche in mezzo a tanti tradimenti [...] lasciarsi legare le mani senza ribellarsi e, a mani conserte, dedicarsi alla forma più alta dell’adorazione e dell’accettazione della Volontà di Dio [...] questa è la trasformazione dell’umile inattività nell’azione perfetta». Nel 1959, a distanza di pochi decenni dalla morte, avvenuta l’11 aprile 1914, fu beatificata da papa Giovanni XXIII come «Apostola dello Spirito Santo». L’ispirazione profetica di Elena, accolta e divulgata attraverso l’autorità del papa, sicuramente prepara un avvento: l’era dello Spirito santo. Mette in luce l’opera che la terza persona trinitaria muove nella storia e che, attraverso l’umanità del Figlio, si riversa sul genere umano con potenza fino alla sua massima espansione. Di questo tratta lo stesso Leone XIII nell’enciclica Divinum illud munus: «Lo Spirito Santo è di tutto la causa finale, perché come nel suo fine la volontà e ogni cosa trovano quiete, così egli che è la bontà e l’amore del Padre e del Figlio, dà impulso forte e soave e quasi l’ultima mano all’altissimo lavoro dell’eterna nostra predestinazione». Se l’era del Padre è il tempo della Legge e l’era del Figlio è il tempo dell’Amore, l’era dello Spirito santo è il tempo dell’espansione dell’amore in cui tutti saran- L’ispirazione del cenacolo universale guarda alla Chiesa come realtà di comunione fondata su un solo spirito e che proprio per questo può trasformarsi in Chiesa in uscita A oltre un secolo dalle parole di Elena non si può più aspettare no chiamati, attraverso misericordia e perdono, a una visione di Dio consolatrice e materna. Quello di Gesù è un battesimo in «Spirito Santo e fuoco», i discepoli sono inviati a battezzare «in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Lo Spirito di Dio discende nel Figlio per effondersi nell’umanità. Il Consolatore libera dallo spirito del mondo attraendo a sé, provvedendo a ogni bisogno con cura e tenerezza. Al centro della spiritualità di Elena Guerra è posta la rinascita nello Spirito santo che si origina con il battesimo: «Appena uscita dal grembo di mia madre, Tu, Signore, mi hai abbracciata e lavata con l’acqua del battesimo rendendomi tua figlia. [...] Rinati at- D ONNE CHIESA MOND O 14 traverso l’acqua, dobbiamo rinascere [...] nello Spirito Santo. Solo Tu, Signore, mi puoi far comprendere e mettere in pratica questa beata rinascita. [...] Affinché la mia vita sia una continua comunione, un’ininterrotta rinascita e una crescita nello Spirito Santo». Rinascere nello Spirito, rinvia alla «rinascita dall’alto» a cui accenna il testo giovanneo (cfr. Giovanni 3, 3-8), fa pensare allo Spirito santo come a un abbraccio luminoso che si effonde per accogliere e rigenerare l’intera umanità. Elena si fa portavoce di un tempo nuovo che preme sulle soglie del mondo: «Inaugurare concretamente nella Chiesa la vera casa dell’adorazione, un cenacolo universale mondiale. In questo modo i fedeli saranno uniti con la Madre di Dio che con gli apostoli pregò ardentemente nel cenacolo di Gerusalemme e potranno supplicare e chiedere allo Spirito Santo, attraverso un incessante vieni, l’anelato rinnovamento della faccia della Terra». Il fulcro profetico è dunque la visione di questo «cenacolo universale» che rinvia a una nuova Pentecoste. Come Maria e gli apostoli dopo l’effusione dello Spirito santo, escono dal cenacolo per andare verso le genti, così la Chiesa è chiamata ad aprirsi universalmente al mondo per effondere il fuoco dell’amore. Dalla realtà comunitaria che crea appartenenza, si apre la prospettiva di una comunione universale. Il termine Chiesa allude alla comunità (ebraico: qahal; greco: ekklesìa), ma l’aggettivo cattolica apporta la giusta visione. Gli apostoli possono disperdersi fra le genti perché uniti nello Spirito. Lo Spirito di Dio attraverso l’umanità del Figlio investe il genere umano, fa crollare i muri chiusi delle appartenenze. C’è comunione solo dove uno è lo spirito: «Siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1 Corinzi 12, 13). L’ispirazione del cenacolo universale guarda alla Chiesa come realtà di comunione fondata su un solo spirito e che, proprio per questo, come non si stanca di ripetere papa Francesco, può trasformarsi in Chiesa in uscita, andare verso le periferie. Non sono le istituzioni e le organizzazioni a garantire l’unità, ma la forza dello Spirito Santo. A distanza di oltre un secolo dalle parole di Elena non si può più aspettare. I tempi lo richiedono. La globalizzazione, i conflitti, le contraddizioni, sono tali da rendere evidente che non rimane altra via se non quella dello Spirito: le parole, i buoni ragionamenti, non servono più. Serve il silenzio che faccia tacere ogni voce e permetta di ascoltare la voce dello Spirito santo. Elena ancora ci illumina: «Ricordati (dice lo Spirito Santo all’anima) che Io amo intrattenermi tra amici e nel mio vivo tempio bramo silenzio». Burkini e dintorni Più lo si proibisce, più si vende: la legge del mercato vale anche per l’ormai celebre burkini, bandito dalla Francia in questa estate 2016. Inventato da Aheda Zanetti, musulmana australiana di origini libanesi che non voleva rinunciare a praticare il nuoto a livello agonistico, il burkini ha visto le sue vendite aumentare su scala globale del duecento per cento, diventando un vessillo identitario. Intanto, una nuova Barbie sta facendo la sua comparsa: la ventiquattrenne nigeriana Haneefah Adam ha infatti creato Hijarbie, per la quale ha disegnato, tagliato e cucito abiti rendendola una musulmana a tutti gli effetti. Haneefah Adam ha dichiarato di voler aiutare le ragazze di fede islamica, dando >> 19 15 D ONNE CHIESA MOND O IN NOVEMILA CARATTERI di Anna Foa Regina Jonas la rabbina dimenticata Q uando a Cincinnati, nel 1972, l’ebrea riformata Sally Priesand fu ordinata rabbino dall’Hebrew Union College, fu considerata la prima donna rabbino della storia. Così la presentarono i media e tale lei stessa si riteneva. In realtà era soltanto la seconda, ce ne era già stata una ma era stata dimenticata, nessuno ricordava il suo nome né il suo percorso. Eppure era stato un cammino interessante, anomalo, quello che l’aveva portata a ottenere l’ordinazione rabbinica nella Germania hitleriana nel 1935, e poi a morire ad Auschwitz nel 1944. Si chiamava Regina Jonas, ed era nata a Berlino nel 1902. All’epoca la sua vicenda aveva fatto un certo rumore e se ne era anche parlato nella stampa tedesca. Ma poi Regina Jonas