Esoterismo e alchimia fra arte e grafica nell`opera di Salvator
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Esoterismo e alchimia fra arte e grafica nell`opera di Salvator
Esoterismo e alchimia fra arte e grafica nell’opera di Salvator Rosa Claudio Bonvecchio Salvator Rosa è stato un grande interprete del gusto, dell’arte, dello stile, dei dubbi, delle ansie e delle problematiche del Seicento. Il suo carattere precipuo – presente in tutta la sua vasta produzione e perfettamente coerente con lo spirito di un’epoca, che pure contesterà – è contrassegnato da uno strabiliante eclettismo. Eclettismo che, per molti aspetti, è lo specchio delle anime sensibili e tormentate di un secolo che cercava, negli arabeschi, nelle volute, nel preziosismo e nel manierismo una linearità che nessun razionalismo – tanto meno quello cartesiano – era in grado di offrire: sia sul “mercato” della conoscenza che su quello della vita. In Salvator Rosa questa tensione – irrisolta – si manifesta con una straordinaria espressività1, sorretta da una non comune cultura. Così, lo si può catalogare come un raffinato incisore, come un pittore di altissima (e discussa) qualità, ma anche come poeta satirico: lo testimoniano Le Satire, sette componimenti scritti in terzine e pubblicati postumi, anche se conosciuti e (per altro) criticati non poco dai suoi contemporanei. In essi il Rosa poeta pone la sua attenzione – sorta dal suo “cervel bisbetico”, come lo definisce ironicamente – sulla musica, sulla poesia e sull’invidia che critica con piglio ironico, impietoso, spesso crudo, al limite della volgarità e, talora, persino violento. E non manca di indirizzare i suoi strali sulla guerra, di cui denuncia la futilità, la stupidità e il dolore che arreca agli uomini. Allo stesso modo – nella Sesta (La Babilonia) – non esita a scagliarsi contro i vizi, i difetti, la brama di ricchezze, la cupidigia del potere, da cui non assolve nessuno: potenti, vescovi e porporati compresi. Ma di particolare interesse è la Terza Satira2, in cui “flagella” La Pittura “oscurata” – a suo dire – dagli “artefici” suoi contemporanei: unicamente proni alle esigenze di mercato, ma poveri di vera ispirazione. In questa Satira, Rosa – riferendosi al suo come a un secolo “vòto d’ogni valor, pien d’ogni orgoglio” – evoca paesaggi corruschi e cupe atmosfere che sembra, quasi, contrapporre a coloro che dipingono “tutt’il dì zucche e preciutti, / rami, padelle, pentole e tappeti, / uccelli, pesci, erbaggi e fiori e/ frutti” (vv. 193-194) o, al più, scene della vita quotidiana: quali “facchini, monelli e tagliaborse” (v. 237) e altro ancora. A questa pittura, decorativa ma “sordida e plebea” (v. 284), egli contrappone una pittura altra, il cui spirito – “vidi un fantasma in disusato aspetto” (v. 32) – sembra comparirgli dinanzi, in una sembianza che ricorda da vicino le cupe e anche allucinate immagini di molti dei suoi quadri. È la Pittura una donna maestosa, “giovin di viso, antica d’anni” (v. 35), che – richiamandosi nell’abito e nella positura3 alle esoteriche atmosfere egizie, introdotte dal (quasi) coevo gesuita e dotto esoterista Athanasius Kircher4 – lo invita a “essere diverso” e a riprendere e rimproverare coloro che “oscurano” “il più chiaro mestier che si professi:/ parlo dell’arte tua, de la Pittura” (vv. 81-82). Ma questa apparizione – che suscita sdegno e fa “avvampare” Salvator Rosa – ha anche il potere di produrre in 10 lui una sorta di alchemica mutazione. È la metabasis che lo induce a porre in essere ciò che potremmo considerare una sorta di “manifesto” – ma il termine, data l’epoca, è sicuramente improprio – dell’arte esoterica, o meglio del valore esoterico dell’arte, secondo cui il pittore “non dipinge sol quel ch’è visibile/ ma necessario è che talvolta additi/ tutto quel ch’è incorporeo e ch’è/ possibile” (vv. 172-175). In questo contesto, la pittura appare come una sorta di aqua divina o permanens che – magicamente estratta dal lapis philosophorum – nell’alchimia dell’arte rivela la presenza dell’Anima Mundi: ossia di ciò che, rappresentando la totalità, può essere, per l’uomo, lo strumento con cui raggiungerla personalmente. Ma sarebbe anche – e qui la suggestione alchemica si sovrappone direttamente all’esperienza di Salvator Rosa – una porta particolare: una sorta di “porta alchemica”, come quella che potrebbe alludere alla frequentazione (esoterica) con il marchese Massimiliano Palombara. Che era un celebre alchimista e animatore di un cenacolo di ermetisti – come Borri, Santinelli, Kircher – a cui, probabilmente, partecipava anche lo stesso Rosa. E Massimiliano Palombara è ricordato proprio per aver edificato – a quanto si dice, dopo la morte di Rosa – una porta detta “alchemica”, tuttora esistente in Roma. Secondo la “vulgata” esoterica per questa porta sarebbe passato – dopo una notte trascorsa a cercare nei giardini della villa una misteriosa erba utile al processo alchemico – proprio l’alchimista Francesco Giustiniano Bono, il quale avrebbe lasciato epigrafi e simboli, in cui sarebbe contenuto il magnum secretum dell’aurum non vulgi sed philosphi. Queste epigrafi e questi simboli – che rimandano all’Aureum Seculum Redivivum dell’esoterista Henricus Madatanus – furono (e sono tuttora) incisi sulla “porta alchemica” come viatico per coloro che ambiscono addentrarsi nei misteri più profondi della natura: sia humana che naturans. Tra queste epigrafi una, particolarmente, si avvicina – seppur indirettamente – alla sensibilità pittorica e allo stile poetico di Salvator Rosa cui, già, si è fatto riferimento. Afferma che: “Villae ianuam tranando recludens Iàson obtinet locuples vellus Medeae”5. Applicato all’alchimia dell’arte, significa che il pittore, varcando anch’egli una soglia iniziatica6, deve trasformarsi, tramite “il suo fare”, in “mistico” pellegrino per ricercare costantemente – come i Rosa+Croce di cui nel Seicento tutti (Cartesio compreso) ne favoleggiavano (e ne cercavano) l’esistenza – un senso e un significato più profondi: spesso celati ai più. Un senso quantomeno celato a coloro che non credevano (e non credono) nell’arte come medium esoterico: come una via “regia”, alchemica, per giungere al nocciolo più profondo della tradizione: al “Centro”, come lo chiamano sia Guénon che Elémire Zolla. Certo, Salvator Rosa non era il solo a pensarla così. Un secolo prima incontriamo un altrettanto importante e luminoso esempio di stretta connessione tra pittura ed esoterismo in Dürer7. Basta considerare la celebre tavola detta la Melancholia8, dove su uno sfondo, reso tragico dal cielo oscurato e dall’immagine del pipistrello9, la figura di una donna alata rappresenta una sintesi figurativa tra la Geometria, come facoltà mentale creativa (di cui ostenta tutti i simboli, quali il compasso, la squadra, il martello, eccetera) e la “Melancholia”. Essa è l’immagine terrificante di una determinazione distruttiva dello spirito10 che, con la cupa depressione che trasmette l’immagine, costruisce una sorta di “oscurità creatrice” 12 Scena di stregoneria Scene of Witchcraft, circa 1646. Firenze, Galleria Corsini in cui la sfera magica – presente nella parte superiore dell’incisione – si contrappone a quella inferiore, occupata dagli strumenti geometrici. Tale contrapposizione riafferma la presenza di un universo simbolico-magico – oscuro perché originario – che, nel momento in cui inizia, nel Cinquecento, il processo razionalistico di estraneazione del Sacro nella forma della fede cristiana, mostra la