Numero completo - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna

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Numero completo - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna
1
LA CAPITANATA
Rivista quadrimestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia
Direttore: Franco Mercurio
Segretaria di redazione: Maria Adele La Torretta
Redazione e amministrazione: «la Capitanata», viale Michelangelo, 1, 71100 Foggia
tel. 0881-791621; fax 0881-636881; email: [email protected]
«la Capitanata» è distribuita direttamente dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Per informazioni e per
iscriversi alla lista delle persone e degli enti interessati rivolgersi a «La Capitanata», viale Michelangelo 1
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“LA MAGNA CAPITANA”
BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA
è un servizio della Provincia di Foggia
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Sala Adulti: Renato Santamaria, [email protected]
Sala Consultazione: Maria Altobella, [email protected]
Sala Ragazzi: Milena Tancredi, [email protected]
Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono elementi
simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da
Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente e futuro
senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla Biblioteca
Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e da loro gentilmente donato.
Red Hot : Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000.
_______________
LA CAPITANATA
RASSEGNA
DI VITA E DI STUDI
DELLA PROVINCIA
DI FOGGIA
_______________
13
_______________
Donne
__________________
MARZO 2003
Questo numero di «la Capitanata» è pubblicato
nell’ambito del progetto Stigliola
(deliberazione n. 1330 del 6.12.2000)
© 2003 BPFG Biblioteca Provinciale di Foggia
4
Indice
Donne
p.
13
Presentazione
di Rossella Palmieri
15
Identità femminile e diritto positivo
di Maria Altobella
1. Introduzione
2. La storia
3. Nuovo contesto e nuovi soggetti
4. La “Donna nuova”
25
Reti di donne: virtual reference desk di genere nel Web italiano
di Angela P. Bevilacqua
1. Introduzione
2. Le reti di donne nel Web italiano
31
Essere donna: un’avventura che richiede coraggio
di Maria Buono
1. Nuovi termini di un dibattito sociale e politico da tempo sopito
2. Rivedere l’immaginario di donna perfetta
3. Un mondo a misura di donna?
37
Essere donna ieri, essere donna oggi
di Valeria de Trino
1. Donne nel XXI secolo
2. Il “pensiero femminile”
3. Scienza al femminile
43
Le donne e la globalizzazione
di Donatella Di Adila
1. Il contesto
2. Le teorie
3. La ri-produzione
51
L’universo femminile
di Gloria Fazia
53
L’universo femminile: uguaglianza e diversità
di Maria Giampalmo
5
p.
55
“Malattie” della donna nella narrativa al femminile
di Giovanna Irmici
1. La donna malata
2. La cenerentolite
3. Il bovarismo
4. La rossellite
69
Lo sguardo femminile
di Antonietta Lelario
71
Pascoli e il radicamento nella lingua materna
di Clelia Iuliani
1. Pascoli e la figura femminile
2. La lingua materna
83
Anna Achmatova: il silenzio interrotto
di Maria Adele La Torretta
1. Il poeta Achmatova
2. La forza civile della poesia
89
La passione della scrittura
di Ada Mangano
1. L’identità femminile in Alba De Cespedes
2. Il diario e la pericolosità della scrittura
101
L’eredità femminile
di Rosa Porcu
1. L’emancipazione
2. Dall’emancipazione alla libertà femminile
3. Il rapporto con gli amici e la famiglia
107
Partitura a più voci
di Katia Ricci
1. Introduzione
2. Le “voci”
3. Reti di riferimento
117
La donna oggi. Quante domande senza risposta!
di Maria Teresa Santelli
1. Capire le donne a Foggia
2. Cogliere lo sguardo femminile sul mondo
6
Frontiere della Capitanata
p.
125
Prologo
di Anna Guerra
127
Dal Movimento Cittadino “Donne” all’ Associazione “Bianca Lancia”
a cura dell’Associazione “Bianca Lancia”
1. La storia del Movimento Cittadino “Donne”
2. Il senso del Movimento Cittadino “Donne”
3. Il presente dell’associazione
131
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
159
Note alla Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
di Nella Santilli
Presente come cultura
167
Benedetto Croce a cinquant’anni dalla sua scomparsa
di Lucio Miranda
171
Rileggere Croce
di Valerio Zanone
1. La concezione della storia
2. La visione liberale di Croce
3. Croce come presidente del Partito
181
Gramsci e l’uso politico della storia
di David Bidussa
1. Il rapporto con la storia
2. Uso pubblico e uso politico della storia
187
Für ewig
di Biagio De Giovanni
189
L’attualità di Gramsci
di Giuseppe Normanno
1. Introduzione
2. Filosofia, ideologia, identità di teoria e prassi
3. La dialettica
4. L’egemonia
7
5. Gli intellettuali
6. Il partito
7. Conclusioni
Saggi
p.
199
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
di Angelo Rossi
1. Codice Gramsci: la linea è quella di Lione
2. L’ “amico crociano”
3. Croce e i più moderni teorici della praxis
4. Gramsci, Croce e la necessità di un anticroce e di un nuovo antiduhring
221
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
di Raffaele Colapietra
1. Classi sociali e realtà politica
2. Per una vera democrazia
3. Il superamento del “bagno crociano”
4. Le dimissioni di Croce
259
Il viaggio nel Sud: esploratrici in terra di frontiere
di Rosanna Curci
1. La scoperta del Sud
2. Le viaggiatrici
265
Esempi di letteratura al femminile in Svevo e Pirandello
di Giuseppe De Matteis
1.Un nuovo tipo di scrittura
2.L’universo femminile
Attività della biblioteca
271
La comunicazione in biblioteca
di Enrichetta Fatigato
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Premessa
La comunicazione attraverso i documenti: breve excursus storico
Dopo la stampa tipografica
La modernità di Gesner
Dall’età moderna alla contemporanea
I modelli di varianza
I linguaggi della comunicazione bibliotecaria: quadro di riferimento generale
Principi sistemici e strutture linguistiche
8
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
p.
309
I formati per lo scambio e la circolazione delle informazioni
I supporti della comunicazione
Scriptorium elettronico vs intermediazione bibliotecaria?
Il reference per la Biblioteca Provinciale di Foggia
Area servizi al pubblico
Popolazione
Acquisti e dotazione documentaria
Prestiti, iscritti al prestito e transazioni informative
Periodici correnti
Personale
Le cinquecentine sanseveresi di un giurista foggiano del XVIII
secolo: Niccolò Tortorelli
di Marianna Iafelice
1. Introduzione
2. Il giurista Niccolò Tortorelli
3. Le cinquecentine
Recensioni
321
Mary Cassatt o della libertà femminile
di Antonietta Lelario
325
Gli autori
9
10
Donne
11
12
Presentazione
di Rossella Palmieri
Hanno varcato i confini imposti da quella “selezione” risalente all’antica Roma
che le aveva relegate a res nullius. E da quando, come il mito ci ricorda, Pandora
scoperchiò il vaso facendo uscire tutti i mali e riversandoli sul mondo intero, di strada ne hanno fatta. Dopotutto ci aveva già pensato Aristofane, ne Le donne al Parlamento a ipotizzare, sotto la lente deformante e caricaturale della commedia, gli effetti di un probabile governo al femminile. Poi c’è stata Lucrezia, che si è suicidata
per testimoniare la sua pudicizia e l’assoluta fedeltà al marito, malgrado uno stupro.
E Cornelia, madre dei Gracchi, ancora oggi è esempio di quell’educazione ben impartita ai figli, arte assai difficile da imitare o fare propria. Che non sia sterile nostalgia di un passato che pure è strumento e filtro per valutare il presente. Che non sia
neanche vuota ripetizione di un refrain se, ad esempio, vedendo gli ultimi casi di
cronaca nera di donne suicide per amore, ci viene in mente quell’infelice Didone
ricordata da Virgilio. E che sia invece quasi di conforto sapere, quando i drammi
privati implodono all’interno delle mura domestiche e, fuori dalla finestra, le guerre
incalzano, che secoli fa Euripide aveva già messo tutto in scena. Attutisce quel senso
d’impotenza sapere che se i giornali locali riportano i casi di donne che hanno ucciso
i propri figli, ciò è stato già detto, già scritto. Tutto è già avvenuto. L’orrore lo ha
compiuto anche Medea. C’è un vecchio detto che ricorda come il presente lo si può
realmente comprendere anche e soprattutto volgendo un occhio al passato, senza
però restare imbrigliati da esso.
E se, quindi, un filo rosso unisce questi due momenti temporali, quale riflessione s’impone per essere donna, oggi? Sino a trent’anni fa allevare i figli veniva naturale. C’erano le nonne e i consigli delle vecchie zie. E forse bastavano. Oggi dubbi,
paure e nevrosi rendono necessaria la consultazione di tanti libri. Saprò allevare
bene mio figlio? Sarò in grado di intercettare il suo bisogno? Sono solo due delle
inquietanti domande che ogni mamma si pone nel momento in cui troppo forte si fa
la pressione emotiva alla quale sono sottoposte loro malgrado: dal marito, dalla famiglia e dal contesto sociale che le vuole a tutti i costi amorevoli ma in grado di
reggere la competizione del lavoro, tradizionalmente al focolare ma allo stesso tempo in grado di parare i colpi di tante debolezze e insicurezze che si stanno abbattendo inesorabilmente anche sugli uomini. In ballo c’è, per tutti e due i sessi, la caduta
dell’orgoglio e del narcisismo. E in una società che fonda tutto sull’immagine sembra
quasi la vera sfida da non perdere, il vero dittatore al quale essere tutti sottomessi,
dimenticando ciò che conta realmente.
13
Poi c’è quell’eterna difficoltà di farsi strada in un mondo maschile. Avrà fatto
pure storia il femminismo ma è anche vero che nelle posizioni di comando sono
davvero poche le donne. E se al nord il patinato mondo della moda propone questa
o quella manager di grido, il sud è assai carente di figure femminili carismatiche,
come si evince a tratti dal variegato mosaico composto dalle firme di questo numero
de «la Capitanata». Solo tre anni fa due braccianti agricole morivano su un’assolata
strada della provincia al termine di dodici ore di lavoro nei campi. Un furgone sovraccarico si ribaltò e le due lavoratrici finirono schiacciate. Sembra uno scenario da
Medioevo. Eppure eravamo a ridosso del 2000. Si mossero i sindacati, inorridirono
le istituzioni. Poi più nulla. Nel frattempo scivoliamo nel gorgo profondo degli ultimi posti in classifica, nella cultura come nello sport e nel tempo libero. Anche, dunque, in quei ritagli di vita sociale che in particolar modo dovrebbero essere di pertinenza della donna. E quello che a tratti fa quasi sorridere, in una sorta di schermo
che consente di non restare confusi da tanta contraddizione, è che, a classifica uscita,
tutti si sono affannati a dire che i parametri sono sbagliati, che i teatri sono pieni, le
sale cinematografiche anche e che numerosissimi sono gli appuntamenti culturali.
C’è, insomma, scarsa possibilità di vedere dove realmente si trovi la verità in
questo mare magnum di dati e smentite. “La verità è figlia del tempo”, diceva Kant.
E il tempo, per parlare, non ha bisogno di essere interrogato, è un altro noto aforisma
classico. Ecco perché quando si vuole trovare un antidoto, una medicina, un conforto o una spiegazione agli avvenimenti che ci vedono protagonisti è ancora ai classici
che dobbiamo attingere, inesauribile miniera per poter comprendere, dall’esempio
di ieri, come correggere il tiro oggi, al di là di facili enunciazioni di principio che il
più delle volte restano lettera morta o buoni ma sterili propositi. È quanto ancora
succede nel momento in cui uomini e donne si mettono a discutere sugli aspetti salienti del nostro quotidiano vivere: dal lavoro alla salute, dalle modalità d’educazione all’economia. Questa è la vera sfida da portare avanti. Purché si abbia l’onestà intellettuale d’iniziare a farlo.
(r. p.)
14
Maria Altobella
Identità femminile e diritto positivo
di Maria Altobella
1. Introduzione
Donna: individuo femminile della specie umana.1
Dizionari ed enciclopedie - a partire dalla grande Enciclopédie2 di Diderot definiscono la donna risalendo all’origine etimologica del termine, domina, e quindi al suo aspetto naturalistico e alla sua funzione storicamente determinata, considerandola, dunque, una entità priva di caratteri propri e definibile solo in rapporto
ad altro. Infatti i più importanti dizionari linguistici quali Tommaseo,3 Treccani,4
Battaglia,5 De Mauro6 e Larousse7 continuano nelle rispettive definizioni a considerarla come riflesso della storia dell’uomo e, di conseguenza, diventa impossibile
una ricerca antropologica che possa ricostruire il percorso evolutivo della sua presenza nel mondo.
Inoltre, l’Encyclopaedia Britannica8 alla voce women (sic) fa seguire education
of mentre alla voce man fa seguire evolution of. Il che significa chiaramente che
l’uomo presenta una sua autonomia in evoluzione e la donna, invece, è oggetto di
un’operazione che rimanda ad altri.
La donna viene, dunque, descritta prendendo come termine di paragone l’uomo e la sua storia comincia nel momento in cui lotta per la conquista di una umanità mai posseduta; quando, cioè, si misura con la realtà cercando di modificarla. E la
sua diventa lotta contro la natura, contro la cultura, contro il potere conquistando,
così, il diritto alla propria diversità e dando origine alla condizione femminile intendendone lo status e il ruolo in una data società. Stato giuridico, stato economico,
stato familiare, stato sessuale, stato politico: sono questi gli aspetti che compongo-
1
Giacomo DEVOTO – Gian Carlo OLI, Nuovo vocabolario della lingua italiana, Milano, Selezione dal Reader’s Digest, 1987,
2 vol., voce donna, vol. I.
2
Denis DIDEROT , Encyclopèdie, ou dictionnaire raisonnè des sciences, des arts et des métiers, par une société des gens
de lettre, Lausanne-Berne, Sociétés Typographiques, 1781; voce femme, tomo XIII.
3
Niccolò TOMMASEO, Dizionario della lingua italiana, Milano, 1977, 20 voll., voce donna, vol.VI.
4
Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Roma, Istituto Italiano dell’Enciclopedia Italiana, 1949-2000;
voce donna, vol. XIII.
5
Salvatore BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1961-2002, 19 voll., voce donna ,vol. IV.
6
Tullio DE MAURO, Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, UTET, 1999-2000, 6 vol.+1 CD-ROM; voce donna, vol. II.
7
La Grande Encyclopédie, Paris, Larousse, 1971-1978; voce femme, vol.VIII.
8
Encyclopaedia Britannica, London, 1962, 24 voll., voce man, vol. XIV; voce women (sic), vol. XXIII.
15
Identità femminile e diritto positivo
no la struttura della condizione femminile il cui studio presuppone in ogni caso il
confronto con l’uomo.
Uno strumento determinante della soggettività femminile è certamente il diritto che, adeguatamente utilizzato, tutela e promuove gli interessi delle donne.
Ogni rivendicazione, ogni conflitto, deve pertanto confrontarsi necessariamente
con il linguaggio del diritto. Le lotte contro l’ingiustizia e quelle per il cambiamento coinvolgono condizioni sociali ed economiche ma investono prioritariamente le
istituzioni e si può parlare di emancipazione raggiunta solo attraverso norme intese, sempre più, a promuovere la parità formale e sostanziale.
Dall’antichità ai nostri giorni, ieri e oggi, i temi e i problemi legati ai modelli
femminili meritano, dunque, una rilettura ed una riflessione.
2. La storia
Dalla tutela perpetua dell’antico diritto romano e dal mundio del diritto
germanico alla situazione attuale, il passo è gigantesco anche se l’emancipazione
femminile troverebbe in Gaio9 il suo precursore il quale si dichiarava perplesso
circa la infirmitas sexus; tuttavia, essa è chiaramente in correlazione con la trasformazione economica della società, con la sostituzione dell’economia industriale all’economia agricola e quindi all’impresa artigianale, familiare e patriarcale.
Le tappe legislative di questa evoluzione, partendo dalle antiche società, vedono in un primo tempo condizioni matrilineari - allorché il nome e i beni venivano trasmessi per via femminile - e in un secondo tempo società patriarcali - in cui la
libertà di movimento e di costumi della donna diventa molto limitata - con
differenziazioni relative al mondo greco-romano in cui la donna è considerata incapace e relative alla società ebraica in cui era vista come impura e contaminante. In
entrambi i casi lo scopo era quello di tenerla lontano dal potere, quello civile presso
i Romani e quello religioso presso gli Ebrei. Nelle società cosiddette barbare le
donne erano associate alla vita delle tribù e questo perché la vita e la proprietà erano
maggiormente comunitarie. Con il cristianesimo, viene riconosciuta l’uguaglianza
tra l’uomo e la donna ma le conseguenze sociali rimangono limitate in quanto la
donna deve obbedienza al marito e non acquista alcun diritto pubblico; in compenso il Corano10 le riconosce diritti economici, quali quello di ereditare e di amministrare i propri beni.
Nel mondo antico, quindi, la condizione della donna assume diverse sfumature: in Grecia, in età omerica, vengono mostrate alcune figure di notevole prestigio; in seguito in alcune città e regioni, quali Sparta e la Macedonia, la donna conti-
9
GAIUS, Institutiones, ediderunt E. Seckel et B. Kulbler, Stuttgard, 1969, I, 190-192, p.50-51.
CherubinoMario GUZZETTI(acuradi), IlCorano,Torino,ElleDiCi,1989, suran.4: ledonne,p.60-72.Lasuratrattaingranparte
dei diritti delle donne e delle questioni relative alla loro posizione personale e sociale.
10
16
Maria Altobella
nua a godere di libertà e considerazione, mentre ad Atene, probabilmente per influenze ionico-orientali, perde questi privilegi e solo con l’affermarsi del predominio macedone e con la creazione dei regni ellenistici la personalità della donna torna in primo piano e si incontrano figure di notevole energia e indipendenza.
Nell’antica Roma vi era una differenza tra la posizione sociale della donna e
la sua capacità giuridica: in ambito familiare godeva infatti di una posizione di elevata dignità, ma sul piano giuridico la donna sui iuris veniva sottoposta a tutela
perpetua ed era quindi incapace di testare, di essere tutrice, di postulare pro aliis, di
fare malleveria, di ricoprire pubblici uffici. Limitazioni che in parte spariscono nel
diritto giustinianeo così come nell’età augustea scompare l’incapacità di testare.11
In un primo tempo le donne non potevano trasmettere, esse erano il principio e la fine della propria famiglia in quanto private dei prolungamenti istituzionali
della loro persona. Ma l’originalità del diritto romano consisteva nell’avere edificato un insieme di istituzioni in cui il contrasto tra la natura giuridica dell’uomo e
quella della donna si prolungava nel regime della filiazione e, quindi, le donne erano considerate dagli uomini secondo la loro capacità di essere madri. Di conseguenza il titolo di “matrona” o di mater familias era legato alla procreazione di un
solo figlio nel primo caso, di molti nel secondo.
L’ideologia misogina di giuristi ed autori romani, a parte Gaio e Columella,12
non è purtroppo molto originale in quanto la subordinazione naturale delle donne
agli uomini era già un tema aristotelico.
I censimenti stessi trascurano le donne, a parte le ereditiere, ed a Roma solo
Diocleziano, per motivi fiscali, ordinerà il loro computo; né, per il diritto romano,
le donne costituiscono una specie giuridica a sé.
Nell’ordinamento feudale, con l’esclusione da ogni diritto, si giustificarono pregiudizi durati a lungo nelle leggi e nel costume. Inoltre, non si può negare che la donna
abbia avuto un ruolo solo negativo nel grandioso sviluppo delle città tra il secolo XII e
XIII, in quanto non partecipava ai consigli giurati che reggevano le città della Francia
settentrionale, né faceva parte dei consigli che dal secolo XIII fungevano da organi di
governo delle città tedesche.13 Rimanendo nell’ambito dell’Europa occidentale, le donne dividevano l’incerto destino dei non-liberi e dei poveri e solo alcune partecipavano
all’ascesa sociale dei cittadini più fortunati tra cui i mercanti; sicuramente partecipavano
alle attività produttive anche se le informazioni giunte fino a noi sono piuttosto esigue
e le fonti non indicano che le donne abbiano lottato per conseguire libertà personali
anche perché il concetto di libertà nel Medioevo non è legato ad una sfera personale di
libertà, bensì ha piuttosto un’articolazione corporativa. In ogni caso esisteva una politica di difesa della famiglia che aveva basi giuridiche.
11
Pauline SCHIMTT PANTEL (a cura di), L’antichità, in Storia delle donne in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1990.
Columella riconosceva alle donne, nel suo trattato L’arte dell’agricoltura, al capitolo XII dedicato alla
massaia (vilica), le stesse facoltà di memoria e di vigilanza degli uomini.
13
Edith ENNEN, Le donne nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza,1986.
12
17
Identità femminile e diritto positivo
Nato dal violento mescolarsi dei costumi barbari con le tradizioni giudaiche,
cristiane, greche e latine, bisogna riconoscere però che il Medioevo, consentendo la
sopravvivenza di antichi diritti consuetudinari, ci fa incontrare anche donne medici
e professori di diritto; le monache riescono ad istruirsi ed alcune badesse addirittura dirigono ordini maschili. Ma è attraverso l’amore cortese, nell’ambito del rinnovamento culturale del XII secolo, che la donna svolge un ruolo capitale.14
La condizione giuridica generale della donna migliora in seguito con l’intensificarsi dei commerci e delle industrie e con la disgregazione della compagine feudale per cui la donna nel Rinascimento acquista coscienza della propria personalità
malgrado ancora gravi restrizioni limitino la sua capacità patrimoniale. Si incontrano donne artigiane a tutti gli effetti e la presenza femminile - soprattutto in Italia ed
in particolare a Firenze - è evidente nella manifattura della lana e della seta; le tessitrici vivevano per ragioni tecniche prevalentemente nei centri urbani, erano lavoratrici dipendenti con un salario piuttosto basso. Nel secolo XIV domina la donna al
telaio, inoltre la presenza femminile diventa molto forte nel commercio al dettaglio
di prodotti alimentari.15
In Germania, sempre in questo periodo, si incontrano particolari figure femminili quali le principesse-badesse; queste erano, infatti, signore territoriali al pari
degli uomini, amministratrici oculate e sagge, attente alla tenuta dei libri contabili
ma anche ad eventuali coperture formali da parte dei signori più potenti. In ogni
caso, nel corso del XV secolo sino a tutto il XVII, compaiono segni chiari di una
ampia varietà di vite femminili. La donna del Rinascimento è soprattutto madre, e
poi figlia, vedova, guerriera, imprenditrice, serva, suora, eretica, santa, strega; oltre
che regina, martire e ricercatrice. Un ruolo femminile preminente era, inoltre, quello della balia: infatti, dalle città italiane, francesi, tedesche e inglesi, i bambini appartenenti a classi elevate venivano mandati in campagna per essere baliti dalle contadine, nutrici dalle caratteristiche particolari; il contratto di baliatico, però era di
esclusiva competenza maschile per entrambe le parti e l’accordo del prezzo avveniva tra il padre del bambino ed il marito della balia. Questo contratto aveva gli aspetti di un vero e proprio contratto commerciale. Non mancavano, comunque, madri
protettive che continuavano ad occuparsi personalmente della prole.16
I bisogni, i desideri e il carattere delle donne passavano ancora in secondo
piano.
Prevalevano, infatti i progetti familiari ed i condizionamenti economici e nel
corso di tutti i secoli del Rinascimento i mariti controllavano le mogli nel privato e
le autorità maschili difendevano la loro supremazia.
Contemporaneamente in Oriente il Corano viene interpretato in modo sempre più severo verso il sesso femminile sino a considerare il velo simbolo dell’assen-
14
Eveline SULLEROT, Donna, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1975-1998, vol. II.
Margaret L. KING, Le donne nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1991.
16
Bonnie S. ANDERSON - Judith P. ZINSSER., Le donne in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1992-1993.
15
18
Maria Altobella
za femminile nella società patriarcale.17 E per delimitare lo spazio privato dallo
spazio pubblico anche le finestre, occhi della casa, vengono velate. Quindi l’immaginario arabo identifica la donna con la casa mentre l’uomo è padrone dello spazio
pubblico.
In tutto l’arco del Medioevo la posizione giuridica del genere femminile era
determinata da singole leggi, prerogative e privilegi ed, inoltre, dalle consuetudini
cittadine; gli ordinamenti giuridici presentano, poi, specifiche regolamentazioni all’interno e all’esterno della famiglia. Nelle assemblee giuridiche la donna non poteva essere presente autonomamente ma doveva farsi rappresentare da un uomo; tuttavia, nel campo del diritto privato, poteva disporre di ciò che era in suo possesso e
poteva esercitare la tutela dei propri figli minorenni. Sia nello spazio privato che in
quello pubblico la donna parla ma la sua voce è prevalentemente letteraria e mistica.18
Dal Cinquecento al Settecento le lettere, le arti, la filosofia, la scienza e la medicina discutono della donna che si trova al centro di un acceso dibattito. Le donne più
fortunate, quelle delle classi superiori, cercano di sfuggire alla reclusione dei loro
ruoli ma sono evidenti anche le dissidenze delle donne del popolo, più audaci e più
ribelli, nel cercare di evitare la marginalità. Nel corso del XVII e XVIII secolo la
servitù femminile costituiva la principale fonte occupazionale seguita dalla manodopera nelle industrie tessili, soprattutto nella produzione di seta e merletti.
Il sapere era sorvegliato e alle fanciulle la scuola insegnava in modo prevalente ad amare, conoscere e servire Dio.19 Più che il sapere contava il saper fare.
Tuttavia, i progressi dell’alfabetizzazione femminile testimoniano l’inizio di un processo irreversibile e si aprono spazi per l’azione politica tanto che nel Settecento
una figura ricorrente è quella della donna con il figlio, in prima fila nei tumulti.
Il processo di modernizzazione che conduce alla società industriale assume
un nuovo, diverso ordine sistematico e simbolico. Si aprono nuovi spazi e nuove
possibilità di azione, di desideri, di aspettative, di investimenti psicologici che fanno intravedere immagini di libertà.
E si configura così il passaggio dal presente all’avvenire.
3. Nuovo contesto e nuovi soggetti
Due gli avvenimenti, di natura diversa, che daranno luogo a nuove realtà e a
nuove coscienze: l’affermarsi del concetto di uguaglianza tra gli uomini e la nascita
dell’era industriale.
17
Erdmute HELLER– Hasouna MOSBAHI, Dietro il velo: amore e sessualità nella cultura araba, Roma-Bari, Laterza,1996.
Christiane KLAPISCH-ZUBER (a cura di), Il Medioevo, in Storia delle donne in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1990.
19
Arlette FARGE - Natalie ZEMON DAVIS (a cura di), Dal Rinascimento all’età moderna , in Storia delle donne in Occidente,
Roma-Bari, Laterza, 1991.
18
19
Identità femminile e diritto positivo
Si delineano, pertanto, i tratti permanenti ed i cambiamenti della costruzione
della identità femminile.
Con le leggi rivoluzionarie francesi si affermò l’uguaglianza giuridica dei sessi,
e con la celebre Dèclaration des droits de la femme, venne proclamata l’ammissione
della donna ai posti e agli uffici pubblici. È questo un segnale importante che farà
sentire la donna presente con le proprie esigenze da cittadino uguale agli altri, ma
naufragherà presto insieme ai proclami sulla libertà, uguaglianza e fraternità. Infatti questo riconoscimento, anche se limitato ai diritti civili e non politici, sfocerà
nella costituzione del diritto napoleonico con il ripristino dell’autorità del marito
sulla comunità familiare; ed invero nel 1804 il Codice Civile Napoleonico - che
influenzerà le norme giuridiche di molti paesi dell’Europa e sarà comunque esteso
anche all’Italia nel 1806 - pur avendo costituito le basi di una intelaiatura giuridica
per un mondo nuovo, consacrerà l’inferiorità e l’incapacità della donna.
Gli stati preunitari si ispireranno al Codice Napoleonico ma nel Risorgimento, che fu un movimento per l’indipendenza italiana e la formazione di uno
stato moderno, vince la politica di emergenza e gli spazi di movimento per le donne
sono obbligati: partecipazione al processo storico in atto o conservazione.
In seguito il mito dell’unificazione pagherà il prezzo della nascita della questione meridionale e della questione femminile.20
Nello stesso tempo la rivoluzione industriale modifica profondamente la vita
delle donne: l’industrializzazione strappa loro le attività artigianali costringendole
a cercare lavoro nei laboratori e nelle manifatture; la nuova condizione di operaie
sistematicamente sfruttate, utilizzando la loro inferiorità, serve per sottopagare la
loro prestazione perché considerata e valutata in modo diverso. E saranno questi i
motivi, aiutati anche dall’elevarsi del loro livello di istruzione, che le porteranno ad
organizzare la lotta per la conquista di diritti mai posseduti.
L’industrializzazione selvaggia apre le porte ad uno sfruttamento organizzato e la donna della classe subalterna deve lottare per ottenere i servizi necessari ai
nuovi bisogni tra cui scuole ed asili che dovrebbero aiutarla ma che la espropriano
dell’originaria funzione. Sostanzialmente alle donne proletarie viene sottratto il ruolo
educativo e nello stesso tempo ne sopportano le conseguenze a causa delle carenze
istituzionali. Anche la donna borghese si ribella al suo stato di sottomissione chiedendo l’accesso all’istruzione, il suffragio e il riconoscimento dei propri diritti come
persona.
Proletarie e borghesi, unite da esigenze diverse ma essenziali, acquisiscono la
stessa coscienza, quella di partecipare alla vita associata, al lavoro e di avere gli stessi
diritti dell’uomo. Attraverso il femminismo cercano una identità pubblica; le associazioni, le tattiche, le alleanze, le rivendicazioni e le ostilità provocano ampia discussione pubblica e obiettivi di lotta.21
20
21
Mimma DE LEO - Fiorenza TARICONE, Le donne in Italia: diritti civili e politici, Napoli, Liguori, 1992.
Geneviève FRAISSE - Michelle PIERROT (a cura di), L’Ottocento, in Storia delle donne in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1991.
20
Maria Altobella
Ulteriore termometro dell’avanzata femminista è la proliferazione di una stampa autonoma e multiforme in cui le donne si confrontano con la scrittura pubblica.
Per quanto riguarda il diritto al lavoro, a cui viene attribuito un grande
potere emancipatore, la donna deve ancora lottare contro pregiudizi, contro forme di sfruttamento e contro l’assenza di una politica sociale. Le leggi egualitarie
sono rare e la loro genesi pone il problema delle motivazioni che ispirano il legislatore in quanto pur essendo sempre più istruita e sempre più giuridicamente
uguale all’uomo, il suo inserimento nel mondo industriale e postindustriale rimane debole.
Il diritto sociale cui la donna aspira passa necessariamente attraverso il diritto individuale ma anche attraverso il confronto con l’uomo per cui l’impegno è su
due fronti, quello della parità dei diritti sul lavoro e quello dell’uguaglianza dei
diritti nella sfera personale.22
La donna afferma il proprio diritto ad esistere, ad essere riconosciuta come
persona, ad occupare uno spazio pubblico e politico, ad essere protagonista del
processo di modernizzazione.
4. La “Donna nuova”
Intanto il modello culturale della new woman e della femme nouvelle si diffonde e rappresenta il rinnovamento comportamentale femminile.23 Trova collocazione tra discorsi politici e narrazioni letterarie e durante la grande guerra le ‘donne
nuove’ occupano i posti lasciati liberi dagli uomini nelle industrie, nelle campagne e
nelle attività del terziario, facendo arretrare miracolosamente misoginia e diffidenza. L’avvento del fascismo, poi, decreta il passaggio da un prima a un dopo di credenze, abiti morali e comportamenti. E mentre le ingiustizie storiche nei rapporti
individuali e sociali sopravvivono ancora perché l’anatomia è destino, le riforme
verranno imposte dall’evoluzione dei tempi.
Prima faticosa conquista il raggiungimento del diritto di voto, che coprirà un
intero secolo in quanto le neozelandesi lo ottengono nel 1893 e le sudafricane nel
1994. Verso la metà degli anni ’20 potevano votare le scandinave, le tedesche, le
russe, le polacche e le statunitensi; le brasiliane nel 1934, le filippine nel 1937, le
camerunensi nel 1946, le indiane nel 1950, le canadesi nel 1960, le svizzere nel 1971
e le irachene nel 1980.24
In Italia, la legge del 17 luglio del 1919, abilita le donne ad esercitare tutte le
professioni libere (avvocatura, medicina, odontoiatria, farmacia, magistratura) e a
ricoprire tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici; rimangono rare nella
22
Franca ONGARO BASAGLIA, Donna in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1978, vol.V, p.72-106.
Michela DE GIORGIO, Le italiane dall’Unità a oggi: modelli culturali e comportamenti sociali, Roma-Bari, Laterza, 1992.
24
Jacques VÉRON, Il posto delle donne, Bologna, il Mulino, 1999.
23
21
Identità femminile e diritto positivo
tecnologia, nelle grandi responsabilità del settore privato, nell’arruolamento nelle
forze armate e nei corpi speciali in quanto regolati da leggi speciali.
Dal 1 febbraio 1945 la donna viene ammessa all’elettorato attivo e passivo.
La nostra costituzione all’art. 3 stabilisce, tra i principi fondamentali, la parificazione
della donna all’uomo a tutti gli effetti politici e giuridici e all’art. 27 il godimento
degli stessi diritti e delle stesse retribuzioni a parità di lavoro. Ma, nello stesso tempo, all’art. 37 viene prescritto che le particolarità fisiologiche della donna rendono
necessaria l’adozione di misure di tutela per consentire l’adempimento della funzione familiare e assicurare alle madri una speciale protezione. Sarà la legge del 26
agosto 1950 n. 860 che ratificherà questi principi, seguita dalla legge del 30 dicembre del 1971 n.1204 e dal D.P.R. del 25 novembre1976 n. 1206. Pur mantenendo
inalterate le linee fondamentali della precedente normativa, questi ultimi provvedimenti introducono innovazioni tali da poter essere considerati tra i più avanzati in
campo internazionale. Soggetti tutelati sono tutte le lavoratrici e l’inosservanza delle
disposizioni contenute nei vari articoli è sottoposta ad ammende e sanzioni.25
Non tutte le differenze sono, quindi, discriminatorie. Esistono differenze
biologiche che costituiscono, di per sé, disuguaglianze.
Per elevare la condizione della donna vengono emanate, nel tempo, altre leggi: quella relativa alla riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975 n.151),
attraverso cui si garantisce una posizione di parità tra moglie e marito, e quella
relativa alla regolamentazione dell’aborto (L. 22 maggio 1978 n.194), che garantisce
la procreazione cosciente e responsabile.
Ulteriori forme di protezione sostanziali, processuali e sindacali, vengono
assicurate alla donna attraverso la legge del 9 dicembre 1977 n.903, sulla parità di
trattamento nel rapporto di lavoro tra uomo e donna; attraverso il D.M. 8 ottobre
1982 è istituito il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e di opportunità delle lavoratrici. Inoltre, allo scopo di favorire l’occupazione femminile e di realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel
lavoro, la legge del 10 aprile 1991 n.125 prevede una serie di misure, denominate
“azioni positive per la donna”.26
Ma non si può comprendere appieno l’evoluzione della condizione femminile se non si considera l’azione svolta negli ultimi anni dagli organismi internazionali
e dalla politica delle Nazioni Unite.
Il 1975 viene proclamato “Anno internazionale della Donna” e le Nazioni
Unite indicono il decennio della donna. Inoltre la Conferenza mondiale del Messico nel 1975 si conclude con l’approvazione di un piano di azione mondiale che
rappresenta il primo documento internazionale dedicato alla vita delle donne. Altri
25
Mariarosa DALLA COSTA – Giovanna Franca DALLA COSTA, Donne, sviluppo e lavoro di riproduzione: questioni
delle lotte e dei movimenti, Milano, Angeli, 1996.
26
Annamaria GALOPPINI, Il lungo viaggio verso la parità: i diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi, Bologna,
Zanichelli,1980.
22
Maria Altobella
importanti convegni internazionali, a Copenaghen nel 1980 e a Nairobi nel 1985,
affermano il principio dell’indispensabile partecipazione femminile al processo di
sviluppo mondiale. La Conferenza di Pechino nel 1995 indica gli obiettivi strategici e
le azioni da intraprendere nei campi più diversi: donne e povertà, istruzione e formazione, salute e ambiente, violenza e conflitti armati, economia e mass media, potere e
istituzioni.
Da non trascurare anche il ruolo che ha svolto la Comunità Europea nell’impostare una politica per la parità negli Stati membri.
Infine, tornando all’Italia, la Commissione nazionale per la parità e le pari
opportunità tra uomo e donna, istituita nel 1984, ha avuto il suo assetto definitivo
con la legge del 22 giugno 1990 e nel febbraio 1996 è stata approvata la nuova legge
contro la violenza sessuale, la cui elaborazione è stata una delle più lunghe nella
storia del Parlamento italiano.27
Si può, quindi, affermare che tappe significative - per colmare il deficit democratico delle istituzioni e portare avanti la cultura di una democrazia paritaria sono state conseguite ma sarebbe utopistico pensare di attribuire alle leggi la costruzione di una immagine unica e coerente delle donne, degli uomini e dei rapporti
tra loro perché il senso delle norme cambia nel tempo e secondo i contesti.
Nel complesso le leggi in vigore delineano, comunque, un processo di emancipazione della figura femminile dai vincoli tradizionali sebbene il ‘femminile’ torni spesso alla ribalta sia come debolezza da tutelare che come pericolo da arginare.
Tuttavia in questi primi anni del XXI secolo la questione dei diritti delle donne è ancora oggetto di dibattito e ciò significa che tuttora non è stato costruito un
perfetto legame tra mutamenti giuridici e mutamenti sociali. Forse perché l’accesso
ai diritti e le condizioni del loro esercizio sono diversi per uomini e donne a causa
delle diverse condizioni che investono tutte le sfere della vita in società, per cui solo
specificando che l’umanità è duale si supererà la trappola dell’essere umano che
finisce sempre per declinarsi al maschile.28
27
Ginevra CONTI ODORISIO, La rivoluzione femminile in Enciclopedia Italiana: eredità del novecento, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, tomo II, p.887-902.
28
Tamar PITCH, Un diritto per due, Milano, il Saggiatore, 1998.
23
24
Angela P. Bevilacqua
Most people in the world are Yellow, Black, Brown, Poor, Female, Non-Christian and do not speak English.
By the year 2000 the 20 largest cities in the world will have one
thing in common: none of them will be in Europe none in the
United States.
Audre Lorde, Unpublished Poem (1989)
Reti di donne: virtual reference desks
di genere nel Web italiano
di Angela P. Bevilacqua
1. Introduzione
Dalla seconda metà degli anni Novanta ad oggi il numero delle donne italiane
che interrogano la vastità del cyber-spazio è cresciuto in modo significativo, e sebbene le percentuali che traducono questo fenomeno non siano delle più entusiasmanti
(si è passati dal 10% del 1996 a circa il 30% attuale), il profilo della utente-tipo delineato da alcune indagini rivela in compenso la sua accresciuta consapevolezza rispetto
alle potenzialità informative di Internet (minore sembrerebbe invece l’interesse suscitato nelle navigatrici dalle potenzialità comunicative del mezzo – forum di discussione, chat, ecc. – come pure dalle sue straordinarie risorse espressive).1 C’è tuttavia
un aspetto di gran lunga più significativo e di certo più confortante del dato statistico.
In Italia, nel corso dell’ultimo decennio, molte donne sono diventate protagoniste
attive della scena virtuale, costruendo efficaci sistemi informativi e promuovendo un
attento dibattito sui diversi possibili livelli di partecipazione in Rete.2 Associazioni,
1
Quasi specularmente, l’estetica dei siti di donne presenti nel Web italiano appare essenziale nelle sue
connotazioni grafiche, privilegiando piuttosto l’ergonomicità della navigazione ipertestuale. Si tratta di un
aspetto che già investe la riflessione critica di alcune osservatrici. Ad esempio, il Gruppo Telematica della
Cooperativa delle donne di Firenze si interroga così in un suo recente contributo: “Tra i siti di donne l’elemento visivo come espressione di sé pare sottotono, lasciando principalmente alla parola scritta il compito di
significarci, come se le immagini fossero troppo dirette, rivelatrici e definitive, forse elementi di rottura rispetto al flusso del nostro essere o un di più senza valore. Un terreno per noi difficile da praticare, abusato da altri
e di cui siamo sempre state l’oggetto più fertile. Ma basta ciò per liquidare una tale assenza?”. Cfr.
www.comune.prato.it/tempi/prospet/htm/bologna.htm
2
Il primo sito italiano di/sulle donne è stato GopherDonna, nato nel ‘94 dalla collaborazione tra l’ “Unione
femminile nazionale” e la “Società italiana delle storiche” con l’intento di facilitare l’accesso alle risorse disponibili in Rete nel campo della ricerca storica sulle donne. Dal ’95 il servizio è attivo all’url www.idg.fi.cnr.it/
wwwdonne/donna.htm.
25
Reti di donne: virtual references desks di genere nel Web italiano
librerie e centri di documentazione di genere hanno inaugurato i loro siti, in alcuni
casi non ancorabili ad alcuna localizzazione fisica (si pensi ad esempio alla dimensione puramente telematica in cui operano le animatrici del sito MeDea,3 nato nel
’97 da un’altra creatura telematica, “Info@Perla”, supplemento della rivista «MADREperla», nucleo da cui si è originata questa catena di gemmazioni tutte digitali
ma che conserva tuttora la propria natura cartacea). E di lì a poco è giunto il tempo
delle reti, dei protocolli d’intesa e delle convenzioni in vista di più ambizioni progetti, volti a ottimizzare le risorse prodotte e condivise dai soggetti aderenti (associazioni di donne, ma anche enti pubblici e privati). Un determinante impulso in
questa direzione è partito dal Centro di Documentazione delle Donne (CDD) di
Bologna, che nel giugno del ’96 attivava il primo portale interamente gestito da
sistemiste, che ha agito come motore di aggregazione e ha dato visibilità a molte
istituzioni femminili dislocate nel territorio, come anche a singole donne attratte
dall’opportunità di esprimersi on-line.4
Le reti di donne, in Italia come altrove, non si limitano a diffondere ‘prodotti’ che viaggiano alla frenetica velocità dei bit, bensì propongono assidue occasioni – tempi e spazi, pause off-line - per ragionare in modo critico sulla nostra
epoca, naturalmente da un’ottica di genere (non a caso le trasformazioni spaziotemporali indotte nelle nostre vite dalla supremazia dello strumento informatico
sono una costante del pensiero cyber-femminista). Le aspirazioni che animano il
loro progetto comunicativo appaiono cioè nutrite dall’esigenza di condividere,
attraverso incontri, convegni, ricerche e pubblicazioni nonché attraverso l’adesione ad analoghi network telematici europei,5 una riflessione densa e articolata
sul significato delle inedite forme relazionali e dei nuovi modelli cognitivi configurati dal medium in questione, riflessioni maturate sulla scorta dei women’s studies di scuola anglosassone che ormai da tempo indagano il rapporto tra soggettività e realtà virtuale tracciando una sempre più netta linea di demarcazione tra il
concetto di una buona pratica delle nuove tecnologie e le visioni tecno-utopiste
caratteristiche del pensiero post-human. In tal senso, le più significative esperienze di alfabetizzazione telematica condotte dalle donne per le donne in alcune regioni italiane (in particolar modo in Emilia Romagna, Toscana e Veneto) avevano
ribadito sin da principio la necessità di non scindere il momento della formazione
e dell’aggiornamento rispetto alle nuove tecnologie dal momento del dibattito
teorico e politico sui riflessi socio-culturali che esse riverberano soprattutto nell’universo femminile, dell’impatto che esse esercitano sull’immaginario, sui lin-
3
www.provincia.venezia.it/medea/index/shtml. Un altro esempio di network di donne a carattere
prettamente telematico è 30 Something, la rete italiana delle giovani studiose di gender studies ospitata dal
server Orlando di Bologna (lista di discussione all’indirizzo [email protected]).
4
Server Donne (http://orlando.women.it) è un’iniziativa dell’Associazione Orlando realizzata con il contributo del Comune di Bologna.
5
Uno dei nodi più attivi di questa rete transnazionale è ATHENA (advanced thematic network activities
in women’s studies in Europe), che raggruppa 68 istituzioni sparse in tutto il continente, tra cui l’Istituto
universitario orientale di Napoli, l’Università di Calabria e molti altri atenei ed associazioni di donne italiani.
26
Angela P. Bevilacqua
guaggi e sulla vita quotidiana delle donne che ne fanno uso, ma anche di quelle
che non le praticano.
Così, se da un canto le ricerche sul campo (come l’inchiesta Donne e Informatica avviata nel 1996 nell’ambito del Programma europeo Leonardo da Vinci)
evidenziano sempre più la necessità di ridurre il divario di genere rispetto all’impiego
delle tecnologie informatiche agendo su una molteplicità di leve, tra cui la famiglia, il
mondo del lavoro e, non ultimo, il mondo della produzione dei software a diffusione
di massa (primi fra tutti i video games),6 dall’altro molti ‘luoghi di donne’ utilizzano
oggi il Web per condensare riflessioni su un tema i cui sfaccettati risvolti emergono
via via in superficie ora su sollecitazione della ricerca sociologica (es. il gender-gap
nell’accesso e nell’utilizzo degli strumenti informatici, paradossalmente rimosso dalle stesse donne), ora sotto la spinta di un’indagine antropologica che sonda modelli di
identità, simboli, icone e stereotipi della realtà virtuale mediante le categorie di quel
pensiero femminista contemporaneo (Hannah Arendt, Donna Haraway, Rosi
Braidotti, ecc.) che ha già svelato come la presunta neutralità di ogni discorso tecnico
sottenda significati e valori di segno marcatamente maschile.
L’essenza democratica di Internet, la sua configurazione a-gerarchica, le modalità fluide e contestuali con cui è possibile allacciare rapporti all’interno della
Rete globale si rispecchiano oggi nel principio che informa l’attività dei soggetti che
diffondono informazione e documentazione di genere nel Web, e che nel Web trovano la loro peculiare risorsa di sviluppo.
Fare Rete, connettersi oltre le reciproche differenze per realizzare progetti di
cooperazione, per promuovere l’interscambio di conoscenze a livello sia teorico sia
della creazione di prodotti condivisi, per mettere in comune patrimoni informativi
altrimenti destinati all’invisibilità: queste sono le principali aspirazioni che tessono
oggi le reti di donne in Internet, in Italia e nel resto del mondo informatizzato.
2. Le reti di donne nel Web italiano
Proporremo qui di seguito un breve profilo dei maggiori contenitori di risorse di genere attualmente disponibili nel Web italiano. Si tratta di reti accomunate da
valenze e finalità politiche, reti non solo virtuali (gli incontri in presenza restano un
momento ineludibile nella vita dei centri che vi aderiscono), reti promosse da strutture associative come anche da singoli soggetti, reti aperte alla diversità rispetto al
loro universo di riferimento.
6
Indagini condotte in Europa e negli USA dimostrano come la fruizione dei videogiochi sia ampiamente
ad appannaggio maschile, con un’evidente ricaduta sulle caratteristiche dei software prodotti e resi disponibili
sul mercato. Conscie di questo aspetto, molte case produttrici - a partire dall’americana Purple Moon di
Brenda Laurel - hanno cominciato a sviluppare video games destinati esclusivamente a un pubblico femminile. L’interesse su questo tema è vivo anche in Italia, tanto che la IV Conferenza femminista europea “Corpo,
genere, soggettività” (Bologna, 29 settembre 2000) ospitava una sessione dedicata a Lara Croft, avvenente
eroina della saga Tomb Raider nonché ipostasi di inquietanti significati antropologici.
27
Reti di donne: virtual references desks di genere nel Web italiano
a) Server Donne (http://orlando.women.it)
Tipologia: portale
Ultimo aggiornamento: 13.02.2003
Il primo server italiano autogestito ‘al femminile’, a cura del Centro di Documentazione delle Donne, della Biblioteca italiana delle donne7 e dell’Associazione Orlando di Bologna.
Tra le sue risorse: i luoghi delle donne (indirizzario dei Centri delle donne
italiane organizzato per indice alfabetico e tipologico); repertori (directory ragionata di siti web internazionali di women’s studies); banche dati (catalogo collettivo
dei Centri associati alla rete informativa di genere femminile Lilith). Viene inoltre
proposta un’ampia e aggiornata vetrina delle iniziative assunte da varie associazioni
femminili italiane (incontri, conferenze, appelli, corsi di formazione, ecc.).
b) Rete informativa Lilith (www.women.it/lilith)
Tipologia: Opac
Ultimo aggiornamento: non disponibile.
È la Rete nazionale dei centri di documentazione, archivi e biblioteche delle
donne, nata del 1990 dalle relazioni già esistenti tra dieci centri di documentazione
allo scopo di creare un catalogo cumulato che desse conto del loro patrimonio documentario. Tra le sue finalità, sviluppare la cooperazione e lo scambio a livello
nazionale e internazionale, nonché promuovere la ricerca e la formazione sui linguaggi e sulle metodologie di trattamento dei documenti.
Tra le risorse ospitate nel sito: l’elenco degli oltre 40 centri donna associati
alla Rete che partecipano all’incremento delle sue basi dati (tra cui l’Associazione
Aracne di Modugno, unica presenza nel panorama pugliese); la sezione Testi e idee
(contributi scaricabili on-line), nonché le 3 basi dati della Rete:
• Lilith: l’Opac nazionale della Rete Lilith, contenente oltre 33.000 records
bibliografici relativi a monografie, periodici e letteratura grigia. Organizzato per
aree tematiche, consente la ricerca per campi, liste ed esperta.
• Lilarca: descrizione archivistica di alcuni fondi documentari del femminismo degli anni ‘70.
• Effe: l’Opac nazionale dei periodici della Rete Lilith.
7
www.women.it/bibliotecadelledonne/catalogo.htm. L’Opac TECA-SBN, organizzato per aree tematiche,
contiene i record bibliografici di circa 20.000 monografie e di oltre 300 testate femminili, italiane e straniere
(spogli).
28
Angela P. Bevilacqua
c) Storia delle donne (www.storiadelledonne.it)
Tipologia: indice.
Ultimo aggiornamento: 07.02.2003
È la nuova versione di GopherDonna (il primo sito italiano dedicato alla storia delle donne), a cura dell’Unione femminile nazionale.
Contiene una lista di risorse web organizzate nelle seguenti sezioni: fonti (biblioteche, archivi e centri di documentazione delle donne; libri e riviste); convegni e
seminari (raccolta di file.pdf contenenti relazioni e resoconti); ricerca e didattica (liste di
discussione, formazione universitaria, scuole estive, borse di studio, ecc.); risorse per
l’estero (i link ai principali Opac di genere nel resto del mondo); siti tematici e meta-siti.
d) Rete di donne in Toscana (www.donne.toscana.it)
Tipologia: portale.
Ultimo aggiornamento: 28.10.2002
Sorta nel 1999 dall’incarico affidato alla Cooperativa delle donne di Firenze
per la costruzione del Centro di documentazione della Commissione regionale per le
pari opportunità della Toscana. Collega 13 centri di documentazione, biblioteche,
archivi e servizi informativi attivi nella regione. Il sito offre un repertorio di risorse
informative e un catalogo collettivo (13.000 records bibliografici), ambedue strutturati per aree tematiche (violenza, salute, pari opportunità, nuove tecnologie, ecc.).
Gli Opac, una delle risorse più preziose offerte da questi sistemi informativi,
testimoniano come Internet sia stato lo strumento che ha dischiuso nuove prospettive e ridato slancio ai progetti di ricostruzione della storia politica, sociale e culturale
delle donne italiane attraverso il recupero e la valorizzazione del patrimonio documentario sedimentato nei vari centri di documentazione sorti nel corso degli anni ‘80
grazie all’impegno di molte esponenti del movimento femminista. A tale riguardo è
stato fondamentale l’impegno di collaborazione assunto dalle operatrici di alcuni di
questi centri e dalle informatiche della Rete Lilith per introdurre i saperi delle donne
non solo nel panorama dei servizi offerti dal Web, ma al più ambizioso livello dello
sviluppo di applicativi per la descrizione informatizzata dei materiali bibliografici e
archivistici. Questa convergenza ha prodotto due software dedicati (Lilith e Lilarca,
quest’ultimo un applicativo di CDS/ISIS distribuito dall’UNESCO) che hanno consentito per altro l’elaborazione di un thesaurus di genere in lingua italiana
(Linguaggiodonna) per l’indicizzazione semantica degli archivi.8
8
Il dibattito sulle liste d’autorità (authority file) e sull’adozione di una forma normalizzata delle voci
femminili che le significano è straordinariamente ricco di implicazioni politiche e culturali, ed è oggi uno dei
più fertili terreni di confronto tra specialiste a livello transnazionale.
29
Reti di donne: virtual references desks di genere nel Web italiano
I vantaggi concreti che queste Reti di donne comportano per le loro referenti
sono ormai ampiamente testati: visibilità rispetto a una vasta utenza remota che
può interrogare trasversalmente tutte le basi dati interconnesse nel sistema; maggiore facilità dei contatti tra ricercatrici e responsabili dei centri di documentazione; riduzione dei costi della ricerca, ecc.
Ma la tecnologia, per sua natura, impone anche l’urgenza di un confronto
sulle prospettive future. Così, l’odierno dibattito delle archiviste in Rete si concentra, ad esempio, sulla problematica inerente le risorse elettroniche, che sempre più
veicolano la scrittura e la memoria femminile (sia quelle digitalizzate, sia quelle
nate come tali – files del disco fisso di un archivio, messaggi delle liste di discussione, messaggi di posta elettronica, ecc.). Si discute sulle soluzioni da adottare per la
loro conservazione (che tipo di materiale digitale occorre conservare; come e dove
conservarlo; chi deve assumersi l’onere di conservarlo), per la loro organizzazione
e per il loro recupero (si parla di costruzione di un “Web semantico”). Si discute, in
prospettiva, sull’obsolescenza tecnologica, sulle possibili modalità di organizzare
in modo ricorrente il trasporto delle informazioni sui nuovi supporti che la tecnologia elaborerà. In tutto il mondo sono in corso studi per risolvere questi problemi,
ma le soluzioni non sono ancora definite.
Nel suo intervento al Convegno “Gli archivi al femminile” (Mantova, 29
ottobre 2000), Susanna Giaccai, riflettendo sulle implicazioni insite nel binomio
memoria storica/Hi-Tech, rimarcava:
[…] appunti, agendine, rubriche telefoniche, scritti, relazioni, interventi, lettere, tutto
questo materiale che era fatto di carta si è trasformato in bites, e tra cento anni non sarà
a disposizione per documentare la nostra vita e la vita delle donne nostre contemporanee se non ci preoccuperemo di organizzare in modo attivo e ricorrente la sua conservazione. Le carte, le lettere delle donne […] sono restate pazientemente ferme in scatole,
cassetti, bauli per anni o decenni in attesa di mani di donna curiose di scoprire lì le radici
del nostro presente. Da ora in avanti non possiamo fare lo stesso: se lasciamo i nostri files
ed archivi elettronici dove sono, fra cinque anni non li potremo più leggere. Per di più
adesso si va diffondendo la possibilità di avere i propri dati memorizzati, invece che sul
proprio disco fisso, su un disco disponibile in rete in un server in qualche parte indefinita del mondo. Il luogo della nostra memoria diventa in questo caso sempre più lontano
e fuori del nostro controllo.
Ma quale che sia il destino delle tecnologie del nuovo millennio e dei più
immateriali e remoti ‘contenitori’ della nostra memoria collettiva, non è difficile
credere che il percorso comune intrapreso da queste donne con le loro Reti, un
percorso consapevole, ricco di saperi, di progettualità e di creatività, consentirà
loro di vincere anche questa sfida.9
9
Per una bibliografia di base su donne e telematica: http://soalinux.comune.firenze.it/cooperativadonne/docs/tele1.htm
30
Maria Buono
Essere DONNA è…
un’avventura che richiede coraggio,
una sfida che non annoia mai…
avrai tante cose da realizzare
se nascerai DONNA!
Maria Buono
Essere donna: un’avventura che richiede coraggio
di Maria Buono
1. Nuovi termini di un dibattito sociale e politico da tempo sopito
Ritrovarsi, a distanza di un trentennio dalle lotte femministe, a dialogare ancora
sulla condizione della donna, se da un lato stupisce, d’altro canto permette di riflettere
su quale direzione si stia muovendo l’universo femminile.
Interrogarsi sulle conquiste politiche, sociali ed economiche, che hanno caratterizzato la questione femminile, prendendo atto di quelle più importanti, significa che nulla si
è definito e che permane un dialogo aperto a nuove istanze e significative proposte.
Nuovi sono i termini del dibattito sociale e politico in atto che investe le donne di
tutto il mondo, senza distinzione di razza e religione.
Infatti, il cammino delle donne, in questi ultimi anni, è stato segnato anche dalle
attività di molte organizzazioni mondiali, la cui voce testimonia che la consapevolezza
femminile sulle proprie problematiche ha raggiunto una dimensione ormai internazionale. Le conferenze mondiali sulle donne, organizzate nell’ultimo decennio dall’ONU,
dalle Organizzazioni Non Governative (ONG), dalla FAO, dall’UNICEF non solo
hanno portato alla ribalta problematiche esistenziali ma hanno permesso alle donne di
tutto il mondo d’incontrarsi e confrontarsi; soprattutto, di prendere coscienza di non
essere sole, ‘isolate’, ma di poter avere accesso alle risorse tecnologiche, alla formazione
e all’informazione.
L’incisività degli interventi su temi importanti, quali eguaglianza, sviluppo, pace,
ha fatto sì che dopo varie conferenze mondiali, a Rio de Janeiro (1992, Conferenza su
sviluppo e ambiente), sia stato riconosciuto il ruolo attivo delle donne nel pensare modelli alternativi di sviluppo sostenibile. Attraverso la presa di coscienza dei propri problemi, senza vittimismi e smettendo le vesti di ‘agnelli sacrificali’, le donne sono riuscite
a dimostrare la validità del punto di vista ‘di genere’ sul mondo. L’ONU ha riconosciuto a pieno titolo le capacità delle ONG non solo d’individuare le problematiche ma
anche di elaborare strategie e progettare soluzioni. Indiscutibili le discriminazioni verso le donne del Sud del pianeta o verso quelle che vivono in situazioni di conflitto
31
Essere donna: un’avventura che richiede coraggio
armato o appartenenti a minoranze etniche, ma occorre un approccio globale ai problemi. Dodici le ‘aree critiche’ individuate, nelle quali sono in atto discriminazioni profonde contro le donne. Basti pensare che su un miliardo di poveri, il 70% sono donne; di
circa 100 milioni di bambini, 60 milioni di bambine non hanno accesso all’istruzione
primaria (2/3 dei 960 milioni di analfabeti sono donne); 500.000 muoiono di parto ogni
anno; ovunque, sono vittime di qualsiasi forma di violenza, sia fisica che psicologica.
Il caso di Amina, la donna musulmana responsabile di avere messo al mondo una
bambina fuori dal matrimonio, e per questo condannata a morte per lapidazione, ha
suscitato un fermento mondiale, forte ed incisivo. Numerose le iniziative lanciate per
salvarla dalla condanna, fra cui Amnesty International, la trasmissione “Zapping” ed
altro. Amina è diventata il simbolo di una tragedia, che chiama in causa i diritti fondamentali di ogni donna, di qualunque fede e religione, in qualunque parte del mondo.
In campo politico, benché costituiscano la metà della popolazione mondiale, le
donne non sono rappresentate in maniera proporzionale (solo il 10% degli eletti negli
organismi legislativi). L’Italia vede la Commissione Parità impegnata in una proposta di
legge d’iniziativa popolare, che modifichi le leggi elettorali, per assicurare parità di accesso alle cariche elettive, le cui cifre restano scandalose nonostante l’impegno di tante
donne e la convinzione di molti uomini; minima la presenza anche negli organi decisionali dei mezzi di comunicazione, che rivelano scarsa sensibilità al tema della parità dei
ruoli, né cercano di eliminare stereotipi dell’immagine femminile. Nascere donna costituisce ancora un handicap in molte parti del mondo, dove le bambine sono vittime
d’infanticidio e soggette a discriminazioni.
Il lungo e faticoso cammino delle donne occidentali, pur segnando tappe storiche importanti nella conquista dei diritti, non è riuscito a risolvere la tensione conflittuale tra i due sessi. Gli anni ‘70, in quanto memoria storica, potrebbero rappresentare
il punto di avvio di una riflessione che, consapevole del cambiamento, focalizzi il rapporto con l’alterità partendo da sé. Troppo alto è lo scotto da pagare in termini qualitativi:
uniche e sole responsabili della gestione familiare e domestica, dei successi e dei fallimenti, della crisi della famiglia e della società. Infatti, spontaneo viene chiedersi: “Quanto
le donne hanno perso oltre a quello che hanno conquistato? e perché?”. “Cosa fare
affinché gli anni a venire non siano ricordati come gli anni del collasso, quelli in cui
madri sull’orlo di continue crisi di nervi uccidono le proprie creature, scappano di casa
senza preavviso o si presentano in ufficio con i figli al seguito, parcheggiandoli nella
reception, come Michelle Pfeiffer in Un giorno per caso?”. Il cammino delle donne non
si è arrestato e diverse potrebbero essere le soluzioni, purché non finalizzate a volere, ad
ogni costo, rovesciare le posizioni di potere dell’uomo. Certamente, negli anni scorsi,
alcune rivendicazioni hanno assunto aspetti di rivalsa, di rovesciamento dei ruoli: donne in carriera, manager, soldato, pugile, arbitro, astronauta e quant’altro, per dimostrare
qualità prima esclusivamente maschili. Tappe importanti che, tuttavia, non hanno garantito la vera libertà femminile, e che oggi vedono nuovamente riunite per un fitto
confronto su nodi politici attuali, sulla violenza e sulla guerra, donne che, impegnate in
prima linea, hanno vissuto sulla propria pelle l’esperienza delle dure lotte femministe.
Dopo un silenzio a lungo protratto, le donne avvertono la necessità d’incontrarsi
per un dibattito nuovo, mirato, con prospettive diverse e ‘vigorose’: entrare a far parte
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Maria Buono
della società a pieno titolo, con tutti i diritti e doveri, senza annullare i valori prettamente
e profondamente femminili, quali maternità e famiglia; lavorare in sinergia con uomini
emancipati, disposti a riconoscere i diritti acquisiti nel rispetto dell’identità di genere,
nella specificità dei ruoli, nell’interazione e nella solidarietà reciproca. Non basta l’adozione di un decalogo individuale su come organizzarsi né gli sforzi crescenti di alcune
amministrazioni comunali di grandi e piccoli città per alleggerire ritmi sempre più pesanti e stressanti di lavoro. Lodevole l’iniziativa del Politecnico di Milano, dove Sandra
Bonfiglioli dirige il corso di laurea in Architettura della mobilità e urbanistica dei tempi;
o quella di Bolzano, dove la stessa Bonfiglioli ha messo a punto il “piano dei tempi”,
che la legge prevede. Gli Uffici Tempi, iniziativa valida, ma quanto concreta? Permetteranno alle donne di lavorare, curare i figli e magari avere anche qualche ora libera per
sé? I congedi parentali per studio e lavoro, la flessibilità degli orari a scuola e negli uffici,
l’apertura dei negozi la domenica (iniziativa da valutare con riserva), riusciranno a far
sentire la donna meno sola, più sicura e alla pari dell’uomo?
2. Rivedere l’immaginario di donna perfetta
La catena del tempo segna un percorso lungo e denso di difficoltà, giacché,
riprogrammare su nuove basi tempi e modi del vivere sociale, esige cambiamenti radicali, praticamente impossibili. Tuttavia, le sfide più difficili da affrontare sono “dentro”,
per quel senso d’inferiorità nel non poter essere sempre e ad ogni costo ‘madri superiori’, iperefficienti, ordinate, ben truccate, e per quel senso di colpa atavico verso il resto
della famiglia.
Forse è giunto il momento di rivedere il proprio immaginario di donne perfette,
lavoratrici instancabili, mamme insostituibili. In trent’anni, nessuna ricerca seria ha dimostrato che i figli delle donne lavoratrici abbiano più problemi degli altri. Forse, sta
iniziando una nuova battaglia, difficile da vincere, ma sostenibile: rifiutare i modelli
perfetti, sprecare meno energie per accontentare tutti, imparare a rilassarsi, a stimarsi e
soprattutto ad amarsi. Pessimo il rapporto con il tempo: la maggior parte delle donne
non si concede carriere importanti preferendo occupare gli spazi lasciati liberi dagli
uomini. Molte manager stanno rinunciando alla carriera per riscoprire il benessere delle
mura domestiche, tra cui vivere serenamente e godersi, come libera scelta, il dono della
maternità, oggi vissuta come un peso. Rivedere la propria vita e ripensare il rapporto
con il lavoro evidenzia la conflittualità che la donna moderna vive, il continuo travaglio
interiore tra ambizioni professionali e aspirazioni naturali, come il mettere al mondo
dei figli, allattarli, accudirli, farli crescere serenamente. La maternità, da poche è vissuta
ancora con passione antica e profonda, da molte come un dovere, quasi un obbligo
sociale, un peso, o comunque qualcosa di molto più epidermico, che cambia la vita.
Riduttivo e offensivo sarebbe affermare che le donne rinuncino alla maternità per la
carriera mentre più giusto è riconoscere la loro razionalità e il senso di responsabilità. Il
desiderio di un figlio passa attraverso le strade dell’anima e arriva fino alle porte del
cuore, poi, le tensioni, le difficoltà, i sensi di colpa per non poterli accudire convenientemente, ne bloccano il desiderio. La maternità, quale diritto e non un optional, andrebbe
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Essere donna: un’avventura che richiede coraggio
salvaguardata da una politica culturale e sociale adeguata e seria. Infatti, se in teoria si
afferma la priorità della famiglia, in pratica la società non è né a misura della famiglia né del
bambino. Un dato inconfutabile è che il lavoro non rappresenta più il massimo dell’aspirazione della donna. Involuzione o evoluzione? Interrogativo che apre un dibattito serio
e richiede un confronto costruttivo tra tutte le componenti il tessuto sociale.
Il lavoro come espressione di sé, la partecipazione diretta alla gestione politica
della società, l’impegno autonomo e consapevole, costituiscono le nuove direttrici della
prospettiva d’identità sociale della donna del terzo millennio. Le soluzioni appaiono
possibili solo attraverso una civiltà culturale, che ridefinisca ruoli e identità, e che favorisca il proliferarsi di iniziative concrete come gli Uffici del Tempo: sportelli fuori orario, nonni vigili, uffici disponibili on-line (per evitare code e spostamenti inutili), scuole
con orari flessibili (l’orario scolastico è ancora disegnato sui ritmi rigidi dell’epoca industriale), pop-bus, (piccoli autobus a chiamata, che effettuano percorsi stabiliti secondo le esigenze di chi deve andare a scuola o al lavoro, già in funzione a Milano e Torino).
È evidente che, per un autentico cambiamento, occorra una vera ‘rivoluzione
culturale’, che passi attraverso scelte obbligate di cambiamento di stili di vita e di consumi, senza icone da seguire. Andare oltre il concetto di appartenenza ad un gruppo o ad
un’ideologia, riscoprire il concetto di appartenenza a se stessi come essere umani e sentire la necessità di difendere la propria dignità, di volersi bene e prendersi cura della
propria persona per potersi dedicare agli altri, esige un nuovo equilibrio tra l’amore e
l’amore di sé, tra la capacità di dedicarsi all’altro e la necessità di difendere la propria
individualità.
Forse è ancora lontana la meta, ma si avverte chiaro nell’aria un’accresciuta maturità, un bisogno innovativo di partecipazione consapevole ai dibattiti politici e sociali,
(come dimostrato al forum mondiale no global). D’altronde, la democrazia partecipativa
resta un’utopia se non si partecipa, se non si vivono i luoghi, la terra che si calpesta, le
ferite, le diversità. Ritornare a vivere le esperienze collettive come un laboratorio, dove
ognuno apporti il suo contributo attraverso le esperienze reali da condividere con altri,
porterà a costruire proposte concrete e a trovare soluzioni adeguate. I diritti delle donne non sono né di destra né di sinistra.
3. Un mondo a misura di donna?
Un mondo a misura di donna: è possibile? Auspicabile, per il benessere delle
generazioni future. Nel frattempo, come qualcuno ha proposto, organizziamo i sogni!
Forte l’anelito di libertà, ma non dalla propria vita bensì nella propria vita; profondo il desiderio di liberarsi dallo stress del lavoro e delle responsabilità famigliari,
dalle paure e dagli affanni; autentica l’esigenza d’ ‘imparare’ a conferire una nuova dimensione alla propria vita, più spirituale, fatta di valori prioritari, partendo dal rispetto
di sé e delle proprie esigenze, senza il timore di ‘screditare’ quel ruolo di efficienza ad
ogni costo e d’insostituibilità.
Negli Stati Uniti si sta diffondendo la sindrome della ‘donna trafelata’, codificata
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Maria Buono
come sindrome da stress poiché colpisce le donne e, in particolare, le madri di famiglia,
impegnate a conciliare continuamente marito, figli e carriera. Ne soffrono sessanta milioni di donne, praticamente una su quattro. Come emerge dalla ricerca di un medico
texano, Brent Bost, autore di un libro The Hurried Woman Syndrome, già diventato un
best-seller, i sintomi sono simili a quelli della depressione: aumento di peso, insonnia,
sbalzi di umore, caduta del desiderio sessuale, fatica cronica. Causa del problema, ovviamente, lo stress, le troppe sfide a cui le donne sono sottoposte e che nel tempo possono creare uno squilibrio chimico nel cervello. I dati raccolti da Brent Bost confermano anche la profonda crisi d’identità delle working women americane. La donna non
può farsi carico di tutte le responsabilità, soprattutto in ambito familiare, sentirsi perennemente in colpa e giudicata da un tribunale immaginario se lascia a casa il bimbo con la
febbre per recarsi a lavoro, se arriva in ritardo alla recita di fine anno, se non è in grado
di preparare il dolce di compleanno per i figli. Le difficoltà ereditate, in virtù della differenza di genere, e solo in minima parte abbattute, non devono relegare nuovamente le
donne in ruoli subalterni o d’inferiorità. La quotidianità, scandita da prove di resistenza
umana in famiglia come nel lavoro e in politica, tempio maschile per eccellenza, non
deve far demordere dall’affermazione della propria personalità.
Due i percorsi da seguire: uno richiede la presenza costante delle donne nei dibattiti politici e sociali e la condivisione delle soluzioni; l’altro impone una semplificazione della propria vita, con priorità e dinieghi, e una riscoperta spirituale della propria
individualità.
Abbiamo troppo pianto per rinunciare a significative conquiste; ora, con volto
sorridente ma determinato, continuiamo a lottare per le generazioni che verranno.
Mimì
Mi chiamano Mimì
Ma il mio nome è Lucia.
La storia mia
È breve. A tela o a seta
Ricamo in casa e fuori,
In bianco ed a colori.
Lavoro d’ago, sono tranquilla e lieta
Ed è mio svago
Far giglio e rose.
Mi piacciono quelle cose
Che han sì dolce malìa,
Che parlano d’amore, di primavere,
Di sogni e di chimere,
Quelle cose che han nome poesia…
Lei m’intende?
Puccini, La Bohème
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Valeria de Trino Galante
Essere Donna ieri, essere Donna oggi
di Valeria de Trino Galante
1. Donne nel XXI secolo
Cosa significa essere donna nel ventunesimo secolo? Domanda banale, forse,
eppure le risposte che ho avuto non sono state univoche, spesso hanno generato un
dibattito animato e controverso.
Per rispondere alla domanda, potrebbe essere utile un viaggio nel tempo, attraverso la storia dell’umanità, risalendo ad epoche lontane che ci offrono un’immagine di
divinità che archeologi, etnologi e storici convengono di chiamare: “Grande Madre”.
Le figure della Grande Madre pongono in evidenza il simbolismo del “vaso
pieno” per accentuare la pienezza e le possibilità di accoglienza delle donne.
Oltre che il simbolismo del vaso, la Grande Madre viene rappresentata anche
come “albero della vita” che, saldamente piantato con le sue radici nella terra che lo
nutre, s’innalza verso l’alto e con i suoi rami e le sue foglie genera ombra protettiva,
albero che però affondando le sue radici nel grembo materno della terra esprime un
pensiero forte, di saldezza, ma anche di crescita.
La Madre-Albero diventa in Cina “l’albero dell’anno”, in Egitto diventa il
pilastro Ded che rappresenta il “legno della vita” da cui nascono gli dei, infine nella
recente simbologia giudaico-cristiana il figlio della Vergine nasce nella mangiatoia
di legno e muore sulla croce anch’essa di legno.
Non spetta a me tracciare le linee di questa presenza nella storia, ma mi va di
sottolineare che essa non deve essere intesa come un susseguirsi di avvenimenti
senza senso; ma come un’avventura collettiva dell’umanità con le sue ansie, i suoi
ideali, le sue speranze.
Nei secoli la donna è stata progressivamente relegata all’interno delle mura domestiche per assicurare la continuità della specie. Le funzioni di cura e di accoglienza
hanno identificato un ruolo femminile che si è stereotipato nei secoli e che ha finito per
sottrarre alla donna non solo le pari opportunità, ma soprattutto la pari dignità.
Nel Medioevo, uno dei periodi più bui e repressivi nella storia delle donne,
bastava ad una donna dimostrare di possedere conoscenze superiori a quelle “concesse” alle donne, per essere arsa viva, ci si inventò persino un mondo pieno di
“streghe”.
Il Novecento è stato un secolo molto importante per le donne, tanto da essere definito il “secolo delle donne” per i cambiamenti che si sono susseguiti, modificando i costumi sociali tradizionali.
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Essere Donna ieri, essere Donna oggi
Si può parlare, senza dubbio, di un progressivo e molto graduale riconoscimento dei diritti delle donne, comunque talmente graduale da rendere evidente come l’intero processo sia avvenuto sotto un attento controllo maschile.
Il secolo scorso è stato archiviato come quello degli “ismi”: futurismo,
esistenzialismo, femminismo; il nuovo secolo, il primo del terzo millennio si è aperto
all’insegna, per così dire, di una nuova desinenza: “ione”: globalizzazione, devoluzione, omologazione, ecc. Se volessimo trovare una differenza di senso tra le due
tendenze, potremmo dire che ci troviamo di fronte al tentativo di negare l’importanza dell’introspezione a vantaggio dell’apparire.
Siamo passati da movimenti che si concentravano intorno ad un’idea, a comportamenti che nel tentativo di semplificare l’esistente, ci hanno accomunato tutti
in una universalità che di fatto non esiste.
La cultura delle donne che è per sua natura espressione di libertà e rispetto
delle diversità non ne ha tratto vantaggi di sorta, anzi, ha visto limitata la sua vera
creatività. In un contesto del genere ripristinare un filo logico, fatto di diversità a
confronto, non è semplice.
Quale può essere il nostro ruolo in questa confusione imperante?
Riproporre la nostra forza di persuasione, la nostra creatività, la passione che
abbiamo dentro ciascuna di noi per un mondo nuovo, privo di falsi orpelli e
riproporre i valori essenziali per dare un senso alla vita degli uomini.
Qualità e interessi che la storia delle donne ci ha insegnato. L’interesse per la
comunicazione, la capacità di relazione con gli altri, la conoscenza e l’esperienza nella
cura delle persone devono essere assunti come un patrimonio, non più come un vincolo
alla passività, e devono uscire dall’ambito privato per essere valorizzati adeguatamente.
Non si tratta di riabilitare la “femminilità” tradizionale ma di riscrivere i
rapporti sociali in modo che le esperienze, i pensieri, i modi di essere delle donne
abbiano peso e valore con tutto lo scompiglio simbolico, sociale e strutturale che
questo comporta.
2. Il “pensiero femminile”
Nella mia vita un momento importante è stato segnato dalla scoperta di un
“pensiero femminile”, cioè di una riflessione filosofica che è nata e si è incontrata
con quella volontà di cambiamento che ha dato una consistenza ben diversa a quei
tentativi di segnare di sé la realtà circostante.
Nonostante il silenzio della cultura ufficiale e dei mass media su questo pensiero, nonostante che nei libri non ne arrivasse che una pallida eco, esso è circolato
e, come in fondo è successo sempre, anche in passato, ha trovato canali, possibilità
di viaggiare anche al di fuori dei contesti tradizionali.
La parola vola nello spazio, viene fatta rimbalzare dai satelliti, ora più che
mai vicina a quel paradiso dal quale si credeva fosse venuta. Ma secondo me, la
sua trasformazione più significativa risale a tanto tempo fa, quando per la prima
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Valeria de Trino Galante
volta essa fu incisa su una tavola di pietra o tracciata sul papiro, quando si
materializzò da suono a rappresentazione, passò dall’essere udita all’essere letta
da prima come una serie di segni e poi come un testo, e viaggiò nel tempo dalla
pergamena a Gutenberg.
Si è trattato, stranamente, di un processo duplice, che ha creato allo stesso
tempo la possibilità di esprimersi ed una funzione di intervento nell’azione culturale dell’umanità.
Che cosa noi donne portiamo come contributo quando facciamo diventare
l’esperienza femminile fonte di sapere?
È una domanda, questa, che bisogna fare attenzione a lasciare sempre aperta;
tuttavia, per quella che è la nostra riflessione storica, ci sembra che la tendenza a
portare nella cultura, reinterrogandola, reinterpretandola, il desiderio di conoscerci
e di attribuire il nostro senso alle cose, ci permetta di avere una più forte consapevolezza del legame fra i soggetti ed il sapere che producono.
La nostra esperienza del conoscere attraverso i sentimenti, le emozioni, il
corpo, insieme all’intelletto, ci dà un’idea della materialità della cultura, della sua
capacità modificatrice che ci rende più indipendenti rispetto ad altri scambi simbolici come il denaro.
Vogliamo dire che rispetto al valore delle cose, noi abbiamo più forte la consapevolezza che le cose vanno valutate in relazione ai loro contenuti.
Quando si riuscirà a creare una vera “cultura femminile” e si sarà fatto spazio
il concetto della parità di diritti e di opportunità tra i due sessi, la donna potrà
dimostrare appieno le sue capacità operative e cadranno quelle barriere che a volte
sono in noi stesse, fanno parte di una mentalità che bene o male abbiamo ereditato
e della quale non ci siamo ancora liberate.
Quando ho intrapreso i miei studi scientifici ho avuto l’impressione che le
donne e la scienza procedessero su strade diverse e che la storia avesse ritardato il
loro incontro.
Ciò mi sembrava essere confermato da due dati: i premi Nobel assegnati a
scienziate nel corso dei novantasei anni di vita del premio sono stati solo undici e
poi che, nonostante la popolazione femminile con titolo di studio superiore, nel
nostro secolo abbia raggiunto alte percentuali, il numero di donne a cui sono affidati i ruoli di rilievo nella ricerca è sempre più esiguo.
3. Scienza al femminile
Come spiegare i motivi della scarsa presenza femminile nella storia delle scienze?
Forse le donne non amano la scienza, e quindi io sono una donna strana, o
forse la scienza non si adatta alle donne?
La risposta, naturalmente è nella vita e nelle opere delle donne di scienza
rispetto al ruolo della società nei loro confronti. Ho scoperto così che la maggior
parte delle donne ricercatrici ha dovuto pubblicare a nome del marito o con uno
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Essere Donna ieri, essere Donna oggi
pseudonimo maschile e inoltre che l’accesso delle donne all’Università è avvenuto nel 1860 in Svizzera e solo dopo molti anni negli altri Paesi Europei.
Si sa che quando si dà inizio ad un percorso di approfondimento delle proprie conoscenze, ci prende la passione per la scoperta e si comincia ad analizzare
più a fondo un mondo che ci era estraneo.
Così partendo dal presupposto che sono prerogative femminili la pazienza e
la tenacia, qualità necessarie per condurre a termine ricerche scientifiche, sono andata alla ricerca della presenza femminile nel mondo delle scienze.
Ho incontrato Emmy Noether, fondatrice dell’algebra moderna, Sonja Kovalevskaja, la prima donna docente in una università, Lise Meitner, scopritrice della
fissione nucleare, Rosalind Franklin, che ha posto le basi sperimentali della struttura del DNA, Barbara McClintock, autrice di una scoperta fondamentale per l’identità genetica sui cromosomi, queste solo per citarne alcune perché in realtà il mondo scientifico è pieno di presenze femminili.
Difficile dire se vi sia una scienza al femminile; certo l’approccio delle donne
a questo universo è diverso e la “simpatia” sostituisce il consueto distacco se l’occhio che indaga al microscopio è quello di una ricercatrice.
Si tratta di una specificità o di una ghettizzazione? Ci si muove su una linea di
confine, verso una prospettiva nuova, libere di osservare da punti di vista diversi ma
con la speranza in una scienza che oltrepassi i confini rispettandone sempre i limiti.
Essere donne oggi ci pone dinanzi alla difficoltà di scegliere, difficoltà che
nasce non solo per i grandi ostacoli che la società frappone, ma anche per i conflitti
esistenziali che portiamo dentro di noi.
Quante volte ‘scegliere’ resta un desiderio o una possibilità incompiuta?
La fatica di scegliere dipende dal fatto che alla razionalità, nel nostro caso si
associano il mondo delle emozioni e quello dei sentimenti.
Rompere con la passività, scegliere, affermare se stesse è difficile nelle strettoie di una società che nella sua organizzazione, nel suo lavoro, nei suoi tempi e nei
suoi simboli vede il sesso femminile come complementare e a volte, ancora troppo
spesso, subalterno a quello maschile.
Ma se non siamo inserite nella gestione del mondo, abbiamo anche noi la
nostra dose di responsabilità? Quale?
Non siamo ancora pronte ad abbracciare tutte insieme le idee forti e a lottare
per esse. Siamo tante, tantissime e se ci stimassimo a vicenda, saremmo unite e potremmo cambiare la nostra vita, quella dei nostri figli, quella della società.
Fare quadrato intorno alle donne che si espongono in prima persona, significherebbe essere forti e condizionare le scelte.
Non più guerre giustificate da mille ragioni diverse: guerre sante, guerre per
la libertà, conflitti, guerre umanitarie che poi sono sostanzialmente sempre e solo
guerre sanguinarie e distruttive.
Non più questioni sociali irrisolte, non più fame nel mondo, non più morti
inutili che non sono giustificate da nessun valido motivo.
Com’è possibile che sappiamo essere madri, mogli, amanti, ispiratrici; sap40
Valeria de Trino Galante
piamo gestire il nostro bilancio familiare, sappiamo insegnare, sappiamo essere delle ‘creative organizzate’ e non riusciamo a cambiare il mondo?
Forse dobbiamo ripensare alla “questione femminile” dal suo interno,
riesaminare le sue contraddizioni e fare seriamente delle scelte.
Come un serpente che cambia la pelle ed il bruco che diviene farfalla, il percorso di crescita personale e collettivo che le donne, oggi, sono in grado di fare,
spogliandosi degli abiti stretti che sono state costrette ad indossare, si basa sulla
liberazione della propria energia interiore, riappropriandosi di tutti quegli aspetti
che sono stati repressi o demonizzati, ma che in realtà esprimono la vera essenza ed
il vero potere interiore dell’essere donna, oggi.
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Donatella Di Adila
Le donne e la globalizzazione
di Donatella Di Adila
1. Il contesto
Sull’attuale processo di globalizzazione, che tanto inquieta e allarma il “popolo di Seattle”, le donne sono silenziose. Consce delle conquiste fatte sul cammino del riconoscimento dei diritti, risultati poi per molti aspetti non corrispondenti ai loro desideri di cambiamento, sembrano dimentiche delle nuove forme di
sfruttamento e di subordinazione nate dall’ “alleanza” tra il capitalismo e il femminismo. Nel nuovo assetto dell’economia globale in cui anch’esse sono fortemente implicate, si accentua la distanza tra il Nord e il Sud del mondo, tra l’opulenza dei paesi occidentali e l’arretratezza dei paesi emergenti o la povertà di quelli
sottosviluppati. Reale è il rischio che si instaurino nuove e più spregiudicate forme di subalternità, non solo femminili, che ci riguardano da vicino nella misura in
cui assistiamo indifferenti allo spostamento di interi popoli dall’una all’altra parte del globo alla ricerca dei beni più elementari di sussistenza. Come reale è il
rischio di una divaricazione sempre più netta tra la minoranza, l’élite, delle donne
cosiddette emancipate, liberate, integrate nel mercato delle economie mercificate
neocapitaliste e postfordiste, e la maggioranza delle donne che, all’ombra dei traguardi raggiunti dalle altre, conduce la sua battaglia quotidiana per la propria e
l’altrui sopravvivenza. Mi vengono in mente i mille volti delle donne, catturati e
riportati nelle nostre case dall’occhio vigile della telecamera. Da ogni angolo del
mondo, esse stentano ad implorare rispetto per la loro scandalosa marginalità e
povertà. Si pensi anche alle molte donne che emigrano per mantenere dall’estero
l’intera famiglia , regredendo verso un nuovo ruolo di riproduzione, basato molto spesso sulla sessualizzazione del corpo più che del lavoro.
Alla luce dei cambiamenti attuali, le metafore della casa, della famiglia, della
fabbrica, vocianti slogan delle femministe nelle lotte di rivendicazione per la conquista della parità non reggono più. La classica contrapposizione, descritta da Engels nell’opera L’origine della famiglia, della proprietà privata, dello Stato, tra produzione e riproduzione, tra fabbrica e famiglia, risulta oggi rovesciata. I confini tra
questi due mondi, quello della “produzione”, luogo storico del dominio e dell’accumulazione capitalista, e quello della “riproduzione”, luogo della nascita e della
rigenerazione della vita attraverso il lavoro domestico, di cura e di servizio alla
famiglia, diventano sempre più sfumati sino ad annullarsi. Il nuovo modello organizzativo del Mercato globale si è appropriato di molti elementi assimilabili al lavoro domestico di riproduzione svolto dalle donne, quali la creatività, l’emozionalità,
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Le donne e la globalizzazione
l’essere senza fine, versatile, riconvertibile, precario, senza contratto. Il vessillo
della qualità totale di cui molte industrie, soprattutto automobilistiche, si fregiano e su cui è concentrata una quantità enorme di capitali e di investimenti
per la creazione di sempre più cospicui profitti segna il trionfo dello human
power sul labour power, aggiungendo un ulteriore tassello all’alienazione dell’identità e al rischio disoccupazione, quando l’investimento non consegue il
massimo profitto. Sull’altare del Mercato si immolano così gli ultimi residui di
identità individuale e collettiva, mentre prepotente si fa strada, nel groviglio
delle nostre contraddizioni e delle nostre sempre più flebili certezze, il nuovo
individuo neutro e immateriale.
Nell’epoca della mercificazione totale, del consumismo sfrenato, dell’usa e
getta, si spiegano anche la progressiva crisi della famiglia e la facilità dirompente
con cui molte donne preferiscono sciogliere il matrimonio, considerato troppo
limitativo del proprio spazio di libertà e poco vantaggioso rispetto all’impegno
richiesto, quando non è più sorretto dall’innamoramento e dall’attrazione sessuale.
In questo contesto, che potremmo definire “contesto prostituzionale”, anche il genere come categoria di autodefinizione e come strategia diventa poco significativo per leggere la nuova stratificazione sociale, la subordinazione femminile,
l’origine del conflitto con l’altro sesso. Nonostante il progresso raggiunto in tutti i
campi le donne sono, sia concretamente che metaforicamente, letteralmente divorate e assorbite su scala planetaria, oggi ancora più brutalmente di ieri, dai nuovi
meccanismi economici di potere e di controllo da loro denunciati.
Esse scontano sulla propria pelle e sul proprio corpo, si pensi alle nuove
tecnologie riproduttive e all’industria del sesso, il fallimento delle loro conquiste con la delusione di aver riportato a casa solo un credito irrisorio di fragili
consensi. Anche il tempo non ha cancellato l’etichetta con cui l’immaginario
collettivo le ha sempre rappresentate: da vestali-schiave della casa a mogli del
Welfare e del Mercato. L’industrializzazione, la conquista del salario, la nascita
del Welfare State, la legislazione a tutela delle pari opportunità, la logica dell’accumulazione delle ricchezze alla quale esse contribuiscono sia come produttrici che come clienti, non hanno liberato le donne dalla subordinazione tipica del lavoro domestico, da loro esternalizzato e nel contempo appaltato ad
altre donne in uno schema di dominio al femminile. Ecco perché oggi più di ieri
diventa problematico discutere non solo di uguaglianza fra generi, ma di uguaglianza fra donne. È, questa, una constatazione di genere che, senza ignorare i
meriti storici dell’emancipazionismo e del pensiero femminista, entrambi figli
dell’Occidente, si colloca fuori dai canoni tradizionali della questione femminile. È deliberatamente lontana sia dal neofemminismo degli anni ‘60 e sia dall’isolazionismo a cui si sono consegnate alcune delle più recenti elaborazioni
teoriche sulle donne nel momento in cui la globalizzazione ne ha scompigliato
vistosamente i paradigmi di riferimento.
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Donatella Di Adila
2. Le teorie
Dopo l’emancipazione e la verifica delle sua inadeguatezza in termini di concreto cambiamento, a partire dagli anni ‘70 il pensiero occidentale, regno di dominio incontrastato dell’uomo, si arricchisce di una mole ingente di contributi da parte di donne pensatrici, che aprono un nuovo filone di indagine, quello degli “Studi
sulle donne” o degli “Studi di genere”, dotato di una propria autonomia e di un
proprio statuto epistemologico. Un impulso è dato anche dall’intenso dibattito tra
femministe ed autorevoli pensatori, orientati all’analisi del linguaggio e del testo.
Basti pensare al tema del linguaggio come “agire comunicativo” di Habermas, fedele continuatore della scuola di Francoforte di Adorno e Horkheimer. Al tema filosofico del dialogo di Arendt, alla polifonia ed interdialogicità di Bachtin. Al
decostruzionismo di Derrida che nella sessualizzazione pre-duale, con la mediazione di Hélène Cixous, anticipa il paradigma della differenza di genere. Nella
destrutturazione di Derrida alcune teoriche vedranno loro aperte le porte all’ordine del dominio. La nuova e affascinante categoria ermeneutica e progettuale della
“differenza sessuale” innalza il principio dell’ identità di genere come concetto guida per ripristinare all’interno dell’universo, ancora tutto declinato al maschile, una
specificità dell’essere femminile per operare nella famiglia, nel sociale, nella mentalità, nella cultura, una vera e propria rivoluzione, presupponendo un radicale rovesciamento delle gerarchie su cui si sono retti il sistema patriarcale prima, quello
capitalista poi.
Ci troviamo di fronte all’incarnazione di un “Verbo” come ebbe a dire Miriam Mafai in un articolo del ’90 su «la Repubblica». Ad una nuova autorità, ad una
“Madre” che recinta la propria missione educativa all’interno di un rapporto simbolico madre-figlia a-dialogico e quindi conflittuale nel sistema delle relazioni fra
generi. Anche Serena Zoli, dalle pagine del «Corriere della Sera», nel recensire la
produzione teorica di Luisa Muraro , filosofa della differenza, avanza le sue riserve
e bolla l’innovazione postfemminista di neodogmatismo a-dialettico che non promette nulla di buono sia nella teoria che nella pratica. Della teoria si è detto. Nella
pratica lo sguardo è rivolto alla scuola considerata da sempre, dopo la famiglia, il
luogo per eccellenza deputato all’educazione, all’acquisizione delle consapevolezze e delle conoscenze, o almeno così dovrebbe essere, da parte di tutti senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di cultura, ecc… E invece il parto, si pensi
ancora alla “Madre autorevole”, è quello di una riforma della scuola al femminile:
una scuola sessuata, non egualitaria, intessuta perciò di nuovi contenuti, dei nuovi
linguaggi della corporeità e dell’affettività femminili, per inculcare nelle studentesse la consapevolezza della propria identità di genere e agirla poi nel contesto delle
relazioni esistenziali e professionali. “Autoriforma gentile”, appunto! La didattica
della differenza, nei casi più estremi, porta dritto verso un vero e proprio ghetto
educativo, vanificando lo sforzo comune per un’autentica coeducazione dei sessi.
Fortunatamente nel concreto le cose non vanno così sia dentro che fuori la scuola.
La categoria della differenza come radicale tentativo di riconquista dell’iden45
Le donne e la globalizzazione
tità di genere, divorata dall’emancipazione, è uno dei contributi più originali e critici elaborati dal pensiero occidentale. Darle valore di dialogo con l’altra - le altre
differenze, l’altra - le altre culture, è la sfida più impegnativa che ci attende per
arginare la nostra e l’altrui spersonalizzazione che il processo globale in atto intende perseguire per affermare la propria onnipotenza sul mondo.
3. La ri-produzione
L’integrazione della riproduzione nella produzione è il dato più appariscente
della globalizzazione. La destrutturazione di questo binomio, campo di scontro e
di incontro dell’emancipazione, segna la fine di un’epoca dalla quale le donne hanno ereditato solo un illusorio bottino di libertà e di pari opportunità. La nuova
realtà globale, annullando questa contraddizione, prepara il terreno a nuove e più
pesanti forme di esclusione e di colonizzazione delle quali le donne pagano il tributo più alto in termini materiali, simbolici e metaforici. In questo contesto, definito
prostituzionale, emerge l’aberrante mistificazione delle conquiste femministe, quelle
delle vecchie e nuove tecnologie riproduttive, sbandierate come un ulteriore traguardo lungo la strada dell’autonomia, della scelta e dei diritti.
La maternità surrogata, detta volgarmente degli “uteri in affitto”, e la contraccezione, sono il campo in cui l’applicazione del tema dei diritti e della scelta
scricchiola ineluttabilmente secondo una prospettiva di genere. Tramontata la fase
delle femministe arrabbiate coincidente con quella della diffusione della contraccezione, messi in cantina gli slogan inneggianti gli organi rigenerativi, uteri ed ovuli,
come emblema del riconquistato dominio sul corpo, liberato finalmente dalla signoria sessuale maschile, le nuove tecnologie riproduttive offrono scenari sconvolgenti, che mettono in discussione non solo il nuovo volto della questione femminile, ma anche il tema delle responsabilità. Di fronte all’edonismo imperante, allo
smarrimento dei valori, esse pongono interrogativi inquietanti a cui risulta difficile
dare risposte convincenti di genere. La loro introduzione nel campo vitale e delle
relazioni umane è l’esempio più eloquente della riconversione della riproduzione
in produzione, della trasformazione del corpo femminile e dei suoi frammenti in
una macchina produttrice di danaro, alimentatrice di un floridissimo commercio su
cui, dietro lo schermo del progresso, della ricerca, della scienza, si costruiscono
immensi patrimoni, carriere di successo e professioni.
Le nuove tecnologie riproduttive, utilizzate inizialmente sulle piante e sui
semi e trasferite successivamente sui corpi femminili, minano dalla base l’autonomia della scelta che presumono di garantire. Riconoscendo alle donne lo stesso
diritto di proprietà con cui l’uomo aliena lo sperma, le trascinano verso meccanismi
di soggezione molto più potenti di quelli sperimentati nel passato con il Patriarcato
e con il Welfare, con la conseguenza che la nuova lex mercatoria privatistica e
neoliberista del Mercato globale è molto più tirannica e alienante. Come osserva
Silvia Vegetti Finzi nel saggio Volere un figlio. La nuova maternità fra natura e
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Donatella Di Adila
scienza, ci troviamo di fronte non solo allo sconvolgimento della riproduzione biologica, ma allo sconvolgimento dei processi simbolici della Maternità. La maternità
a tutti i costi come la sua rinuncia smascherano inequivocabilmente gli inganni di
cui le donne sono vittime da sempre. La nuova industria della vita concorre ad
incrementare il processo di disintegrazione e di frammentazione che caratterizza la
realtà contemporanea e il sistema economico su cui essa fonda i suoi presupposti:
sfruttamento del lavoro umano più che della forza lavoro, individualismo, passaggio dal pubblico al privato, passaggio dal Welfare State, garante dei diritti, al liberismo illimitato del nuovo mercato. La perdita del significato simbolico della maternità incarna, secondo Vegetti Finzi, l’intolleranza del limite tipica dell’ideologia
occidentale. Le donne, risucchiate dai nuovi meccanismi economici che ruotano
intorno a questa innaturale forma di ri-produzione, rispecchiano con la divisione
dei loro frammenti biologici le logiche che guidano la frammentazione dei nuovi
processi produttivi, amplificando la divisione tra Nord e Sud, tra Occidente e paesi
sottosviluppati, tra ricchezza e povertà.
La geografia antropologica di questo intero settore economico, come è stato
definito dal «New York Times», è variamente disciplinata su scala mondiale con
l’adozione di politiche distinte con due obiettivi: promozione delle gravidanze impossibili al Nord e limitazione delle nascite al Sud. I simboli geografici Nord-Sud
non sono solo rappresentativi del divario socio-economico di questi due regni, l’uno
del dominio e l’altro dell’oppressione, ma anche della sconcertante divisione tra
donne, mai prima d’ora registrata con così desolante evidenza. Nell’assenza generale di dibattito su questi temi, si profila la nuova inconcepibile gerarchia tra donne
consumatrici del Nord e donne riproduttrici del Sud. Sono queste ultime che, con
la vendita dei propri organi, si mettono al servizio delle donne occidentali, offrendo loro il dono di una gravidanza naturalmente negata in un mercato immorale,
privo di controlli e di garanzie.
Come osserva Stefano Rodotà in Tecnologie e diritti, le legislazioni dei vari
paesi non sono univoche e molti aspetti di questo commercio sono regolati da vincoli privati e da interessi economici che sfuggono al legislatore. Fortunatamente in
Italia la riproduzione artificiale è vietata, anche se in un’ottica globale ciò non impedisce alle donne italiane di delocalizzare altrove, come avviene per la produzione
industriale e tecnologica, il loro desiderio di maternità. La brutalità di questo traffico della vita, contrabbandato come dono, servizio, buona azione, complicità tra
donne, fa senza dubbio preferire alla maternità surrogata l’adozione perché non
interferisce sui cicli rigenerativi, sui vissuti individuali, emozionali, anche se oggi è
mutata rispetto a quella tradizionale. Anch’essa è al centro di un commercio di
dimensioni internazionali.
Sulla stessa linea d’onda si muove l’industria del sesso con la distribuzione
del consumo al Nord e della produzione al Sud. Basti pensare al turismo sessuale
che organizza tours preconfezionati attraverso agenzie specializzate, che sono vere
e proprie multinazionali del sesso. Su di essa fa leva anche il mondo degli affari e
delle truppe per compensare con il meritato relax lo stress delle riunioni di lavoro o
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Le donne e la globalizzazione
la fatica delle operazioni militari. La prostituzione, che l’immaginario sessista ci restituisce come il mestiere più vecchio del mondo, è completamente cambiata. Da pratica
rituale o espediente per sopravvivere, si pensi alle eroine del romanzo borghese di
Defoe, Richardson, Fielding, è divenuta una vera e propria professione, che alimenta
un mercato ad altissimo profitto dal quale le donne sono generalmente escluse. Per
rendersi conto della sua evoluzione, anche la “Sociologia della letteratura” è una fonte interessante per seguire la sua linea di direzione geo-economica, oltre che le sue
trasformazioni dall’inizio dello sviluppo industriale a cui essa è strettamente collegata. Si deve a Franco Moretti, critico letterario, la costruzione, secondo i parametri del
metodo scientifico propri della scienza geografica, del primo e pregevole Atlante del
romanzo europeo. Questo atlante è un utilissimo strumento di indagine per leggere e
capire, attraverso la rappresentazione geografica, la stratificazione sociale e l’origine
del conflitto centro-periferia, potere-oppressione, maschile-femminile, nella letteratura borghese e di consumo in Francia e Inghilterra nel ‘700 e ‘800. Invece, il nuovo
volto della prostituzione è largamente documentato da Pino Arlacchi nel saggio Schiavi,
il nuovo traffico degli esseri.
Con la prostituzione anche la geografia si mette in movimento quando il
“Sud” è nelle nostre città, quando è quotidianamente sotto i nostri occhi di donne
liberate e silenti. Le nuove esclusioni e le nuove colonie sono sotto i nostri occhi di
donne occidentali, che hanno rovesciato a vantaggio del Mercato le tradizionali
gerarchie, appaltando ad altre il proprio ruolo riproduttivo tanto da non disdegnare i prodotti made in Singapore, Hong Kong, Cina, Brasile, Taiwan. Tutti luoghi
dove la produttività è rappresentata per la più parte da manodopera femminile e
minorile con punte dal 70% all’80% nelle Zone di Libero Scambio, sede queste
ultime di paradisi fiscali ed economici.
Che dire poi dei people skills, quel piccolo extra in più, che comprendono
tutta una serie di prestazioni extracontrattuali, immateriali, di relazione, diffuse in
molti settori lavorativi e che nella loro dimensione sessualizzata fanno appello alla
seduzione, al fascino femminile per attrarre maggiori profitti. Della patina dei people
skills sono impregnate anche molte attività, i cosiddetti lavori ombra, sommersi,
spesso non retribuiti, i lavori socialmente utili, a termine, e dei quali non ci scandalizziamo più di tanto perché fanno parte ormai del nostro stile di vita, dominato
dalla logica del consumo e dello sfruttamento. Molti di questi lavori, in attesa di
emersione, da occasionali sono diventati elementi strutturali della nostra vita, del
nostro lavoro, altrimenti l’esubero, la disoccupazione. Tra di essi è da includere
anche quello di molte insegnanti del “nostro Sud” che, in attesa di immettersi nel
mercato dell’offerta formativa del Servizio scolastico, così si chiama oggi la scuola,
e raggranellare punti per l’inserimento nelle graduatorie, si sottopongono a forme
ambigue di sfruttamento, lavorando gratuitamente nelle scuole private. L’irruzione
del privato nel campo vitale, l’esternalizzazione della riproduzione, la pressione
delle nuove colonie dello sfruttamento, la crisi economica del Welfare State, il predominio della tecnica e l’allargamento del mercato, segnano il fallimento dell’emancipazione e dei suoi metodi.
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Donatella Di Adila
La globalizzazione, perciò, è il nuovo orizzonte entro cui leggere e interpretare la realtà che ci circonda, nel tentativo di dare risposta ai problemi che minacciano i valori della nostra vita in quanto esseri umani e non solo in quanto donne. La
nuova realtà globale è il quadro di riferimento da cui attingere gli elementi utili per
capire e per tentare di portare a soluzione i problemi che inquinano le nostre relazioni, riducendole a merce di scambio, che fanno vacillare le nostre coscienze, che
producono gerarchie. Oggi è Tempo di mutamenti, ammonisce Rita Levi Montalcini
nel suo recentissimo saggio, pubblicato nel mese di dicembre del 2002. L’incursione
della Levi Montalcini nel campo minato delle problematiche globali e dell’emancipazione è una delle possibili risposte, forse la più rivoluzionaria, alle domande senza voce poste dalla maggioranza delle donne che il caso ha collocato geograficamente lontane, ma materialmente, simbolicamente e metaforicamente vicine a noi.
Recuperare le distanze attraverso l’ethos del corpo e del luogo, il locale e il
globale, è la via che rende possibili la relazione e il dialogo. È la via per superare le
differenze e “vincere il primitivo che è in noi”. Solo se proiettata in un contesto
globale non prostituzionale ha ancora senso, oggi, parlare di emancipazione. Anche la categoria della differenza di genere, contaminata com’è dal gene del dominio
e dell’esclusione, che sono i tratti distintivi del pensiero occidentale, è inadeguata e
anacronistica sia come strategia che come ideologia. Con l’ausilio delle nuove tecnologie, questa volta applicate alla comunicazione della rete globale, cioè usando
gli stessi strumenti con cui il Mercato ha occupato gli spazi vitali, le donne, in quanto generatrici e riproduttrici di vita, saranno titolari di un progetto “più arduo ma
più costruttivo”: quello di inventare la pace. È una lezione che noi donne delle
vecchie e nuove battaglie femministe dovremmo tenere presente nel passaggio del
testimone alle donne delle nuove generazioni.
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Gloria Fazia
L’universo femminile
di Gloria Fazia
Nel dopoguerra Alba de Cespedes, che aveva già pubblicato due importanti
romanzi, dirigeva la rivista politico-letteraria «Mercurio». Accadeva spesso che
qualche uomo le domandasse ammiccando: “Bene, signora, ma ora può dirmi chi è
il direttore vero?” È passato mezzo secolo da allora e credo che nessun maschio
occidentale, neanche il più retrivo, formulerebbe una frase simile.
Tutto cominciò con la seconda guerra mondiale quando le donne fino ad
allora “serve e regine”, per usare una definizione di Pasolini (che come tali le rimpiangeva), furono catapultate, per tragica necessità, nel mondo del lavoro, privato
degli uomini al fronte: da allora, certo con un percorso non privo di ostacoli, in
quel mondo sono ancora e in molti casi da protagoniste. Il movimento femminista
degli anni ‘60 diede un’accelerata a questa rivoluzione, mettendo in discussione
ruoli e regole, anche in ambito privato, mai toccati prima e lasciando tracce incancellabili. Quindi, femministe o no, le donne che sono venute dopo sono profondamente consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri. Questo, da allora, non è più
messo in discussione: una donna è una persona e lo sa.
Il quadro non è idilliaco come potrebbe sembrare. Esistono ancora sacche di
ignoranza e pregiudizi che ostacolano una piena attestazione di certi risultati. Basti
pensare ai luoghi più arretrati del nostro Paese dove non è ancora automatico che
una ragazza possa studiare come un maschio (laddove proprio l’istruzione è il grimaldello per farsi valere o comunque per vivere da donna consapevole) e dove le
stesse donne non votano alle elezioni per le altre donne. Cos’è, sfiducia? Un mai
sopito convincimento che la cosa pubblica debba essere gestita da chi ha, solo per
tradizione, più esperienza? È un dato che mi meraviglia sempre: è vero che già
all’interno delle forze politiche non si dà il giusto spazio all’intelligenza femminile,
ma è anche vero che la donna, anche se riesce a superare lo slalom cui è costretta,
non ha poi il riscontro che merita.
A parte ciò, siamo tante e stiamo ovunque. Perfino nell’Arma dei Carabineri.
