Celebrazione della musica - TEC-Lab
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Celebrazione della musica - TEC-Lab
Mariano Boggia Presidente Fondazione Merz, Torino Allestimento e esposizioni dell’opera di Mario Merz in absentia: criteri metodologici, problemi, questioni aperte Vorrei iniziare questo breve intervento ringraziando Bettina Della Casa, ideatrice e curatrice di questa giornata di studi, soprattutto perché il suo invito contiene una sequenza di cinque parole chiave particolarmente significative che ha innescato nella mia mente un processo di riflessione e riconsiderazione della mia attività di assistente d’artista. Le sono inoltre grato per il tema che mi ha assegnato, soprattutto per quell’espressione, in absentia che individua uno scarto, una linea di demarcazione, un cambiamento che ha necessariamente riscontri nella pratica del lavoro. Devo ammettere che di fronte alla pagina bianca mi sono trovato a dover considerare le conseguenze di un accadimento che non avevo forse ancora voluto cogliere in maniera definitiva, né elaborato nelle sue inevitabili conseguenze. La figura dell’assistente, almeno per le modalità da me praticate, ha sempre a che fare con l’assenza; una assenza volontaria della propria figura, programmatica e dettata dal pensiero (non so da quanti altri colleghi condiviso) che il suo operare debba essere nascosto, invisibile (e quindi “assente”). Diventare strumento e/o, nelle migliori situazioni, diventare addirittura mano dell’artista richiede una attenzione, un’adesione alla sua figura, prima di tutto considerata espressione assoluta della libertà di potenza dell’uomo, intesa come volontà irrinunciabile alla realizzazione di un pensiero nuovo. “In presenza” dell’artista, l’assistente accompagna in tutte le fasi la realizzazione di un progetto, dall’atelier allo spazio espositivo, passando attraverso tutti i passaggi intermedi: dai sopralluoghi nei locali espositivi alla stesura dei progetti esecutivi, dalla collaborazione con i tecnici o gli artigiani che partecipano alla realizzazione di manufatti di varia natura alla attenzione per le problematiche del trasporto, dalla organizzazione del cantiere nella sala espositiva al montaggio diretto dell’opera. In tutte queste fasi, seppur ovviamente presente, l’assistente, secondo me, non deve occupare la ribalta, ma deve sempre tenersi un passo indietro, nascosto dietro la sagoma dell’artista. Ma quando questa sagoma scompare il riparo all’ombra del quale l’assistente ha sempre coltivato la facile pratica della propria assenza tutto si complica. Ricorro alle parole chiave per uscire dall’impasse. Le cinque parole sono: verità, tradimento, passione, conoscenza, memoria. Le prime due, “verità” e “tradimento” le considero domande, le altre tre “passione”, “conoscenza”, “memoria” le considero risposte. Per definire la verità, ovviamente sto enunciando mie personali opinioni, mi leggo una frase di un giovane ma affermato scrittore portoghese: “Ovunque mi trovi. Qui, in questa strada. Qui dove potrei trovarmi se chiudessi gli occhi. Tutto il tempo, gli anni e i decenni che ho vissuto e che non ho vissuto, che vivrò e che non vivrò, esistono qui, in questo istante.” (Josè Luìs Peixoto, Il cimitero dei pianoforti, Torino, Einaudi 2010) Mi piace immaginare che questo pensiero attraversasse la mente di Lucio Fontana nel momento in cui Ugo Mulas lo ritraeva con lo sguardo fisso alla tela e il taglierino in mano nella prima delle foto in sequenza nello studio milanese, o di Willem De Kooning quando, con il pacchetto di sigarette stropicciato nella mano, esponeva all’obiettivo di Rudy Burckhardt la perfetta simmetria del suo volto intento a immaginare la sua prossima figura da comporre con i colori. Per arrivare all’esperienza diretta voglio ricordare l’espressione di Mario Merz in alcuni istanti in cui lo coglieva, seppure in situazioni di grande “socialità” per usare una sua parola, un pensiero che gli 1 disegnava uno sguardo lontano e intenso, allo stesso tempo severo e dolce, che lo allontanava dal presente. Ho sempre immaginato che questi siano