A pezzentella - Rolling Stone Italia

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A pezzentella - Rolling Stone Italia
’A pezzentella
Un racconto di Carlos Solito
Capitava che il vento girava, girava male e s’incazzava nella ragnatela di vichi dove
tutto era pantano, scirocco, scirocco scirocco, scirocco prepotente egemone
camorristico. La tramontana a Napoli non era mai stata cosa facile, quando arrivava
faceva evento, notizia, e come un respiro, un vomito, alla gente, saliva un assafà a
Maronn! Scippava fetamma e portava aria nuova che sapeva di macchia pini mare
freschezza, bellezza. E la bellezza si sa, va rubata a due mani, va guardata, annusata,
sniffata perché fa sorridere arrossire, e poi sballa capovolge e fa viaggiare leggeri, fa
volare. Era una notte vera con tanto di luna piena, il rumore del mare, i tonfi sordi dei
panni stesi agitati dalle folate che come scugnizzi correvano correvano e sfottevano
ogni cosa. Quella notte il rione Sanità era muto e basta, nessun lamento, nessun pianto,
nessuna risata preghiera bestemmia. Pure i colpi di pistola esplosi a vicolo della Calce
non furono sentiti. I “sisi sisi sisi” di Rosetta mentre si faceva fottere nel suo basso non
disturbarono il sonno di mast’Antonio che non si sveglìò, come al solito, di soprassalto
guardando la moglie molle e pensando e tiemp bell'e na vota. Zì Pascale o Putecaro
non riuscì a sentire i rumori delle lamiere rugginose del suo minimarket mentre
venivano scassate. Rafaniello ’o Zuoppo mise in scena un delirio di pezze e giornali
per azzittire i fischi delle imposte fradice. Voleva silenzio e santa pace per stare a
sentirsi i gemiti delle reclame delle linee erotiche. Con gli occhi sbarrati e il passo
guasto, quella notte, si accostò a un palmo dalla sua Philips per ammazzarsi di seghe e
cacciare il diavolo che teneva in corpo. Il diavolo che lo sfotteva che lo morsicava e gli
ricordava sempre, sempre sempre, l’unica donna nuda, vera in carne e ossa, vista in
vita sua. Maledizione alla tentazione al peccato ai morsi di labbra, quei seni coi
capezzoli belli grandi, da succhiare, erano di sua sorella Rosetta che aveva spiato tante
volte mentre si faceva il bagno. La tosse grassa, graffiata dal catarro, non fece rumore
nel vicolo Lammantari mentre Aitano ’o Riggiularo schiacciava la sua pancia pelosa
contro la schiena di Anna, il femminiello più acerbo del quartiere. I ppe favore, ppe
favore, ppe vafore urlati da Bruno ’o Tossico non arrivarono da nessuna parte in via
Collenuccio mentre o pusher Peppe ’o Fetent lo caricava di calci e pugni perché
doveva ancora quattrocento Euri di eroina già calata dint’e vene. Il fumo della Merit,
sputato dalla bocca nervosa, di Enzo fu l’inizio di un Padre Nostro per la moglie con
un male nel seno. Parola dopo parola, già sui peli folti del baffo ingiallito dal vizio, la
preghiera fu rubata, portata via, lanciata in alto in cielo, com’è giusto che fosse.
Risucchiata dalla tramontana che continuò la sua folle corsa nella Sanità fino a quando
si sfasciò contro le rocce del vallone dei Girolamini. E alla stessa maniera quella notte
si fece a pezzi contro l’alba.