sua forza archetipica11: la sua ineliminabile presenza. Lo provano, nell’opera, le immagini di alcuni potenti archetipi quali la torre, il mare, la scala, l’arcobaleno e la cometa che – grazie alla pittura – segnalano la presenza di una straordinaria forza mitica operante nel tratto del pittore. Questa tensione dell’artefice (il pittore) – quasi maestro-iniziatore di un mondo altrimenti sconosciuto e inconoscibile – lo si percepisce allo stesso modo in Salvator Rosa. Basta considerare uno dei suoi celebri, e dürerianamente melanconici, autoritratti: quello del 1641. In esso l’immagine figurativa – i cui occhi penetranti sembrano alludere a cose segrete e velate (come il cielo che fa da sfondo al ritratto) – si sposa con il cartiglio che l’artista regge e che dell’opera sembra la prosecuzione e il compimento. Infatti, la frase che vi è scritta – “Aut tacere aut loquere meliora silentio”12 – ricorda da vicino uno dei tanti acrostici, alchemici o magici, a carattere sapienziale che non si possono disattendere, se si vuole essere iniziati alla prisca philosophia: uno dei tanti e più famosi nomi dati alla magia naturalis, rinascimentale e secentesca. D’altronde, solo nel silenzio l’iniziato – così come avviene per il mago/filosofo – può trovare il l’affascinante reticolo in cui gli si sveleranno i misteriosi segreti del mondo e dell’animo (della psiche) umano. Solo nel silenzio – di cui, in realtà, nulla è migliore – si può percepire l’ermetica Anima Mundi13 e l’armonia delle sfere in cui si manifesta il ritmo cosmico: come afferma Marsilio Ficino14. E la medesima tensione esoterica compare, anche, in un altro autoritratto – del 1647, altrettanto famoso – in cui il pittore si raffigura, sempre su uno sfondo corrusco, come un iniziato che scrive, su di un teschio che stringe tra le mani, un segno che potrebbe essere quello di un alfabeto segreto. Un alfabeto che, a sua volta, sembrerebbe rimandare a quella ricerca degli arcani della natura cui fa riferimento lo stesso Salvator Rosa15 e che lo rende simile alla figura del mago, quale traspare nelle più celebri opere rinascimentali sulla magia: come La filosofia occulta o la magia di Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim16 o la Magia naturale17 di Giambattista Della Porta. Opere che, certamente, Salvator Rosa ebbe modo di leggere, di conoscere se non – persino – di praticare. Come era, per altro, costume e sensibilità dell’epoca. Ma emblematico è anche – per il cammino esoterico che l’Iniziato deve percorrere – il superamento della simulazione. Bisogna, insomma che il filosofo (ma anche il mago e, sicuramente, l’illuminato) – come è esplicitato nel dipinto La Menzogna, datato tra il 1640 e il 1649 – osi strappare la maschera che gli vela il viso18. Maschera che impedisce all’uomo (e all’artista-mago) di vedere il mondo e se stesso come realmente sono: “Eripitur persona manet res”19, secondo la parola sapienziale del poeta Lucrezio. “Strapparsi la maschera” è l’unica strada percorribile per poter accostarsi a ciò che altrimenti non è accostabile. Questo è lo sguardo con cui comprendere la realtà: in tutta la sua complessità simbolica e in tutta la sua abissale profondità. Questo è ciò che si richiede a chi voglia accedere al mondo della magia: come insegnano Cornelio Agrippa, Della Porta, Paracel14 Scena con streghe: mattino Scene with Witches: Morning, 1645-1649. Cleveland, Cleveland Museum of Art Scena con streghe: giorno Scene with Witches: Day, 1645-1649. Cleveland, Cleveland Museum of Art so e Tritemius, ma anche Giordano Bruno, i cui simboli magici – inscritti nella famosa (e già citata) “porta alchemica” romana – troviamo nel suo Articuli adversus mathematicos, del 158820. Ed è proprio su questa via che intende incamminarsi