Il governo dell`impresa tra profitto e creazione di valore*

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Il governo dell`impresa tra profitto e creazione di valore*
Il governo dell’impresa tra profitto
e creazione di valore*
MAURO GATTI** DANIELE BIFERALI*** LOREDANA VOLPE****
Abstract
Il contributo intende proporre una riflessione sui concetti di profitto e creazione di valore
e sul rapporto tra questi esistente, ripercorrendone origini e significato alla luce
dell’evoluzione dell’economia capitalistica. In particolare, data la natura del profitto come
reddito “composito” e la sua funzione di stimolo all’iniziativa privata, si evidenziano le
implicazioni, in termini di azioni di governo, legate al prevalere di una logica meramente
“distributiva”, tesa cioè a “de-residualizzare” e contrattualizzare ex-ante il rendimento
spettante alla proprietà, rispetto a quella “produttiva”, attenta invece alle esigenze di
economicità e quindi di vitalità dell’impresa. Il passaggio dal profitto al valore è inquadrato
nell’ambito di una più ampia riflessione su funzione e ruolo dell’impresa nell’attuale contesto
economico, sociale, politico, istituzionale. La creazione di valore in una prospettiva
“sistemica”, piuttosto che diadica, appare come la logica qualificante l’azione di governo in
grado di coniugare produzione e distribuzione del profitto, competitività e consonanza tra
“arte” e “scienza” riconducendo, infine, il ruolo dell’impresa alla sua funzione storicamente
riconosciuta e socialmente legittimata di “strumento economico” e, al tempo stesso, di
“istituzione sociale”.
Parole chiave: profitto, approccio distributivo, approccio produttivo, creazione di valore,
valore diadico, valore sistemico, complessità, azione di governo
This contribution analyses both the origin and meaning of the notions of profit and value
creation, and their reciprocal relationship in the light of the evolution of capitalism. Two
distinct logics are particularly identified concerning “production” and “distribution” of
profit. Prevalence of the latter compromises the inherently residual nature of profit, which is
thus ex-ante contracted by the ownership of the firm. On the contrary, the productive logic
emphasizes the importance to safeguard both the economic efficiency and vitality of the firm.
Transition from profit to value leads to reflect upon the function and role of the firm within
*
Pur essendo frutto di riflessioni comuni, il lavoro è così suddiviso: i parr. 1 e 5 sono
attribuiti a Mauro Gatti; i parr. 2 e 4 a Loredana Volpe, il par. 3 a Daniele Biferali.
**
Ordinario di Organizzazione Aziendale - Sapienza Università di Roma
e-mail: [email protected].
***
Dottorando di ricerca in Economia e Finanza nel Governo delle Imprese - Sapienza
Università di Roma
e-mail: [email protected].
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Dottorando di ricerca in Economia e Finanza nel Governo delle Imprese - Sapienza
Università di Roma
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sinergie n. 79/09
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
the current economical, social, political and institutional context. Indeed, when analyzed from
a systemic perspective rather than a dyadic one, value creation appears to be the logic that
must qualify the government action in order to reconcile production and distribution of profit,
competitiveness and consonance between “art” and “science”, and finally trace the role of
the firm back to its historically acknowledged and socially legitimated function in terms of
both an “economic means”, and a “social institution”.
Key words: profit, distributive perspective, productive perspective, value creation, dyadic
value, systemic value, complexity, government process
1. Funzione e ruolo dell’impresa
L’impresa, in quanto “istituzione”, si presenta come una realtà storicamente
determinata, “oggettivata” in relazione alla sua “funzione”, lo svolgimento di una
attività produttiva finalizzata allo scambio, nel rispetto del principio di economicità.
Il perseguimento dell’economicità, ispirandosi a specifici requisiti di efficienza
tecnica e di valorizzazione della produzione immessa sul mercato, consente la
rigenerazione dei mezzi impiegati nei precedenti cicli produttivi, rendendo così
possibile all’impresa la reiterazione della propria attività.
Nell’accezione “strumentale” l’impresa, manifestando nel tempo la propria
idoneità ad adempiere alla suddetta funzione e fornendo un contributo significativo
al processo di generazione di ricchezza economica, ha ricevuto legittimazione ad
esistere e a continuare ad operare. Il crescente consenso che la collettività ha
attribuito allo strumento-impresa - anche quando contrastato dalla necessità di
arginare il “potere” che le grandi realtà imprenditoriali esercitano sull’ambiente,
sulla società e sull’individuo - ne ha permesso l’istituzionalizzazione, assicurandole
stabilità e permanenza nel quadro delle odierne istituzioni sociali.
Accanto alla funzione e alle correlate condizioni oggettive (tecniche ed
economiche) del suo operare, l’impresa, tuttavia, si caratterizza per essere un
“sistema sociale”. In essa, l’elemento “soggettivo” concorre a definire gli obiettivi
specifici, generali e parziali, che ne indirizzano la dinamica evolutiva, connotando le
modalità con cui lo strumento in esame viene di fatto “utilizzato”. Si pone, di
conseguenza, il problema di individuare e meglio definire l’importanza che i
sostanziali comportamenti soggettivi determinano sia sulle condizioni esistenziali
dell’impresa, sia sulle condizioni di vita degli esseri umani, sulla loro aspirazione al
progresso e al benessere collettivo. In quest’ottica, l’analisi dell’impatto
dell’impresa sulla società non può prescindere dal considerare gli effetti del suo
comportamento sistemico ed il complesso dei rapporti che detto sistema, per mezzo
delle diverse soggettività in esso operanti, intrattiene con altri sistemi, in primis con
le altre istituzioni sociali ed economiche, così come non può prescindere
dall’influenza che sull’impresa stessa esercitano le forze sociali e culturali attive nel
contesto in cui tali rapporti prendono forma e si sostanziano.
La modificazione dei comportamenti dell’impresa, in relazione alla mutevole
configurazione dell’ambiente e al diverso conformarsi delle aspettative della
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collettività, concorre a determinare la percezione collettiva del “ruolo” dell’impresa
nella società (e, di riflesso, il ruolo del management che per essa agisce). Nel
concreto, tali comportamenti si riflettono:
1) sulla dinamica dei rapporti sociali e sui comportamenti dei diversi interlocutori
con cui l’impresa entra in contatto;
2) sugli stili di vita di individui e famiglie, sul livello di benessere e sul profilo
culturale della società;
3) sulle condizioni psico-fisiche e sulle motivazioni individuali, nonché sul contesto
relazionale all’interno dell’organizzazione;
4) sull’ambiente fisico-naturale.
Posto che la funzione dell’impresa-strumento è immutata e immutabile, il suo
ruolo e la legittimazione sociale a questo associata - al contrario - si modificano nel
tempo, dal momento che i canoni di valutazione e i metri di giudizio dei
comportamenti specifici, tanto dell’impresa nel suo complesso quanto degli attori
che ne assumono la responsabilità di governo, formano oggetto di costante revisione
in conseguenza del mutare delle aspettative, del modificarsi delle istanze e dell’etica
comune che contraddistinguono l’evoluzione della società.
In tale quadro di riferimento si rinnova, negli studi d’impresa e nella prassi
corrente, il dibattito sugli scopi che l’impresa persegue, sull’individuazione degli
interessi prioritari che orientano l’azione del suo governo e sulle forme di razionalità
che caratterizzano l’agire d’impresa.
Attorno allo svolgimento della funzione tipica dell’impresa prendono forma i
concetti di razionalità e di calcolo (economico). L’impresa, operando sotto il vincolo
di scarsità delle risorse e nel rispetto di criteri di efficienza, deve anzitutto essere in
grado di approntare beni e servizi dotati dei necessari requisiti tecnici, economici e
di valenze simboliche tali da incontrare l’accettazione e il favore degli acquirenti. La
razionalità, applicata in maniera rigorosa ai processi organizzativi, gestionali e di
“lavorazione” dei flussi informativi, diviene essa stessa fonte primaria del livello di
efficienza raggiunto. Il controllo della capacità dell’impresa a svolgere la propria
funzione secondo canoni di efficienza e di economicità richiede un processo di
valorizzazione che conduce, necessariamente, ad utilizzare una metrica basata su
parametri tecnici ed economici: il conseguimento di condizioni di equilibrio
economico a valere nel tempo garantisce, sotto il profilo “oggettivo”, il corretto
utilizzo dello “strumento” e la vitalità dell’“organizzazione” (il sistema) allo scopo
creata. Si tratta, dunque, di rispettare il requisito di funzionamento su cui si fonda
l’esigenza vitale dell’impresa come strumento economico, l’esistenza cioè di un
differenziale positivo fra ricavi ottenuti dalla vendita e costi delle risorse impiegate
(ivi incluse quelli di ricostituzione delle risorse stesse ed un’“equa” remunerazione
spettante ai portatori del capitale di rischio); l’eventuale surplus così ottenuto,
opportunamente reinvestito nel circuito della gestione, mira a rafforzare la capacità
dell’impresa di mantenersi in equilibrio vitale.
Simili considerazioni consentono di definire la condizione necessaria e
sufficiente per il “normale” funzionamento dell’impresa (economicità), in assenza
della quale un’impresa (reale), di fatto, non sarebbe in grado di sopravvivere nel
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lungo termine in via autonoma. E se è vero che uno strumento, di per sé, non può
definirsi più o meno etico o più o meno responsabile, perché non può perseguire
obiettivi disgiunti da quelli dei soggetti che ne fanno uso, simili giudizi, tuttavia,
riguardano le differenti modalità con cui lo strumento-impresa viene in concreto
utilizzato, gli specifici comportamenti posti in atto dagli esseri umani, le concrete
modalità con cui vengono impostati ex ante i parametri che definiscono l’equazione
dell’equilibrio economico, il sistema di valori che guida le scelte e i percorsi con cui
l’economicità viene realizzata (a vantaggio o a svantaggio “di chi”).
