CAPITOLO IV

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CAPITOLO IV
CAPITOLO IV
Il mondo immaginato
La lanterna magica è una scatola che proietta, ingrandite, su uno schermo o una
parete bianca, immagini dipinte su vetro con colori trasparenti. E’ il primo apparecchio
destinato a proiezioni collettive.
La lanterna magica è composta da:
- una fonte di luce: una candela, una lampada a petrolio o una lampada elettrica;
l’intensità della luce è determinante per la nitidezza delle immagini proiettate;
- un condensatore: una lente che concentra i raggi di luce sul vetro da proiettare;
- un riflettore: uno specchio concavo, collocato dietro la fonte di luce, che raccoglie i
raggi luminosi e li riflette sulle lenti del condensatore;
- un obiettivo: una o più lenti che ingrandiscono le immagini proiettate;
- un camino: facilita l’uscita del fumo e il raffreddamento interno dell’apparecchio.
Il vetro da proiettare viene inserito, capovolto, tra il condensatore e l’obiettivo.
Lanterna magica «Tri-unial» di J. H.
Steward, Londra, 1890 ca.
Illustrazione tratta da «Collegium
Esperimentale, Sive Curiosum» di J. C.
Sturm, Norimberga, 1676.
Fin dall’inizio si cerca di dare movimento all’immagine proiettata grazie a semplici
meccanismi di animazione. Nel caso del vetro a leva, per esempio, si montano sul telaio
due vetri: uno fisso e l’altro mobile collegato ad una leva. Sul vetro fisso è raffigurata la
parte dell’immagine che rimane immobile, sull’altro è dipinta la parte del soggetto da
“animare”.
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Vetro per lanterna magica e leva, prima metà del XIX secolo.
I telai a rotazione, costituiti da un vetro fisso e uno mobile, entrambi di forma circolare,
vengono utilizzati per soggetti diversissimi e per ottenere effetti di grande spettacolarità. Il
moto di rotazione continuo è trasmesso al vetro mobile tramite una corda senza fine che
aziona una puleggia munita di manovella o grazie ad un ingranaggio a ruota dentata o
cremagliera. Tra gli effetti più affascinanti e apprezzati dal pubblico, realizzati con tale
tecnica, troviamo la fontana, l’eruzione del vulcano, il divampare di un incendio, il fumo di
un camino di un bastimento, i mulini a vento, i pesci rossi in un acquario, un veliero che
ondeggia nel mare in tempesta.
Nell’Ottocento si studiano nuovi effetti speciali: le dissolving views (vedute dissolventi).
Due o più lanterne affiancate o una lanterna a due o più obiettivi proiettano in dissolvenza
una sequenza di vetri che raffigurano, per esempio, uno stesso luogo in differenti momenti
del giorno o dell’anno.
«Castel
Sant’Angelo
, Roma».
Vetri per
lanterna
magicadissolving
views di
Newton &
Co.,
Londra,
seconda
metà del
XIX secolo.
Il primo a descrivere la lanterna magica è, nel 1659, il celebre astronomo olandese
Christiaan Huygens. Pochi anni dopo il danese Thomas Walgenstein utilizza la lanterna
come macchina per creare spettacoli, mentre il padre gesuita Athanasius Kircher ne
sfrutta le potenzialità trasformandola in un efficace strumento pedagogico.
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Lanterna magica di Athanasius Kircher
(da Ars Magna Lucis et Umbrae,
seconda edizione, Amsterdam 1761).
Erudito gesuita, Kircher (1601-1680) fu
professore d’etica e di matematica a
Würzburg, poi a Roma, al Collegio
romano, insegnò matematica, fisica e
lingue orientali, dedicandosi anche alle
più diverse discipline, fra cui astronomia
e archeologia.
Nel suo libro Ars Magna Lucis et Umbrae (1646), Kircher, oltre ad indicare le tecniche
per la costruzione di questo tipo di apparecchio, racconta anche le sue esperienze di
organizzatore di spettacoli di lanterna magica e illusionismo ottico per mezzo di giochi di
specchi. In seguito a questo tipo di spettacoli è accusato di negromanzia e di scoperto
commercio con le forze demoniache.
Ora, di colpo, grazie a Kircher, lo sguardo si allarga e coinvolge folle di personaggi,
spazi assai eterogenei, interni di palazzi nobiliari o di chiese, spazi pubblici, osterie, teatri,
piazze. In questa folla la figura del portatore di lanterne magiche si perde e confonde, a
sua volta, in una massa di venditori ambulanti.