Salvator Rosa che, tuttavia, non si accontenta di fare emergere gli aspetti più stranianti (e misteriosi) della natura, ritraendo paesaggi – spesso colti nel momento del tramonto – inospitali e selvaggi, panorami cupi e rocciosi, dominati da torri, montagne e brandelli di alberi che ricordano da vicino le contorsioni barocche. Vuole piuttosto, per il tramite della loro immagine, significare i tormenti dello spirito di chi – proprio perché ha iniziato un percorso “silenzioso” e interiore – vuole pervenire al nocciolo profondo, al nocciolo veritativo: “Noli foras ire, inte ipsum red,i in interiore homine habitat veritas”, scriveva sant’Agostino21. Va da sé che in questa ricerca dell’interiorità – profonda e tormentata, e non certo aliena dall’attrazione per l’eccessivo – Salvator Rosa non poteva evitare di incontrare e raffigurare l’oscurità, rappresentata dall’Ombra22. Quella che, nell’alchimia, è l’Umbra Solis e che, nella psicologia del profondo, è quanto, venendo rimosso, ritorna come un cupo fantasma a disturbare i mortali. Ma, soprattutto, è ciò di cui gli uomini hanno paura, di cui rifiutano di prendere coscienza e che evitano di integrare nel proprio vissuto: con il risultato di creare – proprio per questo – i demoni e gli incubi più spaventosi. Sono gli incubi e i demoni che li inquietano e li terrorizzano e che, per esorcizzarne la potenza, tentano di oggettivare: sia nelle azioni sia nelle immagini. Questo incontro con l’Ombra sarà tipico e caratteristico delle anime più sensibili che – in un secolo come il Seicento – vivevano in maniera angosciata le seduzioni della carne (ereditate dal neopaganesimo rinascimentale), le inquietudini dello spirito e le incertezze del sapere. Tormenti ed estasi in cui la presenza, sempre più lontana, del divino si trasformava – auspice la “galoppante” secolarizzazione – nei cieli barocchi delle sontuose cattedrali o nei deliri anamorfotici di formali metamorfosi del Sacro. Oppure, in visioni macabre in cui la morte, ammiccando dai superbi sarcofagi di papi, re, vescovi e principi o dai decori ossei delle cripte, sembrava attendere, come un insidioso animale dell’eterno, la sua immancabile preda mortale. Una preda che annegava nell’estetismo, portato all’estremo, l’insicurezza per la perdita progressiva del Sacro con le sue, conseguenti, paure: le sue Ombre. Erano tormenti ed estasi – vissuti come Ombre – che prendevano corpo nelle orrifiche (ed erotiche) immagini stregoniche, in cui donne ignude e scarmigliate ed esseri mostruosi sembravano ricercare, nelle abiezioni del Sabba e nelle ritualità demoniache, una totalità irrimediabilmente perduta e drammaticamente sofferta. A questa sensibilità per le scienze esoteriche – sicuramente coltivata da Salvator Rosa nel suo soggiorno fiorentino, durante il quale era largamente diffuso il Corpus Hermeticum, la cui traduzione era stata voluta da Cosimo de Medici e portata a termine da Marsilio Ficino nel 146323 – si univa, sicuramente, l’interesse, la curiosità (e, forse, la scommessa) di poter dare un volto agli aspetti più tenebrosi dell’Ombra. Di qui l’intento e lo sforzo creativo di raffigurare, per l’appunto, la stregoneria e quello che realmente poteva significare per l’uomo del Seicento. Vanno in questa direzione alcune sue opere particolarmente significative e tipiche del suo soggiorno fiorentino e non solo24: come 16 Scena di stregoneria, Streghe e incantesimi, La strega, e Le tentazioni di sant’Antonio. Ma proprio sulla stregoneria è il caso di soffermarsi, brevemente, per comprendere meglio lo spirito che anima Salvator Rosa nelle descrizioni così precise e minute da far sembrare, quasi, che l’autore stesso abbia partecipato alla ritualità stregonica o, quanto meno, sia stato accanto