La città era come un film di Tornatore

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La città era come un film di Tornatore
LA SPOLETO DEL 1956
La città era come
un film di Tornatore
di VINCENZO CEMENTI
SPOLETO -1 colori dell'estate, eccessivi, fin troppo mediterranei. I profumi del cibo, semplici e decisi. L'aroma inebriante dei tigli, delle ginestre. E poi la gente, timida sulle
prime, ma subito cordiale, schietta, generosa. E le ristrettezze economiche, indossate con dignitosa fierezza. E le
donne, quasi tutte con lo sguardo abbassato. Le meno giovani sempre vestite di nero. Vedove prima del tempo, con i capelli coperti da un fazzoletto scuro, mamme dallo sguardo
malinconico, mogli con i mariti lontani, emigrati all'estero.
E i bambini con gli occhi grandi, con indosso la camicetta del
fratello maggiore e i pantaloncini troppo corti. Erano come
quelle dell'entroterra palermitano di Giuseppe Tornatore,
come i paesi della campagna romagnola di Pupi Avati. Erano
quelli di Spoleto, nell ' estate del 19 5 6. Quando Menotti la vi de per la prima volta, avvolta nel suo preindustriale silenzio e pensò che quello era il posto
giusto. Per ambientarci il Festival. La città non
era solo "una principessa dormiente" come gli
era apparsa. La città dei Duchi, dei grandi Governatori papali, la città di Lucrezia Borgia, di papa
Maffeo Vincenzo Barberini, degli affreschi del
Lippi. La città, che con il suo colossale ponte/acquedotto di pietra aveva sconvolto Goethe, era
una città morente. Aveva vissuto "cent'anni di
solitudine", da quando, nel 1860, aveva perso
l'egemonia istituzionale sull'Umbria. Era sfiorita, come una nobildonna diventata povera. I suoi
migliori figli, per campare, erano andati a fare
gli operai in Germania, in Svizzera, in Francia, In
Canada o negli States. I più fortunati facevano i
camerieri 0 i portieri nella capitale e tornavano a
casa solo per Natale, per Pasqua, alcuni per dare
una mano in campagna per la raccolta delle olive 0 per la
mietitura, quando servivano le braccia di tutti e i vecchi, da
soli, non ce l'avrebbero fatta. Nel 1955, il 22 marzo, alle cinque e quaranta del mattino, poco prima della fine del turno di
notte, a Pozzo Orlando, nella miniera di lignite Morgnano,
una sacca di grisou era esplosa. Aveva ucciso 23 minatori che
stavano per tornare alla luce del sole, al giusto riposo, alle
loro famiglie. L'immane tragedia anticipava il crollo dell'attività estrattiva, che dalla fine dell'Ottocento aveva portato
lavoro a generazioni di spoletini. Nel 1956, dal 2 febbraio e
oltre marzo, un'epocale invernata con nevicate incessanti e
gelate che avevano superato i meno 20 gradi, aveva distrutto
la maggior parte degli uliveti dell'hinterland collinare spoletino. Alcuni proprietari di "chiuse di piantoni", come ancora si chiamano qui gli oliveti terrazzati sulla costa delle
colline, gettati sul lastrico dall'invernata, avevano abbracciato la doppietta a rovescio, si erano tolti la vita. L'economia
e la fiducia della comunità sociale verso il futuro erano pari a
zero. Ma il miracolo della resurrezione si chiamò Festival dei
Due Mondi ed il "santo" che l'operò fu Gian Carlo Menotti.
MEDIA
Lunedi 27 giugno 2016
BSoì www.nuovocorrierenazionale.it
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LA SPOLETO DEL 1956
La città era come
un film di Tornatore
di VINCENZO CEMENTI
SPOLETO -1 colori dell'estate, eccessivi, fin troppo mediterranei. I profumi del cibo, semplici e decisi. L'aroma inebriante dei tigli, delle ginestre. E poi la gente, timida sulle
prime, ma subito cordiale, schietta, generosa. E le ristrettezze economiche, indossate con dignitosa fierezza. E le
donne, quasi tutte con lo sguardo abbassato. Le meno giovani sempre vestite di nero. Vedove prima del tempo, con i capelli coperti da un fazzoletto scuro, mamme dallo sguardo
malinconico, mogli con i mariti lontani, emigrati all'estero.
E i bambini con gli occhi grandi, con indosso la camicetta del
fratello maggiore e i pantaloncini troppo corti. Erano come
quelle deh'entroterra palermitano di Giuseppe Tornatore,
come i paesi della campagna romagnola di Pupi Avati. Erano
quelli di Spoleto, nell'estatedel 1956. Quando Menotti la vide per la prima volta, avvolta nel suo preindustriale silenzio e pensò che quello era il posto
giusto. Per ambientarci il Festival. La città non
era solo "una principessa dormiente" come gli
era apparsa. La città dei Duchi, dei grandi Governatori papali, la città di Lucrezia Borgia, di papa
Maffeo Vincenzo Barberini, degli affreschi del
Lippi. La città, che con il suo colossale ponte/acquedotto di pietra aveva sconvolto Goethe, era
una città morente. Aveva vissuto "cent' anni di
solitudine", da quando, nel 1860, aveva perso
l'egemonia istituzionale sull'Umbria. Era sfiorita, come una nobildonna diventata povera. I suoi
migliori figli, per campare, erano andati a fare
gli operai in Germania, in Svizzera, in Francia, In
Canada 0 negli States. I più fortunati facevano i
camerieri 0 i portieri nella capitale e tornavano a
casa solo per Natale, per Pasqua, alcuni per dare
una mano in campagna per la raccolta delle olive 0 per la
mietitura, quando servivano le braccia di tutti e ivecchi, da
soli, non ce l'avrebberofatta. Nel 1955, il 22 marzo, alle cinque e quaranta del mattino, poco prima delia fine del turno di
notte, a Pozzo Orlando, nella miniera di lignite Morgnano,
una sacca di grisou era esplosa. Aveva ucciso 23 minatori che
stavano per tornare alla luce del sole, al giusto riposo, alle
loro famiglie. L'immane tragedia anticipava il crollo dell'attività estrattiva, che dalla fine dell'Ottocento aveva portato
lavoro a generazioni di spoletini. Nel 1956, dal 2 febbraio e
oltre marzo, un'epocale invernata con nevicate incessanti e
gelate che avevano superato imeno 20 gradi, aveva distrutto
la maggior parte degli uliveti dell 'hinterland collinare spoletino. Alcuni proprietari di "chiuse di piantoni", come ancora si chiamano qui gli oliveti terrazzati sulla costa delle
colline, gettati sul lastrico dall'invernata, avevano abbracciato la doppietta a rovescio, si erano tolti la vita. L'economia
e la fiducia della comunità sociale verso il futuro erano pari a
zero. Mail miracolo della resurrezione si chiamò Festival dei
Due Mondi ed il "santo" che l'operò fu Gian Carlo Menotti.
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