Dovevano passare almeno le sette prima che in quella parte del rione, dove un tempo
confluivano le acque piovane delle colline del Vomero e dei Colli Aminei, arrivasse ’o
journe. In fondo, le bocche delle cave erano appena schiarite e i grandi ingressi
suggerivano vuoto, tanto vuoto, cavato secoli fa nel sasso per reperire materia da
costruzione. Si diceva che le gocce della notte non diluite dal sorgere del sole si
accumulassero là dentro impregnando di nero il tufo giallo. Si diceva così! Donna
Lucrezia lo diceva e ogni mattina quando ci passava davanti, con le dita della mano
destra, si toccava la fronte, il petto e le teste degli omeri segnandosi la Croce. Guardava
la piccola chiesa di Maria Santissima del Carmine e si allontanava recitando l’Eterno
Riposo. Lo diceva Assuntina, Teresa, Grazia, Francischiello, Errico, zi’ Peppe, Ciro e
tutt’a gente ca ce passava. Tutti, pure e creatùr, sapevano che lì dentro, nel ventre della
collina di Materdei, le ampie sale con soffitti alti erano luoghi dove stipare la notte e
dove avvenivano incontri che di giorno, fuori, nella normalità, non sarebbero mai
accaduti.
“Marò! Marò! Maronna mia!”
Tante voci arrivavano dall’esterno.
“Ma che è stu burdell? E oggi non si può mica dormire. Ma che sta succerenn? Ancora
proteste. Chist song pazzi! Andate a faticare. Si sanno sul’allamentà. A fa-ti-ca-re!”.
Il portone d’ingresso si spalancò agitando carte, polvere, munnezza leggera e una lama
di luce si allungò fino al fondo del corridoio. Fu un ago nelle carni, una sorpresa, una
contrazione, la ricerca di un perché. Buttò gli occhi all’ingresso per interrogarlo.
Rabbioso, si spostò più avanti: “No! No! Nooo! E’ già passato un anno”. Tornò a
guardare stringendo le palpebre per focalizzare meglio: “Nun’è possibile!”.
La guida entrò per prima e, come al solito, scrutò a destra a sinistra, in alto. Poi
raggiunse il pannello, ondeggiò la mano quasi a spolverare, aprì e tirò su gli interruttori
elettrici: “E luce fu!”, gridò. “Mi raccomando non toccate niente, se vi fate male so
fatte vuoste”.
“Nata vota con questa festa dei Morti. Ma comm’è possibile, anziché andare in una
chiesa a recitare un Eterno Riposo, questo qua ogni novembre s’è preso sta fissa di
portare tutta sta gente dint'o camposanto sotto terra. E quann’a finimm cu sta
pazziella?”, tornò indietro, avanti, indietro, un’altra volta avanti. Volle mordersi le
unghia: “E comme vola bell’o tiempo ccà sotto. Dodici mesi, andati! Altri
trecentosessantacinque giorni da aggiungere alla storia. E che bella cosa. Il tempo
cammina. Fuje ppè tutti. Tut-ti. Eh eh! Tocca anche a voi cari miei. Ccà nisciuno è
fesso!”. Additò il gruppo.
Pasquale, snello capelli incasinati, sulla quarantina, sguardo vispo dietro un paio di
occhiali tondi, da professore, di mestiere faceva la guida in tutti i luoghi di Napoli
sotterranea. In mano un mazzetto di fogli con la descrizione del posto che stavano per
visitare. Li distribuì e iniziò a spiegare: “Carissimi signori, dear sirs, stiamo per visitare
uno dei siti più misteriosi della città e sicuramente uno dei cimiteri più singolari di
tutto il mondo”.
I curiosi iniziarono a muoversi nella prima navata.
“Silenzio. Silence please. Signori nu poc’e rispetto per i morti. Ricordate che stiamo
sempre in un camposanto. This is cemetary”.
“Pasquale dicitencello vuje a sta cumpagnia vosta. Rispetto. Rispetto. E nu poc’e
rispetto!”, alzò il tono di voce. S’accese di rabbia: “E jatevenne da n’ata parte”, andò
incontro a delle cassette di legno. Volle pigliarle a calci. Destra sinistra destra sinistra,
gamba destra, sinistra.
Uno scricchiolio attirò l’attenzione di tutti. Si girarono. Pasquale accese la lampada
puntandola nel buio: “E ch’è stato?”. Silenzio per un attimo.
