A pezzentella - Rolling Stone Italia
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A pezzentella - Rolling Stone Italia
’A pezzentella Un racconto di Carlos Solito Capitava che il vento girava, girava male e s’incazzava nella ragnatela di vichi dove tutto era pantano, scirocco, scirocco scirocco, scirocco prepotente egemone camorristico. La tramontana a Napoli non era mai stata cosa facile, quando arrivava faceva evento, notizia, e come un respiro, un vomito, alla gente, saliva un assafà a Maronn! Scippava fetamma e portava aria nuova che sapeva di macchia pini mare freschezza, bellezza. E la bellezza si sa, va rubata a due mani, va guardata, annusata, sniffata perché fa sorridere arrossire, e poi sballa capovolge e fa viaggiare leggeri, fa volare. Era una notte vera con tanto di luna piena, il rumore del mare, i tonfi sordi dei panni stesi agitati dalle folate che come scugnizzi correvano correvano e sfottevano ogni cosa. Quella notte il rione Sanità era muto e basta, nessun lamento, nessun pianto, nessuna risata preghiera bestemmia. Pure i colpi di pistola esplosi a vicolo della Calce non furono sentiti. I “sisi sisi sisi” di Rosetta mentre si faceva fottere nel suo basso non disturbarono il sonno di mast’Antonio che non si sveglìò, come al solito, di soprassalto guardando la moglie molle e pensando e tiemp bell'e na vota. Zì Pascale o Putecaro non riuscì a sentire i rumori delle lamiere rugginose del suo minimarket mentre venivano scassate. Rafaniello ’o Zuoppo mise in scena un delirio di pezze e giornali per azzittire i fischi delle imposte fradice. Voleva silenzio e santa pace per stare a sentirsi i gemiti delle reclame delle linee erotiche. Con gli occhi sbarrati e il passo guasto, quella notte, si accostò a un palmo dalla sua Philips per ammazzarsi di seghe e cacciare il diavolo che teneva in corpo. Il diavolo che lo sfotteva che lo morsicava e gli ricordava sempre, sempre sempre, l’unica donna nuda, vera in carne e ossa, vista in vita sua. Maledizione alla tentazione al peccato ai morsi di labbra, quei seni coi capezzoli belli grandi, da succhiare, erano di sua sorella Rosetta che aveva spiato tante volte mentre si faceva il bagno. La tosse grassa, graffiata dal catarro, non fece rumore nel vicolo Lammantari mentre Aitano ’o Riggiularo schiacciava la sua pancia pelosa contro la schiena di Anna, il femminiello più acerbo del quartiere. I ppe favore, ppe favore, ppe vafore urlati da Bruno ’o Tossico non arrivarono da nessuna parte in via Collenuccio mentre o pusher Peppe ’o Fetent lo caricava di calci e pugni perché doveva ancora quattrocento Euri di eroina già calata dint’e vene. Il fumo della Merit, sputato dalla bocca nervosa, di Enzo fu l’inizio di un Padre Nostro per la moglie con un male nel seno. Parola dopo parola, già sui peli folti del baffo ingiallito dal vizio, la preghiera fu rubata, portata via, lanciata in alto in cielo, com’è giusto che fosse. Risucchiata dalla tramontana che continuò la sua folle corsa nella Sanità fino a quando si sfasciò contro le rocce del vallone dei Girolamini. E alla stessa maniera quella notte si fece a pezzi contro l’alba. Dovevano passare almeno le sette prima che in quella parte del rione, dove un tempo confluivano le acque piovane delle colline del Vomero e dei Colli Aminei, arrivasse ’o journe. In fondo, le bocche delle cave erano appena schiarite e i grandi ingressi suggerivano vuoto, tanto vuoto, cavato secoli fa nel sasso per reperire materia da costruzione. Si diceva che le gocce della notte non diluite dal sorgere del sole si accumulassero là dentro impregnando di nero il tufo giallo. Si diceva così! Donna Lucrezia lo diceva e ogni mattina quando ci passava davanti, con le dita della mano destra, si toccava la fronte, il petto e le teste degli omeri segnandosi la Croce. Guardava la piccola chiesa di Maria Santissima del Carmine e si allontanava recitando l’Eterno Riposo. Lo diceva Assuntina, Teresa, Grazia, Francischiello, Errico, zi’ Peppe, Ciro e tutt’a gente ca ce passava. Tutti, pure e creatùr, sapevano che lì dentro, nel ventre della collina di Materdei, le ampie sale con soffitti alti erano luoghi dove stipare la notte e dove avvenivano incontri che di giorno, fuori, nella normalità, non sarebbero mai accaduti. “Marò! Marò! Maronna mia!” Tante voci arrivavano dall’esterno. “Ma che è stu burdell? E oggi non si può mica dormire. Ma che sta succerenn? Ancora proteste. Chist song pazzi! Andate a faticare. Si sanno sul’allamentà. A fa-ti-ca-re!”