“Revolver” (The Beatles - 1966): guida all`ascolto

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“Revolver” (The Beatles - 1966): guida all`ascolto
Diritto e Contaminazioni
MUSICA
“Revolver” (The Beatles - 1966): guida
all’ascolto
giovedì 15 ottobre 2015
Ziccardi Giovanni Professore, Cattedra di Informatica Giuridica, Università degli Studi di
Milano
“Revolver” è un disco che ha segnato un’epoca non solo nella carriera dei Beatles, portando al
loro cambiamento da “gigging band” a gruppo da studio, ma anche nel mondo della musica in
generale, con idee e spunti artistici e innovativi che hanno condizionato tutto il mondo musicale
che è venuto dopo. Inoltre è un album che quasi tutti i critici considerano tra i migliori di tutti i
tempi.
REVOLVER – THE BEATLES
(pubblicato il 5 agosto 1966 in UK, l’8 agosto 1966 in USA)
Le premesse cronologiche sono interessanti: siamo nel 1966, e i Beatles sono già famosissimi.
Come primo riferimento temporale (semplificando molto), si tenga presente che il quartetto di
Liverpool suonò nella formazione più nota per “soli” dieci anni, dal 1960 al 1970. Dal 1957 al
1960 alcuni giovani si incontrano e iniziano a suonare insieme creando l’embrione della band.
Dal 1960 al 1962 si recano ad Amburgo a suonare, e cominciano a maturare e a stabilire la
loro formazione definitiva. Gli anni 1962 e 1963 sono gli anni delle prime registrazioni in studio
e dei primi album. Si ricordi che in quegli anni molti gruppi incidevano anche due album nello
stesso anno o a distanza di pochi mesi. Dal 1963 al 1966 i Beatles incisero album di grande
successo e, soprattutto, furono in tournée e diventarono famosissimi, con singoli al numero
uno della classifica dagli Stati Uniti al Giappone.
Ma veniamo al 1966, considerato l’anno della vetta artistica dei Beatles. Allora, come si diceva,
sin dall’inizio della loro carriera i quattro di Liverpool erano dovuti sottostare quasi sempre
rigidamente ai vincoli della musica dell’epoca, musica che doveva essere ballabile (uno dei
primi successi in singolo dei Beatles fu Besame Mucho…) e, soprattutto, tutto quello che era
scritto doveva essere eseguito live, quindi non poteva essere troppo complesso.
I Beatles, prima dell’album Revolver, già avevano un successo enorme, e solo nomi come Elvis
Presley, i Beach Boys, Bob Dylan e i Rolling Stones potevano vantare un successo simile.
Presto, però, la strumentazione dell’epoca cominciò a creare problemi nei concerti dal vivo, visti
anche i numerosi spettatori, la confusione generale e le urla delle ragazze dal pubblico che
coprivano la musica. Gli impianti erano inadeguati, gli amplificatori rischiavano di prendere
fuoco, e dopo un tour mondiale massacrante che li portò dagli Stati Uniti (con la famosa
apparizione all’Ed Sullivan Show) sino a Tokyo, i Beatles si stancarono di quella vita e presero
la decisione di non esibirsi più dal vivo, dal momento che le esibizioni in quelle condizioni erano
diventate più un disagio che una soddisfazione per i musicisti.
Ecco perché Revolver è anche conosciuto come il disco che coincise con uno stop dei concerti
dal vivo e, di conseguenza, con una maggiore concentrazione nel voler creare un album da
studio. I Beatles, infatti, poterono registrare in studio un album senza più preoccuparsi di come
riprodurre i brani live, dei rumori della folla e delle ragazze urlanti e, in generale, di creare brani
facilmente replicabili.
Questo fu un momento epocale della loro carriera: vollero rendere la musica rock una musica
ragionata e impegnata nella sua creazione, una vera e propria musica da ascolto, una musica
in un certo senso colta.