“Uè nun pazziamm uagliò!”, restò immobile come se tutti quegli occhi puntati nella
sua direzione lo avessero pietrificato. E si spaventò assai, tanto, che avvertì la
sensazione di pisciare.
Pasquale spostò il fascio di luce: “Sarà stato un topo. The mouse. Accà is possible”.
Tirò un sospiro di sollievo, per un attimo pensò che si fossero accorti di lui: “Mamma
mia! E come ho potuto pensare che mi vedessero. A me. Loro, chist’ccà. A me!”.
Scoppiò a ridere portandosi lentamente dietro un cumulo di ossa, un muretto di femori
tibie teschi. Si avvicinò a quello più sporco di tutti, meno in vista. Lo salutò
velocemente: “Uè Rosario, come stai? E chissà tu addò se ghiuto a fernì. In cielo
sicuramente. Tu ’ncielo, io rind’a stu purgatorio. E che bella vita stai facenn là ’ngoppa
eh! Te lo ripeto, conservami il posto. Prima o poi arriverò. Ma hai visto a questi. Gli
hai visti Rosà”.
I visitatori seguirono Pasquale, che riprese: “Questa è una delle tante cave sotterranee
di questo quartiere. Fu utilizzata la prima volta come sepolcreto nel lontano 1656
quando Napoli fu invasa da una delle più terribili pestilenze della storia d’Italia”.
“Senti Rosà, sient ’o professor. Te lo ricordi quel maledettissimo anno. Quanta gente
morta miez’a via”.
La guida continuò a indicando i portali che si aprivano in ogni direzione: “Si dice che a
morire furono oltre 250mila. All’epoca Napoli contava circa 450mila abitanti. Fate il
conto voi: un flagello! I corpi dei defunti, dopo aver riempito all’inverosimile i
canonici lunghi di sepoltura della città come le catacombe di San Gennaro, San
Gaudioso, San Pietro ad Aram e Santa Maria del Purgatorio ad Arco, furono portati qui
a scolare. In inglese non so tradurlo, chi mi aiuta?”. Si guardò attorno incrociando
l’assenso di una bionda del gruppo che spiegò ai suoi amici americani. “Scusate, I’m
sorry”, Pasquale guardò in viso gli stranieri. Ripetè: “Sorry, nisciuno è perfetto”. Si
scambiò un’occhiata veloce con la ragazza invitandola a dargli una mano. Sorrisero.
Si portò le mani al petto e fissando il soffitto, si disse: “Carne ammucchiata a tutt’e
parte. Fetore e lamient, urla e pianti. Chell’epidemia fu nu lenzuol nir che dal Lavinaio
jette ’ngopp’a città. Accumugliò tutto e dopo ci lasciò nudi di vita. Maronna mia e che
schif’e fine!”.
Pasquale si scoprì l’orologio sul polso e riprese: “Allora? Dicevo, la scolatura. I
cadaveri venivano messi nelle cantarelle, dei sedili scavati nel tufo, e rimanevano lì a
essiccarsi perdendo tutti gli umori del corpo. Poi si ammassavano senza criterio.
Comm sacc e patan”. Udì i soliti commenti d’inquietudine e al sommesso parlare
anglosassone si soffermò sugli americani con in viso smorfie di disgusto. Riprese, con
una punta di sarcasmo: “Di tutto quel materiale umano, nei tremila metri quadrati della
cavità, oggi si possono contare solamente le ossa di circa quarantamila puviriell. Ma si
dice che sotto di noi…”, battè forte il piede destro alzando polvere, “ci siano almeno
cinque metri di strati ossei disposti a puntino. Qua sotto è sepolto un popolo intero.
Non solo i morti di quella peste, ma anche quelli dell’epidemia di colera del 1836 e
tutti i resti provenienti dalle sepolture delle chiese bonificate dopo l’arrivo dei francesi
di Murat, le cosiddette terresante. Secondo una credenza popolare nell’Ottocento uno
studioso contò la bellezza di otto milioni di ossa di cadaveri. Ot-to mi-lio-ni”.
