2006 numero 8 Dicembre
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2006 numero 8 Dicembre
2014 numero 6 giugno Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Ne' più rozzi trovi de' brani di un colore e di una melodia che ti fa presentire il Petrarca. Valgano a prova alcuni versi nella canzone attribuita a re Manfredi: Concludiamo il nostro viaggio sul 1° Capitolo della Storia della letteratura Italiana 1870 di Francesco De Sanctis: I SICILIANI E vero certamente credo dire, che fra le donne voi siete sovrana, e d'ogni grazia e di virtù compita, per cui morir d'amor mi saria vita. ….Nei sonetti di Iacopo da Lentino, non mancano movimenti d'immaginazione ed una certa energia d'espressione, come: L'Intelligenzia, poema allegorico, pieno d'imitazioni e di contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che mostra nell'ignoto autore un'anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze della natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma era giunto il volgare. C'è una descrizione della primavera, non nuova di concetti, ma piena di espressione e di soavità, come di chi ne ha il sentimento. E continua così: Ben vorria che avvenisse che lo meo core uscisse come incarnato tutto, e non dicesse mutto - a voi sdegnosa: ch'Amore a tal n 'addusse, che se vipera fusse, naturia perderea: ella mi vederea: - fòra pietosa. Ma sono affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure, che nella rozza trascurata forma spiccano più, e sono reminiscenze, sfoggio di sapere. Non sente amore, ma sottilizza d'amore, come: Ed io stando presso a una fiumana in un verziere all'ombra di un bel pino, d'acqua viva aveavi una fontana intorneata di fior gelsomino. Sentìa l'àire soave a tramontana: udìa cantar gli augei in lor latino; allor sentìo venir dal fino amore un raggio che passò dentro dal core, come la luce che appare al mattino. Fino amor di fin cor vien di valenza, e scende in alto core somigliante, e fa di due voleri una voglienza, la qual è forte più che lo diamante, legandoli con amorosa lenza, che non si rompe, nè scioglie l'amante. E descrive così la sua donna: Guardai le sue fattezze dilicate, che nella fronte par la stella Diana, tant' è d'oltremirabile biltate, e nell'aspetto sì dolce ed umana! Bianca e vermiglia di maggior clartate che color di cristallo o fior di grana: la bocca picciolella ed aulorosa, la gola fresca e bianca più che rosa, la parlatura sua soave e piana. Le bionde trecce e i begli occhi amorosi, che stanno in sì salutevole loco, quando li volge, son sì dilettosi, che il cor mi strugge come cera foco. Quando spande li sguardi gaudiosi par che 'l mondo si allegri e faccia gioco. Su questa via giunge sino alla più goffa espressione di una maniera falsa e affettata, come è un sonetto, che comincia: Lo viso, e son diviso dallo viso, e per avviso credo ben visare, però diviso viso dallo viso, ch'altro è lo viso che lo divisare, ecc. Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero estranei alla serietà e intimità della vita, ebbero non piccola influenza nella formazione del volgare, sviluppando le forme grammaticali e la sintassi e il periodo e gli elementi musicali: come si vede principalmente in Guido delle Colonne. 1 Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento della natura e della bellezza: ond'è nata una mollezza e dolcezza di forma, che con poche correzioni potresti dir di oggi; così è giovine e fresca. E se il sonetto dello “sparviere” è della Nina, se è lavoro di quel tempo, come non pare inverisimile, è un altro esempio della eccellenza a cui era venuto il volgare, maneggiato da un'anima piena di tenerezza e d'immaginazione: ELENA BONO Tapina me che amava uno sparviero, amaval tanto ch'io me ne moria; a lo richiamo ben m'era maniero, ed unque troppo pascer nol dovia. Or è montato e salito sì altero, assai più altero che far non solia; ed è assiso dentro a un verziero, e un'altra donna l'averà in balìa. "I1 bene è la scelta difficile" di Stefania Venturino Caro Notaio Motta, sempre ricordandoLa con tanta stima e affetto, sono lieta di sapere che all' Istituto Boselli riproporrete il filmalo del mio dramma LE SPADE E LE FERITE. Con tutto il cuore sono in mezzo ai giovani perché tutta la mia opera è dedicata a loro, alla loro comprensione, in genere desta, acuta, piena di slanci generosi. Sono sempre con voi, cari giovani, e sono sempre quella ragazza di vent'anni che combattè per la libertà, come staffetta partigiana della 6" zona operativa alle dipendenze del grande Aldo Gasta1di "Bisagno", il "primo partigiano d'Italia". E non dimenticherò mai che Sandro Pertini mi ha voluto molto bene, proprio per la mia poesia resistenziale. lo lo ricordo ancora col braccio al collo, reduce dalla tortura subita dai tedeschi. Entrò nel Bar Mangini a Genova e volle pagarsi il caffè che tutti i presenti avrebbero voluto offrirgli. Idealmente vi abbraccio, anche da parte di mio marito Gianmaria, che non c'è più. Vostra Elena Bono Isparvier mio, ch'io t'avea nodrito; sonaglio d'oro ti facea portare, perchè nell'uccellar fossi più ardito. Or sei salito siccome lo mare, ed hai rotto li geti e sei fuggito, quando eri fermo nel tuo uccellare. Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza più chiara di sè e venisse a maturità. La rovina fu tale, che quasi ogni memoria se ne spense, ed anche oggi, dopo tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da grandi lacune. Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi già nelle classi inferiori, ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza, nè l'elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall'immaginazione e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella lingua penetra questa mollezza, e le dà una fisonomia abbandonata e musicale, come d'uomo che canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualità spiccata de' dialetti meridionali. La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò più. Lo nobile signore Federico e il bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli Angioini, loro fidi. La parte popolana ebbe il disopra in Toscana, e la libertà de' comuni fu assicurata. La vita italiana, mancata nell'Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca e feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta toscana, e toscani furon detti i poeti italiani. De' siciliani non rimase che questa epigrafe: Con queste parole Elena Bono salutava le persone presenti a11'Istituto Boselli di Savona il 21 Gennaio 2014, per la proiezione di un filmato sul dramma teatrale LE SPADE E LE FERITE, rappresentato a San Miniato in prima assoluta mondiale nel Luglio del 2000. Il 26 Febbraio, poco più di un mese dopo, Elena sarebbe morta nell'ospedale di Lavagna, dopo due soli giorni di ricovero dovuti ad un improvviso aggravamento della sua salute. E' stata lucida fino alla fine. Che fur già primi: e quivi eran da sezzo. 