Le condizioni sociali (politiche, etiche, culturali, religiose, tecniche, giuridiche,
ecc.) che hanno concorso a determinare il successo dello strumento-impresa hanno
di fatto assecondato alcune delle caratteristiche fondamentali della natura umana,
quali l’iniziativa, la creatività, l’intuito e la propensione al rischio, doti tutte che
sono state col tempo riunite nel concetto di imprenditorialità. Se non può esservi
impresa senza imprenditorialità, ciò che appare evidente è che tali doti, un tempo
incarnate nella figura dell’imprenditore, rappresentano oggi - soprattutto nelle grandi
imprese - qualità diffuse nell’organizzazione. Nel concreto, un’impresa non può
nascere se non per effetto di un impulso creativo (e lucrativo) e dell’apporto
finanziario del suo fondatore o della compagine promotrice, né può essere ignorato
che le risorse di cui l’impresa abbisogna vengono ad essa fornite da soggetti o
gruppi di soggetti (altre organizzazioni) esterni all’impresa. Allo stesso tempo le
attività ed i processi interni sono realizzati da individui operanti in gruppi e unità
organizzative, che di fatto sviluppano, con il passare del tempo, proprie logiche
relazionali e sociali, caratterizzate dalla strenua difesa di interessi particolari, non di
rado tali da disincentivare l’impegno alla cooperazione necessario per il
conseguimento di obiettivi comuni. Ciò significa che l’impresa, insieme alle
esigenze di ordine economico dettate dal corretto svolgimento della propria
funzione, provvede a soddisfare più ampie categorie di interessi e bisogni umani
rispetto a quelli prioritari dei consumatori, quali ad esempio, il prestigio sociale, il
potere, la continuità del rapporto di lavoro, il senso di appartenenza dei propri
membri, ecc. In quest’ottica, l’impresa può essere considerata come un coagulo di
interessi soggettivi, più o meno coincidenti fra loro, di cui sono portatori soggetti
tanto interni quanto esterni (impresa come coalizione)1.
Il comportamento e la dinamica evolutiva dell’impresa, pertanto, appaiono
condizionate in maniera significativa dai vincoli posti da gruppi di pressione sia
esterni sia interni. I primi - riferiti a componenti dei sovrasistemi con cui l’impresa è
relazionata - concepiscono l’impresa come uno strumento per la realizzazione dei
propri scopi, tipicamente (ma non solo) economici, formulando aspettative, facendo
leva sulla criticità delle risorse apportate e sulla capacità di influenza (o potere)
1
Sull’impatto che il gioco degli interessi soggettivi produce sulla razionalità, si veda
Rullani E., “La teoria dell’impresa: soggetti, sistemi, evoluzioni”, in Rispoli M. (a cura
di), L’impresa industriale, Il Mulino, Bologna, 1989, pagg. 40-61. Sul concetto di impresa
come “istituzione sociale complessa”, si veda Pilotti L., L’impresa post manageriale.
Oltre la separazione fra proprietà e controllo, fra rischio e potere, Egea, Milano, 1991,
pag. 361 e segg.
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determinata dalla particolare configurazione del rapporto che li lega all’impresa, sia
esso contrattuale o informale (condizionamento implicito). I gruppi di pressione
interni, a loro volta, si atteggiano a coalizioni che, attraverso il meccanismo della
negoziazione, influenzano il processo interno di allocazione delle risorse, spesso in
base a motivazioni orientate alla acquisizione/conservazione di posizioni di potere.
L’azione di governo dell’impresa, per queste ragioni, è costantemente
influenzata dalle suddette forze e pressioni soggettive e dalla continua
rimodulazione dell’ordine di priorità degli interessi in gioco. L’esercizio del potere,
insito nelle pressioni che gruppi e soggetti esercitano sull’azione di governo, è teso a
volgere a proprio favore la gestione dell’impresa sicché l’organo di governo, nel
tentativo di assecondare l’interesse di volta in volta dominante, rischia di perdere di
vista il rispetto delle intrinseche necessità vitali dello strumento-impresa. Ecco allora
che l’azione dell’organo di governo, nel quadro del ruolo “istituzionale” che questi è
tenuto a svolgere, necessita di una “giusta” tensione a contemperare gli interessi dei
diversi gruppi (consonanza di contesto esterno ed interno) con le imprescindibili
esigenze di vitalità del sistema impresa (economicità duratura e competitività). Nel
determinare gli obiettivi del sistema impresa, l’organo di governo deve essere in
grado di considerare l’impatto (ed i rischi) che un indirizzo “assolutistico” ed
“unidirezionale” della dinamica evolutiva dell’impresa, quale ad esempio
l’orientamento e la finalizzazione dell’attività al soddisfacimento immediato degli
interessi di un’unica categoria di soggetti, può determinare sulle condizioni di
economicità e, al contempo, i rischi e le conseguenze della mancata soddisfazione di
attese erroneamente ritenute meno significative e, per questo, sottovalutate2.
La diversa percezione circa il ruolo dell’impresa nella società e il diverso grado
di consenso “pubblico” (legittimazione sociale) di cui essa gode, attiene proprio ai
termini in base ai quali vengono selezionati e composti gli interessi soggettivi e alle
modalità impiegate per garantire la loro soddisfazione. Al contempo, il giudizio e le
responsabilità ricadono anche sugli attori che popolano il contesto istituzionale e
culturale all’interno del quale quegli interessi prendono forma. Si tratta di temi
cruciali per il dibattito sul modello di benessere e di sviluppo adottato dalla società,
inerenti non solo la capacità dell’impresa di produrre ricchezza economica, bensì i
principi e le logiche che ne determinano la distribuzione, secondo criteri che
rendono sempre più indispensabile una corretta lettura ed il riconoscimento del reale
contributo che ciascuna soggettività, con i mezzi che le sono propri, è in grado di
apportare al processo generativo di ricchezza3.
I successivi paragrafi, nel ripercorrere i passaggi principali dell’evoluzione della
metrica prevalente di valutazione e giudizio sulle performance d’impresa, dal
concetto di profitto a quello di valore, intendono evidenziare come tanto la
sottovalutazione delle esigenze vitali dell’impresa quanto la mancanza di sintonia
con il contesto e con l’ambiente di riferimento possano determinare un errato
2
3
Cfr. Coda V., intervento riprodotto in Riccaboni A. (a cura di), Etica ed obiettivi
d’impresa, Cedam, Padova, 1995, pag. 35 e segg.
Ghoshal S., “Bad Management Theories are Destroying Good Management Practices”,
Academy of Management Learning & Education, Vol. 4, n. 1, 2005, pagg. 75-91.
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
indirizzo della dinamica evolutiva dell’impresa, con effetti negativi sulle sue
probabilità di sopravvivenza nel lungo andare. In secondo luogo, rapportando le
considerazioni emergenti da tale disamina alla situazione di crisi economicofinanziaria del terzo millennio, il lavoro intende contribuire alla riflessione sulle
conseguenze in termini di perdita di consenso e di legittimazione sociale cui può
condurre una concezione ristretta dell’uso strumentale dell’impresa, quando la sua
dinamica evolutiva venga asservita ad un unico interesse prevalente, relegando ai
margini non solo le aspettative degli altri portatori di interessi, bensì anche il fine
sistemico di sopravvivenza dell’impresa.
2. L’orientamento al profitto tra logica produttiva e logica distributiva
2.1. Aspetti definitori del profitto
Il profitto è tra le più intuitive e al tempo stesso controverse nozioni
dell’economia e della gestione d’impresa. Da qui, lo stimolo a sintetizzare e, per
quanto possibile, chiarire il “punto di vista sul profitto” della letteratura economica e
aziendalistica. In buona sostanza, è possibile individuare un concetto classico di
profitto, accanto al quale si pongono impostazioni più recenti e complementari
piuttosto che alternative. La dottrina, infatti, concorda nel far rientrare il profitto
nella categoria logica generale dei “redditi”4.
Storicamente, il profitto è accostato al reddito dell’imprenditore. In particolare
Graziani, nella sua ricostruzione storica del pensiero economico sul tema del
profitto, rileva come, al di là di quelle concezioni che negano la sua esistenza, il
profitto sia associato talvolta ad una parte del reddito dell’imprenditore, altre volte
all’intero reddito di questo5. Stante l’indiscussa qualificazione come forma di
reddito, il profitto è considerato la remunerazione delle capacità dell’imprenditore
(organizzative, direzionali, decisionali, ecc.)6.
Nella concezione dell’imprenditore-capitalista, l’elemento comune alla
riflessione sul tema del profitto è rappresentato sovente dal legame con il rischio che
accompagna l’impiego di capitali nell’attività di impresa7. Emergono, però,
4
5
6
7
Una concezione del profitto come “sorgente principale del risparmio” è presente in
Demaria G., La politica economica dei grandi sistemi coercitivi, Cedam, Padova, 1969,
pag.116. Alchian, invece, concepisce il profitto come fattore alla base del processo con
cui l’ambiente economico seleziona le imprese. Cfr. Alchian A., “Uncertainty, evolution,
and economic theory”, The Journal of Political Economy, n. 3, 1950.
Cfr. Graziani A., Sulla teoria generale del profitto, Fratelli Dumolard Editori, Milano,
1887, pag. 61.
Cfr., tra gli altri, Ceccherelli A., Economia aziendale e amministrazione delle imprese, G.
Barbera Editore, Firenze, 1948 e, più recentemente, Sciarelli S., Il sistema d’impresa,
Cedam, Padova, 1985.
In proposito, Pacces commisura i rischi dell’attività di impresa ai costi “incerti”,
definendo il profitto come «quella parte dei ricavi che copre i rischi dell’impresa; […]
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differenze nell’articolazione degli elementi che compongono il profitto.
Ripercorrendo la teoria economica classica è possibile notare come, sia per Smith
sia per Ricardo e Stuart Mill8, il profitto rappresenti l’ammontare complessivo della
remunerazione dell’imprenditore capitalista. È nella tradizione classica francese, da
Cantillon a Say9, che si rinviene la prima concezione del profitto come reddito
“lordo” destinato all’imprenditore, articolabile nelle due componenti dell’interesse
sul capitale e dello “stipendio” direzionale10. Gli autori neoclassici, infatti, nel far
propria la concezione classica del profitto come remunerazione dell’imprenditore
capitalista, individuano in questa remunerazione due componenti distinte: l’interesse
che remunera i capitali apportati dall’imprenditore e lo stipendio destinato a
ricompensare l’imprenditore stesso per il suo lavoro di direzione e di coordinamento
dei fattori della produzione. In altri termini, a partire dal reddito dell’imprenditore,
designato come “profitto lordo”, i teorici neoclassici giungono ad isolare un
“profitto netto” dopo aver eliminato dal primo l’interesse sui capitali prestati e lo
stipendio direzionale11. In definitiva, nella visione classica, il profitto, come
categoria economica, costituisce la remunerazione delle capacità dell’imprenditore,
in associazione all’assunzione del rischio d’impresa12. Il necessario corollario del
legame tra rischio e profitto è poi l’attribuzione del profitto, inteso come “residuo”,
al soggetto che tale rischio sopporta, ossia l’imprenditore13.