agli inquisitori, raccogliendo le testimonianze degli inquisiti per fatti di stregoneria. Infatti, nei suoi dipinti appaiono – su sfondi che rimandano alle classiche raffigurazioni del Sabba e delle evocazioni negromantiche descritte dai testi magici – una o più laide megere, spesso androgine, nude e intente a utilizzare parti di cadavere, individui dall’aspetto ambiguo, ossa, feti di bambini, scheletri, impiccati, fiaccole accese, bacchette magiche, animali immaginari, mostruosi, scheletrici e contorti (che anticipano quelle non meno visionarie di Salvator Dalí) e altri oggetti atti alle evocazioni di morti e di diavoli: come candele e formule magiche scritte su di un satanico grimoire (il libro dei rituali magici, usato da streghe e stregoni). Tuttavia, e non a caso, il centro dell’interesse di Salvator Rosa – oltre che sulla scena atta a épater les hommes – è rivolto sul corpo, il corpo della strega, in cui si materializza l’Ombra di un secolo che, più di ogni altro, ha situato nel corpo la tensione, portata all’estremo, tra passione ed elevazione, tra il demone del desiderio e il Dio (oramai lontano) dello spirito. Al pari di Salvator Rosa, angosciati dalla corporeità, soprattutto da quella femminile, sono testimoni di questa tensione gli austeri e ascetici inquisitori, di cui Rosa mostra di conoscere perfettamente i manuali e le istruzioni. Questi mostrano, nelle loro procedure d’indagine e nei loro deliri sessuofobici, una fantasia erotica che rasenta il grottesco, facendo del corpo non più un templum dei, bensì la manifestazione del diabolico. “Che cosa bisogna pensare”, scrivono i domenicani Heinrich Krämer e Jacob Sprenger, “di quelle streghe che raccolgono membri virili, talora anche in numeri considerevoli, anche venti o trenta, e li mettono nei nidi degli uccelli o in uno scrigno, in cui essi si muovono come membri vivi, mangiando avena o altre cose come è stato visto fare da molti e come comunemente corre voce?”25. A differenza dei primi manuali inquisitoriali, dove il punto focale era centrato sulla lotta alle eresie – come quello, celebre, di Bernard Gui26 – e solo marginalmente sul demonio e sul corpo dei suoi adepti, particolarmente nel Seicento, l’interesse si appunterà, invece, su Satana, sulle streghe e sulla corporeità: che rimanda, indirettamente, alla loro depravata sessualità e a quella di un’umanità peccaminosa. Cosa questa che appare, sino al limite del laido e del grottesco, nelle opere di Salvator Rosa: quasi fosse uno spaccato della menti inquisitoriali traslate in forma pittorica. Lo dimostra la minuta descrizione degli orrifici dettagli corporei della strega, in cui si materializzano – ingigantiti a dismisura e resi diabolici – le ansie e i travagli per una corporeità che il Seicento temeva di vivere per ciò che era; una corporeità che, in quanto desiderante, non poteva che essere segnata dal marchio, oscuro, del peccato, dal marchio oscuro di Satana27. E, infatti, negli interrogatori inquisitoriali il corpo discinto o nudo della strega – disprezzato, brutalizzato e orrido, per definizione – è oggetto di minuziose investigazioni, volte alla ricerca di segni che denuncino l’avvenuto patto demoniaco. Oppure – durante le frequenti torture – si presenta come l’oggetto di sadica contemplazione28. Tutto ciò mostrava sia come la l’Ombra della corporeità negata generasse pulsioni sadi18 Tentazione di sant’Antonio Temptation of St. Anthony, circa 1645. Firenze, Palazzo Pitti che, ma mostrava, anche, l’ansia spasmodica di sincerarsi – utilizzando, inconsciamente, proprio l’Ombra della corporeità – l’esistenza reale del diavolo. Indicava il bisogno di provare indiscutibilmente – tramite la realtà del demonio incarnato in un corpo – l’esistenza di un Dio sempre più