Il disco viene pubblicato nel 1966, in piena estate, dopo quasi 100 ore e tre mesi di
registrazione negli studi della EMI in Abbey Road a Londra e dopo che, prima di entrare in
studio, i quattro musicisti avevano deciso di prendersi alcuni mesi per sé stessi, da soli a
meditare (vedremo che questo aspetto della “ricerca” di ognuno dei quattro Beatles della
propria singolarità prima di andare in studio sarà fondamentale per il risultato dell’album).
Ricapitolando: i Beatles si stancano dei concerti dal vivo e della musica “facile”, si prendono un
po’ di tempo per loro e dopo questo aver “ritrovato loro stessi” ognuno a suo modo (chi girando
per il mondo, chi rimanendo a casa a drogarsi, chi appassionandosi di musica classica)
entrano in studio per due mesi, quasi tre, con tante idee e la volontà di creare la musica
proprio dentro allo studio, in tempo reale, improvvisando molte parti. Tutto portava, insomma,
verso il cambiamento, verso il voler cambiare rotta, una rottura con tutto ciò che era stato
prima. Anche la copertina del disco, si vedrà, è di rottura. Da canzoni tipo “Twist and Shout”,
che li avevano resi famosi come “divi del rock and roll”, cercano di rendere la musica rock una
musica da ascolto. Portano allora in studio strumenti etnici, come il sitar, i tamburelli e le tablas,
estremamente difficili da usare dal vivo, arrangiano brani unicamente con le loro voci e un
ottetto d’archi, introducono innovazioni nel modo di registrare, si appassionano al reverse,
girando il nastro al contrario, e usano il tape loop (registrano una batteria o altre parti, il nastro
viene tagliato e si crea uno dei primi loop della storia) e portano strumenti classici all’interno dei
brani, come il flicorno.
In questo quadro, non si dimentichi l’importanza fondamentale di George Martin, che li guidò in
studio per settimane, pazientemente, e che si dimostrò ancora una volta un arrangiatore di
grandissima competenza. Le innovazioni usate in questo disco, ad esempio le armonie vocali,
divennero presto celebri in tutto il mondo e misero in crisi lo storico concorrente Brian Wilson
dei Beach Boys (tra i due gruppi iniziò una battaglia che vide giocare carte incredibili quali gli
album Revolver, Pet Sounds e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, tutti album di livello
eccelso).
Le osservazioni dei critici internazionali
Prima di entrare nel “vivo” della analisi e del mio ascolto, il Web consente di recuperare dalle
testate più importanti (Rolling Stone, la BBC, e simili) le recensioni dell’epoca (ma anche
recensioni più moderne) di critici che esprimono il loro parere e che possono orientare, con
osservazioni interessanti, chi si appresta ad ascoltare l’album.
I critici sono concordi nel ritenere che, nell’estate del 1966, questo sia stato l’album che segnò
una fase radicalmente nuova per il gruppo e per la sua carriera. L’album incorporava influenze
diverse che caratterizzavano a quel tempo i suoi tre compositori principali. La musica indiana
per George Harrison, la musica classica e contemporanea per Paul McCartney (che vede, con
questo album, raggiunta una grande maturità e un distacco dal binomio che sembrava
inscindibile e che lo vedeva legato a John Lennon, tanto che la dizione Lennon/McCartney
come autori era quella tipica dei brani precedenti) e l’LSD per John Lennon, che aveva iniziato
a usarlo e che si tuffa quasi in ogni brano nell’esperienza delle droghe, o recita riferimenti alle
droghe.
I critici sono poi concordi nel rilevare, nell’economia generale dell’album, due momenti estremi.
Il primo è Yellow Submarine, brano apparentemente semplice, quasi una filastrocca cantata da
Ringo Starr, ma in realtà assai elaborato, mentre il secondo è Tomorrow Never Knows, che
cerca di realizzare in concreto, e in musica, l’incredibile idea di John Lennon di cristallizzare su
una base di loop un vero e proprio viaggio lisergico. Voleva, in pratica, descrivere
un’esperienza lisergica, un viaggio con l’acido.