Ma quanto è costata questa crescita, questa presa di coscienza? Tanta fatica, e
parlo di fatica fisica. La liberazione della donna non è andata di pari passo nel pubblico e nel privato, nel campo dell’opportunità di istruzione e di impiego e in quello
della famiglia. Le donne della mia generazione sono giunte stremate alla sera, stritolate tra la voglia di lavorare ‘come un uomo’ (ritorneremo su questo argomento)
senza perdere occasioni per affermare il proprio impegno o, più comunemente e
semplicemente, per portare a casa un equo stipendio, e la volontà di non trascurare
51
L’universo femminile
la famiglia, la cura dei figli, quella degli anziani. E in questo senso, tante hanno
dovuto accettare rinunce, rallentamenti, amarezze, fino a generarsi una sorta di riflusso di cui sentiamo a sprazzi parlare. In questi ultimi anni, comunque, questa
folle corsa tra pannolini e computer si è forse un attimo sopita e ci si rende conto
che quelle doti di equilibrista che la società ci ha imposto finora possono essere
deposte per dare più spazio ai ritmi naturali. Ma senza abbassare la guardia! E comunque si spera che i nostri figli, abituati a madri che hanno dato loro un’attenzione basata più sulla qualità che sulla quantità di tempo trascorso insieme, prevedano
con le loro compagne ruoli in famiglia in qualche modo paritari.
Un altro pensiero: due qualità apparentemente opposte della donna post ‘68
hanno generato effetti positivi sia in ambito familiare che lavorativo. La combattività
e la consapevolezza di sé, ottenute in anni di lotte, hanno portato anche a una consapevolezza diversa del ruolo di casalinga. La maggiore istruzione, la possibilità di
poter scegliere in qualche modo il proprio ruolo (solo in casa? casa e lavoro esterno?) ha fatto sì che si viva in modo più sereno e aperto il pur delicato compito di
donna di casa. D’altro canto la dolcezza femminile, la tendenza alla composizione
dei dissensi, il rispetto per gli altri, sono diventati il modello vincente nel campo del
lavoro: il nuovo manager non è più l’uomo tutto d’un pezzo, teso solo al risultato e
incurante dei rapporti interpersonali, ma il capo umano e portato al coinvolgimento
del personale. All’inizio la donna per affermarsi doveva dimostrare di avere…gli
attributi, ora può essere donna e sfoderare le sue peculiari e migliori qualità, risultate adatte ai nuovi compiti nella società.
Una cosa mi fa un po’ paura: la corsa alla vuota immagine che caratterizza i
nostri tempi. Fermo restando che un aspetto gradevole non ha mai danneggiato
nessuno, né uomo, né donna e che la cura di se stessi non determina automaticamente poco cervello, mi sembra però che i modelli televisivi e della carta patinata
stiano riproponendo in modo acritico, tra veline e letterine, il tipo della bellona-oca
contrapposta a quella che lavora, pensa e produce dimostrando cervello efficiente
e coscienza civile. Mi auguro che non sia solo questo il modello per le giovanissime
(vista la presenza ossessiva e dilagante di un certo tipo di TV) e che non si appannino le conquiste ottenute.
È complessivamente un giudizio ottimista quello sulla nostra società occidentale, anche se non si possono dimenticare le tante donne sfruttate, prostituite,
ingannate e difficilmente riscattabili che continuano ad esistere sotto i nostri occhi.
Sono, questi, pensieri quasi in libertà, su un tema con il quale, a volte inconsapevolmente, continuiamo a misurarci ogni giorno, in questa vita di impegno, fatica e pienezza di sentire che la Storia ci ha dato in sorte di vivere.
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Maria Giampalmo
Universo femminile: uguaglianza e diversità
di Maria Giampalmo
Ogni anno, richiamando un ‘rigido rituale’, le statistiche del mercato giornalistico esprimono in percentuale la presenza delle donne negli ambiti politici, economici, sociali, militari, quasi ad indicare la crescita del numerino indicato sul giornale di turno come una grande conquista dell’universo femminile per la quale migliaia di donne dovrebbero gioire ed esultare allegramente.
Ogni sforzo giornalistico è teso a valutare l’eccezionalità dell’evento e la presenza di interviste a donne che ‘ce l’hanno fatta’ riempie le pagine dei quotidiani più
diversificati tra loro.
La parola d’ordine è insomma diversità. Le donne sono considerate come
‘diverse’. Diverse nel modo di sentire, nel modo di fare, nel modo di essere, uno
strano miscuglio di sentimenti e razionalità che il resto dell’umanità sente il diritto
di analizzare.
Ma in che cosa le donne sarebbero diverse? Per mera curiosità cerco nel vocabolario il termine “donna” e vi trovo scritto: la femmina dell’uomo. Nessuna
diversità dunque e nessuna contrapposizione ma semplicemente l’altra parte dell’uomo.
Mi chiedo dunque quale visione del mondo e quale livello di civiltà abbiano
raggiunto coloro i quali, in una società nella quale l’Umanità combatte per eliminare ogni forma di razzismo e di ineguaglianza legati al colore ed alla razza, continuano a contrapporre uomo e donna, senza mai parlare di persona.
È l’essenza della persona, quell’essere ‘umani’ che contraddistingue ogni
uomo, termine universale che contiene in sé anche l’universo femminile.
In quest’ottica dunque la donna ha sempre avuto un ruolo nella società ed ha
costantemente assunto responsabilità di rilevanza sociale, sia nella famiglia che nella formazione dei figli, senza per questo sentirsi meno importante o svalutata nel
suo essere.
Nessuno di noi oserebbe mai dire che il ruolo delle nostre nonne o delle
nostre mamme è stato meno rilevante di quello dei nostri nonni o dei nostri
padri.
Quando poi eravamo tristi o scoraggiati o febbricitanti e bisognosi di affetto
chi ci teneva la mano se non una donna e chi ci rassicurava con il suo sorriso se non
una donna?
Le così dette conquiste del movimento femminista altro non sono state se
non il riconoscimento dell’uguaglianza della donna nella società come persona.
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L’universo femminile: uguaglianza e diversità
Il bozzolo si è trasformato in farfalla, potremmo dire, l’embrione è divenuto
cellula vitale.
In realtà si è trattato di una trasformazione virtuale poiché la sua presenza la
donna l’ha sempre fatta pesare e grandemente in tutti gli aspetti della vita, anche
attraverso i suoi silenzi, le sue sofferenze, ma nel passaggio ha dovuto lottare per
sopravvivere e la lotta l’ha resa forte, così forte da resistere, da poter fare a meno del
maschio, da poterlo sostituire, disumanizzando a volte ‘l’altra parte di sé stessa’.
Le regole si sono dunque invertite e durante tale percorso spesso l’uomomaschio non si è accorto di come ed in quale misura si stesse evolvendo la società al
femminile, migliorando, apportando novità, permeando di quella strana sensibilità
tanto criticata l’essenza delle cose fino a giungere ad un modo insostituibile di essere. L’immagine della donna, insomma, unica e senza eguali, a volte troppo presente
e a volto troppo poco, comunque essenziale nella vita della società.
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Giovanna Irmici
“Malattie” delle donne nella narrativa al femminile
di Giovanna Irmici
1. La donna malata
È bene mettere preliminarmente in chiaro che le ‘malattie’ della donna
di cui tratterò, sia quelle presenti “nella” letteratura (cioè proprie della donna-personaggio), sia quelle causate “dalla” letteratura (cioè della donna-lettrice), sono malattie metaforiche, di natura psicologica: morbi della volontà e dell’immaginazione,
voluttà dello spirito, desideri e bisogni dell’anima.
Se è possibile indagare sui sintomi di tale morbo a partire dalle letterature antiche, mi soffermerò più a lungo sulle ‘malattie’ presenti nella narrativa ‘al femminile’,
vale a dire in quel particolare romanzo d’amore, sviluppatosi in Europa tra ‘800 e
‘900, di cui autori (o lettori) possono anche essere uomini, ma che è rivolto soprattutto a donne o, in ogni caso, ad un pubblico allargato, meno raffinato culturalmente.
L’analisi di tali malattie (la cenerentolite, la rossellite, il bovarismo) può e deve
effettuarsi su due piani: quello della malattia indotta (testi-droga), cioè provocata
nel lettore, e quello della malattia descritta (testi-terapia), cioè osservata nei personaggi. Tra i primi testi citerei come esempi per la cenerentolite la produzione di
Delly o di Octave Feuillet, e per la rossellite la collana Harmony (o altre serialità
del genere) oppure Via col vento della Margareth Mitchell, cioè testi abilmente costruiti per suscitare e alimentare la ‘malattia’. Tra i secondi paradigmatico è Madame
Bovary di Gustave Flaubert (da cui il termine bovarismo): la crudezza con cui l’autore analizza gli effetti deleteri delle suggestioni pseudoromantiche conduce inevitabilmente il lettore (la lettrice) alla ‘guarigione’.
Che cos’è dunque la letteratura ‘al femminile’? Una produzione romanzesca in cui l’amore è il tema dominante. Dice la Rasy che è la letteratura popolare delle donne.1 Il romanzo “al femminile” può essere chiamato “rosa” o annoverato nella paraletteratura, quando il tema appartiene all’area del kitsch, cioè
è trattato in forme schematiche e ripetitive, e mira a creare dipendenza acritica
nel lettore.
Tuttavia la letteratura rosa ha oggi bisogno di strumenti di analisi più sofisticati: non può essere sbrigativamente liquidata come prodotto di ‘pratica bassa’ o
solo sfruttata dal punto di vista commerciale. Occorre compiere con rigore scientifico due operazioni in apparenza contrastanti: da un lato saper distinguere con
1
Elisabetta RASY, Le donne e la letteratura, Roma, Editori Riuniti, 1984.
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“Malattie” delle donne nella narrativa al femminile
acume critico la narrativa d’amore di ‘pratica alta’ da quella kitsch e pseudoconsolatoria (ad es. capire perché Orgoglio e pregiudizio non è un romanzo rosa benchè ne abbia tutte le apparenze e che cosa lo rende totalmente diverso da Via col
vento o da un serial della Blue Moon); dall’altro sfumare l’opposizione dal sapore
snobistico tra le due tipologie narrative (‘alta’ e ‘bassa’) e riconoscere alla seconda
le qualità proprie di altri generi d’evasione, come il giallo e la fantascienza.
È vero altresì - come osserva Ermanno Detti - che per il romanzo rosa avviene un fenomeno singolare: la qualità ne determina automaticamente l’uscita dal
genere.2 Mentre un giallo o un racconto di fantascienza di ‘pratica alta’ (pensiamo
alle opere di Georges Simenon, di Agatha Christie, di Isaac Asimov) rimangono
sempre e comunque appartenenti al loro genere, nessuno ha mai sostenuto ad esempio che Middlemarch di George Eliot, o Anna Karenina di Lev Tolstoj o Orgoglio
e pregiudizio di Jane Austen, pur essendo storie d’amore, siano romanzi rosa.
La distinzione tra le due tipologie non avviene, com’è ovvio, unicamente sulla
scorta dei contenuti, ma anche e soprattutto degli elementi formali, della qualità della
scrittura, che - quando è alta - apre alla mente del lettore un orizzonte problematico
di riflessioni e di emozioni, che non si esaurisce con il tempo della lettura, ma marchia
con segni indelebili la sua personalità. La letteratura ‘consolatoria’, invece, una volta
che i nodi dell’intreccio sono chiariti, chiude il discorso con la parola fine.3
2. La cenerentolite
La cenerentolite - come d’altra parte la rossellite - è una malattia della psiche
che nasce da un processo di identificazione esasperata del lettore/lettrice con l’eroe/
eroina della storia. Capostipite letterario di tutte le cenerentole moderne può considerarsi la Cendrillon di Charles Perrault del 1697, che si rifà alla nota novella de
Lo cunto de li cunti (1643) di Giovan Battista Basile, scritta in un dialetto napoletano straripante e barocco; e a sua volta la Cendrillon influenzerà la versione più
diffusa dei fratelli Grimm (Fiabe, 1812).
Ma una cenerentola, una fanciulla buona e bella, perseguitata ingiustamente
dalla malvagità e dalla sfortuna, che vede alla fine riconosciute le sue virtù, non è
forse presente nella letteratura latina nelle splendide pagine delle Metamorfosi di
Apuleio dedicate alle tormentate vicende di Amore e Psiche?
E prima ancora possiamo trovarla nel romanzo d’amore greco-ellenistico, nella fabula milesia, o magari, risalendo nella notte dei tempi, possiamo supporla raccontata ai propri figliuoli dalla mulier sapiens, che scopre nell’invenzione affabulatoria
il farmaco contro le paure e un mezzo per sognare. D’altronde il mito di Cenerentola
è un archetipo junghiano: e nella favola apuleiana di Psiche si concentrano motivi
2
3
Ermanno DETTI, Sognare in rosa, Folio n. 16, Milano, Mondadori, 1992, p. 8.
Cfr. Umberto ECO, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964.
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Giovanna Irmici
dell’inconscio collettivo e tutto un patrimonio sedimentato di usi e credenze del
folklore e della tradizione orale, diffuso in ogni parte dell’Europa e dell’Asia.4
In Amore e Psiche c’è prima di tutto una forma di cenerentolite del personaggio: Psiche, la terza figlia del re, fornita di straordinaria bellezza, ma vittima di
sorelle malvagie e invidiose, e di una madre gelosa, sadica e vendicativa (la dea Venere,
madre di Amore), dopo durissime prove e lunghe peripezie, sposa il suo principe
azzurro.
La bella fabella, che occupa l’ultimo scorcio del IV libro delle Metamorfosi,
tutto il V e buona parte del VI, inizia con tempi e luoghi indefiniti, come ogni
favola che si rispetti: Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias
forma conspicuas habuere, “C’era una volta in una città un re e una regina, che
avevano tre figlie di notevole bellezza”.5 Rilevante la presenza sin dall’esordio del
numero rituale, ribadito dalla triplicazione delle prove di purificazione e di
iniziazione, affrontate da Psiche per riconquistare lo sposo divino. La ritualità delle
azioni, la ripetitività degli schemi comportamentali, sono topoi, luoghi comuni, del
‘rosa’ e della favola in genere. Con la narrativa ‘al femminile’, inoltre, Apuleio ha in
comune, al di là del tema dominante dell’amore e fatte salve le peculiarità del contesto storico-sociale, l’intenzione di coinvolgere nella lettura un pubblico più ampio
e meno selezionato (vedi la sua intensa attività di conferenziere che rivela la sua
propensione alla divulgazione e il piacere di comunicare).
La bella fabella apuleiana è altresì in grado di provocare la cenerentolite dell’ascoltatore, il quale si fa irretire dalla vis affabulatoria, dal ritmo emozionante
della vicenda, dalla suspence. Se la lettrice in crisi identitaria, afflitta dall’aspetto
fisico, sin dall’inizio subisce il fenomeno dell’identificazione (elementi di rossellite)
con la bellissima protagonista (vero puellae iunioris tam praecipua, tam praeclara
pulchritudo nec exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria
poterat, “la bellezza della più giovane era una cosa così rara, così speciale, che, a
causa della povertà dell’umano linguaggio, era impossibile esprimerla e neppure a
sufficienza magnificarla”),6 si ‘ammala’ di sicuro di cenerentolite, quando l’esultanza per il lieto fine gratificante le fa scordare la prosaicità quotidiana.
Ma la contemplazione del bello fa struggere l’anima (Psiche), che così si solleva dalla squallida realtà di ogni giorno. Apuleio rielabora originalmente il mito
dell’anima del Fedone di Platone; Jean de la Fontaine (1621-1695) celebrerà anche
lui la bellezza che trionfa sul male scrivendo Les Amours de Psiché et de Cupidon;
bellezza a cui Keats eleva nella sublime Ode to Psyche (Odes, 1818-1819) un inno
sensuale e carico di lacerante nostalgia.
4
Per l’analisi proppiana, cfr. Teresa MANTERO, Amore e Psiche. Struttura di una fiaba di magia, Università
degli Studi di Genova, Istituto di Filologia classica, 1973, ripresa da Francesca PALISI, Analisi morfologica di Amore e Psiche,
prefazione di Giovanna IRMICI FIDANZA, «Quaderni dell’AICC», Foggia, 1985, pp. 127 – 137.
5
Apuleio, Metamorfosi, IV, 28.
6
Ibid.
57
“Malattie” delle donne nella narrativa al femminile
Allora, testo-droga o testo-terapia la Psiche di Apuleio?
Non dimentichiamo che egli, ‘medico’ e ‘stregone’, conosce gli effetti dei
medicamenti, e non alludo a quelli del corpo, ma a quelli dell’anima. Nel romanzo
egli inserisce ‘ad intarsio’ la bella fabella per confortare Charite, una fanciulla rapita il giorno delle nozze, sconvolta da un incubo nel cuore della notte, per ‘curarla’
dalle paure: fa raccontare la storia ad una vecchia, cuoca dei briganti ma di buon
animo, nella caverna dove la ragazza è tenuta prigioniera in attesa che i parenti
paghino il riscatto.
Ci incanta la sapiente tecnica ad incastro (la storia nella storia), di cui Apuleio
è maestro. Egli racconta che Lucio racconta che la vecchia racconta…ed ecco infine
venir fuori la fabella come da un gioco di scatole cinesi.
Anche i processi di identificazione si moltiplicano: il narratore extradiegetico di 1° grado (Apuleio) è catturato dalla vicenda di Lucio, suo alter ego, dominato
dalla sua stessa curiositas. Lucio-Apuleio (narratore di 2° grado, omo ed autodiegetico) a sua volta ascolta il racconto della vecchia, ammaliato dalla figura di Psiche,
nuovo alter ego, perché pure lei preda della curiositas e alla fine destinata alla salvezza. Apuleio - ‘malato’- guarisce mediante la letteratura. I suoi personaggi ‘malati’- anch’essi guariscono: Lucio si consacra ad Iside e viene iniziato ai misteri
di Osiride; Psiche, la cenerentola, si riscatta prendendo coscienza attraverso la sofferenza dell’errore (error/errare) commesso; Charite (così come il narratario) trova
conforto dal terrore e dall’angoscia nell’evasione della mente; la vecchia (narratore
di 3° grado), prova piacere nel narrare e nella sua azione terapeutica.
La storia - l’affabulazione - consola Charite, consola Lucio, consola il lettore
(la lettrice), consola l’autore, provoca affascinamento (fascinum, non acritica dipendenza!).
Amore e Psiche è un grande, grandissimo testo-terapia!
La sindrome di Cenerentola funziona ancora oggi come compenso alle frustrazioni: la casalinga insoddisfatta, l’operaia, la commessa, il brutto anatroccolo,
l’adolescente complessato in crisi d’identità, persino un’autentica nullità, possono
sperare di trasformarsi magicamente, di cambiare di colpo la propria vita, di incontrare il principe azzurro (il dio Amore, ricchissimo e bellissimo, magari sotto le
spoglie di un calciatore o di un attore!) o la principessa sul pisello. Rischio: l’alienazione, lo scambiare i fantasmi della fantasia per la vita reale, l’incapacità di ritornare
con i piedi sulla terra, l’insicurezza e la fragilità di fronte alle inevitabili sofferenze
e delusioni che la vita riserva a tutti, senza eccezioni.
La cenerentolite rassicura in particolare le donne, insegnando anche alle meno
dotate o gratificate l’attesa paziente. Tale meccanismo è alla base della funzionalità
e del successo di romanzi come Pamela (1740) di Samuel Richardson, il primo che
contenga elementi del ‘rosa’ moderno.
Sotto forma di resoconto epistolare autobiografico di una giovane donna, il
romanzo, accompagnato alla sua uscita da uno straordinario successo e presto imitato in tutta Europa (basti ricordare Goethe, Rousseau, Foscolo), racconta la storia
58
Giovanna Irmici
di una domestica, al servizio presso una ricca famiglia londinese, che dopo la morte
della padrona resiste abilmente alle profferte amorose del figlio di lei, e per questo
si fa apprezzare per le sue virtù e portare all’altare.
Si tratta di un vero e proprio manuale comportamentale: la castità della donna è merce di scambio per ottenere il matrimonio e per ascendere socialmente.
Pamela - come d’altronde Moll Flanders (1721) di Daniel Defoe, in cui moltissimo
conta il denaro, o Tom Jones (1749) di Henry Fielding, più satirico ma sostanzialmente attratto dal potere che la ricchezza conferisce - è il tipico romanzo borghese,
in quanto espressione delle aspirazioni della middle class alla scalata socio-economica nell’Inghilterra dei processi preindustriali.
Ma Pamela, pur avendo le caratteristiche del ‘rosa’, ‘rosa’ non è. Non gratifica e consola solamente, ma, pregevole per la vivacità dello stile e la qualità del lessico, è altresì intellettualmente stimolante. Richardson coglie, nello spazio della
domesticità, imprevedibili connessioni: la donna, nel chiuso della propria dimora,
si ritaglia uno spazio per scrivere. Anzi, per vivere, come direbbe Flaubert. È la
“stanza tutta per sé” di cui ci parla Virginia Woolf. La scrittura, per le donne vocazione e necessità, diventa conquista e sfida; mestiere femminile per eccellenza, in
quanto è l’altra faccia della lettura, anch’essa ritenuta passatempo “da donne” non
in grado di occuparsi di “cose più serie”,7 ma tuttavia controllato e giudicato dagli
uomini, per troppo tempo abituati a scrivere i romanzi che le donne leggevano
(paradosso della letteratura!).
Il mito di Cenerentola - e la potenza di suggestione della cenerentolite - sembrerebbero presenti persino in un romanzo come Orgoglio e pregiudizio della Austin
(1813), che in realtà è agli antipodi del ‘rosa’. Basti vedere la trama: Elizabeth, una
fanciulla graziosa e intelligente, di media condizione sociale, senza nessuna sicurezza economica, dopo una serie di equivoci e schermaglie convola a nozze con sir
Darcy, un nobile ricchissimo, bello, generoso, innamorato. Unico difetto, l’orgoglio, che ritarda l’inevitabile lieto fine.
In realtà Orgoglio e pregiudizio è un meta-romanzo: insegna come non si
scrive un romanzo rosa.8 La Austin è una demistificatrice degli stereotipi romantici: con sottile, elegante ironia si prende gioco della donna fragile, emotiva, passiva,
che sviene ad ogni minimo approccio sessuale, ad ogni emozione men che prevedibile.
L’eroina della Austin è invece indipendente intellettualmente, colta, libera nei giudizi, fornita di acume critico, capace di trarre esperienza dagli errori.
È vero che anche i suoi romanzi si concludono col matrimonio - l’amore qui
come nel ‘rosa’ è il tema principale -, ma questa meta, benchè auspicabile, non è
considerata il vertice delle proprie aspirazioni e il culmine della fortuna: Elizabeth
è ben conscia di meritarlo per le speciali doti della sua personalità e la qualità della
sua intelligenza, che offre in uno scambio alla pari con le indubbie attrattive di
7
8
Grazia LIVI, Narrare è un destino, Milano, La Tartaruga, 2002.
Maria Pia POZZATO, Il romanzo rosa, Milano, Editori Associati, 1982.
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“Malattie” delle donne nella narrativa al femminile
Darcy. È come se ammiccasse alle sue lettrici implicite: “Attente! - le avverte - se
mai ci sono state delle cenerentole, la loro fortuna se la sono meritata!”.
La Austin adotta tutte le strategie dello straniamento ironico: elusione delle
scene appassionate, che vengono solitamente descritte da un personaggio non coinvolto, da un osservatore occasionale (focalizzazione esterna); nessuna sceneggiatura
dei sentimenti (antiromanticismo); scarsezza di dialogato nelle scene d’amore clou;
realismo concreto nelle considerazioni economiche (il denaro è importante!). Una
tale raffinatissima tecnica consente il distacco critico del lettore, e quindi l’allontanamento del rischio della malattia: egli si potrà anche innamorare della Austin, ma
non diventerà mai un malato cronico di cenerentolite.
In aggiunta, i romanzi della scrittrice inglese ci presentano una rilettura eccezionalmente matura e lucida del tema di Cenerentola. Prendiamo ad esempio
Persuasion: la diciannovenne Ann Elliot, di famiglia aristocratica, s’innamora ricambiata di un ufficiale di marina, Frederick Wentworth, ma non può sposarlo per
l’opposizione del padre e la grettezza della famiglia. Dopo otto anni, Wentworth,
che ha fatto carriera e si è arricchito, ritorna a far visita al cognato, a cui gli Elliot in
difficoltà finanziarie hanno affittato la loro tenuta, e rivede Ann. I due superano le
barriere di un tempo e riscoprono il sentimento che li aveva uniti.
Ma - si badi bene! - nella Austin il parallelo con Cenerentola non può superare certi limiti; qui non troviamo un banale lieto fine, ma uno spietato giudizio
morale: “Il capitano Wentworth, - conclude la scrittrice - con venticinquemila sterline ed avendo raggiunto nella sua professione il grado più alto che i meriti e la
laboriosità permettessero di conseguire, non era più uno sconosciuto. Era anzi ritenuto degno di rivolgere le proprie attenzioni alla figlia di un baronetto sciocco e
prodigo che non aveva avuto né principi né il buon senso necessari a mantenersi
nella condizione in cui era stato posto dalla Provvidenza”.
La polemica antiaristocratica presente in Persuasion è accompagnata dalle
rivendicazioni del ruolo che le classi mercantili emergenti avevano assunto nel primo ‘800 in Inghilterra in opposizione alla Francia napoleonica. Ann Elliot, sposando Frederick, compie una significativa scelta di classe, e la condanna finale del padre, sir Walter, e della stupida sorella Elizabeth è insieme etica e storica. È dunque
una Ann matura e consapevole, non più Cenerentola, quella che decide di tagliare i
ponti con la famiglia d’origine.
È invece un esempio di diffusione ‘epidemica’ di sindrome di Cenerentola
(una Cenerentola al maschile!) l’enorme successo riscosso in Europa nella seconda
metà dell’ ‘800 - gli anni di Flaubert e Charles Baudelaire! - da racconti come Il
romanzo di un giovane povero (1858) di Feuillet e Il padrone delle ferriere (1882) di
Georges Ohnet. Questi due feuilletons, pubblicati cioè a puntate sui giornali, animati da un vago riformismo populista e paternalistico, stilisticamente mediocri,
appaiono un tipico prodotto della società dei consumi, in cui le tirature delle riviste
aumentano a colpi di ‘lacrime e pathos’.
Nel romanzo di Feuillet il protagonista, Maxime, è il giovane, bello, nobile di
stirpe e di animo, intelligente, dotato di ogni virtù che, caduto in bassa fortuna, si
adatta per necessità economica a fare in incognito l’amministratore della proprietà di
60
Giovanna Irmici
una giovane, altrettanto bella, nobile, virtuosa, Marguerite, che essendo ricchissima
lo crede inizialmente uno squallido cacciatore di dote. Alla fine, dopo il chiarimento
degli equivoci e il superamento di intricate difficoltà, finalizzate a provocare nel lettore la “sospensione del giudizio” in attesa dello scioglimento, i due potranno amarsi:
succederà che non solo verranno constatati il disinteresse e la generosità d’animo di
Maxime, ma anche che un repentino colpo di scena lo renderà erede di un enorme
patrimonio, risolvendo il problema della disparità finanziaria tra i due innamorati.
A livello linguistico e stilistico elementi di ascendenza letteraria si mescolano
ai facili effetti melodrammatici: “Caddi in ginocchio presso il luogo dove lei suole
sedersi e lì, battendo la fronte contro il marmo, piansi, singhiozzai come un fanciullo. Dio! come l’amavo!”. Personaggio di sesso maschile questo Maxime, opera questa di uno scrittore-uomo, ma quante analogie col ‘rosa femminile’! Le caratteristiche che connotano questi ‘cenerentoli’ sono quelle concernenti la sfera intima, emotiva, delle donne, depauperata nei termini riduttivi dello stereotipo.
Il pianto, il singhiozzo, il sospiro, il languore, sono i tòpoi che costellano
questo tipo di produzione, anche quando sembra animato da larvate inquietudini
sociali. A me pare strettamente affine, per l’effusione lacrimosa, alla famosa novella
in versi di Giovanni Prati, Edmenegarda (1841), che tanto scalpore provocò nell’Italia risorgimentale per i suoi riferimenti agli amori adulterini dell’eroe della resistenza veneziana, Daniele Manin. La protagonista, di umili origini, sposa di un uomo
ricchissimo, non sa resistere alla seduzione dell’amour fatal e cade nella rete di un
amore adulterino. L’Edmenegarda è in quegli anni in Italia il corrispettivo - riduttivo!
- del romanzo patetico inglese (il gotic, Richardson, ecc…) e tedesco (il Werter di
Goethe, ad es.) e del feuilleton d’oltralpe, e sarà la matrice di una serie di prodotti
lacrimevoli letterari (vedi Una peccatrice e Storia di una capinera di Giovanni Verga) e paraletterari (Delly, Liala, Mura, ecc.).
3. Il bovarismo
Ne Il padrone delle ferriere di Ohnet (uscito nel 1882, l’anno dei Malavoglia!) il populismo si mescola agli ingredienti che già conosciamo. Si intrecciano
elementi di cenerentolite al maschile (il protagonista, di umile estrazione sociale,
diventa ricchissimo e può così sposare la donna che ama, altrimenti inaccessibile) e
di rossellite (la protagonista, bellissima, altera e raffinata, disdegna la rozza personalità del marito, a cui rifiuta ogni approccio sessuale e ogni contatto men che formale, fino a quando, conosciuta la nobiltà del suo comportamento, se ne innamora
perdutamente). E non mancano punte di bovarismo del personaggio, se pensiamo
che la protagonista, giovane e ingenua, in un primo tempo è vittima dei fantasmi
della sua immaginazione, con cui è costretta a confrontare il mondo reale della vita
matrimoniale, impostale dal padre per necessità economiche, rimanendone delusa:
‘si convertirà’ all’amore (il lieto fine è d’obbligo!) solo al termine della storia, dopo
colpi di scena e badilate di suspence per il lettore.
Emma Bovary invece non si salva.
61
“Malattie” delle donne nella narrativa al femminile
Perché in Flaubert l’eroina soccombe? perché il finale della storia lascia l’amaro
in bocca?
Perché Flaubert non scrive per coinvolgere emotivamente il lettore, annullandone le facoltà critiche; Flaubert scrive per mettere in guardia. Come fa Dante,
quando colloca Francesca da Rimini nella schiera dei dannati, dal momento che
anche lei è vittima della sindrome di Emma. Francesca crede illusoriamente di poter
trasferire nella vita reale l’amore letterario di Lancillotto e Ginevra, incapace di
distinguere la realtà dalla fantasia, di scegliere tra ragione e talento, inadeguata a
controllare l’istintualità.
Vittima della sindrome di Emma (si pensi alla relazione col paggio) è anche la
Gertrude manzoniana, che è convinta che fuori dal convento vi sia ciò che la sua
immaginazione adolescente le suggerisce, amore, fortuna, felicità, divertimenti spensierati, tutto un mondo che lei coglie in modo distorto e parziale, attraverso assaggi
di vita mondana (e sappiamo bene che Manzoni attribuisce la responsabilità di questi errori anche e soprattutto all’ottusità storico-sociale e all’egoismo parentale).
Al contrario Piccarda, la beata, consapevole della violenza dei tempi in cui
vive e dello status coniugale di soggezione a cui la donna è obbligata, con adesione
convinta e vocata sceglie la vita claustrale nell’ordine delle clarisse, che paradossalmente le consente - come hanno dimostrato con convincenti argomentazioni la
Klapisch-Zuber9 e la Power10 maggiore libertà e un’autentica realizzazione delle
proprie aspirazioni.
Per Gertrude il prestigio del chiostro, “rifugio tranquillo e onorevole”, è invece la soluzione ultima, una sorta di risarcimento, neppure tanto soddisfacente,
per la pena della sconfitta. È costretta a riconoscere non senza sussulti di ribellione
- la relazione con Egidio - che la realtà vince sul sogno. Il bovarismo è dunque
sconfitto? Non pare, se “la sventurata” - conclude Manzoni- “rispose”.
È chiaro, allora, il motivo per cui Emma ‘deve’ uccidersi e per lei non può
esserci il lieto fine. È chiaro perché Francesca è punita per l’eternità. Madame Bovary
e il canto V dell’Inferno non sono soltanto scritti che producono altissimo godimento estetico, ma manuali di etica comportamentale, trattati di medicina dell’anima: descrivono i sintomi di una malattia affinchè se ne guarisca, raffigurano una
patologia autodistruttiva che l’auctor condanna, pur riconoscendosi in qualità di
agens affascinato, forse compromesso, da essa.
Il punto di vista del narratore-Flaubert non è quello manzoniano dell’autore
onnisciente: pur sembrando volta a volta identificarsi con l’angolo di visuale dei
personaggi (Emme c’est moi!), permette lo straniamento tramite l’alternanza
discorsiva tra diretto, indiretto e indiretto libero (o discorso filtrato). Flaubert, come
Dante, non vuole consolare: quando chiude la storia, apre al lettore un problema,
‘il’ problema, quello che investe tutta l’esistenza umana. Il suo - e così quello della
Austin - è un meta-romanzo, un meta-rosa, un romanzo cioè che parla del roman9
Christiane KLAPISCH – ZUBER, La donna e la famiglia, «L’uomo medievale», Bari, Laterza, 1987.
Eileen POWER, Donne nel Medioevo, Milano, Jaka Book, 1978.
10
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Giovanna Irmici
zo rosa e delle sue conseguenze deleterie. Anche Flaubert, come la Austin, ribalta il
tradizionale rapporto aristotelico tra personaggio e intreccio. Ciò che conta per
loro è la psicologia del personaggio, in funzione del quale si giustifica l’evento.
Se questa è la patologia del bovarismo del personaggio, qual è il bovarismo
indotto nei lettori? È stato definito negazione della realtà: aggiungerei che è una
forma mentis di predisposizione psicologica all’ ‘accoglienza’, cioè di disponibilità
ad accettare acriticamente tutto quello che il romanzo d’amore propina, anche in
ciò che di assurdo, inverosimile, ripetitivo, esso presenta.
Anzi, la ripetitività rassicura.
Il bovarismo è una malattia più generale di cui le altre due - cenerentolite e
rossellite - non sono che manifestazioni parziali, direi varianti. Essa attecchisce quando l’autore insidiosamente ne sparge i semi.
Fuor di metafora, Madame Bovary descrive il bovarismo, ma non lo produce (al contrario, distrugge il mito romantico del grande amore). Il ‘rosa’, anche quando non ne descrive i sintomi, lo alimenta, dal momento che il suo successo dipende
dalla diffusione della malattia. Malattia ‘contagiosa’, perché chi legge vuole essere
contagiato, è predisposto all’identificazione con l’eroe della storia, pretende che si
realizzi. E diffonde i germi dell’infatuazione.
Oggi si parla addirittura di “bovarismo collettivo” a proposito di suggestioni
televisive di massa, provocate da “desiderio di protagonismo e di successo, che ci
attanaglia e ci spinge ad apparire, a smaniare, a sedurre”;11 uno dei più grandi sogni
collettivi del nostro Paese sembra essere quello di “Saranno famosi”: la ragazzina
provinciale o di borgata (e non solo!) spera di diventare una “velina” per poter stare
con un calciatore famoso e miliardario.
4. La rossellite
Il successo mondiale, esploso negli anni ’80 del ‘900, dei romanzi di Barbara
Cartland12 e di Rosamunde Pilcher, autrice di decine di best-sellers13 sono un esempio di contagiosa rossellite. La Cartland, meno dotata della Pilcher, che, quando
riesce a non essere banalmente ripetitiva, lascia nel lettore suggestioni ed emozioni
non caduche, è la Delly contemporanea.
Ma chi era Delly? Sotto questo nome si cela una leggenda.
I più di cento romanzi che si diffusero in Europa nel primo ‘90014 e che
hanno alimentato l’immaginario femminile di intere generazioni per lo meno fino
11
Aldo GRASSO su «Sette», supplemento del «Corriere della Sera» del 12/01/2003, p. 50.
Cfr. tra i tanti: Barbara CARTLAND, Rifugio segreto, Milano, Mondadori, 1980 e Barbara CARTLAND, Catturare
una stella, Milano, Mondadori, 1980.
13
TraipiùnotiinItalia:Rosamunde PILCHER,Sottoilsegnodeigemelli,Milano,Mondadori,1976eRosamunde PILCHER,Icercatori
di conchiglie, Milano, Mondadori, 1990.
14
Cfr. per tutti: DELLY, Orgoglio domato, Milano, Salani, 1960.
12
63
“Malattie” delle donne nella narrativa al femminile
al termine degli anni ’60 (la contestazione sessantottina ripudiò la letteratura dei
sentimenti a favore della saggistica socio-politica, sotto lo slogan: il privato è politico!) nascondono sotto lo pseudonimo di Delly due autori francesi, nati ad Avignone
e vissuti a Versailles: un sacerdote, Frédéric Petitjean de la Rozière (1876-1949) e
sua sorella Jeanne Marie (1875-1947).
In questi romanzi, che si collocano tra il noir e il ‘rosa’, il mondo femminile è
un ‘a parte’, è la zona franca in cui il sociale e il politico sono esclusi ed esistono solo
le pulsioni affettive: l’amore in primo luogo.
Il sentimento dell’amore è dai due fratelli intensamente vissuto e realizzato
solamente sulla carta, come per una sorta di compensazione ad una frustrazione
erotica. L’autore-maschio (prete vincolato al celibato e invalido per le ferite riportate durante il primo conflitto mondiale), celandosi dietro uno pseudonimo muliebre,
fa emergere la parte femminile di sé e s’identifica con la sorella, per una sorta di
pudore dei sentimenti, operando una forma di rimozione, e insieme di riscoperta,
di emozioni altrimenti inconfessabili.
È oggi popolarissima in Italia, anche grazie al successo ottenuto dalla
trasposizione televisiva di uno dei suoi tanti romanzi, Incantesimo, la scrittrice
‘seriale’ Maria Venturi, abile confezionatrice di prodotti di largo consumo, atti a
soddisfare le attese di un pubblico che chiede di soffrire e sognare. Nell’ultimo dei
suoi scritti, eredi del feuilleton ottocentesco, intitolato Chi perdona ha vinto e pubblicato recentemente dalla Rizzoli, compare l’ennesima cenerentola in salsa moderna (è una ragazza-madre) innamorata dell’ennesimo principe azzurro (un cantante
ricco e famoso del più noto gruppo musicale del momento). Dopo la sequela delle
peripezie d’obbligo (un matrimonio segreto, il rischio di perdere l’affidamento della bambina, la decisione di non far nascere il figlio down, la fine dell’idillio, la depressione) arriva puntuale il lieto fine. La Venturi sa manipolare con stile semplice
e accattivante tutti gli ingredienti del genere, utilizzando moderne tecniche di montaggio, mutuate dal linguaggio del cinema.
Sempre gli stessi umori dunque caratterizzano gli aficionados del ‘rosa’? Chi
sostiene che non sia più di moda, considerato altresì che la lettura è oggi sostituita da
forme più immediate e ‘facili’ di ricezione (computer, televisione, cinema, messaggini
cellulari, ecc.), viene smentito clamorosamente dal successo planetario di un gradevole ma modesto libricino di Susanna Tamaro, dal titolo ad effetto che gronda retorica
da ogni lettera, Va’ dove ti porta il cuore (2000), del quale solo la lente d’analisi del
‘rosa’ può spiegare l’incredibile diffusione (persino una trasposizione filmica) in termini di milioni di copie vendute e altrettante lacrime versate. A quanto pare, in un’epoca
disincantata e materialista come la nostra (forse proprio per questo!), c’è ancora fame
di ‘rosa’. È chiaro pure che oggi il genere raggiunge un pubblico ancora più vasto e
meno acculturato nelle forme tele- e cine-visive: si pensi al successo della cenerentola
Pretty women nel film omonimo, interpretato da due attori tra i più fascinosi e in
auge dell’universo hollywoodiano, Julia Roberts e Richard Gere, e di continuo
riproposto in videocassetta e sui teleschermi di tutto il mondo a motivo dell’altissima
audience. Anche qui la qualità modesta del prodotto, pur gradevole, non spiegherebbe le dimensioni del fenomeno, se non ricorressimo alle categorie della malattia in64
Giovanna Irmici
dotta - la cenerentolite -, cioè al bisogno di sognare dello spettatore.
La Venturi, più trasgressiva di Liala - che per i tipi della Sonzogno ha pubblicato decine di romanzi d’amore, da Signorsì del 1921 a Ombre di fiori sul mio cammino del 1981 - ma fondamentalmente conservatrice (una certa prevedibilità degli
eventi è imprescindibile dal ‘rosa’), trova una precorritrice nella bolognese Mura,
pseudonimo di Maria Volpi Nannipieri, giornalista e scrittrice, autrice di una cinquantina di romanzi e racconti ‘rosa’, morta in un incidente aereo nel 1940 a 48
anni, dopo una avventurosa esistenza, ricca di viaggi in tutto il mondo e di curiosità
intellettuali. Un’intelligente operazione di recupero di Ornella Robbiati, direttrice
editoriale della Sonzogno, ha consentito la pubblicazione a fine 2002 di due romanzi di Mura, Il cuore a spicchio e Mi piace questo amore, che si diffusero con notevole
successo tra i lettori del ventennio fascista. I titoli sono di per sé eloquenti: cuore,
amore, destino, fato sono le parole chiave di accesso ad un mondo in cui l’amore è
sempre “bello e fatale”. Donne bellissime e sensuali (i virus della rossellite!), spesso
dal cuore infranto, sono capaci di sospirare e penare negli strazi dell’amore, ma
anche di riuscire, novelle cenerentole, alla fine vittoriose.
Se le trame sono quelle topiche del ‘rosa’ e il lieto fine è una costante, il linguaggio di Mura sconcerta per la sua modernità: è agile, frizzante, asciutto, messo
in bocca a donne problematiche e battagliere, molto lontane dal bon ton di Liala,
che tentano di contrastare il destino con la forza dei sentimenti. Mura è consapevole che “l’amore è sogno” e pertanto, rivolgendosi ai ceti sociali più vari, raggiunge
l’obiettivo di “consolare” e far sognare di evadere dalla piatta e deludente quotidianità. È una funzione analoga a quella del contemporaneo cinema dei telefoni bianchi; anche la produzione filmica migliore, come quella di Mario Camerini (Gli uomini, che mascalzoni... del 1932, Il signor Max del 1937, Grandi magazzini del 1939)
e di Vittorio De Sica (Maddalena zero in condotta del 1941), deliziosa per le finezze
narrative e per un linguaggio iconico fresco, gradevole, di limpida e fluida comunicatività, non è esente dai topoi del ‘rosa’: la lacrimuccia, l’amore inizialmente contrastato, il facile ottimismo, il lieto fine.
La ripetitività degli schemi, la serialità, la prevedibilità delle vicende, l’ambientazione in un mondo che il lettore possa riconoscere e in cui possa almeno in
parte identificarsi, caratterizzano Delly, così come Liala, Mura, la Cartland, e telenovelas e soap-operas. È il kitsch della società dell’usa e getta. Nella Cartland i
protagonisti sono tutti belli e perfetti: come la Rossella di Via col vento (1936) di
Margareth Mitchell (1900 - 1949) - o meglio come la Rossella dell’omonimo romanzo di Alexandra Ripley, pubblicato dalla Rizzoli nel 1991, in prosecuzione del
primo -, essi sono connotati da qualità come bellezza, fascino, seduzione, egocentrismo, forza di carattere.
La rossellite è una malattia che rinforza la suggestione dello stereotipo della
bellezza a tutti i costi e imprigiona la donna nella ‘religione del corpo’. Sostiene
Vanna Iori15 che il ‘rosa’ è una trappola che trattiene l’adolescente in una ‘gabbia’
15
Vanna IORI, La trappola di Rossella. Letteratura rosa e identità nell’adolescenza femminile, «Nuova Secondaria»,
8, 1992, pp. 11 – 13.
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“Malattie” delle donne nella narrativa al femminile
egocentrica e narcisistica, impedendogli di valorizzare un autentico se stesso. Dal
‘rosa’ (e dalle telenovelas e soap-operas) l’adolescente “impara il linguaggio della
suggestione [...] impara a chiamare “amore” la passione, la dimenticanza di sé, il
commercio”16 di sé, del proprio corpo e - direi - della propria anima.
L’intervento educativo, invece, dovrebbe sviluppare un modus amandi che non
annulli il sé nell’altro, rendendolo oggetto o usandolo come tale. L’amore è libera
accoglienza reciproca su base paritaria: non è sottomettersi ad una visione maschile
della vita, ma neppure è demonizzare il maschile o ritenerlo inferiore. La dualità (il
noi) d’altronde non deve comportare l’annullamento dell’ ‘ipseità’ (l’io-tu).
Anche il linguaggio dell’amore - dice la Iori - non deve “fissarsi” sul “mi
ami?” - “ti amo” del ‘rosa’, ma deve essere sempre nuovo, sempre inventato, e primariamente esprimersi nel silenzio. Questo silenzio che parla è l’ineffabile del Paradiso dantesco, è la tecnica della reticenza manzoniana, è il mirabile dire senza dire
esemplificato dalla sublime sintesi dello stilema: “La sventurata rispose”!17
Mentre il giudizio della Iori, che conduce la sua analisi in chiave psicopedagogica, è piuttosto pesante nei riguardi del ‘rosa’, più articolate e più ‘neutre’ sono
le indagini, svolte sotto l’aspetto sociologico, da Moretti e Lazzarato18 e da Ermanno Detti.19 La funzione della paraletteratura è l’evasione nel sogno, è la creazione di
un mondo virtuale, dal quale il lettore quando vuole può uscire per tornare alla
realtà arricchito interiormente.
La Barbiani20 sostiene inoltre che il romanzo rosa sarebbe, come la pornografia, autoerotico: esso produce attraverso il linguaggio un piacere solipsistico e
narcisistico; è una sorta di afrodisiaco dell’inconscio, che provoca non tanto rimozione quanto liberazione istintuale.21
Ciò varrebbe per tutta la paraletteratura, non soltanto per la produzione hard,
nata una trentina di anni fa e diffusasi negli anni ’80, ad opera delle case editrici
Mondadori (la collana Harmony) e Curcio (la collana Blue Moon). Questi prodotti
di consumo, venduti in edicola e negli ipermercati, si sono adeguati ai cambiamenti
di costume e, pur concludendosi sempre col lieto fine (spesso col matrimonio),
presentano -attraverso i già analizzati stereotipi di linguaggio e di schemi - esplicite
storie di sesso. Nel ’91 la Curcio inaugura le collane Donne e I grandi romanzi, in
cui il lieto fine non è d’obbligo. Meno ‘consolatorie’? Non credo, vista la solita
ripetitività rassicurante delle trame.
Curiosa la difesa della produzione seriale televisiva (Beautiful e Dallas, nello
16
Ibid., p. 12.
Cfr. Giovanna IRMICI FIDANZA, I silenzi delle donne. La tecnica della reticenza nella Comedìa, «Dante nella scuola»,
Foggia, 1991, pp. 187 – 221.
18
Vito MORETTI – Francesca LAZZARATO, La favola rosa, Roma, Bulzoni, 1981.
19
DETTI, op. cit., pp. 8 - 9
20
Luisa BARBIANI, Pornografia felice, in «Alfabeta», n. 28, 1981.
21
Cfr. Gerard MENDEL, Psicoanalisi e paraletteratura, in La paraletteratura, Napoli, Liguori, 1977.
17
66
Giovanna Irmici
specifico) sostenuta da una nota classicista francese Florence Dupont22 , che ho trovato di recente citata anche dalla nostra Eva Cantarella nel suo ultimo fortunato
saggio sui viaggi di Odisseo.23 La Dupont sostiene che la cultura orale confluita
nell’Iliade e nell’Odissea, l’Omeria, cioè quella oralità epica che Platone elogiava
come più ricca della produzione scritta, oggi rivive nei nuovi cicli mitologici televisivi, nel mondo fittizio di Dallasia. Ad Achille piè-veloce succede J.R. dalla-lungamacchina. La tipizzazione dei personaggi televisivi attraverso qualità visive ed esteriori è in un certo modo l’equivalente degli epiteti omerici.
È evidente che la tesi della Dupont non intende entrare nel merito della qualità: cattivi aedi hanno prodotto in passato, pur usando la formularità di Omero,
opere scadenti, così come un geniale autore televisivo potrebbe creare, con la tecnica neo-orale di Dallasia, un capolavoro. L’eminente classicista francese ci rammenta
soltanto che i classici servono ‘anche’ per capire soap-operas come “Dallas”.
Dunque, la cenerentolite e la rossellite possono considerarsi, piuttosto che
malattie, medicamenti? La prima, educando all’attesa paziente, aiuterebbe a superare frustrazioni e complessi di inferiorità; la seconda rafforzerebbe l’ego, offrirebbe sostegno psicologico nelle traversie dell’esistenza, servirebbe ad attenuare, se
non ad eliminare, i sensi di colpa che affliggono la psiche femminile.24
Come tutti i farmaci, il ‘rosa’ preso in dosi massicce può avvelenare: bisogna
perciò adoperarlo con la chiara consapevolezza della sua insufficienza e della sua
provvisorietà. Occorre - come dice la Franco - che l’adolescente (e non solo!) sia
educato “a concettualizzare un mondo duale fatto di uomini e di donne rispettoso
della propria e dell’altrui differenza”.25
Liberato in definitiva da ogni forma di dipendenza.
22
Florence DUPONT, Omero e Dallas, Roma, Donzelli, 1993.
Eva CANTARELLA, Itaca, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 203.
24
Cfr. Renate GOECKEL, Troppo buone!, Milano, Tea, 1999.
25
Elisa FRANCO, Struttura d’origine in Educare nella differenza, Torino, Rosemberg & Sellier, 1989, p. 49.
23
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Antonietta Lelario
Lo sguardo femminile
di Antonietta Lelario
Clelia Iuliani è una femminista di seconda generazione. Nel senso che, come
lei stessa racconta, negli anni caldi del femminismo era rimasta ai margini, combattuta fra sentimenti di rifiuto e attrazione - occorre infatti non dimenticare che il
femminismo è stato pur sempre agito da una minoranza. Come per tante, è occorso
che le situazioni della vita, la crescita personale e le amicizie creassero la situazione
favorevole perché lei trovasse un approdo femminista, ma a quel punto non era già
più un approdo: era in realtà un nuovo viaggio che lei, altre, e ormai anche altri,
hanno intrapreso.
Eppure femministe di prima, di seconda o anche terza generazione devono
fare i conti ora con gli stessi stereotipi. Infatti le donne hanno conquistato la parola:
parlano e per loro parlano anche dati statistici, ma la portata di ciò che dicono viene
ridotta - vedi gli ultimi sondaggi su chi è contro la guerra, che indicano una larga
maggioranza femminile e che vengono interpretati come se le donne fossero casalinghe paurose che non possono capire i grandi problemi della politica internazionale.
Un altro stereotipo è quello per cui essere femminista significherebbe occuparsi solo delle donne, meglio se come vittime. Mi viene in mente un recente e
bellissimo film Dolls, in cui il regista, Takeshi Kitano, sembra dire che gli uomini
ritrovano la capacità di amare solo dopo aver distrutto le proprie donne, creando
una situazione ripetitiva, bloccata, nella quale anche loro rimangono prigionieri.
Lettura pessimista senza dubbio, forse estrema richiesta d’aiuto, forse
additamento di un pericolo e tuttavia mi sembra che indichi la difficoltà maschile, a
oriente come ad occidente, di liberare il proprio immaginario dai vecchi stereotipi.
Molte donne hanno aperto un conflitto dentro e fuori di sé con la cultura che si
associa al vittimismo e che impedisce di liberare l’energia femminile: una cultura
dominata dal sospetto, dal rancore, dal rifiuto della realtà e dalla perdita di sé nell’immaginazione, meccanismo dal quale non può che nascere ulteriore sconfitta e
rancore, come in un serpente che si morde la coda.
Di Clelia invece mi è sempre piaciuta la capacità di leggere la realtà, la libertà
dai pregiudizi, il rigore e come abbia saputo mostrare - sia nel lavoro scolastico che
nell’impegno profuso nella città, insieme a Tina Garofalo col Comitato Marcone, o
col Circolo “La Merlettaia” - che non ci sono realtà precluse allo sguardo femminile. Lei sa bene che, nel momento in cui lo si cerca, questo sguardo, personalissimo
anche se nutrito da altre e altri, attento anche se selettivo, umile ma capace di grandi
sfide, allora cambia davanti a noi tutto lo scenario e si può leggere diversamente il
69
Lo sguardo femminile
Medio Evo come l’Illuminismo, il sistema dei diritti o il Novecento. Ci incoraggiano
in questo cammino donne più grandi: Simone Weil, Hannah Arendt, Vandana Shiva,
tanto per fare degli esempi, che hanno letto diversamente dal modo tradizionale la
storia greca come quella romana o quella ebraica, la democrazia come l’economia.
Questo lavoro su Pascoli è nato in un’aula scolastica, da una domanda, fatta
da Clelia, di quelle vere, di cui non si sa già la risposta e che non viene proposta solo
agli studenti ma che lei ha fatto soprattutto a se stessa: tutti i critici insistono sul
rapporto di Pascoli con il padre, ma quale era il rapporto con la madre? Nel momento in cui interviene questa variabile quali nuovi spazi si aprono all’interpretazione? Chi ne scrive e quali elementi abbiamo per rispondere?
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Clelia Iuliani
Pascoli e il radicamento nella lingua materna
di Clelia Iuliani
1. Pascoli e la figura femminile
Ho amato Pascoli da sempre. Le sue poesie toccavano corde segrete dentro
di me e dicevano anche di me e per me. Quando però mi sono avvicinata - tra i
banchi della scuola secondaria - alle pagine critiche che lo riguardavano, ho avvertito disorientamento e sfasature: Pascoli non ne usciva illuminato, nel senso di rischiarato, diventava ‘altro’ attraverso le analisi degli studiosi e sembrava che la grande
scommessa fosse soprattutto quella di rimpicciolirlo, come uomo e come poeta.
Tutte le biografie, poi, ruotavano intorno a una specie di stella fissa: la morte violenta del padre ed essa era assunta come l’evento-chiave per leggere le inquietudini,
l’urgente bisogno di giustizia, il forte desiderio di un nucleo familiare ricostituito e
sicuro, ma anche per spiegare i cosiddetti limiti umani e sociali di Pascoli. Insomma
una chiave per amarlo e per ridimensionarlo.
Oggi a me sembra una chiave trappola, che ha fin troppo delimitato il campo di
indagine e forse per sfuggire alla tentazione di interpretare ancora la vicenda umana e
poetica di Pascoli alla luce di quell’evento occorreva ‘distanza’ in tutti i sensi: un altro
sguardo, un altro desiderio e il secondo sesso, per dirla alla Simone de Beauvoir.
Non certo per sminuire il tragico peso della violenza subita da casa Pascoli e
le sue evidenti intromissioni nei versi di Giovanni, ma per vedere e valorizzare ‘l’altro che c’è’ e che può aiutarci a capire il suo mondo, le radici della sua poesia, il suo
linguaggio. Il suo di più.
L’altro a cui alludo è la figura materna. Pascoli è tutto impregnato della figura
materna.
Di quella madre, Caterina Allocatelli Vincenzi, attiva e vitale, che aveva messo al mondo dieci figli e che dopo l’uccisione del marito “pianse poco più di un
anno e poi morì”.1 Era il 18 dicembre 1868.
Con lei e con il suo ricordo Giovanni ebbe un rapporto unico speciale fertile,
come ci testimonia egli stesso nella prefazione ai Canti di Castelvecchio (dedicati
proprio alla madre): “Non posso dimenticare certe sue meditazioni in qualche sera-
1
Prefazione ai Canti di Castelvecchio.
71
Pascoli e il radicamento nella lingua moderna
ta, dopo un lungo giorno di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul
greppo. Io appoggiavo la testa sulle sue ginocchia e così stavamo a sentir cantare i
grilli e a veder soffiare i lampi caldi all’orizzonte”.2 Dunque un rapporto che passò
attraverso la parola, il corpo, le esperienze vissute insieme e che rimase essenziale e
fondante per tutta la vita.
Non solo l’uomo Pascoli è impregnato di figura materna.
Myricae trasuda di presenza materna dalla prima all’ultima pagina. Com’è
possibile che sia sfuggita ai critici la sua visibilità, soprattutto alla critica attenta alle
frequenze, alla significatività delle ripetizioni, ad una lettura verticale dell’opera?
Nella mia ormai lunga esperienza di insegnante (trentatré anni) ho trovato
sulla figura materna un’unica citazione: di Giorgio Barberi Squarotti, che nella
metafora del ‘nido’ ha visto l’allegoria della vita di Pascoli. Egli ha scritto:
Dapprima il “nido” è esclusivamente quello familiare, popolato di pochi vivi e di un’infinità di morti dolenti e aggressivi (i maligni, aspri, insistenti, queruli morti familiari
del Pascoli): fra i quali anche la madre, i fratelli, le sorelle, tutti ugualmente connotati
dal pianto e da un inesauribile rancore: quello ferito a morte dalla malvagità degli
uomini (Il giorno dei morti; Accenni in Romagna; X agosto; La notte dei morti; La
tovaglia; Il nido di “farlotti”). In essi domina, custode, la madre: che è depositaria
delle ragioni del sangue e della terra, quella che convoca il giovane figlio al rito crudele
e inesorabile dell’investitura della vendetta contro l’assassino del padre (La cavalla
storna), quella che viene con la “voce stanca, voce smarrita, col tremito del batticuore”
a rimproverare più che a confortare il figlio tentato di morire.3
È, questa, una rappresentazione di Pascoli e della madre tutta schiacciata e
appiattita sulla figura paterna che toglie respiro e autonomia a entrambi e finisce
per orientare in un’unica direzione lo sguardo.
Una lettura più libera di Myricae ci offre intanto un dato molto significativo:
il richiamo alla madre, sua, biologica, o a una madre, è continuo e attraversa l’opera
dal primo all’ultimo componimento. Un quarto delle poesie contengono la citazione della figura materna: esplicitamente o con un chiaro riferimento ad essa. Quasi
una specie di denominatore comune che riguarda la maggioranza delle sezioni ed è
molto più presente della ricorrenza del padre o del nido.
Altro dato significativo è la varietà di rappresentazione. Ogni volta che Pascoli parla del padre torna alla morte, al momento atroce della violenza. Lo shock
insuperato ha bloccato l’immagine paterna su quell’attimo soffocando la loro storia
precedente, per cui non affiora altro che quel ricordo come simbolo dell’ingiustizia, del male, della precarietà della vita, della dignità offesa e violentata. Che non
recupera serenità neppure nell’aldilà. Anzi è il padre “che desia nel fango”, deluso e
infelice anche per l’assenza (tradimento?) dei figli:
2
3
Ibid.
Salvatore GUGLIELMINO – Hermann GROSSER, Il sistema letterario, Novecento, Milano, Principato, 1989, p. 937.
72
Clelia Iuliani
Sazio ogni morto, di memorie, posa.
Non i miei morti [...]
e più oltre
O figli, figli! vi vedessi io mai!
io vorrei dirvi che in quel solo istante
per un’intera eternità v’amai.
mentre l’unica voce pietosa verso quei figli che hanno disertato il camposanto nel
giorno solenne della commemorazione dei morti è la voce della madre, pronta a
comprendere e a non chiudersi nel giudizio definitivo e nell’atteggiamento improduttivo della condanna:
e dice: -Forse non verranno. Ebbene,
pietà! […]
Pietà pei figli che tu benedivi!
In questa notte che mai non declina,
orate requie, o figli morti, ai vivi! -4
ribaltando il senso stesso del giorno dei morti. Sono questi ultimi che devono pregare per i vivi, che ne possono comprendere le debolezze. L’assenza non diventa
un’ennesima violenza della vita ma il sintomo di un’impossibilità o di uno smarrimento che chiede attenzione e sostegno attraverso la preghiera.
È una lezione di auctoritas e di pietas materna che Pascoli affida alla voce
della madre, eccezionale e altissima. Restituendo senso alle cose e creando spostamento simbolico rispetto alla cosiddetta normalità, alle regole sociali e ai pregiudizi.
Con questa madre, morta, lo ricordo, solo un anno dopo il padre, fisicamente fragile e sparuta ma evidentemente grande nella sua capacità di rapportarsi al
figlio, Pascoli ebbe sempre una specie di consuetudine di vita e un rendere conto di
sé: sono ben quattro le poesie che tornano all’anniversario della morte della madre:
31 dicembre ’89, ’90, ’91, Colloquio ’92 - ’93. Il poeta è ormai adulto e ha nelle
proprie mani il suo destino ma ama tornare a dialogare con la mamma, raccontarle
di sé e delle sue scelte, testimoniarle tenerezza e rimpianto. D’altronde gli anniversari sono momenti fortemente evocativi in sé e rappresentano occasioni speciali di
ritorni, di imprevisti e improvvisi recuperi memoriali, di bilanci, di abbandoni che
proprio attraverso quel ricordare intenso e unico possono restituire forza. È quanto accade in Colloquio, nell’ultima sequenza poetica, dove dopo un inizio accorato
e persino disperante:
4
Giovanni PASCOLI, Il giorno dei morti, in Myricae, Milano, Mondadori, 1981.
73
Pascoli e il radicamento nella lingua moderna
[...] La vita che tu mi desti - o madre, tu! - non l’amo
c’è la risalita dal dolore e avviene, con il ritorno prima e la sua valorizzazione simbolica poi, attraverso la realtà condivisa con la madre nella loro breve stagione terrena: la cingallegra, l’ulivella, i gerani, i rumori della casa.
Ma sì: la vita mia (non piangere!) ora
non è poi tanto sola e tanto nera:
cantò la cingallegra in su l’aurora,
cantava a mezzodì la capinera.
I canarini cantano la sera
per la mia cena piccola e canora:
poi nell’orto vedessi a primavera
come il ciclame e l’ulivella odora!
I gerani vedrai, messi al coperto
dal gelo: qualche foglia ha la cedrina,
ricordi? l’erba che piaceva a te...
Sorridi? a questo sbatter d’usci? È certo
Ida tua che sfaccenda, oggi, in cucina.
E Maria? Maria prega, oggi, per me.
31 dicembre 1892-93
In questa capacità di riappropriarsi con pienezza della realtà io vedo l’eredità
grande della madre e il senso stesso del momento evocativo, un andare nel passato
con forza e dolore ma anche un prendere da esso energia per riaffrontare il quotidiano e sentirne la vitalità, riconfermando con questo gesto la più vera sostanza
dell’insegnamento materno: l’attenzione a ciò che ci è intorno, alla realtà, al dove
siamo e la capacità di simbolizzarli.
La fertilità del rapporto con la madre, la sua ricchezza permette a Pascoli lo
spostamento di sguardo dalla propria madre alle altre madri, com’è testimoniato da
Dopo?:
Forse è una buona vedova... Quand’ella
facea l’imbastitura e il sopramano,
venne il suo bimbo e chiese la novella.
Venne ai suoi piedi: ella contò del Topo,
del Mago… Alla costura, egli, pian piano,
l’ultima volta le sussurrò, Dopo?
Dopo tanto, c’è sempre qualche occhiello.
74
Clelia Iuliani
Il topo è morto, s’è smarrito il mago.
Il bimbo dorme sopra lo sgabello,
tra le ginocchia, al ticchettìo dell’ago.
E questa è un’altra unicità - novità di Pascoli.
Molti altri poeti hanno cantato la propria mamma con accenti altissimi e di
grande poesia. Basti pensare a La madre di Giuseppe Ungaretti, intermediaria tra lui
e Dio, o a Mia madre, mia eterna margherita di Mario Luzi, ma nessuno ha nutrito
una fiducia cosi grande nella figura materna da ritrarla come “l’anello che tiene” (di
montaliana memoria), elemento chiave che governa il mondo anche nella difficoltà
più evidente. Sarebbe davvero povero leggere Dopo? come quadretto di puro realismo o frutto di un facile espressionismo e soprattutto significherebbe tradire Pascoli.
Quella madre e quel bimbo sono molto di più, sono, come diceva Natalino Sapegno
a proposito della poetica pascoliana, “scoperta di una realtà già sperimentata, ma ora
soltanto vissuta in tutta la sua pienezza”, capacità che “potenzia ogni immagine di un
sovrasenso, ritrova nell’impressione il simbolo, l’arricchisce di segrete corrispondenze, ne ricava un tessuto di sensazioni simultanee, una trama di embrionali analogie”.5
La conferma di quella fiducia e della forza che essa trasmette l’avvertiamo in
Il tuono:
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.
In Dopo? c’era la simbolizzazione di una dolorosa condizione umana, della
fatica del vivere affrontata con coraggio e gestita con amore, dove al primo posto
c’è il desiderio di fare spazio al dialogo con il figlio, in Il Tuono c’è una natura
squassata che potrebbe generare paura e insicurezza e una madre che lo impedisce
contrastando col suo canto sereno la notte nera.
Né c’é per Pascoli il pericolo di una specie di eterna sudditanza rispetto alla
figura materna, una regressione all’infanzia (come pure è stato detto da tanta critica) dunque un di meno che prima è umano e poi diventerebbe anche poetico, se
leggiamo l’ultima poesia di Myricae.
È Ultimo sogno, una lirica che ha fatto discutere e che Ceserani definisce
ambigua per le sue possibilità polisemiche.
5
Natalino SAPEGNO, Antologia della storia e della critica letteraria, Roma, Barjes, 3 voll.: vol. III, p. 736.
75
Pascoli e il radicamento nella lingua moderna
Da un immoto fragor di carriaggi
ferrei, moventi verso l’infinito
tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi…
un silenzio improvviso. Ero guarito.
Era spirato il nembo del mio male
in un alito. Un muovere di ciglia;
e vidi la mia madre al capezzale:
io la guardava senza meraviglia.
Libero!… inerte sì, forse, quand’io
le mani al petto sciogliere volessi:
ma non volevo. Udivasi un fruscìo
sottile, assiduo, quasi di cipressi;
quasi d’un fiume che cercasse il mare
inesistente, in un immenso piano:
io ne seguiva il vano sussurrare,
sempre lo stesso, sempre più lontano.
Di essa va innanzitutto ricordata la posizione ‘importante’ rispetto a tutta
l’opera: chiude molto significativamente la raccolta e segna il confine tra l’io poetico e la madre. Mi sembrano decisivi gli ultimi due versi della seconda strofa e quasi
tutta la terza: è un momento onirico di grande intensità, liberatorio e che dà al
soggetto poetico, che è chiaramente il poeta stesso, il senso quasi fisico del distacco
della madre. Un momento che potrebbe tradursi in sperdimento e dunque in inerzia se avesse il sopravvento la paura dell’assunzione delle proprie responsabilità del
viaggio della vita.
ma non volevo [...]
dice con sicurezza Pascoli ed infatti si sente libero, guarito.
Il che non significa, però, cesura con il mondo materno, rimozione, abbandono, come avviene per la maggioranza degli uomini: è un andare avanti conservando il senso di quanto c’è stato e il riconoscimento della fecondità del rapporto.
“Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica”, scrisse infatti Pascoli nella prefazione ai Canti di Castelvecchio nel
marzo del 1903.
È la dichiarazione esplicita del suo radicamento nella figura materna e per me
la conferma che e lì che bisogna cercare per comprendere pienamente l’uomo Pascoli, le origini del suo mondo poetico, la lingua stessa. Così nuova rispetto al suo
tempo e così essenziale per tutto il ‘900.
Anche rispetto alla novità linguistica, riconosciuta e ammirata da tanti critici,
è stato subito problema: capacità di sperimentazione, tecnica, o altro?
76
Clelia Iuliani
Insomma la radice di tanta modernità è da spiegarsi in una ricerca di elaborazione della lingua o in un bisogno più profondo che riguarda la sostanza stessa della
poesia pascoliana?
Mi sembrano, queste, due posizioni ben rappresentate da Pier Paolo Pasolini
e da Gianfranco Contini.
Il primo limita pesantemente il mondo psicologico di Pascoli fino a parlare di
“una ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso, immobile monotono e spesso stucchevole” ma gli riconosce “uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente. In altri termini coesistono in lui […] una forza irrazionale
che lo costringe alla fissità stilistica e una forza intenzionale che lo porta alle tendenze stilistiche più disparate”.6
Ed è in questa grandissima “funzione poetica”, per Pasolini, la lezione più
importante di Pascoli a tutto il ‘900, dai crepuscolari a Eugenio Montale, da
Umberto Saba a Giuseppe Ungaretti dalla poesia dialettale agli ermetici. “Un rivoluzionario ma solo in senso linguistico, o per intenderci meglio, verbale” dice
ancora in una sintesi che con estrema chiarezza delimita il contributo pascoliano
al ‘900.7
Ben diversa e più ricca è la posizione di Contini, anzi i suoi studi rappresentano una tappa fondamentale nella storia della critica a Pascoli, perché indagano la
profondità della lingua, nel senso più pieno della parola, e il suo rapporto con quella che per Contini è la proposta positiva della sua poesia: il ritorno alla natura “madre dolcissima”.
Mi sembrano decisivi sia l’individuazione dei tre livelli: il pre-grammaticale,
il durante la grammatica, il post-grammaticale, sia l’aver affermato che “ciò che è
unico in Pascoli, è meno il fatto di essere stato il primo a esperire, almeno parzialmente, il linguaggio pre-grammaticale, che quello di aver messo sullo stesso piano il
linguaggio a-grammaticale o pre-grammaticale e il linguaggio grammaticale e il postgrammaticale”.8 Insomma l’aver saputo tenere insieme i tre piani.
In questo che Contini definisce molto incisivamente “accordo eretico, accordo non canonico e non tradizionale”, in questa soppressione della “frontiera
[...] fra la grammaticità della lingua e l’evocatività della lingua […] fra determinato e indeterminato” io trovo la conferma linguistica della capacità di Pascoli di
non fare censura e cesura con il mondo materno (da me evidenziato a proposito
di Ultimo sogno). D’altronde non ci può essere una rivoluzione verbale (come
invece sosteneva Pasolini) senza una rivoluzione simbolica. Anzi è vero proprio
il contrario.
6
Pier Paolo PASOLINI, ripreso da Luperini, La scrittura e l’interpretazione, vol. III, tomo I, Palermo, Palombo, p. 442.
Ibid.
8
Gianfranco CONTINI, Pascoli, Milano, Mondadori, vol. I, p. XXXI.
7
77
Pascoli e il radicamento nella lingua moderna
2. La lingua materna
La lingua materna è, come diceva Hannah Arendt, anche per Pascoli “nel
fondo della mia mente, in the back of my mind” e “non esistono alternative alla
lingua materna. Certo la si può dimenticare”,9 può - per dirla con Contini -, diventare indeterminata, ma è lì ed è fonte di creatività.
Su questa centralità assoluta per ogni individuo della lingua materna, sulla
necessità di non rimuoverne il lato affettivo e carnale ad essa intrinseco, “lato opaco, non direttamente formalizzabile, che resiste ad ogni schema” come invece hanno fatto finora i linguisti, c’è uno straordinario e recente saggio antologico, curato
da Eva Maria Thüne.10 Esso esplora la memoria della lingua materna, profonda e
antica dentro ciascuno di noi, che ci segna in tutto il nostro essere e ci apre all’interpretazione del mondo. Inizio di tutto e luogo di creatività.
Ed è, nella sua sostanza più intima e vera, lingua pre-grammaticale ma non
disordinata né anarchica: è una condizione assolutamente libera e giocosa, certamente svincolata da regole e convenzioni esterne, comunicazione piena che passa
attraverso il corpo fin dal nostro primo esistere. Né credo sia da confondere con la
pura emozionalità proprio perché è il tempo della pienezza linguistica e “ragione e
sentimento” stanno insieme nel modo più naturale e spontaneo, come forse mai più
avverrà nella nostra vita.
Mi sembrano illuminanti ed essenziali, e mi confermano il radicamento materno anche sul piano linguistico di Pascoli, le parole di Chiara Zamboni: “Lingua
materna è lingua viva, sostenuta dalla fiducia nelle parole e in chi ce le ha insegnate.
È amore per il linguaggio; il sentirci a nostro agio parlando. È un modo sorgivo di
stare in rapporto al parlare”.11
La situazione muta nel momento in cui interviene il sociale con le sue convenzioni anche linguistiche e, soprattutto per gli uomini, arriva quello che io chiamo il tempo della cesura e della censura. La lingua materna viene vista come momento da superare (del resto lo stesso Contini la definiva a-grammaticale o pregrammaticale e in questi prefissi mi sembrano evidenti i limiti da lui intravisti in
quel linguaggio di cui pure valorizzava le possibilità poetiche) e ne restano tracce
solo nel “profondo della mente”.
In realtà si pone, per ciascuno di noi e in questa organizzazione sociale, il
problema di passare dalla libertà e pienezza linguistica gestita nel microcosmo madre-figlio/a ad un macrocosmo che è stato costruito sulla figura paterna per cui né
riesce a valorizzare quella ricchezza né ad inglobarla. Sa solo cancellarla in nome
delle convenienze e necessità sociali.
9
Hannah ARENDT, La lingua materna, Milano, Mimesis, 1993, p. 42.
Eva-Maria THÜNE (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Torino, Rosenberg & Sellier, La prima ghinea, 1998.
11
Ibid., p. 113.
10
78
Clelia Iuliani
Dice ancora Chiara Zamboni (riprendendo il pensiero di Julia Kristeva espresso nel saggio La rivoluzione del linguaggio poetico): “Sono solo i poeti o gli scrittori nella pratica del testo a lasciar emergere il legame pulsionale con la madre, che
scompiglia sintassi e codici. La loro lingua diviene materna. Femminile.”12 Dunque
una situazione che si verifica quasi senza intenzionalità e consapevolezza. Questo
rende per me ancora più unica la condizione poetica di Pascoli, in cui l’affiorare del
legame con la madre è non solo successo nei fatti, nel suo agire poetico, ma ha un
suo di più nell’esplicitazione prima ricordata, “Io sento che a lei devo la mia attitudine poetica”, e questa affermazione ha in sé una carica rivoluzionaria eccezionale,
che scardina l’ordine simbolico patriarcale dal di dentro.
È inoltre una affermazione che lo fa entrare davvero nel ‘900 e rappresenta
un livello di consapevolezza completamente altro rispetto a Ugo Foscolo, che pure
riconosceva alla madre la sua grecità: come dimensione di sé, uomo e poeta.
Il vero problema è che valore diamo a questa unicità di Pascoli e se ci liberiamo dagli imbarazzi ‘mentali’: se in essa vediamo solo il segno di un allargamento
quantitativo della lingua, come sosteneva Pasolini, o un ampliamento qualitativo e
quantitativo in nome di un ritorno alla natura, come scriveva Contini, o, come a me
sembra evidente, uno sconvolgimento e un ‘tradimento’, sia pure non sostenuto da
strumenti teorici, dell’ordine simbolico patriarcale, che per un uomo del primo ‘900
è stato davvero ‘eresia’ dire e praticare.
E Pascoli ha pagato prezzi altissimi per questo ‘spaesamento’ simbolico: se
infatti non si poteva negarne la novità linguistica perché troppo grande e reale, lo si
è rimpicciolito come uomo e come portatore di novità propositive rispetto all’interpretazione del mondo. Nella sua poesia c’è una rappresentazione della realtà
giocata sulla presenza di due figure, il padre e la madre, e sull’accettazione della
loro disparità nel modo di essergli accanto. Per lui non è stato un problema riconoscere la grandezza materna ma sicuramente lo è stato per i suoi tantissimi critici.
Uomini che hanno avvertito in lui il ‘tradimento’, l’accordo eretico con la
tradizione, ma non l’hanno saputo né interpretare né valorizzare. Il fatto vero è che
Pascoli non può essere stretto nell’ordine patriarcale, perché tutto di lui, alla luce di
quel modello, diventa povero e piccolo: l’attaccamento alla realtà vicina, un non
saper allargare lo sguardo al lontano, la relazione forte con le sorelle un qualcosa di
ambiguo, la fiducia nei sentimenti che ci nutrono ogni giorno un facile populismo
... e tanto altro.
Con quella porta stretta la novità linguistica rimane sperimentalismo e non
trova un senso più profondo né credo si spieghi fino in fondo il suo simbolismo,
che è veramente una rivoluzione grandissima se viene letta alla luce di un ampliamento dell’ordine simbolico. Piena rispetto alla lingua e piena rispetto ai suoi contenuti. Rivoluzione che forse solo oggi può essere davvero compresa, se però tenia-
12
Ibid., p. 117.
79
Pascoli e il radicamento nella lingua moderna
mo conto di un pensiero femminile che ormai c’è e può aiutarci a leggere il mondo
e anche la poesia.
Pascoli - tra i poeti italiani - ha per me dato parola, voce e dignità poetica
alla lingua materna ed oggi quest’operazione acquista una più chiara dimensione politica, perché indica una strada agli altri uomini: la non cancellazione della
lingua materna, il viverla come ricchezza e luogo di creatività. Una conferma al
mio discorso la trovo anche nella sua mancanza di risposte a chi gli chiedeva
come lavorasse, quali fossero gli attrezzi del suo mestiere di poeta. Anche questo fu letto come gelosia delle proprie intuizioni, voglia di non svelare i propri
segreti. Io credo, molto più semplicemente che avrebbe potuto soltanto ripetere: “Io devo a mia madre la mia attitudine poetica” e scavare, come ha fatto, in
quell’enorme miniera che gli permetteva qualsiasi arricchimento e non lo limitava né al grammaticale né alle lingue speciali né al post-grammaticale, come
testimonia Italy.
Tutto questo è stato certamente più possibile in un momento storico e in una
atmosfera poetica, quella del simbolismo, che dava libertà e sensatezza al desiderio
di scavo. Anzi lo legittimava.
Vorrei, in chiusura, riandare a Lavandare, alla luce di quell’ampliamento dell’ordine simbolico e della valorizzazione della figura materna nel senso più generale, cioè figura femminile.
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggiero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.
Lavandare rimane una lirica sull’assenza dell’altro e dunque sul dolore della
lontananza. Ma liberi dalla chiave del dramma paterno ne gustiamo tutta la carica
positiva: quello sciabordare si riempie delle chiacchiere tra le donne, del loro raccontarsi certamente anche la sofferenza, ma non solo la sofferenza. Io vengo da un
paese del sud e ho visto il suo spopolarsi per un’emigrazione - quella degli anni ’50
- massiccia e devastante, ma ho anche visto centinaia e centinaia di donne saper
continuare a vivere, a cantare, a mandare i figli a scuola: governare il mondo sia
pure desiderando il ritorno del loro uomo.
E Pascoli credo abbia proprio voluto cantare la capacità di stare al mondo
80
Clelia Iuliani
anche nella sofferenza e valorizzare la grandezza simbolica che c’è in quest’atteggiamento verso la vita.
È poco e piccolo? Non acquistano un sapore nuovo e una forza nuova le
onomatopee, le ripetizioni, le ciance delle comari, il merlo che chioccola, l’organizzazione imprevista e scompaginante della sintassi, se ci liberiamo del modello Pascoli /padre /nido e lo rileggiamo senza il peso di quella tragedia?
Questo mio lavoro è il frutto di una riflessione nata nella vita della realtà
scolastica e nel rapporto con altre donne e uomini, insegnanti e non, in un circolo
culturale, La Merlettaia. Dunque nasce da due forti esperienze e da un nostro porci
rispetto al passato con la consapevolezza che esso va riletto e reiterpretato alla luce
delle nuove domande e dei nuovi contributi che questo momento storico pone e
porta.
Nasce anche da una maggiore libertà rispetto alla critica, che definirei
‘arbitrarietà non anarchica’.
Un grazie particolare ad Antonietta Lelario e a Maria Grazia Maitilasso per
le loro importanti sollecitazioni sulla lingua materna.
81
82
Maria Adele La Torretta
Anna Achmatova: il silenzio interrotto
di Maria Adele La Torretta
1. Il poeta Achmatova
Alta, magra, con lunghe gambe e lunghe braccia sottili, un viso illuminato da
occhi sensibili ed acuti, un naso aquilino che affascinò i suoi ritrattisti, da Amedeo
Modigliani a Nathan Al’tanam. Modì non le chiese mai di posare per lui ma, a memoria, fece di lei sedici disegni che le mandò in Russia, chedendole di incorniciarli. Durante la rivoluzione e durante l’assedio di Leningrado andarono perduti.
Era l’immagine della femminilità, affascinante, dominante, misteriosa; è stata
descritta come una donna eccezionale. Si racconta che di lei si siano innamorati molti
uomini, persino lo zar Nicola II. Il tratto principale del suo carattere era la grandezza,
che si rivelava anche nell’andatura e in quel senstimento di rispetto per se stessa che
emanava da ogni suo scritto.
Poeta russo, oggi conosciuto in tutto il mondo. Poeta, al maschile, perché
non amava essere chiamata poetessa; come ricorda l’amico degli ultimi anni, Isahia
Berin, le sembrava che limitasse il suo mondo, la sua ispirazione, i suoi sensi.
Nata ad Odessa nel 1889, Anna Andreevna Gorenko si trasferisce, ad appena
un anno, a Càrskoe Selo, dove l’architetto italiano Rastrelli aveva costruito per Caterina
II la splendida residenza azzurra, residenza estiva della famiglia reale, e dove A.S.
Puskin aveva frequentato il liceo. Così ricorda questo luogo, in quella che è la sua
unica produzione autobiografica, da lei stessa approntata per la stampa: “I miei primi
ricordi sono di Càrskoe Selo: la magnificenza verde, umorosa dei parchi, il pascolo dove mi conduceva la bambinaia -, l’ippodromo, dove galoppavano cavallini dal manto
screziato, la vecchia stazione e qualcos’altro che, più tardi, entrò nell’Ode a Càrskoe
Selo”.1 Impara a leggere sui libri di Lev Tolstoj, a cinque anni parla correttamente il
francese e ad undici anni compone la sua prima poesia. Lei stessa scrive: “Scrissi la
prima poesia all’età di 11 anni (era orribile), ma già mio padre mi chiamava, chissà
perché, «poetesssa decadente»”.2 Di poesie ne scriverà molte mentre, malvolentieri,
termina il liceo. Il padre, ingegnere navale, non asseconda le sue inclinazioni e le consiglia di usare uno pseudonimo, per salvaguardare il buon nome della famiglia. Anna
^
1
2
Anna ACHMATOVA, Io sono la vostra voce…, Roma, Edizioni Studio Tesi, 1990, p. 5.
Ibid., p. 17.
83
Anna Achmatova: il silenzio interrotto
non esita e sceglie il nome di Achmat, antico khan tartaro che nel 1480 aveva capeggiato
l’ultima grande offensiva del popolo tartaro contro i principi di Mosca. Un modo per
rendere omaggio ai Gorenko, depositari ultimi dell’eredità di Gengis Khan - amava
sottolineare Anna - con la civetteria propria di una donna. Si chiamerà e scriverà con
lo pseudonimo di Anna Andreevna Achmatova.
Nel 1907 una sua poesia compare sulla rivista «Sirius», pubblicata a Parigi da
Nikolaj Stepanovic Gumilëv (ex allievo del liceo di Càrskoe Selo), e si firma A. G.
(Anna Gorenko).
Nel 1910 decide di sposare Gumilëv (che nel 1905 aveva tentato il suicidio
perché Anna non aveva preso sul serio la sua dichiarazione d’amore), e pur vivendo
a Parigi, in un ambiente stimolante, ricco di idee ed intellettuali, cardine del mondo
culturale europeo, torna in Russia.
La sua vita di donna e poeta è tutta dentro i suoi versi, ricchi di quel realismo
e di quella concretezza che erano propri del movimento letterario, l’Acmeismo,
fondato dal marito, ed al quale aveva aderito: un movimento diverso, una forma
d’arte superiore. Raggiungere l’acme, appunto, l’essenza più valida e concreta dell’oggetto descritto. L’Achmatova è una poetessa di facile lettura, che rivolge la sua
attenzione ai sentimenti, in un cerchio stretto ed angusto. Realistico fu l’Acmeismo
dell’Achmatova; realistico perché autobiografico, fondato però sul sentimento. Scrisse l’amore con un linguaggio umano, semplice ed intellegibile e a questa predominanza sentimentale dovettero il loro successo le sue raccolte: La sera, Il rosario, Lo
stormo bianco, Anno Domini MCMXXI, in un’evoluzione stilistica che vide crescere qualitativamente le sue liriche, che non rappresentano solo un ciclo evolutivo,
ma anche un completamento spirituale.
Scrive Osip Mandel’stam: “L’Achmatova portò nella lirica tutta la grande
complessità e ricchezza del romanzo russo del XIX secolo […]. La genesi dell’opera dell’Achmatova è tutta nella prosa, non nella poesia”.3 Ma dietro la metafora
amorosa si nasconde qualcosa di più profondo; la tematica si allarga, la poesia diventa racconto, si fa originale, la dimensione dell’amore diventa quotidiana.
^
^
2. La forza civile della poesia
Estranea alla rivoluzione, si trasformò da poetessa dell’amore a poetessa della sofferenza durante il regime di Stalin e la seconda guerra mondiale. Le sue opere
si susseguivano senza che lei si accorgesse di quello che stava avvenendo. Il suo
mondo stava franando; la guerra e la rivoluzione entrarono nella sua vita senza che
lei perdesse l’ispirazione. Il terrore, l’odio, le ansie, le gioie popolavano le sue liriche. L’angoscia che per un po’ l’aveva soffocata, l’aveva tenuta lontana, la obbligò a
venir fuori. Nel 1917 scrive Una voce mi giunse, che è la risposta dell’Achmatova e
^
3
Osip MANDEL’ STAM, Proza (Prosa), Ann Arbor, 1983, pp. 101-102. La traduzione è a cura dell’autore.
84
Maria Adele La Torretta
di tutti coloro che sono voluti rimanere in Patria. Una lirica civile, che annulla
l’Achmatova poeta; versi che raccontano l’emigrazione forzata e la scelta coraggiosa di chi rimane. Lo scrittore e i suoi valori diventano inversamente proporzionali
alla sua fama, per questo l’intellettuale esaltato dalla critica, viene messo in secondo
piano dal regime.
Una voce mi giunse […]
Diceva: “Vieni qui,
Abbandona il tuo paese sordo e peccaminoso
Abbandona la Russia per sempre.
Laverò dalle tue mani il sangue,
Leverò dal tuo cuore la nera vergogna,
Coprirò con un nuovo nome
Il dolore della sconfitta e l’offesa”. 4
Nel 1921 Gumilëv viene arrestato, condannato a morte e giustiziato per ordine di Lenin, dalla polizia segreta, la Ceka, perché sospettato di aver preso parte ad
un complotto monarchico. Dopo la morte del marito, l’Achamatova viene costretta al silenzio per motivi politici, un silenzio interrotto da liriche ricche di malinconia ed angoscia per gli orrori della guerra. Nonostante i consigli e le pressioni, Anna
non abbandona la Russia ed esprime la “volontà di condividere senza compromessi
i generali destini del suo popolo”. 5
Del 1936 è Dante, dedicata al poeta italiano costretto per motivi politici all’esilio.
Neanche dopo morto ritornò
Nella sua vecchia Firenze.
Partendo non si volse indietro,
ed io canto questo canto a lui.
Fiaccole, notte, ultimo abbraccio,
oltre la soglia selvaggio l’urlo del destino.
Dall’Ade le mandò la sua maledizione
non poté scordarla in paradiso, ma scalzo, con la camicia del penitente
con cero acceso non passò
dalla sua Firenze agognata,
perfida, vigliacca, lungamente attesa…6
L’aspettavano anni di sifferenze, di un dolore che accettava con rassegnazione e consapevolezza, che trovò la forza, tutta femminile, di raccontare nelle
4
Anna ACHMATOVA, Stichi i Proza (Versi e Prosa), Dryan Lenisdat, Leningrado, 1977, p. 226. La traduzione è a cura dell’autore.
Vittorio STRADA, «L’Unità», 6 marzo 1966.
6
ACHMATOVA, Stinchi i Proza, cit. p. 295. La traduzione è a cura dell’autore.
5
85
Anna Achmatova: il silenzio interrotto
opere di questo periodo: Requiem (1940) e Poema senza eroe (1940-1962) che,
come Boris Pasternak con il suo Dottor Zivago, non vide pubblicati in patria:
Pasternak e l’Achmatova e, più tardi, Osip Mandel’stam simboli della poesia in
Russia dopo la rivoluzione, fuori da ogni schema e da ogni raggruppamento.
In Russia sono gli anni del regime di Ezov; clamorosi processi permettono a
Stalin di eliminare ogni possibile oppositore; si sospetta di tutti; veri comunisti e persone assolutamente estranee alla politica cadono nella reta della repressione. Stalin
“padroneggia la situazione da vero regista, agendo dietro le quinte. Se è vero che ogni
uomo è fondamentalmente un attore, che ha dunque bisogno di un pubblico, la punizione suprema non è la morte, bensì la privazione di qualunque personalità sociale”.7
L’Achmatova conobbe da madre questo dramma. Lev Nikolàevic, il figlio avuto da
Gumilëv, sospettato di ostilità al regime, viene arrestato il 13 marzo 1938 (era stato
arrestato e poi rilasciato permancanza di prove già nel 1935). Perché arrestare il figlio,
dal momento che non si occupa di politica e nemmeno do letteratura, ma è etnologo,
specialista di civiltà antiche? Nell’introduzione di Requiem, Anna scrive:
^
^
^
^
Ti hanno portato via all’alba,
Io ti venivo dietro, come a un funerale,
Nella stanza i bambini piangevano,
Sull’altarino il cero sgocciolava.
Sulle tue labbara il freddo dell’icona.
Il sudore mortale sulla fronte… Non si scorda!
Come le mogli degli strelizzi, ululerò
Sotto le torri del Cremlino.8
L’Achmatova diviene il simbolo di quel dramma che stanno vivendo molte
madri sovietiche; la sua pena e il suo dolore furono accresciute dall’idea che il regime volesse, attraverso il figlio, colpire lei, le sue liriche, il suo impegno, la sua unione con Gumilëv. La risposta la dà un dirigente dell’Unione degli scrittori sovietici,
Aleksej Surkov, quando replica a Nadezda Mandel’stam che aveva appena interceduto presso di lui per il figlio dell’Achmatova, nell’estate 1956: “Si tratta di una
questione complicata: deve senza dubbio pagare per suo padre”. Gli organi di repressione non potevano perdonare a Lev Gumilëv di essere figlio di un condannato
a morte che, con ogni probabilità, doveva essere innocente. Neppure con
l’Achmatova potevano dimenticare il crimine: restava pur sempre per loro la vedova di un poeta che avevano giustiziato. Inoltre, Lev Gumilëv rappresentava un ostaggio per il potere: per Stalin era divenuta una diabolica consuetudine arrestare i parenti di coloro che voleva dominare, e anche dei suoi più stretti collaboratori, in
^
7
Gérard ABENSOUR, Nikolaj Evreinov (1879-1953), in Storia della letteratura russa, Torino, Einaudi, 1989,
4 voll.: vol. II, tomo I, p. 466.
8
Anna ACHMATOVA, Poema senza eroe ed altre poesie, Torino, Einaudi, 1998, p. 33.
9
ACHMATOVA, Io sono la vostra voce…, cit., p. 195.
86
Maria Adele La Torretta
modo da tenerli meglio sotto controllo.
Nella dedica al Requiem scrive:
Dove sono ora le spontanee amiche
Di questi miei dannati due anni?
Che cosa appare loro nella tormenta siberiana,
Che cosa sembra loro di vedere nel disco della luna?
A loro invio il mio saluto d’addio.9
Nell’epilogo torna a rivolgersi alle madri sovietiche:
Loro ricordo sempre e in ogni dove,
Loro non dimenticherò in una nuova sciagura neppure,
E se chiuderanno la mia bocca estenuata
Con cui un popolo di cento milioni grida,
Che ugualmente mi commemorino esse
Alla vigilia del mio funebre dì. 10
Prende coscienza di sé, della sua capacità creativa; scossa dalle compagne di
sventura, per diciassette mesi attende in coda, fuori dal carcere Kresty di Leningrado,
in attesa di vedere il figlio.
L’immensa fila si snodava da un’apertura nel muro dell’edificio nella quale i
visitatori mettevano i pacchi portati per i detenuti. Si faceva la fila per giorni; in ogni
pacco i familiari, per contribuire al mantenimento dei detenuti, inserivano quindici
rubli; se il pacco non veniva più accettato, voleva dire che il detenuto era morto.
[…] Un giorno qualcuno mi «riconobbe».
Allora una donna, dietro di me, con le labbra
livide, che certamente in vita sua mai aveva
sentito il mio nome, riprendendosi da quel
torpore mentale che ci accomunava,
mi domandò all’orecchio (lì comunicavamo tutti
sottovoce):
«Ma lei questo può descriverlo?».
Ed io dissi:
«Posso».
Allora una specie di sorriso scorse per quello
che una volta era il suo viso. 11
Requiem è il racconto di questa tragedia e per questo non venne mai pubblicato; troppo evidenti erano i riferimenti al terrore staliniano: era un grande atto di
accusa. Il poeta che aveva cantato amori sfortunati, ora cantava la più grande trage10
11
Ibid., p. 205.
Ibid., p. 193.
87
Anna Achmatova: il silenzio interrotto
dia russa. L’Achmatova venne presa da grandi momenti di sconforto:
Bisogna uccidere fino in fondo la memoria
bisogna che l’anima si pietrifichi
bisogna di nuovo imparare a vivere.12
Nel 1940 comincia a scrivere Poema senza eroe; si comincia a intravedere un
ritorno alla lirica pura, riflessiva, quasi filosofica; il poeta non ha ucciso la memoria, la
sua anima, nonostante le tragedie vissute, non si è spenta. Al Poema lavora per ventidue
anni, raccontando la memoria di quelli che avevano ascoltato la sua voce, gli amici,
Mandel’ stam, Pasternàk, i concittadini morti a Leningrado. Un poema ristretto, sintetico, anche nei contenuti; vuole cogliere il significato delle vicende del suo tempo.
Nel 1946 viene espulsa dall’Unione degli scrittori sovietici; a settembre dello
stesso anno le viene tolta la tessera annonaria ed è condannata praticamente alla
fame. Alcuni amici organizzano un fondo segreto di aiuti. Data l’epoca, si trattava
di vero e proprio eroismo. Anna Achmatova lo racconta parecchi anni dopo, aggiungendo tristemente: “Mi compravano arance e cioccolato, ma io avevo fame nel
vero senso della parola”. Tre anni dopo il figlio viene nuovamente arrestato e resta
nei campi di lavoro quasi sette anni, dal ‘49 al ‘56; fu uno degli ultimi a tornare a
casa. Temendo di perdere definitivamente Lev Nikolaevic, accetta di scrivere versi
di ossequio al regime: quindici poesie a Stalin che il poeta si rifiuterà di inserire
nella raccolta delle proprie opere. 13
Tra il 1953 e il 1955 inizia il disgelo; nel ‘55 viene finalmente riabilitata. A
poco a poco riprende il suo posto tra gli scrittori sovietici. Tuttavia nella grande
Istòrija russkoj sovetskoj literatury (Storia della letteratura sovietica), edita tra il
1958 e il 1961 dall’Accademia delle Scienze dell’URSS, non c’è ancora posto per lei.
Dal ‘64 al ‘66, anno della sua morte, le vengono conferite importanti onorificenze
in Italia e in Inghilterra. “L’Achmatova aveva dato tutta se stessa, aveva dato quanto
poteva, e non aveva, ormai, più nulla da dire”.14
Il 12 e 13 dicembre 1989, a Torino, presso Villa Gualino, viene organizzato il
Convegno Internazionale di studi per il centenario della nascita di Anna Achmatova.
Dopo la caduta del muro e l’apertura dell’Unione Sovietica al respiro culturale europeo, l’Achmatova fu descritta, celebrata e letta da poeti e letterati, e da quei critici
che, in età staliniana, erano stati costretti al suo stesso silenzio.
Nessuno aveva potuto condannarla al silenzio o era riuscito a sopprimere la
sua memoria.
Come un sasso sul letto di un fiume ne modifica, anche se in modo impercettibile il corso, così Anna Achmatova, legata, stretta alla madre Russia, aveva obbligato il regime a scavalcarla, aggirarla, a tener conto della sua presenza.
^
^
12
ACHMATOVA, Poema senza eroe, cit., p. 45.
Le poesie furono pubblicate nell’edizione tedesca delle opere dell’Achmatova. Cfr. Anna ACHMATOVA, Socinenja,
München, Inter-language literary associates, 1968, 2 voll.: vol. I, pp. 147-154.
14
Renato POGGIOLI, Il fiore del verso russo, Milano, Mondadori, 1961, pp. 117-118.
^
13
88
Ada Mangano
La passione della scrittura
di Ada Mangano
1. L’identità femminile in Alba De Cespedes
Non so dire in che direzione si stia muovendo ‘l’universo femminile’, esso è
composito e molteplice per cui qualsiasi risposta risulterebbe riduttiva e correrebbe il rischio della semplificazione.
So, però, che il pensiero e la pratica delle donne mi hanno insegnato molto. In
primo luogo il valore delle relazioni con altre donne e poi l’estrema attenzione alle
parole, al loro valore simbolico, alla loro capacità di ‘agire’ e di trasformare la realtà.
Il rapporto con le altre donne, con quelle che ho incontrato, con cui ho stretto legami di amicizia, il rapporto con mia madre, con mia figlia sono stati costitutivi
della mia identità.
Non meno importante è stato il rapporto con donne lontane da me nello
spazio e nel tempo, quelle che ho conosciuto attraverso le loro opere. Certo sarei
diversa se non mi fossi imbattuta a sedici anni in Memorie di una ragazza per bene
di Simone De Beauvoir, se qualche anno dopo non avessi letto avidamente riviste
come «Effe», «Donna Woman Femme», se non mi fossi avvicinata più volte, amorevolmente, al romanzo di Virginia Woolf Gita al faro.
“Leggere un libro - ha scritto Elisabetta Rasy – è come incontrare una persona,
ci vuole un po’ d’attenzione per metterla a fuoco e forse passare oltre, parecchia attenzione per conoscerla, un’attenzione faziosa, concentrata per amarla”. Ho prestato
molta attenzione ai libri scritti da donne, in essi rintraccio ogni volta illuminanti nuclei di verità, la capacità di dire, di rappresentare il nucleo caldo, dolce e nello stesso
tempo doloroso dell’esistenza. Mi piace inoltre la generale estraneità delle artiste rispetto a scuole o correnti e pure quando è possibile rintracciare nelle loro opere una
appartenenza letteraria, a me pare che essa sia solitamente piuttosto attenuata.
Spesso propongo alle studentesse, agli studenti opere di donne, voglio che il
loro patrimonio di idee, di esperienze ed emozioni non sia perduto. Il sapere femminile, che spesso ha trovato le sue espressioni migliori nel linguaggio artistico e in
particolare in quello narrativo, deve essere riscoperto, proseguito, arricchito. L’attenzione alla dimensione della narrazione è stata fin dall’inizio un tratto distintivo
del pensiero delle donne. La nota pratica femminista dell’autocoscienza non è infatti che una ricerca di sé attraverso il racconto, la narrazione della propria storia.
Voglio perciò utilizzare queste pagine per ricordare una donna, Alba De
Cespedes, che dedicò tutta la vita alla narrazione, alla scrittura in tutte le sue forme.
89
L’identità femminile in Alba Cespedes
Scrisse racconti, romanzi, poesie, fu giornalista, lavorò nel periodo dell’occupazione anglo-americana a Radio Bari, fondò e diresse nel difficile clima del 1944, in
un’Italia distrutta e divisa, il mensile di arte, letteratura e politica «Mercurio» che
contribuì alla rinascita della cultura italiana e alla sua sprovincializzazione. In particolare voglio ricordare due suoi romanzi, Dalla parte di lei e Quaderno proibito, che
hanno per protagoniste due donne che attraverso la scrittura riescono a capire meglio
se stesse e il mondo e a riconquistare, sia pure con esiti diversi, integrità e senso.
Il romanzo Dalla parte di lei è narrato in prima persona dalla protagonista,
Alessandra, colpevole di aver ucciso il marito. Durante il processo, consapevole
dell’impossibilità di spiegarsi fino in fondo e di essere compresa, ha ostinatamente
taciuto. Solo più tardi, nel silenzio della cella, la scrittura le consente di chiarire i
moventi del suo gesto - che non è che l’ultimo anello di una catena di eventi - e di
raccontare la sua vita. Scrive soprattutto per sé, poiché scrivere le procura sollievo,
e per chi può e vuole comprenderla.
La narrazione comincia con il ricordo della madre Eleonora. La figura materna è centrale, occupa infatti le prime cento pagine del libro. Eleonora è una musicista, una donna molto sensibile, inadatta alla quotidianità e alla dimensione materiale dell’esistenza. Ad un certo punto della sua vita coltiva un sogno d’amore, ma
a questo sogno è incapace di dare vita, non riesce, in altri termini, a viverlo, ad
attuarlo e, stretta tra la dimensione del dovere e quella del desiderio, si uccide.
Alessandra rievoca i giorni con la madre; le chiacchierate con le vicine di
casa, Fulvia e Livia; ricorda la vita della donne nel grande casamento di Via Paolo
Emilio che lei, adolescente, spia dal balcone. Quel mondo femminile la rassicura, le
suggerisce la consapevolezza che le donne sono un mondo a parte, un pianeta sconosciuto agli uomini, segnato al suo interno da una solidarietà segreta ed istintiva.
Attraverso la madre Alessandra ha imparato la singolarità dell’essere femminile, la
sofferenza che spesso segna la vita delle donne, ma anche la loro grandezza:
Sapevo - dice la madre ad Alessandra - che avresti sofferto, che molte cose ti
avrebbero ferito, ma di altre oh, di altre avresti fatto la tua gloria. Poiché c’era
in te, come in ogni donna, la possibilità di mostrarsi un essere straordinario,
meraviglioso, un oggetto di grazia e di armonia, come un bell’albero o una
stella. Come una donna, insomma. Una donna, Sandi, è tutto l’universo, ha
tutto il mondo in sé.1
Dopo la morte della madre Alessandra viene mandata in Abruzzo presso la
nonna materna. La nonna è una donna forte, è chiamata da tutti “la padrona”. A
Sandi appare come una dea grandiosa ed imponente. “Non si deve soffrire - le dice
– si deve eliminare la sofferenza dalla propria vita, se si vuole essere forti”.2 E quando Alessandra le confida di invidiare la forza degli uomini lei risponde:
1
2
Alba DE CESPEDES, Dalla parte di lei, Milano, Mondadori, 1994, pp. 90-91.
Ibid., p. 155.
90
Ada Mangano
Non è la forza […] è mancanza di pietà. E invece solo chi ha la pietà è forte. Hai
capito?, ricordatelo. Temo che tu abbia sbagliato tutto, credendo che essi siano
i padroni e affidando loro la tua felicità. Hai sbagliato. La casa è nostra, i figli
sono nostri, siamo noi a portarli, nutrirli: dunque la vita è nostra.3
Tornata a Roma Alessandra incontra Francesco, la loro sembra essere un’intesa profonda. Alessandra pensa che il sogno d’amore inutilmente inseguito dalla
mamma stia diventando per lei una realtà. I due si sposano, vivono, sia pure in modi
diversi, l’esperienza della guerra e della Resistenza e poi, piano piano, senza un
motivo lui le diviene straniero. Alessandra vive il disincanto, la distanza, la rabbia.
Una notte mentre il marito dorme, voltandole le spalle, Alessandra gli spara:
Ero sola dietro le spalle di Francesco, un muro livido nella fioca luce dell’aurora. […]
“Francesco” proruppi disperata: “Aiutami Francesco...”
Egli si scosse appena: “Dormi” mormorò: “Sta’ tranquilla, dormi. Parleremo
domani”.
In me il cane rabbioso ebbe un balzo, si slanciò.
M’avventai contro Francesco e gli scaricai la pistola nella schiena.4
Il romanzo non va visto tanto come la narrazione di un amore fortemente
voluto e poi drammaticamente concluso o come una complessa storia familiare; si
tratta piuttosto di un’opera che, come si evince dal titolo, vuole in primo luogo
attestare che nella vita come nella scrittura esiste una soggettività – quella femminile – che vuole, deve esprimersi, affermarsi nella sua autonomia di senso.
Dalla parte di lei è un romanzo che induce a riflettere sulla specificità delle
forme conoscitive ed espressive delle donne, sul fatto che le donne prestano ascolto
a se stesse e agli altri in modo diverso e in modo diverso raccontano e rappresentano il mondo.
Si tratta di un’opera ponderosa, di ben quattrocento pagine, in cui i piani
temporali continuamente si intrecciano: il tempo passato, quello della memoria, e il
tempo presente, quello della scrittura, dell’analisi degli eventi, della coscienza insomma, si intersecano e sovrappongono.
È un romanzo per molti versi diverso dalla letteratura dell’epoca, una letteratura generalmente di testimonianza sulla drammatica esperienza della guerra e sulle
difficoltà del dopoguerra. Occorre notare che anche altri libri di donne - se si fa
eccezione per il romanzo di Roberta Viganò L’Agnese va a morire, che è decisamente inserito nel gusto del neorealismo - appaiono piuttosto lontani dai caratteri
dominanti dell’epoca. Si pensi a Lettera all’editore di Gianna Manzini, un’opera
3
4
Loc. cit.
Ibid., p. 401
91
L’identità femminile in Alba Cespedes
sperimentale apparsa nel 1945, un singolare esempio di scrittura che narra la scrittura, che riflette sull’esercizio letterario o ad Artemisia di Anna Banti del 1947, alle
opere di Maria Bellonci o, ancora, al romanzo del 1948 Menzogna e sortilegio di
Elsa Morante.
In Dalla parte di lei la Storia è sottesa, in primo piano vi è la storia privata, individuale che sulla Storia comunque si innesta e su cui getta una luce diversa. Attraverso le vicende di Alessandra, di Eleonora, della nonna la storia politica e sociale italiana è riletta. È in altri termini una Storia raccontata attraverso
una genealogia femminile. Ad esempio si fa riferimento al Fascismo, alludendo
alla mancanza di gioia, di libertà e di energia di parole che segna la vita dei
personaggi. Si fa riferimento anche alla guerra e ai suoi effetti, ma la realtà
storica, come si è gia detto, è sempre filtrata attraverso la soggettività della protagonista.
Spesso, al mattino, nel cielo che sovrastava le montagne spuntavano squadriglie di aerei lucidi, metallici, ronzanti. Quel ronzio penetrava nei miei orecchi
come un trapano; quel ronzio, sì, mi era insopportabile per la precisa determinazione che esprimeva. [...] E, spezzavano i raggi del sole, gli aerei gettavano
sulla terra un’ombra fredda come fanno le nuvole che precedono il temporale.
[...] Sulle ali degli aerei si vedevano dipinte in cerchio, i colori della bandiera
italiana, e io li odiavo. I grandi cerchi minacciosi tricolori passavano minacciosi, alternando su di me il colore del sole e la fredda ombra.5
E ancora:
Ormai non potevo più ignorare la guerra se essa raggiungeva anche i miei compagni d’infanzia, il mio amico prediletto […].