estraneo dalla vita degli uomini e, oramai, difficile da accertare per via razionale: come la già citata secolarizzazione sembrava mostrare29. Insomma, il corpo – negato in quanto demonico – si presentava come l’unica prova possibile per rendere reale la presenza di un Dio, nostalgicamente lontano e inconsciamente perduto. Ma con ciò veniva decretata – senza volerlo e senza saperlo – l’assoluta priorità del corporeo sullo spirituale, precipitando ulteriormente l’uomo del Seicento in una contraddizione, sempre più insanabile, tra l’umano e il divino. In qualche modo, Salvator Rosa sembra rendersi conto di questa contraddizione che – se motiva la sua ispirazione artistica – gli avrebbe potuto far correre il rischio di precipitare nella disperazione o nel vuoto estetismo vieto come remedium omnium malorum. Ma ciò non avviene. Infatti – nel secentesco gusto dell’eccesso che pure lo contraddistingue – inserisce una larvata ironia. Essa fa ipotizzare che in lui, uomo geniale e tormentato, la verità non si esaurisca in un sofisticato “estetismo” dell’Ombra – in una sovrabbondanza in grado di far dimenticare l’essenziale in nome del formale – ma vada oltre. Vada nella direzione di ricercare nel mondo stregonico – che ritraeva con tanta acribia e da cui, certamente, era affascinato – o nei tortuosi meandri della ricerca esoterica, o nelle suggestioni immaginifiche dalla scienza alchemica, qualcosa di assoluto e di totale. Probabilmente voleva trovare, quanto meno, uno spiraglio, una porta che – come nei sogni dei più saggi alchimisti – lo introducesse nell’Unus Mundus: il meraviglioso mondo delle origini, il “mondo potenziale del primo giorno della creazione” cui fa riferimento il grande alchimista Gherardus Dorneus. Un Mundus in cui la raggiunta totalità sia in grado di conciliare, in una concreta complexio oppositorum, lo spirituale e il materiale, il divino e l’umano, l’uomo e il proprio sé interiore30. E dove l’uomo avrebbe potuto colmare, in una dimensione finalmente unitaria, quel tormento e quell’estasi che segnavano il suo secolo e qualsiasi spirito veramente libero: come quello di Salvator Rosa. Cfr. Salvator Rosa e il suo tempo 1615-1673, a cura di S. Ebert-Schiffer, H. Langdon, C. Volpi, Campisano, Roma 2010. 2 Cfr. S. Rosa, La Pittura, in Satire, a cura di D. Romei, Mursia, Milano 1995. 3 “Parea che il sol negl’occhi avesse/ accolto, e superbo splendea in mezzo a l’iride/ d’attorcigliati bissi il capo avvolto;/ d’Isi nel tempio, là dentro a Busiride,/ con simil benda il crine adorna e/ stringe/ l’antica Egitto al favoloso Osiride” (Satire cit., vv. 4-45). 4 Il famoso e dottissimo gesuita tedesco Athanasius Kircher – la cui vita percorrerà tutto il Seicento, durante il quale sarà conosciuto per il suo multiforme, 1 20 enciclopedico (e per molti aspetti rinascimentale) ingegno – si accosterà in chiave simbolica e in una prospettiva magico-esoterica al mondo egizio, tentando, per primo, la decrittazione della scrittura geroglifica. Scrittura che gli sembra la più qualificata per adire al “misterioso” mondo della religione, ma anche per sottolineare la potenza, per l’appunto, del simbolo e della spiritualità che confina con l’alchimia spirituale (cfr. una delle sue opere più celebri, ricca di illustrazioni e di diagrammi, Athanasii Kircheri e Soc. Iesu, Oedipus Aegyptiacus. Hoc est Vniuersalis Hieroglyphicae Veterum doctrinae temporum iniuria abolitae instauratio. Opus ex omni orientalium doctrina & sapientia conditum, nec non viginti diuersarum linguarum authoritate stabilitum, ex typographia Vitalis Mascardi, Roma 1652-1654). 5 “Oltrepassando la porta di questa villa, lo scopritore Giasone ottiene vello di Medea in gran copia”. Nel linguaggio allusivo dell’alchimia, evidente è la metafora secondo cui l’alchimista, al pari di Giasone, deve peregrinare alla ricerca dell’oro, simboleggiato dal vello di Medea. 