Farsi cittadini in spazi-laboratorio di un vivere altrimenti Se la

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Farsi cittadini in spazi-laboratorio di un vivere altrimenti Se la
40 | Animazione Sociale dicembre | 2015 inserto
Inserto del mese I Animare fra cittadini uno Spazio di Comunità
Lucia Bianco
Farsi cittadini
in spazi-laboratorio
di un vivere altrimenti
Se la comunità nasce
nel fare e stare insieme
tra mondi diversi
In un tempo di
frammentazione
e chiusura nei mondi
privati o in gruppi
arroccati tra simili, non
mancano esperienze
in controtendenza.
Molteplici sono i nuovi
organismi sociali che
nei territori convergono
nell’intento di produrre,
intrecciando idee dei
cittadini e di istituzioni
sensibili, una nuova
generazione di beni
comuni, con un
approccio ispirato da
principi di responsabilità
civica ed ecologica,
cooperazione, sharing
economy. Tra queste
esperienze un valore
particolare, a livello
culturale e politico,
vengono ad avere
quelle che mirano al
recupero di spazi fisici
per farne una «casa-incomune», un laboratorio
di nuovi stili di vita
e di convivenza.
Forse una società liquida, come la definisce Zygmunt
Bauman, dove l’esperienza individuale e le relazioni
sociali si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo oscillante e volatile, ma anche
liberante e piacevole, ha bisogno di inediti contenitori. Che però la parola «contenitori» non ci tragga
in inganno. Non la prendiamo infatti nel significato
negativo inteso da Foucault parlando di follia e istituzioni totali come «contenitori dell’emarginazione».
Utilizziamo il termine «contenitore» per significare
spazi, ambiti che danno forma all’esperienza di relazioni, proposte culturali, avventure sociali e che
riescono a rendere visibili dei percorsi che altrimenti
non verrebbero percepiti. A due livelli almeno: contenitori di pratiche interpersonali e dunque gruppali,
in cui i singoli possono sperimentare il contenimento
delle energie distruttive e il potenziamento di quelle
creative; contenitori intergruppali in cui sperimentare
una nuova abitabilità dello spazio fisico e del tempo tra
i diversi micro mondi sociali in un territorio.
Una nuova sensibilità
verso Spazi di Comunità?
Chiameremo questi contenitori Spazi di Comunità,
luoghi fisici in cui prendono forma percorsi alla ricerca di relazioni gruppali che evitino da una parte la
dispersione delle relazioni in un individualismo infe-
condo, scelto o imposto che sia dalle circostanze, e dall’altra diano consistenza alla
ricerca di nuovi patti nell’abitare, «contenitori» fisici (un condominio, una strada,
una cascina, un quartiere, un oratorio, un centro civico...) animati da rapporti di
inclusione, giustizia, democrazia.
Se poi in passato questi contenitori erano già dati dal contesto cui si apparteneva
(spesso con ben poco sviluppo dell’autonomia dell’individuo), ora il tradizionale
collante organizzativo e gruppale è debole, e tuttavia sorgono nuovi micro-gruppi
e micro-movimenti con narrazioni che portano a discutere l’attuale modello di sviluppo socio-economico tessendo legami, imbastendo significati, ritrovando la forza
dell’agire insieme, come risposta pratica a una sofferta e appassionante domanda
etico-culturale: come vivere «altrimenti» questo tempo per non mancare il nostro
appuntamento con il mondo?
Alla ricerca pratica di nuovi contenitori gruppali e intergruppali da alcuni anni
stanno contribuendo variegate esperienze di inedita aggregazione fra mondi sociali
che abitano lo stesso territorio, legati dall’intuizione, a volte molto lucida e altre
volte meno, che per abitare un territorio ha un grande valore simbolico e una grande
forza mobilitante lo sperimentarsi insieme, liberamente, nell’animare un vero e
proprio spazio fisico significativo dentro il quartiere, a volte ormai abbandonato,
ritenendo che rivitalizzare uno spazio condiviso, comunitario sia rivitalizzare l’intera
comunità, anche chi non vi entra.