i momenti in cui la “verità” dell’artista si manifesta nella sua mente, ennesima espressione della sola verità sottesa al suo operare, quella della volontà e necessità di trasformarla ancora una volta in una nuova opera d’arte. Ma questa nuova opera non rappresenta forse la prova del tradimento perpetuato dall’artista stesso ai danni della precedente? Se ogni opera manifesta la verità, una nuova opera smaschera la inadeguatezza della precedente, dimostrandone la falsità. “Verità” e “tradimento” sono quindi elementi propri dell’opera d’arte, che la accompagnano in tutte le sue manifestazioni, anche nel momento di creazione da parte dello stesso autore, non già i corni del dilemma della sua conservazione. E l’assistente? Seppur inconsapevolmente, viene travolto da questa tempesta, ma non può smarrire la bussola, al massimo commetterà piccoli errori di marginale entità, soprattutto se sostenuto dalla passione, dalla conoscenza e dalla memoria. Quello che viene a cambiare, in condizione di “absentia”, quindi, è l’oggetto delle attenzioni dell’assistente, che passa dalla condizione di esperto delle cose a quella, più complessa, di custode dei processi, del metodo, del fine. Penso sia facile definire la passione se riferita alla istintiva adesione, in amicizia e ammirazione, alla collaborazione con un artista: ho la fortuna di avere incontrato, forse per caso, alcuni artisti con i quali si è, e questa volta non a caso, instaurato un rapporto interpersonale dove la passione è, era, elemento costitutivo. Ma passione significa anche lasciare entrare nella propria mente le strutture stesse dell’altrui pensiero, accogliere i suoi meccanismi mentali che ad una visione collegano una sensazione, che ad un pensiero abbinano precise decisioni formali, insomma la si può definire nella capacità per l’assistente di sapere lui stesso cosa deve fare, pur diretto dall’artista. Significa soprattutto dare credito all’artista, cioè credere con convinzione che la cosa (opera) che si sta realizzando (che l’assistente sta in parte o del tutto realizzando), è la legittima ultima espressione della sua verità, pronta per il prossimo tradimento. Come in una cospirazione, la passione è elemento basilare per individuare gli scopi, definire strategie, perseguire gli obiettivi. E come in una cospirazione, artista e assistente instaurano un rapporto di fiducia, praticano una rigida divisione dei compiti pur nella silenziosa consuetudine a collaborare. Come in una cospirazione chi cade sa che l’altro è pronto a proseguire e continuare. Elemento fondante di questa certezza è la conoscenza, intesa come capacità di comprensione del processo creativo di un artista, non solo delle sue opere: cerco di spiegare questo passaggio con un esempio: la costruzione di un igloo di Mario Merz oggi non può essere affrontata come l’esecuzione di un progetto, il modello dato dalla fotografia originale non può essere considerato alla stregua di un esecutivo, non siamo nel campo della architettura (“la copertura dell’igloo non è la costruzione di un tetto” diceva Mario). La conoscenza permette di individuare ad esempio nei ricorsi orizzontali dei morsetti, o nella sovrapposizione delle fasce di vetri o di pietre, o ancora nell’equilibrio tra elementi di copertura opposti (un vetro a nord, il corrispondente opposto a sud e così via) le leggi della composizione che hanno accompagnato quel giorno l’artista nella esecuzione di quel particolare igloo, sempre un igloo ma con il suo carattere particolare, direi “personale”. Solo procedendo in questa maniera l’assistente in assenza dell’artista può realizzare o, meglio, può sperare di saper realizzare quel preciso complesso di fragilità e di struttura, di precarietà e di resistenza al tempo che sono caratteri essenziali di queste opere. E sono convinto che salvaguardare questi caratteri sia più importante della stessa conservazione fisica degli elementi costituenti. Strettamente legata alla conoscenza è infine l’ultima parola chiave, la memoria. E ancora una volta si tratta di una particolare forma di memoria che è necessario serbare in sé mentre si affronta la pratica del lavoro “in absentia”. 