Ci è cara questa Repubblica

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Ci è cara questa Repubblica
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EDITORIALE
Ci è cara
questa Repubblica
di Piergiorgio Grassi
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e cronache dei media hanno registrato negli ultimi
tempi fatti di ordinaria follia, di antisemitismo e di
perdurante xenofobia, sino a forme esplicite di razzismo. Si registra anche il ritorno della violenza, verbale e fisica, sulla scena della politica. Fatti di ordinaria follia: da rari sono divenuti quotidiani, così frequenti da rischiare l’assuefazione anche se colpiscono la dignità
delle persone, il bene comune, la convivenza democratica. Tra i
tanti episodi, alcuni appaiono particolarmente emblematici, da
non sottovalutare in quanto segnali di pericolo e di derive ritenute impensabili sino a qualche tempo fa. Basti ricordare quelli
del gennaio scorso, a cominciare dall’avventura drammatica dei
quattro clochard che a Genova, sotto i portici della centralissima
piazza Piccapietra, sono stati aggrediti e feriti gravemente. «In
quattro, cappucci delle felpe calati in testa e spranghe in pugno
hanno aggredito persone slovacche che dormivano: una coppia
in tenda, gli altri due distesi su vecchi cartoni. Gli hanno rotto
le costole e le mani, fatti neri gli occhi, con la volontà di punire»: così un quotidiano locale ha raccontato l’episodio che ha
colpito una umanità “marginale”, trattata come materiale di
smaltimento.
In precedenza, a Brescia, mentre si svolgeva un convegno nell’auditorium della parrocchia di San Barnaba alla presenza del
ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, circa duecento persone, contrarie alle pur blande politiche sull’immigrazione proget-
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tate dal governo, hanno protestato lungamente all’esterno dell’edificio, venendo a contatto con i cordoni di polizia che presidiavano l’entrata. Sui siti web si sono susseguiti insulti pesanti verso
il ministro, anche da parte di chi occupa delicati incarichi istituzionali, dimentichi di quell’articolo della nostra Costituzione
repubblicana (il n. 3) che proclama la pari dignità dei cittadini
italiani davanti alla legge, quale che sia il sesso, la razza, la lingua,
la religione, l’appartenenza politica, «le condizioni personali».
Organi di stampa, poi, hanno reso noti gli appuntamenti pubblici del ministro: un invito, nemmeno troppo velato, a continuare nella dura contestazione, in tempi e in luoghi diversi.
Forme di razzismo nemmeno tanto mascherate, se si leggono con
attenzione i dati offerti dal rapporto Censis del 2013, al capitolo che porta il titolo, a mo’ di interrogativo, «Stiamo diventando
razzisti?». La risposta non è per nulla tranquillizzante: sono pochi
gli italiani (il 17 per cento) che cercano di comprendere e di
accogliere con amicizia gli immigrati, mentre negli altri prevalgono diffidenza, indifferenza o aperta ostilità perché ritengono
ormai eccessivo il numero degli immigrati in Italia. Migranti e
rifugiati trattati come “pedine dell’umanità”, come merce lavoro
a basso costo, scarsamente tutelata e soggetta a discriminazioni di
ogni genere, mentre prosperano gli «imprenditori della paura»,
che strumentalizzano ed enfatizzano a fini partitico-elettorali il
disagio e le inevitabili difficoltà della coesistenza.
Altrettanto sconcertante, a Roma, due giorni prima della Giornata
della Memoria e a poche ore dall’inizio del giorno dello Shabbath,
la scoperta di tre pacchi contenenti teste di maiale, indirizzate
rispettivamente alla Sinagoga di Roma, alla sede dell’ambasciata
israeliana e al Museo della storia a Trastevere, in piazza Sant’Egidio,
dove era in corso una mostra dedicata alla Shoah, il genocidio che
ha duramente colpito la comunità ebraica romana, decimata dalle
deportazioni indiscriminate ad Auschwitz-Birkenau e in altri lager.
Uno sfregio alla memoria della immane tragedia che ha segnato il
“secolo breve”; il disprezzo verso una fede religiosa aggravato dall’apparizione di scritte sui muri della capitale che presentano la
Shoah come una colossale e ben architettata menzogna. La rissa,
infine, scoppiata in Parlamento, dopo la votazione della conversione del discusso decreto su Imu e Banca d’Italia, ha alimentato un
avvilente spettacolo mediatico ripreso dalle televisioni del mondo
intero. All’ostruzionismo si è sostituito il blocco della Camera con
aggressioni fisiche e verbali, sino al punto di indicare i nomi dei
giornalisti che avevano censurato le intemperanze. E poi l’insulto
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come arma per colpire e distruggere l’avversario. Una vera sconfitta
per la politica. Chi ha modo di frequentare il mondo della Rete
osserva con sgomento che è saltato l’accordo tra libertà di manifestazione del pensiero e rispetto della dignità delle persone; emerge,
al contrario, «un fondo limaccioso, un misto di aggressività, violenza, risentimenti, fine di ogni rispetto per l’altro che rivela che cosa
sia diventata la società italiana». Le osservazioni sono del giurista
Stefano Rodotà, il quale ha chiesto che «non siano resi accoglienti
per il linguaggio degradato, i luoghi della nuova comunicazione»:
non attraverso forme di «censura preventiva», ma con «l’immediata
e pubblica condanna dei linguaggi oltraggiosi». È giunto davvero il
tempo di introdurre normativamente il principio di legalità e il
principio di responsabilità anche on line.
