I SALUTI PER I 30 ANNI DEL NAIMA

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I SALUTI PER I 30 ANNI DEL NAIMA
I SALUTI PER I 30 ANNI DEL NAIMA DA PARTE DI
“…avanti tutta… Naima “
Il Naima di Forlì è uno dei tre più longevi jazz & blues club italiani e quest’anno (2012)
compie 30 anni di attività continuativa e annuale. Non solo per un week end all’anno,
come avviene per molti festival e rassegne!
Gli altri due sono l’Alexander Platz di Roma e le Scimmie di Milano. Le due città capitali
d’Italia e poi Forlì, una piccola città di provincia! E già questa constatazione può dare il
senso della titanicità dell’impresa.
Una storia cominciata per gioco, come un hobby, e che vede oggi protagoniste un numero
enorme di persone, che si siedono davanti alla band di turno per ascoltare jazz o blues,
carpire qualche nuova interpretazione, gustare un assolo, farsi coinvolgere in una infinita
jam session. Niente luci stroboscopiche, niente cattedrali fantasmagoriche con disck jokey
che dirigono le danze, niente schiere di P.R. che incanalano le truppe. Solo musica dal
vivo, solo musica di qualità, solo jazz e blues, ed un po’ del vecchio e intramontabile rock.
E nella patria delle grandi balere e delle mega discoteche è stata proprio una bella
scommessa quella giocata da Michele Minisci.
Parliamo di un Club che ha coinvolto, coinvolge e riguarda infatti diverse migliaia di
appassionati di musica che sono passati dal club in tutti questi anni, oltre 315.000, da tutta
Italia e anche dall’estero; migliaia di musicisti famosi e meno noti, molti dei quali diventati
poi delle grandi star (circa 7.000); oltre 250 band giovanili provenienti principalmente dalla
regione, che sono salite, con non poca emozione, sul prestigioso palco del Naima; diverse
decine di collaboratori, quasi tutti volontari.
Nella storia di questo particolare club, dove, dopo i tempi sincopati del jazz, si può cogliere
il ritmo delle dodici battute del blues, troverete una storia che parla sì di musica, ma anche
di sfide, di emozioni, di ansie, di gioie e dolori, di scelte di vita, che hanno coinvolto
Michele, il “deus ex machina” del Naima, che parla di passioni, di entusiasmo, di sogni…
Una storia che potrebbe far riflettere qualcuno su come si possa contribuire alla crescita
culturale di una piccola città di provincia grazie anche alla musica, portata qui da veri
«mostri sacri» del panorama internazionale, e che può far capire perché «senza la musica,
la vita sarebbe un errore», come ha scritto una volta il buon Federico Nietzsche.
E allora….avanti tutta, Naima club, per altri 30 anni!!!
Renzo Arbore
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IL JAZZ E SUOI TEMPLI
Se chiudi gli occhi, mentre ascolti, ad esempio, proprio Naima, di John Coltrane, riesci a
immaginartelo, lui, gli occhi serrati e quella postura elegante, quel suo modo di riempire lo
spazio discreto, e ti immagini pure gli occhi chiusi di Cedar Walton che costruisce accordi
sulla tastiera del piano, e il sudore che gli scivola sulla fronte e sulle tempie, puoi quasi
sentirne l’odore.
Ecco, è l’odore del jazz, quello.
E non ha niente a che fare con qualche asettica registrazione in uno studio, ripulita dalle
imperfezioni, lucidata a specchio, e l’odore acido del vinile o quello opaco di un cd. L’odore
del jazz è fatica, muscoli, e poi il fumo denso di decine di sigarette che si raccoglie in una
nuvola ferma proprio lì, al centro di una stanza dove un certo numero di persone sta
condividendo un’esperienza che è al tempo stesso spirituale e carnale.
C’è il sudore, il fumo, il tintinnio dei bicchieri, il frusciare di corpi che si spostano sulle
sedie.
Perché il jazz non è quel genere di musica che può essere suonata esclusivamente in un
teatro, con il pubblico immobile a distanza di sicurezza, il jazz è una musica da contatto
fisico, da distanze che si accorciano, sguardi che si incontrano.
Ecco, il jazz non potrebbe esistere senza i suoi luoghi. Mi verrebbe quasi da dire che i
posti in cui si fa, si condivide il jazz, sono come dei templi.