. Il portone d’ingresso si spalancò agitando carte, polvere, munnezza leggera e una lama di luce si allungò fino al fondo del corridoio. Fu un ago nelle carni, una sorpresa, una contrazione, la ricerca di un perché. Buttò gli occhi all’ingresso per interrogarlo. Rabbioso, si spostò più avanti: “No! No! Nooo! E’ già passato un anno”. Tornò a guardare stringendo le palpebre per focalizzare meglio: “Nun’è possibile!”. La guida entrò per prima e, come al solito, scrutò a destra a sinistra, in alto. Poi raggiunse il pannello, ondeggiò la mano quasi a spolverare, aprì e tirò su gli interruttori elettrici: “E luce fu!”, gridò. “Mi raccomando non toccate niente, se vi fate male so fatte vuoste”. “Nata vota con questa festa dei Morti. Ma comm’è possibile, anziché andare in una chiesa a recitare un Eterno Riposo, questo qua ogni novembre s’è preso sta fissa di portare tutta sta gente dint'o camposanto sotto terra. E quann’a finimm cu sta pazziella?”, tornò indietro, avanti, indietro, un’altra volta avanti. Volle mordersi le unghia: “E comme vola bell’o tiempo ccà sotto. Dodici mesi, andati! Altri trecentosessantacinque giorni da aggiungere alla storia. E che bella cosa. Il tempo cammina. Fuje ppè tutti. Tut-ti. Eh eh! Tocca anche a voi cari miei. Ccà nisciuno è fesso!”. Additò il gruppo. Pasquale, snello capelli incasinati, sulla quarantina, sguardo vispo dietro un paio di occhiali tondi, da professore, di mestiere faceva la guida in tutti i luoghi di Napoli sotterranea. In mano un mazzetto di fogli con la descrizione del posto che stavano per visitare. Li distribuì e iniziò a spiegare: “Carissimi signori, dear sirs, stiamo per visitare uno dei siti più misteriosi della città e sicuramente uno dei cimiteri più singolari di tutto il mondo”. I curiosi iniziarono a muoversi nella prima navata. “Silenzio. Silence please. Signori nu poc’e rispetto per i morti. Ricordate che stiamo sempre in un camposanto. This is cemetary”. “Pasquale dicitencello vuje a sta cumpagnia vosta. Rispetto. Rispetto. E nu poc’e rispetto!”, alzò il tono di voce. S’accese di rabbia: “E jatevenne da n’ata parte”, andò incontro a delle cassette di legno. Volle pigliarle a calci. Destra sinistra destra sinistra, gamba destra, sinistra. Uno scricchiolio attirò l’attenzione di tutti. Si girarono. Pasquale accese la lampada puntandola nel buio: “E ch’è stato?”. Silenzio per un attimo. “Uè nun pazziamm uagliò!”, restò immobile come se tutti quegli occhi puntati nella sua direzione lo avessero pietrificato. E si spaventò assai, tanto, che avvertì la sensazione di pisciare. Pasquale spostò il fascio di luce: “Sarà stato un topo. The mouse. Accà is possible”. Tirò un sospiro di sollievo, per un attimo pensò che si fossero accorti di lui: “Mamma mia! E come ho potuto pensare che mi vedessero. A me. Loro, chist’ccà. A me!”