2 Ha chiesto di ricevere l' Eucaristia il giorno prima di morire, confermando fino all'ultimo la sua volontà di appartenere a Gesù Cristo, al quale aveva dedicato tutta la sua opera letteraria, in risposta a quella che lei ha sempre definito una "chiamata". "Mi dicono "scrittore", ma io sono solo una amanuense" -ha ribadito ancora una volta Elena nella sua ultima intervista pubblicata sull'Osservatore Romano la mattina dello stesso giorno della sua morte, avvenuta poco dopo le 20 Con ciò voleva dire che la sua scrittura non nasceva da lei, ma da un'altra voce, ispirata dal cielo. Comprese che si trattava di una vera e propria chiamata quando un giorno, poco dopo la sua laurea, mentre stava ascoltando musica ungherese nel suo salotto, all'improvviso si fece un grande, assoluto silenzio, e udì distintamente le parole: "Quando venne il suo giorno, dopo novecentotrenta anni di vita, Adamo tornò alla terra .. ..... E' l' inizio di MORTE DJ ADAMO, il suo capolavoro assoluto, dal quale tutto ebbe origine, gli a1tri racconti, i romanzi, il teatro, le poesie religiose e della resistenza. "In tutta lo mia opera -diceva Elena Bono -non ho fatto che raccontare lo passione di Cristo che si rinnova nella storia". E ancora: "AI Signore ho chiesto non solo di non scrivere mai una sola parola inutile, ma di scrivere cose che potessero far bene alla gente". Ho conosciuto Elena Bono negli anni '90, quando scrivevo come cronista nella redazione genovese de " II Giornale" e fui incaricata di intervistarla. Il primo incontro -per la verità per me folgorante -fu solo telefonico, ma ne seguirono molti altri, di persona, e con gli anni il nostro rapporto crebbe e si trasformò via via in un vero e proprio sodalizio umano e professionale. Elena Bono, nata a Sonnino nel 1921, ha vissuto a Chiavari fin dalla sua adolescenza, dove il padre, Francesco Bono, illustre grecista e latinista, era preside del Liceo Classico. Fu durante il periodo di sfollamento della famiglia a Bertigaro, nell'entroterra ligure, che Elena incontrò colui che nel 1959 sarebbe diventato suo marito, Gian Maria Mazzini, discendente di Giuseppe Mazzini, morto nel 2009. E fu proprio quel periodo che segnò profondamente la vita e l'intera opera letteraria di Elena Bono, che decise di diventare staffetta partigiana operando nella sesta zona operativa, sotto il comando di Aldo Gastaldi "Bisagno" (Medaglia d'Oro al valor militare). Dopo 1'8 Settembre ' 43 ella comprese l'importanza e "urgenza di fare la sua scelta, di assumersi la sua parte di responsabilità nella storia che stava vivendo, scegliendo di lottare per la libertà. "O libertà o schiavitù", ripeteva spesso ricordando quei momenti cruciali, e invitando specialmente i giovani a riflettere: "Il problema è quello della necessità della scelta. Il bene è lo scelta difficile". Impossibilitata a scrivere per i postumi di un ictus e a seguito di una progressiva perdita della vista, per molti anni ancora Elena Bono ha continuato a creare nuove opere, fino a due anni prima di morire, dettando tutto a delle sue collaboratrici. Mai si lamentava della sua malattia, persino dopo che era costretta sempre a letto. "Durante il giorno -diceva -o prego o ripasso" segno che la sua mente era sempre al lavoro, sempre presente e partecipe delle vicende del tempo, che seguiva attraverso la radio e la televisione, ma soprattutto con l' intelligenza della fede. La incontravo ormai da molti anni ogni settimana e per me era sempre un evento quasi celebrativo, mai scontato o ripetitivo, consapevole come ero di avere avuto il "privilegio", e la responsabilità, di trovarmi di fronte ad una persona di raro talento letterario e di straordinaria cultura; soprattutto una donna che, fino all'ultimo, ha lottato per testimoniare il valore e la dignità della vita anche nel letto della malattia e della vecchiaia, riattualizzando quotidianamente il suo impegno e la sua ricerca di senso, confrontandosi con Colui che, di questo senso, ne è l'incarnazione assoluta ed eterna: Gesù Cristo e il Suo Vangelo. Dall'ascolto della Sacra Scrittura, e dalla frequentazione quotidiana alla Santa Messa, che ha praticato per la gran parte della sua vita (negli anni della malattia riceveva spesso l' Eucaristia a casa), Elena Bono ha imparato ed effettivamente ha conosciuto il valore sacro della Parola, facendo del recupero della sacralità della Parola una missione imprescindibile, come cristiana e come poeta. "li vostro parlare sia sì sì, no no": citava spesso questa esortazione di Gesù nel Vangelo. E pur affermando di aver sempre scritto "sotto una strana dettatura", rispondendo con la poesia alla chiamata di amore di Cristo, la ricerca stilistica e linguistica è sempre stata per la Bono una impresa difficile ed estenuante, nella volontà di dover essere assolutamente fedele all'ispirazione ricevuta. senza nulla aggiungere di suo, per suo compiacimento o vanagloria. "Nella poesia è come nella scultura -diceva: non si tralla tanto di aggiungere quanto di togliere parole", 3 E portava l'esempio del grande e da lei amatissimo Michelangelo, spiegando che come in un blocco di marmo è già presente la forma che lo scultore dovrà saper tirare fuori, così è con le parole: occorre trovare quelle giuste e necessarie, non una di più non una di meno. Nonostante la malattia, che ne limitò sempre più pesantemente l'autonomia, Elena Bono è sempre rimasta la coraggiosa ragazza della Resistenza: dopo la morte di tanti suoi compagni di scuola, caduti per la libertà, ha continuato per loro ed in loro memoria a combattere, scrivendo memorabili poesie (è stata definita "poetessa della Resistenza") e soprattutto la trilogia nota come "Uomo e Superuomo" , che racconta la guerra vista dalla parte dei tedeschi (la complessa stesura narrativa, che ha l'estensione di un grande romanzo classico, è raccontata da Fanuel Nuti, personaggio narratore e traduttore di un diario di un soldato tedesco da lui ritrovato, personaggio quindi che si pone dentro e fuori la lunga storia narrata. che abbraccia un quarantennio, dal 1921 al 1958). L'invito e l'esempio che Elena Bono ci lascia è quello di guardarsi dentro per sconfiggere il male che si annida innanzitutto in noi, comprendere quale sia la nostra responsabilità e la nostra pane nella storia, prendersi ognuno sulle spalle il peso che gli tocca e costruire, edificare la propria coscienza e la civiltà del proprio tempo, cercando sempre il Bene e la Verità che soli conducono alla vera Libertà. Siamo ancora in un romanzo autobiografico della Simonetta Agnello, che ricorda episodi di vita vissuta dalla sua famiglia a partire dal 1958, quando la benestante famiglia Agnello lascia Agrigento per stabilirsi a Palermo. Simonetta e sua sorella Chiara più che lasciare Agrigento abbandonano Mosè, la frazione di Agrigento, il luogo dell’infanzia, carico di ricordi ma con una emozionante aspettativa del futuro tipica degli adolescenti. La Palermo che li accoglie è famigliare, movimentata e resa dolce dall'affetto dei parenti e da quel grazioso appartamento di via XX settembre, vicino al teatro Politeama, nel cuore di Palermo. E la vita abitudinaria dei ritmi della campagna cambiano in quelli della “metropoli”. Punto di riferimento e di conforto naturalistico è la visione rasserenante del monte Pellegrino e il dedalo di strade che ne discende , dai forti profumi , dalla vita animata di nuove persone, profumi sconosciuti e usanze ben diverse dalla Sicilia contadina finora vissuta. Grande è la descrizione e il rispetto delle figure femminili a partire dalla saggia madre che finge di non vedere/sapere di qualche scappatella di un marito e padre non proprio fedelissimo. Una baby sitter (ad Agrigento si sarebbe chiamata “criata” ) proveniente dalla campagna magiara con le sue aspirazioni ad un nuovo rango sociale ed un simpatico ex fattore assurto al ruolo di autista personale. E’ la Palermo dei dolci, dei pupi di zucchero, delle feste ginnasiali, ordite con la complicità dei cugini della grande famiglia Agnello. Immagini che si susseguono come sfogliando uno dei tanti album di famiglia,che abbiamo già visto nei precedenti romanzi della Agnello. Pochi palpiti comunque e pensiamo di dover rimandare le emozioni alla prossima lettura del nuovo libro “La mia Londra” (appena uscito) per imbatterci in nuove e più eccitanti suggestioni. Nell’approccio ad una paese decisamente diverso e seguendo le peripezie di una giovane siciliana nel regno unito. Agrigento,Palermo, Londra…. il viaggio promette bene. (r.a.) (Stefania Venturino) Ringraziamo la prof. Venturino per la bella testimonianza e per l’affetto dimostrato al nostro Sodalizio. 