conquiste - CISL Scuola Ravenna
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Tessa Gelisio si racconta al nostro giornale L’estetica del cattivo gusto: perché il frivolo, il futile, il pacchiano, il superficiale, e lo strappalacrime hanno tanta presa nella nostra società? nell’inserto centrale Saracino a pagina 13 Disoccupazionemaicosìalta NumeridiPaeseinrecessione D isoccupazione record in Italia. Ed è il risultato peggiore in Eurozona. Gli ultimi dati Istat sul lavoro sono pesanti e, sottolinea il segretario confederale Cisl Gianluigi Petteni, “mostrano un Paese ancora in recessione: Jobs Act e legge di Stabilità devono dare risposte adeguate”. L’Istat dunque registra un tasso di disoccupazione ad ottobre del 13,2%, il massimo dall’inizio delle serie storiche nel 1977. In un anno il numero di persone senza lavoro è aumentato di 286 mila unità, e ha toccato quota 3 milioni 410 mila. Tra i giovani il tasso di disoccupazione è pari al 43,3%, in aumento di 0,6 punti percentuali sul me- se precedente e di 1,9 punti su base annua. I giovani under25 in cerca di lavoro raggiungono così quota 708 mila. Dati più ottimisti arrivano dal ministero del Lavoro che nelle comunicazioni obbligatorie re- Manovra, l’Europa ci rimanda a marzo I continua a pagina 4 progressi non bastano. L’Italia resta a rischio di non conformità con il Patto di stabilità. Bruxelles si riserva di riesaminare la legge di bilancio e lo stato delle riforme strutturali a marzo. Giampiero Guadagni Arzilla a pagina 2 Lavoro, bene pubblico La copertina del video “Congelati da sei anni” Lunedì sciopero delle categorie Cisl Edamartedìla mobilitazioneCisl: Ricorso contro il blocco contratti tre giorni “per il lavoro e per il sociale” S cendono in piazza lunedì 1 dicembre i lavoratori di scuola e pubblico impiego per lo sciopero nazionale proclamato dalla Cisl. Chiedono il rinnovo del contratto nazionale scaduto da ormai 6 anni, alla luce anche dell’infruttuoso incontro col Governo del 17 novembre scorso. Intanto le federazioni della Cisl Lavoro pubblico hanno depositato il ricorso sul blocco dei contratti nel pubblico impiego. Spiega il coordinatore Francesco Scrima: “La procedura è stata avviata presso il Tribunale di Roma affinché sollevi di a pagina 16 fronte alla Corte Costituzionale la questione di legittimità in merito al decreto legge n.78/2010 convertito in legge n.122/2010. Una norma prorogata per il sesto anno dalla legge di Stabilità”. Aggiunge Scrima: “La discriminazione e le penalizzazioni cui il Governo Renzi sta continuando a sottoporre il lavoro pubblico lo connota come un pessimo datore di lavoro. Con lo sciopero di lunedì e con iniziative come questa mandiamo al Governo un segnale chiaro”. “P er il lavoro, per il sociale”: è questo lo slogan delle tre manifestazioni nazionali che la Cisl terrà martedì 2 dicembre, per le regioni del centro, a Firenze alla stazione Leopolda; mercoledì 3, per le regioni del sud e delle isole, a Napoli al Teatro Palapartenope; e giovedì 4, per le regioni del nord, a Milano al Carroponte di Sesto San Giovanni. Le tre iniziative - a cui parteciperanno migliaia di delegati, pensionati, giovani e immigrati - avranno inizio a partire dalle ore 10.30 e saranno concluse alle 13 dal segretario gene- rale Annamaria Furlan. Tre giornate di mobilitazione e di dialogo con i lavoratori annunciate con un tam tam su tutti i social network, articolate su nuove politiche per il lavoro, lotta alla precarietà dei giovani, tutela dei redditi dei lavoratori e dei pensionati, sblocco dei contratti del pubblico impiego, estensione del bonus di 80 euro anche ai pensionati. Obiettivo: l’apertura di un confronto serio e costruttivo con il Governo, le istituzioni locali e le altre parti sociali. 2 SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 fa più vicino l’accordo sull’Ast di TerAst Terni, Sdoini.forma Un tassello dopo l’altro sta prendenuna soluzione che potrebbe già martedì alla firma. Ieri al miniprogressi portare stero dello Sviluppo Economico Ast ha coche il contratto con Ilserv, la su esuberi municato principale ditta d’appalto con 200 lavorain cassa integrazione, verrà allungato e Ilserv. tori di un anno. Viene così rimosso uno dei ostacoli all’accordo. Passi avanMartedì maggiori ti anche sugli esuberi. ”Si sono ridotti a il segretario generale delgiorno 39la Fim- commenta Marco Bentivogli - Ci sono 251 lavohanno già firmato uscita volontaria decisivo ratori incentivata. Questo trend potrebbe por- tare l’azienda a retrocedere dai licenziamenti”. Anche il governo parla di ”elementi di novità” e, in una nota diffusa dallo Sviluppo Economico, auspica che “nei contatti che proseguiranno nelle prossime ore si possano creare le condizioni per arrivare alla conclusione dell'accordo definitivo”. Da parte sua Ast chiede che venga ”ripristinata la piena operatività del sito”, dopo che le Rsu di Terni hanno deciso di prolungare lo sciopero fino a giovedì, pur mantenendo la rimodulazione della protesta che prevede il graduale rientro dei lavoratori in fabbrica. Roma, prima vittoria su salario accessorio B uone notizie per i 24 mila dipèendenti del comune di Roma: prima fumata bianca in Campidoglio sul salario accessorio. Dopo una due giorni di trattative no-stop i sindacati incassano una vittoria: il “congelamento” dell’atto unilaterale dell'amministrazione sul nuovo contratto dei dipendenti capitolini e lo slittamento della sua entrata in vigore dal 1 dicembre al 1 gennaio 2015. Per Cgil, Cisl e Uil è “finalmente possibile l’avvio di una negoziazione su una nuova disciplina decentrata che sia effettiva certezza dell’erogazione del salario accessorio”. La Commissione promuove con riserva la manovra: entro marzo altre misure per garantire bilancio conforme al Patto Bruxelleslascial’Italiasullagraticola attualità w fBruxelles (nostro servizio). I progressi non bastano. L’Italia resta uno Stato membro a rischio di non conformità con i requisiti del Patto di stabilità e crescita. Dunque, “occorre ancora un piccolo sforzo in più”, rileva il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici. La Commissione europea resta in attesa che da Roma arrivino le giuste garanzie per non rischiare procedure d’infrazione: “Il tempo che resta non può essere perso - avverte Moscovici occorre che le cose avanzino entro marzo altrimenti la Commissione non avrà esitazioni a prendersi le sue responsabilità”. Nelle sue valutazioni sulle Leggi di stabilità 2015 di 16 Paesi euro (Grecia e Cipro sono ancora sotto le cure della troika), Palazzo Berlaymont tiene i riflettori accessi sui compiti a casa di 7 Paesi. Oltre all’Italia, ci sono Francia, Belgio, Spagna, Austria, Malta e Portogallo, a cui l’Europa chiede “di adottare le misure necessarie per garantire che il bilancio 2015 sia conforme al Patto di stabilità”. Secondo Bruxelles, l’Italia “ha compiuto progressi per quanto riguarda la parte strutturale delle raccomandazioni fiscali” emanate del Consiglio. “Politiche a favore della crescita, mantenendo la spesa primaria corrente sotto stretto controllo e aumentando l'efficienza complessiva della spesa pubblica, così come le privatizzazioni previste, dovrebbero contribuire a riportare nei prossimi anni il rapporto debito-Pil su un percorso di discesa coerente con le norme Ue sul debito”. In alcuni casi, spiega la Commissione, il rischio di non conformità incide sulle possibili misure nell’ambito della procedura per i disavanzi eccessivi. Ecco perché, per il dossier Italia, ma anche per Francia e Belgio, l’esecutivo Ue ha deciso di riesaminare la situazione “a inizio marzo 2015”, in seguito “all’approvazione delle leggi di bilancio e delle previste specifiche dei programmi di riforme strutturali annunciati dalle autorità nazionali nelle loro lettere del 21 novembre”. Roma, Bruxelles e Parigi, infatti, “si sono impegnate ai più alti livelli di governo ad adottare e attuare entro i primi mesi del 2015 riforme strutturali favorevoli alla crescita trova in circostanze eccezionali, con una crescita negativa e un output gap (la differenza tra il prodotto interno loro effettivo e quello potenziale ndr) negativo pari al 4 per cento del Pil”. La decisione di “rimandare” Francia e Italia, non significa necessariamente che i problemi siano gli L’Europa sottolinea i progressi italiani sulla riduzione del deficit strutturale. Ma la situazione sarà riesaminata in seguito “all’approvazione delle leggi di bilancio e delle riforme strutturali” che dovrebbero avere un impatto sulla sostenibilità delle finanze pubbliche nel medio termine”. Un impegno che l’Ue ha voluto riconoscere, evitando “di non precipitare decisioni che potevano essere contestate”. Ancora 3 mesi di tempo, per evitare nuove tensioni all’interno dell’eurozona, una scelta che per l’Ue “ha un senso politico ed economico”. L’Italia, riconosce Moscovici, “si stessi, precisa il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovski, perché se a Matignon hanno problemi a far scendere il deficit, a Palazzo Chigi i grattacapi arrivano dal debito. “Per la Francia il problema è la non attuazione delle regole sul deficit per cui è tuttora in procedura per deficit eccessivo, mentre l'Italia, così come il Belgio, soffre della sostenibilità dell'alto livello di debito: e su que- sto tutte le opzioni di sanzioni previste dal Patto e dal Two Pack e dal Six Pack sono sul tavolo per la prossima primavera”. Nello specifico per la Francia, la Commissione sostiene che “la regolazione del saldo strutturale dovrebbe essere dello 0,3% del Pil, rispetto allo 0,8 raccomandato dal Consiglio nel 2013”, parlando di “progressi limitati per quanto riguarda la parte strutturale delle raccomandazioni fiscali emanate dal Consiglio nel quadro del semestre europeo 2014 e invita quindi le autorità ad accelerare l'attuazione”. E la Germania che fa? Con Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Slovacchia, è tra i 5 Stati membri in linea con il Patto di stabilità. “Tuttavia, il considerevole spazio fiscale, le esigenze di investimento, i tassi di interesse molto bassi, il che implica che i rendimenti sociali hanno molto più peso dei costi di finanziamento, lasciano spazio per incoraggiare gli investimenti pubblici”. Berlino, in sostanza, “ha com- piuto progressi limitati per quanto riguarda la parte strutturale delle raccomandazioni fiscali”. La Legge di stabilità spagnola “non è conforme agli obiettivi di bilancio fissati nella raccomandazione per la Procedura di deficit eccessivo”. Nel 2014, rileva la Commissione, “il risanamento di bilancio in questi sedici Paesi ha subito una battuta d’arresto”, e le previsioni indicano per il 2015 “orientamenti di bilancio sostanzialmente neutri, né di inasprimento né di allentamento”. In merito all’assetto delle finanze pubbliche, anche se gli interventi politici per la riduzione degli oneri fiscali sul lavoro “vanno nella giusta direzione”, la Commissione fa notare che la composizione della spesa, “mostra progressi piuttosto marginali, se non nulli, verso un assetto più favorevole alla crescita”. Pierpaolo Arzilla conquiste del lavoro F ortuna e stupore sono gli argini entro i quali si dipana la storia di Jack Woodward, un giovane inglese diventato apprendista quasi per caso, ma che ha raggiunto presto il successo. Jack stava navigando in cerca di qualche offerta che facesse al caso suo tra anonimi annunci per sviluppatori web e si è imbattuto, nell’Apprenticeship National Service, il sito istituzionale inglese dedicato all’apprendistato (una piattaforma online che, purtroppo, l’Italia ancora non ha). Ed è qui che ha letto un annuncio di Google. Jack, che oggi è un’analista di Google+, grazie a questa esperienza è cresciuto professionalmente, fino a risultare il vincitore del premio Advanced Apprentice Award 2014. La proposta che ha ricevuto Jack è ben retribuita e dimostra grandi possibilità di crescita fin da subito. Si tratta di diventare apprendista in Google nell’area marketing digitale. L’entusiasmo iniziale di Jack è subito confermato dalle responsabilità sul lavoro: Woodward, infatti, si ritrova ben presto a svolgere diverse attività e a realizzare il suo primo progetto professionale ovvero, script Filo diretto con il Centro Marco Biagi / 299 Quando l’apprendistato conduce a Google meteorologici che permettono agli inserzionisti di pubblicare gli annunci in base alle previsioni del tempo. Jack è perfettamente consapevole che ci sono opportunità uniche: occorre essere motivati, determinati, appassionati e lavorare duro. La storia di questo giovane apprendista inglese ci insegna che non sempre l’università è la scelta migliore; e al tempo stesso ci dimostra che l’apprendistato, se applicato bene, può rappresentare un trampolino di cui un Paese come il nostro ha disperato bisogno. Perché un mestiere si impara soprattutto sviluppando competenze professionali direttamente nel contesto aziendale e non studiandole sui libri. In università si insegna la teoria, in azienda si impara a lavorare. Un maggiore dialogo tra i due mondi sarebbe opportuno ed utile. Ciò che testimonia il successo lavorativo di Jack è che gli obiettivi si raggiungono nel tempo, cercando di migliorarsi continuamente e mettendosi sempre in gioco. In questo senso, l’apprendistato può essere una soluzione privilegiata al problema della disoccupazione giovanile. Anche se, purtroppo, in Italia è troppo spesso ritenuto uno strumento vecchio, burocratico e lontano dalle esigenze del mercato del lavoro. Ma non è affatto così. Nonostante l’apprendistato sia da sempre considerato un canale d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, non è mai riuscito a decollare. L’emanazione del Testo Unico dell’apprendistato, abrogando tutta la normativa precedente, aveva razionalizzato e ridefinito la materia, riscrivendola in soli sette arti- coli. Gli annunciati interventi che si sono susseguiti, con l’obiettivo di semplificare l’istituto e rilanciarlo, sono apparsi marginali e non hanno di fatto prodotto gli effetti sperati. Il nobile ruolo che le Regioni devono svolgere per lo sviluppo, non può prescindere da meccanismi centrali che definiscano modelli standard di qualità della formazione, certificazione delle competenze, per agevolare l’incontro tra domanda e offerta. Il Testo Unico italiano sull’apprendistato non ha dunque nulla da invidiare agli altri stati europei. Rappresenta una grande opportunità per i giovani, che accedono ad un impiego relativamente lungo e nello stesso tempo acquisiscono competenze da poter spendere nel mercato qualora il loro contratto non si trasformasse a tempo indetermina- to. Le aziende dall’alto lato, accedono ad una serie di sgravi che gli altri contratti non offrono, e permettono di formare un profilo professionale secondo le esigenze del mercato. Il fallimento del contratto dell’apprendistato non è dovuto alle norme che lo regolano, alla burocrazia o alla sua onerosità ma alla sua ineffettività, dovuta alle resistenze culturali e alla tanto temuta formazione legata al lavoro. L’apprendistato non va cambiato ma va valorizzato, perché è una risorsa strategica. Mondo della scuola e del lavoro devono iniziare a dialogare. Le scuole devono fare più spazio alla pratica e le aziende devo mettere a disposizione dei giovani dei Maestri, che possano trasferire le loro competenze per creare una collaborazione intergenerazionale. Aprire la porta della propria bottega e dare il benvenuto a un giovane apprendista non significa solo insegnargli un mestiere di qualità, trasmettergli l’umiltà di imparare e il valore del lavoro, ma anche formare persone capaci di mettere il proprio patrimonio di conoscenze al servizio degli altri. Monica Zanotto 3 Ue. Mentre Blair lascia l’Italia, su Londra si abbatte il verdetto contrairio ai superbonus per i banchieri SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 Retribuzionid’oro, unoschiaffoallaCity global B ruxelles (nostro servizio) – Mentre Blair, a Roma, pasteggiava amabilmente con il nostro premier, Matteo Renzi, la Corte europea del Lussemburgo, assestava una sonora bacchettata alla Gran Bretagna, schierata contro i limiti ai maxibonus per i supermanager. Ma l’Europa ha detto no. Anzi, lo ha ribadito, difendendo la direttiva sui requisiti patrimoniali di un anno e mezzo fa, che Londra ha provato a ricusare. Uno smacco per la City, che sulle “stecche” extra stipendio di base non vuole intromissioni, e che invece deve ingoiare il boccone che arriva direttamente da Lussemburgo. L’avvocato generale Niilo Jaaskinen ha suggerito alla Corte di giustizia di respingere il ricorso presentato dal Regno Unito alla stessa Cje, a cui aveva chiesto di annullare il cosiddetto Pacchetto Crd IV del 26 giugno 2013 adottato da Consiglio e Parlamento Ue, in cui è compresa una disposizione che obbliga a stabilire un rapporto tra lo stipendio di base e i bonus per quei “soggetti che svolgono attività professionali che hanno un impatto sul profilo di rischio degli enti creditizi”. In base alla direttiva europea, i supermanager “non possono ricevere bonus superiori al 100 per cento del loro stipendio di base, o al 200 per cento se lo Stato membro decide di conferire tale potere agli azionisti, ai titolari o ai membri di tali enti creditizi”. All’Autorità bancaria europea (Abe) viene assegnato il potere di elaborare progetti di norme tecniche di regolamentazione per specificare i criteri utilizzati per individuare i soggetti cui si applica la direttiva. Il Pac- conquiste del lavoro B ruxelles (nostro servizio) - “Un buon passo verso la giusta direzione”. La sentenza della Corte di giustizia Ue mettele ali al premier inglese David Cameron e alla sua voglia matta di restringere la libertà di circolazione nel suo Paese agli stranieri, compresi i cittadini Ue. Secondo la Corte di Lussemburgo, “i cittadini dell’Unione economicamente inattivi che si recano in un altro Stato membro con l’unico fine di beneficiare di un aiuto