Bene, uno di questi templi si trova a Forlì e si chiama, guarda un po’, proprio Naima.
Carlo Lucarelli
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UN SOGNO LUNGO 30 ANNI
Per prima cosa, bisognerebbe far lavorare l’immaginazione, sospendere l’incredulità e
sentirsi di casa dove non ci si crederebbe di poter stare. Se questo vi riesce, allora potete
capire davvero cosa vuol dire la storia del Naima club. Michele Minisci ha “inventato” un
sogno e l’ha fatto diventare il “Naima”, nome magico ed esotico, tanto più magico ed
esotico se pensiamo che è allignato in un angolo tranquillo della Romagna, trasformando il
fiume Montone nel Mississippi e la via Emilia nella Route 66 o nella Highway 61.
E a questo sogno ci hanno creduto in tanti, eppure l’elenco pare incredibile, inaugurato
com’è da Chet Baker, astro splendente di quella musica che ci ha fatto crescere dentro
una nostalgia che altrimenti non ci sarebbe, come questo club, che è il posto naturale di
questa nostalgia, dove la musica è padrona accogliente e ospitale, dove generazioni di
desideri, sogni, vittorie e sconfitte hanno avuto la luce del palcoscenico e i bicchieri per
brindare o dimenticare. La storia importante del Naima è la storia di 30 anni di sfide
regolarmente combattute da Michele contro ogni evidenza e buon senso. Ma per seguire
un sogno, il buon senso e l’evidenza non servono, e se molti si sono premurati di spiegare
che i mulini a vento non sono giganti, Michele i giganti veri li ha portati qui a suonare,
mentre agli altri è rimasto solo il ventilare inutile delle loro cautele e niente più.
Il luogo di questa epopea, il Naima appunto, è il segno tangibile ed evidente che la storia e
la memoria della musica che davvero ha cambiato gli anni in cui è stata vissuta ed
ascoltata è un documento vivente che di anno in anno ha ospitato pagine appassionate,
che ha vestito la nostra realtà di abiti altrimenti difficili o impossibili da indossare, portando
Forlì a far parte di una geografia dell’immaginario che confonde latitudini e confini, che fa
del palcoscenico – amerebbe dire Shakespeare - quella piccola “o” di legno che la fantasia
trasforma in reami favolosi e terre ancora da scoprire. E tutti gli crederemmo.
Così, il Naima ha dato senso ad un luogo, cioè al nostro modo di essere che coincide con
il nostro modo di vivere, ha fatto di Forlì una città fatta di molte e stratificate metropoli: il
Circolo Karl Marx, il Ciaika, la Vecchia Stazione, la Taverna Verde, l’affetto di Martin
Scorsese e il Liveinvolvo di Vinicio Capossela; la storia di una musica che ha cercato il
mainstream è l’ha trovato anche a costo di bilanci in rosso e detriti a frenare la corrente,
conti che non tornano e soddisfazioni difficili da raccontare a meno che uno non possa
dire “Io c’ero”…
La storia di un locale dove si fa musica è molto difficile da raccontare proprio perché il
documento principe che non si può allegare è ciò che si è ascoltato in una determinata
sera di un determinato anno. Non si possono raccontare le voci, gli umori, gli strepiti, e
meno che mai le sbronze di una jam session non prevista e sfibrante di umidità e risate…
Com’è facile intuire, lo show business ha delle regole precise e durissime, spacca la
schiena e brucia gli occhi, fa imprecare e piangere di gioia o di amarezza, ma…volete
mettere quando per un momento il brusio cala all’improvviso come se il vento si fermasse
di botto in mezzo al buio della sala, si accende lo spot a centrare con esattezza
geometrica il fuoco del palcoscenico e arriva, in carne ed ossa, quello che fino a ieri o
quello stesso pomeriggio era una faccia su una copertina o una voce esalata
maniacalmente migliaia di volte dai solchi induriti di un vinile.
Quello è un momento, parziale finché si vuole, ma è un momento che colma una lacuna
del cuore, è il farsi finalmente concreto di una personalità che abbiamo immaginato
all’infinito come i personaggi dei romanzi letti da ragazzi, una fantasmagoria che
finalmente, e lo vedi lì davanti ai tuoi occhi increduli, finalmente imbraccia una Fender, o
una Gibson, oppure soffia in una tromba o fracassa un rullante e la musica diventa vera,
concreta, buona da mordere come una pietanza che Michele t’ha cucinato in tutti questi
anni di contatti e contratti, telefonate, fax e brochure spedite per mezzo mondo per poterti
dare questa soddisfazione di vedere la musica suonare e non più già eseguita, perché
l’ascolto viene sempre dopo, è il “dopo” della sua riproduzione meccanica.