4 L’ANGOLO DELLA POESIA Salve, o Sicilia! Ogni aura che qui muove, pulsa una cetra od empie una zampogna, e canta e passa… Io era giunto dove giunge chi sogna; L' isola dei poeti Il treno andava. Gli occhi a me la brezza chi sogna, ed apre bianche vele ai venti nel tempo oscuro, in dubbio se all’aurora l’ospite lui ravvisi, dopo venti secoli, ancora. pungea tra quella ignota ombra lontana; e m’invadea le vene la dolcezza antelucana: e il capo mi si abbandonò. Tra i crolli del treno allora non udii che un frùscio uguale: il sonno avea spinto sui molli cardini l’uscio, e, di là d’esso, il fragor ferreo parve piano e lontano. Ed ecco udii, ricordo, il metro uguale, tra un vocìo di larve, del tetracordo: di là dal sonno, alcuno udii narrare le due Sirene e il loro incantamento, e la lor voce aerea, di mare fatta e di vento: gli udii narrare l’isola del Sole, là dove mandre e greggie solitarie pascono, e vanno dietro lor due sole grandi armentarie, con grandi pepli… Ed il tinnir cedeva ad un’arguta melodia di canne: udii cantare il fumo che si leva dalle capanne, le siepi in fiore, i mezzodì d’estate pieni d’un verso inerte di cicale, e rombi delle cupe arnie, e ventate fresche di sale: e chi cantava forse era un pastore tutto nascosto tra le verdi fronde: chiaro latrava un cane tra il fragore vasto dell’onde. (Giovanni Pascoli, "Odi e Inni"- L'isola dei poeti, 1906) ------ Custodisca Iddio una casa di Noto, e fluiscano su di lei le rigonfie nuvole! Con nostalgia filiale anèlo alla patria, verso cui mi attirano le dimore delle belle sue donne. E chi ha lasciato l'anima a vestigio di una dimora, a quella brama col corpo fare ritorno.... Viva quella terra popolata e colta, vivano anche in lei le tracce e le rovine! Io anèlo alla mia terra, nella cui polvere si son consumate le membra e le ossa dei miei avi. Ibn Hamdis Poeta Arabo di origine siciliana del XI secolo -----Giusto è che questa terra,di tante bellezze superba, alle genti si addìti e molto si ammiri, opulenta d'invidiati beni e ricca di nobili spiriti..... Lucrezio - De rerum natura Ecco e le cetre levano il tintinno dorico, misto allo squillar del loto chiarosonante. Ed improvviso un inno sbalza nel vuoto: l’aquila è in alto: fulgida nel lume del sole: preda ha negli artigli: lente ondoleggiando cadono giù piume sanguinolente: in alto in alto, sopra i gioghi bianchi d’Etna, più su de’ piccoli occhi torvi: nelle bassure crocitano branchi neri di corvi. -----"Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant......". ( Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito.. ) Cicerone In Verrem - Actio Secundae - Liber Quartus Quel crocitare mi destò. Di fronte m’eri, o Sicilia, o nuvola di rosa sorta dal mare! E nell’azzurro un monte: l’Etna nevosa. 5 Su segnalazione dell’amico e corrispondente torinese Renato Cesarò che ringraziamo In effetti nelle liriche di questa sezione si ha come un susseguirsi di tele che hanno come soggetto delle nature morte: frutta, verdure e oggetti di uso domestico. «L’amaro del radicchio e la saporosa / fragranza del cetriolo // l’acceso gusto della menta / il ruvido del ravanello / il sedano estasiante / e l’eccitato solletico / del basilico in gola». La seconda parte ha come titolo “Esculapio SOS”, e si apre con una massima di A. Dumas tratta dal “Conte di Montecristo”. La citazione è emblematica: «Parlare dei propri mali è già una consolazione». La terza parte è quasi il superamento del materialismo e della contingenza: la poesia diventa lirica. I colori dei frutti e delle pietanze si tramutano negli odori e nei colori delle piante, nei suoni delicati della natura, nella felicità che l’essere umano acquisisce dopo un lungo periodo di convalescenza. La vita comincia a sorridere, e sorride in tutta la sua pienezza. L’ultima parte della silloge infine, che è quasi una lunga dedica agli amici più cari, si conclude proprio con un’invocazione ad un amico, Silvio Bellezza: «Tu nei misteri del Nulla o del Qualcosa / celi le tue sembianze / in pace duratura / e fuggi a riguardare / non so quali confini / dove si eterna il canto / nella nebbia dei giorni / e nei silenzi / degli occhi». Nascosti tra ali di farfalla I semprevivi accendono colori Nel buio della notte e scaldano Di sole il gelo della riva Enrica Di Giorgi Lombardo (Palermo 1917-Torino 16/04/2005) da “Terzo atto”1989 Il portico di Esculapio, Lorenzo Editore, «Persica, poma, pyra, lac, caseus, et caro salsa, / et caro cervina, leporina, caprina, bovina, haec melancholica sunt infirmis inimica» si legge nella settima massima della “Regola sanitaria salernitana”, che invita a non mangiare pesche, mele, pere, latte, formaggio e carne salata, di cervo, di lepre, di capra, di bue perché sono cibi che nuocciono gravemente alla salute. Iniziare una recensione con una tale massima potrebbe dare l’impressione che si voglia recensire un libro di medicina o di arte culinaria. Invece no. Si tratta dell’ originale volume di poesie della poetessa palermitana, Enrica Di Giorgi Lombardo. Il libro, dal titolo “Il porto di Esculapio” è diviso in tre parti. Nella prima, in forma poetica, vengono descritte e presentate le pietanze che fanno più gola all’uomo, in una vita godereccia che a tratti richiama autori classici come Alceo, Orazio, Petronio. Nella seconda parte vengono invece evidenziati gli aspetti che riguardano la salute. La terza parte infine è quasi preludio di una completa guarigione. Presentato così il volume potrebbe sembrare tutt’altro che un libro di poesia. Invece, al contrario, la poetessa riesce a fondere poesia, esperienza personale, descrizione vegetale e soprattutto espressività interiore, quasi in maniera classica. Il volume si apre con una massima salernitana, estremamente indicativa: «Ut sis nocte laevis sit tibi coena brevis». E la prima parte porta proprio il titolo di “Sapori e fantasie”. In questa sezione vengono proposti, scrive l’autrice nella premessa, «componimenti che hanno tratto vita da immagini esaltanti i colori, gli aromi, i sapori che rallegrano vista, olfatto, gusto, in aloni di reale e di immaginario, tripudio di sensi e gioia della mente». Questa silloge di Enrica Di Giorgi mostra come con grande abilità si possono fondere in un tutt’uno arte, cultura, poesia, sentimenti, lirismo e scienza, e la cosa può essere certo ascritta ad onore della sua autrice. Nei nostri archivi abbiamo scovato un bell’articolo a firma della succitata Enrica Di Giorgi Lombardo “Gli Arabi cantori d’Amore” Durante la vita di Maometto (570-632) e coi primi successori non vi furono grandi cambiamenti in prosa o in poesia rispetto ala produzione preislamica: soltanto oggetto delle narrazioni o delle rime furono episodi relativi a Maometto o ai califfi, lodi in loro onore, invettive per gli avversari. Col progredire dell’espansione araba,alla Mecca e a Medina, fiorenti per l’afflusso di pellegrini e di ricchezze, si accentò il gusto per la vita mondana, per la galanteria e la raffinatezza e la poesia sempre più si accentrò sui temi dell’amore e sulla donna. La pesante qasida cedette il posto al più lieve e aggraziato ghazal, il canto d’amore talora delicato, talora ardito, mai sconfinante nell’osceno. Con il termine qasida (arabo: ق ص يدة, qaṣīda), si intende un componimento arabo, che può arrivare a 100120 versi. 