sociale possono essere esclusi da talune prestazioni sociali”. La logica di questa sentenza, affermano alcuni think tank euroscettici, vicini a Downing Street, “conferma che i governi nazionali hanno il diritto di chiedere alla gente di andarsene se non hanno i soldi per finanziare se stessi, un posto di lavoro o una vera e propria possibilità di trovare un lavoro”. Il caso nasce davanti al Tribunale sociale di Lipsia, a cui è stata sottoposta una controversia tra due cittadini rumeni,(una madre e suo figlio) da una parte, e il Jobcenter Leipzig, dall’al- chetto Crd obbliga gli enti creditizi a pubblicare il rapporto definito nella direttiva e il numero di persone che sono retribuite oltre una certa soglia. Esso impone poi che gli enti pubblichino informazioni sulla retribuzione complessiva di ciascun membro del loro organo di amministrazione o dell’alta dirigenza qualora ciò sia richiesto dallo Stato membro o dall’autorità competente. La Gran Bretagna ha provato a fermare tutto questo, e a far saltare il tetto ai bonus che la Commissione aveva faticosamente costruito. La Corte di giustizia ricorda, infatti, che “uno dei principali fattori scatenanti della crisi” è stata “la struttura dei sistemi retributivi vigenti” nelle banche, e “il pagamento di bonus ragguardevoli rispetto agli stipendi”, che “hanno incentivato i dipendenti ad assumere rischi eccessivi per poter partecipare ai profitti a breve termine delle banche, ma non ai costi dei loro fallimenti che, nei casi più gravi, sono stati sopportati dai contribuenti”. Secondo il Regno Unito, invece, le misure che stabiliscono il rapporto tra la remunerazione fissa e quella variabile non possono essere adottate sulla base delle disposizioni del Trattato sulla libertà di stabilimento e alla libertà di prestazione dei servizi (articolo 53, paragra- fo 1, Tfue), ma rientrano nella politica sociale e, in quanto tali, nella competenza degli Stati membri. Il Pacchetto Crd, ha provato a spiegare Londra alla Corte di Lussemburgo, “viola i principi di proporzionalità e di sussidiarietà”, ritenendo poi “che la direttiva contravviene al principio della certezza del diritto, che il conferimento di poteri all’Abe è illegittimo e che i provvedimenti di regolamentazione che richiedono la pubblicazione della remunerazione sono in contrasto con il diritto alla vita privata e con le norme in materia di tutela dei dati”. L’avvocato generale ha smontato le tesi britanniche spiegando che, premesso che “la Corte ha già dichiarato che provvedimenti volti a promuovere lo sviluppo armonioso delle attività degli enti creditizi nell’insieme dell’Unione, eliminando qualsiasi restrizione alla libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi, rafforzando nel contempo la stabilità del sistema bancario e la tutela dei risparmiatori, possono basarsi sull’articolo 53, paragrafo 1, del Tfue 3”, la parte variabile della remunerazione ha “un impatto diretto sul profilo di rischio degli enti finanziari”, e dunque può “colpire la stabilità degli enti finanziari che possono liberamente operare nell’Unione e di conseguenza quella dei mercati finanziari dell’Unione”. Jaaskinen riconosce “che la determinazione del livello della retribuzione è incontestabilmente una questione di competenza degli Stati membri”, precisando però, che “fissare il rapporto tra la remunerazione variabile e lo stipendio di base non equivale a imporre un tetto massimo ai bonus dei banchieri o a fissare il livello di retribuzione, poiché non è fissato alcun limite allo stipendio di base, al quale i bonus sono indicizzati”. Sulla violazione del principio della certezza del diritto, che secondo la Gran Bretagna nasce dal fatto che “le disposizioni si applicano a contratti di lavoro stipulati prima dell’entrata in vigore della direttiva”, l’avvocato generale risponde “che gli enti creditizi sono stati avvisati della nuova normativa in materia di remunerazione con largo anticipo rispetto ai termini di trasposizione contenuti nella direttiva”. E sull’illegittimità dell’attribuzione dei poteri all’Autorità bancaria europea, Jaaskinen afferma che la delega è valida perché quei poteri riguardano “unicamente elementi tecnici non essenziali, laddove le scelte strategiche e politiche sono state adottate nell’atto legislativo di base”. L’Abe “è autorizzata semplicemente a elaborare progetti di provvedimenti che non diventeranno legge se non dopo essere stati adottati dalla Commissione”. Le sue proposte “sono prive di effetti giuridici” e quindi “non sono idonee a incidere sui diritti e sugli obblighi dei soggetti interessati”. Sentenza della Corte di giustizia europea sui requisiti per l’accesso alle prestazioni sociali Stopaimigrantidelsussidio tra, che ha negato loro le prestazioni dell’assicurazione di base. La mamma, fa sapere la Corte di giustizia Ue, non si è recata in Germania per cercare un impiego, anche se ha chiesto le prestazioni dell’assicurazione di base riservate ai richiedenti lavoro. Ella “non possiede una qualifica professionale e sinora non ha esercitato alcuna attività lavorativa né in Germania né in Romania. Vive in Germania insieme al figlio almeno dal novembre 2010 e abita presso la sorella, che provvede al sostentamento suo e del figlio”. La donna percepisce, per suo figlio, “prestazioni per figli a carico pari a 184 euro mensili, più un anticipo su pensione alimentare pari a 133 euro mensili”, che “non sono oggetto del presente procedimento”. Secondo la Corte Ue “per poter accedere a talune prestazioni sociali (quali le prestazioni tedesche dell’assicurazione di base), i cittadini di altri Stati membri possono rivendicare la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante solo se il loro soggiorno soddisfa i requisiti di cui alla direttiva ‘cittadino dell’Unione’. La Corte ricorda che, secondo la direttiva, “lo Stato membro ospitante non è tenuto a erogare una prestazione sociale durante i primi tre mesi di soggiorno”. Quando la durata del soggiorno “è superiore a tre mesi ma inferiore a cinque anni (come nel caso in questione) la direttiva subordina il diritto di soggiorno alla condizione che le persone economicamente inattive dispongano di risorse proprie sufficienti”. In questo modo, si vuole “impedire che cittadini dell’Unione economicamente inattivi utilizzino il sistema di protezione so- ciale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento. Uno Stato membro deve pertanto avere la possibilità di negare le prestazioni sociali ai cittadini dell’Unione economicamente inattivi che esercitino la loro libertà di circolazione con l’unico fine di ottenere il beneficio dell’aiuto sociale di un altro Stato membro, pur non disponendo delle risorse sufficienti per poter rivendicare il beneficio del diritto di soggiorno; al riguardo, deve essere esaminato ogni caso individuale, senza tener conto delle prestazioni sociali richieste”. La Corte di Lussemburgo osserva “che la direttiva ‘cittadino dell’Unione’ e il regolamento sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale ammettono una normativa nazionale che esclude i cittadini di altri Stati membri dal beneficio di presta- zioni speciali in denaro di carattere non contributivo (le quali invece sono garantite ai cittadini dello Stato membro ospitante che si trovanonella medesima situazione), in quanto tali cittadini di altri Stati membri non godano di un diritto di soggiorno in forza della direttiva nello Stato membro ospitante”. Si ricorda, inoltre, “che il regolamento sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale non disciplina le condizioni di concessione delle prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo”, competenza quest’ultima, che spetta al legislatore nazionale, e che è inoltre “competente per definire la portata della copertura sociale assicurata da tale tipo di prestazioni”. Conseguentemente, “nel fissare le condizioni e la portata della concessione delle prestazioni speciali in denaro P.Ar. di carattere non contributivo, gli Stati membri non attuano il diritto dell’Unione”, e dunque “la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non è applicabile”. La Corte ha stabilito che la donna romena e suo figlio “non dispongono di risorse sufficienti e non possono pertanto rivendicare il diritto di soggiorno in Germania in forza della direttiva ‘cittadino dell’Unione’, e di conseguenza, “non possono avvalersi del principio di non discriminazione sancito dalla direttiva e dal regolamento sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale”. Tra gli Stati membri più attivi nell’applicazione delle norme Ue c’è il Belgio, che ha già chiesto a molti cittadini comunitari senza lavoro o senza mezzi propri di auto sostentamento di lasciare il Paese. Il vice presidente della Commissione, Timmermans, parla di sentenza “importante” che chiarisce che “libera circolazione non significa automaticamente accesso al sistema di previdenza degli Stati membri”. P.Ar. 4 SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 Agricoltura, Sbarra (Fai Cisl): Pubblico impiego, alle elezioni Rsu 2015 rafforzare quadro diritti-tutele lavoratori voto e candidatura per lavoratori precari “C ondividiamo la soddisfazione del Ministro Martina per i segnali positivi dell’andamento dell’occupazione in agricoltura e il suo impegno a favore dello sviluppo dell’imprenditoria agricola, ma gli ricordiamo anche i problemi ancora irrisolti”. Così il commissario della Fai-Cisl Sbarra commenta le dichiarazioni di Martina sui dati Istat. “In questo momento storico - aggiunge Sbarra - è necessario rafforzare il quadro dei diritti e delle tutele dei lavoratori e delle lavoratrici del mondo agricolo per perseguire concretamente il bene comune dell’intero settore”. In questi giorni, ricorda Sbarra, la Fai ha lanciato una vertenza per ottenere dal Governo, tra l’altro, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio; e la realizzazione delle misure tese a superare la precarietà e vincere il lavoro nero. P ieni diritti anche ai precari alle prossime elezioni Rsu nei comparti del lavoro pubblico, che si svolgeranno dal 3 al 5 marzo 2015. Grazie all’accordo quadro siglato ieri all’Aran, tutti i lavoratori precari di Sanità, Enti Locali, ministeri, Enti Pubblici non Economici, Agenzie Fiscali, Scuola, Università e Ricerca, potranno votare alle elezioni Rsu 2015 e presentarsi come candidati. E’ un altro passo avan- ti, sottolineano in un comunicato congiunto Maurizio Bernava, segretario confederale della Cisl, e Francesco Scrima, coordinatore della Cisl Lavoro Pubblico, “verso il diritto di rappresentanza di questi lavoratori che da anni lavorano nel pubblico”. Ora, aggiungono, “chiediamo al governo un percorso di stabilizzazione e, nel frattempo, di proroga dei contratti di lavoro”. Ragazzini: il sindacato di Walesa ha cambiato il corso della storia non solo in Polonia ma nell’intera Europa dibattito Solidarnosc,una lezioneancoraattuale S ono passati 25 anni dalle prime elezioni semilibere della Polonia. Un risultato ottenuto soprattutto grazie all’operato del sindacato Solidarnosc, guidato da Lech Walesa e sostenuto fortemente dalla Cisl. Le elezioni del 1989 in Polonia rappresentano un evento epocale: la nascita del primo governo non comunista di Tadeusz Mazowiecki, scomparso l’anno scorso, è consi- derato un contributo fondamentale alla caduta della cortina di ferro. E’ per ricordare quegli uomini e quegli eventi, e il ruolo del sindacato nei grandi cambiamenti politici della nostra epoca, che si è tenuto a Roma il convegno “Solidali con Solidarnosc”, organizzato dall’ambasciata della Repubblica di Polonia e dalla Cisl. L’evento è stato moderato da Beppe Iuliano, del dipartimento internazionale della Cisl, che ha rilevato la lungimiranza dell’organizzazione sindacale italiana nel costruire un “gemellaggio” con Solidarnosc. Un legame straordinario, ha sottolineato ancora Iuliano, che dura ancora oggi e che vede le due organizzazioni sindacali impegnate per un’Europa più forte. La lezione di Solidarnosc è, d’altra parte, ancora attuale. I valori del dialogo, della non violenza e la rivendicazione dei di- ritti portarono a cambiamenti storici: “Solidarnosc - ha ricordato il segretario confederale della Cisl, Piero Ragazzini non ha cambiato solo la Polonia ma il mondo intero; il regime ha finito per rispettare la solidarietà fra la gente e l’unità, tanto che oggi possiamo affermare che senza Solidarnosc non ci sarebbe stata la Perestroika”. In un momento di profonda crisi economica e sociale, l’ispirazione di Solidarnosc torna dunque di prepotente attualità: “Oggi in molti mettono in discussione l’importanza dei corpi intermedi - ha sostenuto Ragazzini - ma la lezione di Solidarnosc, con la sua profonda umanità e il suo coraggio di agire, dimostra l’esatto contrario; l’esperienza polacca ci insegna che laddove ci sono sindacati liberi e indipendenti si possono migliorare le condizioni dei lavoratori, un mes- saggio ancora oggi attuale per riaprire il dialogo sociale in Europa e fermare quelle politiche di austerità che hanno prodotto 25 milioni di disoccupati; Solidarnosc – ha concluso il segretario confederale della Cisl – ci ricorda inoltre l’importanza della collaborazione fra i sindacati che devono crescere anche all’estero per prevenire le delocalizzazioni ed evitare il dumping sociale”. Anche per Emilio Gabaglio, già segretario generale della Ces, la celebrazione dei successi del sindacato polacco è importante non solo per non disperdere la memoria ma anche perché quell’esperienza fondativa continua ad avere una sua influenza e un suo peso anche oggi nei confronti di “un sindacato libero ma alle prese con la necessità di recuperare forza, consenso e capacità d’iniziativa di fronte alla profondità delle trasformazioni economiche dettate dalla crisi e dall’incapacità delle istituzioni europee di porvi rimedio”. Fra gli episodi ricordati nell’ambito del convegno, lo storico incontro avvenuto a Roma fra Lech Walesa e Lula, futuro presidente del Brasile. Un incontro promosso e mediato da Luigi Cal, attuale direttore dell’Ufficio dell’Ilo di Roma: “La Cisl – ha detto Cal ricordando quel famoso episodio – ha saputo entrare nello spirito della storia negli ultimi 40 anni contribuendo ai cambiamenti; l’incontro tra Walesa e Lula è stato precursore di tempi futuri e sono particolarmente lieto che la Cisl sia stata dentro il meccanismo che l’ha promosso”. Al termine del convegno è stata presentata la mostra “Solidarnosc nei documenti della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli” che racconta la storia del sindacato, dalla sua nascita fino alle elezioni del 1989. Manlio Masucci conquiste del lavoro SEGUE DA PAGINA 1 - DISOCCUPAZIONE MAI COSI’ ALTA. NUMERI DI PAESE IN RECESSIONE lative al terzo trimestre 2014 parla di andamento positivo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, pari ad oltre 400 mila nuovi contratti, con un aumento tendenziale del 7,1% rispetto ad un anno prima. I rapporti di lavoro a tempo determinato rappresentano circa il 70% dei nuovi contratti, con un incremento dell’1,8% rispetto al terzo trimestre 2013. “Ancora una volta siamo inondati da una serie di dati sul lavoro, apparentemente contraddittori, perché riferiti a periodi diversi e a fonti diverse”, osserva Petteni. Tuttavia, aggiunge, “leggendo in detta- glio si scopre che a crescere sono solo i contratti a termine e le collaborazioni: anche laddove l’occupazione cresce, sono i posti di lavoro non standard a salire. Ma soprattutto aumentano i disoccupati, portando il tasso di disoccupazione alla cifra record del 13,2%, e nel mese di ottobre è tornata a crescere in maniera significativa la cassa integrazione”. Infatti l’aumento è di quasi il 20% tra ottobre 2013 e ottobre 2014 e del 22% su base congiunturale, rispetto allo scorso settembre, “e l’aumento sarebbe anche maggiore tenendo conto delle moltissime domande di cassa integrazione in deroga giacenti, in tutte le Regioni, a causa della mancata assegnazione delle risorse da parte del Governo”. Conclude allora il segretario confederale Cisl: “A legge delega approvata ci attendiamo di essere convocati dal ministro del Lavoro sul primo decreto di attuazione, che riguarderà l’introduzione del contratto a tutele crescenti, ma auspichiamo la contemporanea emanazione dei decreti sullo sfoltimento delle tipologie contrattuali e sull'estensione dell’Aspi”. Nel frattempo “stiamo chiedendo al Governo e ai gruppi parlamentari un’attenzione molto forte sullo stanziamento di risorse per gli ammortizzatori sociali: i 2 miliardi attualmente previsti in legge di stabilità, più le risorse previste dalla riforma Fornero sono insufficienti per dare risposte sia sul fronte dell’estensione dell’Aspi, prevista dal Jobs act, sia sul fronte della cig in deroga che va adeguatamente rifinanziata finché il Governo non procederà alla copertura dei settori oggi scoperti, sia sul fronte delle politiche attive che dovranno avere un ruolo centrale nel nuovo assetto delle politiche del lavoro”. Giampiero Guadagni SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 L’arte di produrre Arte, una ricerca sull’industria culturale e creativa in Italia condotta dal Centro Studi Gianfranco Imperatori con il contributo della Fondazione Roma Arte-Musei S VIA PO CULTURA In mostra al Complesso del Vittoriano a Roma le opere di Mario Sironi VIA PO CULTURA - DORSO SETTIMANALE DI CONQUISTE DEL LAVORO - 876 a pagina 6 conquiste del lavoro Il Liberty: Viola Muscinelli racconta la prima rivoluzione culturale che fu anche globale, un ventennio fiammeggiante d’espressioni... (nelle pagine centrali) pesso crediamo di sapere cos’è il cattivo gusto e sorridiamo indulgenti alla vista dei nanetti da giardino che impreziosiscono l’ingresso di villette e seconde case. Ma a farci riflettere sui nostri sbrigativi giudizi estetici è un libro di Andrea Mecacci intitolato “Il kitsch” (il Mulino, 2014, 162 