Dopo questi due estremi, tutte le altre canzoni sono considerate portatrici di aspetti di pregio,
ma Eleanor Rigby viene considerata il capolavoro dell’album. Un testo visionario sulla solitudine
che unisce un arrangiamento incredibile per l’epoca alla poesia del testo.
Anche la copertina fece gridare al capolavoro: realizzata da Klaus Voorman, artista amico dei
Beatles dai tempi di Amburgo, è disegnata in un bianco e nero psichedelico che preannuncia i
temi e la copertina di Sgt. Pepper’s.
Tutti i critici di cui ho letto recensioni collocano Revolver senza indugio tra i migliori tre album di
tutti i tempi. Lo definiscono come un impressionante insieme di un numero incredibile di canzoni
splendide. L’unico difetto che trovano è molta eterogeneità tra i brani, con canzoni molto
differenti tra loro, se di difetto si può parlare.
Una nota di colore: nel 1966 la critica, dicevo, fu abbastanza concorde nel ritenere l’album un
capolavoro. Una recensione di Ray Davies dei Kinks, però, stroncò senza appello l’album
salvando solo tre pezzi (“I’m Only Sleeping”, “Good Day Sunshine” e “Here, There and
Everywhere”). Davies scrisse che non gli erano piaciute “tutte quelle cose elettroniche”, e che
la musica dei Beatles in un certo senso era stata tradita (da loro stessi) perché era sempre
stata la “musica del ragazzo della porta accanto, ma più bravo”. Il musicista nella sua critica fu
spietato: scrisse che Eleanor Rigby altro non era che un brano per fare felici gli insegnanti di
musica delle scuole elementari…
In realtà, tutti i critici videro Revolver come l’annuncio clamoroso che i “vecchi” Beatles, quelli
che il pubblico si era abituato a conoscere, non c’erano più ed erano maturati. Per la prima
volta si misero a lavorare tutti e quattro insieme, alla pari, liberando ciascuno il proprio
carattere e la propria creatività, senza compromessi e inventando molte parti anche in studio.
Revolver è il settimo album dei Beatles, viene pubblicato in UK il 5 agosto 1966 e tre giorni
dopo negli USA. I critici notano come le avvisaglie di questa rivoluzione beatlesiana e di questi
suoni già si notassero un po’ nell’album precedente, Rubber Soul, della fine del 1965, ma è
con Revolver che tutto si manifesta come per magia.
Gli storici e i biografi dei Beatles (ma anche gli stessi Beatles, in alcune dichiarazioni) ricordano
poi la grande importanza che le droghe (soprattutto erba e acidi) ebbero nel percorso creativo
alla base di Revolver.
La fase della registrazione dell’album è, anch’essa, interessante. Come dicevamo, l’album è
stato registrato agli EMI Studios in Abbey Road a Londra. Ma fu una soluzione di ripiego, in
quanto i Beatles volevano andare in America alla ricerca di un suono diverso dal tipico sound
inglese. Purtroppo l’operazione sarebbe costata troppo, e si stabilirono così negli studios
londinesi.
I brani sono chiaramente influenzati da tanti elementi di contaminazione: dai suoni Motown alle
canzoni per bambini, dalla musica indiana agli arrangiamenti orchestrali. Secondo gli esperti, le
innovazioni principali nella fase di registrazione furono però quattro. Intanto, l’uso di ADT,
acronimo di Artificial Double Tracking, una tecnica inventata da un ingegnere della EMI
nell’aprile del 1966 collegando due registratori a nastro per raddoppiare una traccia vocale.