“E chesta t’a si’nventata frà”, ruminò dalla sua postazione nascosta, “chesta me pare na
strunzata troppo esagerata. Otto milioni mi sembrano troppo assaje. Possibile?
Pot’essere? Tutti questi anni e ho perso il conto. Allora, le ultime furono le ossa del…
del… del 1934, trovate verso ’o Maschio Angioino. Queste sotto la lastra di vetro”. Ci
pensò su un attimo ed esplose: “E durante la Seconda guerra? Marò sto perdenn’a
memoria! Madonna mia. Non ricordo”.
Pasquale continuò la sua lezione ipogea spiegando che l’ordine tutt’attorno fu un vero
e proprio prodigio voluto dal canonico Gaetano Barbati intorno alla metà del 1800. Si
avvicinò alla cappella eretta in suo onore. “Provate a immaginare! Ovunque resti
umani alla rinfusa: il fastoso ricevimento della signora morte. Quella che ci appara
tutti, come diceva Totò. Vi ricordate la sua poesia? La conoscete? … 'A morte 'o ssaje
ched'è? ...è una livella”. La ragazza lo interruppe traducendo. E riprese: “Barbati
organizzò un gruppo di popolane devote: le maste che, come formiche, entrarono in
questo ipogeo sistemando, secondo raggruppamenti e schemi ben precisi, i resti mortali
così come li vedete oggi”.
Dall’angolo infondo si sovrappose un commento: “Eh, le maste”.
L’oratore costeggiò una staccionata indicando un cumulo di teschi. Indurì la voce: “E
fu grazie a queste donne, particolarmente sensibili al culto delle anime purganti, che la
pietas popolare di Napoli si avvicinò a questo luogo con una comunanza di fede e
devozione, spesse volte con eccessi tipicamente pagani che posero in secondo piano il
dogma della santità”.
“Marò e che parole strane. E come parla difficile. Chist’a fatt le scuole alte. E bravo
Pasquale. Bravo Pascà!”. La stizza per gli intrusi gli era decisamente passata. Solo nel
mese di novembre, quando in tutta la città si aprivano i cancelli dei cimiteri, la cava
poteva essere visitata e riempita da nuove voci e preghiere.
La guida mosse altri passi, i turisti lo seguirono nella seconda galleria. “Appena furono
sistemate tutte le cataste, i napoletani videro in queste ossa anonime le cosiddette
anime pezzentelle che dovevano essere confortate con preghiere. Una continua nenia di
suffragi per garantire alle povere anime abbandonate un poco di refrisco dalle pene del
purgatorio. Questo operato aveva una contropartita: ramme ca’ te rong, dammi che ti
do. Non si fa niente per niente. Voi mi date gli Euri e io vi porto al cimitero delle
Fontanelle. Funziona pure dalle parti vuoste accussì, no?”. Si passò una mano nei
capelli. “Ognuno adottava un teschio, lo puliva, gli accendeva delle candele e gli
recitava delle preghiere chiedendo in cambio una grazia. Il ritorno di un parente
lontano, quasi sempre in guerra. Una malattia da guarire, un amore da salvare e, in
tempi più recenti, dei numeri da giocare al lotto”.
Li seguì acquattandosi spostandosi velocemente all’inizio della seconda navata.
“Eppure stongo semp’accà! Forse a capa mia nun’è bona. Forse nisciune se
nnammurate della mia scatola d’osso bucata. Non mi è mai stato chiesto niente, ma
presto o tardi, adda firnì stu priatorio”. Volse lo sguardo verso il soffitto.