Della possibilità di partire i miei compagni non parlavano mai o ne parlavano
con leggerezza, scherzando: però [...] non mettevano più alcun impegno nel
vivere: si alzavano tardi, rimanevano ore e ore sul letto a leggere, a fumare,
mentre le madri, le sorelle, li servivano premurosamente riconoscendo loro il
diritto all’ozio e all’inerzia. Sentivano di appartenere alla guerra, ormai, aspettavano che la guerra li chiamasse [...].
Il vero pericolo della guerra, infatti sembrava essere proprio nella paura e nell’inerzia che gradatamente, inesorabile, come una nebbia densa, s’impadronivano di noi togliendoci ogni fiducia nel futuro.6
Torniamo alla protagonista e ai motivi che la spingono all’omicidio, ad un
gesto di morte ma, in parte, forse anche d’amore.
È difficile dire perché Alessandra uccide il marito: lo uccide forse perché non
sopporta la fine del suo sogno d’amore; uccide forse l’estraneo che lui è diventato;
5
6
Ibid., p. 170.
Ibid., pp. 197, 198, 199.
92
Ada Mangano
oppure lo uccide perché è, per usare una espressione di Natalia Ginzburg “caduta
in un pozzo”.
In un articolo, intitolato Discorso sulle donne, apparso nel marzo-giugno
del 1948 sull’ultimo numero della rivista «Mercurio», Natalia Ginzburg scrive
che “le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di
lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro. Nel pozzo continua - le donne sperimentano una sconfinata sofferenza che gli uomini non
conoscono, forse perché sono più capaci di dimenticare se stessi, più capaci di
identificarsi con il lavoro che fanno, più padroni del proprio corpo”. Le donne
invece, secondo Natalia Ginzburg, pensano molto a loro e spesso in modo doloroso, febbrile. Per essere libere e padrone di sé - pensa la Ginzburg - occorre
difendersi con ogni mezzo dalla tentazione del pozzo, occorre non pensare troppo a se stesse, occuparsi delle cose del mondo. “Così - conclude - devo imparare
a fare anch’io per la prima”.
È interessante qui ricordare per inciso che nel 1947 Natalia Ginzburg aveva
pubblicato un breve e drammatico romanzo intitolato È stato così. La storia narrata è
per alcuni versi simile a quella di Dalla parte di lei. La protagonista per tutta la vita era
stata attratta dal “pozzo” e alla fine ne è stata risucchiata. “Nella mia vita - scrive non avevo mai fatto altro che guardare fisso fisso nel pozzo buio che avevo dentro di
me”.7 Come l’Alessandra di Alba De Cespedes, uccide per motivi oscuri il marito e
come lei sceglie di scrivere, sente che nella scrittura c’è una possibilità di salvezza:
Ho preso l’inchiostro e la penna e mi son messa a scrivere sul libretto della
spesa. Tutt’a un tratto mi son chiesta per chi scrivevo. […] Per chi? Ma era
troppo difficile deciderlo e sentivo che il tempo delle risposte limpide e consuete s’era fermato per sempre dentro di me.8
Alba De Cespedes sullo stesso numero di «Mercurio» risponde a Natalia
Ginzburg ed afferma che è vero che le donne cadono nei pozzi e che allora possono
anche compiere gesti estremi, ma è anche vero che i pozzi sono la forza delle donne:
“Poiché ogni volta che cadiamo nel pozzo noi scendiamo alle più profonde radici
del nostro essere umano e nel riaffiorare portiamo con noi esperienze tali che ci
permettono di comprendere tutto quello che gli uomini non comprenderanno mai”.
Nel pozzo si viene “a contatto immediato con la debolezza, i sogni, le malinconie,
le aspirazioni e insomma tutti quei sentimenti che formano e migliorano l’animo
umano”. Chi scende nel pozzo conosce ad esempio le verità dell’amore e la pietà,
necessarie per vivere, agire, decidere con giustizia. “Tu dici - conclude Alba De
Cespedes - che le donne non sono esseri liberi: e io credo invece che debbono soltanto acquistare la consapevolezza delle virtù di quel pozzo e diffondere la luce
delle esperienze fatte al fondo di esso, le quali costituiscono il fondamento di quella
7
8
Natalia GINZBURG, Cinque romanzi brevi, Torino, Einaudi, 1993, p. 147.
Ibid., p. 155.
93
L’identità femminile in Alba Cespedes
solidarietà, oggi segreta e istintiva, domani consapevole e palese che si forma fra
donne sconosciute l’una all’altra”.
Le metafore della caduta, del crollo, del pozzo sono ricorrenti in molta poesia
femminile italiana del ’900. “Sono caduta in un profondo tranello / come dentro ad
un pozzo acquitrinoso” scrive Alda Merini in una poesia tratta da La terra Santa.
“La mia vita era come una cascata / inarcata nel vuoto” si dice in una poesia
intitolata Vicenda d’acqua contenuta nell’unico libro di versi, Parole, di Antonia Pozzi.
C’è poi una bellissima poesia di Margherita Guidacci intitolata Crollo che fa
parte della raccolta Neurosuite, pubblicata nel 1970, in cui il crollo è evidentemente
metafora della follia ma, in senso lato, allude alla vicenda del nostro essere: “Il nostro crollo non finiva mai / come se tutto si ricomponesse / per crollare ancora /
l’ultimo pezzo diventava il primo / e ricadeva senza pausa”. L’immagine del crollo
allude, in altri termini, al mutamento che investe ogni cosa, ad una identità sparsa
che sfugge ad ogni sicura definizione e ad ogni possibilità certa di individuazione.
2. Il diario e la pericolosità della scrittura
Uno dei temi presenti in Quaderno proibito a me pare sia proprio quello
dell’identità, una identità fluida, mobile, molteplice.
In una domenica di novembre - bella, calda, nonostante l’autunno inoltrato dopo una breve passeggiata, Valeria, la protagonista di Quaderno proibito entra in
una tabaccheria e casualmente nota una pila di quaderni, neri, lucidi, spessi, di quelli che si usavano a scuola, e sui quali, quando era ragazza scriveva subito, in prima
pagina, a grossi caratteri, il suo nome. Valeria ne compra uno, dice di non sapere il
motivo per cui è stata irresistibilmente attratta dal quaderno, ma sa sin dall’inizio
che scrivere un diario è rischioso. Tenere un diario significa avere dei segreti e per
difenderli occorre anche saper mentire. L’acquisto del quaderno è stato preceduto
da un altro gesto apparentemente banale, ma emblematico. Valeria ha comprato dei
fiori non per abbellire la casa né per qualcuno dei suoi familiari, ma per sé, per
tenerli in mano mentre cammina.
Tornata a casa, Valeria si accorge che è difficile nascondere il diario, poiché non
ha in tutta la casa un cassetto o un ripostiglio che siano suoi. Si propone perciò da
quel giorno di far valere i suoi diritti. Il solo atto di comprare il quaderno mette
dunque in moto la coscienza, muta i bisogni. Per scrivere c’è bisogno di pace, di
solitudine e per restare sola in casa Valeria inizia a cercare scuse, a dire piccole bugie.
Chi scrive ha bisogno di intimità - di “una stanza tutta per sé”, come diceva
Virginia Woolf - per poter cercare con agio le parole giuste, per mettere insieme i pezzi
della propria soggettività, per rimodellare, attraverso la scrittura, la visione di sé e del
mondo. Ha insomma bisogno di concentrazione, affinché emerga il senso delle cose.
I fatti, fino ad allora, nella vita di Valeria si erano susseguiti come mera successione di eventi, attraverso il diario Valeria riflette sulle sue esperienze; individua
un intreccio tra scelte, avvenimenti, desideri; rintraccia dei significati. Attraverso la
94
Ada Mangano
scrittura Valeria può finalmente riavvicinarsi a sé, a Valeria appunto. Nessuno, pensa, la chiama più così. Per i genitori è “Bebè”, per i figli è “mamma”, per il marito è
“mammà”. All’inizio quel nomignolo le era piaciuto, le sembrava rassicurante e che
le desse valore, ora non più.
Le parole che Valeria scambia con il marito sono generalmente bonarie, ma
fruste, logore, ormai inessenziali; quelle che scambia con la madre sono parole velate, allusive, quasi in codice; con la figlia vi sono pure inevitabili censure verbali. Il
diario è forse un mezzo per ritrovare parole di verità, per ritornare alla Valeria della
giovinezza: ogni volta che apre il quaderno, guarda il suo nome, scritto in prima
pagina.
Valeria decide dunque di tenere un diario, perché sente che quelle stesse parole che sono state usate per sottrarle senso, individualità, contengono una possibilità di liberazione; possono essere il mezzo con cui recuperare un’identità, l’autenticità dell’esistenza. Giorno dopo giorno Valeria scrive, registra gli avvenimenti e il
quaderno le impedisce di dimenticare. La scrittura obbliga a scavare, a puntare un
fascio di luce nelle zone d’ombra, a mettere ordine tra le tessere di quel confuso
mosaico che a volte sembra essere la vita.
A Valeria capita spesso di pensare che per vivere è talvolta necessario allontanarsi dalla vita, dimenticare, dimenticarsi. Pensa cioè che attraverso la pratica dell’oblio sia possibile adattarsi alla sfuggente mobilità dell’esistenza, ad una soggettività sfumata, al disorientamento che deriva dal mutamento che investe ogni cosa.
Valeria sa, però, che tacere, trattenere le parole, togliere voce ai pensieri può
essere fonte di sofferenza e che dire, esprimersi, può talora diventare un bisogno
ineludibile, perciò aspetta con ansia il momento in cui può scrivere e dare così libero corso a un fiume ricco che scorre in lei e che, dice, le duole come quando, dopo
la nascita dei bambini, aveva troppo latte.
Per un verso sente che il tempo dedicato alla scrittura è un tempo colpevole,
proibito, ha il rimorso di perdere tempo e di trascurare quelli che considera i suoi
doveri e perciò si propone continuamente di distruggere il quaderno; per l’altro è
consapevole che la scrittura le è necessaria per capire, per comprendere anche i
piccoli eventi della vita, quelli apparentemente più insignificanti e nei quali a volte è
riposto il significato più profondo dell’esistenza:
La mia vita mi è sempre parsa piuttosto insignificante, senza avvenimenti notevoli fuorché il mio matrimonio e la nascita dei bambini. Invece da quando, per
caso, ho cominciato a tenere un diario, mi pare di scoprire che una parola, un
accento, possono essere altrettanto importanti, o anche più, dei fatti che siamo
abituati a considerare tali.9
La pratica della scrittura è dunque vissuta in modo ambivalente, Valeria ne è
attratta e alla stesso tempo se ne difende, perché intuisce che le parole sono uno
9
Alba DE CESPEDES, Quaderno proibito, Milano, Mondadori, 1952, p. 68.
95
L’identità femminile in Alba Cespedes
strumento potente, capace di trasformare la realtà, di far saltare vecchi equilibri. La
scrittura mostra il volto inedito delle cose. Il marito, i figli, la vita che conduce e
soprattutto lei stessa: tutto appare diverso. Valeria si accorge di essere diversa da
come gli altri immaginano che sia o da come lei stessa pensava di essere, si accorge
poi di quanto i rapporti familiari siano mutati e segnati dallo scontento:
Finora avevo sempre pensato che noi quattro - Michele, Mirella, Riccardo e io fossimo una famiglia unita, serena. [...] Forse volevo raccontare la serena storia
della nostra famiglia in questo quaderno. [...] Invece da quando ho incominciato
a scrivere, non mi pare più che tutte le cose che accadono nella nostra casa siano
belle da ricordare.10
Ancora una volta è dunque espressa l’idea della pericolosità della scrittura
che per un verso espone ai rischi connessi all’atto dello svelamento, del mettersi a
nudo; per l’altro a quello opposto della falsificazione. Descrivendo, raccontando
uno stato d’animo, un sentimento si prova inevitabilmente il timore di tradirne
l’intima sostanza. Valeria, comunque, continua a scrivere e insieme con le parole
riaffiorano desideri, aspirazioni, aspetti di sé nuovi:
Finora avevo sempre pensato di essere chiara, semplice, e tale da non riserbare
a me stessa, e agli altri, alcuna sorpresa. Eppure da qualche tempo non ne sono
più così sicura. [.... ] La strada mi stordisce, mi getta in una singolare inquietudine. Non so spiegarmi, ma, insomma, fuori di casa non sono più io. Uscita dal
portone mi sembrerebbe naturale incominciare a vivere una vita tutta diversa
da quella consueta, sono invogliata di prendere strade che non sono nel mio
itinerario quotidiano, incontrare persone nuove, a me finora sconosciute, con
le quali poter essere allegra, ridere. Ho tanta voglia di ridere.11
E poi conclude:
questo quaderno, con le sue pagine bianche, mi attrae e nella stesso tempo mi
sgomenta, come la strada.12
La scrittura sembra dischiudere nuove possibilità, le consente un ritorno all’adolescenza, non a caso Valeria dice:
Scrivo su un tavolinetto, nella stanza da bagno, come quando da ragazza scrivevo
certi bigliettini.13
10
Ibid., p. 144.
Ibid., pp. 57-58.
12
Ibid., p. 58.
13
Ibid., p. 60.
11
96
Ada Mangano
Nell’adolescenza tutto è ancora possibile, spesso si vive nell’attesa di un evento
straordinario che cambi il corso regolare della vita; l’albero delle possibilità è ancora
pieno di rami, ricco di promesse, non esiste una sola strada da seguire, ce ne sono o
sembrano essercene molte.
Il diario aiuta Valeria a sciogliersi dai lacci di una quotidianità greve e le restituisce il senso della possibilità, l’attrae come la strada o meglio come le strade, sconosciute, mai percorse.
La rinnovata dimensione della possibilità stimola la voglia di ribellarsi all’esistente:
Ho pensato allora che sarebbe stato bello avere un momento di rivolta e accettare tutte le tentazioni, tutte le follie.14
Insomma ciò che lei vorrebbe è abbandonarsi, spezzare il filo che lega le sue
giornate sempre ordinate, regolari, troppo sagge:
A volte, in un beato senso di ebbrezza, immagino di abbandonarmi al disordine; [...] mi addormento in questo desiderio: un desiderio violento, vorace, simile a quello che, quando aspettavo i bambini, provavo per il pane.15
Scrivere il diario inoltre è una risposta al bisogno di fare, a quarantatré anni,
un bilancio:
Mi sembrava d’essere giunta a un punto in cui sia necessario tirare le somme
della mia vita, come mettere ordine in un cassetto in cui, per lungo tempo, tutto
sia stato gettato alla rinfusa.16
Fare un bilancio, sia pure provvisorio, le serve anche per ricominciare a vivere.
Gli anni - scrive - sono composti di tanti giorni che si susseguono come battiti
di cigli e io vorrei fare ancora in tempo ad essere felice.17
La scrittura è una forma di cura finalmente rivolta a se stessa, che Valeria
sente l’esigenza di intraprendere, perché avverte con chiarezza, forse per la prima
volta, di essere esposta alle ferite e alle minacce del tempo. Il bisogno che ha Valeria
di scrivere nasce da un sentimento nuovo del tempo. Valeria sente che il tempo le
sta sfuggendo e che occorre dare consistenza alla vita e vita al tempo.
14
Ibid., p. 61.
Ibid., p. 105.
16
Ibid., p. 67.
17
Ibid., p. 251.
15
97
L’identità femminile in Alba Cespedes
Il diario ricopre inoltre un ruolo consolatorio:
Provo una sorta di riluttanza a tornare a casa, in questi giorni. Mi consola soltanto il pensiero di questo quaderno.18
Colma un vuoto di appartenenza. La scrittura registra a questo punto l’emergere del desiderio di amore che non è altro che un desiderio di appartenenza, di
inclusione, di unità. E registra sempre più chiaramente il mutamento, il naufragio
della donna che è stata e l’affiorare di una donna nuova:
Camminavo svelta nel vecchio cappotto grigio. Nelle vetrine vedevo la mia
figura, specchiata, e la guardavo con antipatia. Avrei voluto disfarmi della mia
persona, togliermela di dosso con rabbioso sollievo: era come se fossi stanca di
portare un pesante travestimento.19
La scrittura registra dunque una trasformazione, la segue e nello stesso tempo la alimenta, la rende possibile. La ‘nuova’ Valeria si innamora, ricambiata, di
Guido, inizia ad uscire di nascosto con lui, con lui progetta un viaggio segreto a
Venezia, con lui ride, finalmente.
Nel corso della vita - ognuno l’ha sperimentato - vari ‘io’ si succedono, a
volte tra loro sembra non esserci perfino continuità, eppure chi ci sta vicino spesso
stenta ad accorgersene e resta legato all’immagine di una persona che ormai non
esiste più. Per il marito, ad esempio, Valeria è sempre quella di venti anni prima, una
Valeria di cui lei non ha persino più memoria.
[..] ho capito che Michele non mi conosce affatto [...].
Egli continua a rivolgersi a me attraverso una immagine che non mi specchia
più. Tutto ciò che é accaduto in questi anni non ha scalfito quell’immagine […]
Se andassi da lui e, di colpo, tentassi di riassumere i miei graduali mutamenti
descrivendomi sicuramente quale sono oggi, non mi crederebbe, penserebbe
che, come tutte le donne, mi invento diversa da quella che sono. Preferirebbe,
anche per evitare di affrontare ogni problema, attenersi a quel modello di me
che é ormai pietrificato nella sua mente.20
È ovvio tuttavia che gli ‘io’ precedenti, ciò che siamo stati, le scelte che abbiamo fatto nel corso degli anni, pesino e condizionino il presente. Guido, l’uomo che
Valeria ama, le dice:
E così come siamo, ora che siamo veramente noi, quelli che abbiamo voluto o
potuto essere vorremmo incominciare a vivere nuovamente, consapevolmente
18
Ibid., p. 76.
Ibid., p. 121.
20
Ibid., p. 81.
19
98
Ada Mangano
secondo i nostri gusti di oggi. Invece, dobbiamo seguitare a vivere la vita che
abbiamo scelto quando eravamo altri.
Io ho lavorato tutta la vita, ho impiegato trent’anni a divenire quello che sono.
E adesso? Ha rivolto questa domanda nel vuoto con grande amarezza. Poi,
quasi pentito di essersi lasciato andare, ha aggiunto ridendo che bisognerebbe
stabilire un’età “quarantacinque anni, mettiamo” oltre la quale si avesse diritto
ad essere soli al mondo, e a poter scegliere daccapo la propria vita.21
Tutto ciò che Valeria credeva chiaro e solido va perdendo consistenza, il mistero e l’ambiguità le appaiono come le dimensioni dominanti dell’esistenza.
Sullo sfondo della crisi personale di Valeria e degli altri personaggi vi è certamente una crisi più generale, storica. Il romanzo, scritto nel 1952, è ambientato nel
1950, ovvero nel dopoguerra, ed il tema della guerra ricorre nei discorsi della madre di Valeria che ad essa attribuisce la decadenza economica della famiglia e spesso
è presente nei discorsi del marito per cui la guerra è la principale responsabile del
fallimento delle sue ambizioni professionali. Ancora, la paura della guerra, di una
nuova guerra, è per il figlio un alibi per non agire. Valeria stessa a volte legge la sua
inquietudine anche in una chiave storica, essa le appare il risultato di una complessa
e difficile epoca di transizione:
È cominciato al tempo della guerra [...] il passato non serviva più a difenderci e
non avevamo alcuna certezza del futuro. Sento tutto in me confusamente e non
posso parlarne a mia madre nè a mia figlia perché nessuna delle due comprenderebbe. Appartengono a due mondi diversi: l’uno che è finito con quel tempo,
l’altro che è nato da esso. E in me questi due mondi si scontrano, facendomi
gemere. Forse è per questo che spesso mi sento priva di qualsiasi consistenza.
Forse io sono solo questo passaggio, questo scontro.22
La Storia, apparentemente poco presente, è dunque il contesto in cui la protagonista matura le proprie esperienze e riflessioni. La Storia del resto è introdotta
subito, già nella prima pagina del romanzo, si fa riferimento al tempo: 26 novembre 1950. Il tempo storico era introdotto anche nell’incipit di Dalla parte di lei già
dal suo: “Incontrai per la prima volta Francesco Minelli a Roma, il venti ottobre del
millenovecentoquarantuno”.
Alla fine di maggio del 1950, sei mesi dall’inizio del diario, il figlio comunica
a Valeria che deve sposarsi, che presto nascerà un bambino, le dice che ha bisogno
del suo aiuto, le chiede persino di rinunciare al suo lavoro per poter allevare il
nipotino. Valeria rinuncia a Guido, al viaggio a Venezia, decide di distruggere il
diario. Il senso di responsabilità coincide con la rinunzia, la necessità di aiutare il
21
22
Ibid., p. 133.
Ibid., p. 245.
99
L’identità femminile in Alba Cespedes
figlio o forse solo l’abitudine ad essere guidata dai bisogni e dalle richieste altrui
sono più forti dell’ingiunzione ad essere fedele a se stessa. Può sembrare strano, ma
scegliere la felicità, dire sì alla vita richiede energia e coraggio.
Le parole erano un ponte che Valeria aveva gettato tra lei e la vita, quando il
diario finisce in cenere si consuma anche la voglia di vivere, la dimensione del desiderio, il senso del futuro:
[...] tutte le donne nascondono un quaderno nero, un diario proibito. E tutte
debbono distruggerlo. Mi sento inaridire, le mie braccia sono rami di un albero
secco. [...] Bisogna che bruci il quaderno al più presto, subito, senza neppure
rileggerlo e rischiare di intenerirmi, senza dire addio. Questa sarà l’ultima pagina: in quelle seguenti non scriverò e le mie giornate future saranno, come
quelle pagine, bianche, lisce, fredde. [...] Di tutto quanto ho sentito e vissuto in
questi mesi, tra pochi minuti non vi sarà più traccia. Rimarrà solo, attorno, un
lieve odore di bruciato.23
Protagonista dei due romanzi è, come si è visto, la scrittura. E poi il tempo
che investe ogni cosa, muta l’identità, trasforma i corpi, i sentimenti, le attese, i
desideri. Al mutamento che disorienta e rende la realtà difficile da decifrare le protagoniste oppongono la narrazione, la scrittura. Ad Alessandra le parole servono
per comprendere e per spiegare ciò che è avvenuto, le consentono uno spazio di
libertà, anche se è rinchiusa in una cella. Le parole scritte sul diario rimettono al
mondo Valeria, la riaprono alla vita, consentono la speranza ed una tensione verso
il futuro. Le parole consentono il ricordo, danno ordine agli eventi, finiscono per
lenire, addomesticare il dolore. Riconquistare la parola equivale, come si è detto
all’inizio, a riconquistare l’integrità, il senso.
23
Ibid., pp. 256-257.
100
Rosa Porcu
Non di tesori eredità, ma liberal esempio
Ugo Foscolo, I Sepolcri, v. 150
L’eredità femminile
di Rosa Porcu
Mi è stata chiesta una riflessione sui trent’anni di femminismo e a me sembra
giusto, prima di iniziare, collocarmi, dire cioè da quale osservatorio io tenterò di
guardare questi trent’anni. Il mio è, infatti, un punto di vista singolare per due ragioni. Perché scelgo di fare la mia riflessione a partire da me, quindi anche dalla mia
esistenza soggettiva. La mia, dunque, più che una riflessione collettiva, vuole essere
una testimonianza. La seconda ragione attiene alla mia condizione particolare: io
sono sarda trapiantata in Puglia. Il mio punto di vista quindi, necessariamente, si
colloca al confine tra la mia appartenenza alla storia di questa terra e la mia lontananza, anche se solo di un passo, da essa.
Arrivai in Puglia proprio trent’anni fa. Mi ero appena laureata in filosofia
all’università di Roma e avevo già un figlio. Venire qui non fu solo una scelta personale (il padre di mio figlio lavorava nel Gargano) ma anche politica. Il Meridione
appariva infatti allora, a me e ai compagni con i quali avevo iniziato a fare attività
politica all’università, il luogo in cui investire il nostro impegno.
L’esperienza del ’68 era stata anche una rivoluzione culturale che si era saldata
con la mia formazione cattolica. Sentivo molto forte il bisogno di mettere il mio sapere al servizio di chi ne aveva di meno. Ero però consapevole che, per farlo diventare
strumento reale di libertà e giustizia sociale, dovevo sottoporlo a re\visione.
Così la mia prima scelta, in Puglia, fu di tipo culturale. Mi offrirono la cattedra al Liceo Scientifico di Vieste e la rifiutai. La filosofia che avevo studiato mi
appariva infatti, lontana da ciò che mi sembrava vivo ed essenziale nella realtà sociale. Soprattutto mi sembrava lontana dalla mia vita. Come avrei potuto insegnare
quel sapere che sentivo astratto e sterile perché non risuonava più dentro di me?
Così decisi di insegnare letteratura perché la sentivo più vera.
1. L’emancipazione
Lo stesso anno incominciai anche a fare lavoro politico organizzato a Vico
del Gargano dove risiedevo con la mia famiglia. Il mio primo impegno fu nel sinda101
L’eredità femminile
cato braccianti. Dovevo tenere riunioni e discutere con uomini molto più grandi di
me che nella Camera del Lavoro cercavano il riscatto dal presente brutale che erano
costretti a vivere. Quella esperienza fu per me il primo corso di politica vera! Quegli uomini, sempre stanchi la sera, mi hanno insegnato infatti a scegliere, a dire solo
ciò che è essenziale, in un contesto politico.
Quella esperienza mi ha dato misura politica nel senso che ha posto il limite
al mio radicalismo intellettuale (che io chiamavo allora ideale). Con quei braccianti
ho condiviso l’orgoglio di trovare mediazioni alte quando i miei ideali si incontravano con i loro bisogni. Con loro ho vissuto la gioia della politica come servizio e
come dono.
Così è iniziato il cammino vero della mia emancipazione.
L’emancipazione femminile infatti, per la mia generazione, è avvenuta soprattutto nei luoghi politici misti in cui moltissime donne hanno prestato, negli anni ’70,
la loro opera. ‘Prestato’ è il termine giusto perché ci siamo inserite in un ordine già
dato dove le regole e il simbolico dominante, per buona parte, ci erano estranei. Mi
ricordo che era bello preparare il discorso e cercare di dire la verità sulla mancanza dei
diritti essenziali in quel paese feudo del signorotto democristiano di turno. La mia
sete di giustizia si saziava in parte mentre scrivevo. Dovevo però fare uno sforzo
immane per trovare frasi adatte a un comizio, ma, soprattutto, per prendere la parola
in quel contesto. Ricordo che ero costretta a prendermi un mezzo Tavor per placare
l’ansia e riuscire a dire tutto con la veemenza necessaria.
I miei compagni invece parevano proprio a loro agio col microfono in mano
e tutta la folla sotto il palco. Anni dopo ho capito che la mia ansia dipendeva dal
fatto che in quei palchi avevo superato il confine: avevo infranto lingua e codici
appresi da mia madre. Dunque, non potevo fare altro che ‘intostarmi’ per sostenere quella prova.
Il mio impegno politico però, era in conflitto soprattutto col mio essere madre. Ho cresciuto il mio bambino con enormi sensi di colpa perché i tempi della
politica erano (e continuano ad essere) disumani.
La norma delle riunioni dei direttivi, comitati federali (frequentissimi allora
perché ‘la base’ democratica aveva maggior peso e spessore) era fare le 22.00 e poi
bisognava arrivare a casa perché queste riunioni si tenevano quasi sempre a Foggia.
I compagni apparivano invece tranquilli e si attardavano spesso in lunghi discorsi,
a volte solo per mostrare la loro visibilità politica.
Non voglio con questo parlar male dei miei compagni. Con loro ho fatto battaglie appassionanti! E, in quelle battaglie comuni, in cui ci si spendeva generosamente, in cui ci si metteva a rischio, quasi sempre senza rete sotto, ho sentito spesso Dio
molto più vicino che non in venti anni di frequentazione di chiesa. Voglio dire solamente che la guerra erano sempre i compagni a dichiararla e le strategie erano già
configurate nel loro ordine di senso. A noi donne toccava solo schierarci.
Io mi schieravo con i migliori o meglio con quelli che ritenevo i migliori.
Portavo un bicchiere colmo, a volte una bottiglia, alla loro riserva d’acqua le cui
chiavi però io non ho mai posseduto.
102
Rosa Porcu
Non era questa una colpa dei compagni, era una mia responsabilità. Li avevo
seguiti senza possedere la mappa del viaggio.
2. Dall’emancipazione alla libertà femminile
Se una donna entra nel mondo, in una realtà già codificata, avverte prima o
poi lo scacco di “voler essere e non poter essere”. Si rende conto infatti, all’inizio a
flash, poi via via sempre più chiaramente, di essere ecc\edente, estranea perché non
com\presa nel simbolico dominante. Si sente fuori misura perché è portatrice di
una dis\misura non essendo il mondo fatto a sua misura. Così nei luoghi misti,
prima o poi, tutte siamo arrivate a vedere “la nostra invisibilità politica”. Mi ricordo ancora il mio intervento allo storico congresso del P.C.I. di Capitanata presieduto da Enrico Berlinguer. Mi chiedevo e chiedevo a tutti e a tutte quanta parte di
Rosa potessi spendere in quel partito (che pure mi sembrava il migliore) e mi rispondevo che poteva essere al massimo il 20%. Tutte prima o poi abbiamo sperimentato sulla nostra pelle l’uso strumentale della forza femminile quando, quella
privilegiata di noi, spesso invidiata dalle altre compagne, arrivava tutt’al più ad essere ‘la prima dei non eletti’. Certo, noi donne abbiamo problemi con il potere, ma
ci è risultato sempre più difficile accettare certe mediazioni via via di respiro politico più corto, basate, quasi sempre, su accordi di potere tra soli uomini.
Così, chi prima e chi dopo, deluse, noi donne siamo andate via dai partiti e
dai sindacati.
Abbiamo smesso di fare politica nei luoghi misti.
La crisi però non è stata solo negativa.
Era duro accettare le sconfitte ma, nell’elaborazione dello scacco subito nei
luoghi misti della politica, ci è apparso con chiarezza l’inganno dell’emancipazione
e abbiamo incominciato a sentire il respiro della libertà femminile. Abbiamo incominciato a vedere il mondo con occhi grandi di donna.
Costrette a deviare dalla strada precedente abbiamo trovato, nella ricerca, un
percorso originale a partire dalla nostra esperienza di essere donne.
In questa crisi io ho incontrato il pensiero della differenza. Pensare il mondo
restando fedele alla mia esperienza di vita mi ha affascinata da subito. Fu amore a
prima vista. Come un tornare alle radici, abbeverarsi ad una fonte sorgiva. Ancora
oggi nelle riunioni del Centro “Ricerca Donna” di Foggia sento ogni volta, insieme
alla responsabilità politica una forte emozione. Anche l’elaborazione con gli uomini era stata per me affascinante, ma adesso era diverso, le energie spese, mi riportavano a me. Lo studio e l’elaborazione del pensiero femminile mi hanno permesso di
fare finalmente la pace con la filosofia. Così, dopo averne ri\scoperto la fecondità,
ho deciso di dedicare gli anni più maturi all’insegnamento di questa disciplina.
Dopo la crisi, per un po’, noi donne ci siamo separate dagli uomini e abbiamo
spostato l’asse dell’interlocuzione verso le nostre simili. Cercavamo specchi più
fedeli per capire chi siamo, quali sono i nostri bisogni, i nostri desideri. Molte, in
103
L’eredità femminile
questa fase, hanno fatto anche scelte soggettive dolorose, radicali come entrare in
analisi, separarsi dal proprio compagno o riconoscere pubblicamente il proprio essere lesbica.
All’inizio ci sentivamo tutte sorelle perché compagne nella strada della ricerca dell’identità femminile. Poi abbiamo scoperto le differenze e sono iniziati i conflitti. Conflitti che ci hanno coinvolte fino all’anima perché in quelle controversie
ognuna di noi si giocava la vita, cioè il senso stesso del proprio stare al mondo.
Nei conflitti è emerso un nodo essenziale: la difficoltà a vedere il di più di
un’altra donna, a ri\conoscere in lei la grandezza femminile che ognuna di noi ha
già conosciuto nella propria madre.
Oggi, mi pare, le donne si dividano fondamentalmente tra le più giovani che,
anche grazie al pezzo di strada fatto da noi, pensano, sperano di poter essere vincenti
nel mondo e le donne della mia generazione che, a partire dallo scacco, hanno elaborato pensiero, fanno azioni tentando di trovare misura femminile dello stare al mondo Esse costruiscono senso, goccia a goccia, con un lavorio incessante ma quasi sempre invisibile socialmente. L’opera femminile forse è proprio così, ci dice la Comunità
filosofica “Diotima” di Verona. Si presenta in forma carsica, appare e scompare nella
storia. O meglio lavora in forma sotterranea ed emerge socialmente quando e nei
luoghi in cui il senso di essa viene accolto. Perché l’opera femminile si presenta sempre come un imprevisto e dunque, diventa visibile solo se è ri\conosciuto.
Certo però, è inutile negarlo, il nostro è stato un arretramento rispetto alla
visibilità politica che viene riconosciuta soprattutto a livello istituzionale e organizzato. Molti compagni, che mi stimano e mi vogliono bene, con i quali ho militato per molti anni, mi rimproverano spesso di essere sparita perché non faccio più
attività politica nelle organizzazioni di sinistra. Io sento disagio e rabbia davanti
alla loro richiesta perché avverto che non sono in ascolto. Avverto la loro lontananza che è dovuta al nostro collocarci ancora in maniera diversa nella realtà.
Le donne infatti, non sono sparite, hanno da sempre abitato e segnato la
storia benché siano escluse e si escludano da essa. Sono presenti nel tessuto sociale più diffuso e più vitale. Siamo nella scuola, nelle chiese, nelle associazioni, dove
la politica si intreccia fortemente con la vita quotidiana in cui noi donne mettiamo più passione e troviamo senso. Le donne non sono fuori della politica, sono
nel primo livello, nella ‘politica prima’ e se la politica istituzionale, che è ‘politica
seconda’, non vorrà ridursi a essere solo vuoto esercizio di potere, è da qui che
dovrà prendere il nutrimento simbolico per recepire i bisogni veri di uomini e
donne.
3. Il rapporto con gli uomini e la famiglia
Io penso che la mia sia la prima generazione di donne che ha realizzato il
primo incontro vero con l’uomo. Fino ad allora le donne avevano vissuto separate
dai mariti, dai padri, dai fratelli. Questa dimensione, del resto, è diffusa nella cultu104
Rosa Porcu
ra popolare dove il rapporto tra i sessi è ancora contrassegnato da rigide divisioni di
ruoli , di ambiti spaziali e temporali.
La mia è dunque la prima generazione di donne che si è veramente contaminata con gli uomini.
Li abbiamo amati, scandagliati, analizzati, psicanalizzati forsennatamente. Li
abbiamo imitati, invidiati, odiati con tutte noi stesse. ‘L’incontro ravvicinato di 3°
tipo’ ha prodotto grandi amori, passioni inaudite, elaborazioni culturali e politiche
alte, ma anche scontri furiosi, in cui abbiamo preso atto che non è ancora possibile
“realizzare il vero matrimonio”, come dice Luce Irigaray, “tra uomo e donna”.
Perché nel mondo esistono due generi, maschile e femminile, ma non sono ancora
fondati due soggetti.
È stato l’inganno dell’emancipazione a darci l’illusione dell’incontro vero
con l’uomo. È stato il respiro della libertà che ci ha permesso di rischiare tutto nel
rapporto d’amore. Insieme al nostro corpo abbiamo offerto soprattutto la nostra
anima. Molte volte ho pensato a questo atto di donazione suprema da parte delle
donne della mia generazione il cui senso però, non è stato riconosciuto dai nostri
compagni.
Anzi molti si sono terrorizzati perché non hanno confidenza con le dimensioni dell’anima. I più si sono sottratti per cercare dimensioni d’amore più semplici
e meno paurose.
A noi è toccato a quel punto separarci da loro che già si erano allontanati o
disinvestire dall’amore per soffrire di meno.
Questa sconfitta ha permesso però di trasportare energie “dal tu al me”. Nell’analisi collettiva e personale, infatti, le donne hanno scoperto l’amore di sé. È nata
in questi trent’anni una donna nuova consapevole di sé e della potenza femminile.
Questo spostamento ha causato spesso una rivoluzione dei ruoli codificati nella
famiglia. Col nostro nuovo senso di essere abbiamo messo in discussione, (a volte
anche alla sbarra con la violenza dell’assolutizzazione) i nostri compagni. Con la
nostra capacità di iniziativa abbiamo posto loro il senso del limite e questo è stato
spesso vissuto come annullamento. È presto per fare bilanci, non mi pare però, che
il conflitto tra i sessi, aperto dalla mia generazione, sia stato fecondo di un rapporto
diverso tra uomo e donna nella nostra realtà. Sento, anche attorno a me, ancora
molta fatica e molto dolore. È ad esempio vero che qui da noi la famiglia è ancora
un valore solido e saldo rispetto alla realtà delle grandi metropoli. La gran parte
delle coppie della mia generazione, infatti, è, nonostante le tempeste, rimasta insieme. Qui da noi sono molto poche le coppie che si sono separate ma, sia gli uomini
che le donne, in generale, non stanno bene. Mi pare addirittura che il sentimento
più diffuso nella maggioranza delle coppie stabili, sia il rancore. E questo non credo
sia, in ogni caso, un segno di buona salute.
Non è stato facile crescere i figli. Dopo aver negato i modelli dei nostri genitori infatti, siamo andate in mare aperto, quasi sempre contro corrente, a trovarne
dei nuovi. Così, spesso, ci è capitato di essere come ‘barchette in mezzo al mare’
senza una bussola. Anche perché la gran parte di noi, i figli, li ha tirati su da sola. I
105
L’eredità femminile
nostri compagni infatti, erano troppo impegnati nelle loro imprese professionali e
politiche. Oppure sono rimasti esclusi o stritolati nel rapporto privilegiato che i
figli, soprattutto i maschi, avevano con noi, o nei nostri conflitti di coppia. Insomma i padri si sono sottratti sempre di più all’impegno di crescere i figli e questi, nel
bene e nel male, sono rimasti fondamentalmente affare nostro.
Certamente sono enormi i cambiamenti avvenuti nella nuova famiglia formata dalle donne e dagli uomini della mia generazione. Spesso è andato sottosopra
il senso precedente di essere mariti e mogli, padri e madri. Ma, nel disordine, nel
capovolgimento dei ruoli precedenti, io vedo il tentativo positivo di creare un nuovo ordine di relazioni più sane benché sia stato e sia ancora molto faticoso reggerlo
e significarlo.
Non è stato facile educare i figli, soprattutto inserire loro nella diversa visione del mondo per affermare la quale la mia generazione ha fatto tante battaglie.
A pensarci bene, per me, è sempre stata una lotta col senso comune i cui
valori spesso erano in contrasto con quelli che cercavo di comunicare a mio figlio.
È stato molto faticoso crescerlo in questa realtà dove è ancora molto diffusa
una mentalità innervata da maschilismo e familismo. È stato difficile comunicargli
insieme il valore di essere uomo senza per questo detrarlo all’essere donna. È stato
difficile fargli riconoscere il mio diritto a fare politica e ricerca in una realtà in cui
l’azione più grande che può compiere una mamma è servire il proprio figlio. È stato
impossibile educarlo alla cooperazione familiare perché gli amici lo deridevano chiamandolo ‘femminella’. È stato duro fargli accettare che è immorale chiedere favori
in una realtà dove, i genitori, soprattutto quelli che contano, continuano a scegliere
i docenti e i corsi in cui inserire i propri figli. È stato difficile insegnargli che l’amore
non è un bene materiale in una realtà in cui la modalità di amare i figli si misura
dagli oggetti che i genitori acquistano per loro.
Mio figlio mi rimprovera spesso di averlo fatto vivere in una situazione economica poco florida a causa del mio forte impegno politico e sociale che ha distolto
le mie energie dal perseguire una maggiore stabilità. Ha ragione naturalmente, ma
la mia è una scelta consapevole. Sono convinta, infatti, che i figli non abbiano bisogno di agiatezza economica, ma soprattutto di testimonianza, da parte dei genitori,
di una vita il più possibile libera e ricca di qualche passione inesauribile che dà il
fiato per resistere anche nelle fasi più dure. Questa è, a mio avviso, l’eredità diversa,
il di più rispetto alle nostre madri, che noi donne nuove possiamo lasciare ai nostri
figli e alle nostre figlie. La nostra maggiore libertà unita alla forza simbolica delle
nostre madri cioè l’autorità femminile.
106
Katia Ricci
Partitura a più voci
di Katia Ricci
1. Introduzione
La conversazione che segue tra alcune donne e alcuni uomini del circolo “La
Merlettaia” di Foggia è nata dalla richiesta di un articolo da parte della redazione di
«la Capitanata», che poneva alcune domande, sollecitandone altre: “A distanza di
più di trent’anni dal movimento femminista e dalle conquiste politiche, sociali ed
economiche in quali direzioni si sta muovendo l’universo femminile? A che velocità e con quali contenuti? Quali sono state le conquiste più significative? E come si
è evoluta la parte più importante della società, la famiglia, con il più significativo e
consapevole apporto della donna?”
Ancor prima di soffermarmi a riflettere sulle questioni, ho subito pensato che
non volevo rispondere da sola e tracciare una storia delle conquiste del femminismo e
dei problemi ancora aperti, ma far vivere e mostrare una pratica di confronto e di
ricerca, che è insieme di relazioni umane e politiche. Attraverso queste sono impegnata con altre donne e uomini in un’azione di trasformazione di me stessa e del
mondo, a partire dai contesti in cui quotidianamente opero - scuola, famiglia, città -,
in reti di relazioni che coinvolgono altre città in Italia e fuori. La nostra è un’azione
politica, che ha l’ambizione di coinvolgere tutti e che ha alle spalle un femminismo
orgogliosamente vantato. Si svolge pubblicamente, nella società, ma lontano dai partiti e da quei luoghi che sono ormai di scontri di potere, di contrapposizioni o di pura
amministrazione e gestione dell’esistente e, dunque, impolitici. Per di più sembrano
ignorare che non c’è nessun momento della vita dell’umanità, nessuna gioia, nessun
dolore, nessuna passione, nessuna questione, nessuno spazio, che non metta a confronto o in tensione, in armonia o in conflitto, esseri umani che sono donne o uomini.
Nelle questioni poste dalla redazione di «la Capitanata» c’è un vizio di fondo: guardare il femminile come se costituisse un sistema univoco definito e chiuso, secondo
una visione - maschile - del mondo, anch’essa statica e chiusa. Invece l’effetto più
grande e anche più sconvolgente del femminismo è l’aver liberato le differenze. È un
pensiero che non si lascia codificare, sfugge alle sintesi, perché vive nella molteplicità
dei singoli esseri umani, donne e uomini.
107
Partitura a più voci
2. Le voci
“Dunque oggi la domanda centrale - dice subito Antonietta - è: qual è il
rapporto tra donne e uomini, come si è modificato e come modifica il mondo?”.1
Adele: “La politica con le donne ha cambiato la mia vita, non nel senso che
mi sono occupata di altre cose, ma nel senso che è cambiato il mio punto di vista
sulle cose, cioè è cambiato tutto”.
Antonietta: “Aver conquistato la libertà di vedere, di agire e dire il mondo
secondo un’angolazione femminile, a me ha dato la libertà di disegnare il mio lavoro come insegnante, restando il più possibile fedele a ciò che sentivo giusto, di cambiare quello che potevo, di non fare quello che non desideravo, senza aspettare che
le trasformazioni e la libertà venissero dall’esterno, da riforme o dall’azione di movimenti, partiti, sindacati. Ho preso nelle mie mani il cambiamento, insieme a chi
condivideva il mio cammino”.
Adele: “Per me è stato come un salto dell’essere. Ho sentito che potevo decidere della mia vita con libertà, non secondo modelli e percorsi tracciati da altri. Ero
responsabile della mia felicità e avvertivo nelle altre donne la stessa ansia, la stessa
gioia e lo stesso desiderio”.
Antonietta: “Quelli sono stati i frutti della stagione d’oro del femminismo, una
vera e propria rivoluzione che ha segnato la vita non solo di tante donne, ma ha
cambiato l’orizzonte della società e il modo di intendere l’amore e la politica. Molte
donne sono uscite dai partiti e, con l’autocoscienza, hanno messo al centro di ogni
contesto la necessità del cambiamento personale, esistenziale e delle relazioni
interpersonali. Carla Lonzi ha rovesciato come un guanto la concezione stessa del
femminile, nel senso che per lei non si trattava di costruire un’identità femminile, ma
al contrario di liberarsi di tutte le identità che la cultura maschile offriva alle donne e
imparare a scoprire e significare la propria differenza, addirittura spogliandosi della
stessa identità femminista. Non si tratta di ‘essere in un modo’, ma di essere se stesse.
Oggi, possiamo ancora valutare l’attualità e la fondatezza dell’insegnamento di Carla
Lonzi in un mondo in cui tutte le identità fisse si stanno rivelando delle gabbie, che
impediscono lo scambio e una reale comprensione di sé e dell’altro”.
Katia: “Un altro lascito importante del femminismo degli anni ’70 è la capacità
di stabilire reti di rapporti tra gruppi, città e nazioni diverse. Molte donne lavoravano
a mantenere collegamenti internazionali. Anche oggi c’è una rete che va dalle Vicine
di Casa alle Città Vicine, agli scambi con le donne di Plaza de Mayo, con le afgane
della RAWA, con le donne in nero della Palestina e di Israele. Sono ammirata dalla
capacità che hanno avuto, per esempio, le madri di quegli argentini uccisi durante la
dittatura, che hanno trasformato il loro personale dolore in una leva politica per smascherare la violenza del potere e produrre cambiamenti nella società”.
Anna: “Attraverso questi scambi tra donne, anche di nazioni diverse, si va
1
Hanno partecipato alla conversazione: Anna Potito, Antonietta Lelario, Adele Longo, Donata Glori,
Pia Marcolivio, Gian Piero Bernard, Katia Ricci, Eugenio Gargiulo, Clelia Iuliani.
108
Katia Ricci
delineando e diffondendo un modo di far politica diverso da quella maschile, senza
organizzazioni rigide e gerarchie, ma secondo una modalità di trasformazione, che
mette insieme chi sta più vicino - il collega di lavoro, l’amica/o, l’uomo o la donna
con cui hai una relazione d’amore - con chi appartiene alla sfera più lontana, per
esempio le donne che in varie parti del mondo si battono per la propria libertà”.
Katia: “Ho letto recentemente un’intervista di Luisa Muraro all’artista di
teatro e di cinema Odile Sankara, sorella del presidente del Burkina Faso Thomas
Sankara, ucciso nel 1987. Lei, nel tentativo di migliorare la situazione nel suo paese,
punta non a fare la rivoluzione, finita nella violenza che le ha portato via il fratello,
né alla battaglia per l’emancipazione, ma alla ricchezza culturale delle varie etnie, al
teatro e all’arte. Con la sua associazione “Talenti di donne” si propone di “promuovere l’eccellenza femminile”, di valorizzare la figura della donna artista e la
produzione artistica femminile. Queste donne dimostrano la loro eccellenza, facendo leva sulla creatività e vivono seguendo il proprio desiderio, in un paese in cui
è ancora inconcepibile che una donna non sia sposata e non abbia figli. Cercano una
propria autonomia senza far ricorso ai modelli occidentali, che anzi vedono come
un pericolo che può snaturare il proprio modo di essere. Lavorano molto sul linguaggio “per non cadere – dice Odile- nel linguaggio della competizione con gli
uomini, che non è quello che ci interessa”.
Antonietta: “L’insegnamento che ci viene da donne come Odile Sankara o Zoya
della RAWA è che c’è un modo di autosignificarsi, di scegliere la propria strada, restando fedeli a se stesse e senza annullare l’altro, facendo leva sulla relazione, e non
sulla contrapposizione, come possibilità di trasformazione. Queste donne ricercano
la strada della libertà, senza passare necessariamente attraverso l’emancipazione, che
porta con sé il pericolo della omologazione, un rischio anche per le donne occidentali, che inseguono il mito della parità. Non cogliere la distanza tra libertà ed emancipazione, differenza e parità, può significare da una parte non vedere e non ricercare nel
corso della storia le tracce femminili, dall’altra avere come meta l’inclusione ed accontentarsi di adeguarsi al modello maschile. Su questo puntano le varie leggi per le
pari opportunità che, apparentemente dalla parte delle donne, in realtà danno spesso
risposte inadeguate al loro bisogno di protagonismo, come avviene per le quote di
partecipazione alle liste elettorali. Usando il parametro della parità, in questo caso, si
maschera il fatto che molte donne non vogliono partecipare alle competizioni elettorali, come non desiderano esserci in tutti quei luoghi in cui il potere, l’arrivismo, il
denaro prendono il posto della realizzazione di qualcosa di utile anche per gli altri,
dell’affettività e della creazione di tessuto sociale.
Con il movimento e il pensiero delle donne, che hanno fatto della differenza
con gli uomini una ricchezza e una leva di trasformazione, non una distanza da
colmare, sono nate nuove pratiche politiche e parole per dire cose che non erano
mai state dette. Pensiamo per esempio all’amore materno e all’opera di cura delle
madri che c’è stato in tutti i tempi, ma era considerato tanto naturale da non essere
visto; invece le donne hanno trovato la parola per significarlo e simbolizzarlo, per
rintracciare lì nel principio materno l’origine della capacità umana di relazionarsi”.
Donata: “È vero, uno dei grandi cambiamenti è stato l’aver saputo nominare
109
Partitura a più voci
la madre e il suo amore, che non è più a senso unico - l’amore per il figlio - ma è il
riconoscimento della madre, il saperla vedere, guardare come atto d’amore, da parte del figlio o della figlia”.
Adele: “Questo è un passaggio importante, è l’esperienza di uno spostamento dall’individualità personale alla dimensione politica. Anche nel pensiero maschile c’è amore per la madre, ce lo dice l’esperienza e ce lo dicono tante opere d’arte.
Ma nel pensiero femminile l’amore è qualcosa che va oltre il rapporto più o meno positivo che ciascuna/o può aver avuto con la propria madre. Vi ricordate il film Ladri di
bambini? Al carabiniere che dice alla bambina: “tua madre ti trattava male”, lei risponde, con l’inconsapevolezza e la verità dei suoi anni: “è sempre mia madre”. Qualunque
cosa succeda, ogni essere umano conserva il ricordo di quell’atto d’amore che ha ricevuto fin dal momento in cui la madre lo ha portato dentro di sé. Soprattutto è fondamentale la relazione di fiducia che si instaura e che è alla base di ogni conoscenza. Nominare la madre ha significato riuscire a dire il principio, l’origine di qualsiasi cosa.
Questo ha dato a tante donne un radicamento e ha impedito loro di cadere in quella
sorta di nichilismo della cultura maschile, in quel cupio dissolvi, in quel senso di distruzione, che sembra avvolgere il mondo e di cui tutti fanno le spese. Come spiegare altrimenti questa corsa pazzesca a fare la guerra? E lo stravolgimento e l’avvelenamento
continuo dell’ambiente? E il sistematico imbruttimento di città e paesaggi?”
Katia: “Tu dicevi giustamente che anche nella cultura maschile c’è amore per la
madre, però, mentre è addirittura ostentato nella vita privata, tanto che, forse non a
torto, gli italiani in particolare si sono guadagnati la fama di mammoni, a livello simbolico rimane come sepolto, sostituito dall’ansia per il potere, per l’affermazione di sé a
scapito dell’altro. In questo dimenticando proprio quell’impronta materna che è l’essere in relazione e che costituisce il fondamento della soggettività. Mi ha sempre colpito
molto la riflessione di Hannah Arendt sull’importanza della nascita e sul fatto che,
anche se sono mortali, gli uomini non sono nati per morire, ma per cominciare. Invece,
se non si dà valore all’origine, alla nascita, succede che anche i luoghi della nascita vengano misconosciuti e distrutti, dalle abitazioni costruite nel corso della storia alla natura, che è il luogo e la condizione fondamentale della propria nascita”.
Eugenio: “Riconoscere la gratitudine per il gesto d’amore della madre che ti
ha messo al mondo, significa disporsi a riconoscere il debito nei confronti dell’altro
e a superare l’individualismo degli uomini che pensano di dovere tutto a se stessi e
che fanno dell’essere indipendenti, nel senso dell’autosufficienza, il fondamento
della loro identità. Capire questa cosa, però, non è stato facile per me, forse perché,
a differenza di voi donne, che per il fatto di generare siete più vicino all’opera materna, io mi sono sempre identificato con mio padre, dando importanza ai valori di
cui era portatore anche quando li ho negati e combattuti, come ha fatto la generazione del ’68, e dunque vedevo mia madre solo come fonte di affettività, come quella che comunque mi accettava, mi voleva bene, mi curava anche, ma non pensavo
che era da lei che dovevo ricavare insegnamenti e modelli per la mia vita.
Katia: “È stato grazie al confronto con altre donne e alla fiducia che ho in
loro che ho potuto riconoscere questo principio materno come fondante del mio
110
Katia Ricci
essere donna. Questo paradigma d’amore, che mi è stato donato, fa sì che io viva
l’impegno nella scuola e nella politica come una forma di restituzione nei confronti
di mia madre, un volere, cioè, far vivere l’opera materna di cura per modificare il
mondo, in modo da renderlo più simile a quell’ambiente accogliente che mia madre
cercava di prepararmi, mentre mi aspettava. So che questo sentimento è stato nominato da alcune storiche come “maternità sociale”.
Gian Piero: “Il senso di gratitudine io l’ho scoperto nel legame con altre donne, lì ho capito che se riuscivo a provare gratitudine è perché portavo dentro di me
la gratitudine per mia madre. Sento che è necessario partire da questo dato positivo
come spinta per l’azione politica. Oggi penso che acquisire maggiore consapevolezza, tendere a modificare il luogo in cui stai, indicare e praticare direzioni diverse,
è possibile solo attraverso un’opera di contagio. C’è un tentativo, che noi uomini e
voi donne stiamo facendo, e che noi abbiamo imparato anche da voi, di dare senso
non solo alle nostre pratiche, ma anche alle pratiche fatte dall’altra e dall’altro. Secondo me questo è quello che ci accomuna ed è la cosa sulla quale noi possiamo
cominciare a confrontarci; voglio dire che non mi interessa molto fare l’elenco delle
colpe maschili, di che cosa è successo, mi interessa di più discutere sul senso che
hanno per me le pratiche delle donne e su che cosa mi insegnano del mondo. Mi
piacerebbe che le donne discutessero sul senso che per loro hanno le pratiche maschili e da qui costruire un mondo di colloquio, di relazione che non è più solo di
relazione a due, è di relazione molte a molti e molti a molte, in cui si cerca di comprendere che cosa si può fare per modificare il mondo”.
Antonietta: “Questa politica basata sulle pratiche e sul contagio è anche rischiosa, perché può essere causa di invisibilità, essendo prodotta da individui e quindi
soggetta alla situazione contingente, ai tempi a volte lunghi della natura umana che
deve scoprire da sé strade nuove, altrimenti nessun cambiamento può essere possibile. Un altro pericolo lo colgo nel tentativo continuo della normalizzazione. Infatti spesso si è cercato di disciplinare le novità apportate dalle donne e svuotare di
senso la libertà femminile. Allora sento il bisogno di riferirmi all’arte, perché lì
vedo registrati i cambiamenti enormi che sono avvenuti e questo mi consola, perché non possono essere cancellati né dal potere né dall’inerzia delle moltitudini”.
Anna: “Mi fai venire in mente - e lo sottolineo come un elemento di differenza tra uomo e donna, anche se è vero quello che dice Gianpiero e cioè che oggi sono
sempre più numerosi gli uomini che mettono in atto pratiche politiche diverse,
anche sull’esempio delle donne, - che alcune ragazze della mia scuola, il Liceo Classico “V. Lanza”, si sono rivolte ai linguaggi dell’arte, della poesia, del teatro, della
musica e della danza, allestendo uno spettacolo, per far conoscere la situazione delle donne afgane e le attività politiche della RAWA, piuttosto che ricorrere alle manifestazioni, ai volantini e alle grandi e generali argomentazioni a cui di solito ricorrono invece i ragazzi. Un altro dato interessante è che non hanno aspettato e preteso che tutta la classe fosse d’accordo, ma di fronte alle titubanze delle compagne e
dei compagni hanno semplicemente fatto sgorgare l’emozione che hanno provato
durante l’intervento di Zoya a Foggia. Queste ragazze hanno dato prova anche di
111
Partitura a più voci
concretezza nell’agire e di come sia possibile fare e mostrare degli spostamenti nei
piccoli gesti, cosa che in un certo senso ti mette al riparo dalle delusioni perché ti
misuri sulla realtà. Invece mi è capitato di sentire da parte dei ragazzi affermazioni
di principio, grandi e complesse analisi della situazione internazionale, che risuonavano, per come le dicevano e per la lontananza rispetto alle loro emozioni e alla
loro vita, piuttosto astratte e che li portavano ad assumere comportamenti già noti
e a prendere le solite iniziative di scioperi o autogestioni a scuola, che non hanno
prodotto nessuno spostamento né portato ad una maggiore conoscenza di sé, dei
propri bisogni o delle proprie emozioni, per cui poi lamentano il fallimento delle
iniziative, magari incolpando gli altri per non avere dimostrato lo stesso impegno”.
Katia: “Hai nominato una questione importante: infatti la politica delle donne mi ha insegnato che se da una parte è bene non avere atteggiamenti consolatori e
non accontentarsi, dall’altra la consapevolezza che è necessario fare di più non deve
portare a colpevolizzare né sé né gli altri. La colpevolizzazione uccide la creatività,
non fa vedere possibili strade di uscita e chiude la ricerca di soluzioni possibili.
Non ti mette nella posizione di farti domande che aprano strade del tipo: perché
non è scattato il desiderio, che cosa posso inventarmi per suscitare nell’altro la curiosità, l’emozione, ecc…? Per esempio mi chiedo come mai nell’incontro con Zoya
tutti i presenti, tutte le ragazze e i ragazzi erano rimasti coinvolti, e poi solo quattro
ragazze, parlo della mia scuola, si sono impegnate a fare qualcosa di concreto per le
donne della RAWA”.
Pia: “È mancato il passaggio dalla dimensione personale a quella sovrapersonale”.
Antonietta: “Mi ha colpito durante lo spettacolo delle ragazze del Liceo Classico la presenza dei genitori, perché ho misurato la differenza rispetto a quando alla
fine degli anni ’60 con l’associazione “Teatro Club”, a cui appartenevo, partecipai
alla riduzione teatrale di Lettera ad una professoressa di Don Milani e allora non
dissi niente ai miei genitori. Invece queste ragazze si sono assunte una responsabilità diversa, hanno voluto far vedere anche ai genitori il loro cambiamento, il loro
passaggio alla politica, alla dimensione sovrapersonale, di cui parlava Pia”.
Pia: “Questi cambiamenti sono nello stesso tempo visibili e invisibili, nel
senso che sono visibili se qualcuno li vede e gli dà valore, invisibili perché la società
nel suo complesso non sembra accorgersene e, quasi mai, sa dare valore alle piccole
cose, che però possono avere una grande valenza simbolica. Le ragazze hanno mostrato bravura nelle azioni materiali, intrecciando linguaggi diversi, ricucendo le
varie parti dello spettacolo, e hanno dimostrato anche competenza simbolica nel
modo determinato con cui hanno espresso le loro opinioni. La presenza dei genitori allo spettacolo mi parla di un tessuto sociale diverso. Quei genitori, infatti, non
sono più solo una presenza affettiva, come in passato per un qualunque saggio dei
propri figli, non sono andati per apprezzare la loro bravura artistica, ma per valorizzare il cambiamento, le possibilità espressive, la capacità di pensiero e di azione
delle loro figlie. Niente e nessuno potrebbe bloccarle nella strada di libertà intrapresa e già guadagnata. Nemmeno il continuo tentativo di normalizzazione di cui
112
Katia Ricci
parlava Antonietta, che ha un doppio movimento: di appropriazione, prima di tutto, delle parole, delle esigenze, delle invenzioni (oggi per esempio tutti parlano di
relazioni, ma spesso senza pratiche), e di addomesticamento. Tutto questo rivela
una visione miope della storia e un infantile senso di onnipotenza, paragonabili a
quelli di chi pensa di bloccare i flussi degli immigrati con una legge. La libertà femminile è un fatto, un dato di realtà con conseguenze visibili in ogni accadimento
quotidiano, nel tessuto sociale, nel lavoro, nell’economia, negli affetti. Anche quelle donne che in ogni parte del mondo ancora soffrono di vincoli e censure sanno
che la loro libertà è possibile, se altre l’hanno guadagnata”.
Antonietta: “Certo è cambiato il tessuto sociale ed è profondamente cambiata la famiglia, che non è più la famiglia patriarcale. Con il venir meno del patriarcato
anche per opera dell’affermarsi delle donne, sono crollati gli stereotipi, le contrapposizioni violente o, al contrario, l’ubbidienza forzata nei confronti dei genitori o
le ipocrisie ed è emersa la dimensione relazionale libera, aperta. È un processo che
coinvolge tutta la società, con legami tra le persone, non basati su rapporti di potere
o economici o su ruoli fissi”.
Clelia: “In un certo senso il conflitto è ancora più forte in famiglia, perché c’è
un’aspettativa da parte delle donne che è più alta di prima. La maggior parte degli
uomini, invece, sembrano essere capaci di accettare solo la fase dell’emancipazione,
mentre di fronte al modo radicalmente altro di essere delle donne, restano piuttosto
disorientati”.
Donata: “Queste nuove modalità non sono tanto o solo delle conquiste che
si possono misurare secondo parametri quantitativi; le donne mostrano percorsi
personali che sono delle aperture, delle possibilità e che sono tali per chi le vuole
cogliere: il percorso di libertà di una donna può solo servire da esempio, è qualcosa
che non si può imporre né normalizzare e, ritornando a quello che diceva Pia, per
questo rischia di restare invisibile”.
Katia: “Qualche giorno fa ho letto su un giornale un’osservazione polemica
di un politico che criticava Gino Strada per il suo pacifismo - diceva con asprezza a senso unico e sosteneva che avrebbe voluto sentire da lui una parola di condanna
anche nei confronti del terrorismo. Questa cosa mi sembra un esempio di incapacità di vedere comportamenti e atteggiamenti che non seguono vie già note, per cui
addirittura non si riesce a cogliere in tutta la vita, in tutte le azioni di Gino Strada,
che certo non lavora e vive in situazioni comode, un continuo atto di accusa di ogni
violenza.
Gian Piero: “È un esempio di come si sopravvalutano le parole, anche per
motivi strumentali, mentre l’intrecciarsi del tessuto sociale consiste nel tenere insieme pratica e parole”.
Katia: “Questo non voler vedere e nominare il movimento che c’è nella realtà, il dare poco valore alle pratiche è un modo, secondo me, di occultare il cambiamento; interpretare ogni azione secondo schemi vecchi serve a conservare e perpetuare il potere”.
Antonietta: “Se il cambiamento consiste soprattutto in aperture di possibili113
Partitura a più voci
tà, anche la parola che lo nomina non può che essere provvisoria, non fissa. Un
ordine diverso non può che basarsi sull’apertura all’innovazione, sulla creatività e
sulle pratiche”.
3. Reti di riferimento
La politica delle donne (detta anche ‘politica prima’) non ha organizzazione,
non ha progetti, fa dell’essere donna la chiave per leggere e trasformare la realtà. Al
centro di questa politica c’è il desiderio e fondamentali sono le pratiche di relazioni,
in primis, con altre donne. “Una pratica - dice Chiara Zamboni - è un’azione che
non può essere adoperata come uno strumento fuori di noi per ottenere uno scopo.
A differenza di un’io, che adopera un’azione fuori di sé, per incidere sulla realtà
esterna, nella pratica il soggetto è implicato nell’azione. Il soggetto che dà avvio
all’azione, alla fine dell’azione, si troverà esso stesso trasformato. Il nostro modo di
pensare e di vivere viene modificato da ciò che avviene nel corso dell’agire. Per
questo una pratica non è una tecnica […] è un percorso, che si fa facendo”.2
Nel 1987 esce il libro collettivo Non credere di avere dei diritti, che è stato
tradotto in diverse lingue. Le autrici appartengono alla Libreria delle Donne di
Milano e sostengono di non volersi battere per conquistare la parità con gli uomini,
in nome dell’uguaglianza, ma di voler ritrovare se stesse e il proprio posto nel mondo, a partire dal riconoscimento della propria differenza e dandosi forza reciprocamente. Al di fuori del cosiddetto femminismo delle pari opportunità, mettono alla
base della politica le relazioni tra donne. Il “pensiero della differenza” è un punto
di riferimento sia per le donne e gli uomini che lo hanno accolto, sia per quelle e
quelli che lo contestano.3
La ‘figura materna’ è un tema che unisce pensatrici italiane, americane e francesi, per esempio Nancy Chodorow, Adrienne Rich, Luce Irigaray, Julia Kristeva,
Hélène Cixous, Luisa Muraro. Quest’ultima è una delle fondatrici della Libreria
delle Donne di Milano e della comunità di filosofia femminile “Diotima”. È una
delle figure più importanti della filosofia italiana.
Essere nati da madre è ciò che accomuna donne e uomini, è un punto di
contatto concreto che permette la comunicazione, al di là delle differenze. “Se non
si mette in campo questo riferimento - dice la Zamboni - donne e uomini cadono
2
Chiara ZAMBONI, La Filosofia donna, Colognola ai Colli, Demetra, 1997.
Per approfondire l’argomento, cfr. Adriana CAVARERO et al., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1987. I temi legati alla differenza, parità e uguaglianza sono spesso dibattuti sulla
rivista «ViaDogana» della Libreria delle Donne di Milano. L’indirizzo del sito è: www.libreriadelledonne.it
4
ZAMBONI, op. cit. Fondamentali per analizzare la centralità della madre sono tre testi: Luisa MURARO, L’ordine
simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991; Donald W. WINNICOTT, Gioco e realtà, Roma, Armando, 1974;
Eva Maria THÜNE (a cura di ), All’inizio di tutto la lingua materna, Torino, Rosemberg & Sellier, 1998.
3
114
Katia Ricci
nella trappola dell’immagine rovesciata allo specchio: ciò che è delle donne non è
degli uomini e viceversa”4.
Autocoscienza. Carla Lonzi chiamò autocoscienza la pratica secondo la quale le donne, che negli anni ’70 si riunivano in piccoli gruppi, parlavano della propria
esperienza davanti alle altre. Era un modo per sottrarre la coscienza di sé alle interpretazioni che ne dava la cultura maschile e per fare emergere la soggettività femminile nel confronto con altre donne. La pratica dell’autocoscienza fu inventata negli
Stati Uniti, non si sa da chi, alla fine degli anni ’60. Carla Lonzi dette vita ad uno dei
primi gruppi italiani con le caratteristiche di quella pratica. È stata un’importante
critica d’arte. Scrisse nel 1969 Autoritratto, che inaugurò un tipo di critica basata
sul rapporto personale con gli artisti. Lasciò l’arte per dedicarsi al femminismo e al
gruppo di Rivolta Femminile, che ha pubblicato i suoi scritti politici, tra cui Sputiamo su Hegel (1970), La donna clitoridea e la donna vaginale (1971), Taci, anzi parla
(1978), Armande sono io! (1992).
L’ “Autoriforma gentile” è un movimento di lotta per nulla rumoroso che
nasce a scuola e all’università negli anni ‘90 per opera di insegnanti di ogni parte
d’Italia, che hanno avviato un processo autonomo di cambiamento, basato sulle
relazioni tra chi vive nella scuola e sulla valorizzazione del sapere scaturito dall’insegnare. Sono donne e uomini che pensano la scuola con coordinate inedite, la guardano con occhio sgombro da stereotipi, vi cercano con lucida determinazione qualità e senso capaci di liberare il piacere in chi la abita, fuori dal dover essere e da
modelli precostituiti, per rispondere ai profondi cambiamenti della società senza
adeguarsi alle logiche aziendalistiche e organizzative dominanti.5
RAWA è un’associazione rivoluzionaria delle donne afgane, che si batte per
strappare la popolazione all’analfabetismo, alle malattie e alla morte e per la libertà
delle donne afgane. Per saperne di più si può leggere la storia di Zoya.6 Zoya è una
ragazza di 23 anni, militante della RAWA in un campo profughi in Pakistan. Ospitata a Foggia dall’Amministrazione Provinciale e dal circolo “La Merlettaia”, ha
raccontato la sua storia in un affollato incontro pubblico, a cui hanno assistito anche quattro ragazze del Liceo Classico di Foggia, Federica Cucci, Lucia Caputo,
Giovanna Di Pietro e Marianna Magistro che, colpite dalla sua storia, hanno allestito uno spettacolo multimediale, La violenza cresce nel silenzio, per diffondere il
libro e raccogliere fondi per RAWA.
5
Sono stati organizzati numerosi convegni e sono stati pubblicati atti e libri, tra cui: Luisa MURARO – Pier
Aldo ROVATTI (a cura di), Lettere dall’Università, Napoli, Filema, 1996; Antonietta LELARIO et al.(a cura di),
Buone notizie dalla scuola, Milano, Pratiche, 1998; Vita COSENTINO – Gianina LONGOBARDI (a cura di), Pubblica, libera, leggera, Vincenzo Urini, Catanzaro, 1999. Sito del movimento di autoriforma gentile della scuola: www.autoriformagentile.too.it
6
ZOYA et al., Zoya, la mia storia, Milano, Sperling & Kupfer, 2002.
115
Partitura a più voci
“La Città Felice” è un’associazione nata a Catania nel giugno 1993 per iniziativa delle donne del gruppo “Le Lune”, con il desiderio di mettere ‘ordine’ in città,
ridefinendo il senso della sua vivibilità, della sua immagine e del suo funzionamento, alla luce della consapevolezza acquisita attraverso la pratica politica e il pensiero
della differenza sessuale.
Con altre donne e uomini di varie città italiane hanno dato vita alle Città
Vicine per scambiarsi il senso delle esperienze politiche esperite nella propria città,
e definire insieme progetti.
Attraverso la rete e i legami, le “Città Vicine” acquistano maggiore autorizzazione alla coerenza dell’agire politico, più visibilità ed incisività nei territori
prescelti, e i confini di queste città si dilatano, lambendosi l’una con l’altra sino a far
sì che le ‘città delle altre’ diventino simbolicamente le proprie.
Le “Donne in nero” nascono nel gennaio del 1988 in una piazza di Gerusalemme ovest dall’incontro di sette donne israeliane; manifestano in silenzio per un’ora
ogni venerdì con cartelli che dicono Stop the occupation, vale a dire basta alle occupazioni militari del governo israeliano della Cisgiordania e di Gaza. In Italia le donne dell’ “Associazione per la Pace” tra le varie attività hanno deciso di dare visibilità
e voce alle palestinesi ed alle israeliane contro l’occupazione militare costituendosi
come gruppo di donne in nero in Italia. A partire da venerdì 1 settembre 1988 le
donne in nero hanno manifestato nelle varie piazze d’Italia attraverso l’adesione
spontanea ai contenuti della nonviolenza e della ricerca del superamento del conflitto materiale ed emotivo. Hanno la modalità di tessere la rete della solidarietà e
della diplomazia dal basso, quindi di sostenere le donne che vivono nei luoghi difficili entrando in relazione con loro e creando ponti di solidarietà.
116
Maria Teresa Santelli
La donna oggi. Quante domande senza risposta!
di Maria Teresa Santelli
1. Capire la donna a Foggia
Era il 1999 quando, nell’aula magna del Liceo Scientifico “Alessandro Volta”
sede del Laboratorio Storico di Foggia, presentai E se…. pagine che danno un nome
alla piccola rivoluzione combattuta tra le mura dell’Istituto Industriale “Saverio
Altamura” nella cui sala docenti Antonietta, Clelia, Ester, Maria Assunta, Maria Grazia, Pia, Sesella accomunate da un simile retroterra culturale e familiare, distinte da un
diverso modo di sentirsi donna, spinte da una medesima volontà di costruire una
realtà nuova, si incontravano, parlavano, scoprivano se stesse. Erano i caldi anni ‘70,
gli anni della lotta all’autoritarismo e quelle donne che, nella sala docenti, stavano
dando voce al proprio sentire si opposero ad esso, nella forma di potere scolastico.1
L’intento dell’incontro era quello di capire la posizione di noi donne in una
realtà come quella foggiana in cui brillavano (e brillano), punte di diamante del
pensiero della differenza: Il Centro “Documentazione Donna” e “La Merlettaia”.
E tutt’intorno il deserto, o così mi sembrava.
Relatori Antonietta Lelario e Saverio Russo. Ospite d’onore Antonio Brusa.
Visioni certamente diverse le loro come diversa la mia, quella di una donna tra
il femminismo e il femminile ed una conduzione familiare impostata, per i più svariati
motivi, in modo del tutto tradizionale. Restavano ben saldi i ruoli: gli uomini liberi di
muoversi, le donne, anche se controvoglia, con gli obblighi dei lavori domestici.2
Avevo preparato il mio intervento intorno ad alcuni punti per me nodali in
un discorso sulla problematica femminile in relazione al piccolo come al grande
spazio, il microcosmo familiare e la Storia:
1. Il dominio della necessità;
2. Il potere nella sfera privata e in quella pubblica;
3. Ricerca di nuove categorie per rileggere la storia al femminile, per arricchire il sapere dello sguardo femminile sul mondo.
La lettura di Tra passato e futuro di Hannah Arendt mi aveva aiutato a dare
un senso alla nostra piccola rivoluzione e a radicarmi nella mia convinzione che,
essenzialmente per le donne, il privato ostacola il pubblico.
Avrei ripreso, quindi, alcuni concetti in esso espressi e da me riportati in E se…
1
2
Maria Teresa SANTELLI, E se… Storia e storie del S. Altamura, p. 24.
Ibid., p. 21
117
La donna oggi. Quante domande senza risposta!
Le rivoluzioni, dunque, costituiscono il momento favorevole al formarsi dello
spazio pubblico nel quale la libertà può apparire. È il momento magico dell’agire
plurale, della politeia.
Ma la libertà della buona vita o vita politica, propria della sfera pubblica, si
fonda sul dominio della necessità che rientra nella sfera privata, nell’ambito della
comunità domestico-familiare dove si provvede alla sopravvivenza pura e semplice, ai bisogni della vita fisica impliciti nella conservazione della specie. La vittoria
sulla necessità ha, dunque, per obiettivo l’assoggettamento dei bisogni vitali che
coartano l’uomo tenendolo in loro potere. Questa signoria, però, può essere realizzata soltanto dominando e coartando gli altri, i quali costretti a lavorare in schiavitù, sollevino gli uomini liberi dalla coercizione della necessità.3
Così, per Hannah Arendt, presso i Greci la politeia era propria dei cittadini
ateniesi che disponevano del tempo libero e cioè non erano obbligati al lavoro manuale come i membri della società futura di Marx in cui, raggiunta la fase dell’umanità socializzata, la produttività del lavoro aumentava in tal misura che rendeva in
qualche modo inutile il lavoro stesso e lo stato veniva meno perché perdeva ogni
ragion d’essere o l’amministrazione della società era talmente semplificata da poter
essere affidata persino ad una cuoca. Ciò garantiva a tutti i membri della società una
quantità di tempo libero pressoché illimitata.4
Ma la ‘cuoca di Lenin’ (mi chiedevo e mi chiedo) avrebbe veramente avuto un suo
tempo libero in cui occuparsi dell’ ‘amministrazione delle cose’? Chi l’avrebbe liberata
dalla fatica fisica che, tra le mura domestiche, ogni donna paga alla quotidiana necessità?
E, continuando sul tema, avrei aggiunto che il lavoro domestico non rientra
nel concetto di lavoro di Marx. Esso (che è compito specifico delle serve, dei servi
e/o delle padrone di casa) o viene mal retribuito o non lo è affatto.
Con l’allargarsi poi della classe media, la casa di più camere si diffonde nelle
società industriali e post-industriali in cui, però, diminuiscono considerevolmente i
servi e le serve e la padrona di casa, anche se indipendente economicamente, continua ad essere la massima responsabile di tale lavoro: rassettare, cucinare, accudire
bambini, anziani, familiari portatori di handicap.
Avviene così che molte ragazze occupate come commesse o in lavori poco
qualificati, lavorino solo per accumulare la quantità di denaro necessaria a sposarsi.
In molti casi, quindi, non è il datore di lavoro a liberarsi delle donne che si
sposano, ma le stesse che si licenziano ritenendo inconciliabili i ritmi di lavoro determinati dal sommarsi del lavoro domestico con quello fuori delle mura di casa.
Alla stessa maniera non è il dirigente ad ostacolare la carriera di molte donne
nei pubblici uffici o nelle aziende, è la donna che, il più delle volte, vi rinuncia.
Queste le mie elucubrazioni mentali mentre mi preparavo all’incontro. Tali
almeno apparvero le mie considerazioni a tutti quelli/e a cui, novello Tasso, le sottoposi al vaglio.
3
4
Hannah ARENDT, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, p. 162.
Ibid., p. 43.
118
Maria Teresa Santelli
Mi suggerirono di modificare il tiro perché ormai gli uomini collaborano con
le mogli nella conduzione familiare e la contrapposizione tra il pubblico e il privato
è da considerarsi superata. Ed io ridussi di molto il mio intervento e per un po’
l’attenzione su questo argomento.
2. Cogliere lo sguardo femminile sul mondo
Il Laboratorio di didattica della storia, di cui facevo e faccio parte, prese il
sopravvento. Sembrava che l’organizzazione di corsi, l’elaborazione di unità didattiche, la lettura di antichi documenti (l’altra mia grande passione) avessero spinto
nell’angolo la coscienza di genere che pur in me fremeva.
La molla scatta all’improvviso per una ricerca in atto nel circolo femminile “La
Merlettaia”, su una nostra concittadina, Liliana Rossi, vissuta negli anni ‘50.
Si fa pressante in me il desiderio di cogliere lo sguardo femminile sul mondo,
guardare la realtà da un’angolazione diversa perché diversa è l’esperienza di vita dei
due sessi anche a parità di condizione sociale e culturale. Una differenza da intendere come arricchimento non come discriminazione.
Chiedo ai soci del laboratorio storico di istituire un settore di ricerca finalizzato al recupero della tradizione femminile, tradizione intesa come “continuità tramandata con un esplicito atto di volontà”5 e comincio ad inviare missive a Miriam
Mafai per un’indagine sul secondo dopoguerra che, per noi italiane, rappresenta il
primo grande riconoscimento di esistenza come cittadine.
Di nuovo il Liceo “Volta”, nel febbraio del 2002, vede una partecipazione
oceanica di donne e uomini in un incontro su “Donne tra politica e sociale nel
secondo dopoguerra”.
Le domande da me poste a Miriam Mafai sono sempre le stesse, quelle che
ripropongo in questo articolo.
Sono convinta che la parità di diritti è necessaria ma non sufficiente a risolvere la problematica femminile che vedo incentrata nel rapporto pubblico/privato.
Riuscirà la donna a sottrarsi alla quotidiana necessità se ancora oggi, secondo
uno degli ultimi rapporti Istat riportati in una pagina Web, il lavoro familiare rimane ancora essenzialmente attribuito alla responsabilità femminile, indipendentemente dalla presenza di un impegno extradomestico?
E poi, se penso a Lei, a Teresa Noce, a Luciana Viviani, a Rosa Luxemburg,
penso a donne libere che avevano per casa il partito e accanto compagni che condividevano le loro scelte. Ed oggi? Poche le candidate e in numero irrilevante le elette.
Esigua, quindi, la loro presenza in Parlamento o al Governo.
La causa è forse da ricercare nel modello di vita borghese sempre più invasivo
nella nostra società post-moderna che di post-moderno ha poco o nulla nella struttura familiare?
5
Ibid., p. 27.
119
La donna oggi. Quante domande senza risposta!
O il motivo di una mancata rappresentatività delle donne in Parlamento è da
ricercare in quella struttura rigida e gerarchica dei partiti così contraria al mondo
femminile da sempre in lotta contro le ferree regole del patriarcato?
Ma se il Potere riflette la mentalità maschile e, quindi, allontana da sé le donne, potranno le stesse mutare la società pur stando lontane dai luoghi ad esso deputati?
O, se inserite in tali strutture, avranno esse la forza di modificare il Potere
operando al suo interno?”
Quante domande senza risposta! E non sono le sole. Ce n’è un’altra che continua ad assillarmi.
Una donna oggi, nell’epoca della biologia genetica, può scegliere una forma
di parto indolore che non sia il cesareo che, poi, tanto indolore non è? E in quali
strutture? Nelle maternità impera il metodo naturale.“Bisogna lasciar fare alla natura!” consigliano i ginecologi.
Ma la natura è anche quella delle grandi catastrofi!
Le urla continuano a risuonare nella sala travaglio e in sala parto, il più delle
volte, si suturano le ferite senza anestesia!
A trent’anni dal movimento femminista e dalle conquiste politiche, sociali ed
economiche, su cui siamo state invitate a riflettere, nulla, quindi, è mutato?
No, se si pensa ad una stretta minoranza del nostro occidente in cui vivono
filosofe del pensiero della differenza, politiche, manager, donne che mettono al
mondo figli col parto indolore, che chiedono il divorzio da un marito poco compagno. Ma quante? e quante in Italia? e quante nel nostro bellissimo Sud?
Troppo poche in tempi di ritorno al passato e di facili revisionismi, in cui
restano valide le parole di Miriam Mafai, seppur riferite al millennio appena trascorso: “Nessun facile ottimismo, anche se siamo convinte di aver raggiunto nel
corso di questo secolo e in questa parte del mondo, traguardi straordinari. […] La
storia è capricciosa: conosce scarti, deviazioni, bruschi ritorni indietro, cambiamenti di rotta.6”
6
Miriam MAFAI (a cura di), Le donne italiane. Il chi è del ‘900, Milano, Rizzoli, 1993 p. 19.
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Frontiere della Capitanata
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Pubblichiamo la storica sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a
favore del Movimento Cittadino “Donne” di Manfredonia per dare valore al principio sancito dalla stessa e capirne il senso.
Nell’ottobre 1988, 3000 donne del Movimento Cittadino “Donne” hanno firmato una petizione per chiedere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il riconoscimento dei danni arrecati alla salute e all’ambiente dall’Enichem Agricoltura, una
fabbrica di morte distante dalla città appena 500 metri.
Dopo un lungo iter di nove anni, nel febbraio del 1988, la Suprema Corte si è
pronunciata riconoscendo la violazione dell’art. 8 della Convenzione internazionale dei Diritti dell’Uomo e ha condannato, perciò, lo Stato Italiano al risarcimento di
una somma simbolica alle prime quaranta donne firmatarie.
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Anna Guerra
Prologo
Ho affidato al respiro del vento una preghiera
di Anna Guerra
Nel tempo dei grandi disastri dell’Enichem ho sentito la Terra piangere.
Nel tempo delle navi dei veleni, in giro per il mondo (1988 - nave “Deep Sea
Carrier”) ho visto la terra depredata, umiliata e violentata.
Nel tempo del caos ho sognato il diritto di un popolo a vivere in armonia col
proprio ambiente.
Perciò ho incontrato le Donne, quasi tutte le donne di Manfredonia (1988 1989 formazione del Movimento Cittadino “Donne”, circa 3000).
Insieme con un “unico respiro”, abbiamo cercato di curare la nostra madre terra.
Per dieci lunghi anni (1988 - 1998) ho cullato e coccolato un sogno e alla fine
(febbraio 1998 alla Corte di Giustizia dei diritti dell’uomo di Strasburgo) ho visto,
come un fulmine, il re Manfredi sfoderare la sua spada di giustizia.
Noi donne abbiamo vinto e affermato nel mondo un principio di logica della
vita che è racchiuso in questa sentenza.
Allora il moto della speranza ha riempito il mio cuore ed ho intravisto la
madre (Bianca Lancia) e il figlio (re Manfredi - fondatore di Manfredonia) abbracciarsi felici per essersi ritrovati nel ricostruire l’antico progetto di questa terra rigogliosa.
Poi all’improvviso un eco sinistro, un buco nero, che molti chiamano nuova
industrializzazione – 1998, ha risucchiato l’antico progetto.
Ora nuovi camini fumano sulla città come l’alito del vecchio drago Enichem.
Così ho capito che non basta la forza dell’affermazione di un principio logico espresso in una sentenza autorevole.
Ho smesso di sognare ed ho affidato al respiro del vento una preghiera,
una preghiera, però, che non riesce a raggiungere quel “Dio che troppo afflitto
e disgustato dalle illogicità dell’uomo si è racchiuso nei cieli e non ci ascolta
più”.1
Questa sentenza ancora oggi (gennaio 2003) è rimasta inapplicata e poche
persone ne conoscono il valore.
1
Giovanni Paolo II.
125
126
Associazione “Bianca Lancia”
Dal Movimento Cittadino “Donne”
all’Associazione “Bianca Lancia”
a cura dell’Associazione “Bianca Lancia”
1. La storia del Movimento Cittadino “Donne” di Manfredonia
Nel settembre 1988, il paventato arrivo nel porto di Manfredonia della nave
“Deep Sea Carrier”, carica di rifiuti tossici e nocivi, fece scattare l’allarme nella
popolazione già provata da due incidenti gravi: uno nel 1976 e l’altro nel 1979,
dell’Enichem Agricoltura, situata a soli 500 metri dal paese.
Il primo era dovuto alla fuoriuscita di migliaia di tonnellate di arsenico che
ha contaminato il territorio, il secondo alla fuga di ammoniaca, che ha costretto la
popolazione a fuggire dalla città.
La minaccia dell’arrivo della ‘nave dei veleni’ fece emergere una realtà, sopita
nella coscienza della gente, ma molto radicata: l’Enichem non era stata accettata,
ma subita per il ricatto del lavoro. In 40.000, i manfredoniani (ne sono 50/55.000)
manifestarono allora la loro protesta in un corteo lungo quanto la città.
L’allarme della nave mise in moto un altro livello di coscienza e di responsabilità verso il nostro territorio. Per due anni interi nella piazza principale della città,
migliaia di uomini e donne organizzarono una serie di iniziative di lotta che richiamarono l’attenzione non solo di donne e uomini politici, parlamentari nazionali ed
europei, ma anche delle prime pagine dei maggiori quotidiani, settimanali e di trasmissioni televisive di rilievo quali ad es. “Samarcanda”.
In quel contesto generale di lotta nacque il Movimento Cittadino “Donne”.
Noi donne fummo le più attive e le più numerose nel movimento.
Mettemmo subito in evidenza la difficoltà di fare arrivare la verità sull’Enichem
al potere istituzionale e ai mezzi d’informazione. Perciò imbavagliate per simboleggiare questa censura politica, in cinquemila ci recammo a Roma e prendemmo
parola in Parlamento davanti alle deputate di tutti i partiti.
Grazie al sostegno dell’allora eurodeputata Adriana Ceci andammo anche a
Strasburgo a porre davanti al Parlamento Europeo le motivazioni della nostra lotta e
fummo ricevute dal Presidente e dai membri della Commissione Ambiente.
Forti di questa esperienza comune abbiamo intrapreso il ricorso legale (firmato da tremila donne) alla Commissione europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo per denunciare l’inquinamento del territorio, i rischi sulla salute dei cittadini e cittadine e la mancata informazione in materia di rischio ambientale.
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Dal Movimento Cittadino “Donne” all’Associazione “Bianca Lancia”
È merito di una delle donne del movimento, Anna Guerra, l’aver tenacemente curato il percorso legale fino alla storica sentenza, emessa, poi, il 19/02/’98 dalla
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Questa ha riconosciuto la violazione dell’art.
8 della Convenzione europea, che recita: “Ogni persona ha diritto al rispetto della
sua vita privata e familiare e del suo domicilio”. Di conseguenza né lo Stato, né
qualsiasi fabbrica può danneggiare l’ambiente in cui una persona vive.
Pertanto la Corte ha riconosciuto alle prime 40 firmatarie del ricorso il diritto ad un risarcimento in danaro dallo Stato italiano.
Il pronunciamento dell’Alta Corte di Strasburgo rappresenta un precedente
unico in Europa nel diritto internazionale in materia ambientale. La sentenza significa un di più: apre una strada nuova. Il diritto internazionale ha riconosciuto la
logica della difesa della vita e del territorio, di cui le donne sono portatrici.2
2. Il senso del Movimento Cittadino “Donne”
Molte volte abbiamo provato a chiederci il senso di una così grande e significativa partecipazione delle donne a questo pezzo di storia della città.
Il Movimento Cittadino “Donne” è stato infatti un evento politico veramente importante, imprevisto, sia pure allo stato nascente, qualcosa di straordinario che
andava al di là di noi.
In quelle giornate abbiamo visto operare l’autorità femminile anche da parte
di donne che, anche se poco istruite, dimostravano con libertà e spiritualità un grande
senso di sé.
In particolare le più anziane esprimevano l’antica saggezza femminile: erano le
Vestali della Terra, figure simboliche della madre, custodi del senso delle radici femminili.
Avvertivamo forte il desiderio di elaborare insieme, di prendere parola sul
destino della città, denunciando gli errori del passato per decidere sul presente e
prefigurare l’idea di un futuro diverso.
Con il Movimento, alcune donne hanno vissuto un nuovo senso di appartenenza al territorio, alla società, al proprio genere.
Molte di noi, infatti, venivamo da situazioni deludenti in campo politico e anche nella partecipazione ai movimenti femministi avevamo incontrato modalità dello
stare insieme troppo codificate, che non lasciavano spazio alla libertà di essere.
Nella piazza di Manfredonia, parlando di fabbrica e di ambiente, siamo riusci-
2
È datata 17 dicembre 2002 la risoluzione del Consiglio d’Europa (Resolution Res DH – 2002 – 146) relativa
alla nostra sentenza che chiede conto al governo italiano dell’effettiva applicazione della stessa.
A tale risoluzione, il governo risponde che:
- ha diramato la sentenza a tutte le autorità interessate attraverso le riviste giuridiche «La rivista internazionale dei diritti dell’uomo», n. 2, maggio – agosto 1998;
- ha inserito nel sito web (www.dirittiuomo.it) la sentenza in italiano.
Ironia della sorte poi ribadisce che non c’è più pericolo per la popolazione di Manfredonia, perché l’attività dell’Enichem è cessata dal 1994 e che non c’è alcun deposito ad alto rischio.
128
Associazione “Bianca Lancia”
te a guardarci dentro e a valorizzare l’emozione di poter esprimere e manifestare con
libertà pensieri e sentimenti profondi, sentiti e custoditi da sempre nell’animo. Le
donne non riescono a fare, infatti, politica solo con la testa, ma anche con il corpo.
Tutte in realtà ci sentivamo a casa in quella grande piazza, ognuna aveva il
suo ruolo e contribuiva a far sbocciare e nutrire la parola femminile.
Lì, per la prima volta, abbiamo trovato mediazioni politiche femminili sul
destino della città.
Mentre, infatti, da ogni parte si affermava la necessità di conciliazione fra
ambiente e lavoro, le donne hanno messo in luce una visione più radicale. Affermare che, custodire le ragioni della vita è prioritario anche rispetto alla tutela dell’ambiente, è radicale nel senso che è intessuta di radice di vita.
Nella nostra elaborazione si prefigurava al di là dello sviluppo compatibile e
sostenibile, uno sviluppo vivibile, in cui la scelta di preservare la vita è un a priori.
Nel Movimento inoltre la parola femminile aveva il carattere della ‘gratuità’;
non ci hanno mai potuto imbavagliare, non abbiamo chiesto nessun beneficio in
cambio. La nostra è stata anche una parola difficile, in quanto ha segnato profondamente in termini di conflitti, e talvolta di lacerazioni, i rapporti familiari e sociali.
3. Il presente dell’associazione
Una parte delle 40 donne a distanza di 10 anni (maggio 1998) hanno deciso di
investire la quota del risarcimento nella fondazione dell’Associazione culturale “Bianca
Lancia” per mettere in campo bisogni, desideri, progetti a partire dall’essere donne e
per lasciare alle ragazze più giovani tradizione femminile come eredità per il futuro.
Le finalità alte di questa Associazione sono, come recita lo Statuto, la “difesa
della salute e dell’ambiente” e l’impegno per rendere “l’esistenza di uomini e donne
più ricca di senso”.
Perciò l’impegno politico delle donne dell’Associazione Culturale “Bianca
Lancia”, dalla sua nascita ad oggi, si è concentrato soprattutto sulla tutela dell’ambiente nuovamente minacciato dalle scelte del Contratto d’Area, deciso per Manfredonia nel 1998.
Proprio sulle problematiche legate al Contratto d’Area le donne di “Bianca
Lancia”, in questi ultimi quattro anni, hanno prodotto documenti, manifesti, dossier
e organizzato affollate assemblee, petizioni popolari, diversi convegni con la presenza di personalità della politica e della magistratura di spessore nazionale, tra cui
Il Respiro della terra e La salute è a rischio!
Importante per la città è stato anche il convegno dello scorso anno dal titolo
“Tra il grido e il silenzio scegliamo la parola”, dove insieme a donne autorevoli del
mondo della cultura nazionale abbiamo manifestato per la pace.
L’Associazione ha sostenuto poi, l’iniziativa del ricorso al TAR Puglia contro la nostra Regione, perché ha concesso alla Vetreria Sangalli l’autorizzazione ad
istallarsi, senza la Valutazione di Impatto Ambientale (V. I. A.), nonostante sia con129
Dal Movimento Cittadino “Donne” all’Associazione “Bianca Lancia”
siderata industria insalubre di prima classe dalle leggi nazionali.
Infine, assumendoci in pieno la responsabilità della Sentenza di Strasburgo,
ci è sembrato naturale la Costituzione di parte civile al Processo contro l’Enichem,
perché sia ristabilita la verità su questa fabbrica di morte.
Al di là delle diverse iniziative, però, il senso del nostro stare insieme nell’Associazione è che “Bianca Lancia” rappresenta per noi un luogo politico, una finestra per dire parola femminile sul mondo.
Ci unisce l’amore per la città e la responsabilità che sentiamo verso di essa e la
possibilità e la necessità di comunicare con altre donne.
Il nostro percorso è però anche contrassegnato da fatica, da scacchi.
La fatica di affermare la verità radicale di cui siamo portatrici, una verità slegata dalla logica affaristica del denaro e da quella partitica del consenso e del potere.
La difficoltà di superare le differenze. Non sempre, infatti, abbiamo avuto
l’energia e la grandezza per andare oltre le differenze di cui ognuna è portatrice.
Non ci ha mai diviso però la sete di potere che spesso contamina i rapporti
all’interno dei partiti e delle associazioni e non ci ha divise l’amore per la verità. Il
conflitto nasceva, quando l’altra/le altre non era/non erano pronta/e a vedere e a
recepire la nostra verità
Perciò siamo state male, ma non ci siamo mai fatte del male. Nessuna di noi,
anche le donne che sono andate via dall’associazione, può dire di aver subito la
volontà prevaricatrice dell’altra, né può dire di essere mai stata strumentalizzata
come era accaduto spesso nei luoghi politici misti.
Siamo consapevoli che questo cammino, sia pure segnato da inciampi soggettivi e collettivi, rappresenta per ognuna di noi un ingrandimento e per la città
l’opportunità di un maggiore respiro democratico se gli uomini politici vorranno
mettersi in ascolto.
130
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Caso “Guerra ed altre contro Italia”
Sentenza
Strasburgo
19 febbraio 1998
Questa Sentenza può subire delle modifiche di forma prima della pubblicazione
della sua versione definitiva nella Raccolta delle Sentenze e Decisioni 1998, pubblicata da Carl Heymanns Verlag KG (Lussemburgo Stra Be 449, D-50939 Cologne)
il quale si occupa anche della diffusione in collaborazione, per certi paesi (fra i qua
li non c’è l’Italia), con gli agenti di vendita la cui lista figura sul retro.
SOMMARIO
Sentenza resa da una grande Camera.
Italia: assenza delle informazioni della popolazione sui rischi incorsi e le misure da
prendere in caso di incidente in uno stabilimento chimico del vicinato.
I. Articolo 10 della Convenzione
A - Eccezione preliminare del Governo (“non-esaurimento”).
Prima branca - ricorso per direttissima ( articolo 700 del codice di procedura civile):
sarebbe stato un rimedio utilizzabile se la lamentela degli interessati poggiasse sull’assenza delle misure che mirano alla riduzione o all’eliminazione dell’inquinamento; nella fattispecie, questo ricorso avrebbe verosimilmente portato alla sospensione dell’attività dello stabilimento.
131
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
Seconda branca - ricorso al giudice penale: avrebbe potuto al massimo finire con la
condanna dei responsabili dello stabilimento, ma certamente non con la comunicazione delle informazioni alle ricorrenti.
Conclusione: rigetto (19 voti contro 1).
B - Fondatezza della lamentela.
Esistenza di un diritto per il pubblico di ricevere le informazioni: molte volte riconosciuta dalla Corte nei processi relativi alle restrizioni alla libertà della stampa,
come corollario della funzione propria dei giornalisti di diffondere le informazioni
o le idee sulle questioni di interesse pubblico - circostanze di specie si distinguono
nettamente da quelle di questi processi perché le ricorrenti si lamentano di una
disfunzione del sistema instaurato dalla legislazione pertinente - il Prefetto ha predisposto il piano d’urgenza sulla base del rapporto fornito dallo stabilimento, questo piano fu comunicato al servizio della protezione civile il 3 agosto 1993, ma a
tutt’oggi le ricorrenti non hanno ricevuto le informazioni controverse.
Libertà di ricevere le informazioni: vieta essenzialmente ad un governo di impedire
a qualcuno di ricevere delle informazioni che altri aspirano o possono consentire a
lui di fornire - non può comprendersi (cioè la libertà di ricevere informazioni) come
una libertà che impone ad uno Stato, nelle circostanze quali quelle di specie, delle
obbligazioni positive di raccolta e di diffusione, di sua volontà, delle informazioni.
Conclusione: inapplicabilità (18 voti contro 2).
II. Articolo 8 della Convenzione
Incidenza diretta delle emissioni nocive sul diritto delle ricorrenti al rispetto della
loro vita privata e familiare: permette di concludere per l’applicabilità dell’art.8. Le
Ricorrenti si lamentano non di un atto, ma della inazione dello Stato - l’articolo 8
ha essenzialmente per oggetto di premunire l’individuo contro la ingerenza arbitraria dei poteri pubblici - non si accontenta di sottoporre lo Stato ad astenersi da
simili ingerenze: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi le obbligazioni positive inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata o familiare.
Nella fattispecie, basta cercare se le autorità nazionali hanno preso le misure necessarie per assicurare la protezione effettiva del diritto delle interessate al rispetto
della loro vita privata e familiare.
I Ministeri dell’Ambiente e della Sanità adottano congiuntamente le conclusioni
sul rapporto di sicurezza presentato dallo stabilimento - esse davano al prefetto
delle indicazioni concernenti il piano d’urgenza, che aveva preparato nel 1992, e le
misure di informazione controverse - tuttavia, al 7 dicembre 1995, nessun documento concernente queste conclusioni era pervenuto al Comune competente.
132
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
I gravi attentati all’ambiente possono riguardare il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in maniera da nuocere alla loro vita privata e
familiare - le ricorrenti sono rimaste, fino alla sospensione della produzione dei
fertilizzanti nel 1984, nell’attesa delle informazioni essenziali che avrebbero permesso loro di valutare i rischi che potevano derivare per esse e i loro vicini dal fatto
di continuare a risiedere sul territorio di Manfredonia, un comune anche esposto il
pericolo in caso di incidente nella cinta (nei dintorni) dello stabilimento.
Lo Stato convenuto ha fallito alla sua obbligazione di garantire il diritto delle ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare.
Conclusione: applicabilità e violazione(unanimità).
III. Articolo 2 della Convenzione
Conclusione: non è necessario esaminare l’affare anche sotto l’aspetto dell’articolo
2 (unanimità).
IV. Articolo 50 della Convenzione
A - Pregiudizio (Danno)
Danno materiale: non dimostrato.
Torto morale: concessione di una certa somma ad ogni ricorrente.
B - Spese ed uscite.
Rigetto della domanda - tenuto conto della sua tardività e della concessione dell’assistenza giudiziaria.
Conclusione: lo Stato convenuto è tenuto a pagare una certa somma ad ogni ricorrente (unanimità).
Riferimenti alla giurisprudenza . . . della Corte . . .19.02.1991 Zanghi contro Italia.
Nel caso “Guerra ed altre contro Italia”, la Corte Europea Dei Diritti dell’Uomo,
costituita, conformemente all’art.53 del suo regolamento B, in una grande camera
composta di giudici in numero di 20, come di un cancelliere e di un cancelliere aggiunto, dopo averne deliberato in camera di consiglio il 28 agosto 1997 e il 27 Gennaio 1998, emanata la sentenza che segue, adottata in quest’ultima data:*
*
Nota del Cancelliere: per ragioni di ordine pratico esso non figurerà che nell’edizione stampata (Raccolta delle
sentenze e decisioni 1998), ma ognuno può procurarselo presso il cancelliere.
133
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
1 - Il caso porta il numero 116/1996/735/932.
Le prime due cifre ne indicano il grado nell’anno di introduzione, i due ultimi il
posto sulla lista dei ricorsi della Corte dall’origine e su quella (sulla lista) delle richieste iniziali (alla Commissione) corrispondenti.
2 - Il regolamento B, entrato in vigore il 2 ottobre 1994, si applica a tutti i casi
concernenti gli Stati collegati dal Protocollo n° 9.
PROCEDURA
1 - Il caso è stato deferito alla Corte dalla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo (“la Commissione”) il 16 Settembre 1996, nel termine di 3 mesi che prevedono gli articoli 32 par. 1 e 47 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (“la Convenzione”). Alla sua origine sì
trova una richiesta (n° 14967/89) diretta contro la Repubblica Italiana e dalla quale
quaranta cittadine di questo Stato avevano adito la Commissione il 18 ottobre 1988
in virtù dell’art. 25.
La lista delle Ricorrenti si costituisce così:
Le Signore:
Anna Maria Guerra
Grazia Santamaria
Anna Maria Virgata
Maria Di Lella
Maria Rosa Porcu
Grazia Lagattolla
Apollonia Rinaldi
Raffaella Lauriola
Filomena Totano
Sipontina Santoro
Maria Lucia Rita Colavelli Tattilo
Vittoria De Salvia
Maria Telera
Nicoletta Luppoli
Maria Rosaria De Vico
Elisa Anna Castriotta
Antonia Iliana Titta
Rosa Anna Giordano
Anna Maria Trufini
Anna Maria Giordano
Rosa Anna Lombardi
Addolorata Caterina Addobbo
Antonietta Mancini
Michelina Berardinetti
Anna Maria Lanzetta
Renata Maria Pilati
Raffaella Ciuffreda
Diana Gismondi
Giulia De Feudis
Maria De Filippo
Irene Prencipe
Anna Totaro
Grazia Telera
Lia Schettino
Gioia Quitadamo
Giuseppina Rinaldi
Giovanna Gelsomino
Concetta Trotta
Angela Di Tullio
Raffaella Rinaldi
La domanda della Commissione rinvia agli art. 44 e 48 (così) come alla dichiarazione italiana che riconosce la giurisdizione obbligatoria della Corte (art. 46). La do134
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
manda suddetta ha per oggetto di ottenere una decisione sul punto di sapere se i
fatti della causa rivelano una trasgressione dello Stato convenuto alle esigenze dell’art.
10 della Convenzione.
2 - Il 4 ottobre 1996, le Ricorrenti hanno designato il loro consulente-legale (art.31)
che il Presidente della Camera ha autorizzato ad usare la lingua italiana (art. 28
paragrafo 3 ).
3 - La Camera che si andava a costituire comprendeva di pieno diritto il Sig. Carlo
RUSSO, giudice eletto di nazionalità italiana (art. 43 della Convenzione), e il Sig.
R. Bernhadt,Vice Presidente della Corte (art. 21 paragr. 4 del regolamento B). Il 17
settembre 1996 , il presidente della Corte , il Sig. R. Ryssdal, estraeva a sorte il nome
di 7 altri membri, da sapere (cioè) il Sig. F. Matscher, il Sig. A. Spielmann, Sir John
Freeland, il Sig. M. A. Lopes Rocha, il Sig. J. Makazczyk, il Sig. J. Casadevall e il
Sig. P. Van Dijk, in presenza del cancelliere (articoli 43-proposizione finale-della
Convenzione e 21 paragr. 5 del regolamento B).
4 - Nella sua qualità di presidente della Camera (art. 21 paragr. 6 del regolamento
B), M. Bernhadt ha consultato, tramite il cancelliere, l’agente del governo italiano
(“il Governo”), il consulente-legale delle Ricorrenti e il delegato della Commissione riguardo all’ organizzazione della procedura ( art. 39 paragr. 1 e 40 ). Conformemente all’ordinanza emanata di conseguenza, il cancelliere ha ricevuto le memorie
delle Ricorrenti e del governo il 14 e il 16 aprile 1997 rispettivamente.
5 - Il 29 aprile 1997, la Commissione ha prodotto il dossier della procedura seguita
davanti ad essa; il cancelliere l’ aveva invitata (a farlo) sulle istruzioni del presidente.
6 - Come ne aveva deciso quest’ultimo, i dibattiti si sono svolti in pubblico il 27
maggio 1997,al Palazzo dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo. La Corte aveva tenuto
prima una riunione preparatoria.
Sono comparsi:
- per il Governo
i Signori G. Raimondi, magistrato distaccato al servizio del contenzioso diplomatico del Ministero degli Affari Esteri;
G. Sabbeone , magistrato distaccato al gabinetto legislativo del Ministero della Giustizia;
135
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
- per la Commissione
il Signor I.Cabral Barreto;
- per le Ricorrenti
la Signorina Nella Santilli, giurista.
La Corte ha ascoltato nelle loro arringhe M. Cabral Barreto la Signorina Santilli, M.
Sabbeone e M. Raimondi.
7 - Il 3 giugno 1997, la Camera ha deciso di sciogliersi con effetto immediato a
profitto di una grande Camera ( articolo 53 paragr. 1 del regolamento B).
8 - La grande camera da costituire comprendeva di pieno diritto M. Ryssdal, presidente della Corte, M. Bernhadt , vicepresidente, gli altri membri della camera tolta
(cioè la precedente) così come i giudici supplenti di quella da sapere i Sig. P. Kuzts,
G. Mifsud Bonnici , Thòr Vilhjàlmssan e B. Repik (art. 53 paragr. 2a e b). Il 3 luglio
1997, il presidente ha estratto a sorte, in presenza di un cancelliere, il nome di 7
giudici supplementari chiamati a completare la grande camera, M. F. Gölcüklü, M.B.
Walsh, M.R. Macdonald, la Signora sE. Palm, M.A.N. Loizou, M.P. Jambreck e M.