E così in diverse aree del Paese sono nati esperimenti con denominazioni diversificate dove prevalgono termini come Case, Cascine, Spazi, Laboratori, o altro
ancora in relazione alla denominazione dei luoghi in cui questi spazi si trovano.
Spesso si tratta di strutture messe a disposizione dalle amministrazioni locali con
investimenti sulla riqualificazione degli spazi, con un investimento su operatori
professionali qualificati (a volte in organico comunale), qualificate come luoghi
di costruzioni ludiche, artistiche, sociali, culturali ed educative, che vedono come
attori gruppi di cittadini che mettono a servizio di tutti le loro competenze in cooperazione con altri gruppi.
Come rivista, dopo aver seguito con attenzione il sorgere di questi esperimenti ed
esserci confrontati con molti operatori e responsabili, ci sembra importante una
duplice operazione per mettere a disposizione dei lettori almeno parte del patrimonio che è stato accumulato. Anzitutto estrarre alcune «parole chiave» teoriche
e metodologiche e poi suggerire alcuni «interrogativi» per mantenere aperto con
realismo il confronto, vista la complessità, e la diversificazione delle imprese avviate.
La trama
di un approccio pubblico
Una delle parole chiave di queste esperienze che ha richiamato l’attenzione della
Rivista è «pubblico». Da dove nasce questa vecchia e nuova parola nell’utilizzo che
ne fanno gli Spazi di Comunità? Dalle loro narrazioni emergono, a volte confusamente, altre volte lucidamente, tre accezioni a partire da un’ipotesi.
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La natura pubblica di molte questioni che ci attraversano nel vivere quotidiano
la si coglie là dove si condivide l’ipotesi che privatizzare le povertà materiali e
immateriali, considerandole colpa o sfortuna individuale per poi abbandonare le
persone alla loro sorte, in realtà è impoverente per tutti, e dunque che le povertà
sono un «affare pubblico», una sfida per tutti a tessere quei legami e quelle azioni
che possano arricchire la qualità e la dignità del nostro vivere e convivere. Se è la
città che genera le sofferenze, è anche la città nel suo insieme che può alleggerirle.
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Tre grandi
piste d’azione
Questa ipotesi, come si diceva, ha portato le esperienze in più direzioni.
La prima è rendersi organizzazioni responsabili della sorte del proprio territorio e
riavviare legami, discussioni, ipotesi di lavoro, convergenze per non abbandonare
nessuno alla propria sorte. Tutto questo ha chiesto e chiede una nuova discussione culturale, una nuova cultura di ciò che è pubblico oggi, ma anche una nuova
intraprendenza dei cittadini sui territori.
La seconda è una nuova alleanza tra funzioni, risorse e competenze che provengono
dal mondo delle istituzioni locali e dal mondo dei cittadini. Questo rimanda anche
all’idea che le risposte ai problemi non possono essere delegate a una qualche
autorità o funzione tecnico-professionale, ma chiedono piuttosto una circolarità
verticale e orizzontale. Verticale per intrecciare movimenti dall’alto (up-down) con
movimenti dal basso (bottom-up) ricreando così una sorta di autorità condivisa. E
una circolarità orizzontale in cui i cittadini e le diverse aggregazioni in cui si esprimono sono chiamati a muoversi dentro un’etica di cooperazione.
La terza pista è la sperimentazione concreta di tutto questo che ha portato a convergere in iniziative caratterizzate come spazi comunitari partecipati tra alto e basso,
tra istituzioni e cittadini, tra risorse informali e risorse professionali. L’articolarsi
del «tra» delinea un luogo condiviso di pensiero e di azione in cui le strutture fisiche
trovano la loro ragione sperimentale e che viene spesso chiamato Spazio (in) comune, Spazio della Comunità, dove la comunità è il minimo comune denominatore
che tiene insieme, dialetticamente ma costruttivamente, mondi diversi consapevoli
di vivere un comune destino territoriale. Questi contenitori dunque non sono
spazi privati, non sono spazi istituzionali, ma appunto spazi comuni, pubblici, di
progettazione dialogica e di democrazia partecipata.