“Vedete quante urne devozionali: sono i ringraziamenti dei fedeli per le grazie
ottenute. Scarabattole in legno, tabernacoli in marmo con cuscini ricamati. Reliquiari di
ogni genere per tutte le tasche. Qui ci venivano ricchi e poveri perché davanti alla
disperazione si è tutti uguali. All’interno, corone del rosario, lumini, santini e richieste
di grazia scritte su pezzi di carta, i pizzinni buoni. Qui era nu via vai di gente, negli
anni Cinquanta ci arrivava perfino una linea tranviaria. In una Napoli da sempre
definita esoterica, non potevano non esserci le personificazioni delle anime. Ogni
teschio pezzentello aveva un nome, un ruolo, una storia. Anche tra i morti ci stanno i
famosi e qui il più noto è il Capitano. Si dice che…”, si allontanarono sul fondo della
galleria.
Si sentì chiamare.
“Signore”.
“Zitt, statt zitt”.
“Scusate signore, scusatemi”.
“E fernescela, basta. Ma a chi va truvanno chist? Fammi sentire. Fam… m… se se… se
se”. Volle sparire, ma non poté. Era già invisibile. Serrò le labbra. Ondeggiò gli occhi
velocemente a destra e sinistra. Girò appena la testa.
La voce timida “E mo che fate non vi girate? Vi ho visto, signore!”.
“Oh Maronna mia. Gesù. San Gennaro”, si nascose dietro un muretto di femori.
“Ma comme siete vestito? Sapete che avete proprio na bella cammisella”.
“E tu tiene sta maglia ’nguoll tutta ’nzivata”.
“Questa macchia è pummarola e pizza. Chesta, invece, dei maccheroni di oggi c’a
sarza”.
“E maccaruni!”.
“Si, e maccaruni. A casa se magnene tutte ’e journe”.
“’O vero? Ai tempi miei erano solo per i ricchi. Una volta però li ho assaggiati. Sulu na
vota, i puviriell se li sognavano. Ma a proposito, sto sunnanno? Ma tu ’o vero faje? Chi
sei? Cosa vuoi scugnizzo?”. Si dissolse contro la parete di tufo.
Il bambino: “Io mi chiamo Salvatore, Tatore, e tu?”.
“E quanno maje mi è successa na cosa del genere. Ma sono io che sto sognando o mi
sto sentendo male”. Sorpresa impastata a felicità, si sentì così: con la gioia addosso che
metteva agitazione, novità, nuovo. “Piacere! Io sono Strato”.
Il piccolo rise: “Quindi siete antico, mia nonna dice che questo nome non si usa più
tanto. Fa venire scuorno”.
“Zitt, ma che dici, fai peccato. Se ti sente Santo Strato cosa deve pensare. Da dove sei
entrato?”.
“Ra lloc”, additò il portone. “Era aperto. Ogni tanto quando ci passavo sentivo una
voce che urlava. A volte sembrava che cantasse”.
Quasi per vergogna si passò la mano sul viso provando però una sensazione di
soddisfazione. “Bhe almeno quaccherun ha sentito. Comunque si, song antico. Di
tantissimo tempo fa e tu, piccirillo, neanche puoi immaginare”.
“Ma tu senti quello che penso rind’a capa. Come fai?”
“Tu mi vedi, e mi senti pure. Tu, chiuttuost comme faje?”.
“Boh”, alzò le spalle, “mia nonna m’a parlato sempe di questo posto particolare,
diverso, senza paura. Llà fore miez’a via sta la morte, no accà”.
“Schh, zitto. Che ti sentono!”
“Nun me puonno sentì. Io sono muto. Nun parlo”.
“Nun sai parlà, però sient”.
“Sento, ma no parlo”.
“Acquattate areta a chella preta, stann passann”.
Mentre si avviava verso l’uscita Pasquale scosse la torcia tra le mani: “Nel 1969, viste
le grandi masse che questo culto feticista muoveva, il cardinale di allora vietò ogni
forma di devozione perché contrarie alla dottrina cattolica. Ma ci sta sempe qualcuno
che viene qui a scegliersi na capa da venerare”.
Il vociare divenne un mormorio lontano. Poi, come sempre là sotto, fu silenzio pesante,
silenzio silenzio. Più sarebbe tornato un altro gruppo di visitatori.