Viste le leggere differenze temporali nel playback, le due tracce si separano leggermente e
danno l’effetto di due voci, se combinate. Poi si aggiunse, come seconda innovazione, la
possibilità di accelerare o rallentare le tracce variando così il suono tramite oscillatori specifici.
La terza innovazione fu l’uso della registrazione al contrario. Prendevano le parti che
suonavano bene e le mettevano al contrario, poi le acceleravano o rallentavano. Anche tutti gli
assoli di chitarra li provavano al contrario e a volte li registravano in due versioni, “diritti” e al
contrario. Si pensi alle due chitarre in I’m only sleeping e i loop di batteria in Tomorrow never
knows. Ma non solo: iniziarono a mettere al contrario, o in loop, anche singole parti
dell’orchestra, alcune risate, parti di mellotron che emulavano violino o flauto, parti di sitar, o
semplici scale o frammenti di riff. La quarta innovazione fu applicata alla voce di John Lennon
che, nel disco, veniva raddoppiata o veniva passata attraverso uno speaker Leslie di un
Hammond. Per “Tomorrow never knows”, Lennon voleva che la sua voce sembrasse quella del
Dalai Lama che pregasse da dietro una collina, con l’idea che la voce arrivasse da lontano e
non si vedesse chi stava parlando. Eco e reverbero tradizionali non avrebbero funzionato:
occorreva qualcosa di strano e metallico, e fu fatto appunto in studio con un Leslie e altri
trucchi rivoluzionari per l’epoca.
Circa il titolo, “Revolver”, sembra che abbia avuto origine guardando un disco di vinile girare,
ma ovviamente i vari possibili sensi futuri piacevano molto al gruppo, essendo un termine
ambiguo. Il titolo che avevano pensato di utilizzare prima di Revolver era “Abracadabra”.
Come si diceva, il rapporto con le droghe è importante per l’album, e nel brano “Tomorrow
never knows” lo si nota in maniera particolare. I Beatles rivelarono esplicitamente al mondo la
loro scoperta dell’LSD. Contemporaneamente con questo disco Paul McCartney si rivelò come
un grande scrittore di ballads con tre brani stellari: “Eleanor Rigby”, “For No One” e “Here,
there and everywhere”.
“Eleanor Rigby” fu basata su un ottetto d’archi, e ispirata alle musiche dei film di Truffaut
(alcuni dicono anche alla musica di Psyco). Furono registrati gli archi senza quasi reverbero
ambientale, ma con una tecnica microfonica che cercò di riprendere solo il suono delle corde,
dando un tono secco, asciutto. Anche degli ottoni, in alcuni casi, furono registrati in questo
modo in altri brani, ponendo i microfoni quasi “dentro” gli strumenti.
Per capire che mesi (e anni) incredibili fossero quelli di cui stiamo parlando, si noti che “Pet
Sounds”, “Revolver” e “Sgt. Pepper’s” furono rilasciati nel giro di 15 mesi - i due dei Beatles a
distanza di dieci mesi – e sono considerati da molti i tre album migliori di tutti i tempi, portatori di
un nuovo modo di fare musica e della psichedelia. Tutti sperimentarono da allora con tecniche
di registrazione, compositive e droga.
Gli album dei Beatles uscivano in una versione inglese e in una versione diversa negli Stati
Uniti, con meno brani e sequenze differenti. Revolver arrivò negli USA nella forma originale solo
nel 1987 con la versione in Cd.
Fonti da cui ho preso le informazioni riportate sopra: recensioni su Rockol (di Franco Zanetti),
PepperLand (di Luca Bagni), Ray Davies, The Beatles Bible, BBC Music (di Daryl Easlea),
Rolling Stone, The Music Court, Classic Rock Review, Pitchfork (di Scott Plagenhoef), The
Telegraph (di Neil McCormick).