E. Levits ( articolo 53 paragrafo 2c ).
9 - Il 29 luglio 1997, il presidente ha autorizzato il delegato della Commissione a
presentare delle osservazioni sulle domande di equa soddisfazione delle Ricorrenti.
Le dette osservazioni sono pervenute al cancelliere il 19 settembre 1997.
10 - Dopo aver consultato l’agente del Governo, la rappresentante delle Ricorrenti
e il delegato della Commissione, la grande camera aveva deciso, il 28 agosto 1997
che non vi era motivo di tenere una nuova udienza in seguito allo scioglimento
della camera (articolo 40 combinato con l’articolo 53 paragrafo 6).
11 - M. Ryssdal impedito a partecipare alla deliberazione del 27 gennaio 1998, è
stato sostituito da M. Bernhardt alla presidenza della grande camera (articolo 21
paragrafo 6 combinato con l’articolo 53 paragr. 6).
136
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
NEL FATTO
I. Le circostanze della fattispecie
A - Lo Stabilimento Enichem-Agricoltura
12 - Le Ricorrenti risiedono tutte nel Comune di Manfredonia (Foggia) situato ad
un chilometro circa dallo stabilimento chimico della società omonima EnichemAgricoltura, impiantata sul territorio del Comune di Monte S. Angelo.
13 - Nel 1988, lo stabilimento, che produce dei fertilizzanti e del caprolattame (composto chimico che deriva dalla policondensazione di un poliammide utilizzato per
fabbricare delle fibre sintetiche come il nylon), fu classificato ad alto rischio in applicazione dei criteri accolti dal Decreto del Presidente della Repubblica del 18
maggio 1988 n°175 (D.P.R. 175/88), che aveva trasferito nel diritto italiano la direttiva 82/501 /CEE del Consiglio della Comunità Europea (direttiva “Seveso”), concernente i rischi di incidenti maggiori legati a corte attività industriali dannose per
l’ambiente e il benessere delle popolazioni interessate.
14 - Secondo le Ricorrenti, non contraddette dal Governo, nel corso del suo ciclo di
produzione lo stabilimento avrebbe liberato delle grandi quantità di gas infiammabile ciò avrebbe potuto provocare delle reazioni chimiche esplosive che liberano delle sostanze altamente tossiche - come l’anidride solforica, l’ossido di azoto, il sodio, l’ammoniaca, l’idrogeno metallico, l’acido benzoico e soprattutto l’anidride di arsenico.
15 - Degli incidenti di funzionamento si erano, in effetti, già prodotti nel passato, il
più grave è stato quello del 26 settembre 1976 quando l’esplosione della torre di
lavaggio dei gas di sintesi di ammoniaca ha lasciato sfuggire molte tonnellate di
soluzione di carbonato e di bicarbonato di potassio, contenente dell’anidride di
arsenico. In questa occasione, 150 persone hanno dovuto essere ricoverate a causa
di una intossicazione acuta di arsenico.
16 - Peraltro, in un rapporto dell’8 dicembre 1988, una commissione tecnica nominata dal Comune di Manfredonia stabilisce in particolare, che a causa della posizione
geografica dello stabilimento, le emissioni di sostanze nell’atmosfera erano spesso
canalizzate verso la città. Il rapporto chiedeva che si tenesse conto di un rifiuto dello
stabilimento ad una ispezione della detta commissione e del fatto che dopo i risultati
di uno studio condotto dallo stabilimento stesso, le installazioni di trattamento dei
fumi erano insufficienti e lo studio di impatto ambientale era incompleto.
17- Nel 1989, lo stabilimento ha limitato la sua attività alla produzione di fertilizzanti, cosa che ha giustificato il suo mantenimento nella categoria degli stabilimenti
dannosi considerati dal D.P.R. 175/88.
137
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
Nel 1993, i Ministeri dell’Ambiente e della Salute hanno adottato congiuntamente
un decreto che prescrive delle misure da adottare da parte dello stabilimento al fine
di migliorare la sicurezza della produzione di caprolattame, (paragrafo 27 qui di
seguito).
18 - Nel 1994, lo stabilimento ha fermato definitivamente la produzione di fertilizzanti. Solo una centrale termoelettrica e delle installazioni di trattamento delle acque primarie e secondarie continuano a funzionare.
B - I Procedimenti Penali
1) Davanti al giudice di 1° grado di Foggia
19 - Il 13 novembre 1985, 420 abitanti di Manfredonia (fra i quali figurano le Ricorrenti) hanno adito il giudice di primo grado (pretore) di Foggia denunciando la
presenza nell’atmosfera di fumi di scappamento provenienti dallo stabilimento e la
cui composizione chimica e il grado di tossicità non erano conosciuti. Sette amministratori della società incriminata hanno costituito l’oggetto di una. procedura penale per delle infrazioni legate a delle emissioni inquinanti dello stabilimento e al
non-rispetto di molte norme concernenti la protezione dell’ambiente.
Nella sua decisione del 16 luglio 1991, il giudice non ha inflitto alcuna pena agli
incolpati - sia a causa di amnistia o prescrizione, sia per pagamento immediato di
una ammenda (oblazione) - tranne a due amministratori. Questi ultimi furono condannati a 5 mesi di detenzione e a due milioni di lire di ammenda, così come alla
riparazione dei danni civili, per avere fatto costruire delle discariche senza aver
ottenuto previamente l’autorizzazione necessaria, in violazione delle disposizioni
considerate pertinenti del D.P..R. 915/82 in materia di eliminazione dei rifiuti.
2) Davanti alla Corte di Appello di Bari.
20 - Deliberante sull’appello interposto dai due amministratori condannati così come
dall’organismo pubblico per l’elettricità (E.N.E.L.) e dal Comune di Manfredonia,
che si erano costituiti parti civili, la Corte di Appello di Bari ha liberato gli appellanti
il 29 aprile 1992, per l’eccedenza della decisione impugnata. La giurisdizione ha ritenuto che gli errori nella gestione dei rifiuti, rimproverati agli interessati dovevano in
realtà essere attribuiti ai ritardi e alle incertezze nell’adozione e nell’interpretazione
in particolare da parte della Regione Puglia, delle norme di applicazione del D.P.R.
915/82. L’esistenza di un danno risarcibile era di conseguenza da escludere.
C - L’atteggiamento delle autorità competenti.
21 - Un comitato paritario Stato-Regione della Puglia fu creato presso il Ministero
138
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
dell’Ambiente per dare seguito alla direttiva “Seveso”.
Questo comitato ha ordinato un’inchiesta tecnica affidata ad una commissione istituita con un decreto del Ministero dell’Ambiente del 19 giugno 1989 con il seguente incarico:
a) fare il punto sulla conformità dello stabilimento alle regole decretate in materia
di ambiente, per quanto riguarda lo scarico delle acque secondarie
(o consumate), il trattamento dei rifiuti liquidi e solidi, le emanazioni di gas e l’inquinamento sonoro, così come sugli aspetti relativi alla sicurezza ; verificare lo stato delle autorizzazioni concesse allo stabilimento a questo effetto;
b) fare il punto sulla compatibilità dell’impianto dello stabilimento con il suo ambiente avendo riguardo in particolare ai problemi della protezione della salute della
popolazione, della fauna e della flora, e ai problemi di pianificazione corretta regionale del territorio;
c) suggerire le azioni da intraprendere per acquisire tutti i dati adatti a colmare le
lacune che sarebbero apparse per lo studio dei punti: a e b) e indicare le misure da
attuare per la protezione dell’ambiente.
22 - Il 6 luglio 1989, in applicazione dell’art.5 del D.P.R.175/88, lo stabilimento ha
comunicato il rapporto di sicurezza.
23 - Il 24 luglio 1989, la Commissione ha presentato il suo rapporto che fu trasmesso al comitato paritario Stato-Regione. Questo ha formulato le sue conclusioni il 6
luglio 1990, che fissano al 30 dicembre la data di consegna al Ministro dell’Ambiente del rapporto previsto dall’art.18 del D.P.R.175/88 sui rischi di incidenti maggiori. Esso raccomandava peraltro:
a) la realizzazione di studi sulla compatibilità dello stabilimento con l’ambiente e
sulla sicurezza dell’insediamento, di analisi complementari sugli scenari di catastrofe e sulla preparazione e la messa a posto dei piani di intervento d’urgenza;
b) un certo numero di modificazioni da apportare in vista di ridurre in modo drastico
le emissioni di sostanze nell’atmosfera e di migliorare il trattamento delle acque
secondarie (o consumate), di apportare i cambiamenti tecnici radicali nei cicli di
produzione dell’urea e dell’azoto, la realizzazione di studi sull’inquinamento del
sottosuolo e sull’assisa idrologica dello stabilimento.
Il termine previsto per queste realizzazioni era di 3 anni. Il rapporto sottolineava
anche la necessità di risolvere il problema della combustione: dei liquidi e della
rivitalizzazione dei sali di soda.
Il Comitato ha domandato egualmente la creazione, prima del 30 dicembre 1990, di
un Centro pubblico di igiene industriale avente compito di controllare periodicamente le condizioni di igiene e di rispetto dell’ambiente da parte dell’impresa e di
139
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
servire da osservatorio epidemiologico.
24 - I problemi collegati al funzionamento dello stabilimento è stato l’oggetto, il 20
giugno 1989, di una questione parlamentare al Ministro dell’Ambiente, e il 7 novembre 1989, in seno al Parlamento europeo, di una questione alla Commissione
della Comunità Europea.
In risposta a quest’ultima, il commissario competente ha indicato:
1) che la società Enichem aveva inviato al governo italiano il rapporto richiesto
sulla sicurezza delle installazioni, conformemente all’articolo 5 del D.P.R. 175/88;
2) che sulla base di questo rapporto, il detto governo aveva proceduto all’istruzione
dell’affare come previsto all’art.18 del D.P.R.175/88 al fine di controllare la sicurezza delle installazioni e, all’occorrenza, di indicare le misure supplementari di sicurezza che si dimostrerebbero necessarie;
3) che per quanto riguarda l’applicazione della direttiva “Seveso”, il Governo aveva
preso a riguardo dello stabilimento le misure richieste.
D - Le Misure di Informazione della Popolazione.
25 - Gli articoli 11 e 17 del D.P.R.175/88 prevedono l’obbligazione, a carico del
sindaco e del prefetto competenti, di informare la popolazione interessata sui rischi
collegati all’attività industriale in questione, le misure di sicurezza adottate, i piani
d’urgenza preparati e la procedura da seguire in caso di incidente.
26 - Il 2 ottobre 1992, il Comitato di coordinamento delle attività di sicurezza in
materia industriale ha formulato il suo parere sul piano d’urgenza che era stato
preparato dal prefetto di Foggia, conformemente all’art. 17 paragrafo 1 del D.P.R.
175/88. Il 3 agosto 1993, questo piano fu trasmesso al comitato competente del
servizio per la protezione civile. In una lettera del 12 agosto 1993, il sottosegretario
del detto servizio ha assicurato il prefetto di Foggia che il piano sarebbe stato sottomesso a breve termine al Comitato di coordinamento per il parere e ha espresso
l’augurio che esso potesse essere reso operativo il più presto possibile, tenuto conto
delle questioni delicate collegate alla pianificazione d’urgenza.
27 - Il 14 settembre 1993, conformemente all’articolo 19 del D.P.R. 175/88, i Ministeri dell’Ambiente e della Salute hanno adottato congiuntamente le conclusioni
sul rapporto di sicurezza presentato dallo stabilimento nel luglio 1989. Queste prescrivevano una serie di miglioramenti da apportare alle installazioni, contemporaneamente per quanto riguardava la produzione di caprolattame (paragrafo 17 di cui
sopra). Esse davano al prefetto delle indicazioni concernenti il piano d’urgenza di
sua competenza e le misure di informazione della popolazione prescritte dall’art.17
del detto D.P.R.
140
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
Tuttavia, in una corrispondenza del 7 dicembre 1995 alla Commissione Europea
dei Diritti dell’Uomo, il sindaco di Monte S. Angelo ha affermato che a questa data
ultima, l’istruzione in vista delle conclusioni previste dall’art. 19 si proseguiva e che
nessun documento concernente queste conclusioni era a lui pervenuto. Egli precisava che il Comune attendeva sempre di ricevere le direttive del servizio della protezione civile al fine di stabilire le misure di sicurezza da prendere e le regole da
seguire in caso di incidente e da comunicare alla popolazione, e che le misure che
mirano alla informazione della popolazione sarebbero state prese subito dopo le
conclusioni dell’istruzione, nell’ipotesi di una ripresa della riproduzione dello stabilimento.
II. Il diritto interno pertinente
28 - Per quanto concerne le obbligazioni di informazione in materia di sicurezza
per l’ambiente e per le popolazioni interessate, l’art.5 del D.P.R. 175/88 prevede
che l’impresa che esercita delle attività dannose deve notificare ai ministeri dell’Ambiente e della Salute un rapporto contenente in particolare delle informazioni
dettagliate sulla sua attività, i piani d’urgenza in caso di incidente maggiore, le persone incaricate di eseguire questo piano, così come le misure adottate dall’impresa
per ridurre i rischi per l’ambiente e per la salute pubblica. Peraltro, l’art. 21 del
D.P.R. 175/88 prevede una pena che può andare fino ad una anno di detenzione per
ogni imprenditore che omette di procedere alla comunicazione prevista dall’articolo 5.
29 - All’epoca dei fatti, l’articolo 11 paragrafo 3 del D.P.R.175/ /88 prevedeva che il
sindaco doveva informare il pubblico su:
a) il procedimento di produzione;
b) le sostanze presenti e la loro quantità;
c) i rischi possibili per gli impiegati e gli operai dello stabilimento, per la popolazione e per l’ambiente;
d) le conclusioni sul rapporto sulla sicurezza dello stabilimento notificato da quest’ultimo ai sensi dell’art.5, così come sulle misure complementari previste dall’art.19;
e) le misure di sicurezza e le regole da seguire in caso di incidente.
D’altra parte, il paragr. 2 dello stesso articolo precisava che al fine di assicurare la
protezione dei segreti industriali, ogni persona era incaricata di esaminare i rapporti o le informazioni di cui aveva avuto conoscenza.
141
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
30 - L’art. 11 paragrafo 1 disponeva che i dati e le informazioni relative alle attività
industriali raccolte in applicazione del D.P.R. 175/88 non potevano essere utilizzate che per gli scopi per i quali esse erano state domandate.
Questa disposizione è stata in parte modificata dal decreto-legge n° 461 dell’8 novembre 1995 e prevede, al paragr. 2, che il divieto di divulgazione derivante dal
segreto industriale è escluso per certe informazioni, che devono eseere contenute in
una scheda di informazione che deve essere redatta ed inviata al ministero dell’Ambiente e al comitato tecnico regionale o interregionale dall’impresa interessata.
Le obbligazioni di informazione a carico del sindaco restano in ogni caso immutate,
e figurano sempre al paragrafo 4.
31 - L’articolo 17 del D.P.R.175/88 prevede certe obbligazioni di informazione
egualmente a carico del prefetto. In particolare, il paragrafo 1 di questa disposizione (oggi divenuto 1 bis) dispone che il prefetto deve preparare un piano d’urgenza,
sulla base delle informazioni fornite dallo stabilimento interessato e il comitato di
coordinamento delle attività di sicurezza in materia industriale, che deve essere comunicato al Ministero dell’Interno e al servizio per la sicurezza civile. Il paragr. 2
esige poi dal prefetto che dopo aver preparato il piano d’urgenza, egli informi in
modo adeguato la popolazione interessata sui rischi derivanti dall’attività, sulle
misure di sicurezza adottate al fine di prevenire un incidente maggiore, sulle misure
d’urgenza previste all’esterno dello stabilimento in caso di incidente maggiore e
sulle norme da seguire in caso di incidente. Le modificazioni apportate a questo
articolo dal decreto-legge sopra menzionato consistono in particolare nell’aggiunta
di un nuovo paragrafo 1, che prevede che il servizio per la protezione civile deve
stabilire i criteri di riferimento per la pianificazione d’urgenza e l’adozione delle
misure di informazione del pubblico da parte del prefetto, così come nell’abrogazione del paragrafo 3, che disponeva che le misure di informazione previste dal
paragrafo 2 dovevano essere comunicate ai Ministeri dell’Ambiente e della Salute,
così come alle regioni interessate.
32 - L’articolo 14 paragrafo 3 della legge n° 349 dell’8 luglio 1986, che ha istituito in
Italia il Ministero dell’Ambiente e introduceva nello stesso tempo le prime regole
in materia di pregiudizio per l’ambiente, prevede che chiunque ha il diritto di accedere alle informazioni disponibili sullo stato dell’ambiente, conformemente alle leggi
in vigore, presso l’amministrazione, e può ottenerne copia contro rimborso delle
spese.
33 - In una sentenza del 21 novembre 1991 (n° 476), il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Sicilia (Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana), che per questa regione funge da Consiglio di Stato, ha stabilito che la
nozione di informazioni sullo stato dell’ambiente include tutte le informazioni concernenti l’habitat nel quale vive l’uomo e che si riferiscono ad elementi che assumo142
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
no un certo interesse per la collettività. Fondandosi su simili criteri, il Consiglio di
Giustizia amministrativa ha ritenuto ingiustificato il rifiuto di un Comune di permettere ad un privato cittadino di ottenere una copia dei risultati delle analisi sul
carattere potabile o non potabile delle acque del territorio di un Comune.
III. I lavori del Consiglio d’Europa
34 - Fra i differenti documenti adottati dal Consiglio d’Europa nel campo in causa
nel presente caso giuridico, è il caso di citare in particolare la risoluzione 1087 (1996)
dell’ Assemblea parlamentare, relativa alle conseguenze dell’ incidente di Chernobyl
e adottata il 26 aprile 1996 (sedicesima seduta). Riferentesi non solamente al campo
dei rischi collegati alla produzione e alla utilizzazione dell’energia nucleare nel settore civile ma anche ad altri campi, questa risoluzione enuncia che “l’accesso del
pubblico ad un’informazione chiara ed esaustiva [...] deve essere considerata come
tino dei diritti fondamentali della persona”.
Procedura davanti la Commissione
35 - Le Ricorrenti hanno adito la Commissione il 18 ottobre 1988. Invocanti l’art.2
della Convenzione, esse adducevano che l’assenza di misure concrete, in particolare
per diminuire l’inquinamento e i rischi di incidenti maggiori collegati all’attività dello
stabilimento, attaccava il rispetto della loro vita e della loro integrità fisica. Esse si
lamentavano anche del fatto che la non-adozione da parte delle autorità competenti
delle misure di informazione sui rischi incorsi dalla popolazione e le misure da prendersi in caso di incidente maggiore, previste in particolare dagli articoli il paragrafo 3
e 17 paragrafo 2 del decreto del presidente della Repubblica n° 175/88, non riconosceva il loro diritto alla libertà di in formazione garantito dall’art.10.
36 - La Commissione ha accolto la richiesta ( n°14967/89 ) il 6 luglio 1995 quanto
alla lamentela ricavata dall’art.10 e l’ha rigettata per l’eccedenza.
Nel suo rapporto del 29 giugno 1996 (art.31), essa conclude, con 21 voti contro 8 ,
che si e avuta violazione di questa disposizione. Il testo integrale del suo parere e di
3 opinioni dissidenti che l’accompagnano, figura in allegato alla presente sentenza.
Conclusioni presentate alla Corte
37 - Il Governo concluse la sua memoria invitando la Corte, a titolo principale, a
rigettare la richiesta per il non-esaurimento delle vie di ricorso interne e,
sussidiariamente, a giudicare che non si è avuta violazione dell’articolo 10 della
Convenzione.
143
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
38 - All’udienza, la consulente legale delle Ricorrenti ha domandato alla Corte di
giudicare che si è avuta violazione degli articoli 10, 8 e 2 della Convenzione e di
attribuire alle sue clienti una soddisfazione equa.
IN DIRITTO
I. Sull’oggetto della controversia
39 - Davanti la Commissione, le ricorrenti hanno presentato due lamentele. Esse si
lamentavano in primo luogo della non-adozione, da parte delle autorità pubbliche,
di azioni idonee a diminuire l’inquinamento dello stabilimento chimico Enichemagricoltura di Manfredonia e ad evitare i rischi di incidenti maggiori; esse affermavano che questa situazione attentava al loro diritto, al rispetto della loro vita e della
loro integrità fisica garantita dall’art.2 della Convenzione. Esse denunciavano poi
la non-adozione, da parte dello Stato italiano, delle misure di informazione sui rischi incorsi e i comportamenti da adottare in caso di incidente maggiore previsti
dagli articoli 11 paragr.3 e 17 del Decreto del Presidente della Repubblica n°175/88
(D.P.R. n°175/88); esse ne deducevano un violazione del loro diritto alla libertà di
informazione menzionato dall’art.10 della Convenzione.
40 - Il 6 luglio 1995, la Commissione, a maggioranza ha accolto l’eccezione preliminare di non-esaurimento sollevata dal Governo riguardo al primo punto e ha ritenuto la parte restante della richiesta “tutti mezzi di fondo riservati”.
Nel suo rapporto del 25 giugno 1996, essa ha ritenuto il caso giuridico dal punto di
vista dell’art.10 della Convenzione e ha considerato questa disposizione applicabile
e violata per il motivo che almeno fra l’adozione del D.P.R. n°175/88, nel maggio
1988, e la cessazione della produzione di fertilizzanti, nel 1994, le autorità competenti avevano il dovere di prendere le misure necessarie affinché le ricorrenti che
risiedevano tutte in una zona ad alto rischio potessero “ricevere un’informazione
adeguata sulle questioni interessanti la protezione del loro ambiente”.
Otto membri della Commissione hanno espresso il loro disaccordo in tre opinioni
dissidenti, di cui due mettono in evidenza la possibilità di un approccio diverso
della controversia, fondato sull’applicabilità dell’art.8 della Convenzione.
41 - Le interessate hanno, nella loro memoria alla Corte e in seguito all’udienza,
invocato anche gli articoli 8 e 2 della Convenzione adducendo che la mancanza
delle informazioni in questione ha trasgredito il loro diritto al rispetto della loro
vita privata e familiare e il loro diritto alla vita.
42 - Davanti alla Corte, il delegato della Commissione si è limitato a confermare la
conclusione del rapporto (da sapere la violazione dell’art.10), mentre il Governo ha
144
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
dichiarato che le lamentele relative agli articoli 8 e 2 oltrepassano il quadro delineato sulla ricevibilità.
È il caso dunque di determinare innanzitutto i limiti della competenza in ragione
della materia.
43 - La Corte sottolinea dapprima che la sua competenza “si estende a tutti gli affari
concernenti l’interpretazione e l’applicazione della [...] Convenzione che gli vengono sottomessi nelle condizioni previste dall’articolo 48” (art. 45 della Convenzione come modificato dal Protocollo n°9) e che “in caso di contestazione riguardante la competenza della Corte, la Corte decide” (art.49).
44 - Essa ricorda quindi che, amante della qualificazione giuridica dei fatti della
causa, essa non si considera come vincolata da quella qualificazione giuridica che ai
fatti della causa attribuiscono i richiedenti (gli attori), i governi o la Commissione.
In virtù del principio il diritto rinnova quanto stabilito, le deliberazioni, jura novit
curia, essa ha per esempio studiato d’ufficio più di una lamentela sotto l’aspetto di
un articolo o paragrafo che non avevano invocato i comparenti, e persino l’aspetto
di una clausola al riguardo della quale la Commissione l’aveva dichiarato irricevibile,
ritenendolo ricevibile nell’ambito di un’altra.
Una lamentela si caratterizza dai fatti che denuncia e non per i semplici mezzi o
argomenti di diritto invocati (vedere sentenza Powell e Raynerc. RoyaumeUni del
21 febbraio 1990, serie A n°172, p.13, par.29 ).
La pienezza della sua Giurisdizione non si estende che nei limiti dell’ “affare”, che
sono fissati dalla decisione di ricevibilità della richiesta. All’interno di un quadro
così tracciato, la Corte può trattare ogni questione di fatto o di diritto che sorge
durante l’istanza introdotta davanti ad essa (vedere, fra molte altre, la sentenza Philis
c. Gréce (n°1) del 27 agosto 1991, serie A n° 209, p.19, paragrafo 56 ).
45 - Nella specie, i mezzi tratti dagli articoli 8 e 2 non figuravano espressamente
nella richiesta e nelle memorie iniziali delle interessate davanti alla Commissione.
Essi presentano tuttavia una connessione manifesta con quello che ivi si trovava
esposto, l’informazione delle ricorrenti, che risiedono tutte ad un chilometro appena dallo stabilimento, che poteva avere delle ripercussioni sulla loro vita privata e
familiare e la loro integrità fisica.
46 - A riguardo di ciò che precede così come al testo della decisione della Commissione sulla ricevibilità, la Corte ritiene di poter disporsi sul campo degli articoli 8 e
2 della Convenzione inoltre dell’articolo 10.
145
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
II. Sulla violazione allegata dell’art. 10 della Convenzione
47 - Le Richiedenti si sostengono vittime di una violazione del1’art.10 della Convenzione, così formulato:
1) Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà
d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera.
Il presente articolo non impedisce che gli Stati sottopongano a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.
2) L’esercizio di questa libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere
sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla
legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza
nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione della salute e
della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la
divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario.
La violazione derivava dalla non-adozione da parte delle autorità competenti delle
misure di informazione della popolazione sui rischi incorsi e sulle misure da prendere in caso di incidente collegato all’attività dello stabilimento.
A - Sull’Eccezione preliminare del Governo.
48 - Il governo solleva, come già davanti alla Commissione, una eccezione di nonesaurimento delle vie di ricorsi interne articolata in due branche.
La prima poggia sul ricorso per direttissima previsto dall’art.700 del codice di procedura civile. Se i richiedenti temevano una danno immediato collegato all’attività
dello stabilimento, esse avrebbero potuto e dovuto adire il giudice al fine di ottenere una decisione che avrebbe loro immediatamente permesso di proteggere il loro
diritto. Il governo riconosceva di non poter fornire degli esempi di applicazione di
questa disposizione dei casi analoghi, ma esso afferma che a prescindere dalla possibilità di utilizzare questa disposizione contro il potere pubblico, l’art.700 può a
colpo sicuro essere utilizzato nei confronti di uno stabilimento quando, come in
questo caso, questo non ha preparato il rapporto di sicurezza preteso dall’art.5 del
D.P.R. n°175/88 (paragrafo 28 di cui sopra).
La seconda branca poggia sulla circostanza che i richiedenti non hanno adito il
giudice penale per lamentarsi della mancanza delle informazioni pertinenti, in particolare da parte dello stabilimento, l’art.21 del D.P.R. sopra menzionato che sancisce in diritto penale questo tipo di omissione.
49 - Secondo la Corte, nessuno dei due ricorsi avrebbe permesso di raggiungere lo
scopo mirato dalle interessate.
146
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
Anche se il Governo non ha potuto provare l’efficacia del ricorso per direttissima,
il contenzioso collegato all’ambiente che nel campo in questione non ha ancora
prodotto giurisprudenza, l’art.700 del codice di procedura civile sarebbe stato un
rimedio utilizzabile se la lamentela delle interessate avesse poggiato sull’assenza di
misure miranti alla riduzione o all’eliminazione dell’inquinamento; tale è stata del
resto la conclusione della Commissione allo stadio della ricevibilità della richiesta
(paragr.40 di cui sopra). Nella fattispecie, si trattava in realtà dell’assenza d’informazioni sui rischi incorsi e sulle misure da prendere in caso di incidente, quando il
ricorso per direttissima avrebbe verosimilmente portato alla sospensione dell’attività dello stabilimento.
Quanto al lato penale, il rapporto di sicurezza è stato trasmesso dallo stabilimento il 6
luglio 1989 ( paragr.29 di cui sopra ) e questo ricorso avrebbe potuto al massimo finire
con la condanna dei responsabili dello stabilimento, ma certamente non con la comunicazione delle informazioni alle ricorrenti. È il caso dunque di respingere l’eccezione.
B - Sulla fondatezza della lamentela.
50 - Resta da sapere se l’articolo 10 della Convenzione è applicabile ed è stato violato.
51 - Secondo il Governo, questa disposizione si limita a garantire la libertà di ricevere le informazioni senza intralcio da parte di uno Stato e non impone alcuna
obbligazione positiva. Lo testimoniava il fatto che la risoluzione n°1087 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa e la direttiva 90/313/CEE del Consiglio
della Comunità Europea, relative ai rischi che possono derivare da certe attività
industriali dannose, non parlano di un diritto ma di un semplice accesso all’informazione. Se un’obbligazione positiva di informare esisteva, essa sarebbe “estremamente difficile da mettere in opera” perché occorrerebbe determinare le modalità e il momento della divulgazione delle informazioni così come le autorità responsabili di questa (obbligazione positiva di informare) e i suoi destinatari.
52 - Con le Richiedenti, la Commissione ritiene che l’informazione del pubblico
rappresenta ormai uno degli strumenti essenziali di protezione del benessere e della
salute della popolazione nelle situazioni di pericolo per l’ambiente. Di conseguenza, le parole “questo diritto comprende [...] la libertà di ricevere [...] le
informazioni,contenute al paragrafo 1 dell’articolo 10, dovrebbero interpretarsi come
attribuenti un vero diritto a ricevere delle informazioni, in particolare da parte delle
amministrazioni competenti, in capo alle persone appartenenti alle popolazioni che
sono state o potevano essere colpite da un’attività industriale, o di un’altra natura,
pericolosa per l’ambiente.
L’articolo 10 imporrebbe agli Stati non solamente di rendere accessibili al pubblico
le informazioni in materia di ambiente, esigenza alla quale il diritto italiano sembra
poter già rispondere, in particolare in virtù dell’art.14 paragr.3 della legge n°349, ma
147
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
imporrebbe anche delle obbligazioni positive di raccolta, di elaborazione e di diffusione di queste informazioni che, per loro natura, non potrebbero essere altrimenti
portate alla conoscenza del pubblico. La protezione assicurata dall’articolo 10 giocherebbe dunque un ruolo preventivo a riguardo delle violazioni potenziali della
Convenzione in caso di attentati gravi all’ambiente, disposizione questa che entra
in gioco anche prima che un attentato diretto ad altri diritti fondamentali - come il
diritto alla vita o quello al rispetto della vita privata e familiare - non si produca.
53 - La Corte non sottoscrive questa tesi. L’esistenza di un diritto per il pubblico di
ricevere le informazioni è stato molte volte riconosciuto da essa negli affari relativi
alle restrizioni alla libertà di stampa, come corollario della funzione propria dei
giornalisti di diffondere le informazioni o le idee sulle questioni di interesse pubblico (vedere, per esempio, le sentenze Observer e Guardian c. Royaume-Uni del 26
novembre 1991, serie A n°216, p.30, paragrafo 59 b), e Thorgeirson c. Islande del 25
giugno 1992,serie A n°239, p.27,paragrafo 63). Le circostanze della fattispecie si
distinguono tuttavia nettamente da quelle dei casi giuridici su menzionati perché le
richiedenti si lamentano di una disfunzione del sistema instaurato dal D.P.R. n°175/
88, che aveva trasferito nel diritto italiano la direttiva 82/501/CEE del Consiglio
della Comunità Europea (direttiva “Seveso”),concernente i rischi di incidenti maggiori collegati a certe attività industriali pericolose per l’ambiente e il benessere
delle popolazioni interessate. In effetti, se è vero che il prefetto di Foggia ha predisposto il piano d’urgenza sulla base di un rapporto fornito dallo stabilimento e che
questo piano fu comunicato al servizio della protezione civile il 3 agosto 1993, a
tutt’oggi le richiedenti non hanno ricevuto le informazioni controverse (paragrafi
26 e 27 qui sopra).
La Corte ricorda che la libertà di ricevere le informazioni, menzionata al paragr.2
dell’art.10 della Convenzione, “vieta essenzialmente ad un governo di impedire di
ricevere le informazioni cui altri aspirano o possono autorizzare a lui di fornire”
(sentenza Leander c. Suéde del 26 marzo 1987 , serie A n°116, p.29, paragr.74). La
detta libertà non potrebbe comprendersi come imponente ad uno Stato nelle circostanze come quelle della fattispecie,le obbligazioni positive di raccolta e di diffusione, di sua spontanea volontà, delle informazioni.
54 - In conclusione, l’articolo 10 non si applica nella fattispecie.
55 - Alla luce del paragrafo 45 di cui sopra, occorre esaminare il caso giuridico sotto
l’angolo dell’articolo 8 della Convenzione.
III. Sulla violazione addotta dell’art. 8 della Convenzione
56 - Le Richiedenti si sostengono davanti alla Corte, sulla base degli stessi fatti,
vittime di una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, così formulato:
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Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
1) Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
2) Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se
non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una
misura che, in una società democratica e necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute e della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui.
57 - La Corte ha per compito di ricercare se 1’art.8 della Convenzione si applica ed
è stato violato.
Essa tiene presente che le interessate risiedono tutte a Manfredonia, ad un chilometro circa dallo stabilimento in questione che, a causa della sua produzione di fertilizzanti e di caprolattame, è stato classificato ad alto rischio nel nel 1988,in applicazione dei criteri accolti dal D.P.R. n° 175 /88.
Nel corso del suo ciclo di produzione lo stabilimento ha liberato delle grandi quantità di gas infiammabile così come altre sostanze nocive tra cui l’anidride di arsenico. Del resto, nel 1976, in seguito all’esplosione della torre di lavaggio dei gas di
sintesi d’ammoniaca, molte tonnellate di soluzione di carbonato e di bicarbonato di
potassio, contenenti anidride di arsenico, si erano liberate nell’atmosfera rendendo
necessario il ricovero di 150 persone a causa di una intossicazione acuta da arsenico.
Inoltre, nel suo rapporto dell’8 dicembre 1988,la commissione tecnica nominata
dal Comune di Manfredonia affermava in particolare che, a causa della posizione
geografica dello stabilimento, le emissioni di sostanze nell’atmosfera erano spesso
canalizzate verso la città (paragrafi 14-16 qui sopra). L’incidenza diretta di emissioni nocive sul diritto delle richiedenti al rispetto della loro vita privata e familiare
permette di concludere per l’applicabilità dell’articolo 8.
58 - La Corte ritiene poi che le richiedenti non potrebbero passare per aver subito
da parte dell’Italia una “ingerenza” nella loro vita privata o familiare: esse si lamentano non di un atto, ma dell’inazione dello Stato.
Tuttavia, se l’art.8 ha essenzialmente per oggetto di premunire l’individuo contro le
ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non si accontenta di assoggettare lo Stato
ad astenersi da simili ingerenze: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi le obbligazioni positive inerenti da un rispetto effettivo della vita privata
o familiare (sentenza Airey c. Irlande del 9 ottobre 1979, serie A n°32, p.17,paragrafo 32).
Nella fattispecie, è sufficiente ricercare se le autorità nazionali hanno preso le misure necessarie per assicurare la protezione effettiva del diritto delle interessate al
rispetto della loro vita privata e familiare garantita dall’art.8 (sentenza Lopez Ostra
c. Espagne, del 9 dicembre 1994, serie A n°303-c, p.55, paragrafo 55).
59 - Il 14 settembre 1993, conformemente all’articolo 19 del D.P.R. n°175/88, i
Ministeri dell’Ambiente e della Salute adottarono congiuntamente le conclusioni
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Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
sul rapporto di sicurezza presentato dallo stabilimento nel luglio 1989.
Queste prescrivevano dei miglioramenti da apportare alle installazioni, al tempo
stesso per la produzione in corso di fertilizzanti e in caso di ripresa della produzione di caprolattame. Esse davano al prefetto delle indicazioni concernenti il piano
d’urgenza - che egli aveva preparato nel 1992 - e le misure di informazione della
popolazione prescritta dall’articolo 17 del detto D.P.R.
Tuttavia, in una corrispondenza del 7 dicembre 1995 alla Commissione Europea
dei Diritti dell’Uomo, il sindaco di Monte S. Angelo afferma che in quest’ultima
data, l’istruzione in vista delle conclusioni previste dall’articolo 19 si proseguiva, e
che nessun documento concernente queste conclusioni era a lui pervenuto. Egli
precisava che il Comune attendeva sempre di ricevere le direttive del servizio della
protezione civile al fine di stabilire le misure di sicurezza da prendere e le regole da
seguire in caso di incidente e da comunicare alla popolazione, e che le misure mirano alla informazione della popolazione sarebbero state prese subito dopo le conclusioni dell’istruzione, nell’ipotesi di una ripresa della produzione dello stabilimento (paragrafo 27 di cui sopra).
60 - La Corte ricorda che gli attentati gravi all’ambiente possono toccare il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in maniera da nuocere
alla loro vita privata e familiare (vedere, mutatis mutandis, la sentenza Lopez Ostra
precitata, p.54, paragr.51). Nella fattispecie , le richiedenti sono rimaste, fino alla
sospensione della produzione di fertilizzanti nel 1994, nell’attesa delle informazioni essenziali che avrebbero loro permesso di valutare i rischi che potevano derivare
per esse e i loro vicini dal fatto di continuare a risiedere sul territorio di Manfredonia,
un Comune anche esposto al pericolo in caso di incidente nel recinto dello stabilimento.
La Corte constata dunque che lo Stato convenuto ha mancato alla sua obbligazione
di garantire il diritto alle richiedenti al rispetto della loro vita privata o familiare, a
dispetto dell’articolo 8 della Convenzione.
Pertanto, si è avuta una violazione di questa disposizione.
IV. Sulla violazione addotta dell’art. 2 della Convenzione
61 - Evocando il decesso di operai dello stabilimento, dovuto al cancro, le richiedenti
affermano che la mancanza delle informazioni controverse ha disconosciuto il loro
diritto alla vita garantito dall’articolo 2 della Convenzione, così formulato:
1) Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena.
2) La morte non è considerata inflitta in violazione di questo articolo quando derivasse da una ricorso alla forza reso assolutamente necessario:
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Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
a) per assicurare la difesa di qualsiasi persona dalla violenza illegale;
b) per eseguire un arresto legale o per impedire l’evasione di una persona legalmente detenuta;
c) per reprimere, in modo conforme alla legge,una sommossa o una insurrezione.
62 - Riguardo alla conclusione relativa alla violazione dell’articolo 8, la Corte non
ritiene necessario di esaminare il caso giuridico anche sotto l’angolo dell’articolo 2.
V. Sull’applicazione dell’art. 50 della Convenzione
63 - Ai termini dell’articolo 50 della Convenzione
“Se la decisione della Corte dichiara che una decisione presa o una misura ordinata
da una autorità giudiziaria o da ogni altra autorità di una parte contraente si trova
interamente o parzialmente in contrasto con obbligazioni che derivano dalla presente Convenzione, e se il diritto interno di detta parte non permette che in modo
incompleto di eliminare le conseguenze di tale decisione o di tale misura, la decisione della Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”.
A - Pregiudizio (Danno).
64 - Le interessate sollecitano la riparazione di un danno “biologico”; esse richiedono 20.000.000.000 di lire italiane (ITL)!
65 - Secondo il Governo,le richiedenti non hanno dimostrato di aver subito un
danno e non l’hanno neppure evocato nel dettaglio. Per il caso ove la Corte accoglierebbe l’esistenza di un pregiudizio (danno) morale, la constatazione della violazione darebbe, all’occorrenza, una equa soddisfazione sufficiente.
66 - Il delegato della Commissione invita la Corte ad accordare alle interessate un
compenso adeguato e proporzionato al danno notevole che esse hanno subito. Egli
suggerisce la somma di 100.000.000 di lire italiane (ITL) per ogni richiedente.
67 - La Corte considera che le interessate non hanno dimostrato l’esistenza di un
danno materiale risultante dalla mancanza di informazione di cui esse si lamentano.
Per il resto, essa ritiene che le richiedenti hanno sofferto un torto morale certo e
decide di attribuire loro la somma di 10.000.000 ITL per ciascuna.
B - Spese ed uscite
68 - Le interessate hanno ottenuto l’assistenza giudiziaria davanti alla Corte per un
ammontare di 16.304 franchi francesi ma al termine dell’udienza, la loro consulente
legale ha depositato al cancelliere una domanda (istanza) tendente alla concessione
di una somma più considerevole a titolo dei suoi onorari.
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Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
69 - Né il Governo né il delegato della Commissione si sono pronunciati a questo
proposito.
70 - Tenuto conto dell’ammontare già accordato a titolo di assistenza giudiziaria e
del deposito tardivo della domanda in questione (articoli 39 paragr.1 e 52 paragr.1
del regolamento B della Corte), la Corte decide di respingere questa.
C - Altre pretese
71 - Le interessate invitano in conclusione la Corte ad obbligare lo Stato convenuto
a procedere alla bonifica di tutta la zona industriale in questione e a realizzare uno
studio epidemiologico sul territorio e le popolazioni interessate così come un’inchiesta destinata a mettere in evidenza le eventuali conseguenze gravi per gli abitanti più esposti alle sostanze presunte cancerogene.
72 - Il Governo trova queste pretese inammissibili.
73 - Secondo il delegato della Commissione, la realizzazione di un’inchiesta approfondita ed efficace da parte delle autorità nazionali così come la pubblicazione e la
comunicazione alle richiedenti di un rapporto completo e preciso su tutti gli aspetti
pertinenti dell’attività dello stabilimento durante il periodo controverso, ivi compresi i danni effettivamente causati all’ambiente e alla salute delle persone, sarebbero di natura da soddisfare,più del versamento di una equa soddisfazione, (all’obbligazione prevista dall’articolo 53 della Convenzione).
74 - La Corte rileva che questa (la Convenzione) non l’autorizza ad accogliere una
simile richiesta. Essa ricorda che appartiene allo Stato di scegliere i mezzi da utilizzare nel suo ordinamento giuridico per conformarsi alle disposizioni che ha provocato una violazione (vedere, mutatis mutandis,la sentenza Zanghi c. Italia del 19
febbraio 1991, serie A n°194-C, p. 48, paragrafo 26, Demicoli c. Malta del 27 agosto
1991, serie A n°210, p.19, paragrafo 45, e Yagci e Sargin c. Turchia dell’8 giugno
1995, serie A n°319-A, p.24, paragrafo 81).
D - Interessi moratori
75- Secondo le informazioni di cui dispone la Corte, il tasso legale applicabile in
Italia alla data dell’adozione della presente sentenza è del 5% l’anno.
152
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE
1 - RIGETTA, per 19 voti contro 1, l’eccezione preliminare del Governo (il nonesaurimento delle vie di ricorso interne con l’articolo 700 c.p.c.);
2 - DICE, per 18 voti contro 2, che l’articolo 10 della Convenzione non si applica
nella fattispecie;
3 - DICE, all’unanimità, che l’articolo 8 della Convenzione si applica ed è stato
violato;
4 - DICE, all’unanimità, che non è il caso di esaminare l’affare anche nel campo
dell’art.2 della Convenzione;
5 - DICE, all’unanimità,
a) che lo Stato convenuto deve versare, nei 3 mesi,10.000.000 (dieci milioni) di lire
italiane ad ogni ricorrente per il danno morale subito;
b) che questo ammontare è da aumentare di un interesse semplice del 5% l’anno a
cominciare dalla scadenza di detto termine fino al versamento;
6 - RIGETTA, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per il resto(in relazione alla richiesta di bonifica della zona industriale e dello studio epidemiologico
del territorio; ed anche in relazione alla maggiore somma di £ 20.000.000.000 richiesta).
Fatto in francese ed in inglese, dopo pronunciato in udienza pubblica al Palazzo dei
Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 19 febbraio 1998.
Firmato: Herbert PETZOLD (Cancelliere) Firmato: Rudolf BERNHARDT (Presidente)
Alla presente sentenza si trova unita, conformemente agli articoli 51 paragr.1 della
Convenzione e 55 paragr.2 del regola mento B, la relazione delle opinioni separate
seguenti:
- opinione concordante di M.Walsh;
- opinione concordante di K. Palm, alla quale aderiscono MM Bernhardt, Russo,
Macdonald, Makazczyk e Van Dijk;.
- opinione concordante di M. Jambrek;
- opinione parzialmente concordante e parzialmente dissidente di M. Thòr
Vilhjàlmsson;
- opinione parzialmente dissidente e parzialmente concordante di M. Mifsud Bonnici.
Paraphé (Sigla): R.B. Paraphé (Sigla): H.P.
Opinione concordante di M. il giudice Walsh
Bisogna ricordarsi che, spesso, un disconoscimento della Convenzione può mettere in gioco altri articoli oltre quello di cui il richiedente invoca la violazione, ma io
sono totalmente d’accordo che alla luce dei fatti della causa, è più giudizioso invocare l’art.8 che l’art.10. La Convenzione e le sue disposizioni devono interpretarsi
153
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
in maniera armoniosa. Ora, nella sua sentenza, la Corte ha brevemente evocato
l’articolo 2 ma non si è pronunciata a questo proposito quando a mio avviso c’è
stata ugualmente violazione all’articolo 2.
Secondo me, l’articolo 2 garantisce anche la protezione dell’integrità fisica dei richiedenti. Lo stesso, le disposizioni dell’articolo 3 indicano chiaramente che la
Convenzione si estende a questa protezione. Io ritengo che c’è stata nella fattispecie
violazione dell’articolo 2 e che, visto le circostanze, non si impone di andare oltre
questa disposizione per constatare una violazione.
Opinione concordante di M. il giudice Palm
alla quale aderiscono MM. i giudici
Bernhardt, Russo, Macdonald, Malrczyk e Van Dijk
Con la maggioranza, io ho concluso che l’articolo 10 non è applicabile nella
fattispecie. Ciò facendo,io ho fortemente insistito sulla situazione concreta che era
in causa, senza escludere pertanto che, nelle diverse circostanze, lo Stato potrebbe
avere l’obbligazione positiva di fornire al pubblico
le informazioni in suo possesso e di diffondere quelle che, per natura, non potrebbero altrimenti venire a conoscenza del grande pubblico. Questo punto di vista
non è compatibile con il tenore del paragrafo 53 della sentenza.
Opinione concordante di M. il giudice Jambrek
Nella memoria, le richiedenti si sono anche lamentate espressamente di una violazione dell’art.2 della Convenzione. La Corte ha ritenuto che non era il caso di esaminare il caso giuridico sotto l’angolo di questo articolo poiché essa aveva concluso
per la violazione dell’art.8. Io spero comunque di formulare qualche osservazione
quanto all’eventuale applicabilità dell’articolo 2 nella fattispecie.
Questo articolo dispone: “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge.
Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo [...]”. A mio avviso,la
protezione della salute e dell’integrità fisica è collegata anche molto strettamente al
“diritto alla vita” quanto al “rispetto della vita privata e familiare”. Si potrebbe fare
un parallelo con la giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 3 in ciò che concerne l’esistenza di “conseguenza prevedibile”: quando, mutatis mutandis, esistono
dei seri motivi di credere che la persona interessata corre un rischio reale di trovarsi
nelle circostanze che mettono in pericolo la sua salute e la sua integrità fisica e,
pertanto, il suo diritto alla vita, che è protetto dalla legge. Quando un governo si
astiene dal comunicare le informazioni a proposito di situazioni di cui si può prevedere, basandosi su dei motivi seri, che presentano un pericolo reale per la salute e
l’integrità fisiche delle persone, allora una tale situazione potrebbe anche rilevare
nell’ambito della protezione dell’articolo 2, secondo il quale: “Nessuno può essere
intenzionalmente privato della vita”. Sarà possibile dunque che sia venuto il mo154
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
mento per la giurisprudenza della Corte consacrata all’art.2 (diritto alla vita) di
evolversi, di sviluppare i diritti che ne derivano per implicazione, di definire le situazioni che producono un rischio reale e grave per la vita o i differenti aspetti del
diritto alla vita.
L’articolo 2 sembra pertinente ed applicabile nella fattispecie, nella misura in cui
150 persone sono state condotte all’ospedale per avvelenamento grave dall’arsenico. Dato che esse provocavano il rigetto nell’atmosfera di sostanze nocive, le attività dello stabilimento costituivano dunque dei “rischi di incidenti maggiori pericolosi per l’ambiente”.
In ciò che concerne l’art. 10; io ritengo che potrebbe essere
considerato come applicabile alla fattispecie con riserva di una condizione precisa.
Questo articolo prevede che “Ogni per sona ha diritto a [...] ricevere [...] informazioni e idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche [...]. L’esercizio di questo diritto può essere sottoposto a determinate [...] restrizioni [...]”. A
mio avviso, la formulazione dell’articolo 10, e il senso si legano correntemente alle
parole utilizzate, non permettono di dedurre che uno Stato si trova nell’obbligazione positiva di fornire delle in formazioni, salvo quando una persona domanda/
esige essa-stessa le informazioni di cui il Governo dispone all’epoca considerata.
È per questo che io ritengo che occorre considerare che una tale obbligazione positiva dipende dalla condizione seguente: le vittime potenziali del rischio industriale
devono aver domandato che certe informazioni, prove, verifiche, ecc. siano rese
pubbliche e siano loro comunicate da un servizio governativo stabilito. Se il Governo non soddisfa una tale domanda e non esplica la sua assenza di risposta in maniera valida, allora questa deve essere considerata come una ingerenza da parte sua,
vietata dall’articolo 10 della Convenzione.
Opinione parzialmente concordante
e parzialmente dissidente
di M. il giudice Thor Vilhjalmsson
In questo caso giuridico, io sottoscritto in principio alla conclusione e agli argomenti espressi dalla maggioranza della Commissione. La Corte, da parte sua, è di
un altro avviso. Allora anche io avrei preferito che il caso giuridico fosse trattato
sotto l’angolo dell’articolo 10 della Convenzione, era anche possibile esaminare le
questioni sollevate nella fattispecie sul terreno dell’articolo 8, come la Corte l’ha
fatto. È per questo che io ho votato con la maggioranza per quanto riguarda questo
articolo, così come gli art.2 e 50 del la Convenzione.
155
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
Opinione parzialmente dissidente
e parzialmente concordante
di M. il giudice Mifsud Bonnici
1 - Al paragrafo 49 della sentenza, la Corte rigetta l’eccezione preliminare del governo secondo la quale le richiedenti non avrebbero esaurito le vie dei ricorsi interne di cui esse disponevano, come l’articolo 26 della Convenzione lo imponeva loro.
2 - Il primo capoverso del detto paragrafo comporta il passaggio seguente:
“Nella fattispecie, si trattava in realtà dell’assenza di informazioni sui rischi incorsi
e le misure da prendere in caso di incidente, quando il ricorso per direttissima avrebbe
verosimilmente portato alla sospensione dell’attività dello stabilimento”.
3 - Dato che l’utilizzazione di questo ricorso interno avrebbe probabilmente portato alla sospensione dell’attività dello stabilimento, io non vedo che quel ricorso
avrebbe potuto essere più efficace per correggere le violazioni denunciate dalle richiedenti, nella misura in cui l’assenza di informazioni da parte delle autorità avrebbe
condotto alla sospensione delle attività dello stabilimento. In occasione del
processo,tutte le informazioni necessarie avrebbero dovuto essere comunicate durante l’udienza, ciò avrebbe naturalmente permesso di correggere le violazioni dell’articolo 8.
4 - Per quanto concerne l’azione penale, un successo in questo campo avrebbe reso
possibile l’apertura di un’azione in riparazione, come l’ordinamento giuridico italiano permette di farlo ad ogni persona vittima di una violazione, quale ne sia la
forma.
5 - È dunque chiaro che, non solamente l’ordinamento giuridico italiano prevedeva
un certo numero di azioni legali a disposizione delle richiedenti, ma anche che queste non se ne sono purtroppo avvalse. Pertanto, io ritengo che bisognerebbe accogliere l’eccezione preliminare del Governo.
6 - Avendo la grande maggioranza dei miei colleghi giudicato diversamente, io non
avevo altra soluzione che aderire al loro parere in ciò che concerne gli altri punti del
dispositivo.
Conclusione interpretativa dell’Avvocato
(Sentenza Strasburgo 19 febbraio 1998)
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha dichiarato la tutela della
vita privata e familiare e del proprio domicilio, sancita dall’articolo 8 della Convenzione Europea.
In questo modo è stata accolta la tesi difensiva della sottoscritta-rappresentante
delle ricorrenti con contestuale rigetto dell’eccezione di “non-esaurimento” delle
vie dei ricorsi interne, regola preclusiva dei ricorsi dinanzi alla Corte Europea stabilita dall’articolo 26 della Convenzione, sollevata dal Governo Italiano convenuto. Allo stesso modo la Corte Europea non ha accolto la richiesta della Commissio156
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
ne Europea, la quale chiedeva la violazione dell’art.10 della Convenzione che tutela
il “diritto all’informazione” di ogni per zona senza “ingerenza da parte delle pubbliche autorità”.
La Corte non si è espressa sulla violazione dell’art.2 che sancisce “il diritto alla
vita” di ogni persona, in quanto aveva già esaminato il caso sotto il profilo dell’art.8
della Convenzione.
Ciò nonostante alcuni giudici hanno espresso il parere che il caso esaminato coinvolge anche il disposto dell’articolo 2 in quanto strettamente collegato al rispetto
della vita privata e familiare. In tal senso, è stata altresì invitata la Corte ad evolvere
la sua interpretazione del “diritto alla vita” di cui all’art.2 della Convenzione.
In effetti la difesa sostenuta dalla sottoscritta-rappresentante esprimeva la necessaria correlazione fra la tutela del rispetto della vita privata e familiare e la tutela della
vita di ogni persona sancita dall’art.2. Da ciò si evince che i giudici singolarmente
hanno ritenuto accoglibile la tesi della sottoscritta-rappresentante che estende la
protezione e la difesa del diritto alla vita, considerato nei suoi molteplici aspetti.
157
Sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
158
Nella Santilli
Nota alla Sentenza “Guerra ed Altre contro Italia”
(116/1996/735/932)
di Nella Santilli
La Corte Europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, in data 19 febbraio
1998, ha concluso definitivamente il processo “Guerra ed Altre contro Italia” proclamando all’unanimità la “violazione dell’articolo 8” della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali.
Contestualmente, nella Sentenza pronunciata dalla Corte Europea, è stata
rigettata l’eccezione sollevata dal Governo italiano, convenuto in giudizio da 40
ricorrenti tutte cittadine del comune di Manfredonia, in Provincia di Foggia.
In sintesi il caso “Guerra ed Altre contro Italia” trova la sua origine in un
ricorso presentato contro il Governo Italiano, mediante il quale le predette ricorrenti avevano adìto la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo in data 18 ottobre 1988.
L’oggetto della controversia era rappresentato dallo stabilimento chimico
Enichem-Agricoltura, situato ad un chilometro circa dalla città di Manfredonia ed
impiantato sul territorio del comune di Monte S. Angelo, che produceva fertilizzanti e vari altri composti chimici.
Per questi motivi l’impianto chimico fu classificato “ad alto rischio” nel 1988,
in applicazione dei criteri stabiliti dal D.P.R. n°175/88 che aveva trasferito nell’ordinamento giuridico italiano la Direttiva 82/501/CEE del Consiglio della Comunità Europea, denominata e nota come “direttiva Seveso”. Quest’ultima prevedeva i
rischi derivanti da “incidenti maggiori e gravi” legati a certe attività industriali dannose per l’ambiente e il benessere delle popolazioni interessate.
Secondo il parere delle ricorrenti, che il Governo Italiano non ha contestato,
nel corso del suo ciclo di produzione lo stabilimento chimico avrebbe liberato nell’aria delle grandi quantità di gas infiammabile e, questo avrebbe potuto provocare
delle reazioni chimiche esplosive che avrebbero prodotto sostanze altamente tossiche. In effetti, già in passato si erano verificati alcuni incidenti di funzionamento, il
più grave dei quali è stato quello del 26 settembre 1976, in seguito al quale 150
persone sono state ricoverate a causa di una intossicazione acuta da arsenico.
Peraltro, una apposita commissione tecnica nominata dal comune di Manfredonia, in un suo rapporto, stabiliva in particolare che, “a causa della posizione
geografica dello stabilimento chimico, le emissioni di sostanze nell’atmosfera erano
spesso canalizzate verso la città di Manfredonia”.
159
Nota alla sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
Pertanto nel 1989 l’Enichem-Agricoltura limitava la sua attività alla produzione di fertilizzanti, cessandola definitivamente nel 1994.
Nel merito, le 40 ricorrenti davanti alla Commissione Europea contestavano, in primo luogo, la “non-adozione” da parte delle autorità pubbliche italiane
delle azioni idonee a diminuire l’inquinamento dello stabilimento chimico di
Manfredonia e ad evitare i rischi di incidenti maggiori. In particolare, le medesime
ricorrenti affermavano che la grave situazione venutasi a creare minacciava e violava il diritto di ogni cittadino al rispetto della sua vita e della integrità fisica, tutelate
entrambe dall’articolo 2 della Convenzione Europea.
In secondo luogo, si denunciava la “non-adozione” da parte dello Stato Italiano delle “misure di informazione” sui rischi incorsi e i comportamenti da adottare in caso di incidente maggiore, da cui si deduceva, perciò, la violazione del diritto
di ogni cittadino alla libertà di informazione previsto dall’articolo 10 della Convenzione Europea.
In sostanza, nel luglio 1995, la Commissione Europea ha dichiarato
“ricevibile” il ricorso in parola e, in data 16 settembre 1996, ha deferito il medesimo
caso giuridico alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, rilevando
che: “la disposizione di cui all’articolo 10 della Convenzione Europea era applicabile
ed era stata violata, nel caso di specie”.
In effetti, la Commissione medesima ha ritenuto che: “nell’intervallo di tempo intercorso fra l’adozione del D.P.R. n°175/88 (avvenuta nel maggio 1988) e la
cessazione della produzione di fertilizzanti nel 1994, le autorità competenti avevano il dovere di adottare tutte le misure necessarie affinché le ricorrenti, che risiedevano in una zona “ad alto rischio”, ricevessero una informazione adeguata sulle
questioni riguardanti la protezione del loro ambiente”.
Traendo spunto dalle suindicate motivazioni le ricorrenti, in persona della
loro rappresentante davanti alla Corte Europea, sia nella Memoria difensiva che nel
corso dell’udienza pubblica, svoltasi il 27 maggio 1997 a Strasburgo, hanno invocato non solo la violazione dell’articolo 10, ma anche degli articoli 8 e 2 della Convenzione Europea. Si rilevava, infatti, che la mancanza e/o l’insufficienza delle informazioni nel caso in questione ha violato: “il diritto di ogni persona al rispetto della
sua vita privata e familiare”, nonché lo stesso “diritto alla vita”, entrambi garantiti e
tutelati dall’articolo 8 e dall’articolo 2 della Convenzione Europea.
Pertanto, la rappresentante delle ricorrenti, avv. Nella Santilli, svolgendo la
sua arringa, nel corso dell’udienza pubblica, ha richiesto alla Corte Europea di giudicare sulla violazione degli articoli 10, 8 e 2 della Convenzione Europea e di concedere, quindi, alle ricorrenti una “equa soddisfazione” in termini monetari.
Dal canto suo il governo italiano, convenuto in giudizio, concludeva la sua
memoria invitando la Corte Europea, in via principale, a rigettare la richiesta delle
ricorrenti in virtù della eccezione di “non-esaurimento” delle “vie di ricorso interne” previste dalla normativa italiana. In via sussidiaria, si invitava a giudicare che
non vi era stata la violazione dell’articolo 10 della Convenzione Europea.
Dunque, la predetta eccezione è stata integralmente rigettata dalla Corte
160
Nella Santilli
Europea, in quanto il “rimedio processuale” indicato dal governo italiano sarebbe
stato ‘utilizzabile’ se la lamentela delle ricorrenti si fosse basata sull’assenza delle
misure che miravano alla riduzione o alla eliminazione dell’inquinamento. Nella
fattispecie, solo in tal caso, il ricorso alla procedura d’urgenza avrebbe verosimilmente portato alla sospensione dell’attività dello stabilimento chimico.
Per tutte le motivazioni fin qui espresse, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza sul caso “Guerra ed Altre contro Italia” ha dichiarato, a
maggioranza o all’unanimità, che:
1) L’articolo 10 della Convenzione Europea non si applica nella fattispecie;
2) L’articolo 8 della Convenzione Europea si applica ed è stato violato;
3) Non è necessario esaminare il caso giuridico anche nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 della Convenzione Europea;
4) Lo Stato italiano – convenuto - deve versare 10.000.000 – dieci milioni- di
lire italiane ad ogni ricorrente per il danno morale subìto, ivi compreso
l’interesse legale semplice del 5% l’anno a decorrere dalla scadenza del
termine di pagamento e fino al versamento.
Nel merito, per quanto concerne la “non applicabilità” alla fattispecie dell’articolo 10 della Convenzione la Corte Europea interpreta codesta norma e ricorda che: la libertà di ricevere le informazioni, di cui al paragrafo 2 dell’articolo 10,
“vieta essenzialmente ad un governo di impedire a qualcuno di ricevere le informazioni cui altri aspirano o possono consentirgli di fornirle”. La detta libertà non
potrebbe comprendersi come imponente ad uno Stato, nelle circostanze come quelle
della fattispecie, le obbligazioni positive di raccolta e di diffusione, di sua spontanea
volontà, delle informazioni. In virtù delle considerazioni ivi riportate la Corte Europea, pertanto, ha dichiarato che l’articolo 10 della Convenzione non si applica
nella fattispecie.
A questo punto della trattazione è necessario mettere in evidenza un rilievo
di notevole importanza, espresso dalla stessa Corte Europea in quanto ha rilevato
che: i precetti derivanti dagli articoli 8 e 2 della Convenzione non figuravano espressamente nella richiesta e nelle memorie iniziali delle Ricorrenti rivolte alla Commissione Europea. Questi presentano, tuttavia, una connessione manifesta con quanto si trovava esposto nella richiesta iniziale, ossia, la denuncia della mancanza di
informazione delle ricorrenti sui rischi collegati all’attività dello stabilimento chimico, che poteva avere ripercussioni sulla loro vita privata, familiare e sulla loro
integrità fisica.
In particolare, la Corte Europea ha ritenuto che le ricorrenti si lamentavano
non di un atto ma dell’inazione dello Stato.
Tuttavia, se l’articolo 8 ha essenzialmente per oggetto di premunire l’individuo contro le ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non si accontenta di assoggettare lo Stato ad astenersi da simili ingerenze: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi le obbligazioni positive inerenti ad un rispetto effettivo
della vita privata o familiare.
Per questi motivi, la Corte Europea ha concluso che: “l’incidenza diretta del161
Nota alla sentenza “Guerra ed altre contro Italia”
le sostanze nocive, derivanti dallo stabilimento chimico, sul diritto delle ricorrenti
al rispetto della loro vita privata e familiare permette di concludere per l’applicabilità
dell’articolo 8 della Convenzione”.
Infine, riportandosi integralmente alla conclusione relativa alla violazione
dello stesso articolo 8, la Corte Europea non ha ritenuto necessario esaminare il
presente caso giuridico anche entro l’ambito di applicazione dell’articolo 2 della
Convenzione.
Dunque, dalla lettura della presente Nota alla sentenza si evince chiaramente
che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha dichiarato all’unanimità la violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea che prevede il “diritto
di ogni persona al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della
sua corrispondenza”.
Per questa motivazione, la sentenza in parola stabilisce, assicura e garantisce
la massima tutela e protezione della vita privata e familiare, del domicilio e della
corrispondenza di ogni singolo individuo.
Nel merito, è fondamentale precisare che la Corte Europea, proclamando
all’unanimità la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, ha accolto sostanzialmente ed interamente la “tesi difensiva” sostenuta dalla rappresentante delle ricorrenti, sia nella memoria di difesa che durante la pubblica udienza davanti alla Corte
Europea.
Contestualmente è stata rigettata l’eccezione di “non esaurimento” delle vie
di ricorso interne sollevata dal Governo Italiano convenuto in giudizio; si trattava
di una essenziale “norma preclusiva” dei ricorsi presentati alla Commissione Europea.
Parimenti, non è stata accolta la richiesta della stessa Commissione Europea,
con la quale si chiedeva di riconoscere la violazione dell’articolo 10 della Convenzione che tutela il diritto di ogni persona “di ricevere o di comunicare informazioni
o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche”.
Dalla disamina della Sentenza in parola si rileva che la Corte Europea non si
è espressa sulla violazione dell’articolo 2 della Convenzione ove si proclama il “diritto alla vita” di ogni persona, in quanto la stessa aveva già esaminato il caso giuridico sotto il profilo dell’articolo 8 ed aveva concluso per la sua violazione.
Ciò nonostante alcuni giudici, membri della Corte deliberante, hanno espresso
singolarmente l’opinione secondo cui il caso esaminato coinvolgeva altresì il disposto dell’articolo 2 della Convenzione, in quanto strettamente collegato al “rispetto
della vita privata e familiare”, che è stato violato nel caso di specie. In tal senso,
quindi, la Corte Europea è stata invitata ad evolvere la Sua “interpretazione sostanziale” e la Sua “giurisprudenza” riguardo al “diritto alla vita” consacrato all’articolo 2 della Convenzione.
Allo stesso modo si ritiene necessario sviluppare anche gli altri diritti che ne
derivano “per implicazione” e definire, nel contempo, le molteplici situazioni che
producono un rischio reale e grave per la vita, o i differenti aspetti dello stesso
diritto alla vita.
162
Nella Santilli
In sostanza, dunque, la tesi difensiva sostenuta dalla rappresentante delle ricorrenti, davanti alla Corte Europea, esprimeva la necessaria e logica correlazione
esistente fra la tutela del “rispetto della vita privata e familiare” e la tutela della “vita
stessa” di ogni persona, prevista dall’articolo 2 della Convenzione Europea. Pertanto, è evidente che i singoli giudici deliberanti hanno ritenuto di condividere quel
profilo specifico della tesi difensiva che estendeva la protezione e la difesa del “diritto alla vita”, considerato nei suoi molteplici aspetti.
In conclusione, la sentenza pronunciata dalla Corte Europea il 19 Febbraio
1998 sul caso “Guerra ed Altre contro Italia” costituisce ‘giurisprudenza’ in ambito
europeo, in primo luogo, per la rilevante e singolare importanza delle materie trattate:
A. Diritto alla Tutela e al Rispetto della vita privata e familiare di ogni Persona – articolo 8 della Convenzione Europea;
B. Diritto all’Informazione dei Cittadini – articolo 10 della Convenzione
Europea;
C. Tutela della salute dei Cittadini e Inquinamento Ambientale – Normativa
Italiana ed Europea.
In secondo luogo, la sentenza in parola si caratterizza e si distingue altresì
per il congruo ammontare del risarcimento in danaro, concesso alle ricorrenti, in
riferimento al danno morale subìto, determinato complessivamente in £ 400.000.000
- quattrocento milioni - di vecchie lire italiane. Prima di allora, non si era ancora
attribuito un risarcimento per danni morali con ammontare così elevato.
A conclusione della presente Nota alla Sentenza della Corte Europea, non
può che esprimersi un giudizio notevolmente positivo, in quanto il “caso giuridico” in esame, pur essendo molto complesso, è stato definito con il riconoscimento
della “violazione” di una norma fondamentale prevista dalla Convenzione Europea. Inoltre, è stata altresì pronunciata una rilevante condanna del Governo Italiano, convenuto in giudizio in rappresentanza dello stabilimento chimico Enichem –
Agricoltura di Manfredonia.
Si auspica che la sentenza in parola divenga ‘un valido esempio’ che induca
ad osservare la Legge in maniera sempre più puntuale, scrupolosa e corretta.
163
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Presente come cultura
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166
Valerio Zanone
Benedetto Croce a cinquant’anni dalla sua scomparsa
di Lucio Miranda
Da tempo avevamo pensato che non potesse passare inosservato il cinquantesimo anniversario della morte di Benedetto Croce. Le ragioni di tale desiderio
erano molteplici.
La lettura di Croce ed i Suoi insegnamenti avevano costituito, sempre per chi
scrive, una “stella polare” nel senso indicato da Valerio Zanone nella sua splendida
relazione.
La vita di ciascuno incontra difficoltà, momenti tragici, delusioni come anche momenti di esaltazione dell’operosità.
In tutti questi momenti l’insegnamento del grande “maestro” ha costituito
per molti di noi, come per tanti, appunto una “stella polare” e cioè un punto di
riferimento nel quale trovare la forza della concezione etica del vivere. Quella forza
cosciente che consente di patire virilmente le difficoltà, di vivere con entusiasmo
operoso i momenti felici, in sintesi avere sempre quella forza morale che è utile in
qualsiasi momento della vita.
Quelle “stelle polari” ancor più necessarie per chi sceglie di vivere la vita non
solo nei propri confini familiari e di lavoro, ma anche nell’ ‘agorà’ e cioè nella
società viva, impegnandosi ad essere umile unità di una umanità, che è tale perché
vive nella relazione dell’uno con il tutto, così che l’uno non vive senza il tutto.
In un momento in cui la confusione nell’ ‘agorà’ politica italiana regna sovrana, sottolineare l’insegnamento crociano non appariva inutile.
Altro motivo per commemorare Croce, proprio a Foggia, era il legame della
nostra terra con Croce, e non solo per la circostanza della esistenza in Capitanata
dei suoi poderi, che lo inducevano a frequentare Foggia
Nella nostra attività politica e di giornalista dilettante, infatti, abbiamo incontrato, personalmente o per letture, i vari personaggi della cultura dauna ed abbiamo constatato che, molti e dei più autorevoli, erano stati crociani ed avevano
avuto stretti contatti con il grande filosofo, non già per raccolti o semine, ma per
ragioni che si legavano alla politica, all’antifascimo, alla cultura tout court. Basti
pensare a Pasquale Soccio ed a Giambattista Gifuni.
Dunque troppe erano le spinte o, se si vuole e per dirla con sincerità, troppo
era l’amore per il pensiero crociano da non far pulsare prepotente il sentimento del
dover organizzare la Sua commemorazione.
Con gli amici dell’associazione “Agorà” abbiamo pensato che i principali
enti e cioè la Provincia, il Comune di Foggia e la Camera di Commercio, dovessero
essere coinvolti nella iniziativa, perché la commemorazione assumesse i toni della
167
Benedetto Croce a cinquant’anni dalla sua scomparsa
ufficialità, dovuta alla memoria di un così grande personaggio. Sicché, nella splendida sala di Palazzo Dogana si è tenuta il 20 novembre 2002 la commemorazione di
Croce e, per indicazione di Valerio Zanone, esattamente cinquant’anni dopo la sua
morte.
La serata si arricchì, su indicazione dell’amico Luigi Lepri, della presenza
della figlia del grande filosofo, Silvia, che nella conferenza stampa, che precedette la
serata, abbozzò ritratti della sua vita giovanile e dei sui rapporti con il padre.
Per i legami di Croce con la Capitanata ci affidammo alla preziosa collaborazione di Antonio Vitulli, liberale-crociano e storico, la cui relazione ha dato risalto
non solo agli interessi materiali di Croce, quanto ai suoi legami con gli intellettuali
della Capitanata.
La commemorazione fu preceduta da un intenso interesse della stampa regionale inserendosi, o addirittura, contribuendo a provocare, un ampio dibattito
sul «Corriere del Mezzogiorno» e su «La Gazzetta del Mezzogiorno», dal quale
emerse che la nostra Capitanata aveva realizzato l’unico evento commemorativo in
tutta la Puglia.
Infatti, Bari, sede della storica casa editrice Laterza - che si espanse nell’Italia
con le opere del filosofo napoletano - ha realizzato, soltanto molto tempo dopo,
una commemorazione ufficiale, invitando proprio Valerio Zanone, mentre, il giorno innanzi il cinquantenario, si era tenuto solo un dibattito nella sede della prestigiosa
casa editrice barese.
Il «Corriere del Mezzogiorno» del 20 novembre 2002 titolava: Croce, un silenzio assordante e sottotitolava: Come è possibile che le istituzioni non abbiano
ritenuto opportuno onorare la ricorrenza? Ovviamente si riferiva a Bari e non a
Foggia.
Ma, dette queste cose, appare necessario anche tracciare qualche motivazione che renda attuale il pensiero crociano così da indicare che, in realtà, quella commemorazione non voleva essere - e speriamo non sia stata- una paludata occasione
ufficiale nella quale svolgere una celebrazione, bensì una riflessione di alta analisi
storica e politica che potesse coinvolgere tutti, a prescindere dalle proprie idee, come
ha dimostrato il pubblico, non solo straripante nel numero, ma quanto autorevolissimo nelle variegate espressioni politiche ed ideologiche.
Dunque è proprio vero: dall’insegnamento poliedrico del Maestro non si può
prescindere, qualsiasi possa essere la posizione politica o soltanto culturale che si
voglia assumere.
Commemorare Croce ed approfondire il Suo pensiero non ha costituito una
mera esercitazione accademica, ma l’invito a ritrovare nei valori della libertà, della
democrazia, dell’uomo, grande od umile che sia, la ragione di vivere il proprio particolare in una visione universale, che si salda con l’operosità,lo studio,lo slancio
verso il creare il tutto confluendo, anche per piccole che siano le cose, nel fluire
della storia dell’umanità.
E ciò riscontriamo nell’ammonizione di Croce:
168
Lucio Miranda
A voi non suonerà strana e paradossale, dopo le considerazioni che insieme
facemmo nella passata conversazione sulla realtà come perpetua creazione e
perciò spiritualità, e sulla creatività delle forze che chiamiamo individuali e coincidono con l’Unità dell’Universale (universi dicevano i latini, quia universi in
uno loco versi), la sentenza che gli uomini sono tutti liberi per ciò stesso che
vivono, e vivere è vivere per proprio conto e fare a proprio modo.
Consapevoli, peraltro, che il successo nel risultato non è essenziale giacché
ammoniva ancora il Maestro:
anche quando la sua azione apparterrà alla causa soccombente, victa come quella
di Catone, non sarà stata vinta, perché l’esigenza del bene, che essa conteneva
non si spegne, come non si spense nel mondo e sul “mondo” il no di Catone e
ciò basta.
Donna Silvia Croce nella sua conferenza stampa ha ricordato il grande legame del filosofo con i figli ribadendo, tuttavia, come il padre, affettuoso e premuroso, non dimenticasse mai di sollecitare a non sprecare il tempo e a dedicarlo al lavoro ed allo studio, come Egli faceva infaticabilmente.
Prima di concludere ci pare utile riferire di una risposta di donna Silvia ad un
giornalista che le chiedeva se ella avvertisse da ragazza la presenza della polizia
fascista che, come è noto, controllava strettamente Palazzo Filomarino.
Non è giunta una risposta dai toni eroici o drammatici giacché la figlia del
filosofo ha pressoché risposto che “sì c’erano, ma noi ce ne accorgevamo poco,
perché ci volevano tutti bene”.
Una sobrietà nel ricordo che è lezione di moderazione.
Dunque, e per concludere, le magistrali lezioni politiche, storiche, filosofiche e letterarie di Croce, costituiscono un patrimonio attuale che non può andare
dimenticato e che può essere sicuramente utile nell’attualità della società moderna
troppo attratta dal vano e dal superfluo e poco attenta a quelle “stelle polari” cui ha
fatto riferimento Valerio Zanone.
La Capitanata, per iniziativa dell’associazione “Agorà, e con la autorevole
collaborazione della Provincia, che ha anche ospitato la manifestazione in una degna cornice, del Comune di Foggia e della Camera di Commercio, ha realizzato
dunque “un evento” culturale e ciò induce a motivo di soddisfazione.
Ma questa aumenterà se ad essa avrà fatto seguito la diffusione dei libri di
Croce, nell’occasione esposti nell’antisala, ma sempre reperibili, ed una più approfondita conoscenza del Suo pensiero.
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170
Valerio Zanone
Rileggere Croce
di Valerio Zanone
1. La concezione della storia
Nel mio scaffale di scritti su Croce, conservo un fascicolo della «Rassegna
d’Italia», la rivista di Francesco Flora pubblicata nel decennale della morte di Croce
e quel fascicolo monografico era intitolato Viaggio nel tempo crociano.
Questo viaggio si è fatto molto più distante nelle sue progressive stazioni.
Sono passati ormai cinquant’anni, ma parlerò di questo alla fine della mia relazione.
Debbo dire che mi vado persuadendo sempre più che Croce ha conquistato lo status
a- temporale dei classici cioè di quegli scrittori che si sottraggono al loro tempo.
Cercherò questa sera di dare qualche indicazione, anche se è molto difficile farlo
nell’arco di una relazione ragionevolmente breve e perciò procederò assumendo
come mio programma il titolo di un libro di un caro amico che certo Silvia Croce
ricorda anche meglio di me.
Alfredo Parente scrisse quel delizioso libro che si intitolava Croce per lumi
sparsi, e io ne parlerò un po’ così, per lumi sparsi cioè cercando di cogliere nella
vastità del pensiero e nell’opera crociana alcuni elementi che a mio avviso lo rendono vicino e vivo ancor più che attuale. Il primo elemento che vorrei proporre alla
vostra considerazione è la dimensione di Croce come storico della libertà; ho visto
con piacere che all’ingresso di questa sala sono in vendita alcune pubblicazioni di
Croce nella serie di Adelphi. Avrei imbarazzo a consigliarne qualcuna, mi sentirei
di suggerire Le vite di avventura di fede e di passione, dove è quella biografia del
marchese di Vico Equense che credo sia uno dei capolavori della storiografia italiana, a mio modo di vedere uno degli scritti anche letterariamente più belli di Croce.
Questa sua grande opera ha in molte parti come filo conduttore la storia della libertà, anzi mi correggo; bisogna rovesciare i termini. Croce non si occupava della storia della libertà, ma si occupava della libertà come filo conduttore della storia; individuava nella libertà il principio esplicativo del divenire storico.
Il secondo lume sparso è, quindi, la concezione crociana della storia, che è
una concezione rivoluzionaria, perché Croce intendeva la storia sempre come storia contemporanea. Possiamo studiare la storia dei Cesari o volendo anche quella
dei Faraoni, ma sempre nella contemporaneità della nostra visione storiografica.
Non è, come credeva la filosofia della storia degli anni ’30, il passato che predetermina
il presente; al contrario, è il presente che ci serve a intendere soltanto in parte sempre qualcosa del passato. Il procedimento rivoluzionario che nei nostri anni giova171
Rileggere Croce
nili, ahimè, abbondantemente remoti, abbiamo preso da quei libri di Croce, soprattutto sotto questo profilo, della storia come pensiero e come azione e della storia
come metodo è di ricondurre il modo di fare la storia, di scrivere la storia, di studiare la storia, sotto la categoria generale dell’arte, tanto che la più icastica espressione
crociana in proposito la si trova non in una delle sue opere storiche, ma nella grande
Estetica. Qui Croce sostanzialmente considera la storia e l’arte come due forme
dello spirito che sono determinate da una intuizione. Ma mentre l’arte è determinata da una intuizione che si confronta con l’immaginazione, la storia è una intuizione che si relaziona con la memoria.
Di qui la particolarissima eccezione che Croce dava al metodo storiografico.
Gli storici hanno la loro professionalità, i loro criteri scientifici, spolverano i faldoni
negli archivi, scavano le rovine, decifrano le lapidi ma, al termine di tutto questo,
resta sempre la domanda: “Chi garantisce la veridicità del fatto?” La risposta che
Croce dà nell’Estetica è la veridicità del fatto storico, è l’umanità che risponde “io
ricordo”; l’intuizione è memoria, ed è fondamento del metodo storico. Da questo
deriva un carattere molto importante di tutta la filosofia crociana, perché da questa
concezione del metodo storico e dell’intuizione della storia come memoria, discende quella precisa e rigorosa asserzione antimetafisica che è la caratteristica più forte
della filosofia crociana. Croce ci ha vaccinato contro tutte le metafisiche.
2. La visione liberale di Croce
Ed ora vengo all’ultimo lume sparso, che è anche il più controverso, ossia la
particolare concezione che Croce aveva del liberalismo come forma di pensiero,
che non poteva essere legata a nessun ordinamento né economico né costituzionale. Ciò ha creato ai liberali più di un problema; ma in sostanza Croce non aveva
timore di dire che della libertà si può parlare soltanto in termini apodittici cioè auto
evidenti, mentre di tutto quello che riguarda quelli che chiamava gli affari, cioè gli
affari economici e gli affari politici, si deve sempre parlare di termini ipotetici, sottoposti a verifiche, prove e controprove e a continua discussione. Da questa sua
posizione deriva, per esempio, la sua arcinota controversia a distanza con Einaudi
sul liberalismo e liberismo, che non è, come la vulgata ha fatto qualche volta credere, la differenza fra due liberalismi. Uno supposto di destra che sarebbe quello di
Einaudi e uno supposto di sinistra che sarebbe quello di Croce. La disputa tra Croce ed Einaudi riguardava in realtà due visioni della moralità. Una è la morale di
Croce che aveva il suo asse in quell’idea della libertà, di cui si è detto in precedenza.
L’altra è quella di Einaudi, che legava invece la libertà (quindi la dimensione anche
etica del liberalismo), alle sue conseguenze storiche, sociali, economiche, cioè l’etica del risparmio, l’etica della proprietà, l’etica dell’iniziativa. In realtà, non si trattava di un dialogo tra un filosofo e un economista. Era il confronto tra due moralisti.
Partendo da questi presupposti, vorrei sottolineare qualche elemento un
poco più approfondito. Noi dobbiamo a Croce una difesa dello storicismo. Sic172
Valerio Zanone
come è sempre l’anniversario di qualcuno o di qualcosa, quest’anno è anche il
centenario di Popper; si sono fatte, anche in vari convegni affermazioni sulla
confutazione popperiana dello storicismo. In realtà, quello che Popper confutava
era una accezione dello storicismo tutto diverso da quello crociano. Era proprio
lo storicismo come filosofia della storia, come predeterminazione del futuro attraverso la filosofia della storia che anche Croce respingeva. Allora da questo suo
storicismo, e da questo suo ricondurre al procedimento storico tutta la storia del
pensiero, le manifestazioni della vita e dello spirito, deriva l’accezione del
liberalismo di Croce che prima ricordavo. Croce rifiutava, in sostanza, di mettere
il liberalismo nella gabbia di qualsiasi ordinamento istituzionale o economico che
fosse.
Perché, dicevo prima, ciò ha creato ai liberali più di un problema? Perché
questa presunta astrattezza di Croce gli è stata molto rimproverata, una volta da
sinistra e oggi soprattutto da destra. Si dice che il liberalismo di Croce è un
liberalismo realistico astratto, che poteva offrire una sorta di conforto spirituale
durante il ventennio della dittatura, nei tempi in cui la libertà era negata. Per i
suoi critici il liberalismo crociano perde sostanza nel momento in cui ha dovuto
incarnarsi nelle istituzioni e nella vita economica per dare forma a specifici ordinamenti. Molti ricorderanno, almeno quelli che hanno pressappoco la mia età, il
grande saggio di Bobbio su questo. È un saggio degli anni ’50, che è tutto giocato
su questa critica al liberalismo che aveva parlato agli italiani per vent’anni di dittatura. Poi quando era arrivata la libertà, diceva Bobbio, tacque e non ci insegnò
più nulla a quel punto.
Io leggo in quella visione crociana una tendenza molto importante a riparare
il liberalismo da quello che, forse, è sempre stato il suo vizio più facile e il suo limite
maggiore, cioè quello di mettere l’idea liberale al servizio di interessi di classe e di
ceto. I liberali erano il partito della borghesia contrapposto ai partiti proletari. Croce escludeva tutto questo proprio per evitare che l’idea liberale fosse in qualche
modo legata a degli interessi di tipo particolare o egoistico. A questo proposito
soffermiamoci sulla Storia d’Italia e sulla Storia d’Europa. L’importanza di questa
Storia d’Italia dal 1871 al 1915 è quella di essere una storia contemporanea. Forse
gli storici di professione se fossero qui, avrebbero modo di dire, dal punto di vista
storiografico che è un testo invecchiato perché è stato scritto negli anni ’30. Ma si
vede proprio in quella sua datazione la funzione che svolgeva, perché lì c’era la
rivendicazione dei valori civili della calunniata Italietta che l’irrazionalismo, il
decandentismo, lo pseudo misticismo fascistico avevano dispregiato e calunniato:
c’era la rivendicazione del periodo risorgimentale, del nesso tra la destra storica e la
sinistra di De Petris e di Zanardelli; c’era la terribile ironia crociana contro Crispi
(lo definiva uno sempre tirato dalla sua vaghezza per cose mirande). C’era la riflessione sul giolittismo che negli stessi movimenti liberali era stato sottoposto a grandissime critiche, ma che Croce difendeva, perché vedeva in Giolitti il maggior statista dell’ Italia del primo ‘900. Croce aveva colto la vera linea portante del giolittismo,
rivolta a coinvolgere progressivamente nuovi strati sociali ai pubblici affari. Questo
173
Rileggere Croce
processo aveva comportato un paradosso. Una destra liberale che era diventata
statalista era, infatti, un po’ paradossale, ma soltanto rafforzando le istituzioni dello
Stato si poteva maturare il vincolo di una cittadinanza unitaria; poi, progressivamente, si era posto il problema di allargare la base delle istituzioni pubbliche, di
aprirsi alla democrazia. Dal liberalismo classico di Cavour si passava al liberalismo
democratico di Giolitti.
Quella Storia d’Italia trova la sua continuità, quasi la sua conclusione, nella
Storia d’Europa. Anche questa era una storia contemporanea. La Storia d’Europa
nel secolo decimo nono invece racconta le vicende del ‘900, dell’Europa dopo la
Grande Guerra, che aveva ridotto all’assurdo tutti i nazionalismi. Mentre Croce
scriveva “torbidi apostoli del nazionalismo si chiudevano verso gli altri popoli in
una cupa libidine di razza”. Questo basta a spiegare le stroncature feroci che la
stampa fascista fece di quel libro, non riuscendo però ad impedire che fosse tradotto e circolasse in tutta Europa come un testo fondamentale.
E qui davvero Croce parla oggi ai nostri problemi, alla nostra contemporaneità, al nostro futuro. Siamo, infatti, a due anni dalla data in cui dovrebbe nascere l’Europa allargata, con la costituzione della cittadinanza comune. Si sostiene
da fonti anche molto autorevoli che la cittadinanza europea è un’invenzione, è
un’espressione enfatica, è immaginaria, perché un demos europeo non esiste. Croce
diceva invece un’altra cosa. Diceva che le nazioni non sono dati naturali, ma stati
di coscienza e formazioni storiche e quindi in quella Storia d’Europa germinava
proprio una nuova nazionalità, che avrebbe non eliminato le nazionalità storiche,
ma le avrebbe superate in una più vasta dimensione, attraverso un nuovo liberalismo che doveva distaccarsi dalla protezione di qualsiasi interesse ristretto, aprirsi
a nuovi ordinamenti istituzionali e nuovi rapporti sociali. Come aveva scritto
appunto nella Storia d’Italia la libertà non è un concetto borghese o di classe,
“ma è il campo con grandi secolari fatiche spianato e assicurato dai maggiori spiriti dell’età moderna, per lo svolgimento delle lotti civili”. La Storia d’Europa di
Croce è fondamentale per la concezione dell’europeismo e del federalismo liberale ed ha una grande continuazione nell’opera del suo discepolo Federico Chabod, il quale dimostra come, contrariamente a quanto molti credono, la storia
d’Europa sia non più nuova, ma più antica delle storie delle singole nazioni, perché è la storia della Grecia. L’Europa dei Greci, l’Europa della Grecia classica era
l’Europa della libertà contrapposta all’Asia del dispotismo e Chabod ci dimostra
come, partendo da quell’origine classica, si formi già nel ‘700 l’embrione del diritto comune europeo.
Non vorrei approfondire troppo il problema della sua posizione politica,
ma non si può non ricordare, in sostanza, un punto che crea qualche parvenza
almeno di contraddizione. Croce aveva sempre sostenuto che il liberalismo non
era riducibile ad un partito, che il liberalismo era la premessa per la vita di tutti i
partiti; tuttavia egli scrive, quando nel 1924 o ’25 il contrasto per il fascismo pervenne ad un punto tale che non si potevano più nutrire illusioni, che si iscrisse per
la prima volta al partito liberale, di cui era capo spirituale Francesco Ruffini. Quella
174
Valerio Zanone
scelta fu terminale, nel senso che, pochi mesi dopo, il Partito Liberale di Ruffini
fu sciolto dal Governo; però Croce vi rimase fedele durante il ventennio e nel
1943 fu, in età non più giovanile proprio, in prima fila, “per ricostituirlo in Napoli”, come scrisse, “rinsaldato nei concetti e conformato alla nuova situazione delle cose”. Egli pensava ad un Partito Liberale, che riprendesse la tradizione
cavouriana, però questa idea della conformità alla nuova situazione delle cose lo
portava ancora di più a distaccare l’idea del partito liberale, che egli voleva ricostruire e ricostituì, da ogni interesse di parte e da ogni tendenza conservatrice
filomonarchica.
È un documento molto importante di questo Croce, convertitosi da filosofo
della libertà in organizzatore del Partito Liberale, la lettera per la costituzione della
sezione pugliese del Partito Liberale scritta nel dicembre 1943 a Giuseppe Laterza,
nella quale Croce parla di un “neo liberalismo o liberalismo radicale che piaccia
denominarlo”. Questa lettera è molto importante, perché qui prende anche una
posizione precisa sul programma del partito. Croce non credeva nei programmi dei
partiti; diceva che erano dei disegni panoramici e, in quella fase, la lettera a Laterza
aveva le sue buone ragioni, perché in essa sosteneva che era inutile mettersi a discutere di programma fino a quando l’unico programma da realizzare era quello di
liberarsi dal Tedesco invasore. Però, anche dopo la liberazione, quando ci fu da
stabilire il programma del partito, egli mantenne questa sua posizione. Quando nel
1947 si fece ad Oxford il primo Manifesto Internazionale Liberale e Giovanni
Cassandro andò a rappresentare il Partito Liberale, Croce gli affidò un messaggio
dove scrisse: “La libertà è legge morale della vita e non un particolare ordine di
provvedimenti economici”. È evidente che qui si poneva il problema, per il Partito
Liberale, di stabilire quale fosse il suo ceto sociale di riferimento. Croce sosteneva
che il ceto di riferimento non era la borghesia, ma piuttosto il ceto medio, oggetto
di una sua importante intervista a «Il Tempo» del 1947; qui Croce spiega un’idea
del ceto medio che è simile a quella che si ritrova anche nella Storia del liberalismo
europeo di Guido De Ruggero.
Egli intendeva il ceto medio non come un ceto sociale, anche se poi in realtà
le due cose venivano ad avvicinarsi, ma piuttosto come una mentalità, come un tipo
di atteggiamento verso la vita civile di persone educate, in un certo modo capaci di
sollevarsi politicamente dalla rivendicazione del loro interesse più ristretto alla visione dell’interesse generale del bene comune. Certamente, pensava a quella borghesia colta, di insegnanti, professionisti, intellettuali ma anche di operatori economici e così via, che egli frequentava a Napoli e a Torino, in Piemonte, in Lombardia,
durante le vacanze; infatti aveva questa strana abitudine di vivere a Napoli e fare le
vacanze in Piemonte, che era l’esatto contrario di quello che qualsiasi agenzia turistica probabilmente oggi consiglierebbe. Comunque, questo suo ceto medio aveva
in sé forse un limite, che però non va addebitato a Croce, ma alla borghesia italiana,
e questo suo modo di intendere la borghesia italiana probabilmente conteneva una
apertura di credito troppo generosa nei confronti dei vizi atavici che sono sempre
stati i vizi dello spirito borghese.
175
Rileggere Croce
3. Croce come presidente del Partito
Per quattro anni almeno, dal ’43 al ’47, egli sacrificò buona parte dei suoi
studi proprio al compito di liberare il militante come presidente del partito. Fu
insofferente verso il Partito d’Azione che egli imputava di ibridismo concettuale;
per lui era un animale mostruoso, perché metteva insieme nuovi concetti, fra loro
incompatibili, e credo che in questa sua insofferenza ci sia un fatto intellettuale: egli
diffidava dell’estensore del programma del Partito d’Azione Guido Calogero, perché Calogero era un discepolo di Spirito e Spirito era un discepolo di Gentile. D’altra parte questa sua diffidenza si accompagnava ad una straordinaria generosità verso i non pochi suoi amici e discepoli che, invece, confluirono nel Partito d’Azione;
egli appoggiò il generale Pavone durante il periodo dell’Italia tagliata in due ed
Omodeo che era rettore dell’Università di Napoli. Dove invece la sua antipatia era
totale, e quindi estesa anche alle persone, era nei confronti dell’Uomo Qualunque.
Abbiamo ristampato con la Fondazione di Roma, l’antologia di un libro dimenticato di Guglielmo Giannini La folla, del 1945. Ci sono due prefazioni, una
del direttore della Fondazione che è un valente studioso, Giovanni Orsina, che si
intitola Le virtù liberali del qualunquismo e un’altra, che ho scritto io, che si intitola La riduzione qualunquista del liberalismo. La posizione di Croce era assolutamente ostile tanto che soltanto quando egli lasciò la presidenza effettiva del Partito
Liberale ci fu un colpo di mano, per cui la segreteria del Partito Liberale passò alla
destra interna, quindi a Roberto Lucifero che per le elezioni del ’48, stabilì con
l’Uomo Qualunque che era ormai sulla via della disfatta, una alleanza elettorale che
si dimostrò totalmente disastrosa.
Ciò che Croce scrisse nei suoi taccuini, a questo proposito, è veramente severo. Quello che egli invece aveva cercato di fare, toccando un limite, fu nelle elezioni
precedenti, quelle del 1946: il Blocco Nazionale Democratico, di cui aveva scritto il
manifesto, che portava la sua firma insieme a quella di Bonomi, di Nitti e di Vittorio Emanuele Orlando e che sembrava quindi sulla carta in quelle prime elezioni
dell’Italia libera, destinato ad avere una grande affermazione. Si rivelò invece
minoritario di fronte ai partiti di massa che avevano ormai occupato la scena, rispetto ai quali si potrebbero fare delle diversificazioni, ma non vi è il tempo per
entrare in particolari. Nei confronti dei cattolici, Croce ebbe sempre una posizione
molto cauta per la loro subordinazione confessionale, mentre si potrebbe invece
riconoscere una maggiore apertura nei confronti della sinistra, per quanto riguardava le sue tendenze umanitarie. Ma non appena poi si entrò nella sperimentazione
della vita politica e si vide quali andamenti assumesse la sinistra comunista, già nel
1946 la posizione di Croce contro il “dio fallito” fu assolutamente lineare. Infine,
citiamo soltanto di passaggio l’importante contributo che egli diede alla questione
istituzionale.
È stato ristampato in anastatica il Diario dell’Italia tagliata in due dove c’è
un giudizio terribile, non soltanto contro Mussolini, ma severissimo anche nei confronti del principe ereditario sul quale, dopo l’incontro di Sorrento, Croce aveva
176
Valerio Zanone
manifestato qualche apertura. Poi venne meno la stima per un infelice intervista che
Umberto diede al «Times»; quindi venne meno l’idea che l’unico modo per salvare
l’istituzione monarchica, cui Croce era legato, fosse quella di passare la successione
al principe di Napoli, allora minorenne, ma con la reggenza a Maria Josè, che era
l’unica persona della famiglia reale con cui Croce aveva sentitamente intrattenuto
dei rapporti piuttosto confidenziali anche durante il Fascismo. Lasciando poi che
fosse il plebiscito a stabilire la volontà del popolo italiano, soltanto dopo il referendum del 1946 Croce dichiarò quello prima non aveva voluto dire, cioè di aver votato monarchia, nonostante tutto, per il debito storico che sentiva nei suoi confronti.
In politica, per chi ci tiene, serve avere una stella polare anche in termini di
divisione del mondo, di sistema di lavori; occorre avere un orientamento. Ora noi,
come liberali, ci siamo concessi il lusso di avere non una stella polare, ma due, Croce e Einaudi che in apparenza erano, e sono in realtà, tutte e due di cultura liberale
di matrice molto differenziata: la cultura germanica di Croce e la cultura anglosassone di Einaudi, legati da un grande vincolo solidale in realtà. Questi sono stati per
noi dei punti di riferimento costante. E chi ha letto Croce in quegli anni, quando
egli era ancora vivo e quando era ancora recente il ricordo dei vent’anni del Fascismo, conserva un debito verso la figura di questo filosofo che ha illuminato gli anni
più bui della storia d’Italia con la luce del suo pensiero. Io sono, come mostra purtroppo il mio accento, torinese e la nostra è una città piuttosto allergica ai toni alti:
lo è anche il giornale della mia città, in genere, per tradizione, piuttosto sobria nelle
cose. Ma il 21 novembre del 1952 anche «La Stampa» fece un’eccezione dedicando
alla morte di Croce tutta la terza pagina. Io che facevo il liceo, staccai questa pagina
del giornale e poi la ritrovai anni dopo in mezzo ad altre cose. L’ ho fatta incorniciare e la tengo tuttora sotto vetro; è ingiallita e quasi illeggibile, ma si riesce invece a
leggere benissimo il titolo sulle nove colonne che dice: Si è spenta una luce somma
dello spirito moderno.
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Il 5 febbraio 2001 si svolse a Foggia il dibattito “Gramsci, un pensiero vivo
nell’Italia del terzo millennio”. In quell’occasione, per iniziativa dell’Amministrazione provinciale di Capitanata e dell’Associazione per la Sinistra di Foggia, fu scoperta una lapide per ricordare il passaggio di Gramsci nel carcere cittadino prima di
raggiungere Turi, dove doveva scontare la pena a vent’anni di reclusione inflittagli
dal Tribunale Speciale. Fummo consapevoli, però, che non si trattava solo di un doveroso omaggio al grande intellettuale, ma c’era di più: riflettere sulla ricchezza del
suo pensiero, interrogarsi sull’interesse vivissimo che Gramsci, in particolare all’estero,
suscita tra gli studiosi e poi la sua ‘fortuna’ nella cultura e nella politica del Novecento. Di fronte agli eventi drammatici di questi primi anni del XX secolo, tra l’ecatombe
delle Twin Towers di New York e la terrificante dimostrazione di potenza dell’impero americano alla conquista dell’Iraq, la problematica di una “logica politica” da
parte di Gramsci è attuale? Gli avvenimenti ai quali abbiamo accennato non si
erano ancora verificati, ma il regista o i registi erano già all’opera. “Una lettura
profonda del presente è l’unica anticipazione umana possibile del futuro”, dice Asor
Rosa, e l’eredità del Novecento è troppo bruciante per non costrigerci a leggerla e ad
impegnarci dolorosamente nella previsione. Del Novecento, Gramsci fu uno degli
interpreti più originali e acuti e fare i conti con lui significa fare i conti con il nostro
passato, ma con lo sguardo rivolto al presente. E, nell’incontro del 5 febbraio, così ne
discussero, in piena libertà, con posizioni diverse e addirittura contrastanti David
Bidussa, Giuseppe Normanno e Beppe Vacca.
In questo numero de «la Capitanata» riportiamo gli interventi di Bidussa e
Normanno e la lettera di Biagio De Giovanni. Nel prossimo numero della rivista
pubblicheremo la conclusione del prof. Vacca.
(a. r.)
179
180
David Bidussa
Gramsci e l’uso politico della storia
di David Bidussa
1. Il rapporto con la storia
Se interpreto correttamente il titolo complessivo di questa iniziativa, credo
che una delle domande a cui tentare di dare una risposta consista nel rapporto tra
domanda storico-politica e senso della riflessione politica. Il rapporto con la storia
e per certi aspetti la questione dell’uso pubblico o politico della storia ha, a mio
avviso, una stretta connessione con questa questione.
Prenderò in considerazione un testo - il Quaderno 19 del Quaderni dal carcere dedicato al Risorgimento italiano e il tema della riflessione sulla storia a partire
da domande politiche. Gramsci riflette sul tema del Risorgimento non tanto come
insieme di eventi, bensì come fase in cui si incrociano e si sovrappongono codici
culturali, problemi generali, nodi e luoghi dello sviluppo.
Gramsci in quelle note si pone il problema della individuazione delle origini
e se queste corrispondano ad un evento dato o a un dato di contesto all’interno di
un processo di “lunga durata” (§2); classifica i modelli interpretativi (§5); è questo
l’aspetto su cui voglio soffermarmi; pone il problema della geografia dell’economia
e degli attori sociali tra Nord e Sud (§24).
Sono tutti aspetti che a diverso titolo rientrano nella riflessione sul Risorgimento e la storia nazionale che tornano più volte nelle riflessioni del carcere.
I temi che Gramsci affronta o che almeno enuncia nel paragrafo 5 - quello
dedicato alle interpretazioni - meritano un’attenzione particolare. Il problema, a mio
avviso, non è dato dal contenuto specifico delle interpretazioni o dei modelli analitici,
è bensì dato dal rapporto che si intrattiene con la storia. Scrive dunque Gramsci:
Se la storia del passato non si può non scrivere con gli interessi e per gli interessi
attuali, la formula critica che bisogna fare la storia di ciò che il Risorgimento è stato
concretamente (se non significa un richiamo al rispetto e alla completezza della documentazione) non è insufficiente o troppo ristretta? Spiegare come il Risorgimento
si è fatto concretamente, quali sono le fasi del processo storico necessario che hanno
culminato in quel determinato evento può essere solo un modo di ripresentare la
cosiddetta “obiettività” esterna e meccanica. Si tratta spesso di una rivendicazione
‘politica’ di chi è soddisfatto e nel processo al passato vede giustamente un processo
al presente, una critica al presente e un programma per l’avvenire.1
1
Antonio GRAMSCI, Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1983.
181
Gramsci e l’uso politico della storia
Il tema è dunque come si costruisce e si vive il rapporto con la storia, fino a
che punto è legittimo un uso politico e pubblico della storia, con quale forma questo uso politico e pubblico ha senso. La riflessione sulla storia ha sempre un senso
di attualità, ma cosa significa in questo caso la parola attualità? È indubbio che ogni
volta che riflettiamo sul passato storico del nostro paese, del nostro contesto o di
un contesto lontano, le domande nascono spontanee.
Se porre domande alla storia è legittimo e comprensibile rispetto ad un contesto, tali domande acquistano la fisionomia dell’attualità perché essa consiste nella
logica con cui si riflette sulla storia passata e su quegli interrogativi che sono colti
come inevasi. Nella pagine che Gramsci dedica al Risorgimento il carattere inevaso
delle questioni del Risorgimento affiora più volte e riguarda vari aspetti della vicenda risorgimentale. Consideriamo quello più generale: quello tra versione nazionalistica e versione comparatistica del Risorgimento.
Nel primo caso studiare il Risorgimento implica indagare in che modo prende
forma rispetto alla costruzione di un ‘mito nazionale’ o se sia collocabile e valutabile
all’interno di un processo trasformativo più profondo di cui l’elemento dell’identità
nazionale costituisce una parte rilevante, ma non l’unica nella principale.
Si consideri uno dei nodi strutturali del Risorgimento italiano: i moti del ’48.
Vi si possono individuare particolarità nazionali e storie locali, elementi di trasversalità oppure caratteri di condivisione. Tuttavia per coglierne il dato strutturale noi
dovremmo coglierne un aspetto apparentemente marginale eppure sostanziose. I
moti del ’48 sono accompagnati dal fiorire di molte testate giornalistiche. Il giornalismo democratico e politico così come lo conosciamo oggi o così come si afferma
nel corso del XX secolo, ha il suo primo banco di prova nelle giornate nel ’48 europeo.
Che cosa sono dunque i moti del ‘48 da questo punto di vista? Il ’48 è il
momento in cui si passa da un rapporto visuale ed orale con la coscienza politica ad
un rapporto letterario e letterale con la coscienza pubblica. La differenza che c’è tra
le sommosse settecentesche e il 1848 è questa: nella sommosse settecentesche il rapporto con la coscienza pubblica somiglia ad una leggenda metropolitana: io racconto che è avvenuto un fatto in un posto, poi lo racconto in un altro posto e creo la
coscienza collettiva. Nel ’48 si hanno contatti tra tutte le città europee; in Francia, a
Berlino, a Vienna, in Italia, vengono pubblicati 850 periodici con testi che la gente
legge e commenta. Nasce così il primo processo di insurrezione popolare in cui si
parla e ci si misura sulla base di programmi scritti e soprattutto letti; con milioni di
persone che sanno leggere ad un livello minimale. La politica favorisce la crescita
culturale, non la deprime.
Ora questa capacità di riflettere sul Risorgimento ci fa capire che esso non è
semplicemente una vicenda del passato, un episodio particolare, ma un processo
più rilevante e complesso in cui entrano le forme della politica.
In queste righe, dunque, Gramsci si propone e ci propone di analizzare in
profondità la storia attuale e di promuoverne lo studio, non come “storia immediata”, come analisi critica in tempo reale, bensì come territorio in cui la riflessione
182
David Bidussa
della e sulla storia è anche farsi domande sul suo uso. Con la premessa che porre la
questione dell’uso della storia non implica proporre una versione impropria della
storia.
2. Uso pubblico e uso politico della storia
Quando noi parliamo di uso pubblico e di uso politico della storia, abbiamo
un’immagine in qualche modo stuprata della storia, perché pensiamo che i termini
uso pubblico e uso politico portino ad una lettura parziale della storia, ad una lettura non oggettiva e distorta di essa. Io non credo che ci siano letture non distorte
della storia, perché gli storici che la studiano scrivono di storia, non scrivono la
storia. Al massimo ci sono delle opere di storiografia sulle quali si può discutere
circa il modo sulle quali sono state costruite.
Vorrei proporne una: si tratta de L’Ottantanove, di Georges Lefebvre. Scritto a metà degli anni ’30 per conto del Ministero della Cultura francese che organizza il corpo delle celebrazioni per il 150° anniversario di essa.
La Rivoluzione francese (almeno ogni sua scadenza canonica) ha dato sempre l’occasione per teatralizzare la storia. Ecco perché Georges Lefebvre è incaricato di scrivere un libro popolare sul 1789. È un libro su cui riflettere a lungo; pubblicato nel 1939 in Italia esce per la prima volta nel ’49.
Nell’edizione del ’39 ci sono venticinque righe che sono un pezzo dell’uso
pubblico della storia, perché Lefebvre esorta i giovani di Francia a difendere la democrazia sul suolo di Francia.
Nella traduzione italiana del ’49, quelle venticinque righe finali mancano,
probabilmente perché sarebbero risultate ridicole ed imbarazzanti a causa dei comportamenti dei Francesi di fronte all’avanzata delle truppe francesi nel maggio-giugno 1940.
E tuttavia il dato di uso pubblico non è espresso da queste righe soppresse,
bensì dal rapporto tra lettura e coscienza pubblica. Quasi alla fine del libro Lefevbre
descrive una giornata particolarmente significativa di quell’anno: quella del 6 ottobre, giorno nel quale il popolo di Parigi marcia su Versailles e costringe il Re a
ritornare a Parigi. È il giorno, sostanzialmente, in cui il popolo di Parigi prende lo
scettro dalle mani del Re, se ne impossessa e deposita il Re e lo scettro nel palazzo
reale al centro di Parigi.