6 Cfr, sul valore iniziatico della soglia, C. Bonvecchio, La sfida della soglia, in Eranos Yearbook. Dopo i Maestri spazi senza soglie, a cura di F. Merlini, R. Bernardini, Daimon Verlag, Einsielden 2014, pp. 41-78. Albrecht Dürer (Norimberga, 1471-1528) fu – non differentemente da quello che sarà Rosa un secolo dopo – un grandissimo pittore e incisore, un altrettanto grande intellettuale e uno studioso della tradizione esoterica. Cfr. L’incantesimo di Circe. Temi di magia nella pittura da Dosso Dossi a Salvator Rosa, a cura di S. Macioce, Logart Presse, Roma 2004. 8 La Melancolia è parte del trittico chiamato Meisterstiche, composto – oltre che dalla già citata Melancholia, da Il Cavaliere la Morte e il Diavolo e da San Girolamo. Queste incisioni sono state interpretate sia come la forma grafica delle tre forme di vita contemplate dalla teologia, sia come le tre tipologie della Virtù, e anche come le tre vie della Salvezza o Salus animae. 9 Il pipistrello – volatile ambiguo e ambivalente (creatura uranica e ctonia insieme) – nel mondo occidentale è associato alle tenebre, alla stregoneria, alla magia nera e al demonio, di cui è considerato l’incarnazione. 10 R. Klibanski, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, trad. it., Einaudi, Torino 19832, p. 287. 11 Archetipo – o “immagine primordiale” – è, secondo Jung, “l’intuizione che l’istinto ha di se stesso o come autoraffigurazione dell’istinto” (C.G. Jung, Istinto e inconscio, in Opere, vol. VIII, trad. it., Boringhieri, Torino 1994, p. 154, e più in generale Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in Opere cit., vol. IX, t. I, passim., mentre sull’archetipo in Jung, J. Jacobi, La psicologia di C. G. Jung, trad. it., Boringhieri, Torino 1973, p. 57 sgg.). L’archetipo è preconscio, riguarda i singoli e le collettività, viene colto solo tramite il linguaggio simbolico ed è un modello di comportamento a priori (cfr. C.G. Jung, Saggio di interpretazione psicologica del dogma della Trinità, in Opere, vol. XI, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 149, nota 1). Per i suoi caratteri costitutivi, è estraneo a ogni regola del pensiero logico-scientifico. Secondo Durand, può essere sia “diurno” – la dimensione maschile, paterna e solare – che “notturno” (la dimensione femminile, uroborica e materna) (cfr. G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, trad. it., Dedalo, Bari 1972). In quanto notturno, può assumere una connotazione orrifica e demonica. 12 “Taci o dì qualcosa che sia migliore del silenzio». 13 Per Anima Mundi si intendeva – o meglio così inten7 22 devano i neoplatonici – la natura vivente, concepita come un principio a se stante da cui tutto prendeva origine (cfr. Anima Mundi, in R. Broxton Onians, Le origini del pensiero europeo. Intorno al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino, a cura di R. Perilli, Adelphi, Milano 2011). 14 Cfr. Marsilio Ficino, De vita coelitus comparanda 1. 15 “E non solo i pittori eran poeti,/ ma filosofi grandi, e fur demoni/ nel cercar di natura i gran segreti” (S. Rosa, La Invidia, in Satire cit., vv. 655-657). 16 Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, La filosofia occulta o la magia, a cura di A. Fidi, studio introduttivo di A. Reghini, 2. voll., Edizioni Mediterranee, Roma 1983. 17 Giambattista Della Porta, La magia naturale : i segreti e le meraviglie della natura, trad.it., Giunti Demetra, Firenze 2008. 18 Sulla maschera e sul suo valore simbolico cfr. C. Bonvecchio, La maschera e l’uomo, Angeli, Milano 2002, cap. 1, pp. 14-40. 19 “Cade la maschera, rimane l’essenza” (Titus Lucretius Caro, De rerum natura, lib. III, v. 58). 