6 Il ghazal si distingue invece per alcune caratteristiche: Si compone di cinque o più distici; Il secondo verso di ogni distico finisce con una sorta di ritornello composto di poche parole e noto come radif che viene preceduto da una rima nota come qaafiyaa. Nel primo distico, che introduce il tema, entrambi i versi hanno la stessa rima e il radif, cosicché lo schema delle rime nel ghazal si può rappresentare in questo modo: AA BA CA DA eccetera. Non possono esserci enjambement tra i distici, di modo che ogni distico deve contenere una frase (o più frasi) di senso compiuto. Ogni verso deve avere lo stesso metro guerriero (Hamasah) raccolti in antologie dei poeti Abu Tamman e al-Buhturi. Fiorirono nei secoli successivi con caratteristiche peculirai i poeti di Spagna e della Sicilia: fra questi il siciliano Ibn Hamdis (1055-1132) nativo di Noto (Siracusa) finì i suoi giorni in esilio per la caduta della sua città sotto Ruggero II e portò con sé una viva nostalgia della Sicilia, che cantò in dolenti versi, col rimpianto delle giovanili follie e delle belle donne a cui aveva lasciato il cuore. Ricordiamo che sotto Ruggero II l’arabo Idrisi potè scrivere, su invito del sovrano, il famoso “libro delle peregrinazioni” , pure noto col nome di “libro di Ruggero”, che descrive a tinte suggestive le città dell’isola. Parallelamente, si sviluppava un volgare arabo e la poesia da quantitativa si faceva accentuativa. Nel campo della prosa l’apporto dei popoli islamizzati conduceva, accanto alla prosa disadorna degli argomenti grammaticali o scientifici, alla prosa d’ “adab” riservata alla narrativa,che divenne sempre più elegante e formale, sino ad assumere la veste della “prosa ornata”, in cui la cura della forma divenne il principale scopo dello scrittore, col risultato di un impreziosimento eccessivo e di una esasperata ricerca stilistica, specie nella prosa oratoria e nella epistolografia pubblica e provata. Si sviluppa la forma della “maqama” (scena), racconto in preziosa prosa rimata, che prelude al teatro. Con tali risorse linguistiche gli scrittori componevano sermoni che riscuotevano un grande effetto sugli ascoltatori e furono anche usati per incitare ad azioni belliche. Eccelse in tal genere, fra il secolo settimo e l’ottavo, l’impenitente e sensibile “Omar ibn Abì Rabì ‘a, da cui presero modello numerosi poeti minori. Nel deserto, intanto echeggiavano ancora le voci dei beduini, il cui amore non era quello moderno delle città,ma autentico e spesso infelice (nasib) Quays ibn Mulawwah legò il suo nome a quello della donna amata,che non potè sposare per il rifiuto del padre di lei e rimase noto come Al-magnum Laylà, impazzito per Laylà. Seguirono gli splendori letterari del periodo omayyade che cominciò con il regno di Mu'awiyah (nel 661 e finì con quello di Marwan II nel 750) e del periodo abbaside. (La dinastia califfale degli Abbasidi governò il mondo islamico dalla sua sede di Baghdad fra il 750 e il 1258. Nel primo, accanto alle tradizionali forme di poesia, fiorirono opere di carattere oratorio, storico e filologico, traduzioni di opere scientifiche greche,studi di medicina e astronomia. Nel secondo, col formarsi di una vasta comunità islamica di popoli diversi, si ebbero innesti di varie culture, che influirono sulla filosofia,sul diritto, sulle scienze, pur mantenendosi la priorità araba nella poesia e nella prosa letteraria. E’ la nascita della civiltà arabo-islamica. Nelle città irachene o iraniche la poesia, in una cornice di benessere e licenziosità, è soprattutto bacchica e amorosa. Sono “poeti nuovi”, che tentano nuove forme metriche, fra le reazioni dei poeti tradizionali. Taluni come Abu Nuwas o Abu l’-Atahija,cantano anche delicate poesie sull’incertezza del destino umano. Si gettano le basi dei racconti, delle “Mille e una notte” coi viaggi di Sindbad; si scrivono libri di commento alle canzoni in voga. Dalla Siria venne nel IX secolo la reazione del neoclassicismo, che riportava la letteratura al vocabolario e alle forme antiche, ai canti del valore Il mio saluto, la mia pace Quando arriverà la pace? Quando arriverà quel giorno? Quando spariranno le armi e le bombe Quando tutta questa ostilità avrà fine Il giorno in cui una nave da guerra diventerà un palazzo di piacere e divertimento che passeggia sul mare Il giorno in cui l’acciaio dei fucili sarà fuso per trasformarsi in giocattoli Il giorno in cui i generali cominceranno a coltivare fiori Quando la pace abbraccerà tutti i Paesi confinanti di questa terra .Quando Ishmael e Israell cammineranno mano nella mano e quando ogni ebreo sarà fratello dell’arabo Quando arriverà quel giorno? Mahmud Abubradj 7 Così ne scriveva qualche mese fa Emanuela Abbadessa : Antonio Marangolo Musicista, compositore e pittore, è noto al pubblico per il suo lungo sodalizio artistico con Paolo Conte e Francesco Guccini, dopo aver lavorato con Ivano Fossati, Ornella Vanoni e Vinicio Capossela. Nato a Catania nel 1949, da allora ha collezionato trentatré traslochi e scritto decine di racconti e romanzi che, regolarmente, ha perso o buttato via. Saragosa, paese di sole e di lava alle pendici dell'Etna. Eddie Ponti, investigatore privato, non ha solamente strepitose doti di segugio e trasformista: ha, soprattutto, la prodigiosa capacità di accorciarsi di quindici centimetri. La sua lunga carriera in Polizia lo ha abituato a sbrogliare complicate matasse criminali, ma una mattina di primavera Ponti riceve la visita della vedova del prefetto, Maddalena Virlinzi, donna meravigliosa e sensuale, piena di lentiggini e con una criniera rossa simile a quella di un leone. L'incarico che la vedova gli affida è di pedinare una persona, stilando rapporti dettagliati giorno per giorno e recandosi da lei per rendere conto delle indagini ogni domenica pomeriggio. Ma la persona che la signora Virlinzi desidera sia pedinata è... lei stessa. Si avvia così, su questo preludio venato di surrealtà, un'avventura che è insieme un giallo, un inseguimento, un gioco di specchi, una fuga musicale sul tema del desiderio e dell'amore, della malinconia che ne è inseparabile compagna, dello sguardo altrui che è necessario a ciascuno di noi per sentirsi vivo. Da una Sicilia sulfurea e bellissima fino a Roma, da Trieste a Ferrara avvolta da una nebbia felliniana, l'inseguimento tra Eddie e Maddalena ci conduce attraverso un romanzo sorprendente per la sua ironia, il suo ritmo, la sua intensità mai disgiunta da una dissetante levità. Musicista, pittore e prolifico autore di romanzi sinora sconosciuti al grande pubblico, Antonio Marangolo è una vera rivelazione, uno di quegli scrittori dal timbro originalissimo e immediatamente riconoscibile: una voce, come quella del suo sassofono, che ci avvolge e ci conduce tra le spire di storie solo all'apparenza bizzarre, in realtà verosimili e vivide come accade solamente nei sogni. la nostra Non so se Antonio Marangolo appartenga alla schiera degli spiriti inquieti. Lo conosco ma non abbastanza per dirlo. Ma credo di sì. Musicista, pittore, scrittore… Ti basta. Recentemente è approdato a Mondadori con un suo romanzo di qualche anno fa, Complice lo specchio, uscito in prima battuta da un editore siciliano, Bonanno cui il fiuto non manca di certo. Un artista che intesse di musica anche le sue pagine, pensa che a Bach e al jazz ha dedicato un delizioso volumetto, Il sassofono ben temperato, uscito da A&B (costola appunto di Bonanno), nel 2011. Lì il caso è davvero particolare: cosa succederebbe se Johann Sebastian Bach potesse tornare oggi tra i vivi? Ipotesi allettante narrata con brio in un aldilà in cui il Padreterno concede agli artisti la possibilità di tornare per qualche giorno sulla terra per assorbire nuovi stimoli e continuare così, anche dopo morti, il loro percorso creativo. Bach sceglie gli Stati Uniti e, a Central Park, si imbatte in Ornette Coleman intento a leggere la partitura del Clavicembalo ben temperato. Tra lo stupore del musicista e la curiosità del Kantor si dipana un fitto e divertente dialogo intessuto di suoni, teologia e filosofia. Dal neonato sodalizio nasce l’idea di scrivere delle nuove Invenzioni a tre voci da affidare ad un sassofono. Per eseguire la nuova musica, la scelta cade su Nino Manolo Tragao (anagramma di Antonio Marangolo) oscuro sassofonista siciliano trapiantato – come lo stesso Marangolo che vive nel