pagg., 12,50 euro). L’obiettivo del testo è sostanzialmente didattico ed è perfettamente centrato sia per la grande competenza dell’autore che per la sua chiarezza espositiva. In poche parole, Mecacci ha scritto un’introduzione al kitsch utile a chiunque voglia iniziare a comprendere perché il frivolo, il futile, il facile, il pacchiano, il superficiale, lo sciropposo, il vistoso e lo strappalacrime abbiano così tanta presa nella nostra società. Per uscire dall’astratto tutti questi termini si concretizzano in innumerevoli prodotti: dalla gondola in miniatura al comportamento di certi politici, da molte versioni cine-televisive della grande letteratura alle statuette di Padre Pio, da Shakespeare usato per commedie musicali alle arie di Mozart ridotte a jingle, dai mobili finto antico a romanzi come Il vecchio e il mare, dalla villa di Elvis Presley a Memphis al modo in cui tanti turisti guardano monumenti e paesaggi. Come si può arguire da questi esempi il kitsch è un fenomeno socio-estetico ampio, trasversale e che riflette una precisa antropologia. Infatti, sin dalla prima pagina del suo lavoro, Mecacci problematizza il tema: il kitsch è “un interrogativo culturale che ha investito l’identità del soggetto novecentesco (i suoi gusti, le sue scelte, i suoi comportamenti) e degli oggetti su cui questa identità elaborava se stessa”. A ben vedere dunque il nocciolo della questione non sta tanto nel prodotto kitsch quanto nel fare del kitsch l’unica dimensione estetica. Per qualcuno forse quest’approccio potrebbe apparire come la sopravvalutazione di un fenomeno tutto sommato marginale rispetto all’esistenza di tante, troppe persone oggi alla ricerca di un lavoro e di un futuro. In realtà non è così. Innanzitutto, perché il kitsch è un’iniezione di felicità visiva a buon mercato e fa ormai parte delle nostra vita quotidiana. Tant’è che lo ritroviamo dappertutto: negli oggetti, nelle immagini, nei testi narrativi. In secondo luogo, perché è una dimensione della a pagina 7 diretto da Mauro Fabi L’estetica del cattivo gusto Un libro di Andrea Mecacci sul Kitsch spiega perché il frivolo, il futile, il facile, il pacchiano, il superficiale, lo sciropposo, il vistoso e lo strappalacrime abbiano così tanta presa nella nostra società di PATRIZIO PAOLINELLI modernità che cambia nel tempo e dunque siamo dinanzi a un fenomeno culturale tanto sfuggente quanto complesso. Infine, perché rappresenta il gusto, o il cattivo gusto se si preferisce, di una sensibilità estetica che materializza il risultato di numerose trasformazioni sociali intervenute nella sfera della produzione e del consumo. Il libro si articola in rapidi ed efficaci capitoli finalizzati a presentare i tratti distintivi e i mutamenti interni al kitsch, dalla sua comparsa in Germania, tra il 1860 e il 1870, alle sue incursioni nella cultura pop e alle sue proiezioni nel citazionismo postmoderno. Lo scopo è quello di tracciare le linee evolutive di una categoria storica che muta se stessa col mutare dei processi sociali. Mecacci individua la genesi del kitsch nel dibattito settecentesco sul gusto. Dibattito che si iscrive sia nel campo dell’estetica che in quello politico col passaggio di potere dall’aristocrazia alla borghesia. Gli illuministi separano nettamente il gusto dal cattivo gusto. Da una parte riposa la semplicità, l’equilibrio e la misura del classicismo, dall’altra strilla l’eccesso, il superfluo, l’artificio. Voltaire: “Come il cattivo gusto consiste nell’essere attirati solo da condimenti piccanti e ricercati, così, nelle arti, il cattivo gusto consiste solo nell’apprezzare ornamenti manierati e nel non capire la bella natura”. Nell’800 il kitsch si intreccia col Romanticismo da cui mutua il primato del sentimento trasformandolo però in sentimentalismo. In altre parole, il kitsch fagocita le istanze romantiche metabilizzandole all’interno della propria sensibilità: “Tutti gli oggetti del sentimento romantico (la natura, l’amore, la patria) nel kitsch si sono rovesciati nel proprio contrario: non più dimensioni inquietanti dell’interiorità, ma pratiche consolatorie”. Insomma, il sentimento non rappresenta la premessa dell’esperienza estetica ma costituisce il suo fine; non è apertura del sé alla pluralità dell’esistenza ma si trasforma in un’aspettativa interiore già codificata: è il mondo di Emma Bovary. Nel Novecento il kitsch è interpretato come un effetto delle crisi che hanno segnato quel secolo. Norbert Elias lo definisce come il “sogno di evasione di una società che lavora”. Si tratta di un bisogno di compensazione imposto dalla coercizione esercitata dal capitalismo industriale sul corpo e lo spirito degli individui. Hermann Broch osserva invece il kitsch da un punto di vista etico arrivando a concludere che è il modo in cui il male si dà esteticamente. Inevitabilmente il kitsch finisce per entrare nel dibattito sulla cultura di massa proprio perché si è incardinato nella coscienza della piccola e media borghesia fissando i suoi principi estetici: azione, immedesimazione, godimento, emozione. Brecht e la Scuola di Francoforte tenteranno inutilmente di rovesciare questo modello culturale denunciandolo come una forza che cela le disuguaglianze sociali. Oggi il kitsch è un fenomeno connotativo della nostra contemporaneità. Secondo Abraham Moles si è diffuso a macchia d’olio grazie a tre macrofattori: “il feticismo (l’esclusiva centralità dell’oggetto nella civiltà industriale), l’estetismo (l’affermazione della bellezza come fine in sé) e il consumo (la struttura di fondo del capitalismo)”. Questa analisi suggerisce che kitsch non è solo la miniatura della torre di Pisa in alabastro, ma anche il soggetto che si riconosce in quell’oggetto. Ed è tramite questo riconoscimento che l’inautentico, il surrogato e la volgarizzazione diventano dimensioni tipiche del nostro tempo. Per di più il raggio d’azione del kitsch si è parecchio allargato: dal suo territorio tradizionale fatto di ninnoli, souvenir e gadget è arrivato a investire intere aree urbane precipitandole nell’iperrealtà: la copia di Venezia che si può vedere in un casinò di Las Vegas è più reale, più autentica dell’originale. Siamo così giunti al neokitsch e alla sua capacità di nidificare in sensibilità limitrofe come il camp e il trash. Ubiquo, camaleontico, imprevedibile il kitsch fa ormai parte del nostro ordine visivo e delle nostre abitudini socio-estetiche. Possiamo sorridere dei suoi prodotti ma non possiamo fare a meno di interrogarli. VIA PO arte e immagini SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 6 L’industriacreativaeculturale L’arte di produrre Arte. Imprese italiane del design a lavoro, un volume curato da Pietro Antonio Valentino S eppur tardivamente anche in Italia la cultura - intesa come volano per la produzione di ricchezza - sta destando sempre più attenzione tra gli economisti e nell'opinione pubblica. Ben vengano pertanto libri come quello curato da Pietro Antonio Valentino: "L'arte di produrre Arte. Imprese italiane del design a lavoro" (Marsilio Editori, 2014, 270 pagg., 27 euro). Il volume consiste in un corposo rapporto di ricerca realizzato dal Centro Studi “Gianfranco Imperatori” dell’Associazione Civita con il contributo e la collaborazione della Fondazione Roma Arte-Musei. La ricerca si divide in due parti: la prima è di tipo quantitativo e analizza l’Industria Creativa e Culturale (ICC) nel suo complesso; la seconda è maggiormente qualitativa e indaga il rapporto tra design e mondo produttivo. L’indagine si focalizza sul settore privato dell’ICC e prende in esame quattro comparti:˘Editoria, TV e cinema; Design, web, Pubblicità e Pubbliche Relazioni; Arti visive;˘Beni culturali. Tra gli obiettivi principali del rapporto c’è quello di fornire informazioni, interpretazioni e proposte ai decisori politici in modo da aiutarli ad assumere iniziative per lo sviluppo delle attività culturali e delle economie locali. Possiamo solo fare gli auguri all’Associazione e al prof. Valentino visto che questo loro obiettivo si trova davanti uno degli ostacoli maggiori alla crescita delle ICC: la sordità della classe politica italiana nei confronti della cultura e della creatività (le cui imprese sono considerate di serie B nonostante i successi del Made in Italy). Far cambiar opinione ai politici italiani sarà un’impresa ardua. Ma la forza delle cose potrà forse convincerli a intervenire date anche le scarse prospettive del manifatturiero e del mattone. E la forza delle cose si presenta, come ormai capita da molti anni a questa parte, nel segno della crisi e nella necessità di un rilancio del comparto viste le opportunità di mercato che ancora presenta. Dai dati dell’indagine curata da Valentino emerge un fenomeno preoccupante: la perdita di addetti e imprese è più accentuata nei settori che dovrebbero essere maggiormente innovativi, l’Informatica e l’ICC. Il che la dice lunga sulla capacità del nostro Paese di tenere il passo con i concorrenti europei. Ma le cattive notizie non finiscono qui. Tra il 2011 e il 2012 il numero delle imprese dell’ICC si è ridotto del 6,1%, mentre il numero degli occupati è passato dalle 355.231 unità del 2010 alle 326.493 del 2011 (-8,1%). Due sono i fattori che hanno colpito negativamente tutti i comparti dell’ICC: la riduzione della domanda e la riduzione del sostegno pubblico al settore. Il che ha condotto a una terza riduzione: la microimpresa si è fatta ancora più micro attestandosi nel 2011 a 1,9 addetti per azienda (-0,1 rispetto all’anno precedente). Se cinema, editoria, pubblicità e arti visive navigano in cattive acque, qualche segnale di speranza giunge dal settore del design. Settore che si caratterizza per due motivi: investe in ricerca e sviluppo ed è virtuosamente integrato col manifatturiero, in particolare con le produzioni del Made in Italy. D’altra parte, il miglioramento della qualità e l’ampliamento della gamma dei prodotti rappresentano le principali strategie che le imprese mettono in atto per competere sui mercati. Dall’indagine risulta infatti che nel 2011 le aziende italiane hanno investito circa 4 miliardi di euro nelle attività del design, contro i 3,5 miliardi circa di Germania e Regno Unito e 1,5 e 1,1 miliardi di Francia e Spagna. Ciò significa che tramite il design i nostri prodotti hanno un valore aggiunto in termini di gusto e bellezza che ci permette di essere competitivi sul mercato mondiale. Le ricerche sul campo - effettuate nelle aree dove sono maggiormente concentrate le eccellenze del Made in Italy (Lazio, Lombardia, Marche e Veneto) - mostrano che le forme con cui si concretizzano i rapporti tra Industria e Design dipendono dai settori merceologici e dalla dimensione dell’azienda. Tuttavia, in genere si passa dalla consulenza esterna più o meno stabile all’integrazione dei designer nell’organico aziendale tramite l’istituzione dell’ufficio stile o dell’aerea ricerca e sviluppo. A proposito di designer la quantificazione della Pat. Pao. L’origine e la natura dell’arte Un saggio di Roberto Gramiccia ricco di teorie e di riflessioni di MARIA LUCIA SARACENI conquiste del lavoro P uò l’atto artistico creativo prescindere da condizionamenti storici, ambientali, politici ed economici? Germinata naturalmente come autonoma e libera manifestazione, l’arte è stata veramente se stessa quando la sua forza primordiale offriva all’uomo l’unica possibilità di reagire e sopravvivere al tempo e alla morte. Quando, ancora in assenza di subordinazioni attribuibili al potere, l’arte si esprimeva in modo autonomo attraverso la creazione di forme elementari legate alla realtà, contestualmente tese verso l’ eternità. Questa lettura sull’origine e natura dell’arte è il presupposto di una attenta e colta interpretazione sui suoi sviluppi proposta da Roberto categoria è controversa: dipende dalle figure che si fanno rientrare nella classificazione. Il Censimento dell’industria del 2011 parla di circa 43mila addetti, mentre Valentino arriva a 149mila unità inglobando anche i dipendenti delle imprese che operano nei settori del “bello e ben fatto” (calzature, abbigliamento, mobili) e gli architetti. Nei quattro ambiti regionali oggetto di indagine la ricerca evidenzia come il processo di rinnovamento dei distretti produttivi locali proceda in modo differenziato configurando scenari e opportunità di sviluppo nettamente diversi. In Lombardia la forte competitività e la concentrazione della domanda tendono a isolare le realtà aziendali più periferiche e meno equipaggiate. In Veneto, dopo anni di crescita, il sistema produttivo regionale deve raccordarsi maggiormente con i servizi avanzati di knowledge management per quanto concerne ricerca, assistenza, comunicazione e promozione. Nel Lazio l’integrazione tra design e imprese è ancora in fase iniziale. E’ quindi necessario sostenere le professioni emergenti per facilitare contatti e scambi con i sistemi produttivi locali. Nelle Marche le imprese più lungimiranti hanno attirato nel tempo designer da tutto il mondo. Oggi si pone l’esigenza di replicare su scala regionale queste esperienze. Come si vede il panorama è molto complesso e peraltro investe pure il tema della formazione. La speranza è che il mondo politico apra gli occhi e si accorga finalmente che anche con la cultura si mangia. Gramiccia nella sua ultima pubblicazione, “Arte e potere”. Il pensiero dell’autore - medico, giornalista e critico d’arte - è supportato da studi e conoscenze approfondite in campo filosofico, storico artistico e sociologico. L’excursus storico che propone suddivide orientativamente la storia dell’arte in quattro grandi periodi successivi alla preistoria: un’età antica, una moderna, una contemporanea fino a giungere alla postcontemporanea, che rappresenterebbe l’ “arte di oggi”. In ognuna di tali epoche l’espressione artistica si è misurata in modo dialettico con i regimi e le dinamiche del potere e dell’economia, subendone le influenze e accogliendone le sfide, riuscendo a conservare la propria essenza creativa non avulsa dal contatto con la realtà. Almeno fino ai nostri giorni. Quando la teoria della morte dell’arte prefigurata dal pensiero filosofico di Hegel sembra tragicamente vicina alla sua manifestazione. Gramiccia considera l’attuale periodo un vero momento di declino del mondo occidentale, governato da un sistema economico capitalista globalizzato. Ogni creatività appare soffocata dal dominio della mercificazione dell’arte, motivo di confusione tra la vera espressione artistica e l’opportunistica mistificazione generatrice di un nuovo conformismo. L’ “idea” di Duchamp, inconsapevolmente, ha “sdoganato una serie sconfinata di artisti che, sostenuti dalle lobbies che controllano il sistema dell’arte, producono qualsiasi cosa a fini commerciali”. Gli strumenti tecnologici di cui la società attuale diffusamente dispone tendono poi ad assumere, in modo crescente, ruoli sostitutivi alle tecniche pittoriche, invadendo la sfera artistica e creativa con risultati sconfortanti. “I prodotti culturali di oggi si bruciano in un secondo. Il loro orizzonte è il tempo del successo, non quello dell’immortalità”. La crisi dell’arte denunciata da Roberto Gramiccia specchia una regressione che, dagli ultimi decenni, permea in modo desolante tutti gli ambiti umani: e questo è il vero problema che egli lucidamente individua. Di grande interesse, ricco di teorie e riflessioni (anche se talvolta opinabili), il libro offre l’opportunità di un approfondimento sull’arte e sulla attuale società, spinta sulla soglia di un pericoloso baratro, poiché “se l’arte muore anche l’uomo muore”. Roberto Gramiccia, Arte e potere, Ediesse 2014, pp. 220, euro 13,00. SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 7 Unasommessa esilenziosa rassegnazione Al Complesso del Vittoriano a Roma una retrospettiva su Mario Sironi di ROBERTA LOMBARDI conquiste del lavoro VIA PO arte e immagini C L’estetica dellapolvere Le statue svanite di Alberto Giacometti di MAURO FABI C 'è stato un momento nella sofferta, dolorosa ricerca plastica di Alberto Giacometti, in cui egli si rese finalmente conto che la realtà era destinata a scomparire tra le sue mani. Quella febbre incessante che lo spingeva a graffiare creta, come a fumare ottanta sigarette al giorno, pian piano si trasformò nell'unica verità possibile, quella di essere sempre meno, polvere. Accadde quando la figura femminile che stava modellando, inizialmente concepita alta una ottantina di centimetri, giorno dopo giorno, unghiata dopo unghiata, diventò così minuscola da non poter più rendere possibile la rappresentazione di un solo particolare: la scultura stava semplicemente dileguando tra le sue dita impazzite; un colpo di pollice e la statua di colpo spariva! E cosa rimaneva all'artista incredulo? Polvere. Se mai c'è stato un uomo che ha vissuto sulla propria pelle il senso della sconfitta senza forse rendersi conto che quella sconfitta era la carne e il sangue di ogni esistenza, ebbene quest'uomo è stato Alberto Giacometti. Il suo spasmodico lavorio nel togliere, scarnificare non rappresenta forse il senso dell'arte stessa? Non è forse il silenzio il luogo a cui tende ogni parola che vuole nominare il mondo, non è forse questo il vero traguardo della poesia? La poesia di Giacometti era l'argilla immodellabile che sgretola ogni rappresentazione del mondo, ogni volontà che sottende all'esistenza delle cose. Se l'esistenza è transeunte, se - come scrive Carlo Bordini in un mirabile poemetto “saremo sempre meno”, allora anche la raffigurazione artistica segue questo percorso ineluttabile, sino a dileguare, come dilegua ogni cosa. Naturalmente, tutto ciò che scompare prima è stato qualcosa, in ciò risiede il significato della Storia. Ora, dove va a finire quel qualcosa che prima di diventare polvere (nulla) pure rimarcava una sua presenza, dove è possibile indovinarne una traccia? C'e un luogo nascosto dove si accumula quello che