20 Cfr. Giordano Bruno, Articuli adversus mathematicos, de duplici minimo et censura, a cura di F. Tocco, H. Vitelli Le Monnier, Firenze 1889. 21 “Non andare fuori di te, torna a te stesso, è nell’interiorità dell’uomo che si cela la verità” (Agostino, De vera religione, 39, 72). 22 Il tema delle Ombre, presenza costante – anche se a livello di rizoma nella storia e nel pensiero dell’Occidente – è stata indagata con particolare interesse dalla psicologia analitica e dal suo fondatore, Carl Gustav Jung. Secondo Jung, l’Ombra costituisce la parte inconscia della personalità, vuoi individuale vuoi collettiva, inoltre è ineliminabile (cfr. C.G. Jung, Psicologia e religione, in Opere cit., vol. XI, p. 82). Essa è una delle strutture portanti dell’inconscio collettivo nel suo stato nascente e la si può ritenere come l’eredità che l’uomo primitivo ha tramandato ai posteri. Questa eredità costituisce il patrimonio ontogenetico che l’uomo mantiene anche nei più avanzati livelli di coscienza (ivi). Il che ne motiva il carattere di presenza inquietante. L’Ombra, infatti, non venendo solitamente integrata nella coscienza, tende a oggettivarsi proiettandosi all’esterno in immagini: spesso coincidenti con persone (cfr. C.G. Jung, Coscienza, inconscio e individuazione, in Opere, vol. IX, t. I, trad. it., Boringhieri, Torino 19883, p. 276). L’attrazione per queste tematiche di Salvator Rosa è già presente nel periodo in cui soggiornò a Napoli e venne a contatto con autori come il nordico Jacob Swanenburg in cui il magico, l’onirico e l’esoterico si fondono in immagini, per molti aspetti, simili a quelle di Jeronimus Bosch (cfr. Influssi nordici nelle stregonerie di Salvator Rosa, in Salvator Rosa e il suo tempo cit., pp. 139-158). 24 Del suo ultimo periodo, detto romano, è il dipinto intitolato Lo spirito di Samuele evocato davanti a Saul dalla strega di Endor del 1668: riprova di un interesse, in realtà, mai venuto meno. 25 H. Krämer O.P., J. Sprenger O.P., Il martello delle streghe, trad. it., Marsilio, Venezia 1977, p. 218. 26 Cfr. Bernard Gui, Manuale dell’Inquisitore, commento di F. Cardini, trad. it., Gallone, Milano 1998. 27 Basta soffermarsi sulla descrizione – spontanea o estorta sotto tortura – di un Sabba per rendersi conto di questa drammatica e tormentata ipersessualizzazione: “il capro [Satana] condusse la sposa [la strega] lontano dalla turba e gettatala per terra la penetrò. Il coito fu sgradevole e senza piacere per la donna, come la stessa diceva, e con una sensazione di acuto dolore e di orrore, perché sentiva il seme del capro freddo come il ghiaccio” (Francesco Maria Guaccio, Trattato di demonologia, trad. it., Fratelli Melita Editori, Genova 1988, p. 67). 28 H. Krämer O.P., J. Sprenger O.P., Il martello delle streghe cit., p. 383 sgg. 29 Secolarizzazione è un termine – tipico del diritto canonico degli ultimi decenni del Cinquecento – che, originariamente, possiede una connotazione esclusivamente giuridica: significa, sostanzialmente, la riduzione di un religioso allo stato secolare. In seguito verrà ampliato sino a contraddistinguere un habitus ideologico e comportamentale. Cfr., in merito, G. Marramao, Cielo e terra. Genealogie della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 16, e anche H. Lübbe, La secolarizzazione: storia e analisi di un concetto, trad. it., Il Mulino, Bologna 1970; A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Giuffré, Milano 1970; F. Gogarten, Destino e speranza nell’epoca moderna. La secolarizzazione come problema teologico, trad. it., Morcelliana, Brescia 1972. 30 Cfr. Unus Mundus, in C.G. Jung, Mysterium coniunctionis, in Opere, vol. XIV, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 533 sgg. 23