Monferrato, ad Ovada – nel Nord Italia. Ma lascia che ti parli di lui attraverso un pezzo che scrissi qualche anno fa, apparso sulle pagine siciliane di “Repubblica” «La donna; ecco il grande tema! Lo capiscono tutti quello!». Così il padre del “dongiovanni involontario” di Brancati redarguisce il figlio nella speranza di farlo appassionare alle bellezze muliebri piuttosto che alla filosofia. E come dargli torto. Soprattutto se le donne delle quali si parla sono siciliane. Donne all’ennesima potenza come potrebbero testimoniare i personaggi maschili dei quattro romanzi che Antonio Marangolo, scrittore per caso ma musicista per professione – 8 sassofonista di Francesco Guccini e con un carnet di collaborazioni come Paolo Conte, Miriam Makeba, Vinicio Capossela, Ornella Vanoni – ha dato alle stampe per i tipi dell’acese A&B dal 2003 al 2010, anno di pubblicazione del suo Il circo Moreno, quello in cui i riferimenti autobiografici sembrano più evidenti. Già dalla copertina che riproduce un quadro del 2010 dello stesso Marangolo dal significativo titolo Prima o poi, in cui davanti ad uno sgabello vuoto e un cappello pronto a ricevere elemosine, campeggia una tromba. Catanese di nascita, trasferitosi adesso ad Ovada, nell’Alto Monferrato, Marangolo sceglie come scenario privilegiato la Sicilia della sua infanzia: immobile, surreale ma di una bellezza abbagliante. Su una quinta assolata di lava nera, Riccardo Politi, protagonista del Cavalier Politi (2003) divide il suo tempo tra il Circolo Universitario, dove nessuno dei frequentanti s’è mai laureato, e la terrazza della casa a mare dell’ingegner Laudani, esclusivo salotto letterario. Ospite ricercatissimo per la sua teoria sulla digeribilità dei cibi siculi – molti dei quali considerati da Politi addirittura letali -, il protagonista appare alieno dall’attività che impegna fino allo stremo gli uomini del paese: guardare le donne. Nulla di ozioso in tutto ciò, s’intende, anche se costringe gli isolani ad abbandonare ogni occupazione lavorativa, perché il continuo cercarsi con gli occhi non è solo una forma astutissima di corteggiamento spesso coronata da successo, è piuttosto il realizzarsi dell’“amplesso oculare”, impossibile con donne che non siano siciliane. Sono loro le uniche a saper legare un uomo col solo sguardo tanto da farlo sentire a tutti gli effetti fidanzato. Ma questo guardare agognando lo sfiorarsi di una mano, d’una coscia attraverso il satin della gonna non avrebbe mai interessato Politi se un giorno, per caso, non si fosse imbattuto nella misteriosa Viviana Verga. Un’epifania di femminilità sapientemente distillata, donna e bambina allo stesso tempo, Viviana con la sua capacità di concedersi infantilmente oltre ogni limite, trascina Riccardo in una relazione fatta di appostamenti, di lunghe attese per fugare i sospetti di un marito possessivo, fino a portarlo alla follia suicida. Complice lo specchio, come recita il titolo del suo secondo romanzo, Marangolo rappresenta una donna che sfugge ad ogni controllo e si traveste per sedurre. È Maddalena Virlinzi, una rossa dagli occhi verdi, le labbra carnose e i piedini perfetti, ritratta in un incipit degno d’una detective story. La conturbante Maddalena entra nell’ufficio di Eddie Ponti, investigatore privato con la curiosa capacità accorciarsi di 15 centimetri rendendosi così irriconoscibile nei pedinamenti, commissionando proprio un pedinamento. La persona da seguire è Maddalena stessa che tra alberghi, case private e monasteri consuma con maggior ardore ogni genere di rapporto sessuale, più o meno estremo, se sa di essere spiata. Come per Politi, anche per Eddie, che pure aveva scelto la castità concedendosi solo fisiologiche visite alle compiacenti ragazze di madame Gabrielle, non c’è speranza. Combattuto tra ragione e gelosia, fugge e si reinventa artista ma nemmeno il successo raggiunto può fargli dimenticare la furia erotica della sirena dai capelli rossi, al cui volere deve arrendersi continuando a possedere di lei la sua immagine che si concede ad altri. Tra descrizioni di cibi siciliani, tra granite e cannoli di ricotta, Etna e mare, flâneur e ministri della fede che, come per il Marquis de Sade, sono sempre latori di raffinate perversioni, la chiave di tutto è il travestimento. Fingersi disinteressati all’amore come Politi e poi cadere nelle sue trame; come Eddie travestirsi da monaco per sottoporre Maddalena ad ogni tipo umiliazione fisica, quasi per vendicarsi d’una sfrenata lascivia. O vivere come dentro un romanzo – la saga dumasiana dei tre moschettieri per l’esattezza – e sognare d’essere l’imponente Porthos, come capita all’ingegnere Umberto Spadaro, nel Barone du Vallon (2006). Grasso e perennemente affamato Umberto che vive a Saragosa – città immaginaria nella quale Marangolo riversa pregi e difetti della nativa Catania – si rifiuta di esistere al di fuori della sua fantasticheria letteraria, impaurito dalla possibilità che le donne lo allontanino per il suo aspetto fisico. Come Ponti sfoga il suo bisogno d’amore con le prostitute ma, più che l’amplesso, inscena la finzione: le agghinda come dame secentesche e dà loro del voi perché quel corteggiamento, come il guardarsi, come lo spiare, è spesso più appagante del sesso stesso. O almeno lo è finché non incontra Elena Nicolosi. Bellissima, una delle “divinità irraggiungibili” della piccola Galatea Marina, località immaginaria non distante da Saragosa. Elena ha un mito personale, I tre moschettieri, ed è dunque la donna perfetta che dopo una breve parentesi erotica con Rosario Caltabiano, amico di Umberto e irresistibile tombeur de femmes, può concedersi al fantastico amore di Porthos. Tutto sembrerebbe perfetto se la misteriosa prostituta russa Yelèna, conosciuta da Umberto attraverso un messaggio personale di quelli che iniziano con molte A e finiscono con “espertissima, anche domicilio”, non fosse l’esatta copia di Elena. Tra 9 verità e finzione anche lei finisce col rientrare nel teatro dell’impossibile fatto di donne, sicilianissime, col vizio segreto di non apparire ciò che realmente sono, con esuberanti propensioni alla fisicità e capaci di marcare il terreno ad ogni ancheggiante passo proprio come l’avvenente Malèna dell’omonimo film di Tornatore. È scherzo o è follia? In una Sicilia magica, Marangolo si riappropria di concretezze inattingibili grazie alla musica che punteggia ogni suo romanzo e in particolare l’ultimo. Il jazz soprattutto, Thelonious Monk, ma anche le Suite per violoncello di Bach, Puccini e Ravel, Libertango e una nostalgica milonga. E su un vero palcoscenico, quello del surreale Circo Moreno, finalmente fa vestire al suo protagonista i panni che gli appartengono, quelli di un musicista. Alla donna invece riserva un’apoteosi: Consuelo, cittadina di una geografia dell’anima che comprende ogni Sud del mondo, è la “torera erotica” che senz’altro travestimento se non il trucco di scena, ogni sera, seduce il toro inferocito e l’intera platea portando l’uno e l’altra fino all’acme del piacere col suo solo incedere. E chissà che una matadora come Consuelo non sarebbe capace di consolare anche i catalani da poco orfani della corrida. Devotamente E.E.Abbadessa Cu avi sali, conza la minestra. Cu cadi e si susi, nun si chiama caduta. Cu camina,truppica. Cu cchiù piglia, cchiù avà ‘ddari. Cu lu focu joca, prestu s’abbruscia. Cu avia un figliu parrinu, s’accattava lu jardinu. Cu cumincia a travagliari di prima matina,avi la coffa mezza china. Cu di vecchi s’annamura, sinni chianci la sbintura. Cu dormi nun piglia pisci. Cu è ‘gghiè. Cu è lu megliu avi l’arsu. Cu è picciutteddu nunn’è puvureddu. Cu è riccu d’amici è poviru di guai. Cu fà ligna a mala banna, pì nescila si l’avi a carricari ‘ncoddu. Cu fici, fici. Cu la voli cotta e cu la voli cruda. Cummari e