. Scoppiò a ridere portandosi lentamente dietro un cumulo di ossa, un muretto di femori tibie teschi. Si avvicinò a quello più sporco di tutti, meno in vista. Lo salutò velocemente: “Uè Rosario, come stai? E chissà tu addò se ghiuto a fernì. In cielo sicuramente. Tu ’ncielo, io rind’a stu purgatorio. E che bella vita stai facenn là ’ngoppa eh! Te lo ripeto, conservami il posto. Prima o poi arriverò. Ma hai visto a questi. Gli hai visti Rosà”. I visitatori seguirono Pasquale, che riprese: “Questa è una delle tante cave sotterranee di questo quartiere. Fu utilizzata la prima volta come sepolcreto nel lontano 1656 quando Napoli fu invasa da una delle più terribili pestilenze della storia d’Italia”. “Senti Rosà, sient ’o professor. Te lo ricordi quel maledettissimo anno. Quanta gente morta miez’a via”. La guida continuò a indicando i portali che si aprivano in ogni direzione: “Si dice che a morire furono oltre 250mila. All’epoca Napoli contava circa 450mila abitanti. Fate il conto voi: un flagello! I corpi dei defunti, dopo aver riempito all’inverosimile i canonici lunghi di sepoltura della città come le catacombe di San Gennaro, San Gaudioso, San Pietro ad Aram e Santa Maria del Purgatorio ad Arco, furono portati qui a scolare. In inglese non so tradurlo, chi mi aiuta?”. Si guardò attorno incrociando l’assenso di una bionda del gruppo che spiegò ai suoi amici americani. “Scusate, I’m sorry”, Pasquale guardò in viso gli stranieri. Ripetè: “Sorry, nisciuno è perfetto”. Si scambiò un’occhiata veloce con la ragazza invitandola a dargli una mano. Sorrisero. Si portò le mani al petto e fissando il soffitto, si disse: “Carne ammucchiata a tutt’e parte. Fetore e lamient, urla e pianti. Chell’epidemia fu nu lenzuol nir che dal Lavinaio jette ’ngopp’a città. Accumugliò tutto e dopo ci lasciò nudi di vita. Maronna mia e che schif’e fine!”. Pasquale si scoprì l’orologio sul polso e riprese: “Allora? Dicevo, la scolatura. I cadaveri venivano messi nelle cantarelle, dei sedili scavati nel tufo, e rimanevano lì a essiccarsi perdendo tutti gli umori del corpo. Poi si ammassavano senza criterio. Comm sacc e patan”. Udì i soliti commenti d’inquietudine e al sommesso parlare anglosassone si soffermò sugli americani con in viso smorfie di disgusto. Riprese, con una punta di sarcasmo: “Di tutto quel materiale umano, nei tremila metri quadrati della cavità, oggi si possono contare solamente le ossa di circa quarantamila puviriell. Ma si dice che sotto di noi…”, battè forte il piede destro alzando polvere, “ci siano almeno cinque metri di strati ossei disposti a puntino. Qua sotto è sepolto un popolo intero. Non solo i morti di quella peste, ma anche quelli dell’epidemia di colera del 1836 e tutti i resti provenienti dalle sepolture delle chiese bonificate dopo l’arrivo dei francesi di Murat, le cosiddette terresante. Secondo una credenza popolare nell’Ottocento uno studioso contò la bellezza di otto milioni di ossa di cadaveri. Ot-to mi-lio-ni”. “E chesta t’a si’nventata frà”, ruminò dalla sua postazione nascosta, “chesta me pare na strunzata troppo esagerata. Otto milioni mi sembrano troppo assaje. Possibile? Pot’essere? Tutti questi anni e ho perso il conto. Allora, le ultime furono le ossa del… del… del 1934, trovate verso ’o Maschio Angioino. Queste sotto la lastra di vetro”. Ci pensò su un attimo ed esplose: “E durante la Seconda guerra? Marò sto perdenn’a memoria! Madonna mia. Non ricordo”. Pasquale continuò la sua lezione ipogea spiegando che l’ordine tutt’attorno fu un vero e proprio prodigio voluto dal canonico Gaetano Barbati intorno alla metà del 1800. Si avvicinò alla cappella eretta in suo onore. “Provate a immaginare! Ovunque resti umani alla rinfusa: il fastoso ricevimento della signora morte. Quella che ci appara tutti, come diceva Totò. Vi ricordate la sua poesia? La conoscete? … 'A morte 'o ssaje ched'è? ...è una livella”. La ragazza lo interruppe traducendo. E riprese: “Barbati organizzò un gruppo di popolane devote: le maste che, come formiche, entrarono in questo ipogeo sistemando, secondo raggruppamenti e schemi ben precisi, i resti mortali così come li vedete oggi”. Dall’angolo infondo si sovrappose un commento: “Eh, le maste”. L’oratore costeggiò una staccionata indicando un cumulo di teschi. Indurì la voce: “E fu grazie a queste donne, particolarmente sensibili al culto delle anime purganti, che la pietas popolare di Napoli si avvicinò a questo luogo con una comunanza di fede e devozione, spesse volte con eccessi tipicamente pagani che posero in secondo piano il dogma della santità”. “Marò e che parole strane. E come parla difficile. Chist’a fatt le scuole alte. E bravo Pasquale. Bravo Pascà!”