Il lanternista, con la sua lanterna a tracolla, una ghironda o un tamburo, non sembra
avere nulla in comune con le diverse razze di uomini di spettacolo ma è piuttosto un
discendente dei colporteurs.
Poiché furono i gesuiti ad adottare la lanterna magica per la proiezione nelle chiese di
immagini che evocano il paradiso o l’inferno dalla fine del 1600 e che, nello stesso
periodo, i professori dell’Accademia delle Scienze di Parigi ne fanno un uso regolare, non
si può non interrogarsi sulle caratteristiche e differenze di funzioni degli spettacoli offerti da
personaggi visti con sospetto dalle autorità civili e religiose, discendenti da quegli
ambulanti che, solo un secolo prima, avevano fatto circolare in tutta Europa i germi della
riforma.
Alle volte il colporteur prima di mostrare le sue immagini vende delle medicine contro
l’artrite, il malocchio, la febbre o racconta le esperienze vissute nel corso dei suoi viaggi in
altri paesi.
Una dopo l’altra dalla lanterna magica escono immagini di personaggi storici del
passato e di paesi lontani e popoli sconosciuti. I soggetti delle lastre sono praticamente
infiniti: paesaggi, navi in tempesta, giocolieri, mostri, diavoli, fenomeni fisici, ottici,
astronomici, scheletri, alberi di cuccagna, espressioni fisiognomiche, maschere, piazze di
città.
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I vetri disegnati e colorati a mano per lanterna magica qui riprodotti appartengono ad una
storia di Guglielmo Tell, composta di dodici immagini (prima metà dell’Ottocento).
Le lastre sono dipinte a mano con tecniche sempre più sofisticate e raffinate via via che
si forma un mercato e cresce la domanda.
Nel 1700 le testimonianze iconografiche, le memorie, le tracce letterarie e poetiche si
moltiplicano mostrandoci una penetrazione della lanterna in quasi ogni momento e
occasione della vita sociale.
La lanterna è usata a lungo dai gesuiti nelle loro prediche: sulle mura delle chiese si
proiettano visioni di anime che bruciano nell’inferno o immagini che mostrano la creazione
del mondo. Gli ambulanti mescolano, invece, il sacro e il profano.
Come i venditori di stampe, i cantastorie, i cantafavole, i venditori di almanacchi, di lunari,
di pianeti della fortuna, di libri, i lanternisti danno un contributo importante alla formazione
e trasmissione nel lungo periodo di molte forme del sapere popolare. E al tempo stesso
riescono ad accedere negli spazi dei teatri, delle accademie, delle università, nei palazzi
dei nobili.
Il lanternista metteva in circolazione assieme ad immagini anche discorsi e stimolava
curiosità aprendo orizzonti sconosciuti al mondo contadino dotandolo di oggetti
indispensabili all’economia domestica e agricola e insegnandogli anche il valore dello
spreco, dello stupore della meraviglia, del divertimento, ma anche della conoscenza.
Dalla metà dell’Ottocento, in seguito ai perfezionamenti degli apparecchi ad opera di
Henry Langdon Childe, all’invenzione di una serie di dispositivi molto sofisticati e, verso la
fine del secolo, grazie all’invenzione della luce elettrica, si fa un uso sempre più vasto di
tavole astronomiche, mappe, lastre dipinte e fotografiche per conferenze scientifiche e
lezioni universitarie.
La lanterna magica prima e il mondo niovo\\, nonostante le derisioni e le opposizioni,
dagli inizi del Settecento vengono creando un pubblico enorme, perfettamente in grado di
leggere tutti i tipi di immagine e di conservarne la memoria.
Dalla fine del Settecento la lanterna diventa uno strumento tutto fare: la usano
indifferentemente i professori, gli scienziati, i ciarlatani e gli ambulanti, e in seguito entra
nelle case private come gioco per i bambini.
Il suo teatro per eccellenza resta comunque la piazza, il luogo pubblico.
Quella che, con la lanterna magica, era una delle tante forme di spettacolo ambulante
diventa con la fantasmagoria un vero e proprio spettacolo di sala, con un’accurata messa
in scena ed effetti sonori (rumori, musiche, voci di commento), supportato da una precisa
struttura imprenditoriale e da un’attenta attività di promozione.
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Scheletro che esce dal sepolcro
proiettato con il fantascopio,
Molteni, Parigi 1840-1850.
Il fantascopio è una variante assai sofisticata della lanterna magica che consente di
ricreare i più spettacolari effetti della fantasmagoria. Sempre celato alla vista dello
spettatore, l’apparecchio è montato su un carrello che scorre lungo due rotaie.