Lì invece è tutto vero. Non c’è trucco e non c’è inganno.
Dicevo appunto che bisogna avere molta immaginazione e sospendere al tempo stesso
l’incredulità. Quanti di noi, molti e molti, sono grati a Michele per aver perpetrato questo
miracolo donchisciottesco, di portarci i giganti e di lasciar girare i mulini e la loro sorda
molitura senza scopo!
Ora sono trent’anni, quasi un terzo di secolo, un bel po’ di whisky nel bicchiere del tempo.
Nettare invecchiato a regola d’arte, in una cantina dove i ferri del mestiere pavesano i muri
come gli attrezzi buoni di una volta, che solo i veri artigiani sanno ancora adoperare e far
cantare. Se può valere il giudizio di chi scrive, il Naima deve diventare uno di quei luoghi
dell’anima che la gente non deve, a nessun costo, lasciare nel dimenticatoio o permettere
che si scontri con difficoltà sempre più ingombranti. Sarebbe come spegnere la musica di
una città, lasciando soltanto il rumore confuso e senza scopo che rende sordi e che ci fa
scordare che sappiamo ancora sognare e soprattutto che i sogni hanno una musica ben
precisa: quella che ogni anno il Naima lascia scivolare nel cielo sopra Forlì.
Francesco Giardinazzo
Docente alla Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell'Università
di Bologna, sede di Forlì.
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IL SUPPLIZIO DEL BLUESMAN
Minisci (mi stupisci…) mi chiede di scrivere qualcosa sul suo Naima, che da un po’
di tempo chiama anche… “La Casa del Blues”, per i 30 anni di attività. Io ho già
scritto qualcosa sul blues, per il libro a fumetti di Crumbs, sulla storia di Charley
Patton, nel 1993. E allora non posso che ripetermi, come d’altronde si ripete sempre
il blues.
Comunque, questo è quello che mi è capitato l’altro giorno (e siccome non ho mai
detto la verità non posso certo mentire ora). Potrei chiamarlo Blues dell’incrocio o
Blues delle scarpe strette, se tali erano le scarpe che avevo.
Poco importa dato che i blues, come gli uomini, si assomigliano tutti.
Il blues dubita e in ogni cosa sa vedere una dolce sofferenza. Come dice Mister
Blue, perché ostinarsi a star bene quando la malinconia, la solitudine, sono cose
così ineluttabili per gli uomini di cuore?
Illuminante la storia del negro che lavora come un asino tutto il santo giorno, ha una
grassa moglie rompiscatole e una manica di marmocchi fetenti e allora si compra
un paio di scarpe, due misure in meno della sua per poter avere almeno il sollievo di
togliersele quando la sera torna a casa.
Il bluesman è coerente, così coerente che non cambia mai accordo né tonalità, né
tantomeno argomento poiché l’argomento è il blues medesimo. E coerentemente fa
una scelta di maschia solitudine, perché in fondo l’amore è bisogno di uscire da sé
per creature impossibilitate a farlo e l’arte è una baruffa col tempo, che è come
provare a svuotare un lago con un secchiello. Insomma amico, metti come la metti
non ne esci con le ossa a posto.
Il blues nasce nero e perciò ciondolante, fatalista e rassegnato, ma alla fine non
riesce a pigliarsi mai sul serio e così, masticando un sorriso da puledro, ti può dire:
«Ci ho dei gamberi morti, qualcuno pesca nel mio vivaio», per significarti che la tua
donna non te la conta giusta e in più t’ha pure appiccicato una malattia venerea.
Io l’ho conosciuto un vero bluesman: il nonno di Moschetta, un longilineo scafato
che sarebbe riuscito a farsi pagare il conto al bar pure da un genovese sfollato con
prole. Bene, suo nonno è una vecchia leva abruzzese. Ha una faccia piena e rugosa,
labbra ampie e una camminata snodata e nervosa. Sta in canotta d’estate, e ci sta
ancora bene, intendo con dignitosa e dimessa virilità. Si siede a tavola quando è
l’ora e la moglie, che l’adora e lo bestemmia, gli serve un piatto di spaghetti con
l’olio. Il peperoncino se lo mangia sano sano a parte; allora tu, che sei un ragazzo,
sei invitato a sederti e a parlare fra uomini. Apprendere o essere deriso.