a un certo punto ci e tolto? Si accumula strato su strato, si confonde, si amalgama o permane distinto, feroce e inumano come la storia che lo tramanda? Questo è ciò che deve aver vissuto Giacometti, il senso di un fallimento ontologico e irredimibile, profondamente immanente, nient'affatto metafisico. Qui la metafisica non c'entra nulla. Come il poeta, il vero poeta, procede verso l'ultima cancellatura, procede nella direzione dell'ultimo verso cancellato (che è esattamente il contrario dell'impasse creativo, della pagina bianca), così lo scultore svizzero procede nella direzione della nuvola di gesso, il processo creativo ha dolorosamente attraversato tutte le sue fasi, dalla progettazione (dall'illusione della progettazione), sino alla impossibilità stessa della realizzazione, ovvero alla realizzazione estrema. Gli uomini filiformi col loro passo appena accennato erano gli uomini vuoti di Eliot, gli uomini impagliati senza meta e senza scopo, figure isolate che procedono verso il non-incontro. L'esistenzialismo di Giacometti cantato da Sartre si trasforma a un certo punto nella non-esistenza, o meglio in qualcosa di tangibile che svanisce, come la corolla di gesso del fiore-in-pericolo, che è lì, una macchia bianca su un fondo nero in procinto di essere spazzata via. i sono artisti che per gran parte della loro carriera non fanno che dipingere una sola opera con le sue infinite variazioni. È il caso più eclatante di Morandi, che ha dipinto per tutta la sua vita una serie di bottiglie, ma anche di Rothko, Pollock e molti altri. E poi ci sono altri artisti, di solito una minoranza, che invece non si stancano mai di sperimentare tecniche e forme diverse, come, per esempio, Pablo Picasso. Anche se è per lo più noto per i suoi quadri di periferie urbane, Mario Sironi appartiene a quest’ultima cerchia. Ce lo dimostra la retrospettiva al Complesso del Vittoriano di Roma, a cura di Elena Pontiggia, che ci accompagna nelle varie fasi della sua carriera artistica svelandoci aspetti meno conosciuti della sua personalità e produzione. Nato nel 1885 a Sassari, ma cresciuto a Roma, affetto già giovanissimo da crisi depressive, Sironi è stato come una spugna, capace di catturare con incredibile versatilità e sensibilità le varie correnti che hanno attraversato la prima metà del Novecento in Italia. Da quelle più intimiste e simboliste a quelle più rivoluzionarie del futurismo, fino al monumentalismo dettato dalla megalomania di un regime, il Fascismo, alla ricerca di una consacrazione. Ma in tutte queste opere, l’artista ha cercato la sua voce e la sua verità, al di là della tecnica di moda in quel momento, indossata come un abito più che come un manifesto di qualcosa. Un abito attraverso cui svelare ancora meglio quello che si nasconde al di sotto. Il suo è un disegno veloce, poco dettagliato, a volte quasi infantile, venato di ironia, riempito di un colore denso e pastoso, che non osa mai tonalità troppo accese o pure. Più che con la melodia, l’artista comunica con il timbro del suo strumento, con una ritmica jazz, che non ha paura di sporcarsi ed è sempre pronta all’improvvisazione. Il suo è un astrattismo mascherato da un realismo malinconico. Gli edifici silenziosi raccontati dai suoi quadri più famosi vanno al pari passo con i corpi mastodontici, etruschi, dei suoi dipinti murali. Entrambi sono involucri vuoti che ospitano un mito mancato, un’assenza misteriosa che, come il Godot di Beckett, stiamo tutti aspettando. L’uomo è ormai rassegnato a una condizione di macchina o di marionetta, e tanto i manichini di De Chirico si trastullano beati nel loro paradiso metafisico, protetti ancora dal lusso della sofisticazione, tanto quelli sironiani sono costretti, senza difese, nei piccoli interni squallidi della vita moderna. È il caso di un dipinto come “La Lampada” (1919), realizzato due anni dopo il dechirichiano “Le Muse Inquietanti”. Siamo agli albori del fascismo, e Sironi è ormai a pieno titolo nel gruppo dei Futuristi, grazie anche all’incontro con Boccioni, avvenuto anni prima alla Scuola Libera del Nudo di via Ripetta. Una sua grande ammiratrice e sostenitrice è la scrittrice Margherita Sarfatti, promotrice di un circolo letterario e artistico a Milano, di cui vediamo in mostra un ritratto a firma dell’artista. Ma possiamo ammirare anche le molte copertine per le riviste e le pubblicità, come quelle per la Fiat, in cui Sironi mette a frutto tutto il suo senso ironico e il suo gusto moderno. Al contrario dei futuristi, non è mai un “rottamatore”, ma cerca sempre nel presente una continuità con il passato, e con quei valori che sono senza tempo. Così, rimane affascinato dalle possibilità artistiche che sembra promettere il periodo fascista, visto come un’occasione di riportare l’arte alla grandezza e allo splendore della classicità. L’Italia è una nazione ancora giovane, affamata di nuovo, ma anche di una sua identità ideale. Per gli artisti significa liberarsi dall’eredità del Rinascimento, per superarlo. E di mettersi finalmente al servizio del proprio popolo, dell’Italia tutta. Negli Anni Trenta, Sironi realizza grandi commissioni pubbliche, come quelle per l’Aula Magna dell’Università di Roma o per la Triennale di Milano. Ma, ancora una volta, più che la grandiosità maestosa di queste immagini, più che i corpi forti e muscolosi dei suoi protagonisti, sembra che sia la fragilità che nascondono, una sommessa e silenziosa rassegnazione, il vero collante di queste figure, unite eppure solitarie, grandiose eppure lontane dalla disincantata serenità delle divinità classiche. I piccoli dei del presente sono i lavoratori, i soldati, le madri, costretti in un mondo che forse già non appartiene più loro. Uscito indenne dalla guerra e dall’arresto dei partigiani grazie a una fortunata coincidenza, perché tra di loro vi era lo scrittore Gianni Rodari che lo aveva riconosciuto, Sironi tornerà nel dopoguerra a una pittura più intimista, presaga della morte che si avvicina. Ma anche testimonianza della fine definitiva di valori che, forse, in fondo, si erano spenti da soli, senza bisogno di rottamazione. 8 SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 Si chiamava Liberty Una rivoluzione culturale che fu anche globale: viaggio alla scoperta dell’Art Nouveau (prima puntata) di VIOLA MUSCINELLI conquiste del lavoro VIA PO arte e immagini L Il recupero incondizionato della funzione dell’oggetto I n un momento storico in cui ogni audacia pareva non avere sponda che nell’immaginazione, il grande boom professionale fu quello degli elettricisti, che cominciarono a vendere ”doppietti” gommati dapprima nei salotti buoni e via via fin negli ambienti più modesti. La vera idea luminosa del secolo fu la lampadina, che, grazie al suo inventore Thomas Alva Edison, spense d’un tratto milioni di lumi a petrolio fumiganti e di pericolosi dispositivi ad acetilene. Paragonabile per successo a quello degli odierni telefonini, l’eletricità fu un fenomeno che accese numerose altre micce alla turbolenta rivoluzione culturale fin del siècle. Come per i telefonini, si dibatteva allora sugli eventuali danni alla salute che tanta innovazione avrebbe provocato, considerando che chi aveva provato ad infilare due dita nella presa, ne era uscito sempre un po’ ”scosso”, salvo danni maggiori. Ma stante la mancanza di dati, non possiamo che immaginare quale fosse la magnitudo e la frequenza delle esplosioni dovute all’acetilene del carburo di calcio, e degli incendi prodotti dalle lampade a petrolio. La lampadina dunque vinse alla grande, ed oltre ad accendere se stessa con intensità costante prima ignota, ampliò i confini immaginativi di chi aveva a che fare con l’illuminazione, costretto fino allora a causa delle basse intensità, a vetri rigorosamente trasparenti od opalini. Le lampade ”Liberty” come le definiamo oggi, furono dei veri e propri monumenti alla lampadina, create per sottolineare il possesso del nuovo status symbol con rutilanza adeguata, e spesso con il plusvalore dell’opera d’arte. In America Louis Confort Tiffany, connazionale di Edison e figlio d’arte essendosi formato alla paterna scuola di gioielleria, creò un vetro iridescente fatto a mano (favrile) per i suoi lumi da tavolo, a piantana o a plafoniera. Le basi erano generalmente fuse in bronzo dorato, brunito, o in argento. Il diffusore, realizzato con la tecnica del vetro piombato, si ispirava nella decorazione al gusto corrente con rappresentazioni fitomorfe, di ispirazione esoticheggiante. L’effetto dell’accenzione era mozzafiato, favorito largamente dalla tipologia ambientale dell’epoca costituita da penombre e serie di drappeggi. I capolavori di Tiffany, in un’ansia di rivisitazioni a buon mercato, vengono imitati ancora oggi, prodotti in serie con materiali plastici o vetri stampati. L’Artista, sul quale un capitalista stanco delle palpitazioni di borsa investì molto, oltre a produrre questi originalissimi oggetti, fu designer di interni di gran successo: ebbe svariati incarichi anche pubblici, come ad esempio, l’arredamento della Casa Bianca, e alla guida di artisti e artigiani svolse nei ”Tiffany Studios” molteplici applicazioni della sua abilità creativa e produttiva, cogliendo successi e fama anche in gioielleria. Nel frattempo in Europa, più precisamente in Francia a Nancy, un personaggio riconosciuto come il più grande maestro vetraio dell’epoca, Emile Gallè, sperimentava una serie di applicazioni nuove nel campo vetriero; i ”vetri-cammeo” consistenti nella sovrapposizione di più strati a diverso colore della pasta di vetro, che formata a caldo nelle fogge volute veniva poi sottoposta a molatura o corrosione da acido fluoridico, ottenendo le forme desiderate in bassorilievi con effetti di luminescenza e di cromatismo estremamente suggestivi. La ”Marqueterie de verre” consentiva invece una notevole produzione di serie con rifiniture a mano, conseguendo un abbattimento dei costi pur conservando caratteristiche di qualità più accettabili. Gallè traeva ispirazione soprattutto dalla fauna e dalla flora lussureggiante della nativa Lorena, ed essendo persona di vasta cultura umanistica e scientifica, e socialmente impegnato nella difesa dei diritti dei popoli, amava inserire nei lavori le citazioni poetiche di autori a lui cari, quali Baudelaire e Mallarmè, in alcune sue opere chiamate ”le verres parlantes”. Uomno eclettico e di ampie vedute, contribuì in maniera determinante alla diffusione dell’Art Nouveau in Francia promuovendo la Scuola di Art Nouveau di Nancy. Questa iniziativa di cui si celebra il centenario proprio in questo periodo con manifestazioni e conferenze su un arco previsto di 3 anni, era in realtà un sodalizio tra genialità articolate e diverse, che creavano e operavano in èquipe pur nel rispetto assoluto delle singole individualità. Tra i nomi più noti degli artisti formatisi con Gallè spiccavano Daum, proprietari delle vetrerie di Nancy e preziosi collaboratori in esperimenti e invenzioni, nonché creatori a loro volta di opere in vetro famose in tutto il mondo. La ditta era stata acquistata dal padre, il notaio Jean Daum de Bitche, in occasione del trasferimento dovuto alla riannessione dell’Alsazia e di parte della Lorena alla Germania. La ditta è tuttora attiva sotto l’insegna ”Cristallerie Daum”. (Continua nel prossimo numero) a comprensione d’un fenomeno socio-culturale e politico-economico complesso come quello comunemente denominato Liberty, Art Nouveau, Jugendstil, Modern Style, Secession etc, e che d’ora in poi per brevità chiameremo come più usuale in Italia, Liberty appunto, non sarebbe possibile per vastità d’implicazioni, senza un esame del contesto in cui si produsse e si sviluppò nel ventennio tra fine Ottocento e primi del Novecento. La vita del fenomeno fu breve ma intensa e fiammeggiante d’espressioni, tanto da coinvolgere simultaneamente tutto il mondo occidentale, sopraffacendo da subito costumi e canoni estetici radicati fin nelle pieghe buie della storia. Il Liberty portò contraccolpi, merito delle solite retroguardie, ben oltre i tempi del primo conflitto mondiale, dando a qualcuno l’illusione di una saldatura con L’Art Deco che cominciava ad imporsi come nuovo riferimento estetico. In realtà dai fatti di Sarajevo nel ’14 all’armistizio di Compiègne del ’18, l’occupazione preminente fu distruggere anziché costruire, ed una ”suspensio” di quattro anni appare sufficiente come vallo tra due epoche culturali, per constatare quasi fiscalmente la fine dell’una e la nascita dell’altra. Ma il momento inerziale del Liberty fu enorme, ben oltre la sua parte più manifesta ed intelligibile che come in un iceberg, emergeva da una immane quantità di fenomeni sociali, scientifici, politici, economici e culturali, mai primi verificatisi con energia tanto dirompente e con tanta accelerata frequenza. Presumere quindi la comprensione del Liberty dal riconoscimento di una lampada dei fratelli Daum o dalle volute in mogano di un mobile di Majorelle, equivarrebbe a consultare un testo guardando solo le figure. Lo stile Liberty fu di più, perchè fu adottato come denominatore espressivo comune da gente contemporanea soggetta a bombardamenti innovativi di non poco conto, gente che, sottoposta a critica vele e remi, certezze marinare dall’alba delle civiltà, di punto in bianco fu in grado di attraversare l’Atlantico in un terzo del tempo ed in una frazione dei costi usuali d’armamento. Gente che inventava la dinamo, le locomotive e quindi le reti ferroviarie, i motori esotermici ed endotermici, dovendo coniare nuove misure per energie incommensurabili con gli antichi sistemi. Quanto vasto ed ignoto fosse il nuovo orizzonte della misurazione delle potenze è espresso dall’adozione in misura del patetico callo/vapore, connubio tra quanto di più potente allora potesse immaginarsi ed il nuovo ”miracolo generatore” dell’acqua bollita. La seconda rivoluzione industriale era insieme madre e figlia di tanto fervore creativo, che produceva macchine agricole e fertilizzanti alimentandosi di maggiori possibilità distributive. La gente del Liberty comunicava via telefono su distanze intercontinen- tali, poichè oceani e continenti erano appena stati cablati. Certo l’abate Caselli, visto che il telefono c’era già, inventò il ”pantelegrafo”, ossia un pantografo-telegrafico per inviare immagini e messaggi in fac-simile, oggi fax. E la gente Liberty rendeva praticabile la fotografia e ne cominciò ad usare ed abusare, ritenendola da principio un succedaneo sbrigativo di pennello e tela. Ma le attrezzature fecero un gran progresso, così i fotografi i fratelli Lumière proiettavano il primo cortometraggio e già s’ipotizzava un cinema parlato e con movimento di immagini più reali e di più lunga durata. La gente del Liberty parlava tecnicamente, quindi con realismo, di scavi sotto la Manica o sotto lo stretto di Messina, chimica e meccanizzazione producevano dieci volte più frumento per ettaro di quanto non fosse stato possibile fino a pochi anni prima. Probabilmente suo malgrado, il piccione tornò più presente sulle mense piuttosto che in funzione postale. La gente del Liberty usava la Linoty pe, madrina indiscussa della larga informazione, e la stampa fece un balzo in avanti perché non solo bisognava far prima e di più, ma la neonata scienza della comunicazione imponeva i suoi imperativi congeniti: fare meglio e sorprendere. Chèret stampò i suoi disegni in litografia e nacque il manifesto-rèclame per stupire e attrarre pubblici sempre più vasti di curiori ed estimatori. Anche Toulouse Lautrec espresse la sua genialità con tocco arguto tra l’ironico e il realista, facendo arte anche in questa inedita forma che si svilupperà e diventerà in breve irreversibile. Alla croce del Sud, alla croce runica e a quella cristiana si aggiungeva la croce della pubblicità. Intanto si scoprivano nuovi elementi e nuove radiazioni, mentre l’igiene assurgeva a imperativo sociale; e mentre si studiava il bacillo della turbecolosi e si sperimentava l’ummuno-vaccinazione, qualcuno meno complessato e modesto degli altri cominciò a girare lo sguardo in su, verso il cielo. ”In fondo” deve aver pensato Otto Lilienthal lanciandosi dalla sommità della collina, ”è un fatto tecnico”. Si passava quindi dallo studio dell’aerostatica all’aerodinamica, che sarebbe culminato poco dopo nel salto epocale dei fratelli Wright a Kitty Hawk, con macchina volante e motore a scoppio autoco- struiti. Frattanto l’ingegner Lesseps, davanti ad una carta d’Egitto a grande scala, valutava se un piccolo taglio a Suez avrebbe potuto abbreviare i traffici da e per le indie di qualche mese. Questa era la gente del Liberty; ma il Liberty dov’era? Tutto il costume era paludato e ”rispettabile” come le gambe dei tavoli a Buckingam Palace. L’architettura non rifletteva l’aria dei tempi. L’industria continuava a produrre mobilie riproducenti stili neo-barocchi o neo-rococò e neo-classici e le abitazioni borghesi sfoggiavano sempre ed esclusivamente oggetti ”in stile”, punto espressione dei profondi cambiamenti occorsi nel secolo. Semmai l’industrializzazione cominciava a manifestare fatture troppo distanti dagli standards artigia- nali soliti (le regole dell’arte), ed anche i materiali dichiaravano una qualità in discesa. Moda e abbigliamento non indicavano cambiamenti sensibili. Gli abiti rigorosametne scuri con camicie inamidate per l’uomo non apparivano meno austeri nelle donne, con qualche frivolezza in più, ma sempre ridondanti in tessuti e mano d’opera. Non rivelavano ne favorivano quindi, per foggia e volume, la nuova etica improntata al dinamismo. In tale compostezza formale la fabbrica procedeva a ritmi esasperati, complice il nuovo mito del ”libero scambio”, contribuendo al primo manifestarsi del processo di globalizzazione e alla contestuale definizione del pericolo pubblico ”numero uno” d’ogni ambito industralizzato: la crisi recessiva. Nota fino allora più come eventualità