Lungo le tappe dell’evoluzione capitalistica, soprattutto con l’affermarsi della
grande impresa, autori successivi, di scuola sia anglosassone sia francese, iniziano a
porre le premesse per il passaggio da una concezione del profitto come
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13
L’assenza del rischio eliminerebbe, o permetterebbe di eliminare, il profitto». Pacces
F.M., Nostro tempo della rivoluzione industriale, Einaudi, Torino, 1939, pagg. 94-95.
Cfr. Smith A., An inquiry into the nature and causes of wealth of nations, Methuen and
Co, Ltd, ed. Edwin Cannan, 1904 (orig. pub. 1776); Ricardo D., On the principles of
political economy and taxation, John Murray Publ., Londra, 1817; Stuart Mill J.,
Principles of political economy, Longmans, Londra, 1848.
Cfr. Cantillon R., Essai sur la nature du commerce in general (Essay on the nature of
trade in general), Frank Cass and Co. Ltd, Londra, 1959; Say J.B., A Treatise on Political
Economy: or the Production, Distribution and Consumption of Wealth, Augustus M.
Kelley, Fairfield, 1803.
Le tappe del pensiero classico, da Smith, a Ricardo, a Say a Mangoldt sono
significativamente ripercorse da Nazzani E., Del profitto, Libreria Fratelli Dumolard,
Milano, 1877.
Sul tema si vedano in particolare: Marchal J., “The construction of a new theory of
profit”, The American Economic Review, n. 4, 1951; Pirou G., Economie Libérale et
Economie Dirigée, Ed. Sedes, Parigi, 1938.
L’introduzione del concetto di incertezza e la distinzione tra questa e il rischio sono
tradizionalmente attribuiti a Knight. Cfr. Knight F.H., Risk, uncertainty and profit, Hart,
Schaffner & Marx, Houghton Mifflin Co., Boston, MA, 1921.
Scrive Hawley: “The essential point, however, is that the enterpriser performs a service
for which he expects to receive a reward, - necessarily, from the circumstance of the case,
uncertain in its amount, or, in other words, a true residue”. Hawley F.B., “Enterprise and
profit”, The Quarterly Journal of Economics, n. 1, 1903, pag. 103.
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
remunerazione dell’imprenditore (sia lorda sia netta) a remunerazione
dell’organismo aziendale. Tale passaggio viene evidenziato, tra gli altri, da
Marchal14. Il profitto diviene “reddito dell’impresa, ed in quanto tale prezzo pagato
per svolgere la funzione dell’impresa”. L’imprenditore incarna la figura dell’artefice
ed esecutore della “funzione strumentale” storicamente attribuita all’impresa, la
quale “deriva appunto contenuto e natura economica dai problemi di produzione e
consumo determinati dall’umano operare in campo economico”15. Invero, nella
tradizione aziendalistica italiana, questa impostazione - rispetto al contributo di
Marchal - è anticipata di circa un ventennio da Zappa, il quale concependo il profitto
come un’entità composita afferma che “[…] il profitto d’impresa non è la
rimunerazione caratteristica dell’«imprenditore», ma è un reddito composito che
assomma in un unico e non scindibile complesso le rimunerazioni di molti fattori
che nella produzione d’impresa insieme contribuiscono alla formazione di utili o
delle perdite di esercizio”16.
2.2 La destinazione del profitto: logica produttiva e logica distributiva
A partire, dunque, da una concezione composita del profitto e dalla
necessità/utilità della sua esistenza, il dibattito accademico si focalizza su un duplice
ordine di questioni: la misura nella quale il profitto dovrebbe essere perseguito e
l’individuazione del soggetto e/o dei soggetti ai quali esso dovrebbe essere destinato.
Nella teoria classica, com’è noto, l’imprenditore, in virtù di un comportamento
perfettamente razionale, agisce per massimizzare la propria funzione di utilità,
rappresentata dal profitto. La tensione verso la massimizzazione del profitto, per
altro verso, rappresenterebbe proprio l’elemento che concorre a conferire
“razionalità” all’agire dell’imprenditore e dell’impresa17.
Successivamente, la critica alla tesi della massimizzazione del profitto impegna
la riflessione degli economisti e degli studiosi d’impresa. In particolare, Winter
sottolinea le seguenti tre linee di critica all’idea di massimizzazione del profitto. In
primo luogo, secondo l’Autore, è sensato che l’impresa possa avere un obiettivo ma
questo non sarebbe riassumibile nella massimizzazione del profitto. A questo
proposito, Scitovsky18 ritiene che la funzione di utilità dell’imprenditore sia sensibile
non solo al profitto, ma anche al tempo libero. Di conseguenza, massimizzare tale
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18
Cfr. Marchal J., “The construction of a new theory of profit”, The American Economic
Review, n. 4, 1951.
Ferrero G., Istituzioni di economia d’azienda, Giuffrè, Milano, 1968, pag. 28.
Zappa G., Le produzioni nell’economia delle imprese, Giuffrè, Milano, 1956, pag. 426.
Secondo l’Autore, la natura del profitto quale reddito composito sarebbe da ricollegare
alla scomparsa della figura dell’imprenditore classico in seguito all’affermazione della
grande impresa (pag. 421).
Sull’importanza del profitto quale elemento che connota il modello economico
capitalistico si veda Sen A., “The profit motive”, Lloyds Bank Review, n. 147, 1983.
Scitovsky T., “A note on Profit maximizations and its implications”, Review of Economics
and Statistics, n. 1, 1943.
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funzione equivarrebbe a ricercare un valore del profitto inferiore a quello massimo.
D’altra parte, affermare che l’imprenditore possa massimizzare anche variabili
diverse dal profitto monetario significa ovviamente confutare la teoria neoclassica
della massimizzazione del profitto come “criterio di razionalità oggettiva”. In
secondo luogo, non sarebbe sensato parlare di obiettivo dell’impresa, ma solo di
obiettivi degli individui che la compongono. Rispetto a questi obiettivi, l’ipotesi di
massimizzazione del profitto non appare ragionevole19. Terzo - sostiene Winter - la
massimizzazione del profitto non sarebbe neppure da considerarsi un obiettivo, in
quanto essa è impossibile da conseguire, stanti i limiti informativi e computazionali
dei decisori e la complessità del contesto nella quale detti decisori sono inseriti20.
Alle critiche sopra riportate se ne aggiungono altre evidenziate da alcuni studi di
matrice manageriale e comportamentista. A sintetizzarle è soprattutto Saraceno, il
quale collega la critica alla massimizzazione del profitto alle condizioni in cui le
decisioni aziendali sono prese ed in particolare: i) alla presenza di una pluralità di
organismi e di individui che presentano interessi ed obiettivi variegati; ii)
all’esistenza nella condotta delle imprese di obiettivi diversi dal reddito, quali la
continuità del reddito, l’aumento della dimensione, la massimizzazione del volume
delle vendite; iii) alla natura delle forze che hanno il potere di concorrere a
determinare le direttive di gestione e di indurre, in considerazione delle loro attese e
pressioni, motivazioni diverse dal profitto21.
In sostanza, stando ai contributi di cui sopra, la tesi della massimizzazione del
profitto mal si presta, in condizioni di incertezza, a fornire una spiegazione realistica
tanto del comportamento dell’impresa quanto dell’imprenditore22. Tale tesi, infatti,
mostra dei limiti di fronte all’emergere della grande impresa, nella quale il
management gode di ampia discrezionalità. Baumol23 argomenta che le grandi
imprese, operanti in mercati in cui le forze della competizione sono deboli, non
necessitano di conseguire profitti massimi per sopravvivere. Nella misura in cui il
profitto risulti sufficiente a soddisfare le attese degli azionisti e ad assicurare
adeguate risorse finanziarie interne, i manager perseguono obiettivi ed interessi
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22
23
Una rappresentazione dell’impresa come coalizione è fornita da March J.G., Simon H.A.,
Organizations, Blackwell, Malden (MA), 1993 (trad. it.), Teoria dell’organizzazione,
Etas, Milano, 1995.
Cfr. Winter S., “Economic natural selection and the theory of the firm”, Yale Economic
Essays, n. 4, 1964, con particolare riferimento al paragrafo “A criticisms of the
assumption of profit maximization”. Circa i limiti delle impostazioni massimizzanti cfr.:
Simon H.A., Administrative behavior, Macmillan, New York, 1957 (trad. it. Il
comportamento amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2001); Golinelli G.M., “Economia e
finanza nel governo dell’impresa”, Sinergie, n. 61/62, 2003.
V. Saraceno P., Il governo delle aziende, Libreria Universitaria Venezia, Venezia, 1972,
con particolare riguardo al capitolo 3.
Cfr. Enke S., “On maximizing profits: A distinction between Chamberlin and Robinson”,
The American Economic Review, n. 4, 1951; Volpi F., “Massimizzazione del profitto e
motivazioni dell’imprenditore”, Giornale degli economisti e annali di economia, n. 1/2,
1965.
Baumol W.J., Business Behavior, Value and Growth, Macmillan, New York, 1959.
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
personali. Baumol attribuisce così al management l’obiettivo di massimizzare il
valore delle vendite, riservando alla proprietà l’obiettivo convenzionale della
massimizzazione del profitto24.
Anche Galbraith e Marris25 condividono questa impostazione, sebbene nell’ottica
di una crescita maggiormente orientata al lungo periodo. In particolare, Galbraith
definisce gli obiettivi dell’impresa nei termini accolti dalla lessicologia
convenzionale, ovvero come funzione-obiettivo. Questa funzione, tuttavia, risulta
caratterizzata, per l’Autore, dal perseguimento di un livello minimo di profitto
concepito in termini di flusso di cassa. Williamson26, invece, ritiene che il
raggiungimento di certi livelli di profitto caratterizzi solo in parte la funzione di
utilità del management. Infine, Cyert e March27, nella loro Behavioural Theory of
the Firm, ripropongono la tesi di Baumol secondo cui, in contesti scarsamente
competitivi, l’impresa riuscirebbe a sopravvivere grazie al conseguimento di profitti
soddisfacenti, comunque inferiori al massimo possibile.