Avvicinando o allontanando la lanterna allo schermo, le immagini retroproiettate possono
di volta in volta ingrandirsi o, al contrario, rimpicciolirsi. La macchina è dotata infatti di un
sistema ottico molto sofisticato che mette a fuoco i soggetti proiettati mentre il carrello è in
movimento.
Modello di fantascopio.
Etienne-Gaspard Robert, detto Robertson, crea i suoi spettacoli di fantasmagoria contro
lo scenario di una Parigi ancora devastata dalla Rivoluzione.
Nel suo spettacolo fa tesoro delle tecniche di manipolazione delle ombre cinesi del
fantasista François Seraphin e dell’ormai lunga tradizione di spettacoli di lanterna magica.
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La macchina di cui dispone è una lanterna magica montata su ruote, da lui brevettata
col nome di fantascopio.
Col tempo lo spettacolo si trasforma, gli effetti vengono meglio equilibrati e la
fantasmagoria comincia a raccogliere consensi negli ambienti di una classe di potere che
desidera cancellare i ricordi degli orrori della Rivoluzione.
Rispetto alla lanterna magica tradizionale la fantasmagoria crea un crescendo di emozioni
servendosi anche delle esperienze degli spettacoli pirotecnici e rendendo spettacolari i
risultati di ricerche scientifiche, di fisica e chimica.
Il fantascopio non annuncia un nuovo mondo, quanto piuttosto costituisce il punto
d’arrivo di un percorso continuamente oscillante tra magia e scienza. Con Robertson
sembrerebbe aver vinto la magia. Di fatto i veri vincitori sono lo spettacolo e il pubblico. A
queste due divinità Etienne Robert sembra disposto a sacrificare tutto. La sua ricerca
ossessiva della perfezione è in funzione del dominio assoluto del pubblico, della possibilità
di ricreare nel tempo gli stessi fenomeni di stupore, ammirazione, terrore. Robertson è il
primo uomo di spettacolo moderno, il primo che si ponga una quantità di problemi sul ruolo
del pubblico.
La sua concezione finale della vita e del destino dell’umanità è ripetuta tutte le sere a
chiusura degli spettacoli: «Vi ho svelato i segreti dei preti di Menfi, ho cercato di mostrarvi
ciò che la fisica ha di più occulto, gli effetti che sembrano più sovrannaturali nel secolo
della credulità. Non mi resta che offrirvi una cosa fin troppo reale. Voi che avete provato
qualche momento di terrore, ecco i soli spettacoli veramente da temere: uomini forti,
deboli, potenti, donne belle o brutte, ecco la sorte che vi è riservata! Ricordatevi della
fantasmagoria!»
Non ha ancora terminato il discorso che alle sue spalle appare lo scheletro di una giovane
donna ritto in piedi su un piedistallo, mentre nella sala si diffonde un forte profumo di
incenso.
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CAPITOLO V
Le immagini animate
Fino dalle più lontane epoche l’uomo ha cercato di riprodurre il movimento delle
mandrie, degli uccelli, dell’uomo. L’uomo delle caverne aveva trovato un espediente che
precorre in maniera singolare i principi della nostra cinematografia. L’artista ripeteva più
volte l’immagine dell’animale e man mano che ripeteva il disegno spostava la posizione
delle membra. I nostri lontanissimi preavi della preistoria hanno lasciato sorprendenti
rappresentazioni di esseri in movimento. Ne sono un esempio le pitture nelle grotte di
Altamira con i bisonti in corsa, la caccia al camoscio sulle pareti di Tortosilla, la caccia ai
cervi di Valltorta.
Successione di immagini di caccia dipinte dall’uomo preistorico.
Una fase successiva è da ritenersi quella in cui il disegnatore descriveva i singoli
passaggi del movimento (paragonabili ai fotogrammi della cinematografia) disponendoli
secondo strisce come nelle tombe della quinta dinastia egiziana attorno al 4500 a. C..
Questa rappresentazione lineare consiste nel disegnare una accanto all’altra le fasi di un
salto, di una lotta e di altre scene di vita degli egiziani: la macellazione di un animale, la
preparazione di una mummia e così via. Lo stesso procedimento è stato adoperato da
molti popoli primitivi moderni. I disegni di popoli africani mostrano scene di battaglia
realizzate con tante immagini successive.
C’è come un bisogno nell’uomo di vedere le forme statiche disegnate o scolpite, che si
fanno movimento perché il moto è l’aspetto caratteristico ed essenziale della vita.
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Nei primi decenni dell’Ottocento gli studi sul fenomeno della persistenza retinica
dell’immagine danno origine a una serie di dispositivi che consentono di riprodurre brevi
scene animate.