I 14 brani (e da 1 a 5 asterischi di giudizio a seconda dei miei gusti…)
Ho ascoltato, il mese scorso, diverse volte l’album. Indipendentemente dal valore artistico, mi
sono permesso di stilare una breve descrizione e una sorta di “giudizio” per ogni brano che è
basato esclusivamente sul mio modo di “sentire” le canzoni.
#1 Taxman (mio giudizio: **)
Il testo non mi entusiasma: forse per l’epoca era “ardito” e politicamente connotato e schierato,
con anche i coretti con i cognomi dei politici che avevano portato a un livello di tassazione
simile in Regno Unito. È ironico, certo, anche con il riferimento alla tassazione dei morti che
devono dichiarare i penny che hanno sugli occhi (“Now my advice for those who die / Declare
the pennies on your eyes” è la frase più bella della canzone, forse dovuta a John Lennon), una
sorta di riferimento alla tradizione religiosa/mistica. Il testo e la musica sono di George Harrison,
che ottiene l’onore del brano di apertura del disco. È un brano molto rassicurante per
l’ascoltatore che già conosceva i Beatles, apre l’album con uno stile dei Beatles tipico, chitarre
acide e atmosfera rock alla swingin’ London. Lo spunto sembra che sia stato una tassa del
95% sui guadagni che i Beatles dovettero pagare quando diventarono famosi. Mi è piaciuta la
chitarra molto acida, con il fuzz, e un lavoro molto raffinato con i cori e le voci, che cercano di
far immaginare all’ascoltatore la “terribile” figura dell’esattore, anche se il tutto sembra un po’
paranoico. L’assolo sembra disordinato, ma in realtà serve secondo me a dare il senso di
urgenza, di fastidio e di paura. Ovviamente la cosa che viene in mente al primo ascolto è la
sigla di Batman, la serie televisiva anni Sessanta, tanto che si potrebbe tranquillamente
sostituire Batmaaaan a Taxmaaan.
#2 Eleanor Rigby (mio giudizio: *****)
La canzone della solitudine, dove nessun Beatles suona ma ci sono solo archi e parole. Il testo
è inquietante per essere stato incluso in un disco pop. Apre una prospettiva differente rispetto
alla precedente canzone: molte parole, un testo più articolato e un arrangiamento raffinato ma
incalzante. La canzone parla di storie di persone più o meno di fantasia, è molto legata allo stile
e alla sensibilità di Paul McCartney ma anche all’idea della vita da anziani, e di qualcuno che
muore nel modo peggiore, con nessuno se ne accorge. È sicuramente la mia canzone preferita
dell’album, un testo bellissimo che sembra quasi un dipinto per immagini e tutto l’essenziale, ma
nulla di più, per farne un capolavoro.
#3 I’m only sleepin (mio giudizio: ****)
Cambia ancora atmosfera nell’album con una canzone che solo a prima “vista” può sembrare
banale, perché è sulla pigrizia di John Lennon. Il brano ha atmosfere più rilassate e rarefatte
dei precedenti e si sente bene la chitarra acustica. Appaiono i primi effetti di chitarra registrata
su nastro che va al contrario. Il rapporto di John Lennon con il letto, e i bed-in successivi che
fece con Yoko Ono come modo per protestare, sembrano temi banali ma in realtà questo
brano ha un suo fascino ben più profondo. L’assolo è di George Harrison, che era intrigato
dell’idea di suonarlo al contrario. Ho trovato la canzone bellissima, molto hippy e psichedelica,
stupende le frasi “keeping an eye on the world going by my window” e “I think they are crazy”,
dove “they” è proprio quel mondo che guarda John Lennon passare le giornate a letto e che
non c’entra niente con la sua vita. C’è, in sottofondo, anche l’idea che andare veloci (speed)
nella vita quando non c’è bisogno sia inutile e dannoso: un inno anche alla slow life, insomma.
Cominciano ad apparire i primi chiari riferimenti ai sogni e alla droga (“I’m miles away”), ed è il
primo brano realmente psichedelico dell’album. Sicuramente uno dei miei brani preferiti.