Al dibattito sulla ragionevolezza o meno dell’assegnazione all’impresa
dell’obiettivo della massimizzazione del profitto si associa anche il tema della sua
destinazione. Con riferimento a quest’ultimo aspetto si rileva una differenziazione
ancora più marcata tra l’interpretazione economico-politica del profitto e quella
sviluppata in seno alla dottrina aziendalistico-manageriale. Tale fattore si esplica in
una diversità di focus: i) degli economisti sul ruolo dell’imprenditore e sulle
motivazioni per cui il profitto dovrebbe spettare a quest’ultimo; ii) degli aziendalisti,
e degli studiosi d’impresa in generale, sul profitto come reddito
dell’impresa/organismo aziendale, di cui è fonte di vita e di sviluppo.
Il passaggio dall’imprenditore all’impresa, sopra richiamato, qualifica due
distinte logiche (o ottiche) sul profitto, l’una di matrice produttiva, l’altra di matrice
distributiva. L’individuazione di queste due logiche appare di estremo interesse e di
grande utilità. Di interesse, in quanto - sotto il profilo teorico - una rilettura critica
della letteratura aiuta a chiarire possibili dubbi in merito alla misura del profitto e
alla sua destinazione. Di utilità, in quanto - sotto il profilo pratico - una
comparazione tra le due logiche permette di coglierne le implicazioni in termini di
divergenti azioni di governo dell’impresa nei due casi.
La logica produttiva individua il profitto nel momento della produzione della
ricchezza attraverso l’attività d’impresa; la logica distributiva relega invece il
profitto al momento della distribuzione della ricchezza generata dall’attività
24
25
26
27
Secondo l’Autore, questa diversità di obiettivi sarebbe da ricondurre al fatto che laddove
il valore delle vendite è grandezza oggettivamente individuabile, il valore del profitto
dipende da stime e/o dalle politiche di bilancio decise dai consigli di amministrazione
societari, cfr. Baumol W.J., Business behavior, Value and Grouth, op. cit.
Galbraith J.K., The New Industrial State, Signet, New York, 1968; Marris R., The
Economic Theory of Managerial Capitalism, Macmillan, London, 1967.
Williamson O.E., The Economics of Discretionary Behavior: Managerial Objectives in a
Theory of the Firm, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1967.
Cyert R.M., March J.G., The Theory of Behavior of the Firm, Prentice-Hall, Englewood
Cliffs, 1963.
MAURO GATTI - DANIELE BIFERALI - LOREDANA VOLPE
155
aziendale. Nell’un caso, il profitto coincide con l’esito stesso dell’attività aziendale;
nell’altro, il profitto emerge solo al momento della distribuzione del risultato (o
prodotto netto) aziendale. In ottica produttiva, il profitto “è l’entità che, nel tempo,
accresce le disponibilità dell’impresa, coperti che siano tutti i costi di produzione.
Esso scaturisce da un’attività del produrre solo quando questa è organizzata in modo
da risultare redditizia”28.
A riassumere tale visione è, tra gli altri, Ceccherelli29, secondo cui il profitto è
generato dall’impresa per effetto stesso del dispiegarsi della sua azione. Dal punto di
vista quantitativo, il profitto è ciò che residua dai ricavi, coperti i vari costi di
gestione, gli ammortamenti, gli accantonamenti e i nuovi stanziamenti. Esso
comprende sempre una quota definibile come “contributo di ripristino”, capace cioè
di reintegrare il capitale economico “consumato” nel corso del periodo e di garantire
la capacità di sopravvivenza del sistema impresa. In proposito, Ceccherelli rileva:
“il profitto si presenta come quota dei ricavi lordi dell’impresa, cioè come
componente di una somma che prima di assumere le caratteristiche economiche e
contabili del profitto deve essere decurtata di quanto occorre per riportare il capitale
alla precedente misura”30.
La logica produttiva sottende evidentemente una concezione del profitto come
reddito, residuale e non contrattualizzato. La presenza di un profitto, inteso non solo
come mera differenza tra ricavi e costi, ma anche come garanzia del ripristino degli
asset, andrebbe quindi a sostenere il progetto di sviluppo dell’impresa nel tempo31.
28
29
30
31
Cfr. Del Punta V., “Del profitto e della sua massimizzazione: chiose ad un convegno di
studi”, Rivista di politica economica, n. 10, 1969, pag. 7.
Ceccherelli A., Economia aziendale e amministrazione delle imprese, op. cit.
La logica produttiva appare il portato dell’evoluzione del concetto di rischio da un ambito
statico, per cui il rischio è presente in qualunque ambiente economico, ad un ambito
dinamico, nel quale invece il rischio tende ad assumere il significato di incertezza di
risultato dovuta a mutazioni economiche ambientali. La teoria economica del profitto si
ispira al criterio per cui ad ogni fattore della produzione spetta una remunerazione per
l’apporto reso. Qualora a tali apporti si aggiungano l’iniziativa e l’organizzazione (da cui
si fa dipendere il superamento degli elementi rischio e incertezza) e gli oneri ne vengano
attribuiti all’imprenditore, a quest’ultimo, di conseguenza, dovranno essere attribuiti
anche i relativi vantaggi sottoforma di profitto. Cfr. Ceccherelli A., Economia aziendale e
amministrazione delle imprese, op. cit.
Amaduzzi A., L’azienda nel suo sistema e nell’ordine delle sue rilevazioni, Utet, Torino,
1966. Secondo l’Autore il profitto esiste in quanto risulti assicurata l’equazione del
reddito economico, inteso come differenza tra ricavi, costi di ripristino ed oneri figurativi
del capitale. In tal senso, il profitto è assimilato ad una “qualità residuale”
dell’organizzazione, distribuibile solo quando il reddito totale sia maggiore di quello
economico. Cfr. anche Cassandro P.E., Scritti vari (1929-1990), Cacucci Editore, Bari,
1991. Per Ferri: “[…] non si deve confondere l’intento lucrativo con le modalità di
devoluzione dell’utile una volta che sia realizzato. Intento lucrativo è intento di produrre
nuova ricchezza. E la redditività dell’impresa è elemento essenziale e imprescindibile
anche in una concezione sociale dell’impresa, qual è quella dei tempi moderni”. Ferri G.,
Manuale di diritto commerciale, Utet, Torino, V Ed., 1980, pag. 56.
156
IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
Di contro, l’ottica distributiva chiama in causa le modalità di distribuzione del
profitto. Potenzialmente, infatti, un problema “distributivo” emerge ogniqualvolta
occorra ripartire la ricchezza generata dall’impresa. Di conseguenza, l’ottica
distributiva impone di considerare il profitto alla luce della posizione e del ruolo
della proprietà rispetto ad altri portatori di interesse32. La proprietà, oltre a dare
impulso alle iniziative imprenditoriali, apporta il capitale di rischio, assumendo su di
sé il relativo rischio imprenditoriale. A tale rischio - come nota Golinelli - deve
corrispondere, “quale contropartita, la necessità di un’adeguata remunerazione,
seppure in forma residuale, attraverso appropriati livelli di profitto”33.
A ben vedere, la dicotomia tra logica produttiva e distributiva accompagna
l’evoluzione del capitalismo nel tempo e segue alla riflessione della dottrina sul
problema del governo economico delle imprese, finalizzato a disciplinare le
relazioni tra soggetti diversi, portatori di interesse nei confronti di una comune
“intrapresa”. L’ottica distributiva è tipica delle grandi corporation in cui si
determina una separazione tra proprietà e controllo34.
Il XIX secolo è segnato dalla nascita dell’impresa come strumento di
realizzazione della funzione produttiva, inscindibilmente legato alla figura
dell’imprenditore. Con il passaggio ad una forma “moderna” di capitalismo,
imperniata sulla large corporation, si afferma la separazione tra proprietà e
controllo. Nella grande impresa, non vi è più coincidenza tra chi gestisce le risorse
aziendali, orientandole verso dati livelli di redditività attesi (in linea con il rischio) e
chi detiene i diritti residuali di controllo. Se le teorie classica e neoclassica
concentrano proprietà e controllo nelle mani del singolo soggetto
(imprenditore/capitalista), le teorie manageriali ne fanno attributi di gruppi distinti,
proprietà e management. Il contributo di Berle e Means palesemente attribuisce al
management il ruolo di tecnocrazia neutrale, che gestisce l’impresa nell’interesse dei
vari gruppi partecipanti alla vita della stessa. La differenza tra logica produttiva e
distributiva incorpora così, in ultima analisi, una riflessione sull’autonomia
ontologica dell’impresa rispetto alla proprietà. In proposito, il riferimento alla
distinta concettualizzazione dell’ente-impresa e dell’organismo-impresa come parti
correlate dell’impresa, elaborata da Fazzi, appare quanto mai chiarificatore35.
Emergono, a questo punto, i riflessi, anche e soprattutto in termini di azione di
governo, dell’applicazione di una logica produttiva o distributiva sui due aspetti
inizialmente menzionati, relativi all’entità del profitto e alla sua destinazione.
La logica produttiva enfatizza il profitto in termini di surplus che va anzitutto a
reintegrare e ad incrementare il patrimonio d’impresa. Il profitto trova, in tal caso, la
32
33
34
35
Sul ruolo della proprietà e sulla sua posizione rispetto all’impresa, si vedano in particolare
le riflessioni di Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa. L’impresa
sistema vitale. Vol. I, cap. VI, Cedam, Padova, 2005.
Cfr. Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa. L’impresa sistema
vitale, op. cit., pag. 272.
Cfr. Berle A.A. JR., Means G.C., The Modern Corporations and Private Property,
Macmillan, New York, 1932.
Cfr. Fazzi R., Il governo d’impresa, Vol. I, Giuffrè, Milano, 1982, pag. 24 e segg.
MAURO GATTI - DANIELE BIFERALI - LOREDANA VOLPE
157
sua destinazione nel garantire condizioni di sopravvivenza duratura all’impresa.
Nell’ottica distributiva, al contrario, il profitto perde progressivamente il carattere di
residualità ed appare specificamente finalizzato alla soddisfazione delle attese della
proprietà. Tuttavia, una salda permanenza dell’impresa nel proprio contesto, ovvero
l’incremento, nel tempo, delle probabilità di sopravvivenza della stessa, appare
incompatibile con l’adozione di una logica meramente distributiva. Essa non solo
“snatura” il profitto come “reddito d’impresa”, ma lo muta addirittura in vincolo
all’azione di governo. All’opposto, l’ottica produttiva si pone assai più in linea sia
con la descritta esigenza di autonomia ontologica di derivazione fazziana, sia con
una logica sistemica di governo dell’impresa. Logica che alla razionalità soggettiva
dei vari partecipanti fa, appunto, prevalere una razionalità sistemica, tesa a ricercare
condizioni foriere di sempre più elevate probabilità di sopravvivenza36. È in
quest’ottica, tipica dell’approccio sistemico vitale al governo dell’impresa, che si
palesano l’insufficienza e i pericoli di un’applicazione “globale” della logica
distributiva, dischiudendosi ulteriori riflessioni in merito ai rapporti tra
perseguimento e destinazione del profitto, sopravvivenza dell’impresa e processo di
creazione di valore.