Il taumatropio fu ideato da John A. Paris nel 1825, un famoso medico inglese che creò
questo strumento come prova della persistenza dell’immagine sulla retina. Il prezzo di
vendita allora era di 7 scellini e 6 pence (un bravo falegname guadagnava all’epoca in un
mese meno di 30 scellini).
Taumatropio: pappagallo e gabbia di J. A. Paris, 1826.
E’ un disco con immagini complementari sulle due facce (cavallo e cavaliere, uccello e
gabbia, calvo e parrucca) che viene fatto ruotare grazie a due stringhe legate sull’asse
orizzontale, in modo tale da sovrapporre le due figure.
Ma quali sono le ragioni di queste illusioni di sovrapposizione determinate dal
movimento?
Quando un’immagine luminosa colpisce la retina, l’impressione che ne deriva non si
cancella nel momento esatto in cui lo stimolo scompare. Se si accende una lampadina in
una stanza buia vediamo gli oggetti perché sono illuminati; ma nel momento in cui si
spegne la luce, per una piccola frazione di secondo, si ha ancora l’impressione di vedere
gli oggetti nella stanza. La percezione delle cose, quindi, non finisci nel momento in cui
non le vediamo più, ma permane ancora per una frazione piccola di tempo.
Il nostro occhio è in grado di trattenere per qualche istante l’immagine di un oggetto
anche dopo che questo è scomparso. Per tale principio due immagini consecutive di un
oggetto in movimento si fondono tra loro provocando l’illusione della fluida continuità del
movimento.
I primi ricercatori pensavano che l’immagine restasse momentaneamente impressa
sulla retina dell’occhio. Oggi si presume che questo effetto avvenga a livello corticale.
Gli effetti della persistenza sono molteplici. Già nel 1829 Plateau elencava alcune
illusioni ottiche: “[…] i fuochi d’artificio […] una corda che vibra appare ai nostri occhi come
un fuso schiacciato. Quando le ruote delle carrozze girano rapidamente sembra che
abbiano perso i raggi […] la trottola che gira […] la pioggia e la grandine […] ogni volta che
guardiamo gli oggetti che si muovono rapidamente, la durata delle sensazioni modifica le
apparenze”.
Da questo principio, chiamato persistenza retinica dell’immagine, risulta che se noi
sostituiamo un’immagine ad un’altra con una certa velocità, l’occhio non ha il tempo di
percepire il cambiamento e si ha la sensazione che le due immagine siano continue o
addirittura una sola.
Il fenachistiscopio fu ideato contemporaneamente da Joseph Plateau, a Bruxelles, e
da Simon Stampfer, a Vienna, nel 1833.
Nel 1832 Plateau (1801-1883) così descrive il fenachistiscopio: “L’ apparecchio consiste in
un disco di cartone forato lungo la circonferenza da un certo numero di fessure e con delle
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figure dipinte su una delle facce. Quando si fa girare questo disco attorno al suo centro, di
fronte ad uno specchio, guardando attraverso le fessure, le figure riflesse sullo specchio
invece di confondersi sembrano al contrario cessare di partecipare alla rotazione del
disco, si animano ed eseguono i movimenti che sono loro propri”.
Scatola contenente un modello di fenachistoscopio a specchio, Parigi, seconda metà
del XIX secolo.
Plateau si disinteresserà presto al fenachistiscopio lasciandone ad altri lo sfruttamento
commerciale e continuerà i suoi esperimenti di laboratorio divenendo cieco a quarant’anni
per aver tentato anni prima di verificare il limite di resistenza della retina umana
all’esposizione della luce solare.
Per dare un’idea minima del confronto, della gara, della circolazione internazionale delle
idee e dei risultati delle ricerche scientifiche va aggiunto che, quasi nello stesso periodo,
Simon Ritter von Stampfer (1792-1864) realizza un apparecchio analogo a quello di
Plateau che battezza col nome di stroboscopio.
Nel 1845 l’austriaco Franz Uchatius combinò insieme un fenachistiscopio e una
lanterna magica, ottenendo vere e proprie piccole commedie.
Lo zootropio è una specie di fenachistiscopio cilindrico, brevettato da William G.
Horner (1786-1837) nel 1834.
Zootropio della London Photographic & Stereoscopic Company, Londra, 1867.
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E’ formato da un’asse verticale che gira e sul quale è posto un cilindro vuoto; nella parte
superiore del cilindro vengono ritagliate delle fessure lunghe e strette, tutte uguali e
sistemate alla stessa distanza.