era stata completamente dimenticata. La sua figura riemerse dall’oblio solo dopo la caduta del muro di Berlino, all’inizio degli anni Novanta, quando una studiosa, Katharina von Kellenbach, trovò in un archivio della Germania orientale una busta con alcuni suoi documenti, tra cui il certificato dell’ordina- D ONNE CHIESA MOND O 16 17 D ONNE CHIESA MOND O >> 15 zione rabbinica. Da allora la sua figura ha attratto sempre più l’attenzione, non solo in Germania ma anche negli Stati Uniti, dove a partire dall’inizio degli anni settanta era emerso un movimento femminista ebraico molto attivo che aveva dato vita, fra l’altro, a un vivace dibattito sulle donne rabbino. A pagina 16 Marlis E. Glaser, ritratto di Regina Jonas Di Regina possediamo una sola fotografia: è vestita di scuro, con i capelli coperti, un bel viso e occhi intensi. Sembra più una donna ortodossa che la prima rabbina della storia ebraica. Era di famiglia modesta e tradizionalista, tanto suo padre che sua madre erano nati in Germania, suo padre era un piccolo commerciante morto precocemente. Dopo la sua morte la famiglia aveva preso a frequentare la sinagoga di Rykerstrasse, inaugurata nel 1904, una sinagoga mista in cui il culto era prevalentemente tradizionalista ma con aperture al cambiamento. Vi officiava negli anni della prima guerra mondiale anche il rabbino Max Weil, che divenne il maestro di Regina, seguendola nei suoi studi. Era un rabbino legato alla tradizione, ma particolarmente attento alla questione delle donne, tanto che fu tra i primi a introdurre il bat mizvah, la maggiorità religiosa per le ragazze. Insomma, un mondo complesso di intrecci tra richiami alla tradizione e innovazione che Regina modulerà a suo modo ma che, in altre forme, ritroviamo già nel suo percorso di studi. Un percorso che raggiunge una prima tappa nel 1924, quando Regina si diploma e viene assunta alla scuola religiosa di Annenstrasse diretta dal rabbino Bleichrode, anch’egli piuttosto vicino ai tradizionalisti ma non senza aperture soprattutto in campo educativo. L’anno successivo, Regina si iscrive alla Hochschule für die Wissenschaft des Judentums. Era il seminario di studi rabbinici fondato a Berlino nel 1872 da Abraham Geiger, una scuola nata nell’onda del movimento di riforma ma ufficialmente priva di una formale aderenza a un qualsiasi movimento religioso, ortodosso, liberale o riformato che fosse. Il professore di Regina alla Hochschule, Eduard Baneth, le assegnò una tesi di laurea significativamente intitolata «Possono le donne officiare come rabbini?». È questo il contesto in cui Regina si forma, in cui porta a termine il suo complesso progetto di diventare rabbina. È un contesto che non è certo ininfluente, una mescolanza fra attaccamento alla tradizione religiosa e apertura al nuovo che si sedimenta nella mente della giovane studiosa, che la segna e la muove. Regina non è affatto una stravagante, come all’epoca si cercò di farla passare. Studia in scuole aperte, come sono tutte quelle che non sono esclusivamente ortodosse (e gli ortodossi sono allora una minoranza fra gli ebrei tedeschi), e accede a un istituto di studi rabbinici che nasce direttamente dall’Haskalah e dal movimento di riforma. Un istituto, sottolineiamolo, in cui erano ammesse donne fin dalla sua creazione (nell’istitu- D ONNE CHIESA MOND O 18 to rabbinico ortodosso, Hildesheimer, le donne invece non erano ammesse): nel 1872 ce ne erano infatti ben 4 su 12 studenti e più tardi la proporzione cresce ulteriormente. Nessuna di loro, invero, aspirava all’ordinazione rabbinica, ma a diplomi di insegnamento e al rapporto con la società ebraica. Solo Regina voleva con tutte le sue forze diventare non un’insegnante ma una rabbina. Fra i suoi maestri all’Hochschule c’era anche Leo Baeck, che aveva una grande stima di lei ma al momento di appoggiarla cercò invece di dissuaderla. Nel 1935, infine, Regina ottenne il titolo agognato e diventò la prima rabbina della storia. A darle l’ordinazione fu il rabbino liberale Max Dienemann, in una forma quasi privata. Il periodo fra il 1935 e il 1942, in cui Regina esercitò a Berlino la funzione rabbinica, la vide emergere per il carisma e le capacità. Pur tenuta inizialmente ai margini, divenne ben presto una figura conosciuta e apprezzata. Viveva con sua madre e aveva rinunciato, assai poco in accordo con la tradizione ebraica, a farsi una famiglia. Ebbe però una relazione amorosa con un rabbino di Berlino, Joseph Norden, molto più vecchio di lei, anch’egli deportato a Theresienstadt e là morto nel 1943. Ed è proprio Norden, nel 1942, a interessarsi per farla emigrare negli Stati Uniti, lontano dal pericolo. Ma Regina rifiuta di lasciare Berlino, sua madre, la sua congregazione. Il 6 novembre, con la madre, viene deportata a Theresienstadt. Cominciano per Regina due anni intensi, chiusa nel ghetto, tutti volti a lavorare per alleviare le sofferenze degli ebrei, dei bambini e dei vecchi in particolare. Assolve insomma totalmente, nella deportazione, il ruolo di “protettore” che aveva sempre sottolineato come compito dei rabbini quando, anni prima, aveva sostenuto l’importanza del rabbinato femminile. Fra i dirigenti del Consiglio ebraico era Leo Baeck, il suo antico maestro, colui che dieci anni prima le aveva rifiutato l’ordinazione. Accanto a lui Regina opera, facendo anche conferenze, mettendo la sua straordinaria capacità oratoria al servizio degli ebrei in attesa di essere deportati ad Auschwitz. Lavora anche con Viktor Frankl, lo psichiatra austriaco inventore della logoterapia. La lista dei deportati ad Auschwitz del 12 ottobre 1944 riporta il suo nome accanto a quello della madre, e indica anche la sua professione: Rabbinerin. Né Baeck né Frankl, entrambi sopravvissuti, la nomineranno mai nei loro scritti. Baeck, morto nel 1956, non ne fece mai parola. Frankl, morto nel 1997, ne parlò solo dopo che la sua storia fu riscoperta, negli anni novanta. Ma perché? loro una bambola che rappresenti il loro bagaglio culturale e religioso. In quest’ottica, Haneefah ha realizzato una Hijarbie specifica in onore della musulmana Ibtihaj Muhammad, che ha partecipato e vinto una medaglia di bronzo nella sciabola a squadre alle Olimpiadi di Rio 2016. In Argentina Lucía Pérez, una studentessa di appena sedici anni, è morta per le orribili ferite interne dopo esser stata drogata, violentata e poi impalata con un pezzo di legno da tre uomini. Il terribile delitto è