Scrive Lefebvre:
L’Assemblea si sciolse verso le tre del mattino. Era stata la sola a trarre un
sostanziale vantaggio da questi avvenimenti: il re aveva accettato i decreti costituzionali e riconosciuto implicitamente che la sua sanzione non era loro necessaria; una volta di più, una rivoluzione di massa aveva assicurato il successo
della rivoluzione dei giuristi. Probabilmente la maggioranza se ne sarebbe appagata. Ma i Parigini non si erano disturbati per così poco: all’indomani, gli
aristocratici potevano riprendere il sopravvento sul re; la stessa Assemblea si
183
Gramsci e l’uso politico della storia
era mostrata lenta e molle; bisognava farla finita, e, portando il monarca e i
deputati a Parigi, porli sotto la sorveglianza del popolo.
Poiché molti dei dimostranti non avevano potuto aprire asilo, alcune centinaia
di loro, fin dalle sei, si radunarono alle cancellate del castello. Poiché una di
esse era rimasta aperta, la corte fu invasa e scoppiò un tafferuglio: una guardia
del corpo fu messa a morte, poi un giovane operaio fu ucciso da un colpo di
arma da fuoco; una seconda guardia fu massacrata. La folla raggiunse la scalinata che conduceva all’appartamento della regina e penetrò nell’anticamera,
respingendo le guardie del corpo, e uccidendo, o ferendo molte di loro. La
regina dovette rifugiarsi dal re.
Le guardie nazionali nulla avevano fatto per fermare gli invasori. Quando ormai era tardi, vennero a mettere fine al combattimento, e, impadronitesi dei
posti di guardia interni, fecero sgombrare il castello. La Fayette, che aveva passato la notte al palazzo di Noailles, comparve a sua volta, riconciliò le guardie
nazionali con le guardie del corpo e si mostrò al balcone con la famiglia reale.
La folla, sulle prime indecisa, finì per applaudirli, ma gridando: «A Parigi!», e
senza muoversi di un pollice. Non c’era più da farsi nessuna illusione, e, dopo
alcuni minuti, il re cedette. Tuttavia, volle chiedere il parere dell’Assemblea;
questa rispose soltanto che essa era inseparabile dalla persona del re, il che equivaleva a votare il trasferimento a Parigi.
All’una, al rombo del cannone, le guardie nazionali, con un pane sulla punta
della baionetta, aprirono la marcia, seguite da carri di grano o di farina, adorni
di fronde, scortati dai facchini del mercato e dalle donne, che portavano rami
d’albero legati con nastri, alcune sedute o a cavallo dei cannoni. «Si sarebbe
creduto di vedere una foresta ambulante, attraverso cui luccicavano i ferri delle
picche e delle canne dei fucili», scrisse un testimone. Venivano poi i granatieri,
che proteggevano le guardie del corpo disarmate; poi, il reggimento di Fiandra
e gli Svizzeri; infine, la carrozza del re e della sua famiglia, con a fianco La
Fayette a cavallo, e le carrozze dei cento deputati scelti a rappresentare l’Assemblea. Dietro ancora guardie nazionali e la folla.
Si procedeva a stento nel fango; pioveva; e presto si fece buio. Insensibile alla
tristezza dell’ora, il popolo per un istante placato e fiducioso, non pensava che
alla sua vittoria, cantava e scherzava; riportava a casa «il fornaio, la fornaia o il
garzoncello».
Bailly accolse il re alla cinta daziaria, e lo condusse all’Hotel-de-Ville, dove
vennero pronunziati dei discorsi. Soltanto alle dieci la famiglia reale rientrò alle
Tuileries, abbandonate da più di un secolo.2
In questa pagina solo apparentemente ilare o leggera, ma in realtà tragica,
comunque solenne, ciò che è rilevante non è tanto la descrizione dell’accaduto,
quanto il rapporto tra una scena descritta e una vissuta dal lettore a cui quella narrazione è rivolta.
2
Georges LEFEBVRE, L’Ottantanove, Torino, Einaudi, 1949, pp. 212-214.
184
David Bidussa
Opportunamente uno storico dei nostri ha osservato come “nessuno potrà mai ricostruire scientificamente quello che passava per la testa di venti milioni di francesi durante la rivoluzione del 1789, né all’interpretazione di questo
evento si potrà arrivare per mera induzione”.3 Lefebvre non ha mai avuto questa pretesa nella sua lunga pratica storiografica. Eppure proprio la sensibilità a
indagare la morfogenesi delle folle e dei movimenti di follia urbani e rurali4 di
cui resta uno dei più grandi storici, permette a Georges Lefevbre di leggere in
controluce, attraverso la storia degli eventi della Rivoluzione francese, il proprio tempo.
È significativa la scelta della narrazione delle giornate dell’ottobre 1789. In
quelle due pagine in cui Lefebvre condensa il ritorno del Re a Parigi, ciò che conta,
infatti, è la capacità evocativa che esse determinano.
Ha scritto Alessandro Galante Garrone, nell’introduzione alla versione italiana del libro di Lefebvre:
lo sguardo di Lefebvre è sempre lucido e fermo, non appannato da vaporosità
sentimentali. [...] Una volta sola si percepisce, nel suo racconto in apparenza
impassibile, una vibrazione più calda e commossa, indubbiamente bella. Ma è
soltanto sul chiudersi del racconto, quando, al termine delle giornate di ottobre, il popolo riaccompagna il re da Versailles a Parigi, suggellando così il
crollo definitivo dell’Antico Regime.5
Forse lo stile dà ragione a Galante Garrone, ma la finalità di Lefebvre è un’altra e in essa si colloca proprio quella dimensione dell’uso pubblico della storia che
spesso costituisce un problema per gli storici. Quello che Lefebvre condensa in
queste pagine non riguarda il nesso tra azione ed evento, ma tra azione politica ed
effetto, intendendo con essa il contenuto metaforico stesso dell’agire politico. È il
tema del passaggio delle mani sul potere, ovvero della tenuta dello scettro.
Esso si configura come una sottrazione delle prerogative politiche dell’attore
principale. Se il contenuto è intorno alla sanzione del testo della Dichiarazione, il
contenitore è intorno al luogo dove si deposita e si conserva la sovranità.
In questa scena non conta tanto ciò che accade, ma conta invece e moltissimo, come un lettore del 1939 avrebbe colto e rivissuto, attraverso la propria esperienza o la propria competenza, quella scena. Più precisamente attraverso quale
altra scena vicina per processo di omologazione o opposta per processo di opposizione, quella scena del ritorno a Parigi del sovrano si sarebbe fissata nella mente del
lettore contemporaneo a Lefebvre. La comprensione della storia del senso proprio
3
Richard J. EVANS, In difesa della storia, Palermo, Sellerio, 2001, p. 51.
Cfr. Georges LEFEBVRE, La grande paura del 1789, Torino, Einaudi, 1953 e LEFEBVRE, Folle rivoluzionarie, in Riflessioni sulla storia, Roma, Editori Riuniti, 1976.
5
LEFEBVRE, L’Ottantanove, cit. p. 17.
4
185
Gramsci e l’uso politico della storia
degli eventi storici non è mai un problema di documenti, del rapporto tra uno storico che scrive ed un pubblico che legge.
Ogni epoca, ogni uomo - scrive negli stessi anni un grande storico francese,
Marrou - si scelgono un passato, attingendo nel tesoro della memoria collettiva; ogni esistenza nuova trasfigura l’immagine che si fa di tale passato attraverso il significato che vi scopre, scoprendosi essa medesima, essa ed il proprio
avvenire.6
Lefebvre nel corso degli anni ’30 non si distingue da questo percorso.
Quello che Lefebvre aveva intuito nel saggio sulle folle e poi nello studio
sulla ‘paura’ è che ciò che accade nell’ottobre del 1789 è il passaggio da una condizione di somma di individui a folla attraverso una mutazione che fa cambiare di
segno alle motivazioni che spingono gli attori in un luogo, tanto da caratterizzarne
una nuova azione, o una azione non prevista.
Il tema delle folle, della mobilitazione che crea la storia, ritorna nelle giornate
convulse della storia di Francia tra il 1938 e il 1940. Non è il tema della mobilitazione politica cosciente, ma è quella del sentimento che diviene comunicazione politica. Sono le folle in festa di Parigi dopo l’accordo di Monaco (dove ciò che si festeggia è la mancata osservanza di un patto d’onore nei confronti della Cecoslovacchia), ma anche le folle mute o perdute delle settimane di settembre 1938 come le
descrive Victor Serge nelle sue Memorie.7 Sono le folle che attraversano la Francia
nel giugno 1940 e che Bloch8 descrive come masse in fuga senza una direzione o una
determinazione, ma che legittimano Petain, affidandosi a una sorta di ‘grande padre’ della patria e, contemporaneamente, rinunciando alla propria sovranità. Sono
le stesse folle che ascoltano attonite l’ultimatum tedesco in Casablanca e che oscillano tra vergogna e orgoglio quando si riappropriano del loro inno nazionale.
Sono le folle il tema di Lefebvre, quelle che si mobilitano nel corso del 1789 e
che riempiono le sue pagine, quelle che rimangono attonite negli anni che precipitano verso la guerra e alle quali deve e vuole parlare mentre scrive quelle pagine.
Ma non è solo un problema tra una Francia che si presentava come capace di
grandi azioni nella storia e una Francia attuale che si sottrae alla storia. È in questo
continuo passaggio tra il passato e le incertezza o la distanza del presente da quel
passato che si colloca l’uso pubblico della storia. Ovvero, nel considerare i cittadini
non individui da istruire, ma soggetti che devono misurare la propria fisionomia
politica, culturale e anche civica.
In altre parole, l’uso pubblico della storia prescinde da un dato di esposizione controfattuale di un evento e non è un ‘catechismo’ da accogliere in quanto
verità rivelata. L’uso pubblico della storia presume un lettore emancipato, adulto e,
dunque, si attua come scarto, come interrogativo inquieto al lettore nel presente.
6
Henri-Irénée MARROU, Tristezza dello storico, Brescia, Morcelliana, 1999, p 64.
Victor SERGE, Memorie di un rivoluzionario, Roma, E/O, 1999, pp. 292-293.
8
Marc BLOCH, La strada sconfinata, Torino, Einaudi, 1995.
7
186
Biagio De Giovanni
Für ewig*
di Biagio De Giovanni
Caro Angelo, purtroppo non mi riesce di essere a Foggia per il colloquio
gramsciano in occasione dello scoprimento della lapide che ricorda la sua presenza
nella città in attesa del trasferimento al carcere di Turi. Non si tratta certo di un’occasione canonica o celebrativa, immagino, ma di un momento di riflessione su una
personalità politica che è anche fra le maggiori della cultura italiana ed europea del
‘900, come oggi è da tutti riconosciuta. Foggia fu per Gramsci la prima tappa verso
quel carcere che avrebbe potuto rappresentare la fine della sua capacità di pensare,
la resa al fatto sconvolgente della perdita di libertà e di quello scambio ricchissimo
che egli fino ad allora aveva avuto con la vita politica e le attività di elaborazione
critica-teorica sull’Italia, sul movimento operaio, sulla storia del mondo. Questo
nesso si interruppe definitivamente, ma la forza di Gramsci fu di saper convertire i
suoi strumenti di lavoro, di trasferire tutto ad un più alto livello, a quel lavoro für
ewig, come disse, che ha influenzato intere generazioni e le vicende del pensiero in
Italia e fuori Italia.
Für ewig “per sempre” perché Gramsci usò quest’espressione? Il distacco
dalla lotta immediata era evidente, obbligato, ma per lui non si trattò di trasferire la
politica nei contenuti di una scienza, quanto di cogliere la lotta politica nella sua
universalità, innervata nella crescita del secolo ed oggetto di una ricerca disinteressata, che la ricollocava in rapporto alle categorie interpretative della filosofia e della
cultura politica europea. Il Novecento gli si presentò come un grandioso terreno di
lotta dominato da forze totali, uno scontro tra filosofie, se si vuole, il cui destino era
di incarnarsi in forze concrete, portatrici di idee sulla società e sulla storia, un secolo attraversato da una crisi profonda dalle dimensioni non solo nazionali, un secolo
nel quale il carattere mondiale della storia era destinato a produrre straordinarie
contraddizioni ma anche aperture su una vicenda nuova dello sviluppo umano. La
storia si era già aperta a linee globali e tutti gli equilibri tradizionali erano destinati
a cadere. L’Europa, sconvolta da guerre e visioni totali sconcertate da un mondialismo
di cui essa non era più protagonista, diventava oggetto di un pensiero inquieto che
fu chiamato pensiero della crisi. La riflessione di Gramsci si pose all’altezza di questi problemi, con la passione di chi aveva legato la propria biografia ad un destino.
*
Biagio De Giovanni non poté essere presente alla manifestazione. Pubblichiamo la lettera inviata ad
Angelo Rossi, il curatore della manifestazione, con una sua riflessione su Gramsci.
187
Für ewig
Ricordare queste cose significa, oggi, rimettersi allo studio, seguendo il ritmo di una realtà che appare voler bruciare tutti i passaggi, in una frenesia che abolisce tempo e memoria, che pensa che il presente non nasca dalle macerie del passato, ma semplicemente dalla sua abolizione, dalla sua rimozione. Un chiodo nella
storia degli uomini e della concreta prassi umana è stato sempre il rapporto tra
presente e passato, proprio perché impossibile fare storia se non rimuovendo tutta
la passione che ci lega al presente e rimette continuamente in moto il pensiero e i
fatti, le categorie e le linee di movimento delle cose. Ogni storia è, dunque, continua
revisione, allargamento e mutamento delle sue prospettive di volta in volta consolidate, non però leggero e strumentale revisionismo, schiavo della labilità delle ideologie, dei poteri o peggio delle corporazioni, ma atto di fede intellettuale nella solida consistenza delle idee che, più dei fatti, segnano il cammino dell’umanità, non
sempre inutili in queste occasioni. La storia è la conoscenza dei suoi protagonisti
che dovrebbero costituire elemento di una formazione civile, base di una comprensione del mondo, proprio come Gramsci scrisse in un’indimenticabile lettera. Tutto
però pare andare in una direzione opposta, come se la vita presente non sopportasse più di dover pensare i vincoli che la necessità di quanto è avvenuto le pone; una
libertà senza direzione e senza progetto sembra essere la via d’uscita di una società
che poco vuol fare i conti con le memorie del mondo e con la storia della propria
nazione. Ma l’Europa che sta entrando nella vita quotidiana di ogni paese richiede
più coscienza nazionale, non minore e più debole. Ecco perché la storia, perché
ricordi tutti quelli che alla formazione di questa coscienza lavorarono, spesso fra
difficoltà che potevano apparire insuperabili. Gramsci fu tra questi e appartiene alla
classe dei pensatori perseguitati, di quelli che fecero completa unità tra la propria
vita e il proprio pensiero, alla classe così pregna di interne differenze dei Giordano
Bruno e dei Tommaso Campanella, tutti filosofi, politici non monastici e solitari,
per dirla con Giovan Battista Vico, pensatori il cui pensiero è sopravvissuto alle
vicende e agli uomini che pretesero di inchiodarli con gesti violenti alla stessa loro
capacità di pensare la propria vita in forma di destino e vocazione.
Auguro buon lavoro per il convegno di oggi; se la parola d’ordine è ricordare Gramsci è già qualcosa che va nella direzione giusta, un atto civile non destinato a produrre divisioni, ma volontà di capire di cui c’è tanto bisogno in un
mondo che si va aprendo ad una storia nuova, carica di incertezze, di lati oscuri,
ma pure di prospettive che sicuramente decideranno sul mutamento della condizione umana.
188
Giuseppe Normanno
Attualità di Gramsci*
di Giuseppe Normanno
1. Introduzione
In una lettera a Tania del 19 marzo 1927, Gramsci, esponendo il progetto di
trattare alcuni temi della cultura e della politica, come poi avrebbe fatto nei Quaderni, così si esprime:
Sono assillato (è questo un fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa
idea: che bisognerebbe fare qualcosa für ewig, secondo un una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli.
Gramsci affidava ai Quaderni il compito di sottrarre al tempo le sue riflessioni per farne una testimonianza perenne di pensiero e di azione.
È importante il richiamo a Goethe ed al Pascoli, per una specie di tensione
romantica, quasi foscoliana in forza della quale l’intellettuale tenta disperatamente
di vivere, come Gramsci afferma in una lettera alla mamma del 1931, “nel cuore dei
propri cari” e di sopravvivere al tempo in una specie di “amortalità storica”.
Eppure, se vi è una concezione che è stata continuamente modificata, adattata ai tempi, deformata secondo le contingenze dell’epoca ed i mutevoli interessi
politici e partitici, è quella gramsciana.
Il dibattito storiografico del “dopo Gramsci” si è in un primo tempo preoccupato non tanto di discernere la validità e i limiti del pensiero gramsciano, interpretato nella sua interna struttura e nella sua genesi, quanto di determinarne, non
senza forzature, l’ “attualità” secondo le spinte delle varie circostanze politiche.
Si è assistito, così, ad alterne canonizzazioni e ripudi della concezione
gramsciana, non sempre storicamente e teoricamente fondati.
*
In occasione del Convegno il prof. Giuseppe Normanno preparò un saggio dal titolo Attualità di
Gramsci del quale presentò un’ampia sintesi nell’intervento svolto al Convegno stesso. Questo intervento è
stato l’ultimo pronunciato pubblicamente da Giuseppe Normanno, intellettuale impegnato, studioso dai
molteplici interessi, docente attento e sensibile, spentosi prematuramente il 31 agosto 2001. Di Giuseppe
Normanno che è stato un punto alto di riferimento della cultura di Capitanata abbiamo ritenuto di pubblicare
l’intiero saggio, offrendolo così alla conoscenza dei lettori de «la Capitanata». Ringraziamo la famiglia che ci
ha fornito il manoscritto dell’Autore.
189
Attualità di Gramsci
Si può parlare di un “Gramsci di tutti”, di un Gramsci spesso forzato a disegni di parte ed adattato ai vari momenti storici.
Da una parte si è parlato di un Gramsci riformista, socialdemocratico, o per
esaltarlo (Tamburrano, Lagorio, Lehner) o per svalutarlo (Perlini, Riechers): dall’altra ci sono eccessivamente sottolineati i caratteri ‘leninisti’ e addirittura maoisti
del pensiero gramsciano (A. M. Macciocchi). Da parte sua Geymonat ha rimproverato a Gramsci il ripudio del “materialismo dialettico” con la conseguenza di “troppo
idealismo”.
Althusser scorgeva nel pensiero gramsciano l’intrusione di elementi umanistici
all’interno del marxismo e parla di una coupure tra il periodo dell’«Ordine Nuovo»
e quello ‘umanistico’ dei Quaderni.
Radicale è la condanna di Pellicani secondo il quale non vi sarebbe spazio di
libertà e di ricerca, a causa del carattere ‘gnostico’ ed ‘olistico’ del suo pensiero, nel
quale l’unica verità a prevalere sarebbe quella del Partito.
Né si è omesso di parlare di un “gramscismo di destra”.
Infine, quando si costruiva il modello dell’ “eurocomunismo” non si esitò a
ricorrere a Gramsci, sino a vederlo come precursore del cosiddetto “compromesso
storico” (Gruppi). In realtà, in Gramsci non si può vedere né una fideistica adesione al materialismo dialettico ed al leninismo, né una puntuale ‘anticipazione’ della
democrazia pluralista attuata nell’ambito del socialismo.
Come mai il für ewig gramsciano si è dissolto in tanti diversi Gramsci così
soggetti al tempo?
Ciò è avvenuto sia per la molteplicità e l’eterogeneità delle fonti alle quali
Gramsci si ispira (da Croce a Gentile a Sorel, da Labriola a Lenin) per cui facilmente si può assumere una sola fonte alla cui luce indebitamente si interpreta l’intero
suo pensiero, sia per la discontinuità e complessività espositiva di questa concezione il cui carattere è fortemente dialettico e dialogico, capace di riferirsi continuamente tanto alla contraddizione ed al conflitto quanto all’unità, tanto alla ‘sistematicità’ quanto alla ‘problematicità’.
Soprattutto si è trascurato di considerare lo spessore teoretico del pensiero
di Gramsci che, perciò, è stato prevalentemente ridotto a prassi politica. È, allora,
importante rimeditare sul valore della categoria del ‘politico’ (Schmitt) in Gramsci all’interno di un plesso teoretico complesso e sfaccettato che non può essere
considerato come un sistema chiuso e definitivo, ma va colto in tutta la sua problematicità.
Molti studi (Femia, Adamson, Bovero, Nardone, Sbarberi, De Giovanni,
Marramao), muovendo da posizioni ideologiche estremamente diverse, hanno cercato di ‘liberare’ il pensiero gramsciano dai quadri sistematici, considerandolo più
nelle sue differenziazioni che nella sua unità.
L’ermeneutica gadameriana, il neo-marxismo (Bloch, Havemann, Garaudy) con le sue forti tensioni utopiche ed esistenziali, il moderno esistenzialismo
e lo stesso “personalismo comunitario” aiutano a dare del pensiero gramsciano
visto problematicamente, dialetticamente e spesso paradossalmente, per viam
190
Giuseppe Normanno
negationis, una interpretazione ‘ambivalente’, ‘problematica’ e ‘progettuale’, per
cui necessariamente la lettura del pensiero di Gramsci va posto in confronto
’
con vivaci movimenti di pensiero, in senso quasi ‘metapolitico . Questo significa attualità.
Perciò attualità non significa dedurre dal pensiero politico di Gramsci un
modello politico, dopo la caduta di modelli finora considerati in assoluto, né significa adattamento forzato agli attuali modelli politici peraltro in continua trasformazione.
È attuale Gramsci se ci dà delle indicazioni teoretiche sull’uomo, sulla società, sulla guida, che possono fungere da idee - guida, da idee - forza anche se non si
può negare che vi siano delle ‘ambivalenze’ nel pensiero gramsciano.
Da una parte sono stati riscontrati aspetti dogmatici ed olistici, dall’altra filoni di pensiero più problematici, che possano proiettare il pensiero gramsciano in
una dimensione di ‘ulteriorità’ e di liberazione.
2. Filosofia, ideologia, identità di teoria e prassi
Non è giusto negare con Croce o con Sasso alla concezione politica di Gramsci
il carattere filosofico perché dettata da interessi pratici e non da una “ricerca disinteressata del sapere”.
Al contrario, vi è in Gramsci la tendenza a collegare l’attività politica a quella
teoretica, per cui l’azione non è altro che l’anima della stessa concezione della vita.
La filosofia in Gramsci non è né assimilata alla metafisica né ridotta positivisticamente a scienza della natura.
Anzi, la filosofia viene definita come un’attività propria dell’uomo; al senso
comune la scientificità aggiunge la criticità, la coerenza logica, il linguaggio filosofico.
La filosofia rientra nella concezione delle “sovrastrutture” che non sono un
mero prodotto della struttura economica, ma tendono ad incidere sulla struttura
stessa per trasformarla.
La filosofia, allora, non essendo pura teoria, ma tendendo alla trasformazione del reale, viene a tradursi in termini di prassi.
La politica, perciò, non è da intendersi come pura empiria, poiché ha bisogno
di essere giustificata razionalmente e criticamente.
Tuttavia, non basta che un movimento politico venga teoricamente giustificato, ma è necessario che si espanda tra le masse e costituisca una propria ‘egemonia’ mediante il consenso.
In senso più ampio si può dire che la filosofia deve diventare una fede, producendo, così, un’attività pratica ed un movimento culturale.
Ma, se per il pensiero gramsciano le filosofia è teoria che si traduce nella
prassi, nella storicità, nell’opera dei gruppi sociali, non si identifica totalmente con
l’ideologia?
In questo caso non vi è il pericolo che il primato del politico risolva in sé,
191
Attualità di Gramsci
senza residui la filosofia stessa? Il “dopo-Gramsci” si è fortemente impegnato a
considerare le istanze culturali tanto diverse presenti nella concezione gramsciana
del ‘politico’.
È una concezione criticata da una parte (Tronti, Althusser) per il prevalere
del carattere umanistico, dall’altra (Del Noce, Pellicani) per l’eccessiva caratterizzazione ideologica, partitica, storicistica e messianica mutuata in gran parte dal
leninismo.
La grande difficoltà presente nel pensiero gramsciano, caratterizzato dal “pensare per contrari”, è data dal fatto che entrambe le concezioni sono rese possibili.
Da una parte, contro Bucharin, Gramsci afferma il primato del soggetto, inteso come l’ “uomo collettivo”, sull’oggetto per cui la filosofia appare aperta al
mutamento della realtà, dall’altra vi è la possibilità di una concezione “totalizzante” della politica che si riconosce, in senso hegeliano, in un’unica ideologia: la filosofia della prassi.
3. La dialettica
Gramsci, misurandosi con Croce, respinge la concezione della politica come
“passione” e polemizza col “nesso dei distinti”. Secondo Gramsci, se si svuota la
dialettica dell’opposizione, si eliminano la lotta e la contraddizione che costituiscono l’anima della storia. Anche Gioberti e Proudhon non risolvono il problema del
processo dialettico, col pericolo di giungere al massimo riformismo o ad una rivoluzione passiva.
Anche nella concezione gramsciana della dialettica, come osserva Bobbio, si
possono riscontrare diversi significati. Senz’altro, poiché si accentua il momento
della lotta e dell’antitesi, la dialettica gramsciana appare più moderna di quella
hegeliana e di quella marxiana in quanto esclude la previsione ritenuta piuttosto di
natura empirica e sociologica. Però, Gramsci, volendo attribuire un senso al processo storico, lo dirige essenzialmente a un fine. Da una parte l’ulteriorità conduce
all’ulteriorità, distruggendo le tesi che si contrappongono al mutamento, dall’altra
tende inevitabilmente ad un fine.
Da una parte vi è “realismo”, dall’altra “messianismo”.
Ma, una volta che la filosofia della prassi sarà salita al culmine, sarà ancora
soggetta al divenire o tenderà alla regressione e alla stasi?
In questo caso, divenuto il “moderno Principe un’antitesi esso stesso, sarà
possibile sostituirlo con un’altra sintesi?
Gramsci non risponde a questo interrogativo, ma lascia spazio ad una risposta positiva nella misura in cui il comunismo non si sclerotizzerà in rigide forme
burocratiche, ma renderà possibile la realizzazione della volontà collettiva. Ciò potrà
avvenire se l’ideologia sarà verificata con strumenti critici, capaci di svelarne l’eventuale degenerazione in “falsa coscienza”.
192
Giuseppe Normanno
4. L’egemonia
In Gramsci l’egemonia è una sintesi di “coercizione” e di “consenso”.
Badaloni afferma che la concezione dell’egemonia non è da interpretarsi né
sulla base del determinismo della struttura, né su quella dello statalismo a causa
della grande importanza che Gramsci assegna alla “società civile” ed alle sovrastrutture nel senso di una “democrazia in espansione”.
Si può parlare di un consenso dal basso (Adamson, Finocchiaro, Sorel) anche
se la concezione necessaria nella fase di transizione per la formazione della società
comunista.
Certo, si è parlato di una società armonica e regolata in cui dovrebbe esservi
una sostanziale identità di dirigenti e di diretti, con pericolo di totalitarismo (Bovero,
Sbarbero).
Ciò costituisce solo un aspetto della questione poiché rimane l’altro dell’educazione della coscienza collettiva e del ruolo della società civile.
Circa il problema del rapporto tra egemonia e pluralismo bisogna pensare da
una parte che non vi è in Gramsci un totale distacco da Lenin, dall’altra che l’egemonia gramsciana si differenzia da quella leniniana in forza dell’oggettiva differenza esistente tra la situazione rivoluzionaria presente in Oriente ed in Occidente
come Gramsci precisa in un famoso passo del Quaderno 14.
A differenza che in Oriente dove la società civile era “primordiale e gelatinosa”,
in Occidente, dove vi era una “robusta catena di casematte”, occorreva determinare
la strategia rivoluzionaria attraverso la guerra di posizione, la ricognizione dell’elemento specifico caratterizzante ogni situazione (il nazional - popolare) e l’analisi
della struttura della società civile di cui lo Stato avrebbe dovuto costituire la frontiera più avanzata.
La concezione, nella fase di transizione, viene identificata non con l’arbitrio
o la violenza repressiva, ma con la razionalità volta alla persuasione, per cui si accelera il processo di trasformazione della società.
In questo senso, Gramsci distingue varie forme di Cesarismo (progressivo o
repressivo).
La coercizione, in fondo, è già funzionale ad consenso attivo. Nell’opera di
ricostruzione del consenso, è di fondamentale importanza l’opera degli intellettuali. Bobbio afferma la superiorità della società civile rispetto allo Stato al quale spetta
l’azione coercitiva.
Secondo Anderson, sembra talvolta che lo Stato sia comprensivo della società civile, altre volte che lo Stato si identifichi con la società civile stessa.
Sembra, invece, che in Gramsci si debba escludere lo “Stato etico” e la
statolatria, ma anche il primato assoluto della società civile che apparirebbe come
un’entità ipostatica rispetto allo Stato. Molto probabilmente lo Stato viene a regolare la società civile. Comunque non vi è un’univocità nella concezione della
società civile. Da una parte lo Stato porta alla massima maturazione la società
civile, dall’altra si passa spesso, sulle orme di Marx, ad un’estinzione dello Stato
193
Attualità di Gramsci
anche se non si precisano i modi e le strategie che a tale estinzione dovrebbero
condurre.
È molto interessante l’interpretazione di Adamson secondo il quale utilizza
le categorie usate da Habermas e Luhmann nello studio del rapporto tra società
civile e Stato, evidenziando le ambivalenze del pensiero gramsciano.
I fattori culturali e sociali della società civile possono essere considerati come
“sottosistemi” funzionali al sistema totale.
In questo senso, sarebbe possibile un pericolo di una visione olistica e totalizzante ma potrebbe anche pensare alla società civile come ad un ampio spazio di
“eversione”, di contestazione e di opera culturale, diretta a contenere il dominio.
Possiamo concludere che l’egemonia gramsciana conduce ad ammettere una
“società civile diffusa” che, al massimo della maturazione dovrebbe escludere l’opera
repressiva dello Stato.
5. Gli intellettuali
La concezione gramsciana degli intellettuali nasce essenzialmente da tre matrici.
Una prima matrice è di ordine politico sociale: gli intellettuali come “commessi” della classe dominante.
Una seconda matrice è di ordine filosofico: la razionalità costituisce il
proprium dell’intellettuale per cui ogni uomo è lato sensu un intellettuale.
La terza matrice è di ordine collettivo: l’intellettuale come scienziato ideologo, scienziato - politico, agente della persuasione all’interno del processo di
razionalizzazione attuato dalla società tecnologica.
L’intellettuale, considerato nella sua funzione alla storia, è proiettato nella
sua dimensione futura, nella prospettiva utopistica del regno della libertà.
Molti sono i modelli con i quali Gramsci si misura.
Sul piano storico, da una parte vi è il “giacobinismo”, al centro la Chiesa
Cattolica che funge da “modello negativo”, dall’altra la tradizione nazionale italiana. Sul piano dell’organizzazione moderna del lavoro è importante il modello
weberiano nel comune interesse per l’etica protestante e nel rapporto tra cultura e
trasformazioni economiche.
Cerroni che afferma che il superamento del sociologismo e del weberismo è
nella fondazione di una teoria degli intellettuali al cui centro vi sono la produzione
economica e l’universalità della cultura.
Gli intellettuali funzionari delle sovrastrutture dovranno superare sia la
separatezza rispetto alla società, sia il cosmopolitismo. Il nuovo intellettuale
sarà tecnico specialista politico, cioè organizzatore del consenso, funzionario
di nuove strutture, organico al corso storico delle masse, dirigente ed organizzatore delle masse stesse mediante il partito. Ma questa concezione non può
non sollecitare alcuni gravi interrogativi: quale sarà il rapporto tra gli intellettuali e le masse? Quale rapporto intercorrerà tra l’intellettuale organico e le
194
Giuseppe Normanno
masse? Fino a qual punto l’intellettuale, rispetto al partito, godrà della libertà
di ricerca scientifica?
Circa questo problema, Gramsci si è trovato di fronte ad opposte critiche.
Mentre Pellicani lo accusa di essere il sacerdote dell’unica ideologia, il marxismo,
Asor Rosa e Tronti lo accusano di promuovere una cultura asettica e provinciale.
Ad una riflessione più attenta sembra che la grande ‘problematicità’ di Gramsci
consista nel considerare il valore della cultura europea, senza aggettivi, un prezioso
elemento pedagogico offerto dalla tradizione alle masse che, partendo dalla storia,
si progettano mediante la volontà collettiva verso il futuro.
D’altra parte vi è spesso il pericolo di un assorbimento della cultura da parte
dell’ideologia.
Certamente, però, il rispetto per l’analisi del pluralismo culturale, non ha mai
condotto Gramsci allo znadovismo e a forme rigide di controllo culturale dall’alto.
Le ambivalenze di significato derivano da quella ‘duplicità’ che, mentre spinge alla scienza perfetta in quanto ideologia totale, si riverbera poi sulla problematicità
come ulteriore ricerca di senso.
6. Il partito
Circa il partito non si può non prendere le mosse da un famoso brano del
Quaderno 13, definito da Pellicani “vero capo di tutte le tempeste”, nel quale Gramsci
tra l’altro afferma che “il principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o
dell’imperativo categorico, diventa la base di una completa laicizzazione della vita e
di tutti i rapporti di costume”.
Totale elminazione del dissenso (Pellicani) e assoluto dominio sacrale del
partito (Del Noce)?
Salvadori coglie in questo brano l’unità tra dirigenti e diretti.
Dopo la “svolta del 1926” e dopo l’involuzione sovietica, Gramsci avrebbe abbandonato il giovanile giacobinismo ed avrebbe rifiutato una direzione verticistica del
partito il cui compito sarebbe quello di una sollecitazione della coscienza collettiva.
In realtà, Gramsci, parlando di una concezione laica della vita, avrebbe escluso la visione sacrale del partito. Gramsci ribadisce la necessità del confronto del
partito con le masse al fine del consenso.
All’interno della categoria sociologica di ‘massa’ è necessario delineare il concetto di persona nelle sue caratteristiche di singolarità, di interiorità, di comunitarietà.
7. Conclusioni
È attuale ancora Gramsci? Non è attuale se si pensa ad un modello storico
sociale da applicare a società totalmente diverse da quella che egli prospettava ai
suoi tempi.
195
Attualità di Gramsci
Né è attuale Gramsci se pensiamo di adattarlo strategicamente ai modelli
politici oggi in evoluzione, sottoponendolo ancora una volta ad un’opera di
strumentalizzazione.
Come, allora, può essere Gramsci attuale dopo la fine del comunismo, dopo
l’affermarsi di modelli da lui respinti, nell’epoca del nichilismo?
È attuale, invece, per la sua ricca e profonda riflessione sulla categoria del
politico, sulle sue funzioni, sui suoi fini all’interno delle diverse strutture politiche.
Il pensiero di Gramsci, liberato dalle sue ambivalenze e dalle condizioni contingenti, può essere colto nelle sue più significative intuizioni: la riforma intellettuale e morale, la funzione della cultura, i compiti degli intellettuali, la scoperta dei
valori positivi presenti nella religione.
Sono intuizioni che ancor oggi possono inserirsi in un progetto politico partendo dalle due dimensioni che nel pensiero di Gramsci entrano in rapporto
dialettico: quelle storico - realista e quella utopica.
Nella concezione politica di Gramsci deve essere valorizzata la volontà collettiva in forza della quale la storia può essere modificata.
Un secondo aspetto problematico e non sistematico è costituito dalla concezione dell’ulteriorità, del progresso che spinge a modificare l’assetto sociale da parte delle masse, guidate dagli intellettuali.
Quando, ad esempio, Gramsci afferma che la storia non si può determinare
come avviene su di un ring ove tutto sia stabilito e che non si può stabilire a priori
ciò che deve essere conservato o abolito, può dare un’indicazione di tipo problematico che rompa con una visione deterministica del pensiero di Marx.
Afferma Gramsci: “Si può persino giungere ad affermare che, mentre tutto il
sistema della filosofia della prassi può diventare caduco in un mondo unificato,
molte concezioni idealistiche che sono utopistiche durante il regno della necessità,
potrebbero diventare verità dopo il passaggio”.
Sembra, allora, che vi siano in Gramsci una tensione verso il “regno dei fini”,
kantianamente inteso, ed un’apertura ad un “totalmente altro”, ad un orizzonte
sempre modificabile e mai del tutto storicamente prevedibile e determinabile.
In una terza direzione Gramsci dà la possibilità di scorgere nel suo pensiero
tanto l’unità quanto la contraddizione.
La “dualità” tra sistema e problema ci dice che il pensiero di Gramsci non va
assunto come un unico blocco concettuale ma come una lezione dal carattere
educativo energetico.
Da Gramsci viene l’incoraggiamento all’impegno politico ed al dialogo culturale inteso alla trasformazione della società, contro le spinte all’individualismo ed
all’utilitarismo del singolo e dei gruppi di potere.
L’attualità di Gramsci si consolida mediante una liberazione “di” Gramsci e
“da” Gramsci, che richiede il valore della persona, il rifiuto del totalitarismo, l’affermazione costante del rapporto tra razionalità e politica.
Solo in tal modo il nostro debito verso l’umanesimo di Gramsci sarà grande.
Egli vivrà in noi veramente für ewig.
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Saggi
197
198
Angelo Rossi
Tra Gramsci e Togliatti
L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
di Angelo Rossi
1. Codice Gramsci: la linea è quella di Lione
Nel periodo che va dall’agosto 1931 alla primavera del 1932 si sviluppa, con
grande impegno delle parti, un tentativo di stabilire un rapporto di collaborazione tra
Gramsci e il Partito, con la richiesta, rivolta a Gramsci, di un contributo teorico. La
sequenza dei fatti è documentata dall’epistolario Gramsci - Tania Schucht ed è
ricostruibile con esattezza soltanto dopo la pubblicazione delle lettere di Tania, insieme
a quelle di Gramsci e di Piero Sraffa. Esaminiamola: la premessa è in alcune lettere
intercorse tra Sraffa, Tania e Gramsci, riguardanti l’attuazione del programma di studi
che Gramsci aveva comunicato con la lettera del 25 marzo 1929.1 Sraffa, certamente
d’accordo con Togliatti, con il quale comunicava, scrive a Tania l’11 luglio 1931:
Alcuni anni fa Nino [...] vi aveva scritto una lettera in cui esponeva
dettagliatamente il suo piano di letture e di studi. Sarebbe interessante conoscere come lo abbia svolto, quel programma. [...] Provate a chiederglielo.2
Gramsci, in una lettera del 3 agosto 19313 dice di non avere più un programma di studi. Nello stesso giorno ha una prima grave crisi, che egli descrive a Tania,
sempre per lettera, il 17 agosto.4 Ma Tania e Sraffa sono vigili e intervengono per
sostenere il “carissimo Nino”. Non è solo il sostegno materiale, ma anche l’interessamento per le condizioni del suo spirito e l’incoraggiamento a continuare gli studi.
Il 28 agosto5 Tania, su indicazione di Sraffa, amorevolmente sprona Gramsci a continuare “la storia degli intellettuali”, pur nelle difficoltà che la condizione carceraria
oppone alla ricerca. Gramsci le risponde il 7 settembre6 e dimostra che il suo impe1
Antonio GRAMSCI - Tania SCHUCHT, Lettere 1926-1935, Torino, Einaudi, 1997, p. 353.
Piero SRAFFA, Lettere a Tania per Gramsci, Roma, Editori Riuniti 1991, p. 15.
3
GRAMSCI - SCHUCHT, op. cit., pp. 748-751. Il riferimento al programma è tanto più importante, in quanto
Gramsci afferma di “sentirsi isolato”.
4
Ibid., p. 762 e segg.
5
Ibid., pp. 776 - 777.
6
Ibid., pp. 790 - 792. Nella lettera, Gramsci, tra l’altro, ricorda che una casa editrice fascista, gli aveva
proposto di scrivere un libro sul movimento dell’ “Ordine Nuovo”. Egli aveva rifiutato. Si può benissimo
leggere in questo ricordo di Gramsci una domanda rivolta al partito: perché non pubblicate, dal momento che
li avete a disposizione, “una raccolta di articoli che in realtà erano stati scritti su un piano organico?”.
2
199
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
gno intellettuale non è venuto meno. La lettera, bellissima, si conclude con due
annunci: la preparazione di un “prospetto” della storia degli intellettuali di non
meno di cinquanta pagine e l’invio “in una delle prossime lettere [...] di un saggio
sul canto decimo dell’Inferno”. Nella lettera di Tania a Gramsci del 5 ottobre 1931,
successiva all’invio da parte di Gramsci, in data 20 settembre, del “famigerato schema” relativo al X Canto dell’Inferno si legge: “Ho ricevuto poche righe da Piero
alla vigilia della sua partenza [...] Ti raccomanda di mandare il riassunto del tuo
lavoro sugli intellettuali, come hai promesso”.7
Ma prima di affrontare l’analisi del nesso fra riflessione sulla filosofia di
Benedetto Croce e rapporto con il partito, mi sembra opportuno richiamare la
lettera del 2 novembre 1931, nella quale Gramsci si impegna con grande sicurezza
e autorità su fondamentali problemi di linea, relativi all’azione politica del partito
in Italia. Il riferimento che Gramsci fa è ai motivi dei ricorsi fatti da Umberto
Terracini per la revisione del processo. Gramsci scrive:
Un altro motivo però, che pure risultava ad Umberto perché io stesso glielo
avevo suggerito dopo la condanna, non è stato da lui svolto esattamente né in
tutta la sua portata [...] Ecco di che si tratta. Uno dei capi di accusa più importanti
contro i supposti membri del Comitato Centrale del Partito Comunista, e cioè
l’accusa di tentativi di insurrezione armata nel corso dell’anno 1926 e come conseguenza delle deliberazioni del Congresso di Lione è stato un opuscolo intitolato Regolamento universale della guerra civile. Umberto giustamente ricorda
che “tale scritto era stato pubblicato integralmente nella rivista «Politica» diretta
dallo stesso ministro di Grazia e Giustizia [...] e afferma che l’opuscolo incriminato non è che una ristampa letterale di quella pubblicazione”. Gramsci a questo
punto inserisce una argomentazione che si presenta come una chiara rivendicazione della politica del III Congresso del PCd’I, quello di Lione, e del ruolo che
egli ha avuto nella elaborazione di quella politica: “Lo scritto Regolamento universale della guerra civile è stato pubblicato, prima che dalla rivista italiana «Politica», dalla francese «Revue de Paris» alla fine del ’25 o ai primi del ’26. Ma la
«Revue de Paris» non fece solo questa pubblicazione: nel 1926, pubblicò un articolo editoriale intitolato La guerre civile et le bolchèvisme in cui riassume la questione in questo modo: lo scritto Regolamento universale è un semplice articolo
della rivista «Il pensiero militare» («Voennyj Mysl’») senza nessun carattere ufficiale e di obbligatorietà per i partiti comunisti. Anzi, l’articolo fu aspramente
criticato da tutta una serie di scrittori militari russi, che mostrarono il carattere
pedantesco, astratto, accademico. La seconda pubblicazione della «Revue de Paris»
che appunto riassume questa discussione, prova precisamente che nessun partito
comunista, e tanto meno quello italiano, poteva divulgare questo scritto, facendo
del suo contenuto un obbligo da osservare dai suoi iscritti. L’opuscolo italiano
pertanto non può essere considerato come un documento di partito, la cui responsabilità debba ricadere sui membri del Comitato Centrale, che io penso do-
7
Ibid., p. 831.
200
Angelo Rossi
vevano conoscere la questione e non prendere sul serio uno scritto di quel genere, ma come una pubblicazione di elementi irresponsabili, che l’avevano fatta per
conto loro. Per ciò che riguarda me personalmente, esiste uno stampato, un numero del «Bollettino del Partito Comunista» uscito nei primi mesi del 1926,
nella cui seconda parte è riassunto [...] un mio discorso alla Commissione Politica del Congresso di Lione, in cui io, a nome del Comitato centrale uscente, e
come direttiva che doveva essere approvata dal Congresso (come lo fu), affermavo perentoriamente che in Italia non c’era una situazione tale, che il lavoro da
fare era quello di “organizzazione politica” e non di “tentativi insurrezionali”.
Questo Bollettino non fu contestato al processo, ma penso deve trovarsi nell’incartamento processuale. Penso che tu puoi mostrare questi elementi all’avvocato
che si è occupato del ricorso e domandargli un parere. Naturalmente anche un
mio possibile ricorso lascerà le cose immutate, ma tuttavia sarà utile forse che
rimanga agli atti.8
Il tema, di grande rilievo, è introdotto da Gramsci, com’è accaduto altre volte, come se esso fosse marginale e di secondaria importanza, acquistando forza solo
nel corso del suo svolgimento per la perspicuità dell’argomentazione e per la precisione dei riferimenti, che solo un interlocutore informato poteva cogliere.
In sostanza, Gramsci rivendica la validità della politica del Congresso di Lione, rinviando per la sua corretta interpretazione all’intervento da lui svolto alla
Commissione politica dello stesso Congresso, considerato evidentemente come la
più chiara e convincente esposizione della politica del Partito, così come era stata
definita in quell’assise. È lo stesso Gramsci a sottolineare che la presentazione di un
ricorso, per il motivo da lui esposto, al fine della revisione del processo, è solo un
pretesto per ribadire, rivolgendosi a Togliatti e al Partito, la validità della linea di
Lione.Tanto vero che Gramsci, usando la stessa espressione che chiude la dura replica a Togliatti nel carteggio del ’26, tiene a precisare che un suo eventuale ricorso
lascerà le cose immutate, ma che è utile forse che rimanga agli atti. Quello di Gramsci
si presenta come un vero intervento politico, che va necessariamente letto insieme
al discorso svolto alla Commissione politica del Congresso. Infatti, nel testo citato,
due punti sembrano essere estremamente attuali, e sono quelli che Gramsci introduce, quando ribadisce l’affermazione “perentoria” che in Italia non esisteva una
situazione rivoluzionaria, e che il lavoro da fare era quello di organizzazione politica e non di tentativi insurrezionali. Il primo punto è così presentato:
È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e
una situazione rivoluzionaria, e che, anzi, in una situazione democratica sia più
disagevole il lavoro per la conquista delle masse. La verità è che oggi si lotta
per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe
per organizzare l’insurrezione. Il secondo punto, non meno importante per
l’esame che andremo a svolgere, è con chiarezza indicato: “La situazione italia8
Ibid., pp. 847- 849.
201
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
na è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debole che in
altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e a dominare i contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghesia e porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale
dei problemi politici che il partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire. È
certo che si debbono esaminare con attenzione anche le diverse stratificazioni
della classe borghese. Anzi, occorre esaminare la stratificazione del fascismo
stesso perchè, dato il sistema totalitario che il fascismo tende ad instaurare, sarà
nel seno stesso del fascismo che tenderanno a risorgere i conflitti che non si
possono manifestare per altre vie.
E Gramsci conclude il suo discorso affermando orgogliosamente:
Sulla situazione attuale del partito non si può essere pessimisti. Il nostro partito è in una fase di sviluppo più avanzata degli altri partiti dell’Internazionale.Vi
è in esso un nucleo proletario fondamentale stabile e si sta costituendo un centro omogeneo e compatto [...].9
La citazione, lunghissima, è stata d’obbligo, perché dalla connessione, indicata
da Gramsci, tra la lettera e il discorso si comprende l’importanza politica della lettera.
Ma il prigioniero questa volta si rivolge non a Bordiga e ai suoi seguaci, come
al III Congresso, ma al centro del suo partito, segnato dalla “svolta”e obbligato
dalle decisioni del X Plenum dell’IC: un partito non più considerato come una
forza politica in una fase di sviluppo più avanzata ma, al contrario, come un partito
debole e poco affidabile, addirittura sospettato di simpatie trockijste.
Ciò spiega da un lato l’atteggiamento da lui assunto nel carcere di Turi nel
confronto con i compagni che ivi sono reclusi, dall’altro l’indicazione sicura, da
capo eletto dal partito, che per lui non c’è altra politica valida, se non quella che è
stata fissata a Lione e della quale rivendica la paternità.
Gramsci definisce e precisa il senso della comunicazione politica contenuta
nella lettura del Canto X dell’Inferno, poiché se non si pronuncia sulle decisioni
riguardanti Leonetti, Ravazzoli e Tresso, non essendo in grado di valutare i fatti
particolari relativi alle persone, è d’altra parte assai fermo nel delimitare il campo
della ricognizione teorica e politica alla quale sembra sollecitare il partito, con la
ripresa del dialogo attraverso il canale Tania-Sraffa. Ma Gramsci sembra preoccupato, intenzionato a trasmettere qualcosa che resti “agli atti”: qui bisogna approfondire l’indagine, nella direzione che è già stata esplorata da Spriano, nella sua
Storia del Partito Comunista Italiano.
Nel 1931, dal 14 al 21 aprile, si svolgono a Colonia i lavori del IV Congresso del Partito Comunista. È il Congresso che segue quello di Lione, svoltosi nel 1926 e sarà anche l’ultimo che si terrà fino a quando non sarà caduto il
9
Antonio GRAMSCI, La costruzione del Partito Comunista 1923 -1926, Torino, Einaudi, 1971, pp. 481-488.
202
Angelo Rossi
Fascismo e realizzata la Liberazione (il V Congresso si svolgerà a Roma il 29
dicembre 1945 e nei giorni immediatamente successivi). Il Congresso di Colonia è la conferma della ‘svolta’ e della sua piattaforma politica. Il suo riferimento non è la politica di Lione, ma il X Plenum dell’IC e la teoria del “socialfascismo”. Anche Togliatti, che al X Plenum era stato accusato da Kuusinen di aver
usato “tatto” nei confronti di Trockij al VII Esecutivo dell’IC (e Ulbricht aveva
rincarato la dose: “Forse si tratta di qualcosa di più che di tatto”), ora si dimostra perfettamente allineato: la tendenza in tutti i paesi occidentali è la “unità
reazionaria di tutte le forze borghesi”; “il fascismo ne è una espressione, la fascistizzazione della socialdemocrazia è l’altro aspetto dello stesso processo”.10
È Spriano stesso che parla dei documenti congressuali:
testimonianza del grido di fede, quasi rabbioso, di un piccolo gruppo perseguitato che agisce in una condizione assai difficile, e che, pur premuto
dall’avversario di classe, rivendica tutta l’ampiezza del suo programma rivoluzionario, da attuarsi senza la compromissione di altre forze, additando
la meta del governo operaio e contadino come sinonimo della dittatura del
proletariato e fornendo un modello di Italia socialista basato su di essa.
Gramsci conosce, quando scrive la lettera succitata, le conclusioni di Colonia?
Fiori risponde affermativamente,11 e comunque - questo è dato accertato storiograficamente - gli era presente il senso della ‘svolta’. Anche Terracini, che era legato a
Gramsci dalla comune esperienza ordinovista, aveva con chiarezza contestato la tesi
della fascistizzazione della socialdemocrazia, e dal carcere aveva ammonito:
Il Partito riuscirà solo a rendersi incomprensibile alle masse e quindi ad
allontanarle; esse, alla nostra affermazione, a tutte le nostre previsioni sugli
accordi tra socialdemocrazia e fascismo, risponderanno con una parola sola:
“Matteotti”, cui noi nulla avremo di concreto da contrapporre.12
In questo contesto è chiaro che Gramsci intendesse mettere agli atti la sua
contestazione alla politica decisa a Colonia come rovesciamento della linea di
Lione, da lui considerata come sviluppo delle indicazioni di Lenin contenute
nello scritto L’estremismo, malattia infantile del comunismo e che si erano indirizzate polemicamente proprio a Terracini, allora giovanissimo, con l’ironica
sollecitazione: “Plus de souplesse, camarade Terracini”.
Ma quello che più dolorosamente avvertiva Gramsci era l’emarginazione dal
dibattito politico, l’isolamento, il sentirsi come “un sasso gettato nell’oceano”, pro-
10
Paolo SPRIANO, Storia del Partito Comunista Italiano, Torino, Einaudi, 1969, cap. XVI: «Il Congresso
di Colonia».
11
Giuseppe FIORI, Gramsci, Togliatti, Stalin, Bari, Laterza, 1991, p. 48.
12
SPRIANO, op. cit., cap. XIV: «Gramsci e il “cazzotto nell’occhio”».
203
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
prio lui che aveva segnato, con l’originalità delle sue idee, una fervida partecipazione alla nascita dell’ «Ordine Nuovo» e del comunismo italiano e all’ultima, libera
stagione, prima dell’avvento del Fascismo, della cultura italiana. E più doveva bruciargli dover essere ridotto ad icona, un santino senza pensiero, senza volontà e
senza sentimento. Questo era il rischio: a Colonia, il primo atto del Congresso fu
quello di nominare, su proposta di Togliatti, un praesidium d’onore. Al primo posto Stalin, capo dell’Internazionale Comunista e poi Gramsci. Non dobbiamo però
nulla concedere ad una interpretazione che insista nell’analisi degli stati d’animo di
Gramsci e sulla sua condizione carceraria. La sua cultura storicistica, il suo stoicismo, maturato attraverso tante prove, o spingevano a cercare sempre un “noi” cui
riferirsi; e la sua preoccupazione maggiore, quella che lo spinse a cercare un dialogo
con il partito e con Togliatti, nei durissimi mesi tra la crisi del 3 agosto ’31 e la
lettera del 12 luglio ’32, riguardò la sorte del suo partito, quale orientamento dovesse assumere il movimento comunista, quale fosse l’evoluzione del suo paese, l’Italia, quale contributo potesse egli dare alla rivoluzione italiana intesa anche come
“riforma intellettuale e morale”. Questa fu la motivazione, mentre si interrogava
sulla sua sorte, del poderoso sforzo di elaborazione dei Quaderni, che si sviluppò
con particolare intensità in quel periodo, ma anche del contemporaneo, politico
tentativo di dialogare con il partito, dallo “schema sul Canto X” sino alle lettere su
Croce.
Ora andiamo all’interlocutore, a Togliatti, il vero destinatario del messaggio di
Gramsci. Non percepì il senso della lettera di Gramsci e perciò non lo rivelò? Non mi
pare una tesi plausibile: troppo chiaro era stato Gramsci e Togliatti era uomo così fine
ed intelligente che non gli poteva essere sfuggito il dissenso di Gramsci. D’altra parte,
le notizie e i resoconti già pervenutigli dovevano già averlo edotto della sostanza delle
posizioni dell’amico e maestro. Allora? Togliatti decise di celare il messaggio di
Gramsci. La ragione è chiara: rendere di pubblico dominio ed ufficiale la contestazione di Gramsci avrebbe portato quest’ultimo diritto fuori del partito, con conseguenze incalcolabili per il partito, per la famiglia, per Gramsci stesso. Gramsci era un
uomo di un’altra stagione: la sua formazione era avvenuta nel libero dibattito che
aveva caratterizzato la nascita e lo sviluppo del movimento comunista sotto la guida
di Lenin. Il suo modello di confronto era quello dell’elevata discussione scientifica: i
suoi riferimenti erano Marx e Lenin, ma anche Croce ed Hegel, Labriola e Gentile.
Ora i tempi erano cambiati: l’affermazione di Stalin comportava delle scelte ultimative,
o si era con questi o contro. Non esistevano alternative.
Se Gramsci era uno stoico, la cui visione era rivolta fondamentalmente ai
fini, “la costruzione della società socialista”, Togliatti era un figlio di Machiavelli,
una mente fredda e spregiudicata nella valutazione dei mezzi. E non c’era per lui
alcun fine, per quanto nobilissimo, al cui raggiungimento non dovesse rapportarsi
un insieme di mezzi, che non solo in rapporto al fine, ma anche nel loro reciproco
connettersi dimostrassero di essere adeguati. La sua scelta fu chiara: non parlò con
nessuno del dissenso di Gramsci, non confermò i dubbi, i sospetti, ma ufficialmente ribadì la primogenitura di Gramsci come capo del partito, anzi si preoccupò di
204
Angelo Rossi
tenere fuori Gramsci dalle polemiche.13 Un atteggiamento che confermò, anche dopo
la morte di Gramsci, di fronte alle tentazioni di chi, mettendo sotto accusa il carteggio del ’26, pensava di evitare l’accusa tremenda di “trockijsmo”.14
2. L’ “amico crociano”
Dopo la presa di posizione sulla linea del partito, precisata da Gramsci nella
lettera del novembre 1931, il dialogo prosegue: Sraffa scrive a Tania il 27 dicembre,15 Tania trasmette a Gramsci il 31 dicembre, risponde Gramsci il 4 gennaio 1932.
Nelle lettere a Gramsci, ritorna insistente la richiesta dello “schema sugli intellettuali”, e “se 50 pagine sono troppe, comincia a mandare una prima puntata di 10
pagine” (Tania a Gramsci, lettera del 16 febbraio ’32). Gramsci si schermisce:
Per ciò che riguarda le noterelle che ho scritto sugli intellettuali italiani, non so
proprio da che parte incominciare: esse sono sparse in una serie di quaderni,
mescolate con altre note varie e dovrei raccoglierle tutte insieme per ordinarle.
Questo lavoro mi pesa molto, perché ho spesso delle emicranie che non mi
permettono la concentrazione necessaria: anche praticamente la cosa è molto
faticosa per il modo e le restrizioni in cui occorre lavorare. (Gramsci a Tania,
lettera del 22 febbraio ’32).
Ben altra sorte ha la richiesta di una recensione della Storia d’Europa di Croce, avanzata da Tania, sempre su suggerimento di Sraffa (e Togliatti), nella successiva lettera del 12 aprile. Sull’argomento Gramsci si impegna subito e risponde già il
18 aprile, con la prima, illuminante lettera su Croce. Seguono con una cadenza settimanale le altre lettere sullo stesso tema del 25 aprile, del 2 maggio, del 9 maggio e
poi un’ultima lettera del 6 giugno. Ad altre lettere di Tania del 15 giugno e del 5
luglio, che sollecitano la prosecuzione dell’analisi della filosofia e della funzione del
Croce, Gramsci non risponde; ne spiegherà in seguito la ragione. C’è da notare che
Sraffa, nello scrivere a Tania il 21 aprile,16 raccomanda di “insistere”; evidentemente
non sa che Gramsci ha già risposto. Dopo la lettera del 25 aprile, il dialogo diventa
più stringente, e c’è ancora un interlocutore anonimo. Ecco Sraffa, il 30 aprile:
[...] Un amico del Croce, che lo ha visto recentemente, mi riferisce che questi
gli ha detto di essere ormai convinto che “il materialismo storico non ha nessun
valore, neppure come canone pratico d’interpretazione”: l’amico, che è un
crociano quarantenne, non riesce ad adattarsi a quest’ultimo cambiamento e
13
Cfr. Palmiro TOGLIATTI, Scritti su Gramsci, a cura di G. Liguori, Roma, Editori riuniti, 2001: «In memoria di
Gramsci» (1937), cit. pp. 45-57 e «Antonio Gramsci capo della classe operaia italiana», cit. pp. 92-96.
14
FIORI, op. cit., pp. 92-96.
15
SRAFFA, op. cit., pp. 41-43.
16
Ibid., pp. 58-59 e nota con asterisco.
205
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
vorrebbe almeno riservare un posticino all’economia. Questo è del resto evidente dalla Storia d’Europa: ma se il Croce se ne rende conto lui stesso, come
potrà adesso giustificare la continuità del suo pensiero revisionista?.17
Immediatamente Tania il 5 maggio gira il quesito a Gramsci, negli stessi termini espressi da Sraffa. Ma chi è questo “amico crociano”, del quale si sente la necessità
di evocare l’esistenza, addirittura con l’indicazione dell’età - “quarantenne”- cosa che
sarebbe del tutto superflua se non si trattasse di richiamare l’attenzione di Gramsci su
persona da lui conosciuta? D’altra parte è logico supporre che Sraffa, per scriverne a
Tania, affinchè riferisse a Gramsci, deve aver parlato dell’argomento con l’amico, il
quale addirittura collabora proponendo un quesito di pregnante valore politico, quello
appunto relativo alla continuità del ruolo revisionistico del Croce.
Ma Sraffa custodiva rigorosamente il segreto della sua missione, e non avrebbe parlato di argomenti estremamente riservati con persona che non fosse fidatissima.
D’altra parte, dovendo discutere di un argomento storico che bisogno c’era di informare Gramsci che c’era un tale “crociano” che si interessava al ruolo “revisionistico”
del Croce? È chiaro quindi che Sraffa volontariamente introduce questo anonimo
interlocutore per sottolineare all’attenzione di Gramsci che la discussione aveva un
interlocutore importante, anche se anonimo. Si può quindi fondatamente supporre
che il riferimento all’ “amico crociano” fosse voluto, anche se era mimetizzato, per
impedirne l’identificazione, attraverso il controllo del censore, alla polizia fascista.
Sulla scorta di questi elementi, si può ritenere che “l’amico crociano, quarantenne” fosse lo stesso “amico piemontese”, cioè Togliatti. L’identificazione dell’ “amico
crociano” di due anni più giovane (Togliatti appunto era nato nel 1893) doveva
risultargli facile, nel ricordo delle comuni frequentazioni e degli interessi culturali
maturati nel segno dell’idealismo crociano.
Infatti è lo stesso Gramsci a darci una chiave di lettura in questo senso quando, riferendosi agli articoli che scriveva su «La Città futura», nel febbraio 1917 a
Torino, aveva affermato: “in quel tempo [...] io ero tendenzialmente piuttosto crociano”.18
L’individuazione di Togliatti nell’ “amico crociano” ci aiuta a comprendere,
da un lato, come Gramsci, nelle lettere su Croce, intendesse svolgere un intervento
di “linea politica”con un originale approccio metodologico e con l’uso degli strumenti analitici messi a punto nella reclusione a Turi; d’altra parte, come i rapporti
tra Gramsci e Togliatti, nonostante le gravi divergenze sull’esito della vittoria
staliniana del’26 e sulla svolta del partito italiano, fossero ripresi, nel periodo del
carcere, in modi segreti e fossero continuati almeno fino all’estate del ’32, cioè fino
a quando si interrompe improvvisamente, per la perquisizione dell’OVRA, il carteggio su Croce.19
17
Ibid., p. 62.
Antonio GRAMSCI, Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1233.
19
GRAMSCI-SCHUCHT, op. cit., pp. 1043-1044 e nota.
18
206
Angelo Rossi
3. Croce e i più moderni teorici della filosofia della praxis
La ragione per la quale la recensione della Storia d’Europa si era caricata di
tanto significato politico può essere individuata, sulla scorta di quel che scrive
Gramsci nel Quaderno 7, § 26 sul Saggio popolare:
Registro degli intellettuali la cui filosofia viene combattuta con qualche diffusione e annotazione del loro significato e importanza scientifica. Accenni a grandi
intellettuali fugacissimi. Si pone la questione: non occorreva invece riferirsi solo
ai grandi intellettuali e magari ad uno solo di essi e trascurare i secondari? Si ha
l’impressione appunto che si cerchi di combattere contro i più deboli e magari
contro le posizioni più deboli (o più inadeguatamente espresse dai più deboli)
per ottenere una facile vittoria [...] Illusione che ci sia somiglianza (altro che formale) tra un fronte ideologico e un fronte politico-militare. Nella lotta politica e
militare può convenire la tattica di sfondare nei punti di minor resistenza per
essere in grado di investire il punto più importante col massimo delle forze reso
appunto più disponibile dall’aver eliminato gli “ausiliari” più deboli ecc. La vittoria politica e militare, entro certi limiti è permanente, il fine strategico può
essere raggiunto in modo, entro certi limiti, decisivo. Sul fronte ideologico, invece, la sconfitta degli ausiliari e dei minori seguaci ha importanza infinitamente
minore: in esso bisogna lottare contro i più eminenti e non contro i minori.20
Gramsci critica l’impostazione che Bucharin, nel Manuale popolare di
sociologia marxista, dà alla lotta ideologica, lotta che Bucharin propone sia svolta
con gli stessi metodi messi in atto nella lotta politica e sul piano militare. Per Gramsci
è illusorio stabilire una “somiglianza” tra i due “fronti di lotta”. Da questa fondamentale posizione di metodo bisogna partire per un paziente lavoro filologico che
ricostruisca, attraverso la verifica delle concordanze tra il Quaderno 8 e le Lettere
dal carcere sull’argomento Croce, non solo la gestazione del pensiero di Gramsci
su un punto centrale dei Quaderni, la filosofia di Benedetto Croce, ma anche il
valore di pregnante attualità politica che egli attribuiva alla questione. Vediamo:
§ 225: Punti per un saggio su Benedetto Croce. Quali sono gli interessi intellettuali e morali (e quindi sociali) che predominano oggi nell’attività culturale del
Croce? Per comprenderli occorre ricordare l’atteggiamento del Croce verso la
guerra mondiale. Egli lottò contro l’impostazione popolare (e la conseguente
propaganda) che faceva della guerra una guerra di civiltà e quindi a carattere
religioso. Dopo la guerra viene la pace e la pace può costringere a aggruppamenti
ben diversi da quelli della guerra; ma come sarebbe possibile una colla-
borazione tra popoli dopo lo scatenamento dei fanatismi “religiosi”
della guerra? Il Croce vede nel momento della pace quello della guer-
20
GRAMSCI, Quaderni dal carcere, cit. p. 875.
207
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
ra, e nel momento della guerra quello della pace, e lotta perché la (possibilità di) mediazione tra i due momenti non sia mai distrutta. Nessun
criterio immediato di politica può essere innalzato a principio universale.21
Lettera a Tania del 18 aprile 1932:
[...] La prima questione da porre potrebbe essere questa: quali sono gli interessi
culturali oggi predominanti nell’attività letteraria e filosofica del Croce, se essi
sono di carattere immediato, e di portata più generale e rispondenti a esigenze
più profonde che non siano quelle nate dalle passioni del momento. La risposta
non è dubbia; l’attività del Croce ha origini lontane e precisamente dal tempo
della guerra. Per comprendere i suoi ultimi lavori occorre rivedere i suoi scritti
sulla guerra.[...] Il loro contenuto essenziale può essere brevemente riassunto
così: lotta contro l’impostazione data alla guerra sotto l’influenza della propaganda francese e massonica, per la quale la guerra divenne una guerra di civiltà,
una guerra tipo “Crociata” con lo scatenamento di passioni popolari a carattere di fanatismo religioso. Dopo la guerra viene la pace, cioè al conflitto deve
succedere una ricollaborazione dei popoli non solo, ma ai raggruppamenti bellici
succederanno raggruppamenti di pace e non è detto che i due coincidano; ma
come sarebbe possibile questa ricollaborazione generale e particolare, se un
criterio immediato di politica utilitaria diventa principio universale e categorico? Occorre, quindi, che gli intellettuali resistano a queste forme irrazionali di
propaganda e, pur non indebolendo il loro paese in guerra, resistano alla demagogia e salvino il futuro. Il Croce vede sempre nel momento della pace il momento della guerra e nel momento della guerra quello della pace e rivolge la sua
operosità a impedire che sia distrutta ogni possibilità di mediazione e di compromesso tra i due momenti.22
Fin qui i due testi concordano, poi Gramsci nella lettera riprende:
Praticamente la posizione del Croce ha permesso agli intellettuali italiani di
riannodare i rapporti con gli intellettuali tedeschi, cosa che non è stata e non è
facile per i francesi e i tedeschi, quindi l’attività crociana è stata utile allo Stato
italiano nel dopoguerra quando i motivi più profondi della storia nazionale
hanno portato alla cessazione dell’alleanza militare franco-italiana e a uno spostamento della politica contro la Francia per il riavvicinamento alla Germania.
Così il Croce, che non si è mai occupato di politica militante nel senso dei
partiti, è diventato ministro dell’Istruzione Pubblica nel governo Giolitti del
1920-21. Ma è finita la guerra? ed è finito l’errore di innalzare indebitamente
criteri particolari di politica immediata a principi generali, di dilatare le ideolo-
21
22
Ibid., p. 1082.
GRAMSCI-SCHUCHT, op. cit. pp. 974-975.
208
Angelo Rossi
gie fino a filosofie e religioni? No, certamente; quindi la lotta intellettuale e
morale continua, gli interessi permangono ancora vivaci ed attuali e non bisogna abbandonare il campo.
Ancora nel § 225 Quaderno 8:
Croce come leader delle tendenze revisionistiche: nel primo momento (fine
dell’800, ispiratore del Bernstein e del Sorel); e in questo secondo momento,
non più di revisione ma di liquidazione (storia etico-politica contrapposta a
storia economico-giuridica).
Il punto viene ripreso nella stessa lettera del 18 aprile nel modo seguente:
La seconda questione è quella della posizione occupata dal Croce nel campo
della cultura mondiale. Il Croce già prima della guerra occupava un posto molto alto nella stima dei gruppi intellettuali di tutti i paesi. Ciò che è interessante
è che nonostante l’opinione comune, la sua fama era maggiore nei paesi anglosassoni che in quelli tedeschi [...]. Il Croce [...] ha un alto concetto di questa sua
posizione di leader della cultura mondiale e delle responsabilità e dei doveri
che essa porta con sé. È evidente che i suoi scritti presuppongono un pubblico
mondiale di élite. Occorre ricordare che negli ultimi anni del secolo scorso gli
scritti crociani di teoria della storia (e precisamente Materialismo storico ed
economia marxista) hanno dato le armi intellettuali ai due massimi movimenti
di “revisionismo” del tempo, di Edoardo Bernstein in Germania e del Sorel in
Francia. Il Bernstein ha scritto egli stesso di essere stato indotto a rielaborare
tutto il suo pensiero filosofico ed economico dopo aver letto i saggi del Croce.
L’intimo legame del Sorel col Croce era noto, ma quanto fosse profondo e
tenace è apparso dalla pubblicazione delle lettere del Sorel, il quale si mostra
spesso intellettualmente subordinato al Croce in modo sorprendente. Ma il
Croce ha portato ancora più oltre la sua attività revisionistica e ciò specialmente durante la guerra e specialmente dopo il 1917.[...] Mi pare che il Croce tiene
più di tutto a questa sua posizione di leader del revisionismo e che in ciò egli
intenda essere il meglio della sua attuale attività. In una breve lettera scritta al
prof. Corrado Barbagallo e pubblicata nella «Nuova Rivista Storica» [...] egli
esplicitamente dice che tutta l’elaborazione della sua teoria della storia come
storia etico-politica [...] è rivolta ad approfondire il suo revisionismo di quaranta anni fa.
E prosegue così il discorso in parallelo nel Quaderno 8 e nelle Lettere:
Quaderno 8 §225 “Perchè il Croce è “popolare” e come e per quali vie si diffonde non il suo pensiero centrale, ma determinate sue soluzioni di problemi
particolari. Stile del Croce - paragone errato con Manzoni - la prosa del Croce
deve essere riattaccata alla prosa scientifica del Galilei - atteggiamento goethiano
nel dopoguerra, cioè mentre tanta gente perde la testa, il Croce è imperturbabi209
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
le nella sua serenità e nella sua credenza che metafisicamente il male non può
prevalere e che la storia è razionalità. Perciò Croce popolare tra gli anglosassoni che hanno sempre preferito una concezione del mondo non a grandi sistemi,
come i tedeschi, ma che si presenti come espressione del senso comune, come
soluzione di problemi morali e pratici. Il Croce fa circolare il suo pensiero
idealistico in tutti i suoi scritti minori, ma ognuno di essi si presenta come a se
stante, e sembra accettabile anche se non si accetta il sistema [...].
Lettera del 25 aprile ’32:
[...] Ti scrivo un paragrafo anche questa volta [...] Una questione molto interessante mi pare quella che si riferisce alle ragioni della grande fortuna che ha
avuto l’opera di Croce, ciò che non avviene di solito ai filosofi durante la loro
vita. [...] Una delle ragioni mi pare da ricercare nello stile. È stato detto che il
Croce è il più grande prosatore italiano dopo il Manzoni. [...] La prosa di
Croce non deriva da quella del Manzoni, quanto invece dai grandi scrittori di
prosa scientifica, e specialmente dal Galilei. La novità del Croce, come stile, è
nel campo della prosa scientifica, nella sua capacità di esprimere con grande
semplicità e con grande nerbo insieme, una materia che di solito, negli altri
scrittori, si presenta in forma farraginosa, oscura, stiracchiata, prolissa. Lo
stile letterario esprime uno stile adeguato nella vita morale, un atteggiamento
che si può chiamare goethiano di serenità, compostezza, sicurezza imperturbabile. Mentre tanta gente perde la testa e brancola tra sentimenti apocalittici
di panico intellettuale, Croce diventa un punto di riferimento per attingere
forza interiore per la sua incrollabile certezza che il male metafisicamente
non può prevalere e che la storia è razionalità [...].23
Nella stessa lettera sono evidenti i riferimenti ai punti 3 e 7 del richiamato §225. Gramsci non richiama i punti 4, 5 e 6, perché tiene a sviluppare l’argomentazione, con grande forza di persuasione, concentrandosi sull’essenziale.
Infatti esamina il concetto di storia “etico-politica” nel § (227) dello stesso
Quaderno 8:
Cosa significa storia “etico-politica”? Storia dell’aspetto, “egemonia” nello Stato e, poiché gli intellettuali hanno la funzione di rappresentare le idee
che costituiscono il terreno in cui l’egemonia si esercita, storia degli intellettuali, anzi dei grandi intellettuali, fino al massimo, a quell’intellettuale
che ha espresso il nucleo centrale d’idee che in un dato periodo sono dominanti. Poiché “egemonia “ significa un determinato sistema di vita morale
(concezione della vita) ecco che la storia è storia “religiosa”, secondo il
principio “Stato-Chiesa “ del Croce.24
23
24
Ibid., pp. 983-984.
GRAMSCI, Quaderni dal carcere, cit. p. 1084.
210
Angelo Rossi
Di fondamentale importanza è la lettera del 2 maggio, nella quale Gramsci,
scrivendo alla cognata, ma in realtà rivolgendosi al suo vero interlocutore,
Togliatti, precisa:
Non so se ti manderò mai lo schema che ti avevo promesso sugli intellettuali italiani. Il punto di vista da cui osservo la questione muta talvolta:
forse è ancora presto per riassumere e sintetizzare. Si tratta di materia ancora allo stato fluido, che dovrà subire una elaborazione ulteriore.25
In realtà Gramsci sta lavorando alla redazione dello “schema”, che si può,
sulla base della ricostruzione e dei riscontri della edizione critica dei Quaderni
curata dal Gerratana, individuare nel Quaderno 12. Gramsci continua quindi su
un punto molto delicato relativo al dialogo apertosi, per “via letteraria” con il
partito. Egli chiarisce che il suo contributo dal carcere deve avere un carattere
politico, pur investendo fondamentalmente la sfera teorica e la strategia del partito; in quanto allo schema sulla storia degli intellettuali ribadisce che questo
non è un impegno specialistico di ricerca storica, ma un tema che fa parte dell’elaborazione complessiva che egli sta sviluppando nel carcere di Turi. Da quanto
scrive alla cognata si può trarre un’altra utile indicazione: che il materiale dei
Quaderni, nelle intenzioni di Gramsci, dovesse essere destinato ad una comunicazione tematica, secondo modi e tempi determinati dalla condizione carceraria, legati all’eventuale conclusione del periodo di detenzione e al possibile
ritorno all’attività politica, nonché all’evolversi dei rapporti con il partito. Dopo
la premessa relativa allo schema sugli intellettuali, Gramsci sviluppa il suo discorso, in continuità non solo con le lettere precedentemente inviate sull’argomento Croce, ma anche in coerenza con l’indicazione metodologica del Quaderno 7 (§ 26), con la rivendicazione della validità della linea del Congresso di
Lione e del saggio Alcuni temi sulla questione meridionale scritto nel ’26, pubblicato su «Stato operaio» solo nel gennaio del 1930.26
Ti posso ancora fissare qualche punto di orientamento [...] - scrive Gramsci
alla cognata - [...] anche se queste note sono un po’ scucite, penso che ti potranno essere utili lo stesso. [...] Ho già accennato alla grande importanza che il
25
GRAMSCI-SCHUCHT, op. cit., pp. 993-994.
GRAMSCI, La costruzione del Partito Comunista, cit. pp. 137-158. Anche la pubblicazione di questo
saggio ha avuto una sua storia: Gramsci ne segnala l’importanza alla cognata in una lettera del 19 marzo 1927,
quando è rinchiuso nel carcere di S.Vittore a Milano, in attesa di processo. Infatti, esponendo i suoi programmi di studio, inserisce una domanda apparentemente insignificante: “Ricordi il rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull’Italia meridionale e sull’importanza di Benedetto Croce?” Mi sembra evidente che Tatiana,
avendo interessi e conoscenze in campi tutt’affatto diversi e non essendosi certamente mai occupata né della
questione meridionale, né della filosofia di Benedetto Croce, dovesse reperire la domanda del cognato come
una segnalazione a rintracciare lo scritto e ad indicarne l’importanza al partito. La pubblicazione del saggio su
«Stato operaio» fu certamente una decisione redazionale in cui si diceva che l’articolo veniva pubblicato, “così
come è venuto in nostro possesso, dopo mille vicende”.
26
211
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
Croce assegna alla sua attività teorica di revisionista e come, per sua stessa ammissione esplicita, tutto il suo lavorio di pensatore in questi ultimi venti anni
sia stato guidato dal fine di completare la revisione fino a farla diventare liquidazione. Come revisionista egli ha contribuito a suscitare la corrente della storia economico-giuridica [...]; oggi ha dato forma letteraria a quella storia che
egli chiama etico-politica, di cui la Storia d’Europa dovrebbe essere il paradigma”.
Qui Gramsci entra nel vivo della sua contestazione alla linea dell’IC (siamo
nel ’32) e alla subordinazione del PCd’I; riprende in sostanza il filo della sua
lettera al PC russo, scritta nel ’26, a nome del PC d’I., senza però mai richiamare
questo precedente e dando al suo discorso un indirizzo positivo di ricerca e di
costruzione di una risposta teorica e politica al tempo stesso, valida per il partito
e per l’intiero movimento. Seguiamo Gramsci, nella sua illuminante argomentazione:
In che consiste l’innovazione portata dal Croce, ha essa quel significato che
egli le attribuisce e specialmente ha quel valore “liquidatore” che egli pretende? Si può dire concretamente che il Croce, nell’attività storico-politica, fa
battere l’accento unicamente su quel momento che in politica si chiama dell’
“egemonia”, del consenso, della direzione culturale, per distinguerlo dal
momento della forza, della costrizione, dell’intervento legislativo e statale o
poliziesco. In verità non si capisce perché il Croce creda alla capacità di questa sua impostazione della teoria della storia di liquidare definitivamente ogni
filosofia della praxis. È avvenuto proprio che nello stesso periodo in cui il
Croce elaborava questa sua sedicente clava, la filosofia della praxis, nei suoi
più grandi teorici moderni,veniva elaborata nello stesso senso e il momento
dell’ “egemonia” o della direzione culturale era appunto sistematicamente
rivalutato in opposizione alle concezioni meccanicistiche e fatalistiche dell’economismo. È stato anzi possibile affermare che il tratto essenziale della
più moderna filosofia della praxis consiste appunto nel concetto storico-politico di “egemonia”.
È necessario a questo punto analizzare questo straordinario passo di Gramsci,
e confrontarlo con la lettera indirizzata al CC del Partito comunista sovietico nell’ottobre 1926 e la successiva lettera a Togliatti del 26 ottobre 1926, scritte appena
pochi giorni prima dell’arresto di Gramsci.27 Tra questi scritti di Gramsci c’è una
stretta relazione, che è tutta sviluppata intorno al concetto di “egemonia”, o della
“direzione culturale”, come Gramsci insistentemente sottolinea e richiama. La
funzione di Lenin, come “grande teorico moderno della filosofia della praxis”si
era manifestata, contro le interpretazioni meccanicistiche e fatalistiche del
27
Ibid., pp. 124-137.
212
Angelo Rossi
marxismo, nell’affermare un nesso volontà-intelligenza, fondamentale per l’azione rivoluzionaria: “la rivoluzione contro Il Capitale era stata possibile, perché
Lenin e il partito bolscevico che si esprimeva attraverso il suo sperimentato gruppo dirigente, avevano individuato la sfera del politico, come la sfera della creazione rivoluzionaria, cioè della costruzione, autonoma rispetto alle condizioni materiali, della “egemonia”, della realizzazione di un blocco storico imperniato sull’alleanza fra il proletariato e i contadini, possibile solo perché fondata sulla direzione “culturale” e quindi politica della classe operaia. Questa alleanza aveva caratteri di espansività tali, da svilupparsi sia attraverso l’impegno degli intellettuali
organici”, sia di buona parte di quelli tradizionali, immessi in un rapporto positivo con “la dittatura del proletariato” proprio per la egemonia culturale che essa
esprimeva. Viene da qui l’insistenza di Gramsci sul valore della Rivoluzione d’ottobre per le classi lavoratrici. E una distinzione rispetto a Lenin. Il ’17 non era
stato l’innesco di una rivoluzione mondiale, ma piuttosto la manifestazione della
concreta possibilità di avviare, nel contesto di un’economia mondializzata, processi di trasformazione delle società nazionali, se si fosse formato un soggetto
rivoluzionario, che di questa trasformazione si fosse fatto carico per i contenuti,
per i modi e i tempi, in una costruzione non schematicamente predisposta, ma
verificata nella lotta politica e sociale e nell’impegno per l’egemonia culturale. A
questo punto si comprende perché Gramsci scriva nel ‘26, nel serrato scontro con
Togliatti:
oggi, dopo nove anni dall’ottobre 1917, non è più il fatto della presa del potere
da parte dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso
è già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente
e politicamente, la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il
potere, può costruire il socialismo.
La questione che pone Gramsci è essenziale: non è la conquista del potere
da parte dei bolscevichi (il partito) che produce la spinta propulsiva per le masse
occidentali, ma la convinzione che il proletariato (la classe rivoluzionaria) possa
costruire il socialismo. Ciò è possibile solo se si esercita l’egemonia, cioè solo se si
abbandona il terreno del corporativismo, se il proletariato si pone dal punto di vista
degli interessi generali della società, facendosi portatore di una riforma morale e
intellettuale di questa. Questo è il filo rosso che lega il carteggio del ’26 ai Quaderni, e che carica di significato politico la prosecuzione di quel lontano carteggio, che
è la serie di lettere su Croce, indirizzate a Tania, ma dirette al partito, attraverso il
canale ben noto del passaggio da Tania a Sraffa e da questi a Togliatti.
Naturalmente la redazione degli appunti su Croce, sia coeva allo scambio di
lettere che successiva, assume un rilievo diverso, non di solo contraddittorio con
una grande figura del pensiero filosofico contemporaneo, ma di linea alternativa
rispetto a quella imposta da Stalin all’IC e ai partiti comunisti, a quella perseguita in
Unione Sovietica, “la realizzazione del socialismo in un solo paese”. Che questo
213
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
dovesse essere il senso della lettera appare anche da altri due riferimenti che a Togliatti
dovevano sembrare chiarissimi: l’insistenza di Gramsci sull’importanza della “direzione culturale” rispetto al “momento della forza, dell’intervento legislativo e
statale o poliziesco” e il fatto che “la filosofia della praxis, nei suoi più grandi teorici
moderni, veniva elaborata nel senso della rivalutazione del momento dell’ “egemonia” o della direzione culturale. Gramsci procede ad una affermazione perentoria:
“È stato anzi possibile affermare che il tratto essenziale della più moderna filosofia
della praxis consiste appunto nel concetto storico politico di “egemonia”. Che significano queste espressioni? Certo Gramsci non vuole indicare Lenin e Stalin come
i più grandi teorici moderni della filosofia della prassi, ma vuole richiamare all’attenzione dell’interlocutore la necessità che, di fronte alla complessità del mondo
moderno e alle sue inedite sfide, vi sia un ulteriore sviluppo del marxismo teorico.
Il procedimento è quello indotto dall’esempio de Il Principe di Machiavelli. Con il
suo linguaggio allusivo e metaforico Gramsci non si riferiva a persone, ma voleva
indicare una nuova frontiera dell’impegno teorico e dell’azione rivoluzionaria. E la
domanda a Togliatti è implicita nel ragionamento: “Ti pare che con i metodi fin qui
perseguiti nell’URSS, si stia sviluppando l’egemonia della classe operaia, che la costruzione del socialismo possa attuarsi in questo modo?”. La domanda risulterebbe
tanto più pertinente in quanto Gramsci tende a salvare la Rivoluzione d’ottobre,
anzi a porre la sua elaborazione come legittima continuazione dell’impresa di Lenin;
e quindi è possibile riconoscere senz’altro come “il più grande teorico moderno
della filosofia della prassi”sia Lenin e che lo sviluppo storico deve avvenire nel senso del cammino da Lenin indicato.
Tenendo conto delle osservazioni di G. Francioni (Proposte per una nuova
edizione dei “Quaderni del carcere Prima stesura”) circa i rapporti esistenti tra i Punti
per un saggio su Croce del Quaderno 8, le lettere del 18 aprile, del 25 aprile del 1932,
e la successiva redazione de La filosofia di Benedetto Croce-Quaderno 10, si può
constatare che le argomentazioni che Gramsci sviluppa sulla funzione di Croce sono
già contenute nel § 225 del Quaderno 8. Nella lettera del 2 maggio, Gramsci introduce un elemento nuovo, non sviluppato nella prima stesura dei Punti per un saggio su
Benedetto Croce del Quaderno 8, che ha un carattere più immediatamente politico
(come abbiamo già visto) e che assume un grande rilievo nel dibattito politico, di
contestazione, in riferimento alla politica di Lione, delle scelte successive adottate dal
PCI al Congresso di Colonia, che aveva accettato l’indirizzo impresso da Stalin alla
politica dell’IC. Questo elemento non ha un carattere polemico, ma è strutturale nell’impianto della elaborazione gramsciana, tanto da essere ripreso e approfondito nella posteriore redazione del Quaderno 10 e segnatamente nel paragrafo 12.28
Ma a conferma diretta che il canale della “via letteraria” stava funzionando
benissimo ai fini della comunicazione politica c’è la lettera di Gramsci a Tania del
23 maggio 1932, nella quale Gramsci dice alla cognata di comunicare a Sraffa (e
28
GRAMSCI, Quaderni dal carcere, cit. pp. 1234-1235.
214
Angelo Rossi
quindi al Partito) la sua volontà contraria ad ogni iniziativa diretta ad ottenere la
grazia. Anche qui Gramsci fa riferimento ad un libro, a un autore, a un personaggio: il libro è Certezze di Silvio D’Amico; il personaggio al quale ricorre per riferimenti autobiografici è Federico Confalonieri: “[...] si parla di una domanda di grazia, inviata da Federico Confalonieri all’imperatore d’Austria [...] Il D’Amico [...]
ne dà cenni come dello scritto di un uomo ridotto al massimo grado di avvilimento
e di abiezione”.
In quel cruciale anno 1932 il prigioniero di Turi, solo, malato, sottoposto alla
lima di una durissima condizione carceraria, impostagli dal regime fascista, mentre con
grande vigore intellettuale si impegna nel dibattito su Croce, manda al Partito un
chiaro messaggio: egli non chiederà mai la grazia a Mussolini e al fascismo, perchè questo significherebbe per lui “ridursi al massimo grado di avvilimento e di abiezione”.
4. Gramsci, Croce e Stalin: la necessità di un anticroce e di un nuovo antiduhring
Ritorniamo alla sequenza cronologica delle lettere e al raffronto tra queste
e gli appunti contenuti nel Quaderno 8, e poi sviluppati organicamente nel Quaderno 10. Nella lettera del 9 maggio 1932, dopo la improvvisa torsione politica,
con il richiamo ai “più moderni teorici della filosofia della praxis”, che l’argomentazione ha presentato nella precedente lettera citata del 2 maggio, Gramsci
sviluppa ampiamente il tema. Non dobbiamo dimenticare che Gramsci ha approfondito le sue critiche al saggio popolare di Bucharin, cioè La théorie du materialisme historique-Manuel populaire de sociologie marxiste, considerato da Gramsci come indicativo di una interpretazione deformata in senso materialistico “volgare” e positivistico del marxismo, ma diffuso in URSS come opera canonica:
precisamente negli Appunti di Filosofia: Prima serie del Quaderno 4, scritto negli
anni ’30-’32, negli Appunti di Filosofia: Seconda serie del Quaderno 7, redatto
negli stessi anni, negli Appunti di Filosofia: Terza serie del Quaderno 8, tra i quali
si trovano anche quelli relativi ai Punti per un saggio su Benedetto Croce coevi
alle lettere sullo stesso argomento. A scanso di equivoci, occorre precisare che
Gramsci scriveva su un testo considerato esemplare, molto prima che il suo sfortunato autore, Bucharin, figura peraltro di grande rilievo politico e culturale, cadesse vittima delle repressioni staliniane nel 1938. D’altra parte, si può esaminare
il celebre scritto Materialismo dialettico e materialismo storico attribuito a Stalin
e inserito nella Storia del PC(b) dell’URSS, oggetto di studio, ancora negli anni
’50, nelle scuole di partito del PCI, per capire la distanza esistente tra le due interpretazioni del marxismo, quella di Gramsci e quella ufficialmente dichiarata nell’Unione Sovietica, il “marxismo-leninismo”.
Gramsci risponde all’ “amico crociano”, “quarantenne”, che attraverso
Sraffa e Tania, gli ha chiesto quale fosse il posto dell’economia nella “storia”
del Croce.
215
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
Ti ho già scritto che tutto il lavoro storiografico del Croce negli ultimi venti anni è stato rivolto ad elaborare una teoria della storia come storia eticopolitica in contrapposizione alla storia economico-giuridica che rappresentava la teoria derivata dal materialismo storico dopo il processo revisionistico, che esso aveva subito ad opera del Croce stesso. Ma la storia del Croce è poi etico-politica? Mi pare che la storia del Croce non possa essere
chiamata che storia “speculativa” o “filosofica” e non etico-politica e in
questo suo carattere e non nell’essere etico-politica è la sua opposizione al
materialismo storico.
Gramsci prosegue:
Una storia etico-politica non è esclusa dal materialismo storico in quanto
essa è la storia del momento “egemonico”, mentre è esclusa la storia “speculativa” come ogni filosofia “speculativa”. Nella sua elaborazione filosofica il Croce dice di aver voluto liberare il pensiero moderno da ogni traccia
di trascendenza, di teologia e, quindi, di metafisica in senso tradizionale.
[...] Ma la sua filosofia è una filosofia “speculativa”e in quanto tale continua in pieno la trascendenza e la teologia con un linguaggio storicistico. Il
Croce è così immerso nel suo metodo e nel suo linguaggio che non può
giudicare che secondo essi; quando egli scrive che nella filosofia della praxis
la struttura è come un dio ascoso, ciò sarebbe vero se la filosofia della praxis
fosse una filosofia speculativa e non uno storicismo assoluto, liberato davvero e non solo a parole, da ogni residuo trascendentale e teologico.29
La lunga citazione della lettera del 9 maggio ci permette di approfondire il
senso della discussione da Gramsci sviluppata. Abbiamo visto che le considerazioni sulla filosofia di Benedetto Croce erano state sollecitate da Sraffa (e da Togliatti);
che Gramsci aveva colto l’occasione che gli dava l’apertura della “via letteraria” per
sviluppare un intervento politico, partendo però dalla teoria della storia, nel confronto tra l’idealismo crociano e la filosofia della praxis. Ma c’è un terzo termine di
questa discussione e Gramsci lo introduce in questa lettera, rispondendo all’ “amico crociano”, cioè a Togliatti che gli chiedeva quale fosse il posto dell’economia
nella storia. Questo terzo termine è appunto quello che poi sarebbe stato chiamato
il diamat, “il materialismo dialettico”, ovvero il marxismo-leninismo, cioè la “ideologia”, la interpretazione materialistica realistica e positivistica della filosofia della
praxis. L’economia, la struttura non hanno un posto a sé, predeterminato e determinante, ma si risolvono, sono nella storia degli uomini, fanno blocco con essa, e
quindi chiedersi quale posto vi debba essere per l’economia nella storia significa
ricadere nella vecchia filosofia della trascendenza anche se con un linguaggio materialistico che fa da pendant al linguaggio storicistico, con il quale Croce ammanta
la sua filosofia speculativa.
29
GRAMSCI-SCHUCHT, op. cit., p. 1000.
216
Angelo Rossi
E chiarisce il doppio senso della polemica gramsciana il § 225 del Quaderno
8, scritto contemporaneamente ai Punti per un saggio su Croce che, ripetiamo, sono
serviti da promemoria per la stesura delle lettere:
[...] Sono da rivedere e da criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Da questo punto di vista bisognerebbe scrivere un nuovo Antiduhring
che potrebbe essere un Anticroce, poiché in esso potrebbe riassumersi non
solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche implicitamente, quella contro il positivismo e le teorie meccanicistiche, deteriorazione della filosofia della praxis.30
Continuiamo nel raffronto tra il testo delle lettere e quello del Quaderno 8.
Gramsci, nella stessa lettera del 9 maggio così prosegue:
Legata a questo punto è un’altra osservazione che più da vicino riguarda la
concezione e la composizione della Storia d’Europa. Può pensarsi una storia
unitaria dell’Europa che si inizi dal 1815, cioè dalla Restaurazione? Se una
storia d’Europa può essere scritta come formazione di un blocco storico, essa
non può escludere la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, che del
blocco storico europeo sono la premessa ‘economico-giuridica’, il momento
della forza e della lotta. Il Croce assume il momento seguente, quello in cui le
forze scatenate precedentemente si sono equilibrate, “catartizzate” per così
dire, fa di questo momento un fatto a sé e costruisce il suo paradigma storico.
Lo stesso aveva fatto con la Storia d’Italia: incominciando dal 1870 essa trascurava il momento della lotta, il momento economico, per essere apologetica
del momento puro etico-politico, come se questo fosse caduto dal cielo.31
Ora è evidente che Gramsci continua il suo intervento di linea, ricorrendo ad
una analogia tra Rivoluzione francese e Rivoluzione d’ottobre. L’analogia non è
esplicita, ma è trasparente, perché si legge, “non si può escludere dalla storia d’Europa considerata come “blocco storico” la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche”, non può non istituire un parallelo con la Rivoluzione d’ottobre e il periodo successivo. Ma che Gramsci, in questa lettera, abbia voluto indurre l’interlocutore ad istituire un riferimento analogico è dimostrabile; nel Quaderno 8 §236:
Punti per un saggio su Croce. Gramsci arricchisce le considerazioni poi riportate
nella lettera del 9 maggio 1932 con un “riferimento attuale “come egli stesso afferma. Vale la pena riportare il passo gramsciano:
Posto che la Storia d’Europa è come un paradigma per la cultura mondiale di storia
etico-politica, la critica del libro necessaria: si può osservare che la “gherminella
fondamentale” del Croce, consiste in ciò: nell’iniziare la sua storia dopo la caduta
30
31
GRAMSCI, Quaderni dal carcere, cit. p. 1088.
GRAMSCI-SCHUCHT, op. cit., p. 1001.
217
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
di Napoleone. Ma esiste il sec. XIX senza la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche? Gli avvenimenti dal Croce possono essere concepiti organicamente senza questi precedenti? Il libro del Croce è un trattato di rivoluzioni passive, per dirla
con l’espressione del Cuoco, che non possono giustificarsi e comprendersi senza la
Rivoluzione francese, che è stata un evento europeo e mondiale e non solo francese. (Può avere questa trattazione un riferimento attuale? Un nuovo “liberalismo”,
nelle condizioni moderne, non sarebbe poi precisamente il “fascismo”? Non sarebbe poi il fascismo precisamente la forma di “rivoluzione passiva” propria del
sec. XX come il liberalismo lo è stato del sec. XIX? [...] Si potrebbe così concepire:
la rivoluzione passiva si verificherebbe nel fatto di trasformare la struttura economica “riformisticamente” da individualistica a economia secondo un piano (economia diretta) e l’avvento di una “economia media” tra quella individualistica pura
e quella secondo un piano in senso integrale permetterebbe il passaggio a forme
politiche e culturali più progredite senza cataclismi radicali e distruttivi in forma
sterminatrice. Il “corporativismo” potrebbe essere o diventare, sviluppandosi, questa
forma economica media di carattere “passivo”). Questa concezione potrebbe essere avvicinata a quella che in politica si può chiamare “guerra di posizione “in opposizione alla guerra di movimento: così nel ciclo storico precedente la Rivoluzione
francese sarebbe stata “guerra di movimento” e l’epoca liberale nel sec. XIX una
lunga “guerra di posizione.32
Come si vede nella lettera del 9 maggio Gramsci suggerisce l’analogia tra le
due Rivoluzioni, ma non sviluppa il tema che viene invece affrontato politicamente
per la prima volta nel § 236 del Quaderno 8. È questo un punto di estrema difficoltà
interpretativa. Perché Gramsci nello scrivere a Tania (ma, lo sappiamo, dietro Tania
c’erano Sraffa e Togliatti) lascia “nella penna” la nuova, sconvolgente definizione
del fascismo come “rivoluzione passiva”, quale invece si trova in quei Punti per un
saggio su Croce del Quaderno 8 che sono stati la linea guida per la stesura delle
lettere su Croce e quindi per lo sviluppo dell’ultimo grande dibattito con Togliatti,
attraverso la “via letteraria” che di lì a poco sarà interrotta? Perché Gramsci non
procede ad esporre, nella lettera ed in quelle successive, le conclusioni alle quali è
giunto nella trattazione del Quaderno 8, che saranno riprese e sviluppate organicamente nel Quaderno 10, La filosofia di Benedetto Croce? È trattenuto dalla considerazione degli effetti negativi quali, con ogni probabilità, sarebbero stati prodotti
nel partito dall’audacia della sua concezione dei processi storici in atto nella società
italiana? Avverte che la comunicazione è già andata troppo avanti e che da un momento all’altro i suoi carcerieri potrebbero rendersi conto che, sotto i loro occhi, si
sta svolgendo una comunicazione tra i massimi dirigenti del partito comunista?
Oppure ritiene opportuno che la comunicazione si svolga in modo più mediato,
più “filosofico”, che sono necessari tempi più lunghi? Non lo sappiamo, perché di
lì a poco e precisamente con la lettera del 12 luglio 1932, Gramsci annunzia alla
32
GRAMSCI-SCHUCHT, op. cit., pp. 1088-1089.
218
Angelo Rossi
cognata, con termini inequivocabili, che la comunicazione è stata interrotta per
l’intervento della censura carceraria:
Carissima Tania, questa settimana non ho potuto leggere nessun tuo scritto.
Una tua lettera raccomandata è certamente giunta, perché è stata aperta in
mia presenza per vedere se vi fossero contenuti dei valori, ma non mi è stata
ancora consegnata.
E qui Gramsci rimbrotta la cognata in un modo che risulterebbe inspiegabile,
se non fosse un tentativo di evitare il peggio. Infatti per tutto il periodo riguardante
il carteggio su Croce il dialogo con la cognata era stato caratterizzato da grande
intesa, comprensione, elevata sensibilità. Il duro, incredibile rimprovero è un segnale di allarme, che deve essere captato immediatamente:
Carissima, parecchie volte ti ho scritto che spesso non ti rendi conto perfettamente di quali siano le mie condizioni di esistenza e che dimentichi che cosa è
un carcerato. Così altre volte ti ho scritto che il troppo zelo è nocivo invece di
essere giovevole. Forse avrei dovuto insistere un po’ di più, ma talvolta mi
faceva cader le braccia il vedere come tu non riuscissi a comprendere le mie
insistenze. Credo utile perciò di insistere ancora una volta, avvertendoti: 1°
Che nelle tue lettere è bene che tu non mi parli di altro che delle cose familiari,
nella forma più chiara e perspicua che è possibile. Naturalmente devi pensare
che chiarezza deve essere intesa non solo per me, ma per chiunque altro può
leggere la lettera, senza conoscere i fatti a cui ti riferisci, chiaro significa appunto che non presenti niente che non possa apparire come tale.33
Vi fu leggerezza o ingenuità da parte di Tatiana in quegli accenni ad una recensione sulla Storia d’Europa, o vi fu qualcosa di più grave, e non certo da parte di
Tatiana? Ancora dubbi. Di certo, aveva così termine il più significativo ed impegnato tentativo di stabilire una comunicazione su questioni relative alla linea politica
del partito comunista e della stessa IC. Ma Gramsci se dovrà rinunciare a comunicare per la “via letteraria” le implicazioni politiche della sua analisi del fascismo
come forma moderna della “rivoluzione passiva”, continuerà a riflettere e ad elaborare sulla strategia. Mentre ancora nell’ultimo Congresso del PCI a Colonia si prevedeva una futura, prossima crisi del regime fascista e si annunciava la rivoluzione
proletaria, quando la soggezione alla direzione staliniana inchiodava l’azione dei
partiti comunisti alla nefasta formula del “socialfascismo”e nello stesso tempo si
profilava l’agonia della Repubblica di Weimar e il nazismo era alle porte, Gramsci
analizzava le ragioni del consenso nei confronti del regime fascista, ragioni economiche, sociali, politiche, culturali; ricercava il dialogo con il suo partito, perché
l’obiettivo della Costituente fosse al centro dell’azione del partito comunista, in
33
GRAMSCI-SCHUCHT, op. cit., p. 1044. Cfr. anche nota alla stessa pagina e la testimonianza di Fontana e
Garuglieri sull’improvviso inasprimento dei controlli nel carcere.
219
Tra Gramsci e Togliatti. L’ultimo dibattito: le lettere su Croce
quanto capace di incidere sul blocco che si esprimeva nel fascismo e di romperlo:
questo era, nel pensiero di Gramsci, il passaggio necessario per avviare una nuova
fase democratica, in cui tornassero ad essere protagoniste le classi lavoratrici, svegliate dalla “rivoluzione passiva”.
220
Raffaele Colapietra
Benedetto Croce,
presidente del Partito Liberale Italiano (1944-1948)
di Raffaele Colapietra
1. Classi sociali e realtà politica
Mentre gli alleati entravano a Roma, il 4 giugno 1944, Benedetto Croce concludeva con un importante discorso1 il primo congresso del partito liberale delle
terre liberate, che istituzionalizzava in certo senso, a Napoli, la leadership da lui
tenuta di quello specifico movimento politico fin da quell’embrione di adunanza
organizzativa cittadina che si era raccolta il 9 febbraio precedente2 ed a prescindere,
s’intende, dal ruolo individualmente protagonistico da lui rivestito già all’indomani
dell’8 settembre, e ben prima e ben più complessamente di quella tragica data, quanto
1
Oggi col titolo Il Partito Liberale, il suo ufficio e le relazioni con gli altri partiti in Per la nuova vita dell’Italia (19431944) ora in Benedetto CROCE, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Bari, Laterza 1973, 2 voll.: vol. I, pp. 119 e segg.
2
Cfr. sub data, Benedetto CROCE, Quando l’Italia era tagliata in due – Estratto di un diario in ibid., da
vedere anche 23 febbraio 1944. In essa Croce aveva sbozzato quel rifiuto pregiudiziale di un programma
economico che sarebbe rimasto costantissimo in lui e che ha fatto parlare forse un po’ ottimisticamente di
aperture, proprie di questo periodo, ad un radicalismo non alieno da accentuate venature riformistiche larghe
ad abbracciare lo stesso comunismo ed il cui unico documento sarebbe rappresentato dal foglio dattiloscritto
distribuito ai primi del 1943 e pubblicato ne «Il Mondo» 1° marzo 1966, in cui si parla a tutte lettere di
statizzazione, partecipazione ai profitti, tassazione progressiva, assicurazioni sociali, il tutto nella prospettiva
di una ‘giustizia sociale’ altrimenti, in quanto tale, anche e soprattutto sotto il profilo terminologico, altrettanto tenacemente esorcizzata dal Croce, che il 9 febbraio si era limitato ad auspicare, non meglio precisandolo, quel provvedimento “che, in concreto, e nelle condizioni date, promuove, e non già deprime, la libertà e la
vita morale e civile” ed il 4 giugno a parlare di un liberalismo “puro” in quanto svincolato da preconcetti
monarchici e liberisti, ma anche e soprattutto da possibili degenerazioni democratiche vaghissime rimanendo
le modifiche da apportare “nella produzione e distribuzione della ricchezza e nell’ordinamento del lavoro”. Il
“mortificante egualitarismo” delle “palle da bigliardo” della democrazia è del resto sullo sfondo anche de Il
pensiero politico di Benedetto Croce e il nuovo liberalismo che Macchiaroli stampava ad Alfredo Parente nel
marzo e poi nell’ottobre 1944 e che, allargando al campo istituzionale l’indifferentismo dei liberali, si preoccupava di bollare come “spurio” il liberalismo degli azionisti ove non si fosse ridotto al metodo liberale del
vecchio socialismo riformista (è l’obiettivo che Croce aveva indicato ad Omodeo nel suggerirgli l’ingresso in
quel partito a correggerne “contraddizioni e spropositi”; cfr. Marcello GIGANTE (a cura di), Carteggio CroceOmodeo, Napoli, Istituto Italiano per gli studi storici, 1978, p. 210 il 26 marzo 1944 per rivendicarne la
“purezza” ed il radicalismo richiamati per i liberali già nell’agosto 1943 con la nota politica di propaganda del
2 e La libertà innanzi tutto e sopra tutto ne «Il Giornale d’Italia», 10 agosto 1943, oggi in CROCE, op cit., pp.
102 e 108 a sfumare nella nostalgia e nella delusione sentimentale la propria fede monarchica che non riesce ad
adattarsi alla repubblica mazzinianamente invocata da Omodeo “nel lavoro sulle moltitudini […] contro le
tergiversazioni clericali” ed in concorrenza schiettamente liberale, e perciò non condizionata da plutocrati e
conservatori, con i comunisti.
221
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
meno formalmente super partes in rappresentanza della militanza antifascista di
un’aristocrazia cospicua della cultura nazionale.
Classi sociali e realtà politica era del resto, non a caso, il primo messaggio problematico che Croce rivolgeva a Roma liberata dalle colonne del «Risorgimento Liberale» del 10 giugno3 presente egli stesso, in quel medesimo giorno, alla commemorazione di Giacomo Matteotti tenuta felicemente da Pietro Nenni sul luogo stesso del
rapimento e, insieme con Carlo Sforza, breve introduttore della cerimonia, prima di
essere sollevato a spalla dalla piccola folla e trasportato al ponte che dal martire socialista avrebbe preso il nome, lungo il lungotevere Arnaldo da Brescia4.