cummareddi si cuntanu cosi beddi. Cu n’appi, n’appi di stì cassateddi di Pasqua. Cu nunn’è bonu pi iddu, nunn’è bonu pi atri.. Cu nun pensa pì lu futuru, avi la testa cchiù dura d’un mulu. Cumpagnu e dolu, gran cunsolu. Cu nun si movi, si lu mancianu li muschi. Cu nun si marita, nun sapi li guai di la vita. Cuntentu e gabbatu. Cu paga prima, avi li pisci fitusi. Cu pari ca dormi e arriposa, chiddu porta la cruci cchiù gravusa. Cu piglia s’arripiglia. Curriri comu un lebbiru. Curtu e malu cavatu. Cu s’accuntenta godi. Cu s’ammuccia di zzoccu fà, è signu ca mali fà. Cu sarva pì lu ‘nnumani, sarva pì li cani. Cu s’à vistu, s’à vistu. Cu savanta cù li so denti, nun c’innè nenti. Cu scecchi caccia e fimmini cridi, facci di paradisu nun ‘nnì vidi. Cu sempri vidi missi e prucissioni, lignu nunn’è pì fari crucifissi. Cu si curca cu li picciliddi, la matina si susi pisciatu. Cu si fici li cazzi sò, campà cent’anni. Cu si la senti, strinci li denti. Cu simina spini, nun po’ caminari scausu. Cu si scusa, s’accusa. Cu si marita ‘nni lu so’ quartieri, vivi ‘nni lu so’ bicchieri, cu si marita ‘ntà la cuntrata, vivi ‘ntà la cannata. PROVERBI Un proverbio è molta roba concentrata in poche parole. Thomas Fuller, I notabili d'Inghilterra,1662 Cielu picurinu, si non chiovi stà sira, chiovi a lu matinu. Ci voli sorti sinu a lu stessu frjiri un ovu. Coccia cchiù, coccia menu. Cocciu di calia. Cogli appena matura la racina, cu bonu tempu è asciutta d’acquazzina. Comu è vistu l’omu è rassimigliatu. Comu mi canti ti sonu. Comu ti sponi lu cori. Conzala comu vò……è sempri cucuzza. Cosi ‘amari’, tenili cari, cosi ‘duci’, tenili, ‘nchiusi’. Criscinu l’anni e criscinu li malanni Cu arrisica, rusica. Cù avi n’amicu avi a quarcunu, cù avi un parenti avi a nissunu. Cu avi a chiffari cu li sperti, stassi cu l’occhi aperti. Cu avi la cumidità e nun sinni serbi, nun trova cunfissuri ca l’assorvi. 10 Sta finendo l’anno scolastico L'ipocondria ci piace stilare la classifica delle note disciplinari più assurde del 2014: L’ipocondria è data da un insieme di sintomi psicopatologici: si soffre nell’animo e nel corpo. E’ caratterizzata da una esagerata preoccupazione per l’integrità del proprio organismo. Per esprimerci con maggiore immediatezza, usiamo la semplicità: l’ipocondria è la convinzione di essere ammalati. Adoro la semplicità. Le cose intelligenti sono semplici, non si nascondono dietro a giri di parole. Le preoccupazioni dell’ipocondriaco non riguardano soltanto un organo del proprio corpo ma, sovente, moltissimi quali cuore, vista, apparato osteoarticolare e altri. Il malato, perché di malattia si tratta, può accusare sensazioni viscerali o propriocettive (cenestopatie), avvertite come abnormi e interpretate come sintomi certi di patologie. Lo si ascolterà a lungo, con autentica partecipazione per aiutarlo a rimuovere la propria sofferenza. Per poi uscirne. La mente non è mai separata dal fisico che non potremo curare se rimarremo inerti dentro al dolore, non volendo capire e sbarazzarci delle cause, senza crescere. Si cresce iniziando un viaggio dentro di noi. Meta, la rimozione dei sensi dio colpa. All’ipocondriaco è, comunque, doveroso prescrivere tutti gli accertamenti clinici necessari per formulare una diagnosi certa. Nel caso non si trovasse alcuna base organica in riscontro ai sintomi, è bene iniziare la terapia della parola, il dialogo medico-paziente. La vita va vissuta come una scuola. A vivere si può imparare, lasciando alle spalle gli eventuali traumi infantili, adolescenziali, le paure interiori. Durante il dialogo si chiarirà la scelta dei farmaci adatti a quel particolare paziente. Nella mia pratica medica, non ho mai incontrato un malato uguale all’altro pur presentando essi, addirittura, gli stessi sintomi. La genetica sostiene che non esistono due essere umani totalmente identici per cui, prima dell’eventuale prescrizione farmacologica, il paziente va non soltanto visitato ma anche capito. Nessun medico prescrive un antibiotico se non è indispensabile. Da studenti in medicina ci veniva raccomandato frequentemente di “non sparare a un moscerino con un cannone”. La stessa precauzione vale anche per i farmaci importanti in ambito del sistema nervoso. La scelta dei farmaci verrà fatta fra quelli della medicina ufficiale e/o fra quelli della medicina omeopatica che è atto medico. Questi ultimi saranno prescritti con il consenso informato del paziente. Per certi stati emozionali può essere di utilità che ho constatato sul mio prossimo, l’uso appropriato di uno o più fiori del dr. Bach, medico moderno, ricercatore, scienziato. 1. “Non è possibile svolgere la lezione causa olezzo nauseabondo proveniente da luogo ignoto.” 2. “C.D. aizza i compagni a lanciare penne e gomme verso il sottoscritto.” 3. “A.C. bacia appassionatamente S.D. mentre S.F. fotografa l’idillio.” 4. “Per festeggiare la sufficienza in arte L.S. spara un fumogeno dalla finestra dell’aula.” 5. “A. parla in arabo in classe e non vuole dire il significato in italiano” 6. “C. disturba la lezione dando testate al muro.” 7. “L’alunno F.M. ritorna dal bagno dopo 20 minuti dicendo che non lo trovava.” 8. “R.F. non ha il materiale di musica e tenta di nascondersi agli occhi della docente. Sono delusa.” 9. “Invito i colleghi docenti della 3^F a fare una riflessione sulla condotta dei propri alunni. La mia è la seguente: Una classe allo sbando!” 10. “L’alunno D.L. giustifica l’assenza per: “Ha ceduto una diga in Puglia “ (siamo in Lombardia)” 11. “L’alunno A.S. assente il 16/03 motivo: Dovevo picchiare bene il mio cugino” 12. “S.L. nell’ora di inglese canta con le cuffiette, poi insulta l’insegnante e viene allontanato dalla classe. D.O. di risposta si mette a cantare.” 13. “L’alunno B.C. lancia bottigliette d’acqua vuote dalla finestra facendo starnuti finti per coprire il rumore” 14. “L’alunno L.T. rimane in bagno per mezz’ora. Al suo ritorno sostiene di aver aiutato un alunno di quinta che si era perso” 15. “L’alunno B.D. peregrina senza meta per la classe.” 16. “L’alunno M.D. giustifica l’assenza del 11/11/ per: Raccolta olive” 17. “L’alunno G.P. messaggia con mia figlia in classe e chiede al sottoscritto se è libera questo pomeriggio.” 18. “L’alunno T.U. butta il proprio banco e la sedia del suo compagno fuori dalla classe per motivi ignoti.” 19. “L.F. giustifica l’assenza del 24/04/ per: “Mi sto preparando, con largo anticipo, alla fine del mondo” 20. “D.L. ‘abbaia’ durante la lezione” 21. “metà della classe è assente, l’altra metà tenta di convincermi che gli assenti non sono mai esistiti” Dott.Maria Vittoria Brizzi Tessitore 11 L’oro di Tabarca La narrazione si conclude, però, lasciando un filo non annodato: Don Diego promette al suo giovane amico di fargli recuperare un tesoro. Ma questa, come si suol dire, sarà un’altra storia. Eredità contese, delitti e congiure tra Genova e Tabarca nel tempo di Andrea Doria e Dragut La Fortezza Tabarka o Tabarca (arabo: ) è una città della Tunisia, sul Mediterraneo, presso il confine con l'Algeria. Ha una baia con piccolo porto. Nel 1540 l'omonima isola, prospiciente la città, venne data dal bey di Tunisi in concessione alla famiglia genovese dei Lomellini che ad essa erano interessati per la pesca del corallo. I Lomellini facevano parte della cerchia di Andrea Doria, doge della Repubblica di Genova ed erano legati per vincoli parentali alla famiglia Grimaldi (XVI secolo). La concessione era probabilmente dovuta ad un mai rivelato ma probabile riscatto per la liberazione del corsaro turco Dragut, catturato nel 1540 da Giannettino Doria, nipote di Andrea Doria. I Lomellini colonizzarono Tabarca con un gruppo di abitanti di Pegli, località vicina a Genova, dove avevano varie proprietà ed un grandioso palazzo di villeggiatura. La comunità di Pegliesi visse a Tabarka