avvenuto a Mar del Plata, in Argentina. «In tutta la mia carriera non ho mai visto una cosa del genere», ha detto il pubblico ministero María Sánchez. «Sono mamma di una bambina, e non riesco a dormirci la notte». Ogni trenta ore nel paese sudamericano una donna viene uccisa da un uomo. Tra gli effetti del brutale omicidio vi è stato anche Eppure, Regina Jonas era stata un personaggio noto, la prima rabbina della storia. La sua attività come rabbina negli anni Trenta a >> 21 19 D ONNE CHIESA MOND O >> 19 Berlino era stata importante. Dopo la sua riscoperta, erano emerse voci e testimonianze che raccontavano del suo carisma, dei suoi sermoni. Persone che l’avevano vista, conosciuta, e che infine la ricordavano. E allora, perché non Baeck, perché non Frankl, uomini di scrittura? Perché questa cancellazione, che ci impedisce anche di sapere quale era stato il suo ruolo nel lavorare accanto a Frankl, nel fare conferenze organizzate da Baeck? In assenza di testimonianze, possiamo anche ipotizzare che il suo ruolo sia stato importante, più di quanto non si pensi. E quindi che il gas di Auschwitz abbia impedito che capacità fondamentali le venissero riconosciute. Una delle ipotesi che possiamo fare per spiegare il silenzio è che ricordarla fosse diventato difficile dopo la Shoah. Che nel gran mare dei caduti, degli annientati, dei dimenticati, la prima rabbina sia andata perduta. Se fosse sopravvissuta, le cose sarebbero andate diversamente. Possiamo immaginarcela riprendere le sue funzioni rabbiniche nella Berlino del dopoguerra, restando in Germania come aveva scelto di fare quando le avevano offerto la possibilità di andarsene. L’altra ipotesi è che a condannarla al silenzio sia stato proprio il suo ruolo di rabbina. Che chi l’aveva conosciuta abbia pensato che la Shoah si era portata con sé anche questa strana donna, che aveva voluto assumere un ruolo solo maschile, e dimostrare che le donne erano adatte forse più degli uomini a esercitare questo compito. A con- Di Regina possediamo una sola fotografia È vestita di scuro, con i capelli coperti, un bel viso e occhi intensi Sembra più una donna ortodossa che la prima rabbina della storia dannarla all’oblio sarebbe stato allora proprio quello che avrebbe dovuto invece darle fama e memoria. Al momento della sua ordinazione rabbinica, Regina aveva risposto per iscritto a una giornalista che le chiedeva i motivi della sua scelta. «Ma se proprio devo rivelare cosa mi ha guidato come donna a diventare rabbino, mi vengono in mente due punti: la mia fede nella chiamata di Dio e il mio amore per la gente. Dio ha posto abilità e chiamate nei nostri cuori, senza distinzioni di genere. Così ciascuno di noi ha il dovere, uomo o donna, di realizzare e operare secondo i doni che Dio ha dato. Guardando la questione in questa prospettiva, si prendono maschio e femmina per quel che sono: esseri umani». D ONNE CHIESA MOND O 20 quello di coalizzare le argentine in una reazione unanime nel tentativo di reagire all’ondata di violenza contro le donne. Così, per un’ora, negli uffici, a scuola, nei negozi, nei tribunali e nelle fabbriche, le donne si sono fermate il 19 ottobre per dire basta alla violenza maschilista con uno sciopero lanciato dall’associazione Ni Una Menos (“Nemmeno Una Meno”). In Sudan Cattive notizie: le spese per divise, cartelle, libri, quaderni e penne continuano ad aumentare e le famiglie non sono in grado di sostenerle, soprattutto quelle con più figli in età scolare. Così in Sudan è diventato difficile studiare. Impossibile, poi, se si è femmine: l’impennata dei prezzi costringe infatti i genitori a tenerle a casa. A El Geneina, capitale del West Darfur, si aggiunge il problema degli edifici scolastici andati distrutti nei mesi passati a causa delle forti piogge. 21 D ONNE CHIESA MOND O LA SCIENZIATA on si udì mezza parola su di lei quando, nel 1962, Watson, Crick e Wilkins ricevettero il premio Nobel per la medicina grazie alla scoperta della struttura del dna. Se il comitato non la incluse, fu perché i tre moschettieri della doppia elica si guardarono bene dal ricordare il fondamentale apporto che le ricerche della scienziata avevano dato alla individuazione della struttura tridimensionale degli acidi nucleici costituiti da lunghe catene molecolari avvolte a elica. Lei, del resto, non poté N Un’elica monca di GIULIA GALEOTTI lamentarsi di quel silenzio: cristallografa professionista, Rosalind Franklin era morta qualche tempo prima di tumore a 37 anni, il 16 aprile 1958, forse anche a causa delle radiazioni a cui i suoi studi l’avevano lungamente esposta. Nata nel 1920 in una famiglia inglese di origine ebraica, Franklin studiò a Cambridge, iniziando la sua carriera di ricercatrice a Parigi e continuandola poi al Kings College di Londra. Fu qui che le sue foto del dna (viste all’insaputa della donna) folgorarono Watson, che in esse riconobbe la raffigurazione della doppia elica. Nel 1952 infatti, utilizzando una macchina da lei modificata, Franklin aveva ottenuto la foto del dna nella sua forma b. Ciò, unito all’analisi del suo epistolario e alle interviste ai protagonisti minori della vicenda, ha indotto molti a ritenere D ONNE CHIESA MOND O 22 che sia stata proprio lei la vera scopritrice della morfologia a elica del dna. Nel tempo, però, quasi sottovoce, il suo apporto cominciò a emergere. E così quando, dopo la vincita del Nobel, Watson scrisse The Double Helix (bestseller tradotto in 17 lingue) non poté non citarla. Ma lo fece minimizzandone il più possibile l’apporto, denigrandola come donna e come scienziata. Nel libro, infatti, Franklin viene presentata come femmina lunatica, irascibile, inaffidabile («la ragazza stava dando più fastidi che mai») e trascurata («Di proposito non faceva nulla per mettere in rilievo la sua femminilità»). Tanta misoginia, del resto, determinò un cambio di editore: se inizialmente Watson era stato messo sotto contratto dalla Harvard University Press, dopo che ne era circolata una prima bozza, la casa editrice lo rescisse: non era un problema di merito del resoconto, quanto del fatto che il testo offendeva molti, tra cui colei che non era più in grado di difendersi. Sebbene Watson avesse poi eliminato o attenuato alcuni dei passaggi sotto accusa, ugualmente il libro fu pubblicato da un editore commerciale. Dagli anni Cinquanta a oggi la carriera del dna è stata folgorante: nel giro di sole due generazioni, è passato dall’essere dominio