sperimentale che come fatto reale, quando avvenne fu all’altezza dei tempi, quindi gloable per l’effetto ”domino” e senza scampo. La decimazione delle imprese, il licenziamento degli operai, la contemporanea crisi dei tempi e una conversione produttiva istantanea verso dimensioni regionali o nazionali. Dalla prima Internazionale e dalla Comune di Parigi (fatti di portata tanto vasta da non poter esser trat- tati che in maniera tangenziale in questa modesta riflessione), fu chiaro che l’arena socio-politico-economica avrebbe dovuto fare i conti con un nuovo e determinante interlocutore, una classe operaia consapevole e in grado di far valere i suoi diritti in quanto organizzata. Il capitalismo aveva ormai avviato il suo processo di revisione conoscendo le conseguenze che avrebbero provocato la resistenza alle istanze sindacali, e in questo clima di consapevolezza si ricominciò una ansimante risalita. Nell’ultimo decennio del secolo, certe ”intemperanze” femministe in America evidenziavano che se i sovvertimenti tecnico-economici potevano essere gestibili, i cambiamenti conseguenti ad un adeguamento del pensiero e delle coscienze sarebbero stati ben altra cosa. Nel clima fiducioso delle innovazioni e preoccupato per le controindicazioni, alcune proposte identificative, vennero offerte dalle espressività artistiche, sempre in avanscoperta rispetto alla contemporaneità ”normale”. Il primo strattone ai riferimenti accademici in pittura, venne dalla Francia con il movimento Impressionista. Dopo aver dato un primo colpo alle tradizioni centenarie dell’espressione pittorica stravolgendone canoni rassicuranti e consolidati, resistendo alle aspre critiche iniziali, venne accettato e via via imitato da tutti i paesi dell’area occidentale e riconosciuto quindi come espressione legittima ed omologata degli artisti che vi si identificano. I Simbolisti Decadentisti rappresentanti dai francesi Verlaine e Mallarmè avevano avviato dopo il fallimento della poetica naturalista ispirata al romanzo verista zoliano, il loro processo rivoluzionario degli schemi classici, accendendo gli animi di giovani artisti verso una poetica ”moderna” e libera di esprimersi attraverso individualità e sensibilità personali. La fruizione pubblica dei Manifesti-rèclame, sorta di divulgazione popolare delle arti figurative, aveva aperto a persone d’ogni ceto sociale la strada prima elitaria al godimento del ”bello” e una nuova ”democrazia estetica” alitava sull’educazione. Si cominciava a intravedere nell’arte applicata in ogni sua espressione, dall’architettura all’arredamento e alla decorazione come all’oggetto d’uso comune, la possibilità di rendere disponibile un disegno riproducibile industrialmente (industrial design) o artigianalmente (arts and crafts letterale), che consentisse a bassi costi, produzioni non più elitarie, ma orientate verso una scelta di fruibilità allargata, quindi sociale, del nuovo e del bello. Si veniva delineando con chiarezza sempre maggiore la prospettiva di una nuova filosofia di vita. Nella gente del Liberty si avviava a maturazione il concetto di ”moderno” e di ”originale” e la necessità di caratterizzare come appartenenti al proprio periodo culturale quei processi espressivi che andavano ormai incruentemente omologandosi. Queste espressioni in pittura, in musica, in letteratura, nella tecnica e nell’architettura, in oggetti d’uso come nei comportamenti, erano la parte emergente di quell’iceberg gigantesco che staccatosi dalla banchisa della storia, aveva impiegato decenni per caratterizzarsi in una silente e buia profondità, mostrandosi quindi all’improvviso nello splendore esplosivo del secolo contrassegnato dalle più profonde innovazioni di tutti i tempi della storia. Appunto il Liberty. 8 SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 Si chiamava Liberty Una rivoluzione culturale che fu anche globale: viaggio alla scoperta dell’Art Nouveau (prima puntata) di VIOLA MUSCINELLI conquiste del lavoro VIA PO arte e immagini L Il recupero incondizionato della funzione dell’oggetto I n un momento storico in cui ogni audacia pareva non avere sponda che nell’immaginazione, il grande boom professionale fu quello degli elettricisti, che cominciarono a vendere ”doppietti” gommati dapprima nei salotti buoni e via via fin negli ambienti più modesti. La vera idea luminosa del secolo fu la lampadina, che, grazie al suo inventore Thomas Alva Edison, spense d’un tratto milioni di lumi a petrolio fumiganti e di pericolosi dispositivi ad acetilene. Paragonabile per successo a quello degli odierni telefonini, l’eletricità fu un fenomeno che accese numerose altre micce alla turbolenta rivoluzione culturale fin del siècle. Come per i telefonini, si dibatteva allora sugli eventuali danni alla salute che tanta innovazione avrebbe provocato, considerando che chi aveva provato ad infilare due dita nella presa, ne era uscito sempre un po’ ”scosso”, salvo danni maggiori. Ma stante la mancanza di dati, non possiamo che immaginare quale fosse la magnitudo e la frequenza delle esplosioni dovute all’acetilene del carburo di calcio, e degli incendi prodotti dalle lampade a petrolio. La lampadina dunque vinse alla grande, ed oltre ad accendere se stessa con intensità costante prima ignota, ampliò i confini immaginativi di chi aveva a che fare con l’illuminazione, costretto fino allora a causa delle basse intensità, a vetri rigorosamente trasparenti od opalini. Le lampade ”Liberty” come le definiamo oggi, furono dei veri e propri monumenti alla lampadina, create per sottolineare il possesso del nuovo status symbol con rutilanza adeguata, e spesso con il plusvalore dell’opera d’arte. In America Louis Confort Tiffany, connazionale di Edison e figlio d’arte essendosi formato alla paterna scuola di gioielleria, creò un vetro iridescente fatto a mano (favrile) per i suoi lumi da tavolo, a piantana o a plafoniera. Le basi erano generalmente fuse in bronzo dorato, brunito, o in argento. Il diffusore, realizzato con la tecnica del vetro piombato, si ispirava nella decorazione al gusto corrente con rappresentazioni fitomorfe, di ispirazione esoticheggiante. L’effetto dell’accenzione era mozzafiato, favorito largamente dalla tipologia ambientale dell’epoca costituita da penombre e serie di drappeggi. I capolavori di Tiffany, in un’ansia di rivisitazioni a buon mercato, vengono imitati ancora oggi, prodotti in serie con materiali plastici o vetri stampati. L’Artista, sul quale un capitalista stanco delle palpitazioni di borsa investì molto, oltre a produrre questi originalissimi oggetti, fu designer di interni di gran successo: ebbe svariati incarichi anche pubblici, come ad esempio, l’arredamento della Casa Bianca, e alla guida di artisti e artigiani svolse nei ”Tiffany Studios” molteplici applicazioni della sua abilità creativa e produttiva, cogliendo successi e fama anche in gioielleria. Nel frattempo in Europa, più precisamente in Francia a Nancy, un personaggio riconosciuto come il più grande maestro vetraio dell’epoca, Emile Gallè, sperimentava una serie di applicazioni nuove nel campo vetriero; i ”vetri-cammeo” consistenti nella sovrapposizione di più strati a diverso colore della pasta di vetro, che formata a caldo nelle fogge volute veniva poi sottoposta a molatura o corrosione da acido fluoridico, ottenendo le forme desiderate in bassorilievi con effetti di luminescenza e di cromatismo estremamente suggestivi. La ”Marqueterie de verre” consentiva invece una notevole produzione di serie con rifiniture a mano, conseguendo un abbattimento dei costi pur conservando caratteristiche di qualità più accettabili. Gallè traeva ispirazione soprattutto dalla fauna e dalla flora lussureggiante della nativa Lorena, ed essendo persona di vasta cultura umanistica e scientifica, e socialmente impegnato nella difesa dei diritti dei popoli, amava inserire nei lavori le citazioni poetiche di autori a lui cari, quali Baudelaire e Mallarmè, in alcune sue opere chiamate ”le verres parlantes”. Uomno eclettico e di ampie vedute, contribuì in maniera determinante alla diffusione dell’Art Nouveau in Francia promuovendo la Scuola di Art Nouveau di Nancy. Questa iniziativa di cui si celebra il centenario proprio in questo periodo con manifestazioni e conferenze su un arco previsto di 3 anni, era in realtà un sodalizio tra genialità articolate e diverse, che creavano e operavano in èquipe pur nel rispetto assoluto delle singole individualità. Tra i nomi più noti degli artisti formatisi con Gallè spiccavano Daum, proprietari delle vetrerie di Nancy e preziosi collaboratori in esperimenti e invenzioni, nonché creatori a loro volta di opere in vetro famose in tutto il mondo. La ditta era stata acquistata dal padre, il notaio Jean Daum de Bitche, in occasione del trasferimento dovuto alla riannessione dell’Alsazia e di parte della Lorena alla Germania. La ditta è tuttora attiva sotto l’insegna ”Cristallerie Daum”. (Continua nel prossimo numero) a comprensione d’un fenomeno socio-culturale e politico-economico complesso come quello comunemente denominato Liberty, Art Nouveau, Jugendstil, Modern Style, Secession etc, e che d’ora in poi per brevità chiameremo come più usuale in Italia, Liberty appunto, non sarebbe possibile per vastità d’implicazioni, senza un esame del contesto in cui si produsse e si sviluppò nel ventennio tra fine Ottocento e primi del Novecento. La vita del fenomeno fu breve ma intensa e fiammeggiante d’espressioni, tanto da coinvolgere simultaneamente tutto il mondo occidentale, sopraffacendo da subito costumi e canoni estetici radicati fin nelle pieghe buie della storia. Il Liberty portò contraccolpi, merito delle solite retroguardie, ben oltre i tempi del primo conflitto mondiale, dando a qualcuno l’illusione di una saldatura con L’Art Deco che cominciava ad imporsi come nuovo riferimento estetico. In realtà dai fatti di Sarajevo nel ’14 all’armistizio di Compiègne del ’18, l’occupazione preminente fu distruggere anziché costruire, ed una ”suspensio” di quattro anni appare sufficiente come vallo tra due epoche culturali, per constatare quasi fiscalmente la fine dell’una e la nascita dell’altra. Ma il momento inerziale del Liberty fu enorme, ben oltre la sua parte più manifesta ed intelligibile che come in un iceberg, emergeva da una immane quantità di fenomeni sociali, scientifici, politici, economici e culturali, mai primi verificatisi con energia tanto dirompente e con tanta accelerata frequenza. Presumere quindi la comprensione del Liberty dal riconoscimento di una lampada dei fratelli Daum o dalle volute in mogano di un mobile di Majorelle, equivarrebbe a consultare un testo guardando solo le figure. Lo stile Liberty fu di più, perchè fu adottato come denominatore espressivo comune da gente contemporanea soggetta a bombardamenti innovativi di non poco conto, gente che, sottoposta a critica vele e remi, certezze marinare dall’alba delle civiltà, di punto in bianco fu in grado di attraversare l’Atlantico in un terzo del tempo ed in una frazione dei costi usuali d’armamento. Gente che inventava la dinamo, le locomotive e quindi le reti ferroviarie, i motori esotermici ed endotermici, dovendo coniare nuove misure per energie incommensurabili con gli antichi sistemi. Quanto vasto ed ignoto fosse il nuovo orizzonte della misurazione delle potenze è espresso dall’adozione in misura del patetico callo/vapore, connubio tra quanto di più potente allora potesse immaginarsi ed il nuovo ”miracolo generatore” dell’acqua bollita. La seconda rivoluzione industriale era insieme madre e figlia di tanto fervore creativo, che produceva macchine agricole e fertilizzanti alimentandosi di maggiori possibilità distributive. La gente del Liberty comunicava via telefono su distanze intercontinen- tali, poichè oceani e continenti erano appena stati cablati. Certo l’abate Caselli, visto che il telefono c’era già, inventò il ”pantelegrafo”, ossia un pantografo-telegrafico per inviare immagini e messaggi in fac-simile, oggi fax. E la gente Liberty rendeva praticabile la fotografia e ne cominciò ad usare ed abusare, ritenendola da principio un succedaneo sbrigativo di pennello e tela. Ma le attrezzature fecero un gran progresso, così i fotografi i fratelli Lumière proiettavano il primo cortometraggio e già s’ipotizzava un cinema parlato e con movimento di immagini più reali e di più lunga durata. La gente del Liberty parlava tecnicamente, quindi con realismo, di scavi sotto la Manica o sotto lo stretto di Messina, chimica e meccanizzazione producevano dieci volte più frumento per ettaro di quanto non fosse stato possibile fino a pochi anni prima. Probabilmente suo malgrado, il piccione tornò più presente sulle mense piuttosto che in funzione postale. La gente del Liberty usava la Linoty pe, madrina indiscussa della larga informazione, e la stampa fece un balzo in avanti perché non solo bisognava far prima e di più, ma la neonata scienza della comunicazione imponeva i suoi imperativi congeniti: fare meglio e sorprendere. Chèret stampò i suoi disegni in litografia e nacque il manifesto-rèclame per stupire e attrarre pubblici sempre più vasti di curiori ed estimatori. Anche Toulouse Lautrec espresse la sua genialità con tocco arguto tra l’ironico e il realista, facendo arte anche in questa inedita forma che si svilupperà e diventerà in breve irreversibile. Alla croce del Sud, alla croce runica e a quella cristiana si aggiungeva la croce della pubblicità. Intanto si scoprivano nuovi elementi e nuove radiazioni, mentre l’igiene assurgeva a imperativo sociale; e mentre si studiava il bacillo della turbecolosi e si sperimentava l’ummuno-vaccinazione, qualcuno meno complessato e modesto degli altri cominciò a girare lo sguardo in su, verso il cielo. ”In fondo” deve aver pensato Otto Lilienthal lanciandosi dalla sommità della collina, ”è un fatto tecnico”. Si passava quindi dallo studio dell’aerostatica all’aerodinamica, che sarebbe culminato poco dopo nel salto epocale dei fratelli Wright a Kitty Hawk, con macchina volante e motore a scoppio autoco- struiti. Frattanto l’ingegner Lesseps, davanti ad una carta d’Egitto a grande scala, valutava se un piccolo taglio a Suez avrebbe potuto abbreviare i traffici da e per le indie di qualche mese. Questa era la gente del Liberty; ma il Liberty dov’era? Tutto il costume era paludato e ”rispettabile” come le gambe dei tavoli a Buckingam Palace. L’architettura non rifletteva l’aria dei tempi. L’industria continuava a produrre mobilie riproducenti stili neo-barocchi o neo-rococò e neo-classici e le abitazioni borghesi sfoggiavano sempre ed esclusivamente oggetti ”in stile”, punto espressione dei profondi cambiamenti occorsi nel secolo. Semmai l’industrializzazione cominciava a manifestare fatture troppo distanti dagli standards artigia- nali soliti (le regole dell’arte), ed anche i materiali dichiaravano una qualità in discesa. Moda e abbigliamento non indicavano cambiamenti sensibili. Gli abiti rigorosametne scuri con camicie inamidate per l’uomo non apparivano meno austeri nelle donne, con qualche frivolezza in più, ma sempre ridondanti in tessuti e mano d’opera. Non rivelavano ne favorivano quindi, per foggia e volume, la nuova etica improntata al dinamismo. In tale compostezza formale la fabbrica procedeva a ritmi esasperati, complice il nuovo mito del ”libero scambio”, contribuendo al primo manifestarsi del processo di globalizzazione e alla contestuale definizione del pericolo pubblico ”numero uno” d’ogni ambito industralizzato: la crisi recessiva. Nota fino allora più come eventualità sperimentale che come fatto reale, quando avvenne fu all’altezza dei tempi, quindi gloable per l’effetto ”domino” e senza scampo. La decimazione delle imprese, il licenziamento degli operai, la contemporanea crisi dei tempi e una conversione produttiva istantanea verso dimensioni regionali o nazionali. Dalla prima Internazionale e dalla Comune di Parigi (fatti di portata tanto vasta da non poter esser trat- tati che in maniera tangenziale in questa modesta riflessione), fu chiaro che l’arena socio-politico-economica avrebbe dovuto fare i conti con un nuovo e determinante interlocutore, una classe operaia consapevole e in grado di far valere i suoi diritti in quanto organizzata. Il capitalismo aveva ormai avviato il suo processo di revisione conoscendo le conseguenze che avrebbero provocato la resistenza alle istanze sindacali, e in questo clima di consapevolezza si ricominciò una ansimante risalita. Nell’ultimo decennio del secolo, certe ”intemperanze” femministe in America evidenziavano che se i sovvertimenti tecnico-economici potevano essere gestibili, i cambiamenti conseguenti ad un adeguamento del pensiero e delle coscienze sarebbero stati ben altra cosa. Nel clima fiducioso delle innovazioni e preoccupato per le controindicazioni, alcune proposte identificative, vennero offerte dalle espressività artistiche, sempre in avanscoperta rispetto alla contemporaneità ”normale”. Il primo strattone ai riferimenti accademici in pittura, venne dalla Francia con il movimento Impressionista. Dopo aver dato un primo colpo alle tradizioni centenarie dell’espressione pittorica stravolgendone canoni rassicuranti e consolidati, resistendo alle aspre critiche iniziali, venne accettato e via via imitato da tutti i paesi dell’area occidentale e riconosciuto quindi come espressione legittima ed omologata degli artisti che vi si identificano. I Simbolisti Decadentisti rappresentanti dai francesi Verlaine e Mallarmè avevano avviato dopo il fallimento della poetica naturalista ispirata al romanzo verista zoliano, il loro processo rivoluzionario degli schemi classici, accendendo gli animi di giovani artisti verso una poetica ”moderna” e libera di esprimersi attraverso individualità e sensibilità personali. La fruizione pubblica dei Manifesti-rèclame, sorta di divulgazione popolare delle arti figurative, aveva aperto a persone d’ogni ceto sociale la strada prima elitaria al godimento del ”bello” e una nuova ”democrazia estetica” alitava sull’educazione. Si cominciava a intravedere nell’arte applicata in ogni sua espressione, dall’architettura all’arredamento e alla decorazione come all’oggetto d’uso comune, la possibilità di rendere disponibile un disegno riproducibile industrialmente (industrial design) o artigianalmente (arts and crafts letterale), che consentisse a bassi costi, produzioni non più elitarie, ma orientate verso una scelta di fruibilità allargata, quindi sociale, del nuovo e del bello. Si veniva delineando con chiarezza sempre maggiore la prospettiva di una nuova filosofia di vita. Nella gente del Liberty si avviava a maturazione il concetto di ”moderno” e di ”originale” e la necessità di caratterizzare come appartenenti al proprio periodo culturale quei processi espressivi che andavano ormai incruentemente omologandosi. Queste espressioni in pittura, in musica, in letteratura, nella tecnica e nell’architettura, in oggetti d’uso come nei comportamenti, erano la parte emergente di quell’iceberg gigantesco che staccatosi dalla banchisa della storia, aveva impiegato decenni per caratterizzarsi in una silente e buia profondità, mostrandosi quindi all’improvviso nello splendore esplosivo del secolo contrassegnato dalle più profonde innovazioni di tutti i tempi della storia. Appunto il Liberty. 