Il sole era girato a pomeriggio. Strato e Salvatore si spostarono verso il fascio di luce
tenue che veniva da una piccola buca, alta sulla parete. “E allora piccirí me lo spieghi o
no comm’è che sei venuto qua sotto. Mamma tua sa che stai qua?”.
Tatore si morse il labbro inferiore. Gli tornarono in mente le scene forti pazze rosso
vermiglio, di quattro anni fa. I colpi di pistola sull’uomo sbagliato che stracciarono
l’aria, le urla disperate della mamma, il padre a terra pieno di sangue e il suo ultimo
“papaaa” vomitato con tutto il fiato carbone che allontanò per sempre la locomotiva del
dire. Pensò alla madre, fu un’incursione nell’oblio e la vide sola, con le occhiaie
scavate, i capelli agitati, la pelle lavata dal dolore, silenziosa, vuota, col nulla dentro.
Pensò e gli venne freddo umidità dolore e pianse un po’, giusto due lacrime, due sole
ma pesanti che gli abbassarono lo sguardo, la testa.
“Puveriello nun te fai capace. Che uaio sta camorra”, cercò di accarezzarlo.
“Io mi pensavo che mio padre stava qua. Rind’a sti grotte. Invece ci stai tu. A che fare,
poi?”.
“E a me lo chiedi? Fosse pe me…” mosse ripetutamente l’indice verso l’alto. “Vieni,
vieni. Ti spiego due cose”.
Ormai il cimitero era vuoto. Andarono verso le edicole votive. “Guarda tutte queste
cap’e morte. Hai visto come so sistemate belle. Per tanti, tantissimi, anni ci sono state
processioni ’e cristiane a nun firnì. Ognuno teneva una preghiera da regalare a
un’anima e una grazia da chiedere. La gente veniva, si sceglievano na capa e la
curavano comm’a nu criaturo. Quelle, le anime pezzentelle comm’a me, alleggerite
dalle pene di questo purgatorio, andavano in sogno a chillo o chella viva per esaudire le
richieste: fa sta bbene quaccheruno della famiglia, far tornare nu parente lontano, fà fa
na cosa ’e sorde al lotto. Accussì, a una a una, tutte se ne sono andate. Pure l’amico
mio Rosario. Morimmo insieme, lo stesso giorno. Isso priesto, la mattina, io la sera.
Settant’anni in due: trentacinque apperuno. Ci pigliamm ’a peste. Lavoravamo tutti e
due al porto grande e passavamo o tiempo nella lotamma del Lavinaio. E cadaveri ci
portarono qui, uno ’ngoppa l’ato. Ogni giorno morivano oltre mille persone. Isso,
Rosario, sta accà, ohi lloco!”.
“E tu, dove stai?”.
“Io sto accuvato rind’a nu posto assurdo. Per mala sorte a capa mia è fernuta sotto na
catast’e jamme. Mai nisciune l’ha vista. Come da vivi, anche da morti ci vuole
fortuna”. Lo disse con l’accento indottrinante di un maestro.
“Scusate e perché non andiamo a prenderla?”
“No. Nun se può fàje. No. No. Si. No. Si. No”.
“Ma pecché?”.
Esitò un attimo. Sorrisero insieme. “Jamme jà!”. Si portarono sulla parete di sinistra
all’inizio della seconda navata. Strato guardò Tatore: “Purtroppo non ti posso aiutare a
scavare”, passò attraverso una roccia. Non ci volle tanto. Spostò un centinaio di tibie,
più o meno altrettanti femori e qualche metatarso. Il cranio venne fuori, pieno di
polvere. Strato si commosse, era una festa. Il bambino soffiò forte forte e come
spegnere le candeline tutte d’un colpo fece alzare una nuvola grigia che svelò l’osso.