Un luogo di incontro
tra mondi diversi
Sono spazi aperti a tutti i cittadini, non soltanto a gruppi e realtà omogenee. In tempi
di insicurezza vera o presunta – spinta da media che mettono in evidenza soprattutto ciò che c’è di negativo intorno a noi – queste esperienze non si propongono
come «riserve indiane» in cui ci si ritrova tra simili, ma vogliono costruire luoghi
di incontro tra mondi e gruppi diversi. Sono spazi pubblici, appunto, nei quali il
trovarsi insieme non risponde a un’esigenza di controllo del territorio in cui si vive
e delle persone che si frequentano.
Non vogliono essere spazi in cui vengono contenuti i problemi sociali, ovvero
le persone con comportamenti devianti dalla norma che danno fastidio. E oggi
intorno a noi vediamo come la carcerazione e l’istituzionalizzazione del disagio
(campi profughi, residenze per anziani, ecc.) riprendano forza e seducano per la
loro promessa di risoluzione dei problemi in modo semplice ed economico.
Sono invece spazi pubblici che promuovono inclusione, percorsi di interazione e
convivenza in forme diverse, dall’arte agli stili di vita, dal cibo alla salute, dall’housing al co-working.
Una delle forme che assumono questi «contenitori» è quella dell’essere aperti al
pubblico, nell’accezione del numero indefinito di persone che possono accedere a
un luogo qualificato da «regole» con l’intento specifico di permettere e incentivare
le relazioni, ma anche di fare attività, collaborare per farle, narrarsi il senso di quel
che si fa. Pubblico come risposta all’esasperazione dell’individualismo della cultura
che permea la nostra società. Pubblico come bisogno di uscire dall’isolamento e
dalla solitudine che promuove l’ideologia neo-liberista dominante mettendo al
primo posto il profitto e il denaro. Pubblico come speranza di innovazione culturale
e sociale che promuova accoglienza del diverso e voglia di incontrare e conoscere
l’altro, gli altri.
La consapevolezza
della questione pubblica
«Pubblico», come si è visto, non ha a che fare solo con Enti pubblici. Nelle esperienze che abbiamo incontrato la partecipazione degli Enti è stata ed è variegata,
spesso, purtroppo, intermittente. Alcune hanno visto all’inizio un coinvolgimento
molto forte dell’Ente pubblico, che poi negli anni si è ridotto venendo meno finanziamenti nazionali ed europei; altre sono nate dal basso, da persone e associazioni
piene di entusiasmo e intraprendenza. In alcune la partecipazione è stata un processo promosso, costruito, accompagnato. In altre la partecipazione dei cittadini
ha messo in moto meccanismi che hanno poi, obbligatoriamente, coinvolto gli Enti
pubblici. Percorsi diversi per dare una forma alla ricerca che molte persone, con
ruoli e competenze variegate, hanno fatto e stanno facendo per ritornare a costruire
avventure collettive in un tempo di generale individualismo. Come dicevamo, il
rischio è che le istituzioni si ritraggano.
Ci si chiede spesso quanto nelle istituzioni e nei cittadini vi sia la consapevolezza
del significato sociale, culturale e politico di questi esperimenti. Alcuni cittadini,
comprensibilmente, sono concentrati sul successo delle iniziative e non hanno il
tempo e la cura per allargare gli orizzonti. Altri, sfiduciati, si concentrano su esperienze piccole, ma capaci di incidere sul proprio territorio. Come e dove la crescita
di consapevolezza viene sviluppata in un dialogo, anche dialettico, tra cittadini e
istituzioni locali? Consapevoli che queste ultime, assediate da continue emergenze,
faticano a definire le grandi priorità di investimento, e rischiano di dimenticare il
tema della coesione sociale come elemento fondamentale per la creazione di benessere, per liberare nuove energie e per riacquistare speranza in un miglioramento
sociale fatto in modo collettivo.