Non può consolare quanto scrive Marc Lazar, docente a SciencesPo di Parigi e alla Luiss di Roma, secondo cui fenomeni analoghi
si riscontrano al di là delle Alpi, in tutti i paesi d’Europa. Gesti
antisemiti e razzisti si stanno infatti moltiplicando, in particolare
in Francia dove gli insulti nei confronti di ebrei e musulmani
vanno di pari passo con quelli scagliati contro esponenti delle istituzioni, originari di altri continenti, come nel caso di Christiane
Taubira, ministro della Giustizia e francese della Guyana.
La preoccupazione per quanto accade è grande, perché in tal
modo vengono messe in discussione le basi delle società democratiche dell’Occidente. Per Lazar, nella scia di altri analisti, fattori diversi spiegano fenomeni così regressivi. A cominciare dall’interruzione traumatica della crescita economica, dalla incontenibile piaga della disoccupazione (soprattutto giovanile), dalla
forbice delle disuguaglianze che si allarga, generando ripiegamenti identitari e ricerca affannosa di capri espiatori contro cui
infierire. Diventano tali gli stranieri poveri, resi ancora più poveri dalla grande crisi, i rom, gli islamici, gli ebrei; lo sono pure le
istituzioni dell’Unione europea che «appare lontana e intrusiva»
e guidata da burocrazie cieche e da lobby potenti, ritenuta non
in grado di assicurare benessere e protezione a tutti. Le istituzioni nazionali sembrano, a loro volta, aver perso un collegamento
con i problemi reali e aver sostituito la politica degli annunci a
quella delle iniziative concrete, delle riforme tante volte invocate
e promesse, ma raramente realizzate. In questo contesto prosperano partiti e movimenti che da una parte intercettano la protesta e chiedono il voto agli elettori, dall’altra non tutti intendono
assumere responsabilità conseguenti all’interno dei parlamenti.
Come in Italia, ciascuno di essi vuol rimanere «un outsider che
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infrange le regole, che sopprime i tabù e ostenta permanentemente la propria diversità, rifiutando di considerarsi partito simile agli altri». Si rivendica, inoltre, una forma vaga di democrazia
diretta mentre la democrazia rappresentativa, espressa dai partiti
e dalle grandi organizzazioni, viene derisa come anacronistica e
non funzionante, essendosi rotto l’equilibrio tra i due principi
fondativi sostanziali: la partecipazione dei cittadini e l’agire dei
governi. Emergono i populismi quando i governi e i “mediatori”
si staccano dalla società e appaiono lontani e ostili; ma anche
quando il mondo sembra procedere senza regole, in preda ad una
globalizzazione non governata, perché le strutture di controllo
inventate nel secondo dopoguerra del secolo scorso appaiono
ormai usurate e prive di potere effettivo.
Come in altri drammatici frangenti storici i credenti hanno una
responsabilità precisa, che si radica nella fede professata, vale a dire
hanno il dovere di contribuire, con la loro elaborazione culturale,
con l’apporto di un ethos interessato a rinnovare e ripensare lo
Stato democratico, che non è un dato definitivamente dato, ma
che va continuamente reinventato come “casa di tutti”. Stato che
si trova a vivere costantemente il paradosso formulato dal costituzionalista e filosofo del diritto Ernst-Wolfgang Böckenförde secondo cui lo Stato democratico secolarizzato «vive di presupposti che
non può garantire. Questo è il rischio che esso si è assunto per
amore della libertà». Lo Stato democratico può continuare a vivere solo grazie agli impulsi e alle energie capaci di creare vincoli
sociali di solidarietà, compresi quelli che la fede religiosa trasmette
ai cittadini. Si tratta quindi di comprendere lo Stato, nella sua laicità, «non più come qualcosa di estraneo e nemico della fede»,
bensì come «l’opportunità della libertà che è anche compito dei
credenti preservare e realizzare». Lo stesso discorso vale per
l’Europa che, tra poco tempo, con le elezioni di maggio, si troverà
ad affrontare nuove e difficili sfide: non ultima quella di «ridemocratizzare le proprie istituzioni».
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