3. L’orientamento
“sistemica”
al
valore:
dalla
logica
“diadica”
alla
logica
3.1. Dall’orientamento al profitto all’orientamento al valore
Il processo di mutamento della struttura proprietaria della grande impresa, nel
corso dell’ultimo trentennio è stato accompagnato, nella letteratura manageriale,
dalla riscoperta del concetto di “valore”, fino ad allora rimasto nell’alveo degli studi
economici ed impiegato prevalentemente nell’ambito della corporate finance. In
breve, l’“orientamento alla creazione di valore” e, in particolare, alla creazione di
valore per la proprietà, diviene - non solo nella letteratura ma anche nella prassi - la
locuzione più ricorrente per far intendere a quale obiettivo ultimo la gestione
dell’impresa debba essere indirizzata. Poiché, tuttavia, la categoria logica del
profitto non è affatto scomparsa, è lecito chiedersi quali siano le ragioni alla base
della transizione dall’orientamento al profitto all’orientamento al valore.
36
Cfr. Rullani E., “La teoria dell’impresa: soggetti, sistemi, evoluzioni”, op. cit., pagg. 34 e
segg. L’ottica distributiva implicitamente sottende una logica soggettiva nella misura in
cui fa dipendere l’impresa da un dato soggetto (di comando). La logica sistemica, al
contrario, sottrae l’impresa al potere di qualsiasi soggetto esterno, per valorizzarla come
organizzazione (complessa) fondata su se stessa, con un proprio fine - la sopravvivenza
dell’impresa-sistema - solo in parte coincidente con quello del soggetto di comando.
Anche Solomon si rifà ad una dicotomia simile distinguendo tra profitto (concetto che fa
perno sulla figura del proprietario) e redditività (concetto invece operativo che si interessa
soltanto al processo di produzione o di creazione di nuova ricchezza). Cfr. Solomon E.,
Finanza Aziendale, Il Mulino, Bologna, 1972.
158
IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
L’orientamento al valore per la proprietà emerge gradualmente a partire dalla
seconda metà degli anni ’70, per consolidarsi definitivamente negli anni ’80 e ’90.
In tale lasso temporale, il peso crescente della finanza nell’economia d’impresa,
supportato da nuove concezioni teoriche che avallano l’idea di un management
asservito all’interesse della proprietà (come, ad esempio, la “teoria dell’agenzia”)
rimodella il rapporto tra quest’ultima ed il vertice dell’impresa.
Nuovi incentivi (stock option, bonus ed altre forme di remunerazione legate al
valore azionario dell’impresa), unitamente alla possibilità da parte degli investitori
finanziari di esercitare l’opzione “exit” e alle minacce di “take-over”, allineano ora
gli interessi del management a quelli della proprietà; l’attenzione del governo
dell’impresa si rivolge verso la necessità di assicurare agli azionisti rendimenti il più
possibile elevati nel breve periodo. La redistribuzione di quote di redditività
dall’impresa alla proprietà è spesso attuata per mezzo di processi di
“efficientamento” e ristrutturazioni “selvagge”37, i quali, oltre ai sacrifici posti a
carico dei lavoratori (dai tagli dell’organico alla riduzione degli investimenti nella
sicurezza), penalizzano quei progetti che non sono in grado di produrre - in tempi
ragionevoli - consistenti flussi di cassa38, anche a costo di compromettere la
competitività dell’impresa nel lungo periodo39.
Ne consegue il formarsi nell’impresa di una “mentalità finanziaria”,
caratterizzata da una nuova scansione temporale, dettata dalla proprietà finanziaria,
spesso palesemente disallineata con quella che identifica l’equilibrio vitale di lungo
periodo dell’impresa.
In questo mutato scenario riassume centralità - nel quadro degli obiettivi che di
fatto indirizzano il percorso evolutivo dell’impresa - il profitto inteso nella suesposta
logica della de-residualizzazione. Tuttavia, quand’anche concepito come rendimento
(ROE), l’orientamento al profitto appare affetto da una serie di limiti che non danno
piena contezza della reale ricchezza creata per la proprietà. La progressiva “dematerializzazione” del processo di generazione di nuova ricchezza pone
all’attenzione degli studiosi la necessità di approfondire l’impatto che su di esso
esercitano i fattori immateriali (intangibile). I limiti contabili alla rilevazione del
valore delle risorse intangibili, generate all’interno dell’organizzazione, nonché
l’incapacità, da parte degli indicatori di natura contabile, di contemplare i fattori
“rischio” e “tempo”, rendono necessaria l’adozione di una nuova metrica che
soddisfi la necessità di decifrare la reale ricchezza generata dall’impresa per la
proprietà. Nasce da qui la formulazione di una metrica del valore.
L’attenzione degli studiosi si sposta quindi sulla più corretta declinazione
dell’orientamento al valore. Si tratta di una questione cruciale perché, date le diverse
posizioni al riguardo, da essa consegue la possibilità e la capacità di calibrare
37
38
39
Cfr. Dematté C., “Teoria del valore: serve davvero per guidare meglio le imprese?”,
Economia & Management, n. 2/1997, pag. 7.
Cfr. Rullani E., “Il valore per l’economia d’impresa: nuova giovinezza di una categoria
tradizionale”, Sinergie, n. 31, 1993, pag. 223.
Cfr. Porter M.E., “Capital disadvantage; America’s Failing Capital Investment System”,
Harvard Business Review, September-October 1992, pagg. 65-82.
MAURO GATTI - DANIELE BIFERALI - LOREDANA VOLPE
159
correttamente la distanza tra funzione e ruolo dell’impresa (e dell’organo di
governo). Non è un caso che, affrontando la problematica in oggetto, gli studiosi
d’impresa chiamino spesso in causa concetti quali la responsabilità, l’etica,
l’ideologia, il sistema dei valori diffusi nella società40.
3.2 L’orientamento al valore nell’ottica diadica
Il concetto di valore, com’è noto, appartiene al lessico e alla letteratura
economica. Interessa qui analizzare come gli studi sull’impresa abbiano recepito mutuandole - alcune concezioni del valore elaborate in campo economico,
facendone l’elemento permeante l’agire d’impresa.
È possibile riscontrare, in proposito, come le impostazioni degli economisti
d’impresa facciano sovente riferimento a concetti di valore che si delineano secondo
una prospettiva “diadica”, inerente cioè il rapporto tra l’impresa ed una singola
categoria di portatori di interessi. Poca attenzione, viceversa, viene attribuita alla
ricerca di una concezione del valore riferita all’impresa come entità sistemica e che
riesca, con una visione d’insieme, a conciliare interessi “soggettivi” ed interesse
“sistemico”. A ben vedere, la logica diadica appare come un tentativo che, nelle sue
varie modellizzazioni, mira a conferire una base di razionalità all’azione di governo
e all’agire d’impresa, dal momento che la categoria di interessi soggettivi prescelta è
assunta come criterio ordinatore della dinamica evolutiva del sistema impresa.
Una prima elaborazione del valore che risponde a tali requisiti è rappresentata
dal “valore per il consumatore”, che mutua dall’economia i concetti di “valore
d’uso” e “valore di scambio” trasponendoli, insieme al nuovo concetto di “valore
percepito”, nell’ottica del marketing. Ispirata all’idea della sovranità del
consumatore, tale concezione presuppone che l’obiettivo ultimo dell’impresa sia
rappresentato dal soddisfacimento, nella maggiore misura possibile, dei bisogni del
consumatore, e che il profitto configurerebbe null’altro che il premio riconosciuto
dal mercato all’impresa che meglio di altre è in grado di conseguire tale obiettivo41.
Il grado di soddisfazione del consumatore è così dato dal rapporto tra il valore da
questi percepito (che incorpora il valore d’uso) ed il valore di scambio (prezzo
pagato per l’acquisto di un bene o servizio). In questa visione, la capacità di
sopravvivenza nel lungo termine dell’impresa poggia inevitabilmente sul grado di
consonanza tra l’impresa ed il sistema del consumo. Tuttavia, simile consonanza,
stimolata dalla competitività del sistema di offerta e dal complesso dei vantaggi che
questa dimostra di possedere sulle offerte concorrenti, per quanto indispensabile,
incrementa la vitalità dell’impresa solo in quanto, sull’altro fronte, il sub-sistema
operativo si caratterizzi per una “struttura dei costi sostenibile” ed in linea con le
esigenze di economicità duratura dell’impresa. Per tale ragione, la distanza tra
40
41
Cfr. Ghoshal S., “Bad Management Theories are Destroying Good Management
Practices”, op. cit. pagg. 75-91 e le critiche che l’Autore rivolge alla concezione della
funzione dell’impresa e del management teorizzata in diversi scritti da Milton Friedman,
considerato il fondatore della corrente di pensiero economica neo-liberista.
Cfr. Keith R.J., “The Marketing Revolution”, Journal of Marketing, Vol. 24, 1960.
160
IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
valore percepito e valore di scambio viene costantemente monitorata al fine di
determinare il “valore reso al cliente” compatibile con l’esigenza di economicità e,
al contempo, necessario per la consonanza con i sovrasistemi del consumo e della
distribuzione42. Fermo restando la sua indiscussa indispensabilità, la prospettiva
della creazione di valore per il consumatore offre una visione parziale della più
ampia concezione della creazione di valore che, nell’ottica del governo dell’impresa,
tende ad assumere connotati “sistemici”.