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La scelta
della leggerezza
Un’altra parola chiave per comprendere le esperienze è «leggerezza», intesa come
alleggerimento della fatica di vivere, approccio ai problemi che permette di non
rimanerne schiacciati, proposta di partecipazione sopportabile, piacevole.
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L’alleggerimento
delle fatiche del vivere
L’idea di leggerezza che anima la vita negli Spazi di Comunità rimanda a Italo
Calvino e alla sua considerazione della leggerezza come un valore, anziché come
un difetto (1). La leggerezza come filosofia del vivere di chi, nonostante tutto,
trova ragioni per non drammatizzare, per affrontare con ironia questioni difficili
e complesse e per farlo accede al desiderio profondo che mobilita a vivere. La
leggerezza è allora una forma di resistenza, che porta a immaginare che in ogni
situazione, pur drammatica, non manchino mai possibilità di miglioramento e
alleggerimento che, con parziali cambiamenti, restituiscano dignità a ogni situazione e soggetto. La leggerezza, di conseguenza, non è passività o disimpegno,
ma impegno commisurato alle proprie forze, che non schiacci, ma aiuti a liberare
creatività, positività, intuizioni. La leggerezza è celebrata nella danza di Henri
Matisse, in cui corpi tesi e stravolti si tengono per mano resistendo a ogni strappo,
fino a percepirsi inaspettatamente in una danza elegante e bella, che dà forza. La
leggerezza è il dono della danza di gruppo.
La leggerezza
della gruppalità e dell’impegno
Gli Spazi di Comunità ben curati producono legami leggeri o – come qualche
sociologo li definisce – «deboli», che però sono altamente significativi per le persone e per i gruppi. Lo sguardo che ci permette di dare valore alla leggerezza dei
legami, è quello dell’analisi del contesto sociale in termini di rete e di relazioni. Una
rete sociale è l’insieme degli attori sociali e delle relazioni che tra loro si tessono
in modo sufficientemente stabile.
In un territorio la coesione e i legami sociali possono essere molto forti in termini
di solidarietà tra simili, ma anche molto potenti in termini di indifferenza o di
esclusione dei diversi. In molte situazioni l’incertezza e la vulnerabilità diffusa
portano a gruppi rifugio, auto-centrati. E così in non poche situazioni emergono
comitati spontanei, gruppi o associazioni che certamente tra di loro rappresentano
forti reti di solidarietà e di coesione, ma che producono meccanismi di esclusione
nei confronti di quanti sono al di fuori della loro rete. Spesso ciò avviene in nome
di una difesa di valori tribali che si esprimono in un comunitarismo esasperato.
1 | Calvino I., Lezioni Americane, Garzanti,
Milano 1988.
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I legami forti possono essere allora un eccezionale sostegno per le persone e risorsa
per le comunità, ma anche un ostacolo al cambiamento, all’accoglienza di chi è
diverso, di chi porta delle novità che possono sconvolgere l’omeostasi dei sistemi,
l’equilibrio statico e rassicurante acquisito. All’opposto si assiste a una frantumazione di vite solitarie e di gruppi rifugio, dispersi sul territorio, confusi e impotenti,
che faticano a orientarsi e ai quali manca la possibilità stessa di ideare un contenitore
buono della propria soggettività e del proprio potere di agire nel mondo.
Le esperienze di cui stiamo parlando, invece, non sappiamo quanto consapevolmente, hanno accettato di rischiare e di costruire equilibri relazionali e aggregativi
dinamici che via via si possono modificare, ridefinire.
Hanno accettato la sfida di lavorare con i cittadini, con quelle istituzioni pubbliche
che non sono già etichettate da definizioni preconcette e con le reti informali, che
rappresentano legami più deboli tra le persone, ma anche più aperti, più disponibili
a meticciarsi, a incontrare, a scambiare. In una logica di progressivo apprendimento
e progressiva evoluzione di se stessi, dei gruppi di cui sono parti, dei contesti di vita.