Parla dei viaggi che ha fatto mentre mastica uno stuzzicadenti; ogni tanto fa una
smorfia da cavallo se il discorso finisce su storie di femmine e di risse.
Tu puoi anche scompisciarti, perché sei un ragazzo, ma lui, stai sicuro, non ride
mai. Ha un fucile in camera, ha girato il mondo e visto addirittura la Jugoslavia,
dove, dice lui, la gioventù è più ordinata. Ha lasciato la moglie parecchie volte, ma
non la cambierebbe con nessuna, perché sa come sono fatte le altre, anzi, guai a
toccargliela, la vecchia.
Una volta nella sua trattoria arrivarono sei giovinastri. Mangiarono. Quando lei
reclamò il conto quelli risposero a lazzi e pernacchie. Lui non chiamò nessuno,
pigliò il nervo di bue e la fece pari e patta. Quando arrivarono i carabinieri lo
trovarono con una «nazionale» in bocca e sei disgraziati sul pavimento. Al
maresciallo disse: «Dotto’, questa gioventù non sa nemmeno come si parla davanti
alle signore».
Quand’era verso sera si sedeva davanti alla porta di casa a godersi il frusciare del
gelso maturo e raccontava le storie di truffe e di amicizie valorose. Ti consigliava di
andartene in giro, stare sveglio e soprattutto di non essere dei fessi, poi impugnava
il «riganetto» a quattro bassi e attaccava una vecchia quadriglia. A quel punto e
solo allora se la rideva, ma era una risata… come una tosse.
Dunque il blues non abita solo in Mississippi o in Louisiana. E’ piuttosto un tempo
andato in cui il fatto di gettarsi in una rissa, finire in prigione, lasciare la donna
mentre dorme, perché t’ha chiamato il fischio del treno, non è disonore, ma fatalità.
Vuol dire che da Memphis a Norfolk ci sono 36 ore di strada e non «due ore di
Rolex». Insomma significa portarsi addosso la vita come andrebbe portata la
calvizie, e cioè con fatalismo e con onore.
Già. E quali sono le maledizioni più tremende per i musicisti del diavolo? Per
esempio l’acqua naturale, e anche quella gassata. Una giornata di sole, un
matrimonio felice, andare a letto presto, cambiare accordo, ma soprattutto vivere
un’epoca edonista e arrivista in cui trovarsi in una stanza d’albergo ammuffita e
metterci tre giorni per afferrare un motivo che recita: «Mi sento così solo, tu mi
ascolti che gemo», è assolutamente e pericolosamente demodé.
L’era contemporanea è dunque il vero supplizio del blues, ciò che lo rende una
favola desueta.
Ma non è il caso di vacillare. Lode e conforto ai nostalgici, perché in fondo le fiabe,
come gli articoli sul blues, non finiscono mai.
Vinicio Capossela
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....Altri 30 anni d buona musica!!!
Michele, ti ringrazio molto per l’invito e complimenti per la bellissima iniziativa per i
30 anni del Naima!
A malincuore sono costretta a declinare il tuo invito perché proprio a metà
Settembre pubblico, con la mia etichetta, un nuovo cd di inediti dopo tanti anni e
come puoi immaginare sono e sarò impegnata assai anche perché oltre alla
promozione devo preparare il tour che inizierà in Novembre e continuerà fino alla
fine di Gennaio 2013 in varie città d'Italia, e proprio in Novembre farò un concerto a
Forlì, al teatro Diego Fabbri, per una serata di beneficenza.
Mi dispiace sinceramente molto di non poter condividere l’evento, ma sono
felicissima e orgogliosa (consentimelo) che a Forlì ci siano fermenti musicaliculturali che alimentano la Vita della città e dei forlivesi e non solo, in particolar
modo in questo difficilissimo periodo storico e soprattutto che il NAIMA CLUB
compia 30 annni di attività concertistica sempre di qualità.
Grazie ancora e in bocca al lupo per i futuri 30 anni di attività del NAIMA CLUB!
Carla Bissi (ALICE)