La rivendicazione individualistica nei confronti di classi disinvoltamente affiancate a masse in quanto “astrazioni e perciò incapaci di pensare e operare” era
infatti quello scritto pronunziatissima, ed allargata ad abbracciare i “demagoghi”
che, ancorché con riflesso negativo, pretendessero d’interpretarle; e Panfilo Gentile
non esitava il 17 giugno a trarne le conseguenze, checché se ne fosse detto o pensato
a Napoli, deducendone che “nel campo politico, non meno e non diversamente che
in quello economico, la libera concorrenza contiene la garanzia della selezione e del
trionfo dei migliori” nonché, il 24 giugno, la definizione per il proletariato reale, e
non per quello fittizio dei demagoghi, di “una classe come tutte le altre, con diritti
e ragioni non superiori a quelli di tutte le altre classi, senza privilegi e senza rappresentanze ideali di eccellenza”.
Il giorno prima, col trasferimento dei membri del nuovo gabinetto Bonomi
da Roma a Salerno e con la firma del documento sul proprio onore dinanzi al luogotenente, dalla quale Croce ministro senza portafoglio si era astenuto, era cominciata l’aggrovigliata vicenda culminata con le dimissioni del Nostro, annunziate
3
Vedilo oggi, come il successivo Libertà combattente del 13 giugno 1944, con i titoli mutati rispettivamente
ne La concezione delle classi come entità reali e Interpretazioni storiche, in Benedetto CROCE, Discorsi di varia
filosofia, Laterza Bari, 1945, vol. II, pp. 163 e 164. Il primo di questi scritti fu prontamente discusso da Mario
Alicata su «L’Unità» del 13 e da Tullio Vecchietti e Franco Lombardi sull’«Avanti!» del 17 e 20 giugno 1944,
inserendosi nel dibattito Carlo Antoni per parte liberale il 21 e replicandogli «Il Popolo» il 24 giugno, a testimoniare la felicissima tempestività non esclusivamente culturale delle annotazioni crociane, tanto più in quanto il 27
sul quotidiano comunista Valentino Gerratana sottolineava il “bagno crociano” dei giovani fascisti approdati al
marxismo che Croce affettava di trascurare e che Parente aveva, con sintomatica attenzione, stigmatizzato.
4
Il resoconto in «Risorgimento Liberale» dell’11 giugno 1944 che durante la clandestinità aveva fortemente
corretto in senso crociano, basti pensare alla “esigenza della reggenza” ed alla collocazione di centro del partito,
vedi rispettivamente 23 novembre 1943 e 15 aprile 1944, l’originaria connotazione prevalentemente einaudiana
del gruppo romano costituitosi nel maggio 1943 e che tra l’agosto e il gennaio 1944 aveva dato vita ad una mezza
dozzina di assai interessanti fascicoli di propaganda in cui anche la suggestione azionista si fa avvertire con forza.
Si veda su «La libertà» del 10 agosto 1944 la documentazione della sgradevole ed infelice polemica suscitata da
Palmiro Togliatti contro Croce nel primo numero de «La Rinascita» del 15 giugno, e ben al di là dalla riproposizione
degli scritti gramsciani del 1932 già fatti conoscere da «Stato Operaio», con un attacco a fondo, e del tutto
esorbitante, contro Per la storia del comunismo in quanto realtà politica che, non lo si dovrebbe dimenticare,
apparso ne «La Critica» marzo 1943, non costituisce altro che l’ultima tessera di un ricco e variegato mosaico
cominciato a costruire giusto sei anni prima con Sul carattere ateoretico del marxismo. Non si trascurino del
resto in Classi sociali e realtà politica la presentazione di Marx “semitico profeta di rivoluzioni e possente creatore di moti sociali, ma privo di vigoroso genio filosofico e scientifico che è genio di verità” con i suoi “concetti
mostriciattoli” che danno vita ad un’arida ed insulsa “mostruosa storia di fantasticherie”.
222
Raffaele Colapietra
dalla stampa il 14 luglio e sulle quali non ci soffermiamo, trattandosi di cosa abbastanza conosciuta anche nel risvolto più o meno scandalistico rappresentato dalla
lettera, certo rimaneggiata presumibilmente da Edmondo Cione nella forma, pur se
non del tutto apocrifa nella sostanza, e pubblicata a Milano dai fascisti del «Corriere della Sera».
Più importa in questa sede cercare di seguire il chiaroscuro che accompagna
l’anzidetta vicenda, e che sembra indicare malgrado tutto negli scrittori di «Risorgimento Liberale» lo sforzo d’interpretare la nuova realtà sociale che sta prendendo forma in conseguenza della guerra e con movenze quanto meno più articolate
rispetto ai rigidi schematismi dottrinari crociani, da Mario Ferrara che affida alla
Costituzione l’espressione e l’inquadramento di tale realtà a Gabriele Pepe pensoso
del recupero politico della piccola borghesia che “dà vita alla nazione”.5
Da Napoli, peraltro, dove si era ritirato Croce, e donde venivano significativi
suggerimenti di cultura e di strategia politica6 fino, il 6 agosto, a Intorno ai criteri
dell’epurazione che, datato Sorrento 12 gennaio ma reso noto in un’atmosfera elettrizzata dal ricordo delle violenze naziste, non poteva non suscitare un vespaio ben
al di là dell’evocazione più o meno erudita del “ripurgo” di borbonica memoria7 da
Napoli, diceva, parte l’8 agosto ed appare il 13 su «Risorgimento Liberale» che
commenta l’evento come grande e confortante chiarificazione allo scopo d’instau-
5
Gli articoli sono rispettivamente del 23 e 27 giugno 1944 (ma il 29 era nella sede liberale romana di via
Frattina che i costruttori romani davano vita ad un’associazione “democratica” che tuttavia si qualificava
apolitica, così come giusto un mese prima era nel PLI che erano confluiti i cosiddetti liberali monarchici
napoletani!). Di Ferrara si veda anche, nello schiettissimo gusto crociano dell’imminente discorso dell’Eliseo,
l’articolo del 14 luglio 1944 sul ventennio di “ribellione” vissuto dagli italiani nei confronti del fascismo,
sconfessato ed espulso dal popolo dopo il delitto Matteotti e culturalmente confinato, dal manifesto Croce, a
Gentile ed ai gentiliani “cacciatori di cattedre universitarie e di ben retribuiti incarichi”, un rifiuto dello Stato
etico vivacemente ribadito da Manlio Lupinacci il 19 luglio, lo stesso giorno in cui il commento redazionale al
ritiro di Croce presagiva acutamente per la sua futura attività politica una connotazione “anche più crociana
di quella che egli esercitò come ministro”. La commemorazione di Giovanni Amendola tenuta sempre da
Ferrara sarebbe stata invece censurata da Vincenzo Mazzei in «Domenica» del 20 agosto 1944 per l’agnosticismo
monarchico, anche questo un influsso crociano, nel quale si era preteso d’inquadrare, e perciò restringere e
soffocare, il delicatissimo problema dell’opposizione costituzionale, quella dialettica la cui attuale mancanza
era stata fin dal 6 luglio deplorata da Lupinacci.
6
La gioventù italiana dolorosa meditazione del marzo 1944 (“Forse nessuna generazione […] porterà i
suoi fiori”), Libertà e rivoluzione da «La Critica» del marzo 1944, La superiorità ai partiti rispettivamente in
«Risorgimento Liberale» del 25 giugno, 16 e 30 luglio 1944 ora in Croce, Scritti e discorsi politici, cit. vol. I, pp.
34 e 38; CROCE, Discorsi…, cit. vol. II, p. 156 fino, il 3 agosto, allo scambio di lettere con Einstein che si legge
in CROCE, Scritti…, cit. vol. II, p. 80.
7
Si veda la lettera del 12 gennaio 1944 in CROCE, op. cit., vol. I, p. 44 in ripresa della prefazione 7 marzo
1943 alla pubblicazione del carteggio di Fabrizio Ruffo che Laterza avrebbe stampato con evidente intento
polemico e politico a danno del ministero Parri nel novembre 1945, testo che si può leggere ora in Benedetto
CROCE,Varietà di storia letteraria e civile, Bari, Laterza 1949, vol. II, p. 184. Nenni avrebbe reagito sull’«Avanti!»
del 19 agosto 1944 con la formula apocalittica del ferro e del fuoco minacciati quale alternativa ad una vera ed
efficace legge sull’epurazione e soprattutto come risposta alla minimizzazione del problema delineata da De
Gasperi al convegno napoletano della DC a fine luglio, ripresa il 17 agosto su «Ricostruzione» da Enrico
Molé e fortemente a livello giuridico da un manifesto elaborato già il 10 luglio ed apparso su «Domenica» del
20 agosto 1944 a firma, tra gli altri, di Astuti, Capograssi, D’Avack, Dominedò, Giannini e Jemolo.
223
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
rare un costume politico8 tutto nuovo, un comunicato annunziante la fusione del
PLI con la democrazia liberale di Raffaele De Caro, tutta una selva di telegrammi
congratulatori ai savants che avevano patrocinato l’operazione, Croce, Orlando e
De Nicola, e la soddisfatta constatazione di come “i due movimenti politici concordino sostanzialmente in un orientamento progressista e democratico tendente a
realizzare le più ampie riforme sociali nell’ordine e nella libertà”.
Si tratta, è appena il caso di rilevarlo, di un linguaggio che sembra fatto apposta per attirare gli strali caricaturali del Croce dei bei tempi: ed invece egli lo accompagna con un proprio personale commento nel quale, dopo aver precisato l’avvenuta comune rinunzia ad ogni pregiudiziale monarchica, non si esitava a proporre
l’aggiunta di quella che nel liberalsocialismo di Guido Calogero era stata beffeggiata
come una ridicola coda, e cioè l’aggettivo riformista, già suggerito ad Omodeo in
chiave socialista, ma qui più che mai a rischio di degenerazione nella “mentalità
massonica” per indicare che il partito “è aperto e pronto ad assumere le responsabilità dei tempi nuovi” e ciò nell’evocazione veneranda di Giovanni Giolitti e di quel
vaghissimo riformismo più o meno democratico di cui due mesi prima si era parlato al Teatro Bellini con i liberali napoletani.9
Vale la pena peraltro di rilevare che queste novità venivano ad inserirsi tutt’altro che agevolmente nelle prese di distanza dai conservatori in particolare e dalle
fusioni in genere che, in nome del liberalismo ‘puro’, Alfredo Parente aveva ribadito a Napoli su «La Libertà» il 22 giugno e Niccolò Carandini in modo da farsi
smentire sulle stampe il 26 luglio, lo stesso giorno in cui sottentrava a Croce come
ministro senza portafoglio.
E tuttavia l’allineamento sulla direttiva e sull’interpretazione crociana dell’episodio e dell’atmosfera che lo giustificava e determinava era rapido ed integrale,
non tanto e non solo a proposito dell’epurazione, il 1° agosto Mario Pannunzio, il
7 Gabriele Pepe, allargando il discorso alla gioventù traviata da un becero fascismo
antiborghese ed anti-intellettuale, quanto proprio in merito alla contestata fusione,
e stavolta alla luce della “sana provincia italiana”, che entrava a sostenere nel Mezzogiorno, con la saggezza e forza dell’equilibrio e senso dello Stato, la resistenza
“nella prossima rivoluzione”10 e che Pepe il 27 agosto su «Domenica» leggeva quale
portatrice “di un tipo di civiltà tipicamente europea e profondamente nostra, la
8
Non la pensava così Togliatti intitolando con una certa ovvietà Cavallo di Troia il suo commento ne
«L’Unità» del 19 agosto 1944 che in «Rinascita» agosto-settembre 1944 sarebbe stato sviluppato senza particolare originalità.
9
Da «L’Unità» del 18 luglio e dall’«Avanti!» del 26 luglio 1944 risulta che la concentrazione, arieggiante la
vecchia democrazia costituzionale di Giolitti, evocato a tempo e luogo ne La superiorità ai partiti ed esorcizzato vivacemente da Guido Gonella su «Il Popolo» del 17 agosto 1944 in nome della tradizione cattolica
popolare e moderna tenacemente antigiolittiana alla Sturzo, andò a monte per la pregiudiziale repubblicana e
le pretese egemoniche di Mario Cevolotto leader della democrazia del lavoro.
10
Lo accennava «Risorgimento Liberale» del 20 agosto 1944 e lo avrebbe esplicitato Lupinacci il 16 settembre su «Il Giornale» di cui il giorno prima aveva come direttore inaugurato la pubblicazione con le crociane
Verità attuali oggi in CROCE, Scritti…, cit, vol. II, p. 25.
224
Raffaele Colapietra
civiltà del piccolo centro rurale, delle famiglie rurali e piccolo borghesi” che andava
dunque schiettamente conservata e valorizzata attraverso l’immissione della democrazia meridionale dei ceti medi e della piccola proprietà nelle grandi fila liberali.
Questa pagina mi sembra di fondamentale importanza per intendere l’immobilismo arcaico ed intimamente reazionario che, sotto il profilo sociale, si cela
dietro gli orpelli ideologici, razionalistici, anticlericali, di certa sinistra liberale che
sarà al centro dell’atmosfera culturale ‘frontista’ degli anni successivi, specialmente
nel Mezzogiorno, con vistosi influssi di populismo eversivo ed emotivo sulla politica e la cultura dell’estrema sinistra.
A noi compete per il momento limitarci a registrare questa tendenza (che
vedremo ancora largamente documentata) osservando sintomaticamente che anche
Roberto Lucifero, in quelle settimane al centro di un vasto movimento di unificazione monarchica meridionale ed autore di un libro significativo11 reputava il 15
agosto su «Italia Nuova» insostenibile la permanenza dei liberali nel CLN dopo la
fusione che rendeva anacronistica la persistenza autonoma di un PLI in quanto tale,
come lo stesso Croce aveva adombrato due giorni prima12 e possibile, viceversa
finalmente, la costituzione di un governo ‘omogeneo’ su quella base schiettamente
conservatrice e meridionale che affascinava anche il radicale Pepe e che sembrava
tutt’altro che discara agli Alleati.
È appunto questa base, al contrario, che Mario Pannunzio, il cui retroterra
culturale europeo e le cui inclinazioni politiche si volgono verso la democrazia socialista già tra gli autonomisti del partito di Nenni, si sforza di negare e vanificare.
Lo vedremo così il 20 agosto contestare che il liberale sia “un partito di pochi
intellettuali, di qualche illuminato industriale e di vari gentiluomini di provincia”
(si tratta invece di “partito progressista che considera la realtà dell’oggi”, un’avance
concretista a mezzo tra La Malfa e Salvemini), il 29 agosto definire tout court il
11
Si tratta di Umanità della politica accentrato sulla natura essenzialmente esecutiva dello Stato, il potere
legislativo appartenendo ai cittadini ed il giudiziario all’etica, sulla valutazione esclusivamente economica, e
non politica, da attribuire alla politica economica dello Stato, sul rifiuto della monopolizzazione della vita
pubblica da parte di un singolo gruppo di partiti (il CLN), tra i quali inesorabilmente affiora una “dittatura di
parte” (il PCI), sulla condanna del suffragio universale ed in genere del sistema dei partiti politici responsabili
di aver consegnato il potere agli “incoscienti” determinando la decadenza del parlamentarismo, una perfezione assoluta e infallibile racchiudendosi nello Stato simboleggiato dalla figura del monarca rispetto al governo
“relativo e mutevole”.
12
La fusione, aveva precisato Croce in un’intervista a «Il Tempo» che appariva contemporaneamente ai
documenti già citati del 13 agosto 1944 e può leggersi ora in CROCE, op. cit., vol. II, p. 62, “doveva necessariamente accadere, perché, lasciando da parte le differenze teoriche e storiche tra liberalismo e democrazia, sulle
quali io stesso ho molto battuto, e che tengo ferme, sta di fatto che, nell’uso sempre nuovo che assumono le
parole, (sic!) democrazia nei paesi liberi d’Europa e d’America è diventato sinonimo di quel che noi chiamiamo liberalismo […]. Il liberalismo democratico accetta, secondo le circostanze storiche, monarchia o repubblica, solo se questa gli garantisce la libertà”. Ma le critiche continuavano a piovere da ogni parte, Giovanni
Conti sulla «Voce Repubblicana» del 29 agosto ravvisante “forza negativa […] ostacolo opposto al progresso
del paese” in un’operazione che rievocava “uomini del passato ed errori del passato”, il richiamo crociano a
Giolitti che anche Tommaso Fiore deplorava il 3 settembre all’Università di Bari mentre la redazione di «Rinascita» nell’agosto-settembre 1944 insinuava il malcontento della borghesia settentrionale dinanzi ad un
risultato così vistosamente ragionalistico.
225
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
liberale un partito giovane e prendersela sintomaticamente col “conservatorismo
dei rivoluzionari” dei cui “miti impossibili” è giocoforza sorridere, così come anche della “ingenua propaganda dei neofiti marxisti”, botte che sembrano alludere
scopertamente agli appassionamenti di Gabriele Pepe.13
Coronamento di questa impostazione ‘moderna’ venuta fuori quasi per contraccolpo e reazione alla fusione con i democratici liberali, è il discorso che il 2
settembre il leader dei giovani Niccolò Carandini pronunzia al Teatro Brancaccio,
divenuto in quei mesi una sorta di passerella di rappresentazione e propaganda per
le principali personalità della nuova democrazia.
Carandini giustifica con “alta intenzione e pratica necessità” la discussa fusione “colpita ingiustamente da giudizi sommari”, ma risolleva subito le bandiere
del PLI “giovane e progressista” rivendicando crocianamente ad esso una posizione di centro, rigorosamente conservatrice della libertà ma in relazioni “chiare e
perciò buone” con i partiti di massa, al cui blocco socialcomunista i liberali sono
anzi addirittura avvicinati da una comune “aspirazione alla giustizia.”14
Fidente in un compromesso tra statalismo ed individualismo, pensoso d’ammonire i ceti medi ad abbandonare la paura del comunismo, ironico al pari di
Pannunzio sul ‘superficiale sinistrismo’ di certi suoi compagni di partito, Carandini
sembra liberarsi dalla genericità e dalle buone intenzioni solo quando parla, e con
grande impegno, di “parallelismo d’azione” con la DC, con la quale auspica anzi
“duratura collaborazione nella reciproca indipendenza” dal momento che la mancanza di un serio partito conservatore impedisce la concentrazione della democrazia laica.15
Carandini conclude da ministro un discorso che aveva iniziato da uomo politico nel delicato tentativo di enucleare un risultato progressista, o quanto meno
una giustificazione strategica, dalla fusione con De Caro, e lo conclude su alcuni
postulati largamente condivisi, risanamento monetario, né vendetta né punizione
13
Era tuttavia proprio Pepe che su «Risorgimento Liberale» del 10 settembre 1944 doveva esternare la
propria “dolorosa delusione” per il mancato venir fuori, dal consiglio nazionale del PSIUP tenuto a Napoli,
di quella grande democrazia mazziniana, proudhoniana, idealista in cui era lecito sperare evolvesse almeno
una parte del socialismo italiano, alla quale non a caso il 25 ottobre ancora Pepe avrebbe rivolto un aperto
invito scissionista in nome del “riformismo di domani”. Si veda anche Alberto CONSIGLIO, Socialismo al bivio,
in «Italia Nuova» del 4 ottobre 1944.
14
Ma in merito era stato significativamente lo stesso Benedetto Croce a reiterare le sue distinzioni ed i
suoi ammonimenti con Noterelle politiche apparse ne «La Critica» del luglio 1944 non senza una ribadita
squalifica degli orripilanti infantilismi filosofici di Lenin e Stalin. “La libertà – aveva ripetuto Croce – come
principio morale contiene in sé la giustizia e la promuove ed attua sempre, ed anzi non fa altro che questo, ma,
beninteso, attua quella giustizia che è storicamente attuabile […] e non più la giustizia intesa come eguaglianza (sic!) che è concetto matematico e non morale e non politico e non sociale, ed è negato perfino nella Russia”.
15
Ma proprio contro la caratterizzazione inevitabilmente borghese di questa illusoria concentrazione
avrebbe continuato a tuonare il Gonella sul «Popolo» del 20 settembre 1944, il fascismo confinato “nei suoi
covi a rimestare le impure ideologie e le prepotenti passioni di menti malate” se non fosse intervenuta a
valorizzarlo la borghesia.
226
Raffaele Colapietra
nell’epurazione, integrità del territorio nazionale, ma anche con un paio di sprazzi
programmatici ardimentosi, il consiglio di fabbrica come organo di cooperazione
con la proprietà privata, la gestione collettiva della terra quale preambolo alla sua
concessione ai contadini in piccola proprietà privata o governo cooperativistico.
Ben diversa la linea politica più autenticamente crociana che «Risorgimento
Liberale» aveva felicemente presagito fin dall’indomani delle dimissioni e che si
sintetizza nel discorso dell’Eliseo del 21 settembre 194416 alla presenza dell’intero
ministero Bonomi.
Eliminato Vittorio Emanuele e tenuta in serbo la soluzione monarchica magari attraverso il mai accantonato escamotage della reggenza, il nuovo centro di
ralliement, di concentrazione patriottica che stavolta non ha neppure bisogno di
etichettarsi e perciò limitarsi come antifascista17 diventa il trattato di pace, su cui
saggiare la disponibilità e realizzare la subordinazione, se non addirittura l’emarginazione, dei partiti ‘antinazionali’.
La ricostruzione, il movimento partigiano, l’internazionalismo della coalizione antinazista, tutte queste che non erano soltanto parole d’ordine contingenti
del momento, sono assenti nella prospettiva crociana di un’Italia completamente
astratta, astrattamente contrapposta agli ‘invasori’ fascisti (la famosa immagine degli Hyksos donde, storiograficamente parlando, la parentesi dell’heri dicebamus) e
perciò rivendicante “il diritto di stare tra i vincitori”, un appello che solo Saragat
avrebbe raccolto l’indomani sull’«Avanti!» come la “voce stessa dell’Italia” tornata
ad una tradizione liberale non più che interrotta dal fascismo, quel metodo liberale
del riformismo socialista, insomma, che Croce aveva evocato al Teatro Bellini e che,
nelle sue volute patriottiche, risorgimentali e carducciane era in grado di coinvolgere, stemperandone il giacobinismo tutto appassionato e sentimentale, anche un vecchio interventista come Pietro Nenni.18
“Non si tratta – avrebbe ribadito e sintetizzato Croce il 7 novembre dinanzi
al Comitato liberale che aveva poc’anzi sancito, su sua proposta, l’agnosticismo del
16
Per un maggiore approfondimento, cfr. CROCE, Scritti…, cit. vol. II, pp. 87 e segg.
«Il Corriere della Sera» del 23 e la radio repubblicana fascista del 25 settembre riconoscevano a Croce il
merito innegabile ed il coraggio di aver denunziato per primo la “servitù italiana” e la situazione invivibile in
cui le condizioni armistiziali ponevano l’Italia.
18
Non a caso sarebbe stato proprio Nenni a negare il 19 novembre 1944 agli Alleati l’identificazione tra
Italia e fascismo sulla base dell’aneddoto crociano del ciabattino fascista e perciò indispettito col Croce di cui
al «Giornale» del 29 ottobre col titolo Chi è fascista? oggi in CROCE, op cit., vol. II, p. 46 (nel frattempo
Giovanni Cassandro e Giorgio Granata avevano fervidamente risposto all’apertura di Saragat ribadita il 3
ottobre e mancante soltanto di un franco riconoscimento del primato dell’iniziativa privata al quale, per parte
socialista, Umberto Calosso ed Achille Corona aggiungevano ben più gravemente il rifiuto della difesa “in
generale, così per aria” della borghesia fatta dal Croce “senza darle un significato storico articolato”, quel
significato viceversa che i liberali fiorentini, Artom, Medici Tornaquinci, Devoto, Fossombroni, Santoli, delineano in senso progressista all’interno del CLN da cui rimanga escluso un partito conservatore che eviti la
reazione nel Mezzogiorno, come tra il 17 e il 21 ottobre 1944 si legge vivacemente sulla «Nazione del Popolo»
prima del bello e sodo articolo di Eugenio Montale, il 4 novembre, e della partenza per Roma, l’8, della
delegazione del CLN toscano che sarebbe stata protagonista della crisi del primo gabinetto Bonomi).
17
227
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
partito in materia istituzionale19 – di riformare socialmente ed economicamente l’Italia, come certamente si dovrà quando il popolo, tutto il popolo italiano, sarà in
grado di eleggere i suoi rappresentanti al Parlamento, ma si tratta di ridargli ed
assicurargli le condizioni elementari della vita”.20
I liberali, infatti, avrebbe spiegato il 18 novembre Pannunzio ad illuminare
un’arrière pensèe molto significativa, si sono “adattati” alla coalizione ciellenista
del giugno 1944 solo per volontà di concordia, pur disponendo essi delle “più illustri tradizioni di governo”: e la direzione del PLI lo avrebbe confermato l’indomani, precisando che i liberali “non ammetteranno in alcun modo che, attraverso uno
spostamento di forze a loro danno, si preparino le vie di una conquista violenta del
potere e di una soppressione della libertà a beneficio di nuove dittature”.
Il Parlamento di cui parla Benedetto Croce è insomma né più né meno che
un’accolta di savants d’anteguerra, lo slogan azionista per il conferimento di ogni
potere ai CLN non rappresentando altro, leggiamo il 26 novembre, quando Bonomi
ha già presentato le sue dimissioni al luogotenente, con una prassi che costituisce
essa stessa vivacissima materia del contendere, che “il mezzo di screditare il governo di unione nazionale e farne il fantoccio da abbattere al momento propizio”.
I liberali, in poche parole, ribadiscono senz’altro, ovviamente con grande e forse
remotamente concertata agevolazione tattica di De Gasperi, come giusto un anno più
tardi si sarebbe ben più clamorosamente e decisivamente realizzato con Parri, il loro
pesante ruolo di freno all’interno della compagine governativa, forti com’essi erano ora
non solo della presenza sempre attivissima di Croce, della quale si farà cenno più avanti,
ma anche di una coppia d’interventi su «Risorgimento Liberale» esemplari in chiave
anti-ciellenista il 13 dicembre (“il governo non può essere l’emanazione delle parti politiche singole ed associate”) e liberista il 24 allo scopo di “aprire, anzi spalancare le
porte di casa nostra all’invasione, all’inondazione delle merci straniere”.
2. Per una vera democrazia
Nell’intervallo tra essi, il 15 dicembre, Giorgio Granata aveva indirizzato
personalmente a Saragat un invito dal titolo eloquente Per una vera democrazia
quasi a voler forzare i tempi di una rottura dell’unità d’azione fino ai limiti della
scissione all’interno del socialismo, una forzatura a cui reagivano negativamente lo
19
Si veda in proposito CROCE, op. cit., vol. II, pp. 40 e 44.
Si legge in merito su «Risorgimento Liberale» del 24 novembre 1944 l’intervento del Cassandro, la cui
‘prossimità’ al Croce andrebbe precisata e chiarita molto al di là dei risvolti culturali e di quelli meramente
politici, per un’assemblea con equa rappresentanza delle regioni e dei partiti anche se estranei al CLN, attraverso vecchi parlamentari, tecnici e sindacalisti “all’infuori di pretese monopolistiche”, la Consulta, s’intende,
ma in un clima tutt’altro che ‘convenzionale’ come appariva, e veniva in effetti prospettata, la Costituente di
Nenni. Ma nel frattempo quest’ultimo, e per lui l’«Avanti!» del 9 novembre 1944, non esitava a tracciare
senz’altro di reazionario l’atteggiamento del Croce e di poco netto e leale sul problema istituzionale quello
del PLI di cui andava pertanto valutata la funzione progressista o reazionaria per dedurne il limite della
possibile collaborazione.
20
228
Raffaele Colapietra
stesso Saragat contestando il 19 sull’“Avanti!” che potesse essere la borghesia a
presiedere al processo di una ricostruzione autenticamente democratica, sia soprattutto Manlio Brosio, nuovo ministro senza portafoglio con la segreteria affidata a
Leone Cattani affiancato sempre da Cassandro, il quale il 16 dicembre mostrava di
voler accogliere la formula degasperiana di una soluzione di governo tripartita “di
massima” che potesse fare a meno delle singole specifiche componenti partitiche
socialista ed azionista, la “continuità dello Stato” essendo stata sostanzialmente interpretata nell’ambito di una differente valutazione della democrazia, che prescindesse comunque dalle tentazioni reazionarie dalle quali si poteva a torto supporre
che fossero stati contagiati i liberali.
E Croce? Egli il 23 novembre sul «Giornale» di Lupinacci, pur occupandosi
di tutt’altro argomento, non aveva mancato di stigmatizzare le “agitazioni infeconde” e le “questioni inattuali e, direi, accademicamente irritanti” che conferivano
“un che di goffo e di provinciale” alla vita pubblica italiana: e con questa tematica
non aveva potuto fare a meno di misurarsi nei giorni successivi, e aggrovigliatissimi, della crisi del primo ministero Bonomi, qui, il 29 novembre, ispirando la conferma di fiducia al presidente dimissionario nell’auspicio di un governo “fondato
sui partiti ma non di partito” quale quello contro il quale i socialisti non esitavano
ad invocare “un’opera di salute pubblica”, a prevenirne gli eventuali risvolti monarchici ed antidemocratici di cui erano i liberali a sopportare le maggiori responsabilità, lì, il 1° dicembre, facendo confermare l’appoggio “anche nel caso di un’eventuale deprecabile mancata partecipazione di altri partiti”, qui, il 13 dello stesso mese,
protestando espressivamente, ma prendendosi dal «Popolo» una vivace rimbeccata, contro “la formula di moda la quale differenzia i partiti, non secondo le idee
direttive ma secondo le cosiddette masse”, lì, due giorni più tardi, nell’intervista a
Cecil Sprigge per la Reuter, pubblicata il 24 dicembre sul «Il Tempo» ed il 27 sul «Il
Giornale», deprecando la subalternità che ancora una volta il Bonomi aveva dimostrato nei confronti dei partiti politici in quanto tali anziché “comporre il ministero
in modo più organico e meno meccanico” ed agitando una volta di più lo spauracchio di “qualche estremismo con le congiunte tendenze alla dittatura.”21
Ancora una volta, insomma, il problema centrale della meditazione politica
crociana, abbracciante e comprendente in sé tanto la polemica antimarxista quanto
la religione della libertà, rimane quello impostato ed enunciato nel discorso di Oxford
del 1930 contro l’antistoricismo vitalista ed irrazionalista, le “turbe nemiche” del
mondo contemporaneo contro l’individuo liberale, occidentale e cristiano, una chiusura drastica, una frattura irrimediabile, una visione squisitamente intellettualistica,
e solo latamente morale, della lotta politica, di remota ascendenza aristocratica e
risorgimentale fin dai tempi dei discorsi pedagogici di oltre trent’anni addietro.
Posto che l’educazione popolare ottocentesca non è riuscita a rendere le masse
21
Si vedano rispettivamente La Germania prepara la terza guerra mondiale ora con titolo modificato in
CROCE, op. cit., vol. II, pp. 18 e 77 per la lettera 10 pubblicata 13 dicembre 1944 e vol. II, p. 71 per l’intervista
Sprigge con la presentazione di Nenni, “carduccianamente” calda di simpatia umana.
229
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
politicamente e tanto meno scientificamente pensanti, sicché non resta che procurare di sottarle ai miti, onde i demagoghi le agitano e le inebriano22 le Considerazioni sul problema morale del tempo nostro, datate Sorrento 15 dicembre 1944 ed apparse nel marzo successivo sul primo “Quaderno” de «La Critica» come il più
significativo forse tra i lavori crociani di questo periodo, non possono che prendere
a loro volta le mosse della confutazione ennesima della “forza misteriosa e prodigiosa” del “mito delle masse” ma per approdare, in una confutazione a sua volta
tutt’altro che nuova dell’irrazionalismo antistoricista e vitalista che non ammette
soluzione di continuità tra comunismo e fascismo, ed alla rovescia, ad una calda
celebrazione della razionalità non soltanto occidentale ed europea ma specificamente tomistica e cristiana che chiudeva il circolo aperto due anni prima con Perché non possiamo non dirci cristiani ma ora in una situazione politica generale radicalmente alterata che non poteva non responsabilizzare a fondo il liberalismo, e per
esso il partito che lo rappresentava e Croce che lo presiedeva ben al di là del
‘prepartito’ delle precedenti riflessioni teoriche, nei confronti di una presenza tutt’altro che esclusivamente dottrinaria e spirituale, e che si avviava con chiarezza a
divenire preponderante o quanto meno protagonista (“razionali dobbiamo mantenerci e vivere perché cristiani, e profondamente cristiani perché razionali: e cristianesimo e razionalità, se anche ora sembri il contrario, non possono essere mai sorpassati e antiquati”).
Lo scritto crociano23 era stato preceduto da messe a punto che avevano insolitamente suscitato pronte e vivaci reazioni nel campo stesso più latamente omogeneo a quello del Nostro, sintomo questo di un’insofferenza crescente che l’appressarsi della conclusione della guerra, e perciò anche, per quanto attinente all’Italia,
del suo esito istituzionale e costituzionale, non poteva che rendere sempre più concitato, Correttezza nei concetti politici, il cui pedagogismo eccitava entro le quarantott’ore la replica drastica di Antonio Calvi (“non credo sia arbitrario distinguere
[…] perché tutta la storia dei partiti politici è stata di frazioni e di gruppi contrastanti”), Libertà e forza, la cui machiavellica identificazione Saragat rendeva di carne e sangue “nei lineamenti fraterni dei partigiani”.24
E tuttavia, per quanto attiene più strettamente al PLI in quanto tale, l’odg
unanime che concludeva i lavori del comitato nazionale riunito fra il 1° ed il 3 mar-
22
Verità politica e mito popolare ora in CROCE, Discorsi…, cit. vol. I, p. 161 con la data generica 1944 che
qui si colloca a fine anno per opportunità logica e cronologica.
23
Già in Pensiero politico e politica attuale, 1945 ora in CROCE, Scritti…, cit. vol. II, pp. 139-159.
24
Da «Risorgimento Liberale» del 21 e 23 febbraio 1945 (quest’ultimo lo stesso numero in cui appare la
replica di Calvi) le postille crociane sono ora in CROCE, op. cit., vol. II, pp. 159 e 212, l’articolo di Saragat è
sull’«Avanti!» del 24 febbraio 1945. Non si trascuri invece su «Nuova Europa» del 21 gennaio e «Mercurio»
del 28 febbraio 1945 l’avance che Pepe e Riccardo Bauer rinnovano al socialismo di Saragat e di Silone come
“movimento umanistico europeo”, affinché liberi le sue ideologie da ogni irrazionalismo e particolaristico
interesse economico per confluire nella libertà quale “specchio consapevole della solidarietà umana”. E si
ricordi la replica di Einaudi La forza solo contro la forza a temperare le idee crociane («Risorgimento Liberale» 9 marzo 1945) donde un’interessante inchiesta promossa da «Città Libera».
230
Raffaele Colapietra
zo 1945 con un discorso del Croce deplorante ancora una volta, significativamente,
l’assenza di un raggruppamento che in modo esplicito si definisse di destra per
lasciare il centro sotto la rassicurante ipoteca liberale25 non faceva che confermare,
dalla relazione Cattani al discorso Brosio che ne aveva caratterizzato e dominato lo
svolgimento e la stesura, il saldo compattamento del partito intorno al suo presidente, semmai con un’accentuazione che non poteva non venir notata e sottolineata
alla vigilia della liberazione e del più o meno temuto scatenarsi del vento del Nord26.
L’unanimità liberale si scontrava peraltro, sintomo di un drammatico obiettivo
isolamento del partito, con l’unanimità o quasi delle reazioni contrarie, Guido de
Ruggiero, dalle colonne de «La Nuova Europa», la bella rivista dell’azionismo moderato da lui fondata e diretta con Luigi Salvatorelli, prendendosela con “l’arbitrio di una
irragionevole passione” a cui ci si esponeva col persistere nell’agnosticismo istituzionale, i monarchici di «Italia Nuova» irridendo alla pretesa liberale di rappresentare il centro quando la destra rimaneva scoperta, Franco Lombardi ponendo dall’«Avanti!» quella
scelta tra conservatorismo ed “esigenza liberale nel seno del programma socialista” che
erano stati i liberali a sollecitare a Saragat e che ora si ritorceva a loro danno, pena la
scomparsa del partito e il suo dissolversi in un “prepartito” di crociana memoria e tutt’altro che inteso e vissuto dal Nostro come tale.
Se del resto Cassandro non riusciva ad invocare che una “intrinseca necessità” per la scelta centrista mancando purtroppo (Granata) una destra “intelligentemente conservatrice”, e Cattani giustificava l’agnosticismo con l’opportunità di
evitare un’opinione passionale che, sotto nuove suggestioni totalitarie, avrebbe potuto far degenerare in tal senso la repubblica o nel dispotismo la monarchia, unica
solida acquisizione, nel ritorno allo Stato prefascista che più o meno direttamente
ne discendeva, rimaneva quella dell’iniziativa privata e dell’economia di mercato,
alternativa alla quale, insisteva Cassandro,27 non era che una pianificazione necessariamente autarchica, e perciò dittatoriale.
25
Si veda CROCE, op. cit., vol. II, p. 217.
L’odg, prendendo le mosse dal centrismo di Cattani e della sua pratica identificazione tra monarchia e
repubblica secondo ben noti capisaldi crociani, auspicava un rinnovamento dello Stato senza sovvertimenti
rivoluzionari né privilegi né distinzioni di sapore classista, ampie riforme sociali in ordinata libertà sulla base
di una rete di medi e piccoli proprietari, difesa della lira e freno alla circolazione, consulte regionali, l’iniziativa privata, “base più che mai necessaria della nostra ricostruzione e della nostra vita economica” salvo casi ben
precisi e delimitati d’intervento statale. Quanto a Manlio Brosio il suo heri dicebamus ultracrociano esorcizzava e rovesciava il privilegiamento della giustizia sociale a scapito della libertà, segnatamente in campo economico, meritando l’inattesa lode di modernità antitradizionalistica da parte de «La Città Libera» testé nominata, la rivista ufficiosa che nella stessa sede liberale di via Frattina, sotto la direzione di Giorgio Granata,
aveva iniziato le pubblicazioni il 15 febbraio 1945 con uno scritto classicamente antimonopolistico di Einaudi
ed uno tecnocratico ed industrialistico del suo brillante luogotenente, ed il più alieno dall’influsso crociano,
Guido Carli.
27
Forniamo le indicazioni bibliografiche di quanto citato nel testo «La nuova Europa» dell’11 marzo 1945,
«Italia Nuova» del 4 marzo 1945 con una bella immagine giornalistica (“Il senatore Croce chiede ansiosamente
che un certo numero di uomini dabbene, di ex fascisti o fascisti convertiti si stringano in partito politico e si
chiamino di destra, quasi ad altro scopo che per evitare al partito liberale di fastidio di dover occupare una
posizione bersagliata”), «Avanti!» del 20 marzo 1945, «La Città Libera» dell’8, 15 e 22 marzo 1945.
26
231
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
Non mancava che l’accenno polemico al concordato ed alla convenienza di
una sua revisione, venuto fuori dal Consiglio nazionale comunista del 10 aprile
1945, per appaiare a questa economica l’altra fondamentale acquisizione ideologica
e culturale che volgarizzava le recentissime Considerazioni crociane, la difesa dell’unità nazionale contro la minaccia di un conflitto religioso “che è una forma, e
delle peggiori, di guerra civile”.28
Ci sarà il vento del Nord? si era chiesto maliziosamente «Risorgimento Liberale» fin dal 12 aprile, quando ancora si combatteva duramente sulle propaggini
appenniniche: ed aveva risposto rovesciando la domanda retorica a favore di quel
che Rodolfo Morandi avrebbe chiamato letterariamente “muro di gomma” e delle
sue funzioni benefiche, “gli italiani del Nord […] si attendono molte cose da noi”.
Che cosa precisamente? In primo luogo, forse, la dissoluzione della “nebulosa”
armata della Resistenza in un processo di differenziazione a Roma già avanzatissimo,
con i socialisti per la Seconda Internazionale, per Trieste, per il divorzio, a distinguersi confortevolmente, secondo i ripetuti auspici liberali, dai dogmatismi e dai
tatticismi comunisti («Risorgimento Liberale» 18 aprile 1945).
Secondariamente, ed assai più probabilmente, atteso il fervore patriottico e
regionalistico che saliva in proposito con solo apparente incongruenza unitaria specialmente da Napoli,29 i grandi ideali morali e civili di libertà, tolleranza, carità,
bontà, di cui Pannunzio disserta con eloquenza il 30 aprile dinanzi al cadavere di
Mussolini, non soffermandosi magari tanto sul significato e la portata della caduta
del fascismo quanto, in certo senso con l’afflato shakespeariano che aveva animato
28
«Risorgimento Liberale» dell’11 aprile 1945, mentre Croce il 5 maggio ribadisce l’agnosticismo istituzionale in termini più che mai vaghi (“Io sto per l’Italia e per la libertà”) in una lettera a Gabriele Pepe che
avrebbe inaugurato la rivista «Ethos» nel settembre successivo e che fa da chiaroscuro all’aspro laicismo del
Pepe anche in queste circostanze, mentre Granata sul «Risorgimento Liberale» del 14 aprile procurava di
staccare anche Nenni dall’abbraccio dello spregiudicato realismo comunista, riconducendo anche lui, con
Silone e Saragat, all’interno della dialettica de La doppia anima del socialismo. Il Pepe dava nel frattempo alle
stampe La crisi dell’uomo che, partendo da un’analisi puramente intellettualistica così del fascismo come della
democrazia, visti rispettivamente quale prodotto della controriforma e degenerazione del liberalismo, approdava ad una drastica negazione patriottica di qualsiasi internazionalismo così rosso come nero, ad una nebulosa
subordinazione del lavoro al “pensare e volere rettamente” con accentuazione del momento morale di tale
subalternità che si rispecchia nell’immorale razionalismo comunista contrapposto al socialismo quale “nuova
redenzione umana ed associazione dei lavoratori”, la prima da affidare all’azione educatrice privata di “parrocchie laiche” dedite a “cose buone e semplici” nell’intesa tra proletariato e piccola borghesia che richiama il
Mezzogiorno utopistico caro al Pepe, come sappiamo, con tutto il suo filisteismo patriarcale che appunto nel
“buon gusto” e nella “superiore cultura” della piccola e media borghesia con la sua “aspirazione umana al
progresso ed al miglioramento sociale” rinviene una soluzione che si pretende di etichettare come socialista.
29
Ne è protagonista «Il Giornale» a partire dall’appello di Epicarmo Corbino alla stessa storica data del
25 aprile (“Ricordiamoci di esser tutti italiani”) fino al giudizio municipalistico di giusto un mese più tardi,
sempre di Corbino, a gloria dello scugnizzo “il più grande partigiano” nella spontanea autonoma liberazione
di Napoli contrapposta all’opera di coloro che “hanno avuto aiuti tali che solo l’ottenere risultati più modesti
avrebbe potuto essere oggetto di sorpresa (sic!)” passandosi attraverso ammonimenti tempestivi (“A nessuno
è consentito tentare di accaparrarsi un predominio […]”), lo sfruttamento altrettanto ben calcolato dell’ escamotage triestino a danno del “nazicomunismo o comunfascismo che dir si voglia […] erede del fascismo”, la
pregiudiziale della continuità affermata da Guido Cortese contro le “strida di passioni malsane” di cui parlava
Lupinacci ne «La Città Libera».
232
Raffaele Colapietra
Croce alla fine della grande guerra di fronte al crollo dei quattro imperi secolari,
sottolineando imparzialmente il “tremendo ammonimento” che da ciò viene ad
ogni aspirante dittatore.
Senonché la “unità di intenti e di propositi” tra Roma e Milano su cui ci si era
fiduciosamente assestati il 6 maggio veniva revocata in dubbio, drammaticamente,
dal viaggio al Nord di quello stesso Cattani che poche settimane innanzi era stato in
prima fila nel propugnare piuttosto avventurosamente la ‘soluzione Nenni’ con i
liberali all’Interno per il nuovo ministero di finalmente ricostituita unità nazionale,30 sì da far mutare in modo radicale l’impostazione del PLI e da far incentrare
anch’essa, col valore e il vigore di un’alternativa globale, posta soprattutto alla DC,
sul problema dei CLN non solo nei rapporti col governo, ma specialmente nella
prospettiva della edificazione del nuovo Stato democratico.
E poiché una prima proposta Cattani, il 15 maggio, per i CLN come primi
nuclei delle future giunte comunali e provinciali paritetiche fra i sei partiti della
coalizione, e quindi con una visione parlamentaristica che distorceva alla base la
‘filosofia’ resistenziale insita nei comitati militanti, era restata senza esiti apprezzabili, Parole chiare del 29 maggio prospettò senz’altro “uno stato di anarchia che è
sboccato nella tirannide” quale risultato inesorabile comprovato dalla storia di tutti
i governi dei comitati, a cui l’esarchia aveva il dovere di provvedere preliminarmente onde evitare “una rivoluzione in forme pseudo-legali […] il soffocamento della
pubblica libertà”, quel gran quadro di delinquenza comune, di esigenza di
elementarissima sopravvivenza fisica, che Leone Cattani delineava contemporaneamente nella sua famosa lettera ai colleghi segretari di partito, un’apocalisse il cui
sottofondo politico è costituito assai più modestamente dall’alternativa tra esarchi
e CLN, a rappezzare la quale non poté che escogitarsi la soluzione Parri come il
minor male temporaneo ed il meno sconveniente tra i compromessi possibili in uno
stato di cose in corso di decantazione naturale senza l’ultimativo irrigidimento di
Cattani.
Esso era stato congenialmente anticipato, sia pure con ovvia ben diversa misura e discrezione, da Benedetto Croce a Firenze il 27 maggio proemiando ad un
discorso di Medici Tornaquinci con un appello alla legalità ed all’ordine pubblico
contro i propositi di violenza, di sopraffazione e di dittatura che solo le circostanze,
e la sede fiorentina, sconsigliavano di attribuire scopertamente ai CLN.31
Questi ultimi erano del resto già il 2 giugno ridotti a funzione meramente
consultiva accanto ai prefetti in preparazione delle elezioni amministrative sicché
30
Non potendo nel caso attuale soffermarci a dovere sui risvolti squisitamente politici e partitici del
nostro argomento, ci limiteremo a ricordare che il difetto comune all’impostazione liberale, sublimata e crollata con la manovra Cattani per De Gasperi ai tempi del ministero Parri, consiste nel presupposto egemonico
della ‘grande intesa’ laica con i socialisti, quasi che la DC potesse essere posta in merito in condizione subalterna
o addirittura strumentalizzata.
31
Si veda CROCE, op. cit., vol. II, p. 226 l’intervista alla Reuter del 23 maggio 1945 che anticipa i medesimi
concetti.
233
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
Croce, che di ritorno a Napoli aveva incontrato De Gasperi a Roma, poteva il 4
giugno cordialmente abboccarsi con Nenni, sempre presidente in pectore, il cui discorso al S. Carlo si era accentrato sulla rivendicazione di Trieste italiana, sicché i
due patrioti risorgimentali e carducciani si erano trovati d’accordo, recitava un comunicato ufficioso, “nel riconoscere la necessità di una soluzione che aderisca alle
esigenze del popolo italiano”. 32
Di lì ad un paio di settimane Ferruccio Parri sarebbe stato presidente del
Consiglio senza che qui sia possibile né opportuno seguire nel dettaglio le vicende
della crisi se non per quanto attiene al Croce ed al ruolo rilevantissimo in essa da lui
rivestito tra la residenza dell’Aventino, via Frattina ed il Quirinale, la presidenza
della giunta liberale, l’ipotesi di De Gasperi, la candidatura dell’asse Croce-Nenni
nell’escludere la soluzione cattolica mentre Meuccio Ruini metteva fuori la sua ‘pensata’ geniale d’invitare Parri nella capitale e Forza e violenza, la noterella dal nostalgico titolo soreliano33 metteva in guardia il 10 giugno rispetto al vero o presunto
revival terroristico nella ripresa quanto meno formale del vento del Nord.
Esso, com’è noto, si andò rapidamente placando nei giorni seguenti non senza che la perdita dell’Interno, implicita nel tramonto della candidatura Nenni, scombussolasse i liberali e più li esasperasse, e particolarmente il Croce, la richiesta “precisa e ferma”, il 18 giugno, del dicastero dell’Istruzione da parte della DC, la “presa
di possesso del partito democristiano, cioè della Chiesa cattolica, dalla quale sia
pure soltanto idealmente questo partito dipende” di cui avrebbe parlato il Croce
nella lettera ben nota del 20 a De Gasperi34 nell’autodefinirsi “personalmente disonorato” se mai avesse acconsentito ad una capitolazione siffatta, che per il momento, si sa, poté evitarsi con la conferma di Vincenzo Arangio Ruiz e l’offerta alla DC
di un quarto portafoglio.
Ma il definirsi obiettivo di una “Italia di Parri”, quella “umile Italia”, quel
“partigiano qualunque” di cui in quelle settimane di tarda primavera non poté non
parlarsi e con una concretezza tangibile, indiscutibile, pur nel molto ciarpame retorico e nella moltissima fumisteria politica, tutto ciò allarmava irresistibilmente i
partiti, preoccupava le forze politiche qualificate, con un avvertimento implicito ad
esaminarsi, a contarsi, per riprendere in mano la situazione in prima persona.
Ancora una volta «Risorgimento Liberale» prendeva la testa di questa cam-
32
Nenni aveva del resto prospettato una maggioranza legale a socialisti e comunisti in conseguenza di
libere elezioni, l’unità d’azione essendo intesa e definita nel suo contenuto primario di “adesione senza riserve
e senza sottintesi delle classi lavoratrici alla democrazia”: e «Risorgimento Liberale» aveva per parte sua titolato
il 3 giugno La ragione ha vinto in commento al ridimensionamento dei CLN, sicché anche le schermaglie in
corso in proposito su «La Città Libera» tra Lupinacci e Pepe venivano a perdere molto di mordente.
33
Si veda CROCE, op. cit., vol. II, p. 164.
34
La lettera fu pubblicata in luglio a chiaro scopo provocatorio da Giulio Andreotti, Concerto a sei voci,
p. 96 e riproposta in ottobre 1945 su «Ethos» con una seconda lettera crociana a Pepe (entrambe in CROCE, op.
cit., vol. II, p. 231) che riportava alla Conciliazione l’esordio nel filosofo di una specifica “corda anticlericale”
che in questo senso può essere assunta come giannoniana, non vogliamo dire massonica, rispetto al costantissimo laicismo risorgimentale.
234
Raffaele Colapietra
pagna, già tra giugno e luglio 1945 riprendendo il ‘muro contro muro’ di Cattani
una volta messa da parte ‘la grande intesa’ con i socialisti ed assumendo su di sé
l’onere integrale dell’opposizione conservatrice all’interno dell’esarchia, il disagio
dei ceti medi, i tumulti pugliesi non colpiti da “punizione esemplare” in quanto
“opera di partiti organizzati, che usano la violenza come strumento di conquista
del potere, l’intimidazione come mezzo per avvincere i tentennanti” quelle sopraffazioni agresti nei cui confronti, senza rinunziare ad ogni possibile venatura classista, “c’è soltanto la colpevole complicità con chi pretende di sostituire alla legge il
suo particolaristico e intollerabile arbitrio” mirante tra l’altro a sbarrare ai contadini la strada della piccola proprietà “per ridurli domani a docili schiavi salariati di un
onnipotente governo”, salvo strumentalizzarli oggi con l’arma demagogica dello
sciopero politico “evidente tentativo di deviare il corso di una sana ed efficiente
democrazia verso la strada della violenza e della sopraffazione”.35
Una frattura consapevolmente, sistematicamente imposta con un piano a lunga
scadenza i cui obiettivi consistono nell’isolamento comunista, nella ‘punizione’ della
‘prepotenza’ clericale, nella ripresa se non altro del dialogo con i socialisti, questa la
strategia liberale nell’estate 194536 in attesa dell’inizio dei lavori della Consulta e
della riunione subito precedente del Consiglio nazionale del partito fissata al 20
settembre, una data quasi patetica atteso il risultato a cui tutta l’operazione impostata in quella sede sarebbe andata a parare.
«Risorgimento Liberale» vi proemiava in un’atmosfera sua malgrado fortemente commossa per l’insorgere impetuoso del qualunquismo, donde “la sfiducia
nei partiti” insolitamente al primo posto nell’enumerazione del consueto chaier, e
con essa il discredito dei governanti, la negazione del “ciellenismo”, tutto ciò che
induceva a ribadire con forza che “i tempi eccezionali sono finiti” e con essi la
necessità della coalizione di governo e della stessa permanenza in esso da parte dei
liberali ove di essa non si fissassero una buona volta “limiti precisi”.
Il discorso inaugurale di Benedetto Croce37 trascende in verità queste contin-
35
Ho citato e riassunto da «Risorgimento Liberale» del 27, 29 e 30 giugno, 3, 10, 14 e 21 luglio 1945,
protagonisti Pannunzio e Vittorio Zincone con lo pseudonimo di Ricimero (si veda anche con analoga e più
acre aspirazione Cassiodoro de «La Città Libera» che è Vittorio Gorresio). Si veda la prefigurazione della
terza forza fiancheggiante a sinistra della DC coalizzando azionisti, repubblicani, liberali radicaleggianti e
democratici del lavoro non trasformisti che Calvi delinea su «Realtà Politica» del 15 luglio 1945 e Felice
Ippolito vorrebbe condire di neocrocianesimo e rivoluzionarismo gobettiano per accentuarne il carattere
“audacemente riformista” ne «La Città Libera» 16 agosto 1945, salvo due settimane più tardi nella stessa sede
la medesima concentrazione venire assunta da Gentile, Lupinacci ed Armando Zanetti quale promotrice di
una ferma resistenza, spinta fino alla crisi di governo, contro le “ideologie faziose” diffuse dal ministero Parri
ed accolte dall’opinione pubblica “con fastidio ed irritazione”.
36
Da essa risulta pressoché del tutto svincolata l’attività personale del Croce, concentrata in questi mesi
nell’acre e personalistica polemica con Salvemini, nella lettera sulla bomba atomica, nella noterella Russia ed
Europa che ripropone postulati interpretativi vecchi e ben conosciuti, nella lettera al «Manchester Guardian»
e nella noterella Politica irridente all’astratto umanitarismo infondatamente attribuito ai trionfanti laburisti
inglesi, cfr. CROCE, op. cit., vol. II, pp. 182, 188, 189 e 260.
37
Ibid. p. 234.
235
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
genze occasionali ma per mantenersi in un campo ad un tempo ‘metafisico’, come
gli avrebbe aspramente rimproverato Umberto Calosso sull’«Avanti!», nella riproposizione di formule antiche quali “l’ufficio imparziale del pensiero e della cultura” ovvero “l’esigenza superiore ed eterna di vita mentale e morale” addossate sulle
spalle di una borghesia risorgimentalmente, e perciò anacronisticamente, intesa rispetto alle mille sue difficoltà e meschinità dell’ora presente, ed opportunamente
polemico nella squalifica drastica di qualsiasi suggestione regionalistica e della stessa Costituente “molto risonante ma non del pari ancora molto meditata parola”
foriera di un “assolutismo d’assemblea”, di gusto giacobino e perciò senz’altro rivoluzionario ove un referendum preventivo, di cui ora per la prima volta si comincia a parlare, conferendo alle masse tante volte esorcizzate capacità di discernimento e di guida in questo caso assolutamente singolare, non la orienti nel suo iter e
nelle sue deliberazioni.
Queste masse, anche qui per la prima volta positivamente considerate nella
relazione Cattani, debbono pregiudizialmente essere differenziate da quelle tendenti
alla repubblica, circa le quali occorre esaminare “se non siano costituite in maggioranza dai residui più o meno mascherati della repubblica sociale fascista o da sognatori di nuovi sistemi totalitari”, in secondo luogo inquadrate di fatto nella prospettiva
delle “relazioni cordialissime” instaurate, anche qui una novità, con la DC, alla luce
del rispetto per la religione e del tramonto del vieto anticlericalismo di cui pur in
quegli stessi giorni parlava Croce con Pepe, e tutt’altro che in termini ‘vieti’.
Queste relazioni debbono dunque venir sperimentate alla verifica di quelle
complementari ed integrative con i CLN, e qui naturalmente le posizioni si diversificano, dall’estrema destra di Gentile e Lupinacci per l’uscita dai comitati in nome
di una continuità istituzionale puramente e semplicemente affermata, alla destra
moderata di Edgardo Sogno fautrice dell’isolamento intransigente all’interno dei
CLN, fino alla maggioranza dell’80% dei votanti che si raggruppa intorno all’odg
Artom il quale, sottolineato nel paese un “indubbio disagio morale”, chiede anzitutto, all’Einaudi, l’eliminazione delle bardature economiche fasciste e, riconosciute post eventum nei CLN “indimenticabili benemerenze”, ne ribadisce il ruolo
consultivo, provvisorio ed integrativo ormai largamente e quasi pacificamente ratificato.38
“Noi abbiamo il più bello, nobile, ricco, collaudato, programma politico,
quello del liberalismo, sfrondato delle sciocchezze dei vecchi e nuovi fregnoni del
sedicente PLI e principalmente ripulito di quella criminosa e infruttifera cretinaggine
38
Alla specifica iniziativa di Croce, affiancato da Alessandro Casati, si deve l’acclamato odg per la sicurezza nazionale, la garanzia delle minoranze, il controllo sulla gestione internazionale del porto di Trieste,
mentre l’odg nuovamente di Casati, e con lui di Merzagora e Cortese, perché le colonie prefesciste rimanessero all’Italia non faceva che parafrasare quanto Croce aveva auspicato già in una delle primissime interviste
postfasciste, quella dell’8 ottobre 1944 ora in CROCE, op. cit., vol. II, p. 69. Non risulta invece l’adesione del
Croce, che peraltro poco più tardi avrebbe manifestato prevedibile analogo pensiero, alla dichiarazione di
Artom per il ritorno all’uninominale.
236
Raffaele Colapietra
che è l’anticlericalismo di maniera”: queste parole che, a parte la forma, sembravano anticipare la soda sostanza della relazione Cattani, potevano leggersi alla vigilia
dell’adunanza di via Frattina a firma di Guglielmo Giannini su «L’Uomo Qualunque», una sigla che ormai diventa inscindibile, nel bene e nel male, in chiaroscuro o
in contrappunto, da quella del PLI (non vogliamo dire propriamente del liberalismo)
così nell’“accettare e professare” le idee di Benedetto Croce come nel proposito di
realizzare in Europa l’unica rivoluzione necessaria, quella liberale, col collocarsi
“avanti” rispetto alla destra ed alla sinistra tradizionali, una forma insolita, ma tutt’altro che stravagante, d’interpretare popolarescamente la religione della libertà.39
E poiché il 22 settembre su «Italia Nuova» il Lucifero dichiarava di aver riconosciuto finalmente “il Maestro” nella tutt’altro che peregrina, ma fitta di luoghi
comuni tradizionali, “orazione” da lui pronunziata a via Frattina,40 se ne deve dedurre che il compattamento conservatore, per non dire reazionario, alle spalle personalmente di Croce, si fosse organicamente realizzato ben al di là degli schemi
formali del PLI allorché il 26 settembre 1945, all’indomani dell’inizio dei lavori
della Consulta, egli ebbe con Ferruccio Parri il famoso scambio d’idee, o piuttosto
incidente clamoroso, circa la natura più o meno democratica dell’Italia prefascista,
incidente risolto il 27 con la precisazione tra lo storico e l’autobiografico che il
Nostro rivolse al presidente del Consiglio41 e che quest’ultimo avrebbe suggellato
con l’onesta e dimessa replica del 2 ottobre, ma che non può venir scompagnato da
tutto ciò che lo precede e l’accompagna, l’acclamazione a Trieste italiana con cui il
democristiano Paolo Cappa aveva accolto il discorso inflessibilmente repubblicano
del decano e presidente provvisorio Gregorio Agnini, quella ad Orlando ed a Vittorio Veneto che altrettanto tendenziosamente aveva commentato, dai banchi della
destra, le parole di Parri, il CLN “prezzemolo” posto in caricatura da Lucifero, il
fascismo “mostruosa macchina di tortura” per Corbino esclusivamente perché interventista e regolatore in economia, il “feticismo” del CLN ridicolizzato da Cattani
39
Non granché diversa era infatti la coeva ortodossa interpretazione crociana in Lavoro manuale e lavoro
spirituale ora in Benedetto CROCE, Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1949, p. 231 nel delineare la reverenza insuperabile delle masse rispetto agli intellettuali “ancorché rinunzino ad intendere i loro concetti, troppo
difficili per loro”, nonostante la disposizione a loro volta “a servire” che costoro manifestano “democratici o
comunisti che dicano di essere”, i fregnoni, insomma, di cui parlava corposamente Giannini.
40
“Rimanemmo crociani anche quando Croce crociano non era più – ricordava Lucifero con l’occhio
rivolto ad un lungo e complesso passato che non va mai perduto di vista – e da allora noi soli difendemmo la
libertà d’Italia. L’uomo Croce si separò dal pensiero di Croce” fino, s’intende, alla via di Damasco del 20
settembre 1945 in funzione anti Parri ed anti Costituente.
41
Si veda CROCE, Scritti…, cit. vol. II, p. 199 con l’annotazione tendenziosissima circa l’ispirazione “sovietica” del giudizio di Parri e la scarsità delle adesioni che esso avrebbe raccolto. Si ricordi del resto che, in
un’intervista immediatamente rilasciata al «Tempo», Croce non aveva esitato a dichiarare: “La democrazia
deve coincidere, nel pensiero dei comunisti, con quella del loro partito. L’applauso dei comunisti sta chiaramente ad indicarlo”. Si veda invece l’importante intervista Brosio al «Giornale del Mattino» del 6 ottobre
1945 che, nel tramonto del ciellenismo e nell’esclusione degli opposti radicalismi del fronte popolare e del
qualunquismo, auspica la concentrazione democratica di “larghissimi ceti” comprendenti le sinistre ma senza
“avventure rivoluzionarie”.
237
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
al pari di Lucifero, insieme con la politicizzazione dei sindacarti e l’artificiosa esasperazione della questione istituzionale “ad avvelenare la nostra vita nazionale”.
Tutta quest’atmosfera avrebbe trovato la sua sintesi e la sua sublimazione nel
discorso che non a caso al di fuori della Consulta, il 3 ottobre al S. Carlo, sarebbe
stato pronunziato da Nitti sullo sfondo irrequietissimo che fa da cornice alla lotta a
distanza tra qualunquismo e ciellenismo come autentici protagonisti del momento,
ma non può a sua volta andar disgiunta dalle confutazioni che il parere del Croce
aveva incontrato immediatamente nell’aula medesima di Montecitorio, il democristiano Piccioni, il comunista Longo, l’azionista Cianca, il repubblicano Reale, tutti
latamente concordi nello stigmatizzare le responsabilità ed i limiti dei ceti dirigenti
prefascisti i quali, per dirla duramente con Oronzo Reale, “non hanno più niente
da dire in Italia e su di essi non si può costruire la nuova democrazia”.
E tuttavia era proprio accanto ai loro più prestigiosi esponenti, a cominciare da
Nitti, che Croce apponeva la propria firma ad un manifesto diffuso il 17 ottobre
1945, lo stesso giorno in cui «Risorgimento Liberale» auspicava “un atto di generosa
pacificazione”, per la difesa della libertà democratica e l’abbandono della proporzionale, salvo ricorso in merito ad un referendum popolare che sottraesse al ministero la
discrezionalità relativa, sul che conveniva Cattani, egli stesso peraltro perplesso dinanzi ad una così scoperta ed aggressiva difesa notabilare dell’uninominale clientelerale e paternalistica, “opera magnifica di conservatorismo anarchico” come la bollava
con vecchio fervore democratico Luigi Salvatorelli ne «La Nuova Europa».
Erano, l’abbiamo anticipato più sopra, i giorni nei quali Laterza, con squisita
tempestività politica, pubblicava l’opuscolo crociano sulla reazione e l’epurazione
borboniche prontamente commentato a dovere da Gorresio su «Risorgimento Liberale» del 16 novembre 1945, due giorni prima che Pannunzio intitolasse
emblematicamente in senso risorgimentale Le speranze d’Italia il proprio editoriale auspicante “un governo di vera concordia nazionale”, non altro che la riesumazione
della triade di vegliardi a cui Giannini si era rivolto fin dal 10 ottobre col titolo
famoso destinato a far le spese del sarcasmo avversario Salvate la Madre Nostra, i
“solitari esponenti dell’antifascismo” con la loro “lunga esperienza”, per dirla con
Guglielmo Emanuel nuovo direttore del «Giornale», che la pubblica opinione già
designava al governo (e qui è il nocciolo sodo e crudo di tutto l’argomentare) “in
contrapposizione a quello attuale”, un governo dei quarantacinque giorni senza
Badoglio e con la monarchia nell’ombra, e dunque una forzatura restauratrice rispetto all’obiettivo immediato dell’offensiva, il ciellenismo, ed al risultato politico
di essa, la “presidenza al di sopra dei partiti” che si identifica, e sarà proprio Croce
a ratificarlo, con la candidatura De Gasperi, non più l’anti Nenni del giugno 1945,
ma il demiurgo del mito della Ricostruzione, al di là e al di sopra così dell’antifascismo
come della Resistenza fine a se stessi.
Benedetto Croce, ancora una volta, non negava il proprio contributo all’impostarsi di tutta l’operazione, e sia pure nella forma pedagogica che la situazione
ormai suggeriva, alla vigilia delle dimissioni ben calcolate dei ministri liberali, l’intervista al «The New York Times» che appariva in Italia il 21 novembre, a constata238
Raffaele Colapietra
re il pericoloso disordine dell’opposizione suscitatasi contro il ministero Parri ma
giustificandola con le storture della sua costituzione e del suo procedere, a cui la
competenza e il buon senso avrebbero potuto mettere finalmente riparo.
Unità antifascista ai fini dell’unità nazionale, così Cassandro illustrava e motivava l’apertura della crisi prima ancora che il previsto e il preventivato logorarsi dell’esperimento Orlando aprisse la strada irresistibilmente a De Gasperi: e perciò Croce parla il 29 novembre alla giunta liberale42 in senso unitario che vuol essere, ed è,
essenzialmente antinordista perché antipartigiano (“Tutti siamo del pari l’Italia”), non
a caso ravvisando anch’egli in Parri le tendenze mussoliniane ducistiche e dittatoriali
che erano state denunziate già da Emanuel e che sembrano attestare in questa singolare polemica liberale contro il più o meno presunto estetismo dannunziano ed attivismo futurista delle sinistre in genere, ed in particolare del partito d’azione, un residuo
culturale interessante del pedagogismo delle cose sacre e delle grandi parole del Croce del primo anteguerra.43
La natura eminentemente passionale di un atteggiamento del genere, così veemente da coinvolgere lo stesso Croce, è del resto testimoniata come meglio non si
potrebbe dalla fuga in avanti, quanto meno inopportuna, che egli compie con la “lettera scarlatta” che «Risorgimento Liberale» ospita già il 12 dicembre 1945 e quindi,
per così dire, a scatola chiusa,44 nella quale si applaude a De Gasperi come all’uomo
che saprà porre la propria persona al di sopra dei partiti e “compiere il distacco mentale e morale richiesto” che sei mesi prima, presumibilmente, non sarebbe stato possibile con un clericale all’Istruzione, la “presa di possesso” che avrebbe “personalmente disonorato” il Croce del discorso sulla Conciliazione e della Storia d’Europa.
In realtà a lui non importa scorgere in De Gasperi il cattolico (solo in seguito
lo inquadrerà nel razionalismo cristiano ed occidentale europeo) bensì esclusivamente l’anti Parri, il liquidatore definitivo del vento del Nord, l’uomo che avrebbe
posto continuità a ricostruzione come parole d’ordine fondamentali, e perciò un
giudizio squisitamente strumentalistico e politico, privo di qualsiasi sovrastruttura
ideologica, come del resto si poteva verificare un po’ in tutto il variegato ventaglio
della manovra liberale, fino alle punte estreme del Gentile e del Lupinacci.45
42
Si veda CROCE, op. cit., vol. II, p. 248.
Si noti peraltro che la crisi Parri, oltre alle ben note e memorabili stroncature di Omodeo, indusse anche
Gabriele Pepe a fondare «Civiltà liberale» con una presa di distanza assai risentita nei confronti dell’ormai
insanabile orientamento a destra dei liberali, i cui “meschini calcoli elettorali e furori anticomunisti” mettevano a rischio l’essenza medesima dell’antifascismo. Fin dal 1° dicembre del resto, egli, Eugenio Garin, Enzo
Forcella, Ippolito, Abbate ed altri avevano pubblicato su «Realtà Politica» una lettera di dimissioni poi momentaneamente rientrate che per la prima volta denunziava apertamente la sfasatura tra l’azione pratica del
partito e gli ampi orizzonti e compiti ad esso delineati dal Croce, per restare fedele ai quali il vero liberale,
l’autentico crociano, si spostava a sinistra, e magari all’estrema sinistra, per fedeltà consequenziale al maestro,
aprendo un discorso culturale e politico straordinariamente complesso che qui è possibile soltanto enunciare.
44
Ibid., p. 253.
45
Quest’ultimo, lasciata ad Emanuel la direzione del napoletano «Giornale», aveva assunto a Genova
quella del «Secolo XX» sviluppando appunto con Gentile, con Lorenzo Giusso ed Agostino Degli Espinosa,
un’interessante tematica al cui centro rimaneva il socialismo nelle sue multiformi più o meno prevedibili
evoluzioni.
43
239
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
3. Il superamento del “bagno crociano”
È l’eresia liberale o una diversa concezione dinamica e dialettica del riformismo socialista, la percezione del fascismo come una frattura e rivelazione anziché
quale parentesi ed invasione, il superamento del “bagno crociano” in una militanza
attivistica culminata nella Resistenza armata, ciò che rende il partito d’azione l’avversario più vero e maggiore del Croce, incurante che di quel ‘bagno’ si fossero ristorati
anche molti giovani e meno giovani comunisti una volta che essi fossero approdati a
lidi ormai squalificati e combattuti dal Croce da parecchi decenni, da gran tempo
alieno dal seguire con attenzione e partecipazione il travaglio socialista se non in quanto
sfociasse nell’adozione più o meno ortodossa del metodo liberale, paralizzato e sostanzialmente subordinato, l’abbiamo appena visto, ai cattolici della reciproca elisione fra la tradizione storicistica del laicismo risorgimentale e la pregiudiziale ideologica anticlericale suscitata dal clericofascismo, da un lato e, dall’altro, l’altrettanto storicistica imperiosa valutazione del cristianesimo quale componente essenziale di una
civiltà che, malgrado tutto, era quella medesima della religione della libertà e, di fatto,
ben al di là della contrapposizione manichea tra le fedi religiose opposte postulata per
l’Ottocento della Storia d’Europa, il solo garante spirituale e politico di una continuità spirituale, di coscienza, d’ambiente, che trascendeva e dissolveva in sé la stessa
nostalgia sentimentale dell’istituzione monarchica.46
Essa sembrava prender vita, addirittura nella tangibilità fisica di un’evocazione
di fantasmi richiamati sul palcoscenico della storia a testimoniare la continuità, con la
gestazione dell’Unione Democratica Nazionale accompagnata, a metà gennaio 1946,
da un’adunanza della dirigenza liberale che, assente il Croce ed a maggioranza di
quasi due terzi su proposta sintomatica di Gentile, rinviava ogni discussione politica
al prossimo congresso nazionale del PLI, rifiutando di fatto il centrosinistra
progressista alla De Sanctis su cui Pepe avrebbe voluto assestare il partito (e che avrebbe
46
La valutazione del fuoriuscitismo e della sua proiezione europea fa un po’ da cartina al tornasole per
questo atteggiamento crociano nei confronti dell’antifascismo militante, da un lato, tra il gennaio e il febbraio
1946, le gelose riserve ortodosse ragionate dallo stesso Croce sulla Vita di Carlo Rosselli di Aldo Garosci
all’unisono sostanziale di ciò che il ministro Corbino avrebbe rivendicato al S. Carlo in pro del primato e della
primogenitura del maestro ed Emilio Patrissi ripetuto assai più rozzamente alla Consulta, dall’altro, la
deplorazione solenne che alle parole di Patrissi sarebbe stata inflitta dalla Consulta medesima e l’apologia del
fuoriuscitismo tracciata nella stessa occasione crociana da Guido de Ruggiero, che pur dell’ortodossia era
stato con Omodeo il più costante ed autorevole testimone. Pro e contro Elvidio Prisco, la noterella apparsa
nell’aprile 1946, ora in Benedetto CROCE, Varietà di storia letteraria e civile, Bari, Laterza, 1948 vol. II, p. 25,
è un po’ la sintesi di pensiero a proposito di tale ortodossia, e della relativa militanza, mentre Agli amici che
cercano il trascendente pubblicato nel dicembre 1945, nei giorni dell’avvento di De Gasperi, ma scritto in
quelli della fine della guerra europea, ora nel Contributo alla critica di me stesso, rifuso nelle successive edizioni di Etica e Politica, ribadisce una posizione teorica immanentista nei confronti così della religione come
dell’illuminismo che i fatti della politica quotidiana s’incaricavano di smentire, dalla fusione con De Caro al
“presidente al di sopra dei partiti”. Non si trascuri infine la lettera dell’11 febbraio 1946 ad Enzo Santarelli
come prefazione a Il problema della libertà politica in Italia, ora in CROCE, Scritti…, cit., vol. II, p. 311 in cui
è confessata l’origine passionale e contingentemente antifascista della religione della libertà ponendo la sordina, in chiave che si direbbe di reciproco irrazionalismo, a ciò che essa aveva rappresentato nei confronti della
Chiesa cattolica ed in genere dell’antistoricismo di ieri e di oggi.
240
Raffaele Colapietra
goduto di non poca fortuna negli anni del frontismo) e vagheggiando viceversa un
ribadito condizionamento della DC sulla confluenza tra liberali e socialismo
autonomista ovvero, in mancanza di questo “processo di frattura fatale” all’interno
del PSIUP, la costituzione di quel centro della grande destra rinnovata su cui aveva
insisito Brosio con le sue proposte di un triplice referendum a circoscrivere al massimo l’incidenza della Costituente ed a risolvere la questione istituzionale, ma soprattutto con l’accettazione del voto obbligatorio propugnato dalla DC e la cui adozione,
a metà febbraio 1946, avrebbe per la prima volta spaccato decisamente la Consulta in
una lieve maggioranza di destra sull’opposizione di sinistra.47
“Referendum e Costituente s’integrano, sono due momenti di un unico atto
politico”, questa la formula del 22 febbraio 1946 di «Risorgimento Liberale» che
perciò il 1° marzo avrebbe salutato come “conquista della libertà” e “prova di schietta
democrazia” l’ottenuto referendum istituzionale, lodando con accortezza la politica realisticamente pacata e conciliante seguita dal PCI in queste circostanze, sì da
far pensare addirittura a “nuove tattiche e nuovi orientamenti”, un po’ difficili, per
la verità, dopo che il 13 febbraio l’appello ai ceti medi di Ivanoe Bonomi, primo
nucleo concettuale dell’imminente Unione, aveva ribadito in termini squisitamente
crociani la contraddizione insuperabile tra invididuo e masse, dopo che nelle file
liberali si andava ritornando sempre più accentuatamente ad un’atmosfera emotiva
tutta diciannovista48 donde il rinnovato invito di Brosio, a Palermo il 4 marzo, nel
corso del suo improvviso e significativo revirement repubblicano, a sbarrare quanto meno la strada alla marea dell’Uomo Qualunque.
L’appello di Bonomi procedeva frattanto rapidamente sul piano organizzativo
fino a sfociare, dopo tempestose vicende di cui Croce sarebbe stato protagonista,
sia nel recuperare e subordinare Nitti, sia nel mantenere differenziata ed autonoma
la posizione dei singoli partiti del raggruppamento in materia istituzionale, sia soprattutto nello stendere il manifesto programmatico pubblicato con qualche ritocco il 2 aprile 194649 e di cui parleremo tra breve, dell’Unione Democratica Nazionale, il blocco elettoralistico non soltanto differenziato nei confronti dell’Uomo
Qualunque ma in primo luogo concepito con finalità conservatrice anticomunista,
una concorrenza a destra alla DC quale esponente e palladio ad un tempo dei ceti
medi di Bonomi contro i partiti di massa.
Smentita da numerose alleanze locali tra liberali e qualunquisti, la funzione
di centro che ufficiosamente Pannunzio attribuiva al blocco all’atto della proposta
47
Solo col discorso di Teramo del 24 febbraio 1946 Manlio Brosio avrebbe iniziato, fervida mediatrice
«Civiltà Liberale» con sullo sfondo una concentrazione democratica repubblicana, la sua inopinata marcia
d’avvicinamento ad Ugo La Malfa, perdente e secessionista a destra nel Congresso del Partito d’Azione.
48
“La libertà è in pericolo […]. Vogliamo diventare schiavi di un immane sistema? […] Volete vivere in un
mondo in cui si distribuisce la minestra di Stato una volta al mese? In cui ognuno è noto con un numero? […]
La massa è la materia umana la quale non chiede di meglio che di essere plasmata dai capi”, non sono che
esempi del linguaggio schiettamente demagogico di «Risorgimento Liberale» del 27, 31 marzo e 11 aprile
1946.
49
Si veda CROCE, op. cit., vol. II, p. 293.
241
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
programmatica, la sinistra liberale usciva l’indomani dal partito su presupposti polemici non tanto e non solo anticonservatori quanto soprattutto anticonfessionali
nei confronti di una subordinazione alla DC che da destra non poteva che confermarsi e radicalizzarsi in funzione di copertura, un postulato, questo, che sospingeva Pepe ed i suoi compagni di cordata assai più a sinistra, e comunque molto al di là
dell’occasionale fiancheggiamento repubblicano di Parri e La Malfa, di quanto le
loro effettive convinzioni politiche individualiste e tradizionaliste avrebbero consentito, fino ad una convivenza difficile ed acrobatica col PCI da cui sarebbe venuta
fuori, specie nel clima frontista del Mezzogiorno, la figura emblematica dell’“utile
idiota”.50
L’Unione, inevitabilmente, si richiamava in modo espresso al modello di Giovanni Amendola di cui peraltro nel 1924 gli attuali promotori avevano tutt’altro
che condiviso le finalità e le sorti, la libertà degli italiani e la convivenza tra Stato e
Chiesa nella pace religiosa del manifesto crociano non essendo altro che fumosità
generiche al pari, molto più concretamente e gravemente, dell’agnosticismo istituzionale “esempio funesto di diserzione civile” da parte di chi si rimette oggi con
ipocrita ossequio, anche mediante l’arma formale del voto obbligatorio, alla volontà ed alla decisione degli elettori pur altrimenti teoricamente e sprezzantemente a
più riprese “considerati come un gregge di gente immatura a cui non bisogna parlar
chiaramente di libertà”.51
Un discorso liberale si sarebbe peraltro di lì a poco, il 13 aprile 1946,
inattesamente e gioiosamente ascoltato al Congresso socialista di Firenze, quello
memorabile di Giuseppe Saragat che Pannunzio titolava appunto così per «Risorgimento Liberale», quel “colpo di vento infuocato” da cui il letteratissimo scrittore
aveva visto pervasa con un senso “di forza e di stupore” l’assemblea di un partito
che altrimenti sarebbe restato quale “fantasma esangue di altri partiti”, la “contrizione” socialista dinanzi alle istituzioni dello Stato liberale e democratico di cui
avrebbe parlato con ben maggiore freddezza, ma con altrettanta soddisfazione,
Gentile su «Civiltà Liberale» del maggio 1946.
E senza dubbio un’eco di Firenze è nel ritorno all’evocazione di un socialismo pre o post marxista “quasi all’estremo del liberalismo e della democrazia” che
si riscontra il 29 aprile 1946 al Teatro Quirino di Roma nel discorso d’apertura di
Benedetto Croce52 al Congresso nazionale del PLI, ultimo tra quelli dei grandi partiti nazionali, ed affrontato in clima di profonda prostrazione per i catastrofici risultati delle elezioni amministrative, dovuti anche all’approssimazione della segre-
50
Naturalmente, la fedeltà al maestro “autentico” di cui si è parlato più sopra permaneva vivissima, almeno in questi primi tempi, nella sinistra liberale, tipico Gabriele Pepe che già il 13 aprile evocava la religione
della libertà ma, altrettanto ovviamente, nel senso della Storia d’Europa anziché in quello della meschina
cronaca quotidiana.
51
Le citazioni sono tratte rispettivamente da Fernando SCHIAVETTI in «Italia Libera» del 2 aprile 1946 e da
Piero CALAMANDREI in «Il Ponte», del maggio 1946.
52
Si veda CROCE, Scritti…, cit. vol. II, p. 298.
242
Raffaele Colapietra
teria Cassandro, subentrata in dicembre a quella Cattani, di perplessità dinanzi ad
un elettoralismo smaccato come quello dell’UDN intimamente estraneo alla tematica
dei ceti medi tanto appassionatamente dibattuta in campo liberale, di subalternità
tutt’altro che significativa e stimolante alla leadership De Gasperi, di concorrenza
perdente di fronte al neosalandrismo agrario dei qualunquisti del Mezzogiorno.
Posto dunque che il PLI fosse ormai obiettivamente costretto a scegliere tra
permanenti ambizioni politiche di massa, di alternativa e di governo, ed una più
realistica reductio a gruppo intellettuale di pressione e d’orientamento, anche qui
escludendosi la fuga in avanti radicaleggiante e prefrontista degli scissionisti della
sinistra ma dubitandosi tra il fiancheggiamento critico della coalizione al potere e la
laboriosa ricucitura della sinistra democratica, quello che in seguito sarebbe stato,
senza troppo successo, il doppio binario di Ugo La Malfa, non si può proprio dire
che il discorso di Croce rispondesse ad alcuna di queste sollecitazioni,53 “il programma dei programmi” non potendo che in via paradossale, con una svalutazione
che ricorda i discorsi pedagogici del primo anteguerra con la loro apologia dell’aristocrazia e della fede, essere da lui sintetizzato con “il bene del nostro popolo ed il
continuo progresso civile della nostra patria”.
Non è un caso del resto che, chiamato per la prima volta il 2 maggio alla
conta dei voti, il PLI54 condannasse ad una minoranza inferiore al 40%, com’è noto,
l’unica concreta presa di posizione assunta dal Croce, quella per la conferma
dell’agnosticismo istituzionale, nulla rinvenendosi in lui del rappel anticonfessionale
di Cassandro, del pronto contatto col socialismo temperato auspicato da Carandini
alla luce irrinunciabile dell’iniziativa privata fatta propria anche da Brosio ma in
prospettiva repubblicana, del “neoliberalismo” sindacale e “laburista” delineato da
Cattani ben al di là della querelle istituzionale come ulteriore sfumatura dialettica
nei confronti dei fratelli rivali di quella che ormai con sempre crescente chiarezza e
corposità andava definendosi come socialdemocrazia.
Ecco dunque Benedetto Croce candidato alla Costituente55 e con espressa
dichiarazione, il 23 maggio,56 di fedeltà al sovrano che da quel mese avrebbe preso il
nomignolo, “simbolo di unità nazionale e stabilità”, ma soprattutto in concorrenza
clientelare ed elettoralistica con la DC in conseguenza della quale la religione della
53
Perciò Achille Corona sull’«Avanti!» del 30 aprile 1946 lo liquidava come quello di un pedagogo dimentico di sé stesso e della propria stessa funzione pedagogica, “che arriva a cose fatte, per rivedere una
soluzione conquistata senza di lui e assai probabilmente contro di lui”.
54
Se ne veda su «Il Popolo» del 1° maggio 1943, a firma di Giuseppe Sala, l’arguta presentazione caricaturale come “simpatico mondo di sognatori e di affaristi, di idealisti e di arrivisti, di cultori di alte scienze e di
tromboni del vecchio parlamentarismo che stanno miracolosamente assieme”.
55
Si ricordi che a Milano-Pavia Croce non sarebbe stato eletto e così, al pari di Bonomi, neppure a Roma,
risultando penultimo a Napoli tra i sei eletti dell’UDN, poco più di un terzo, quanto ai voti di preferenze,
rispetto a Giannini, ma poco meno di un quarto nei confronti di De Gasperi (di Giannini si vedano articoli
polemici ne «L’Uomo Qualunque» del 10 e 24 aprile 1946).
56
Leggila in CROCE, op. cit., vol. II, p. 317. Fin dal 30 aprile «L’Unità» aveva denunziato “la cortina di
fumo di astratte elucubrazioni” con cui Croce al congresso liberale aveva cercato di palliare con l’agnosticismo
la sua fede monarchica “a caccia di quozienti elettorali”.
243
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
libertà faceva letteralmente bancarotta e l’estremismo confessionale si palesava in
tutta la sua pochezza e crudezza di espediente, Porzio, Cortese e Corbino battistrada in materia, ma anche Croce l’11 maggio rivendicante sul «Giornale» il proprio
favore alla presenza del crocifisso ed all’introduzione dell’insegnamento religioso
ai tempi del primo Gentile (e con la Conciliazione a far di nuovo da discrimine, il
“trescar coi clericali” del fascismo imperante e imperiale degli anni ‘30), il 19 maggio comiziante a Frattamaggiore a fianco di Pasquale Improta vivente esempio del
liberalismo agrario meridionale fiancheggiatore del fascismo, il 30 negante a S.
Anastasia di essere massone e di propugnare il divorzio, parole che «Il Giornale»
riporta il giorno stesso della votazione accoppiando UDN e monarchia ma altresì
“l’atto della religione della patria” rappresentato dal voto monarchico secondo
l’estremo proclama di Umberto II.
Un meritato riposo a Bari attendeva Croce all’indomani delle votazioni, non
senza che egli avesse preventivamente ribadito con Piero Operti la distinzione da
tener ferma tra l’inadeguatezza dell’individuo e quella della monarchia come istituto, e reputato con Maurizio Barendson “effusione di sentimento, manifestazione di
gentilezza, non d’inciviltà” i sanguinosi tumulti monarchici di Napoli, deplorando
bensì le compromissioni elettoralistiche del clero (per la DC anziché per l’UDN!),
ma nulla accennando alla crisi confusissima che in quella prima metà di giugno
1946, dopo la disfatta elettorale ed il disgregamento della coalizione, investiva il
PLI, conducendolo al passo disperato della dirigenza in favore della monarchia ed
all’espulsione di Brosio,57 due episodi forieri della vera e propria paralisi del partito58 proprio mentre le carte subivano un rimescolamento generale nella constatazione unanime della fine definitiva dell’esarchia.
A questa constatazione corrispondeva la candidatura di Benedetto Croce quale
capo provvisorio dello Stato avanzata personalmente da Nenni e circa la quale non
abbiamo qui modo di soffermarci, trattandosi di argomento ben noto,59 se non per
sottolineare l’istruttiva varietà delle reazioni all’interno dello stesso PSIUP nei con-
57
“Il partito liberale – avrebbe scritto epigraficamente Brosio ne «Il Momento» del 28 giugno 1946 – non
ha più la simpatia né la fiducia non dico della sinistra ma neppure delle forze sociali medie italiane”.
58
Il 24 giugno 1946, dopo che il giorno prima aveva preso atto della Repubblica anziché lealmente accettarla come aveva proposto Brosio, che perciò usciva dal PLI così come, per tutt’altro motivo, facevano Corbino
e Medici Tornaquinci (sia Cattani che Brosio erano esclusi dalla Costituente), il Consiglio nazionale del PLI,
presieduto da Raffaele De Caro, si pronunziava per caso nei confronti del gabinetto che De Gasperi metteva
insieme senza i liberali, dopo aver respinto sia la proposta di partecipazione avanzata dai due dimissionari sia
quella di un’intesa col PRI messa avanti da Brosio. A Guido Cortese sarebbe stata affidata, il 25 luglio, l’illustrazione dell’odg liberale di sfiducia anche nei confronti della “tendenza di libertà economica e difesa della
lira” che Corbino, ministro del Tesoro, come tecnico indipendente non avrebbe potuto far convivere con “un
indirizzo pianificatorio ed inflazionistico”, odg che avrebbe visto i liberali all’opposizione pressoché isolati,
come anche nella richiesta di sottoporre a referendum la costituzione, firmata da Bozzi, Martino e Perrone
Capano, e condivisa ed anticipata da Giannini.
59
Si veda piuttosto, subito successivo, l’intervento del 4 luglio 1946 sul «Correyo Paulistano» intitolato
significativamente, all’Orlando ed in chiave esasperatamente patriottica, La depredazione dell’Italia ora in
CROCE, op. cit., vol. II, p. 322.
244
Raffaele Colapietra
fronti del suo leader indiscusso che era peraltro anche il vecchio democratico e
repubblicano patriota risorgimentale e carducciano tutt’altro che discaro a Croce
ed in grado di egemonizzare la sinistra del suo partito, ma non il labriolano e
‘soviettista’ Basso, non l’antico autentico turatiano Modigliani (e con lui Mondolfo
tanto legato a Salvemini), non l’antifascista militante e cospiratorio Faravelli, non il
giovane dissidente dal ‘bagno crociano’ Zagari, quel ‘bagno’ che era invece così
vivo ed operante sul Saragat degli anni ‘30 e della Storia d’Europa.
Croce era del resto in quelle settimane, come scriveva il 7 luglio 1946 a Filippo Burrio60 “non dirò sfiduciato (perché la mia filosofia nega questa parola) ma
talvolta soverchiato dall’accavallarsi e passar degli eventi: senso di debolezza che
attribuisco ai miei molti anni” e che viceversa, com’è chiaro, travalica di molto il
mero elemento anagrafico per dilagare nel disorientamento, nell’oppressione man
mano addirittura soffocante che avvolgono in termini anche umanamente quanto
mai drammatici il pensatore che per decenni aveva predicato la fatalità della
rinascenza, del trionfo, della perenne giovinezza, e che ora comincia a scorgersi
intorno non altro che l’abisso e le tenebre.
Imponendoci peraltro il nostro compito attuale un’ardua dissociazione tra la
pratica funzione politica e partitica del Croce ed il tormentoso rovello di meditazione che le è inesaustamente alle spalle, spesso in dimensioni e forme che non
possono e non debbono che monopolizzare l’attenzione dello studioso,61 ci limiteremo a ritrovare Croce a fine settembre 1946, allorché egli “seppellisce”, per servirci del termine enfatico e generoso degli azionisti superstiti di «Italia Libera», la
fusione del PLI con l’Uomo Qualunque dopo aver passato sotto silenzio la confluenza dei monarchici di Enzo Selvaggi ratificata con Cassandro da un documento
vagamente crociano nell’accenno alla garanzia indiscriminata della libertà e della
pace religiosa ma privo di accenni al Concordato che costituiva la conditio sine qua
non dell’estremismo confessionale di Giannini.
E poiché sulla proprietà privata e sull’iniziativa individuale insiste Cassandro
nel commentare la confluenza sul «Risorgimento Liberale» del 24 settembre 1946
come vecchio postulato liberale da un pezzo più che scontato un po’ in tutte le file
conservatrici, c’è da ritenere che appunto questo superstite ideologismo crociano
nei confronti della Conciliazione, il liberalismo che “non si muove”, per dirla dispettosamente con «Il Buonsenso» gianniniano, abbia costituito l’unico elemento
di differenziazione e riluttanza nei confronti di un problema che le amministrative
60
Benedetto CROCE, Dal superuomo al demiurgo, Bologna, 1952, p. 6.
Si ricordino almeno la lettera del 23 settembre 1946 a Cesare Merzagora I pavidi in forma di prefazione
che si legge ora in CROCE, op. cit., vol. II, p. 323 come contributo importante da ambo le parti al ridimensionamento critico della querelle ebraica con connesso mito antistoricistico del popolo eletto, la prefazione
neorisorgimentale, con l’occhio volto alla Resistenza, alla biografia di Gaetano Bernardi su Silvino Olivieri
ora in Aneddoti di varia letteratura, vol. IV, p. 315, gli scritti di argomento germanico, più che mai tormentosi
e pensosi, dell’agosto e del novembre 1946, intervallati da Osservazioni sulla scienza economica ora in CROCE,
Filosofia e storiografia, cit. p. 224 che, nel rifiuto dell’economicismo totalitario e demagogico, scorge un inganno sistematico derivante in Marx da aridità d’amore e d’entusiasmo “e dello spirito di sacrificio che questo
culto richiede”.
61
245
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
del novembre 1946, col ‘vento del Sud’ di qualunquistica ispirazione, sarebbero
dopo poche settimane tornate a far diventare di scottante attualità.
In preparazione ad esse, il 5 ottobre, Croce aveva parlato all’apertura dei
lavori del Consiglio nazionale liberale62 senza raccogliere la prospettiva ragionata
alla vigilia da Selvaggi per una coalizione tra liberali, qualunquisti e cattolici che,
pur avendo a fine comune la difesa della libertà e della democrazia, non poteva non
tener conto dell’elemento confessionale privilegiato da Giannini, ma parlando anch’egli di “partiti che sono sostanzialmente tutti liberali”, donde l’esigenza di evitarne il “frazionamento”, ma facendo a meno dell’ipoteca cattolica sicché, tanto da
parte sua quanto di Cassandro, l’accento veniva posto esclusivamente sulla lotta da
sostenere contro i partiti “illiberali e dittatoriali”, tra i quali il segretario del PLI
non esitava a porre la stessa DC per certi aspetti interventistici e dirigistici della sua
politica economica che avevano costretto al ritiro l’intransigente “vero liberale”
Corbino.
La libertà quale privatismo inflessibile ed esasperato era dunque la protagonista esclusiva di tutta la tematica con cui il PLI si accingeva ad affrontare la nuova
prova elettorale, Croce aggiungendovi magari discretamente la monarchia e la Chiesa
quali elementi omogenei e coerenti di una comune e concorde forma di civiltà63 ma
Gentile, Lupinacci, Cassandro, Cattani, Pannunzio, facendo a gara nell’esorcizzare
il diritto al lavoro sancito dalla costituzione, nell’auspicare l’inserimento in essa dei
Patti Lateranensi quale garanzia inconcussa di pace religiosa, nel paragonare De
Gasperi a Facta nei confronti di Togliatti fin quando avesse tollerato nel governo la
presenza dei comunisti.64
Si tratta dunque, a parte il persistere presumibile della vecchia intelligenza
alla Cattani secondo la quale De Gasperi potesse e dovesse apparire premuto a
62
Vedi il discorso, col titolo fin troppo impegnativo, Intransigenti sui principi, in CROCE, Scritti…, cit.,
vol. II, p. 326, ed il commento durissimo di Lucio Lombardo Radice su «L’Unità», del 17 ottobre 1946.
63
Rispettivamente nell’intervista del 7 ottobre 1946 a «Risorgimento Liberale» sugli errori della repubblica che potranno di per se stessi restaurare la monarchia ora in CROCE, op. cit., vol. II, p. 331 e nell’importante
conferenza torinese La fine della civiltà ora in CROCE, Filosofia e storiografia, cit. p. 303 con la quale, il 28
ottobre al Teatro Carignano in sostegno della campagna elettorale di Cassandro, Croce esortava a combattere
contro “l’imminente paurosa barbarie […] ciascuno di noi, nella sua cerchia e nei suoi mezzi, pro aris e focis,
per le nostre chiese e le nostre case, difendendole fino all’estremo”, le chiese, s’intende, quali simbolo dell’Occidente europeo e cristiano, rimanendo sullo sfondo la qua e là richiamata e discussa divergenza, se non
addirittura contrapposizione, tra la libertas medievale e guelfa e la “libertà dei moderni”.
64
Si veda «Risorgimento Liberale» del 9, 13 e 30 ottobre, 7 e 10 dicembre 1946, in vari giornali il resoconto del discorso Cassandro del 4 novembre al Teatro Valle a Roma. Va rilevato che Giannini e Patrissi colsero
il peso della freddezza crociana rispetto ad una chiara caratterizzazione cattolica della campagna antimarxista
e la denunziarono a più riprese, il 4 e il 7 novembre 1946, a Napoli, Roma e Torino, insieme con l’angusto
intellettualismo aristocratico contrapposto, per dirla con Giannini al S. Carlo, al “nuovo liberalismo, quello
che cammina, quello che è vivo e che non è il liberalismo antiquato […] una folla di milioni di aderenti” (ma
proprio il ricordo del “rozzo clericalismo” manifestatosi a Napoli in favore della DC doveva bruciare in
particolare a Croce ed al suo auspicio di mantenere la spiritualità laica in arduo equilibrio con quella confessionale contro il nemico comune). E si ricordi anche che il 19 febbraio 1947 alla Costituente sarebbe stato
Togliatti a rinfacciare la richiesta d’esclusione dei comunisti dal governo esclusivamente al PLI ancorché ridotto a “fenomeno folcloristico”.
246
Raffaele Colapietra
destra per quella liquidazione delle sinistre che faceva parte remota di tutta la sua
strategia, di una base che Croce procura alla meglio di mantenere se non altro laica,
ma che per il resto risulta schiettamente conservatrice, quando non reazionaria, sì
da collocare appieno il PLI alla destra estrema dello schieramento politico nazionale, nell’ambizione fallace di poter sgretolare da quell’arroccamento la gran nebulosa
ultracattolica del confessionalismo da parte del liberalismo laico di risorgimentale,
se non settecentesca, matrice.
Questa prospettiva d’azione, il cui esito Selvaggi ebbe il torto di voler precipitare proponendo la fusione immediata con l’Uomo Qualunque, si assestò sulla
piattaforma cosiddetta di Rinascita Liberale resa pubblica l’8 dicembre 1946 e notoriamente patrocinata da Croce su antichi suoi capisaldi del resto semplicissimi e
consentanei alla sua nozione del liberalismo quale ‘prepartito’ costantemente aperto a ricevere ed assimilare chi intendesse confluire in esso, come appunto era sembrato poter verificarsi, almeno formalmente, con i monarchici di Selvaggi, ma non
disposto a compromessi ed incontri a mezza via con altre formazioni politiche, una
linea moderatissima se è vero che furono le astensioni della consorte del monarchico
Lupinacci e quella del monarchico Lucifero a far fallire d’un soffio la manovra di
Selvaggi, non senza che Pannunzio, una settimana dopo il contrastato voto della
sala Capizucchi, esortasse malgrado tutto a non perder di vista il liberalismo “a suo
modo” di Giannini, ed a farlo oggetto, anzi, di seria attenzione, una “intransigenza
sui principí”, in poche parole, che si rinsecchiva nei fatti in un precario e tatticista
autonomismo.
Neppure Palazzo Barberini e la subito successiva crisi ministeriale avevano
del resto fornito ala e respiro a codesto autonomismo, ormai strutturalmente incapace di seguire le travagliate articolazioni della sinistra democratica e soltanto, semmai, pronto ad imprecare qualunquisticamente con Pannunzio, il 28 gennaio 1947,
a De Gasperi che consegnava una volta di più, e forse per sempre, l’Italia a Togliatti,
o con Cassandro, tre giorni più tardi, ad invocare la panacea dell’uninominale e ad
attendere, persa ogni fiducia in Saragat “marxista rivoluzionario” anziché liberale
come avrebbe dovuto e non aveva avuto il coraggio di essere e dichiararsi, che “concordanza di finalità programmatica” consentisse la ripresa del colloquio con l’Uomo Qualunque, per ora semplicemente sospeso.65
65
Sul «Buonsenso» del 12 gennaio 1947 poteva leggersi uno dei più interessanti articoli sulla mancata
professione di fede liberale di Saragat, prodromo della lunga e importante discussione tra Giannini e Togliatti
sul “muro di ghiaccio” che divideva qualunquisti da comunisti, ma pur ne consentiva la reciproca osservazione e valutazione, nonché, a fine febbraio 1947, la presentazione dell’espulsione di Patrissi dichiaratamente
nazionalista e neofascista in nome del liberalismo democratico “amministrativo” che contraddistingueva l’Uomo
Qualunque contro qualsiasi forma di legittimismo ed al quale si era intitolato accortamente il Fronte, su
proposta di Giannini ed a maggioranza di due terzi nel consiglio nazionale, fin da metà dicembre 1946 dopo
la grande affermazione elettorale alle amministrative nel Mezzogiorno. Sul “muro di ghiaccio” si veda in
«Civitas» dell’aprile 1947 il commento di Paolo Emilio Taviani che vi scorge una comune discendenza
razionalistica cartesiana nel cui ambito l’Uomo Qualunque rappresenterebbe “l’individualismo adatto alle
esigenze della politica di massa del Novecento”.
247
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
Al Consiglio nazionale liberale che mediocremente si attestava su questa linea nella manifesta sua impotenza a controllare e tanto meno a dominare gli eventi,
Benedetto Croce indirizzava una conversazione privata66 insolitamente fondata,
dopo che per decenni si era sostenuto l’opposto nella concezione “prepartitica” del
liberalismo e della religione della libertà, sull’esigenza di un “netto programma”
onde evitare di andare popolarescamente “di male in peggio”.
Ma questo programma si riduce poi in buona sostanza all’auspicio disarmato
e patetico che si torni a vivere “come si è vissuto nei tempi che ora chiamiamo
vecchi […]. Se si arriverà a ciò, sarà una fortuna”, un ritorno, giova sottolineare,
tutto ottocentesco nella celebrazione delle “idealità” che avevano animato l’Europa
nel “chiamare l’Africa alla civiltà”, ben al di là di qualsiasi cupidigia di preda o di
arricchimento, una visione tanto patriottica da evocare mazzinianamente “il rispetto dell’indipendenza dei popoli” ma non già, con più o meno calcolato equivoco,
quelli che andavano proprio in quegli anni così laboriosamente svincolandosi dallo
status coloniale, bensì ancora una volta l’Italia, le cui colonie prefasciste le sarebbero dovute dunque indipendentisticamente restare malgrado il contrario avviso del
trattato di pace, che stava per essere firmato e sottoposto alla ratifica della Costituente.
Non è meraviglia pertanto che, del tutto estraneo ad una valutazione adeguata del popolarismo strutturale e sociale di massa che le elezioni avevano pure nella
DC rivelato a luce meridiana, Croce si limiti in merito ad una dimensione non più
che confraternale e clericale, agevolmente egemonizzabile, ancora una volta secondo uno strumentalismo tutto sette-ottocentesco, dal ceto medio “che per cultura e
riflessione sta più in alto degli altri”,67 essenzialmente liberale e, una volta inglobato
ed assimilato il socialismo “ragionevole” nella prospettiva riformista di cui più non
si parla, tuttavia, in modo espresso, sarà in grado, eliminati comunisti e cattolici, di
restaurare i vecchi tempi, sul cui ritorno conviene dunque sperare, magari all’eco di
un rinnovato “Dio lo vuole!” di una vaga crociata, che rianimerà nei cuori degli
uomini “l’entusiasmo disinteressato per il vero, per il bene, per il bello”.
Ad eliminare i cattolici avrebbe senza dubbio giovato la difesa e lo sviluppo
della scuola nazionale, il cui manifesto programmatico, aderente Croce e moltissimi intellettuali d’ogni parte politica non democristiana, era apparso su «Belfagor»,
la rivista di Luigi Russo, il 15 gennaio 1947, denunziando “i segni di una pericolosa
politica scolastica che, lungi dall’aprire la scuola alla rinnovata coscienza nazionale,
vi riconferma l’autorità di forze e di uomini retrivi incapaci di rappresentarla e,
mentre frena iniziative generose, tende a favorire l’interesse privato ed a perpetrare
66
Si veda CROCE, Scritti…, cit. vol. II, p. 349.
Analogamente sul «Tempo» del 2 marzo 1947 Croce parlerà del ceto medio come “formazione morale
e politica” indifettibilmente nutrita di fede liberale “che è il miglior frutto della cultura e della intelligenza”. Si
veda in merito un importante scritto di Giuseppe Maranini in «Europa Socialista», la bella rivista che vedeva
significativamente Silone come direttore e Vecchietti quale redattore capo, e sulla quale andava svolgendosi
un altrettanto interessante dibattito intorno a palazzo Barberini, concluso il 20 aprile da Silone con Perché la
politica deve emanciparsi dalle ideologie.
67
248
Raffaele Colapietra
il disordine e l’arbitrio a danno della serietà degli studi, degli interessi del paese,
dell’autorità dello Stato”.68
E tuttavia proprio il responsabile massimo di quella politica scolastica e l’interprete di una ‘presa di possesso’ che non corrispondeva soltanto ad una metafora
letteraria, il ministro Guido Gonella, era presente, e parlava, il 17 febbraio, insieme
con Croce e Casati69 all’inaugurazione di quell’Istituto italiano per gli studi storici
che era senz’altro fra le più significative delle ‘iniziative generose’ di necessità, peraltro, in bilico tra le esigenze politiche di un mantenimento di contatto con la DC
in quanto tale, in comune funzione antimarxista ed i postulati ideologici di un conflitto nell’ambito del quale i cattolici ricambiavano a mille doppi l’intransigenza
crociana.70
Una sfasatura del genere è testimoniata nel modo più evidente e cospicuo
con la chiusa famosissima del discorso dell’11 marzo 1947 alla Costituente71 il Veni
Creator Spiritus, non esprimendo che un fervido auspicio di solidarietà spirituale
proiettata nel futuro, ma non certo una direttiva d’azione immediata nell’edificazione in corso dello Stato repubblicano, l’esclusione dei Patti Lateranensi dal testo
costituzionale dovendo di necessità convivere con una loro sanatoria di fatto, accantonando l’ipoteca fascista che fin qui, come sappiamo, aveva pesato così
decisivamente in proposito.
Non a caso, se su un punto Croce rompe in battaglia aperta contro la DC, è
in merito al regionalismo, cioè ad uno dei postulati più intelligenti e moderni della
tematica cattolica, che a lui vuole apparire invece, con estremismo risorgimentale
unitario che va ben oltre il patriottico giacobinismo di Nenni, “favoreggiamento ed
istigazione, avviamento pauroso verso un vertiginoso sconvolgimento del nostro
ordinamento statale ed amministrativo andando incontro all’ignoto”.
68
Russo commentava il manifesto con un cenno di lode a Croce ormai disinteressato alle ‘beghe’ del PLI
di cui lasciava di fatto la presidenza nelle mani dell’ ‘agrario’ Carandini, una voce di corridoio che Mario Paggi
riprendeva il 5 maggio 1947 su «Stato Moderno» insieme con la riluttanza all’avvicendamento da parte dell’ambasciatore a Londra.
69
Poco conta a questo proposito che Croce distribuisse imparzialmente nel suo intervento lodi e biasimi
alternando l’imbarazzo nel ministro Gonella e nel suo collega comunista Emilio Sereni (era presente anche
Giorgio Amendola) come riferisce spiritosamente Sandro De Feo in «Risorgimento Liberale» del 18 febbraio
1947.