Mark Granovetter (2), sociologo e docente all’Università di Baltimora, lavorando
a una ricerca sulle modalità con cui le persone trovano lavoro, mise in evidenza
come solo il 17% avesse trovato un’occupazione grazie a un amico o un parente,
mentre la maggioranza aveva ricevuto indicazioni da persone che incontrava di rado
come ex-colleghi o vecchi compagni di scuola. Granovetter definì il fenomeno «la
forza dei legami deboli».
Questi legami che avevano dimostrato di svolgere una funzione cruciale nell’intermediazione, possono esserlo anche nella possibilità di meticciarsi con altri, sconosciuti, diversi. Nella ricerca di opportunità di lavoro, ma non solo (pensiamo alla
ricerca di un partner o della condivisione di un hobby), può essere utile uscire dalla
rete più stretta formata da familiari e amici per affidarsi a legami più deboli, in grado
di aprire la comunicazione verso altri gruppi e altre reti. La relazione con i legami
deboli permette alle persone di aprirsi ad altro, di mostrare parti di sé diverse da
quelle che di solito le definiscono, permette di essere più tolleranti, più disponibili.
La cura continua
della leggerezza dei legami
È sui legami deboli o leggeri che si fondano gli Spazi di Comunità. Ma fino a che
punto sono legami generativi, inclusivi che permettono di ritrovare la bellezza e il
piacere di stare insieme, di condividere un po’ del proprio tempo, di appassionarsi
a qualche cosa che abbia valore anche per altri? Il rischio è che i legami deboli si
facciano volatili, impalpabili. Sono legami che permettono di non rimanere chiusi
nei soliti giri, senza intrecciare altre relazioni e di rigenerare passioni, interessi,
2 | Granovetter M., La forza dei legami deboli e
altri saggi, Liguori, Napoli 1988.
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La forza generativa
dei legami deboli
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amicizie? Sono legami che permettono di rendere visibile sul territorio la possibilità
di forme nuove di partecipazione in un tempo in cui la militanza dura e pura che
connotava l’adesione alle ideologie, e a forme e strutture che queste si davano per
coinvolgere i cittadini, sono tramontate?
Potremmo definire gli Spazi di Comunità dei social network reali che connettono
le persone ad ambienti sociali, a mondi culturali differenziati, e che innescano
meticciamenti, intesi come «beni relazionali». In questo senso c’è somiglianza con
esperienze diffuse come le Social Street o i gruppi che si dedicano alla cura di una
piazza o di un giardino pubblico abbandonato, le imprese di comunità... Tutti esperimenti partiti da legami leggeri tra persone che vivono lo stesso territorio ma non si
conoscono, e poi trovano luoghi e oggetti reali dove rendere concrete le relazioni.
Gli Spazi di Comunità mettono in contatto le persone con reti che offrono una
grande varietà di informazioni e di relazioni sociali e garantiscono possibilità di
incontro, scambio, supporto. Offrono legami reali, e li mantengono anche attraverso
la possibilità di scambiare informazioni e proposte attraverso la rete (tutte hanno
una mailing list di contatti attivi). Nello stesso tempo le persone che li frequentano
acquisiscono l’abitudine a incontrare singoli e gruppi diversi, che non conoscono, a
entrare in relazione con loro, a condividere tempo ed esperienze. Si creano circoli
virtuosi che alimentano relazioni di fiducia, cooperazione e reciprocità. Si crea
e si alimenta capitale sociale, si costruiscono e si scambiano beni relazionali che
rimettono al primo posto le persone, la loro dignità e i loro diritti.
L’informale quotidiano
in cui germina partecipazione
Una scelta strategica, decisiva del lavoro negli Spazi di Comunità, è quella di saper
valorizzare quel che offre il mondo dell’informale: gruppi informali, spazi informali,
relazioni informali. Informale da una parte è uno spazio della vita, quello della
quotidianità con legami che offrono una possibilità di senso dentro le contraddizioni del vivere, dentro i vincoli interni ed esterni. E informali sono le risorse che
emergono dentro il mondo delle relazioni, al punto che non ci può essere futuro per
le comunità locali se le risorse informali non si ingaggiano e non vengono ingaggiate
da quelle formali. In realtà la disponibilità delle risorse informali spesso sorprende,
a volte spaventa, gli Enti e i servizi pubblici, in quanto sentono «necessità» di set
e richieste già definite, di procedure standardizzate.