Una seconda elaborazione del concetto di valore, ampiamente accolta nella
letteratura manageriale, è quella di “valore per l’azionista” (shareholder value”), la
cui significativa affermazione, riconducibile ai fattori analizzati nel paragrafo
precedente e la cui logica pervasiva l’hanno elevata a vera e propria “teoria del
valore”. In questo caso, la dottrina manageriale, in stretta congiunzione con gli studi
sulla corporate finance, elabora diverse declinazioni della dimensione del valore
(valore di mercato delle azioni; valore economico del capitale, ecc.) e più modelli di
misurazione (attualizzazione dei flussi di cassa; attualizzazione dei flussi reddituali;
differenziale tra valore del capitale di rischio e costo dello stesso, ecc.). Data l’ampia
produzione letteraria sul tema e le considerazioni critiche più sopra emerse circa le
pressioni esercitate sull’organo di governo dell’impresa da parte della proprietà
finanziarizzata, ci si limita in questa sede ad osservare che l’assunto di fondo della
visione centrata sulla proprietà - generare valore in questa direzione equivale a
creare valore per tutti gli stakeholder e per l’impresa stessa - in virtù dei diritti di
controllo e al risultato residuo a questa assegnati (proprietà come residual claimant)
rappresenta non solo una prospettiva parziale, in quanto concepita in ottica diadica,
ma potenzialmente dannosa poiché:
a) pur partendo dal proposito di misurare il valore generato in un arco di tempo
sufficientemente lungo, tale modello viene di fatto applicato in una prospettiva di
breve e brevissimo periodo, anche per effetto dei meccanismi di incentivazione
del management. In questo modo si sacrificano le prospettive di sopravvivenza
dell’impresa nel lungo periodo (contrazione degli investimenti ed attenzione
spasmodica all’“efficientamento” della gestione nel breve termine) e si generano
spinte alla “manipolazione” dei dati di bilancio nel tentativo di raggiungere “ad
ogni costo” gli obiettivi prefissati;
b) in un sistema economico in cui il capitale finanziario (di rischio e di credito)
rappresenta ormai una commodity, mentre la maggior parte del valore
(economico) generato dall’impresa deriva dal contributo di altri “fattori”
(capitale umano ed intellettuale; rapporti e relazioni nell’ambito delle reti e
catene di fornitura, ecc.), perde di valore la considerazione che solo la proprietà
sopporti il rischio d’impresa e che il capitale finanziario rappresenti la vera
“risorsa” critica per l’impresa. Per tale ragione, il governo e la gestione
d’impresa non possono essere interamente asservite all’interesse degli azionisti;
42
Cfr. Barile S., Pastore A., “Forme, caratteri e divenire sistemico dei rapporti con la
distribuzione e il consumo”, in Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo
dell’impresa, Vol. III, Cedam, Padova, 2002, pag. 203 e segg.
MAURO GATTI - DANIELE BIFERALI - LOREDANA VOLPE
161
c) nel momento in cui gli obiettivi di rendimento degli azionisti sono collocati al
vertice della gerarchia degli obiettivi aziendali, lo shareholder value viene di
fatto de-residualizzato in quanto negoziato ed imposto all’organo di governo ex
ante, riproponendosi gli stessi problemi già analizzati a proposito del profitto.
Per queste ragioni, contestualmente all’affermazione dell’orientamento al valore
per l’azionista, un’altra corrente di pensiero, la stakeholder theory, propone la
ricerca di nuovi modelli di misurazione del valore generato, più compatibili con una
visione dell’impresa alla ricerca della sintonia con tutti o la maggior parte dei suoi
interlocutori, fino a considerare entità quali la collettività, il territorio e l’ambiente.
Così facendo, tuttavia, la proposta avanzata dalla teoria in esame di addivenire ad
una concezione più ampia del valore (il cosiddetto “valore ampliato”43) perde di
determinatezza, dovendo necessariamente poggiare su modelli multivariati,
ricomprendenti la molteplicità di relazioni diadiche tra l’impresa e i vari portatori di
interessi, di difficile costruzione (si pensi, ad esempio, alla difficoltà di determinare
il valore generato nel rapporto diadico impresa-dipendenti). Secondo taluni, quindi,
la teoria degli stakeholder pecca di indeterminatezza rischiando di generare nel
management forme di immobilismo (paralisi) decisionale44. La necessità di stabilire
un obiettivo unico e supremo quale punto di riferimento dell’azione di governo e
della gestione d’impresa continua ad essere concepito quale fattore rilevante in
grado di assicurare all’agire d’impresa razionalità e ordine. I quesiti di fondo che
assillano lo studioso d’impresa riguardano la possibilità di conciliare gli interessi
degli azionisti, quelli degli altri stakeholder e l’interesse vitale dell’impresa alla
sopravvivenza nel tempo e di fondere tali interessi in un unico parametro assunto ad
obiettivo verso cui indirizzare la dinamica evolutiva dell’impresa.
A simili interrogativi tenta di rispondere la teoria che pone al centro
dell’attenzione il concetto di “valore economico del capitale”. Introdotta nel nostro
paese da Guatri45, che si riallaccia alla tradizione di grandi economisti quali Fisher,
Hicks, Böhm-Bawerk, Wicksell, Samuelson ed altri, tale impostazione affonda
tuttavia le sue radici nella concezione zappiana dell’impresa e del reddito da questa
conseguito. La determinazione del valore economico del capitale, tipicamente
utilizzato come base per la determinazione del prezzo di cessione dell’impresa o di
quote del suo capitale di rischio e inteso come espressione in grado di misurare la
capacità dell’impresa a generare valore, assurge a fattore ordinatore della razionalità
dell’azione di governo e dell’agire d’impresa in quanto presenta i seguenti vantaggi:
1) non risente delle distorsioni determinate dai corsi di borsa e delle imperfezioni
dei mercati finanziari;
43
44
45
Sul concetto di “valore allargato”, v. Sciarelli S., “La produzione del valore allargato
quale obiettivo dell’etica nell’impresa”, Finanza, Marketing e Produzione, n. 4, 2002,
pagg. 5-17.
Cfr. in proposito, Jensen M.C., “Value Maximization, Stakeholder Theory and the
Corporate Objective Function”, Business Ethics Quarterly, Vol. 12, Issue 2, 2002, pagg.
235-256.
Cfr. Guatri L., La teoria di creazione di valore. Una via europea, Egea, Milano, 1991.
162
IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
2) per la stessa ragione, assume maggior rilievo l’ottica “produttiva” ed economica
rispetto a quella finanziaria;
3) comportando la determinazione del valore di avviamento, il valore economico
del capitale intende assecondare la natura “sistemica” dell’impresa dal momento
che tale valore assume le caratteristiche di una “proprietà emergente” attribuibile
alle capacità organizzative e alle sinergie derivanti dall’unione delle singole
parti;
4) presenta caratteristiche di razionalità, accettazione/condivisione, misurabilità
secondo un parametro unico ed univoco.
La concezione in esame, pur segnando un avanzamento rispetto a quelle
precedenti in quanto contemplante l’utilizzo di grandezze aderenti ad una visione
sistemica dell’impresa e traguardandone i risultati nel medio-lungo periodo, resta
tuttavia imbrigliata nelle maglie della priorità assegnata alle aspettative della
proprietà (creazione di valore per gli azionisti), trascurando di sottolineare come la
modificazione degli interessi del sistema proprietario (nelle grandi imprese)
declinati in relazione ad attese proiettate nel breve e brevissimo termine, abbia di
fatto spostato l’ottica temporale in base alla quale i suddetti interessi sono proiettati
sull’impresa e sul suo organo di governo46.
3.3 L’orientamento al valore nella prospettiva sistemica
La concezione del valore nell’ottica diadica assume importanza per l’analisi
delle posizioni raggiunte dall’impresa nel soddisfare le attese di singole categorie di
soggetti, in relazione al rischio che risorse di particolare importanza per l’impresa
vengano meno. Nell’ottica sistemica, tuttavia, nessuna di tali attese può assumere
posizione di preminenza se non pro-tempore, in relazione a definite priorità dettate
dall’esigenza vitale del complessivo sistema impresa.
Il valore in ottica diadica non rende conto delle interdipendenze tra categorie di
interessi e non considera le ricadute derivanti dal disattendere istanze non
classificabili sotto il profilo soggettivo e particolaristico ma ascrivibili all’ambiente
(sociale, fisico-naturale) nel quale l’impresa opera. Tale visione può essere
realizzata solo da una concezione sistemica del valore, che contemperando
competitività e consonanza di contesto consente di attribuire la giusta rilevanza agli
interessi soggettivi, alle loro interdipendenze, alla sintonia con il contesto circostante
e alle esigenze sistemiche associate all’incremento della probabilità di
sopravvivenza dell’impresa nel tempo47.
46
47
Ibidem, pagg. 26-27.
Giova qui ricordare che un concetto di valore spesso impiegato per esprimere, secondo
criteri definiti “oggettivi”, la reale misura della creazione di ricchezza economica da parte
dell’impresa è quello di “valore aggiunto” (inteso come differenza tra il valore della
produzione ed i costi esterni, tipicamente quelli di materie e servizi). Anch’esso mutuato
dagli studi economici, il valore aggiunto è assunto dalla statistica economica quale
indicatore tipico in grado di esprimere la capacità dell’impresa (o di aggregati di imprese)
ad adempiere alla sua “funzione”, misurata in termini di “produttività”, posto che la
MAURO GATTI - DANIELE BIFERALI - LOREDANA VOLPE
163
In realtà, trattando del valore in una prospettiva sistemica, è possibile notare
come logica produttiva e logica distributiva siano tra loro compenetrate, poiché non
può esservi generazione di valore qualora non siano stati correttamente impostati,
ex-ante, almeno i criteri di valorizzazione della produzione (definizione del prezzo
di vendita) e dei rapporti con i fornitori di risorse. Ne consegue che il processo di
creazione di valore e la misurazione del valore generato dall’impresa rendono
necessari strumenti di valutazione al contempo “soggettivi” (in relazione alle attese
degli interlocutori) ed “oggettive” (relative all’equilibrio vitale per la sopravvivenza
dell’impresa nel tempo.