. La stizza per gli intrusi gli era decisamente passata. Solo nel mese di novembre, quando in tutta la città si aprivano i cancelli dei cimiteri, la cava poteva essere visitata e riempita da nuove voci e preghiere. La guida mosse altri passi, i turisti lo seguirono nella seconda galleria. “Appena furono sistemate tutte le cataste, i napoletani videro in queste ossa anonime le cosiddette anime pezzentelle che dovevano essere confortate con preghiere. Una continua nenia di suffragi per garantire alle povere anime abbandonate un poco di refrisco dalle pene del purgatorio. Questo operato aveva una contropartita: ramme ca’ te rong, dammi che ti do. Non si fa niente per niente. Voi mi date gli Euri e io vi porto al cimitero delle Fontanelle. Funziona pure dalle parti vuoste accussì, no?”. Si passò una mano nei capelli. “Ognuno adottava un teschio, lo puliva, gli accendeva delle candele e gli recitava delle preghiere chiedendo in cambio una grazia. Il ritorno di un parente lontano, quasi sempre in guerra. Una malattia da guarire, un amore da salvare e, in tempi più recenti, dei numeri da giocare al lotto”. Li seguì acquattandosi spostandosi velocemente all’inizio della seconda navata. “Eppure stongo semp’accà! Forse a capa mia nun’è bona. Forse nisciune se nnammurate della mia scatola d’osso bucata. Non mi è mai stato chiesto niente, ma presto o tardi, adda firnì stu priatorio”. Volse lo sguardo verso il soffitto. “Vedete quante urne devozionali: sono i ringraziamenti dei fedeli per le grazie ottenute. Scarabattole in legno, tabernacoli in marmo con cuscini ricamati. Reliquiari di ogni genere per tutte le tasche. Qui ci venivano ricchi e poveri perché davanti alla disperazione si è tutti uguali. All’interno, corone del rosario, lumini, santini e richieste di grazia scritte su pezzi di carta, i pizzinni buoni. Qui era nu via vai di gente, negli anni Cinquanta ci arrivava perfino una linea tranviaria. In una Napoli da sempre definita esoterica, non potevano non esserci le personificazioni delle anime. Ogni teschio pezzentello aveva un nome, un ruolo, una storia. Anche tra i morti ci stanno i famosi e qui il più noto è il Capitano. Si dice che…”, si allontanarono sul fondo della galleria. Si sentì chiamare. “Signore”. “Zitt, statt zitt”. “Scusate signore, scusatemi”. “E fernescela, basta. Ma a chi va truvanno chist? Fammi sentire. Fam… m… se se… se se”. Volle sparire, ma non poté. Era già invisibile. Serrò le labbra. Ondeggiò gli occhi velocemente a destra e sinistra. Girò appena la testa. La voce timida “E mo che fate non vi girate? Vi ho visto, signore!”. “Oh Maronna mia. Gesù. San Gennaro”, si nascose dietro un muretto di femori. “Ma comme siete vestito? Sapete che avete proprio na bella cammisella”. “E tu tiene sta maglia ’nguoll tutta ’nzivata”. “Questa macchia è pummarola e pizza. Chesta, invece, dei maccheroni di oggi c’a sarza”. “E maccaruni!”. “Si, e maccaruni. A casa se magnene tutte ’e journe”. “’O vero? Ai tempi miei erano solo per i ricchi. Una volta però li ho assaggiati. Sulu na vota, i puviriell se li sognavano. Ma a proposito, sto sunnanno? Ma tu ’o vero faje? Chi sei? Cosa vuoi scugnizzo?”. Si dissolse contro la parete di tufo. Il bambino: “Io mi chiamo Salvatore, Tatore, e tu?”. “E quanno maje mi è successa na cosa del genere. Ma sono io che sto sognando o mi sto sentendo male”. Sorpresa impastata a felicità, si sentì così: con la gioia addosso che metteva agitazione, novità, nuovo. “Piacere! Io sono Strato”. Il piccolo rise: “Quindi siete antico, mia nonna dice che questo nome non si usa più tanto. Fa venire scuorno”. “Zitt, ma che dici, fai peccato. Se ti sente Santo Strato cosa deve pensare. Da dove sei entrato?”