di nicchia ad avere un posto centrale nel linguaggio quotidiano. Fonte d’ispirazione per artisti e pubblicitari, protagonista al cinema, nei romanzi o nelle pubblicità, il dna è ormai il simbolo della scienza che spiega il mondo, vera icona della modernità. La storia della sua scoperta, però, è anche l’ennesima testimonianza di come l’apporto femminile venga minimizzato: il dna e Watson sono ormai arcinoti, di Rosalind Franklin, invece, pochi conoscono nome e vicenda. FO CUS di SILVINA PÉREZ Martire dei diritti umani T ace da trentatré anni, ormai, la voce di Marianella García Villas, l’avvocata dei poveri e dei contadini, figlia privilegiata della ricca borghesia del Salvador ma eletta in parlamento dalle donne del popolo. È stata dimenticata da quel giorno del marzo 1983 in cui la giunta militare al potere nel suo paese decise di torturarla brutalmente e assassinarla. Le sue denunce e le sue prese di posizione in difesa dei diritti umani erano divenute inaccettabili per il potere. Pertanto, come accaduto tre anni prima per Óscar Romero, con il quale aveva a lungo collaborato, anche la sua voce viene messa a tacere per sempre. Ucciso il 24 marzo 1980, mentre stava celebrando la messa, Romero aveva denunciato per anni le ingiustizie del suo paese e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli. Aveva visto cadere, sotto i colpi dei paramilitari uno dei suoi più stretti collaboratori, il sacerdote gesuita padre Rutilio Grande. L’omicidio colpì profondamente Romero, che tempo dopo disse: «Quando guardai Rutilio che giaceva morto davanti a me pensai: “Se lo hanno ucciso per 23 D ONNE CHIESA MOND O ciò che faceva, allora io devo seguire il suo stesso sentiero”». Quel sentiero ha una data precisa, il 24 novembre 1977, data in cui si intreccia il percorso di monsignor Romero a quello della giovane Marianella García Villas. È il momento in cui l’assemblea legislativa del paese approva la Legge di difesa e garanzia dell’ordine pubblico che di fatto dà mano libera al governo nell’attività di repressione. Accanto agli arresti cominciano a esserci anche le sparizioni: così quello dei desaparecidos diviene un fenomeno anche salvadoregno. In tale situazione di diffusa violenza, l’arcivescovo di San Salvador promuove, Particolare del monumento alla Memoria e alla verità (San Salvador) insieme a sei giovani avvocati, la creazione di un gruppo di «soccorso giuridico», organismo che fornisce assistenza agli imputati e contemporaneamente prepara per l’arcivescovo notizie precise e circostanziate da denunciare durante le omelie. Ogni fine settimana Marianella fa avere a Romero un rapporto dettagliato su quanto avvenuto nel paese: uccisioni, torture, massacri, sparizioni. Così Romero può preparare l’omelia domenicale. Le omelie di Romero sono molto lunghe, durano anche un paio d’ore e sono seguite per radio in tutto il Salvador e paesi confinanti, diffondendo la conoscenza della situazione di degrado in cui la guerra civile stava gettando il paese. La radio cattolica Y.s.s.x. «La voce Panamericana», attraverso cui l’arcivescovo Romero trasmetteva le sue omelie, era rapidamente diventata un punto di riferimento. Ogni omelia era divisa in tre parti: una prima dedicata ai testi della liturgia della Parola con applicazioni al tempo liturgico e alla vita cristiana dei fedeli che lo ascoltano; una seconda parte più pastorale e diocesana; infine una terza parte con l’analisi della situazione del paese e con la denuncia precisa e circostanziata degli episodi di violenza e dei sequestri. Per la preparazione di quest’ultima parte delle omelie, Romero si consultava quotidianamente con il gruppo del Soccorso giuridico coordinato da Marianella e con i vari organismi diocesani D ONNE CHIESA MOND O 24 creati per la difesa dei diritti umani. Per questo motivo la radio subì due attentati dinamitardi. Il 23 marzo 1980 l’arcivescovo invitò apertamente gli ufficiali e tutte le forze armate a non eseguire gli ordini, se questi erano contrari alla morale umana. Il giorno dopo Óscar Arnulfo Romero fu trucidato mentre celebrava la messa. Durante le esequie l’esercito aprì il fuoco sui fedeli, compiendo un nuovo massacro. Ci sono voluti trentacinque anni per riconoscere che l’arcivescovo di San Salvador fu martirizzato in odium fidei e quindi degno d’essere proclamato beato, mentre la figura di Marianella è stata pressoché dimenticata. Nel primo anniversario dell’assassinio di monsignor Romero, Marianella ricordò l’arcivescovo sul bollettino della commissione per i diritti umani, chiedendo a gran voce di «non lasciare seppellire insieme con il profeta anche le sue parole». Più volte minacciata di morte, visitò vari paesi europei tra il 1981 e il 1982. Durante un suo viaggio in Italia, nel 1981, partecipando a una manifestazione nella città di Padova, testimoniò il dramma vissuto dal suo popolo, sottolineando l’insufficiente e inadeguato impegno a livello internazionale nella difesa dei diritti umani. L’impegno nei confronti degli emarginati la ricondusse nel suo paese. Rientrata clandestinamente in Salvador, fu brutalmente assassinata il 13 marzo 1983. Il battaglione Atlacatl dell’esercito salvadoregno la torturò fino alla morte per im- Tace da trentatré anni la voce di Marianella García Villas l’avvocata dei poveri e dei contadini È stata dimenticata da quel giorno del 1983 in cui la giunta militare decise di torturarla brutalmente e assassinarla pedirle di denunciare il ricorso alle armi chimiche, tra le quali il napalm e il fosforo bianco, usate nelle stragi dei contadini salvadoregni. Rimane solo il volume Marianella e i suoi fratelli, pubblicato nel 1983, scaturito dalle alcune conversazioni avute con Marianella tra il 1981 e 1982, durante il suo soggiorno in Europa. Gli autori pensavano inizialmente d’intitolarlo Antigone e i suoi fratelli, considerando le affinità con la figura mitologica. Ma Marianella non aveva bisogno di essere assimilata a un mito, era un mito lei stessa, per il suo coraggio, per la sua morte. 