In effetti, come è stato sottolineato, l’impresa “(…) si trova al centro di una
complessa catena di giudizi di valore”, per cui “(…) ogni soggetto preme per creare
valore nella massima misura possibile dal proprio punto di vista”48. Per questo, la
tensione verso la creazione di valore esprime e sintetizza la reale portata dell’azione
di governo in un contesto reso più complesso dall’intreccio delle aspettative espresse
da soggettività diverse e dalla necessità di assicurare all’impresa condizioni di
duraturo equilibrio economico. Ecco allora che le capacità negoziali, di mediazione
e di comunicazione, qualificanti l’azione di governo dell’impresa intesa come
“nesso di contratti”, costituiscono requisiti indispensabili anche nella concezione
istituzionalista. Quest’ultima, infatti, concepisce l’impresa sia come un sistema
dotato di specifiche esigenze vitali (legate alla continuità di esercizio della sua
funzione nel tempo) sia come un sistema che, perseguendo la consonanza e
l’armonia con il contesto in cui vive, incrementa le probabilità di sopravvivenza solo
in quanto riesca a recepire e soddisfare, senza sottovalutarne alcuna, le istanze
provenienti dai suoi interlocutori più prossimi, nonché a leggere e interpretare
(soprattutto attraverso la capacità di ricezione e di decifrazione di segnali deboli)
quei sommovimenti ambientali determinati da processi evolutivi in atto nei
sovrasistemi. Tali sommovimenti sono spesso graduali, quasi impercettibili ed
hanno tempi di incubazione assai lunghi; tuttavia, al momento della loro
“emersione”, tendono a verificarsi con inusitata e dirompente potenza. Ciò richiede,
un’azione di governo che si caratterizzi per un’attenta analisi dei rischi
(singolarmente e sistemicamente considerati), la predisposizione ex-ante dei mezzi
necessari a fronteggiare il loro eventuale impatto negativo e, al tempo stesso, la
48
“distruzione” di ricchezza nel tempo (valore aggiunto negativo) contravviene alla più
elementare missione che all’impresa è affidata; avendo cioè riguardo allo “strumentoimpresa”, la sua cronica incapacità a creare ricchezza spingerebbe a ricercare forme di
produzione alternative. Sotto il profilo “soggettivo”, invece, l’analisi spazio-temporale
della distribuzione del valore aggiunto tra le componenti che hanno contribuito a
generarlo conduce all’espressione di giudizi di congruità, equità ed eticità circa le logiche
di fondo che informano l’attribuzione di quote di ricchezza alle varie categorie soggettive
ed il loro modificarsi nel tempo spostando maggiormente l’ottica sul ruolo dell’impresa e
dell’azione del suo governo. Cfr. Bruni G., Contabilità per l’alta direzione. Il processo
informativo funzionale alle decisioni di governo dell’impresa, Etas, Milano, 1990.
Donna G., La creazione di valore nella gestione d’impresa, Roma, Carocci, 1999, pagg.
25-31.
164
IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
predisposizione della necessaria flessibilità utile a cogliere le opportunità che anche
in momenti di crisi generale possono dischiudersi.
L’orientamento al valore nella prospettiva sistemica, dunque, riporta alla
distinzione, evidenziata all’inizio del presente lavoro, tra funzione e ruolo
dell’impresa. Creare valore nella prospettiva sistemica significa infatti, da un lato,
agire nel primario interesse vitale del sistema impresa e nella ricerca delle migliori
condizioni operative in vista del perseguimento dell’equilibrio economico di lungo
periodo. Condizioni che rimandano, da un lato, alla piena consapevolezza, da parte
di chi l’impresa governa e indirizza, della funzione (e della funzionalità) dello
strumento-impresa intesa come coordinazione economica destinata a perdurare nel
tempo e che fanno perno sul conseguimento di vantaggi competitivi da ricercarsi
tanto sul fronte del mercato di collocamento del prodotto, quanto sulle condizioni di
approvvigionamento delle risorse, incluse quelle finanziarie e sulle capacità
organizzative (competitività).
Condizioni che, d’altro lato, necessitano tuttavia dell’interiorizzazione del ruolo
dell’impresa quale emerge in relazione al variegato comporsi delle aspettative
individuali e collettive e che conduce, di conseguenza, allo svolgimento del ruolo di
governo volto, oltre alla ricerca delle condizioni di consonanza diadica con specifici
interlocutori e sovrasistemi appartenenti all’ambiente di riferimento, anche al
perseguimento di una consonanza di contesto capace di dar conto della sintonia tra
l’impresa ed il suo ambiente e che si manifesta nella capacità di generare
condivisione sul progettato indirizzo della dinamica evolutiva dell’impresa nella più
ampia consapevolezza dei rischi ad esso sottostanti.
Convinzione di chi scrive è che solo l’assicurazione di tali condizioni permetta ai
portatori di interesse soggettivi di ricevere, in un’ottica che non può essere di breve
periodo, la necessaria soddisfazione delle proprie aspettative. Si tratta di uno
spostamento di prospettiva non indifferente: la definizione di un progetto capace,
quando proiettato nel lungo termine, di garantire le suddette condizioni, catalizza
l’attenzione e la fidelizzazione di interlocutori qualificati in grado di fornire
all’impresa risorse pregiate; gli interlocutori dell’impresa, peraltro, sono persuasi a
rischiare e a vedere sacrificate le proprie attese di breve periodo nella
consapevolezza, però, che i frutti portati a maturazione con la giusta scansione
temporale potranno premiarli. In tal caso, l’ormai famoso appello di Porter affinché
la proprietà torni a svolgere il ruolo che essa originariamente aveva non appare
come un richiamo ad una proprietà qualunque purché sia in grado di esercitare
pressioni sul management, bensì ad una proprietà che sappia svolgere quel ruolo di
supporto a progetti e piani industriali calibrando le proprie aspettative in funzione di
risultati che incrementino le probabilità di sopravvivenza nel tempo dell’impresa49.
In base a quanto detto, l’orientamento al valore rappresenta, rispetto a quello al
profitto, un avanzamento per l’impostazione dell’azione di governo. Il valore, infatti,
richiamando il concetto di potenzialità dell’impresa a generare ricchezza futura,
49
Cfr. Porter M.E., “Capital disadvantage; America’s Failing Capital Investment System”,
cit., pag. 80.
MAURO GATTI - DANIELE BIFERALI - LOREDANA VOLPE
165
impone all’organo di governo il congiunto utilizzo dei driver della competitività e
della consonanza al fine di assicurare la sopravvivenza nel lungo termine
dell’impresa, armonizzando le diverse dimensioni temporali che contraddistinguono
le attese dei sovrasistemi e inducendo approfondite riflessioni sul “profilo di rischio”
che caratterizza la dinamica evolutiva dell’impresa.
L’aver posto come driver prioritari dell’azione di governo la competitività e la
consonanza ha il pregio di collocare l’impresa in un preciso contesto spaziotemporale50. Un contesto in cui il gioco del mercato impone all’impresa di rinnovare
costantemente le forme e le modalità del suo vantaggio competitivo, difendendolo
per quanto può nella consapevolezza che questo sarà eroso dai concorrenti a
vantaggio dei consumatori51. Non si tratta di “arrendevolezza” bensì di comprendere
la natura più profonda dell’impresa, la sua funzione essenziale, di strumento
operante per il benessere ed il progresso sociale e collettivo. Senza tale
rinnovamento, infatti, l’impresa è destinata a perire per incapacità di soddisfare
l’economicità di lungo periodo a vantaggio di altre organizzazioni che con essa si
contendono il mercato. Nella competizione infatti, garantita da regole adeguate,
emerge la reale ragion d’essere dell’impresa e la vera portata dell’azione di governo.
La tensione costante all’innovazione in ogni settore, dal prodotto al processo, alla
filiera produttiva e all’intera configurazione organizzativa, esalta la creatività
individuale e collettiva, nello sforzo di ricreare costantemente le più idonee
condizioni per la riproducibilità dell’atto produttivo e di scambio.
4. Profitto, valore e complessità: implicazioni per l’azione di governo
La dialettica tra profitto e creazione di valore è stata e continua ad essere al
centro del dibattito sulla governance e sui modelli di governo dell’impresa. Essa
chiama in causa i presupposti logici dell’azione di governo e, conseguentemente,
l’indirizzo della dinamica evolutiva del sistema impresa.
Si è dato conto, nelle pagine precedenti, dell’insufficienza di un modello di
governo orientato esclusivamente al profitto o al valore per l’azionista che pretenda
di de-residualizzarli, contrattualizzando ex ante il rendimento del capitale di rischio,
ponendoli infine quali obiettivi prioritari, orientati al breve periodo, cui la gestione
dell’impresa debba indirizzarsi. Tale modello solleva dubbi e suscita interrogativi
sulle modalità di adempiere alla funzione e al ruolo che l’impresa riveste quale
istituzione dell’economia capitalistica.
Alla luce dei recenti accadimenti che hanno condotto alla più grave crisi
economico-finanziaria da quella del ’29, ci si interroga, in particolare, su due aspetti:
50
51
Per un’analisi della competitività e della consonanza come driver dell’azione di governo
dell’impresa, si veda Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa, Vol.
II, Verso la scientificazione dell’azione di governo, Cedam, Padova, 2008.
Cfr. Moran P., Ghoshal S., “Markets, Firms, and the Process of Economic Development”,
Academy of Management Review, vol. 24, n. 3, 1999, pagg. 390-412.
166
IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
1) l’ammissibilità o quantomeno la difficoltà a persistere in logiche di governo
tipiche di un contesto caratterizzato da “linearità”, quando esse si dimostrino
incapaci ad indirizzare l’impresa su sentieri condivisi e di lungo periodo;
2) la necessità di rimeditare i rapporti tra profitto e creazione di valore qualora si
adoperi la prospettiva della complessità come criterio di lettura e di definizione
delle impostazioni a base dell’azione di governo dell’impresa.
In relazione al primo aspetto, tanto la de-residualizzazione del profitto quanto
l’orientamento al valore in ottica diadica e, principalmente, l’orientamento al valore
per la proprietà, appaiono informati da un’esigenza di semplificazione riduzionista.
Questa consiste nel far coincidere l’obiettivo ultimo dell’impresa con l’interesse di
una singola categoria di soggetti, pre-costituito e determinato a priori, cui tutta la
gestione deve inevitabilmente dirigersi nell’ipotesi che, soddisfatte le attese della
categoria in oggetto, lo siano automaticamente anche quelle degli altri portatori di
interessi. La concezione diadica del valore, in particolare, adottando una prospettiva
parziale, è improntata alla ricerca di ordine, di razionalità, di controllo, affermando
precisi nessi di causa-effetto tra interessi soggettivi ed interesse del sistema impresa.
Essa, tuttavia, trascura la complessità prodotta dalle interconnessioni tra categorie di
interessi, sia in termini di orizzonti temporali sia di interdipendenza fra rischi
diversi, potenzialmente foriera di reazioni e contro-reazioni che, lungi dallo
svolgersi in forma lineare, viaggiano piuttosto sul sottile, tortuoso e talvolta
imprevedibile crinale caratterizzato da relazioni di “concausa ed effetto molteplice”.