10 conquiste del lavoro VIA PO cultura e società SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEM. 2014 L’artedelfare con le mani ViaPo ha incontrato il maestro Vincenzo Grenci, le sue pipe sono piccoli gioielli di perfezione di MARIA TERESA GALATI L a bellezza salverà il mondo, scriveva Dostoevskij. La bellezza può salvare le nostre vite da una quotidianità distratta, può farci sentire vivi, davanti allo schermo di un computer e nella vita di ogni giorno. La puoi ritrovare in ogni piccola cosa, anche in una giornata uggiosa trascorsa in piacevole compagnia tra i boschi di una terra genuina, ricca di valori, e fatta di tanta passione, dove ogni radice di erica arborea può diventare un'ottima pipa. In un paese arroccato nel cuore delle serre calabre, Brognaturo, ancora oggi si trova il laboratorio artigianale della famiglia Grenci. Qui la bellezza è arte. Fino al 1998 il maestro Domenico ha lavorato per anni la famosa e tanto apprezzata "erica arborea", che è un legno, molto speciale e un po’ misterioso. Lo fornisce il ciocco, una specie di palla o di grossa patata che si sviluppa sotto terra. È un ingrossamento, un’escrescenza che si forma nell’apparato radicale di un arbusto appunto l’Erica Arborea. La radica di Calabria, che il maestro utilizza per creare le sue pregiate pipe tutte naturali a finitura liscia, senza essere tinte ma solo rifinite a cera, apprezzate nel mondo dai veri intenditori. Il maestro intagliatore, è emigrato negli Stati Uniti per necessità e si è fatto conoscere per l'abilità. Il figlio racconta come il suo datore di lavoro avesse creato una vetrina dove il maestro creava le pipe scolpendo i volti dei passanti. Una volta ritornato in Calabria, produceva pochi ed unici esemplari, veri capolavori, spesso personalizzati, curati in ogni particolare per soddisfare ogni differente esigenza con l’impegno di chi pensa al fumatore che le gusterà. Come il Presidente Pertini che ne era un grande ammiratore e che nel 1997 lo insignì del titolo di Cavaliere della Repubblica. Oggi continua la sua passione il figlio Vincenzo. Ti accoglie con gli occhiali sulla fronte, in camicia scozzese, nel “suo mondo” con il suo inseparabile amico, Enrico, il pappagallo. Un’ ora di storia e di storie, da cui emerge una figura alternativa, poliedrica, con le sue convinzioni molto radicate che difficilmente può cambiare. Vincenzo è un Maestro artigiano ed un maestro di vita. Come stare in un luogo dove il tempo scorre lento, la produzione è lenta, piacevole, e per un po’ hai l’impressione di scrollarti di dosso tutte le incombenze del quotidiano. La storia della pipa italiana è una storia lunghissima e si modifica e si trasforma e, continua a dar vita ad oggetti unici e riconosciuti sul mercato mondiale quali prodotti di alta qualità. La pipa ha una sua forza che, tramandata di padre in figlio, resiste alla corsa convulsa dei nostri giorni dando vita ad un oggetto con origini antichissime. Non si fuma la pipa perché dipendenti dalla nicotina, ma perché si vuole celebrare un rito. Classiche, libere, dritte, curve, medie, grandi. Ogni fumatore sceglie la forma che più lo rappresenta La pipa in origine non veniva usata per il tabacco ma solo come attrezzo per il fumo, come testimoniano gli scritti pervenutici˘da Erodoto, Plinio il Vecchio e Plutarco fino ad arrivare ai Greci e ai romani. Alla metà del 1800 risale la pipa in radica che presto rimpiazzò ogni altro tipo di pipa per la sua resistenza, economicità e per la bontà che conferiva al gusto della fumata. E' difficile affermare dove nacque la pipa in radica perché molti artigiani in tutta Europa ne rivendicarono la paternità. L'industria italiana si affermò nell'ultimo dopoguerra mentre la produzione inglese si distinse per la ricerca di una qualità elevata dal punto di vista della materia prima, e in Francia dell'estetica. La pipa è un oggetto sempre più ricercato, ma non come prodotto di alto consumo quanto come oggetto da collezione, dalle qualità sempre più elevate e dispendiose. Fumo e letteratura hanno sempre avuto un legame stretto, un legame che viene raccontato tra le righe dei romanzi, ma è anche consuetudine privata degli scrittori, per alcuni dei quali il fumo è intimo confidente che aiuta alla riflessione. In libreria non è insolito imbattersi in titoli, più o meno fantasiosi, che introducono a descrizioni di sigari e sigarette che nulla hanno a che fare con saggi o manuali più o meno avvincenti che dettano le regole per il mantenimento della buona salute, ma che si soffermano sugli aspetti più estrosi di questo puro piacere. Un giro tra le miriadi di libri ci farà scoprire i nomi di autori noti e meno noti che, pur se con motivazioni diverse, hanno fatto del fumo della pipa la loro fonte ispiratrice. Di Georges Simenon è “La pipa di Maigret”, una raccolta di quattro racconti in cui proprio la pipa del commissario francese gioca un ruolo fondamentale nella soluzione di altrettanti casi risolti da uno dei più celebri investigatori della letteratura. Lo stesso Svevo non si limitò al piacere di fumare di Zeno, ma nella raccolta “Del piacere e del vizio di fumare” riunì vari brani di diario e rari articoli di giornale, tutti incentrati, per l’appunto, sul vizio e sul piacere del fumo. Fumare la pipa è più che un piacere, ci dona del tempo, attenzione e passione. E' l'oggetto di coloro che sono alla ricerca di un gusto particolare o di un differente modo di essere. Da paziente artigiano il maestro Grenci sceglie con accuratezza la radice di erica, riservando ad ogni taglio la sua sagoma, la lunga stagionatura, con il metodo e la pazienza di sempre, il procedimento di bollitura. La radice quindi dopo essere stata tagliata, sezionata, bollita e stagionata, almeno dieci anni, viene lavorata. Quando il maestro lavora le placchette di radica, mantenendo intatta la fiamma (venatura del legno) entra in uno stato di beatitudine. È bello incontrare uno che ci crede. Che crede nel proprio lavoro, nelle cose che fa, nella materia che tratta. Senti che l’ama questa materia, la sfiora ed è una carezza, la guarda ed è una carezza. Grenci crea il modello a seconda del suo estro creativo, poi con la carta abrasiva passa alla finitura, la cera carnauba per levigare ed infine la marchiatura. E l’occhio di pernice? Solo le pipe Grenci riescono ad avere l‘occhio di pernice a quattro quarti. Chi crea pipe medita. Così come chi le fuma. Le nuove generazioni, dal suo appassionato racconto, trarrebbero sicuramente ispirazione, con la pipa si eleva il piacere e si celebrano tutti i sensi: il gusto, l’olfatto, il tatto e la vista. Nella piccola bottega, dove spuntano pianoforti a coda da restaurare, una lira che piano piano prende forma, due zampogne attaccate al muro pronte per essere suonate alla novena di Natale, ed il maestro con passione da un assaggio di questa dolce melodia, tre ciaramelle finite o quasi, racconta il suo lavoro e la sua filosofia di vita. Racconta, con occhi pieni di gioia di chi ha una grande passione, perché le sue pipe sono famose per la sua ottima fattura, riuscendo a non deludere mai l'esperto intenditore, restituendo sempre un dolce sapore fatto di arte e originalità. Grenci, sinonimo di qualità, artigianalità ed esperienza maturata nel tempo che tutt'ora continua a diffondere il suo messaggio di lavoro e passione. L’oro d’Italia è fatto di artigiani: cappellai, enologi, liutai, produttori di vetro, di pipe i cui mestieri affondano le radici nella tradizione, nella passione e nel tramandare questi mestieri. E' l'arte del fare con le mani. 11 VIA PO cultura e società SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEM. 2014 conquiste del lavoro S i rischia sempre il campanilismo, ognuno di noi sogna la sua piccola fetta di unicità. I messinesi accampano la scusa del terremoto, i beneventani i domini longobardi, io c'ero prima, io di più, e via cantando. Vale anche per i quartieri. E se ne avvantaggiano le periferie. Mica per niente. A Roma c'era l'essenziale, ma le meglio battaglie si sono giocate un po' più in là. Fidene è Fidene. Il Parco delle Sabine può valere quanto il Colosseo. Che poi è un doppione. Ai tempi di Nerone c'era uno specchio d'acqua, ci nuotavano animali pescati in giro per l'impero, un boschetto d'importazione con bestie anche lì raccattate di qua e di là. Nerone si dice. E dov'è morto Nerone? Che domande! Al Tufello. Senza fare battute. Pure Nerone. Non in uno scontro a fuoco, e non dopo esser stato gambizzato. Nell'abitazione del liberto Faonte. Oggi ci sorge un gruppo residenziale. Come si chiama? I giardini di Faonte, appartamenti con rifiniture di pregio immersi nel verde, recita lo slogan. Fuori da noi ci metterebbero su Stonehenge, noi ci abbiamo messo garage, una Pam – mancavano. Il resto è da venire. Quando Galba entra a Roma, il senato spicca la condanna a morte. Dovendo uccidersi Nerone sceglie come ultimo teatro la dimora del caro Faonte. Ha con sé la quarta sposa – il giovane greco Sporo – è titubante sul gesto finale. Implora i suoi di finirlo, ne viene fuori una bariffa, chi ha affondato la lama a chi. Nerone cade, gli occhi fissano gli astanti in uno sguardo pieno di sgomento e paura. Al Tufello. Il complesso residenziale ovviamente non è immerso nel verde, c'era prima del complesso, la dimora di Faonte del resto era accampata nelle Vigne Nuove suburra romana acchittata a coltivazioni e vigneti. Terra fertile, cave di tufo, tutto l'occorrente. Anche oggi non a caso nel quartiere si parla il romanesco migliore. Non è per vanteria di residenti. Le borgate si sa si sono portate con sé il meglio. Si chiamano borgatari, ma ci si dimentica che il borgo era quello di via della Conciliazione. Nelventredi Roma Seconda puntata: il Tufello, una delle borgate storiche della capitale di MARCO MAUGERI Mussolini voleva la vista su San Pietro, sfollò circa diecimila quattromila famiglie, per la somma di qualche decina di migliaia di persone. Residenti del centro vivevano nella Roma Rinascimentale, le case accerchiavano la costruzione della basilica al punto che il colonnato del Bernini fungeva più come sfollagente,la cupola appariva altissima agli occhi dei visitatori che uscivano pelo pelo da un groviglio di stradine. Li mandarono tutti nella suburra. Vigne, tufo. Tutti romanisti perché del duce si diceva la lazialità – Piola, i mondiali – tutti comunisti per ovvio risentimento contro Lui. Un romanesco meraviglioso come potevano parlarlo sotto i calcagni del papa. E' il Tufello quello di ladri di biciclette. Al povero Ricci l'ispettore del lavoro chiede i requisiti, “ce l'hai una bicicletta”, una folla di sfollati fa “ce l'ho io!”. “Ricci, ce l'hai sta bicicletta si o no?” Non ce l'ha ovviamente, e male gliene incoglierà. E anche quello è il Tufello. Mi spiego, l'Eur è un sogno, un'idea futuristica e realizzata di futuro. Un futuro di cartongesso, senza profondità, ma molto ben collocato. Ma comunque limitato. E' inevitabile. Come nei film di fantascienza. Invecchiano alla velocità della luce. L'Odissea di Kubrick appare oggicome un ferrovecchio, la parte più avvenieristica è quella finale piena di vecchi quadri e mobilio d'epoca. Le scimmie dei primi venti minuti sembrano proiettate in un tempo successivo alla patetica astronave di latta. Il Tufello attraversa la storia tutta di questa città. Nel bene e nel male. Ci sono le Sabine, c'è Nerone, ci sono gli abitanti del borgo cacciati da Mussolini, c'è la meglio malavita degli anni settanta. Antonio Mancini, detto l'Accattone per la somiglianza con Franco Citti è tutt'oggi uno dei pochi sopravvissuti della Magliana, ed è del Tufello. Al Tufello, c'è la lastra dedicata al giudice Amato, al Tufello abitava Valerio Verbano. C'è una palestra in una strada ampia del quartiere che ne ricorda il nome. E non è una palestra tanto per fare, è un posto pulito, importante, un luogo di riscatto, e di rigore. Ignoti suonarono al citofono spacciandosi per amici di Valerio, legarono i genitori e rimasero in attesa del ragazzo. Quando Valerio tornò su, lo uccisero lentamente, la stanza accanto, i genitori assistettero – ascoltarono – impotenti gli ultimi guaiti del figlio. Una dinamica totalmente unica nel panorama dell'epoca. Impossibile da assimilare al terrorismo, perfino a quello nero. Il nome di Valerio ovunque. Sulle pareti delle costruzioni dei ferrovieri, in quelle del barocchetto romano, nelle lunghissime città giardino un tempo punteggiate di rose. Un quartiere che è un corpo, un organismo vivente. Si contano i caduti, negli anni ottanta. Al Tufello manca un'intera generazione, fra i quaranta e i cinquantacinque anni. Morti, caduti in guerra. Le case abitate dalle loro madri, invecchiate, aperte a occupanti e nuovi poveri. Occupanti regolarizzati, da regolarizzare, gli scrittori cincischiano con l'idea del tufo come pietra porosa, assorbente, il Tufello ha assorbito tutto. Il meglio, il peggio. Tutto insieme. Ci sono le case più belle, le città giardino più sontuose. E' sparita la meglio gioventù fra droga e malavita. Adesso è arrivata pure la metro. E' il quartiere più vicino al più grande centro commerciale di Roma – abusivo e sanato – gli immobiliaristi c'hanno da un pezzo messo gli occhi. Ci abita pure Buoncompagni li vicino. I nuovi ricchi ci possono fare un pensierino, e a qualcuno potrebbe venire in mente di sfollare quelli più poveri. C'è una nuova Garbatella su cui speculare, c'è un Trieste Salario da mettere su tutto nuovo fra Val Melaina e via della Bufalotta, le strade sono ampie, è pieno di alberi, ci sono scuole e palestre a gogò. Sta arrivando la metro, c'è solo da cercare una nuova suburra, Corcolle, tivoli, spingere più a est, ci sono nuovi ricchi da collocare, il Tufello potrebbe fare al caso loro: le case sono basse, si posteggia anche sui marciapiedi, non siamo mica a Talenti, vedi il sole sorgere e tramontare – non è il Casilino – le città giardino sono sfiorite, ma il primo giardiniere che ci mette le mani. C'è morto pure Nerone, prima o poi qualcuno se lo ricorderà, Mitterand quando venne a Roma chiese subito di poter visitare il luogo dove fosse morto Pasolini. I delegati lo volevano dirottare altrove. Non avevano il coraggio di confidare al primo ministro francese che all'Idroscalo nessuno si era preso la briga di metterci una targa, una pietra, chessò. Lo portarono in silenzio nell'evidente imbarazzo di Mitterand, incredulo di trovarsi davanti a un pugno di terra e erbacce. Succederà qualcosa. E' succederà al Tufello. E' tutto sempre successo al Tufello. 