25 D ONNE CHIESA MOND O Santa Elisabetta di Ungheria in un ritratto del pittore fiammingo Jan Provoost e, a pagina 26, in un dipinto di Pietro Nelli (1365) LA SANTA DEL MESE Nel mondo per portare la luce divina di FERDINAND O CANCELLI n parlatorio di un monastero benedettino in una mattina di un giorno feriale. La luce tagliente del sole di montagna si posa su alcuni fogli che la madre priora mi ha appena messo nelle mani per accompagnarmi in un viaggio particolare. Non resisto e inizio a leggere facendo subito una scoperta: il 28 gennaio 1932 a Zurigo una donna di quarantuno anni, Edith Stein, si appresta a parlare di un’altra donna, Elisabetta d’Ungheria, morta sette secoli prima appena ventiseienne e lo fa con un’intelligenza e una profondità che trascinano il lettore di oggi in un altro mondo, nella dimensione senza tempo della grazia di Dio all’opera. «Più una persona è assorbita profondamente in Dio — scrive nel 1928 a suor Callista Kopf la giovane filosofa tedesca ormai battezzata da qualche anno — più deve in un certo senso “uscire da sé” per penetrare il mondo e portarvi la luce divina». È forse per questo “uscire” da sé che le due sante, separate dai secoli, si ritrovano una vicina all’altra a ope- U D ONNE CHIESA MOND O 26 rare nelle tenebre del mondo. La polvere e il vento di Westerbork, aspettando la morte come figlia del popolo ebraico, per Teresa Benedetta della Croce strappata al Carmelo di Echt, la povertà e le malattie senza rimedio per la giovanissima Elisabetta, figlia del re Andrea II d’Ungheria. Discendente di Carlo Magno per parte materna, la principessa pare avviata a una vita di corte. Nata nel 1207, trasferita dall’Ungheria a Eisenach nel castello di Wartburg, la giovane ungherese è destinata a sposare Luigi IV di Turingia, discendente di nobilissima famiglia. «Tutti i fatti che sono riportati su sant’Elisabetta, tutte le parole che di lei ci sono pervenute — scrive Edith Stein — ci rivelano di lei una cosa sola: un cuore ardente che stringe tutto ciò che la circonda con un amore profondo, tenero e fedele.» Lo Spirito santo ha infatti altri progetti su questa ragazza. Insofferente verso le ingiustizie che vede perpetrate a danno dei più poveri, incapace di conformarsi a una vita nobiliare di falsa etichetta ma soprattutto completamente infiammata di amore per l’eucaristia, Elisabetta, ormai madre di tre figli e giovanissima vedova, abbandona il castello di Wartburg e nel venerdì santo del 1228, a ventuno anni, «pone le sue mani sullo spoglio altare della chiesa francescana di Marburg» e inizia a vivere pienamente l’ideale di san Francesco. L’amore «ardente e misericordioso che si apre a tutti gli infelici e a tutti gli afflitti», contagiando chiunque la avvicina, e una gioia spontanea e quasi infantile, sono questi i due tratti che mai l’abbandoneranno nel suo percorso terreno: era solita offrire ai 27 D ONNE CHIESA MOND O NELL’ANTICO TESTAMENTO bambini più poveri, ci racconta Edith Stein, alcuni semplici giocattoli per poi fermarsi a giocare con loro. In breve tempo tutti la chiamavano “mamma” e lei era solita ripetere: «Ve l’ho sempre detto, occorre solamente fare felici i poveri!». In Elisabetta, fondatrice di un ospedale per gli ultimi tra i miseri, sembrano convivere, secondo la Stein, una naturale «spontaneità» e Ferdinando Cancelli Nato a Torino nel 1969, dopo gli studi classici ha esitato tra lettere, storia e medicina. Diventato medico, ha ottenuto il diploma post-laurea in medicina palliativa all’università Claude Bernard di Lione (Francia) e il perfezionamento in bioetica all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dopo aver trascorso un periodo di lavoro come Chef de clinique all’Hôpital de Bellerive (Ginevra), esercita la professione di medico palliativista a Torino per la Fondazione F.A.R.O. onlus. Sposato con Clara dal 1997, ha condiviso con lei il cammino per divenire oblato secolare dell’abbazia Mater Ecclesiae sull’isola di San Giulio e deve moltissimo alla sua famiglia monastica. Per «donne chiesa mondo» ha scritto la storia di Giuliana di Norwich (novembre 2015). D ONNE CHIESA MOND O 28 «una lotta impietosa contro il proprio temperamento»: in altre parole «l’amabile santa della felicità più fresca, così seducente per sua propria natura, è nello stesso tempo un’asceta austera». Sotto la direzione spirituale di Corrado di Marburg, al quale resterà obbediente fino alla morte, a poco a poco Elisabetta impara a dominare la propria natura e a temperare, almeno in parte, la volontà. Negli ultimi tre anni della vita resterà nel suo ospedale accanto ai malati e ai poveri occupandosi dei compiti più umili e fermandosi fino a tarda notte anche con quelli «troppo deboli e stanchi per poter tornare a casa». Difficile non fare un balzo in avanti nei secoli per rileggere la preziosa testimonianza di un certo signor Marcan imprigionato nel 1942 a Westerbork con Edith Stein: «Suor Benedetta passava tra le donne come un angelo di consolazione, sollevandone alcune, curandone altre. Molte madri — continua il testimone oculare — sembravano cadute in uno stato di prostrazione che sfiorava la follia: restavano là a gemere, come inebetite, abbandonando i loro bambini. Suor Benedetta si occupava subito dei bambini più piccoli, li lavava, li pettinava, procurava loro il cibo e le cure necessarie». Sull’obbedienza che la giovane principessa ungherese doveva al suo direttore spirituale è la stessa Edith Stein a rivelarci un particolare impressionante: «Su un solo punto non cedette mai completamente: tenere con sé, in più rispetto al servizio in ospedale, un bambino affetto da una malattia particolarmente orribile ed essere la sola a occuparsene». Corrado di Marburg riferirà personalmente a papa Gregorio IX che alla morte di Elisabetta un bambino malato di scabbia «era ancora là, seduto al suo capezzale». Elisabetta d’Ungheria, «elevata fino a quest’umanità compiuta — conclude Edith Stein — pura espressione della natura liberata e trasfigurata dalla forza della grazia» diventerà santa nel 1235, a soli due anni dalla morte. Giuditta la salvatrice di MERCEDES NAVARRO PUERTO 29 D ONNE CHIESA MOND O iuditta è un’eroina, una guerriera: il suo profilo riecheggia il mito e l’archetipo dell’eroe, ma al femminile. Non è un fatto nuovo nella Bibbia né altrove, nel mondo attuale, dove sta crescendo il numero delle eroine nei fumetti, nel cinema, nelle serie televisive e nei romanzi. La Giuditta biblica dà il nome al libro che racconta la sua storia, come avviene con alcuni uomini, profeti (Isaia, Ezechiele, Giona) o personaggi del mondo sapienziale (Giobbe), e con altre donne (Rut ed Ester). G Giuditta è presentata come figlia di Merari e vedova di Manasse. Il narratore aggiunge una genealogia di sedici generazioni, una delle più lunghe della Bibbia ebraica. La genealogia o elenco degli antenati, serve a sottolineare