2 Come dicevo prima, il rapporto che si instaura tra l’artista e l’assistente permette a quest’ultimo di entrare in stretto contatto con la persona dell’artista, al punto da individuarne e quindi mutuarne i processi mentali di conoscenza e immaginazione. E soprattutto permette di entrare in contatto con quel nucleo di pura energia che consente all’artista di rispondere alla realtà esterna con la “sua” realtà, ricreata in formula artistica. Il prodotto, l’opera del giorno non ne è che un simulacro, oggetto presto superato dalle successive proposte. La memoria che mi interessa individuare si riferisce alla registrazione non tanto dei dati sensibili del singolo prodotto-opera, che saranno argomento di studio per i conservatori e i restauratori, ma l’attitudine all’operare, con le sue abitudini e le sue manie, le ingenuità e le illuminazioni, che non posso chiamare regole, ma che informano la pratica di ciascun artista. Il tempo trascorso insieme all’artista nei momenti di lavoro o di pausa o di viaggio, i silenzi che possono accompagnare le passeggiate comuni in una città nuova nell’imminenza di una mostra da costruire, l’aver colto espressioni e moti dell’animo sono il terreno “denso” dove la memoria allarga le sue radici alla ricerca dei caratteri da fissare in pietre miliari. Una lettura, anche rapsodica, degli scritti degli artisti può integrare e rinnovare questa memoria, aiutando a volte, come una madeleine, il richiamo di frasi ascoltate direttamente e mai dimenticate. E ancora è importante l’aver prestato la massima attenzione ai movimenti dell’artista all’inizio della azione, in quel primo momento teso alla valutazione delle condizioni date, per decidere natura, dimensione e configurazione dell’intervento. Avere registrato questi dati permette all’assistente di ricostruire quella sagoma dietro cui stare, che lo può guidare nella affermazione delle condizioni teoriche e ambientali necessarie, nel senso di indispensabili, alla riproposizione di un’opera ovviamente in un contesto nuovo rispetto a quello della prima esposizione. Per fare ciò è necessario che si affermi una autorevolezza della figura dell’assistente che infranga quella regola non scritta che purtroppo vige in tutti i musei (o quasi) e che prevede per gli artisti “assenti” un trattamento di routine, come una esecuzione fredda e passibile di modificazioni in nome del soddisfacimento delle esigenze di allestimento degli artisti “presenti”. Come responsabile dell’Archivio Merz presso la omonima Fondazione, è mio compito vagliare richieste di prestito di opere di Mario Merz per eventi espositivi presso musei e collezioni. L’intento è quello di salvaguardare la figura dell’artista, attraverso la verifica dell’assunto proposto dai curatori e soprattutto con l’attenzione alla corrispondenza tra la tematica dell’evento e l’opera richiesta. E’ fondamentale non dimenticare che alla base dell’operare di Mario, oltre le riflessioni finora lette, c’è una altissima considerazione della condizione primaria per l’artista: la libertà, libertà verso gli altri, ma soprattutto libertà verso la propria opera che si è sempre manifestata attraverso la continua riconsiderazione e messa in discussione dei suoi risultati. Concludo rileggendo la sua serie di Fibonacci sulla libertà che mi sembra essenziale per comprendere il senso e l’atteggiamento che bisogna avere per mantenere in vita queste opere. 1 1 2 3 5 8 13 21 34 55 89 libertà di lettura in una prigione libertà di disegnare libertà di partire libertà di regalare qualcosa a qualcuno libertà di entrare arbitrariamente in una conversazione politica libertà di soffrire una dichiarazione di ostilità libertà di sostenere il peso della pazienza libertà di avere tre idee contrastanti libertà di rendersi imputato senza esserlo libertà di non credersi prigioniero dell’economia libertà di non essere moralizzatore in condizioni avverse 3 144 libertà di non credere a una generalizzazione. Non penso ci possa essere una frase più adeguata per concludere questo intervento. 4