Vengono quindi realizzate delle strisce di carta, mobili, della lunghezza della circonferenza
del cilindro. Su queste strisce si disegnano immagini in un numero uguale a quello delle
fessure.
La striscia con i disegni viene sistemata all’interno del cilindro. Si guarda quindi attraverso
una fessura e si imprime al cilindro un movimento di rotazione abbastanza veloce. Ogni
volta che una fessura passa davanti al nostro occhio si può vedere l’immagine che si trova
all’estremità opposta del cilindro.
Poiché ogni immagine lascia un’impressione sulla retina che dura una frazione di
secondo, non consentendo quindi una netta separazione delle varie immagini in rotazione,
si avrà l’illusione di veder animare il soggetto disegnato sulla striscia.
La mobilità delle strisce consente di poter utilizzare nello zootropio molti soggetti.
Il prassinoscopio di Emile Reynaud fu ideato nel 1877. E’ simile allo zootropio ma è
basato non più sulle fessure ma su un prisma, ottenuto con tanti pezzetti di specchio. La
striscia con le immagini, simile a quella dello zootropio, è posta all’interno del cilindro. Al
centro il prisma riflette con il movimento le immagini verso l’occhio dell’osservatore.
Prassinoscopio a manovella di E. Plank, Norimberga, fine del XIX secolo.
Complesso appare invece il teatro ottico messo a punto da Emile Reynaud nel 1892:
una sofisticata macchina che gli consentiva di retroproiettare vere e proprie storie animate,
i cui risultati vengono mostrati su uno schermo, costantemente acceso, sul quale scorrono
i cinquecento disegni di Paure Pierrot, accompagnati dalle musiche composte
appositamente da Gaston Paulin.
In questo caso il teatro ottico originale non è stato messo in funzione. Avvicinandosi ad
esplorare la pletora di marchingegni che lo compongono si comprende il perché: a forza di
scorrere, la fragile striscia di immagini dipinte su banda continua si sarebbe deteriorata in
fretta, disperdendo un patrimonio visivo costato anni di fatica, energie e sforzo creativo.
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Il teatro ottico di E. Reynaud, fine del XIX secolo.
Le pantomime luminose rappresentano l’ultimo grande spettacolo prima dell’avvento
della Settima Arte. A partire dal 1892 Emile Reynaud organizza a Parigi presso il Museo
Grévin veri e propri spettacoli con disegni animati della durata di circa mezz’ora,
accompagnati da musiche dal vivo appositamente composte. Si trattava di autentiche
commediole “boulevardières” aventi a soggetto gli amori di Pierrot o le vicende balneari
dei primi villeggianti dell’epoca, disegnate e presentate su uno schermo.
L’arrivo del cinema segna la fine delle pantomime luminose. Lo spettacolo viene
interrotto, Reynaud distrugge il teatro ottico e getta nella Senna le pellicole.
Manifesto disegnato da J. Chéret per lo spettacolo di “pantomime luminose” di E.
Reynaud, Parigi, 1892.
Gli apparecchi ottici descritti vengono messi in commercio durante l’Ottocento,
ottenendo successo soprattutto come giocattoli.
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Nel testo Morale du joujou Baudelaire li definisce “giocattoli scientifici alla moda” capaci
di “divertire a lungo, e sviluppare nel cervello del bambino il gusto per gli effetti
meravigliosi e sorprendenti”.
I “giocattoli ottici” costruiti da Plateau e da molti altri ebbero molto successo tanto che si
potevano acquistare sia nei piccoli che nei grandi negozi e si potevano comprare anche
serie di strisce di disegni.
Per il numero ristretto di immagini rappresentabili, questi strumenti si limitarono a
raffigurare movimenti molto semplici che si ripetevano periodicamente: una ballerina che
danzava, un bambino che saltava la corda, la capriola di un acrobata, ecc.
Tuttavia, più che per bambini, erano divertimenti per adulti perché, man mano che gli
apparecchi richiedevano precisione e delicatezza nella costruzione, diventarono anche
molto più costosi. Ne furono costruiti soprattutto in Inghilterra, in Austria, in Francia, in
Germania e negli USA.
Molti di questi nuovi strumenti ebbero anche dei nomi particolari: cromascopio,
eidotropio, coreitoscopio, stroboscopio, fantascopio, cinetoscopio, cinematoscopio.
Come si vede in questi nomi, ricorre spesso il suffisso –scopio che deriva dal verbo
greco scopéo che significa “guardare”; il suffisso –tropio, invece, anch’esso di origine
greca, significa “azione del girare”.
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