l’importanza di un personaggio. I grandi eroi biblici, come Abramo, i re e numerosi capi, hanno una loro genealogia, ma è abbastanza raro che venga attribuita a una donna. La genealogia fa di Giuditta un personaggio che può misurarsi con i grandi eroi biblici. Il nome Giuditta deriva dal femminile ebraico yehûdit, che vuole dire giudea. Non è un nome biblico comune, ma neppure insolito. Si chiama Giuditta anche la moglie di Esaù, figlia di un ittita chiamato Beeri. La possibilità che Giuditta sia un nome simbolico o una metafora del popolo è confermata da altri nomi nel libro, come quello della città, Betulia, ignota agli studiosi sebbene il testo la collochi a nord di Gerusalemme. Betulia potrebbe essere uno pseudonimo di Betel o una rappresentazione metaforica del popolo ebraico. È probabile che il toponimo Betulia derivi da betulah, termine ebraico che significa vergine o donzella. Francisco Goya «Giuditta e Oloferne» (1819-1823) Oloferne, un generale dell’esercito di Nabucodonosor, cerca di conquistare Israele. Ha già invaso altri paesi con notevole successo, ma nella sua offensiva militare si scontra con la resistenza di una piccola città ebraica chiamata Betulia. Pronto a distruggerla, la sottopone a un duro assedio. Betulia è in grave difficoltà e comincia a disperare. Quando i suoi abitanti, d’accordo con i loro capi, sono pronti ad arrendersi, appare una giovane vedova, Giuditta, che sfida tutti in nome del Signore e traccia un piano per sconfiggere il nemico. Servendosi della sua bellezza e della sua astuzia, Giuditta s’infiltra nell’accampamento di Oloferne e, una volta conquistata la sua fiducia, lo uccide mozzandogli il capo. In questo modo Giuditta provoca la fuga dell’esercito nemico e ottiene la vittoria di Betulia, che l’acclama come grande eroina e rende grazie a Dio. Il libro, come pure l’argomento e il personaggio, non è storico, se ci atteniamo al nostro concetto attuale di storia. Viene definito piut- D ONNE CHIESA MOND O 30 31 D ONNE CHIESA MOND O con il resto degli uomini è anch’esso profondamente ironico, ironia che raggiunge l’apice nel rapporto con Oloferne, soprattutto quando l’autore utilizza termini erotici per descrivere il brutale assassinio. Anche i personaggi minori sono presentati in una luce ironica: Achior, guerriero di professione, sviene di fronte al capo mozzato di Oloferne; uomo di azione, si rivela un saggio; pagano ammonita, mostra più fede nel Dio d’Israele degli stessi israeliti, dei maestri ebrei a Betulia. Ozia, conforme allo stereotipo femminile, si nasconde dietro le mura della città, mentre Giuditta, conforme allo stereotipo maschile, esce per affrontare apertamente il nemico. L’intero libro appare dunque pervaso da un ironico rovesciamento, il suo asse ermeneutico. Giovanni Francesco Romanelli «Giuditta e Oloferne» D ONNE CHIESA MOND O 32 tosto come una storiella, un romanzo breve (folktale) in cui si narrano le gesta esemplari di una vedova pia che prende la coraggiosa decisione di sconfiggere il nemico, sostenuta dalla sua fede religiosa. C’è chi crede che sia una specie di racconto folcloristico ed epico, che combina la storia della moglie fedele con quella della donna guerriera. Ma Giuditta vuole essere un libro storico, visto che include alcuni dati ben noti, insieme ad altri assolutamente sconosciuti, sebbene non improbabili, riguardanti l’etnia, le persone, i luoghi e i nomi. D’altro canto, il suo argomento è perfettamente credibile e verosimile. Nel racconto è assente qualsiasi intervento miracoloso di Dio. Non sono neppure i riti, le frequenti preghiere e il digiuno i fattori che influiscono maggiormente sulla vittoria, ma piuttosto il coraggio dell’eroina e della sua gente a sconfiggere il nemico. Si ritiene quindi che la narrazione possa contenere un nucleo storico, una storia di assedio e vittoria sul nemico per mano di una donna, avvenuta in epoca persiana, al tempo di Artaserse III, periodo in cui si collocano temporalmente i fatti. Però il libro contiene una gran numero di “errori”, probabilmente deliberati, ma molti di essi carichi di ironia. In realtà, l’ironia pervade tutta l’opera, il suo tema, i discorsi e i personaggi. Oloferne, per esempio, è un personaggio presentato in modo ironico perché, dopo aver conquistato tutto l’ovest, non riesce a sottomettere una piccola città come Betulia, e nemmeno a dominare una donna, che lo uccide con la sua stessa spada. La storia di come il libro e il personaggio di Giuditta sono stati recepiti è complessa. Gli ebrei hanno avuto difficoltà ad accettarlo come libro ispirato e non è stato facile inserirlo neppure nel canone cristiano. Alcune difficoltà sono legate al personaggio di Giuditta, considerata come moralmente discutibile, perché esercita la violenza, e pericolosa perché donna libera e autonoma. Il dubbio morale attorno alla violenza è radicato nella sua condizione di donna, visto che molti personaggi biblici maschi violenti non sono stati messi in discussione dal punto di vista morale. Giuditta viene concepita e trattata come un personaggio paradossale: vedova senza figli, è lei a dare vita fisica al suo popolo sconfiggendo il nemico, e vita spirituale restituendogli la fede e la speranza in Dio. Bella e desiderabile, vive come nubile. Donna ricca, trascorre la maggior parte della sua vita nel digiuno. Dall’apparenza fragile e molto femminile, è capace di uccidere brutalmente con le sue stesse mani il capo di un esercito molto potente. Il rapporto di Giuditta Giuditta è una vedova senza figli, come lo erano Noemi, Rut, Abigail e Betsabea. Come loro dimostra una particolare abilità nell’aprire un cammino per sé e per tutto il popolo. A differenziarla da queste donne è la maternità, poiché, mentre Betsabea e Rut — e attraverso di lei Noemi — presto o tardi hanno figli biologici, Giuditta, più vicina alla figura di Debora (cfr. Giudici 5-7) è madre del popolo. Il libro di Giuditta presenta una ricca intertestualità biblica, una sorta di condensazione di allusioni, evocazioni, tematiche, modelli, personaggi e situazioni. Qui menzioniamo solo l’intertestualità femminile, che fa pensare a Giuditta come a una specie di antologia di testi biblici che si occupano di donne. Così, sullo sfondo del personaggio e delle sue azioni, ritroviamo Miriam, Debora, Giaele, Sara, Rebecca, Rachele, Tamar, Noemi, Rut, Abigail, Betsabea e altre. Ad esempio, Giuditta ricorda l’astuzia di Sara, Rebecca, Tamar e Dalila nel raggiungere il proprio fine con l’inganno intelligente. E come loro, finisce coll’avere un enorme influenza sulla storia del popolo, sul futuro di Betulia e d’Israele. L’autrice Ha insegnato Antico Testamento e Psicologia della religione nella Pontificia università di Salamanca ed è professoressa onoraria del Dipartimento di studi ebraici e aramaici dell’università Complutense di Madrid. Attualmente è direttore per la lingua spagnola della raccolta internazionale e multilingue «La Biblia y las mujeres». La sua pubblicazione più recente è Violencia, sexismo, silencio. Inconclusiones en el libro de los Jueces (Evd, 2013). 