70
Si veda per tutti il veemente intervento di Igino Giordani sul «Popolo» del 23 novembre 1946 secondo
il quale il liberalismo anacronistico di Croce, battistrada un tempo all’amoralismo fascista e scudiero oggi
dell’immoralismo comunista, aveva preso vita da quando “sull’Europa nazionale si rovesciò lo spurgo d’irrazionalità che da Hegel per Marx e Bismarck scolò in Hitler, rigurgito delle barbarie contro la civiltà, morale
dell’omicidio”. È dunque per protestare contro siffatte aberrazioni, ed altre consimili, che Croce, nel clima
incandescente di dibattito sull’art. 7 della costituzione, di cui più avanti nel testo, precisa in «Risorgimento
Liberale» del 21 marzo 1947 di essere tutt’altro che fautore “della sovranità assoluta dello Stato” e men che
meno nel senso delle farneticazioni hitleriane.
71
Si veda CROCE, op. cit., vol. II, p. 365 ed a p. 394 la lettera al «Corriere della Sera» del 29 aprile 1947 che
conferma, malgrado l’assenza assai commentata all’atto della votazione, il rifiuto del Croce all’art. 7 ma in pratica anche al divorzio, pur se le sue osservazioni di costume non fanno che risalire al periodo murattiano, quando
esso era stato istituito fallimentarmente nel Mezzogiorno, senza alcuna considerazione per uno stato di cose
ovviamente modificato in proporzioni radicali, e riflettendo acquisizioni erudite dalla prima giovinezza.
249
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
Dietro quest’apocalisse, lo vede bene Giannini sul «Buonsenso» del 13 marzo, c’è ancora una volta, e sia pure come “la cosa più intelligente” dell’intero dibattito, il rifiuto dell’evoluzione postfascista dello Stato e della società, nella circostanza quella che già ora viene etichettata e squalificata come partitocrazia, rispetto alla
quale, avrebbe precisato Croce il 30 marzo a Cassandro in partenza per il Congresso internazionale liberale di Oxford72 compito del PLI avrebbe dovuto consistere
“non direttamente ed in primo luogo nel cercare di attirare in sé e guadagnare masse e moltitudini, ma nel possedere sempre meglio sé medesimo”, uno scavo assiduo
di autocoscienza e autocritica che le infiltrazioni monarchiche e le suggestioni qualunquiste73 non potevano in verità che mettere incessantemente in discussione, come
si sarebbe constatato proprio nello squallido sparpagliarsi dei deputati liberali nelle
più svariate direzioni a proposito dell’art. 7.
Se dunque “lo Stato liberale è fallito e indietro non si torna, appartiene al
passato”, come fin dal 7 marzo aveva sentenziato Emilio Lussu negando che la
prospettiva attuale del dibattito potesse essere quella medesima del 1929, la religione della libertà aveva ancora non poco da dire ben al di fuori delle esigue e
discordi fila del PLI, sul socialismo umanistico di Paolo Rossi, ad esempio, che il
14 marzo batteva in breccia il clericofascismo scettico ed opportunista in nome
del ponte “fra il passato e l’avvenire” tornato a gettare da Croce “rappresentante
di quel pensiero liberale che diede all’Italia una struttura unitaria ed un volto
civile”, o su quello analogo e più laicisticamente risentito di Luigi Preti, che il 26
marzo avrebbe rintuzzato la sprezzante stroncatura di Togliatti sul Croce “passato in quest’aula come un’ombra, l’ombra di un passato molto lontano” e che si
riferiva ovviamente al laicismo giurisdizionalista ormai accantonato per sempre,
rivendicando “la tradizione liberale del Risorgimento che considerò sempre la
libertà religiosa come la più sacra di tutte le libertà” e che veniva rinnegata dal
privatismo angusto e intrattabile dei liberali odierni ma non da Croce venuto “a
rincuorarci […] con il suo appoggio morale” e con “l’ultima fiammella” di quella
tradizione.74
72
Si veda CROCE, op. cit., vol. II, p. 383.
Le aveva denunziate Togliatti all’indomani della manovra Selvaggi su «L’Unità» del 18 dicembre 1946
(“Il partito che Benedetto Croce aveva pensato di rendere invincibile battezzandolo col nome di un’idea
universale se ne va a pezzettini, in una lotta ineguale con un branco d’istrioni, senza essere ancora riuscito a
dire una parola sua, aderente alla realtà”) e le avrebbe liquidate il 28 maggio 1947 l’«Avanti!» che pur il 20
marzo con Francesco Perri aveva mostrato di condividere l’unitarismo antiregionalistico crociano come “l’unico
bene che ci è rimasto” (“I liberali non rappresentano più niente, né il giovane liberalismo morto con Piero
Gobetti né il vecchio liberalismo laico unitario che sopravvive nel pensiero di Benedetto Croce, ma del quale
si cerca invano la traccia nell’azione alla Costituente e nella stampa, che è quasi più reazionaria della
qualunquista”).
74
Ma Croce avrebbe presenziato il 28 aprile al S. Carlo all’apologia di quel privatismo svolta da Cassandro
reduce da Oxford, mostrando di essere ben lungi dalla dissociazione obiettiva, implicita nel discorso di Preti,
dall’oltranzismo del PLI, sia «Risorgimento Liberale» del 27 marzo 1947 sull’art. 7 che Badini e Confalonieri
il 15 aprile sul divorzio rifacendosi puramente e semplicemente a Croce senza che questi trovasse alcunché da
precisare.
73
250
Raffaele Colapietra
In realtà il PLI non fa che attendere e sollecitare la fine del tripartito per
iniziativa ormai non più procrastinabile di De Gasperi, che il 14 maggio 1947 è
finalmente accolta da «Risorgimento Liberale» in termini rigorosamente conservatori, prestigio dello Stato, tutela dell’iniziativa privata e dell’ordine pubblico, salvataggio della moneta, ancora una volta, come s’è visto poc’anzi in nota, la presenza
di Croce a Torre Annunziata il 2 giugno ratificando l’etichetta di “governo di salute
pubblica” a quello che vedeva Einaudi al Bilancio, formulata da Cassandro e suggellata dal voto favorevole dei liberali, che a quel ministero avrebbe consentito la
risicata maggioranza.
Benedetto Croce non avrebbe mancato di anticipare autorevolmente tale voto
con l’intervista al «The New York Times» apparsa il 19 giugno sulla stampa italiana, l’ordine, la tranquillità, la difesa della lira, magari anche l’innocua “sana prassi
dei governi liberali che resero grande l’Italia” questi i ribaditi elementi che differenziavano nettamente dai precedenti il nuovo gabinetto De Gasperi, nonostante che
esso portasse avanti e vittoriosamente, ai primi di luglio, il regionalismo tanto ostico al Croce, nonostante il dissenso sulla gestione dell’Istruzione da parte del Gonella
e quello assai più grave che concerneva il trattato di pace, che sarebbero entrambi
venuti al pettine nella seduta del 24 luglio 1947 della Costituente, dopo che il 21
giugno l’altezzosa presa d’atto da parte di Gronchi dell’avvenuta subordinazione
liberale aveva indotto e pressoché costretto Croce in aula ad un’ennesima evocazione di Cavour e di Carducci in ben più modesta funzione di lealismo nei confronti della DC, che infatti plaudiva compatta e compiaciuta anche perché Croce,
con un paio di colloqui riservati con De Nicola dispettosamente dimissionario all’inizio di una lunga serie, aveva ed avrebbe dimostrato di non voler creare in proposito imbarazzo, con una sua eventuale candidatura o successione, a De Gasperi
ed alla sua tranquillizzante maggioranza.75
Tutt’altra cosa è da dirsi per il discorso d’opposizione alla ratifica del trattato
di pace, pronunziato con occhio di storico volto al passato ed al futuro anziché al
presente come commentava riservatamente l’«Avanti!», simile al “maggior tempio
di Pesto sulla palude” per la sua “condanna non solo della politica internazionale
fondata sulla vendetta moralistica ma anche sulla politica interna fondata sui medesimi principi”, come acclamavano con enfasi i monarchici di «Italia Nuova»76 affiancati da «Risorgimento Liberale» che acclamava al “giudice dei giudici […] cittadino di tutte le nazioni […] interprete della coscienza morale di tutta l’umanità”,
ma non, ed è interessante rilevarlo, dai qualunquisti del «Buonsenso» che giudica-
75
Malgrado il permanere di “alcuni punti sostanziali” di contrasto con la DC il voto favorevole, spiegava
Croce il 21 giugno 1947, derivava dalla circostanza imperiosa secondo la quale “il dovere di salvare la nostra
patria primeggia sugli altri […] e ci unisce nel sostegno che diamo al conseguimento di questo unico fine”.
76
Che due giorni prima avevano invece accolto acerbamente le critiche rivolte da Croce agli eccessi ed alle
prepotenze di Gonella, che aveva suscitato “molto scontento ed opposizione negli animi” così come Croce
aveva ben previsto con l’opporsi alla “presa di possesso” nel giugno 1945 “perché temevo gli effetti della lunga
brama e della lunga astensione”.
251
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
vano il discorso più che mai intellettualistico ed astratto nei confronti dell’obiettiva
realtà di un’Italia sconfitta in guerra, quella realtà ben presente anche a Mario Paggi
su «Stato Moderno» per cui i vegliardi, con in testa Croce, “sono crollati proprio il
giorno in cui bisognava dar prova, difficile prova, di aver capito la novità dei tempi.
Le incertezze degli uni e lo sdegno moralistico degli altri di fronte a un problema
così nettamente e squisitamente politico […] li ha definitivamente allontanati dal
gioco politico”.
In realtà Benedetto Croce aveva inteso come tutto morale ed ideologico quel
problema, e vi si era accostato con un atto religioso analogo a quello con cui nel
1929 aveva affrontato la Conciliazione, ma in un atteggiamento mentale e spirituale
se possibile ancora più astorico, privo dell’evocazione laicistica e giurisdizionalista
che allora era ancora in grado di sostenersi su una lunga ed illustre tradizione politico-culturale sette-ottocentesca e fermo ora ad una religione della libertà tornata
ad essere carduccianamente religione della patria senza il crudo volto machiavellico
delle Pagine sulla guerra, ad un neoumanitarismo di pensiero nazionale da Vico a
De Sanctis che soppianta l’internazionale della cultura, né l’Oxford dell’antistoricismo né la Storia d’Europa, insomma, né la parentesi dell’antifascismo che inglobava, giustificava e riassumeva in sé quella dell’anticlericalismo, ma un ritorno consapevole sulla via regia nazionale dove è possibile incontrare Antonio Gramsci prima
e al di là di quella parentesi, nel vivo fervore del primo ventennio del Novecento in
cui entrambi avevano fraternamente contribuito ad edificare e strutturare “una mente
filosofica e storica adeguata ai problemi del presente”.77
Quest’incontro evocativo del passato e di una continuità nazionale irrinunciabile, quella secondo la quale Einaudi e De Gasperi avevano potuto finemente considerare il discorso come la pagina conclusiva della Storia d’Italia in
prospettiva di perpetuità liberale, risorgimentale e patriottica ma non nazionalistica come le destre avevano creduto di poter interpretare78 quest’incontro, dicevamo, è contemporaneo, a fine giugno 1947, all’analisi spietatamente esistenziale
de L’Anticristo che è in noi,79 la dissacrazione sistematica delle grandi parole
ottocentesche e carducciane che si realizza “nel disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nell’irrisione dei valori dichiarati, parole vuote, fandonie, peggio ancora, inganni ipocriti”, e dal “tiranno stupido dell’universalismo astratto”
di settecentesca e più o meno massonica e positivista memoria si fa ora carne e
77
Il discorso sul trattato di pace è in CROCE, op. cit., vol. II, p. 404, preceduto alle pp. 389-393 dalle
risposte ai quesiti dell’Unesco del 15 aprile e 6 luglio 1947 che danno bene la misura della vaghezza velleitaria
in cui in Croce si è sfrangiato il robusto telaio storicista delineato ad Oxford nel 1930 per l’Internazionale
della cultura, la recensione a Gramsci appare a fine giugno 1947 ed è ora in CROCE, op. cit., vol. II, p. 415 senza
che qui sia naturalmente il caso neppure di delibare il dibattito che venne a suscitarsene.
78
Leo Valiani e Paolo Treves avrebbero preteso di far convivere quest’eredità con i dettami della Filosofia
della pratica che Meuccio Ruini si limitava invece a rammentare freddamente al Croce e Togliatti trascendeva
in un’ampia visione della giustizia internazionale dei popoli che chiamava al redde rationem le responsabilità
collettive dell’Italia in quanto tale, obiettivamente inscindibili da quelle del fascismo.
79
Oggi in CROCE, Filosofia e storiografia, cit. p. 313.
252
Raffaele Colapietra
sangue, attraverso una pioggia fragorosa di formule anatemizzanti onde il Croce
lo percuote, in un ben circoscritto e concreto e tangibile gruppo d’individui i
quali “sotto la formula del materialismo storico soddisfano la loro cupa bramosia
e lasciano prorompere l’Anticristo”.
Se perciò la contingenza individua di Gramsci può assurgere, tra mille distinguo e contraddizioni, a rappresentare un momento importante di snodo della cultura e della politica dell’Italia unita sul cui sfondo la presenza crociana è senza paragone protagonistica, l’evocazione imponente dell’Anticristo si rimpicciolisce ben
presto nelle dimensioni più che mai contingenti di un ben preciso e ben determinato partito politico, nei cui confronti, accantonando una volta per sempre il prepartito,
la superfluità dei programmi, la scelta spregiudicata dei mezzi e degli espedienti più
opportuni “dal più cauto al più ardito”, e così via, si evoca ora senz’altro80 “benefico correttore e risanatore” il liberismo di Luigi Einaudi e Giuseppe Pella contro le
“gravi rovine” minacciate dall’“eccesso delle statizzazioni e delle pianificazioni”, il
fascismo figlio del socialismo e padre del comunismo, in poche parole, in una continuità ininterrotta di aberrazioni, non ultima, sembrerebbe di comprendere, la repubblica, che quei figli e quei padri hanno più o meno subdolamente imposto, nata
infatti “non già come conclusione di un processo e di un progresso etico-politico
italiano ma unicamente perché il fascismo avvolse e compromise il re”, un succube,
dunque, e non il principale responsabile del fascismo, come a Napoli si era a più
riprese fulminato allorché la reggenza appariva ancora, ed apparve a lungo, l’espediente più acconcio di salvataggio dell’istituto monarchico.
4. Le dimissioni di Croce
Con L’immaginario passaggio del comunismo marxistico dall’utopia alla scienza che esce nel novembre 1947, alla vigilia del Congresso nazionale del PLI che
sarebbe stato inaugurato dalle dimissioni di Benedetto Croce dalla presidenza del
partito, l’Anticristo già calato corposamente nel materialismo storico e perciò nel
PCI assume dimensioni non meno apocalittiche, ma slargate in proporzioni smisurate da finis Europae dinanzi alle invasioni barbariche, gli Attila e i Totila del discorso di Oxford dirimpetto ai quali non si levano peraltro più i Boezi ed i Gregori
dello storicismo razionalista, cristiano e occidentale, la Russia e il panslavismo “dal
quale la classica Europa rifugge vedendovi la sua propria morte e la morte della
civiltà” e nei cui confronti la classe operaia va distolta dall’utopia di una “impossi80
Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo ed introduzione alla stampa del Mazzini di Francesco de
Sanctis, entrambi del settembre 1947, ora in CROCE, Scritti…, cit. vol. II, pp. 435-437. Come sempre Croce lascia
la porta formalmente aperta, le pianificazioni eventualmente sperimentabili ma “in certe condizioni e con certe
precauzioni” quanto dire nel libro dei sogni. «Stato Moderno» del 20 dicembre 1947, all’indomani della crisi
Lucifero e delle dimissioni Croce di cui si parlerà tra breve, nel qualificare il PLI “partito padronale di estrema
destra reazionario” non aveva dunque tutti i torti nel rifiutare di distinguerlo dal liberismo, la cui relativa reticenza, al pari dell’agnosticismo, non era servita ad altro che a diffamarlo ed a farlo vivere e morire acefalo.
253
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
bile eguaglianza di fatto” che “non potrà mai raggiungere” ed il socialismo “che
nacque ad un punto col liberalismo […] ed è stato operoso e benefico lungo il corso
dell’800” differenziato dal comunismo e più in generale dal marxismo rispetto al
quale i “signori professori” gareggiano in vanità e servilità dimentichi di tutto ciò
che la Russia, e dunque il panslavismo ed il catechismo marxistico, debbono, nel
bene e nel male, al pensiero occidentale.81
Il congresso liberale, abbiamo detto, che Mario Albertini su «Stato Moderno» citato poc’anzi in nota avrebbe commentato lapidariamente come segue: “Benedetto Croce ha preferito l’estrinseco del metodo all’intrinseco della religione.
Oggi il partito liberale non ha più bisogno di lui: ed il liberalismo, che pure l’onora
a maestro, deve, difronte alle sue concrete responsabilità, procedere con lui oltre di
lui”: e Giuseppe Cappi aveva scritto sul «Popolo» il 2 dicembre proemiando al
congresso nelle sue inconcludenti conclusioni finali: “Appunto perché è un metodo, la libertà non può costituire il contenuto programmatico di un partito […].
Prima potersi muovere, giusto: ma poi muoversi, agire politicamente […]. A parte
la difficoltà d’individuazione dei ceti medi, la tesi della loro difesa, portata alle sue
logiche conseguenze, condurrebbe ad una politica classista. Noi attendiamo quindi
ancora di conoscere il programma liberale” e magari su un interrogativo malizioso,
che Cappi lasciava cadere lì con affettata noncuranza, ma che andava insinuandosi
nelle pieghe e negli anfratti della carta costituzionale, quale potesse e dovesse in
concreto essere la funzione sociale della proprietà privata.
Benedetto Croce non si poneva certo un interrogativo siffatto nel deporre la
presidenza il 30 novembre 1947 con parole non più che di circostanza nel ribadire
motti d’ordine e formule ormai consuete nel linguaggio suo proprio ed in quello
formale ed esteriore del partito,82 il centro, la qualità contrapposta alla quantità, la
borghesia “non nel senso materiale ma morale e culturale”, le fusioni “che non
siano confusioni” e così via.
Ma proprio a quest’ultimo proposito, com’è ben noto, il congresso avrebbe
dato torto, sia pure di strettissima misura, a lui, al Cassandro che non aveva escluso
aperture a repubblicani e socialdemocratici, ad Einaudi, ed a Corbino che proprio
sulla pregiudiziale del rifiuto di una fusione a destra avevano ricusato, sia pure con
espressioni temperatissime, di succedere a Croce nella presidenza del partito, ed
avrebbe sancito, dopo discorsi applauditissimi suoi e di Giuseppe Perrone Capano,
la mozione Lucifero per un blocco nazionale della destra borghese nel partito liberale cristiano ed occidentalista mediante l’alleanza elettorale con l’Uomo Qualunque e contro la proposta di Gentile, Cattani e Carandini per un grande partito medio indipendente tra comunismo e capitalismo.
81
Raccolto in opuscolo nel febbraio 1948 L’immaginario passaggio del comunismo marxistico dall’utopia
della scienza presenta una prefazione che si legge in Benedetto CROCE, Nuove pagine sparse, Napoli, Ricciardi,
2 voll.: vol. 1, p. 129 e si sintetizza nella scontata contrapposizione tra il particolarismo del proletariato e la
verità universale.
82
Si veda CROCE, Scritti…, cit. vol. II, p. 453.
254
Raffaele Colapietra
“Da un pezzo – avrebbe postillato l’«Avanti!» del 5 dicembre 1947 dinanzi al
larghissimo franamento seguito alla votazione83 – non ci sono più liberali in Italia
ed è dubbio che ci siano mai stati, a prescindere da alcune grandi personalità del
Risorgimento e del post Risorgimento formati alla scuola e sull’esempio del
liberalismo inglese, e da pochi scrittori, filosofi o parlamentari che hanno cercato, e
non sono sempre riusciti a differenziarsi dai ceti più bestialmente conservatori e
reazionari, e di cui Croce è la vivente illustrazione. Il congresso di Roma ha messo
in soffitta tutta l’eredità laica e progressista del liberalismo”.
Il blocco sarebbe stato stretto da Lucifero con Nitti e Giannini il 10 gennaio
1948, giusto un mese dopo il suo incontro napoletano col Croce che ne era stato
indubbiamente suggestionato in chiave di vitalità ed efficientismo e dopo che su
«Risorgimento Liberale» del 24 dicembre era apparso un programma di formale
ortodossia centrista e crociana a difesa di una libertà “borghese” ed appunto perciò
non di classe.
Tutto ciò faceva sì che il 13 gennaio il Consiglio nazionale, nell’eleggere significativamente De Caro alla successione di Croce acclamato presidente onorario,
approvasse anche a grandissima maggioranza l’accordo elettorale e ratificasse le
dimissioni degli sconfitti al congresso, con l’eccezione di Gentile, assestandosi tutto il partito, o quanto meno ciò che rimaneva di esso, sulla scelta per il Piano Marshall,
la libertà e l’Europa che Manlio Lupinacci contrapponeva il 27 gennaio senza mezzi termini alla miseria, all’oppressione ed all’Asia.
Ma Croce, pur vedendo di massima accolti formalmente i suoi postulati, pur
irritato con gli scissionisti e colpito dall’attivismo di Lucifero, che non dubitava di
prendere contatti diretti con De Gasperi in vista di una grande concentrazione in
difesa della libertà e della democrazia, un cui manifesto illustrativo il Nostro non
avrebbe esitato il 19 marzo a firmare per contrastare la propaganda demagogica
della cosiddetta Alleanza della Cultura promossa dal Fronte, Croce, dicevamo, era
tutt’altro che persuaso della china in cui il partito si era posto, anche se la sua ansietà non assumeva per il momento contorni espliciti e netti, e con significativa
83
Tra i protagonisti, accanto a Pannunzio, la cui successiva esperienza al «Mondo» avrebbe costituito un
momento centrale ed eminente nella storia di una democrazia laica solo parzialmente destinata a confluire
nell’avventuroso calderone del centrosinista, Leone Cattani, fautore nel suo intervento dalla “santità della
famiglia” nell’ambito della civiltà cristiana ed occidentale, dell’autorità dello Stato e della pace sociale nella
prospettiva vaghissima di un “partito di tutti gli italiani che lavorano per il bene collettivo, soprattutto a
vantaggio dei più umili” e tuttavia sospinto ad una opposizione che non avrebbe trovato grazia neppure
presso Croce, inflessibile nel tacciare di “irresponsabili” gli scissionisti alla Gentile con la loro “pericolosa
impazienza” e malgrado tutto fiducioso nella “energia organizzativa” del nuovo segretario Lucifero ed ostile
alla “disgregazione” che sarebbe stata provocata da uno “sconsiderato moto a sinistra” sulla traccia nella
riproposta Rinascita liberale, a metà novembre 1947, e che il Croce tacciava di “ibridismo liberale”, una
corrispondenza importante che si legge in Sandro SETTA (a cura di), Benedetto Croce e la “sinistra” liberale nel
carteggio con Leone Cattani (1947-1948), in «Storia Contemporanea», XIX, n. 1 febbraio 1988, pp. 115-142 e
che va tenuta presente in chiaroscuro a quanto si riassume nel testo.
255
Benedetto Croce, presidente del Partito Liberale Italiano
defaillance psicologica si circoscriveva in amari sfoghi confidenziali con l’amico
Alessandro Casati84, la necessità di evitare il peggio, e cioè un’ulteriore scissione,
anche con minaccia di dimissioni, in attesa di “raddrizzare” il partito “se l’Italia
non andrà in rovina” (28 febbraio 1948), l’aver cercato, e ottenuto, che il partito
“non si sfasciasse del tutto” anche se il suo presentarsi alle elezioni non poteva che
risultare meno logico e dignitoso che non nel 1946, dove pure si era trattato di
coalizioni, ma evidentemente assai più coerenti ed omogenee (30 marzo 1948) in
attesa, ovviamente, appunto del decisivo responso elettorale, alla cui vigilia era lo
stesso Cattani sul «Tempo» ad invitare a votare DC per evitare al Senato una maggioranza frontista.
Il 18 aprile fu quel che fu: e Croce, alla pari di Cattani lo commentava il 26 sul
«Corriere della Sera» dichiarando di non biasimare “coloro che in buona fede hanno stimato prudente non disperdere i voti in una questione che era di vita o di
morte”.
Ma se la libertà rimaneva ben viva e vitale in Italia, non lo era con pari effetto
per il Partito Liberale che Croce, in una lettera diffusa il 3 maggio, deprecava essere
stato sospinto ad un’alleanza con una formazione come l’Uomo Qualunque, già
respinta quando era fortissima ed ora in evidente dissoluzione.
Questa prima pubblica ed inequivocabile presa di posizione del Nostro costituiva il colpo di grazia per Lucifero, che l’indomani reiterava dinanzi al Consiglio nazionale le dimissioni già presentate giusto due mesi prima, allorché gli era
fallito l’approccio con De Gasperi e ci si era dovuti acconciare al meschino rimpannucciamento elettorale ed al suo meschinissimo risultato.
A questo punto, dopo che, per insistenza soprattutto di Corbino, presidente
del gruppo parlamentare autonomo rispetto al partito secondo la vecchia prassi
prefascista, era stato fissato al settembre 1948 il nuovo congresso, Croce incontrava
De Gasperi in occasione dell’elezione del primo Presidente della Repubblica, ed il
15 confidava a Casati che se Lucifero non si fosse effettivamente ritirato dopo essersi impadronito del PLI con quello che era anche a lui Croce appariva un colpo di
mano “noi avevamo tracciato la nostra via sicura: raccogliere intorno a noi le migliori forze del partito e affrontare il nuovo congresso. Ma se ciò non riuscisse
lasceremmo in massa il partito contaminato e faremmo noi un altro partito liberale
[…]. Per ora non dobbiamo abbandonare il posto […]. E perciò non lascio che in
me il disgusto e lo sdegno prevalgano”.
Benedetto Croce è dunque ora per la prima volta non più teorico di ‘prepartito’
o leader più o meno carismatico di partito, ma uomo pugnacissimo di frazione, e
84
Benedetto CROCE, Epistolario: lettere ad Alessandro Casati (1907-1952), Napoli, Istituto Italiano per gli
studi storici1969, pp. 269-272. Si veda anche la lettera 24 febbraio 1948 a Carlo Antoni sempre rancorosa nei
confronti del vero e presunto “sinistrismo” dei dissidenti ma umanissima nella confidenza analoga a quella
espressa al tanto più vecchio amico Casati: “Non ho ragione di essere lieto: ma ho sentito il dovere che mi tocca
da antico presidente a non concorrere al disgregamento del partito con la speranza che si potrà raddrizzarlo
nell’avvenire”, Marcello MUSTE (a cura di), Carteggio Croce-Antoni, introduzione di Gennaro Sasso, Bologna,
Il Mulino, 1996, p. 79.
256
Raffaele Colapietra
perciò naturaliter politico, con alcuni suoi amici ed altri irredimibili avversari, col
“gretto e mal concepito conservatorismo” che va rifiutato al pari dello Stato confessionale, dei monopoli privati, della “tirannica depressione dello statalismo”, in
nome di un’economia di mercato che non riconosca classi ma propugni un’eguaglianza di fatto delle possibilità nella lotta per la vita, così come suonava il 30 maggio un manifesto per la ricostruzione del PLI apparso sulla stampa, primo firmatario
Casati, ultimo Cassandro, quasi a suggellare in un circolo un’ortodossia crociana
che le circostanze rendono più che mai militante.
E di militare avrebbe prontamente, lo stesso giorno, accettato il Croce, dimettendosi da presidente onorario di un partito del quale constatava bensì la divisione e la dissidenza ma non senza affermare apertamente che “i sentimenti e i concetti espressi dai dissidenti sono anche i miei”.
Questo ci sembra il nocciolo centrale e decisivo del documento, al di là della
rivendicazione consueta del ruolo di mediatore del PLI o della presa di distanza
altrettanto prevedibile dall’Uomo Qualunque in meri termini di stile e di gusto, la
rinascita del gregario non come ostentata metafora ma come richiamo all’‘onesto
lavoratore’ di quarant’anni prima, non il pedagogo ma l’uomo di parte, non l’angusta religione della libertà ma la libertà attiva e operante, l’albero crudo e verde della
vita di goethiana memoria.
257
258
Rosanna Curci
I viaggi nel Sud: esploratrici in terra di frontiera
di Rosanna Curci
1. La scoperta del Sud
La scoperta dell’Italia meridionale ad opera dei turisti stranieri può essere
considerata un fatto eminentemente ottocentesco, anche se la passione antiquaria
aveva indirizzato soprattutto studiosi di archeologia verso il Regno di Napoli, in
seguito alla scoperta di Ercolano e Pompei, rispettivamente nel 1738 e nel 1748.
Oltre Napoli e la Campania, però, ci si spingeva molto di rado, perché “lasciarsi alle spalle gli splendidi templi di Paestum e abbandonare gli splendori della corte
napoletana per avventurarsi in terre in stato di degrado e di nera miseria contadina
con il rischio magari di contrarre la malaria non era certo una facile decisione”.1
Fino al Settecento, la fortuna del Grand Tour nel nostro paese aveva coinvolto soltanto una “Italia a metà”,2 escludendo tutte le provincie dell’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna. L’interesse suscitato dalle nuove concezioni romantiche
dell’arte e della natura, associato alla curiosità verso i siti archeologici, inaugurava
ora quella che era stata l’ultima meta del viaggio in Italia come “il vertice di un
nuovo viaggio che si prolungherà con tanti altri viaggiatori nell’Italia meridionale e
nella decisiva scoperta della Sicilia”.3
In un periodo in cui, rimarcando la propensione dei suoi connazionali al
viaggio oltre i confini patri, George Eliot poteva scrivere: “The only remarkable
thing people can tell of their doings these days is that they have stayed at home”,4 e
nel quale qualcosa come 50.000 passeggeri lasciavano ogni anno l’Inghilterra soltanto dai porti della Manica,5 i turisti stranieri in Italia erano soprattutto di nazionalità inglese. Il motivo di questa prevalenza va certamente cercato nel legame in-
1
Angela CECERE, Il mito del Sud nella letteratura di viaggio inglese, in Idea e realtà dell’Europa: lingue,
letterature, ideologie, Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, III serie, 1991-1994, XI, Pubblicazioni dell’Università di Bari, Fasano, Schena Editore, p. 229.
2
Cesare DE SETA, L’Italia nello specchio del Grand Tour, in Storia d’Italia, Annali 5, Torino, Einaudi,
1982, p. 228.
3
Ibid., p. 217.
4
Gordon HAIGHT, The George Eliot Letters, Gordon Haight ed., Newttaven, v. 67. (Trad.: “L’unica cosa
significativa che la gente può dire del suo modo di passare il tempo ai giorni nostri è che è rimasta in patria”).
5
John PEMPLE, The Mediterranean Passion. Victorians and Edwardians in the South, Oxford, Oxford
University Press, 1988, p.1. La statistica è riferita agli anni tra il 1830 e il 1850; nel 1913 questa cifra era
cresciuta addirittura di 660.000 unità.
259
I viaggi nel Sud: esploratrici in terra di frontiere
tercorrente tra lo sviluppo del turismo e quello della civiltà industriale. Sin dagli
albori del Grand Tour, inoltre, le ricchezze che all’Inghilterra giungevano dal commercio e dallo sfruttamento coloniale, avevano permesso ai giovani rampolli dell’aristocrazia di girare il continente in lungo e in largo, avendo sempre come meta
privilegiata l’Italia, che era l’unico paese dove essi non portavano la civiltà, ma venivano ad apprendere le sue grazie. In nessun altro luogo, infatti, gli inglesi avvertivano un senso di inferiorità come nel nostro paese, perché qui quel genio romano di
cui essi si sentivano i naturali eredi nel campo della tecnica e della tecnologia, aveva
dato i migliori frutti nell’arte e nelle grazie sociali.
Nel corso dell’Ottocento, la scoperta del Sud continuò ad opera non solo
di aristocratici, poeti ed artisti inglesi, ma anche della borghesia vittoriana, per la
prima volta coinvolta nel nascente turismo di massa. Colui il quale inaugurò questa nuova concezione del viaggio in Europa, che tendeva a diventare sempre più
simile ad una moderna vacanza, fu Thomas Cook, il fondatore della prima agenzia turistica, che garantiva assistenza durante tutta la durata del viaggio a tariffe
economiche, offrendo a tutti o quasi la possibilità di andare all’estero. Le estremità meridionali del nostro paese restavano, però, mete eccentriche e bistrattate dal
grosso turismo.
Il diffuso luogo comune di cui si servivano i cosiddetti benpensanti vittoriani
per limitare le escursioni dei loro connazionali nel Mediterraneo, secondo il quale il grado di corruzione dei costumi di un popolo era strettamente legato alla sua
collocazione lungo l’asse nord-sud del mondo,6 agiva infatti come forte deterrente
all’estensione degli itinerari turistici italiani anche nel meridione. I disordini sociali che agitavano le province del sud erano visti come il frutto delle condizioni
climatiche, e non del malgoverno dei Borboni prima, e dell’accentramento amministrativo dopo l’Unità. L’effetto nocivo del sole si vedeva perfino nella religione,
divenuta “adorazione feticistica di immagini, di statue, di reliquie”,7 priva di vera
spiritualità. Le alte temperature rendevano “putrido il sangue”8 e impedivano,
pertanto, uno sviluppo adeguato della civiltà. L’Italia nella sua interezza, in realtà, era coinvolta in questo giudizio, esacerbato dalla tolleranza che la nostra società mostrava verso quei soggetti oltraggiosi e sovversivi che erano fuggiti dall’ottuso perbenismo della società vittoriana, andando a formare in diverse città
italiane, soprattutto Firenze e Capri, vere e proprie piccole colonie di omosessuali e di individui eccentrici.9 Molti viaggiatori inglesi, in effetti, associavano il sud
con l’idea di una agognata fuga da uno stato psichico doloroso e da una società
oppressiva. Giunti in Italia, essi sentivano un naturale senso di emancipazione e
6
Ibid., p. 54.
Atanasio MOZZILLO, La Frontiera del Grand Tour. Viaggi e viaggiatori nel Mezzogiorno borbonico,
Napoli, Liguori Editore, 1992, p. 68.
8
Jean Claude SAINT-NON, Voyage pictoresque, in A.MOZZILLO, op. cit. p. 68.
9
Soprattutto dopo il processo contro Oscar Wilde nel 1895, molti furono gli omosessuali che trovarono
rifugio in Italia.
7
260
Rosanna Curci
di libertà. Arrivando nella penisola per lo più alla fine dell’anno, ovvero all’inizio
della stagione invernale, quando il contrasto climatico tra nord e sud era maggiore e di più forte impatto psicologico, essi restavano deliziati dalla mitezza del
clima italiano, ed estasiati dalla luminosità della nostra terra, tanto più sorprendente perché confrontata con il grigiore e l’oscurità del cielo britannico. L’Inghilterra soffriva, infatti, già fortemente gli effetti dell’inquinamento industriale, che
incupiva il cielo già in estate e causava precoci crepuscoli in inverno. L’inquinamento atmosferico era tale che, nel periodo tardo-vittoriano, le finestre delle case
erano spesso fornite di smoke-blinds, reti di filo sottile che dovevano intrappolare
la fuliggine dell’aria esterna10 . L’immersione nella pienezza della natura italiana,
impregnata della luce del sud, in cui nessuna barriera doveva impedire la libera
circolazione dell’aria limpida e leggera, generava così un consolatorio e meraviglioso senso di liberazione in chi era abituato a vivere in una natura così tristemente violata come quella inglese. Il sud del paese divenne, allora, tanto più un
luogo mitico, ove i danni dell’industrialismo e della crescente meccanizzazione
non avevano ancora deturpato l’ambiente e dove il progresso tecnologico non
aveva degradato la natura.11 Certo, l’immagine che emerge dalle pagine di questi
viaggiatori, che descrivono una realtà meridionale incontaminata e primitiva, quasi
un “relitto di medioevo”12 in piena età moderna, è una visione mitica e ideale,
storicamente inaccettabile ma, a volte, accanto a questa lettura idealizzante, essi
espressero anche illuminanti osservazioni sulle cause di quei mali endemici che
attanagliavano le province meridionali.
D’altro canto, l’idea che gli stessi Italiani avevano delle propaggini meridionali del paese era molto vaga e confusa, e tale rimase anche dopo l’unificazione, che
non riuscì ad evitare che si formassero “due Italie”, espressione che diventerà consueta nella terminologia politica meridionalistica, ma che indicava un dato di fatto
riferibile a tutto l’Ottocento. George Gissing così racconta la reazione di una famiglia borghese napoletana al suo progetto di viaggio in Calabria nel 1897:
Entrambi sono allibiti dalla mia eccentricità e dalla mia audacia nell’affrontare
un viaggio solitario nel selvaggio Sud […] Per loro un viaggio in Calabria equivale a un viaggio al Marocco. Come me la caverò in mezzo a gente che parla
solo un barbaro dialetto? Mi rendo conto che la regione è in gran parte malsana? La febbre! Non mi ha avvertito nessuno che d’Autunno cade la neve e
seppellisce ogni cosa per mesi e mesi?13
10
J. PEMBLE, The Mediterranean Passion…, cit. p. 151.
A. CECERE, Il mito del Sud nella letteratura di viaggio inglese, cit. p. 229.
12
Ibid., p. 230.
13
George GISSING, Sulla riva dello Ionio: appunti di viaggio nell’Italia meridionale, Bologna, Cappelli,
1957; cfr. Leonardo DI MAURO, L’Italia nelle guide turistiche dall’unità ad oggi, in Storia d’Italia, Annali 5,
Torino, Einaudi, 1982, pp. 394-395.
14
Vito LO CURTO, La questione meridionale, Messina - Firenze, D’Anna, 1973, p. 15.
11
261
I viaggi nel Sud: esploratrici in terra di frontiere
Ad una conoscenza inadeguata contribuiva anche lo stato di arretratezza delle
reti stradali e ferroviarie che, secondo un’inchiesta del 1860, avevano nel Sud una
lunghezza di appena 160 dei 2000 chilometri di linee che coprivano il territorio
nazionale nel suo complesso.14 Inoltre il Meridione era afflitto dal doloroso fenomeno del brigantaggio, rinvigorito nel corso dell’Ottocento proprio dagli errori
del processo di unificazione e dall’incontrollato risentimento per le mancate leggi
agrarie. I briganti tenevano lontani i turisti stranieri con la minaccia dei sequestri, benché essi non fossero in realtà prede molto appetibili per le difficoltà che incontravano
nel pagamento del riscatto, a causa del cambio. Nonostante la diffusa paura, dunque, tra
i viaggiatori stranieri vi furono solo pochi casi di aggressioni subite in prima persona ad
opera dei banditi locali,15 ma, anche dopo le rassicurazioni che il fenomeno fosse stato
sradicato, contenute nell’Handbook for Travellers edito da Murray nel 1892, fu necessario molto tempo, prima che il timore venisse del tutto cancellato.
Queste terre sconosciute, abitate da “cafoni dai pantaloni di velluto, figure
di contadini primordiali, forse neanche cristiani a pensarci bene con le loro feste
paesane ed i loro santi sconosciuti”,16 in cui sopravvivevano credenze magicoreligiose quali il tarantismo e il rituale della fascinazione, in cui le strade spesso
erano solo dei tratturi, per di più preda di malfattori e di briganti, attrassero,
nonostante tutto, un numero consistente di viaggiatori stranieri per tutto
l’Ottocento. Molti si indirizzarono verso la Puglia, riscoperta ora, dopo essere
stata a lungo considerata terra scarsamente popolata e priva di qualsiasi interesse,
come meta appetibile per le sue molteplici “prospettive paesistiche, archeologiche
e storiche”.17 Essi segnalarono, dove ce ne era bisogno, i disagi dovuti a percorsi
accidentati o alle carenze nell’accoglienza alberghiera, sollecitando gli interventi
del governo, il più delle volte sordo alle necessità delle province più estreme. Le
stesse disastrose condizioni infrastrutturali e ricettive doveva offrire al viaggiatore
ottocentesco anche la Sicilia, che pure non era stata in passato del tutto trascurata
dal turismo. Anche qui non erano agevoli né sicure le comunicazioni all’interno
dell’isola: mancavano le strade e la sola carrozzabile era la Palermo-Catania;
percorribile era anche la litoranea da Messina ad Acireale, ma a sud di Catania la
tratta fino a Siracusa era vietata alle carrozze e alle diligenze, potendo essere
percorsa solo a dorso di mulo.18 Lungo la costa meridionale, poi, le strade
propriamente dette erano quasi del tutto assenti, le uniche vie di transito essendo
spesso sentieri mal tracciati o addirittura letti di torrenti a secco. Eccezion fatta
per gli alberghi di Palermo (e non in tutti i casi), e in parte anche di Catania e
Siracusa, il viaggiatore doveva adattarsi in misere e malandate locande, sudicie e
mal arredate, prive dei vetri alle finestre e, a volte, perfino del materasso, dove
l’ospite era assalito da famelici parassiti che disturbavano e infastidivano il suo
15
Non tutti riuscirono a portare a termine indenni il loro viaggio, però; cfr. il caso del sequestro di
William Moens, in W. MOENS, Briganti italiani e viaggiatori inglesi, Milano, Tea, 1997, cap. V.
16
CECERE, op. cit., p. 229.
17
Francesco SILVESTRI, Fortuna dei viaggi in Puglia, Cavallino di Lecce, Capone, 1981, p. 28.
18
Orazio CANCILA, Introduzione in Salvo DI MATTEO, Viaggiatori stranieri in Sicilia, Palermo, ISSPE, p. VIII.
262
Rosanna Curci
sonno. Per la sicurezza, invece, le complicazioni erano minime, benché i timori
inducessero spesso i viaggiatori a farsi accompagnare da scorte armate. Se è vero
che bande di briganti infestavano le contrade dell’interno, infatti, va detto che i
viandanti forestieri non ebbero mai problemi per questo, persino quando a
viaggiare furono donne sole, che poi narrarono compiaciute la propria impresa.
2. Le viaggiatrici
Curiosamente furono proprio le viaggiatrici, virtualmente più esposte alle
aggressioni, a mettere in evidenza l’assenza di pericoli reali. John Pemble riferisce
l’opinione di Catherine, moglie di John Addington Symonds, in viaggio col marito
in Sicilia, la quale riteneva, in base alla propria esperienza, che due terzi delle storie
che si raccontavano sui banditi fossero solo leggende, benché ci fosse comunque un
fondo di verità che rendeva sconsigliabili lunghi viaggi per via di terra.19 In generale, i viaggiatori nel Sud si preoccupavano di evitare gli itinerari più rischiosi, per cui
la presenza dei briganti “si manifestava attraverso i discorsi degli ospiti, i racconti
iperbolici delle guide, le rare epifanie della mitizzazione popolare”.20 In Sicilia si
giungeva prevalentemente via mare, da Napoli, per evitare il lungo e faticoso attraversamento della Calabria. Ultima propaggine d’Europa, questa regione appariva
ai viaggiatori ottocenteschi come il luogo lontano più prossimo, “un intervallo opaco
tra due grandi civiltà come Napoli e Palermo”.21 Era necessaria una ancora più
forte voglia di avventura per decidere di intraprendere un tour nella terra più selvaggia d’Europa, vero finis terrae cui era concesso uscire dalla natura già umanizzata dalla storia, senza uscire ancora dal confine geografico del vecchio Continente.22
Per questo la Calabria incuteva ancora timore alle viaggiatrici, che solo raramente
ebbero il coraggio di affrontare questa terra dalla natura indomita e selvaggia, regno di tutte le forze più terrifiche e spettacolari.23
Tuttavia, le donne non protette, sempre più numerose entro la classe dei viaggiatori, dopo aver affrontato i tratti più impervi e accidentati del percorso ferroviario che dalla Svizzera conduceva in Italia,24 o i sobbalzi e gli scossoni di diligenze,
piene di viaggiatori ignoranti e incuranti delle più elementari regole di igiene, che si
19
PEMPLE, op. cit., p. 32.
MOZZILLO, op. cit., p. 262.
21
Mauro F. MINERVINO, I Monti del Mito. Calabri rapuere. Viaggi e paesaggi della montagna calabrese,
Catanzaro, Abramo Editore, 1999, p. 3.
22
Loc. cit.
23
Nell’Ottocento l’unica eccezione di cui abbiamo notizia è l’autrice, identificata con Emily Lowe, di
Unprotected females in Sicily, Calabria, and on the top of Mount Etna, edito nel 1859, in forma anonima.
24
Pemble riporta a tal proposito le osservazioni dello storico e pedagogo Oscar BROWNING, il quale, nei
suoi Memories of Sixty Years, riferiva di donne che gridavano e quasi svenivano dalla paura; cfr. PEMBLE, op.
cit., p. 27.
20
263
I viaggi nel Sud: esploratrici in terra di frontiere
districavano per strade tortuose e polverose,25 a volte avevano anche il coraggio di
inoltrarsi in quella terra di frontiera, luogo di un altrove culturale e geografico, che
era ancora l’Italia meridionale nell’Ottocento.
Sempre più sicura di se stessa e della propria capacità di affrontare situazioni
nuove e diverse, la donna si sentiva ora libera di impegnarsi anche in viaggi avventurosi. Non era più Penelope, che attendeva passivamente a casa il ritorno di Ulisse,
ma diveniva essa stessa protagonista del suo viaggio alla ricerca della conoscenza, di
un percorso in cui trovare, attraverso il confronto con un altrove, la consapevolezza di sé stessa e della propria identità di donna.
25
Ibid., p. 20, la dichiarazione di Francis Power COBBE, che nei suoi Italics ricordava: “going four miles
an hour in the heat and dust […] and with a full complement of Italian travellers, all ignorant of the fundamental
principals of ablution”(Trad.: “andando a quattro miglia all’ora nel caldo e nella polvere […] e con tutt’un
insieme di viaggiatori italiani del tutto ignoranti dei fondamentali principi di abluzione”).
264
Giuseppe De Matteis
Esempi di letteratura al femminile in Svevo e Pirandello
di Giuseppe De Matteis
1. Un nuovo tipo di scrittura
Per questo tema, si tratta non tanto di scoprire nessi e coincidenze clamorose
tra Luigi Pirandello e Italo Svevo, quanto di studiare in che modo essi abbiano fatto
esplodere la vecchia pagina ed abbiano inaugurato un tipo di scrittura nuova ed
inquietante, in linea con i personaggi ‘inetti’ e senza qualità, potremmo dire
(pirandellianamente) “fuori di chiave” che costituiscono il groviglio di contraddizioni, per certi aspetti esplosivo, ‘rivoluzionario’, dell’uomo del nostro tempo.
Intanto, va subito sottolineata la diversità tra i due scrittori sul piano dell’impianto narrativo: Pirandello è ancorato in una intelaiatura del discorso di stampo
filosofico, svolta cioè quasi sempre in termini dialettici; Svevo rivolge, invece, la sua
attenzione ad un’intuizione interiore della crisi dell’uomo e della società ed opera
una tessitura narrativa introiettata o immersa nei fatti.
Perché questi due scrittori potrebbero essere visti nell’ottica dell’omologazione? Perché vivono entrambi il dramma dell’io, della fede perduta e di una certezza, nonché il problema della solitudine dell’uomo in un mondo fatto d’incomunicabilità e di alienazione: angoscia esistenziale o sentimento scorato e nichilistico
della vita. Ma Pirandello e Svevo sono vicini anche perché appartengono alla stessa
generazione e perché mirano a costruire poemi lunghi, folti sia per la lettura (romanzi) sia per la scena (le commedie): sotto questo profilo entrambi non si curano
troppo della veste linguistica ma preferiscono occuparsi dell’intreccio e, soprattutto, dei contenuti morali e psicologici. Essi muovono entrambi dalla grande tradizione ottocentesca (Pirandello rifacendosi a Giovanni Verga, Svevo attingendo parecchie sollecitazioni dal romanzo francese e russo del secolo scorso) ma la sconvolgono dall’interno. Si ricorderà, infatti, che la narrativa e il teatro ‘borghesi’ dell’Ottocento erano fondati sulla difesa del doppio diritto di proprietà relativo sia
alle ricchezze materiali sia al coniuge. Da qui scaturisce la distinzione tra ‘atti’ o
adatti e ‘inetti’. Svevo e Pirandello turbano queste due facce di diritto, servendosi di
eroi e protagonisti maldestri, ‘malati’ di inettitudine, ritrovando su questa via le
forme del comico e dell’umorismo.
I protagonisti delle opere di Svevo e Pirandello sono, il più delle volte,
rinunciatari all’azione, sono eterni sognatori di un passato che ormai non c’è più;
essi rifiutano il presente, distanziandosi dalle cose per estraniarle: sta qui il processo
del personaggio che si fa autore di se stesso, così come sta nella tecnica narrativa il
265
Esempi di lettratura al femminile in Svevo e Pirandello
passaggio dalla terza alla prima persona. Tale esito in Pirandello si attua attraverso
l’ironia o la dissociazione, in Svevo si svolge, invece, attraverso l’umorismo e la
contaminazione. Va comunque, ricordato che entrambi sono scrittori europei d’avanguardia e che hanno inaugurato la narrativa italiana contemporanea. Essi appartengono alla linea antiletteraria della cultura italiana tra Ottocento e Novecento, che si
esprime non solo attraverso un atteggiamento critico verso la tradizione formalistica e toscanocentrica della lingua scritta ma anche attraverso un’analisi corrosiva del
linguaggio come veicolo di comunicazione di verità.
La coerente finalità dell’arte di Pirandello è di guardarsi dentro, di scrutarsi
nell’anima, cioè nel proprio silenzio interiore; in Svevo, invece, viene adottata una
tecnica diversa: quella del monologo interiore, che conduce ad esiti diversi: lo scavo
interiore del proprio essere, perseguito con costanza patologica, conferma l’aderenza di Svevo al proprio universo schizofrenico, per cui la nevrosi e l’ossessività
cambiano di segno nei confronti della prospettiva pirandelliana, fino a trasformarsi
in dinamica analitica totalizzante ed onnicomprensiva e, insomma, in perpetuo commento alla malattia della vita. L’universo femminile in Svevo e Pirandello può essere compreso solo dopo aver posto queste premesse della poetica dei due scrittori.
2. L’universo femminile
Protagonista de L’esclusa di Pirandello è Marta Ajala, come si sa. Nella lettera dedicatoria a Luigi Capuana, Pirandello afferma che in questo romanzo, pubblicato da Treves, Milano, 1908 (già apparso, però, su «Tribuna» nel 1901), “ogni volontà è esclusa” e che “la natura è lontanissima dall’opera”: egli prende le distanze
dagli schemi naturalistici e dal Verismo, presentandoci una psicologia femminile
complessa, succube dei pregiudizi sociali. Apparentemente decisa e combattiva,
Marta non è in realtà capace di risolvere i suoi problemi interiori, è dominata sempre dalle circostanze; alla fine si rassegna ad essere succube del marito per quella
legge odiosa ed inesorabile che decide i destini degli esseri umani, senza tener conto
della loro volontà.
In Una lotta, noto racconto sveviano, Rosina è presentata come una ragazza
carina, bionda, ma troppo sola, già proiettata verso l’inettitudine.
Annetta, figlia di Maller, nel romanzo Una vita, è vista anch’essa in atteggiamento pensoso, triste, con pensieri decisamente più grossi rispetto alla sua giovanissima età.
In Senilità incontriamo due personaggi femminili di notevole spessore analitico: Amalia ed Angelina. La prima, triste e grigia, sentimentalmente inerte, riservata, rinunciataria a lottare, si innamora di Stefano Balli, uno scultore esuberante,
sereno, spensierato, pieno di vita, l’opposto di Amalia. La seconda, di cui si innamora Emilio Brentani, è il simbolo della salute, della piena vitalità, il rovescio della
medaglia di Emilio, che rappresenta il senso dell’inettitudine al massimo grado,
cioè la sua immaturità psicologica. Egli vorrebbe vestire i panni del dongiovanni
266
Giuseppe De Matteis
ma in realtà ha paura della donna e del sesso; per questo sostituisce alla donna carnale, reale, vitale, una donna-ideale, sognando un’Angiolina come creatura angelica
e pura, chiaro equivalente della madre; nei riguardi di Angiolina, anzi, Emilio recita
un ruolo paterno, protettivo, configurandosela ingenua, debole, sprovveduta, disarmata, proponendosi di educarla e di farle imparare “la conoscenza della vita”. La
trasformazione della donna in figura angelica, se ha radici nella nevrosi di Emilio,
deriva le sue forme specifiche da tutta una tradizione letteraria (dallo Stilnovo fino
al Romanticismo). Ma Emilio vede in Angiolina anche la donna fatale, tigre, vampiro, succhiatrice delle energie vitali dell’uomo (qui si nota la presenza del cliché tardo-romantico e dannunziano).
Vediamo che in Senilità vi è, dunque, l’opposizione chiara tra la donna-madre, Amalia, e la donna-sesso, Angiolina. Con Amalia viene idealizzata la donnamadre e qui prendono corpo i valori della famiglia; con Angiolina prende corpo la
donna-sesso, ossia la vitalità e il godimento incondizionato, libero, senza freni
inibitori.
Ma Emilio cerca anche nella donna-sesso la donna-madre: per questo motivo
idealizza Angiolina, vedendola come angelo purissimo e dolcissimo. In fondo, in
Angiolina, Emilio ha sempre cercato una donna dolce e tranquilla, come Amalia
appunto. Angiolina è adorata da Emilio “come su un altare” (vedi la chiusa di Senilità); la donna, infatti, che guarda verso i bagliori del sole nascente, in attesa del “sol
dell’avvenire” diventa, nel sogno di Emilio, il simbolo della speranza socialista futura.
Interessanti sono anche altre figure femminili di Svevo: Augusta, Ada, Carla,
ad esempio, del romanzo La coscienza di Zeno. La prima è un perfetto campione di
normalità borghese: è la più brutta delle quattro sorelle (che sposerà, poi, Zeno) ma
è saggia, tanto che riuscirà a riassestare le finanze della famiglia. Ada è la più ambita
da parte di Zeno, ma sposerà Guido Speier, socio d’affari di Zeno. Carla, giovane
cantante di belle promesse, amante di Zeno Cosini, è “popolare” di origine, piuttosto mediocre, volgare, insensibile, priva di cultura, un po’ come l’Angiolina di Senilità.
Grande importanza riveste l’universo femminile anche in Pirandello. Ne abbiamo dato un cenno parlando del primo romanzo dello scrittore, L’esclusa.
Ad angosciare l’esistenza di molte figure femminili pirandelliane sono le sventure, tema centralissimo di tutta la sua narrativa e del suo teatro. Solo che il livello
culturale femminile presente nel panorama narrativo delle Novelle è estremamente
modesto (vedi Il guardaroba dell’eloquenza, dove Tudina è vista come una donna
povera, destinata ad essere oggetto della violenza maschile nel periodo post-risorgimentale in Sicilia; oppure, vedi la triste storia di Ersilia Drei, in Vestire gli ignudi:
accolta dall’avvocato Ludovico Nota, commosso dalle dolorose vicende della donna, tanto da giungere al punto di suicidarsi, morirà “nuda e sola”).
Anche il mito della maternità è spesso presente in Pirandello; per esempio,
nella commedia Signora Morlì, uno e due, scritta tra il 1920 e il 1923. Si tratta della
storia di una donna, Evelina, spensierata, desiderosa di vivere con profondo istinto
267
Esempi di lettratura al femminile in Svevo e Pirandello
materno, che rivela una natura bifronte: esuberante e allegra ma anche dotata di
grande amore materno per Titti, la sua bimba.
Il rapporto donna-cultura, in Pirandello, è realizzato nei Giganti della montagna, opera incompiuta. Dopo il mito sociale e quello religioso, vi è nello scrittore
l’esigenza di prospettare il problema dell’arte, che raggiunge l’acme nella forma più
sublime (la poesia) e prediletta da Pirandello (il teatro). Il perno del messaggio etico
è l’attrice Ilse Paulen, non più madre come la Signora Morlì, ma donna devotissima
alla Poesia, fino al punto da identificarsi con essa. Ilse è l’antitesi netta della donna
pirandelliana: dal binomio natura-madre, passiamo a quello di arte-donna. L’ombra della maternità, anche in questo caso, continua ad ossessionare la protagonista.
Ilse crede nella forza della parola, nella sua capacità rivoluzionaria o di trasformazione della società, ma è disarmata culturalmente, anche se in apparenza mostra
d’esserne dotata. Alla fine ella resterà, come sempre accade in Pirandello, fuori dalla storia e dalla cultura, elaborate costantemente dagli uomini: Ilse muore, portandosi dietro il sogno della poesia ma anche la possibile presenza femminile in campo
intellettuale.
Ultimo aspetto, che ci preme sottolineare di questo tema tanto interessante
sulla femminilità in Pirandello, è quello della sessualità positiva, presente soprattutto nelle Novelle. L’autore avverte il carattere drammatico dell’inferiorità sessuale della donna. Nell’Esclusa, ad esempio, pesa su Marta Ajala l’impossibilità di affermare la propria autenticità e personalità: ella scopre la sua sessualità senza connotazioni di morbosità o di sensualità. Le storie di seduzione nelle Novelle sono
numerose: La veste lunga, Pubertà, Visita, Due cugini, e manifestano sempre il disappunto pirandelliano. La donna, per lo scrittore siciliano è, però, sempre fiduciosa, sincera, anche se inevitabilmente tradita. Pirandello si ferma con vivo interesse
umano sulla sorte delle donne sottoposte alla soggezione sessuale e sentimentale
dell’uomo.
Il critico Arcangelo Leone De Castris non a caso ha parlato, a questo proposito, di “silenzioso martirio di spose” (si veda, per es., Leonora, addio!, dove l’ostilità dell’uomo meridionale verso la donna è palese). E “disgusto” e “orrore” sono le
parole-chiave che definiscono il rapporto negativo della donna con il proprio corpo (si veda Pena di vivere così): da qui la grande attenzione di Pirandello ad una
situazione di atavica alienazione sessuale della donna.
268
Attività della biblioteca
269
270
Enrichetta Fatigato
La comunicazione in biblioteca*
di Enrichetta Fatigato
1. Premessa1
I rapporti fra i sistemi viventi sono mediati da processi comunicativi.
La comunicazione è un concetto sistemico e, in quanto tale, si riferisce alle
relazioni tra i sistemi correnti finalizzate agli indirizzi degli organismi di riferimento,
al loro mantenimento, riproduzione e/o trasformazione, in un processo infinito.
Nei complessi insiemi del mondo organico e sociale, i livelli organizzativi si
azionano in base a precise e necessarie reti di connessioni fra sistemi e strutture di
sostegno proprie; sono gli innumerevoli sottoinsiemi di sistema, tutti aggregati e
coordinati, fra loro e con il sistema, mediante processi di comunicazione.
Per questo motivo un sistema vivente è un organismo complesso, diverso da
un sistema statico o da una macchina di tipo classico o da aggregati casuali: al suo
interno fluttuano materia, energia e informazioni, dotati di caratteristiche entropiche
e rinnovabili, variamente utilizzate e finalizzate.
Gli organismi complessi sono sistemi aperti, dotati di strutture di relazione e
interazione con l’ambiente e attraverso scambi e trasferimenti di informazioni creano, modificano, mantengono e permeano specifici rapporti di confine con altri
sistemi e strutture.
L’inadattabilità reciproca degli scambi comunicativi determina la caducità del
sistema e della sua struttura; la tenuta dei relativi processi di scambio realizza invece un sistema aperto in cui il circuito di informazioni fra il sistema stesso e i suoi
sottosistemi, fra le strutture del sistema e il contesto ambientale esterno garantisce
la sopravvivenza e la riproducibilità.
La comunicazione è il presidio degli scambi (un ormone, una frequenza, un documento) e dei rapporti di sistema interno/esterno, identificabili come informazioni.
Il flusso delle informazioni reca in sé modelli di varianza detti anche indicatori semiotici di sistema o identità comunicativa, l’uso e il controllo dei quali è
l’aspetto predominante delle strutture e delle funzioni di tutti i sistemi aperti.
*
Ripubblichiamo in forma corretta il testo di E. Fatigato uscito nel numero 12 de «la Capitanata». Una
sfortunata coincidenza ha causato la pubblicazione del testo non corretto e non composto. Ci scusiamo con i
lettori e l’autrice.
1
Con questa prima parte ho introdotto il Corso di formazione per bibliotecari, “Indirizzi propedeutici
alla pratica bibliotecaria e documentaria”, svoltosi a Foggia presso “il Dock” dal 4 all’8 giugno 2001. Ringrazio le dott.sse Anna Conte e Antonella Locurcio per l’attenzione riservata al riordino degli appunti del corso.
271
La comunicazione in biblioteca
La conoscenza e l’uso dei sistemi e delle strutture di comunicazione consentono di cogliere i modelli di varianza interni ed esterni dei sistemi stessi.
Categorie analitiche, quali la semiotica, la sintassi e la semantica, proprie della Scienza del linguaggio, sono particolarmente utili quando oggetto di analisi sono
i sistemi comunicativi delle produzioni intellettuali.
La semiotica, produzione, riproduzione e scambio di segni (indicatori di informazioni) è riferimento per l’analisi degli strumenti della comunicazione bibliotecaria relativa ai principi delle analisi e codifiche descrittive dei documenti.
Non è necessariamente comprensione: essa presiede l’organizzazione della
trasmissione/ricezione di messaggi informativi relativi a serie organizzate di mittenti/ricettori, integrati in rete sistemica con altri mittenti/ricettori.
La sintassi è funzione ordinatrice di quei segni che consentono la codificazione
analitico-descrittiva e di significato.
La semantica consente la interpretazione e comprensione dei contenuti e dei
significati espressi attraverso segni e codifiche. È questo il processo attraverso cui
l’informazione va trasformandosi in comprensione e conoscenza, usando forme
rappresentative dei contenuti della comunicazione che consentano la definizione,
identità e relazione specifica con altri sistemi di relazioni.
L’uso e l’articolazione di queste categorie, la loro applicazione al mondo delle biblioteche e della documentazione, presidiano le procedure tipiche dell’intermediazione bibliotecaria.
Per questa ragione, è sempre utile e necessario riferirsi alle biblioteche come
a sistemi in cui si realizzano particolari processi di comunicazione con l’impiego di
specifici strumenti per l’ identificazione analitica e semantica dei prodotti intellettuali espressi attraverso i documenti.
I collegamenti, gli scambi e la circolazione delle informazioni fra sistema, tra
struttura e il suo ambiente, realizzano specifici rapporti di confine e modelli di
varianza ricostruibili storicamente.
SINOSSI DEL CAMPO SEMIOTICO DEL SISTEMA COMUNICATIVO “Biblioteca”
EVOLUZIONE STORICA
DEI SISTEMI
MODIFICAZIONE DELLE
STRUTTURE
COMUNICATIVE
272
TRASFORMAZIONE DELLA
RICEZIONE DELLA
COMUNICAZIONE
Enrichetta Fatigato
2. La comunicazione attraverso i documenti: breve excursus storico2
Un breve esame delle strutture e delle funzioni di quei sistemi dedicati alla
tutela, conservazione e comunicazione delle produzioni intellettuali espresse nei
documenti scritti, il senso e il significato assunto nel tempo storico dagli strumenti
rappresentativi della trasmissione informativa e cognitiva, consentirà di tracciare il
mutamento dei modelli di riferimento, cercando di coglierne, infine, il valore e l’uso
nei sistemi contemporanei.
a) Alto medioevo
Le notitiae librorum, circolazione e conoscenza di informazioni riguardanti
prodotti culturali e intellettuali in forma scritta, in questo periodo storico sono affidate alle ricerche individuali realizzate dagli studiosi attraverso reti di conoscenze.
Gli epistolari informativi sono lo strumento comunicativo più diffuso e in
uso fra gli intellettuali, mancando una circolazione organizzata delle segnalazioni
librarie, non esistendo un vero mercato librario, dopo la definitiva scomparsa delle
tabernae literariae di epoca ciceroniana, dove i venditori esponevano le notitiae
delle produzioni rotolo-papiracee sotto forma di elenchi o nomenclature per le più
svariate finalità informativo-culturali.
A fronte di questa rete di relazioni conoscitive, legate a figure di singoli intellettuali, negli scriptoria vescovili e monastici si realizza un circuito integrato della
comunicazione, a partire dalla produzione del materiale scrittorio, alla scrittura o
incisione dei testi, alla legatura e conservazione nell’archivium dei documenti scritti, per una destinazione d’uso esclusivo della comunità religiosa, nelle celle, nella
mensa, nell’oratorio.
Gli strumenti di identità comunicativa sono racchiusi negli inventaria che
rispondono piuttosto ad una quantificazione patrimoniale che ad una qualificazione segnaletico-divulgativa delle produzioni intellettuali in forma scritta.
Il valore d’uso è piuttosto riferito all’armaria di cui deve essere dotata la
Chiesa contro gli infedeli.
I luoghi deputati alla conservazione dei testi scritti in latino sono identificati
indiscriminatamente e chiamati archivia, bibliothecae o scriptoria, e indiscriminata
è la raccolta: rotula, cartularia, diplomina e volumina.
b) Basso medioevo
Per tutto il periodo storico che si svolge a partire dal XII e fino al XIV
secolo, la nascita delle prime università crea un mercato librario e un pubblico nuo2
Luigi BALSAMO, La bibliografia, Firenze, Sansoni 1995.
273
La comunicazione in biblioteca
vo, ancora inseriti in un circuito esclusivo, circoscritto a motivazioni del tutto particolari, di studio e di ricerca.
La produzione e la vendita dei documenti scritti per lo studio è controllata
dalle università, e l’adeguamento degli strumenti segnaletico- comunicativi è affidato agli stationarii (librai).
Questi espongono gli exemplaria dei documenti in fascicoli appesi alle finestre delle officine librarie e scribi incaricati dall’università riproducono le copie per
gli studenti, che ne fanno richiesta a seguito delle notitiae rei literariae ricevute nei
corsi universitari.
In generale, l’ampliamento del pubblico investe anche il mondo circoscritto
delle biblioteche che ampliano i loro repertoria, e attrezzano le strutture fisiche a
nuove funzioni.
Le biblioteche religiose subiscono una trasformazione interna: non c’è più
identità fra l’archivium e la bibliotheca monastica.
L’architettura dello spazio fisico interno continua a riprodurre nelle disposizioni
dei banchi, a doppia colonna parallela, le righe dei libri di preghiere o dei codici scolastici.
I fondi sono distribuiti in una parte pubblica, in una segreta, nelle celle e nel
refettorio dei conventi degli Ordini.
È questa l’epoca dei libri incatenati ai banchi di lettura: particolare di non trascurabile entità se messo in relazione agli strumenti identificativi e segnaletici che restano
tipici di un assetto di sistema a struttura comunicativa assolutamente circoscritta.
I fondi si arricchiscono di quei repertori e documenti adatti a formare chierici
e dottori con una impostazione culturale scolastico- aristotelica e di numerosi libri di
diritto, e sempre meno libri di Patristica, ma l’attrezzatura delle strutture comunicative risponde ad una destinazione d’uso ancora tutta ripiegata su se stessa.
Non a caso permane l’identità fra lo spazio fisico bibliotheca e il valore
segnaletico della bibliografia.
È frequentissimo, infatti, l’uso della accezione bibliotheca per indicare lo strumento repertoriale della bibliografia, propriamente detta, che se sostituisce gradualmente il termine inventarium, permarrà per tutta l’epoca moderna (es.: Bibliotheca
authorum ecc.); ad indicare bibliografie o segnalazioni bibliografiche particolari.
Compaiono, nelle stesso periodo, le biblioteche dei collegi universitari, le
private dei docenti laici e quelle di studiosi lontani da organizzazioni specifiche
(Petrarca) che guadagnano spazi inusitati all’area ecclesiastica.
I fondi delle biblioteche laiche diventano onnicomprensive e rappresentative di
quella cultura che, disancorata dall’egemonia clericale, apre nuovi circuiti culturali e
specialistici e nuovi varchi ai processi di identificazione degli strumenti comunicativi.
c) L’età umanistica
Si espande a dismisura, rispetto alle biblioteche religiose, il circuito delle riproduzioni dei codici dell’antichità nelle corti dei principi rinascimentali.
274
Enrichetta Fatigato
Il possesso di biblioteche legate al potere temporale delle Signorie, determina la fioritura di raccolte librarie prestigiosissime affidate alle cure di eminenti studiosi e ricercatori per la selezione e raccolta di opere rare e di pregio da
conservare non in armadi, ma in casse che seguono il Signore nei suoi spostamenti.
Le raccolte sono destinate ad un pubblico di borghesi acculturati e costituite
da testi in volgare di narrativa, astrologia e cronaca.
Ad illustrare i criteri adottati nella scelta delle opere da inserire nei fondi
librari vengono redatti i canoni bibliografici: Guarino Veronese3 redige il primo.
Il canone guariniano è un modus esclusivo per raccogliere libri, prediligendo
gli storici ed escludendo gli autori in volgare; manifesto rappresentativo più della
cultura umanistica che di un modo di costruire una biblioteca attraverso l’articolazione di strumenti segnaletici.
A prescindere dal criterio funzionale che ne configura la nascita, è inevitabile
che il canone bibliografico nel tempo assolva anche il compito di strumento
segnaletico-comunicativo e di repertorio.
Il canone parentucelliano, commissionato a Tommaso Parentucelli4 da
Cosimo de’ Medici in occasione del riordino della Biblioteca di San Marco, verrà
usato da numerose biblioteche signorili come criterio elencativo e inventariale per
reperire i testi.
Da questo canone, pure se marcatamente a sfondo religioso, trasse vantaggio
anche l’editoria a servizio esclusivo delle Signorie, per estrarre informazioni sui
testi da sottoporre alla riproduzione dei copisti per il diletto dei committenti.
Con il canone parentucelliano si dilata il sistema comunicativo e informativo
sui fondi librari che, inevitabilmente, risentono della necessità di adeguare le conoscenze alle trasformazioni sociali ed economiche in corso, frutto dell’incremento
dei traffici e delle comunicazioni commerciali.
La fusione delle biblioteche signorili con le religiose, affidate alle autorità
civili (Malatestiana a Cesena, Sforzesca a Pavia, Aragonese a Napoli, ecc...), se da
un canto ribadirà l’egemonia della Chiesa sugli strumenti di formazione e diffusione della cultura scritta e il perdurare del primato culturale delle biblioteche delle
istituzioni religiose, per altro contribuirà alla canonizzazione della lingua italiana e
alla necessità di provvedere all’apertura pubblica delle biblioteche. In questo contesto il canone parentucelliano costituirà uno strumento di integrazione della cultura
religiosa monolingue con la classicista bilingue, ma anche una prima forma strutturale dei sistemi di comunicazione in corso di realizzazione.
3
4
BALSAMO, op. cit., pp. 17-18.
Ibid., p. 19.
275
La comunicazione in biblioteca
3. Dopo la stampa tipografica
La rapida riproduzione di copie, conseguente all’introduzione della stampa
tipografica, fa esplodere un sistema di comunicazione delle produzioni intellettuali
tutto esterno al mondo delle biblioteche. Bollettini, prospetti, cataloghi editoriali
ed elenchi redatti dai tipografi per ragioni commerciali, producono inevitabilmente
per gli studiosi dell’epoca una forte accelerazione dei sistemi comunicativi.
Oltre le corrispondenze epistolari fra editori-tipografi e studiosi, che realizzano il rapporto domanda/offerta di un bene agli albori della sua esistenza, va sottolineato un particolare di non trascurabile rilevanza: molti studiosi si dedicano, in
misura quasi paritetica agli stampatori, alla compilazione di repertori sistematici
finalizzati non al commercio, ma alle proprie competenze specialistiche e professionali.
Ricordiamo Trithemius5 che, bibliografo e catalogatore, raccoglie nella sua
opera oltre settemila opere di autori, segnalandoli in un indice alfabetico di rapida
consultazione. Questo elenco costituisce un repertorio bio-bibliografico anche di
autori di estrazione non ecclesiastica.
All’intensificarsi di studi legati allo sviluppo delle scienze naturali e della
medicina, è legata l’opera del padre della bibliografia: Konrad Gesner.6
La bibliografia si apre ad una moderna concezione della sua redazione, curata negli aspetti analitico descrittivi, con un requisito affatto significativo: il repertorio diventa una struttura organizzata con metodica e ragionata sistematicità.
Questo strumento favorisce l’accesso alla conoscenza, consente di ampliare lo
spettro delle ricerche scientifiche e, contemporaneamente, apre il vasto fronte delle
bibliografie speciali destinate all’illustrazione articolata dei fondi bibliotecari.
Gesner stesso, nella redazione della sua Bibliotheca universalis, invita gli studiosi delle discipline speciali alla costituzione di biblioteche pubbliche e private.
La sua gigantesca produzione repertoriale si amplia nelle Pandectae di titoli
ricercati nelle più grandi biblioteche italiane e germaniche, e si arricchisce di titoli
ricavati dai catalogi typographorum.
Il suo termine catalogus scriptorum viene affiancato a specializzazioni più
dettagliate (bibliothecarum, autorum, typographorum...) diventando una biblioteca ideale, un canone bibliografico, cui far riferimento per la costituzione di biblioteche. Gesner, al pari di Lutero e Melantone, ritiene che il potere secolare
debba occuparsi di accrescere, a fianco delle scuole, le biblioteche. La sua attività
di bibliografo non fa riferimento a sistemi privi di strutture e strumenti comunicativi; nei suoi scritti, con una modernità sconvolgente, egli parla di servizi di
biblioteca.
5
6
Ibid., pp. 24-25.
Ibid., pp. 28-38, particoll. P. 33.
276
Enrichetta Fatigato
4. La modernità di Gesner
Si è già riferito delle segnalazioni ‘ragionate’ attraverso giudizi critici e brani
introduttivi alle scelte realizzate.
Gesner introduce una descrizione bibliografica moderna per favorire la crescita di un pubblico più attento all’uso delle segnalazioni: al nome dell’autore e del
titolo dell’opera, aggiunge i criteri della segnalazione tipografica e delle moderne
tecniche di collazione.
Molti principi dei moduli di catalogazione bibliotecaria moderna (compresa
la scheda di spoglio) fanno riferimento al suo catalogus scriptorum, che attraverso
opportune segnalazioni di collocazioni, diventava catalogus librorum.
Ancora oggi, nei sistemi elettronici, si ritrovano i criteri gesneriani della raccolta dati, della loro memorizzazione in un sistema programmato e reso noto ai
potenziali utenti per il recupero dell’informazione.
Dalla visione enciclopedica di Gesner nasce la moderna scienza bibliografica
e biblioteconomica.
L’impostazione e l’esposizione sistematica delle segnalazioni sarà condivisa
anche da Possevino7 nella sua Bibliotheca selecta, seppure in contrapposizione con
Gesner per il taglio decisamente dogmatico-religioso dato alla raccolta; una scelta
che toglie valore a quelle espressioni dal sapere umano concretizzate nei testi in
volgare e d’impianto laico.
La specializzazione delle scienze troverà gradualmente in tipologie strutturali- repertoriali, quali le bibliografie specializzate un grande canale di rappresentazione e divulgazione
Anche Andrei Maunsell,8 sotto la spinta gesneriana, redigerà il Catalogue of
English printed books, diretto al potenziamento delle lingue volgari, contenente
utili indicazioni sulle trascrizioni del formato dei libri da riportare nelle citazioni
bibliografiche: una sorta di anticipazione di quella che sarà la futura ricerca bibliologica di matrice inglese.
Dal punto di vista della definizione dei sistemi di comunicazione, per tutto il
XVI secolo, permarrà la commistione linguistica nel termine Bibliotheca fra oggetto della comunicazione, strumento di trasmissione della stessa e localizzazione fisica dei documenti.
Nella produzione del bibliografo francese Naudè9 troviamo un primo tentativo di distinzione fra bibliotheca e bibliographia, che assegna alla prima i valori
segnaletici e repertoriali, alla seconda gli scopi più tipici dell’historia literaria.
Questa distinzione permarrà fino a tutto il XIX secolo, commista a espressioni quali bibliologia, bibliografia analitica e descrittiva, bibliografia storica e circoscritta all’ambito degli studi letterari.
7
Ibid., p. 40.
Ibid., pp. 43-44.
9
Ibid., pp. 75-76.
8
277
La comunicazione in biblioteca
5. Dall’età moderna alla contemporanea
Per tutto il sei-settecento, la commistione di significati, la mancanza di una
precisa e definitiva identità disciplinare articolata in loci communes,10 fa sì che Diderot
non inserisca la voce nell’Encyclopedie e parli del bibliographe come di un trascrittore
di copie di libri: sintomatica rappresentazione di una incerta e dibattuta definizione
di un sistema comunicativo con strutture proprie ed articolate.
Con il Denis11 il termine acquista il significato di filologia, più tipico dell’eruditismo settecentesco che del valore repertoriale o descrittivo già assunto in
Francia.
Sul finire del XVII secolo, i giornali letterari assolvono alla funzione repertoriale tipica della bibliografia, in perfetta identità fra biblioteca e repertori.
Jacob,12 con la Bibliographia parisinia, nell’intento di integrare la Bibliographia di Naudè, aprirà un versante repertoriale del tutto nuovo che sfocerà
nelle prime bibliografie nazionali, (come le definirà Scipione Maffei13 nell’Introduzione al Giornale de’ letterati d’Italia del 1710), vere e proprie bibliografie
correnti.
Bibliographia e giornali letterari copriranno due versanti diversi, uno quello
della ricostruzione della memoria pubblica e retrospettiva, l’altro proteso alla notitia
librorum, ma su scala internazionale, in ragione dei mutati scenari sociali e culturali
e, quindi, con un’attenzione ai significati contenuti nelle opere.
Anche i cataloghi di vendita manterranno ancora la terminologia di bibliografia, tanto che questa perderà il senso datole dal Naudè, per diventare piuttosto
un elenco di libri.
Sembra lontano il tempo in cui con il termine bibliographia o bibliotheca
poteva intendersi un canone per allestire e dare segno e significato alle biblioteche
pubbliche e private.
La crisi delle grandi biblioteche ecclesiastiche e dei ricchi privati, seguente
alla Rivoluzione, la confisca statale di quei beni impone la necessità per gestirli, di
istituire la Bureau central bibliographique a Parigi per avviare un programma di
catalogazione collettiva unificata.
Attraverso i Cours de bibliographie si inizia a porre attenzione verso le qualità dell’addetto alla biblioteca e del suo ruolo, secondo la concezione di Diderot,
piuttosto che quella di Naudè o Denis.
Con il Camus,14 ispettore degli Archivi Nazionali, nasce la bibliographia bibliotecaria al servizio dei lettori, antesignana del catalogo di biblioteca e per il quale
10
Alfredo SERRAI, I loci communes nell’opera bibliografica di Gesner, in Annali della Scuola Speciale per
Archivisti e Bibliotecari di Roma, 1978, XIV, pp. 5-21.
11
BALSAMO, op. cit., pp. 112-113.
12
Ibid., pp. 76-77
13
Ibid., p. 85.
14
Ibid., p. 116.
278
Enrichetta Fatigato
i suggerimenti indicano l’ubicazione all’ingresso delle biblioteche, perché sia rappresentativo del posseduto della raccolta.
Contrariamente a Peignot,15 che faceva del bibliotecario un bibliologo, ovvero un erudito in storia del libro, con una cultura enciclopedico-metodica, per
Boulard16 il bibliotecario deve svolgere il ruolo tipico del venditore di libri: redigere cataloghi di opere, edizioni, ecc...
Solo a fine secolo, con Constantin Hesse17 ci sarà la cesura totale fra bibliographia e scienza del bibliotecario o biblioteconomia e bibliologia, di matrice inglese.
In questa linea evolutiva si afferma una figura sociale nuova: il ruolo di bibliotecario con compiti di ordinatore e conservatore, con funzioni che riguardano
piuttosto la biblioteca in sé che il rapporto bibliografico-segnaletico.
Nel territorio italiano una tipica espressione di questo orientamento è data
proprio dalla definizione del ruolo e dalle funzioni dei bibliotecari svolte in lontananza e isolamento da relazioni con il pubblico frequentatore delle biblioteche.
Questo approccio culturale alle funzioni dell’addetto alla biblioteca è confermato dall’istituzione in Italia del magazzino librario nel 1817, separato dalle sale
di studio e lettura.
Una differenza sostanziale dalle biblioteche americane, dove, invece, consultazione e sistemazione dei libri in scaffalature aperte congiungeva in un continuum
fisico, ideologico e sistematico documenti, loro localizzazione e pratiche di indicizzazione repertoriale.
Contemporaneamente, in Italia si affermava il ruolo dello Stato nella tutela
del patrimonio bibliografico nazionale, con il riconoscimento del ruolo guida affidato alla Biblioteca Nazionale di Roma e poi di Firenze.
A completamento di una vasta opera di sistemazione per il reperimento delle
pubblicazioni, citiamo le grandi realizzazioni a Milano della Bibliografia Italiana, il
Bollettino delle opere ricevute per diritto di stampa, la Bibliografia Nazionale Italiana a cura della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e l’opera retrospettiva
del Pagliaini, Catalogo della Libreria Italiana dal 1847 al ’99.
In Italia, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il modello della public
library, si affermerà definitivamente corrispondendo al bisogno di alfabetizzazione
e scolarizzazione diffusa e con esso partirà tutto il fronte dell’apertura delle biblioteche alle nuove tecniche comunicative commisurate al nuovo pubblico
L’ attenzione si sposta dalle funzioni repertoriali bibliocentriche, alla ricerca dei nuovi linguaggi perché la comunicazione riguardante le risorse documentarie sia sempre commisurata ai bisogni degli utenti delle biblioteche.
Nodale diventa la figura del bibliotecario, mediatore dei linguaggi di trasmissione delle conoscenze realizzate nei documenti, la cui competenza professio15
Ibid., pp. 117 e 119
Ibid., pp. 119-120.
17
Ibid., p.128.
16
279
La comunicazione in biblioteca
nale è favorire l’uso delle biblioteche attraverso i sistemi linguistici di comunicazione scientificamente formulati.
Nel concetto di public library, così come lo aveva teorizzato nel 1937 Mc
Colvin,18 si esprime il principio di obiettività della biblioteca.
Primo a proporre in Italia questa biblioteca di tipo americano era stato Ettore Fabietti19 e, sempre intorno agli anni ‘30, di poco a lui successivo Luigi De
Gregori20 che presentava il modello americano come quello della “biblioteca nuova” aperto a tutti i cittadini.
Fra il 1952 e il 1953 con Virginia Carini Dainotti21 si diffonde la pratica dell’apertura delle biblioteche alle nuove tecniche e al nuovo pubblico, con la costituzione graduale su tutto il territorio italiano di un servizio nazionale di lettura facente capo localmente alle biblioteche di capoluogo e articolato in biblioteche minori collocate anche nelle località più piccole: un modello basato su ambito provinciale e già sperimentato in altri paesi europei.
Nei tempi più recenti le competenze professionali più tradizionali dei bibliotecari sono sottoposte ad una vera e propria rivoluzione copernicana. Gli strumenti
e le procedure atte a governare l’esplosione delle produzioni documentarie in forme e tipologie diverse dal tradizionale documento cartaceo, devono orientare le
mediazioni conoscitive verso gli accessi tipici della Società dell’informazione.
Vedremo, nei paragrafi successivi, quali linee di tendenza e possibili proposte
di lavoro si delineano per i bibliotecari nelle biblioteche del terzo millennio.
6. I modelli di varianza
Questo schema sintetico permette di evidenziare i modelli più contemporanei di varianza dei sistemi strutturali della comunicazione biblioteconomica, del
loro rapporto con i supporti e con le forme di presentazione delle stesse e la qualificazione dell’utenza:
Gestione di raccolte proprie
Biblioteca cartacea
Biblioteca elettronica
Pubblico locale
Gestione di raccolte ‘altre’
Biblioteca virtuale
Pubblico in rete
Sistema informativo planetario
Biblioteca digitale
Pubblico remoto
sconosciuto ‘invisibile’
18
Ibid. p.130
Ibid. p.131
20
Ibid. p.131
21
Ibid. pp. 131-133.
19
280
Enrichetta Fatigato
7. I linguaggi della comunicazione bibliotecaria : quadro di riferimento generale.
Analizziamo, ora, le strutture comunicative che nelle biblioteche consentono di realizzare sistemi aperti di comunicazione attraverso l’uso di specifici linguaggi o sintassi di trasmissione.
Ci riferiremo, in particolare, a quelle metodologie e procedure tecniche che
servono a produrre per ciascun documento una scheda, una voce bibliografica o
anche una registrazione che consenta, da un lato, di descriverlo, identificarlo e
reperirlo, dall’altro di ricondurlo all’interno di una vasta area di significati dotati di
pregnanza comunicativa aperta, segnaletica e interdisciplinare.
Le procedure di controllo e gestione dei documenti produrranno registrazioni descrittive e servizi secondari di analisi e indicizzazione: due approcci sistemici
che si tradurranno in prassi distinte di catalogazioni.
Nella biblioteconomia contemporanea è divenuto prerequisito essenziale alla
realizzazione di questi approcci sistemici l’adozione di codici sintattici uniformi
che consentano, in regime di comunicazione aperto e a livello planetario, lo scambio di informazioni e di dati bibliografici fra più sistemi aperti e la formazione di
archivi comuni.
La struttura del linguaggio comunicativo, che può non essere necessariamente
conoscitivo e rimanere solo identificativo, si organizza intorno al principio della
catalogazione descrittiva.
Lo scopo di questa struttura comunicativa, adottata per ciascun documento
afferente la raccolta bibliotecaria e documentaria, è quello di accogliere sia la descrizione, (una registrazione che contenga un insieme di informazioni estratte da
parti costitutive il documento stesso o da altre fonti e che siano in grado di descriverlo e identificarlo per quelle che sono le sue caratteristiche fisiche e bibliograficoanalitiche), sia i punti di accesso (codifiche di nomi, titoli, enti, ecc…) che aiutino a
reperire gli elementi descrittivi specifici di un documento fra l’universo delle descrizioni di altri documenti, diversi anche per tipologia.
A questo complesso di elementi si aggiunge l’operazione di analisi e di rappresentazione del contenuto del documento, realizzato con procedimenti di
indicizzazioni in reti di relazioni semantiche.
La tenuta di questo reticolo di significati dotati di pregnanza comunicativa è
garantita dall’adozione di sistemi linguistici che adottino una sintassi coestesa non
solo ai contenuti disciplinari dei singoli documenti, ma alla prevedibile relazione
che le discipline intessono fra loro.
8. Principi sistemici e strutture linguistiche
La mediazione bibliografica, oggi, si fonda su alcuni principi strutturali, complementari fra loro. Normazione, uniformità e standardizzazione regolamentano
sia la redazione delle descrizioni bibliografiche, che le relazioni semantiche.
281
La comunicazione in biblioteca
Sono i criteri dettati dall’esigenza di adeguare i sistemi di catalogazione ai
mutati bisogni di utenza e di circolazione aperta delle informazioni. Recepiscono, a
partire dalla prima metà degli anni ’50, l’esigenza di un coordinamento internazionale volto all’adozione di tecniche catalografiche basate sull’unificazione di norme,
di metodologie e di procedure per consentire l’identificazione e la circolazione delle testimonianze intellettuali anche attraverso l’uso dell’elettronica. In particolare,
vanno ricordati i Principi di Parigi (1961) approvati dalla Conferenza Internazionale sui Principi di Catalogazione (ICCP) convocata dall’International Federation
of Library Association con l’intento di raggiungere un consenso internazionale sui
principi della catalogazione bibliografica per autori.
I Principi di Parigi furono il primo passo verso la costruzione di una solida
base per la standardizzazione internazionale della catalogazione.
Essi contengono le norme, molto generalizzate, per la scelta e forma delle intestazioni per autori e titoli per la redazione di cataloghi di pubblicazioni a stampa.
Nella Definizione dei Principi se ne raccomanda l’uso in tutti i cataloghi di
biblioteche e negli elenchi alfabetici di pubblicazioni.
I Principi di Parigi non sono un codice di catalogazione, ma un quadro di
norme di riferimento per i codici nazionali e si occupano delle intestazioni, quali
punti di accesso all’informazione catalografica e trascurano la descrizione formale
della pubblicazione e la gestione dei cataloghi.
Le questioni trattate riguardano le funzioni e la struttura dei cataloghi; i tipi di
intestazioni e loro funzioni; le intestazioni di enti collettivi; le opere in collaborazione; le raccolte; la schedatura sotto il titolo e le parole d’ordine per i nomi di persona.
L’International meeting of catalouging experts (1969) convocato successivamente dall’IFLA a Copenaghen, ampliò lo spettro delle problematiche espresse dai
Principi, ma soprattutto avviò il lungo percorso di ricerca di criteri uniformi e standardizzati in cui far rientrare le forme di intestazioni per nomi di persona, per opere
classiche anonime, ma soprattutto quelle riguardanti le codifiche da dare alle pubblicazioni degli enti, per la ovvia difficoltà di trovare un unico sistema uniforme linguistico cui far aderire le strutture nazionali linguistiche diverse.
L’ elaborazione dei principi di standardizzazione dei linguaggi comunicativi
consente il Controllo Bibliografico Universale (U.B.C.), anche attraverso la
predisposizione di liste nazionali di forme ufficiali per connettere la forma standard
internazionale con la nazionale specifica. L’importanza dell’International meeting
va collegata all’intuizione di raccomandare l’impiego di norme standardizzate per
la descrizione formale dei vari materiali di cui può dotarsi una biblioteca.
Risale al 1974 la prima norma di descrizione in forma standard: l’ISBD(M)
cui nel tempo sono seguite numerose altre che scaturiscono dall’ISBD(G) del 1977.22
22
Per l’origine e le successive edizioni dei formati qui in elenco: ISBD (CM) per il materiale cartografico;
ISBD (NBM) per il materiale non librario; ISBD (S) per i periodici; ISBD (A) per il libro antico; ISBD (An) per gli
spogli; ISBD (CP) perle parti componenti, ISBD (PM) per la musica a stampa; ISBD (CF) per i computer files;
ISBD (ER) per le risorse elettroniche, vedi: Mauro GUERRINI, La catalogazione, Roma, A.I.B., 2000, pp. 25-26.
282
Enrichetta Fatigato
Tutti i sistemi di catalogazione nazionali si sono adeguati, dal 1961 in poi, ai
criteri stabiliti dai Principi di Parigi e dall’elaborazione della struttura delle ISBD.
In particolare, ricordiamo le Anglo-American Cataloguing Rules 1 e poi 2,
perché costituiscono, ancora oggi, per l’ampiezza elaborativa, un grande punto di
riferimento per la compilazione e revisione di codici locali e nazionali e internazionali, e per la descrizione di tutto quel materiale di recente generazione che entra
nelle biblioteche.
In Italia i Principi di Parigi e le ISBD sono stati recepiti nelle Regole Italiane
di Catalogazione per Autori (RICA) del 1979.
La comunità dei bibliotecari fa oggi riferimento anche ad altri sistemi normativi e linguistici speciali per una più precisa descrizione e identificazione dei documenti, a livello internazionale.
In particolare, l’International Organization for Standardization (ISO), di cui
l’Italia è membro attraverso l’Ente Italiano di Unificazione (UNI), ha fornito codifiche per le identificazioni di diversi tipi di documenti.
A titolo esemplificativo citiamo l’ISBN e l’ISSN, le abbreviazioni di parole, la
conversione delle lingue scritte con tabelle di traslitterazione (ISO R/ 233: vedi Appendice VI (RICA), le norme per la compilazione di thesauri monolingue (ISO 2788),
lo standard OSI per le biblioteche: rappresentazione dei processi di interconnessione
fra sistemi aperti (ISO/7498), l’UNI 6392 per i cataloghi alfabetici di periodici in cui
sono recepite le ISBD(S) e le norme ISO per il trattamento dei periodici.
9. I formati per lo scambio e la circolazione delle informazioni
Dal 1974 all’U.B.C. lavora l’IFLA al fine di realizzare il controllo di tutte le
pubblicazioni di materiale bibliografico, su qualsiasi supporto, e per consentire alle
agenzie bibliografiche e alle biblioteche nazionali di agevolare l’accesso alle pubblicazioni.
Scopo dell’U.B.C. è consentire lo scambio di informazioni bibliografiche in
un formato riconosciuto a livello internazionale, controllato e condiviso.
La doppia esigenza di creare sia reti di scambio internazionali di registrazioni bibliografiche, che la possibilità di accedervi, generò il formato di scambio leggibile dal calcolatore chiamato MAchine Readable Catalogue.
Con l’adozione del MARC, tutte le norme e gli standard descrittivi precedentemente illustrati, risultano catturabili dall’elaboratore anche all’interno di sistemi diversi.
In Italia, il formato di scambio adottato dalla Bibliografia Nazionale fu, dal
1975 al 1984, l’ANNAMARC, fino alla successiva adozione del formato UNIMARC, in seguito alla produzione di registrazioni nel Servizio Bibliografico Nazionale.
Parallelamente all’evoluzione delle ISBD si sono realizzate nuove edizioni
dell’UNIMARC per adeguare i formati di scambio ai nuovi supporti.
283
La comunicazione in biblioteca
Il Permanent UNIMARC Control, creato dall’IFLA dopo il 1991, consente
di mantenere il formato e di adeguarlo costantemente alle variazioni degli standard.
A titolo di esempio, citiamo la transcodifica dell’OPAC dell’Indice del Servizio Bibliotecario Nazionale realizzato con la ISO Z 39.50 e del Web in UNIMARC.
Ricordiamo, inoltre, l’impegno dell’IFLA per concorrere alla riduzione dei
costi di catalogazione, giovandosi degli effetti benefici che la catalogazione partecipata contribuisce a realizzare, congiunta ad una sempre maggiore semplificazione
dei codici catalografici, in particolare con l’avvento dell’editoria elettronica e le risorse in rete.
Il rapporto redatto nel ’97 sui Requisiti Funzionali per i Record Bibliografici
(FRBR 1997) rappresenta la base più recente di definizione e identificazione delle
entità che gli utenti ricercano in un record bibliografico, le caratteristiche di ciascuna entità e le relazioni fra entità diverse.
10. I supporti della comunicazione
Esaminati alcuni principi generali che sovrintendono la formazione del sistema e della struttura comunicativa biblioteca, guardiamo ora gli strumenti che consentono la trasmissione strutturata della comunicazione bibliografica e documentaria: i supporti comunicativi primari, secondari, terziari e gli agenti del trasferimento comunicativo.
I supporti comunicativi primari sono le raccolte e i fondi bibliografici e documentari che caratterizzano la biblioteca e rendono conto della sua storia istituzionale e ne definiscono la mission. La gestione di questi supporti comporta la previsione degli spazi da destinare alla sistemazione fisica del materiale, l’adozione di
regimi e criteri per la loro localizzazione (scaffali aperti, criteri bibliometrici,
stoccaggio e scarto), la valutazione dell’adeguatezza quantitativa e qualitativa delle
raccolte ai bisogni degli utenti locali o remoti, la costituzione di fondi speciali.
I supporti comunicativi secondari sono le tecniche che consentono la selezione, la raccolta e la trasmissione delle informazioni relative agli stessi supporti
primari.
Più genericamente noti come cataloghi e bibliografie, hanno il compito di
realizzare per ciascun documento una registrazione che lo identifichi rispetto ad
altri, evidenzi l’occasione editoriale della pubblicazione, descriva tutto il suo corredo formale e di contenuto, in modo tale che la relazione fra i dati descritti possa
consentire, per esempio nei cataloghi elettronici, l’accesso all’informazione.
I supporti comunicativi terziari, infine, sono i moderni supporti di comunicazione che prescindono sia dai documenti fisici che dalle strutture secondarie; questi
prevedono la produzione, codificazione e analisi del documento all’interno di sistemi digitali e la loro circolazione in un sistema planetario di connessioni e su cui,
oggi, più che per i documenti materiali, si impone l’attenzione al controllo, alla
tutela degli accessi e al grado di autorevolezza delle fonti.
284
Enrichetta Fatigato
Gli intermediari della trasmissione comunicativa bibliotecaria si pongono ai
nodi di scambio fra domande e bisogni informativi sempre più circoscritti e offerte
che, pur esercitandosi attraverso le più classiche operazioni biblioteconomiche di
selezione, controllo, organizzazione, analisi, valutazione e disseminazione di informazioni bibliografiche, devono tener conto dei più recenti orientamenti in tema
di information management. Occorre vincere la sfida di quella informazione circolante via etere che, mentre realizza identità fra contenuto delle scienze e forma della
loro trasmissione, può lasciare interi bacini culturali poco attrezzati in isolamento
comunicativo, spiazzati dalle risoluzioni commerciali on-line e, anche, dall’anarchia della rete.
In questo terzo millennio la funzione del bibliotecario si conferma e si delinea figura nodale di riferimento per la trasmissione e l’uso dei linguaggi comunicativi della biblioteca, per il reference material e l’information retrieval in rete e per il
riassetto e il potenziamento di prestazioni di servizi qualitativamente valide, efficaci e speciali in termini di relazioni soddisfacenti con i destinatari della comunicazione, qualificabili sempre più come servizi di orientamento all’uso degli strumenti
per l’accesso alle conoscenze.
In questo senso, il Manifesto dell’UNESCO del 1994 ha definito le biblioteche servizio culturale per eccellenza, riferimento locale per l’informazione e la crescita della persona e delle comunità.
Anche durante il seminario, “Appalti e qualità dei servizi in biblioteca”, svoltosi a Roma nella sessione di Bibliocom 2001 coordinato dall’Osservatorio lavoro
dell’AIB, è stato ribadito il ruolo della biblioteca all’alba del terzo millennio, quale
strumento indispensabile per il diritto di accesso all’informazione, e del bibliotecario come intermediario attivo fra risorse e utenze.
Un nesso biunivoco che può essere realizzato e misurato producendo e mettendo a regime servizi bibliotecari efficienti e offrendo prodotti qualitativamente
elevati, con una particolare attenzione agli accessi alle risorse elettroniche locali e
remote per utenze locali, ma anche remote.
Anche il gruppo di lavoro dell’AIB Gestione e Controllo nelle recenti Linee
guida per la valutazione delle biblioteche pubbliche italiane23 ha tracciato le direttive
per l’orientamento dei bibliotecari e degli Enti interessati perché contribuiscano
a) all’elevazione della qualità dei servizi in biblioteca
b) a potenziare l’adozione di standard e requisiti minimi condivisi per il funzionamento
c) a realizzare norme e indicatori per gli usi e le risorse remote
d) a monitorare lo status della cooperazione delle biblioteche in rete per la
condivisione di servizi informativi.
Per estrema coerenza con le specificità locali, occorre precisare che i criteri
23
ASSOCIAZIONE ITALIANA BIBLIOTECHE, Gruppo di lavoro gestione e valutazione, Linee guida per la valutazione delle biblioteche pubbliche italiane: misure, indicatori, valori di riferimento, Roma, A.I.B., 2000.
285
La comunicazione in biblioteca
più recenti di misura della user satisfaction nell’era degli accessi digitali, in alcuni
contesti bibliotecari risente non tanto e non solo della possibile, oggettiva difficoltà
di adozione e comparazione di set base di indicatori uniformi e di metodi statistici
standard,24 quanto di quei gap storici che hanno vincolato le risorse umane e le
propensioni culturali a metodologie professionali statiche e unidirezionali e all’uso
di risorse strutturali tenute in regimi di arretratezza e obsolescenza.
Si ritrovano in queste linee - guida alcune delle intuizioni già espresse da
Maltese:
non c’è biblioteca che non sia specializzata, non solo nel senso che ogni biblioteca può essere descritta nei filoni di interesse attorno a cui è venutasi formando e crescendo, ma, soprattutto, in quanto è sempre possibile, e anche necessario, procedere all’analisi delle singole biblioteche in termini di sistemi da definire nelle finalità proprie di ciascun sistema, nell’organizzazione finalizzata delle
parti che lo compongono e infine nell’ambiente su cui agisce e da cui riceve
stimoli e condizionamenti.
Biblioteca speciale è allora qualunque biblioteca in cui l’intermediazione tra
risorse documentarie disponibili (anche fuori della biblioteca stessa) e utilizzatori del sistema è sentita e realizzata, anche solo in parte, come trasferimento
dinamico di informazioni, e misurata sulla base dei successi e degli insuccessi.
Una gestione così intesa, sia chiaro, non è specifica o più adatta a questo o a
quell’altro tipo di biblioteca, poiché non è legata alla natura delle raccolte o alla
composizione del pubblico che pure, come abbiamo visto, sono elementi che
entrano necessariamente nell’analisi dei singoli sistemi, ma ai modi dell’intermediazione bibliotecaria. In questo senso ritengo che essa sia la sola in grado di
fornire indicazioni e orientamenti in Italia, all’istituto della biblioteca locale,
più che il loro modellamento sulla biblioteca pubblica di tradizione inglese e
americana.
[…] È soprattutto nelle biblioteche riappropriate dalle popolazioni locali che si
dovrebbe cercare di realizzare il massimo di personalizzazione e di specializzazione del servizio.25
11. Scriptorium elettronico vs. intermediazione bibliotecaria?
Intermediazione bibliotecaria e information managment, già a partire dagli anni ’80, hanno assottigliato le reciproche regioni di confine amplificando le
funzioni e le convergenze delle specifiche, singole professioni (L.J.Anthony,
D.Maltese).
24
Paolo BELLINI – Ivana RIZZI, I.S.O. 11620. Stima della Target pupolation. Indicatore B.I.I.I – user
satisfaction, in «Biblioteche oggi», Milano, Editrice bibliografica, Gennaio-Febbraio 2001.
25
Diego MALESE, A proposito di biblioteche speciali, in «La Biblioteca come linguaggio e come sistema»,
Milano, Editrice Bibliografica, 1985, pp. 154-156.
286
Enrichetta Fatigato
Anche Paolo Bisogno attribuiva al bibliotecario e allo specialista della
documentazione comunione d’intenti, nella predisposizione di servizi e prodotti attraverso l’impiego di metodologie scientifiche e impianti tecnologici
adeguati.
Lo scarto dei tempi più recenti è rappresentato dalle sfide che la globalizzazione delle reti comunicative lanciano al mondo e alle professioni delle biblioteche e della documentazione, a partire dall’inizio degli anni ’90.26 È sempre più
evidente l’integrazione, ove non anche possibile, la irriflessa commistione fra oggetto della ricerca bibliografica o documentaria e forma di presentazione e comunicazione:
L’elemento per me più significativo è la possibilità, insita in un sistema di documentazione elettronica in rete, di fondere in un sistema informativo tanto la
raccolta documentaria quando gli strumenti della sua indicizzazione (con tutto il corredo di problematiche tecniche relative alla definizione di unità bibliografica e di documento e relativi criteri descrittivi e di indicizzazione). Compare qui il possibile superamento di quella separatezza caratteristica di tutta l’età
moderna e si profila una approssimativa analogia (che ha il valore euristico
puramente allusivo) con la produzione (ed indicizzazione?) medievale di documenti che trova il suo spazio nella biblioteca ‘scriptorium’: un luogo dove si
scrive, si conserva, si legge, si trascrive. 27
Le professioni del settore sono tenute a dilatare sempre più le acquisite competenze orizzontali e ad amplificarle attraverso l’uso di sistemi informativi ad alto
valore aggiunto. Le forme e i tempi per l’accesso alla conoscenza e all’informazione
sono le chiavi di volta del vantaggio competitivo fra le organizzazioni, in primis, fra
quelle che tale accesso devono garantire sia realizzato e fruito in modo scientificamente selezionato e diffuso.
La contemporanea congiuntura utente/documento, così come delineata nella breve citazione di Gatti, deve essere tutelata in ogni sistema pubblico di documentazione o di biblioteca nazionale, locale, scolastica, universitaria o di ricerca,
dal potenziamento dei servizi di reference.
Servizi ‘della biblioteca’ quale agenzia di informazioni bibliografiche, ad accesso non settoriale e unidirezionale, in cui si impone la flessibile integrazione,
intersezione e interdisciplinarietà con quelle competenze professionali tipiche della
Società dell’informazione che creano nuovi vantaggi e nuove sfide, ma anche necessitano di nuove tutele per la relazione utente/documento, libro/lettore e bibliotecario, nel nuovo millennio.
26
Gabriele GATTI, La sindrome A.A.V.V.: utenti finali tra disintermediazione tecnologica e trappole
bibliografiche, in Ornella FOGLIENI, La biblioteca amichevole: nuove tecnologie per un servizio orientato all’utente, Milano, Editrice Bibliografica, 2000.
27
Giovanni GALLI, Il nuovo scriptorium: produzione documentaria nella biblioteca multimediale, in Ornella
FOGLIENI (a cura di), Biblioteca e nuovi linguaggi, Milano, Editrice Bibliografica, 1998, pp. 109-116.
287
La comunicazione in biblioteca
Nella realizzazione di sistemi multimediali di accesso alle informazioni, di
sviluppo e potenziamento delle reti di cooperazione per la diffusione informatica della documentazione e per la loro omogeneizzazione in ambienti cognitivi
integrati, (vedi l’esperienza della Mediateca di Santa Teresa a Milano) permane e
si potenzia, l’atteggiamento culturale e professionale di chi nel tempo, attraverso
l’uso dei nomoi della biblioteca ha cercato di governare e ‘catturare’ il flusso dei
saperi codificati nei documenti, garantendo per le fonti informative primarie e
secondarie
a) il reperimento
b) la selezione
c) la registrazione catalografica
d) la sistematizzazione e indicizzazione semantica
e) la localizzazione
f) il controllo
g) la diffusione e la circolazione
Si riverbera quello che fu l’antico sogno dei bibliografi del ‘500: governare le
produzioni librarie attraverso l’uso della bibliografia segnaletica universale,
concretizzatasi nella Bibliotheca Universalis di K. Gesner e via via, a giungere ai
primi anni del ‘900 a realizzazioni quali il Rèpertoire bibliographie universel di Otlet
e La Fontaine.
Erano impostazioni metodologiche costrette a franare di fronte all’ingigantirsi dell’universo delle produzioni documentarie, alla specializzazione degli ambiti
disciplinari e alla necessità di articolare strumenti tecnici di controllo non più circoscritti a singoli fondi librari e all’attività di bibliografi illuminati.
La separazione fra bibliografia e biblioteconomia in ambiti affini, ma specialistici, affidò alla prima i compiti della repertorialità delle aree tematiche e delle articolazioni delle scienze, e all’altra la gestione delle biblioteche attraverso gli
strumenti del controllo dei flussi documentari e destinati alle utenze pubbliche. I
bibliotecari del terzo millennio devono non tanto e non solo garantire l’uso dei
nuovi strumenti e l’esercizio di nuove competenze per l’accesso alle conoscenze,
ma tutelare la specialità, l’autorevolezza, la selezione e la diffusione controllata
dei flussi documentari favorendo la crescita di utenza attiva e consapevole dei
percorsi di accesso selettivo agli strumenti e alle forme di rappresentazione dei
contenuti.