#4 Love you to (mio giudizio: ***)
Qui c’è un inizio tipicamente indiano, con il sitar che crea atmosfera e che farà anche un
assolo. La canzone è di George Harrison: parla della vita troppo breve che sfugge, e allora
l’autore propone di cantare e fare l’amore tutto il giorno. A un certo punto il brano diventa
orientale, tablas e sitar danno un’atmosfera indiana, anche in omaggio al suo idolo Ravi
Shankar che diventerà suo maestro anche sui temi della cultura e religione indiana, e non solo
nel sitar. Ascoltandolo si nota che è un brano che ha un incedere molto forte. Si noti che il titolo
non ha senso, sembra un errore volontario, dal momento che il testo dice “Love to you”.
#5 Here, there and everywhere (mio giudizio: *****)
Stupenda ballad tipica di quegli anni, un po’ Motown e un po’ con i cori alla Beach Boys.
Dolcissima e delicata. Una canzone d’amore dedicata a una donna con i suoi capelli, i suoi
occhi e lo stare insieme come le tre immagini che rimangono all’ascolto. Una canzone perfetta.
Ad ascoltarla oggi richiama la California, gli Eagles (che, però, verranno almeno 5 anni dopo) e
i Beach Boys.
#6 Yellow Submarine (mio giudizio: ***)
Canzone che richiama le filastrocche dei bambini, le canzoni da campeggio da cantare in coro
e le marcette delle bande. Canta Ringo con tantissimi rumori di fondo: acqua che scorre, risate,
folla, come se fosse un Luna Park. Si sente la chitarra acustica, poi entra anche un corno
francese. La canzone diventa sempre più complessa man mano che procede, con cori e
sovrapposizioni. L’idea è quella di un sottomarino giallo che possa contenere tutti gli amici in
festa e che sarà ripreso in un film animato dei Beatles. Probabilmente è la canzone più nota
dell’album per chi si è avvicinato ai Beatles in maniera “tradizionale”, con l’ascolto dei brani più
famosi.
#7 She said she said (mio giudizio: **)
Si torna a chitarre acide distorte come in “Taxman”, col fuzz. Atmosfere più dilatate, e si sente
l’approccio acido di Lennon. Il testo è scuro: una ragazza dice di sapere come ci si sente da
morti, per poi passare al tema della tristezza e della pazzia. Sembra quasi un dialogo senza
senso, dove il ragazzo ricorda il passato e quando “tutto era buono” prima di farsi prendere
dalla paura della morte.
#8 Good day sunshine (mio giudizio: ***)
Torna l’allegria, in un brano (appunto) molto anni Sessanta, con albe, tramonti, mattine in cui
chi canta sta particolarmente bene, giornate soleggiate e persone innamorate, alberi che fanno
ombra sotto cui dormire e un amore sempre corrisposto. Un paradiso, insomma. Il pianoforte
tiene il ritmo e fa anche l’assolo. Incredibile è il cambio di atmosfera nei testi, che passano da
canzoni surreali e tristi come la precedente a questa esplosione di felicità. Leggevo che questa
canzone è utilizzata per dare la sveglia agli astronauti che vengono mandati in missione
spaziale lontano dalla terra (sembra che nel 2005 Paul McCartney l’abbia suonata e cantata
live in diretta “interstellare” per svegliare l’equipaggio della ISS, Stazione Spaziale
Internazionale). È la classica canzone per iniziare la giornata insomma. Piacevole, un po’
jazz/swing.
#9 And your bird can sing (mio giudizio: **)
Un riff di chitarra abbastanza distorto, ma la particolarità sono due chitarre che suonano
insieme. “Bird” significherebbe “ragazza” nello slang inglese. Le due chitarre armonizzate di
Harrison e McCartney hanno reso celebre questa canzone rock e allegra, molto trascinante.