12 SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEM. 2014 Tralepieghe dellacittà Ripubblicato il libro di Silvio Negro, Roma non basta una vita di COSIMO ARGENTINA VIA PO letture I l punto di osservazione ideale per descrivere un paesaggio, una città o una comunità probabilmente non esiste o è frutto di una serie di ingredienti come il talento, l’occhio assoluto, la capacità di sintesi e altro che raramente si mescolano nello stesso individuo. È però altrettanto vero che per raggiungere il nitore letterario a volte si renda necessario il viaggio. Lo spostamento. La modifica delle coordinate date. Due pare possano essere le direttrici di movimento legate alla capacità di descrivere i luoghi. O esserci nati e poi allontanarsene e riuscire a osservare ciò che si è vissuto in una maniera del tutto nuova e ripulita dei detriti del quotidiano, come ad esempio la Sicilia per il romano d’adozione Camilleri. Il Caribe e Barranquilla descritti da un Gabriel Garcia Màrquez adottato prima dalla Spagna e poi definitivamente dalla megalopoli di Città del Messico. Il Marocco dell’ormai francese a tutti gli effetti Tahar Ben conquiste del lavoro L Jelloun. O il caso di James Joyce che cantò Dublino da cosmopolita quale era diventato. Oppure il movimento diametralmente opposto: arrivare in un paese o in una città e farla talmente propria da riuscire a scriverne individuando quello che gli altri, compresi gli indigeni, non sono in grado di vedere. Anche in questo caso ci sono esempi illustri come quello di Hemingway che descrisse la vita in Spagna e il mondo popolare cubano come fosse sempre vissuto in quei luoghi. William Burroughs e Paul Bowles, nordamericani divenuti veri cantori del Maghreb. Bruce Chatwin che amò e descrisse con fervore, lui britannico, la Patagonia. Mario Rigoni Stern, un italiano capace di mostrarci gli anfratti e le schegge di legno ghiacciato delle isbe e i solchi della neve della Russia come pochi al mondo e di contro l’ucraino Scerbanenco che seppe delineare il sottobosco noir di Milano come nessuno è inee di confine incerte. Quella segnata dal mare, che separa l’Africa dalla Calabria, oltrepassata da imbarcazioni traboccanti di un’umanità in transito. Un’altra linea di confine, quella fatta dalle montagne, che dividono l’Italia dalla Francia, percorse prima dai partigiani e poi dai passeur. Un’altra ancora, quella che separa la fanciullezza dall’adolescenza, in cui i sentimenti sono confusi, ma si fanno sentire: “Ero curioso di lei: pensai che quello che i grandi chiamano amore fosse essere curiosi di una persona, e metterci tutta una vita a conoscerla”. Linee di confine. E’ questo il terreno misterioso in cui nasce “Beltempo”, 144 pagine scritte da Saverio Pazzano e pubblicate dalla casa editrice Sabbiarossa, presentate in anteprima a Reggio Calabria sabato 14 novembre. Dentro c’è la Calabria in cui l’autore è cresciuto, l’Africa che ha conosciuto come volontario dell’associazione Maestri di speranza, l’amicizia con Aldo “Fieramosca” Chiantella, testimone della vita coraggiosa dei partigiani di Calabria. Una storia che prende spunto dai fatti di cronaca all’ordine del giorno ormai da anni, gli sbarchi dei migranti sulle coste calabresi, per raccontarli da un punto di vista diverso. Quello di un ragazzino, Nino, che ha dalla sua la curiosità vivace dei dodici anni, quello di una giovane giornalista che non si lascia distrarre dalla presenza delle autorità e riserva un’attenzione particolare ai dettagli che passano inosservati, in cui si nasconde la verità spesso invano rincorsa dalla cronaca, e riuscito a fare dopo di lui. Insomma gli esempi si sprecano e pare che la tendenza a portarsi dietro una certa distanza dall’oggetto narrato, analizzato, studiato, porti in dote la capacità di smarcarsi da una patina di indifferenza che avvolge la stanzialità a oltranza. E si deve al giornalista veneto Silvio Negro uno dei libri più peculiari e incisivi dedicati alla città eterna, alla Roma degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, alle sue pieghe, i suoi reconditi risvolti umani e paesaggistici senza tempo, ma ricchi di una storia che nessuna altra città può vantare. La casa editrice Neri Pozza riporta in scaffale un libro, una raccolta di articoli, Roma, non basta una vita, che ebbe già in passato un suo indubbio momento di gloria. L’autore era arrivato nella capitale dalle pianure vicentine negli anni Venti chiamato dall’Osservatore Romano. Per alcuni anni fu un vaticanista di gran lustro per poi approdare alla grande famiglia del Corriere della sera, redazione romana. Collezionista di fotografie, di Roma Negri poté apprezzare e criticare tutto lo splendore e la miseria di una città dalle grandi vestigia che però visse come molte altre grandi metropoli italiane i decenni a cavallo delle due guerre mondiali e il dopoguerra degli anni Cinquanta con un senso di contraddizione determinata dai contrasti sociali e urbani dell’epoca. L’occhio di Silvio Negro annota tutto, scandaglia quartieri, modi di dire e comportamenti dei romani veraci e di quanti arrivavano nell’urbe carichi di speranza e prospettive a volte appagate altre volte disilluse. Negro passa al setaccio le condizioni politiche, la tradizione culinaria, i movimenti sociali che confluiscono in maniera sistematica a Roma, il vero ombelico del mondo occidentale. Scrive anche dei dintorni, di quel contorno laziale che la città avrebbe rosicchiato a partire dagli anni Cinquanta, un pezzo alla volta, trasformando le campagne in quelle borgate che ispirarono un altro uomo del nord trapiantato a Roma: Pierpaolo Pasolini. Negro in sostanza si trasforma, per il lettore, in una vera e propria guida oltre che turistica anche e soprattutto culturale per chi volesse scoprire i segreti e i percorsi alternativi della città. Ci porta dentro i misteri della colonna di Traiano, davanti all’arco di Costantino, lungo il Tevere. Annota sfumature, circostanze, i risvegli della città che fece tremare il mondo, i suoi tramonti, le lotte di potere, i templi trasformati in rivendite, mercati, i negozi del ghetto, i suoi ponti. Con lo sguardo di un entomologo il giornalista si ferma a studiare e catturare i dettagli senza però tralasciare la visione d’assieme di una città – mondo trasformata dalla sua abilità nella miglior vetrina a disposizione di un amante dell’estetica e delle forme architettoniche diluite nel tempo. Negro rivolge la sua attenzione sia al senso storico sia a quello spirituale di un luogo che la storia ha consacrato e che probabilmente resisterà tanto quanto il pianeta in cui viviamo. Silvio Negro, Roma, non basta una vita, Neri Pozza, Vicenza, Settembre 2014, pp. 395, euro 18,00 Lasaggezzadegliuominigiusti Beltempo, un volume di Saverio Pazzano pubblicato dalle edizioni Sabbiarossa di ELISA LATELLA quello del “Vecchio”, che “…era stato molte vite. E tutte libere”. Verrà fuori a poco a poco, pagina dopo pagina, la sua storia antica di rifugi e brigate partigiane, di montagna e di Alpi, di passaggi nascosti di clandestini in Francia. La storia dei passeur, che facevano arrivare clandestinamente in Francia italiani in cerca di lavoro, è poco nota. Ma molto, tanto, troppo simile a quella delle migrazioni del Mediterraneo. A guidare i barconi non ci sono sempre e solo delinquenti senza scrupoli. Ci sono anche disperati in fuga da carcere e violenze, che hanno risalito il deserto dell’Africa e a cui è stato offerto, da criminali più furbi, il viaggio in mare gratis: loro in cambio devono tenere il timone di notte e, se non sono bravi, risultare all’arrivo responsabili di reati e tragedie. Per chi è dall’altra parte gli scafisti sono loro. I cattivi sono loro. Se aiuti queste persone in casi del genere, rischi di essere incriminato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Meglio far finta di non vedere. Valla a raccontare la verità. Salvo incontrare qualcuno che ha tempo e voglia di ascoltarla. Un barcone rantola come un pachiderma che in acqua non ci dovrebbe proprio stare e muore davanti alla spiaggia, disperde vittime migranti, per le quali il Mediterraneo diventa una tomba. Per Nino la parola nostalgia ha il significato di una mamma lontana, che aspetta di partorire due gemelli. Ma comprende che non è solo questo. Nelle reliquie che risalgono dal mare dopo l’ecatombe Nino intravede fotografie, portafogli, ricordi. Se c’è un uomo in mare, allora è la legge antica dei pescatori, più solidale e umana di tante leggi dello Stato italiano, che prevale. E di uomini, donne e bambini in mare ce ne sono tanti. Il Vecchio, nonostante l’età, è il primo dei soccorritori. Corpi denutriti e deboli: a volte non ce la fanno a far bastare lo sforzo di braccia sconosciute e amiche che tentano di strapparli alla fine. Braccia di quelli che non sono vincitori, né vinti, di quelli che la Storia ha chiamato più volte “uomini giusti”. Nino osserva e impara a capire ciò che vede. Impara a distinguere le recite e le passarelle dei politici dagli occhi di Prosper ( un immigrato? Uno scafista? Un buono? Un cattivo?), occhi che hanno dentro le strade del mondo e la voglia di essere creduti. Impara a distinguere il volo delle telecamere verso le autorità dagli occhi attenti di chi guarda dalla spiaggia ciò che gli altri ignorano. Impara a fare domande che pretendono solo risposte da adulti. “Ma tu sei una giornalista?” “Sì, ma di quelle che non volano”. Impara a volere conoscere il passato, la storia del Vecchio, per capire il presente. Per capire da dove nasce quell’esperienza, quella saggezza, quella capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, anche se lo sembra. E impara quel nome speciale che diventerà il suo: Beltempo. Quello che al Sud sembra non mancare mai, ma in realtà non è ancora arrivato. Quello che verrà, con un vento di cambiamento atteso da chi ha l’incoscienza, o forse solo il coraggio, di crederci. Saverio Pazzano, Beltempo, Sabbiarossa Edizioni, Reggio Calabria 2014, pp. 144, euro 13 13 A SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEM. 2014 lla fine del XIX secolo, quando Proust era adolescente, la sua amica e coetanea Antoinette Faure (figlia del futuro presidente della Repubblica francese Félix Faure) gli propose di rispondere, per iscritto, a una serie di domande presenti su un album in lingua inglese intitolato An Album to Record Thoughts, Feelings, etc. (un album per conservare pensieri, sentimenti, etc.). Al tempo, infatti, presso le famiglie inglesi era piuttosto diffusa l’abitudine di rispondere a questionari simili, spesso nel corso di intrattenimenti sociali. Anni dopo l'album fu ritrovato da André Berge, uno dei figli della Faure, che nel 1924 pubblicò per la prima volta le risposte di Proust. Nel 2003 il manoscritto originale è stato venduto all’asta per la somma di 102.000 euro. In seguito Proust rispose a un secondo questionario. In cima al foglio scrisse di proprio pugno: "Marcel Proust par lui-même" (Proust raccontato da Proust). Tra l’una e l’altra versione, le domande sono simili ma non identiche e le risposte dello scrittore piuttosto diverse. Alcuni programmi televisivi, in diversi Paesi, hanno fatto uso del questionario, rivolgendo le domande a personaggi celebri. È il caso del francese Apostrophes condotto da Bernard Pivot o dell'americano Inside the Actor's Studio condotto da James Lipton. Il questionario di Proust: Tessa Gelisio Unesempiodivita ricondottaallavoro conquiste del lavoro Conquiste da Star P orta da sempre in televisione e in libreria le sue passioni: l’ecologia, il benessere, l’alimentazione corretta. Non fa fatica, infatti, ad ammettere che tra il lavoro e la quotidianità privata non c’è poi una così grande differenza, tant’è che quest’anno passerà anche più tempo sul piccolo schermo. Tessa Gelisio, infatti, in onda tutti i giorni con la sua rubrica Cotto e Mangiato su Italia 1, ha inaugurato il sabato mattina, su Canale 5, un nuovo programma, InForma – Dimensione Benessere, dove si parla di alimentazione, stile di vita sano, wellness, medicina. Inoltre è da poco in libreria con un volume sui suoi ultimi menu. Si intitola Le ricette per star bene, buone ma non necessariamente light. “Non sto a guardare tanto le calorie, perché un piatto può averne poche ma non essere sano - precisa la Gelisio -. Preferisco pensare al benessere e quindi alla scelta degli ingredienti”. Biologici e di stagione, s’intende. “Così come nella rubrica televisiva, anche per le ricette riportate nel libro c’è una maggiore attenzione alle cosiddette ’minoranze alimentari’ - spiega -. Ci sono piatti vegetariani e vegani, ma anche adatti a diabetici, celiaci, intolleranti a latticini e per chi sta attento alla linea”. Consigli, insomma, ne dispensa in quantità, anche attraverso il suo blog www. ecocentrica.tv. A noi ha rivelato da chi, invece, nella vita, li ha sempre ricevuti. Quale tratto del suo carattere considera prevalente nei rapporti di lavoro? L’empatia e la spontaneità. Qual è invece il difetto che tenta più spesso di nascondere? Sono troppo diretta: non riesco a dire bugie. A volte è meglio che stia zitta Qual è la qualità che apprezza maggiormente nelle sue colleghe e nei suoi colleghi? Nelle donne ammiro la praticità e lo stacanovismo. Normalmente le donne lavorano di più e sono più organizzate rispetto agli uomini. Loro invece sono più bravi nelle pubbliche relazioni e così fanno carriera più facilmente e più velocemente rispetto alle donne. Cosa invece non sopporta del suo ambiente di lavoro? I pettegolezzi. Ce ne sono tanti. Ci sono debolezze o colpe altrui che le ispirano indulgenza? La timidezza e la poca esperienza, se si ammettono. Sul posto di lavoro possono incontrarsi dei veri amici? E come li riconosce? Certo. Devo dire, innanzitutto, che questo ambiente di lavoro è migliore di come lo si immagina. O almeno io sono circondata e ho avuto la fortuna di lavorare con persone meravigliose, molto affini a me. Credo che gli amici si rico- noscano perché sul lavoro ti aiutano se sei in difficoltà. Qual è stato il suo primo lavoro? Vendevo dei braccialetti in pelle con le borchie, fatti da me. Era il periodo dei metallari. Qual è stata la reazione al suo primo stipendio? E all’ultimo? Ero molto soddisfatta. Fin da piccola ho avuto uno spirito di autosufficienza e di indipendenza. Non volevo dipendere dai miei genitori e la libertà è sempre stata la mia parola chiave. Quanto all’ultimo compenso, devo ammettere che, pur essendo una privilegiata, mi sono ritrovata, da un po’ di tempo, a lavora- re il doppio per guadagnare la metà rispetto a qualche anno fa. Qual è il suo rapporto col sindacato? Perché? Non c’è mai stato, perché sono una freelance. Inoltre, ho sempre fatto vari lavori, da giornalista a conduttrice ad autrice. Fino a poco tempo fa versavo i miei contributi in casse diverse. Credo comunque che il sindacato debba rappresentare e tutelare anche i liberi professionisti. Il futuro va in quella direzione: partite iva, freelance e precari saranno la maggioranza rispetto ai lavoratori dipendenti. Fare quello che fa è sempre stato un suo desiderio? Devo dire di sì. Da piccolina mi sarebbe piaciuto diventare direttrice di un parco nazionale, poi avrei voluto salvare il mondo. Ho declinato, quindi, in maniera diversa, queste mie aspirazioni. Qual è stato il momento in cui ha pensato di avercela fatta? Non c’è mai stato, perché non credo riuscirò mai a raggiungere nella vita tutti gli obiettivi che ho. E’ uno stimolo per fare sempre meglio. Quali sono, secondo lei, i segreti del successo nel lavoro? Impegno e costanza. Se non avesse fatto quello che fa, chi sarebbe stata ora? Probabilmente lavorerei in qualche associazione ambientalista, sul campo. Chi si sente di ringraziare per quello che è ora? I miei genitori e mia nonna che sono stati fonte di crescita, di miglioramento e anche di libertà di essere quella che sono. Ho avuto quattro nonni meravigliosi, ma una in particolare, nonna Elena, quella ancora viva e che ha 90 anni, è sempre stata per me uno stimolo a fare qualcosa nella vita, a dimostrare qualcosa a lei e a tutta la mia famiglia. Lavoro e vita privata: vanno sempre d’accordo? Direi di sì. Ho trasformato il mio lavoro in vita privata. Ha dei rimpianti? Non aver completato l’università. Studiavo Scienze ambientali. Il suo motto è? Pensa positivo Quando non lavora che fa? Faccio sport, cene con gli amici e leggo tantissimo. Ha un sogno non ancora realizzato? Tantissimi. Il principale è acquistare un enorme pezzo di foresta tropicale con l’associazione di cui sono presidente, forPlanet, e preservare habitat a rischio. Vorrei insomma riuscire a far qualcosa di pratico per salvare un pezzo di foresta e cambiare le cose concretamente. Stefania Saracino Dinuovoall’Opera, nasceilmodelloRoma SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEM. 2014 14 Teatro. Il Costanzi era in bancarotta, ora la Fistel vuole esportare a tutta la lirica l’accordo che l’ha salvato cronache P artitura nuova per orchestra e coro. Queste le note dell’accordo per il Teatro dell’Opera di Roma che ha scongiurato 180 licenziamenti, offrendo nel contempo un innovativo modello per coniugare le professionalità nel lavoro artistico con necessari livelli di efficienza e produttività. Dopo scioperi, proteste in musica sulle note del Va Pensiero, minacce di licenziamenti collettivi è finalmente arrivato l'accordo tra i sindacati del Teatro dell'Opera di Roma e il management della Fondazione. Sono salvi 180 musicisti di coro e orchestra. L'intesa è stata sottoscritta il 17 novembre scorso da Fistel Cisl, Slc Cgil, Uilcom Uil e gli altri i sindacati rappresentanti i lavoratori dell’Opera, approvato in Consiglio di amministrazione della Fondazione, ratificato infine dai lavoratori con un voto plebiscitario – solo in 7 votano no, contro i 400 favorevoli. L’accordo prevede una razionalizzazione organizza- tiva, un controllo dei costi diretti e indiretti del lavoro, una rimodulazione generale in termini di produttività, con un risparmio di oltre 3 milioni di Euro in due anni, necessario per far uscire il Teatro dell’Opera di Roma da una crisi irreversibile che ne minacciava la stessa sopravvivenza. Un’assunzione di responsabilità da parte di sindacati e lavoratori, dopo un’estate di fuoco che aveva visto schierati su fronti contrapposti una parte dei lavoratori e una parte dei sindacati, con la Fistel Cisl protagonista di un primo accordo, di certo favorevole ai lavoratori, che per l’oltranzismo barricadero di una minoranza di musicisti aveva provocato la cancellazione di prime e spettacoli con gravissime ripercussioni anche a livello di immagine per gli orchestrali e il Teatro dell’Opera di Roma. La Fondazione ha dato prova di voler conciliare la necessità di risanare i conti in rosso che gravano da tempo con la salvaguardia dei posti di lavoro, di personale di eccellenza per la cultura italiana. Per la prima volta vi è stata l’applicazione di logiche di razionalizzazione, efficientamento e analisi dei costi esattamente come avviene nei settori privati di ogni genere applicata in una realtà pubblica, per di più specifica come quella dell’arte e della cultura. Occorre individuare un nuovo mix per sostenere le manifestazioni artistiche in un periodo di crisi profonda, come quello che stiamo vivendo, di abbattimento dei consumi, in particolar modo quelli legati al tempo libero. Per rilanciare l’Opera di Roma è necessario ridurre gli sprechi e razionalizzare i costi. Le giornate di sciopero attuate nel cartellone estivo di Caracalla e le dimissioni del Maestro Muti dalla direzione artistica hanno inasprito il conflitto, ricucito con l’impegno paziente e convinto del sindacato, che ha permesso di ricostruire il senso di responsabilità dei lavoratori da un lato e della Fondazione dall’altro, raggiungendo così un risultato importante. “È un successo per tutta la città - commenta il segretario generale della Fistel di Roma e del Lazio Paolo Terrinoni - ora i