La costruzione sociale
di un mondo di utenti
La standardizzazione delle procedure nella pubblica amministrazione è nata per
tutelare i cittadini, per non creare relazioni che favorissero alcuni rispetto agli
altri. Ma nel tempo rischia di diventare qualche cosa che allontana o rende passive
le persone che entrano in contatto, pongono delle domande non «classificabili»,
richiedono accoglienza ai propri bisogni. Se una delle critiche al vecchio welfare che
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viene smantellato per mancanza di risorse (non discutiamo se vera o presunta) è stata
di aver reso passive le persone, di aver costruito degli utenti e di non essere riuscito
a promuovere capacità e competenze delle persone per renderle autonome, gli
Spazi puntano invece su partecipazione e attivazione. Questo processo ha coinvolto
anche gli operatori dei servizi e delle istituzioni tradizionali che rischiano sempre
di sentirsi sotto assedio, con addosso tutto il carico delle soluzioni da trovare, non
pensando di avere davanti persone che hanno risorse che possono essere attivate.
Gli Spazi di Comunità che abbiamo incontrato non sono la risposta alla mancanza
di servizi di un territorio, ma vogliono promuovere un nuovo modo per i cittadini di
entrare in contatto con ciò che è pubblico, in modo più attivo e partecipe, vogliono
dargli una nuova forma, un nuovo «contenitore-laboratorio».
L’informalità negli Spazi è la quotidianità della pratica che fanno gli operatori, o
meglio gli animatori che li gestiscono. L’informalità richiede competenza nel sapere
leggere le domande che emergono e le caratteristiche di chi le pone o si propone
come attore partecipe con proprie idee e stile relazionale. Dire informale è dire
flessibilità nella gestione dei processi che si attivano. Una flessibilità che, nelle
esperienze che abbiamo incontrato, ha costruito via via regolamenti, occasioni di
incontro e co-progettazione e (perché no?) procedure, ma sempre con una sensibilità acuta a renderle comprensibili e accettabili dalle persone che sono coinvolte.
L’informalità richiede costante attenzione alla relazione; non solo al contenuto
delle comunicazioni o delle regole che si danno, ma anche al modo di trasmetterle.
L’informalità richiede che la gestione degli Spazi di Comunità avvenga in una logica
di animazione e non di potere, di fare spazio e promuovere l’auto-organizzazione
delle persone e dei gruppi, di aprirsi a una fiducia tra pari, evitando asimmetrie
sterili che allontanano e rendono passivi, anche se sembrano molto rassicuranti.
Animazione socio-culturale quale pratica sociale liberatrice che promuove le capacità e le competenze delle persone nel trovare strade per costruire azioni sociali
che oggi chiameremmo «beni comuni».
Un’inedita chance
per le istituzioni e le organizzazioni
Forse le esperienze di cui stiamo parlando rappresentano per il «vecchio welfare»,
ma anche per le istituzioni dell’oggi, che si stanno sempre di più allontanando dai
cittadini (le percentuali di voto nelle ultime elezioni la dicono lunga), una provocazione; possono definirsi come stimolo a cambiare, a ricercare con convinzione la
relazione con i cittadini. Anche i laboratori che si sono attivati in molti Comuni per
la costruzione di «Regolamenti per la gestione condivisa dei beni comuni» (3) sono
3 | Esperienza nata nel Comune di Bologna, che
oggi è stata realizzata in 54 comuni e avviata
in altri 79. Si veda il Rapporto Labsus 2015
sull’amministrazione condivisa dei beni (www.
labsus.org) e l’intervista a Gregorio Arena nel
295 di «Animazione Sociale».