Concepire l’impresa come sistema complesso significa considerare le proprietà
emergenti del sistema stesso52, oltre alla comprensione del funzionamento e del
comportamento delle sue singole parti53; a ciò si aggiunge che tali proprietà sono
determinate dall’interazione adattiva del sistema impresa con l’ambiente di
riferimento. Ne consegue che la ricerca della consonanza da parte dell’organo di
governo, di contesto oltre che diadica, appare attività oltre certi limiti non
modellizzabile (e non scientificabile)54. Qualificandosi più come arte che come
scienza, una siffatta azione di governo richiama in causa le caratteristiche personali,
la sensibilità individuale, la capacità di comunicazione e di guida nella ricerca di
condivisione e di una costante sintonia tra l’impresa e le entità che popolano il
contesto, una leadership che sappia armonizzare interessi traguardati su orizzonti
temporali diversi e valutare il rischio che un loro mancato soddisfacimento si rifletta
in modo irreversibile sulle probabilità di sopravvivenza del sistema impresa.
Circa il secondo aspetto (la rimeditazione dei rapporti tra profitto e creazione di
valore), è possibile notare come la prospettiva della complessità quale criterio di
52
53
54
Cfr. Le Moigne J.L., “Progettazione della complessità e complessità della progettazione”,
in Bocchi G., Ceruti M. (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1985;
von Foerster H., Sistemi che osservano, (a cura di Ceruti M., Telfener U.), Astrolabio,
Roma, 1987; Holland J., Hidden order, Addison Wesley Publishing Company, Reading,
Mass., 1996.
Cfr. Kauffman S., At home in the universe, Oxford University Press, New York, 1995.
Cfr. Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa, Vol. II, op. cit., parte
prima.
MAURO GATTI - DANIELE BIFERALI - LOREDANA VOLPE
167
lettura del rapporto impresa-ambiente e dell’azione di governo, oltre all’abbandono
di un approccio riduzionistico al governo dell’impresa, rimuove quella priorità che
le teorie classica e neo-classica avevano conferito alla ricerca del profitto quale
criterio microeconomico di efficienza. Criterio che, ove perseguito, consentirebbe sì
all’impresa di adattarsi perfettamente, ma solo ad ambienti relativamente stabili.
Viceversa, la considerazione dell’impresa come sistema complesso induce ad
inquadrare diversamente il problema dell’adattamento dell’impresa all’ambiente, in
primis abbandonando la logica “massimizzante” (del profitto quanto del valore)
come meccanismo di selezione per eccellenza. L’adattamento dell’impresa come
sistema complesso ad un ambiente altrettanto complesso non può essere progressiva
convergenza verso un qualche stato ottimale, ma equivale semmai ad impostare una
dinamica evolutiva capace di contemperare le caratteristiche intrinseche (firm
specific) della struttura, le sue capacità e i suoi vincoli, con gli stimoli/opportunità
che provengono dall’ambiente, agendo, dunque, anche sul driver della competitività
oltre che della consonanza. Tale dinamica evolutiva, pertanto, sottende il ritorno ad
un approccio “produttivo” tanto al profitto quanto al valore, determinabile non solo
secondo una metrica quantitativa ma anche qualitativa. In tal caso, il concetto di
valore, in termini prevalentemente qualitativi, è ricerca continua, da parte
dell’impresa e del suo organo di governo, di legittimazione sociale all’interno del
proprio contesto, e verso gli attori che ne sostengono lo sviluppo. È capacità
dell’organo di governo di garantire il rispetto delle necessarie condizioni di
efficienza, di competitività e di equilibrio dell’impresa assecondandone la funzione
e, al tempo stesso, di cogliere gli stimoli che provengono dalle entità sistemiche che
popolano il contesto, mediandone poteri e aspettative, assumendo in toto quel
profilo di ruolo emergente dalle aspettative della collettività. Sotto questo profilo, il
governo della creazione del valore incorpora in sé i requisiti di responsabilità, il
richiamo all’etica, il riferimento ad un sistema di valori diffusi che orienta e
indirizza la capacità di sopravvivenza del sistema impresa. Ecco, allora, che concetti
quali la responsabilità sociale, i valori, l’etica, accolti con scetticismo da un
management che molto spesso dichiara di aderirvi per meri motivi di facciata,
assumono una prospettiva diversa (e pienamente accolta) quando si trasfondono,
sino ai limiti dell’imponderabile, nella tendenza a perseguire con sistematica
fermezza il governo dei rischi legati alla non consonanza e alla perdita di
competitività che, distruggendo valore per l’impresa, oltre che per i suoi
stakeholder, ne indeboliscono le probabilità di sopravvivenza.
In definitiva, la sfida posta dal governo della complessità è quella della ricerca di
approcci, strumenti e tecniche manageriali che, fin dove possono, permettano di
colmare la scissione tra funzione e ruolo, in parte non irrilevante riconducibile alla
contrapposizione tra logica produttiva e logica distributiva, tra orientamento alle
relazioni diadiche e orientamento alla consonanza di contesto. Alla luce di quanto
sinora argomentato, tale sfida impone la necessaria assunzione, da parte dell’organo
di governo, di una prospettiva sistemica che inquadri l’impresa come impresaprogetto, nella quale il profitto è “corretto per il rischio” e, per questa via,
riagganciato alla creazione di valore sistemico. A questo fine, in particolare, l’azione
168
IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE
di governo deve essere tendenzialmente ed intenzionalmente orientata a rispettare le
caratteristiche intrinseche dell’impresa come sistema/strumento chiamato a svolgere
una funzione di produzione, in condizioni di equilibrio durevole, e come
“institution”, la quale, in una logica evolutiva, “deve riflettere sulle ricadute che le
decisioni assunte in merito a tale funzione [di creazione di ricchezza a mezzo della
produzione di beni e servizi] comportano in ambiti socio-economici non
immediatamente a queste collegati”55.
In altri termini, l’azione di governo protesa alla ricerca di efficienza non
accompagnata dalla ricerca di legittimazione sociale, ovvero il raggiungimento di
competitività combinato a flussi decrescenti di consonanza sia diadica sia di
contesto, mette in forse la creazione di valore sistemico quando il contesto si
presenti ad elevata complessità, capace di esercitare pressioni e sanzioni. Il presidio
del rischio, attraverso la predisposizione di un quantum di mezzi propri adeguato a
sostenere il piano di sviluppo dell’impresa nel tempo, in relazione agli scostamenti
potenzialmente verificabili rispetto ai risultati previsti, appare il perno di un’azione
che trascende sia le dinamiche selettive di un ambiente complesso, sia le
perturbazioni casuali e che, soprattutto, restituisce al profitto e al valore per la
proprietà la sua “naturale” residualità. Il governo del rischio diviene, così, il trait
d’union tra obiettivi e finalità d’impresa, funzione e ruolo, economicità e
legittimazione sociale, tensione al profitto e creazione di valore.
5. Conclusioni
Il passaggio dal profitto al valore può essere meglio compreso riflettendo sul
rapporto tra funzione e ruolo dell’impresa nell’attuale contesto economico, sociale,
politico, istituzionale. Il ruolo dell’impresa nella società è legato alla lettura delle
modalità con cui l’organo di governo ed il management traducono (o dovrebbero
tradurre) in concrete scelte e in concrete condizioni operative le caratteristiche che
consentono all’impresa di svolgere la propria funzione in condizioni di equilibrio, in
relazione al fatto che al suo interno “le risorse della società vengono raccolte,
sviluppate e utilizzate per far partire e controllare i processi di sviluppo
economico”56. Come le recenti vicende dimostrano, l’incapacità del management a
comprendere ed interpretare le istanze provenienti dalla società e ad adempiere al
rispetto delle necessità vitali dell’impresa ha significativamente contribuito, nella
percezione collettiva, a delegittimare il ruolo dell’impresa nella società.
L’impresa è un sistema complesso il cui governo esige capacità a filtrare e
graduare, nel rispetto di opportune priorità, le attese delle entità sistemiche che
qualificano il contesto. La “divisione degli utili” - e quindi il conseguimento di un
profitto - è stimolo potente e di per sé positivo all’iniziativa privata: esso è
55
56
Cfr. Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa. L’impresa sistema
vitale, Vol. I, op. cit., pag XVII.
Cfr. Moran P., Ghoshal S. “Markets, firms, and the process of economic development”,
Academy of Management Review, n. 3, 1999, pag. 391.
MAURO GATTI - DANIELE BIFERALI - LOREDANA VOLPE
169
consustanziale al concetto di impresa e alla sua funzione57. Tuttavia, prima il profitto
e poi il valore per la proprietà hanno assunto progressivamente la veste di vincolo
imposto dalla proprietà all’impresa. Il mutamento delle logiche alla base
dell’approccio al profitto e al valore ha così determinato un modello di governo
dell’impresa diverso da quello, storicamente affermatosi, attento tanto alle esigenze
di tutti i suoi interlocutori quanto a quelle di garantire equilibrio e stabilità per la
sopravvivenza dell’impresa nel tempo, oggi ancora tipico di molte piccole realtà
imprenditoriali a scala famigliare.
In ogni caso, affinché il legame tra profitto e creazione di valore possa
preservare all’impresa il livello di consenso guadagnato nel tempo, la creazione di
valore deve essere intesa in senso ampio e sistemico, recuperando la concezione
della residualità del profitto spettante alla proprietà. Creare valore significa così non
solo perseguire una differenza positiva tra ricavi e costi, in armonia con la funzione
di stimolo all’iniziativa privata riconosciuta al profitto, ma assicurare al contempo le
necessarie condizioni di consonanza e competitività che consentono al sistema
impresa di mantenersi in equilibrio durevole. Creare valore significa anche capacità
di coagulare il necessario contributo dei soggetti-interlocutori a sostenere il progetto
di sviluppo dell’impresa nel tempo. In questo caso, l’implementazione di una cultura
di governo e gestione del rischio diviene il perno di un’azione di governo in grado di
coniugare produzione e distribuzione del profitto, miglioramento delle performance
e consonanza, intesa, quest’ultima, come ricerca di armonia e di legittimazione
sociale nei rapporti con le molteplici “soggettività” interne ed esterne all’impresa.
Un’azione di governo così qualificata assume contemporaneamente i caratteri
della “scienza” e dell’“arte”, del calcolo e della capacità di “ascolto”, di “lettura” e
di “interpretazione” del contesto. In tal senso, la relazione tra profitto e valore apre il
campo ad una indispensabile, più approfondita riflessione su quel processo di
creazione di valore che, nel soddisfare pressioni e aspettative delle entità qualificanti
il contesto in cui l’impresa opera, sia in anche grado di assecondare la natura e le
“vitali esigenze” di questa.
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA TRA PROFITTO E CREAZIONE DI VALORE