33 D ONNE CHIESA MOND O Ci sono analogie anche tra Giuditta e Rut, l’altra vedova senza figli, in passi che sembrano un’eco del libro di Rut: Oloferne dice a Giuditta «il tuo Dio sarà mio Dio», le stesse parole che Rut dice a Noemi e si legge che «si radunarono tutte le donne d’Israele per vederla e la colmavano di elogi e composero tra loro una danza in suo onore», eco di quanto avviene alla fine del libro di Rut. Se poi ricordiamo che il nome di Giuditta evoca quello della moglie ittita di Esaù, l’analogia con Rut appare ancora più evidente, visto che quest’ultima era moabita. Giuditta è ebrea, ma ironicamente ricorda ed evoca due donne straniere che contribuirono a costruire o edificare la casa di Israele. Giuditta inoltre, come fece Rut con Booz, si adagia ai piedi di Oloferne e non dimentichiamo che, alla fine del cantico che le donne dedicano a Giuditta, vengono menzionati i sandali che evocano la ratifica del rito di Booz come go’el. Degne di menzione sono anche le analogie con la storia di Debora e Barak e di Gioele e Sisara. Giuditta finisce con l’eclissare Achior, come fa Debora con Barak. Ma il parallelismo più interessante sta nella funzione profetica di entrambe le donne rispetto ai capi del popolo. Giuditta, come fa Debora con Barak, rimprovera i capi del popolo per la loro scarsa fede. E, leggendo le imprese di Giuditta, è impossibile non ricordare Giaele (e anche Dalila). Giaele, come lei, conquista la fiducia di un generale nemico, lo seduce e lo inganna È un’eroina, una guerriera, un personaggio che può misurarsi con i grandi eroi biblici Vedova senza figli è lei a dare vita al popolo sconfiggendo il nemico per sconfiggerlo più facilmente. Come Giuditta, anche Giaele era stata lodata dalle donne e, se Giuditta dà una pace duratura a Israele, di Giaele si diceva che aveva offerto quarant’anni di tranquillità al popolo. Concludiamo menzionando un altro aspetto di Giuditta riguardo ai ruoli di genere. Achior, uomo atipico, evolve come personaggio verso una progressiva femminilizzazione, mentre Giuditta, donna atipica, in determinati momenti si adegua al prototipo femminile utilizzandolo come strumento d’azione. Tutti e due mostrano un certo grado di trasgressione. Entrambi si collocano al confine del genere culturalmente assegnato loro e superano i limiti socialmente stabiliti. D ONNE CHIESA MOND O 34 35 D ONNE CHIESA MOND O ARTISTE Il coraggio di cantare il Dies irae di PASQUALE CHESSA draiato sul crinale di una collina del Mejlogu c’è Siligo. Siligo è attraversato da una sola strada maestra, s’istradone, distesa al sole come una biscia lucente. Una main street su cui affacciava, ancora fino a qualche tempo fa, una teoria contrapposta di case a un piano. Con tre eccezioni: la casa della famiglia di Francesco Cossiga, costruita a due piani fin dall’origine, la casa di Gavino Ledda, lo scrittore di Padre e padrone e infine la casa natale di Maria Carta. S «Per quella strada cantavo sempre... allora cantavo a voce delirante»: Maria si ricorda bambina. Aveva otto anni quando cominciò a far sentire la sua voce nella chiesa di Siligo. Un passaggio esistenziale, rivissuto per sempre come una scena primaria: capitò per il funerale di un suo compagno morto a dieci anni, che intonasse con tutta la forza che aveva nell’anima un terribile Dies irae. Ne rimase tanto provata, sconvolta nel profondo del cuore, che la madre le impose di non cantarlo più. Vissuto come un tabù, il divieto fu infranto e il trauma rivissuto quando decise di intitolare proprio Dies irae il D ONNE CHIESA MOND O 36 Mural dedicato a Maria Carta nella piazza di Siligo suo album del 1975 dedicato al canto gregoriano, in latino come Adoro te devote, l’inno eucaristico attribuito a san Tommaso d’Aquino, ma soprattutto in logudorese, come Ave mama ’e deu, cioè l’Ave maris stella ritenuta di Paolo Diacono che visse nel secolo VIII. «Die tràgicu su die / morit su mundu in fiama / comente est profetizadu» (“Giorno tragico quel giorno / muore il mondo in fiamme / com’è stato profetizzato”): forse non è inutile qui ricordare che la parlata del Logudoro, che si parla ancora nel Mejlogu, regione storica della Sardegna, non è un dialetto ma una vera e propria lingua romanza... La più vicina al latino fra tutte le varianti del sardo, e forse per questo particolarmente adatta a trovare sottili e sublimi corrispondenze con la cultura musicale in cui si afferma lungo i secoli il canto gregoriano. Come ha scritto in quell’occasione Severino Gazzelloni, «Maria Carta è la sola nella cui arte possa fondersi la modalità gregoriana con le astuzie di una moderna orchestrazione» Nella doviziosa biografia, Maria Carta, che le ha dedicato nel 1999 Emanuele Garau per le Edizioni Della Torre, si cita parola per parola una confessione in pubblico, rivelatrice di una personale filosofia di vita, durante un concerto a Bologna nel 1988, in occasione del nono centenario dell’università che proprio quell’anno le aveva affidato la docenza in Antropologia culturale: «Io purtroppo non ho avuto la possibilità di trascorrere la mia giovinezza china sui libri, ma affaticando la schiena sul lavoro, ed essere qui oggi è molto importante per me, perché mi rendo conto che nella vita ciò che conta non è la fortuna che si ha in gioventù, ma quanto si riesce a costruire da soli». 