lavoratori del Teatro dell'Opera possono tornare al lavoro con serenità e serietà. Il nostro obiettivo è sempre stato assicurare la vita di un’istituzione come l'Opera di Roma e il suo rilancio, garantendo i livelli occupazionali che rappresentano l’eccellenza per l’Italia e il mondo. L’unico vero rammarico sta nel fatto che i contenuti dell' accordo che ci hanno portato a salvare 180 posti di lavoro sono peggiorativi rispetto all'accordo di luglio, quando i lavoratori non perdevano nemmeno un euro. Oggi, per salvare i posti di lavoro i 3 milioni di euro di risparmio ricadono tutti sul salario accessorio”. Flessibilità sull’organizzazione del lavoro, aumento della produttività, internalizzazione di attività di produzione e saving, queste le parole chiave di un accordo rivoluzionario per il settore pubblico e della cultura. Risultato di tutto ciò saranno: l’aumento delle numero di recite e balletto a calendario nel corso delle prossime stagioni, promozione delle attività sul territorio in modo da attrarre l’attenzione del pubblico e in particolar modo dei giovani, con iniziative che coinvolgano le scuole, massimo rigore nella buona gestione delle risorse economiche. Finalmente verrà attuata una sana amministrazione e il giusto rilancio delle attività dell’Opera di Roma troppo spesso ignorata dal grande pubblico o relegata a consumo elitario per i non più giovani. “Siamo soddisfatti del risultato raggiunto - afferma il segretario generale della Fistel Cisl Vito Antonio Vitale - non solo perché mette al riparo una prestigiosa istituzione cul- turale di Roma dagli effetti di una lunga crisi, ma soprattutto perché consente un approccio innovativo nell’organizzazione del lavoro in un contesto peculiare come quello artistico, chiamato in ogni caso a misurarsi con le esigenze di bilancio e di sostenibilità delle Fondazioni liriche e artistiche in genere. Abbiamo dato prova, noi della Fistel ora come già in passato, di una visione lungimirante, non appiattita sulla conservazione di istituti contrattuali ormai datati. La nuova frontiera del lavoro nella cultura è coniugare i grandi valori di questo settore in una logica di mercato, attraverso la diffusione delle opere liriche e del balletto non più solo per un elitè ma per un più grande e magari giovane pubblico. Quella del teatro dell’Opera di Roma - dice Vitale - non è una questione isolata; siamo impegnati con altre Fondazioni liriche che si trovano in difficoltà e intendiamo continuare a proporre un modello funzionale, capace di risolvere i problemi di lungo periodo e assicurare un rilancio stabile e duraturo per una parte fondamentale della tradizione culturale italiana come quella della lirica e del teatro”. Ubaldo Pacella Così è cambiata la musica I punti dell’accordo tra sindacati e Fondazione che ha evitato 180 licenziamenti e aperto una nuova stagione per il Teatro dell’Opera di Roma: - congelamento della parte accessoria della retribuzione quali il PdR e cancellazione delle indennità sinfonica; - riduzione dei cachet previsti per ruoli solistici del coro; - compensazione prolungamenti orari attraverso una banca ore per un limite massimo di 8 giorni in due mesi per il personale artistico; - compensazione orario straordinario per personale tecnico per un limite di 8 ore bimestrali; - riduzione compensi fuori orario dei Professori d’Orchestra; - verifica del possibile riutilizzo di materiale scenografico e costumi stico giacente nei magazzini; - massimo rigore amministrativo per una buona gestione delle risorse economiche; - aumento delle produzioni artistiche nel Teatro Costanzi e a Caravalla; - promozione e diffusione della produzione lirico sinfonica e del balletto per attrarre l’interesse del pubblico; - promozione di attività con Scuole e territorio per incrementare l’interesse del pubblico BREVI Fnp a cura di Ileana Rossi conquiste del lavoro Emilia Romagna: ’Il terremoto elettorale si sana con la concertazione’ “Le elezioni regionali sono state un terremoto in Emilia Romagna, per cui la risposta è quella dato nella zona del cratere:concertazione tratutti i soggetti della società civile, sindacato in primis, per affrontare il disagio sociale”. Così Loris Cavalletti, responsabile Fnp ER. “Disertare le urne - afferma Cavalletti - è una realtà gravissima, perché vienemenoundirittodoverecostituzionale, la partecipazione dei cittadini, minando la democrazia del Paese”. L’astensione dal voto ha riguardato tutti gli elettori: “Non è condivisile il giudizio che si riferisce all’azione del governo come sostiene la Fiom. Fnp, Spi e Uilp –precisa- si sono confrontate con i candidati, invitando a partecipare al voto”. Per Cavalletti “la strada da intraprendere è svolgere un ruolo attivo di confrontocostruttivosull’operato dell’amministrazione”. Se è “positivo” che il neo presidente Bonaccini abbia promesso di voler partiredalla concertazione erispondere ad alcune richieste contenute nel documento unitario dei sindacati Pensionati. “Dovremo controllare che si faccia real- mente” incalza Cavalletti. Nel merito la Fnp sollecita a “recuperaresituazioni di disagio sucui alcuneforze politiche fomentano lo scontro sociale, cominciando con affrontare disoccupazione e rinnovo del welfare, così da garantirenuovi servizi alle nuove emergenze da crisi economica e modifica della composizione delle famiglie”. Infine, Cavalletti invita Bonaccini a “fare in fretta una giunta, che tenga conto dell’apporto delle forze sociali più responsabili, impegnate in regione ad avanzare nella strada della partecipazione e del coinvolgimento di tutta la società civile”. Lombardia: la gestione dei risparmi per gli anziani Risparmiare e gestire i propri risparmi in modo consapevole è una condizione ricercata specialmente in periodi di crisi come quella che si sta attraversando. “La Fnp di Mozzo (BG) –dice Eddy Locati, del consiglio direttivo della sezione- ha deciso di affrontare il tema di come tutelare i propri risparmi, soprattutto nella fase del passaggio generazionale.I risparmidi tutta una vita sono importanti –osserva Locati- per questo è necessario capire con chiarezza quali sono i rischi e le opportunità degli strumenti finanziari che utilizziamo per investire i nostri soldi. Occorre seguire con costanza l'andamento degli investimenti - consiglia l’esponente Fnp- evitando deleghe in bianco”. Da qui un incontro organizzato dalla Fnp con un espertonella gestione delrisparmio edapertoalla cittadinanza. Perugia: liste d’attesa, il piano dell’ospedale Appropriatezza,presa in caricodel paziente,orari prolungati, macchine sfruttate meglio, più personale. E’ questo è il piano dell’Azienda Ospedaliera di Perugia per ridurre le liste d’attesa per visite specialistiche ed esami di laboratorio. In base al piano, gli ambulatori resteranno aperti sino alle ore 22ed anchenelle giornate di domenica mattina. Uno dei punti fondamentali è la ‘presa in carico’ dei pazienti. Gli affetti da patologie croniche o che hanno su- bito un intervento chirurgico, evitano di presentarsi allo sportello senza “un filtro”, avendo già l’impegnativa con risposta telefonica in 24-48 e/o la data immediata dell’appuntamento nel caso di esami di controllo dopo un interventochirurgico.Su questo la Fnp esprime apprezzamento, ma anche forte preoccupazione, per cui assicura un forte impegno di puntuale vigilanza. I sindacati Pensionatinonhanno per nulla gradito che alcuni dirigenti sanitari addebitino agli anziani, soprattutto over 65, le lunghelistediattesa a causa dei controlli di routine. “Occorre portare avanti un piano di efficientamento delle risorse sanitarie in essereedunincrementodirisorse umane ed economicheper dareuna rispostavalidaachisirivolgealla sanità pubblica al di là dell’età anagrafica dell’utente - rimarcano con forza-.I problemi delle listed’attesanonriguardano solo le persone anziane, ma si estendono a tutte le fasce di età, verificheremo quali percorsi verranno intrapresi per risolverli”. focus SABATO 29 NOVEMBRE DOMENICA 30 NOVEM. 2014 15 Insiemeperunarinascita dellasolidarietàsociale S e qualcuno è ancora convinto che le riforme o il rilancio del Paese possa avvenire senza il contributo responsabile dei corpi intermedi, commette un grave errore. Anzi proprio per le condizioni di enormi difficoltà che sta vivendo l’Italia e che richiedono riforme coraggiose ed urgenti, il loro ruolo diventa ancora più importante, sia per la capacità di fare sintesi tra le diverse istanze in campo sia per attenuare i colpi di una crisi che continua imperterrita a distruggere il tessuto produttivo nazionale con forti ripercussioni sul piano economico, occupazionale nonché sociale e di tenuta familiare. È indispensabile, quindi, una rinascita forte del sentimento di solidarietà sociale e della difesa delle persone più vulnerabili come giovani, donne e pensionati, per arginare la tendenza verso il degrado della società a cui stiamo assistendo impotenti giorno dopo giorno. È questo l’impegno della Cisl, che ribadisce la necessità di un lavoro corale tra Governo e parti sociali, a partire dal lavoro, e che rilancia la propria azione con l’avvio di una nuova stagione di mobilitazioni finalizzate nell’immediato a far conoscere le proprie proposte su Jobs act e Legge di Stabilità, provvedimenti che necessitano di opportune modifiche se si vuole realmente riavviare il circuito virtuoso della crescita e riannodare i fili della coesione sociale. Come donne della Cisl, dobbiamo non solo sostenere la nostra organizzazione nelle istanze avanzate ma starci dentro anche con la nostra ottica di genere, sia nei provvedimenti citati che più in generale nelle norme che attengo- no allo sviluppo del sistema Paese. Gli interventi contenuti, ad esempio, nella Legge di Stabilità, destinati alla Famiglia, se da un lato sembrano raccogliere la richiesta forte che viene dal Paese, cioè di tutelare questa istituzione, che soprattutto in tempo di crisi ha dimostrato, anche se impropriamente, di essere l’unico ammortizzatore e collante sociale, dall’altro non ci soddisfa il fatto che, nonostante le nostre numerose sollecitazioni, si continui ad adottare la logica degli interventi sporadici anziché quella degli interventi strutturali e di lungo respiro atti a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori. Co- me Cisl pensiamo che nell’elaborazione delle politiche di sostegno alla famiglia si debba tenere debitamente conto delle difficoltà della donne di tenere insieme compiti di cura e lavoro, un bivio che spesso porta le stesse a rinunciare alla carriera. Per questo le politiche della famiglia devono caratterizzarsi come interventi che, pur con l’obiettivo centrale di proteggere e valorizzare la famiglia, non scoraggino l’occupabilità delle donne che automaticamente può comportare povertà dei redditi familiari e conseguente rischio denatalità, in controtendenza con gli stessi obiettivi dichiarati della Legge di Stabilità. Nel 2013, secondo Eurostat, i tassi di occupazione femminile sono stati costantemente inferiori a quelli dell'occupazione maschile in tutti gli Stati membri dell' UE-28, anche se con notevoli differenze da paese a paese. La Grecia ha registrato il tasso di occupazione femminile più basso (40,1 %) e tassi inferiori al 50 % si sono osservati anche in Croazia e in Italia. Noi pensiamo che il binomio donne e lavoro debba avere piena cittadinanza all’interno del Jobs act rispetto a cui prendiamo atto delle ultime novità introdotte e su cui auspichiamo si possa aprire un ampio confronto nel merito. Ci riferiamo in particolare al riordino dei finanziamenti/organismi destinati alla promozione delle pari op- conquiste del lavoro Il Comitato donne della Ces al termine della riunione del 30 e 31 ottobre a Bruxelles, dal titolo ”La Ces e il suo futuro: realizzare la rappresentanza delle donne è una realtà” ha adottato˘una Dichiarazione di cui riportiamo di seguito un abstract. ll Comitato Donne della Ces riconosce gli sforzi intrapresi ed i progressi fatti fino ad ora rispetto all'equilibrio di genere nella composizione degli organi statutari Ces; Liliana Ocmin Cronache e approfondimenti delle violenze sulle donne / 260 NAPOLI: APPROVATO IL PIANO SOCIALE DI ZONA PER PIANIFICAZIONE SERVIZI SOCIALI E SOCIO-SANITARI. INCREMENTATI STANZIAMENTI PER DONNE VITTIME DI VIOLENZA La Giunta comunale del capoluogo partenopeo ha approvato il piano sociale di zona. In questo modo il Comune di Napoli ha reso esecutiva la programmazione della seconda annualità del Piano Sociale Regionale 2013-2015, che prevede uno stanziamento complessivo di fondi statali, regionali e comunali pari a circa 81 milioni di euro. Il Piano di Zona è uno strumento di pianificazione dell'offerta dei servizi sociali e socio-sanitari elaborato per aree prioritarie d'intervento tra cui vengono contemplati anche i minori e le donne in difficoltà. Con questa iniziativa il Comune, nonostante i tagli degli stanziamenti statali e regionali, conferma non solo l'offerta dei servizi socio-sanitari essenziali, di tipo residenziale, semi residenziale e domiciliare a favore delle persone non autosufficienti ma potenzia altre aree d'intervento che richiedono analoga e puntuale attenzione. La programmazione avviata è stata ripensata rafforzando le azioni del welfare d'accesso finalizzate a migliorare la comunicazione, l'informazione, l'orientamento e la presa in carico degli utenti, va verso l'accompagnamento dei soggetti con fragilità socio-economica e una progressiva autonomia e uscita dai percorsi assistenziali. In particolare sono state rafforzate le azioni a favore dell' area d'intervento per l'infanzia e l'adolescenza, con un'attenzione particolare all' affido familiare e al sostegno genitoriale per le situazioni particolarmente difficili. In questo contesto di azioni sono state riviste complessivamente le modalità di gestione degli interventi ed è stato previsto uno stanziamento da bilancio comunale di 5.600.000 euro dedicato alle azioni di supporto socio-educativo. Una rinnovata attenzione è stata rivolta anche all'area delle donne in difficoltà, in particolare a quelle vittime di violenza, con uno stanziamento di risorse dedicate di circa 550mila euro da utilizzare prevalentemente per il potenziamento dell'offerta di servizi per l'accoglienza residenziale delle donne in strutture protette e dedicate. Uno stanziamento che, di fatto, incrementa le risorse già assegnate che ammontano a 650mila euro dedicate al Progetto E.R.A., finalizzato alla rete del Centro Antiviolenza. Nonostante il taglio al Fondo Nazionale Politiche Sociali e al Fondo Regionale si è cercato di mantenere e rafforzare gli impegni assunti con l'approvazione di un Piano Sociale rivolto a tutte le famiglie e articolato in una molteplicità di servizi ed interventi che vanno dalla domiciliarità integrata tra il sociale ed il sanitario, ai servizi socio-educativi per i minori, con particolare attenzione alla fascia pre-adolescenziale, al contrasto alle violenze sulle donne, al sostegno per i senza fissa dimora con un accoglienza lieve, nel preciso intento di supportare processi di coesione per la ricostruzione di un welfare di comunità, finalizzato a migliorare la qualità complessiva della vita dei cittadini e la tenuta sociale della città. (A cura di Floriana Isi) conquiste delle donne Dichiarazione del Comitato donne della Ces per favorire la rappresentanza femminile portunità e all’introduzione di “congedi dedicati” per le donne vittime di violenza. Su questi temi crediamo di poter dire e dare un contributo fattivo convinte come siamo dell’importanza dell’apporto di ciascuno per fare di questo Paese un luogo migliore. Ecco perché, riprendendo l’hashtag #cislnonrinunciomarilancio, il Coordinamento donne invita tutte le attiviste, le lavoratrici e le donne in generale a far sentire forte la propria voce partecipando numerose allo sciopero del 1˚ dicembre del pubblico impiego e alle mobilitazioni in programma il 2, 3 e 4 dicembre, rispettivamente a Firenze, Napoli e Milano. Osservatorio accoglie con grande favore l'adozione della tabella di marcia per raggiungere l'equilibrio di genere negli organi statutari della Ces; ritiene positiva la lettera inviata dal segretario generale della Ces Bernadette Segol a tutti gli affiliati come seguito dell'Esecutivo di giugno 2014, così come l' adozione della Road Map, che incoraggia i membri a riconsiderare le candidature per l'Esecutivo e a cercare di raggiungere un migliore equilibrio prima del Congresso Ces di settembre 2015; desidera sottolineare, in considerazione del Congresso Ces 2015 e in particolare per quanto riguarda la futura composizione della segreteria della Ces, che gli avanzamenti realizzati finora rispetto a questo organismo debbono essere sostenuti; esorta la Ces ed i suoi affiliati ad agire in conformità con l'articolo 22 dello Statuto adottato nell'ultimo Congresso, per rendere la parità di genere una realtà e che, come minimo, manterrà la differenza nel numero dei membri della Segreteria di entrambi i generi, in misura non superiore a uno; anche se gli statuti non prevedono nulla rispetto alle posizioni di leadership in seno alla Segreteria, la Ces ed i suoi affiliati sarebbero in linea con l'appartenenza alla Ces (composta dal 43% di donne), designando una donna in una delle tre posizioni di leadership e potrebbero in tal modo onorare il proprio impegno a favore della parità di genere. invita pertanto tutte le organizzazioni affiliate a riaffermare il proprio impegno per la futura composizione della Segreteria della Ces per quanto riguarda non solo il raggiungimento di proporzionalità tra i generi, ma anche per quanto riguarda la distribuzione delle posizioni di leadership nella Segreteria tra donne e uomini. Il testo integrale è consultabile al link: http://www.cisl.it/Sito-Donne.nsf/viste/ pubblicazioni?OpenDocument A cura del Coordinamento Nazionale Donne Cisl - www.cisl.it - [email protected] - telefono 06 8473458/322