per vari secoli. Nel 1738 a causa dell'esaurimento dei banchi corallini e del deterioramento dei rapporti con le popolazioni arabe un folto gruppo di tabarkini si trasferì in Sardegna nell'Isola di San Pietro, allora disabitata, dove fondò un nuovo comune: Carloforte. Il trasferimento fu possibile grazie alla volontà del re di Sardegna Carlo Emanuele III di Savoia di colonizzare le terre di Sardegna non ancora abitate. Il nome di Carloforte fu scelto in onore del sovrano. Il destino dei pegliesi rimasti a Tabarka era segnato: nel 1741 il Bey di Tunisi invase l'isola, apportò distruzione e fece prigionieri gli abitanti riducendoli in schiavitù. La liberazione degli schiavi avvenne per l'interessamento di nobili europei, del Papato, di Carlo Emanuele III e di Carlo III di Spagna. Con questo volume, Pier Guido Quartero dà inizio ad una trilogia tabarchina che si sviluppa sullo sfondo della storia di Genova e dell’area mediterranea nel corso di due secoli. Tra la metà del ‘500 e la metà del ‘700, infatti, si svolge l’epopea della comunità pegliese trasferitasi per la pesca del corallo e del tonno sull’isola di Tabarca, vicino a Tunisi, e infine, dopo diverse peripezie, insediatasi a Carloforte e Calasetta, nelle isole Sulcitane. Nel 1546, Gian Luigi Fieschi tenta inutilmente di spingere i Genovesi alla rivolta contro Andrea Doria e la Spagna, sua alleata. Il fallimento della congiura, in cui lo stesso Gian Luigi muore per un banale incidente, coinvolge anche un giovane innocente, Giovanni Pittaluga, tradito dai fratellastri, i quali vogliono usurparne l’eredità materna. A Giovanni non rimane che la via della fuga: dopo una serie di peripezie raggiungerà Tabarca, dove da pochi anni si è installata la fattoria dei Lomellini per la pesca del corallo. Nello scontro con i fratellastri e poi nella fuga, lo aiutano Lorenzo, un servo fedele, e il vecchio mentore Diego Prefumo, cordaio, erborista e, in gioventù, mozzo sulle navi di Colombo, il quale gli sarà compagno nell’avventura tabarchina. Sull’isola, Giovanni trova l’amore e nuove avventure, riuscendo in qualche modo a superare le avversità che il destino gli pone davanti. 12 PILLOLE DI CINEMA Nel mese scorso alle Officine Solimano ha avuto inizio un interessante esperimento: Cult Movie Thursday Film e birretta, accoppiata perfetta! Un nuovo appuntamento che nasce dall’irresistibile desiderio di godere in terrazza i grandi film culto della storia del cinema. La prima proiezione è stata “La casa dalle finestre che ridono”, film del 1976 diretto da Pupi Avati. A cui fanno seguito Alien, Non aprite quella porta e Lo Squalo. E’ un modo diverso di vedere Cinema, al di fuori della usuale poltrona, dell’obbligatorio silenzio della sala, della religiosa attenzione al particolare tecnico. Si instaura un modo diverso di partecipazione. Queste prime pellicole, classici dell’horror, hanno in comune la sanguinolenza: per dirla con Stanley Kubrick ( da Arancia Meccanica) E poi… chi si vede! Il nostro caro amico, il succo di pomodoro! Lo stesso che adoperano in tutti gli studi di Hollywood comincia a scorrere a fiotti. Magnifico. E’ buffo come i colori del vero mondo Diventano veramente veri. Soltanto quando uno li vede sullo schermo. Gli schiavi liberati in parte raggiunsero Carloforte, mentre gli altri, dopo varie vicissitudini, diedero origine ad altre due comunità: Calasetta (nel 1770) nell'isola di Sant'Antioco in Sardegna e Nueva Tabarca sull'isola di San Pablo presso Alicante in Spagna. Mentre i tabarkini di Nueva Tabarca si sono completamente integrati in Spagna perdendo la propria identità originaria, i tabarkini di Carloforte e Calasetta hanno mantenuto integra la loro identità culturale sia nelle usanze che nella lingua: il dialetto di queste due località, il cosiddetto tabarchino, è un dialetto di tipo ligure in un territorio linguisticamente sardo, di un tipo completamente differente. La regione di Tabarka ebbe una sinistra fama negli ultimi decenni del XIX secolo per via delle scorrerie dei Crumiri, una tribù dell'entroterra particolarmente rapace che effettuava incursioni in territorio algerino e depredava le navi che si avventuravano o si incagliavano di fronte alle sue coste (le scorrerie dei Crumiri furono poi il pretesto dell'intervento francese nel 1881 che ridusse la Tunisia a un protettorato). Sentite cosa ne dice Gianni Canova, grande critico cinematografico, nel saggio: Del sangue e della luce… Pompa l’emoglobina, pompa. Il sangue scorre, sgorga, pulsa: nelle vene della Storia, nelle arterie della notte, negli anfratti del cinema. Cinema e sangue, cinema di sangue, cinema sanguinante e sanguinario: come in Intervista col vampiro di Neil Jordan, la più emofiliaca e inquietante saga sul “sugo della vita” che mai sia apparsa sugli schermi. Dalla New Orleans turgida e carnale del tardo Settecento fino alla frenetica San Francisco di oggi, il vampiro biondo-cenere di Tom Cruise e il suo compagno bello e larvale interpretato da Brad Pitt attraversano le anse del tempo scontando l’immortalità come solitudine e come condanna. Di notte, sempre di notte: tra la luna e i falò della ferocia umana, in mezzo a squittii di topi e a sfuggenti ombre nel buio, si nutrono di sangue per inseguire il sogno di un’aurora vietata per sempre al popolo degli immortali. Sabato 31 Maggio alle ore 17,00 presso la sede di A Campanassa in Piazza del Brandale a Savona, con l’Autore, presentazione del libro a cura di Carlo Cerva - Presidente di A Campanassa, Enzo Motta -Presidente del Sodalizio L. Pirandello Nicola Vacca, Tabarchino. 13 Il sangue come metronomo dell’imminenza della morte nella pratica lenta ed estenuante del dissanguamento (Le iene di Quentin Tarantino). Il sangue come “brodo” di coltura del male e del dolore (The Kingdom di Lars von Trier). Il sangue come problema igienico o come “macula” da ripulire in fretta, magari con l’aiuto di un esperto come Harvey Keitel (Pulp Fiction di Quentin Tarantino). Il sangue come materia organica che scoppia e schizza e inzacchera (la rana fatta esplodere sul volto della vedova nella sequenza d’apertura di Riflessi sulla pelle di Philip Ridley). Il sangue come viatico mistico (Thérèse di Alain Cavalier), come appeal taumaturgico (Marcellino pane e vino di Ladislao Vajda), come raptus estatico e orgiastico (Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky). E ancora: sangue demenziale (Blood Simple dei fratelli Coen), sangue samurai (Mishima di Paul Schrader), sangue seriale (Henry – Pioggia di sangue di John McNaughton), sangue cinefilo (Rosso sangue di Leos Carax), sangue subacqueo (Lo squalo di Steven Spielberg), sangue infernale (Hellraiser di Clive Barker). Sangue come promessa e come supplizio, come tormento ed estasi, come buco del corpo e come ferita dell’anima. Figure di sangue, declinazioni del sangue. Fiotti e rigagnoli, schizzi ed emorragie. Illuminazioni, rivelazioni. Anche per coloro che – oggi soprattutto – si ostinano a sognare un cinema totalmente dissanguato. Che è poi come dire, di fatto, la morte al cinema. Per fortuna a un certo punto arriva il cinema: che da Murnau a Via col Vento regala anche ai nictapoli la gioia proibita dell’alba. Barocco come il Dracula di Coppola e sanguinario come Il buio si avvicina di Kathryn Bigelow, Intervista col vampiro è una sinfonia sanguinante sull’eterno connubio di Eros e Thanatos. Un poema sulla luce e sul fuoco. E un canto struggente e malinconico sull’insostenibile diversità del desiderio di chi è condannato a succhiare il sangue degli altri, e a dare la morte baciando. Il sangue non esiste se non quando scorre all’interno del corpo. Cioè nascosto alla vista, sottratto allo sguardo dello schermo della carne. Per vederlo, il cinema non ha che due strade: o entrare dentro il corpo (in una sorta di viaggio verso la “bellezza interiore” celebrata da Cronenberg), o far venire il sangue fuori. Allora il sangue si mostra alla vista: ma “muore” nel momento stesso in cui lo fa. A meno che non sia “aspirato” in una siringa di plastica trasparente o in una flebo di vetro, il sangue intrattiene dunque col cinema – arte dello sguardo – un ambivalente rapporto di attrazione fatale. O letale. Per offrirsi al cinema come oggetto di desiderio (scopico?), il sangue deve mettere in scena la propria morte. Deve fuoriuscire, sgocciolare, sgorgare. Deve esporsi e svenarsi. Nella consapevolezza che quando lo fa (se lo fa) cessa – appunto – di esistere come sangue. Cessa di “scorrere” nelle vene e nelle arterie di un corpo per trasmettere il suo movimento allo scorrere della pellicola. Come dire: il sangue “infetta” il corpo del cinema, lo contagia. E’ l’unico composto profilmico (reale) che con il semplice contatto trasmette le sue proprietà al supporto che lo mostra e lo rappresenta. Il sangue, allora, non scorre più, ma scorre la pellicola sul rullo, fluttua la luce sullo schermo. Proiettare, proiezione: forse il fascio di luce che squarcia il buio e dà vita al film non è che l’analogo del fiotto di sangue che pulsa nel corpo e lo fa esistere. Forse il cinema è sangue fatto solo di globuli bianchi per un popolo di ombre. Forse il cinema è sangue di luce. Il sangue come inchiostro del corpo per scrivere messaggi sulla scena del delitto (Seven di David Fincher). Il Padrino (1972) 14 MARZAMEMI TORTINO AL PISTACCHIO Marzamemi è una frazione marinara di cui una parte è del comune di Pachino da cui dista circa 3 km e una seconda parte è del comune di Noto da cui dista 20 km. Si trova in provincia di Siracusa. L’origine del nome Marzamemi è controversa: secondo alcuni deriverebbe dalle parole arabe marza significa ‘porto’ e memi significa ‘piccolo’, mentre secondo il glottologo netino Corrado Avolio il toponimo deriverebbe dall’arabo marsà ‘al hamam, cioè «baia delle tortore», per l’abbondante passo di questi uccelli in primavera . Antonino Terranova, infine, nel volume “Pachum Pachynos Pachino storie e leggende da Pachino a Capopassero”, cita anche un’altra tesi, secondo la quale Memi sarebbe riferito ad “Eufemio, l’ex comandante della flotta bizantina il quale, ribellatosi all’imperatore Michele II Balbo, passò dalla parte degli arabi e con loro iniziò la conquista dell’isola; “Marza-memi” perciò significherebbe Porto di Eufemio, così come Marsala vuol dire “Porto di Alì” oppure “Porto di Allah”. Ingredienti per circa 10 tortini usando i pirottini di alluminio: 150 gr. di pasta di pistacchio o, in mancanza della pasta 100 g. di pistacchio tritato finemente 100 gr. di burro ammorbidito 2 albumi 2 tuorli 100 g. di zucchero 50 g. di farina setacciata una punta di coltello di semi da bacca di vaniglia, o, in mancanza, vanillina in polvere 1 cucchiaio di cacao amaro e del burro per imburrare i pirottini infine zucchero a velo per decorare Procedimento Montate il burrro morbido con lo zucchero e le uova intere fatele gonfiare come quando si fa il pandispagna, aggiungete la vaniglia. Unite la farina setacciata e la pasta di pistacchio. Nel frattempo montate a neve i due tuorli e incorporateli lentamente al precedente impasto, imburrate gli stampini e spolverateli con il cacao amaro, riempiteli per metà e mettete tutto in freezer almeno per 1 ora. Adesso viene il passaggio più importante, accendete il forno a 200° appena arrivato a temperatura, tirate fuori gli stampini dal freezer e infornateli, posizionandoli sulla griglia del forno, niente teglie mi raccomando. 15 minuti esatti e quando li tirate fuori aspettate qualche minuto e sformateli direttamente sul piattino di portata, spolverando di zucchero a velo. Ulteriore consiglio: ogni forno varia dall’altro quindi appena vi accorgete che si stanno dorando ed in controluce vedete che la parte centrale del tortino diventa opaca sono pronti, non esitate e provate fino a che non riescono. Prepararli e tenerli in freezer crudi ovviamente, pronti ad essere infornati all’occorrenza. Dal nostro corrispondente enogastronomo: Cena del 12 aprile 2014 Spaghetti con gamberi rossi e pistacchio; troffie con calamari e peperoncino; occhiata al cartoccio; calamari e gamberoni alla piastra (2 porzioni); semifreddo alla mandorla; tortino al pistacchio e cioccolato fondente; mezzo litro di vino Grillo locale, acqua, 2 caffè; limoncello, cannellino e liquore di finocchio! Interessante premio a chi indovina il prezzo …. (chiamatemi solo appena cotti grazie) 15 scarto tra le disposizioni decretate dalle leggi e dalle ordinanze e la loro applicazione concreta. L’intento, attraverso la visione di due opere documentaristiche di eccezionale interesse del regista svizzero Fernand Melgar, è di rendere la complessità del fenomeno, spesso semplificato e manipolato a fini politici ed elettorali, e coglierne l’aspetto umano Giovedì 19 giugno,ore 21.00 ingresso libero Due siciliani si incontrano: "Cammélo, talìa ch’ accattai ". Tira fuori dalla tasca una pillola: "Si chiama Viagra!". "E a che serve?". "Con questa a letto... due, tre volte!". "Minchia, bonu è stu calmante!" La forteresse di Fernand Melgar (ospite via collegamento internet) 2008 Svizzera, 104’ Pardo d’oro al Festival internazionale del film Locarno 2008 Donne, uomini provenienti da varie parti del mondo arrivano ogni settimana alle porte della Svizzera. Fuggono dalla guerra, la dittatura, la persecuzione o da squilibri climatici ed economici. Dopo un viaggio fatto spesso a rischio della loro vita, si dirigono verso uno dei cinque centri di registrazione presenti nel Paese. In questo luogo di transito austero, soggetti a un regime di semi-detenzione e di ozio forzato, i richiedenti attendono che la Confederazione decida il loro destino. Dall’altra parte uomini e donne anch’essi di varia provenienza, gestiscono l'accoglienza dei richiedenti e il loro soggiorno. Una realtà dove le divisioni culturali e differenze di status, tra coloro che decidono e coloro che chiedono, sono la sorte quotidiana... APPUNTAMENTI DA NON PERDERE Il 24 giugno alle ore 17,00 al circolo artisti Pozzo Garritta 32 Albissola Marina Inaugurazione della Mostra che proseguirà sino all’ 8 giugno del nostro ATTILIO CICALA Giovedì 26 giugno,ore 21.00 ingresso libero Vol spécial di Fernand Melgar (ospite via internet) 2011 Svizzera, 100’ Ogni anno, in Svizzera, migliaia di uomini e donne vengono incarcerate senza processo né condanna. Per la sola ragione di risiedere illegalmente sul territorio, possono essere privati della libertà in attesa dell’espulsione. Dopo “La Forteresse”, Fernand Melgar posa il suo sguardo sull’altra estremità della catena del percorso migratorio. Dietro le porte chiuse delle carceri, il faccia a faccia tra il personale e i detenuti assume un’intensità a tratti insostenibile. Da una parte, una piccola squadra unita, motivata e impregnata di valori umani, dall’altra uomini alla fine della loro corsa, vinti, esauriti dalla paura e lo stress. Annientati dalla legge e dal suo implacabile ingranaggio amministrativo, coloro che si rifiutano di partire volontariamente verranno imbarcati di forza su un aereo. In questa situazione estrema, la disperazione ha un nome: vol spécial. Officine Doc - Uno sguardo in cerca d’asilo In occasione della Giornata del Rifugiato, Nuovofilmstudio in collaborazione con Caritas Diocesana Savona Noli, Fondazione Comunità Servizi, Arci Savona e il Comune di Albisola Superiore, operanti nell’accoglienza dei richiedenti asilo, propone alla cittadinanza due appuntamenti sul tema. Di fronte alla rappresentazione mediatica della realtà migratoria, crediamo sia necessario chiarire le nozioni di base sulla politica d’asilo in Italia e in Europa e delle sue norme in vigore, per cogliere lo Santuzzo 16