37 D ONNE CHIESA MOND O Una strada difficile quella che Maria sceglie spinta dalla sua voce... Già ragazza si fa conoscere come cantante popolare. La sua bellezza, che più sarda non si può e che le frutta il titolo di Miss Sardegna nel 1957, in un primo momento non sembra favorire il disegno del destino. La musica sarda infatti è sempre stato un affare di uomini... Nel 1958 Maria Carta attraversa il mare e approda in continente. È la sua prima vittoria. La più importante. Deve vincere l’incubo di non essere capita, cioè che la lingua sarda non sia adatta a comunicare fuori dall’isola. Il resto è già tutto scritto nel suo carattere. Studia, come non ha mai fatto, seguendo l’insegnamento di Diego Carpitella, direttore del Centro studi di musica popolare. Nel 1971, dopo due album in collaborazione con il grande musicologo sardo Gavino Gabriel, la Rai manda in onda un sofisticato documentario guidato dalla famosa voce di Riccardo Cucciolla intitolato semplicemente Incontro con Maria Carta. La partecipazione a Canzonissima nel 1974 dove impone la sua straordinaria presenza va insieme all’uscita dell’album Delirio in cui può vantare una introduzione di Giuseppe Dessì, famoso scrittore sardo che ha vinto qualche anno prima il Premio Strega con Paese d’ombre: «Il suo bel viso, la fierezza e insieme la grazia del suo portamento, più che un simbolo, sono una personificazione di quella Sardegna intangibile e indomita che ho sempre amato. Quando la sua voce calda e potente si alza e riempie lo spazio, si aprono infiniti orizzonti che scendono nella storia. Dopo aver conosciuto Maria Carta, ancora una volta affermo che i soli grandi uomini della Sardegna sono le nostre donne». Alfa e omega. 38 a cura delle sorelle di Bose Per chi sta sempre peggio degli altri Maria sa bene come sono fatte le donne sarde: proprio in quegli anni rifiuta l’offerta dei Taviani di fare la parte della madre nella versione cinematografica di Padre padrone, perché nel copione non ha ritrovato il carattere di una «vera madre sarda». Un’interpretazione che non andrà perduta quando decide di prestare il suo volto alla signora Antolini, madre di Vito Corleone nel Padrino II di Francis Ford Coppola. In teatro aveva debuttato nella Medea di Franco Enriquez. Nel cinema il suo volto arcaico si impone in molti film fra cui il Gesù di Zeffirelli e Cadaveri eccellenti di Rosi. Si arriva così al passaggio cruciale quando le difficoltà della vita, travagliata da morti e separazioni, la colpiscono nel profondo del suo corpo. Perde l’amore e contemporaneamente la voce. Arriva il cancro senza speranza a completare l’opera. Ma riesce a ritrovare se stessa arrivando al punto di partenza, quando rimase straziata a otto anni dopo aver cantato il Dies irae. Nel suo ultimo album del 1993, un anno prima della morte, torna il canto gregoriano e primo fra tutti proprio il Dies irae. D ONNE CHIESA MOND O MEDITAZIONE LUCA 21, 20-28 e parole di Gesù sono suscitate da ciò che lui vede e ode nel tempio. Gesù vede la cosa più normale del mondo, cioè l’ingiustizia spudorata dei ricchi che mettono briciole del loro superfluo nel tesoro del tempio, e ode lo sguardo insipiente di chi si crede garantito dalla magnificenza del tempio. Ma vede anche l’amore per Dio e per i poveri di una poverissima vedova. Questo ci fa intuire che il discorso di Gesù non riguarda un tempo speciale, unico, il tempo della consumazione finale del mondo, ma il tempo della storia, quella in cui viviamo e che è colpita di continuo da guerre e catastrofi. L Francesco Hayez, «La distruzione del tempio di Gerusalemme» (1867, particolare) A pagina 40, mosaico dell’obolo della vedova in Sant’Apollinare Nuovo (Ravenna) Gesù vede e ode che gli uomini nel benessere non capiscono, e che sempre rischiano di sparire, inconsapevoli di tutto: del male che hanno fatto, del bene che hanno tralasciato di fare. Proprio come ai tempi di Noè, e di Lot, e come ai suoi e ai nostri giorni. Gesù guardava la realtà con la sapienza delle Scritture sante d’Israele, 39 D ONNE CHIESA MOND O e ascoltava queste guardando a ciò che aveva davanti agli occhi, alle persone che incontrava. Gesù ci insegna che non occorre essere indovini per conoscere lo scatenamento dei poteri ingiusti. Che basta vedere una donna vedova che possiede solo due spiccioli, una persona affamata, od oppressa — quei poveri che, con tristezza, disse che avremmo avuto sempre con noi — per comprendere l’esistenza di quei poteri ingiusti che li hanno derubati e schiacciati così, per comprendere la guerra più ingiusta e perenne, quella dei ricchi contro i poveri. Gesù insegna che basta vedere una persona nata cieca, un paralitico, lo strazio di un padre per la sua piccola figlia moribonda, per comprendere la fragilità, la precarietà di ogni vita. E usando parole e immagini profetiche, Gesù evoca i terrori e i dolori che le guerre e le catastrofi suscitano sempre negli esseri umani. Gesù insegna ai discepoli a vedere la pena, la fatica e la paura degli altri, tutti e tutte. Ad avere uno sguardo intelligente e compassionevole, che sa che tutti e tutto morirà, che sa la pena di questa perenne minaccia. Parla di una Shoah («tempesta») per Gerusalemme, per Israele, che ben sappiamo non essere né la prima, né l’ultima. Ed esorta: non tentate di salvare la vostra roba, non ci sarà tempo neppure di congedarvi dai cari. Gesù parla come Geremia al capitolo 45: il solo bottino che il Signore possa aiutarvi, eventualmente, a salvare è la vostra nuda vita. D ONNE CHIESA MOND O 40 E parla di quelle persone che, nel disastro generale, stanno, comunque e sempre, peggio degli altri: le donne incinte e quelle che allattano, memore del gemito profetico: «Beate le sterili che non hanno partorito...». È meraviglioso che Gesù nei suoi pensieri veda queste povere donne, le più povere tra le povere, nell’angoscia della fuga. Non solo perché volge il suo sguardo realistico e compassionevole e del tutto inusuale verso le donne, ma anche perché vede, forse, in esse una situazione evangelicamente paradossale: le donne incinte e quelle che allattano — che vivono con tutto corpo a favore dell’altra creatura umana che allevano in sé o tra le braccia — non possono dar loro la vita che vivendo, e non morendo: incombe su di loro il dovere di salvare anche se stesse. E poi Gesù esorta i suoi a non avere paura, come dirà l’angelo alle donne, alla sua tomba, il mattino di Pasqua. Rialzate la testa e guardate: all’orizzonte c’è la venuta del Figlio dell’uomo. Non conformatevi alla paura che fa tremare il mondo. Non siate come quelli che non sanno la promessa del Signore, non tremate come quelli che non lo attendono. Non abbiate paura, poiché solo la paura per la vostra vita vi può impedire la libertà e l’attenzione indispensabili a vivere nell’amore. Come la poverissima vedova, non datevi pensiero per la vostra vita. Non abbiate paura perché la fine sarà un ritorno, un incontro, occhio contro occhio.