. “Ra lloc”, additò il portone. “Era aperto. Ogni tanto quando ci passavo sentivo una voce che urlava. A volte sembrava che cantasse”. Quasi per vergogna si passò la mano sul viso provando però una sensazione di soddisfazione. “Bhe almeno quaccherun ha sentito. Comunque si, song antico. Di tantissimo tempo fa e tu, piccirillo, neanche puoi immaginare”. “Ma tu senti quello che penso rind’a capa. Come fai?” “Tu mi vedi, e mi senti pure. Tu, chiuttuost comme faje?”. “Boh”, alzò le spalle, “mia nonna m’a parlato sempe di questo posto particolare, diverso, senza paura. Llà fore miez’a via sta la morte, no accà”. “Schh, zitto. Che ti sentono!” “Nun me puonno sentì. Io sono muto. Nun parlo”. “Nun sai parlà, però sient”. “Sento, ma no parlo”. “Acquattate areta a chella preta, stann passann”. Mentre si avviava verso l’uscita Pasquale scosse la torcia tra le mani: “Nel 1969, viste le grandi masse che questo culto feticista muoveva, il cardinale di allora vietò ogni forma di devozione perché contrarie alla dottrina cattolica. Ma ci sta sempe qualcuno che viene qui a scegliersi na capa da venerare”. Il vociare divenne un mormorio lontano. Poi, come sempre là sotto, fu silenzio pesante, silenzio silenzio. Più sarebbe tornato un altro gruppo di visitatori. Il sole era girato a pomeriggio. Strato e Salvatore si spostarono verso il fascio di luce tenue che veniva da una piccola buca, alta sulla parete. “E allora piccirí me lo spieghi o no comm’è che sei venuto qua sotto. Mamma tua sa che stai qua?”. Tatore si morse il labbro inferiore. Gli tornarono in mente le scene forti pazze rosso vermiglio, di quattro anni fa. I colpi di pistola sull’uomo sbagliato che stracciarono l’aria, le urla disperate della mamma, il padre a terra pieno di sangue e il suo ultimo “papaaa” vomitato con tutto il fiato carbone che allontanò per sempre la locomotiva del dire. Pensò alla madre, fu un’incursione nell’oblio e la vide sola, con le occhiaie scavate, i capelli agitati, la pelle lavata dal dolore, silenziosa, vuota, col nulla dentro. Pensò e gli venne freddo umidità dolore e pianse un po’, giusto due lacrime, due sole ma pesanti che gli abbassarono lo sguardo, la testa. “Puveriello nun te fai capace. Che uaio sta camorra”, cercò di accarezzarlo. “Io mi pensavo che mio padre stava qua. Rind’a sti grotte. Invece ci stai tu. A che fare, poi?”. “E a me lo chiedi? Fosse pe me…” mosse ripetutamente l’indice verso l’alto. “Vieni, vieni. Ti spiego due cose”. Ormai il cimitero era vuoto. Andarono verso le edicole votive. “Guarda tutte queste cap’e morte. Hai visto come so sistemate belle. Per tanti, tantissimi, anni ci sono state processioni ’e cristiane a nun firnì. Ognuno teneva una preghiera da regalare a un’anima e una grazia da chiedere. La gente veniva, si sceglievano na capa e la curavano comm’a nu criaturo. Quelle, le anime pezzentelle comm’a me, alleggerite dalle pene di questo purgatorio, andavano in sogno a chillo o chella viva per esaudire le richieste: fa sta bbene quaccheruno della famiglia, far tornare nu parente lontano, fà fa na cosa ’e sorde al lotto. Accussì, a una a una, tutte se ne sono andate. Pure l’amico mio Rosario. Morimmo insieme, lo stesso giorno. Isso priesto, la mattina, io la sera. Settant’anni in due: trentacinque apperuno. Ci pigliamm ’a peste. Lavoravamo tutti e due al porto grande e passavamo o tiempo nella lotamma del Lavinaio. E cadaveri ci portarono qui, uno ’ngoppa l’ato. Ogni giorno morivano oltre mille persone. Isso, Rosario, sta accà, ohi lloco!”. “E tu, dove stai?”. “Io sto accuvato rind’a nu posto assurdo. Per mala sorte a capa mia è fernuta sotto na catast’e jamme. Mai nisciune l’ha vista. Come da vivi, anche da morti ci vuole fortuna”. Lo disse con l’accento indottrinante di un maestro. “Scusate e perché non andiamo a prenderla?” “No. Nun se può fàje. No. No. Si. No. Si. No”. “Ma pecché?”. Esitò un attimo. Sorrisero insieme. “Jamme jà!”