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L’informale come «laboratorio»
di nuove idee e nuove regole
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senz’altro un modo in cui le istituzioni stanno interiorizzando questa provocazione, nata negli Spazi di Comunità ma anche nelle esperienze di molti cittadini che
vogliono diventare più attivi, occupandosi del proprio benessere e di quello degli
altri, rifiutando modi tradizionali di associarsi per essere interlocutori dell’Ente
pubblico, mirando a investimenti, e assumendo la delega a risolvere problemi che
spesso avrebbero richiesto una maggiore mobilitazione delle comunità locali.
In fondo questa è una provocazione per il terzo settore, per l’associazionismo tradizionale o per il cosiddetto privato sociale a rinnovare la propria presenza territoriale
in termini non solo di gestione di servizi, ma anche di animazione socio-culturale.
I molti interrogativi
oggi da affrontare
La mancanza di risorse ha stimolato le amministrazioni a coinvolgere i cittadini per
poter continuare a dare alcuni servizi che esse non erano più in grado di fornire,
utilizzando in modo funzionale e strumentale la loro disponibilità e approfittandone
per risparmiare sulla spesa pubblica? Oppure i cittadini, sempre più delusi dall’incapacità degli Enti pubblici a rispondere ai loro bisogni, hanno deciso di muoversi?
Forse sono vere entrambe le cose. La dialettica tra formale e informale, tra istituito
e istituente, tra regole già fatte e regole da fare, libera da una parte le istituzioni dalla
loro farraginosità ricentrandole sul compito prioritario di produrre beni comuni
a tutti accessibili, ma libera anche i mondi dell’informale dal rischio di chiudersi
in se stessi, finendo per produrre nuove barriere, etichettamenti, privatismi. Non
sono questi dei rischi anche per i diversi Spazi di Comunità?
I cambiamenti sociali avvengono spesso perché intercettano interessi privati. La
sfida degli Spazi di Comunità, come dei Regolamenti, è quella di dare agli interessi
privati di singoli e aggregazioni sociali la possibilità di costruire beni pubblici. Anche
in questo senso ci chiediamo quanto questo sia un percorso consapevole, quanto si
rifletta su ciò che sta avvenendo, non solo dal punto di vista di gestione, sostenibilità
ed efficacia, ma anche dei processi culturali e istituzionali che può mettere in atto.
Spazi che sono
e creano beni comuni
Un’altra delle parole chiave da evidenziare e su cui vogliamo riflettere è se e come
gli Spazi di Comunità siano coscienti di costruire «beni comuni». In primis con
la consapevolezza che la propria azione e la propria presenza sul territorio sono
un bene comune, perché costruire occasioni di relazione, spazi di confronto e di
meticciamento è un bene comune.
Per non rifugiarsi
nell’ideologia dei beni comuni
Ma che cosa intendiamo per beni comuni? Stefano Rodotà spiega che ci sono beni
che non coincidono né con la proprietà privata, né con la proprietà dello Stato,
ma esprimono dei diritti inalienabili dei cittadini. Questi sono i beni comuni: dal
diritto alla vita, al bene primario dell’acqua, fino alla conoscenza in rete. Tutti ne
possono beneficiare e nessuno può escludere gli altri dalla possibilità di goderne.
Ci sono beni che esistono e che si devono preservare, tutelare, rendere accessibili
a tutti (come l’acqua), altri che i cittadini possono e forse devono contribuire a
costruire: una comunità solidale, giusta, spazi aperti a tutti e inclusivi.
Dal nostro punto di vista gli Spazi di Comunità sono un bene comune e contribuiscono a tutelare e costruire beni comuni. Quindi non sono solo spazi di aggregazione, in cui le persone possono, attraverso il fare, ritrovare un senso alla quotidianità,
riscoprire il piacere di stare in luoghi pubblici con altri, diversi da sé. Hanno anche
una funzione culturale e politica sul territorio.
Quale consapevolezza di questa funzione c’è nelle persone che partecipano alle
attività promosse in queste esperienze e nelle persone che le gestiscono? Si riesce a
costruire un circolo virtuoso che a partire dall’attesa/desiderio delle persone passi
a co-costruire delle idee, dalle idee diventi progetto, da progetto diventi prodotto/
azione sia di successo che non, e poi – per chiudere il cerchio – riesca ad attribuire
significati alle azioni e ai prodotti attraverso elaborazioni partecipate che possano
essere condivise?