Rimane molto legata alla tradizione del rock and roll, ma con tocchi originali.
#10 For no one (mio giudizio: ****)
Torna la dolcezza, in questo brano. Con un piano un po’ acido e un clavicordo che
accompagna il canto. In realtà il testo parla di una relazione complicata con una donna che
sembra voler fare tutto ciò che è il contrario di ciò che vorrebbe il suo uomo. Si sente anche qui
il corno francese. Il dialogo sentimentale che si svolge nella canzone è tristissimo: “lei non ha
più bisogno di te”, “occhi vuoti”, “nessun segno di amore”, “amore che finisce quando credevi
che sarebbe durato in eterno” e simili. L’atmosfera è bellissima, sembra barocca, richiama la
musica classica, di un altro tempo. Anche se la malinconia è il filo conduttore del brano, è un
capolavoro.
#11 Doctor Robert (mio giudizio: **)
Tornano le chitarre acide in un brano rock con chiari riferimenti alle droghe e a un fantomatico
“Doctor Robert”, un medico al servizio delle star che avrebbe tutto ciò che “serve per stare
bene”. Pezzo molto rock di quegli anni Cinquanta e Sessanta. Si noti che musicalmente ci sono
due espedienti per far sì che sembri un trip di LSD: la voce di John Lennon trattata
raddoppiandola e mandandola un po’ fuori fase, e un cambio di tonalità nel bridge che
disorienta, e punta a dare l’effetto di un cambio di sensazione all’ascoltatore.
#12 I want to tell you (mio giudizio: ***)
Canzone di George Harrison con atmosfera di nuovo diversa, un incedere solenne sin
dall’inizio. Accordi dissonanti per far capire all’ascoltatore la difficoltà nel comunicare. È un
testo su un tema molto complesso, l’incapacità di parlare e di relazionarsi e la morte del
dialogo, un tema affascinantissimo.
#13 Got to get into my life (mio giudizio: ***)
Sembra che sia una canzone sulla marijuana e sulla voglia di fumare, scritta da Paul
McCartney. Vengono usati gli ottoni in uno stile Motown, con sax e trombe. Parla di “viaggi” in
uno stile musicale molto bello e allegro, con affascinanti cori. Le chitarre si sentono pianissimo,
nel chorus in sottofondo, ed escono nel finale. All’ascolto mi è rimasto in mente il ritornello,
davvero potente e azzeccato, e il ritmo, che dà una carica non indifferente. È un brano molto
nella tradizione dei Beatles.
#14 Tomorrow never knows (mio giudizio: ****)
Come dicevo, si tratta del brano più sperimentale e folle dell’album in quanto è il tentativo di
riprodurre in musica un viaggio da assunzione di LSD. Il testo è oscuro e a volte sembra
(volontariamente) farneticante, con riferimenti al Libro Tibetano dei Morti, un testo classico del
buddismo tibetano. All’ascolto si sente di tutto: loop di batteria, reverse, brevi riff acidi di
chitarra, la voce di Lennon filtrata da un Leslie per dare l’idea della preghiera che giunge da
una collina. Tutti e quattro i Beatles danno il loro contributo al caos globale con suoni e rumori.
Un solo accordo in tutto il brano cerca di dare l’idea dell’ipnosi e della staticità della musica
orientale in quello che sembra un antesignano del rock psichedelico. È il punto più alto
sperimentale, e una degna chiusura di un album di rottura, ma fu anche una grande
responsabilità sociale: presentava l’LSD agli europei. Ascoltato oggi è ancora interessante,
soprattutto se uno pensa alle risorse tecniche disponibili allora e alla creatività che è stata
messa in campo. Certo, ascoltato a metà degli anni Sessanta l’effetto doveva essere
dirompente. Io l’ho trovato affascinante come esperimento ma anche come riferimenti culturali
alla spiritualità. “But listen to the colour of your dreams” è la frase che mi è piaciuta di più.
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