. Si portarono sulla parete di sinistra all’inizio della seconda navata. Strato guardò Tatore: “Purtroppo non ti posso aiutare a scavare”, passò attraverso una roccia. Non ci volle tanto. Spostò un centinaio di tibie, più o meno altrettanti femori e qualche metatarso. Il cranio venne fuori, pieno di polvere. Strato si commosse, era una festa. Il bambino soffiò forte forte e come spegnere le candeline tutte d’un colpo fece alzare una nuvola grigia che svelò l’osso. Tirò la manica destra della maglia sulla mano e iniziò a strofinarlo come una lampada di Aladino. Ripose tutte le ossa spostate più o meno com’erano per non dare all’occhio e si sedette a terra. Guardò Strato: “I tuoi capelli corti e niri niri stavano qua ’ngoppa”, accarezzò la volta parietale. Le dita scivolarono sul setto nasale mentre gli occhi andavano e venivano velocemente per comparare il viso di Strato, di fronte a lui. Passò il medio sul mascellare superiore: “E su questa parte ce stava ’o baffett fino fino”. Come un pallone tenne la testa tra le mani e si mise a fissare le orbite oculari, poi accostò la fronte alla sua, la mosse a destra e a sinistra. Durò un attimo: “Ti prego, ti prego aiuta mia madre. Nun vive cchiù. Aiutala a superare questo dolore. Il suo cuore sta suffrenn troppo assaje. Dacci la forza per riprendersi, per riprenderci. Rivoglio la mia mamma, è quasi morta con babbo quel giorno rosso rosso”. Si allontanò appena, prese una delle scatole di latta ammassate lì vicino riempiendola con il giubbotto in jeans che aveva annodato in vita. Ci posò il cranio incrociando gli occhi lucidi di Strato. “Pur n’anima pezzentella sape chiannere. Grazie Tatore. Grazie guagliò!”. Non poté crederci, aveva atteso quel momento ogni giorno dei 357 anni dalla sua morte. Rise nel pianto. Aprì le braccia: “Mo o sacc pecché”. “Cosa?”. “Pecché un po’ di anni fa venne accà nu signore simpatico che si mise a cantare sottovoce”. “A cantare?”. “Si a cantare. Faceva accussì: Napule è mille culure/ Napule è mille paure/ Napule è a voce de’ criature/ che saglie chianu chianu/ e tu sai can nun si sulo. E all’ultima parola si fermò qua, proprio qua e mi sorrise appena appena, fronn’a me come se mi vedesse, comm’a te!”. Tatore rimase a bocca aperta, deglutì e tirò fuori un “Chi era?”. “Capelli ricci, neri neri, sicco sicco, morbido in viso. Glielo chiesi, gli dissi prima che la canzone era bella assai e pure, così per giocare tra me e me, come si chiamava. Non avevo capito bene se mi avesse visto o no. Continuai. Tanto non mi sentiva - pensai potevo dire che volevo. Dopo un po’ si girò per andare via, lo seguii e quando gli fui vicino vicino avvicinai la mia bocca al suo orecchio per dirgli: ‘Mi avete regalato un canto d’amore a Napoli, profondo comm’a sta grotta. Allor, si può sapere come vi chiamate?’. Si fermò un momento, si voltò appena e disse: ‘Ma… ma io nun so nisciuno’. ‘Se permettete’, gli risposi, ‘io nun so nisciuno, esisto ma non ci sono’. Sorrise timidamente: ‘Allor siamo due nessuno, siamo due Ulisse nella grotta di Polifemo e tutti e due abbiamo un ciclope dal quale scappare, qualcosa di pesante dal quale sfuggire per non essere schiacciati’. ‘E sarebbe?’, continuai a sussurargli. ‘Nun c’a fai chiù rind’a sta grotta, vulisse qualche preghiera per farti volare ’ncielo. A me schiaccia invece ’u tropp’ammore di questa città, degli amici, della guagliona mia’. ‘E chist’è nu peso, chist’è nu piacere!’. ‘O sacc! Ma detto tra noi no, sarebbe nu piacere sapendo di poterlo contraccambiare oggi, rimane, tra n’anno, tra dieci, venti, trena senza esagerare, e invece… invece sento che non accadrà ancora per molto, ca nun’è accussì. Comme t’o spiego… o’ ssaje comme fa o core no?!? Batte nu tiempo ca nun’è pe sempe. Comunque io sono Massimo Troisi, ma solo Massimo va buono, si te va buono’. ‘Massimo, e chi s'o scorda cchiù!’.” Cover artwork by Filippo Riniolo Il dialetto usato in questo racconto non pretende di essere un napoletano corretto