Le biblioteche si trovano a dover gestire servizi di informazione bibliografica
e di disponibilità di documenti che non ammettono ostacoli, lacune o zone
d’ombra, considerata l’esigenza degli studiosi di accedere in modo agevole,
tempestivo ed esaustivo a informazioni e documenti ovunque questi siano
pubblicati.
La separazione tra materiale posseduto e materiale non posseduto […] non
regge più, essendo impensabile che una biblioteca possa presumere di impostare i suoi servizi unicamente sulle proprie raccolte documentarie; anche per
le attività tecnico-professionali le biblioteche avvertono la necessità di ap288
Enrichetta Fatigato
poggiarsi a strutture e servizi che ne favoriscano l’operatività. Quando si parla di condivisione delle risorse fra le biblioteche, quindi, non bisogna intendere solo la possibilità di cooperare nel campo della formazione delle raccolte bibliografiche e nei servizi di prestito [...], ma anche per il complesso delle
attività di mediazione che le biblioteche esercitano.28
Questa funzione di mediazione va intesa come sistema integrato di risorse
documentarie, di strategie professionali e strumenti per la circolazione e fruizione
delle pubblicazioni che orientino il temuto paradosso di accesso all’informazione
senza bibliotecari e di documentazione senza intermediazione.
Nel confronto con le sfide che l’universo delle comunicazioni digitali lanciano
al mondo delle biblioteche, l’abilità professionale di chi valuta, seleziona, organizza e
rende fruibile l’accesso alle risorse in rete (gratuite e/o commerciali) restituisce valore
aggiunto al servizio agli utenti della istituzione bibliotecaria.
Solo servizi improntati alla ricerca di qualità ed efficienza possono invertire
la tendenza della ricerca affidata all’autonomia dell’utente che ‘naviga’ in rete favorito dall’editoria commerciale, che affianca a produzioni cartacee di periodici, versioni in formato digitale e ha progressivamente polverizzato i formati delle unità
bibliografiche, dalle monografie ai periodici, agli spogli e ai servizi elettronici di
document delivery, con costi competitivi rispetto alle produzioni a stampa.
La recente tecnologia push automaticamente trasferisce sullo scriptorium virtuale dell’utente informazioni provenienti dalle più disparate fonti, senza che si
possa realizzare alcun controllo di autorità, sovraccaricando l’ambiente cognitivo
del cosiddetto information overload elettronico, privo di orientamento.
Il ruolo dell’intermediario bibliotecario va individuato proprio nell’orientamento all’uso e al reperimento delle fonti, siano esse su supporti tradizionali che ad
accesso elettronico, nella predisposizione dei linguaggi condivisi e condivisibili di
indicizzazione e ricerca, nella realizzazione della ricerca stessa, nella predisposizione e verifica di strategie economiche di ricaduta del servizio sugli utenti, nella riformulazione di aree di ricerca più avanzate, nella valutazione finale della user satisfaction e nella localizzazione e fornitura dell’accesso ai documenti.
In sostanza, si tratta di una vera e propria azione di user orienting, in cui il
valore aggiunto dell’intermediazione non si limita solo ad offrire una risposta per
ogni domanda, ma è in grado di modificare l’espressione della domanda iniziale,
guidando l’utente attraverso le ‘trappole bibliografiche e tecnologiche’ ad un progressivo rovesciamento del ruolo dell’intermediario.
Nel confronto con le sfide delle tecnologie elettroniche non regge più tanto
l’essere mediatori fra bisogno di ricerca e prodotto finito, ma occorre essere garanti
di un progressivo percorso relativo e non assoluto di emancipazione dell’utente
nella ricerca bibliografica, instaurando rapporti di alfabetizzazione/consulenza.
28
Giovanni SOLIMINE, Controllo bibliografico universale, Roma, Associazione Italiana Biblioteche, 1995,
p. 7.
289
La comunicazione in biblioteca
A questa qualificazione della professione bibliotecaria hanno condotto le
tappe che la moderna biblioteconomia ha compiuto sin dalla citata Conferenza di
Parigi
a) per adeguare gli strumenti di connessione utente/documento attraverso
procedure condivise, standardizzate, normalizzate e controllate,
b) per rinsaldare gli scopi della cooperazione nazionale e internazionale intorno al trattamento delle risorse elettroniche, delle banche dati e degli
accessi alle fonti elettroniche,
c) per lo sviluppo e il potenziamento dei servizi resi dalle biblioteche,
d) per la condivisione di regimi e protocolli internazionali per gli accessi alle
fonti documentarie,
e) per rendere i cataloghi bibliografici strumenti di accertamento delle opere
e delle edizioni di autore,
f) o per l’uso sui cataloghi di intestazioni uniformi per i nomi degli autori/
persona e degli enti/autori
g) o per la diffusione di standard descrittivi internazionali per le registrazioni bibliografiche.
Le risoluzioni di Parigi hanno ispirato la redazione di oltre venti codici di
catalogazione nazionale, di cui citiamo
a) 1 del 1967 e AACR 2 del 1978 e le successive revisioni in corso, a cura del
Joint Stearing Committe
b) la RICA del 1979 in corso di revisione a cura dell’ICCU per adeguarle ai
vari formati di rappresentazione delle pubblicazioni e le Anglo American
cataloguing rules.
Le AACR offrono criteri e principi standard per il trattamento di documenti
in qualsiasi forma o formato. Nel tempo, hanno favorito lo sviluppo di servizi bibliografici fondati sulla condivisione di record bibliografici e di liste di autorità
uniformi. In un’epoca in cui occorre affiancare alle risorse più tradizionali delle
biblioteche i sistemi in linea a struttura complessa, gli OPAC (on line access catalogue) sono la struttura portante dei sistemi bibliotecari integrati per instaurare di
condivisione di risorse digitali attraverso portali e gateways.
Barbara Tillett,29 nel convegno svoltosi a Roma sulle Risorse elettroniche,30 ha riferito del recente processo di revisione cui sono sottoposte le Regole
angloamericane per estendere il loro uso anche alla descrizione catalografica delle
risorse elettroniche (cap.9), non più identificate come archivi per elaboratore. La
Tillett ha riferito dei problemi relativi all’area 5 della descrizione fisica di quei
materiali che, anche se girano nell’etere, hanno comunque una loro estensione e
per i quali è necessario adeguare il lessico delle designazioni specifiche del mate-
29
Barbara B. TILLET, Gli aggiornamenti delle AACR per le risorse elettroniche. La risposta di un codice di
catalogazione multinazionale. Un approfondimento, in http://w3.uniroma1./ssab/er/it/programma.
30
International conference “Electronic resources: definition, selection and cataloguing” Roma, novembre 2001, in http://www.uniroma1.it/SSAB/ER/htm.
290
Enrichetta Fatigato
riale (SMD) agli usi più convenzionali degli utenti (CD-Rom invece che disco
ottico per es.).
Nuove direttive all’impianto del capitolo 12 sui seriali, mirano a stabilire i
livelli descrittivi per le risorse reperibili sul Web, gli e-journal, i database in aggiornamento programmato, le pubblicazioni a fogli mobili e un po’ tutte le risorse in
continuazione.
L’orientamento più recente è quello di abolire la parte 1 delle Regole per riorganizzarla in un’unica struttura più uniforme rispetto ai formati e simile alla struttura
ISBD, evolvendo verso registrazioni basate sull’espressione legate ai record per specifiche manifestazioni, secondo la terminologia dei requisiti funzionali (FRBR).
Anche la struttura ISBD è sottoposta a progressive modifiche, seguenti al
contemporaneo modificarsi dei supporti della comunicazione e della informazione: si pensi alla struttura di ISBD(S) già revisionata nel 1988.
Il dibattito sulla registrazione catalografica dei seriali si è ulteriormente evoluto per la descrizione di quelle unità che non sono strictu sensu un seriale, pur
rivestendone alcune caratteristiche: le risorse integrative, le risorse in continuazione nei formati a stampa e nei formati elettronici disponibili sui siti Web.
Il gruppo di lavoro della Library del Canada, nominato dall’Ifla per la revisione degli standard per i seriali, collabora con i membri della rete ISSN e delle
AACR per ridurre al massimo le differenze fra i reciproci standard, cosicché anche
la rete di ISSN sta rivedendo le proprie impostazioni.
Ad analogo processo di revisione sono sottoposte le ISBD(CM), per i materiali cartografici disponibili in rete.
Le stesse ISBD(ER) dal 1997 sono in fase di revisione per adeguarle non solo
a risorse testuali monografiche, ma seriali, in continuazione e cartografiche. 31
L’orientamento più recente è quello di revisionare l’intero impianto ISBD
quando sia necessario ricorrere a più di una ISBD per realizzare un record bibliografico.
L’impulso dato dall’IFLA alla comunicazione fra biblioteche attraverso lo
scambio di record bibliografici costruiti con standard internazionali per la descrizione dei diversi formati e l’impianto dato dalla struttura delle ISBD per il trattamento nelle biblioteche, ha contribuito, dal ‘69 ad oggi, al superamento delle barriere linguistiche di comunicazione.
Si è aperta la strada al controllo bibliografico internazionale e si è favorita la
conversione dei record bibliografici in formato leggibile dall’elaboratore, garantendo il controllo di autorità per le scelte realizzate e disponibili per gli utenti delle
biblioteche.
Le risoluzioni della 39ª Conferenza dell’IFLA di Grenoble del 1974 definirono compiti e finalità del Controllo Bibliografico Universale quale sistema mondiale e di azione permanente:
31
Dorothy MCGARRY, ISBD (CR) e ISBD (CM): Problemi nella catalogazione delle risorse elettroniche
in continuazione e dei materiali cartografici, in http://w3.uniroma1./ssab/er/programma,htm.
291
La comunicazione in biblioteca
a) per migliorare e adeguare le infrastrutture di comunicazione
b) per sostenere le professioni della documentazione e delle biblioteche nell’esercizio di servizi qualificati di accesso ai bisogni informativi delle utenze
c) per garantire programmi internazionali di cooperazione per il controllo e
lo scambio delle informazioni bibliografiche su base nazionale
d) per sostenere la condivisione internazionale delle procedure di identificazione registrazione e diffusione dei formati per le registrazioni.
Il risultato di questo lungo processo è stato l’adozione internazionale del
formato MARC, divenuto poi MARC2, quale condizione strutturale fondamentale perché i dati organizzati in condivisione ISBD potessero essere gestiti, immagazzinati e trasferiti nei regimi della cooperazione bibliotecaria.
Come è noto, dopo le sperimentazioni di adattamenti su scala nazionale
(UKMARC in Gran Bretagna, ANNAMARC per la bibliografia italiana a cura
dell’ICCU), negli anni ‘70 si è giunti all’adozione di un unico formato, l’UNIMARC,
condiviso su scala internazionale, interfacciato e armonizzato con ISBD e sottoposto a revisione conseguentemente alle revisioni degli standard descrittivi.
Nella relazione svolta al citato convegno di Roma sulle risorse elettroniche,
Scolari ha, inoltre, sottolineato la progressiva armonizzazione dei formati bibliografici MARC e UNIMARC agli standard descrittivi per le risorse elettroniche e
per i seriali. L’adeguamento del formato UNIMARC allo standard descrittivo ISBD
(ER) ha sollecitato alcune attente riflessioni sullo standard stesso, suscitate dalla
consapevolezza della natura e funzione diversa dello standard e del formato, ma
che diventano occasione di valutazione per l’obiettivo che si propongono di rendere agevole e diretta la registrazione bibliografica per gli utenti finali di risorse elettroniche locali e remote.
In particolare, nella presentazione dell’etichetta UNIMARC 215, che corrisponde all’area 5 ISBD della ‘descrizione fisica del materiale ’ si precisa che “l’etichetta è ripetibile solo nel caso di kit multimediali, secondo la corretta opzione
prevista da sempre in ISBD(G)”32 ma non in maniera altrettanto chiara viene espressa
nella introduzione all’area 5 di ISBD(ER).
Infatti, ISBD(ER) seguendo la precedente impostazione di ISBD(NBM) e di
ISBD(CF) consiglia di realizzare differenti registrazioni bibliografiche o di replicare l’area 5 per i diversi supporti e facendo corrispondere una riga ad ogni descrizione specifica.
Ma se questa indicazione vale per i kit multimediali, come regolarsi per documenti uguali ma su supporti diversi?
La duplicazione dell’etichetta, in questo caso, metterebbe l’utente di fronte a
scelte alternative, mentre sarebbe più opportuno descrivere uno dei formati in area
5 e l’altro in nota, evitando la duplicazione dell’area per i manuali di accompagna-
32
Antonio SCOLARI, Le risorse elettroniche in UNIMARC, in http://w3.uniroma1./ssab/er/programma.htm
292
Enrichetta Fatigato
mento per i quali lo standard stesso prevede la segnalazione nella sotto area del
materiale allegato 5.4.
Inoltre, l’etichetta MARC 856 corrisponde alla nota relativa alle modalità di accesso a risorse elettroniche remote di ISBD(ER) e si trova al di fuori del blocco delle
note perché non si tratta di una nota descrittiva vera e propria, fra l’altro poco formalizzata dallo standard stesso, ma di un legame che, nei cataloghi automatizzati, è attivabile
dall’utente stesso e gli consente di accedere direttamente alla risorsa remota.
Una differenza comprensibile per la natura e gli scopi eminentemente descrittivi dello standard e del formato che consente l’accesso alle descrizioni in rete.
L’etichetta 856, già presente in MARC21, ora in UNIMARC comprende numerosi sottocampi di vasta formalizzazione per un pieno e flessibile uso nei sistemi
in rete. A differenza di MARC 21 che la prevedeva anche nelle registrazioni di
documenti a stampa che rinviassero a loro versioni elettroniche intere o parziali,
UNIMARC la impiega solo per la localizzazione del materiale in versione elettronica, utilizzando l’etichetta 452 (altra edizione su diverso supporto) per il legame
fra la versione elettronica e quella presente in un altro media (opera posseduta in
formato cartaceo e su CD-ROM), lasciando all’utente che naviga in OPAC di scegliere tra i due formati descritti usando l’etichetta 488 per quei legami più generici
e meno diretti fra versioni non identiche, ma affini e più o meno ampi.
Le note descrittive di ISBD perciò sono piuttosto carenti, non consentendo
nella loro articolazione le relazioni di collegamento fra opere ed opere, azione più
tipica della ricostruzione della storia bibliografica dei documenti, per esempio dei
seriali.
Il succo, se si vuole, potrebbe essere quello della tendenza nei fatti, non ancora
però nelle versioni disponibili di ISBD a una descrizione bibliografica più
smagrita in cui non sono impropriamente inseriti dati che pertengono non alla
descrizione ma ad altri ‘luoghi’ della registrazione catalografica. Parrebbe legittimo sperare in una evoluzione delle varie ISBD, che tenga davvero in conto
i risultati di FRBR, anche se le bozze circolanti di prossime revisioni paiono
soprattutto preoccupate, magari giustamente, di conservare un forte legame
con le precedenti edizioni e quindi il travaso di FRBR nelle ISBD sembra essere tutt’altro che immediato.33
Ora, al di là delle pessimistiche previsioni di Scolari, guardiamo a quali linee
di orientamento possono condurre le armonizzazioni dei formati e l’omogeneizzazione degli standard, in particolare per il mediatore bibliotecario e per la nuova
utenza dell’era digitale.
Credo che la pubblicazione dei Requisiti Funzionali per Record Bibliografici
rappresenti il momento in cui l’interesse prevalente della catalogazione si volge
33
Ibid.
293
La comunicazione in biblioteca
dalla definizione di criteri certi per la descrizione dei documenti all’elaborazione di dispositivi per mettere quegli stessi documenti in relazione fra loro.
Gli oggetti vengono, dunque, correlati, piuttosto che essere semplicemente
descritti.
Tessere la rete delle relazioni esistenti fra documenti è una procedura che richiede competenze specifiche e la creazione di una nuova figura di bibliotecario in grado di sovrintendere alla costituzione dei collegamenti fra le registrazioni.34
Gli impegni più recenti dell’IFLA, riferiti al convegno romano dalla Plassard
dell’IFLA, a proposito dello sviluppo e uso di tecnologie elettroniche nei diversi
contesti bibliotecari, sono particolarmente attenti e mirati “a promuovere la biblioteconomia globalmente, in particolare attraverso la fornitura di accesso eguale ai
programmi di alfabetizzazione sull’informazione, e la conservazione del patrimonio documentario mondiale”.35
Un progetto di grande portata realizzabile attraverso il potenziamento di
tecnologie ad impatto economico ridotto, che coinvolge più direttamente le agenzie bibliografiche nazionali (NBA), la gestione controllata dei diritti, l’adeguamento
degli standard descrittivi e classificatori alle risorse disponibili in rete.
Anche l’ISBD Review Group e lo Standing Committee Section on Cataloguing
dell’IFLA lavorano alla revisione in atto dell’impianto ISBD e alla loro integrazione e conformazione ai Requisiti Funzionali per i Record di Base descrittiva, anche
per le risorse elettroniche e i seriali.
Analogo impegno viene profuso dall’IFLA per la condivisione internazionale di direttive standard per l’authority control, anche dei rinvii e dei soggetti, a seguito delle novità introdotte dalle reti e dai nuovi standard che li descrivono, per
consentire gli accessi.
La ricaduta di tutto questo impegno della comunità internazionale dei bibliotecari (tratteggiato fin qui solo nelle linee essenziali), come è ovvio, si registra
anche negli assetti di realizzazione e gestione degli OPAC.
La Plassard aggiunge: “Un altro progetto iniziò nel 1996 quando i colleghi
finlandesi suggerirono alla Division of Bibliographic control and UBCIM un progetto finalizzato alla produzione di direttive per migliorare la visualizzazione degli
OPAC e il recupero”. 36
La realizzazione delle OPAC Guidelines è ormai in stato di avanzata realizzazione e dovrebbe essere pubblicato prima della Conferenza IFLA del 2002 di
Glasgow.
34
Paul Gabriel WESTON, Catalogazione bibliografica : dal formato MARC a FRBR, in «Bollettino AIB»,
marzo 2001, pp.270-271.
35
Marie-France PLASSARD, La risposta dell’IFLA, in http://w3.uniroma1./ssab/er/programma.htm
36
Ibid.
294
Enrichetta Fatigato
Antonio Scolari37 ha ripercorso l’iter storico degli OPAC negli usi delle biblioteche a partire dagli anni ’60, fino alla recente e concreta necessità di una attenzione degli enti di normalizzazione e standardizzazione alla verifica dei requisiti di
base di un sistema di automazione.
L’evoluzione delle ricerche per adeguare le tecniche di registrazione catalografica a formati standard e ai principi catalografici uniformi e standardizzati (di
cui nei paragrafi precedenti si è offerto un profilo d’insieme e aggiornato agli ultimi
interventi riferiti durante il congresso di Roma) ha consentito l’ampliamento delle
possibilità di accedere negli OPAC a liste uniformi di autori, titoli e soggetti e di
usare l’accesso alle keyword attraverso la logica booleiana, migliorando per gli utenti
la visualizzazione dei vari formati della registrazione bibliografica e assimilando le
pratiche di ricerca alla funzionalità delle basi dati on-line con possibilità di accesso
all’informazione senza intermediatori, facilitati dagli help contestuali alle schermate di ricerca, per accessi più o meno esperti.
L’applicazione dello standard Z 39 50 consente l’ampliamento delle funzioni
per l’information retrieval e, attraverso la prima fase di incasellamento delle specifiche UNIMARC nei campi strutturati del protocollo, ha reso possibile la ricerca
bibliografica sui cataloghi in linea delle biblioteche.
Il passo successivo è stato quello di creare protocolli connection - oriented, che
cioè consentissero di poter preservare i dati di ricerca ottenuti in un set su cui l’utente
potesse intervenire successivamente per perfezionare o riordinare i dati raccolti.
L’espansione della ricerca tramite Z39 50 su reti diverse per tipologie di host
collegati e per basi dati disomogenee quali quelle presenti in Internet, favorisce
l’utente che con un medesimo linguaggio di ricerca accede a più fonti catalografiche
mantenendo il dialogo con i diversi ambienti di ricerca per tutto il periodo di durata della sessione di lavoro.
L’applicazione del WEB in biblioteca accoppiato allo standard Z39 50 supera gli accessi alle fonti documentarie in forma unidirezionale e consente la
strutturazione del formato catalografico di recupero dati in ambiente ipertestuale
e in cui, a partire da una query è possibile accedere a nuovi set di risultati, attraverso link previsti.
Dal punto di vista dei metodi di interrogazione accanto alla classica ricerca tramite operatori booleiani si incomincia a intravedere l’integrazione anche negli
OPAC di metodi. Noti da tempo e utilizzati nel mondo dell’informazione in
linea, basati sull’analisi della rilevanza delle registrazioni trovate durante la ricerca e sulla loro presentazione ordinate sulla base della rilevanza; collegata a queste
metodologie di ricerca è anche la cosiddetta retroazione di rilevanza (relevance
feedback), un processo secondo cui il giudizio di rilevanza o di non rilevanza,
espresso da un utente a proposito di un documento, viene rinviato al sistema di
37
Antonio SCOLARI, Efficacia vs Facilità? Linee di evoluzione degli OPAC, in O. FOGLIENI (a cura di), La
Biblioteca amichevole, Milano, Editrice Bibliografica, 2000.
295
La comunicazione in biblioteca
information retrieval che può così correggere il valore di rilevanza del documento, presentandolo in successive ricerche simili sulla base del nuovo peso attribuitogli.38
12. Il reference per la Biblioteca Provinciale di Foggia
Quale può essere la ricaduta delle considerazioni fin qui tratteggiate per il
contesto della Biblioteca Provinciale di Foggia in cui l’assetto attraversa la fase di
ibridazione dei servizi?
Le risorse elettroniche stanno affiancando le tradizionali dotazioni patrimoniali e lo strumento comunicativo esercitato attraverso il reference non può prescindere dalla consapevolezza del contesto su cui attestare le ipotesi di lavoro per il
recupero dello storico gap funzionale di servizi e il progressivo avvicinamento agli
standard medi nazionali di qualificazione di proposte e prestazioni.
Il reference deve necessariamente essere la rifrazione speculare dell’impegno
profuso per:
a) l’ammodernamento e l’informatizzazione degli impianti
b) il potenziamento e la valorizzazione delle risorse umane (organiche, a contratto determinato, in outsourcing e, da ultimo, di volontariato qualificato)
c) i nuovi percorsi che l’introduzione e il potenziamento della mediazione
catalografica elettronica lasciano intravedere
d) la creazione di macro-aree funzionali alla riorganizzazione dei servizi
e) la riqualificazione, l’aggiornamento e l’arricchimento delle collezioni, anche attraverso l’ingresso delle risorse elettroniche locali e remote.
È, peraltro, in via di definizione compiuta la costituzione del Polo di Foggia
del Servizio Bibliotecario Nazionale.
Elemento determinante, per scongiurare definitivamente il riverbero negativo
sui servizi ad assetto elettronico del mancato collegamento alla base di cooperazione
nazionale, in particolare e non solo, in relazione alle azioni di deposito legale e di
InterLibrary Loan (prestito interbibliotecario) e di Document Delivery (fornitura di
documenti) e di cooperazione catalografica, ma anche per il governo, su base consortile,
e con prevedibile risparmio di economie, degli accessi in rete alle risorse elettroniche
di periodici, di spogli di articoli e di banche dati specialistiche che hanno, tutti, nei
servizi di reference la prima interfaccia con la possibile utenza.
È assolutamente necessario concentrare la tenacia del governo politico di definitiva transizione, portando a buon fine le azioni e le intese che portino la Provinciale
in S.B.N., perché dall’appena trascorso solipsismo cartaceo, non si cada nel solipsismo
dell’elettronico a rete locale, non essendo assolutamente qualificante per l’offerta di
38
Ibid, p. 152.
296
Enrichetta Fatigato
servizi, sopperire alla mancanza della cooperazione bibliotecaria in rete con la sola,
pur valida, disponibilità degli accessi Internet predisposti nelle singole sale.
L’altro aspetto che si vuole in premessa sottolineare è contenuto nella caratteristica propria del reference alla Provinciale di Foggia, che per un periodo di tempo non quantizzabile si collocherà nella grande area della trasformazione dei servizi sostenuti da procedure cartacee e manuali (e mai, nel passato, sistematicamente
analizzati e monitorati anche con semplici operazioni di rilevazione cartacea delle
utenze e degli usi), a procedure di progressiva ibridazione elettronica di prestazioni e di funzioni.
Occorre condividere un prerequisito mentale fondamentale, consistente nella convinzione che ancora per qualche tempo si dovrà convivere con l’habitus
metodologico dell’esplorazione di sistemi possibili, valutando volta per volta, in
itinere, le situazioni come si manifestano e come gli addetti ai servizi li presentano,
alternando il cartaceo all’elettronico locale, all’on-line e agli usi remoti.
Siamo in una fase di trasformazione aperta, in cui ogni previsione ha il carattere dell’impossibile, ove non esistono procedure che possano darci la sicurezza di
evitare errori, pericoli e responsabilità.
Sorregge questa fase:
a) la certezza salda della mission dell’Istituto diretta alla fornitura di servizi
informativi che dovranno virare dai sistemi per il possesso dei documenti
ai moderni regimi di accesso alle fonti
b) la certezza che la suddetta virata non potrà prescindere dal costante monitoraggio dell’adeguatezza dei regimi di servizio individuati, al fabbisogno informativo non solo espresso, ma soprattutto disorientato
c) la certezza che le competenze professionali di tutti gli addetti alla mediazione catalografica non basta più che siano biblioteconomicamente qualificate
nella gestione sempre più integrata di tutti i formati di manifestazione dei
documenti, (realizzata anche attraverso la necessaria e improcrastinabile
implementazione dell’uso di tutti moduli dell’applicativo SEBINA), ma che,
da subito, siano orientate all’intersezione degli stessi, con abilità all’uso dei
sistemi informatici, non solo di natura locale e non solo di natura catalografica
(consultazione di banche dati su Cd-Rom, accesso a siti selezionati e abilità
alla navigazione orientata)
d) la certezza che queste abilità professionali dovranno non solo garantire gli
usi, ma accogliere, interpretare e orientare i livelli di manifestazioni di bisogni informativi, spezzando il tradizionale concetto di servizio e di prestazioni a vettore unidirezionale e bibliotecariocentrico, favorendo nell’utenza
la consapevolezza di essere una risorsa ‘aggiuntiva’ per lo sviluppo dei servizi stessi, attraverso la progressiva disintermediazione di alcune prestazioni e l’intermediazione a tutela della qualità e autorevolezza delle fonti.
Parlando di reference sarà più opportuno distinguere ed intersecare alcune
funzioni.
La prima è il reference di gestione, l’altra il reference di servizio.
297
La comunicazione in biblioteca
Il primo è l’ambito più tipicamente collegabile alle funzioni direttive che, in
quanto area di gestione propriamente detta, nell’avvalersi di un grado di coordinamento e studio intende, evidentemente, dotare il reference di un impianto che, a
parere di chi scrive, non potrà che essere a forte impatto valutativo e in cui i gradi
della valutazione varieranno con il variare degli assetti: dalla attuale fase di preibridazione fino all’auspicata costituzione di sistemi informativi integrati a scala
settoriale (le Sale) e a scala macrodimensionale (tutto il regime dei servizi).
Un’impostazione che certamente non ingabbi l’ibridazione bibliotecaria in
atto in schemi, modelli procedurali, modulistica, tabelle e statistiche, e meno che
mai in caselle di bilancio.
Da subito è opportuno si qualifichi una erogazione di servizi informativi
guidata e sostenuta non da criteri assertivi, ma da atteggiamenti di permeabile attenzione e ascolto interno ed esterno, per offrire proposte culturali e di servizio
improntati alla flessibilità, e orientati a produrre efficienza ed efficacia.
L’uso flessibile di questi strumenti, sostenuto dall’incremento della intermediazione gestita con il software SEBINA, il confronto con standard, linee guida,
esempi di best practice qualifica il riassetto globale della Biblioteca Provinciale.
Le recenti Linee guida per la valutazione dei servizi nelle biblioteche pubbliche39 sono un valido e utile strumento base per attenersi agli standard nazionali
condivisi per il monitoraggio e la valutazione delle prestazioni delle biblioteche ed
ad esse si farà, d’ora in poi riferimento per sperimentare le misure e gli indicatori
previsti anche nella BPFG.
L’ uso incrociato delle 12 misure e dei 15 indicatori, così come suggerito nel
capitolo sulla rilevazione dei dati potrà incrementare la lettura dei servizi con una
attenzione particolare alla tipicità dei rapporti utente/documento/bibliotecario come
realizzato nella BPFG, per invertire il tradizionale segmento unidirezionale dei servizi all’utente, attraverso il potenziamento delle operazioni di alfabetizzazione e di
cooperazione dell’utenza stessa, sicché possa emergere un nuovo pubblico, risorsa
aggiuntiva per l’adeguamento e la flessibilità di servizi.
Questa sperimentazione proposta nella logica di servizi integrati partirà con
la nuova sede riservata ai Centri di documentazione.
È qui proposto uno schema dei campi da sottoporre ad analisi e valutazione
per il potenziamento del reference di gestione (la lettura, la comprensione e l’adozione pratica di questo schema è possibile solo con l’impiego contestuale delle Linee Guida per la valutazione redatte dall’AIB):
a) Area servizi al pubblico: descrizione con incrocio dei punti 1.2 e 2.2
b) Popolazione: rilevazione su basi comunali con disaggregazione per sesso
ed età, condizione lavorativa, titolo di studio.
c) Acquisti: rilevazione fatta a fine anno con modulo 3.1 e annotazioni al
punto 2.1
39
ASSOCIAZIONE ITALIANA BIBLIOTECHE, Gruppo di lavoro “Gestione e valutazione”, op.cit.
298
Enrichetta Fatigato
d) Dotazione documentaria: rilevazione annuale con modulo 3.2-2 ed estensione alle altre misure rappresentate dalle classi e all’intersezione con le
localizzazioni
e) Iscritti al prestito: rilevazione annuale a gestione automatizzata attraverso il potenziamento dell’uso del software di gestione. Incroci principali
con le basi dati ISTAT sulla popolazione complessiva e per classi d’età
,sesso, titolo di studio e professione. Intersezione con la dotazione documentaria.
f) Prestiti: rilevazione a scadenze preordinate e con gestione automatizzata.
Incrociare con le Annotazioni 2.9 e con la dotazione documentaria 1.3
Altri incroci: ILL (InterLibrary Loan) in entrata e uscita
Con orari, giorni e mesi
Con le sezioni specifiche della BPFG
g) Periodici correnti: rilevazione come da annotazione 2.6 incrocio con il 6
Prevedere registrazione collegamenti in linea.
h) Personale: rilevazione annuale presenze per media settimanale
Verificare lo stato della cooperazione territoriale per alcune metodiche
(catalogazione, prestiti...) per stabilire la ricaduta del carico di lavoro sul
personale interno. (Le Linee guida non lo prevedono per i sistemi bibliotecari esistenti, ma per quelli in via di realizzazione può essere utile cogliere l’incidenza del fenomeno attraverso gli assi di contatti/mese, contatti/tipo di esigenza, tipo di contatto (telefonico, postale, @mail)
i) Transazioni informative:
distinguere fra direzionali escluse (anche se talora può essere utile v.
ZWEIG40 ) e informative: rilevazione a campione di 3 settimane modello
3.6 -7-8
definire la natura e le articolazioni in
- deterministiche
- probabilistiche
definire il grado di risposta in:
- completate
- non completate
- riorientate
l) Orario di apertura: rilevazione a fine anno per l’orario medio di apertura
modulo 4 3.3
Consente una verifica puntuale componendo in fasce orarie e usando le
annotazioni 2.5
m) Visite: la carta d’ingresso consente la rilevazione delle presenze quotidiane 3.7 9
Registrare il numero delle visite guidate.
Valutare le frequenze per mostre ecc…
40
Douglas ZWEIZIG - Eleanor Jo RODGER La misurazione dei servizi delle biblioteche pubbliche, Roma,
A.I.B., 1987.
299
La comunicazione in biblioteca
13. Area servizi al pubblico
La recente risistemazione delle sale e la prevista qualificazione degli spazi
destinati ai Centri di documentazione consente di integrare la rilevazione spaziale,
prevista dalle Linee guida, con alcune osservazioni
1. potenziamento del livello ‘comunicativo’ con l’esposizione
- all’ingresso della pianta generale della biblioteca
- all’ingresso delle sale delle specifiche piante topografiche
e con l’adozione diffusa della segnaletica , a norma ISO, per gli spazi dedicati a :
a) postazioni per il reference di servizio
b) studio
c) ricerca
d) lettura
e) incontri
f) conferenze o tavoli di lavoro
g) uso di particolari media
h) uso di particolari strumenti (fotocopie, ecc.)
i) particolari età o categorie di utenti
2. composizione dello spazio fisico in modo che si percepisca l’integrazione
e la continuità fra le aree e, all’interno di queste, fra i vari media, salvaguardando
all’utente la percezione della completezza dell’offerta informativa congiunta
all’unitarietà del sistema organizzativo (questo aspetto è dettagliato nel punto sulla
dotazione documentaria).
3. proiezione negli spazi virtuali della rete della continuità delle azioni svolte negli spazi fisici (è chiaro che mi riferisco alla vasta area coperta dalle operazioni
di intermediazione/disintermediazione. Ogni sala dovrebbe, in modo aggiuntivo,
disporre di una ‘bacheca di sala’ uno spazio fisico, oltre a quello virtuale già esistente, attraverso cui facilitare la spontaneità di comunicazioni e suggerimenti pragmatici
e non necessariamente finalizzati a bisogni informativi ma che certo darebbe l’idea
di un servizio più ‘amichevole’)
4. conversione nella postazione del reference di servizio di tutte le possibili
forme di informazioni delle attività svolte, in corso o in progetto, per chi non necessariamente consulta il sito, (in verità il vero potenziamento del reference passa
proprio attraverso questa metodica che è assolutamente necessaria venga da subito
acquisita in modo diffuso)
5. apertura di uno spazio nel sito per il servizio di reference
6. predisposizione di aree virtuali (presso l’indirizzo del reference) e/o cartacee (da consegnare e raccogliere presso l’area del servizio reference) di interlocuzione sistematica, continua e ricorrente con l’utenza: questionari, desiderata (come
già esistenti), verifiche e monitoraggio sui percorsi tracciati.
7. elaborazione di database per la lettura ‘ragionata’ dell’interlocuzione
in raccordo fra coordinamento e responsabile del servizio reference, per racco300
Enrichetta Fatigato
gliere le indicazioni da sottoporre alla valutazione della Direzione
8. verifica periodica delle pagine web al fine di modularle al variare dei percorsi individuati
In una postazione centrale di accoglienza e di primo livello al 1° piano, nella
zona contigua all’area dei cataloghi generali cartacei e on-line è posizionato il servizio di reference di 1° livello.
La centralizzazione di quest’area favorisce la mediazione fra utente e primo
assetto del recupero informazioni.
Il bibliotecario addetto a questo tipo di reference è a disposizione del pubblico per fornire
a) orientamento all’uso della biblioteca
b) informazioni dettagliate sulla biblioteca, le sue collezioni e i suoi servizi ,
c) informazioni su altre biblioteche
d) orientamento e assistenza alla consultazione dei cataloghi cartacei e on-line
e) orientamento e assistenza nell’utilizzo dei repertori cartacei, on-disk, on-line
f) prestito interbibliotecario e fornitura di documenti
g) informazioni editoriali
h) guida, orientamento e promozione della lettura
i) raccolta di suggerimenti per la predisposizione di servizi e il miglioramento di prestazioni.
Presso la postazione di questo servizio reference sono disponibili a pronta
consultazione
a) guide ai servizi della città e provincia
b) guide alle manifestazioni culturali ricreative della città e provincia
c) guide alle novità librarie e documentali
Dalla zona di centrale di prima accoglienza l’utente potrà essere orientato
verso altre aree di reference più generale o speciale sulla base delle nuova configurazione di spazi e servizi ad assetto integrato di risorse disponibili.
14. Popolazione
L’analisi del ‘profilo di comunità’ cui si riferiscono i servizi di biblioteca è
condizione di essenziale portata per le azioni di reference a cui le Guidelines for
public libraries emanate dall’IFLA hanno dedicato un riguardo del tutto particolare e attento, rimarcato anche dalle Linee Guida dell’AIB,41 che consigliano di
monitorare la distribuzione e le trasformazioni dei flussi d’utenza per fasce d’età,
sesso, status professionale e livello d’istruzione.
41
ASSOCIAZIONE ITALIANA BIBLIOTECHE, Gruppo di lavoro “Gestione e valutazione”, op. cit.
301
La comunicazione in biblioteca
La gestione automatizzata dell’ingresso consente di verificare questi dati con
buona facilità ma queste informazioni di per sé non bastano.
Perché sia efficace la nuova proposta di servizi, così come va delineandosi
nella BPFG, è necessario disporre di analisi incrociate sulle basi anagrafiche per
comuni della provincia, e fonti ISTAT sulla distribuzione della popolazione, i dati
sui profili delle aree, industriali agricole e residenziali, sulle caratteristiche dettagliate delle reti di comunicazione (S.S. S.P., autostrade, ferrovie, autobus urbani ed
extraurbani), sviluppo dei piani regolatori, insediamenti scolastici e universitari e
centri di formazione professionale.
Un buon servizio di reference dovrà sistematicamente, con somministrazione
di questionari o brevi interviste mirate.
a) contribuire all’esame della provenienza geografico-urbanistica della propria utenza e, dell’abilità agli spostamenti, usando specifici sistemi di trasporto
b) incrociare questo esame con gli assetti economico-produttivi presenti sul
territorio di provenienza
c) valutare l’incidenza dei bisogni espressi dai pubblici diversi per condizione sociale, provenienza etnica o per disabilità fisiche
d) studiare i contesti culturali ambientali, evidenziando la frequenza, per
specificiche aree di eventi culturali e per il tempo libero
e) confrontare l’appartenenza a gruppi associativi e partecipativi (politici,
religiosi, sindacali, sportivi)
f) esaminare gli atteggiamenti verso lo studio, la ricerca, la lettura, l’aggiornamento culturale e professionale, le occasioni di svago e tempo libero
(frequenza di concerti, di mostre, conferenze, sale cinematografiche discoteche ecc..).
15. Acquisti e dotazione documentaria
Queste due macro-aree vengono analizzate congiuntamente e di seguito all’area dedicata alla popolazione, perché entrambe non possono essere realizzate
senza una attenta analisi del profilo di comunità emergente e del fabbisogno informativo connesso alla consistenza delle collezioni.
L’obiettivo finale dovrebbe consentire al reference di gestione, di redigere la
Carta delle Collezioni, con l’ausilio degli addetti al servizio di reference per la fase
di rilevazione dei profili di interesse della comunità.
Per Carta delle Collezioni si intende uno strumento agile di tutela del bisogno del lettore di disporre di un servizio bibliotecario attrezzato e rispondente alle
necessità informative espresse, ma soprattutto latenti.
Alla definizione della Carta si giungerà:
302
Enrichetta Fatigato
a) favorendo l’adesione a forme di cooperazione interbibliotecaria territoriale e remota
b) coordinando gli acquisti fra le aree e/o sale
c) coordinando gli acquisti su scala territoriale
d) specializzando il patrimonio documentario (anche attraverso scorpori dei
fondi esistenti) per aree tematiche significative e caratterizzanti la stratificazione storica dei fondi della biblioteca, ma anche le aree di nuova istituzione e sperimentali
e) integrando nelle aree tematiche i molteplici, diversi supporti di manifestazione dei documenti.
f) revisionando e aggiornando le raccolte con sistematicità (tasso di invecchiamento dei contenuti, stato di conservazione, tasso di uso o prestito
verificato attraverso la statistica elaborata dal software SEBINA)
g) predisponendo, a cura della Direzione, nel manuale operativo interno, le
procedure e le griglie di riferimento per la scomposizione del patrimonio
h) specializzando l’area del servizio reference
i) definendo le finalità, le procedure e le periodicità delle valutazioni
l) stabilendo un protocollo sui criteri base (vetustà, deterioramento)
- sulla periodicità delle operazioni di revisione
- sulle griglie per selezione dei riacquisti
- sulle destinazioni al deposito
- sugli scarti e le alienazioni
- sugli standard minimi per anno, documenti e supporti a dimensionamento
integrato.
m) testando continuamente il dimensionamento (per eccesso o difetto) in rapporto all’utenza reale (verifica d’uso)
n) valutando il grado di aggiornamento in rapporto all’entità economica e
alla tipologia del supporto (cartaceo o in linea)
A proposito delle procedure per gli acquisti e per la specializzazione delle
aree tematiche, in particolare va detto che un primo, significativo passo è rappresentato dalla centralizzazione delle funzioni di proposte acquisti (nel regime cartaceo
sfuggivano a forme di condivisione conoscitiva) e che ora potrà contribuire a instaurare il regime di cooperazione interna dei bibliotecari.
La conseguente notifica dell’arrivo degli ordini consente agli addetti alle transazioni informative di favorire con buona tempestività il possesso in visione di quei
documenti acquistati, perché segnalati dagli utenti, attraverso i desiderata e di verificare contestualmente la progressiva immissione dei relativi record bibliografici
nell’OPAC.
È necessario porre massima attenzione allo sviluppo delle collezioni attraverso un progetto organico di sviluppo con un impegno pari a quello riservato alla
mediazione catalografica.
Occorre che ci si sposti dalla visione culturale incentrata essenzialmente sulla
capacità e sensibilità del bibliotecario di incrementare le raccolte attraverso l’uso
303
La comunicazione in biblioteca
delle produzioni editoriali e il contatto con i potenziali utenti, ad una politica di
sviluppo delle collezioni che integri la selezione con l’organizzazione e informazione catalografica, con la guida, l’orientamento e l’assistenza all’uso degli strumenti, con gli aspetti promozionali e di invito alla lettura, sottoponendo e registrando le valutazioni dei risultati per l’aggiornamento o la revisione delle scelte.
Metodologie di questo tipo consentono di chiarire progressivamente
a) i profili delle comunità di riferimento
b) la finalizzazione delle aree della biblioteca
c) le metodologie di valutazioni e misurazioni delle utenze
d) la specializzazione dei settori disciplinari e le disponibilità di budget da
assegnare rispettivamente
Strumento può essere la comparazione qualitativa e quantitativa ottenuta
- con cataloghi di altre biblioteche e centri di documentazione
- con elenchi di periodici curati da enti specializzati in ambiti disciplinari
particolari
- con cataloghi di editori
- con elenchi di spogli di riviste realizzati da banche dati specializzate
- bibliografie prodotte da specialisti della materia.
e, inoltre, la predisposizione di
a) questionari di valutazione di pertinenza qualitativa e specialistica
b) worksheet
c) sviluppo della cooperazione territoriale
- per orientare verso biblioteche specializzate
- per avviare rapporti territoriali di ILL e DD
- per il coordinamento degli acquisti per le aree diverse
16. Prestiti, iscritti al prestito e transazioni informative
Attualmente non è possibile gestire i prestiti globalmente tramite le registrazioni nell’OPAC.
Perciò anche per le operazioni di prestito locale, come per gli acquisti, un
database nell’Intranet può favorire la notifica diffusa delle operazioni riguardanti i
documenti presenti nelle sale e nei depositi e che ancora sono rappresentati nei
cataloghi cartacei.
È un modo per registrate e condividere alcuni passaggi, ma anche per non
disperdere le notizie sugli usi, le utenze, le frequenze, le sale a maggior impatto di
richieste, la natura dei prestiti.
È inevitabile che, contestualmente sia stato implementato l’impianto tecnologico attraverso l’uso del modulo di gestione del prestito nel software SEBINA
alimentato dall’incremento dei record bibliografici.
Da questo incremento di prestazioni dovrà scaturire la riqualificazione, ormai in uso in tutti i regimi bibliotecari ad impostazione elettronica, degli strumenti
304
Enrichetta Fatigato
operativi e del servizio, governando la transizione dai tradizionali moduli cartacei
alla modulistica elettronica e allo scanner con l’adozione dei quadri di riferimento
strutturali per le funzioni di ILL e DD.
Nell’area delle transazioni hanno snodi peculiari i servizi di InterLibrary
Loan e Document delivery.
Tradizionalmente sono stati inquadrati rispettivamente il primo quale relazione fra biblioteche, il secondo come tempo dedicato all’interno del prestito
interbibliotecario per la trasmissione fisica dei documenti e fornitura di articoli di
riviste in fotocopia o in formato elettronico.
L’orientamento più recente assegna al primo il prestito fra biblioteche e la
fornitura di articoli di periodici via fax (vedi raccomandazioni IFLA), al secondo la
fornitura (senza obbligo di resa) di documenti in copia identica all’originale attraverso il database elettronico travalicando i limiti propri delle singole biblioteche
(evidente al riguardo il vantaggio della cooperazione) e riqualificando totalmente
l’information retrieval.42
La questione posta non è mera esercitazione astratta di percorsi identificativi.
Si tratta di inquadrare il problema per quel versante che interseca, nel servizio di reference, il prestito interbibliotecario con lo sviluppo delle raccolte e delle
collezioni, attraverso le procedure di acquisizioni e di verifica delle consistenze dei
periodici posseduti, con la finalizzazione e gestione delle aree tematiche realizzabili
nella BPFG con processi di spostamento delle localizzazioni e con operazioni di
scarto.
Va realizzata la rilevazione statistica su
a) distribuzione e gestione delle utenze per età, sesso, professione e residenza
b) tempi e costi
c) controllo del traffico di prestiti interbibliotecari
d) verifiche di efficienza
e) rapporti fra prestiti in originali o in altra forma o supporto
f) verifica delle aree disciplinari maggiormente investite dai prestiti, attraverso sondaggio a scadenza semestrale
g) distribuzione geografica dei richiedenti e dei fornitori anche commerciali
per misurare il livello dell’efficacia del servizio.
h) rispondenza delle dotazioni patrimoniali ai bisogni degli utenti
i) incidenza dei prestiti in rapporto alla vetustà dei fondi
Questa totale trasformazione del servizio è ormai nodale per l’intero regime
bibliotecario ed è accompagnato dai protocolli specifici per gli standard dedicati,
ISO 10160 e 10161, e le loro successive riedizioni e ampliamento, che consentono
l’ILL in rete fra hardware e software diversi per la gestione delle transazioni realizzate (vedi Scolari, Standard OSI).
42
Brunella LONGO, I servizi di reference nell’era dell’accesso, in «Biblioteche oggi», aprile 2001, p.42-56.
305
La comunicazione in biblioteca
Inoltre lo sviluppo del regime di cooperazione sulla base dei propri registri
statistici rappresenta senza dubbio un vantaggio notevole per bypassare le questioni tariffarie partecipando ai progetti nazionali di adozione di regimi di reciprocità
degli scambi, realizzando così l’abbattimento dei costi.
A questo servizio va dedicato personale altamente specializzato sia perché è
un arco di intervento sottoposto a progressive mutazioni e ibridazioni anche in
ambito internazionale (vedi i rapporti con l’OCLC) sia per i sistemi di archiviazione
e transizione delle ricerche, sia per l’individuazione dei fornitori più o meno efficienti sia per una riduzione dei costi a parità di servizi.
17. Periodici correnti
L’implementazione dell’uso del software SEBINA nel modulo di gestione
dei periodici correnti trova una necessità impellente anche per l’accesso alle informazioni tramite l’OPAC.
L’occasione consente la verifica sulle consistenze, le aree di stoccaggio, le
classi CDD, e le testate che dovranno essere spostate nelle aree tematiche speciali.
All’area di servizio reference dovranno pervenire i periodici di prima informazione bibliografica ed editoriale.
Per alcune testate potrà avanzarsi il collegamento fra l’OPAC e il WEB dove
sono presenti i collegamenti alle testate di periodici in linea sia in forma di siti che di
pagine di aggiornamento quotidiano
Sarebbe interessante se la nostra Biblioteca aderisse a progetti nazionali ed
internazionali di spogli da periodici, sarebbe occasione per vincere le nicchie di
operatività improduttive per ricaduta sui servizi e, certo, qualificherebbe l’espressione delle professionalità locali e gratificherebbe la condivisione allargata di nuove
metodiche.
18. Personale
In conclusione, per la vasta opera di ibridazione del sistema biblioteca emerge la necessità di una più fluida circolazione di messaggi e comunicazione di confronti metodologici perché le prassi siano sempre più uniformi e condivise fra tutti
gli addetti ai servizi.
A riguardo molto utile sarà la realizzazione di Workshop per temi specifici e
competenze funzionali, così come individuato dalla Direzione per accompagnare
questo progetto con sondaggi interni che avvicinino le scelte al reale fabbisogno di
formazione e aggiornamento continuo e ricorrente.
Il punto del servizio reference collaborerà per la distribuzione e raccolta dei
sondaggi, seguendo le disposizioni di merito.
306
Enrichetta Fatigato
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307
308
Marianna Iafelice
Le cinquecentine sanseveresi di un giurista foggiano
del XVIII secolo: Niccolò Tortorelli
di Marianna Iafelice
1. Introduzione
Sin dalla prima stesura e revisione del lavoro di redazione di un catalogo di
incunaboli e cinquecentine della biblioteca comunale di San Severo, è emerso che
su ben 27 volumi, molti dei quali contenenti più opere, è presente l’ex libris talvolta
cancellato, ma pur sempre leggibile Nicolay Tortorelli.
La curiosità di conoscere qualcosa di più su questo personaggio mi aveva
spinto a ricercare notizie sulla sua vita, per cui il primo passo è stato quello di
consultare l’opera di Carlo Villani Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e
contemporanei. Il Villani scrive del Tortorelli: “Giureconsulto e letterato di prodigioso ingegno, nacque a Foggia e fiorì nel XVIII secolo”.1 Queste poche e scarne
notizie sulla sua vita sono accompagnate però da una lettera trascritta integralmente nel testo sopracitato e in origine scritta da Ferdinando Villani il 15 marzo 1874 e
inviata all’allora sindaco di Foggia.
Ferdinando Villani così scriveva: “[…] Ignorasi per quanto pare il nome di
Niccolò Tortorelli, comunque mi trovassi aver raccolte delle tradizioni domestiche, sapendolo versato nella ragione del diritto. È da questo che si parlava di alcune
opere di lui, con farmisi dono del suo ritratto, e mi si faceva pur credere che alcuni
suoi manoscritti, andarono sventuratamente perduti […] ma la fortuna mi guardò
con sorriso allorché rovistando in alcuni libri di mia famiglia mi viene tra le mani
un volume sulla cui fronte lessi Degli antichi giureconsulti romani”.2
Il Villani aggiunge ancora nella sua lunga lettera che: “Le note che sovrabbondano in tutto il libro dimostrano apertamente qual numero di volumi si ebbe
egli a consultare, richiamando in vita fra tanti nomi notissimi, alcune opere di vecchia gloria [...]”. Inoltre quasi alla fine della lettera, mi colpirono le parole di Carlo
Villani, il quale scriveva: “Questo esemplare del libro del Tortorelli di cui si parla
nella lettera […], si trova ora presso di me, custodito gelosamente, senza che il
Municipio di Foggia si sia mai, neanche per una ora sola, brigato di tentarne la
ristampa”.3
1
Carlo VILLANI, Scrittori ed artisti pugliesi antichi e moderni e contemporanei, Trani, 1904, p. 1086.
Loc. cit.
3
Ibid., p. 1087.
2
309
Le cinquecentine del giurista Niccolò Tortorelli
Ed è stato proprio a Foggia, durante l’attività di catalogazione informatizzata
del fondo antico della Biblioteca Provinciale che mi è capitata tra le mani la copia
dell’opera di Tortorelli citata dal Villani.
Volume in 4° stampato a Napoli da Gennaro Muzio, il libro reca sul
frontespizio un delfino accollato ad un’ancora, e l’ex libris di Saverio Celentano.
La sorpresa, l’emozione e poi non da ultima, la curiosità e la voglia di ricostruire le vicende, per quanto è possibile sulla vita del Tortorelli e della sua libreria privata, sono state incentivate anche dalla presenza, fino a questo momento di
due sole seicentine appartenute al Tortorelli nella Biblioteca provinciale di Foggia.
2. Il giurista Niccolò Tortorelli
Ma chi era Niccolò Tortorelli?
Di lui purtroppo abbiamo solo notizie frammentarie, infatti non conosciamo nemmeno le date di nascita e di morte, grazie anche alla distruzione dell’Archivio storico comunale avvenuta nell’incendio che il 28 aprile 1898, fu appiccato al
palazzo di città da cittadini affamati e portati alla rivolta dall’aumento del prezzo
del pane.4
Tortorelli visse in un’epoca in cui le “turbolenze” e gli “intrighi della Dogana” in concomitanza con il grave terremoto che ha colpito Foggia (1731) hanno
fatto da freno non solo allo sviluppo socio economico di una città che un tempo fu
capitale della lana e del grano, anche se secondo quanto afferma il Nicolini culturalmente restava “barbarica”5 .
Sono questi gli anni in cui, però, sono proprio le iniziative culturali ad essere
le più notevoli e dense di significato, in quanto che “illuminano con efficacia il
grado di consapevolezza civile ormai raggiunto dalla classe dirigente foggiana”.6
Ritornando al Tortorelli, Carmine De Leo ritiene che già nell’antico catasto
cinquecentesco della città di Foggia era citato un “Paulo Tortorello di anni 35, tiene
moglie et figli piccoli, dice possedere l’infrescritte robbe: una casa di due membri
dove si dice lo cancio”.7
Saverio Coda invece parla di questo casato, che giunto a Foggia era imparentato con gli Stanco, famiglia da cui ereditò due cappelle gentilizie, una nella chiesa
di San Gaetano oggi non più esistente ed un’altra dedicata a San Biagio e posta nella
Chiesa di Gesù e Maria.8
4
Pasquale DI CICCO, Il libro rosso della città di Foggia, Foggia, Amministrazione Provinciale di Capitanata,
1965, p. 9.
5
Fausto NICOLINI, Un grande educatore Celestino Galiani, Napoli, Franco Giannini e figli 1951, p. 20.
6
Raffaele COLAPIETRA, Élite amministrativa e ceti dirigenti fra Seicento e Settecento, in Saverio RUSSO (a
cura di), Storia di Foggia in età moderna, Foggia, Banca del Monte, p. 115.
7
Carmine DE LEO, Palazzi e famiglie dell’antica Foggia, Foggia, Consorzio costruttori di Foggia, 1995,
p. 182.
8
Loc. cit.
310
Marianna Iafelice
311
Le cinquecentine del giurista Niccolò Tortorelli
Sempre il Coda ci informa inoltre che un Domenico Tortorelli “si addottorò”
nel 1687 a Napoli, per poi rientrare a Foggia dove avrebbe sposato Teresa del Tudone.
Per cui forse i Tortorelli dalla fine del Seicento da Castellaneta, loro patria di origine, si trasferirono a Foggia.9
Niccolò giureconsulto, lo ritroviamo fra i reggimentari cittadini come secondo eletto nel 1717, nel 1718 come terzo eletto, e poi nel 1725 ancora come secondo eletto. Nominato mastrogiurato nel 1729-1730, nel 1731 dopo il disastroso
sisma10 che non mancò di danneggiare pure il palazzo11 Tortorelli attualmente sito
al civico 74 di via Le Maestre, fu prescelto con l’amico Saverio Celentano per designare una sede idonea per il sacro tavolo dell’Icona Vetere, salvatosi miracolosamente dalla distruzione.12 E sempre con Celentano promuoverà una serie di accademie a Foggia, tra cui quella degli Illuminati, fondata sul finire del 1733 insieme
con altri reggimentari cittadini e giuristi, oltre che dal canonico Domenico della
Bella.13 Tortorelli è ritenuto un insigne letterato in quanto tradusse in versi pure il
De bello punico secundo, di Silio Italico oltre ad essere stato l’autore Degli antichi
giureconsulti romani libri due, edito nel 1736, a Napoli, da Gennaro Muzio. E fu
proprio in occasione della pubblicazione di quest’opera che l’avvocato Saverio Celentano gli dedicò un’epigrafe.14
L’opera divisa in settanta capitoli, si proponeva di ricostruire le vite di
centodieci giureconsulti romani a partire da Sesto Papirio che raccolse le Curiate,
ovvero le prime leggi dei re di Roma, fino alle gesta di Triboniano che codificò da
ultimo i responsi della scuola giuridica dispersi in 200 volumi e concorse ad illustrare la legislazione del Lazio mercé le Pandette Giustinianee.
Quello che però colpisce in questo volume, come ci ha già fatto notare il
Villani, sono le innumerevoli note che si rifanno alla moltitudine di libri da lui
consultati e forse posseduti.
9
Un tale Leonardo Tortorella di Castellaneta viene citato pure in una causa civile del tribunale della
Regia Dogana. Cfr. DE LEO, Palazzi e famiglie…, cit. p. 182.
10
Gennaro Arbore afferma che il Tortorelli in questa drammatica occasione intervenne pure economicamente per alleviare le sofferenze dei terremotati. Cfr. Gennaro ARBORE, Famiglie e dimore gentilizie di Foggia, Fasano, Schena Editore, 1995, p. 139.
11
L’edificio che dopo il sisma fu fatto restaurare proprio da Niccolò, nel catasto onciario della città di
Foggia del 1741 è così descritto: “una casa palaziata in questa città per la strada di capo la città, attaccata a
quella di don Filippo Frunzio, e don Tommaso Morelli, consistente in più camere, fondaci, e grotte, stalla,
rimessa, ed altri comodi per uso della propria abitazione”. Cfr. ARBORE, op. cit., p. 137 e ASN, Catasto
onciario di Foggia, vol. 7039, c. 365 r.
12
DE LEO, op. cit. , p. 183.
13
Ricordiamo tra gli altri oltre al Tortorelli e a Celentano, pure Michele Gargani, Domenico Ricciardi,
Luca Brencola, Fabrizio Tafuri, e Giovanni Andrea Viscardi. Cfr. Giuseppe DE MATTEIS, Cultura e istituzioni
letterarie, in Daunia felix, società economia e territorio nel XVII secolo, a cura di Franco MERCURIO, Foggia,
Claudio Grenzi Editore, 2000, p. 145.
14
NICOLAO TORTORELLI I.C. PATRITIO FOGIANO VETERES I.C. REDIVIVOS DE IURE
RESPONDENTES ELABORATISSIMA ERUDITIONE EXHIBENTI UT QUANTO JURISPRUDENTIAE, VETUSTATI PATRIAE, ORNAMENTO, MEMORIAE, SPLENDORI NOLUIT CONSULTUM
PAR REDDERETUR XAVERIUS CELENTANUS I.C. PATRICIUS JUVENACIENSIS, AC FOGIANUS PATRIAE VICEM, ET SUAM AMICO DUXIT REDDENDAM 3 MARTII 1737.
312
Marianna Iafelice
3. Le cinquecentine
E qui entrano in gioco i ventisette volumi di cinquecentine conservati a San
Severo. Il percorso che questi volumi hanno seguito purtroppo è ignoto, anche se
l’incognita potrebbe essere sciolta quando verrà catalogato il consistente patrimonio
di seicentine e settecentine conservate nella biblioteca sanseverese, quando si spera di
poter scoprire la presenza di altri volumi appartenuti al Tortorelli, o se magari vi sia al
loro interno qualche indicazione che possa chiarirci l’anello di congiungimento che
segna il passaggio di questi libri da Foggia a San Severo. A questo proposito potrebbe
essere pure sintomatica la presenza nel fondo cinquecentesco sanseverese di altri tre
volumi, uno dei quali presenta l’ex libris del Convento dei Cappuccini di Trivento,
che ci fa ipotizzare un nesso con la notizia che il De Leo ci fornisce, e cioè che nel
1660 è fiorente a San Giovanni Rotondo una famiglia Tortorelli illustrata da monsignor
Antonio, che studia presso il Convento di Gesù e Maria di Foggia per poi divenire
vescovo di Trivento.15 Gli altri due volumi presentano l’ex libris Octavij Coda, ovvero Ottavio Coda, zio di Saverio, a sua volta figlio di Ignazio, che esercitò l’avvocatura
presso il tribunale della dogana prima di divenire sacerdote.
Questa presenza diventa ancora più significativa in quanto sicuramente la
famiglia Coda di “nobile lignaggio” come ci riferisce Pasquale De Cicco era originaria della Francia, e le cinquecentine appartenute al Tortorelli hanno comunque
un denominatore comune, infatti oltre ad essere opere di autori classici e di insigni
giuristi, numerosi volumi sono editi a Parigi e soprattutto a Lione.
Naturale e quasi scontata potrebbe apparire nel Fondo Tortorelli la presenza
di cinque volumi del Corpus Juris Civilis, tra cui il Digestum vetus et novum,
l‘Infortiatum e il cosidetto Volumen parvum o semplicemente Volumen. Si tratta
in particolare di edizioni lionesi del 1558, edite da La Porte Hugues e Vincent Antoine
che operano in società negli anni 1551-1558, una società che è evidenziata secondo
la consuetudine dell’epoca dalla fusione delle due marche tipografiche. Infatti come
ho già affermato in altre sedi, nei frontespizi in rosso e nero compare un arco a due
fornici da cui, nel primo esce un uomo con due assi tra le mani e il motto Libertatem
meam mecum porto, motto già presente nella marca di un tipografo italiano del
Cinquecento Gioacchino Brugnolo, mentre dal secondo fornice fuoriesce Apollo
figlio di Giove, rappresentato mentre calpesta un drago con il capo cinto d’alloro,
con un serpente nella mano destra, e ai piedi una cetra.16
15
Pius Bonifacius GAMS, Series Episcoporum Ecclesiae Catholicae, Graz, 1951, p. 936. Il vescovo Antonio
Tortorelli muore il 10 gennaio 1715.
16
Simboli spiegabili con l’analisi del suo mito infatti, aveva quattro giorni quando fu assalito dal serpente
Pitone, mandatogli contro dalla gelosa Giunone ma non gli fu difficile avere il sopravvento sul serpente, la cui
pelle andò poi a ricoprire lo scanno della Sibilla nel tempio di Delfo, dedicato, appunto, ad Apollo; e dette alla
veggente l’appellativo di Pitonessa. La cetra invece è riconducibile all’episodio in cui Mercurio, il suo alato e
dispettoso fratello, un giorno gli rubò per celia un bel numero di scalpitanti equini; scoperto, per rabbonire il
divino congiunto, gli fece un regalo: un guscio vuoto di testuggine accessoriato di corde tese all’interno, la
prima cetra. Da allora, questo strumento da cui Apollo non si separò mai, divenne il costante attributo di
questo Dio, il simbolo dell’armonia.
313
Le cinquecentine del giurista Niccolò Tortorelli
È sintomatico il fatto che anche il Brugnolo, che la Zappella chiama Brugnoli, utilizzasse come insegna di bottega una porta con timpano mistilineo spezzato e
con colonne ioniche; del resto scrive Zappella che la figura della porta nell’iconografia cristiana è molto ricca e profonda in quanto “propone l’idea del passaggio,
della soglia tra due zone: tra due mondi, tra noto e ignoto, il di qua e l’aldilà, la luce
e le tenebre, la rinuncia e le ricchezze. Essa si apre su un mistero; al tempo stesso
conduce psicologicamente all’azione […]”.17 Ora, che nel nostro caso si tratti di
marche tipografiche ‘parlanti’, sembra alquanto evidente e, se mentre La Porte utilizza una porta, il Vincent per indicare la Vittoria non poteva che affidarsi al mito di
un uomo vittorioso. A parte quindi la doverosa e quasi scontata presenza dei volumi del corpus, Tortorelli nel 16° capitolo del primo libro Degli antichi giureconsulti, nella trattazione della vita di Marco Porcio Catone il minore, cita in nota le Annotationes In XXIII Pandectarum libros, di cui conservava l’edizione lionese di
Sébastien Gryphe del 1551 oltre al De Asse et partibus libri V, dello stesso anno e
dello stesso editore.
Tortorelli si rifà al Budè (1468-1540) in quanto questi, nelle Annotationes, da
fine conoscitore della lingua greca, appresa grazie agli insegnamenti del Lascaris,
esamina attentamente il Digestum vetus da un punto di vista prettamente filologico,
apportando numerose correzioni al testo accettato. Budè fondamentalmente era
interessato al Corpus Juris Civilis inteso non solo come fonte della storia romana,
ma anche e soprattutto come fonte della linguistica latina.18
Di Antoine Gryphe, figlio naturale ma legittimato di Sébastien è invece il De
verborum significatione del 1565, la più celebre delle opere di A. Alciato (14921550) trattato premesso al commento sistematico delle 246 leggi che compongono
il titolo omonimo del Digesto la cui editio princeps fu stampata sempre a Lione da
Sébastien (1530).19
Dell’Alciato, il giurista foggiano possedeva pure i Paradoxa juris civilis (Lione, Giunta, 1537) dedicati ad Antonio Du Prat, rilegati insieme con i libri delle
Dispunctiones, questi divisi in brevi capitoli in cui l’Alciato si dedica alla restituzione dei testi greci omessi nel corpus juris civilis e alla proposta di nuove lezioni per
taluni testi latini.20
E se il Tortorelli lascia un’evidente traccia della lettura di questo trattato nel
36° capitolo, quello dedicato ad Aulo Offilio, non deve aver trascurato nemmeno il
De eo quod interest dedicato a G. B. Appiani, oltre ai due libri dei Praetermissa
17
Giuseppina ZAPPELLA, Le marche dei tipografi e degli editori del Cinquecento, Milano, Editrice
Bibliografica, p. 307
18
Budé oltre ad essere il fondatore del Collegium Trilingue, che diventò poi Collége de France, creò la
biblioteca di Fontainebleau, che costituì la base della Biblioteca Nazionale di Parigi. Amico di Bembo, Rabelais,
Geertsz, Thomas More, fu propugnatore tenace degli studi dei classici greci e latini, da lui giudicati mezzo
indispensabile per il raffinamento dei costumi. Cfr. Anne JACOBSON SCHUTTE, Pier Polo Vergerio e la Riforma
a Venezia, 1498-1549, Roma, Il Veltro, 1988, p. 37.
19
Roberto ABBONDANZA, “A. Alciato”, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. II, p. 71. L’opera assai
attesa fu composta nell’estate del 1528 e fu dedicata a Francesco de Tournon arcivescovo di Bourges.
20
Ibid., p. 70.
314
Marianna Iafelice
dedicati invece a Jacopo Minut, di cui però solo il primo libro era innovativo in
quanto conteneva una lista di termini con la relativa rettifica del significato.
Nel XVI secolo studiosi italiani quali l’Alciato, Angelo Poliziano e Pietro del
Riccio meglio noto come Crinito Pietro, se da un lato riconoscevano la latina applicazione del diritto romano a problemi contemporanei, non rinunciavano a ricercare interpolazioni e a fare correzioni nel testo, anche se d’altro canto non volevano
nemmeno condannare tutta la giurisprudenza precedente, ritenendo che nomi quali Accursio e Bartolo avessero apportato dei contributi enormi nel campo del diritto.21 Evidentemente il Tortorelli doveva ben conoscere questi umanisti se in più di
un’occasione prende spunto pure dal trattato di Pietro Crinito, il De Honesta disciplina, trattato posseduto nella bella edizione parigina del 1518 e che Crinito finirà
di comporre nel 1503.22
Il Fondo Tortorelli evidenzia quindi, in ambito giuridico, una sorta di filo
conduttore immaginario che lega tutte le opere e soprattutto gli autori, appartenuti
del resto ad una stessa scuola; infatti a questo proposito non può non colpire la
presenza in questo fondo dell’opera di un allievo dell’Alciato, cioè di Giulio Claro
di Alessandria con le sue Sententiae receptae, opera che in origine doveva essere di
soli sette capitoli, dei quali però furono composti solo i primi quattro.23 Di Anton
Agustin (1517-1586), giurista, scrittore, vescovo di Alife e Lerida, arcivescovo di
Tarragona, nato a Saragozza (Spagna) nel 1517 e morto a Tarragona nel 1586, il
Tortorelli conservava invece le Emendationum & opinionum libri IIII nell’edizione lionese di Antoine de Harsy. Altro giurista di cui Tortorelli conservava l’opera è
Ludovico Carerio, Practica causarum criminalium, (Lione, Roville, 1589), definito
dal Giustiniani “[…] tra i più rispettabili scrittori di giurisprudenza, che può vantare la città di Reggio in Calabria ultra”, e se già Giustiniani lamenta le scarse notizie
sulla sua vita tanto che scrive: “Parechi scrittori fanno onorata rimembranza del
Carerio, ma da niuno ho potuto trar cosa di particolare riguardo della sua vita civile
[…]”24 Minieri Riccio riporta la sua data di morte avvenuta nel 1560, e definisce la
sua Practica causarum criminalium “[…] opera di gran grido”.25
La sua pratica criminale fu mandata in stampa per la prima volta a Napoli nel
21
SCHUTTE, op. cit., p. 37.
Il trattato non aveva solo una destinazione scolastica , in quanto era diretto pure ai prudenti viri; per
questo motivo lo si considera un’ampia miscellanea con ambizioni enciclopediche che per molti critici è
rimandabile ad analoghe compilazioni greco-latine.
23
Il Mazzacane rifacendosi alla ricostruzione originaria del piano dell’opera effettuata dal Moeller, sostiene che nel 1559 pubblica con una dedica a Ferdinando di Cordova, governatore di Milano la parte del libro
quarto sulle donazioni, sull’enfiteusi e quella sui feudi riunite insieme sotto il titolo di Tractatus quatuor; in
seguito tali parti furono ristampate da sole o con il Liber V come nel nostro caso. Il Liber per le posizioni
culturali più significative della criminalistica europea, è considerata tra le più famose opere della giurisprudenza d’ancienne regime e fornisce uno specchio fedele del reale funzionamento della macchina giudiziaria,
oltre che della dinamica che investiva i rapporti stato-società. Cfr. A. MAZZACANE, Giulio Claro, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. II, p. 145.
24
Lorenzo GIUSTINIANI, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli, Stamperia
Simoniana, 1787, vol. I, pp. 221-222.
25
Camillo MINIERI RICCIO, Memorie storiche degli scrittori del Regno di Napoli, Bologna, Forni Editore, p. 87.
22
315
Le cinquecentine del giurista Niccolò Tortorelli
1546, quindi nel 1560 a Venezia e infine, accresciuta, fu ristampata a Lione nel 1562
sempre da Roville.26
Ora se queste presenze sono considerate ‘normali’, in questo fondo non mancano nemmeno edizioni di opere più particolari.
Infatti l’opera sicuramente più rilevante, come la definisce Rozzo tra quelle
pubblicate dal Gryphe, soprattutto per quanto concerne la storia religiosa del Cinquecento italiano, e si può aggiungere tra quelle possedute dal Tortorelli è il poema
in esametri De animorum immortalitate libri III di Aonio Paleario ovvero Antonio della Paglia.27
L’opera dedicata a Ferdinando d’Asburgo è vista dagli studiosi come un chiaro
indice di ‘sensibilità politica’ che Paleario ebbe tra i riformatori italiani, essendo
consapevole della necessità di un coinvolgimento dei potentati politici in quella
lotta per il rinnovamento della chiesa anche in Italia.28 Le sue tesi, che dalla riforma
etica e strutturale degli apparati ecclesiastici non esitano a toccare alcuni punti
dogmatici, gli valsero inizialmente sospetti e in seguito concrete accuse di protestantesimo, tanto che presso l’Inquisizione diocesana di Siena ci fu una prima denuncia nel 1540 a cui ne seguirono altre tre, di cui l’ultima, quella presso l’Inquisizione di Milano nel 1559, fu quella che diede poi origine ad un vero processo.
Non sembra essere del tutto casuale visto il legame di amicizia e di pensiero
che li unì in vita, il legame che unisce l’opera di Paleario a quella di Jacopo Sadoleto,
In psalmusm XCIII interpretatio, in un’unica rilegatura.
Il Sadoleto, considerato uno dei maggiori ‘erasmiani italiani’, con Vermigli,
Pole e Giberti si associa alla corrente di idee che oggi prende il nome di “evangelismo
italiano”.29
Nel periodo che va dal 1533 al 1541 pubblica ben 15 volumi con quello che è
il suo unico editore lionese, Sébastien Gryphe,30 e se Rozzo ritiene che per Sadoleto
in quanto Vescovo di Carpentras, più comodi erano i torchi lionesi, sempre Rozzo
ritiene che il Paleario fa parte di quella enorme o abnorme e singolare presenza di
26
GIUSTINIANI, op. cit., p. 221.
Caponetto scrive che fu stampata per la prima volta “quasi alla macchia nel dicembre del 1535 in modo
poco corretto”, fu poi inviata da Lazzaro Bonamico, maestro del Paleario a Jacopo Sadoleto perché la sottoponesse al Gryphe. Presentata all’editore con una lettera il 1° luglio del 1536, verrà stampata entro la fine
dell’anno. Il Gryphe la ripubblicherà nel 1546 e infine nell’Opera Omnia del Paleario del 1552. Cfr. Henry
BAUDRIER, Bibliographie Lyonnaise, VIII, p. 89-199 257-258 e Ugo ROZZO, La cultura italiana nelle edizioni
lionesi di Sébastien Gryphe (1531-1541), in «La bibliofilia» LXXXX (1998), pp. 161-195.
28
Ugo Rozzo ritiene che l’opera pervasa da una concezione antimaterialistica e antilucreziana che non era
solo una diretta risposta al De immortalitate animae del Pomponazzi, perché tende a mettere in crisi certe
dottrine ‘scolastiche’ determinando la ferma reazione di coloro che la sostenevano. Cfr. ROZZO, op. cit., p. 185.
29
Schutte ritiene che il termine evangelismo evochi una certa enfasi posta sul nuovo testamento, specialmente le epistole di san Paolo, e alcune dottrine da esso derivate, soprattutto la giustificazione per sola fede.
Molte idee degli evangelisti o spirituali come si autodefinivano, implicavano il rifiuto di alcune disposizioni
dottrinali cattoliche come afferma sempre la Schutte. Cfr. SCHUTTE, op. cit., p. 18
30
Definito principe dei librai lionesi, impara il mestiere in Germania e a Venezia, si reca a Lione come
agente della Compagnia dei librai veneziani e qui si stabilisce come stampatore. Animatore dell’umanesimo
lionese, fornisce tra l’altro libri scolastici a mezza Europa . Cfr. Lucien FEBRE - Henri-Jean MARTIN, La nascita
del libro, Roma-Bari, Laterza, p. 184-185.
27
316
Marianna Iafelice
intellettuali italiani che scelgono come editore il Gryphe, scrittori che rientrano in
quel settore del dissenso o del disagio religioso del XVI secolo che trovano proprio
a Lione la possibilità di far pubblicare le proprie opere o quelle di amici.31
In questo ambito di dissenso religioso sono collegabili le due seicentine dal
titolo L’Histoire du grand schisme d’occident possedute dal Tortorelli e rinvenute
per il momento nella Biblioteca Provinciale di Foggia, il cui autore Maimbourg
Louis, strenuo difensore delle libertà della chiesa gallicana combattè pure i giansenisti
e tutti quei vescovi che avevano rifiutato di firmare il Formulario di Alessandro
VII.32
Altra opera singolare di argomento religioso, stampata sempre a Lione, questa volta da Jean Frellon33 nel 1551, è quella del più illustre rappresentante spagnolo
del tardo umanesimo, Juan Luis Vives, il De veritate fidei Christianae, un’apologia
della fede cattolica, considerata il testamento spirituale di questo umanista, che il
suo discepolo Craneveldt dedicò nel 1544 al papa Paolo III come si legge nell’epistola che precede il nostro trattato.
Le note che Tortorelli pose in margine ai capitoli 14°, 34° e seguenti, riportano letteralmente Fenest., De magistratibus; ci piace pensare che il giurista foggiano
doveva conoscere la vera identità dell’autore di questo trattato che circolò a lungo
sotto il nome dello storico dell’età di Tiberio, Lucio Fenestella, ovvero quel Fiocchi
o Fiocco Andrea Domenico di cui con certezza non si conosce nemmeno la data di
morte che si presume avvenuta extra romanam Curiam prima del 12 agosto 1452.34
La bella edizione a cui fa riferimento Tortorelli è quella veneziana di
Melchiorre Sessa del 1535, sul cui frontespizio a parte la falsa indicazione di responsabilità e il titolo dell’opera è presente solo la marca tipografica raffigurante
una gatta con un topo in bocca in cornice figurata e il motto nel cartiglio: Dissimilium
infida societas (Dimensioni 5,5x 7,4).35
Non mancano in questo fondo ritrovato, nemmeno l’opera dello storico e
filologo scozzese Thomas Dempster, Antiquitatum Romanarum corpus absolutissimum… che insegnò a Pisa e a Bologna, e che viene considerato il padre degli studi
di etruscologia o la raccolta di novelle dal titolo I Trattenimenti ... del senese Scipione Bargagli, facente parte dell’Accademia degli Intronati col nome di Schietto,
raccolta uscita nel 1587.
Come scrive Marzia Pieri, quest’opera insieme con il Dialogo dei giuochi che
31
ROZZO, op. cit., p. 169
TRECCANI, Dizionario, vol. 21, p. 951.
33
Sul frontespizio di questa edizione è presente la marca tipografica che il Frellon in molti casi utilizza
congiuntamente al fratello François ed è costituita da un ragno che tiene tra le pinze una farfalla con il motto
Matura.
34
Franco PIGNATTI, “A. Fiocchi”, in Dizionario Biografico degli italiani, vol.. 48, p. 80.
35
La gatta con questo motto fu già insegna dei Della Gatta, ma raggiunge notorietà nella storia della
tipografia come marca dei Sessa che l’adoperarono in esecuzioni diverse con due motti che alludono alla
tradizionale avversità tra gatto e topo. Poiché anche altre marche usate dai Sessa raffigurano un animale predatore in atto di assalire e vincere un altro, la Zappella ipotizza forse un’allusione alla supremazia dei Sessa
sugli altri tipografi. Cfr. ZAPPELLA, op. cit., p. 189.
32
317
Le cinquecentine del giurista Niccolò Tortorelli
nelle vegghie sanesi si usano di fare di Girolamo Bargagli suo fratello, scritto negli
anni 1563-64, a ridosso del tragico assedio imperiale, ma pubblicato solo nel 1572,
costituiscono
due reliquie memoriali che tributano un omaggio appassionato ad un piccolo
mondo chiuso tramontato per sempre, un mondo subito datato e storicizzabile, caratterizzato da una profonda unità culturale ed espressiva intorno al valore-chiave della socievolezza e da un ostentato astensionismo politico. Del resto
quella fenomenologia e quell’enciclopedismo del gioco di veglia di Girolamo,
trovano uno svolgimento e un’esemplificazione nell’opera di Scipione, che sviluppa le premesse teoriche del fratello, costruendo nei suoi Trattenimenti il
racconto in presa diretta dei giochi accademici entro una cornice boccaccesca
che ne fornisce l’impegnativa chiave di lettura, sull’epico sfondo dell’assedio
imperiale che fa da ‘orrido cominciamento’ dell’opera. Mentre si consumano
atrocità e tragedie di ogni genere, una brigata di gentiluomini e di gentildonne
trascorre insieme gli ultimi tre giorni del carnevale seguendo coscienziosamente i precetti antropologici dell’accademia e dunque conversando, giocando,
corteggiandosi e raccontandosi novelle come penitenza; con molta sobrietà
questa volontaristica festività carnascialesca, vissuta con ingegnosi adattamenti
ai tempi di carestia e di pericolo, costituisce una paradossale e ostinata difesa
della propria identità senese, ormai sopraffatta dalla storia […].36
Prima di concludere l’analisi di questo fondo non possiamo non citare pure
la ricca presenza di autori classici rappresentati da Cornelio Nepote, Liber… de
vitis excellentium Graeciae Principum et ducum… (1543, Gymnich Johann), dall’opera di Marziale, con gli Epigrammaton libri XIIII, (Venezia, Scoto, 1549) da
Aulo Gellio, Noctes Atticae, (Venezia, Griffio Giovanni, 1573) e infine da quella di
Teocrito con gli Idillia trigintasex …(Venezia, Pocatela Giacomo, 1539).
36
Marzia PIERI, Intervento al VI Convegno di Informatica Umanistica “Giocando s’impara. Il Gioco e la
ricerca dall’Università medievale alla didattica a distanza”. (Roma, 7-8 ottobre 1998).
318
Recensioni
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Antonietta Lelario
Mary Cassatt* o della libertà femminile
di Antonietta Lelario
Questo saggio permette di rileggere dal nostro presente e da una collocazione originale la storia di una grande pittrice e del contesto in cui operò.
Mary Cassatt (1844 - 1926), una fra le artiste più note del diciannovesimo
secolo, ebbe un percorso di ricerca espressiva ricco e in gran parte affidato alla
frequentazione di ateliers privati e allo studio delle opere classiche nei musei,
laddove le donne non subivano esclusione come nelle Accademie. Erano anni di
grande trasformazione e nel saggio si mostra la capacità femminile di non irrigidirsi in una contrapposizione alla palese ingiustizia di quella esclusione, ma piuttosto di industriarsi per trovare strade per la propria realizzazione, aprendo
così nella realtà il ventaglio del possibile. L’artista contribuì in maniera rilevante al movimento impressionista, le cui opere fece conoscere negli USA. Allo
scambio tra lei, Berthe Morisot, Edgar Degas sono dedicate pagine importanti
per risignificare il rapporto tra l’insopprimibile singolarità della creazione e lo
scambio fra artisti, uomini e donne, che sentivano di star vivendo un momento
cruciale della modernità e volevano adeguare a ciò l’arte. Mary Cassatt è, insomma, una di quelle figure pienamente apprezzate nel loro tempo, ma che acquistano ulteriore valore oggi perché la portata del loro agire e i significati che
hanno messo in circolo risultano ancora più leggibili, ancora più fecondi, ancora più necessari.
Katia Ricci mostra la differenza fra chi della modernità ha sottolineato
l’avanzamento tecnologico, chi la perdita di prestigio dell’intellettuale, chi, come
Mary Cassatt, ha raccontato con amore i mutamenti della soggettività, il suo aprirsi
ad attese, speranze prima censurate e ha attirato l’attenzione sui rapporti che rendevano possibile questo sbocciare di desideri che hanno mutato il corso della
storia, spostando i confini fra spazio pubblico e spazio privato. Lei conosceva
bene queste questioni: lei, ragazzina, aveva osato desiderare di diventare una grande
artista; lei era partita da Pittsburgh per andare a Parigi, la capitale della modernità, in ciò sostenuta e accompagnata dalla madre e dalla sorella, non a caso sue care
modelle; lei poteva vedere giardini, autobus e teatri non solo movimentati da uomini e donne, come li rappresentavano gli altri impressionisti, ma anche animati
*
Katia RICCI, Mary Cassatt. Da Pittsburgh a Parigi, Milano, Selene, 2002.
321
Mary Cassat o della libertà femminile
dal gioco di sguardi di incoraggiamento, di approvazione, di valutazione in cui si
esprimeva il nuovo protagonismo femminile. Questo mondo raccontano i suoi
quadri e questa è la sua forza secondo Katia Ricci: essere entrata nel mondo dell’arte senza dimenticare la propria esperienza femminile, anzi avendo trovato lì la
chiave per comprendere ciò che stava avvenendo e ciò che chiedeva di essere detto per la sua forza simbolica.
La Mary Cassatt descritta da Katia Ricci mi sembra un esempio di libertà
femminile e penso che ne abbiamo molto bisogno nella nostra epoca segnata dal
conflitto fra omologazione e parità da una parte e dall’altra parte la ricerca di
modi per rendere significativa la differenza fra uomini e donne e liberarne le
potenzialità.
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Gli autori
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Gli autori
Gli autori
Maria Altobella, bibliotecaria dal 1973, è laureata in Giurisprudenza presso
l’Università degli Studi di Bari con tesi “Beni culturali e biblioteche: attività legislativa dallo Stato unitario alle Regioni”. Ha conseguito, inoltre, il Diploma di
Archivistica, Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Bari. In qualità
di Funzionario Culturale Bibliotecario è coordinatore dell’Area public library della Biblioteca Provinciale di Foggia oltre che referente della Sala Consultazione. Ha
curato la pubblicazione di cataloghi bibliografici, bibliografie speciali, dossier
tematici e collaborato a riviste specializzate. Ha svolto attività di docenza in corsi
di formazione professionale tra cui, nel 1998, quella relativa a “Mediateca 2000.
Progetto d’azione organizzato dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali”.
Angela P. Bevilacqua è nata a Foggia. Laureata in lingue e letterature orientali presso l’Università degli Studi di Venezia, dal ’92 collabora come consulente
di redazione di progetti editoriali con varie istituzioni nazionali ed estere, tra cui
la Scuola Superiore di Lingue Moderne dell’Università degli Studi di Trieste e il
Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Zagabria. Ha curato in qualità
di editor numerose opere a carattere letterario e saggistico pubblicate presso gli
editori Einaudi, Studio Tesi, LINT, Hefti, et al. Nella stessa veste ha curato la
programmazione radiofonica in lingua italiana di varie emittenti a diffusione internazionale, tra cui, di recente, l’IRIB Broadcasting di Tehran (Iran).
David Bidussa, nato nel 1955, è il direttore della biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Maria Buono, nata a San Giovanni Rotondo, laureata in Lettere Classiche,
vive a Foggia, dove attualmente insegna come docente di materie letterarie presso
l’Istituto d’Istruzione Superiore “C.Poerio”. Promotrice di iniziative culturali
sia nell’ambito scolastico che fuori, ha collaborato alla fondazione dell’Università della Terza Età di Foggia come vice presidente e assistente della cattedra “Poeti
e scrittori contemporanei”. Da alcuni anni è impegnata nell’attuazione del progetto educativo d’istituto Promozione e animazione alla lettura - Incontro con
l’Autore, che vede il coinvolgimento di oltre 200 allievi. Il progetto, coordinato
con l’Ente Provincia, è esteso anche al territorio nell’ottica del cambiamento della
Scuola dell’Autonomia. È stata nominata dall’Ente Provincia - Assessorato alla
Pubblica Istruzione - referente per l’organizzazione degli incontri con l’Autore.
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Gli autori
Ha avviato interessanti iniziative: “Adotta un progetto di ricerca scientifica attraverso la lettura”, con W Jack di Vincenzo Beccia, il cui ricavato è stato interamente devoluto all’A.I.L., e “La memoria che resta, presentando già due testi ed
eventi importanti: E la morte venne dal cielo di Luca Cicolella, cronistoria dei
100 giorni di bombardamenti a Foggia nel 1943, e L’Islam e la croce di Cristanziano
Serricchio, sul sacco turchesco a Manfredonia nel 1620. Ha curato la pubblicazione Galeotto fu il libro...e chi lo scrisse, inserto in “Paideia” - Annuario dell’Istituto “C. Poerio” di Foggia.
Raffaele Colapietra è nato all’Aquila nel 1931. Ha insegnato fino al 1990
storia moderna presso l’Università di Salerno, dalla quale si è volutamente dimesso per privilegiare la libera attività professionale, supportata da una pluridecennale
presenza di osservatore e recensore dei risvolti storiografici e culturali della società civile. In quest’ambito la sua attenzione si è rivolta spesso al Mezzogiorno e
alla Puglia con contributi rilevanti alle vicende e all’ordinamento della Dogana e
a problemi storici di Foggia e San Severo.
Rosanna Curci, nata a S. Giovanni Rotondo il 26 giugno 1975, si è laureata con lode in Lingue e Letterature Straniere. Attualmente frequenta corsi di
specializzazione di didattica della lingua inglese. Particolarmente interessata alla
vita sociale delle donne tra Ottocento e Novecento, ha condotto studi approfonditi sulle viaggiatrici inglesi nell’ Italia meridionale di questo periodo.
Biagio De Giovanni è nato nel dicembre 1931. Professore ordinario di filosofia del diritto, di storia delle dottrine politiche nelle Università di Bari, di
Napoli e di Salerno, è stato Rettore del Magistero di Salerno e Direttore della
rivista “Il Centauro”. Autore di numerose pubblicazioni, libri, saggi, articoli, ha
partecipato come relatore a convegni di studi nazionali e internazionali. È stato
Europarlamentare nel PCI prima e nei DS dopo.
Giuseppe De Matteis è nato ad Alberona. Ha insegnato presso le scuole
superiori di Foggia e di Bari prima di passare all’Università di Pisa come docente
di Lingua e Letteratura Italiana sino al 1986. Da quell’anno si è trasferito a Pescara
dove gli è stata affidata la cattedra di Storia della critica letteraria e contemporaneamente, la supplenza di Lingua e Letteratura Italiana, insegnamento che attualmente continua a svolgere presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti in qualità di Titolare. Collabora a varie riviste letterarie nazionali: («Galleria»,
«Italianistica», «Studium», «Esperienze Letterarie», «Aevum», «Opinioni»,
«Merope», «Proposte», etc.). Ha pubblicato numerosi volumi, tra i quali: Cultura e poesia di Vincenzo Cardarelli (1971), Critica, poesia e comunicazione (1978),
Il nomade illuso: letture e sondaggi carducciani (1983), Dittico pirandelliano (1989),
Ragioni e certezza della poesia (1990), La narrativa di Italo Calvino (1991), Pro326
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tagonisti della cultura letteraria meridionale (1993) e Istanze della narrativa italiana contemporanea (2002).
Nel 1985 gli è stato conferito il Premio della cultura della Presidenza del
Consiglio dei Ministri. È membro della «Società di Storia Patria per la Puglia» e
della «Società Dauna di Cultura». Ha svolto e svolge numerose iniziative di carattere culturale.
Valeria de Trino Galante è nata a Foggia nel 1947. Dal 1972 è insegnante di
Scienze, Chimica e Biologia presso il Liceo Scientifico “Marconi” di Foggia. Dal
1994 al 1998 è stata Assessore alla Cultura, Pubblica Istruzione e Servizi Sociali
della Provincia di Foggia.Attualmente è Responsabile dell’Agenzia per la Cultura della Provincia di Foggia e coordinatrice del Sistema Mussale Provinciale.
Donatella Di Adila associa, da molti anni, al suo lavoro di insegnante di
lettere nelle scuole superiori un forte impegno nel campo della promozione culturale. Ha diretto e coordinato numerosi corsi di aggiornamento e di formazione
per docenti promossi dal M.P.I. e dall’ I.R.R.S.A.E. Puglia. È collaboratrice del
giornale per insegnanti “Chichibìo” diretto da Romano Luperini. È Presidente
del Comitato di Foggia della Società Dante Alighieri, nata nel 1889 per diffondere e tutelare in Italia e nel mondo la lingua e la cultura italiane. Dal 1997 ricopre,
a livello istituzionale, la carica di Presidente del Distretto Scolastico di Foggia.
Enrichetta Fatigato, nata e residente a Foggia, laureata in Filosofia, ha
coltivato, a partire dalla tesi di laurea sull’urbanizzazione terziaria di Foggia pubblicata in saggio su “la Capitanata”, interessi per gli studi psicologici. Presta attualmente servizio presso la Biblioteca Provinciale di Foggia in qualità di Funzionario culturale Bibliotecario.
Esperta di biblioteconomia, bibliografia e tecnica dei cataloghi e docente in
corsi di formazione e aggiornamento per bibliotecari, ha curato per il Distretto
Scolastico di Foggia la pubblicazione “Rapporto sulle biblioteche scolastiche del
Distretto di Foggia”.
È stata responsabile della Biblioteca centrale delle Facoltà di Economia e
Giurisprudenza di Foggia dal 1990 al 2000.
È attualmente responsabile de “ilDock-Centri servizi” di Foggia e
documentazioni multimediali istituito presso la Biblioteca Provinciale di Foggia
avendone ideato e progettato l’impianto.
Gloria Fazia, nata a Foggia, è laureata in Lettere Classiche. È Direttore del
Museo Civico e Dirigente dell’Area Cultura, Spettacolo, Sport e Politiche Giovanili del Comune di Foggia. Si occupa della realizzazione della programmazione
culturale dell’Amministrazione in campo museale, teatrale e artistico, curando
inoltre le iniziative legate all’immagine della città. Ha al suo attivo pubblicazioni
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Gli autori
a carattere archeologico, museografico e di divulgazione della storia cittadina.
Premio Antigone per la Cultura 1992.
Maria Giampalmo è nata a Foggia nel 1970, si è laureata in Giurisprudenza nel 1994. Ha proseguito la sua formazione attraverso lo studio del diritto
canonico e nel 1998 ha conseguito il dottorato in diritto canonico presso l’Università Pontificia Lateranense, pubblicando la tesi in Diritto Penale Canonico:
La sospensione e la remissione della pena nel Codice del 1983. Dopo sette anni
di esperienza presso l’Università degli Studi di Bari, ha deciso di continuare il
suo iter formativo, proseguendo i suoi studi presso lo Studio Rotale, completando il corso di tre anni. Nel 2001, inoltre, ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento. A tutt’oggi svolge la sua professione di avvocato civilista-canonista
presso la città di Foggia, occupandosi del settore famiglia.
Marianna Iafelice è nata a San Severo nel 1971, si è laureata in Conservazione dei Beni Culturali, Indirizzo dei Beni Archivistici Librari presso l’Università degli studi di Udine, per poi specializzarsi a Bari nella catalogazione
informatizzata del libro antico. Di recente ha conseguito il Diploma della Scuola
biennale di Archivistica Paleografica e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di
Bari.
Ha effettuato la schedatura e la scannerizzazione degli incunaboli e delle
cinquecentine della Biblioteca Comunale di San Severo, finalizzata alla realizzazione di un catalogo dal titolo “Gli incunaboli e le cinquecentine della Biblioteca
Comunale A. Minuziano di San Severo.” Nel 2000 le è stata affidata dalla COMES
ATP, la redazione di una ricerca storico, libraria, archivistica da allegare al progetto di ristrutturazione e riqualificazione funzionale dell’immobile di pregio che
ospita l’Istituto Talassografico Sperimentale “A. Cerreti” del CNR di Taranto.
Ha pubblicato sulle riviste «Carte di Puglia», «la Capitanata», «Il Provinciale». Attualmente sta effettuando la catalogazione informatizzata del fondo antico della Biblioteca Provinciale di Foggia.
Giovanna Irmici, nata a San Severo nel 1946, laureata a Bari in Lettere e
Filosofia ne l 1968 con una tesi in Letteratura Latina, vive e lavora a Foggia. Ha
insegnato 33 anni Lingua e Letteratura italiana e latina nei ruoli dei licei classici.
Attualmente è docente in corsi di specializzazione e formazione post-laurea e
tiene un Laboratorio di Letteratura latina presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Foggia. Esperta di Letterature comparate, ha effettuato ricerche nel campo della semiotica e dell’antropologia applicate alle letterature antiche e moderne. Ha svolto attività di critico letterario (in particolare è esperta di
studi danteschi e di letteratura spagnola) collaborando con qualificate riviste, nazionali e straniere, e curando prefazioni e recensioni di scritti di poesia e profili
critici di opere premiate nelle giurie letterarie, di cui è membro. Ha organizzato e
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Gli autori
diretto convegni di studio, seminari, corsi di formazione e aggiornamento. Dirige
attualmente, in qualità di Presidente provinciale dell’Uciim (Ass. profess. Catt.
Docenti, Dirigenti, Formatori), corsi di formazione per formatori e dirigenti, e
collabora con enti, istituzioni, associazioni culturali, università. È autrice di numerose pubblicazioni, tra cui Ipotesi di analisi testuale: Lucrezio II, 308-332 (1982),
Metodologia del lavoro di gruppo (1983), Amour fou: il mito e il quotidiano nella
poesia di Louis Alberto de Cuenca (1990), I silenzi delle donne: la tecnica delle
reticenze nella Comedìa (1990), L’amore per la matria: una sorta di incesto (2003),
Le donne di Dante (in corso di pubblicazione).
Clelia Iuliani insegna italiano e storia a Foggia presso l’ITC per programmatori “Blaise Pascal”. Da sempre appassionata del suo lavoro, vi ha investito
affettività e creatività. Una delle personalità più in vista del CIDI (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti) di Foggia, ha contribuito con altri e altre
socie a creare il movimento per un’autoriforma “Gentile” della scuola. Con loro
ha partecipato al libro Buone notizie dalla scuola a cura di Antonietta Lelario,
Vita Casentino e Guido Armellini. Ha collaborato a riviste e giornali, in particolare alla pagina “L’uno e l’altro” de «L’Unità». Opera attivamente nell’impresa
culturale e politica del Circolo “La Merlettaia” e nel Comitato Marcone.
Maria Adele La Torretta, nata nel 1971, si è laureata in Lingue e Letterature Straniere (Inglese e Russo) presso l’Università degli Studi di Bari, con tesi in
Letteratura italiana medievale e moderna “Letteratura e arte dei giardini tra ‘500
e ‘700”. Nel 1991 ha conseguito, presso l’Università Statale di Leningrado il Diploma in Lingua e Cultura russa. Dopo aver frequentato due corsi di perfezionamento a Bari e Ferrara, nel 1997 ha seguito il Corso di formazione “Operatore dei
servizi di biblioteca”, organizzato dall’Assessorato alla P.I. e Cultura della Provincia di Foggia. Nel 1998 è stata vincitrice e fruitrice della Borsa di Studio “Operatore
per le mediateche - Piano d’azione Mediateca 2000”, sovvenzionata dal Ministero
per i Beni e le Attività Culturali. Nell’ambito del Progetto LSU dell’Amministrazione Provinciale di Foggia, dal 1997, ha maturato diverse esperienze lavorative
presso l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Foggia, presso il Museo
Interattivo delle Scienze e presso il Museo del Territorio. Attualmente lavora presso la Biblioteca Provinciale.
Antonietta Lelario, docente di italiano e storia, ha capito ciò che sa dalla
sua esperienza di insegnamento e dalla relazione con colleghe, amici e amiche del
CIDI, del Circolo culturale “La Merlettaia” di Foggia e dell’Autoriforma, sparsi
e sparse per l’Italia. Ha curato, insieme a Vita Cosentino e Guido Armellini, Buone notizie dalla scuola (Pratiche, 1998). Suoi contributi sono comparsi in Soggetti, saperi, contesti (Atti del Convegno Nazionale del Centro di Documentazione
e Cultura delle Donne di Bari, 1995), sugli atti dei convegni dell’Autoriforma
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Gli autori
Gentile della scuola pubblicati on-line sul sito http://autoriformagentile.too.it e
su vari giornali e riviste («Via Dogana», «Iter», «Il Manifesto», «L’Unità»).
Ada Mangano, laureata prima in Filosofia e poi in Lettere, insegna Italiano e Storia. Ha svolto attività di ricerca presso la Cattedra di Filosofia del Diritto
della Facoltà di Filosofia dell’Università di Bari. Ha pubblicato nel 1981 il saggio
Ideologie della legislazione femminile nella seconda metà dell’Ottocento (Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari) e, in collaborazione
con il prof. M. Manfredi, il volume Alle origini del diritto femminile. Cultura
giuridica e ideologie (Dedalo, 1983). Ha frequentato un Corso di perfezionamento in “Etica Applicata” presso l’Università di Bari e il Master in “Gestione della
Biblioteca scolastica multimediale” presso la Facoltà di Conservazione dei Beni
Culturali dell’Università di Viterbo.Nel 1999 ha pubblicato, per conto del Circolo “La Merlettaia”, uno scritto su Sibilla Aleramo.
Lucio Miranda è nato a Foggia. È stato vicesegretario nazionale dei giovani liberali dal 1971 al 1975 e dal 1990 al 1992 componente della Direzione Centrale e per circa dieci anni Segretario provinciale del Partito Liberale. È stato consigliere ed assessore alla Provincia di Foggia dal novembre del 1985 fino al gennaio
1987. È avvocato libero professionista patrocinante in Cassazione. È attualmente
Presidente dell’associazione di avvocati “Impegno Forense” che edita l’omonima
rivista giuridica e dell’associazione culturale “Agorà” che edita la rivista di storia,
letteratura ed arte «Carte di Puglia».
Sono apparsi suoi scritti sulla Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale
fondata da Giacomo Delitalia e sulla rivista «Libro Aperto» fondata da Giovanni
Malagodi. Collabora assiduamente con i periodici «Il Provinciale» e «Il Rosone».
Giuseppe Normanno (Foggia 1933-2001), si è laureato in Filosofia presso
l’Università di Napoli e in Filosofia Scolastica presso l’Ateneo Alysianum di
Gallarate. Dal 1961 al 1996 ha insegnato Storia e Filosofia presso diversi Istituti
scolastici di Foggia: Istituto Magistrale “Poerio”, Liceo Scientifico “Marconi”,
Liceo Scientifico “Volta”, Liceo Classico “Lanza”. Ha conseguito il diploma di
critica cinematografica presso l’Istituto di Critica Cinematografica di Roma diretto da Nazareno Taddei. Presidente della Fuci di Foggia nei primi anni ’60, nel
1964 ha fondato il Cineforum di Foggia, di cui è stato presidente. Ha insegnato
Scienze della Comunicazione presso la Scuola dei Servizi Sociali della Provincia
di Foggia. Ha tenuto corsi di Filosofia politica presso il Centro di formazione
politica dell’Archidiocesi di Foggia Ha diretto il Corso di Filosofia su Personalismo, marxismo ed esistenzialismo, organizzato dal Centro Paolino di Foggia. È
stato relatore ai convegni organizzati dalla rivista «Progresso del Mezzogiorno di
Napoli», in collaborazione con l’Università di Napoli con relazioni su Gramsci,
Del Noce, Arendt. Numerose le sue pubblicazioni, tra cui: Gramsci dopo Gram330
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sci tra storia e progetto (1986) e L’avventura di Elpìs. Sentieri e labirinti della
speranza (2000).
Rossella Palmieri, laureata in Lettere classiche, ha svolto il dottorato di
ricerca in Filologia greca e latina presso l’Università di Bari. Nel corso degli anni
ha frequentato tre corsi di perfezionamento in culture classiche e moderne e in
metodologia della letteratura italiana. Ha pubblicato su riviste specializzate due
articoli di Cicerone e uno di Seneca. Giornalista pubblicista, collabora con la testata «La Gazzetta del Mezzogiorno».
Rosa Porcu è nata a Tissi (Sassari) e vive a Manfredonia (Foggia) da oltre
venti anni.
Ha sempre insegnato letteratura italiana e storia prima a Rodi Garganico e
poi a Manfredonia e da qualche anno insegna filosofia al Liceo delle Scienze Sociali a Manfredonia.
È stata per moltissimi anni militante e dirigente del Sindacato Scuola C.G.I.L.
e ha ricoperto incarichi politici nel P.C.I. di Capitanata.Nel 1983, insieme ad altre
donne, ha fondato il Centro Ricerca e Documentazione Donna di Foggia e nel
1993 quello di Manfredonia . Nel 1988-89 è stata una delle protagoniste del Movimento Cittadino Donne di Manfredonia e ha fondato, insieme ad altre venti
donne, l’Associazione Bianca Lancia.In questi luoghi di elaborazione di pensiero e imprese femminili oltre che nella scuola, svolge ora la sua attività sociale e
politica.
Katia Ricci è socia fondatrice del Circolo La Merlettaia di Foggia, che quest’anno compie il decimo anno di età. Appassionata di arte, cerca di diffonderne
la conoscenza in vari modi: insegna Storia dell’Arte presso il Liceo Classico “V.
Lanza” di Foggia, organizza mostre, collabora ad alcune riviste, partecipa alla
stesura di cataloghi, pubblica testi. Il suo ultimo saggio è Mary Cassatt. Da
Pittsburgh a Parigi, Selene ed., Milano 2002.
Angelo Rossi è nato il 25 dicembre 1933. Docente di Filosofia e Storia, ha
insegnato nel Liceo Classico “V. Lanza” di Foggia. Ha svolto una intensa attività
politica nel Partito Comunista Italiano prima e in Rifondazione Comunista poi,
ricoprendo incarichi di direzione politica e istituzionali comunali, provinciali e
regionali. È stato Senatore della Repubblica.
Maria Teresa Santelli, nata a San Severo nel 1943, ha con la sua terra un
forte legame di appartenenza. Per venticinque anni ha insegnato Italiano e Storia
presso l’Istituto Tecnico “ S. Altamura “ di Foggia. Tra i soci fondatori del Laboratorio storico, a tutt’oggi ne è presidente. La sua attenzione alla didattica della
Storia risale al 1981, anno dell’incontro con il professor Antonio Brusa, docente
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Gli autori
di didattica della Storia presso l’Università di Bari. Seguendo le sue indicazioni
metodologiche ha elaborato programmazioni, test e unità didattiche in relazione
all’insegnamento di tale disciplina. Ha pubblicato su «Contro-verso» n°17
L’acquisizione del ‘senso storico’ nel biennio delle superiori e su «I viaggi di
Erodoto» (Quaderno n°2 ) Test d’ingresso di Storia. Ha costruito, inoltre, unità
didattiche su alcuni documenti presenti nell’Archivio di Stato di Foggia e quella
relativa a “ Il Foglietto” di Lucera, per la quale è stata coordinatrice del lavoro di
gruppo. All’attivo novelle e versi presenti in pubblicazioni de “La Merlettaia” ed
E, se…, breve scritto nelle cui pagine i cenni storici sull’antica e gloriosa Scuola
tecnica per arti meccaniche e fabbrili sono l’incipit di un racconto. Il racconto di
una ‘piccola rivoluzione combattuta’ tra così prestigiose mura, da un gruppo di
donne che ‘nella sala docenti stavano dando voce al proprio sentire’.
Valerio Zanone, torinese, è stato segretario generale del partito liberale per
dieci anni; consigliere regionale del Piemonte in due legislature, deputato di Torino alla Camera per cinque legislature, ministro dell’Ambiente, dell’Industria, della
Difesa, presidente alla Commissione Difesa della Camera, Sindaco di Torino. È
presidente della “Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia in
Roma”. Giornalista, collabora da trent’anni al quotidiano «Il Sole 24 Ore». Fra i
suoi scritti recenti L’età liberale-democrazia e capitalismo nella società contemporanea edito da Rizzoli.
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«La Capitanata»
Pubblicazione quadrimestrale, anno XLI, n. 13, marzo 2003
Direttore responsabile: Franco Mercurio
Registrato presso il Tribunale di Foggia
n. 22/01
Finito di stampare nel marzo 2003
per conto della Biblioteca Provinciale di Foggia
presso il Centrografico Francescano - Foggia - Tel. 0881/777338
I testi contenuti in questo volume potranno essere liberamente riprodotti in tutto o in parte nella lingua
originale o in traduzione, citando la fonte, senza alcuna autorizzazione preventiva, purché sia comprovata palesemente l’esclusione di qualsiasi attività di lucro o di qualsiasi intenzione di restrizione della
libera circolazione delle idee e delle conoscenze.
ISSN 0392 - 3339