Una spinta al fare politica
dentro i territori
L’esperienza di questi Spazi di Comunità ha permesso di scoprire, di rendere visibile, di dare un «contenitore» alla disponibilità dei cittadini, più che delle associazioni e delle aggregazioni già strutturate, a coinvolgersi nel prendersi cura di beni
pubblici. Ha permesso di ritornare a fare un’esperienza politica, nel vero senso
del termine, cioè orientata al bene della polis, della città e dei suoi cittadini. Certo
se usassimo questo termine con chi opera in modo attivo negli Spazi di Comunità
non siamo certi che ci troveremmo d’accordo.
La parola politica oggi è appesantita da moltissimi significati negativi e dalla sfiducia
nei suoi soggetti tradizionali. Il movimento delle donne parlava – anni fa – della
«politica prima» (4), quella che ha a che fare con l’impegno quotidiano, con la
tessitura di relazioni, con l’agire concreto. Una politica più vicina alla sensibilità
femminile di quella giocata nei contesti delle istituzioni. È questo? Il ritrovare un
modo diverso di entrare in una dimensione politica, ma con quale consapevolezza?
Gli Spazi di Comunità possono diventare un organismo intermedio tra i cittadini
o le istituzioni, o meglio possono diventare un organismo sociale intermedio capace di costruire beni comuni, la cui funzione sia riconosciuta? È auspicabile o ne
snaturerà l’identità?
Anche questi sono interrogativi aperti ai quali nei diversi territori le esperienze
danno risposte, a volte parziali, a volte inconsapevoli che forse vanno rese esplicite
e condivise.
4 | Si veda http://www.libreriadelledonne.
it/pubblicazioni/e-accaduto-non-per-caso-
sottosopra-gennaio-1996
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La responsabilità
di farsi «voice» sul territorio
Conclusa l’era delle grandi ideologie che avevano l’obiettivo di cambiare il mondo
nello sconcerto e sconforto generale, i cittadini si aggregano su cose e azioni concrete
delle quali possono avere un riscontro immediato o comunque a breve termine.
Gli Spazi di Comunità hanno come obiettivo l’essere usati dalle persone e come
orizzonte la quotidianità, perché è solo nel migliorare lo spazio e il tempo della vita
quotidiana che si possono generare benessere, speranza, reti di supporto. Non è più
la storia con obiettivi epocali a essere l’orizzonte di riferimento, ma la quotidianità
come dimensione concreta, qui e ora. Una quotidianità fatta di legami, di occasioni
di aggancio, anche casuali. L’offrire opportunità, dare in modo gratuito o molto
accessibile, consente l’emergere della domanda. Ma non basta. Le persone cercano
un interlocutore credibile, che aiuti a capire cosa fare, come organizzarsi. Che dia
fiducia, che orienti e accompagni. Dalle grandi speranze al «piccolo è possibile».
Dalla pesantezza di un certo modo di intendere partecipazione e militanza, alla
leggerezza di spazi capaci di accogliere le risorse che ciascuno può dare in un clima
di mutualità e semplicità.
Sono questi i percorsi che le esperienze che abbiamo incontrato stanno tentando di
intraprendere per stimolare le persone a uscire di casa, a riprendere a frequentare
gli spazi pubblici e a pensare che il cambiamento sia possibile, anche attraverso
piccole cose, esperienze micro, piccole conquiste quotidiane. Questa è politica
pratica, chiamata a farsi «voice» consapevole e coraggiosa nell’interfacciarsi con i
luoghi decisionali delle politiche di coesione del territorio e della città. Sapendo,
come si diceva all’inizio, che se la città genera sofferenza è la stessa città che può
alleggerirla, e che se la politica ha bisogno di farsi prossima alla vita delle persone,
gli esperimenti di spazio comune su cui abbiamo riflettuto possono essere luoghi
di incontro per una politica locale pensata vicina alla gente.