Tirò la manica destra della maglia sulla mano e iniziò a strofinarlo come una lampada
di Aladino. Ripose tutte le ossa spostate più o meno com’erano per non dare all’occhio
e si sedette a terra. Guardò Strato: “I tuoi capelli corti e niri niri stavano qua ’ngoppa”,
accarezzò la volta parietale. Le dita scivolarono sul setto nasale mentre gli occhi
andavano e venivano velocemente per comparare il viso di Strato, di fronte a lui. Passò
il medio sul mascellare superiore: “E su questa parte ce stava ’o baffett fino fino”.
Come un pallone tenne la testa tra le mani e si mise a fissare le orbite oculari, poi
accostò la fronte alla sua, la mosse a destra e a sinistra. Durò un attimo: “Ti prego, ti
prego aiuta mia madre. Nun vive cchiù. Aiutala a superare questo dolore. Il suo cuore
sta suffrenn troppo assaje. Dacci la forza per riprendersi, per riprenderci. Rivoglio la
mia mamma, è quasi morta con babbo quel giorno rosso rosso”. Si allontanò appena,
prese una delle scatole di latta ammassate lì vicino riempiendola con il giubbotto in
jeans che aveva annodato in vita. Ci posò il cranio incrociando gli occhi lucidi di
Strato.
“Pur n’anima pezzentella sape chiannere. Grazie Tatore. Grazie guagliò!”. Non poté
crederci, aveva atteso quel momento ogni giorno dei 357 anni dalla sua morte. Rise nel
pianto. Aprì le braccia: “Mo o sacc pecché”.
“Cosa?”.
“Pecché un po’ di anni fa venne accà nu signore simpatico che si mise a cantare
sottovoce”.
“A cantare?”.
“Si a cantare. Faceva accussì: Napule è mille culure/ Napule è mille paure/ Napule è a
voce de’ criature/ che saglie chianu chianu/ e tu sai can nun si sulo. E all’ultima parola
si fermò qua, proprio qua e mi sorrise appena appena, fronn’a me come se mi vedesse,
comm’a te!”.
Tatore rimase a bocca aperta, deglutì e tirò fuori un “Chi era?”.
“Capelli ricci, neri neri, sicco sicco, morbido in viso. Glielo chiesi, gli dissi prima che
la canzone era bella assai e pure, così per giocare tra me e me, come si chiamava. Non
avevo capito bene se mi avesse visto o no. Continuai. Tanto non mi sentiva - pensai potevo dire che volevo. Dopo un po’ si girò per andare via, lo seguii e quando gli fui
vicino vicino avvicinai la mia bocca al suo orecchio per dirgli:
‘Mi avete regalato un canto d’amore a Napoli, profondo comm’a sta grotta. Allor, si
può sapere come vi chiamate?’.
Si fermò un momento, si voltò appena e disse: ‘Ma… ma io nun so nisciuno’.
‘Se permettete’, gli risposi, ‘io nun so nisciuno, esisto ma non ci sono’.
Sorrise timidamente: ‘Allor siamo due nessuno, siamo due Ulisse nella grotta di
Polifemo e tutti e due abbiamo un ciclope dal quale scappare, qualcosa di pesante dal
quale sfuggire per non essere schiacciati’.
‘E sarebbe?’, continuai a sussurargli.
‘Nun c’a fai chiù rind’a sta grotta, vulisse qualche preghiera per farti volare ’ncielo. A
me schiaccia invece ’u tropp’ammore di questa città, degli amici, della guagliona mia’.
‘E chist’è nu peso, chist’è nu piacere!’.
‘O sacc! Ma detto tra noi no, sarebbe nu piacere sapendo di poterlo contraccambiare
oggi, rimane, tra n’anno, tra dieci, venti, trena senza esagerare, e invece… invece sento
che non accadrà ancora per molto, ca nun’è accussì. Comme t’o spiego… o’ ssaje
comme fa o core no?!? Batte nu tiempo ca nun’è pe sempe. Comunque io sono
Massimo Troisi, ma solo Massimo va buono, si te va buono’.
‘Massimo, e chi s'o scorda cchiù!’.”
Cover artwork by Filippo Riniolo
Il dialetto usato in questo racconto non pretende di essere un napoletano corretto